CESARE CABELLA NEL 1883 (da una fotografia eseguita da Giulio Rossi) ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA — SERIE DEL RISORGIMENTO — ■ - l ■ . : ...... Volume I FRANCO RIDELLA LA VITA E I TEMPI DI CESARE GABELLA .....• Alza la fronte, o figlio, E in questo scudo atìisa gli occhi ornai. Ch’ivi de’ tuoi maggior l'opre vedrai Tasso, Ger. Lih., C. xvii, st. 64. GENOVA NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA PALAZZO ROSSO MCMXXIII r Ciascun autore degli scritti pubblicati negli Atti della Società Ligure di Storia Patria è un ico garante delle produzioni e opinioni esposte in essi scritti. Proprietà Letteraria della Società Ligure di Storia Patria GENOVA Scuola Tipografica D. Bosco — San Pier d’Arena all’Avv. EDOARDO CABELLA Mio caro Edoardo, Pegno di forte amicizia e di alta estimazione ti offro questo libro che per più titoli è già tuo. Tu lo gradirai, e indulgerai benevolo al coraggio dell’amico che abbagliato dallo splendore del soggetto, s’impose consapevolmente un peso troppo superiore alle sue forze. . Richiamandoti al pensiero i molteplici esempi della virtù paterna, possa esso consolare qualche volta la sera della tua nobile giornata, e nell’angoscia delle tristi ore volgenti confortarti a non disperare della virtù e della fortuna italiana. Genova, 1 giugno 1922. Franco Ribella RAGIONE DELL’OPERA Cinquantanni or fanno, s’incontrava talora per le vie di Genova un vecchio e venerando signore tutto vestito di nero, alto, diritto, con occhiali d’oro attraverso i quali splendevano due occhi di luce intellettiial piena d'amore, con un’aureola di barba che, raso il labbro e il mento, gli fregiava a ino’ di collana tutto intorno il viso roseo, augusto; con una zazzera crespa, vaporosa, tra bianca e bionda, con lo sguardo sempre fisso innanzi come perseguente un’idea alla quale s’accostasse con passo grave e sicuro. Quei sembianti — che sogliòn esser testimon del core — a chi ha imparato dall’esperienza a interpretarli, ci dicevano subito che noi eravamo dinanzi a una vita di pensiero e di fede. Egli era l’avv. Cesare Cabella, professore di Diritto civile e Rettore Magnifico della nostra Università, senatore del Regno, oratore e giureconsulto, onore del foro e della cittadinanza genovese. Vive ancora tra la nostra popolazione la sua memoria nell’aula del nostro Ateneo che da lui prende nome, nel busto in marmo e nella lapide che nell'Ateneo medesimo perpetuano il ricordo del suo viso e del suo insegnamento, nella strada che del suo nome si fregia; ma vedi capriccio e ingiustizia della fortuna! Colui che nell’insegnamento delle dottrine giuridiche, nella composizione delle patrie leggi, sugli scanni della Camera elettiva e vitalizia e nelle civili istituzioni VI della sua città, aveva acquistato diritto alla perpetua gratitudine e venerazione dei Genovesi e degl’italiani, è oggi in Italia comunemente noto soltanto per le belle lettere del Giordani che ne levano a cielo le grandi virtù della mente e del cuore. A questa potenza dell’arte che sa immortalare nella memoria e nella benedizione della più tarda posterità il nome degli uomini cui nè la vita illibata e benefica nè l’ingegno elevato nè la profonda dottrina avrebbero mai saputo francare dallo sconoscente oblio dell’agitata società presente, pensavo io leggendo nella Nuova Antologia del 16 giugno 1916 e poi in quella del 16 febbraio 1917 i due articoli del eh. prof. P. Graziano Clerici illustrativi di 142 lettere scritte dal Giordani al Cabella tra il 1831 e il 1839. E pensavo all’odierna vita affaccendata e frettolosa che tutta volta alle urgenze dell’oggi e del domani non ci dà tempo a sciogliere il nostro debito di storica ricordanza verso coloro che in passato si resero benemeriti della patria e della umanità. Cesare Cabella è certo un nome di cui va superba la nostra Genova, eppure, chi lo crederebbe? Se ne togliamo i soliti e sommarii cenni necrologici recatine alla sua morte 'dai giornali e le brevi commemorazioni fattene in seno ai consigli delle varie Amministrazioni pubbliche e private a cui egli apparteneva, tra le quali meritano onorifica menzione le brevi parole ardenti di amorosa venerazione pronunciate nel nostro Consiglio Comunale dall’amico e discepolo suo avv. Claudio Carcassi, noi non avevamo prima dello studio del Clerici altra scrittura che facendo menzione di un tant’uomo fosse di lui veramente degna fuorché la davvero incomparabile Commemorazione letta dal prof. Paolo Emilio Bensa nella solenne adunanza del Corpo accademico della R. Università di Genova il 28 apr. 1889, biografia succinta ma densa, ritratto breve ma fedele e compiuto, che onora il commemorante nel commemorato. Ora, se il preclaro giureconsulto genovese, che pur sostenne per lungo tempo alti mandati politici e civili, non aveva fin qui da noi genovesi altra degna testimonianza letteraria che questa Commemorazione, che dovrem noi dire che sia per accadere del postumo vii nome di quei nostri trapassati, e son molti, che alieni dal bagliore e dal rumore delle pubbliche cariche, se ne vissero ritirati e modesti, esempio a tutti di civili e domestiche virtù, diffondendo nel silenzio i tesori della loro sapienza e della loro liberalità a prò’ d’ogni sorta d’infelici? Lodevole il costume oggi invalso nei Consigli dei Municipii italiani d’assegnare alle vie e ^gl’istituti scolastici il nome di alcun cittadino resosi chiaro per merito d’opere o d’ingegno: è la soluzione di un debito di gratitudine, e merita plauso; ma egli è pur necessario che il cittadino conosca quali siano le opere e i meriti particolari dell’uomo cui fu attribuito quell’onore, affinchè non accada, come troppo spesso tra noi, che si ripeta il nome della tal piazza o della tal via o del tale istituto senza punto sapere il perchè di quella denominazione, e soprattutto affinchè alla nostra gioventù brillino sempre dinanzi agli occhi gli atti e le glorie della virtù avita e le sieno stimolo e sprone ad imitarla. Debito dunque di gratitudine e carità di patria debbono muoverci a compulsare archivi pubblici e privati, a spolverare carte e documenti e mettere in luce il nome degli avi che giaciono ancora ingiustamente dimenticati e sconosciuti. Già fin dal 1572 Paolo Manuzio veneziano, letti gli Elogi dei Liguri illustri del nostro Uberto Foglietta, gli scriveva stupito « esser cosa meravigliosa e degna di lode immortale che la Liguria abbia prodotto copia tragrande di uomini che per eccelsi meriti di varia natura si sono acquistati onore e gloria ». Oggi che dovremmo dir noi? La nostra città fu in ogni tempo così feconda di spiriti magni e benefici che se grande è il numero e grande il merito degli scrittori che ne consegnarono gli encomii alla storia, troppo più grande è ancora il tesoro di opere egregie e di vite memorande che attende tuttora dalla storia la dovuta giustizia. Sien dunque rese le debite grazie al prof. P. Graziano Clerici che a rinverdire la fama e il nome del nostro illustre genovese, venuto secondo dopo il Bensa, ne illustrò elegantemente e dottamente, da par suo, la vita e segnatamente quel periodo che s’illumina della fervorosa amicizia del Giordani. vm Il Cabella adunò in se stesso le virtù che formano l’uomo completo: coscienza pura, alto ingegno, dottrina profonda, eloquio avvincente, cuor generoso, attività infaticata e, salvo quanto non può scindersi dall’umana natura, fu ottimo ed ammirabile da qualunque lato noi vogliamo riguardarlo. Onde invitato da chiare e benemerite persone a scrivere della sua vita notizie meno compendiose di quelle che il Bensa e il Clerici e altri valenti avevano dettate, mi sono accinto volentieri a un’opera che, se è superiore alle mie deboli forze, confido non sia per riuscire sgradita ai Genovesi che lo conobbero o ne intesero le lodi o amano leggere notizie più particolari di quelli tra i nostri concittadini che più degli altri validamente cooperarono al nostro civile e politico risorgimento. Mi son valso all’uopo di tutte le pubblicazioni relative al mio soggetto, tutto pensando e raffrontando in modo che nulla mi uscisse di penna che non fosse fedelmente conforme a storica verità. Devo e rendo sentite e pubbliche grazie al chiarissimo avvocato Edoardo Cabella, degno figlio di un tanto padre, il quale per aiutarmi nell’opera non facile ricercò diligentemente e mise a mia disposizione tutte le carte e i documenti di qualche importanza biografica che potè ritrovare nell’archivio paterno. Se non che ho da avvertire il lettore che il Cabella assai poco lasciò di manoscritto che non concernesse la professione e il suo insegnamento legale. Possediamo sì un buon numero di lettere a lui scritte da altri, le più importanti delle quali saran qui per la prima volta rese di pubblica ragione, ma delle scritte da lui, che tanto all’uopo nostro gioverebbero, sia perchè non ne facesse, sia perchè non ne conservasse la minuta, se ne hanno pochissime. Ora se il non aver creduto di dover custodire i documenti del suo valore, in tempi che quasi tutti si studiano di provvedere nel miglior modo possibile alla loro postuma riputazione, non pochi anche circonvenendo con sottrazioni e artifizi ingannevoli la buona fede dei posteri, torna a prova e a lode della sua modestia, questa modestia però a chi prende a scrivere di lui è cagione di doppia iattura: prima perchè per essa il biografo patisce difetto di molte sue XX notizie dirette, difetto a cui mal si supplisce desumendole o argomentandole dalle risposte dei suoi corrispondenti, poi perchè, come la parola del labbro così quella della penna essendo in Cabella la sincerissima espressione dell’intimo animo suo, con le sue lettere ci vengono a mancare le testimonianze più veridiche e più irrefragabili de’ suoi pensieri e de’ suoi sentimenti. Ho curato di riempire al possibile la lamentata lacuna cercando lettere del Cabella dovunque ho potuto rintracciarle. E nella ricerca mi fu di valido sussidio il dottissimo e gentilissimo Nestore dei cultori delle memorie genovesi e ligustiche prof. Achille Neri, che mi additò nuove fonti di notizie Cabelliane e mi diede a leggere e a trascrivere tutte quelle lettere dell’eminente giureconsulto al march. Vincenzo Ricci ministro di stato e a Giovanni Ruffini, che si conservano nel Museo del Risorgimento della nostra città da lui diretto. Di tanta cortesia me gli professo gratissimo. Rendo pure vive grazie alla gentilezza del valoroso scrittore prof. Adolfo Colombo benemerito Diret_ tore del Museo del Risorgimento di Torino, che volle favorirmi documenti importantissimi al mio soggetto. Nè meno grato mi dico al chiarissimo prof. Carlo Arno dell’Università di Modena, a cui debbo molte lettere dirette dal Cabella all’eminente uomo di stato Riccardo Sineo suo zio, che molta luce proiettano sulle agitazioni genovesi al tempo del ministero Gioberti. L’elenco dei molti documenti che qui per la prima volta vedono la luce non ho creduto necessario raccogliere in un Indice a parte perchè ho avuto cura di segnalarli a suo luogo nel testo; e nel testo o in nota a piè di pagina ho indicate le fonti donde ho attinto gli altri materiali del mio racconto. Riguardo al metodo seguito nella composizione di questo lavoro dirò che, reputando ottimo il concetto storico moderno che vuole la storia una ordinata e ragionata illustrazione dei documenti ricostruttivi dei fatti, questo mi son studiato di mettere fedelmente in pratica esibendo, quando non difettavano, ed illustrando numerosi documenti per virtù dei quali il lettore, messo in diretta comunicazione e quasi X faccia a faccia col personaggio storico, potesse agevolmente formarsi di lui un esatto concetto e pronunciare un giudizio sicuro suo proprio. Uno dei difetti della biografia cui il moderno progresso non valse ancora ad emendare, è il considerare il personaggio quasi esclusivamente dal lato politico cioè nella sua veste più sfoggiata e meno sincera, e poco o punto nella sua vita intima e famigliare dove l’uomo non trovando intoppi alla franca manifestazione de’ suoi pensieri e sentimenti, appare quello ch'egli veramente è. Volendo dunque anche sotto questo rispetto far opera meno incompiuta, ho riportato numerose lettere confidenziali agli amici e alla famiglia dove tutto l’animo del nostro Cittadino si rispecchia come in terso cristallo. E perchè nè piena nè sufficiente nozione della vita di un uomo e del valor morale de’ suoi atti si può somministrare se questi non vengano considerati in rapporto coi tempi e con la società in cui visse ed operò, ho creduto servire, da un lato, alla maggior chiarezza storica, dall’altro, al desiderio degli amanti delle domestiche memorie derogando talvolta dalla impostami legge di brevità per intrattenere alcun poco il lettore intorno alle tradizioni, alle opinioni, alle passioni politiche della Genova dei nostri padri. Abbandonata la vieta forma dell’Elogio, dove tra il denso fumo del prodigato incenso si perdevano le fattezze individuali dell’elogiato, la biografia moderna si avvalorò di critica sagace ed imparziale; se non che questa critica oggi s’è fatta cosi severa ed arcigna che non mi dissimulo possa facilmente trovarsi chi, leggendo queste memorie donde deriva tanta lode al nostro illustre genovese, riprenda me d’aver piuttosto ceduto all’ammirazione entusiastica del concittadino che osservata la rigida imparzialità del giudice. Rispondo; e dichiaro anzi tutto che io ho servito solamente e sinceramente alla storia e che a questo fine ho riferito tutto quello che di più notevole ho ritrovato e di più atto a porgere dell’uomo descritto una immagine al lettore verace ed oggettiva, nessun fatto escludendo. Ma un fatto della massima importanza si ha qui da considerare. Il maggior pregio XI del Cabella, quale da tutti 1 documenti risulta e dalla unanime testimonianza di quanti lo conobbero e ricordano vien confermato, e quello che lo innalza sulla turba infinita e gli merita il titolo di grande, è la meravigliosa integrità del carattere e la illibata purità dello spirito; onde se, escludendo i pochi errori d’intelletto che io I a suo luogo ho avuto cura di rilevare, non ho potuto trovare memoria, documento o testimonianza che all’autorità dei primi minimamente detraesse, la critica più fiscale e spietata, quando non voglia cadere nella più aperta ingiustizia, non deve apporre a parzialità di biografo compiacente ciò che è tutto merito dell’uomo narrato, stretto dovere dello storico e cagione unica per cui ho accettato volentieri un assunto così grave. Il materialismo storico che materializzando l’uomo individuo e collettivo deprime ed affoga sotto la ragione economica ogni più nobile e spirituale coefficiente dell’umano progresso, e sostituisce l’amor dell’umanità all’amor di patria, il cosmopolitismo al nazionalismo, avrà egli forza di scemare importanza ai fatti e merito ai fattori del nostro Risorgimento che per la patria spesero la vita? E l’orrenda guerra che ha testé conquassato il mondo avrà ella potuto co’ suoi non più veduti portenti di mostruosa barbarie e di sovrumano eroismo, allontanar da noi e offuscare al nostro sguardo le glorie dell’antica virtù sicché ne perda importanza e valore anche il racconto che ne rinnova la memoria? Non posso crederlo: l’amar la patria è un sentimento di natura che niuno potrà mai estirpare dal cuore dell’uomo perchè radicatovi dalla mano di Dio; il servirla è obbligo razionale di giustizia senza cui non può esistere consorzio civile; e l’amore verso la società nazionale è primo principio e condizione necessaria dell’amore verso la società cosmopolita. E se l’immane grandezza degli sconvolgimenti sopraggiunti ha potuto e può ancora per un momento distrarre le menti stupefatte dalla considerazione dei fatti anteriori, non accadrà mai che delle patrie glorie di qualsivoglia tempo si spenga la luce o decada la memoria fino a che tra gli uomini sarà in pregio ed onore il culto del bene e la virtù del sacrificio. XII Intento mio fu quello di recare la mia pietra, quale che essa sia, al meraviglioso edilizio storico del nostro Risorgimento e di offrire alla gioventù italiana l’imitabile esempio di una vita tutta consacrata al culto dei più nobili ideali. Se nella odierna rivoluzione di tutte le cose e nello sfacelo di tante istituzioni e nella profonda corrosione di quei principii fondamentali sui quali poggia l’edifizio della società civile, il ravvivato ricordo delle virtù avite non ha ancora affatto perduto l'antica potenza di riaccenderne l’operoso amore nei vacillanti nepoti, siami lecito non disperare, narrando di Cesare Cabella alla gioventù italiana, di poter conseguire qualche compenso alla mia modesta fatica. Genova, 1 giugno 1921. Franco Rideli.a INDICE All’Avv. Edoardo Cabella Ragione dell’Opera PARTE PRIMA — Età Giovanile. Pag. I...... — Cenni genealogici sulla famiglia Cabella. . - .. 3 II..... — Nascita e studi di Cesare. È laureato in giurisprudenza. 7 III .. — Va a Verona e a Piacenza per ragioni di salute. 9 IV — Stringe amicizia col Giordani.............* 12 V..... — Sua inclinazione alle lettere a alla filosofia civile e sua avversione alla professione legale; donde dolori e lamenti espressi in versi agli amici......... 13 VI..... — Comincia la conversazione epistolare intima col Giordani a cui rivela i suoi affanni e da cui riceve con- forti e consigli................... 19 VII , . . — E ammesso al libero esercizio della professione legale e ascritto all’albo degli avvocati patrocinanti..... 22 VIII.. . , — Post nubila Phoebus................. 23 IX. . . . — Teme di esser nato a nulla. Conforti dell’amico.. 25 X..... — Nell’estate del 1833 Cesare difende e salva dalla pena di morte il sottotenente Thappaz e il dott. Angelo Orsini imputati di congiura repubblicana..... 27 XI — Principi e sentimenti religiosi, morali e civili del Ca- bella......................... 30 XII . . — Nell’autunno del 1833 va procuratore del Monte mol- tiplico Airoli ad Acireale in Sicilia.......... 32 XIII.. . — Lettera a Giuseppe Ricciardi............. 34 XIV.. . — Casi e vicende della sua missione legale in Sicilia. .. 38 XV.. . — Vi promuove l’istituzione della Cassa di Risparmio.. 44 XVI. . , — Morte del padre e suo ritorno a Genova....... 46 XVII. . . — Riprende la conversazione epistolare intima col Gior- dani. Dolori rinacerbiti: conforti rinnovati..... 48 £lV XVIII.. . — Perite le illusioni, ferma virili propositi; ma dispera di poter far mai nulla di nobile al mondo..... XIX. . . — Il duro prezzo della virtù e la bandiera del forte. .. XX.....— La solennità della dedicazione del busto a C. Colombo nella Villetta Di Negro........... XXI.... — Ferdinando Grillenzoni e Paolina Delagrange..... XXII. . . — L’angelica Cocchina Cabella............. XXIII... — La marchesa Rosa Triulzi ved. Poldi-Pezzoli..... XXIV.. . — Cesare si libera da un amore disordinato....... XXV... . — L’ex viceprefetto avv. Pietro Bx-ighenti......... XXVI.. . — Vani sforzi di Cesare per promuovere in Genova l’i- stituzione della Cassa di Risparmio......... XXVII.. — Cesare con grave danno della salute si addossa oppri- menti occupazioni; l’amico ne lo riprende....... XXVIII. — 11 Giordani d’improvviso rompe amicizia e relazione col Cabella. Di chi la colpa?............ XXIX.. . — Cesare si rassegna alla professione destinatagli dalla fortuna....................... XXX. . . — Nota ai due articoli del Prof. P. G. Clerici illustrativi delle lettere del Giordani al Cabella, recati rispettivamente dalla Nuova Antologia del 1G giugno 1910 e del 16 febbraio 1917............... PARTE SECONDA - Et» virile. I.......— Suo matrimonio con Clementina Parodi (a. 1845). .. I I......— Italia e Genova nel 1845 e 1846........... II I.....— Genova nell’anno delle Riforme............. I V...... — Cabella inneggia alla concessa libertà di stampa e alla fratellanza Ligure-Piemontese (nov. e die. 1847). V......— Redige l’indirizzo firmato da 15000 cittadini per l’e- spulsione dei Gesuiti e l’istituzione della Guardia civica e ne è Relatore nella Commissione deputata a presentarlo al Re. Il quale sdegna riceverla e respinge bruscamente la domanda; ma il nuovo atto dei Genovesi finisce col far convinto il Sovrano della necessità di una Costituzione (genn. 1848)... V I......— Il Cabella non meno dei due Ministri genovesi tenace propugnatore dei diritti di Genova contro Torino. VI I.....— Coopera alla sedazione di un tumulto a Voltri (apri- le 1848)....................... \ III. ... — Scrive al Ministro Ricci proponendo miglioramenti nella Guardia civica................. XV Paglia...... — Si fonda il Circolo Nazionale dove il 22 maggio il Gioberti vien salutato a nome di Genova dal Cabella presidente...................... 131 X......— Roberto d’Azeglio e la coccarda tricolore (aprile-mag- gio 1848)...................... 135 X I......— Il Cabella gravemente ed ingiustamente punito come ca- po compagnia della Guardia Nazionale (giugno 1848). 140 XII.. . . — Il Cabella a nome del Circolo dirige al Re per mezzo del ministro Ricci un indirizzo invocante rimedi ai mali che affliggono l’esercito (20 giugno 1848). . . 142 XIII.... — Il Circolo Nazionale e la legge di fusione della Lom- bardia col Piemonte................. 146 XIV. ... — Giuseppe Garibaldi al Circolo Nazionale (3 lug. 1848). 149 XV.....— Proclama del Circolo Nazionale a tutti i Circoli italiani (21 luglio 1848)................... 152 • XVI.... — L’armistizio di Salasco a Genova........... 155 XVII. . . — Il Circolo italiano e i disordini di Genova nell’autun- no del 1848..................... 158 XVIII.. . — Il Cabella è eletto deputato di Voltri (31 ott. 1848). 162 XIX.... — Ansie politiche e lutti e gioie paterne in lettere all'a- mico Sineo Ministro degl’interni che gli oftre l'intendenza generale di Genova (genn. 1849). .. . . 164 XX.....— Inizia la sua carriera parlamentare sostenendo la costituzionalità del Decreto che chiudeva il Circolo italiano (15 febbraio 1849)............. 175 XXI.... — E nominato Relatore della Risposta al Discorso del Re Carlo Alberto. Caduta del Ministero Gioberti (21 febb. 1849)..................... 178 XXII... — Testo della Risposta al Discorso della Corona..... 182 XXIII... — Discorso del Cabella contro le obbiezioni opposte dai diversi oratori alla detta Risposta......... 185 XXIV.. . — La disfatta di Novara e la rivoluzione di Genova (marzo-aprile 1849)................. 188 XXV... . — Il Cabella dimostra l’illegalità dello stato d’assedio proclamato a Genova................. 193 XXVI.. . — Gli si propone di far parte di un Ministero di conci liazione (agosto 1849)................ 194 XXVII.. — Cause dell’avversione reciproca tra Liguri e Piemontesi. 197 XXVIII. — Ostilità e contrasti tra Genovesi e l’ufficialità piemontese di presidio. Il Cabella difende la causa de’ suoi concittadini presso il Ministro degl’interni (agosto 1849). 211 XXIX.. . — Il Trattato di pace con l’Austria discusso in seduta se- greta. Altre occupazioni politiche nell’autunno del XVI XXX. . . — Dottrina, eloquenza e carattere fanno del Nostro uno dei più eminenti capi della Sinistra parlamentare. Testimonianze di preclari colleglli......... XXXI.. . — Un nuovo lutto lo determina a rinunciare al mandato politico (marzo 1851). È fatto Console della nuova Società, sorta a Genova, del Tiro a segno nazionale (aprile 1851)..................... XXXII.. — Tesse l’elogio del defunto amico suo ayv. Ludovico Casanova (ottobre 1853)............... XXXIII. — Rieletto deputato, nella tornata 7 febbraio 1855 oppo- ne un potente discorso al disegno di legge relativo all’alleanza del Regno Sardo con l’Inghilterra e la Francia contro la Russia............. XXXIV. — Un diverbio Lanza-Cabella. Il Cabella cade nelle ele- zioni del novembre 1857. ............. XXXV.. — Difende gl’imputati del molo mazziniano seguito a Genova- l’estate del 1857............... PARTE TERZA — Età provetta. I.......— Emigrati politici a Genova nel dodicennio 1848-60. I I......— Il Cavour informa il nostro Cittadino della istituzione dei Cacciatori delle Alpi dove potevano inscriversi i volontari per l’imminente guerra (a. 1859) contro l’Austria. Organizzazione e disciplina di questo corpo. Ili.....— Filippo Mi gliavacca e Carlo Gorini, patrioti milanesi applicati nello studio del Cabella, si arruolano e combattono valorosamente sotto le bandiere di Garibaldi (a. 1859).................. I V......— Il Cabella propone al Cavour un disegno di legge che renda obbligatorio il voto elettorale (ott. 1859). V......— Risponde al Sineo che lo invitava a cooperare alla ricostituzione di un onesto partito parlamentare (nov. 1859)......... ............ V I......— E eletto deputato alla settima legislatura. Votata l’an- nessione della Toscana al Regno Sardo, nell’aprile 1860 Genova restituisce a Pisa le catene di Porto Pisano. Discorso del Cabella............ ^ U.....— Migliavacca fa parte sotto Medici della seconda spedizione. Muore eroicamente a Milazzo. Dolorosa lettera del Gabella a Lazzaro Gagliardo........ XVTI Vili.... — Lazzaro Gagliardo, combattendo da prode al Volturno. succede al Migliavacca nell’amore paterno del nostro Cittadino...................... I X......— Opera parlamentare del Cabella nella settima legisla- tura (anno 1860). Difende i mazziniani dalle ingiuste accuse dell’on. Chiaves. Sue lettere da Napoli nei primi giorni dell’annessione............ X......— Rapporti del Cabella col Cavour. Lettere inedite del Cavour................. ...... X I......— Cause che indussero i Genovesi e il Cabella ad av- versare la politica del Ministro piemontese..... XI I.....— Il Cabella scrive al Cavour una lettera di severo rim- provero. Risposta del Cavour (3 agosto 1860). . . . XIII.... — La Circolare Parini 13 agosto 1860......... XIV. ... — Combattuto dal Cavour, il Cabella soccombe nelle ele- zioni della primavera 1861............. XV.....— Il Cavour espone al Cabella le ragioni che l’han mosso a combatterlo.................... XVI. ... — Fallitagli un’altra prova, il Cabella depone per sempre il pensiero di ritentare la fortuna dell’urna politica. XVII. . . — Cabella presidente della Società La Nazione e del Co- mitato pel Dono Nazionale a Garibaldi...... XVIII.. . — Lettera al Rattazzi (13 novembre 1861)....... XIX.... — L'Italie e il Sillabo (gennaio 1865).......... XX.....— Seguono i rapporti del Cabella con Garibaldi tino alla morte di questi................ .. . PARTE QUARTA —Età senile. I.......— Intorno all'Esther tragedia di Racine: lettera critica a P. Bernabò Silorata (gennaio 1869)....... I I......— L’avvenire della scienza : discorso inaugurale (no- vembre 1869)................'. .. Ili......— Presidente onorario e Avvocato consulente della Società Cooperativa genovese per viveri e abitazioni. I V......— L’anno 1870. E fatto Senatore. Nobili dimostrazioni di stima. Gli studenti di Giurisprudenza sottoscrivono un indirizzo di plauso e di affettuosa devozione al loro maestro................ V.......— Muore Antonio Caveri (febb. 1870). Elogio funebre pronunciato dal Cabella........... .. V I......— Cabella insegnante di Diritto civile.......... Pag. 297 300 310 313 331 337 339 343 351 256 367 371 375 Pag. 385 388 390 397 403 407 xvm VII..... Vili____ IX.. X...... X I...... XI I..... XIII.. . . XI V____ X V..... XV I____ XVII... . XVIII.. . XI X____ X X..... XX I____ XXII. . . XXIII.. . xxiv.. ; — Rettore dell’Università, ne promuove l’incremento. .. — Promuove la fondazione e l’ordinamento della R. Scuo- la Superiore Navale e ne è nominato Presidente. .. — Difende in una lite giudiziale Giovanni Ruffiui suo antico compagno di studi. Donde un affettuoso carteggio (1870-72)................... — Da Parigi, dopo la perdita della sua materna pi’otet- trice, ridottosi a Taggia, il Ruffini ringrazia l’amico patrono per la riportata vittoria (anno 1875).. .. — Morto l’amico intimo avv, Giuseppe Carcassi, il Cabel- la ne loda sul feretro le eminenti virtù (ap. 1875). — Autorevole elaboratore in Senato della legge sulle So- cietà e Associazioni commerciali (primavera 1876). — Si oppone in Senato al disegno di legge ministeriale sui Provvedimenti straordinarii di pubblica sicurezza (estate 1875)..................... — I Senatori Eula e Cabella strenuamente combattendo salvano da imminente naufragio la legge conservatrice a Genova del suo Deposito franco (estate 1876). Cabella cita in quistione la sapienza pratica del Cavour....................... — Il Cabella tenta risollevare l'animo depresso dell’amico Ruffini....................... — Zanardelli affida il Nostro della sua ferma e fòrte amicizia; gli si dichiara favorevole alle Convenzioni ferroviane..................... — Muoi’e il Sen. Giorgio D’Oria (genn. 1878j. Il Cabella lo dice primo tra i primi promotori a Genova di liberali istituzioni e dell’idea nazionale....... — Segue l’affettuoso carteggio di Ruffini e Cabella. Il quale per appagare il voto di due cuori, si reca a Taggia a salutarvi l’amico (ultimi di settembre 1878). — Un tragico accidente percuote d’improvviso e abbatte la miserevole salute del Ruffini (nov. 1878). Ultime lettere dei due amici................ — Malattia e morte di G. Ruffini (3 nov. 1881)..... — Professione legale di Cesare Cabella......... — A nome dell’Ordine degli Avvocati porge solenne rin- graziamento d’addio al sen. Eula nominato Primo Presidente della Corte di Cassazione di Torino (anno 1879). .. '...................... — Suoi uffici legislativi................. — Scrivendo a Zanardelli imprime stigma d’inl’ainia sul- l’immorale governo del Depretis (luglio 1881). Pag. 413 415 417 430 433 436 438 440 447 44!» 452 454 462 467 471 478 480 480 \ XXV.. . . XXVI... XXVII.. XXVIII. XXIX.. . XXX. . . XXXI.. . Depretis, la Pentarchia e le Convenzioni Ferroviarie nell« ultime lettere del carteggio Zanardelli - Cabella (anno 1883-84)................. Propugna in Senato la legge del pareggiamento della nostra Università a quelle di primo grado (anno 1885). ........................ Ringrazia gli Avvocati genovesi adunati in Assemblea della loro fiducia e del loro affetto costante (anno 1886 )......................... Consigliere comunale e provinciale e amministratore di Opere Pie..................... Suo culto per la famiglia. Sua morte (2 aprile 1888). Sinopsi de’ suoi sentimenti affettivi e morali..... Sue funebri onoranze................. xix Pag. 491 496 500 501 508 519 531 ERRATA - CORRIGE Pag. 5 — riga 38: demolitù - demolita Pag. 13 — riga 33: risolversi fremette risolversi; fremette Pag. 20 — riga 37: certame te = certamente Pag. 23 — Vili (nel titolo) P. n. Phooobus = P. n. Phoebus Pag. 201 — riga 23: ammessa annessa Pag. 209 - riga 26: feit — fait Pag. 223 — riga 7: ssrà = sarà Pag. 227 — riga 28: ultilissima = utilissima Pag. 232 — riga 17: propongo prepongo Pag. 237 — riga 19: parlò molta eloquenza : - parlò con molta eloquenza Pag. 249 — riga la: dodicennio 184860 __ dodicennio 1848-60 Pag. 253 — riga 24: alla Zerbino = allo Zerbino Pag. 528 — riga 4-5: di poderi = di poteri Nota dimenticata alla riga 16a della pag. 235: La spinta decisiva a tradurre in atto il già da tempo meditato disegno di aiutare il Piemonte a cacciar l’Austria dall’Italia l’ebbe Napoleone dalle gravissime e documentate relazioni comunicategli dall’amico suo conte Francesco Arese, dove era inoppugnabilmente dimostrato che l’Austria per mezzo di una contropolizia Carbonara e settaria possedeva il segreto di quanto si macchinava contro la sua persona ancor prima che 1 attentato Orsini si effettuasse, e intanto taceva e lasciava che il regicidio si compisse, e fors anco era causa occulta e provocatrice di queste diaboliche macchinazioni. Donde anche si rileva che l’Austria aveva da lunga mano intuite le mire ambiziose di Napoleone sull’Italia e con arti sotterranee tentava mandarle a vuoto. Cfr. R. Bontadini, Vita di Francesco Arese. pag. 173-179. PARTE PRIMA ' . I. Cenili genealogici sulla famiglia Cabella (1). II capostipite della famiglia Cabella fu un Renzo o meglio Lorenzo, dal cui nome i discendenti da principio tolsero a denominarsi. In processo di tempo, abbandonato il luogo natio e venuti ad abitali in Genova verso la metà del XII secolo, si compiacquero aggiungere al cognome avito quello, pare, della terra donde traevano origine e si fecero chiamare i Renzi di Cabella che è un alpestre comune nel mandamento di Rocchetta Ligure sul continente del Burbera, dove un tempo ebbero feudi gli Spinola, quindi i Fiesclii. ed in ultimo i Doria Pamphili. L'uno e l’altro appellativo serbarono tino all’anno 1500. Appresso tennero soltanto l’ultimo che tuttora la famiglia conserva cioè quello di Cabella. Erano in origine uomini applicati all’agricoltura, ma per la venuta in città mutarono condizione. Alcuni si applicarono all’arte dello speziale, altri a quella del lanaiuolo, altri alla tessitura dei panni, al negozio delle sete (2). Tali mestieri tramandarono di padre in figlio per il corso di parecchi secoli, sin verso il secolo decimosettimo quando, cresciute le loro fortune, seguendo il naturai desiderio di collocarsi tra i maggiori cittadini e tra gli stessi nobili, vollero aggregarsi agli alberghi nobiliari e scelsero altre carriere meno vantaggiose ma più confacenti al novello loro stato, onde alcuni si dedicarono alla professione di notaio e parecchi ebbero ufficio di cancellieri del comune. Nel tempo in cui furono popolari ebbero anche favore, specie quando il popolo e il partito ghibellino, al quale erano ascritti, riuscì (1) Le seguenti notizie ho desunte e compendiata dalle Famiglie Liguri di L. A. Cervetto. (2) Giovanni padre del nostro Cesare Cabella, morto nel 1835, fu negoziante di sete, 4 a togliere di mano ai nobili, o agli aversarii clie dir si voglia, il governo della cosa pubblica. Furono infatti anziani del Comune genovese Michele nel 1281; Giannino nel 1391; Giovanni nel 1412 fu collettore di gabelle, Cristo--foro ufficiale di mercatura nel 1455 fino al 14(36; Francesco podestà di Monterosso nel 1447. Catta importantissima colonia genovese nel Mar nero ebbe nei Cabella consoli ed ufficiali, quale Giovanni massaro nel 1464, console nel 1465 e 1466, e nuovamente massaro nel 1467 'e 1468. Antonio fu console nel 1474 e 1475, nel quale anno Catta che nel medio evo era per Genova quello che oggi si può dire sia Buenos Ayres, cadde in potere dei Turchi. Antonio era setaiuolo e godeva a Genova di tale riputazione che, come sappiamo dal Giustiniani, nel 1466 fu dei Riformatori delle leggi della Repubblica. Ebbe autorità presso il Banco di S. Giorgio perchè nel 1453, 1459, 1465, 1466 si trova menzionato tra gli ufficiali preposti alla direzione del Banco medesimo; il quale nel 1462 lo inviava ambasciatore a Milano a stipulare certe convenzioni con quel Duca. La Repubblica di Genova intorno alla metà del sec. XV avvisando che nelle strettezze del pubblico erario S. Giorgio avrebbe potuto sovvenire di potente aiuto lo stato, aveva ceduto a questo Banco la ricchissima città e la vasta colonia di Catta che contava 70.000 abitanti. Gli statuti che il Banco stabiliva entrandone al possesso, le istruzioni consegnate ai consoli che inviava al governo di quella città sono pervenuti sino a noi come prova della saggezza dei nostri maggiori. Antonio Cabella fu il 20° console che dal Banco venne colà inviato e toccò a lui la triste sorte di chiudere la serie dei Consoli effettivi. Eletto console il 27 agosto 1471, ottenne la regolare patente il 10 giugno 1472. La dignità di Console in quella famosissima colonia corrispondeva, come osserva il Vigna, a quella di viceré e l’autorità sua era massima. Antonio era uomo buono, leale, alquanto meticoloso ma retto e perciò forse non del tutto adatto a governare una città quale era Catta piena di gente astuta, data al raggiro, volta alle risse, pronta all'inganno. La sua rettitudine, storia antica e moderna, gli suscitò avversari e nemici, sopra tutti Francesco Fieschi e Oberto Squarciafico che con ogni maniera di calunnie cercarono di perderlo nell’estimazione degli Amministratori di S. Giorgio. Il Console bravamente si difendeva e tutto si dedicava alla prosperità e alla quiete della Colonia, e nondimeno dall’agosto del 1474 al giugno del 1475 corse per lui un periodo di ambascie continue, di tranelli, di lotte. Fermo agli ordini avuti dal Banco, non soccorso di consiglio, anzi im- 5 pigliato nelle reti insidiose tesegli da Oberto Squarciafico, si trincerava sempre dietro il proposito di attendere istruzioni da Genova, le quali per la lontananza giungevano tardive e non erano più opportune. Ma la fiorentissima colonia già da tempo eccitava la bramosia di Maometto sultano di Costantinopoli. Eminecii, già signore della campagna, postosi in segreto accordo col Sultano, concertò l'assalto che ebbe luogo il 1° giugno 1475. L’arrivo inatteso della fiotta musulmana atterrì i 70000 abitanti di Caffa. I disgraziati invano si difesero, il tradimento diede la città in mano al barbaro nemico. I cronisti narrano i tormenti, le ruine, i massacri, gli orrori di che furon vittime città e cittadini. L’infelice Cabella, trascinato prigioniero a Costantinopoli, ebbe lungo e doloroso supplizio in un bagno di ciurme. Oberto Squarciafico, suo furioso nemico, venne impiccato sotto il mento con un uncino di ferro. Terrore e desolazione cagionò a Genova l’orrenda notizia. Del disastro si volle il capro espiatorio: il povero Cabella fu dichiarato traditore e reo lo ripete il Giustiniani. Storici recenti non solo lo assolvono dall’ignominiosa imputazione ma affermano aver lui scontato con la morte l'amore dimostrato alla madre patria. I Protettori delle Compere, venuti a sapere che l’altra ricca colonia genovese levantina fiorente nel luogo ove oggi sorge Taganrog, porto frequentatissimo, abbisognava di un cittadino esperto e attivo che con prudenza la governasse, il maggio del 1467 elessero Barnaba di Cabella a quella carica dove rimase fino al 1470. Gravissimo il compito del Console perchè coi Genovesi in quella terra avevano giurisdizioni e proprietà e fondachi numerosi anche i Veneziani coi quali i nostri erano in continue liti e gelosie e pericolo di conflitti; compito assolto dal Cabella con mirabile prudenza e con piena soddisfazione e lode del Banco amministratore. Mentre Antonio finiva miseramente la vita a Caffa, un Giovanni di Cabella, già console di Caffa, veniva dal Banco eletto luogotenente Governatore di Corsica, e meritava pubblica lode. Suo coetaneo fu Nicolò di Cabella, ecclesiastico di gran conto che sostenne a Genova e fuori alti e gravi uffici. Intorno al 1500 le case dei Cabella si ergevano nei pressi della Chiesa di S. Ambrogio, e nel 1513 un Giovanni Bernardo di Paolo acquistava una casa sulle alture di Granarolo. La sepoltura della famiglia esisteva nella demolita chiesa di S. Domenico. O > Quando nel 1528 tra le famiglie popolari nacque il desiderio di aggregarsi agli Alberghi, i Cabella entrarono nei De Ferrari e negli Imperiale. Tra i primi si iscrisse Cristoforo, tra i secondi Ambrogio 6 e Domenico il cui ramo poscia s’estinse. Allora i Gabella scelsero a stemma che rappresentasse la propria famiglia un leone rampante in campo rosso e lo scudo attraversato da una banda a dentelli. Nel 1507 un Paolo Gabella, ghibellino accanito, veniva come uomo sedizioso bandito da Genova dai ministri di Luigi XII. Finalmente un egregio poeta conta questa famiglia nella persona di Giovanni Battista Cabella vissuto nella prima metà del sec. XVII: ne fa menzione il Soprani nei suoi Scrittori liguri. Genealogia in linea ascendente divetta di CESARE CABELLA dal secolo XVI Giambattista Gabella (sec. XVI) I Giacomo I Giovanni o Giannettino (nato in S. Siro di Struppa il 2 aprile 1624) I Pasqualino (n. il 9 aprile 1647) sposa Marta Grondona • I Bartolomeo (nato il 4 novembre 16S3) I Francesco sposa Bianca Roiibo I Francesco Giovanni sposa Vittoria Parodi Francesco I CESARE CABELLA (nato nel 1807) $ 7 II. Nascita e studi di Cesare. È laureato iu giurisprudenza. Cesare Cabella nacque in Genova il 2 Febbraio 1807 in onesta fortuna da Giovanni, commerciante di antica probità, e da Vittoria Parodi sorella di quell’insigne professor Cesare Parodi che per ben ■IO anni dettò magistrali lezioni di diritto commerciale al nostro Ateneo (1). Quel mirabile senso di illibata rettitudine onde Cesare doveva andar poi rinomato e ammirato tra uomini d’ogni fede e partito, ereditò egli dai suoi genitori. Del padre, commerciante di sete, potrei ricordare all'uopo abitudini e fatti che un tempo erano ad onor suo divenuti in Genova notorii e quasi proverbiali; citerò solo quel che d’ambidue scriveva a Cesare il 4 marzo 1870 Giovanni Ruffini che ben li aveva conosciuti: « La bontà e la dolcezza del sangue sono di tradizione nella vostra famiglia, e i vostri figli son destinati a continuarla. Bastava guardare in faccia vòstro Padre e vostra Madre — mi pare di vederli — per leggervi scritto: Fior di galantuomini, chiamati a farne razza ». Già dalla prima puerizia Cesarino dava manifesti segni di svegliatissimo ingegno, di aureo cuore e di quella brama di sapere che nella sua epistola poetica al trevisano Francesco Barbaro, amico suo, confessava essere una delle più potenti passioni della sua vita. E tradizione ancor viva nella sua famiglia che l’amorosa mamma, temendo per la cagionevole salute del suo Cesarino, affinchè non protraesse di troppo le veglie nello studio, gli misurasse scarsamente l’olio nel lume, ma che egli eludendo il materno accorgimento, abbassasse il lucignolo per farlo durare più a lungo. « Discepolo da ragazzo, insieme a Giuseppe Mazzini, di uno scolopio De-Gregori, l’ardente e severo giansenismo del quale non è stato forse senza influssi nel temperare il carattere del grande agitatore e quello del grande giureconsulto; compagno di Università col medesimo Mazzini, con Filippo De> Boni, con Federico Campanella, coi due Ruffini. Jacopo e Giovanni, soleva egli dipoi nella tarda età rammentare con nobile compiacenza la sua giovanile domestichezza (1) Il registro parrocchiale dell’Abbazia di S. Matteo lo dice nato in Via S. Matteo, oggi David Chiossone, e battezzato dall’Ab. D. Francesco Massola; gli furono padrini gli zii avv. Cesare Parodi e la Sig.a Maria Antonia Rissetto Rapailino che gli imposero i nomi di Cesare Antoaio. 8 con quelle splendide figure del patrio risorgimento; e narrava talora come il loro gruppo, che occupava nella scuola i banchi più alti, fosse, quasi divinando, indicato dagli altri studenti col nome di Montagna (1) ». Come spesso non avviene, Cesare non eccelleva solo in una o poche ma in tutte le più disparate discipline a cui volgesse il multiforme ingegno. Compiti, come risulta dai Registri dell’Archivio, alla nostra Università gli studi allora detti di Filosofia, a sedici anni cioè nell’agosto del 1823, vi sostenne gli esami di Magistero: il dì 8 quelli di Eloquenza latina e italiana; il dì !• quelli di Aritmetica e Geometria, e di Logica e Metafisica; il dì IL quelli di Fisica e Filosofìa morale; in tutti riportando la totalità dei voti e la lode. Inscrittosi quindi alla Facoltà di Giurisprudenza, si diede con tutto l’ardore a questo studio. Nella primavera del 1826 caduto malato di un attacco di petto, organo particolarmente vulnerabile nel suo sanissimo organismo, fu * costretto a interrompere per tre mesi la sua frequenza alle lezioni di Facoltà. Di che non sofferse solo il danno della salute ma anche il ritardo di un anno intero nel corso regolare de’ suoi studi; perchè avendo fatto legale domanda alla Ecc.ma Deputazione degli studi affinchè quel trimestre gli fosse condonato, ebbe il dolore di vedersela respinta con deliberazione del 18 dicembre 1826 (2). La strana crudeltà di simile deliberazione si spiega col sistema inaugurato dai reggitori delle Università di Torino e di Genova dopo che questi Istituti, già chiusi come focolari dei moti carbonari del ’21, furono riaperti agli studi. Il Ruffini ne parla diffusamente nel Cap. XVI del suo Lorenzo Benoni, dove tra l’altro dice: « La scelta della Commissione cadde sopra uomini devoti al Governo, cioè alla riforma e al riordinamento degli studi furono preposti i più bigotti, i più retrivi, i più ostili ad ogni idea di moderato progresso ed i nemici più accaniti della gioventù. I signori Commissari si proposero rispetto 'alle Università un doppio intento: d’aver pochi scolari, e di angariare questi pochi il più che fosse possibile ». E poiché, come soggiunge il-citato scrittore, « l’Università era come un gran torchio per ispre-mere dalla crescente generazione ogni indipendenza d’animo, ogni dignità, ogni rispetto di se stessa », e vi governava a tal uopo lo spionaggio e l’ipocrisia gesuitica, e il Cabella non era dei Gingillini (1) P. E. Bensj, Commemorazione citata, pag. 107-8, nell 'Annuario della lì. Università di Genova 1SS(). (2) Da documenti ufficiali esistenti pressp il Museo del Risorgimento di Genova. collitorf i ma dei reprobi della scomunicata Montagna, egli è luor di dubbio che la Deputazione colpendolo volle punirne i liberi sentimenti. Ho ragion di credere che dovendo egli addestrarsi per tempo all’esercizio di quella professione a cui le circostanze lo costringevano, prima ancora di compiere gli studi della facoltà abbia cominciata la sua pratica legale nell’ufficio del sopra lodato suo zio e padrino avv. Cesare Parodi. Compiuto l’ultimo anno di corso e superate con la lode tutte le prove ordinarie d’esame, il dì 11 agosto 1828, ventunesimo di sua età, sostenne con pienezza di voti e con la lode tutte le discussioni di Laurea e, promotore il Prof. Angelo Leveroni, fu proclamato dottore in ambe le leggi. Laureato, seguitò parecchi anni a far pratica legale sotto la direzione del detto suo zio al quale la grande perspicacia e la solerte operosità del nipote cominciavano a prestare opera non poco illuminata e proficua. III. Va a Verona e a Piacenza per ragioni di salute. Nel maggio 1829, a corroborare l’affievolita salute con l’aria forte d’oltre Appennino, come da noi per l’addietro e tuttora si costuma, profittando delle relazioni commerciali del suo buon padre che a ciò lo consigliava, si recò a Verona dove rimase forse tre mesi e dove rivide l’amico poeta veronese Giovanni Marinelli, e contrasse la pi'eziosa amicizia del giovane trevisano Francesco Barbaro. Da Verona il 5 luglio esprimeva alla famiglia il desiderio di potervi ancora rimanere, dicendo: « Ho preso un metodo di vita che mi è carissimo e che mi fa passar bene le ore del giorno senza accorgermene; si aggiunge che io ho un amico carissimo, il tiglio del con-siglier Barbaro, giovane di ottime qualità e di castigatissimi costumi ». Di questi amici diremo ad altro luogo. Dalle poetiche rive dell’Adige e dalle dolci amicizie veronesi tornato in patria e a’ suoi legali uffici, tra l’inverno e la primavera del seguente 1830 Cesare venne assalito da fiero mal di petto, non saprei ben dire se bronchiale o polmonale, che per poco non ne mise a repentaglio- la vita. Gli amorosissimi genitori ne furono in gravi angustie, e tosto ch'ebbero la consolazione di vederlo convalescente lo mandarono a finir di risanarsi all’aria della più vicina Piacenza, dove contavano egregi amici. Vi giunse egli ai primi di maggio e vi rimase fino a novembre; nel qual mese tornò a Genova, e vi riprese i suoi studi e il suo pratico esercizio legale nello studio dello zio. 10 Permanevano però sempre come reliquie del male sofferto la debolezza generale, l’irritazione alla gola e una incomoda raucedine, onde, per consiglio dei medici e dei vigilanti genitori, a prevenir nuovi guai, il 19 aprile del seguente 1831 tornò a Piacenza. Quivi rimase circa un anno. Di questa sua seconda dimora in questa città si leggono notìzie in parecchie sue lettere che ancora ci rimangono donde si rileva che tra le varie pensioni da lui cangiate, una n’ebbe presso il piacentino Consiglier Parolini vice Presidente del Tribunale militare. Il 27 aprile scriveva che la sua salute non aveva ancora sentito notevole benefìcio; la gola sempre un po’ irritata, la voce sempre un po’ rauca. Ma nei mesi successivi del caldo Cesare andò via via risorgendo, onde il 12 luglio scriveva che se la voce non era ancora intieramente ricuperata, la sua salute era buona, e il 20 dello stesso mese: « Io sto benone, meno qualche abbassamento che di quando in quando continua ad avere la mia voce ». Nell'autunno, cedendo alle istanze ospitali dei gentili coniugi Pietro e Annetta Fabri, passò seco loro qualche tempo nella loro amena villeggiatura di Ottavello presso Piacenza dove la sua salute rifiorì in modo insperato. « Io sto bene assai sci’iveva ai genitori, ed ho acquistato durante il mio soggiorno in campagna, una robustezza che è un fempo assai lungo che non ho avuto. La mia voce è chiara e sonora e, finalmente, come prima, e sparì ogni rimasuglio di quella raucedine che mi era rimasta dopo, le ultime mie malattie. Ci vollero ben sette mesi ». E 1*8 novembre: « Io sto benone. La mia voce ha riacquistato la sua sonorità, di modo che finalmente posso cantarellare come facevo prima delle due fatalissime malattie dell’anno scorso ». Era Cesare uu giovane alto, biondo e bello e di aspetto gentilissimo, tutto decoro e cortesia di modi; nella sua conversazione splendeva non meno il lume del raro ingegno e della eletta coltura che l’amabilità del nobile cuore, onde riusciva a tutti e a chi più queste doti apprezza, oltremodo accetto e desiderato. Niuna meraviglia adunque se in Piacenza con la ricuperata vigoria sentitosi rinato alla potenza della vita e della gioventù, non durò a lungo renitente agl’inviti d’amore che frequenti gli venivano significati da occhi disiosi e da eloquenti sorrisi. Intendo parlare delTamore per una bella signora piacentina che, forse già iniziato l’anno innanzi, durò parecchi anni e del quale avremo ancora da riparlare. L’amorosa mamma temendo che la lontananza dalla casa paterna e la piena libertà di cui godeva e le stesse sue grandi attrattive potessero trarlo a passo men considerato, gli scriveva raccomandandoglisi molto e domandandogli se le signore che visitava a Piacenza fossero tutte di età sinodale, assicu- 11 randello eli ella era molto facile a creder tutto. A cui Cesare: « Giacché ella è tanto facile a creder tutto, cresce il mio sacro dovere di non ingannarla. Sinodali? non tutte, cara mamma, non tutte. Sinodali sono la marchesa Landi e la signora Lattanzi, anzi sinodalissime. Mezzo sinodale quanto all’età e sinodalissima quanto alla bellezza è anche la xig.ra Meriggi moglie del chirurgo che mi curò e molto intrinseca della sig.ra Fabri. Ma non è così di altre due signore che sono delle primarie di Piacenza, la contessa Anguissola e la marchesa Fogliani figlia della marchesa Laudi. Oh queste poi non sono sinodali! » Ma nè qualche amorosa dilettazione nè le ricreazioni geniali, nè la cura della sua salute lo svolsero mai dall’esercizio della sua professione oda: suoi prediletti studii letterari e filosofici, chè anzi, secondando la sua naturale attività, frequentò lo studio dell’avvocato Lattanzi da cui ebbe lavori legali da eseguire. Si rileva poi da lettere conservate in famiglia ch’egli occupò l'ultimo tempo del suo soggiorno pacentino nello studio laborioso di una intricatissima quistione legale, a lui come arbitro affidata, relativa alla divisione di una cospicua eredità di casa Fabri dov’erano interessate ben otto famiglie, e che dopo lunghe e gravi fatiche avendola egli potuta felicemente dirimere con soddisfazione di tutti, ne acquistò non poco nome ed onore presso quella cittadinanza. A noi viventi in tempi ormai tanto disformi, leggendo le lettere del nostro giovane a’ suoi genitori, reca meraviglia la terza persona ch’egli usa con loro e la devota sommissione con cui si proferisce sollecito ad ogni loro desiderio e li ragguaglia d’ogni minima cosa sua; e grato ci torna quando più volte nelle lettere da Verona e da Piacenza egli dice affrettare col desiderio il giorno di poter finalmente col frutto del suo lavoro compensarli in parte delle tante cure e dei tanti sacrifici sostenuti per amor suo. La storia dell’umano egoismo ci reca esempio troppo frequente di putativi grandi uomini che raggiunta l’età competente, scossero da sè, come ingrato fardello, la cura e il pensiero di quell’amorosa famiglia a cui dovevano tutto l’esser loro. Nel Cabella, piissimo cuore, l'altezza della mente e la brama di gloria non scemarono, accrebbero l’amore e la tenerezza verso i suoi santi vecchi e tutta la lunga vita consolò nel culto degli affetti domestici. 12 IV. Stringe amicizia col Giordani. La famigliarità di casa Fabri gli valse la conoscenza e l’amicizia delle più insigne famiglie e degli uomini più riputati di quella città, tra i quali, del nobile Ferdinando Grillenzoni amico del Manzoni e nipote del grande Romagnosi, del eli. medico Gio. Antonio Rebasti, di Pietro Gioia e di altri illustri. Ma l’amicizia di cui soprammodo e soprattutto si rallegrò e si disse fortunato fu quella di Pietro Giordani piacentino che dai rumori insurrezionali di Panna si era allora rifugiato nella sua città nativa. Il ‘20 luglio (1831) stava Cesare scrivendo alla famiglia quando, sospendendo a un tratto il filo del discorso epistolare, soggiunge: « Mi viene una visita in camera ». Indi a poco riprende la penna e prosegue: « Fra il Sig. Pietro Giordani, uno dei più grandi scrittori dei nostri tempi, di cui mi fu fatta fare la conoscenza ». Il Giordani, aggiungerò io,, era venuto a toglier commiato dal suo giovane amico, dovendo ripartire per Parma, dove il moto politico era quietato. Il Nostro non tardò a scrivergli, ma perchè natura sensibilissima e acceso di viva ammirazione per l’uomo dottissimo c he parlando riusciva anche più ammirabile che scrivendo, nella lettera aveva usato con lui espressioni egualmente ammirative, il bizzoso scrittore, scambiando queste per cerimoniose piacenterie, gli risponde subito con una prima lettera che comincia con una crollata di spalle: « Perchè guastare con tanti complimenti una cosi bella e cara lettera? Oh lasciamo che i complimenti li faccia alla 'canaglia dei principi la peggior canaglia dei cortigiani ». Bizza presto cessata perchè la breve lettera si chiude con affettuose parole: « Caro signor Cesare, mi scriva se vuole consolarmi; e mi creda sempre suo affezionatissimo, che lo abbraccio di cuore, Pietro Giordani ». Il quale, venuto in autunno nuovamente a Piacenza, godè ore felici, indimenticabili col suo Cesarino nella villa ospitale di casa Fabri in Ottavello; onde il 7 novembre da Parma, dove già era tornato, gli scriveva dichiarandosene debitore, a lui ed esclamando: « Ah quante innumerevoli volte sentirò dolente desiderio delle sere felici che si passeranno in codesta cara famiglia! » E perchè il giovane ammiratore gli si mostrava desiderosissimo del suo sapiente consiglio pei propri studi di economia sociale, lo scrittore gli si dice pronto a compiacerlo dovunque possa valere l’opera sua; gli consiglia la quinta edizione del Trattato del Say e il Corso di Ecpnomia dello stesso autore, poi l’opera dello Smith, poi quella dèi Malthus, esponendo su questi economisti il suo libero giudizio. 13 Così nasceva tra l’avvocato genovese e lo scrittore piacentino quell’amicizia die in costui doveva toccare un grado d’intensità e d’adorazione quasi frenetica- com’era frenetico il suo carattere, e dopo otto anni sciogliersi e spegnersi come non poche altre sue amicizie. È da dolere che seguendo il suo strambo costume di distruggere inesorabilmente tutte le lettere, da chiunque gli venissero, il Giordani ci abbia privato della corrispondenza del Cabella e tolto il modo di penetrarli:’ facilmente il riposto pensiero e gli agitati affetti che dalle responsive giordaniane per supposizione e congettura appena possiamo intravedere. Avvalorando questo lavoro di esegetica induzione con altri documenti biografici mi studierò di rintracciare e far chiara al lettore l’origine e la natura dei dolori dell’avvocato genovese. A questo fine convien rifarci qualche anno indietro. V. Sua inclinazione alle lettere e alla filosofia civile e sua avversione alla professione legale; donde dolori e lamenti espressi in versi agli amici. Il Cabella seppe per tempo i grandi dolori della vita. Conseguita la laurea in giurisprudenza, fece i primi esperimenti della vita avvocatesca, e la vide, nella sua pratica e quotidiana materialità, così piena di morale miseria, così irta di brighe e d’intrighi e così opposta a quel suo sogno dorato per cui aveva percorso con suo sommo diletto tanti studi e durate tante fatiche, che, a pensare di doversi rinvol-tolare in quel fango e tribolarvi tutta la vita, il suo spirito purissimo ne fu profondamente colpito e sgomento. Rinunciare agli studi speculativi della civile e politica filosofia a cui da natura era potente-mente chiamato, per buttarsi a macerare in quel pattume, rinunciare alle'più pure speranze di quella gloria onorata che l’acquistata dottrina e la coscienza del proprio valore gli assicuravano, era rinunciare alla sua missione civile, a sè stesso, era un sacrificare più che la vita. E il bivio tremendo a cui s’abbatte il giovane che s’affaccia per la prima volta all’ingresso della vita sociale: o risolversi per quell’arte a cui è nato, o piegarsi a quella che la sorte gli pone dinanzi. L/’anima generosa del giovane genovese non volle tempo a risolversi, fremette) ma come il soldato che vede giunta l’ora della prova suprema, elesse il secondo e per lui fatale partito. Egli era fratello germano di sei fratelli e di sette sorelle, e gli sarebbe parso ingeneroso il ricusare o il solo differire l’obbligo di sostenere e consolidare quella onestà 14 ma modesta fortuna nella quale lui e tutti i suoi cari erano nati e vissuti e che per le cresciute esigenze della numerosissima famiglia paterna accennava a declinare. Immolò dunque sè col suo ideale sull’ara deH’amor figliale e fraterno; ma egli era pur uomo, il suo cuore fece sangue, la sua giovinezza ne fu tutta amareggiata. Famiglia del padre di CESARE CAKELLA GIOVANNI CABELLA - VITTORIA PARODI 1 Giuseppe 2 Enrico 3 Luigi 4 Carlotta 5 CESARE sposò Clementina Parodi 6 Pietro 7 Marina 8 Teresa 9 Giuseppe 10 Federico 11 Antonio 12 Emilia 13 Cecchina (moglie delVIng. Cesare Parodi) 14 Anna in Gamba I Cesare 15 Rosa 16 Elisa 17 Matilde I Linda in Edoardo Gabella In casa sua si conservano di Ini due lettere poetiche autografe molto importanti sia perchè fedeli interpreti dell'animo suo, sia perchè gettano luce desiderata sul tenore di quelle lettere, oggi perdute, che-più tardi scrisse al Giordani e ne provocò quelle risposte di cui riferiremo i luoghi più convenienti al nostro proposito. La prima è un’ode in istrofe tetrastiche in risposta ai versi di Giovanni Marinelli di Verona, mirabile per l’età di 18 anni in cui la scrisse, dove il giovinetto si dice già intricato, suo malgrado, nel tirocinio dell’a-borrita pratica legale e lamenta le deluse speranze di gloria. Me di liti fra un orrido Tumultuare un destin duro implica: Fuggir le Muse, e gente intorno veggomi Alle Grazie nemica: E tu vuoi che dApolline Il lauro cinga, e te cercando ascenda Sulle vette di Pindo, e all’amicizia Un lieto carme renda? 15 Ah i bei giorni passarono Che meditar solingo e l’armonia Che ai secoli da vita alta spandeano Luce sull’alma mia! Or duri studi chiusero A me di Pindo gli ameni ruscelli; Son miei lumi le frodi, e Muse un popolo Di Cachi e di Brunelli (1). E questa di mia tenera Età la speme? Ov’è il mio nome impresso In loco alto, immortale? Ov’è sul tumulo L’arguto elogio espresso? Sparir le liete immagini, Nè del mio nome s’alzeran le grida Famose; ignoto resterò tra il fremito Delle forensi strida. Segue dicendo che se il destino gli nega di acquistarsi onore neH'arte dei carmi e delle lettere, si terrà pago dell’encomio poetico onde il valoroso amico lo commendava alla memoria dei posteri; egli intanto, altro non potendo, avrebbe addolcito la sua rea sorte dedicando a’ suoi vagheggiati studi le ore del riposo e le ultime giornate di sua vita. L'altra lettera, in verso sciolto, è diretta all’amico trevisano Francesco Barbaro col quale e col Marinelli a Verona aveva passato, poco addietro, giorni felici. Scritto forse a 22 anni e di natura romantico -elegiaca, presenta già un pensiero maturo e uno stile adulto e fermo. Esordisce ricordando i lieti giorni passati al suo fianco sulle ridenti rive dell’Adige e pregandolo di voler udire l'affanno del suo cuore e dargli consiglio. Quindi, entrando in argomento, dice il suo cuore agitato perennemente da tre affetti: « Amor che a cor gentil ratto s’apprende » E desio di saper, desio che un nome Oltre la tomba mi rimanga, e chiaro Renda il cenere mio, son le faville Che han questo incendio che mi strugge, acceso. (1) Caco, figlio di Vulcano, ladro degli armenti di Ercole, di cui Virgilio nel lib. Vili dcH’Eneide; Brunello, barone di Agramante, maestro d’inganni e .di rapine, di "-ui l’Ariosto nel c. Ili e IV dell’Orl. Pur. 16 Quando dal buio della prima etade L’anima fanciulletta aperse l’ali Al primo voi della verace vita, Quel diviu lume che saper si noma Di cotal raggio balenò che n’arse La picciol’ esca dell’ingegno mio, E una brama v’accese ed una fiamma Che giammai non tia spenta. In alto seggio Che per mutar di secoli non cade Locati vidi quei che il mondo onora D’ogni bell’arte primi; altere menti Siccome Numi venerate: speme, Ardita speme mi prese che un giorno Potrei tra loro esser nomato, e il capo Incoronarmi dell’eterna fronda Che mai per lunga età non si scolora. Poi dice dei tentati voti, delle miserevoli cadute, delle risorte speranze della finale delusione. Talora il fianco dal profondo limo Alzar m’attento, e su per l’erta trarlo: Ma indarno m’affatico, chè tròppo alta Sale la costa, e ogni mia fòrza eccede. Come il villano che sfranato monte Per fresca piova di salir s’affanni. Il terren molle noi sostiene, e cede, Ei va tre passi innanzi, e sei ricade: Dopo cento cadute alfin s’asside Rivolto al monte, e pur in alto guata: Così affannoso sull’erto sentiero Con vece assidua anch’io risorgo e cado. E, dell’altezza disperato alfine, 10 m’abbandono senza lena, e posa Do al mio lungo cader col giacer sempre. E così giacerò finché sul ciglio 11 sol mi giri; 110, non tia ch'io sorga ■ Si che il mio nome intorno suoni, e il capo Levi onorato tra color che il mondo Empiono di lor fama. Oscura fossa Chiuderà la mia polve, e sulla fossa Inosservata crescerà l’ortica. Di una cosa di capitale importanza mi tarda far qui avvertito il lettore, cioè della singolarissima sincerità di che, come il suo carattere, 17 è sempre impressa la parola scritta e parlata, in prosa e in poesia, del nostro Cabella, sincerità non minore di quella che si ammira nei più magnanimi tra i più grandi scrittori italiani, ad es. nell’Alfieri e nel Leopardi. Quindi non è punto da credere che nei versi sopra riferiti egli abbia tanto quanto suffragato al genio di quella fiacca e smorfiosa elegia nella quale i poeti del suo tempo versavano volentieri i loro dolori, esagerandone la gravità per conquistare i cuori gentili e farli sospirare sulle proprie sventure. E nondimeno è appena da avvertire che, se vero e grande è il suo dolore, non egualmente giusta è la ragione del suo tapinarsi e disperare della vita. Infatti, come poteva Cesare parlare di cadute irreparabili, sentenziarsi inetto alla gloria e intonarsi il canto dei morti, a 22 anni? E chi potè mai vantarsi a quell’età d'aver compito opere immortali? E posto pure che alle anelate sommità del Parnaso poetico disperasse di poter mai pervenire, altro monte non ha la terra per cui l’uomo possa salire in alto? Le piccole disdette dall’adolescenza non giustificano le disperate previsioni di una vita non ancora vissuta, nè la coscienza delle proprie forze morali o intellettive può ancora additare all’adolescente in qual particolare ramo di attività dovranno esse più felicemente esplicarsi. Della qual verità farà poi pratica testimonianza tutta la vita del nostro Cabella. Era dunque l’errore del giovane inesperto e impaziente che non sa dar tempo al tempo. Più giusto è il lamento che muove intorno alle sue avversate inclinazioni e ai suoi ideali traditi, dei quali non seppe mai più intieramente consolarsi: Eppur, Francesco mio, speravo un giorno, Che a più felice frutto uscir dovesse Di mie fatiche il seme, e se sublime Seggio sperar era follia, sì intera Però non fosse la caduta mia E iu loco rimanessi onde levarmi A qualch’opra gentile ancor potessi. Ma s’oppone fortuna: oli perchè il santo Delle Muse retaggio non è salvo Dalle sue mani? Perchè entrar le è dato Nell’impero del genio? Ella mi spinge Sopra una via ch’io non mi scelsi, e a bassa Meta ini danna d’ogni luce spenta. Udir gli acri litigi, e ricomporli Non per uobil pietà: gli altrui diritti Sol per mercede sostener: mortali 18 Mirar discordie tra fratelli, accese Dall’empia brama dell’avere, e l'uno Contro l’altro difendere: l’onesto Spesso ed il giusto da forze, da inganni Conculcato veder: e nei consigli Perito farmi, alle scaltrite frodi Argini meditati, che la pura Semplicità dell’innocenza ignora. Questo è il destino mio, questa è la sorte De’ futuri miei giorni. Cagione di dover rinunciare a’ snoi prediletti studi e all'onore che ne sperava dice esser l’avarizia deli’invida fortuna che aveva negalo a lui quegli agi che ad altri prodigava senza misura. Non però l’amico deve credere ch’egli sia mosso da cupidigia di ricchezze. Ali luuge, lunge, Vii cupidigia di ricchezze; io vasti Poderi non desio, nè di molt’oro Arche ricolme; s’abbian pur gli avari, Che altra non hanno, questa gioia: anch’io Nell’onorata povertà saprei Passar lieti i miei giorni, e con sicura Faccia il bisogno sostener, ma il vieta Imperioso un dover sacro di figlio, Dover che tien del mio voler le chiavi Sì che ogni altro pensiero m'incatena. Ah tu non sai qual sia tormento innanzi Mirarsi aperti del saper gl’immensi Tesori e non poterne attinger dramma, Schiuso il sentiero della gloria, e lunge . O / o Esser respinto da una cieca forza Che al tuo nobile corso inciampa il passo! Però perdona s’io discendo al vano Desio dell’oro. Passa poi all'amore dov’egli non poteva chiamarsi avventurato dacché l’età e le sue condizioni di giovanetto ancor quasi imberbe e vincolato alla famiglia paterna gli vietavano di assecondare i voti del cuor suo e d’altrui. \ Oh amico, Sia fortunato l’amor tuo! L’amaro Ultimo dì che del tuo ben per sempre La speranza ti toglie, oh voglia il cielo 19 Ohe tu noi provi. L’amor tuo riponi Dov’hai certezza ch’egli sia felice, Se nell’amor v’è scelta. Altro non dico Chè già mi sento inacerbir mie piaghe Sì che il dolor più non comporto. Ma torniamo al carteggio Giordani - Cabella. VI. Comincia la conversazione epistolare intima col Giordani a cui rivela i suoi affanni e da cui riceve conforti e consigli. A mezzo l’anno 1831 il Giordani, lasciato a Piacenza il suo giovane amico, era tornato a Parma. Ma la fuga di tante speranze a ventiquattro anni, la caduta di tanti sogni di gloria non davano requie all’animo del nostro generoso il quale sentì il bisogno di sfogarsene per lettera col suo illustre ed ammirato amico. Il Giordani non ostanti le anormalità del suo carattere morbosamente nevrotico, era anima sensibilissima ai mali altrui, singolarmente dei giovani valenti e generosi e, sperto e navigato se altri mai, della vita, non aveva pari nel sovvenire altrùi di conforto in siffatte bisogne. Risponde egli adunque al dolente giovane quella letterina del 16 dicembre 1881 che nella sua semplicità e rettitudine vale, a mio giudizio, la lunga e famosa lettera di simil genere scritta dal Manzoni l’anno appresso al giovane Marco Coen che in simili angosce si travagliava. Ne riferisco la parte migliore: «Vorrei saperla consolare ne’ giusti lamenti che fa delle sue fastidiose occupazioni. Certo è bello il desiderare e poter gustare contemplazioni altee generose. Pur mi creda che il solo piacer vero che si possa trovare in questo monde è la coscienza di far qualche bene: a questo piacere pospongo non solo tutte le cose materiali, ma anche le più spirituali, e le matematiche e le politiche. Oh queste cure quotidiane e noiose, comechè utili a qualcuno o a pochi, non producono gloria. Chi le conoscerà, o fuor delle mura o poco dopo la sepoltura? — Cesarino mio, non è. il mòndan ni more altro che. un fiato: e questo fiato vanissimo a che e a chi giova? Me certo non consolerebbe di nulla. Perdoni se io citerò me; ma voglio darle esperienza della quale io non possa dubitare, e in persona a lei nota.*Come tornitore di periodi io son forse più nominato che parecchi buoni medici e legisti. Ma questa nominanza che fa a me? Io vorrei essere il più innominato del mondo, e poter salvare a qualcuno la vita, la fortuna; che è molto meglio che 20 girar periodi e grattare orecchie. Non può credere quanto mi crucci di continuo questo pensiero (umiliante e doloroso) che con tutta la mia immensa voglia di far del bene io muoio senza averne fatto nessuno. E così qual prezzo d’avere sopportato la vita? Cesarino mio; non voglia misurare il merito dal rumore delle voci, poiché certamente si parla più del castrato Velluti che del Conte Leopardi. E vorrebb’Ella piuttosto la laringe di quello che il cervello di questo? La prima cosa che importa non meno alla felicità che alla virtù è l’esseì'e contento di sé stesso: e il vero merito è l’essere utile. Non vedo chi possa far versi o prose come Leopardi: e vedo che questo riesce inutilissimo a lui e ad ogni altro. Nè gli studi danno veramente quella tanta delizia che molti vantano: dovrei saperne qualche cosa anch’io che ne hò guardati in faccia parecchi. Il verace cont-nto che si può avere dagli studi è rivolgerli a qualche utilità di altrui, cioè a cessazione di altrui dolori o tìsici o morali: perchè a.ciò si riduce ogni ragionevol travaglio di questo miserabil mondo. Perdoni, Cesarino carissimo, perdoni queste pedanterie a un vero e grande amore; perchè io vorrei vederla felice al possibile: vorrei almeno ch’ella col fino ingegno non fabbricasse dolori al suo gentil cuore. Si rallegri ogni volta che ha fatto un bene; e creda non male spese le fatiche e sopportate le noie; e invece di applausi volgari (che nulla vagliono) si appaghi al giudizio della sua nobile coscienza, e di qualche simile a lei ». Nel Maggio del 183‘2 il Cabella era tornato a Genova dove indi a poco si recava pure il Grillenzoni pei bagni di mare. Ma neppure qui l’afflitto suo cuore trovava l’invocata pace, nè la tristezza scemava. L’animo suo sensibilissimo toccava in quei giorni un grave disgusto per offese e contumelie ricevute da uno di quei tristi soggetti che non perdonano la probità al galantuomo, e ne scriveva all’amico, che il 16 giugno rispondeva: « Quanto è bella e degnamente malinconica la sua ultima lettera, e degna di lei! Si sdegni pur della contumelia; ma non se ne affligga. Qual maggiore certezza abbiamo di nostra bontà che l’odio e l’antipatia e le vessazioni dei tristi -e dei vili? — L’esilio che m’è dato a onor mi tegno — cannava il nostro Dante »: Col Grillenzoni era ogni giorno in compagnia e aveva modo di ricreare lo spirito, eppure l'ozio forzato a cui la debolezza nervosa lo condannava, sopravvenuti dissensi domestici, il ribrezzo sempre maggiore che gli ispirava la vista della viltà e della malvagità uni- - versale venivano aggiungendosi alle pene della fallita vocazione. E pensando che per viva forza egli avrebbe pur dovuto adattarsi a vivere 21 e praticare con la trista greggia degli uomini, talora si domandava con raccapriccio se non fosse un giorno per diventare anche lui una delle tante abiette nullità: e la tetra malinconia cresceva e nuovamente la sfogava scrivendo al suo consolatore, il quale il 20 agosto gli rispondeva con un’altra lettera che è un altro esempio di sapiente amor paterno: « Io ci soffro, vedendo soffrire un che è sì degno di godere e che io amo tanto: ci soffro ma non mi sgomento. Nè creda già ch’io non lo intenda. Oh sì l’intendo benissimo, Cesarino mio: e l’intendo perchè tutto quello ch'ella patisce l’ho provato anch’io, tutto; compresa la tentazione forte di credermi un c...... perchè il mondo mi trattava come tale. E cominciando da questo, io voglio ch’ella intanto creda a me; e abbia molta e giusta stima di sè. Le pare ch’io potrei amarla tanto, s’ella fosse del numero plurale? Neppur creda di poter diventar cattivo: noi diventerà mai; ma a poco a poco si assueferà a sopportare con minore spasimo il molto male del mondo. Ella deve credere a me ch’ella ha la potenza, e perciò l'obbligo, di fare del bene a questo mondo: e però dee procurarsene tutti i mezzi possibili. Non lasci cadere l’animo sopra sè stesso; lo affatichi, lo eserciti, lo riempia di cure esteriori: e tra non molto lo sentirà rialzata. Fugga la solitudine; la solitudine nella profonda tristezza è rovinosa ». E perchè Cesare, nulla potendo nascondergli di ciò che più gli premeva il cuore, gli aveva confidato le dolorose lotte domestiche che gli conveniva sostenere co’ suoi genitori mal tolleranti la differenza de’ suoi sentimenti religiosi, osservava: « Ella già mi dice che si sente in forze per non curare la guerra esteriore. Bravo. Rimane la guerra domestica; e questa è ben dolorosa; lo so, perchè l’ho provata. In casa bisogna aver pace a qualunque costo, e fare tutti i sacrifici per averla e conservarla. Però han fatto benissimo ella e l’amico (Grillenzoiri) di adattarsi possibilmente a’ desiderii de' suoi. Non bisogna romperla in casa, se non quando venga quel momento nel quale si dovi'ebbe anche gittare la vita. Ma ora siamo ben lontani dal caso. Intendo benissimo tutto il pensare de’ suoi; ma non intendo chi abbia potuto mettere in tanto cattiva opinione il signor Ferdinando (Grillenzoni). Chi fu mai a fare sì cattiva opera? Con prudenza e con pazienza ell’arriverà a poter vivere in pace co’ suoi. Ottenuto questo, ella si sentirà più forte per il rimanente ». Ma come piegare senza fìngei’e all’osservanza di certe pratiche irrazionali e superstiziose? Anche a ciò risponde il Giordani: « Non sono d’ipocrita (secondo me) i sacrifici che si fanno per la quiete domestica..... Ella vada alla Villetta (Di Negro) almeno quando si può trovar forestieri. È una divagazione buona alla ±1 mente che si guasta (issandosi troppo; e poi è utile nella varietà degli individui conoscere le varie parti dell’Italia, o l’umor d’altre nazioni... » Cesarino mio, cred’ella ch’io l’ami e molto? cred’ella ch’io abbia esperienza di crudeli affanni? Si, dee credere: e dopo ciò dee credere ch’ella ha in se di che uscire dalle presenti tristezze, e divenire un de’ più bravi, de’ più utili, de’ più lodati uomini del mondo. Si sforzi a prendersi dell’occupazione e del divertimento il più che può: e tra poco si sentirà una salute, un’alacrità, un’energia d’animo ben grande. Veda, io son sì certo dell’augurio che le fo, che l’allegrezza del futuro che ho davanti mi conforta pienamente nell’afflizione che provo del suo presente. Coraggio, coraggio, e franca volontà. Siam qui per combattere non per macerarci e putrefarci di malinconie. Oh ella giovane non voglia gittarsi più basso del povero vecchio. Addio, spirito; addio, amore; addio caro carissimo » (1). TU. E ammesso al libero esercizio della professione legale e ascritto all’albo degli avvocati patrocinanti. Ma da ciò non dobbiamo argomentare che Cesai'e giacesse inerte o si pascesse di afflizioni e geremiadi; alle sue pene intime egli non cessava, come non cessò poi mai, di opporre l’alacrità della vita operosa. Infatti com’ebbe fatta, dopo la laurea, la pratica legale fino all’aprile del 1831 nello studio e sotto la direzione di suo zio avv. Cesare Parodi, e dal 1° ottobre 1880 a tutto marzo 1831 contemporaneamente anche la pratica nell’Ufficio dell 'Avvocato dei poveri sostenuto dal Senatore Giuseppe Massola; e poi dalla metà di maggio alla metà di novembre del 1832 avendo questa stessa pratica continuata e compiuta nell’ufficio del senatore Oldoini, come risulta da attestati molto onorifici tuttora esistenti, domandò ed ottenne con Decreto Senatorio 13 novembre 1832 firmato Giustiniani, l’ammissione al libero esercizio delle funzioni di avvocato e l’iscrizione all’albo degli avvocati patrocinanti presso il Supremo Magistrato, (1) A ben intendere l’appellativo di spirito convien saperne l’origine. Come già in Firenze il Giordani con Pietro Colletta e Gino Capponi formava una terna ili amici intimi ch’egli si compiaceva di chiamare la Santa Trinità, dove lui come carogna (parola sua) era il Crocifisso, il Colletta il padre, e il Capponi, perchè bello ed amabile, lo Spirito Santo, cosi in Piacenza volle rinnovata questa Trinità fra lui, il Cabella e il Grillenzoni, dove il Cabella (non il Grillenzoni, come altri affermò) era lo Spirito Santo perchè giovane bello e spirituale. 28 previa prestazione del prescritto giuramento (1). (-osi iniziava per sentimento di dovere ma repugnante e dolente quella carriera forense che tant’alto doveva elevarlo nella estimazione universale, aprirgli l’adito alla tribuna politica e collocarlo primo tra i giureconsulti genovesi del tempo suo. Vili. Post nubila Phoebus. Cade nel 1832 un incidente-nell’amicizia Giordani-Cabella che merita d’esser riferito. Era il settembre di quell'anno: crucciato per non so quali ragioni del soggiorno di Parma, il Giordani fa pensiero di venirsene a Genova a passare alcuni mesi in compagnia del suo adorato, e il 22 gli scrive: « Sappiate dunque ch’io sento ch’io non posso più vivere senza voi. Voi solo m’intendete, e neU’intender io voi trovo il mio contento. Qui non ho nè chi m’intenda, nè chi volesse ascoltarmi. E pur sapete che il pensare in compagnia di qualcuno è un elemento necessario della- vita dei pensanti. Bisognerà dunque ch’io venga a Genova, per voi, poiché voi non potete venir qua, e ch’io ci stia qualche mese. Al che mi bisogna ch’io ci possa vivere sicuro, e a buon prezzo. Non dite niente al buon Marchese (Gian Carlo Dinegro); ma cominciate a pensare tra voi come si troverebbe una buona dozzina, dove io potessi vivere come membro d’una buona famiglia. Jn altra posizione non starei volentieri. Ciò sarà per l’anno venturo, poiché ora è tardi: ma cominciate a pensarvi. Intanto vi abbraccio con tutta l’anima ». La gioia di Cesare nel sentirsi così amato e preferito a tutti dall’uomo illustre fu amareggiata dal pensiero ch’egli non poteva offrirgli l’ospitalità di casa sua. Le vicende della vita e le opinioni del Giordani non erano un mistero per nessuno; tutti sapevano ch’egli era un frate sfratato, che professava principii irreligiosi e sentimenti lieramente anticlericali; la famiglia di Cesare n’era stata informata e, come pare, i suoi genitori non vedevano volentieri questa sua intrinsichezza con lo scrittoi’ miscredente (2). Per la qual cosa Cesare fu costretto con suo vivo dolore a fargli capire molto riguardosa- (1; Si chiamava Supremo Magistrato e Senato quella che più tardi fu detta Corte d’appello, e Senatori quelli che più tardi consiglieri di essa Corte. (2) Il Giordani non aveva fede religiosa quindi non per vocazione ma illudendosi di potere nel ritiro e negli studi dar quiete all'animo suo naturalmente agitato e 24 mente ma chiaramente il perchè gli era impossibile prestargli un servizio sommamente ambito e strettamente dovuto. (■ìli risponde il Giordani una lettera dove gli dice: « Ha fatto molto bene a non tacermi quella opinione della sua famiglia » ma dove, cosa stranissima, non è una sola espressione nè di amore nè di amicizia, dove manca perfino l’amichevole vocativo iniziale, ma dove, invece, non manca un'ammonizione a porre infinita cautela nell’emme eli quelli a cui si voglia confidare, e finisce: « Stia bene, io sono di malumore, come ella vede ». Il sensibilissimo cuore del nostro Cesare ne fu gravemente colpito; tremando d’averlo potuto offendere, si affrettò a domandargli perdono e a fargli tutte quelle proteste di obbligo, di devozione, d’amore che ognuno può facilmente immaginare. Ne fu sgomento a sua volta il Giordani, e vivamente pentito di veder così afflitto il suo amore per cagion sua, subito gli riscrive: .« 25 ott. 1832 — Mio adorabile Cesarino. Prima di tutto, cento baci e cento, e cento ancora: poi ci parleremo. Ma come mai le può venire un sospetto ch’io non lami più, ch’io non l'adori? Come può venirle un timore di avermi offeso? Bisognerebbe ch’io fossi una bestia bestialissima per offendermi o per offendere un angelo come lei. Se qualche mia parola o qualche reticenza mia è in colpa delle inquietudini sue, (che mi sono punte al cuore) gliene domando perdono; ma la colpa fu ben involontaria. Quel dì 9 ero di pessimo umore (che noi potevo in tutto vincere) per molte e molte cagioni..... Mio caro amore, vorrei che questi miei sgorbi potessero impennar ali, o anzi avessero l’istantaneo corso dell’elettrico, per liberar subito lei da tanto affanno in che mi si mostra colla sua lettera breve del 12. Ma almeno assicuriamo l’avvenire. Sia dunque ben fermo ed immobile fra noi, mio caro Cesarino, ch’io non sono stravagante nè capriccioso; e per conseguenza non potrò mai disgustarmi con lei. Se per accidente sopravvenisse mai qualche malinteso, una prontissima e pienissima sincerità reciproca vi riparerebbe subito. Le ripeto che per ogni ragione ella ha fatto benissimo di avvisarmi di quelle disposizioni di sua famiglia, nè per quelle io ho già deposto il pensiero di convulso, nel 1797, tra i 23 e 24 anni, s'era fatto frate benedettino nel convento di S. Sisto in Piacenza. Ma nè l’abito fa il monaco nè i morbi congeniti guariscono per variar di luoghi, e il Giordani, cosi frate com’era, e suddiacono, ne commise di cosi grosse che per evitare la vergogna d’imminenti esemplari castighi, subornati altri due confratelli, fuggi con loro'dal convento il giugno del 1800, dopo circa tre anni e mezzo che v’era entrato. — Cfr. G. C a passo, La giovinezza di P. Giordani, Torino, Eoux, 1896; vedi pure Lettere autografe scritte in convento da P. Giordani a donna Posa Milesi, esistenti presso la Bibl. Palatina di Parma. / 25 venire (l’anno venturo) a Genova; ma solo bisognerà guardare che a lei non ne nasca molestia. Le ripeto ancora che s’ella non cessa d’esser lei, e non diventa un altro, è impossibile ch’io cessi mai d’essere innamorato di lei; in cui trovo tutto quel bene, che ih altri non si trova..... Con tutta l’anima e tutto il cuore la bacio e l’abbraccia, e l’assicuro di amore non malleabile. Addio, addio ». IX. Teme d’esser uato a nulla. Conforti dell’amico. Ma tornando allo studio dell’animo del nostro giovane, osserviamo che, se Cesare si sentiva sollevato a tali conforti, non però questi conforti nè l’accresciuto lavoro legale l’avevano per anco guarito. Ora un incomodo di salute, ora un men riuscito affare, ora un tratto di tempo disperso o poco utilmente occupato bastavano a farlo ricadere nella consueta malinconia, di che il nobil giovane fieramente si sdegnava con sè stesso e si rimproverava e scrivendo al suo conforto dava a sè dell'imbelle e del dappoco; e l’amoroso vecchio il ‘29 marzo 1833 così seguitava a confortarlo: « Carissimo Cesarino, Ogni sua lettera è un vero tesoro per me: non voglio però mai ch'ella si disagi per dar piacere a me; sebbene sia grandissimo quel che prendo dalle sue lettere tanto belle. E questa del 27 è stupenda non che bellissima. Oh! quanto mi confermo nell'ammirazione e nell’amore che già presi di lei! » Desidero ch’ella conceda alla mia tanta amicizia di farle una preghiera. Andasse anche in fasci il mondo, non si lasci mai prendere dalla malinconia di stimarsi poco. Verranno purtroppo degli abbattimenti di spirito: se sapesse quanti ne sono venuti e ne vengono a me! Ma creda a uno che è vivuto molto e stimato pochissimi; ella si farà non piccol danno, e si farà una grandissima ingiustizia ogni volta che si lascerà andare a stimarsi poco. Non scema di valore un uomo, o perchè il corpo si ammali, o la borsa si alleggerisca, o il tempo gli venga disperso o male occupato; sono disavventure, ma sono accidenti esteriori; l’uomo permane nel suo naturai valore. E senza credere me gran cosa, può credere ch’io non ammirerei un uomo che fosse mediocre ». Ma il Giordani vedeva pericolo di caduta dov’era affidamento sicurissimo di salute. 11 giovane che pone spesso a confronto il vagheggiato ideale tipico di una vita nobilmente fruttifera con la misera realtà della vita costretto a menare per ineluttabile concorso di circostanze, e della smisurata disparità s’indigna e freme e s’adira ‘26 e sè accusa-di dappocaggine e di nullità dà prova d’ingenita e magnanima virtù e si dimostra capace d’ogni più ammirabile proposito. Non era qui dunque da dire a Cesare stimateci, ma sappiate che quel disdegno che vi prende ili voi stesso per non poter attuare senza indugio nella pratica della vita quell’ideale di morale e intellettuale perfezione che vi anima e vi agita, è segno infallibile del vostro valore ed io me ne rallegro con voi e con me. Ma torniamo a noi. Cesare rispondeva che considerata la impossibilità di essere e fare tutto quello a cui l’animo suo aspirava, prometteva a sè e a lui di essere e fare tutto quello che avrebbe potuto; onde lo scrittore piacentino soggiungeva: « Mi consola a pensare il piacere e l’onore che ella ne avrà, e il bene che altri ne godranno. E creda che senza ciò, un’indole come la sua si troverebbe infelice. Io sono già sull’uscio per dovermene andare, e mi duole essere stato qui tanto senza poter fare alcun bene: ma non è colpa mia, ed avevo faticato tanto per poter essere abile pur a qualche cosa. Ma chi ha innanzi sè -10 ovvero 50 anni di vita, quante occasioni si potranno presentare! e se non si fosse preparato, qual vergogna e dolore!.....Le occasioni di far del bene in grande, come ella vede, non si presentano alle volte in tutta la vita di un uomo, ma per fare molti beni particolari è difficile che manchi occasione a chi sa far qualche cosa ». L’avvocato genovese traeva inestimabile conforto di sentirsi in perfetta consonanza di pensieri e sentimenti con uno scrittore universalmente celebrato e dotato di sì generosa bontà e gli scriveva lettere riboccanti di ossequente affetto per lui e di amare considerazioni sulla umana nequizia tra cui l’uom buono è condannato a vivere e ad esserne sopraffatto. A cui l’amoroso vecchio il 22 luglio 1833: « Cesarino mio adorato, ho ammirato le lettere del Tasso figlio, e più ancora quelle di Leopardi; e con queste metto la sua dei l. — Cfr. Il Risorgimento Italiano Rivista Storica, voi I. 35 mente tutte le particolarità del delitto commesso, e mostrando di conoscerle assai più là di quanto veramente le conoscesse » (1). La non eroica lettera, come altre sue precedenti egualmente provocantissime, cadde nelle mani della polizia austro-milanese che la trasmise tosto alla Polizia granducale sua ligia, mentre, con la consueta connivenza dell’autore, moltiplicata in gran numero di copie, si divulgava rumorosa in Italia e fuori. E il 27 febbraio la casa del Giordani fu perquisita, lui dichiarato in arresto e, sotto accusa di complicità nell’assassinio del Sartorio, chiuso nelle carceri di S. Elisabetta, donde non uscì che dopo circa tre mesi. Del liero accidente il nostro giovane, com’è naturale, sentì dolore, ma quell’incrudelire contro un uomo morto e assassinato, comechè reo e detestabile, gli parve troppo bassa cosa perchè la riverenza del vecchio amico potesse vietargli di manifestare francamente la sua disapprovazione. Segue il Cabella dicendo d’aver saputo da lettere della mai-chesa Spinola che il suocero di lei era fuor di prigione e nella sua tenuta di Tassarolo. Questa marchesa è la gentilissima e coltissima figlia del nostro patrizio G. Carlo Di Negro, più volte da noi nominato. Laura, vedova di Agostino Spinola, donna di eletti spiriti italiani, amata virtuosamente da Agostino Ruffini, e da Giovanni, di costui fratello, effigiata e commendata alla posterità sotto il nome di Lilla nel suo Lorenzo Benoni. Finì giovanissima di mal sottile il 1838. Il suocero di questa marchesa è il patrizio genovese e sommo naturalista entomologo Massimiliano Spinola proprietario dello storico palazzo omonimo presso l’Acquasola, oggi sede della Prefettura. L’anno precedente 1833 egli non solo non aveva partecipato al moto mazziniano di Genova, ma l’aveva disapprovato, e tuttavia, per puro sospetto, essendo già stato implicato nei moti del ’21 come vice presidente della Giunta provvisoria di Torino, fu arrestato e tradotto con suo genero Damaso Pareto nella fortezza d’Alessandria dove rimase circa sei mesi. Svoltosi il processo e nulla essendo risultato a carico suo nè di altri nobili genovesi imprigionati, per non confessare lo smacco, si volle che gli imputati sottoscrivessero una supplica di liberazione. Gli altri sottoscrissero, lo Spinola stese una dignitosa domanda dove dimostrava la sua assoluta innocenza. Udendo che Vera decretatala sua scarcerazione, scrisse al famigerato Galateri governatore h e. post, a pag. 336 si legge il titolo della lettera: P. Giordani carcerato al Conte Maggiordomo lungo r vario discorso tlopo 87 giorni di carcere. 37 Sostenne l’oppressione non dubitavo. Io conobbi lo sbirro; anzi anch'io ebbi da lui fierissimi dispiaceri. Dio l’abbia in pace. Certamente non lo piangerò: ma nemmeno mi rallegro della sua morte; perchè non scesi mai tanto basso da rallegrarmi dei mali dei miei nemici, o desiderar la vendetta delle offese a me fatte dai vili (1). Solo godo del bene comune; se pur non è vero che ai tristi succedano sempre altri più tristi. » Ebbi lettere dalla marchesa Spinola, la quale mi dice il suocero essere fuori di prigione e nella sua tenuta di Tassarolo. Allora non sarebbe vero ch’egli avesse ricusato di sottoscrivere, perchè non posso credere che s’abbia voluto fare un’eccezione in suo favore. Ma certo mi farebbe più meraviglia in lui una viltà che negli altri. » Ora sono a pregarvi d’un favore. Un mio amico, ottimo giovane di mente e di cuore, palermitano, Francesco Ferrara di nome, bramerebbe inserire sul Progresso una sua memoria sopra un libro di statistica stampato in Caltanisetta. L’oggetto della memoria è di mettere gli studiosi della statistica sopra una via diversa da quella che s’è battuta, finora....... » Io lessi questa memoria, e suggerii io stesso qualcuna delle idee sopra riferite: ma consigliai l’autore a rifonderla perchè non v’era chiarezza nell’ordine delle idee, nè precisione nei giudizi: anche lo stile era negletto. Bisogna però confessare che le idee concepite da questo giovane sono giuste. Almeno io le credo tali. Quando sarà terminata, io ne sarò il revisore perchè così vuole l’autore. Se voi non' sdegnerete stamparla nel vostro eccellente giornale, mi farete un favore: quando però voi ne la crediate degna, perchè l’autore si sottopone al vostro giudizio (2). » Vi ringrazio dell’affetto che mi donate, e delle cortesi espres- (1) Il Cabella a Piacenza come genovese, come liberale, come amico del Giordani aveva destato i sospetti della polizia. Una volta tra le altre ch’egli s’era recato in quella città vi sofferse vessazioni e una perquisizione domiciliare per ordine del malvagio Sartorio, e fu miracolo se potè scampare alle unghi,e sbirresche. A questo fatto -allude egli qui certamente. (2) Era allora il Ferrara giovane di 24 anni, e fondava indi a poco il Giornate il{ Statistica. Perseguitato come liberale dal governo borbonico, emigrò a Torino dove pubblicò dotte opere che gli valsero la Cattedra di Economia politica in quell’Ateneo. Eletto deputato sedette sempre a sinistra pur votando con la Destra quando più giusto gli parve. Fatto senatore nel 1881, mori nonagenario nel 1900. Fu un franco carattere, un alacre e fecondo scrittore, ed è considerato come l’ultimo e il più grande ed originale degli economisti italiani fedeli alle dottrine liberiate, delle quali fu acerrimo campione contro i fautori del socialismo di stato ed i vincolisti. Cfr. A. Bertoi.ini, La vita e il pensiero di F. F., Bologna, 1895. 38 sioni con le quali me lo attestate. V'assicuro che siete ben corrisposto e. che desidero anch’io ardentemente di rivedervi. Sì, userò delle parole vostre: l’avervi conosciuto e il non desiderare di rivedervi è impossibile. Spero che in luglio sarà il mio ritorno. Almeno m'afta-tico con tutto il poter mio perchè ciò avvenga. A rivederci dunque. » Ringraziate la vostra egregia famiglia, famiglia veramente degnissima, della memoria che ha di me, e assicuratela della mia riconoscenza. Salutatemi tanto l’ottimo Ruggero (1). E voi abbiatemi per vostro sincero amico, qual mi sottoscrivo Tutto vostro Cesare Cabella « Vi acchiudo una lettera,- che vi compiacerete impostare. Scusatemi se abuso della bontà vostra ». XIV. Casi e vicende della sua missione legale in Sicilia. Ma nè gli studi nè la proficua conversazione di uomini dotti nè l’acquisto di buoni ed ospitali amici valevano ad alleggerirgli l’ingrato carico a cui sera sobbarcato. Giunto in Acireale e visto il miserando stato delle cose, pensò subito che unico partito era quello che il Monte cedesse ai governo di S. M. il Re delle Due Sicilie tutti i suoi diritti sulle Segrezie e Dogane di quel Comune e si liberasse per sempre da un credito che era una continua catena, un perpetuo litigio e una fonte inesauribile di danni, di pericoli e di fastidii. Compose all’uopo tra il '33 e il ’34 un accurato e ragionato Progetto di cessione di cui si conserva tuttora la copia tra le sue carte, ma che a nulla approdò. Certo è ch’egli ■ dovette cacciare dal Monte Airoli i due disonesti amministratori che lo malversavano e addossarsene lui stesso tutto il peso; poi, tentata invano un’equa transazione con la parte avversaria, aveva dovuto far citare in giudizio tutti gli «redi Vigo, una vera moltitudine, perchè fossero condannati al pagamento del debito ascendente a L. 420750. Poi, per eseguire gli accertamenti di tutte le rendite del Monte, aveva dovuto risolversi a operazioni di natura odiosissima e pericolosa, tanto che ad Aci- (l,i Ruggero Francesco Paolo, giovane liberale, più tardi deputato al Parlamento nazionale nella X legislatura. 39 reale gli eran divenuti nemici i magistrati, la polizia, la popolazione, tutti. Mei luglio di quell’anno 1834 s’era recato e fermato due mesi e mezzo a Palermo per rivocare giudizialmente tutte le procure che per l’addietro dal Monte Airoli erano state conferite al proprietario Sig. Francesco Bertolino La Greca palermitano; ciò che fece; e insieme per ottenere che il Governo negasse al Comune di Acireale l’autorizzazione d’intentargli liti volte a ritardare la trattazione della causa principale; il che non gli riuscì. Tornato ad Acireale e vedendo dalla strapotenza nemica paralizzati i suoi sforzi e frustrata la sua speranza di poter assolvere con onore e prontezza il suo mandato, scrive le ragioni di tanti indugi al Presidente dell’Amministrazione a Genova, e invoca l’aiuto e la protezione del Duca di Serra di Falco don Domenico Lo Faso Pietrasanta, con lettera che importa qui riferire (I). Eccellenza, » Finora in un anno che già è corso da che mi sono precipitato in questi gravissimi affari, non ho mai avuto bisogno di ricorrere per assistenza e protezione alle persone che mi onorano della loro stima. Ma ora le cose sono giunte ad un termine che senza una speciale protezione, dovrei necessariamente soccombere ai maneggi, alle cabale, ed alle occulte arti di tanti nemici, che l'esercizio dei dritti affidati alle mie mani mi ha necessariamente suscitati. Ed è perciò ch’io ricorro a Lei, pregandola di prendere in considerazione quanto son per esporle, onde nei pericoli ove sono, e in quelli maggiori che forse mi stanno preparati, ella sappia trovar modo di difender me e gli interessi del Monte Ayroli. » Trovai alla mia venuta in Sicilia il Monte in possesso delle Segrezie di Acireale a titolo di Salviano. L’amministrazione era in mano di due uomini che ni una fede meritavano, il P. Giuseppe Vigo-Mondello, il Sig. D. Antonino Finocchiaro Agneto. Ho dovuto cacciarli tutti e due e mettermi nel possesso assoluto delle Ex-Segrezie. Questo fece che diventarono ambedue i più feroci e crudeli nemici ch’io m’abbia. Io aver nemici?... E la prima volta che m’accade que- d) Nato a Palermo nel 1780. Insigne letterato ed archeologo e magnifico ospita-tore di quanti illustri nelle scienze e nelle arti visitassero la Sicilia. Oltre ad altre pregevoli opere di archeologia sicula, scrisse Le antichità di Sicilia esposte ed illustrate in 5 voi. in foglio (Palermo, 1833-40), dotto lavoro di lunga lena. Lasciò alla biblioteca di Palermo circa 2400 preziosi volumi. Mori compianto da tutti nel 1863. 40 sta sventura. Nei primi 5 mesi ch’io feci della mia dimora in questo tristo paese tentai ogni modo di finir con una transazione gli affari: non mi riuscì. Conosciuta bene la natura delle rendite, crédei non dovermi contentare del Salviano delle Segrezie. Per conseguenza negli ultimi d’Ottobre citai tutti i Vigo per essere condannati al pagamento di onze 33 mila ed esercitar poi contro i medesimi le vie dirette. Questa citazione mi fece nemici tutti quanti si chiamano Vigo, e fra questi il Commissario di Polizia di Catania, che, pare, è un Vigo. » Siccome per altro io non potevo abbandonar d’un tratto il Salviano, senza esporre il Monte ad un’azione in danni ed interessi, così dichiarai che fino alla nomina dell’agente giudiziario le Segrezie sarebbero da me amministrate. L’epoca in cui facevo questa dichiarazione mi obbligò a mettermi nella più critica situazione. Fra le rendite segreziali vi è la decima dei mosti. Per accertarne la quantità bisogna entrare nelle cantine dei proprietari e misurare il vino; operazione di un’odiosità inestimabile. A fuggire questa odiosità i passati amministratori amarono meglio lasciar perder la decima. Io non volli mancare ai miei doveri: affrontai il pericolo. L’odio che mi concitai contro fu immenso. Ad una ad una ho dovuto sforzar le cantine collautorità del giudice. E siccome il giudice o si schermiva o apertamente si rifiutava, così ho dovuto a carico suo sollecitare gli ordini più severi, e anch’egli perciò mi è diventato nemico. » Tutti io dunque ho nemici qui: passati procuratori, passati amministratori, famiglia Vigo, Commissario di Polizia, Giudice, 40.000 abitanti. It) mi trovo solo contro la rabbia universale e forestiero, e senza appoggi potenti. Ho l’animo di resistere a tanto impeto, non ho le forze. Ed è per questo che ho bisogno di una potente protezione. Chi sa quali offese mi stanno preparate: io son disposto a tutto, ma dove ho il modo di resistere? Certo dovrò soccombere. » Una prova dello stato in cui mi trovo l’argomenti dal fatto seguente. Il P. Giuseppe non sapendo come sfogar la sua bile, e togliermi l’amministrazione di mano, immaginò di presentarsi al Giudice come incaricato generale dell’amministrazione Segreziale (qualità che cessò in lui dopo che io annullai l’atto di convenzione che lo nominava tale) e dimandare il sequestro delle carte Segreziali per timore che potessero essere trafugate. Ardì proporre tal sospetto di me! Non parve vero al Giudice di trovare un’occasione di potermi fare un torto, e ordinò il sequestro. Venne l'usciere per eseguirlo. Io protestai contro un tale atto come d’un attentato alla proprietà de’ miei costituenti, come d’un vero spoglio giudiziario, col quale si pretendeva togliermi quegli stessi titoli ch’io possedeva in virtù di 41 una sentenza passata in forza di cosa giudicata, e già eseguita. A t^l protesta l’usciere si spaventò, e mi chiamò dinanzi al Giudice in via di sommaria esposizione, per sentir provvedere. Il Giudice non si arrestò alle mie opposizioni, e fermo nella risoluzione di volersi prendere una soddisfazione di me, ordinò la suggellazione dei titoli e scritture Segreziali. Si suggellarono in effetto, e l’amministrazione è perfettamente paralizzata. Io protestai altamente. Intanto ho già dimandata ai tribunali riparazione dello spoglio fattomi. Dopo che l’avrò ottenuta, farò che il Console Sardo dimandi soddisfazione dell’insulto fatto alle proprietà Sarde. Ma intanto ella vede come per solo odio mio si conculchi ogni ragione, ogni termine di giustizia. Che debbo aspettarmi dunque? Troppo grave e difficile è la mia posizione. » E per questo ch’io ricorro airEccellenza Vostra, dimandandole protezione, aiuto. Ella tanto gentile ed egregiamente buono, non vorrà, spero, negarmi la grazia di cui vivamente la prego. Ed è quella di raccomandarmi caldamente a qualche potente persona di Catania, che possa fai’e un po’ d’argine alla piena che mi minaccia. Sol per coscienza, sol per sentimento di non mancare a’ miei doveri mi trovo in tanti pericoli. Non ho curato finora di cercare un appoggio, perchè mi pareva il più forte quello del mio diritto, e della giustizia: ma è il più debole. E poiché i magistrati e le autorità son quelle che meglio possono giovarmi in questi gravi affari, così la prego, se non le grava, poiché credo che a lei sarà agevole, farmi specialmente dalle autorità superiori di Palermo raccomandare alle inferiori di Catania. Quando le persone potenti del paese e le autorità mi saranno favorevoli, potrò resistere all’urto. » Perdoni l’Eccellenza Vostra s’io oso ricorrere a lei: ma io sono forestiero, e isolato, e solo: ella è tutto bontà e gentilezza. Come poti'ei non abusarne ? Nessun titolo più bello nè più forte io potrei cercare ad implorare la sua protezione, che la di lei bontà stessa. » La prego di tenermi raccomandato, e di ricordarmi riverente e devoto alla egregia Duchessa di lei Signora, e a credermi quale con profondo ossequio e riverenza, e pieno di alta considerazione mi rassegno Dell’Eccellenza Vostra Acireale, 2 Decembre 1834 Umil. Dev. Obbl. servo Cesare Cabella » AS. E. Il Duca di Serra di Falco. Ricevuta questa lettera, il Duca pensò d'interessare alla causà del nostro ricorrente l’amico suo il Principe di Manganelli gentiluomo di camera di S. M. con esercizio, uomo autorevolissimo che, per dimorare in Catania, gli avrebbe potuto prestare aiuto efficace; e perchè fosse chiarito presto e bene del fatto e della questione, insieme con una sua calda commendatizia gli mandò la sopra riferita lettera del Cabella. In pari tempo rispose al Cabella esortandolo a scrivere direttamente al Principe e a nominargli le specifiche pratiche con cui desiderava gli venisse in aiuto. Avrà poi il Principe di Manganelli affrontate per amor del raccomandato le rimostranze degli Acitani e compromessa per lui la sua popolarità ? Non abbiamo documenti da potervi rispondere ma se dobbiamo argomentare dal corso dei fatti successivi, abbiamo ragione di credere che ben poca fortuna abbiano sortito le benevole intenzioni dei sopra lodati signori. Ma il tempo pattuito con l’Amministrazione alla spedizione degli affari a lui affidati volgeva ormai al suo termine, egli sentiva la nostalgia e, com’è umano, bramava rivedere i suoi cari e la sua Genova e riprendere in patria il corso interrotto delle sue faccende forensi e de’ suoi studi; d’altra parte non avrebbe mai voluto disertare il campo della lotta fino a che il Monte Airoli non si fòsse provveduto di un altro valoroso difensore; onde pensò scrivere al Presidente, e per venirne più facilmente a capo, gli propose a suo sostituto nella procura l’amicissimo suo avv. Francesco Ferrara, esponendo le condizioni, per verità ben gravi, alle quali questi dichiarava poterla accettare. Il Presidente march. Ludovico Gavotti gli rispondeva essersi riconosciuto giusto il suo desiderio di rimpatriare; non essersi potute accettare, come troppo gravi, le condizioni proposte dall’avv. Ferrara; essersi pensato a sostituirlo con un nuovo procuratore da scegliersi a Genova; al qual fine l’Amministrazione pregava il Cabella di proporre un giovane di sua fiducia. Replica il nostro Cesare con lettera 8 marzo 1835 ringraziando delle nuove attestazioni di stima e confidenza e riconoscendo giusto il rifiuto delle gravi proposte del Ferrara, comechè giustificate dalle particolari sue condizioni. E siccome lo scrivente è informato da una recente lettera di suo padre che l’avv. Federici era in trattative con l'Amministrazione per venire in Sicilia in luogo suo per diciotto mesi obbligati, soggiunge : « La scelta dell’avv. Federici è sotto tutti i rapporti ottima, ed io avrei caro di avere per sostituto e successore mio in questo difficile e scabroso incarico un giovane di tanta onestà e abilità: ma bisognerebbe ch'egli fosse disposto a fermarsi in Sicilia per un tempo ben più lungo 43 di diciotto mesi (1) 1 giudici pendenti contro i Sigg. Vigo, e le esproprio che seguiranno questi giudizi importeranno almeno quattro o cinque anni. Ma qui nasce un grande ostacolo. Un giovane abile e di merito fissando il suo domicilio in Sicilia per cinque o sei anni rinuncia totalmente ad una esistenza nella sua patria. Dove trovarlo ? e a quali condizioni? Certamente non potrebbe il Monte far ciò che a costo di enormi sacrifici, dato che avesse la fortuna di trovarlo. E egli il Monte disposto a questi sacrifizi 'l Oh se io avessi avuto la fortuna di trovare qui un’abile e onesta persona avrei liberato il Monte da tante angustie! Ma io dovevo essere in questa mia missione sotto ogni rapporto contrariato...... Attualmente non ho nessuno in vista. Che fare dunque ? Io sottometto a lei queste riflessioni perchè le faccia presenti ai suoi colleglli e prendano le loro deliberazioni. Mi protesto però che non intehdo metterli colle spalle al muro. A chi ha tanta fiducia in me, a chi mi ha affidati affari di tanta importanza, coll’unica garanzia del mio nome e della mia persona, io, a qualunque mio costo e sacrifizio. lascerò tempo a riflettere maturamente e provvedere col loro minor-danno e spesa (2) ». (1) Nicolò Federici avv. genovese, coetaneo ed amico del Cabella. Fu uomo probo e valente; fautore di libertà ordinata, lo vedremo prender parte attiva in Genova a tutti i moti intesi all’incremento della causa italiana. Si citano di lui mirabili esempi d’integrità; fu lunghi anni membro cospicuo del Consiglio e della Giunta Municipale. Mori in Genova nel 1879. (2) Di questa lunga lettera merita esser noto un curioso aneddoto: * Sono finalmente riuscito dopo non meno di cinque informazioni a persuadere il R. Procuratore della ingiustizia, irregolarità e violenza del sequestro e della sigillazione dell’archivio Segreziale. La sua prevenzione contraria fu superata. Ho dovuto non solamente far valere <<■ ragioni della giustizia, ma giocar di maneggi facendogli parlare da terze persone, dargli informazioni della mia persona. Con questi mezzi venni a scoprire che gli si era dato ad intendere (che orribili arti si usano qui!) che io era un meschino che traeva con furti e frodi dalle Segrezie la mia sussistenza: che togliendomi questo mezzo io avrei dovuto partire per non sapere più come fare e avrei anzi cosi liberato da un vessatore e da un ladro la famiglia Vigo. Per questo mi disprezzava e mi odiava. Fu egli trasecolato quando gli furono date le mie vere informazionij e so anche ch’egli ne assunse spontaneamente delle altre. Scoperta la verità, cominciò a guardarmi assai di buon occhio e farmi mille gentilezze. Io, dal canto mio, offeso ad un tempo nell’onore e nell’amor proprio, volli dar la risposta coi fatti, e sacrificai un mese de’ miei onorarii per mostrare che anche senza Segrezie potevo vivere in Catania. Presi palco al teatro, uscii spesso in carrozza, mi feci vedere spendere più di prima. Avrò speso venti onze di conto mio per questo puntiglio: delle quali non volendo gravare per anticipo il Monte Ayroli ne feci tratta particolare sopra mio padre. Giovò immensamente questo mio piccolo fasto, perchè il R. Procuratore cominciò a credermi persona di riguardo, e l’ebbi lui stesso più volte a teatro nel mio palco. Per finirla, ieri concluse a mio favore, e con le più forti riprensioni e quasi invettive contro il P. Giuseppe, e contro il Giudice di Acireale ». 44 XV. Vi promuove l'istituzione della Cassa di Risparmio. Come già abbiamo detto, la cura degl’interessi del Monte Airoli non toglieva alla solerte indole sua di applicarsi anche e molto a’ suoi studi prediletti. Convinto che la malesuada fames è uno dei più potenti incentivi al delitto, al mal costume e alla servitù non meno per l’individuo che per la società, dava opera assidua allo studio di quella scienza ch’ebbe il suo primo grande maestro in Antonio Genovesi e che dimostra il lavoro e il risparmio operatori di grandi virtù e grandi benefizi civili. Si conserva tra le sue carte manoscritte una lettera non finita all’amico F. Ferrara (Catania, 30 gennaio 1834) Sul modo di giudicare dello stato economico di un popolo; un’altra finita e molto lunga allo stesso (Catania, 6 marzo 1835) sul tema: Se possa esistere e con quale utilità adoperarsi un modello ideale di perfetta civiltà, che ci serra di guida nelle ricerche statistiche e di norma per giudicare dello stato attuale di un dato popolo, dove con acume di ragionamento esprime i suoi dubbi circa la pratica ammissibilità di questa proposta. Ma della scienza non speculava il nostro Cesare soltanto i sommi principi! astratti; seguendo i consigli del suo < uor generoso, ne studiava eziandio e con più vivo affetto le pratiche applicazioni a prò del povero che soffre e lavora. Gli brillava di così viva luce la grande utilità morale, ed economica degli Istituti di Risparmio che gli tardava di farne avvisata la classe dei lavoratori e dei reietti dalla fortuna perchè quanto prima ne traessero profitto a migliorare le loro sorti. Leggo in un altro manoscritto Sul l’utilità delle Casse di Risparmio - Pensieri e proposte: « Volgiamo il pensiero a quella plebe, che così finora fu chiamata quasi a dispregio, e che pure è il corpo massimo degli stati, e la massa operosa ed utile della popolazione, e nel nostro cuore si diffonderà un senso dolcissimo di gioia pensando quanto questa plebe che dev’essere oggetto principalissimo delle nostre cure, ne sarà giovata e migliorata. 0 voi che finora sugli aratri.' sulle incudini, sui telai non vostri versate un sudore affannoso per trarne una sussistenza effimera senza speranza di avere un giorno un aratro, un’incudine, un telaio proprio; voi che rassegnati a vivere del presente, non sapete come potrete vivere un giorno quando le vostre braccia non potranno più reggere il martello nè correre l’aspo, fate animo! Passarono i tempi che voi eravate guardati con cipiglio alto di disprezzo. Vi consoli la notizia ch’io vi dò che il mondo pensa a voi e a far meno infelice la vo- 45 stra vita. Trovò l'umanità il modo di far sì che, quantunque miseri siano i vostri guadagni, pur voi possiate a poco a poco prepararvi di che vivere nella vostra vecchiezza. Si, purché voi lo vogliate, non dovrete più nei vostri ultimi anni porger la mano al ricco superbo che vi neghi un tozzo di pane, nè languire i giorni, nè finirli miseramente ad un Ospedale ». Nell'autunno del 1884 sullo Stesicoro giornale di Catania inserì uno scritto, formante un opuscolo di 24 pagine in 8°, col titolo: Utilità delle Caste di Risparmio e Progetto di una Cassa di Risparmio nella valle di Catania, dove in forma prima dialogica poi espositiva, in tersa lingua e con uno stile di cristallina trasparenza com’è quello del Lambruschini e di altri valenti maestri del popolo, insegna all’artigiano il modo fàcile e sicuro di raggranellare in non lungo lasso di tempo per via di lavoro, di risparmio e di virtuosa temperanza, un capitaletto che difenda lui e la sua famiglia dalle strette del bisogno, dalle sorprese dell’avversa fortuna e dalle calamità della vecchiaia. Quindi gliene addita il mezzo in una istituzione già fiorente presso le nazioni civili e da fondarsi anche in Catania, che aiuta il povero a rompere le catene della sua dura schiavitù, cioè la Cassa di Risparmio, di cui spiega la natura e il congegno, dimostra l’utilità morale e civile e la diffusione presso i popoli più progrediti. Poi si volge ai ricchi catanesi: « Voi dunque, o ricchi e facoltosi, che potete fare un bene sì grande, non lo trascurate. Tanto si po'rà dire aver voi ben meritato della patria vostra, quanto avrete contribuito a migliorare le sorti del popolo. Oh! è questo popolo che vi dà il pane che mangiate, gli abiti che vestite: le morbidezze, le lautezze di cui godete, vi vengono da lui. Fate dunque almeno per gratitudine, qualche cosa per esso. Fategli questo gran benefizio. Riunitevi, contribuite ciascuno una somma che non sarà grave a nessuno e che col tempo vi verrà restituita, e formate una società per la fondazione di una cassa di risparmio. Lo spirito di associazione è quello forse che manca in Catania per farla speditamente camminare nella via del progresso. Gli stranieri vi fanno questo rimprovero, chè, venuti qua, trovano un isolamento, una grettezza che li sgomenta. Smentiteli; e lo spirito di associazione cominci tra voi con questa grande opera di carità sociale e cristiana ». Poi, biasimate quelle Casse che collo specioso nome di risparmio miravano non al bene del lavoratore ma' all’utile proprio, confronta la Cassa di Risparmio di Parigi con quella di Firenze dimostrando questa preferibile all’altra perchè più utile al povero; e infine traccia in *23 articoli un progetto di statuto per la Cassa istituenda. 46 XVI. Morte del padre e suo ritorno a Genova. Nella primavera del 1885 l’Amministrazione del Monto Airoli a surrogarlo aveva mandato in Sicilia il giovane avv. Agostino Bru-nenghi di cui il Cabella si mostra contentissimo. « Il Sig. Branenghi, dice egli in lettera 31 maggio, è persona sotto ogni rapporto eccellente. Bontà, onestà, ingegno sufficiente, una rara modestia, e tutti insomma i pregi che distinguono l’uomo veramente buono. Già gli son diventato amico tenerissimo. Gli interessi del Monte non possono essere meglio affidati. Sarà mia cura che sia istruito in modo da poterli con sicurezza dirigere dopo la mia partenza ». Il 2 luglio riceveva lettere dal padre che, quasi presago del suo tato imminente, lo sollecitava a ritornare in famiglia. Il giorno 20 ne riceveva un’altra dal fratello Luigi annunziante la grave malattia del padre e i grandissimi timori onde tutta la famiglia era agitata; quindi tosto una terza notificante la ferale notizia. Non si hanno lettere della famiglia nè di Cesare che ne parlino, ma chi conobbe il cuore del nostro eminente concittadino può immaginare di quanto cordoglio gli sia stata cagione la morte immatura e inaspettata dell a-morosissimo padre che l’aveva sempre riguardato come l’onore della famiglia, che per lui aveva speso singolari cure e sacrifici e che lo lasciava erede di un nome che a Genova era. un elogio e un vanto. Rimasto adunque ancora in Sicilia alcune settimane cioè il tempo necessario ad ordinare le cose sue e a finir di rendere il nuovo procuratore pienamente istruito e illuminato sol fatto e sul diritto della causa vertente e sul modo di condurla a buon porto, verso la metà di agosto salpò per Napoli (1). (1) Lunga iliade di dolori è la storia dei povero Monte Moltiplico. Nè l'avv. Bru-nenghi nè altri procuratori dopo di lui ebbero virtù di dar solida e pacifica vita al litigatissimo patrimonio, chè gli eredi Vigo con tenace persistenza poterono sempre sollevare eccezioni, impugnare atti, accampar nuovi diritti contro il Monte, onde nascendo sempre lite da lite, il conflitto si protrasse dal 1833 sino alla fine del 1916 cioè fino a quando il capitale per un minimo residuo non fu intieramente ingoiato dalle spese degl'infiniti dibattimenti. Nel 1890 il Donaver nel suo libro sulla Beneficenza genovese a pag. 57 scriveva a questo proposito: « Attualmente la Pia Opera non funziona non avendo che un titolo di rendita di L. 40; la quale entrata viene an nualmente accumulata, tanto che alla chiusura dell’esercizio 1891 erano in cassa L. 738,27 ». Nè dopo tanti anni la Pia Opera, oggi amministrata dal Magistrato di misericordia, funziona ancora. Persona degna di fede ora (autunno 1918) mi afferma esservi buona speranza che tra breve con gli accumulati residui il Monte possa riprendere qualche senso di vita e qualche principio di funzione. Cosi sia! 47 In Napoli si soffermò circa un mese per compiervi presso i dicasteri di Finanza e di Giustizia gli ultimi atti inerenti al proprio mandato; mosse poi per Roma dove si trattenne quasi un mese, il ‘20 ottobre proseguì per Firenze, Bologna e Parma. Quivi riabbracciò il suo venerato Nestore e rimase con lui alcuni giorni, e, com’è facile supporre, si parlò tra loro di molte speranze e di molti disegni. Meno fidente di lui negli uomini investiti di autorità poliziesca, Cesare si schermì quando il Giordani gli propose una visita al suo amico Ottavio Ferrari, nuovo direttore di Polizia succeduto all’odiato Sartorio. Di che avvenne che Cesare, passato a Piacenza il 24 ottobre, toccò nuove noie dagli agenti subalterni di quella Polizia, noie che, secondo gli scriveva poi l’amico, avrebbe evitato se a Parma avesse voluto accettare quella proposta. A Piacenza rimase circa un mese, dove confortò l’animo afflitto nella cara compagnia di vecchi e nuovi amici e della gentile famiglia Fabri, e nel rinfocato amore della donna piacentina; e a mezzo novembre, dopo due anni di assenza, rientrò finalmente in patria. Questi due anni di agitate contenzioni fruttarono a Cesare maggiore esperienza del mondo e degli uomini, ne acuirono l’ingegno, ne accrebbero la perizia giuridica. Il molto sapere, la molta modestia, la fine gentilezza gli valsero in Sicilia generose ospitalità, care amicizie, e la conoscenza di uomini insigni per virtù liberali e intellettuali, tra i quali, oltre il già nominato Duca di Serra di Falco, i grandi palermitani Emerico Amari celebrato legista, il principe di Scordia don Pietro Lanza Branciforte (1 ), Michele Amari futuro grande storico del Vespro siciliano e dei Musulmani in Sicilia, il già nominato avv. Francesco Ferrara famoso economista, valentuomini cui le vicende politiche gli concessero di rivedere più tardi a Genova, a Torino, a Roma insigniti di alte cariche politiche e civili. Vi conobbe pure « una pleiade di giovani intelletti che si raccoglievano intorno ad uno splendido astro, onore e decoro della Sicilia, e che poteva chiamarsi il cuore dell’isola: Settimo Ruggero » (2). Peragrando quell’isola dove (1) Patriota e scrittore di patrie memorie; nato nel 1807, pretore di Palermo dal 1885 al 1837; nel 1848 ministro dei Lavori pubblici, poi degli Esteri. Esiliato nel 1849, visse per lo più a Genova. Mori a Parigi nel 1855. ('2) Cfr. Atti del Senato, tornata 29 giugno 1875, discorso del sen. Cabella. Settimo Ruggero n. a Palermo nel 1777 dall’antica famiglia dei Principi di Pitalia, dopo lo Statuto del 1812 di cui era stato principal promotore, fu fatto contrammiraglio e Ministro della Marina. Nel 1820 fu membro del governo popolare. Carattere fermo, coscienza intemerata, venerato da tutti, fu temuto dal governo borbonico che tentò cattivarselo offrendogli onori ed alte cariche. Nel 1848 fu creato presidente del gover- ±8 ancóra sopravvivevano tante tristi consuetudini del regime feudale, vide e sentì le molte miserie onde l’oppressiva politica del reo governo aggravava qnel popolo generoso e assetato di giustizia, e con gli amici siciliani sospirò vicina l’alba di giorni auspicati. XVII. Riprende la conversazione epistolare intima col Giordani. Dolori rinacerbiti: conforti rinnovati. Tornato in patria, resi i conti e presentati i documenti della sostenuta procura, le nuove condizioni dell’orfana famiglia gli furono cagione di nuovi pensieri, di nuovi obblighi e, d’altra parte, amareggiato da nuovi disgusti e costretto a ricacciarsi da capo nelle uggiose e affannose fatiche del mestiere legale e ad allontanarsi sempre più da quegli studi prediletti che fin qui aveva cercato conciliare con l’esercizio dell’avvocatura, risorge in lui più che mai vivo il dolore delle speranze deluse, del fallimento della vita e del suo reo destino. Poi pensa che l’uomo deve proporre come fine supremo alla sua vita non la gloria o la soddisfazione dell’amor proprio, ma il bene altrui; ed egli lo brama ardentemente: non aveva egli la numerosa famiglia di suo padre da reggere ed aiutare? non aveva egli sette angeli di sorelle a cui doveva particolare sostegno e assistenza? Ma e allora, perchè lasciarsi abbattere da tante afflizioni e abbandonarsi così ignobilmente in braccio allo sconforto? Non era questo un dichiararsi vinto, un cedere le armi alla fortuna, un confessarsi inetto alla vita che è milizia, combattimento, sacrifizio? E d’altronde, il rassegnarsi alla vita non equivaleva a vedere, a udire, a tollerare senza fremiti la lordura deH’umano ^ letamaio, anzi a conviverci, a rinvoltarvisi e a rimanerne appestati? Così pensando il nobil giovane arrossiva e rabbrividiva, e forse non s’avvedeva che le sue angosce erano forza non debolezza; reazione non acquiescenza alle condizioni fatte in questo mondo dall’invida fortuna all’uomo d’alto sentire. Agli sfoghi che ne faceva in eloquente lettera, il Giordani il 24 gennaio 1886 rispondeva: « La necessità di far l’avvocato e abbandonare più cari studi le pesa; ed ha ragione. E mestier noioso; ma può essere onorevole e lucroso. Ed ella è venuta a questa necessità per cagione sì nobile no siciliano. Nel 1861 nominato senatore del Regno d’Italia, non potè per la grave età muoversi da Malta dove s’era rifugiato, e vi morì in quell’anno stesso. E una delle più pure glorie italiane. 49 ch’ella deve compiacersene e gloriarsene. Io ho ripugnato a tal mestiere; e tra le ragioni n’avevo una giustissima: l’impossibilità di riuscirvi; e non di meno l’avrei sopportato, se ciò avesse potuto giovare a mia sorella. Ora il sacrificio di V. S. giova a sette sorelle, sette amiche datele dalla natura; le migliori e più sicure che si possono sperare al mondo Questo pensiero basterà a sostenerla e confortarla nelle fatiche e nelle noie del mestiere; benché non sian poche. E già ella ha provato che questo mestiere lo sa fare. Poter dire, quel che soffro giova a sette creature degne e care! » E poiché Cesare accusava indebolimento di memoria, svogliatezza e incapacità di applicarsi, così seguitava l’amoroso amico: « L’indebolimento della memoria, la svogliatezza o anche incapacità dell’applicazione, provano che vi è stanchezza (e probabilmente che vi fu eccessiva fatica) negli organi della mente: dunque positivo e urgente bisogno di riposo e di svagamento. Cessi subito ogni studio faticoso; faccia esercizio di corpo: camminate, caccie, viaggetti, cerchi ogni distrazione, ogni romore ed allegria. In tanta gioventù e buona complessione vedrà tra non molto ritornare la serenità e il vigore a quella mente delle migliori e rarissime ch’io m’abbia conosciute. Oh, io dunque non m’intendo più d’uomini? » E per togliergli ogni timore di sognato decadimento morale, aggiungeva: * Quella corruzione del suo morale ch’ella s’immagina, è una malinconia che deve passare; ma non è possibile. Creda a me: la crederei in moltissimi altri: è impossibile in lei. Le son venuti in disprezzo e odio gli uomini. Ciò intendo benissimo. Ma perciò ella divien simile a quelli che disistima ed abborrisce? Questo non è possibile a lei... Discacci que’ fantasmi neri che si sono per mezzo di non so qual malattia accidentale introdotti nella più nobile e splendida anima che io conosca. Ed ella pensa di vergognarsi di sè stesso? Di uno che io ammiro? Io non le posso comportare questo torto che fa a sè stesso e a me. Se non crede me un imbecille, sia giusto con sè, e si riconosca qual è parsole pare a me. Una malattia transitoria non transustanzia durabilmente un uomo.....Pochissimo speri di ricevere dagli uomini: ma confidi poter loro dar molto: e questo è il bene de’ suoi pari, che sono sì pochi..... Se non può subito sentirsi persuaso di quello che le ho detto, lo creda almeno frattanto per amor mio; per amor d’uno che l’ammira e l’adora, e la conosce bene. Addio, carissimo Cesarino; l’abbraccio e bacio con tutta l’anima, afflitto sì, ma pi«no di giustissima fiducia. Addio, addio ». 4 50 XVIII. Perite le illusioni, ferma virili propositi; ma dispera di poter far mai uulla di nobile al mondo. Questi nuovi conforti furono stimoli alla generosa natura del giovane che, stanco ormai di tanti sterili interni combattimenti, si persuase finalmente che, a vivere col minore dei mali, la vita e il mondo si hanno a considerare non come dovrebbero essere ma come realmente sono. E poiché vide sfumate tutte le illusioni e vano il dar di cozzo nel fato implacabile, dà opera a riscuotersi e a ordinare la vita secondo un fine desiderabile insieme e possibile, cioè più umano e pratico. Dividendo dunque la sua giornata, pensa di dare 8 ore agli studi e agli affari legali; 8 a' suoi studi filosofici e storici prediletti; 6 al sonno e 2 libere. La virile risoluzione gli ridona la fiducia di- sè stesso, gli par d’esser risorto, di sentirsi meglio e, sapendo di consolatalo, ne scrive al suo consolatore, il quale tutto contento l’8 febbraio 1836 gli risponde: « Mi consolo molto ma non mi meraviglio del suo sentirsi meglio. Non glielo avevo detto che il suo male non era naturale e non poteva durare? » E perchè Cesare voleva rafforzare l’affievolita memoria con regolari esercizi mnemonici, l’amico, che di questi era dichiarato nemico,. ne lo sconsiglia, e aggiunge: « Nella distribuzione delle ore, vedo che è dato troppo poco al sonno, e niente all’esercizio dinamico. Levi pur francamente tre ore di studio (extralegalé) (bastan bene le rimanenti): e dia un’ora di più al sonno; perchè io ne credo necessarie sette, a chi lavora di cervello: e due ogni dì ad esercizi del corpo; senza i quali non può lungamente star sano chi affatica il cervello, e per conseguente lo stomaco. E senza buona sanità niente si fa al mondo.... Dice che le illusioni sono perite. Lo credo: è cosa naturale e necessaria alle teste sane e forti. Ma non lo credo un male: nè parmi da spregiare una felicità maschia e brusca, senza dolcezza, quale resta ai disingannati; e che per la massima parte consiste nella buona coscienza. Quando penso a quell’eroico sonetto di Michelangelo che invidia l’esilio di Dante! » Ma le malattie dello spirito, come quelle del corpo, arrivano a cavallo, partono a piedi, e Cesare colle prese risoluzioni non s’era ancora potuto francare dalla sua tormentosa afflizione, e ne faceva nuovamente parola al suo buon medico consulente che seguitava a mettere a prova l’amoroso iugegno per consigliarlo e guarirlo. 51 « Caro Cesarino, » gli scriveva il 1° aprile dello stesso anno 1836, « io posso intendere e intendo tutti i dolori de’ pochissimi suoi pari. Così potessi consolarli. Ma posso dire una parola vera: non si lasci abbattere, molto meno umiliare da queste malattie. Non sono proprio altro che malattie; e passano. Lo so per esperienza. E prima di questa sua età, e nella età medesima, e di poi ancora, le ho provate e in estremo: e mi è parsa orribile la vita, e ho desiderato finisse. Ora non mi par niente bella; ma posso farle ogni dì le fiche. Abbia gran cura della salute del corpo. Cerchi divagamenti, faccia esercizi fin che può. Si metta bene in mente di essere un individuo non della razzaccia umana comune, ma di una specie separata e rara. Si dissiperanno le nuvole; si sentirà qual è veramente, e qual si sentiva prima. Troverà che non è degno di lei il mondo, ma ch’ella può starvi com’è degno di lei. Quando non l’è disagio mi scriva. Si persuada ch’io son de’ pochissimi che possono conoscerla e intenderla. E quel ch’ella patisce e patirà, lo conosco, lo intendo, l’ho provato. Perciò s’immagini se io l’amo. Amare è poco perchè ho amato e amo cose anche mediocri: lei adoro ed ammiro: e con tutta l’anima l’abbraccio, mio carissimo Cesarino. Coraggio, coraggio: ai volgari coraggio contro i nemici esterni, ai rarissimi coraggio contro i nemici interiori. Creda a me, Ella è superiore a tutti, a tutto.... » La responsiva del 31 maggio così comincia: « Stupendissima la sua del 25, mio carissimo Cesarino; ella è degnamente il mio idolo, come soglio sempre chiamarla: e come idolo vero io le debbo continua-mente o voti o grazie ». Quindi lo loda dei divisati studi sul commercio dei Genovesi e del suo utilissimo e santissimo pensiero delle Casse di risparmio, e finisce: « Ella, Cesarino mio, voglia esser giusto con sè stesso e conoscersi; o almeno creda a me, che credo di conoscerla. Sarebbe bella che fosse mediocre chi a me pare eccellente, stupendo, rarissimo. Io 11011 voglio ch’ella mi dia del coglione. Confidi in sè; e vedrà di sè cose mirabili. L’abbraccio e bacio con tutta l’anima. Mi scriva quando può: mi ami sempre perchè sa ch’io l'adoro ». In successive lettere, encomiastiche al solito, lo dissuade dagli studi della metafisica come inutile perditempo, gli propone libri da leggere, gli promette di venire a Genova a passar seco lui alcuni giorni in piena letizia: proposito che poi il colera non gli permise di effettuare. 52 XIX. 11 duro prezzo della virtù e la bandiera del forte. Nella primavera del 1>S37 affari legali chiamarono Cesare a Marsiglia dove si trattenne parecchie settimane. Ritornato, ricomincia a scrivere e a ridolersi della sua nemica fortuna; alle cause solite altro nuove se ne aggiungevano a noi sconosciute, che lo facevano ricadere nella consueta malinconia. E l’ottimo vecchio che delle afflizioni e agitazioni dell’animo era sempre stato ed era tuttavia vittima conscia tornava a consolarlo dicendogli essere la sua una malattia che deve ritornare spesso ai cuori profondi e delicatissimi come il suo; che Cesare aveva coraggio abbastanza da stare contro al mondo stolto ed iniquo; gli prometteva di venir presto a Genova da Torino dove si recava; sapesse tutto sopportare per vincere, e vincerebbe. E il Giordani ben s’apponeva: la malattia di'Cesare era quella che un giovane di spiriti intemerati contrae necessariamente appena venuto a contatto con un mondo troppo indegno di lui. E nondimeno, anima dignitosa e disdegnosa, Cesare si sentiva punto e mortificato di dover sempre sostenere con Famico la parte del malato dolente e bisognevole di conforto, tanto che, a giustificare i suoi tanti lamenti e disdegni, l’il' luglio del 1887 gli scrive dimostrandogli con ragioni di fatto che F infelicità è l’unica mercede serbata dal mondo a chi voglia essere e conservarsi giusto o meno immondo da umane sozzure. La forsennata consuetudine distruttrice del Giordani vieta a me e al lettore il piacere di leggere ciò che certo con ammirabile eloquenza deve aver dettato queU'anima gentile; ma non occorre, credo io, una grande penetrazione per indovinare ch’egli dovette rappresentare all’amico il supplizio quotidiano che l’umana società infligge all'uomo dabbene ammannendogli il triste spettacolo d’ogni bruttura ed abbiezione e costringendolo, quando non voglia ritornare ai boschi e alle ghiande dell’epoca primitiva, a viverci e a rimescolarvisi, a simulare e a dissimulare; a soffocare nel profondo petto gli sdegni più santi non meno che le più sante verità; costringendolo a farsi perdonare col silenzio e l’oscurità il vivo rimprovero di che la sua virtù è a tutti cagione irritante e perpetua. Che vale che il giovane arda di combattere da forte per l’ideale del bene se alla sua brama di ben fare si oppone la umana nequizia congiurata con l’avversa fortuna? se de’ suoi benefizi anzi che attendere il premio deve prevedere il castigo, che il mondo gli prepara quando con l’indifferenza, quando con la derisione, quando con la calunnia? Fare il-bene: santa virtù! Ma se questa virtù non è stimolo innato nell'umano individuo 53 come nell’ape il fare il miele, quale invito, quali eccitamenti a beneficare altrui può avere il generoso da una società sconoscente, falsa, egoista e lorda di mille vituperi tanto che il nostro Mazzini confessava che ad amar l’umanità gli bisognava non conoscere i singoli uomini? À chi non è noto il premio attribuito dal mondo a’ suoi più .solenni benefattori: Prometeo, Socrate, Cristo, Colombo, Galilei? — Ma Cesare professava legge: ministero divino. E vero, ma con che cuore può vivere uno che come tale la onori e religiosamente la coltivi, se dalla massima parte de’ suoi professori, che son uomini, la si stima e si tratta come merce da conio e con la legge si tradisce e si calpesta ogni giorno la giustizia? La legge! E non son pure sfolgoranti bandiere la ragione, la libertà, la religione, la patria, il diritto, la scienza, la beneficenza? Eppure il bandieraio non se ne vale il più delle volte a coprire e coonestare il fardello delle sue ingorde ambizioni e de’ suoi vili interessi? Qual più inalienabile patrimonio che la libera umana volontà? eppure non ne fa mercato e non la prostituisce l’uomo tutti i giorni al miglior offerente? — Indice infallibile di virtù è la sensitività e la delicatezza dell’animo; ma come può non sentirsi depresso l’animo puro e illibato del giovane'che vede la sua delicatezza o non creduta o non compresa o accolta dal mondo con un sorriso di commiserazione come si sorride a un novellino ingenuo e ignaro del mondo e degli uomini; o giudicata fisiologicamente una forma di organica debolezza, come manifestazione di forza organica è giudicata la delinquenza sfidatrice d’ogni ordine e d’ogni legge? — Non ti mancherà l’assenso dei buoni, vi dirà un putativo savio, dei quali soli devi ambire la lode. — Ma dove sono questi buoni se nell’umana società chi non è Don Rodrigo è Don Abbondio, e chi non è nè l’uno nè l’altro, è or l’uno or l’altro, secondo i tempi e le circostanze; e questo si chiama conoscere il mondo, esser pratici, saper vivere? Dove sono questi buoni che ti si accostano finché non ti minacci la fortuna; a uno stormir di foglia ti piantano e fuggono, e se non ti vendono traditori come Giuda, ti rinnegano pusillanimi come Pietro? Dove sono questi buoni se quelli che godono di tal nome mantellano di pazienza l’inerzia, di prudenza la paura, e cedendo codardamente le armi e il campo alla prepotenza dei tristi, si fanno complici e correi dei loro delitti? — Ma, dice il sociologo, i degni e i forti san farsi largo e salire in alto coi propri meriti morali e intellettuali. Perchè non entri anche tu nella nobile gara e non combatti? — Ma chi è così cieco da non vedere che la vittoria è privilegio esclusivo degli intriganti e degl’inframmettenti che se l’assicurano ponendo l’opera loro a servizio dei poteri e delle fazioni dominanti? — Ma, ammonisce 54 il tunicato, non sai tu che l’uomo giusto, come la giustizia, non è di questo mondo e che unica consolazione ha da esser per te il premio che la fede religiosa ti promette in un mondo ulteriore? — Fortunato e degno d’invidia chi sinceramente crede ciò che l’ignoranza, il timore, il dolore, il bisogno, in una parola, la sventura umana ha trovato a sollievo dellè proprie miserie! l’aveva già detto Cristo a Tommaso: felici coloro che non hanno veduto ed hanno creduto (1). Ma chi governandosi con la ragion naturale non può fruire di tale conforto, donde ne trarrà un altrettale che dia quiete e pace alla contristata anima sua? — Dalla scienza, risponde il saccentone presuntuoso. — Ma la scienza umana non eccede gli angusti confini del fenomeno sensibile e della legge intelligibile del fenomeno, e l’uomo per quanto sudi e s’affanni a scardinare la porta fatale che gli vieta la visione delle ragioni generatrici dell’uno e dell’altra, non potrà mai sperare di penetrarne l’ingresso. Mistero noi a noi stessi e circondati di mistero, se la cognizione delle verità riflettenti la natura e la sorte dell’uomo individuo e collettivo non è priva di qualche diletto intellettuale, essa non dà a noi in realtà che una maggiore e più dolorosa coscienza della nostra sventura, secondo il biblico qui addit seientìam addit et laborem ('2). — Gran Dio! in si orrido deserto della mente e del cuore sarà dunque perduta pel giovane generoso ogni onorata ragione di vivere? Altro dunque non gli rimarrà che la bestemmia e il pugnale suicida di Bruto? — All’uopo estremo soccorre ultimo lo stoico che gli addita la coscienza, particella divina in sostanza umana, est deus in nobis agitante calescimus ilio; legge imperativa di tutta la vita, unico scudo ed usbergo, unica tavola di salvezza nel naufragio di tutte le altre illusioni e speranze, unico vero bene per cui la vita meriti d’esser vissuta. Questo adunque l’unico partito, il solo conforto che rimane all’uomo giusto: combattere da forte, non armato che di sè stesso, solo, contro tutto e contro tutti, le battaglie del vero e del bene; al vero e al bene, che è quanto dire a Dio Ente ideale, gloria, sostanze, quiete, vita, tutto sacrificando. — Ecco la sorte che attendeva Cesare, ecco il duro prezzo della virtù; non aveva egli dunque ragione di andarne pensoso e dolente? (8). Simili, se non proprio tali, dovevano essere a un dipresso i sen- (1) Cfr. Giovanni, evang. XX, 29. (2) Cfr. Ecclesiaste, o. I, 18. (3) Ho tratto queste considerazioni dal concetto della vita quale si rileva costantemente da tutti gli scritti del Cabella nelle sue diverse età. 55 timenti e le considerazioni onde immagino ch’egli abbia sostanziato, certo con ben altra potenza di barola, la sua lettera di giustificazione al Giordani, che il 15 luglio gli rispondeva rapito: « Mio adorato Cesarino, penso di essere a Genova col corriere di lunedì mattina 24: però fo breve risposta alla sua degli 11. Per ora mi basta dire che è subii inissima, degna in tutto del mio idolo. Le sue ragioni sono potentissime e verissime: ma siamo destinati a questa misteriosa guerra; e il soldato per ninna cagione abbandona l’insegna. Ma in presenza diremo assai cose ». XX. La solennità della dedicazione del busto -a C. Colombo nella Villetta Di Negro. Al giorno fissato il Giordani era a Genova per godere del suo Cesarino e prender parte alla festa della dedicazione di un busto a Cristoforo Colombo nella Villetta del marchese Di Negro, alla quale era invitato il fiore dei chiari genovesi e forastieri.- Tra i genovesi ricordo il march. Antonio Brignole Sale ambasciatore del Re di Sardegna a Parigi, il poeta Lorenzo Costa autore del poema Colombo, lo scrittore Antonio Crocco; tra i forastieri il poeta parmense conte Jacopo Sanvitale più tardi bibliotecario della nostra civica Beriana, gl’illustri poeti e traduttori Andrea Maffei e Felice Belletti. Il Giordani aprì la serie dei discórsi leggendo Un discorsuccio di quattro paginette, sparuto anzi che no, dove invece di inneggiare alla virtù dell’eroe genovese, seguendo la disposizione dell’acre animo suo più volto a flagellare il male che ad applaudire il bene, si scagliava contro i persecutori del Colombo e del Galilei. Il signorile convegno che da un tanto .scrittore si aspettava chissà quali tesori di dottrina e di eloquenza, rimase stupito e deluso, e perchè l'autore era notoriamente sospetto di idee avanzate, l’autorità in quelle poche parole volle vedere allusioni offensive alla gente di chiesa e ne proibì la pubblicazione (1). A Genova, com’è facile immaginare, i due amici furono spesso insieme e soddisfecero i voti del loro cuore. Ma il Giordani pochi giorni si fermò tra noi; ripartì presto per Torino, di là per Parma donde riprese attivissimo ed amorosissimo il carteggio col nostro (1) Elogio di Antonio Crocco per L. T. Belgraxo, in Atti della Società ligure di Storia patria, voi. XVII, pag 81, ili nota. 5tf avvocato. Il quale, nonostanti le cure giornaliere del foro, dava opera agli studi dell’economia politica intorno ai quali divisava comporre un’opera di mole di cui inviò all’amico il disegno. E l’amico, facile agli entusiasmi, ne andava in estasi e verso la fine del gennaio 1838 gli scriveva: « Oli, come sono stupendissime queste poche righe della Economia (ossia della vita, o sana o inferma), delle nazioni come la vedete voi! Da quanto alto, con quanto vero, in quanta ampiezza! Come di essa è minuto articolo tutta l’Economia dei Smith e dei Saj^i Ah, Cesarino mio, che uomo siete voi! non ne conosco altro in Italia, che di lunga vi somigli. Quanto bene farete! Datevi a questo lavoro che è ben degno di voi ». Una delle predilette ricreazioni del nostro Cesare era la Villetta Di Negro, dove nella dotta e varia conversazione di illustri nostrani e stranieri attratti dalla stupenda meraviglia del luogo e dalla celebrata gentilezza del Marchese, viveva una vita altamente spirituale e intellettiva e troppo più nobile di quella che gli pareva consumare ordinariamente nelle incresciose contese giudiziali (1). Ora accadde un giorno al buon Marchese di pensare che i valentuomini suoi amici frequentatori della Villetta avrebbero potuto giovar meglio all’incremento della pubblica cultura ove si fosse trovato modo di ordinarli in società e disciplinarne Fazione. Se ne aperse col nostro avvocato ch’egli molto amava e pregiava, e lo invitò ad elaborare all’uopo uno schema di statuto. Esiste tra le vecchie carte del Cabella la minuta di questo schema di cui a titolo di curiosità trascriviamo i primi paragrafi contenenti la natura, il fine della società e. alcune disposizioni generali. « Il Marchese Gian Carlo Di Negro volendo quanto è in lui promuovere i buoni studi, e dàr argomento di pubblica emulazione agl’ingegni, ha risoluto di accogliere in casa sua a familiari adunanze e ad erudite conversazioni quanti degli uomini già dotti e de’ giovani amorosi di diventarlo più onorino la nostra città: e poiché a conseguire un buon fine è necessario usare mezzi adattati e proprii, nè si può in cosa alcuna sperare un buon successo camminando alla ventura, ha pensato porre a queste adunanze ordine, tempo e modo con poche e semplici regole che ora a voi, amici suoi, propone nella forma seguente. (1) Per dotte ed ampie notizie storiche sulla Villetta v. il libretto di A. Issei. La Villetta Di Negro e il museo geologko, Genova, 1914. 57 I. « Le adunanze della Villetta sono destinate a questo, che gli Accademici : 1° si ricreino di esercizi poetici e letterarii d’ogni natura e specialmente filologici; 2° si proveggano di utili cognizioni scientifiche e si tengano informati d’ogni nuovo progresso del sapere umano; 3° promuovano i buoni studi e la diffusione dei lumi nel paese. « Condurranno al primo scopo la lettura di poesie e prose originali degli Accademici sopra qualunque argomento di amene lettere e di belle arti. Al secondo la lettura dei giornali scientifici e di buoni libri che verranno mano mano alla luce. Al terzo la lettura e la stampa delle memorie scientifiche degli Accademici, la pubblicazione di un giornale compilato dall’Accademia, la proposta di quesiti scientifici a risolversi, colla promessa d’un premio alle memorie che ne saranno giudicate degne. II. « Gli Accademici saranno in numero non minore di cinquanta e saranno invitati a farne parte gli uomini più eccellenti in ogni qualità di studi. Essi saranno i soci'ordinarli. III. « Essi saranno ripartiti in 4 classi: 1° di scienze naturali e fisiche; 2° di scienze sociali e storiche; 3° di letteratura e belle arti; 4° di filosofia ». XXI. Ferdinando Grillenzoni e Paolina Delagrange. Di Ferdinando Grillenzoni piacentino, già da noi conosciuto, ci resta a dire brevi parole. Il Giordani nelle sue lettere al Cabella ce lo presenta come una testa parecchio leggera, una volontà svolazzante qua e là, senza fermo proposito, senza scopo determinato, e non poco vanesio. Noi sappiamo che nel 1831 era vice-bibliotecario della Biblioteca di Piacenza e che alla morte del Bibliotecario Giuseppe Ger-vasi, uomo dottissimo, e celebrato dal Giordani, volendo egli leggerne 58 l’elogio nella chiesa di S. Pietro, gli fu proibito dal Governo (1). Leggiamo poi nell’Epistolario del Mazzini ch’egli era affigliato da molto tempo alla Giovane Italia e ne era propagatore, e che nel settembre del 1832 della sua propaganda doveva render conto alla Società (2). Inoltre da cenni di sue lettere al Cabella facilmente si desume ohe nel 1833, saputosi tradito da finti amici venduti alla polizia austriaca, scampò fuggendo in tempo a Zurigo, e di là poco appresso passò a Lugano dove visse anni di afflizioni e di stenti. Qui nel 1835 potè pubblicare pei tipi del Ruggeri una vita di suo zio G. D. Romagnosi, morto in quell’anno; e qui strinse amicizia con un signor Delagrange, e nell’estate del ’35 con la 'sorella di lui, Paolina, nativa della Svizzera francese, zitella tra i cinquanta e i sessanta, ma donna di eletta coltura e ricca di spirito e di delicato sentire, la quale da due anni risiedeva a Genova donde allora era partita per visitare il fratello a Lugano. Al povero profugo balenò subito in mente la dolce figura dell'amico genovese, e ne parlò con alte lodi e grande amore alla signora manifestandole il vivo desiderio anzi il bisogno di riavere il conforto della sua conversazione epistolare. La gentile signora, che dopo una dimora di tre mesi a Lugano doveva ritornare nella nostra città, gli si offerse latrice di una sua lettera all’amico promettendogli d’intercedere a viva voce presso di lui e di ottenergli il bramato conforto. Tornata a Genova, la Signora Paolina dovette aspettare ancora qualche settimana prima che il nostro Cittadino tornasse da Piacenza dove ancora s’indugiava. In quella lettera, datata del 20 ottobre 1835, il Grillenzoni comincia dicendogli che da oltre due anni nulla aveva più sentito di lui, e aggiunge: « La sola cosa ch’io potei avere per certo fu che eri andato in (1) Cfr. L. Messi, Dizionario biografico piacentino; Piacenza, Del Maino, 1899. (2) ■ A Piacenza esiste un Grilenzoni, nipote di Romagnosi — uomo ottimo, ma tm po’ timido quanto all'attività — ma tale da fidarsene senza fidargli la somma delle cose. Egli è da molto tempo nostro propagatore. Se poi egli abbia veramente propagato non saprei dirti, dacché non ebbi più comunicazione con lui. Bensì egli doveva render conto dei suoi doveri nella Federazione, a chi da parte di F(ilippo) S(trozzi) in Marsiglia gli presentasse una mezza carta ch’io tengo. Questa mezza carta io te la mando, perchè tu veda se è possibile spedirla per lettera senza grave.rischio. Sarebbe utile il non negligere cosa alcuna. Tanto più ch’egli fu lanciato là con la promessa di concentrarlo più tardi a una congrega che si stabilisse in Parma •. (Lett. di Mazzini a L. A. Mdlegari a Marsiglia, sett. 1832: Epist. voi. I pag. '120). Questo dunque il fallo che il Grillenzoni con parole oscure confessa in lettere al Cabella aver commesso e per cui il Giordani, che apertamente condannava Mazzini e i liberali tutti, parve rallentasse i legami di quell’amicizia che già tanto fortemente a lui lo stringeva. — Filippo Strozzi è nome convenzionale usato a quel tempo da Mazzini nella firma delle lettere agli adepti della Giovane Italia. 59 lontano viaggio dal quale dicesi che sei per ritornare fra poco. Dio voglia che ciò possa essere presto per tonni da un sospetto molto .crudele poiché un viaggio sì lungo non si poteva nella mia mente conciliare col proposito che tu avevi fatto, fin dapprima che noi ci conoscessimo, di voler dare tutto te stesso e i frutti delle tue fatiche alla tua famiglia. Oh io fra i miei mali ho troppo bisogno di poter pensare e sapere che tu non sei infelice; tu così degno di essere felicissimo! » Quindi, dopo avergli parlato della gentile messaggera e delle grandi virtù di lei, gli fa un quadro desolante del suo esilio, de’ suoi dolori e del suo sommo bisogno.dell’amica parola del suo Cabella: « Per questo, mio caro, mi sarà dolcissimo avere tue lettere, quando pure non siano frequenti, le quali mi consolino come facevauo sì caramente una volta. Due sole creature al mondo ho trovato che abbiano in sè tutto quello che il mio cuore può desiderare; e son pur condannato a viverne separato; condannato forse a non rivederle mai più nella vita! Dio terribile! nello scrivere queste parole non posso tenere le lagrime....... Una sei tu, o mio Cesarino. Confortami,' confortami, se il puoi ». ' Segue poi dicendo che se non avrà la certezza di poter tornarsene a casa per la prossima primavera, poiché la sua salute è molto migliorata, conta di procurarsi un pane onorato andando in Francia a studiarvi la chimica e scienze accessorie, dove spera di potervi anche insegnare e intanto potrebbe acconciarsi colà presso qualche farmacista di grido. Finisce dicendogli esser egli presentemente occupato nella traduzione dall’inglese dell’Epicureo di Tomaso Moore, lingua insegnatagli dalla gentile Delagrange nei tre niesi del costei soggiorno a Lugano. Ma tornato in patria e in seno all'orfana famiglia dopo tre anni di assenza, Cesare doveva provvedere a cento urgenti cose reclamate dalla nuova condizione della famiglia medesima e riannodare il filo interrotto delle sue relazioni e de’ suoi affari, e non poteva troppo prontamente rispondere al Grillenzoni; il quale intanto nelFimpazienza dell’attesa scriveva ripetutamente alla Delagrange stimolandola a raddoppiare gli sforzi dell’opera mediatrice. Di questa impazienza si faceva interprete la gentil signora in lettera al Cabella del 12 dicembre 1835 dicendogli: « Ecco un mese che io sono a Genova, e l’amico aspetta ancora da voi le vostre notizie ! Io forse non v’ho ancora detto che il primo bisogno del suo cuore è quello di trovare il vostro e di rinnovare con voi quelle dolci espansioni della confidenza a lui più che 60 mai necessarie ora che si trova deserto d’ogni contorto in terra d’esilio. Pel momento quel che istantemente domanda non è il vostro soccorso, di cui pure vi sarà grato, ma una parola d’affetto cordiale ». Diligentissimo osservatore d’ogni legge di ci vii gentilezza, che non avrebbe fatto il nostro Cesare quando gli veniva tocca la corda del cuore? Adunque, come prima ebbe un momento di respiro rispose rassicurando e racconsolando l’esule amico col linguaggio del vivo affetto e della confidente intimità. E perchè il consolatore non aveva meno bisogno di consolazione del consolato, confida a lui, come già faceva col Giordani, la tormentosa pena ond’era trangosciato il suo cuore nel doversi rassegnare a vivere in una società così opposta a quella che le illusioni della sua prima giovinezza gli avevan fatto sognare. Il povero Grillenzoni si sentì felice d’aver ricuperato l’affettuosa corrispondenza del non mai perduto amico, e a lui, che si meravigliava perchè non avesse preso a male il suo lungo silenzio, l’il aprile 1836 rispondeva : « Il giudizio ch'io recai di te il primo momento che ti conobbi fu pienamente confermato dal conversare ch’io feci poi teco a lungo successivamente, e mi posi nell’animo ch’io non avrei mai più nella vita mia potuto trovare un amico migliore di te, e che tu eri già, in quella tua giovinezza, di una mente sì diritta e ferma e di un cuore sì ben temperato al bene e alla virtù che non potresti mai più mutare ». E venendo alle confidate afflizioni, con molto senno soggiunge: « Mi dà assai pena a sentire dello stato dell'animo tuo, ma 11011 mi fa meraviglia. Tutti gli uomini, o mio caro, più o meno lo provano nella vita alla lor volta. E il periodo di crisi (se mi è permesso di così esprimermi) che decide dell’avvenire dell’uomo; che decide se dovrà essere nel restante della vita o buono o tristo. Ognuno di noi-quando comincia a vivere, cioè quando comincia ad aver coscienza del proprio pensare e sentire, si crea, a seconda della propria indole 0 buona o cattiva, un mondo a sua maniera; e mentre la sua mente dovrebbe farsi lo specchio fedele di quello che è la società, la società non è veramente che il ritratto dell’animo, cioè del sentire di lui » . Ma quando gli anni e l’esperienza ci strappano il velo dagli occhi e noi vediamo tutto l’orrore della nuda realtà: « Allora è che quanto più l’animo del giovane è alto, più nobili 1 suoi sentimenti, più generosi i pensieri e il cuore più delicato, più numerosi e crudeli sono i disinganni, più profondo lo sconforto e più pericoloso l’abbattimento. T’intendo dunque, o mio caro, tu sei ora in questa dolorosa condizione, tu sostieni la battaglia crudele che ti dà il tuo cuore all’oscuro spettacolo di questo perverso mondo, e forse.... 61 forse qualche volta ti sei domandato colla desolazione nel seno e quasi con disperazione, vedendo tanta prosperità dei tristi e tanta infelicità e miseria dei buoni, se ci sia il conto a tenersi severamente al proprio dovere e seguire a tanto costo la virtù » . Si dilunga poi a parlare dell’esperimento ch’egli fece in se stesso di questa verità; lo loda d’aver aperto il cuore a un nobile amore che deve essergli balsamo di tanti patimenti, e finisce parlandogli dei lavori di traduzione in cui era occupato e domandando all’uopo consiglio ed aiuto. Da questa lettera intanto veniamo a sapere che il nostro Cesare aveva già parlato a favore dell’amico col Sismondi, l’insigne storiografo ginevrino; da un’altra della Delagrange in datà 9 agosto 1886, che allo stesso scopo aveva già iniziato pratiche con Andrea Maffei, e da una terza dell’avv. F. Paolo Ruggero, in data 2 febbraio 1836, che anche questi era stato sollecitato da lui allo stesso fine; il Cabella insomma s’era rivolto a quanti sperava potessero aiutarlo nell’opera benefica. Ecco un tratto della lettera del Ruggei’o, che a quest’opera si riferisce. Napoli, 2 Febbraio del 1836. « Mio carissimo amico, ... Io mi adoprerò per quanto è in me per le cose relative al Grillenzoni il nome del quale ho udito altra volta ripetere: ma difficile è il poterlo qui occupare in traduzioni dal francese. Il Merlin del quale mi parlate è già tradotto e ne sono pubblicati 14 volumi o più: e tutte le altre opere di giurisprudenza non si compiono in Francia e qui già sono tradotte e messe a stampa (1): e poi pagasi così male questo lavoro delle traduzioni che non vai la pena di occuparsene; poiché nulla monta che sieno traduzioni pessime purché si possa dare il libro tradotto: e però abbiamo veduto talvolta il creanziero per creditore ed altre cotali gagliofferie di che la storia saria troppo lunga: e le traduzioni buone sono quelle stampate per conto di qualche traduttore che ben sa scrivere; cliè i mercanti vogliono pagare il meno che ei possono e trovano di certi paltonieri ignorantissimi che pongon mano a tutto purché si dia loro da trarre la vita. Non ostante questa difficoltà io mi adoprerò per essergli utile e ve ne renderò fra non molto la risposta. » Se mai aveste occasione di vedere la Sig.a Laura Spinola, quella (1) Così neirautografo. 62 cara vostra concittadina, ricordatele il mio nome, che panni ell’abbia certamente obliato, avendomi da così lungo tratto posto da uno dei lati nè mai più scritto un sol rigo, sicché io temo di mandarle una lettera mia, dubitando non le abbia a dar noia. Ditele, se ella me] permetterà, che io non dimenticherò giammai la sua cortese accoglienza, le passeggiate all’Acquasola, i sentimenti che ella mi inspirò e che son queste cose tanto vive nella rimembranza mia quanto il dì della mia partita da Genova (1). Vostro aff.mo F. P. Buggero » Così fu ripreso il carteggio e i buoni uffici di un’efficace amicizia tra il Nostro e il Grillenzoni. Il quale dopo' qualche anno potè ritornare nella patria Piacenza dove non volle più impacciarsi di cospirazioni politiche ma, non ostante la pregiudicata salute, attese ancora a lavori letterarii, e dove morì il 20 luglio 184-7. La sig.a Paolina Delagrange negli anni che rimase a Genova visse col nostro Cittadino in cordialissima amicizia avvivala di scambievoli servigi. Anzi da non poche lettere di lei conservate in casa Cabella chiaramente si rileva ch’ella aveva concepito e nutriva per lui tutti i sentimenti più nobili e affettuosi e in una tal misura che, un passo più oltre, l’amicizia avrebbe assunto di pien diritto altro nome e natura. Ma ella era saggia ed accorta, conosceva la sua età e la sua condizione e sapeva contenersi nei prescritti confini. Ella rivedeva e correggeva nei riguardi della elocuzione le lettere e le memorie, da lui scritte in francese, intorno alla pubblica beneficenza e alla economia civile; egli da riconoscente amico la onorava e serviva e le agevolava il modo di poter vivere a Genova senza disagio economico procurandole insegnamento letterario presso cospicue famiglie genovesi. So ancora ch’egli' aveva fatto uffici perchè la signora potesse aprire una pubblica scuola per le giovinette di agiata condizione; ma ella era di religione protestante e la diffidenza che a que’ tempi a Genova e un po’ dappertutto ispirava questa religione, tuttoché cristiana, fu cagione che gli uffici dell’amicizia non approdassero. (1) Quante forti simpatie svegliava in chiunque l’avvicinasse quella bella, buona capricciosa e infelice signora Lilla! XXII. L’angelica Cocchina Cabella. Alla Villetta nel luglio del 1837 il Cabella aveva presentate al Giordani due sue sorelle, la minore delle quali, la Cecchina, era un angelo di bontà, di bellezza, di grazia, ornata di buoni studi e degna in tutto di un tanto fratello che di lei singolarmente si compiaceva. Il vecchio scrittore ne fu tocco di dolce meraviglia, e nella seguita conversazione tutta fiorita di amabili cortesie, nel che, come nelle iraconde invettive, il Piacentino non aveva pari, ebbe da Cesare promessa ch’ella gli avrebbe scritto. Tornato a Parma, non dimise la speranza dell’ambito dono; e perchè Cesare gli scriveva che Cecchina si meravigliava di essere ancora ricordata e salutata da lui, il 16 agosto gli rispondeva: « La Cecchina non si meraviglierebbe di essere salutata se sapesse quanta espressione di bontà è nella sua delicata bellezza ». E perchè Cecchina si peritava e arrossiva d’essere invitata a scrivere, lei umile e imperita fanciulla, a un sì celebrato scrittore, « oh amabilissimo rossore dell’angelica Cecchina! » gli rispondeva il 31 agosto, « riveritemela tanto tanto ». E il 30 nov. «Quando vedrò la scrittura di quell’amabilissima Cecchina? » Vedendo poi che la sospirata letterina indugiava ancora, il 3 gennaio 1838 ne sollecitava con molto garbo l’amico: « Non è ancora venuta la lettera dell'Angelica Cecchina: venga con tutto comodo; chè a me è delizia anche desiderarla. Ditele qualche, cosa: ma che potrei io dirle che meritasse piacerle? Ditelo voi. Oh se io avessi avuto una tal sorella, che amo tanto quella che ho, e mi ama sì poco ». Ma i conti di siffatta faccenda s’avevano a fare con la mamma, donna eccellente, ma fatta all’antica e poco disposta a simili permessi: come dunque uscir d’imbarazzo senza un sotterfugio? 