ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA NUOVA SERIE IX (LXXXIII) FASC. II GENOVA - MCMLXIX NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VIA ALBARO, U ATTI DELLA SOCIETÀ’ LIGURE DI STORIA Patri FONDATA NEL 1858 Nuca Sem . IX (UJQtlII) Fase. II. LuglMj^ ^ COMITATO DIRETTIVO FRANCO BORLANDI (Presidente) - LEONIDA BALESTRERI - NILO CALVIN! CESARE CATTANEO MALLONE - GIORGIO COSTAMAGNA - CARLO DE NEGRI - T. OSSIAN DE NEGRI - GUIDO FARRIS - GIUSEPPE FELLONI GIOVANNI FORCHERI - LUIGI MARCHINI - GIUSEPPE ORESTE GIOVANNI PESCE - GEO PISTARINO - DINO PUNCUH Direzione ed Amministrazione: VIA ALBARO, 11 - GENOVA Abbonamento annuo: Lire 5.000 (estero Lire 6.000) Un fascicolo separato Lire 3.000 Conto Corrente Postale n. 4-7362 intestato alla Società SOMMARIO pag. 153 » 179 » 181 » 187 » 223 » 231 » 237 » 249 » 273 » 287 » 295 » 321 » 325 » 329 » 333 Carmelo Tras selli, Genovesi in Sicilia..... Secondo Convegno del Centro Ligure per la Storia della ceramica (Albisola - 31 maggio-2 giugno 1969)........v Guido Farris, Discorso inaugurale . . Fe““e“.. ÇoUribuo alla 'conoscenza 'della tipologia e della stilistica della maiolica ligure del XVI secolo Ge'nolff sMM f-OT «« >!«; di scavo di Livio Pamlli, Piastrelle del secolo XVI di 'fabbricazione genovese '. ce^msLi7rìbu‘° ? Tiziano Mannoni, Gli scarti di fornace e la cava del XVI secolo in via fiat'-W !Gemm; ***>ei “ella 'cera- Francesco Aguzzi, Bacini architettonici a Pavia ..... Note d’Archivio - Rassegne - Congressi Gian Piero Mentasti , Mauro Valerio Pastorini p.; storia del Monastero Agostiniano della Guardia infusali! ° **** Domenico Gioffré, Uno studio sugli schiavi a Genova nel XTTT ' i ' Giovanni Rebora, XI Congresso Internazionale di Storia Macu la Aldo Agosto, I Congresso storico Liguria-Catalogna . . ' ‘ Notiziario bibliografico ..... ..... CARMELO TRASSELLI GENOVESI IN SICILIA Testo della conversazione tenuta il 3 maggio 1969 nella sede della Società Ligure Storia Patria. Genova e la Sicilia o, se si preferisce, i Genovesi in Sicilia, intendendo per Genovesi i Liguri in genere. Quando ho scelto questo tema di conversazione l’ho fatto renden-omi perfettamente conto delle gravi difficoltà dell’argomento, dovute anc e al fatto che tale materia non è stata trattata e che non ho quindi a guida di una bibliografia moderna. Non so fino a qual punto i fatti che sto per raccontare siano nuovi, ma e certamente nuovo il punto di vista e sono nuovi i documenti. Mi verra rimproverato di non aver tenuto conto di ciò che forse è stato già stampato in Liguria stessa sui rapporti con la Sicilia. Confesso che non nemmeno fatto molte ricerche in proposito perché la massa dei documenti che ho a disposizione è così enorme che ancora sono immensamente ontano dall’averla esplorata tutta. Se il richiamo non è irriverente, vorrei dire che seguo un ammonimento di Benedetto Croce: che è inutile ripetere ciò che è stato già detto egregiamente da altri. Per ciò, per esempio, non mi occuperò dei rapporti tra Genova e la 101 !a> emergono dal cartolare di Giovanni Scriba conosciuto dagli stu iosi liguri assai meglio che da me, nè mi fermerò su quel documento in cui il notaio genovese ci mostra come una specie di lettera di cambio venisse mandata a Genova da un commerciante arabo di Trapani. Citerò alcuni fatti economici, quasi in ordine cronologico, collegan-01 appena tra loro e ponendoli in connessione con pochissimi fatti politici. Non ne trarrò alcuna conclusione perchè sono ancora perplesso di ronte a quella che a me sembra Punica conclusione possibile. La mia esposizione dunque non sarà affatto sistematica, ma aneddotica, anche per l’ottimo motivo che mi presento quale in fondo sono rimasto, cioè un ricercatore di documenti, che pone tutto il proprio impegno e ricava tutta la propria soddisfazione nel trovare quel tanto di nuovo da cui altri trarrà nuovi collegamenti e nuove approssimazioni alla verità. Dico ciò senza falsa modesia. A Federico II risale la più antica legislazione italiana sull’ammira-gliato, che è anche la più antica o una delle più antiche leggi europee sull’ammiragliato. È una legge che possiamo vedere stampata dal Pardessus e dallo Huillard-Bréholles. È una legge patetica, mi sia concesso di affer- - 155 - marlo, in cui si parla di una grande flotta da guerra, di tributi dei Sara ceni. Ammiraglio di Federico II e del Regno di Sicilia era uno Spinola, genovese. , Facciamo un lungo salto e scendiamo alla dinastia aragonese, p il Vespro: c’è ancora un ammiragliato del Regno di Sicilia ora in ipen dente e non più legato all’Impero, che è regolato dalle stesse norme c e Federico II aveva dettato per lo Spinola. Queste norme sono P patetiche, più tristi; vi si parla ancora di tributi saraceni ormai sueti da tre quarti di secolo; ma Ammiragli del Regno i 1C ancora dei Genovesi, i Doria, che si trasmettono la carica i p figlio Con Federico II viene in Sicilia una grande famiglia feudale, quella dei Ventimiglia, che poi parteggia per Manfredi e riemerge opo P tesi angioina. Non volevo nemmeno credere che i Ventimig ia os stesso ceppo dei Ventimiglia di Liguria, ma vi è nell Are ivio roan- Pisa una lunga storia di quella famiglia che cita anche documen £eucjj tenimento di rapporti feudali tra i Ventimiglia di Sicilia e i ^ ganjco di Liguria. Codesta famiglia ha in Sicilia il più omogeneo, i P1U gruppo di feudi che vi sia nell’isola, quello delle Madonie, tu ^ tra montagne impraticabili che superano di molto i mille metri, c f.cor_ e difficili vie di accesso, limitato nettamente da fiumi. Quan o dato che uno di codesti fiumi è l’Imera settentrionale, °£n^n° ,!unie in è lecita un’ipotesi suggestiva: e cioè che il complesso e e efa mano ai Ventimiglia riproduca in sostanza nel medioevo que stato un potentato indigeno all’alba della storia. cezio- Codesti Ventimiglia di Sicilia si ramificano con una vigoria t jja naie, penetrano nei feudi della Sicilia Orientale, della Sicilia ent ^ ^ Sicilia Occidentale, creano nuovi centri abitati e totalmente ex n capitale del loro piccolo stato, arrivano al Vicariato del Regno ^ l’anarchia del ’300, hanno una loro politica religiosa, pongono con prima di accettare la sovranità di re Martino alla fine del XIV seco o. so se abbiano aspirato al trono di Sicilia, ma erano in condizioni i a Il maggiore tra loro, personaggio notissimo in Italia tanto che 1 a dello con un certo ritardo ne fece il protagonista di un suo racconto, l’ultimo ammiraglio di Sicilia al comando di una flotta siciliana in guerra, diventò marchese sotto Alfonso il Magnanimo, diventò Vicere, fu il primo a saccheggiare le antichità di Siracusa... Ho citato questa famiglia perchè non ricordarla mi avrebbe impedito — 156 — di segnalare un fatto economico importantissimo ai miei occhi. I Venti-miglia furono dei costruttori, specialmente di castelli piazzati così oppor-tunatamente che oggi k RAI TV ha sistemato nel cortile di qualcuno di essi le antenne dei ripetitori della televisione. Erano castelli che dominavano a vista intere plaghe; da uno di quei castelli si vede metà della provincia di Trapani. Dove andarono a sistemarsi i Ventimiglia? È presto detto ’. Nel Trecento costruirono Gibellina, nel centro di una zona granicola; si installarono a Salemi, zona granicola; occuparono Alcamo e vi costruirono due castelli, uno sul Monte Bonifato, da cui vedevano il territorio tra Salemi, Calatafimi, Gibellina, Partinico, San Vito lo Capo e Castellammare; ed il secondo ad Alcamo, dal quale dominavano l’unica strada che portasse il frumento al mare. Costruirono un priorato benedettino a Labica, che è oggi il comune di Poggioreale, in modo che una cortina di priorati ed istituti benedettini li proteggesse dalle voglie del Vescovo di Monreale; fecero in modo che a Castellammare si insediasse un’altra famiglia genovese, quella dei Doria. E così dominarono il commercio frumentario di mezza Sicilia Occidentale e furono essi stessi grandi produttori di frumento, bestiame, lana, formaggi. Chi abbia voluto, con la mente, collocare su una carta geografica le località che ho nominato, percepirà subito che anche questo gruppo di feudi era perfettamente organico, perchè comprendeva di fatto o potenzialmente il dominio della Valle del Belice, quella che è stata sconvolta dal terremoto dello scorso anno che ha ridotto a fantasmi di città quelli che un tempo erano i floridi comuni di Gibellina, di Poggioreale, di Sala-paruta e di S. Ninfa ed ha danneggiato Salemi, Calatafimi, Alcamo. Orbene, questo secondo stato feudale, organico non meno di quello delle Madonie, fu realizzato tra il 1370 e il 1392 dal più oscuro fra i rami dei Ventimiglia di Sicilia, che non portava nemmeno il titolo di barone o conte, talmente oscuro che non è nemmeno inserito negli alberi genealogici della famiglia; due soli uomini fecero tutto ciò: Guarnerio e suo figlio Enrico. 1 C. Filangeri, Bonifato, castello dei Ventimiglia di Alcamo, in « Trapani » (riv. della Prov. di Trapani) 1969, fascicoli 2 e 4; C. Trasselli, Alcamo, comune feudale del ’300, in « Atti Soc. Storia Patria », Trapani 1969. Non faccio cenno qui dell’immigrazione di Liguri a Messina, almeno dal tempo tardo-normanno, attestata da cognomi come De Camulio (Camogli), Mallone e simili. — 157 - Ma naturalmente la funzione dei Liguri in Sicilia non fu feudale, se non attraverso i Ventimiglia; perchè in realtà fu di massima economica e finanziaria ed è quest’ultima che ora più ci interessa. Torniamo indietro, all’indomani del Vespro, ed esaminiamo una serie di documenti che comprendono i 19 mesi che vanno dal 1° giugno 1291 al dicembre 1292. In questo periodo venne esportata dalla Sicilia una quantità di frumento che non ci è nota nel suo totale; ma della parte conosciuta che arriva a 60.505 salme, i mercanti genovesi ne esportarono il 4,31% e i mercanti catalani invece il 64,85% 2. Sono inizi modesti. Ma i Genovesi si fanno confermare antichi privilegi datanti dall’epoca di Federico Barbarossa e ne ottengono di nuovi. Iniziano così la marcia che li conduce ad intaccare ad una ad una le posizioni privilegiatissime dei Catalani. E mi piace ricordare che il genovese Alafranchino Gallo prese una iniziativa industriale tentando di introdurre a Palermo, tra il 1322 e il 1337, la tessitura dei panni di qualità diversi dall’orbace. L aspetto nuovo dell’impresa era il concentramento in un opificio per il quale il comune di Palermo fornì il locale, acquistando il palazzotto di Brancaleone Doria Altro aspetto nuovo era questo, che gli operai specializzati dovevano venire da Genova e rappresentavano il primo dei molti casi di immigrazione in Sicilia di lavoratori qualificati, nell’illusione, nutrita dal governo o da un comune, che insegnassero il mestiere ai locali. Pure nuovo un terzo aspetto: ci troviamo di fronte ad un caso di estrema attualità ancora oggi, cioè all’investimento contrattato di capitale forestiero in compartecipazione con un ente pubblico siciliano. L’impresa non attecchì, perche li lanificio non è mai attecchito in Sicilia se non in un breve momento dell’autarchia borbonica; ma oggi, dopo sei secoli e più, vengono seguite ancora le stesse modalità. Quando la Sicilia cade nell’anarchia delle guerre civili e viene in parte per breve tempo riconquistata dagli Angioini, vediamo che i Liguri vi ten gono ormai posizioni di potere ben definite; qualche vescovato e qualche canonicato è nelle loro mani; assumono l’appalto del rifornimento di grano 2 C. Trassellx, recensione a G. La Mantia, Codice diplomatico da re Aragonesi di Sicilia, vol. lì, in «Economia e storia», 1957, fase. 1, p. 92 e sgg. 3 C. Trasselli, Tessuti di lana siciliani a Palermo nel XV secolo, in « Economia e storia », 1956, p. 303 e sgg. - 158 - per i castelli in potere degli angioini ed esportano monete d’oro e d’argento 4. Questo fenomeno è nuovo ed attesta una congiuntura molto grave per la Sicilia che era abituata invece ad importare monete d’oro e non ne coniava di proprie perchè lasciava circolare quelle forestiere entrate in pagamento del grano. Ma bisogna anche riflettere che soltanto i Genovesi praticano questo drenaggio; dunque sono essi i soli ad assicurare i rapporti internazionali dell’economia siciliana. E un fenomeno limitato a pochi anni ma che ci dà occasione di ricordare alcuni nomi5. Comincia nel 1348 Luchino de Mari col mandare doppie d’oro a Genova a Raffo Gentile su un panfilo di Gasparino Pallavicini; altre ne manda a Manuele Spinola; e ad Alessandro di Andrea Guadagnini di Levanto. Erano in pagamento di panni di Châlons e di Lombardia. Nel 1353 esporta denaro Martino Liccavela, per Andreolo Doria; e nel 1356 troviamo Marchionne Grimaldi; e più tardi Adorno Adorno e Andreolo Vivaldi... Nel 1390 i Martini sono appena arrivati in Sicilia e subito si trovano a dover ratificare una conquista di un genovese: Bernabò di San Lazaro detto Scorciafico era padrone dell’isola di Pantelleria e pagava un tributo di 30 onze annue al re di Sicilia e di altre 30 onze al re di Tunisi6. La posizione dello Scorciafico sembrerà strana a chi dia credito alla storia politica, secondo la quale vi sarebbero state gravi frizioni tra i Martini e il Comune di Genova; le frizioni c’erano ma appartenevano alla politica catalana di quei sovrani. Se diamo credito invece alla storia economica, rileviamo la posizione formidabile che i Genovesi avevano saputo costruirsi in Sicilia, dopo i modesti inizi del 1291. Con ciò non voglio dire che storia economica e storia politica si contraddicano necessariamente, ma soltanto che è opportuno non imbastire pagine e pagine di inconcludente problematica politica, quando manchi allo studioso la base dei fatti che sono, si voglia o non si voglia, economici. Occorre ricordare che sul frumento si pagava un dazio di esportazione 4 Archivio di Stato di Palermo, notaio Stefano Amato, voli. 134 e 135, passim. 5 Se ne tratta brevemente in C. Trasselli, Note per la storia dei banchi in Sicilia nel XIV sec., Palermo, 1958, p. 43 e sgg. 6 C. Trasselli, Sicilia, Levante e Tunisia nei secoli XIV e XV, Trapani 1952, p. 82. — 159 - che veniva chiamato tratta e che era commisurato ad una salma generale di frumento, ossia a circa 225 chili oppure a due salme di orzo o di altri cereali o legumi. La tratta era tra i maggiori cespiti del fisco siciliano, perchè il frumento era una derrata di vendita certissima, la cui disponibilità era sempre inferiore alla domanda. Chi volesse esportare frumento doveva pagare la tratta al Maestro Portulano o direttamente in Tesoreria e riceveva l’assegnazione di tot salme di cereali esportabili da un porto determinato 0 da qualsiasi porto a seconda della disponibilità nei singoli caricatori, c e era nota al Maestro Portulano od a seconda dei luoghi in cui 1 esportatore aveva accaparrato il frumento spesso molti mesi prima del raccolto. Quando il re voleva fare un regalo a qualcuno, non gli dava denaro che non aveva mai o terre che non aveva più; bensì gli accordava 1 esen zione di un certo numero di tratte, vale a dire che quel tale poteva espor tare una quantità prestabilita di cereali senza pagare il relativo azio. Martino duca di Montblanc, che per la sua spedizione in Sicilia aveva rice vuto pochi sussidi da Perpignano e da Barcellona e che si trovava circon dato da feudatari avidi e poveri, riuscì a noleggiare le navi per il trasportò delle truppe appunto promettendo ad ogni padrone un certo numero tratte gratuite, come risulta da un registro ancora inedito dell Archivio i Barcellona. Col tal procedere, da se stesso tagliò le radici dei proventi fiscali, ma riuscì ad arrivare in Sicilia. Negli anni che vanno dal 1402 al 1406 vennero concesse un certo numero di tratte che ridotte in salme ascendono a 188’441 più quelle ven dute direttamente dal Maestro Portulano che non si possono ca co are. Di codeste tratte alcune furono gratuite, a sconto di debiti persona i re Martino il Giovane, o per ingraziarsi il General di Cataluna, o per alcune città sarde o per altri motivi. Ed ecco il confronto che insegna infinite cose. In quei cinque anni 1 Catalani ebbero 2467 tratte gratuite, i Genovesi 2155; ma i Catalani com prarono soltanto 8634 tratte per un importo di 1102 onze e 17 tari, Genovesi invece ne comprarono 44’159 per un importo di onze 5001 e 18 tari. Dunque i Genovesi valevano in Sicilia cinque volte ciò che vale vano i Catalani; essi fornivano al Tesoro siciliano cinque volte ciò che for nivano i Catalani; dunque erano potenti cinque volte più di quanto lo fossero i Catalani7. 7 I dati, provenienti da registri palermitani e barcellonesi, in C. Trasselli, Sull'esportazione dei cereali dalla Sicilia negli anni 1402-1407, in « Annali Fac. di — 160 — Tra i Genovesi a Palermo si costituì addirittura un consorzio per 1 acquisto e la distribuzione delle tratte, a capo del quale si mise, o fu messo, Peregrino Tarigo. Egli da solo ebbe 1550 tratte gratuite e ne comprò, forse anche per conto di altri, ben 38’883 per onze 4408 e 18 tari. Per avere un’idea dell’entità delle somme in giuoco in termini più familiari agli studiosi non siciliani, ricordo che ancora al principio del secolo XV un fiorino di Sicilia, cioè una moneta di conto da 6 tari si cambiava alla pari con un fiorino di Firenze; quindi le onze 5001. 18 pagate dai Genovesi corrispondevano a 25’008 fiorini. Se vi aggiungiamo almeno quattro volte tanto per il prezzo dei cereali, i trasporti, i diritti vari, raggiungiamo facilmente 125’000 fiorini che i Genovesi spesero in 5 anni in Sicilia, per il solo frumento. Sono da aggiungervi i noli, e poi gli acquisti di formaggi e tonnina, dazi vari, imposte ecc. A somme di tale ordine Martino il Vecchio avrebbe voluto rinunziare per favorire i Catalani che gliene assicuravano appena un quinto. Ecco il segreto del dualismo politico tra Martino il Giovane e Martino il Vecchio; ed ecco perchè Genova potè imporre come Maestro Portulano di Sicilia il suo David Lercario. Questa preponderanza dei Genovesi sui Catalani in Sicilia è stata ammessa, appunto dietro le mie rilevazioni, anche dal Vicens nella sua relazione al Congresso di Storia della Corona d’Aragona tenuto a Palma di Maiorca. È una preponderanza che si estende a tutto il regno dei Martini ed io sospetto, pur non avendone documenti, che una delle ragioni per cui, dopo la morte di entrambi i Martini, il Convegno di Caspe si decise ad abolire quella parvenza di indipendenza che era rimasta al Regno di Sicilia, fu proprio la paventata potenza dei Genovesi in Sicilia. Nel 1407-08, anno per il quale abbiamo dati di esportazione effettiva da considerare statisticamente completi, ritroviamo tra gli esportatori i soliti Fossatello, Doria, Spinola, Vento, Conforto, Tarigo, da Recco, da Economia e Comm. Università di Palermo», 1957; Sulla esportazione di cereali dalla Sicilia nel 1407-08, in «Atti Accad. Scienze e Lettere di Palermo», 1955, p. 335 e sgg. Sono ancora inediti i dati di un altro registro, il più antico, dell’Archivio di Barcellona, segnalato dal Prof. R. Moscati; ne ho avuto il microfilm e posso affermare che non interessa sotto il nostro punto di vista; si tratta infatti di promesse di concessione di permessi d’esportazione di frumento fatte, di massima, dal Duca di Mont-blanc ai padroni delle navi che portarono la sua spedizione in Sicilia oppure di permessi accordati in pagamento dei noli; ignoriamo quindi le esportazioni reali. - 161 - Rapallo. Su 509 navi identificate, 125 sono liguri e 78 catalane; per Genova partono 64’083 salme, per la Catalogna 28’384. Il divario esiste ancora in favore dei Genovesi, ma il rapporto non è più come 5 ad 1. Si approssima la spedizione in Sardegna in cui il re di Sicilia andrà a morire per interessi non suoi. È evidente ad ogni modo che l’articolo principale sul quale contava il commercio genovese in Sicilia era il frumento; non ci meravigliamo per ciò nel vedere che David Lercario, venuto nel 1392 come ambasciatore del suo Comune, resta in Sicilia quale Maestro Portulano; ma non ci meravigliamo nemmeno scorgendo che il primo atto politico di Ferdinando I appena asceso al trono è quello di licenziare il Lercario, nonostante una lettera di vivissima raccomandazione della città di Palermo. Non è un segreto, da quando il Boscolo ha pubblicato la notizia, che uno dei Vicegerenti mandati in Sicilia da Ferdinando era burgensis della città di Per-pignano, cioè della città che aveva la migliore industria di panni della Catalogna. Tale circostanza rivela i motivi reconditi di quella che possiamo ben chiamare la riconquista della Sicilia ad opera della nuova dinastia insediatasi sul trono d’Aragona. In realtà, dopo la grande crisi del 1391, i capitali italiani avevano invaso la Catalogna e nel 1402 Martino, già duca di Montblanc, nuovo re di Aragona che noi chiamiamo Martino il Vecchio, aveva concesso libertà di commercio a tutti gli Italiani, eccettuati i Pisani ed i Genovesi, cioè proprio coloro che invece erano in Sicilia gli ospiti più graditi ed i finanziatori più generosi del figlio Martino il Giovane. I Genovesi di Palermo avevano affari con Barcellona e più precisamente coi mercanti fiorentini che se n’erano andati colà dopo il tumulto dei Ciompi. I Genovesi di Palermo erano in stretti rapporti d’affari con l’Arci-vescovo eletto Giovanni da Procida, uomo d’affari assai più che Arcivescovo, il quale commerciava abbondantemente con Pisa, Genova e Barcellona. Essi dunque si avvalsero dell'Arcivescovo e questi si prestò di buon grado ad un’operazione che era praticamente un contrabbando di valuta, facendo pervenire una grossa somma a Nicolò Alberti fiorentino di Barcellona, per conto di Domenico Fossatello genovese di Palermo. Ma dunque i Genovesi riuscivano a trafficare con Barcellona nonostante il divieto di Martino il Vecchio8. * C. Trasselli, Noie per la storia dei banchi in Sicilia nel sec. XV, parte II, I banchieri e i loro affari, Palermo 1968, pp. 77-78. - 162 - E la realtà era proprio questa, che le finanze del re di Sicilia non potevano fare a meno del contributo genovese: quando nel 1409 Martino il Giovane morì in Sardegna, in una guerra che era praticamente contro i Genovesi, e da lui non voluta, la regina vedova Bianca, ridotta in estrema miseria e non soccorsa dal suocero lontano, fu costretta a riaprire i porti siciliani alle navi liguri. Sotto il regno di Alfonso i Genovesi subirono una breve espulsione; ma ormai erano troppo radicati nei gangli vitali dell’economia siciliana e ritornarono ben presto. Essi avevano consolati nelle città più importanti, come Palermo, Trapani, Sciacca; avevano cappelle e tombe nazionali, spesso nelle chiese intitolate a San Francesco, e per la loro cappella di Palermo fecero dipingere un San Giorgio da Nicolò da Voltri. Per quanto appaiano un po’ chiusi tra loro, erano tuttavia costretti, come tutti gli altri mercanti, a cercar di conquistare la cittadinanza della città in cui risiedevano, perchè ciò comportava numerosi vantaggi; tra gli altri era il privilegio di fòro per cui il mercante forestiero che fosse divenuto, per esempio, cittadino di Palermo, qualora avesse una lite civile in un paese qualsiasi dell’isola, aveva diritto ad essere convenuto o dinanzi al console della propria nazione oppure nella curia giudiziaria palermitana oppure dinanzi al console dei Palermitani. Praticamente un mercante genovese che fosse stato anche cittadino di Palermo e di Messina, doveva essere convenuto dinanzi al Console di Genova a Palermo o dinanzi al console di Genova a Messina o dinanzi al console di Messina a Palermo o dinanzi al console di Palermo a Messina. Insomma, non vi era modo di trascinarlo dinanzi ad un tribunale ordinario. Per acquistare una cittadinanza bastava abitare nella città un anno e prendervi moglie. Ciò spinse molti Genovesi al matrimonio e così poco a poco si confusero tra i siciliani: per esempio i Vento o gli Spinola di Trapani, divenuti già perfettamente siciliani a metà del Quattrocento, erano in realtà oriundi da Genova. Vi erano anche, in corrispettivo, alcuni Siciliani dimoranti a Genova, pure organizzati col loro consolato, anzi con due; un consolato era propriamente quello dei Messinesi, in base al falso privilegio di Ruggero il Normanno; e l’altro era propriamente dei Trapanesi, costituito sulla base molto più realistica del commercio del frumento. Ma è ovvio che la situazione dei Siciliani a Genova era molto diversa da quella dei Genovesi in Sicilia; per difendere i propri concittadini residenti a Genova, Trapani — 163 - una volta dovette minacciare di sospendere i rifonimenti di grano, minaccia molto platonica, non seguita da effetti pratici. Tuttavia il Doge di Genova corrispondeva direttamente con l’università di Trapani quando era necessario9. Il re di Sicilia — che era in quegli anni Alfonso, ma la considerazione vale per tutti i re di Sicilia di schiatta spagnuola — si trovava in una morsa politica dalla quale era costretto ad agire in modo ambiguo. Da una parte c’erano i Catalani, i Perpignanesi, i Valenzani che erano scesi in Sicilia, insieme con la nobiltà aragonese, dopo il Vespro e poi di nuovo coi Martini e Ferdinando I e che essenzialmente vi erano venuti per procurarsi posizioni feudali e per scambiare i panni di loro produzione con i cereali siciliani. Ma Catalani e nobiltà aragonese non disponevano di grossi capitali. Dall’altra parte stavano i Genovesi, i quali venivano a comprare frumento, tonnina ed altro e che disponevano di molto denaro come abbiamo visto nel 1402-1406. Il re di Sicilia doveva contentare tutti, il che non era facile; doveva evitare gli atti di pirateria reciproca; doveva evitare che il fuoco scoppiasse nella zona di attrito tra Genova e Sicilia che era il Golfo di Tunisi. Per giunta Genova allora, per qualche aspetto francofilo della sua politica, provocava allarmi, come accadde nel 1403 quando il Boucicault mise in mare una flotta diretta a Cipro e che si temeva diretta in Sicilia. Nel 1413 e 1414 vi furono rappresaglie in mare tra Genovesi e Siciliani ma re Alfonso, appena salito al trono, rinnovò per tre anni la tregua. Certamente indottovi dai Catalani, rifiutò di rinnovarla ulteriormente alla scadenza. Allora, in febbraio 1420, il Doge Tommaso Campofregoso indirizzò una lettera circolare alle università di Palermo e di Catania, e forse anche a quelle di Trapani, Sciacca e Messina, invitandole a dichiarare se, nonostante il mancato rinnovo della tregua, fossero disposte a continuare i commerci con Genova. A Genova si tentò di giuocare sulla duplice personalità di Alfonso, nemico di Genova quale re d’Aragona e conte di Barcellona, e possibile amico quale re di Sicilia. E nel 1424 una nuova lettera venne scritta alla città di Palermo, questa volta con la firma del Conte di Carmagnola, a nome del Consiglio degli Anziani. C’era qualche larvata minaccia di guer- 9 C. Trasselli, Alcuni calmieri palermitani del '400, in « Economia e storia », 1968, p. 365. - 164 - riglia di corsa, ma c era soprattutto la necessità assoluta di comprare frumento 10. E poiché da parte siciliana vi era necessità assoluta di venderlo ed il fisco aveva necessità di ricavarne le tratte, i rapporti commerciali rimasero in vigore probabilmente ricorrendo ai privilegi personali ed ai guidatici concessi a singoli mercanti, fino alla pace. Nonostante ciò i fatti bellici e le trattative diplomatiche susseguitesi tra la Sicilia e Tunisi dal 1424 al 1431 hanno sempre nello sfondo una flotta genovese, una specie di flotta fantasma, potremmo dire, della quale il re di Tunisi si faceva forte ed alla cui minaccia in Sicilia si credeva realmente. Le trattative furono anzi interrotte quando Filippo Maria Visconti duca di Milano e signore di Genova, nel 1425 mandò a Tunisi un’ambasceria, in agosto 1425 i Tunisini avevano effettuato uno sbarco e tentato la conquista di Mazara; ritirandosi avevano lasciato una lettera in cui minacciavano 1 intervento della flotta genovese. Questi fatti, non chiariti nemmeno dal Marengo, culmineranno poi nel 1426 nella conquista di Cipro, ad opera di Barsbai d’Egitto, preceduta da un doppio attacco musulmano, contemporaneo il 4-5 agosto 1425 a Mazara ed a Famagosta. Si narra che Barsbai fosse stato incitato a riprendere le armi da Benedetto Pallavicino n. Ma a parte l’attrito a Tunisi, certo è che le colonie genovesi in Sicilia andavano facendosi sempre più consistenti e collocavano abbondantemente i panni liguri ed i panni francesi di cui i Liguri facevano commercio. Nel 1431, molti Genovesi sono a Palermo e forniscono panni genovesi ai rivenditori al minuto; le colonie più numerose sono tuttavia a Sciacca, centro di esportazione granaria, in tutta la Sicilia occidentale, probabilmente ad Agrigento. La colonia di Trapani a metà del ’400 è tra tutte la più fiorente. Re Alfonso, sempre a caccia di denaro, vedendo che i Genovesi si arricchivano commerciando frumento, pensò bene di partecipare anche lui, e fece fiasco, come al solito. Comprò per 400 onze di frumento, che assicurò pagando un premio di 20 onze; e poiché non aveva nè le 400 nè le 20, se le fece prestare da Luchino Grisulfi e Pietro Doria. Quando la nave noleggiata dal re arrivò a Genova, si scoprì che il frumento quotava molto meno del previsto; sicché Alfonso ci rimise il premio d’assicura- 10 Ibidem, pp. 366-67. 11 C. Trasselli, Sicilia, Levante e Tunisia cit., p. 57 e sgg. - 165 - zione, il nolo ed una parte del capitale. Eppure, vorrei quasi manifestare un sospetto: che quel basso prezzo a Genova, nel 1435 fosse il risultato di una manovra intesa a scoraggiare il re dal ripetere il tentativo, per evitare la penetrazione di un estraneo 12. La colonia trapanese, che consente di ricordare Teramo Imperiale, di cui possediamo il testamento, Cristoforo da Recco, Guido Salvagio, non si contentava di esportare frumento; essa accaparrava anche su vastissima scala burro salato e specialmente formaggio che in sostanza pagava con panni genovesi e con un prodotto nuovo, da poco entrato in Sicilia. Dove andasse tutto quel formaggio non ho saputo capire, ma il prodotto nuovo importato è di grande rilievo. Nel 1431 ho trovato a Palermo una sparutissima quantità di panni di Londra portata da una galera veneziana; il negoziante che la prese in bottega la esitò lentamente e quasi senza guadagno. A Trapani invece nel 1450 i panni di Londra rappresentavano il 52,50% dell’assortimento di una bottega al minuto, contro il 30% dei panni catalani ed il 2,50% dei panni genovesi. Gli importatori di panni di Londra erano genovesi. Gerardo de Umillino, Luca de Guiso, Benedetto de Larcario; ed un altro genovese, Antonietto da Vernazza, andava a vendere panno di Londra persino ad Alcamo, che non era un borgo sperduto ma non era nemmeno una metropoli13. Furono dunque i Genovesi ad aprire la strada alla prima colonia inglese che troviamo nella Sicilia occidentale già a metà del XV secolo, con notevole anticipo sulla numerosa colonia di Messina e con anticipo notevolissimo sulla data che viene comunemente assegnata alla « scoperta » del Mediterraneo da parte dei mercanti inglesi. L’arrivo dei panni inglesi è un fatto gravido di conseguenze. Fino ad allora infatti il commercio mediterraneo era stato un grande baratto, un grande scambio di prodotti tra paesi affacciati sullo stesso mare; le compensazioni potevano essere anche multilaterali ma erano pur sempre compensazioni e quindi vi era una generale tendenza all’equilibrio. Mi domando, invece, che cosa l’Inghilterra potesse richiedere in scambio dei suoi panni. 12 C. Trasselli, Il mercato dei panni a Palermo nella prima metà del XV sec., in «Economia e storia», 1957, pp. 156-157. 13 C. Trasselli, Frumento e panni inglesi nella Sicilia del XV sec., in « Annali Fac. Econ. e Comm. Università di Palermo », 1955. - 166 - Non certo il formaggio del territorio trapanese; non ancora il salnitro che verrà richiesto soltanto al tempo di Enrico Vili. È possibile che i panni inglesi venissero pagati allora con la seta, di cui la Ruddock ha dimostrato l’arrivo in Inghilterra, ed io stesso ho pubblicato piccole spedizioni di una balla di seta grezza da Messina per Londra su galere veneziane. Ma, comunque, si apre il problema di appurare che cosa i mercanti genovesi vendessero all’Inghilterra per avere i panni che vendevano in Sicilia. Propongo il problema così, in generale, perchè è risaputo che nel commercio tardomedievale avevano importanza anche prodotti che a noi sembrano assolutamente risibili: uno di questi, largamente comprato dai Genovesi a Trapani al principio del XV secolo, era il corallo lavorato in ulivette, che secondo qualche autore finiva in India dove era impiegato come moneta 14. Costretto ad accennare soltanto, perchè una trattazione compiuta esigerebbe grossi volumi, e non una conversazione, metto ancora in rilievo che sul finire del XV secolo una grave carestia afflisse l’Africa settentrionale, disposta a comprare frumento a qualunque prezzo pagandolo con oro e argento. Vi fu anche a Tunisi una specie di guerra civile, nella quale i prigionieri siciliani aiutarono il legittimo re, avvenimento del quale non parlano le storie della Tunisia, del resto molto scarne per questo periodo. Con quell’oro e quell’argento la Sicilia riprese la coniazione di monete d’oro che aveva sospeso, e Ferdinando il Cattolico finanziò la guerra di Granata. I Genovesi fornirono navi per il trasporto del frumento a Tunisi; fu il genovese Cipriano Giberto a stipulare il primo contratto d’appalto col governo siciliano per la vendita di migliaia di salme a Tunisi; ma furono anche genovesi i corsari che nel Golfo di Tunisi ostacolarono quel commercio quando l’appalto passò ad altri; le navi mandare da Francesco Allegra console dei Catalani e da Pietro Alliata dovevano essere scortate da galere armate. Nell’Isola di Gerba vi erano allora Genovesi; Genovesi furono coloro che ottennero dal Papa la dispensa per quel commercio 14 Devo confinare in nota il ricordo delle allumiere gestite da Liguri in Sicilia e qualche tentativo di reintrodurre la siderurgia, fino al XVI sec.; ne ho dato un cenno in Miniere siciliane dei secc. XV e XVI, in « Economia e storia», 1964, p. 511 e sgg. - 167 - con gli infedeli. E Genovesi erano stati coloro che, stando vicini al re di Tunisi, avevano favorito nel 1477 la conclusione della pace tra Tunisi e re Ferrante di Napoli, mentre avevano ostacolato la pace fra re Giovanni II e Tunisi. Nel 1490 e 1491, mentre i trasporti di grano per Tunisi sono al colmo, una nave pirata genovese al comando di certo Fregoso si rende insopportabile ed una flottiglia viene mandata a catturarla; poi Ambrogio Negrone genovese, padrone di una grossa nave adibita a quel trasporto, depreda come pirata l’altra nave genovese di Silvestro Cattani che portava 2100 salme di frumento da Agrigento a Tunisi. Insomma la zona di attrito tra la Sicilia e Genova era sempre nel Golfo di Tunisi. E non riesco a rendermi esattamente conto del perchè b. Nel '400 la presenza genovese in Sicilia mostra un crescendo continuo: essi si occupano anche di assicurazioni marittime ma trascurano il settore bancario. Per tutto il secolo la banca siciliana resta monopolio quasi assoluto dei Pisani, con rarissime infiltrazioni catalane, veneziane ed ebraiche presto eliminate. A Palermo nessun banchiere noto è genovese; si annoverano soltanto Guido Salvagio e Luca de Guiso a Trapani; Pancrazio Giustiniani a Catania, Francesco Gentile a Messina. Nel ’500 invece crolla il monopolio bancario pisano, si inseriscono i banchieri lucchesi e si presentano numerosi i banchieri genovesi: a Palermo Cipriano Spinola, Lorenzo Mahona, Ottobono Lomellino, Ambrogio Promontorio, il Gastodengo di Savona ed altri, più un tale Scanilia che esercitava il prestito contro pegno pur qualificandosi semplice mercante. Gerolamo Boit genovese se ne va ad aprire banco ad Agrigento lé. Qualcuno ogni tanto falliva, e vi fu anzi un mercante genovese morto sotto la tortura perchè il Viceré marchese di Pescara si era messo in testa che fosse un bancarottiere; ma in generale i loro affari prosperavano. Col secolo XVI la presenza genovese diventa sempre più massiccia; a Palermo un intero quartiere è da loro abitato; vi sono notai che rogano esclusivamente per loro tanto che a leggerne gli atti sembra di trovarsi in Liguria o in una colonia chiusa del Levante medievale. Non vi è più soltanto lo scambio tra panni e poche altre merci e frumento o formaggio; ma genovesi sono i maestri setaiuoli di Messina, genovesi sono librai di Palermo ed attraverso genovesi arrivano anche i libri 16 Archivio di Stato di Palermo, Conservatoria, voi. 81, f. 13. b C. Trasselli, Note per la storia dei banchi cit., parte II; p. 304 e sgg. - 168 - di Lione; genovese è la carta per scrivere e per stampare; attraverso Genova arrivano prodotti dell’Europa settentrionale. La colonia genovese abbandona la cappella che aveva nella Chiesa di San Francesco e costruisce la bella chiesa di San Giorgio; un Massa scultore viene da Genova insieme con un mercante di marmo di Carrara e dissemina le sue sculture dalla provincia di Messina a quella di Trapani; persino materiale murario viene dalla Liguria: giunge la pietra di Genova, la lavagna usata talvolta anche per costruire depositi per l’olio. Politicamente i Genovesi restano legati alla madre patria e la colonia di Palermo subisce qualche ripercussione dei fatti interni di Genova; ma essi non si mescolano ai movimenti di rivolta che serpeggiano in Sicilia tra il 1513 e il 1525, paghi di commerciare. Le colonie di Messina e di Palermo si rafforzano con l’acquisto di molteplici cittadinanze, sicché essi assommano ai privilegi dei Genovesi anche quelli dei Palermitani e dei Messinesi. Hanno il monopolio assoluto delle assicurazioni marittime, comprano e vendono tutto ciò che è possibile comprare e vendere, mantengono traffici diretti con l’Egitto e danno assistenza alle navi genovesi armate, per esempio a quelle che vanno scendendo dalla Liguria per avviarsi a Lepanto; penetrano di forza negli appalti e nei servizi; un Rivarola è il Tesoriere speciale dell’impresa di Gerba del 1560; genovesi sono gli appaltatori di grandi feudi e cito per tutti i Centurione appaltatori della Contea di Modica; genovesi sono gli appaltatori o i gestori di alcuni grandi trappeti da zucchero; genovesi diventano i proprietari di qualche grande tonnara, genovesi vengono ad impiantare acciaierie, vetrerie; Genovesi partecipano al rinnovamento urbanistico di Palermo costruendo palazzi in una grande strada rettificata, il Cassero; Genovese è il creatore di un nuovo borgo periferico di Palermo che si chiama ancor oggi il Borgo; ma genovese è anche quel Lomellino che sposa la famosa pittrice Sofonisba Anguissola e genovese è la famiglia che ospiterà a Palermo il pittore Van Dick. Ai pochi banchieri liguri nominati poco fa ne aggiungo un altro, Nicolò Gentile, che è al tempo stesso banchiere privato e depositario del denaro della regia corte a Palermo. Lo ricordo perchè attraverso un suo Giornale nasce un piccolo problema che sottopongo all’attenzione degli studiosi, non avendo saputo risolverlo da solo. Nel 1570 era in uso nel banco Gentile una formuletta mnemonica ed approssimata per calcolare il netto ricavo dello sconto razionale mediante — 169 - una semplice sottrazione, senza ricorrere a divisioni ed equazioni . Per il tasso d’interesse di 1/30, pari al nostro 3,33%, la formula era 3.3.3 e bastava sottrarre 3 onze, 3 tari e 3 grani da 100 onze per avere il netto ricavo in onze 96, tari 26 e grani 17. Per il tasso di 2/30 che corrisponde al nostro 6,66% la formula era 6.6.6 e con la semplice sottra zione si aveva il netto ricavo di onze 93.23.14. Se il capitale da scontare era di 300 onze al tasso di 2/30, la formula diventava 18.18.18 e la sottrazione dava il netto ricavo di onze 281.11.2. Qualche volta il nostro Gentile applicava nella medesima operazione lo sconto razionale e lo sconto commerciale. Il fatto in sè è certo; rimane il dubbio se la formula fosse applicabile soltanto alla moneta di conto siciliana e non ad altre monete di conto italiane; se fosse creazione siciliana o genovese o veneta, giacche il personale del banco Gentile era veneziano; riman da scoprire come la for- muletta mnemonica sia stata escogitata. Ma la nuova specialità dei Genovesi in Sicilia nel Cinquecento o, si preferisce, l’aspetto nuovo della loro presenza, è costituito dalla loro attività finanziaria. . Tutti conoscono Andrea Doria accanto a Carlo V e quin 1 non n parlo; tutti conoscono altresì i banchieri genovesi di Carlo V e per cio ne taccio, potendo del resto rinviare all’opera famosa di Ramon Carande ed a quella del De Roover sulla lettera di cambio per lo studio delle rimesse sulle fiere internazionali. Ciò che è meno noto invece è il congegno dei finanziamenti accordati dai Genovesi sia a Carlo V che a Filippo II. Mi occupo naturalmente dei Genovesi di Sicilia, essenzialmente di Palermo o di Messina. Si trattava di anticipazioni a breve termine garantite dalle tratte. In altre paro e l ^ i nello Adorno, un Massa, un Costa anticipavano, per esempio in febbraio, l’importo delle tratte di frumento che avrebbero comprato in luglio, oppure una parte del donativo ordinario ancora da riscuotere, gravando 1 interesse commerciale del 14 % in ragion d’anno, gravando la cosiddetta « buona moneta » in ragione di 1/60 e forse altri piccoli diritti. Dopo di che spiccavano una lettera di cambio su una fiera, per esem pio su Besançon. Il governo spagnuolo con matematica certezza non onorava 17 C. Trasselli, Una formula cinquecentesca per il calcolo dello sconto razionale, in « Economia e credito », Palermo, Cassa di Risparmio, anno 1967, fase. 2, p. 420 e sgg. - 170 — la lettera di cambio che ritornava a Palermo a favore del primo traente con un cambio diverso da quello di partenza. Sicché in sei mesi circa l’anticipazione risultava ad un tasso di oltre il 20 %. In questo modo non soltanto ucravano sui prestiti ma altresì monopolizzavano l’acquisto delle tratte e per conseguenza il traffico frumentario. Ogni tanto il governo, per non fare bancarotta, consolidava alcuni debiti più gravosi tramutandoli in rendite perpetue al 7 % o vendendo parti rispettabili dei beni dello stato: uffici o terre o intere città; o creava uffici per poterli vendere; così un Genovese diventò proprietario di Corleone e i Pallavicino diventarono proprietari delle Isole Egadi, cioè Favignana, Le-vanzo, Marettimo, Formica e relative tonnare. Per far denaro il governo mise in vendita i titoli di barone, e ci fu un Genovese che li comprò in massa per rivenderli poi a mille onze ciascuno. Penso che a questo punto mi verranno mosse due obbiezioni. E la prima è questa: la Sicilia appare esser stata una parte alquanto piccola del- 1 intera monarchia spagnuola e sembra impossibile che i suoi mezzi economici e finanziari abbiano avuto un’importanza sostanziale e vitale nell’insieme della finanza spagnuola che poteva disporre, tra l’altro, anche dei metalli preziosi americani. A tale obbiezione rispondo in due modi. La prima risposta si affida soltanto alla logica: se l’economia e la finanza siciliana fossero state soltanto marginali, se avessero coperto una parte piccolissima dei bisogni del governo spagnuolo, non sarebbe stato realizzato quello sfruttamento che innegabilmente vi fu. La Spagna può essere difesa sotto molti punti di vista ed io sono prontissimo a farlo, ma lo sfruttamento deve ammettersi. A tale risposta logica se ne aggiunge un’altra materiata di fatti. Tutta la politica africana della Spagna e tutte le imprese belliche in Africa furono gravate esclusivamente sulla finanza siciliana, col pretesto che servivano per la difesa dell’isola dalle incursioni barbaresche. Per limitarci al ’500 si cominciò con l’impresa di Tripoli data in appalto ad Ugo Moncada a un tanto all’anno, per finire alle imprese di Tunisi, di Algeria, di Mahadia. E la flotta di Andrea Doria era pagata dalla Sicilia. Altro fatto: quando Carlo V ritenne opportuno mandare in giro per la vasta monarchia il futuro Filippo II per farlo conoscere dai sudditi, ebbe bisogno di una forte somma dell’ordine di parecchie diecine di migliaia di scudi: e la impose alla tesoreria siciliana. Altro fatto ancora: quando fu necessario pagare in buoni contanti Emanuele Filiberto di Savoia che aveva vinto a San Quintino, fu ancora la tesoreria di Sicilia a pagare. Altro fatto ancora: i più alti funzionari spagnuoli rice- — 171 — vevano i loro stipendi dalla Sicilia ed erano stipendi immensamente superiori a quelli dei funzionari siciliani. E così via. Come venisse trattato in quel tempo il regno di Napoli, Io ignoro; quanto esso contribuisse finanziariamente alla politica spagnuola, o ignoro. Per Milano e la Lombardia, invece, posso dire su dati concreti eie rice\e vano denaro dalla Spagna e precisamente denaro siciliano per le forniture di armi; quindi non soltanto la Lombardia vedeva spendere in Lombardia stessa ciò che essa pagava per imposte, ma riceveva anche altro fuori. Ma se io sbaglio, e posso sbagliare, tanto meglio, ho propo problema che ha bisogno di indagini sulle fonti del finanziamento alle imprese spagnuole. rii La seconda obbiezione che mi attendo è questa, se c era Poss* guadagnare con larghezza, perchè non ne approfittarono anche Sono necessarie due risposte. Ecco la prima: il giuoco non più su scala isolana o su scala meridionale, come era accaduto a temp imprese napoletane di Alfonso il Magnanimo, nelle quali appunto guadagnato largamente banchieri e finanzieri siciliani, catalani e v ^ Dal Cinquecento in poi il giuoco era su scala internazionale, su p ^ ropeo. Il governo non aveva bisogno di poche centinaia di onze p P^ nare un deficit momentaneo o per costruire un ponte o per sci ^ „ porto; esso aveva bisogno di diecine di migliaia di onze disponi 11 dra, a Milano, a Genova, in Germania. Esso doveva quindi ricorre soltanto a chi avesse denaro, ma specialmente a chi potesse ren er o P nibile a migliaia di chilometri dalla Sicilia, cioè a chi disponesse a sua ^ di una attrezzatura tecnica, di una rete di corrispondenti, di una re ^ affari internazionale. In tale situazione si trovavano soltanto due e zioni » che trafficavano in Sicilia, cioè i Lucchesi e i Liguri. I Lucchesi fecero qualche tentativo con discreto successo ma u costretti a dichiarare forfait: erano lontani da Milano, dalla Svizzera e Germania; non avevano una flotta da usare o da dare a nolo, non aveva nemmeno possibilità di accesso in Spagna ed alle risorse spagnuole. Tutta la loro forza erano i corrispondenti in fiera; ma se il governo spagnuolo non pagava, gli affari dei Lucchesi andavano a male. Non così i Genovesi, ave vano corrispondenti in fiera, avevano flotta, avevano un grande porto, erano a due passi da Milano e dalla Svizzera, avevano le mani in pasta anche nell’economia spagnuola. Ai banchieri siciliani mancava tutto, incominciando dalla rete internazionale di corrispondenti; potevano praticare e praticavano realmente pic- — 172 — coli anticipi per piccoli bisogni locali, ma niente di più. E per giunta, non avevano armi per farsi pagare: sicché, quando fallivano, fallivano per’aver concesso credito al governo. Ciò è dimostrato e non occorre insistervi. C è infine una seconda risposta, per la quale mi rifaccio a quanto ho già raccontato: tutti guadagnavano sul frumento siciliano, ma quando Alfonso il Magnanimo volle partecipare a quei guadagni con una modesta partita di appena 800 salme di frumento, realizzò una perdita. Quando a Palermo a metà del Quattrocento i Pisani avevano il monopolio della banca, un catalano tentò di partecipare, ma fallì miseramente. Dunque vi era una soi ta di « chiusura » contro gli estranei ad un determinato ambiente. Questa è appunto la seconda risposta: veniva impedita l’infiltrazione nei grassi affari di coloro che avevano soltanto mani e denti, per usare un’espressione cinquecentesca. La concorrenza, tecnicamente poco efficiente, fu respinta con facilità. Nonostante il credito ottenuto e nonostante il sacrificio dei sudditi, il governo giunse ugualmente alla bancarotta almeno un paio di volte; ma prima dell’ultima i Genovesi conclusero quello che ritengo il più grosso dei loro affari nella storia dei rapporti tra Genova e la Sicilia. Siamo alla Guerra dei Trent anni e Filippo IV non sa più come finanziare le truppe in Germania e nelle Fiandre, la flotta che fa capo al porto di Genova; continuano probabilmente ad arrivare oro ed argento dall’Ame-ìica, ma o sono assorbiti da altre spese oppure non vengono ritenuti garanzie sufficienti dai possibili prestatori, come già era accaduto al tempo di Filippo II che non aveva trovato credito a Milano con la garanzia dei preziosi americani. Ed ecco pronti i Genovesi con la garanzia delle tratte e dei donativi siciliani. Un documento comprato da un mio amico sul mercato antiquario a Genova e donato all Archivio di Stato di Palermo e che mi sembra proveniente da qualche archivio privato genovese, è una relazione ufficiale scritta da Carlos Maldonado, razionale dell’ufficio del Conservatore del Regno di Sicilia. Risulta da esso che fra il 1630 e il 1643, cioè in 14 anni, i Genovesi residenti in Sicilia prestarono al governo, a parte le operazioni ordinarie, scudi 7’886’481 e 9 tari e ne ebbero in rimborso soltanto 6’589’525 e 10 tari con una perdita di l’296’955 eli tari, perdita che forse era piuttosto un mancato guadagno e che fu poi compensata probabilmente più tardi. Il congegno era il solito: essi anticipavano sulle tratte future o sul do- — 173 — nativo ancora da riscuotere e spiccavano lettere di cambio su loro corrispondenti a Genova a favore dell’ambasciatore di Spagna a Genova od a favore del Governatore di Milano. In quei 14 anni i cambi su Milano oscillarono di poco intorno alle lire imperiali 4 e soldi 10 per uno scudo di Sicilia di 12 tari; i cambi su Genova oscillarono da un minimo di 72 ad un massimo di 82 soldi genovesi per ogni scudo siciliano di 12 tari, che sarebbero soldi da 180 a 205 per ogni onza di conto. A 78 soldi per scudo gli 8 milioni e più di scudi anticipati in 14 anni raggiungono la somma favolosa di 636’134’323 soldi e mezzo. Della somma stessa 386’765 scudi e 8 tari erano diretti a Milano; 2’265’747 e 2 tari erano diretti pure a Milano via Genova; scudi 20’065 eli tari a Lucca e tutto il resto a Genova. Ecco alcuni nomi di prestatori: Gian Agostino Arata, Cristoforo Be ninati, Battista e Geronimo Benzo, Antonio e Giacomo Brignone, Gregorio Castelli, Pier Tommaso Costa, Gian Stefano Doria, Filippo e Gianpaolo Isolabona, Gian Andrea Massa, Camillo Pallavicino, i quattro fratelli Seri bani, Luca e Obizo Spinola, i fratelli Squittinì. A costoro si aggiunge, sol tanto da novembre 1629 a febbraio 1631 Carlo Valdina, che è Siciliano ma investe per conto dell’Ordine di Malta, continuando quell opera tra bancaria e finanziaria internazionale che l’Ordine aveva già intrapreso nel secolo precedente; investì scudi 269’086 e 6 tari, tutti diretti a Milano. Così i totale del debito contratto dal governo salì a 8’ 155 568 scudi e 3 tari e il rimborso a scudi 6’858’612 e 4 tari. A Genova le lettere di cambio giungevano al Banco di San Giorgio, dove prelevava poi Girolamo Fugger, oppure a Spinola, Pallavicino, Gian Battista e Cristoforo Ferrari. A Milano invece a Papirio e Domenico Odescalchi, Marcellino Airoldi, Gian Battista Durini, Giacomo Durini, Martino Pesenti. Io credo che in questa pur rapidissima rassegna siano stati rievocati i nomi del miglior patriziato genovese e milanese e che le poche cifre esposte abbiano dato un’idea sufficiente del potenziale economico dei Genovesi di Sicilia. Non starò a piangere sul latte versato ed a recriminare sulle sperpero di quel denaro in una lunga guerra che non interessava affatto la Sicilia, nè propongo la solita retorica domanda su che cosa sarebbe divenuta la Sicilia se tutto quel denaro fosse rimasto in Sicilia e fosse stato speso per la Sicilia. Vi sarebbero stati molti fiori ma anche molte spine e non vi è tempo per discuterne qui. - 174 — Voglio invece far notare che dalla metà del ’500 in poi anche i Milanesi scoprirono la Sicilia e vi piovvero non soltanto quali scultori come avevano fatto alcuni lombardi del Quattrocento, ma come imprenditori, come mercanti di seta, come appaltatori, come mereiai. Se a Palermo e a Messina la colonia forestiera più importante era pur sempre quella ligure, le si affiancarono ben presto grosse colonie lucchesi, fiamminghe, inglesi, e special-mente lombarde che letteralmente sommersero la popolazione attiva delle maggiori città. Comprenderei una immigrazione di mercanti grandi e medi perchè sarebbe nella tradizione delle immigrazioni fiorentina, pisana, catalana, va-lenzana. Ma mi sfuggono totalmente le ragioni che possono aver spinto in Sicilia ragazzi fuggiti di casa, setaiuoli, calzettai, fabbricanti di cinture e di minuterie, mercantucci, cuochi, persone di servizio, librai falliti che pur di stare in Sicilia cambiavano mestiere, tutta una immigrazione non qualificata, spesso povera e proveniente da tutta Italia oltre che dalla Spagna, la quale accentua sempre più quella fisionomia di « regime coloniale » che la Sicilia merita in pieno dal Cinquecento in poi. Che sia venuto uno svizzero a tentare la fortuna con le miniere, lo comprendo bene; non comprendo invece perchè sia venuto in Sicilia anche un poveraccio da Genova ad aprire una bottega di fornaio specializzato in torte, a sua volta fallito in patria. È 1 epoca in cui ha inizio anche l’emigrazione dalla Liguria verso l’America centrale l8. Questo è tutto ciò che posso dire per stabilire un confronto. Per il resto, non ho trovato in Sicilia alcun documento che fornisca una spiegazione e bisognerà estendere le indagini fuori degli archivi siciliani. Constato una vera e propria fuga da tutta la fascia che comprende Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto verso la Sicilia con una punta Toscana, da Lucca. Dall’orgoglioso Piemonte vanno in Sicilia anche semplici muratori. Si tratta di una corrente migratoria diametralmente opposta a quella odierna e converrebbe studiarla. Col XVIII secolo, dopo la breve parentesi sabauda ed austriaca, la Sicilia viene unita a Napoli e passa sotto i Borboni. Il Tanucci, come era nello spirito dell’epoca, effettua qualche esperimento sociale, popola arti- 18 M. E. Rodriguez Vicente, Los estranjeros en el Reino del Perù, in « Ho-menaje a J. Vicens Vives », vol. II, Barcelona 1967, p. 544. — 175 — ficialmente isole deserte, anima le discussioni sul commercio, 1 industria e l’agricoltura, si leggono Rousseau e Genovesi, si forma una scuola geno-vesiana, si parla di economia. Si crea il Supremo Magistrato di Commercio nell’illusione che un nuovo ufficio basti a creare ricchezza. Gli uffici finanziari vengono riformati con lunghi studi e attente inchieste. Dagli studi per la riforma della Secrezia e Dogana di Palermo, traggo le seguenti parole scritte nel 1736: « Li Genovesi si sono impadroniti del commercio in Palermo e gli Inglesi in Messina ». Quanto al grano si scrive: « Li Genovesi sono li soli che fanno questo commercio » perchè esenti da certi tributi. Barche piccole e velocissime della Riviera riuscivano a fare anche quattro viaggi all’anno e caricavano il frumento in contrabbando di notte, sfuggendo l’imposta di 20 tari a salma. Il frumento andava a Livorno e Genova da dove poi veniva smaltito verso altri paesi . Con questa notizia potrei fermarmi, ma il processo storico dei rapporti tra Genova e la Sicilia resterebbe incompiuto. Nel 1812, come tutti sanno, la Sicilia si diede una costituzione su modello inglese, la quale abolì la feudalità. Ma abolendo la feudalità abolì anche tutti i vecchi privilegi, gli uffici venduti, inaugurò una nuova amministrazione ed una nuova finanza. Con le leggi dal 1816 al 1818 fu creata un’amministrazione centralizzata, con rigidi controlli, destinata a servire una modesta politica napoletana e siciliana, priva di velleità europee o mondiali. Abolito il feudo, erano aboliti anche vecchi diritti e, per esempio, i Pallavicino retrocessero le isole Egadi e le tonnare. Il governo borbonico cercò di amministrare avaramente, tirchiamente, senza legarsi a creditori forestieri, discutendo fino al centesimo i piccoli prestiti che era costretto a contrarre in momenti eccezionali di carestia. E ben lo appresero i Rothschild che si videro lesinare pochi ducati su un servizio di lettere di cambio. Il governo borbonico inaugurò una economia autarchica promuovendo industrie, navigazione, miniere, costretto talvolta a comprare frumento all’estero, e talaltra a fronteggiare gravi crisi di so-vraproduzione di cereali e di olio. Credo che tra il 1812 e il 1860 il governo borbonico abbia contratto un solo ed unico prestito sulla piazza di Genova, quello di un milione di onze contratto con la Casa Hagerman nel 1816 per riscattare i cattivi negli 19 Archivio di Stato di Palermo, Secrezia di Palermo, voi. 2039, ff. 225, 666, 671 (docc. segnalatimi dal Prof. 0. Cancila, che ringrazio). - 176 - Stati Barbareschi. Il prestito era stato combinato dal lombardo De Welz. Per il resto, il governo o fece da sè riorganizzando il debito pubblico o si avvalse un paio di volte di banchieri francesi per tramite del De Welz o trattò oculatamente coi Rothschild di Napoli20. Erano cambiati i tempi e gli uomini e gli atteggiamenti. In Italia cominciavano a venire anche americani; ma sopratutto a Napoli ed a Palermo avevano cominciato a funzionare banchi più moderni e si erano insediati finanzieri capaci di negoziare a Napoli ed a Palermo persino prestiti stranieri. I Florio e i Chiaramonte Bordonaro di Palermo intrattenevano rapporti con Genova, ma su un piede di parità. Per avere un’idea del governo borbonico quale era nella realtà, ricordiamo questo fatto: la prima nave italiana che mai abbia navigato fino alle Isole del Mar della Sonda inalberava la bandiera borbonica. Quella su cui Nino Bixio, dopo il 1860, trovò la morte, nel tentativo di creare alla sua patria nuovi sbocchi, fu la seconda. Ed ecco che in tutta Italia, in tutta Europa si scatena la propaganda contro i Borboni che non domandavano prestiti, che lasciavano vivere i loro popoli fin troppo modestamente, ma che chiudevano i loro bilanci in pareggio. Una propaganda minuta, capillare, martellante che è forse uno dei più perfetti esempi di persuasione occulta. C’era nell’aria già un vago sentore di Canale di Suez e di Valigia delle Indie e quei maledetti Borboni che non si spaventavano della flotta inglese e che non domandavano prestiti per fare ferrovie da servire per il collegamento tra l’Europa già industrializzata e l’Egitto, davano un fastidio maledetto. Dalla fusione del Banco di Genova e del Banco di Torino era nata la Banca Nazionale degli Stati Sardi; ma quando nel 1860 a Palermo un gruppo di banchieri locali progettarono di creare il Banco di Circolazione per la Sicilia, che avrebbe dovuto avere nell’isola le funzioni che aveva avuto altrove la Banca Nazionale, ed il progetto fu approvato dal governo Prodittatoriale, la Banca Nazionale fece abortire il progetto e gli stessi Banchi di Napoli e di Sicilia, che bene o male vantavano una tradizione di alcuni secoli, si salvarono soltanto perchè era il momento del corso forzoso e non conveniva smantellarli. 20 G. De Welz, Saggio su i mezzi da moltiplicare prontamente le ricchezze della Sicilia, Caltanissetta - Roma, 1964, Introduzione di F. Renda; R. Giuffrida, I Rothschild e la finanza pubblica in Sicilia, Caltanissetta - Roma, 1968. — 177 — Il governo Italiano coniò monete in tante zecche, persino a Strasburgo, ma lasciò perpetuamente chiusa quella di Palermo, nonostante una legge che prevedeva la coniazione di monete italiane a Palermo. Quando Rubattino si trovò in gravi difficoltà e, per non fallire, chiese ed ottenne l’aiuto di Ignazio Florio, nessuno protestò; ma nessuno poi aiutò i Florio ed oggi le tonnare delle Isole Egadi, che erano state dei Pallavicino e poi dei Florio, sono tornate ai Genovesi Parodi... 21. Io non concludo perchè ho promesso di non farlo e perchè rimango gravemente perplesso di fronte ad una conclusione che mi sembra l’unica possibile a fil di logica. Sarei lieto se questa conversazione un po’ alla buona stimolasse studi condotti a Genova nei ricchi archivi pubblici e privati per riesaminare i vari argomenti che ho rapidamente prospettato, con fonti che forniscano l’altro punto di vista, giacché il solo punto di vista fornito dai documenti siciliani potrebbe essere parziale o errato. Credo che ne varrebbe la pena per una migliore conoscenza ed una più vera interpretazione della storia economica italiana. 21 E il Cantiere Navale di Palermo, altra creazione Florio, appartiene alla Ditta Piaggio... - 178 - SECONDO CONVEGNO DEL CENTRO LIGURE PER LA STORIA DELLA CERAMICA (ALBISOLA - 31 MAGGIO - 2 GIUGNO 1969) Già nel 1968 la Società Ligure di Storia Patria aveva pubblicato gli Atti del 1° Convegno della tradizione ceramica ligure ed il Catalogo della Mostra restrospet-tiva organizzati ad Albissola in quella occasione. I problemi suscitati e le prospettive aperte da quell’iniziativa hanno trovato un seguito degno di rilievo di cui la Società informa i propri Soci ospitando in questo fascicolo gli Atti del Secondo Convegno. Autorità, gentili Signore, Signori, ho accolto con vero piacere l’incarico di introdurre questo secondo « Convegno » albisolese di ceramologia perchè mi si offre l’opportunità di portare la prima voce ufficiale del « Centro ligure per la storia della ceramica » che da poco tempo si è costituito. Desidero anzitutto porgere un saluto a quanti sono gentilmente convenuti per presenziare a questa inaugurazione, agli studiosi che hanno risposto alla convocazione del « Convegno », a tutti coloro che vorranno partecipare alle sedute scientifiche e portare il loro contributo alle discussioni degli argomenti che sono in agenda. È doveroso ricordare che non è più tra noi un grande appassionato della nostra disciplina, l’avv. Costantino Barile, ed è questo il momento di pensare che sulla Sua tomba potrebbe essere scritto « non omnis moriar » perchè la Sua opera sopravvive, e di affermare che la Sua memoria potrebbe essere ancor più onorata ed il Suo ricordo esserci ancor più ravvivato se potesse essere pubblicato l’ultimo Suo studio sulla ceramica ligure, quello al quale sappiamo aveva dedicato con tanto amore gli ultimi anni della Sua esistenza. Ed è con la consapevolezza di chi ha raccolto una simile eredità spirituale, con tenacia di liguri, che abbiamo operato in vista di una sola finalità: quella di perpetuare una tradizione nello studio di quell’arte ceramica che tanta gloria ha dato ad Albisola ed alla Liguria. Nello scorso 1968, per iniziativa del dott. Pesce e del dott. Piccone, con il patrocinio dell’Azienda autonoma di soggiorno e turismo di Albisola e con il sostegno di Enti ed Autorità locali, in particolare del Sindaco Enrico Bonino, un gruppo di amatori e di studiosi organizzò il primo « Convegno » che ebbe come tema la tradizione ceramica ligure. In quella occasione fu anche allestita una mostra il cui intendimento era soprattutto quello di offrire un panorama didattico e cronologico dell’arte ceramica in Liguria. Gli argomenti trattati durante le tornate di quel convegno furono giudicati interessanti e molti studiosi si sentirono stimolati ad intervenire nelle discussioni portando così un prezioso contributo di dottrina, di idee e di suggerimenti. Fu allora da molti formulato l’auspi-cio che il convegno non rimanesse una manifestazione fine a se stessa e che si sarebbe dovuto cioè fondare un ente con finalità propulsive per — 181 - quanto avesse attinenza con la ceramologia nel senso più esteso. Ricordo per esempio che fu il dott. Raffo di Cambridge a raccomandare nel suo suggerimento che tale istituzione non avrebbe dovuto avere limitazioni alla sua attività e cioè che non ci si doveva proporre esclusivamente lo studio della ceramica ligure. Mi rallegro di poter dire oggi al dott. Raffo che la sua raccomandazione è stata tenuta nella debita considerazione perchè abbiamo costituito in data del 21 marzo 1969, e ne è stata data subito comunicazione attraverso la stampa, il « Centro ligure per la storia della ceramica » e non un « Centro » per la ceramica ligure. Le finalità, come si può leggere nello statuto, sono le più estese possibili e questo ritengo valga la pena di riaffermare per quanti potessero pensare che si tratti di una istituzione aperta soltanto alla idolatria dei ruderi o delle manifestazioni polverose. Siamo sempre convinti, se ci viene permessa una analogia figurata, che un buon viticcio frutterà prima o dopo qualche annata di buon vino e che questo nuovo vino potrà stare almeno alla pari di quello che è nelle bottiglie invecchiate nelle nostre cantine. È in veste di portavoce del « Centro ligure per la storia della ceramica » ed in particolare del suo presidente provvisorio, il dott. Giovanni Pesce, che non ha potuto presenziare a questa inaugurazione perchè impedito all’ultimo momento da importantissime ragioni, che desidero sotto-lineare l’impegno assunto dal « Centro ». Tale impegno, riassumendo quanto in dettaglio è codificato nelle norme statutarie, è quello di operare con tutti i mezzi al fine di offrire ai cultori ed agli amatori gli strumenti per la conoscenza più approfondita, di offrire un contributo alla divulgazione ed alla affermazione della tradizione ceramica. Siamo inoltre convinti che la ricerca condotta con metodo, per mezzo delle apparecchiature più idonee, possa fornire dati analitici di notevole utilità anche per i ceramisti contemporanei e per l’industria specializzata in questo settore. Vogliamo dire cioè che una maggiore conoscenza degli impasti e delle coperte usati nel passato potrebbe fornire, per esempio, sul piano tecnico degli ottimi elementi di raffronto. Lo scorso anno nel discutere il tema della tradizione ceramica ligure fu da varie parti proposto che l’argomento più coerente da programmare per un successivo « convegno » avrebbe potuto essere quello sui problemi della ceramica del XIX secolo e del nostro secolo. Avremmo così avuto un certo ordine nella successione -cronologica degli argomenti, visto che il 1° Convegno costituiva un excursus che giungeva alla fine del XVIII secolo. È bene ricordare tuttavia che ad ogni convegno il Comitato ordinatore - 182 - avrebbe comunque accettato qualsiasi contributo e che la tematica libera sarebbe sempre stata gradita (vi sono infatti ricercatori che si dedicano da anni allo studio di settori assai ben circoscritti dell’arte ceramica e sarebbe di enorme svantaggio non accettare in qualsiasi momento il loro prezioso apporto) cosicché la formulazione dei temi di convegno come viene comunicata con la prima notizia di convocazione, troverà pur sempre posto per le comunicazioni e gli interventi su tema libero. È ora necessario precisare come si sia giunti a stabilire il tema del- 1 attuale convegno e cioè « La ceramica del XVI secolo », e come si sia ritenuto di dover per ora rimandare quello sulla ceramica dei secoli XIX e XX. Vorrei dire che questo tema si è proposto da sè perchè il dott. Man-noni, osservando, come è solito fare ogni volta che si rimuove il suolo per mezzo di una escavatrice, un lavoro di sterro nella via di S. Vincenzo a Genova, aveva fatto una scoperta di notevole importanza, quella cioè di una discarica di fornace ceramica del XVI secolo. Dobbiamo a questa sua costante ed intelligente opera di osservatore se possiamo oggi disporre per la prima volta di elementi che attestano la produzione della ceramica a Genova nel XVI secolo ed all’ottima conduzione dello scavo che, affidatogli dalla Soprintendenza alle Antichità, venne subito effettuato in quel terreno con la raccolta di reperti che costituiscono ineccepibile quanto preziosa testimonianza della nostra arte ceramica. Nel citare questo importante capitolo che si apre per la storia tecnologica di Genova, non deve essere dimenticata l’assidua fatica del sig. Menozzi che materialmente ha operato sul terreno di scavo seguendo le indicazioni del dott. Mannoni. Questi fatti sembrarono subito troppo importanti e fu concordemente deciso di non procrastinare lo studio. Era doveroso che la elaborazione e la interpretazione di questi dati fossero subito rese note e sottoposte al vaglio di una discussione. Venivano per di più a coincidere con ricerche analoghe che il sig. Cameirana stava da tempo conducendo in Savona raccogliendo pazientemente tutti quegli elementi documentali ed archeologici che gli potessero consentire finalmente di proporre, come ha fatto, una attendibile topografia delle fornaci savonesi di ceramica. Come si vede erano fatti ben precisi e del tutto nuovi a suggerire la tematica sul XVI secolo, e l’incontro con studiosi non liguri