11 fratello fece intendere la difficoltà del caso all’amico, il quale si rassegnò così rispondendo il 1-4 gennaio: « La speranza di una lettera di Cecchina mi fugge; perchè il consenso della madre non è sperabile, e il contrabbando non è desiderabile. Pur è già molto s’ella degna qualche volta donare una particella di un pensiero ad un lontano, appena veduto, e che per lei è nulla. Ringraziatela caramente della sua bontà ». Ma il dirsi rassegnato non significa rinunziare al desiderio, onde quando Cesare gli scriveva della grata meraviglia che la sorella provava di vedersi ancora ricordata da lui, gli rispondeva il 28 luglio 1838: « E pur buona quell’angelo di Cecchina. Oh meravigliarsi perchè non l’ho potuta dimenticare! Non si vede mai nello specchio? Ringraziala del pensiero troppo cortese di voler fare qual- 64 che cosa per me. Ma una riga di sua mauo sarà preziosa infinitamente più di qualunque altra cosa ». E quando nella primavera del 1838 Cesare gli confidava addolorato un disegno di matrimonio fallito a Cecchina, « Mi ferisce il cuore, » gli rispondeva il 18 aprile, « che non possi vincere il destino contrario alla felicità dell angelica tua Cecchina. Era bello, era buono il giovane? Era amato da lei? » Quando poi ai primi di maggio del seguente 1S39 gli annunziava il fausto fidanzamento dell’amata sorella, il dì 8 rispondeva: « La vòstra lettera mi consola infinitamente con quell’annunzio di felicità dell’adorabile Cecchina, alla quale vorrete presentare le mie cordialissime congratulazioni » (1). XXIII. La marchesa Rosa Triulzi ved. Poldi-Pezzoli. Il Giordani, per chi non lo sapesse, era, come mi consta da ricerche fatte in proposito, per vizio organico congenito, affatto inabile alle funzioni genetiche dell’amor fisiologico, e ciò non per tanto, anzi forse appunto per questo, si accendeva di fremente amore per la donna che unisse in sè bellezza, cultura e bontà. Nel 1836 e '37, più che sessagenario, ardeva e delirava per la marchesa Rosa Triulzio ved. Poldi-Pezzoli, bella, colta, ricchissima gentildonna milanese d’anni 37, per la quale, consigliatole dal Giordani, Lorenzo Bartolini dianzi aveva scolpito uno de’ suoi più splendidi lavori, La Fiducia in Dio (oggi nell’atrio del Palazzo Poldi-Pezzoli a Milano) che il sonetto del Giusti rese famoso in tutta l’Italia. In mezzo al fasto e alle dovizie la povera marchesa era però infelice perchè soggetta ad accessi •di acuto isterismo o epilessia che non di rado le sconvolgevano l’animo e la ragione (2). (1) Nell’autunno di quell'anno 1839 la Cecchina andava sposa all’ing. Cesare Parodi suo cugino, costruttore della ferrovia Genova-Voltri, del mirabile Ospedale di S. Andrea Apostolo in Genova, dell’Ospedale di Coronata, delle prime case operaie in Bisagno; dep. al Parlamento nella XV legislatura, assessore comunale, presidente della nostra Congregazione di Carità. Da questo matrimonio nacquero sei figli dei quali sopravvive ancora a Livorno King. Lorenzo Parodi. Mori Cecchina l’anno 1871 e l’ing. Cesare Parodi nel 1995. (2) Rosa era figlia del marchese Gian Giacomo Triulzio famoso dantista e munifico mecenate degli studi e delle arti, protettore del Monti e amico venerato dei più chiari scrittori italiani. Per le nozze di lei il Monti aveva pubblicato l'epitalamio Amore al cespuglio . (2) Dove a meglio conoscere la natura psichica del nostro avvocato mette conto osservare che questo articolo essendo dettato in i schietto ed elegante francese, parve debito di coscienza allo scrittore il fare avvisato il Direttore della Bibliothèque non spettare a sè quel merito ma alla brava signora francese Paolina Delagrange che gentilmente l’aveva riveduto e corretto. 73 particolare menzione il march. Vincenzo Sèrra di cui ci rimangono due notevoli responsive. Nella prima, del 19 giugno 1837, dopo ampie lodi e ringraziamenti, gli parla di un suo progetto di Cassa di Risparmio già da lui disteso quando apparteneva all’Amministrazione del Monte di Pietà e delle difficoltà non potute superare. « Riconosco, soggiunge, nel suo piano molti bei pregi, e desidero che piaccia a molti. Ma io non sono atto a promuovere il concorso degli altri e a procurargliene l’approvazione, poiché sebbene io faccia parte di troppe più Amministrazioni che io non vorrei, ho pochissime relazioni con le persone facoltose, e niuna con quelle che sono atte a riunire la volontà dei molti in un oggetto cornane ». Inoltre si dice contento di aggregarsi alla società fondatrice per una quota individuale; con la grande ammirazione non gli dissimula il dubbio ch’ei possa ottenerne i frutti sperati; desideroso di ricevere da lui maggiori lumi a quest’uopo, lo invita a recarsi a un’ora data in casa sua. Nell’altra del 19 nov. 1837 gli dice aver letto e ammirato il suo progetto, gliene porge amplissime lodi e gli conferma il suo concorso all’impresa (1). Da una copia del Manifesto intorno alla fondazione in Genova dell’ideata Cassa da lui scritto e presentato al Municipio della nostra città, trascriviamo quanto all’uopo importa sapere. « Una proposta per la fondazione di una Cassa di Risparmio in Genova fu presentata a Sua Maestà nel dicembre dell’anno 1836. Sua Eccellenza il Ministro degli affari interni ne scrisse all’autore (lo stesso Cabella) molto benignamente, e permise che l’intenzione dell’autore si pubblicasse, e un invito si facesse alla carità de’ suoi concittadini perchè alla pia opera concorressero. » Mail desiderio della nobile istituzione era intanto egualmente venuto agli egregi sindaci, e anch’essi, fatto fare un progetto, quello avevano proposto al Consiglio civico, dal quale una Commissione era stata creata per farne esame. Ciò saputo, l’autore della prima proposta sospese subito i suoi lavori, nulla potendo meglio desiderare che l’aiuto e il favor del Comune alla nascitura istituzione, e a se stesso la soddisfazione di associarsi ai pensieri altrui quando fossero parsi più convenienti al paese. » La Commissione per sua parte con rara prudenza e pari gentilezza, come prima ebbe udito d’un altro progetto, bramò conoscerlo; e chiamato a sè l’autore, discorse (1) Il march. Vincenzo Serra, fratello minore di Gerolamo famoso autore della Storia della Liguria, nacque a Genova nel 1778. Fu del corpo decurionale e Sindaco di Genova. Carlo Alberto, che altamente lo stimava, nel 1835 gli conferì la Commenda dei SS. Maurizio e Lazzaro, indi il Gran Cordone dello stesso ordine e la Presidenza della Deputazione agli studi della nostra Università. Eletto nel 1846 con l’altro decurione Lorenzo Costa a compilare la Descrizione eli Genova e del Genovesalo da regalarsi ai membri dell’ottavo Congresso degli scienziati in Genova, non potè sostenere il mandato chè, colto da fiera malattia, morì il 19 ott. 1846. È noto autore di una versione poetica di Pindaro e di Orazio. Sua maggior lode una vita integerrima, purissima. 74 con lui le ragioni della preferenza. Le due proposte, nulla dissimili per lo scopo nè per le principali condizioni, in questo solo s’allontanavano ohe dove nella prima la Cassa di Risparmio volevasi tutta opera di privati e da privati amministrata, nell’altra invece era una dipendenza e quasi una parte, benché separata, della civica amministrazione. E questa fu la cagione appunto che la prima si preferisse; giudicando la Commissione che alla nostra città maggior lode dovesse venire, se un’opera di beneficenza sorgesse come spontanea dal consenso de’ buoni che se apparisse voluta e quasi comandata dalle autorità municipali, e che meglio si dovesse sperare della sua prosperità quando le cure grandi e difficili della sua amministrazione fossero raccomandate alla carità volenterosa, piuttosto che destinate a chi per ufficio vi fosse chiamato. » Cosi il Comune rinunciava alle parti di fondatore; quella però nobilissima riservandosi di protettore, e promettendo ch’egli non mancherebbe mai alla Cassa di tutto l’aiuto che si potesse per lui. Nella quale deliberazione non sappiamo se più è da lodarsi l’amor sincero del bene pubblico che fa tacere ogni altro riguardo, o il giusto criterio che ha così ben intesa la vera natura della carità sociale. » Noi veniamo dunque con grande animo a proporre il nuovo istituto, del quale i principii non possono essere meglio augurati dopo tanto consenso del governo e del Municipio. E ci rallegra il proporlo non come desiderio nostro ma in nome e quasi per mandato di tutti coloro che amano veramente il bene pubblico: perchè del progetto, appena conosciuto, fu subito sì grande nell’universale il favore ch’esso dovrà dirsi comandato dal consenso di tutti piuttosto che accettato dal suggerimento di pochi. E ci rallegra ancora annunziare che il pensiero non fu di noi soli ma di molti; perchè di qual cosa potremmo noi più giustamente rallegrarci se non di ciò che dove si tratta di far del bene, niuno meriti la triste lode di essere stato solo o primo a pensarvi? » Passa quindi a dimostrare l’utilità morale e sociale che dal nuovo Istituto deriverà alla popolazione lavoratrice, e infine dà un’idea sommaria ma esatta degli statuti fondamentali che la devono governare. I Sindaci del Comune gli consentirono eli depositare negli uffici della Civica Amministrazione gli Statuti generali da lui meditati e redatti, perchè tutti i cittadini ne prendessero libera visione e s’invogliassero in gran numero a prestare all’opera benefica il loro generoso contributo. Onde Cesare tutto lieto si affrettò a dar nuova della riportata vittoria al suo fido consigliero, il quale il 27 febbr. 1888 gli rispondeva: « Godo assai che il Comune siasi destato e si unisca a voi per la Cassa di Risparmio. Oh vedete che non sempre i generosi semi vanno a male! oh! pazienza e perseveranza! » Ma Cesare s’illudeva: non ostante l’assenso e la lode dei buoni nulla valsero i suoi sforzi conti’o l’occhiuta ingordigia degli speculatori cui stava più a cuore Futile proprio che il bene del povero. Stanco non vinto, si voltò a cercar cooperatori e sostegni all’impresa nelle alte sfere della più signorile aristocrazia genovese non infette di mercantesca cupidigia, e per interessarvi, direttamente l’alta autorità e la nota munificenza del nostro benemerito patrizio march. Antonio Bri- 75 gnole Sale ambasciatore del Re di Sardegna a Parigi, gli scrisse calde parole in proposito, e gl’inviò gli Statuti della Cassa istituenda. Ne ricevette la seguente risposta autografa. Parigi, 5 aprile 1839. Pregiatissimo Signore, Ho ricevuto in un colla cortese sua lettera del 21 marzo p. p. un esemplare degli statuti che si propongono per la Cassa di risparmio da fondarsi nella nostra città. L’istituzione di una Cassa di risparmio mi è sempre sembrata cosa utilissima per la classe povera, e le obiezioni che vi si fanno, quelle almeno di cui ho notizia, punto non mi persuadono. Ella dunque, gentilissimo Signor Avvocato, non s’è ingannato pensando di trovare in me una persona disposta a secondare, per ciò che da me può dipendere, le sue vedute. Non mi sorprende che altri molti pur vi concorrano; e assai ne godo perchè tal circostanza dimostra che il di Lei progetto è gradito, e che non mancano soggetti ben intenzionati a prò’ della classe povera dei nostri concittadini. Mi riserbo però a darle risposta in quanto alla mia cooperazione fra una quindicina di giorni per mezzo del mio procuratore costì dopo che avrò esaminati gli statuti anzidetti, quali per ora non ho sott’occhio. E porgendole frattanto infinite grazie per le tante gentili espressioni della prefata sua lettera a mio riguardo, mi pregio dichiararmi con distintissima stima Suo dev.mo obb.mo Servitore A. Brignole-Sale Ma neppure la buona volontà del ricchissimo e piissimo patrizio potè evitare gli scogli di opposti interessi e dare i frutti desiderati; onde il nostro generoso, visto vano ogni sforzo contro il soverchiante egoismo, cessò da una lotta donde non ritraeva che delusioni e amarezze e volse l’animo a meno osteggiate forme di beneficenza. Il benefico Istituto, come dissi, non ebbe vita tra noi prima del 1846, e nacque per iniziativa dell’Amministrazione del Monte di Pietà che approvava il progetto all’uopo redatto dal march. Agostino Adorno e dal cav. senator Antonio Casabona membri dell’ Amministrazione di esso Monte, e se ne aprivano gli uffici al pubblico il 4 luglio dell’anno medesimo (1). Dove pure è da osservare esser fuor di dubbio (1) Cfr. M. Bkuzzone, Cenni storici sul Monte di Pietà di Genova; in Alti della So-eietà Ligure di Storia Patria, voi. XLI, (Genova, 1908) pag. 167. 76 che neppure in quell’anno si sarebbe dato vita al benefico Istituto ove, con esso non si fosse provveduto a rifornire il Monte di Pietà di fondi maggiori a più libere e ampie operazioni pignorali. XXVII. Cesare con grave danno della salute si addossa opprimenti occupazioni; l’amico ne lo riprende. Alle lettere del Giordani da ultimo riferite, seguono e si alternano ' o altre lettere da innamorato idolatra, dove tra le frequenti espressioni d’amore si mostra pur turbato per le gravose fatiche forensi a cui si sottoponeva il suo Cesarino che nell’assiduo lavoro trovava bensì il farmaco miracoloso ai patemi dello spirito, ma non senza grave scapito della salute; onde il 12 giugno 1889 gli scriveva: « E voi come state? vi ricordate di moderarvi nelle fatiche? Di ciò mi tate sempre tremare. E temendo a misura di quel che valete e di quel che vi amo, vedete se posso temer con misura. Addio, mio idolo; vi adoro sempre. Curate molto la salute ». E il 29 dello stesso giugno tornando sullo stesso argomento: « Frattanto, mio caro, vi abbraccio con tutta l’anima e vi raccomando e comando di curare la salute. Oh fate giudizio in questo, o che io mi disgusto davvero. Voi non avete nessun difetto, e volete proprio guastare la vostra angelica perfezione con una tanta bestialità? Avete paura che manchino avvocati ai litiganti? Ma dove l’umanità e la ragione avranno un altro Cesarino? Se volete ammazzarvi, al nome di Dio; ma prima presentatemi un buon cambio ». Ma all’amorosa violenza dell’adoratore poco retta dava Cesare che, attivissimo per indole naturale e ricercato dell’opera sua da un numero sempre crescente di clienti e di estimatori; e, d’altra parte, assuntosi l’obbligo di provvedere decorosamente alla vita sua e di molti suoi cari, nè volendo abbandonare del tutto altri studi utili e geniali, non la perdonava a veglie, a fatiche, e spesso non dava più di quattro ore al riposo della notte. Conseguenza di siffatti eccessi prostrazione totale di forze, scoramenti, malinconie. A mezzo luglio il collasso delle forze fu tale che per rispondere all'amico dovette ricorrere alla gentilezza della buona Sig.a Paolina Delagrange, la quale fece al Giordani un tristissimo quadro delle condizioni in cui l’avvocato era ridotto. A spaventarlo da queste risicose imprudenze il Giordani ricorse allora anche all’eloquenza del rimprovero, e il 20 luglio gli scriveva: « Mio idolo adoratissimo, ....... la vostra penultima mi 77 aveva spaventato con quella enormità pazza e bestiale (lasciatemelo dire) di 40 ore di sonno in 10 giorni. Ma la lunghezza e il vigore della lettera mi dava fiducia che tutti i vostri eccessi non vi avessero ancora ammazzato. Giunta qui, dovetti maledire la vostra delicatezza (benché sublime) che m’avesse dissimulato il vostro vero ed orribile stato; lungamente e terribilmente espresso in una lettera della signora Paolina che delle vostre disumane fatiche, dell estenuazione é della malinconia mi fece inorridire: e già vi credevo tornato alla malattia; epperò neppure osavo scrivervi, e mi disperavo. Nella vostra lettera mi pare che avete ancora della vita. Ma, Cesare mio, se avete voglia di ammazzarvi, fatemi la carità di prendere una pistola o un veleno; ma non vogliate uccidervi prima l’anima che il corpo. Voi mi fate disperare, mi fate impazzire, freneticare. Dio mio, Dio mio! Ah non voglio più andare avanti in questo argomento. Io ho detestata la necessità di farmi avvocato; ma l’ho sopportata. Necessità di ammazzarvi con tale fatica non ci può essere. Voi siete nato per fare un gran bene: perchè volete privarvi di questa gloria, di questa vera felicità? perchè volete consumarvi inutilmente? Dio mio, se ci fosse un altro Cesai’ino, vi lascerei fare questa pazzia, poiché volete. Ma dov’è l’altro? Cesarino, Cesarino mio, per carità conservatevi. Verrà tempo che non potrete più, e vi accuserete ». XXVIII. Il Giordani d’improvviso rompe amicizia e relazione col Cabella. Di chi la colpa? Argomento delle ultime lettere del Giordani sono inviti a collaborare in pubblicazioni letterarie, sollecitazioni a coadiuvarlo nella campagna intrapresa da qualche anno contro i Gesuiti, esortazioni continue a guardarsi dall’eccessivo lavoro e a curare la salute; sono nuove espressioni di ardentissimo amore. Nè va dimenticato che l’anno innanzi 1838 egli aveva cominciato a comporre un dialogo tra il Cabella e il Gussalli, intitolato Della ragionevole estimazione dei piaceri, dove nel proemio l’autore dice: « Nell’avvocato Cesare Cabella è altissimo ingegno, maravigliosa eloquenza, dottrina vasta e profonda » ; e dove nel corso del dialogo per bocca del Gussalli con altre lodi in altra forma lo esalta (l). Onde stupore e disgusto sentirà il lettore leggendo la lettera seguente del 4 ottobre 1839: (1J Cfr. P. Giordani, Scritti editi e postumi, Voi. V pag. 135, 78 « Settembre è finito; voi non venuto, nè pur mi scrivete. Che vi ritiene? perchè tacete? Nell’ultima vi mandai una lettera di Brescia. Giuseppino Ricciardi mi scrive di avervi pregato a mandarmi un suo libretto. Se desiderassi vedervi per solo piacer mio, vi ringrazierei quando non fosse ugualmente piacer vostro. Ma impegnato in una guerra e santa e necessaria, e abbandonato da ogni altro, manco di munizioni, e me ne promettevo da voi non sapendo da chi altri. E neppure posso cavar da voi una parola! Io vi assicuro che tutt’altri che voi l’avrei già dato a Dio ». Che è ciò? come ha potuto lo spasimato vecchio trattare sì duramente il suo idolo adoratissimo e mandarlo senz’altro a quel paese? Non fan d’uopo documenti storici per credere che l’animo sensibilissimo del giovane genovese ne fu indicibilmente colpito e costernato. Il caso è grave davvero e merita un esame esplicativo. Fin dai primi tempi della loro amicizia lo scrittoi’piacentino si lamentava amorevolmente con lui del ritardo che soleva frapporre a rispondere, lamento che va facendosi più frequente e più vivo negli ultimi due anni 1837-39. Nell’estate del ’39 l’avvocato genovese gli aveva promessa una sua visita a Parma pel prossimo settembre al fine di concertare con lui i modi e i mezzi di combattere ed espellere la setta dei gesuiti. Passa il settembre ma Cesare non andò nè tampoco rispose alle ripetute sollecitazioni del fremente amico, il quale, immaginando Dio sa quali ostili intenzioni in quel silenzio, cede al suo noto temperamento irascibile e frenetico, rinnega la pazienza e manda al diavolo l’adorato Cesarino. Se il Giordani non avesse distrutto, come tutte le altre, anche le lettere ricevute dal Cabella, noi avremmo in mano le ragioni pienamente giustificative del ritardo del Cabella a rispondere e cadrebbe di conseguenza ogni altra controversia in proposito. Nondimeno, quanto al libretto del Ricciardi che il Cabella avrebbe dovuto mandare al Giordani, questi rispondeva il 5 ottobre 1840 al richiedente Ricciardi: « In agosto vidi Cabella in Genova; gli domandai subito del libretto di V. S. e mi disse di non averlo mai ricevuto ». Quanto alla mancata promessa di andarlo a visitare a Parma nel settembre del ’39 non fa d’uopo avvertire che questa promessa non era un giuramento sacramentale inviolabile, ma una promessa amichevole subordinata a condizioni di possibilità. A buon conto dalle lettere gior-daniane possiamo rilevare che il nostro Cesare in quel tempo era sopraffatto da mille occupazioni; che due mesi prima gli era morta dopo dolorosa malattia una dolce sorella; che se la sua salute due mesi prima era tale che le notizie datene dalla Sig.a Paolina Dela- 79 grange avevano fatto inorridire il Giordani, nel settembre, quando Cesare indugiava a rispondere, non doveva essere molto migliorata dacché l'amico se ne mostra sempre sgomento e gliela raccomanda con vive supplicazioni; e finalmente che in quei giorni egli era in gran faccende per gli sponsali dell 'angelica sorella Cecchina (1). Tanto varrebbe a spiegare il prolungato silenzio; ma dato pure e non concesso che ciò valesse poco, io tengo per fermo esser da escludere in modo assoluto che il ritardo di Cesare possa mai essere stato effetto di poca cortesia o di poco riguardo verso l'amico adoratore. E dico da escludere in modo assoluto, perchè tutti i Genovesi della mia generazione possono far fede della singolarissima delicatezza d’animo del nosti’o illustre concittadino, e dire se è punto da dubitare ch’egli possa aver mai pensato a mancar minimamente di riguardo verso chicchessia nonché verso il suo venerato amico e maestro. Tutto questo considerato, noi siamo obbligati a ritenere come certissimo che da un imperioso motivo, di cui non ci resta documento, fu Cesare costretto con grande §uo rincrescimento a protrarre oltre i termini, per verità troppo ristretti, della sofferenza giorda-niana, il suo ritardo a scrivere. Dico troppo ristretti questi termini perchè, e non senza meraviglia l’udirà il lettore, il Giordani quando il 4 ott. 1839 scriveva l’aspra lettera obiurgatoria, non da mesi mancava delle lettere dell’amico genovese, ma, a conti esatti, da soli venticinque giorni. Ora avrebbe mai potuto o dovuto immaginar Cesare che così breve e involontario silenzio gli dovesse meritare tanto dolore e tanta offesa da chi delirava d’amore per lui? E che sapeva Cesare della testa squinternata del famoso scrittore? E non solo; ma dalla costui passione amorosa e più specialmente da parecchie sue lettere amorosissime riguardanti quistioni di reciproca delicatezza, Cesare aveva ricevuto chiare prove di amicizia così ferma e invulnerabile e così superiore a picche, a dispetti, a malumori che non avrebbe evitata la taccia d’ingiusto e d’ingrato ov’egli non avesse fatto il più sicuro assegnamento sulla fede, la pazienza, l’indulgenza del Giordani. Ne reco, tra i tanti, un esempio. Nell’estate del 1833 temendo il gentilissimo giovane d’aver potuto mancar con lui per non so quale ritardo od ommissione o che altro, s’era affrettato a fargliene le sue scuse e darne giustificazioni. Or legga il lettore la risposta ricevutane in data 22 luglio, e giudichi se il Cabella aveva torto a confidare nella paziente bontà dell’amico: (1) Cfr. lett. ined. del Giordani al Cabella 29 giugno, 16 luglio, ‘20 luglio 1839, 80 « Io voglio ch’ella sappia (e sei tenga a mente) ch’ella è per me, come dicono i teologi, confermato in grazia: in volgare si direbbe impeccabile. Non vi sarà mai apparenza nessuna ch’ella debba scusare o giustificare presso di me. Tutto quello ch’ella farà, dirà o tacerà, vorrà o non vorrà, sarà bene per me; perchè la mia fede in lei è pienissima; perch’ella è il mio idolo; non datomi da altri ma eletto da me, come cosa unica in questo abominabil mondo ». E il lettore non avrà ancora dimenticata la interessantissima lettera del 25 ott. 1832 dove l’effusiva passione in analogo argomento tocca il parossismo. Ma, domanderà il lettore poco perito di studi giordaniani: come mai un piccolo screzio che, chiarito da ambe le parti, non che sciogliere, suole riconfermare le buone amicizie, potè invece segnar la fine di quella santissima fra i due valentuomini? Cesare forse s’indispettì e non rispose più? — No, Cesare non tardò a rispondere, come risulta da lettera del Giordani al Ricciardi del 25 maggio 1841 e, ‘come da lettera allo stesso del 29 giugno 1840, gli ripromise d’andarlo a trovare a Parma quando più presto gli fosse possibile e, com’è naturale il credere, giustificò e si disse dolente dell’involontario ritardo. Un uomo comunque severo ma di sana mente doveva accettare e gradire quest’atto .del Nostro come giusta soddisfazione e riparazione del presunto fallo e riconciliarsi con lui; non il Giordani. Anzi da tutti gli accenni al Cabella nelle sue lettere al Ricciardi; dal fatto che dopo l’aspra lettera del 4 ottobre nessun’altra se ne trova nella raccolta delle giordaniane tutte religiosamente conservate dal Cabella e dalla sua famiglia; dal fatto che, contro la sua costante abitudine di mandare i suoi saluti ad altri amici comuni per mezzo dell’amico a cui scriveva, nel 1842 e ’43 scrivendo a Genova al march. G. C. Di Negro e ai letterati genovesi Federico Ali-zeri ed Emanuele Celesia, amici del Cabella, non credette d’inviargli per mezzo loro neppure un saluto; tenuto conto della confessione del suo panegirista Gussalli secondo la quale « il Giordani non consentì giammai (un caso solo eccettuato) di essere con la medesima persona amico due volte; immobile che fu sempre così negli affetti come nelle opinioni »; io credo di poter asseverare in modo certo e sicuro che il Giordani, seguendo il costume tenuto con altri non pochi ragguardevoli e gentilissimi amici, come in altro scritto ho dimostrato, al Cabella non rispose più nulla nè allora nè poi, e per tal modo ha lui solo il torto d’aver senza giusto motivo sciolta con Cesare, non solo l’amicizia, ma troncata ogni relazione. Lo ripeto, il nostro Cesare non fa il solo a soffrire il doloroso affronto: l’avevan già sof- 81 ferto, per non citare che nomi chiarissimi per virtù di mente e squisita gentilezza d’animo, Cesare Arici, Antonio Cesari, Gino Capponi e, come vedemmo, la march. Rosa Triulzio ved. Poldi-Pezzoli (1). Tale la natura di questo strano uomo: un impeto di collera tuttoché ingiusto, un nero sospetto insinuatogli da un falso vedere, bastava per agghiacciargli in cuore, e per sempre, ogni più ardente affetto. Questo singolarissimo fenomeno in Giordani non era prodotto di superbia o di dispetto, era necessaria conseguenza di quell’anormalità psichica, già dal Gussalli avvertita, per la quale le male impressioni, comunque false e illusorie, una volta ricevute, non solo non si cancellavano più dal suo spirito, ma col tempo andavano facendosi via via più forti e profonde. Ecco il perchè le più calorose proteste e le più eloquenti difese di molti insigni e amorevoli amici comuni non valsero mai a smuoverlo d’un sol punto dalla forsennata credenza che nell’occasione della sua ingiusta espulsione da Firenze il Capponi, spirito gentilissimo, fra il dolore di tutti gli altri amici avesse voluto trattarlo con sorrisi di scherno; ecco il perchè le amorose proteste e i ripetuti richiami a men perverso giudizio del contristato Capponi a nulla approdarono: il povero allucinato aveva già contro di lui concepito un odio che non si estinse che con la vita. Ecco il perchè nel 1818, adombratosi per una involontaria e perdonabile dimenticanza di formalità convenzionale in argomento di personale riguardo, dannò come perfetto egoista l’amicissimo e ammiratissimo suo Cesare Arici, gentil poeta bresciano, e ruppe con lui ogni relazione. Ecco pure il perchè, insinuatagli dalla losca figura del Brighenti la calunniosa credenza che Antonio Cesari avesse vendute le lettere t scrittegli da lui, non ostante le veridiche rassicurazioni dell’innocente calunniato, non ostante l’oggettiva evidenza del suo errore risultante dalla realtà dei fatti contrarii, il Giordani, ancora negli ultimi anni della sua vita, scagliava i più bestiali insulti contro la santa memoria del pio Filippino persistendo sempre a bestemmiarlo come tristo trafficatore delle sue lettere. Ecco pure il perchè due anni dopo la morte del Leopardi, cioè quando in ogni cuore che vile non sia è spento ogni anche giusto risentimento contro il defunto, il povero frenetico, turbato ancora da lontane e false immagini di sognati torti da lui ricevuti, affastella in lettere al Brighenti accuse sopra accuse a biasimo del più infelice e del più puro degli uomini moderni, ac- ci) Cfr. il mio scrittarello Intorno ad alcuni punti controversi della vita di P. Giordani in Miscellanea Pandiani (Genova, 1921). 6 82 cuse non suffragate nè da una ragione nè da una parvenza di ragione (1). Ma ciò che eccede tutti i termini del credibile e che non si spiega se non come vera e propria monomania paranoica, è la sua idea fissa della tortura del Galilei. Già nel Panegirico a Napoleone aveva affermata la carcerazione del grande scienziato. Nell’articolo pubblicato sulla Biblioteca italiana nel 1816, Dello Sgricci e degl’improvvisatori in Italia, dopo aver lamentato che improvvisatori avessero conseguito in Campidoglio quella corona ch’era stata negata al Meta-stasio, al Varano, al Parini, all’Alfieri, al Monti, aggiungeva: « Non è poi stoltissima e miseranda cosa incoronarsi una Corilla dove fu carcerato e torturato Galileo? » Stupirono tutti che la nota meravigliosa dovizia di storica erudizione non avesse salvato il Giordani da un errore sì vulgare com’è quello di credere alla tortura del Galilei che, propriamente parlando, non fu mai nè torturato nè carcerato, come d’altronde il vecchio Tiraboschi aveva già da tempo dimostrato con documenti inoppugnabili nella sua storia. Giuseppe Acerbi a voce, Guglielmo Manzi pubblicamente gliene fecero rimprovero, Giuseppe Carpani sulla stessa Biblioteca (luglio 1817) potè con la storia alla mano facilmente smentirlo; e lo stesso governatore imperiale di Lombardia conte F. Saurau non mancò di fargliene rimostranza; ma invano, chè il Piacentino fece assicurare questo signore che niun luogo rimaneva a ragionevolmente dubitare di essa tortura (2). Che più? ventun auno appresso, cioè nel 1838, francamente tornava ad affermarla scrivendo: « Roma si farà strumento alla superbia e ignorante invidia dei Gesuiti; e metterà in prigione e alla tortura il Galilei » (3). Altre sicure prove di questo suo congenito vizio psichico ommetto per brevità. Conscio lo scrittoi- piacentino delle deficienze del proprio spirito nè volendole scoprire agli amici, usava, se richiesto, trarsi d’impaccio o tacendo o allegando ignoranza o incolpando altrui. Al Ricciardi, che gli scriveva meravigliandosi del silenzio del Cabella, rispondeva il 29 giugno 1840: « L’amico genovese è un gran mistero anche per me. Mi pareva amico e uomo rarissimo. Io non ne intendo più nulla ». — Venne egli poi nuovamente a Genova per la dedicazione del busto di Luigi Biondi nella Villetta Di Negro il 28 lu- ' (1) Come è provato in uno studio che presto sarà fatto di pubblica ragione. (2) Discorso al conte F. Saurau, 1817, nelle Opere di P. G. (3) Cfr. Dichiarazione di una stampa che mostra il Galilei innanzi a fra Paolo Sarpi; Opra cit. voi. V, pag. 171. 83 glio 1840, e vi rivide il Cabella, al quale, si noti bene, come ad uom morto, non aveva creduto dare avviso alcuno della sua venuta, e che, com’è ben naturale, dovette tenere con lui quel più riverente riserbo che doveva a chi, senza lasciare d’esser persona degna e ri-spettabile, gli aveva ingiustamente voltate le spalle. E nondimeno legga il lettore quel che il Giordani per coprire il suo torto, il 25 maggio 1841 scriveva all’amico Ricciardi che del Genovese l’aveva nuovamente richiesto: « Da varii anni non ho lettere da Cabella; e tutti si dolgono di non poterne avere. A me scrisse una volta; e mi accorsi ch’era vero vedendolo nell’agosto dell’anno passato a Genova, ch’egli non è più quello di otto anni fa: e perchè io son sempre lo stesso, rimane che non siamo più nulla l’uno all’altro. Peccato! perchè era uomo secondo me dei pochissimi; e da nessuno avrei sperato più che da lui per il ben pubblico ». Al Giordani giovava certo fare il nuovo col Ricciardi e dirsi stupito del contegno del nostro Avvocato, perchè dei due in questa incresciosa vertenza uno doveva bene avere il tortole al Giordani naturalmente ripugnava, scrivendo al comune amico, confessarsi reo di tradita amicizia; ma è lui che darebbe a noi ragione di stupirci se non ne conoscessimo il carattere. Lasciando stare che, come corregge il Clerici, non da varii anni il Giordani, quando questo scriveva al Ricciardi, non riceveva lettere dall’avvocato genovese, ma solo da un anno e sette mesi, conviene osservare che in questa lettera il Giordani trova comodo il tacere della lettera offensiva direttagli il 4 ott. 1839; e se dice il vero dicendo che nel detto tempo dal Cabella aveva ricevuto una sola lettera (che è la lettera di scusa pel malaugurato ritardo, quando non sia una seconda di più vive e prementi istanze), non è leale quando, per rovesciare sulle spalle di lui la inesplicabile stranezza del proprio procedere, tace ad arte del contenuto di essa e del perchè non fu più seguita da altre, e si guarda dall’aggiungere che a questa lettera egli non aveva mai più voluto rispondere. « Da varii anni non ho lettere da Cabella ». Come! e non fu'lui, il Giordani, che ricusandogli la dovuta risposta, obbligò l’amico dolente a desistere da altri tentativi epistolari? E come poi poteva affermare senza strazio della verità sè esser sempre lo stesso, dacché i fatti lo avevano dimostrato cangiato affatto? Non si capisce infine perchè esclami: « Peccato! » e deplori la fantasticata diserzione del Cabella come una iattura del pubblico bene, quasi che il bene pubblico e il Giordani fossero una sola ed unica cosa. A tali miserevoli sotterfùgi traeva lo strano uomo l’abituale ostinazione di voler difendere ad ogni costo i propri travedimenti! 84 E quanto al contegno serbato dal Cabella con lui nella festa alla Villetta, io vorrei e, considerato lordine naturale delle cose, potrei ancora provare come il nostro giovane, accorato di vedersi così crudelmente respinto dal suo venerato consolatore, colse l’opportunità di quella festiva letizia, più che per altro, per presentarsi a lui e tentare a voce e di presenza quella conciliazione che invano aveva tentato per lettera, ma che anche questo secondo tentativo andò fallito, perchè nell’animo dello scrittore la corda di quell’affetto, come di consueto in casi simili, era rotta irreparabilmente e per sempre. Se non che il lettore mi ammonisce ch’io ho già spese troppe parole su quest’argomento, ed io farò punto previa un’ultima nota. Delle anormalità intellettive e sentimentali riscontrate nel Giordani nessuno intende far lui intieramente reo e responsabile: valenti psichiatri hanno recentemente provato con lo strumento dell’indagine e della critica scientifica che il poveretto era affetto da congenita e insanabile psicastenia che lo turbò e tribolò più o meno tutta la vita (1). Verità che si fa evidente a tutti che, comunque ignari di neuropatologia, vogliano gettare uno sguardo sul carteggio inedito del celebre scrittore (2). XXIX. Cesare si rassegna alla professione destinatagli dalla fortuna. Cessato coll’ottobre del 1839 il carteggio dei due valentuomini, del dramma intimo del giovane avvocato noi non sappiamo più altro. Certo è che il tempo, il lavoro intenso, la ferrea necessità l’andarono via via disponendo a piegar pazientemente il capo all’ineluttabile suo destino; egli accettò di assolvere, quanto più onoratamente per lui si poteva, l’indeclinabile dovere della vita. E perchè le soverchianti occupazioni forensi gli sbarravano il cammino alla gloria di filosofo giurista ed economista, non propose a se stesso altra soddisfazione (1) F. Marimò: La nevrastenia di P. Giordani, in Annali del Manicomio provinciale di Perugia, Anno II, 1909. (2) Ho speso veramente qualche parola di più su questo fatto perchè l’avere il Cabella conservate tutte le lettere del suo famoso amico senza pur pensare di accompagnare all’ultima lettera di rimprovero un cenno esplicativo dei fatti che lo giustificassero 'agli occhi del futuro lettore, avrebbe potuto indurre facilmente ad erroneo giudizio chi dal senno e dalla bellezza delle parole di uno scrittore credesse dover argomentare il senno e la bellezza degli atti e del carattere, 85 che quella di ben meritare della patria e della famiglia nell’àmbito più circoscritto della pratica professione a cui la sorte lo aveva destinato; consolato forse dal pensiero che non onora tanto l’uomo nè tanto appaga la sua coscienza lo scribere legenda quanto il facere scnbenda et imitanda. D’altronde, che altro è virtù se non è rinunzia e sacrifìcio? E se sacrifizio non fosse, avrebb’ella sì rari cultori e sì numerosi estimatori? E se la gloria ne dovesse esser sempre la condizione necessaria e il compenso inseparabile, sarebb’ella ancora virtù pura e generosa? o meglio: sarebb’ella ancora virtù? (1) E se 10 studio del diritto, bello per sè e sublime, nella pratica applicazione ai casi degli uomini, diventa un pugilato duro ed odioso, di qual altro studio umano non si può dire altrettanto? E se il torcere la legge a fine ingiusto o venale ne scredita la professione, qual miglior occasione di nobilitarla e di acquistar a sè merito ed onore che il dirigerla a fine onesto e santo, e fare di un mercimonio un sacerdozio, di un mestiere un apostolato? XXX. Nota ai due articoli del Prof. P. G. Clerici illustrativi delle lettere del Giordani al Cabella, recati rispettivamente dalla Nuova Antologia del 16 giugno 1916 e del 16 febbraio 1917. Come tutte le opere umane, anche i dotti ed eleganti commenti alle lettere gior-daniane del eh. prof. Clerici non vanno esenti da qualche neo d’interpretazione che, minimo essendo, non mette conto rilevare. Mi restringerò solo a parlare di una considerazione consequenziale che collegandosi strettamente alla valutazione morale del nostro Concittadino, ha fatto un certo senso e provocato qualche disparere nei Genovesi riverenti alla sua memoria. Non tutti forse consentiranno in tutto col Clerici là dov’egli parla dell’azione educativa e direttiva esercitata dal Giordani sul Cabella. Può parere infatti a taluno che 11 chiaro scrittore ci abbia presentato il Cabella nella sua gioventù come un discepolo debole e vacillante e in procinto qualche volta di cadere per via e venir meno alle speranze che di lui si erano concepite, ove non fosse stato a tempo sorretto e fortificato dall’eloquenza eccitatrice e vittoriosa di un tanto uomo; di guisa da indurre quasi a dubitare se l’aver poscia il Cabella corrisposto mirabilmente a queste speranze sia per avventura da ascriversi alla sua propria e naturale virtù o non piuttosto ad impulso altrui. E cosi appunto ne parve all’egregio avvocato Edoardo Cabella, chiaro e benemerito nostro concittadino e degno figlio dell’illustre giureconsulto, il quale (1) « (Yirtus) esse nulla potest, nisi erit gratuita: nam quae voluptate, quasi mercede aliqua, ad officium impellitur, ea non est virtus, sed fallax imitatio simulatioque virtutis >. Cicerone, Acad. II, 46. 86 perciò senti il bisogno di inserire in proposit* una dichiarazioni di rettifica nella Nuova Antologia del 16 Agosto 1917. Il vincolo che lega un figlio al padre è cosi sacro e santo che la più piccola inesattezza lessicale nel giudizio da altri recato sulla natura della psiche paterna, anche sa inesattezza poco ò punto avvertita dal pubblico dei lettori, spiega e giustifica la correzione da parte del figlio; ed io non oserei nè altri potrebbe non approvare Patto dell’aw. Edoardo Cabella in materia tanto grave. Nondimeno dirò aperto tutto l’animo mio. Ove le parole del Clerici vogliansi intendere tutte strettamente alla lettera, il dubbio sopraccennato trova qualche fondamento giustificativo nel primo dei due articoli; ma, sia detto ad onor del vero, il critico evidentemente non intese andar tant’oltre, nè il concetto risultante dall’amplissima lode da lui tributata in ambidue gli articoli all’amico del Giordani, ci permette di dare cosi angusta interpretazione alla lettera, la quale qui, secondo l’antico adagio, verrebbe proprio ad uccidere lo spirito. Dalla lettura complessiva della bella monografia del Clerici, si desume in modo indubbio che l’opera dello scrittore piacentino non fu, verso il Cabella, maggiore nè diversa da quella che egli prestò al Leopardi e ad altri sommi dei quali aveva ammirato l’ingegno e divinata la futura grandezza; opera, intendo dire, di amico confortatore ed eccitatore alla speranza e alla fede, in quei momenti di sconforto e di deliquio morale cbe sono tanto più frequenti nei giovani quanto più potente è il loro ingegno, più elevato l’ideale che li anima, più viva la loro impazienza e più gravi le difficoltà che ne contendono loro il rapido conseguimento. Questo, non altro, o io m’inganno, il significato da darsi alle lodi largheggiate dal Clerici all’opera ausilia-trice del Giordani: chè egli non intese mai negare che il Cabella, come il Leopardi come altri, rifulse di luce propria e fu modello insigne di civili e morali virtù per felice disposizione di natura avvalorata da fermo e cosciente proposito. Valutare in modo esatto quanto abbia potuto l’esempio e il consiglio d’un uomo comunque autorevole sulla volontà e la vita di un altro uomo, è difficoltà presso che insuperabile. Ciò che si può affermare senza tema d’errore si è che la virtù di un’anima sovrana è energia non debolezza, è potenza attiva non passiva, è attitudine a imprimere nel mondo esterno il suggello della propria volontà, non a ricevere quello dell’altrui. E che tale fosse il Cabella è prova quella crisi di drammatico spasimo cui la córta vista del Giordani talora giudicò debolezza e anemia morale, laddove è do-eumento sicurissimo di forza, essendo quello il gemito generoso dell’atleta che vede •ondannati i suoi muscoli d’acciaio a vani e infruttuosi conati contro la onnipotenza fatale del suo misterioso avversario. La psiche umana si educa, si plasma, si matura con l’insegnamento, la disciplina e l’esperienza degli uomini e delle cose, nessuno ne dubita; e quindi gli uomini saggi, gli amici e i loro consigli possono avere una maggiore o minore influenza sulle sorti morali di un individuo a seconda della maggiore o minore duttilità e suscettività educativa del consigliato, e della maggiore o minore energia efficiente del consigliere: ma le esortazioni più eloquenti, gli stimoli più acuti e, dirò pure, gli aiuti più potenti tentano opera vana là dove a risponder la materia è sorda e inetta a sentirli; e il Foscolo, sentenziando che « a egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti », ci aveva già avvisati che si sveglia un vivo non un morto e che non vi sono empia-stri capaci a sanare una gamba di legno. Di conseguenza chi non sorride alla puerile ingenuità di chi attribuisce la lode o il biasimo dell’indirizzo morale e degli atti solenni dei grandi personaggi storici alle insinuazioni di terzi, come all’opera di due frati la conversione alla fede cattolica del Manzoni, al consiglio degli amici il suo se-«ondo matrimonio colla vedova Stampa; alle suggestioni del Giordani la filosofia ni- 87 ohilista del Leopardi? Che uomini grandi sarebbero questi, se in negozi di così supremo momento la loro volontà fosse stata alla mercé di uomini tanto a loro inferiori? Que ste considerazioni a cui mi ha tratto la lettera di rettifica del eh. avv. Edoardo Ca bella, si trovano implicite nel contesto e nel significato complessivo degli articoli del prof. Clerici, dove le lodi meravigliosa sinceramente profuse al Cabella dallo stupito Giordani sono dimostrate veridiche con la menzione dei fatti più luminosi della vita del lodato. Infatti se il giovane avvocato genovese non si fosse dimostrato già sicuro possessore di grandi e solide virtù e di spiriti liberi, patriottici e umanitari, come avrebbe potuto accendere tanta ammirazione e amore nel forte scrittor piacentino? E questi, donde avrebbe tratto argomento per preconizzarne l’altezza dell’ ingegno e l’eccellenza dell’animo e profetizzarne i meriti futuri? Anzi, se dai tratti delle lettere ortatorie del Giordani, riferite dal Clerici, e da quelli che ho sopra recati una verità ha.da desumersi, essa è quella che non solo non vi fu mai tempo in cui il giovane Cabella dimostrasse mal fermo proposito o accennasse a cadere o avesse bisogno di reggitore o tutore che lo sostenesse e correggesse, come da qualche frase del Clerici potrebbe forse intendersi, ma che i dolori e le angosce onde per parecchi anni fu travagliato e di cui lo consolò il Giordani, son di sì nobile e- generosa natura da costituire per lui un documento d’onore, com’è degno d’onore il soldato che nella pugna strenuamente combattuta ha meritato il lauro della vittoria. Questi drammi intimi s’agitano nel fondo dell’anima dei soli valorosi destinati a uscir di schiera; si agitarono più o meno violenti, secondo la varia tempra dell’anima, nell’Alfieri, nel Foscolo, nel Manzoni, nel Leopardi, nel Mazzini, ed era di ciò convinto anche il consolator Giordani quando il 16 aprile 1833 gli scriveva: • Non s’avvilisca per quelle prostrazioni di spirito che talora vengono e verranno ancora: ma pensi che appunto son segno di animo elevato sopra il comune >. Questo visto e stabilito, non per ciò l’opera consolatoria del Giordani può dirsi meno benefica e degna di lode e di gratitudine; ove tale non fosse stata, l’amico non ne lo avrebbe mai pregato, nè a tal uopo gli avrebbe mai confidato i suoi intimi dolori. Il Giordani esagerava al suo solito quando scriveva al Gussalli: « Gran piacere ho provato quelle due volte che salvai quella nobile anima (il Cabella) da un naufragio di malinconie orrende e soprumane »; perchè la virtù del nostro giovane era di tal tempra che non temeva naufragi anche se di naufragare talora egli stesso nelle sue malinconie avesse concepito il timore. Dirò di più: il dolor suo germinava da seme si puro e generoso che costituiva per sè stesso la prova più dimostrativa dell’impossibilità dell’immaginato naufragio. Nondimeno non dobbiamo per questo essere ingiusti col Giordani e negargli il merito del valore efficace che ha la parola saggia, amorosa, eloquente di un uomo autorevole e universalmente celebrato, sull’animo afflitto ed abbattuto di un giovane nato alla virtù e alla scienza ma che si trova ancora alle sue prime armi nella dura palestra della vita. Ove con la sua parola non avesse ad altro approdato che a sedare a tempo a tempo i dolori intermittenti della cruenta ferita, come fece, o ad abbreviarne alcun poco il tempo della guarigione, com’è sperabile; egli avrebbe assolto onorevolmente il dovere di buono e pietoso amico e acquistato legittimo titolo non meno alla riconoscenza affettuosa del giovane confortato che al plauso di ogni cuore gentile che ami la bellezza dell’amore e dell’ufficio fraterno. / PARTE SECONDA ETÀ VIRILE I. Suo matrimonio con Clementina Parodi (a. 1845). Del nome ch’egli: ancor giovanissimo, aveva acquistato nel foro, abbiamo già toccato; dal 1837, trentesimo dell’età sua, la sua fama cresce inestimabilmente col crescere della sua meravigliosa operosità. Già il 5 luglio di quest’anno 1837 il conte Gabrio Casati, nome cosi chiaro nella storia del nostro Risorgimento che non è d’uopo illustrarlo al lettore, gli scriveva da Milano affidandogli una causa implicante gravi interessi materiali e morali della propria famiglia e inviandogliene i documenti (1). E non poche carte conservate in famiglia ci dicono che la difesa e il patrocinio delle proprie ragioni e dei proprii interessi a lui, come a valoroso campione, non venivano solo affidati da uomini eminenti ma ancora da opere pie, da grandi ditte commerciali e da insigni municipii. Non perciò è da credere che agevole e fiorita abbia trovata la via primordiale della sua carriera, chè anzi, come ci consta da sue lettere famigliar!, dovette a lungo combattere e fare grandissimi sforzi per vincerne le molte e gravi difficoltà. Il che non ci farà meraviglia ove si pensi ch’egli non aveva la fortuna che han molti, di ereditare dal padre l’ufficio e la clientela legale, ma dovette con gli studi e col sudore acquistarseli negli anni ch’egli ebbe il suo primo e modesto studio in Piazzetta Serra n. 5. S’aggiungeva il carattere dignitoso e schivo di piegarsi a supplicazioni e genuflessioni; s’aggiungeva l’aperta professione dei suoi liberi principii in fatto di religione e di politica che nella Genova di quei tempi gli alienavano l'animo di una gran parte delle persone più agiate e titolate. Una delle più grandi soddisfazioni di cui egli nella sua modestia diceva di compiacersi, era quella di dover unicamente a se stesso tutto quel (1) La lettura si conserva tra 1# eart» del piccolo archivio domestico. 92 poco ch’egli era; pari in questo ai massimi che furono tutti fabbri della propria fortuna. Il lavoro intenso e continuo era, come già s’è detto, una impellente necessità della sua alacre natura; lavoro che gli s’andava alleggerendo via via che con l’età più virile e matura gli s’andava consolidando la complessione e che con la pratica quotidiana gli si rendeva più agevole e famigliare. Che se talora per l’eccesso della fatica se ne sentiva indebolite le forze del corpo, lo rianimava la coscienza di rendere utile servigio, non meno che a’ suoi clienti, al principio della giustizia e di provvedere onoratamente alla vita sua e de’ suoi cari; e in ogni modo trovava sempre nell’opera indefessa il farmaco più sicuro contro i mali e le malinconie dello spirito. L’anno 1845, dell’età sua trentesimosettimo, impalmò la figlia dell’illustre suo zio materno, padrino e maestro prof. Cesare Parodi, Clementina, « donna, dice il Bensa, di esemplare virtù, che gli fu compagna amatissima e amorosissima finch’ei visse ». Nuovi legami, nuovi doveri, che a lui, cuore affettuoso e d’ogni suo dovere osservantissimo, anziché ceppi o catene, riuscivano nuove fonti di amore e di conforto; Famiglia (lell’Avv. Prof. CESARE PARODI GIUSEPPE PARODI Avv. Prof. Cesare con Anna Pedemonte 1 Carolina in Carosio 2 Federico 3 Tito 4 Emilia 5 Clotilde in Caffarena 6 Elena Vittoria Lorenzo in con Giovami Cabella Lauretta Ricci (cfr. p. 14) -I 7 Augusto 8 Edoardo 9 Clementina in Ces. Cabella 10 Giulia in Garibaldi (nata da un 2° matrimonio con Rosa La-vagnino) 1 Cesare ingegnere sposò Francesca Cabella (la Cecchina del Giordani) 2 Luigia in Bonino 3 Dionisia in Viani 4 Laura in Saredo Parodi La famiglia che da via S. Matteo, dove Cesare nacque, s’era trasferita in Piazza del Carmine, nella casa prospiciente la facciata della 93 Chiesa, nel 1845 cioè nell’occasione del matrimonio di Cesare, passò ad abitare in Salita Poliamoli n. 12, luogo più centrale e a due passi dal Tribunale. Vivevano con lui la mamma, i fratelli Luigi e Federico che di poi, cresciuta la sua famiglia, si divisero per far casa da sè, e la sorella Rosa rimasta fanciulla sino alla fine. Dei molti altri fratelli e sorelle parte aveva diviso da lui il matrimonio, parte la morte. II. Italia e Genova nel 1845 e 1846. Siamo al 1845; i tempi son maturi; spunta la vigilia della festa italica. L’ardore di libertà e di popolari franchigie aveva scosso e scoteva tutti i popoli europei che si avviavano sicuri a vita più ampiamente razionale e civile. L’Italia risentiva la scossa. Le cospirazioni, le insurrezioni, le carceri, gli esilii, i supplizi erano fenomeni di un movimento nuovo che da anni s’andava fatalmente compiendo. Gli scritti del Mazzini, del Balbo, del Durando, del Torelli, del d’À-zeglio, del Guerrazzi e d’altri molti, soprattutto l’eloquenza filosofica del Gioberti, avevano acceso in Italia un fuoco che non poteva più spegnersi. Il Manzoni, il Leopardi, il Berchet, il Rossetti, il Nic-colini, il Giusti, avevano reso poetica e ideale come un sospiro d’amore, l’aspirazione alla libertà, e l’umile racconto delle rassegnate sofferenze del Pellico nelle prigioni austriache, penetrando profondo nell’intimo santuario della famiglia italiana come libro di cristiana pietà, vi aveva gettato le radici di un odio che nessun tempo varrà mai più ad estirpare. La parte eletta e cosciente del popolo e del patriziato italiana era una e concorde nel volere la libertà e la cacciata degli stranieri. Carlo Alberto avverti finalmente i tempi nuovi, capì che l’ora ultima dei principati dispotici era suonata. Sperimentato vano e odioso il regime del rigore, vide che la sua monarchia non poteva reggersi più oltre a lungo ove non trovasse più solido fondamento nel senno e nell’amore del popolo; vide che a conquistare quest’amore egli era ancora in tempo con la riforma larga e liberale di tutte le istituzioni civili; e perchè fino al gennaio del 1848 visse convinto nemico della costituzione, ch’egli riputava perniciosa alla quiete degli stati e pericolosa ai troni, pensò di ovviarne alla necessità e spegnerne il desiderio ne’ suoi popoli coll’istituire corpi consulenti tem-peratori dei poteri esecutivi; vide infine che il rinnovamento del Regno Sardo riuscirebbe uh guanto di sfida lanciato all’Austria e il primo appello ai popoli d’Italia a stringersi in un sol volere sotto 94 la bandiera sabauda contro l'eterno nemico; vide che dell’unificazio-ne italiana egli avrebbe potuto assumere la direzione e infine, dell’Italia unita, come premio meritato, la temperata sovranità. La inattesa risoluzione di re Carlo Alberto di metter mano a una politica francamente italiana e patriottica per la quale si diceva pronto a dar la vita sua e de' suoi figli, da lui rivelata nel 1845 a Massimo d’Azeglio e ad altri uomini di stato, si diffuse rapidamente e suscitò in Piemonte e nella Liguria un entusiasmo che andò sempre crescendo via via che il pensiero sovrano vedevasi tradotto quasi ogni giorno in provvide istituzioni, in benefiche riforme, in leggi più rispondenti ai nuovi bisogni e più consone al progredito sentimento civile. Il pensiero dei savi si volse principalmente a sollevare le condizioni morali ed economiche del popolo che volevano render maturo al reggimento politico di sè stesso. Onde presero nuovo impulso gli studi intesi a fornire le classi lavoratrici di quelle benefiche istituzioni che in Italia non avevano per anco attecchito per l’ostilità di governi retrivi e sospettosi e di quella compagnia che da Gesù prese il nome ma che di Cristo, teste la storia, disconobbe troppo spesso lo spirito, cioè asili infantili, scuole popolari diurne e serali, società operaie, casse di risparmio, consorzi agrari e simili, che indi a poco dovevano dar frutti fecondi. Ma l’anno che per Genova nostra parve segnare l’inizio della sua risurrezione al cospetto del mondo fu il 1846. In quest’anno all’esultanza e alle inebrianti speranze suscitate nei petti italiani dai nuovi atti politici del nuovo Pontefice, si aggiungevano pei Genovesi ragioni particolari di domestica gioia e di patriottico orgoglio. La cassa di Risparmio, approvata con decreto Reale 18 Marzo e aperta al pubblico il 4 Luglio, era un benefizio per la nostra popolazione che vedeva da quella custodito e accresciuto il risparmiato frutto delle sue fatiche. Lo stabilimento Gio. Ansaldo, sorto quest’anno da modesti principi nell’attigua Sampierdarena e sorretto nelle sue prime difficoltà dal nostro Carlo Bombrini, era destinato a rappresentare in Italia e all’estero l’industria navale genovese (1). In questo stesso anno il detto Carlo Bombrini in servizio della finanza e del commercio fonda la Banca di Genova la quale poi, fusasi con quella di Torino, diventò Banca Sarda e in fine Banca Nazionale del Regno d’Italia. (1) L'ing. Giovanni Ansaldo fondatore e direttore del fortunato opificio fu professore di Matematica alla nostra Università e morì il 29 aprii* 1860. 95 Nello -stesso 1846 prendono vita e funzione le tre Società scientifiche fondate a Genova l’anno innanzi dal march. Camillo Palla vicino e approvate dal Re, la la di Storia, Archeologia e Geografia; la 2a di Scienze mediche, fisiche e naturali; la 3a economica, di Manifatture e Commercio. Si aprono anche in quest’anno le prime Scuole Serali Tecniche per gli adulti con due cattedre, una di Chimica, l’altra di Meccanica applicate alle arti. Nuovo incremento prendono gli Asili infantili fondati tra noi nel 1840. E nuovo incremento la pubblica carità perchè, a tacere d’altre pie istituzioni, in quest’anno si trapiantò in Genova un ramo di quella Società di S. Vincenzo di Paola che, fondata a Parigi nel 1833 da giovani studenti e non per anco sospetta di tendenze politiche, si propagava rapidamente in tutto il mondo a sovvenire i bisogni del povero. L’ottavo Congresso degli Scienziati italiani tenutosi nella nostra patria dal 14 al 29 settembre, rifulse di luce massima fra quanti prima e dopo se ne adunarono in Italia così pel numero e l’altezza delle menti che quivi convennero ad onorar Genova e la scienza italiana come pel forte sentimento nazionale che lo ispirò. Lo presiedeva e ne leggeva l’inaugurale orazione Antonio Brignole Sale; n’era Segretario generale il march. Avv. Francesco Pallavicino. Dirigeva i lavori di Geologia e Mineralogia il march. Lorenzo Pareto geologo di fama europea e detto a ragione da F. Pallavicino astro dei congressi italiani (1). L’agronomia eleggeva a suo capo Raffaele Lambru-schini, onore di Genova sua patria e di Firenze sua stanza. Luciano Bonaparte principe di Canino nella prima adunanza comunicava tra l’entusiasmo generale la protezione accordata a questo Congresso dal novello Pontefice Pio IX. Era per Genova nostra spettacolo nuovo e meraviglioso il veder raccolto nelle sue mura, come in domicilio di fraterna libertà, quanto di più raro e di più potente si ammirava nel sapere e nel volere italiano. Senza citare il nome dei nostri chiari cittadini che nel Congresso seppero sostenere onorevolmente il paragone dei dotti ospitati, (valga per tutti il nome di Massimiliano Spinola principe dei naturalisti entomologi italiani) vivevano in quei giorni con noi in qualità di legati i più eminenti futuri statisti quali un Massimo d’Azeglio di Torino, un Luigi Carlo Farini di Ravenna, un Luigi Cibrario di To- (1) L’illustre geologo prof. Arturo Issel mi diceva testé che certe nuove interpretazioni dal Pareto esibite, e a’ suoi tempi giudicate ardite e ipotetiche, oggi han preso nella scienza geologica consistenza di dogmatiche verità. 96 rino, un Giacinto Provana di Collegllo torinese, un Marco Minghetti di Bologna, un Terenzio Mamiani di Pesaro; geniali poeti quali il medesimo Mamiani, Francesco Dall’Ongaro e Antonio Gazzoletti di Trieste, Felice Romani genovese vivente a Torino, Antonio Guada-gnoli d’Arezzo; i più benemeriti educatori quali Ferrante Aporti di Cremona, Raffaele Lambruschini genovese, vivente a Firenze, Vincenzo Troya di Magliano d'Alba; riputati scrittori politici quali Fr. Predari di Como, Lorenzo Valerio di Torino, Cesare Correnti di Milano, lo storico Cesare Cantù da Brivio; il prof. F. Orioli di Viterbo, portento di versatile ingegno e sommo archeologo e grande patriota; l’archeologo Giuseppe Fiorelli di Napoli; uomini elevati per grado di signoria e di dottrina come il duca Melzi d’Eril di Milano e Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino di Roma; i filologi ab. Giuseppe Manuz-zi di Cesena e Gaspare Gorresio di Mondovì; i poderosi matematici, benché ancor molto giovani, Francesco Brioscia di Milano e Federico Menabrea di Chambery; Maurizio Bufalini di Cesena, celebrato medico e scrittore; Pasquale Stanislao Mancini di Napoli, famoso legista e giureconsulto; Adriano Balbi di Venezia, rinomato geografo; Alberto Nota di Torino, acclamato commediografo; il saggio maestro di bello scrivere Luigi Fornaciari avvocato di Lucca; l’avv. Vincenzo Salva-gnoli di Corniola (Empoli) e l’avv. Ferdinando Maestri di Parma oratori e patrioti; il prof. Mariano D’Ayala di Messina; il lev. Guglielmo Audisio di Bra; i quali tutti o quasi tutti nelle fortunose vicende del 1848 e degli anni seguenti dovevano in varia guisa levare alto grido di sè. Ho nominato pochi dei molti italiani qui concorsi tacendo di dotti stranieri e di quegli altri molti illustri nostrani che accorsero come privati spettatori al banchetto dell’umano sapere e dell’italico risorgimento. Mancavano al festivo convegno Mazzini, Agostino e Giovanni Ruffini perchè, come il Gioberti ed altri, battevano tuttora le vie dell’esilio; ma in veste di legato mantovano vi fortificava l’idea del sacrificio di sè stesso alla patria, un modesto ma eroico sacerdote, il prof. Enrico Tazzoli che sei anni dopo, vittima austriaca, incontrava morte gloriosa sugli spaldi di Belfiore. Tra gli ecclesiastici stranieri nominerò quel Felice Antonio Filiberto Dupanloup, abate savoiardo, più tardi vescovo di Orléans che doveva riempire del suo nome tutto l’orbe cattolico. Magnifiche, onorevoli e fraterne in sommo grado furono le ospitali accoglienze fatte da Genova al fiore dell’italica sapienza (1). (1) Non va taciuto che per togliere dalle vie cittadine l’ingrata vista e la molestia dei pezzenti accattoni, l’Amministrazione comunale provvide perchè essi fossero per 97 Alla sua ammirazione fu esposto tutto ciò che di bello e di raro per arte e per natura racchiude la nostra città. Il palazzo dell’Università, nelle sue aule e nella sua suppellettile signorilmente dal Municipio restaurato e abbellito, fu offerto alle adunanze delle Sezioni. L’Accademia ligustica, ogni stabilimento scientifico, ogni istituto di carità fu aperto ai dotti, e una ricca Esposizione industriale ed agricola fece loro testimonianza dell’operosità del popolo ligure. Cura precipua dei maggiorenti nostri fu quella di.condurre gli ospiti illustri a visitare i monumenti delle avite nostre libertà, tra i quali il marmo di Portoria memorante che il popolo genovese, primo in Italia, già da un secolo aveva dato esempio di saper gloriosamente operare quella cacciata del-l’odiato austriaco che un secolo dopo attendeva ancora di essere rinnovata dall’eroismo dei Milanesi e dei Bresciani. Ma un avvenimento che commovendo profondamente l’anima dei nostri padri, auspicò nella celebrazione della passata gloria genovese la futura gloria d’Italia, fu l’inaugurazione solenne del monumento a C. Colombo di cui allora si posero le fondamenta e che ebbe poi compimento nel 1864. Da tempo Genova pensava a sciogliere il debito di gratitudine contratto da secoli con l'Uomo che onorando di sua sovrumana virtù tutto l’umano genere, l’aveva resa oggetto di invidia e di ammirazione a tutti i popoli civili. E il 27 settembre i dotti del Congresso e tutta la parte eletta di Genova era in piazza Acquaverde, dove Lorenzo Pareto, delle memorie patrie e colombiane cultore zelantissimo, aperse la festiva funzione dicendo le lodi e celebrando le gesta del nostro massimo concittadino. Fu una festa genovese e insieme italiana indimenticabile. Con l’Amministrazione civica gareggiarono i privati a rendere agli ospiti illustri lieto e memorabile per sempre il loro soggiorno tra noi. Lasciando la festa ufficiale a cui li invitò nel suo palazzo S. E. il Governatore march. Paulucci, il nostro Antonio Brignole-Sale, grande Ambasciatore del piccolo Re, come l’appellavano i parigini, modesto e gentile li accoglieva nel suo meraviglioso palazzo Rosso di Via Nuova a conversazione, a festa, a convito. Il Duca di Galliera march. Raffaele De Ferrari, suo genero, partiva a posta da Parigi per sostenere in tanto momento l’onore della sua Genova e aprire le aule dorate de’ suoi lari principeschi a ricreazioni, a sim- quel tempo tutti ricoverati nel grand’jifóertfo dei Poveri, e che per savia previdenza della stessa Amministrazione i forastieri convenuti a Genova, quantunque in numero Straordinario, trovarono tutti pronto e decoroso alloggio. 98 posii pari al suo amor patrio e alle sue enormi ricchezze. Quali magnificenze ospitali non ispiegarono ad onore della congregata italica sapienza le case D’Oria, Spinola, Pallavicini, Balbi, Serra! Il superbo palazzo, sorgente tra le fiorite verzure dell incantevole villa delle Peschiere, già costruito per servir d’asilo alla crudele tirannide di Oliviero Cromwell, fu converso dalla munificenza del march. F. Pallavicino, segretario generale del Congresso, in risplendente albergo di signorili mense, dove la quotidiana letizia convivale offriva ai dotti d’Italia opportuna occasione di viemeglio ragionare e intendersi e accordare le menti e i cuori alla prossima attuazione delle comuni speranze. Tale fu la vigilanza e la gentilezza dei civici magistrati, tale l’ordine e l’eleganza del servizio, tale la eccellenza delle imbandigioni, tante ìe cure all’uopo prodigate da tutti i nostri, che i 400 ospiti illustri che nei 17 giorni di quel settembre godettero di quella cortesia, per lunghi anni, parlando e scrivendo, decantarono, come cosa mai più vista nè prima nè poi, la signoria del cittadino genovese. Il Casino di Società e Ricreazione offriva le sue sale dove i Deputati al Congresso, dopo le fatiche intellettuali del giorno, convenivano la sera a geniale riposo e dove si raffermavano antiche amicizie, di nuove se ne componevano avvivate dalla grazia presente di colte e amabili gentildonne (1). Nè venne meno alle sue antiche .tradizioni la generosa cordialità della donna genovese. Clelia Serra nata Durazzo nel suo storico palazzo promoveva splendide danze a favore degli Asili d’infanzia; tre altre nobili dame e insieme elette musi-ciste davano concerti accademici di musica vocale e istrumentale a beneficio delle famiglie toscane alle quali il terremoto aveva ingoiato sostanze, cose, congiunti. Altre raccoglievano tra loro una somma cospicua a premiare quelle lavoratrici che nell’arte della composizione dei fiori avessero meritato maggior lode (2). Era una gara d’amore, di patriotismo preludente alla festa della fraternità ed unità italiana. Uno dei più memorandi ospitatori dei dotti fu il march. Gian Carlo Di Negro il quale, accogliendo con quella squisita cortesia onde andava già famoso in Europa, avrebbe potuto vantarsi, se meno modesto, d’aver preceduto di molti anni l’opera patriottica dei Congressi scienziati ospitando nel paradiso della sua aerea Villetta e affratellando tra loro i sommi intelletti italiani. Il 29 settembre il Congresso si chiudeva con quest’ultimo saluto (1) Il Casino aveva sede nello splendido palazzo Parodi in Via Nuova oggi Garibaldi. (2) Relazione del march. F. Pallavicino, Segretario generale, letta nell’adunanza finale del 29 sett. 1846, 99 di commiato volto ai dotti dal nostro Pareto: « Tornando ai vostri concittadini dite loro che i Genovesi son pronti ». Onde se esagera il Bersezio dicendo che nel Congresso « più che di scienza si parlò di patriotiche aspirazioni, > ben a ragione il Predari nella sua Antologia chiamava il solenne convegno primo vero Parlamento politico in Italia, e il Mamiani nell’orazione funebre di re Carlo Alberto affermava che « la radunanza accademica di Genova parve tramutarsi in politica, e che l’Italia udì da essa la voce congiunta e concorde di tutti i suoi figli ». Non proprio voce concorde di tutti perchè qualche ingrata dissonanza non mancò di farsi udire da parte di chi rappresentava il' Governo al Congresso. Il 23 settembre il p. somasco prof. G. B. Giuliani della Sezione di Archeologia, tenendo un patriottico ed applaudito discorso intorno ad un suo nuovo commento della Divina Commedia Dante spiegato con Dante, venuto a parlare del concetto politico del sommo poeta ed accennando ai tempi nostri, affermò che « nessun italiano avrebbe ormai chiamato un Alberto tedesco ad inforcare gli arcioni d’Italia quando si aveva un Alberto italiano ». Sorge allora il cav. Alberto Ferrerò della Marmora, Commissario regio, « protestando che non compete alla Sezione di Archeologia di occuparsi di tali argomenti ch’egli considera contrarii allo spirito dei Regolamenti e dannosi all’esistenza dello’stesso Congresso ». Parole accolte da segni di generale disapprovazione. Serafino D’Altemps, romano, prende la parola per osservare che per sentenza dell’Accademia di Roma si considera soggetto di scienza archeologica tutto ciò che dalla remota antichità giunge fino al secolo XV. L’opinione del Della Marmora è respinta a grande maggioranza (I). Per cura dell’Amministrazione municipale prima della chiusura fu donata ai singoli membri del Congresso una grande medaglia commemorativa con impressa l’effigie di C. Colombo, d’argento o di rame secondo il loro grado; più una copia della splendida edizione in 8 volu- (1) Cfr. Atti della ottava riunione degli Scienziati italiani; Genova, Ferrando, 1847. Giustizia vuole che si aggiunga avere il R. Commissario approvato poi privatamente ciò che in pubblico Congresso aveva disapprovato per dovere d’ufficio. Cfr. G. B. Giuliani, Commemorazione di F. M. Parodi, Genova, Ciminago, 1884. — Alberto La Marmora, geologo e archeologo insigne, è autore di due opere memorabili sulla Sardegna: Viaggio e Itinerario, pubblicate dal 1837 al 1860, anno della sua morte; ed era fratello di Alessandro istitutore del Corpo Bersaglieri, e di quell’Alfonso La Marmora che nel marzo del 1849 doveva venire a Genova R. Commissario per vigilarvi ben altro congresso. 100 mi della Descrizione di Genova e del Genovesato, opera collettiva dei migliori ingegni di Genova e Liguria. Nelle materie scientifiche da discutersi nel Congresso non trovando luogo nè la legge nè la politica, argomenti pericolosi, il nostro Cabella ne fece parte come addetto alla Sezione di Agronomia o, come è detto nell’elenco dei Deputati al Congresso, in qualità di membro della Commissione permanente per lo studio del Credito agrario italiano, deputato del VII Congresso per riferire ai futuri Congressi. Egli infatti profittando delle ferie forensi, nel settembre del 1845 s’era recato al Congresso di Napoli sia per amor di coltura sia per salutarvi amici politici sia per ispedirvi qualche pratica legale e perchè, fidanzatosi alla cugina Clementina Parodi, doveva, nella sua digressione a Roma, sollecitare la dispensa matrimoniale dall’autorità ecclesiastica. Curiose le seguenti notizie che togliamo dalle sue lettere alla fidanzata. « Napoli, 22 settembre 1845. » ..... Ho trovati i Genovesi che sono in Napoli, l’avv. Accame, il causidico Pittaluga, la Sig.a Bianca Rebisso e suo marito, Parodi il maestro, l’assessore Crocco. Federici era già partito per Roma. Alle tre andai al pranzo degli Scienziati; poi al passeggio coll’avv. Maestri di Parma e con altri Scienziati; poi verso le nove alla grande riunione o conversazione degli Scienziati nel palazzo di Cellamare: e verso le dieci e mezzo tornai a casa ». « 23 settembre. » ..... Questa mattina intervenni di nuovo al Congresso. Oh che Scienziati! A riserva di pochi, tutti gli altri lo sono all’incirca quanto lo sono io. Pensa che roba. Il numero è di 1475! e non vi sono ancor tutti ! » « 27 settembre, sabato. ■ » ..... Andai alla Sezione di Agronomia: poi a quella di Geologia, dove Pareto fece un bel rapporto sopra un’escursione fatta al Vesuvio dalla Commissione a ciò delegata...... Domani gli Scienziati vanno al Vesuvio per inaugurarvi un osservatorio meteorologico nuovamente costrutto ai piedi del gran cono. Io non ci vado. Martedì si fa l’inaugurazione di una statua, la statua della Religione, al Cam- 101 posanto. E poi in tutta la settimana, e ogni giorno, vi sono feste e funzioni o d’una qualità o d’un’altra, che certo faranno tutte progredir molto le scienze ». « Domenica, 5 ottobre. » ... Stamattina vi fu la solenne chiusura del Congresso. Figurati un’immensa sala, circondata da scaffali elegantissimi ripieni di minerali (guarda dove hanno collocato gli Scienziati! tra i minerali!) e sopra gli scaffali un'elegantissima galleria. La sala piena di 1600 Scienziati! La galleria piena di eleganti signore. Il segretario generale del Congresso fece prima il suo rapporto, nel quale disse molte belle cose, e fra le altre quella che il Congresso ebbe le stesse guardie del Re ! Poi otto segretari di altrettante Sezioni del Congresso fecero i rapporti dell’operato della loro Sezione: finalmente il presidente generale fece il suo discorso di chiusura. Parlò il primo: applausi; parlò il secondo: applausi; parlarono il terzo, il quarto, il quinto, il sesto, il settimo, l’ottavo, il nono: applausi a tutti; parlò l’ultimo: applausi; chi parlò bene, applausi; chi parlò male, applausi; chi disse qualche buona idea, applausi; chi infilzò delle grandi castronerie, applausi; l’uno diceva sì, applausi; l’altro diceva no, applausi; applausi a tutti, applausi in cima, applausi in fondo, applausi sempre, e sempre applausi. T’assicuro che fui tentato di parlare anch’io, per prendere anche la mia parte di applausi, che non mi sarebbero mancati..... Ma, a proposito; da scienziato per burla, son diventato scienziato sul serio. Sai tu che son stato nominato membro d’una Commissione destinata a riferire, nel futuro Congresso di Genova, sullo stato della legislazione ipotecaria, e della condizione economica del Piemonte, e per suggerire le basi dell’istituzione del credito agrario? » Non ci consta però in modo veruno ch’egli poi al nostro Congresso abbia riferito sui temi assegnatigli a Napoli. III. Genova nell’anno delle Riforme. Nel settembre del 1847 grande era in Genova il ribollimento degli animi suscitato dagli avvenimenti politici che agitavano tutta l’Italia e dalle vive speranze delle grandi libertà che s’aspettavano da Re Carlo Alberto. Erano giorni di trepidazione, d’impazienza, di fremiti; si presentiva prossima la guerra all’Austria e la liberazione d’Italia. Il march. Giorgio Doria che, sprovvisto di meriti letterarii /■ 102 e scientifici, per gloria di nome, per liberalità di sentimenti nazionali, per franchezza di carattere, per sicurezza di senso pratico godeva di un’aatorità incontestata sul popolo e sulla nobiltà genovese, accoglieva a libera consulta nel suo palazzo di Via Nuova (oggi Garibaldi) n. 6 quanti a Genova eccellevano per senno civile e amor di patria. Cosi nel settembre del 1817 si era formata sotto la sua ospitale presidenza una Società di eletti ingegni e di valorose volontà intese e concordi a spingere con ogni giusto mezzo il legittimo governo ad attuare tutte le riforme e a prendere tutte le deliberazioni necessarie al bene dello stato e alla causa della redenzione italiana; ma non meno ferme e risolute a far valere il loro grado, la loro parola, il loro esempio a che le riforme e le franchigie, sulla via delle quali il principe era coraggiosamente entrato, non corressero pericolo d’essere, per pubblici disordini, ritardate o rivocate. E perchè gli assembramenti e le dimostrazioni popolari, o per ignoranza di plebe sfrenata o per astuzia di partiti estremi, degenerano spesso in tumulti e sedizioni, ed erano lo spavento del governo di Torino e in parcicolar modo del Re, la Società s’impose l’obbligo di dirigere e moderare ogni moto del nostro popolo e di opporsi a tutto ciò che potesse comunque turbare l’ordine pubblico. Questa Società o Associazione, che dal fine a cui mirava fu detta deir Ordine, e non aveva altro Statuto o Regolamento che un sincero e concorde amore della patria libertà, e raggiungeva in pochi giorni il numero di circa 185 tra soci e frequentatori, fu realmente benemerita della quiete cittadina fino a che non furono in vigore le nuove leggi di polizia e con lo Statuto non fu istituita la Guardia Nazionale. Con l’approvazione dell’autorità politica ai primi di novembre si erano istituite nel suo seno le compagnie dei Vigili che nottetempo facevano la ronda perlustrando i diversi quartieri della nostra città e con prudenti maniere impedivano disordini e sedavano clamori: vegliavano l’opera di queste squadre o compagnie Ispettori eletti tra i soci più autorevoli (1). A questa Società apparteneva e vi godeva alta e meritata autorità il nostro Cabella che al patriottico intento contribuiva quanto aveva di forze e d’ingegno. Questa Società costituiva come il nucleo centrale del grande partito riformista nazionale, a cui in Genova aderivano persone di (1) Cfr. A. Neri, op. cit. pag. 74 (407) e 85 (406). — Confortevole il vedere uomini, di sentimenti e condizione diversi, sacrificare a un sol fine il riposo e cimentarsi a pericoli: tra gl'ispettori G. Balbi Pioverà e Felice Denegri; tra i Capi squadra Carlo Durazzo, S. L. Pallavicino; G. B. Cevasco, Giacomo Balbi, Antonio Gianuè, Enrico Noli, Stefano D'Aste, Giovanni Pellas, G. B. Ferrando, P. Pizzorni, Luigi Farina ed altri. 103 ogni ordine cittadino e di ogni liberale fede politica. Come in altre città anche in Genova, è giustizia il rilevarlo, ottimamente meritò della pareggiatrice libertà il ceto patrizio, non ostanti i privilegi e 4e preminenze di cui per essa veniva a spogliarsi. Poderoso commilitone del Doria nell’opera nazionale era il march. Lorenzo Pareto, forte carattere, fervido patriota, il march. Vincenzo Ricci già magistrato, spirito ardente d’amore non meno genovese che italiano, vita integra e pura, amico intimo indivisibile del Pareto; seguivano i marchesi Giacomo Balbi Pioverà, G. B, Cambiaso, Francesco e Camillo Pallavicini, Orso Serra, Pietro Monticelli, Damiano Sauli, Francesco Maria Sauli, Giovanni Ricci fratello di Vincenzo, Damaso Pareto, G. B. Raggi, Giuseppe Cataldi, Tomaso Spinola, Massimiliano Spinola e l’omonimo figlio, Gian Carlo Di Negro, Antonio Rovereto, ed altri. Tra gli avvocati primeggiavano: Nicolò Gervasoni, Lodovico Casanova, Clemente Antonio Mongiardini, Francesco Figari, Cesare Parodi, Giuseppe Morro, Antonio Caveri, Fabio Accame, Pietro Torre, Maurizio Bensa, Nicola Magioncalda, Domenico Boccardo, Angelo e Luigi Leveroni, Cesare Leopoldo Bixio, Tito Orsini, Giuseppe Carcassi, Nicolò Federici, Paolo Farina, Domenico De Ferrari, Domenico Buffa, Antonio Costa. Nel ceto letterario laico: Antonio Crocco, Giuseppe Cazzino, Federico Alizeri, Michel Giuseppe Canale, Giovanni Antonio Papa, Giulio Rezasco, Ferdinando Pio Rosellini, Vincenzo Troya, Vincenzo Garelli, David Chiossone, Ippolito D’Aste e, più giovane di tutti, il diciannovenne Gerolamo Boccardo. Nel ceto letterario ecclesiastico: Vincenzo Fortunato Marchese, Giuseppe Gando, G. B. Cereseto, Nicolò Giuliani, Luigi Boselli, Angelo Costa, G. Battista Giuliani, Fortunato Ciocca, Francesco Pizzorno, Francesco Poggi, Giuseppe Olivieri, e, in generale, il clero più illuminato e cristiano secondava e promoveva nelle diverse classi del popolo la fede nei destini della nuova Italia. Maggioreggiavano per censo, autorità o altri titoli: Domenico Elena, Antonio Profumo, Filippo Penco, Marco Massone, Sebastiano Balduino, Carlo Bombrini, Raffaele Rubattino, Michele Canzio, G. B. Cevasco, Santo Varai, Celestino Foppiani. Tra i più ardenti di libertà repubblicana si distinguevano Costantino Reta, Nino Bixio, Goffredo Mameli, Antonio Gianuè, Carlo Borzino, Nicolò Accame, G. B. Albertini, Gerolamo Ramorino, Bartolomeo Savi, Federico Weber, e gli avvocati Ottavio Lazotti, Federico Campanella, Giuseppe Carcassi, David Morchio, Emanuele Celesia, - Filippo Bottini. Didaco Pellegrini, Stefano Castagnola. 104 Del gentil sesso primeggiava nell’opera di propaganda nazionale la moglie di Giorgio Doria march. Teresa Durazzo; la coadiuvava la march. Fanny Balbi Pioverà figlia del march. Gian Oarlo Di Negro, e più ancora la signora milanese Bianca Rebizzo Desimoni che stabilitasi in Genova nel 1835 col marito Lazzaro Rebizzo, indi convivendo con Raffaele Rabattino, noto patriota e già dal 1840 fondatore della Società di Navigazione e Assicurazioni marittime, nel 1847 aveva preso alloggio con lui nel palazzo del Doria in via Nuova. Pari nella nobile gara splendeva la march. Teresa Littardi-Sauli. Queste gentildonne nei loro salotti, che, come ben dice il Donaver, erano altrettanti convegni di congiurati della causa liberale e meriterebbero una storia a parte, adunavano quanti egregi cittadini e quanti esuli d’ogni parte- d’Italia qui affluivano, avvicinando gli uni agli altri, eccitando tutti nell’opera di redenzione (1). Ad assicurare la felice riuscita di tanti sforzi il Doria aveva stretto confidenziali rapporti col segretario privato di re Carlo Alberto, conte Cesare Trabucco di Castagneto, e col ministro Salvatore Pes di Villamarina dai quali attingeva sicure notizie intorno agl’intendimenti e ai disegni del Sovrano, e coi quali finche potè procedette di concerto nell’uso dei mezzi conducenti allo scopo, e valendosi della sua grande popolarità tra noi, s’interponeva conciliatore ed interprete tra il governo riformatore e il popolo genovese. Ma il fermento degli animi in tempi così agitati era continuo pericolo di pubbliche commozioni e dava frequente occasione di disordini e di violenze agli sfrenati e ai facinorosi dei partiti sovversivi, contro cui debole ritegno riusciva la buona volontà di assennati cittadini. La Polizia si dimostrava troppo inferiore al suo mandato coercitivo, onde in ogni città d’Italia, e a Genova massimamente, i savi domandavano ai proprii governi che venissero istituite all’uopo milizie cittadine. In Toscana la Guardia urbana aveva reso utili servizi nel 1799, nel ’ 14, nel ’31. I Bolognesi avevano tanto instato presso il governo pontificio che sullo scorcio del 1846 avevano ottenuto di potersi armare; e finalmente il 5 luglio del ’47 questa Guardia era istituita anche a Roma. Torino e Genova e altre città del Regno Sardo a gran voce la reclamavano, ma il Re si mostrava restio a dar le armi in mano al popolo in momenti così difficili e pericolosi. I Comizi agrari piemontesi adunati nel 1847 a congresso in Casal Monferrato, nella solenne tornata del 30 agosto avevano già stesa (1) Cfr. F. Donaveb, Genova nei primi mesi del 1H4H, in Rivista Storica del Risor- % gimento italiano, 1898 fase. II pag. 137. 105 un’istanza al He per la istituzione di questa milizia. Indi a pochi giorni una simile petizione sottoscritta dal card. Placido Maria Ta-dini arcivescovo di Genova e dai Sindaci del Municipio genovese march. Pantaleo Giustiniani e cav. Francesco Ricci, era inviata al Re (1). Col consenso del governatore Paulucci andavano quindi a Torino il 17 settembre i march. Giorgio D’Oria, Giacomo Balbi Pioverà e G. B. Raggi. Ricevuti prima dall’ispettore della Polizia che li pregò a impedire quanto era in loro, dimostrazioni clamorose, furono poscia ammessi all’udienza reale, ma ad uno ad uno per togliere loro ogni colore di deputazione. Primo ammesso il Doria, che con franchezza genovese dimostrò la necessità di una guardia nazionale e della libertà di stampa. Li ascoltò il Re attento e benigno, ma si riserbò di rispondere. Parlarono poi col Villamarina Ministro dell’interno, il quale promise di far loro noto per lettera il pensiero sovrano, che fu questo: « Il re consentirebbe la Guardia civica solo in caso di guerra, ora aver da pensare a riforme amministrative e giudiziarie; quanto alla libertà di stampa doversi andare a rilento e provvedere a impedirne gli abusi » (2). Replicarono i patrizi genovesi, rispettosi ma risoluti, in un ampio Memoriale, dolendosi che la libera stampa, permessa a Roma e a Firenze, dovesse temersi pericolosa nel Regno Sardo (3). La risposta sovrana recò ingrata sorpresa anche a Torino dove si sapeva che i consiglieri della Corona stavano allora studiando la composizione di una legge sulla stampa non dissimile da quella emanata in Toscana. Ed ecco finalmente che la sera del 30 ottobre la Gazzetta Piemontese reca l’annuncio ufficiale delle tanto attese Riforme, tra le quali, con molte restrizioni e cautele, veniva concessa anche la libertà di stampa; di milizia cittadina, migliorati gli ordinamenti di Polizia, nulla si diceva. Non per tanto un vasto sistema di provvide riforme in tutte le istituzioni politiche e civili era stato elargito; i privilegi e le ineguaglianze di classe erano caduti per sempre; i diritti del popolo, se non ancora completamente, largamente riconosciuti. Il Regno Sardo ne fu tutto in festa, tutta Italia applaudì. Effetto immediato della nuova libertà sorsero in Torino, maestri e direttori della pubblica opinione, VAntologia italiana di Fr. Predari, il Risorgimento del Cavour, (1) Nell’antico ordinamento municipale al Corpo decurionale presiedevano due sindaci, uno per la nobiltà, l’altro per la plebe. (2) A. Goni, Storia citila Rivoluzione Hai. durante il periodo delle riforme, sett. 1847. (3) A. Neri, op. cit. pag. 80, (333). 106 la Concordia di Lorenzo Valerio, VOpinione di Giacomo Durando, il Messaggero di Angelo Brofferio; a Genova usciva il 5 gennaio La Lega italiana di Domenico Buffa con prpgramma di Terenzio Mamia-ni, la quale il 18 Maggio assumeva nome di II Pensiero italiano, diretto prima dall’avv. Filippo Bettini poi da Nicolò Accame; il Corriere Mercantile di Giovanni Antonio Papa. Intanto Carlo Alberto, dopo le memorande ovazioni torinesi, il dì 4 novembre, suo onomastico, faceva ingresso nella nostra città, accompagnato da’ suoi due figli e dalla sua corte. E indicibile l’esultanza e il trasporto di festosa riconoscenza con cui i nostri padri accolsero il sovrano che dal dispotico monarca di prima pareva mutato d’un tratto in generosissimo benefattore. Nè vi è parola che basti a descrivere la commozione e le lagrime di tenerezza con cui il nostro buon popolo vide nella sera di quel fausto giorno discendere Carlo Alberto dal suo palazzo e confondersi amichevolmente con la folla dei cittadini, a tutti parlare e a tutti stringer la mano come padre amoroso tra figli diletti. Scaltra politica regia, dicevano i repubblicani; politica savia e generosa, diceva chi ne considerava i benefizi civili (1). Parve allora al Comitato genovese dell’ordine di cogliere la propizia occasione per presentare all’augusto ospite questa nuova istanza sulla milizia civica, firmata per terzo dal Gabella che ne fu l’estensore. (1) Mette conto riferire quel che a tal proposito ci narra il Preclari: testimone del fatto, a pag. 214-15 del libro I primi vagiti della libertà italiana in Piemonte (Milano, Val lardi, 1S61): •..... Nel giorno dell’arrivo, venuta la sera, tutta Genova fu illuminata a festa straordinaria. I cittadini passeggiavano lieti, esultanti, quando improvvisamente si seppe che il re, in onta alla fatica del viaggio, in onta alla sua non ancora ripristinata salute, esciva dal palazzo per vedere l’illuminazione. Allora fu tosto un accorrere qua e là in cerca di torcie, e in poco tempo un incendio di fiaccole circondò per lunghissimo tratto la persona del re, il quale, fra quella sterminata onda del popolo frenetico nella gioia e nei gridi, non era fatto appariscente che pel suo cavallo. Con siffatto corteo quest’uomo, cui si volle far credere ovunque minacciato dal pugnale, percorse per ben due ore le vie di Genova, in braccio, per cosi dire, a’ suoi popoli. Come fu di ritorno sul portico del suo palazzo, già stava per congedarsi dalla moltitudine colla più viva e profonda commozione dipinta sul volto, quando alcuni gagliardi e distinti cittadini si fecero a lui innanzi supplicandolo a concedere ampia, intera amnistia. Egli tutto affabile, ma quasi impacciato, chè l’animo gonfio di sentimenti e soddisfazioni si nuove per lui non gli consentiva nemmeno libera la parola, rispose che « già ci aveva pensato > e la prometteva. — Allora quasi accennando di genuflettersi, parecchi di costoro chiesero baciargli la mano; e avendo il re acconsentito, ne sorse una scena di famiglia, ch’io ho ben potuto vedere qualche volta in casa mia fra miei figliuoli, ma che qui non saprei descrivere. Erano figli che baciavano, stringevano la destra ad un padre amoroso reduce da lungo viaggio a casa dopo essere stato creduto estinto ». 107 « Sacra Reale Maestà, » Il sistema di Riforme annunziato da Y. M. ha riempiuto di gioia tutti i popoli affidati dalla Provvidenza al paterno Vostro Scettro: essi hanno piena e profonda confidenza che tutte saranno ampiamente svolte, e formeranno una nuova Ei’a nella quale saranno congiunti il Principato coll’onesta libertà pubblica. » Ma nelle presenti circostanze il movimento degli animi nelle intiere popolazioni, le esagerazioni e l’urto dei partiti estremi, non possono venire moderati dall’azione privata dei singoli cittadini. Fatale poi potrebbe riuscire il contatto della forza armata col popolo, e far cessare l’imponenza morale di quell’Esercito che è gloria di Y. M. e baluardo di tutte le speranze italiane. » Una guardia cittadina, od in qualunque modo e sotto qualsiasi nome, l’affidare la tutela dell’ordine pubblico ai cittadini medesimi impegnati per dovere ed interesse proprio a mantenerlo, pare indispensabile e mezzo unico di conseguire piena tranquillità senza collisioni, che indebolirebbero la dignità del Governo, e la sua forza morale nell’interno e all’estero. » I sottoscritti devoti all’ordine, e sinceramente affezionati a V. M., supplicano a voler prendere in considerazione l’attuale stato di cose, ed istituire una forza pubblica e cittadina capace di mantenere quella calma senza di cui non può sperarsi forte e libera l’azione del Governo ed il progresso d’istituzioni civili. Giorgio D’Oria G. Balbi Pioverà Cesare Cabella, avvocato Angelo Orsini, medico N. Federici, avvocato » Qual esito abbia sortito l’istanza si argomenta facilmente da questo tratto di lettera del Di Castagneto, allora col Re a Genova, al cav. Maurizio Farina in data 19 nov. 1847: « Si parlava di una supplica al Re per una Guardia nazionale; ed era male, perchè il Re non deve essere violentato e conviene che tutto discenda dalla sua iniziativa. La cosa però non era nemmeno simpatica ai Genovesi, e credo che non se ne farà nulla ». E così fi] (1). (1) Broffebio, Storia del Parlamento subalpino; Voi. I, documenti al c. I. 108 IV. Cabella inneggia alla concessa libertà rii stampa e alla fratellanza Ligure-Piemontese (nov. e die. 1847). La libertà di stampa accordata con le altre riforme, era temperata di provvedimenti restrittivi, primo fra i quali la Revisione censoria provinciale. A Presidente dell’ufficio di Censura genovese era stato eletto il Procurator generale Conte Alessandro Pinelli; e poiché alla Suprema Corte di Cassazione, magistrato istituito con le nuove Riforme, erano pure eletti due nostri chiarissimi concittadini, il cav. sen. Andrea Alvigini, e il prof. Domenico De Ferrari, l’Ordine degli avvocati genovesi, a festeggiare quelle elezioni, volle dar loro il 21 novembre un convito nell’ampio salone à&\Y Hotel de la Ville. Alla presenza dei tre eletti e di cinquantaquattro convitati, tra i quali anche l’avv. cav. Giovanetti di Novara, l’avv. Giuseppe Morchio, che per senno e veneranda canizie presiedeva l’ordine degli avvocati, parlò primo accennando allo scopo del convito e rammentando i preclari giureconsulti genovesi elevati ad alti onori nelle passate età dai principi italiani; parlò secondo il sen. Alvigini; terzo il nostro Cabella con le seguenti parole: « Signori, fra i recenti benefìci che l’ottimo principe ci ha conceduti, grandissimo e principale sarà quello dei vincoli allargati al pensiero. Siano condannati a tremar sempre delle idee, a tener carcerata la ragione coloro che dell’impero non sanno altro che il comandare, ed amano meglio esser serviti con pericolo che obbediti con amore. Ma il Magnanimo che usa il principato come una grande tutela, che in sua parte prende le fatiche e le pene, e lascia ai popoli il godere, perchè temerebbe la libertà del pensiero? Può suonar terribile il grido de’ servi, ma sempre dolce è la voce de’ figli. E noi siam figli, non servi. La parola quindi risorga come fondamento di civili convivenze. "V ia le diffidenze, via le paure; non si muniscano cittadelle, non si preparino armi nè cannoni, baluardi inutili contro il pensiero, che non sarà più minaccioso perchè sarà libero. Egli s’irrita vincolato, freme oppresso; ma si diffonde pacifico all’ombra della libertà, e cerca solo allora con la persuasione le sue vittorie. Cosi pensò certamente la sapienza sovrana quando disse a’ suoi popoli: Parlate! E noi parleremo; e useremo la libertà conceduta. Libertà, diciamo, non licenza. Amiamo la prima, aborriamo la seconda. E perciò non viva meno la nostra fiducia nel Principe, perchè sia mantenuta una censura preventiva. La quale sarà argine alla licenza, non impedimento alla libertà. Paterna previdenza anzi, prevenire gli abusi per non averli a punire! Ch’io pensi il vero lo proviamo ora qui, colla nostra esultanza noi 109 stessi, congregati ad onorare fra i tre esimii Magistrati quello che fu eletto a presiedere i nuovi moderatori della stampa. I loTo nomi sono arra di libertà. — Prepariamoci dunque, o signori, a godere il gran benefìcio. Siano libere, italiane le nostre parole, ma prudenti e civili; aiuto al governo, non ostacolo; espressione di voti sinceri, non formule di partiti; rispondano ai bisogni del popolo, non destino passioni inconsiderate; difendano l’italiana indipendenza, non insultino allo straniero; siano pronte le armi ma aspettiamo i tempi. Non prendiamo esempio da altre nazioni, che avuta colle armi la libertà, credono necessità continuare la guerra, e si dividono in due campi che ogni dì combattono sotto nome di ministero e di opposizione. Una libertà nuova, pura di sangue, amata da tutti, è discesa tra noi. Nuovo esempio agli altri popoli di armonia meravigliosa, per cui popoli e principi lavorano concordi al grande edifìcio dell’italiano risorgimento. E l’Italia che fu due volte maestra di civiltà al móndo, sarà ancor una volta maestra di vera libertà civile. Io propongo un saluto al pensiero libero, italiano, prudente, civile ». Sorge l’alba del 10 die. 1847. Del solennissimo pellegrinaggio al Santuario di Oregina, dove si celebrò la in eterno memoranda commemoi’azione della gloriosa cacciata dei Tedeschi operata dalla virtù genovese cento e un anno addietro, ci parlavano lagrimando i nostri vecchi, ci parlano le cronache e i giornali del tempo. Genova nostra in quell’avventurata solennità vedeva spenti per sempre gli odii e le diffidenze tra le popolazioni italiane e avverata tra loro quella unità e concordia di affetti, d’intendimenti e di propositi che ogni saggio sospirava come condizione necessaria ad una prossima unanime azione di guerra contro il comune straniero oppressore. E a ragione, perchè gl’italiani delle diverse provincie qui dimoranti, in maggior numero piemontesi e lombardi, convenuti quel fausto giorno sul benedetto colle, detestate le ree memorie delle antiche guerre fratricide, tra gli abbracci, i baci e i pianti di tutti avean strette le destre, s’e-ran dati giuramento sull’ara di Dio e sulle bandiere sorelle di essere quind’innanzi fratelli e consorti indivisibili in ogni fortuna e nei supremi cimenti della patria italiana: festa e trionfo indicibile dei cuori, spettacolo nuovo e inaudito che inebriò Genova e scosse tutta Italia e parve darci pegno d’imminenti e gloriosi destini. Il nostro Cabella fu membro della Commissione ordinatrice della festa e nel solenne corteo fu l’onorato vessillifero deU’Ordine suo (1). (1) Ne fa fede anche la sua lettera inedita ad E. Celesia 28 marzo 1867 che si conserva tra le altre Carte Celesia presso la nostra Università. 110 Il 7 novembre a Torino parecchi membri àe\Y Associazione agraria in segno di fraternità a parecchi Genovesi avevano dato un banchetto alla Trattoria dell’Universo. La sala del convito era addobbata delle bandiere di Savoia, del Piemonte e di Genova, e dei busti di Carlo Alberto, di Pio IX, del Gioberti e del Pareto. Vi si pronunciarono molti discorsi tutti accesi di vivo sentimento italiano; notevoli quelli di Lorenzo Valerio, dell’avv. genovese Carlo Carenzi, dell’avv. onegliese C. Eugenio Rossi, del barese giobertiano Giuseppe Massari, dell’avv. casalese Filippo Mellana e dell’avv. David Levi. Si abbattevano le barriere regionali, si inaugurava la fratellanza nazionale. Genova nostra, che in quei giorni già cantava l’inno del giovinetto suo figlio ai Fratelli d’Italia, non poteva non rispondere ai fratelli piemontesi con altrettale effusione di patriottico sentimento, onde il fiore della cittadinanza genovese la sera del 1*2 dicembre offerse a sua volta un fraterno banchetto aXYHòtel de la Ville. Presiedeva Giorgio D’Oria che dopo le fratta pronunciò il primo brindisi. Dopo di lui il Conte Terenzio Mamiani disse parole così altamente ispirate e rapitrici che molto mi duole non poterle qui riferire. Il march. Giacomo Balbi-Pioverà propose quindi un brindisi a Carlo Alberto liberatore d'Italia. Seguì il piemontese prof. Vincenzo Troya, incaricato del riordinamento delle nostre scuole, con parole ardenti di speranza e di fede nell'avvenire della patria rinnovata. Sorge quindi il nostro Cabella. « Al 10 dicembre 1847! Al patto giurato in Oregina sopra un’ara di trionfo e di espiazione! Fratelli Piemontesi! Noi abbiamo dato all’Italia un esempio sublime. I vostri padri pugnarono con lo straniero contro di noi: e voi veniste con noi a celebrare la nostra vittoria! I nostri padri si chiamarono nemici: e noi vi abbiamo voluti partecipi della nostra gloria! Voi e noi insieme giurammo lassù un solo affetto: l’amor della patria; una sola patria: l’Italia; un sol nemico: lo straniero. Fratelli Piemontesi! Voi foste veramente grandi il 10 dicembre! Imparino da voi gli altri Italiani! Come voi ad Oregina, così Comaschi e Pavesi giurino a Legnano l’indipendenza italiana. — Quante siamo città d’Italia dimentichiamo le glorie che contristarono i nostri fratelli. Oh quanta storia dobbiamo abolire! Ma i trionfi sullo straniero celebriamoli tutti, quante siamo città d’Italia, senza ricordare qual parte tenessero i nostri padri. Onore, onore, tre volte onore a voi, Piemontesi, che primi intendeste questo sacro pensiero! Oh fortunato colle d Oregina! Il tuo nome sonerà nelle future storie famoso al pari di Pontida. Là, diranno i nipoti, dove i padri pugnarono, si abbracciarono i figli: là si espiarono le antiche colpe; là si fecero comuni le antiche glorie; là si giurò il grande riscatto. E nell’ora Ili della battaglia, piemontesi e genovesi ci stringeremo le destre, rammentando Oregina, e irromperemo gridando: fuori lo straniero! Italia! Italia! E dopo la vittoria ci stringeremo le destre, rammentando Oregina e diremo: Il giuramento è compiuto! Italia! Italia! » Y. Redigo l’indirizzo firmato da 15000 cittadini per l’espulsione dei Gesuiti e l’istituzione della Guardia civica e ne è Relatore nella Commissione deputata a presentarlo al Re. 11 quale sdegna riceverla e respinge bruscamente la domanda; ma il nuovo atto dei Genovesi finisce col far convinto il Sovrano della necessità di una Costituzione (geun. 1848). Ma, come di consueto, Re Carlo Alberto pareva ancora tentennare. La Lega doganale tra il Piemonte, la Toscana e lo Stato pontificio firmata a Torino il 3 novembre e da tutti salutata come prossima genitrice della Lega politica italiana, deludeva nei fatti la comune aspettazione. Le riforme elargite dal Sovrano, se da una parte facevano paghi, dall’altra aguzzavano più che mai i desiderii del popolo a nuove e più larghe libertà. Certo il re sentiva invincibile ripugnanza a concedere la Costituzione, convinto, come apertamente confessava, ch’essa fosse un’illusione popolare, pericolosa al trono, perniciosa alla quiete dello stato, corruttrice dell’amministrazione, campo aperto agli ambiziosi e ai demagoghi. Aveva concesso la libertà di stampa ma inceppata da gravi condizioni; della Guardia nazionale temeva, e i fatti posteriori dissero che non a torto; delle pubbliche dimostrazioni, perchè troppo facili a trasmodare in eccessi, fu sempre nemicissimo; l'espulsione dei Gesuiti non voleva perchè istituto di religione cattolica, materia sulla quale era risolutissimo di non mai transigere. Le accordate riforme non avevano rinfrancato l’animo suo sempre ondeggiante tra i consigli dei retrivi e quelli dei progressivi, fra il privilegio dinastico e le franchigie popolari, tra la paura di far male e il desiderio di far bene. In verità suo disegno era di fondare una monarchia cicile o consultiva; ma gli avvenimenti precipitavano e nella loro rapina si traevan seco le sue opinioni e la sua volontà. I comizi agrari piemontesi adunati a Congresso in Casal Monferrato l’estate di quest’anno 1847, furono il vero principio di quella febbrile agitazione italiana che non quietò se non con la promulgazione dello Statuto e la dichiarazione della guerra all’Austria. Quando 112 il 30 Agosto in una di queste adunanze, ov’eran convenuti i più autorevoli e preclari spiriti piemontesi, per mezzo del conte di Castagneto il Re ebbe finalmente fatto manifesti i suoi propositi guerrieri di italica redenzione, Genova, ^natura impaziente, che non aveva mai cessato di stimolare il governo sabaudo, iniziò con l’8 settembre una serie di pubbliche dimostrazioni riuscenti a veri e imponenti comizi popolari intesi ad ottenere la sollecita promulgazione delle attese riforme; comizi a cui-concorrevano non meno i riformisti costituzionali che i repubblicausi mazziniani, i quali le libertà concedute dal principe accoglievano e gradivano come arra di quella libertà massima che vagheggiavano imminente. Si è già detto delle frequenti petizioni e delle legazioni municipali e patrizie inviate da Genova a sollecitare il governo di Torino. Il Re era irritato contro le nostre insistenti ed energiche premure e i nostri moti popolari, e della sua irritazione ci aveva già dato aperto segno; ma non per questo i nostri padri punto desistevano dal premere e daH’incalzare. Per il nuovo anno 18-18 da noi si attendeva l’amnistia, quale molto prima l’aveva concessa Pio IX; la guardia civica quale dal settembre in Toscana il Granduca; diminuito il prezzo del sale; ma nulla vedendo di ciò e uscito invece un odiato regolamento sui mediatori di commercio, Genova ricominciò ad agitarsi più fieramente che mai. La società di casa D’Oria non era un’oziosa accademia, era una laboriosa officina di lavoro e di propaganda patriottica dove ciascuno prestava l’opera sua secondo il grado, il potere, il saper suo. Ragionevole quindi e naturale che, specialmente dopo le conosciute intenzioni sovrane e la giurata fraternità dei Liguri coi Piemontesi, gli avvocati giornalisti dell’una e dell’altra regione tra loro stringessero accordi e avvisassero ai mezzi più acconci ad avverare le comuni speranze. Sullo scorcio del 1817 ciò che più in Genova si riteneva necessario all’ordine interno nell’imminente guerra coll’Austria era l’istituzione della Guardia Nazionale che doveva impedire e infrenare i disordini e le rivolte popolari, e l’espulsione dei Gesuiti che doveva por fine alle trame reazionarie dei partigiani degli ordini antichi dei quali la setta gesuitica era l’organo più formidabile; ma a conseguire il duplice intento occorreva espugnare l’animo riluttante del Re con un mezzo che senza il potente aiuto della stampa liberale piemontese non poteva riuscire a buon fine. A meglio intendere le frequenti dimostrazioni ostili e le petizioni al Governo del popolo genovese contro i Gesuiti è appena d’uopo rammentare al lettore che l ordine di Loyola, soppresso nel 1773 da Clemente XIV, poi da Pio V II, ricostituito segretamente nel 1800, e 113 pubblicamente nel 1814, s’era fatto strumento della Santa Alleanza e spiegava in Europa, massime in Italia, l’opera sua malefica nei collegi, nel confessionale, dal pulpito, sui giornali, nei consigli, nel conclave. Nel 1847 il Gioberti, da lei provocato, scagliava contro la famigerata compagnia II Gesuita Moderno, libro terribile in cinque grossi volumi, che versando su lei a piene mani odio e dispregio, la sacrava al vituperio e alla maledizione del mondo (1). Infiammati da questo libro, giusto e vero nel fondo ma non scevro di esagerazioni, i Genovesi parvero non poter respirare fino a che non la vedessero espulsa per sempre dalla nostra città. Singolare una protesta promossa à&WAssociazione nazionale italiana contro l’educazione gesuitica delle fanciulle pubblicata nel Pensiero italiano il 1° nov. 1847 e così concepita: « I giovani sottoscritti si obbligano sotto vincolo d'onore a non sposare fanciulle educate dalle Suore del Sacro Cuore o da persone che in qualsiasi modo subiscono l’influenza dei Gesuiti ». Seguono le firme tra le quali notevole quella di Nin® Bixio e di Gerolamo Boccardo. Una domenica mattina dello stesso novembre Carlo Alberto usciva dal suo palazzo di Via Balbi per recarsi alla Chiesa. Il popolo lo accompagnava con le solite acclamazioni. A un tratto il Re accenna di avviarsi a S. Ambrogio, chiesa dei Gesuiti. A tal vista cessano gli evviva, il popolo s’arresta, e Carlo Alberto è lasciato solo co’ suoi. Terminata la messa, il Re ripiglia il suo cammino ma trova il popolo accigliato e pensoso, e le grida di Viva Carlo Alberto si mutano in Via i Gesuiti, abbasso Loijóla! (2). I Gesuiti si vedevano ormai fatti segno quasi ogni giorno al pubblico ludibrio, ma pur temporeggiavano; se non che il 29 febbraio del 1848, spaventati dal tumulto popolare scatenatosi contro di loro per la voce sparsa che i Gesuiti espulsi dalla Sardegna si erano rifugiati nel loro convento, la notte seguente di soppiatto e alla chetichella sfilarono tutti e fuggirono. Il giorno appresso 1° marzo una turba furiosa di popolo invase quegli alloggi, mise tutto a soqquadro e gittò dalle finestre carte, libri, supellettili e quanto in mano le capitava. La legge sull’espulsione di questa setta, presentata alla Camera dal nostro avv. Cesare Leopoldo Bixio (Genova IV collegio), e approvata il 21 giugno 1848, andò in vigore il 25 agosto. Essa espelleva dagli Stati Sardi non solo i Gesuiti ma, come congregazio- (1) Chi voglia sapere da chi l’autore riceveva le notizie dell’opera dei Gesuiti in Genova e in Liguria legga la dotta memoria del eh. prof. Paolo Negri: Vinc. Ricci c « il Gesuita moderilo » in Rassegna storica del Risorg. fase. I-II, 1921. (2) Cfr., oltre i giornali locali, Bboi-fbrio, Storia del Parlamento subalpino, voi. I. 8 114 ni gesuiteggianti, anche le Dame del Sacro Cuore, la Compagnia degli Oblati di Maria Santissima, la Compagnia degli Oblati di S. Carlo e quella di fresco introdottasi nella Savoia col nome di Liguoriani e Redentoristi. Ma torniamo al nostro Cabella. Della sua patriottica operosità ci parla una lettera in data 11 dicembre 1847 delPavv. Lorenzo Valerio, chiaro patriota, scrittore e giornalista torinese. In essa il Valerio ringrazia il nostro concittadino d’averlo scelto a socio e coadiutore in una nobile impresa che finora ha comunicata al solo Sineo, e a cui, quando il Cabella crederà dar fuoco alla miccia, egli si presterà con tutte le forze. Gli dice voler pubblicare sulla Concordici articoli contro i Gesuiti, e lo prega di mandargli un'articolo sull’influenza dei Gesuiti in Genova e in Liguria, promettendogli segretezza. « Il Gioberti, aggiunge, mi scrive che il gesuitismo in Italia è più pericoloso che l’Austria stessa ». E perchè il nostro avvocato, che gli scriveva per la prima volta, per farglisi meglio conoscere lo invitava a chieder di lui ai colleghi di Torino, aggiunge: « Io non avevo bisogno di chieder di lei a nessuno perchè ricordo benissimo di averle altra volta stretta la mano alla Villetta Di Negro, e perchè l’amico mio Ricci (Vincenzo) mi ha parlato più volte di lei con parole che Ricci adopera per poche pochissime persone >. Or qual è la nobile impresa per la quale il Cabella invocava l’aiuto del Valerio? Ci manca, come di solito, la missiva del Nostro, ma io credo fermamente trattarsi qui di una vigorosa campagna giornalistica provocata a Genova e a Torino da lui e dai più solerti liberali genovesi e intesa a illuminare e muovere la pubblica opinione sulla necessità di espellere i Gesuiti e d’istituire la Guardia Nazionale, e di -agevolare per tal modo il buon successo di una nostra solenne Commissione che nei primi del prossimo gennaio 1848 si sarebbe recata a Torino a presentare al Re la relativa istanza. L’invito di propaganda non era diretto al solo Valerio ma a tutta la stampa liberale torinese, me ne affida una supplica o petizione a re Carlo Alberto, esistente al Museo Nazionale del Risorgimento di Torino e redatta a mano del colonnello Giacomo Durando direttore dell 'Opinione, dov’egli a nome suo e di altri sottoscritti giornalisti torinesi alla dinastia devoti, dimostra in forma ossequentissima la convenienza di accondiscendere alle due giuste domande che la prima città commerciale dello Stato si propone di fare a S. M. Il documento, che è una minuta senza firma nè data ma è certo degli ultimi giorni del ’47 o dei primi del '48, per essere inedito e importante, merita di essere riprodotto nelle sue parti più significative, 115 « Sire, • Quando V. M. colla legge dell’ottobre 1817 allentò cosi saviamente ed opportunamente i vincoli della stampa, sancì un principio fondamentale della maggior parte dei moderni stati europei, quello cioè di porre in armonia la direzione governativa dei popoli colla pubblica opinione. In presenza di questa benefica disposizione i sotto-scritti credono d interpretarne il senso naturale venendo ad esprimere rispettosamente a V. M. i sentimenti che ha fatto nascere in loro quella riverente manifestazione, che intorno a due questioni vitali pel paese, si propone di fare a V. M. la prima città commerciale dello Stato. * I sottoscritti che osano in questo momento rendersi l’organo della parte dei sudditi vostri più devoti ai veri interessi di V. M., pensano ohe l’eliminamento di una congrega religiosa la quale troppo grandi e fondati motivi ha dato per sospettare delle sue intenzioni ostili verso le nuove tendenze italiane, e l’associazione del coraggio e della devozione di cittadini alla devozione e al coraggio delle milizie stabili, che godono la meritata fiducia di V. M. e del paese, produrrebbero l’incalcolabile benefizio di calmare ogni più lieve inquietudine, di togliere ogni pretesto a qualunque agitazione inopportuna e di farci perseverare vieppiù dentro quello stretto circolo di legalità in cui tutti riponiamo la salvezza e il miglioramento delle nostre istituzioni interne e l’assodamento del nostro trono nazionale. « Sire, convinti che malgrado i molteplici negozi, che assediano V. M., le due importanti questioni a cui noi accenniamo, non possono essere sfuggite alla sua alta penetrazione, noi la supplichiamo di permetterci di unirci alle sue mire riformative anche su questo riguardo e di gradire l’espressione ossequiosa di un pensiero figlio unicamente del desiderio di vedere prevenuti e identificati i provvedimentùche Y. M. matura nella sua alta saviezza coll’accordo perfetto che dee regnare tra la celebre città, che è il primo baluardo dello stato, e la popolazione di quella, che da tanti secoli ha la ventura di dividere con la sua Augusta Dinastia l’avversità e le prosperità comuni, e d’esserle sempre e in ogni evento scudo, corte e famiglia •. Intanto negli ultimi giorni del 1847 la questione dell’istituenda Guardia Civica e dell’espellenda Compagnia di Gesù, mercè la propaganda del giornalismo sardo promossa dai liberali genovesi, s’era andata largamente diffondendo ed agitando ed accendeva l’animo di tutti. Parve allora giunto il momento opportuno per l’invio di una Commissione a Torino che presentasse al sovrano i voti di Genova. La cura di comporre la petizione fu affidata al nostro Cabella, della quale mi duole non poter far dono al lettore non avendone l’autore lasciato copia tra le sue carte e non avendo io potuto, per ricerche fattene, rintracciarla nè a Torino nè a Genova. La petizione fu letta la sera del 4 gennaio 1848, verso le 5 pomeridiane, sotto l’atrio del teatro Carlo Felice, inanzi a gran massa di popolo che l’accolse con vive acclamazioni. Furono subito collocati tavolini sotto l’atrio con carta, penne e calamai, e fino a mezzanotte 116 cittadini d’ogni ordine trassero in folla ad apporvi il loro jiome. La soscrizione prosegui il giorno 5 dalle cinque pomeridiane alla mezzanotte; onde si ebbero in complesso ben 15000 firme, date spontaneamente, non ghermite coll’astuzia o colla forza, come si malignò da molti partigiani dell’antico regime (1). Nello stesso giorno 5 gennaio in casa D’Oria si tenne adunanza per la nomina dei membri della Commissione da inviarsi a Torino. Ottantadue i votanti; Cabella e Antonio D’Oria scrutatori; segretario Ferdinando Pio Rosellini. Uscirono eletti 1° Pio Nepomuceno D’Oria abate di S. Matteo; 2° march. Giorgio D’Oria; 3° march. Giacomo Balbi Pioverà; 4° march. Lorenzo Pareto; 5° march. Vincenzo Ricci; 6° avv. Cesare Cabella; 7° avv. M. Giuseppe Canale; 8° avv. Nicolò Federici; 9° march. G. B. Cambiaso; 10° avv. Federico Campanella; 11° Carlo Cusani; 12° avv. Antonio Costa; 13° Prevosto di S. Donato; 14° prof. Vincenzo Troya. La deputazione, ristrettasi ai primi nove eletti, partì da Genova per tempo la mattina del giorno 7. I primi quattro deputati cioè P. Nepomuceno D’Oria, Giorgio D’Oria, Cabella e Federici, giunti primi a Torino con la prima carrozza la sera dello stesso giorno, ricevettero tosto dai direttori dei giornali torinesi il fraterno benvenuto e le più affettuose attestazioni di solidarietà. Arrivati gli altri deputati, tutta la deputazione genovese il giorno appresso all’una pomeridiana fu ammessa non all’udienza del Re ma del conte Giacinto Borelli, pur dianzi presidente del Senato di Genova e allora primo segretario di Stato per gli affari interni e di Polizia. Ma udiamo quel che del seguito colloquio dice la Concordia nella Cronaca del 10 gennaio: « Ad un'ora pomeridiana del giorno 8 la generosa deputazione genovese si recava dal conte Borelli ministro dell’interno. S. E. annunciava loro che il Re non poteva riconoscerli quali investiti di legittimo mandato, che conseguentemente non li avrebbe ricevuti e non si sarebbe tenuto conto delPindirizzo ch’essi recavano. » I deputati insistevano dicendo che quand’anche il Regio Governo ricusasse d’ammettere in loro un carattere rappresentativo, essi pregavano il Ministro di accogliere le prove ch’essi, quali semplici cittadini, erano in grado di addurre circa i fatti ch’erano di sommo rilievo si pel Re che per il popolo. Il colloquio durò più di due ore. I deputati, nulla avendo potuto ottenere dal ministro, si congedarono mestamente e ripartirono verso le nove di quella sera ». (1) Cfr., oltre i giornali locali di quei giorni, F. Donaver, Genova nei primi mesi del 1848 in Rivista Storica del Risorgimento italiano, anno 1898, fase. II. 117 Qui è da osservare che oratore della Deputazione fu il nostro Cabella (1); e da non tacere che il Borelli congedandola non mancò di consigliarla ad assistere, domani giorno di domenica, alla santa messa: e che la Concordia per riguardo alla Reggia non reca le altre dure parole da lui rivolte per ordine sovrano alla nostra Rappresentanza. Illustrano questo episodio d’ingiustificata severità nel Re riformatore le note seguenti che ho potuto desumere dal Processo verbale del Consiglio di Conferenza tenutosi il 7 febbraio 18-18 tra i Ministri di Re Carlo Alberto, proveniente dall’archivio Cibrario, esistente inedito presso il Museo nazionale del Risorgimento di Torino (2). « S. M. a daigné premettre qu’Elle n’avait pas lieu d’ètre satisfatte de la Police de Gènes qui avait permis qu’on dressàt des ta-bles dans les places publiques pour recevoir des souscriptions pour l’expulsion des Jésuites et pour la création d’une Garde nationale et toléré le départ d’une Députation pour la Capitale à fin de présenter ses instances au Roi....... — S. M. a déclaré formellement qu’Elle ne recevra point la Députation de Gènes et qu’Elle n’entendait point acceder à leur demande, en ajoutant que quand mème Elle aurait eu l’intention de satisfaire les Génois dans l'une ou dans l’autre de leurs instances, ce qui n’etait pas, ce ne serait point dans ce moment après des manifestations si inconvenantes, qu’Elle se disposerai à le faire... ». Segue su questo proposito lunga discussione fra i Ministri. « Il a été en outre décrété que le Ministre de l’Intórieur en rece-vant les membres de la Députation de Gènes leur ferait apercevoir toute l’incongruité et l’illégalitó de leur demande après les concessions larges qui leur ont été accordées spontanément, et qu’il les engage-rait à partir au plus tòt et a employer toute leur influence auprès de la population de Gènes pour les déterminer à désister de leurs pré-tentions..... ». Da quanto il Predari ci fa chiaramente intendere a pag. 243-44 dell’Opera sua e da quanto si rileva dalla Relazione indirizzata al Re dai quattro Direttori dei giornali torinesi, la causa di tanto mal animo contro la nostra Deputazione si trova nel fatto che il Valerio, saputosi insinuare nelle grazie del Di Castagneto, Ministro della Casa (1) Cfr. Giuseppe Mongihello (pseudonimo), Panorama politico ossia la Camera Subalpina in venti vedute; Torino, Zecchi e Bona, 1849; e cfr. Caffaro, 5 apr. 1888. (2) Rendo vive grazie al dotto prof. A. Colombo, direttore di quel Museo, che me le ha gentilmente comunicate. 118 reale, dal quale iu cambio delle notizie della città riceveva giorno per giorno le notizie politiche più arcane e più recenti e meglio atte ad assicurare alla sua Concordia la superiorità sugli altri giornali, gii aveva odiosamente travisate le intenzioni e le deliberazioni prese da’ suoi colleghi nella seduta della sera precedente; il Castagneto le aveva riferite al Re come le aveva udite dal Valerio, donde lo sdegno del sovrano. Ma trattandosi dei fatti generatori del nostro Statuto stimo necessario riferire ciò che ne dice il Predari al capo XVII dell’opera citata. « Non appena la deputazione genovese fu giunta in Torino che il giornalismo torinese, rappresentato allora da' Camillo Cavour, L. Valerio, G. Durando e da me, raccoglieva in una sala dell’albergo dell’Europa in Torino una eletta schiera di cittadini autorevoli, onde avvisare ai modi con cui meglio appoggiare i deputati nella loro missione. Lorenzo Valerio e alcuni collaboratori della Concordia, primi a parlare, opinavano che ugual numero di deputati dovesse Torino inviare al Re, coll’incarico medesimo della deputazione genovese. La proposta stava per essere spicciamente adottata quando Camillo Cavour sorse a mostrare come l’atto che stava per compiersi fosse atto grave e non scevro di pericoli, e tale da compromettere forse la santa concordia che regnava allora tra principe e popolo; giacché la coscienza di Carlo Alberto, sì profondamente pregiudicata nei sentimenti religiosi, non avrebbe pur mai comportata una violenta misura contro la corporazione dei Gesuiti, nei quali, in onta ai loro errori, ed al loro pervertimento politico, egli vedea pur sempre i ministri della sua religione: « Poiché si ha a correre un pericolo, lo si corra per qualche cosa di più sei’io che non è lo sgombro di qualche convento, ed io propongo, diceva egli, che senza ambagi e francamente si chiegga una Costituzione; le riforme date sono qualche cosa come principio di progresso; come permanente amministrazione sono un assurdo, e ormai un impossibile a cui bisogna provvedere e tosto, avanti che le agitazioni popolari facciano di un beneficio una necessità » (i). A questo linguaggio così esplicito e dirò anche inaspettato, Valerio sentissi visibilmente scosso, impacciato; l’essere prevenuto, sorpassato da un nobile in atto di coraggio e di libertà, gli (1) Altri in altri termini: « Provvedimenti e parziali riforme come quelle domandate dai Genovesi, se buone e utili per sè, avrebbero sempre porto l’addentellato ad altre ed altre ancoraché, accettate o respinte, turberebbero egualmente lo stato e infirmerebbero l’autorità morale del governo; ond’egli proponeva arditamente di chiedere addirittura la Costituzione, unica forma di reggimento consentanea allo spirito dei tempi e al progresso della civiltà, e che insieme con le domande dei Genovesi tutte le riforme civili e politiche virtualmente abbracciava ». 119 parve un fatto troppo enorme per la sua vanità democratica; non vide altro espediente, per non darsi vinto, che dichiarare troppo arrischiata, inopportuna la proposta del Cavour; e poco mancò non la mostrasse anche insidiosa, suggerita da una politica perfida e ingannatrice la quale mal sapeva acconciarsi aH’affratellamento di principe e popolo da sì poco tempo iniziato. Disse i tempi non ancora maturi per un sì grave rivolgimento politico ; il paese non esservi ancora apparecchiato; doversi innanzi tutto e gradatamente educare le masse all’uso della libertà (1)............ La discussione divenne concitata, tumultuosa. La speciosità degli argomenti del Valerio soggiogò qualcuno, specialmente fra i collaboratori della Concordia, ma la maggioranza dell’assemblea, fra i quali piacemi nominare Roberto d’Azeglio, Galvagno, Santa Rosa, Durando, Brofferio stettero con Cavour ed io con loro......... ......... » All’indomani di questa discussione il Re era dal Castagneto informato della riunione tenutasi all’albergo dell’Europa; ma esagerando, falsando tutti gli incidenti della discussione, eraglisi fatto credere nientemeno che ad un tentativo di ribellione, volendosi obbligarlo a dare una Costituzione sotto minaccia di una insurrezione popolare, che non sarebbesi mancato di suscitare contemporaneamente a Torino a Genova e quindi in tutte le provincie del regno; però non si mancò di notare come alcuni savii cittadini si fossero energicamente opposti a questi dissennati propositi. Non è a dirsi lo sde gno mostrato da Carlo Alberto a siffatte relazioni; parlò minaccioso, e poco mancò non succedesse alle minaccie qualche grave misura. Informato io di ciò dal cav. Promis, ne riferii al Cavour che già ne era stato da altri avvisato; fu allora che fra me, Cavour, Durando e Brofferio si venne alla determinazione di stendere una relazione veridica del fatto indirizzata al Re, la quale esposizione accompagnata da una lettera particolare al Re, stesa dal Cavour stesso in francese, fu a questi spedita per mezzo della posta, non avendo po tuto trovare chi si assumesse di porla nelle mani dello sdegnato principe ». La lettera a S. M. comincia dicendo che le discussioni avvenute nelle adunanze dei giornalisti e di altre persone sollecite del pubbli- (1) Chiariscono le parole del Predali le relazioni di altri cronisti secondo la somma delle quali il Valerio mostrava di ravvisare nell’audace proposta un tranello del Cavour, allora in voce di grande moderato, per ispaventare il principe e mandare a monte ogni cosa; in conseguenza di che ne proponeva il rigetto.e invitata l’assemblea a votare le domande genovesi per le quali l’adunanza era stata convocata. 120 co bene, in occasione della venuta a Torino della deputazione genovese, essendo state snaturate dalla malevolenza e dalla malafede e dato luogo a versioni malediche e calunniose, i Direttori dei quattro giornali torinesi al fine di provarne la falsità avevano risoluto di far pubblica ed esatta esposizione dei fatti occorsi e comunicarne copia a S. M. perchè potesse facilmente riconoscere che i firmatarii altro scopo non avevano che quello di conciliare la grandezza del trono con la dignità del governo e i veri interessi del paese. Segue alla lettera la Relazione, memorabile documento di fratellevole solidarietà dei Torinesi verso di noi, di cui mi duole non poter qui, per ragion di brevità, far dono al lettore. In essa, dopo 1 ordinata esposizione delle idee dibattute e delle deliberazioni prese nei due giorni di venerdì e di sabato, si riporta il ricorso al Re redatto e letto dal Durando ai convenuti nell’adunanza ultima della sera del sabato, che così comincia: « Sire, » Lo stato d’inquietudine della prima città commerciale del Regno e le conseguenze dispiacevoli che ne sono derivate, impongono agli onesti cittadini il grave e penoso dovere di rinnovare a Y. M. i sensi di inalterabile devozione verso i principii fondamentali dell’ordine pubblico mentre confidano che l’alta saviezza di Y. M. saprà opportunamente rimuovere le cause che hanno potuto momentaneamente alterarla. » Tra queste cause è impossibile non riconoscere l'influenza delle due principali questioni indicate nel riverente indirizzo dei Genovesi a V. M., questioni alle quali già da qualche tempo è rivolta non solo l’attenzione del pubblico ma quella altresì del governo, e di cui la conveniente e ponderata soluzione è nel voto generale della nazione ». Dopo di che in termini molto cauti ed ossequenti si domanda al Sovrano l’istituzione del Parlamento nazionale. Quindi la Relazione cosi continua: « Si approvava a unanimità questo ricorso all’ottimò sovrano e ad unanimità si stabiliva che col ricorso a Sua Maestà sarebbesi spedita una delegazione a Genova per assicurare i Genovesi del concorso efficacissimo dei Subalpini, con che rammentassero, che in cospetto dello straniero l’unione fra il trono e il popolo fosse più che mai necessaria, e si adoperassero con tutto il maggior ardore a contenere la popolare effervescenza. » Appena erasi ciò stabilito giungevano con alcuni altri l’av- 121 Vocato Sineo ed il signor Valerio Lorenzo, i quali opponendosi in singoiar modo alle già seguite deliberazioni, dichiarando non volersi acquietare al suffragio della maggiorità e portando nella fraterna discussione qualche sventurato elemento di dissidenza, furono causa che il presidente sciogliesse l’adunanza e che nessuna delle cose proposte avesse effettuamento » (1). I Direttori fìrmatarii chiudono la Relazione protestando che se può esservi tra loro diversità di opinioni politiche, sono essi però tutti concordi e congiunti dalla stessa devota riconoscenza al Re, dallo stesso ardente affetto verso la patria e dallo stesso « desiderio di vedere sopra ferme basi consolidata la libertà e l’indipendenza italiana, che quindi non mancheranno mai di associarsi, come oggi hanno fatto, nelle più gravi contingenze della patria, acciocché sappiasi che non solo coirufììcio dell’intelligenza, ma con qualunque altro personale sacrificio son pronti a mostrarsi primieri nei patrii conflitti ». Seguono le firme di Camillo Cavour, di Giacomo Durando, di Angelo Brofferio e di Francesco Predari. II Risorgimento del 10 gennaio ha un articoletto firmato La Direzione (il Cavour) così concepito: « La Deputazione di Genova è ripartita da Torino nella notte di Sabato, accorata e dolente di non aver potuto deporre ai piedi del trono i voti, i desideri, le speranze de’ suoi concittadini. Essa se ne ritorna senza portar seco alcuna di quelle regie parole a cui è dato sedare le agitazioni popolari le più ardenti, calmare gli spiriti più concitati. (1) A questo deplorevole scioglimento dell’autorevole assemblea si riferisce la seconda parte di una lettera del Brofferio al nostro Emanuele Celesia in data 9 gennaio 1848, che trascrivo perchè poco nota. « Mentre essi (ì Genovesi) partivano, noi stavamo deliberando in casa dell’Azeglio (Roberto) e si stabiliva ad unanimità di dare anche noi un ricorso al Re per appoggiare le domande dei G-enovesi e dividere la sorte loro. La cosa era stabilita a unanimità quando giunsero Valerio e Sineo i quali portarono colle loro personali improntitudini la discordia nell’assemblea e tutto terminò malamente. » Questa è la terza volta che i Valerio e loro attinenti portano lo scompiglio nelle patriottiche deliberazioni, per cui si è da tutti fermamente deliberato che essi sarebbero esclusi da qualunque discussione sulle cose del paese. Json mancarono però essi di portarsi dai deputati genovesi per dar loro ad intendere lucciole per lanterne nel miserabile intento di spacciarsi come uomini di alta importanza, e chi sa quale opinione avranno riportato i G-enovesi delle cose nostre! Quello che vi so dir io è che più tristi imbroglioni non si sono mai veduti. ,..... Addio, mio ottimo amico. Son certo che noi due saremo della stessa fila: dove si combatte e si muore. * (Dalle Lettere inedite a E. Celesia presso la Biblioteca dell’Università di Genova). 122 » Noi rispettiamo i gravi motivi che indussero il Re a noii profferirle, nonché il dolore di quei benemeriti cittadini i quali, dopo aver adoperato la loro influenza a mantenere la pubblica quiete, avevano assunto l’arduo incarico di farsi interpreti dei sentimenti del popolo genovese ». Ma il Re persisteva e non si moveva. Alcuni giorni prima dell’arrivo a Torino della legazione genovese, cioè il 2 gennaio, al Granduca Leopoldo di Toscana che gli chiedeva dove si sarebbe andati a finire con le riforme, rispondeva: « Credo si possa stabilire un savio governo, nel quale la libertà e i personali vantaggi sieno maggiori di quelli che si riscontrano in certi Governi costituzionali, ove la libertà è una finzione e l’amministrazione dello Stato si sostiene basandosi sulla corruzione ». E perchè egli era convinto che, come soleva ripetere, a far libera l’Italia occorrevano soldati non avvocati, verso la metà di quel gennaio discorrendo confidenzialmente con Roberto D’Azeglio dichiarava: « Io voglio, come voi, la liberazione dell’Italia e per questo, ricord a te velo, non darò mai ima costituzione al mio popolo. Eppure, non ostanti i disdegni sovrani e ministeriali, la causa costituzionale, fatta ormai argomento di pubblica e calorosa discussione in tutta la stampa italiana, gridava forte e minacciosa anche alle orecchie dei principi e correva rapidamente alla sua felice soluzione (1). Dopo la proclamazione a Palermo della Costituzione siciliana, ma soprattutto quando Ferdinando II il 29 gennaio l’ebbe solennemente promessa al suo popolo, ciò che nell’animo del re Carlo Alberto non aveva ancora potuto l’espresso desiderio popolare, potè il timore; il timore che potesse avverarsi ciò di cui l’ammoniva il Balbo, ossia che il Re Sardo in materia di franchigie liberali potesse rimanere inferiore al Re di Napoli e togliere a sè e al suo Piemonte per darla altrui, la vagheggiata speranza e l’ambita gloria di capitanare e dirigere il movimento unitario italiano. Convertito in un subito da questo lampo di luce improvviso, e vinte le sue ultime ripugnanze dal voto e dal consiglio rinnovato e concorde de' suoi Ministri, dei corpi consultivi e, in fine, dei Municipii di Genova e Torino, il di 8 febbraio pubblicava lo schema dello Statuto che, integrato in ogni (1) Il nostro Nino Bixio ohe, tre mesi prima, a Genova in mezzo alla folla acclamante, si faceva innanzi al Re gridando: « Sire, passate il Ticino, noi siamo tutti con voi! » quando per le vittorie costituzionali di Sicilia, Genova decretò un solenne ringraziamento nella chiesa dell’Annunziata, al sommo della porta affiggeva l’epigrafe del Mameli: A Dio per la vittoria del popolo. — Cfr. Scritti ed. e ined. di G. Mameli per A. G. Barrili, pag. 31. 123 parte, promulgò poi il 4 marzo (1). E così le continue agitazioni e le frequenti legazioni genovesi, segnatamente l’ultima, condannate dalla Corte e dai cortigiani come temerarie e irriverenti turbolenze, affrettarono la invocata concessione sovrana, testimonio credibile il ministro Des Ambrois, uno dei tre chiamati a tracciare le prime linee della legge costituzionale e Ministro dei L. P. nel 1° ministe-x’o, il quale a dimostrarne l’urgente necessità adduceva « la grande generale agitazione di Genova che non avrebbe mai potuto essere durevolmente soffocata », il che ripeteva lo stesso Re Carlo Alberto il dì 7 febbraio al consiglio straordinario dei suoi Ministri e dei più eminenti uomini di stato da lui all’uopo radunati e consultati; e confermava il cav. avv. Giacomo Giovanetti Consigliere di Stato scrivendo il 15 febbraio (1848) ad Alessandro Pinelli Avvocato Generale a Genova: « Siamo dunque entrati nella grande via costituzionale. I casi di Napoli e lo spirito di Genova ebbero un’influenza immensa nella spinta » (2). VI. Il Cabella uon meno dei due Ministri genovesi tenace propu-« gnatore dei diritti di Genova contro Torino. Dei grandi avvenimenti che agitarono Genova e l’Italia negli anni fortunosi 1848 e ’49 noi non toccheremo che quel tanto che è necessario a illustrare la vita politica del nostro Concittadino. (1) Dove è pur da considerare ohe se Carlo Alberto, finché tra i diversi partiti offerentisi alla sua elezione non vedesse brillare di chiara luce l’utilità indiscutibile del partito migliore, era ansiosamente agitato da dubbi e incertezze (donde il soprannome affibbiatogli dal Carbone di Re Tentenna) non era però meno fermo e fisso a tradurlo in atto quando per ottimo l’avesse riconosciuto e deliberato; onde dopo i fatti accennati depose subito l’idea, fin dal 1812 concepita e fino allora vagheggiata, di una monarchia civile o consultiva, accolse in sua vece quella della monarchia costituzionale, e non ebbe riposo finché non la vide effettuata. E se adunò ancora solenni consigli, questo fece non proprio per consultarli ma per avvalorare in faccia al mondo col loro autorevole suffragio il proprio già ben fermato divisamento. « La stessa composizione del Consiglio 7 febbraio (1848) manifestava già il proposito deliberato di arrivare a quella soluzione cui effettivamente si arrivò. Furono lasciati fuori 11 dei 18 ministri di Stato, tra i quali il Villamarina e il Solaro della Margherita di poco usciti dal Ministero, parecchi tra i Collari dell’Annunziata e altri gravi personaggi; e queste esclusioni non furono certo fatte a caso, ma cop un proposito determinato, quello cioè d’impedire che il troppo gran numero di oppositori ostacolasse; anche solo moralmente, la espressione della volontà, ormai ben determinata, del Re ». D. Zanichelli, Lo statuto di Carlo Alberto, prefazione. (2) Lettera inedita presso il Museo Nazionale del Risorgimento a Torino. 124 Prima ancora che si eleggesse il primo parlamento subalpino; il 26 marzo l'esercito sardo varcava il Ticino e in Genova già ferveva l’opera dei Comitati di soccorso ai volontari e ai coscritti. 11 Cabella vi dedicava infaticabile quanto aveva di forze e di tempo, e nella santa gara delle donne genovesi promossa e diretta dalla march. Teresa D’Oria e dalla Sig.ra Bianca .Rebizzo, meritarono lode patriottica la consorte e le sorelle di lui come oblatrici e collettrici (1). Quando il Balbo ebbe formato il Ministero, il Cabella, e con lui tutti i Genovesi si dissero contenti di vedere il potere esecutivo equamente ripartito tra. i valentuomini delle due regioni e assunti al Ministero i genovesi Pareto e Ricci, l’uno per gli affari esteri, l’altro per gl'interni (2). Con l’uno e con l’altro, suoi commilitoni nel Partito nazionale e nel Comitato permanente di casa D’Oria, era il Cabella in ottimi rapporti, più legato al Ricci che, già magistrato e uomo di legge e di spiritualissima vita privata, col Nostro in modo particolare sentiva e consentiva. Nell’aprile di quest’anno 1848, mentre si attendeva la convocazione dei primi comizi elettorali, a Genova s’era sparsa la voce della possibilità che il Cabella fosse assunto al potere esecutivo a fianco de suoi due concittadini ed amici. Nemico d’ogni sottinteso e alieno da un potere bello in vista, ma brutto e tristo in verità e irto di transazioni e soggezioni e di ogni sorta di spine e di miserie, il Cabella scrive tosto al Pareto esponendogli a quali condizioni egli consentirebbe ad accettare il sommo ufficio. « Da due giorni mi sento tanto ripetere la possibilità di essere chiamato a far parte del Ministero, che questa illusione ha preso qualche forza nel mio animo. Ho pensato seriamente a ciò, e non posso trattenermi dal sottomettervi in fretta ed un po’ confusamente le mie idee. Alieno per principii e per indole da ogni vanità, non sono certo disposto a cambiare una vita oscura, ma onorata, in un servizio brillante, ma abbietto. Quindi prima di cooperare alla Superiore Amministrazione, vorrei fossero di comune accordo fissate non solo le norme da seguire in avvenire, ma anche risolute le varie quistioni più gravi, ed ottenutone l’assenso del Re. (1) Cfr. Corriere Mercantile 25 marzo 1848. - (2) L 8 marzo il Re, proponendo al Balbo di comporre il Ministero, gli domandava se conosceva il Pareto e se stimava di concertarsi con lui. Rispondeva il Balbo che lo conosceva solo per fama come uomo d’ingegno e di leale carattere e che volentieri con lui si sarebbe accordato. Come tutti sanno, il Pareto pose al Balbo come condizione del suo accettare, l’assunzione dell’amico Ricci. 125 » Le prime d’interesse generale paionmi le seguenti: Modificazione dello Statuto — Seduta alternativa delle Camere in Torino ed in Genova, od almeno residenza in Genova della Corte di Cassazione — Modificazione della Legge dei Comuni. Non è decente che il Sindaco di Genova e di Torino sia Agente del Governo destituitole, e sotto la sferza dell’intendente. » In un Governo costituzionale deve cessare per gli individui la qualificazione obbligatoria di suddito. » Per gl’interessi nostri locali vorrei poi una condizione indispensabile: Dono del Palazzo Ducale alla Civica Amministrazione. È questa la sede dei nostri Padri, è giusto non sia perduta per i figli. Il Castelletto e S. Giorgio sono inutili alla difesa di Genova. I Genovesi hanno dato abbastanza prove d’amicizia ai Piemontesi, di non voler seguire che la causa italiana, per meritare tutta la confidenza. Importa all’onore di un popolo ubbidire soltanto alle leggi, non alla ceca forza. — Restituzione alla città del nostro Archivio, .così di quello involato dai Francesi e restituito nel 1815, come della parte tolta da Genova. Per Dio, i monumenti della nostra gloria non devono essere a noi tolti, ed io non posso pensare a questa infamia senza sentirmi un brivido. » Egli è questo un momento solenne, e senza garanzie non intendo addossarmi alcun peso. Poi, come genovese, non debbo dimenticare la Patria. Ma finisco perchè mi viene in mente che le mie osservazioni potrebbero sembrare un’insolenza diretta a un Lorenzo Pareto, al figlio di Agostino. Non straccio la lettera contando sulla vostra amicizia. Benedica adunque Iddio le vostre fatiche, e la nostra Patria dovrà a voi tutto il suo avvenire, i vostri figli andranno per tutta la lor vita giustamente superbi del vostro nome. » Qui tutto è tranquillo, la Guardia Cittadina cresce tutti i giorni in buono spirito ed istruzione » (1). Non paia strano al lettore che per prima condizione il Nostro ponga la modificazione dello Statuto da pochi giorni promulgato. Re C. Alberto aborrendo dalla vera Costituzione di detestata memoria francese, e neppure il nome volendone adottare, aveva conferito mandato a tre Ministri piemontesi suoi devotissimi di compilare sotto il nome più generico di Statuto un corpo di liberali riforme dove bensì il popolo veniva chiamato a partecipare al governo di se stesso, ma dove pure (1) Manca l’altra parte del foglio e quindi la chiusa della lettera e la firma. La lettera però è senza dubbio del Cabella perchè la grafia risponde perfettamente alla sua. Cfr. A. Neri, op. cit. pag. 112. 126 al Principe erano e sono tuttavia conservati tali e tanti poteri e privilegi da assiemargli ancora l’esercizio di molta parte della sua assoluta sovranità. La Costituzione, secondo la moderna accezione di questo vocabolo, doveva emanare dalla libera volontà del popolo, ed era avviso di tutti gli uomini assennati e liberali così del Piemonte come della Liguria, che se lo Statuto non voleva ritenersi una pura grazia regale ma costituire in modo veridico il patto tra popolo e Re, e come tale servir di legge fondamentale dello Stato, lo Statuto elargito dovesse dichiararsi provvisorio per essere poi discusso da un’Assemblea costituente; e che ove la Costituente non fosse possibile, dovesse lo Statuto largamente e liberalmente trasformarsi (1). Le successive condizioni poste dal Cabella enunciano le richieste e le aspirazioni di tutti i liberali genovesi, come si rileva dagli scritti dei nostri più chiari concittadini di quel tempo (2). Dirò di più: queste condizioni avevano già proposte i Ministri Pareto e Ricci ai Ministri colleghi non appena il Ministero Balbo fu costituito; e il Cavour così le biasimava in lettera 16 marzo all’amico Emilio De la Rue: « Les ministres génois se sont très-mal conduits. Ils ont mis en avant des prétentions insoutenables. On n’a pas cede tout à fait, mais on a introduit dans le gouvernement un germe bien dangereux ». Infatti lo spirito genovese di libera autonomia si rivelava in quelle domande, e quanto spavento incutesse nei Ministri adoratori della monarchia di Carlo Alberto ce lo attesta la memoria lasciatane dal conte Federico Sclopis e pubblicata dal bar. Antonio Manno, dove si legge: « 18 marzo. — Verso le sei dopo mezzodì Cesare Balbo venne a casa mia tutto ansante e con le lagrime tra le parole mi chiede se per amor di suddito e di cittadino io vorrò assisterlo nella formazione del Ministero al momento in cui Pareto e Ricci dopo aver emessa qualche pretensione che sapeva d’antico vezzo di democrazia genovese, si mostravano disposti a tornare a casa loro senza nulla concludere.....Io senza prendere impegno positivo, insistei fortemente perchè non si lasciassero partire i Genovesi infeda re avendo per certo che al loro arrivo Genova si metterebbe in subbuglio. Promisi che nella sera sarei andato in casa Balbo per trovarmi, come per caso, Cl) La revisione dello Statuto non ebbe più luogo nè allora nè mai, perchè Carlo Alberto, e dietro il suo esempio tutti i suoi successori, avendo col fatto abbandonato ogni prerogativa sovrana all autorità delle due Camere, all’infuori delle disposizioni concernenti le dignità e gl’interessi economici della Corona e della famiglia Reale, ógni revisione diveniva superflua. (2) Cfr. A. Neri, op. cit. pag. 168 e passim. 127 coi Genovesi ». — « 14 marzo. — Al tocco convegno in casa Balbo. I Genovesi (Pareto e Ricci) domandarono la revisione dello Statuto, che fu combattuta da tutti i Piemontesi.....Si ventilarono poi due punti: la dotazione degli ordini cavallereschi e la bandiera tricolore ... Infine i Genovesi posero tre condizioni al loro entrare nel Ministero, 1° amnistia, 2° consegna alla città di Genova del Palazzo ducale, 3° smantellamento di Castelletto o almeno consegna di esso alla Guardia Nazionale ». — Le prime due condizioni non trovarono troppo forti contrasti ma si dissero accettabili con restrizioni e riserve; la terza, sospettata covare intendimenti secessionisti, sollevò una tempesta di recisissime opposizioni. Franzini, ministro dèlia guerra, prognosticò conseguenze terribili; Sclopis, di giustizia, protestò che acrébbe preferito lasciarsi tagliar la destra che sottoscrivere tale articolo; Revel, di finanza, esclamò che accettata quella pretesa, era completa la separazione di Genova dal Piemonte; Balbo urlava e finì quasi col piangere. I Genovesi protestavano di non credere a quel vaticinio; esser per loro un dovere di cittadini l’insistere; non guarentire la quiete di Genova ove non avessero autorità di ottenere quel che Genova domandava. « Si ebbe a scorgere, aggiunge lo Sclopis, che i Genovesi di questo risoluto partito si erano impegnati con capi parte » (1). Il mutamento operatosi in meno di due mesi nell’animo dei Genovesi verso lo Statuto sarebbe pur sempre inesplicabile se non ricordassimo che nel frattempo Milano, cacciati gli Austriaci, si reggeva a libertà popolare e preparava la Costituente, e che Venezia aveva proclamata la repubblica, e che Genova, repubblicana nell’anima, nel godimento delle popolari franchigie non avrebbe mai voluto rimanere inferiore alle redente città sorelle. Cessata la voce della possibile assunzione del Cabella al Ministero, non cessava l’opinione genovese di designarlo a grado eminente, perchè in quello stesso tempo il nostro Ricci, Ministro degl’interni, (1) Cfr. A. Manno, Il primo Ministero costituzionale in Piemonte in II Risorgimento italiano, Rivista storica, 1908, v. I. — Il forte di S. Giorgio (posto sull’altura sovrastante la piazza dell’Acquaverde) e quello di Castelletto furono poi demoliti dal popolo nell’agosto di quell’anno. Il Palazzo Ducale con R. Decreto 7 maggio dello stesso anno era stato dichiarato Palazzo Civico e posto a disposizione della nostra città che in compenso si obbligava a certe determinate prestazioni. .Poi, sperimentato difficile il conciliare i diversi interessi del Governo e della città e difficile l’esecuzione del Decreto, le pratiche rimasero sospese finché con legge 27 aprile 1850 (Relatore l’on. Paolo Farina) il Governo concesse il Palazzo Doria-Tursi e sue adiacenze, ivi compreso il Palazzo delle Torrette, alla città di Genova, rinunciando Genova a qualunque diritto o pretesa sul Palazzo Ducale. 128 scriveva ne’ suoi Appunti per l’azione politica da spiegarsi nell’ufficio di Ministro cioè tra le cose da ricordare e le proposte da presentare al Consiglio: « Intendente generale avv. Cabella (1). VII. Coopera alla sedazione di uu tumulto a Voltri (aprile 1848). *■ Il Nostro che, come ho detto, nutriva massima stima pel Ricci, nel successivo aprile ne caldeggiava attivamente la elezione al Parlamento, onde il Ricci il 20 gli scriveva: a Fra le gravissime condizioni in cui trovasi la nòstra politica, nelle particolari difficoltà della posizione nostra personale, non dirò un conforto ma una benedizione è per me la voce degli amici. Mia consolazione unica è il pensare che il vostro giudizio non sarà, ponderate tutte le circostanze, su di noi troppo severo..... Tanto la (Guardia) Civica quanto il nostro paese tutto acquistano ogni giorno maggiori titoli alla riconoscenza del governo e dell’Italia intera. Genova potrà gloriarsi d’avere più di ogni altra città contribuito alla causa italiana. Malgrado i mali umori e le difficoltà d’ogni genere non dispero del buon esito. Ma tutto dipenderà dalla Camera ». E al Ricci ricorreva il Cabella pel componimento pacifico di un tumulto scoppiato a Voltri. In questo Comune da più anni covavano odii fra il partito clerico-gesuitico e il partito liberale rappresentato principalmente dal medico condotto Antonio Cattaneo da Novi e dal prof. Antonio Drago direttore delle scuole. Aizzato dai preti, il 13 aprile il popolo voltrese si sollevò contro costoro, assediò in casa sua il Cattaneo tentando d’averlo in mano; irruppe nelle scuole, ne portò via la suppellettile e la bruciò sulla riva del mare. Sopraggiunsero da Genova rinforzi di polizia e un drappello di Cavalleria che con pochi arresti rimisero l’ordine e la quiete nel paese (2). Mandata dal governatore Regis vi andò poi una Commissione composta dei Sig.n Orso Serra, Marcello Erminio, Giuseppe Deivecchio, Cesare Cabella (1) A. Nebi, op. cit. pag. 460. — Com’è noto, la carica d’intendente generale corrispondeva press’a poco, per la parte amministrativa, alla odierna di Prefetto della Provincia. (2) L’intendente generale di Polizia, Castelli, scriveva: « Anche in questo fatto mi si assicura esservi sotto un intrigo gesuitico condotto dal parroco predetto la cui famiglia ha sempre avuto strette relazioni con S. Ambrogio; e pur troppo è ormai indubitato che se il Governo non trova modo di tor di mezzo questa cancrena sociale, sarà impossibile che l’ordine si ristabilisca ». 129 e Nicolò Federici col mandato di accertar le cause dei fatti accaduti e dar opera efficace alla conciliazione degli animi. Compiuta la missione, il Cabella scrive all’amico ministro Ricci in data 20 aprile pregandolo d’interporre i suoi uffici per appoggiare una supplica diretta ad ottener la grazia agli arrestati in seguito a quei disordini. « Io feci parte della Commissione che andò a Voltri incaricata di sedare i torbidi che vi erano stati suscitati dal partito gesuitico. Fummo assai fortunati di riuscirvi in modo superiore alle speranze. Sarebbe ora desiderabile che il processo non avesse altro seguito e fossero liberati gli arrestati. Il Magistrato d’appello non ha poteri bastanti a quest’uopo. Si richiede l’autorità Regia. Ho scritto perciò una supplica a S. E. il luogotenente generale del Regno perchè conceda questa grazia. La raccomando con tutto l’ardore a voi. Lunedì venturo la Commissione è invitata ad un pranzo che gli abitanti di Voltri ci offrono in rendimento di grazie. Bramerei andarvi accompagnato dall’atto di perdono e dalle persone perdonate. Perciò vi prego ad interessare la vostra intercessione ed i vostri consigli per far contento questo voto. Colpire i sette individui arrestati mentre son liberi i capi (che conosciamo), mentre altre persone egualmente colpevoli non hanno molestie, mi parrebbe una rivoltante ingiustizia. D’altra parte continuare il processo ed infierire severamente non mi parrebbe prudenza, perchè ne sarebbe distrutta l’opera di conciliazione che siamo riusciti a compiere ». A cui Vincenzo Ricci il 22: « Sono stato immediatamente a parlare al conte Sclopis su quanto forma l’oggetto della vostra lettera. Non pare sia il caso di una grazia, quando non esiste ancora condanna, nè d’un’amnistia per non trattarsi di cosa gravissima. — Scrivo invece al Presidente del Magistrato d’appello perchè sia immediatamente accordata la difesa a piede libero. In qualunque caso l’imputazione non sarà che tale da portare leggere pene correzionali, e quando la difesa non riesca a liberarli da queste, interverrà la grazia. Di tanto potete assicurare positiva-mente tutti ». Dei disordini di Voltri e di Genova parla una lettera di quei giorni dell’avvocato generale Pinelli al nostro Cabella a cui raccomanda di cooperare a che cessino agitazioni e dimostrazioni tumultuose, perniciose all’instaurata libertà. Il nostro avvocato in quei giorni di generale effervescenza agitato da mille timori e speranze, prodigava tutto se stesso al bene comune. Abbiamo del 21 aprile un manifesto da lui redatto ad in- 130 vito dei Sindaci della nostra città annunziante la formazione di un nuovo Comitato di beneficenza a favore dei combattenti e delle loro famiglie. TELI. Scrive al ministro Ricci proponendo miglioramenti nella Guardia civica. Il 27 aprile convocazione dei Comizi generali per l’elezione dei Deputati al 1° Parlamento. Il 28 il Nostro scrive all’amico Ministro ringraziandolo d’averlo soddisfatto della sua preghiera circa le cose di Voltri, poi si duole delle nullità elette dai Genovesi al Parlamento, quindi soggiunge: « Voi sapete come s’improvvisò il giorno 1 marzo la nostra milizia nazionale in numero di 16 compagnie. Sopravvenne la' legge del 4 marzo. I nostri sindaci invece di cessare il provvisorio, e organizzare subito la milizia definitiva, continuarono a far compagnie volontarie fino al numero di 48 e nulla fecero per l’esecuzione della legge. Quel che è peggio, accettarono come capitani persone che non godono la pubblica fiducia, e che furono riconfermate dalle compagnie... Una più grande calamità ce l’abbiamo fatta noi stessi coll’eleggere per capo legione il generale Quaglia, uomo di ottime intenzioni, ma assolutamente inetto e imbecille. Egli si è formato uno stato maggiore di persone, delle quali il meno male che si possa dire è che somigliano al loro capo. » Siamo ai dieci di maggio. » Questa lettera cominciata il 28 aprile non ho più potuto terminarla per le infinite occupazioni che mi oppressero. Questa mattina ho ricevuto la gentilissima vostra lettera datata del 10, ma che dev’essere d’ieri 9, della quale io vi devo due volte ringraziare; prima perchè mi ha dato occasione di far la conoscenza del vostro fratello Sig. Giovanni, e poi perchè mi reca la prova d’una confidenza da parte vostra la quale tanto più mi è cara quanto più mi onora. Assicuratevi ch’io non avrò mai esercitato il mio ministero con più amore e con maggior zelo di quello che porterò negli affari che mi confidate: perchè all’antica amicizia si aggiunge ora un sentimento di ammirazione per il modo con cui esercitate l’altissimo ufficio di ministro italiano. Abbiamo preso appuntamento col Sig. Giovanni per domattina alle 8 » (1). (1) March. Giovanni Ricci n. nel 1813 a Genova, fa dotto e brillante ufficiale di marina, dove raggiunse il grado di capitano di vascello e di Aiutante generale di ma,- 131 Nel 2° paragrafo dejla riferita lettera lo scrivente unisce le sue alle lodi tributate al Ricci da tutti i liberali per la circolare da lui diramata agl’intendenti intorno ai doveri e alle norme da osservarsi dalle autorità e dai cittadini nelle prossime elezioni politiche: « D’ un’ altra cosa vi ringrazio con tutta l’anima ed è di quella magnifica circolare che scriveste per le elezioni. Siate benedetto! Voi foste il primo a mettere in bocca al Governo il linguaggio della franca e schietta verità, ad inaugurare il sistema della probità e della fede governativa. Imparino da voi i repubblicani di Francia e d’Italia: i primi a non voler la tirannide sotto forma repubblicana, i secondi a non desiderar la repubblica. Il vostro esempio farà un gran bene all’Italia, la quale deve aver caro di unirsi sotto le ali di un Re che ha un tal Ministro ». L’amor del pubblico bene non da riposo al nostro Avvocato che il domani, 11 maggio, scrive nuovamente all’amico Ministro sull’urgenza di eliminare quanto prima gl’inconvenienti a cui da luogo la condizione e l’ordinamento provvisorio della Guardia Nazionale. Il modo più sicuro afferma essere la organizzazione per località secondo il prescritto della legge 4 marzo; questo essere egli già riuscito a persuadere; i sindaci l’avevano adottato; si erano pubblicati i manifesti; creati i consigli di ricognizione; cominciati i Ruoli. Prevede opposizioni, domanda appoggio al Ricci. Gli raccomanda la rinnovazione dello Stato maggiore della Guardia Nazionale, composta di inetti. IX. Si fonda il Circolo Nazionale dove il 22 maggio il Gioberti vien salutato a nome di Genova dal Cabella presidente. Il giorno 3 gennaio (1848) a Genova il Comitato dell’Ordine prima di sciogliersi spontaneamente volle dare un’ultima prova dello spirito di cui fu sempre animato facendo affiggere sulle cantonate un car- rina. Sotto il Cavour, dice il Donaver (7Z Ministro V. Ricci in Rassegna nazionale 1° agosto 1898), Griov. Ricci era il vero capo delle Marina sarda. Appoggiato dal Cavour, fu eletto deputato di Genova nella 7a, 8», 9», 10» e 11* legislatura, e fu Ministro della marina nel Ministero Farini dall’8 die. 1862 al 22 genn. 1863. Fatto senatore nel 1873, mori a Bergamasco (Alessandria) il 5 ott. 1892. Lasoiò erede di tutto il suo patrimonio, ascendente a oltre un milione e 800 mila lire, il Municipio di Genova con l’unico onere all’erede di assegnare 16 posti gratuiti nell’Orfanotrofio maschile a fanciulli orfani nativi della nostra città (Cfr. Donaver, Beneficenta genovese). La sua salma riposa nel tempio di Staglieno. Quanta stima godesse presso il gran Ministro si ha da molte lettere, tra le altre dalle lett. 28 nov. 1850 e 22 genn. 1861 all’amico Emilio De la Rue e dalla lettera al Re 4 dio. 1860. 132 tellone con le parole: Fratelli, -sono in vigore le nuove leggi di polizia, rispettiamo la legge (1). Per la nuova legge e con questo monito veniva a cessare il servizio della vigilanza notturna fino a quell’ora esercitata dai membri dell’Associazione dell’ordine; la quale non cessò per questo di vivere e di operare anche nelle tumultuarie vicende dei primi mesi del 1848. Appresso, emanato lo Statuto, istituita la Guardia Nazionale ed eletto Giorgio Doria senatore del Regno il 3 aprile, parve che l’Associazione dovesse trasformarsi ed acquistare maggiore ampiezza di aggregazione e di mandato per educare nel popolo il sentimento dell’unità e libertà nazionale, vegliare alla conservazione e all’integrità dello Statuto e diffonderne l’intelligenza nella popolazione, raccogliere e rappresentare al Governo, sotto forma di legale e collettiva petizione, i desideri popolari che gridati in piazza potevano dar luogo a sedizioni e tumulti; onde la sera del 3 aprile si radunava per la prima volta nel Palazzo Pallavicini in Via S. Sebastiano e si fondava in Genova una società a cui si poneva .il nome di Circolo Nazionale e che già fin da principio contava più di 180 soci, tutti liberali di varia credenza e gradazione: presidente l’avv. Leopoldo Bixio, vicepresidenti gli avv. Paolo Farina e Cesare Cabella (2). N’era Segretario Antonio Doria il quale scriveva all’amico Ministro Vincenzo Ricci che il Circolo si sarebbe « messo presto in attività specialmente per ispronare gli elettori a presentarsi (perchè lo fanno a ritroso), per far correre il nome degli eligendi, disporsi per operare nei Consigli, educare e persuadere il popolo, ed educare noi stessi alla vita politica non dimenticando il principio unico che deve tutti guidarci, quello della nazionalità ed unità italiana ». Dopo il Bixio, eletto Deputato del 4° collegio il 28 aprile, assumeva la presidenza il Cabella medesimo da cui l’associazione riceveva un carattere di forte e ordinata libertà. Ma ecco l’enciclica papale del 29 aprile che seppelliva per sempre le illusioni neo guelfe e preparava in Italia altre misere defezioni. Il Governo provvisorio di Milano, discorde ne’ suoi membri, combattuto da opposte fazioni, seguitava a temporeggiare e, fino a che il popolo, finita la guerra, con un plebescito non avesse signifi- (1) Gazzetta di Genova dell’8 genn. 1848. (2) Esiste tra le carte cabelliane un Verbale, da lui redatto, della 211 adunanza di questa società, dove si discute sul nome da imporle. Prendono parte alla discussione i fratelli avv.“ Nicolò e Francesco Magioncalda, l’avv. Giuseppe Carcassi, Antonio Doria, il march. Francesco Pallavicino, l’avv. Paolo Farina, l’avv. Antonio Costa, 1 avv. Daneri. Il nome di Circolo Nazionale k adottato dopo discussi, l’un dopo l’altro, nove nomi diversi. 133 cata la sua volontà, a differire quell’annessione o fusione col Piemonte che, operata in tempo, poteva salvarci da posteriori disastri. I Gesuiti e i retrivi, i repubblicani capitanati dal Mazzini e dal Cattaneo, e le mene dell’Austria, dividendo gli animi e scomponendo le volontà, ponevano a imminente pericolo la ben cominciata impresa. In sì gravi momenti Vincenzo Gioberti, chiamato dal voto di tutti gli Italiani, ritornava trionfante da un esilio di 15 anni a Torino in quel giorno stesso che il 3° collegio di Torino e il 3° di Genova lo eleggevano deputato, e il papa per paura dell’Austria rinnegava la libertà d’Italia. Viste da vicino le condizioni politiche italiane e indotto dalle sollecitazioni di tutti i patrioti torinesi, il valentuomo stimò necessario recarsi di persona a visitare le principali città italiane per animare, accendere, muovere governi e governati alla pronta attuazione dell’ idea unitaria federativa avente primo nucleo e fondamento il Regno costituzionale dell’Alta Italia. Va quindi a Milano, poi al quartier generale di Sommacampagna dove è abbracciato e onorato come santo amico da Re Carlo Alberto che gli commette ampi mandati presso Pio IX; di là discende a Cremona quindi a Piacenza, poi a Parma, poi, per Val di Magra, a Spezia, a Chiavari, dappertutto acclamato, esaltato e benedetto con feste e traboccante amore di popoli che alla magia filosofica della sua potentissima parola dovevano la rinnovata coscienza del loro essere civile e politico. Arrivò a Genova, dove da tre giorni ansiosamente si attendeva, alle 2 del mattino del 21 maggio e prese alloggio al- 1 Hotel Feder che, non ostante l’ora inoltrata, s’inondò a un tratto di gente d’ogni condizione. Scrittore di gran lunga superiore all’oratore, scrisse poi come lui solo sapeva, un saluto-proclama ai Genovesi che, pubblicato la notte seguente, li infiammò tutti d’indicibile entusiasmo. La mattina del 22 si recò al Circolo nazionale. Era collocata presso il tavolo della Presidenza la famosa bandiera di Portoria del 1746, ormai divenuta il palladio della nostra libertà. L’orator Presidente traendo mirabile impulso da questa circostanza, rivolto al grande filosofo italiano così parlava: « Noi non possiamo abbastanza ringraziarvi, Sig. Vincenzo, dell’onore che ci fate recando al nostro Circolo la gloria del vostro nome, l’autorità della vostra persona: la quale se per la prima volta esultiamo di vedere in mezzo a noi, la mente però e l’intelletto vostro sempre ci furono presenti, ispirarono i nostri atti, e quasi presiedettero le nostre adunanze. Voi da gran tempo salutammo precursore del nostro riscatto: in voi amammo l'ottimo cittadino che dall’esilio 134 imparò non a preparare la vendetta, ma a vieppiù amare e servire la patria; in voi riverimmo il prode campione che, smascherati gli eterni, implacabili nemici d’Italia, li atterrò di tal colpo che mai più risorgeranno: il grande filosofo che i giorni della sventura non ha spesi in vane querele, ma in potenti studi, per mostrare all Italia la via di ripigliare l’antico primato. Nuova è dunque la conoscenza, ma antica la riverenza e l’affetto. E già molti segni ne diede il nostro popolo; perchè quando i destini d’Italia gli parvero maturi, e li afferrò risoluto di vincere o cadere con essi, il vostro nome fu il primo ad essere salutato da’ suoi evviva. » Onore a voi, Gioberti! Voi passaste dairesilio al trionfo. La corona civica vi stava preparata alle porte d’Italia. Ogni città v’aggiunge oggi la sua fronda e l’accompagna de’ suoi plausi. Onore a Voi! Ricevete pure con nobile orgoglio il premio più grande che la patria possa decretarvi, l’amore del popolo. Grandissimo è quello che vi portano i Genovesi ai quali non pare di potervelo abbastanza significare. Ma voi lo intendeste e ben lo provano le nobili e affettuose parole che voi pubblicaste la scorsa notte e che tanto commossero gli animi dei nostri concittadini. Oh io vi ringrazio in nome loro d’aver così bene intesa la virtù del nostro popolo! Il quale fece sull’altare della patria il più grande sacrificio che mai potesse richiedersi ad uomini non degeneri dai loro avi: il sacrificio del nome, delle tradizioni, delle glorie repubblicane. E quand’io veggo così concordi nell’alto concetto un grand’uomo e un gran popolo, io grido: qui è il vero, qui è il pensiero di Dio. Accettiamo il voto che voi fate dei premii che giudicate preparati al nostro sacrifizio. Ma, io ve lo giuro in nome de’ miei concittadini; se questi premii ci mancassero, non ci pentiremmo mai, perchè ad altro compenso non mirammo che al bene della patria comune. Surti alla sua chiamata, abbracciando questa sacra bandiera del’46, giurammo di non più arrestarci, nè più ci arresteremo finché il gran riscatto non sia compiuto, o finché non cadiamo sepolti (Dio sperda l’augurio) sotto le sue rovine. » Ora voi partite, o Signore, accompagnato dai nostri voti, dai nostri desideri. Andate dove il bene della patria vi chiama. Dite a Pio IX che avvezzi ad amarlo, a chiamarlo grande, troppo ci dorrebbe ritirargli i nostri affetti, la nostra riconoscenza. Ma ditegli ancora che prima di lui e più di lui amiamo la santa causa italiana. Ditegli che vorremmo sempre chiamarci suoi figli, ma che siamo figli d’Italia. Ditegli che il popolo genovese, l’antichissimo amico dei Papi, è però popolo italiano. Ditegli che la causa d’Italia non deve perire. Ditegli che l’ha benedetta una volta in nome di Dio; non la tradisca; 135 non la maledica in nome de’ tiranni. Andate accompagnato da quel grido che suona sempre uno nelle nostre contrade, dal grido che noi ora ripetiamo con immenso affetto: Viva Gioberti! ». Dopo il Cabella parlarono il p. G. B. Giuliani e l’avv. Antonio Costa. Il Gioberti raffreddato e rauco e quasi afono, stanco da tanti viaggi e da tante emozioni, rispose press’a poco queste parole: « Ancorché non avessi perduta la voce, tale è la commozione che la parola non corrisponde a quanto vorrei esprimervi. Degnatevi di accettare la mia inalterabile riconoscenza non solo per l’accoglimento di amore straordinario con cui mi onoraste e mi onorate, ma pel sublime esempio di civile sapienza che mi porgete. » Il solo spettacolo di un Circolo Nazionale in cui si cerca di conciliare la libertà colla monarchia, un Circolo Costituzionale di una città che ebbe storia fra le principali repubbliche, un Circolo Costi* tuzionale in una città che, quantunque perdute da molto tempo le libertà popolari, ne ha serbato viva la tradizione, un Circolo simile è la più splendida prova che dar si possa del vostro senno civile. » Vi dirò per conchiudere che partendo da Genova mi sento più lieto di appartenere alla generosa Italia che dianzi non mi fossi. Non esitavo sulle glorie d’Italia, ma esule da quindici anni, io temevo che gli antichi sensi fossero non dico spenti, ma forse soffocati o compressi. Ora veggo che l’Italia del secolo XIX, che l’Italia del 1848 è degna dei tempi antichi. » Perdonate se non posso proseguire per mancanza di voce e per la commozione dell’anima! Viva Genova! Vivano i Genovesi che conciliarono i primi la libertà colla monarchia! (1) ». X. Roberto D’Azeglio e la coccarda tricolore (aprile-maggio 1848). La bandiera in antico ebbe significato esclusivamente militare. Prima del 1790 in Francia e del 1797 in Italia non si ebbe bandiera nazionale cioè bandiera che rappresentasse tutto il popolo senza distinzione di classi o di poteri, con tutte le sue istituzioni politiche, militari, civili. Il nostro tricolore, inteso nel senso moderno della parola, ebbe i natali nella città di Reggio il 7 gennaio 1797. Il congresso dei delegati delle quattro provinole federate di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio volendo dare alla nuova Repubblica cispadana colori suoi che la simboleggiassero, scelsero il bianco, rosso e verde che già le loro milizie portavano, e ne dichiararono universale l’uso come nappa e come bandiera. Ne fu proponente il dott. Giuseppe Compagnoni delegato di Lugo, di cui si fa cenno negli atti ufficiali con le seguenti parole: (1) Cfr. Gazzetta di Genova 23 maggio 1848. 136 * Compagnoni fa mozione ohe lo stemma della Repubblica sia innalzato in tutti quei luoghi nei quali è solito che si tenga lo stemma della sovranità. — Decretato. — Fa pure mozione che si renda universale lo stendardo o bandiera cispadana di tre colori: verde, bianco e rosso, e che questi tre colori si usino anche nella coccarda cispadana, la quale deve portarsi da tutti. — Decretato • (1). Con questo decreto i tre colori ohe prima erano considerati distintivo puramente militare, cominciarono ad avere per la prima volta significato civile e nazionale. Se non che, caduto il colosso napoleonico, in Francia sui caduti oolori della Rivoluzione risorsero i gigli dell’antica dinastia, in Italia il trioolore cadde sotto gli artigli dell’aquila bicipite. Da quel tempo il tricolore, terrore dei nostri tiranni e sacro simbolo ideale di fede italiana, sorresse e nutri, in segreto e perseguitato, le speranze e gli ardimenti dei nostri patrioti finché re Carlo Alberto, abbracciata la causa del popolo italico, ne sublimò alla luce del sole il santo segno che la rappresentava. L’art. 77 dello Statuto conservava al Piemonte la sua antica bandiera militare e la coccarda azzurra, ma il 23 marzo 1848 nel Proclama ai popoli della Lombardia e della Venezia, il Re, a significare l'unità dei sentimenti italiani cangiava la bandiera piemontese nella nuova bandiera italiana dai tre colori con sopravi lo scudo di Savoia: tale ordine con decreto 11 aprile estendeva pure alle navi di guerra e mercantili. La Guardia Nazionale di Genova s’affrettò a compiere il voto di lunghi anni non solo spiegando al vento il vessillo tricolore ma i tre colori intessendo anche nella nappina o coccarda (2). Ma perchè in Piemonte la seconda innovazione trovava oppositori e renitenti nei personaggi aulici troppo attaccati alle vecchie consuetudini e infetti di piemontesismo, Roberto d’Azeglio, fratello primogenito di Massimo, senatore del Regno Sardo e uomo di sentimenti largamente italiani che, non appena conosciuto a Torino il nostro avvocato, ne aveva concepito grande ammirazione e simpatia, considerando che il simbolo è potente interprete ed eccitatore nel pubblico del sentimento simboleggiato, così gli scriveva il 25 aprile: « Ill.m0 Signore, » Ricorro alla di lei compiacenza e invoco la di lei valevole intervenzione per un affare che quantunque sembri a taluni di poco momento, ovvero taluni faccian vista di giudicarlo così, è pur di (1; Cfr. E. Ghisi Saggio per una itoria completa del tricolore in II Risorgimento italiano, Rivista Storica, Voi. Ili pag. 293 e 517: V. Fiorini, Le origini del tricolore in Nuova Antologia, genn. e febb. 1897. (2) Primo fra tutti, il nostro Goffredo Mameli, sdegnando odiosi divieti, a capo degli studenti universitari, spiegava al sole la bandiera italiana nel pellegrinaggio ad Oregina il 10 dicembre 18-17, e i Genovesi ne seguirono l’esempio in ogni patriottica esultanza. 137 grave importanza nelle attuali circostanze politiche della contrada nostra. Sono informato che la Guardia Nazionale genovese ha inalberata non solò la bandiera ma la coccarda tricolore. Questa essendo il segno visibile della grande e utile idea dell’unione di tutta Italia in un solo intento, in un solo voto, diviene una formale dichiarazione di principi, l’abbandono di un interesse ristretto per uno grandioso, del municipale per il nazionale, di quello della parte per quello del tutto. Io trovo dunque generoso, ragionevole e lodevole il divisamento della Guardia Nazionale di Genova d’aver voluto dare visibilmente ai nostri compatriotti e fratelli della rimanente Italia questo pegno di fratellanza, e d’aver loro cosi dimostrata la nostra assoluta rinuncia a ogni gretto isolamento di mire e d’interessi. Ora avendo io formulata presso alcune delle principali nostre autorità la proposizione di conformarci alla risoluzione dei Genovesi da cui abbiamo avuti tanti nobili esempi, il mio discorso è stato accolto con freddezza (ne eccettuo il capo supremo della Guardia Nazionale march. Ricci) e pare non si voglia così facilmente rinunziare al piemontesismo. Ho dunque risoluto di ricorrere ai fratelli di Genova come iniziatori di quel buon esempio (e ne ho fatto la confidenza al Ministro sunnominato) e a lei in particolare come persona che meritamente gode di un’influenza ragguardevole sullo spirito dei suoi concittadini, affinchè ecciti i sommi capi, e proponga una sottoscrizione numerosa per un Indirizzo alla Guardia Nazionale piemontese, affine d’invitarla ad associarsi all’italiana insegna di quella di Genova, adottando non solo la bandiera che stiamo per inalberare ma pure la coccarda o a dirlo più italianamente il fiocco tricolore, insegna dell’unione che tutti, da ognuna delle varie provincie della Penisola unitamente e fortemente invochiamo. Converrebbe poi che tale indirizzo, mandato direttamente al march. Ricci come capo supremo affinchè ne dia comunicazione a tutto il corpo, venisse pubblicato nei giornali, perchè solo in tal modo si può paralizzare la mala volontà di alcuni principali capi, i quali (qualora non fosse messo il pubblico nella confidenza) non se ne darebbero per intesi e continuerebbero a non curare il voto della maggiorità dei nostri giovani, che tutti aspirano a mostrarsi italiani anziché piemontesi. Mi pare che una tale proposizione sottoposta ai loro capi, e al primo di tutti Generale Quaglia, abbia ad incontrare universale approvazione, anzi ne ho la certezza, e il passo, a cui mi risolvo, le dà pure ad un tempo la certezza della fratellevole nostra simpatia per i nostri commilitoni genovési con cui vogliamo essere sempre una cosa sola, una sola famiglia, e glielo dico e ripeto con tutta l’effusione del cuore. La riuscita di questa piccola manovra inspirata 138 da un sentimento di puro amor patrio darà al Ricci ed a me somma facilità per riuscire nel nostro comune intento, e superare quegli ostacoli che il municipalismo dei nostri buoni piemontesi ancor frappone alla manifestazione di un principio a cui non son del tatto rallegati. » Ascriva alla stima che la S. Y. Ill.ma mi ha inspirata e alle onorevoli relazioni che ebbi con lei in altra circostanza, il passo a cui mi son risoluto in questa, e mi permetta di qui rinnovarle l’espressione del medesimo sentimento, unito alle sincere proteste del mio profondo ossequio e specialissima devozione. » Torino, 25 Aprile 1848. Dev.mo Obb.mo Servo Roberto d’Azeglio » Il nostro Avvocato, plaudendo alla proposta, gli rispose subito il 27 aprile promettendo spedirgli quanto prima il domandato Indirizzo della Guardia Nazionale Genovese alla Piemontese. Se non che, ben pensato, l’esecuzione del patriottico disegno non era scevra di scogli: poteva ledere suscettività, dar luogo a gelosie municipali, opposizioni militari; e il non avere il Cabella dato altro seguito a pratica di tanto momento è prova che la proposta dovette incontrare dispareri tra i nostri e forse ne sorsero quistioni facilmente immaginabili di delicata convenienza politica che ne arrestarono il corso. Con la seguente il D’Azeglio chiede del fatto spiegazione all’amico. « Torino, 4 Maggio 1848. « Preg.mo Signore, » Non avendo più udito nuova deH’effetto ottenuto dalla proposta a lei fatta confidenzialmente, nè ricevuta la minuta dell’indirizzo gentilmente annunziatomi nella di' lei del 27 aprile, m’entra in animo il timore sia il partito stato poco favorevolmente accolto da quella Guardia Nazionale. Bramerei averne contezza positiva, onde dar opera a qualche altro passo qualora ciò fosse vero. Ho confidato al nostro gran Gioberti l’apertura da me fattale in proposito, ed ha approvata altamente la nostra risoluzione, come quello che altamente comprende quanto sia importante l’unione di tutte le provincie italiane in una sola idea, e quanto sia importante adottare un solo segno che rappresenti l’adesione di tutte le volontà a tale unione. Ma metà pregiudizio, metà indifferenza, molti fanno e faranno opposizione: e bisogna che i molti siano attutiti dai moltissimi. Avremo da combattere più di 139 Un amor proprio personale, o municipale, o provinciale, prima di attingere a quella grandiosa fusione di tutti gl’interessi parziali in un solo generale, e non bisogna perdonarla a nessuno. Scusi la mia insistenza in ragion del motivo e gradisca le nuove sincere proteste della mia alta stima e specialissima devozione. « Roberto d’Azeglio « Gioberti s’è ben rimesso della sua indisposizione e partirà per Milano il più presto potrà. Forse dopo il giorno della solenne apertura delle Camere. » Con la seguente si chiude la pratica. « Torino, 12 Maggio 1848. » Ill.mo e Onorev.mo Signore, > » Il non aver più ricevuto notizia dei nostri concerti, e la cognizione che avevo ciò non poter avvenire per mancanza di zelo in persona, come lei, zelantissima della santa causa dell'unione italiana, m’aveva indotto in dubbiezza sull’esito delle pratiche. La quale è stata cagione che in altro modo mi appigliassi a vincere le ripugnanze dei nostri uomini municipali e indurli a mostrarsi più larghi nelle idee, e nell’adozione dei loro segni esterni. Ed essendomi valuto‘del generoso esempio dato dalla guardia nazionale di Genova e del grave inconveniente che potrebbe prodursi dall’opposizione dei colori inalberati in due parti d’uno stesso corpo, che di recente soltanto cessarono dagli antichi pregiudizi, e dalle sciocche antipatie dell’età passata, ho riuscito a convincere, e a vincere, e il segno tricolore è stato universalmente adottato dalla nostra guardia nazionale da pochi giorni in qua. Mi affretto di prevenirla affinchè ella non s’incomodi ulteriormente a tal riguardo. 11 non sapere se ella era ancora in Genova o forse allontanatosene per qualche tempo è stata cagione del non averle io scritto subito. Scusi la somma fretta con cui le scrivo e gradisca le sincere proteste della mia stima, affetto e devozione. Roberto d’Azeglio » 140 XI. Il Cabella gravemente ed ingiustamente punito come capo di compagnia della Guardia Nazionale (giugno 1848). Alle moltiplicate cure del foro e della politica si aggiungevano ora pel nostro Avvocato anche quelle della istituita Guardia Nazionale. Se non che mentre egli era tutto infervorato nel diligente adempimento del suo dovere di capitano di compagnia, ecco soppravve-nirgli un doloroso e inopinato accidente che ferendolo nella sua dignità civile, lo turbò non poco nè a torto. Riassumo all’uopo la sua lettera 13 giugno dove lo narra al Ricci. Non gli parlerebbe del caso suo se quelli della Maggiorità (Stato Maggiore della Guardia Nazionale) non glielo avessero esposto diverso dal vero. I capitani della milizia provvisoria furono sempre indipendenti dalla Maggiorità per ciò che concerne gli esercizi delle loro compagnie. Ora gli istruttori avendo riferito al capitano Cabella che la sua compagnia era in grado di far gli esercizi a fuoco, il Cabella diede commissione di 400 cartuccie e fissò l’esercizio della sua compagnia per le ore 5 del 25 maggio, senza domandarne licenza alla Maggiorità. Trattandosi però di far fuoco sugli spalti del Bisagno, ne prevenne l’autorità militare chiedendone il permesso al Governatore; il quale rispose ch’egli ben volentieri, ma che ne domandasse la Maggiorità della milizia cittadina da cui il Cabella dipendeva. Il Cabella scrisse allora una domanda in proposito al march. Giuseppe Carrega Capo di Stato Maggiore, ma non ne ebbe risposta. Credendo perciò che nulla avesse da opporgli la Maggiorità, il Cabella fece distribuire le cartuccie. Ed ecco che un individuo, che il Cabella credette domestico, poi gli fu detto esser sergente, gli viene a dire che il march. Carrega lo manda pregando di non fare gli esercizi a fuoco perchè già il Sig.rGrondona lo aveva proibito a due compagnie. Il Cabella rispose che la sua compagnia era già sotto le armi e ch’egli non potava più recedere senza scontentare i militi; e gli domandò se la preghiera del marchese dovesse intendersi per un formale divieto. L’altro ripetè il già detto. Allora il Cabella lo incaricò di riferire al march. Carrega il caso in cui si trovava e com’egli non poteva in quel giorno rivocare ciò che aveva già comandato. Di ciò non contento, si recò egli stesso alla Maggiorità per ispiegare e giustificare il caso suo; ma non trovando nessuno se non il Sig.r Casanova e un altro ignoto, ripetè a loro quanto aveva detto al messo del M.so Carrega e li pregò a scusarlo presso di lui. Conseguenza: fu dato al Cabella un severo rimprovero e il rimprovero messo all’ordine del giorno; quest’ordine fu messo a registro e dato in copia a tutti i forieri della sua compagnia e affisso per un giorno alla porta della Maggiorità (1). Il Cabella si duole d’essere stato messo alla berlina senz’alcun avviso preventivo, senza discol- (1) Aggiungo ch’egli ricorse immantinente alla Maggiorità con lettera 25 maggio perchè quell’ordine fosse rivocato come ingiurioso ed abusivo di potere. Con lettera esistente del 26 gli rispose negativamente il march. Carrega dichiarandogli non essere in quell’ordine nè abuso di potere nè ingiuria di sorta. 141 pa, senza processo, senza difese, da chi non aveva autorità alcuna, da chi gli si diceva amico. L’art. 74 della legge 4 marzo considera l’ammonizione all’ordine del giorno come pena più grave di tre giorni d’arresto! L’art. 76 prescrive i casi nei quali può applicarsi. E questa pena non può essere inflitta che da un Consiglio di disciplina, dopo regolare processo e sentito nelle sue difese l’incolpato. Fu dunque un abuso di potere veramente indegno. « Per due o tre giorni non si parlò d’altro a Genova; e voi ben capite quanto debba rincrescere ad un onesto cittadino diventare la favola della città. Si aggiunge che due Compagnie già avevano fatto i fuochi, ed io stesso vidi la 14“ (Compagnia di Giorgio Doria) farli sugli spalti del Bisagno. E i loro capitani non furono messi all’indice come fui io..... Ho imparato però cosa voglia dire il prendersi qualche pena per il ben pubblico, e quali sieno i premi preparati a chi si mette con sincera coscienza e con grandi sacrifici propri a servire il paese. Buon per me che il provvisorio (milizia provvisoria) sta per finire ». Passando poi a parlare dei casi presenti della guerra, si fa interprete al Ricci di ciò che in Genova e tutta Italia fortemente si voleva e richiedeva. Com’è noto, pochi giorni dopo la gloriosa vittoria di Goito e l’occupazione di Peschiera, Venezia, invano difesa dal Durando, capitolava il 10 giugno, e l'Austria cominciava a rioccupare, tranne Venezia, quasi tutto il Veneto. E nondimeno l’Austria sconvolta internamente, con la mediazione britannica cominciava a far proposte di pace a noi vantaggiosissime, che buon per noi se avessimo accettate. Ma convinti e illusi tutti che la vittoria finale non dovesse per niun modo fallire alla santità della nostra causa e al nostro infrenabile entusiasmo, non si pensò neppure a esaminare se al conseguimento di tanto fine noi avessimo pari i mezzi e adeguata la preparazione civile e militare: tutti gridarono doversi rigettare ogni idea di negoziati diplomatici e continuare la guerra già cominciata con lietissimi auspici. Onde il Cabella soggiungeva: « Prima {di finire) permettete che vi faccia una calda raccomandazione. Per carità, per quanto amate la nostra causa santissima, fate tutto ciò che è in mano vostra perchè Carlo Alberto non pensi a trattare con l’Austria per mezzi diplomatici. Nazione e guerra; nazione e guerra; nazione e guerra. Io non mi stancherò di ripeterlo, Carlo Alberto è grande, egli è il più potente re di Europa solo perchè ha preso in mano una causa nazionale, e sulla nazione sola si è appoggiato. Il giorno che cessasse da questo sistema sarebbe perduto. La nazione non vuole gli Austriaci cacciati con altro mezzo che colla guerra. Se scegliesse un altro mezzo sarebbe un’altra volta perduto. Che andò a fare monsignor Morichini ad Insbruck? Oh, per Dio, no, non vogliamo pace per mezzo di preti. Guerra e guerra! Addio, mio caro, amate chi vi sarà sempre affezionatissimo ma sincero amico. Cesare Cabella » ] 42 XII. Il Cabella a uomo del Circolo dirige ni Ito per mezzo del ministro Ricci un indirizzo invocante rimedi ai mali che af-fligouo l’esercito (20 giuguo 1848). Intanto mentre da noi si passava il giugno nell’inerzia, il nemico si audava riordinando e riafforzando ai nostri danni. Tutti sentivano sovrastare avvenimenti gravi, tutti additavano provvedimenti a prevenirli e ad evitarli, si era tutti in trepidazione e in ansia di conoscere il vero delle cose e dei pericoli minaccianti la causa italiana. E il Cabella se ne fa interprete al Ricci in lettera 19 giugno dove « rileva le tristi condizioni dell’esercito nostro che si disanima e si dissolve perdendo terreno; mentre l’Austria rialza la testa e si appresta fortemente a combattere con fortuna. Tocca degli errori commessi e delle due occasioni perdute di sconfiggere in modo definitivo i nemici; delle asserte dissensioni dei generali, dei tentativi dei retrogradi, della caduta del Ministero. L’opinione pubblica è allarmata. Come presidente del Circolo nazionale desidera categorici schiarimenti intorno ad alcuni quesiti, a fine di procedere d’accordo, governo e popolo » (1). Eran momenti terribili, e il nostro Cesare non trovava pace nè requie. Nel tempo stesso che al Ricci ministro, aveva scritto all’amico avv. Nicolò Magioncalda deputato di Recco e socio autorevole del Circolo nazionale, allora a Torino, stringendolo vivamente a dargli subito ragguaglio dell’andamento della guerra e della politica nostra; e l amico gli rispondeva subito con la lettera seguente, importante perchè fedele espositrice dei casi e delle passioni agitantisi in quei giorni nella capitale subalpina e del giudizio che ne recavano i liberali genovesi. « Torino, 20 giugno 1848. « Cesare mio, » Ricevo la tua lettera troppo tardi per poterti dare un disteso ragguaglio degli affari nostri. Ma d’altra parte mi rincrescerebbe troppo ritardare ancora di un giorno le notizie che mi chiedi con tanta premura. Ti dirò dunque quel poco che il tempo mi consente; riser-bandomi di appagarti meglio in appresso. (1) A. Neri, op. cit. pag. 114. 143 » Quanto all’armata io non so che dire. La sua inazione in questi giorni è inesplicabile. Io l’attribuisco per altro piuttosto a inettezza di generali che a tradimento. Quello poi che non posso assolutamente credere è che si voglia transigere coll’Austria. Le molte e solenni dichiarazioni del Re e del Ministero a questo proposito: la clausola inserita nel patto di unione colla Lombardia di non fare trattati politici senza concertarsi colla Consulta Lombardo-veneta mi fanno da questa parte sicuro. Il pericolo sta nel cattivo governo della guerra: il quale porterà per ultima conseguenza l’intervento francese: intervento che noi non vorremmo a nessun costo. Ma come rimediarvi? Alla Camera si son fatte più volte delle rimostranze intorno a ciò; ma non si è potuto ottener mai altro che la dichiarazione del Ministro della guerra, il quale ripete sempre esserne lui responsabile (1). D’altronde questo è un punto gelosissimo. Ogni dubbio sparso dalla Camera sulla buona fede o abilità dei generali sparge la diffidenza, intimorisce gli animi senza produrre alcun utile effetto. Noi siamo in questa alternativa: o bisogna togliere il comando al generale in capo: o bisogna lasciarlo far lui. Ora quale delle due credi, almeno per adesso, più prudente? » Ma il pericolo maggiore in questo momento sta nei dissidi interni a cui dà luogo la maledettissima questione della Capitale. Perchè una delle due: o vince il partito torinese il quale vuole apporre per condizione al fatto di unione colla Lombardia e la Venezia la conservazione della Capitale a Torino, e l’unione probabilmente non si fa più. 0 vince il partito italiano che non vuole si parli per ora di Capitale; e allora Torino con gran parte del Piemonte minaccia sollevazione. Fra i due mali non c’è da stare in forse. Ma il partito italiano vincerà egli la prova? Ecco dove sta il nodo. Qui i Torinesi fanno di tutto per guadagnare la loro causa nella Camera;' intrighi, combriccole segrete, subornazioni, petizioni minacciose, tumulti in piazza. Ciechi che sono! Non si avveggono che il loro trionfo equivarrebbe alla più rovinosa disfatta. Per contro i Deputati che hanno a cuore l’interesse italiano conferiscono insieme da più giorni e studiano i modi di sventare le trame. Fra i Torinesi stessi non manca chi sa elevarsi al disopra dei gretti interessi municipali: e ieri unitamente alla petizione degli arrabbiati che in tuono minaccioso impongono alla Camera di rifiutare qualsiasi condizione proposta dai Lombardi, furono lette altre (1) Era allora Ministro della Guerra il gen. conte Antonio Franzini. 1U petizioni in senso opposto nelle quali di più i sottosoriventi si profferiscono pronti a difendere l’indipendenza e la libertà dei Deputati. 10 spero adunque che la vittoria sarà nostra: e un buon sintomo si ha già nella scelta dei commissari per la relazione della legge, sei dei quali sono con noi. » Per altro non ti posso tacere che la poca accortezza o debolezza o che so io, di due nostri colleghi che per ora non ti nomino, ha messo ieri sera a grave repentaglio la nostra causa spargendo la divisione nelle nostre file. Io non ti posso per ora spiegare tutta questa brutta tela. Anzi ti prego di mantenere per ora il segreto sii questo: perchè speriamo di riordinarci come eravamo prima in stretta falange per opporre la più valida resistenza al nemico. Intanto voi state all’erta: da Genova solo può venir la salute. E se mandaste subito un indirizzo al popolo Torinese o alla Camera accortamente pensato e scritto, farebbe forse del bene. I Torinesi ci temono: la minaccia di staccarsi da loro potrebbe farli rinsavire. Addio, mio buon amico. Conservami sempre nella tua memoria. Il tuo Nicolixo (1) » Protraendosi intanto questo spinoso stato di cose e rumoreggiando l’opinione pubblica contro l’inettitudine e la partigianeria di parecchi generali ai quali, sopra tutti al Bava, si faceva colpa dei recenti mancati successi e di essere ostacolo alla vigorosa prosecuzione della guerra, 11 Cabella, letta la lettera del Magioncalda, credette opera di buon (1) Nicolò Magioncalda, laureatosi in legge nel 1836, nel 18-15 fu aggregato alla Facoltà di Giurisprudenza, e con E.° D.° ‘20 nov. 1848 ebbe la reggenza della cattedra di Economia politica e Diritto amministrativo. Eletto deputato al primo parlamento subalpino il 28 aprile 18-J8 dal Collegio di Becco, conservò il mandato fino al 21 luglio in cui diede le dimissioni. 11 Boccardo nel suo Dizionario dell'Economia e del Commercio (voi. Ili, pag. 173) lo dice « dotto economista, autore di vari scritti che sotto piccola mole racchiudono molta scienza, fra i quali una Relazione sul progetto del Dock genovese pubblicata nel 1852, e parecchi rapporti sulle finanze civiche, presentati al Consiglio comunale di Genova ». — Andando in vigore la legge della rappresentanza comunale elettiva, fu eletto Consigliere comunale, e in tale ufficio tanto bene meritò della civica amministrazione che il Consiglio il 2i maggio 1854, nominandolo Segretario generale del Municipio, votava per acclamazione questa proposta: • Considerando i segnalati servizi preitati dal cons. Magioncalda alla civica amministrazione con tanta abnegazione, zelo e intelligenza, si propone al Consiglio che nel dare commiato a questo collega, lo proclami benemerito del Municipio ». Cfr. R. Drago, Ricordi di un Segretario comunale, Genova, Pellas 1816, pag. 222. — Mori il 17 giugno 1878 d anni 65. Solidità di dottrina, sincerità di modestia, delicatezza di sentimento, illibatezza di vita ne facevano una rara figura di cittadino e un intimo amico del nostro Cabella. 145 cittadino il rappresentare al Re in modo riverente, sì, ma franco ed aperto i sentimenti e i voti del popolo genovese in un indirizzo votato dal Circolo Nazionale e inviarglielo per mezzo e con l’appoggio dell’amico Ministro. E fu saggio divisamente; ma i generali sono esecutori di ordini; e dov’era qui il comandante supremo che sapesse darli conforme a un disegno già studiato e stabilito? E se i generali erano inetti, dove trovarne migliori da sostituire? E se Napoleone I potè operar prodigi con ufficiali usciti dalla borghesia e dalla plebe della rivoluzione pareggiatrice, come poteva il Re di Sardegna senza suo grave pericolo rimuovere d’un tratto dagli alti gradi quella inetta aristocrazia che li occupava per diritto feudale consacrato dalla consuetudine di lunghi secoli? Ecco la lettera al Ricci. « Mio illustre e degno amico, » V i compiego copia di un indirizzo che il Circolo nazionale di Genova ha votato al Re per ottenere lo scambio dei generali imbecilli e retrogradi che tanto compromettono le sorti della guerra; acciocché voi conosciate tutti i passi che noi facciamo e perchè adoperiate il vostro potere per secondare i nostri piccoli sforzi. » Le notizie di Torino sono più tranquillanti. Mi gode l’animo di sentire che siete appresso a comporre un buon Ministero: e se è vero che abbiate posti gli occhi sull’avv. Gioia di Piacenza, io che da lungo tempo il conosco, posso assicurarvi che non potreste far scelta migliore (1). » Ho il bene di dirmi vostro sincero ammiratore ed amico. » Genova, 23 Giugno 1848. Cesare Cabella » Segue un’idea sommaria dell’accluso indirizzo al Re in data 20 giugno. Premesse parole di debito ossequio, il Presidente espone a S. M. lo stato di preoccupazione in cui si trovano gli animi a seguito degli ultimi avvenimenti della Guerra che or si combatte sull’Adi- (1) Pietro Gioia n. a Piacenza nel 1795, insigne patriota e giurista, fu appunto assunto al Ministero di Grazia e Giustizia nel breve Ministero Casati durato dal 27 luglio al 15 agosto, dove ebbe collega il nostro Ricci. Più tardi resse il Ministero dell’istruzione. Nel 1850 fu creato senatore; mori nel 1865. Di rara dottrina, di ammirevole rettitudine, fu un liberale di stampo antico. Cfr. Stf.k. Fermi e Franc. Picco, L’opera di P. Gioia, Piacenza, Del Maino, 1920. 10 - 146 ge, e le opinioni e i sospetti che si vanno per ogni dove diffondendo e prendendo vigore, secondo i quali non tutti i Condottieri delle armi nostre darebbero guarentigia di idoneità al loro alto ufficio o nutrirebbero sentimenti schiettamente italiani come il Condottiero supremo. Relazioni molteplici ed insistenti, partite dallo stesso campo, contribuiscono ad avvalorare il timore che da ciò possano derivare ostacoli e pericoli alla grande impresa: dilazioni, discordie, incertezze, e quindi nocumento gravissimo alla Guerra di liberazione. « Non è nostro pensiero quello di spargere diffidenze oltraggiose e dannevoli intorno all’onore di chi ha la ventura di militare sotto il glorioso tricolore Vessillo; ma alla mente perspicace di V. M. non isfuggirà come lo spirito di parte, le inveterate affezioni ad antichi sistemi in tutto opposti alle istituzioni ora abbracciate concordemente e potentemente dai Popoli, nuociono in sommo grado all’eseguimento concorde e sollecito delle mosse e dei piani di Guerra; non isfuggirà alla M. V. come possano annidarsi tra i buoni e saldi spiriti di cui si onora l’Armata, altri spiriti ancora inebbriati e bramosi di auliche prerogative, ancora presi all’amore di Casta e di Privilegio; spiriti che non diremo perversi ma per cieco istinto servili, o per povertà di mente aborrenti dalle idee di Progresso e di Libertà nazionale di cui tutti aneliamo e pertinacemente vogliamo la vittoria. ............. » Maestà! Non arrogandoci di penetrare negli arcani delle deliberazioni che possono avere determinato l’attuale procedere di operazioni sul campo, noi non possiamo astenerci dal rassegnarle essere comune sentenza che vi si appalesi freddezza inconcepibile e assenza di un concetto uno e risoluto quale si addirebbe alle circostanze non prospere in cui versiamo, e ciò doversi imputare allo stato di cose da noi sopra enunciato, vero forse quant’è deplorabile *. XIII. 11 Circolo Nazionale e la legge di fusione della Lombardia col Piemonte. Il Governo provvisorio di Milano dopo quasi tre mesi di deplorevoli indugi cagionati da opposte vedute politiche, da attivo lavorio di sette e da gelosie regionali, finalmente comunicava al Governo subalpino la votata fusione della Lombardia col Piemonte, condizione unica quella di un'assemblea costituente convocata per tutto lo stato sulle basi del suffragio universale, la quale discutesse e stabilisse le basi e la forma di una nuova Monarchia costituzionale colla dinastia 147 di Savoia. 11 nostro Ricci il 15 giugno leggeva al Parlamento il relativo progetto di legge salutato da unanimi applausi e da grida di Viva l'Italia, viva il Ministro! Se non che anche a Torino nacquero tosto gli stessi dispareri per l’accettazione che già a Milano per l’of-forta deirunione. Dicevano i timorati e i regionalisti: « perchè l’unione ha da essere subordinata alla condizione di un'Assemblea costituente di così rea memoria rivoluzionaria? perchè il suffragio universale? e a che riuscirà? eppoi: noi che abbiamo giurato lo Statuto datoci da Carlo Alberto, come ci è più lecito assentire ad una Costituente che formerebbe una nuova costituzione? E come possiamo esser certi che Torino, non Milano, sarà per l’avvenire ancora la capitale del nuovo Stato? E perchè il Piemonte liberatore e già politicamente costituito dovrebbe prender forma e norma politica dalle regioni liberate? » E questi sentimenti esposero in una forte protesta ai deputati della Camera, protesta che provocò dimostrazioni di pubblico sdegno a Torino e a Genova. TI nostro Circolo Nazionale alla sera del 19 giugno si convocò e si dichiarò costituito in seduta permanente; deliberò prima l’indirizzo al Re sopra riferito sui generali da rimuoversi; poscia deliberò di rimettere a uno dei nostri deputati, perchè la comunicasse alla Camera, una lettera del Circolo dichiarante la ferma e unanime volontà dei Genovesi che le condizioni poste dai fratelli Lombardi alla invocata unione fossero accettate senza riserve e fosse dichiarata la necessità di un’Assemblea Costituente. « Un’assemblea costituente è diritto sacro pei Lombardi come è sacro per noi. Non può dirsi vero Statuto Costituzionale quello del marzo 1848, nè il popolo Ligure-Piemontese se ne mostrò soddisfatto, ed egli aveva manifestato la sua immutabile volontà che la Costituzione deve emanare dal popolo, non deve darsi al medesimo quasi concessione di grazie. L’assemblea costituente domandata dai Lombardi è l’assemblea voluta dai Liguri-Piemontesi e da qualunque italiano che, conscio de’ suoi diritti, non è disposto a sacrificarli ». Tali i sentimenti che nutrivano i Genovesi intorno alla Costituente domandata dai Milanesi, e tali i sentimenti esposti nella lettera ‘20 giugno deliberata dal Circolo e firmata dal presidente Cabella. Se non che il Ministro Ricci, ripensati i termini della proposta lombarda, presentò alla Commissione incaricata della discussione del progetto di legge, questo emendamento: « L’assemblea costituente non ha altro mandato che quello di discutere le basi e le forme della Monarchia. Ogni altro suo atto legislativo e governativo è nullo di suo pieno diritto. La sede del Potere esecutivo non può quindi esser varia- 148 ta che per legge del Parlamento ». L’emendamento, certo suggerito da deputati torinesi spaventati dal suffragio universale e dal pericolo di Milano capitale del nuovo Stato, riusciva, in quella urgenza, intempestivo e grave di pericoli; inoltre, molte città del Regno mandavano al Governo lettere e deputazioni sollecitanti l’unione qual era proposta da Milano. Come la novella dell’emendamento Ricci venne a cognizione del nostro pubblico, si radunò incontanente il Circolo nazionale in gran numero e dopo una discussione animatissima deliberò di manifestare con una solenne popolare dimostrazione il voto contrario ad ogni emendamento, il voto cioè dell’accettazione pura e semplice della unione qual era stata enunciata nel disegno di legge presentato alle Camere. La dimostrazione ebbe luogo lo stesso giorno 25 giugno, pochi momenti dopo sciolta l’adunanza. Gran moltitudine di cittadini con a capo la bandiera nazionale percorse le vie della città e si condusse al palazzo civico gridando: Abbasso l’emendamento! Viva l’unione con la Lombardia! Viva Pareto! Questo nel mattino; nel pomeriggio, poiché s’era mosso dubbio che la dimostrazione fosse piuttosto espressione della volontà del Cìrcolo che della maggiorità dei cittadini, un numero considerevole di persone si radunò in piazza Carlo Felice donde procedendo per \ ia Giulia e Via di Portoria, con canti patriottici e con nuovi evviva a Pareto e all’unione lombarda giunsero a palazzo Tursi. Quivi, dopo che il Cabella ebbe significato ai rappresentanti del Municipio la pubblica volontà, fu convenuto, annuente il 1° sindaco, che si spedisse subito una Deputazione a Torino incaricata di riferire al Governo il voto dei Genovesi. I deputati scelti dal popolo furono gli avv. Cesare Cabella e Nicolò Federici, dal Corpo decurionale il decurione Francesco Balbi Senarega; i quali poco stante partirono. Il giorno seguente 26 giugno il ministro Pareto in Parlamento si dichiarava contrario all’emendamento dell’amico e collega e il 28, come riferì la deputazione genovese tornata il 29, la Camera votò finalmente l’accettazione dell’unione con la Lombardia alla quasi unanimità, con .soli 7 voti contrarii. Anche il Ricci, cedendo all’evidenza, aveva mutato consiglio e dato voto favorevole. All’udire queste liete novelle, la folla dei cittadini radunati sotto le finestre del Palazzo di Città, emise grida di Viva Pareto e anche di Vira Ricci. Ma perchè il Ricci avrebbe forse potuto interpretare le dimostrazioni popolari promosse dal Circolo nazionale come atti di ostilità alla sua persona o, quanto meno, di riprovazione, al Cabella parve giusto dargli spiegazioni e rassicurazioni a nome del Circolo medesimo e di tutta la città con 149 lettera nella quale gli chiarisce le ragioni che mossero la popolazione di Genova a domandare con grido unanime l’accettazione incondizionata della unione lombarda, onde pure ebbero luogo le due dimostrazioni del 25 giugno e l’invio della Deputazione a Torino. In mezzo a queste grandi commozioni il nome del min. Ricci esser sempre stato rispettato e riverito, e i Genovesi non cesseranno mai di amare in lui l'ottimo cittadino che tanti servizi ha resi alla causa italiana e che tanti ancora ne deve rendere. « Le dimostrazioni del popolo genovese erano soltanto dirette contro il pericolo in cui gli emendamenti, o per dir meglio, le cause che li avevano suggeriti, ponevano la causa e la salute d’Italia. Questa protesta vi fa il Circolo nazionale interprete delle intenzioni e dei sentimenti della intera popolazione ch’egli può assicurarvi non essere diversi ». XIV. Giuseppe Garibaldi al Circolo Nazionale (3 luglio 1848). Intanto Giuseppe Garibaldi, il bello e forte e generoso eroe di Montevideo e di S. Antonio del Salto, udite le notizie incredibili della italica risurrezione, ne esulta nell’anima e ardendo di offrire il braccio e il sangue alla madre patria, accompagnato da’ suoi legionarii, abbandona tosto l’America, sbarca a Nizza, abbraccia la madre, e via tosto per Genova diretto a Torino. Giunto tra noi la mattina del 3 luglio, il Generale veniva presentato al Circolo Nazionale che teneva a quest’oggetto una seduta straordinaria. Accolto con grandissimi applausi, il Generale prendeva posto presso il Presidente Cabella il quale, commosso e superbo d’aver presente e raggiante una tanta gloria italiana, gli volse queste parole: « Sig. Generale: il Circolo si è adunato stamane nell’unico intento di onorare in voi il soldato della libertà, l’esule generoso, che costretto a fuggire la patria, nè potendo combattere per la sua libertà, si consacrò alla difesa deHa libertà altrui. Assalita dal feroce Rosas (il Borbone di Buenos Ayres), la Repubblica dell’Uraguai trovò in voi e negli italiani raccolti sotto il vostro vessillo uno stuolo di forti, scarsi di numero, ma potenti di virtù e di coraggio, che si consacrarono alla sua difesa. La legione italiana di Montevideo valse a quella Repubblica un intero esercito. Voi faceste conoscere nell’altro emisfero che gli Italiaui non sono degeneri dai loro avi, ch’essi son pur sempre i discendenti di coloro che dominarono il mondo. — Durerà eternamente gloriosa la memoria del gran fatto dell'8 febbraio 1846, quando i 170 uomini della vostra legione combatterono un’intera 150 giornata contro 1200 cavalli e 300 fanti, e li respinsero e li dispersero, riportando una vittoria che fa dimenticare gli antichi fatti delle Termopili e di Maratona. Così mentre gli stranieri facevanó insulto al nome italiano, accusandoci'di viltà e di codardia, voi mostravate nell’altro emisfero che, ridouati a libertà, noi potremo essere un’altra volta un popolo d’eroi. L’Italia vi dev’essere riconoscente! » Ma del coraggio e della virtù militare io meno vi lodo ancora, o Generale, che della virtù civile, della quale voi lasciaste a Monte-video gloriosa memoria. Imperciocché quando ai lunghi ed eroici servigi della legione Italiana venne offerto un compenso e un segno di riconoscenza con dono di vasti terreni, la legione Italiana li rifiutò, dichiarando esser debito di tutti gli uomini liberi combattere la battaglia della libertà, senza distinzione di contrada o di popolo, e difendere la libertà minacciata di un paese ospitale: essa protestò aver ubbidito soltanto ai dettami della sua coscienza, quando chiese dividere co’ suoi ospiti i pericoli della guerra, e che adempiendo ad un dovere di uomini liberi, non desiderava nè accettava alcun premio. A queste nobili dichiarazioni i legionarii acclamavano col grido generoso: — Noi non siamo svizzeri! — Ma questo è ancor poco: perchè voi, o Generale, non solo rifiutaste ogni compenso di terre o d’oro, ma perfino gli onori dei prodi dovuti al vostro valore. E io ricordo sempre con profonda commozione quelle generose parole colle quali accompagnaste il rifiuto del grado di generale offertovi da quella Repubblica riconoscente. Poiché dopo aver detto che le ricompense che poteste aver meritate, le dedicavate ai mutilati e alle famiglie dei morti, esclamaste: c I benefici non solo, ma anche gli onori mi opprimerebbero l'animo, comprati con tanto sangue italiano ». Oh almeno, l’alto animo vostro, superiore ad ogni premio, ad ogni onore, avesse avuto la certezza di quel sublime compenso che solo accettano i generosi, l’amore dei contemporanei e l’ammirazione dei posteri. Ma nemmeno potevate avere questa sicurezza: perchè l’Italia gemeva allora sotto il giogo de’ suoi oppressori, i quali abborrivano le vòstre glorie, e paventavano che dal vostro eroismo noi imparassimo a conoscere noi medesimi, a sentir la dignità di Italiani, la virtù e la forza dei nostri petti. Epper-ciò non solo tentavano nascondere i vostri gloriosi fatti, ma li calunniavano e comprimevano qualunque voce italiana si alzasse a lodarli. Stipendiavano i giornali forestieri per vilipendere il vostro nome, e voi doveste leggere le atroci calunnie che contro di voi scagliava per infame mercato il Journal dea Dtbatx. » Che cuore fu il vostro, o Generale, quando vedeste accusati di rapaci saccheggiatori coloro che rifiutavano perfino i premi e gli onori 151 offerti in premio del loro sangue? Oh se non era l’altezza del vostro animo sareste stato tentato a disertare per sempre la causa della libertà, e disperare dell’umanità. Ma voi accettaste anche il più grande dei sacrificii.... Dio però vi preparava un premio allora insperato: la gioia immensa di poter combattere per la indipendenza e per la libertà della vostra patria, per la redenzione d’Italia. Vi salutiamo, o Generale, tornato fra i vostri fratelli, a combattere nella santa guerra. Sotto il vostro vessillo correranno spontanei, e certi della vittoria, i prodi italiani. La patria si affida al vostro braccio, al vostro senno, e al santo affetto che scalda il vostro petto generoso, alle vittorie che vi stanno preparate. Noi ve le auguriamo coi nostri plausi, e la patria pericolante ripete da un capo all’altro questo grido di speranza: Viva il generale Garibaldi! » A questo discorso il generale Garibaldi rispose poche e modeste parole di ringraziamento. Poscia, interpellato da un membro del Circolo a dire quale fosse il suo giudizio sulle cose della guerra e sulla posizione del nostro esercito, disse modestamente ch’egli non avrebbe capacità bastante a pronunziare questo giudizio; e che del resto essendo giunto or ora dall’America, non poteva conoscere esattamente le operazioni dell’esercito, per poterle giudicare. Ma cogliendo l’opportunità di questo interpello prese a parlare dei pericoli che ci minacciano, e dei mezzi di superarli. « Il pericolo maggiore che ci sovrasta, diss’egli, si è quello che la guerra si prolunghi e non sia terminata in quest’anno. Noi dobbiamo fare ogni sforzo possibile perchè gli Austriaci siano presto cacciati dal suolo italiano, e non si abbia a sostenere una guerra di due o tre anni. Or noi non possiamo ottenere questo intento, se non siamo fortemente uniti. Si dia bando ai sistemi politici, non si aprano discussioni sulla forma di governo, non si destino partiti. La grande, l’unica questione del momento è la cacciata dello straniero, è la guerra dell’indipendenza. Pensiamo a questo solo. Uomini, armi, denari, ecco ciò che ci bisogna, non dispute oziose di sistemi politici. Io fui repubblicano, esclama il Generale; ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione d’Italia, io ho giurato di ubbidirlo, e seguitare fedelmente la sua bandiera. In lui solo vidi riposta la speranza della nostra indipendenza; Carlo Alberto sia dunque il nostro capo, il nostro simbolo. Gli sforzi di tutti gli Italiani si concentrino in lui. Fuori di lui non vi può essere salute. Guai a noi se invece di stringerci tutti fortemente intorno a questo capo, disperdiamo le nostre forze in conati diversi od inutili, o peggio ancora, cominciamo a spargere fra noi dei semi di discordia. Uniamoci, uniamoci nel solo pensiero della guerra; facciamo per la guerra ogni sorta di sacrificio. 152 Pensiamo che essi saranno sempre minori di quelli che ci imporrebbero i nemici se fossimo vinti ». Queste generose parole vennero spesso interrotte da grandi applausi. — Il presidente rispose che i sentimenti del generale Garibaldi erano pure i sentimenti del Circolo, il quale non si era costituito per altro scopo che quello di cooperare per quanto era in lui aH’imione di tutti i cittadini in un solo pensiero. — Dopo di ciò, a proposta del Presidente, il Generale venne acclamato socio onorario del Circolo. E la seduta si sciolse (1). XY. Proclama del Circolo nazionale a tutti i Circoli italiani (21 luglio 1848). Ma il luglio volgeva al suo fine. Questo lungo protrarsi della guerra e vaghe notizie di colore oscuro cominciarono a perturbare profondamente lo spirito dei nostri padri, i quali, vedendo l’Austria rifarsi di truppe e di armi, si domandavano se proprio incombesse al solo Regno Sardo e a qualche po’ di volontarii il dovere di sostenere la mole di una guerra che doveva dar vita e salute a 25 milioni d'italiani. Il Cabella pensa dunque di gridare a nome del suo Circolo questa urgente verità a tutti i Circoli Nazionali d’Italia perchè a loro volta se ne facciano banditori alle popolazioni e ai loro governi e promuovano una lega tra gli stati italiani che contribuisca uomini, armi, sacrifici alla guerra della comune redenzione; e il 21 luglio scrive un Proclama dove sapienza ed eloquenza non pugnarono mai con tanto valore a servizio di un ardente patriottismo contro la fiacchezza, la partigianeria, la gelosia municipale. Ne riferisco i tratti più rilevanti. « Dopo il principio del suo risorgimento l’Italia non s’è mai trovata in circostanze più gravi delle presenti nè mai fu minacciata di maggiori pericoli. E questi pericoli non ci vengono solo di fuori e dai nostri nemici, ma ancora di dentro e da noi medesimi: perchè mentre l’Austria fa gli estremi sforzi per ricomporre il suo stato e trascinare nel suo interesse la nazione germanica, nei invece di cementare fortemente la nostra unione, rinnoviamo gli errori dei nostri avi, e lasciamo che si svolga quella vita individuale, quella gelosia di municipii, quell’amore di parti, che fu sempre il grande scoglio 1) Gazzetta di Genova 4 loglio 1848. 153 a cui ruppe la nostra nazionalità. Se la nostra unione fosse stata sincera e forte, a quest’ora un solo Austriaco non premerebbe più la sacra terra, e il sospiro di tanti secoli non sarebbe più una speranza ma un fatto compiuto. Ed invece noi dobbiamo ancora tremare delle nostre sorti le quali sono ogni giorno più incerte, perchè una sola parte d’Italia sostiene tutto il peso della guerra. » La grande, l’unica questione del momento è la guerra dell’indipendenza. Questa guerra s’è ella finora combattuta come lo voleva la grandezza della causa, la potenza del nemico, l’avvenire che ne dipende? No: diciamolo francamente. Non sembra guerra nazionale ma lotta privata tra Piemonte ed Austria. Quattro milioni e mezzo hanno finora presso che soli sostenuta la guerra per 25 milioni d’italiani. L’esercito Ligure-Piemontese forte di 60.000 uomini quando invase la Lombardia, si portò ben presto, completandone i quadri, fino a 90 mila: altri 21 mila sono ora chiamati sotto le armi. Ben tosto 56 battaglioni di milizia nazionale raccoglieranno sotto le loro bandiere 30 mila cittadini: e il popolo di Liguria e Piemonte avrà così fornito alla guerra di indipendenza 140 mila combattenti! Oltracciò 40 mila uomini di riserva sono già avvertiti di star pronti alla chiamata. Un’immensa quantità d’armi, di cannoni, di munizioni d’ogni maniera si è portata e si porta ogni giorno al campo, sì che gli stessi nemici meravigliano come i nostri arsenali contenessero tanto materiale di guerra. A reggere le immense spese stanno per imporsi al nostro popolo tasse e carichi gravissimi, straordinarii. E il popolo non si duole, sopporta volentieri l’immenso peso, ed è contento di sacrificare alla patria le sostanze e le vite. Ma gli altri popoli italiani hanno essi fatti eguali sforzi? Se 140 mila uomini arma il Piemonte, 40 mila dovrebbe armare, per esser pari, Toscana; 80 mila Roma, oltre 250 mila Napoli, e un numero eguale al Piemonte la Lombardia e la Venezia con i due Ducati. Esercito immenso del quale appena un quarto basterebbe a distruggere intieramente il nemico. Invece che avvenne? Non parliamo di Napoli, dove un re traditore e spergiuro, ed un popolo incapace a scuoterne il giogo, ci hanno tolto il concorso di 8 milioni di fratelli. Ma gli altri fecero forse l’estremo di lor possa? Da qual parte venne un aiuto veramente forte e potente? Non vogliamo certo disconoscere gli aiuti che diedero la Lombardia, la Toscana, gli Stati Pontifici e quei maggiori che sarebbero venuti se i Governi avessero secondato lo slancio dei popoli. Ma pur convien dire che da niuna parte venne un contributo d’uomini, d’armi e di denari, che fosse pari al bisogno. 154 » E qual è la cagione di questo doloroso e funesto abbandono? Oh troppo chiaramente è aperta! In parte è quella fallace sicurezza, che ha perdute taute volte le cause de’ popoli, che fa pensare a molti che una grande rivoluzione possa compiersi standosene a casa, senza nulla mutare della vita ordinaria, senza rinunciare neppure agli agi e comodi propri. Ma prima e potentissima cagione si è che l’unione italiana non esiste ancora. Non solo le diverse frazioni d’Italia non si sono ancora ricomposte nell’unità, la quale anzi pur troppo non pare desiderata, ma nemmeno si sono ancor collegate in una potente federazione. Che diciamo? Nemmeno ancora hanno stretto un patto d’alleanza che faccia comune l’offesa e la difesa, che determini il contingente di ciascuna parte alla comune guerra, che le faccia solidarie della vittoria o della sconfitta. » E questo eri-ore non è solo dei principi ma dei popoli. I primi paiono temere che, vinto l’Austriaco, il frutto della vittoria sia quello di spogliarli dei loro stati per fonderli in una sola nazione, e paiono ancora non voler guerra dichiarata all’Austria, per potersi scusare un giorno sull’entusiasmo dei popoli di quel poco che direbbero essere stati costretti a tollerare. E nei popoli se è comune il desiderio che lo straniero sia cacciato dal suolo italiano, non è però concorde il giudizio sul mezzo che sarebbe in nostra mano di ottenere l’altissimo scopo. E molti v’hanno pur troppo che temono perdere la loro povera autonomia e alla sicurezza di vincere uniti, forti e potenti, preferiscono restare così, come sono, piccoli, deboli, divisi, esposti al pericolo di perdersi. » Errore funesto! Perchè se noi aspiriamo con tutti i nostri voti all'unità, se crediamo che l’Italia non potrà mai essere sicura della sua indipendenza se non è una, aspettiamo però dal tempo e dal libero consentimento di popoli l’immenso beneficio. Niuno pensa ad esautorar con violenza i principi, o ad opporre per forza ai popoli ciò ch’essi non fossero per consentire liberamente. Ma l’unione, per Dio, si faccia subito: perchè ne va la salvezza di tutti. Se non volete essere uniti, stringetevi almeno in una federazione. Se anche il potere federale vi ripugna, fate almeno un patto d’alleanza, una lega potente, ma non restiamo disuniti, deboli, imbelli, a fronte di un nemico poderoso e feroce » (1). Ma ecco avverarsi le tristi previsioni. Il 24 e 25 luglio i nostri, attaccati con raddoppiate forze dal nemico e costretti ad abbandonare (1) Cfr. II Pensiero italiano del 4 agosto 1848. 155 Custoza e Volta, ripassano il Mincio a prezzo di disagi e fatiche indescrivibili. Al Circolo Nazionale non parve dover lasciare quei prodi senza una parola di lode e di conforto che ne sollevasse gli animi, li incuorasse a resistere e li fortificasse a nuovi cimenti; onde il Presidente il 31 luglio dettò e inviò un altro Proclama a quei valorosi potente di fraterno affetto e vibrante di entusiastica ammirazione. L’ommetto per brevità. XVI. L’armistizio di Salasco a Genova. La Camera dei Deputati, su proposta del nostro deputato Cesare Leopoldo Bixio relatore, il 27 luglio, con voti 94 favorevoli, 61 contrarii, aveva approvata la legge della demolizione dei forti di S. Giorgio e del Castelletto. Tristi notizie sulle vicende della guerra agitavano ogni dì più i Genovesi; l’ira e lo sdegno dettavano loro atroci accuse di supposte perfidie contro il Governo e il partito retrivo piemontese. L’impeto popolare non sapeva più contenersi: il giorno 7 agosto una grossa folla percorreva le vie di Genova schiamazzando e gridando al tradimento e che si armasse subito la Guardia nazionale e le si consegnassero i forti della città. E senza aspettare il decreto del Governo, il giorno appresso il forte di S. Giorgio era distrutto a furor di popolo, e dopo alcuni giorni, il 16 agosto, connivente l’autorità, demolito anche il Castelletto. Nel popolo italiano sicurissimo di una prossima vittoria, l’armistizio di Salasco (9 agosto) produsse uno stupore, uno sgomento che mai l’eguale: tutti gridarono al tradimento. Il conte Gabrio Casati, già podestà di Milano e, dopo l’annessione della Lombardia, presidente del nuovo Ministero Sardo-Lombardo, uomo grave e temperato, lo giudicò Vobbrobrio della nostra epoca. L’armistizio di Salasco pone termine in Italia alle idee e ai Ministeri moderati e apre in Genova il periodo preparativo della rivoluzione. Appena se ne sparse a Genova la notizia, Sua Eccellenza il Governatore Regis, con Giorgio Doria e C. Leopoldo Bixio regi Com-missarii, facendosi interprete della pubblica commozione mandò al march. Tomaso Spinola e alFavv. Nicolò Federici di recarsi diretta-mente a Vigevano da Re Carlo Alberto per udire dalla sua bocca le ragioni del fatto sciagurato. Partiti la sera dell’8 agosto, giunsero a Vigevano al quartier generale alle 7 xl2 di sera del dì 9. Il re li accolse, stando letto, alle 8. I delegati gli rappresentarono lo stato degli animi de’ Genovesi e gli domandarono con rispettosa franchezza il perchè lòtì le fatiche, le vittorie, i sacrifizi di quattro mesi fossero svaniti in otto giorni. Rispose il re con la massima tranquillità a questa e ad altre categoriche domande narrando i casi della guerra, i difetti, i disordini, le delusioni. « Che, verificata la mancanza di munizioni e di cannoni, e la stanchezza e lo scoraggiamento dell’esercito, egli aveva interrogato sul da farsi i generali i quali tutti si pronunciarono per l’armistizio. L’armistizio », aggiunse il re, « è di sei settimane; in questo frattempo o si conchiuderà uua pace onorevole, o torneremo a combattere, o la Francia si unirà con noi ». Domandato se la Francia era disposta, rispose « averne fatto domanda a M.r Cavaignac: l’Inghilterra esser poco propensa a favorire tale intervento; le concessioni fatte dal re, rimarranno inalterate ». Questa relazione, spedita subito per istaffetta a Genova, fu pubblicata dai giornali locali il 10 agosto. Indi a poco rumori sordi come di imminente tempesta si udirono nella irritata nostra cittadinanza; il fermento degli animi tanto più cresceva quanto più vera appariva all’accecata mente dei nostri padri la colpa di voluti tradimenti e di meditate defezioni. E non è meraviglia se, dopo quanto s’è detto, anche il nostro generoso avvocato fosse tratto nell’errore comune e il fiero cruccio che gli straziava. l’anima gli dettasse parole gravi d’ira e di minaccia. Il 14 agosto alle 2 pomeridiane lo Stato maggiore della Guardia Nazionale con a capo il generale < tiaco-mo Balbi Pioverà e i due regii Commissarii Giorgio Doria e 1 popolilo Cesare Bixio e il presidente del Circolo Nazionale, Cesare Cabella, con molti altri cittadini si recarono alla casa del Console francese dove sapevano esser l’ambasciatore di Francia Sig.r Bois Le Comte. Parlò prima il Balbi Pioverà dicendo che l’Italia volge fiduciosa lo sguardo alla Repubblica francese per averne aiuto in tanta sventura; altri con altre parole espresse lo stesso desiderio; in fine il Cabella « protestò in nome del popolo genovese contro il malaugurato armistizio che sgombrava delle nostre poderose forze ogni città già ricomperata alla indipendenza nazionale; aggiungendo che il popolo lo teneva per irrito e nullo come stipulato senza il concorso di quei poteri che emanavano al popolo daUa Costituzione, e lo considerava come il più nero sfregio che recar si potesse alla Nazione, perchè strappato surrettiziamente all’ingannato Monarca dall’iniqua camarilla che volgeva ad estremo danno le cose della nostra guerra e minaccerebbe la patria di estrema rovina se a’ loro proditorii raggiri non vegliasse tremenda l’ira e la vendetta dei popoli ». L’ambasciatore rispose degnamente e promise che avrebbe subito comunicato al suo governo i voti di Genova e di tutte le terre italiane. Ma il fermento cresceva. Il 24 agosto 1848 reduce dal campo ar- 157 rivava in Genova la Brigata Regina con artiglieria. La Guardia Nazionale le fa onore schierandosi da piazza Nunziata fin verso la Lanterna. Il popolo accorre e saluta con evviva. Il vice Sindaco Domenico Doria pubblica un Manifesto dando il benvenuto ai campioni della guerra d’Italia. Ma un branco di forsennati li accoglie invece con fischi e maledizioni e scaglia il grido di traditore al generale Trotti che per risposta mostra la bandiera crivellata da palle nemiche. I soldati col calcio dei fucili punivano i tristi, e il rancore e l’odio cresceva reciproco nel cuore delle truppe e della cittadinanza. Il 25 si pubblica una Protesta contro la Convenzione-armistizio Salasco dove questa è dichiarata incostituzionale quindi irrita e nulla, e si ripudia ogni trattato di pace a quelle condizioni. E firmata da quattordici deputati, dieci dei quali, genovesi, ossiano: Giovanni ed Agostino fratelli Ruffini, Francesco e Nicola fratelli Magioncalda, Lorenzo Pareto, Tomaso Pareto, Orso Serra, Francesco M. Sauli, Cesare Leopoldo Bixio, Filippo Penco. Il giorno appresso 26 il Consiglio generale della Città approva un indirizzo al Re con cui lo s’invitava a ordinare una severa inchiesta perchè fossero puniti i colpevoli del reo successo, e a disdire quanto altri in nome di lui aveva osato firmare d’indecoroso in quell’armistizio con l'Austriaco. L’indirizzo fu recato al Re in Alessandria da una Commissione composta dal vice Sindaco Antonio Mongiardino e dai consiglieri Francesco. Viani e Francesco Pallavicino. Il Re, benché indisposto, li ricevette. Dimostrò loro come l’armistizio era indispensabile, che però le trattative in corso assicurerebbero l’indipendenza non solo dello Stato, ma dell'Italia; la guerra-si riprenderebbe poi con più vigore, nè saremmo più soli. Assicurò suH’onor suo i suoi popoli essere suo fermo proposito mantenere le libere istituzioni e farle osservare da qualsiasi ministro (1). Le parole del Re apersero i cuori alla speranza. Il 28 agosto il Circolo Nazionale deliberò un indirizzo al popolo Francese redatto dal giovane socio Gerolamo Boccardo e firmato dal Presidente Cabella, dove con nobili parole si domandava alla Francia l’aiuto e l’intervento armato nella nostra guerra. Il nostro Cabella, cessato da Presidente il di 7 settembre, come presidente provvisorio convoca il Circolo Nazionale nel Ridotto del Carlo Felice dove coi soci intervengono molti altri chiarissimi cittadini per deliberare intorno ai provvedimenti più urgentemente reclamati dalle gravi condizioni dei tempi e per dar lettura del nuovo (1) Gualtiero Lobigiola, Cronistoria documentata, Agosto 1848. 158 Programma del Circolo. Il Cabella comincia leggendo la lettera di risposta di Lorenzo Pareto cui la Società aveva invitato ad assumere la presidenza del Circolo. L’invitato rispondeva dicendo incompatibile la carica sua di Capo della Guardia civica con quella di Presidente; eleggessero un vice presidente provvisorio, egli accetterà la presidenza quando avrà ottenuto la chiesta dimissione dall’altra carica. Parlarono quindi con patriottica eloquenza a sostegno di varie nobili proposte l’avv. Agostino Ruffini deputato, Yinc. Ricci Ministro, Gerolamo Boccardo, giovanissimo ma già dotto economista, il profugo padovano rev. De Marchi, Pietro Tortarolo, Pio Ferdinando Ro-sellini dotto e valoroso pubblicista pisano, insegnante in casa di Giorgio Doria di cui era il braccio destro. Il Cabella lesse il Programma del Circolo accolto da fragorosi applausi e lodatissimo dalla stampa cittadina perchè consonante al pensiero e ai voti di tutta la cittadinanza, cioè perchè si proponeva come fine la conquista della indi-pendenza e della libertà italiana a qualunque costo, da ottenersi luna e l'altra mediante la concordia tra governo e popolo, l’aiuto della Francia e la guerra d’esercito presidiata dall'organizzazione civile. « Unione e concordia, fermo ed intrepido volere, costanza ad ogni evento. E l’Italia sarà ». Il Corriere Mercantile riferendo su quella seduta memoranda conclude: « Sieno lodi massime al nostro Cabella per la maestria, per l’energica dolcezza con la quale moderò l'assemblea ». E la Gazzetta di Genova del 9 settembre: « Il nuovo Programma del Circolo Nazionale steso dall’avv. Cesare Cabella che sempre adempì con tanto zelo, tanta saggezza, tanto fervore di patria carità le parti di presidente, otteneva pure le lodi e gli applausi dei soci come quelli del pubblico concorso numerosissimo » (1). XVII. Il Circolo italiano e i disordini di Genova nell’autaniio del 1848. Il desiderio di ammirare nell’uomo, che per ingegno e bontà si leva dal gregge comune, l’immagine di ogni ideale perfezione, è proprio di un animo bennato ma inconscio dell’umana natura; e noi dobbiamo pur ammettere che il nostro Cabella, non ostanti le sue (1) La presidenza del Circolo nazionale fu irosi formata: Lorenzo J’areto presidente De àiarebi e Ag. Kuliini vice presidenti; Boccardo e Viale segretarii. Fu 1 * ultima, 159 dirittissime intenzioni, non potè sempre evitare l’umano errore nell’agitazione e nella confusione di quelle vorticose vicende; mentre torna a sua lode incontestata l’equazione perfetta e costante tra il suo pensiero, la sua azione, la sua parola. Quando Genova udì il Decreto ministeriale del 9 sett. 1848 con cui veniva prorogato il Parlamento lino al 16 ott., s’infiammarono le ire contro l’inviso ministero moderato presieduto dal march. Cesare Alfieri di Sostegno moderatissimo che, avverso al rinnovamento della guerra, s’affaccendava a concludere la pace con l’Austria, mediatrice la diplomazia anglo-francese. Il Cabella a nome del Circolo Nazionale scrisse allora una lunga e vibrata protesta che nella sua analisi requisitoria rivela se non sempre la giusta visione delle cose, tutta l’indignazione della nostra cittadinanza. L’ommetto per brevità. Del Circolo Nazionale non trovo più fatta menzione nei giornali dopo l’autunno del 1848: certo, dopo l’armistizio di Salasco, col crescere dell’idea mazziniana e rivoluzionaria esso era andato decadendo mentre l’emulo Circolo italiano che quell’idea rappresentava, assumeva vita fiera e rigogliosa via via che le sorti dell’armi italiane e gli ambigui andamenti del governo subalpino smorzando nella nostra gioventù la speranza e la fede' nella fortuna monarchica, la volgevano a più liberi sentimenti e a più sconsigliati propositi. Nato in quell’agosto, il Circolo italiano dopo qualche giorno, il 18 agosto, era stato chiuso per ordine dell’autorità. Il cappellano di marina Luigi Grillo, prete focoso ma sincero, afferma che « sorto il Circolo italiano, si prevedeva discordia tra i due Circoli e tra la popolazione. Valerio (il Direttore della Concordia) consigliò con altri la fusione dei due Circoli, e il Circolo Nazionale proponeva di mutare il titolo e riformare il programma di comune accordo. Il Circolo italiano rifiutò » (1). La notte tra il 31 agosto e il 1° settembre la Polizia per ordine del governo di Torino aveva arrestato all’Hótel Feder e respinto al confine toscano l’emigrato Filippo De Boni pubblicista feltrese, già da noi mentovato come compagno di studi del nostro Cabella e noto per fierezza di spiriti repubblicani (2). Il dì appresso 1° settern- (1) La polizia del Circolo italiano in Genova e i sedicenti repubblicani odierni per Luigi Grillo cappellano nella R. Marineria Sarda, deoorato con medaglia d’argento al valor militare; Genova, Faziola, 24 ott. 1S48. (2) Nella Biblioteca della nostra Università esiste una sua lettera al Ceiosia del 6 agosto 1848 dove ironicamente invita lui e tutti i Genovesi ad innalzare archi di trionfo a Carlo Alberto « che dopo aver fatto scannare 20000 soldati e venduta Milano, torna in patria ». 160 bre, fallite le pratiche con Giorgio Doria e il Balbi Pioverà, una turba di sediziosi invase a furia il Palazzo ducale e indusse il governatore gen. Ettore De Sonnaz (indi a poco ministro di guerra e marina) a rivocare l’ordine di sfratto (1). In quell’invasione fu incendiato l’archivio della Polizia donde si salvarono le carte del processo istruito per ordine governativo contro i demolitori del forti di S. Giorgio e di Castelletto. Inoltre si volle e si ottenne che nel comando della Guardia Nazionale al march. Balbi Pioverà dimostratosi fedele alla legge, fosse sostituito il Pareto più arrendevole ai desideri popolari. Il quale, ufficiato dai rappresentanti del popolo, si recò coll’ex ministro Ricci e coi f. f. di Sindaci alla sala senatoria. Il Presidente del Senato, sentito il Pareto, consegnò il processo a lui che sulle scale del Palazzo con le proprie mani vi appiccò il fuoco e 10 arse.. Tutto questo non accadeva certo in ossequio alla legge e all’autorità costituita: nè è da credere l’approvasse il nostro Cabella 11 quale, se ardente zelatore del bene di Genova e della sua libertà e forte avversario del retrivo governo piemontese, non risulta da atto alcuno ch’egli abbia mai, nè allora nè dopo, violata la h'gge e disconosciuta l’autorità che la rappresenta. Il 2 sett. con pubblico manifesto il nostro Municipio protestava contro l’illegale espulsione del De Boni; e la sera dello stesso giorno si riapriva il Circolo italiano con cui per consiglio del Pareto s’era fusa anche VAssociazione della libera indipendenza d'Italia: eletto presidente l’espulso De Boni che il dì 5 tornava a Genova, vicepresidente l’avv. Ottavio Lazotti, segretario l’avv. Didaco Pellegrini; Commissione rappresentante il Circolo: Tito Orsini, G. B. Cambiaso, Nicolò Accame: organo del Circolo: Il Pensiero italiano diretto dall’Accame medesimo. Il dì 4 il Circolo pubblicava un fiero Programma A! popolo Genovese. Il giorno 8 il nuovo R. Commissario gen. Giacomo Durando, valoroso guerriero e chiaro scrittore successo al De Sonnaz collocato a riposo, pubblicava un Proclama dove, lamentati i disordini accaduti e invitando benevolmente i Genovesi all’ordine e alla tranquillità, prometteva di non uscire dalle vie costituzionali che astrettovi da (1) Ecco la dichiarazione del Governatore firmata e consegnata al march. G. B. Cambiaso: « Il Sig. Filippo De Boni è autorizzato a far ritorno a Genova, e si spedisce il sig. G. B. Cambiaso per andare a ricercarlo onde trauquillizzare il popolo di Genova che dichiara incostituzionale la sua espulsione *. Genova, 1 sett. 1848. Il Governatore De Sonnaz 161 suprema necessità: nel qual caso avrebbe gettato un momentaneo velo sulla statua della libertà per difenderla dagli eccessi de’ suoi falsi amici. Parve questa una provocazione e tosto il dì 11, redatta dall’avv. Em. Ceiosia, veniva approvata dal Circolo italiano una Protesta, stampata e affissa per la città il dì 13, che è un documento di tracotante e aggressiva improntitudine e che non si riesce a capire come l’autorità abbia sofferta la vergogna di lasciarlo impunito (1). Il Lorigiola, seguendo il suo partito, difende ed esalta gli uomini e gli atti di questo Circolo; il genovese' De Azarta, generale delle regie milizie di Genova, nella sua Relazione, com’è naturale, ne dice il male peggiore; ma non è men vero che, come il De Azarta afferma, questo Circolo fu per Genova una lunga inquietudine. Il nostro popolo già di natura sua irrequieto e indisciplinato, allora poi più che mai commosso sia per la novità delle concesse libertà popolari sia per le infauste vicende della prolungata guerra, trovava nei turbolenti soci del Circolo stimolo quotidiano a rivolte, a tumulti, a disordini cruenti ed incruenti. Oggi si leggeva affisso sui canti un manifesto insultante al Re, domani un altro inneggiante alla Costituente; un giorno perchè un affissatore di manifesti sovversivi viene arrestato, una turba di sediziosi affronta e viene a battaglia con la pubblica forza; un giorno sulla porta del Circolo all’Acquasola scoppiava una zuffa tra i soci e i soldati delle Reai Navi; un altro la moltitudine ringhiosa girava le vie della città urlando morte a Pinelli e viva a Montanelli; un giorno una banda di violenti irrompe nel Ridotto del Carlo Felice dove il Circolo Nazionale era adunato a deliberare e vi ingiuria il Pareto, il Federici ed altri come codini che ieri aveva acclamati come liberali; un altro una furia di popolaccio volendo ad ogni costo invadere il palazzo di Città, collutta fieramente con la Guardia Nazionale che per non rimanere sopraffatta fa uso delle armi: parecchi son feriti, alcuno cade morto (2). (1) La Protesta s'intitolava: Il Circolo italiano di Genova al sig. gen. Giacomo Durando, e fu pubblicata da G. Lorioiola nella sua Cronistoria documentata illustrala dei falli di Genova marzo-aprile 1849 (Sampierdarena 1898) pag. 11. (2) La storia di tali e altri dolorosi fatti il curioso lettore potrà leggere nei giornali locali del tempo che ne son pieni e nel Diario dei fatti occorsi in Genova negli anni 1847, 48 e 40 (Genova, 1902) per Irr0LiT0 Isola. — L’aver partecipato al detto cruento tumulto innanzi al Municipio costò a Bartolomeo Chichizola l’amputazione del braccio sinistro. Egli fu poi ottimo e liberale cittadino e benemerito amministratore del nostro Comune. Negli ultimi anni commendò il suo nome all’Asilo infantile di Sturla per cui eresse un’elegante palazzina e a cui legò in testamento una somma cospicua ohe ne assicura le sorti. N. nel 1826, m. nel 1898. u 162 Genova era incamminata all’anarchia. Non ci offenda il racconto veridico dei nostri trascorsi. Già fin dal 4 giugno 1848 quando Genova poteva ancora dirsi tranquilla, Giovanni Rutìini scrivendo da Torino al fratello osservava: « A Genova molto spirito, molto slancio, ma non disciplinato, non serio; mille diffidenze, mille piccole preoccupazioni; nessun vuol essere soldato nella Guardia nazionale, tutti vogliono comandare, nessuno ubbidire. Tutte le piccolezze, tutti i pettegolezzi, tutte le ambizioncelle, tutte le miserie di una città di provincia per chi vien da Parigi; spirito di sacrificio vero, senso di libertà vera, nessuno ». Forse questo è troppo severo giudizio, che pur nondimeno l’autor del Dottor Antonio confermava in altra da Torino del 28 die. 1848 al medesimo fratello: « Il dogma dell’autorità è affatto perduto a Genova e ci vorrà fatica immane a rilevarlo e rimetterlo in onore ». E il Cavour al De la Rue che gli aveva narrato i tristi fatti seguiti a Genova negli ultimi giorni dell’ottobre di quell’anno e la valida resistenza opposta dalla nostra brava Guardia nazionale alla ferocia dei sediziosi, rispondeva il 30 ottobre: « Dieu veuille qu’elle (la Guardia nazionale) persévère dans la ferme disposition de reprimer l’esprit d’anarchie et de désordre qui se dóveloppe dans Gèn«s » (l). XVIII. Il Cabella è eletto deputato di Voltri (31 ott. 1848). Sei mesi dopo la prima costituzione della Camera i collegi di Voltri e di Lavagna essendo rimasti vacanti, l’uno per le dimissioni del march. Antonio Rovereto, l’altro del Conte Gabrio Casati, il nostro Cabella che nell'uno e nell’altro comune contava numerosi amici (1) Cfr. C. Cagnacci, Lettere di G. Mazzini e dei fratelli Ruflini. — Di questo tristo stato di cose così parla il Durando nelle sue Memorie: « Genova stava allora sotto l’influenza del partito democratico. Vi dominavano i circoli popolari, vi si attizzava 1 odio contro il Piemonte, il rancore contro Carlo Alberto, l’autorità compiutamente disconosciuta, i cittadini moderati stavano in disparte; la situazione era ardua e piena di pericoli. La Camera avendo lasciati al Re i pieni poteri, si sarebbe potuto dichiarare lo stato d'assedio, ed io avevo chiesta ed ottenuta facoltà di attuarlo in certe eventualità. Cotesto provvedimento mi ripugnava a meno che vi fossi costretto da necessità. Mi accontentai in un proclama di lasciar intendere ai Genovesi che non avrei esitato a farlo, qualora la salvezza del paese lo avesse richiesto. Dissi loro apertamente che avrei gettato un velo tulio, statua della lil>ertà, frase che io avevo rubato non so se a Montesquieu o a Mirabeau. Tanto bastò perch’io diventassi immediatamente bersaglio alle collere dei demagoghi allora potentissimi, che da tutta l’Italia s’erano dati convegno a Genova ». Bebsezio, op. cit. voi. IV pag. 211. 163 ed estimatori, fu eletto deputato, nel primo il 31 ottobre, nel secondo il 7 novembre 1848. Egli, e perchè Voltri è tanto più vicino a Genova e perchè gli offriva più solida base elettorale, optò per Voltri da cui venne rieletto nella 2a e nella 3* legislatura. Il 16 dicembre si presentava alla Camera e vi prestava il giuramento. Da quanto fin qui s’è discorso e segnatamente dalla lettera da lui inviata al Pareto l’aprile del 1848 noi già conosciamo quali fossero i suoi sentimenti politici. Sdegnando di legare la propria libertà a gruppi e congreghe parlamentari, il Nostro adottò il programma politico che da un buon genovese si doveva e che già veniva seguito dai nostri concittadini ministri Pareto e Ricci: sostenere e propugnare con tutte le forze tutte le leggi e i provvedimenti che mirassero al trionfo dell’unità, della libertà e dell’indipendenza nazionale combattendo tutto ciò che vi s’opponesse; difendere le ragioni e patrocinare gl’interessi di Genova contro le vessazioni e le fiscalità del governo Piemontese; in una parola: essere italiano e genovese. E sedette a sinistra donde mai non si mosse. Il maggior rimprovero mosso sempre dal mondo politico subalpino alla deputazione genovese fu il municipalismo, colpa a quei tempi comune a tutte le città italiane e a Torino in modo speciale; nè io vorrò negare che il Cabella, comechè spirito più temperante e prudente ne andasse immune; ma io domando quali deputati in un parlamento subalpino dovessero rappresentare il necessario elemento dell’opposizione ministeriale se questi non erano i Genovesi che da tanto tempo fremevano e mordevano il freno del Piemonte dominatore; e in qual altro modo se non col genovesismo avrebbero i Genovesi potuto combattere l’antigenovesismo del granitico piemontesismo torinese. Rieletto indi a poco dallo stesso Collegio alla 2a legislatura, prima ancora di recarsi a Torino, scrisse all’amico suo Urbano Rattazzi Ministro di grazia e giustizia manifestandogli i suoi dubbi sul valore dell’opera del ministero così detto democratico. A cui. il Rattazzi il 6 genn. 1849 rispondeva « ringraziandolo delle verità notate e dicendogli in confidenza che il Gioberti dovrebbe dar prova di maggiore energia, motivo per cui era da prevedere qualche prossima modificazione ministeriale ». E perchè intanto non ristava di adoperarsi a favore de^li amici usando all’uopo della famigliarità che godeva presso i più eminenti de’ suoi colleghi, commendava in altra lettera allo stesso Rattazzi l’avv. Giuseppe Carcassi, amicissimo suo, perchè lo volesse nominare sostituto sopranumerario nel magistrato dell’Avvocato dei poveri in Genova; e ne riceveva questa risposta in data 7 gennaio 164 1849 che parlando di nomi cari a Genova credo opportuno riferire nella parte principale. Detto che l’accontenterà sul trasloco del giudice di Voltri, continua: t « Ciò ohe maggiormente mi duole è di non poter secondare l’altro tuo desiderio: vo a dirtene il motivo. Mi fu vivamente raccomandato alcuni giorni sono dal nostro Gioberti un ottimo tuo conoittadino, il giovane avv. Celesia: (il quale) ieri l’altro venne da me e mi disse ohe per accettare un impiego gli sarebbe stato assai grato di avere il posto di sostituto sopranumerario ai Poveri, e cosi preois^mente quello per cui tu mi proponevi l’avv. Carcassi: io gliel’ho tosto promesso, tanto più che all’aspetto mi piacque, e mi pare un giovane d’ingegno il quale potrebbe col tempo formare un distinto magistrato. Tu vedi dunque che sono mio malgrado vinoolato, e ohe non ostante tutta la mia buona volontà non posso disporre altrimenti senza recare al medesimo un troppo grave dispiacere, e nel tempo stesso mancare alla mia parola. Nel manifestarti tal cosa non è però mio pensiero di respingere totalmente la tua domanda, perchè troppo mi sarebbe grato il compiacerti: quindi se vi fosse un altro posto il quale possa se non egualmente almeno....... (parola illeggibile) essere grato al tuo raccomandato, scrivimelo, e per quanto possa dipendere da me puoi rimanere tranquillo ohe lo farò con la massima soddisfazione. Amami e credimi in fretta ma con tutto il cuore il tuo a£f.,u” Rattazzi • XIX. Ansie politiche e lutti e gioie paterne in lettere all’ainico Sineo Ministro degli Interni che gli offre l’intendenza generale di Genova (genn. 1849). Domenico Buffa deputato di Ovada, Ministro di agricoltura e commercio nel Ministero democratico Gioberti - Rattazzi, nella stessa sera del di 16 die. 1848 in cui il Ministero si costituì, era stato mandato a Genova, in qualità di R. Commissario munito di pieni poteri, per sedarvi i continui disordini. Previe intelligenze co’ suoi colleghi che speravano tutto poter acquietare con l’indulgenza e più liberali provvedimenti, il Buffa, appena arrrivato tra noi, pubblicò un Proclama cosi estremamente remissivo verso la più avanzata democrazia genovese che suscitò dappertutto proteste e riprovazioni e fu anche oggetto di un’animata interpellanza alla Camera. Eccone le più notevoli proposizioni: « I nuovi Ministri, appena giunti al potere, udirono che Genova tumultuava perchè volevasi seguire una politica contraria alla dignità, agl’interessi, all’indipendenza della Nazione. Ma ora, uomini nuovi, cose nuove! Il presente Ministero vuole l’assoluta indipendenza d’I- 165 talia, la Costituente italiana, la Monarchia democratica. Io, investito dal Re di tutti i poteri civili e militari spettanti al potere esecutivo, sono venuto a dare una mentita solenne a coloro che dicono la vostra città amica delle turbolenze. Pertanto ho ordinato che le truppe partano dalla città. Quanto ai forti, sarà interrogata la Guardia nazionale se voglia o possa presidiarli, e le saranno consegnati tutti o in parte, a sua scelta. A mantener l’ordine in una città veramente libera, basta la Guardia nazionale ». Sopra tutto se ne sentì crudelmente offeso l’esercito, e tra gli ufficiali dei varii corpi già correva la sottoscrizione di una fiera protesta, la quale poi si arrestò per l’autorità di ufficiali superiori, principalmente di quel generale Ettore Perrone che, teste Presidente del Consiglio dei Ministri, nel seguente marzo moriva eroicamente sui campi di Novara. Intanto, il Sineo, sincero liberale, accettato dal Gioberti il portafoglio degl’interni, aveva invitato l’amicissimo Cabella a mandargli una esatta memoria sullo stato e le condizioni della nostra sempre più turbolenta città per farne sua norma regolatrice (1). Il Nostro accettò volentieri e credette dovere di amico e di buon cittadino (1) Identità di sentimenti morali e di costanti principi politici e grande stima reciproca avevano da tempo stretto in viva e confidente amicizia il Sineo e il Cabella, ed ora e per molti anni appresso fatti commilitoni sugli scanni di sinistra. Riccardo Sineo nacque a Sale (Alessandria) nel 1805 da onorata famiglia. Dottissimo in lettere e maestro profondo quasi in ogni ramo delle scienze giuridiche, fu uno dei sommi giureconsulti del foro torinese. < Attinenze di famiglia, dice il Bersezio, di società, di clientela lo avrebbero dovuto portare alla parte aristocratica, invece con la libertà di stampa e la nascita del giornale il Sineo si accostò alla democratica Concordia del Valerio e scrisse acceso ed ardito •. Prima del ’48 aggregato al corpo decurionale di Torino, si segnalò per attività e valore nel promuovere ogni sorta di utili riforme e istituzioni comunali. Decretato lo Statuto, fu uno dei compilatori della Legge elettorale. Ministro dell’interno nel Ministero Gioberti e di Grazia e Giustizia nel successivo Ministero Chiodo, appartenne alla Camera dalla la all’11* legislatura durante la quale cioè il 6 nov. 1878 fu eletto Senatore. Fu, come l’amico Cabella, costante ma leale avversario del Cavour e dei governi di Destra. La natura gli aveva dato facilità molta d’eloquio: la pratica del foro pronti ripieghi e avvedimenti nuovi, la profonda dottrina dotta eloquenza; gli nuoceva la monotonia della voce gutturale senza colore nè armonia onde talvolta le sue parole venivano accolte dall’assemblea con impazienza. « Ma lo fecero e lo mantennero sino all’ultimo stimatissimo anche dagli avversari, l’onestà a tutta prova, una bontà d’indole e una generosità di carattere non comuni, la sincerità e la fermezza delle sue convinzioni, la fedeltà ai principii, al partito, agli amici *. Mori il 18 ott. 1876. — Il Cabella, che carteggiava con lui fin dal 1848, ne conservò molte lettere d’affari tuttora inedite. Erede dell’ar-chivio e valoroso cultore della fama del Sineo è il dotto e gentile suo nipote prof. Carlo Arnò dell’Università di Modena, al quale rendo sentite e pubbliche grazie d avermi favorito gli apografi delle seguenti lettere del Cabella all’illustre suo zio. 166 significargli e proporgli tutto ciò che al bene dello stato e della nostra città riputava conveniente. E perchè l'ordine e la legge erano, come furono sempre, nel suo concetto il fondamento e la necessaria condizione della libertà civile, e perchè l’osservazione più diretta delle cose e la pacata conversazione con eminenti uomini di stato avevano temperato in lui certe pretensioni un po’ troppo municipali e genovesi, quali quelle avanzate dai nostri Pareto e Ricci al Ministero Balbo, cercò di persuadere i nostri cittadini a dare una prova di fiducia all’esercito col rinunziare ai forti ch’essi volevano assolutamente dati in mano della Guardia Nazionale. Di che e di altre pratiche parla la seguente lettera al Sineo. « Genova, 2 Gennaio 1849. » Mio egregio amico, » Non ho più mandata la mia memoria sulle cose di Genova, perchè ho avuto mio figlio quasi morente, ed oggi ancora è in grandissimo pericolo della vita: nè io avevo per ciò tranquillità di mente quale si richiede a parlar di affari così gravi. Ma domani senza dubbio la manderò. » Intanto mi preme prevenirti di tre cose. » La prima che io fo tutto il mio potere per disporre gli animi a dar prova di fiducia all’esercito, col rinunciare ai forti: ed ho a quest’uopo, oltre alle insinuazioni individuali, preparato due scritti: uno da gridarsi per le strade, e l’altro in forma d’indirizzo da sottoscriversi dalla Guardia nazionale, nel quale essa spiegherebbe il suo voto. Non è però facile la riuscita. . » La seconda che ove si trattasse di nominare un capo alla Guardia nazionale di Genova in grado uguale a quello che aveva Oddino, il più atto per ogni verso a tal carica sarebbe Domenico Doria, il quale per criterio, fermezza di carattere, calma nei pericoli, e coraggio freddo non ha eguali, è amicissimo della libertà benché aborra i disordini, ed ha la confidenza di tutta la guardia. L’ho interpellato, ma finora non mi ha voluto promettere che accetterebbe. Già ha ricusato il posto di maggiore e di colonnello per non abbandonare la sua compagnia che lo adora, e che è l’unica sulla quale si possa contare per unione e per disciplina. » La terza che ieri venni a conoscere che il nostro inviato a Napoli Conte Collobiano ha da qualche tempo una corrispondenza settimanale colle seguenti persone: il Barone Griiben di Monaco di Baviera; la Regina di Baviera; Madama Robilant di Torino; e un 167 liome indecifrabile di Francforfc. Le lettere vengono in un plico sui battelli a vapore da Napoli, sono consegnate in Genova a una persona di confidenza alla quale il plico è diretto, e che disfatto il plico, mette le lettere in posta. Le lettere sono sempre molto voluminose: hanno la banda di lutto, e il sigillo collo stemma Collobiano in cera lacca nera. Ieri ho veduto Plezza, e l’ho prevenuto di questa cosa. Oggi ne avviserò Buffa, al quale forse Plezza l’avrà già riferito. — Ti accludo una memoria per i comuni di Voltri e di Prà, dei quali fui rappresentante alla Camera. L’ho scritta a parte, perchè tu possa lasciarla liberamente aH’Ufficio. — Addio, mio degno e caro amico. Porta degnamente il grave incarico che il paese ti ha imposto, e conserva la tua preziosa amicizia al tutto tuo aff.mo Cesare Cabella » Vegliando l’adorato Giovannino, suo primo ed unico bimbo di circa tre anni, e vincendo a forza l’agitazione che tutto lo perturbava, il Cabella scrisse la promessa memoria e la mandò all’amico Ministro annunciandogli il colpo tremendo. « Caro Riccardo, » Vi mando la memoria sulle cose di Genova. Fu scritta la notte del 1° gennaio vegliando io mio figlio. Volevo rileggerla, ma nel momento in cui scrivo non ho più figlio. Addio. » Genova, 3 gennaio 1849. Il vostro desolato Cesare Cabella » Gli rispondeva il Sineo: « Torino, 4 genuaio 1849. « Carissimo Cesare, » Io sento sin dal più profondo il tuo dolore. Ripetute furono le disgrazie simili che mi colpirono, e so quale sia la condizione di un padre cui tocchi tale sventura. Quanto vorrei stringerti al petto, e dirti quelle parole che nou sono affatto inutili dalla bocca dell’amico! Troverai nella costanza dell’animo tuo, e nella contemplazione della nullità di questa fugace esistenza di che alleviare la tua pena. Pensa che sei tu stesso figlio alla patria e che. minacciata, aspetta la sua salvezza da’ suoi figli. Il tuo Riccardo » / 168 Quanto fa bene all’anima il dolore che l’amico vero sente pel dolor nostro e la dolce parola che ce lo fa manifesto! Pianse il padre infelice e, nondimeno, rendendo tenere grazie all’amico, non tralascia di additargli i pericoli che più gravemente minacciano la nostra Genova. « Mio caro Riccardo, » La tua affettuosissima del 4 m’intenerì, e mi fece versar lagrime meno amare di quelle ch'io verso da molti giorni. Un figlio unico, tutto bellezza, tutto grazia ed amore, dell’indole più angelica per cuore ed intelletto ch’io avessi mai conosciuto, perduto d’improvviso! oh è un dolore al quale non so s’io potrò resistere. Grazie, oh grazie, mio caro Riccardo, di aver così sentita e divisa la mia sventura! Se già prima io t’ero amico sincero, dopo questa prova d’affetto, io ti sono, o mio Riccardo, più che amico, fratello. Ma di me e della mia sventura basti. » Ti raccomando le elezioni dei Sindaci di Voltri e di Prà, dei quali ti scrissi colla mia del 2. Falle subito, perchè è cosa importantissima alle elezioni: come ti raccomando le elezioni dei sindaci per tutto lo Stato prima delle elezioni. Ti raccomando pure l’elezione del delegato nella persona dell’Avv. Giuseppe Andrea Bozzo nel comune di Prà, di cui pure ti scrissi nella mia del 2. » A Genova le cose cominciano a prendere quella strada, che loro aperse il sistema di Buffa, siamo alla vigilia di nuove agitazioni. Ieri sera vi fu un’adunanza del Circolo Italiano, assai minacciosa. Oggi non posso. Dimani te ne scriverò distesamente. Ma temo assai che non si potrà venire a capo di nulla, se non si chiude il Circolo e non si scioglie la guardia nazionale. » Addio, mio caro. Raccomandiamo alla Provvidenza le povere sorti della nostra povera Italia, la quale da nessuno è lacerata più fieramente che dai suoi figli. » Addio, addio. » Genova, 7 Gennaio 1845). Il tuo aff.mo Cesare Cabella » PS. — Ritieni che dopo la mia memoria io tengo il mio incarico come finito: e che per ciò io non intendo di essere in verun modo responsabile degli avvenimenti che potessero verificarsi in Genova. A questo riguardo domani ti scriverò qualche cosa ». 169 Solo uno spirito partigiano potrebbe tacciare di dubbia lealtà l’autore di queste confidenze all’amico Ministro. Ambidue gli amici erano fautori amantissimi di libertà ma non meno amanti della legge e dell’ordine e non meno avversi alle macchinazioni delle fazioni estreme e sovversive. Il Cabella vedeva sovrastare a Genova il pericolo imminente di una sanguinaria rivoluzione che il più elementare buon senso prevedeva per ogni verso disgraziata e funesta, e dovere di cittadino gl’imponeva di adoperarsi a «congiurarlo con quanti mezzi poteva. Se i nostri genovesi avessero secondato i suoi sforzi, se i provvedimenti da lui consigliati all’amico Ministro avessero trovato più efficace consenso ed ascolto, la nostra storia non registrerebbe un doloroso disastro, perchè la guardia nazionale, donde scoppiò la prima scintilla della ribellione, non fu sciolta, e se fu sciolto poi per decreto del Buffa il Circolo Italiano, si tollerò che privatamente continuasse a radunarsi e in onta alla legge vi si macchinasse la sedizione (1). E che in questa occasione il Cabella operasse da franco e leal cittadino fa fede la coraggiosa difesa che, come presto vedremo, oppose in pieno parlamento al Brofferio impugnante la costituzionalità del sopra citato decreto, e l’aver affrontato per amore della sua città l’impopolarità e le ire del partito più tempestoso e violento. Le angoscie e la prostrazione delle forze gli vietarono di scrivere ciò che intorno al Circolo italiano aveva promesso al Ministro; e nondimeno il pensiero del prossimo rinnovamento della guerra non gli dava riposo, onde non cessava, tuttoché malato, di contribuire ogni suo sforzo al felice successo dell’impresa nazionale. « Mio caro Riccardo, » Se non ti ho più scritto dopo il 7 corrente egli è perchè l’acerbità del mio dolore ha talmente prostrato le forze del mio corpo che sono incapace d’ogni occupazione ed obbligato a giacermi in letto. Oggi tenterò d’alzarmi, e tosto ch’io possa manterrò la promessa ch’io ti facevo colla mia del 7. — Sono riuscito a indurre alcuni miei amici, (1) . Ma per ben comprendere la rivolta di Genova convien ritenere ohe quando fu sciolto il Circolo italiano, i membri influenti e interessati al disordine furono lasciati quieti in città, ed il Governo sapeva ohe i medesimi si radunavano regolarmente ». Cosi scriveva da Genova il 2 agosto 1849 al Consigliere di Stato avv. P. Gioia a Torino, il Cav. Paolo Antonio Nicolay Savoiardo vivente a Genova, fondatore « presidente fino alla sua morte (anno 1871) della Compagnia del nuovo acquedotto approvata con R. Decr. 21 luglio 1853. 170 esaltati per avere il forte dello Sperone, ad abbandonare questa deplorabile questione; e non dispero che anche il Circolo Italiano l’abbandonerà: le pratiche ch’io tengo a questo proposito, anche dal mio letto, sono attivissime. Duoimi che il Re voglia comandare l’esercito. Oh tate ogni sforzo per avere un buon generale di Francia (1). Addio, addio. Il Cielo aiuti te e i tuoi colleghi nella grande e spinosa e difficilissima lotta che dovete sostenere per il bene della nazione. Qui faremo il possibile per avere dei deputati che sostengano il ministero. Non dormo nemmeno per questo lato. Ma se non era la mia sventura e la mia infermità avrei fatto molto di più. Addio. Sono con affetto sincerissimo » Genova, 10 Genn. 1849 Tuo amico vero Cesare Cabella » A questa seguono altre lettere quasi quotidiane del nostro Cesare. Riferiamo quella che ci resta del 13 gennaio. « Mio caro Riccardo, » Ancora una lettera, per raccomandarti la pronta elezione dei sindaci. Che si fa, che si tarda? Mancano pochi giorni alle elezioni, e i sindaci non sono ancora fatti. — Perchè non proporli alla nomina sovrana di mano in mano? Perchè voler aspettare di nominarli tutti ad un tratto? I sindaci vecchi sono pessimi, tutti o quasi tutti. Perchè lasciar loro tanto tempo di preparare il male, e lasciar ai nuovi così poco tempo da operare il bene? Nel mio circondario elettorale, per esempio, sono otto comuni e in tutti otto ci sono sindaci gesuiti, i quali fanno ogni loro potere per portar all’elezione un certo Ghiglini, commendatore di S. Maurizio, che è un gesuita fanatico. Ma Dio mio! Se non puoi tutti, fa intanto i sindaci che puoi; e di mano in mano gli altri. Ma presto, presto per carità. Per provarti quanto vi sia d’urgenza, eccoti un brano di lettera a me diretta da un elettore ». Segue la lettera dell’elettore che ommetto per brevità. » Vedi come scrivono gli Elettori! E quel che accade in Voltri accade in tutti gli altri comuni. Dalla mia memoria d’ieri avrai veduto (1) Com’è noto, C. Alberto, coraggiosissimo e pronto a dare in campo per l'Italia il sangne e la vita, era sfornito di attitudine e digiuno di studi e di pratica strategica; lo stesso è a dirsi di V. Emanuele II. 171 comesta male il Circondario elettorale di Voltri, nel quale sono cinque comuni, sopra otto, dominati dai preti. » Ieri sera Pareto diede la sua dimissione da Generale della Guardia. Saputo ciò il battaglione dell’ottava sezione ha dismesso persino il berretto della civica. Allo Stato Maggiore mi dicono esservi già una grande quantità di dimissioni d’uffiziali. I buoni non vogliono Od-dino perchè incapace e perchè disonorato dalla protesta degli Uffiziali del suo reggimento. Esso è disprezzato di più dopo che, data la sua dimissione per tal protesta, la ritirò poi e riprese il suo posto. » Or qui non v’è rimedio. 0 sciogliere la guardia nazionale di Genova, ed abolire tutte le armi speciali, per riorganizzarla subito un po’ meglio; oppure darle subito un generale buono, ed io non ne conosco nessuno migliore di Domenico Doria. » Riguardo alle elezioni ho pensato di farmi centro d’un comitato elettorale: ho pregato stamattina Penco e Giovanni Ruffini di venire da me per concertarsi. Io non figurerò verso il publico, per meglio essere utile. Ma per dare un’autorità alle mie parole, mi parrebbe utile che tu mi scrivessi una lettera confidenziale, nella quale mi raccomandassi di adoperarmi perchè uscissero buone elezioni. Io farei uso discretissimo di questa lettera: la mostrerei a qualche intimo amico, e non più: e questo basterebbe perchè i deputati che fossero proposti dal nostro Comitato avessero bonnechance. Conterei infatti sulle piccole indiscrezioni degli intimi amici. Il mio piano sarebbe non già di pubblicar liste per mezzo di giornali, ma di usare l’influenza delle orali raccomandazioni e della corrispondenza, mettendo innanzi dei nomi che potessero facilmente conciliarsi l’opinione dei buoni liberali. Mi accosterei alla riunione dei timidi (della quale ti parlai in lettera antecedente) poiché mi fece esibizione di unirsi meco, e confiderei di potermi mettere d’accordo. » Io non ti domando risposte alle mie lettere, perchè immense sono le tue occupazioni: ma a questa ti prego di voler rispondere. » Di nuovo ti dico che se io ti scrivo quasi ogni giorno, lo fo perchè mi paiono tempi, in cui più che mai sia necessario che i buoni s’intendano, e si tengano stretti. Addio, sono con tutto il cuore » Genova, 14 Genn. 1849 Tuo aff.mo amico Cesare Cabella » Ma ecco che il nostro Cesare non vedendo pronta risposta alle sue prementi domande e porgendo forse orecchio a certe accuse messe in giro a Genova contro il nuovo Ministero, dubitò un momento che l’alto seggio a cui era salito l’amico Sineo avesse per avventura potuto nuocere a quell’intima e fraterna confidenza di cui gli aveva dato finora tante prove, onde gliene scrisse vive e motivate lagnanze. Gli risponde l’amico Ministro con la seguente dimostrandogli infondati i suoi dubbi, immeritate le sue querele e fornendogli un’altra prova tangibile della sua ferma e leale amicizia. Risposta di singolare importanza perchè da essa apprendiamo ciò che finora ci era ignoto, ossia che il Sineo nella sua qualità di Ministro dell’interno, col consenso del Consiglio, aveva offerto all’amico genovese l’intendenza Generale di Genova con le più ampie prerogative ch’egli avesse desiderato, e che l’amico l’aveva ricusata contentandosi di porgere al Ministro in via privata ed amichevole quei consigli e suggerire quei provvedimenti che in quei tempi torbidi e pericolosi ravvisava più efficaci alla sicurezza e alla salute della sua città. A ciò lo induceva più di una ragione. Anzi tutto il Cabella, dato e consacrato al bene de’ suoi cittadini, avrebbe, occorrendo, volentieri sacrificato a quello tutto se stesso, ma l'innata modestia lo ritenne sempre dall’accettare onori e cariche di troppo grave responsabilità, nè la grande dottrina nè la molta esperienza nè la visione esatta delle cose e degli uomini ebbero mai virtù di francarlo dal continuo dubitar di se e diffidare delle proprie forze. S’aggiungeva inoltre una ragione d’indole più generale, quella stessa per cui i comuni mediovali non commettevano il governo proprio a uno dei propri cittadini ma a persona notoriamente saggia di altro comune la quale non avesse coi cittadini del nuovo relazione alcuna di partito o di interessi; quella stessa per cui un medico anche valentissimo, a curare il figlio maialo chiama sempre un altro medico anche se meno valente; quella :~tessa infine per cui la legge non consente che uno stesso individuo possa in giudizio essere giudice e parte. Ora ecco la risposta del Sineo. Ministero dell’Interxo Gabinetto particolare » « Torino 16 Gennaio 1849. « Cesare mio, » Una tua lettera senza data col timbro della posta di Genova di ieri è venuta ora a profondamente addolorarmi. Il difetto di risposte pronte e categoriche che sarebbero state per me un dovere, lo riconosco, tu stesso lo scusavi benevolmente nella tua lettera di ieri l’altro. Io faceva conto anche per questo sulla tua amicizia e mi limitava 173 a scriverti ciò che pareva necessario secondo le occorrenze. Ieri ti mandai un fòglio disteso, per quanto mi pareva, nei termini precisi da te voluti. In quanto agli atti di Buffa che non approvi; bisognerebbe darci più precise spiegazioni. Ti ricordi che il mio progetto portava di darti la carica di Intendente generale con quelle più ampie prerogative che ti avrebbero convenute. Con queste tu saresti stato il vero Governatore e moderatore di Genova; un préfet alla Francese, e godendo di tutta la fiducia dei ministri, avresti avuto le più ampie facoltà per fare il bene della tua città. Con questo la missione di Buffa avrebbe potuto terminarsi molto più presto; cosa che da noi qui, come sai, si desiderava, sentendosi il vuoto che la sua assenza reca al gabinetto. Tu non hai voluto, e non hai saputo indicarci un altro uomo politico che potesse assumere il grave incarico. Abbiamo dunque dovuto lasciare che le funzioni amministrative continuassero a rimanere separate da quell’uffizio eminentemente politico che il R. Commissario esercitava, e che non avrebbe potuto essere assunto da chi non fosse pienamente informato dei nostri divisamenti, e delle circostanze che li reggono. Hai voluto limitarti all’uffizio di consigliere e non fosti perfettamente soddisfatto del modo in cui i consigli si accoglievano. Ma era una difficoltà propria della posizione da te scelta. — In quanto ai consigli che mandasti qua, essi furono sempre accolti con riverenza, e credo anzi che furono tutti seguiti da conformi deliberazioni. Chiedesti Pareto per Sindaco, Domenico Doria per Generale della nazionale. Quelle due nomine furono fatte. — Ti lagnavi ieri che non siano nominati gli altri Sindaci della Liguria; ma la colpa è tutta tua e degli altri nostri amici. — Come possiamo sapere di qui quali siano i Sindaci da nominarsi? Ti parrebbe bene che da noi si prestasse ceca fede ai rapporti uffiziali? I pochissimi che mi hai indicati sono nominati. — Tu mi parli di promozioni fatte che non ti piacciono. Se si tratta di impieghi infimi non mi pare materia degna da occuparcene, se di cariche maggiori, non capisco a che ti possa riferire. Molto meno posso capire delle preconizzate. Hai troppo senno e troppa esperienza per far fondo sulle voci che corrono e sui pettegolezzi che vanno in giro. Riflettendo concluderai, ne sono sicuro, essere stato ingiusto quel pensiero, che non avrebbe dovuto annidare nella tua mente, reluttante il tuo cuore, che le tue riflessioni trovassero qui poco credito, e che tu avessi perduta la nostra fiducia. Io non posso credere che non sia a quest’ora già svanita quella nube che ha offuscata un momento la cara tua fronte, e che ripiglierai tosto animoso l’opera che non avresti dovuto dismettere. In Piemonte le disposizioni per le elezioni sembrano ottime. Sarebbe invero singolare 174 anomalia se Genova ci mancasse. I buoni cittadini che avessero potuto fare il bene, e l’avessero trascurato, ne porterebbero seco eterno il rimorso. Non temo questa orribile pena pel tuo cuore generoso, e ti riabbraccio come fratello. Il tuo Riccardo » Non possediamola risposta cabelliana, ma essa fu certo di amico consolato e ricreduto perchè l’amico Ministro, seguendo il suo proposito di proceder negli affari di Genova sempre d’intesa con lui, il 21 gennaio (1849) gli scriveva la seguente presentandogli il colonnello Giuseppe Avezzana nuovo capo di Stato Maggiore della Guardia Nazionale di Genova, che di li a poco doveva riuscire il capo dell’insurrezione genovese. Ministero dell’Ixterno Gabinetto particolare « Torino, 21 gennaio 1849. « Amico carissimo, » Anche il colonnello Avezzana nuovo capo dello Stato Maggiore di cotesta guardia nazionale, avrà la fortuna di essere in relazione con te. Vittima delle proscrizioni del 1821, egli si portò nel Messico e diede nuovo argomento del valore italiano. Ha combattuto costantemente per la libertà, e sa appieno come in Italia sia necessario di promuovere e consolidare e la libertà e l’ordine. Ti abbraccio come fratello. R. Sineo » Ma torniamo per un poco agli affetti famigliari del nostro Cesare. Il suo cuore non rimase a lungo deserto di gioie paterne perchè nel corso di quest’anno 1849 la sua Clementina gli fece dono di un tesori no di bimba, Adele, che temprò il dolore del primo lutto. Ed egli 1 amava tanto che quando si trovava a Torino intento alle sue cure politiche, i suoi per ispronarlo ad affrettare il suo ritorno, gli rammentavano i vezzi infantili di Adelina. E al fratello Luigi che gliene scriveva meraviglie, rispondeva il 16 ottobre 1849: « Vi ringrazio delle notizie che mi date della mia cara bambina. Oh non potete credere quanto mi sia cara, e quanto mi consoli il sentirmela lodare come voi fate. Vi ringrazio. Non vedo l’ora di abbracciarla. Spero di ess*re a Genova la settimana ventura ». 175 XX. Inizia la sua carriera parlamentare sostenendo la costituzionalità (lei Decreto che chiudeva il Circolo italiano (15 febbraio 1849). Intanto le agitazioni e i disordini in Genova crescevano a dismisura di giorno in giorno; lo Statuto, poc’anzi tanto festeggiato come finale riscatto di ogni libertà, andava rinvilendo nella opinione generale, sicché molti, deposta la prima moderazione, s’eran fatti pubblici dispregiatori della Monarchia e franchi predicatori della Repubblica. Il proclama del Commissario Buffa produceva i suoi effetti. Il Ministero, avvedutosi dell’errore, s’affrettò a rassicurare la Camera e la pubblica opinione protestandosi risoluto a mantener l’ordine e la legge a qualunque costo (1). Le poche truppe partite da Genova furono in Genova richiamate per ordine dello stesso Buffa, il quale volendo tradurre in atto con un severo provvedimento i nuovi propositi del Governo, il 13 febbraio 1849 emanava un decreto secco e reciso con cui sopprimeva il Circolo Italiano. Eccolo: Il Ministro Commissario investito di tutti i poteri esecutivi per la Città di Genova Considerato che il Circolo italiano esistente in questa Città, dai primi momenti della sua istituzione e, successivamente, nei discorsi e negli scritti ha sempre dimostrato tendenze sovversive della Monarchia Costituzionale, e sentimenti di disprezzo e di avversione alla persona del Re; Che lo stesso Circolo qualificandosi mandatario del Popolo, colla violenza delle provocazioni ai Cittadini di diversa opinione ha offeso la maestà del vero Popolo e delle Leggi, e colla sua sistematica opposizione all’azione del Governo si è reso fomentatore di gare e di dissidii, ha gravemente perturbato la quiete pubblica, destato un’apprensione permanente nell’animo dei buoni, e coi torbidi interni posto impedimento alla prosperità del commercio e cresciute al Governo le difficoltà a conseguire l’indipendenza Nazionale; Considerando che le vigenti Leggi di Sicurezza Pubblica som- (1) Cfr. C. Cavour, Nouvelles Ultra inèdites par A. Bert, pag 264. 176 ministrano al Potere esecutivo i mezzi di far cessare questo stato anormale di cose; In virtù della facoltà straordinaria di cui è investito: Decreta 1° Il Circolo Italiano è chiuso. 2° Non potrà più riunirsi nel consueto o in altro locale della Città. 3° L'autorità di Pubblica Sicurezza è incaricata dell’esecuzione del presente Decreto. Genova, 13 febbraio 1849 Domenico Buffa (1) Questo Circolo era, come s’è detto, il convegno e il focolare attivo dei capi del partito avanzato e repubblicano tra i quali, oltre i già nominati, primeggiavano Nicola Cambiaso, Luigi Lomellini, Davide Morchio, Emanuele Celesia, onde la soppressione sollevò ire e scalpori (2). L’irig. Antonio Losio deputato di Torriglia nella tornata del 15 febbraio interpellò il Ministro dell’interno, Sineo, sull’ordine dato dal Buffa. Gli rispose il Ministro che tenendo quel Circolo riunioni pubbliche il R. Commissario non aveva fatto che applicare la legge. Sorge il Brofferio e dopo di lui il Rossetti a sostenere l’incostituzionalità di quell’atto dicendolo contrario all’art. 32 dello Statuto. Il Cabella che come le agitazioni rivoluzionarie così le intemperanze repubblicane del Circolo italiano riprovava come contrarie alle leggi e all’avveramento delle speranze italiane, e a cui constava di certa scienza la pubblicità di quelle riunioni; tuttoché sedesse a sinistra, per dar lode al vero non temette di esordire nell’arringo parlamentare con urtare apertamente il partito più violento e appoggiare il Ministro. « Io domando la parola unicamente per rettificare una circostanza di fatto, intorno alla quale l’onorevole preopinante non fa, a quanto pare, esattamente informato. Il Sig. Brofferio ha creduto che nel (1) Il Cavour in data 8 marzo scriveva all’amico banchiere di Genova: « J’ai pardonné à Buffa toutes ses erreurs passées, en vertu de sa dernière proclamation, que je trouve adorable ». (2) Il De Boni alla venuta del R. Commissario Durando era fuggito da Genova fin dallo scorso settembre. i 177 Circolo Italiano di Genova si radunasse una società, e non fosse permesso ad alcuno di entrare senza la permissione dei soci: è su questo punto che cade la mia risposta. Se il Sig. deputato Brofferio avesse avuto più esatte informazioni, avrebbe saputo che, nel modo con cui si è sempre radunato il Circolo Italiano dalla sua istituzione sino al presente, era libero a chiunque di entrare nel luogo dell’adunanza senza bisogno di nessun invito; di modo che le adunanze che si tenevano nel Cii'colo Italiano non differivano punto da quelle che si sarebbero potute tenere sopra una piazza pubblica, se non in ciò che il Circolo si adunava fra quattro mura e che vi si entrava per una porta (ilarità) (1). Riguardo poi all’opinione di Genova che il Sig. Ministro ha dichiarata favorevole alla determinazione presa dal Ministro Buffa, debbo dire che lettere molteplici ricevute questa mattina mi hanno confermato la medesima cosa. Quanto poi ad un’espressione che uscì dalla bocca di un altro onorevole deputato (Losio) che deplorò la sventura di Genova, io posso asserire che la città di Genova non si è per nulla accorta di essere stata soggetta ad una sventura (ilarità). E per provarlo basterammi il leggervi il principio di una lettera in cui si dice: « Se foste stato in Genova avreste veduto sul volto di ogni cittadino dipinta la gioia, e dimandatone la cagione, vi avrebbero risposto: Finalmente il Circolo Italiano fu chiuso ». (Vivi applausi). Replicò il Brofferio negando ancora il carattere pubblico di quelle riunioni e osservando che una lettera non può far fede dell’opinione pubblica; le corrispondenze in genere non far pi'ova che dell’opinione del partito a cui appartengono coloro che le mantengono; aver lui pure ricevuto lettere che facevano fede contraria alle lettere del Cabella. Il Cabella avrebbe avuto facile modo di rispondere ove avesse stimato conveniente affrontar incresciose quistioni di persone, ma a lui non parve che l’interpellanza meritasse altre parole, e si tacque. (1) Che quelle adunanze fossero pubbliche non si può in niun modo negare. Luigi Grillo, nel citato opuscolo, scritto quasi quattro mesi prima della chiusura del Circolo epperciò tanto prima di questo dibattito, confermava il fatto raccontando: « Profittai dell’esser pubbliche le sue sedute e mi recai ad una di esse. Era il 2 settembre, ed entrato nella sala del Festone Giustiniani, mi rannicchiai in un cantuccio....... >. Dal Festone di Via Giustiniani il Circolo si trasferì di poi nell’ex oratorio di S. Giambattista all’Acquasola. 178 XXI. È uomiuato Relatore della Risposta al Discorso del Re Carlo Alberto. Caduta del Ministero Gioberti (21 febb. 1849). Col 1° febbraio (1849) s’era aperta la 2» legislatura. Re C. Alberto, ornai votato tutto alla volontà del popolo, nel Discorso della Corona aveva detto: « Riguardo agli ordini interni dovrà essere nostra cura di svolgere le istituzioni clie possediamo, metterle in armonia col genio e coi bisogni del secolo, e proseguire alacremente quell’assunto che verrà compiuto dall'Assemblea Costituzionale del Regno deli’Alta Italia (1). Il governo costituzionale si aggira sopra due cardini: il Re e il Popolo. Dal primo nasce l’unità e la forza, dal secondo la libertà e il progresso della nazione. Io feci e fo la mia parte ordinando fra i popoli libere istituzioni, conferendo gli onori e le cariche al merito e non alla fortuna, componendo la mia Corte con l’eletta dello Stato, consacrando la mia vita e quella de’ miei figli alla salute e all’indipendenza della patria ». Poi, accennato alla necessità di rinnovare la guerra, soggiungeva: « Consolatevi dei sacrifizi che dovrete fare, perchè questi riusciranno brevi, e il frutto sarà perpetuo. Prudenza e ardire insieme accoppiati ci salveranno ». A comporre la Risposta al Discorso del Re fu nominata una Commissione composta dagli on. De Pretis, Colla, Cabella, Mauri, Mellana, Reta, Montezemolo che ne commisero al Cabella la Relazione. Al relatore e alla Commissione incombeva un ufficio della massima gravità: la Risposta esponendo i voti e la volontà del popolo rispetto a quello che il momento supremo urgentemente reclamava, conferiva al Sovrano e al Ministero il mandato esecutivo di denunciare l'armistizio e di rompere nuova guerra all’Austria, e decideva delle sorti della nazione. Se non che mentre la Commissione veniva studiosamente elaborando la Relazione sulla Risposta, cadeva di colpo il Ministero Gioberti. La misera fine parlamentare del grande scrittore,, ci dimostra una volta di più che poco ha che vedere l’altezza della filosofica specula- ci) Avendo, come vedemmo, la Camera subalpina accettata la. Costituente come condizione al patto di unione con la Lombardia, Ee C. Alberto nell’imminente ripresa delle ostilità contro l’Austria non poteva disdirla e, d’altra parte, era istante-mente domandata dal popolo con la fortuna del quale egli aveva ormai congiunta la propria. Ma ricaduta la Lombardia sotto l’Austria, la Costituente diventò subito nome odiato dai fautori della Monarchia che videro un repubblicano in chiunque ancora la invocasse, nè di essa ne’ suoi proclami e nel suo primo discorso alla Camera JEte V. Emanuele fece più. alcuna menzione. 179 zione e l’eloquenza fascinatrice col senso pratico degli uomini e delle cose e con l’accorgimento di chi sa destramente valersi a vantaggio proprio od altrui dei mutevoli atteggiamenti degli uni e delle altre. Chiamato a dirigere il Ministero così detto democratico e gli affari esterni, fìsso nell’utopia federativa caduta ormai dalla coscienza .italiana dopo l’enciclica papale del ‘29 aprile, il Gioberti voleva principiarne l’attuazione coll’impegnare parte delle forze piemontesi nella restaurazione dei troni di Toscana e di Roma, senz’avvedersi che intromettendo, non chiamato e con missione austriaca, l’esercito sardo nelle questioni interne dei popoli fratelli e alienando per tal modo dal Piemonte la parte più calda dei liberali italiani veniva a distruggere d’un tratto la sapiente politica iniziata da Carlo Alberto per la quale il Piemonte, facendosi maestro di libere istituzioni, raccoglieva il favore e il plauso di tutti i patrioti d’ogni fede politica e offrendo loro nelle sue terre ospitalità, sicurezza e protezione diveniva la rocca della libertà e l’arbitro della fortuna d’Italia. Non s’avvedeva che dividendo e sciupando l’esercito sardo quando più che mai urgeva il bisogno di accrescerlo e rinforzarlo per l’imminente ripresa delle ostilità contro l’Austria da tutti reclamata, secondava i disegni del nemico; s’illudeva, illudendo, che l’aiuto accordato ai regnatori di Toscana e di Roma dovesse indurli a respingere l’amicizia austriaca e a legarsi al Regno sardo; favoriva indirettamente il trionfo di quei partiti estremi che col divisato intervento egli intendeva combattere ed abbattere; e tutto riempiva di confusione (1). Si riferisce al periodo tra il 12 e il 20 febbraio 1849 la lettera seguente del Cabella al fratello Federico. Il discorso del Gioberti a cui s’accenna è quello dal Gioberti pronunciato alla Camera il 10 febbraio per isvolgere il suo nuovo Programma di governo, e accolto con disgusto dalla maggioranza la quale invece di votargli la fiducia, come il Gioberti desiderava, su proposta del Valerio, passava all’ordine del giorno. (1) Eppure, cosa incredibile, consentivano nell’errore del Gioberti il D’Azeglio, il Lanza e, ciò che più ci sorprende, anche il Cavour che giudicava il Gioberti un enfant de génie, che sarebbe un grand'uomo se avesse il senso comune; e vi consentiva il La Marmora che di buon grado accettava dal Gioberti il mandato di rimettere sul trono il Granduca proprio in quel supremo momento in cui non avrebbe dovuto sentire altro dovere che quello di difendere la patria dall’irruente Austriaco. 180 « Mio caro Federico, » Sineo mi ha dato in questo momento le notizie di Genova che mi hanno tranquillizzato. Avrai a quest’ora letto il discorso di Gioberti. Vedrai che sorta di pretume! Se non fossero i tempi difficili il Ministero non reggerebbe alla disapprovazione della Camera. Ma per ora bisogna sostenerlo. Abbiamo però avuto già fin d’ora in privato, ed avremo poi in pubblico spiegazioni tali che faranno fare al Ministro ammenda del suo peccato. Ieri fummo in conferenze tutto il giorno. Il Ministero fu a due dita dalla sua rovina. I tempi lo salvarono. Non dir queste cose così crude, perchè non vogliamo per ora nemmeno indebolire il Ministero nell’opinione: ma alla prima che facesse di questo genere non si salverebbe più. Pare impossibile che un Ministro democratico possa parlare del papa e di Roma come ne parla Gioberti! E quei poveri diavoli del Governo provvisorio compromessi in modo da essere impiccati dai Romani? E quegl’insulti grossolani ad un partito, radicale si, ma democratico? 0 Dio Dio, che roba! Spero che Gioberti capirà, e se non capirà glielo faremo capire, che deve ritirarsi dal maneggio degli affari e contentarsi della presidenza del Consiglio. Addio. Salutami tanto Clementina, e Luigi, e la mamma e le sorelle. Addio. - Il tuo Cesare » Com’è noto, il *21 febb. 1849 il Gioberti, visti i suoi disegni d'intervento disapprovati da Re C. Alberto, dimise il potere e andò a sedersi sugli scanni dell’opposizione dove accusando di sleali intrighi i presenti Ministri, ingaggiò col ministro Rattazzi una polemica personale da tutti nauseata e indegna di lui, ch’ebbe termine coll’ordine del giorno Viora, emendato dal Brofferio e approvato dalla Camera, che diceva: « La Camera, riconoscendo che il Ministero ha bene interpretato il voto della nazione, passa all’ordine del giorno ». A questo fatto si riferisce la lettera infrascritta del Cabella ai suoi fratelli Fe-' derico e Luigi. Ministero dell’Interno Gabinetto particolare « Torino, li 21 febb. 1849. « Carissimi fratelli, » Scrivo due righe nel Gabinetto del Ministro dell’interno (Sineo) per darvi le notizie della giornata che sono importantissime. La Camera 181 oggi si pronunciò tra Gioberti e il Ministero. Un’immensa maggiorità condannò il procedere di Gioberti, ed approvò la condotta degli altri ministri. Gioberti è caduto........ Dio voglia che non risorga.mai più. Il precipizio che apriva al paese è così orrendo che fa paura a pensarvi. La sua condotta alla Camera fu indegna. Leggerete nei giornali il tenore della discussione e vedrete quanto basso diventi quest’uomo. Io fui così occupato tutta la mattina che non ebbi tempo a scrivere una lettera alla mamma, com'era mio desiderio. Addio. Il partito reazionario (clerico-moderato) non ha tentato nessun colpo contro il parlamento come n’era corsa la voce. È vinto e disfatto. Addio. Sono con tutto il cuore Vostro affez.mo Cesare » Fate sapere a tutti che Buffa non era con Gioberti, ch’egli è tra i migliori che restano, fra gli amici veri della causa italiana ». La lettera seguente alla madre è notevole per affetto figliale e famigliare e perchè ci da notizia della severa risposta data da Re C. Alberto a chi gli presentava un indirizzo firmato da 3000 cittadini invocanti il ritorno del Gioberti al potere. « Torino, 24 febbr. 1849. « Carissima madre, » Un po’ troppo tardi veramente comincio a scriverle. Ma il tempo è così continuamente esaurito dalle faccende politiche, che non me ne resta abbastanza per la corrispondenza. Ma ella sa che io non posso dimenticare un istante d’esser suo figlio, e facilmente perdonerà ad una negligenza che non è volontaria. » La mia salute è buona: ma non ho finora grande appetito, e la tosse, sebbene poco molesta, non mi ha ancora interamente abbandonato. Le occupazioni che ho. sono molte, ma mi rubano il tempo senza molto affaticare l’intelletto: cosichè non possono essere d’ostacolo a ripigliare e ristabilire completamente la mia salute. » Quanto mi consola il felice parto di Annettina! Spero che oggi avrò sue notizie (1). Non ho ancora potuto scrivere a Pippo e nemmeno ho potuto ancora presentare al Sig.r Vigitelli la lettera di Millo. Tanto mi manca il tempo a tutto. (1) Anna, sorella del Cabella, maritata in Gamba. 182 » Qui siamo ora in perfetta calma. Abbiamo avuto tre giorni di agitazione perchè i codini volevano ad ogni costo che Gioberti tornasse al Ministero. Ieri una petizione si stava sottoscrivendo sulle piazze a questo fine. Furono raccolte circa 3000 firme. Fu presentata al Re da un certo Baracco. Il re rispose, presente Rattazzi: « Quelli che fanno tumulti in piazza in mio nome, e pretendono d’esser miei amici, sono i miei primi nemici. Ho giurato fedeltà allo statuto, e lo manterrò e difenderò ad ogni costo. Non mi lascerò mai imporre un ministero dai tumulti della piazza. E il voto del Parlamento, e non le grida del popolo tumultuante che mi indicano la scelta de’ miei Ministri ». Benedetta sia la lealtà di Carlo Alberto ! Se egli non fosse così sincero guai a noi! La nostra causa sarebbe perduta. » Quest’oggi devo parlare lungamente alla Camera per sostenere il progetto d’indirizzo (la Risposta.al Discorso della Corona). Dio mi aiuti! Ho interrotto il mio studio di preparazione a questo discorso per scrivere queste poche linee. Non posso dilungarmi. » Abbia cura della sua salute. Si conservi all’amore de’ suoi figli e specialmente di chi sarà sempre con viva e profonda affezione e riverenza suo affez.mo figlio Cesare » PS. — Mando il foglio della Gazzetta di Piemonte dove sono le mie parole nella seduta del 22 febbraio perchè Clementina le desidera ». XXII. Testo della Risposta al Discorso della Corona. Al Gioberti succedeva per brevi giorni il gen. Agostino Chiodo e quindi il gen. Gabriele De Launay. Il Re, la Camera, il paese ardevano e fremevano d’impazienza per la ripresa della guerra contro l’Austria, guerra che niuno dubitava foriera di certissima vittoria. Di questo nuovo rivolgimento di idee e di questo fremito di guerra è interprete fedele la seguente Risposta al Discorso del Re che il nostro Relatore presentò alla Camera il 22 febbraio. « Sire, » chiamati.a tutelare in tempi difficilissimi gl’interessi della Nazione, ci conforta il pensiero dell’accordo meraviglioso che per singolare privilegio regna nel nostro Stato fra principe e popolo: grande elemento di forza e principale fondamento delle nostre speranze. — 183 Questo accordo, o Sire, è dovuto alla lealtà che Voi poneste nel riconoscere e mantenere intatti i diritti della Nazione, e al generoso abbandono col quale consacrate all’indipendenza italiana la vostra vita e quella dei vostri figli. Le prime nostre parole devono perciò attestarvi la viva e profonda riconoscenza del popolo, il quale col suo amore e col suo voto conferma e consolida la vostra corona. Nè vi sarà ingrata l’Italia che vi dovrà tanta parte della sua redenzione. Il primo parlamento si apriva nella gioia delle recenti istituzioni e nell’ebbrezza della vittoria. Sopraggiunta l’avversità, il vostro animo stette fermo nei magnanimi disegni. Ed ora la Nazione da voi interrogata, fatta anch’essa più forte nella sventura, persiste nel volere ad ogni costo la libertà e l’indipendenza. Noi siamo, o Sire, i rappresentanti di questi due principii. Voi circondandovi dell’eletta del popolo e conferendo le cariche e gli onori al solo merito, noi rivolgendo le nostre precipue cure all’ordinamento della finanza, del Municipio, della milizia nazionale, dell’istruzione pubblica e delle altre civili istituzioni, daremo al principio democratico quel maggior sviluppo che nello stato di guerra ci sarà consentito. Ma solo la Costituente del regno potrà mettere le nostre istituzioni in perfetta armonia col genio e coi bisogni del secolo. — Il vostro Governo tentò con lodevole intendimento di stringere fra i diversi stati d’Italia una potente confederazione iniziatrice dei futuri destini nazionali. Noi confidiamo che esso vorrà promuovere l’unione di popoli italiani qualunque possa essere, per le recenti mutazioni, la forma dei loro governi; e che riconoscendo nei popoli il diritto di costituirsi, saprà opporsi e protestare, ove occorra, contro qualsivoglia intervento nell’Italia centrale, ed ottenere da quelle provincie che contribuiscano con ogni mezzo alla guerra nazionale. Nel conquisto della nostra indipendenza saremo secondati dalle simpatie delle nazioni civili. Il Governo s’adoprerà di stringere più intimi legami con quelle che sono ordinate a libertà, e specialmente colle due grandi potenze che già ci hanno date prove di amicizia e di affetto (1). Stringiamoci alla generosa Ungheria che combatte una stessa guerra contro lo stesso nemico. E quando i vicini Slavi tenteranno levarsi a dignità di nazione, abbiano da noi quegli aiuti che la comunanza degl’interessi richiede. Rincorati dall’energico voto della Nazione la quale non può durare più oltre nella fatale incertezza, i deputati del popolo vi confortano, o Sire, a rompere gl’indugi e bandire la guerra. Sì, guerra e pronta. Noi confidiamo nelle nostre armi. Nelle armi sole e nel (1) La Francia e l’Inghilterra. J84 nostro diritto abbiamo fiducia. L'esercito, orgoglio nostro, speranza d’Italia, torni sai campi che furono testimoni del suo valore, e con fatti gloriosi ripari ai danni sofferti e ristori la fortuna delle armi nostre. La flotta che con eroica costanza tenne illesa Venezia dalle navi nemiche, aiuti potentemente i successi della guerra, e rinnovi sull’Adriatico le prove che un tempo fecero famoso sul mare il valore italiano. Voi, Sire, il diceste: non ci tornino inutili le prime prove; ci sia maestra l’esperienza. L’abilità dei capi, l'intelligenza degli amministratori raddoppi con la fiducia il valore dei soldati. Le riserve pronte alla riscossa, le milizie mobili esercitate alle militari discipline, la Guardia nazionale ordinata e in armi e, dove stringa il pericolo, il popolo intero assicurino la vittoria alle nostre bandiere. Liberiamo uua volta dall’oppressione straniera tanta parte del Regno e dall’iniquo martirio que’ nostri fratelli i quali, come furono costanti e magnanimi nella sventura, così ci saranno nel cimento forti e risoluti compagni. Affrettiamoci di dare la mano all’eroica Venezia che dura incolume nella lotta ineguale. La Nazione è pronta, per il grande conflitto, ad ogni sacrificio. Già troppi ne abbiamo fatti, ed inutilmente, al desiderio della pace europea. Per la guerra ci saranno lievi anche gli estremi ». Commissione per la compilazione del progetto di risposta: De Pretis, Colla, Cabella. Mauri, Mellana, Reta, Montezemolo; (Cabella relatore). Deputazione per presentare l’indirizzo al Re: Pareto pres., Penco, Mautino, Coffieri, Pera, Turiotti, Monti, Ceppi, Blailc, Josti, Guglianetti, Ravina; supplenti: Cornero G. B., Merlo. La discussione cominciò il 23 febbraio, e fu una lotta animata e potente che suscitò l’eloquenza dei più poderosi oratori della Camera subalpina. Contraddissero alla Risposta in senso regionale e clericale i savoiardi Costa di Beauregard, Despine, Mongelaz, Mathieu. L’avv. Agricola Chenal, savoiardo della sinistra, si scagliò fieramente contro quello de’ suoi conterranei che aveva osato invocare per la Savoia un’amministrazione separata dal Regno Sardo. Il prof. Antonio Lione dimostrò biasimevoli le paure dell’on. Despine che nella troppo esaltata libertà presentiva il prossimo avvento della repubblica in Piemonte. Il sacerdote lombardo Achille Mauri sfolgorò con eloquenza insuperabile il medesimo Despine che aveva affermato essere necessario al papa il potere temporale per l’esercizio della sua spirituale autorità. 185 XXIII. Discorso del Cabella contro le obbiezioni opposte dai diversi oratori alla detta Risposta. Nella tornata del ‘24 febbr. il nostro Relatore prende la parola per rispondere complessivamente alle obiezioni dei contraddittori e chiarire viemeglio alla Camera gl’intendimenti seguiti dalla Commissione nella compilazione della Risposta. Comincia dicendo aver inteso con profondo dolore un deputato savoiardo di destra invocare per la Savoia un’amministrazione separata dal Regno sardo e affermare che il voto della nazionalità italiana non sarà mai per realizzarsi. No, non è questo il voto del popolo savoiardo, e l’oratore si associa all'impeto generoso con cui il deputato Chenal protestava ieri contro questa insinuazione; e i Savoiardi combattenti sui piani di Lombardia fecero solenne testimonianza che ben diverso era il voto della popolazione di Savoia, di quella Savoia che diede la stirpe sotto la quale siamo lieti di essere governati. Rilevata poi l’erronea interpretazione data dagli on. Mathieu e Despine al progetto della Commissione là dove parla dei rapporti che noi dobbiamo avere con l’Italia centrale, risponde a quel deputato che diceva: Il Papa e il Granduca hanno data la libertà ai loro popoli e quando credettero aver contentati i loro voti, dovettero finire con la fuga. L’Italia centrale non si può arrestare in questo turbine di rivoluzioni, e se noi la seguitiamo, finiremo con esserne travolti. « Ci sia permesso, dice l’oratore, di levare altamente la voce contro questa insinuazione, ed io mi compiaccio come genovese di avere la parola per protestare più specialmente a nome di Genova, a nome de’ miei elettori. Finché Genova non aveva altro legame col Piemonte fuorché i vincoli imposti dai trattati del 1815 non poteva essere sorella sincera; ma dopo che a questi vincoli vennero sostituiti i nodi fraterni della libertà, Genova ama, éd ama sinceramente, il Piemonte; ama la Dinastia che la governa, non penserà mai a moti incomposti; voi ne avete avute recenti prove; rassicuratevi, Genova ama sinceramente la Monarchia costituzionale sotto la Dinastia di Savoia. {Applausi). » Un precedente abilissimo oratore, l’on. Lione, ha provato con fatti e argomenti irrefutabili che il movimento italiano non è repubblicano e che le repubbliche di Roma e di Toscana non furono che una necessità, ha fatto toccar con mano che sotto il nostro Principe non si può pensare a repubblica, e che se le altre provincie avessero avuto un principe come il nostro, di repubblica non si parlerebbe in nessun luogo. (Braco!) L’accordo meraviglioso che nel nostro paese regna 186 fra principe e popolo è dovuto alla lealtà con cui il principe ha saputo riconoscere e mantenere intatti i diritti del nostro popolo. Or come volete che sia possibile il desiderare che si muti governo dove se ne ha un buono? Certo, noi diciamo, la patria e l’Italia avanti a ogni cosa. Ma chi è il primo a dirlo? Il nostro principe; e ce lo insegna con l’esempio. (Applausi). Ma, si oppone, i governi dell’Italia centrale cercheranno di sconvolgerci. 'Sì, o signori, se noi avessimo seguita la politica che si voleva inaugurare dall’ex presidente del Consiglio (il Gioberti); ma rispettando noi le loro interne faccende, non offendendo in veruu modo i loro diritti, per qual ragione e con qual loro utilità vorrebbero offenderci? Voi vedete che ben lungi dal cercare di portar disordini in casa nostra, saranno ben lieti di trovare in noi un appoggio potente ed ordinato. Non oseranno rompere lo scudo che varrà a coprirli. (Braco!) — Ed anzi io mi auguro una conseguenza del tutto contraria a quella che è temuta dagli on. deputati ai quali rispondo: che, cioè, invece di essere noi tratti verso di loro, saranno essi tratti verso di noi; per noi saranno le loro simpatie. E quali saranno i segni di queste simpatie? L’avvenire lo deciderà. Non pregiudichiamo l’avvenire! » (Vici applausi) — Perchè si ha poi da temere che i nuovi governi repubblicani dell’Italia centrale possano recar disordini o sovversive influenze nel Regno Sardo? 0 quei governi sono creazioni di violenta minoranza e destinati ad accrescere i torbidi e l’anarchia nel loro paese, e in questo caso credete voi che l’esempio dei loro mali sia per far desiderare a noi d’imitarli? (Braco!) 0 sono l’espressione del sincero voto del popolo e perciò destinati ad acquistare stabilità; e allora noi, avendoli rispettati, li avremo amici ed avremo da loro i soccorsi di cui abbisogniamo per la guerra d’Italia. (Braco, bene!). E per loro interesse e per gratitudine si asterranno dal portar disordini in casa nostra. Ad ogni modo, qualunque sia per essere il loro ordinamento particolare, noi nulla avremo mai da invidiare ad essi, perchè tutti quei beni ch’essi potranno procacciarsi colle nuove forme di governo, noi già li possediamo. (Bene!) Ed essendo inutile per conseguenza qualunque innovazione, chi volete voi che pensi ad imitare tra noi l’esempio loco? » — Venendo poi alle esorbitanze clericali del Despine, l'oratore continua: « Io non credeva che in un Parlamento italiano si potessero proferire parole che noi abbiamo ascoltato con vera sorpresa e sono queste: che gli Stati pontifica siano una proprietà del mondo cattolico. (Ilarità e sensazione). Così la definì l’on. dep. Despine. Saranno dunque i Romani mancipii dell’Europa cattolica? Dovranno essi dunque restare eternamente sotto il governo teocratico? Non potranno mai aspirare a libertà? E l’Italia 187 per conseguenza non potrà mai essere nazione perchè i Romani non potranno mai entrare nella famiglia italiana? (Viva sensazione ed applausi). Noi appunto perchè l’Europa cattolica innalza queste pretese dobbiamo in un Parlamento italiano altamente e fermamente respingerle. (Braco!). Gli Italiani potrebbero rispondere a qualunque altro popolo: Ebbene, venga il Papa a portare la sua fede nelle vostre capitali, e da quel momento voi cesserete di essere padroni in casa vostra; e da quel momento il vostro paese sarà la proprietà della Cristianità. » (Applausi generali). — Passando poi a parlar della guerra, Foratore dice sentire il bisogno di protestare contro il deputato che forse per oblivione chiamò questa guerra aggressiva quando se avesse ricordato da quale straniero è oppresso il Lombardo-Veneto e quali i confini orientali d’Italia, l’avrebbe chiamata difensiva. Risposto poi a chi opponeva che l’Austria è preparata, ed ha contratto alleanze potenti, « Quanto ad alleanze, rispondeva il Relatore, noi ne abbiamo ben altre e ben più potenti di quelle a cui allude il preopinante, e queste alleanze son tali che fanno tremare l’Europa ». (Sensazione) (1). Dichiara che la Commissione prima di gettare il grido di guerra ha profondamente meditate le nostre condizioni, onde è venuta nella convinzione che la guerra è necessaria. Ricorda alla Camera che l’Austria non cede se non quando è vinta; che le mediazioni sono per lei pretesti per guadagnar tempo e non altro; aver essa dichiarato più volte, anche dopo aver conceduto i confini del Mincio, che per lei non si trattava già di venire a questa mediazione per rinunciare al dominio della Lombardia, ma soltanto venire a compensi per le spese della guerra, e regolare le condizioni future di quelle provincie come parte dell’impero. L’Austria dunque certamente non cederà se non ve la costringeremo noi con la forza delle armi. La Commissione perciò ha concluso che la guerra è una necessità; ma è un’altra necessità che questa guerra sia pronta. Infatti da troppo tempo sosteniamo i gravi carichi della guerra senza averne i benefici; carichi che prolungandosi ancora ci ridurrebbero a tale esaurimento da renderci impossibile il ricominciarla. (Bene!) « Nei tempi grandi e difficili non sono i timidi e cautelosi consigli che salvano gli stati. Le cose grandi devono essere trattate con grandi mezzi. L’ardire e la prudenza ci salveranno, disse il Principe; e noi rispondiamo che la nostra pru- (1) Le nostre più potenti alleate erano allora le rivoluzioni agitanti l’Europa, massime la Germania, l’Austria e l’Ungheria dove i popoli arditamente reclamavano le civili libertà dai loro dispotici governi; e alleata potentissima la Lombardia che, ricaduta sotto l’Austria, si sperava insorgesse nuovamente e si unisse con noi. denza sta nell’ardire. (Applausi). Noi non possiamo essere, a dir vero, annoverati fra i grandi stati; ma se voi volgete lo sguardo all’Europa, intenderete dov’è il segreto della nostra potenza. (Braco!). Io debbo dire qui meno di quello che voi certo intendete. L’Europa teme una guerra europea. Or bene, è questa guerra che appunto noi non abbiamo a temere. Se l’Europa vuole una pace europea, ci dia i confini dell’Isonzo ». (Applausi). Dimostra in fine cogli esempi delle Fiandre contro la Spagna strapotente, di Venezia contro tutta Europa nella lega di Cambrai, della stessa nostra presente resistenza contro tutte le fòrze dell’Austria, che con la concordia, col valore, con l’ardimento, colla costanza, sotto la scorta di un principe generoso e magnanimo, nulla abbiamo noi da temere perchè la vittoria sarà con noi. L’orazione del Cabella, splendida e forte, ma che così smozzicata e decurtata per brevità, ha perduto necessariamente il suo maggior pregio, dopo aver riscosso continui segni di assenso e ammirazione, fu salutata infine dagli applausi prolungati della Camera e delle Gallerie. E da quel momento il Parlamento subalpino seppe d’avere in Cabella uno de’ suoi più dotti e potenti oratori. La discussione si protrasse ancora viva ed animata fino al 3 marzo, giorno che la Risposta fu approvata. Vi presero parte Mellana, Rossetti, Montezemolo, Brofferio, Ravina, Cadorna, Lanza, Josti ed altri. XXIY. La disfatta di Novara e la rivoluzione di Genova (marzo-aprile 1849). E la volontà concorde del popolo e del sovrano si poneva in atto, e il 23 marzo il generoso errore si compiva con la catastrofe di Novara. Omettendo, come alieno al mio tema, il racconto di tanta sventura, dirò solo ciò ch’io penso delle cause generatrici della sedizione o, se vuoisi, rivoluzione di Genova che ne fu la conseguenza. Anzi tutto la convinzione che Novara fosse frutto di un tradimento infernale ordito dai nemici delle nuove libertà era comune così ai liberali Piemontesi come ai Genovesi. Al tradimento si gridò per le vie di Torino il dì 26 marzo, al tradimento gridò alla Camera la sinistra parlamentare. Cadeva il ministero Rattazzi e il 27 marzo gli succedeva il ministero De Launay che non dava affidamento nessuno in tanto frangente. Il gen. Gabriele De Launay « savoiardo, soldato valoroso, fautore della monarchia assoluta, accusato d’aver dato suggerimenti reazionarii a C. Alberto, passava per uno di quei deputati 189 della Savoia i quali erano dell’opinione che la causa dell’indipendenza italiana non fosse la causa della loro patria » (1); Pinelli ministro degl’interni era ritenuto un municipalista conservatore; Cristiani, Nigra, Dabormida, Gal vaglio, probe persone ma conservatori e deboli. Il nuovo Re, « allievo di gesuiti, figlio e marito di principesse austriache, nel matrimonio colla figlia dell’arciduca Ranieri aveva avuto a padrino il mai’esciallo Radetzky, nè i suoi modi aspri e bruschi ispiravano fiducia. Nello stesso giorno 27 marzo, avendo egli passato in rassegna la Guardia nazionale torinese, non udì un grido di affetto, non un applauso; le accoglienze non oltrepassarono i termini di una fredda cortesia » (2). Peggio accadde la sera stessa quando Pinelli leggeva alla Camera le condizioni dell’armistizio che erano: occupazione provvisoria da parte delle truppe austriache del territorio compreso tra il Po, il Ticino e la Sesia; Alessandria presidiata da truppe austriache e piemontesi; congedo dei corpi lombardi; riduzione dell’esercito piemontese sul piede di pace; la flotta sarda sarà ritirata dall’Adriatico. Seguivano altre clausole minori. E impossibile descrivere lo spettacolo che diede di sè la Camera in quella memoranda sera; erano lagrime, singulti, grida, convulsioni, impeti di santo e ge-nei’oso amor patrio che dirà ai più tardi nepoti quanta fosse la virtù dei nostri padri e quanto di miglior sorte più degna. Il nostro Pareto gridò: « Quando un atto intacca l’onor del paese, non cerco le circostanze che l’hanno dettato; non v’è circostanza che possa giustificarlo. Cento anni fa un paese (Genova) trovavasi in condizioni peggiori, aveva il nemico nel suo interno, insorse, cacciò via il Tedesco e ricuperò l’onore. Non si consegni Alessandria, aspettiamo che il nemico se la prenda. 11 Governo porti tutte le sue forze intorno a Genova e, dichiarata la patria in pericolo, chiami a Genova tutti gli uomini atti a portare le armi. Se il Ministero permetterà che s’introducano le forze austriache in Alessandria o richiamerà la squadra prima che l’armistizio sia approvato dal Parlamento, i Ministri saranno colpevoli d’alto tradimento ». Identica proposta faceva pur l’on. Mellana; Josti dimostrava il nostro disastro inganno e tradimento del partito retrivo e finanziario. E Lanza che dal dolore pareva quasi impazzito, quando le lagrime glielo permisero, enumerati i mezzi che molti ancora prima della disfatta si avevano per iscongiurarla, aggiungeva: « Avevamo infine quello che ci è sempre (1) C. Tivaroni L’Italia degli Italiani, voi. I pag. 282. (2) C. Tivakoni op. oit. 190 mancato, quello che nessun ministro ci ha mai voluto dare; quello che strapperemo tosto o tardi, l'insurrezione popolare..... Avevamo la linea degli Appennini, avevamo la forte Genova la quale si ricorda ancora del 1746 e spero ne celebrerà l’anniversario..... ». E perfino il moderatissimo Pinelli: « Non abbiamo grande fiducia nelle insurrezioni delle masse contro eserciti disciplinati ed esercitati. Tuttavia crediamo che piuttosto che sottoscrivere patti d’armistizio i quali possano porre il paese in posizione tale da dover accettare una pace che non sia decorosa, meglio convenga esperimentare gli ultimi resti della nostra fortuna ». Se nella severa Torino e in Parlamento da personaggi notoriamente temperati questo si udiva e si voleva, che doveva accadere nel popolo irrequieto e fremente della nostra Genova? Udita la sciagura novarese il nostro Municipio s’era affrettato a delegare il Cabella e l’avv. Carlo Riccardi, deputato di Oneglia, al nuovo Re perchè lo animassero a tentare nuovamente la fortuna delle armi e risparmiasse al paese una tanta vergogna. Quando poi il dì 29 si lessero sui giornali torinesi i discorsi pronunciati alla Camera nella tornata serale del 27, tutta Genova parve colta da un delirio di guerra e si accinse agli estremi cimenti. Il Municipio spediva subito a Torino un’altra deputazione decurionale per invitare la Camera ad eseguire ciò che il Parlamento nella tornata del 27 aveva solennemente affermato. Ecco l’indirizzo del Municipio redatto dal cons. Papa. « Deputati! » Una, sventura inaudita ci colse ma non ci opprime. — Fra l’orrendo suono delle notizie che annunziarono il subitaneo rovescio di un’impresa illuminata da tante speranze, la vostra voce pervenne a noi come salutare conforto. — Avete colla dignità d’uomini liberi deplorato la sorte che in un solo giorno, per le trame d’interni nemici, colpiva esercito e Re. — Avete protestato, con fremito non inferiore a quello del Popolo che rappresentate, contro l’iniquità delle condizioni proposte in un armistizio funesto all’onore e all’interesse nazionale. — Deputati! il Municipio di Genova d’accordo con questa brava Guardia Nazionale può assicurarvi che questo popolo sta con voi, coll’onore e coll’interesse nazionale; applaudisce ai vostri atti; è pronto a sostenerli con le sostanze e col sangue. — Il Municipio di Genova a nome di questo popolo vi fa sapere che la città d’infausta memoria per l’Austriaco tracotante, andrebbe orgogliosa di offrire sicura sede / 191 a un Parlamento che sostiene la dignità della patria. — Venite! Da questo fermo propugnacolo si trattino le condizioni, non dalle pianure aperte al nemico, dove una pace vergognosa diviene conseguenza necessaria del miserabile armistizio. — Venite! Circondatevi delle forze che ancora esistono; il decoro delle antiche bandiere parla nel cuore del soldato subalpino, e l’entusiasmo del popolo deve ravvivarsi intorno alla munita residenza dei suoi rappresentanti. — Venite! Voi lo avete detto: da Alessandria, dall’Apennino, dal centro di Genova può sostenersi la causa del paese e della minacciata libertà. La vostra risoluzione metterà sulla bilancia un peso decisivo. — E voi dite al nuovo Re che l’umiliazione del paese lo umilia; che il nemico da lui tante volte affrontato in campo, sarà il suo tiranno e il suo carnefice se riesce ad imporgli patti ignominiosi ed a staccarlo dalla causa del popolo (1). » Genova, 29 marzo 1849 II Sindaco Profumo » Come si vede, i Genovesi avevano creduto sacri e inviolabili giuramenti le generose deliberazioni prese dal Parlamento subalpino la sera del 27 non pensando ch’esse erano da ritenersi sfoghi, santi sì, ma transitori di amor di patria trafitto a morte. La missione poi Cabella-Riccardi non ebbe effetto per il generale turbamento di uomini e cose, e perchè il dì 29 il Re prorogava e il 30 scioglieva la Camera. Non è di queste memorie il narrare i miserandi casi che funestarono Genova dal 1° al 12 aprile 1849. L’insurrezione che cominciò in forma di agitazione con ottimi e generosi propositi come il più delle rivoluzioni, esempio tipico la francese del 1789, degenerò in moto rivoluzionario e sovversivo per un complesso di cause di cui sono le principali: l’indole nostra eccitabilissima e bramosissima d’indipendenza; l’odio tradizionale contro l’Austria e contro il Piemonte i cui governi nella ferma credenza del nostro popolo erano congiunti in occulto ai danni e alla depressione delle concesse libertà italiane, prove credute il doppio tradimento di Salasco e di Novara; il partito mazziniano che già da tempo fomentando gli spiriti già naturalmente repubblicani del popolo genovese e da un anno lavoi’ando indefesso (1) Ho recato l’intero documento anche perchè il lettore giudichi se da esso si può dedurre che del Sovrano e dell’esercito non si faceva pii) nessun caso, come vuole il La Marmora il quale, per guadagnar fede alle sue parole, trova comodo di riferire dell’indirizzo solo la parte che più gli conviene. Cfr. A. La ìJahmora, Un episodio del Risorgimento italiano pag. 30. 192 in varie parti d'Italia, s’era grandemente accresciuto di forze e di proseliti, aveva guadagnato molti ufficiali e molti della nostra Guardia Nazionale, e andava predicando esser tempo che alla criminosa guerra di re l’Italia sostituisse la santa e spontanea guerra di popolo, e rinnovasse le glorie genovesi del 1746 e le milanesi del marzo 1848; la cieca fede prestata dai nostri alle voci sparse ad arte dai repubblicani o avventatamente da fantasie spaventate secondo le quali il Re e l’esercito a Novara avevano tradito, lo Statuto presto sarebbe stato abrogato, la baudiera tricolore abolita, ingenti somme dovevano pagarsi all’Austria, Torino stava per essere occupata, come Alessandria, da truppe austriache, Genova doveva esser data in pegno all’Austria fino alla totale estinzione del debito; squadre nemiche già in marcia per valicar l'Apennino e occupare la nostra città; la ferma speranza nutrita dai mazziniani di potersi facilmente impadronire di tutte le forze di Genova e di ricevere il sollecito aiuto della Divisione Lombarda comandata dal gen. Fanti, allora acquartierata a Tortona, Valenza, Voghera, e dei nuclei repubblicani delle diverse regioni italiane, segnatamente di Roma, Toscana e Venezia. A tutto questo s’aggiunga tra i . numerosi patrioti emigrati a Genova dalle diverse provincie italiane la commistione di molta gente straniera parata ad ogni violenza, pronta ad ogni sbaraglio (1); la niuna fiducia che ispirava il nuovo Re che dopo aver nominato un Ministero illiberale e retrivo scioglieva la Camera senza pur designare il giorno dei nuovi Comizi; l’esempio contagioso e inebriante delle dianzi proclamate repubbliche (1) Tutti gli scrittori convengono che dei molti insorti morti o feriti, pochissimi si riconobbero genovesi. Nel Panorama politico ossia la Camera subalpina in 22 sedule per Giuseppe Mongihello (pseudonimo) (Torino, Zecchi e Bove, 1849) a p. 18 si legge: « La Bivoluzione di Genova fu mossa da una masnada di emigranti lombardi, veneti, toscani, parmigiani, romani e polacchi. Di 72 morti soli 2 genovesi, di 321 feriti solo 6 genovesi! » Afferma il La Marmora nell'op. cit. pag. 104 che gl’insorti passati a fil di spada da’ suoi soldati nel palazzo del Principe Doria * si riconobbero poi quasi tutti estranei a Genova, e molti di essi essendo pantaloni rossi, chi li diceva Francesi, e chi pretendeva fossero Polacchi. » Il Tivaroni non chiama gl’insorti con altro nome che di polacchi. Infatti essi appartenevano a quella piccola legione polacca di 250 volontari ch’era stata reclutata in Francia per incarico del Governo provvisorio toscano e s’era imbarcata a Marsiglia il 3 aprile. « Giunti a Genova il 4, mentre quella città era insorta/ presero parte per due notti alla difesa delle barricate. Ma soffocata l’insurrezione dal La Marmora, ritornarono sul loro vapore il quale, postosi sotto la protezione di una nave da guerra inglese, potè uscire dal porto di Genova. Cosi giunsero a Livorno il giorno 7, poi a Firenze. Qui essendosi in breve restaurato il governo granducale, la piccola legione parti dalla Toscana e venne col Medici a Boma dove, unitasi con altri gruppi di polacchi venuti per altre vie, pugnarono da prodi ». Cfr. Giovanni Cadolini Memorie del Risorgimento, pag. 76 nota, e pag. 140-41. 