avrebbe consentito di fare confronti, di trovare analogie, di ampliare le nostre conoscenze. Un altro dei suggerimenti che ci aveva dato lo scorso anno nel suo intervento il dott. Raffo ha potuto così essere seguito. Egli aveva detto che se avessimo potuto scavare laddove erano esistite le fornaci, avremmo potuto — 183 - trovare gli scarti che ci avrebbero fornito elementi inoppugnabili Dei le attribuzioni. La fortuna ci ha dato una mano ed è proprio a questo proposito che dobbiamo esprimere il nostro disappunto vedendo mancare a questo rendez-vous dei dati liguri quegli altri preziosissimi dati che po trebberò provenirci dal sottosuolo di Albisola. Ci sia quindi permesso rivolgere un caldo appello alle Autorità ed a quanti operano nel settore delle costruzioni in questa Città ricordando che la segnalazione di reperti ceramici potrebbe portare a scoperte di notevole importanza storica e scientifica. È opportuno che non venga trascurato alcun indizio e c e non si svalorizzino i frammenti che, come tutti sappiamo, sono stati troppo spesso buttati via proprio qui in Albisola perchè collezionisticamente prezzati. Il calendario dei lavori del 2 Convegno prevede le seguenti comu nicazioni: E. Tongiorgi: Tipologia e stilistica della ceramica pisana del XVI secolo. G. Farris e V. A. Ferrarese: Contributo alla conoscenza della tipologia e stilistica della maiolica ligure del XVI secolo. G. Pesce: I vasi da farmacia nella produzione ligure cinquecentesca. L. Panelli: Piastrelle del secolo XVI di fabbricazione genovese. A. Cameirana: Topografia delle fornaci savonesi. T. Mannoni : Stratigrafia della discarica di S. Vincenzo ed analisi dei materiali. _ G. Farris e V. A. Ferrarese: Metodi di produzione ceramica in Liguria nel XVI secolo. F. Aguzzi: I bacini delle chiese pavesi. P. Raffo: L’importanza degli scavi di Genova e di Savona. Ognuna delle comunicazioni sarà documentata con proiezioni di dia positive. La discussione sarà aperta dopo ognuna delle comunicazioni, è prevista la registrazione degli interventi. L’orario dei lavori sarà il seguente: le comunicazioni inizieranno domani, 1 giugno, alle ore 10 e proseguiranno fino alle 12,30 circa, riprenderanno alle ore 16 e continueranno fino alle 19,30; il giorno 2 giugno verrà dedicata alle comunicazioni scientifiche la sola mattinata con lo stesso orario del giorno precedente, mentre nel pomeriggio sarà convocata la prima assemblea ordinaria dei Soci del « Centro ligure per la storia della ceramica » con un ordine del giorno che prevede la discussione ed approvazione dello statuto nonché l’elezione alle cariche sociali. — 184 — Ed ora non mi resta che concludere chiedendo a tutti, alle Autorità ed alla Cittadinanza, di voler sostenere le attività del nostro Centro, scusandomi per aver troppo abusato della cortesia di tutti loro ascoltatori e rivolgendo un particolare ringraziamento al sig. Sindaco di Novara ed alla Giunta comunale di tale Città per averci ospitato anche quest’anno qui alla Villa Faraggiana, stupenda cornice alle nostre attività congressuali. Guido Farris - 185 - G. FARRIS - V. A. FERRARESE CONTRIBUTO ALLA CONOSCENZA DELLA TIPOLOGIA DELLA STILISTICA DELLA MAIOLICA LIGURE DEL XVI SECOLO Quando si esamina un frammento di maiolica proveniente da scavo od un esemplare conservato in collezione, l’attribuzione ad un centro ligure, Savona, Albisola o Genova, risulta relativamente facile se gli oggetti sono del XVII o del XVIII secolo. La documentazione di archivio ed il materiale di confronto di cui possiamo disporre per questi secoli sono piuttosto abbondanti. Il tipo di decorazione nel suo insieme, gli elementi stilistici scelti ed associati, il modo di esprimerli pittoricamente, le preferenze cromatiche, i contrassegni o le marche, consentono inoltre, con una certa frequenza, di ascrivere 1 oggetto in maiolica ad una manifattura ben determinata soprattutto quando il maggior numero possibile di questi elementi coesistano nell’oggetto osservato. L attribuzione diventa invece assai problematica quando si tratta di maioliche presumibilmente ascrivibili al XVI secolo. I contrassegni e le marche sono quasi sempre assenti, il materiale di confronto è piuttosto raro ed i documenti di archivio valgono, pur nella loro notevole importanza storica, solo ad informarci dell’esistenza e della notevole attività produttiva delle officine ceramiche cinquecentesche nei centri di Genova, Savona ed Albisola '. Per Genova tuttavia anche le notizie di archivio sono piuttosto scarse ed infatti, mentre per Albisola e per Savona studiosi come il Barile2 ed il Morazzoni3 non hanno avuto difficoltà a raccogliere ed illustrare un rilevante numero di documenti, per quanto riguarda Genova 1 II Belgrano, per es., annota dalla « calega dei beni del qm. Paolo Battista Rivarola seguita in Chiavari nell’ottobre 1584 » (Archivio del Registro in Chiavari, Fogliazzi d Atti del notaio G. B. Robbio): « Pezzi 30 di vasellami di Genova; uno refrescatoio di terra; tre tazze di terra bianca; pezzi 62 di vaselami di terra di Albisola; uno vaso bianco di fiori; un bauletto piccolo di terra turchino » ed afferma: « a mezzo il secolo XVI fiorì l’arte del vasaio in Genova »: L. T. Belgrano, Della vita privata dei Genovesi, Tip. del R. Ist. dei Sordomuti, Genova 1875. 2 C. Barile, Antiche ceramiche liguri. Maioliche di Albisola, V. Scheiwiller, iMilano 1965. 3 G. Morazzoni, Le maioliche di Savona e di Albisola, in « Mostra dell’antica maiolica ligure », E.P.T., Genova 1939; Id., La maiolica antica ligure, ed. Luigi Alfieri, Milano 1951. - 189 — il Grosso4 ed il Morazzoni5 stesso si riferiscono ad un solo documento citato dal Pessagno6 e che sembra sia andato in seguito perduto. La ceramica ligure cinquecentesca non poteva quindi essere riferita ad una classificazione stilistica e tipologica costruita su parametri scientificamente atten dibili e che potessero essere usati con costanza da chi doveva affrontarne lo studio. Fino ad ora solo la sensibilità di studiosi abituati da molti anni all’osservazione delle maioliche ha consentito le attribuzioni ed inoltre il fatto che non fossero presenti nell’oggetto in esame caratteristiche dei secoli precedenti o seguenti. Molte maioliche cinquecentesche di ambito faentino, urbinate, veneziano ecc. presentano frequentemente, a differenza di quelle liguri, scritte, firme, date, contrassegni apposti dal maiolicaro o dal pittore; le notizie di archivio hanno permesso, per le officine di questi centri ceramici, di integrare i dati provenienti dallo studio degli esemp ari e di tracciare schemi classificativi di buona attendibilità. Degno di ammirazione, per queste ragioni, il lavoro di quanti hanno saputo tracciare, servendosi di pochissimi dati, come quello della mancanza di caratteristiche dei secoli precedenti o successivi, ma soprattutto basan dosi sulla loro sensibilità artistica e sulla loro intuizione di studiosi, un quadro della maiolica ligure che, se lascia un notevole margine all attività di ricerca, risulta tuttavia confermato, come vedremo, dai reperti di scavo. Vogliamo ricordare le descrizioni stilistiche fatte dal Grosso 7 e dal Moraz zoni8 e particolarmente quelle del Liverani9 che, per le parti trattate, pos sono essere accettate tutte senza riserve. In assenza degli elementi di cui abbiamo detto, una traccia sicura per impostare uno schema di classificazione stilistica e tipologica, avrebbe po tuto essere il possesso di reperti che comprovassero incontrovertibilmente che una determinata forma od un determinato genere decorativo erano stati eseguiti in Liguria. Era necessario cioè scoprire la ubicazione delle fornaci di ceramica e praticare ivi le prospezioni che avrebbero potuto farci acqui sire eventuali « reperti-guida ». Per Savona si poteva disporre di qualche 4 O. Grosso, La maiolica genovese, in « Mostra dell’antica maiolica ligure » cit. 5 G. Morazzoni, La maiolica antica cit. 6 G. Pessagno, Cenni storici sulla ceramica ligure, in « Le gallerie d arte del Comune di Genova », ed. M. U. Masini, Genova 1932. 7 Crf. nota 4. 8 G. Morazzoni, La maiolica antica cit. 9 G. Liverani, La maiolica italiana, Electa Ed., Milano 1958. — 190 — indicazione documentale che avrebbe potuto aiutarci a localizzare le fornaci, ma era necessario disporre anche della persona che sapesse portare a termine un programma di osservazioni sistematiche. Per Genova le indicazioni o non esistevano o erano troppo vaghe per sperare potessero condurre ad una localizzazione e giustificare la messa in opera di uno scavo; era quindi opportuno esaminare ogni più piccolo indizio proveniente dal sottosuolo e disporre anche qui della persona che sapesse interpretare questo eventuale indizio con sicurezza e con sollecitudine. Per Savona la persona adatta risultò essere il Sig. Cameirana che può oggi, a coronamento delle sue osservazioni, informarci non solo sul ritrovamento di interessanti campioni, ma addirittura su una topografia delle fornaci; riteniamo che si tratti della prima volta in cui tale problema è affrontato con la necessaria serietà scientifica. Per Genova il Dott. Man-noni riuscì a stabilire che alcuni reperti provenienti da uno sterro che si stava effettuando in via S. Vincenzo per la messa in opera di fondazioni, potevano riferirsi ad una discarica di fornace cinquecentesca, e lo scavo di quel terreno, condotto in condizioni di notevole difficoltà perchè i lavori di costruzione dovevano essere continuati, confermò la sua interpretazione. Per queste loro attività possiamo oggi disporre di un numero di reperti sufficiente per impostare una discussione su problemi di tipologia e di stilistica della maiolica cinquecentesca ligure. Lo scorso anno, parlando della maiolica ligure in rapporto con i reperti provenienti dagli scavi effettuati in Genova nella collina di Castello 10, dicemmo che la classificazione stilistica fatta dal Piccolpasso nei « Tre libri dell arte del vasaio » del 1548 era da considerare valida anche per quanto riguarda la maiolica ligure e che, oltre i generi di decorazione attribuiti specificamente a produzione genovese, e cioè « le rabesche », « le foglie » ed « i paesi », anche altri generi decorativi, come, per esempio, quello « a quartieri », avrebbero potuto in qualche caso essere ascritti a manifatture liguri. Dopo i confronti eseguiti con il materiale che è stato raccolto nella discarica di fornace di S. Vincenzo ed in quelle savonesi, e attribuibile con sicurezza a manifatture locali, ci è possibile confermare la validità sia della classificazione dei generi decorativi fatta dal Piccolpasso sia delle nostre ipotesi di attribuzione a manifatture liguri. Riteniamo inoltre di poter 10 G. Farris, La maiolica ligure nei reperti di scavo nella collina di Castello, in « Atti della Società Ligure di Storia Patria », LXXXII, p. 235. - 191 - affermare che la lettura del testo piccolpassiano debba essere fatta tenendo conto anche di quei particolari che a tutta prima possono apparire trascu rabili e di dover fare alcune considerazioni a proposito dei disegni tici dal Piccolpasso per i generi decorativi. È infatti necessario dire c e si tratta di schematizzazioni che, pur corrispondendo assai bene al tipo i decorazione che intendono esemplificare, difficilmente coincidono in mo o esatto con la realtà oggettiva dei campioni che di volta in volta ab iamo l’opportunità di confrontare con tali disegni. Un esempio delle di erenze esistenti tra gli schemi piccolpassiani e la realizzazione pratica della co^° sizione da parte del maiolicaro, si può avere confrontando il disegno e « rabesche » del Piccolpasso (fig. 1, tav. I) con la corrispondente ecor^ zione su piatti veneziani (fig. 6 tav. I). Il confronto deve essere fatto quin tenendo conto che ci troviamo sempre di fronte a generi decorativi sog getti a notevolissime variabilità. Evidentemente questo fatto è da ascrivere anche alla diversità delle esigenze estetiche dei vari centri ceramici ita ìam, esigenze influenzate da elementi tradizionali e dal costume locale e ino tre dal gusto soggettivo e dalla fantasia del maiolicaro così come da rapport di ordine economico (e cioè dalla necessità di fornire ad acquirenti ìversi, nello stesso momento, od allo stesso acquirente, in momenti diversi, prò dotti che non fossero identici) ed ancora dalla naturale evoluzione ne^ tempo di un particolare genere decorativo che finiva per associarsi a a elementi che ne modificavano, talvolta in modo essenziale, la stesura pr mitiva. È naturale pensare che questi fatti venissero a determinare frequen temente, come si può constatare, un arricchimento della decorazione per comparsa di nuovi particolari compositivi o di associazioni stilistic e, quanto l’inventiva del pittore di maioliche era sempre stimolata da queg^ elementi che abbiamo evidenziato, ma si può anche verificare come continua ripetizione nel tempo di un certo genere decorativo, potesse con durre ad un impoverimento della composizione che risultava approssimata rispetto ai modelli iniziali, come se esistesse un processo di affaticamento dovuto al prolungarsi di una ripetizione stereotipata. Se vogliamo iniziare la rassegna stilistica partendo dalla decorazione « a rabesche » (nella fig. 1 della tavola I riportiamo i disegni piccolpassiani per le « rabesche » assieme a quelli dei generi decorativi figg- 2 e 3, tav. I — che ci sono sembrati, almeno in parte, affini) vediamo che il Piccolpasso dice « le rabesche più si usano a Vinegia et a Genova che in altro luogo » ed accettando letteralmente questa proposizione si deve ammettere che tale decorazione veniva eseguita anche in altri centri ceramici Tav. I — 193 - Tav. I - (grandezza = 1/3 del naturale). Nelle figg. 1, 2, 3 sono riportati rispettivamente i disegni che il Piccolpasso ci ha tramandati per la decorazione « a rabesche », « alla porcellana » ed « all3 tirata ». La fig. 4 si riferisce alla tesa di un piatto veneziano (circa 1520) ed è decorata con volute e fiori di loto derivati da Iznik o dalla Cina (vedasi fig. 4, tavola II)- Nella figura 5 la decorazione di un piatto di Iznik (fine del XVI o principio del XVII seco o) mostra nella tesa tralci ondulati che ricordano ancora, dopo oltre un secolo, i motivi vegetali da cui sono derivati (vedasi fig. 4, tavola II). La figura 6 riproduce la eco razione «a rabesche» di un piatto veneziano databile intorno al 1540 della bottega di Mastro Lodovico in San Polo. Le figg. 4, 5 e 6 sono riprese da illustrazioni e Rackam. Tav. II - (grandezza = 1/3 del naturale). Fig. 1 : decorazione policroma « a rabesche » della tesa di un piatto di Cafaggiolo (circa 1530) derivata da quella di piatti bianco-blu di Iznik (vedasi fig. 4 di questa tavola). Fig. 2: decorazione « a rabesche » di un coperchio di Deruta (datato 1514 sul 1 altra superficie) probabilmente derivata da disegni di piatti spagnoli. Fig. 3: decorazione «a rabesche» di un piatto di Derma (1515-1525) anche questa derivata da motivi spagnoli (Manises). Fig. 4: decorazione di un piatto di Iznik (fine del XV o principio del XVI secolo) in tutto simile a quella di porcellane bianche-blu del periodo medio della dinastia Ming. Fig. 5: decorazione di un piatto di Iznik (principio del XVI secolo) nella quale i motivi vegetali rappresentati in modo astratto rivelano ancora la loro parentela con quelli della figura precedente. Questa decorazione è stata riprodotta assai fedelmente in maioliche genovesi del XVI secolo e viene chiamata « calligrafica ». Le figure di questa tavola sono riprese da illustrazioni del Rackam. »— — 194 — italiani oltre Venezia e Genova, e ciò infatti si può facilmente constatare attraverso un notevole numero di esempi. Basterà che siano citati alcuni importanti oggetti studiati dal Rackham": il piatto n. 332 eseguito a Cafaggiolo nel 1530 la cui tesa e 1 ingiro sono occupati da una bella decorazione policroma « a rabesche » che 1 A. fa derivare da quella bianca e blu usata su piatti di Iznik (fig- 1> tav- il coperchio n. 338 eseguito a Deruta la cui parte superiore è deco rata « a rabesche » e la cui parte inferiore porta la data del 1514 (fig- 2, tav. II); il piatto n. 358 eseguito a Deruta e databile 1515-25 decorato con un disegno « a rabesche » (fig. 3, tav. II). Confrontando questi oggetti, che il Rackham definisce senza perp es sita come decorati « a rabesche », e più ancora i piatti frammentari prove nienti dalla discarica di fornace di S. Vincenzo, con il modello picco pas siano, rileviamo ancora una volta la differenza esistente tra gli schemi or niti dal Piccolpasso, necessariamente generici, e le varianti che nell^ rea ^ zazione pratica ogni officina apportava alla decorazione. Per di P1U ne figure dei nostri reperti (tavv. Ili, IV-V) si possono osservare oggetti^ a cui composizione decorativa non sembra corrispondere ad alcuno degli se e mi piccolpassiani. L’insieme di queste considerazioni ci ha suggerito di appro on i 1 analisi stilistica allo scopo di evidenziare elementi che potessero orn le basi per un primo tentativo di classificazione. Esaminando, nei nostri reperti, la decorazione a partire dal bordo e ' tesa ed arrivando fino al centro del cavetto, riscontriamo numerosissimi elementi che richiamano motivi ornamentali di gusto orientale e dall in sieme dei numerosi frammenti raccolti a Genova ed a Savona possiamo 11 B. Rackham, Islamic pottery and Italian maiolica, Faber & Faber, Londra 1959. 12 Cfr., ad es., il pilloliere, esposto nella vetrina Y della Mostra retrospettiva della ceramica ligure e riportato nelle illustrazioni del catalogo (G. Pesce, Catalogo della Mostra retrospettiva della ceramica ligure, Az. Aut. Soggiorno e Turismo, Albisola 1968; anche in Alti della Società Ligure di Storia Patria, LXXXII), nonché i vasi da farmacia illustrati nella tav. XII del catalogo del Grosso (cfr. nota 4) dove la decorazione identica a quella di Iznik compare associata a medaglioni figurati di gusto rinascimentale, ed ancora il boccale cinquecentesco della collezione Greco pubblicato dal Pesce (G. Pesce, Maioliche liguri da farmacia, ed. Luigi Alfieri, Milano I960). — 196 — Tav. IIT Tav. Ili Nel gruppo in alto a sinistra sono rappresentati dall’alto verso il basso 6 frammenti di calligrafico a volute «tipo B» e 4 frammenti di calligrafico a volute « tipo A ». Nel gruppo in alto a destra sono riportati frammenti appartenenti a vari gruppi stilistici ma tutti a coperta di notevole spessore e che rappresentano un tentativo di imitazione del Celadon. Tutti gli altri frammenti, in basso a sinistra e in basso a destra, appartengono al « calligrafico a rabesche ». (SV = S. Vincenzo). avere un quadro che, pur senza costituire una vera e propria seriazione sistematica, esemplifica piuttosto bene, come abbiamo detto, numerose composizioni decorative di gusto orientale e può forse consentirci di proporre una classificazione che non vuole essere se non un primo contributo che potrà sempre venire modificato od integrato da ulteriori acquisizioni. Alcuni motivi stilistici riprendono in modo pressoché identico12 la decorazione in uso ad Iznik (l’antica Nicea) in Turchia nella prima metà del XVI secolo (fig. 5, tav. II). Questo tipo di decorazione è stato denominato calligrafico e tale termine è stato esteso a tutte le decorazioni derivanti da motivi vegetali e realizzate in maniera più o meno astratta con volute e girali eseguiti sempre a tratto molto fine, a punta di pennello, da maiolicari liguri del XVI secolo. Anche calligrafiche vengono chiamate tuttavia composizioni a motivi più realistici della prima metà del XVII secolo sempre riferendosi alla tecnica di esecuzione del disegno. Ciò comporta evidentemente una certa confusione ed a nostro avviso sarebbe forse meglio usare una denominazione che precisasse i caratteri distintivi; proponiamo quindi di definire come « calligrafico a volute » il motivo ornamentale ripreso o comunque derivato dalla decorazione usata ad Iznik (non lo definiremmo tipo Iznik perchè in tale centro della Turchia furono usate anche molte altre decorazioni13 e come « calligrafico a rabesche » (vedasi la tav. VII) gli altri motivi. La decorazione usata ad Iznik nella prima metà del XVI secolo ed alla quale ci siamo riferiti (fig. 5, tav. II), dimostra di possedere, se analizzata comparativamente, caratteristiche che, molto verosimilmente, risultano derivate dagli elementi ornamentali di un precedente tipo di decorazione che ad Iznik fu usato (vedasi la fig. 4, tav. II) ad esatta imitazione di modelli cinesi del periodo medio dell’epoca Ming. Una ulteriore distinzione, e cioè la costituzione di sottogruppi, nella denominazione degli oggetti appartenenti a questi gruppi che comprendono varianti assai diverse tra loro, potrà essere necessaria ai fini dell’uniformità dello studio e dell’interpretazione della genesi stilistica. 13 Vcdansi gli esemplari del Victoria & Albert Museum, della Kelekian Collection e di collezioni private: A. Lane, Turkish Poltery, Victoria & Albert Museum, Londra 1955; Id., Later Islamic Pottery, Faber & Faber, Londra 1957; G. Rackham, Islamic Pottery cit. Cfr. anche Oktay Aslanapa, Tiirkische Fliesen und Keramik in Anatolien, Baha Matbaasi, Istanbul 1965. — 197 - CALLIGRAFICO A VOLUTE Tipo A. Nel gruppo del « calligrafico a volute » distinguiamo anzitutto il tipo che ricalca fedelmente il modello primitivo e che proponiamo di indicare come tipo A; la decorazione è costituita da spirali disposte simmetricamente, eseguite con ineccepibile regolarità geometrica ed a tratto molto fine; lungo il decorso di tali spirali, piccolissime tratteggiature, ta volta puntiformi, rappresentano sinteticamente motivi di foglie e di ori (tav. Ili); vi si rivela un gusto per composizioni astratte che interessano i solito la totalità della superficie anche se il fondo campeggia notevolmente, tale genere decorativo corrispondeva in Turchia, per ragioni sociali e re 1 giose, alle esigenze estetiche nazionali che evidentemente del resto ne ave vano condizionato la creazione e si affermò così saldamente da essere u zato per un lungo periodo di tempo, che valutiamo superiore ad un seco o^, per le più svariate necessità decorative; lo si può infatti osservare, che su un notevole numero di oggetti ceramici13 anche in pergamene miniate (quale per esempio un documento turco del XVII secolo da noi osservato a British Museum); la decorazione risalta sempre, in questo tipo A, su u fondo che va dall’azzurro pallido ad un intenso blu a componente grigia, in determinati oggetti la stesura del disegno, pur rispettando lo sC generale della composizione, assume tuttavia un aspetto assai lontano a minuziosa precisione dei modelli turchi; il tipo A è stato usato in Liguria per la decorazione di piatti ma soprattutto di vasi, boccali e brocche per uso comune o di spezieria 14. CALLIGRAFICO A VOLUTE Tipo B. Un genere decorativo che, a nostro avviso, è derivato dire‘t tamente da modelli di Iznik (fig. 5, tav. II) o dal calligrafico a volute i tipo A (e cioè dalle esecuzioni genovesi su imitazione del modello di Izni ma che si diversifica per peculiari caratteristiche assumendo una certa per sonalità stilistica, è costituito da una composizione nella quale, pur venendo a mancare le spirali vere e proprie, esistono però ancora numerosi tralci ad andamento arcuato che ne ricordano la provenienza stilistica (figg- 1 e tav. IV ed i due gruppi della tav. V); la disposizione di questi tralci conserva ancora una certa simmetria, ma ha perduto la rigorosa, geometrica 14 O. Grosso, cit., tav. XII. — 198 — regolarità compositiva del tipo A; le foglioline sono rappresentate lungo il decorso dei tralci sempre in maniera sintetica, ma già un poco più realistica, essendo eseguite a pennellata e non a tratto; ancora più decisamente realistica è la rappresentazione dei pochi elementi floreali disseminati sulla tesa o nel cavetto, disposti simmetricamente, ed ai quali si vengono ad aggiungere talvolta figure di uccelli ad ali spiegate o chiuse. Raffigurazioni di uccelli, in tutto simili a quelle da noi osservate su questi piatti genovesi, si possono riscontrare anche su piatti veneziani del XVI secolo la cui restante decorazione della tesa rimane tuttavia sempre molto aderente ai modelli compositivi orientali con la presenza delle peonie e dei fiori di loto 14 b,s, seppure vi si associno nel cavetto medaglioni ed illustrazioni realistiche di stile rinascimentale e di gusto estetico puramente italiano (fig. 4, tav. I). In questi esemplari genovesi ci si allontana quindi sempre di più dalla decorazione primitiva nella quale i fiori, come tutto il resto della composizione, erano eseguiti solamente a tratto, in punta di pennello; in questo tipo B infatti il disegno degli elementi floreali ed aviari risulta eseguito a sfumature piuttosto accentuate che tendono a rappresentare i dettagli (petali, ali ecc.) in modo più realistico; nell’insieme della composizione costituita da molti tralci arcuati e da pochi elementi floreali disseminati, si può riconoscere ancora, nonostante che le differenze siano apparentemente note-voli, il gusto ornamentale dei decoratori di maioliche bianche e blu eseguite in Turchia alla fine del XV secolo od all’inizio del XVI secolo (vedasi il piatto di Iznik alla fig. 4, tav. II); in qualche caso possiamo inoltre constatare che determinati dettagli decorativi associati a quelli soliti, presentano caratteristiche che indicano una derivazione diversa; un esempio evidente è il bordo di una tesa che presenta analogie decorative assai spiccate con uno di quelli usati su porcellane cinesi del periodo Shuen-Te (1425-1435)ls; talvolta i tralci arcuati si raccorciano notevolmente assumendo un aspetto che evoca sensibilmente quello delle « solfe » che decorano molte maioliche a lustro di Manises e che vengono infatti comunemente considerate come rappresentazioni astratte derivanti da motivi vegetali; gli elementi floreali disegnati a sfumato tendono gradatamente a sostituire in questo tipo B, e si possono evidenziare molti stadi di passaggio, quelli più astratti Mhis b. Rackham, Italian Maiolica, Faber & Faber, Londra 1952, tav. 79. 15 Cfr. il secondo frammento della seconda fila nel primo fotogramma (in alto a sinistra) della tavola III. - 199 - disegnati a tratto, cosicché mentre i tralci ad andamento arcuato con le foglioline lungo il loro decorso divengono sempre meno abbondanti, la composizione si arricchisce di fiori di foglie grandi e di uccelli disegnati a sfumature che finiscono per interessare tutta la superficie del cavetto e della tesa; la monocromia azzurra è sempre conservata e le numerose tonalità impreziosiscono notevolmente l’insieme della composizione, anche il fondo rimane di colore più o meno intensamente azzurro; la decorazione che abbiamo denominato di tipo B è stata da noi osservata solo su piatti il cui ingiro non è mai decorato. Anche se esiste un rapporto evidente, come abbiamo visto attraverso tutti i passaggi decorativi di transizione, tra il « calligrafico a volute 1 tipo B » e le composizioni naturalistiche a sfumato, è ovvio che la esc u sione pressoché totale del disegno a tratto non consente più di ascrivere queste composizioni naturalistiche al « calligrafico » e proponiamo quindi i costituire un nuovo gruppo e di denominarlo MONOCROMIA AZZURRA NATURALISTICA Riteniamo che gli oggetti ascrivibili a questo gruppo abbiano onco e critico; abbiamo creduto tuttavia di farne cenno per ri- • i rC . attenzione degli studiosi, partecipando loro, con i dati descrit- I leTmi 2ÌOnÌ .Che Se 1,5 POSSOn° seppure la composizione appaia più compatta, ricorda a 1 gusto ornamentale dei modelli orientali, ensiamo che in qualche caso particolare potrà essere riscontrata una 1 colta nell’ascrivere al gruppo della « monocromia naturalistica » minati esemplari che presentino decorazioni in cui gli elementi disegnati con tecnica calligrafica siano ancora rappresentati. Dal punto di vista Puramente classificativo potrà essere assunto come criterio differenziale quello della prevalenza degli elementi vegetali disegnati a sfumato ed il 010 Pericolare addensamento (figg. 3 e 4, tav. IV e terzo gruppo tav. V). Anche per questo gruppo il fondo è sempre di colore azzurro più o meno accentuato; tra i nostri reperti la decorazione a « monocromia azzurra naturalistica » è stata riscontrata solo su piatti ed in tutti gli esemplari 1 ingiro, come nel tipo B del calligrafico a volute, è coperto solo dal colore di fondo. — 201 — CALLIGRAFICO A VOLUTE Tipo C. Un’altra variante decorativa che si differenzia dalle precedenti, che si ripete in un numero rilevante di esemplari e che, a nostro avviso> deve ancora essere considerata in rapporto con i modelli orientali già più volte ricordati, è rappresentata da una composizione costituita da motivi ornamentali di derivazione vegetale, foglie, fiori e tralci, disegnati con tecnica calligrafica particolarmente fine; nel disegno dei fiori si può rico^ noscere ancora piuttosto bene la rappresentazione delle peonie e dei ori di loto che decora piatti di Iznik e del periodo medio della dinastia Ming (fig. 4, tav. II). Nello stesso oggetto alcuni motivi sono rappresentati in modo astratto mentre altri sono esposti in modo più realistico, ma tutti 1 particolari decorativi espressi in modo realistico risultano eseguiti con un disegno delicato a sfumature tenui appena accennate; l’insieme della com posizione fornisce l’impressione di un ricamo e tale impressione viene accen tuata in modo particolare dalla presenza di una o più bordure r orea 1 nastro che spiccano nell’ingiro e nella tesa, che delimitano talvolta una cerchiatura costituita dal campeggiare del fondo azzurro sul quale risa tano pochi motivi floreali disseminati; queste bordure contornano armonicamente il cavetto occupato da una trina di foglie, tralci e fiori, contenuta in un medaglione cerchiato ed eseguita sempre in modo tale da evitare un a samento compositivo (vedansi le figg. 5 e 6, tav. IV). Anche la disposizione degli elementi ornamentali nel suo complesso ricorda quindi ancora il gusto compositivo generale che caratterizza i piatti bianchi e blu prodotti a Iznik a stretta imitazione di quelli del periodo medio della dinastia mg-Nei reperti in nostro possesso il tipo C si presenta con trascurabili varia zioni ornamentali che per di più compaiono solamente in pochi esemplari. La decorazione presente nella tesa e nell’ingiro del tipo C risulta poi essere stata presa a modello, in una stesura tuttavia molto sintetica, per ornare il bordo della tesa di piatti a fondo intensamente azzurro di tonalità grigia (lo stesso fondo che vedremo comparire in quelli del genere « a quartieri») contenenti nel cavetto altre decorazioni come, per esempio, quella «a paesi ». In queste continue ripetizioni, il motivo ornamentale delle delicate bordure a nastro diviene assai semplificato e finisce per essere costituito, per solito, da un cerchio a linea continua dal quale si dipartono da ambedue i lati brevi segmenti disposti a spina di pesce che terminano con un rigonfiamento. Questo motivo astratto diventa particolarmente grossolano ed affrettato in un buon numero di esemplari (figg. 2 - 6, tav. IX) che rite- — 202 - :r ïa"°na COlloCare nella seconda metà del XVI secolo (vedasi anche la tav^X del lavoro di Cameirana). tivi ornampn^r1116 r’'evare 9uesto insieme di rapporti genetici dei momenti stilisti 3 l’ Un P™CeSSO di associazione, nello stesso oggetto, di ele- parte la tendenz! alT'f0^0 eV°lut.