193 di "\ enezia, Roma Firenze, e delle insurrezioni recenti e presenti di quasi tutti i popoli d’Europa; infine, la fiacchezza delle autorità politiche, militari e amministrative che da qualche tempo si succedevano nel governo della nostra città, massime di quelle che in questo supremo momento quando era più che mai necessaria una virile fermezza, con esempio di deplorevole pusillanimità abbandonarono le briglie sul collo del cavallo infuriato (1). XX^ . Il Cabella dimostra l’illegalità dello stato d’assedio proclamato a Genova. Riuscita vana la missione affidata al Cabella e all’onorevole Riccardi dal nostro Municipio, il Gabella, udite le tristi notizie di Genova, s’affrettò a partire da Torino. Ma, com’egli poi raccontò, appressandosi alle porte di Genova e cercando di riuscire a penetrarvi, corse serio pericolo da quei presidii che rigorosamente ne vigilavano gli accessi. Resasi Genova e cessate le ostilità, potè finalmente rientrare. Senonchè protraendosi lo stato d’assedio proclamato dal La Marmora e già da quaranta giorni subendo Genova questa dura condizione che incatenava la libertà della nostra vita civile, il Cabella ne fu indignato e pubblicò sulla Gazzetta dei Tribunali del 22 e 29 maggio un lungo articolo di fondo col titolo: Dello stato d’assedio, dove dimostra con argomenti invincibili e con chiarezza di luce meridiana Tillega-lità di quel provvedimento. E uno studio modello di Diritto costituzionale applicato, ma è anche una giusta e vigorosa protesta contro l’arbitrio dispotico del Governo che proclamava lo stato d’assedio in onta non solo alla legge fondamentale del Regno, che non ne fa cenno nè menzione in alcuno degli 84 articoli, ma in onta pur anco ai patti della Capitolazione stipulata il 6 aprile tra il Municipio di Genova e (1) Assennatamente il Guerzoni nella Vita di Nino Bixio (pag. 71 - 72): « La ribellione di Genova non fu ohe l’esplosione violenta e irrefrenabile del sentimento di tutta l’Italia; non c’era, può dirsi, a que’ giorni, città o terra italiana che non pensasse quello che pensò Genova: solamente questa più ardente, più battagliera, più prossima al disastro, più interessata a fuggirne gli effetti, più esposta al soffiare dei partiti e inviperita da rivalità antiche e nuove, diede una forma manifesta e positiva al sentimento che gli altri vagamente esprimevano. Non ce ne dimentichiamo se vogliamo essere giusti: quei fantasmi di tradimenti, d’intrighi, di mene, ci incalzavano tutti: il He si credeva tradito dai radicali; i radicali dai moderati; i repubblicani dai realisti; i Piemontesi dai Lombardi; i Generali sardi dai Generali stranieri; tutti insomma dovevano essere, od erano stati o prima o poi, una volta almeno traditori » • 13 194 il R. Commissario. Lo scritto fu avidamente letto e levato a cielo da tutto il ceto colto genovese, ed ebbe anche eco di lode presso gl’imparziali Piemontesi; e la Concordia del 12 Giugno 1849. che lo riassume trascrivendone i tratti più rilevanti, dice di esso: « Il tema è svolto con un ordine, una chiarezza ed un possesso così grande delle teorie costituzionali che non dubitiamo punto di asserire che la mano maestra che lo ha disteso è pienamente riuscita nel suo assunto ». E a me dispiace per amore di brevità non ne poter far pago il desiderio del lettore. Il Decreto con cui Genova era posta in istato d’assedio, datato del 3 aprile, fu posto in esecuzione il dì 11 quando il tumulto era intieramente cessato e il Governo ripigliava l’esercizio della sua autorità. Questo stato durò 89 giorni e cessò pel D. R. 9 luglio 1849 che lasciava all’arbitrio del gen. La Marmora di ristabilirlo ove ne vedesse la necessità. Il La Marmora, conforme a quanto aveva stipulato col nostro Municipio, nella sua Relazione al Governo proponeva alla clemenza del Re l’amnistia per tutti i rei tranne per 12, cioè per Lorenzo Pareto, Giuseppe Avezzana, Costantino Reta, David Morchio, Ottavio La-zotti, Didaco Pellegrini, Federico Campanella, G. Battista Cambiaso, G. Battista Albertini, Nicolò Accame, Carlo Ciro Borzino, Federico Weber. Il Re firmò il Decreto di amnistia e cancellò Lorenzo Pareto dalla lista degli esclusi. Gli altri 11, in tempo scampati, con sentenza del Magistrato d'Appello 24 luglio 1849, furono condannati in contumacia, i primi 10 alla pena di morte, il Weber a quella dei lavori forzati a vita; il Cambiaso anche alla multa di L. 20.000, di L. 2000 il La-zotti, e di 1000 tutti gli altri, alla privazione dei diritti civili, alla indennità e alle spese (1). XXVI. Gli si propone (li far parte di un Ministero di conciliazione (agosto 1849). Le franche parole con cui il nostro Deputato nella sua prima comparsa alla Camera aveva sostenuto l’operato del Ministero contro le invettive del Brofferio trovarono favore presse i ministeriali pie- fi) Il nostro Cabella nel 1855 desiderando ottener la grazia sovrana all’amico avv. David Morchio, ne interessò vivamente il nostro grande giureconsulto sen. Domenico De-Ferrari consigliere della Corte di Cassazione a Torino, il quale con lunga lettera 31 agosto gli dimostrava quante difficoltà legali si opponevano a quella impetrazione a favore di un condannato in contumacia. I moritesi che le intesero come segno d’inclinazione al loro partito; onde un articoletto de\Y Opinione del 22 febbraio, riferito dalla nostra Gazzetta del 24, annunziava: « Corrono già diverse voci per la ricomposizione del Gabinetto. Taluni che si tengono bene informati pretendono che Rattazzi (Ministro degl’Interni) assumerebbe il portafoglio degli Esteri e verrebbe surrogato dall’avv. Cabella ». Il discorso poi ch’egli aveva pronunciato in Parlamento il 24 febbraio a sostegno della Risposta al Discorso della Corona dove, come s’è visto, esaltando Casa Savoia fa chiara professione di fede monarchico-costituzionale, parve confermare i ministeriali nella preconcetta opinione. Infatti allorché, denunciato l’armistizio di Salasco, le ostilità con l’Austria stavano per ricominciare e le condizioni finanziarie dello Stato Sardo sperano enormemente aggravate, nè il nostro Ricci, Ministro delle Finanze, pareva pari alle difficoltà del momento, il Cavour, allora moderatissimo, il 16 marzo così scriveva all’amico banchiere di Genova: « Il (Ricci) sera forcé de sortir du Ministèro. Je ne sais qui le rem-placera. Peut-ètre le comte Ceppi, ou bien Cabella, ou bien qui sais-je encore ? » Ma queste erano le solite supposizioni di chi nel deputato non vede che l’uomo politico cioè l’uomo che in ogni sua mossa mira al proprio avanzamento e alla conquista del potere, laddove negli atti del Nostro non s’aveva a veder altro che l’amore disinteressato del pubblico bene. Se v’era governo a cui non avrebbe ricusato la propria collaborazione, esso era il governo liberale e democratico del Rattazzi e del Sineo suoi intimi, ne fa fede l’appoggio prestatogli in più occasioni; ma se l’animo suo temperante e concilievole lo traeva, quando lo richiedesse il disagio parlamentare, a offrire l’ausilio dell’opera sua ai governanti quali ch’essi fossero, non perciò pensò mai di farsene un merito per salire in alto, nè tanto meno di rinunziare alla propria libertà per servire alla fortuna politica di chicchessia. Del che dovette presto accorgersi il Cavour perchè il 24 agosto dello stesso anno scriveva al suo banchiere genovese: « L’opposition tende a se diviser. Le génois Cabella m’a fait faire des ouvertures, en prote-stant du désir d’amener une conciliation entre les partis qui divisent la Chambre. Croyez-vous que ce soit un homme dans le quel on puis-se avoir confìence? » Il De la Rue che, da logico banchiere, era del partito conservatore e, a quanto mi consta, non era molto tenero pel nostro liberale deputato, rispondeva essere il Cabella uomo pericoloso e da starne in guardia. E di rimando il Cavour il 26 agosto: « Je vous remercie de vos renseignements sur X (Cabella). Il concorde avec les miens. C’est un homme avec le quel il faut toujours se tenir sur ses gardes. Au reste, pour le moment, ni lui ni ses collègues ne sont 196 dangereux ». Non è mestieri avvertire che qui i due amici non intendono parlare di onestà privata. Come a tutti è noto, nel mondo politico parlamentare l’uomo retto, sincero e sdegnoso d’infingimenti e di basse transazioni è considerato non solo uno spostato, un inetto, ma eziandio un uomo pericoloso e da non fidarsene, segnatamente quando si tratti di faccende dove convenga giocar d’astuzia, di menzogna, di raggiri, in una parola, di politica. La politica ha un codice morale tutto suo proprio, al quale l’animo del Cabella non avrebbe mai saputo piegarsi; e un negozio di qualunque natura ch’ei si fosse assunto, quando si fosse avveduto di non poterlo condurre a compimento senza sfregio del giusto e dell’onesto, l’avrebbe incontanente troncato e dimesso. Ecco in qual modo devonsi intendere le parole pericoloso e da starne in guardia con cui i due amici usando il gergo politico l’avevano giudicato. Questo tenace attaccamento al suo immutabile principio, come formò l’elogio della sua vita, fu anche cagione ch’egli non accettasse mai il pericoloso onore più volte offertogli del portafoglio ministeriale. E che già fino dall’inizio della sua carriera parlamentare, cioè nell’estate del 1849, ne rifiutasse l’indiretta offerta ne fa fede il seguente tratto di responsiva in data 21 agosto (1849) al fratello Luigi che gli aveva comunicata la voce messa in giro a Genova dal nostro banchiere sen. Sebastiano Balduino secondo la quale Cesare nei circoli politici di Torino era designato a far parte di un nuovo ministero di conciliazione. .« Vedo ciò che mi dite intorno alle voci che sparse Balduino circa al Ministero che si preconizza dovermi essere offerto. Un fondo di vero c’è; perchè ho quasi tutti i giorni delle tirate alla larga per vedere se consentirei di entrare in un ministero di conciliazione: ma potete ben credere che mi tengo sul più assoluto rifiuto. Non dite nulla di ciò a nessuno, perchè non vorrei nemmeno che si accreditassero questi rumori, e il dire solo ch’io fui tentato sarebbe un dare ansa alle voci ». Queste parole ci dicono qual vento spirasse a Genova contro il Governo piemontese. Entrando nel ministero D’Azeglio imputato di reazionario (n’eran membri Pinelli, Galvagno, De Margherita, Cristo-foro Mameli), egli avrebbe dovuto diventarne ligio e solidale; avrebbe dovuto cangiare il proprio indirizzo politico per assumere quello fin qui da lui combattuto, e rassegnarsi al biasimo d’aver venduta la sua libertà per conquistare il potere. Il che se per chicchessia era indegno, per un Genovese che pochi mesi addietro aveva visto il bombardamento piemontese della sua patria, era addirittura un’infamia. 197 Ma perchè oggi a tanta distanza di tempi e di opinioni, a taluno potrebbe parer strano che un uomo così giusto, così buono, così delicato, entrato in Parlamento, sedesse subito a sinistra con gli oppositori del Ministero, e dopo i luttuosi giorni dell’aprile assumesse spiriti più bellicosi e avversi al governo piemontese, non parmi fuor di luogo una breve digressione a chiarire quest’avversione in cui convenivano generalmente tatti i Genovesi e i loro rappresentanti in Parlamento. XXVII. Cause delPavversione reciproca tra Liguri e Piemontesi. A giudicare convenientemente il fatto noi dobbiamo considerarlo in rapporto col tempo e con la società in cui si svolse. A questo fine rammenterò divisioni e discordie deplorevoli che volentieri tacerei se il tempo intercorso e l’effettuata unità delle genti italiane non le avessero così allontanate da noi da farcele ormai riguardare come memorie di cose morte e sepolte e da non doversi per altro ricordare che per compiangerle. Ora, « per esser sinceri, dice il Faldella, bisogna dire che il Piemonte era cordialmente antipatico ai Genovesi » (1). E questo per più ragioni: anzi tutto la contiguità del loro territorio perchè, con buona pace degli ottimisti, non si è nemici che col vicino, che è poi quello col quale abbiamo più frequenti rapporti. Il fatto non torna certo ad onore della umane specie, ma la storia è questa. Poi l'indole opposta, determinata da diversità di razza, da diverso genere di vita e questo in gran parte dalla diversità del clima e della natura del luogo abitato. Infatti i Liguri nulla potendo ritrarre dalle loro scabre e avare montagne se non a prezzo di lunghi stenti e sudori, si avventurarono per tempo ai pericoli del mare in cerca di miglior fortuna (2). Il mare più generoso diede loro ciò che la terra aveva loro negato: industria nautica, commercio, colonie, ricchezza e, con l’aria pregna di salsedine, quella impazienza e irrequietudine di carattere che contraddistingue i popoli marinari e li rende così diversi dalla natura tanto più grave e tranquilla dei Piemontesi quasi tutti occupati nel pacifico lavoro dei campi. Inoltre il mare educava i Liguri (1) Cfr. I fratelli Rufjini, pag. 45. (2) L’aveva già detto Cicerone nella 28 orazione sulla legge agraria cap. 85: « Ligure» montani duri atque agrestes; docuit ager ipse nihil ferendo nisi multa cultura et labore quaesitum »; e ripetuto in tre parole Virgilio al v. 168 del 2° libro delle Georgiche: « Adsuetumque malo Ligurem. » 198 a vita sciolta e variamente attiva e a bramare sopra ogni cosa la libei'tà; onde, scosso per tempo il giogo feudale, si governarono a repubblica e nell’agitata vita popolare si radicarono e crebbero le loro naturali attitudini che li facevano gelosissimi del franco stato, indocili e sdegnosi di ogni autorità non emanata da libera volontà di popolo e fieri sostenitori delle iniziative individuali; comechè stanchi talora ed esausti delle incessanti convulsioni intestine, per respirare dovessero ricorrere alla umiliante protezione ora di Francia ora di Milano, finche colle riforme del 1528 e 15-47 non si acconciarono alla più riposata forma di repubblica aristocratica. All’opposto il Piemontese vissuto sempre tranquillamente soggetto e affezionato a’ suoi, per vero dire, quasi rernpre probi e valenti principi, aveva contratto abitudini del tutto contrarie, quali quelle di un popolo da lungo vivente sotto un’ordinata monarchia feudale: ubbidienza leale a tutte le leggi del principato; rigida osservanza dei doveri e delle forme ufficiali, ossequio illimitato a tutte le autorità della gerarchia politica e amministrativa, stima stragrande dei titoli decorativi cavallereschi; donde veniva al Piemontese un’aria di serietà dignitosa e un po’ compassata che i democratici genovesi, nemici nati di ogni mostra e appariscenza esterna, dispettavano come segno di burbanzosa maggioranza. Questa antipatia era aggravata e in certo modo giustificata in noi genovesi dalla memoria di gravi offese antiche e recenti. Carlo Emanuele I e Carlo Emanuele II duchi di Savoia, e Carlo Emanuele III re di Sardegna, per aprire al chiuso Piemonte l’ampia e ricca via dei mari, agognavano naturalmente al dominio di Genova o di parte della Liguria, ed ora con le armi ora col provocarvi congiure e tradimenti, avevan tenuto in ansie e travagli per quasi due secoli la nostra repubblica, e i pubblici monumenti di Giulio Cesare Yacchero e di Raffaello della Torre ne perpetuano nella nostra popolazione la rea memoria (1). L'annessione della Liguria al Piemonte a tempi di / (1) Nè in minor misura i Piemontesi ci contraccambiavano l’antipatia. L’Alfieri, se nella Vita e nel sonetto a Genova non può negar lode alla bellezza della nostra città, nella Satira IX ci scaglia oltraggiosi insulti rinfacciandoci non solo la nostra ignoranza e il nostro amaro gergo e il Banco e il Cambio, ma accusandoci di opima sordidezza e di vigliacca ferocia e dicendo il nostro Senato sessanta parrucche d'idioti. Più spassionato e più giusto dell’orgoglioso conte astigiano, il Baretti scriveva: « Per me, invece di persistere nella mia prima e ridicola antipatia pei Genovesi, ho sovente detto che se fosse in mio potere di radunare tutti i miei amici in un luogo, preferirei vivere in Genova, piuttosto che in alcun’altra città, perchè il governo vi è benigno, ■ 199 ancor troppo immatura italianità, non fu dai Genovesi salutata come primo nucleo donde poco stante dovesse germinare e svilupparsi l’unità italiana, ma fu maledetta come ingiusto arbitrio di despoti coronati, i quali per opporre un Piemonte più forte e potente ad altre immaginate incursioni francesi e per cancellare in Europa ogni traccia e memoria di libero governo, non dubitavano di sacrificare alla loro politica la nostra vetusta libertà. Non valsero a deprecare la sciagura l’ambasciata del nostro Agostino Pareto padre di Lorenzo, ardente patriota e destro diplomatico, al congresso dei sovrani a Parigi, nè quella di Antonio Brignole-Sale, chiaroveggente intelletto, alle potenze congregate a Vienna alle quali fece invano intravedere che un Piemonte così ampliato e fortificato si sarebbe fatto artefice dell’unità e dell’indipendenza italiana; Genova fremendo e protestando dovette piegare il collo alla violenza sopraffattrice, e la libera repubblica diventar ducato annesso agli Stati del suo secolare nemico. Riflettono cosi fedelmente il pensiero genovese di quel tempo le osservazioni fatte dal Pareto nella sua Nota del 18 maggio 1814 al Ministro inglese Castlereagh, e quella del Brignole-Sale nella sua Nota dell’Il ottobre dello stesso anno ai Plenipo-tenziarii del Congresso di Vienna, e contengono tanta verità di pofezia che non so privare il lettore genovese del piacere di leggerne le più importanti. Dimostrato che l’annessione al Piemonte non solo non darebbe a Genova più modo alcuno di riprendere la sua pristina prosperità, come ne dava lusinga il Ministro inglese, ma segnerebbe anzi il principio della sua rovina, il Pareto cosi prosegue: » S. E. en se rapportant aux intéréts généraux de l’Europe, a annoncé qu’après les événements, qui l’ont, si long temps troublée, il falloit avoir des Etats' forts, et offrant par leur étendue une garantie suffisante contre les entreprises de la Prance. » Si l’on pouvait se permettre des réflexions sur d’aussi grands objets, indépen-damment de la cessation des craintes inspirées par un sistème tombé à jamais avec la chute de son Auteur, le soussigné croirait devoir observer que n’est pas toujours l’étendue qui fait la force des Etats. La veritable force est là où se trouve l’union, la concorde, l’esprit national: cet esprit n’existeroit certainement pas dans le nouvel amalgame des deux peuples divisés par leurs habitudes, et par une antipatie invin-cible, fruit de deux sièeles de querelles politiques, c’est envain qu’on en voudrait faire une seule nation. Loin de réunir des moyens de force et de défense, on ne ferait que rassembler des éléments de discorde, et peut-ètre que le Piómont tout seul se-roit par lui méme plus fort que s’il ètait réuni à l’Etat de Gènes, puisque en cas de guerre la Cour de Turin n’auroit pas à lutter en mème temps contre les ennemis extérieurs, et contre ses nouveaux sujets, impatients de secouer un jougr que la né-cessité seule leur feroit supporter ». il clima temperato, le case pulite e comode, e tutta la campagna non offre che punti di vista amenissimi e vaghi paesaggi ». Cfr. Oli Italiani, Milano, Pirotta, 1818, pag. 147. 1 200 Più mirabile ancora è il vaticinio di A. Brignoie-Sale il quale per salvar Genova dalla temuta signoria piemontese prenunziava ai plenipotenziarii di Vieima che la loro inconsulta deliberazione avrebbe avuto per ineluttabile effetto l’unificazione e la redenzione politica italiana. « Que deviendra le roi de Sardaigne avec l’accroissement de la Ligurie? Il sera plus puissant qu’il n’était, mais il ne formerà encore qu'un Etat secondane, ni assez faible pour faire dépendre son existence de la conservation de l’équilibre g'énéral de l’Europe, ni assez fort pour avoir une existence indépendente et sans inquietude, qui en le rendant content de ses limites, ne lui donne pas lieu de former des projets. Situé aux pieds des Alpes, en contact avec les pays les plus fertiles de l'Italie, et qui ne forment, pour ainsi dire, qu’une continuation du Piémont, pourra-t-il se défendre de l’idée e de l’esprit de l’agrandir, de se rendre indépendant, de recomposer enfin ce Royaume dont il est le noyau, et dont la réunion, indiquée par la nature, forme déjà le projet d’un parti nombreux, qui regarde dès ce moment la Maison de Savoie, cornine son appui et son espoir? • N’est on pas fondé à craindre que ces vues seront celles du Cabinet de Turin, et que cette Puissance, encouragée par un accroissement de tant d’importance, formerà et suivra le_ projet de marchander son alliance, ainsi qu’elle l’a fait de tout temps, afin de parvenir peu à peu, avec l’appui de la France, à s’emparer de l’Italie? » Massimiliano Spinola, La Restaurazione della Repubblica ligure, Genova, Sordo-muti, 1863, pag. ‘264-65 e 302-308. Chi giudichi coi criterii odierni trasecolerà leggendo che Genova, anziché aggregarsi al Piemonte, dichiarava per mezzo del suo ambasciatore al Congresso di Vienna, esser pronta ad accettare la signoria di qualche Arciduca austriaco (1). Non ne stupii’à chi consideri l’odio nostro verso il governo torinese, chi pensi che l’idea dell’unità italiana era allora in Italia appena una visione di pochi pensatori, e, d’altra parte, che fino alla Rivoluzione francese l’Austria (se del male si può dir bene) in Lombardia e in Toscana aveva egregiamente meritato della italiana civiltà, e ottima memoria ne conservavano gl’italiani. E non è da credere che Genova siasi acconciata alla servitù del principato nel decennio che visse incorporata all’impero napoleonico, perchè a compenso della perduta libertà politica vi aveva goduto di una libertà civile e fruito di tali riforme amministrative e sociali quali neppure al tempo della sua libertà aveva mai conosciuto. E anche più duro dovette parerle il sacrificio dacché nel 1814, cacciato il presidio francese, con l’aiuto inglese aveva riacquistata la propria autonomia e riploclamata la Repubblica Ligure del 1797. Perciò niuna meraviglia se urtarono il nostro popolo i rigidi ordinamenti di Vittorio Emanuele I intesi a ripristinare nel Regno Sardo le viete istituzioni (1) Cfr. Mass. Spinola, op. cit. pag. 157-58, 176 e passim. 201 politiche e amministrative di tanti anni addietro, e più ancora le sanguinose repressioni ordinate dal governo subalpino a soffocare l’insurrezione Carbonara del 182 L, che in Piemonte fu aristocratica, da noi anche popolare. « I primi rappresentanti, i primi atti del nuovo governo, anziché attutire, accrebbero le acri disposizioni dei Genovesi. Suonarono male e non furono mai poste in oblio le famose parole del governatore Thaon di Revel: Lo stato presso di voi si riassume nel Re che comanda, nella nobiltà che gli fa corona, tout le reste obéit; per le quali pareva svanisse ogni ombra di diritti politici e fosse distrutta ogni conquista dell’eguaglianza cittadina. Nel 1818 si restaurò in Genova l'ordine dei Gesuiti. E sempre più di giorno in giorno la popolazione ne viveva come appartata, dispettosa verso i pubblici ufficiali che venivano dalle Alpi, e mostrandosi fredda e indifferente per le istituzioni monarchiche che i trattati le avevano imposto senza il suo consenso » (1). Usi a pregiare come sommi beni della vita, libertà, lavoro e denaro, i nostri nobili non meno che i nostri popolari proverbiavano senza pietà e, diciamolo, senza giustizia, la povertà blasonata dell’aristocrazia piemontese contro cui correvano allora tra noi, e oggi ancora si ricordano gli epigrammi canzonatorii; e gli ufficiali piemontesi delle governative amministrazioni, cioè i poveri regii impiegati, così ben dipinti dal Bersezio nelle Miserie di Monsù Travet, erano tra noi oggetto quotidiano di commiserazione e d’immeritato motteggio. Genova ammessa al Regno Sardo non aveva punto deposti o cangiati i suoi antichi sensi repubblicani, di guisa che poteva considerarsi una repubblica sotto regime monarchico. Nessun’altra città in Italia quanto la sua patria Genova poteva somministrare condizioni naturali, mezzi efficaci e occasioni opportune alla cuìtura e alla maturazione del genio di Mazzini, il quale, redata dai genitori genovesi, singolarmente dalla madre, l’indole libera e repubblicana, l’accrebbe e sviluppò assimilandosi quei sensi di popolare libertà che animavano la nostra cittadinanza. Onde egli può riguardarsi in politica, come il tipo genuino del genovese elevato per virtù di dottrina e di filosofica speculazione ad altitudine ideale; e possiam dire senza temerità che mal si potrebbe spiegare com’egli divenisse maestro di libertà all’Italia e al mondo se di Genova non fosse stato figlio ed alunno. L’avversione al dominator Piemonte accendeva in noi gli spiriti repubblicani, e questi quella, onde quando nel 1833 la (1) P. Boselli, Biografia di Lorenzo Nicolò Pareto nel voi. IV dell:opera II Risorgimento Italiano, (Milano, Vallardi, 1888) pag. 490. 20'2 congiura della Giovane Italia fu ferocemente soffocata nel sangue dal governo di quel Carlo Alberto che tante speranze aveva già fatto concepire di sè e della libertà, l’avversione si acuì e si cangiò in odio contro la monarchia, il governo e il popolo piemontese. « Il Governo, dopo la Restaurazione, tirannico, fu piemontese, piemontese la polizia persecutrice, piemontese il burbero ufficiale governativo il nome di piemontese fu oggetto dell’odio e dello sdegno genovese. Aggiungasi che il governo medesimo, volendo porre in pratica se condo il sistema d’ogni governo oppressore, il divide et impera, e sospettando mille pericoli se i varii popoli de’ regii stati s’accordassero, non vedeva mal volentieri che siffatto screzio esistesse, e alcuni agenti subalterni credevano dar prova di zelo intelligente a procurare ch’esso si ampliasse. Perciò si creò in Genova un focolare di malcontento che doveva diventar sistematico e un ambiente antimonarchico in cui aveva da prepararsi, sorgere, crescere, trovare aderenti e seguaci e devozione un apostolo della repubblica: Mazzini (1) ». Ma perchè dal male nasce il bene « da quel generale scontento non uscivano solo le querele di un fastidioso municipalismo », ma prorompeva da esso il grido unanime « di libertà e di nazionalità, italiana e popolare nel quale concordavano vecchi patrioti e giovani generosi (2) »; ed io aggiungerò, nobili e borghesi e la parte migliore del clero e della milizia. Da noi insomma si sospirò l'unità italiana per aver non solo un’Italia più grande e potente ma ancora un governo nazionale che ci liberasse dalla dominazione piemontese. Altra cagione di rammarico era pei nostri il vedere l’erario del Regno Sardo impinguato e rifatto dai lauti proventi della ricchezza genovese, e nondimeno Genova sempre mal veduta e mal trattata dal suo governo e non tenuta in altro conto che di grassa vacca da smungere. Lagnanza, a dir vero, non del tutto ingiusta e che è durata, con le sue cause, fino ai tempi odierni. Argomento di forti rancori e d’infinite querele erano mai sempre presso il nostro ceto commerciale e navigante le frequenti imposizioni governative di sempre crescenti tributi doganali, e le disposizioni che gravando di sempre nuove tasse e di formalità fiscali ogni più piccola pratica commerciale e marittima, ne ritardavano la spedizione; aduggiavano la vita del nostro porto e si opponevano alla libera espansione del nostro traffico che perciò già fin d’allora esulava da noi per andare ad arricchire (1) Cfr. Ber9ezio, 11 Regno di V. Emanuele (Torino, Roux, 1878) voi. 1, c. 8°. (2) Cfr. P. Boselu, op. cit. voi. IV, pag. 491. 203 1 porti rivali di Trieste e di Marsiglia. Il che tanto più amaro sapeva ai Genovesi in quanto vedevano dal governo piemontese calpesto sempre e tenuto a vile il 7° dei 17 articoli racchiudenti le Condizioni della unione degli Stati dì Genova a quelli dì S. Maestà Sarda concordata dalle Potenze alleate nel Congresso di Vienna (1814), articolo prescrivente che « ogni qual volta il bisogno dello Stato richieda nuove imposte e carichi straordinarii, S. M. domanderà l’approvazione dei Consigli provinciali per la somma che giudicherà conveniente di proporre, e per la specie d’imposta a stabilire '>. E non solo nel riguardo economico ma più tardi anche in quello della intellettuale cultura i nostri ebbero ragione di lagnarsi del governo piemontese, perchè non ostante l’art. 14 del Protocollo d’annessione della Liguria al Regno Sardo, accettato e sancito dalle R.e Patenti del 30 dicembre 1814 dove si stabilisce che « L’Université de Gènes sera maintenue et jouira des mèmes privilèges que celle de Turili », nel 1859 e nel 1862 quella legge fu del tutto dimenticata e il nostro Ateneo posto in condizioni di gran lunga inferiori (1). Col 1847 e ’48 tra gli amplessi dell’inaugurata fratellanza italiana parvero spegnersi gli astii e le mutue animosità; ma fu breve resipiscenza perchè nella primavera del 1849 Genova che, commossa dalla disfatta di Novara creduta effetto di tradimento, e da voci mi-naccianti l’imminente irruzione del Tedesco, s’era levata a rumore, e, prima di essere trascinata all’aperta ribellione dal furore demagogo, aveva offerto al governo di farsi scudo e baluardo della pericolante libertà, sofferse dai fratelli piemontesi l’onta e il danno di un forsennato bombardamento. Chi ha letto le memorie che della sedizione genovese scrissero testimoni spettatori e il copioso Cementarlo riccamente documentato dell’Alizeri, si avvede facilmente che il La Marmora nella sua monografia tace, quando in tutto quando in parte, circostanze e documenti che di essa sedizione attenuano ed escusano la colpevolezza, mette invece in rilievo tutto ciò che crede poter giustificare la sua (1) Cfr. Mass. Spinola (iunior), op. oit; E. Celesia, Storia dell’università di Genova voi. II, pag. 380; C. Cabella, Discorso al Senato 5 die. 1885; E. Drago, Ricordi di un segretario comunale, pag. 26, dove si dice: * Avendo il Governo con la legge 31 luglio 1862 n. 719, fatti due ordini di Università e classificata la nostra fra quelle di secondo ordine, contrariamente alle sue tradizioni storiche e scientifiche, il Consiglio Comunale nelle adunanze 17 e 27 nov. 1862 stabiliva di farne rimostranza al Governo * e deliberava provvedimenti a rinvigorire il merito e la fama dei professori e il numero della scolaresca. Fu il Pareto che nell’adunanza consigliare del 17 più di tutti invei contro la violazione delle leggi condizionanti l’annessione della Liguria al Piemonte. 204 missione repressiva. Indignazione vivissima produssero nel nostro pòpolo i barbari saccheggi e le turpi violenze di che si macchiarono i suoi bersaglieri nelle parti occidentali della nostra città, eccessi ch’egli da leale soldato confessa e condanna e di cui punì severamente gli autori (1). Ma egli fallì e venne meno a sè stesso quando, smanioso di assolvere prontamente il proprio mandato, credette ottimo espediente ordinare il bombardamento di Genova al fine, com’egli scrive, di scuotere la fiacca maggiorità dei Genovesi, cioè di spingere con la paura i genovesi onesti e pacifici ma timidi e passivi, contro i pochi, ribelli e facinorosi. Questo si chiama attizzare e rinfocare odii e baruffe tra cittadini e cittadini, ed è un indegno avvedimento di bassa politica da cui un condottiero militare doveva al tutto rifuggire. E l'espediente riuscì all’effetto contrario, perchè il dì 5 aprile quando le bombe de’ mortai piemontesi cominciarono a gettare lo spavento e la distruzione in parti innocue della città e segnatamente nel popoloso quartiere di Portoria e, non ostanti le inalberate insegne brune, nello stesso Ospedale di Pammatone dove scoppiarono tra gli infermi scene di terrore indescrivibili, « i più onesti, dice l’Alizeri, equo e temperato narratore, avvamparono di sdegno vedendo città innocente condotta a rovina, mentre sol pochi davano gli ultimi tratti di guerra, e per questi pochi, e a vittoria sicura, infierire contro popolo trepidante, e pacifico ». Questo l’immenso vantaggio morale di staccare i buoni cittadini dai cattivi che il La Marmora si compiace d’aver ottenuto. Nè a tale spaventoso estremo era egli premuto da necessità ineluttabile: egli era forte di milizie più agguerrite e meglio ordinate; altre maggiori sopraggiungevano a gran passi; l’affievolita resistenza dei ribelli aveva le ore contate, ed egli stesso a pag. 105 del suo racconto confessa che alle ore 5 pom. del giorno 5 aprile si considerava già padrone della città, e ciò nondimeno non intermetteva col fuoco de’ suoi cannoni di controbattere efficacemente le batterie e i luoghi muniti dei ribelli, usando in ciò del suo buon diritto; che necessità dunque di bombardare anche le case dei cittadini innocenti? Onde nell’animo dei genovesi si radicò il convincimento che all’atto inumano e inconsulto il Regio Commissario fosse indotto, più che da ragioni militari, da mal dissimulato proposito di sfogare contro la proterva Genova (1) Leggasi nella Cronistoria del Lorigiola a p. 282 e segg. la terribile Relazione della Commissione eletta dal Municipio per l’accertamento dei danni e delle offese recate a Genova dalle milizie piemontesi nell’occupazione di questa città. 205 un veleno che da tempo covava nell’irritata aristocrazia militare e civile del dominator Piemonte (1). A pag. 97 dell'opera citata dice che il 4 aprile egli intimò agli insorti la resa della città ammonendoli che in caso di rifiuto li avrebbe assaliti con tutte le sue forze. Di bombardamento non una parola. Era opinione delle persone più assennate che se il Generale Commissario avesse voluto davvero risparmiare a Genova il terrore e il danno, a se e alle truppe piemontesi Tonta e l’odio di una tanta enormezza, nulla gli vietava di ridurre a pronta ubbidienza l’insorta città intimandole che ove dentro 24 ore non si arrendesse, ve l’avrebbe sforzata col bombardamento. Chi dice di voler salvare il traviato e intanto gli tace il precipizio dove indubbiamente sta per cadere, ci dà ragione di dubitar forte della sua buona fede. E che Tatto del La Marmora dovesse parere un eccesso anche alla sua coscienza si desume dal geloso silenzio ch'egli ne serba nelle sue relazioni al governo di Torino. Non solo, ma l’ufficiale Gazzetta Piemontese del 9 aprile (1849) recando una relazione dei moti di Genova osservava: « Fu sparsa in questa città (Torino) la voce che contro Genova avesse avuto luogo un bombardamento durante 36 ore. Nulla di più falso: il governo del Re conosce il proprio dovere ed i riguardi che son dovuti a una città generosa caduta sgraziatamente in mano di pochi faziosi. I cittadini sono invitati a non credere alle voci esagerate ed assurde sparse ad arte dai malevoli. Le sole notizie cui eglino devono prestar fede sono quelle che vengono pubblicate dal governo nel giornale ufficiale ». Due giorni appresso (11 aprile) la Gazzetta di Genova tutto che ufficiale ed ufficiosa, riportate le sopra riferite dichiai’azioni della Piemontese, uscì una volta tanto dal guscio del suo solito riserbo per osare questa timorata correzione: « Per servire alla verità il fòglio ufficiale del regno sarà a quest’ora obbligato a confessare essere purtroppo vero che Genova fu a varie riprese bombardata e cannoneggiata per 30 ore circa ». Nello Specchio delle somme offerte alle famiglie povere della città di Genova danneggiate dai fatti dello scorso aprile il Generale La (1) « Il quartiere di Portoria ne fu sopra tutti mal concio, e mentre una sola bomba non cadde sopra i signorili palagi, le povere case e i tuguri dei popolani ebbero forate la mura da quei micidiali tormenti...... Il quartiere dove posa più illustre d’ogni regio splendore la pietra de) Santo Balilla, fu principale bersaglio ai colpi di chi partecipava all’infamia di cui favella quel secolar monumento. Sedici bombe caddero sopra l’ospitale di Pammatone che pur come ogni altro stabilimento di carità aveva inalberato il negro stendale..... Undici di esse scoppiarono nelle vaste corsie degli infermi •. Cfr. Della Rivoluzione di Genova nell'aprile del 1849 - Memorie e documenti di un testimonio oculare (Italia, 1850) pag. 102. 206 Marmora figura primo iscritto e donatore di lire mille: atto lodevo-lissimo ma che noi vorremmo poterlo dire effetto di sola ed esclusiva generosità (1). Che dei saccheggi e del bombardamento tutta, anche la più onesta e tranquilla nostra popolazione, si sentisse profondamente offesa il La Marmora potè avere prova manifesta nella glaciale anzi ripulsiva accoglienza ch’ei si rammarica d’aver ricevuto, lui e le sue truppe, quando la mattina del dì 11 aprile, dal suo quartiere di Porta Lanterna discese in città e vi notò con dolorosa sorpresa, in luogo di sbandieramenti, acclamazioni ed evviva di popolo festante, tutte le case a porte e finestre sbarrate, e le vie cittadine solitarie e silenziose come deserti. E un’altra dura prova si ebbe Re V. Emanuele quando nel sett. del 1851 insieme col Cavour e col D’Azeglio si recò a visitare la nostra città (2). Doloroso il dirlo, ma l’errore del generale La Marmora ebbe per effetto di distruggere e spegnere tra Piemontesi e Genovesi quella italiana fraternità che con esultazione patriottica si era tra loro dianzi solennemente giurata e proclamata prima a Torino poi a Genova: e riaccendervi più fieri che mai gli odii antichi che poi durarono fin oltre il 1870. Ne seguì che dove per Taddietro Re Carlo Alberto soleva venire a passare in Genova il mese di novembre, dopo il '49 Re V. Emanuele uon vi fece che rare comparse. Gl’insuccessi delle armi sarde del 1848 e ’49, attribuiti dagli uni a tradimento, dagli altri a inet- (1) Molte bombe confitte nei muri esterni di molte case nelle diverse regioni urbane rimasero qualche tempo spettacolo miserando ai Genovesi; le autorità poi tacitamente le fecero togliere, sicché oggi non ne appare quasi più indizio. (2) Costantino Eeta, escluso dall’amnistia perchè membro del Governo provvisorio rivoluzionario di Genova, da Ginevra scriveva al nostro Celesia in data 21 sett. 1851 d’aver letto con disgusto sui fogli moderati delle accoglienze festose fatte in quella circostanza dai Genovesi al Ee. Ma il Eeta si ingannava; manifestazioni di riverenza ed anche applausi ed evviva non saranno certo mancati perchè i governi come gli impresari teatrali hanno sempre pronto in mano il modo di procurarli, ma la Gazzetta Piemontese ed altri giornali ministeriali avevano parlato di liete accoglienze per ragione di prudenza politica. Emilio De la Eue in una lettera dell’amico Cavour accennante a questo fatto, appone questo commento: • V. Emanuel n’était plus revenu à Gènes depuis la révolution d’avril 1849. Le ministère crut bien de lui conseiller d’y faire une visite. Cavour et d’Azeglio l’y accompagnèrent. L’accueil qu’ila y recurent, fut plutót froid et le Eoi et ses Ministres durent en ètre péniblement impressionés. » (Cfr. C. Cavour, Nouvelles lettres inédites par A. Bert, pag. 429). Il Tivaroni dice pure molto fredda quest’accoglienza. (Cfr. L'Italia degl’italiani, voi. I p. 337). Non ancor calda ma meno fredda accoglienza ebbe il Ee le due volte che nel 1854 visitala nostra città, prima nel febbraio per l’inaugurazione della ferrovia, poi nell’agosto per l’epidemia colerica: il che facilmente si spiega. 207 titudine di governo monarchico, furono tra noi fomite di tristi sensi contro il Piemonte e il suo governo, sensi fattisi tristissimi dopo il forsennato e crudele bombardamento della nostra città, tanto che nessuno qui dal ’49 al ’59 avrebbe potuto professarsi fautore del governo di Torino senza incorrere nel biasimo di traditore della causa genovese e cadere nel generale discredito. Dopo il '49, per lunghi anni nessuno dei deputati liguri o genovesi, salvo rarissime e brevissime eccezioni, fu più ammesso a far parte del potere esecutivo; i Piemontesi dissero per difetto di genovesi idonei all’alto ufficio; i Genovesi contraddissero per soperchianza di prepotenza pedemontana. Nè da ciò solo nè solo dalle memorie di offese antiche e recenti erano mossi i nostri cittadini a malvedere i Piemontesi ma eziandio e principalmente dall’orgoglio monarchico feudale che in Piemonte, non ostante lo statuto, tuttavia imperava ostinato e combatteva sdegnosamente ogni spirito di riforma democratica e di eguaglianza civile. Giovanni Ruffini, deputato di Taggia, il 4 giugno 1848 scriveva da Torino al fratello Agostino: « Se piacesse al Re, tornato dal campo, sopprimere lo Statuto e farci impiccar tutti, non un Torinese fiaterebbe, moltissimi gongolerebbero ». E nel 1856 il Tommaseo scriveva: « Questo Piemonte, paese d’intenti municipali, s’inquietava all’idea di perder la Capitale e di comunicare ad altri paesi parità di diritti ». E Giorgio Pallavicino nel 1852: « Torino col suo muuicipalismo e il suo orgoglio aristocratico mi era divenuta insopportabile; i cortigiani appartengono tutti, chi più chi meno, alla cabala gesuitica » (1). Ho detto delle nostre animosità contro il Piemonte, e per chiudere su questo argomento increscioso ad ogni buon italiano, dirò che, com’è naturale, i Piemontesi ci ripagavano della stessa moneta e in siffatte gare di malevole imputazioni non ci rimanevano punto inferiori, e i nostri noti difetti quali la febbre del lucro e la spietata avarizia e la nostra scarsa coltura intellettuale e il nostro genio indocile e ribelle, così ben rappresentato dal nostro riottoso Balilla, erano presso di loro abituale argomento di rimprovero e di spregio (2). Lo . stesso Cavour, per citare tra i Piemontesi la mente più vasta ed equilibrata, non sapeva dissimulare la sua forte avversione contro di noi. (1) Tivarojji, op. oit. voi. I pag. 305. (2) Il march. Camillo Pallavicini nel suo Discorso edito nel 1846 per la fondazione in Genova di tre società scientifiche così diceva: « Più nessuno potrà dire a nostra onta che lo spirito mercantile abbia soffocato ogni buon germe di onorata dottrina, che altre lettere fra noi non si apprezzino ohe quelle del cambio, non altra scienza che quella del sommare e del moltiplicare, che ci siano sola patria gli scali del traffico, sola Accademia la Borsa, solo onore il denaro ». 208 Letti nel Corriere Mercantile certi articoli del direttore Giovanni Antonio Papa dove si paragonavano i Genovesi ai Piemontesi, il Cavour- scriveva il 20 Giugno 1848 al suo intimo Emilio De la Rue: « Les articles de Papa dans le Courier nous out fait pitie car s’il y a une vérité incontestable dans le monde, c’est que les Piémontais sont dix fois plus eourageux que les Génois ». E quando alla Camera nella tornata 6 luglio 1848 l’avv. Antonio Ca-gnardi piemontese parlando sulla proposta Bixio di atterrare i forti che non difendono dal nemico, diceva, come cosa notoria: « L’amore di libertà nei Liguri è più generale che da noi... » I Piemontesi, interruppe il Cavour con fuoco, il loro amore per la libertà lo mostrano sul campo di battaglia: sia chiamato all’ordine il calunniatore ». Dei disastri che determinarono l’armistizio di Salasco chi potrebbe sognare che la colpa maggiore l’avessimo noi Genovesi? Eppure il Cavour in lettera al De la Rue 11 agosto (1848) accennando a questi disastri sentenzia: « Tout le monde a des torts, mais les plus grands sont ceux des Génois. Ils ont fait un mal immense à la cause italienne. Les moins coupables ce sont les Piémontais, les chefs et surtout le chef suprème, exceptés ». E perchè due nostri eminenti concittadini avv. Domenico De Ferrari deputato e avv. Federico Colla senatore, invitati a surrogare Pareto e Ricci nel nuovo ministero Alfieri, costituitosi il 15 agosto 1848, avevano declinato quell’onore, il 20 agosto scrivendo allo stesso gratuitamente li ingiuriava: « Les deux Génois, De Ferrari et Colla, ont refusé. Ils ne veulent pas se compromettre avec leurs concitoyens, les gueux! » (1). E quando nel settembre dello stesso anno il De la Rue gli scriveva che il commercio genovese vedeva di mal occhio l’imprestito a mezzo della Banca, domandato dal Governo per sostenere in quelle critiche circostanze il tesoro dello Stato, gli rispondeva il Cavour il 15 dello stesso mese: « Les négociants de Turin ont plus d’esprit et de patciotisme que les Génois, aucun d’eux ne s’est plaint de la (1) Il De Ferrari però fu Ministro degli Esteri nel ministero .Chiodo dall’8 al 27 marzo 1849; il Colla ministro senza portafoglio nel ministero Alfieri dal 25 agosto al 16 dicembre 1648. Il De Ferrari, detto dal Cavour honine d’un grand taleni, insigne penalista e professore al nostro Ateneo, dove nella galleria del 2° piano un busto di marmo ne ricorda le sembianze, fu senatore dal luglio 18-J9 e primo presidente della Corte di Cassazione di Torino; mori nel 1882. Il Colla, senatore dall’aprile 1848, Commissario straordinario del Ee a Piacenza quando questa città, prima tra le città italiane, nel maggio del 1848 volle annettersi incondizionatamente al Piemonte, (ond’ebbe da re Carlo Alberto il nome di sua primogenita) fu primo presidente della Corte dei Conti; morì nel 1879 in età di anni 89. 209 mesure et cependant vous savez que la plupart des actions sont entro leurs mains ». E perchè la Camera di Commercio di Genova, secondo l’amico gli riferiva, era contraria a un’emissione di 20 milioni di carta moneta perchè temeva la conseguente sparizione della moneta d’argento, il Torinese il 16 gli rispondeva: « Le commerce de Turili est cent fois plus éclairó que celui de Génes. Il n’a pas eu peur, il n’a ni vendi! ses actions de la Banque, ni pavé de prime pour les écus ». E ripetendo l’amico che quello era pur sempre il timore dei Genovesi, il Conte, rispondendo il 18, si faceva lecita anche la contumelia: « Si les Génois sont aussi timides et poltrons en affaires que sur le champ de bataille, je ne sais qu’y faire ». E al march. Salvatore Pes di Villamarina ministro sardo a Parigi il 9 luglio 1857: « La politichile liberale du Gouvernement piémontais est parvenue à annuler le parti républicain en Piémont et à le ré-duire, à Gènes, à des proportions minimes; mais il n’a pas réussi à éteindre dans cette ville les sentiments municipaux. Au contraire, le libre jeu de nos institutions lui a donné plus de force. Ce sen-timent a été froissé par le. róle mesquin que les Génois ont joué depuis 18-18. Le sistème parlementaire a été stèrile à Gènes. Cette ville n’a produit ni hommes d’Etat, ni chefs de parti, ni orateurs, ni militaires, ni littérateurs, ni méme de négociants sortant du com-mun. Dans les Chambres comme hors du Parlement, les Génois qui ont pris une part quelconque à la vie politique, se sont montrés d’une médiocrité désésperante. On peut en juger par la valeur politique de Ricci et de Pareto qui en dernière analyse, sont encore les seuls génois qui aient feit parler d’eux. Gènes se sent humiliée de la part qui lui revient dans la direction des affaires publiques » (1). Parole enuncianti parecchie verità non esclusa quella che « esce dal vero chi urta nel troppo ». Queste deplorevoli animosità municipali si spiegano anche meglio quando consideriamo che il municipalismo è per lo più, come l’individualismo, effetto di vita isolata e priva di comunicazioni e relazioni esterne. Non vi essendo a que’ tempi nè ferrovie nè telegrafo, le città vivevano di vita molto intima sì ma molto ristretta e serrata nelle angustie delle proprie mura dove le notizie esterne giungevano tardi e per lo più monche e alterate e dove, come in olla chiusa e bollente invelenivano i mali umori municipali e le ire scambievoli, e il libero e spassionato giudizio di uomini e cose riu- (1) Nuove lettere inedite del Conte C. di Cavour per E. Mavor (Torino, Eoux, 1895). 14 ‘210 sciva oltremodo difficile. Nel che i due popoli rivali erano ugualmente perdonabili; men fortunati i Genovesi i quali, caduti sotto aliena e odiata dominazione, dovevano sostenere ima lotta impari con la noverca Torino che, tenendo in mano la verga del comando, poteva sempre castigarli o deprimerli. Tanto mi è parso necessario premettere per ricordare tra quali fatti e in quale atmosfera politica si viveva a quei tempi nella nostra città. Cresciuto tra queste contenzioni e ostilità regionali che ad ogni occasione si esasperavano, e, toccato il colmo nella primavera del '49, si protrassero acri ancora molti anni, ingiusto sarebbe il pretendere che il nostro deputato nulla risentisse di quelle accalorate animosità e non prendesse partito per la sua Genova contro il piemontesismo e per la causa della libertà contro i governi tardigradi o retrogradi che la manomettessero. Egli ebbe nome, e fu in fatto, riformista ardente e radicale, ma, uomo di ordine e di legge, non uscì mai dall’uno e dall’altra; nè il vigilare gli atti del governo e il biasimarli quando giusto stimava, lo. trassero mai ad esorbitanze illegali o ad accuse non fondate sui fatti. Dal che non sempre seppero riguardarsi altri, neppure il nostro Pareto, il quale non evitò il giusto biasimo d’aver talora, per amor della sua Genova, disconosciuta l’autorità costituita e violata la legge e, soprattutto, d’avere, senza riguardo all’alta sua carica di presidente della Camera, assunto il comando dei forti e spalleggiata la sedizione genovese: fatto gravissimo di cui, come s’è detto, il La Marmora lo volle esemplarmente punire ponendo il nome del Pareto a capo della lista degli esclusi dall’amnistia, ma che poi Vittorio Emanuele cancellò. Nè seppe meglio contenersi quando nella tornata 6 maggio 1857 discutendosi alla Camera la legge proposta dal Cavour, del trasferimento alla Spezia della marina militare sarda, egli non solo fortemente la combattè ma accusò apertamente il ministero di volere « deprimere la capitale della Liguria per crescere splendore alla sua Torino per la quale riservava tutte le sue predilezioni », accusa a cui il Cavour diede una forte e patriottica risposta (1). E non pochi si potrebbero nominare dei nostri, che, uomini di ordinata libertà prima (1) 11 Pareto, accettata lealmente la Monarchia costituzionale, nutrì però sempre spiriti repubblicani e antipiemontesi. Uomo generoso e di primo impeto, se talora per difendere i creduti diritti di Genova dimenticò la legge, si oppose però tante volte con la sua grande autorità popolare agli eccessi del nostro popolo e con tanta efficacia che, non che biasimato come ribelle, va benedetto come benemerito dell’ordine e della disciplina della nostra città. 211 del ’49 e dopo la proclamazione del Regno d’Italia, in quel dodicennio furono e si professarono aperti settatori della repubblica di Mazzini. Il die dimostra quanto sia difficile anche agli ottimi nei tempi torbidi e nel tumulto della passione il non eccedere i giusti confini, e di quanta virtù diede prova il nostro Cabella cui le colpe degli uomini e le orribili angoscie della patria, nel generale delirio afflissero non ismossero dalla sua fede politica, e se talora lo fecero ingiustamente severo verso i dirigenti/lo temprarono pure a più meditati e più salutari propositi per l'avvenire. XXVIII. Ostilità e contrasti tra Genovesi e l’ufficialità piemontese (li presidio. Il Cabella difende la causa de’ suoi concittadini presso il Ministro degl’interni (agosto 1849). Straordinaria attività parlamentare spiegò egli così nella la come nella 2a sessione del 1849. Peritissimo in materia finanziaria, prima della chiusura della 2a legislatura fu eletto Relatore alla Camera del disegno di legge per conchiudere all’estero un prestito di 50 milioni e aprire all’interno un nuovo prestito volontario; approvato il primo nella tornata del 15, il 2° nella tornata del 18 marzo 1849. Rieletto a Voltri il 15 luglio alla 3a legislatura, fu membro della Commissione pel disegno di legge intorno al pagamento di 75 milioni, indennità di guerra all’Austria; legge approvata il 25 sett. 1849. Quindi riferì sul disegno di legge per l’ordinamento dei tribunali di commercio dov’egli proponeva l’istituzione di un tribunale di prima istanza composto di soli negozianti e un altro di appello di soli giureconsulti. Fece parte della Commissione pel disegno di legge relativo all’estensione dei diritti civili e politici ai cittadini delle provincie contemplate dalla legge di unione del 1848, legge di accorta e generosa politica nazionale, intesa a favorire tutti gli Italiani emigrati negli Stati Sardi e a conservare la cittadinanza ai varii popoli che nel 1848 s’eran congiunti a noi; legge approvata il 22 sett. 1849. Gli eccessi sanguinosi dell’insurrezione genovese e della repressione piemontese, il bombardamento della nostra città, lo scioglimento della Guardia Nazionale, lo stato d’assedio col conseguente disarmo dei cittadini, la sospensione della libertà di stampa e del diritto di associazione, le vessatorie perquisizioni domiciliari, i cresciuti rigori della polizia e il regime di sospetto e di denunzia avevano in Genova sparso lo sgomento e ridestati e fatti più intensi che mai gli odii e 212 i rancori fra i due popoli. Lo stato miserevole e i sentimenti di Genova dopo l’occupazione piemontese si riflettono nelle dure parole che Luciano Manara il 19 aprile scriveva alla Signora Spini da Genova, ove da Chiavari era venuto per domandare al La Marmora che « si volesse por mente a che nove mila uomini (la divisione lombarda) colpevoli solo d’aver amata la patria e d’aver avuto fiducia nel Piemonte, non fossero gettati nudi alla frontiera senza saper come camperanno la vita se non assassinando ». Ecco le dure parole: « Sono qui da due giorni; qui fu disarmata e sciolta la Guardia Nazionale, proclamato lo stato d’assedio. Pattuglie numerose d’ogni arma scorrono la città. La Marmora ha voluto che si aprissero per forza i teatri. Al « Carlo Felice » c’ è opera buffa e gran folla d’ufficiali! Sotto il vestibolo un battaglione di bersaglieri a bivaccare! » Non difendo il movimento di Genova, mancò d’opportunità, e fu per nulla marziale ed energico. La maggioranza non lo volle. Ma resta sempre che i soldati piemontesi, vili cól tedesco, furono felici di scagliarsi sui loro fratelli, ripeterono gli orrori di Novara coi poveri abitanti, ed ora gli ufficiali passeggiano e trottano per la città con la baldanza di un conquistatore! Canaglia! si sono già dimenticata la fuga di quindici giorni fa; ridicolo di tutta Europa non sentono il rossore sul viso, e sono fieri di poter atterrire i poveri genovesi disarmati! Compiangiamoli e speriamo che presto si ravvedano » (1). Il Brofferio nella Storia del Parlamento subalpino notava che dopo il 1848 i giurati assolvendo i liberali, il fisco li mandava ai tribunali, e allora « tanti processi, tante condanne », anzi per eludere l’amnistia dal Re accordata pei fatti di Genova, gli imputati di quei fatti erano condannati per reato comune: un processo bruciato veniva qualificato sottrazione di carte dai pubblici archivi, con condanna ai lavori forzati; chi si era servito di polvere e piombo dell’arsenale era condannato per furto; chi aveva ucciso o ferito combattendo spie o guardie di polizia o soldati, era condannato per ferimento od omicidio (2). E per venire a fatti concreti, il dott. Gillardi, vecchio decrepito, che fidandosi dell’amnistia rimaneva a Genova, venne gettato in carcere; destituiti senza processo i magistrati Celesia, Mon-tesoro, Balestreri e Grondona; collocati a comandato riposo il march. (1) Gr. Capasso, Dandolo, Moro sini, Manara (Milano, Cogliati) pag. 189. Ma i soldati e gli ufficiali non fanno se non ciò che vien loro ordinato o permesso, e di tali tristizie va data colpa al generale che li comandava. (2) Cfr. Tivàroni, op. cit. voi. I, pag. 341, 213 Damiano Sauli colonnello del Genio e Giorgio Mameli, padre di Goffredo, vice ammiraglio (1). Niuna meraviglia adunque se quegli odii tra cittadini e ufficialità militare piemontese che durarono feroci fin oltre la proclamazione del Regno d’Italia e il trasporto della Capitale, nell’estate del 1849 toccavano il grado massimo e minacciavano tratto tratto di scattare e perturbare gravemente la quiete della nostra città. A questo si riferisce una lettera del Cabella alla cui più chiara intelligenza narrerò- in brevi parole i fatti che ne furono cagione. Al nostro Carlo Felice la sera del 28 luglio si rappresentava l’applaudita tragedia Lucrezia Mazzantì d’Ippolito d’Aste. Contro l’im. perial Commissario di Carlo V, rappresentante della forza che fa chiamarsi diritto, il pubblico urlava e tempestava. Un ufficiale, tenente di Cavalleria, solo contro tutti, applaudì al Commissario. Un borghese, stupito, prese a fissarlo a lungo: il che non sostenendo l'ufficiale, lo invitò a uscire dal teatro per domandargliene spiegazioni. Usciti e palesatisi scambievolmente il nome, A. Galli il tenente, G. B. Medicina il borghese, costui si protestò che nessuna intenzione aveva egli avuto di offenderlo, e diede all’uopo altre spiegazioni. Il tenente credette di potersene contentare; si separarono; e la cosa parve dovesse finir così. Se non che la voce che se ne sparse in città non piacque punto al Medicina, il quale sul giornale politico genovese La Bandiera del Popolo del 4 agosto inserì una Dichiarazione dove raccontava il fatto un po’ a modo suo cioè più favorevole al suo amor proprio che a quello del tenente e sfidava chiunque a negare la verità di quanto asseriva. Per tutta risposta il tenente la sera del giorno stesso al Caffè del Teatro lo affronta provocandolo a chiedere riparazione: il Medicina si rifiuta; si viene alle mani, accorre gente, tafferuglio, botte. Sulla Bandiera del 6 comparve una Dichiarazione del tenente Galli dove il Medicina è accusato di menzogna e di non aver avuto cuore a sostenere un duello con le armi come si usa tra persone d’onore. Seguiva un fatto più brutto. Sulla Bandiera del 5 agosto compariva un articolo, firmato Domenico Doria Pamphily, in cui si accusava un sergente bersagliere moro, testé premiato con medaglia, d’aver preso parte al saccheggio del palazzo Doria detto del Gigante nei primi giorni dello scorso Aprile. Il Sotto Capo di Stato Maggiore del 2° Corpo d’Armata, Agostino Petitti, rispondeva sulla Bandiera e sulla (1) Cfr. Augusto Vecchi, Storia di due anni 1848-49. Coma protesta contro il Governo il Sauli e il Mameli furono poi da Genova eletti deputati alla 3“ legislatura nel luglio del 1849. 214 Gazzetta di Genova del 6 pubblicando la deposizione del cameriere del Doria, Gaetano Firao (o Ferrau) che, secondo il Doria, era l’unico testimonio presente al saccheggio e quindi il solo che. ne conoscesse i particolari. Secondo questa deposizione, fatta il 31 aprile dinanzi al-l'Uditore di guerra della 6a Divisione, il deponente Firao attestava tutta la sua gratitudine al sergente bersagliere moro, vero galantuomo a cui doveva la vita che nella trista circostanza gli aveva a più riprese salvata. L’articolo finiva: « Il principe Doria nello scrivere alla Bandiera del Popolo non poteva ignorare che mentiva e pubblicava una calunnia ». Nello stesso giorno 6 agosto il sergente, accompagnato da due colleghi, si presentava in casa del Principe a chiedere riparazione. La promise il Doria, e il domani 7 pubblicava un articolo sulla Gazzetta di Genova dove affermava che la notizia del saccheggio operato dal sergente l’aveva avuta dal suo cameriere Firao (o Ferrau); si scusava con scappatoie circa altri addebiti e si dichiarava contento se le risultanze del processo avessero chiarita l’innocenza del sergente. Al quale questa parendo troppo magra soddisfazione, la sera del giorno stesso recatosi al Teatro, s’avvicina al Principe e tra lo stupore generale gli mena uno schiaffo. Il Doria l’afferra, s’accende una zuffa, bersaglieri prontamenti accorsi la spengono. In teatro si trovava il R. Commissario gen. La Marmora. Il domani 8 agosto il moro passeggiava impettito per le vie della città. Nello stesso giorno il Doria mandava cartello di sfida al capitano dei bersaglieri Longoni dal quale credeva partita l’offesa ricevuta per mano del moro (1). Il duello doveva aver luogo a Sestri ponente ma, là giunti appena i contendenti, un assessore e due carabinieri in nome della legge lo vietarono. Il cap. Longoni, Pallavicini ed altri ufficiali di bersaglieri, tradotti al forte del Begato; il Doria e i suoi padrini allo Sperone. Intanto il di 8 il Sotto Capo Petitti sulla Gazzetta di Genova e sulla Bandiera confutava le scuse pubblicate dal Doria e ribadiva le già fatte accuse. Era aggiunger legna al fuoco: tutta Genova ne fu in fermento; le ire ribollenti dettavano agli uni e agli altri propositi di vendetta; occorreva l'opera del governo. Il R. Commissario pubblicò un manifesto invitante all’ordine e alla calma. (1) Ambrogio Antonio Longoni già deputato di Rapallo nella la e di Novara (1* coll.) nella ‘2a legislatura, raggiunse col valore i più alti gradi della milizia. Si segnalò principalmente all’assalto di Sebastopoli. Rimase famosa la sua dichiarazione a favore dell’interpellanza mossa alla Camera dal nostro Didaco Pellegrini sulle sanguinose repressioni operate a Genova dai soldati ( 15 die. 1848): « Deplorare i disordini civili, ma disapprovare che di valorosi soldati si facesse un branco di pretoriani ». 215 La sera dell’8 agosto per ordine del nostro Municipio si recarono a 1 orino i Consiglieri Comunali Nicolò Federici e Pietro Monticelli e il dì 10 si abboccarono col Ministro degl’interni P. D. Pi-nelli invocando provvedimenti a scongiurare il pericolo di nuove collisioni ed assicurare la quiete della nostra città (1). Dopo di loro, allo stesso fine si presentarono allo stesso Ministro cinque deputati liguri, tra i quali il nostro Cabella, che del colloquio avuto con lui il dì 11 rende ragione ai suoi fratelli con la lettera seguente. « Torino, 13 agosto 1849. » Carissimi fratelli, » Ho scritto l’altro ieri alla mamma subito dopo il mio arrivo. Oggi comincerò le mie ricerche per il vostro affare. Sabato ho veduto Pinelli, e gli ho lungamente e fortemente parlato delle cose di Genova. La conferenza fu così viva, che terminammo per dimandarci scusa a vicenda della nostra vivacità. Il risultato fu ch’egli mi ripetè ciò che aveva promesso ai deputati del Municipio, processi ai militari colpevoli di provocazione, e allontanamento fra qualche giorno dei bersaglieri. Vedremo. Io aspetterò ora le istruzioni del Municipio, e le notizie di Genova: e non fo motto alla Camera finché vi sarà speranza di veder terminate le cose all’amichevole. — Qui nelle alte regioni del potere vi sono dei progetti di reazione ai quali vorrebbero trovare il pretesto. Ma di ciò un’altra volta. Intanto occorre aver pazienza e trangugiare qualunque boccone amarissimo finché venga il nostro tempo. — Addio, fate avere a mia moglie la lettera acchiusa: consegnatela a Pippo. — Mille saluti a tutti. Il vostro Cesare » Grazie alla prudenza e alla vigilanza delle autorità cittadine e militari i bollori hhic inde parvero per allora attutiti. (1) Cfr. Corriere mercantile del 9 e Concordia del 10 e dell’ll agosto 1849. — March. Pietro Monticelli patrizio genovese; deputato al Parlamento nella 5*, 6*, 7* e 8“ legislatura, sedette sempre a destra. Fu ministro dei lavori pubblici, nei quali e nelle dottrine economiche era spertissimo, dal luglio 1859 al genn. 1860. Ebbe dalla nostra città molti e gravi incarichi da lui sempre sostenuti con grande ed operosa perizia. M. il 17 apr. 1864. Benedetto da tutta Genova per la sua munificenza, ebbe dal Cassinis presid. della Camera l’elogio che meritava la sua specchiata rettitudine. 216 XXIX. Il trattato di pace con l’Austria discusso in seduta segreta. Altre occupazioni politiche nell’autunno del 1849. La seguente, in data 18 agosto 1849, ragguaglia Luigi, fratello maggiore, della discussione del Trattato di pace con l’Austria, fattasi in seduta segx-eta il 14 e il 15 agosto, e della parte che Cesare vi prese. Si omette della lettera la parte riguardante i patti del Trattato di pace. « Essi, dice il Nostro, furono soggetto di una discussione animatissima nella quale ho sostenuto una lotta petto a petto col Ministero uscendone vincitore ». Quindi continua: « Volevano i Ministri che noi discutessimo ed approvassimo in comitato segreto tanto questo Trattato di pace quanto la legge che accordava il credito di 75 milioni in esecuzione del medesimo. Io mi sono fieramente opposto. Dissi, primo, che secondo lo Statuto non è il Parlamento ma il Re che fa i trattati di pace: che il Parlamento è bensì chiamato a dai’vi il suo assenso o il suo rifiuto, quando vi sia onere di finanze, o diminuzione di territorio, ma solamente dopo lo scambio delle ratifiche; che quindi le ratifiche non essendo ancora scambiate, il trattato di pace non può presentarsi in Parlamento: che.facendo altrimenti si verrebbe a far pesare sulla Camera quella responsabilità che deve restare esclusiva nel Governo, e che noi non vogliamo questa responsabilità in nessun modo. Il solo Governo sa in che stato ci troviamo noi, in che stato si trovi l’Austria, in che stato si trovi l’Europa rimpetto a noi. Egli solo quindi deve por termine al trattato prima di recarlo al Parlamento. Secondo, che quando anche poi il trattato di pace si potesse discutere fin d’ora in Parlamento, non consentirei mai che ciò si facesse in comitato segreto. Che in una cosa di tanta importanza, da cui dipende non solamente il nostro presente, ma il nostro avvenire, la Camera doveva al paese tutta la più grande pubblicità: che il paese deve sapere per quali motivi si aggrava il suo debito pubblico di 75 milioni, i quali, realizzati, oltrepasseranno i cento: che quindi doveva discutersi il tutto in seduta pubblica. — Ci battemmo su questo terreno dalle 8 ore ad un’ora dopo mezzanotte: all’indomani si riprese la seduta segreta; e durò la lotta da un’ora fino alle tre. Finalmente io proposi il seguente ordine del giorno, che fu adottato all’unanimità. — La Camera, avute le comunicazioni per le quali il Ministero domandò il comitato segreto, atteso che lo scopo del medesimo sarebbe cessato, lo dichiara sciolto. — E restammo bene intesi che noi eravamo in istato vergine, e che il Ministero avrebbe in pubblica seduta fatto ciò che avrebbe creduto. — Si aprì allora la seduta pubblica. 217 Erano le ore 4. Il Ministro di Finanze Baie alla tribuna e presenta la legge del credito dei 75 milioni, senza presentare il trattato di pace. E comincia col dire: « Stante le comunicazioni date in comitato segreto che hanno fatto conoscere al Palpamento la necessità della pace ecc. 10 ho subito protestato contro questa insidia ministeriale replicando che noi non eravamo legati da nessun antecedente, e che tutte le questioni si presentavano vergini al Parlamento. — Eccovi la storia delle sedute segrete ». Ricordiamo gli ultimi suoi atti politici della Sessione autunnale del 1849. Membro della Commissione pel Trattato di pace con l’Austria, parlò a sostegno dell’emendamento Mellana secondo il quale la Camera nell’atto di approvare il Trattato avrebbe dovuto dichiarare che nulla veniva innovato circa le condizioni degli emigrati in Piemonte dal Lombardo-Veneto. Avendo poi Carlo Cadorna proposto « di sospendere ogni deliberazione sul trattato di pace fino a che il Ministero non avesse con legge speciale provveduto a regolare in modo conforme all’onore dello stato i diritti di cittadinanza degli immigrati dalle diverse provincie italiane » la proposta veniva approvata il 16 novembre con voti 72, fra cui quello del Nostro, contro 66. Questa votazione, giova notarlo, riusci identica nella doppia prova, a scrutinio palese e a scrutinio segreto. Il nostro deputato, ricordando più tardi quella seduta, raccontava come dal suo scanno, vicino alla tribuna diplomatica, dopo la duplice votazione udi l'ambasciatore di Russia esclamare: Cela honore le Parlement! Il giorno 17 usciva il decreto di proroga della Sessione; e il 19 11 Nostro informava la sua Clementina sui motivi che ancora lo trattenevano a Torino: « Non sono ancora partito da Torino, e per ora non parto, perchè la mia presenza è per ora indispensabile qui, per trovare il modo di conciliare il Ministero con la Camera, ed impedire lo scioglimento di quest’ultima. Vi sono molte trattative e la cosa mi pare condotta a buon termine. Spero che riusciremo a comporre ogni cosa con comune soddisfazione. A tre ore e mezza ho un’udienza particolare dal Re a quest’oggetto. Domani ti scriverò il risultato di questo primo colloquio che io avrò con un Re per affari di Stato ». Ma le pratiche di conciliazione non approdarono e col 20 nov. la Camera era sciolta; e il Nostro, senz’altro scrivere, partì per Genova. Così non ci è dato conoscere il colloquio avuto col sovrano; solo sappiamo che, com’egli più tardi ricordava, il Re togliendo commiato da lui, per dimostrargli che apprezzava la saldezza e la sincerità delle sue convinzioni, gli stringeva la mano dicendogli: « Cabella, la stimo ». 218 XXX. Dottrina, eloquenza e carattere fanno del Nostro uno dei più eminenti capi della Sinistra parlamentare. Testimonianze di preclari colleglli. Già salito in alta fama in Liguria e nell’alta Italia per profondità di dottrina e per dignità di vita e di carattere, il nostro Cittadino, appena entrato in Parlamento, si cattivò l’ammirazione e la simpatia de’ suoi colleglli di tutti i partiti come oratore e come cittadino. La nostra Gazzetta del 5 marzo 1849 accennando alla discussione della Risposta al Discorso della Corona afferma che in essa si rivelò il valore « dell’avv. C. Cabella che alla rara perizia nella pratica giurisprudenza mostrò di saper congiungere i pregi dell’oratore politico che illumina, convince e commuove mediante l’aiuto del raziocinio severo, lo splendore delle immagini e l’impeto dell’affetto ». E il Bensa nel citato Discorso commemorativo: « Nella Camera dei deputati ove sedette costantemente a sinistra conquistò subito grande autorità per la sua facondia, che il Brofferio felicemente definisce fascinante per lirico slancio dell’anima ma convincente per doppio merito di facile eloquio e di concisa argomentazione. Mirabile è sopratutto in essa la temperanza nobilissima dell’espressione accoppiata all’ardore del convincimento; e questo fu pregio veramente singolare del nostro in ogni atto della vita sua, poiché per un meraviglioso equilibrio dell’animo, l’impeto bollente deirinnata generosità era in lui disposata a così gentile mitezza, da farlo rifuggire mai sempre, nonché dalle personali acrimonie, da qualunque asprezza di modi..... Certo al fascino della sua parola contribuivano non poco la nobiltà del gesto, l’aspetto bello ed imponente della persona, la voce simpatica e la corretta pronuncia scevra affatto da quell’infelice accento dialettale da cui noi Liguri ben di rado riusciamo a spogliarci; del qual pregio le tributa, la dovuta lode Domenico Giurati nel suo bellissimo libro sull’arte forense ». Oltre le parole riferite dal Bensa, il Brofferio, ricordando nell’oratore il cittadino e il giureconsulto, diceva ancora: « Questi (il Cabella) primeggiava nella Ligure Giurisprudenza, e benché nei dolorosi anni di politiche riscosse non si spingesse in prima schiera, godea, a buon diritto, fama di liberale cittadino, ed aveva in lui onorato interprete il popolo quando nel 1848, signora del flutto Tirreno, chiedeva Genova popolari franchigie..... Dotto giurista e nelle dottrine commerciali ed economiche versatissimo, non era in alcuna controversia straniero e 219 dai seggi della sinistra la sua voce scendeva autorevole sopra tutte le parti della Camera ». Pone il suggello a questi giudizi la parola del Cavour il quale scrivendo il 5 maggio 1857 al march, di Villamarina ministro sardo a Parigi diceva il nostro cittadino le plus habile des orateurs génois: giudizio inappellabile .sia per l’autorità del giudice sia perchè il giudicato si dichiarò e fu sempre, come vedremo, della politica del giudice, aperto e costante avversario (1). È del 6 novembre 1849 una lettera al Cabella dell’on. Raffaele Cadorna l’uomo che nel 1870 doveva aver l’onore di acquistar Roma all’Italia. Seguendo l’opinione e l'esempio di Carlo suo fratello maggiore e volendo con lui, con Rattazzi, Buffa, Cornero, Rosellini, Lanza ed altri addivenire al riordinamento generale della pubblica azienda e dare a questo effetto maggior fermezza al potere esecutivo, stato fin qui troppo caduco e fluttuante, il Cadorna era passato dalla sinistra al centro sinistro ed entrato perciò a far parte di rjuel nuovo partito rattazziano, che detto malva dalla Gazzetta del Popolo, era però destinato a storico avvenire. Dovendone dunque fare avvisati i colleghi antichi si volgeva all’amico Cabella come a degno rappresentante di quella società politica pei’chè loro comunicasse la sua separazione, e aggiungeva: « Mentre sono dolente di questa separazione mi gode l’animo per altra parte nel pensare che i nostri principii sono pur sempre i medesimi, e che la diversità di opinioni non versa che in alcune applicazioni dove ci troveremo pure insieme sul medesimo campo più di una volta ». Finisce dicendosi pronto nella liquidazione dei conti a soddisfare alla parte degli obblighi contratti in partecipazione. Gli dà del tu. Intanto volgeva alla fine l’anno 1849; il Re bandiva il minaccioso proclama di Moncalieri, e la Camera, sciolta il 20 nov., si rinnovava la quarta volta nel dicembre successivo riempendosi di nobili, di clericali e di retrivi tutti ligi al Ministero, e la sinistra era ridotta a una trentina. Il dì 9 gennaio 1850 il trattato di pace con l’Austria (1) Nuove lettere inedite del Conte Cavour per E. Mayor, 1895, L. Roux ed. — Così era compiuto il voto che il .nostro Concittadino esprimeva come sogno fin dal 22 luglio 1842 scrivendo all’amico Avv. Pietro Gioia per ringraziarlo del dono del suo bel Discorso sugli asili d’infanzia da istituirsi a Piacenza: « Ho pure desiderato che al nostro ministero (di avvocato) si allargassero i confini, come in altri paesi, cosicché- potesse in più vasto cerchio girarsi e al cospetto di tutta Italia mostrarsi chi tanto vale nella divina arte della parola. Oh se in una assemblea italiana potessimo un giorno sedere entrambi, e disputare degl’interessi di questa nostra cara patria, e io potessi ascoltare questa sua eloquente voce, tanto più eloquente allora quanto l’animo sarebbe più levato in alto dalla grandezza dei subietti!... ambiziosi e vani desiderii *. 220 era finalmente approvato e con esso si chiudeva il primo e più trambasciato periodo parlamentare per dar luogo a un periodo di quiete e di raccoglimento. Al nostro cittadino l’esercizio del mandato parlamentare era costato due lunghe intermissioni de’ propri affari con grave scapito de’ suoi interessi; e nondimeno le sue occupazioni forensi essendosi oltremodo moltiplicate con la universale estimazione e, d’altra parte, cresciuta d’altra prole la sua adorata famiglia alla quale era pur obbligo il provvedere, cominciò a discutere seco stesso quello che già da tempo gli martellava in pensiero, cioè se per sostenere degnamente l’ufficio di deputato dovesse ancora postergare gl’interessi suoi e la cura de’ suoi cari, o se per curar questi trascurar quello. Inoltre, a quei tempi Genova in ragion di tempo era lontanissima da Torino impiegandosi circa 24 ore di diligenza a francarne la distanza. Era dunque doloroso per lui il dover rinunciare a quella carriera parlamentare dov’egli aveva con tanta lode esordito; e nondimeno ei non poteva nè doveva per amor di questa rinunziare alla professione legale da cui ritraeva la vita; onde presa la più dovei’osa risoluzione, prima di essere eletto dai nostri cittadini del IV e VI collegio nelle elezioni suppletive del 2 e 3 febbraio, la comunicò all’amico De-Pretis, uomo di meditato senno e di acuto giudizio, il quale il 15 gennaio 1850 così gli rispose: » Torino, 15 del 1850 » Mio carissimo, » Il quadro che tu mi fai della tua posizione, non fa che riconfermare sempre più in me la stima e l’affetto che ti porto; ma non mi persuade che tu debba rinunziare alla deputazione nè alla, per ora, ingratissima carriera parlamentare. Eccotene i motivi. » Non ti dico del bisogno che ha di te la nostra infelice, ma sempre santissima causa; è inutile di ciò farti cenno. Piuttosto dirò che io credò che tu possa attendere alla deputazione senza quel gran pregiudizio de’ tuoi domestici affari, che naturalmente e giustamente a te che sei marito e padre devono premere. Ora, credi pure, possiamo in buona e tranquilla coscienza dispensarci da una assidua presenza ai dibattimenti parlamentari: i codini fissano i loro piani in una congrega che si tiene in casa Benevello, (recente senatore), e fissati quei piani, li eseguiscono con teutonica esattezza (1). Sono disciplinati (1) Conte Cesare Della Chiesa di Benevello, n. nel 1789 a Torino; mediocre pittore ma uno dei più benemeriti fondatori della Società proviotrice di Belle Arti. Patto sena- 221 come un reggimento di confinar]’ o di croati, e votano come marionette mosse dai fili. La gran degnazione consiste nel lasciarci parlare un paio di volte, e non va più innanzi. Sicché vedi che l’importanza della deputazione e il vantaggio del paese consiste piuttosto nel vederne insigniti uomini sicuri ed abili, i quali quando giunga l’ora possano rappresentare il paese, secondo esige l’interesse italiano, che in altro. Sta ben sicuro di questo, mio ottimo amico: ora la deputazione pei liberali è un impiego di aspettativa; possiamo in buona coscienza attendere ai nostri interessi, senza pregiudizio di quelli del paese. Poche questioni esigono una norma diversa, e per queste poche questioni si può, senza grave danno, lasciare in disparte i propri affari per breve tempo. » Aggiungi che la rinuncia dei buoni scoraggierà del tutto il già abbastanza avvilito nostro partito e farà crescere la burbanza dei nostri avversarj. Leggi qualche volta il Risorgimento? Se hai stomaco di accostarti a quella indigeribile lettura, vedrai ch’io dico il vero. — So cosa mi potresti rispondere: ma io ti ripeterei che in parecchie delle provincie piemontesi se non si tiene vivo lo spirito liberale, se il sentimento italiano vi si lascia ancora maggiormente deprimere, vi scenderà nel sepolcro. E sarà fatica enorme il sollevare la pietra sepolcrale, e l’evocarlo alla luce, quando venga, e può venire assai presto, l’ora propizia. » Altre ragioni ne avrei molte da dirti: ma permettimi di riservarle pel nostro primo colloquio. Intanto non contrastare la tua elezione, lasciando subodorare il tuo proponimento, che io sono certo mi permetterai di combattere, non senza speranza di riescire a mutarlo. In ogni modo alla rinunzia c’è sempre tempo, e non v’è termine pre-fìnito, e tu non farai nulla senza il consiglio di quelli che ti amano e ti stimano e ti credono necessario al buon andamento della buona causa. Tuo affezionatissimo A. Depretis » Non parve al Nostro di dover ripudiare le assennate ragioni con le quali l’amico Depretis si faceva interprete del desiderio di tutti i colleghi di Sinistra, e accettò il mandato, e fors’anche senza molta ripugnanza in quanto che con lui essendo pure stati eletti a Genova tore il 18 die. 1849. Convaniva in casa sua la parte più conservatrice della nobiltà e della destra parlamentare. M. nel 1853. I 222 gli amici suoi Domenico Elena e l’avv. Paolo Farina, nobili e valorosi liberali pronti a combattere per l’idea nazionale e per gl’interessi di Genova, essi in ogni caso avrebbero potuto supplirlo onorevolmente nella lizza parlamentare. Si presentò dunque alla Camera dopo oltre quattro mesi dalla sua elezione, l’il giugno 1850, e vi prestò giuramento. Volendo esser libero di muoversi quando impegni urgenti lo richiamassero a Genova, non accettò di far parte di commissioni, ma parlò spesso per emendare o sostenere o respingere leggi proposte, secondo più diritto stimava: discorsi che ometto per brevità. Ricorderò solo la viva parte che nella tornata 6 luglio 1850 egli prese nella discussione e nell’emendamento della proposta del marchese Nicolò Gavotto del nostro VI collegio, sollecitante il Ministero a conservare le armi speciali nella Guardia Nazionale di Genova. L’argomento era scottante perchè nei primi giorni della primavera dell’anno decorso era stata appunto la Guardia civica quella che col primo atto di aperta ribellione aveva provocato il moto rivoluzionario. Parlarono a favore, oltre il Nostro, gli on. Valerio, Josti, Asproni, Elena, Ricci; in senso contrario Pinelli, di Revel e il ministro degli interni Galvagno, il quale dopo aver fatto un tristo quadro delle passioni politiche agitanti Genova in quei giorni, disse che il costituire le armi speciali in quella civica milizia valeva quanto dare le armi in mano all’opinione contraria alla legge. Dovendosi prossimamente discutere al Senato una legge di riorganizzazione generale della Guardia Nazionale fu proposta e approvata la sospensiva. Del 2 ottobre 1850 è una lettera con cui l’on. Sebastiano Tecchio (senior) gli comunica essere stato lui Cabella eletto nel Consiglio di Direzione del nuovo giornale della Sinistra II Progresso, e per incarico dei colleghi lo prega di accettare. « Torino, 2 ottobre 1850. « Amico carissimo, » Il giorno 30 ebbe luogo la adunanza degli azionisti del nuovo Giornale della Sinistra. Io non c’intervenni e perchè non azionista e per altre ragioni di delicatezza che potrai facilmente comprendere. Mi fu poi partecipato con lettera, che verrà eletto un consiglio di Direzione composto di te, Depretis, Plezza, Pescatore, Robecchi, Borella e Tecchio, ed un consiglio di amministrazione composto di Riccardi, Farina Maurizio, Moris Giuseppe. — Mi fu dato l’incarico di scriverti, e prepararti ad accettare la nomina suindicata: ed io adempio alla commissione con tutto l’animo, e colla certezza che certo non man- 223 cherai di aderire al voto de’ tuoi colleglli che tanto ti amano e stimano. Tu ben dei vedere che i sette nomi, nel loro complesso, presentano guarentigie sicure di liberalismo e di italianità. Il maggiore o minore svolgimento che debba darsi a questi due principii dipenderà e dalle varie circostanze dei tempi, e sopratutto dalla linea che sarà tracciata dal Consiglio. Il tuo nome piacerà e contenterà i più spiccati, siccome qualche altro nome ssrà gradito ai più rispettivi, non dico agli onesti e moderati che sono la peste dell’odierna Europa, e dei quali dobbiamo propulsare le arti velenose. » Il Giornale uscirà in luce il 1° novembre. Se prima d’allora puoi fare una scappata, niente di meglio: o no, scrivimi, prego, le tue idee, quantunque già mi paia di poterle bene indovinare dall’esperienza fatta dell’ingegno tuo e del tuo cuore. » Attendiamo tutti la tua risposta, la quale non può non dover essere affermativa. — Ama il tuo Tecchio (1) » Accettò volentieri l’onorevole ufficio il nostro Cittadino; ma già dopo pochi mesi, l’il marzo 1851, l’on. avv. prof. Matteo Pescatore diramava una circolare agli azionisti del Progresso dove comunicando le sue dimissioni da Direttore, parlava delle difficili condizioni economiche in cui versava il Giornale per opera dei retrivi ministeriali: proponeva al male qualche rimedio, e invitava tutti all’adunanza del 19 corrente. Il Progresso era stato fondato a Torino da alcuni deputati già collaboratori della Concordia ribellatisi al direttore Valerio di cui mal tolleravano il noto carattere un po’ sdegnoso e dittatorio. Comparso il 1 nov. 1850, finì con l’anno 1851. La glande autorità del Cabella in Parlamento durò finché ne fece parte. Omettendo altre testimonianze, Cecco Simonetta, del cui valore garibaldino diremo a suo luogo, il 24 settembre 1856 ringraziandolo di un gradito presente da lui ricevuto in riconoscimento di non so (1) Sebastiano Tecchio, avvocato; n. a Vicenza nel 1807, illustre giureconsulto e ardente patriota. Inviato nel 1848 dalla sua patria a recare a Torino l’atto di fusione di Vicenza col Piemonte sotto la monarchia costituzionale di Casa Savoia, vi prese ferma stanza. Deputato in quello stesso anno; ministro dei lavori pubblici nel 1849; presidente della Camera nella 811 legislatura; poi presidente della Corte d’Ap-pello di Venezia; ministro di grazia e giustizia sotto Rattazzi nel 1867; presidente del Senato dal 1876 al 1884. Re Umberto gli conferì il Collare della SS. Annunziata. Morì nel 1886. Prudente ed accorto, seppe star bene coi diversi partiti, ond’ebbe la stima unanime e la lode incondizionata dì tutti. 224 qual grazioso servizio, aggiungeva: « Di tutto cuore lio accettato e preziosa mi riesce l’amicizia di chi reputo quale uno dei pochissimi veri liberali, e quasi unica colonna del partito nostro ». XXXI. Un nuovo lutto lo determina a rinunciare al mandato politico (marzo 1851). È fatto Console della nuova Società, sorta a Genova, del Tiro a segno nazionale (aprile 1851). Come s’è detto, nell’estate di quell’anno 1850 comparve e parlò alla Camera, ma gli affari legali crescendogli tuttavia di mole e di numero, lo andavano persuadendo a rinunciare un mandato a cui attendeva troppo meno di quello ch’egli credeva dover suo, e ne avvisava gli amici colleghi. 11 Valerio gli rispondeva il 18 giugno: « Finche le discussioni non sono importanti fai benissimo ad accudire le cose di famiglia, ma non devi pensare a dare la tua dimissione ». E Francesco Ferrara il 1 ottobre (1850): « Il modo in cui sei carico d’affari, del che mi congratulo, mi fa sospettare che tu non verrai, o verrai tardi, alla prossima sessione. Sarebbe uh grave danno, te lo dico senza cerimonie. La sinistra, lasciata a se sola, si perde, e perde tutto. Un’intelligenza che la diriga è condizione vitale; e se tu manchi, chi resta? » E il 16 novembre: « Mio caro Cesare, ricevetti la tua del 13 nel momento in cui io scriveva due parole di articolo contro i deputati che si dimettono. Ti assicuro che sono dolentissimo della risoluzione da te presa, e la riguardo come una vera pubblica calamità. Se tu ti assenti dalla Camera, l'opposizione non ha più una voce, e perciò vi sarà un gran consiglio del Ministero ma non più un Parlamento. Credo che non ti offenderai se giudico così di uomini che ti sono amici; ma essi hanno rovinato un partito, che non è, è vero, il mio, ma che io credeva indispensabile perchè il governo non tralignasse. E vedrai che tralignerà. Nel Gabinetto è entrato il diavolo in mezzo ai monaci; l’opposizione ritirandosi gli lascia libere le mani: ora è il momento in cui comincio a credere alla reazione possibile ». Tutto inteso alle cure della sua professione, mancava già da oltre cinque mesi alla Camera quando un secondo acerbissimo lutto lo col* piva sui primi del marzo 1851. Adele, suo unico angioletto, da morbo fatale veniva rapita al suo cuore ancor sanguinante per la morte del primo nato. Il luttuoso affanno, così contrario per natura ai clamori e ai diverbi della politica, finì per vincere in lui ogni esitanza ad i 225 eseguire ciò che già da tempo, come vedemmo, le moltiplicate occupazioni gli avevano suggerito, e rassegnò senz’altro le sue dimissioni da deputato con la lettera seguente al presidente della Camera on, P. D. Pinelli che ne fece lettura nella tornata 26 marzo. « Egregio Sig. Presidente, » Se non ho risposto prima alla sua pregiatissima del 12 corrente, ne fu cagione una grave sventura, la più grave che possa toccare ad un padre, la perdita della sua unica figlia. » Molto mi duole che la necessità della mia professione e le condizioni della mia vita mi abbiano impedito di prendere ai lavori del Parlamento quella parte che era ne’ miei doveri. Nella previsione di questi impedimenti avevo già preparata la domanda della mia dimissione al principio dell’attuale Sessione. I miei amici me ne distolsero e mi scongiurarono a non rinunciare il mandato de’ miei concittadini, ed io ho ceduto alle loro istanze, nella speranza e nel desiderio di potere quando che sia adempiere almeno in parte al mio ufficio. Ma ora m’avveggo che il ritardo è troppo grave, e mi rimorde d’aver lasciato troppo tempo i miei elettori senza rappresentanza. Perciò domando la mia dimissione, e prego la Camera a perdonarmi se lo fo troppo tardi. Nel congedarmi da’ miei colleghi e nell’atto di abbandonare la vita politica, sento un bisogno, ed è quello di pregar Lei, egregio Sig.r Presidente, a ringraziare per me la Camera dell’indulgenza con cui furono accolte le mie parole ogni volta che io difesi ciò che mi pareva giusto e buono nell’interesse della patria. Non è senza grave rincrescimento che io rinuncio un mandato che mi parve sempre l’onore più invidiabile e più caro, perchè dato dalla fiducia dei propri cittadini; ma essi sanno che quest’atto di rinuncia non è mia elezione. » Colgo l’occasione ecc. Cesare Cabella » Ma come la vita è un alternarsi di gioie e dolori così anche questa volta lo strazio paterno ebbe il suo refrigerio perchè anzi che l’anno finisse, la sposa lo fece padre di un’altra bimba egualmente bella, a cui impose il nome dell’estinta Adele per godere la pia illusione che la prima non fosse altrimenti perita ma rivivesse rinnovata nella seconda. E la sua gioia di padre toccò il più alto grado quando due 15 226 anni appresso, nel 1853 potè festeggiare il natale -del suo primo maschio, Edoardo, il quale, seguito in processo di tempo da due sorelle Elisa e Bice, rimase unica prole maschile a sostenerne onorevolmente il nome, a proseguirne in Genova l’opera benefica e a professarne il pensiero civile. Ma nè la libertà politica contro i tiranni nè la vittoria delle armi contro lo straniero agguerrito e potente si conquistano senza matura educazione e senza preordinato e disciplinato tirocinio. Le dure lezioni del ’48 e del ’49 avevano guarito i Genovesi e gl’italiani di quella febbre onde tutti si sognava di poter sicuramente affidare il trionfo del nostro diritto a un atto improvviso di generosa volontà e a concorde entusiasmo di popolo. Il nostro cittadino, uscendo dal Parlamento, si acconciava volentieri a modesta vita privata, ma non avrebbe mai potuto rimanersi inerte spettatore delle patrie vicende quando più urgente incalzava il bisogno di preparare la nazione con mezzi rapidi e pratici a nuovi e più fortunati cimenti. E perchè le guerre si vincono con le armi, e con quali armi erano luminoso esempio al mondo gli Svizzeri e i Tirolesi, la scuola della carabina parve a lui e ad altri forti patrioti genovesi ottimo mezzo di educare alla prossima guerra così l’animo come il braccio della nostra gioventù, onde, accordatosi con loro formò con essi un primo nucleo, che il dì 16 Aprile 1851 deferì a un comitato provvisorio la cura di redigere uno Statuto e un Regolamento per una costituenda Società privata di Tiro a Segno Nazionale, di proporre un tiro di carabina sociale e di trovare un locale idoneo agli esercizi del bersaglio. Dopo una prima adunanza generale indetta con pubblico invito ai cittadini pel 30 nov. in una sala del Palazzo Tursi, seguì la seconda il 5 dicembre in una sala del Palazzo Rostan in Piazza della Zecca messa graziosamente a disposizione della Società dal Sig. Mosto, dove il Comitato rendeva conto della sua gestione, presentava il Regolamento e infine i soci procedevano all’elezione delle cariche sociali col risultato seguente: Console: Cabella Cesare, avvocato; Vice-Consoli: Medici Giacomo, colonnello; Arduino Nicolò, tenente colonnello; Consiglieri: Burlando Antonio, Ugo Giacomo; Pareto Carlo, Bixio Nino, Daneri Francesco, Camozzi G. B., Mosto Antonio, Remorino Gerolamo; Segretari: Savi Bartolomeo Francesco, Castagnola Stefano; Cassiere: Chighizola Bartolomeo. 227 Come il lettor vede, un manipolo di prodi destinati a rivendicare in cento battaglie la libertà oppressa e l’onor decaduto delle armi italiane, un manipolo di prodi, sessanta all’incirca, in massima parte ardenti repubblicani, con voti quasi unanimi s’erano scelti a console e capitano un giureconsulto nò repubblicano nè chiaro per alcun merito militare: fatto che meglio d’ogni parola dimostra in quale e quanta estimazione presso i Genovesi d’ogni partito fosse tenuta la virtù, la dottrina, il patriottismo del cittadino Cabella. Ed è vanto indiscusso di Genova nostra di avere, primo esempio nei tempi nuovi in Italia, fondato e propagato col massimo successo tra 1^ sua società civile questa istituzione di natura militare, istituzione che, caso singolare, non attecchì nella capitale subalpina dove i tentativi fatti a tal uopo fin dal 1850 dal Depretis, dal Plezza e dal Simonetta erano rimasti infruttuosi (1). Non è di questo commentario il dir le gesta dei gloriosi componenti la sopra nominata Amministrazione, già commendati alla più tarda posterità nei fasti del nostro Risorgimento, solo ricorderò che da questa Scuola genovese così ben rispondente al patriottismo di ogni fede politica e salutata dal plauso generale e rapidamente cresciuta tra noi e fiorita di vita rigogliosa, sorse quel corpo dei Carabinieri genovesi che nel ’59 nel ’60 e nel ’66 sotto le bandiere di Garibaldi e di V. Emanuele compiva meraviglie di valore (2). Il 2 luglio dell’anno seguente 1852 il Generale comandante della Guardia Nazionale di Genova, Busseti, volendo che la sua milizia s’avvantaggiasse della nuova istituzione, scriveva al vice console Arduino pregandolo di fargli conoscere a quali condizioni la Direzione del Tiro Nazionale acconsentirebbe che la Guardia Nazionale fosse ammessa all’ultilissima Scuola del Bersaglio e a frequentarne il locale. Come ebbe la risposta dell’Arduino, il Busseti fece pronti uffici col sindaco di Genova march. Stefano Centurione il quale s’ac- (1) Cfr. Relazione Barattieri intorno al progetto di Legge sul Tiro a segno nazionale presentata alla Camera il 10 die. 1881. Nel disoorso inaugurale letto dall’on. Luigi Roux presidente del Congresso del Tiro a segno nazionale tenutosi a Torino l’ottobre del 1892 non si fa cenno alcuno della istituzione nata e fiorita in forma privata a Genova prima che altrove, e come prime scuole dei nostri tempi son ricordati i Tiri provinciali di Sondrio e Como aperti nel 1860. Ma ciò che fa veramente stupore si è che I’Angelucci nel suo libro II Tiro a segno in Italia dalle sue origini ai nostri giorni (Torino, 1865) lavoro molto diligente, nessuna menzione fa mai del Tiro a segno genovese. (2) L’Istituzione del Tiro a segno divenne legge dello Stato ed estesa a tutto il Regno con deliberazione parlamentare del 29 maggio 1882. 228 cordò col Console Cabella ed ambidue di comune accordo stesero e firmarono legale scrittura in data 17 luglio con la quale il Comitato del Tiro Nazionale apriva il suo locale alla Guardia Nazionale di Genova onde potesse esercitarsi al Bersaglio durante la corrente sta- ' gione estiva; il Consolato poneva a disposizione della Guardia Nazionale tre bersagli; l’Amministrazione Comunale si obbligava di corrispondere al Consolato la somma di L. 600 da pagarsi nella prima quindicina del prossimo agosto. Il locale della Società del Tiro s’era inaugurato il 28 marzo, presso il Lazzaretto della Foce nella località detta del Rubado. XXXII. Tesse l’elogio del defunto amico suo avv. Ludovico Casanova (ottobre 1853). Moriva intanto il 26 sett. 1853 in Genova, cinquantaquattrenne, l’eminente giurista Ludovico Casanova, ingegno meraviglioso e magnanimo amatore di libertà, acuto razionalista e deista convinto, onore di Genova e del nostro Ateneo, che nella scienza del Diritto costituzionale e internazionale segnò orme incancellabili. Il nostro Cabella che stretto a lui di forte amicizia avvalorata da singolare conformità di sentire, per lui nutriva un vero culto di ammirazione, come più tardi ne riordinò per la stampa le lezioni cosi volle allora nella Gazzetta dei Tribunali del 29 Ottobre pubblicarne un Cenno biografico, prezioso per noi non tanto per la signorile semplicità e sobrietà del discorso, quanto perchè nella natura dei giudizi e della lode tributata all’egregio defunto noi vediamo come in specchio d’acqua limpida la natura dell’animo del lodatore e degl’ideali à cui s’ispirava. Ne riferiamo qualche tratto. Detto delle virtù particolari del suo intelletto, soggiunge: « Accade raramente al merito vero e modesto, che nulla chiede, essere apprezzato dai potenti e ricercato dal Governo. Pur questa rara fortuna toccò, quasi per miracolo, a Ludovico Casanova il quale nel 1835 fu eletto, non chiedente, e senza formalità di esami, dottore collegiate nella Facoltà di Legge; e sul finire del 1837 fu nominato professore di Istituzioni civili nella nostra Università ». Dopo sei anni uscì dall’insegnamento « perchè il governatore deirUniversità con una stupida pretesa fu cagione che l’animo indipendente di Ludovico, sentendosene offeso, desse le sue dimissioni ». Nel 1848 gli fu data la cattedra di Diritto costituzionale pubblico e internazionale. Ben assegnato l’ufficio « perchè alla grandezza del- 229 l'ingegno e alla vastità delle cognizioni accoppiava un grande amore della libertà, non quale molti lo finsero in piazza per bassi fini o mire private, ma quale ogni animo nobile ed onesto non può non sentirlo, vivo e sincero ». Espresso il voto che le sue lezioni sieno fatte di pubblica ragione, soggiunge: « ciò che non poteva sperarsi, lui vivo, perchè, come sogliono gli uomini veramente superiori, dubitava sempre di se stesso e non osava presentarsi al giudizio pubblico.....Egli riguardava l’ufficio del professore non come un impiego, o una rendita, o una scala a salire, ma come un sacerdozio in cui era viltà e delitto non perdonabile tradire o velare ai giovani il vero. E noto qual guerra gli fosse fatta per la sua lezione sulla libertà individuale, ove sostenne esser lecita la resistenza attiva del cittadino che si volesse illegalmente arrestare. Principio sacrosanto che è sanzione unica di libertà individuale. Due giornali, Lo Smascheratore e II Cattolico se gli avventarono contro e, secondo il costume loro, non potendo combattere gli argomenti del professore, presero a vilipendere la persona. Certuni lo denunziarono al Ministero come predicatore di ribellione. » Fu d’indole mansuetissima, felicemente accoppiate ad una fermezza irremovibile di propositi. L’ingegno vivacissimo lo traeva quasi irresistibilmente agli epigrammi che aveva prontissimi, ma la bontà naturale del cuore ne ammorzava la punta. Non recò mai offesa ad altri; e le offese a lui fatte e le ingratitudini perdonava e dimenticava. Fu buono e generoso anche con proprio danno. Niuno lo richiese mai di soccorso che si partisse con un rifiuto. Ebbe cara l’amicizia nella quale era costantissimo. Pietà di figlio, affetto di marito e di padre, integrità di cittadino, tutte egli ebbe le virtù private e pubbliche accompagnate da una rara modestia che lo faceva quasi di se stesso inconsapevole. Aborri l’intrigo, non curò gli onori. Amante sincero della giustizia, ebbe probità antica, riputando la scienza del Diritto una religione, la professione dell’avvocato un Sacerdozio. » Fu irremovibile ne’ suoi propositi perchè li traeva dalle sue convinzioni e dalla sua coscienza, nè li misurava dal suo interesse: donde quella sua fierezza e indipendenza che forma il più bel pregio del giureconsulto e ispirò al D’Aguessau la più bella delle sue mercuriali. Virtù molto a lodarsi negli scorsi tempi, quando non era senza pericolo ma più ancora oggidì che è odiata e derisa. E però Ludovico non sapeva chiamar felici i nostri tempi nei quali somma sapienza si reputa accomodare a seconda dell’utile le proprie opinioni, e per 230 salire in alto mutarle; e si deridono e si odiano coloro clie conservano fede ai loro principii, nè chinano la fronte nè guardano da qual parte sia la vittoria ». Abbiamo già visto com'egli col Brofferio nel J853 difendesse la Maga querelata dal Cavour. Sempre tra i primi, diremo col Poggi, nelle file della parte democratica in Genova, egli concedette spesso in questi anni il magistero della sua parola per la difesa dei giornali ultraliberali genovesi come Italia e Popolo, la Maga, Tl Povero, che erano fatti segno dal Fisco a frequenti sequestri (1). A taluno potrebbe forse parere poco dicevole alla severa dignità di un Cabella l’assumere la difesa di giornali sbrigliati e faziosi quali spesso si palesavano i giornali sopra detti. Ma cessa la meraviglia quando si rammenti che il difendere un reo innanzi ai tribunali non è approvarne gli eccessi; che la difesa è prescritta dalla legge a riparare il reo dai rigori esorbitanti del magistrato accusatore; infine, che è dovere di chi milita sotto una bandiera l’aiutare nel pericolo il commilitone quando per avventura abbia ecceduto o fallito. XXXIII. Rieletto deputato, nella tornata 7 febbraio 1855 oppone un potente discorso al disegno di legge relativo all’alleanza del Regno Sardo con l’Inghilterra e la Francia contro la Russia. Intanto pel nostro Cittadino venivano cessando le ragioni che gli avevano interdetto di continuare più oltre l’esercizio del mandato rappresentativo perchè già coi primi del dicembre 1851 il telegrafo elettrico tra Genova e Torino trasmetteva dispacci a servizio del pubblico, e poco appresso cioè il 19 febbraio 1854 si doveva inaugurare in Genova l’apertura della strada ferrata fra le due città: meravigliose invenzioni che ridonando ai cittadini il tempo prezioso che le distanze toglievano, gli offrivano modo di conciliare onestamente i suoi doveri parlamentari coi professionali. Onde quando ai nuovi comizi dell’8 dicembre 1853 i cittadini del nostro IV collegio gli riconfermarono la maggioranza dei loro suffragi contro il march. Orso Serra, il Nostro riaccettò di buon grado l’onorevole ufficio. (1) Cfr. Risorgimento Italiano, Dizionario illustrato, cenno biogr. su C. Cabella, 231 Erano a Genova eletti insieme con lui Vincenzo Ricci, Michele Casaretto, Giorgio Asproni, Vincenzo Polleri, Damiano Sauli e Lorenzo Pareto: tutti oppositori del Ministero. Il Cavour, presidente del Consiglio, ne scriveva ironicamente al suo amico banchiere di Genova il 12 dicembre: « Gènes doit ètre fière da résultat de ses élections. Je lui en fais mon compliment ». E al march. Emanuele D’Azeglio: « Les seuls faits fàcheux ce sont les élections de Génes. Non que les représentants nommés par les rouges de cette ville, soient des adver-saires bien redoutables, mais parce que leur nomination est un indice du mauvais esprit qui règne dan3 cette ville. Cet esprit mauvais n’est ni révolutionnaire ni républicain. C’est, tout simplement, un esprit de municipalisme, étroit, mesquin et jaloux. Les Génois ont élu Cabella, Asproni, etc. non pas à cause de leurs opinions avancées, mais pour faire une niche au Piémontais (1) ». Non voglio dire del tutto ingiusto il rimprovero di municipalismo dato ai Genovesi, ma a crederli perciò biasimevoli e inescusabili occorrerebbe provare che di questa taccia andavano immuni e puri i soli Torinesi, e che un popolo uso da secoli a viver libero e a governarsi da sè, quale il genovese, doveva essere favorevole a un governo di cui nessun deputato genovese faceva parte fin dal 27 marzo 1849. Giova anche notare come il grande statista chiama fatti odiosi le elezioni di Genova solo perchè riuscite contrarie al suo Ministero, e gli eletti dice uomini rossi e d’idee avanzate perchè pur non essendo nè rivoluzionarii nè repubblicani nè perciò temibili, erano semplicemente tinti di municipalismo! Oggi col progresso certe parole hanno acquistato ben altra ampiezza di significato! Il 1.0 aprile 1854 Francia e Inghilterra avevano stretto alleanza per l’integrità dell’impero Ottomano minacciato dalle brame conquistatrici della Russia, e dichiarato che accetterebbero l’alleanza delle altre potenze che desiderassero aderirvi. L’Austria si dichiarava neutrale perchè debitrice della sua salvezza alla Russia intervenuta contro la ribèlle Ungheria nel 1849 e perchè la Russia rappresentava in Europa il principio dispotico più assoluto di cui lAustria era tenacissima fautrice, e d’accordo con la Turchia e con le potenze europee occupava i principati danubiani a condizione di abbandonarli al termine della guerra. Dopo le prime ostilità i gabinetti di Londra e Parigi avendo aperto trattative d’alleanza col Piemonte, se ne insospettì Francesco Giuseppe che stipulò subito una convenzione con le (1) N. Bianchi, La Politique du Comte de Cavour, pag. 22. 232 due potenze occidentali obbligandosi a nulla concludere con la Russia senza prima essersi accordato con loro, e a intendersi anclie con loro a tempo opportuno circa i mezzi più efficaci di ottenere la pace. L’Austria così, con la mediazione armata, seguiva la sua consueta e scaltra politica di dominare gli eventi. Per noi che speravamo di veder unite Austria e Russia per poter combattere un’altra volta contro la nostra odiata tiranna e ottenere dopo la vittoria compensi e rivendicazioni territoriali, fu questa una disdetta. E ciò non di meno e non ostante l’avversione del paese che avrebbe voluto mandare i suoi soldati per l’Italia in Italia, e non pei Turchi in lontani paesi; nobilmente reietto dal La Marmara lo stipendio offerto alle nostre truppe dallTnghilterra, re V. Emanuele e Cavour, fidenti nell’avvenire, conclusero l’alleanza del 10 gennaio 1855. Restava la sanzione della Camera, dove s’accese una potente e luminosa discussione degna in tutto della gravità del tema e della sapienza di quella patriottica rappresentanza, e dove il nostro Cittadino oppugnò le proposte ministeriali con un discorso a cui propongo brevi considerazioni. Il Bensa nella Commemorazione citata parlando di questo discorso aggiunge: « Gli eventi con prudente audacia preparati dal Conte di Cavour, e secondati di prospera fortuna, diedero ragione allo statista piemontese; e Cesare Cabella, anima schietta se mai ve ne fu, si compiaceva riconoscerlo lealmente ». Con la riverenza dovuta al nostro preclaro cittadino io vedo in quest’atto del Cabella un’altra prova di quella remissiva modestia che formava uno dei più bei pregi morali di chi tanti ne possedeva, ma non mi so indurre a consentire ch’egli perciò avesse fallito nel giudizio espresso in Parlamento intorno alla convenienza del nostro intervento nella guerra di Crimea. Che quest’alleanza sia stata nel Cavour un felice lampo di genio precursore, superiore all’intuito delle menti comuni era, per vero, fino a poco fa, l’opinione comune, nata in parte da una esagerata e male applicata valutazione della potenza della verità notificata al mondo, qual fu quella delle condizioni d’Italia ricordata dal Cavour al Congresso di Parigi, in parte dall’aver attribuito al nostre gratuito intervento nella guerra di Crimea a fianco dell’Inghilterra e della Francia i fortunati eventi che con l’aiuto francese indi a poco, nel '59 e nel 60, ci diedero finalmente una patria. Studi più accurati e nuovi e più copiosi documenti ci han dimostrato erronea questa opinione che peccava del post hoc ergo propter hoc. Osserviamo: il La Marmora ministro della guerra, il Paleocapa dei lavori pubblici si dichiararono da principio recisamente contrarii all avventura di Crimea; Rattazzi, degl’interni, benché non ostile, 233 hòn era favorevole; Dabormida, degli esteri, mente chiara e diritta, poste tre chiare condizioni compensative all’intervento del Piemonte, quando intese che a nessuna di esse l’Inghilterra e la Francia volevano obbligarsi, si ritirò e cedè il Ministero a Cavour presidente; e l’alleanza e l’intervento si deliberarono senza speranza di retribuzione alcuna. L’impresa era dunque avventurosa e aleatoria; nè la sperata risurrezione del decaduto onore delle armi piemontesi nè la sperata efficacia del nostro ausilio potevano darci lieto affidamento perchè quell’egoismo ferreo che spingeva le due potenze a negarci ogni ragionevole compenso quando più pressante le stringeva il bisogno del nostro concorso, toglieva al Piemonte ogni illusione di poter cogliere alcun frutto dagli eventuali successi delle sue armi allorquando le _ potenze, finita la guerra, non avessero più sentito il bisogno nè veduto altra necessità di mostrarsi grate del beneficio ricevuto. Nè merita fede che Napoleone sia mai stato indotto a darci l’aiuto del ’59 dalle prove delle nostre truppe in Crimea o dalle parole pronunciate dal Cavour al Congresso di Parigi o dalle abili negoziazioni diplomatiche del Piemonte, perchè già nel gennaio, nel febbraio e nel settembre del 1852, come consta da positivi documenti, Napoleone aveva già spontaneamente e chiaramente manifestato il proposito di aiutare l’Italia, cioè prima che la quistione della Turchia, che cominciò nel gennaio del 1853, si agitasse tra le nazioni (1). Anzi, secondo assevera Michelangelo Castelli, Thiers diceva al Cavour ch’egli già nel 1849 aveva avuto incarico da Napoleone presidente della Repubblica, di prononcer la parole de guerre quando l’Austria avesse persistito a chiedere eccessive indennità dal Piemonte. E non me ne meraviglio: s’avverava ciò che essendo nel corso naturale delle cose era preveduto da ogni pensatore e, come vedemmo, si trovava già scritto come vaticinio fatidico nella Nota dell’11 ottobre 1814 presentata dal nostro ambasciatore Antonio Brignole-Sale al Congresso di Vienna. Quest’aiuto prestato all’Italia contro l’Austria fruttava a Napoleone: 1° la Savoia, terra francese; 2° Nizza, terra italiana; 3° l’egemonia sull’Italia; 4° la via del trono di Napoli aperta al principe Achille Napoleone Murat e quella del trono di Toscana al proprio cugino Gerolamo Napoleone, ciò che avrebbe dato tutta l’Italia in braccio alla Francia; 5° un nuovo e più luminoso incremento della gloria militare francese perchè riportato sull’Austria ossia sulla nazione (1) Cfr. C. Tivakoni, L'Italia degl'Italiani, voi. I, p. 368; A. La Marmora, Un epi-iodio del lìisor. ital. p. 187. 234 allora la più forte ed agguerrita, ed il conseguente accrescimento della preponderanza di Francia in Europa; 6° l’assicurato consolidamento del suo trono, provenutogli da un proditorio colpo di Stato, e l’amore e il favore del popolo francese non propenso a premiare colla corona se non chi gloria e conquiste gli regali (1). Altri aggiunge il plauso delle sette rivoluzionarie italiane alle quali Napoleone nel 1830 si sarebbe legato con giurate promesse e della cui volontà lo avrebbero terribilmente ammonito nel gennaio del 1858 le bombe di Felice Orsini. Vantaggi, come si vede, così grandi e capitali che innanzi ad essi spariscono tutti i creduti effetti della nostra azione ausiliare in Crimea. Fermo il fatto che Napoleone, in vista di tanto tornaconto, nutriva l’idea d’intervenire a nostro favore contro l’Austria, le parole di Cavour al Congresso di Parigi, da troppi considerate causa efficiente dell’aiuto francese del ’59, a chi chiaramente considera non appaiono altro che nobili e magnanime proteste dei nostri dolori e dei nostri diritti condannate dall’egoismo politico a rimanere voci sterili e inascoltate. E male a proposito il Cavour nel suo discorso del 26 gennaio invoca la nota sentenza del Machiavelli intorno al grave pericolo impendente alla nazione che essendone richiesta nega la sua alleanza e il soccorso armato all’una e all’altra delle due nazioni venute a conflitto, perchè lasciando stare che l’Inghilterra e la Francia dichiarando fin da principio di non volerci retribuire nessuno dei tre compensi domandati dal ministro Dabormida e rifiutandosi al contratto del do ut des, facio ut facias, toglievano a noi ogni ragion di dare, a sè ogni ragion di ricevere, e quindi anche di concepir rancore e meditar vendette, per Napoleone III con la mancata nostra prestazione non sarebbe venuto a mancare alcuno dei vistosi accennati ■ vantaggi che realmente esistevano, e ch'egli avvedutamente si riprometteva e che in ogni modo dovevano sempre animarlo alla campagna d’Italia. Nè, come altri opinò, la nostra ricusazione avrebbe mosso le due potenze occidentali a dar mano libera all’Austria contro di noi, perchè, come tutti sappiamo, in quel tempo l’Inghilterra, la Francia e l’Austria erano, per diverse ragioni, gelose l’una dell’infiuenza dell’altra in Italia, nè 1 una avrebbe mai consentito che l’altra per qualsivoglia ragione (1) Occorre dunquO una bella dose di puerile ingenuità per credere che, come afferma il d Harcourt nel libro Les qualre ministères de monsieur Droui/n de Lui/s, « Na-poleon III a été pendant la plus grande partie de sa vie sous le joug des rèminiscenses de sa jeuneste ». Chi potrebbe ammettere culto d’ideale altruismo in un coronato dei tempi e nelle condizioni di un Napoleone III? 235 vi prepotesse. Le benemerenze dell’Italia verso gli alleati aprirono, è ben vero, l’aula del Congresso di Parigi al Cavour che vi potè proclamare la necessità europea della soluzione della quistione italiana, ma la storia della politica e della diplomatica c’insegna, ed oggi poi ci conferma nel modo più obbrobrioso, qual conto si faccia dai pienipotenti dei diritti dei popoli oppressi quando l’assumerne la difesa e il rivendicarli non corrisponde al loro ben certo e positivo e più che sovrabbondante interesse assicurato e guarentito da contratti obbligatorii formalmente e saldamente stipulati. Storici compiacenti e oratori encomiasti osservarono che le dichiarazioni del Cavour al Congi’esso produssero per lo meno questo frutto che porsero occasione a Napoleone di giustificare all’Europa il soccorso che ci recava nel ’59. Ma le occasioni, quando punge lo stimolo di un potente interesse, se non esistono si creano con tutta facilità, e cento ne avrebbe senza dubbio trovato l’imperatore francese ove la scaltra avvedutezza del nostro Cavour non lo avesse liberato dal fastidio di cercarle. Mette conto riferire in proposito le assennate conclusioni del Tivaroni: « Gli adulatori per lungo tempo hanno insistito nel proclamare come una grande gloria di Cavour l’aver voluto la guerra di Crimea, e l’aver fatto porre in discussione al congresso di Parigi la causa italiana. L’esame pacato degli avvenimenti stabilisce invece che la guerra del 1859 si sarebbe fatta lo stesso anche se il Piemonte non fosse andato in Crimea, anche se Cavour non avesse parlato al Congresso al quale si recava con la speranza di ottenere qualche annessione e dal quale tornava deluso e sconfortato. Infatti dei due alleati del 1855 l’Inghilterra si rifaceva subito dopo amica dell’Austria, e Napoleone III avrebbe fatto la guerra all’Austria anche senza l’alleanza del Piemonte nel 1855, perchè entrava nei suoi interessi, nei suoi piani e nelle sue tradizioni, e il Piemonte l’avrebbe fatta nella stessa maniera. Altri elementi ponevano ogni giorno in Europa la quistione d’Italia, dai congiurati di Mantova ai militanti di Sapri, in modo che nessuno poteva ignorarne la gravità. Cavour senza dubbio spiegava a Parigi una coraggiosa insistenza ed una grande abilità sapendo approfittare di tutto per non perdere ogni cosa, ma ormai si può concludere che i 75 milioni della spedizione di Crimea sarebbero stati meglio impiegati in cannoni e fucili, e che il Congresso di Parigi dava, come scriveva Cavour stesso, risultati sterili, alcune parole, una parte delle quali inutili » (1). (1) Cfr. C. Tivaront, op. cit. voi. I pag. 445. 236 Ma tutti i liberali italiani applaudirono all’opera generosa del Gavour a Parigi: Roma gl’inviava una medaglia d’oro, e la gentil Toscana, facendosi interprete della gratitudine d’Italia tutta, gli inviava effigiato in marmo le sembianze di Colui che la difese a riso aperto; il Re gli conferiva il Collare della S.S. Annunziata; la Camera quasi unanime il 6 maggio approvava una mozione di fiducia in favore del ministero per la sua politica nazionale; il 10 maggio anche il Senato accoglieva, quasi concorde, un simile ordine del giorno di Massimo d’Azeglio: si sarebbe dunque la patria nostra così commossa per un insuccesso? Rispondo: era ben naturale quel senso di riconoscenza verso-l’autore di sforzi e tentativi così nobili e patriottici; ma ciò non prova ch’essi dovessero recare e recassero infatti i frutti creduti o sperati. Anche questo confessava lo stesso Cavour scrivendo il 9 maggio 1856 al Sig. D’Olozaga ministro di Spagna a Parigi: « Les chambres et le pays paraissent apprécier les efforts que nous avons fait à Paris, et juger notre condui te plus d’après eux que d’après les résultats par nous obtenus » (1). E nondimeno la guerra per se stessa, qualunque ne sia l’esito, quando miri a generoso fine e sia valorosamente combattuta, è sempre la prova dei forti, esercita le forze del popolo, ne educa il carattere, ne accresce la riputazione. Di questa verità era convinto re V. Emanuele che disceso da principi cresciuti in potenza con le armi, ardeva di lavare odi attenuare almeno l’onta di Salasco e di Novara, aumentare le benemerenze del Piemonte verso il resto d’Italia e costituirlo definitivamente capo e direttore militare e politico del moto unitario italiano. Ma, per dir vero, la superiorità direttiva del Piemonte era già stabilita fin da quando il re galantuomo aveva giurato fede allo Statuto paterno, tanto che fin d’allora i liberali italiani tenevano fisso lo sguardo al Piemonte come a faro di salvezza e in Torino e in Genova trovavano fin d’allora rifugio ospitale e uffici pubblici e privati quanti patrioti non volevano ripiegare il collo alla rinnovata tirannide dei propri governi. Anche da questa parte adunque il profitto sperato non pareggiava il dispendio di sangue e di denaro a cui il Regno Sardo andava incontro. Il Cavour nella memorabile seduta del 16 aprile 1858 affermò che se il nostro intervento nella quistione d’Oriente non aveva avuto (1) Cfr. E. Mayor, Nuove lettere ined. del Conte Camillo di Cavour. E al march. Em. D’Azeglio ambasciatore del ile di Sardegna a Londra, il 5 apr. 1856: - Mardi nous partirons, le pive plus ou moins nel sacco •. 237 risultato materiale, ne aveva acquistato uno morale notevolissimo: la cresciuta riputazione del Piemonte in Europa e la propagata simpatia per la causa italiana in tutto il mondo. Ma la natura umana e la storia di tutti i tempi c’insegnano che la riputazione morale è merce che poco vale sui gelidi mercati della politica e della diplomazia dove unico sentimento prevalente è l’egoismo, unico argomento conclusivo il cannone. E se la simpatia valesse qualche cosa nei congressi delle nazioni, qual causa più nota e più santa in Europa che la causa della povera Polonia vittima boccheggiante sotto il calcagno di tre carnefici? Ma dato pure che questo risultato morale siasi ottenuto, qual prudenza politica poteva a quel tempo consigliare in vista di un ipotetico vantaggio morale, un’avventura così avventata e temeraria? Se infine consideriamo che il Cavour, illustratosi in fatti posteriori, prima di quella guerra non aveva ancora nome nè autorità da giustificare una fede particolare nella legge da lui proposta, non è punto da stupire che la considerazione di tante e sì gravi contrarie ragioni abbia mosso a combattere in parlamento il trattato di alleanza molti alti intelletti e specchiate coscienze di ogni partito, quali, (non contando il Brofferio che, salve le solite esagerazioni, parlò molta eloquenza), Giuseppe Biancheri, il nostro Michele Casaretto, Gustavo Cavour fratello di Camillo, Agostino Depretis, il nostro Paolo Farina, Filippo Galvagno, il nostro Francesco Palla vicino, Giorgio Pallavicino-Trivulzio, i nostri Lorenzo Pareto e Vincenzo Ricci, Giuseppe Saracco, Riccardo Sineo, Sebastiano Tecchio, Lorenzo Valerio, G.B. Michelini, L. Federico Menabrea. In Senato il trattato veniva combattuto da Vittorio Colli di Felizzano, da Alberto Ricci, da Federico Sclopis, dai nostri Giorgio Doria e Giuseppe Cataldi, da Vittorio Amedeo Sallier Della Torre, da Cesare Trabucco di Castagneto, da Giuseppe Musio. E neppure è da stupire se, come afferma l’Arbib, il discorso con cui nella tornata del 6 febbraio il Cavour confutava le obbiezioni degli avversarli e rincalzava le proprie argomentazioni, « fu accolto senza un applauso, senza una parola di simpatia (1) ». Il trattato di alleanza anglo-franco-sardo fu approvato il 10 febbraio alla Camera elettiva con 95 voti contro 64; alla Camera vitalizia il 3 marzo con voti 52 contro 27; ma neppur questa magra maggioranza avrebbe ottenuto se l’opera sollecitante del capo del (1) Cfr. Ed. Arbib, Cinquantanni di Storia Parlamentare del Regno d'Italia voi. II, 5* legislatura. 238 governo, già di per sè potente, non era corroborata dalla dichiarata volontà di re V. Emanuele, e la prerogativa sovrana non avesse mosso a suffragare la proposta ministeriale buon numero di altre ritrose volontà. Il Chiala stesso confessa che il trattato veniva votato dalla maggioranza di tutti e due i rami « piuttosto per un vivo sentimento del dovere, che non perchè fossero intimamente persuasi dei vantaggi sperati * (1). Ciò premesso, vorrebbe giustizia e sarebbe pregio dell’opera ch’io recassi qui per intero il magistrale discorso pronunciato dal nostro Cabella nella tornata del 7 febbraio come saggio della sua eloquenza parlamentare e documento del suo senno politico; non me ne voglia male il lettore se dovere di brevità altro non mi consente che di esibirgli gli argomenti sommarii delle varie parti in cui parmi poterlo dividere. I. Cause che inducono l’oratore a parlare. II. Il discorso del Presidente del Consiglio ci da fondata ragione di dubitare che l’adesione al Trattato sia stata domandata al Piemonte dall’Inghilterra e dalla Francia come garanzia richiesta dall’Austria. III. Nelle presenti circostanze ottimo dei partiti la neutralità armata. « Si dice dal Ministero, nel proemio del progetto di legge, essersi fatta l’alleanza perchè si richiedeva una prudenza ardita e generosa, non una prudenza timida e corte, calcolatrice. » Anche a me piacciono i partiti animosi; anch’io detesto le mezze misure che non salvano le nazioni, ma le traggono a rovina. Non temete da un genovese consigli codardi; egli smentirebbe la storia della sua patria. (Bravo!) Ma i partiti animosi solo sono buoni nei grandi pericoli, nei supremi momenti in cui altro non v’ha che, o cedere vilmente o generosamente resistere ». IV. La ragione e la storia c’insegnano che il Piemonte ha da temer meno dalla Russia che dalle potenze occidentali. V. Date e conosciute le speciali condizioni del Piemonte, il rimanere soli ma armati non può crearci pericoli dalle potenze europee. VI. Danni che all’economia, al commercio, alle finanze del Regno Sardo deriverebbero da una guerra contro la Russia. (1) Cfr. L. Chiala, Lettere di C. Cavour, voi. II. 239 VII. Gravi pericoli a cui ci espone la convenzione militare. Vili. Chi può approvare una guerra senza compensi? Nè questa è guerra di principii donde possano nascere a noi meriti e vantaggi morali: è conflitto di due potenze rivali, Inghilterra e Russia, con-tendentisi l’impero del mondo. IX. L’incertezza dei casi imprevedibili della presente guerra ci doveva consigliare l’aspettazione prudente. X. L’on. Durando mette in campo l’antica politica subalpina: conquistare per via di utili alleanze; ma oggi si vuol seguire la politica italiana e nazionale di rivendicazione già inaugurata dal Piemonte nel 1848, e che oggi malamente da noi si abbandona. Si confuta un ultimo errore dell’on. Durando. « L’orazione, dice il Bensa, è tal monumento di politica eloquenza per logica stringente, per forma splendida che leggendola a 33 anni di distanza (oggi potremmo dire a distanza di 67 anni) noi che siam nati a fatti compiuti, non possiamo non rimanere profondamente scossi e quasi direi persuasi ». Giudizio suffragato dall’autorità di gravi storici. « Cesare Cabella, scrive l'Arbib, tornato alla Camera dopo una lunga assenza, combattè il trattato senza un’ombra di asprezza, ma con argomenti atti a produrre il più vivo senso in un’assemblea politica. Accostandosi al Revel, col programma del quale nulla aveva di comune, anche il Cabella, abilmente raffrontando le date, sostenne che l’alleanza fu chiesta al Piemonte per compiacere all’Austria, e che pertanto significava abbandono della politica nazionale. Era questo invero lo strale più potente contro il trattato d’alleanza..... Verosimilmente le parole del Cabella tanta presa fecero sulla Camera che il Cavour subito tentò ribatterle » (1). Infatti per dissipare il senso di sgomento prodotto sull’assemblea dal 2° punto del riferito discorso, il Cavour prese subito la parola e pur notando la gentilezza dell’ avversario, cercò chiarire la strana corrispondenza di fatti e di tempi. Al Cavour soccorse quindi il Farini, l’insigne storico, con un’arringa ricca dei lumi della più elegante eloquenza. Ma il grande statista che, perfetto politico, sapeva tutte le maniere di guadagnarsi gli animi, sciolta la seduta e uscendo dall’aula, s’accostò al nostro oratore e ricominciò a conversar con lui sul dibattuto argomento ; poi, uscendo dal palazzo Carignano, se lo (1) E. Arbib, op. cit. voi. II. pag. 38. 240 prese a braccetto e fece seco lui buon ti’atto di strada per veder di convertirlo alla propria causa. Ma il nostro genovese, che poi confidò il fatterello a’ suoi amici, si mostrò incrollabile nelle pi’oprie convinzioni e continuò a sostenerle sino alla fine col presidente del Consiglio. XXXIY. Un diverbio Lanza-Cabella. Il Cabella cade nelle elezioni del novembre 1857. Le infinite occupazioni non permisero al Nostro di intervenire alle altre sedute parlamentari del 1855. Vi tornò nel febbraio del 1856 per. prender parte alla discussione del progetto di legge sul riordinamento della tassa patenti. A questo proposito merita esser riferito il diverbio, unico nella sua vita parlamentare, a cui fu contro sua voglia trascinato da un erroneo significato dato dal mal disposto Lanza, reggente le finanze in luogo del Cavour, a certe sue parole che, considerata l’infiammabilità della Camera su certi argomenti, avrebbero dovuto essere forse anche più esplicative ed escludenti ogni dubbiezza. Adunque nella tornata del 28 febbr. 1856 si discuteva la detta legge di riforma della tassa sulle patenti di esercizio industriale, commerciale e professionale, da durare non più di un anno. Ora il Cabella proponeva che dall’aggravio fossero esonerati non solo i contribuenti più poveri contemplati nel disegno di legge, ma ancora certe altre classi di esercenti meno agiati la cui aliquota d’imposta ascendeva a meno di L. 20; il che avrebbe prodotto una diminuzione di forse 300 mila lire al reddito previsto. E concludeva: . « Se lo Stato dovesse anche perdere in un anno la somma di 300 mila lire a sollievo degli esercenti più poveri, credo che questa somma sarebbe altrettanto bene spesa come i 74 milioni impiegati per la spedizione d’Oriente. (Rumori). Uno stato che può fare la spesa di 74 milioni in due anni, può anche perdere 300 mila lire per sollevare i più infelici tra i contribuenti »; Lanza — «... Mi si permetta però di rispondere che il suo confronto che ha voluto fare tra la riduzione di 300 mila lire a favore delle classi povere coi 74 milioni ch’ella dice essersi spesi per la spedizione d’Oriente, non lo trovo nè opportuno nè dignitoso. La spedizione d’Oriente è a quest’ora una illustrazione del paese e d’Italia e non è permesso al deputato Cabella nè a chiunque di fare in questa As- 241 semblea dei confronti i quali tendono a menomare la gloria che si è acquistata la nostra armata ». (Vivissimi segni di approvazione). Cabella. — « Domando la parola per un fatto personale. Io non potevo immaginare che le mie parole potessero essere intese nel senso di affievolire la gloria delle nostre armi. La Camera conosce quali sono i miei sentimenti riguardo alla spedizione d’Oriente, da me espressi altamente in questo Parlamento all’epoca in cui quella spedizione fu votata; ma colle parole pronunciate poc’anzi io volli dire soltanto che uno stato il quale può fare una spesa straordinaria di 74 milioni in due anni, può ben sopportare in un anno a sollievo dei contribuenti 800 mila lire di perdita sopra una delle sue rendite ». (Bravo, bene; segni di approvazione a sinistra). Lanza persiste nel dire ingiusto e intempestivo l’emendamento Cabella, e conclude: « Io credo che nessun deputato, particolarmente di quelli che si professano dei più liberali, possa decentemente fare una opposizione viva e sistematica a tale progetto di legge ». Cabella. — « Domando nuovamente la parola per un fatto personale. Io ho protestato fin da principio che il mio discorso non era di opposizione. Non so come io possa essere accusato di opposizione sistematica; avvertii anzi che la mia proposta enti’ava nei disegni del Ministro; che si trattava soltanto di estendere ad altri esercenti il beneficio che il Ministero riconosceva per alcuni conveniente. In una quistione se una esenzione debba limitarsi alla cifra di 15 o di estendersi a quella di 20, non so come c’entrino i rimproveri di un’opposizione sistematica. Io li respingo, li respingo fieramente ». (Bravo!). Parlò poi in altre successive sedute intorno allo stesso disegno di legge suffragando con valide ragioni gli emendamenti proposti da colleghi, principalmente quelli del Pareto e del Casaretto. Fu anche presente alla Camera la primavera del 1857 dove nella tornata 5 maggio parlò contro il disegno di legge ministeriale sul trasferimento della marina militare da Genova alla Spezia. Disse delle spese occorrenti a questo trasferimento dimostrandole di molto superiori a quelle presunte dalla Commissione in 15 milioni, e impugnando la necessità e l’opportunità della legge proposta. Se non che il discorso di Cabella e de’ suoi aderenti avendo dovuto necessariamente entrare tanto quanto nel merito della quistione tecnica e della spesa preventiva, si trovò di fronte la meravigliosa perizia tecnica di quel colosso d’ingegnere che fu Pietro Paleocapa Ministro dei lavori pubblici, il quale con un discorso potente d'irresistibile dottrina ebbe 16 242 facile e completa vittoria di tutti gli oppositori; e la legge fu approvata l’8 maggio con voti 94 favorevoli e 52 contrarii (1). Sciolta la Camera con Decreto 25 ottobre 1857 e indette le elezioni pel 15 e 18 del successivo novembre in tutto il Regno Sardo, fu una generale levata di scudi dei clericali e dei moderati a forze congiunte contro il liberalismo ministeriale e parlamentare, gli uni irritatissimi per le leggi ecclesiastiche, gli altri per le crescenti agitazioni mazziniane di cui la spedizione di Pisacane e i moti di Genova erano esempi recenti. Lotta viva, accanita che fini col pieno trionfo dei clerico-moderati: novanta deputati uscenti non più eletti; parecchi alti uomini di stato caduti; Rattazzi e Lanza in ballottaggio, La Marmora pericolato; perfino Cavour riuscito con scarsa maggioranza nel 1° collegio di Torino. A Genova l’avv. C, Leopoldo Bixio batteva Garibaldi e, cosa ben singolare, nel IV collegio i clerico-moderati posero candidato antagonista al nostro Cabella il vecchio prof. Cesare Parodi, cioè lo zio, il maestro e il suocero di lui; con quanta riverenza per l’uno e per l’altro giudichi il lettore. Vinto Cabella, eletto Parodi. Si ebbe una Camera non più veduta (2). XXXV. Difende gl’imputati del moto mazziniano seguito a Genova l’estate del 1857. Col sentimento nazionale progrediva in Genova di pari passo anche il sentimento e il proposito repubblicano. Di attivi e forti repubblicani, come s’è detto, era composta la fiorente Società del Tiro a segno. Nel 1855-56, promossa da Maurizio Quadrio, s’era costi- ci) Il Pareto presentendo la sconfitta aveva sollecitato il Cabella a partire per Torino per sostenere alla Camera le vacillanti ragioni di Genova, scrivendogli: * Voi che colla vostra eloquenza avete tanto potere sulla Camera •; ma il 6 maggio il Cavour così scriveva al march. Villamarina'a Parigi: « Le plus habile des orateurs génois, M. Cabella, a parlé hier. Il a été d’une faiblesse remarquable; on voyait évi-demment que la conscience d’avoir à défendre une cause perdue au tribunal de l’o-pinion publique lui enlevait ses moyens oratoires ordinaires ». (2) Dell esito inaspettato di quelle elezioni fu soprammodo sgomento il Cavour che scriveva a G. B. Oytana: « Le assicuro che una notte quale ho ora passato logora più un uomo che sei mesi di lotte parlamentari ». Non ne fu meno turbato Re V. Emanuele che nel discorso del trono 4 die. 1857 volle aggiunto l’inciso che diceva: ison dubito rinvenire in voi lo stesso forte e leale concorso nell’applicare e svolgere quei leali principi liberali sui quali riposa ormai in modo irremovibile la nostra politica nazionale ». 243 tuita in Genova una società segreta di borghesi e popolani col fine di propagarvi largamente l'idea mazziniana e preparare il popolo a prossimi moti repubblicani e unitarii. Nel giornale Italia e Popolo poi divenuto L’Italia del Popolo, organo di quella Società, «Elaboravano Maurizio Quadrio, Luigi Pianciani, Alberto Mario mazziniani puri. Con questi ed altri patrioti smaniosi di agire e di agitare era a Genova nella primavera del 1857 Carlo Pisacane duca di S. Giovanni e già ufficiale del Genio nell’esercito napolitano, repubblicano fierissimo che non vedeva l’ora di portar la rivoluzione a Napoli. Ad accelerare la divisata impresa Mazzini da Genova, dove viveva nascosto, corre a Londra a raggranellar denaro e ritorna qui nel maggio a dar principio al .suo disegno. Il Pisacane con la congiurata legione, composta di non più di 26 uomini ; dei quali tre soli erano meridionali cioè il Pisacane che la dirigeva, Giovanni Nicotera e G. B. Falcone, gli altri 23 quasi tutti di Lerici; il 25 giugno s’imbarca sul Cagliari e il 27 approda a Sapri con la speranza di sollevare il Cilento e provocare la rivoluzione in tutto il Regno. Tutti sanno la trista fine dell’ardito patriota e della sua gesta. Come il Pisacane ebbe salpato pel Mezzogiorno, Mazzini volendone assicurare la troppo dubbia impresa pensava al modo di fornirlo di altri uomini, d’altre armi e munizioni. A tal fine ordinò che alla mezzanotte fra il 28 e 29 giugno si occupasse di sorpresa il Palazzo ducale, il Palazzo Tursi, l'Arsenale militare, i punti strategici e alcuni forti; tenere a bada le autorità e la guarnigione, impadronirsi della fregata Carlo Alberto, caricarvi su armi, munizioni e artiglierìa, imbarcarvisi buon nerbo di volontarii e drizzar la prua alle coste napolitane. Il segreto trapelò alle autorità. Di questo accortisi, i direttori dell’insurrezione diramarono subito contrordini i quali non pervennero in tempo ai congiurati che dovevano occupare il forte Diamante, onde questi se ne impossessarono uccidendo il sergente Pastrone che opponeva difesa. Come questo, falliva pure un altro simile tentativo mazziniano in Livorno il di seguente 30 giugno. Ne segui un processo alla nostra Corte d’Appello istruito contro 48 imputati, tutti detetenuti, primo dei quali Savi Bartolomeo Francesco fu Francesco di anni 36 nato ed abitante in Genova, maestro di scuola di Metodo; e contro 21 latitanti tra i quali Mazzini Giuseppe avv. di anni 52, nato a Genova, dimorante a Londra; Mosto Antonio fu Paolo nato ed abitante a Genova, d’anni 32 negoziante; Stallo Luigi fu Agostino, d’anni 34 n. e ab. in Genova, negoziante; 244 Tassara Michele di Paolo, n. a Rapallo, domiciliato a Genova, sellaio; Rebisso Tomaso, scultore, d’anni 19, ed altri, prevenuti dei reati previsti dall’art. 185 e segg. del Codice penale: « per avere con direzioni, eccitamenti ed atti di esecuzione, preso parte a quella cospirazione che si tentò porre in atto nella sera del 29 giugno ultimo in questa città, avendo a tale oggetto tenuto segreti concerti e convegni, preparato armi e munizioni da guerra e formato bande armate, una delle quali avrebbe invaso il forte del' Diamante uccidendo barbaramente il sergente capo posto; del quale attentato era scopo cambiare e distruggere il governo legittimo dello Stato e costituirne un altro ». Sedevano al banco della Difesa gli avv. Cabella Cesare, Bozzo Andrea Giuseppe, Tofano Giacomo, Leveroni Luigi, Zuppetta Luigi, Carcassi Giuseppe, Castagnola Stetàno, Celesia Emanuele, Bddrini Vincenzo, Merialdi Emilio, Brusco Enrico, Bozzo Pantaleo, Gianelli Castiglione Angelo, Ronco Edoardo, Cavagnaro Francesco, Parodi Edoardo, Paganini Francesco, Romagnoli Michele, Molfino Ambrogio, Chiodo Agostino, Maurizio Giovanni. Dopo che tutti gli avvocati difensori ebbero pronunciati i loro discorsi, nella seduta del 13 marzo (1858), il Cabella prende ultimo la parola per fare il riepilogo delle difese presentate da’ suoi colleglli. L’oratore, la cui pallida fisionomia indica uno spiacevole stato di fisica indisposizione, male si regge in piedi, e il Presidente gentilmente lo avverte che la Corte lo autorizza a parlar seduto. Il difensore comincia la sua arringa con voce fioca ma intelligibile. Loda anzi tutto i suoi valorosi colleghi che avendo svolto con mirabile dottrina ed eloquenza tutte le parti della difesa, nulla gli lasciarono da fare e resero del tutto inutile il suo ufficio; e dice esser lieto che dopo le splendide difese di tanti valenti giureconsulti, nessun danno può venire agl’imputati dal trovarsi egli per la sua infermità impotente ad adempiere al suo ufficio nel modo ch’egli avrebbe desiderato. Poscia riepilogando organicamente tutte le arringhe defensionali e rincalzandole di nuove e potenti argomentazioni dimostra non esistere gli estremi che devono necessariamente concorrere all’esistenza della cospirazione, nè tampoco esistere le prove che si volesse mutare e distruggere la forma di governo; anzi espone fatti e documenti comprovanti all’evidenza che con mezzi violenti gl’imputati volevano impadronirsi delle armi non per altro che per fornire al partito d’azione i mezzi neces* sarii all unificazione d’Italia. L’oratore s’inoltrava nell’esame analitico delle accuse relative all’azione principale e alla complicità di attentato, distinguendo e distruggendo con logica inesorabile le motivazioni del ‘245 P. Ministero, quando, dopo circa un’ora di ragionamento, estenuato dallo sforzo fatto e reso impotente a proseguire il suo discorso, dichiara di rinunciare alla parola (l). (1) Cfr. Supplemento al n. 10 della Gazzetta dei Tribunali 15 aprile 1858. — Vennero condannati alla pena di morte per cospirazione: Mazzini, Mosto e Mangini Angelo confettiere, contumaci; alia pena di morte per attentato: Pittaluga Ignazio ottonaio, Casareto G. B. facchino e Lastrico Michele Andrea marinaio, contumaci; altri 28 ai lavori forzati per tempo variante da 20 a 10 anni. In virtù dell’ammistia dopo alcun tempo concessa noi vediamo non pochi di questi condannati combattere da valorosi e coprirsi di gloria sotto le insegne di Garibaldi. Nella sapiente assegnazione e direzione delle diverse energie civili che cedendo al proprio impulso uscirebbero dalla legge, consiste massimamente il senno dei reggitori di un popolo; e in ciò il Cavour meritò il plauso di tutta l’Italia. PARTE TERZA ETÀ PROVETTA I. Emigrati politici a Genova uel dodicennio 1848 60. Nel 1848, e più nel 1849, dopo i rovesci delle nostre armi e la risurrezione dei principati assoluti in Italia, salde rimanendo nel Regno Sardo le sancite franchigie popolari, i rei di sospirata libertà emigrando dalle native provincie si rifugiavano tra noi. A Torino convolavano i patrioti più propensi a queta e temperata libertà monarchica, a Genova come a città mazziniana, i repubblicani e i più risoluti all’azione immediata e rivoluzionaria. Il Cabella, non meno di qualsiasi fervoroso repubblicano, nutriva da buon genovese e da valente giurista, sentimenti e principii di reggimento popolare e antimonarchico; se non che discordava dai mazziniani in ciò che essi riputando fallacemente il popolo italiano già maturo e preparato a una insurrezione concorde e rinnovatrice, spiavano per via di congiure ogni più lieve occasione a dare il primo impulso, laddove il nostro cittadino, meglio avvisato dalia Storia e dalla verità effettuale delle cose, non vedeva potersi raggiungere nè unità nè libertà senza opporre agli eserciti stranieri grandi forze militari organiche e disciplinate quali in Italia non si avevano che nel monarchico Piemonte il quale, con la libertà statutaria largita e fedelmente mantenuta da savi principi, s’era fatto capo del movimento unitario italiano. Inoltre, se, come già i nostri diplomatici genovesi avevano intravvi-sto, il Piemonte e la Liguria insieme congiunti formavano il primo e più forte nerbo italiano che doveva operare l’unità e la libertà nazionale, che altro avrebbe fatto la repubblica se non gettar la divisione tra i due stati e renderli impotenti al compimento del loro fatale mandato? Ammirando a giusta ragione la magnanimità di C. Alberto e la lealtà di V. Emanuele, non perciò si accostò mai alla corte o domandò mai favori regii, anzi non ebbe mai col sovrano altri rapporti che quelli dell’ossequio le rare volte che dovere di convenienza o di ufficio glielo imponevano. Coi repubblicani di Mazzini consentiva dunque nei principii, dissentiva nei mezzi; ma perchè egli professava apertamente con tutti queste sue convinzioni, riscuoteva di tutti i patrioti di qualsiasi fede politica non solo il rispetto e la stima ma anche l’affettp e l’amicizia. Ond’è che con molti patrioti emigrati a Genova nel dodicennio 1848-60 ad attendervi e a prepararvi giorni migliori egli strinse amichevoli rapporti e calde amicizie secondo più o meno trovava in loro accoppiati con la vigorosa fermezza dei propositi patriottici l’integrità della vita e la gentilezza dei sentimenti. Comunanza di sorte, di principii, d’aspirazioni stringevano questi profughi dimoranti a Genova con vincoli di fraterna amicizia e di mutua assistenza, come già i patrioti italiani a Parigi nel 1831. La maggior parte di essi non possedendo beni di fortuna provvedevano a se stessi con utili occupazioni, vivendo con la massima parsimonia e tenendosi lontani da svaghi e divertimenti; cosi la storia avvera ancor sempre il detto di Lucano paupertas fecundci virorum. La prima società formatasi fra gli emigrati tra noi fu VAssociazione deWemigrazione italiana per assistere i malati di colera in Genova, nata il 4 agosto 1854, con sede in Vico S. Pancrazio, palazzo Calzio, n° 629, 3° p., allo scoppio della terribile epidemia. 1 medici emigrati, tra i quali Agostino Bertani di Milano, dott. Giglioli di Modena, dott. Pasquali di Ancona, dott. Vincenzo Carbonelli di Bari, dott. Giuseppe La Loggia di Palermo, dott. Rossi di Parma e dott. Achille Sacelli di Mantova, diedero volenterosamente e gratuitamente l’opera loro. E quest’opera benefica degli esuli fratelli non si stringeva nel solo proprio ambito, ma si effondeva generosa a prò della più bisognosa popolazione genovese, onde n’ebbero gratitudine dalle famiglie soccorse e pubblico elogio dal nostro sindaco avv. Domenico Elena e dalla stampa locale. Cessato il colera, figlia ed erede della sopra detta Associazione nacque il 1° dicembre 1854 la Solidarietà nel bene tra gli emigrati, così nominata a proposta del socio Angelo Bargoni perchè aveva per iscopo primo la fratellanza e la mutua assistenza in ogni bisogno della vita, istruzione, consigli, aiuti materiali e morali; per iscopo secondo e maggiore, di stringere in un fascio tutte le forze vive degli esuli a meglio e più presto conseguire l’unità della patria italiana. A questo fine, alla sede sociale, sita in un appartamento di Via S. Sebastiano n. 7 di proprietà dell’avv. cav. Giuseppe Moro, sublocato alla Società dal Sig. Giuseppe Giavotto noto negoziante 251 di vino, era annesso un Gabinetto di lettura e conferenze ricco di oltre 90 giornali tra italiani e stranieri, tutti gratuitamente forniti dalle rispettive direzioni (1). Quanti gloriosi spiriti ospitò Genova nostra in quel laborioso dodicennio, quali già illustri per opere egregie, quali che dovevano poi o in Parlamento o nelle guerre del patrio riscatto o negli alti gradi dell’esercito o in altre opere civili render chiaro il loro nome! E di che severe virtù private tanto più ammirabili quanto più modeste davano imitabile esempio ai nipoti! Giacomo Medici nato a Milano di umili natali, era impiegato nella Ditta Caprile e Franzini commerciante di legnami che aveva scagno in Via S. Luca; Agostino Bertani riputato medico milanese, insigne patriota repubblicano, amicissimo di Mazzini e di Garibaldi, esercitava l’arte salutare abitando in Via Nuovissima, ora Cairoli, nella casa n. 15 ove oggi è apposta lapide memorativa; i fratelli Bronzetti trentini: Narciso, da Garibaldi appellato prode tra i prodi, morto a Treponti il 15 giugno 1859; Pilade, caduto eroicamente al Volturno; i fratelli Ca-dolini cremonesi: Pietro, il maggiore, che combattè nelle cinque giornate di Milano e a Uoma alla difesa del Vascello; Giovanni che, conseguito alla nostra Università il diploma di architetto civile e ingegnere idraulico e percorsa sotto il Medici tutta la carriera garibaldina, fu a lungo deputato poi senatore: autorevolissimo come uomo politico e scienziato; Vincenzo Carbonelli medico barese, più tardi deputato e direttore del giornale genovese II Movimento; Giacomo Griziotti pavese, dei Mille; e dei Mille Achille Maiocchi lombardo che lasciò un braccio a Calatafimi e fu poi lungamente deputato; dei Mille Luigi Miceli cosentino che fu alla difesa di Roma nel 1849, più tardi a lungo deputato, poi Ministro di agricoltura industria e commercio, e che a Genova per vivere dava lezioni private di Diritto; Enrico Cosenz di Gaeta che col Medici e il Bixio ripartirà i trionfi dell'epopea garibaldina, e sarà deputato e senatore; i quattro fratelli Luigi, Paolo, Salvatore e Giuseppe Orlando abitanti la villa ZZ Paradisino in Albaro, benemeriti per prodigati soccorsi agli emigrati e per incremento dato all’industria navale italiana; Giuseppe Natoli barone messinese, avvocato molto stimato dal Cavour, deputato al Parlamento siciliano del 1848, poi del primo Parlamento nazionale, senatore, Ministro di agricoltura industria e commercio, poi dell’istruzione pubblica; Alberto Mario milanese, (1) Cfr. Attilio Loero, Oli emigrati politici in Genova nell'epoca del Risorgimento, Bologna, Zanichelli, 1911. soldato e scrittore ed uno dei più illustri fautori dell’idea mazziniana; Salvatore Calvino siciliano, poi uno dei Mille, a Genova per vivere dava lezioni di Matematica; fatto deputato, lottò un decennio con la povertà tinche il bisogno e la dignità lo indussero a dimettersi nel 18< ] ; fu Commissario R.° a Genova l’estate del 1878; finì Consigliere di btato; Vincenzo Cianciolo siciliano, volontario del 1859, garibaldino della seconda spedizione, poi generale nell’esercito regolare; il colonnello Camillo Boldoni, prode difensore di Venezia poi generale nell’esercito, a Genova in questo tempo dava pure lezioni di Matematica; Guglielmo Cenni di Comacchio, dei Mille, colonnello, che era stato e più tardi sarà ancora aiutante di campo di Garibaldi, faceva in Via Luecoli il legatore di libri; Gaetano Sacchi pavese, colonnello nel 1849 a Roma poi generale nel nostro esercito, faceva a Genova l’assistente ai lavori non so se edilizi o stradali; Augelo Bargoni cremonese, figlio del popolo, per virtù d’ingegno, valor di dottrina e patriottismo militare salito alle più alte cariche dello Stato, deputato, Ministro prima dell’istruzione, poi del Tesoro, senatore del Regno, a Genova per campar la vita era impiegato presso una Compagnia di Assicurazione, mentre {sua -moglie per sostenete il debole bilancio famigliare lavorava di ricamo per le signore genovesi; Mauro Macchi di popolana famiglia milanese, avvocato repubblicano, anima forte e gentile, dotto e vario giornalista e fondatore a Genova del Movimento, poi deputato e infine senatore. Giovanni Acerbi di Castel Goffredo (Mantova) anima ardente e generosa, fu dell’insurrezione lombarda nel 1848, quindi alla difesa di Venezia, poi cospiratore a Mantova coi futuri martiri di Belfiore, poi nel 1860 dei Mille di Garibaldi sotto il quale combattè anche nel 1866 nel Tiroio e nel 1867 a Mentana.-Giuseppe Giglioli di Modena, emigrato del 1831, compagno di Ciro Menotti. Francesco Mazziotti nobile salernitano di famiglia liberale e patriottica, deputato al Parlamento napolitano nel 1848, più tardi deputato al Parlamento nazionale, la cui consorte Marianna Pizzuti, bella e nobilissima donna, fuggita in tempo ai minacciati castighi del governo borbonico, raggiunse il marito in Genova dove nel 1854 morì di colera contratto nell’assistenza dei colerosi (1). Giambattista Vare veneziano, vicepresidente dell'assemblea veneta nel 1848, più tardi deputato e Ministro di grazia e giustizia. Rosalino Pilo, figura forte e gentile, precursore di Garibaldi in Sicilia dove il 27 maggio 1860 moriva colpito in (1) Cfr. Una famiglia ili patrioti per Matteo Mazziotti. 253 fronte il giorno stesso che Garibaldi entrava in Palermo. Oreste Reguoli forlivese, tanto celebrato dal Carducci e tanto chiaro per dignità di carattere, per saldezza di sentimenti democratici, per fede nel bene, deputato alla Costituente romana e difensore del Gianicolo nel 18-49, poi anima della società degli esuli emigrati a Genova, quindi Ministro di grazia e giustizia del Governo provvisorio dell’Emilia col dittatore Farini, poi più volte deputato; ricusò sempre la nomina di senatore avendo sempre con la parola e gli scritti sostenuto che anche l’elezione alla Camera vitalizia competeva di sano diritto al popolo. Carlo Pisacane, l’eroe sventurato di Sapri, fondò a Genova e diresse La libera parola giornale clandestino dove collabora-vano Mazzini, Mordini, Bargoni, Regnoli. Cadolini. I fratelli Giambattista e Gabriele Camozzi patrizi bergamaschi, infaticabili cospiratori contro l’Austria: il primo, fatto senatore nel 1860, morì di 88 anni nel 1906; il secondo, mirabile per operosità patriottica, per molte battaglie valorosamente combattute e per aver generosamente profuse quasi tutte le sue sostanze a vantaggio della causa italiana di guisa da ridursi negli ultimi suoi anni in grandi strettezze, faceva della sua casa in Genova il convegno di tutti gli emigrati; fu poi deputato sino alla morte che lo colse di anni 45. Luigi Mercan-tini, marchigiano di Ripatransone, famoso poeta popolare, è l’autore dell’inno di Garibaldi musicato dal genovese Alessio Olivieri capobanda della Brigata Savoia. Di quest’inno si fece la prima prova il 31 dicembre 1858 in casa di Gabriele Camozzi alla Zerbino, (dove una lapide ne perpetua la memoria), alla presenza del fiore degli esuli, tra i quali Medici, Cosenz, Pisacane e famiglia, i fratelli Bronzetti, il maggiore Francesco Carrano, il maggiore Giovanni Chiassi, il capitano Filippo Migliavacca e molti altri di fama italiana. 11 Mercantini dapprima insegnò lettere italiane nel Collegio femminile delle Peschiere, poscia ne assunse la direzione coadiuvato dalla sposa Giuseppina De Filippi, maestra valentissima di pianofòrte. Giovanni Pennacchi di Perugia professore'di Lettere, altro elegante poeta popolare e ardente patriota, già membro della Costituente romana, ora con Ippolito D’Aste dirigeva il Collegio Convitto D’Aste in via San Luca; nel 1870 Rettore dell’Università di Perugia. Era pure a Genova il sopra nominato ing. Giovanni Chiassi di Castiglione delle Stiviere, difensore di Roma nel 1849, milite dei Carabinieri Genovesi nel 1859; si arruolò poi sotto Medici nella seconda spedizione, e col grado di tenente colonnello di stato maggiore si battè al Volturno, finché, colonnello del 5° reggimento volontarii garibaldini, nel J8fì6 scontò l’intrepido coraggio con la morte gloriosa e immatura a Tiar- 254 no. E avevano pure valorosameute combattuto a Roma nel 1849, e dovevano dipoi ancora combattere sotto gli ordini del Medici e dar la vita per la patria i milanesi Filippo Migliavacca e Carlo Gorini collaboratori nello studio legale del nostro Cabella, dei quali però faremo a suo luogo particolare menzione. Silvestro Gberardi di Lu-go, eminente ingegno: giovanissimo ancora aveva scritto di scienze fisiche in modo da meritare pubblici elogi dall*Ampère, e insegnato, come supplente, fisica, matematica, idraulica, ottica e astronomia all’Università bolognese; poi comandante del battaglione universitario sotto il governo provvisorio del 1831. Passata questa metterà e ridatosi alla scienza, viene per ben cinque volte acclamato da’ suoi colleghi presidente dell’Università, dove quindi succede aU’Orioli nella cattedra di Fisica generale e speciale. Nel 1849 è deputato alla Costituente romana e Segretario della Pubblica Istruzione. Caduta Roma, viene a Genova dove riprende gli studi scientifici e insegna alla nostra Università alternatamente fisica, chimica e meccanica applicata, poi passa alla Università di Torino. Rappresentò poi la sua Lugo alla Camera nella VII e Vili legislatura, e morì a Firenze nel 1879 di anni 77 (1). Federico Salomone patriota abbruzzese, poi garibaldino a Mentana nel 1867 e più volte deputato. Silvestro Ma-ganzini trentino, Tullio Brugnatelli pavese, Vincenzo Vedevi, Federico Rebessi..... Ma come potrei far menzione di tutti gli esuli generosi che con noi convissero se i soli soci della Solidarietà nel bene salivano a centoventi? Non appartenenti a questa Società, molti altri non meno illustri vivevano a Genova con noi: F. Federico Guerrazzi livornese, Benedetto Cairoli pavese, dei quali è superfluo parlare. Raffaele Pasi nato a Faenza di famiglia comitale; la sua vita fu una storia di glorie patriottiche e militari per cui ottenne, oltre la medaglia d’oro nella campagna del 1866, le più alte onorificenze e i gradi più eminenti finché nel marzo del 1882, alla morte del Medici, fu nominato primo aiutante di campo del Re. Antonio Mordini nativo di Barga (Lucca) laureato in Legge, nel 1848 combattè a Venezia, nel 1859 nei Cacciatori delle Alpi; in Sicilia fu da Garibaldi nominato presidente del Consiglio di Guerra poi Prodidattore dopo De Pretis; più tardi Ministro dei Lavori pubblici, infine senatore; mori nel 1902-Guglielmo Pepe napolitano, grande patriota, generale dell’esercito carbonaro contro gli Austriaci nel 1821, illustre pel diuturno esilio (I) Nel 1859 il Pennacchi ed il Gherardi erano insegnanti colleghi nel nostro Ginnasio civico, l’uno di Betorica, l’altro di Filosofia positiva. « 255 e ultimamente per aver disprezzate le borboniche intimazioni e difeso eroicamente Venezia nel 184i<. Michele Amari conte di Sant’A-driano, palermitano, già deputato al Parlamento siciliano e Ministro delle Finanze in quel Governo del 1848. e più tardi senatore del Regno, in Genova sovveniva generosamente ai bisogni di molti profughi suoi conterranei. Nò s’ha da tacere Giovanni Nicotera barone calabrese, già fiero repubblicano e compagno amicissimo di Pisacane, più tardi Ministro dell’interno. Specialissima menzione merita Terenzio Mamiani della Rovere conte di S. Angelo, pesarese, vita integerrima, chiarissimo patriota, oratore, filosofo, poeta e uomo di btato, il quale, poich'ebbe nel 1856 ottenuta la cittadinanza del Re-gno Sardo, fu tosto, dopo la rinuncia di Vincenzo Polleri, eletto deputato nel nostro \ collegio, e a Genova fondò e presiedette VAc endemia di filosofìa italica, di cui fu segretario il nostro Boccardo, e che aveva per iscopo l’applicazione delle discipline filosofiche alla vita civile. Aggiungi Giacinto Carini palermitano che prese parte animosa sotto l’onorando Settimo Ruggero alla rivoluzione di Palermo nel 1848, poi esulò in Francia, poi nel 1859 fu dei Cacciatori delle Alpi, poi dei Mille di Garibaldi, infine generale di Divisione e deputato in più legislature, e mori nel 1880. Antonio Platino di Calabria, valoroso garibaldino dei Mille, che poi fu prefetto in più città e deputato in più legislature. Luigi Pianciani, patrizio romano, uno dei più famosi e attivi capi della democrazia anticlericale italiana, scrittore politico, sindaco di Roma e deputato molte volte al Parlamento. Bonaventura Mazzarella patriota pugliese, consigliere di Corte d’Appello, professore all’Università di Bologna e a lungo deputato, morto a Genova nel 1882, lasciò fama di critico acerbo e interruttore incorreggibile dei discorsi parlamentari. Giuseppe Civinini pistoiese, chiaro pubblicista di vita varia e avventurosa, prima direttore del democratico Diritto di Torino, poi della moderata Nazione di Firenze, più volte deputato della sua città nativa. Francesco Curzio, patriota pugliese che poi rappresentò al Parlamento il collegio di Acquaviva delle fonti nella IX e X legislatura. Tomaso Buccina, emigrato veneto, più tardi contrammiraglio e deputato alla Camera, prima di Piove, poi di Belluno. Tra i letterati profughi merita menzione singolare il triestino Giuseppe Rovere, caldo patriota e fecondo poeta a cui brevemente nel 1849, stabilmente dopo il 1856, Genova nostra fu stanza ispiratrice di vaghe e colorite melodie. Ma sarebbe impresa vana il voler dire di tutti. (ìli emigrati politici a Genova nel dodicennio preparatorio è argomento così no- 256 bile e cosi pieno d’interesse patriottico che ogni buon genovese ed italiano aspetta con vivo desiderio il libro che su questo argomen-mento il solerte e valoroso Segretario delle nostra Società ligure di Storia patria sta elaborando. Se molto giovò ai profughi italiani la generosa ospitalità dei Genovesi, non giovò meno a noi e alla causa italiana il loro soggiorno in Genova nostra poiché, quantunque per motivi d’ordine e di riguardi politici, segnatamente dopo i malaugurati moti mazziniani di Milano nel febbraio 1853, soggiacessero tutti a oculata vigilanza questoria, nondimeno qui all’ombra della nuova libertà potevano vivere e lavorare sicuri alla preparazione delle prossime ed ultime riscosse. E non solo, ma recando seco tra noi il genio, le abitudini, le aspirazioni, la lingua, le quistioni di tutte le regioni italiane, offrivano ai Genovesi quotidiana immagine collettiva di tutta l’Italia, li avvezzavano a conoscerla meglio, a intenderne meglio l’indole, la storia, la cultura, a far uso quotidiano e domestico di lingua italiana, e conversando e scrivendo di varia dottrina, li aiutavano ad ampliare le loro politiche vedute, a spogliarsi gradatamente dell’abito troppo strettamente municipale e genovese e a vivere di più larga e comprensiva vita nazionale: in una parola, a italianizzarsi. Un’altra benemerenza di quella Società verso la nostra cittadinanza merita lode particolare ed è quella d’aver fondato in Genova un giornale sommamente educativo, intitolato La donna, che recava per motto queste sapienti parole: Se volete che siano grandi e virtuosi gli uomini insegnate alle donne che cosa sia grandezza e virtù. Il primo numero vide la luce il 10 agosto 1855. Ne fu direttore prima Angelo Bargoni, poscia Luigi Mercantini, collaboratori Oreste Eegnoli, Agostino Bertani, Enrico Donatelli, Giovanni Cadolini e molti altri. Il periodico trattava di scienze morali e naturali, di letteratura e di belle arti; svariati erano gli argomenti ma tutti coordinati, senza ostentazione e senza pedanteria, al fine unico della educazione della donna. E all’opera di fraternità italiana non rispondevano meno degnamente i nostri Genovesi. Al qual proposito riferisco volentieri le parole del Loero, dal cui prezioso opuscolo ho tratto buona parte di queste notizie. « Mi è grato come italiano e genovese di ricordare ancora che furono cooperatori e di valido aiuto alle opere cH elevazione morale, alle ardite e gloriose imprese di questi emigrati, altri nostri patrioti genovesi che fraternizzavano con loro. E cito con orgoglio Cesare Gabella, (Giovanni) Maurizio, Giuseppe 257 Care-assi, (Antonio) Caveri, Ippolito d’Aste, Cristoforo Tornati e tanti e tanti altri che hanno legato i loro nomi alla gratitudine nostra ». A quest’opera di bella fratellanza tra Genovesi ed emigrati politici si connette un’altra provvida istituzione che il Loero rammenta sulla fede di documento dei tempo. « Nell’anno 1857 sorse in Genova una istituzione detta tutela legale, e denominata 77 Diritto, la quale si proponeva di somministrare i mezzi di far valere le proprie ragioni dinanzi ai Tribunali, alle persone le quali, non avendo le condizioni per essere ammesse al gratuito patrocinio, pur non fossero in gx-ado di sostenere il rimedio di una lite. Naturalmente, per essere ammessi a così efficace tutela i richiedenti dovevano sottoporre i loro titoli ad un giudizio di deliberazione, il quale garantisse l’istituzione che si trattava di cosa onesta e seria. A tal uopo si era costituito un Comitato di avvocati scelti fra i più reputati della curia genovese. » E fra questi figuravano il Gabella, il Carcassi, il Caveri, l’Or-sini e molti altri, e consulente speciale di questa istituzione era Oreste Regnoli. L’affluenza degli affari fu tanta che non bastavano i capitali di fondazione per far fronte alle occorrenti anticipazioni di spese, il cui rimborso non poteva venire che dal lento svolgersi delle cause nei diversi stadi di procedura. Ma quando si stava trattando per l’aumento di capitali e pel funzionamento di una succursale a Torino, sopraggiunsero gli avvenimenti del 1859, che chiamarono in altri campi e ad altre opere parecchi tra i principali fondatori ». Per ragione di professione legale e per ispirito di patria carità il Cabella ebbe occasione di conoscere e trattare con gran numero di profughi qui rifugiatile a quanti mostravano averne d’uopo, prestò a tutti volenteroso l'opera e il consiglio. Degli emigrati lombardi frequentavano casa sua Giacomo Medici, Filippo Migliavacca, Carlo Gorini, Daniele Cressini, Romualdo, e Isnardo Sertorio, figli di Michele direttore del nostro civico Ginnasio, Pietro De Vecchi e Cecco Simonetta, i quali tutti, tranne Isnardo Sertorio che fu ufficiale del Genio nell’esercito regolare, militarono poi come ufficiali nei Cacciatori delle Alpi sotto Garibaldi. E perchè i sopra nominati giovani milanesi Migliavacca e Gorini, laureati in giurisprudenza, desideravano avviarsi alla carriera forense, e per doti d’animo e condizione di fortuna si mostravano degni della sua speciale considerazione, li volle seco nel suo privato studio legale come apprendisti e collaboratori. Del Migliavacca a cui, come a giovane adorno di singolari virtù, pose amore di padre, da lui riamato con amore di figlio, è dover nostro alcun poco intrattenerci. 