ÌV° aPParentemente antitetico: da una tico motivr, 1S razione testimoniata dal continuo ripetersi del sinte- cavetto di mVeget nelle. bordute della tesa e dall’altra la presenza nel scimentali. Un^n^ n'0™ reallStlche dettata da esigenze artistiche rina-ciazione stilisti™ ° c aStanZa slmiIe> almeno per quanto riguarda l’asso-quecentesche usai^ re^Ue™emente constatabile anche in decorazioni cin-e di Venezia di & ntr* ceramici italiani; in piatti di Cafaggiolo presentare un A ab'D*amo g*a ^itto riferimento, la tesa può ed il cavetto H eCOraz*one astratta di imitazione rigorosamente orientale esempio di n ecoraz'on' nettamente realistiche, offrendo così un chiaro Anche T&T Pr0CeSSÌ assodativi (fig- 6, tav. I e fig. 1, tav. II). vata, nei nost ' eCOraz|one de* calligrafico a volute di tipo C è stata osser-mente in azzurr^6^' S°^° SU P*att* a ^ondo colorato più o meno intensa- CALLIGRAFICO A RABESCHE illustrazio " decoraz'one ci è sembrata più delle altre corrispondente alla opportuno C ,^!CC°^ass^ana de^e «rabesche» ed abbiamo quindi ritenuto « a rabesch 3 ' PUnt° d* V^sta classificativo, conservare la denominazione verament V* ?Uant0 ta^e termine ci sembrava implicare un significato minologi^ lst'nt'vo senza che si dovesse ricorrere ad una nuova ter- in un 3 ^eCOraz'one de^ genere « a rabesche » compare, nei nostri reperti, elementnUIAer° e^eVat0 d^ esemplari e risulta ben caratterizzata da vari , V t^itutto 1 ornato derivante da motivi vegetali è espresso in un a i. porosamente astratto. Nel cavetto è presente una composizione inee arcuate che si sviluppano partendo dal centro, da una figura floreale, ispongono in maniera simmetrica. Nei piatti corrispondenti alle for-me , 3 e 4 (vedasi tav. XI) tale composizione raggiunge, e talvolta interessa, 1 ingiro, non è circoscritta da alcuna cerchiatura e presenta una tesa, ° meglio un bordo ricurvo, occupato da una semplice bordura a nastro od anche libero da qualsiasi elemento decorativo. Nei piatti corrispondenti alle orme 5,1 e 10 (tav. XI), la stessa composizione, per quanto sempre senza — 203 — cerchiature, risulta invece più ristietta, è circoscritta dalla fascia dell ingiro libera da ogni decorazione e pi esenta la tesa completamente occupata da un ornato di derivazione vegetale anch’esso astratto che si sviluppa con motivi a forma di cuore ripetentisi uno di seguito all’altro e disposti simmetricamente. Talvolta una bordura a nastro, dello stesso tipo di quelle presenti nelle forme 2, 3 e 4, completa la decorazione della tesa disponendosi nella sua parte più esterna. L’insieme offre in ogni caso un aspetto di notevole coerenza compositiva ed il lieve geometrismo della simmetria viene attenuato da una notevole armonia di gusto orientale e dalla assoluta mancanza di rigidità nello svolgimento delle figure arciformi. Il motivo a forma di cuore contribuisce a caratterizzare in modo così particolare la decorazione che ìiteniamo possa offrire elementi indicativi della sua provenienza. Per poter disporre di uno strumento di studio più agevole abbiamo comunque tentato di analizzare anche graficamente 1 insieme decorativo allo scopo di meglio evidenziare gli elementi che lo compongono (tav. Vili). Si può constatare trattarsi di una soluzione decorativa che compare fin dalle più antiche rappresentazioni astratte dei motivi vegetali e che si può riscontrare come componente stilistica in varie manifestazioni artistiche di numerose civiltà e persistente per molti secoli. Crediamo tuttavia verosimile l’ipotesi che tale motivo a forma di cuore si sia estesamente affermato, nella scelta di tutti quelli possibili che si venivano creando nella linea evolutiva verso rappresentazioni astratte, a causa della sua particolare idoneità alle più svariate necessità decorative o fors’anche perchè preferito sul piano delle valutazioni estetiche. Le caratteristiche decorative dei nostri reperti, ci sono sembrate comunque sufficienti ad indicare alcune direttrici stilistiche che potranno tuttavia essere modificate o confermate da eventuali interventi specialistici. Riteniamo di fame cenno perchè le considerazioni che se ne possono trarre ci sembrano sufficientemente stimolanti per l’impostazione di una discussione e di ulteriori più estese ricerche. Partendo dalla periferia dei piatti « a rabesche », il primo elemento decorativo che si può osservare è costituito, come abbiamo già detto, da un motivo a nastro che corre lungo il bordo esterno della tesa. Tale elemento decorativo, presente anche nel calligrafico a volute tipo B, è evidentemente derivato da quello usato con grande frequenza su manufatti ceramici bianchi e blu medio-orientali e cinesi. Ci sembra importante sottolineare, a questo proposito, che tra il materiale raccolto a Genova, nella - 204 - Tav. Vili - 205 — Tav. Vili - (grandezza = 1/3 del naturale). L’analisi del disegno usato nella decorazione del « calligrafico a rabesche » dimostra lo sviluppo della composizione a partire dai suoi elementi più semplici. Si può osservare come la partecipazione di motivi lanceolati ed a forma di cuore sia prevalente. E’ inoltre evidente l’analogia con le « rabesche » usate in centri ceramici italiani e spagnoli (vedasi tav. II). -<-4Ê Tav IX - (grandezza = 1/3 del naturale. Fig. 1: frammento di piatto in ceramica a corpo siliceo di probabile importazione da centri medio orientali, repertato negli scavi di Via S. Vincenzo; il motivo ornamentale che decora il bordo presenta evidenti analogie con quello usato su piatti di fabbricazione genovese (vedasi la tav. Ili, la tav. V, la tav. VII e la fig. 1 della tav. IV). Figg. 2, 3, 4, 5 e 6: bordure osservate su frammenti di piatti provenienti dagli scavi di Via S. Vincenzo e dalla collina di Castello, come esempio di varianti più o meno sintetiche derivate dai motivi del « calligrafico a volute tipo C » (vedasi la fig. 5 della tav. IV). Figg. 7, 8 e 9: decorazioni delle parti posteriori di piatti liguri del XVI secolo; tali decorazioni, con varianti di scarsa importanza, compaiono associate senza alcuna specificità ai vari gruppi stilistici che abbiamo descritto. §►—> - 206 - discarica di fornace di S. Vincenzo, erano presenti alcuni frammenti di piatti a corpo siliceo ed a decorazione bianca e blu, di provenienza molto verosimilmente medio-orientale, che mostrano bordature a nastro visibilmente affini a quelle usate dai decoratori liguri (fig. 1, tav. IX). Riteniamo si possa presumere che tali oggetti venivano conservati nell’officina ceramica genovese come modelli. Tali bordature, sempre con gli stessi schemi decorativi, si possono riscontrare anche su oggetti ceramici prodotti da altri centri italiani e con particolare frequenza compaiono su piatti decorati « alla porcellana », parecchi frammenti dei quali del resto (di produzione di Montelupo) erano presenti anche nel terreno della discarica di S. Vincenzo. La restante superficie della tesa dei piatti « a rabesche » è quindi occupata dalla larga fascia decorativa con il motivo a forma di cuore. Un motivo assai affine è stato frequentemente usato come componente ornamentale in varie manifestazioni artistiche bizantine dove entra a far parte, di solito, della cornice di medaglioni a figure. Questo uso ci sembra indicativo in quanto la cornice può essere considerata in qualche modo corrispondente alla tesa dei piatti e crediamo sia utile fare riferimento ad alcuni esempi. In un tessuto bizantino di seta deH’VIII secolo appartenente all’abbazia di Mozac (Puy-de-Dôme) conservato nel museo dei tessuti di Lione 16 ed in quello, egualmente dell’VIII secolo, conservato nel museo di Cluny a Parigi e nel quale fu avvolto il corpo di Carlo Magno , i medaglioni a figure sono incorniciati da un nastro circolare decorato con motivi a forma di cuore. Molti secoli dopo, nel mosaico bizantino del XII secolo nella cupola della Cappella Palatina di Palermo ed in quello del XIII secolo nella cupola del Battistero di Firenze, troviamo ancora, come in molte altre rappresentazioni musive, che i medaglioni a figure sono racchiusi in cornici circolari a motivi di larga lanceolatura. Lo sviluppo di decorazioni floreali verso motivi a forma di cuore può essere osservato anche su specchi in bronzo prodotti in Cina nell epoca T’ang ed è stato accertato che gli artisti che eseguirono tali specchi si ispirarono a « forme caratteristiche dell’ornato sassanide »18. Ma la stessa 16 R. Ghirshman, Iran - Parthes et Sassanides, Gallimard, Parigi 1962. 17 D. Fabbri, Capolavori nei secoli, II (Dalla Grecia ai Bizantini), Fratelli Fabbri ed., Milano 1962, p. 196. i* D. Fabbri, Capolavori cit., III (Le arti dell’Estremo Oriente), p. 44. - 208 - Tav. X Tav. X - (grandezza = 1/3 del naturale). Le figure 1, 2 e 4 riproducono la decorazione « a paesi » osservata in reperti provenienti dagli scavi di Via S. Vincenzo. La figura n. 3 dimostra l’associazione della decorazione « a paesi » con quella « a quartieri» (frammento proveniente dalla Collina di Castello) e si possono osservare le analogie con « i quartieri » illustrati dal Pic-colpasso (figura 6) e con quelli eseguiti a Gubbio (figura 7). La figura 5 mostra la decorazione « a foglie ». onte i ispirazione è stata accertata anche per le decorazioni dei tessuti ìzantim c e vengono in parte addirittura indicati (Ghirshman) come tessuti « post sassanidi »; ed è questo stesso A. che ci informa come le « fasce convesse o concave... adorne di foglie a cuore » fossero « motivi frequenti neg i stucchi sassanidi ». Sui tessuti, e successivamente sui tappeti, si ^scontiano per molti secoli rappresentazioni di motivi floreali a forma ore c e, come altri ornati del resto, si sono per lungo tempo ispirate evidenz^21011^ ^ran^cbe' ^ ancora Ghirshman che afferma infatti, dopo aver ° un §rande numero di analogie decorative ed aver constatato , • m0 6 1 ornato tessile sassanide influenzarono anche i mosaici mi. « è dunque certo che durante secoli, dopo la scomparsa dell’im-p persiano, le tessitorie arabe di Baghdad e quelle greche di Costanti-P°g a biano riprodotto gli antichi motivi sassanidi » ’9. I 6 osserviamo la decorazione di tappeti iranici, scegliendo esemplari sono stati attribuiti con buona attendibilità al XVI secolo e dunque ai nostri campioni ceramici, possiamo rilevare, in molti casi, ulte-In 1 e ernent^ analogia con le decorazioni riscontrate sui nostri reperti, particolare sono da prendere in considerazione, per quanto concerne il ronto con 1 ornato del cavetto dei piatti « a rabesche », quei meda-g ioni che, nei tappeti eseguiti a Tabriz20, mostrano una decorazione a ra ci che seguono un disegno a complicati contorcimenti che si sviluppano armonicamente e simmetricamente partendo dal centro. La decorazione di questi medaglioni deve inoltre essere raffrontata, nostro avviso, anche con i disegni che il Piccolpasso ci ha tramandato per i generi « alla porcellana » ed « alla tirata » (figg. 2 e 3 tav. I) che, come abbiamo già detto, ci sono sembrati affini alle « rabesche ». Ci riferiamo evidentemente solo alla stesura del disegno in quanto i generi « alla porcellana » ed « alla tirata » sono poi caratterizzati soprattutto, come è noto, dal fatto che Tornato blu risalta sul fondo bianco. Un altro elemento decorativo che in tappeti del XVI secolo ricorre assai frequentemente è quello della raffigurazione dei fiori di peonia e dei fiori di loto; compare soprattutto nei manufatti di Tabriz e di Herat ed e costituito da una disseminazione di singole corolle esteticamente coerente al contesto della composizione generale il cui disegno segue spesso 19 Cfr. nota 16. 20 M. L. Varvelli, I tappeti, Sansoni, Firenze 1969; M. Viale Ferrerò, I tappeti, De Agostini, Novara 1969. — 209 — andamenti arciformi20. Nelle cornici delle zone periferiche dei tappeti possono inoltre essere osservati motivi a volute ed a spirali assai allungate. Anche per queste decorazioni a spirali e volute ci sembra di poter affermare la probabilità di una tradizione proveniente da influenze sassanidi ricordando i numerosi esempi offerti dalle decorazioni dell’argenteria sassanide21. Questi ultimi elementi decorativi sono comunque da sottolineare per le loro analogie con il calligrafico a volute tipo A, tipo B e tipo C piuttosto che con quello « a rabesche ». Abbiamo quindi potuto constatare che esistono svariati elementi decorativi, le spirali, le volute, i fiori di peonia, i fiori di loto, le composizioni di complessi viluppi simmetrici, i quali tutti possono comparire singolarmente o variamente associati nell’ornamento dei più diversi manufatti artistici ma che finiscono per dimostrare una certa uniformità stilistica e soprattutto una certa parentela. I fiori di loto e le peonie, disegnati in modo realistico od astratto, sono sempre assai ben rappresentati in questa grande progenie stilistica e vale forse la pena di ricordare che le raffigurazioni dei fiori di loto in particolare, così come le schematizzazioni lanceolate od a forma di cuore, potrebbero essere pervenute in Persia dai centri ceramici greci dell’Asia minore dove furono usate per vari secoli a partire dal 700 a. C. nella pittura vascolare per comporre decorazioni a nastro che vengono oggi classificate come « tipici disegni arcaici della Grecia orientale» (Folsom)22. E opportuno rilevare ancora una volta come il perpetuarsi dell uso di questi vari elementi decorativi su ceramiche, su tessuti e su tappeti sia da attribuire alle modeste condizioni culturali e sociali che caratterizzavano 1 artigianato sia nei Paesi orientali che in quelli occidentali, artigia" nato che riuscì, cionondimeno, a manifestare le proprie possibilità creative esprimendo tutte le possibili varianti estetiche ed associative di moduli tramandatigli da tradizioni stilistiche molto antiche. In conclusione, ci sembra di poter sostenere che buona parte degli elementi che costituiscono le decorazioni ceramiche liguri del XVI secolo, siano provenienti dall’Iran o dalla Turchia dove rappresentavano una elaborazione islamica di elementi stilistici di provenienza sassanide. 21 Cfr. nota 16. 22 R. S. Folsom, Handbook of Greek Pottery, Faber & Faber, Londra 1967. — 210 — n via secondaria non possiamo escludere che i decoratori di ceramica igure possano essere stati influenzati da modelli ornamentali di porce ane del periodo medio della dinastia Ming, modelli che si rifanno a oro vo ta del resto, ed in parte non trascurabile, agli ornati persiani, ua c e elemento di discussione in tal senso ci sembra possa essere fornito anc e dall esame degli smalti. La coperta dei nostri reperti è costituita, in tutti i tipi finora descritti da uno strato di spessore diverso da oggetto all altro ma di solito assai rilevante e nel quale la componente cromatica di fondo e la trasparenza vetrinica sono costituenti stilistici primari- colore varia da un azzurro molto chiaro ad un blu scuro a tonalità gri&iastra ed assume talvolta anche tonalità cerulee od addirittura tur-c esi. Per solito si constata la presenza di queste tonalità in oggetti che anno un rivestimento particolarmente notevole e questa associazione fa nascere nell osservatore il sospetto che il maiolicaro ligure volesse raggiungere gli effetti di trasparenza e di profondità, oltre che di colore, in una parola quell’aspetto simile alla giada, degli oggetti ceramici cinesi ung eh uan-yao derivanti da una antica tradizione stilistica che ha inizio orse nel tardo perioro Chou e che è ancora assai attiva durante il periodo in8> oggetti che in Europa (XVII secolo) furono poi chiamati Celadon. Non ci sembra tuttavia contradditorio questo fatto con la genesi sti-istica già da noi ipotizzata in quanto è noto che la ceramica tipo Celadon, nonché essere di esclusiva produzione cinese (il Celadon coreano del XII e_ ^UI secolo è considerato, per esempio, come la più bella ceramica che sia mai stata prodotta), è stata eseguita anche in vari centri iranici. Il problema che maiolicari liguri possano essere stati influenzati da esemplari cinesi di Celadon invece che coreani od iranici, ci sembra tuttavia secondario rispetto al significato generale del tentativo di riprodurre gli effetti di questa particolare ceramica d’Oriente. Personalmente siamo propensi a sostenere l’ipotesi che siano stati esemplari tardi di Celadon, e quindi non della migliore fattura, a servire da modello a maiolicari liguri, esemplari provenienti dalla Cina della dinastia Ming o dai centri ceramici dell Iran, ma è forse più importante sottolineare che i tentativi dei nostri artigiani erano determinati dalla constatazione che esisteva per questi particolari oggetti una richiesta di mercato e che tali oggetti godevano di una elevata valutazione. Dobbiamo quindi presumere che Celadon cinese ed iranico fossero ben conosciuti ed apprezzati dai genovesi che evidentemente ne erano entrati in possesso attraverso i loro rapporti con l’Oriente. Un piccolo fram- — 211 — r mento di Celadon, probabilmente appartenente ad un piatto iranico, è stato da noi repertato in una sacca di smaltimento di rifiuti del XVIII secolo sulla collina genovese di S. Silvestro. DECORAZIONE « A PAESI » Lo scorso anno, nell'illustrare al 1° Convegno albisolese alcuni reperti provenienti dagli scavi eseguiti nella collina di S. Silvestro a, sostenemmo che la decorazione « a paesi » nella sua realizzazione pratica non doveva essere considerata necessariamente sovrapponibile al disegno che ne ra il Piccolpasso, trattandosi di genere decorativo evidentemente passibile di S. Vincenzo abbiamo la conferma di questo fatto ed inoltre la prova ulte-variabilità notevoli. Dai frammenti raccolti nella discarica di fornace di riore che tale decorazione veniva effettivamente, come dice il Piccolpasso, eseguita a Genova. Dal punto di vista descrittivo troviamo interessante sottolineare, in taluno dei nuovi esemplari, la presenza di una grande figura di albero disposta nel centro del piatto con il tronco nel cavetto e le fronde e rami che interessano l’ingiro e la tesa sovrastando la rappresentazione e e case e dei campanili (figg. 1 e 4, tav. X). In questi esemplari ci è dato di osservare un importante dettaglio pittorico che non era presente ne e altre classi decorative cinquecentesche; si tratta dell’uso del bianco me diante il quale con pochi tratti di pennello vengono ottenuti, dove neces sario, sulle rappresentazioni in azzurro cobalto, riflessi luminosi che creano effetti di profondità ed accentuano il realismo compositivo. In alcuni casi, in piatti a fondo intensamente azzurro-grigio, le ra gurazioni dei « paesi » sono contenute in un medaglione che occupa solo il cavetto mentre nella tesa sono presenti motivi a nastro derivanti da quelli del calligrafico a volute tipo C. Abbiamo già detto che tali derivazioni sono di stesura assai grossolana e sono costituite da un cerchio dal quale si dipartono a spina di pesce brevi segmenti terminanti con un bottoncino rotondo, ma è importante rilevare, in questi casi, l’associazione degli elementi stilistici ancora di tradizione orientale, e che ormai si trovano in una fase di esaurimento, con quelli realistici e descrittivi del rinascimento italiano. Si tratta quindi di oggetti che dimostrano una transizione stilistica dell’artigianato che, come abbiamo già fatto osservare, è 23 Cfr. nota 10. - 212 - un poco in ritardo rispetto alle altre manifestazioni d’arte. In altri casi ancora, come vedremo, sempre in piatti a fondo intensamente azzurro, il me ag ione « a paesi » del cavetto è associato alla decorazione « a quartieri ». Riteniamo comunque che, dal punto di vista stilistico, sia evidente ecorazione « a paesi » debba essere considerata coerente allo spinto ed alle tendenze rinascimentali. DECORAZIONE « A FOGLIE » Anche la decorazione « a foglie » rappresenta una manifestazione delle vef7 estetiche rinascimentali ed è caratterizzata dal fatto che i motivi t, ta i sono rappresentati in maniera assai realistica e sono associati a P issimi elementi astratti. In tutti i frammenti che abbiamo esaminato, forn-1"1 Provenienti dalla collina di S. Silvestro sia in quelli della nace i S. Vincenzo, le foglie sono disegnate in grande numero ed ^Pan° tutti i settori del piatto lasciando campeggiare assai poco del i tratta di foglie plurilobate diffìcilmente definibili dal punto di naturalistico, ripetute in modo pressocchè identico e convenzionale '. tUt j1. ^ * °ggetti. La monocromia azzurra è sempre conservata e l’ornato CC(J * sfumati, risalta con l’intensità del blu corposo e quasi rilevato, u ondo di azzurro chiaro (fig. 5, tav. X). Compare anche in questa classe ecorativa la assoluta novità del dettaglio pittorico costituito dall’uso di qua c e pennellata di bianco per ottenere, su una delle metà delle singole °g le, un riflesso luminoso che accentua il risalto della composizione. L applicazione di canoni prospettici usata in qualche esemplare del genere « a paesi », manifesta l’intenzione di ottenere rappresentazioni p uridimensionali razionalmente integrate dalle « luci » del bianco che nel genere « a foglie » accentuano gli effetti pittorici del rilievo, della pro-ondità e del chiaro-scuro. Ci troviamo quindi di fronte ad elementi stilistici significativi dell’Italia cinquecentesca ormai indipendenti da influenze orientali e che costituiscono semmai un modesto esempio applicativo degli studi sulle ombre. Qualche perplessità ci proviene anche qui dal confronto tra i nostri esemplari ed i disegni fornitici dal Piccolpasso per la decorazione « a foglie ». In effetti tali disegni mostrano solamente poche grandi foglie che occupano tutto il piatto e l’Autore ce ne offre due versioni: una in cui le foglie sono in colore su fondo chiaro, l’altra in cui sono rappresentate in — 213 — sfumato chiaro che spicca su fondo scuro. Il commento è, come di solito, esplicito: « queste si fanno a Vinegia et a Genova più che in tutti i luoghi e pagonsi il cento 3 lire ». Riferendoci ad un’altra delle illustrazioni pic-colpassiane, quella della decorazione « a cerquate », ed osservando che il fogliame rappresentato nei nostri reperti assomiglia un poco a quello delle querce, saremmo propensi ad ammettere l’esistenza di ornati di transizione tra il genere « a foglie » e quello « a cerquate ». Gli esemplari frammentari da noi esaminati potrebbero forse essere ascritti a queste possibili forme decorative di passaggio. Non ci risulta, d’altra parte, che siano mai stati osservati esemplari di collezione o frammenti che corrispondano esattamente al modello decorativo piccolpassiano « a foglie » e riteniamo che questo fatto possa essere considerato come tema di ricerca per quanti si occupano di ceramica ligure. I nostri reperti non corrispondono infatti alle « cerquate » vere ^ e proprie per le quali citiamo, come esempio assolutamente tipico ed in tutto sovrapponibile al modello piccolpassiano, il piatto conservato alla Wallace Collection di Londra (contrassegno IIIB-88 dell’archivio fotogra fico 1968). Ricordiamo comunque che il Piccolpasso, commentando il suo disegno, specifica che « le cerquate » venivano eseguite a Casteldurante, non accenna a produzione genovese, ed aggiunge: « ... si può dir che glie Plt: tura al Urbinata ». Per contro una decorazione « a foglie » perfettamente identica a quella dei nostri reperti è visibile in un piatto di fabbrica veneziana conservato anche questo alla Wallace Collection (contrassegno IlP-209 dell archivio fotografico 1968). Ricordando il commento già citato («queste si fanno a Vinegia et a Genova »), e non ritenendo casuale una così perfetta identità decorativa, pensiamo possa essere accettabile l’aver raccolto, come abbiamo fatto, nella classe decorativa « a foglie » i nostri reperti nonché, evidentemente, l’esemplare veneziano della Wallace Collection, anche se non sovrapponibili al disegno piccolpassiano. Possiamo tuttavia supporre che l’A. durantino, illustrando il motivo ornamentale « a foglie », volesse riferirsi anche questa volta a molte possibili varianti. È presente nei nostri reperti, così come nell’esemplare della Wallace Collection, la nastratura di derivazione orientale che decora il bordo della tesa e della quale abbiamo già parlato a proposito del « calligrafico a rabesche ». — 214 - DECORAZIONE « A QUARTIERI » Q sto genere è caratterizzato dal fatto che determinati elementi I . . ’ ^Ue,/ disPosti nella tesa e nelPingiro, sono racchiusi, incasel-ati, in spazi i forma trapezoidale sovrapposti a scacchiera. Il termine q < tieri » ci proviene ancora dal Piccolpasso che ne fornisce il disegno commentando: « questo è uso urbinato » (fig. 6, tav. X). che le officine cinquecentesche di Deruta (fig. 7, tav. X) usa-ono con grande frequenza i quartieri nel decoro della tesa di piatti che i ,.a lzzano stilisticamente per il caratteristico motivo a scaglie, P0 lcro™a e per i lustri. Per quanto concerne la Liguria, già lo ° a Convegno di Albisola ritenemmo di sottolineare che la 1 numer°si frammenti di piatti decorati « a quartieri » negli ^ F** savonesi costituiva una novità per la storia della nostra • ’ 1 elementi distintivi degli esemplari liguri sono rappresen-prattutto dal colore di fondo che è sempre di un intenso azzurro dell’ino' a 8n!n,e ^ecorazi°ne del cavetto che è separata dai quartieri ^ °,,e 6 a tesa una picola zona non ornata ed è costituita da fi V a° !°ne ° meno grande che racchiude disegni astratti di motivi Ne F -Se8nÌ rea^st*c* con figure di uccelli o di paesaggi (fig. 3, tav. X). g pazi racchiusi dai quartieri si osservano motivi astratti e convenzionali di foghe e di fiori. Mentre troviamo solo qualche trascurabile affinità con i motivi orna- 61 Pr°dotti di Deruta, maggiori elementi decorativi affini pos- del XVi°Vare ^nV6Ce COn esemplari eseguiti a Gubbio nella prima metà secolo (fig. 7, tav. X), prodotti anche questi per altro caratterizzati dalla policromia e dal lustro. j, i • ^°n ^ difficile ammettere che questi centri ceramici, assai vicini ad r ino, possano esserne stati influenzati e quindi che il Piccolpasso non ritenesse necessario farne dettagliata menzione, ma è assai più complesso spiegare un eventuale influenzamento dei centri liguri. Saremmo propensi a ipotizzare che qualche maiolicaro ligure abbia cercato di riprodurre in monocromia azzurra le composizioni di piatti « a quartieri » che aveva potuto osservare o di cui era venuto in possesso e che conservava come modello. Ci sembra infatti più semplice emettere questa ipotesi piuttosto che quella del trasferimento di artigiani urbinati in Liguria. Questi arti- 24 Cfr. nota 10. - 215 - giani avrebbero evidentemente impostato la produzione in modo tale da ottenere manufatti che assomigliassero molto di più a quelli, ormai risultati apprezzatissimi, dell’ambito urbinate. I prodotti liguri « a quartieri » sono invece rigorosamente monocromi e costituiscono un ulteriore esempio di composizione decorativa con elementi ornamentali di provenienza e di significato stilistico diversi. Riteniamo inoltre che la decorazione « a quartieri », per quanto riguarda la Liguria sia da collocare in un periodo un poco successivo a quello urbinate, sia iniziata cioè intorno alla metà del XVI secolo; risulta infatti caratterizzata dal fondo di intenso azzurro grigio che il Cameirana ha riconosciuto in un piatto savonese decorato in calligrafico a volute tipo C contrassegnato sul fondello dalla data del 1568 (tav. Ili del lavoro di Cameirana). Crediamo che si siano venute a creare anche qui le condizioni per un tema di ricerca che potrebbe fornirci notizie su eventuali importazioni dirette od acquisti liguri di ceramiche provenienti dall’ambito urbinate oppure sullo spostamento di ceramisti liguri od urbinati. Abbiamo invece dagli studi del Ragona 25 sufficienti informazioni sulla storia di questa particolare decorazione ceramica in dipendenza delle relazioni che esistevano tra la Sicilia e la Liguria. Questo A. illustra prodotti di officine ceramiche caltagironesi decorati con i motivi « a quartieri » in monocromia azzurra (e possiamo rilevare che si tratta di maioliche in tutto simili a quelle liguri) e sottolinea che la Sicilia importava, nel XVI secolo vasellame e vetri da fabbriche di Genova e di Albisola, che in Caltagirone operavano stabilmente e si erano spostati ceramisti genovesi come Giovanni di Mero e Giovanni Saitone, che un ramo dei Gagini si era stabilito in questa città e che un Giacomo Merlo genovese vi possedeva, nel 1569, una officina ceramica. La distruzione dell’archivio caltagironese, avvenuta nel 1569 ci priva dei documenti anteriori a tale data e non ci consente una ricostruzione più approfondita dei rapporti siculo-liguri. È possibile tuttavia che gli archivi liguri o quelli di altre città siciliane possano ancora fornirci notizie su tali rapporti che riteniamo di notevole interesse per la storia dell’arti-gianato ceramico. 25 A. Ragona, Note sulla maiolica siciliana dei secoli XVI e XVII, in « Faenza », 1957, p. 12; Id., I vasi a smalto turchino delle officine caltagironesi dei secc. XVI-XVIII, Museo statale delia ceramica caltagironese, XII settimana dei musei, Calta-girone 1969. - 216 — DECORAZIONE A STAMPO Nella produzione cinquecentesca genovese è da classificare anche la ceramica decorata a stampo e ne facciamo cenno perchè qualche fram-vaso in maiolica decorata con mascheroni, facce di satiri, ecc., e comparso tra i reperti della discarica di S. Vincenzo. ‘j*.Scotti e scarti di cottura di oggetti lavorati a stampo, g e raccolti in S. Vincenzo, forniscono la prova della produzione di questa ceramica nelle officine genovesi. * * * ootmü'Ü! taV°k *l,esponiamo la raccolta dei dati tipologici che abbiamo Co ~U0 S,Udi° dEÌ "°Stri rePeI,i ' "elk didaSCaUa Iip0r' e le decora?' ■ 0™° potuto Scontrare sulla corrispondenza tra le forme detto debb °m' °lam0 Che 1 MStri dati riP“'»8ici. come già abbiamo essere inteor T nguar^at^ come un modesto contributo che dovrà estesa conn & ° * U StU^ e r^cerc^e Per Poter giungere alla più cinquecentescanHguPreSS1 ^ ^ °eramiche usate dalla Produzione evoluzbÌTiTta f°rme raPPresentino una rilievo- inf «V 1 ■ 1 se precedenti con variazioni di scarso conserva nel 1 ^ XW SeCol°’ C°n la tesa aPPena accennata> notevolm SeC° ? SUCCessiV0 un Profondo cavetto ma presenta una tesa questW n CfPIU 8a C Spor§ente e> come si Può vedere nella tavola XI, del XVI sec j01™3 C ancora ^en rappresentata nella produzione genovese amo cJìe 1 generi decorativi da noi rapidamente illustrati in YVT C0^ur’IC‘'zi°ne costituiscano una buona parte di quelli prodotti nel eco o a e officine ceramiche liguri, per quanto non siano sicura-i so ì. iamo creduto opportuno parlarne, scorporandoli dalla ante presumibile produzione ligure, in quanto si trattava di generi per ^ ^.aVrr° p0tUt0 fina^mente acquisire le prove concrete, incontrovertibili, della loro produzione in Liguria. Dagli scavi eseguiti a Genova, nel luogo che abbiamo chiamato « scarico di fornace » di S. Vincenzo, scavi che saranno illustrati dal dott. Man-nom durante questo convegno, oltre ai numerosi frammenti di oggetti in maiolica, abbiamo potuto ottenere una grande quantità di altro materiale ra cui, in particolare molti biscotti e molti scarti di produzione. Il confronto tra biscotti e scarti da una parte e prodotti finiti dall’altra, ci ha - 217 - consentito di dimostrare che i tipi B e C del « calligrafico a vo ute », a « monocromia naturalistica », il « calligrafico a rabesche », i «paesi « foglie » venivano prodotti a Genova. Ciò non esclude evi enteme che vi fossero prodotti anche gli altri generi decorativi di cui a la parlato. In particolare, per il genere « a quartieri », le ricerc e Cameirana ci hanno fatto entrare in possesso di scarti di fornace eie ^ strano, come dirà egli stesso nella sua comunicazione, la loro orig fabbriche savonesi. ssere I biscotti (o « bistugi », come dice il Piccolpasso) dimostrano / costituiti da una argilla la cui componente marnosa deve essere pi ^ elevata in quanto non presentano mai un colore rosso ben accen ^ tutt’alpiù un rosa-giallo più o meno carico. Il 50 per cento 1 eS_ di colore giallo nettamente chiaro. Vedremo, esaminando i meto 1 _ duzione in Liguria nel XVI secolo, di stabilire le ragioni per ® ^ nostri maiolicari sceglievano un impasto fortemente marnoso, rna già dire che la ragione più importante era imposta dalla necessita ^ nere un corpo sul quale potesse essere applicato uno smalto i P assai notevole. . je Dall’esame dei bistugi abbiamo potuto rilevare che le misur forme corrispondevano in molti casi a quelle dei prodotti finiti o a degli scarti di produzione. Questi ultimi erano rappresentati, nei ^ reperti, da frammenti di piatti nei quali si erano prodotte c0^tUTe smalto o formazioni bollose più o meno numerose della superficie, J questi determinati verosimilmente da una troppo rapida cottura o insufficiente asciugatura del pezzo prima del secondo fuoco; in a tri menti si poteva osservare un raggrinzimento dello smalto con consegu ^ formazione di una superficie zigrinata, rugosa, od a buccia d arancia, in altri ancora si vedeva il colore di fondo fortemente alterato da una ten denza all’annerimento o dalla comparsa di numerosissime macchiette ner disseminate; queste alterazioni della superficie e del colore sono probabi -mente da ascrivere ad una cottura troppo prolungata oppure ad una tem peratura eccessiva; le incollature di due o più pezzi, infine, che costituiscono l’esempio più comune di scarto di fornace, erano presenti anche nei nostri reperti e le riteniamo determinate da uno scorretto infornamento dei pezzi. Per concludere in qualche modo questa comunicazione non proprio esauriente ed ordinata, e per la quale ci scusiamo quindi con tutti i paf" tecipanti adducendo a nostra giustificazione che non avrebbe potuto essere — 218 - dio er j™6™1 dato 11 poco tempo intercorso tra i ritrovamenti e lo stu- j ]j C Iam° va^a la Pena di sottolineare soprattutto l’acquisizione seneri ^ a produzione di determinate forme e sull’uso di determinati ninmr» C01'atIJ> da parte dei centri ceramici liguri cinquecenteschi. Dispo- fr . ^Um 1 na^mente di un discreto numero di elementi sicuri di confronto per la maiolica ligure del XVI secolo. element ^ SemPre accac^e quando la ricerca pone in evidenza qualche nuovo quanto °' — S* pon8ono> come abbiamo visto, sono almeno tanti Diesait' qUe 1 SÌ risolvono e c?- auguriamo tuttavia che proprio le per-possano suscitare nuove ricerche e sempre più importanti. - 219 — Tav. XI - (grandezza = 1/3 del naturale). Forme dei piatti del secolo XVI, ricavate dallo studio dei reperti di sicura produzione ligure. Il « calligrafico » a volute tipo A » compare nella forma 8; il « calligrafico a volute tipo B » compare nelle forme 2, 7, 8, 10; la « monocromia azzurra naturalistica » com pare nelle forme 2, 8, 10; il « calligrafico a volute tipo C » compare nelle forme e 10; il calligrafico a rabesche » compare nelle forme 2, 3, 4, 5, 7, 10; la decorazione « a paesi » compare nelle forme 1, 2, 9; quella «a foglie» compare nelle forme 5 e 6; quella « a quartieri » compare nelle forme 3 e 11. — 220 — GIOVANNI PESCE I VASI DA FARMACIA DEL SECOLO XVI NEI REPERTI DI SCAVO DI GENOVA E SAVONA Scopo della presente comunicazione è quello di portare un contributo alle scarse notizie sulla produzione ceramica ligure da farmacia nel secolo XVI. Come è noto, e la più recente dimostrazione si è avuta con la Mostra della ceramica a Villa Faraggiana nell’estate nel 1968, ben pochi esemplari di questa produzione sono giunti intatti fino a noi, mentre le notizie sull’attività delle fornaci liguri nel secolo XVI appaiono piuttosto consistenti e nuove recenti testimonianze archivistiche si aggiungono a quelle che già si conoscevano. Dalla lettura del Piccolpasso 1 balza evidente l’importanza delle ceramiche liguri e segnatamente di quelle genovesi: queste ultime, considerate isolatamente, o comprese con quelle di Venezia, vengono infatti citate per la finezza della decorazione e per il prezzo di mercato. Notizie archivistiche più recenti provengono dalla Sicilia e sono riferite dal Ragona in uno studio che appare assai interessante2. Sostanzialmente la ricerca archivistica estesa a vari centri siciliani ha messo in evidenza la attiva partecipazione degli artefici liguri trapiantati in quell’isola con la tecnica di fabbricazione congiunta all’uso dei motivi ornamentali di tipica esecuzione ligure. Dallo spoglio dei documenti siciliani si deduce che il trasferimento di artefici liguri in Sicilia e soprattutto a Caltagirone era giustificato da un precedente largo commercio di maioliche di Genova, Savona ed Albisola nei porti del Medi-terraneo e dell’Egeo ove erano maggiormente richiesti. Di fronte a notizie simili, riferite ad una nutrita produzione ceramica ligure che nel secolo XVI aveva avuto diramazioni anche lontane, si possedevano finora ben scarse testimonianze dirette, perchè come già detto i pezzi superstiti sono in verità pochissimi. Merita quindi la massima considerazione un’attenta indagine sul materiale ricuperato negli scavi dei depositi e delle fornaci in alcune zone di Genova e di Savona, risalenti a quell’epoca. 1 C. Piccolpasso, I tre libri dell’arte del vasaio, Pesaro, 1879. 2 A. Ragona, I vasi di smalto turchino delle officine caltagironesi dei secoli XVI-XVIII. Dodicesima settimana dei Musei, Caltagirone 1969. - 225 - Due elementi di grande interesse sono emersi dalle indagini esperite sul copiosissimo materiale scavato: il primo è configurato nei reperti caratteristici individuati in un gruppo distinto di frammenti: impasto, vernice, vetrina, uso di colori e tipo di decorazione dimostrano che già nel Cinquecento le fornaci liguri fabbricavano ceramiche dalla impronta tipica: soprattutto evidente l’impiego della decorazione calligrafie3 la quale, se è comune ad altri centri di produzione, è tuttavia particolarmente caratteristica in Liguria (figura 7). Il secondo elemento, e questa ritengo sia la scoperta più importante, è caratterizzato da un gruppo di frammenti che presentano solo alcuni elementi comuni ai precedenti, specie per l’impiego della materia prima, mentre se ne distaccano completamente per la decorazione e per 1 uso delle vernici. Questi frammenti in sostanza sono molto lontani dalle caratteristiche singolari proprie del tipo ligure e forse non si avrebbero dubbi nell’assegnarli alla produzione importata se non fossero stati ntro vati negli scarti di lavorazione e di cottura. Nei due gruppi considerati non difettano i vasi da farmacia ed alcuni di essi rappresentano l’eccezione, sia per la forma non comune, sia per 1 tipo della decorazione che è completamente estranea ai motivi liguri. Ritengo utile descrivere qualche esemplare ricostruibile dai frammenti emersi negli scavi. Per via S. Vincenzo le notizie relative ai ritrovamenti sono riferite nelle comunicazioni Mannoni e Farris; per Savona, ne a comunicazione Cameirana. Dal frammento di cui al n. 7 dell’illustrazione è possibile attribuire al vaso la forma ad albarello cilindrico, del tipo biconico, con restringi mento superiore in corrispondenza del collo ed a bordo espanso in estro flessione, onde consentire la protezione del contenuto a mezzo di foglio di pergamena assicurato con cordicella. Terra di impasto giallastro (marna calcare), abbondante strato di vernice stanmfera azzurrognola a decorazione in monocromia blu di tipo calligrafico con scarsi motivi vegetali: l’orlo non è verniciato nè tanto meno è ricoperto di vetrina, inoltre sulla superficie esterna del frammento è visibile una falla della vernice di copertura. Queste due imperfezioni fanno pensare che il frammento provenga da uno scarto di fornace. Il vaso per forma e decorazione si scosta notevolmente dalla produzione tradizionale. Tanto più raro inoltre questo albarello per la snellezza della forma e per il colore usato anche nella sfumatura azzurrognola del fondo. Il tipo ora descritto, con lievi variazioni degli elementi decorativi ed in — 226 — campioni di diverso spessore è rappresentato da una dozzina di frammenti per altrettanti vasi (figure 2 e 4). Il boccale rappresenta il secondo tipo di vaso da farmacia finora rinvenuto negli scavi: la forma è tipicamente cinquecentesca, pur risentendo ancora della tipologia del secolo precedente. Sono stati rinvenuti diversi frammenti appartenenti ad altrettanti vasi; su alcuni si notano frammenti di iscrizioni che non è stato possibile interpretare perchè mutile. I caratteri usati appartengono alla scrittura capitale maiuscola e l’iscrizione appare chiaramente in lingua italiana. Dai campioni a disposizione si è in dubbio se si tratti veramente di boccali, o molto più verosimilmente di brocche. Comunque nell’un caso o nell’altro si nota una forma piuttosto tozza a ventre espanso. La decorazione è a tinta blu con elementi calligrafici schizzati con agilità, senza eccessiva precisione. Gli elementi decorativi si arrestano in un ampio cartiglio che è riquadrato con tinta gialla. Alcuni esemplari (almeno quattro) comportano la decorazione a penne di pavone. La vetrina e l’impasto terroso sono tipicamente liguri, la decorazione tuttavia si discosta da quella tradizionale (figura 3). Frammisti ai campioni fin qui descritti, provenienti da Genova (scavi di via S. Vincenzo) e da Savona, si rinvennero frammenti di ceramica alle prime fasi di lavorazione. Alcuni di essi sono alla prima cottura, altri risultano biscotti e pertanto non hanno alcuna decorazione; tra essi frequenti i frammenti con presenza di vernice stannifera (figure 5, 6). Tutti gli esemplari appartengono ad albarelli. Il ritrovamento di questi frammenti appartenenti a vasi non finiti è del massimo interesse perchè conferma ancora una volta la produzione di ceramica cinquecentesca da farmacia in Liguria. Il reperto di un frammento di albarello rivestito di un sottile strato di vernice stannifera, e realizzato con l’impiego di terra rossa, compatta e durissima, fa sorgere l’ipotesi che le fornaci liguri acquistassero da altri centri i prodotti di prima lavorazione e procedessero alla decorazione ed alla rifinitura con apposizione della vetrina a fuoco. L’ipotesi è suggestiva e trova giustificazione nella convenienza di realizzare un’artistica decorazione con ceramiche più compatte e più resistenti di quelle di produzione locale. In relazione al materiale descritto si può concludere affermando che le officine operanti in Liguria nel secolo XVI furono molto attive e produssero ceramica squisitamente qualificata. Per quanto ha attinenza con la presente comunicazione si osserva che nei reperti di scavo abbonda lo - 227 - stovigliame individuabile di una copiosa varietà di piatti a tazze, mentre scarseggia il vasellame, con particolare riferimento a quello da farmacia. La proporzione si capovolgerà molto più tardi, in pieno secolo XVIII, allorché le nostre fornaci, e tra esse specialmente quelle di Albisola, acquisteranno una qualificata importanza a livello internazionale nella fornitura di splendido vasellame da farmacia. L’importanza dei reperti di scavo ricuperati a Genova ed a Savona e comunque pienamente riconosciuta e ciò non tanto per la neon erma a esistenza di una attività tradizionale già fiorente nel secolo XVI, quanto per il rinvenimento di forme e di motivi di decorazione sconosciuti per noi e finora non attribuibili alle nostre fornaci, e che ora risultano sicu mente prodotti a Genova, a Savona e forse anche ad Albisola. Con il prezioso sussidio di questi elementi, e di fronte a a n tipologia acquisita, si rende ora necessaria una metodica opera di di quella parte della ceramica cinquecentesca vagamente assegnata cine operanti in paesi lontani (Veneto, Piemonte, ecc.), ai fini 1 una possibile attribuzione alla Liguria. LIVIO PANELLI PIASTRELLE DEL SECOLO XVI DI FABBRICAZIONE GENOVESE Tav. I - Laggioni provenienti dallo scavo di Via S. Vincenzo. 1) Bianco e azzurro con stemma di Innocenzo Vili, secolo XV. 2) Scarti di produzione locale: disegno in azzurro con riempimento in verde e giallo di tonalità diverse, secolo XVI. 3) Scarti di produzione locale: prove di colori verde-azzurri. 4) Retro degli stessi laggioni della figura 3. Tav. II - Laggioni provenienti dallo scavo di Via S. Vincenzo: 1) Policromi dipinti, dai rifiuti di città del secolo XVI. 2) Policromi a « cuenca », dai rifiuti di città del secolo XVI. 3) Scarti di fornace con colori anomali. Durante gli scavi condotti nel 1968 nella zona degli Orti Sauli in Genova, sono stati repertati, oltre a ceramiche sicuramente prodotte nella fornace fortunatamente individuata, anche alcuni frammenti di piastrelle assai diversi tra loro per impasto, decorazione, dimensioni, forma, cromatismo, che, se hanno avuto il torto di porre come sempre succede, più interrogativi di quanti non ne abbiano risolti, hanno però avuto un indubbio, grande merito: quello di consentire di stabilire, finalmente con sicurezza, che a Genova nel XV e nel XVI secolo si fabbricavano piastrelle. È questo 1 unico motivo per cui riteniamo giustificato questo brevissimo intervento sull’argomento. È ampiamente nota la fabbricazione di piastrelle in Liguria fin dal XIII secolo; su tale dato si era sempre basata la supposizione che anche a Genova i laggioni venissero prodotti, ma mai se ne era potuta avere quella certezza che hanno invece consentito i reperti di scavo dello scorso anno. La scarsità del materiale ritrovato non permette certo considerazioni approfondite sulle tecniche impiegate e, tanto meno, l’estrema varietà dei frammenti consentirebbe un sia pur vago tentativo di classificazione tipologica. Mi limiterò quindi a sottolineare la curiosità di alcuni pezzi rilevandone i pochi dati desumibili. Se gli scarti di fornace, i bistugi e le piastrelle con le prove di colore rinvenuti negli scavi appartengono senza alcun dubbio al XVI secolo, alla fine del secolo precedente od al primo quarto del XVI secolo vanno invece attribuiti sia i laggioni a rilievo ottenuti con la tecnica a « cuenca », sia i frammenti di alcune piastrelle dipinte. Non ritengo opportuno soffermarmi a lungo sui laggioni a rilievo identici a quelli ritrovati negli scavi del 1967 e che erano stati oggetto di una breve nota al congresso di Albisola dello scorso anno; si tratta di piastrelle fabbricate con argilla facilmente reperibile, a quei tempi, nelle vicinanze di Genova, a decorazione policroma, dal disegno che ricorda molto da vicino quello degli « azulejos » spagnoli con il trilobo, che potrebbero essere anche di importazione diretta dalla Spagna con cui Genova aveva allora frequenti contatti e scambi commerciali, ma che più probabilmente sono di fabbricazione genovese ad imitazione del tipo spagnolo. È lògico * * infatti pensare che agli inizi del XV secolo marinai genovesi a portato i primi « azulejos » fabbricati a Manisses ed a Va encia, anche probabile che questi siano stati rapidamente imitati ai « m ^ liguri; ora, dato che le serie di discariche in cui sono^ s*-atj trov .. ,. databili per i primi decenni del XVI secolo, è forse più aci e ri e fabbricazione locale, tanto più che sappiamo ormai che in un p poco successivo i maiolicari liguri avevano raggiunto una ta e p di lavoro da essere in grado di esportare i loro prodotti ceramic stessa Spagna dove venivano usati per la decorazione di *nte^e .. r Alla fine del XV secolo è invece sicuramente attribuibile ü ^ mento di piastrella con stemma papale. Si tratta infatti e o^ ^ 1498 Giovanni Battista Cibo, elevato al soglio pontificio il 29 aD mente con il nome di Innocenzo Vili, e morto il 25 luglio 1492. st jQCj0 improbabile che la piastrella con il suo stemma sia stata fatta in u diverso da quello del suo Pontificato: ecco il motivo per cui a ^ tratta va fatta entro gli otto anni in cui resse la cattedra di San di un Papa proveniente da una famiglia genovese che è presumi voluto che le piastrelle con il suo stemma fossero fabbricate ne ^ _ della sua città; tale fatto era consuetudine tra i papi della amig che, originari di Gandia in Spagna, si fecero sempre fabbricare P con il loro stemma dai maiolicari di Manisses. _ ^ jjgUr£ La piastrella in oggetto ha dimensioni consuete alle pias ^ del XIV e XV secolo; l’impasto argillo-scistoso è abbastanza comu^ ^ le fornaci liguri; è ricoperta da uno smalto bianco sul qua e e ^ ^ dalla gnato lo stemma dei Cibo sormontato dalle chiavi di San tiara papale e appare chiaramente il numero romano VII o stemma è a « bucranio », a cranio di bue o cavallo cioè, in rn ^ azzurra con banda trasversale da sinistra a destra, a << scac<" C Gros- Evidentemente e con una certa frequenza i maestri « e ^ j. va sa » ligure venivano incaricati di confezionare piastrelle per 1 P > ricordato infatti che a Savona furono ordinati 40.000 laggioni pe Sisto IV. . ,1 a Contemporaneo o forse anche precedente, il frammento di piastrel disegno grossolanamente geometrico, con decorazioni a strisce longitudinalmente a metà, bianche ed azzurre, intersecantesi tra oro angolo retto e delimitanti piccoli quadratini riempiti da un più pie disegno geometrico in giallo. Già cinquecentesco, e probabilmente della metà del 500, un ram — 234 — * â mento di piastrella dipinta, policroma, a disegno geometrico che ricalca perfettamente il disegno degli « azulejos » ottenuti con la più antica tecnica a « cuerda seca ». Pure approssimativamente databili alla metà del XVI secolo i frammenti dipinti, policromi, con disegno a fiori e con motivi che ricordano a volte quelli faentini e pesaresi. Faentino di ispirazione, e forse anche di esecuzione, il bellissimo rammento con decorazione policroma in rame, manganese, cobalto, antimonio e disegno a « pavona » ricoperto da uno spesso smalto; disegno e spessore dello smalto che ci lasciano molto perplessi sull’attribuzione. Ma le piastrelle più significative, ai fini della nostra ricerca, sono quelle ritrovate dal dott. Mannoni e dal signor Menozzi e che sono rappresentate dagli scarti di fornace e dalle prove di colore. Disposte direttamente sulla terra ed accostate l’una all’altra quasi a formare un pavimento, queste piastrelle presentano al centro una unica pennellata di colore grigio-verde, tracciata con assoluta mancanza; molte di loro sono numerate. La leggera diversità cromatica del colore impiegato e la assoluta mancanza di ogni accenno a disegno e la numerazione progressiva fanno chiaramente indovinare che si tratta di prove di colore effettuate tutte in un unico tempo e destinate a consentire di individuare, dopo la seconda cottura, il colore desiderato dal decoratore. Queste prove di colore, questi bistugi di scarto, gli scarti di fornace effettuati dopo la seconda cottura indicano in modo inoppugnabile che ci si trova di fronte ad una fornace attiva nel XVI secolo. Ed il far presente, al termine di una fortunata campagna di scavi, che anche i laggioni, oltre alla ceramica più fine ed a quella popolare, documentano con sicurezza la presenza di una fornace a Genova fino ad ora soltanto supposta, era quanto si proponeva questa breve comunicazione. — 235 — ARRIGO CAMEIRANA CONTRIBUTO PER UNA TOPOGRAFIA DELLE ANTICHE FORNACI CERAMICHE SAVONESI Da diversi anni cerco di seguire gli scavi che si susseguono a Savona, per 1 insediamento di nuovi fabbricati, fognature e linee elettriche sotterranee, onde poter reperire materiale ceramico, che con una certa frequenza compare nei lavori in corso. Limiterò questa mia comunicazione ad illustrare il materiale di sicura provenienza da discariche di antiche officine ceramiche savonesi, tralasciando tutto il materiale, sia pur notevole, di cui non sono riuscito a provare la provenienza. Perciò ho rinunciato ad inserirlo in questa comunicazione. Prima di passare ad illustrare il materiale, penso sia utile fare qualche premessa di ordine geologico e topografico. La valle del Letimbro, scavata in un sistema roccioso, in cui predominano rocce cristalline e scisti ardesiaci carboniferi, fu occupata nella parte terminale, durante il periodo pliocenico, dal mare, che depositò quei sedimenti che costituiscono le marne, o tufi in espressione locale. Durante il quaternario, il torrente incise in tale formazione l’ultima parte del suo alveo, depositando in luogo del materiale asportato, argille, sabbia, ghiaia e ciottoli. Dunque quattro sono le formazioni che compongono la regione: rocce cristalline, in gran parte gnessiche con scisti, marne plioceniche, alluvione e sabbie marine. Dalla planimetria (tav. I), si nota che le marne plioceniche collegano 1 ultima propaggine collinosa del Monticello, con il promontorio a strapiombo sul mare del Priamar. A ovest della piana alluvionale compare la potente formazione marnosa compatta, che occupa tutto il territorio delle Fornaci e la parte meridionale di Legino e Zinola, che diedero per tanti anni il materiale occorrente alle numerose fabbriche di laterizi. Nella zona alluvionale compaiono notevoli lenti argillose, che non sono marne plioceniche in sito, ma provengono in parte dal trasporto del torrente e in parte dal dilavamento delle stesse marne plioceniche. Una di queste lenti è ubicata attorno all’antico stagno che il Letimbro formava prima di immettersi in mare. Durante i lavori di ricerca della falda acquifera nel 1917, una terebrazione ha individuato in via XX Settembre, in piena zona alluvionale, una falda di argilla della profondità di 22 metri. La sacca alluvionale si può considerare come una immensa spugna che immagazzina le acque sotter- — 239 — ranee. Lungo le vecchie mura, che lambivano in piccola porzione la zona alluvionale, esistevano i pozzi freatici, cui attingeva la maggioranza della popolazione. Si può dedurre che la falda freatica segua il corso dell antico beudo, cioè del principale corso d’acqua tra i vari esistenti nella piana alluvionale prima dell’arginatura del Letimbro, avvenuta attorno al 1550. Il libero comune savonese nasce alla fine del XII secolo, dallo storico antagonismo tra Chiesa e Impero, localmente riflesso tra Marchesi e Vescovi. Purtroppo l’andamento della cinta muraria dell’epoca (la prima) non è sufficientemente documentata: probabilmente saldava in un unico corpo il promontorio del Priamar con il colle del Monticello, fiancheggian o a via Fossavaria (oggi Via Pia). Il notevole sviluppo delle attività mercantili del XIII secolo contribuisce all’ampliamento dell’area portuale e a o sviluppo nella zona pianeggiante del tessuto urbano cittadino. Questo svi luppo ha determinato la costruzione della seconda cinta muraria, ubicata al limite tra la zona alluvionale e la formazione marnosa e rocciosa. Nei secoli XIV-XV il centro savonese assume le caratteristiche topografiche rimaste inalterate sino al 1870. La terza cinta muraria (documentata) segue a ponente il corso principale del Letimbro, creando un fossato a carattere difensivo chiamato beudo. L’antica via Fossavana, in quest epoca diventa il collettore unico da cui si diramano tutte le strade sia verso la darsena, che verso i borghi posti al difuori della cinta murar,» clttadma. La piana alluvionale, in parte risanata a vantaggio dell’economia agricola locale, ha insediamenti di ville e case contadine. Il mecenatismo Roverasco dei secoli XV e XVI, pur non variando 1 intelaiatura topografica della città, ne muta il volto con la costruzione di grandiosi palazzi. Purtroppo le note vicende che portarono all occupazione genovese (1528) e le conseguenti demolizioni recarono un completo immobilismo del tessuto cittadino, durato, come ho già accennato, fino al 1870, con qualche eccezione per i borghi posti fuori della cinta muraria. Ho voluto soffermarmi, sia pure brevemente, su qualche- osservazione di ordine geologico e topografico della città per cercare di trarre qualche considerazione sull’insediamento degli antichi ceramisti e vedere quali potevano essere le scelte per tali ubicazioni. Dalla planimetria si possono individuare le quattro discariche che sono riuscito a localizzare. 1) E’ stata scoperta negli anni 1965-66 durante i lavori di costruzione del fabbricato oggi esistente in piazza Diaz affiancato al teatro Chiabrera. — 240 — Tav. Ili Piattino a decorazione calligrafica datato 1568 Tav. X Decorazione a foglie e raggiere SAVONA SAVONA 2) Durante i lavori nel 1967 per la sistemazione a giardini dell’ex area Servettaz, precisamente nella strada esistente tra i vecchi ed i nuovi giardini. 3) Nel 1968 durante i lavori in via Tardy Benek negli scavi di fondazione della Chiesa S. Paolo. 4) Alla fine del 1968, ultima in ordine di rinvenimento, in corso Italia, di fronte al palazzo Dellepiane, durante i lavori di scavo di una fognatura. Presunto che non molto lontano dalle discariche dovevano esistere le fornaci, possiamo vedere le componenti di tali scelte. Gli statuti comunali medioevali, redatti intorno al 1345, vietano in modo assoluto di co struire o restaurare fornaci nel perimetro della cinta muraria; tale norma, ancora confermata dagli Statuti Corporativi del 1577, era dettata da ordine di sicurezza contro gli incendi. Dalla planimetria si nota che le discariche (attive in base al materiale rinvenuto dal XIV alla fine del XVIII secolo) sono tutte ubicate al di fuori della cinta muraria quattrocentesca. Abbiamo visto, parlando della situazione geologica, ricchezza di marne e argille, facilmente estraibili dalla posizione in cui erano ubicate le discariche. Tale ubicazione, naturalmente, era pure in relazione al problema idrologico. Lungo il tragitto dell’antico alveo del Letimbro vi era la possibilità di avere acqua. Tale capacità è rimasta intatta anche dopo il trasferimento del Letimbro, visto che in tale zona erano ubicati i pozzi freatici. Naturalmente tali considerazioni sono valide pure per la discarica alla quale ho assegnato il n. 3 (Chiesa S. Paolo). Sempre sull’insediamento delle fornaci si può trarre qualche considerazione dagli statuti della corporazione. Nelle norme statutarie troviamo l’obbligo per gli iscritti, con pene pecuniarie per gli inadempienti, a partecipare alla messa del 18 giugno, ricorrenza delle festività di S. Antonio, Patrono della Corporazione. Gli statuti del 1577 indicano come chiesa per la funzione S. Maria di Consolazione posta a breve distanza dalla discarica n. 3 (S. Paolo). La riedizione statutaria del 1613, che sancisce la separazione dell’arte sottile dei pignattari dai maoneri, indica la Chiesa di S. Giovanni demolita nel 1965 molto vicina alla attuale piazza Diaz (Dis. n. 1). Molto probabilmente la scelta del 1577 fu determinata dalla prevalenza numerica dei fabbricanti di laterizi del Borgo Fornaci, che avevano come chiesa più vicina S. Maria di Consolazione. Con la separazione del 1613, i ceramisti optarono per la Chiesa di S. Giovanni, vicina ai posti di lavoro e naturalmente di residenza. Nella Chiesa di S. Giovanni sono state battezzate di- — 241 — verse generazioni di ceramisti savonesi: ricorderò Bartolomeo Guidobono e Giacomo Boselli. Possiamo concludere, quindi, che la scelta dell’ubicazione era in funzione di considerazioni topografiche (al di fuori della cinta muraria), geologiche (per facilità di ammanimento delle materie prime) e idrologiche (per l’acqua indispensabile all’attività del vasaio). N. 1 - Piazza Diaz (Borgo Superiore). In questa località, denominata pure S. Giovanni, dall’omonima chiesa, avevamo già notizie di installazione di manifatture ceramiche per merito del cronista Verzellino. Tommaso Torteroli, nel suo Ragionamento storico intorno alla Maiolica Savonese, del 1856, scrive « Essendosi poi murato di fresco il moderno teatro nel sito che si chiamava Pratino, nelle scavature che si son fatte profondissime al tutto per ciò che riguarda la parte anteriore, si son trovati nel tufo moltissimi pezzi di vasellame inverniciati e senza vernice, che mostra come da molti secoli fossero ivi delle fabbriche di ogni ragione di stoviglie e assai ci rincresce di non aver in quell’occasione tenuto di essi più conto di quel che abbiamo fatto ». Il Noberasco, riprendendo il Torteroli nel suo studio sulla Ceramica Savonese, del 1925, scrive di notevoli quantità di frammenti ceramici, rinvenuti nel 1852, quando si gettarono le fondamenta del Teatro Chiabrera. Purtroppo di questo materiale ricuperato dal Torteroli non si hanno altre notizie; probabilmente è andato disperso. A una quota variabile tra i m. 1 e 2 sono venuti alla luce, durante gli scavi, grandi quantità di scarti di fornace alla prima cottura (frammenti di piatti, scodelloni, prodotti della combustione, zampe di gallo, piccoli coni di appoggio). Intercalato a questo materiale, pezzi invetriati, in minore quantità rispetto ai primi. Dal modo come sono stati condotti gli scavi, è stato impossibile tentare una stratigrafia. Dal materiale ricuperato valuto l’attività della discarica dalla seconda metà del XV alla fine del XVII. Probabilmente un certo sviluppo urbanistico del Borgo ha fatto spostare altrove la discarica. Nell’illustrare il materiale medievale, mi varrò della classificazione del Dott. Mannoni, che lo scorso anno ha presentato in questa sede. E’ il primo studio su basi scientifiche della ceramica medievale ligure; mi auguro che questa mia ricerca possa essere di aiuto al Mannoni ai fini di un completo quadro tipologico della ceramica medievale. - 242 - In ordine di datazione, il primo materiale comparso è il graffito monocromo della seconda metà del XV secolo (tav. II); la decorazione è « graffita a punta » — così la definisce il Mannoni —, i tipi di decorazione, generalmente su scodelle, sono: un motivo a croce dal cui centro dipartono quattro raggi ondulati o quattro virgole in doppia riga; la vetrina è gialla tendente al marrone. Altro disegno sono girali nervosi eseguiti a semplice riga al centro dello scodellone. Contemporaneo del graffito monocromo è il materiale eseguito a stecca, con virgole e vetrina verde e marrone. Diversi pure i frammenti di ceramica marmorizzata. Tutto questo materiale è in terra rossa alquanto depurata, trattata all’ingobbio. E’ probabile che la fabbricazione di questo materiale si sia protratta fino ai primi anni del ’500. Come vedremo, in seguito in altre discariche si è rinvenuto il graffito monocromo che compare con una certa frequenza come materiale d’uso in diverse località del savonese: ricorderò frammenti di piatti rinvenuti a Varigotti, nelle adiacenze del castello di Punta Crena. Il materiale di sicura attribuzione cinquecentesca inizia con il calli-grafico, dipinto in blu su un fondo leggermente azzurrino. Il tipo riprodotto nella tav. Ili è un piattino in cui si nota una minuta decorazione a girali con piccole foglie. Questo reperto è interessante, anche per la data che porta nel rovescio, 1568, che fissa una data precisa del calligrafico in Liguria. In genere tale decorazione è attribuita a ispirazioni della ceramica orientale. I tipi calligrafici rinvenuti a Genova nella discarica di Via S. Vincenzo, pur lasciando intravvedere una matrice di ispirazione comune, non sono dello stesso tipo. Vasi da farmacia con questa decorazione sono nel Museo dell’Ospedale di S. Martino e di Palazzo Rosso a Genova, con attribuzione a manifatture Genovesi e Savonesi. Reputo contemporaneo o appena successivo il tipo rappresentato nella tav. IV, rinvenuto in grandi quantità con decorazione bleu a fogliame, su fondo bianco. Il disegno riempie sia il cavetto che la tesa e termina al centro con una decorazione a griglia. Tale decorazione è stata rinvenuta ed illustrata da Orlando Grosso a Genova nel pozzo del Ponticello e attribuita a manifattura genovesepesarese. Penso che il materiale a decorazione policroma (tav. V), con influenze delle manifatture dell’Italia Centrale, si possa collocare alla fine del ’500; mi auguro che qualche intervento possa togliermi i dubbi al riguardo. Il policromo, è stato molto usato a Savona nella seconda metà del ’500. per la decorazione dei laggioni. Il materiale secentesco rinvenuto (tav. VI), frammenti di piatti e vasi, - 243 - ci porta nel periodo di maggiore splendore della ceramica savonese. Siamo nella seconda metà del secolo, che coincide con l’attività ceramica a Savona di Giovanni Antonio Guidobono. Le marche rinvenute appartengono tutte alla metà del Seicento: stemma di Savona - marca lanterna e chiodo - stemma di Savona - stemma di Savona e chiodo. Per quest ultima marca (tav. VII), anche per la decorazione, che rappresenta un satiro, si potrebbe parlare di Giovanni Antonio Guidobono. Purtroppo in questo campo le suggestioni sono sempre presenti. N. 2 - Prolungamento a mare (ex area servettaz). Durante i lavori per la sistemazione a giardini dell’ex area Servettaz, uno scavo, precisamente nella strada ubicata tra i nuovi ed i vecchi giardini, arrivato alla profondità di circa m. 2, ha messo in evidenza una profonda giacitura di scarti di fornace. Lo scavo aveva una lunghezza di circa m. 10 e una lunghezza di m. 1.50. A circa 20 centimetri dal piano strada affiorava materiale in terra bianca non invetriato, tra il quale ho notato frammenti di pipe, probabilmente dei primi anni dell’Ottocento. A breve distanza un altro scavo ha messo in evidenza materiale di terraglia con disegni in decalcomania, probabilmente scarti di fornace della manifattura ottocentesca dei Folco, che era ubicata a breve distanza dalla zona presa in esame. Il primo materiale, certamente settecentesco, è a carattere popolare, in terra rossa trattato in marrone scuro al manganese con pennellate tracciate liberamente in nero sul piatto. Due fondelli ricuperati portano, il primo, dipinta in nero, una marca, probabilmente di proprietà SPTN, il secondo invece la marca è graffia G.N. Grandi quantità di materiale d’uso identico a questo sono state ricuperate negli scavi di Genova, nella collina del Castello. Sempre settecentesche, ma di ben altra raffinatezza, sono decorazioni del Levantino, contornate dallo spugnato manganese, in parte marcate con la lanterna, in parte con il globo crucigero, con le lettere A L. Siamo probabilmente di fronte ad Angelo o Andrea Levantino, con la lanterna alle dipendenze dei Chiodo, con il globo crucigero come ceramista indipendente. Scodelle, invetriate bianche in terra giallognola, portano la data 1742 al centro, altre la lettera M. sull’esterno della scodella e un fondello la lettera S. Un piattino con al centro una decorazione a mazzetto di fiori è marcato M. N. (tav. VIII). Presente pure la marca lanterna con decorazioni tipo Moustier (tav. IX). — 244 — L’interrogativo che ci pone la discarica è costituito dal rinvenimento della marca Stella a cinque punte accompagnate dalla lettera S. e da una specie di lettera L sotto la stella. Generalmente tale marca è attribuita ai Siccardi di Albisola; il disegno, purtroppo solo qualche frammento, lascia intravvedere una decorazione in stile Levantino. Il Labò, nel suo studio sulla Ceramica Savonese del 1923, attribuisce tale marca ai Salomone, ma aggiunge: « le marche sono materia da trattare con molta cautela ». Però una cosa mi sembra sicura, la marca S con Stella e la S da sola, certamente è stata usata da manifatture attive a Savona nella seconda metà del Settecento. Purtroppo lo scavo è stato aperto per breve tempo e non mi ha consentito una maggiore ricerca di frammenti invetriati. Il materiale a biscotto era invece in quantità veramente notevole, frammisto a prodotti della combustione, e appoggi di cottura. La sacca di scarti di fornace, continuava oltre il piano scavato, e ciò non ci consente di stabilire il periodo esatto di attività della discarica. N. 3 - Via Tardy Benech (Chiesa S. Paolo). Durante i lavori iniziati nel 1968 per la costruzione della nuova chiesa S. Paolo in Via Tardy Benech è venuta alla luce, a ima quota variabile dal piano di campagna, da m. 0,20 a m. 2 circa, una discarica di materiale ceramico, attribuibile alla seconda metà del ’500. La discarica era posta al limite tra la zona alluvionale e la formazione marnosa; perciò sono valide tutte le considerazioni di ordine geologico sulle discariche poste al limite della cinta muraria. Il materiale era disposto nella coltre di argilla e disperso per tutta l’area della Chiesa in costruzione fino alla quota di m. 2,00 dal piano di campagna, dove compariva il materasso alluvionale e cessavano i frammenti ceramici. Il materiale rinvenuto è costituito, frammisto a materiale a prima cottura, da frammenti di piatti, dipinti in turchino su un fondo azzurro intenso chiamato berettino. Come si vede dalle taw. X - XI, l’elemento decorativo è prevalentemente a foglie, raggiere, quartieri e minute foglioline sulle tese dei piatti, che in qualche caso hanno tocchi di giallo. L’impasto è in terra tendente al giallognolo, e facilmente si incide con l’unghia. L’impianto pittorico diparte in genere da un nucleo posto al centro del piatto, da cui si sviluppa il fogliame. La fabbricazione di questa decorazione era sconosciuta a Savona, men- - 245 - tre per Albisola è stata rinvenuta dal pittore Gambetta, ed illustrata dal Barile in Antiche ceramiche liguri. Il Prof. Farris, che ha rinvenuto tali decorazioni a Genova come materiale d’uso, negli scavi della Collina del Castello, ha ravvisato in queste decorazioni i tipi illustrati dal Picolpasso, come fabbricati a Genova e Venezia. Altre decorazioni (tav. XII), sempre su piatti, sono costituite da tralci e da fogliame che riempiono sia la tesa che il cavetto del piatto, sempre decorati in azzurro ma su fondo bianco. Tali decorazioni su un fondo leggermente azzurrino sono state rinvenute alla discarica n. 1 (Piazza Diaz), insieme alle foglioline delle tese, però in un tratto calligrafico, mentre quelle della Chiesa S. Paolo sono più corpose. La distanza fra le due discariche conferma che manifatture attive contemporaneamente avessero elementi decorativi in comune. Queste ultime due decorazioni, su piatti, sono state rinvenute a Genova nel Pozzo del Ponticello, illustrate da O. Grosso, ed attribuite a manifattura genovesepesarese. Un materiale inedito (tav. XIII), rinvenuto in notevoli quantità, è dato da appoggi per cottura eseguiti a stampo in terra rossa, con vistose colature di ramina, manganese e bianchetto di ingobbio. Non nascondoja mia perplessità, se attribuire questo materiale all’epoca di fabbricazione del materiale precedentemente illustrato, oppure a manifatture attive nel ’400. Quasi assente il materiale proveniente dalla cottura su questi appoggi, ad eccezione di un frammento di grande conca ingubbiata trattata in verde ramina su terra rossa. Tutto il materiale rinvenuto era disposto in modo caotico — inutile il tentativo di eseguire una stratigrafia — ed era frammisto a materiale a prima cottura (tav. XIV) zampe di gallo, coni, e frammenti di contenitori in terracotta denominati « cassette », muniti di piccoli chiodi in terracotta estraibili che servivano per l’appoggio dei piatti su diversi piani durante la cottura. Un’altra presenza interessante nella discarica sono i « laggioni », purtroppo con un solo tipo di decorazione, un rosone di carattere rinascimentale. Altre piastrelle di maggiori dimensioni, ma certamente della stessa epoca, sono decorate a fasce bianche e blu; la stessa decorazione ho rinvenuto nel palazzo Pavesi a Savona, famoso per il manto maiolicato con guerrieri romani, acquistato nel secolo scorso dal Marchese d’Azeglio. Ho citato questo fatto, non per attribuire il manto di Palazzo Pavesi alla manifattura attiva nella discarica S. Paolo, ma per dovere di cronaca. Presenti pure i piccoli laggioni monocromi (bruno, verde, celeste), general- - 246 — mente attribuiti a manifatture attive nei secoli XIV - XV; molto probabilmente la sua fabbricazione si è protratta pure nel ’500, contemporaneamente ai laggioni figurati. N. 4 - Corso Italia (Palazzo Dellepiane). Durante i lavori di una fognatura in corso Italia (davanti al Palazzo Dellepiane) è venuta alla luce una sacca di discarica con molto materiale alla prima cottura e invetriato. Premetto