17 ‘258 li. Il Cavour informa il nostro Cittadino della Istituzione dei Cacciatori delle Alpi dove potevano inscriversi i volontari per l’imminente guerra (a. 1859) contro l’Austria. Organizzazione e disciplina di questo corpo. Il convegno di Plombières (luglio 1858) e il grido di dolore che da tante parti d’Italia si levava verso V. Emanuele, come questi annunziava nel suo Discorso alla Camera il 10 gennaio 1859, venivano recando i loro effetti. Tutta l’Italia ardeva e fremeva: la Francia era con noi, con noi la santità della causa, con nof la concordia dei voleri e dei partiti, con noi l’unità delle forze: la vittoria era certa. A Torino e a Genova affluiva a schiere da ogni parte d’Italia la gioventù ardente di partecipare quanto prima alla guerra della italica redenzione. I soci del Tiro a segno genovese, gli emigrati politici che da dieci anni in Genova esercitavano l’animo e il braccio alla grande riscossa, smaniavano di correre sui piani di Lombardia. Tanto ardore veniva però in loro trattenuto da una penosa incertezza. Noi vogliamo combattere, dicevano, per la nostra patria; ma a chi dobbiamo all’uopo dirigere le nostré domande? Agli ordini di chi saremo noi posti? Con due eserciti alleati, il francese e il sardo, crederà opportuno il governo costituire anche un terzo esercito di volontarii? Vorrà il governo formar di noi dei corpi liberi sotto il comando di Garibaldi o intenderà arruolarci nell’esercito regolare? E che sorte pensa il governo di prepararci nell’uno o nell’altro caso? Siamo già a marzo, l’esercito regio viene accresciuto e organizzato a guerra; di noi volontarii che da tanto attendiamo, che s’intende di fare? Che indugio, che negligenza è questa da parte del governo? è paura? è disprezzo? ci vorrebbe forse negare il diritto di versare il nostro sangue per la patria? (1) (1) Un aneddoto. G. B. De Ferrari giovane commerciante di sete e l’amico suo avv. Francesco Fontana addetto alla pratica legale nello studio del nostro Cabella, vogliosi di prestare il loro braccio alla causa italiana, nè sapendo in Genova a chi far capo per istruzioni e notize sul modo pratico di soddisfare il loro voto, in quella primavera partirono per Torino e si presentarono senza più all’ufficio del Ministero dove il Cavour stava occupato scrivendo. Li accolse il grande Ministro e udì con molta urbanità i loro desideri, e perchè era in vena di buon umore domandò loro sorridendo s’era mai possibile che giovinotti e signori eleganti pari loro avessero proprio intenzione di lasciar nell» lagrime le belle signore genovesi, abbandonare le roman- 259 Parve dunque necessario al nostro Gabella il farsi interprete di questi giusti sentimenti di tanti giovani generosi, tra i quali contava amici amatissimi, scrivendone il 13 marzo (1859) con virile franchezza al Cavour e provocare da lui chiare e precise risposte circa le intenzioni del governo. E il Cavour che alla bisogna aveva già pensato, gli rispondeva subito con questa lettera, che, decapitata nella edizione del Chiala, qui si trascrive nella sua interezza. « Torino 14 marzo 1859. » Preg. Sig. » La ringrazio della lettera ch’Ella mi scrive in data di ieri per manifestarmi con virile franchezza i suoi dubbi e i suoi timori. Posso accertarla però che gli uni e gli altri non hanno vero fondamento. » Il governo è deciso ad adoperare tutte le fòrze vive che l’Italia racchiude. Ma appunto per non rinnovare gli errori del 1848, conviene conciliare l’audacia colla prudenza. Gli impazienti debbono avvertire che la quistione italiana essendo divenuta quistione europea, bisogna non perdere di vista l’effetto che i nostri atti producono all’estero. » Camminiamo d’accordo con Garibaldi, che dimostra un senno politico maggiore d’ogni elogio. I volontari saranno ordinati senza precipitazione, ma senza inerzia. Cosenz assumerà quanto prima il comando di quelli raccolti a Cuneo. » Se a Genova si può costituire un battaglione di volontari tratti dalla guardia nazionale, ne daremo probabilmente il comando a Medici. Il governo non chiede a nessuno quali sieno stati i suoi antecedenti politici, purché siano scevri da ogni macchia di disonestà. Ma se fa astrazione dal passato, non ammette discussione sul presente. La gravità dell’impresa, le difficoltà innumerevoli che deve superare, gli impongono l’obbligo di assumere una specie di dittatura. Esso confida di riuscire, ma per riuscire deve inspirare ed ottenere una tiche amenità dell’AcquasoIa e tutto lo altro agiatezze della vita por avventurarsi ai pericolosi cimenti della guerra. Quindi, lasciato lo scherzo, ne encomi* il proposito, li ragguagliò di quanto avevano a fare, o stringendo loro la mano, gentilmente li accommiatò. — Questo intasi più volte raccontare dallo stesso amico mio march, G. B. De Ferrari, m. a Genova il 5 nov. 1919. 260 fiducia illimitata. Ho la coscienza di meritare quella di coloro che mettono a cima dei loro desideri l’indipendenza della patria. Adoperi la sua molta influenza onde questa fiducia non venga meno in Genova e l'assicuro che ella avrà fatto opera di buon cittadino. » Mi creda con distinti sensi Dev.mo Ser.re C. Cavoub ». Infatti tre giorni dopo, il 17 marzo, a dispetto del patto contrario segnato nella convenzione militare con la Francia, il Cavour faceva emanare dal La Marmora ministro della guerra, che vi si piegava di malissima voglia, un Decreto con cui veniva costituito il corpo dei volontari sotto il nome di Cacciatori delle Alpi con la ferma di un anno, e se ne dava il comando a Garibaldi. Enrico Cialdini li organizzava a Cuneo e a Savigliano, secondo gli ordinamenti militari piemontesi, in 3 reggimenti ovvero in 6 battaglioni di 1100 uomini ciascuno, in tutto uomini 3600. Comandava il 1° Reggimento di Cuneo col grado di tenente colonnello Enrico Cosenz di Napoli, allievo della Nunziatella, già ufficiale di artiglieria nel Reame, ferito 3 volte a Venezia nel 1848-49, nobilissimo uomo e valentissimo guerriero; il 2° Reggimento formato a Savigliano era comandato dal ten. colonnello Giacomo Medici milanese, già soldato in Ispagna, in America, in Lombardia, eroico difensore del Vascello a Roma nel 1849; da lui dipendevano come ufficiali del 1° battaglione, amici suoi e amicissimi di Cabella, l’avv. Filippo Migliavacca e Carlo Gorini, ambidue milanesi, al valore e alla spiritualità dei quali la storia non ha ancor reso la dovuta giustizia. Comandava a Savigliano il 3° Reggimento il ten. colonnello Nicolò Arduino di Diano Marina, veterano delle guerre spagnuole e della prima guerra della nostra indipendenza. Rimanevano i soci del Tiro a segno nazionale di Genova ossiano i Carabinieri genovesi. L’Arduino che n’era il console, andò a Torino, s’abboccò col Cialdini organizzatore e gli offri l’opera de’ suoi valorosi. N’ebbe una ripulsa. La Società si rivolse al Cavour, il quale volendo stringere in un sol fascio tutte le volontà e le energie nazionali, il 17 marzo scrisse lettera a Garibaldi significandogli « che il governo del Re acconsentiva che i 46 Carabinieri della Guardia Nazionale fossero aggregati al Corpo dei Cacciatori delle Alpi per essere divisi e distribuiti nelle diverse compagnie di cui si componeva il corpo, secondo ciò che il Generale fosse per ordinare e sotto la sua responsabilità. Quel giorno stesso i Carabinieri partirebbero per Cuneo ». 201 In verità i Carabinieri non appartenevano alla Guardia Nazionale. ma fu questo un espediente trovato dal Cavour per giustificare l’ammissione. Essi furono diretti da Garibaldi a Savigliano, non a Cuneo, e messi agli ordini del loro Console colon. Nicolò Arduino comandante il 3° reggimento, il quale li as*egno al 2° battaglione capitanato da Nino Bixio. I Cacciatori (Ielle Alpi che da principio erano, come ho detto, 3600, verso la fine della guerra eran divenuti 13000; aggiungendo a questi i 9000 volontari incorporati nell’esercito regolare, si aveva un totale di 22600 volontà rii, numero troppo inferiore davvero a tanto frastuono di grida patriottiche e di entusiasmo generale. Dei Cacciatori delle Alpi ottimamente organizzata e provveduta era l’ambulanza diretta dal grande e infaticabile patriota Agostino Bertani; tutta la Cavalleria consisteva in 50 guide comandate dal valoroso Francesco Simonetta; non genio, non artiglieria, non intendenza. Capo dello Stato Maggiore di (.Taribaldi era Francesco Carrano napolitano, prode soldato nella difesa di Venezia nel 1848-1849, che di essa difesa ci lasciò un lodato racconto e nel 1860 pubblicò il veridico ed accurato libro su I Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Garibaldi nella guerra del 1KÒ9; sotto-capo Clemente Corte tenente d’artiglieria, piemontese e capitano nella Legione anglo-italiana nel 1855; capitano di stato maggiore Guglielmo Cenni già aiutante di campo del generale a Roma; ed altri ufficiali minori. Dalla istituzione di questo corpo il Cavour mirava ad ottenere più che una grande utilità militare, un successo morale e politico. Con esso infatti lanciava un appello e un invito a tutta la generosa gioventù italiana; attraeva tutti i partiti avanzati nell’orbita dell’iniziativa piemontese e li disciplinava a un fine ordinato; dava un esempio europeo di due forze nazionali, una regolare e ufficiale, l’altra popolare e volontaria che dovesse all’uopo servire di difesa e rincalzo alla prima. La Monarchia, alleandosi alla Rivoluzione, gettava un’altra fiera provocazione all’Austria, la quale perdendo col lume degli occhi la visione di ciò che più utile le tornava,, abboccava all’amo gettatole dallo scaltro statista torinese, e rompeva guerra al Piemonte. Non so privare il lettore delle belle verità che il Guerzoui scrive intorno all’opera dei Cacciatori delle Alpi nella sua Vita di N. liixio (pag. 130 e seg.). Dopo aver detto esser meglio il tacere sul modo com’essi « erano armati, equipaggiati, favoriti, per non intorbidare di vane amarezze queste pagine serene », continua: « E tuttavia di quanti benefici non doveva esser grata l’Italia a quel piccolo Corpo! 262 » Non penso far torto a nessuno, ma posso dire, e amo dirlo, poiché vi ho l’occasione, che fa quello il miglior corpo dei volontari che l'Italia abbia dato e Garibaldi comandato (1). Da esso uscì il nerbo dei Mille: da essi i vincitori di Palermo, di Reggio, del Volturno, di Bezzeeca- In esso ringiovanirono la loro fama Medici, Sacchi, Cosenz, Bixio, Gorini, Ferrari, in esso la diffusero o la fondarono De Cristo-toris, Cairoli, Migliavacca, Dezza, Corte, Simonetta. Missori, Cadolini, Guastalla, Rosaguti, e molti altri che sotto la giubba modesta del soldato nascondevano l’animo e il cuore di valenti ufficiali. * Non è da me il far la storia di quel Corpo; d'altronde le pagine di Varese, di S. Fermo, della Valtellina, sono incise nella memoria della nazione, e nemmeno il tempo potrà cancellarle. Quello che vorrei perpetuare, se a parole fosse duraturo, quello che sarebbe tema di storia alta ed educatrice, quando ne potessero essere raccolti i documenti e le testimonianze, è la Storia morale di quel Corpo; le segrete virtù, i dolori innominati, gli atti d’amore e di fratellanza sepolti forse sotto una zolla lombarda o valtellinese, lo spirito insomma del dovere, del disinteresse, della rinuncia spontanea ed illimitata che aleggiava perennemente nelle sue file, e formava in una legione d’eroi una famiglia di fratelli. Memorabili giorni di giovinezza, d’entusiasmo e di fede, lasciate che vi pianga ! » (2). III. Filippo Migliavacca e Carlo Gorini, patrioti milanesi applicati nello studio del Gabella, si arruolano e combattono valorosamente sotto le bandiere (li Garibaldi (a. 1859). La risposta del Cavour il Gabella comunicò tosto agli amici, prima che ad altri, al suo amatissimo Filippo Migliavacca giovane avvocato milanese di raro ingegno e di elevatissimi sentimenti, che fin dal 1819 teneva compagno e coadiutore nel suo studio legale. Dovendo, e 1 ascrivo a mia fortuna, rivendicare da indegna oblivione la virtù di questo insigne patriota e guerriero, darò brevi notizie della sua adolescenza e della sua prima giovinezza desumendole da una lettera del padre suo, e riserbando a suo luogo le ulteriori. (1 Anche il Cadolini a pag. 295: * Nè prima nè poi furono corpi di volontari bene disciplinati quanto i Cacciatori delle Alpi .. (2) Meriterebbe esser qui trascritto ciò che di questo incomparabile Corpo afferma il i ivaroni (op. cit. voi. II, pag 35-38^ deducendolo da I Cacciatori delie Ai pi di A. ììkktini, e conferma il Cadolini nel capitolo delle sue Memori*, che ha per titolo Formazione del corpo dei volontari. 2(53 Filippo nacque a Milano il settembre del 1829 da Luigi professore (1). Fece i primi studi uelle pubbliche scuole; sempre buono, sempre amantissimo del sapere. Diligentissimo nell’adempimento de’ suoi doveri, fu caro ai condiscepoli, lodato e premiato dai maestri. Quasi ancor fanciullo insegnava ai principianti, e già aiutava la sua famiglia coi frutti delle sue fatiche. Terminati gli studi della Filosofia, entrò nel collegio Gliislieri e vi studiò Legge. L’insurrezione di Milano lo colse a 18 anni; col fucile in mano corse alle barricate; poi militò nel battaglione degli studenti. — Dopo i rovesci dell’estate (1848) si ritirò con l’esercito italiano oltre il Ticino, e nel marzo del 1841) si trovava coi lombardi alla Cava. Dopo l’infausta giornata di Novara discendeva alla Spezia e di là a Roma, per la quale pugnò da prode sotto gli ordini del Medici alla difesa del Vascello riportandone il grado di ufficiale. A complemento di questi cenni troppo fugaci aggiungerò poche parole. Il Movimento dell’8 agosto 18<>0 riporta da una corrispondenza milanese ali' Allgemeine Zeitung che il Migliavacca nell’estate del 1818 si trovava nella legione Manara dinanzi alle mura di Peschiera. Da ciò e dalle precedenti notizie da me tratte con lievissime correzioni dalla lettera paterna si fa chiaro e certo che Filippo dopo le barricate di Milano si arruolò in quella gloriosa falange che formata e più tardi sciolta e rinnovata da Luciano Manara, sotto i costui comandi e attraverso una lunga iliade di combattimenti, di angoscio, di marcie disastrose, di stenti e peripezie d’ogni maniera, tra le diserzioni e lo sfacelo dell’infelice divisione lombarda, si mantenne salda ed incorrotta, e passando successivamente dalle sponde del Mincio e del Garda a Trino, alla Cava, a Mezzana Corte, a Voghera, ad Ales-sandria, a Bobbio, a Chiavari, a Portovenere, a Porto Longone, a Civitavecchia, a Roma, nella difesa di questa citta con la morte del suo duce e de’ suoi migliori s’incoronava di gloria immortale (2). Caduta Roma, Filippo riparò prima a Lugano poi a Genova dove compì gli studi e si laureò in Legge, e si applicò, come ho detto, nello studio del nostro Cabella. Secondo il Tivaroni,-in Genova provvide anche a se stesso dando lezioni di tedesco e traducendo da questa lingua. In tutto il decennio di pace si. tenne sempre in corrispondenza coi patrioti italiani che in Piemonte, in Isvizzera e dovunque tene- (1) Il Tivaroni lo fa nato ad Affori sobborgo di Milano. (2; Cfr. Enrico Dandolo: I volontari e i bersaglieri lombardi, Milano 18G0. ‘264 vano viva l’agitazione preparando la riscossa, e fu uno dei membri più operosi, prima, àtAY AMOciazione dell’Emigrazione italiana, poi, della succeduta Solidarietà nel bene come si rileva dai documenti lasciati dal Regnoli all’on. Loero, e dal Loero donati generosamente alla città di Genova il 27 novembre 1910 e che si custodiscono nel nostro Museo civico del Risorgimento. Dell’opera benefica prestata dal Migliavacca in t St-nova nel 1854 ai colpiti di colera, sentiamo quel che ci rau mta il Cadolini a pag. 210-11. « L'associazione (del/'Emigrazione italiana) aveva un modesto ufficio dove rimanevano sempre alcuni di guardia. Allorché giungeva l’avviso che un nostro compagno era stato preso dal morbo, si inviavano tosto a due soci gl’inviti a recarsi presso l’ammalato ad assisterlo per 24 ore, e il giorno appresso si chiamavano altri due a surrogare i primi.....Colpito dal colera Giacomo Medici, la società mi designò ad assisterlo insieme con Filippo Migliavacca: due suoi antichi militi alia difesa del Vascello. Recatici al suo letto non volemmo essere * . sostituiti da altri, e alternandoci a vicenda nelle diverse ore del giorno e della notte, rimanemmo presso lui finché non ebbe più bisogno delle nostre cure. Per fortuna il prode uomo superò il fiero morbo e fu conservato alla patria; cosi i due infermieri poterono seguirlo di poi nella campagna del 1859 e del 1860 ». Il marzo del 1859, udito lo squillo di guerra, lascia subito Genova e i suoi già ben avviati affari legali, e corre a Savigliano ad arruolarsi nei Cacciatori delle Alpi. Della sua vita militare e delle vicende di quella campagna c’informano le sue preziose lettere conservate dalla famiglia Gabella, delle quali saran qui riprodotte solo le poche che stimo meglio convenienti al nostro racconto. Nella prima ci si fa innanzi la bella e cara figura di Lazzaro Gagliardo che bramava entrare anche lai nel corpo dei Cacciatori dove militavano molti amici suoi. Diremo di lui più particolarmente nei capi seguenti. Il Migliavacca parla pure della consegna fatta al Comando di L. 10.00 e prevedo che ci farà d’uopo di molta attività ed energia. Domattina alle cinque dobbiamo trovarci pronti agli ordini del Comandante. Parlai con Medici di Gagliardi: mi disse inutile dirigerlo a Cavour (tanto più che in questi giorni è a Parigi), giacché spera poterlo accettare nel corpo unitamente agli altri amici genovesi senza difficoltà: dimani ne parlerà a Cialdini; se, come non ne dubitiamo, la risposta è favorevole, sarà bene che Gagliardi si renda il più presto possil ile a Savigliano; lo avvertirò per telegrafo. Accelero la sua venuta per rendere meno difficile di assegnargli nell’organizzazione un posto conveniente alla condizione ed istruzione sua. Consegnai i 10.000 franchi e dimani Medici scriverà una riga in proposito; la dirigerò a voi. Se ancora vedete Fontana fi) Il nobile atto non salvò il Fontana dai motteggi dei mordaci Genovesi, ond'e-gli ne andò poi sempre dolente tutto che da privato cittadino non cessasse mai di collaborare indefesso alla vittoria della causa italiana. Era nato a Rapallo nel 1883. Di largo censo, «di gusti signorili e di abitudini eleganti, si dilettò di studi storici ed appartenne alla nostra Società di Storia Patria dal 3 giugno 1897 fino alla morte, che lo colse, celibe, in Genova ad 82 anni il 24 die. 1915 •. Cfr. Necrologie dei soci defunti dal 1908 al ì'.UH per F. Poom nel voi. XLIX, fase. I degli Atti della Società Ligure di Storia Patria. 266 assicuratelo che tutti i suoi compagni a una vooe lo ringraziano e ammirano il generoso sacrificio fatto alla madre. » Un’affettuosa stretta di mano alla Sig.* Clementina, Sig.e Rosetta e Vittorina, un bacio ad Adele e ad Edoardino. » Sono dolentissimo di dover sì presto troncare il piacere di trattenermi con voi e per l’ora tardissima e per dover scrivere altre lettere d’incarico di Medici. Amatemi come vi ama Il vostro F. Migliavacca ». Perchè nella seguente lettera e nelle successive si parla più volte del Gorini che fu compagno del Migliavacca nello studio Gabella e perchè l’opera dell’alunno loda il maestro, darò qualche breve cenno biografico su questo aureo giovane deducendolo in parte dall’opera del Sarti che riferisce quello che ne scrisse con verità il sen. Antonio Allievi, conterraneo, coetaneo e amico del Gorini; in parte dall’opera del Carrano (1). Carlo Gorini nacque di povera e popolana famiglia in Milano forse il 1828, e si laureò in giurisprudenza all’Università di Pavia. Per isfnggire aH’obbligo della leva sotto il dominio austriaco, nel principio del 1848 emigrò in Piemonte da cui fece ritorno a Milano al tempo delle Cinque Giornate. Combattè nel Veneto e fu poi dei valorosi di Garibaldi a Luino e a Morazzone. Più tardi partecipò all’ardita spedizione che guidata dal Medici, varcò le altissime cime dell’Iorio. Poi, arruolatosi in Toscana sotto la direzione del Medici nella legione dei Bersaglieri italiani, passò con lui a Bologna, qnindi a Roma dove diede prove mirabili di valore. Il 22 giugno all'assalto del Casino Barberini per risparmiare i suoi compagni operò ardimenti tali e sostenne sino all’ultimo con tanta e sì pertinace fierezza i colpi dei fucili e delle baionette nemiche che il Cadolini suo compagno d’armi ma misurato narratore, raccontandoli a pag. 118-121 delle sue Memorie esclama commosso: « Quale anima quel Gorini! egli fu il protagonista eroico di quella giornata! » Come si riebbe delle gravi ferite, per una delle quali il braccio sinistro gli rimase poi sempre storpio, andò ad insegnare scienze fisiche e naturali in una scuola tecnica di Sampierdarena, poi diresse a Genova un negozio di oggetti ortopedici a due lire il giorno, in fine si applicò nello studio legale del nostro Gabella. Nel 1859 si arruola nei (l) F. Carhaso, I Cacciatori delle Alpi, pag. 316. 267 Cacciatori delle Alpi a fianco dell’amico collega e concittadino Migliavacca e sotto gli ordini del Medici comandando il 2° battaglione rinnovava a Varese e a San Fermo le prove di valore di dieci anni prima, e meritava la lode insigne del Medici medesimo, la medaglia al valor militare, il grado di maggiore e la croce francese della le-gion d’onore. Il Gorini, giovane modesto, timido come una fanciulla nelle relazioni ordinarie della vita, sul campo di battaglia si esalta, si trasfigura e diventa un poderoso e fiero combattente che trasfonde il proprio ardire negli altri. Dopo Villafranca si ascrisse nelle file dell'esercito regolare. Il collegio di Robecco lo deputò all’Assemblea nazionale nel 1860 (VII legislatura), dov’egli portò quella severa ispirazione e indipendenza d’animo ch’era indivisibile dalla sua natura, unicamente rivolta alla giustizia e al bene della patria. Con l’acquistato grado di maggiore, nel 1861 fu spedito a capo di un battaglione a combattere il brigantaggio in Basilicata, e vi meritò nuove insegne al valore. Dopo un anno e mezzo di questa travagliata vita gli fu concesso un po’ di riposo, ma breve perchè, nominato appena tenente colonnello, venne nuovamente chiamato alle armi. Sotto gli ordini del generale Pallavicino, per selve, e per monti, al caldo e al gelo, tra mefitiche esalazioni, con ogni sorta di stenti il Gorini inseguì^ combattè i briganti e contrasse i germi di quel morbo fatale che lo trasse alla tomba, vittima del dovere di soldato e patriota, nel 1865, dopo tre mesi che aveva fatto ritorno in patiia a ristorare la deperita salute. Segue la lettera del Migliavacca. « 26 marzo [1859] « Dilettissimo Amico! » A un’oi'a e mezzo pomeridiana ho spedito un dispaccio al vostro indirizzo per avvertire Gagliardi di rendersi il più presto possibile al deposito coi due altri amici, Sartorio Gigi e Fontana cugino di Checco (1). Il nostro Lazzaro (Gagliardo) potrebbe partir dimani con Gorini — vengano direttamente a Savigliano, cerchino dell’Albergo (1) Luigi Sartorio, avv. genovese, si arrolò nei Cacciatori di Garibaldi e combattè /s del loro totale. (2) Cfr. Supplemento al Movimento del 18 agosto 1860. 288 uno dei muri esterni di questa oliiesa fu murata a cura del generale Medici una lapide recante questa iscrizione: FILIPPO MIGLIAVACCA TENNE FRONTE AL TEDESCO NEL 1848 IN TERRA LOMBARDA difese Roma nel 1849 RIBATTEZZÒ COL SUO SANGUE LA BANDIERA DELLA LIBERTÀ NELLE EPICHE BATTAGLIE DI MlLAZZO AL 1860 MORTO IN QUEI CAMPI DI ANNI 31 all’esule E MARTIRE ITALIANO * ov’ebbe la tomba VENNE DICATA QUESTA LAPIDE dal Generale Medici SUO ANTICO COMPAGNO D'ARMI. » Il Migliavacca fu uomo di larga cultura e di alto ingeguo. D'animo buono e squisitamente gentile, ed insieme fortissimo, si conquistava subito la simpatia e l’affetto di quanti avevano la fortuna di conoscerlo. Garibaldi nelle sue Memorie autobiografiche lo dice calorosissimo, e questo titolo dato da quel Grande basta senz’altro alla sua gloria di soldato ». Alle testimonianze recate daH’avv. Edoardo Cabella credo utile aggiungere queste altre. Eshtenza intemerata lo dice il cronista del Movimento; vita virtuosa lo dice il Tivaroni; eccellente giovane lo dice Nicostrato Castellini suo commilitone; e Gualtiero suo nipote che pubblicò le memorie dello zio sotto il nome di Pagine Garibaldine (Torino, Bocca, 1909) soggiunge in nota: « Grande a Milano fu il compianto per questa morte immatura. A quarantotto anni di distanza il colonnello Missori si commoveva ancora parlandomi di questa tragica fine ». E il Guerzoni (voi. II pag. 1-12) conferma: « Pianta fra tutte la morte del maggiore Filippo Migliavacca, uno dei prodi di Roma e di Varese ». E il generale Giov. Cadolini: « A Milazzo mori sul campo il Migliavacca, anima gentile e generosa (Memorie del Rixorg., pag. 211). E il Depretis al Bertani: « Dobbiamo deplorare la morte del valorosissimo Migliavacca colpito di palla nella fronte sul finire del 289 combattimento ». (Agostino Bertoni e i suoi tempi per J. W. Mario pag. 103). Segue l’egregio avvocato: « A Genova, Migliavacca, durante il suo lungo esilio, si conciliò stima, simpatia ed affetto universali. I suoi compagni d’armi l’amavano come fratello. Mio padre l’amò come figliuolo. » Io, l’ultima volta che lo vidi, non avevo che sei anni, ma il ricordo di lui non si cancellò più dal mio cuore. Nell’atto di prendere commiato dalla mia famiglia mi levò in alto sulle braccia, e baciandomi più volte mi disse: « Dindinello, (cosi egli mi chiamava) chissà se ci rivedremo mai più! » E più non lo rividi: ma l’affetto ch’egli mi aveva ispirato aveva gettato così profonde radici nel mio cuore che più non si spense e crebbe con me, talché, ormai vecchio, sento ancora nell’animo il dolore che provai fanciullo all’annunzio della sua morte gloriosa. » Nel 1904, come già dissi, fui a Meri e visitai la sua tomba. Non avendo potuto trattenere le lagrime, mi si fecero attorno alcuni vecchi abitatori di quel villaggio, che ricordavano perfettamente 1 e-stinto, e si mostravano orgogliosi di averne composta la salma in quella modestissima tomba, consacrata dalle parole del suo generale, di quel Giacomo Medici che sotto gli ordini di Garibaldi, tanto contribuì con la sua brigata alla tanto contrastata vittoria di Milazzo ». Tra l’alternarsi di tante gioie e dolori, timori e speranze, qual colpo ricevesse il cuore del nostro Cabella all’annunzio della morte del suo amatissimo e ammiratissimo giovane, dice questa lettera al Gagliardo scritta piangendo. « Genova, 3 agosto 1860 * Mio caro Gagliardi, » I presentimenti sono fallaci. Altrimenti noi non avremmo l’immenso dolore di piangere il nostro povero amico, Filippo Migliavacca, che parti da Genova così allegro, così certo del suo ritorno! Povero Filippo! Mi pare ancora vederlo la notte dal 9 al 10 Giugno nel giardino Ala-Ponzoni, quando gli strinsi 1 ultima volta la mano e gli diedi l’ultimo bacio! Povero Filippo! Non posso abituarmi al pensiero che quel nobile cuore, così ardente del santo amor di patria, così amante di ogni virtù, così pieno di nobili affetti abbia cessato di battere! E m’amava tanto! e io l’amavo tanto! Passeranno gli anni, verranno gioie e sventure nuove a rallegrarmi o ad amareggiarmi 19 290 la vita: ma le gioie saranno sempre accompagnate dalla mesta ricordanza dell’estinto amico, e i dolori non avranno il conforto della sua amicizia. Povero Filippo! Nel fiore dell’età e delle speranze che gli rendevano cara la vita, doverla perdere! E non poter vedere quel giorno di cui egli col suo sangue e col sangue de’ suoi prodi compagni ha accelerata l’alba! Povero Filippo! Una lettera di Depretis a Bertani aveva recato l’annunzio della sua morte; poi era stato smentito da non so qual voce che fosse stato fatto dopo la battaglia di Milazzo tenente-colonnello. Ma la speranza non durò che poche ore, poiché venne la vostra lettera a confermare la prima notizia. Almeno la fortuna gli fosse stata cosi benigna da togliergli l’uso dei sensi, sì che non avesse dovuto sopportare gli spasimi dell’agonia! — Ma pare che anche questi spasimi non gli siano stati risparmiati. — Vorrei scrivere presto la sua biografia, fio bisogno per questo della narrazione dettagliata delle sue ultime ore. Sopportate per la memoria dell’amico il dolore che vengo ad imporvi, raccogliendo dai testi-monii della sua ferita e della sua morte tutte le più minute circostanze della sua fine: e specialmente se tornò più in sé, e disse qualche cosa. — Io scriverò questa biografia colle lagrime, che non cesso di versare dacché lo perdei, e verso mentre vi scrivo. — Non potrei dirvi come egli sia stato compianto universalmente in Genova, e lo sia. — Non v’è persona che non parli di lui: tanto era amato, tanto care a tutti erano le sue virtù. — I suoi amici pensano di fargli un monumento, ed io vi ho già messo nel numero. » Caro Gagliardi, il dolore del perduto amico vi fa immemore di voi e d’ogni altra cosa. Ma voi purè avete corso i vostri pericoli. Ed il povero Migliavacca nella sua ultima lettera 18 Luglio mi scriveva che ai primi due scontri, ove prendeste il battesimo del fuoco, vi diportaste valorosissimamente. Non era da dubitarne. Eppure mi fu caro il sentirlo: e prego la Provvidenza che vi voglia salvo. Lo spero: e non vedo l’ora di abbracciarvi, e poter insieme piangere l’amico, e discorrere della gloriosa campagna che tanto onora i giovani generosi che offrono sul fior degli anni la loro vita alla patria. Oh l’Italia non può perire quando ha tali figli. Essa ha già a quest’ora riacquistato il suo posto fra le nazioni, che non hanno più per essa parole di disprezzo, e s’inchinano dinanzi alla virtù de’ suoi figli. E qual è il popolo oggi che abbia dato prove di eguale virtù? » Vorrei rallegrarmi della gloriosa giornata di Milazzo, pagina splendidissima della storia italiana, miracolo di valore che non fu nè sarà mai superato. Ma essa costò così cara al nostro cuore che il rallegrarsi è impossibile. Stringete però la mano a Rapallo, a Simonettai 291 a tutti gli amici, com’io la stringo a voi, col cuore pieno d’entusiasmo e di dolore. » Dalla vostra, ricevuta oggi da Clementina, veggo che siete in Messina. Raccomando a Garibaldi e a tutti i vostri capi di star bene in guardia finché i regii sono nella Cittadella. Crediateli capaci di qualunque insidia, sorpresa, tradimento, malgrado qualsiasi patto, qualsiasi giuramento. Potrebbero cogliervi all’impensata disarmati e dispersi se non fate buona guardia. All’erta, all’erta dai servitori dei Re spergiuri, dai seguaci dei Gesuiti. Raccomandate caldamente a tutti di star bene in guardia. » Addio, mio caro. — Lasciamo il voi. — Diamoci il tu. — Sebbene tu sia tanto più giovane di me, la gloria di una campagna così miracolosa agguaglia l’età: ed io mi sento inferiore. Posso dunque offrirti il tu. » Addio, mio caro. Amami, consei’vati: ed io prego la Provvidenza che se mi ha tolto un amico mi lasci l’altro. Addio, addio. Il tuo aff.mo Cesare Cabella ». Ci duole non possedere la lettera che scrisse quindi al povero padre di Filippo, dove piangeva con lui e gli domandava le notizie sulla vita dell’eroico figlio, che desiderava raccogliere e pubblicare. Con qual potenza d’affetto gli abbia scritto possiamo argomentare dalla risposta del padre, rimastaci, tutta vibrante di commovente gratitudine e di affettuosissima divozione. Ma ecco la lettera del povero padre. « Egregio Signore, » Tutte le dimostrazioni di condoglianza che mi vengono fatte dagli amici del mio buon Filippo, tutte sono di qualche sollievo a me povero padre inesorabilmente colpito nel più caro de’ suoi affetti; ma le appassionate righe che vennero da Lei, egregio Signore, mi sono proprio discese nell’intimo del cuore, e sciogliendomi un'altra volta le lagrime, che ad ogni istante mi fanno groppo, assopirono, per quanto è possibile, il mio dolore. » La sua lettera io porrò fra le cose più caramente conservate, e la rileggerò ogni qual volta mi sentirò straziato da quell’ambascia che d’ora innanzi dev'essere la compagna della mia vita; sì, la rileggerò per riceverne quel conforto che ne provo ora nel risponderle. 292 E non a me solo hanno fatto del bene le di Lei dolenti ma pur soavissime parole, mio buon Signore, ne hanno fatto tanto anche a colei che forse ne ha bisogno più di me, alla inconsolabile madre del mio generoso figlio. » Essa meco si congiunge per ringraziarla di tanto affetto, e nel medesimo tempo si ricorda di un debito che ha verso la di Lei Signora, che fu delle prime a condolersi seco della nostra irreparabile perdita. La mia dolente Ersilia è incaricata di soddisfare a questo debito di riconoscenza, ma anch’essa in questi giorni non è in grado di scrivere, si sente male, e non ha cuore di toccare il doloroso argomento. Preghi dunque la di Lei Signora di accettare le nostre scuse, e Le dica che ci stanno e ci staranno sempre scolpiti nell'animo quei sentimenti di gratitudine che ora non possiamo esprimere con le parole. » Del resto dalle intenzioni ch’Ella manifesta nella sua lettera vedo che il mio povero Filippo continuerà a trovare in Lei anche dopo la morte quell’affettuosa protezione che gli è stata sì utile e sì cara nell’inesperienza degli anni giovauili. Ella intende di onorarne la memoria, ed io ne esulto pensando che nelle regioni dell’oltre vita sarà lieto anch’esso di esser lodato con quei modi che suggeriti dal cuore ricevono bella forma dal coltivato ingegno. Notizie biografiche da soggiungere alle altre, che Ella non può ignorare, non ne ho che poche (1). » Qui non è bisogno che io proceda a dire più oltre; a Lei più che a me è nota la vita che il mio povero Filippo condusse negli undici anni che io ne fili diviso. Ed ora? Ora l’ho perduto per sempre. Ella lo piange, e noi ci raccomandiamo alla bontà del Signore. Ma prima di chiudere voglio di nuovo, e come posso, rendere la debita testimonianza al benefizio che da Lei ho ricevuto nel mio dolore; le sue care parole ci hanno fatto conoscere esservi esseri sensibili che rendono al nostro Filippo tutta la giustizia che gli è dovuta, e sanno comprendere tutta la grandezza della nostra perdita. Questo pensiero ci è di qualche aiuto a sostenere l’amarezza del nostro cordoglio. Io le stringo le mani, ottimo Signore; baci per me e in nome del mio Filippo i suoi cari figliuoletti e mi voglia bene. » Tantissime cose per la pregiatissima e tenerissima sua signora (1) Per non ripeterle ai omettono qui le poche notizie biografiche già da noi riferite al c. HI, e si passa alla chiusa della lettera. 203 da bocca della mia povera moglie e della mia Ersilia. Il mio Alberto le stringe riverente la mano, ed io con la più distinta considerazione sempre di Lei aff.mo Servo 11-8-1860 Luigi Migliavacca » Il 13 agosto a Milano nella chiesa di Santa Maria Segreta si celebrarono solenni funerali in suffragio dell’eroico maggiore (1). Segue una lettera che il tenente colonnello Cecco Simonetta spediva al Cabella per commettergli un pietoso ufficio presso la famiglia dello spento comune amico. « Messina, *15 agosto 1860 » Cariss.0 amico, » Avendo avuto l’ordine di partenza e dovendo, come ritengo, passare il mare e recarci in Calabria, spedisco a te i pochi effetti del povero Migliavacca, che mi fu dato raccogliere. Non essendo in relazione colla famiglia sua, tralascio di farne io stesso direttamente ad essa la spedizione e a te l'invio perchè tu voglia prenderti questo luttuoso incarico. La perdita di questo caro amico fu per me e per tutti cagione del più profondo dolore. Da che eravamo partiti, per elezione e per bisogno di servizio facevamo una vita sempre uniti, e per questo la sua mancanza mi è, ad ogni giorno e ad ogni ora, sentita. Non v’ha giorno che non lo rammentiamo e che non piangiamo l’immaturo e tristo suo fine. Quanta brava gioventù abbiamo perduto quel giorno! Ma abbiamo vinto e chi è morto è morto. E molto se vi hanno alcuni che piangono gli estinti. Questo pianto per lo più vien limitato alle infelici Madri, per gli altri tutti ©quistione di qualche giorno di ricordo. Così va il mondo. » Noi partiamo oggi, spero per prender terra ben presto in Calabria. Se la ci anderà bene spero arriveremo pei primi a Napoli, e se la sorte vorrà guatarci benigna, spero che non perderemo tempo e in qualità di avanguardia, pria che altri ci raggiunga a frapporci pastoie, arriveremo a Roma. Queste sono le intenzioni che potremo effettuare seppure non andremo anche noi a finire nel ventre di qualche balena. (1) A. Comandisi, op. cit. 294 » Ti prego dei miei rispetti per la tua Signora e di volarmi ricordare agli amici. Nella speranza di presto rivederti ricevi i miei saluti, e credimi il Tuo aff.° A.®0 Cecco Simonetta » Ti unisco la nota degli effetti contenuti nel piccolo baule e la chiave sua. Addio ». Ricevuti gli effetti del povero Filippo, il nostro desolato Cittadino li spediva tosto al padre di lui insiemi con la seguente, che risponde alla sopra riferita dell’ll agosto. « Genova, 27 agosto 1860 » Egregio Signore, » Ho ricevuto la sua sconsolata lettera; ed era quale l'aspettavo da un padre orbato d’un figlio tanto amato e tanto degno di esserlo. Se io non so consolarmi d’aver perduto il nostro Filippo (dico nostro perchè era anche mio per affetto) come sarebbe consolabile la sua infelicissima famiglia? — Or si prepari, Sig. Luigi, ad un nuovo dolore benché temperato di qualche conforto. Insieme a questa lettera le spedisco la spada che Filippo aveva a Milazzo, e gli effetti che si son potuti raccogliere di lui. Acchiusa in questa lettera troverà la nota degli effetti e la chiave della valigia dove sona contenuti. Ho ricevuto queste sacre e gloriose reliquie da Francesco Simonetta (colonnello del Reggimento ove il povero Filippo era maggiore) che le diresse a me accompagnate da una lettera piena di lagrime per l’amico estinto.... Mi furono recate nello studio ove l’ebbi tanto tempo compagno.... Al vedere entrare queste sue spoglie per quella porta che egli apri per tanti anni pieno di vita, di gioventù e di avvenire, il pianto mi velò gli occhi e mi tolse la parola.... Poi un sentimento di conforto temperò il dolore. Quegli avanzi che nel loro ritorno passavano per la mia casa, mi parvero un ultimo saluto, un’ultima testimonianza d’affetto che l amico mi inviasse da un mondo migliore, quasi volesse compensarmi d'esser partito da questo senza pili vedermi. » E questo conforto lo sentirà Ella pure riavendo le cose che il figlio ha lasciate per sempre, e sopratutto quella spada che lo farà vivere per sempre nella posterità. 295 » Ella conforti la madre e la sorella infelicissime, ed accetti un’altra volta il compianto mio e della mia famiglia. Le stringo con affetto e con molte lagrime la mano. Suo devot.mo All’Onorevole • Cesare Cabella ». Sig. Luigi Migliavacca Milano Piazza S. Vittore al teatro » Ci resta copia della petizione fatta al Parlamento dall’infelice padre, dove ricordando i servizi prestati e le battaglie combattute dal figlio per la patria e la morte incontrata combattendo a Milazzo, domandava che in vista del disagio in cui Filippo aveva lasciata la famiglia, composta dei- due vecchi genitori e di quattro altri figli, della quale egli era la speranza e il sostegno, il Governo volesse ratificare il Decreto di pensione vitalizia di ducati 40 mensili che Garibaldi dittatore aveva emanato a favore dei genitori del caduto. Era allegato alla petizione il testo del Decreto già pubblicato nella Gazzetta di Sicilia del 19 novembre e riportata in quella di Lombardia del 15 dicembre. Giova sperare, ma non possiamo assicurare, che la petizione sia stata accolta, visto il trattamento fatto dal governo subalpino all’esercito meridionale dopo la guerra. Il nostro Avvocato, sopraffatto da mille cure e faccende, non potè poi più soddisfare il suo vivo desiderio di lasciare ai posteri una memoria biografica che fosse degna del perduto amico. Le poche e disadorne parole con cui abbiam tentato di farlo chiaro al lettore, valgano a sciogliere in parte il voto di una santa amicizia e a fare memorando e onorando il nome di Filippo Migliavacca finché siano in pregio la elevatezza del carattere, la gentilezza del cuore, la nobiltà dell’ingegno e il sacrificio della vita per la libertà della patria. Giustizia vuole che di Cecco Simonetta, strenuo soldato e amatissimo amico del Cabella, del Gorini e del Migliavacca, e ammirazione di quanti lo conoscevano, si faccia cenno al lettore poco modificando di ciò che ne scrive il Castellini. Francesco Simonetta è oggi a torto dimenticato. Pochi patrioti lombardi possono vantare un passato di gloria come il suo. Giulio Adamoli, che è sempre stato uno dei più fieri rivendicatori di patrioti dimenticati, ha detto che il Simonetta « era il tipo del cittadino soldato ». Poco ei curava la forma, ma molto chiedeva alla sostanza. 29(1 Le sue guide che lo adoravano, e che da lui erano state primamente organizzate e costituite in corpo, raccontano ancora come un giorno, nella campagna del 1859, non trovando pronto sul labbro il comando gridasse: « Insamma, cegnimm adree (venitemi dietro » e li conducesse diritti al nemico. Il Simonetta era nato ad Intra. Studente ancora a Pavia dove poi si laureò ingegnere, nel 1834 fu imprigionato per sette mesi; liberato, riprese a cospirare. Nel 1847 il commissario Bolza si recò in casa sua per arrestarlo una seconda volta. Egli si calò da una finestra, si diede alla fuga e riparò in Piemonte. Scoppiata nel 1848 l’insurrezione a Milano, vi accorse con una schiera di armati. Entrato nel corpo dei Carabinieri milanesi, fece la campagna del '48 intorno a Peschiera. Rimasto in Piemonte dopo il '49, fu tre volt© deputato di Intra. Durante il decennio di preparazione fu spesso a Genova dove strinse molte chiare amicizie. Nel 1859 ebbe il comando delle Guide di Garibaldi. Il passaggio del Ticino fu da lui preparato in modo veramente meraviglioso: il Missori lo ricorda ancora con profonda ammirazione. Anche il Cadolini ne’ suoi scritti ricorda il bellissimo corpo delle Guide guidate dal bravo Simonetta. 11 Carrano, il Guer-zoni e il Cadolini ne lodano unanimi la straordinaria alacrità. Fece parte della spedizione Medici agli ordini del quale pugnò da prode col grado di colonnello per tutta la campagna di Sicilia e di Napoli. Piccolo, basso, il Simonetta era di una vitalità meravigliosa. Dimessosi al termine di quella campagna, il Simonetta nei pochi anni di pace che seguirono fu l’anima delle Società del Tiro a segno di Milano, finché ai primi di Ottobre 1863 morte immatura lo rapi all’Italia. Garibaldi e Medici videro scomparire nel Simonetta uno dei più fidi loro luogotenenti. All’annuncio di quella morte Garibaldi sentì vivissimo il rammarico di non aver dato al Simonetta, che lo meritava, il grado di generale. Del dolore del Medici fa testimonianza una lettera che questo generale scriveva il 18 ott. 1863 da Messina al Castellini. Al quale poi anche Garibaldi scriveva: « A nessuno io ero legato con maggiore stima ed affetto che al valoroso Simonetta; ti puoi figurare il mio dolore, raddoppiato dalla quasi contemporanea perdita del bravo Crofl; io non so darmene pace » (1). (1) G. Castellini, Pagine garibaldine, pag. 187-89. 297 Vili. Lazzaro Gagliardo, combattendo da prode al Volturno, succede al Migliavacca nell’amore paterno del nostro Cittadino. Trai Genovesi che valorosamente pugnarono al Volturno nella gran giornata del 1° ottobre 1860 si segnalò il nostro Lazzaro Gagliardo. Tipo di genovese operoso, giusto, schietto e gentilè e amato perciò singolarmente dal Cabella, merita di essere onorevolmente ricordato nelle pagine che parlano di lui. Egli nacque in Genova l’8 febbraio 1885 da Vincenzo e da Adelaide Peirano ed ebbe battesimo nella parrocchia di N. S. delle Vigne (1). Avviato giovinetto agli studi classici, pervenne all’Università, dalla quale passò alla Scuola militare d’Ivrea, donde uscì sottotenente. Date le dimissioni dall’esercito regolare, si arruolò nelle file garibaldine, e partì da Cornigliano nella 2a spedizione capitanata da Medici di cui fu ufficiale e aiutante di campo. Sbarcato a Palermo co’ suoi compagni, vennero dal duce diretti a Milazzo, e là il Gagliardo prese parte alla gloriosa giornata, e conservò per molto tempo, glorioso ricordo, il berretto traforato da un proiettile borbonico. Vinti e sgominati i Borbonici, Garibaldi passò lo stretto e portò la guerra sul suolo napolitano. Là pure si trovò il Gagliardo, e mandato contro il nemico sulle rive del Volturno, a S. Angelo veniva gravemente ferito ad una gamba. La ferita non tolse ch’egli continuasse imperterrito a rimanere sul campo dell’azione a compiere il suo dovere finché venne a forza fatto ritirare da’ suoi commilitoni. Il valoroso contegno tenuto in quella giornata gli valse una prima medaglia al valor militare, di cui veniva tenuto degno « per avere, benché ferito, continuato a combattere »; questa la motivazione del decreto della militare onorificenza. Udita la notizia della toccata ferita, la madre, l’amico Francesco Fontana corrono a Napoli. Cabella, questo non potendo, gli scrive la seguente lettera. « Genova, 14 Ottobre 1860. * Mio caro Lazzaro, * Di quanto affanno ci sia stata e ci sia cagione la notizia della tua ferita, lo 8ai, e il nostro Checco che ora sta al tuo fianco potrà fartene testimonianza (2). Ferita gloriosa, riportata nella più grande (1) Adelaide Peirano era sorella del chiaro armatore e patriota genovese Ludovico Peirano di cui il nostro Cabella era avvocato consulente. (2) Francesco Fontana amico comune già nominato. Ó98 battaglia che i soldati del popolo abbiano mai data ai soldati del despotismo: ferita gloriosa, perchè dovuta al valore col quale tu non solo recavi gli ordini, ma coll’esempio li facevi eseguire. Se di questa tua gloria io devo essere superbo (le glorie degli amici si considerano quasi come proprie) duoimi però che io non possa compiacermene senza rammarico per i dolori che ti costa, e senza ansietà per la tua guarigione. Da quanto scrive Fontana e da quanto pure scrivono altri da Napoli, la ferita è di guarigione sicura e di cura non lunga. Ma l’affetto difficilmente si acquieta: e malgrado le ripetute assicurazioni che ci vengono da Napoli, non cer iamo di desiderare notizie sopra notizie, che ci tolgano d’ogni angustia. Ti prego perciò a scrivermi o a farmi scrivere ogni volta che un piroscafo parta da Napoli: e spero che sarà ogni giorno. Due righe appena che ci dicano in che stato tu sei ci basteranno. Pregane Fontana, pregane i tuoi. — All’ora che ti scrivo avrai forse già abbracciato tua madre. Sarà stato un grande conforto: come sarà grandissimo quello in cui potremo riabbracciarti ptriettamente guarito. » La battaglia del Volturno ha coronato le glorie di Garibaldi e dei suoi volontarii. Quando vincevate a Calatafimi, dicevano gli invidi della vostra gloria: Garibaldi è solo atto alle piccole pugne con poche centinaia di prodi. Quando entrava in Palermo, dicevano: è una sorpresa, abile sì, ma infine una sorpresa. Quando vincevate a Milazzo, dicevano: fu una vittoria inutile acquistata a troppo caro prezzo. Quando fu presa Reggio, dicevano: è un colpo di mano fortunato. Quando procedeste vittoriosi fino a Napoli, dicevano: è una marcia trionfale perchè i Borbonici non sono disposti a battersi, ma guai se volessero battersi! Quando fu preso da voi e poi perduto Ca-jazzo, dicevano: ecco ciò che vuol dire non conoscere Farti della guerra; la posizione fu presa, ma non si usarono i mezzi per conservarla: guai a Garibaldi se i regii ripigliano l’offensiva con tutte le loro forze! — Questa offensiva fu ripigliata. 1 Borbonici erano 35/m : munitis-simi di artiglieria e di cavalleria: guidati da esperti capitani. Si batterono con valore e ferocia ostinata. Eppure furono vinti da 15/m volontarii! Gli invidiosi della vostra gloria sono muti. Non sanno più che dire. La battaglia fu campale. E voi avete vinto. Si combattè tre giorni. E la vittoria è vostra. Oh quanto son fiero anch’io e superbo di questa vittoria, che segna una nuova epoca nella storia italiana! Il popolo acquista la coscienza delle sue forze: impara la guerra: e comincia a convincersi che ove egli lo voglia, non vi saranno nè Austriaci, ni Francesi, nè Russi, nè Prussiani che possano impedirgli di 299 far l’Italia. — E questo è dovuto ai volontarii, che come hai fatto tu, mio caro Lazzaro, fecero sacrifizio di sè stessi all’Italia. Onore a voi! » Quando potrai, raccontaci per minuto la parte che hai preso alla battaglia, e il come e quando fosti ferito. E se noi puoi presto, facelo scrivere da Fontana. Noi siamo ansiosi di questi dettagli. » Addio, mio caro, ricevi un bacio dall’amico lontano. Vorrei potere alleviare le »,ue pene. Vorrei averti qui. Hai scritto a Clementina di preparare la : ua camera a Quarto per la fine del mese. Essa è già preparata a quest’ora il). Dio volesse che tu potessi partir subito. Addio. Il tuo aff.° Cesare Cabella » Il nostro Gagliardo guarì, portando però le moleste conseguenze della ferita. Ritornato in patria, si diede modesto e tranquillo ai commerci nell’azienda del padre. Nelle campagne di Sicilia e Napoli s'era guadagnato il grado di capitano, e con questo grado partì per la campagna del Trentino nel 1866. Comandò la la compagnia dei Bersaglieri genovesi, e a Montesuello il 3 luglio si comportò con tanto valore al fuoco che gli venne decretata una seconda medaglia al valore militare. Per disgrazia scivolò e cadde così malamente che si fratturò la gamba già ferita al Volturno. 1 commilitoni lo trasportarono all’ambulanza donde, dopo le cure, a Genova con la gamba difettosa in modo da dover andar poi sempre appoggiato al bastone. Ripresi i suoi commerci, si recò in Levante, a Galatz, dove fondò una casa di commercio di grani. Uno de’ suoi crucci fu quello di non poter prender parte alla campagna di Mentana (anno 1867). Da Galatz nel 1868, mortogli il padre, tornò a Genova dove fondò una casa di Commissioni col Levante, con le Indie, con l'America, sotto la ditta Lazzaro Gagliardo e Pasteur. Suoi caratteri: operosità, rettitudine. Nel dicembre del 1880 avendo dovuto l’on. Carlo De Amezaga uscire per sorteggio dalla Camera, gli elettori del 3° collegio di Genova a sostituirlo pel rimanente della XIV legislatura elessero il Gagliardo, il quale poi fu eletto alla XV, XVI e XVII legislatura nel 1° collegio. Alla Camera sedette a sinistra e fu dei più fieri avversarli della così detta evoluzione trasformista promossa dal Depretis. Recisamente contrario alle Convenzioni ferroviarie, divenute legge dello Stato (1) La famiglia Cabella allora e per più anni villeggiò a Quarto. 300 nel 18S5, appena vennero approvate dall’assemblea il Gagliardo si dimise ed insistè nelle dimissioni tutto che nella seduta del 9 marzo di detto anno la Camera, per proposta del Cairoli, le respingesse. Ma venne subito rieletto con isplendida votazione. Spartissimo di commercio e di navigazione, la sua voce si levò più volte in Parlamento a difesa della marina mercantile e per altre importanti questioni nelle quali l’interesse dei Liguri era interesse italiano. Fu della Commissione per l’abolizione del corso forzoso e di quella per la riforma doganale; sedette lungamente nella Giunta generale del Bilancio. Con R. Decreto 15 marzo 1889 fu nominato Sottosegretario di Stato al Tesoro quando, sotto Crispi, Giolitti reggeva quel Ministero. Caduto Crispi, saliva al potere Giolitti il quale, avendo bisogno di uomini di nota illibatezza, per restaurare il credito del governo già scosso negli anni precedenti, nello stesso giorno 24 maggio 1893 che dava al sen. Eula il Ministero di Grazia e Giustizia, dava al nostro cittadino quello delle Finanze che il Gagliardo sostenne fino al 15 dicembre dello stesso anno. In Genova fu consigliere comunale, presidente della Cassa di Risparmio e del Monte di Pietà. Visse sempre celibe. Una forma complicata di male cardiaco che da 4 anni ne minava la vita, lo trasse al sepolcro, ed ei spirava serenamente a ore 14 e '/4 del 25 marzo 1899. A Stagliano sul suo feretro dissero le lodi delle sue virtù il sen. Secondi, l’on. Fasce, l'on. Berio e l'avv. Edoardo Cabella. Gli on. Giolitti e Pelloux presero parte all'accompagnamento funebre (1). IX. Opera parlamentare del Cabella nella settima legislatura (anno 1860). Difende i mazziniani dalle ingiuste accuse dell’ou. Chiares. Sue lettere da Napoli nei primi giorni deirannessione. Detto della elezione del Cabella a deputato nel marzo di quest’anno 1860, ci resta a dire alcun che dell’opera sua parlamentare durante questa breve legislatura. La seduta della votazione del doloroso Trattato relativo alla cessione di Nizza e Savoia si approssimava, altre gravi leggi erano all’ordine del giorno; e il nostro Avvocato parti per Torino. Ma qual voto al Trattato avrebb’egli da buon italiano potuto dare? Napoleone (1) Ho tratto queste notizie in parte dalle note manoscritte di Francesco Polleri esistenti presso il Museo del Risorgimento naz.le di Genova, in parte da altre fonti. 301 aveva già pubblicamente fatto domanda, che è quanto dire manifestata la volontà, al Piemonte di aver Nizza e Savoia; il plebiscito di queste popolazioni era già fatto e risultato, benché coi soliti sistemi frodolenti, in maggioranza massima favorevole alla Francia; il dar voto contrario al Trattato di cessione era dunque ormai inutile e pericoloso; d’altra parte, chi avrebbe potuto senza macchiarsi di sacrilegio, dissacrare ed espellere dalla famiglia italiana quelle generose popolazioni che per l’unità e la libertà d’Italia avevano dato largo contributo di sangue e di fortune? Altro partito onesto non v’era che l'astenersi, e ('abella si astenne come per le stesse ragioni si astennero Rattazzi, Tecchio, Ameglio, Berti ed altri coscienziosi. La legge del Trattato fu approvata il 29 maggio (1860) con voti 229, 33 contrarii, 23 astenuti. Parlò poi nella discussione dello schema di legge per estendere alle nuove provincie la legge sul reclutamento militare; per l'attuazione del Ministero di agricoltura, industria e commercio; per le modificazioni da introdursi nella legge sull’avanzamento dell'armata di mare; in tornata 22 giugno fece savie osservazioni nella discussione sull'interpellanza del dep. Depretis circa il risarcimento dei danni cagionati ai privati ed ai comuni dalla guerra dell’indipendenza, e fu pure ivi nominato membro della Commissione per la revisione del Codice civile; nella tornata 28 giugno prese parte alla discussione del disegno di legge relativo al prestito di 150 milioni, con un discorso che brevemente riassumo. Esso è diviso in due parti: economia e politica. Trattando la prima, dopo un accurato esame del tutto, riduce a tre capi gli schiarimenti che domanda al Ministro, cioè dar ragione delle differenze che si rinvengono tra i risultati esposti dal Ministero nel suo progetto di legge e quelli indicati dalla Commissione nel suo rapporto; dar ragione delle cifre che la Commissione stabilisce come basi per dedurne i suoi risultati; e finalmente dare ragione del come il disavanzo dell’esercizio del 1860, calcolato al 10 dicembre ultimo scorso in 30 milioni circa, siasi accresciuto di 133 milioni. Quando l’oratore dice di venire alla questione politica gli Atti parlamentari notano segni di attenzione del Presidente del Consiglio. Comincia dunque la 2a parte affermando uno essere l’indirizzo politico del Ministero e della Sinistra parlamentare, la differenza consistere solo nei mezzi di attuarlo. La cessione di Nizza non è però un mezzo ch’egli possa approvare. Questa cessione era essa necessaria all’alleanza colla Francia? No, perchè per l’imperatore Napoleone quest’alleanza era già per se stessa un adeguato compenso; infatti prestandoci 302 aiuto si faceva propugnatore e vindice di quel principio di nazionalità sul quale egli fondava e fonda la sicurezza e la fermezza del suo impero. Egli infatti s’è proposto di applicare alle nazioni i principii che la Rivoluzione francese dell ’89 aveva proclamato a regolare i diritti degl’individui, e scrive e fa scrivere ogni giorno che dovunque sia una nazionalità oppressa, ivi la Francia andrà al soccorso. Il soccorso prestatoci gli veniva dunque bastevolmente ricompensato coH’acquistai'e in noi dei fedeli alleati, e l’alleanza non poteva venir compromessa col negargli la cessione di Nizza e Savoia. Che se a un compenso territoriale si doveva pur addivenire, del territorio di Nizza si doveva ceder solo quella parte che è francese, non la parte orientale indubbiamente italiana. Inoltre non si doveva promettere la cessione di queste provincia se non per quel giorno che noi avessimo almeno assicurati i confini orientali del nostro nuovo stato cioè quando, se non compiuta, fosse almeno fondata su salde basi la nostra futura unità. Ma anche rifiutando queste cessioni, non era da temere che l’imperatore rompesse l’alleanza con noi perchè non gli poteva convenire che il sangue di 50 mila francesi fosse stato versato invano e che l’Austria tornasse in Italia e vi rassodasse la sua potenza. L’oratore non crede che, come affermava il Cavour alla Camera, Napoleone non avrebbe potuto condurre 150 mila francesi a Solferino senza soddisfare all’opinione francese che reclamava in compenso Nizza e Savoia. La Francia s’è mossa perchè, generosa, ama la giustizia della causa nostra. Non prima ma molto dopo la guerra si cominciò a parlare di compensi; prima della guerra Napoleone aveva dichiarato ch’egli veniva a combattere senza compensi, e nello stupendo suo proclama dell’ 8 maggio di compensi non fa parola. Nè è pure da credere che senza la cessione di Nizza e Savoia Napoleone non avrebbe consentita l’annessione dell’Italia centrale; no, egli non avrebbe mai potuto permettere che col ritorno dei granduchi l’Italia ripiombasse sotto l’influenza austriaca. — E se l’alleanza francese non fosse quella che noi desideriamo e speriamo? Se i disegni di Napoleone fossero quali tutta Europa mostra temerli? — Dovere più stretto pel governo di mostrarsi più severo e fiero nella sua indipendenza, e trattare l’alleato con lealtà e fede, sì, ma con dignità, libertà e franchezza. E questo dice l’oratore perchè, giusta il suo avviso, il governo deve prepararsi ad una nuova lotta la quale può esser più o meno ritardata ma sopravverrà senza dubbio (1). (1) Garibaldi in Sicilia volava di vittoria in vittoria ed erano in vista i grandi avvenimenti, tra i quali la sospirata conquista di Roma, che dovevano unificare la 303 Passando ad altro ordine d’idee dice eh» uno stato non si forma col semplice voto di annessione. « Per formare uno stato ci vuole un principio che lo informi, una forza che lo tuteli, un ordinamento che lo governi ». Il principio di nazionalità che informerà ogni legge ed ogni atto del governo, e tutti gli sforzi che si faranno per liberare le parti d’Italia ancora schiave, saranno potenti mezzi di coesione per tenere unite le membra del nuovo corpo sociale. La forza si crea con la creazione di un esercito ben ordinato ed istrutto. Ma accanto a questo preparate le forze popolari. Quale possa esser la forza di questo elemento ve lo prova Garibaldi. Non isdegnate l’alleanza della rivoluzione; non ripetete gli errori del '48 e ’49. Sul terzo punto dell’ordinamento dei nuovo stato l’oratore ammonisce che il Governo non deve solo pensare agli 11 milioni già ricevuti ma anche ai 15 che ancora rimangono a riunirsi: il sistema del governo sia coordinato in modo che non solo convenga a coloro che già stanno insieme ma anche a coloro che mancano ancora alla nostra famiglia. In fine mette in guardia il Governo dall’applicare in Italia il sistema di accentramento francese che per noi sarebbe una rovina; la vita, lo spirito, l’indole, la forza dell’Italia sta nel Municipio. L’oratore vuole l’unità, è unitario forse più antico del presidente del Consiglio, ma vuole l’unità nel governo non nell’amministrazione e nella cura degl’interessi locali. « Salvo il governo, lasciate tutto il resto ai Municipi; accostatevi il più possibile alla federazione ». Segue a provare questa tesi con gli esempi del l'accentramento francese e del decentramento inglese e « si smetta una volta, esclama, il vezzo troppo lungamente seguitato in Piemonte di prendere ed imitare tutto dai Francesi *. E chiude con queste parole: « Io voto il prestito di 150 milioni nella speranza che il Ministero porterà nella sua politica quell’indipendenza senza la quale non potremo colle alleanze formare l’Italia ». (Applausi). La legge fu approvata nella tornata del 29 giugno con voti 215 favorevoli e 3 contrari. Il Nostro si mostra qui troppo ottimista attribuendo all’imperatore dei Francesi maggior generosità cavalleresca di quella che la realtà dei fatti per avventura non consentisse. Il non aver parlato di compenso prima del recato ausilio non deve riputarsi altro che un atto di politica prudenza per non turbare e mettere a pericolo fin da principio la cordiale fraternità fra i due popoli nel momento che penisola e urtare di conseguenza in un modo o nsll’altro 1* intenzioni e i disegni politici dell’imperatore. 304 urgeva assicurare cou ogni mezzo il buon successo delle armi alleate. L’aver dichiarato prima della guerra ch’ei veniva in nostro aiuto senza aspirare a compensi era una menzogna politica non diversa da quella pronunciata ai tempi nostri dal presidente Wilson a nome degli Stati Uniti d’Amerioa. Uomini magnanimi, prototipo il nostro Garibaldi, sorgono ben talvolta dal brago dell’egoismo universale a combattere e versare gratuitamente il sangue per la libertà dei popoli, ma un principe, un governo deve operare sempre e soltanto l’utile della sua nazione. Inoltre, come oggi è storicamente accertato, Napoleone dopo la guerra dissimulò per alcun tempo le sue intenzioni barattiere fino a che gli avvenimenti gli chiarissero qual natura di compensi gli era possibile reclamare da noi; e quando per l’espressa e incrollabile volontà delle nostre popolazioni centrali vide caduto a terra il sogno vagheggiato d’innalzare in Toscana un trono napoleonico sulle rovine del trono absburgo-lorenese per indi dominare sulle ' future sorti italiane, fece subito manifesto il suo proposito, anzi la sua volontà della doppia annessione come indeclinabile necessità politica e strategica, in verità per acquistarsi merito con la Francia non solo d’averla accresciuta di gloria militare e di potenza diplomatica ma ancora, e saprattutto, d’averla ampliata di territoriali conquiste. Che a Napoleone III siano mancati o i mezzi o la mente o la fortuna non la volontà d’impedire la nostra unità politica lo confessava implicitamente lui stesso quando il 15 luglio 1859, ossia quattro giorni dopo firmata la pace di Villafranca, a Gioachino Napoleone Pepoli figlio di sua cugina Letizia Murat e confidente amico suo, corso a Torino a protestare innanzi a lui, apertamente dichiarava: « *Sfe l'annessione valicasse le Alpi, l'unità d’Italia sarebbe fatta, ed io non voglio l’unità, ma soltanto l’indipendenza, giacché quella mi creerebbe, dei pericoli interni per la questione di Roma, e la Francia non vedrebbe con piacere sorgere al suo fianco una grande nazione che potesse diminuire la sua influenza * (1). Chi non vede esposto qui tutto l’ambizioso programma del vincitore di Solferino? Che il suo proposito di non tollerare la restaurazione di un trono austriaco in Toscana dovesse per noi esser pegno bastevole ch’egli ci avrebbre consentito l’annessione dell’Italia centrale senz’altro richiederci, è asserzione gratuita ohe i fatti e i documenti della storia diplomatica dimostrarono erronea. Egli voleva espellere l’Austria dall’Italia non per amor nostro ma per sostituirvi la propria all’egemonia austriaca. E d’altra parte, (X; L. Cabpi, Il Ritorj/imtnlo Italiano, Voi. Ili, pag. 874. 305 se noi gli avessimo negato Nizza, chi gl’impediva, dopo averci aiutato, di osteggiare iu mille modi la nostra incipiente unificazione? Era pure una grande e potente nazione quella che voleva da noi un grave sacrifizio in pagamento di un sacrifizio grave, ed è ingenuo il credere eh ella avrebbe risposto a un rifiuto simile con la rassegnazione dal serafico d Assisi. Tant’è: il creduto tradimento di Villafranca, il creduto mercato di Nizza, l’ostentato disprezzo di Garibaldi e dei Garibaldini avevano creato in Genova un odio feroce contro il governo piemontese, odio accresciuto dall’azione parlamentare del Rattazzi capo del partito a litica vouriàno, fiero riprovatore della cessione di Nizza e amicissimo del Cabella. Non risentire gli effetti dell’aria che si respira com'è possibile? Solo al tempo e ai documenti, che col tempo vengono in luce, è dato sgombrar le menti dall’errore e ristabilire la verità delle cose (1). Nella tornata del 9 ottobre (1860) discutendosi la legge proposta dal ministero relativa all’annessione allo stato delle provincie dell’Italia centrale e meridionale, l’on. Desiderio Chiaves aveva digredito a parlare dei diversi partiti politici e accennato sotto un velo molto (L) Due mesi dopo, il 28 agosto 1860 a Chain béry, ai nostri rappresentanti Farmi e Cialdini venuti a persuaderlo della necessità dell’intervento sardo nella rivoluzione del regno di Kapoli, Napoleone diceva in gran segreto “ aUez, fatte» vite ”, contrariando cosi di nascosto la politica italiana della sua corte e del suo governo; da ciò la credenza comune che Napoleone non fosse mosso che da amore disinteressato e puro per l'Italia. (Cfr. Jack La Bolina (A. V. Vecchi) CronacheUe del Risorgimento italiano; Firenze, Le Monnier, 1918), pag. 60). Credenza, a parer mio, erronea perchè il fatto altro non prova se non che Napoleone, trattenuto da una parte dall’atteggiamento minaccioso dell’Inghilterra indignata della cessione di Nizza e Savoia, scosso dall’altra dal corso infrenabile e concorde della libertà e unità italiana, a salvar Roma dalla paventata irruzione garibaldina non vide pel momento miglior partito che di permettere all’esercito sardo il passaggio nell’Italia meridionale. Nè quest'atto era debolezza o amor puro del nostro paese. Egli doveva pur rispettare il principio allora adottato in Europa del non intervento; doveva pur ricordare che il principio di nazionalità per cui l’Italia s’agitava e combatteva, egli l’aveva scritto sulla sua bandiera e lo proclamava ogni giorno al mondo e in nome di quello era sceso con l’esercito a combattere in Italia contro l’Austria, e il tradirlo ora nelle presenti contingenze non gli avrebbe fruttato che l’infamia universale e rodio dell’Italia patria di Felice Orsini. Altro dunque non potendo, divisò di seguire verso di noi una forma di politica più accorta e più consona alla civiltà dei tempi mutati: guadagnarsi cioè la gratitudine e l’amore degl’italiani per averli non servi frementi e meditanti vendetta, come li faceva l’Austria, ma vassalli fedeli e devoti a ogni suo cenno in ogni occasione, come infatti avvenne poscia per oltre un decennio, e come sarebbe, con nostra quasi certa rovina politica, anche avvenuto nel 1870 se Quintino Sella e i suoi colleglli non si fossero patriotticamente opposti alle intenzioni francofile di V. Emanuele. È assurdo, ripeto, astrarre da ragioni di positiva utilità politica quando si tratta di giudicare atti politici di governi e di monarchi. to 306 trasparente a Mazzini e ai mazziniani condannandone l'opera e dicendoli mestatori e cospiratori di mestiere. Il Nostro volenti, riparlare su questa legge, abbozzò un discorso, che poi non potè pronunciare, dal quale stralciamo ciò che intendeva rispondere al Chiaves sul citato argomento. « Mi duole che troppo amare parole sieno sfuggite all’onorevole Chiaves contro un partito che in questi ultimi mesi ha mandato pur tanti giovani a morir per la patria nell’Italia meridionale. » Una diffidenza, certo ispirata all’on. Chiaves dal suo umore per la causa italiana, ha potuto per un momento trascinarlo. No, non meritavano il nome di mestatori politici quei giovani, fossero pure re-pubblicaui, che morivano al grido di Italia e l ittorio Emo miele, sotto la nostra bandiera da Calatafimi a Capua. » Non meritava il nome di cospiratore per mestiere colui che l’on. Chiaves non nominò ma coperse di un velo troppo trasparente. Io che ho fede nella monarchia costituzionale, che non credetti mai possibile far Tltalia colla Repubblica, che ringrazio Dio d'aver dato all’Italia Vittorio Emanuele, perchè coprendo un posto a cui ninno può aspirare, rende impossibile tutte le ambizioni, io che non fili mai tra i seguaci di Mazzini, che non ebbi mai con esso corrispondenza nè privata nè politica, che deplorai spesso i suoi errori, io posso difenderlo dall’ingiusta accusa. Oh non fa il cospiratore per mestiere chi ha consumata la sua fortuna nella causa che ha sposato, sicché solo gli avanzano due piccole rendite vitalizie appena bastanti al vivere, e non ne ritrasse che persecuzioni ed esigli. E nemmeno cospirarono per mestiere i suoi seguaci ai quali non so che altro compenso sia mai toccato fuorché di prigioni, di esigli e di patiboli. » Ah, i mestatori politici esistono certo in questo partito. Qual è il partito dove non esistano? Ma in tutti i partiti i mestatori sono impotenti. Dobbiamo noi occuparci di loro? Oh se l’on. Chiaves non si fosse lasciato trasportare dall’impeto della sua potente fantasia, invece di evocare dinanzi all'Europa lo spettro rosso della Repubblica, l’avrebbe rassicurata dicendo: che in Italia non v’è lotta tra Monarchia e Repubblica ma solo contro lo straniero: che una sola è la bandiera sotto cui si raccolgono gl’italiani: che Mazzini ha ripiegato la sua: che ha promesso di non più spiegarla se prima non ne avverte pubblicamente amici e nemici: ch’egli che non mancò mai a nessuna privata parola, non mancherà alla pubblica. E con quella potenza di parola che la natura gli ha dato, avrebbe detto: Vuole l’Europa che le cospirazioni dell’agitatore italiano finiscano? Non 307 contrasti all’Italia di costituirsi in nazione. Fatta l’Italia, lo spettro mazziniano è sparito per sempre ». Nobile imparzialità di giudizio e nobile professione di sentimenti monai • hico-costituzionali da lui apertamente confessati in ogni occasioni innanzi a chicchessia, anche quando e dove il farlo richiedeva fermezza d’animo, come avveniva a Genova dove fin oltre la proclamazione del Regno d’Italia erano repubblicani, per cosi dire, perfino i sassi (1). Lasciando da parte altri uffici compiuti alla Camera in quello scorcio di sessione, non tacerò che essendo dalla sorte chiamato a far parte d’una deputazione incaricata di recare a V. Emanuele in Napoli l’indirizzo redatto da G. B. Giorgini e votato dalla Camera nella tornata del ]!l ottobre 1860, il 22 novembre s’imbarcò insieme co’ suoi colleghi per alla volta di Napoli dove non arrivarono che dopo tre giorni di penosa navigazione. Sbarcato e preso alloggio all’Albergo della Vittoria, scrisse subito questa lettera alla sua Clementina. Camera dei Deputati « Napoli 2o novembre 1860. » Carissima Clementina, » Questa sera alle otto siamo finalmente giunti in Napoli dopo tre giorni di viaggio penosissimo. Sono ora le undici: ho finito or ora di pranzare: e la mia prima occupazione è di darti mie nuove. Non si può dire che nel nostro viaggio abbiamo corso alcun rischio, ma si può dire che fu una continua tempesta. Abbiamo sempre avuto vento contrario, pioggia e mare grossissimo. Quasi tutti soffrirono: molti orribilmente: io nulla. Anzi ebbi sempre appetito, malgrado i disagi del viaggio. Non ti posso dar alcuna nuova, perchè non fo che arrivare, e da tre giorni son segregato dal mondo. Domani il (1) Nrtla tornata de! 10 parlò per lui e con energica parola l'amico suo Sineo il quale dimostrò contro il Chiaves non esser tollerabile che per propugnare la legge si parlasse di nettatori e d'intriganti politici, nè potersi lasciare senza protesta l'asserzione che il votare contro la legge voglia dire esser repubblicano. Dell’assurdità dei timori del Chiaves fece poi fede la votazione dell’ll ottobre nella quale la legge ministeriale fu approvata con voti 290 su 296. 308 Re riceve la deputazione, e la invita a pranzo: posdt'inuni parte per Palermo. E noi siamo liberi di tornare. Ma sembra thè vogliano tutti fermarsi due o tre giorni almeno per veder le cose principali. Se mi scrivi dirigi le lettere « Albergo della Vittoria *• E non ti dimenticar sopratutto la qualità di Deputato, ed anche quella di cavaliere; perchè qui mi tanno diventare Eccellen: mi tanno usar mille riguardi, che altrimenti non avrei. Quando ti •*. di scrivermi veramente dico una inutilità; perchè non so se la aia dimora qui durerà tanto da ricevere la tua lettera. » Ho cominciato questa lettera ieri sera: poi pei hi stanchezza mi addormentai sul sofà: ripiglio a scrivere stamattii ì. appena alzato. È una deliziosa giornata. Che cielo d'iucanto Napoli! Che dolcezza di clima! È caldo come in primavera. Mi se 11 r.. 1 lutto, perchè ho dormito bene, malgrado un pessimo letto....... » Dammi un bacio ad Edoardo e ad Adele, i quali non dubito che mi manterranno la parola d’essere molto ma multo savii. E bacia pure l’Elisa e la Bice. E un saluto cordiale alla Mamma e a Rosetta. Cesso, perchè ancora mi dondola il capo, e mi par tuttavia esser sulla nave: e perchè voglio andar subito a prendere un bagno per lavarmi la caligine che ho attorno, e mettere intanto questa lettera alla posta. Addio, mia cara. Una stretta di mauo a Fontana e all’Eroe ferito (1). Addio. Addio. » Il tuo Cesare ». Dopo tre giorni le spediva quest’altra lettera j>er più rispetti interessante. Deputazione DELLA Camera dei Deputati « Napoli 29 novembre 1860. Presidenza » Carissima Clementina, * E la quarta lettera che ti scrivo dopo la mia partenza. Te ne avverto, perchè veggo sopra tutti i giornali tante lagnanze sul servizio delle poste, che dubito possa qualcuna smarrirsi, e voglio (1) Lazzaro Gagliardo. 309 che tu sappia che io mantengo la mia promessa. Dopo il ricevimento ed il pranzo a Corte, non abbiamo avuta altra festa. La città di Napoli, come ti dissi, appena s’accorge che noi siamo qua. L’altr’ieri il Municipio venne a farci una visita, e noi l'abbiamo oggi restituita. Del resto non feste, non banchetti, non plausi nè legali nè popolari. Anzi mi pare che la nostra presenza sia qui ben poco accetta, perchè abbiamo l’aria di essere qui i rappresentanti della politica cavouriana. ia quale in questo paese non ispira nè confidenza nè simpatia: ed anzi a giudicarne dai discorsi che ho fatto con molti, è abbonita. Ieri sera, per esempio, fui al Teatro dei fiorentini ove si rappresenta la commedia. Negli intervalli da un atto all’altro la musica intuonò un ballo che mi dissero chiamarsi la polka del Re. Fu uno schiamazzo, un urlo, una fischiata così universale che si è dovuto cessare: ed allora fu chiesto l’inno di Garibaldi con uguale unanimità: e si è dovuto suonare. E mi dicono che tutte le sere accade la medesima cosa: e così negli altri teatri. E incredibile la simpatia e l’entusiasmo universale che si ha qui per Garibaldi. Ed all’incontro i piemontesi, che si vollero al solito posare in conquistatori, sono mal veduti. Il Re non esce quasi mai. Farini e tutti i suoi partigiani sono impotenti perchè hanno l’opinione contraria. Se la cosa va di questo passo e non vi si pone rimedio, avremo qualche brutto guaio. » Ho veduto Rapallo l’altro giorno; e sta benissimo. Ho pur veduto Bobbio per istrada: ma non ho potuto stringergli la mane, perchè eravamo separati da tre o quattro file di carrozze: e le nostre carrozze dovevano seguitare il loro corso. Domani vado ad Aversa a trovare Rapallo, e vedrò forse anche Bobbio (1). Ho salutato Co-senz, Medici, Malenchini, che stanno tutti benissimo. Sono stato a fare una visita a Bixio, il quale sta molto meglio, e si propone di venire a Genova fra dieci o dodici giorni. Medici ed il Duca di San Donato mi hanno chiesto tue notizie. Quest’ultimo vorrebbe vedermi al posto di Farini. Figurati! Rapallo poi mi ha parlato di te e dei bambini e di tutta la famiglia con quell’amicizia e quell’afFetto ingenuo che lo fa si amabile. » Stassera andiamo al teatro San Carlo, che era chiuso per il cattivo spettacolo e si è riaperto per noi. Vi è illuminazione per il nostro arrivo. E un pensiero venuto un po’ troppo tardi. Temo che (1) Due genovesi, amici carissimi del Cabella, militanti con Garibaldi nelle guide a cavallo. 310 succeda qualche scena che mi rincrescerebbe. Poiché se fischiassero qualche pezzo di musica reale e volessero l’inno di Garibaldi, noi venuti qjua per ossequiare S. M., che cosa faremmo? » Io sto benissimo in salute. Così spero di te e dei bambini. Salutami Rosetta e la mamma. Un bacio all’Adele, un altro all Edoardo e un altro ad Elisa e a Bice. Oh quanto mi pare che io non . ol bia veduti! Volevo partire quest’oggi col Zuavo di Pahstro. Ma ia visita al Municipio me lo impedì. Sabbato o Lunedì al più tardi ritorneremo forse col Conte di Cavour; che brutto imbarco è per me! \ddio, mia cara. Il tuo Cesare » X. Rapporti del Cabella col Cavour. Lettere inedito del Cavour. Le relazioni del Nostro col Conte di Cavour erano state fino a quivi quelle che sogliono intercedere tra nobili awersarii che molto si stimano e, salvi i debiti riguardi, son disposti a usarsi cortesia e rendersi servigio. Il 21 marzo 1867 avendo il nostro deputato pregato il Ministro torinese di volergli dar notizia del disegno di legge relativo alle costruendo strade ferrate delle Riviere liguri, il 24 dello stesso mese il Ministro gli rispondeva: « Preg.mo Signore, » In riscontro al suo foglio del 21 andante, le annunzio che oggi o domani verrà presentato alla Camera il progetto di legge relativo alle strade ferrate delle Riviere, il quale, per ciò che riflette la Società Ligure Orientale, è redatto in conformità di quanto ebbi ad esporle a viva voce »: L’estate dello stesso anno 1857 la Transatlantica, compagnia di Navigazione tra Genova e Brasile con sede a Genova, versando in tristi condizioni di bilancio, l’Amministrazione, come pare, aveva dato incarico al nostro Avvocato di far pratiche presso il Presidente dei Ministri per vedere se fosse possibile di cederne la proprietà al Governo o, quanto meno, di ottenere dal sapiente Ministro un lume, un consiglio, un aiuto. Il Cabella ne scriveva tosto al Cavour, che gli rispondeva con la seguente lettera del 12 luglio 1857. » Solo ieri mi furono consegnati i documenti relativi allo stato attuale della Transatlantica, da me richiesti al Consiglio d’amministra- 311 * » zione. Un rapido esame mi ha assai sgomentato. E tuttavia mi riservo di pensarvi sopra nuovamente. D’altronde, essendo giunti a Torino i Casareto e Polleri, nulla deciderò prima di aver con essi conferito (1) ». Riesaminato diligentemente lo stato di quell’azienda e conferito in proposito e a lungo coi delegati dell’Amministrazione, il Ministro parecchi giorni dopo dava al Cabella questa risposta che ora per la prina volta vede la luce. « ‘23 luglio 1857. » Preg. Sig. * Dall e ,une attento e ripetuto dei conti della Società transatlantica e dalla lunga conferenza avuta coi delegati del Consiglio d’am-ministrazion della medesima è risultata in me la convinzione che l’attuale ordinamento della Società sussiste. Credo indispensabile in tutte le ipot--si: sia che si voglia tentare di mantenere il servizio transatlantico, sia che si voglia procedere ad una liquidazione; che si addivenga senza indugio ad accordi col Sig. Pietroni in vista dei quali od esso s’int arichi della ricostituzione di una nuova società, od acconsenta a che un’istituzione di credito nazionale promuova la formazione di una società che coll’assecondare Ja liquidazione dell’antica, riesca a salvare dal naufragio il servizio transatlantico. — La prego a tanto comunicare al Sig. Pietroni a nome mio, invitandolo a recarsi a Torino il più presto possibile per addivenire ad una definitiva risoluzione, la di cui urgenza non ha mestieri di essere dimostrata. C. Cavour » (2) Poiché ogni scritto del gran Ministro merita d’esser dato in luce, digredendo alcun poco dal nostro argomento, recherò qui la lettera inedita e senza data, ma dei primi di maggio 1857, da lui spedita al Conte Luigi Seyssel d’Aix, e da costui trasmessa al Cabella (1) Cfr. Nuove lettere inedile del c. C. di Cavour pubbl. da E. Mayoe (Roux, 1895) pag. 492 e 618. (2) Da duo letterp del Cavour, ambedue del Iti die. 1858, una al Sig.r Rocca vicepresidente della Transatlantica, l'altra al cav. Ottavio della Marmora, Intendente generale a Nizza, sappiamo ch’egli autorizzava questo funzionario ad> appoggiare a nome del Governo Sardo presso il Granduca Costantino le pratiche che la detta Compagnia avrebbe attivato con esso Granduca al fine di effettuare la vendite de’ suoi vapori al Governo russo o alla Compagnia dal Granduca istituita pel servizio dal Mar Nero al Mediterraneo. Cfr. L. Cuiii.a. op. cit. voi. VI pagg. 853-54. nelle cui carte fu rinvenuta, die dimostra com’egli pi’endesse attiva parte a tutte le questioni e le imprese che concernessero in qualsiasi modo il pubblico bene (1). « Preg.m0 amico, » Nel rimandarti le lettere del Sig. Alberti che volesti comunicarmi sarei a pregarti di trasmettermi tutte le carte che ritieni presso a te relative alla proposizione della società rappresentata dal prefato Signore. Dalla loro disamina potrò farmi un’idea esatta delle pretese da essa poste innanzi, ed emettere quindi un fondato giudizio intorno ad esse. » Il Ministero non è alieno dall’idea di alienare le strade ierrate; anzi è determinato a farlo quando gli si propongano condizioni ragionevoli. Duoimi che il discorso del mio collega Paleocapa abbia ferito i Sig.ri Genovesi (2). Non avendolo udito mi è impossibile il dire se si lasciò tropp’oltre trasportare dalle provocazioni dei suoi avversarli. Ma tu devi sapere che i frizzi parlamentari sono armi che non fanno mortali ferite. Ove fosse altrimenti io sarei morto più volte. Esorto perciò i Sig.ri Genovesi a non mostrarsi più sensibili di quanto lo sia mai stato io stesso, ed a non dimettere la loro idea, quando abbiano veramente la seria intenzione di assumere l’ardua impresa di portare a compimento le nuove strade ferrate. » Mi rallegro del buon esito della corsa ,in Sardegna del tuo ingegnere; e t’invito a adoperare tutta la tua influenza onde i tuoi suggerimenti pel miglioramento della coltivazione di Monteponi siano pienamente adottati, » Ti saluto amichevolmente. C. Cavour » Domandandogli il discreto Seyssel se la lettera sopra riferita fosse ostensibile o riservata, il Ministro gli rispondeva: « Ministère des finances » Ma lettre n’exprimant que ce que je suis prét à déclarer hau-tement tu peux la comuniquer à qui bon te semble. » Adieu à la hàte. __C. Cavour » (1) Il Seyasel, capitano di artiglieria, rappresentò il collegio di Avigliana nella IV legislatura; nel 1866, maggior generale della Riserva, fu nominato Conservatore e Direttore dell’Armeria Reale di Torino. (2) Si accenna al discorso del Paleocapa sul trasferimento della marina militare alla Spezia in tornata 1° maggio 1857. XI. Cause che indussero i Genovesi e il Cabella ad avversare la politica del Ministro piemontese. Ma noi abbiamo pure del Nostro una lettera singolarissima, che per essere di rimprovero e biasimo a Cavour presidente del Consiglio dei Ministri, merita qualche particolare spiegazione. La grandezza del Cavour è oggimai una sfolgorante e inconcussa verità storica: egli fu genio, apostolo, massimo fattore politico e, considerate le cause della sua morte immatura e inaspettata, martire glorioso dell’unità italiana, e, senza dirlo immune da intemperanze e deficienze umane, fu anche, vivaddio! un grande galantuomo (1). Non perciò possiamo affermare che il Cabella non avesse ragione di sdegnarsi con lui quando consideriamo da una parte che il Cabella non poteva non credere ciò òhe l’eloquenza dei fatti a tutti, anche ai più prudenti, imponeva di credere nei riguardi della politica cavouriana del 1860; dall’altra parte che quello sdegno veniva anche giustificato dal modo scorretto che lo statista torinese in tal circostanza, come vedremo, credette usar con lui. Non sia grave al lettore se, a meglio chiarire il fatto e anchè a spiegare il mal animo comunemente nutrito dai G-enovesi contro il Cavour, mi rifaccio da tempi anteriori. Camillo Benso conte di Cavour aveva esordito nella carriera parlamentare inviso ai liberali, sia perchè figlio del Vicario ossia del Prefetto di Polizia a Torino, uomo dispotico e duro, esoso a tutti; sia perchè capo del partito moderato. I suoi colleghi notarono subito co- (1) Consolano il cuore d’ogni Italiano e lo compensano in parte di tanto malevolo e invido vilipendio straniero le solenni parole pronunciate alla Camera dei Lordi e a quella dei Comuni dagli statisti più eminenti d’Inghilterra all’annunzio della morte di un tant’uomo che, vivo, com’è tristo fato umano, cosi poco da noi si conosceva. Alla Camera dei Lordi il 6 giugno il marchese di Clanricardie: « Le comte de Cavour laissera après soi une si grande renommée de patriotisme, de désintéressement et de grandeur d’àme, que son nom demeurera jusqu’aux dernières annales de l’hi-stoire humaine •. Seguono altrettali elogi di lord Brougham e del Conte di Malme-sbury. Alla Camera dei Comuni il 7 giugno lord Palmerston: « Il est juste de lui rendre un tribut et un hommage, comme il convient à l’homme qui occuperà une des places les plus sublimes du genie humain ». B Sir Eobert Peel: « L’Italie a perdn le plus grand homme d’état qui ait jamais guidé une nation sur le chemin de la liberté ». E John Russel: • J’ai le dovoir de dire qu’il n’a jamais esistè un homme qui se soit devoué soi-méme, coeur, àme et genie, au bonheur de son pays plus que ne l’a fait le comte Cavour. Il était grand par son genie, grand par sa force morale et physique au travail; et ce génie, cette force n’ont eu qu’un but: l’indépendence et la liberté de l’Italie ». Cfr. L. Chiala Lettere ed. e ined. di Cavour, voi. VI in appendioe. 314 m’egli ardesse di afferrare il governo dello stato. Quando l’ottobre del 1850 per la morte di Pietro De Rossi di Santa Rosa rimaneva vacante il posto di Ministro di agricoltura, al D’Azeglio presidente del Consiglio, che voleva offrirlo al Cavour bramoso ed aspettante, Re V. Emanuele, sagace estimatore degli uomini, diceva: -< Badate bene a quel ohe fate; Cavour presto vi dominerà tutti; vi manderà via; sarà lui il primo ministro » (1). E la sua volontà di comando fece il Cavour subito manifesta ponendo per condizione del suo ingresso al potere che venisse licenziato dal Ministero d’istruzione Cristofero Mameli come uomo d’idee ristrette e avverso alla libertà d’insegnamento; condizione accettata. E Giuseppe Saracco, deputato di Acqui, nella tornata dell’ll maggio 1853 diceva che dal linguaggio del Ministro di Finanze, Cavour, appare Fintenzione (li confiscare tutti i Ministeri a profitto di quello delle Finanze. Nè di questa smauia di comando dobbiamo stupirci nè delle più o meno gravi mancanze di riguardo e, talora, di lealtà da lui commesse verso il Nigra, il D’Azeglio, il Cibrario, il Rattazzi e talora verso lo stesso re, per isgombrarsi la via e giungere più rapidamente colà dove lo chiamava l’impaziente suo genio e la fortuna d’Italia. Ma non tacerò di quello ch’era voce e opinione comune, accreditata anche da uomini politici non vulgari, voler lui sovraneggiare per servire in pari tempo alla propria ambizione e al suo privato interesse. Si sapeva ch’egli aveva già accresciuto mirabilmente la sua fortuna speculando abilmente e attivamente sui cereali, sui concimi chimici, sulle azioni di Banca, sui fornimenti delle ferrovie piemontesi, e si credeva generalmente ch’egli ora abusando del sommo ufficio seguitasse ad accumulare sempre maggiori ricchezze. Tante: il mondo volendo darsi una ragione dello strano attaccamento degli uomini politici a un potere irto d’ogni sorta di spine e di fastidi, corre naturalmente a immaginare fini disonesti e barattieri; se non che nel caso dello statista torinese queste dicerie e opinioni prendevano qualche parvenza di fondamento da fatti divulgati e conosciuti. Si ricordava in fatti il duello alla pistola da lui sostenuto contro Giulio Avigdor deputato di Nizza che il febbraio del 1850 sul giornale La coix de l’Italie a proposito d’imposte ne aveva attaccata l’onoratezza. Nella tornata 30 giugno 1851 si finiva di discutere il trattato di commercio con la Francia. La Commissione relatrice di questa legge, (1) G. Massari. La vita e i tempi di V. EmanutU. 315 accettando le proposte del Ministero, aveva ridotto i diritti doganali dei diversi prodotti ma aveva lasciata intatta la tariffa precedente sul fosforo, ev: lontemente per proteggere la fiorente fabbrica di prodotti chimici di Torino nella quale si sapeva da tutti che il Cavour Ministro delle riiutnze era personalmente interessato. Nessun deputato avendo più rilevato il fatto, e la legge stando per esser votata, il Sineo prende la parola invitando in termini, per verità rispettosissimi e prud uti, il Ministro a voler dire una parola che chiarisse la cosa e di ipasse ogni dubbio. Il Cavour, risposto a molte altre obbiezioni, vanendo all’invito del Sineo,. « il Sineo, disse, si è fatto lecito delle insinuazioni personali alle quali ho fermo di non rispondere che col più alto disprezzo », e che non altrimenti che col disprezzo credeva dover rispondere a si basse accuse. E nondimeno cercava poi di giustilicarsi narrando il fatto da cui originavano i suoi rapporti col proprietario di quella fabbrica. Quanto al perchè la tariffa sul fosforo non fosse stata ridotta come le altre, il Cavour tentennò e non seppe trovare una risposta sicura e decisiva, ma disse che quel dazio riducendosi al 6 o al 7 °/0 non si poteva dir dazio protettore; dazio poi assurdo e inutile, essendo che il fosforo veniva largamente esportato dal Piemonte perchè qui si fabbricava a miglior mercato che in Francia e in Austria. 11 Sineo punto sul vivo dal ripetuto disprezzo del Ministro, replicò ch’egli potrebbe disprezzare i suoi disprezzi, ma « che la questione era di vedere se realmente si poteva dire, in una questione di tariffa nella (piale il Sig. Ministro non ha presa la parola per difendere la propria proposta contro la mutazione della Commissione, ch'egli avesse o non avesse un interesse personale... ». Cavour sorge con impeto: * Lei mente, io ho presa la parola ». Pinelli presidente: < Chiamo all’ordine il Sig. Ministro.......». Cavour gridando: « Non si permettano quelle insinuazioni. Se l’on. deputato Sineo persiste in queste accuse pregherò i miei colleglli di permettermi di uscire dalla Camera. Mi dia prove di quello che dice invece di gratuite imputazioni. »...... Sineo: « Io son pronto a rispondere al Sig. Ministro in qualunque modo egli crede, e dentro e fuori...». Rumori e proteste dalla Destra e dalla sinistra; altre interruzioni e altro richiamo all'ordine; la Camera è agitata. Finalmente l’Asproni come deputato e come sacerdote si fa ministro di pace e con nobili parole invita i contendenti alla riconciliazione e alla fraterna concordia. Il pericolo del duello fu evitato, ma il fatto fece senso in tutti. Il Cavour era disinteressatissimo e grande, come tutti sanno e come provano luminosi esempi, e a me ripugna il credere che in siffatta circostanza 316 siasi mostrato inferiore a se stesso; ma la questione col Sineo, degenerata in disgustoso alterco per colpa sua, ingenerò sospetti nel pubblico ch’egli avrebbe potuto facilmente evitare (1). Le guerre del ’48-’49, del ’55, del '59 e del 60, la rinnovazione dell’esercito, la costruzione delle ferrovie, il riordinamento delle pubbliche amministrazioni e le infinite necessità inerenti alle condizioni di uno stato che si proponeva di liberare e unificare l’Italia, l’obbligarono a gravare i cittadini del Regno Sardo di sempre nuovi e più opprimenti tributi in tutto il decennio della sua amministrazione; onde nessuno mai più di lui fu fatto bersaglio quotidiano dei biasimi e delle imprecazioni del pubblico e delle più nere calunnie dei giornali avversi e delle fazioni estreme che lo gridavano estoreitore, affamatore, scorticatore del popolo, e i giornali satirici e umoristici si sbizzarrivano a metterlo in canzone e in ludibrio con ogni sorta di epigrammi e caricature (2). Nè la guerra mossagli fu di sole parole: si ricordavano le grandi rivolte provocate in Sardegna dalle nuove gravezze; si ricordava il saccheggio tentato dai contadini ai suoi molini di Collegno l'estate del 1853 dove si credeva fossero ammassati i grani del suo monopolio; si ricordava l’assalto dato al suo palazzo in Torino il 18 ottobre di quello stesso anno a cagione del rincaro del pane da una turba furibonda di popolo, aizzata da La voce della libertà del Brofferio, e a grande stento dalla pubblica forza contenuta mentre, imprecando morte, irrompeva tumultuosa su pelle scale e tentava invadere gli appartamenti (3). (1) Si può credere non aver egli insistito con la Commissione relatrice (>er la riduzione del diritto doganale sul fosforo non a scopo di utilità personale sua propria ma per favorire una fiorente industria torinese. Altri fatti dal Lorigiola addebitati al Ca-vourapag. 123delsno lavoro, non provano egoismo disonesto maspiritodi economia. (2) La Maga, giornale politico con caricature, organo genovese dell’opposizione nel n.° del ‘21 ott. 1853, parlato a lungo dei disordini seguiti a Torino pel rincaro del pane e accusato il Ministro di tacciare il tangue del popolo t di colerlo far morire di fame, aggiungeva come Ultime notizie di Torino gravi accuse di rpmilazioni e raggiri poco onorevoli pel Presidente del Consiglio, ed altre maligne insinuazioni. Il Ministro, indotto da amici e colleghi, sporse querela di diffamazione al Procuratore del Re, chiedendo che non si procedesse per citazione diretta a fine di dar tempo alla Maga di raccogliere tutte le prove dei fatti calunniosi chegl’imputava. Scelse a sostenere la querela i deputati G. B. Cassinis e Sebastiano Tecchio e l’avvocato genovese Tito Orsini; difesero la Maga il Brofferio e il nostro Cabella. La Maga fu condannata. Il suo gerente Carpi scrisse poi al Cavour dicendosi padre di famiglia ridotto alla miseria e abbandonato da coloro che s’erano serviti di lui come cieco strumento delle loro iniquità, e domandandogli un impiego. Il Conte in vista della povera famiglia, per mezzo dell’amico banchiere Emilio De la fiue. a titolo di carità, gli fece avere L. 40. (Cfr. Cavour, Moucellet lettru inèdite* par A. Bf.bt, pag. 4SI). (3) M. A. Castelli, Ricordi pagg. 82, 88, 84. 317 Cooperavano alla impopolarità dello Statista le ire dei clericali, chierici e laici, allora numerosissimi e potentissimi sul popolo, che odiavano in lui l’anima e il promotore delle leggi siccardiane sulla soppressione delle corporazioni religiose, sull’incameramento dei beni ecclesiastici, >ul matrimonio civile e di altre leggi credute contrarie alla Chieda, e soprattutto, l’orditore di quella trama e il macchinatore di quel dei it 1 o che doveva dar Roma all’Italia e farla capo e centro della sua unità (1). In Genova, sede e focolare del partito mazziniano, l’avversione al Ministro era più fiera che altrove. La votata legge del trasferimento alla Spezia della Marina militare aveva fortemente, come s’è detto, irritato i Genovesi che vedevano in essa null’altro che lo sfogo di un invidioso regionalismo. Dopo l’attentato Orsini (14 genn. 1858) eran cresciuti ira noi gli odii mazziniani contro il Cavour per i severi provvedimenti da lui emanati contro la setta repubblicana, a cui quell’attentato si attribuiva, e per la legge contro la propaganda sovversiva e l'assassinio politico, a sostegno della quale il 16 aprile (1858) aveva pronunciato uno de’ suoi più poderosi discorsi e accusato i repubblicani di voler attentare alla vita di re V. Emanuele. Gli rispondeva il Mazzini con una famosa lettera tutta fuoco e vilipendio (2). Il Cavour, venuto a Genova nel novembre del 1858, non potè causare gli effetti dell’antipatia genovese perchè, come scriveva il 25 di quel mese il suo nemico Guerrazzi al dott. Mangini a Livorno: « Il Cavour fu a Genova, vi si trattenne una breve settimana, visitò, rovistò, guardò, s’ingegnò blandire. Ohimè, ebbe a sentirsi fischiare in piazza e nelle sale delle scuole tecniche; vero, come notano i giornali, che la maggiorità appiause; ma i fischi ci furono, argomento di villanie e di maltalenti » (3). Infatti il Cavour, sceso la sera del 13 nov. all’Hóte] Feder, si trattenne con noi fino al 20, (1) * Presso le classi meno colte il suo nome si faceva impopolare, e come cavatore del popolo con quelle imposte ch’egli aveva escogitate, chieste ed ottenuta dal Parlamento, e come autore della politica che rendeva necessarie quelle imposte medesime. Soffiavano in questo fuoco i due partiti estremi, nemicissimi del Cavour, da cui si sentivano domati: clericali, assolutisti e municipali da una parte, repubblicani dall’altra: e i giornali delle due fazioni, di quella l’impudente Armonia e la Campana, ancora peggiore; di questa La Maga e L'Italia del popolo di Genova, e la Voce della Libertà di Torino ». Bp.rsrzio, op. cit. voi. VI, pag. 239. (2) Dove tra l'altro gli dice: « Se io prima non vi amava, ora vi disprezzo. Eravate finora solamente nemico, ora siete bassamente indecorosamente nemico......siete peggio che stolido e calunniatore ». (8) Cfr. L. Chula, Lettere di C. Cavour voi. II, pag. 359, nota. 318 e per acquistar cognizione diretta e sicura delle condizioni e della vita della nostra città,- volle visitarne e osservarne con ponderata diligenza tutti i principali stabilimenti industriali e commerciali, gli istituti di beneficenza, la Banca nazionale, le scuole, l’Accademia di belle arti, gli ospedali, le carceri; in particolar modo il nostro Deposito franco cui, studiato che n’ebbe la natura, il congegno e gli ordinamenti, e viste in pratica le quotidiane funzioni, non dubitò di giudicare uno dei più stupendi trovati del genio commerciala italiano (1). Questo il rovistare e l’ingegnarsi di blandire di cui lo punge l’astioso Livornese. I fischi disgraziatamente vi furono, effetto d'ignoranza malevola ed incivile; ma Genova nostra, la Dio mercè, non era nè tutta nè in molta parte composta di ignoranti e ^creanzati; la classe illuminata e ragionevole non poteva non ammirare ed esser grata al solerte Ministro di molte e grandi riforme e provvedimenti a favore del commercio, dell’industria, delia marina mercantile e del porto di Genova, onde, quasi a compensarlo delle offese sofferte, ben 168 negozianti genovesi il 30 novembre firmarono e gli spedirono una lettera solennemente ringraziandolo degl'inestimabili benefici fatti alla nostra città ed indicandogli quegli altri che dalla sua sapienza ancora attendevano. Lettera nobile che aH'animo di quel grande fu di non piccolo conforto come rilevasi dalla nobilissima risposta ch’egli inviò loro il dicembre del 1858 (2). Tant'è: la natura dell’uomo non muta per mutar di secoli, od è storia di di tutti i tempi l’arguta osservazione manzoniana: « E il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune » (3). Il mondo ignora le angoscio di un uomo di Stato e, più che non merito dei felici successi, fa carico a lui delle disavventure politiche e del fallimento delle imprese negoziate coi governi esterni. Perciò della inesplicabile pace di Villafranca che parve troncare a un tratto le speranze italiane e che accese le furie nel cuore del grande Torinese, la pubblica opinione, aizzata dalle calunnie dei partiti estremi, dava colpa a loschi raggiri del Conte Ministro. E è noto a tutti qual coro di proteste e di maledizioni scoppiasse contro di lui da ogni parte d’Italia nel 1860 per la cessione di Savoia e Nizza; di Nizza principalmente, gioiello di terra italiana; e di che tremendo sdegno ruggisse il leone di Caprera che in pieno parlamento gli (li Cfr. Atti del Cesato italiano, Ditrorto Cabella in tornata 18 luglio 1876. (2) Cfr. L. Chiala. Lettore di C. Cavour, voi. II, pag. 859. (8) E Genova nostra nel 1868 volle anche eretto nella Loggia di Banchi al sommo statista un sontuoso monumento, opera insigne di Vincenzo Vela. 319 gettò sul viso di averlo reso straniero in Italia. E con Garibaldi erano tutti gl Italiani, salvo quei pochissimi a cui era nota la storia diplomatica dei fatti. Ma anche a quei pochissimi dovette, credo io, parere abuso di intempestiva e crudele simulazione politica quella del Cavour, che in sì triste congiuntura non si peritò di sostenere alla Camera la nazionalità francese di Nizza, alla quale confessava in privato di non credere neppur lui e della quale era certo di non poter pei - u&dere nessuno. Non era questo uno scoprire il fianco ai colpi nemici, un dar motivo alla gente ragionata di dubitar di lui? (1) Nè da noi solo, ma anche dall’amica Inghilterra, indignata di veder 1 li:.Ha gettarsi in braccio alla Francia, si protestò sdegnosamente per bocca di Lord Shaftesbury, il quale al Cavour in quella occasione scriveva: « Noi detestiamo il traffico dei diritti e della libertà dei popoli come detestiamo il traffico degli schiavi e della carne umana. E protestiamo contro qualunque cosa potesse sostituire 1 influenza francese all’influenza austriaca » (2). Ma per accostarci viemeglio all'argomento della lettera del Cabella e meglio chiarirne il significato è d’uopo rammentare che nella primavera del 1800 s’era diffusa una voce, non vaga ed incerta, ma forte ed insistente, e non in Genova solo ma in Italia e in Europa, secondo la quale « Cavour cedeva alla Francia la Sardegna e parte della Liguria per ottenere in -cambio da Napoleone la facoltà di annettere al Regno Sardo tutto il resto d’Italia », onde tutti i buoni Italiani e, sopra tutti, i Genovesi ne vivevano in tormentosa agitazione. Già il Cavour aveva dato solenne mentita a questa calunnia in Parlamento nella tornata del 26 maggio, (3) poi con lettera 13 luglio 1860 ne avvisava il conte Carlo Pellion di Persano comandante della squadra sarda a Palermo autorizzandolo a comunicare a suo nome al gen. Garibaldi che la cessione di Genova e della Sardegna era una menzogna spana ad arte dai nostri comuni nemici, cioè, secondo lui, dall'Austria e dai Mazziniani. Dieci giorni più tardi lord John (1) Cfr. L. Cui a la, op. cit. voi. IV pagg. ccxxi e ocxxu. (2) An. Colombo, l'Inghilterra nel Risorgimento ilal. pag. 48. (8) • Dio sa quanto a noi incresca la sorte di Venezia, Dio sa quanto dolore abbiamo provato quando ci fa forza rinunciare alla speranza di rompere le sue catene. Ebbene, o signori, io lo dichiaro altamente al vostro cospetto, e quindi al cospetto dell Europa, se per avere Venezia bisognasse cedere un palmo di terra italiana nella Liguria o nella Sardegna, io respingerei, senza esitare, la proposta ». E al march. Em. D‘Azeglio ministro sardo a Parigi il 22 luglio scriveva: • Il faudrait que je fusse ou fripon ou fou pour consentir à un tei paete ». Cfr. N. Buschi, La politi-Hm 'lu Comte C. de Cavour, Turin 1885. 320 Russel, Ministro degli esteri inglese, con dispaccio 23 luglio avvisava lord Cowley esser giunta la stessa notizia da varie parti al governo britannico (1). Recise e ripetute smentite per mezzo di lord Hudson, ministro inglese a Torino, ne dava il governo sardo al gabinetto di Londra, il quale nondimeno, ricordando il baratto di Nizza e Savoia, durava fatica a farsene convinto. Il Gladstone scriveva il 16 sett. di quell’anno al Lacaita: « Falsità rivali sono fucinate in fucine rivali per servire a scopi rivali. A Vienna hanno fucinato la storia della cessione di Genova (veramente della Liguria) e della Sardegna » (2). Ma a dispetto delle smentite la falsa voce continuava a propagarsi, tanto che sul principio della primavera del 1861 se ne parlò alla Camera, e il Cavour il 10 aprile al conte Vimer-cati agente ufficioso di S. M. a Parigi scriveva: « Des paroles in-convenantes de Musio qui est à peu près le Brofferio de la Chambre Haute, m’ont obligés de déclarer de nouveau que les bruits de cession de la Sardeigne à la France sont denués de fondement (3). Ces bruits sont systématiquement répandus par les Mazziniens et par les jornaux autricniens » (4). Ma il pubblico, ignaro di questi carteggi diplomatici e sgomento del fato di Nizza e Savoia, prestava fede a questo nuovo imbroglio e ne faceva reo il capo del governo subalpino. E al Cavour come al capo del governo responsabile si faceva pur risalire, benché ingiustamente, il biasimo della ingenerosa soper-chianza e dell’ostentato disprezzo e delle crudeli vessazioni usate spesso nella campagna del 1859 dai comandanti del regio esercito verso le squadre volontarie dei Garibaldini. Il nostro Cabella era, come vedemmo, dell’eroe nizzardo da molto tempo amico e infiammato ammiratore; viveva tutto con gli amici garibaldini che versavano confidenti il cuor loro nel suo, e non è a dire quanta pena sentisse dei loro dolori. Lasciando altre testimonianze, riferisco in proposito la relativa parte della lettera scrittagli dal Migliavacca dal campo di Sondrio il 3 sett. 1859. « ..... Qui continua la guerra sorda e vigliacca dell’amministrazione della Guerra contro di noi. A malgrado delle continue istanze non ci si mandano ancora gli oggetti di vestiario indispensabili a (1) L. Chiala, Lettere di Covour, voi. I, pag. CCCXIII e IV. (2) A. Colombo, op. cit. (3) Giuseppe Musio di Bitti (Nuoro) in Sardegna, dotto ed eloquente giureconsulto e magistrato, senatore del Regno dal 1848; m. nel 1876. (4) li. Chiala op. cit. voi. IV, pag. 208. 321 coprire i cenci dei nostri buoni soldati. Agli ufficiali non si è ancora dato e pare non si pensi a dare un pezzo di carta da cui risulti il servizio prestato o il grado acquistato. Per me e per gli altri che non hanno intenzione di percorrere la carriera militare questa condotta del Governo non fa che destar bile senza recar danno; ma pensate quanto sia iniquo invece il procedere del Governo contro chi o professava già, o conta ora professare il mestiere delle armi. Le dimissioni accordate si rilasciano in tali termini che ci sarebbe da invidiare il congedo di un servitore. È evidente che il Governo vuol disfarsi di noi, e non avendo il coraggio di farlo apertamente perchè teme forse di urtare troppo contro l’opinione pubblica, cerca ogni eccesso per provocare da noi le dimissioni, e coi maltrattamenti provocare dai soldati tali disordini da autorizzarlo a prender quelle misure ch’egli desidera. Ma queste manovre sono vecchie, rancide; abbiamo ancora tanta influenza sui soldati, e godiamo ancora di tanta stima e affetto presso di loro da ottenere tolleranza, pazienza e disciplina a dispetto degli stupidi che oltre scioglierci vorrebbero anche colpirci di biasimo. » Il Diritto ha già parlato delle condizioni nostre, severamente rimproverando il Governo. Fa che dica qualche cosa anche la Nazione, se pur non ha già parlato. » La mia salute non è così perfetta come per lo passato. L’aria, la bile, la noia mi hanno messo in corpo un tal malessere da cui non mi libererò che colla gita a Milano e a Genova, e col dimenticare fra gli amici i tristi argomenti sui quali necessariamente ritorniamo più volte al giorno ». Non è italiano chi non freme a tanta infamia. I nostri generosi dovevano pagare il fio ctella loro virtù combattendo a un tempo solo due nemici, uno aperto e straniero, l’altro interno e coperto e mosso da vili rivalità e abietta politica. Ma era allora Ministro della guerra Alfonso La Marmora che nella passata primavera aveva ripetutamente negato a Garibaldi il corpo dei Cacciatori degli Apennini organizzato ad Acqui dal gen. Ulloa, e aveva già dichiarato apertamente sè non riconoscere altra forza militare legittima che l’esercito regolare piemontese. Questo il suo vantato ossequio alla volontà di S. M. il Re! Onde finché durò al potere, cioè sino alla fine della campagna del 1866, fu sempre il genio malefico dei corpi volontarii di Garibaldi. E nei reclutamenti militari del 1859, non potendo cozzare apertamente col Re nè col Cavour, riuscì con artifizio sleale a togliere aU’eroe nizzardo e ad acquistare alla regia milizia molta gagliarda si 312 gioventù che rapita al nome di Garibaldi era corsa volontaria a Cuneo e a Savigliano per arruolarsi alle sue popolari bandiere. Di questa slealtà con quanta lealtà abbia poi tentato scagionarsi il La Marmora, lo rivela il Guerzoni, storico d’intemerata tede. Nella tornata del 1S aprile lStil Garibaldi acceso d’ira e quindi, com’è naturale, senza molto distinguere, aveva asserito alla Camera «. che i Volontari più idonei fossero stati costretti a entrar nell’esercito e soltanto gli scarti lasciati andare nei Cacciatori ». Il generai Petitti alla fine dalla seduta del 20 legge un telegramma di La Mavmora nel quale questi smentiva l’asserzione di Garibaldi. Commenta il Guerzoni: * Il gen. La Marmora diceva il vero: nessun ordine costringeva i Volontari a entrare piuttosto in un corpo che nell’altra; ma in ogni ufficio d’arruolamento, me testimonio, c’era uno o più ufficiali che consigliavano i più aitanti a preferire l’esercito ai volontari -» (1). Domando ancora: per ordine di chi in quell'estate i vincitori ili barese e S. Fermo furono allontanati dal teatro della guerra e confinati nell’Alta Valtellina a combattere contro i camosci e gli stambecchi? Tristi vergogne il cui vitupero, più che sul vero autore, ricadeva sul Cavour capo del Governo (2). (1) G. Guiszoni, op. cit. voi. II pag. 263-64 in nota. (2) Quanto poi si addicesse la presunzione imperatoria e il brutale disprezzo pelle milizie garibaldine a questo generale da ca$crma come nona torto lo chiama il Ti-varoni, levato sugli altari da un atto di resistenza alla Cernaia, nobile si, ma gonfiato a dismisura dalla nostra brama di gloria guerriera, lo dimostrano l’ignoranza p l’insensataggine con cui nella campagna del 1866 diede al nemico una gratuita vittoria e abbassò in faccia all’Europa l’onore delle armi italiane. E le apologie degli Schiarimenti e rettifiche e dell’ Un po’ più di luce, a cui ricorse per riparo e difesa, poco valgono contro l’inesorabile eloquenza dei fatti storici criticamente vagliati ed accertati. Nè la storia potrà tacere che in molta parte risale a Ini il biasimo del disastro di Lissa, perchè nella primavera del ’66 egli era Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri e aveva nominato fin dal 1° die. 1864 a Ministro della Marina l’on. Diego Angioletti generale d’esercito ma nuovo e digiuno affatto di oose di mare, e con lui riparte la colpa della nomina ad Ammiraglio del conte Carlo di Persano, uomo di belle e lusinghiere apparenze e molto gradito nel bel mondo galante deH’aristoerazia piemontese, ma ufficiale screditatissimo. E al La Marmora non men che all'Angioletti vanno dirette le gravi parole che usa il Frasca parlando di quella sciagurata nomina. ■ Quando sui primi di maggio di quell'anno (1866) fu pubblicato il Decreto col quale veniva nominato all’altissimo ufficio l’ammiraglio Persano, penosa e non dissimulata fu la sorpresa della nostra gente di mare — nè di questa sola — non potendosi comprendere come i nostri governanti di allora, ed in particolare il Ministro della Marina — che per vero era un generale dell’esercito, ma a cui, in ogni modo, non potevano mancare le più ampie ed esatte informazioni sul personale di sua dipendenza — mostrassero di fare tanto poco conto di ciò che da tutti pensavasi ed apertamente dicevasi di quell’Ammiraglio, colmato bensì dalla fortuna di tutti i suoi favori, ma che proprio ad Ancona e a Gaeta aveva dato chiare e ripetute prove della 323 Nella seduta antimeridiana del 18 aprile 1861 cosi il Cavour rispondeva a’ suoi accusatori: • Io venni rappresentato come l’avversario, il nemico dei volontari; ma, buon Dio! (con calore) chi fece i volontari? chi primo in Italia pensò ad ordinarli? Io me ne appello al generale Garibaldi stesso. Fu forse esso che venne ad invitarmi, :i «ni!'‘citarmi di creare questi volontari? No, o signori, quando nessuno nel paese ci | •.•nuava, quando forse da molti era biasimata la formazione di quel corpo di volontà acquistati tanti titoli di gloria, fu il presidente del Consiglio che si rivi.'-" al ;_i n. Garibaldi che stava in dignitoso esilio a Caprera, per pregarlo a venire ; [ i tare il suo concorso nel grande disegno che il presidente del Consiglio allori', m i l’ ava. Io non ricorderò le difficoltà che incontrò l’adozione di questo progetto, ina solo posso dire che furono immense, giacché io non poteva intieramente giustificar la creazione di queste forze irregolari le quali allora rivestivano un carattere rivoluzionario ». Qui il Ministro, legato da) segreto politico, non poteva rivelare alla Camera che la maggior difficoltà urtante il suo disegno era stata la convenzione militare stipulata, insieme eoi patto d'alleanza, a Torino nel gennaio del 1859 da lui e dal La Marmora per il Pi< monte e dal principe Gerolamo Napoleone e il generale Niel per la Francia, nella qual convenzione veniva tassativamente escluso l’ordinamento dei corpi volontari. Il Cavour adunque, ordinando quei corpi, aveva tradito un obbligo di esterna politica da lui stesso contratto e firmato. « Cavour che voleva avere sotto le bandiere del re soldati quanti più era possibile, simulò che gli fosse forzata la mano e armò guerriglieri in grosse schiere, dando loro a duce Garibaldi. Poi a dispetto dei trattati lasciò che nell'esercito regio s’iscrivessero migliaia di sudditi austriaci ». «Niooxedi: Bianchi, Storia della diplomazia europea in Italia, voi. Vili pag. 18). Proseguiva il Cavour: • E d’uopo che sappiate che in quel tempo sono stato costretto a fare le veci del Ministro della guerra perchè il mio illustre collega (La Marmora) in allora non credeva potersi occupare della formazione dei corpi dei volontari....... Dopo aver ciò fatto, dopo aver assunto su di me una cosi grande responsabilità qual è quella della formazione dei corpi dei volontari, senza il concorso del Parlamento, collo opposizioni interne ed esterne, chi potrà dire ch’io sono ostile ai volontari? • E quanto all’ordine dato dal La Marmora a Garibaldi, dopo la battaglia di Tre-ponti di andare in Valtellina, nella seduta pomeridiana dello stesso giorno dichiarava apertamente ch’egli non approvò quell’ordine, aggiungendo: « Io feci il possibile per rivocare quest'ordine onde si assegnasse al generale Garibaldi una parte più consentanea a ciò ch’egli poteva e sapeva fare. Non fui ascoltato per altre ragioni; ma in ciò mi pare ch’io non era osteggiatore ma apprezzatore di Garibaldi ». Da queste gravi parole, da quelle pronunciate nella tornata del 23 marzo sulla interjiellanza mossa dal La Marmora contro il riordinamento dell’esercito attuato dal Ministro gen. Fanti, da ciò che il La Marmora dice del Cavour nel suo Epùodio, sua insufficienza come uomo di guerra ». E. Frasca cap. di vascello fi. N.: L’ammiraglio S. de Saint Bon; (Roma 1906) pag. 66. Cose anche più gravi sul conto del Persano ci fa intendere il nostro Cablo Ban-daccio nel 2° voi. della sua Storia delle marine militari italiane (Roma 1886) dove, nei Lib. Ili e IV si ricorda il niun conto che si fece nel 1866 della pubblica stima e del consiglio dei saggi designanti al comando della flotta Garibaldi o Bixio o l’ammiraglio Mantica, uomini di mare valorosi e provati. 324 e sopratutto dal fatto ohe il Cavour, nel gennaio 1860 riassunto il poterò, volle escluso dal suo Ministero il La Marmora capo del Gabinetto precedente, si argomentava già facilmente un dissenso nato negli ultimi tempi tra i due potenti piemontesi; ma ora una lettera inedita del La Marmora, conservata nel Museo del Kisoi pimento di Torino, ci rivela, anzi ohe un dissenso, un urto ben più grave. In essa il detto generale sfoga oon l’amioo suo conte Agostino Petitti di Roreto tutto il mio malanimo contro il Cavour: lo accusa di nera ingratitudine, enumera non so quanti benefizi e favori a lui prestati in dieci anni di collegialità politica e il mal ; tiramento ritrattone. Cagione principalissima di questa scissura il dissenso incou' i'ial'ile sulla questione dei oorpi volontari di Garibaldi. Al Cavour ouoceva l’anima il doversi trangugiare in pace la pubblica maledizione per fatti voluti e oompiuti dall’oi vogliosa insipienza del suo ricaloitrante collega; e parlò chiaro, e fece ben • i. yi- mum! Senza entrare nella vessata questione del modo come si "brenne il Cavour con Garibaldi nei riguardi della spedizione di Sicilia, è un fatto incontestabile a tutti noto e che noi tutti udimmo dalla bocca dei nostri vecchi e ripetono oggi ancora i pochi gloriosi superstiti, che i garibaldini nei primordi della spedizione furono lasciati mancare di armi, munizioni, denari, e che di questa crudele e imperdonabile negligenza, imputabile massimamente all’incuria di mal destri mediatori, alla mala fortuna e al governatore di Milano, tutti o quasi tutti qui a Genova e comunemente in Italia ne incolpavano la ostile volontà del Cavour (1). (1) Dico inouria quella del La Farina cui il Cavour, sollecitato dal La Maaa. aveva incaricato di trarre dai depositi della Società Nazionale e consegnare a Garibaldi 1090 fucili; mala fortuna l’errore o il tradimento di quel Profumo che conducova le due paranze cariche d’armi e di munizioni e che all’altezza di Bogliasco avrebbe dovuto notte tempo accostarsi ai piroscafi di Garibaldi e farne consegna; mala volontà quella di Massimo D’Azeglio che ai mandati da Garibaldi ricusò di cedere parte dei 12000 fucili buoni esistenti a Milano. Delle pessime condizioni dei 1090 fucili somministrati dalla Società Nazionale, nessun imparziale vorrà dar colpa al conte Ministro. E nessuno potrebbe oggi, dopo tanti nuovi documenti venuti in luce, aggiustare ancor fede alla divulgata credenza che il Cavour rispetto alle prime mosse della spedizione fino allo sbarco di Marsala o alla vittoria di Calatafimi se ne stesse inerte e passivo in disparte ad attenderne l’esito e non facesse altro ohe non cedere, non udire, non toccare. Da qual mente era diretta e con quali fondi in massima parte provveduta la Società Nazionale e il Comitato di emigrazione formato a Genova nei pri mi di aprile, che in tanti modi e con tanto zelo promossero e aiutarono l'ardita impresa? E agli ordini di chi ubbidivano il La Farina, il vicegovernatore Magenta e l’ammiraglio Persano e le altre autorità di terra e di mare che occultamente ma effettivamente l’avviarono e favorirono? Il Cavour dunque secondò anche la prima spedizione, non certo come e quanto avrebbe desiderato un garibaldino, ma come e quanto poteva un Ministro di stato pericolantesi nei più difficili frangenti e destreg-giantesi tra i più discordanti doveri; « nè, come assennatamente osserva il Treve-lyan, storico imparziale, date le terribili incertezze del caso, lo si potrebbe biasimare per aver rifiutato di assumersi una parte più decisiva nello spingere Garibaldi ad 325 V’è di più. Così i garibaldini come i mazziniani, massimamente in Genova, erano concordi nell’accusare il Governo piemontese e il suo gran Ministro di porre inciampi al rapido corso dell’impresa ga-ribaldiu ■ la mal dissimulata paura che un pugno di camicie rosse, riuscendo da solo a condurre a compimento la liberazione d’Italia, ne carpii 'More al Piemonte e al suo regio esercito, e togliendo increme) i autorità alla monarchia di V. Emanuele, la conferisse al princip' i e al partito popolare e mazziniano. Onde l’accusa che il C avour /.ma-se più il suo Piemonte che l’Italia, e la libertà di questa alla fortuna di quello subordinasse. Questa era qui la convinzione generale (1). £ degl indugi e delle soste ritardanti il corso della spedizione siculo* napoli tana i nostri davano pur biasimo al Cavour imputandogli che quando tutti i partiti e sopra tutti il mazziniano, dimenticando un momento il proprio programma combattevano sotto Garibaldi al comune ed unico intento dell’unità italiana, egli ravvisasse lo spettro della repubblica in ogni mossa garibaldina e ritenesse il duce dei Mille un balocco in mano di Mazzini e dei mazziniani e capace quindi di tradire quella bandiera Italia e V. Emanuele per la quale pericolava la vita in mille cimenti (2). una spedizione in cui un Sirtori e un Medioi si aspettavano di vederla fallire e nella cui probabilità di successo Garibaldi stesso non aveva potuto da principio ripor fede •. Ch egli non vrdcéie, non mi iste, non toccaste, più ancora, che riprovasse, avversasse e fosse pronto a reprimere la rivoluzione nel mezzogiorno e nel centro d’Italia era quello che Cavour si studiava di far credere alla diplomazia italiana ed europea, ma in questo sta appunto il trionfo della sua politica e la gloria del suo nome, che ostentandosi avversario e repressore d’ogni moto rivoluzionario italiano compiva appunto e senza spargimento di sangue la più bella e più patriottica rivoluzione dei tempi moderni. (1) Mostrerebbe d’ignorare la tempra dell’animo del grande Ministro chi lo facesse capace di siffatte bassezze, mentre nessuno può negare ohe di bassa invidia e di miserabile orgoglio ferito fu prova manifesta quel crudele e provocante dispregio con cui la boriosa e lamarmoriana consorteria degli alti comandi dell’esercito piemontese trattò l’esercito meridionale tosto che con aria di conquistatore ebbe fatto il suo ingresso in Napoli. Contro la brutale soperchiera tonò terribile in Parlamento la parola del Sirtori il d\ 23, del Medici il dì 24 marzo, di Garibaldi il 18 aprile, e non meno accusatrice, comochè più temperata, la parola del Cadolini il 19 aprile 1861. (2) Se e quali precisi accordi ed obblighi rispetto alla capitanata impresa avesse Garibaldi contratto col governo subalpino non ci consta; col Cavour, trafficatore di Nizza e a lui personalmente antipatico, no certo; col Re, a cui lo accostavano sentimenti di stima e particolare simpatia, certo passarono intelligenze ed accordi almeno sui punti principali del disegno. Ma posto pure che Garibaldi avesse assunto a proprio rischio e pericolo l’impresa della spedizione dai più ritenuta malaugurosa ed avventata, e che nè il Governo nè il Re gli avesse determinato i confini entro i quali nè prescritti Ma gli odii più cordiali e profondi contro il grande statista fervevano nel 1859 e 1860 sopra tutto a Genova, rocca delle furze repubblicane, dove più volte in quel tempo Mazzini si recava. E si spiega: quella rivoluzione popolare che i mazziniani da tempo e con tante fatiche avevano coltivato e fomentato contri) ini della penisola, in que’ due anni se la vedevano strappare di n ano dal Cavour e confiscata a servir di base più solida a larga a. i monarchia costituzionale di V. Emanuele. L’accorta politica del 1 • tro Iie e il regime largamente liberale del suo governo che dimo .ava al mondo con l’evidenza dei fatti potersi ottimamente conciliai.- a perfetta libertà democratica e il culto dell’unità e indipendcn i nazionale con la monarchia rappresentativa, aveva finito p< r alienare da Mazzini Garibaldi e i suoi più gloriosi paladini Bi\io, Sirtori, Medici, Cosenz, e con loro una gran parte della pubblica opinione italiana. Così fiaccato il partito della repubblica, niuna meraviglia se nel 1860 le ire e le solite male arti dello spirito partigiano si scatenassero furiose contro il Ministro trionfatore è ammollassero tri- i mezzi con cui dovesse svolgere la sua azione rivoluzionaria o liberatrice, e^che Garibaldi fosse perciò perfettamente libero di muoversi a suo talento, era pur dovere del capo del governo di vigilare a che l’eroe, sempre accerchiato da formidabili consiglieri repubblicani, ne’ suoi movimenti non esorbitasse in guisa da comprometterlo in faccia alla diplomazia europea e da pregiudicare gli effetti stessi della spedizione Infatti s’egli è vero che Garibaldi, nelle piccole cose facilmente pieghevole al piacere degli amici, nelle grandi cose era terribilmente fermo ed inconcusso, non >'• inen vero e nien noto a tutti ch’egli era deliberato di non proclamare l’annessione delle terre liberato se prima non avesse piantato il tricolore sul Campidoglio: pro|»>sito generoso ma inconsulto perchè, attuato, avrebbe ohiamato immantinente in Italia le armi francesi ed austriache a dispetto dei principii politici del fatto compiuto e del non int-n-nto allora comunemente accettati. E che, per quanto fermo, non fosse inaccessibile ai consigli degli amici mazziniani lo dice l’ostinazione con cui voleva che il plebiscito, dal prodittatore Giorgio Pallavicino Triulzio e da tutta Napoli a una voce invocato, fosse preceduto da Un’Assemblea costituente la quale stabilisse condizioni all'annessione: condizioni che avrebbero senza manco generato perturbazioni, scissure e intoppi pericolosissimi all’iniziata unità d'Italia. Il Cavour poi, come Ministro di una Monarchia costituzionale che si era assunta la direzione del moto unificatore d’Italia, doveva pur vegliare a che non fosse interdetto al prossimo re d'Italia e all'esercito sardo la possibilità di conseguire almeno una parte di quella gloria militare di cui la camicia rossa s’andava coprendo e già rifulgeva dinanzi al mondo e alla storia. Quest’accorta vigilanza, quest’assidua guardia ch’egli esercitava sugli avvenimenti del mezzogiorno e sulle mosse del condottiero, indignavano e irritavano l’eroe non so dir quanto contro di lui e faceva i loro rapporti oltremodo complicati e difficili, rapporti resi anche più ostili ed aspri dalle male suggestioni e dalle mene par-tigiane dei satelliti circuenti e assedianti l’uno e l’altro grande, com’ebbe francamente a manifestare il Bixio alla Camera nella memoranda tornata del 18 aprile 1861. t,Cfrf per questa quistione, tra le tante pubblicazioni, la Cronintni-ia documentata di InA Nazari Micheli: Cavour e Garibaldi nel tSCO, Roma. 1911). 327 stamente l’atmosfera politica della nostra Genova, mentre a lui, vincolato lai segreto politico e diplomatico, era vietato recar prove e doeun. i , a confutare gli avversarli e a giustificare l’opera propria. Aggravava tra noi queste cause d’avversione al governo del Cavour, e ne costituiva come il fondamento, l’odio secolare contro il perseci il or Piemonte che i Genovesi avevano ereditato dagli avi e dai padri loro e che, sopito dopo il fraterno giuramento d'Oregina, col bombardamento della nostra città era rinato più intenso che mai. Tanto basterebbe a spiegarci il mal disposto animo del nostro Cabella verso il Cavour; ma un’altra grave ragione lo alienava da lui. Io son d’avviso che chi ha in mano i destini di un popolo non possa sempre osservare i rigidi dettami dell’onestà privata e che ben ; :■ ponesse Cosimo il vecchio dicendo che gli stati non si tengono con i pater nostri in mano. Quando un .atto di mancata fede può salvare una nazione, quando il danno di un individuo può fruttare la prosperità di un paese, quando il piccolo male di pochi può generare il grandissimo bene di molti o di tutti, questo male parziale, penso io, non s’ha da lodare, no, ma da considerare e da tollerare come mezzo al conseguimento del bene generale, e come tale, l’uomo di stato può senza biasimo non solo valersene ma anche, secondo i casi, provocarlo. Nell’ordine politico come nel civile il valore morale dei nostri atti non è soltanto determinato dalla natura degli atti stessi ma eziandio dalla natura del fine a cui sono diretti. Chi potrebbe dir crudele e sanguinario il chirurgo che per salvar la vita al malato gli amputa l’arto minacciato da cancrena? Chi snaturata la madre che per correggere il figlio discolo lo punisce severamente, lo contrista e lo fa piangere? Questo significa scegliere tra due mali il minore, è effetto di amore non di odio, è obbligo di coscienza previdente e provvidente. E che altro è la legge che obbliga tanta gioventù al servizio militare se non un’applicazione di questo principio? Questa verità, così ovvia ed aperta, non ignorava il nostro cittadino, e nondimeno tale era la natura dell’animo suo che alla vista di un atto disonesto, qualunque ne fosse la ragion movente o finale, non sapeva reggere e senz’altro discutere lo condannava. Ora, come sappiamo, la corruzione degl’individui a fine politico faceva parte del sistema dello statista piemontese, il quale, schiettissimo com'era, e molto più di quanto dovesse consigliarlo l’alto ufficio diplomatico, soleva sentenziare apertamente che in un l'egime costituzionale non è possibile governare senza corrompere. E già ne’ suoi primi scritti politici parlando di Pitt che comprò, per averne il voto, molti membri del Parlamento irlandese, aveva già osservato: 328 « Se si deve vilipendere il carattere di Pitt per aver praticata su larga scala la corruzione parlamentare, bisognerà trattare con altrettanta severità i più grandi monarchi dei tempi passati, Luigi XIV, Giuseppe II, Federico il grande, che per arrivare ai loro fini hanno oltraggiato ben altrimenti i principi inflessibili della morale e dell’umanità di quello che abbia fatto l’illustre Uomo di stato che ha compiuto la consolidazione del Regno Unito della Gran Brettagna e dell’Irlanda » (1). Onde non è meraviglia se chi così opinava e scriveva, giunto al potere, seguisse l’esempio di chi ammirava maestro e cercasse di assicurarsi il favore e il voto di uomini comunque utili, degli uni appagando le voglie ambiziose, agli altri aprendo larghe fonti di lucro. Di non pochi di questi atti di corruzione compiuti dal Cavour aveva il Cabella sicura notizia, di altri era testimonio, conosceva i modi obliqui e subdoli con cui il governo cavouriano operava le annessioni dei diversi stati italiani, e disdegnoso si domandava se proprio da chi esercita il più alto potere e ha obbligo sacro di essere luminoso esempio a tutti d’integrità e di rettitudine, si dovesse in quel modo insegnare al popolo della nuova Italia l’amor della patria e l’osservanza delle leggi, e se queste fossero le fonda-menta sulle quali potesse erigersi durevole l’edifizio della nostra libertà o se non era invece un demolirlo prima di cominciarlo. Era questo il modo di conciliar rispetto e autorità all'istituto parlamentare o non era invece un insozzarlo e renderlo abietto e spregevole al popolo elettore? E da tali vituperosi esempi offerti dagli uomini più eminenti per sapere e condizione sociale, che cosa doveva imparare la povera popolazione spettatrice? Non doveva accadere ciò di che già l’Alighieri rampognava i degenerati pastori della Chiesa di Cristo quando cantava « .... la gente che sua guida vede Pure a quel ben ferire, ond’ella è ghiotta, Di quel si pasce e più oltre non chiede? » Era questa l’Italia che il Cavour disegnava di fare? Al lettore il giudicare quale dei due o per dir meglio, fin dove ciascuno dei due avesse ragione; a noi basta sapere che la severa coscienza del nostro Concittadino non vedeva utilità nè pubblica nè privata se non in ciò (1) Cfr. W. De la Rive, II Conte di Cavour, pag. 177. 32Ó che si accordasse coll’eterno principio del giusto e dell^onesto. Tanto premesso, entriamo in argomento. Il Rattazzi nel gennaio del 1860 aveva dovuto cedere la Presidenza del Ministero a Cavour smanioso di rioccupare il seggio della sua gloria. La cessione di Nizza e Savoia aveva diviso in due campi avversi la Camera elettiva: Rattazziani e Cavouriani. A Genova Cavour era, per ciò che abbiamo detto, odiatissimo. A ciò s’aggiungeva la voce persistente ch’egli volesse cedere altre terre italiane alla Francia; che per troncar la via di altri trionfi a Garibaldi, lo screditasse presso Y. Emanuele, esser di ciò chiara prova la lettera spedita dal Re a Garibaldi per mezzo del Conte Litta-Modignani con la quale gli si vietava di passar lo stretto; e si facevan voti perchè il Re aprisse finalmente gli occhi sulle ree macchinazioni del suo primo ministro. Il nostro Cabella che sempre tremava all’idea che la gloriosa spedizione per l’avversione del governo piemontese non avesse di tratto a fallire, s’affrettava a scriverne e a chiederne parere all’amico Rat-tazzi. Il che ci prova ancora una volta quanto sia difficile anche agli spiriti più amanti del bene e del vero il dar giusto giudizio delle cose e degli uomini quando, travolti dalla furia degl’incalzanti avvenimenti, manchi loro il tempo e il modo di esaminarli serenamente e penetrarne a fondo la ragione. Gli rispondeva l’amico con la lettera seguente. « Torino 28 Luglio 60. » Amico Car.mo, » Ti ringrazio delle notizie, che ti compiacesti di comunicarmi. Quanto al fatto, che Cavour tenti ogni mezzo per far credere che Garibaldi abbia abbandonata la bandiera di V. Emanuele, io sono con te perfettamente d’accordo che è vero — è questa una insinuazione, intorno alla quale da molto tempo egli e i suoi faccendieri lavorano: la misero avanti si tosto che La Farina pose il piede in Sicilia — ma non riesciranno di certo, e riesciranno tanto meno nell’animo del Re, il quale conosce Garibaldi, sa che è la lealtà e l’onestà personificata, ed è tranquillo che non si lascerà in alcun modo deviare. » Quanto a diffidare di Cavour non fa mestieri di fare alcun passo (1). — Egli lo conosce, e lo apprezza come possiamo conoscerlo, (1) Intendi: quanto a far opera perchè il Ee diffidi di Cavour. 380 ed apprezzarlo noi due, e forse meglio. — Di ciò puoi essere più che sicuro. — La difficoltà sta uel distarsene. In questi momenti Cavour ha ancora molto prestigio. Sta per lui una grandissima maggioranza nel Parlamento— se dovesse nelle contingenze attuali ritii rsi, renderebbe non solo difficile, ma quasi impossibile l’opera di qualsiasi altro ministero. — E necessario che l’opinione pubblica sia meglio chiarita, e ciò richiede ancora del tempo: perchè sai che certe verità non si diffondono nelle masse così facilmente. -- Senza di questo invece di annullarlo, lo si renderà più tòrte. Io ritengo ohe Cavour a quest’ora vedrebbe volentieri di trovarsi costretto a dismettersi per qualche urto col Re, perchè dall’un canto si toglierebbe dagl’imbarazzi assai gravi in cui si trova, dall’altro serebbe persuaso di risorgere presto più potente di prima. Parrai che sia migliore < più prudente consiglio lasciarlo, ma sorvegliare attentamente per impedire che ci rovini e nello stesso tempo nulla ommettere per farlo conoscere per quello che è. » Da quanto ho intesò, la lettera iuviata per mezzo di Litta-Modiguani deve essere vera : ma ho pure motivo di credere che non siasi lasciato ignorare a Garibaldi che questa lettera si scriveva per aderire alle istanze della Diplomazia, senza che si avesse il pensiero di menomamente vincolarlo nei suoi disegni. » Riguardo poi alle future cessioni di altre parti d’Italia, io persisto neiropinione già espressa, che per ora non sono, e non possono essere che vaghe e remote aspirazioni. Ciò non di meno, siccome le precauzioni in questa materia non sono mai soverchie, se a voi, che siete costì, e che meglio potete giudicare dello spirito di codeste popolazioni, credete che sia opportuna una qualche agitazione nello scopo di prevenire o rendere quanto meno più difficile e più pericoloso qualsiasi futuro progetto, io non ho nulla a ridire, e mi rimetto interamente al vostro giudizio. » Addio, caro Cabella, amami e credimi coi più sinceri sensi Tuo aff.n,° amico i U. Rattazzi ». XII. Il Cabella scrive al Cavour una letteradi severo rimprovero. Risposta del Cavour (Il agosto 1S(»0). » Due giorni appresso il Cabella riceveva per la posta da Torino questa curiosissima copia di lettera finora inedita. - Copia di lettera scritta da Genova al Conte di Cavour da persona che non gli chiede nè favori nè ricompense. « Genova 28 luglio 1860. « Eccellenza, » Io sono un uomo che ho bisogno di guadagnarmene per me e per la mia famiglia, perciò non prendo una parte attivissima negli affari politici, ma non sono estraneo, insensibile al bene, al progresso della grande opera di annessione di gran parte delle Provincie Italiane dalla E. V. con tanta saviezza iniziata e proseguita; e non posso sentir dir male dell’E. V. molto meno non avvertirla delle trame che si pensano ordire contro l’E. V. Si sono radunate nello studio dell’avv. Cabella molte persone, fra cui il March. \ incenzo Ricci, Lorenzo Pareto, Michele Casaretto, Avv. Brusco, Carcassi, Celesia Carlo, ed altri per stampare tanto sui giornali inglesi quanto del paese contro dell’E. V. accusandola di mille colpe, cioè che V. E. abbia fatto scrivere al Generale Garibaldi una lettera da S. M. in cui lo consigliasse a non far più niente, che voglia cedere alla I rancia la Liguria, insomma che non sia che un servo di Governo straniero. Cabella si è incaricato di redigere degli scritti: però lottano fra la paura di compromettersi con V. E. e il desiderio di alcuni di diventar Ministri, per cui Cabella e Ricci servendosi del mezzo di calunniare V. E. e di ingannare le popolazioni sul vero stato delle cose, insomma Cabella ha garantito che V. E. ha ancora dieci giorni di esistenza Ministeriale. Ben inteso che quest’ultimatum ha sparso il ridicolo su chi lo proferì; però ritengo che si pretende formare una forte propaganda contro V. E. » La V. E. è superiore a ciò, però ho creduto che sia utile che lo sappia per sua norma ». Non m’indugio a commentare questa straua delazione se non per osservare che, come si rileva da parecchie superstiti lettere d’invito, in quei fortunosi momenti in cui si decidevano le sorti dell'Italia, in 335 Genova solevano radunarsi a sera in casa Cabella gli autorevoli uomini citati nella riferita lettera ed altri ancora, per comunicarsi le notizie del giorno e consultarsi intorno a quanto richiedeva il bisogno della patria. La seguente risposta del Nostro al Cavour ci spiega tutto l’arcano della lettera delatrice. « Genova 1° agosto 1800. » Egregio Signor Conte, » Ricevo dalla posta sotto un enceìoppe, che porta i! timbro di Torino, 31 Luglio, una copia di lettera di cui le racchiudo còpia, che sarebbe stata scritta a Lei da Genova il 28 Luglio da persona che non le chiede nè favori nè ricompense, come è scritto nelle tre linee che la precedono. » Nessuna linea di accompagnamento mi fa 'conoscere dn chi mi venga questo documento. Ma devo argomentare che mi venga da Lei, perchè a Lei era diretta la lettera, perchè di suo carattere mi sembra l’indirizzo scritto sull’ence/oppe, e perchè il sigillo porta l’impronta C. » Se la cosa è così io devo ringraziarla che abbia voluto usar meco nel modo che tutti gli uomini onesti sogliono delle lettere del denunciatore, mandandomene la copia. E una prova di stima che mi è cara, sebbene avrei desiderato in tale ipotesi che Ella avesse voluto accompagnarla di una linea che mi dicesse da chi e perchè mi fosse rimessa. Sarebbe stata cosa più cortese e più delicata. » Ad ogni modo io ringrazio o lei, o la persona che ha avuto il pensiero di spedirmi quella lettera, d’avermi dato occasione di spiegarmi francamente con Lei sopra cose di troppo grave interesse. » E verissimo che si tenne in casa mia una riunione di non più di nove persone, della quale però non faceva parte il ...... persona di cui non mi sono ben note le opinioni, e che si è collocato da molto tempo fra i miei avversari politici. » Questa riunione si tenne la sera del 27 Luglio, a ora molto tarda. Epperò Ella deve essere molto meravigliato della straordinaria diligenza e sollecitudine del suo corrispondente che all’indomani già conosceva la cosa e già gliene scriveva. Parmi che egli meriti da Lei se non una ricompensa, almeno un favore, quantunque non chiesto (1). * della riunione fii questo: se, mentre i rumori, già an- (1) Taccio per ragione di umanità il nome di questo zelante e disgraziato informatore assai ben noto al Cabella e ai Genovesi. 333 tichi, di una possibile annessione della Sardegna e della Liguria alla Francia prendevano nuova consistenza, e tratto tratto venivan fuori quelli che i Francesi chiamano ballons d’essai, convenisse rispondere a questi saggi, e cominciare un’agitazione, che troncasse ogni speranza a chi avesse potuto concepire questi disegni. » Po ! a ad esame la quistione, si è pensato all’unanimità che le voci corse ik;ì: potessero essere vere per ciò che riguarda la Liguria. La cessione della Liguria non solo disfarebbe per sempre l’Italia, ma renderebbe impossibile l’esistenza di quel qualunque Stato italiano che si riuscisse a impan icciare; mentre è chiaro che il padrone di Genova è padrone della valle del Po, e il padrone della Spezia è il padrone dell’Italia Centrale. E l’Italia non sarebbe. Il fatto sarebbe tanto enorme che il Ministero il quale lo consentisse non durerebbe due giorni. Sarebbe da tutti giudicato reo d’alto tradimento: e se non vi fòsse altri a chiedere che fosse messo in istato d’accusa, io lo farei. Genova poi, credo, resisterebbe ad oltranza. Quando anche si trovasse un parlamento cosi indegno del nome d’italiano da porre il suo sigillo a tanta enormità, Genova non cederebbe per questo. Potranno diventar francesi le rovine di Genova: Genova non mai. Tale è almeno la mia credenza e la mia speranza. » Si è però considerato che tra le cose possibili v ha pur quella che il secondo impero aspiri a prendere in Italia i confini del primo: e che dicendosi già da lungo tempo il Mediterraneo un lago francese, se ne vogliano acquistare le sponde fino alla Spezia. Ed allora potrebbe esser sorto il pensiero di cominciare da una semplice occupazione, a titolo di garanzia, o anche di alleanza e di assistenza, per poi far votare l’annessione con metodi ormai famosi. E si decise che da questo pericolo noi dovevamo seriamente pensare a garantirci in tempo. » Quanto alla Sardegna, la cosa non si è creduta vera per ora. Ma pur troppo il funesto trattato di Nizza e Savoia ha destata negli animi molta apprensione e molta diffidenza. Ed è già una troppo triste cosa, .signor Conte, che siflatti concerti non siano da tutti creduti impossibili ed un solo si trovi che possa dubitarne. » Si aggiunge che l’isola è malcontenta, e la propaganda francese vi si fa sfacciatamente; e nulla si tejita dal Governo per impedirla, mentre gli sarebbe cosi facile. » In mezzo a questa incertezza, a questa dolorosa apprensione, noi abbiamo riconosciuta la necessità di prepararci ad ogni evento, risoluti come siamo di opporci con tutti i nostri mezzi perchè la Sardegna non sia soggetto d’un mercato, e non cessi d’essere italiana. 834 » Dirò da ultimo (poiché nella lettera si parla di Garibaldi) che spiacque a noi tutti e ci parve errore deplorabile, che invece di prestare a questo grande uomo tutto l’aiuto che, serbate le esigenze diplomatiche, è possibile, egli sia visibilmente osteggiato dalla stampa officiosa, e si cerchi anche con altri mezzi di scemare la sua influenza (1). Mentre ognun vede che alla fortuna di Garibaldi è ormai raccomandata la fortuna d’Italia, l’osteggiarlo, o anche solo iì non assisterlo, pare a noi una colpa troppo grave del Governo Italiano. Si parlò anche della lettera spedita a Garibaldi. Ed abbiamo tutti manifestata la speranza che insieme alla lettera officiale egli abbia ricevuta un’altra lettera, in cui gli si dicesse che il suo riliuto non offenderebbe alcuno (2). Dio voglia che non sia vero l’armistizio tra lui e Clary annunziato oggi dal telegrafo, e che la patria non abbia da rimproverare al Conte di Cavour i disastri che verrebbero da questo funesto armistizio! (3). » Questa è, signor Conte, la sincera esposizione e quasi il verbale di ciò che fu detto nell’adunanza di cui Ella è stata cosi sollecitamente informata. » Che le nostre opinioni e i nostri giudizi sieno conformi a quelle dell’universale, Ella può facilmente argomentarlo dalla lettera stessa del suo corrispondente, il quale chiama colpa il consigliare Garibaldi a non far più niente, e il cedere la Liguria alla Francia, e le estima colpe sì gravi da far considerare il loro autore, se fossero vere, come (1) Questa ostilità può forse anco spiegarsi con la necessità in cui il Cavour si trovava d’intonare la stampa ufficiale in modo da ingannare la diplomazia sullo relazioni del governo piemontese con la s|>ediziOne di Garibaldi. Ma ragione più certa e più ovvia si è la gelosia del Piemonte militare e aristocratico il quale vedeva con amarezza che milizia volontaria di libero popolo guidata da un eroe popolano mietesse allori guerrieri e conquistando un vasto regno all'Italia riportasse trionfi ancora ignoti all’esercito monarchico piemontese. L'ostilità di questa stampa parve ancora accentuarsi dopo clie.il La Farina, emissario cavoui iano indiscreto e intrigante, «>spul9o di Sicilia da Garibaldi, tornò in Piemonte a svelenirsi conlro il duce e i suoi seguaci. (2) « La lettera di V. Emanuele a Garibaldi (22 luglio), destinata alla pubblicità per sedare il tono minaccioso della Francia, con la quale lettera il Re pregava Garibaldi a fermarsi, ebbe il suo correttivo in una lettera segreta del Re che l’inviato speciale Conte Litta-Modignani porse a Garibaldi e che suggeriva a Garibaldi stesso la risposta deferente ma negativa ». Cfr. A. Messeri. Garibaldi, Cavour e la formazione d'Italia in Rivuta d'Italia 15 genn. 1914. * (ili rispondeva il Cavour: « Torino 3 Agosto 1860. « Signor avv. Cabella, » La ringrazio della lettera ch’ella m’ha scritto il J° andante. » In contraccambio della schietta e leale spiegazione ch’essa contiene, le mando le dichiarazioni che seguono, con preghiera di ritenerle onde verificarne l’esattezza colla scorta dei fatti che andranno man mauo verificandosi e compiendosi. » 1° Senza il trattato di cessione di Nizza la spedizione di Sicilia sarebbe riuscita impossibile, ed il Generale Garibaldi a quest’ora probabilmente sciuperebbe a Caprera nell’ozio quel mirabile ardire di cui fu dotato dalla Provvidenza per il bene dell’Italia. » 2* Senza gli aiuti d’ogni maniera dati dal governo il Generale Garibaldi non sarebbe partito, i bastimenti che portarono Medici non sarebbero stati comprati, nè Medici nè Cosenz non sarebbero mai giunti in Sicilia, e la spedizione del Generale sarebbe rimasta sterile. (Questa dichiarazione deve rimanere segreta per ragioni d’inte-teresse pubblico, quantunque il segreto avvalori le calunnie del signor Bertani) (1). » 3° Preferirei lasciarmi tagliare le due mani prima di consentire alla cessione di un palmo di terra italiana sia sul continente, sia in Sardegna. La sola cosa ch’io cederei senza rimorso sarebbe il Canonico Asproni ed alcuni suoi colleghi, che costituiscono per la Sardegna .una seconda intemperie. » 4° Che se la grande impresa che si va compiendo, mentre era riputata un’utopia or sono due anni, ora può dirsi d'esito probabile, lo si deve principalmente alla politica praticata con tenace costanza dagli uomini che sono al timone dello Stato. (1) Com’è noto, il Bertani era ardente repubblicano e avversissimo al governo piemontese e, facile all’ira e troppo libero di parola, accusava apertamente il Cavonr d’aver venduto Nizza allo straniero, e di macchinare ai danni di Garibaldi e della sua spedizione. _ 337 » 5° ed ultimo. Che se, compiuta l’opera, la mutabile opinione popolare ci consiglieri ad abbandonare il potere ai nostri avversari politici, coi quali abbiamo sempre dovuto contrastare dall’indomani della battaglia di Novara, mi ritirerò con animo lieto e tranquillo a Leri (1) a governare le mie vacche, sicuro che la storia imparziale assegnerà a ciascuno in non lontano avvenire nel sublime dramma del risorgimento italiano la parte che gli compete. » Quando quest’ultima eventualità sarà verificata, io desidero e spero ch’ella verrà a farmi visita nella mia solitudine con questo foglio in tasca: ond’io possa convincerlo che l’onestà, la probità e la fede nei destini d’Italia furono sempre i motori della mia condotta politica. » Nell’aspettazione di quel giorno, mi professo C. Cavour (2) » Quanta virtù nell'uno e nell’altro avversario! e quanto dolore per ogni buon italiano il vedere due uomini, ambidue grandi per diverso merito, avversarsi e aspreggiarsi per amore di quella medesima patria alla quale entrambi consacravano e avrebbero dato volentieri la vita! 11 Cavour nella sua risposta dissimula da uomo politico il suo risentimento pel severo rimprovero ricevuto, ma presto vedremo dai fatti com’egli già da qualche tempo pensava a trai1 definitiva vendetta del suo avversario genovese. XIII. La Circolare Farini 13 agosto 1860. In una lettera in data 19 agosto 1800 di Mauro Macchi, milanese, deputato di Cremona e grande amico del Cabella, diretta al barone Annibaie Marazio direttore del Diritto, leggo queste parole: « L’articolo per la Circolare Farini devi inserirlo per secondare il desiderio di tutti gli amici di qui, compreso anche il Cabella, il quale mi disse ieri che quella sciagurata circolare dev’essere ormai (1) Vasta, tenuta di sua proprietà nella provincia di Vercelli. (2) Di questa lettera, cosa, notevole, il Cavour volle fare e conservare la minuta. Pubblicata da Giovanni Sforza tra le trenta lettere scelte d’illustri italiani in occasione delle Nozze Hoepli-Porro, il compianto prof. Guido Bigoni la ripubblicò nel Secolo XIX di Genova del I febbraio 1906. A meglio chiarirne al pubblico le ragioni moventi l'avv. Edoardo Cabella pubblicava il giorno seguente sullo stesso giornale la missiva di suo padre. K 338 il bersaglio contro cui deve dirigere ogni giorno i suoi colpi la stampa indipendente. Se non ti piace com’è, correggi pure e modifica a tuo grado, ma non lasciar cadere il discorso ». Queste sollecitazioni si riferiscono alla circolare 13 agosto 1S60 ai Governatori e Intendenti generali, con cui il Farini ministro dell'interno vietava che quaud’innanzi si raccogliessero altri voloutarii da mandarsi a (.■ aribaldi. Vi si diceva che il Ministro aveva più volte ammonito non doversi tollerare che nel Regno si facessero preparazioni di violenza a governi vicini, e ordinato che fossero ad ogni costo impedite, aggiungendo: « E perchè il sottoscritto deve compiere l’ordinamento della Guardia Nazionale mobile e preparare la formazione di corpi composti di volontari della Guardia Nazionale che la legge abilita, non vuoisi altrimenti permettere che altri faccia incetta o raccolta di soldati volontari. L'Italia deve e vuol essere degl’italiani, non delle sette ». Due parole di spiegazione. Dal giugno all’ottobre 1860 il governo piemontese o, per dir meglio, il Cavour doveva dar prova di prodigiosa destrezza e abilità di pilota ad evitare i molti scogli in cui la nave dall’impresa italiana, sbattuta dalle onde in tempesta, poteva a ogni momento rompere e affondare. Egli doveva ingannare l'Europa compiendo la più grande rivoluzione italiana e tacendo le viste di deprecarla o reprimerla; doveva ingannare il Re di Napoli temporeggiando in trattative coi legati di lui finché Napoli non fosse assicurata all’Italia; doveva vegliare perchè Garibaldi non si gettasse su Roma e provocasse l’opposizione armata di Francia e di Austria; doveva, mediante l’opera de’suoi Ministri ed agenti, far divampare una grande rivoluzione a Napoli che giustificasse agli occhi del mondo l’intervento armato del Piemonte; dimostrasse ardente e unanime l’aspirazione dei popoli del Mezzogiorno a fare una sola famiglia con gli altri fratelli italiani; togliesse Garibaldi al peritolo di un possibile insuccesso in una più grossa e decisiva battaglia, e la Monarchia Sabauda all’amara disdetta di dover accettare dalla generosità di un cittadino privato e a titolo puramente gratuito il dono di tutto il Regno delle Due Sicilie. Il Cavour doveva pure aspettare e cogliere il destro per ispingere arditamente V. Emanuele all’occupazione delle Marche e degli Abbruzzi e far partecipe lui e l’esercito sardo della gloria della redenzione italiana. Dovendo infine regolare e "dirigere ad unico fine tante forze discordi e tra se pugnanti, doveva naturalmente valersi di tutti i mezzi a questo fine conducenti: or come avrebbe potuto non aiutarsi anche con la simulazione? E come pt:ò la diplomazia non simulare e dissimulare se appunto in questo essa massima- 339 mente consiste? E non aveva poc’anzi V. Emanuele dato ordine simulato a Garibaldi di non varcare lo stretto, con lettera 22 luglio recatagli dal conte Giulio Litta? E la circolare Farini simulava appunto un divieto che doveva servire a nascondere agli occhi dello straniero gl’intendimenti del governo subalpino e la finale verità dei fatti che si andavano svolgendo. E non v’è luogo a dubitarne, perchè posto pure che sul principio della spedizione il governo tingesse dormire e si tenesse in reticente riserbo, dopo la vittoria di Milazzo e la capitolazione di Messina, era tutto suo interesse spingere innanzi a tutta forza l’impresa così felicemente avviata, tanto più dopo che il 24 luglio il Cavour per mezzo del ministro E. D’Azeglio e del prof. Giacomo Lacaita aveva ricevuto da Lord Russell la sospirata assicurazione che l’Inghilterra non darebbe il suo assenso all’accordo franco-napolitano circa una comune azione coercitiva contro Garibaldi. E la storia ci dice che, non ostante la circolare Farini, si fecero da noi nuovi arruolamenti e nuove spedizioni di volontari garibaldini col tacito consenso dell'autorità governativa. E non mancarono i giornali che della circolare intesero il vero significato: il Movimento di Genova la disse scrìtta più per l’estero che per l'interno; la Gazzetta del Popolo di Torino la disse fatta per la diplomazia; e nondimeno il Diritto, spronato da Mauro Macchi e dal Cabella, la censurò vivamente. La mala interpretazione di un atto cosi facile a intendersi è un’altra prova del mal animo e della diffidenza che in Genova regnava, per le già notate ragioni, contro il governo piemontese, e della semplice e rigida natura del Cabella che mal si piegava a riputare inganni e simulazioni le pubbliche ordinanze del potere esecutivo. XIV. Combattuto dal Carour, il Cabella soccombi nelle elezioni della primavera 1861. Chiusa la grande epopea garibaldina, annesso all’Italia il Regno delle Due Sicilie e indette le elezioni generali pel 27 gennaio e 3 febbraio 1861, era giusto e vivo desiderio del nostro Concittadino l’essere eletto all’onore di quel Parlamento che ormai rappresentava 22 milioni d’italiani. Se non che il Cavour che, come s’è detto, aveva risoluto di eliminarlo dalla Camera, come nelle elezioni dell'anno addietro così in queste contrappose a lui nel suo stesso collegio la candidatura di Nino Bixio il quale, tornato allora dal mezzogiorno onu- 340 sto di trofei guerrieri e laureato di gloria garibaldina e di entusiasmo popolare e rafforzato dal raddoppiato aiuto governativo, non poteva più dubitare di una luminosa vittoria sul suo avversario. Il Gabella si doleva della guerra mossagli dal Ministero scrivendone aU’amieo Rattazzi; e questi gli rispondeva il di 8 gennaio 1801 « non essere sorpi’eso della guerra che gli muove il Ministero nella lotta elettorale tra lui e Bixio » e gli proponeva « giacché Pareto pare sia per essere fatto senatore, di portarsi candidato nel collegio di lui »; gli diceva pure che per fargli avere un altro collegio scriveva subito a Monticelli (1). Intanto il 20 gennaio (1861) il Pareto è tatto senatore. Riscrive il Rattazzi aU'ainico Cabella il 23 gennaio che Monticelli aveva ri sposto dicendosi dispostissimo ad assumere l’incarico di formare un Comitato per appoggiare la candidatura Cabella, ma che il Bixio aveva già messe sì profonde radici che reputa vano il contrastarlo. « Io veramente non comprendo come il Bixio si presti a queste mene del partito che ti avversa. Sinché si trattava di avere un'elezione in Genova, capisco che un tal quale sentimento d’amor proprio (in verità mal inteso) lo tratteneva dal rinunciare alla candidatura; ma ora che per la vacanza del collegio di Pareto si poteva conciliare questo suo desiderio colla tua elezioue, la cosa non può realmente in alcuna guisa spiegarsi ». A suo luogo tenteremo di spiegarla noi. Il Bixio fu eletto. Fu grande il rammarico degli amici del nostro Avvocato, sopra tutti, del Rattazzi che aveva in lui un fido amico e un valoroso campione. Ne fan fede parecchie lettere scritte a lui in questa dolorosa circostanza, delle quali trascriviamo i tratti al nostro proposito convenienti. « Torino 29 del 1861. » Amico Car.m“ » Non so esprimerti il dispiacere, che ho provato vedendo quale sia stato l’esito della votazione di cotesto collegio a tuo riguardo. » Havvi ancora una speranza nel caso in cui Bixio fosse stato definitivamente eletto in un qualche Collegio delle Provincie Napo-litane, cosa che finora non si conosce: in questo caso potrebbe ancora rivolgersi la votazione in tuo favore per non dar luogo ad una ele- (1) March. Pietro Monticelli, patrizio genovese e uomo politico già menzionato. 