che in tutta la zona dell’antico alveo alla foce avevo già rinvenuto materiale ceramico, prevalentemente medievale: probabilmente il beudo era una zona di discarica delle manifatture. Diversi frammenti presentano i contorni arrotondati, dovuti certamente al rotolamento nel corso d’acqua. La sacca aveva una profondità di circa m. 1,50 ed un’estensione di circa m. 5. Tutto lasciava prevedere che continuasse oltre la zona scavata. Vicino alla discarica, sono venute alla luce grosse murature di pietrame e calce, identificate da esperti savonesi nelle fondazioni della cinta muraria. Il materiale rinvenuto è tipico delle discariche di fornaci: prodotti della combustione, appoggi, il tutto frammisto a materiale a prima cottura e invetriato, assente completamente materiale estraneo alle officine ceramiche. L interesse maggiore e costituito dalla prova sicura della fabbricazione a Savona della maiolica arcaica o smaltata bianca come la definisce il Mannoni. I due pezzi rappresentati (tav. XV) hanno un impasto colore rosso poco depurato; l’appoggio di cottura è rimasto attaccato allo scodellone. Lino è privo di decorazione, il secondo è decorato con colori sopra smalto, in manganese e ramina. L’esterno dello scodellone è invetriato in verde grigio, tendente al marrone. La maiolica arcaica è stata fabbricata tra la seconda metà del XIV e l’inizio del XV secolo. Derivato certamente dalla maiolica arcaica, è l’ingubbiato colorato (tav. XVI) attribuito all’inizio del XV secolo. L’impasto è sempre rosso, la vetrina gialla e la decorazione è generalmente costituita da una croce in ramina e raggi in manganese. Esternamente in parte sono invetriati in marrone, altri non presentano invetriatura. Il Mannoni ascrive sempre alla famiglia delle ingubbiate l’invetriato verde presente nella discarica. Presente pure il graffito monocromo, con la stessa decorazione rinvenuta nella discarica (n. 1 Piazza Diaz - tav. II) cioè una croce e raggi ondulati, probabilmente derivata dalla decorazione delle ingubbiate colorate. - 247 - Un pezzo di piatto decorato a croce e raggi graffiti a doppia riga è privo di invetriatura. Altro pezzo con decorazione a palmette (così la definisce il Baroni) ha subito il solo trattamento ad ingobbio. Questo pezzo e tipico della decorazione del graffito policromo, comparso nella discarica in minore quantità rispetto ai tipi già nominati. All inizio avevo premesso che avrei illustrato solamente materiale di sicura provenienza a riche; chiedo scusa e voglio fare un’eccezione proprio per il gra to po 1 cromo attribuito dal Mannoni ai secoli XIV e XV. Nella zona interessata dall’antico alveo in cui ho recuperato molto materiale, compare con quenza il graffito policromo: diversi fattori mi inducono a pensare a fabbricazione savonese (tav. XVII): sia per la sua comparsa, non in gra quantità proprio in questa discarica, mentre nelle precedenti riale venuto alla luce, partiva dal graffito monocromo, successivo p licromo, e perciò è giustificata la sua assenza; sia per i rinvenimenti c tinui a Savona, specialmente lungo il tracciato dell antico beu o, infine, per le scodelle con lo stemma degli Spinola, famiglia di origin g novese emigrata a Savona proprio nel ’400. Certamente la decorazione del graffito policromo manifesta notev ^ somiglianze con il materiale pisano, ma dobbiamo ricordarci che i il secolo, secondo le ricerche negli archivi savonesi del Noberasco, e rivo a Savona di un cospicuo numero di ceramisti pisani. Atti de 1 ci mostrano Bartolomeo Paoli detto Cara e Collo Petri, nel 1430 Ione e il figlio Giovanni, il 1434 Nicola Macchiaiuolo e Assidiato Ione, il 1443 Antonio di Giuliano di Paio, il 1445 Guidone. Son tutti pisani scrive il Noberasco — « e a Savona ghibellina inviavanli una uguale politica e la distretta delle patrie sventure». Se le decorazioni non sciano intravvedere sostanziali differenze tra il materiale eseguito a Pisa e quello fabbricato a Savona, a mio giudizio quest’ultimo facilmente si incide con l’unghia e risulta piuttosto poroso rispetto al pisano. Mi auguro che il Mannoni riesca nei suoi studi a distinguere le argille dell Arno da quelle del Letimbro, per avere una prova scientifica della fabbricazione a Savona del graffito policromo. Il materiale ricuperato ci documenta una attività ceramica a Savona, che dalla seconda metà del ’300 (maiolica arcaica), arriva con una certa continuità fino ai primi anni dell’800. Naturalmente, ai fini di una completa topografica delle fornaci ceramiche savonesi, una ricerca di archivio potrà colmare le inevitabili lacune di questo mio lavoro. — 248 — Tav. II Discarica n. 1 Ceramica graffita a stecca monocroma VI’ 7 i I JTìi Tav. IV .1™». T.. ma “Mi- Tav. V Discarica n. 1 Ceramica a decorazione policroma SAVONA CfofrmrftV Tav. VI Discarica n. 1 Ceramica del 1600 Tav. VII Discarica n. 1 Piattino marcato « stemma di Savona e chiodo » ■ ■ ■ 1 " " O a$ Ctnfimr- ^ £ ^«5* Centimetri^ Z SAVONA | : SAVONA 1 i ■ ■ Tav. Vili Discarica n. 2 Piattino marcato M.N. mS Cenftmrtr/^ Centrmetr/^ SAVONA SAVONA Tav. IX Discarica n. 2 Decorazioni tipo Moustier Tav. XI Discarica n. 3 Decorazioni a quartieri Tav. XII Discarica n. 3 Decorazioni a tralci e fogliame Tav. XIII Discarica n. 3 Appoggi per cottura Tav. XIV Discarica n. 3 Appoggi per cottura r I I I Tav. XV Discarica n. 4 Maiolica arcaica Tav. XVI Discarica n. 4 Ingubbiato colorato TIZIANO MANNONI GLI SCARTI DI FORNACE E LA CAVA DEL XVI SECOLO IN VIA S. VINCENZO A GENOVA DATI GEOLOGICI ED ARCHEOLOGICI ANALISI DI MATERIALI La prima parte della presente comunicazione riguarda l’aspetto archeologico degli scarti di fornace rinvenuti in via S. Vincenzo a Genova, attribuendo al termine « archeologico » il solo significato di metodo, trattandosi di reperti che cronologicamente riguardano il tardo medioevo e l’inizio dell’età moderna. Questa parte del lavoro si è svolta in tre fasi distinte. La prima sul terreno nell autunno 1968, mediante lo scavo stratigrafico là dove è stato possibile, ed il rilevamento pianimetrico ed altimetrico della giacitura dei reperti nonché della natura geologica del suolo. Si deve al pronto intervento della Soprintendenza alle Antichità ed alla collaborazione attiva della sezione genovese dell Istituto di Studi Liguri,, che hanno curato lo scavo, nonché dell Impresa costruttrice e del proprietario dell’area se ci è pervenuto oltre ai reperti un complesso di dati e di informazioni che ci permette lo studio completo dei rinvenimenti secondo i fini programmatici del « Centro Ligure per la Storia della Ceramica ». La seconda fase di lavoro si è svolta in laboratorio mediante la classificazione tipologica per strati di tutto il materiale rinvenuto (prodotto in posto ed importato) con conseguenti cronologie relative e comparate. Infine è stata iniziata la comparazione dei rinvenimenti e dei loro dati topografici con la documentazione scritta dell’epoca, pubblicata e di archivio. Quest’ultima parte del lavoro è certamente molto lunga e non sempre ricca di risultati, ma e ovviamente indispensabile per qualsiasi tipo di ricerca che venga effettuata su materiali appartenenti ad un periodo storico. Si fa notare che 1 aspetto archeologico degli scarti di fornace di via S. Vincenzo è stato studiato in modo indipendente dall’aspetto stili-stico-funzionale dei prodotti e da quello tecnologico inerente ai metodi di produzione, argomenti ampiamente trattati in altre comunicazioni del piesente Convegno, per cui il confronto dei vari risultati e soprattutto delle cronologie ottenute con differenti analisi si pensa debba essere utile. 1 E. Marengo, Carte topografiche e corografiche manoscritte della Liguria e delle immediate adiacenze conservate nell’Archivio di Stato di Genova, Genova 1931; P. Barbieri, Forma Genuae, Genova 1938; T. 0. De Negri, Il mosaico pavimentale di piazza Invrea e la topografia di Genova antica, in « Studi Genuensi » III Genova 1960-61, - 251 - La via S. Vincenzo è sempre stata considerata il più antico asse accesso alla città da levante., come si può vedere nella cartogra g e negli studi urbanistici lo scavo ha confermato con il ritrovarne sede stradale di età romana, tale presupposto. Il borgo di S. i sto fuori mura fino alla metà del secolo XVII, doveva ’ parti- maggior parte dei sobborghi urbani, una intensa vita artigiana ^ rjtrova_ colare l’area degli « orti Sauli », dove sono avvenuti lo scav°2 ^ borgo menti, appartiene, secondo la divisione fatta dal Giustiniani , < jat0 superiore » che nel secolo XVI risulta, secondo lo stesso au prevalentemente da artigiani. } ■ pur. La scarsa ma precisa documentazione citata dal Pess^°a situata tra troppo non ancora rintracciata nei suoi originali, addita a ^ ^ la porta degli Archi e la porta Romana, lungo la quale si sno a a ^ cenzo, quale località divenuta tradizionale per 1 industria ceranlj. terra y Il ritrovamento nella zona dello scavo di una antica cav vagaj nei fatto pensare alla possibilità che la scelta degli insediamene complesso sobborghi orientali non fosse solo dovuta a ragioni dipen enti ^ materja fenomeno dell'artigianato suburbano, ma anche alla vicinan prima fondamentale. da cera- Per impostare meglio il problema della disponibi ita rapida mica e dei suoi vari tipi in Genova, si ritiene necessario desunta premessa di carattere geologico riguardante il sottosuolo ^ e a -jevarnenti sia dalle fonti classiche in materia, sia dalle osservazioni e ^ archeo-effettuati dall’autore negli ultimi quindici anni in occasione logici o di controlli degli sbancamenti di qualunque genere. carnosi a) L’ossatura geolitologica di Genova è costituita dai ca c costjero cretacei che formano, tra il capo della Lanterna e lo Zerbino, ar ^ della tarda era terziaria e riaffiorano nelle attuali colline di aste 2 « Alla porta degli archi si continua il borgo di Bisagno, distinto j. e sottano: il sottano contiene cinquantasette case, che sono tutte della parrò ^ S. Stefano, e per la maggior parte di ortolani: ed è in questo borgo il 1710 .j di S. Maria della pace, abitato dai frati Osservanti di S. Francesco; vi è ezian ^ prato nominato della lana. E nel borgo di sopra sono duecentoquattro case, quali ve ne sono sessanta di cittadini il restante sono di artefici »: A. GlUSTiNi Annali della Repubblica di Genova, Genova 1854, I, p. 77. 3 g. Pessagno, Cenni storici sulla ceramica ligure, in O. Grosso, Le gallesi d’arte del Comune di Genova, Genova 1932. — 252 — E3 CALCARE MARNOSO E22 marna pliocenica □ alluvioni quaternarie li^J ARGILLE DI COPERTURA _, _ __ / 0 500 mt. /6 1 RINVENIMENTI DI VIA J.VINCEN20 2 PORTA DE6LI ARCHI 3 PROBABILE TRACCIATO ANTICO DELL'AURELIA 4 palazzo grimaldi 5 PORTA ROMANA (1656) 6 SEZIONE GEOLOGICA LINEA CM VCTIO - 'AltiAMO x&nzxj. ARO l ue QUATt» AÜ.C.ILIE QUATEiW. A CALCARE MARNOSO CRETACEO MARNE CJ.IGIE PllOCENICME AL!. IMO* Al VEAU ALLUVIONE Alvi Alt FALESIE R.OCC. AREE PI DILAVAMENTO AREE DI DILAVAMENTO A OILAVAHShTO ALTURA ROCCIOSA EVOLUZIONE URDANISTICA RINASCIMENTO MEDIOEVO OPPIDO PREROMANO SEPOLCRETI ETÀ' ROMANA CALCARE M4CN0S0 CRETACEO LIZZILO Dii MARC (»77uALt) Pedologia morfologia QUATERNARIA UVEUO M4SHMO D£ut hAKue Figg. 1-2 - Pianta e sezione geologica di Genova. - 253 - Carignano, sommerse nel predetto periodo. I calcari marnosi si pres in banchi più o meno spessi che possono generare uno scarso terreno g tale, ma sono spesso interstratificati con argille scagliose, le qua 1, im 1 a lungo, possono fornire una terra molto plastica, capace, opportu dimagrata, di essere utilizzata per la produzione di ceramiche comuni b) Nel Pliocene lo spazio esistente tra 1 antico arco costiero e ^ line esterne, che funzionavano da sbarramento sottomarino, è stato c ^ da sedimenti fossiliferi di tipo marnoso. Le marne grigie comp ^ sentano un « cappello » di alterazione di spessore variabile a m r:Lera ad alcuni metri, di colore giallastro, dove il ferro legato ai co o ^ r£ncjpal-idrossidandosi. Essendo questi materiali come è noto costituiti p mente da una fine miscela di minerali argillosi e carbonato i ca^ ’ceramica, essere utilizzati direttamente come materia prima per fa r]Ca ^ casQ a condizione che il carbonato non superi un certo tenore, ne jgjjg diminuisce la tenacità del cotto. In certi casi 1 alta impermea^ £ marne, messa in concomitanza con una opportuna pendenza ^ super-con l’assenza di un intenso manto vegetale, favorisce il di avam ficiale, fenomeno per il quale le acque piovane disciolgono i c ^ calcio producendo perciò la concentrazione di argille resi ua stiche (argille di copertura). del mare c) Durante il quaternario le successive variazioni a terminali hanno prodotto, nei periodi glaciali, l’approfondimento dei tratti ^ £onJ0 degli alvei torrentizi, in modo particolare del Bisagno che ha le marne plioceniche; nei periodi interglaciali, invece, con a ri livello marino, tali alvei sono stati colmati da terreni alluviona 1, g ^ sabbiosi ed argillosi. Questi terreni costituiscono il substrato e bacino occupato oggi dalle piazze Verdi e della Vittoria. Nei c°rsl y ^ come il Rivo Torbido, che passa all’interno della « porta deg i marne il riempimento è esclusivamente di tipo argilloso proveniente a e decalcarizzate. ; ^ Diverse analisi microscopiche condotte dall’autore presso 1 Istitu ^ ^ Mineralogia dell’Università su campioni provenienti da scavi archeo ogi hanno stabilito che, mentre la ceramica locale di età preromana e roman veniva fabbricata con terre di disfacimento degli argilloscisti, quella me dioevale, e quella comune delle età successive, veniva foggiata con argi alluvionale opportunamente dimagrata. Solo con l’introduzione della ma iolica si nota l’utilizzazione delle marne allo stato naturale o decalcarizzate. L’area di via S. Vincenzo interessata dallo sbancamento dell’autunno — 254 — 1968 confina: verso levante con i piani alluvionali del basso Bisagno, occupati nel secolo XVI dagli ortolani del « borgo inferiore »4; verso nord e ponente con l’altura marnosa dell’Acquasola e di S. Stefano, ai piedi della quale si adagia una coltre di argille derivate da marne decalcarizzate e dilavate che si estende fino all’attuale via XX Settembre ed oltre. Il più antico documento citato dal Pessagno riguardante un insediamento di una fabbrica di vasellami « extra portam Erchorum » risale al-1 anno 1443, periodo nel quale sappiamo, come è stato dimostrato in una comunicazione del precedente Convegno, essere in uso a Genova ceramica di tipo medievale, e precisamente « maiolica arcaica », « ingabbiata graf-fita » e « vasellame comune ». Di questa fase della produzione genovese non si sono ancora raccolte prove materiali sicure come sono gli scarti di fornace, ma si può pensare che i vasai del XV secolo e forse anche di periodi anteriori si siano installati nella regione di S. Vincenzo per la vicinanza delle argille alluvionali nonché per la presenza delle abbondanti acque che, secondo il Podestà 5, scendevano dalle sorgenti dell’Acquasola, evitando il critico e prezioso approvvigionamento dell’acquedotto civico6. Una zona della città geologicamente e per topografia suburbana assai simile a quella di S. Vincenzo, anche se meno favorevole, è quella della porta dei Vacca dove, secondo un documento citato dallo Staglieno7, il savonese Nicho da Pisa voleva nel 1465 impiantare una fornace. Sulla base dei dati naturalistici e dei documenti che attestano l’esistenza in loco di una tradizionale industria ceramica si può quindi spiegare 1 insediamento all inizio del secolo XVI dei « da Pesaro » presso la porta degli archi8. Ciò premesso è necessario seguire l’evoluzione degli insediamenti nell’area che ci interessa sulla scorta delle interpretazioni desunte dai dati di scavo, ed effettuare poi i dovuti confronti. L’impianto della via romana discendente dal colle di S. Andrea, pei-correva nella zona degli « orti Sauli » la fascia pedemontana, con una direzione che puntava direttamente ai piedi del monte Peralto ed al borgo Incrociati, posto quest’ultimo nella strettoia della valle propizia all’attraversa- 4 Cfr. nota 2. 5 F. Podestà, La porta di S. Stefano, la Braida e la regione degli Archi, Genova 1894. 6 F. Podestà, L’acquedotto di Genova 1071-1879, Genova 1879. 7 Cfr. nota 3. 8 Cfr. note 3 e 5. - 255 - mento del Bisagno, evitando i piani alluvionali, probabilmente aC£^' per lunghi periodi di tempo. La natura argillosa della falda attravers a ha minacciato con smottamenti l’importante arteria, come m°s stante inclinazione a valle del muro di contenimento e a e n sione, con conseguente abbandono della sede stradale in un p > può datare, attraverso le sepolture e le ceramiche rinvenute, V - VI secolo d.C. reramiche dello Verso la fine del secolo XIII, come dimostrano le ceram defi strato medioevale, la coltre argillosa ha raggiunto un asse ^ s£Cje nitivo con la formazione di un evidente piano di campagna, m jn stradale ha già subito lo spostamento a valle che poi a ^ assesta_ linea di massima nei secoli successivi. Posteriori a tale peno n£jje fosse mento sono: le prime costruzioni datate con i materiali contenu di fondazione, alcuni pozzi profondi da 5 a 7 metri e le tracc _ periodi nel terreno di una scarsa attività agricola, tracce mancanti vjcina romano e medievale a differenza di quanto si è rilevato ^ 1965. area di Pammatone durante gli scavi archeologici ivi con o ^ manten-Le costruzioni sparse e di piccola entità dei secoli f3tto occiden-gono l’orientamento dell’antica strada romana e quindi e tra ^ Sportale della via S. Vincenzo. La deviazione del tratto orienta e sorgerà tante asse stradale verso i piani alluvionali, dove nel seco o Poleggi» la porta Romana, può essere attribuito, come ha suggerito nn sec0lo al documentato rimaneggiamento della zona avvenuto durante ^ XVI in concomitanza col sorgere della villa Grimaldi9. A tale seco 9 Archivio storico del Comune di Genova, Atti dei Padri del orti ^ Filza 22, doc. n. 79, 13 dicembre 1554: Ordini dati dai P-P-G. B. Grimaldi incaricato di ultimare la strada vicino alla sua villa in Bisagn ^ Filza 22, doc. n. 80, 13 dicembre 1554: Ricorso dei P.P. del Comune a notario e Segretario della sede apostolica circa il riscatto di una casa da ' Q su cui gravava un censo e che deve demolirsi per comodo della Strada verso Filza 22, doc. n. 37, 26 giugno 1554: Pratica riguardante la strada di BisaD appresso il monastero di S. Spirito. Filza 22, doc. n. 92, 10 febbraio 1555: Supplica di Domenico Centurione essere reintegrato dei danni sofferti da una casa in occasione della costruzione Strada di Bisagno. Filza 22, doc. n. 100: Ordine agli individui tassati per la strada di Bisagno. Filza 22, doc. n. 218: Scrittura relativa alla erosa o strada di Bisagno dalla casa di G. B. Grimaldi fino alla strada detta di Bisagno. — 256 — Fig. 3 - Pianta dello scavo di Via S. Vincenzo. TIPO SECOLO PROVENIENZA RINVENIMENTO Graffita arcaica xm-xiv Orientale Paleosuolo medievale Maiolica arcaica tipo pisano XIV-XV ? Fondazione medievale, rifiuti Ispano moresca XIV-XV Valenza Fondazione medievale, rifiuti Graffita a punta monocroma XV Savona ? Fondazione medievale. rifiuti Graffita a punta policroma XV-XVI Padana Rifiuti nella cava Graffita a punta lionata XV-XVI Padana Rifiuti nella cava Graffita a stecca monocroma XV-XVI Pisa Rifiuti nella cava Graffita a stecca policroma XV-XVI Pisa Rifiuti nella cava Maiolica « gotico floreale » XV-XVI Italia centrale Rifiuti nella cava Maiolica « alla porcellana » XV-XVI Italia centrale Rifiuti nella cava Maiolica « a case e animali » XV-XVI Italia centrale Rifiuti nella cava Nei rifiuti che riempiono la cava sono inoltre abbondanti le ceramiche comuni: prive di coperte, invetriate, ingubbiate semplici e pentolame. Tabella A: Tipologia della ceramica estranea alla produzione locale rinvenuta nello scavo di Via S. Vincenzo (vedi tavole I, II, III). - 257 - attribuito lo sfruttamento della cava aperta nella falda argillosa, cava che si è estesa in diverse direzioni ed è stata arrestata a ridosso della via romana e delle costruzioni tardo medievali che ne costituiscono un elemento di datazione. Come si è potuto rilevare in alcuni punti, la cava veniva condotta per tagli orizzontali successivi, di uno spessore variabile da metri 0,5 a 0,8, fino alla creazione di pareti verticali alte fino a metri 3. La data di cessazione dello sfruttamento può essere desunta dai manufatti contenuti nei materiali depositati nella cava stessa dopo l’abbandono. Come si può vedere dalle sezioni dello scavo, esistono nella zona eg 1 « orti Sauli » due distinte stratigrafie. La prima, della quale in parte^ si e già parlato, riguarda tutta l’area scavata e presenta, dal basso verso 1 a to, la sede stradale romana, i riempimenti naturali di età medievale, la forma zione del piano di campagna tardo medievale ricoperto da un breve strato dei secoli XVII e XVIII ed infine gli ultimi terrazzamenti degli « orti Sauli ». La seconda stratigrafia riguarda invece il riempimento dei volumi vuoti lasciati dalla cava. Tale riempimento è stato effettuato con discarice di gettito proveniente da demolizioni edilizie mescolato a rifiuti casa mg , alternate a discariche provenienti da fornaci da ceramica. La disposizione degli strati mostra che le discariche sono avvenute versando i materia i bordi della cava con avanzamenti successivi fino alla colmatura del vuoto preesistente. Mentre i gettiti da demolizione presentano lenti di vo urne consistente, gli scarti di fornace costituiscono piccole sacche del vo urne di una carriola o di una gerla, in ciò simili agli scarti coevi rinvenuti a Savona. Il fondo della cava e le varie discariche sono ben distinti, e non interessati da rimescolamenti successivi; inoltre non si notano formazioni livelli a terriccio vegetale tipici di un periodo di abbandono. Ciò fa pensare che tra la sospensione dello sfruttamento ed il completo riempimento e a cava sia trascorso un tempo molto breve, e non è escluso che le discaric siano iniziate quando ancora un lato della cava era attivo. Queste dea -zioni concordano pienamente con l’uniformità cronologica dei manufatti ceramici datanti i vari strati delle discariche. Il piccolo strato del XVII secolo che si estende su tutto il piano di campagna ricopre anche la cava già colmata, perciò l’apertura, la coltivazione, l’abbandono ed il riempimento della cava vanno limitati nel tempo entro il secolo XVI. Scarti di fornace dello stesso tipo sono stati trovati anche sul fondo dei pozzi, che si devono perciò pensare ancora in uso nel secolo anzidetto. — 258 — c > c/} « > > > > > 05 o o o o o o o > f- u 2 w b O c a a c a f-t oj à e fa D ü Q Sabbia silicea 43,4 61,0 41,9 52,8 46,5 50,9 50,6 49,1 49,56 45,06 67,04 SiO ‘2 7,68 5,24 1,02 Na O 2 NaKCO 13,8 13,5 14,0 13,1 7,8 20,3 20,8 12,2 6,50 2,65 2,16 K O 2 O 12,3 7,3 13,1 12,1 10,4 9,1 9,0 9,9 9,44 10,06 3,16 SnO SnO 2 2 29,5 17,6 30,5 20,8 34,8 19,3 19,3 28,3 20,52 29,57 0,65 PbO PbO CoAs 0,5 0,5 0,5 1,2 0,5 0,4 0,3 0,5 0,09 0,15 --- CoO 2 1 6,21 7,27 --- Altri Tabella C: Composizioni chimiche percentuali degli smalti dedotte dal Piccolpasso e comparate con le analisi eseguite su due campioni di smalto provenienti dagli scarti di fornace di Via S. Vincenzo Genova A = avanzo di coperta celeste vetrificata rinvenuta sul fondo di un crogiuolo; Genova B = smalto turchese vetrificato rinvenuto sul fondo di una muffola. I dati riguardanti Castel Durante, che più si avvicinano alla coperta di Genova corrispondono all’accordo A, allattato, tinto chiaro del Piccolpasso. - 266 - ■100 _L _L _L DILATAZIONE TEMPORANEA _l_I_l i i 0/1 02 0.3 0.4 0.5 0.6 0.7 0.8 0.9 A -U \.i Fig. 9 - Proprietà fisiche dei « Biscotti » diagrammi PU, AA e PA. A.Z Prove di cottura delle terre. Sono stati eseguiti provini cotti a 950° con campioni di terra provenienti da vari punti della cava e con marna trovata negli scarti. i sono avuti i seguenti risultati: 1) cotti di colore cuoio con variazioni verso i giallo e il rosa a seconda del tenore residuo di CaCOì, per le argi e 1 cav , 2) cotti di colore giallo per le marne. Tale gamma di colori è presente nei biscotti recuperati negli scarti di fornace. Anche per gli altri cara è una concordanza tra provini e reperti. Prove fisiche sui biscotti. Per gentile interessamento dei dirigenti tecnici della SANAC, so state eseguite presso il laboratorio di Bolzaneto le prove di peso, di volume, acqua assorbita, porosità apparente, fusibilità e dilatazione temporanea, sui seguenti reperti: sei frammenti di biscotto presentanti colorazioni I''ers provenienti dagli scarti di via S. Vincenzo; tre frammenti provenienti dag i scarti di Savona S. Paolo; uno di maiolica a pasta chiaia di impo uno di « maiolica arcaica » ed uno di « hispano moresca » provenien dallo scavo di Genova. .. . Il diagramma della figura n. 9 mostra come si abbiano gra ua nuzioni di P.V. ed aumenti di A. A. e P. A. passando daHe maioic _ « toscane », arcaica e hispano moresca a smalti sottili, alle maio ic a smalti pesanti con impasti a marna decalcarizzata e a marna pura, eccezione il campione Savona 6, e ciò è facilmente spiegabi e in qu tratta di un tipico « stracotto ». aratile Le analisi confermano perciò che il passaggio dall uso e e comuni a quelle sempre più marnose è dovuto, come riporta mi j alla necessità di fare assorbire una maggiore quantità di « lanco biscotto per ottenere uno smalto pesante. Questa prassi comporta un c ^ trollo accurato della cottura, poiché è necessario superare i 950 per dare il CaC03, ma non superare i 1050° per evitare la fusione favorita dall’alto tenore di Cdcio. Per quanto riguarda la dilatazione non è possibile evidentemente osse - vare sui prodotti cotti quali siano i ritiri che avvengono in cottura. Ua confronto dei diagrammi della fig- 10 si può comunque dedurre c e ment la « maiolica arcaica » ha una curva di dilatazione a cotto simile a quella degli impasti marnosi di Genova e Savona, la «hispano moresca >> e più ancora la maiolica « toscana » possiedono dilatazioni più elevate alle a te temperature, e mostrano nello stesso ordine una minore aderenza dello smalto al biscotto. — 268 — Analisi chimiche degli smalti. Sono state fatte eseguire presso l’istituto di Chimica dell’Università di Genova le analisi chimiche ponderali di tre campioni di smalti: A) smalto azzurro recuperato come residuo sul fondo di un crogiuolo da vetreria; B) smalto turchese chiaro recuperato dal fondo di un biscotto; C) coacerbo semifuso staccato dal fondo di crogiuolo in terracotta (probabilmente un marzacotto). Quest’ultimo mostra dati anomali e si tratta probabilmente, per il suo eccesso in silice e scarsità di « fondenti », di una parte di marzacotto mal miscelato che non è giunta a fusione. La presenza di rame potrebbe indicare un tipo di coperta per vasellame comune. Il rame non è stato rivelato dall’analisi chimica nello smalto turchese, mentre si è potuto chiaramente riscontrare con la spettrografia. Per gli altri due campioni si è tentato un confronto dei dati analitici con i vari « accordi » suggeriti dal Piccolpasso. A tale scopo è stato necessario interpretare il significato chimico dei procedimenti narrati dal cavaliere Durantino. Si è giunti alle seguenti conclusioni: la « feccia » o tartaro adusto di colore bianco si possono considerare una miscela di Na2C03 e K2CO3; lo « stagno in accordo con il marzacotto al mulino » va inteso come la miscela degli ossidi di Sn e Pb prima ottenuti. Tutte le trasformazioni sono state calcolate in percentuale per evitare le difficoltà introdotte dai pesi medievali; si è dovuto ovviamente portare gli alcali delle nostre analisi da ossidi a carbonati e passare le residue percentuali di elementi estranei ai metalli ed alla silice per ottenere la « rena » che, anche se buona, non è mai silice pura. Se si tiene conto che le due elaborazioni, sia pure per certi aspetti approssimate, sono state condotte indipendentemente, è sorprendente constatare la stretta parentela chimica tra 1’« accordo » durantino e lo smalto A di via S. Vincenzo. Se poi si considerano i segreti artigianali e la scarsa purezza delle materie prime impiegate, tutte le composizioni analizzate sono accettabili, e ciò convalida assai il Piccolpasso come fonte storico-tecnologica. Analisi dei refrattari. Numerosi sono i mattoni raccolti negli scarti di fornace che provengono da rifacimenti e riparazioni dei forni; essi infatti si presentano sempre con ampie zone completamente vetrificate per fusione. Le dimensioni sono quelli dei normali mattoni dell’epoca (in media 4 x 12 x 24), ma in sezione è facile notare che si tratta di speciali impasti refrattari. Per meglio cono- — 269 — scere le tecniche impiegate sono state eseguite dall’autore presso Istituto di Mineralogia analisi in sezione sottile atte a stabilire la composizione mineralogica, la granulometria e le proporzioni dei vari componentu Come si può vedere dal diagramma (fig. 11) i componenti refratt sono presenti per oltre il 50% in volume e sono costituiti prevalentemen e da quarzite bianca con piccole quantità di terra precedentemente cotta e macinata (.. chamotte »). Il reato, che funge da cementante e da^o attamente da una pasta vetrosa che certamente in partenza deve es «: stata una argilla plastica; ai notano anche silicati d, nuova formarne, mpa, ticolare mullite. Cristallini di questo minerale si trovano a » stizi dei granuli di quarzite, segni evidenti delle reaztom di‘ tura ( 1100°). Non si notano neosilicati attribuibili a a pre je2ante di carbonati; da ciò si può dedurre che non vemva .mp.egata come legante argilla locale, ma una argilla di fiume molto selezionata U dimensioni dei grani sono quasi sempre .nfer.or i * ™ per la « ehamotte >., mentre si nota per la quarzite come g» vato nei refrattari della vetreria della Bocchetta datata al XV distribuzione granulometriea molto vicina a quella teorica ancora usata pe una buona costipazione dei materiali. Fig. 11 - Analisi granulometriea e modale condotte su mattone refrattario di fornace del XVI secolo. 270 — Non è possibile classificare questi refrattari secondo un criterio moderno in quanto sia la « chamotte » sia la quarzite sono ancora impiegati oggi come materiali refrattari, ma separatamente luna dall’altra (Savioli; Reggiori); al massimo si potrebbe, tenendo conto del tenore in allumina, parlare di refrattari « silico-alluminosi ». Ma ciò che più interessa e che contrasta con quanto dichiarato ancora di recente da alcuni autori, è la complessità tecnica sia pure empirica, raggiunta da questi prodotti del XV e XVI secolo. Lo studio in sezione sottile applicato al crogiuolo da vetreria rinvenuto in via S. Vincenzo ha fornito dati analoghi a quelli dei mattoni; sebbene si notino una minore quantità di quarzite a grana grossa e una forte diminuzione della « chamotte ». Nel complesso il crogiuolo presenta caratteri molto simili ad altri rinvenuti nella vetreria della Bocchetta. Analisi mineralogiche degli impasti. Non si è tralasciato di effettuare analisi mineralogiche sui normali prodo...i delle fornaci per stabilire se è possibile per tale via riconoscere un prodotto di Savona da uno di Genova, o di altra provenienza. Fino ad ora si è fatto uso del metodo delle sezioni sottili che ha dato i seguenti risultati: 1 ) Gli impasti delle maioliche, siano essi eseguiti con marne decalcarizzate o marne pure, contengono residui minerali di dimensioni piccole e di specie generiche, perciò poco significativi. 2) I resti micropaleontologici non sono differenziati in quanto sia le marne di Genova sia quelle di Savona appartengono allo stesso piano pliocenico. 3 ) Gli impasti degli scarti di produzione savonese di età medievale « maiolica arcaica » e « graffita arcaica », sono ottenuti con argille alluvionali che cuociono in rosso e mostrano residui rocciosi grossolani provenienti dal complesso cristallino-metamorfico situato a monte di Savona che possono costituire un elemento distintivo. 4) Le ceramiche tipologicamente corrispondenti rinvenute a Genova mostrano: «maiolica arcaica»: argille alluvionali rosse granulometricamente più fini, minerali costituiti quasi esclusivamente da quarzo e mica finissima; è possibile una provenienza dal Bisagno; si accostano comunque di più agli impasti dei prodotti pisani che a quelli savonesi. « Graffita arcaica »: prevalgono gli impasti di colore rosa e giallo, con quarzo e mica di — 271 - piccole dimensioni e abbondante « chamotte » più scura. Anche per questo tipo è evidente la differenza dagli impasti della produzione savonese, ma è difficile stabilirne la provenienza in quanto si tratta di un tipo ceramico largamente diffuso nel Mediterraneo durante 1 m e solo un’indagine mineralogica degli impasti condotta sulle principa briche potrebbe portare a qualche conclusione utile. Analisi del minerale colorante. Sono state eseguite le analisi diffrattometriche e spettrogr minerale risulta costituito da un agglomerato cristallino di magnete calcopirite contornato da composti colloidali di Rame (cnsoco a f (limonite). Si tratta di forme tipiche degli arncchimenti meta ^ somatici. È probabile la provenienza dai giacimenti dell Iso a minerale veniva probabilmente usato come colorante (ramin — 272 — Tav. I Tipologia della ceramica estranea alla produzione locale: ceramiche medioevali, (grandezza 1/4 del naturale) Tav. Ili Tipologia della ceramica estranea alla produzione locale: maioliche, (grandezza 1/4 del naturale) Tav. IV Scarti di fornace: 1) sacca nella zona 4 III dello scavo; 2) finito stracotto; 3) fusi e deformati; 4) base di crogiuolo da vetreria con residui di smalto azzurro; 5) mazzacotto semi fuso; 6) conchiglia con tracce di ocra rossa; 7) mattone refrattario da suola di forno con biscotto attaccato; 8) biscotti con prove decorative in ocra rossa; 9) biscotti con prove di decorazione a stampo e a traforo; 10) frammenti smaltati con prove di colori: azzurro, ramina, manganese. (Grandezza 1/4 del naturale). Tav. V Microfotografie di ceramiche in sezioni sottili con niçois incrociati (ingr. x 10) A e B = Graffite arcaiche di Genova Via S. Vincenzo; C e D = Graffite arcaiche di Savona (scarti di fornace); E = Graffita monocroma di Savona (scarti di fornace); F = Crogiuolo da vetreria di Genova Via S. Vincenzo. i Tav. VI < Mattone refrattario di fornace: A) Microfotografia di sezione sottile con niçois paralleli. B) Sezione (grandezza 1/2 del naturale) G. FARRIS - V. A. FERRARESE METODI DI PRODUZIONE DELLA CERAMICA IN LIGURIA NEL XVI SECOLO I reperti provenienti dalla discarica di fornace cinquecentesca genovese di S. Vincenzo e quelli provenienti dalle discariche di Savona, ci hanno fornito anche una notevole quantità di materiali relativi ai metodi di produzione della ceramica. Lo studio che abbiamo potuto eseguire fino ad ora su tali materiali è forzatamente incompleto a causa del fatto che dalla loro acquisizione ad oggi il tempo di cui abbiamo potuto disporre è stato limitato. Possiamo tuttavia cominciare ad esporre alcuni dati ed alcune considerazioni su problemi di notevole interesse per quanto riguarda i metodi di produzione usati dalle officine ceramiche liguri cinquecentesche, considerazioni che costituiscono comunque un contributo che solo alcuni anni addietro non speravamo potesse essere acquisito molto facilmente. Iniziamo con l’esame del corpo della maiolica; abbiamo potuto studiarlo su un notevole numero di oggetti più o meno frammentari allo stato di biscotto. E’ evidente che ci interessa anzitutto conoscere la composizione degli impasti ed osserviamo subito che gli impasti usati a Genova portavano, dopo la cottura, ad un colore che va dal giallo chiaro al giallo-rosa. Questo fatto sta a significare che la componente in argilla marnosa era prevalente o comunque ben rappresentata. Si trattava cioè di una argilla ad elevato contenuto in calcare (25-30%), argilla di cava quindi perchè quella di fiume, per il suo contenuto in ossido di ferro, avrebbe conferito al biscotto un colore rosso più o meno accentuato. Ancora una volta possiamo confermare la validità scientifica delle informazioni forniteci nel 1548 dal Piccolpasso nei « Tre libri dell’arte del vasaio »; infatti che a Genova si lavorasse prevalentemente argilla marnosa era detto da questo Autore in termini precisi: « ...a Genova intendo che si lavora quella di cava » Se ci chiediamo quali fossero le ragioni di questa preferenza, troviamo una esauriente risposta nella trattazione tecnologica delPEmiliani: « ...la presenza di quantità notevoli di calcare oltre a conferire alla massa una migliore resistenza meccanica, per via del potere legante impartito in 1 C. Piccolpasso, I tre libri dell’arte del vasaio, III ed., seconda italiana, prima pesarese, riveduta ... da G. Vanzolini coll’aggiunta di alcune notizie intorno al fabbricar la maiolica fina del canonico G. Lazzarini, Pesaro 1879. — 275 - cottura dalla calce, è indispensabile per accordare la dilatazione del biscotto con quella dello smalto: senza tale componente la pasta avrebbe un coefficiente di dilatazione esiguo nei confronti del rivestimento, per cui quest’ultimo cavillerebbe. Inoltre per il fatto che 1 anidride carbonica, eliminandosi alla temperatura di decomposizione del carbonato, accresce il volume dei vuoti, il calcare contribuisce ad aumentare nel biscotto la porosità... Tale requisito è imposto dalla necessità di applicare gli smalti in notevoli spessori: se il corpo ceramico non fosse fortemente poroso, esso non sarebbe in grado di assorbire le elevate quantità di acqua che accompagnano la materia vetrosa in sospensione nel bagno, per cui il rivestimento, depositato sul biscotto, non potrebbe assumere che tenui spessori e non potrebbe perciò conseguire quella perfetta opacità e quella particolare intonazione pastosa e brillante che contraddistingue le maioliche »2. Queste necessità risultano particolarmente evidenti all’esame dei prodotti finiti di maiolica cinquecentesca ligure, in quanto si può facilmente rilevare che il loro rivestimento di smalto e di notevole spessore. Su alcuni frammenti di biscotti da noi esaminati si e potuto rilevare che la superficie presenta segni lineari, o più frequentemente arcuati, tracciati in sottili pennellate di colore rossastro. Questo stesso colore ìossastro era stato inoltre trovato come contenuto di una conchiglia (uno spondilus neppure molto frequente nei nostri mari) utilizzata come recipiente. Riteniamo si debba pensare a prove di disegno fatte su frammenti di scarto, come di chi prova un pennello, oppure la consistenza della sinopia nella quale è stato intinto, od ancora la intensità del suo colore (vedansi le figg. 8 e 6 della tav. IV del lavoro di Mannoni). Possiamo quindi dedurne che il primo disegno venisse tracciato con il pennello intinto in terra rossa (verosimilmente stemperata in un mezzo oleoso) ottenendo quella che si chiama « sinopia » (da Sinope, città sul Mar Nero da dove proveniva una pregiata terra colorata), prima di essere dipinto. Di qualche interesse tra gli oggetti d’uso repertati nello scavo di S. Vincenzo, ci sembra essere un affilatoio in arenaria utilizzato evidentemente per appuntire strumenti metallici ed un grande frammento di un recipiente in materiale refrattario argilloso-siliceo, riconoscibile come un cro- 2 T. Emiliani, La tecnologia della ceramica, Faenza 1957. - 276 - - Sccntiff).»- Fig. 1 - In questa fotografia sono riuniti alcuni dei nostri reperti: punte, tagli e grossi frammenti di caselle; si possono osservare due punte ed un taglio che abbiamo posto sull'anello che costituisce il fondo delle caselle per dimostrare quale fosse la sistemazione di questi mezzi di sostegno dei piatti durante la cottura. ■ giuolo simile a quelli ancora oggi usati nelle vetrerie, le cui pareti ed il fondo appaiono ricoperti di un materiale vetroso di colore azzurro. E stato anche raccolto un piccolo ammasso di materiale vetroso che riproduce a stampo la forma del fondo di un piccolo crogiuolo di cui rappresenta evidentemente il contenuto che se ne è staccato (vedansi le figg. 4 e 5 della tav. IV del lavoro di Mannoni). Un frammento del materiale vetroso depositato sulla parte interna del grande crogiuolo è stato staccato per essere sottoposto ad analisi allo scopo di conoscere il contenuto percentuale delle sue componenti chimiche, una identica analisi è stata eseguita, e confrontata alla precedente, su piccoli frammenti di smalto turchese raccolti dalle colature frequentemente presenti sulle pareti interne delle caselle. I dati percentuali, ed in particolare le interessanti considerazioni interpretative che si possono derivare da queste analisi, saranno dettagliatamente esposti dal Dott. Mannoni durante questo Convegno ed a noi basta qui sottolineare che nella produzione cinquecentesca ligure le variazioni di colore della coperta, nelle tonalità che vanno dall’azzurro più o meno intenso al blu scuro ed al verdeazzurro, non erano ottenute miscelando in proporzioni diverse ossido di rame ed ossido di cobalto, come poteva essere presumibile, in quanto l’analisi ha dimostrato che l’ossido di rame è totalmente assente in am bedue i campioni di smalto esaminati. E’ quindi da ritenere che, 1 unico colorante essendo rappresentato dall’ossido di cobalto, le variazioni di co lore della coperta venissero ottenute, oltre che dalla diversa concentrazione di questo colore, anche mediante variazioni quantitative degli alcali che entravano nella miscela, venendosi così a determinare modificazioni di pH che verosimilmente dovevano essere accordate alle condizioni di cottura. Di una certa importanza, per le variazioni di colore della coperta, potre e essere stata inoltre anche la diversa proporzione dei fondenti piom o e stagno ed ancora, evidentemente, l’accordo di tale proporzione con tutte le altre condizioni chimiche e fisiche. Tutti questi elementi lasciano presumere che i maiolicari liguri Cinquecento condizionassero spesso la loro produzione ad una importante attività sperimentale, che effettuassero cioè, con una frequenza non tra^ rabile, le prove necessarie per ricercare le condizioni nelle quai sare e stato possibile ottenere smalti che corrispondessero per colore e profondità a modelli che loro stessi avevano idealmente prestabilito. Dal materiale raccolto nella discarica di S. Vincenzo abbiamo la prova della sistematicità e della precisione di tale attività sperimentale. Un notevole numero di pia- — 277 — strelle, studiate dal prof. Panelli il quale ne riferirà dettagliatamente durante questo Convegno, presenta infatti caratteristiche che non lasciano dubbi sul fatto che si tratti di prove sperimentali sugli smalti. In particolare vogliamo sottolineare che tali piastrelle, contrassegnate posteriormente da un numero, erano state infornate contemporaneamente per essere sottoposte tutte assieme al secondo fuoco e ciò dimostra che 1 attività sperimentale aveva una impostazione assai corretta in quanto i numeri distintivi corrispondevano certamente a quelli che nei protocolli designavano le diverse miscele ed inoltre che uno degli elementi, in questo caso la cottura, era mantenuto fisso. Lo studio delle variabili era quindi condotto con metodo assai scrupoloso e la validità dei risultati assume sul piano tecnologico un significato ben preciso. Infatti se, dal punto di vista estetico, ci è parso di poter sostenere durante questo Convegno, che l’artigianato ligure presentasse nel XVI secolo un certo attardamento in quanto si era soffermato troppo a lungo su modelli orientali almeno in parte superati, i dati che derivano dallo studio dei nostri reperti ci consentono di affermare che questo stesso artigianato operava con notevole serietà e preparazione sul piano tecnologico (vedansi le figg. 3 e 4 della tav. I del lavoro di Panelli). Riteniamo che questi dati analitici e di scavo, nonché le considerazioni conseguenti, possano costituire un valido punto di partenza per la impostazione di ricerche sperimentali che potrebbero risolvere definitivamente tutti i quesiti relativi alla composizione dello smalto in rapporto alle variazioni di colore. Pensiamo che si dovrebbe operare su numerosi campioni di miscele ponendosi nelle stesse condizioni sperimentali dei maiolicari cinquecenteschi e cioè mantenendo fisse, per ogni prova, le varie componenti e condizioni ad eccezione di una. A proposito delle prove di colore eseguite da maiolicari genovesi, ricordiamo ancora che tra i reperti provenienti dalla discarica di S. Vincenzo compaiono piccoli frammenti di vasi che presentano pennellate dei più svariati colori disposte una vicina all’altra o variamente intersecantesi; che si tratti veramente di prove cromatiche eseguite su frammenti sottoposti successivamente a cottura e non di pezzi provenienti dalla rottura di oggetti finiti o di scarti, è testimoniato dal fatto che le pennellate non corrispondono ad alcuna coerenza decorativa ed inoltre dall’osservazione che ricoprono ambedue le superfici, per cui, se non pensassimo a prove cromatiche, dovremmo assurdamente ammettere l’esistenza di vasi decorati anche sulla superficie interna. — 278 - Poiché abbiamo già dovuto accennare alle caselle, riferiamo ora su questo particolare tipo di reperti dallo studio dei quali abbiamo potuto ricavare numerosi dati che confermano ed integrano le nostre conoscenze sulla produzione cinquecentesca della ceramica. Quantità molto notevoli di frammenti di caselle erano presenti nel terreno di scavo delle discariche di Savona ed in quella di Genova e ne sono stati raccolti e catalogati abbondantemente. Si tratta, come è noto, di contenitori nei quali venivano posti i pezzi ceramici per poterli infornare sia che si trattasse della prima che della seconda cottura. Nel XVI secolo si chiamano « case » e così vengono designate dal Piccolpasso mentre nel XVIII secolo il Lazzarini le chiama « casselle » 3. La forma delle caselle è quella di un segmento cilindrico aperto superiormente e con la base occupata da una grande apertura rotonda centrale nella quale andava a sporgere il fondello del piatto che appoggiava solamente con tre punti della superficie posteriore della tesa sulle « punte » o sui « tagli » che erano stati sistemati sull’anello che costituisce il fondo della casella (fig. 1). Quando tutti gli oggetti che dovevano essere sottoposti a cottura erano stati posti nelle rispettive caselle, si procedeva ad infornarli ponendo le caselle una sopra l’altra. Una leggerissima rientranza del bordo superiore od una forma conica appena accennata assicuravano una maggiore stabilità delle colonne formate dalla giustapposizione delle caselle (figg. 2 e 3). Indipendentemente dalla loro forma e dalla loro grandezza, le caselle da noi esaminate sono in un biscotto il cui impasto presenta una componente assai rilevante in argilla marnosa. Il colorito acquisito in cottura va da un giallo assai chiaro ad un rosa pallido. Il Piccolpasso prescrive un impasto nel quale la terra di cava e la terra di fiume siano state mescolate in parti eguali. Sappiamo dagli scritti del Lazzarini4 che, nel XVIII secolo, le « casselle » da utilizzare per le infornature del secondo fuoco dovevano essere quelle ricoperte su tutte le loro superficie sia interne che esterne con vernice piombifera, mentre quelle da utilizzare per infornare i crudi potevano essere in biscotto e prive quindi di qualsiasi coperta. Nei nostri reperti sono comparse assai poche caselle ricoperte di vernice piombifera e non possediamo alcun elemento per affermare o negare che nel XVI secolo 3 Vedi nota 1. 4 Vedi nota 1. — 279 — questi due tipi di contenitori venissero usati in Liguria con le stesse funzioni riferite dal Lazzarini per il XVIII secolo. Una conferma archeologica avrebbe potuto provenire dall’eventuale reperto di caselle che contenessero ancora gli oggetti ceramici con i quali erano state infornate. Nel materiale da noi studiato sono presenti caselle di dimensioni diverse con notevole numero di varianti sia per quanto riguarda l’altezza ed il diametro esterno, sia per quanto riguarda il foro della base; alcune presentano la parete traforata da una serie di aperture a forma semilunare Fig. 2 - Una casella, un pirone, due punte e due tagli, disegnati in base alle misure rilevate sui nostri reperti (grandezza = 1/5 del naturale). con la base verso il basso, disposte alla stessa altezza lungo la parete cilindrica, distanti oltre 6 cm l’una dall’altra, che misurano cm 3,5 o cm 6 alla base e cm 1 all’altezza massima (si tratta quindi di settori di cerchio a grande raggio) e che risultano quindi assolutamente identiche alle « case » illustrate da Piccolpasso che mostrano sempre tali fenestrature la cui funzione è evidentemente quella di favorire la circolazione del calore. Abbiamo osservato che alcune caselle risultano fortemente deformate e riteniamo di poter attribuire questo fatto all’azione delle ripetute cotture od all’eccessivo calore di una singola cottura; in altre ab- — 280 — I~ L L L L L L L L L L Si possono osservare qui i diversi profili delle caselle da noi studiate ed inoltre quello di una lastra in biscotto che verosimilmente veniva usata come ripiano sul quale erano posati i vasi durante la cottura. Fig. 4 - Disegno di casella usata per contenere parecchi oggetti ceramici. t > i J l ì ' i ; . \ biamo riscontrato la presenza di numerose colature di smalto bianco-azzurro sulle superficie interne od anche l’incollatura di frammenti di piatti. Abbiamo eseguito la misurazione dei vari diametri e dell’altezza su 145 esemplari di caselle provenienti dalla discarica di S. Vincenzo ed abbiamo raccolto sinteticamente queste misurazioni nella tabella A; si può rilevare da questi dati che la grandezza delle caselle e cioè il loro diametro massimo, quello esterno, va da un minimo di 10 cm ad un massimo di 50 cm con un valore medio sufficientemente attendibile di cm 27,93, infatti tale diametro medio corrisponde assai bene anche al numero degli esemplari più rappresentati, quelli di 28 cm di diametro, che risultano essere 21 su 145. Pensiamo che queste misurazioni possano essere considerate come un utile strumento di studio quantitativo e qualitativo della produzione delle officine ceramiche liguri del XVI secolo; si possono infatti indirettamente acquisire dati controllabili sulle misure di gran parte degli oggetti ceramici e si viene a conoscere anche quali erano le grandezze maggiormente prodotte di determinati oggetti, per esempio i piatti, e quindi maggiormente richieste per l’uso. Abbiamo già detto che ognuna di queste caselle poteva contenere un solo oggetto e che le singole caselle venivano riempite e poste nel forno una sopra l’altra sicché si poteva utilizzare razionalmente e nel modo più completo lo spazio disponibile; tra i reperti acquisiti a Savona dal Camei-rana troviamo tuttavia anche altri tipi di caselle che consentivano di mettere in cottura parecchi oggetti nello stesso contenitore o potevano essere utilizzate per un solo oggetto che fosse di maggiore altezza rispetto ai piatti od alle scodelle (boccale, alberello, ecc.). Si tratta di caselle a forma cilindrica ma di altezza notevolmente superiore a quelle usate per contenere un solo piatto; la loro parete risulta attraversata da numerose forature triangolari poste ad altezze diverse e destinate a contenere i « tagli » che venivano infilati dall’esterno e sporgevano per circa la metà della loro lunghezza verso l’interno (fig. 4). Sulla serie di tre tagli disposti sullo stesso piano nel punto più basso della casella, veniva posto il primo oggetto destinato alla cottura, poi venivano infilati i tre tagli del piano immediatamente superiore e sistemato l’oggetto successivo e così via finché il contenitore risultava completo. Anche per questo tipo di casella possiamo fare il confronto con una descrizione ed un disegno del Piccolpasso che precisa come questo tipo venisse usato in particolare per la cottura di tazze e scodelle che venivano sistemate nel contenitore con il fondello verso l’alto — 281 — ed erano quindi appoggiate ai tagli con il bordo. Lo spazio di queste caselle poteva essere sfruttato in modo tale da contenere un numero di scodelle maggiore di quello che si ottiene dividendo l’altezza del contenitore per l’altezza della scodella più un certo spazio che doveva intercorrere tra l’imo e l’altro oggetto; infatti il fondello della scodella inferiore veniva a sporgere per ima buona parte nello spazio del cavo di quella immediatamente al di sopra. Un razionale sfruttamento dello spazio delle caselle era del resto possibile anche in quelle di piccola altezza usate per un solo piatto; in questo caso il grande foro praticato nella base consentiva al fondello di sporgere al di sotto della casella andando ad occupare parte dello spazio di quella sottostante; è quindi evidente che la prima casella della pila, quella che poggiava sul piancito del forno, doveva essere vuota. Secondo le indicazioni che ci provengono dal Piccolpasso dovremmo ammettere che le punte, o « smarelle », venissero usate come appoggio per i piatti, ed i tagli come supporto per « le confettiere, coppette, tazzine e scudelle ». Possiamo affermare che le punte venivano usate anche in Liguria come appoggio per i piatti, in quanto tra i reperti che abbiamo esaminato compaiono frammenti ai quali le punte sono ancora incollate sulla superficie inferiore della tesa. Si tratta di frammenti che erano stati considerati come scarti di cottura a causa di vari difetti ed ai quali non era stato necessario staccare le punte. Dobbiamo precisare tuttavia che la maggior parte dei frammenti di piatti da noi esaminati e provenienti sicuramente da fornaci liguri cinquecentesche, presenta sulla superficie inferiore della tesa tre segni lineari privi di coperta della lunghezza di 1-2 cm disposti in senso radiale che provano con evidenza come l’infornatura avvenisse frequentemente appoggiando i piatti sui tagli. Questi fatti provano inoltre che in Liguria i piatti venivano infornati « in piedi » a differenza di quanto indica il Piccolpasso 5 che aveva tuttavia scritto in precedenza: « A Vinegia e quasi per tutta la Lombardia infornano in piedi, ma a Castello e per la marca di Ancona in bocca sui pironi ». Troviamo a questo punto anche per i dati tecnologici elementi 5 «... va infornato sulle punte, le quai vanno fatte di terra, piccole piccole come pedoncini da scacchi, aguzze aguzze, che tanto più sono aguzze, son meglio, di queste se ne metton tre per casa, e poi pian piano con diligenza vi si volta il piatto come qui si vede » (l’A. disegna a questo punto il piatto posto a rovescio nella sua « casa »). — 282 — TABELLA A: MASC//3E Z>£LLS CJSETLLjE PJQOV£ = A//EA/T/ &A/.LA J?/SCAQ/C4 D/ UVA FOJ27JAOZ. Ce^Af/c^l G£A/Ol/<£S£: Xt// SECOLO--- Quan7i^a ç5 Esterno 0 foro B&scr/e A77ezz.cr £serr?jo/ar/ //? c/n /r? cm /o cm 1 70 --- > 9 1 77 < 6 >3 1 74 --- 4,5 1 7e --- ? 2 17 --- 5,5-+ 6,5 77 78 <2 + <12 4+8 3 79 < 3 3+5 3 20 < 8 + // >3 + >6 2 21 76 5,5+>73 e 22 <6 T <14 >4+9 3 23 --- >5+6,5 e 24 70+77 >5-r>8 4 25 75+78 4,5+5,5 73 26 76- 78,S 4 + 75,5 e 2? 7?+ 79 4,5+6,5 27 28 77+22 >7+7,5 1 29 79 5 74 30 79+22 >2+>70 7 31 27 5,5 74 32 20+24- >2 + >73 3 33 2 2+<28 6,5+8,5 7 7 34 22+25 >7+>77 7 35 --- 7 3 36 22+26 7 3 37 23+25 7+8,5 2 38 25+26 >5+8 2 39 27 7,5+8,5 4 40 25+27 >4+7.5 7 46 37 >3 7 SO 32 17 di analogia tra la produzione ceramica genovese e quella veneziana, elementi che così frequentemente abbiamo rilevato dal punto di vista stilistico. Dalla trattazione del Piccolpasso abbiamo ora notizia di un altro mezzo di appoggio usato per infornare: si tratta di quel supporto a tre branche, a zampa di gallo, che presenta a ciascuna delle sue estremità una salienza a forma di piccolo cono appuntito. E’ quel supporto che il Piccolpasso appunto indica con il nome di « pirone » (vedansi le figg. 1 e 2 nonché le tavole XIV e XVI del lavoro del Cameirana). Questo tipo di supporto veniva posto sul fondo della casella con le tre punte coniche dirette verso l’alto. Venivano quindi utilizzate caselle che presentassero una foratura del fondo assai più piccola di quella solita. Le punte del pirone toccavano nel cavetto dell’oggetto che gli era stato appoggiato sopra rovesciato, sicché gli oggetti cotti mediante questi appoggi sono caratterizzati dalla presenza di tre piccole aree prive di coperta nel cavetto, in corrispondenza del distacco degli apici del pirone. Dagli scavi eseguiti in Savona dal Cameirana abbiamo ottenuto un buon numero di pironi con caratteristiche morfologiche esattamente corrispondenti a quelle illustrate dal Piccolpasso, mentre non ne sono risultati presenti tra i reperti della discarica genovese di S. Vincenzo. Siamo prò pensi a sostenere che nel XVI secolo questo tipo di appoggio per la cottura delle ceramiche fosse ormai in corso di abbandono e basiamo questa affermazione sul fatto che gli esemplari provenienti da Savona risultavano associati, od addirittura ancora incollati, a ciotole decorate in ramina e manganese tipologicamente e stilisticamente attribuibili a produzione trecentesca e quattrocentesca (vedasi la tavola XV del lavoro del Cameirana) ed inoltre sull’assenza di questi oggetti nel terreno genovese di S. Vincenzo contenente reperti sicuramente ascrivibili al XVI secolo. Dagli scavi savonesi ci proviene ancora un altro mezzo di appoggio per la cottura degli oggetti ceramici; si tratta di una specie di piedistallo ad alto piede (vedasi la tav. XIII del lavoro del Cameirana), grossolanamente somigliante per la sua forma alla navicella che si usa in chiesa per contenere l’incenso. L’interesse di questo nuovo reperto è costituito dal fatto che non ne abbiamo trovato menzione nel Piccolpasso così come in altri testi che trattano dei metodi di produzione. Soltanto in una interessante pubblicazione di Oktai Aslanapa sulla ceramica turca6 abbiamo potuto 6 Oktai Aslanapa, Türkische Fliesen und Keramik in Anatolien, Instanbul 1965. — 284 — trovare, tra la documentazione fotografica del materiale proveniente da scavi eseguiti ad Iznik, accanto alle punte ed ai pironi (mancano i tagli) illustrati nella fig. 105, un piedistallo (fig. 104) abbastanza simile a quelli provenienti dalle discariche di fornaci ceramiche savonesi. Dalla illustrazione di Oktai Aslanapa abbiamo quindi un importante elemento di confronto tra i metodi di produzione usati in Turchia e quelli usati in Liguria. Per quanto la nostra ricerca bibliografica sia da considerarsi incompleta, pensiamo tuttavia che i reperti savonesi costituiscano una interessante novità sui metodi di cottura del XVI secolo. In via di ipotesi riteniamo che tali mezzi di appoggio venissero utilizzati per sostenere grossi vasi cilindrici o boccali; pensiamo che tali supporti potessero essere posti sul piancito del forno in numero di tre, disposti agli apici di un ideale triangolo equilatero ed orientati con l’asse più lungo in senso radiale; in tal modo potevano sostenere oggetti di una notevole grandezza e di un rilevante peso. A nostro avviso il vantaggio di far sostenere i grandi vasi da tre supporti di questo tipo, piuttosto che far appoggiare tutto il fondello sul piano del forno, o meglio su di una lastra di biscotto (fig. 3), fondello che risulta infatti, come è noto, sempre privo di coperta, è costituito da un duplice ordine di fatti: anzitutto questi appoggi avrebbero potuto permettere una buona circolazione del calore anche attorno alle parti inferiori del vaso, data la notevole quantità di spazio libero che sarebbe venuta a formarsi tra il fondello ed il piancito del forno, e consentire quindi una cottura più omogenea di oggetti ceramici che per la loro grandezza necessitano di particolari accorgimenti proprio in questa fase di lavorazione; inoltre è evidente come al termine della cottura sarebbe risultato più agevole distaccare il fondello dai tre supporti invece che da una lastra di biscotto, e ciò anche nel caso in cui la superficie di appoggio non fosse costituita dalla intera superficie del fondello ma solo dal bordo circolare frequentemente aggettante dal fondello stesso. Un elemento che sembra poter costituire conferma alla nostra ipotesi sull’uso di questi supporti « a navicella », è fornito dall’osservazione della presenza di segni lineari sulla loro superficie superiore; tali segni sono disposti con decorso trasversale di maggiore o minore obliquità, sono delimitati da colate di vetrina di colore verde ed evocano con sufficiente evidenza l’aspetto del distacco dall’orlo di fondelli. A completamento della descrizione di reperti che possano avere interesse per la conoscenza dei metodi di produzione, ricordiamo che nella — 285 — discarica genovese di S. Vincenzo sono stati anche raccolti frammenti di grossi mattoni di impasto argilloso-siliceo usati come rivestimento refrattario dell’interno di forni per ceramica. In particolare i nostri mattoni dovevano appartenere al piano del forno perchè presentano su una delle loro superficie l’incollatura di frammenti di piatti in biscotto. — 286 — FRANCESCO AGUZZI BACINI ARCHITETTONICI A PAVIA Fig. 1 S. leodoro, lato meridionale del tiburio. Lustro Fig. 2 - S. Lanfranco, contrafforte settentrionale del giallo-bruno. facciata. Lustro giallo. Fig. 3 - S. Lanfranco, facciata. Nero, verde e bruno. Fig. 6 - Torre C 'ivica. Lustro giallo bruno. Fig. 7 - Torre Civica. Verde e bruno su fondo giallo chiaro. Fig. 4 - Torre Civica. Lustro giallo. Fig. 5 - Torre Civica. Lustro giallo. Fra le città in cui sono stati utilizzati i bacini come complemento ornamentale dell’architettura, Pavia è certo fra le più importanti, sia qualitativamente che quantitativamente, anche se questo non è molto noto per la carenza di studi e di pubblicazioni (qualche accenno sul Brambilla, due bacini di S. Teodoro sul De Dartein e i resti di quelli di S. Michele nella recente monografia di Peroni). In effetti questa ornamentazione è presente in tutte le chiese costruite a partire dalla metà dell’XI secolo fino agli inizi del XIII, che ci siano note perchè conservate o per documentazione iconografica. Vorrei brevemente enumerare queste chiese citandone contemporaneamente la data, per lo più approssimativa, di costruzione. L’esempio più antico noto è la Torre della Civica ma certamente connessa col gruppo delle cattedrali iemale ed estiva, costruita attorno alla metà dell’XI; S. Stefano e S. Maria del Popolo le cui facciate sono dei primi decenni del XII; S. Michele Maggiore (1120-1130); S. Pietro in Ciel d’Oro (portale del 1132); S. Giovanni in Borgo, di poco posteriore; S. Maria in Betlehem della metà del XII, come pure S. Teodoro, S. Primo, S. Lanfranco ed infine S. Lazzaro della seconda metà o fine del XII. A queste chiese si aggiunge l’unico esempio di architettura civile conservata, la Porta Nuova delle mura, ricostruita all’inizio del ’200. Nel contado si nota la chiesa di Arena Po della seconda metà del XII e l’oratorio di Lago dé Porzi dell’inizio del XIII. Ultimi esempi, il campanile di S. Chiara attorno al 1480 ed alcuni piatti tipicamente pavesi aggiunti alla fine del ’400 alla lanterna di S. Teodoro in occasione della costruzione del lanternino (Arslan, de Dartein, Panazza, Peroni, Porter). In totale queste chiese che, ripeto, sono solo una parte di quelle costruite, portavano oltre trecento bacini. Questa ricchezza trova la sua spiegazione nell’importanza commerciale di Pavia, capitale amministrativa e nodo commerciale fra i paesi del Nord (è interessante notare che i bacini si trovano anche in alcune chiese renane fra cui Sinzig e Bonn, legate da molti rapporti al romanico lombardo e pavese in particolare) e quelli dell’oriente per mezzo della via fluviale Po-Ticino, allora attivissima. Cade opportuno qui ricordare che bacini dello stesso tipo di quelli della Torre Civica pavese si trovano sul campanile di Pomposa (1063), molto affine architettonicamente al nostro, - 289 — e sottoposto in quel periodo al monastero pavese di S. Salvatore, e notare la frequente presenza di bacini nella valle padana, anche se con una certa sporadicità. In effetti già nel IX secolo, in occasione delle grandi fiere annuali, al porto di Pavia facevano capo i navigli di Comacchio, Venezia, Ravenna, Amalfi, Gaeta e di Salerno ed oltre agli stretti rapporti commerciali colla Germania imperiale quelli, cogli anglosassoni e cogli scandinavi sono documentabili da un accordo doganale per cui il re degli anglo-sassoni si impegnava a versare un tributo alla corte regia di Pavia e da un’esenzione ottenuta da Canuto re d’Inghilterra e Danimarca nel 1031 (Solmi). Nelle chiese pavesi i bacini si trovano in tutti i casi sulle facciate ed in particolare fra gli archetti, attorno alla parete superiore delle finestre, in prossimità della finestra cruciforme centrale, ed anche, nelle chiese maggiori, disposti per lo più a croce sulla parete. Sono presenti inoltre alla sommità dei contrafforti laterali della facciata o anche (S. Lanfranco e S. Maria in Betlehem) al III superiore. Sul tiburio sono presenti solo in S. Teodoro, sui campanili, localizzazione fra le più comuni nell Italia centrale, sono sempre assenti, salvo che in quello di S. Lanfranco (piuttosto tardo), certo non prima della fine del XII) e nella Torre Civica in cui però sono limitati praticamente solo al primo ordine di archetti o lo superano di poco, e dove è probabile che fossero in rapporto con quelli di S. Stefano e di S. Maria del Popolo, alle cui facciate il lato occidentale della torre, quello più ricco di bacini (30 contro 6 a nord e 2 a oriente) era allineato e quasi addossato. E’ inoltre interessante notare che la chiesa di S. Maria del Popolo presentava dei bacini alla sommità delle facciate meridionali dei due transetti, esempio secondo Porter unico di questa localizzazione. L’inserimento nel paramento murario, molto approssimativo nell’esempio più antico della Torre, diventa più raffinato in S. Pietro in Ciel d’Oro, in cui i mattoni appaiono disDOsti accuratamente in funzione del bacino, ed anche in S. Primo in cui in due casi si trova l’uso di mattoni curvi che sottolineano l’inserimento della ceramica (tale consuetudine è frequente a Pomposa). Per venire ai bacini stessi si deve anzitutto rilevare che essi appaiono tutti, salvo forse uno o due casi, di provenienza certamente non locale e pressoché certamente neppure italiana, ma orientale. Fra le regioni produttrici appaiono rappresentate l’Egitto ed il Medio e Vicino Oriente ed in caso (Torre Civica lato orientale) forse anche il — 290 — Nordafrica (Maghreb). Come tecnica molto comuni sono i lustri per lo più aurei ma anche rossi ed argentei, le maioliche e molto raramente i graffiti. Frequenti le iscrizioni sulla tesa e nel cavetto, in caratteri cufici o corsivi, rappresentate sempre da versetti coranici. Da ultimo vorrei rilevare che mentre è opinione corrente che i bacini orientali fossero di provenienze varie ed in un certo senso accidentale (atti di pirateria, doni di crociati etc.) in almeno tre chiese pavesi (S. Pietro in Ciel d’Oro, S. Lanfranco, S. Teodoro) essi provengono tutti, o in grandissima parte da un’unica fabbrica, il che rende probabile che si tratti di partite acquistate, se non ordinate, per questo preciso scopo. BIBLIOGRAFIA E. Arslan, Storia di Milano, vol. Ili, Milano 1954, p. 395 e sgg. C. Brambilla, A. M. Cuzio e la ceramica in Pavia, Pavia 1889. F. De Dartein, Etude sur l’architecture lombarde, Parigi, 1865, PI. 69. G. Panazza, Campanili romanici in Pavia, in Arte Lombarda, II, Milano, 1956, pp. 17-27. A. Peroni, S. Michele di Pavia, Milano 1967 (in part, le figg. LV-LX). A. Kingsley Porter, Lombard Architecture, vol. III, p. 167 e sgg., New York 1917. A. Solmi, Sui rapporti commerciali fra Pavia e le città bizantine dell’Italia meridionale, in Studi bizantini, I, Roma, 1925, p. 311 e sgg. A. Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno Italico nell’alto medioevo, in Bollettino della Società Pavese di Storia Patria, XXXI, 1931, p. 14. — 291 - NOTE D’ARCHIVIO - RASSEGNE CONGRESSI Primo contributo alla storia del Monastero Agostiniano della Guardia in Busalla A distanza di due secoli e mezzo dal definitivo abbandono, scomparso ogni vestigio dei due modesti edifici che con ogni probabilità dovettero costituirlo, del monastero Agostiniano della Madonna della Guardia in Busalla non è rimasta che la denominazione con cui i luoghi che ne videro l’esistenza sono ancor oggi conosciuti. Eppure esso, per quasi duecento anni, aveva dovuto rappresentare un elemento abbastanza importante nella vita delle località viciniori; anche se è certo che si trattò di un monastero « minore », poco più che un punto di assistenza e di sosta per viandanti e pellegrini, con caratteristiche analoghe ad esempio a quello che i Cistercensi avevano edificato « nella località sempre denominata deserto tra Sestri e Cornigliano » ', od a quello più antico del Porale. Sorto nel 1488, ed abitato fino al tramonto del sec. xvii, sia pure con una lunga interruzione nel corso della quale la chiesa fu profanata e il convento distrutto, esso era situato quasi alla sommità dei Giovi, sul versante Nord del colle, presso la strada alla quale corrisponde oggi la Statale omonima 2. 