341 zione inutile. Del resto comprendo purtroppo che sarebbe inutile il lusingarsi di vincere a fronte di un così notevole divario di voti. » E vero che barai senza fallo eletto nelle seconde elezioni, perchè vi saranno più collegii che usando verso di te maggior giustizia di quella che ti usarono i tuoi concittadini, saranno lieti di portarti, ma ciò non basta per toglierti la pena di questa sconfìtta. » Se credi che si abbia a inserire qualche articolo nella Monarchia, scrivimelo, ehe si farà come desideri (1). » Credimi di cuore e coi più sinceri sensi Tuo aff.mo amico U. Rattazzi » « Torino 16 feb. 1861. « Amico Car.mo • Ora è assai più conveniente che ognuno conservi le sue idee e i suoi principii. L’ufficio del presidente non è governativo, e non implica alcuna solidarietà col Ministero, è necessario che rimanga del tutto indipendente, e tale desidero che sia (2). » Non mi meraviglia (pianto mi scrivi sui raggiri che si fecero contro la tua elezione: lo stesso si praticò in molti altri collegi. Ora converrà pensare alle seconde elezioni. — Io ritengo che vi saranno almeno cento collegi ancora disponibili; e son certo che sarà facilissimo il farti eleggere in più d’uno. Mano mano che si renderanno vacanti se ne prenderà nota, e puoi essere persuaso che qui faremo ogni sforzo per farti nominare Se ne è già parlato, e tutti sono d accordo di nulla ommettere per riuscire. Non mancherò a suo tempo d informarti d’ogni cosa. » Lamarmora fu qui di passaggio or sono due giorni, ed è già ripartito per Milano. Ad o^ni modo non gli avrei potuto parlare pel tuo raccomandato, perchè egli è col Ministero della Guerra in relazioni tali che certo non gli consentirebbe di fare una raccomandazione qualsiasi. (1) Della Monarchia nazionale giornale rattazziano uscito in Torino il 1° gennaio 18fJ0, parla il Rattazzi in più lettere al nostro Genovese. In quella del 28 ott. 1860 lo prega di trovargli azionisti a Genova; in quella del 6 gennaio 1861 lo prega di dirgli *5 gli piace l’indirizzo del giornale, se no, favorisca fargli conoscere in qual parte gli parrebbe meglio modificarlo. (2) Il Rattazzi assumeva la presidenza della Camera due giorni appresso cioè il 18 febbr. coll’aprirsi bell’ottava legislatura e del primo Parlamento italiano. » Vedrò volentieri il capitano Pittaluga che tu hai avuto la compiacenza di dirigere a me; desidererei di potergli esser utile in qualche cosa. » Non posso dirti quanto sia dolente che debba dopo dimani aprirsi il Parlamento, senza che tu ne taccia parte: ma mi lusingo che la mancanza sarà breve, che presto potremo dinuovo ritrovarci insieme. » Addio, caro Cabella, e credimi di cuore coi più sinceri sensi tuo aff.mo amico U. Rattazzi » Camera dei Deputati Gabinetto del Presidente « Amico Car.m0, » Mi rincrebbe assai di sapere che tu sia stato qui, senza ch’io abbia avuto il piacere di vederti: ma non intendo con questo di fartene una colpa, perchè so quante occupazioni ti assediino nelle poche ore in cui ti trattieni qui e come il più delle volte ti sia assolutamente impossibile disporre anche di pochi istanti. » Da quanto mi si diceva or sono ancora pochi giorni, la tua candidatura in Milano pareva quasi assicurata, e mi era sommamente caro il veder che tu potessi venire alla Camera inviato da quella cospicua Città: era una risposta al contegno della tua città natale. Ora però mi viene supposto che siano insorte alcune difficoltà, perchè nello stesso Collegio si presenta il Finzi, il quale ha colà molte ed influenti relazioni. Ad ogni modo non si dispera di vincere. Quanto a Cialdini non si può sperare che egli ti proponga stante le di lui relazioni col Ministero: è sperabile per altro che si terrà neutrale. » Quanto al giornale, che si vorrebbe pubblicare in codesta città, ne ho fatto parola con comuni nostri amici e mi paiono tutti ben disposti riconoscendo la convenienza di avere un organo in una città cosi importante com'è Genova: potresti quindi indicarmi qual è la somma delle azioni che si vorranno emettere, ed io procurerò di smaltirne il maggior numero possibile. » Quanto all affare concernente il Principe Torlonia io non vedo alcun inconveniente che tu ne scriva a Cavour: a dirti il vero però io credo che non servirà nulla, perchè dall’un canto egli in questo 343 momento non pensa nè s’occupa d’altro che di Roma, dall’altro è così inebriato dalle lodi e dal successo avuto sin qui che non ascolta più alcuno, e lascia che tutte le cose vadano come vogliono. Ad ogni modo scrivendogli non avrai nemmeno a rimproverarti d’essere stato in silenzio. » Ritengo che malgrado la cattivissima figura fatta da Fanti in Parlamento in occasione delle interpellanze Lamarmora, Egli rimarrà al Ministero (1). Ha una qualità impagabile per Cavour: è sempre docile e pronto a fare a di lui modo: di più credo che lo considerino indispensabile per porre termine a tutte le differenze che debbono ancor risolversi per l’esercito meridionale. » Addio, caro Cabella, credimi di cuore, e coi più sinceri sensi tuo aff.mo amico Torino 30 Marzo 1861. TJ. Rattazzi * XV. 11 Cavour espone al Cabella le ragioni che l’han mosso a combatterlo. Ma anche la sua candidatura a Milano andò fallita; onde quando sull’aprire del maggio (1861) cominciò a sperare che il principe ro mano Alessandro Torlonia, di cui curava gravi interessi, potesse, dati certi modi e condizioni, esser guadagnato alla causa italiana, credette doverne dare avviso al Cavour, esponendogli insieme, rispettosamente ma schiettamente, com’egli disapprovava che il Governo si facesse agente elettorale e abusando della sua autorità imponesse il voto a’ suoi dipendenti per fabbricar deputati ligi a’ suoi voleri, com’era accaduto nel caso proprio. Rispose il Ministro con la seguente lettera, che pubblicata dal Chiala mutila dell'ultima parte, si riporta qui per intero. (1) Allude all'interpellanza dpi 23 marzo sul riordinamento delTesercito mossa dal La Marmora con parole superbiose e scortesi al generai i anti Ministro della Guerra, rispondendo alla quale il Fanti, avendo sconvenevolmente osservato che il numero dei garibaldini nominati ufficiali era stato soverchio, provocò le proteste e le intemperanti parole del Sirtori seguite dalle opposte proteste del Malenchini e da un gran tumulto per cui fu tolta la seduta. Ma il La Marmora fu battuto come meritava perchè la sua proposta di censura al Ministro Fanti fu respinta alla quasi unanimità. 344 « Torino, 7 maggio 1861. » Preg.mo Signore, * Se la S. V. è stata sconfitta nelle ultime elezioni il Ministero non ne ha nè merito nè colpa; giacché esso esercita cosi poca influenza a Genova, che se Bixio trionfò non fu certo per l’appoggio che può avergli dato; che anzi lo stesso Bixio ebbe a dirmi che la voce sparsa essere la sua candidatura a me personalmente accetta gli era stata di danno anziché di giovamento. » Ove poi stesse in fatto ch'io avessi contribuito a farla scendere momentaneamente in un sepolcro politico, ella non potrebbe farmene addebito. Giacché essendosi chiarito in questi ultimi tempi ferocissimo avversario della nostra politica, era ben naturale ch’io desiderassi di vederlo allontanato da una Camera nuova e d’indole incerta, ove ella avrebbe avuto, mercè il suo ingegno singolare, grandissima autorità. Credo di avere reso omaggio al suo valore politico, manifestando il desiderio che a lei fosse anteposto altro candidato dell’Opposizione. Questo desiderio sarebbe tornato vano ove i suoi amici gli fossero rimasti fedeli, giacché reputo non aver influenza di sorta sugli elettori genovesi che furono, sono e saranno sempre proclivi a favorire chi combatte il governo. Se mai avessi avuto qualche illusione su ciò, la discussione sulla cassa invalidi me l’avrebbe tolta. Pensavo d’aver acquistato qualche titolo alla benemerenza della gente di mare ligure coll’istituzione di questa cassa e coll’averne. anche quando non ero ministro della marina, curato in ispecial modo gli interessi. Crudele disinganno! Il loro speciale rapppresentante, il gran marino Giuseppe Ricci non ebbe intorno al mio operato che parole di critica e di biasimo! Essendo entrambi dixilhixi rispetto ai nostri amici a Genova, parmi che potremo stringerci la mano quali avversari leali che si rispettano vicendevolmente senza che amici o nemici abbiano il diritto di biasimare quest'atto di riconciliazione. » Divido pienamente il suo parere sulTimportanza che avrebbe un atto d adesione del principe Torlonia al Regno d’Italia; epperò ov’ella giungesse ad ottenere il suo concorso al prestito nazionale farebbe opera utilissima. Temo però ch’ella non vi riesca. Ho già cercato di tentare il vecchio milionario con l’esca degli onori. Parve mordere all amo; ma poi si ritirò per futili pretesti. Potrà l’interesse più della vanità.' Lo desidero più ch’io noi speri. In ogni modo continui le sue .pratiche. Se per avventura il vento mutasse a Romt 345 prima della contrattazione dell’imprestito, forse il principe si dimostrerebbe più arrendevole ai suoi consigli. » Pregandola a volermi tenere informato del seguito che avranno le incominciate trattative, ho il bene di raffermarmi con distinta stima Dev. Ser. C. Cavour » Raccomanderò a Napoli di non opporre ostacoli ai lavori del lago Fucino (1) ». La lettera, se ben si esamina, è architettata da abile politico, ma non è sincera. 11 Ministro, seguendo il suo sistema, non solo non vuol disgustare il caduto avversario, ma cerca blandirne l’amor proprio e velatamente gli fa intendere che quando si risolvesse ad accostarci al partito ministeriale, potrebbe risorgere; e movendo da un ingegnoso artificio finisce proponendogli una conciliazione se non politica, di stima e rispetto reciproco. Che il Bixio dovesse la vittoria a’ suoi recenti trionfi militari più che all’appoggio delFamico presidente dei Ministri, si può ben credere; ma che il governo non abbia anche da parte sua fatto ogni sforzo per procurar voti al suo candidato, nessuno che viva al secolo oserà affermare. Nè credo più conforme a verità che il Nostro in quegli ultimi tempi si fosse chiarito ferocissimo avversario della politica eavouriana, mentre reputo verissimo che il Cavour l’abbia voluto allontanare dalla Camera per liberarsi da un avversario autorevole e temibile, quantunque non. creda sia stato questo nè l’unico nè il principale motivo. Ho esaminato diligentemente Fazione parlamentare del nostro Concittadino di quegli ultimi anni per vedere a qual particolare ferocia alludesse il grande Ministro, ma nulla ho potuto trovare che giustificasse quell’accusa. La sua opposizione al Ministero non fu mai, nè prima nè poi, feroce nè violenta. Dopo il suo potente discorso contro la spedizione di Crimea, di cui lo stesso Cavour volle rilevare in Parlamento la forma gentile, il Cabella nulla disse o propose di notevolmente avverso al Ministero se ne togli il discorso e il voto contro il trasferimento della Marina militare da Genova alla Spezia, nella quale opposizione ebbe com- (1) Da questa lettera e da altra responsiva del Depretis 17 aprile 1862 si rileva che il Nostro si adoperava a procurare dal Governo consenso e favore alle civili e benefiche intenzioni del principe Torlonia circa il prosciugamento del lago Fucino. paglia tutta la deputazione genovese. Caduto, come s’è detto, nelle elezioni del 1857, rieletto il marzo del 18G0, non solo nulla fece di notevolmente contrario al Ministero ma nella tornata del 28 giugno ( !b(>0) votò con tutti gli altri l’imprestito domandato dal Ministero di 150 milioni; uella tornata del 29 dello stesso mese addivenendosi alla votazione della legge sulla cessione di Nizza e Savoia alla Francia, non ostante che dessero voto contrario i suoi concittadini Pareto, Ricci, Tornati e, tra gli altri, gli amici Depretis e Biaiicheri, egli si antenne. Non parlo poi del modo rispettosissimo con cui fu sempre suo costume di trattare le quistioni e rilevare gli errori ministeriali. Non è dunque la insistente feroce opposizione degli ultimi tempi la eagiou vera della guerra mossagli dal Ministro. Il Cavour getta la colpa della sconfitta del Cabella sulla infedeltà de’ suoi amici, ma a torto e per tacere la non bella verità. Lui, Cavour, lui, e non altri, fu proprio la causa principale di quella sconfitta, perchè s’egli avesse solamente voluto assumere al Parlamento l amico suo Bixio, e non anche e in pari tempo escluderne il Cabella, avrebbe posto la candidatura del generale in altro collegio e, come desiderava il Rattazzi, nel collegio lasciato vacante dal Pareto, non proprio nel collegio del Cabella dove questi, alle prese con si formidabile competitore, doveva inevitabilmente soccombere. In questo dunque il Cavour seguì il sistema degli accorti politici: farsi un amico sopprimendo un nemico. Dissi poi artifizio ingegnoso quello usato dal Minisiro torinese per trovar modo di striugere la mano all’avversario in quella che lo espelleva dalla Camera. Egli infatti dice cruci'le disinganno il biasimo e le critiche mossegli dal Ricci a riguardo della legge sulla Cassa invalidi della gente di mare, per potersi dire ingannato dagli amici non meno che il caduto avversario e trovare una comunanza e parità di sventura suggeritrice opportuna se non d’amicizia, di rispettosa conciliazione. Ala sia detto ad onor del vero: le critiche e il biasimo del Ricci e il crudele disinganno del Cavuur sono una storiella; ed io stupisco e non so spiegarmi il perchè il Cavour affrontasse con tanta franchezza il pericolo presentissimo d’es'er convinto di menzogna quando il suo avversario avesse voluto leggere i verbali di quelle sedute o domandarne notizia all’amico Ricci. Pio voluto leggere pazientemente, com’è dovere di chi ha da giudicare, tutta la discussione relativa a questa legge proposta dal Cavour presidente dei Ministri e Ministro degli Esteri e della Marina, e di cui fu relatore il nostro Giovanni Ricci, (e non, come sbaglia il Ministro, Giuseppe Ricci, il quale non fu deputato oltre la IV legislatura). Prevenuto dalle querele che il Cavour n« fa nella sua lettera al nostro Concit- 347 tadino, mi aspettavo tratto tratto di veder il Cavour fatto segno a chi sa quali attacchi d'animo aspro e malevolo; ma qual fu la mia sorpresa quando, finita la lettura, non solo non vi ho trovato nulla che tampoco giustificasse ma che desse il più lontano pretesto alle accennate querimonie! Si leggano negli Atti parlamentari della nostra Camera i discorsi tenuti su questa legge nelle due tornate del 30 aprile e del 1° maggio 1861, e poi si dica se le varie osservazioni esposte dal Ricci a nome della Commissione e le modificazioni proposte e di buon grado accettate ora dalla Commissione ora dal Ministro, non si discussero nella forma più temperata, concilievole e cortese e come in poche altre discussioni d’eguale importanza nel nostro Parlamento soleva avvenire (1). Basti al lettore che la legge ministeriale con lievi emendamenti fu approvata con voti 203 contro 11 (2). Ripeto: le critiche, il biasimo e il crudele disinganno sono un espediente immaginato li per li dal frettoloso Ministro per conciliarsi l’animo del colpito; convien dunque cercare in altri fatti la cagione della strana ostilità personale del Cavour e del suo doppio modo di procedere col Nostro: e il fatto l’ab- (1) L'unico ponto che abbia un sapore di polemica personalesi riduce alle seguenti parole pronunciate nella discussione del 30 aprile: Cavour-, L’onor. Ricci ha colto quest’oisoasione per criticare l'amministrazione, per gettare un biasimo sopra il Presidente della medesima olle riceve il compenso di 2000 lire. — Ricci: No, io non biasimo nessuno. — Risposta giustissima perchè il nostro Deputato non aveva fatto quistione di persone ma di principii. (2) E tanto minor ragione aveva il Cavour di lagnarsi dell’on. Giovanni Ricci in quanto questi, molto diverso di sentimenti e di opinioni politiche da suo fratello Vincenzo ex ministro, iniziava nel 1860 la sua carriera parlamentare con aderire al Ministero e col dare, solo fra tutti i deputati di Genova, voto favorevole alla legge Ca-vouriana sulla cessione alla Francia di Nizza e Savoia. Che non ostante il suo poco remissivo carattere il Ricci fosse cavouriano era credenza dello stesso Cavour il quale all'aniieo banchiere di Genova che gli domandava quali candidati desiderava in Genova fossero appoggiati nelle prossime elezioni politiche, rispondeva il 21 genn. 1861: > Je suis favorable à Giov. Ricci. Je crois qu'il est avec moi; d’ailleurs commemarin il en sait plus que tous les autres. Je le préfère a Tornati ». U presid. Farini nel novembre del 1892 facendone in Senato la commemorazione necrologica diceva: « Propugnò ogni interesse marittimo con autorevolezza pari al grande affetto. Questo era cosi vivace e quella tanta che il conte di Cavour non dubitando di giudicarlo il solo ufficiale capare di riordinare la marina napolitana, gliene aveva dato nell’ottobre del 1860 la spinosa incombenza ». E il sen. Lazzaro Negrotto aggiungeva: « (Giovanni Ricci) seppe acquistarsi la stima di tutti e quella di Cavour che aveva in lui riposto intera la sua fiducia tanto che gli diede incarico di recarsi in Inghilterra per farvi acquisto di (.?) navi per conto dello stato ». Erano dunque due valentuomini legati da reciproca stima: più: se non servo partigiano, il Ricci era sincero ammiratore e leale fautore del Ministro torinese: il quale, pertanto, accusandolo al Cabella di mancamento di fede e dicendosene crudelmente dinngannato arzigogolava una non bella tpiri/oia invenzione. 348 biamo. Tra le carte autografe lasciate dal nostro Concittadino v'é una lettera di confidente intimità a un innominato amico suo dalla quale tolgo il brano seguente: « È un segreto il desiderio grandissimo che Cavour aveva di associarmi al suo governo. Son morti parecchi ma parecchi sono ancor vivi di coloro che ebbero da lui incarico di trarmi al suo partito: e saranno per sempre ignorati i colloquii ch’io ebbi con lui. To ho sempre resistito a questi inviti per tre ragioni, che senza nessun riserbo ripetei più volte a quel grande: 1° il rinnovamento dell'antico errore di voler cacciare uno straniero colle armi di un altro troppo potente per non esserne dipendenti a principio e più tardi forse conquistati; ciò per la politica esterna; 2° il sistema di corruzione cou cui s’era inaugurato il regime costituzionale e con cui si facevano le annessioni, che io giudicavo come un elemento anticipato di dissoluzione, latente bensì finché durassero i tempi ordinarli, ma irresistibile quando cominciassero ad apparire le avversità: 3° la mia posizione politica, la quale non mi permetteva, preso una volta il mio posto nell’opposizione, di farmene disertore, quando non ne fosse adottato dal < !o-verno l’intero programma ». Da questa dichiarazione, scritta dal Cabella negli ultimi anni della sua vita, noi veniamo a conoscere che il Cavour tentò di associarlo al suo governo, e dalle obiezioni oppostegli dall’invitato sappiamo che l'invito ha da riferirsi presumibilmente al 1859 quando il Regno Sardo ebbe l’aiuto della Francia e seguirono le prime annessioni. E ci spieghiamo pure la decisa avversione concepita contro di lui dal .Ministro torinese. Coll’annessione al Regno Sardo della Lombardia e delle regioni centrali l’assemblea rappresentativa veniva quasi a duplicarsi, e il Cavour sentiva la necessità di corroborare il Governo chiamando a farne parte i parlamentari più insigni e più autorevoli presso le società politiche delle loro rispettive regioni. Ora, acquistare al governo un ministro come il Cabella era accrescergli un valore, un’autorità nuova e grande. La profonda e vasta dottrina giuridica, politica ed economica, avvalorata da una ricca, diritta e convincente eloquenza; la somma dignità della vita e del carattere che lo faceva onorando ad ogni partito politico; la giustizia e la temperanza e il perfetto dominio di se stesso, doti tanto necessarie a un timoniere dell agitata barca parlamentare, infine la signorile gentilezza accoppiata alla ferma risolutezza facevano di lui un Ministro, sarei per dire, ideale. Se poi consideriamo che uu Cabella associato al potere esecutivo avreb- 849 be segnato il sospirato termine delle lunghe discordie e il principio della conciliazione e collaborazione politica tra Liguri e Piemontesi, e il partito di Destra e di Sinistra, non solo ci spieghiamo gl’inviti del Cavour ma ci stupiremmo se alla sua avvedutezza fosse sfuggita l’utilità di un tanto acquisto. Il nostro Cittadino dal 1857 non faceva più parte del Parlamento; grandi avvenimenti si erano svolti, altri maggiori maturavano, il nostro politico rinnovamento da sogno e sospiro si cangiava in realtà: qual più opportuna occasione, qual più attraente invito per un valentuomo ad accettare un seggio dove tanto bene poteva operare, tanto merito acquistare, tanto onore aggiungere al nome suo? Il Cavour tentò dunque la prova, prima per mezzo di terzi, poi' direttamente con personali abboccamenti: In siffatti casi l’invitato cui non garbi l’invito, suole accusare ragioni di salute o di famiglia o di negozi, come meglio gli torna; il Cabella invece, fermo noi suo proposito e uso a parlar più reciso coi più potenti, per togliere al tentatore ogni speranza di riuscire, non solo ricusò l’invito ma condannò senz'alcun riserbo e ripetutamente quanto si era operato e si andava operando in quei solenni momenti dalla politica del governo piemontese. Fu uno smacco pel Cavour. Vinto nel ripetuto rifiuto di quelle offerte che sogliono riportare tante vittorie, e per giunta biasimato ne’suoi sistemi di governo, egli, com’è naturale, non avrebbe più potuto sostenere alla Camera la vista mortificante e tanto meno l’eloquente opposizione del suo vincitore; onde, anche perchè la vittoria costasse a lui un po’ di quello che a sè la sconfitta e non ne uscisse impune, deliberò di chiudergli per sempre le porte del Parlamento. Se ciò non era, qual ragione avrebb’egli avuto di colpire lui solo dei Genovesi, non anche Vinc. Ricci, Casaretto o altri, non meno di lui avversi al Ministero? Che il Cavour si mostrasse offeso ed irritato dei rifiuto e della riprovazione del nostro Cittadino possiamo argomentarlo dalla forma, come s’è visto, più del solito ossequente della lettera del Cabella intorno all’obbligatorietà del voto politico, quale si usa con persona autorevole che si dubita sdegnata con noi; e dal fatto che il Cavour, contro la sua nota abitudine, non degnò di risposta quella lettera che per più ragioni la meritava. La sua avversione crebbe quando gli ultimi di luglio del 1800 avendo spedito al Cabella la copia della lettera de-Iatrice, n'ebbe in risposta la riferita vibrata protesta e il severo richiamo all’onestà, alla probità, alla fede come alla più abile e alla più accorta delle, politiche: biasimo grave che al Cavour dovette sapere di forte agrume. Le ragioni che il nostro Concittadino dice aver senza riserbo © 350 opposte all’invito fattogli, non sono, come vede il lettore, tutte ugualmente valide. 11 chiamare in Italia un potente straniero perchè ne cacciasse un altro fu cosa certamente dolorosa a tutti perchè l’aiuto francese si doveva pagare con la iattura di parte della nostra indipendenza, come per oltre un decennio avvenne; e non del tutto a torto affermava il Mazzini che l’invocare salvezza dall’uomo che aveva abbattuta la Repubblica romana e fatto il colpo di stato, era macchiare il nome d’Italia; ma senza l’aiuto di Francia come sperare che un piccolo stato e mal preparato, quale il Piemonte, potesse da solo liberarsi dall’Austria potentissima e agguerritissima? Giusto il secondo motivo considerata l’intemerata coscienza del Nostro, aborrente com’era', da ogni corruzione politica e non politica; ma più forte di tutti, credo io, il terzo, a cui soggiungo una nota. Kgli è ben vero che il Cavour prima col famoso connubio col Rattazzi e il centro sinistro, poi con la rogazione di molte leggi informate a libertà e a sensi civili e moderni, da capo di parte moderata s’era gradata-mente cangiato in capo di governo radicalmente e largamente liberale, e chiarito direttore spertissimo del movimento unitario italiano, e che quindi niun rimprovero meritavano i liberali che, vistane la mutazione, se n’eran fatti seguaci e fautori: ma il Cabella non poteva senza violentare la propria coscienza e senza ferire il sentimento dei Genovesi associarsi a un Ministero che cedeva Nizza alla Francia, che trattava i volontari di Garibaldi come gentame spregevole e solo tollerabile in vista di alte ragioni politiche; a un Ministero che osteggiava e vessava l’eroe nizzardo quando questi veniva acquistando all’Italia il regno delle due Sicilie: egli avrebbe rinnegato Genova sua, e Genova sua l’avrebbe gridato transfuga e traditore. Adunque per un veterano di sinistra e genovese non era ancor quello il tempo di un’onesta e opportuna conversione al partito ministeriale. Inoltre: il partito di opposizione non è, come volgarmente si crede, avversione o contrasto sistematico alla funzione governativa; quando l’opposizione non sia mossa da intendimenti ambiziosi o da interessate cupidigie, esercita sul governo due azioni egualmente benefiche e necessarie che la rendono benemerita dello Stato quanto e forse più del partito di Destra: l’una impellente che all'uopo lo sforza a progredire, l’altra coercente che all’uopo lo frena e trattiene. Il Cabella rimanendo nell’opposizione non combatteva già il Ministero nei disegni favorevoli a libertà o al pubblico bene ma in quelli che a libertà e al pubblico bene ravvisava pregiudizievoli. « Io presterò sempre, diceva nella tornata ‘28 giugno 1860, la mia assistenza al Ministero sempre che si tratti d’andare innanzi ». Analizza- 351 tore acuto delle leggi e degli atti governativi, egli sentiva di poter prestare alla patria servigio più proficuo ed efficace dai banchi di Sinistra che dai banchi di Destra, più come censore che come lodatore, più da deputato indipendente che da dipendente Ministro. E come Socrate innanzi ai giudici si compiaceva di paragonar sè a un tafano posto dagli dei su nobile cavallo per punzecchiarlo e tenerlo desto, così il nostro Cittadino nella tornata 5 ottobre 1860 movendo osservazioni alla domanda fatta dal Cavour alla Camera di un voto di fiducia, si compiaceva di chiamar sè vecchio soldato delT opposizione. Il Cabella. pagò adunque il fio d’esser degno di sedere a fianco del più grande ministro italiano col bando dalla Camera; dalla quale poi la fortuna dell’urna, alleata naturale dell’intrigo e della corruzione, lo escluse per sempre. XVI. Fallitagli un’altra prova, il ('abella depoue per sempre il pensiero di ritentare la fortuna delFurna politica. Era umano e giusto che chi sapeva di poter con la parola utilmente servire alla patria minore e maggiore, Genova e Italia, costituito il Regno d’Italia, desiderasse di ritornare alle lotte del campo parlamentare, e che all’uopo cercasse l’appoggio di qualche amico collega. L'anno appresso infatti aspirava ai voti del collegio di Mortai-a, ma il Mellana in lettera 22 marzo 1862 gli comunicava che il Rattazzi, presidente del Consiglio, non credeva probabile la sua riuscita in quella città; la credeva invece sicura nel collegio della Spezia che doveva presto vacare per la imminente nomina a senatore dell’ammiraglio contedi Persano. In altra del 29 marzo il Rattazzi gli scriveva ch’egli avrebbe ben voluto portare la candidatura di lui a Mortara, ma che il Ministero aveva già accettato quella dell’avv. Luigi Marchetti. Il Persano poi non fu fatto senatore che tre anni più tardi, onde perquella legislatura il Cabella non credette di muoversi più oltre. Venne il 1865 anno della traslocazione della Capitale. Chi avrebbe potuto resistere alla seducente speranza di sedere tra gli oratori dell’assemblea nazionale radunata nella città dei fiori, madre del genio italico, nutrice d’ogni bel sapere? Pose dunque la sua candidatura nel 2° collegio della nostra città con non infondate speranze di buona fortuna. Gli dava anche ragione di bene sperare il nobile atto con cui l’amico sho avv. Agostino Chiodo ritirava la propria candidatura 352 per dargli pubblica preferenza di stima e di onore e agevolargli l’elezione. Del che il Cabella si affrettava a ringraziarlo pubblicamente con la seguente lettera apparsa in quei giorni sul Movimento. « Genova, 20 ottobre 1866. » Chiarissimo Signor Direttore, » Nel numero 293 del suo accreditato giornale leggo la notizia che il mio amico avvocato Agostino Chiodo ritira Ih sua candidatura dal secondo collegio per non dividere i voti dei liberali e per darmi una pubblica testimonianza di stima. A questo pubblico atto di amicizia io devo rendere pubbliche grazie. Duoimi che agli elettori sia mancato un nome così onorevole e sul quale avrei desiderato che si riunissero i loro voti. Ma il fango che qualcuno ha creduto potermi gettare in viso negli ultimi giorni mi obbliga a tener alta la fronte al cospetto de’ miei concittadini. Non so se il mio nome uscirà dall’urna, perchè fra quelli proposti alla scelta degli elettori vi sono nomi onorandi degnissimi dei loro voti. Ma se sarò onorato del loro suffragio accetterò ed adempirò il mandato nel quale non ho mai veduto nè vedrò mai altro che il dovere che ha ogni cittadino di servire il paese nella misura delle sue forze e a costo di qualunque sacrifizio. » Accolga la espressione della mia alta stima. Cesare Cabella avv. * All'Egregio Sig. A. G. Barili Direttore del Movimento ». Ma anche questa fu vana speranza. Cosi nella prima come nella seconda votazione (22 e 29 ottobre) la vittoria fu del ministeriale march. Francesco Serra Cassano. N’ebbe breve amarezza, poi, ripensando, non solo si riacconciò alla sua sorte ma poco andò che e alla speranza e fin anco al desiderio dell’onor rappresentativo chiuse il cuore per sempre, nè mai più ritentò la prova dell’urna. Nel febbraio del 1867 il Ricasoli presidente del Consiglio, volendo a suo sostegno una maggioranza parlamentare più sicura, otteneva dal Re lo scioglimento della Camera, e le nuove elezioni erano indette pel 10 e 17 marzo. La condizione del Governo era più che mai buia, difficile e pericolosa, e a dipanar la matassa aggrovigliata delle molte cozzanti questioni politiche non valeva assennato consiglio. Il partito d’azione capitanato da Garibaldi voleva Roma a dispetto delle Conven- 353 zioni di Settembre e di qualsiasi altra considerazione internazionale; Napoleone minacciava guai a chiunque la toccasse: questa la questione più grave, a risolver la quale combattevano opposte e diverse, secondo i partiti, le tendenze e le opinioni del Parlamento e del Paese. Gli studenti dell’Università genovese, giovani cuori non ancora deflorati dallo spirito di partito e di consorteria, credettero far opera dovuta di cittadini e discepoli proponendo candidato e promovendo l’elezione politica del loro ammirato ed amato maestro che se ne stava in disparte dimenticato dal mondo elettorale; e a questo fine concordarono e pubblicarono questo proclama agli elettori del 1° collegio. ELETTORI DEL PRIMO COLLEGIO ! Chiamati dal Governo del Re all’esercizio del più importante diritto concessovi dallo Statuto, Voi, lice sperarlo, converrete numerosi alle Urne, dove tra breve si agiteranno le sorti d’Italia. Tempo è che si desti e parli il Cittadino; parli col muto ma eloquente linguaggio del Voto: lo esige la comune felicità e sicurezza. I pericoli della Repubblica gli sono aperti; vi soccorra. Chi del caso e della fortuna della Patria non si prende pensiero si dichiara suo nemico. Le passioni politiche, le ire di parte, cedano alle supreme necessità del momento: un solo affetto vi guidi tutti alle Urne, Elettori! la carità della patria. Concordi in un volere, lasciate gli sdegni e i bassi rancori ai volgari settari: vi caglia della salute di tutto un gran Popolo più che delle vittorie, sempre deplorabili, di questa o o quella casta. Legislatori probi, risoluti, capaci ad assestare le depauperate finanze, ad introdurre l'ordine e la moralità nell'Amministrazione, a riformare e diffondere l’istruzione, a regolare senza jattura degli interessi e della dignità nazionale, le attinenze della Chiesa con lo Stato, ecco coloro che soli possono inaugurare un migliore indirizzo al reggimento della cosa pubblica. ELETTORI ! Affrettatevi e unitevi. L’avvenire della Nazione dipende dalle presenti elezioni. Volete che tutte le franchigie costituzionali ritrovino la loro più ampia applicazione? Eleggete chi per antica fede siasi chiarito devoto alla Patria ed 83 354 alla Libertà, a quella onesta libertà che largitaci da provvide leggi, germogliata dal sangue dei Martiri, fu il sospiro dei nostri più profondi pensatori, da Dante a Cavour. Il vostro suffragio sia per CESARE CABELLA, uno di quei pochi che non profanano la santità dell’amor patrio con mire occulte, perchè auzi tutto Egli è un uomo dabbene. Interprete fedele dei vostri interessi municipali, saprà ben Egli ottenere che le condizioni morali ed economiche della vostra Città s’avvantaggino: che esse siano innalzate a quel livello che la civiltà e la speciale importanza di questa superba metropoli esigono. ELETTORI DEL PRIMO COLLEGIO ! Onesto, dotto, a liberi sensi educato, il vostro illustre Concittadino l’Avvocato CESARE CABELLA vi rappresenterebbe assai degnamente al Parlamento, dove già in altri tempi diede nobile saggio dell’indipendenza del suo voto, di alto sentire, di molto sapere. I suoi principii li conoscete: sono quelli della libertà, dell’ordine, della morale. Suo vivissimo desiderio: l’onore e la prosperità d’Italia. Raccomandandolo a coi, noi abbiamo la coscienza di soddisfare ad un generoso sentimento, a un dovere di buoni Cittadini. Eleggendolo a vostro deputato, voi avrete provveduto al bene pubblico, ai bisogni di Genova. Gli Studenti Dell'Università II Cabella che trovavasi in Alessandria, letto questo proclama, spedi tosto il seguente telegramma alla Direzione del Movimento che lo pubblicò sul Supplemento del 7 marzo: « Ringrazio studenti: non posso accettare candidatura primo collegio dove già sono candidati tre miei amici. CekaRe Cabella » I tre amici candidati nel 1° collegio erano march. Vincenzo Ricci, pei eletto, avv. Enrico Brusco e prof. Cristoforo Tornati. Tornato a Genova, inviò al Movimento una lettera esplicativa che dal Direttore A. Giulio Barrili fu pubblicata nel numero del 10 marzo e che qui trascrivo con le nobili parole che l’accompagnavano. 355 « L’avvocato Cesai'e Cabella ci scrive una lettera che ci rechiamo a gran pregio di pubblicare. » E un degno attestato di affetto alla gioventù del nostro Ateneo, ed è una nuova testimonianza dell’amore vivissimo che porta alla sua terra quell’onorando cittadino. » Duole a noi (lasciando la questione delle presenti elezioni in disparte) che uomini come il Cabella non vadano a sedere nel Parlamento della Nazione, e abbiamo già significato, l’altro dì, il nostro rammarico con parole non dubbie. La lettera del Cabella non fa che raffermarci nella nostra sentenza, e riesce in pari tempo un grave insegnamento per tante' nullità che s’industriano a salire in alto loco, e, quel che è peggio, ne vengono a capo, per la cecità e la dissennatezza aiutatrice del volgo. » Forse egli ha ragione a godere del rimanersi in disparte; forse v’hanno momenti nei quali sia meglio lo starsene serenamente soli a Minturno ». Segue la lettera del Cabella. « Ill.m0 signor Direttore, * Reduce da Firenze, non voglio mettere tempo in mezzo a ringraziare, più degnamente che non potei fare con un telegramma, gli studenti deH’Università, della onorevole testimonianza di stima che mi hanno dato, proponendo il mio nome agli elettori del primo collegio. Se di tutte le occupazioni della mia vita quella dell’insegna-mento è, non dirò la più cara, ma la sola cara, anzi un sollievo alle altre, me la fa ora lieta questa prova d’affetto della gioventù studiosa. Ed anco mi rallegra il vedere i giovani cultori delle scienze pensare per tempo alla cosa pubblica, poiché in essi sono riposte le speranze della patria, e da loro dipende che, guarita della ignoranza, supremo dei mali, essa abbia nell’avvenire uomini capaci a governarla e a darle, se non il primato (sogno superbo di un passato irrevocabile) almeno il grado che merita fra le Nazioni. Molto mi è doluto non poter accettare una candidatura suggerita da un sentimento che mi onora. Ma ne dissi il motivo: e non è il solo; perchè anche senza di quello sarei stato molto pensoso ad accettare un mandato così pieno al presente di difficoltà, che ad incontrarle avrei avuto bisogno di un incoraggiamento della pubblica opinione che non avevo, e a superarle non mi sarebbero forse bastati l’ingegno e gli studi. Se queste ragioni mj comandarono l’astensione, mi rimane però il conforto ineffabile di sapere che io ho l’affetto e la stima de’ miei discepoli. * Le sarò grato, egregio signor Direttore, se vorrà pubblicare nel suo stimabile giornale, questa mia lettera. » Ho l’onore di rassegnarmi * Genova, 9 marzo 1867. Suo dev.,n0 Servo Cesare Cabella » Si dolevano gli amici che i Genovesi vietassero l’ingresso del Parlamento a un tant’uomo e l’aprissero a persone a lui tanto inferiori, e il Rattazzi gli scriveva il 14 maggio 1867: « Ho sempre profondamente lamentata la tua assenza dal Parlamento: non ho mai potuto comprendere come i tuoi cittadini abbiano voluto preferire altri a te, quantunque certe cose che sembrano inesplicabili, sono poi facili a intendersi ove si tenga conto di certe meschine gare, che hanno ordinariamente si gran parte in queste faccende ». XVII. Cabella presidente della Società La Naxlone e del Comitato pel Dono nazionale a Garibaldi. Nato nello stesso anno 1807 che il grande Nizzardo, di lui godè l’alta stima e l’amicizia lin dal 1848 quando, come vedemmo, a nome del Circolo Nazionale e di Genova salutava il prode che reduce dalle battaglie della libertà americana, recava seco le speranze della redenzione d’Italia. Reputando dovere di riconoscente italiano l’onorare e il servire in ogni miglior modo l’uomo a cui tanto l’Italia doveva e da cui tanto aspettava, si recò ad onore e fortuna ogni qual volta potè prestare i suoi servigi a lui e a’ suoi volontarii in qualità di avvocato consulente. Cosi quando nell’autunno del 1855 il Generale, col peculio de’ suoi viaggi d’America, coi residui riscossi degli stipendi di Montevideo e colla somma ereditata dal fratello Felice ebbe raccozzato un capitale di L. 60.000 e volle comprare dal Demanio la parte settentrionale di Caprera per fermarvi il suo domicilio, il nostro Cittadino rivide tutte le carte e diresse le pratiche a quell’atto occorrenti: atto firmato e concluso il 29 dicembre 1855 (1). Altri (1) L altra parte dell'isola fu cedute al Generale da signori inglesi che n'erano proprietarii. 357 interessi della famiglia Garibaldi ebbe tra mano di più privata natura che qui non mette conto ricordare. Siamo ai primi di febbraio del J8G0. Gli errori del ’48, i falliti tentativi di Mazzini, le proteste antimazziniane inviate da Garibaldi il 30 gennaio 1859 al La Farina e al Pallavicino, e sopra tutto la franca e fortunata politica nazionale praticata dal governo liberale di V. Emanuele, aveva diì-adate le file del partito repubblicano e moltiplicate a dismisura quelle di coloro che nella Monarchia Sabauda vedevano il propugnacolo della nostra salute. La Società Nazionale Italiana fondata nel maggio del 1857 dal Manin, dal La Farina e dal Pallavicino, da Torino, sua sede centrale, diffondeva per via della stampa e di Comitati succursali l’idea e la fede italiana in ogni parte d’Italia secondo il programma 24 febbraio 1858 dettatone dal La Farina segretario generale. Dopo le vittorie degli eserciti alleati, le annessioni delle provincia dell’alta Italia, per virtù di popoli, senno di governatori, memorandi sopra tutti Ricasoli e Farini, e per la destrezza diplomatica del governo di Torino, si andavano felicemente compiendo senza disordini, senza contrasti. Era un momento decisivo: si stava facendo l’Italia. Il nostro Cittadino in cui gli spiriti sinceramente democratici e genovesi s’accoppiavano a spiriti conciliativi, e che credeva necessaria al compimento delle patrie speranze la stretta concordia delle forze di tutti i partiti e sodalizi intendenti a quello stesso fine, avrebbe voluto ascriversi alla Società Nazionale, alla quale in Genova aderivano molti liberali dissenzienti da Mazzini, e con la quale era in attiva comunicazione e collaborazione l’amico suo avv. Dauiele Morchio. Se non che lo teneva perplesso il timore che questa Società, nata italiana, non si cangiasse in piemontese, e potesse all’occasione servire ai disegni particolari del governo stipulatore di Villafranca e vessatore del volontario garibaldino. Per chiarirsene scrisse in proposito e con tutta franchezza al La Farina, che cosi gli rispose: Società Nazionale Italiana « Torino, 5 febb. 1860. » Pregiatissimo Signore, » Il comm. Notta mi ha comunicato una lettera della S. V., dalla quale ho una conferma dell’opinione ch’io m’ero formato da molto tempo del suo patriotismo e del suo spirito di conciliazione. E ve* 35S rainente in questi momenti supremi per la causa italiana, non vi sono che le menti guaste e i cuori pervertiti i quali possano desiderare chiesuole e làzioncelle. La S. V. sa che la Società Nazionale ha sempre predicato la concordia e la conciliazione; e che per conseguire questo fine ha sempre serbato il più completo silenzio in questioni secondarie, che potrebbero dividere gli animi, lasciando ad ogni socio piena libertà di pensiero e di azione in tutto ciò che riman fuori del nostro programma; così è che bau potuto sedere nei medesimi comitati uomini moderatissimi ed uomini ardentissimi, così è che in tutte le città dell’Italia centrale si è potuto ottenere quella unanimità, che ha fatto la forza e il decoro dell’attuale risorgimento nazionale. » Per rispondere poi ad un periodo della lettera della S. V., ho dovere di dichiarare che la Società Nazionale si è tenuta sempre in buone relazioni col Governo, ma non ha giammai abdicato nè la sua assoluta indipendenza, nè la sua iniziativa. Noi siamo col Governo purché il Governo segua una politica che si concordi col nostro programma, ma saremmo contro al Governo, >e seguisse una politica contraria. Quindi v’è legame di amicizia ma dipendenza nessuna. Uno più stretto vincolo nuocerebbe a noi. nuocerebbe al Governo, e nuocerebbe alla causa che difendiamo. » Le dirò da ultimo che la Società Nazionale crederebbe di fare un grandissimo acquisto, se potesse annoverare tra i suoi membri un uomo della capacità, del patriotismo e della riputazione della S. V.: ed io spero ch’Ella potrebbe benissimo intendersi coll’egregio avv. Morchio, il quale mi ha sempre parlato della S. \ . con quel-l’affettuoso rispetto che merita. » Lietissimo di aver avuto questa occasione per mettermi in relazione diretta colla S. V. io la prego di credermi qual sono, pieno di stima e di rispetto Suo dev.m0 servo G. La Farina ». La risposta non fini di persuadere il nostro Avvocato il quale, sia che subodorasse quel che allora non era facile a conoscere ed ora è per la storia notorio, cioè che la Società Nazionale a cui avrebbe pensato di aggregarsi, era in apparenza autonoma, in fatto prendeva ispirazioni ed ordini dal Governo, sia che i rumori deH’insurrezione siciliana, crescendo di giorno in giorno, lasciassero intravedere più o meno pro-sima la possibilità di una spedizione liberatrice nel mezzogiorno d'Italia da prepararsi a Genova, abbandonò presto il primo 859 pensiero e ne accolse un secondo e, a suo avviso, migliore: pensò che una Società Nazionale animata dagli stessi sentimenti ma libera da ogni influenza governativa poteva istituirsi a Genova e affratellare all'opera patriottica monarchici e repubblicani. Comunicata l’idea, la Società nella seconda metà di febbraio fu rapidamente costituita; suo nome La Nazione; suo presidente Cabella; Indipendenza, Unità, Libertà le tre parole formanti il Programma; suo primo obiettivo riunire tutte le frazioni liberali in vista delle elezioni politiche generali che dovevano immediatamente seguire alle compiute annessioni (1). Quando nel successivo aprile l’insurrezione siciliana, crescendo ancora, parve infiammare le speranze e gli ardimenti dei patrioti a tentare la grande impi’esa idoleggiata da Garibaldi e fomentata dai glandi eccitatori Crispi, Bertani e Bixio, la Società La Nazione si diede a raccogliere sussidii per aiutai-e e sostenere la rivoluzione di Sicilia. Quando infine Garibaldi, dopo tormentosa meditazione sui pericoli dell’ignoto futuro, scossi i dubbi e rotti gl’indugi, si abbandonò fidente alla sua fortuna ed ebbe salpato da Quarto, un Comitato eletto da La Nazione, il 10 maggio pubblicò, dettato dal Cabella, il seguente proclama ai Genovesi. « Concittadini, » La Sicilia s’è levata contro un governo che l’Europa chiamò negazione di Dio. Si è levata colla nostra bandiera in nome d’Italia e di Vittorio Emanuele. Combatte da un mese in lotta disuguale, tremenda. » Questa lotta non è siciliana, è italiana. In Sicilia si librano i nostri destini. » L’Eroe Italiano ha tratta la spada; è volato al soccorso; una gioventù generosa lo segue; un grande atto si sta compiendo: ne aspettiamo con ansia affannosa le notizie. » Ala intanto prepariamo i soccorsi: non mancano gli uomini. Numerosissima e con mirabile virtù di sacrificio accorre la gioventù. Bisognano denari: il Generale Garibaldi li chiede. Potranno mancargli? Mentre egli e migliaia di generosi con lui lasciano agi, affetti, famiglie, ogni cosa, ed espongono la vita a tremendi pericoli, noi lasceremo mancar loro i mezzi di cui abbisognano? Chi non può aiutar (1) La Società La Nazione aveva sede presso le Associazioni operaie in Via Canneto il lungo, palazzo Baineri, n. 8. - — — 360 la patria col braccio l’aiuti col denaro. Farà opera meno gloriosa, non meno utile. Avrà anch’egli ben meritato della patria. » L’Europa è commossa; dappertutto si costituiscono Comitati di soccorso per la Sicilia. In Francia, in Inghilterra si raccoglie il denaro per l’Italia. Gli Italiani non faranno per l’Italia meno degli stranieri (1). » La Società La Nazione ha costituito il nostro Comitato per raccoglierne i soccorsi. Facendo un appello ai nostri concittadini sappiamo che non sarà indarno. » La città che ha dato tanti giovani generosi e tanti altri ne ha pronti all'impresa, non verrà meno a se stessa. Non vorrà che per mancanza di mezzi si accrescano i pericoli ile' >noi figli, o scemino le speranze della nazione. Cesare Cabeila - Enrico Brusco -Giuseppe Carcassi - Ludovico Pei-raso - Nicola Bocca fu Giovanni -Augusto Zagnoni - L. Gastaldi -Stefano Castagnola • Adolfo Parodi - Domenico Bozano. Il Segretario elei Comitato F. Aurelio Ponte ». Il Movimento di quei giorni reca comunicati di questa Società dove si da notizia di ripetute liste di sottoscrizione per soccorsi al Generale e s’invitano i detentori di esse a rimetterle all’avv. Francesco Fontana nello studio deH’avv. Cabella; le somme raccolte si versassero a mano del dott. Bertani. Il Bertani infatti dimorava a Genova e teneva la Cassa centrale del Soccorso a Garibaldi e corrispondendo attivamente col Generale, a lui spediva regolamente le somme versate dai Comitati e dai privati donatori. Qual mole enorme di lavoro incombeva a quel tempo sulle spalle del nostro Cittadino! Famiglia, foro, iusegnamento, parlamento, consiglio comunale, presidenza della Società. Del suo febbrile lavoro ci fan fede molte lettere superstiti; avvisi di costituite società filiali, domande d'istruzioni e programmi, avvisi d’invio di somme raccolte, relazioni di collette promosse, proposte nuove, quistioni di principio (1) Aurelio Salii a Oxford, Antonio Panizzi a Londra facevano opera di calorosa propaganda per raccogliere aiuti all'impresa di Garibaldi. da sciogliere, quistioni personali. Per tacer di nomi men chiari, vi si vedono lettere di Agostino Bertani, di Federico Bellazzi, di Livio Zambeccari, di Lorenzo Gastaldi, di Giuseppe Zanardelli. Curiosa una lettera dell’avv. Enrico Brusco in data 27 maggio, consegnatagli a Torino dal Bertani, dove gli dice essersi già versate L. 9000 per i Soccorsi, e gli suggerisce il modo di agire direttamente col Municipio di Genova affinchè la somma di L. 50.000, da questo erogata al patriottico line, non vada a finire nella Cassa della Società Nazionale laiàriniana, come già tentava di fare una cricca di nostri consiglieri equivocando destramente tra Soccorsi a Sicilia e Soccorsi a Garibaldi, ma sia versata nelle mani di lui Cabella come Presidente della Società La Nazione, ossia nella nostra Cassa Centrale. Si era così giunti ai primi di agosto. La società La Adozione, benché presieduta dal costituzionale Cabella, era però composta in massima parte di mazziniani. I più ardenti fautori di Mazzini, sopra tutti Bertani e Crispi, erano riusciti a inimicare cordialmente Garibaldi contro il Cavour, e sicuri ormai del successo finale, roddoppia-vano gli sforzi intorno al vincitore di Milazzo per deviare verso l’ideale repubblicano il corso dell’impresa. La società Za Nazione non poteva non risentirne il contraccolpo. 11 Movimento del 3 agosto ne annunziava la convocazione per quella sera stessa facendo intendere la necessità ch’essa fosse rianimata da uomini energici e nuovi e pari al momento politico: intendasi da schietti repubblicani. Infatti lo stesso giornale del 5 agosto annunziava che in quell’adunanza il Cabella aveva rassegnate le sue dimissioni ed era stato eletto in sua vece il gen. Garibaldi e vice presidenti il dott. Agostino Bertani e l’avv. Enrico Brusco. Fu presentato a questa riunione A. Saffi testé tornato dall’Inghilterra, e tra le varie proposte discusse fu approvata quella di erigere a Quarto un monumento-ricordo in onore dei prodi che guidati da Garibaldi sbarcarono a Marsala. E perchè la deliberata proposta avesse sollecita esecuzione la Società in una delle successive adunanze nominò all’uopo una Commissione composta di Cabella presidente, di Y’inc. Ricci, Ludovico Peirano, Domenico Bozano e Augusto Zaguoni. La mattina del 5 maggio 18G1 la Commissione assolveva il suo mandato. Un piccolo obelisco sormontato da una stella, eloquente e venerando nella sua simbolica modestia più di qualunque altro colossale monumento, eretto sul memorando scoglio in faccia al cielo e al mare, diceva ai presenti e ai futuri la gloria della magnanima gesta. Alla festa inaugurale, con la Commissione ufficiale, concorse una gran moltitudine di popolo genovese e, precedute da letizia di mu- siche e bandiere, molte deputazioni e rappresentanze di città, società e corpi politici e molti preclari patrioti. Dalla loggetta della soprastante Villa Spinola pronunciarono discorsi Mauro Macchi, Crispi, Giuseppe Ferrari, Savi ed altri; più a lungo di tutti parlò Fr. Dom. Guerrazzi. Intervennero pure Nino Bixio, Michele Amari, Stefano Castagnola. L’obelisco porta scolpite due iscrizioni; nella parte volta a terra si legge: DA QUESTO SCOGLIO SI IMBARCAVA PER LA SICILIA GARIBALDI COI MILLE LA NOTTE DEL 5 MAGGIO 16GU nella parte volta a mare: FINCHÉ NON SOR<;A UN MONUMENTO A PERPETUARE IL NOME DEI PRODI QUESTO SASSO RAMMENTI LA MAGNANIMA IMPRESA fi) Quando il Generale, con suo Decreto 15 ottobre 1860 che annetteva per sempre il Regno delle Due Sicilie all’Italia sotto il Re V. Emanuele, ebbe compiuto il voto suo e del popolo italiano, si formò a Genova per opera del uostro Concittadino un Comitato per offrire un dono nazionale di gratitudine a Garibaldi, di cui erano membri Vincenzo Ricci, Lorenzo Pareto, Michele Casaretto, Stetano Castagnola, Angusto Zagnoni, C. Cabella presidente, Emanuele Celesia segretario. Il 28 ottobre il Comitato indisse all’uopo sottoscrizioni in tutta l'Italia, e il 13 dicembre ad agevolarne il successo promoveva Comitati succursali nelle principali città. Ma qual dono offrire? Questa la difficoltà. A Giovanni Basso segretario di Garibaldi, balenò un'idea anzi un sogno generoso che tosto palesò ai patrioti nizzardi e che il deputato nizzardo Carlo Laurenti- Roubaudi, nobile di stirpe e nobilissimo di civili virtù, significò e raccomandò al nostro Cabella con la seguente (2). (1) Movimento, 6 maggio 1861. (2) Giovanni Basso, marinaio con Garibaldi nel 1852 sulla Camim c sul Common-tceatfi, e dallora in poi per trent'anni (1852-82) amico, soldato e segretario del Generale. 363 / « Nizza 6 Dicembre 1860. » Egregio amico, » Il Sig. Basso segretario del Generale Garibaldi ci proponeva or è poco tempo il gentile ed attuabile pensiero di dare al Generale Garibaldi Nizza sua patria come ricompensa nazionale. Ci lasciava inoltre sperare che il Comitato presieduto da Lei, e che ha per scopo di promuovere e di attuare la proposta di un dono al Generale, avrebbe fatto eco alla sua iniziativa. » Mi rivolgo ora alla di Lei gentilezza onde a questione di tanta importanza Ella voglia dare il suo valido appoggio in seno al Comitato. Tutto è qui pronto, malgrado la vigilanza della Polizia francese, per la retrocessione del nostro Contado alla Francia, (1) e si spera molto, e spero non indarno, sul patriotismo dei membri componenti il Comitato di Genova. » La proposta del Sig. Basso può attuarsi in due modi: 1° con un indirizzo di tutti gli Italiani all’imperatore dei francesi; 2° con una petizione da rivolgersi al Parlamento nazionale onde il Governo del Re voglia iniziare trattative in proposito col Governo francese. » In caso però che Ella creda il progetto in discorso essere per ora prematuro, la pregherei di spingere i Diarii devoti al Generale a propugnarlo per la stampa, onde l’idea divenga popolare in Italia, e possa attuarsi il giorno in cui Roma e Venezia sieno fatte libere. » Compio il gradevole ufficio di rassegnarmi con profonda stima e pari considerazione Suo devotissimo amico Laureati Roubaudi » Per cause che Ella apprezzerà la prego di non dar risposta a questa mia lettera ». Idea patriottica ma utopistica che il vivo desiderio di quei patrioti un momento sperò attuabile, ma che dopo un giorno perì. D altra parte qual altro dono escogitare che fosse degno di Garibaldi se questo non era il plauso riconoscente e l'amore degl ltaliani e il lor fermo proposito di aiutarlo con ogni sforzo nell opera dell unificazione e del patrio riscatto? Infatti l’uom grande, nulla volendo per sè, sollecitava la soscrizione e la raccolta di offerte che gli tornissero i (1) Qui v’è un lapsus calami, leggasi all'Italia. mezzi d’imprendere nuovi ardimenti per la rivendicazione all’Italia di Roma e Venezia ancora irredente. Ma perchè il governo italiano e la diplomazia vigilavano pronti alla repressione, sulla natura del Dono nazionale e sui disegui di Garibaldi naturalmente doveva conservarsi il segreto. Ora, correndo nel pubblico voci contradditorie e fors’anco irriverenti sulle intenzioni del Generale circa l’impiego del Dono nazionale, il Cabella, Presidente del Comitato centrale, ne lo rendeva avvisato, facendogli all’uopo qualche prudente proposta. E il Generale così gli rispondeva: « Caprera, 12 gennaio 1861. » Signore, > Sono grato ai vostri consigli. Posso intanto assicurarvi essere una pura supposizione ciò che vi hanno riferito, per non aver palesato a nessuno quale sia la mia intenzione sul dono nazionale che mi si vuole offrire. » Sensibile alle vostre testimonianze d’affetto, all’interesse che prendete a ciò che mi riguarda, io ve ne esprimo tutta la mia gratitudine con assicurarvi della mia stima. Vostro G. Gabtbaum » Quando l’on. Benedetto Musolino, deputato di Monteleone Calabro, credendo far opera di buon italiano, presentò alla Camera un progetto di legge per un dono nazionale a Garibaldi, il generale, uditane la notizia, ne fu irritato temendo che quel dono, adnggiato dall’ingerenza dell’odiato governo cavouriano, assumesse carattere e fine tutto diverso da quello che gli aveva proposto. Ingiunse subito e nel modo più reciso all’onorevole di ritirare quel progetto; il che fu fatto nella tornata del 15 aprile. Intanto il Generale, sentendo avvicinarsi il momento di una nuova spedizione, con lettera 27 sett. 1861 autorizzava il genero Can-zio a ritirare tutte le somme raccolte sotto il titolo di Dono nazionale e di tenerle a sua disposizione. Federico Bellazzi, direttore del Comitato centrale, comunicò questa lettera al Cabella presidente domandandogli se il consegnare le somme raccolte al Canzio non urtasse per avventura contro l’art. 6* del Programma della Commissione promotrice. Parve allora al nostro Cittadino di render conto al Generale dell operato della Commissione e di indicargli in qual modo questa poteva soddisfare al desiderio da lui espresso. Ecco la lettera. 365 Commissione Promotrice del « Genova 10 Ottobre 1861. Dono Nazionale A Garibaldi « Generale, » La Commissione, che ho l’onore di presiedere, venne informata del vostro desiderio di avere a vostra disposizione la somma raccolta per il Dono Nazionale. Sempre eguale a Voi stesso nulla mai volete per Voi, e pensate solo a spendere in prò della nazione ciò che la nazione voleva offrirvi come lieve tributo d’infinita riconoscenza. Unanime fu il voto della Commissione di secondare la vostra generosità: dolente solo che le somme offerte sieno per la tenuità loro troppo lontane dal meritare il titolo sotto cui vennero raccolte e dall’esser degne della nazione e di Voi. » Ma la Commissione si trova vincolata dall’Arfc. 5° del suo programma nel quale è scritto: Raccolte le offerte, i rappresentanti dei Comitati si riuniranno in assemblea generale per determinare la natura e il modo del dono — e non può in conseguenza disporre da sè sola del denaro. Per soddisfare il vostro desiderio senza,mancare agli obblighi assunti verso il pubblico, e per accelerare ad un tempo una decisione che può tornar utile ai vostri disegni (sui quali non vuole interrogarvi, bastandole che sian vostri) ella ha pensato di rivolgersi a tutti i Comitati incitandoli a dare il loro consenso per il versamento del denaro a vostre mani. Con questo modo semplice e spedito, ed anche più conveniente alla tenuità della somma, è. supplito all’assemblea generale dei rappresentanti dei Comitati. Appena raccolti i voti, che non dubito saranno tutti assenzienti, la Commissione si farà un dovere di farvene avvertito onde Voi possiate disporre del denaro. » Dandomi l’incarico di parteciparvi questa sua deliberazione, i miei colleglli mi commisero pure di significarvi il nostro dispiacere per l’infelice successo della nostra missione. Noi avevamo creduto di rendere un servigio al paese assumendo il carico di farci promotori d’uu dono da offrirsi in nome della nazione al più grande de’ suoi concittadini. Imperocché la riconoscenza dei popoli verso i grandi uomini è misura (come dicevamo nel nostro programma) della loro civiltà. Molto ci duole di non esser riusciti, perchè la miseria delle 366 soni me raccolte potrebbe esser da alcuni considerata come piova dell’ingratitudine del paese verso chi ba tanto tatto per esso. Ma noi sappiamoche la nazione non merita quest’accusa. Profondo ed immenso è l’amore degli Italiani per Voi. Se ciò malgrado si raccolse sì poco, molte cause hanno contribuito a questo doloroso risultato. La Commissione le conosce perfettamente, ma non stima prndente il palesarle, preferendo d’esser essa stessa accusata d'incapacità o d’imprevidenza nell'aver assunto un carico per il quale forse si richiedesse maggior autorità sugli animi de’ suoi concittadini. Comunque sia la cosa, la Commissione sarà sempre lieta d’essere stata la prima a promuovere un atto che doveva essere l’espressione della riconoscenza nazionale verso di Voi. » Altro non mi rimane, o Generale, che manifestarvi i sensi della mia personale devozione ed ammirazione, e dirmi con profondo ossequio Cesare Cabella Presidente [Timbro della — Commùrione Promotrice dei Dono Naaionale a Garibaldi — Genova] Gli rispose il Generale: « Caprera, 6 novembre 1861. » Caro Cabella, * Le parole cortesi che mi avete diretto mi furono gratissime. Vi prego di gradire e di esprimere agli onorevoli della Commissione i miei sinceri ringraziamenti del vostro operato. » Approvo la vostra determinazione onde essere coerenti all’art. 5 del Programma. * Con tutta stima ed affetto credetemi sempre Vostro G. Garibaldi. » Sempre collaborando col partito d'azione garibaldino, il nostro Avvocato prestò prima l’opera sua nei Comitati di soccorso, poi, annesso il Regno di Napoli, nei Comitati di proc cedi mento per l’unificazione italiana. E rammentando l’opera sua patriottica non va taciuto ch’egli, valendosi dell'autorità che la glande dottrina e la gTande riputazione gli conciliavano, seppe non di rado con la sapiente parola rimettere la pace e l’accordo tra patrioti o garibaldini cui temperamento o contraria opinione avevano divisi o inimicati. 367 Nè dalle cure patriottiche volle mai tenuta in disparte la propria famiglia. Nel 1860 la consorte Clementina presiedeva il Comitato delle signore istituito per somministrar lavoro alle famiglie povere dei combattenti sotto le bandiere di Garibaldi; e quando nel giornale milanese L'Unione del 24 gennaio 1861 comparve una corrispondenza da Napoli, laceratrice del nome dell’eroico generale, attribuita al Bianchi Giovini, con quel modesto riserbo che a gentil donna si addice, seguendo l’esempio di molti nostri concittadini, non mancò di pubblicare ^ui giornali a nome del Comitato la sua protesta contro il calunnioso insulto (1). E alla sig.r* Clementina, come a donna pari al consorte nei sentimenti filantropici e patriottici, si volgeva chi volesse a Genova promuovere qualche benefica istituzione popolare, come appar manifesto dalla seguente lettera del chiaro patriota e scrittore Candido Augusto Vecchi. S. I. « Mio caro Avvocato, » Si vorrebbe istituire nella vostra Genova un asilo infantile pari a quelli che vennero aperti nelle provincie meridionali dalla Associazione filantropica, promossa dal Generale e patronata dalla principessa Pia di Savoia. — Per far cotesto conviene che una signora del paese inizi un Comitato di sue amiche. Prego perciò la moglie vostra di soccorrere al santo scopo. Vi saranno spediti gli statuti ed altri stampati. Così domani dirò al Generale che anche in Genova si opera a bene della civiltà. » Sempre vostro « 14 Giugno 1862 Torino. C. Aug. Vecchi » XVIIL. Lettera al Rattazzi (13 novembre 1861). Si era al novembre del 1861. Bicasoli, succeduto al Cavour, dirigeva il Ministero, e Rattazzi, presidente della Camera e presunto successore al Rioasoli, s’era recato a Parigi incaricato di politica missione presso l'imperatore francese. Ebbe festose accoglienze da quel mondo politico, e i redattori dei grandi giornali La Presse, L'Opinion Nationale e Ije Siècle gli offrirono un solenne banchetto. In due anni, (1; Cfr. Calunni* e protette p. Federico Bellazzi, Genova, Ponthenier, 1861. dalla primavera del ’59 a quella del ’61, rapidità incredibile, s’era quasi totalmente unificata l'Italia, grazie al senno delle popolazioni italiane edotte dai disastrosi errori del ’48, e a un concorso fortunato di favorevoli circostanze destramente afferrate dal genio diplomatico e dal valor guerriero di sommi italiani; restavano a liberare Roma e Venezia, e i patrioti di ogni partito fremevano d’impazienza e non vedevano l’ora di compier l’impresa. Ma l’impresa era pel momento impossibile perchè vi s’opponevano a spada tratta i dinasti di Francia e d’Austria: ostacoli che solo il tempo e la pazienza dovevano rimuovere. Pazienza dunque e fede nel provato patriottismo de’ suoi reggitori si richiedevano al senno degli Italiani; i quali, al contrario, invece di volger l’animo all’iucremeuto di altre ritardate attività civili e al consolidamento dell’iniziata unità, volevano ad ogni costo che il torrente politico corresse ancora precipitoso e restituisse senza indugio all’Italia le due invendicate provincie, e i partiti liberali segnavano la sorte politica dei nostri governanti secondo che maggiore o minore risolutezza e ardimento mostrassero nel voler abbattere quegli ostacoli e soddisfatta la generale impazienza. Il Rattazzi non era un genio direttivo: impareggiabile presidente della Camera, accortissimo congegnatore parlamentare, oratore logico e persuasivo, pronto trovatore di espedienti e ripieghi, fu felice navigatore in tempi quieti, ai tempi grossi e procellosi uou ebbe pari la forza, il coraggio, la risoluzione. Colpa non sua la disfatta di Novara, colpa della sua biliugue politica il vitupero di Aspromonte; non scevro di colpa nelle cause determinanti il lutto di Mentana. Giusto giudizio diede di lui il Cavour scrivendo al Boncompagni Ministro di Sardegna a Firenze, il 24 febbr. 1858: « Rattazzi, dotato di eminenti qualità di mente e di cuore, manca assolutamente d’iniziativa. Sarebbe il migliore consultore legale e fors’anco politico che io mi conosca, ma non atto a reggere un dicastero (deglInterni) che deve dare l’impulso a tutto lo stato » (1). Gli era, come vedemmo, da molti anni caldo amico il nostro Con cittadino che in lui ammirava l’acume dell’ingegno e amava la bontà del cuore e la finezza del sentimento, e a lui come a maestro ricorreva per lume e per consiglio nei dubbii casi della politica. Ora, tornando al nostro racconto, già v’era in quei giorni chi affilava le armi contro il Rattazzi spargendo male voci sulla sua gita a Parigi e sulle (1) Il Rattazzi nacque ad Alessandria nel 13J8 o 1810, m. nel 187B. Alessandria gli ere**e un monumento di bronzo sulla piazza maggiore, oj>era di Giulio Monteverde. 369 sue politiche intenzioni: « Il genio di Cavour con accorte lusinghe seppe tenere in iscacco la Francia, e a dispetto di lei unì l’Italia; che intende ora impastocchiare col governo francése questo minuscolo avversario del gran Conte? Che significano queste ovazioni tributategli dalla stampa di Francia se non la soddisfazione d’aver finalmente a trattare con un mediocre che non saprà nè vorrà tener testa alla volontà della grande nazione? » Così si mormorava. Il Cabella allora credette opera di buon cittadino e di leale amico esporre liberamente al Rattazzi l’animo suo con la lettera seguente. « Genova, 13 Novembre 1861. » Mio caro Rattazzi, » I fogli d’ieri mi annunziano la tua partenza da Parigi il giorno 11. Dovresti esser giunto ieri sera a Torino, o giungervi stamane. E molto che non ti scrivo. Ma è mio avviso che ti debba esser caro che un amico sincero ti avverta delle opinioni e dei giudizii che si son fatti sul tuo viaggio a Parigi, perchè a prendere una retta decisione nulla può esser più necessario che il conoscere bene le cose. E in politica lo stato dell’opinione pubblica è una di quelle che non possono ignorarsi da chi può essere chiamato al governo. » Il partito governativo, gli antichi cavouriani, gli uomini della consorteria, tutti quelli in somma che hanno le mani in pasta, sono, diventati d’una così calda passione accesi per lo Statuto, per la dignità del paese, per l’indipendenza dello Stato da ogni estera pressione anche lontana e indiretta, che i più energici patrioti, Garibaldi per esempio, diventano ombre pallide al confronto. Tutto questo per farti una guerra abile quanto mortale, perchè se potessero farti cadere sotto l'accusa di essere andato a prendere l’imbeccata a Parigi per , governare l’Italia, diventeresti impossibile per sempre. » Il partito sinceramente liberale, che aborre davvero la dipendenza dallo straniero, che ha il programma di Garibaldi — Italia e Vittorio Emanuele — ha tuttavia confidenza in te. Ma la tua gita a Parigi, al modo con cui fu commentata da alcuni tuoi amici indiscreti e accompagnata da commenti di giornali francesi, ha dettato in alcuni (più facili a lasciarsi trarre dalle apparenze) delle inquie-titudini. in altri delFimbarazzo: imbarazzo in questo senso, che professando sinceramente le massime predicate ora in tuo odio dalla consorteria, non sanno nè possono spiegare tutto per imporre silenzio ai tuoi nemici. / » Questa è in poche parole la situazione a tuo riguardo. u 870 * Non so se tu abbia intenzione di andare al potere. Le condi-zioni nostre sono infelicissime. Noi furono mai tanto. La nazione è in isfacelo. Non v’è governo in nessuna parte. L Italia meridionale nemica, la mediana fredda, la settentrionale malcontenta. L esercito in condizioni tali che guai se fossimo con grandi forze assaliti. Il Governo è un carico immenso. Ma se tu hai pur deciso di sobbarcarti (e la nazione dovrebbe essertene grata, perche ci vuole un immenso coraggio e un’immensa abnegazione) bisognerebbe che tu dissipassi tutti i sospetti, raffermassi tutti gli animi, ridonassi alla nazione la fiducia nel Governo, la confidenza nelle sue forze, e ciò che vale per tutto, quella posizione netta, ben definita, ben risoluta, che faccia sapere al paese ciò che è, ciò che sarà, dove trovasi, dove sarà condotto. Ah la rovina degli stati è l’incertezza, come la rovina delle grandi rivoluzioni dei popoli è l’inerzia, il silenzio, il fermarsi prima d’aver raggiunto lo scopo. Un programma di governo ben fatto, completo in ogni sua parte, e con mano vigorosa messo ad esecuzione può solo salvare il paese. — E questa cosa io ti raccomando, amico mio, perchè io non veggo sulla scena politica nomini che possano supplirti o succederti. Se tu non pigli il timone, o se tu sarai costretto a lasciarlo dopo averlo preso, non vedo altri che possa in tua vece afferrarlo. E allora?..... La nazione tenterà una via di disperazione che mi fa tremare, quando ci penso, perchè non ho fede che potesse condurci a buon fine, e ci farebbe traversare spaventevoli periodi. » Questo programma che io ti raccomando, e che dev’essere subito ne’ primi tuoi atti tradotto in azione, è quello pur solo che terminerà i maligni commenti al tuo viaggio. Perchè se sarà accertato che non vieni al potere sulle ali di Napoleone; che il viaggio non fu che uno studio; che hai voluto ben conoscere le cose di Francia prima di governare le nostre; che i primi tuoi atti smentiranno tutte le accuse; la tua posizione diventerà allora tanto più forte, quanto nell’ipotesi contraria sarebbe precaria ed incerta. La nazione si disfa, perchè non sa dove sia nè dove vada, e non si sente governata. Essa sarà tutta compatta coll’uomo che risponderà a questi bisogni, e toglierà ogni sua incertezza. E per questo bisogna ch’egli le ispiri una fiducia intera, assoluta, senza limiti. Acquistar questa fiducia nei primi tuoi atti è il solo problema che tu devi proporti di risolvere. » Volevo scriverti una lunga lettera sui giudizi vari che si fecero sulla tua gita. E m’accorgo invece d'avere scritto tutt’altro. È una preoccupazione dell’animo. Io sono cosi spaventato delle nostre attuali condizioni, cosi ansioso di vedervi porre rimedio, e cosi disperato che questo rimedio si trovi che qualunque discorso io incominci, 371 sempre lo termino colla espressione del mio spavento. Dio voglia che sia fallace ed ingannevole cauchemar. » Addio, perdona all’amicizia questa lettera che esce dal cuore di un amico, e merita così di essere accolta con benevolenza. Credimi tutto tuo dev. Cesare Cabella » XIX. L’Italie e il Sillabo (geuuaio 1865). Chiara e semplice è la coscienza religiosa di Cesare Cabella. Come Mazzini e i più grandi pensatori, egli credeva fermamente in Dio e nella spiritualità e immortalità dell’anima: religione delle religioni, scevra e monda da tutte le innumerevoli superstizioni che l’umana miseria vi ha nel corso dei secoli condensate e sovrapposte. Uomo probo ed umano e conscio a se stesso di quanto conforto sia larga al cuore dell’infelice mortale la religione, fu rispettosissimo fino allo scrupolo di qualsivoglia sincera credenza religiosa, ma della sua fu milite e sacerdote; la coltivò nella preghiera e nelle aspirazioni dell’anima, la praticò negli atti e nelle operazioni della vita domestica e civile, la confessò apertamente con la parola e con gli scritti. L’intollerante lo accusò di razionalismo, ma il seguire i dettami della ragione non è ubbidire alla legge di Dio che ci diede la ragione per ragionare? E quando si tratti di giudicare i fatti della storia, il preferire la cieca fede all’uso della ragione non è offendere Dio nel disprezzo del dono massimo onde Dio ci ha privilegiati sugli altri animali? Ma Dio non solo si intuisce, ma anche si sente. La ragion pura accettata nelle sue ultime conseguenze diventa empio razionalismo perchè in fatto di religione e di morale essa non può altro che distruggere; onde Dio, forse per salvare gl’infelici suoi figli dalle rovine e dagli squallidi deserti della disperata ragione, donò loro la facoltà del sentire conoscitivo o, come altri dicono, della coscienza che ci dà il sentimento di Dio, cioè l’amore del bene, del vero, del bello, e spiegandoci il mistero della vita, ce ne addita il valore, ce ne raccende la fede, l’anima si acquieta. In questo modo noi, seguendo la legge di natura, osserviamo la legge divina, assolviamo il mandato da Dio commesso all’uomo, e alla giustizia di Dio abbandoniamo tranquilli gli ulteriori e impenetrabili destini dell’esser nostro. Tali per sommi capi i principii religiosi del nostro Concittadino (1). Religione che riconosce e concilia i diritti della ragione e del cosciente sentimento, e corrisponde al grado di perfezione oggi raggiunto dalla psiche dell’uomo illuminato e buono e che, giusta la sentenza dei più coscienziosi pensatori, come fu il fondamento delle religioni trascorse e trascorrenti, sarà la religione dei secoli nuovi. Oltre i diversi accenni sparsi ne’ suoi discorsi e nelle sue lettere, tre importanti documenti abbiamo della fede religiosa del Cabella. Il primo è una lettera del 27 gennaio 1865 al Direttore del gioriiale l'Italie dove disapprova che questo giornale si faccia eco in Italia della clamorosa gazzarra di liti e proteste sollevate in Francia dalla famosa Enciclica papale dell’8 dicembre 1864, accompagnata dal famosissimo Sillabo con cui Pio IX proscriveva e condannava inesorabilmente tutti gli errori dei quali sia nel diritto pubblico sia nelle dottrine filosofiche, la società civile appariva colpevole agli occhi della Chiesa. Anatema alle conquiste del moderno progresso civile, sfida alla libertà, rimetteva in vita la dottrina teocratica d’Ildebran-do rivendicando alla Chiesa la supremazia sullo Stato, rimettendo in ceppi la parola e il pensiero limano. Se ne commossero i governi degli stati cattolici, ne fu sopra tutti indignato il governo di Napoleone 111 il quale, già fin dal ’49 con l’abbattimento di Roma repubblicana ed ora con la C'onremione di Settembre 18<>4 avendo meritata l’odiosa imputazione di guardia pretoriana del Papa e protettore del suo potere temporale, non voleva parere di tollerare fino a questo estremo gli eccessi della romana curia nè di rinnegare per lei in faccia all'Europa i principii di libertà onde la Francia era stata maestra al mondo. Perciò Haroche ministro di giustizia e culti, applicando la legge del 18 germinale anno X, vietò la pubblicazione ufficiale dell’Enciclica e del Sillabo. Il clero cattolico gridò alla persecuzione; gran numero di vescovi diramarono opuscoli (1) Il Kant, vedendo che col negare al sentimento cosciente la facoltà del cono-rr ru”e'a a compagine armonica del nastro organismo psichico, emendò la ri tea e n ragion pura con la Critica della ragion pratira che ricostruisce e inte-f™ n,, Sn°.1 or"an‘ conoscitivi la natura del nostro spirito e ne ristabilisce l’equili-P_. . 1 aPPr>n0>P*o I'-ccesso del sentimento religioso aveva de) nostro pegliese r>ro^° °\° ‘""fatto un prete cattolico, poi l’eccesso della ragion pura cangiò il p ne professore kantiano Ausonio tYanchi e gli dettò la FOotofia i propri errori razionalistici con V Ultima rrilira. L'uomo, cosi corpo come ’ n°n ,."n ,}r^ano> '■ un organismo, e la sconoscenza di questa verità mena sempre seco d.sastr. e mine perchè la natura impunemente non si viola. 373 e lettere pastorali contro il governo protestando contro l’ingerenza del potere politico nel religioso. Il Dupanloup, vescovo di Oi-leans, cercò difendere il Sillabo e dimostrare che nulla conteneva di contrario al progresso nè ai diritti della società civile. L’abbate Pélage gli rispondeva nel Le concile a’cumenique et la cìvilisation moderne confutando mordacemente l’inanità de’ suoi argomenti. Contro il vescovo di Besancon e quello di Moulins che in onta al divieto avevano pubblicato l’Enciclica, fu pronunciata la condanna dal Consiglio di Stato. L’imperatore chiamò alla vice presidenza del suo consiglio privato suo cugino Napoleone Gerolamo che in questa occasione aveva voluto segnalarsi in Senato attaccando furiosamente il papato e il clero e chiamando il trono pontificio un vecchio bicchiere incrinato, e il territorio del papa una macchia d’inchiostro sulla carta. Donde da ogni parte clamori e proteste senza fine. Di questo noioso frastuono di Francia si faceva eco noiosa VItalie, giornale torinese, e se ne annoiava non poco l’abbonato Cabella, il quale, volendo un giorno liberare sè e i liberali italiani da questa molestia, scrisse al Direttore di quel giornale la lettera seguente. A M.r le Directeur du Journal Vltalie Turin. Gènes 27 Janvier 1865. « Monsieur, » Depuis long temps vous donnez régulièrement à vos abonnés, par extemum, les lettres, mandemens, sermons, instructions, homelies, circulaires, mómoires, articles, chapitres, brochures et autres écrits des óvéques frani-ais sur Pencj'clique. Vos correspondants de Paris ne parlent guère d’autre cliose. Vous aussi, vous donnez toujours un peu de place à tout cela dans vos bulletins du jours, ou dans vos articles de fond. Il parait que le bavardage des évéques fran^ais est à vos yeux un fait importaut de l’histoire contemporaine, qu’il ne faut pas laisser ignorer à vos -lecteurs. Vous avez raison, peut-ètre> au point de vue franpaise. Car on récueille toujours ce qu’on a seme. Après avoir donne la jeunesse aux jésuites et l’àge mùr à S. Vincent de Paula, on ne doit pas s’étonner que le Syllabus en Franco soit un évènement. — Et puis la question là-bas n’est pas réligieuse. L’ency-clique est une arme, une occasion, un prótexte. Depuis les dames liargneuses du faubourg S. Germain, jusqu’aux chefs intrigants et envieux des anoiens cabinets de. L'ouis Philippe, tous les énnemis de l’empire s’en saisissent. On est catholique par opponi don, hypocrite par système. On fait de la réligiou par raucune, et de la dóvotion par mode. L’Empire expie un peu ses fautes. Il s’y est trop appuyé sur le prètres. Ils s'en ùengent. C’est leur manière d’ètre reconnaissali ts. Je crois mème qu’on peut dire de l’Empire à ce sujet » De l'hiatoire des maris il n’est qu'à la preface. » Mais en Italie, vous le savez bien, tout ce vacarme de l’épi-scopat framjais 11’iuspire le moindre iutérèt. Il arrive à nos oreilles comme un bruit des temps passés. On rit un peu: 011 liausse les épaules: et voilà tout. Bien plus! Nous voyons dans l'encyclique une fìlle bien lógitime de la papautó. Nous aurions été bien étonués s’il en avait été autrement. Si Rume avait parie dans un autre sens, nous n’y aurious pas cru: de mème que nous ue croyons pas à ces prètre» libe-raux qui prèchent la libertó: car ils ont beau taire et beau dire, au fond de leur pensée il y a toujours l’encyclique et le bùcher. Timeo Danaos et dona ferente*. » Il 11’est pas mème bésoin de nons informer que tels et tels évèques de France ont proteste de ielle et telle manière contre le gouveniement fran^ais. Nous le savions d’avance: et nous aurions pu rediger pour eux leur mandemens, tels qu’ils les ont publiés, avant mème qu'ils songeassent à les écrire. * Ainsi je viens vous prier, Monsieur, et pour moi et pour tous vos abonnés d’Ttalie. dont je suis sur d’ètre 1111 fidile interprete, de vouloir bien remplir vos colonnes de quelque chose de plus intéressant. Il vaudrait mieux, par exemple, si les matières vous manquent, de donner 1111 peu plus de place dans votre feuilleton à la Vietile Roche d’Edmond About. C’est assurément plus beau, plus amusant, et sur-tout plus importaut; car au pis aller. nous y apprendrons la bonne langue fran^aise, telle que la sait écrire ce spirituel écrivain, au lieti du style des sacristies fran^aises, qui ne diffère guère dn st3‘le des nótres (1). » Agréez. Monsieur, etc. Un DE VOS ABONNÉS ». rii Edmondo About a82^85) redattore del XIX SUeU, membro rleM’Accademia francese, autore di numerose opere letterarie e politiche tra le quali la Quùlione Humana satira elegante del potere temporale dei Papi. Scrittore chiaro, vivo, brioso, maestro di lingua e di stile. 375 « Monsieur le Directeur, » J’avais écrit la lettre ci-jointe pour vous l’envoyer sans autre signature. Mais c’est toujours de l’anonyme: et j’en ai horreur. Ainsi je signe la présente, seulement pour vous faire connaitre le nom de l’abonné qui vous adresse cet espèce de reclamation: nom qui ne doit pas vous rester inconnu, bien qu’il veuille rester inconnu a tout autre. Gènes, 27 Janvier 1865 César Cabella ». XX. Seguono i rapporti (lei Cabella con Garibaldi fino alla morte di questi. Ma torniamo a’ suoi rapporti col duce dei Mille. « Doveva il Cabella essere anche il difensore di Garibaldi, scrive il Bensa, inseguito ai fatti di Aspromonte, se carità di patria non avesse a tempo impedito che al lutto dell’eccidio fraterno s’aggiungesse l’onta d’un processo ». Infatti in quella circostanza egli aveva scritto al Generale offrendosi a difenderlo, e il Generale gli rispondeva: « Varignano 15 settembre 1862. » Mio caro Avvocato, » Vi ringrazio per l’amichevole offerta. Ho già accettato quella di Brofferio e di Crispi. Nel caso che i .difensori possano essere tre, accetto anche la vostra. » Vi saluto affettuosamente. Vostro G. Garibaldi » Volgeva l’infausto 1866. Stendiamo un velo sulle nostre sciagure di Custoza e di Lissa che rinnovarono in Italia l’onta e la costernazione del ’48 e 49 (1). Memorie dolorose da cui 1 animo nostro ri- fi) Antonio Gussa]li scrivendo il 8 ag. 1866 da Milano al nostro Cittadino per amichevoli commissioni, non poteva tacere ciò che straziava il cuor suo e d’ogni buon Italiano: > E la guerra nostra gloriosa di terra e di mare? In tali mani è stata 1 Italia questi 8 anni! Erano alla testa, mentre sarebbe loro stato troppo onore essere alla coda. Se ora il resto d’Italia non si scuote, e non getta le pastoie, nessun paese in Europa sarà dietro di noi. Che danno! che vergogna! Addio, caro Cabella. addio ». 376 fugge per ristorarsi col ricordo della contemporanea vittoria di Garibaldi a Bezzecca che rivendicava all’Italia una gran parte del Trentino, e cou le vittorie dell'eroe del Vascello che con una Divisione staccata dal corpo Cialdiui risalendo la valle del Brenta, il 22 e ‘J3 luglio sbaragliava l'Austriaco a Primolanoe a Borgo Valsugana, quindi s'accampava a Porgine in vista di Trento in attesa di avvenimenti decisivi. Al Cablila che commosso al grido di queste consolanti notizie gli scriveva significandogli la gioia, il plauso e la gratitudine sua e di tutti gl’italiani, il Medici rispondeva: « Pergine 7 agosto 1806. » Caro Cabella, » Le tue affettuose felicitazioni le accetto col più sentito piacere, perchè so che partono dal cuore di chi mi è veramente amico e te ne ringrazio. Avrei meglio desiderato che la fama de’ miei successi tosse stata superata dalla uotizia di una grande vittoria del nostro esercito, la quale avrebbe fondata la sua riputazione militare e la potenza d’Italia. » Ora si dice che la lotta riprenderà da capo il dieci — meglio assai non si fosse mai interrotta — comunque, se combatteremo vinceremo. » Addio. tuo affez.mo G. Medici » Intima, come il lettore ricorda, era l'amicizia tra i! Nostro e il Medici, cementata nei luuglii anni che il prode milanese viveva emigrato a Genova; onde quando qualche mese dopo il nostro Cittadino ebbe occasione di riscrivergli, gli rispondeva: « Verona 25 ott. 1866. » Caro Cabella, » Ti ringrazio di cuore delle parole affettuose e lusinghiere avute colla carissima tua. Saprai della mia nomina ad aiutante di campo di •S. M. come saprai che sou tutt altro che fatto per la corte; accettai nondimeno sia per non oppormi alla corrente del mio destino, sia perchè credo che anche nelle alte regioni una parola franca e sincera 377 possa anche giovare (1). Sarei poi felicissimo se questa mia posizione mi mettesse in grado di cooperare efficacemente onde tu riesca in ciò che ti proporresti di conseguire, il che se nulla aggiungerebbe alla tua bella fama, molto gioverebbe alla causa nostra (2). » Aspetto da un momento all'altro essere chiamato a Torino o altrove al mio posto. Verrò poi a stringerti la mano a Genova. » Addio intanto e vogli bene al tuo aff. Medici ». Non paia frustolo biografico trascurabile un fatterello che, collegato coi precedenti consimili, ci da prova della singolare sensitività patriottica del nostro Cittadino. Noi vedemmo come nel ’48, ’49 e ’f>9 egli seguisse con cuor palpitante le varie fasi delle nostre guerre, e che quando s'accorgesse di qualche sovrastante pericolo possibile a scongiurarsi mediante un pronto avviso, sprezzando scrupoli di convenienze e di vie gerarchiche, desse tosto l’allarme scrivendone subito direttamente alle somme autorità ufficiali. Un caso simile si ripete qui. Sui primi di giugno quando il La Marmora tenendo ancora la presidenza del Ministero era sulle mosse di lasciarla e di assumere il comando dell'esercito, s’era diffusa la voce insistente che gli Austriaci volessero fare una guerra di sterminio e di sangue contro le inermi popolazioni venete. Il Cabella ne scrisse subito a lui avvertendolo perchè, occorrendo, provvedesse in tempo. Gli rispose il La Marmora: Presidenza dei. « Firenze. 14 giugno 18(56. Consiglio dei Ministri » 111."1" Signor Avvocato, » Mi affretto a ringraziarla cordialmente delle lusinghiere espressioni e degli angarii dei quali è ripieno il gentilissimo di Lei foglio in data di ieri. (1) Com b noto, il Medici fin dal 1860 s'era staccato dal partito di Mazzini e aveva rotto ogni relazione col Bertani. Xel 1862 era entrato col grado di generale nell’esercito nazionale comechè di nascita, d’indole e di fede democratica. (2) Non so a clre cosa precisamente intenda alludere con queste parole. 37S » Io stimo molto esagerati i timori di coloro die portano opinione che gli Austriaci vogliano fare una guerra feroce di stragi, d’incendi e di rapine contro le inermi popolazioni Venete. Ad ogni modo però, mentre ne ringrazio la S. Y. Ul.ma, terrò conto dei di Lei suggerimenti e consigli ove i surriferiti timori in qualche parte si realizzassero. » Voglia intanto, Ill.mo Signor Avvocato, gradire i sensi della più distinta mia considerazione. A. La Maumoiìa (1). » L’inabilità politica che aveva cagionato la prima vergogna del Varignano nel ’62, cagionò la seconda nel '67. Dopo l’infausta ma gloriosa Mentana il duce, amareggiato e indignato contro il nostro Governo, vi fremeva prigione, quando il nostro Cittadino sperando di potergli in si grand’uopo rendergli utile servigio, deliberò di recarsi tosto alla Spezia per abboccarsi con lui. In pari tempo scriveva in termini vibrati all’amico suo Adriano Mari Ministro di Grazia e Giustizia, protestando contro 1*ingiusta e inumana cattura. Udito poi della migliorata salute del Generale e come presso di lui ad assisterlo si trovava il genero Stefano Canzio, scrisse a l'atizio la lettera seguente. « Genova. 25 novembre ISfi". » Egregio Signore, » Desiderando stringere la mano al Generale come antico suo amico e onorato della sua fiducia come avvocato, chiesi al Prefetto di Ge-uova se andando alla Spezia mi sarebbe permesso di vederlo. Egli mi rispose che sarebbe stata necessaria una permissione speciale del Governo; ma nello stesso tempo si offerse spontaneamente con rara cortesia di chiedere per me telegraficamente tal permissione. E cosi fece, e nel giorno 24 1 autorizzazione venne. Mi valsi della qualità che il fi) Le lusinghiere espressioni del Cabella si spiegano facilmente. Nel giugno del Genova, dimenticando per amor d Italia l'onta ricevuta nel 18-19 dal generale piemontese, ricordava solo le ovazioni con cui dieci anni addietro, e prima di Torino, lo aveva festeggiato al suo ritorno dalla spedizione di Russia e acclamato eroe rii Crimea. Il tabella dunque suffragava all'opinione generale che lo riputava tinico uomo di guerra in cui 1 Italia potesse allora sicuramente sperare. 379 Generale mi concesse di suo avvocato, perchè pensai a questo titolo aver maggiore facilità di essere ascoltato. » Ieri mattina nel Movimento lessi la dolorosa notizia della sua malattia. Sospesi la partenza. Ma volendo pur profittare della ottenuta permissione, quando egli credesse e per lo stato di sua salute potesse ricevermi, ed offerirgli i miei servigi, gli scrissi il seguente telegram- - Ottenni dal Governo permissione visitarvi come vostro avvocato. Apprendo dai giornali vostra malattia. Attendo ordini vostri. Sono con affetto riverente amico vostro. — E lo scrissi perchè, se mai gli amici suoi e parenti che lo circondavano credessero farglielo conoscere, o eglino stessi pensassero ch’io potessi far qualche cosa in suo servizio, mi comandassero. » I>a un telegramma che leggo ne\\’Italie d’oggi rilevo due cose: eh’Ella è al Varignano e che lo stato di salute del Generale è migliorato. Molto lieto di questo miglioramento d’una salute si preziosa alla nazione, le scrivo questa lettera per ispiegarle il mio telegramma, che giunse certo inaspettato e per dirle da quali sentimenti fu ispirato. » La prego a presentare al Generale i miei saluti e i miei voti pei la sua guarigione, e a credermi quale ho il bene di rassegnarmi suo dev.° servo Cesare Gabella (1) » Se non che il Generale il giorno 29 era già liberato, non solo, ma navigava già sull Esploratore alla volta di Caprera; onde il Canzio che 1 accompagnava rispondeva al Nostro con la lettera seguente: * A Boa do dei. Vapore Esploratore 2G-11-U7 * Egregio Avvocato, » In evasione al di lei telegramma di avantieri, ed alla gentilissima di lei lettera a me diretta, son ben fortunato accluderle due righe del Generale. (1) Archivio Garibaldino n. 291 presso il Museo del Risorg. di Milano. La lett. del Tabella a Garibaldi ott. 1861 reca autentica la sola firma: questa al Canzio è intieramente autografa. 380 » La salate sua che nei giorni scorsi principiava ad assumere carattere veramente allarmante, sensibilmente migliorò ieri ed oggi. » Come Ella vedrà — noi siamo in piena libertà ed in viaggio per Caprera — ove spero il Generale si rimetterà pei tetta-mente — riferendomi solamente al fisico — per il morale saia un affare serio. Il 3 novembre non l>isogna dimenticarlo! » Colgo l’occasione propizia per dichiararmi della S. \ . lll.iua Vostro Ammiratore S. Caxzio » Ecco l'acclusa letterina del Generale: « Yarignano, 26-11-67. » Carissimo Avvocato, » Della offerta vostra veramente affettuosa — e dell interesse grande che prendete alla posizione mia — ne serberò caro ricordo per tutta la vita. * Accettate una stretta di mano dal vostro vecchio amico G. Garibaldi » Segue la risposta dell'amico Ministro: Ministero di Grazia e Giustizia f. de’ Culti « Firenze, il 26 nov. Gamsetto dei. Ministro • » Carissimo Cabella, • »' Un abile giureconsulto, come voi siete, non dovrebbe essere così precipitoso nelle sue sentenze. Si pena poco a drre ingiusta e inumana una cosa; ma prima di giudicarla tale bisogna conoscere 1 fatti e le ragioni. Del resto, calmatevi. Rileverete dalla Gazzetta L tfì-ciale che il Ministero tanto crudele e inumano, appena ebbe notizia che il generale era un po’ indisposto di salute, mandò i prof.1 Zannetti e Ghinozzi a visitarlo; e, benché lo trovassero in miglior condizione, tuttavia, sentito il loro parere, deliberò che fosse immediatamente trasferito a Caprera. * Il gen. Menabrea e il March. Gualterio mi incaricano di salutarvi distintamente; ed io mi pregio di confermarmi con distinta stima Devot.mo amico Adriaxo Mari » Dopo alcun tempo il nostro Cittadino scriveva al Generale per domandargli informazioni di un Barberi suocero di un prode caduto a Roma nel 1849, e ne aveva questa risposta. « Caprera 1° Febbraio 69. » Mio carissimo amico, » Grazie per la gentilissima del 29 G.° — e per il caro ricordo di Voi ch’io stimo ed amo sinceramente. — Questo Barberi suocero del defunto colonnello Montaldi — morto a Roma nel 49 — merita per le di lui nipoti, orfane, ogni riguardo da qualunque Italiano — e l’ho consigliato di farvi procura per l’eredità del vecchio Montaldi. — Vi sarò ben riconoscente se potete favorire quelle infelici ragazze. » La risposta al Bacchettoni va benissimo e sono Vostro G. Garibaldi ». L’autunno del 1880 il Generale, udendo che il genero Canzio, imputato di ribellione alla pubblica forza, era stato carcerato in S. Andrea, a dispetto de’ suoi 73 anni e dell’artrite tormentosa che gli deformava i piedi e le mani, salpò tosto per Genova per protestare almeno con la presenza contro ciò che a lui pareva violazione ed arbitrio. Il nostro Cittadino a cui l’intemperanza di atti e di parole rimproverati dal mondo agli ultimi anni dell’eroe di Caprera, non toglievano la memoria e l’ammirazione delle sue gloriose imprese e l’affettuosa venerazione per la sua persona, il ,7 ottobre si recava a casa Canzio in Via Assarotti a riverirlo ed onorarlo a nome suo e dell’Ordine degli Avvocati. Riferirei il ritratto che con penna pittrice fa del nostro Giureconsulto il nostro arguto Gandolin, al secolo Luigi Arnaldo Vassallo, scrivendo di questa visita nel Capitan Fracassa del 9 ottobre di quell’anno, se l’obbligo impostomi di brevità non me lo vietasse. Ne riferirò le ultime parole. « Il colloquio fra Garibaldi e Cabella s e aggirato sulle condizioni politiche del nostro paese e il Generale è uscito in questa riflessione: — Speravo che dall’opera nostra sorgesse un’Italia migliore. 382 — Ma noi confidiamo sempre in Voi, Generale; siamo certi che 1 Italia in qualunque evento, troverà sempre il suo Garibaldi. Sicuio, anche a costo di farmi trascinare al campo dentro a un cassone! » Quando due anni appresso il Generale morì, il Cabella che si trovava a Roma attendendo al coordinamento del Codice di commercio, ebbe dal Senato l’onorifico mandato di rappresentarlo al trasporto e al seppellimento della sacra salma; ed egli dimenticando i suoi 75 anni s imbarcò sull’Orfiffia, e affrontando i pericoli di una tempestosa traversata, approdava a Caprera e vi compiva il doloroso ufficio. Quando poi, tornato a Genova, il 30 giugno sotto la presidenza dell’assessore anziano Andrea Podestà si riunì a palazzo Tursi il Comitato per l’erezione di un monumento a Garibaldi, dopo l’acclamazione dal Podestà a presidente della Commissione esecutrice, il Cabella a voti concordi fu eletto primo dei cinque vicepresidenti della Commissione medesima. Il monumento, opera egregia del garibaldino Augusto Rivalta, tu con grandissima solennità inaugurato il 15 ottobre lSi'.'i e con discorso inaugurale di A. G. Barrili chiaro garibaldino e chiarissimo scrittore. PARTE QUARTA ETÀ SBNIL I. Intorno all’ Esther tragedia di Bacino : lettera critica a P. Beruabò Silorata (gennaio 1869). Avverso all’egoismo politico mantellato di religione, non era meno nemico di quella cieca superstizione che inchina e venera come ispirati e voluti da Dio certi fatti dell'antico Testamento, orribili e abbo-minevoli a chi ha fior di senno e senso di probità. E deplorava che la religione di Cristo, tutta amore, perdono, fratellanza, per colpa nostra fosse degenerata in bieco e partigiano Cattolicismo eh® dell’antico Cristianesimo è la negazione e l’oltraggio. E come già il Machiavelli lamentava come quelli popoli che som più propinqui alla Chiesa romana hanno meno religione, così il Nostro nota con tristezza che le nazioni dove la Riforma ha dato maggior libertà al pensiero, hanno di gran lunga avanzato in civiltà le nazioni asservite al Cattolicismo manufatto e imposto dalla Curia romana. Di questi sentimenti fa testimonianza la seguente lettera critica al cav. P. Bernabò Silorata (1). « Genova 25 gennaio 1869. » Chiarissimo signore, » Le son debitore di grazie infinite per il gentil dono ch’Ella mi ha fatto della sua bellissima traduzione àelYEsiher di Racine. Non poteva il tragico francese trovar più elegante e più felice interprete, il quale sapesse rivestire di forme più venuste italiane i suoi concetti. E però io la ringrazio di una cortesia che mi è tanto (1) Pietro Bernabò Silorata, n. a Porto Maurizio nel 1808, era allora a Firenze direttore del Monitore delle famiglie e delle scuole; tradusse l’Eneide di Virgilio, il Baco da tata de) Vida, le Medi/azioni del La Martine, nel 1881 le poesie di Leone XIII, e nel 1886 traduceva ancora e andava via via pubblicando l’intera Bibbia! *5 più cara quanto più è valente ohi volle usarmela. Ma da essa io tolgo (non so se a buon dritto) la facoltà, che ad ogni modo Ella vorrà perdonarmi, di fare intorno al suo bel lavoro una osservazione, E egli opportuno, e per i tempi nostri utile, che i nobili intelletti italiani si affatichino a riprodurci i lavori, classici sì, ma snervati, della letteratura del secolo XVII, e sopra tutto della francese, cresciuta all’ombra letale del dispotismo fanatico di Luigi XIV? Dobbiamo noi servire il furibondo e cieco cattolicismo che ci fa così aspra guerra, trattando ancora come cose sante quei libri biblici, che hanno santificati delitti orribili, e dati per ispirazioni o rivelazioni della divinità fatti mostruosi che fanno fremere l’umanità? Pur troppo è storia di tutti i tempi che un Mardocheo getti la nipote nel serraglio di un re, per far della sua seduzioue fondamento alla propria ambizione, e riesca colle moine di lei a far impiccare il suo antagonista e ad innalzare sè stesso. Ma è cosa troppo orribile che questa cortigiana, diventata regina, ottenga dal feroce e stupido Monarca la permissione di fare sterminare a giorno ed ora fissa tutti coloro che gli Ebrei dichiareranno nemici loro, cosi che nel giorno determinato settantacinquemila infelici siano massacrati come ci narra il libro cY Esther! E dovremo ancora aver per santa Giuditta, che si adorna, come una meretrice, di tutti i vezzi per accendere la libidine di Oloferne, e non isfugge alle sue voglie che ubbriacandolo, e non lo ubbriaca che per ammazzarlo, nel sonno, ed in quella tenda dove ha ricevuto ospitalità e dove ha usate le arti della seduzione? Ci narra la storia che Bacine scrisse Y Esther per uso di non so quale istituto di educazione di giovinette. Oh il casto insegnamento! Oh il mite e umano indirizzo dato a quei cuori ingenui e ancora innocenti! E vorremo allora seguitar questa via? Ecco le riflessioni che mi sursero nella mente leggendo la sua bellissima traduzione. » Se io volgo uno sguardo aH'umanità, qual essa è nei tempi nostri, veggo giganti nelle scienze, nelle arti, nei commerci, le nazioni che la Riforma ha fatto libere del loro pensiero, la Germania, l’Inghilterra, gli Stati Uniti d’America: e veggo per contro piccole, deboli, evirate, ignoranti le nazioni, presso le quali il cattolicismo (quale lo fecero il Lojola e la Curia Romana) o altro dispotismo religioso inceppa le menti e condanna come empio chiunque rifiuti il giogo di credenze ufficiali. E per non citare altri esempi, la povera Francia, che ogni giorno più scade da quel primato che poc’anzi ancora si arrogava, dove si è ella condotta? Paurosa di ogni libertà, fidente nel gesuita e nel gendarme, fatti sole colonne del suo edificio sociale, cerca la forza là dove ogni forza si estingue, voglio dire nella superstizione e nell’esercito, ottimi strumenti di dispotismo, ma cagioni immancabili di debolezza e di dissoluzione nella vita vera delle nazioni. E perciò noi assistiamo allo spettacolo della sua rapida decadenza. La vediamo andare dove andò la Spagna, proprio nel momento in cui questa sembra fatta accorta delle cause della sua caduta. I suoi fucili Chassepot, i suoi cannoni-revolver a mitraglia potranno bensì far piangere ancora l’umanità desolata, che vedrà in poche ore distrutta la più eletta gioventù d’una intera nazione; ma la sua gioventù perirà anch’essa su quei campi d’orribile carnificina: e che rimarrà di tanto sangue? 0 l’essere cancellata dal numero delle nazioni, se vinta: o l’umanità rinculata a tre secoli addietro, se vincitrice: non però per lungo tempo, perchè al dì d’oggi un gii'O di sole ha preso il posto d’un secolo. Ah non cerchiamo nella Francia i nostri esemplari! E meno di tutti noi Italiani, ai quali è riservata per la terza volta l’alta missione di salvare la civiltà del mondo, contro la Francia che ha preso a combatterci. Noi abbiamo da pagare un gran debito all’umanità. Siamo noi che abbiamo fatto il cattolicismo quale esso è: siamo noi che dobbiamo rifare il cristianesimo quale lo volle il suo fondatore. A tal patto soltanto potremo sperare che il mondo perdoni all’Italia il male che gli ha fatto creando, col suo genio sempre positivo, il cattolicismo di Roma, tanto contrario all 'ideale di Cristo. Io mi son lasciato dalla foga delle idee trascinare troppo più oltre che non volevo. Ma non per questo lascerò di spedirle la mia lettera, la quale coll’ingenua espressione dei più segreti miei pensieri le proverà l’alta stima che io ho del suo nobilissimo intelletto. Mi creda quale mi dico sinceramente Suo obblig.0 e devotissimo Al Chiarissimo Cesare Cabella » Sig. Cav. P. Bernabò - Silorata Firenze ». 888 II. L'Avvenire della scienza: discorso inaugurale (uor. 18159). Terzo documento della sua lede religiosa è L'Avvenire della seivnza, orazione inaugurale alla riapertura degli studi all’Univer-àrà di Genova da Ini letta alle Facoltà congregate il 16 noveral i^ 1869: dotta e protenda meditazione di chi tra le cure della vita forem e civile seguiva con occhio scrutatore i passi della scienza; « rapida sintesi delle più grandi rivendicazioni del pensiero moderno, pagine dove l'impeto lirico s'accoppia alla severità delle deduzioni, testimonio della sua fé-de » (1). Giovanni Ruffini la disse la professione di fede del secolo decimonono. L’autore per istringere nei contini di un discorso mia tesi vasta e complessa ha ordito una tela cosi fitta di dottrina esposta in forma così serrata e concettosa che riassumerla non si può senza sciuparla; ne dirò quindi solo l’idea informatrice. Il metodo sperimentale abbattendo il metodo a priori ha aperto la via maestra all’acquisto sicuro della verità, onde le meravigliose scoperte e invenzioni moderne hanno smisuratamente accresciuto il patrimonio intellettuale, atterrati per sempre gli errori dei falsi metodi e le aberrazioni della credulità e della snpesfizione, dato uno strapotente impulso alla civiltà e accelerato in modo straordinario il moto evolutivo della vita dei popoli. Se uon che i cultori delle scienze fisiche e naturali, non tutti però nè i maggiori, hanno creduto, con nuove dottrine intorno alla genesi e alla evoluzione dei regni di natura, atterrare non solo gli errori di viete teologiche leggende ormai sfatate dalla storica ragione, ma eziandio e a torto quelle verità intorno a Dio e al cosciente spirito umano che sono il fondamento razionale della umana universal religione, onde l’uomo precipiterebbe nel baratro tenebroso e disperato dell’ateismo, del materialismo, anzi del nichilismo religioso e morale. L’errore micidiale proviene dalla prosunzione di volere con la materia determinare e spiegare i fatti dello spirito, alla vita del quale il corpo materiale organico è bensì condizione necessaria, ma avendo essenza sua propria e del tutto dallo spirito aliena ed eterogenea, il confonderli insieme e formarne un’ideutità è errore capitale, com’è errore il tentar di spiegare il mistero eterno dei due principii conviventi in noi. Questo errore fi) V. Giornale Caffaro 6 apr. —— 389 di eccesso trova il suo corrispondente in quello dei teologi che disconoscono e dannano delle dottrine positive tutto ciò che non si conforma alla genesi biblica e alla sentenza della sacra scrittura. La scienza ci rivela l’opera del Creatore nelFuomo e nell’universo e ci solleva alle più alte contemplazioni e al culto delle più nobili virtù, mentre ci sprona e insegna a conseguire sempre più perfette forme di vita. Tracciata poi con tocchi rapidi e potenti la storia geologica della terra, quella del regno animale e della specie umana secondo le recenti dottrine del Darwin e del Lamarck, afferma col Lyell non doversi l’uomo religioso punto sgomentare di queste dottrine, perchè se esse contengono errore, sottoposte alla critica dell’indagine positiva, cadranno; se sarau ' provate vere, nessuno sforzo umano potrà impedirne il trionfo. E il trionfo di questo vero non solo non offenderà ma glorificherà la sapienza di Dio che del vero è l’autore anzi il concetto assoluto; nè offenderà la dignità delFuomo il quale, non ostante l’evoluzione genealogica della sua specie assegnatagli dagli ultimi studi, essendo privilegiato del lume divino della ragione, è sostanzialmente separato e infinitamente superiore a tutti gli altri animali. La scienza, scoprendoci progressivamente i fatti e le leggi del creato, opera del Creatore, ci avvicina sempre più a lui; la scienza quindi, come progressiva rivelazione di Dio nell’opera sua, è destinata al rinnovamento religioso del mondo: tale è il suo avvenire. Infine, invitate le due parti contendenti, naturalisti e filosofi, a rientrare nei confini loro assegnati dalla natura delle rispettive loro scienze; dopo aver detto ai materialisti che essi non possono negare lo spirito e la Divinità; ai cultori dello spirito che essi non possono negare le verità accertate dalle scienze naturali; agli uni e agli altri che nello studio della natura si rivelano le leggi divine e si eleva il sentimento religioso; e che perciò l’avvenire della scienza, nell’ordine morale, non può essere che rivelazione e religione, volge ai giovani queste ultime parole: « E voi, giovàni eletti, che oggi ricominciate i vostri studi, ascoltate questa voce che sta per estinguersi, e va gridando come il poeta: pace, pace, pace! Noi, vecchi, che siamo la memoria; voi, giovani, che siete la speranza; leviamo insieme questo grido di pace, come segno d’odii che si estinguono, d'amore che s’infiamma. Noi racconteremo i dolori che la discordia ha recato all'umanità: voi annunziate il bene che frutterà la concordia. L’armonia è la legge suprema dello spirito, come lo è dell’Universo. » Chi di noi non si è sentito intenerire il cuore all’aspetto d’un • • • -i 390 bel tramonto d'autunno? Iridi vaporose che colorite l'orizzonte, ombre che scendete dai monti, tìori che esalate gli ultimi profumi prima di chiudere le vostre corolle, augelli che cercate il vostro nido cantaudo le ultime note, terra che ti avvolgi nel silenzio, cielo che t’ingemmi de’ tuoi astri, voi tutti cantate l’armonia del Creato. E noi? Ah noi uniamo la voce interiore del nostro spirito a quest’inno che la natura innalza al Creatore! » III. Presidente onorario e Avvocato consulente della Società Cooperativa genovese per viveri e abitazioni. Quel santo amore del bene di tutti e singolarmente delle classi diseredate dalla fortuna che, prima in Sicilia poi in patria, lo mosse a promuovere con ogni studio l’istituzione delle Casse di Risparmio, 10 animò per tutta la vita. Sorte con le libertà statutali le Società operaie di mutuo soccorso, il nostro Concittadino fu sollecito a prestar loro gratuitamente l’opera propria per tutte le pratiche legali occorrenti al loro stabilimento e alle loro civili funzioni, a provvederle di sapienti statuti, a sovvenirle di saggi consigli e di assidua assistenza. Non avendo io potuto rintracciare presso queste società nè presso gli uffici delle autorità amministrative i documenti legali che ivi devono pur esistere della diuturna e benefica opera sua, riferirò solo quei pochi che la sua modestia non ci ha potuto invidiare. Nella Cronaca del Corriere Mercantile del 9 febb. 1868 si legge: « Case pei meno agiati. Coll’intervento delPantorità politica e municipale e col concorso grandissimo di cittadini d’ogni condizione ha luogo oggi mentre scriviamo, snlle mura di S. Chiara una solennità che segna un nuovo e splendido trionfo dello spirito di associazione. Si getta la prima pietra degli edifizi che appartengono alla Società cooperativa per viveri ed abitazioni costituita fin dal 1864. È noto che questa società procede col miglior organamento desiderabile e che ha già un capitale sufficiente per conseguire nel più brevo tempo 11 suo scopo. Ci si dice che l’avv. Cabella pronuncierà un discorso analogo alla circostanza » (1). (1) Era presidente e provvidenza benefattrice di questa Società il march. Domenico Serra (sen. -dal 18-18, m. nel 1879) al bene della <]tiale, come dice il Cabella, consacrò il tuo ’empo. il tuo nome, la tua fortuna; anima generosissima che attende ancora dagli scrittori della patria beneficenza la dovuta giustizia tutto che un busto marmoreo nella galleria del 2. piano del Palazzo municipale ce ne ricordi le sembianze. 1 891 Il discorso è intitolato Parole dette dall’avv. Cesare Cabella alla Società cooperatrice che poneva la prima pietra di una casa nel giorno 9 febbraio 18G8, ed è una meraviglia di schiettezza e di bontà, dove l’affetto paterno trova modo di ridurre alla più semplice e chiara espressione Je ragioni della più vigorosa e filosofica sapienza civile spiegando agli operai la futura elevazione della loro classe e dimostrando loro che il lavoro è ricchezza, è virtù, è felicità. Ecco le prime parole: « Grande è la mia allegrezza, carissimi soci, nel vedervi oggi qui congregati a posar la prima pietra di questo primo edifizio che la nostra associazione incomincia a costruire coi minuti risparmi di tutti noi, quanti qui siamo, poveri operai. In breve tempo cinquan-taquatti-o famiglie saranno raccolte nella casa di cui gettiamo le fondamenta; e molti di voi potranno dire con legittimo orgoglio e con sentimento d’ineffabile contentezza: questa casa è mia; veramente mia: anch’io sono proprietario! » Poi, accennato il favore e il plauso onde da tutte le autorità fu accolto l’esempio dato dall’associazione, segnatamente dal Municipio che aveva conceduto gratuitamente il terreno facendolo a sue spese spianare e prometteva la condotta delle acque, segue a dire: « Ponendo questa prima pietra noi facciamo' ben più che gettar i fondamenti di una casa. Portiamo anche noi la nostra pietra per l’erezione di quel grande edifizio sociale a cui oggi concorre con mirabile armonia l’umanità tutta intiera, cioè: la redenzione dalla loro passata abbiezioue delle classi derelitte del popolo; il rialzamento della loro dignità; la loro dotazione con ricchezze finora ignorate; la loro istruzione, la loro moralità, quel complesso di beni insomma ch’io chiamerei, se mi è permessa la parola, religione del lavoro. » Sono cessati, nè torneranno mai più, i tempi in cui l’operaio era trattato con alterigia come servo di pena. Questi sentimenti che suscitavano una sorda guerra tra il povero e il ricco, che ingeneravano il livore e l’invidia da una parte, la superbia e il disprezzo dell’altra, sono morti. L’umanità è libera da questi odii che la degradavano e la facevano così infelice. Ricchi e poveri sono oggi congiunti nella sublime associazione del lavoro ». Procedendo innanzi osserva che il lavoro non è già espiazione, teoria desolante che ha ispirato odio ed invidia in cuor di coloro che si credevano soli condannati alla pena verso coloro che ne sembravano esenti; il lavoro è virtù, è vita, è progresso al bene, e aggiungendo i prodotti dell’arte ai prodotti della natura fa l’uomo collaboratore e partecipe all’opera divina della creazione. Indi soggiuuge: « E quando avrete acquistata la coscienza della vostra dignità, e dal lavoro e dall’economia vedrete sorgere come per incanto la vostra ricchezza (la quale non consiste, no, nell’opulenza, ma nei mezzi onesti di soddisfare onesti bisogni) avrete anche conquistato il più gran bene che l’uomo possa possedere, la virtù, nella quale sta, e in essa sola, la vera felicità. » L’operaio che alla fine della sua giornata tornerà dalla sudata officina a casa sua, dico sua, e troverà ivi il riposo in mezzo ad una famiglia contenta, contento anch’esso di aver soddisfatto ai bisogni di tante care creature, come potrà mai cessar d’essere onesto? Dal sentimento della vostra felicità, o amici, voi trarrete nuove forze per sostenere il vostro coraggio. Questo sentimento ingentilirà i vostri costumi. Educherete più coll’afFetto e coll’esempio che colla severità, i vostri figli: i quali cresceranno buoni, amorevoli, abili ed onesti, come li farà la dolcezza paterna. Un altro desiderio sorgerà allora in voi, quello d'istruirli più che voi non siete: poiché sentirete voi stessi non sufficienti alla loro istruzione e capirete che il lavoro tanto è più profittevole quanto più colto i l’operaio. E come avrete costrutte le vostre case così fonderete, come tanno gli operai americani, le vostre scuole. Da queste i vostri figli usciranno migliori di voi: e i nipoti migliori dei figli*, e così le future generazioni, progredendo sempre innanzi in lor cammino, giungeranno un giorno a quell’alto grado di civiltà, che è la perpetua aspirazione del genere umano. Questo grado di civiltà noi, oh noi certamente non lo godremo! ma già possiamo intravederlo neH’avvenire. E se non ci è dato goderne, avremo almeno la nobile gloria d’averlo preparato, d’aver concorso, ciascuno nelle nostre forze, ad avviare l’umanità in questa via. E i tardi nostri nipoti diranno : Noi siamo migliori dei nostri padri : ma ad essi dobbiamo se siam migliori di loro. Sia benedetta la loro memoria ». Il giorno appresso la Gazzetta di Genova rendeva conto della festa inaugurale in questi termini: « Assistevano alla cerimonia iniziatrice di tina nuova sorgente di futuro benessere per gli operai il Prefetto della provincia rappresentato dal Consiglier delegato comm. Sazia, il Sindaco della città barone Podestà accompagnato da Assessori Municipali e da parecchi altri notabili cittadini, il march. Domenico Serra patrono speciale e padrino della giovane Società. » L avv. prof. Cabella tenne un discorso di circostanza che per la eleganza della forma come per la novità dei concetti riscosse l’ammirazione e il plauso degli astanti ». 393 Diciassette mesi dopo questa cerimonia il primo edificio era già costruito e compiuto sulle Mura del Prato; cinquantaquattro famiglie, cui la sorte dell’urna era stata propizia, entravano ad abitarne i cinquantaquattro appartamenti; è in pari tempo si gettavano i fondamenti del secondo. La duplice festa fu inaugurata nella stessa sala con un altro breve discorsetto del nostro Cittadino ai suoi carissimi soci, vero modello di sapiente e paterna eloquenza (1). Rallegrandosi coi soci della vittoria riportata, li loda per le virtù della sobrietà, del risparmio e del sacrificio con le quali seppero conseguirla. Loro primo premio ha da essere il plauso di tutti i cittadini, la presenza del Capo della Provincia e di chi rappresenta il Capo del Comune qui venuti ad applaudirli e a incoraggiarli. Premio non minore è l’onorata riputazione che acquistò all’Estero la Società operaia genovese per la sua nobile intrapresa non ancora altrove tentata. « Tale è l’importanza della nostra Associazione che, sorta appena, destò l’attenzione, non pur degli Italiani, ma degli stranieri. La potentissima Inghilterra, quella gran madre di tutte le belle e grandi istituzioni della moderna civiltà, che prima diede la vita alle associazioni cooperative, pur si scosse all’annunzio della vostra. I suoi giornali diedero l’anno scorso come cosa degna dell’attenzione degli studiosi di sociale Economia, la notizia della fondazione della nostra casa, e pubblicarono tradotte nella lor lingua le parole che vennero allora pronunciate in questo recinto. Alla fine dello scorso maggio si riunì in Londra il Congresso generale delle associazioni cooperative inglesi, e noi fummo invitati, per ispeciale privilegio, voi già lo sapete, alle sue adunanze onde recarvi il concorso dei nostri concetti e dei nostri esperimenti. Il Console generale del Regno d’Italia in quella metropoli del mondo civile consentì a rappresentai'ci: e per suo mezzo noi abbiamo stretta colà la mano ai nostri fratelli inglesi : i quali hanno da noi imparato, ciò che prima non pensavano, che col mezzo dell’associazione potevano provvedersi non solo di vitto e vestito, ma ancora di abitazioni: e ora ci chiedono i nostri statuti e i nostri regolamenti. » Abbiamo dunque ben ragione di rallegrarci, poiché l’universale consentimento ci prova che noi abbiamo fatto una cosa buona e (1) Distorto dell'avv. Cesare Camelia letto in occasione che dalla Società Cooperativa degli Operai ti procedeva all'estrazione degli Appartamenti e si metteva la prima pietra per la erezione di un secondo caseggiato. (Genova, Pagano, 1869). 394 grande, che sarà principio di beni grandissimi e quasi insuperati nell’avvenire ». Poi seguita dicendo non doversi dimenticare che l’associazione deve la sua presente prosperità a due condizioni: alla perseveranza e concordia dei soci, e all’altrui beneficenza. E qui parlando degli aiuti accordati dal Municipio e dalle pie persone che non per sè ma per il bene dei soci si scrissero nel loro numero, nomina a titolo d'onore l’ing. Timosci che « con generosità pari all’ingegno disegnò l’edificio, ne diresse la costruzione, prestandovi senza compenso cure infinite ». Più che a tutti dice doversi riconoscenza all’illustre patrizio presidente della Società, che fin da principio le diede il potente aiuto della sua dignità, della sua ricchezza e il cui nome non potrà abbastanza essere dai soci benedetto, il march. Domenico Serra. E loda i soci d’aver posto sulla loro casa una memoria che sarà perpetua testimonianza della loro riconoscenza a questo insigne benefattore ed al Municipio (1). Accennata poi alla maggior rapidità con cui potranno erigersi altri caseggiati mercè le rendite delle case sociali già erette, aggiunte al costante contributo dei soci, finisce dimostrando necessarie alla felice riuscita della ben avviata impresa le virtù della pazienza, della perseveranza, della concordia, soprattutto della concordia. E l’eloquenza storica con cui l’oratore insiste su questo punto ci fa capire che già qualche dissenso o dissidio, cosa inevitabile, doveva pur esser nato a minacciare l’unanimità dell’accordo tra i soci. E conclude: « Avanti, avanti dunque, o amici. Perseveranza e concordia. Oggi abbiamo compiuta la prima casa, fondiamo la seconda. Passeranno pochi mesi: e compiuta la seconda rinnoveremo questa festa per fondare la terza. E poi le altre. Cosi ci aiuti Iddio ». L’esempio fruttificò. Con gli statuti e i regolamenti dalla filantropica chiaroveggenza del Cabella elaborati, altre società operaie si costituirono allo stesso fine economico, di guisa che in breve volger di tempo sorsero numerose case operaie nelle diverse zone men centrali e più salubri della nostra città, e molti operai poterono diventare insieme lavoratori e proprietari. Questa, additata dal nostro Cabella, la sola via diretta e sicura che doveva guidare il proletario al (1) È una iscrizione memorativa dove i caratteri, ora stinti e cancellati dal tempo, aspettano di essere ritinti e ravvivati. ————————1^—— 395 progressivo rinnovamento e riscatto di se stesso; ma oggi di questa si ride e altra via si tiene: qual essa sia, e a che riesca, lo dicono i fatti. Sulla fine del 1881 la Cooperativa, conseguito il fine per cui s’era formata, aveva deliberato di sciogliersi e di dare un attestato di affetto e di gratitudine al suo amato Presidente onorario che da circa diciotto anni con zelo infaticabile ne aveva diretta la vita e condotta a felice compimento l’impresa. Il 1° del 1882 il presidente dell’assemblea Pietro Fumé, il presidente del Consiglio di Amministrazione Natale Cavagnaro e il segretario Francesco Del Re si recavano a casa del nostro Avvocato e gli porgevano a nome della Società una ricca pergamena di squisito lavoro artistico contenente il seguente indirizzo. Allegato alla pergamena era un quaderno recante la firma d’ogni singolo socio. « All’inclito Giureconsulto Professore Commendatore CESARE CABELLA Senatore del Regno « Animati dal sentimento di una gratitudine che vivrà incancellabile nei loro cuori, uniti in un voto concorde, i Membri della Società qui soscritta, osano porgere in questo aprirsi del nuovo anno alla S. V. Chiar.ma un omaggio di devozione rispettosa e di affetto riconoscente. » È un sacro e dolce dovere quello che adempiono verso l’infaticabile benefattore del loro consorzio, verso l’Uomo illustre che hanno il vanto di salutare .loro Presidente Onorario, dolenti solo di non essere atti a rendere testimonianza adeguata ai beneficii ottenuti. Dai suoi primordi, infatti, fino al felice e onorato suo scioglimento il nostro istituto ebbe a giovarsi e a trarre norme provvidissime dai luminosi pareri a noi gratuitamente dalla S. V. impartiti. Nè a ciò contenta, volle la S. V. attendere alla formazione dei vari statuti che, dettati colla previdenza di una Mente sagace, ci furono guida sicura nell’arduo cammino, mantenendo fra noi quell’armonico consertare di azione che è strumento e guarentigia di prospero risultato alle nobili imprese. Di questa a noi tanto proficua assistenza riesci documento e corona il savio Regolamento di Liquidazione dalla S. Y. Chiar.ma escogitato; seguendone le savie norme noi confidiamo ch’essó ci guiderà alla meta desiderata; ond’è che la nostra Società in quest’ultimo periodo della sua vita fiduciosamente si ripromette ancora dal Senatore Cabella il concorso delle paterne sue cure. 396 » Nella speranza che la S. V. sia per accogliere benignamente uri attestato che parte dairanimo profondamente commosso ci rechiamo ad onorare il protestarci » Della S. V. Oliar .ma Obb.mi Servitori Il Presidente del Consiglio di Ammin.ne II Presidente dell’Assemblea f.° Cavagnaro Natale f.° Fumé Pietro Il Segretario f.° Francesco Del Re Genova, 1 gennaio 1882. Rispondeva il Cabella: « All’Onorevole Presidente della Società Mutua Cooperati'ice per viveri e abitazioni in Genova » Genova, 2 Gennaio 1882. » Onorevole Signor Presidente, » La visita affettuosa di cui ieri mi onorarono i rappresentanti della Società da lei sì degnamente presieduta, i loro cordiali augurii e saluti, e l’indirizzo tanto onorevole e lusinghiero che mi presentarono in sì splendida forma, mi hanno profondamente commosso. » I sentimenti di riconoscenza, de’ quali i soci mi hanno creduto degno, espressi con sì belle parole, sono il premio più caro che potessi desiderare al poco ch’io feci,'e sarebbero la mia superbia se non avessi la coscienza che sono troppo superiori al mio merito. Pur li accetto con gioia come espressione della bontà, della cortesia, della intelligenza d'affetto che è nell’animo de’ miei donatori, ai quali sono felice d’aver prestata la mia opera. E sono oltremodo sensibile al gentile pensiero che inspirò la sottoscrizione di tutti i soci, onde io sapessi che questa prova di affetto non mi era data soltanto per voto di assemblea, ma per consenso unanime, dai cuori di tutti. Epperò io devo esser grato di sì cara manifestazione non solo all’università degli associati, ma a ciascuno di essi. Il che conferma la mia antica fede che i sentimenti più nobili e delicati e sinceri stanno sempre negli animi temperati ed educati al lavoro. 397 » Ma se già per sè solo era un dono-splendidissimo l’indirizzo, non bastò alla Società, che volle onorarmi non solo colle parole ma anche coll’arte. E ne fece scrivere su finissima pergamena un esemplare in eleganti caratteri egregiamente imitati dagli antichi; lo circondò di graziosi ornamenti miniati con antico stile da mano maestra, dei quali è incerto se più debba lodarsi il concetto, o il disegno, o l’armonia dei colori, o la perfetta esecuzione; e ripose poi quest’opera artistica entro ricca cornice di elegante e squisito lavoro, che rivela nell’artefice un gusto finissimo e una grande perizia ed intelligenza dell’arte. E così ebbi dai soci due valori egualmente inestimabili, quello dell’affetto e quello dell’arte. » Ne rendo alla Società e ai Soci le più vive grazie riconoscente di tanto affetto, grato di tanto dono; il quale è per me un vero tesoro, che io porrò fra i miei ricordi più cari, col conforto d’aver meritata la riconoscenza di tanti nobili cuori. » Prego l’onorevole Presidente a far noti a tutti i soci questi miei sentimenti, e a dir loro che non può non essermi felice un anno cominciato con sì lieti auspici, e che io pur desidero a tutti egualmente felicissimo. » Ho l’onore di rassegnarmi tutto suo dev.mo Cesare Cabella ». IV. L’anuo 1870. È fatto Senatore. Nobili dimostrazioni di stima. Gli studenti di Giurisprudenza sottoscrivono un indirizzo di plauso e dì affettuosa devozione al loro maestro. L’anno 1870, 63° dell’età sua, fu certo di tutta la sua vita uno dei più avventurati. Il Re con Decreto 6 febbraio 1870 lo nominava Senatore del Regno. Autore della proposta era stato il Presidente dei Ministri cioè proprio quel Giovanni Lanza col quale un giorno alla Camera, come vedemmo, il Cabella ebbe un diverbio, unico di tutta la sua vita parlamentare. Il Lanza comunicava all’eletto la sua elezione aggiungendole parole: « per onorare la virtù nell’avversario». Atto magnanimo del quale fu sempre, finché visse, viva nell’animo del Cabella la memoria e l’ammirazione, e dove non so se si debba più ammirare la virtù di chi dava o di chi riceveva quell’onore, essendo, a parer mio, così difficile il trovare in chicchessia tanta virtù da meritare il premio dell’avversario come nell’avversario tanta giustizia 398 da sforzarlo a premiarla. Ci manca, e me ne duole, la lettera comunicativa del Lanza che qui vorrei accompagnare alla risposta del Cabella per accomunare nell’onore i due che divisi di regione, di partito, di professione, erano pari e fratelli nel culto delle più austere virtù, nell’intenso amor patrio e nell’innata modestia. Se non die l atto del Lanza è così nobile per se stesso che non chiede il sussidio di altri documenti (1). Con la comunicazione ufficiale il Nostro riceveva questa lettera confidenziale dell’amico chiavarese Stefano Castagnola allora Ministro d’Agricoltura: e « Firenze, 13 febbraio 1870. » Carissimo Cesare, » Ora che Lanza ci ha sciolto dal segreto relativamente alla nomina dei nuovi Senatori, mi è lecito congratularmi con te della buona scelta che abbiamo fatto nella tua persona. » La proposta venne fatta dal Lanza; fu da me caldamente appoggiata, ed unanimemente accolta dai Ministri. Spero che ti presenterai tosto al Senato; io desidero vivamente di vederti e poterti consultare in tante cose sulle quali avrei bisogno del valente tuo parere. » Porgi i miei saluti alla gentile Signora Clementina e credimi sempre Tuo affez.m° Stefano Castagnola » Ecco ia risposta del Cabella alla comunicazione del Lanza, dove a me par di vedere che lo scrivente sotto ben concepita forma di devoto ringraziamento intenda dichiarare la sua ferma volontà di conservarsi libero senatore come fu libero deputato, e ciò forse per (1) Per verità il mandato parlamentare di sei legislature, otto anni d’insegnamento superiore, gli uffici legislativi sostenuti nel 1860, ’65, ’69, la pubblica estimazione erano, giusta le consuetudini ufficiali, titoli più che sufficienti a meritargli l’onor senatorio; e nondimeno è fortemente disputabile se un altro ministro che non fosse un lume d’invitta rettitudine come il Lanza, avrebbe spontaneamente sottoposto alla firma reale l’innalzamento di un uomo silenzioso che nessun onore domandava mai a nessuno e viveva contento del suo modesto stato; di un uomo sempre stato avverso all’indirizzo governativo e di tempra tale da non piegarsi mai a servire il governo donatore in grazia del dono ricevuto. — Nello stesso giorno era creato senatore il generale Nino Bixio. 399 dissipare nel donator governo possibili speranze di averlo per quella nomina fautore in ogni occasione della politica governativa. « Eccellenza, » Sono oltremodo riconoscente alla Eccellenza Vostra dell'alta testimonianza di stima e di fiducia che Ella mi ha data proponendo a Sua Maestà la mia elezione a Senatore del Regno. La quale testimonianza mi è tanto più cara pensando che, se pur ebbi una vita politica, io la spesi interamente nella difesa dei principii di libertà, in quel posto del Parlamento dove mi posi a principio, e dove rimasi poi sempre finché gli elettori mi mantennero il loro mandato. L’Eccellenza Vostra ha potuto allora conoscere (io spero) che recai nella Camera Elettiva, non passioni di partito, ma convinzioni sincere; ed Ella provò sempre col suo proprio esempio che l’uomo onesto, come non sente le prime, cosi non manca mai alle seconde. Io debbo perciò considerare la mia elezione come fatta da chi era certo che io professerei in Senato que’ medesimi principii che mi furono guida nel primo periodo della mia vita parlamentare. E questo pensiero mi fa sicuro che recando nell’alto consesso a cui sono chiamato le mie antiche convinzioni, non mancherò alla fiducia che il Re ed il Ministero hanno in me riposta. Del resto posso dire che la mia vita intellettuale riassumendosi tutta nell’amore della verità e della giustizia, io non trovo mai nulla a mutare della mia condotta privata o pubblica, qualunque sia il posto che mi venga assegnato. » Per queste considerazioni io accetto senza riserva e con grato animo la elezione di cui Ella mi ha creduto degno, e la prego di accettare i miei ringraziamenti, di farli accettare ai suoi eminenti colleghi, e di rassegnare a Sua Maestà i miei sentimenti di devozione e di riconoscenza per l’alto onore che mi ha conceduto. » Con profonda riverenza mi dico Dell’Ecc. Vostra Dev.mo Servo « Genova, 15 Febbraio 1870 Cesare Cabella » A S. E. il Presidente del Consiglio dei Ministri Firenze » Chi sa quanto il nostro Cittadino amava la scuola e i suoi discepoli dell’Università, intenderà facilmente di quanta dolcezza al 400 cuore gli sia stata cagione l’infrascritta bella e nobile lettera gratulatoria dei suoi studenti di Giurisprudenza i quali vollero tutti apporvi il loro nome. « Onorevoliss.0 Sig.r Avvocato Comm. Prof. Cesare Cabella Senatore del regno Genova » Onorevoliss.0 Sig. Senatore, » Quando or fa pochi anni gli studenti di questa Università si univano alla voce comune che vi chiamava a rappresentar Genova nel Parlamento Italiano, Voi con quella modestia che è dote del savio ricusaste la candidatura offertavi; e noi udimmo con profonda commozione che non ultimo fra i motivi che vi persuasero quella rinuncia fu l’amore della vostra Scuola, fu il pensiero di doversi staccare da noi, di dover troncare quell’arcana corrispondenza di simpatia e di affetti che corre fra Maestro e discepoli. » Ma la Nazione ha d’uopo di Voi,-ha bisogno che quel senno e quella dottrina che Voi tanto splendidamente adoperate nel Foro, sieno rivolti a più ampio ordine di cose, all’universale vantaggio. Non le basta più che coll’eloquenza della parola innamoriate i suoi giovani figli dei principii grandi immutabili della Giustizia civile, ma vi vuole nel novero dei suoi Legislatori nel Senato; non rendendovi per tal modo impossibili quelle occupazioni che sono la vostra gloria e la vostra compiacenza. » E gli studenti sono orgogliosi di questo avvenimento e ve ne porgono le loro congratulazioni, affinchè sappiate con quanto riverente affetto siete da loro ammirato. Genova, li 16 Febbraio 1870. Dionigi Botti - Giovanni Chiozza - Francesco Cappa di P. - Ugo Durante - Ferrari Enrico - Domingo Pelati - Giustiniani Gero • lamo - Bancalari Pio - Goffredo Palazzi - Giuseppe Rossi -Oderò Paolo • Pio Olivieri - Paolo Zunino - Carlo Toesca -Ugo Carcassi - MICHELE Rossi - F. Bruzzo - Ad. Figari - A. Ferrando - A. Daste - A. De Benedetti - G. Sartorio - S. Deslex (?) - Enea Rossi - G. Revelli - C. Clavarino - G. Sabbia - C. Gallo - G. Elia - Gamba Enrico - Maschio Luigi - 401 L. Pelizza - P. Mongiardino ■ G. R^mbado - V. Cattaneo -Torre Tito - C. Blengino - G. Cattaneo - G-. Vassallo P.te Gio. Ant. Ampugnani - A. Caveri - Ed. Brian - G. Isola -A. Vaccaro - D. Bossi Forni - E. Letellier - F. Gozo - Angelo Malchiodi • Chinazzi Carlo - Bajlo Mario - Canale Gerolamo -Aluf.fi Giovanni - Piccaluga Romolo - Pittaluga Luigi - Migone Francesco - Traverso Antonio -......? - Alfredo Cervis - Norcia Luigi - Reale Giulio ■ Picasso Luigi - Costantino Oraziani - Perazzo Plinio - Buraggi Giovanni - Ghersi Emanuele - L. Cattaneo - Ronco Francesco - Grossi Ottavio -Emilio Fed. Casanova - Oddini G. B. - Lagorio Giovanni -Maggiore Augusto - Balduzzi Alfonso - Bono Cristoforo -• Mayneri Giuseppe - Marengo Gaspare - Grillo Giuseppe - Rossi Silvio - Garbarini Agostino - Rozio Alberto - Solari Luigi -Giovanni Denegri - Alb. Oddini - Arata Paolo - Gian Carlo Ageno - Giuseppe Levratto - Francesco Bisagno - Ottavio Cappa - Medica Riccardo - P. Calegari - Grondona Alessandro -Bozzano Giuseppe - Camillo Garroni. Divulgata dai giornali la notizia, gli amici;, com’è naturale, s’affrettarono a congratularsi con lui. Ecco una lettera di Mauro Macchi. - « Torino 16-2-70. » Carissimo Cabella, » Non so resistere al bisogno di esprimere tutta la compiacenza che provo vedendo, finalmente, richiamato sul campo della vita pubblica un così strenuo e provetto soldato di libertà, quale tu sei. Perdonerò al Lanza altri peccati, per il merito che ebbe di pensare a te. » Benché tardi bisogna che ti faccia le più cordiali congratulazioni anche per lo stupendo discorso con cui così splendidamente inaugurasti li studi universitarj. Per dare maggior diffusione ai sapienti ed utili concetti da te espressi, io ne feci parecchi riassunti; uno dei quali ti sarà forse caduto sott’occhio perchè, stampato nella Gazzetta del Popolo di Torino, venne riprodotto dal Movimento. » Spero ci vedremo presto..... Ama sempre il tuo M. Macchi ». Quel Francesco Guglielmi che aveva fraternamente diviso la lunga prigionia di Fenestrelle col giovane artigliere Giuseppe Thappaz ss 402 salvato per l’eloquenza del nostro Cesare da morte ignominiosa, all’annuncio di quella nomina, si ricordò dell’antico collega della terza legislatura e della sua vittoriosa difesa, e gl’inviò subito lettera impressa di vivo affetto; a cui il Nostro rispondeva: « Oh la bella lettera che voi mi avete scritta! bella di pensieri! bella di parole! La lessi almeno quattro volte e poi la feci leggere ai miei figli ». Nè il Guglielmi si contentava di sfogare i suoi patriottici ricordi in lettera privata ma li pubblicava, come vedemmo, nel suo giornale popolare R Canavese del 6 aprile 1870. Di che commosso, il nostro Cittadino con altra lettera tornava a ringraziarlo: « Io non merito la millesima parte delle lodi che voleste darmi.... ma esse mi furono soavi, come non possono esserlo se non le parole di un amico e i ricordi della giovinezza. Vi piacque fra questi ricordi annoverar la difesa di quell’onesto e forte giovane Thappaz, al quale una lunga pena immeritata accorciò tanto la vita e tolse la gloria che si sarebbe acquistata. » Povero Thappaz! Mi pare ancora di vederlo seduto al banco degli accusati più commosso della mia difesa che del pericolo, a cui per miracolo scampò, di aver l’indomani tronca la vita da cinque palle nella schiena! Che grande animo si allogava sotto quella modesta assisa dell’artigliere! — Grazie del gentile pensiero di aver fatto noto un atto della mia vita, del quale sempre mi compiacqui più che d’o-gni altro! » (1) Dissi il 1870 l'anno più avventurato della sua vita; infatti, oltre l’assunzione al seggio senatorio, nel gennaio un caso fortunato gli porgeva occasione di riannodare e riaccendere vivissima l’amicizia con un compagno ammiratissimo, Giovanni Ruffini, cui l’esiglio e le vicende gli avevano reso straniero da circa quarantanni; nell’aprile un Decreto Regio accogliendo i voti del Consiglio accademico lo nominava Rettore della nostra Università; nel maggio vedeva finalmente soddisfatti i suoi voti e premiate le sue fatiche con la fondazione della R. Scuola Navale Superiore; e finalmente il 20 settembre per la breccia di Porta Pia aperta dalle truppe capitanate dal suo vecchio amico Raffaele Cadorna, l’Italia entrava nella sua gloriosa Capitale e scuoteva l’undicenne vassallaggio di Francia. Tra gli onori conferiti al nostro Cittadino in questo stesso anno non va taciuto un onore modesto ma molto e non meno degli altri da lui apprezzato, quale quello d’essere stato eletto Consigliere di (1) Faldella, op. oit. pag. 652. 403 Presidenza della nostra Società Ligure di Storia patria nell’adunanza generale del 29 maggio, partecipatogli dal Presidente Antonio Crocco con lettera 1° giugno: onore ch’egli di buon grado accettò e sostenne per il biennio 1870-72. Come socio egli appartenne a questa Società dal 21 febb. 1858 cioè dal principio della fondazione fino alla fine della vita (1). E finalmente nello stesso anno dal nostro Municipio fu nominato Presidente della Commissione incaricata dell’acquisto dei libri per la Biblioteca civica Berio, ufficio ch’egli sostenne fino al 1874. Y. Muore Autouio Caveri (febb. 1870). Elogio funebre pronunciato dal Cabella. Torniamo un passo indietro. Mentre il nostro Cittadino, fatto senatore, tra la festa e le congratulazioni di tutti godeva la legittima soddisfazione dell’uomo probo che vede riconosciute dal mondo una volta tanto le veglie e le fatiche durate pel pubblico bene, due morti, a distanza di pochi giorni, venivano a contristarlo: quella dello zio e suocero avv. prof. Cesare Parodi e quella dell’avv. senatore e professore Antonio Caveri, Rettore della nostra Università. Dottissimo giurista, chiaro trattatista di diritto Commerciale, maestro di tutti gli avvocati del foro genovese e dei professori del nostro Ateneo, il Parodi era morto il 1° febbraio. Ma se per la patria è sempre immatura la fine di un suo figlio illustre e benemerito, il Parodi aveva pur di gran lunga varcato il confine segnato ordinariamente da natura alla vita umana perchè morto di 93 anni, secondo scrive il Giuliani o, secondo la Gazzetta di Genova, di anni 90, cioè quando prima di morire l’uomo è già morto e ha già tolto commiato dal mondo; laddove il Caveri, non ancora sessantenne, il 23 dello stesso mese abbandonava anzi tempo una vita piena di vigore intellettuale e feconda di opere sapienti, onde più vivo e legittimo ne sentiva il dolore chiunque amava Genova e le sue glorie (2). Diremo dunque delle onoranze funebri al Caveri. (1) Come risulta dall’Elenoo dei Soci compilato nel 1885 dal Segretario L. T. Bei-grano e pubblicato nel XVII volume degli Atti della Società. (2) Gazzetta di Genova, del 3 febbr. 1870; N. Giuliani, Albo letterario di Liguria (Ge. nova, marzo, 1886), 404 Il dì 25 a ore due pomeridiane il corteo funebre, seguito da infinita schiera di cittadini dolenti, mosse verso Staglieno. Reggevano i lembi del drappo mortuario il Prefetto sen. Mayr, il deputato Sindaco A. Podestà, il nostro sen. Cabella, il march. Giorgio D’Ovia, l’avv. Maurizio Bensa professore anziano dell’Università, Gerolamo Boccai'do Preside del R. Istituto Tecnico, il presidente della Corte d’Appello comm. Enrico, il comm. avv. Tito Orsini. Alle 3,15 là bara giungeva sotto il Pronao della Camera mortuaria. Compiuto il rito della religiosa benedizione, l’avv. Orsini rivolse al defunto amico brevi parole d’estremo addio interrotte dalla commozione dell’animo. Seguì il Cabella col breve discorso che reco qui integralmente sia perchè suona mirabile la lode in bocca di chi, dotato d’altra tempra d'animo e d’ingegno, correva l’emulo arringo delle medesime prove e virtù dell’uomo lodato, sia perchè disdirèbbe all’intento di questo lavoro il tacere di un Caveri onore e vanto di Genova nostra. « Sia permesso anche a me versare una lagrima e deporre una corona su questa tomba. Se l’estinto fosse stato solamente un grande giureconsulto, nulla potrebbe aggiungersi alle nobili parole dell’illustre oratore che con tanta verità ed affetto si fece interprete del dolore del Foro genovese per la perdita dell’uomo che tanto l’onorava. » Ma la gloria del giureconsulto, che sarebbe bastata a qualunque nobile ambizione, riguai’da solo una parte della vita di questo uomo insigne. L’altezza dell’intelletto, la profondità della dottrina, la memoria prodigiosa, la prontezza deli'apprendere, la sicurezza del giudicare, che gli facevano così agevole e lieve ogni più arduo studio, diedero ad Antonio Caveri quella facilità meravigliosa, che fu suo privilegio, di potersi consacrare senza sforzo e quasi naturalmente, alle più alte contemplazioni scientifiche, ed insieme alle faticose occupazioni del Foro e agli affari pubblici. Quindi quel miracolo della sua triplice vita, così attiva e feconda, di scienziato, di giureconsulto e di cittadino. » Chi scriverà la sua biografia dirà gli studi profondi ch’egli cominciò fin dalla prima adolescenza, ai quali sacrificò ogni piacer giovanile, e che continuò poi sempre finché visse, nè mai intermise anche in mezzo ai grandi e cotidiani lavori del Foro (1). E fu per (1) Aveva compiuta Ja pratica legale presso l’avv. Ludovico Casanova il quale nel certificato che gliene rilasciava preconizzava la grandezza del giovane ventiquattrenne. — Cfr. F. Pizzorno, Antonio Caveri, orazione funebre; Genova, Sordomuti, 1870, 405 questo ardente amore della vita intellettuale ch'egli potè farsi non solo maestro della scienza del diritto, nella quale a nessuno era secondo, ma dottissimo in tante altre discipline. Del che possiamo render solenne testimonianza noi, suoi amici, ai quali si rivelava, quasi inconsapevole, nei famigliari colloqui, profondamente erudito in ogni parte dell’umano sapere. Non è meraviglia perciò se di lui ancor giovanissimo già era chiaro il nome, sicché a 26 anni fu ammesso fra i dottori della nostra Università, ed entrò così in quel-l'Ateneo che tanto illustrò poi come professore e del quale doveva più tardi essere moderatore. A. 35 anni egli fu chiamato all’insegnamento della gioventù: e furono a lui affidate le cattedre più difficili, quelle che richiedono studi più vasti e profondi, la filosofia e la storia del diritto, e l’introduzione allo studio delle scienze giuridiche. I giovani, che egli preparava così con robusti ed alti principii, allo studio delle leggi positive, possono dire con quale ricchezza di erudizione, con quale vastità di concetti loro insegnasse le prime origini della civiltà, e li conducesse ad apprendere le prime nozioni del diritto e a seguirne lo svolgimento nella storia della umanità. La sua morte è una grande sventura per la nostra Università, che ha perduto in esso ad un tempo una delle sue più grandi illustrazioni, e il suo moderatore, del quale nessuno avrebbe potuto più abilmente governarla. » La sua vita pubblica cominciò insieme colla vita politica della Nazione. Un tanto uomo non poteva essere dimenticato dagli elettori, e il primo Parlamento lo annoverò fra i rappresentanti del popolo. Rieletto poi altre volte, recò nei Consigli della Nazione la prudenza e la saviezza del suo ingegno temperato e tranquillo. Avrebbe potuto, e non volle, aprirsi campo vastissimo ad una ambizione che in lui sarebbe stata legittima, e sedere nel Consiglio della Corona, al quale invece, più volte invitato, sempre con rara modestia si rifiutò. Non fu però la Nazione interamente privata de’ suoi lumi, poiché nel 1860 fu eletto Senatore del Regno. E se in questo ufficio poca parte prese ai lavori parlamentari, grandissima l’ebbe invece nella formazione delle nostre leggi. A lui ricorreva continuamente per consiglio il Governo; e molte furono le Commissioni legislative nelle quali fu chiamato a recare la sua dottrina e il suo senno. Basti accennare quella per la riforma del Codice di Commercio, di cui come Presidente diresse i lavori con meravigliosa sapienza. E ne lasciò allora sì chiara memoria, che volendosi di recente riprendere l’esame della legislazione commerciale, il Governo lo nominò ancora Presidente della nuova Commissione. 40fc! » Ma fu in mezzo ai suoi, ed in seno a questa sua terra natale che si svolse più operosa la sua vita pubblica. Qui io non potrei dir cosa che non fosse nota a tutti. Chi non sa quanto egli operasse a prò’ del proprio paese, e con quanto sacrifìcio di sè stesso e della sua fortuna si consacrasse alla cosa pubblica? Assiduo, infaticabile, egli sostenne dal 1848 in poi tanta parte della amministrazione del Comune, che niuno potrebbe presumere di averne meglio di lui meritato. Il riordinamento del Municipio, il suo bilancio, lo Stato Civile, le Pubbliche Opere, ma specialmente poi la Pubblica Istruzione furono per oltre vent’anni oggetto delle sue cure: le quali, insieme a quelle degli uomini illustri che ebbe colleghi in questi uffici, accrebbero tanto la prosperità e il lustro della nostra città. E se essa è oggi citata come modello de’ municipii italiani; se è superiore ad ogni altra nella pubblica istruzione; se l’amore dello studio si è svegliato nel nostro popolo così potente, che non basta mai il numero, pur sempre crescente, dei maestri e delle scuole; gran parte della lode è dovuta all’opera di Antonio Caveri, e al suo illustre collega Gerolamo Boccardo, nei Consigli della città e della Provincia. E solenne testimonianza della pubblica riconoscenza n’ebbe da quest’ul-tima che ogni anno lo ci’eava Presidente del suo Consiglio. » Tale fu la vita di quest’uomo insigne, del quale oggi deploriamo la perdita. A nessuno, io credo, non fu mai dato godere maggiore autorità fra i suoi concittadini. La quale egli acquistò per l’altezza dell’intelletto, e per la prudenza del consiglio, e ancora per una qualità che egli possedeva in grado eminente, e come un privilegio tutto suo, di conoscere perfettamente i suoi tempi. Vi sono uomini che pretendono di vivere solo nel passato; vi sono uomini che precorrono l’avvenire: gli uni e gli altri sono impotenti. Quelli sono ^utili veramente ai contemporanei che sanno comprendere le esigenze del tempo in cui vivono. E questa perfetta intelligenza de’ suoi tempi l’ebbe il Caveri: e dessa congiunta all’alto ingegno che gli era guida sicura nella vita pubblica e privata, e ad una condotta intemerata, fu il fondamento dell’autorità grandissima che seppe acquistarsi. » Di questa autorità e della estimazione universale una prova solenne gli diede la città intera, che all’annunzio del morbo fatale che doveva troncare una vita sì preziosa fu così profondamente commossa; e reputò la sua morte una pubblica sventura. Questo concorso di ogni ordine di cittadini, che son qui venuti ad onorare il ^feuo sepolcro, è la ricompensa più splendida della gloriosa sua vita. » Visse, come morì, tranquillo e sereno. Modesto, affabile, cor- ———— 407 tese, seppe conciliarsi l’affetto di tutti. Non curò le ricchezze: fu generoso del suo. La probità fu la sola guida delle sue azioni. Non senti mai invidia dei meriti altrui: e dall’invidia, privilegio singolare, non fu mai morso, perchè niuno gli contendeva il suo posto. » Nè gli mancarono le gioie e gli affetti della famiglia. Marito e padre amoroso, ebbe in questi affetti il compenso delle sue virtù: e morì nella certezza che esse passeranno in eredità a’ suoi figli, che già mostratisi degni di padre sì illustre. » Vivrà lungamente onorato il suo nome nella memoria de’ suoi concittadini. Se per la modestia e la vita operosa non lasciò testimonianze scritte del suo alto sapere, non per questo sarà meno chiaro il suo nome. Il quale rimane impresso nei molti monumenti che restano della sua vita di grande giureconsulto e di ottimo cittadino (1) ». VI. Cabella insegnante di Diritto civile. Una delle più forti inclinazioni e dei più vivi desiderii del nostro Cittadino era l’insegnamento e la scuola, alla quale lo traevano attitudini singolari: la scienza profonda, la facilità di esporla con lucidezza mirabile di parola, l’ordine e l’efficacia didattica, l’amore della gioventù e il vivo desiderio di giovarle. Già fin dal 1848 la fama acquistata coi vasti studi ond’erano potentemente nutriti i suoi discorsi politici e giuridici, lo designava a cattedra universitaria. Il padre G. B. Giuliani professore di eloquenza alla nostra Università, che a sentimenti profondamente cristiani accoppiava spiriti schiettamente patriottici, nell’ottobre di quell’anno trovandosi a Torino col comune amico Antonio Crocco, lo aveva già proposto al Ministero come consigliere del Collegio universitario genovese, come si rileva dalla letterina seguente. « Carissimo amico, » Ho creduto conveniente di proporvi a consigliere del Collegio universitario, e mi prometto che riuscirò soddisfatto. Son certo che voi non rifiuterete quest’onore che vi è giustamente dovuto. Il no- ci) Estratto dal Gazzettino di Genova. — Il Consiglio Municipale a onor perpetuo del Caveri ne volle collocato un busto marmoreo nella galleria superiore del Palazzo civico; il Consiglio Accademico un busto simile nella galleria superióre del nostro Ateneo. 408 sfcro amico Antonio Crocco appoggiò validamente la proposta, e tutti e due ci consoliamo che la nostra università possa rioevere un cosi splendido ornamento. Qui le voci son tutte di guerra, e giova sperare che sortiranno il loro effetto. Conservatevi all’utile decoro della patria e al desiderio degli amici fra i quali vuol essere dei primi il vostro aff.mo » Torino il 18 ott. (1848). Giambattista Giuliani (1) ». I buoni uffici dei due valentuomini non sortirono lo sperato effetto perchè il nostro Cittadino non venne aggregato Dottore alla Facoltà di Giurisprudenza prima del 12 giugno 1862 (2). Nella quale occasione lesse un elaborato Discorso Della natura e delle -origini razionali del Diritto Commerciale dove rispondendo alla domanda perchè sia diversa la legge civile nei diversi popoli, e una e identica invece la legge commerciale, viene a parlare del vincolo che unisce e della differenza che distingue la scienza del diritto commerciale e la scienza economica. La legga regolatrice del ricambio dei servizi precedette la scienza economica; questa nacque nel XVIII secolo, quella nell’Evo Medio nel gran movimento dei Comuni ita- ci) G. B. Giuliani n. in Cannelli (Asti) nel 1818. Fatti gli studi in Asti e a Fos-sano, giovanissimo vesti l’abito dei padri Somaschi. A 19 anni insegnava Fisica e Matematica nel Collegio dementino di Roma, poi Filosofia nel Liceo di Lugano. Costretto da mal ferma salute a lasciar la cattedra, dopo breve soggiorno a Roma e a Napoli venne a Genova nei primi albori delle nostre libertà. Socio corrispondente dell’Accademia di Scienze di Torino, Dottor collegiato della Facoltà di Lettere e Filosofia nella nostra. Università, vi resse la cattedra di Filosofia morale, poi quella di Sacra Eloquenza. E noto il suo nuovo metodo Dante spiegato con Dante, noti i suoi dotti csmmenti al Convito, alla Vita Nuova e al Canzoniere. Nel 1865 fu nominato Espositore della D. Commedia agli Studi superiori di Firenze, dalla qual città gli fu poi conferita la cittadinanza onoraria. Non morranno le sue Lettere sul vivente linguaggio della Toscana, ripubblicate poi con aggiunte in due volumi e col titolo Delizie del parlar toscano, indispensabile a chi voglia studiare la lingua parlata. Morì il 28 febbr. 1884. Lasciò un piccolo ma prezioso Diario di pensieri e di affetti dove splendono le belle virtù che quanti ebbimo la ventura di conoscerlo venerammo in lui e ne formavano il tipo dell’illibato cittadino e del vero sacerdote di Cristo. Cannelli gli ha eretto un monumento marmoreo. (-2) L’insuccesso facilmente si spiega se consideriamo che il nostro Cabella non doveva brillare di tutti quei meriti che a quel tempo il governo subalpino richiedeva a chi aspirasse all’insegnamento superiore. Troppo liberi sensi come avvocato difensore degl’imputati del ’33 aveva dimostrato il nostro Genovese; troppo s’era agitato come redattore e relatore del famoso indirizzo dei Genovesi a re C. Alberto nei primi giorni di quell’anno; troppo come oratore politico e come presidente del Circolo nazionale; e. ciò ch’era forse più grave, non erano ignoti i suoi eterodossi principii religiosi. 409 lìanl: ne fu causa l’impellente necessità di porre al più presto in armonia i disparati interessi. Digredendo poscia sui diversi sistemi fin qui escogitati per determinare il principio primigenio del Diritto, li elimina tutti perchè subiettivi; il principio ha da essere obiettivo. Come l’ordine o la legge dell’universo nasce dall’armonia delle forze che eternamente lo agitano, così l’ordine o la legge commerciale nasce dall’armonia degli interessi umani tra sè prima colluttanti (1). Già nella tornata del 22 giugno 1860 il nostro Giureconsulto era stato eletto dalla Camera membro della Commissione per la revisione del Codice Civile, ed era dovere di giustizia e desiderio di tutti ch’egli cogliesse il frutto delle sue studiose vigilie e della mirabile dottrina ond’era già provetto nell’alta estimazione della cittadinanza genovese e del foro italiano. Il R. Decreto 9 nov. 1862 faceva finalmente paghi quei voti: egli era assunto professore ordinario alla cattedra di Diritto civile nel patrio Ateneo. Vivono ancora, benché ormai attempati, non pochi uomini di legge e di amministrazione già suoi discepoli, che nel ricordare la scuola di un tanto maestro ancora se ne compiaciono e commuovono. Ed io créderei far torto al lettore se su questo argomento non cedessi la parola ad uno dei più illustri fra essi, al nostro sen. Bensa che nella Cattedra gli fu degno e preclaro successore. « L’ingegno e la erudizione del Cabella e lo stile della sua eloquenza lo facevano parere creato a posta per l’insegnamento; poiché non solo erano in lui acume di pensiero, potenza dialettica e copia di meditate cognizioni, ma tutto quello ch’egli veniva esponendo a voce o per iscritto assumeva tanta perspicuità, procedeva con ordine così naturale, con tale precisione di terminologia scientifica e con tanta semplicità e sobrietà di locuzione che il concetto da lui svolto pareva sorgesse spontaneo nella mente dell’ascoltatore e del lettore, e delinearvisi con quella nettezza di contorni che fa talora risaltare il bruno profilo di una vetta alpina sullo sfondo di un cielo sgombro da ogni vapore. » Quando anzi si pensi quanto il suo stile era facile e piano, sembra inesplicabile come sapesse ad un tempo, quando il soggetto (1) Come ognun vede, questa opinione non è inoppugnabile. Come si può astrarre dal subietto ossia dalla coscienza intellettiva dell’uomo parlando dell’origine delle umane leggi, tra le quali la commerciale, che ne sono il frutto e il prodotto? Il prinoipio morale impresso nelle umane legislazioni non è determinato da una coscienza individuale ma dalla coscienza collettiva ossia dal senso profondo del genere umano dal legislatore interpretato e seguito. Qui dunque è corso equivoco o abbaglio. 410 lo richiedeva, riuscire immaginoso, ardente, poetico. Ma queste le soii doti di cui nessun’arte può svelare il segreto... Insegnante anzi vero apostolo dell’insegnamento fu Cesare Cabella. Ascritto per acclamazione nel 1862 dottore aggregato alla Facoltà giuridica genovese, fu nel 9 novembre dello stesso anno, nominato professore ordinario di Codice civile, ed allora attese con grandissimo amore alle sue lezioni che non si cancelleranno mai dalla memoria di chi ebbe la fortuna di ascoltarle (1): Erano esse la sua occupazione prediletta, l’ultima dalla quale persino la pregiudicata salate lo inducesse a desistere; amava intensamente la sua cattedra e più di tutto i suoi scolari, che considerava come figli. Dappoiché egli anche nella più tarda età conservò intatta la gioventù del pensiero e del cuore; e in nessuna compagnia egli tanto si compiaceva comé in quella dei giovani che colla parola e coll’esempio educava. La sua abituale squisita cortesia, che fu detta quasi femminea nel senso più alto della parola, si affinava ancora pei suoi discepoli e si accompagnava ad una paterna amorevolezza. Io so che più giovane di lui di oltre mezzo secolo, nelle molte occasioni ch’ebbi la ventura di trovarmi-gli accanto nella vita dell’università e del foro, non dovetti mai ricordare sì grande differenza di età se non per trarne argomento a maggior riverenza. E com’era egli dai giovani affettuosamente ricambiato, quale culto avevano per lui gli studenti! e come fu commovente il vederli, addolorati in volto quasi per lutto famigliare, curvi sotto il feretro che racchiudeva la venerata spoglia, non permettere che ad altri toccasse il pietoso ufficio di trasportare al funebre carro il loro amato professore! » Suggello alle nobili parole dell’illustre suo discepolo è il tenero ricordo che dei suoi diletti giovani lasciò l’amoroso maestro nel suo testamento: « Lascio all’Università di Genova il mio busto in marmo, opera di Varai, desiderando rimanere in effigie in mezzo a quella gioventù studiosa che tanto amai » (2). (1) « Dettò all’Università nostra Lezioni di Codice civile cosi felicemente e sapientemente da avere tra gli uditori avvocati già dediti al patrocinio. Il migliore degli elogi per un professore *. E. Bixio in Commercio - Gazzetta di Genova 3 apr. 1888. (2) Sentendo avvicinarsi la vecchiezza il nostro Avvocato nel 1865 pensò di affidare la figurazione marmorea delle sue sembianze al lodato scalpello dell’amico suo Santo Varni per lasciarle in' memoria alla sua famiglia. Il Varni, sopraccarico in quel tempo di commissioni, fece solo il modello e ne lasciò l’esecuzione ai suoi lavoranti. Il busto, convien' dirlo, lascia non poco a desiderare in fatto di somiglianza. Le labbra grosse e il collo grosso non aveva il Cabella, nè i capelli nè la barba portava al modo 411 Il busto trovasi sul pianerottolo della scala a mano destra che sale alla 2a galleria, a sinistra dei busti di Domenico Yiviani e di Pietro Giuria. Ivi sopra, murata alla parete, è una lapide marmorea con iscrizione, dettata dal prof. Paolo Bigliati, che dice: CESARE CABELLA INSIGNE DECORO DELLA CURIA DEL PARLAMENTO DELLA SCUOLA QUI SVOLSE CON SAPIENZA ROMANA IL PATRIO DIRITTO DAL MDCCCLXI AL MDCCCLXXXYIII RESSE QUESTO ATENEO DAL MDCCCLXX AL MDCCCLXXVIII PREPARANDO CON INTELLETTO ED AMORE L’ERA DEL SUO RISORGIMENTO Furono oggetto speciale delle sue lezioni le Disposizioni •preliminari al Codice Civile sulla pubblicazione, interpretazione ed applicazione della legge in generale considerata specialmente ne’ suoi effetti relativi al tempo e al luogo; i Principii del Diritto internazionale privato; il Matrimonio; la Famiglia; le Successioni; la Proprietà; il Possesso. Come si vede, il suo insegnamento versò su quelle parti che costituiscono i principii fondamentali della legge civile e che formando, come capisaldi, la coscienza giuridica del discepolo, gli servono di guida a studi più ampi e particolari e alla risoluzione delle questioni nella pratica forense. Oppostamente alla infelice consuetudine di non pochi professori universitarii che dimenticando d’insegnare a novizi digiuni di scienza e bisognevoli quindi di elementari e chiari principii, svolgono con gran corredo di vistosa erudizione quella sola e piccola e non sempre importantissima parte della loro scienza che essi hanno in particolar modo approfondita, egli soleva dire che il professore di una vasta materia qual è il Codice civile non doveva, nel tempo relativamente ristretto assegnato al corso, dare al discepolo altro che è nel busto figurato: insomma, chi ha conosciuto il soggetto, non vi ravvisa espressa la sua vera fisionomia. Il Cabella con lettera del febbr. 1S66 scrisse allo scultore additandogli queste imperfezioni e pregandolo, se possibile e opportuno, di rimediarvi con qualche ritocco del suo scalpello e della sua lima. Rispose il Yarni parergli d’aver condotta l’opera assai bene, nè stimare di dovervi recare altri emendamenti. La più fedele immagine del Cabella vecchio resterà sempre il ritratto fotografico da noi riprodotto. •±12 che lo scheletro, sul quale poi gli alunni dovevano coi loi’o studi individuali mettere la polpa. Della rinomanza in cui per gli studi e l’insegnamento egli era salito, fan fede non poche lettere a lui dirette da ammiratori nostrani e stranieri in diversi tempi. Ve n’ha una del chiaro prof. Rit-termayer dell’Università di Heidelberg in data 2 gennaio 1850, dove lamentando la comune infelicità politica delia Germania e dell’Italia dice dover lui e il Cabella trar conforto e speranza di tempi migliori dal comun culto degli studi legali; quindi lodando il disegno di pubblicare, tradotte in italiano, le opere più importanti di Diritto penale uscite in Germania, gliene trascrive una serie aggiungendo a ciascuna opportune considerazioni. Ve n’ha un’altra da Torino 17 febbr. 1865 di Augusto Pierantoni; allora ancor molto giovane, più tardi professore, deputato, senatore, che valendosi della conoscenza fatta del Cabella a Napoli nel 1860 per mezzo di Augusto Vecchi, gli domanda con molta modestia il giudizio su di una sua memoria intorno alla pena di morte. « Oso chiedere a Lei, gli dice, un autorevole e sincero giudizio sul mio scritto. Sono ancor molto giovane ed avrò tempo a correggermi. Ora mi possono giovare più le osservazioni che le cortesi parole di lode ». Merita d’esser trascritta come esempio di delicatissimo ossequio questa letterina del celebre penalista prof. Holtzendorff dell’Università di Monaco di Baviera, che trovandosi a Pegli voleva profittare dell’occasione per venire a conoscere il nostro Concittadino. Hotel Gargini « Pegli, 3 Marzo 1879. » Illustrissimo Signor Senatore, » Mi sarebbe un grandissimo piacere se la S. V. volesse gradire di accettare benevolmente l’ossequio, che desidero vivamente offrirle facendo la mia rispettosa visita ad una illustrazione della scienza. Benché non osi io sperare essere il mio nome conosciuto da V. S., sono quasi sicuro che i rapporti amichevoli fra tutte le Università varranno quale ragione per scusarmi agli occhi di V. S. » Sarei lietissimo se Ella volesse indicarmi una ora ed il luogo dove potessi presentarmi al Giovedì prossimo. 413 » Gradisca, Signor Senatore, l’espressione del profondissimo rispetto da parte del di Lei Dev."10 collega D. Franz von Holtzendorff Professore di diritto all’Univ. R. di Monaco M. dell’istituto R. Lombardo (1) ». VII. Rettore dell’Università, ne promuove l’incremento. Non solo come insegnante fu il Cabella benemerito della pubblica istruzione. Quando alla dignità di Senatore del Regno, conferitagli con R. Decreto 6 febbr. 1870, ebbe aggiunta la carica di Rettore dell’Università alla quale, morto il Caveri, fu assunto il 19 aprile dal suffragio concorde del collegio accademico, e si trovò per tal modo investito di doppia autorità ufficiale, volse l’animo a colorire il disegno, da lungo tempo vagheggiato, di risollevare il nostro maggior Istituto dalle ree condizioni in cui per l’ostilità del Governo piemontese giaceva negletto, ed innalzarlo a novello splendore. Da principio, tuttoché ricordasse l’insuccesso delle domande fatte a tal uopo al Governo dal nostro Consiglio Comunale il 20 settembre e il 9 novembre 1861, promosse, con la valida cooperazione di consiglieri municipali e della stampa cittadina, una calorosa istanza dello stesso Consiglio in data 4 die. 1872 al Ministero affinchè « utilizzando gl’insegnamenti impartiti nell’Università, vi completasse quello della Filosofia e delle Lettere colla facoltà di conferire diplomi di professore nei Licei, nei Ginnasi e nelle Scuole Tecniche come si usava presso le altre Università (2) ». Poi, vista vana la speranza che il Governo si ricordasse mai di quanto a favore della nostra Università si stabiliva dal Protocollo di Vienna 12 die. 1811 e si confermava dalle Regie Patenti del Re di Sardegna il 30 die. dello stesso anno, e convinto dai fatti che il G o-verno non s’indurrebbe mai a un atto dispendioso di giustizia dovutaci se Pi’ovincia e Comune uniti in consorzio non concorressero (1) Questo professore italofìlo, grande ammiratore di Quintino Sella e ardente abolizionista della pena di morte, venuto a Roma nell’aprile del 1875, v’era stato festeggiato ed acclamato dai più eminenti uomini della politioa e della scienza legale. (2) La nostra Facoltà di Lettsre e Filosofia nel 1876 non aveva che due cattedre: quella di Lettere italiane retta dal prof. P. Giuria e quella di Filosofia teoretica dal prof. Francesco Bertinaria. Non parlo del numero degli alunni! 414 nelle spese necessarie, con l’aiuto d'altri colleghi e valentuomini diede opera attiva a disporre gli animi ad accettare questo mezzo che, già praticato da altri Comuni e Provincie, unico l’estava al conseguimento dello scopo desiderato. Infatti quando il Ministro della P. Istruzione, consentendo di riordinare nella nostra Università la facoltà di Lettere e Filosofia, chiedeva con lettera 5 gennaio 1876 alla Provincia e al Comune il concorso di annue L. 5.000, Provincia e Comune non solo aderivano alla domanda del Ministero, ma ne vollero allargare il concetto per aumentare gl’insegnamenti nelle diverse Facoltà e meglio promuovere il lustro del patrio Ateneo. A questo fine il Rettore sen. Cabella formava una Commissione composta del pro£ A. G. Bozzo delegato della Provincia, del prof. G. Boccardo delegato del Municipio e del prof. G. Brufczo pel Corpo accademico. Questa Commissione, cooperante il Rettore, relatore il prof. A. G. Bozzo, concordò l’istituzione di un Consorzio composto del Rettore dell’U-niversità e di due commissarii, eletti, l’uno dalla Deputazione provinciale, l’altro dalla Giunta municipale, i quali procedendo d’accordo col Ministero determinassero i miglioramenti da introdursi nelle diverse Facoltà in armonia con le leggi e i regolamenti generali. La Commissione compilava inoltre lo Statuto di esso Consorzio, in virtù del quale Provincia e Comune concorrevano in parti eguali all’annuo canone di L. 30.000 da erogarsi, per L. 24.000 a completare gl’insegnamenti delle diverse Facoltà e a diversi altri provvedimenti scien-tifico-didattici; per L. 6.000 ad eventuali maggiori assegnamenti a nuovi professori. La Relazione della Commissione fu letta e approvata dal Consiglio comunale in seduta 1 febbraio 1877 (1). L’11 marzo 1877 un R. Decreto approvava l’istituzione di questo primo Consorzio universitario, e la nostra Università otteneva l’aumento di cinque corsi complementari nella Facoltà di Giurisprudenza, e il complemento dei corsi nella Facoltà di Filosofia e Lettere colla istituzione di cinque nuove cattedre (2). Il nostro Ateneo deve questo suo primo incremento in massima parte al nostro Concittadino, il quale quanto poi siasi adoperato per elevarlo al primo grado vedremo a suo luogo. (1) R. Drago, Ricordi di un segr. com., pag. 157-58; Relazione della Commissione a pag. 109-14 dei Processi verbali del Consiglio comunale di Genova, voi. 28, a. 1877. (2) Cabella, Discorso al Senato 5 die. 1885. 415 Vili. Promuove la fondazione e l’ordinamento della R. Scuola Superiore Navale e ne è nominato Presidente. Nè l’amore per gli studi limitò al solo Ateneo: egli fu pure l’anima e il principal promotore della Scuola Navale Superiore. Doveva dolere ad ogni buon Italiano che l’Italia, regina del Mediterraneo nel quale si distende per tremila leghe di coste, fòsse sprovveduta di una scuola dove s’insegnassero le somme ragioni dell’arte della nave e della navigazione; doleva poi certo e grandemente a ogni buon Genovese che ne fosse priva la sua Genova, metropoli del commercio e della navigazione italiana, che dal mare trae vita e fortuna. Onde già prima del 1870 il nostro Cittadino insieme con altri benemeriti genovesi si diede a caldeggiarne con ogni studio l’istituzione, tanto che l’Amministrazione comunale, sindaco Podesjtà, con deliberazione 23 maggio 1870 provvedeva alla fondazione della R. Scuola Superiore Navale in concorso collo Stato e colla Provincia, addossandosi l’onere di un annuo assegno di L. 15.000 colla concessione dell’uso di conveniente locale e colla somministrazione della suppellettile non scientifica (1). Presidente del Consiglio direttivo del nuovo Istituto fu fatto il Cabella il quale ne dettò lo Statuto, ne rivide il Regolamento, vi spese cure infinite e ne curò con tanta assiduità prima l’inizio e la vita poi l’incremento e la prospei’ità che parve per esso trascurare affari e interessi, non solo, ma talvolta anche il riposo e le dolcezze della vita famigliare. « Diè mano a creare, si può dire, la Scuola Superiore Navale nella quale aveva riposto tutta la cura e un affetto di padre, si conceda la parola, scientifico, sicché scherzando in famiglia, taluno diceva alle sue figliole che dovevano ingelosirsi della nuova sorella: la Scuola Navale » (2). Ne resse le sorti per 17 anni cioè dal al 1870 al 1887 ottantesimo dell’età sua. Nell’Università dove la nuova Scuola ebbe ospitalità per tre anni prima che il Comune le assegnasse sede propria nel palazzo del-l'Ammiragliato, il Cabella il 16 gennaio 1871 pronunciava il discorso (1) Cfr. R. Drago, op. oit. pag. 75. — Il contributo dello Stato era di L. 16.000, quello della Camera di Commercio L. 4.000, quello della Provincia di L. 15.000 oltre la somministrazione della suppellettile scientifica. I contributi annui dello Stato e degli Enti locali che nel 1871 tocoavano la somma di L. 50.000, dopo 20 anni ossia nel 1891 ammontavano già a L. 97.000. Cfr. Relazione del Consiglio Direttivo sull'andamento della R. Scuola Navale Sup. nell’anno 1910-11; Genova, 1912. (2) E. Bino, art. cit. 416 inaugurale per esporre le ragioni moventi e finali del novello Istituto e per rendere a nome del Consiglio Direttivo e di Genova grazie condegne al Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio on. Stefano Castagnola ivi presente che aveva aperta la solenne seduta e aveva potentemente promossa la patria Istituzione; al Municipio, alla Provincia, alla Camera di Commercio che n’erano stati caldi fautori, e al Ministro della Marina che l’aveva genercsamante sovvenuta. Stretta in brevi parole la storia degli studi classici e tecnici in Italia, il Presidente osserva come manchi ancora una parte d’importanza suprema per noi Italiani: lo studio superiore delle arti della navigazione. Dimostra poi qual sorgente di ricchezze e di forze sia alle nazioni Tesser potenti sui mari e come la scienza sia destinata a moltiplicarle accrescendo la civiltà, la produzione e il commercio; dice quanto importi rialzare in Italia gli studi delle arti marittime e quanto meriti Genova nostra di esserne sede eletta. L’attuale prosperità dei nostri cantieri navali non dev’essere argomento a credere non necessario il nuovo Istituto all’incremento di esse arti: se l’arte pratica non è avvivata dal lume della scienza e non ne riceve l’impulso a sempre nuove applicazioni, come sperare il progresso dell’industria? come raggiungere il grado delle altre nazioni a noi tanto superiori nelle scienze industriali? E necessaria dunque una Scuola superiore che fornisca agl’istituti tecnici e nautici valenti maestri di costruzione e di navigazione. « Gli abili costruttori non bastano al progresso dell’arte; al di sopra di essi devono esservi ingegneri muniti di alti e profondi studi, capaci a dirigere e migliorare le costruzioni, a creare e governare vasti opifici, a conoscere e ad applicare le nuove scoperte ed invenzioni, a far essi stessi nuove conquiste nell’arte. A tutto questo appunto intende la Scuola che oggi fondiamo. L’insegnamento vi è diviso in due Sezioni. La prima formerà gl’ingegneri navali; la seconda i professori degli studi nautici nei tecnici Istituti ». Dopo altre considerazioni sull’importanza degl’inaugurati studi il Presidente chiude il suo Discorso, ricco, al solito, di sapienti concetti e ben appropriati raffronti storici, dichiarando, a nome del Consiglio direttivo, aperta la Scuola Superiore Navale. - Tra gli illustri professori da lui invitati a crescer lustro alla novella Scuola merita onorifica menzione l’autore dell’ Unità delle forze fìsiche, padre gesuita Angelo Secchi reggiano, di fama europea, che con lettera nobile e gentile declinò l’onore dell’offertagli cattedra di Astronomia nautica. A quella cattedra fu assunto in luogo suo il dotto sac. prof. Fortunato Ciocca. 417 IX. Difende in una lite giudiziale Giovanni Ruflini suo antico compagno di studi. Donde 1111 affettuoso carteggio (1870-72). Ed eccoci al carteggio Ruffini-Cabella. Qual genovese o italiano non conosce l’autore del Lorenzo Benoni e del IJotfor Antonio? il fratel- lo di Jacopo Ruffini morto nel 1833 per la fede italiana nelle carceri della nostra Torre? l’intimo amico e contubernale per oltre otto anni di Mazzini nell’esilio? il figlio di quella Eleonora dei marchesi Curio che da Mazzini ebbe culto di vera e profonda adorazione e che con Maria Mazzini e Adelaide Cairoli forma la triade eroica delle madri italiane? (1). Dovere di brevità mi vietano di accennare agli stenti, alle tante dolorose peripezie onde fu tribolata quell’angelica vita, agli esempi di antica virtù e di sapienza civile che ne fanno uno dei più santi e grandi italiani del nostro Risorgimento. Del Lorenzo Benoni scritto in inglese e pubblicato in Edimburgo nel 1853, il Rigutini nella prefazione alla sua elegante traduzione cosi scrive: « I caratteri nella loro multiforme varietà sono tutti fedelmente e felicemente ritratti. Dopo i Promessi Sposi io non conosco altro libro che vinca in questa dote il Lorenzo Benoni. Nessuna storia riuscì a tratteggiare con maggior verità l’indole, la figura e gli atti della prima gioventù di quel celebre agitatore (Mazzini) che si nasconde nel nome di Fantasio ». Sul finire del 1855 diè fuori, pure in inglese, il Dottor Antonio, capolavoro non meno famoso e patriottico del primo e che valse a innalzare nella estimazione dei popoli il carattere dell’italiano del mezzogiorno e ad attrarre sulla riviera ligure un popolo di ricchi stranieri rapiti alle deliziose descrizioni del suo magico pennello e vogliosi di ritemprar la salute e lo*spirito nella quiete e nel sorriso di questa divina natura. Come introduzione al seguente carteggio valga al lettore l’autorevole giudizio del Bersezio che lo conobbe e ne studiò il carattere. « Coi suoi romanzi giovò alla causa d’Italia; la fàvola de’ suoi racconti e le vicende di essa riguardano le vicende italiane e le misere condizioni della patria nostra, allora non solo schiava, ma dalla maggior parte degli stranieri, e non meno dagl’inglesi che da altri, di-sconosciuta e mal giudicata. Onde se una più esatta conoscenza delle cose nostre ed una maggior simpatia per le aspirazioni liberali ita- ci) Cfr. 0. Cagnacci, Lettere di 0. Mazzini e ilei, fratelli Ruffini, pag. 401 <> segg. 37 418 liane vennero formandosi e crescendo nell’opinione pubblica inglese, la quale poi influì sui diportamenti del Governo, ciò può attribuirsi in parte al buon effetto dei romanzi Lorenzo Benoni e Dottor Antonio....... Gli scritti del Ruffini hanno una dolcezza, una grazia di sentimento, un’aurea sincerità di affetto, e insieme una vera, non ostentata sincerità di propositi, che fanno amare insieme dalle anime oneste e il libro che si legge e l’uomo che l’ha scritto: impressione questa che non si cancella, che non si muta, ma si rafforza e si fa più spiccata, chi abbia la ventura di conoscere l’autore medesimo, mite, modesto, dall’aspetto sereno, dagli occhi calmi e profondi, dal sorriso mesto e gentile, dalla parola sobria e dotta, dalla fronte aperta e piena di pensieri come quella di Platone. Si vede in lui un uomo che ha conosciuto molto del mondo, che ha sofferto assai, che ha perdonato tutto, che ha amato sempre » (1). Seguono le lettere del Ruffini, dalle quali e dalle poche responsive del Cabella il lettore apprenderà il perchè ed in qual modo i due compagni di studi iniziarono non prima del 1870 un affettuoso carteggio ché per effetto di alta stima reciproca e grande conformità di sentire doveva divenire in breve affettuosissimo. « Parigi 16 febb. 1870 6. Rue de Yintimille. » Carissimo Cabella, » Il mio agente a Taggia, Berenger, a vedere il suo povero principale così indegnamente trattato, ha perduto un po’ la testa, ed è venuto a romperla a Voi (2). Felice ardimento se mi vale, come (1) V. Bersezio, Il Regno di V. Emanuele II, voi. I, pag. 347-48. Il Mazzini nelle sue lettere si duole dei fratelli Ruffini (Agostino e Giovanni) che dopo tanti anni di fraterno convitto l’avessero abbandonato: ma a torto. Con gli anni e 1 esperienza guariti dalla febbre illusoria di subitanei moti rivoluzionarii e repubblicani, essi non potevano più in tutto consentire col loro maestro. D’altronde ♦ anche lui era uomo e i suoi bravi difetti li ebbe anche lui: difetti di temperamento, s intende, tra i quali, come assevera Agostino (Ruffini), non trovò mai posto la vulga-rità; ma egli era eccessivo, mutabile, impulsivo e soprattutto tirannico nell'imporre agli altri la sua volontà ». Cfr. D. Carraroli, Taggia e i Ruffini in Natura ed. arte, a. I, fase. 4»; cfr. pure Cagnacci, op. cit. __ (2) Si parla di quel Giuseppe Berenger che aveva protetto e salvato il Ruffini quando questi, condannato e fuggiasco dagli Stati Sardi, riparava in Francia. Quando poi nel 1848 il Ruffini potè rientrare in patria, si ricordò del suo salvatore, se lo condusse a Taggia, lo presentò alla madre Eleonora e gli affidò l'amministra" zione della sua modesta fortuna, della quale poi lasciò erede la famiglia di lui. 419 spero, il potente patrocinio d’un facile princeps del foro. Galantuomo più bistrattato raramente avrete avuto occasione di difendere. Ecco in poche parole il caso. » Nel 1856 trovai fra le carte di mia Madre, buon’anima, una cedola del debito pubblico della rendita di L. 60, vincolata d’.ipoteca per malleveria d’un Notaro Yernengo di Moneglia. Domandai spiegazioni intorno a quella ad un vecchio di lei Procuratore di Chiavari, il Sig. Copello, il quale, fra altre cose, mi rispose che credeva mia Madre, b. a., essere stata in tutto o in parte disinteressata dell’am-montare e non. esserne che depositaria. Infatti, verso la fine del 1864 il S.r Pier Antonio Lardito a nome di suo fratello Benedetto si presentò a rivendicarla come sua. Ripugnandomi l’animo dal ritenere cosa non mia, rimisi la pratica all’arbitrio di due ottimi amici miei, e buoni legali, G. B. Noceti e Filippo Bettini, entrambi iti ad patres. Dopo esame delle carte e udito il Lardito, opinarono che il Lardito non avesse altrimenti fatto prova legale del suo diritto alla Cedola, ma che in via di equità la si potesse a lui consegnare, insieme a dieci annate d’interessi. Intervenne un atto notarile fra il Lardito e me rappresentato dal Bettini, del quale non occorre vi discorra, avendolo Voi tra le mani. Il S.r Lardito, fra le altre cose, promette);a mallevarmi da qualunque pretesa che la famiglia ed Eredi Yernengo od altri potessero per avventura muovere a riguardo di detta Cedola e suoi proventi. » Nel 1868 una Signora Angela Vernengo di Moneglia saltò su a chiedermi conto della Cedola. Le risposi raccontandole l’occorso fra il Lardito e me. (Avete copia delle due lettere). Controrispose che con suo rincrescimento dovrebbe farmi citare (Lettera qui annessa • in data 25 sett. 1868, che fu l’ultima ch'io mai ricevessi da Lei). » Io contava, appena chiamato a comparire, chiamare il Lardito mallevadore in causa. Siccome nessuno mi citò nè me qui %a Parigi nè il mio Agente e Procuratore a Taggia, rimisi l’animo in pace, concludendo che la signora avesse mutato avviso. Quand’ecco il mio Agente riceve dalla suddetta signora una lettera portante che ha seguitato il giudizio, che non essendo comparso, io sono stato condannato, che vorrebbe risparmiarmi spese inutili, e per l’ultima volta pri' * ma di render la sentenza esecutoria m’esorta a ceder di buona grazia. Questa lettera che ho mandato a Taggia, avrò cura di farvi tenere. Condannato senza esser citato, io mi tocco per vedere se ci sono. Qui v’è un mistero che sono incapace di sciogliere, ma che certo copre tutt’altro che una buona azione. Notate che nella sentenza in data del 5 Giugno 1869 è detto non conoscere il mio domicilio mentre 420 la Sig.a Vernengo lo conosceva perfettamente dal carteggio che avevamo avuto assieme, e in ogni caso conosceva quello del mio agente, per mezzo del quale mi faceva pur pervenire quest’ul( ima lettera, della quale sopra, in data del 1870. Eccovi succintamente lo stato delle cose. E non aggiungo verbo. Fatto sta, ripeto, che nè io nè Berenger siamo stati citati o assegnati a comparire. Se si potesse ancora chiamare il Lardito in causa..... ma voi sapete meglio di me ciò che si possa e debba fare. Non è per darvi consigli ma per domandarvi assistenza che vi scrivo. Gradite frattanto i sensi d’anticipata riconoscenza e di vecchia amicizia, coi quali ho il bene di dirmi Vostro devot.m° Gr. Ruffini ». Il nostro Avvocato gli risponde subito dilucidandogli Venigma e spiegandogli chiaramente il tutto cosi nella parte giuridica come nella procedurale; onde il Ruffini, tutto consolato, trova ancora alcune delle sue pittoresche immagini ad avvalorare 1 espressione della sua gratitudine. « Parigi 23 febb. 1870 6 Rue de Vinti mille. » Carissimo amico, » Ricevo all’istante la pregiatissima vostra del 20 e non tardo un momento a riscontrarla. Ritengo come una prova di vera amicizia, e ve ne ringrazio di tutto cuore, l’amorevole premura che vi ha fatto trovare un ritaglio di tempo, a Voi che siete.tanto affollato d’occupazioni, per dissipare la tenebra, che circondava a’ miei occhi questa malaugurata sentenza Vernengo. Vi è mai accaduto di trovarvi sopra un’altura Svizzera, diciamo il Righi o il Pilato, e non aver al disopra e al disotto che una fitta nuvolaglia? Quand’ecco sorge il sole, e co’ suoi raggi infuocati saetta quei vapore, e a poco a poco lo squarcia, lo scaccia, e v’apre dinanzi un’immensa prospettiva incantevole La vostra lettera è stato il sole che ha dissipato le nebbie, e lasciatomi veder chiaro nel caso in discorso. Vedo pur troppo che sono stato lo zimbello d’una buona fede esagerata, e che avi'ei potuto esser consigliato meglio. Ma che volete? Io non sono avvocato ch« di titolo, e quella benedetta Cedola, che io sospettavo non esser più mia, mi bruciava veramente le mani; e non è impossibile che questa mia dispo^ 421 sizione d’animo abbia fino a un certo punto influenzato l’opinione de’ miei consiglieri, e fattili più corrivi ad accordare ciò che sarebbe stato più prudente il negare. De mortuis nil nisi bene. Anzi devo dire a discarico del Bettini, ch’egli era piuttosto renitente, e non fe’ che lasciarsi trascinare dalle istanze dell’altro mio consigliere, il Noceti. Questo ricaverete dalle due lettere del Bettini, che v’acchiudo e dalle quali potrete forse trarre qualche lume utile alla vertenza in corso. Comunque, è chiaro che di grandi errori furono commessi, errori che voi adesso siete chiamato a riparare, se la cosa è possibile. Vi so molto grado pure d’avermi spiegato il come e il perchè io non ebbi ricevuto citazioni, e così riconciliatomi con un contrattempo che io reputavo opera di mala fede. E sempre una consolazione il fare la scoperta che gli uomini siano meno cattivi che non si fanno. Vi ringrazio di tutti i provvedimenti che avete già presi nella vostra saviezza, e scrivo con questo corriere al Sig.r Causidico Maschio per raccomandargli questa faccenda. Vitale Rosazza, un antico amico mio, e che s’interessa molto in quest’affare, verrà a quando a quando, se gli permettete, a prender lingua da Voi, e servirà così di nesso fra l’Avvocato e il Cliente, senza che abbiate a incomodarvi a scrivere (1). » Son forse quarant’anni, come dite, che viviamo, a così dire, stranieri l’uno all’altro, con un’interruzione però, nel 1856, se vi ricorda, epoca alla quale io ebbi occasione di ricorrere ai vostri buoni uffici per certa assegnazione di legittima a mia sorella, e trovai in Voi la compiacenza in persona (2). Riconoscente delle ingiurie, per parodiare una frase di Foscolo, sono riconoscentissimo dei benefici, e non ho dimenticato quello che mi conferiste in quella occasione. Credetemi frattanto Vostro obbligatissimo G. Rtffixi » PS. — Al momento in cui scrivo, non ho ancor ricevuto il vostro discorso per la riapertura dell’Università. Me ne riprometto molto piacere ed istruzione, e non mancherò d’intrattenervene. Lessi, tempo fa, nell’unico giornale italiano ch’io riceva, il Sanremo, il (1) Vitale Rosazza ingegnere e possidente, fratello minore del sen. Federico Ro-sazza, fece parte del nostro Consiglio Comunale; morì di anni 63 il 22 marzo 1880. (2) Il che avvenne nella luttuosa circostanza della morte della madre del Ruffini avvenuta l’il nov. 1856. 422 triste annunzio della morte di vostro zio, credo, l’Avv. e Professor Parodi, del quale mi rammento essere stato l’allievo. Genova perde in lui un’arca di scienza, e quel che più monta, un perfetto galantuomo. Sia pace alla sua anima! G. R. ». « Parigi 4 Marzo 1870. 6 Rue de Vintimille. » Car.mo Amico, » Benedico una dimenticanza, d’altronde riparata a quest’ora, poiché le vo debitore d’una amabilissimi vostra del 28 p. p., lettera tutta piena di gentili ed affettuosi sensi pel vostro vecchio Camerata, e quel che è meglio, d’interessanti particolari toccanti Voi stesso, e la vostra vita pubblica e privata. Come Avvocato, come Professore, come Rappresentante d’una Città ragguardevolissima, Voi avete fornito una carriera, che altri potrebbe senza esagerazione qualificar di splendida, e ch’io, per non urtare la vostra modestia, chiamerò eminentemente onorevole ed utile ai vostri simili e al vostro paese. E se onori- furono mai meritati, certo son quelli onde il governo vi ha insignito, e che la opinione pubblica non può che ratificare. Ma ciò che più di tutto mi va al cuore, si è di sapervi felice nel possesso di una buona compagna, e di figli pur buoni. La bontà e la dolcezza del sangue sono di tradizione nella vostra famiglia, e i vostri figli son destinati a continuarla. Bastava guardar in faccia vostro Padre e vostra Madre — mi pare di vederli — per leggervi scritto: Fior di galantuomini, chiamati a farne razza. Più vo in là cogli anni e più mi convinco che le gioie della famiglia sono le sole vere e pure e degne dell’uomo. Anch’io mi sentivo nato per quelle, ma il destino me le contese. La precarietà della mia posizione fuor di Patria, e anche res angusta domi mi fecero una legge di rinunziarvi. Beato Voi cui condizioni più tranquille ed agiate concessero di gustarne la dolcezza! Beato Voi sopratutto d’aver incontrata una donna degna di Voi, degna d’esser la madre dei vostri figli! » Accetto con beneficio d’inventario le cose lusinghiere che mi dite in ordine alle mie fatiche letterarie. Ma Voi andate oltre il segno quando sembrate credere che i miei libri resteranno. Figli di uno stato di cose fortunatamente transitorio, essi non sopravviveranno alle circostanze particolari che li dettarono. E sarà giustizia. Al bello e al buono per essere di tutti i tempi fa mestieri non localizzarsi, 428 a così dire, in passioni di un tempo. Al postutto, io non ho una ragione al mondo di lagnarmi, e molte per essere grato e contento. Il mio nome è favorevolmente conosciuto in Inghilterra, in Allema-gna, in Francia — vorrei poter aggiungere in Italia, ma in buona fede non lo posso. Nemo propheta in patria. Non è amor proprio ferito d’autore che mi faccia dir questo. Leggevo nel Times giorni sono, non senza un po’ di rossore: — I romanzi dell’autore di Lorenzo Benoni occupano negli scaffali d’Inghilterra un posto distinto, ma tutti gli sforzi a popolarizzare il D.r Antonio nel paese dell’autore, fallirono. I lettori di romanzi in Italia leggono Eugène Sue, o Paul de Kock. o non leggono nulla. — .Del resto io non pretendo che ad un merito, che non è che l’adempimento d’un dovere, ed è d’aver sempre, in detti, seritti ed atti, tenuta alta e ferma la bandiera della mia patria. Ma basti di me, che è anche troppo. » Siete veramente buono di tenermi a giorno, come fate, delle fasi successive del mio deplorevole affare. Poi quando avrete preso cognizione delle carte lasciatevi dal P. A. Lardito, e potuto tirare un oroscopo del probabile successo o fiasco che ci aspetta, allora potrete darmi un consiglio definitivo. E quand’anche aveste a dirmi, Giovanni mio, il gioco non vai la candela, pagate e non ci pensate più, credete pure che la mia filosofia non verrebbe meno a quest’annunzio. Non son nato per litigare, e la natura delle mie occupazioni esige una tranquillità di spirito (orecchio ama pacato la Musa, ha detto Parini) che i piati escludono. Che combinazione estetica posso io concepire, o soltanto che graziosa imagine evocare dopo essermi messo in corpo, ad esempio, l’emetico di una lettera Vernen- — Mazzini avrebbe da essere a Londra, ma me ne accerterò, e comunque, potete esser sicuro che L’avvenire della scienza gli sarà ricapitato. Or mi accingo a leggerlo e ve ne dirò più tardi. Addio, il mio caro Cabella, e tante grazie come sempre dal Vostro aff.m° . G. Ruffini ». « Parigi 8 Giugno 1870. 6. rue de Vintimille. » Car.mo Amico, » Non voglio lasciar Parigi per la Svizzera, come costumo fare a questa stagione, senza mandarvi un saluto cordiale, e pagarvi un antico debito di riconoscenza pel piacere che mi avete procurato colla m lettura del Discorso Inaugurale onde mi foste cortese. Io mi proponeva dir vene due parole alla prima occasione, credo anzi avervelo segnato nell’ultima mia del 4 Marzo, e per occasione intendevo una vostra lettera, che mi porgesse opportunità di scrivere. Ma questa uon venne, e più tardava, e più io mi peritava a prendere una iniziativa la quale per avventura sarebbe potuta parere un richiamo interessato. Comunque, sunt denique fines, ogni cosa ha i suoi' limiti, anche la delicatezza. 1 » Voleva dunque dirvi che ho letto e riletto con amore, e non senza profitto, me ne lusingo almeno, il vostro bel lavoro. E una magnifica professione di fede, la professione di fede del secolo deci-monono, e tanto è il bene che ne sento che quasi mi perito a dirlo. Altezza di concetto, evidenza d’argomentazione, erudizione svariatissima, dicitura sobria ed elegante, la forma è degna del fondo, e questo di quella. Ma ciò che più di tutto mi ha innamorato, si è il profumo di spiritualismo, che ne esala da ogni pagina. Perchè avete a sapere ch’io sono uno spiritualista arrabbiato e quando mi imbatto in un uomo di garbo, che prende in mano, e mette in sodo le ragioni dello spiritualismo, fo di cappello e non capisco in me dalla consolazione. Or pensate la mia al sentirvi concludere a questa bella sentenza « che solo un’anima immortale può amar la bellezza, l’armonia, la virtù, la giustizia, e che chi sopprime l’ideale, sopprime l’uomo ». Parole sante, degne d’essere inuise a caratteri d’oro su per le cantonate, e a chi vi ha letto, irrefutabili. Nè men provata a fi 1 di logica è la proposizione incidente, che vendica il presente dei disdegni dei laudatores tempori* acti, e fa a quello una sì bella e larga e meritata parte. Il cresciuto ben essere, relativo s’intende, in tutte le classi, fatto generalmente ammesso, implica per sè stesso la superiorità dei tempi in cui viviamo sopra quelli che furono; perchè chi dice bene pare dica moralità, due termini che si corrispondono. Infatti, più adeguatamente può l’uomo soddisfare alle sue necessità, e meno accessibile diventa alla tentazione del mal fare. Per dirlo brutalmente,-uno che ha fame è più sul pendio di rubare di uno che ha. mangiato. Ma non la finirei se volessi toccare a parte a parte di tutte le bellezze che fanno del vostro discorso un capolavoro. Il campo è troppo vasto e ricco perch'io possa far altro che spigolarvi. Vo’ solo notare passando quella splendida pagina che v’ha fornita la descrizione della operosità umana oggigiorno. La grandezza dello spettaco- lo v’ispira immagini grandiose e poetiche nella loro realtà; questa, ad esempio, che gli Oceani sentiranno i loro abissi agitati dalla vibrazione del pensiero. Ter. ny son o Longfellow non avrebbero potuto 425 dir meglio. E poiché parlo di poesia — scusate, ma è un po’ il mio debole, benché scriva in prosa — quanta non se ne accoglie nella vostra conclusione, poesia d’affetto e d’espressione! Che serena malinconia in quell’indirizzo dei vecchi, che son la memoria, ai giovani che sono la speranza! E quell’invocazione ove ogni sillaba è un gioiello, quella invocazione alle iridi vaporose, alle ombre scendenti dai monti, ai fiori, agli augelli, al Cielo, alla terra, che profondo sentimento non tradisce delle armonie della creazione e del Creatore! se questa non è poesia, e della migliore, dite pure che non me ne intendo. E la voce che trova accenti siffatti sarebbe vicina ad estinguersi? Tolga il Cielo l’augurio! Questa voce che c’insegna la via noi non possiamo farne a meno per un pezzo. » Le nuove che ci vengono d’Italia m’angustiano non poco. Questi moti incomposti, questa feroce tendenza alla disgregazione, antichissimo nostro vezzo, ci manderanno a soqquadro. La repubblica ci divide, la monarchia, bene o male, ci tien uniti. Ecco perchè sto per la seconda. » Quando mai aveste occasione di scrivermi, Usate il solito indirizzo 6. rue de Vintimille. Le lettere in mia assenza mi son fatte ricapitare. V’auguro un po’ di quiete, ed aure fresche in qualche ombroso cantuccio del Bisagno o della Polcevera. Tutto vostro G-. Ruffixi » Segue la prima delle tre responsive del Cabella (1). « Genova, 1 agosto 1870. «Carissimo amico, » Perdonatemi innanzi tutto il così tardo rispondere a due vostre gentili lettere. Ve lo avrà scritto Rosazza. Non mi ebbi il tempo di farlo prima. Lo pregai più volte a scrivervelo. La mia vita, direbbe Leopardi, è un grande ozio, come il continuo martellare di un’officina; perchè nessun riposo è dato al mio spirito per meditazio- (1) Scampate dal naufragio di molte altre per opera dell’illustre magistrato Augusto Setti che ne fece dono al nostro Municipio, il quale, a sua volta, le volle affi date alla custodia del Museo del Risorgimento Nazionale. ni degne di lui (1). L’avarizia dei clienti e le eterne dispute del tuo e del mio, e la mala fede di chi non vuol mantenere le sue promesse, ecco le belle occupazioni, alle quali son costretto sacrificare tutte le mie aspirazioni, i miei più cari sentimenti, e quello che mi è più caro di tutti, l'amicizia. E voi ne avete provato nel mio silenzio l’effetto. » Vi ringrazio delle parole amorevoli colle quali vi piacque lodare il mio povero discorso per l’apertura della nostra Università. Ma son contento che voi siate spiritualista. I grandi ingegni lo son tutti. Come rassegnarsi ad essere soltanto una massa di cellule spuntate l’una sull’altra? Tolto lo spirito, perchè vivere? E chi non si affretterebbe a disgregar queste cellule sciagurate? » E i vostri libri io li amo appunto perchè sono ispirati da una fede che innamora. Non vi paia strano che siano meglio apprezzati in Inghilterra, in Germania e in Francia che in Italia. Qual è l’ingegno italiano che non abbia la medesima sorte? Noi onoriamo solo i morti! Ai vivi gridiamo la croce; o per sommo favore regaliamo l’indifferenza. Ma il vostro nome resterà. Non è vei’O che i vostri libri debbano morire insieme ai tempi che l'ispirarono. Oh qual è il libro che non sia l’ispirazione dei tempi in cui nacque? Anche il genio è stretto dai vincoli del tempo. Mosè e Confucio oggi sarebbero Newton e Galileo. Le loro opere perirono per questo? Oh coraggio, mio degno e buon amico! Lasciate invece ch’io invidii il nome che vi resterà fra coloro « che questo tempo chiameranno antico », mentre di me non si avrà più memoria nemmeno fra gli scaffali di un avvocato! » La vostra causa contro la Vernengo va a passi di lumaca. La vostra avversaria penò tre mesi a dare una risposta alla vostra opposizione. Disse di presentare una vostra lettera che poi non presentò. Io intanto mi son risoluto di chiamare gli eredi del Lardito, per tutti gli eventi. E a questo effetto ho scritto e spedito a Chiavari la minuta dell’atto di citazione che a quest’ora sarà già stato intimato. Poi ho richiesto al vostro procuratore che si faccia dare dalla parte (1) « È tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar ». (Leopardi, al Conte Carlo Pepoli), 42? contraria tutti gli atti e documenti, perchè bisogna ch’io li conosca prima di rispondere alla sua comparsa. Notate al vostro vocabolario questo gioiello di lingua. Ma, ve lo ripeto, non vi date alcuna pena di questo giudizio. Ripeterò superbamente il detto di Donatello — Dai fulmini vi salvi Dio; da questa lite vi salvo io. » Ed ora che sono in fondo alla carta, vi stringo la mano, e mi dico con tutto l’affetto vostro amiciss.0 Cesare Gabella ». « Parigi 24 Nov. 1871 36 Bis, Rue de Boulogne. » Car.mo Amico, » Vitale Rosazza mi copia un brano d’una vostra lettera, nella quale è detto che avete ricevuto l’atto di mia citazione: e die converrà ch’io mi rechi a rispondere a Chiavari, o che vi faccia sapere in qual luogo mi torna rispondere per domandare la delegazione del nostro Console. Non perdo un minuto per comunicarvi la mia intenzione di rispondere da Parigi, e vi sarò molto grato delle istruzioni che vorrete fornirmi in materia, anzi, e sarà meglio, d’un modello preciso della dichiarazione che debbo fare. E Console generale d’Italia a Parigi un Cerruti, fratello del vostro collega in Senato, e mio conoscente, veglio dire il Console. Colla stessa occasione Vitale Rosazza mi dà un sunto delle varie fasi, che il mio piato colla Vernengo ha subite. Non saprei" ringraziarvi a parole dello zelo e della solerzia, colle quali avete propugnato e propugnate le mie ragioni, le quali sono anche quelle della giustizia e meritano di trionfare. Al postutto, dell’esito finale non dubito, appoggiato a quel detto di Donatello, che facevate vostro nell’ultima lettera della quale mi favoriste in Isviz-zera — Dai fulmini vi salvi Dio, da questa lite vi salvo io. » Fedele al detto d’Orazio « Rumores fuge, » mé l’ho passata tutto questo tempo nella tranquilla Svizzera, tranquilla ossia fino e un certo punto, dacché l’entrata dell’esercito dell’Est in quel terreno neutrale vi ha naturalmente portato seco un certo grado di commozione (1). La Svizzera s’è fatta in quest’occasione molto onore, è il (1) Il Ruffini prima dello scoppio della Guerra Franco-Prussiana si ritirava nella Svizzera, donde nell’ottobre 1871 ritornava a Parigi. In questo frattempo il mediatore tra lui e il nostro Cabella per la lite Vernengo era Vitale Rosazza che viveva a Genova. solo pae^e in fatto, che sia uscito dalle ultime incredibili complicazioni europee moralmente più forte e più autorevole. -Da un mese appena sono di ritorno a Parigi, dove trovo una confusione materiale e morale da non dire. La Capitale della Francia è appena riconoscibile, una rovina, scura, sporca e d'un umore infernale. L'autorità del Governo vi è nulla, o quasi, vi cerco invano una corrente di opinione pubblica, a meno che non sia una corrente d’indifferenza assoluta a quello che porterà seco la domane. Il malcontento è universale, i balzel- li aumentano, la vita rincara ogni giorno, e gli affari e i traffichi ristagnano. Di repubblica non v’è che il nome. F malgrado tutto ciò, malgrado uno stato di cose, che dovrebbe fare ai governanti una legge della modestia, chi ha le mani in pasta non rista dall’antico sistema di guerra a colpi di spillo verso il nostro paese. Fortuna che non possono, altrimenti ne vedremmo delle belle. » Addio, il mio caro amico, statemi sano, e lieto se potete, e credete ai sentimenti di riconoscenza e d’amicizia coi quali ho il bene di raffermai'mi Amicissimo vostro (t. Ruffint » « Parigi 18 Maggio 187‘2 86 Bis Rue de Boulogne. » Carissimo Amico. » Fin da quando, scrivendomi in Isvizzera, applicavate alla mia lite contro la sig.ra Yernengo le note parole del Donatello, io mi sentiva così rassicurato che a così dire non ci pensava più. Lo che non toglie per altro che l'adempimento delle vostre profezie, voglio dire l’annunzio ufficiale delle vostre vittorie or ora trasmessomi da Vitalino, non mi riempia l’animo di soddisfazione e di gratitudine speciale. Perchè se vi fu mai caso, in cui l'influenza personale del-l’Avvocato sia bastata a rimettere in onore e a far trionfare alla fine una causa mezzo compromessa, si è questo nostro; e accoglietene di grazia le mie più sentite congratulazioni e i miei più vivi ringraziamenti. La parola è ben fredda a petto del sentimento che la detta, ma anche Shakspeare, che era quell’uomo che era, volendo esprimere il sommo della riconoscenza, non trovò altro ripiego di quello di ripetere non so quante volte l’istessa parola, thanks, grazie, grazie; e grazie, io vi ripeto con lui, grazie della lunga pazienza e del grande 429 amore die avete posto a questo mio poco piacevole negozio. Ora staremo a vedere se la nostra avversaria ne ha abbastanza così o se vuol seguitare in appello, nel quale ultimo caso io mi raccomanderò un’altra volta alla vostra buona amicizia e potente patrocinio, sicuro di non essere respinto. » Avrei caro intrattenermi un po’ a luugo con Voi, ma il medico non me lo consente, anzi positivamente me lo proibisce. Avete a sapere che da tre mesi e mezzo ormai sono in mano della Facoltà. Un’estrema prostrazione del sistema nervoso, accompagnata da quel crudelissimo dei sintomi, l’insonnia, non altro è il mio male. Basti dire che passai 35 notti filate senza chiuder occhio. Dopo varie prove senza frutto si tentò l’idroterapia,’ e non senza qualche sollievo. Oli è oggi il 44° bagno freddo con frizione, che prendo, e il Dio Morfeo comincia a degnarsi di visitarmi per qualche oretta. Esco in vettura un’oretta al giorno, e tutt’insieme la va un po’ meglio, ma sono disfatto e debole. Figuratevi un maccherone stracotto (1). Il medico confida, e così fo io non potendo altro, nell’azione della bella stagione, che par dovrebbe arrivare anch’essa. Un nonnulla mi agita, mi eccita, ed è per questo che la penna mi è interdetta. Senza le cure materne di un’amica da trentanni e di suo figlio, credo fermamente che sarei nel numero dei più. Ma l’affetto opera miracoli (2). (1) I dolori e i disagi dell’esilio avevano anzi tempo inealvito e affranto il povero Ruffini. Già nel luglio del 1841 quando donna Eleonora visitò a Mompellier i suoi figli tornati da Londra, trovò Giovanni, benché d’anni 34, così trasformato che il 19 ottobre ne scriveva al grande patriota Elia Benza di Porto Maurizio: « Ebbi un momento di affanno nel considerare la calvezza precoce di Giovanni, mentre me lo figuravo ricca sempre della sua foltissima chioma. Una tal vista dà la misura del lavoro incessante di quella testa, logorata dai pensieri, dalle delusioni, dalla continua violenza ». E il 28 die. 1842 Giovanni scrivendo alla madre intorno ai famosi cantanti del T). Pasquale cioè della bella Gi'isi, del brillante Mario, del faceto Lablaclie e, con essi, dell 'aperto Donizetti è del brioso amico Michele Accursi, aggiungeva: < Costoro mi guardano come si guarderebbe un beccamorto, una iettatura personificata ». Dove è da sapere che in quei tempi a Parigi il povero Ruffini per non essere d'aggravio alla mamma provvedeva alla propria sussistenza, come allora il Gioberti e come anni appresso il Manin, e come prima e poi tanti altri eminenti Italiani profughi all’estero, duramente vivendo col frutto di sudate fatiche didattiche: dava lezioni d’italiano, traduceva dall'inglese e dal francese, faceva da segretario contabile, componeva perfino pel Donizetti un brioso melodramma- buffo, il Don Pasquale, che gli fruttò un biglietto da L. 50Ù rimessogli, incluso in lettera, dal musicista bergamasco. Cfr. A. Lazzari Griov. Ruffini, Gaet. Donizetti e il « Don Pasquale » in Rassegna naz. 1° e 15 ott. 1915; vedi pure Mario Pertusio, La vita e gli sentii di Gioc. Ruffini, Genova, 190S. (2) Accenna a Cornelia Turner, a quel tempo ancora vivente, e ad Osvaldo figlio 4i lei. • 430 » Addio, il mio caro amico, e vi conservi il Signore, Voi e i vostri! Reiterandovi i miei più sinceri ringraziamenti, son lieto potermi dire Vostro aff.mo amico G. Ruffini ». X. Da Parigi, dopo la perdita della sua materna protettrice, ridottosi a Taggia, il Ruffini ringrazia l’amico patrono per la riportata vittoria (auno 1875). Alla più chiara intelligenza delle lettere seguenti importa premettere una notizia biografica. A. Parigi fin dal 1842 Giovanni aveva stretto amicizia con la signora Cornelia di Blainville ved. Turner: « ricca gentildonna di origine francese ma educata e vissuta in Inghilterra dove le vicende politiche avevano spinto in esiglic il padre ». Dotata di alto sentire e scrittrice di rara coltura « amò assai l’Italia, ospitò i migliori suoi figli esuli a Londra e a Parigi, tra gli altri, Gioberti, che fu da lei assistito fino al giorno che precedette la sua morte». Della signorile ospitalità di questa nobil donna e delle generose cure sue e della sua famiglia godeva in quel tempo il profugo Giulio Robecchi di Gambolò, celebrato medico, esempio d’ogni virtù morale e civile, morto di 40 anni a Parigi nel 1846 e amico intimo del Gioberti, che dedicando alla sua memoria il Gesuita Moderno ne contesseva, con le lodi di casa Turner, un mirabile elogio (1). Col Robecchi alla Turner veniva a mancare un onorando amico e il maestro e l’amico de’ suoi figli, onde, quando nel 1849 il Ruffini, deposta la carica di Ministro di Sardegna presso il Governo di Francia e abbandonata per sempre la politica, si ricondusse e Parigi e vi riprese le intermesse relazioni, la Turner, che da anni ne ammirava l'eccellenza della mente e del cuore, lo invitò a entrare in casa sua in luogo del compianto comune amico. Il Ruffini accettò e compì mirabilmente l’ufficio (1) Giulio Robecchi era fratello di Giuseppe Robecchi prevosto a Vigevano, dotto sacerdote e patriota, che per aver espresso dal pulpito sentimenti italiani nell’elogio funebre di C. Alberto fu costretto a dimettersi. Con lettera 13 marzo 1850 il Sineo ne raccomandava vivamente al Cabella la candidatura e l’elezione nel VI Collegio di Genova dicendogli che il Robecchi, uomo di grande eloquenza e di esemplari costumi, potrà molto giovare nella discussione delle leggi Siccardi. Il Robecchi fu eletto invece a Garlasco. Fu dapprima dell’opposizione poi della maggioranza ministeriale; fatto senatore nel 1805, mori nel 1874. E memorando il discorso sulla soppressione delle comunità religiose da lui pronunciato nella tornata del 22 febbr. 1855. 431 di educatore e consolatore. « E poiché il dolore ha una potente attrazione tra le anime, quei due nobili cuori s’intesero e la signora Turner amò Ruffini come un figlio per tutta la vita e ne fu ricambiata d’affetto e di gratitudine » (1). Tra i maggiori benefizi di questa eletta donna va ricordato che in gran parte a lei dobbiamo le produzioni letterarie di Giovanni che, invecchiato anzi tempo dalla sventura e oppresso da malinconia e fastidio di tutto, aveva già rinunciato a qualunque speranza di poter mai far cosa degna. Ella lo animò, gl’in-segnò a ritrovar se stesso nell’esercizio dell’arte fino a quell’ora negletta, gli riaccese in petto la fede nel proprio ingegno, lo suscitò a nuova vita, e con affetto di madre volle curare la revisione, nei riguardi della lingua, de’ suoi romanzi. E Giovanni l’amò e venerò con affetto di figlio riconoscente, e non si partì mai più dal suo fianco « non ostante la diffidenza insolente dei parenti di lei, che in lui non vedevano altro che un volgare intruso a' lor danni. Ma la morte della vecchia signora smascherò i loro bassi giudizi perchè la sua eredità passò, intatta, ai parenti legittimi. Il Ruffini, d’animo troppo alto e delicato, non serbò di lei che la venerata memoria e, finché rimase a Parigi, si recava ogni giorno a meditare e a pregare sulla sua tomba (2) ». Ella moriva ottuagenaria nel 1874. « Taggia 11 Maggio 1875 Provincia di Porto Maurizio. » Carissimo Amico e Collega, » Ascrivo a mia gran ventura Tesser giunto a tempo per rispondere io stesso al vostro cortesissimo foglio diretto al mio agente (1) A. Nota, Gioc. Ruffini e il Risorgimento italiano; Sanremo, 1899. (2) D. Carraroli, Taggia e. i Ruffini in Natura ed arte, a. I, fase. ‘1°. TI mondo, com’è suo costume (e ricordo in proposito ciò che più d'uno susurrò, circa l’adorazione del Mazzini per donna Eleonora) interpretò mondanamente la natura del forte vincolo stringente ili una queste due anime intemerate. Il Carrai-òli riferisce la vociferata opinione che il Ruffini l’avesse segretamente sposata; ma l'ópi-nione è destituita d’ogni fondamento. Donna Turner era di dodici anni maggiore del Ruffini; ella viveva onoratissima con la sua adorata famiglia composta di una figlia e due figli, Alfredo ed Osvaldo, amicissimi del nostro scrittore; al quale la condizione di ospite educatore imponeva obblighi delicatissimi e sacri e non violabili che da un animo abietto e spregevole. Tolgono in fine qualunque dubbio le lettere della Turner al Ruffini conservate nel Museo del Risorgimento di Genova a libera consultazione del pubblico, dove il linguaggio usato con lui è solo e sempre quello di una madre sollecita delle sorti del caro figlio, nè una sola parola vi si rinviene che possa darci ragione di opinare altrimenti. ed amico Giuseppe Berenger, e per congratularmi seco voi e meco stesso dell’ottenuta vittoria. Il merito ne è tutto vostro e io non trovo espressioni bastanti a rendervene grazie. Feto informe e vicino a spirare, quando ve la confidai, la mia lite contro la sig.ra Yernengo, mercè le vostre solerti ed amorevoli cure, si ripalpò a poco a poco, e riprese fiato e forma e colore, ed eccola a quest'ora gagliarda e piena di salute, travolgere ogni ostacolo che la mala fede potesse opporle. Son cotesti trionfi ai quali siete avvezzo e il ceni, vidi vici è da gran tempo il vostro motto. Me fortunato che ne ho tutto il guadagno e grazie, grazie, e poi grazie anche una volta. Ora staremo a vedere che partito prenderà la nostra avversaria. Ove s’ostini, invoco fin d’ora, anzi fo assegnamento sulla vostra buona amicizia ed ulteriore assistenza. » Sono a Taggia da una settimana aU’incirca, un po’ ancora intronato dal viaggio, e stordito dalla novità della mia situazione. Il salto da Parigi a Taggia è un salto mortale. Spezzato dalla morte il vincolo tenacissimo, che mi legava alla Capitale della Francia; vecchio, scorato, acciaccato, mi son ridotto in questo cantuccio della Liguria, dove ho alcuni pochi interessi e molti affetti per passarvi i pochi giorni che mi restano nella oscurità e nel silenzio (1). Finora, a dir vero, non vi ho trovato nè l’una nè l'altro tanta è l’amorevolezza di queste popolazioni a mio riguardo. Debbo la mia popolarità non a merito personale, ma alla memoria di mia Madre universalmente venerata in queste parti. » Addio, il mio caro e buono e fedele amico e Avvocato, vi abbraccio in ispirito e sono il vostro aff.mo e riconoscente G. Ruffini ». » Taggia 14 Maggio 1875 _ Provincia di Porto Maurizio. » Car.mo e Pregiat.mo Amico, » Mi manca il tempo per far altro che prendere atto della vostra gentil promessa di venirmi a visitare nel mio Eremo. Vi troverete, se non altro (chè le risorse di Taggia sono limitatissime) un (I) Il vincolo tenacissimo che lo legava a Parigi era. come il lettore sa berie, la Cornelia Turner, mortavi poco prima. 488 piatto di buona cera. Veramente, sarebbe stato mio pretto dovere portarvi l’espressione della mia riconoscente amicizia in persona. Ma altro è il volere, altro è il potere. Sono afflitto da un male cronico di vescica che mi rende il viaggiare pressoché impossibile. Da Parigi a Nizza dovetti venire in Coupé-lit, con grave scapito della mia povera borsa. A Taggia vi garantisco la vita salva. I vostri oppositori, fortunatamente, abbaiano più che non mordano. » Non intendo disinteressarmi della Umanità. Ritengo anzi che, per grande che sia la sventura onde un individuo è colpito, non lo dispensa da’ suoi doveri verso i suoi simili. Per servire a questo dovere son venuto a intombarmi a Taggia. Ma quanto a spontaneità, e viste per l’avvenire, a cura della mia qualunque siasi notorietà, non mi chiedete nulla di tutto questo. « Non son qual fui, perì di me gran parte — quel che ne avanza è sol languore e pianto » posso dire con Foscolo. Ogni speranza, ogni interesse, ogni gioia della mia vita è sepolta in quei pochi palmi di terra del Cimitero Montmar-tre, che ho iuaffiato di tante lagrime da giustificar quell’immagine eccessiva contenuta nel verso « Fiume che spesso del mio pianto cresci » (1). » Grazie poi tante grazie delle cose più che lusinghiere che mi dite. E la lente dell’amicizia che v'ingrandisce gli oggetti. » Vi stringo affettuosamente la mano e sono sempre L’aff.mo vostro G. Ruffini ». XI. Morto l’amico intimo avv. Giuseppe Carcassi, il Cabella ne loda sul feretro le eminenti virtù (apr. 1875). La sera del 22 apr. 1875 Genova perdeva uno de’ suoi più nobili figli nell’avv. Giuseppe Carcassi e- il Cabella uno de’ suoi amici più amati e stimati. Uomo d’antica probità e nemico giurato d’ogni ingiustizia, fu grande repubblicano nell’ anima e amico di Mazzini, Garibaldi, Mameli e Nino Bixio, pur onorando il merito della virtù in chiunque la riconoscesse. Nato nel 1823, fu deputato di Lugo nel 1867 e di Ferrara nel 1874, fu Dottore aggregato alla nostra Università. 11 24 apr. ebbe luogo il solenne trasporto al Cimitero (1) È il 2° verso del sonetto 88° del Petrarca in morte di M. L. 48 434 delle sue spoglie mortali con l’intervento dei rappresentanti dei corpi politici e civili a cui apparteneva. A Staglieno pronunciarono parole affettuose di addio Stefano Castagnola, Giuseppe Morro, Giuseppe Berio ed altri. Il Cabella rappresentante il Senato, disse commosso brevi parole di cui riferisco, come più delle altre importanti, solo quelle che parlano delle virtù dell’illustre defunto e dell’amicizia che insieme li stringeva. « Signori, » Non è ancor chiusa la tomba dell’illustre e compianto giure-consulto Francesco Figari (1), che già se ne apre un’altra per raccogliere le ceneri del non meno illusti’e e non meno compianto collega nostro Giuseppe Carcassi, così inopinatamente rapito nel vigore degli anni- all’amore della famiglia, all’affetto degli amici, alla stima dei colleghi, al decoro della patria. Quanto grave perdita abbia fatto il nostro foro lo attesta il profondo dolore con cui fu inteso in ogni classe di cittadini l’annunzio della sua morte. Ed io più d’ogni altro ho ragione di esserne profondamente addolorato che, già maturo d’anni, ebbi da lui giovanissimo, quando entrava nella via faticosa del foro, il dono di un’amicizia viva e costante, così rara a trovarsi dove non sia eguaglianza d’età e consuetudine di vita: amicizia che mi fu tanto cara e della quale mi resterà sempre dolcissima la memoria. E così ho potuto conoscere da vicino non solo l’altezza del suo intelletto e le sue pubbliche virtù, ma ancora quelle intime doti e quelle virtù private ch’egli quasi nascondeva, chiudendole entro il segreto della sua vita, e che pur lo facevano così degno della stima e dell’affetto di tutti. » Splendido ingegno che riuniva l’acutezza della mente e la prontezza della percezione alla ricchezza della fantasia, alla forza spesso ardentissima della parola, e ad una severa venustà di forma. Amore della patria che in lui superò ogni altro affetto e fu quasi il faro della sua vita pubblica e privata; amore della verità in ogni cosa, in ogni tempo, per ogni rispetto, che lo faceva sdegnoso d’ogni simulazione e d’ogni bassezza, e nemico delle arti usate dalle vulgari ambizioni per conseguire più che non meritano; amore di libertà che lo fece così strenuo campione delle liberali istituzioni e così caldo (1) F. Figari di li ecco, prof, di Diritto civile pei Notari e Causidici all’Università. di Genova; m. nel 1874 di 66 anni. 435 fautore d’ogni progresso civile; e da queste pubbliche virtù scendendo alle private, la probità, la lealtà, la giustizia in tutti i suoi atti, i vivi e santi affetti di marito e di padre, la costanza nell’amicizia e la incolpabilità della vita: ecco gli alti pregi dell’illustre estinto che noi piangiamo, e piange con noi la città intera, che deplora la morte di tant’uomo come un pubblico lutto. » Non è meraviglia che doti sì eminenti attirassero su lui ancor giovane l’attenzione del Governo che lo creava, poco dopo al suo uscire dagli studi, magistrato negli uffici del Pubblico Ministero, ufficio ch'egli poi abbandonava per nobile cagione che altamente l’onora, il rifiuto cioè di fare un atto che gli pareva contrario ai suoi convincimenti. Entrava allora nella palestra forense, dove presto si procacciò fama di giureconsulto eloquente ed abilissimo, specialmente nelle discipline penali. E il suo nome non si ristrinse alla cerchia della città, ma presto risuonò onorato in Italia, e da ogni parte fu chiamato alla difesa delle cause più gravi e difficili, nelle quali diede sempre prove nobilissime del suo alto valore. La facoltà giuridica del nostro Ateneo lo volle ascritto nel numero de’ suoi dottori, acclamandolo degno di sedere nel santuario della scienza. E finalmente della sua vita operosa e delle sue virtù conseguì il premio più desiderabile, qual fu quello d’essere stato giudicato degno di sedere nei consigli della Nazione. Eletto due volte deputato dai collegi di Lugo (1867) e di Ferrara (1874), recò in Parlamento le sue antiche convinzioni, la sua fede politica, il suo amore sincero alla Patria, senza mira di privato interesse, senza pur pensare farsi dell’ufficio una scala a salire, ed ebbe la stima e l'affetto di tutti i colleghi, anche negli avversi partiti. » Ed ora! giunto a questo stadio della vita, in cui poteva consacrarsi più efficacemente al bene del paese, egli improvvisamente scompare. Il suo nobile cuore ha cessato di battere: la sua voce si è estinta. Il suo intelletto non si infiamma più al pensiero di patria e di libertà. E di lui non rimangono che le spoglie che noi accompagnammo al sepolcro. Oh, no, no. Io m’inganno. Egli continuerà a vivere negli amici, nei colleglli, nelle ricordanze di tutti. E questa memoria sarà una sacra e lunga eredità per i suoi figli, i quali, degnissimi di tal padre, continueranno a prò della patria l’esercizio delle paterne virtù » (1). (1) Vaticinio avverato nei ohi ari nomi di Ugo e di Claudio Carcassi. Cfr. il Movimento del 25 apr. 1875. Quello del 23 reca un articolo di fondo del Direttore A. G. Barrili che è tutto un alto e meritato elogio del compianto Carcassi. \ / 436 Qui giova avvertire una norma sempre osservata dal nostro oratore ne’ suoi funebri discorsi, di non parlare delle particolari credenze politiche e religiose del defunto per non urtare in sì tristo momento l’animo di quegl’intervenuti che fossero di-credenze diverse, e di raccogliere il pensiero e l’affetto dell’adunanza sulle sue indiscusse virtù intellettuali, morali e civili nelle quali ogni vai’ia opinione conveniva e per le quali la sua perdita era sentita da tutti come perdita e lutto comune. XII. Autorevole elaboratore in Seuato della legge sulle Società e Associazioni commerciali (primavera 1875). * Poiché con la liberazione di Roma l’Italia ebbe conquistata la sua quasi totale unità, sull’esempio di altre grandi nazioni europeè, scoppiò anche da noi in ogni parte della nostra penisola una vera epidemia di società di credito, di commercio, d’industria, di navigazione col predicato fine di promuovere e aumentare il lavoro e la ricchezza nazionale, ma che in effetto, vuoi per la impaziente avidità di furbi speculatori, vuoi per la credula ignoranza della popolazione allettata da mirifiche promesse, vuoi per difetto di una seria legge regolatrice, collaborarono troppo spesso al trionfo della- frode e dell’aggiotaggio, scossero il pubblico credito, provocarono infiniti disastri e rovine nelle domestiche fortune degl’ingannati cittadini e determinarono una crisi generale nella vita economica del paese. Era dunque necessario il freno di una nuova e più provvida legge. Se ne fece promotore il Ministero Minghetti che l’8 dicembre 1874 presentò al Senato un progetto di legge sulle Società e Associazioni commerciali della quale il Lampertico presentò la Relazione al Senato il 20 aprile 1875, e il 27 aprile se ne cominciò la discussione. La legge trovò in Cabella, versatissimo e consumato da lunghi anni nelle complicate quistioni di siffatte società, uno dei più autorevoli e sapienti elaboratori. Nella tornata del 1° maggio ripudia come sommamente ingiusto quanto si stabilisce nei tre ultimi capoversi dell’art. 14 che volevano personalmente e solidariamente responsabili di tutti gli obblighi sociali i rappresentanti delle società estere aventi nel Regno una sede secondaria o una rappresentanza, e corrobora il ripudio con brevi ma così evidenti ragioni che il Relatore e il Finali, Ministro di agricoltura, industria e commercio, l’accettano subito senz’aggiuu- 437 ger parola, e il presidente Serra Fr. Maria lo invita a trasmettere i suoi emendamenti al banco della Presidenza che li mette subito ai voti e sono approvati. Giunta la discussione alla Sezione II Dell’Associazione di mutua assicurazione, art. 169, il Cabella propone la soppressione della 2a parte di esso che vuole gli associati tenuti in solido per gli obblighi assunti da chi rappresenta l’associazione, e ne dimostra la necessità. Il relatore Lampertico si dice « disposto a studiare insieme col sen. Cabella questa disposizione perchè essa abbia meglio a rispondere a quelle associazioni di cui il Cabella meglio d’ogni altro conosce il congegno ed è tanto benemerito ». E l’art. 169 è sospeso. Venendo al Capo Della Società in nome collettivo, art. 34, il nostro Senatore fa profonde considerazioni per dimostrare che « la Società non può mai essere obbligata da altri fuori che da quello al quale ha affidata la firma sociale ». Seguono deboli obiezioni di Pescatore e del Ministro Finali; dopo di che il Senato rimette l’art. 34 all ufficio centrale per più ponderato esame. Contro l’art. 35, secondo il quale non l’ente collettivo della Società ma « i soci acquistavano diritti e contraevano doveri in solido per le operazioni fatte a nome ed a conto della Società sotto la firma da essa adottata » e che avrebbe generato conseguenze gravissime, oppose ineluttabili ragioni, di guisa che anche questo fu rimandato .per radicali modificazioni ali’Ufficio centrale. Rilevata inoltre l’intima connessione dell’art. 36 col 34, chiede ed ottiene anche sul-l’art. 36 la sospensiva perchè venga modificato e concordato con l’altro. Nella tornata del 5 maggio il Cabella propone la radicale riforma degli art. ‘21 e 22 relativi alle cause di nullità, dimostrando che « essa riforma è diretta a conservare il diritto attuale cioè le disposizioni del Codice di Commercio oggi in vigore; che questo diritto è buono e non vi è ragione di mutarlo ». Discorso non breve e ricco di tale dottrina e potenza argomentativa che il Relatore rispondendo cominciava col dire: « Bisogna per verità avere una profonda persuasione della proposta che abbiamo fatta al Senato per aver l’animo di parlare dopo l’eloquente discorso di sì autorevole oratore ». Anche il sen. Miraglia fa omaggio alla sua dottrina ed eloquenza; nondimeno, parendo a lui come al Relatore e al Ministro che gli articoli citati del progetto governativo presentino più chiare distinzioni e più sicura guarentigia, ne domandano e ottengono l’approvazione. Nella tornata del 7 maggio, venendosi al titolo Della costituzione della Società, il Cabella prova che l’art. 69, 2° alinea, male deter- 438 minava i limiti entro i quali i promotori della Società potevano riservarsi una partecipazione agli utili. Il ministro Finali da lode alla dottrina e all’esperienza dell’oratore, e propone ed ottiene che l’art. 69 sia rinviato a nuovo esame. Nella tornata 8 maggio, tornando in discussione l’art. 169 già sospeso per le osservazioni del Cabella, il Relatore Lampertico dice « aver trovate giustissime queste osservazioni in quanto sta in fatto che in queste compagnie di mutua assicurazione l’ente collettivo non v’è; e perciò l’ufficio centrale è pienamente d’accordo col proponente sen. Cabella che si debba sopprimere la seconda parte dell’art. 169 già proposto dal Governo non solo ma- anche dall’ufficio centrale. E nella tornata del 10 maggio l’art. 169 concordato tra l’Ufficio centrale, il Ministro e il Cabella, ebbe finalmente l’approvazione senatoria. In questo stesso giorno riuscendo approvati tutti i 181 articoli, il Ministro di Grazia e Giustizia Vigliani propone ed ottiene che il progetto, così emendato, sia riconsegnato all’Qfficio centrale perchè lo riordini e ricomponga e quindi lo ripresenti al Senato per l’approvazione. Il che avviene il 26 maggio 1875 (1). XIII. Si oppone in Senato al disegno di legge ministeriale sui Provvedimenti stra or dinarii di pubblica sicurezza, (estate 1875). Crescendo intanto in ogni parte d’Italia, singolarmente in Sicilia, il numero e la gravità dei reati contro la vita e la proprietà dei cittadini e il dispregio delle pubbliche autorità, e non parendo pari al bisogno la legge vigente, il Ministero Minghetti, Ministro dell’interno il Cantelli, proponeva alla Camera elettiva e in tornata 16 giugno 1875 otteneva l’approvazione di un progetto di legge sui Provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza. Presentata al Senato dal Relatore Bersani, diciotto senatori ne proposero la sospensione. Il nostro Senatore non credendo necessaria nè utile una legge eccezionale dove non mancava la legge ordinaria che, eseguita e fatta eseguire, rispondeva ad ogni più grave contingenza, nella tornata 29 giugno appoggiò la sospensiva con un discorso che stringo in brevi parole. (1) Per questa legge v. Atti parlamentari della Camera dei Senatori, aprile e maggio 1875. 489 Abbandonata da molti anni la vita politica, s’egli non prendesse la parola in così grave discussione e non assumesse la responsabilità del suo voto, gli parrebbe essere come un soldato che abbandona il posto alla vigilia della battaglia. Ultimo, com’egli è, fra tanti eminenti colleghi che siedono nell'aula senatoria, la sua voce non potrebbe avere grande autorità; parla perchè il suo giudizio sulla sospensione della legge proposta s’accorda con quello dei rappresentanti della Sicilia. Sì, perchè il progetto di legge, per quanto concepito in termini generali, riguarda principalmente quest’isola. Un’altra ragione lo muove a parlare. Per un concorso di circostanze dolorose che l’oratore non intende giudicare, questa nobile parte d’Italia si è creduta offesa nella sua dignità. Provato luminosamente che questa credenza non ha fondamento, l’oratore dice ritenere che a respingere con solenne protesta ogni pensiero di offesa dovesse pur levarsi in Senato la voce di persona che non appartenesse a quella regione; sicché una unanime e solenne testimonianza d’affetto e di stima venisse ad escludere perfino l’apparenza dell’oltraggio. E a ciò l’oratore fu spinto ancora dalle care memorie della prima giovinezza quando peregrinò la Sicilia dimorandovi un anno intiero, e vi osservò le molte miserie e le molte sventure frutto di politica oppressione, vi strinse amicizia con giovani nobilissimi che poi divennero ed oggi sono onore e vanto di Sicilia e d’Italia; ammirò il carattere di quel popolo generoso, assetato di giustizia e ricco di civili virtù, e non dubitò che verrebbe il giorno del suo risorgimento (1). Entrando nella discussione del progetto, propone la sospensione della votazione della legge. « Giureconsulto, dice l’oratore, io ho consumata la mia vita nel culto delle leggi. Nell’impero della legge io pongo la libertà. Tutto ciò che può sottrarre al diritto comune, non dico soltanto una parte del Regno, ma anche l’ultimo dei cittadini, mi ispira una repugnanza invincibile. Se io volessi qui entrare in una questione di diritto, potrei forse addurre gravi ragioni per dubitare che il potere legislativo potesse concedere al potere esecutivo la facoltà che egli vi richiede, e quella, fra le altre, di poter condannare senza giudizio regolare ad una pena gravissima, quale sarebbe il domicilio coatto per cinque anni, un cittadino qualunque e sia pure il più gravemente sospetto ». Astenendosi dall’entrare in questo esame, e supponendo che (1) Non veramente un anno, come per difetto di memoria dice l’oratore, ma almeno venti mesi soggiornò in Sicilia. 440- il Governo possa chiedere ed il Parlamento concedere questi poteri straordinarii, l’oratore dice rimanere però sempre una questione di fatto. Questi provvedimenti che si son chiesti, sono essi necessari? sono urgenti? sono opportuni? Queste le tre condizioni indispensabili ogni qual volta si abbiano a dare poteri straordinarii che vengano a derogare al diritto comune. L’oratore prova con mirabile acume ed evidenza a nessuna di queste tre condizioni soddisfare i domandati provvedimenti. Contro la sospensiva proposta dal Cabella e appoggiata dal vecchio amico e collega Sineo e da altri 17 senatori, risponde il presidente dei Ministri Minghetti. Messa ai voti, la sospensiva non è approvata, e la legge sui Provvedimenti straordinarii è approvata con voti. 66 favorevoli e 29 contrarii. XIV. I Senatori Enla e Cabella strenuamente combattendo salvano da imminente naufragio la legge conservatrice a Genova del suo Deposito franco (estate 1876). Cabella cita in quistione la sapienza pratica del Cavour. Il Governo di Destra, morto Cavour, aveva sempre mostrato aperta avversione ai Depositi franchi e proposto di surrogarli con Magazzini generali. Già nella legge doganale del 186*2 si parlava di questi istituendi Magazzini-, in altra del 1865 si stabiliva che col 1° gennaio 1868 il Porto-Franco di Genova sarebbe convertito in Magazzino generale; con altra del 1872 che questa conversione si sarebbe effettuata nel 1875. Se non che l’attuazione ne veniva sempre ritardata a motivo delle difficoltà insuperabili che il Governo sempre incontrava ogni qual volta si trattava di determinarne i mezzi pratici. Era ben naturale che Genova sulla quale, più che su qualunque altra città italiana, doveva ricadere il danno e la rovina di così inconsulto provvedimento, se ne commovesse e perturbasse. Onde l’on. march. Lazzaro Negrotto nella primavera del 1875 propose alla Camera dei Deputati una legge per l’istituzione di Depositi franchi nelle principali città marittime del Regno sulla quale il 2 giugno l’onorevole Branca riferiva alla Camera, ma senza risultato. Caduta la Destra il 18 marzo 1876 e salita al potere la Sinistra, l’on. G. B. Varè, veneziano (che poi sotto Benedetto Cairoli fu Ministro di Grazia e Giustizia) ne riferì nuovamente alla Camera, che l’approvò quasi senza contrasto il 5 Giugno 1876. Egli è qui da 441 licitare ohe questo progetto era .« desiderato non da Genova solo, ma da tutte le piazze marittime italiane, fra le quali Livorno che aveva inviato una petizione firmata da i.400 negozianti, e Venezia che 10 raccomandava caldamente con le deliberazioni de’ suoi rappresentanti e coi voti de’ suoi principali commercianti ed industriali: progetto dovuto all’iniziativa di 123 deputati, accettato dal Ministero, combattuto da un solo Deputato quasi per dovere d’ufficio, votato a grande maggioranza, nel silenzio dei cessati Ministeri di Destra, passato dalla Camera al Senato, trovò in esso inopinatamente una potente opposizione (1) ». L’ufficio centrale con una maggioranza di 4 sopra 5 deliberava di respingerlo, e Brioschi relatore proponeva quest’ordine del giorno: « Il Senato, convinto che lo schema di legge.....comunicato ad esso....., modificando radicalmente il sistema doganale attualmente in vigore, può portare pregiudizio alle finanze dello Stato, respinge 11 progetto medesimo ed invita contemporaneamente il Signor Ministro delle Finanze a voler presentare al Parlamento un progetto di legge che informandosi alle proposte contenute nella presente Relazione, entro i limiti dal Signor Ministro stesso stimati opportuni, valga a migliorare le condizioni del commercio nazionale ». Con questo contro-progetto, come si vede, si voleva distruggere la legge già approvata dalla Camera elettiva. Era questo il divisamente di senatori mossi, gli uni e i più, da spirito di partito politico perchè la legge era sostenuta e difesa dal nuovo Ministero, cosi detto riparatore, di Sinistra presieduto dal Depretis, Ministero contro il quale gli uomini della caduta Destra non vedevano l’ora di avventare i loro strali per atterrarlo; mossi gli altri da mal fondato timore di vedere con essa legge rovinate o gravemente pregiudicate le industrie nazionali. E dico timore mal fondato e nato da pratica ignoranza della causa controversa, perchè dai discorsi di taluni di questi senatori, segnatamente da quelli di Brioschi e di De Cesare si rileva in modo evidente ch’essi non avevano idee ben chiare sull’uso e le funzioni dei diversi stabilimenti doganali e confondevano tra loro città franche, depositi franchi, porti-franchi, magazzini generali. Vive istanze al Senato in favore della legge avevano diretto le principali città marittime d’Italia, sopra tutte Genova ; non meno vive molte Ditte e Corpi commerciali delle città interne. La battaglia voleva dunque essere accanita; gli animi dei Senatori dell’una (1) Gabella, tornata 14 luglio 1876. 442 e dell’altra parte, di solito così temperati e tranquilli, si mostravano stranamente accesi e bellicosi. La discussione, cominciata il dì 10 luglio, si protrasse fino al 15. Parlarono a favore del progetto il nostro march. Tomaso Spinola, Giuseppe Vacca napolitano, Giacomo Astengo savonese, Riccardo Sineo torinese, G. B. Michelini di Savigliano, il nostro Michele Casa-retto, il nostro march. Giacomo Balbi-Piovera, Girolamo Costantini bellunese, il nostro march. G. Antonio Migliorati e molto autorevolmente Agostino De Pretis Presidente e Ministro delle finanze. Parlarono contro il progetto Francesco Brioschi milanese, Carlo De Cesare di Spinazzola, Alessandro Rossi da Schio, Fedele Lampertico da Vicenza, Gaspare Finali de Cesena. Sulla fine della tornata 13 luglio si stava per chiudere la discussione quando il Cabella pregò il Presidente di volergli accordare la parola. Il Senato, deferendo al Collega, vota contro la chiusura per udire la sua parola nella tornata del giorno seguente. Dopo aver ringraziato il Senato a nome suo e di Genova d’aver-gli concesso facoltà di esporre le sue idee intorno al progetto di legge prima della chiusura della discussione, tocca delicatamente, scagionandone l’alto consesso, del sospetto, da taluni manifestato, che la quistione politica possa aver agito sulla quistione commerciale. Si dice dolente e stupito che il porto naturale del Piemonte e della Lombardia abbia da soffrire ingiusta guerra da queste stesse nobili regioni alle quali dà tanta vita di commercio: Lione ha sempre aiutato Marsiglia, nè Manchester fu mai gelosa di Liverpool. Ricordate poi le obbiezioni opposte dagli avversari, le confuta una per una, distinguendo con tanta perizia pratica l’indole diversa dei varii Istituti doganali, allegando fatti così parlanti, argomenti così stringenti, illustrando e avvalorando le considerazioni già esposte dai colleghi ed altre nuove e di tal peso aggiungendone che il discoi’so, vera lezione teorico-pratica evidentissima sulla tesi discussa, finì per dare il colpo di grazia alla causa contraria (1). fi) Eppure del suo discorso il nostro Senatore non rimase molto contento, perchè riposatosi un poco, in Senato, mentre tuttavia durava la discussione tra i suoi colleghi, così scriveva al figlio Edoardo: * Oggi ho parlato.... e molto male. Mi è mancata ogni ispirazione. Il bisogno di esser breve, il sentirmi poco vivace di mente, la paura che per conseguenza mi ha invaso ha finito per turbarmi in guisa che appena ho potuto esporre i miei pensieri. Il mio discorso durò più di un’ora......Quale possa essere il voto del Senato non posso predirlo. La lotta è accanita. Il partito avverso al Ministero è numeroso. Le previsioni sono incerte ». 443 E perchè il tempo e la più completa cognizione dei fatti avevano cresciuta nel nostro Concittadino l’ammirazione per il Cavour ch'egli aveva già combattuto alla Camera, e dettatogli di lui più spassionato giudizio, dimenticando la vendetta politica presane dal grande statista, colse questa occasione per rendergli in Senato la meritata giustizia nell’atto che ne invocava l’autorità a rincalzo delle sue argomentazioni. Affermando e provando la necessità della istituzione dei Depositi franchi aggiungeva : « Questo appunto è il giudizio che fece quell’eminente uomo di stato che si chiamava Camillo Cavour, e che l’Italia ebbe la fortuna di avere a capo del Governo nei supremi momenti del suo risorgimento. Il Regolamento doganale del settembre 1862 è ancora una sua ispirazione. E il frutto del suo intelletto, de’ suoi studi, frutto che noi abbiamo avuto dopo la sua morte, ma che fu da lui preparato. E fu allora ch’egli volle conoscere la istituzione che ora si tratta di ristabilire. Non volle fidarsi a relazioni altrui, venne a Genova, ne visitò il Porto franco (così chiamavasi allora), studiò la sua storia, la sua indole, i suoi regolamenti, acquistò la convinzione ch’esso era uno dei più stupendi trovati del genio commerciale italiano, e trasse dai suoi studi e dalle sue convinzioni la conseguenza che questa istituzione non solo meritava di essere conservata a Genova, ma che doveva essere estesa a quelle piazze marittime che avrebbero perduto il privilegio di città franche. Questa, o signori, è la genesi degli articoli 1 e 93 del Regolamento del 1862. — Questi pensieri del grande uomo di Stato non furono compresi da coloro che pretesero essere i continuatori della sua politica, e quindi abbiamo avuto il triste ritorno ad antichi pregiudizi ’ nelle leggi del 1865 e del 1872 ». A favore del progetto parlò ancora il sen. Camillo Caracciolo Di Bella napolitano; dopo di che fu chiusa la discussione generale. Seguono i discorsi finali e opposti del relatore Brioschi e di MaioranaCalatabiano Ministro di agr. ind. e comm.. Quindi, compiuta la discussione dei singoli 6 articoli onde si componeva la legge proposta, e approvati tutti per alzata e seduta, si procede all’appello nominale per la votazione a scrutinio segreto. Il sen. Chiesi, segretario, fa l’appello nominale. Ma qui, dovendo narrare di un grave e doloroso incidente, credo opportuno trascrivere esattamente il testo ufficiale degli Atti del Senato. Presidente. (Gennaro De Filippo) Risultato della votazione: in una delle urne si verificarono 134 voti, dei quali 67 favorevoli e 67 contrarii. Nell’altra urna 132 voti, dei quali 66 favorevoli e 66 contrarii. (Rumori prolungati). Voci. Domando la parola. UÀ Presidente. Risultando eguale il numero complessivo dei voti favorevoli e contrarii, a termini del Regolamento, la legge è respinta, Sen. Rtcci. Domando la parola; è nulla la votazione; domando la parola, Presidente. La seduta è sciolta. (Ore 7 1/4). (Il Vice Presidente De Filippo ha già abbandonato il seggio della presidenza). Sen. Ricci. Ah! signor Presidente, ella se ne va! Ebbene, io protesto altamente contro la validità della votazione, perchè questa votazione è nulla per discordanza di voti nelle due urne. Sen. Pepoli Gioachino. Io mi unisco alla protesta del Senatore Ricci, e di questo procedere mi richiamerò al giudizio del paese. Ripresa della seduta sotto la Presidenza del Vice Presidente E ni a. Sen. Eula, Vice-presidente, (dopo di aver occupato il seggio presidenziale e aver suonato il campanello). La seduta si riapre. Sen. Casati. La seduta è stata sciolta, ed il Senato non può ora riunirsi senza essere riconvocato. Sen. Pepoli G. Non si difendono le cause con la prepotenza e cóll’arbitrio. Presidente. Come primo Vice-presidente del Senato, valendomi del mio diritto (suona il campanello) riapro la seduta. Prego i signori Senatori a riprendere i loro posti. Il Senato delibererà sulla validità 0 no della votazione. Intanto do la -parola al Senatore Ricci. Sen. Ricci. Ripeto la protesta contro l’abuso inqualificabile del Presidente che reggeva la seduta, per avere, malgrado le manifestazioni di nullità e l’aver parecchi domandata la parola, proclamato esser la legge respinta e sciolta la seduta, dichiarando che la votazione era valida, quando evidentemente, essendovi discordanza nel numero delle palle tra l’urna di votazione e quella di controllo, doveva coscienziosamente dichiarare la votazione nulla; e quindi, se non pote-vasi oggi, farla ripetere domani, e per ciò consultare necessariamente il Senato, solo giudice in questi casi. Quindi io domando che il Presidente 0 questa sera 0 domani, come meglio crederà, abbia a convocare il Senato affinchè, sottopostogli il caso, si proceda a nuova votazione di questo progetto di legge. Presidente. Essendo impossibile che si possa rifare la votazione al momento, e d’altronde, non credendo che dipenda esclusivamente dal Presidente il dichiarare se la votazione è valida 0 nulla, per 445 ulteriore deliberazione il Senato è convocato nuovamente domani ad un’ora pomeridiana. « La seduta è sciolta (ore 7 e ^2.) » Fu enorme lo scandalo suscitato da questo incidente in Senato dove nulla di simile era ancor mai accadato. La voce pubblica e i giornali di Sinistra ne diedero colpa a macchinazioni partigiane degli avversarli del Ministero e della legge proposta, e levarono a cielo l’energia, la presenza di spirito e l’accorta prontezza di Eula restitutore di dignità al Senato, di autorità alla legge; i giornali di Destra gridarono alla violenza, all’illegalità e coprirono d’ingiurie e contumelie il nuovo Presidente. Il domani 15 luglio erano presenti alla seduta senatoria ben sette Ministri: Depretis presidente del Consiglio e Ministro delle Finanze, Nicotera dell’interno, Mezzacapo della Guerra, Melegari degli Affari esteri, Brin della Marina. Maiorana-Calatabiano di Agricoltura Ind. e Comm., Mancini di Grazia e Giustizia. Letto e, dopo schiarimenti, avvertenze e considerazioni, emendato, è approvato il processo verbale. Cabella sorge e dimostra con inoppugnabili ragioni di fatto e di diritto la nullità della votazione del giorno precedente e propone al Senato che questa nullità riconosca e confermi. Carlo Cadorna molto debolmente e parzialmente la combattee propone'invece venga riconosciuta la quistione pregiudiziale: non potersi mai rinnovare una votazione già compiuta e proclamata nelle forme e nei modi prescritti dalla legge. Ribatte il Cabella ed abbatte l’avversario dimostrandolo in aperta contraddizione con se stesso. Dopo altre osservazioni da ambe le parti, è approvata la chiusura. Quindi si pone ai voti per alzata e seduta la quistione pregiudiziale di Cadorna; risultato: 61 i senatori favorevoli, 61 i contrarii; a parità di voti, la quistione pregiudiziale è respinta. Appresso è messa ai voti per divisione la proposta Cabella così concepita: « Il Senato, ritenuta la nullità della votazione di ieri, passa ad una seconda votazione del progetto di legge sui Punti franchi ». Senatori votanti 125 — favorevoli 63, contrarii 62 — La proposta è adottata. Così Genova e il commercio italiano dovevano ad Eula e a Cabella la salvezza della provvida legge. Nel frattempo sopravviene in Senato il sen. Gacida di parte avversa, più, il già Presidente De Filippo "dichiara che, astenutosi nella votazione anteriore, darà nella prossima voto contrario alla legge. Erano dunque già 63 voti contrarii: nuovo ed imminente pericolo. Corre subito al riparo Fon. Nicotera Miti, dell’interno a nome del Ministero, e adducendo la concitazione generale degli animi e la cura del Governo di voler tutelato innanzi al paese il decoro del suo massimo 446 Istituto politico, propone che la votazione decisiva sia rimandata a dieci giorni cioè al 26 luglio affinchè tutti quanti i Senatori abbiano tempo di presentarsi a quest’atto e possano con loro agio dare un voto meditato e coscienzioso. La proposta dilatoria è accettata e il pericolo della catastrofe, pel pronto intervento del Governo, evitato. Il 26 luglio son presenti alla seduta l'on. Depretis e altri cinque Ministri. 11 Senato raggiunge il numero insolito di 216. Depretis fa un breve discorso per dare a nome del Governo attestazioni di somma stima e riverenza all’alto consesso e per respingere il vociferato sospetto che il Governo volesse esercitare pressioni sulla libera volontà dei Senatori. Si procede quindi alla votazione per appello nominale. Senatori votanti 216; Favorevoli 114; Contrarii 102. La legge è approvata. Lorenzo Eula (di Villanova di Mondovì) dimorava da tempo in Genova con la dignità di 1° Presidente della Corte d’Appello, ed era tenuto da tutti i Genovesi in sommo onore non meno per la profonda dottrina che per l’altezza dell’ingegno e per lo specchiato spirito di giustizia e di rettitudine. A lui che in tanto frangente aveva saputo troncare a tempo le esitanze degli uni, le soperchierie degli altri, la confusione di tutti e salvare la pericolante legge, la nostra Camera di Commercio rese grazie amplissime, e il nostro Consiglio comunale, in tornata 26 agosto 1876, su proposta della Giunta, appoggiata con nobili parole dal nostro Cabella, a testimonianza di gratitudine e ammirazione conferiva per acclamazione generale la cittadinanza genovese (1). (1) * II Consigliere C. Cabella come Presidente dell’Ordine degli Avvocati e a nome di tutto il Foro genovese, fa plauso alla cittadinanza che iniziò tale proposta ed alla Giunta che in modo così favorevole l’accolse. Dice: che il Comm. Eula è sommamente meritevole di tale onorificenza, poiché è uno splendido ornamento della Magistratura italiana ed è da tutti estimato per elevatezza d’ingegno, per profondità di dottrina, per infaticabilità al lavoro e per gentilezza di modi. Aggiunge che a queste doti eminenti il Comm. Eula unisce un affetto grandissimo alla nostra città, come l'ebbe a rivelare allorché parti da Genova chiamato a presiedere la Corte di Palermo, e quando ritornò a riassumere la presidenza della nostra Corte. Ricorda che in entrambe le occasioni il Comm. Eula accolse l’Ordine degli Avvocati con parole di sentito affetto per Genova, e che la stia voce divenne tremante per commozione nel rispondere agli affettuosi rallegramenti fattigli in pubblica udienza a nome del Poro genovese per il suo ritorno in Genova. Ritiene doversi al suo vivo affetto alla nostra 447 XV. Il Cabella tenta risollevare l’animo depresso dell’ amico Ruffini. Quando il 9 aprile 1877 il prof. Cristoforo Tornati, deputato del nostro 2° collegio, ebbe rinunciato il mandato politico, il nostro Cittadino, sempre inteso all’onor di Genova e degli amici, scrisse tosto all’amico tabiese esortandolo ad accettare la candidatura del collegio vacante e dandogli ottime speranze di successo. Ma il povero Ruffini, tribolato da cento malori di corpo e di spirito, gli rispondeva: « Taggia, 16 aprile 1877. » Car.mo amico, » Io rappresentante? Nemmen dipinto. Sul limitare dei 70, con un pie’ nella fossa, ho ben altri pensieri in capo. Son malato da pressoché sei mesi, malato al fisico e al morale, d’un mal di nervi senza nome, incapace d’occupazione, scrivere, leggere, passeggiare un po’ a lungo. Non posso uscir solo per tema di capogiri, dormo poco e male, quando dormo, e mi consumo come cera al fuoco, e quasi quasi mi riconcilio col caso imprevisto, il quale m’invidiò la vostra visita, chè v’avrebbe troppo contristato la vista del vecchio camerata ed amico tantum mutatus db ilio e a me sarebbe‘riuscito troppo grave il non poter far gli onori della modesta mia casa e un po’ di festa al vecchio Camerata ed Amico, al quale mi legano tante antiche ed affettuose memorie e tante recenti obbligazioni. » Il Signore sia con Voi, come con Voi sono i voti e gli affetti del Vostro vecchio e grato amico G. Ruffini. » Questa lettera contristò il nostro Avvocato il quale confidando ancora che i mali fisici lamentati dall’amico fossero effetto di affli- città la felice ispirazione che lo indusse a valersi della sua prerogativa di Vice Presidente del Senato per salvare una legge la quale dai nemici di Genova era destinata a perire e per impedire che la medesima venisse illegalmente respinta. Dichiara che se la legge sui Depositi franchi fu approvata, lo si deve al Comm. Eula, e che pertanto dà plaudente il suo voto alla proposta iniziata dai cittadini e fatta dalla Giunta rii conferirgli a titolo di riconoscenza la cittadinanza genovese ». Dai Verbali del Consiglio Comunale, ‘26 Agosto 1876, voi. 27. 448 zioni morali, s'affrettò a confortarlo con una risposta che in brevi parole rivela gran parte delle intime vicende dell’animo suo. « Genova, 22 aprile 1877. » Amico carissimo, » Spellavo poter oggi far, colla, mia voce, in casa vostra a Taggia, risposta alla vostra del 10; ma ancora una volta gli affari..... oh gli affari!...' me lo impedirono. Quel benedetto lunedi che non posso mai aver liberò! Ma non ritarderò molto la mia visita: la quale, se fu sempre ne’ miei desiderii, ora poi dopo la vostra lettera, piena di tanta malinconia, è un dovere di amicizia ed una necessità di affetto. » Rispetto le vostre risoluzioni. Mi duole però troppo che m’abbiano tolto di proporre agli elettori del 2° collegio di Genova un nome così illustre, così caro all'Italia, che sarebbe stato salutato dal plauso universale, ed avrebbe recato tanto lustro al Parlamento. E ne sarebbe stata onorata la mia Genova, che avrebbe dato questo tributo di gratitudine e di affetto a chi aveva tanto fatto .per la sua patria. » Ma della vostra risoluzione mi addolora il motivo. Leggo nella vostra lettera uno sconforto, come d’animo desolato ed afflitto, ohe nulla speri e non desideri la vita. Ah ci’edo d’indovinare che il vostro male è morale, e che se pure ve n’è un altro fisico, dipende dal primo come effetto da causa. Io vi dirò surge surge. — Questo, credo, è il rimedio. E voglio darvene una prova che desumo da me medesimo. Anch'io sono settuagenario. Anch’io ho perduto ogni illusione della vita; e se fossi solo «..... avrei sul volto Il pallor della morte e la speranza ». Chi mi soccorre? Chi mi presta le forze a sopportare la vita e il lavoro? Sono i miei figli ai quali questa mia vita è vita e sostegno! Quante volte io mi sento affranto e prostrato a segno che il vivere mi sembra impossibile! E allora anche le mie facoltà morali e intellettuali sembrano spegnersi, e mi pare di diventare imbecille. E allora lo spavento m’assale; spavento non per me, ma per i miei figli; e con supremo sforzo mi rialzo; e guarisco dal male fisico, e mi ritorna l’energia del cuore e della mente, e mi si rifa la salute..... Voi non avete figli. Ma quante altre ragioni avete di essere amato e di amare! Amate, se non altro, il vostro nome, la vostra gloria; pensate agli affetti che vi sopravviveranno, al nome illustre che lascerete dopo di voi; e dite a voi stesso. « Io 449 posso fare ancora qualche cosa nel mondo. Perchè noi farei? Ho io il diritto di privarlo del bene che è in mio potere? Non è un bene presente l’accrescere l’eredità del mio nome nell’avvenire? » E a questa pensiero sorgete. Rifatto l’animo, si rifà la salute del corpo. » La quale io vi auguro e spero, con affetto caldissimo di antica amicizia, vi sarà ridonata intera per un tempo ancora lungo. » Addio, mio caro. Perdonatemi il mio sermone. A rivederci presto, E vogliate sempre bene al vostro aff.mo Cesare Cabella ». Sulla busta di questa lettera il Ruffini scriveva: « Non son io che fuggo la vita, è la vita che fugge da me; e perchè non la lascerò fare? » (1) XVI. Zanardelli affida il Nostro della sua ferma e forte amicizia; gli si dichiara favorevole alle Convenzioni ferroviarie. Salita la Sinistra al potere il febbraio del 1876, il Depretis riprese le pratiche già iniziate sotto il Governo di Destra dal Ministro Spaventa, per riscattare le ferrovie dello Stato e poscia, per mezzo di stipulate convenzioni, riconcederle al privato esercizio. Si era così venuti fino all’autunno del 1877 quando lo Zanardelli, Ministro dei Lavori pubblici, cadde malato a Brescia. I giornali riferivano la voce ch’egli fosse contrario alle Convenzioni e che il Depretis studiasse ogni modo per vincerne la resistenza, e anche si fosse recato a Brescia per abboccarsi con lui ed espugnarne la volontà, ma invano. Il Cabella che, fin dal 1860 suo collega nel Parlamento della VII legislatura, era legato allo Zanardelli di grande stima e di viva amicizia e, come risulta da parecchie lettere, gli aveva reso più volte importanti servigi, nei primi d’ottobre volle scrivergli per lodarlo della sua fermezza e dimostrargli il dovere e la necessità che il Governo liberale, riscattate le ferrovie, ne assumesse la diretta gestione. Se non che lo Zanardelli si opponeva al disegno del Presidente non già perchè, come il Cabella e altri credevano, fosse contrario all’esercizio privato, chè anzi credeva doverlo preferire al governati- ci) Cfr, d Cagnacci op. cit, \ 450 vo, ma perchè non poteva tollerare che in esse Convenzioni si stabilissero patti più pregiudizievoli al paese di quelli già iniziati dal Governo di Destra e dalla Sinistra già tanto maledetti; e si sancissero condizioni lautissime alle improbe fauci della speculazione bancaria, rappresentata per la Rete Adriatica dal gruppo Balduino e Bastogi e dal Credito Mobiliare, per la Mediterranea dal gruppo Allievi e dalla Banca Generale, a tutto danno dell’erario nazionale. Gli rispondeva l’amico Ministro: i Ministero dei Lavori Pùbblici « Dai Ronchi di Brescia 24-10-77. » Mio carissimo amico, » Mille grazie de’ tuoi sentimenti sì affettuosi, delle tue sì gentili parole, delle tue cordiali sollecitudini per la mia salute ora infine del tutto ristabilita. La nuova e fervida testimonianza di amicizia che volesti darmi, mi riesce veramente preziosa essendo tu fra le persone che da lungo tempo maggioramente stimo ed amo, mentre nel Parlamento ti ravvisai sempre vero modello de’ liberali, dappoiché pur essendo tra essi distintissimo, oltreché per ingegno e dottrina,-per mitezza e moderazione, a queste doti congiungesti la più ferma ed immutabile costanza. » Dopo ciò e dati questi sentimenti veramente sinceri e profondi, come posso io spiegarmi che tu abbia creduto accorgerti d'una grande mia freddezza verso di te? Ti giuro che di simile colpa sono proprio immune e purissimo, tanto, ripeto, da non sapermi dire donde mai ed in quale occasione sia in £e potuta nascere cotesta impressione. Forse che noi per la condizione del triste ufficio ci dimentichiamo talvolta qualche riscontro parendo non solo freddi ma inurbani, ed anche questa volta ho tanto tardato a risponderti. Forse alle volte anche in presenza degli amici si hanno preoccupazioni, malumori che ponno benissimo scambiarsi con freddezza; ma questo stato d’animo è proprio l’opposto di quello che io ho per te, cui porto e porterò sempre la più calda e viva affezione. » Ed ora vengo alle Convenzioni ferroviarie riguardo alle quali ti son grato di avermi fatto conoscere le tue impressioni e disposizioni. * Queste Convenzioni le chiami impopolarissime, e tali mi sem- 451 bra siano in sommo grado nella tua Genova, donde specialmente mi vengono frequenti accenni nel tuo medesimo senso; onde io mi domando se ciò si verifichi perchè o benché genovesi siano coloro che alle Convenzioni stesse tornano precipua causa di cotesta impopolarità (1). » Ma guardando la cosa intrinsecamente, come puoi tu credere che la mia convinzione relativamente all’esercizio governativo sia conforme alla tua, quand’io nel Giugno dello scorso anno contro questo esercizio governativo parlai alla Camera con vivissimo calore, facendo anzi di questo dissenso del nostro partito dalla Destra un aperto segnacolo in vessillo? E perciò in origine io non volevo nemmeno il riscatto e dichiarai nettamente alla Camera di subirlo e non accettarlo per considerazioni internazionali e di politica generale, e se sapessi quanto viva e lunga resistenza opposi in Gabinetto e quali condizioni opposi prima di addivenire a subirlo! » Questa convinzione si è anzi che affievolita accresciuta dopo che sono al Ministero, avendo veduto per prova quale poderoso mezzo d’influenza in un Governo sarebbe l’assoluta balìa delle strade ferrate (2). » Ma se, all’incontro, la mia convinzione si fosse mutata, è chiaro che l’applicazione sincera delle istituzioni parlamentari esigerebbe che ed io e i miei colleghi cedessimo il campo a coloro che di questo sistema dell’esercizio governativo si erano contro di noi fatti i propugnatori. » Ciò non toglie ch’io ammetta che il combinare delle Convenzioni d’esercizio sia cosa assai ardua, cosa che richiede di guardarvi, se fosse possibile, non con due ma con cent’occhi. » E per ciò fui rabbioso della mia malattia che m’impedì di studiarvi quanto avrei voluto; e per ciò cercai non prevalessero le Egerie cui accenni, secondo le cui ispirazioni forse le Convenzioni stesse sarebbero state fatte in fretta e in furia ben prima d’ora. » Ti parlai colla schiettezza di cui mi desti sì gradito esempio, e dolentissimo di dissentire in questo da te, m’è caro ripeterti i sentimenti della più distinta stima e cordiale amicizia e devozione del tutto tuo G. Zanardelli ». (1) Accenna al Balduino e agli altri capitalisti genovesi che, diretti nel contratto legale dall’avv. Tito Orsini, costituivano il nucleo più poderoso delle società concessionarie. (2) È noto che lo Zanardelli fu sempre avverso alle aziende statali, 452 Tre settimane appresso, e proprio il 14 novembre 1877, lo Za-nardelli rassegnava le sue dimissioni al Depretis che in sua vece assumeva l'interim dei Lavori pubblici. XVII. Muore il Sen. Giorgio D’Oria (geu. 1878). Il Cabella lo dice primo tra i primi promotori a Genova di liberali istituzioni e dell’idea nazionale. Ci corre obbligo di ricordare un altro estremo ufficio reso dal Nostro alla salma e alla memoria di un onorando nostro patrizio che nei primi albori della nascente libertà, di patria libertà fu in Genova educatore ed apostolo. Io dico del marchese Giorgio D'Oria morto il 23 gennaio 1878 di anni 79. Era carità di patria, era debito di bennato cittadino che tra l’indifferenza e la smemoratezza generale si levasse pur uno che rammentandone l’opera generosa, rendesse al trapassato la dovuta giustizia. L’accompagnamento funebre ebbe luogo il di 25 con l’intervento delle maggiori autorità e con gli onori che a senatore, a consigliere provinciale e comunale e a benefico amministratore si convengono (1). Giunto il corteo alla Necropoli, e deposto il feretro nel Tempietto, il Cabella pronunciò un breve discorso di cui riferisco le prime parole. « Signori, » In mezzo al lutto nazionale per la morte del Gran Re, a cui l'Italia deve l’essere uno Stato potente e temuto, un altro lutto ha colpito la nostra città, orbata di uno dei suoi più illustri cittadini » Noi accompagniamo al sepolcro, mesti e pensosi, nell’universale compianto, la salma del senatore Giorgio D’Oria. È un nome dinanzi al quale tutti ci inchiniamo per affetto e per riverenza. » Nato di quella stirpe nobilissima che aggiunse alla storia di Genova tante pagine stupende per fatti d’armi e di pace, egli si mostrò degno erede delle virtù de’ suoi Avi. Dall'esempio di quel grandissimo che, potendo, non volle farsi signore di Genova e fu (1) Reggevano i cordoni del carro funebre il Prefetto Casalis, l’assessore anziano Lazzaro Negrotto, il Presidente del Ricovero di Mendicità, il Presidente del Consiglio Provinciale, il senatore Francesco Sauli, l’Avvocato Nicolò Federici. 463 invece il restauratore degli ordini della Repubblica, apprese ad amare sopra ogni altra cosa la libertà della patria E poiché, mutati i tempi, maturate le sorti, diventarono volontà ed azione di popolo le antiche aspirazioni dei nostri grandi pensatori, chiamò patria non più Genova, ma l’Italia. » Al. primo albore della nostra vita nazionale egli si mostrò tra i primi e più operosi attori di quella prodigiosa rivoluzione che nel breve giro di 23 anni, collo stupore d’Europa potè far l’Italia e darle Roma sua capitale. Nell’ebbrezza del trionfo i contemporanei, abbagliati dallo splendore dei grandi fatti recenti, dimenticano troppo le prime origini di questi fatti. Ma la storia si vendicherà di quest’oblio e dirà ai posteri che nella nostra città, nel settembre del 1847, incominciò l’opera del nostro Risorgimento, e che a Genova si deve la gloria di aver prima d’ogni altra tradotto in atto il sospiro di tanti secoli. » Ebbene, o Signori, a Giorgio D’Oria, primo tra i primi, appartiene questa gloria. Io ricordo quei giorni di sublime ardimento e di supremo pericolo in cui egli adunava nella sua casa quanti generosi offrivano la mente ed il braccio alla redenzione d’Italia. E nella sua casa, in mezzo ad ansie che oggi niuno potrebbe comprendere, si preparavano sotto la sua presidenza gli avvenimenti che dovevano condurre un giorno l’Italia al compimento de’ suoi destini. Sì, 0 Signori, al Senatore Giorgio D’Oria è dovuto uno dei primi onori nella storia del nostro Risorgimento. » Ma a lui spetta ancora un’altra lode : quella così rara di non aver cercato, dopo il successo, alcun premio all’opera, sua; nemmen quello, che pure è così caro alle anime nobili e generose, di veder ricordati i suoi fatti. Modesto e semplice, contento del testimonio della sua coscienza, gli bastava aver adempito a quello ch’egli stimava dovere di cittadino italiano ». Ricordate poi le alte testimonianze di stima ricevute dal Principe e da’ suoi concittadini e le sue grandi virtù pubbliche e private, conclude : « Tale fu l'uomo, o Signori, di cui piangiamo la perdita. A me, suo collega nei Consigli della Nazione, della Provincia e del Municipio, permettete versare una lagrima e deporre un fiore sulla sua bara. Onorato da lunghi anni della sua amicizia, mancherei, s’io noi facessi, al dovere, all’affetto. Salve, o anima eletta! Riposa in pace. Ai tuoi figli degnissimi del tuo nome, alla tua illustre Consorte, a tutti 1 tuoi cari sia conforto il compianto comune, e la certezza che dopo la morte vivrai lungamente nella memoria de’ tuoi concittadini ! », 454 XVIII. Segue l’affettuoso carteggio di Ruffini e Cabella. 11 quale per appagare il voto di due cuori, si reca a Taggia a salutarvi l’amico (ultimi di settembre 1878). « Taggia 22 Genn. 1878. » Caro Collega ed Amico, » Rompo il lungo silenzio per venire a chiedervi un favore, come sempre. Ma già, si chiede ai ricchi. Vorrei dunque che m’aiutaste a pagare un debito di riconoscenza, Voi a cui ne devo già tanta. Se posso prendere ancora la penna in mano, e vergarvi queste due righe, lo devo all'abilità e cure indifesse prestatemi dal Dott. Giacomo Martini di Taggia. Or mi intendete. Il D.r Martini ha un figlio da diciotto mesi Pretore a Dolceacqua, il clima del quale, fred-d’umido e poco soleggiato, al giovine cagionevole, e alla moglie minacciata di laringite, è letteralmente micidiale. Conosco personalmente la giovane coppia, e posso garantire la verità dell’esposto. Il D.r Martini, e come Padre e come Medico, vorrebbe strapparli a quel lento avvelenamento; e marito e moglie benedirebbero la mano, che li restituisse a stanza più riparata, e a più miti cure marine. La cosa non dovrebbe esser difficile..... per Voi. Anzi il D.r Martini ritiene, e me lo affermava un momento fa, che una vostra buona parola al Comm. Costa basterebbe a partorire l’effetto desiderato (1). Desidero che sia vero, e che possiate dirla. Comunque, pregovi scusare l’importunità, e credere ai sensi d’amicizia e di grato animo, coi quali ho il bene di dirmi Aff.mo Vostro G. Ruffini. » PS. — Il Pretore Martini ha già ricorso al Ministro di Grazia e Giustizia, fin dal Luglio del 1876, per ottenere un cambiamento di sede e fin dal Luglio il Ministro trasmise la domanda alla Procura di Genova, però senza risultato finora. Il Pretore Martini poi trasmise questi giorni una seconda domanda per via gerarchica al Guarda Sigilli ». Ed ecco che nello stesso giorno che questo gli scriveva, gli capita lettera del Cabella che gli annuncia probabile una prossima (1) Giacomo Giuseppe Costa, milanese, fin dal 1874 Procurator Generale alla Corte d’Appello di Genova, poi, nel 1885 Avvocato Generale Erariale, nel 1886 fu nominato Senatore. Morto nel 1897. 455 sua visita a Taggia. Se ne commuove il cuore dell’amico e gli risponde subito con la lettera seguente. Ma l’ardente desiderio comune, causa impreviste occupazioni del nostro Avvocato, non potè essere appagato che qualche tempo dopo. “ Taggia 22 sera 1878. » Car.m0 Amico, » Giovanni Ruffini riguarderà come uno dei più bei giorni della sua vita quello in cui potrà stringer la mano al vecchio, e caro, e chiaro amico C. Cabella. » Io conto di essere a Taggia giovedì 26 corrente. Sono attualmente in campagna, se di campagna merita il nome un bugigattolo a un quarto d’ora dalla città. Ma preferirei ricevervi a Taggia per potervi presentare alcuni amici, che è più facile combinare là che altrove. Ben inteso, se l’indugio vi tornasse incommodo, passate oltre senz’altro, e il più presto sarà il meglio. Addio, il mio caro amico, il resto a viva voce e sono Aff.mo Amico Vostro G. Ruffini » Intanto il nostro Avvocato che aveva scritto al Procurator generale Costa raccomandandogli la domanda del pretore Martini, ne riceveva consolante risposta che tosto spediva al Ruffini, il quale, così s’affrettava a ringraziarlo. « Taggia, 22 febb, 1878. » Amico dilettissimo, » Vi rimando le lettere del comm. Costa dopo averle fatte leggere al D.r Martini, della discrezione del quale mi porto garante. A voi che posso dire? Che siete il più caro, il più sicuro, il più obbligante degli amici e che disprezzerei me stesso se solo per un istante avessi dubitato di voi. La mia impressione è, e così quella del I).r Martini, dopo letta la lettera in quistione, che il giovane Pretore non aspetterà gran pezza il suo traslocamento. Comunque, il Dottore avrebbe voluto scrivervi, ringraziandovi, ma affollato d’affari, come vi so, pensai sconsigliarlo, promettendo però di fare le sue parti con voi, che faccio di cuore. Vi ringrazierà di persona quel giorno che Taggia andrà altera di accogliervi nelle sue mura e gli amici vostri, perchè ne avete più che non pensiate anche a Taggia, potranno darvi il ben venuto. Solo mi auguro che quel giorno tocco importuno di febbre non venga, come oggi, per esempio, e 466 come troppo ultimamente, a intorbidarne la gioia. A salute, come vedete, potrei star meglio, ma gli è già qualcosa che mi sia potuto trascinare fin qui. Non son più tanto depresso quanto mesi sono, e l’insonnia, la mia gran nemica, mi dà tregua più sovente che non facesse per l’addietro. Insomma sunt mala mixta bonis, ete. » Addio, carissimo mio, vogliatemi bene come ve ne voglio, e vi benedica il Signore per i tanti favori e le cortesie onde mi avete colmato e dei quali vi serba un’eterna riconoscenza l’affezionatissimo vostro G. Ruffini » PS. — Et tu quoque! Dire che il mio nome è più autorevole del vostro è una di quelle enormezze che non posso lasciar passare senza protesta. Enunciarla è confutarla ». « Taggia 24 sera sett. (1878). » Car.mo Amico, » Or che ci penso, non tutti i treni che partono da Genova per Nizza si fermano alla stazione di Taggia, ma tutti a quella di Sanremo. Forse troverete più commodo prender un biglietto per Sanremo, staccare una vettura, che quivi abbondano, per Taggia, la quale in un’ora vi metterà a destinazione. Il treno delle 9-10 antimeridiane potrebbe forse convenirvi. Comunque, avventui’o il suggerimento purché sia in tempo per la posta. Tutto vostro G. Ruffini » Pochi giorni appresso i due nobili vegliardi nella tenera gioia di un amplesso lungamente bramato effondevano commossi ciò che di più santo brilla nella nostra umanità mortale, e nella dolce armonia dei loro intimi sentimenti vivevano uno degli ultimi tra i giorni più felici della lor vita. Alla festa dei due grandi e immacolati Italiani riverente e commossa prendeva parte tutta la popolazione di Taggia. Tornato a Genova, il nostro Avvocato versava in una lettera di ringraziamento tutta la piena dell’affetto e della riconoscenza onde traboccava il suo cuore per le tante e sì vive dimostrazioni d’onore e d’amore ricevute da lui e dalla popolazione tabiese. Gli rispondeva il Ruffini tutto commosso. 467 « Taggia 9 ottobre 1878. » Car.mo Amico, » Quando si ha la sorte di possedere, non fosse che per poche ore, un ospite del vostro valore, il meno che si possa fare è di servirgli un piatto di buona cera. Questo abbiam fatto e nulla più, all’occasione del vostro arrivo tra noi, nel modo più semplice e piano conforme alla vostra indole schietta e alle vostre abitudini. E voi per così poco minacciate farci bancarotta! Permettetemi d’aver miglior opinione della vostra solvibilità. » Parlando sul serio, commetterebbe un’ingiustizia verso queste nobili ed entusiastiche popolazioni chi le spogliasse del carattere di spontaneità che le distingue. Non son gente da prendere l’imbeccata, e ritenete pure che la maggior parte dei segni di deferenza, che incontravamo cammin facendo, erano vostri. 0 perchè no ? Tutti a Taggia sanno perfettamente l’illustrazione che è Cesare Cabella, l’influenza che possiede, il bene che può fare, e son lieti di vederlo in campagnia d’uno, per cui hanno un debole. Se voi vi sentite obbligato a Taggia, Taggia non domanda meglio che d’ essere obbligata a Voi, e l’occasione 11011 tarderà forse molto. » Come riconoscere degnamente, mio caro Amico, la grande amorevolezza, onde ogni linea della vostra carissima formicola ? 10 cerco, ma non trovo altro che — al vecchio amico posso farne la confidenza senza tema di parer ridicolo — non trovo altro che 11 pianto. Già non l’ignorate, lo stato de’ miei nervi, agitatissimi quest’oggi, predispone alle lagrime, e piansi ier sera, piansi di tenerezza, leggendo alla mia famiglinola la vostra lettera, e piansi stamane rileggendola, e ho le lagrime agli occhi mentre scrivo. Il pianto è il solo commento degno d’una lettera come la vostra. Io non posso non creder sincero tutto quel gran bene che voi pensate di me, e nell’istesso tempo la mia modestia — modestia vera profonda radicata — non mi permette d’accettarne l’espressione. Compatitemi, di grazia. Di questo solo vi posso assicurare che là oh faime faime bien e che vo più lieto e superbo della vostra amicizia che di tutti i tesori del Perou. » La Signora Rosina e famiglia non cessano di parlar di voi e della vostra affabilità e della dolcezza del vostro sporgere, insomma ci sarebbe di che diventar geloso chi vi fosse predisposto. Il D.r Martini è a Loano dal figlio, e appena tornato farò la vostra commissione con lui. Farò pure i vostri Convenevoli, alla prima oc* 458 casione, col Sindaco e gli altri. Lasciate ch’io mi lusinghi che verrete ancora a vederci. Il Comitato promotore del busto a Soleri vi fa assegnamento sopra, e sul Discorso Inaugurale. » Tutto vostro di cuore Afi.m0 Amico G. Ruffini » PS. — Son pregato di farvi ricapitare, l’acchiusa. Chi scrive è Gr. B. Drago, Taggiasco, Agente delle tasse a Voltri, che conosco personalmente, ottimo giovane, pieno d’ingegno, ma poco fortunato ». Poiché nella precedente si comincia e nelle seguenti si continua a parlare della solenne inaugurazione del monumento a G. B. Soleri in Taggia, conviene darne qualche cenno dichiarativo al lettore. G. B. Soleri nato nel 1599 a Bussana, compiuti a Genova sotto i Gesuiti gli studi di Umanità, laureatosi in medicina a Padova, esercitò la professione prima a Savona, dove s'ammogliò, poi a Genova dove acquistò rinomanza e ricchezze. Le sue prime tre figlie collocò nel monastero della SS. Annunziata in Savona. Con testamento rogato dal not. Pier G.B. Garibaldo il 9 sett. 1679, disponeva che ove la sua quarta figlia, maritata in Carlo di Taggia, non avesse figli o questi morissero prima d'aver raggiunto ‘20 anni, in Genova fosse acquistata una casa dove sotto la direzione dei PP. Gesuiti fossero mantenuti e istruiti 15 giovani, due di Bussana, due di Savona, gli gli altri tutti di Taggia; qualora mancassero soggetti di detti luoghi disponeva che si eleggessero giovani della Riviera di ponente, compresi i luoghi di montagna, purché sudditi della Serenissima. Il patrimonio della fondazione Soleri che nel 1683, anno della morte del fondatore, era di 339.872 lire genovesi crebbe a un milione e 227.000 nel 1773, anno della soppressione dei Gesuiti e del disastro dell’ingente capitale. Perchè avendo i PP. Gesuiti collocato e intestato al loro Ordine gran parte dei loro capitali presso il Governo d’Austria e quello della Repubblica di Venezia, emanata da Clemente XIV' la Bolla di soppressione, quei governi ne incamerarono i beni e non vollero restituire quelli appartenenti al Collegio Soleri. Onde nel 1812 il Collegio non possedeva più che da 4 a 5 mila lire di rendita. Nel 1905 possedeva un reddito di L. 22.525 col quale si provvedeva all’istruzione di 16 giovani, dei quali sei nel Convitto nazionale seguivano 459 il corso ginnasiale e liceale e dieci frequentavano i corsi universitari! (1). Per venire alle onoranze votate al Soleri, diremo che Taggia, più delle altre due beneficata, volle onorare in modo solenne la memoria del grande benefattore. Costituitosi a questo fine un Comitato, ne fu offerta la presidenza onoraria a Giov. Ruffini, il quale accettando scriveva: « Taggia proverà una volta di più che ha salda e tenace la memoria ». Il Comitato, composto del sindaco cav. dott. Agostino Roggeri presid. effettivo e dei maggiorenti del paese, raccolte le oblazioni, deliberò di commettere al valente scultore genovese G. Orengo un busto in marmo del Soleri da erigere nella via ad esso intitolata. « Taggia 2 nov. 1878! » Car.mo Amico, » Perdonate se sono stato un po’ a lungo a riscontrare la vostra cara del 22 p. p.; ne fui frastornato in più di un modo. E poi credo di avervene fatta la mia umile confessione: io sono un pessimo corrispondente, pronto sempre a ricevere, restio a dare. Di modo che ho bisogno, in questa come in molte altre cose, di tutta la vostra indulgenza. Quanto poi agii scrupoli che vi fate in verbo carteggio, per parte mia ve ne assolvo pienamente é con me quanti hanno un grammo di discrezione. Quando si hanno le vostre occupazioni, s’ha il diritto di non scrivere che quando meglio torna (2). » Quando prima io lessi il PS. dell’ultima vostra relativo ad una probabile gita vostra a Taggia prima dell’anno nuovo, pensai fra me e me: or non si dirà più in cauda venenum, ma in cauda mel, e stavo li per prendere atto della vostra quasi promessa; ma mi rav- (1) Ho desunto e accorciato queste notizie dal pregevole libretto di Costantino Carrero intitolato Storia della fondazione G. B. Soleri (Alba, Sansoldi, 1905). Tra gli alunni del Collegio Soleri che più tardi si resero illustri meritano onorifica menzione l’avv. Nicolò Ardizzoni n. a Taggia nel 1766 e m. a Genova nel 1882, ingegno vivissimo, memoria miracolosa; i fratelli Iacopo, Agostino e Giovanni Ruffini; Paolo Anfossi n. in Taggia nel 1802, morto nel 1842, grande patriota e repubblicano; l’avv. G. B. Rossi n. in Castellare di Taggia nel 1815 e m. in Genova nel 1891, amico del Cabella, uno dei principi del foro genovese per acume d’ingegno, dottrina giuridica, classica nobiltà di discorso. (2) Confronti il lettore questa umana risposta del Ruffini col troncamento dell’amicizia e della relazione con cui il frenetico Giordani nel 1889 rispose all’involontario indugio del suo odoratissimo! 460 vidi a teiupo sul riflesso che le anime gentili non patiscono neppur l’ombra di violenza, e che meno lor si domanda, e più se ne ottiene. Me ne rimetto dunque alla vostra generosità. Il cammino lo conoscete, e l’andazzo pure del nostro piccolo interiore, semplicità, pulizia e buon cuore. Del nostro gran piacere ad avervi, spero non dubiterete. Sarà un vero regalo che ci farete, e mi insegnate che quod tibi non nocet et ccncede libenter. A me personalmente renderete, venendo, un servizio segnalato, vo’ dir quello di mettere in pace il mio spirito in una materia che mi sta molto a cuore. Voi indovinate che quel poco che posseggo l’ho lasciato alla famiglia Berenger, alla quale vo’ debitore di pur possedere qualche cosa, senza parlare delle obbligazioni morali senza fine che a quella mi legano. Ho dunque steso un po’ di testamento e non senza una certa cura, malgrado la quale m’assale talvolta una gran paura di non aver fatto le cose bene (1). 11 mio gran desiderio è dunque che lo vediate e ne giudichiate. Solo dopo la vostra approvazione mi sentirò pienamente rassicurato. Sarà una obbligazione di più da aggiungere alle tante altre che vi ho. E a sentir voi, l’obbligato siete voi, il debitore siete voi. Voi, mio debitore a cui ne devo di tutte le cotte, e ne amman-nisco di nuove!prohpudor! culpa rubet vultus meus. Ho la mortificazione d’annunziarvi che mi son ritirato dalla Presidenza onoraria del Comitato Promotore d’un monumento a Gr.B. Soleri. Da che vi entrai non ebbi più un’ora di bene. Colpa meno degli uomini che delle circostanze. Un uomo sano ne riderebbe, un povero diavolo che ha i nervi a nudo, non ne mangia nè ne dorme. Premetto che più di un anno fa la musica di Taggia venne a scindersi in due, che diedero origino a due partiti i quali continuano a guardarsi in cagnesco. Siamo duncue in un’atmosfera burrascosa. L’idea di un monumento a Soleri piacque universalmente, non così la composizione del Comitato. Chi erano costoro, chi aveva dato loro il mandato? I nostri non potevano allegare che l’autorità del Mosca, cosa fatta capo ha-L’opposizione prese subito forma e colore. Molti di quelli che avean (1) Una lettera scritta nel 1887 dal dott. Giacomo Martini di Taggia al Donaver c’informa dell’ammontare della sostanza lasciata dal Ruffini alla famiglia Berenger: « Colle 27.000 lire che aveva risparmiato sui suoi lavori letterarii, egli prima di lasciare Parigi, s’era assicurato una pensione di L. 3.000, che gli era pagata semestralmente da una casa di Nizza. Il patrimonio residuo ch’egli possedeva in Taggia (un centinaio di mila lire) egli credeva che non desse alcun reddito o almeno che non bastasse per la famiglia del suo agente con la quale conviveva! Credendosi povero, era molto trattenuto nelle spese, e, senza negarsi il necessario, più in là non andava ». Cfr. M. Pertusio, op. cit. pag. 163-64. 461 profittato del Lascito Soleri, invitati ad aderire al Comitato, negarono recisamente. Nessuno dei magnati si accostò a quello. E a vero dire la cosa si spiega da sè quando si riflette che faceva parte del Promotore l’antagonista più acerrimo del Sindaco, e che nè il Sindaco nè il Consiglio erano, in quello rappresentati. Un atto di deferenza verso la prima autorità del paese non avrebbe guastato nulla, ma nessuno ci pensò, me compreso. Quando si credette rimediare inoltrando al Municipio un indirizzo con preghiera d’aiuto e di cooperazione morale e materiale, era troppo tardi. Il Municipio rispose votando mille lire all’effetto ecc. da mettere alla disposizione del Comitato, definitivo. Quest’aggettivo, e non a torto, insospettì i nostri, che chiesero spiegazioni, le quali non soddisfecero nessuno. Il Sindaco minacciò di fare annullare il voto delle mille lire. Mali umori, un diavolerio. Urti seguiti da negoziati, e viceversa, durante quasi due mesi. Vi fo grazia dei particolari. Un bel giorno poi, senza causa apparente, un riavvicinamento parve possibile. Il Sindaco diede sponte la sua adesione, così fecero molti dei finora renitenti. Di più accettò di assistere egli o il marchese Carrega, altro della Giunta, ad un’adunanza definitiva da tenersi il 27 del mese, e ad un’altra preparato-ria pel 25 detto. Una giornataccia quest’ultima di pioggia e di vento, che mi fece augurar male della nostra riunione. Dico nostra per modo di dire, chè il mio incomodo m’impedisce di assistere a qualunque convegno. La discussione procedeva nè bene nè male, quan-d’ecco alzarsi l’antagonista nato del Sindaco, e fare una carica a fondo sulla prima Autorità del paese, la quale ben provvide alla sua dignità ritirandosi senza pronunciare una parola; altrettanto fece il marchese Carrega, e la rottura è più completa che mai. Risaputo questo, stesi due linee dicendo che mi ritiravo dalla Presidenza del Comitato Promotore perchè convinto a quest’ora che non vi potevo realizzare quel poco di bene che avrei sperato, e pregai il dottor Martini di spargerne alcune copie. Io avevo prevenuto i membri del Comitato che mi sarei ritirato ove l’adunanza del 27 non riuscisse ad un modus vivendi, e tenni loro parola. La mia impressione è che non fosse difficile sciogliere il nodo con un po’ di buona volontà e concessione reciproca, piante queste che non allignano in un ambiente carico di fluido elettrico. Anzi se debbo dire tutto il mio pensiero, credo che nè l’una nè l’altra parte desiderasse un accomodamento. Questa mia maniera di vedere confido alla vostra buona amicizia e che nemmen l’aria lo sappia, altrimenti con tutto il bene che mi vogliono, mi ammazzano addirittura. Ho informato il Sig. Drago delle vostre intenzioni e penso che a quest’ora vi avrà dato segno 462 di vita. La mia famiglinola vi ringrazia della buona memoria e v’augura ogni sorta di bene (1). Addio, il mio carissimo Cesare, mi raccomando alla vostra preziosa amicizia, e sono tutto vostro Gr. Ruffini ». XIX. Uu tragico accidente percuote d’improvviso e abbatte la miserevole salute del Ruftini (nov. 1878). Ultime lettere dei due amici. A meglio comprendere le lettere seguenti e gli ultimi anni del nostro romanziere giova qui far cenno di un fiero accidente che l’autunno del 1878 lo percosse a morte e fiaccandone la salute, già scossa, del corpo e dello spirito, gli abbreviò la vita. Tornato da Parigi, viveva a Taggia, come s’è detto, con la famiglia del defunto agente della sua madre Eleonora, e nell’amorosa compagnia di quella traeva tranquilli e riposati i suoi ultimi giorni, quando il 16 nov. mentre tutti riuniti erano seduti a mensa, la vedova Rosa Berenger, per motivi non bene accertati, colta improvvisamente da un accesso di furia suicida, s’alza, corre nell’attigua cucina, afferra un grosso e acuminato coltello, torna in sala e puntato il fondo del manico contro la tavola, se lo immerge con maniaca ferocia tutto profondo nel ventre e cade in un lago di sangue. Fu cosa di pochi secondi. Seguì una scena d’orrore indescrivibile. La poveretta, o subito o di lì a poco, spirò. Il povero vecchio n’ebbe un tal colpo che cadde gravemente malato, le sue facoltà mentali ne furono per un momento offuscate, e parve ne dovesse soccombere. Fortunatamente mercè l’amorosa assistenza dell’orfana famiglia e le sapienti cure dell’amico e medico suo Giacomo Martini, dopo un certo tempo a poco a poco potè alquanto riaversi, ma non perciò ricuperò mai più interamente se stesso, anzi di sè non fu più che l’ombra (2). Il Cabella, che a suo tempo era stato informato del tragico avvenimento e tremava per la vita dell’amico e dopo quasi due mesi di attesa dolorosa non aveva saputo più nulla di lui e della sua salute, scrisse al Martini domandandogli sollecite notizie. Ricevutane subito (1) Chiama affettuosamente mia famigliuola quella del fu Giuseppe e Rosa ved. Berenger, con la quale conviveva e che il Cabella aveva conosciuto nella recente visita al Ruffini. {-) Ho il fatto da persona degnissima di fede che desidera non esser nominata. 463 risposta consolante, scrisse a lui questa lettera di ringraziamento e ve ne accluse una gratulatoria per l’amico convalescente. « Genova, 24 Genn. 1879. » Egregio Signore, » La sua gentilissima del 13 mi ha confortato, poiché mi rassicurò sullo stato di salute del nostro illustre amico. La ringrazio molto d’avermi scritto subito. È una prova d’amicizia e di stima che non dimenticherò mai. E per verità scrivendo dopo quasi due mesi ch’era avvenuta quella orribile tragedia senza che io avessi avuto altra notizia, non sapevo quale risposta mi potesse giungere, e stavo in gran pena. Può quindi immaginare quanto mi furon care le buone notizie ch’Ella mi scrisse. Di nuovo la ringrazio. Scrivo al nostro amico la lettera che le acchiudo, e che mi farà il favore di consegnargli. Accolga intanto le espressioni sincere di amicizia e di stima di chi si rassegna Tutto suo dev.mo Cesare Cabella » Le acchiudo aperta la lettera che scrivo all’amico, perchè Ella vegga prima di consegnarla, che non possa troppo commuoverlo. L’ho scritta con questo pensiero ». Quando se ne sentì la forza; lo scrittoi’ tabiese gli rispose nel modo seguente. « Taggia, 11 Febb. 1879. » Illustre amico, » Perdonerete il ritardo, non sempre sono in grado di scrivere. Materialmente nulla osta, lo potrei, manca l’energia morale per darle la spinta. E quando la trovassi, le jeu ne vaudrait pas la chair delle. Cur urceus exit? Il 16 nov. ha esarcebato tutti i miei mali, l’insonnia in ispecie. Passo delle notti da far pietà ai sassi. La confusione mentale che ne consegue è grande. Ma a che gli omei? nessuno può fuggire il proprio destino. Nessuno sa quel che ho perduto perdendola, non tanto l’infermiera amorosa e intelligente, quanto l’amica, la consolatrice, la forza morale ch’io vi attingeva. Questa ch’io piango era tutt’altro che un’anima volgare. Come, se fosse stata, l’avrebbe scelta a sua compagna, ne avrebbe fatto in certo modo la sua allieva, l’avrebbe accolta in casa sua e tenuta come figlia, quella donna senza pari, che fu Eleonora Ruffini ? al contatto di quel gran cuore non si potea non diventar buoni. Nè fu il benefizio senza ricompensa, una devozione senza limiti per parte della beneficata (1). Ma basta di questa dolorosissima materia. » Ieri finalmente potei inoltrarvi il volume in questione, i Pa-ragreens. Ne avea dato commissione il Lunedì 27 Gennaio ad un libraio di San Remo, che non ne avea in bottega, ma doveva riceverne.... l'indomani. E li ricevette così bene che mi toccò aspettare, come vi diceva, fino a ieri, quindici giorni a un dipresso. Sbadati e sfacciati la loro parte questi Signori bottegai. I Parcigreens sono il più difficile a tradurre de’ miei libri, perchè pieni zeppi d’idiotismi. Se la signora Adele se ne cava con onore, come non dubito, vorrà dire che sa l’inglese non de burla me de vero (2). Non so perchè non sia venuta in luce la versione da me autorizzata. Non so se vi abbia detto che me ne domandava il diritto, ch’io facilmente accordavo, un figlio del figlio di Manzoni. Tanto nomini ìiullum par elogium. » Si riseppe a Taggia nel tempo, e si deplorò la vostra determinazione di non più accettare a nessun patto il Rettorato dell’Università. Capisco anch’io che un galantuomo ha diritto a un po’ di quiete dopo tanto lavoro; ma non serve, quel distacco riesce sempre penoso. » Lo spirito di parte è più ardente che mai a Taggia, non ci fu verso di fondere i due comitati, tutti e due sono più attivi che mai e siamo minacciati di un doppio monumento, che dirà urbi et orbi le storie delle nostre perpetue divisioni. » Addio, il mio caro e dólce amico, abbiatevi cura con questi tempacci, e grazie del bene che mi ha fatto la vostra lettera. Vale et ama Il vostro di cuore G-. Ruffini » Il medico Martini vi manda i suoi ossequi ». « Taggia 7 ott. 1879. » Carissimo e preg.mo Amico, » Se avete, come spero, accettato l’invito della Commissione pel Monumento Soleri, non dimenticate, di grazia, una modesta (1) È da avvertire ohe qui il Raffini fa l’elogio della povera suicida ved. Berenger. (2) Adele, figlia del nostro Avvocato, fior di bellezza, di bontà e ili intelligenza) coltivava con amore particolare la bella letteratura inglase. /gtt i^ir 2. /S? £c A* • r- . / ,//''<- ^ *1..........v C.
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Eestiamo dunque intesi che, sia che arriviate la vigilia (sabato 11) che sarebbe il partito più savio, o che preferiate aspettar la domenica, nell’un caso come nell’altro, verrete a far capo alla casipola, di cui sopra, dove troverete a ricevervi facce amiche e riverenti. » Sono stato più sofferente del solito quest'ultima quindicina, e mi sono, come vedete, lasciato prendere la mano dal tempo. Compatitemi e credetemi sempre tutto vostro i Gr. Ruffini ». La festa dell’inaugurazione ebbe luogo il 12 ottobre; ma il nostro Avvocato per gravi impegni assunti non potendovisi recare, rispose con un telegramma. Dopo alcune settimane, cogliendo il primo momento di respiro, gli scrive la lettera che segue; dove l’assicurazione di aver trovato in lui l’uomo ideale con cui avrebbe desiderato convivere tutta la vita non è punto blandimento iperbolico usato a consolare l’amico, ma pura verità, per chi avverta la singolare medesimezza nel modo di pensare e di sentire dei due valentuomini. « Genova, 2 nov. 1879. » Mio caro amico, » Non vogliate farmi colpa troppo grave se non risposi subito alla vostra affettuosissima dei 7 ottobre in altro modo che con un telegramma. Gli è che proprio non ebbi tempo a far di più. Eppure sapete quanto vi amo; e giudicaste certo quanta pena mi fece non poter accettare il vostro invito così amabile e affettuoso. Oh mio caro! Se la provvidenza avesse fatto o la fortuna avesse voluto che Genova fosse ii vostro luogo di nascita o il vostro domicilio elettivo, o ch’io fossi abitante della vostra città, la nostra vita non sarebbe stata separata mai, perchè in voi, e in voi solo, trovai l’uomo ideale, che mi avrebbe fatto cara la sorte, che mi pare invece appena sopportabile, di appartenere all’umanità.....Mi uscì dalla penna un concetto, strano in mente d’un avvocato, e che ascoltato da altri che da voi sarebbe giudicato di borioso e pazzo. Ma voi che mi conoscete e mi amate, sapete ciò che voglio dire; ed anche voi avrete 90 466 mille volte sorriso tristamente ai panegirici àeWumanitò...... Cliiudo la parentesi. M’increbbe molto di non poter venire a Taggia, e in casa vostra, per assistere alla festa dell’inaugurazione del busto al Soleri. Ma proprio mi fu impossibile, credetelo. E ve ne darò una prova presto: poiché prima che finisca l’anno, mi vedrete un bel giorno comparire a Taggia per stringervi la mano, e passar qualche ora con voi. E desidero trovar la vostra salute migliore di quello che mi scriveste il 7 ottobre; e lo spero. Di me non so che dirvi se non che invecchio molto, del corpo e della mente, se non del cuore; il quale è sempre giovane e si duole perciò di trovarsi in una prigione che va in rovina, ma che ama ed amerà sempre gli uomini buoni ed eletti come voi. Addio, mio caro. State sano ed amate il vostro Cesare Casella ». Segue la risposta del "Ruffini. « Taggia 7 Novembre 1879. » Carissimo Amico, » Ma se Fho sempre detto che siete la bontà personificata. Non vi resse più a lungo il cuore a lasciarmi sotto il peso di quella specie di disfatta, che tale potea parere la vostra assenza dalla Inaugurazione Soleri, dopo le universali assicurazioni in contrario, e diceste a voi stesso: al primo ritaglio di tempo che mi avanza vo’ andare a dare una stretta di mano a quel vecchio e caro amico, anzi gliene do fin d’ora l’annunzio, e così fu fatto. Dimodoché non solo casco in piedi ma guadagno il 100 per 100, perchè almeno sarete tutto mio quelle poche ore, mentre il giorno della Inaugurazione sareste stato di tutti fuorché mio. Tutto bene che finisce bene, All 's well that ends icell, titolo d’una commedia di Shakespeare, che scrivo alla intenzione di quella delle vostre ragazze che si diletta d’inglese. E i Paragreens, a proposito? » Della nostra Inaugurazione vi avrà detto il vostro Collega, il Rossi (che può dire quorum pars magna fui) che non orò altrimenti, ma lesse sommessamente il suo discorso, del quale, quelli che lo sentirono, forse una mezza dozzina, dicono il più gran bene, ma che finora (ci vuol tanto?) non è stampato. L’inno a Soleri fece ottima, impressione come tutto ciò che è semplice, poesia e musica di due Tabie- 467 si (1). Poche le notabilità, il vostro collega Airenti, deputato Boselli, comm. Rossi suddetto, sindaco di Savona e di Sanremo — affluenza discreta. A notte fatta illuminazione della via Soleri, che riuscì splendida (il meglio della bestia, direbbe un Genovese, A big gun [un grosso cannone] più breve e più pulito, direbbe un Inglese) ricca, svariata, di buon gusto. Ma caro mi costa l’aglio, 800 lire! Ho sentito a criticar molto il busto, come a levarlo ai Sette Cieli. Secondo me non merita ìli cet excès d’honneur ni cette indignité. C’è un velo di malinconia su quella fisonomia tutt’altro che bella che se non è storico è ben trovato. » Son qui alla campagna da quasi cinque mesi, i due primi dei quali furono una sofferenza continua dal caldo. Dacché la temperatura s’è rinfrescata, le cose vanno un po’ meglio. Conto di prolungarvi il mio soggiorno fino a tutto il mese, ma molto dipende dal tempo. Il medico lo desidera, vedremo, » Addio dunque, il mio caro Amico. Una~stretta di mano ideale en attendant mieux. e credetemi sempre Tutto Vostro G. Ruffini » PS. — La carta non arrossisce. Vorrei, se fosse possibile, che due o tre, o quanti più giorni volete, prima della vostra venuta, me ne deste avviso con una linea. La gente nervosa sarebbe la più ridicola se non fosse la più da compiangere. Compatitemi. , - G. R. » XX. Malattia e morte di GL Ruffini (3 nov. 1881). Desiderando tributare onori civici ai più benemeriti de’ suoi figli, Taggia dopo il Soleri aveva deliberato e affidato allo scalpello di Luigi Belli dì Torino un busto a Eleonora Curio Ruffini. La Commissione esecutiva e l’intero Comitato commettevano al dott. Giacomo Martini di pregare il Cabella, che aveva già consentito di far parte del Comitato, a voler dettarne l’iscrizione e pronunciare il discorso di circostanza all’atto dell’inaugurazione che doveva aver luogo l’il nov. 1881. Abbiamo la lettera del Martini in data 27' sett. dello stesso anno con cui prega e informa di ogni cosa il nostro Avvocato, e ciò (1) Compose Virino a Soleri il prof. E. B. Conio, lo musicò jl maestro Cino Bbizio, ad insaputa del Ruffini a cui intendeva fare una gradita improvvisata. Ma il grande Tabiese correva ormai verso la sua fine. Eccone il primo annunzio. « Taggia 30 ottobre 81. » Eccellentissimo Signore, » Son dolente doverla informare che il Sig. Ruffini è seriamente ammalato. Da qualche tempo si era manifestata una straordinaria depressione di forze — non dormiva, mangiava pochissimo, stentava a reggersi in piedi, e provava difficoltà a formare un periodo. — Da cinque giorni si manifestò febbre con sintomi gastrici, delino tranquillo e prostrazione estrema. Ieri s’è tenuto consulto con due rispettabili medici di Sanremo. S’è constatato che la malattia è grave per l’insieme delle condizioni dell’individuo, ma resta qualche speranza. Questa mattina c’è diminuzione di febbre ed anche di vaneggiamento. » Sapendo quanto interesse inspiri a V. Eccellenza la persona della cui salute si tratta, ho creduto mio dovere parteciparle queste notizie. » Perdoni la fretta e la confusione. D. V. Ecc. Dev.mo obb.mo Servo Dott. Giacomo Martini » (Dispaccio telegrafico) i « Taggia, 3 novembre ore 10,45. » Senatore Cabella, » Nostro buon amico Giovanni Ruffini morto 5,45 antimeridiane. Martini ». Segue una lunga lettera del dott. Martini contenente preziose notizie sugli ultimi giorni e momenti dell’illustre defunto. « Taggia 11 nov. 1881. » Eccellenza, » Per la confusione d’idee svoltesi nella mia povera testa dopo la malattia e morte del nostro caro compianto Amico, non son ben certo se Le abbia accusato ricevuta della sua ultima lettera, e 469 dell’offerta pel monumento che v’era acchiusa. Mi metto al sicuro col farlo adesso, e se sarà una ripetizione Ella saprà compatirmi per la causa sovraccennata. La sua lettera mi giunse che il Signor Giovanni era già delirante, delirio che, con brevissime pause, durò tutto il tempo della malattia. Provai qual sensazione gli avrebbe procurata la notizia, e gli dissi che il Signor Cabella aveva spedito la sua offerta pel monumento. Egli sorrise leggermente e rispose: « Sempre buono quel caro Cabella! » ma tosto ricadde nel suo vaniloquio. Naturalmente io non gli dissi che Ella si scusava e per quali ragioni dall’accettare il discorso inaugurale e dal dettare l’iscrizione. Non mi avrebbe potuto seguire, e sarebbe stato un imbrogliargli vieppiù la testa, non sapendo neppure che si fosse scritto a V. E. per tale emergenza. » L’inaugurazione del monumento era da qualche tempo la sua preoccupazione. Egli ci profetizzava che non avrebbe potuto aspettare quell’epoca, la quale sarebbe stata appunto quest'oggi, se si fosse deciso di affidarne un po’ prima l’esecuzione allo scultore Belli. — Oggi, data della morte dopo 25 anni, della Signora Eleonora. Quand’anche il Belli avesse finito il lavoro, la morte del figlio sarebbe stato tal contrattempo da rimandare assolutamente una solenne inaugurazione del monumento alla madre. » Ora neppur noi sappiamo come regolarci. Rimesse un po’ le cose, si adunerà il Comitato, e si delibererà. Il marmo sarà pronto per la fine del mese, e tutto fa sperare che il Belli farà opera degna della memoria a cui il monumento è dedicato. Per pochi fondi che mancano supplirà un concerto ed una Rappresentazione d’una Società Pilodrammatica che si preparano a Sanremo. I nemici di Donna Eleonora e della sua progenie non la spunteranno! » Io alludo qui ad un foglio litografato, proveniente dalla posta di Genova, sul quale l’individualità di Donna Eleonora è abbassata al livello di una madre comune, per criticare l’idea del monuménto, che si considera come un’adulazione al figlio. Fortunatamente o sgraziatamente questo stupido anonimo giunse il giorno della morte dell’illustre Giovanni. Se fosse stato un calcolo sarebbe un delitto enor-me. Taggia ne rimase indignata. » Pel caso che avesse sopravvissuto, il Signor Giovanni si teneva sicuro che V. E. avrebbe presenziato la cerimonia. Me ne parlò più volte, si proponeva pel caso di recarsi alla sua casa in Taggia, non avendo stanze per alloggiai’la alla Villa Eleonora, la sua casa di campagna, distante pochi minuti dalla città, che avea fatto ristaurare. » Il nostro buon amico era stanco di vivere. Un giorno, accer- tandomi del suo desiderio di compire il suo corso, mi diceva: « Le capiterà di rado un cliente che desideri la morte. Può prendere nota ch’io son quello ». Un giorno, la scorsa primavera, ebbe la visita di tre Signorine Inglesi. Una di queste lo contemplava sempre e non parlava. Il sig.r Giovanui avvedutosene le disse: « M’osserva troppo, devo sembrarle troppo vecchio e troppo brutto ». « Osservavo», riprese la signorina, « che Ella ha una grand’aria di bontà, e che tutti i personaggi de’ suoi Romanzi sono anche buoni. Forse ha sempre avuto a fare anche con delle brave persone ». « Meno gli ultimi cinque anni » replicò il signor Giovanni. Per quanto penosa, mi consolai, sapendo che l’allusione non era a me diretta. Tutt'altro, Egli fu sempre per me pieno di benevolenza. E Iddio ne lo rimuneri. » Ma effettivamente negli ultimi anni Egli ebbe molti dispiaceri, anche da parte di persone che aveva tanto beneficato, e che aveva in cuore di beneficare, come ha fatto. Era troppo buono, e ne profittarono. Io spero d’aver fatto il mio dovere fino all’ultimo. Nelle ultime ore fu assistito da me, da mia figlia, da mio fratello, e e da due sacerdoti, amici suoi e di sua madre. » Il Municipio di Taggia gli decretò solenni funerali. Vi presero parte tutte le Autorità della Provincia, e si volle che il vecchio amico stesse attorno al Feretro, sostenendo un cordone, in mezzo a tanti Cavalieri e Commendatori. Fu stragrande il numero degli intervenuti, e se il Sig.r Prefetto ci avesse permesso di differire il trasporto di quella venerata salma al lunedì,' invece di fissare il sabato, sarebbe stato anche maggiore. » Giungono ogni giorno reclami di persone che si lagnano di non essere state avvisate in tempo. » Temo che questa mia si risenta un poco e forse un po’ troppo dello stordimento occasionatomi da tanta perdita. V. Ecc. mi compatirà, lo ripeto. » Colla massima considerazione D. Y. Ecc. Dev.mo Obb.mo Servo Dott. Giacomo Martini » A compimento delle notizie relative al Ruffini aggiungo che la inaugurazione del busto alla madre santa fu poi fatta il 17 settembre del 1882; che la casa del Ruffini in Taggia, ridotta a un mucchio di rovine dal tremendo terremoto del 23 febbr. 1887, fu poi riedifi- 471 cata; e che il D.1' Martini, così probo e benemerito di quella preziosa vita, si spense il ‘26 genn. 1892. Taggia ha pure eretto sulla piazza principale un obelisco ai fratelli Ruffini alto m. 10 portante in tre lati del basamento tre medaglioni in bronzo coi ritratti di Giovanni, Jacopo ed Agostino. Nel quarto lato è il ritratto di Domenico Ferrari tabiese, fucilato nel 1833 nella fortezza di Alessandria perchè reo di Giovane Italia. XXI. Professione legale di Cesare Cabella. Abbiamo già detto, e recato saggi, della sua eloquenza parlamentare. Non patrocinò cause penali se non raramente e in materia politica e, come dissi altrove, solo quando si trattò di rendere meno tagliente la spada della punitiva giustizia impendente su uomini e giornali di parte liberale. Suo campo attuoso e quotidiano era invece il foro civile e commerciale dove impresse orme e colse allori che il tempo non varrà a distruggere e gli assicurano il seggio più alto fra tutti i giuristi genovesi dell’età sua: ne fa fede la pubblica fama che tuttavia ne dura, le testimonianze dei più valenti giureconsulti suoi coetanei, le sentenze dei tribunali e le allegazioni giacenti e in parte ancora inedite nel suo domestico archivio. Trattò questioni civili ponderose e complicate, come la causa Magnani di cui P. S. Mancini da Torino il 24 marzo 1859 così gli scriveva: « Ho riletto con attenzione e con piacere sommo il vostro insigne lavoro per la difesa del vostro Magnani, a cui ho scritto che non si poteva fare nè sperare o desiderare di meglio, perchè tal è l’intima mia convinzione. La difesa avversaria mi pare che rimanga indietro ad immensa distanza; e se dal valore delle rispettive difese dovrà dipendere la sorte della lite, essa a parer mio non può rimanere un solo istante dubbiosa ». E G. B. Cassinis nello stesso giorno: « Ho letto colla massima soddisfazione l’egregio vostro lavoro — Magna* ni — un lavoro come solo sa farlo Cabella, Voi avete trattata la questione colla mente non solo ma anche col cuore. 11 Magnani, quella sua probità veramente antica, e la santità delle sue ragioni hanno fatto sopra voi quel magico effetto che avevano fatto sopra noi tutti — e l’opera vostra ne porge la più evidente prova ». In materia giuridica quanto deferissero alla sua dottrina e al suo ingegno i suoi colleghi fan prova molte lettere, ed io poco ne riferirò trattandosi di cosa notoria. G. B. Cassinis il 4 sett. 1861 a proposito di una questione gli scriveva: « Questa prova non c’è e il 472 contestare il mentovato principio panni proposito impossibile. Farmi, dico, ed in ciò dichiaro una convinzione mia, convinzione bastante pei’chè io non mi senta di sostenere il contrario. Se mai voi sentiste diversamente, è troppo il rispetto verso la vostra dottrina ed il vostro nobile ingegno perch’io non creda possibile a voi, propugnante una convinzione propria, il sortirne vittorioso ». Carteggiando col principe Allessandro Torlonia di cui curava capitali interessi, un giorno il nostro Concittadino gli additò, come illustre campione da vantaggiosamente consultare, il Mancini, il quale così ne lo ringraziava da Livorno con lettera 2 giugno 1863: .« Vi ringrazio di aver rammentato il mio nome in occasione di un affare importante del principe Torlonia. E sempre lusinghiera una scelta che viene da voi; ma pur troppo dove voi siete, l’ingegno e gli studi, se pur io ne avessi a quel grado che la vostra cortesia mi attribuisce, nulla troverebbero a fare e ad aggiungere ». Tra le molte cause civili di alta importanza da lui trattate è da segnalarsi la Carosio-Rocca contro i marchesi Sertorio relativa a questioni di fedecommessi; tra le cause concernenti quistioni ereditarie merita d’essere ricordata la importantissima Musso contro Mcn-tebruno. Nel periodo più attivo della sua professione applicò l'ingegno a molte cause di diritto commerciale e marittimo. Egli era avvocato del Comitato degli Assicuratori di Genova e di quasi tutte, le Compagnie di Assicurazione marittima che da questo Comitato dipendevano. Quasi innumei'evoli sono le cause da lui trattate pertinenti a sinistri marittimi fra le quali va famosa quella relativa al sinistro del Cosmos della ditta Frassinéti, e quella contro la ditta Sciallero-Carbone. Destò rumore a Genova la causa Bertolucci dal Nostro patrocinata contro il Viceré d’Egitto, che implicava anche difficili e gravi quistioni di diritto internazionale pubblico e privato. Di queste e di altre non poche lasciò complete Allegazioni scritte che furono al suo tempo oggetto di unanime ammirazione presso il ceto legale. Chiamato a consulto nella celebre causa Pagliano e Landau svoltasi prima in appello a Firenze poi presso la Cassazione di Eoma tra il 1S74 e 77, scrisse una Memoria sul Contratto di Riporto che dai giureconsulti fu riputata un capolavoro di classica perfezione e fece poi sempre testo nella giurisprudenza commerciale. Comechè di credenze religiose molto diverse, fatto notevole, la duchessa Maria Brignole Sale ved. De-Ferrari, lo volle suo consulente e dettatore delle tavole di fondazione dell’Ospedale di S, 473 Andrea Apostolo e di altre Opere Pie da lei fondate (1). Parecchie lettere autografe che di lei a lui ci rimangono attestano la illimitata stima ch’ella nutriva per la sua sapienza e la spiccata simpatia per la sua persona; e più delle lettere il fatto ch’ella lo aveva già nominato primo de’ suoi esecutori testamentarii quando, nello stesso anno 1888, la morte spense pochi mesi prima l’esecutore designato che la testatrice (2). Quando occasione gli s’offriva, dagli studi per gl’interessi dei clienti egli traeva consiglio utile agl’interessi del nostro paese. Man mano che l’esercizio della professione gli faceva manifeste le lacune e i difetti delle nostre leggi, anziché pubblicare per le stampe proposte di aggiunte e correzioni, usò comunicarle direttamente alle costituite autorità politiche perchè le esaminassero e, se giuste e opportune, ne promovessero la pratica attuazione. Così dalla risposta di Emilio Visconti Venosta Ministro degli Esteri, in data 3 5 febbraio 1874 rile. viamo che il Nostro gli aveva esposto il buio e gl’inconvenienti a cui dava luogo l’inesattezza e la manchevolezza di quelle leggi che non determinavano quali carte e documenti siano di proprietà dello Stato nella trattazione dei pubblici affari, e di quali e sotto quali condizioni ne possa esser permessa la pubblicazione; e cosi pure l’imperfezione delle leggi riguardanti l’obbligo del segreto dei documenti ufficiali e le sanzioni penali da stabilirsi contro i violatori di tale obbligo. Il Ministro rispondendo si dice grato della gentilezza usatagli da un uomo politico di tanta esperienza ed autorità, riconosce i difetti lamentati e la necessità di ripararvi, lo invita a comunicargli il risultato de’ suoi studi in proposito per poter esser meglio in grado di giudicare insieme con lui intorno alla opportunità delle proposte da farsi. Tra i colleghi deputati esercitanti professione legale ch’ebbero con lui più o meno frequente e famigliare carteggio, oltre i già citati sono da nominarsi Saverio Vegezzi, emunctae naris homo, di acuta (1) Ho avuto iu mano i suoi manoscritti relativi a cause da lui patrocinate per la Duchessa contro decreti prefettizi e municipali, che sono, al solito, un lume di giuridica dottrina e di logica evidenza. (2) Con suo testamento 20 marzo 18S4 la Duchessa nominava suo esecutore testamentario il Cabella insieme coll'aw. Comm. Andrea Peirano e il Sindaco prò tempore di Genova. Morto il Cabella il 2 aprile 1888, con suo codicillo 5 maggio dello stesso anno nominava in sua vece il sen. Barone Andrea Podestà sotto la condizione che, ov’egli fosse stato Sindaco all'epoca della morte della testatrice, dovesse farsi sostituire da altra persona. A ciascuno dei tre esecutori il testamento assegnava una gratificazione di L. 20.000. 474 mente, di specchiata rettitudine, di grande attività, di giocondo carattere, scherza spesso piacevolmente con l’amico nelle sue numerose lettere d’affari (1) ; Vincenzo Miglietti, ingegno scrutatore e mirabile dipanatore di arruffate matasse legali (2) ; GB. Cassinis dotto scrittore di materie giuridiche (3). Numerose son pure le lettere d’affari di Federico Spantigati, nè è da stupire perchè se v’è nel foro piemontese giureconsulto che per produttiva attività, per lealtà di carattere, per delicatezza di sentimento, per singolarità di modestia somigliasse al nostro Genovese egli è appunto lo Spantigati col quale pure aveva comuni i sentimenti liberali politici (4). Aggiungo Giovanni Filippo Galvagno, spirito integerrimo di parte moderata che dopo aver fatto parte dei Consigli della Corona come Ministro, prima di Agr. Ind. e Commercio, poi degl’interni, infine di Grazia e Giustizia, e come Sindaco diretta 1’Amministraz.ne com.,e della sua Torino, per salvare da rovina l’oberato patrimonio domestico riprese modesto l’esercizio del foro (5); Francesco Guglianetti piemontese liberale di acuto ingegno che nella IV legislatura rappresentò il collegio di Cicagna dopo le dimissioni di Lorenzo Pareto; Filippo Mel-lana liberale e patriota, esempio di probità e di zelo pel pubblico bene, amicissimo e seguace del Rattazzi. fiero oppositore del Cavour, grande amico del Cabella; Casale lo ricorda tuttora con giusto orgoglio (6). Tra i giovani addetti al suo studio in tempi a noi più vicini (1) S. Vegezzi n. a Torino nel 1805. Amico del Cavour col quale fu Ministro delle Finanze dal 21 genn. 1860 al 23 marzo 1861. Senatore del Regno dal giugno 1867; in. a Torino nel 1888. (2) V. Miglietti n. a Torino nel 1809. Appartenne alla Destra. Due volte Ministro di Grazia e Giustizia, prima col La Marmora dal luglio 1859 al genn. 1860, poi col Eicasoli dal giugno 1861 al marzo 1862. Senatore nel 1863. Uomo di grande operosità e probità. M. nel 1864. (3) G. B. Cassinis n. a Masserano (Biella) nel 1806. Grande amico del Cavour col quale fu Ministro di Grazia e Giustizia dal 21 genn. 1860 al 6 giugno 1861. Presidente della Camera durante l’VIII legislatura; nel 1865 creato Senatore. Si suicidò il die. del 1866. Torino gli eresse per pubblica soscrizione un monumento, fattura del Tabacchi, nel giardino della Cittadella. (4) F. Spantigati n. in Alessandria nel 1831. Giovanissimo resse la cattedra di Diritto internazionale nell’Ateneo torinese. Esordì nella vita politica sotto gli auspici del suo amico e concittadino U. Rattazzi; fu riputatissimo deputato per sei legislature; bene meritò per più titoli ài Alessandria e di Torino. Mori troppo presto l’ottobre del 1884. (5) N. a Torino nei primi del secolo; senatore nel 1860: m. nel 1874. (6) N. a Casale nel 1810 da ricca famiglia; rappresentò in Parlamento la sua città natale dal ’48 fino alla sua morte seguita il 29 nov. 1874. Fu Sindaco della sua patria, Presidente del Consiglio provinciale di Alessandria; in ogni ufficio operoso e benefico. 4?5 meritano onorifica menzione, dopo gli eroici e già da noi lodati Filippo Migliavacca e Carlo Gorini, gli avv. Paolo Bigliati, Fr.00 Fontana, Giambattista Liberti, Emilio Casanova fu Ludovico, Giulio Balbi, Claudio Carcassi, Giovanni Della Cella e Giuseppe Falcone. « Fu grande avvocato di fama italiana e grande giureconsulto. Giureconsulto per la vastità e la profondità della dottrina e della cultura giuridica, scientifica e letteraria ; giureconsulto per la insuperabile integrità del carattere e l’onestà della vita; giureconsulto jjer la bontà dell’animo che non distingueva tra il cliente magnatizio e ricco e il povero; giureconsulto a un tempo ed oratore. » Oratore, si, e tale che primeggiò tra i colleghi viventi e non è agevole surrogarlo. Molti hanno facile e purgato e caldo l’eloquio; ma la facondia eziandio chiara e fiorita non è l’oratoria. L’oratore non ha sempre lo stesso diapason; pone ed esplica la proposizione; narra la storia dei fatti con piano stile; ragiona convincendo e con logica serrata deduce. Poi a volta si esalta, senza sforzo, spontaneo, per la natura del soggetto in quel punto; e allora suscita gli affetti con voce più robusta e commossa, eccita la fantasia con le immagini smaglianti e le iperboli ardite; allora soggioga e trascina con se l’uditorio, oltre che persuaso, sedotto. Questa è la vera eloquenza e il Cabella la possedeva ». Così, e bene, l’avv. Enrico Bixio (1). Infatti : colpire il punto giuridico della questione nelle multiformi e avviluppate circostanze costitutive del fatto, scoprire quanto si disformi o conformi alle disposizioni della legge il caso controverso e cavarne partito a prò’ del cliente è ufficio proprio dell’avvocato, e ufficio che riusciva facilissimo all’esercitato acume indagatore del nostro Concittadino; eppure, secondo quello che ricordo aver sempre udito a Genova da giuristi fededegni, Genova vantava allora eminenti avvocati quali Antonio Caveri, Domenico Boccardo, Tito Orsini e G. Battista Rossi, suoi colleglli ed amici, che sotto questo rispetto potevano per avventura rivaleggiare con lui, ma dove non temeva rivali si è nell’opera del giureconsulto. Il giureconsulto domina e signoreggia tutto il giure ne’ suoi supremi principii. e come maestro spiega e dilucida la legge, ne rivela le cause generatrici, ne tesse la storia, dimostra con quali criterii la si debba interpretare, entro quali confini debba valere, qual preciso rapporto abbia quindi col fatto causale; inoltre, colla specchiata probità della vita è esempio a tutti di riverenza a quella legge che egli professa e col magistero della parola (1) Nel Commercio•- Gazzetta di Genova 3 aprila 1888. 47 fi semplice e pura illumina le menti e desta negli animi l’amore del bene e del vero. L’avvocato lavora pel cliente, il giureconsulto per la giustizia; l’avvocato esercita un’industria, il giureconsulto un sacerdozio, e couverte una professione di meccaniche applicazioni e di materiali consuetudini in una scuola di sapienza civile. Questo nobile ministero sostenne sempre il nostro Concittadino il quale, sempre mirando in alto, assunse molto spesso e volentieri e con iscapito de’ suoi interessi la gratuita difesa delle ragioni dei poveri e dei derelitti, negò sempre il suo patrocinio a tutte quelle cause, comunque lucrose, che dissonassero dai principii della sua illibata coscienza. Così « ricusò il suo patrocinio al Persano cui non gli parve potere coscienziosamente purgare dall’accusa di codardia, e al Duca Francesco d’Este che aveva lite co’ suoi ex-prigioni politici » (1). Dissi il Cabella largo di aiuto al povero anche con iscapito dei proprii interessi. Egli fu infatti per tutta la vita, e forse in ciò solo natura poco genovese, quello stesso scarso estimatore del denaro che fin dalla prima giovinezza aveva confessato di essere scrivendo all’amico veronese Francesco Barbaro. Oppostamente all’abitudine di chi, parlando e scrivendo secondo i più larghi ideali di umana fratellanza, ne’ suoi pratici negozi procede con gli spiriti della più sordida venalità commerciale, per unanime consenso di quanti ebbero affare con lui, nell’esercizio della sua professione recò e dimostrò sempre un (1) Cfr. P. E. Bensa Commemorazione citata. — Il nostro avvocato aveva già altre volte, in causa migliore, patrocinato gl’interessi del conte Carlo Pellion di Persano. Ecco il principio della lettera con cui l’ammiraglio lo prega del suo aiuto. « Firenze, addì 17 febbraio 1867. » Mio degno e caro cavaliere, » Eccomi nuovamente sotto il peso dei malevoli, dirò meglio, della calunnia. Non volendo distogliere Lei dalle sue occupazioni di costi, scelsi a mio difensore l’egregio avv. Cav. Sanminiatelli, che mette in questa mia faccenda un cuore più unico che raro. Ma desiderando il Sanminiatelli di averla a condifensore, e nulla bramando io di meglio, non so astenermi dal chiederle di accordarmi il di Lei valevole patrocinio, accertandola, mll'onor mio, che ho la coscienza sicura di aver adempiuto, nella malaugurata impresa di Lissa, ai doveri che m’incombevano, e come italiano, e come Ammiraglio e qual suddito divoto del Re », Tardando la risposta del nostro avvocato, gli scrive il conte avv. Luigi Sanminiatelli pregandolo ad associarsi a lui nella difesa del Persano, sollecitandone una risposta affermativa, dicendogli probabile il compatrocinio del Mancini e proponendogli la tripartizione del lavoro defensionale. — Tutti poi sanno che il Senato costituito in Suprema Corte di giustizia, pronunciò contro l’ammiraglio la sentenza preveduta dal Cabella. Ciò non ostante il Persano morì vecchio a Torino di 77 anni nel 1883. 477 disinteresse e una generosità che altri giudicò piuttosto da ammirare che da imitare ; di che si raccontavano in Genova esempi molteplici e singolari. Com’è noto, a’ suoi tempi era uso comune presso il ceto dei legali e dei medici, di lasciare alla libera discrezione del cliente il quanto e il quando dell’onorario corrispondente all’opera prestata; uso più dignitoso che sicuro, e fattosi con la progredita civiltà via via sempre più pericoloso e di cui il Nostro dovette sentire i tristi effetti perchè già in età declinante se ne lagnava in tutta confidenza con l’amicissimo avv. Federico Spantigati, il quale con lettera senza data precisa ma forse tra il ’70 e il '75, gli rispondeva consigliandolo a non affidaci intieramente alla discrezione dei clienti ma a notificar loro la cifra precisa del loro debito. Onde non è meraviglia se, promulgata la legge dell’8 giugno 1874 che regolava l’esercizio della professione legale e chiamava gli avvocati a unirsi in corporazione, dall’unanime volontà de’ suoi colleghi che in lui riverivano il loro eminente primate, fu eletto Presidente del Consiglio direttivo dell’ordine; onore che gli confermarono finché visse. E per vero, l’autorevolezza e la dignità di quella primazia gli si leggevano impresse anche nell’aspetto, fedele immagine del suo spirito. « Chi non ricorda, esclama il Bixio, quella caratteristica figura? Alto della persona, appena curvatasi un poco in quest’ultimo tratto della sua vita; quella barba, rasa sulle labbra e sul mento, in collana attorno la faccia, alla greca; quella zazzera vaporosa e inanellata, ancor bionda in parte malgrado gli anni: quella fisionomia aperta, sorridente, dagli occhiali d’oro luccicanti sugli occhi vivaci e soavi; quel portamento snello e composto, elegante e severo; quei modi da gentiluomo di una cortesia quasi femminile, contemperata a tanta dignità e cordialità? Pareva uno dei giureconsulti della Camera dei Lordi, e per antonomasia e quasi per istinto, tutti lo chiamavano più che sotto qualsivoglia altro titolo con la designazione di Senatore ». 478 XXII. A nome dell’Ordine degli Avvocati porge solenne ringraziamento d’addio al sen. Eula nominato Primo Presidente della Corte di Cassazione di Torino (anno 1879). Quando con Decreto 15 marzo 1879 il sen. Lorenzo Eula, Primo Presidente della nostra Corte d’Appello, veniva assunto all'altissima carica di Primo Presidente della Corte di Cassazione di Torino, Genova che così per l’alto ufficio giudiziario eccellentemente esercitato come per gl’insigni benefizi politici da lui ricevuti l’aveva proclamato suo figlio adottivo e cittadino benemerito, applaudì al ben conferito onore ma fu dolente di tanta perdita. Il Consiglio dell’ordine degli Avvocati si presentò in corpo all’eminente magistrato per fargli omaggio di plauso e di addio e testimoniargli i sentimenti di ammirazione e di riverenza di tutto il Collegio. Se ne faceva interprete orale il presidente Cabella con le seguenti parole che ic trascrivo perchè rispecchiano tanto bene l’indole dell’animo di chi le pronunciava e sono un lume di affettuosa sapienza. 1 « Eccellenza, » Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Genova viene, a nome dell’intero collegio, a salutare con plauso sincero il nuovo Presidente della Corte Suprema di Torino, e a dare un addio affettuoso all’esimio Magistrato che abbandona la presidenza della Corte di Genova. » Noi possiamo ben presentarvi le nostre felicitazioni e i nostri voti: non i nostri rallegramenti, perchè dell’alta dignità a cui siete ora innalzato l’allegrezza tocca a coloro che vi acquistano non a noi che vi perdiamo. Di questa perdita può solo confortarci il pensiero ch’essa non è intera, perchè sebbene lontano e in più ampia sfera, pur rimanete ancora capo supremo alla nostra magistratura. » Sarebbe nostro desiderio encomiare con parole degne di voi la scelta del principe. Ma siam certi che più cara di ogni altro plauso vi sarà la mestizia profonda e vera del nostro addio; la quale meglio della parola vi manifesta il molto amore e la molta stima del foro: massima lode al magistrato. Nè dal foi’o solo, ma dall’universale niuno mai meritò ed ebbe mai maggior affetto e riverenza: e e ve’l provò la cittadinanza nostra quando per gratitudine di un 479 grande benefizio vi volle suo, ed ora dolente essa pure vi accompagna co’ suoi voti alla nuova sede. » Voi veniste fra noi, non uomo nuovo, ma conosciuto per alte funzioni qui egregiamente già sostenute e per bella fama altrove acquistata. E però molto si sperava di voi: lode già per sè grandissima. Ma è raro che quegli di cui molto si spera porti degnamente, o almeno non contestato, fino all’ultimo il fascio di lodi anticipato dalle speranze. Voi non solo vinceste, 'ma superaste la prova: chè non si levò mai una voce dissenziente al plauso universale: cosa mirabile e quasi miracolosa per un giudice, al quale necessità e dovere di giustizia impongono sempre di ferire l’uno degli interessi che sono in contesa. » Ma noi che vi conoscemmo dappresso e vi vedemmo ogni giorno nell’esercizio dell’alto vostro ministero, conosciamo pur le ragioni, e possiamo certificarle, di questa unanimità di lodi. » L’alto intelletto e la profonda dottrina che vi son guida sicura nell’arduo ufficio del giudice; la rettitudine e la probità, sentimenti a voi così naturali da parere quasi più istinto che volontà; il cuore nobile, generoso: la bontà con cui sapete temperar facilmente il rigore del ministero: la semplicità dei costumi, vera dignità dell’uomo, egualmente lontana da vana ostentazione o da soverchio abbandono: la dolcezza, la cortesia, l’affabilità delle maniere, che vi conciliano gli animi più ritrosi, ed hanno quasi virtù di sanar le ferite che la giustizia v’impone: finalmente l’attività instancabile che fa così facile a voi, così utile e pronto agli altri, il lavoro: tutte queste doti che formano il gran magistrato, voi mostraste di possederle in alto grado. » E pensando a ciò noi non possiamo comportar senza dolore che voi abbiate ad abbandonarci. » Accettate il nostro saluto come pegno dell’affetto e della riverenza che vi conserveremo nei nostri cuori. Le funzioni del nostro ministero ci chiameranno sovente dinanzi all’alto consesso che siete chiamato a reggere. Sarà ogni volta una festa per noi il rivedervi. Aspetteremo confidenti da voi l’ultima parola della giustizia. E voi, rivedendoci, rammentate che non potrete avere mai amici e ammiratori più sinceri degli avvocati del foro genovese ». XXIII. Suoi uffici legislativi. La rinomanza della sua dottrina giuridica, prima ancora dell’aggregazione al Consiglio accademico della nostra Università, gli meritò di essere nominato membro della Commissione eletta dalla Camera il 22 giugno 1860 per la revisione del Codice civile. Più tardi un R. Decreto lo nominava membro della Commissione per la unificazione legislativa del Regno ordinata con legge 2 aprile 1865. Con Decreto Ministeriale 9 sett. 1869 fa parte della Commissione per la compilazione del nuovo Codice di Commercio. Giusta la lettera ministeriale, firmata Zanardelli. del 5 febbr. 1883, egli fece pur parte di una nuova Commissione nominata allo stesso effetto fin dal 1876 (1). Di quanto valore fosse riputata l’opera sua in tale codificazione fa testimonianza la seguente lettera dell'illustre prof. Nicola Alianel-li, successo al nostro Caveri nella presidenza di questa Commissione. Ministero di Grazia e Giustizia e « Firenze, 13. maggio 1870. de' Culti. » Onorevolissimo Sig. Collega, Non saprei dirle a parole quanto mi duole che alla Commissione manchino i lumi della di lei dottrina ed esperienza. Intendo le gravi ragioni che la trattengono costà, ma fo voti che possa altra volta e fra breve e per più lungo tempo prender parte alle nostre discussioni colla sua solita lucidezza di esposizione conseguenza della lucidezza delle idee. Sia certo, onorandissimo Sig. Collega, che la Commissione vorrebbe averla sempre nel suo seno: io non oso dirle venga quello o quell’altro giorno, ma le dico venga appena potrà e farà cosa grata a tutti, utilissima al paese. (1) Lavoro di lunga lena questo Codice di Commercio e che deve essergli costato lo studio e le cure di parecchi anni se ancora nel maggio del 1879 attendeva a recarvi le ultime correzioni! Il che appare manifesto da una lettera lunghissima in data 8 maggio, dove l’avv. Enrico Hornbostel di Marsiglia gli esponeva le sue vedute circa diversi punti di Diritto marittimo internazionale e gli domandava il suo parere, 11 481 Ho ricevuto tutte le stampe favoritemi e le ne rendo distinti ringraziamenti. Attendo il suo lavoro sugl’istitori che sono sicuro sarà accettato senza discussione. Tutti gli onorevoli componenti la Commissione con me la riveriscono, ed io con sentimenti di sincera e profonda stima mi dichiaro Suo devotissimo Comm. Niccola Alianelli (1) ». Con Decreto Ministeriale 2 aprile 1882 vien nominato membro della Commissione per il lavoro di coordinamento del Codice di Commercio con altri Codici e le relative disposizioni transitorie e regolamentari. La Commissione generale avendo nominato una Sotto-Commissione di sette, questi elessero lor Presidente il Cabella^come il legista più autorevole in tema commerciale. Del come poi ordinasse questo -complesso lavoro legislativo parla il Cabella in una lettera al figlio Edoardo che ommetto per brevità. Sullo scorcio del gennaio 1883, poiché ebbe compiuti tutti i lavori legislativi commessigli, e consegnati al Ministero gli elaborati della Commissione e salutati i col leghi, prima di partire per Genova si recò al Ministero di Grazia e Giustizia per congedarsi dall’amico ministro Zanardelli e raccomandargli la sorte di un degno impiegato. Se non che avendo udito dall’usciere che il Ministro non dava udienza, solita consegna ufficiale, lasciò il proprio biglietto di visita e si parti. Tornato a Genova, gli espose per lettera il suo desiderio, e lo Zanardelli si affrettò a rispondergli nel modo seguente. « Roma, 2 febbr. 1883. » Carissimo amico, » Quanto mi duole non aver potuto vederti quando eri venuto per prender congedo! Se tu avessi parlato al Gabinetto, dacché agli (1) Nicola Alianelli fu uno di quei forti uomini che devono tutto a se stessi. N. nel 1803 da povera famiglia in un umile borgo della Basilicata, « dopo mille stenti e privazioni riuscì a laurearsi in Giurisprudenza alla Università di Napoli ». Liberale e patriota, sofferse dal Governo borbonico destituzione e prigionia. Fervido ingegno e integro carattere lo innalzarono a meritata sommità. Autore di molte lodate opere tra le quali lodatissime le Istituzioni di Diritto comvierciale che lo resero illustre nel ceto giurista, fu primo presidente onorario della Corte di Cassazione di Napoli; nel 1876 fu fatto senatore; mori nel 188(3, 81 482 uscieri, poco intelligenti come sono, si danno consegne generali, in qualunque ora mi avrebbero procurato il piacei’e di stringerti la mano, e ringraziarti pel molto che facesti nella revisione del Codice di Commercio. Tanto si deve a te, se l’abbiamo in non pochi passi migliorato nel limite delle facoltà che ci erano attribuite. » Spero tuttavia che verrai presto di nuovo a Roma e di rivederti allora: mi è sempre desideratissimo il trovarmi con uno di quelli da cui, nei primi passi della vita politica, procurai d’imparare come si difenda la causa della libertà. » Segue poi rispondendogli sulla raccomandazione dell’impiegato. Questo come amico; come Ministro, lo Zanardelli sentì dover suo rendergli a nome del Governo le più vive grazie e" onorarlo di amplissimo encomio per la valida opera prestata nel laborioso perfezionamento delle nostre leggi, E lo fece con questa lettera ufficiale. All’Illustriss.mo Signore Avv. Cesare Cabella « Roma, 5 febbraio 1883, Senatore del Regno » Ora che l’attuazione del nuovo Codice di Commercio è un fatto compiuto, sento il bisogno di esprimere alla S.a V.a Ill.ma la viva soddisfazione del Governo per la valida cooperazione da Lei prestata a quest’opera legislativa, da cui tanti benefìci si attendono alla prosperità economica del paese. » Oltre di aver avuto parte attivissima nei lavori della benemerita Commissione che nel 1865 ha preparato, anche, nella parte del Diritto Commerciale, l’unificazione legislativa dell’Italia fatta nazione, e di aver da molti anni sostenute, con grande autorità, dalla Cattedra e nel foro le gloriose tradizioni del Diritto commerciale italiano, Ella ha nell’importante riforma ora compiutasi contribuito efficacemente sia nelle Commissioni ministeriali del 1869 e del 1876, sia nei lavori parlamentari del 1875, del 1880 e del 1882 nella Camera vitalizia, ed ha finalmente, con straordinaria alacrità e con zelo superiore ad ogni encomio, recato il prezioso contributo de’ suoi lumi e della sua esperienza nei lavori della Commissione istituita col R. Decreto 2 aprile 1882 per lo studio delle modificazioni di coordinamento e delle disposizioni transitorie e regolamentari per l’attuazione del nuovo Codice. » Mi è grato quindi di dover schiettamente dichiararle che a 483 Lei è in gran parte dovuto l’onore del miglioramento della patria legislazione commerciale, nell’atto che con la più distinta considerazione e stima mi pregio di essere devot.mo Zanardelli ». Anche d’altre Commissioni di carattere legislativo fece parte. Esiste lettera ufficiale del Ministro degli Esteri P. S. Mancini in data Roma 4 die. 1882, con cui il Nostro vien pregato di collaborare nella Commissione istituita per la Revisione della Legge e del Regolamento consolare. Da lettera ufficiale d’invito del Ministero degli Esteri (Di Robilant) in data Roma 3 febbr. 1887 risulta ch’egli (a 80 anni) faceva ancor parte di detta Commissione presieduta dal sen. Miraglia. Anche i Consigli superiori ebbero il contributo del suo senno legale. Nel 1880 egli era Presidente del Consiglio Superiore del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, come risulta da un telegramma d’invito del Ministro Miceli, dal telegramma di condoglianza del Ministro Grimaldi alla famiglia e da una lettera al figlio Edoardo dalla quale tolgo il curioso tratto seguente. Senato del Regno « Roma, 15 giugno 1880. » Carissimo Edoardo, » Ieri sera abbiamo terminato i lavori del Consiglio dopo una seduta che cominciata alle nove del mattino, terminò alle 3 1/2 pomeridiane! Oltre sei ore di seduta! I membri del Consiglio erano tanto stanchi che appena annunziato l’esito della votazione, si alzarono senza lasciarmi tempo di fare il mio discorso di chiusura; il quale mi rientrò così in gola. Si accorsero dell’errore, e tornarono ai loro posti pregandomi di parlare: ma io risposi sorridendo che io non avevo altro a dire se non ringraziarli cordialmente della benevolenza e dell’indulgenza loro. Mi risposero con un applauso. — Stamane poi i membri del Consiglio mi diedero un déjuner e mi fecero una quantità di brindisi tutti così affettuosi e così simpatici che ne fui profondamente commosso ». Un R. D. in data 12 maggio 1881, accogliendo i voti unanimi espressi dalla nostra Facoltà di Giurisprudenza nella sednt$ 484 del 7 marzo, lo nominava membro del Consiglio Superiore di P. Istruzione, e un secondo R. D. del successivo 13 maggio lo eleggeva membro della Giunta del medesimo Consiglio (Ministro Baccelli). La libertà del mare e del commercio marittimo, già da secoli, autore Ugone Grozio, dimostrata e riconosciuta canone del diritto delle genti, richiamò l'attenzione del nostro Legista il quale desiderando poter far opera sommamente utile a tutte le nazioni, avrebbe voluto che quella parte del Codice di Commercio che riflette la naviga zione, fosse materia particolare di un Codice Marittimo Internazionale, o, per lo meno, di una Convenzione Generale dove egli avrebbe introdotte tutte le riforme e gli accrescimenti che i suoi lunghi studi, avvalorati da una pratica assidua, gli avevano dettati. A questo fine, valendosi dell’opera mediatrice della gentile amica e ammiratrice sua Maria ved. De Ferrari Duchessa di Galliera, fece pervenire un Disegno schematico di codice marittimo internazionale a eminenti uomini di Stato stanieri perchè lo esaminassero e, se giusto lo trovassero, ne promovessero l’attuazione. A una commendatizia della Duchessa rispondeva una lettera di Benoit S. Hilaire ministro degli affari esteri di Francia in data Parigi 16 ottobre 1880, che così comincia: Ministère des Affaires Etrangères CABINET Madame la Duchesse, » J’ai lu avec beaucoup d’intérèt la note de M. Cesare Cabella sénateur du Royaume d’Italie; elle atteste une connaissaince profonde da droit maritime international. L’idée est très juste, et il serait bien désirable qu’elle put ètre réalisée. ... ». Ma perchè tutte le cose già passate da tempo in consuetudine oppongono la forza d inerzia alla forza motrice, e perchè i Ministri del regime rappresentativo pel fluttuar continuo delle vicende politiche non possono recare a compimento domani ciò che oggi han deliberato, così il S. Hilaire, non volendo dare affidamenti immediati, si trasse d impiccio consigliando conferenze non ufficiali dove da delegati nominati dal governo si discutessero di quel Disegno le quistioni più importanti} il buon successo provocherebbe altre conferen- 485 ze, e così a poco il Codice internazionale farebbe cammino, e s’imporrebbe alla pubblica opinione. Il mezzo proposto richiedendo tempo, lavoro e fortuna, non potè tradursi in a,tto. Abbiamo pure di Lord Granville, Ministro inglese, una risposta alla Duchessa del 10 Agosto 1880, che tradotta dice così: lì « Mia carissima Maria, » Dica, la prego, al Commendator Cabella che, anche se egli non fosse vostro amico e la sua pratica punto non vi interessasse, il suo nome e la sua fama basterebbero ad assicurare a qualunque progetto da lui proposto l’attento esame di questo ufficio degli Afiari esteri. Tra pochi giorni egli avrà una risposta. Vostro affezionato Granville » Se e che cosa abbia poi risposto Lord Granville non trovo documento che ce ne informi. Tanti servizi resi allo stato, tante benemerenze acquistate verso la patria come legista, professore e patriota, oltre l'estimazione universale, gli meritarono dal Governo i seguenti titoli onorifici ch'egli mai non ambì come onori ma accettò come attestazioni onorifiche di opera prestata. Ne do l’elenco cronologico desumendolo dall’autografo Stato di servizio. NelVordine di S. Maurizio e Lazzaro: Cavaliere per D. R. 4 marzo 1860; Uffiziale per D. R. 10 agosto 1865; Commendatore per D. R. 30 dicembre 1865; Grande Uffiziale per D. R. 4 marzo 1882. Nell'ordine della Corona d Italia: Cavaliere per D. R. 29 maggio 1870; Commendatore per D. R. 9 marzo 1872; Grande uffiziale per D. R. 21 marzo 1878. 486 XXIV. Scrivendo a Zanardelli imprime stigma d’infamia sull’immorale governo del Depretis (luglio 1881). Il 29 maggio del 1881 lo Zanardelli entrava nuovamente nel Ministero Depretis assumendo il pacifico portafoglio di Grazia e Giustizia. Gli amici suoi, che ricordavano l’urto avvenuto pochi anni addietro tra lui e il vecchio di Stradella, se ne meravigliavano, e se ne meravigliava il nostro Cabella il quale, dovendolo ringraziare del dono de’ suoi Discorsi sulla legge elettorale, colse quell’occasione per domandargli il perchè del suo ritorno a un sodalizio già da lui condannato, e tanto più condannabile in quei giorni che la Camera elettiva, diretta dal Depretis, aveva dato spettacolo di sfrontata corruzione. Questa lettera, di cui il Nostro fece e conservò la minuta, è lo sfogo generoso di un franco carattere che ferito al cuore alla vista d’intollerande vergogne, getta come vani e intempestivi i consueti ritegni della prudenza e della pazienza e si grida tradito nelle sue speranze e nella sua fede di uomo e di italiano. Ma lo scandalo, già lontano da noi di quarantanni, domanda un chiarimento. Il Ministero Depretis voleva la fusione delle due Compagnie di Navigazione sovvenzionate dal Governo, Florio e Rubattino, e nella tornata 4 luglio (1881) se n’era discussa alla Camera la legge relativa. Avevano parlato a favore i Ministri Depretis, Alfredo Baccarini e Agostino Magliani; contro la legge gli on.'1 Giuseppe Biancheri, Cesare Parenzo e Carlo Randaccio direttore generale della Marina mercantile. Randaccio e Biancheri avevano dimostrato che nel caso presente non si trattava della fusione di due Società ma di una vera trasformazione di Società in accomandita in Società anonima per azioni. Il nostro Gagliardo, viste le forze preponderanti dei fautori del progetto ministeriale, tentò di parare il colpo proponendo che la discussione ne fosse rimandata a novembre affinchè la già costituita Commissione d’inchiesta sulle condizioni della nostra Marina mercantile avesse tempo di terminare i suoi studi, e fosse facile a novembre rinviare ancora quella discussione fino al risultato dell’inchiesta. Era questa una onesta proposta: non si doveva votare una legge di Marina mercantile quando era in corso una inchiesta che doveva riferire e giudicare intorno a servizi e interessi che alla stessa Marina si riferivano; ma il Depretis la fece rigettare. Non èra poi punto onesto che questa legge importantissima insieme con altre undici si votassero e si facessero passare così all'ultimo momento 487 in fretta e in furia nei torridi giorni di luglio quando già più di una metà di deputati erano andati in vacanza, e gli altri con le valigie in mano erano impazienti di lasciar la capitale. Nessuno dei deputati liguri tranne due, uno dei quali Nicola Mameli, fratello di Goffredo, del collegio di Yoltri, relatore ministeriale del progetto, diede voto favorevole a una legge disapprovata dalla maggior parte delle Camere di Commercio, dalla nostra sopra tutte, e da tutte le minori Compagnie italiane di navigazione e da quanti conoscevano i pericoli a cui quella fusione esponeva il commercio marittimo italiano. La relazione telegrafica ufficiale diramata ai giornali diceva: « Si schierano al banco della Presidenza dodici urne. Si procede alla votazione segreta delle leggi, che sono approvate. La fusione delle Società Rubattino-Florio ebbe favoreveli 173 voti contro 44 contrarii e 1 astenuto (Crispi) ». Il fatto vuol esser meglio chiarito. Dodici essendo le leggi da votarsi in un sol tempo, dodici erano le urne poste sul banco della Presidenza su ciascuna delle quali era scritto il nome della legge da votarsi. Dal comunicato ufficiale la votazione appare seguita in piena regola, ma il fatto si è che, come risulta dalle testimonianze oculari e auricolari dei corrispondenti giornalisti che dalla tribuna assistevano attenti a quella seduta, e dalla formale dichiarazione dei deputati astenuti, un trenta circa deputati si astennero dal votare quella legge. Non dunque 173 ma molti men > quella legge approvarono. A che gioco dunque s’era giocato? Risponde il Corriere della sera del 7 luglio: « Il povero Farini (presidente) temeva qualche irregolarità ed usò tutti i modi per evitarla. Anzi, poiché il Depretis s’era collocato vicino a quell’urna benedetta (portante la scritta Florio-Rubattino), ' egli lo pregò di allontanarsi; ma il Depretis si andò a sedere al posto dell’on. Cavalletto, estrema destra, precisamente a due passi dall’urna Rubattino-Florio perchè la sua vigilanza impedisse di astenersi dal voto a taluni progressisti dubitosi, e ci riuscì in parte perchè i prudenti e i timidi son molti. Nè basta : una continua sollecitazione si faceva ai riluttanti. » .... I fautori della fusione temendo che i non votanti sareb* bero stati assai più, per mettersi al sicuro fecero il miracolo di far trovare dentro l’urna un numero sufficiente di palle, cosicché se trenta furono quelli che non ve ne misero alcuna, parecchi devono essere i colleghi che ve la misero doppia o tripla ». Il Crispi, avvocato consulente della Florio e tenace sostenitore della fusione, a pubblica edificazione si astenne dal voto, e della 488 sua astensione fece ostentatamente prendere atto al banco della Presidenza. Proclamato l’esito della votazione e diffusasi la notizia del broglio, fu enorme lo scandalo in Italia ; tutta la stampa non ligia al Ministero levò grida di biasimo e protesta; e il pubblico delle oneste persone sperò ancora che una severa inchiesta rivendicasse la dignità parlamentare o, quanto meno, che il Senato rinviasse a novembre la discussione della legge. Vane speranze: il Senato, come se nulla fosse accaduto, votò e approvò la legge il 12 luglio 1881. Notiamo finalmente, in questa lettera come il nostro Cittadino, fedele fino all’ultimo all’indirizzo politico della Sinistra parlamentare per innato sentimento di libertà e per convincimento di riflesso pensiero, quando ha da giudicare di fatti e di uomini si spogli d’ogni spirito di partito per lodare il bene e biasimare il male dovunque lo vede, stigmatizzi l’opera del Depretis e si dichiari debitore di gratitudine alla caduta Destra. È la voce della verità nella bocca della giustizia. « Genova 22 Luglio 1881. » Carissimo amico, » Quindici circa giorni fa ebbi dalla posta i tuoi discorsi sulla legge elettorale. Le parole scritte di tua mano sulla copertina « al carissimo amico Cabella il suo aff.mo G. Zanardelli » mi provarono non esser questa una delle cotidiane distribuzioni che si fanno ai senatori, ma proprio un tuo dono. Oh, esclamai, egli si ricorda ancora di me? Mi conserva amicizia ed affetto? In quel primo momento di sorpresa non altro vidi nel tuo libro che le parole scritte sulla copertina. Nella solitudine ili cui vivo, nel vuoto che si fa intorno a me, non lieve conforto m’era quella prova di non essere ancor morto nella tua memoria.... . Ma presto un altro pensiero ruppe l’incanto. Quale lettera si scrive ad un semplice conoscente, che non cominci col « carissimo » e non si chiuda coll’ « affettuosissimo »? A spiegare l’invio dei discorsi non basta un fuggevole ricordo? Sì, meco ripigliai, sì, è vero. Ma fu un ricordo dell’amico, non dell’uomo politico; perchè de’ miei antichi colleghi di sinistra non v’è alcuno che si ricordi di me; nè dalla sinistra ebbi'mai altro che noncuranza ed obblio: e se ebbi qualche segno d’onoranza e di stima l’ebbi sempre dagli uomini di destra, che vollero (come mi scriveva Lanza facendomi senatore) m onorar la virtù nel loro avversano (1). Sian dunque i benvenuti questi discorsi, conchiusi, che mi recano un saluto dell'amico. E grazie molte e vive io te rendo oggi, sebbene un po’ tardi. La mia vita io la spesi intiera nel culto di tutto' ciò che mi parve giusto, vero, nobile, generoso. Oggidì questi sentimenti son cose dell’altro mondo: e mi accorgo esser considerato dai contemporanei come un’inutilità, come un oggetto d’antiquario da porsi in un museo. Invece di quell’aureola di stima da cui speravo, unico compenso, veder circondata la mia vecchiezza, altro non raccolgo che qualche sorriso di compassione per non aver saputo far denaro nè affari. Ebbene! In questo abbandono, che non mi umilia perchè mi basta la superbia ineffabile della mia coscienza, il tuo ricordo mi fu un caro conforto (e di nuovo vivamente te ne ringrazio) perchè mi viene da un uomo che io sempre reputai d’alto carattere, che io soglio chiamare il puritano degli uomini onesti e leali. Ma a questo punto m’assale un dubbio. E ti prego, spiegami la cosa. Come fai a vivere in compagnia d’un uomo che si chiama..... lasciamo il nome. Egli è in tutto il tuo opposto. Tu sei la virtù, egli l’affarismo: tu l’ingegno, egli la furberia: tu la lealtà, egli l’inganno. In mezzo a quella pozzanghera di affaristi e di aspiranti a diventarlo che si versò nella camera, egli è al suo posto. Ma tu! Come fai a sopportare la vista e il lezzo di tante lordure? L’altro giorno perchè non mancassero a Crispi e al..........le grasse provvigioni Rubattino e Florio (compenso forse di qualche concerto parlamentare) si mettono dodici urne sulla tribuna, perchè i cospiratori di quel brutto affare possano aver quante palle loro occorrano per deporle nell’urna su cui stanno quei due nomi. E si ottiene così la maggioranza, non dei votanti, ma delle palle nell’urna. Povera Italia! rappresentata da falsarli! condannata a subire un falso come legge! E pur troppo il senato ratificò questo falso! Oh mio caro! Quando io a Torino, ardente di liberi pensieri, pur veneravo il Senato come un consesso di austera virtù e di patriottismo, non prevedevo che un giorno sarebbe ridotto ad un Ufficio di registro, e ad esser, per dirla con Dante, figura dì sigillo! Povero Senato! Povera istituzione, ridotta ad esser forno (donde le infornate) dove si possa cuocere qualunque focaccia! Ma presto io ne uscirò con una dimissione, a dar la quale aspetto un’occasione che possa bene spiegarne la ragione. Ma certo non voglio morir senatore..... (1) Parole, non mie, ma di Lanza, che credeva potermi attribuire qualche virtù. (Nota di C. Gabella). 490 » M’accorgo d'aver fatto una lunga e sdegnosa digressione. Perdonami, caro Zanardelli. Profondamente addolorato dalle condizioni di questa povera Italia, umiliata fuori, corrotta dentro, il mio animo erompe in scoppi improvvisi ed involontarii, come dinamite al tocco delle scintille. Ma forse m’inganno. Presso alla fine de’ miei giorni il mio dolore è di lasciar l’Italia nella putredine di una vecchiezza anticipata: e forse quel che a me pare putredine e vecchiezza è gioventù e vita. Forse l’avvenire del mondo è preconizzato dagli Stati Uniti d'America. Esso non sta nella moralità e nella virtù, ma nell’affarismo e nel danaro. L’uomo dalle nuove scuole sarà forse definito « l’animale ruminante il denaro ». Io chiuderò volentieri gli occhi prima che il mio capo, eretto al Cielo per contemplare la bellezza e la virtù infinita, si chini alle sozzure del triste spettacolo.....Ritorno ai tuoi discorsi. Li ho letti con grandissimo piacere, e ti ringrazio di avermeli procacciati. Chiudendo il libro dissi « Nobile ingegno, nobile coscienza! » e ti ripeto queste parole come espressione del mio giudizio. Mi rallegro con te che conservi tanta potenza d’intelletto, tanta forza d’eloquenza. Peccato che una vena si limpida e pura cadesse in sì torbido bacino! Avevo già letta la tua relazione, profondissimo studio di una parte così difficile della scienza politica. » Accetta i miei vivi e sinceri rallegramenti. Hai aggiunto un nuovo lustro al tuo nome nella posterità: e ne son proprio lieto. Addio, mio caro, ricevi i saluti sinceri del tuo vecchio amico, lieto di vivere ancora nella tua memoria. Il tuo amicissimo Cesare Cabella (1) ». Il Ministro non potendo per riguardi d’ufficio discendere a spiegazioni in materia così gelosa, non rispose all’amico genovese. Si videro poi a Roma più volte quando il Nostro vi si recava pei lavori del Senato e pel coordinamento del Codice di Commercio. (1) I lettori della mia generazione ricorderanno con quanto giubilo noi giovinetti inesperti salutammo la caduta della Destra e l’avvento al potere della Sinistra, trascinati, com’eravamo, dalle quotidiane maledizioni della stampa avversa, a credere veramenta malefico e rovinoso al nostro paese il governo di Destra capitanato da Sella, Lanza, Minghetti. Noi non potevamo prevedere allora quale sarebbe stata indi a poco la nostra delusione e con quanto rimpianto avremmo rammentato il bel tempo quando il governo governava non di solo nome e non aveva ancora abbandonato il suo mandato direttivo alla mercè di soverchianti fazioni, ma conquistava Roma all’Italia e il pareggio al conquassato bilancio nazionale. 491 XXV. Depretis, la Pentarchia e le Convenzioni Ferroviarie nelle ultime lettere «lei carteggio Zanardelli ■ Cabella (anno 1883-84). Siamo alla primavera del 1888. Già da due anni lo Zanardelli reggeva il dicastero di Grazia e Giustizia sotto la presidenza del Depretis quando costui, accortosi della vacillante fede de’ suoi vecchi compagni di Sinistra, si volse a cercare, colle arti nelle quali era maestro, fautori e suffragi da ogni parte della Camera. L’accusò la Sinistra di voler disgregare e confondere a suo vantaggio i partiti, in cui fin da principio era diviso il Parlamento, di calpestare lo storico programma di Sinistra, di ripudiare gli antichi compagni di fede per assumere al potere gli uomini a lui devoti e servi senza distinzione di colore nè di settore politico. Era quello che il Depretis per eufemìa chiamava trasformazione dei partiti, e la stampa contraria trasformismo disgregatore e corruttore; e non si può negare che con esso lo scaltro uomo di Stradella mirava alla dissoluzione di quei principii politici pei quali s’eran costituiti i diversi corpi parlamentari, al fine di attrarre e chiudere quanti più deputati era possibile nell'orbita della sua azione governativa. Era l’applicazione della massima divide et impera. Si venne così alla famosa tornata del 19 maggio 1883 nella quale il Baccarini Ministro dei Lavori pubblici parlò a lungo e vibratamente contro il nuovo metodo della politica presidenziale; dopo di lui nello stesso senso ma più temperato lo Zanardelli. Il presidente Depretis giustificò l’introdotta novità col dire che il governo non ha da essere rappresentanza di un partito ma di tutta la Camera, come la Camera è rappresentanza di tutta la nazione, e che quindi alla formazione e all’autorità del governo deve concorrere la Camera tutta, non una sola parte di essa. La Camera essendo da lui invitata a deliberare sulla combattuta questione, l’on. Ercole propose un ordine del giorno significante intiera fiducia nel Ministero. L’on. Miceli propose che si emendasse l’ordine del giorno Ercole premettendovi le parole: La camera ferma nel programma della Sinistra 'parlamentare. Il Depretis respinge l’emendamento, e la Camera approva l’ordine del giorno Ercole con voti 348 contro 29, 5 astenuti. Il 25 maggio Baccarini e Zanardelli uscivano dal Ministero sostituiti rispettivamente da F. Genala e dal senatore Bernardino Giannuzzi-Savelli. E la Destra e la Sinistra da quel tempo in poi non furono più che ricordi storici. 492 Ma i Ministri caduti non si rassegnarono alla toccata sconfìtta. Accordatisi coi più autorevoli capi della Sinistra quali Fr.co Crispi, Benedetto. Cairoli e Giovanni Nicotera, formarono con essi quel consorzio dei Cinque clie nella storia del nostro Parlamento va famoso col nome di Pentarchia e che doveva abbattere la dittatura Depretis. Ma a debellarla necessitavano armi potenti, e a trovarle e a farle valere occorreva l’aiuto e l'opera di tutti gli amici. Mira a questo fine questa lettera confidenziale dello Zanardelli al nostro Cittadino. « Recoaro 1 Ag. (1883). » Mio caro Cabella, » Il partito veramente liberale non ha in Roma, ornai alcun interprete delle sue opinioni e de’ suoi intendimenti. Parecchi anni di Ministero dell’interno diedero modo al Depretis d’avere in mano buona parte della stampa, ed egli que’ mezzi d’azione, quella bandiera che un giovane partito gli aveva affidato, consegnò al nemico. » Tale lacuna, che è a noi cagione di debolezza e d’impotenza, essendo da tutti i nostri ornai riconosciuta, determinò me, Baccarini ed altri amici a prendere l’iniziativa di raccogliere i fondi necessari per contraporre stampa a stampa. » Ma colle esigenze giornalistiche d’oggidì i fondi a tal uopo occorrenti sono necessariamente assai cospicui, e non avendo noi a disposizione quelli del Ministero dell’interno dobbiamo far appello agli sforzi di tutti gli amici. » Ti accludo quindi un esemplare della relativa scheda pregando del tuo concorso e cooperazione te che della Sinistra fosti sempre così nobile ornamento e ne resti fedele e costante campione. » Io ricordo le lettere che mi scrivesti accusando la mala compagnia nella quale mi trovavo. Naturalmente io non potevo rispondere, ma le ragioni per le quali accettai tale compagnia ebbi per buona ventura occasione di pubblicamente esporle il 19 maggio alla Camera. Per la responsabilità comune nel Ministero il mio linguaggio doveva pur essere di difesa; ma il Depretis di questo linguaggio di difesa so che non fu soddisfatto, e ad alcuni di quelli amici per mezzo de’ quali cercò di farmi rimanere nel Ministero dopo il 19 maggio disse essergli spiaciuto assai ch’io mi fossi tanto dilungato a giustificarmi d’essere con esso come fosse un lebbroso. E del resto non senza motivo parlai pure a lungo de’ dissensi di ministri in 493 altri paesi tanto per lasciar capire clie non eravamo d’accordo. Si lottò infatti per mesi, e qualche frutto ne trassi di cui mi compiacerò sempre, che se uou tatto potei impedire, qualche cosa impedii che sarebbe stato veramente vituperevolé. » Aiutaci dunque ed abbiti co’, miei i ringraziamenti di tutti i nostri amici mentre mi è caro ripetermi con singolarissima stima e caldo affetto tutto tuo dev.mo G. Zan'ardelli ». Il Gabella contribuì di gran cuore all’opera a cui l’amico l’invitava. Dopo quasi un anno gli riscriveva domandandogli nuove sull’andamento della nostra politica e sul disegno ministeriale delle Convenzioni ferroviarie. Gli rispondeva lo Zanardelli con questa malinconica lettera. « .Roma 17 luglio (1884). » Carissimo amico, » Siccome appena uscito dall’adunanza degli Azionisti della Tribuna, in cui ebbi l’onore ed il piacere di rappresentarti, dovetti partire per Napoli d’onde sono appena tornato, così per tale motivo dovetti indugiare a rispondere alla carissima tua. » Anch’io, al pari di te, dell’andamento delle cose della patria sono afflitto e sdegnato, ma, quello che è peggio ancora, sfiduciato. Non vedo lume nè salvezza. Il vecchio immorale che non ebbe il pudore di qualsiasi defezione non può nemmeno gloriarsi d’avere almeno una forza in se stesso. La sola sua forza sta in ciò che noi non vogliamo seguirlo nella via dei connubii con opposti partiti e che a Sinistra vi sono uomini con cui da una parte non si può stare senza alienare molti amici, e senza i quali viceversa s’avrebbe di nuovo dalla Sinistra una guerra più aspra ed accanita che dalla Destra stessa, come avvenne l’il dicembre 1878. Ma certo è che il Depretis è sostenuto non per istima che si abbia di lui, mentre anzi da quattro quinti di quelli che gli danno il voto è profondamente disistimato, ma per la paura della così detta Pentarchia. » Quanto alle Convenzioni tu le riprovi in nome dell’esercizio governativo, io le credo riprovabili non meno in onore dell'esercizio privato. Esse sono tal cosa che, per quanta pecoraggine siavi nella maggioranza, per quanto valga l'accennato spauracchio, pur tuttavia difficilmente, credo, potranno essere approvate. 494 » Con questa speranza ti manda i più fervidi sentimenti del suo cuore, pieno di stima singolare e affetto sincero per te il tutto tuo dev.mo G-. Zanardelli ». Dolore e sgomento ne sentì l’animo del nostro Cittadino il quale non tardò a significarlo alFautorevole amico e a proporgli idonei provvedimenti con la lettera seguente con cui il loro carteggio si chiude. « G-enova 20 Luglio 1884, » Mio carissimo amico, » La tua del 17, ricevuta ier l’altro mi fu cara oltremodo, perchè ti confesso che già stavo un po’ in pena del tuo silenzio. Te ne ringarzio di cuore, perchè essa mi prova che conservo nel tuo il posto di prima. » Allo Stato, che ogni giorno più si fa miserando, del nostro povero paese tu non trovi lume nè salvezza? Siamo dunque noi irremissibilmente perduti? Pare veramente che così voglia il tristo uomo che la nostra sventura ha portato in alto. Egli non trova nemmeno ragione di dolersi che un ministro d’altra nazione faccia in pieno Parlamento il voto della distruzione del nostro Stato! Oh mel diceva un giorno Cavour! « Se quell’uomo giungesse mai al potere sarà la rovina d’Italia! » Parole fatidiche! Tu hai ben ragione di dire che non ha alcuna forza in sè stesso. E che forza, di grazia, potrebbe avere un uomo, a cui la furberia ' tien luogo d'ingegno, e la pratica parlamentare di trentasei anni tien luogo di scienza? Il male sta nel Parlamento, in cui posson diventar sommità uomini come lui e come gli altri ai quali tu alludi nella tua lettera! E a questo non c’è rimedio davvero, perchè i soli che potrebbero rimediarvi sono gli elettori; e poco io spero da essi: temo anzi che faranno in avvenire il male peggiore. Mi fan tremare le storie parlamentari dell'Inghilterra e degli Stati Uniti; dove però la cinica corruzione degli elettori non può distruggere lo Stato, come lo potrebbe invece per noi. » On solo rimedio io veggo. Tu e Baccarini siete due intelligenze elevate, due forti caratteri, due specchiate integrità. Unitevi soli: raccogliete intorno a voi quante onestà sono nel Parlamento. Se una causa accidentale rovesciasse l’attuale ministero, potreste forse radunai’e intorno a voi una maggioranza, che vi portasse al potere; 495 e allora potreste trovar il mezzo di salvar il paese. Ho su ciò un gran mondo di idee nel capo, che non ho tempo a scrivere. » Delle convenzioni sono d’accordo con te a far giudizio. Anche i fautori dell’esercizio privato debbono respingerle, perchè sono un iniquo e sfacciato attentato alle finanze e alla vita economica della Nazione. Ma ciò malgrado io temo che saranno approvate: perchè onnipotente e invincibile è l’affarismo, quando è capitanato da chi ha in mano le redini dello Stato. Altro mezzo di salvezza io non veggo fuorché l’esercizio governativo. Le convenzioni, anche migliorate, darebbero sempre in mano ai soliti vampiri la vita e la fortuna pubblica. Io non so comprendere le difficoltà che si fanno all’esercizio governativo. E troppo banale quell’afòrisma « lo Stato è un cattivo amministratore ». Bisognerebbe togliergli, in virtù di questa frase, anche le. poste e i telegrafi. Le ferrovie sono il primo e più vitale dei pubblici servizi. E dunque lo Stato che deve esercitarle. Ed è lo Stato solo che può esercitarle nel solo interesse pubblico, col massimo servizio e colle più miti tariffe. L’esercizio privato rappresenta l’interesse opposto. Si teme forse la forza elettorale che l’esercizio ferroviario darebbe" allo Stato? Oh io temerei ben più questa forza data ai banchieri, che assicurerebbe il trionfo della corruzione e dell’affarismo! In mano al Governo può essere invece una via di salute se esso è liberale; e se non lo è trova più facile e più forte l’opposizione. Si ha bisogno d’un imprestito? Oh appunto per questo io non vorrei ricorrere ai banchieri nostrani od esteri, al mondo bancario e capitalista, che non ha altra coscienza e altra fede che il denaro! Una pubblica sottoscrizione darebbe qualunque somma fosse necessaria. Basterebbe offrire la rendita di cinque per ogni cento lire, assicurata sulle rendite delle ferrovie, esente da qualunque tassa presente e futura, accettando ogni offerta dal minimo di cento lire fino a qualunque somma, perchè questo prestito volontario fosse coperto in pochi giorni, qualunque fosse la somma del prestito..... » Io mi lascio trasportare dalle mie idee, che a te parranno, come sono, molto volgari. Ma sono l’espressione d’un animo profondamente convinto. Addio, mio caro. Se qualche volta, in mezzo ai tuoi riposi autunnali, potessi scrivermi una linea, mi faresti sempre un gran bene; poiché altro non mi rimane al mondo che la stima e l’affetto dei buoni. E fra questi io saluto primo fra tutti te, mio caro, a cui sarà sempre devoto il tuo Cesare Cabella ». 496 Le Convenzioni, sempre sostenute dal Depretis, approvate dalla Camera il 6 marzo e confermate dal Senato il 26 aprile 1885, diventarono legge dello Stato. Lo Zanardelli, non ostante i suoi acerbi disdegni contro il vecchio di Stradella, rientrò nel costui Ministero al luogo del Taiaui il 4 aprile 1887. Fu egli dunque uomo voltabile per impulso d’ambizione? Tale infatti potrebbe parere a giudicare dal fatto esterno, ma perchè il fatto interno è sovente costituito da una pluralità di fattori senza la cognizione dei quali non si può dare del fatto esterno un giudizio retto e fondato, giudicherà chi potrà avere in proposito maggiori e più sicuri elementi di giudizio (1). XXTI. Propugna in Senato la legge (lei pareggiamento della nostra Università a quelle di primo grado (anuo 1885). Il primo Consorzio universitario promosso dal Cabella, allora Rettore, fu dopo sei anni seguito dal secondo, approvato con R. D. 8 luglio 18S3, nel quale il Comuné e la Provincia accrebbero il loro contributo fino a L. J08 mila annue per accrescere gl’insegnamenti in modo da pareggiarli a quelli delle Università primarie. Per questo sistema, inaugurato dal Governo e suffragato dal Parlamento, si ebbero due leggi che innalzarono rispettivamente il grado delle due Università di Pavia e di Sassari dotandole di nuovi insegnamenti. (1) Morto il Depretis il 29 luglio 1887, lo Zanardelli ritenne il portafoglio sotto Crispi fino al 6 febbr. 1891; lo riebbe sotto il Di Budini il 14 die. 1897 fino al 1° giugno 1898. Assunse la Presidenza del Consiglio ministeriale il 15 febbr. 1901 e la sostenne per quasi tre anni fino al 29 ott. 1903, quando lasciò il potere costrettovi da quell’esaurimento senile ebe pochi giorni appresso lo spense il 26 dicembre nella sua villa di Maderno sul lago di Garda. Probo, schietto e cordiale come uomo privato, come uomo politico fu lodato di fede costante in quei principii di libertà pei quali da giovane aveva combattuto in guerra e nelle assemblee. E di severa probità e di molta dottrina fan fede i suoi due discorsi su L’avvocatura. Non scevro di passione di parte, non evitò, come uomo di Stato, critiche e censure sia rispetto alla massitìia, già edita da Bettino Bicasoli, reprimere non prevenire, sia rispetto alla legge sul divorzio già proposta da Tomaso Villa e riproposta da lui. Fu anche ripreso d’aver ceduto a malsane teorie o a suggestioni di setta nella compilazione del suo Codice penale, dove il reo parve troppo favorito contro la società indifesa, tanto ebe i tribunali nell'applicazione pratica sarebbero stati costretti a rimediarvi con temperamenti e correzioni: lassezza che avrebbe segnato un alti’o passo alla eccessiva e sistematica indulgenza odierna, donde l’abbassamento dell autorità della legge e il legale invito a delinquere. Quanto in tutto questo sia di vero e di giusto sei vedano i giuristi. 497 Se lion che tra indugi e ambagi si era giunti al 1885 senza che di questa onerosa convenzione Genova vedesse ancora il frutto desiderato. L’urgenza di una legge di pareggiamento era tanto più premente in quanto Provincia e Comune nel 1883 avevano stipulato il secondo consorzio a condizione che entro l’anno 1884 fosse conceduto all’Università per legge il diritto di conferire tutti i gradi accademici che è accordato agli Istituti primarii, e alla fine dello stesso anno avevano deliberato di sospendere il pagamento del contributo consorziale se entro il primo semestre del 1885 l’Università non fosse per legge riconosciuta di primo grado (1). Catania e Messina che nutrivano per la loro Università le stesse aspirazioni che noi per la nostra, unirono ai nostri i loro sforzi, e il progetto di legge di pareggiamento fu finalmente presentato al Parlamento, il quale, relatore Luigi Guala. in breve lo discusse e l’approvò il 12 giugno 1885. Passato al Senato, l’ufficio centrale, relatore Luigi Cremona, propose,-chi lo crederebbe'? la sospensiva, ossia che, prima di occuparsi del pareggiamento delle tre Università, il Senato dovesse aspettare l’approvazione della legge sulla riforma dell’istruzione superiore. Questo era un voler rimettere la sospirata legge a tempo indefinito o, meglio, un rigettarla senz’altro perchè quella sulla riforma dell’istruzione superiore, presentata alla Camera il 25 novembre 1882, prima era stata riformata dalla Commissione, poi 'modificata dalla discussione della Camera, infine dall’ufficio centrale del Senato radicalmente trasformata, cosicché dopo tre anni di studi, di disputazioni e di mutamenti, la travagliata legge doveva essere ancora discussa in Senato, poi rimandata alla Camera dei deputati per esservi ridiscussa e sì o no approvata, e nessuno poteva prevedere se e quando essa potesse mai afferrare il porto. La strana proposta della sospensiva, effetto evidente di mal dissimulata gelosia regionale, creava a Genova una condizione di cose assolutamente intollerabile, e rendeva Municipio, Provincia, Università, insegnanti e studenti, tutti incerti e trepidanti sulla loro sorte. A nulla dunque dovevano valere le convenzioni formalmente stipulate col Governo che attendevano di essere messe in esecuzione? E che aveva che vedere la riforma didattica con la questione del pareggiamento? La questione era giunta a questo punto quando nei pri- (1) Cfr. C. Cabella, Discorso pronunciato al Senato del Higno nella seduta del ò dio. 1885, Eoma, Forzarli, 1885, SS 498, mi di dicembre 1885 il Senato cominciò a discutere la protesta dell’ufficio centrale. Si trattava del bene della sua Genova e il nostro Avvocato, non ostanti i suoi 79 anni e la mal ferma salute, si recava a Roma a porgere il tributo della sua parola e del suo voto. Nella seduta del 4 dicembre egli propone l’inversione dell’ordine del giorno ossia che la legge di pareggiamento si discutesse prima della legge sulla riforma dell’istruzione superiore. Si oppongono Luigi Cremona, grande matematico pavese, e Stanislao Cannizzaro, grande chimico palermitano; Michele Coppino, ministro della P. Istruzione, l’appoggia. Messa ai voti, la proposta Cabella, con voti 66 contro 30, è approvata. Il domani 5 die. s’apre la discussione sulla legge di pareggiamento. Dopo un buon discorso di Giacinto Pacchiotti vogherese in favore, il Cabella prende la parola. A dimostrare l’ingiustizia della sospensiva prova che la legge di pareggiamento è fondata sulle leggi vigenti e confermata con fatti ed atti di legalità incontroversa e a tutti nota. Ingiusta la sospensiva e ingiustificabile il ritardo che n’era per derivare alle legittime aspirazioni delle tre Università interessate perchè il dimandato pareggiamento trova il suo fondamento anche nella legge futura, vale a dire tanto nell’art. 39 del progetto votato dalla Camera dei Deputati quanto nell’art. 29 proposto dall’Uffi-cio centrale del Senato. Il che dimostrato in modo evidente, dimostra non meno evidentemente che la proposta sospensiva era il solito espediente illusorio con cui la parte avversaria voleva inorpellare la reiezione. Ricordando infine il Trattato di Vienna dove si stabiliva che l’Università di Genova sarebbe sempre neiravvenire mantenuta in condizioni pari a quelle di Torino, patto internazionale riconosciuto e sancito con le R. Patenti del 30 die. 1814, e ricordato pure che questa legge era stata più volte dal Governo disconosciuta e violata, invoca dal senno e dalla rettitudine del Senato un voto di riparatrice giustizia (1). Il sobrio discorso materiato della consueta copia e lucentezza (1) L’obbligo di curare il progresso scientifico della nostra Università era reso maggiore dal fatto che l’Università aveva un suo patrimonio particolare, oltre 64 mila lire, il quale con E. Decrete 2 febbr. 1821 venne fuso con quello dello Stato. « Il Governo del Re invece adottando l’aforisma di Bacone che in sneietate civili aut. Tex aut vis valet, disconoscendo l’obbligo suo per ogni miglioramento del nostro Ateneo e il dovere sacro insieme e caro al nostro cuore, dichiarato da V. Emanuele, pose sempre per condizione sine qua non che Provincia e Comune concorressero alle spese necessarie ». Cfr. Drago, op. cit., p. 159 in nota; Cabella, Disc. cit. 499 di fatti e di argomenti costringenti l’avversario a dichiararsi vinto ove non volesse dimostrarsi malsano di cervello o di coscienza, non valse ancora a fiaccare le opposte animosità. Perchè nella tornata del 7, non ostanti i nuovi ed autorevoli discorsi del Maiorana, di Riccardo Secondi rettore del nostro Ateneo, e del nostro Sindaco Andrea Podestà, il march. F. Vitelleschi romano e il prof. Iacopo ' Moleschott nativo olandese, spalleggiati dal Cremona, fecero ancora sforzi ostinati a difesa della sospensiva ormai destinata a cadere. Il Ministro Coppino che aveva firmate le convenzioni con le tre città, disse non doversi trattar d’altro ormai che di eseguire le leggi; rimandare il progetto equivarrebbe a dare un biasimo al Governo . stipulatore delle Convenzioni. Depretis, presidente del Consiglio, aggiunge altre ragioni a sostegno della legge di pareggiamento contro la sospensiva. E la sospensiva è messa ai voti e rigettata con voti 47 contro 36. Nella tornata del 9 si addiviene finalmente alla votazione della legge, e il pareggiamento della nostra Università a quelle di primo grado è approvato con voti 56 favorevoli e 36 contrari. L’opera del Cabella in Senato non si limita solo a ciò che fin qui ne abbiamo riferito. Delle altre leggi a cui prese parte ricorderemo solo quella che aboliva il Corpo privilegiato dei facchini del nostro Porto e per la quale il nostro Consiglio comunale il 22 marzo 1879 deliberava ad onor di lui e dei suoi colleghi senatori Boccardo e Casaretto un voto di plauso e di ringraziamento (1). (1) Michele Casaretto, da me più volte ricordato, è uno dei non pochi nostri concittadini che, degnissimi di vivere nell’ammirazione dei Genovesi, attendono ancora il doveroso tributo della Storia: uomo onorando in cui, come nel Cabella suo amicia-simo, la probità antica si accordava mirabilmente con lo spirito del moderno progresso. Chi di noi non ricorda quella figura aitante e quel nobile volto dove splendeva la dignità della vita e la integrità del carattere? Nacque egli a Genova nel 1820 da antica famiglia data al commercio dei grani con l’Oriente. Ingegno genovese, cioè pratico e positivo, nutrì sempre principii di vita civile larghi e liberali, ma, come il Cabella, non appartenendo a sette, senza partigianeria nè intolleranza. Sperto di negozi e di traffici e versatissimo in materia economica, industriale e finanziaria, acquistò presto gran credito tra i nostri cittadini. Nel gennaio del 1854, durante la 4» legislatura fu eletto dal Collegio di fiecco deputato al Parlamento subalpino in luogo del dimissionario Giuliano Bollo, collegio ch’egli poi costantemente rappresentò fino all’ll3 legislatura cioè per 24 anni, quantunque più volte eletto anche altrove, come al 2“ collegio di Genova e ad Alassio. Nelle discussioni parlamentari portò la chiarezza della sua parola pratica e conclusiva che gli valse la grande stima de’ suoi colleghi prima alla Camera poi in Senato. Membro di numerose commissioni, relatore di diversi progetti di legge, fu uno dei più attivi rappresentanti della Liguria. Col Cabella, col Pareto, col Ricci e con altri nostri avversò spesso, forte e leale, la politica del Cavour. Creato senatore del Regno nel maggig del lS7(i, in Senato si mostrò stranilo difensore-degl'interessi 500 XXVII. Ringrazia gli Avvocati genovesi adunati in Assemblea della loro fiducia e del loro affetto costante (anno 1886). Ai colleghi congregati in Assemblea generale il 31 gennaio 1886 rivolse, settantanovenne, le sue ultime Parole-intorno ai doveri assoluti e reciproci dell’avvocato e del magistrato, opportune in ogni tempo, opportunissime allora che più che mai ardevano le lotte e le animosità fra i due Corpi, e degne in tutto di un Nestore amoroso e sapiente. Ne riferisco il principio. « Illustri colleglli, » Son dodici anni che io ho l’onore di presiedere il vostro Consiglio e le vostre Assemblee: il più grande onore ch’io potessi desiderare, il più gran premio della mia vita; poiché lo devo non ad elezione di principe o di popolo, ma al vostro voto prima e poi a quello del vostro Consiglio; vuol dire ai soli giudici competenti, coi quali ho comuni la vita, gli studi, il lavoro, le aspirazioni. .Non ho bisogno di dirvi quanto ne sia stato lusingato il mio amor proprio, tentato a credere che da voi e dal Consiglio si fosse riconosciuto in me qualche merito; ma la superbia cessava quando ridiscendevo al posto che mi assegnava la mia coscienza; e allora riconoscevo che alla sola vostra benevolenza io dovevo i vostri suffragi: e alla superbia succedeva un sentimento ben più caro e più dolce, la riconoscenza, e il conforto del vostro affetto. Io ve ne ringrazio, o colleghi, dal più profondo dell’animo mio ». In fine, svolto il suo tema, quasi accommiatandosi per sempre dalla collegiale famiglia, così conchiude: « Do fine, egregi colleghi, alle mie brevi parole. Accogliete il saluto del più vecchio di voi; il quale porgendovi la mano, forse per l’ultima volta, chiede il conforto del vostro affetto, che egli spera di Genova e dell’incremento della nostra Università. Merita particolare menzione la tenacia con cui nel 1885 combattè le Convenzioni ferroviarie tuttoché, fortissimo azionista delle Mediterranee, facesse danno a se stesso. La straordinaria perizia commerciale e finanziaria gli meritò, prima dal Cavour poi dal Depretis, l’offerta del seggio ministeriale eh egli, modestissimo, recisamente rifiutò (,V. Ca/faro 2-3 marzo 1901). Scrisse pure di quistioni economiche e sociali con modernità di criterii. Mori serenamente e da cattolico, com’era sempre vissuto, il 1° marzo 1901, 50 ì aver meritato per non aver mai mancato ai doveri del nostro Ordine, e alla religione del Diritto ». E largo ebbe sempre da tutto l’Ordine il desiderato conforto d’affetto perchè, come l’avv. Stefano Castagnola, reggente il Comune in qualità di Assessore anziano, ricordava nella Commemorazione che ne fece il 18 aprile in seno al Consiglio-comunale, « l’Ordine più che presidente lo considerò qual maestro e padre; ond’è che nel trasporto della salma volle, con una insistenza che l’onora, essere considerato come a lui legato da vincoli di famiglia, e perciò reclamò la precedenza su di ogni sodalizio o rappresentanza ». XXVilI. Consigliere comunale e provinciale e amministratore di Opere Pie. Eletto consigliere comunale nel 1853, fu confermato in questa carica, salvo rare interruzioni, fino alla sua morte. Obbligo di brevità ci consente appena un cenno fugace intorno a ciò che merita d’essere ricordato di lui come civico rappresentante. Notiamo anzi tutto che se, attese le sue soverchianti occupazioni, non fu sempi’e dei più assidui al Consiglio, si trovò però sempre al suo posto e vi fe’ valere la sua meditata parola ogni qual volta ve lo chiamarono gl’interessi morali ed economici della sua città. Morto il March. Gian Carlo Di Negro il 21 agosto 1857, la sua Villetta era passata in eredità ai marchesi Spinola, dai quali il nostro Consiglio comunale nella seduta del 4 gennaio 1862 ne deliberava l’acquisto. Era ben ragione che quel prodigio d’arte e di natura che aveva ospitato gli uomini più famosi in ogni ramo di umano valore e per cui il Di Negro e Genova andavano congiunti e celebrati nell’ammirazione del mondo, non dovesse finire delizia sbarrata ed esclusiva di un solitario plutocrate, ma fosse aperto alla geniale ricreazione del popolo genovese. Onde quando il cav. Federico Mylius, udita la deliberazione del Consiglio, si diede a fare attive pratiche e vantaggiose offerte per sottentrare in luogo del Municipio nel contratto con gli eredi Di Negro, il Cabella, cui anche legavano di singolare amore a quel paradisetto tante dolci memorie di intellettuali convegni, d’illustri amicizie e di nobili cortesie, gli si oppose insistente in Consiglio e fuori con tutta la forza della sua parola e contribuì efficacemente a che i padri del Comune, ricusando le. cupide offerte, l’assicurassero finalmente alla- Città con deliberazione 26 agosto 1863 e con la spesa di L. 170.000. Già con deliberazione del 15 dicembre 1852 il nostro Consiglio comunale aveva votato il sussidio di sei milioni, rivotato poi più volte negli anni successivi, a quella Compagnia assuntrice della costruzione della ferrovia tra la Svizzera e l’Italia alla quale il Governo italiano avesse assegnato il proprio sussidio, qualunque fosse il passaggio preferito, il Lucomagno o il Gottardo. Prima die il Governo svizzero assumesse ufficialmente l’iniziativa della ferrovia attraverso il Gottardo e stipulasse in Berna il 15 ottobre 1869 col Governo italiano le convenzioni dirette ad assicurare la congiunzione delle ferrovie germaniche con la rete ferroviaria italiana, ferveva la lotta tra i fautori del valico del Gottardo e quelli del Lucomagno, ma la vittoria pareva assicurata ai fautori di questo, tra i quali, a Genova, Gerolamo Boccardo. Il nostro Cabella, letta la lettera circolare ai Genovesi di Carlo Cattaneo comunicatagli dall’amico Bertani, esaminati i due progetti e raffrontati i due tracciati, e ragionatone col cognato ing. Parodi maestro valentissimo in materia di costruzioni ferroviarie, capì che a Genova l’opiuione pubblica era su tal riguardo affatto traviata e che conveniva illuminarla e ravviarla. E nella seduta del 7 giugno 1865, mentre d’altro in Consiglio si discuteva, prende la parola « per una proposta che intende fare intorno al valico Alpino in modificazione delle deliberazioni precedentemente prese dal Consiglio a questo riguardo e insta perchè sia chiesta la necessaria autorizzazione del Sig. Prefetto per poter trattare questa pratica in una seduta straordinaria ». Il Sindaco consente invitando il cons. Cabella a fargli pervenire la sua proposta per iscritto. Di questa proposta il Cabella diede tosto notizia a Carlo Cattaneo il quale gli rispose con una lunga lettera che si conserva, dove gli dice : « Mi parve atto in Lei di savio cittadino l’avere sollecitato il Municipio a ritogliere il favore troppo lungamente prodigato alla gratuita asserzione che il passaggio del Lucomagno fosse cosa unica e quasi necessità di natura », aggiungendo prove e testimonianze a favore dell’altro valico. Spiacque invece la proposta del Cabella al partito contrario che sul Movimento del 12 giugno, in un articolo intitolato Di una proposta, la biasimò attaccandone sconvenevolmente e ingiustamente la persona dell autore. Non fa d’uopo un documento per capire che il Nostro se ne senti offeso. Ma ecco che lo stesso giornale il 17 dello stesso mese pubblica un articolo intitolato Lucomagno e Gottardo, dove, senza più parlare del Cabella, ritratta quanto aveva scritto in proposito, 503 dichiarando apertamente aver sulla controversa questione mutato affatto parere « come deve fare chiunque crede d’aver finora sostenuta un’illusione ». Prima di lasciare il seggio consigliare il Nostro presentò una seconda proposta diretta a sollecitare, attraverso qualsiasi valico, l’inizio effettivo dell’impresa che da lunghi anni si trascinava in discorsi e in Commissioni e da cui Genova e l’Italia aspettavano un incremento di vita commerciale. Ma neppure questa proposta venne in discussione per la soverchiante opposizione del partito contrario rappresentato dai cons. Alessandro Barabino e Bonaventura Mazzarella. Estratto a sorte il 29 maggio 1865, il Nostro intervenne alle sedute fino all’11 settembre. Non rieletto, non figura tra i componenti l’Amministrazione per gli anni 1866-67. Nelle elezioni generali del 1° luglio 1875 è eletto quinto. Figura terzo nei componenti l’Amministrazione per l’anno 1876-77. Nel dicembre del 1875, essendo assessore anziano il sen. Dome* nico Elena, la stupenda donazione di 20 milioni di lire fatta allo Stato dal nostro munificentissimo Duca di Galliera march. Raffaele De Ferrari per l’ampliamento e la sistemazione del nostro porto commoveva la nostra città. Si doveva stabilire quale dei tre progetti portuarii si dovesse eleggere, se quello proposto dalla Commissione governativa presieduta dall’Ammiraglio Riboty, con bocca a levante, o quello della Commissione tecnica municipale, rappresentata dall’ing. Cialdi, con bocca a ponente, o quello dell’ing. Amilhau con diga a due bocche. La quistione appassionava tutta la cittadinanza: scirocco e libeccio dividevano i Genovesi in Ponentisti e Levantisti, e la battaglia delle dispute ardeva quotidiana e clamorosa su tutti i nostri giornali, non tutti mossi, com’è naturale, da sola carità di patria. La Commissione direttiva formata, sotto gli auspici del Duca di Galliera, dalla Giunta Comunale a cui erano aggregati sei consiglieri comunali e quattro membri della Camera di Commercio, fatto ponderato studio dei tre progetti, delle Relazioni che li accompagnavano, del parere di Capitani marittimi, e tenuto conto delle indagini ed esami suoi proprii, il ‘26 gennaio 1876 votò ed elesse il progetto governativo della bocca a levante. I motivi di questo voto, esposti in una elaborata Relazione dall’ass. ing. Cesare Parodi, furono presentati al Consiglio Comunale perchè li discutesse e deliberasse. Dopo diverse animate sedute, il 4 marzo il Consiglio, in numero di 53, approvò il 1° progetto con voti 28, il 2° ebbe voti 23, il 3° voti 2. Il nostro Cittadino volendo dare un voto coscienzioso nella 504 quistione gravissima che decideva dell’avvenire del nostro porto e del nostro commercio, si applicò tutto allo studio intenso dei tre progetti e dei principii scientifici che dovevan servirgli di scorta nella complessa quistione portuaria, e ne trasse la ferma convinzione essere l'ottimo dei tre il progetto 2° cioè quello della bocca a ponente, e lo sostenne nell’adunanza del 3 marzo, anche contro la Relazione del cognato ing. Parodi, con argomenti tecnici e pratici così calzanti che non si leggono senza rimanerne meravigliati. E finiva il suo dire con queste parole: « Dio ispiri il Consiglio. Io do il mio voto dopo uno studio profondo e con sincera convinzione; ed è naturale il mio desiderio di vederlo adottato perchè credo essere nel vero. Ma nemmeno mi dorrò se sarà respinto dalla maggioranza: perchè o io sono nell’errore, e sarò ben lieto che l’errore non abbia avuto prevalenza; o io sono nel vero, e non sarò responsabile del danno che potrà derivare al mio paese dall’errore altrui ». Nel febbraio del 1876 caduta la Destra parlamentare e salita al potere la Sinistra, i liberali o, come allora si nomavano, i progressisti si agitarono in tutta l’Italia con clamori e dimostrazioni per conquistare anche i Municipii. Il che avvenne anche a Genova. Caduta l’Amministrazione Negrotto, sciolto il Consiglio comunale, e nominato R. Delegato straordinario l’avv. Felice Segre, nelle elezioni del 26 sett. 1877 il Cabella figura primo eletto, e nella prima seduta 17 ottobre, come Consigliere anziano propone ringraziamenti al detto R. Delegato: proposta approvata. Come si vede, nella estimazione politica dei liberali genovesi teneva da anni il primo grado il nostro Senatore, antico e immacolato campione di libertà; onde il 9 ottobre, proclamato il nuovo Consiglio, i progressisti che ne componevano la maggioranza, lo consultavano sui consiglieri da eleggersi a membri della Giunta e sui provvedimenti amministrativi che nell’interesse morale e materiale della città si reputavano più urgenti. La sapiente parola del Cabella suonava a tutti esortazione alla pacificazione degli animi, al lavoro concorde, alla ordinata e dignitosa attuazione del programma liberale (1). Insediatasi la nuova Amministrazione e nate presto discrepanze tra l’Assessore anziano march. Lazzaro Negrotto e gli Assessori (1) Tra ì più chiari ed operosi progredisti genovesi si nominavano G. B. Ravenna armatore, march. Vivaldi Pasqua (poi conservatore), prof. Iacopo Virgilio, avv. Leopoldo Bignone, Lazzaro Gagliardo, Domenico Celesia, Giovanni Fontana, avv. Giuseppe Berio, avv, Ugo Carcassi. 605 e i Consiglieri, fattesi più gravi per l’intervento della Giunta ai funerali del Pontefice Pio IX, fu sciolto nuovamente il Consiglio con fi». D. 15 maggio 1878, e nominato fi. Delegato straordinario il eomm. Salvatore Calvino. Dovendosi perciò il 14 Giugno 1878 rinnovare la rappresentanza generale, quattro giornali genovesi ossiano Gazzetta di Genova, Corriere Mercantile, Commercio di Genova, Voce Libera, composero di comune accordo una lista di candidati di diversi partiti e opinioni ma, come i detti giornali affermavano, tutti concordi nel volere la retta amministrazione e il bene economico della città. Tra i nomi dei candidati v’era pur quello de! nostro Cittadino, al quale parve di dover rinunciare quell’onore per le ragioni esposte nella seguente comunicazione da lui mandata ai sopraddetti giornali. (A.i Direttori della Gazzetta di Genova, del Corriere Mercantile, del Commercio di Genova e della Voce Ubera). « Ill.mo Sig.1' Direttore, » Fu ieri pubblicata nel suo giornale una lista di candidati alle imminenti elezioni amministrative, nella quale, senza ch’io sia stato richiesto del consenso, leggo il mio nome. Gli uomini per ogni riguardo rispettabilissimi ch’Ella propone agli elettori appartengono però a partiti diversi; ed io ho sempre creduto siffatte coalizioni impotenti a creare quella concordia ed energia di propositi che, specialmente nelle tristi condizioni finanziarie del nostro Comune, sono indispensabili a dargli una saggia e liberale Amministrazione. Veggo poi esclusi da questa lista molti di quelli onorevoli che nel cessato Consiglio ebbi sempre compagni nel voto, e dai quali non potrei separarmi. Per questi motivi ed anche per lo sconforto ingenerato nel mio animo dalla niuna fede che per le cose di Genova il Governo mostra di avere ne’ suoi uomini politici, credo mio dovere declinare l’onore della candidatura; e la prego di pubblicare la mia rinuncia. Cesare Cabella ». E non fu rieletto. Nella primavera del 1882 il Nostro si trovava ancora a Roma attendendo ai lavori di coordinamento del Codice di Commercio, quando il 23 aprile nelle elezioni generali del nostro Comune fu eletto ottavo. Aveva vinto la lista del partito clericale, il quale però vi aveva inserito anche ii nome di alcuni dei più cospicui nostri 5Ò6 concittadini di parte contraria, annunciando nel suo organo ufficialé che sopra di questi egli aveva preso ipoteca per l’avvenire. Quando il Nostro tornò a Genova e lesse di questa strana ipoteca, giustamente indignato, pubblicò contro il giornale ipotecante la seguente vibrata protesta : « Reduce da Roma la notte scorsa, vengo a conoscere che il giornale II Cittadino ha posto il mio nome fra i candidati da lui proposti alle elezioni municipali e che nel suo numero 177 ha dichiarato che « mettendo alcuni personaggi nella sua lista non ha inteso dare alcuna approvazione per il loro passato, ma prendere ipoteca di lealtà e di onore sul loro avvenire ». » Mi duole che la mia assenza da Genova mi abbia impedito di conoscere questi fatti prima delle elezioni, imperocché se la dichiarazione del Cittadino si riferisse (ciò che ignoro) anche al mio nome, io mi sarei fatto un dovere di avvertire gli elettori: 1° che non potevo accettare la candidatura da un partito che dichiarava di non approvare il mio passato; 2° che conservo intera la fede nei principii che servirono in passato e serviranno anche in avvenire di guida alla mia vita pubblica; 3° che io non manco mai alle-leggi della lealtà e dell’onore : ma non ammetto che un partito qualunque, col darmi un voto che non ho domandato, pretenda prender ipoteca di lealtà e d’onore sul mio avvenire, e menomare in qualsiasi modo la libertà de’ miei voti. » La prego d’inserire nel suo reputato giornale la presente dichiarazione ». Scaduto per anzianità il Cabella nel 1886, nelle elezioni parziali dell’8 luglio il giornale II Cittadino, che era quasi l’arbitro allora delle elezioni comunali, non lo rielesse più, come neppure i senatori Gerolamo Boccardo e Riccardo Secondi di parte liberale. E ciò si spiega, ma non si spiega e non si scusa l'apatia e l’oscitanza dimostrata in questa occasione dal partito liberale di cui il Cabella era l’onore. Se non che poco tempo rimase escluso dal seggio consigliare, perchè, come ben dice il Bensa, « egli visse ancora abbastanza per vedere il giorno della riparazione, nel quale Genova nostra mostrò di comprendere che una città la quale ha l’onore di albergare tra le sue mura un uomo siffatto e non lo chiama a sedere tra i padri del Comune, non fa onta a lui, ma a sè stessa ». Infatti, sciolta l’amministrazione il 27 novembre 1887, e il R-Commissario Riccardo Pavesi avendo indetto le elezioni pel 26 febbraio 1888, il Cabella riuscì terzo fra tutti gli eletti. F,07 Fu cara al cuore dei venerando Cittadino la giustizia resagli dalla sua città natale, e benché già grave di 81 anno e malfermo di salute, si recò alle sedute del Consiglio fino al 19 marzo, cioè fino a quando non fu colpito dal morbo che dopo quattordici giorni lo spense. Consta da documenti ufficiali che il Cabella, eletto Consigliere provinciale nel 1867, durò in tale carica 12 anni cioè fino al 1879; ma dell’opera da lui prestata in questa qualità ho cercato invano documenti. Non mi consta se d’altre, ma fu benemerito amministratore del-l’Opera pia De Ferrari Brignole Saie dalla sua fondazione in poi, e, dal 1878 fino alla sua morte, del R. Istituto dei Sordo Muti di Genova. Nel 1870 la Commissione generale del Bilancio avendo giudicato doversi abolire tutti gli assegni e le dotazioni fatte agl’istituti di beneficenza che si ritenessero non aver carattere di obbligatorietà, fu abolita anche la dotazione per 18 posti gratuiti nell’istituto dei Sordo Muti, dotazione statuita dal Decreto di Napoleone I dell’anno 180f) e dalle R.R. Patenti di V. Emanuele I del 1818. L'amministrazione mosse causa al Governo il quale fu vinto in prima e in se* conda istanza per modo che dopo ambagi e dilazioni si addivenne finalmente a una transazione stipulata il 30 giugno 1883, in virtù della quale il Governo pagava all’istituto la somma di L. 92.000 a saldo di debito arretrato, e annue lire 22.000 a titolo di concorso alle spese pei posti gratuiti e degli stipendi degl’impiegati dell’istituto. La transazione, approvata dalle due Camere, divenne legge nell’estate del 1885. Il Cabella, come senatore, come giureconsulto e come amministratore della pia opera, cooperò potentemente alla vittoriosa risoluzione della quindicenne controversia (1). (1) Cfr. Silvio Monaci, Storia del R. Istituto dei Sordomuti in Genova, 2* ed. (Genova, Sordomuti, 1901) pag. 146 e segg. tioà XXIX. Suo culto per la famiglia (1). Sua morte (‘2 aprile 1888). Nel 1865 il Cabella ebbe il dolore di perdere la madre, ottuagenaria, per la quale aveva sempre nutrito un culto particolare d’amore e venerazione. Perciò e perchè la famiglia, dopo Àdele ed Edoardo, s’era accresciuta di altre due figlie. Elisa e Bice, ed eran moltiplicate le sue cariche e i suoi negozi privati, trasferì il suo alloggio da Salita Poliamoli a quello più ampio e signorile del palazzo Giusso in Piazza Giustiniani n. 7. La famiglia di CESARE CABELLA. CESARE CABELLA = CLEMENTINA PARODI _j_ '_ • 1 . 1 1 1 l J Giovannino Adele Adele Edoardo Elisa Bice sposò in in Linda Gamba Gambarana Nucci I .1 I | Clementina Maria Cesare nel m. 1895 Conte A. Giorgi di Vistarino La storia ci parla non di rado di uomini grandi che intenti all’esercizio del loro apostolato politico o umanitario, neglessero per quello i doveri verso la famiglia; non fu così del nostro Cittadino che la famiglia considerava, come il Mazzini, patria del cuore, nucleo e centro primo di quella più vasta patria nazionale che ne è l’irradiazione e la propaggine, e che come figlio, fratello, marito e padre, per attestato di quanti intimamente lo conobbero, fu esempio non meno raro che come cittadino. Già nel corso di questo racconto abbiamo toccato alcun che de’ suoi rapporti coi genitori e coi fratelli, e dalle riferite lettere alla consorte e dalle poche di questa a lui abbia- li) Chiedo venia alla modestia dell’amico mio avv. E. Cabella se, dovendo parlare della vita di famiglia dell’illustre suo padre, mi son visto obbligato a contravvenire più volte all’espresso suo ordine di non pubblicare documento o giudizio che direttamente riguardasse la sua persona. Come avrei potuto in un tempo contentare l’amico e non pregiudicare l’efficacia e l’integrità, del mio racconto? 609 mo visto quale amorosa e felice concordia regnasse tra i due cuori, felicità ch’ei sentiva profonda e che lo consolò nelle fatiche, nelle amarezze e nelle delusioni della lunga vita. Come di tutte le cose così del sospirato oggetto del nostro amore si può dire che il possesso e l’uso ne scema il pregio, ne appanna lo splendore, ne sfata l’incanto; onde nasce la quasi indifferenza reciproca nei coniugi, sieno pur essi dotati di bellezza fisica, morale o intellettuale, quando per avventura non siano la stima e l’amicizia che più o meno stringano ancora i coniugi dabbene per cagione di loro singolari virtù e soprattutto per le cure e i sacrifici sostenuti dall’uno e dall’altro a prò’ dei figli (1). Questo fenomeno, così comune che può dirsi naturale, non si riscontra nel Nostro che sentì sempre per la diletta consorte quello stesso tenero trasporto che l’aveva mosso a farla sua, e che ebbe per lei sino alla fine anche nella libertà della vita famigliare quella cavalleresca devozione e tutti quei delicati riguardi dei quali l’uomo si suol far legge so- lo nel periodo del desiderio anteriore al coniugio. Fa egli d’uopo avvertire che questo non era in lui proposito di formali convenienze ma profondo sentimento di giustizia e di amore com'era la tempra dell’animo suo ? Dico giustizia perchè l’amore per la compagna della sua vita non era solo bisogno del suo cuore nato ad amare, ma riconoscimento e rendimento di grazie meritate e dovute alla donna che dotata delle più sante virtù, a lui e alla famiglia aveva tutta consacrata se stessa e nella felicità di lui e della famiglia riponeva la felicità sua. E noi consola il vedere com’egli non potendo contenere in petto la coscienza della sua felicità coniugale, la confidasse all’amico dell’anima sua Giovanni Ruffini in lettera già nota al • lettore. Educò i figli col metodo più naturale ed efficace: con l’amore e con l’esempio; con l’uno ne educò il cuore, con l'altro la volontà. Il timore di dar disgusto al padre era ciò che sopra ogni altro divieto tratteneva i suoi piccini da capricci o da cosa men conforme a dovere; che se talora la spensierata età puerile ve li spingeva, trovavano nel dolore dimostrato dal padre il loro massimo castigo (2). (1) « L’uso del bene — Ne scema il gaudio; ogni piacer desiato — È maggior che ottenuto >. Metastasio. (2) Ecco a tal uopo un fatterello udito dal tiglio Edoardo. Correvano le ferie autunnali e la famiglia Cabella era in campagna nella villa di Quarto. Sì recava colà più volte la settimana un maestro al quale l’Avvocato aveva affidata la cura intellettuale dei vispi Adelina e Doardino: uomo probo, valente 510 L'autorità paterna non intendeva come il più dei padri del tempo suo, podestà imperativa, muro divisorio tra genitori e geniti; Come leggiamo di Tullio Dandolo, anche lui e per sentimento paterno e per ben ponderato principio educativo ambiva possedere non solo l’amore e la stima ma tutta intera la confidenza dei figli- Onde, salve le ragioni della paterna dignità, egli fu a loro non pur padre, ma amico, fratello, compagno, e come tale li seguì nei loro studi, nei loro desideri, nelle gioie, nei dolori e fin dove gli era possibile, anche nelle loro ricreazioni; visse sempre con loro, per loro, di loro. Ben sapendo che sia gioventù e ciò che a lei per giustizia è dovuto, e di quanti affanni siano autori prima ai figli poi a se stessi gli sconsigliati che, ignari dell’umana natura, si avvisano stoltamente di operarne la salvezza e assicurarne il successo negandone i bisogni, contrastandone le inclinazioni, spegnendone la vivacità; e volendo vecchiezza, freddezza e gravità dove è gioventù, fuoco e vibrazione, usano la ferula censoria dov’è mestieri la persuasione amorosa, reputò suo precipuo dovere secondare la natura giovanile dei figli regolandola e dirigendola al bene coi già mentovati mezzi del confidente consiglio e dell’esempio paterno. Nè per vero in siffatto pedagogico ministero aveva egli da durar fatica o studio alcuno perchè avendo, lui e la sua donna, trasfuso nei figli con la vita i germi delle virtù avite, potè senz'altro mezzo adoperare che l’amore, assistere felice al germogliare, al fiorire e al fruttare di esse. E per non parlare delle sue tre figliuole ch’egli amò tenerissimamente ma che natura affidava più particolarmente alle cure educative della mamma, dirò che pervenuto il figlio Edoardo all’età dell’adolescenza quando ii giovinetto già abbastanza conscio di se stesso e della vita, comincia a muovere i primi passi fuori dell’àmbito della famiglia, (periodo pericoloso e decisivo se altri mai), ed ha bisogno di chi lo avvezzi a far buon e severo, ma forse meno atto a far v.ita coi fanciulli e a cattivarsene l'animo. Doardino, frugolo vivace di forse 12 anni, un giorno annoiatosi del pedagogo e delle sue lunghe spiegazioni, fiilita la lezione, traci all’aria in giardino, e li, credendo non essere udito, per far ridere la sorella, da buffoncello prese a rifare il verso del maestro e a cuculiarlo. Il maestro l’intese e si rabbuiò tutto, e la sera, dolutosene fortemente con l’Avvocato, volle senza indugio sciogliere l’impegno contratto e si congedò. Il padre ne fu gravemente addolorato. Quando prima di andare a letto Doardino si presentò a lui per dargli e riceverne il bacio della buona notte, « Ti darò-il bacio, gli disse grave il babbo, quando te ile mostrerai degno »; e gli additò l’uscio. Più dura punizione non gli poteva infliggere: il poverino se ne senti una fitta al cuore, passò un giorno di desolato sgomento e non ebbe pace finché coll’intercessione dell’amoj'osfv mamma non fu finalmente riammesso al sospirato bacio paterno, pii uso della incipiente libertà consentitagli, il nostro Cabella seppe assolvere l’arduo compito svegliando per tempo e sviluppando nell’ani-mo di lui, col profondo sentimento del dovere e dell’onore, il sentimento della propria responsabilità. N è gli tacque, come sogliono troppi padri per male intesi riguardi, anzi gli fece ben chiari e manifesti i pericoli a cui espone il corpo, lo spirito e la vita il giovane che navigando tra gli insidiosi flutti della corrotta società non abbia gli occhi aperti, non sappia quando abbia da evitare, quando da affrontare il pericolo; a quali voci aprire, a quali chiudere il cuore, quali impulsi a tempo debba seguire, quali a tempo frenare, a quale sommo ideale tener sempre fisso lo sguardo. Infine, trattando il figlio giovinetto da uomo, lo poneva nell’obbligo di esser tale in atti e in parole, e ne maturava il senno virile (1). Il figlio Edoardo seguì il corso degli studi classici al Ginnasio-Liceo C. Colombo dov’ebbe insegnante di Lettere italiane il prof. Federico Alizeri per tanti rispetti benemerito della nostra Genova. Le figlie volle educate dall’ottima loro mamma e istruite in ogni lavoro femminile che a donna si richiede. Dissentendo però affatto da coloro che vorrebbero la femmina unicamente intesa al fuso ed al pennecchio e alle faccende di casa, procurò loro una buona e solida cultura intellettuale sotto la disciplina di valenti e specchiati professori che a ciò si recavano più volte la settimana in casa sua. Tra essi ricordo, per le Lettere, la Storia e la cultura generale, il grande amico suo Pietro Giuria, onor di Savona e professore alla nostra Università; per la Lingua inglese il prof. Roberto Isnard, per la tedesca il prof. Carlo Hoerdegh; nomi chiari e lodati. E non provvide solo alla cultura dello spirito e aH’educazione del cuore de’ suoi figli. Io non affermerò in modo assoluto che riputando dono funesto, qhal essa è di certo, la vita data ai figli, si sentisse perciò in obbligo di riparare il fallo di padre col renderla loro il meno possibile infelice, ma certo l’amor paterno lo mosse a provveder loro fin dove e fors’anco più in là di quanto consentisse la (1) Il che ho io inteso tla persone fededegne e facilmente rilevato dallo studio complessivo dell’uomo, e son lieto di vederlo confermato dallo stesso suo figlio, l’egregio avv. Edoardo, il quale a una mia interrogazione in proposito gentilmente rispondeva: « Mio padre pensava che gli adolescenti si dovessero educare colla libertà, svegliando però in loro, quanto prima fosse possibile, il senso della responsabilità onde questo servisse laro di freno. Così usò sempre col proprio figlio al quale concesse sempre grande libertà, avvertendolo nello stesso tempo che questa concessione gli faceva nella fiducia che non ne avrebbe abusato, ed avrebbe spontaneamente osservato quei limiti eli» srano imposti dalla disciplina famigliare e sociale ». 512 sua fortuna, tutte'le comodità e gli agi che a stato signorile convenendo, men dura la rendono. Tra i convegni, le feste, gli spettacoli teatrali a cui con la famiglia a tempo opportuno interveniva, preferì sempre quelli che col diletto dell’arte giovassero all’elevazione del sentimento morale e del pensiero civile. Omettendo, come superfluo, il dire della cura ond’egli e la consorte vegliavano costantemente alla sanità della famiglia, non ometterò che, a questa sanità mirando non meno che alla onesta ricreazione del corpo e dello spirito, volle che nella stagione estiva godesse di liete e variate villeggiature. Dopo la morte del padre, seguita, come s'è detto, nel 1885, egli villeggiava coi fratelli nella villa Costa a Mur-ta in Polcevera; nel 1858 con la sorella Rosa e con la propria famiglia passò a S. Martino d’Alba.ro; dal 1859 al ’65 a Quarto nella villa Sciutto già Spinola, trasformata oggi in Manicomio provinciale; nel 186b villeggiò sul lago di Como; dal ’67 al ’69 a Pegli, prima nella villa dei marchesi Della Chiesa, poi alla Carmagnola annessa alla villa Rostan; dal ’70 in poi alternò, secondo la stagione, la villeggiatura di Fegino in Polcevera con quella di Serravalle Scrivia (1). E quando Edoardo, compiuti gli studi di Giurisprudenza alla nostra Università, dov’ebbe la rara ventura di udire la parola della cattedratica dottrina da chi udiva ogni giorno in famiglia la parola dell’amore, iniziò il tirocinio della pratica legale, non cessò ma crebbe l’opera del padre e del maestro. A questo assiduo pensiero del figlio e della famiglia si riferisce l’importante documento della seguente lettera che scriveva a Edoardo da Roma dove s’era recato nei primi di marzo del 1875 per prender parte alle discussioni del Senato. & Senato del Regno « Roma 6 Marzo 1875. » Carissimo Edoardo, » Non so se parlerò oggi. Forse no, perchè non vi sono questioni all’ordine del giorno sulle quali mi sembri poter recare qualche utile (1; Poco viaggiò. Per cura d’affari e amore di scienza nel 1862 fu all’Esposizione universale di Londra; fu a Parigi non so bene se uua o due volte, qualche volta a Marsiglia, qualche altra in Isvizzera. Per ragione di salute, accompagnato oradall’una ora dall’altra delle sue dilette figlie, si recò più volte ai bagni di Becoaro, di LeyioQ e di Voltaggio, 513 idea. Tu scrivi — se non parli tu chi ha da parlare? — Ah mio caro Edoardo, io non ho questa superbia. Ho studiato molto nella mia gioventù : ma pur mi sento tutt’altro che uomo superiore e temo sempre di non essere pari a qualunque ufficio io assuma. Vorrei che fosse vero ciò che tu dici : ma ho paura che tu t’inganni. » Procura tu, mio caro, di porti in grado di superare il padre. Studia. Hai ingegno molto. Se tu volessi coltivarlo com’essó merita, potresti facilmente elevarti ad un alto grado : e tanto più facilmente in quanto che trovi aperta dinanzi a te una via larga che al povero tuo padre era chiusa : chiusa in modo ch’egli ha dovuto aprirsela con grandissimi sfòrzi (1). Oh mio caro Edoardo! Questo sarebbe il mio sogno felice! Se Dio mi concedesse ancora tanti anni di vita da poterti vedere uomo superiore al comune degli uomini, quanto sarei felice e superbo ! » Domani vedrò due persone, che poste a due estremi della politica, si sono in questi ultimi giorni porta la mano, Torlonia e Garibaldi. Scriverò le notizie della mia visita (2). » Ieri sera sono stato al teatro Apollo per sentire l’Aida. Non mi ha destata alcuna ammirazione. È una musica alla tedesca, rumorosissima, con poche melodie. E mi parve molto male intesa dall’orchestra. Per esempio, il famoso — rivedrai le foreste imbalsamate — fu cantato a tempo di galoppo: e passa quasi inosservato. Gli attori, per essere applauditi, strillano. Non vi son sinfonie, nè preludii. Gli attori si mangiano le parole : e molte volte sono costretti a mangiarsele perchè vi sono meno note che sillabe. Non mi pare uno dei migliori spartiti di Verdi (3). » Addio, caro Edoardo. Salutami tanto la mamma e le sorelle. Annunzia per domani una mia lettera ad Adele. E dà un bacio a tutti. Salutami anche la zia. Sta allegro, e fa lieta la famiglia. Io mi compiaccio, nella mia serietà, quando vi veggo vispi e allegri intorno a me. Ma siate anche più vispi e più allegri durante la mia (1) Avrei creduto di sconciare indegnamente questo nobile sfogo d'amor paterno se per non offendere la grande modestia del chiaro avv. Edoardo Cabella, avessi soppresso questo giustissimo apprezzamento dell'onorando suo padre. (2) S’è cercata invano la lettera interessantissima. (3) Educato alla semplicissima scuola melodica dei-melodramma antico, il Nostro come molti altri, benché amantissimo di musica, non parve apprezzare convenientemente quella che si disformava dallo stile del vieto ritmo quadrato. Ma s’egli avrà udito altre volte, e meglio eseguita, VAida del Verdi, avrà certo modificato questo suo primo giudizio. 33 514 assenza. Confortate la vostra affettuosa mamma che quando è triste Jo è per amore di voi. » Addio, addio. Il tuo Papà ». Non pochi vivono ancora che ricordano con quanto amore il nostro Senatore reggesse i primi passi del figlio nell’arringo forense e con che trepida commozione assistesse in tribunale alle sue prime prove oratorie. Ed io ricordo aver udito da persona degna di fede che il sen. Eula raccontava d’aver visto il collega Cabella combattere invano contro l’erompente commozione dell’animo quando udì da lui delle dialettiche battaglie vittoriosamente sostenute da Edoardo nella causa Negroni-Tedeschi alla Cassazione di Torino contro provetti e valorosi avvocati. Pel cuore di Cesare e di tutta la sua famiglia il dì 24 luglio 1876 fu un giorno di festa: Edoardo, appagando il voto del suo cuore dava mano di sposo alla gentilissima e coltissima sua cugina signorina Linda Gamba, figlia di Anna sorella del padre (1). Cesare l’accolse e l’amò come figlia e alle figlie Adele, Elisa e Bice l’assorellò di amichevole intimità (2). L’avvenuto matrimonio e la conseguente separazione di domicilio anziché rallentare parvero accrescere l’amore tra il padre e il figlio, il quale come figlio, discepolo e collaboratore fu al padre ogni giorno compagno nello studio legale di Piazza Giustiniani e con lui ripartì sino alla fine le fatiche del foro. E quando Edoardo nell’estate del 1879 a ristorare la salute affievolita dal caldo, dagli studi e dall’eccesso delle occupazioni, per consiglio di lui s’era recato con la consorte ai bagni di Roncegno e di là gli scriveva non risentire dalla cura il beneficio sperato, il padre gli rispondeva nel modo seguente. (1) La Sig.a Linda Gamba è, sorella del chiaro Ing. Cesare Gamba autore ed esecutore del progetto di sistemazione e di allargamento di Piazza De Ferrari, di Via XX Settembre e del Ponte Monumentale. É pure opera sua la trasformazione in istile del Rinascimento del palazzo già Eicei a Montesano ch’egli acquistò dal Municipio, al quale il sen. Giovanni Ricci l’aveva lasciato in eredità. Di parte liberale, siede da lunghi anni consigliere alla Provincia e al Comune di Genova. Cfr. l’allegato Quadro genealogico della famiglia Cabella. (2) Dieci giorni prima del matrimonio il nostro Senatore sci'iveva da Roma al figlio Edoardo cosi chiudendo: « Addio, mio caro. Aggiungo qualche riga per la mamma. Tu salutami Linda e dille ch’io le do un bacio come a figlia amatissima. Ed anche al lo tue sorelle da un bacio per me. Addio », « Genova 23 Luglio 1879. » Caro mio Edoardo, » Avrai visto dai fogli che ti ho spediti che si trattò di farmi ministro di grazia e di giustizia. Grazia ne ho poca, perchè son vecchio: e la giustizia i Tribunali m’insegnarono a disimpararla : sicché sarei stato un pessimo ministro. L’unica cosa che mi avrebbe tentato sarebbe stata quella di far restare con un palmo di naso tutti quelli che mi voglion..... bene alla maniera d’oggi giorno. Figurati che rabbia ne avrebbero avuta X..... e compagnia! Basta! Ora non ci si pensi più. Fu un aborto. Ed è meglio assai. » E tu che fai ? Dalle lettere d’oggi pare che la cura fredda non ti faccia il bene che speravi. Ma hai troppo fretta. Credevi forse che l’acqua potesse guarire i nervi ittico et immediate (il forense fa capolino sempre nelle frasi) come lava le mani? Abbi un po’ di pazienza, per Bacco! (Lo scrivo con B grande perchè è un modo onesto di non bestemmiare). E due parentesi ! E poi sta a sentire : Se vuoi prendere vigoria, prima ricetta è lo star allegro. Te lo ripeto, dimentica studio, affari, ogni cosa, e non pensare a nulla. M’accorgo di aver dimenticato una regola di grammatica, che due negative accoppiate fanno un’affermativa. Dunque non pensare a india vuol dire pensare a qualche cosa. Ebbene ! pensa al desiderio che abbiamo qui tutti noi che tu sii contento ed allegro. E fa anche un po’ il matto, se occorre. » Che se Roncegno non ti piacesse, e volessi tentare qualche altra cosa, o anche credessi che ti facesse meglio un viaggio, dimmelo francamente e subito, e dimmi quanto ti fa di bisogno. » Stasera dovrei partire per Roma. Il nuovo Ministro dell’interno (1) e il Presidente Tecchio chiamano i Senatori per domani onde votare insieme al Macinato una diavoleria d’imposte nuove, al passo di carica, senza discussione, come si trattasse di distribuire dei confetti in una festa da ballo. Povero Senato !....... » La mamma che era contenta delle ultime vostre lettere, oggi restò un po’ pensierosa perchè quelle d’oggi non le parvero allegre. Ella pensa sempre a voi, e quando le pare che siate contenti è tutta contenta anch’essa. E cosi pure le tue sorelle, che fanno due o tre viaggi ogni mattina nel mio studio per vedere se ci son vostre let- (1; Tomaso Villa, 516 tere. E quando ve ne sono, aspettano ch’io le abbia lette, e poi se le portano via. Ti salutano tutte, con che cuore non tei dico, perchè sai quanto t’amano. E collo stesso affetto salutano Linda. Ci saluta anche Rosetta che è ancora qui con noi. Ed io impiegherò il poco spazio che ancor mi rimane per mandare a te e a Linda un bacio tanto forte e ardente che ne devi sentir sino a Roncegno il suono e il vento. Scrivimi se li hai sentiti. Il tuo Papà ». Nuovo argomento di festiva letizia fu pel nostro Avvocato la nascita di Maria prima prole del suo Edoardo, e più tardi un figlio, Cesare. I vezzi e le grazie di quegli angioletti nei fugaci momenti del domestico riposo lo intenerivano e lo compensavano delle lunghe fatiche della giornata. E quando, assente da Genova, scriveva alla famiglia, non dimenticava mai i nipotini, come nessuno dei suoi cari; ad Edoardo poi, anima dell’anima sua, riserbando l’espressione del suo più intenso amore. Così, ad esempio, finiva la lettera scrittagli da Roma il 27 aprile 1882 : « Mi consolano le notizie che le mie figlie mi scrivono della tua bimba. Dalle un bacio per me. Salutami Linda ed Annettina. Addio, mio caro Edoardo. Lavora con amore nella tua professione, quando pur ti pesi alquanto. Ne avrai a suo tempo il compenso. Addio di nuovo, mio caro. Prendi un bacio & una stretta di mano da chi t’ama assai più di se stesso ». La famiglia non fu solo l’amore che addolcì la laboriosa giornata della sua vita ma, come abbiamo letto nella riferita sua lettera al Ruffini 22 aprile 1877, fu anche l’idea benefica che nei momenti dello sconforto lo sorresse e rianimò. E invero ogni qual volta il suo spirito, assalito da arcane desolazioni, giaceva a terra prostrato, al pensiero dei cari che Dio aveva commesso alle sue cure, come impulso da superna virtù, l’uomo balzava d’impeto in piedi, più forte e armato che mai, a nuove pugne, a nuove vittorie. In casa Cabella spirava un’aura di armonia e gentilezza; principato felice e degno del principe che a sua somiglianza se l’aveva formato. Se argomento d’orgoglio erano per lui l’eletto ingegno e i generosi sentimenti del figlio, eragli argomento d’ineffabile tenerezza il vedersi dintorno, aulenti fiori di primavera, le sue tre dolci figliuole ornate di bellezza, di graziosa virtù e di leggiadro sapere e sentirsene ripetere le lodi da tutta la gentile cittadinanza genovese. Chi di noi non ricorda la primogenita Adele quando cavalcando pei viali dell’Acquasola, con virile ardimento lanciava a corsa infocata il buon destriero quasi volesse nell’esultanza della verde natura e nel sorriso del cielo sfogare l’ardenza del suo cuor verginale? « Mente elettissima, angelo di bellezza e di bontà » quale l’illustre alunno del padre suo la disse, a lei non valse la dovizia di tutte le virtù onde la fanciulla si trasforma in angelo del cielo peregrinante in terra, non gli studi geniali dell’idioma gentile di quella patria Italia ch’ella tanto amava, non il culto della bella poesia a cui confidava gl'ingenui sentimenti dell’anima sua bella, non la gioventù raggiante di florida salute, non l’ammirazione di tutti; senz’aver mai trovato su questo infausto lido quell’anima che talora vagheggiava nel puro cielo de’ suoi ideali, periva la gentile il 21 agosto 1883 senz’altro amor conoscere che quello di figlia e di sorella. Io non oserei nè parola d’uomo varrebbe mai ad esprimei’e l’immensità del dolore onde il cuor paterno fu trafitto a tanta sciagura. La sua vita, ancor gagliarda e vigorosa a settantasei anni, parve da quel colpo stroncata. Il volto dell’infelice vegliardo si velò d’arcana tristezza solo in parte alleviata dalla speranza di riposar presto il capo stanco nella quiete del sepolcro. Del vivo dolore che in Genova colpì chiunque conoscendo la famiglia del venerando Cabella avesse senso di gentilezza, si fece pubblico interprete un altro suo chiaro alunno, l’ottimo cittadino ed avvocato Goffredo Palazzi, il quale due giorni dopo quella morte sul giornale II Mare ne scriveva queste nobili parole: Una soave figura di fanciulla, bella, intelligente, amorosa, ci fj fuggita dagli occhi per sempre. Adele, primogenita del senatore Cesare Cabella, mori avant’ieri a Voltaggio, ov’e-rasi recata, accompagnatrice diletta, col padre stanco dell’opera incessante prestata alla clientela, allo Stato e bisognoso di riaversi nell’aria pura dei monti. Tutti ci sentiamo compresi di pietà per questa inattesa sciagura, che strazia una famiglia circondata dal rispettoso affetto di quanti hanno in pregio la gentilezza e la nobiltà del costume, che si riflettono da entrambi i genitori nei figli. Eppoi, Adele aveva congiunte così squisitamente la grazia femminea e la forte virilità del pensiero, da incarnare il tipo della donna italiana, degna di crescere la generazione, che auguriamo alla patria. Degna intanto di essere per ogni aspetto ■additata ad esempio alle donzelle sue pari, egli è per questo che osiamo tradurre nel foglio l’eco di un dolore'gelosamente privato. Nè al povero padre che, ne7 .suoi tardi anni, giunto al sommo di una carriera luminosamente onorata, si che pensando a lui la mente ricorre a quei grandi Giure-consulti della più grande epoca del diritto, si trova così d’un tratto deserto della prima sua gioia, della sua amica fedele, vogliamo tacere la nostra parola di condoglianza, che forse gli sarà cara come un omaggio alla tomba. Venuta da estranei questa sincera parola, gli mostrerà quanto la sua Adele fosse apprezzata da tutti e le lacrime, unico conforto all'affanno, gli sgorgheranno dal cuore. ol A Quattro anni e sette mesi sopravvisse il padre infelice à tanto dolore durante i quali però nè l’età nè la sventura lo indussero mai a riposare dall’intenso lavoro de’ suoi molteplici uffici. Nell’autunno del 1887, colpito e scampato da un grave insulto di bronco-polmonite^ per consiglio dei medici si ritirò per breve tempo a respirare le tepide aure di Pegli nella villa Doria. Poi, ripresa la vita consueta, ebbe altri due successivi attacchi men gravi; dai quali pure riavutosi e tornato alle sue occupazioni, il 20 marzo fu colto da un ultimo gravissimo accesso dello stesso male. Lottò parecchi giorni, disse sentirsi meglio, parve dare ancora qualche speranza di salvezza. Ma le fòrze erano consunte e la sua giornata era compiuta. Dopo un giorno di assopimento, saldo nei principii della filosofica fede religiosa che ne aveva animata tutta la vita, tra le lagrime e nell’amplesso della famiglia adorata, alle 6 pomeridiane del 2 aprile 1888, tranquillo e sereno l’uomo santo rendeva lo spirito a Dio Creatore all’avvento del cui regno sulla terra con l’opera e la preghiera aveva sempre ardentemente sospirato. Sopravvissero al Senatore la vedova Clementina Parodi morta settuagenaria nel 1895; la sorella Rosa, non mai maritata, morta di 84 anni nel 1909; la figlia Elisa, poi maritata nel Conte Luigi Gam barana, la quale mori nel giugno del 1914 lasciando una figlia, Clementina; la figlia Bice, poi maritata in Nucci, e morta senza prole il die. del 1905. Maggiore delle due sorelle, vive, e Dio conservi ancora lunghi anni all’affetto e alla stima de’ cari suoi e di quanti lo conoscpno, l’unico figlio avv. Edoardo Cabella ch’ebbe due figli: Cesare, dolente ricordo perchè quando in lui parevano rivelarsi i germi delle mirabili virtù dell’avo, nel 1895 a 13 anni morbo crudele lo rapiva allo straziato padre; la vivente Maria, maritata nel Conte Alessandro Giorgio di Vistarino, madre avventurata di tre gioie di bimbi. Degno figlio del suo grande genitore l’avv. Edoardo Cabella ne prosegue l’opera domestica e civile con l’esercizio della professione e delle virtù da lui ereditate. Fu Consigliere comunale sotto l’Am-ministrazione Castagnola, e Assessore per l’igiene sotto la successiva Giacomo D’Oria; fu Amministratore del Monte di Pietà e Cassa di Risparmio; del pio Istituto Rachitici. Presidente per 15 anni (dal 1904 al 1919) degli Asili infantili del Centro; Presidente del Comitato della Dante Alighieri; fu per molti anni membro del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Tesoriere, da cui si dimise con P. E-Bensa e Claudio Carcassi ed altri quando gli Avvocati per protesta contro il Ministero dichiararono lo sciopero. Aggiungere altro di lui non mi consente la sua modestia. 5l9 XXX. Siuopsi de’ suoi sentimenti affettivi e morali. Qual tempra d’uomo e di cittadino fosse Cesare Cabella ci dicono i fatti fin qui narrati: non ci resta ora, prima di finire, che a dare un rapido sguardo sinottico a’ suoi sentimenti affettivi e morali. I molti ed ampi uffici pubblici e privati lo accostarono ad una moltitudine presso che infinita di persone di tutti i ceti sociali. Fra tanta gente vivendo, i violenti, i soperchiatori, gli ipocriti, i subdoli con la prudenza evitò; quando non potè, li disarmò con la franchezza e la lealtà. Vincoli di particolare ed intima amicizia non strinse se non con quelli che, se pur diversi di fede politica o religiosa, per sincerità di carattere, bontà di cuore, finezza di sentimento con lui sentivano e consentivano e, fra gli uomini politici, segnatamente col Sineo, col Rattazzi, col Bertani, col Macchi, con lo Spantigati, col Mancini, con lo Zanardelli e più tardi anche col Lanza; menti lucide, spiriti gentili (1). •Come uomo a cui non meno del pensare il sentire e l’amare erano necessarie condizioni di vita, alla vita del cuor suo larghi conforti derivò dall’amicizia, larghi ne porse al cuore altrui. Quegli smarrimenti o svenimenti dell’animo che da giovane confidava al confortatore Giordani e per cui talora piombava in profonda malinconia che gli dava la senzazione di trovarsi come in una misteriosa solitudine di desolato' deserto ove s’annullasse tutto l’esser suo, sappiamo da lui che non lo abbandonarono finché visse, come sappiamo che da quel temporaneo deliquio il pensiero della famiglia aveva potenza di risuscitarlo ritemprato e più forte alle pugne della vita. Altri dolori sfogava con gli amici più cari. Tra questi merita speciale menzione Pasquale Stanislao Mancini il quale dacché l’ebbe conosciuto, nutrì sempre per lui un vero culto di affetto e ammirazione. « Amatemi quanto io v’amo, ammiro e venero, » gli scriveva da Torino •in lettera d’affari 3 febbr. 1859; e in altra da Firenze 7 sett. 1866: « Vogliatemi bene come io sono e sarò sempre riverente e affettuoso estimatore del vostro nobilissimo ingegno e delle elevate doti dell’animo ». Nel febbraio del 1883 il Nostro, amareggiato di vedersi (1) Abbiamo lettere che lo dimostrano amico famigliare anche di Cesare Correnti, Gius. Saracco, Ercole Bicotti, Antonio Mordini ed altri. Si conservano 9 lettere del Depretis al Cabella, le più d’affari, tutte di data anteriore alla sua assunzione al potere. 5-20 ripagato di cinica ingratitudine e oltraggiosa soperchieria da chi più di ogni altro molto gli doveva, confidava le sue amarezze al Mancini, allora Ministro degli Esteri, il quale con lettera del 4 marzo gli rispondeva: « Queste vostre lettere, ispirate da elevati e patriottici sentimenti ed anche da antico affetto per la mia persona, mi hanno rattristato parendomi che Voi, in cui l’Italia saluta uno de suoi più insigni cittadini e delle più alte illustrazioni nella scienza e nel foroj soffriate l’ingratitudine, retaggio inseparabile dal vero merito. E superfluo aggiungere che, a mio avviso, Voi esagerate l’effetto, certamente impotente e nullo, di meschine invidie e di fortunate emulazioni; l’opinione pubblica finisce per porre ciascuno al suo posto, e quando avremo finito il corso di questa vita mortale, le passioni tacciono e la verità trionfa » (1). I molti che ancora lo ricordano confermano unanimi quanto della sua modestia abbiamo fin qui narrato, e com’egli abbia sempre preferito combattere nella milizia del bene pubblico piuttosto da ufficiale inferiore o milite gregario che da capitano. Ai fatti citati non credo superfluo aggiungere quest’altro. Avendo egli prestato l’opera sua per la formazione del nuovo Codice di Commercio come membro della Commissione per la unificazione legislativa del Regno ordinata con legge 2 aprile 1865, dal Ministro di’ Grazia e Giustizia gli venne conferito, con decreto 22 agosto di quell’anno, il grado di Ufficiale dell’Ordine Mauriziano. Il Nostro, già pago del grado di semplice Cavaliere dello stesso Ordine, fu contento di ravvisare in quell’onorificenza l’approvazione superiore della prestata opera sua, ina di onore non di onori desideroso, e di vita intima vivendo, e alieno, da buon genovese di stampo antico, da decorazioni e mostre esteriori, anzi che lieto si senti non poco infastidito di un dono che non aveva mai desiderato, e lo ricusò con lettera di cui trascrivo la parte sostanziale. (1) Non rimoviamo il velo (molto trasparente per ohi viveva in Genova a quel tempo) sotto il quale il Cabella nascondeva l’amara verità per aggiungere ohe il Mancini tejnendo che le doglianze dell’amico potessero nascondere un’indiretta domanda d’aiuto, dopo le parole sopra riferite gli offriva la lucrosa ed onorifica missione di giudice arbitrale per la determinazione dei danni, che si diceva ammontassero a 20 milioni di lire, sofferti in America dagli Italiani, in massima parte genovesi e liguri, nella disastrosa guerra fra il Perù e il Chili, e per istabilire le indennità loro dovute dai due Governi. Ma il nostro Cittadino che altro non domandava all’illustre amico, se non una confortevole parola d’affetto e che, varcato ormai il 76° anno di età, non avrebbe mai voluto affrontare il viaggio di Valparaiso e di Lima, naturalmente declinò ringraziando l’offerta missione. 521 « Genova, 29 agosto 18G5. » Ill.mo Sig. Ministro, » Mi duole di non poter accettare il grado di cui sono onorato. Sebbene nella lettera del di Lei predecessore non siano indicati i titoli che mi valsero quest’onore, suppongo però eh’essi consistano nell’opera da me prestata nella formazione del nuovo Codice di Commercio. Tale essendo la mia credenza, dirò che quando accettai l’onorevole incarico non ebbi altro pensiero fuorché di concorrere come meglio avrei saputo, nella misura de’ miei poveri lumi, a questo importante lavoro. E mi fu compenso anticipato e più che bastante l’essere creduto degno di prender parte alla nuova legislazione del Regno. » Mi permetta perciò che declini l’onore che mi vien fatto. Ringrazio la S. V. Ul.ma della fattami comunicazione, e sono som-, mamente grato al di Lei predecessore della proposta fatta a mio favore, ma la prego ad un tempo di voler accettare le mie scuse. Io desidero vivamente di aver frequenti occasioni di prestare i miei deboli servigi laddove siano creduti utili, ma desidero egualmente di essere lasciato nella mia oscurità. » Ho l’onore etc. della S. V. Ill.ma Um.° Dev.° Servo Cesare Cabella » Ma questa lettera,, trovata in bella copia nelle sue carte, non fu certo spedita, e poiché il Nostro altre maggiori onorificenze per altri meriti in seguito conferitegli non ricusò, convien credere che, ripensato Tatto che stava per compiere, abbia concluso non esser lecito al cittadino vivente in paese libero il ricusare dal proprio governo un decretato segno d’onore 11011 meno che il sottrarsi alla esecuzione di un ordine emanato dalla legittima autorità. E 1 accettò (1). La modestia che gli fece ricusare altissimi uffici, non era quella del fiacco che per amor di quiete intende fuggirne il peso e i fastidi, chè di lavoro intenso fu tutta contesta la sua vita; era l’altezza morale di chi dei doveri incombenti a un alto ufficio ha un concetto così . arduo ed elevato da ritenerlo superiore alle sue forze. (1) Altre ragioni di ricusare non aveva sia perdi è sincero aderente al regime monarchico-costituzionale, sia perchè le gesta dei commendatori non avevano ancor . toccato l’apice della gloria riservata ad anni più recenti e fortunati. 522 , Modesto, dico, ma giusto, e benché sapesse essere la pazienza il segreto dei forti, la modestia non gli tolse di esigere per sè il rispetto e il riguardo di cui egli era verso gli altri diligentissimo osservatore, e di far valere il suo diritto e la sua dignità sempre che vi fosse chi ardisse offenderla o minacciarla (1). Il cuore fu il suo grande e perpetuo ispiratore, ma l’amore non fu iu lui svenevolezza e smancerie di smorfia romantica ma sentimento profondo, di fatti eloquente non di parole. E così chi, usato al grosso mondo, da tanta sua mitezza e cortesia avesse argomentato altrettanta arrendevolezza e remissività d’animo in ciò che non fosse perfettamente conforme ad onestà e giustizia, e ne tentasse la pròva, se ne ritraeva subito disingannato e confuso, e forse imparava che la vera bontà non è mollezza o dabbenaggine ma virtù e forza virile. E il decoro dell abito e della persona da lui sempre con diligente cura osservato, la fine e quasi femminea cortesia della maniera e della parola e l’aspetto pieno di amabile autorevolezza che ne facevano un tipo così singolarmente nobile tra la nostra cittadinanza che, come taluno ha ben osservato, lo si sarebbe detto il giureconsulto decano dei Lordi d’Inghilterra, altro non erano, a ben vedere, che la fedele manifestazione dell’alto sentimento della propria dignità e del rispetto dovuto non meno a sè che agli altri, era il riflesso esterno dell’interna eccellenza. Questa singolare squisitezza di sentire che non gli permetteva di pronunciare una parola non solo men che decente ma men che decorosa, era pur causa ch’egli di fronte ad atti o parole inaspettatamente basse e indegne vivamente si risentisse ed irritasse, benché poi subito sapesse contenersi e riprendere iL consueto governo di se stesso: ma chi potrebbe mai amar molto il bene senza molto sdegnarsi del male? (2) Comechè, temperato e saggio in ogni cosa, non si ricordino di lui detti o fatti che denotino eccentricità di carattere quale di solito si osserva negli uomini usciti dalla schiera vulgare, riferirò un aneddoto, inteso più volte da persona a lui devota, che se ancor fosse d’uopo, confermerebbe quanto già sappiamo dalla sua morale'sensitività. Aveva egli patrocinato gratuitamente, come spesso soleva, e vinto (1) Sue lettere superstiti, non più spedite dopo il primo risentimento, protestano contro gravi sconvenienze usate a lui da persone che molto gli dovevano, a una delle quali sappiamo aver dovuto sospendere l'uso amichevole della seconda persona. (2) Bicordo, a mo’ d’esempio, essergli ciò accaduto alcune volte che vide dal tribunale ingiustamente disconosciuti i riguardi dovuti agli avvocati alla cui dignità, come presidente dell’Ordine, egli doveva vegliare. 62é Una causa di contestata proprietà a favore di certi poveri contadini. L’anziano di questi, recatosi allo studio di lui e udita la vittoria riportata, depos’e sullo scrittoio il denaro cli’ei credeva onorario dovutogli. L’avvocato garbatamente con la mano gli fa cenno negativo perchè lo ritiri. Il villano, credendo che quel cenno significasse rifiuto di retribuzione inferiore al prestato servizio, mette mano alla borsa e brontolando non. so che zotica insolenza, aggiunge al primo altro denaro.-Punto sul vivo, l’Avvocato con moto istantaneo irriflesso prende il denaro e glielo butta sul viso. Poi l’equivoco fu chiarito, e benefattore e beneficato dopo vicendevoli scuse si strinsero la mano. Gaso affatto eccezionale perchè egli serbò sempre, com’era natura dell’animo suo delicato, una grande temperanza di modi e di parole con tutti, tenendo per fermo doversi condannare e combattere il male col fare il bene e rispettando sempre le persone, giusta l’antico precetto fortiter in ve suaviter in modo. Se mai fu uomo a cui ottimamente convenisse la bella definizione che del perfetto oratore dà Catone il vecchio: bonus vir dicendi peritus, egli è il nostro Cabella, sia perchè la verità ha tal potenza di irradiazione ed erompe cosi lucida e viva dalla parola dell’uom probo che attrae subito e conquista ogni animo bennato, sia perchè la rettitudine della vita dell'oratore è arra sicura a tutti della bontà della causa da lui presa a sostenere. Non dunque nel suo discorso concetti avvolgentisi nel mistero di circonvoluzioni nebulose, come Giove tra l’oscurità dei nembi; non parole sesquipedali, non frasi tribunizie e concionatorie, non razzi finali aspettanti l’applauso: orpelli e artifici che paiono essere necessaria armeria dei parlatori moderni. La parola del nostro Cittadino era semplice come la verità, dotta come la sua mente, modesta come l'animo suo; il suo discorso fluisce come di chiara e viva vena e corre facile e perspicuo all’immediata intelligenza di chiunque l’ode. A Genova e fuori di Genova èra nota la cordiale e signorile cortesia con cui accoglieva ed onorava italiani e stranieri che mossi da degna ragione a lui venissero. Dei cari sentimenti ch’ei sapeva destare nel cuore de’ suoi ospiti ci è documento, tra i tanti, questa lettera di Jules Favre il quale passando per Genova l’autunno del 1861 aveva voluto conoscerlo e salutarlo. « Gènes ce dimanche soir — 8bre 61. » Mon cher confrère, je ne veux pas quitter Gènes sans vous re-mercier de votre accueil si gracieux et si cordial et dont je con- serverai le meilleur souvenir. J’ai trové en vous tanfc de franchise et de bonté que je me suis cru en face d’un véritable camarade avec le quel je pouvais parler à coeur ouvert. Permettez moi d’espérer que ces précieuses rélations ne s’arrèteront point là, et que conformé-ment à vos promesses, nous continuerons par correspondance à nous entretenir de tout ce qui peut intéresser notre pays. Je me sers à des-sein de cette expression estimant que nous sommes vraiment de la mème race, sauf que Dieu vous a marqués d’nn rayon plus poétique que nous. D’ailleurs nous servons l’un et l’autre une cause plus élevée, celle de l’établissement définitif de la philosophie et de la liberté. Justement conva incus de notre droit, nous combattrons à la mesure de nos forces; et ce me sera une grande fortune que de vous avoir pour auxiliaire, en mème tems qu’un souverain lionneur de contribuer par mes faibles efforts au complet affrancliissement de votre noble patrie. » Je v.ous prie, mon clier confrère. d’agréer l’expression de mes sentiments dovoués. Jules Favre à Paris 87 Rue d’Amsterdam » La malvagità che quando si vede impotente a demolire il galantuomo e la virtù, mette l’uno e l’altra in ridicolo, lo rispettò; non lo rispettò la ingratitudine degli uomini, non lo rispettò il sorriso di compassione di emuli invidiosi arricchiti fuor di misura alla scuola antica e moderna àeWnomo savio del Guicciardini (1); ma contro costoro e ogni altro insulto di uomini e di fortuna oppose il silenzio e il propugnacolo della propria coscienza. Austero il costume, ebbe la semplicità delle anime grandi. Amava il bene per il bene e dove vedesse brillare luce di nobile virtù ne gioiva come di propria fortuna (2). Giudice severissimo di sè stesso e pronto e lieto estimatore del merito altrui, furono a lui miserie ignote superbia ed invidia. L’invidia nasce e germoglia na- (1) « Anch’egli provò tante volte il morso dell’invidia e della malignità ». Stef. Castagnola nella Commemorazione al Cons. Com. di Genova 18 apr. 1888. (2) Era questa la celeste visione che talora cotfsolava lo spirito moribondo dell’infelice recanatese: * Bella yirtù, qualor di te s’avvede Come per lieto avvenimento esulta Lo spirto mio ». (Paralipomeni, C. V, *t. 47). 525 turalmente tra uomini militanti nello stesso campo sotto la stessa insegna; ma chi più e più sinceramente del nostro Cittadino onorò vivi e morti i grandi luminari del foro genovese suoi competitori? Aperto e franco professore delle sue idee e perciò aborrente dagl’intrighi e dalle congreghe segrete dove si fucinano le tante cose che poi, rivestite di mirabili apparenze, si traducono alla luce delle assemblee politiche e civili, egli spesso non seppe o sdegnò di sapere ciò che quivi si pispiglia, e comechè si aggirasse di continuo nell’inquieto agitarsi dei negozi e dei litigi, egli parve sempre vivere raccolto col pensiero in un’aura di idealità superiore ove non arriva l’eco del trivio nè il lezzo delle umane quisquilie. Era insomma il Cabella una virtù che vive di sè stessa e, come tutte le anime eccelse, trova in sè stessa la ragione della sua dignità e de’ suoi conforti (1). La libertà, concetto astratto denotante un modo di essere, considerata come facoltà di agire senza contrasto di ostacoli, non è per se stessa nè un bene nè un male; diventa bene e virtù quando agisce in uno spirito naturalmente temprato al bene, male e vizio nel caso contrario; la prima forma il merito e la felicità degl’individui e dei popoli, l’altra il vitupero e la rovina. Chi studia il mondo e lo giudica non secondo il desiderio e il preconcetto ma secondo la verità effettuale delle cose, sa che l’uomo in genere concepisce la libertà Tesser padrone di fare ciò che si vuole, e l’ama e la stima solo il prezzo a cui può venderla. Dura verità che scaturisce dall’altra non men vera nè men dura che l’uomo, così premuto, com’è, da mille bisogni, e guasto da mille magagne, è per disgraziata natura intellettuale, morale e fìsica, sostanzialmente disgraziato e infelice (2). Il nostro Cabella nella libertà non vide che la facoltà di vivere secondo coscienza cioè di conoscere e insegnare il vero e operare il bene per contribuire alla progressiva felicità della triplice famiglia: domestica, nazionale, (1) Nelle riferite lettere a’ suoi amici politici abbiam visto più volte com’egli ragioni di politica considerando il mondo più «econdo quello ch’esso dovrebb’essere che secondo quello ch’esso è in realtà, e degli uomini e dei fatti politici giudichi talora più dal referto della voce pubblica ohe dalle loro intime cause che in politica si nascondono troppo spesso nel fondo limaccioso delle partigianerie settarie e nel pozzo putrido delle pili abiette miserie umane. Nobile ignoranza che fa fede di altezza e di alterezza d’animo, e che suffraga la sentenza di un valentuomo che parlando di sè, scrisse non si poter essere uomini veramente dabbene senza essere anche un tantino dabbenuomini. Come, aggiungo io, è quasi impossibile esser furbi trincati senza possedere anche qualche buon grano di matricolata bricconeria. Tale la nostra natura. (2) « Gli uomini sono miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente ». Leopardi, peu*. XXXI. umana, e l'amò e la predicò sino alla fine con amor puro e generoso. Ma l’amore della libertà politica che presso i popoli retti a democrazia suol essere l’unico titolo strombazzato a procurar favori e suffragi all’uomo ambizioso di salire, come se altro maggior bene al mondo non vi fosse, è una menzogna se non trova nella libertà morale la sua prova e il suo fondamento. Nella persona del nostro cittadino il culto della politica e civile libertà risplendeva tanto più onorando in quanto aveva ragione e radice in un’anima monda e libera dalle ree passioni che traviano la volontà dei più, e se non scevra affatto da tutti gli errori offuscanti l’intelletto, chè nessuno al mondo può vantarsene immune, certo da tutti quelli che in alcun modo potrebbero detrarre all’onorabilità di un'integra coscienza. Nato libero da gente libera, sdégnoso d’ogni servitù, franco da ogni stimolo di ambizione e di egoismo, egli non volle nè ebbe d’uopo di legare la propria libertà alla potenza di individui o di associazioni. Più vivo splendore acquistava in lui il sacro culto in quanto non intese mai la libertà dissociata da quell’augusta istituzione che nella storia dei popoli fuga le tenebre della barbarie e apre il giorno della vita civile: la legge; la legge che della libertà garantisce a tutti il diritto e l’esercizio determinandone i confini oltre i quali stanno la violenza e l’ingiustizia; la legge che, come fu oggetto assiduo de’ suoi studi e del suo insegnamento, così fu norma rigida e costante della sua vita. E per vero anche nelle più tempestose sommosse e nei ribollimenti delle passioni popolari nelle quali si abbattè, massime negli anni 1848-49, 1860-61 nessuno può dire ch'egli abbia mai trasgresso quei confini. Associando in amichevole consorzio così nel pensiero come nell’azione la libertà e la legge, conciliando il diritto col dovere_ egli veniva a trovarsi egualmente distante dalla libertà sfrenata e dalla incatenata libertà cioè in quel giusto mezzo dove sta l’ideale di ogni civile virtù (1). / Così seguendo e professando da uomo veramente libero non ciò che gli sarebbe meglio convenuto ma ciò che vero e giusto credeva e sentiva, anche in materia religiosa e morale congiunse, conciliati in un sol culto, la religione con la ragione, il sentimento con la scienza, Dio con la natura, lo spirito con la materia, 1 immutabilità dei principii aventi fondamento nella natura umana con l’evoluzione progressiva del pensiero verso forme d’essere sempre più perfette. In politica fu bensì repubblicano per principio ideale, ma perchè la forma (J.) « Yirtm est medium viliorum et ulrtnque reductum *. Hor. Epint, I, 18, 527 di governo quando non voglia esser nociva, dev’esser quella che è richiesta dalle reali condizioni morali e politiche del popolo, così fu sincero aderente della monarchia costituzionale che sotto i Reali di Savoia prese forme di repubblica retta a principato, anche in ciò conciliando l’ideale col reale. Ne segui quel che sempre suole: ai demagoghi parve quasi un retrivo, ai retrivi quasi un demagogo, solo gl’imparziali estimatori, che sono i pochi, seppero giudicarlo (1). E nondimeno nè ai demagoghi nè ai retrivi che del tutto ignoranti o malvagi non fossero, riuscì mai di parlare del loro avversario senza molta riverenza, obbligati a deferire al franco carattere e alla generosa probità da tutti a lui riconosciuta. Nelle due Camere, pur sedendo sempre a sinistra, recò spiriti conciliativi fin dove lo consentivano le circostanze e le sue convinzioni. Alla Camera elettiva si fece interprete delle vedute, talora forse un po’ ristrette, e delle opinioni, talora forse non ben fondate, del ceto politico genovese; onde venne a lui come a’ suoi colleghi genovesi la taccia di municipalismo. Lo discolpa la natura dei tempi e dell’ambiente in cui nacque e visse e quanto s’è detto sulle cause dell'antagonismo tra Piemontesi e Genovesi; sua lode incontestata il non aver mai espresso sentenza di cui, anche se disputabile, non fosse fermamente convinto. Caduta la Destra, salutò l’ascensione al potere della Sinistra come augurio di giorni felici per l’Italia; ma quando vide le tristi prove del nuovo governo, quando vide per esso allentato il freno ad ogni licenza, fatto licito il libito, e nell’osceno baccanale imperversare le fazioni estreme e dilagare sotto nome di libertà l’ateismo, l’impostura, la venalità e la frode, e l’immoralità invadere e penetrare dappertutto e inquinarsi e corrompersi tutta la vita italiana, e l’improntitudine esultare dell’assicurata impurità, qual dolorosa delusione ne sentisse il nostro Cittadino che per un’Italia felice aveva con invitta fede tante fatiche durato, tanti dolori sofferto, possiamo facilmente immaginare (2). Poi (lì In una lettera senza data il suo amicissimo Mauro Macchi si doleva con lui delle insidie proditorie dei partiti estremi i quali avrebbero voluto delle associazioni di mutuo soccorso fare dei club politici, aggiungendo: • E dico nostri avversarli perchè cotesti susurroni sono i medesimi che ne vogliono a morte anche contro di te per la ragione che tu hai più giudizio di loro -. (2) Al sormontar della Sinistra in ogni città d’Italia non pochi," che già col collo torto e gli occhi bassi e il cero in mano-, compunti e contriti vociavano salini e litanie in processione coi preti e i frati, si videro cangiar d'un tratto la maschera del bacchettone oon quella dell’ateo e del demagogo e gridando libertà perseguire ingordamente il lardo al suo nuovo domicilio. Oh la delizia dell’umana natura! 528 quando vide il governo del Depretis apertamente spogliarsi del suo originario ufficio educativo e protettivo per farsi corruttore e raggiratore, e per opera sua converse le due Camere in due mercati di coscienze, e il Consiglio dei Ministri in Comitato servilmente esecutivo di poderi extralegali, sfogò l’indignazione dell’animo trafitto nella memoranda lettera allo Zanardelli del luglio 1881 e pensò di aspettare onesta occasione di deporre le opprimenti insegne senatorie per rac* cogliersi prima di morire nella pace della sua tranquilla vita privata. E certo il pensiero avrebbe tradotto in atto se il trionfo del male fosse all’uomo onorato giusta ragione di disertare la bandiera del bene, o se gli fosse possibile trovare al mondo compagnia d’uomini non infetti da umana nequizia. Intanto gli anni e la verità storica, che con gli anni e l’estinzione delle antiche animosità politiche si fa meglio manifesta a chi la rimira con occhio chiaro e con affetto puro, temperarono e corressero il troppo severo giudizio ch’egli già aveva recato sopra fatti ed uomini dell’antico governo; onde, pur sempre fermo nei principii di vera e larga liberalità, da uomo leale rese nobile giustizia al merito della caduta Destra e riconobbe la grandezza del Cavour già' da lui apertamente avversato. Ma se, com’è proprio della nostra natura, il tempo e le vicende andarono via via mitigando gli ardenti spiriti dell’età virile e lo resero più indulgente verso le umane debolezze secondo l’aurea sentenza della Staél tout comprendere c’est tout pardonner, conservò però con meravigliosa costanza sino alla fine, e non ostanti le molte delusioni, sempre integra e giovane la fede nei principii e nei sentimenti che fin dalla prima età l’avevano animato e nutrito, fede nella libertà, nella virtù, nel lavoro, nella scienza, nei destini della patria e dell’umana famiglia; e il vessillo di questa fede agitando, milite più che ottuagenario, cadde sul campo da forte (1). Incredibile l’attività operosa del nostro Cittadino. Sia perchè aborrente per natura genovese dall’inerzia, sia perchè di continuo stimolato dal pensiero di mille prementi doveri, sia perchè nell’indefesso lavoro trovasse il farmaco più-efficace ai travagli dello spirito, egli spediva in un sol giorno tanto lavoro che un altro pur laborioso non avrebbe fornito in due. Basti il dire ch’egli non concedeva ordi- ti) L’eloquenza oratoria .e la fede invitta ne’ suoi antichi principii di severa libertà gli valsero presso le sfere politiche il nome di ultimo dei Girondini, m •nanamente più di sei ore al riposo notturno, dalla mezzanotte alle sei di mattina, senza mai riposare -di giorno. Non sapendo resistere alle istanze di chi ne invocava l’ambito ausilio legale, assumeva occupazioni sopra occupazioni che spesso l’opprimevano e gli toglievano il respiro, onde noi ci spieghiamo i dolci ma forti rimproveri dell’amico Giordani e la meraviglia di Vitale Rosazza che nel 1870 scrivendo al Ruffini si meravigliava che il Cabella in un mese non avesse ancor trovato due ore di tempo per dare un’occhiata alle carte relative alla vertenza contro la Vernengo; ci spieghiamo infine il perchè egli abbia potuto prestare tante cure a cento diversi studi e negozi di politica, di amministrazione, di legislazione, di foro, di beneficenza, di cattedra, di famiglia. Tanta mole di lavoro pubblico e privato che gli assorbì tutta la vita, e insieme il concetto altissimo ch’egli aveva della scienza col quale la sua grande modestia si peritava di misurare le sue forze, fu causa per cui non lasciasse ai posteri opere di lunga lena degne del suo intelletto e della sua dottrina. Ci restano, per verità, sei grandi volumi dove suo figlio ebbe cura di raccogliere le principali sue allegazioni forensi pubblicate per le stampe; ci restano manoscritte molte delle sue lezioni che riordinate e pubblicate tornerebbero d'inestimabile benefìzio alla gioventù studiosa; ma, come ben avverte il Bensa, « che importa un volume di più o di meno di fronte a un’esistenza di 81 anno, così operosa e nobilmente spesa? Nella grande solidarietà che lega gli uomini attraverso lo spazio e attraverso il tempo, la vita di cotali operai del bene rimane fattore eterno di progresso verso il meglio; il loro esempio, le loro parole, i loro fatti si ripercuotono e si ripercoteranno ancora, benché ignorati, in mille echi all’infinito, come parte indistruttibile della grande anima mondiale, anche quando l’oblio che tutto travolge abbia cancellato il loro nome dalla memoria delle tarde generazioni ». Sì, operaio, e grande operaio, del bene; e non solo perchè la vita dell’uomo che, come il Cabella, si fa a tutti luminoso esempio delle più generose virtù, è una vera e continua beneficenza, ma perchè egli prodigò anche i tesori del suo gran cuore a sovvenire ai bisogni e ad asciugar le lagrime di ogni sventura. Di molti benefizi fan testimonianza molte lettere confidenziali, molti altri e maggiori giaciono occulti; ma la materia è gelosa, nè a me è lecito, nè io oserei mai sollevare il sacro velo sotto il quale li volle per sempre occultati al mondo il nostro benefattore. Solo dirò che lo aver sempre troppo pensato agli altri e troppo poco a sè fu cagione alla sua vecchiezza di acerbissimo dolore, perchè quando egli avrebbe potuto, pur osser- 34 530 vando la più scrupolosa onestà, procurarsi una fortuna da lasciamo ■largamente provveduta la famiglia, senza lasciarla veramente povera, com’egli amaramente si duole nel suo testamento, la lasciò in condizione economica così modesta e così inferiore alla prima signorile agiatezza da obbligare il figlio Edoardo all’assiduo esercizio della professione legale. Ecco le parola del testamento: « Chiedo perdono a mia moglie e ai miei figli se li lascio poveri. È il pensiero che mi uccide: è il dolore a cui non trovo conforto. Fu imprevidenza ma fu anche virtù. Perdonatemi la prima per la seconda ». Oh uomo veramente sublime! No, non fu imprevidenza la tua, fu fatale necessità, perchè Tesser nato alle grandi virtù tanto vale quanto esser nato ai grandi sacrifici, nè altrimenti che con grandi sacrifici tu avresti potuto far pago il tuo gran cuore nè assolvere la tua nobile missione! Quando io penso che la virtù, la famiglia, la patria, la scienza, vale a dire il bene e il vero unificati nel concetto assoluto di Dio, animarono il pensiero e gli atti della sua lunga vita; quando penso che di quegl’ideali fu maestro e sacerdote non nelle sterili contemplazioni estatiche dell’asceta solitario, ma solerte e infaticabile nell’at-tuosa e tumultuosa vita della moderna società, nella Camera elettiva, nella vitalizia, nei tribunali, sulla cattedra, nel santuario domestico; con l’esempio, con la parola, con gli scritti; amando, meditando, beneficando; forte, modesto, illibato; io m’inchino riverente a Cesare Cabella come a uno di quei sovrani spiriti che riverberando sulla terra la luce benefica del pensiero divino, rivendicano l’onor decaduto di questa misera umana progenie e ci riconciliano con lèi. E oggi che l’infezione morale della vita pubblica va sempre più diffondendosi e penetrando la vita privata, oggi che tutti i principii reggitori del consorzio civile: Dio, patria, famiglia, autorità, legge, hanno perduto ogni privilegio di immunità e sono discussi e screditati dal libero esame e dallo scetticismo di un’aberrante filosofia, e il dubbio e la negazione trovano pratica applicazione nel non vietato sfogo dell’ambizione, dell’egoismo e della sete sfrenata d’ogni piacere, donde l’ingiustizia, il raggiro, l’impostura nei governi e nei governati e la dissoluzione d’ogni sincero e ordinato vivere sociale; oggi che siamo giunti al punto estremo in cui, come Livio diceva de’ tempi suoi, nè i mali nè i rimedii dei mali siano più in grado di sopportare, ed è reo di delitto capitale chi osi rivelarne le cause, oggi più che mai urge il bisogno di presentare ai giovani la figura dei trapassati che come il nostro Cabella seppero esser grandi e memorandi 531 li on meno per inerito d’ingegno e di dottrina die di sentimento di coscienza e di osservato dovere, cioè di quelle virtù dell’animo donde direttamente scaturisce la libertà politica e ogni più desiderata condizione di vita civile. Le nazioni hanno più bisogno di onesti uomini che di uomini dotti, e l’acutezza di una mente non vale la generosità di un cuore, officina e fonte di ogni nostro valore operativo. La storia degli uomini insigni per grande e cosciente probità dovrebb’es-sere, più che la storia politica, quotidiano pascolo del giovane italiano. Il quale, se per avventura avesse affaticato e traviato lo spirito nella vana ricerca di una felicità irx’eperibile fuori di noi, meditando su queste pagine, potrà finalmente ritrovare sè stesso e concepire e fermare in sè nuovi e magnanimi propositi. Non altrimenti che il favoleggiato Rinaldo dell’epopea crociata, il quale dai degradanti amori d'Armida approdato al lido di Palestina, vede appeso a un albero uno scudo istoriato delle gesta de’ suoi avi e vicino a questo un vecchio misterioso che, a redimerlo e rigenerarlo, gl’intima : « Alza la fronte, o figlio, E in questo scudo affisa gli occhi ornai, Ch’ivi de’ tuoi maggior l’opre vedrai » (1). XXXI. Sue funebri onoranze. Le onoranze funebri rese agli uomini politici sentono per lo più di politica, cioè di quella menzogna convenzionale che pare elemento necessario della convivenza civile. A Cesare Cabella la sua virtù meritò la fortuna singolarissima della veracità e sincerità unanime dell’universale compianto. Profondo fu il lutto onde fu colpita la popolazione genovese che avendo imparato da lunghi anni ad amare e ad ammirare in Lui una delle sue più pure e legittime glorie, accorse dolente a scortarne la salma fino all’ultima dimora; nè meno memoranda la gara d’amor filiale con cui gli studenti del nostro Ateneo contesero altrui e rivendicarono a sè soli il diritto e l’onore di trasportare sulle proprie spalle il feretro del loro adorato padre e maestro dal suo domicilio di piazza Giustiniani a piazza S. Lorenzo dove lo deposero sul carro funerario. Dalla morte di Mazzini nessun Genovese ricordava aver più (1) T. Tasso, Geruaal. lib. C. XVII »t. 64, 534 visto a Genova un accompagnamento funebre paragonabile per concorso di popolo e per grandezza di cordoglio a quello onde Genova volle onorare la salma e la virtù del suo sommo giureconsulto. La partenza del corteo era fissata per le 3 pomeridiane; ma già oltre un'ora prima si vedeva nelle vie principali un’insolita animazione: cittadini di ogni classe venivano quali a prendere il loro posto nel corteo, quali ad assicurarselo come spettatori. In via S. Lorenzo, già molto prima dell’ora stabilita, la folla s’era già tanto accalcata che dovettero poi sudarci non poco gli agenti municipali a preparare fra quella siepe umana lo spazio necessario per l’ordinamento del grande corteo che doveva muovere da piazza Giustiniani. Apriva il corteo un drappello di guardie municipali; seguiva quindi la banda militare e un battaglione di linea del 25° reggimento con la sua bandiera. Dopo la truppa seguivano le seguenti Associazioni con le rispettive bandiere: Comitato ligure dei veterani 48-49; Ufficiali e Soldati non pensionati; Società cooperativa per le case operaie; Società dei Caravana; Società Periti pesatori. Venivano quindi gli allievi degl'istituti scolastici, del Collegio Nazionale, dei Sordomuti, dei Licei, dei Ginnasi; quindi la Scuola Navale e quella Superiore di Commercio; gli Studenti universitari; la Fanfara dei pompieri e il Corpo dei Pompieri in grande uniforme. Seguiva poi il Carro funebre di prima classe, veramente splendido, tirato da sei cavalli e letteralmente coperto da magnifiche corone di fiori, una fra le quali tutta di viole e di camelie, enorme, deposta sul feretro dalla famiglia dell’estinto. Si notavano inoltre quella della vedova, quella del Municipio, del Collegio degli Avvocati, del Collegio dei Procuratori, del Corpo Universitario, degli studenti della Scuola Navale, dell’istituto Sordomuti, della Scuola Superiore di Commercio, della Società Mutua Cooperativa per viveri ed abitazioni, di Lazzaro Gagliardo e di Claudio Carcassi. Stavano sulla bara le insegne di Dottore di Collegio e quelle di Grande Ufficiale degli Ordini dei S. S. Maurizio e Lazzaro e della Corona d’Italia. I cordoni del carro erano tenuti dal senatore Figoli rappresentante il Senato, dal deputato Gagliardo per la Camera dei Deputati, dal prefetto Municchi, dal Comm. Selmi primo presidente della Corte d’Appello, dal Barone Podestà per il Consiglio Provinciale, dal Cav. Demetrio Lertora Presidente del Collegio dei Procuratori, dall’Assessore anziano Comm. Castagnola per il Municipio, dal Cav. Poggi per la Procura Generale, dal Generale di Divisione, Rossi, in gran tenuta, dal Senatore Secondi rappresentante l’Ateneo Genovese, dall’avv. Comm. Maurizio per la Deputazione Provinciale. 533 Dietro il carro seguivano i parenti, i Senatori e i Deputati Liguri, i generali di Brigata Montezemolo e Bozzetti, la Magistratura, il Municipio, i Consiglieri Provinciali, i Dottori delTUniversità, i Professori della Scuola Navale, i Professori della Scuola Superiore di Commercio, il Consiglio direttivo del Comitato Ligure per l’educazione del popolo; il Corpo degli Avvocati e Procuratori; l’Amministrazione della Congregazione di Carità e Albergo dei Poveri; la Società di Navigazione Generale Italiana, la Borsa, la Stampa e le rappresentanze diverse, le Guardie daziarie, le Guardie Municipali, la truppa. Chiudeva il corteo, che si estendeva per oltre un chilometro e mezzo, un carro abbrunato con numerose corone di fiori, e una ventina di vetture. Il corteo percorse l’itinerario di Via S. Lorenzo, ’N ia Sellai, Piazza Deferrari, Via Roma, Piazza Corvetto, Via SS. Giacomo e Filippo, Via Galata. Giunto il corteo sulla Piazza della Camera mortuaria, una deputazione di studenti toglie il feretro dal carro e lo depone di fronte alla gradinata della cappella. La superba corona di viole e camelie viene deposta sopra la-bara (1). Qui, poiché la truppa al comando di un maggiore ebbe presentate le armi, cominciarono i discorsi. Prende primo la parola il senatore avv. Tito Orsini dicendosi delegato dal foro genovese a dare l’estremo vale alla salma di chi di esso foro era stato lustro ed onore. Parlando poi brevemente delle grandi virtù dell’JEstinto dice che nessuno meglio di lui, Orsini, che l’ebbe tante volte ora compagno ed ora avversario nelle lotte forensi, può esser giudice dell’alto ingegno e dell’ammirabile dignità professionale di Cesare Cabella. Segue il sen. Casaretto rammentando con amarezza la degenerazione morale della società presente tutta sviata dietro ai materiali interessi e dimentica di quelle avite virtù che ci diedero una patria libera e indipendente. Propone alla gioventù italiana l’esempio del grande Estinto cui nè i ripetuti inviti ai primi onori, nè il desiderio di lasciar nome nei posteri, nè gli stessi interessi della sua adorata famiglia poterono mai torcere dalla via delle grandi virtù e dei grandi sacrifici; e conclude: « Sì, ascoltiamo la voce generosa che ci viene da quell’urna; seguiamo i nobili esempi che ci addita; sarà questo il miglior compianto, questo l’onor maggiore che mai possiamo rendere (1) Ho tratto le riferite notizie dai giornali II Secolo XIX e Ca/faro; seguono i discorsi funebri ohe ho riassunto quasi tutti dagli autografi. * 534 all’illustre Estinto, questa la più bella corona che noi possiamo deporre su questa bara ». Per la Camera dei deputati parla poscia il dep. Gagliardo recando nel breve discorso l’accento del cuore. Descrive a vivi tocchi l'angelica parte dell’uomo in seno alla sua famiglia: il vuoto immenso lasciatovi. Deputato, egli ricorda come Cesare Cabella fosse stato rappresentante ■del paese nella prima legislatura di quel parlamento Subalpino che fu modello di patriottismo e di sapienza politica. Ma più che il rappresentante della Camera elettiva, in ogni frase, dell’oratore si manifesta l’intimo amico e l'ammiratore dell’ Estinto ; ed alla chiusa, soffocata da uno scoppio di pianto, la sua commozione si trasfonde nell’ intiero uditorio. Vibrato e potente fu il successivo discorso del Prefetto comm. Municchi che trovò nell’ altezza del soggetto nuovi spiriti alla sua nota eloquenza. Toccando per sommi capi i punti più salienti dell’ operosa vita del trapassato, ne illustrò la grandezza dell’opera politica ■e civile. E perchè l’on. Gagliardo aveva accennato ad una dolcezza tutta femminea del carattere dell’ Estinto, il comm. Municchi rammentò come questo dolcissimo carattere sapesse a tempo dar prova di ben robusta fierezza. Parla quindi il sen. Secondi, Rettore della nostra Università, incaricato di rappresentare il Ministro della P. Istruzione e i Rettori delle Università di Pavia, Bologna, Napoli, Siena, Parma, Modena e Ferrara. Tra le altre lodi egli nota l’amore immenso nutrito dal grande Defunto pel nostro Ateneo e il validissimo aiuto da lui prestato a rialzarne le sorti. « L’Ateneo genovese, dice l’oratore, deve a lui la creazione del primo Consorzio fatto tra il Comune, la Provincia -e il Governo, Consorzio che costituì la pietra di fondamento per l’innalzamento dell’ Università al grado in cui oggi la troviamo. Il Corpo accademico questo fatto riconobbe deliberando per Cesare Cabella un ricordo marmoreo che nel Palazzo dell’Università ne tramandi ai posteri l’onorata memoria e la riconoscenza di tutti. Io non posso senza commozione ricordare lo slancio col quale in Senato durante una burrascosa seduta la sua autorevole e potente parola ha potuto scongiurare il più grave pericolo a cui sia stata esposta la legge di pareggiamento della nostra Università. E dovrei io dimenticare, davanti al feretro suo, i saggi consigli avuti dall’ amato e stimato collega nella mia lunga gestione universaria? No, o signori, io mancherei al più grande dovere ; no, io devo testimoniare qui che nelle più gravi quistioni fu sempre l’illuminato consiglio del Collega che ha guidato la poca opera mia, e ne rendo a lui il tributo della mia più profon- 535 da gratitudine ». Infine l’oratore si volge ai giovani esortandoli a imprimere nell’animo loro la figura dell’uomo « che per elevatezza d’ingegno e di carattere veramente italiano costituisce per la gioventù d’Italia uno splendido esempio di sapere e di civile virtù ». L’avv. Poggi, sostituto Procurator Generale del Re, a nome della magistratura genovese pronuncia un discorso che è tutto un inno alle virtù intellettuali e morali, private e pubbliche onde il Cabella fu e sarà sempre a tutti ammirabile e imitabile esempio. Segue l’avv. prof. Ponsiglioni per la Facoltà di Giurisprudenza e per la Società di Letture e conversazioni scientifiche di cui è vice-presidente, ponendone in rilievo l’alto merito d’insegnante: « Veramente privilegiato ebbe l’ingegno, profondo insieme ed acuto, atto egualmente alla più minuta e paziente investigazione dei fatti e a quella sintesi unificatrice dove, se non è tutta la scienza, è per fermo tutta l’efficacia del magistero didattico. » In lui la tempra intellettuale del giureconsulto, come i nostri padri di Roma ne diedero al mondo il tipo immortale, onde gli derivava la logica notomizzante, il linguaggio splendido di semplicità e di esattezza geometrica; in lui la vasta e multiforme cultura scientifica dei tempi moderni; in lui infine quel senso innato e squisito dell’arte del dire, rinvigorito dall’abituale colloquio coi sommi della classica letteratura..... Doti siffatte costituiscono l’ottimo fra gl’insegnanti. E per esse, nei cinque lustri in cui svolse le ragioni del patrio diritto, potè dettare quelle lezioni, mirabili per ordine, per metodo, per limpidezza e trasparenza di forma, per rettitudine di criterii, che raccolte amorosamente dagli alunni e presto, giova sperarlo, diffuse colla stampa nel pubblico, confermeranno gli studiosi d’Italia tutta nella sempre costante opinione che Cesare Cabella nel Diritto civile era maestro di coloro che sanno ». Ricordatine poi i brevi ma sapienti Discorsi, e accennato a quel “tramonto a cui il Cabella nv\Y Avvenire della scienza aveva paragonata la sua vecchiezza, soggiunse: « Splendido tramonto per lui, che per ben diciotto anni ancora si vide circondato dall’affetto riverente dei giovani, in mezzo ai quali più caldo e men pigro sentiva nelle vene circolare il sangue, animato dal fuoco di quella perenne giovinezza che è un privilegio delle nature superiori. » Splendido tramonto, o signori, per Cesare Cabella, che ad ogni istante udiva ripetersi che era l’amore e l’orgoglio non solo de’ suoi discepoli, ma de’ suoi colleghi altresì; perocché quelli e questi lo salutavano perfetto maestro non tanto per l’ingegno singolare .e 586 la straordinaria dottrina, ma per la cortesia quasi femminea dei modi congiunta ad un carattere di tempra adamantina, pel culto disinteressato e non mai smentito della libertà e della patria, per la purità dei costumi, per la dignità della vita. In una parola, tutti gli rendevano omaggio'perchè riconoscevano in lui il vero sacerdote della scienza del Diritto, perchè il suo insegnamento non si esauriva colla eloquente lezione, ma dopo la scuola continuava nella famiglia, nel Foro, nelle pubbliche amministrazioni, nel Parlamento, suggellando la bontà del consiglio con la suprema efficacia dell’esempio. » Nè questo esempio sarà sterile di frutto. Anche quando i suoi colleghi e i suoi giovani scolari saranno scomparsi dalla scena del mondo; anche quando con noi, presenti a questo pietoso ufficio, e con tutti i cittadini di Cesare Gabella sarà estinto materialmente il ricordo di quella scultoria figura di pensatore e lavoratore, ove pareva che alle traccie nobili e spiccate dell’antica e non mai stanca razza Ligure s’intrecciassero quelle della potente razza anglo-sassone; quando pure con noi tutti, o signori, sia distrutta la immagine, che oggi caramente abbiamo impressa nel cuore, della più bella e decorosa canizie che mai abbia passeggiato per le vie delle città italiane, l’opera benefica del nostro eminente concittadino non sarà esaurita. » Alla tua tomba che oggi lacrimata si schiude, trarranno, o Cesare Cabella, i giovani delle più lontane generazioni. E in compenso del fiore consacrato alla santa memoria del sapiente maestro e dell’amoroso educatore, ne ricaveranno una scintilla di quella forte e perenne ispirazione del bene che fu il segreto della tua esistenza, e che ti rese ammirando cosi nella Curia e nei Consigli legislativi come nella Famiglia e nella Scuola! » Il comm. Fasella, Direttore della R. Scuola superiore navale, parlò dell’Estinto considerandone particolarmente la ferma fede in Dio e nell’immortalità dell’anima e le sue alte benemerenze e il suo costante e operoso amore verso la Scuola Navale di cui poteva dirsi il vero fondatore. Il comm. Castagnola per la civica Amministrazione chiude la serie dei discorsi stringendo in brevi ed efficaci parole l’elogio del padre di famiglia e del cittadino. Rammenta come la prosperità morale ed economica della sua città natale fòsse in lui cura e pensiero così costante che ogni qual volta questo argomento venisse in discorso l’occhio suo si faceva sempre più vivido, la parola più rapida ed eloquente. Rammenta quanto il consiglio e l’opera sua fossero profìcui alla gestione dell’azienda municipale; e come ultimamente, già. 537 curvo sotto il peso degli anni e sofferente del fatai morbo che doveva indi a pochi giorni trarlo al sepolcro, eppur sempre sorridente e sereno, intervenendo assiduo alle sedute, dtfsse nobile esempio del compimento del proprio dovere sino al finale esaurimento delle forze vitali. E chiude dando alla sacra salma in nome di Genova l’ultimo vale. La virtù e il sapere ebbero raramente tanto concorde la sincerità dell’estremo tributo. I Consigli dell’ordine degli Avvocati di parecchie città tra le quali Torino e Casale telegrafarono condoglianze; quello di Milano diede incarico all’ avv. Angelo Graffagni di rappresentarlo ai funebri onori. Ricevuta dal Prefetto la luttuosa notizia, Crispi presidente del Consiglio telegrafava al Prefetto per la famiglia Cabella le condoglianze del Ministero. La Presidenza del Senato invitava per mezzo del Prefetto tutti i senatori di Genova ad assistere ai funerali in rappresentanza dell’alto Consesso. Lei numerosissimi telegrammi di condoglianza pervenuti alla famiglia Cabella da ogni parte d’Italia e dalle più cospicue notabilità del mondo politico e giuridico rechiamo i pochi seguenti. Di P. S. Mancini all’avv. Edoardo Cabella: « Addoloratissimo partecipo vostra immensa sventura. Da mezzo secolo sentimenti amicizia ammirazione stringevanmi insigne padre vostro eminente illustrazione scienza foro dignità politiche. Associatemi qualunque tributo onoranza sua memoria ». Di Paolo Boselli ministro della P. Istruzione al comm. Fasella: « Partecipo con tutto l’animo al dolore di codesto Consiglio Direttivo e di tutta Genova commossa per la perdita di così dotto e chiaro cittadino, facendo voti perchè le nuove generazioni si ispirino agli esempi che lascia una vita degnamente spesa nel culto degli studi e in servigio d’ogni pubblico interesse. Boselli ». Lo Zanardelli all’avv. Edoardo Cabella: « Mi giunse ora sul Garda la mestissima notizia della perdita dell’illustrò suo genitore. Pensando che il grandissimo ingegno, la vasta coltura, l’ammirabile eloquenza dell’estinto erano superate soltanto dalla singolare altezza del suo carattere, vivamente rimpiango 538 il cittadino, mentre piango l’amico che mi fu largo sempre di affetto prezioso. Con questi sentimenti di profondo cordoglio mi associo all’angoscia ed al lutto di Lei e dei suoi. Zanardelli ». Bernardino Grimaldi Ministro di agr. e comm. al comm. Fasella! « Mi associo con sentimento di sincero cordoglio al lutto di co-desta Scuola per la morte del suo illustre Presidente senatore Cabella che l’amministrò per molti anni con intelletto d’amore e fu benemerito di questo dicastero anche per altri importanti servigi ad esso prestati in qualità di Presidente del Consiglio superiore di Commercio. Esprima mia condoglianza alla famiglia delFEstinto e mi rappresenti ai funebri. Il Ministro Grimaldi ». L’on. San Donato al comm. Castagnola: « A letto ove sono, oggi soltanto apprendo irreparabile perdita illustre Cesare Cabella, gloria del patriottismo italiano e dei giure-consulti. Memore con quanta benevolenza egli mi onorava nei primi giorni del mio esilio nell’ospitale Genova nel 1849, prego te, mio antico amico, essere interprete de’ miei sentimenti presso la rispettabile famiglia Cabella. San Donato ». La Giunta Municipale, radunatasi il 3 e 4 aprile, aveva deliberato i suntuosi funerali a spese del Comune. Nella tornata 18 aprile in seno al Consiglio Comunale prima il presidente comm. Castagnola, poi l’avv. Angelo Graffagni, in fine l’avv. Claudio Carcassi commemorarono il nostro compianto Concittadino con parole che molto mi duole non potere per ragione di brevità riferire, vibranti e infiammate non saprei dire se più di amore o di venerazione. Il Consiglio deliberava che le sue spoglie mortali avessero sepolcro nel Tempio degl'illustri genovesi a Staglieno, dove oggi riposano tra quelle di Carlo Bombrini (1804-1882) e di Camillo Sivori (1815-1894). Il dì 3 aprile la Corte d’Appello e il Tribunale avevano sospeso le udienze in segno di lutto. In Senato nella tornata del 23 apri* le il vicepresidente M. Tabarrini commemorava con brevi parole il nostro Cittadino. 539 Il 10 maggio, giusta la deliberazione presa il 3 aprile dal Consiglio dell’ Ordine, si radunava l’Assemblea generale degli avvocati dove il sen. Tito Orsini, nuovo Presidente, tessè un accurato elogio commemorativo del suo grande precessore ponendo in rilievo la luminosa difesa da lui fatta nel 1833 dinanzi al tribunale militare, del dott. Angelo Orsini fratello dell’oratore, per la quale gli fu commutata la pena del capo in quella del carcere. L’assemblea deliberò di allogare al lodato scalpello del Rubatto un busto ricordante le venerate sembianze del compianto suo Presidente, e di collocarlo nella sala degli avvocati presso la Corte d’Appello dove ora si vede. Dn altro busto, di gesso, opera del Saccomanno, fu posto, ed ora si vede, nella sala del Consiglio dell’ Ordine. Tacciamo delle non poche commemorazioni tenute in seno al Consiglio delle altre Amministrazioni a cui il Nostro apparteneva, per accennare a quella solennissima pronunciata alla nostra Università il 28 aprile 1889 dinanzi al corpo accademico, del prof. P. E. Bensa, al Cabella succeduto nella cattedra del Diritto civile. Di questa commemorazione modello ho già detto a principio, ella è tale eh’ io credetti valermene come autorevole illustrazione e conferma di quanto son venuto esponendo in questo lavoro.