1 F. Peagno, Educandato Femminile S. Cuore - N. S. della Guardia. Relazione finanziaria e spigolature storiche, Genova, 1934, p. 9. 2 Una lapide posta nella Cappelletta di N. S. del Buon Consiglio, edificata agli inizi del secolo sul colle che fa da spartiacque al Rio Scaglioni e al Rio Busalletta, riferisce che in quel luogo era posto il monastero agostiniano della Guardia. L’affermazione è ovviamente errata, ed appare inspiegabile soprattutto se si pensa che a quell’epoca erano ormai noti alcuni dei documenti da noi riportati in appendice. Il monastero, come si può dedurre dalla cartina pubblicata, era posto sulla riva destra del riale delle Levrere, a sud del Rial di Costa Valensona. Il punto esatto potrebbe essere identificato in un piccolo tratto pianeggiante, a monte dell’attuale strada dei Giovi, sul quale sono state costruite di recente alcune villette ed in cui esisteva in precedenza una cascina con pilastri in muratura; esso non è stato comunque finora individuato con precisione. - 295 - Il documento relativo alle sue origini è da tempo noto 3; esso doveva essere ancora sconosciuto alla fine del secolo scorso 4. Ci limitiamo pertanto a ricordare col Cambiaso 5 che « ... nell’anno... 1488... si facevano i preparativi per dedicare a N. S. della Guardia una nuova chiesa sui Giovi presso Busalla. Infatti, un atto del Notaro Andrea de Cairo ci dice che il 9 Luglio 1488 i PP. Agostiniani del convento di Santa Maria degli Angeli in Genova ottenevano da Luciano, Daniele, G. B. e Baldassarre 3 Arch. di Stato di Genova, Notaio A. De Cairo, filza 43, parte 1°, c. 22; 9 luglio 1488. Cfr. doc. 1. Gli autori che hanno citato il doc., escluso il Ferretto, lo hanno riferito alla filza 45; A. Ferretto, Busalla. Spigolature Storiche, Genova 1907, pp. 15-16; F. Peagno, Cappella di N. S. della Guardia, in Bollettino Parrocchiale, Busalla, II, 1914 n. 8, p. .16; D. Cambiaso, Nostra Signora della Guardia e il Suo Santuario in Val Polcevera, Genova, 1933, p. 270; F. Peagno, Educandato cit.; L. Tac-chella, Busalla nella storia, Verona, 1951, p. 97. Il Cambiaso (pp. 268-270), sulla base di questo documento, assume il 1487, e non il 1490 come in precedenza ritenuto, quale anno dell’« apparizione » sul Figogna, « per la ragione soprattutto che l’anno successivo 1488 si facevano i preparativi per dedicare a N. S. della Guardia una nuova chiesa sui Giovi presso Busalla ». 4 C. Navone, Busalla Capoluogo di Mandamento, Genova, 1875, P- 29: 1 autore, pur essendo a conoscenza che nel luogo detto il monastero sulla strada dei Giovi esisteva un edificio dedicato al culto, accoglie una notizia contenuta in un anonimo « Dizionario cronologico storico e geografico della Repubblica di Genova che si conserva nella Civica Biblioteca di Genova » — alla luce delle attuali conoscenze del tutto inverosimile — e lo ritiene dapprima un antichissimo « oratorio »: « La parrocchia di S. Giorgio in Busalla allora col titolo di Rettoria, aveva suffraganei i due oratori di S. Bernardo e di S. Agostino... Nota: A questi cenni l’anonimo compilatore aggiunge che 1 oratorio di S. Agostino, di cui tutt’ora esistono le rovine (ai tempi del Navone o a quelli del compilatore? - n.d.aa.) era un monastero fondato da Re Liutprando nel luogo dove gli venne consegnato il corpo di S. Agostino (721-25, Muratori, Annali) e quantunque Baronio riferisce, che le reliquie del detto Santo furono trasportate pel praedium chiamato Savinariense (che si vuole sia Savignone) la cosa nei termini m cui la pone l’anonimo compilatore del dizionario mi pare avere molto del verosimile ». Solo più tardi (C. Navone, Busalla Feudale antica Fortezza, 1909, p. 40), pur senza citare il doc. 1, risulta essere venuto in possesso di dati più attendibili: « (La via dei traffici - n.d.aa.) trascorreva presso il Monasterio agostiniano della Guardia (costrutto verso il 1488) e all’arrivo traversava con ponte di legno il rio Migliarina, dove si piega ». A. e M. Remondini, Parrocchie dell’Archidiocesi di Genova, Regione XIII, Genova, pp. 86-87: « Sopra accennammo che presso il vertice dei Giovi era una chiesa di N. S. della Guardia dei PP. Agostiniani, e questo è riferito nel 1822 dal Rettore Comotto, senza averne altra indicazione o avanti o dopo da altri ». 5 D. Cambiaso cit., p. 270. — 296 — Spinola, signori di Busalla, un terreno sui Giovi per edificarvi un loro convento con chiesa sub vucabulo Mariae de la Guardia ». E la chiesa fu ben presto costruita, cosicché « dopo sei mesi, il 13 gennaio 1489, è indicato un certo frate Lorenzo, agostiniano, che abita sui Giovi nei domini dd Sigg. Spinola, in quadam ecclesia quae ibi de novo construitur, intitu-lata sancta Maria de la Goardia » 6. L insediamento di una vera e propria comunità religiosa, se pure non era avvenuto già all’atto della fondazione, è confermato in un documento di quattordici anni posteriore, ancora citato dal Cambiaso: « Il 23 Aprile 1502 Nicolò Migone legava Lire 5 monasterio et fratibus Sanctae Mariae de custodia in Iugo »7. Uno dei documenti più significativi di cui si sia presa conoscenza nel corso della nostra ricerca, è il lodo arbitrale del 1589, copia del quale si conserva nell’Archivio Parrocchiale di Busalla8. Senza scendere a particolari che esulano dall’argomento del presente lavoro, basterà ricordare che esso si occupava della secolare questione delle « Comunaglie » e definiva i confini fra le comunità vicine di Busalla e di Polcevera, riconoscendo la giurisdizione della prima su quasi tutto il territorio del versante Nord dei Giovi. Fra le prove addotte a giustificazione della sentenza, (poste in allegato), vi era il fatto che il monastero della Guardia era sempre stato considerato come posto nel territorio del feudo di Busalla, secondo la testimonianza di alcune sentenze penali pronunciate negli anni fra il 1565 e il 1573. Il documento reca anche notizia di altra sentenza del 1596, aggiunta evidentemente in un secondo tempo; anche questa, come le precedenti e ad esclusione della prima, si riferisce a reati commessi in prossimità del monastero. La sentenza del 1565 è relativa invece ad una cattura avvenuta all’interno del monastero stesso: sul significato dell’episodio, in mancanza del documento originale, è prematuro azzardare ipotesi o congetture. Assai più importante è un passo contenuto nella motivazione 6 D. Cambiaso cit., p. 270, nota 2; Archivio Arcivescovile di Genova, Busalla, 1, c. 1. 7 D. Cambiaso, cit., p. 270, nota 2; Archivio di Stato di Genova, Notaio Gerolamo Loggia, filza 6 c. 56. 8 Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi, Vallecalda, Registro Controversie e Confini con Polcevera, pp. 5-13. Cfr. doc. 3 che riferisce solo la parte relativa al nostro monastero. - 297 - (iustificatio) allegata al dispositivo, il quale si riferisce direttamente monastero: Pervertustum monasterium nuncupatum della Guar ia intra limites positum ad usum purgandi et custodiendi peste infectos a uza ens bus adhibitum. Il documento si commenta da solo: basterà ar nota se, come assai probabile, la piccola comunità giungeva ad assumersi ^ pito così gravoso della cura degli appestati, non è azzardato 1 ammet ^ sua costante attività di assistenza a favore delle popolazioni anc ^ ^ menti meno drammatici. Un’implicita (per quanto posteriore) con ^ documento citato potrebbe venire da alcuni atti di morte riportati registro dello stesso archivio parrocchiale, relativo a gran parte ei ^ XVII e XVIII9. Si tratta delle vittime della pestilenza del 1687 in usa^. caso unico rispetto a tutte le altre registrazioni ivi contenute, i cadaveri non vengono tumulati nella chiesa, ma in pratis insa tu, q avrebbero potuto essere appunto le adiacenze del monastero. È del 1585 un altro interessante documento, conservato in ,0 pie nell’archivio citato, ed il cui significato ultimo è peraltro poco c ..rum et com- Esso si riferisce alla restituzione di un calice con patena aa j i* pttì stessi erano modum del monastero; ciò dopo che in precedenza gli oggei ^ stati inviati ad Alessandria dal Padre Provinciale dell’Ordine. ^ q non si riesce ad accertare è l’eventuale legame fra l’episodio e i periodo di abbandono il cui inizio non dovrebbe essere stato 1 ^ posteriore. Se si eccettua la ricordata sentenza del 1596 mancano ^ ^ 1620 ulteriori documenti sull’esistenza del monastero. Sono di no una lettera dell’arcivescovo Domenico De Marini e « atto per a dizione o rebenedizione del Convento situato sulla strada per an a Giovi », e un atto notarile attestante l’attuazione di quanto richiesto lettera citata. Dai due documenti, che si conservano in copia nell are stesso11, è possibile apprendere che la chiesa era stata per molti ^ profanata ed destructa, e solo a quell’epoca in parte restaurata per teressamento di fra Angelo Carenzano, mentre il monastero era de pf senti distructum. Tuttavia, un curioso documento del 1639 che fa par 9 Archivio Parrocchiale Busalla, Uber Mortuorum 1620-1712, p. 46. 10 Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi, Vallecalda, cc. 1-3. Cfr. doc. 2. 11 Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi Vallecalda, Registro cit., p. 30. Cfr. docc. 4 e 5. — 298 — del già citato Liber Mortuorum n, induce a ritenere che nel frattempo si fosse proceduto alla riedificazione del monastero. Vi si parla infatti di un « Padre Baciliere della Madonna della Guardia » il quale viene chiamato presso un morente che rifiuta la confessione da parte del rettore della Parrocchia « stante che aveva alcuni peccati che per vergogna non li confessava » 13. Alcuni documenti successivi, che fanno parte dei registri di Battesimo e di Matrimonio della parrocchia di Busalla, testimoniano di una sia pur modesta partecipazione alla vita religiosa del feudo. È probabile, tuttavia, che essa dovesse essere maggiore di quanto non appaia dai documenti stessi, essendo questi ultimi relativi a compiti di specifica pertinenza del rettore della parrocchia, e quindi solo in casi eccezionali demandati a terziI4. Due atti sono ancora tratti dal Liber Mortuorum-, vi si citano rispettivamente un assassinio commesso nei pressi del monastero e la morte di un carcerato, alla cui confessione ebbe a provvedere un frate dello stesso 15. A proposito del secondo, facciamo notare che in nessun altro caso, oltre a questo e al precedente già citato, risulta dal registro che frati del monastero avessero accolto confessioni di morenti; e che il luogo delle « forche » era, come risulta dalla cartina pubblicata I6, posto a breve distanza dall edificio che ospitava la comunità. Si potrebbe quindi ritenere che all assistenza spirituale dei condannati e dei detenuti fossero preposti gli Agostiniani del monastero della Guardia; ma difettano per ora ulteriori documenti o significativi dati al riguardo. Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Mortuorum 1620-1712 p 16 Cfr doc. 6. Indipendentemente dal significato che può rivestire ai fini della ricerca, il documento merita una particolare segnalazione per il pittoresco realismo con cui viene descritto un caso patologico. Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Matrimoniorum 1621-1713, p. 19: 31 agosto 1642; p. 26: 30 aprile 1647. Cfr. docc. 7 e 9; Liber Baptizatorum’qui nati sunt ex legitimo matrimonio 1620-1700, p. 26: 30 aprile 1647. Cfr. doc. 8. 15 Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Mortuorum 1620-1712, p. 35: 17 maggio 1649, p. 37: 26 dicembre 1649. Cfr. docc. 10 e 11. 16 Si tratta di una mappa cartacea da noi scoperta nel 1964, attualmente allo studio. Si trovava fra il materiale non registrato dell’Archivio Comunale di Busalla ed e probabilmente una delle più antiche conosciute per la zona dell’immediato oltregiovo, potendo essere attribuita almeno al primo Seicento. Impossibile riferirne la collocazione in quanto si sta procedendo a un completo riordinamento di quell’archivio. — 299 — È del 1655 un documento che testimonia dell’esistenza del monastero, senza far cenno ad un suo decadimento. Anzi 1 atto, un proc ama riguardante ancora le questioni di confine fra Busalla e Polcevera, risu ta redatto proprio nel monastero n. Tra l’altro, parlandovisi del Riano e e Levrere, il ruscello che scende dai Giovi verso Busalla, si cita a «porta del monastero, sito in faccia di detto riano ». Tuttavia, il declino poteva essere già in atto, e dovette comunque determinarsi nei trenta anni sue cessivi se « chiesa e monastero furono abbandonati nel 1685 » se^on l’opinione del Peagno 18 il quale afferma inoltre che, dopo 1 a an ono, « i vasi sacri per ordine del Padre Provinciale di Alessandria, furono rati dal Rev. Parroco di Busalla, mentre però vi rimase un frate o prò fesso fino al 1699, epoca della sua morte ». Non ci è stato possi i e, ne^ corso della ricerca, venire a conoscenza della relativa documentazione, c ^ doveva essere nota al Peagno. Siamo invece in grado di pubblicare a Liber Mortuorum l’atto di morte di fratei Alessandro, stranamente pnv 19 di ogni accenno alla contemporanea chiusura del monastero • I documenti successivi si riferiscono in massima parte ad un nu inasprimento della contesa per le Rogazioni, ovviamente legata a qu già ricordata per le « comunaglie »20. Le copie conservate ne r Parrocchiale di Busalla confermano che il decreto arcivescovile del o1 gno 1640, lungi dal porvi termine, non riuscì ad impedire che a 17 Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi, Valleca Registro cit., p. 37. Cfr. doc. 12. 18 F. Peagno, Cappella cit., p. 16. 19 Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Mortuorum 1620-1712, P- 99, 159; 2 marzo 1699. Cfr. doc. 13. 20 A. e M. Remondini, cit., pp. 86-7: « Buzalla posta tra la Plebania di Borg^ dei Fornari che le sta a tramontana e quella di Serra che le sta a Mezzodì, si |r0^. ad essere in contatto nel suo meridionale confine con la cappella già succursa Serra intitolata alla Ascensione. Questa capp. nel 1637 l’arciv. Card. Durazzo eress in parrocchia, ed ecco una lite. I nuovi parrocchiani dei Giovi, come si nomina Parr., nelle Rogazioni del 1640 oltrepassarono l’ora distrutta chiesa e Convento ei Padri Agostiniani intitolata a N. S. della Guardia allora esistente sul versante e Monte verso lo Scrivia e che fu sempre giudicata appartenente al territorio di Buzalla. La divergenza fu portata alla Curia arcivescovile, la quale con decreto del 6 Giugno di detto anno approvò le testimoniali del come l’Arciprete di Serra non avesse mai quella chiesa oltrepassata, e che la chiesa della Guardia stava sul territorio di Buzalla, inibendo al Rettore dei Giovi oltrepassare il versante dell’acqua sotto pena di 25 scudi per ogni volta ». — 300 — tesa si trascinasse fin oltre la metà almeno del secolo successivo. È così possibile seguire il progressivo affievolirsi fra i locali del ricordo del monastero; tuttavia, almeno fino al 1725, le sue strutture murarie dovevano sussistere più o meno integralmente conservate, anche se ormai considerate semplice termine di riferimento 21. Ma già nel 1757 Emanuele Tamagno, chiamato a testimoniare sui confini del feudo di Busalla 22, afferma che « li confini suddetti si fanno... andando per strada maestra verso detti Giovi fin di rimpetto alla casa rotta ossiano murasse dette il Monastero ». Agli inizi dell 800 rimane tuttavia la denominazione antica, come si rileva da un Extrait de Registres Criminels23. Vi si afferma ad esempio di « une visite été avenuée sur le chemin public pur le lieu nommé le Monastero ». come si vede nessun accenno viene fatto all’esistenza di eventuali rovine, per cui è possibile che già a quell’epoca fosse scomparso ogni vestigio della costruzione24. È evidente come questi scarni dati non siano tali da illuminare su quella che fu la vita « vera » del monastero Agostiniano di Busalla, sui rapporti che esso dovette avere con le comunità di Busalla e di Polcevera, sui moduli stessi con cui la sua esistenza dovette essere articolata; aspetti tutti che per ora siamo ben lungi dal potere anche soltanto delineare25. Gian Piero Mentasti Mauro Valerio Pastorino 21 Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi, Vallecalda, c. 18: 15 maggio 1725. Cfr. doc. 14. 22 Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi, Vallecalda, c. 21: aprile 1757. Cfr. doc. 15. 23 Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi, Vallecalda, Registro cit., pp. 97-100; 1804-1810. Cfr. doc. 16. 24 Cfr. note 2 e 4. (Abbiamo effettuato un sommario sopraluogo nella zona in cui sorgeva il monastero, dietro indicazione di locali; ma non siamo riusciti a reperire nessuna traccia di antiche costruzioni). 25 Qualche notizia ulteriore potrà venire dall’esame dei documenti dell’archivio comunale di Busalla, non consultabile nel 1968, all’epoca della presente ricerca: cfr. nota 16. Un particolare ringraziamento desideriamo esprimere a Don Raffaele Storace Arciprete di Busalla, ai dott. Valeria Polonio e Francesco Surdich, agli amici G. B. Badino e Carlo Tamagno; i quali tutti ci hanno aiutato nel corso delle ricerche. — 301 — Documenti 1488, 9 luglio Archivio di Stato Genova, Notaio Andrea De Cairo, filza 43, parte 1*, c. 22. Donatio et concessio territorii in dominio Buzale pro construendo rn°naste^ter In nomine Domini amen. Cum verum sit quod venerabiles religiosi ^ Iacobus de Ianua et frater Basilius etiam de Ianua, ordinis fratrum Herenl 1 f^rU^^jgjc-cti Augustini de observancia, pia ipsorum devocione moti et prò au®urnCnt°ons(;rue. nis dicti ordinis proponunt et intendunt construere de novo et edificare seu ^ re, et edificari facere1 unum locum sive monasterium dicti ordinis, Pr0 1^>S^jtjssjnl0 quibus fratribus eiusdem ordinis, in quo possint et debeant in perpetuum^ kucjan0 reddere vota sua. Et proinde requisiverunt a magnificis et generosis dominis Spinula condam Caroli, Daniele Spinula condam Iacobi, Ioanne Baptista condam Simonis, et Baldassare Spinula2 condam Gasparis ex dominis 3 loci u > et gubernatores 4 et habentes gubernium et administrationem a ceteris con o dicti loci Buzalle cum plenaria potestate et baylia, vigore publici instrumenti manu Andree de Artuxiis notarii publici, millesimo et die in eo contentis, ut eorum benignitate et liberalitate donare5, concedere, et assignare eisdem ra ^ Iacobo et Basilio locum aliquem et tantum territorium in loco ultra Iugum cons in territorio silicet et dominio ipsorum dominorum dicti loci Buzale, in finibus com^.^ Ianue, videlicet pro construendo dictum monasterium et conventum cum ecclesia, s oratorio, campanile et campana7, dormitorio, cimiterio et aliis necessariis officinis, orto, viridario, et nemore pro usu ipsorum fratrum et aliorum successorum suorum Hinc est quod prefati magnifici et generosi domini quatuor prenominati , vi ^ Lucianus, Daniel, Iohannes Baptista et Baldesar, ex dictis dominis et gubernatoris dicti loci Buzale, habentes bayliam et facultatem a ceteris condominis predictis u supra, annuentes requisicioni dictorum fratrum tamquam pie et iuste ac eorum dabile prepositum comendantes, cupientes quod terrena in celestia et transitoria m eterna felici comercio commutare eorum nominibus, nomine et vice aliorum con o-minorum predictorum, sponte et ex certa sciencia per sese, heredes, et successores eorum, sub tamen reservacione, pactis, et condicionibus infrascriptis dederunt, donaverunt 10, tradiderunt n, concesserunt et assignarunt dictis fratribus Iacobo et Basilio presentibus, acceptantibus et recipientibus pro se ipsis et aliis fratribus dicti ordinis in dicto loco in perpetuum permansuris et michi notario infrascripto tantum territorium in dicto loco ultra Iugum, in finibus predictis et in dominio dictorum dominorum Buzale per ipsos dominos gubernatores vel alios quibus commisserint per — 302 — terminos quantitatem et confines dessignandum pro construendo et hedificando dictum monasterium cum capella, sive oratorio12, dormitorio, cimiterio et aliis necessariis officinis pro 13 usu et habitacione dictorum fratrum et aliorum fratrum dicti ordinis 14 heremitarum Sancti Augustini de observancia sub vocabulo Beate Marie Virginis 15 de la Guardia et etiam cum orto, viridario16 et nemore pro usu et substentacione ipsorum fratrum presentium, et futurorum etiam terminando et designando ut supra. In quo quidem loco et territorio possint et valeant ac debeant ipsi fratres prenominati construere et hedificare, seu construi et hedificari facere17 dictum eorum monasterium cum capella sive oratorio18, dormitorio, cimiterio et aliis necessariis predictis, et sub vocabulo ac ordine supradictis sub modis, formis et condicionibus infrascriptis, videlicet quod dicti fratres teneantur et debeant ipsos dominos donatores et eorum heredes et successores participes facere in omnibus et singulis missis, oracionibus et officiis in dicta ecclesia, seu capella, seu oratorio 19 dicti monasterii in perpetuum celebrandis. Item quod dicti fratres présentes et futuri in dicto loco permansuri sint et esse debeant in perpetuum fideles prefatis dominis dicti loci Buzale et non esse in consilio, auxilio vel favore alicuius vel aliquorum procurandum damnum vel detrimentum ipsorum dominorum in ere, vel in personis neque aliquibus talia committere vel perpetrare volentibus modo aliquo consentire publice vel occulte sed potius, quam primum ad eorum noticiam devenisset quod aliqui machinarent aliqua in damnum seu Iesionem ipsorum dominorum, eisdem dominis statim fideliter denunciabunt per se vel nuncios etc. Quodsi secus facere presumerent vel atentare, eo casu ex nunc prout ex tunc dictus locus et territorium ut supra concessum et donatum ad ipsos dominos et heredes eorum libere revertatur et presens donatio et concessio sit et esse intelli-gatur ipso iure pro non facta et de ipso territorio20 ac monasterio et21 edificiis predictis possint ex tunc dicti domini concedere quibuscumque aliis fratribus eiusdem ordinis 22 quibus prout eisdem dominis melius videbitur23 concedere, tradere et assignare et ipsos fratres talia machinantes et non observantes ut supra ex dicto loco expellere propria ipsorum auctoritate et demum de ipsis territorio et monasterio24 et edificiis facere et disponere pro libito et arbitrio ipsorum dummodo dictum monasterium non convertatur in usus profanos sed tantum in fratres religiosos25 dicti ordinis Sancti Augustini26 de observantia. Item quod dicti fratres présentes et futuri non possint nec valeant dictum locum, seu monasterium et conventum cum pertinendis suis ullo unquam tempore vendere, alienare, cedere, renunciare, donare seu transferre quovismodo in aliquos alios fratres rdigiosos sive quoscumque alios cuiuscumque status, gradus, ordinis vel condicionis existant nisi tantum in fratres dicti ordinis Sancti Augustini de observancia sine expressa licencia; quod si secus facere attentaverint, eo casu cadant et cecidisse intelligantur ab omni iure dicti territorii, monasterii 27 et loci eis ut supra donati et concessi, et eo casu dicti domini possint de dicto territorio, loco et conventu facere et disponere eorum arbitrio prout supra. Item prefati domini gubernatores et donatores suis et dictis nominibus reservaverunt et reservant sibi ipsis ac heredibus et successoribus suis in perpetuum ius patronatus dicti loci, monasterii et conventus ut supra construendi et protagendi et defendendi ipsum locum et conventum ac fratres présentes et futuros tamquam domini et patroni ut supra. Et versa vice dicti fratres Iacobus et Basilius per se et successores suos quoscumque in dicto loco sponte et ex certa sciencia acceptantes omnia supra-•scripta promisserunt et solemniter convenerunt prefatis dominis gubernatoribus et - 303 - donatoribus presentibus et solemniter stipulantibus etc. premissa omnia atten ere, complere et observare sub modis, formis, pactis et condicionibus de qui us supra etc., renunciantes dicte partes etc., que omnia etc., sub pena dupli etc., et cum restitucione etc., ratum etc., et proinde etc. . Actum Ianue, in contracta nobilium de Spinolis de Luculo, videlicet su por ticu domus habitationis dicti domini Leonelis Spinule, anno a nativitate omini mcccclxxxviii indictione quinta secundum Ianue corsum, die mercurii vim m iulii, ante vesperas, presentibus testibus venerabili domino Antonio Gavoto, cano ^ ecclesie Beate Marie de Vineis Ianuensis, nobilibus Accellino Spinula condam Francisco Spinula et Ieronimo Spinula eius fratre filiis dicti domini, Thoma an* condam Christofori, Georgio Spinula domini Luciani ac Martino Spinu a, 10 ^ Accellini, ac Francisco de Turri de Rapallo condam Ioannis ad premissa vocatis rogatis. 1 seu-facere: in sopralinea e nel margine 2 Depennato: de Luculo ^ sopra-pennato: gubernatores 4 et gubernatores: in sopralinea 3 dona ■ ' ^nga. se. linea 6 consistens: in sopralinea 7 Campanile et campana: s ^ 'testo gue depennato et 8 Depennato-, ex dominis ac gubernatoris^ . 10 donaverunt: in sopralinea 11 Depennato-, conse 12 sive ora o • sopra. linea 13 Depennato-, dictis 14 Depennato: sancti nel margine lìnea 16 viridario: in sopralinea 17 seu-facere: in sopralinea e ^ Sopra- 18 sive oratorio: in sopralinea, segue depennato et _ 19 seu or2a,torl nasteri0 et: linea 20 ipso territorio: corretto su: ipsum territorium " 111. et jpSos in sopralinea 22 Depennato: vel alterius ordinis 23 Depenna^ • natQ. fratres 24 monasterio: in sopralinea 25 Depennato: potius quam aliorum 27 monasterii: in sopralinea 2 1585, 21 agosto Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi, Vallecalda, c. 1, e. 2, c. 3 ’. In nomine Domini amen. Anno a nativitate eiusdem millesimo quingentesun^ octuagesimo quinto, indicione decima tertia de more ac consuetudine presentis ^ die vero mercurii, vigesima prima mensis augusti, in vesperis. Michelinus Gattus quondam Buzalini de Buzalla, unus ex custodibus seu masariis ecclesie3 seu caP Beate Marie Magdalene loci Buzalle, suo ac nomine universitatis dicti loci Buza e, constitutus coram me notario ac testibus infrascriptis, sponte sua ac dicto nomine, et omni meliori modo, confessus fuit et confitetur, ac in veritate publica recognovit et reconoscit4 multum reverendum dominum Lucianum Raggium, archipresbyterum ecclesiarum Beatorum5 Marie et Iacobi de Gavio et in hac parte visitatorem deputatum a reverendissimo Ordinario Genue, ac vicarium foraneum ultra Iugum atque et substi- tutum a reverendissimo provinciali Ordinis Sancti Augustini pro visitatione monasterii Sante Marie della Guardia, iurisdictionis Buzalle ac diocesis Ianuensis, seipsum Miche- linum suo ac dicto nomine a predicto multo reverendo domino Luciano habuisse et recepisse, prout iure vera in mei notarii ac testium infrascriptorum 6, habet et recepit, quendam calicem 7 cum sua patina deaurata que erunt8 ad usum et commodum dicti monasterii Beate Marie della Guardia9, et usque de anno proxime preterito e dicto monasterio exportatus per predictum multum reverendum dominum Provincialem Ordinis Sancti Augustini ad civitatem 10 Alexandrie; et prout ita dictus Michelinus, suo et dicto nomine, eum habuisse ut supra per predicto multo reverendo domino Luciano presente, dante et consignante nomine multi reverendi domini Provincialis ac stipulante et acceptante et ad cautellam me notario et. asserit et pro potestate renuncians ad cautellam exceptionis dictorum calicis et pattene sibi ut supra non consignatorum et omni alii et, quare faciens et, promittens et, sub et, que bona et. Insuper dictus Michelinus suo et nomine dicte universitatis ut supra promittit et se convenit predicto multo reverendo domino Luciano vicario foraneo atque visitatore ut supra se facturum et observaturum ea omnia et singula que ab ipso multo reverendo domino vicario et visitatore supra dicto mandata et ordinata sunt ad usum et commodum dicte capelle Beate Marie Magdalene, ut apparet in visitatione dicte capelle ab eodem multum reverendo vicario et visitatore facta11 dicto Michelino suo et dicto nomine putata ut facta ut in presenti instrumenti copia12, sub modis, formis, penis, ac temporibus de quibus in ea cui et, renuncians et, promittens et, sub et, que bona et, iurans quoque et, ac sub et, renuncians et, de quibus omnibus et. Per me Thomam de Cornice notarium. Actum Buzalle, ut supra, in dicta ecclesia seu capella Beatte Marie Magdalene, presentibus ibidem domino Augustino Tagliava-cha quondam Mathei et Alexandrino Tagliavacha quondam Iacobi, ambobus de dicto loco Buzalle testibus notis et ad premissa vocatis et rogatis. 1614 die 14 februarii. Extractum ut supra ad instantiam dicti multi reverendi domini Luciani Raggi, de presenti canonici in cathedrali ecclesia Genue et...u. 1 Delle tre carte che si conservano nel succitato archivio, la più antica è senz’altro la c. 3, che è anche la più corretta; su di essa è condotta la presente edizione 2 Depennato: Michelini 3 Depennato: beate 4 Depennato: seipsum 3 et-Gavio; manca in c. 3 6 Seguono in c. 3 due parole minuscole di difficile lettura, che non sono riportate in c. 1 e c. 2 7 Depennato: ac patenam 8 La lettura corretta del testo, nella frase calicem cum sua patina deaurata que etc., sembra essere senz’altro erunt, anche se alcune trascrizioni tarde che si conservano nell’archivio citato portano erant 9 Seguono depennati: et seguito da parola illeggibile 10 Depennato: locum 11 Segue parola depennata di difficile lettura 12 Seguono in c. 3 due parole depennate di difficile lettura, erroneamente trascritte nelle altre due copie 13 Segue parola di lettura incerta 3 1565 - 1596 Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi, Vallecalda, Registro cit., pp. 7-8, p. 13. ... Iustificatio dicti laudi ex iuribus productis in processu arbitrali. Ex iuribus in processu arbitrali productis laudum iustificant enunciative plurium antiquorum instrumentorum venditionis, locationis, enphiteusis, in quibus etiam ipsi Pulcipherenses emunt, conducunt et in enphiteusim recipiunt bona intra dictos confines posita tamquam feudalia, prestito quoad enphiteuses fidelitatis iuramento, et fatentur eadem esse de territorio et iurisdictione Buzalle. - 305 - Fictum gentilium et laudemiorum solutio a possessoribus eorumdem bonorum ab immemorabili facta dominis Buzalle et caducitas ex legitimis causis incursa, et passa favore eorumdem dominorum, exceptis tantummodo paucis aliquibus terris, que antiquitus a condominis territori Buzalle fuerunt affrancate. Actus iudiciarii et iustitie administratio per pretores Buzalle tam inter Buzallen-ses, quam Pulcipherenses et alios quosvis semper nemine contradicente in et pro dictis bonis feudalibus exercita in iudiciis civilibus, criminalibus, mixtis et alterius cuiuscumque speciei, et signanter condemnatio et punitio delinquentium, capture e stiarum, accusationes, condemnationes, earumque excutiones et penarum exactiones pro damnis campestribus. Erectio et diuturna mansio furcarum et in eis delinquentium suspensio de man dato pretorum Buzalle. Pedagiorum exatio in quacumque parte controversorum confinium et signanter in quadam domo, que alias aderat in monte vocato Reste. Aptatio viarum usque ad summitatem Iugi pluries facta de mandato dommoru^ Buzalle. Quod homines Buzalle tempore Rogationum semper cum sacerdotibus runt 2 soliti faciendo dictas Rogationes pervenire usque ad dictos fines. ^ Traditiones delinquentium, seu bannitorum facte de mandato dominorum zalle ab eorum officialibus ministris serenissime Reipublice in summitate Iugi espressione, quod ibi adsunt confinia utriusque iurisdictionis. Pervetustum monasterium nuncupatum della Guardia intra dictos limites P tum ad usum purgandi et custodiendi peste infectos a Buzallensibus ac^1 1 ^ Actus possessorii ab immemorabili ne dum in terris cultis et domesticis, ^ etiam incultis et silvestribus et comunaliis a Buzallensibus exerciti roncando, e pascendo, seminando, fodendo, ligna faciendo, castaneas et alios fructus percipi aliosque actus possessorios faciendo, qui fieri solent a veris dominis et possesso rerum suarum, scientibus, videntibus, patientibus et non contradicentibus homin villarum Iugi, Pavei, Meliarine, Fumerri, Megnaneci et Montanesi, immo aliqui ex eis operam et adiumentum prestantibus hominibus Buzalle in dictis actibus possessoriis. Deposidones plurium testium omni exceptione maiorum, inter quos plures P cipherenses et Genuenses deponentium de veritate dictorum confinium et de predict et aliis actibus possessoriis et iurisdictionalibus a dominis Buzalle, eorumque subditis exercitis et optimas suarum depositionum rationes reddentium. Antiqua crux lignea una cum lapidum acervo in summitate Iugi, magnus lapis in vertice montis Peisalovo et quatuor paria terminorum in costeria contigua antiqui tus posita ad designandos dictos fines etc. Quod in registro territorii vallis Pulciphere facto ab anno 1556 citra fuerunt descripte solum terre citra summitatem Iugi in ascendendo, non autem ultra Buzal-lam versus quia he fuerunt abite de territorio et iurisdictione Buzalle. Quod illustrissimi capitanei Pulciphere et illustrissimi commissarii, et alii officiales pro tempore per serenissimam rempublicam ultra dictos fines Buzallam versus numquam exercuerunt, neque per se, neque ministerio eorum officialium actum ullum iurisdictionis etc. — 306 — Sequitur index aliquorum ex dictis documentis in processu arbitrali productis... Monasterium Sancte Marie de Guardia Processus criminalis ceptus anno 1565, 12 novembris, in curia Buzalle, contra octo Pulcipherenses occasione capture cuiusdam bambasarii et sociorum in monasterio della Guardia, ut in actis, notarii Cristophori Cassane. 1570. 5 iulii. Processus criminalis ceptus ab eadem curia contra Ioannem Antonium Saccum, Iacobum Reborattum et Augustinum Bosium pro insultu facto apud dictum monasterium Tedeschino de Tedeschino, in actis notarii Petri de Godano. 1573. Copia sententie facte per pretorem Buzalle contra Iacobum de Antonio Cavarelli condemnatum ad triremes pro insultu facto apud dictum monasterium quibusdam germanis in actis Abrosii Oliverii. Quibus additur alius processus criminalis structus anno 1596 cum sententia iusta votum iuris consulti diei 24 octobris eiusdem anni lata per pretores Buzalle contra Stephanum Cabrium pro furto in via pubblica inter dictum monasterium et Iugo commisso. 1 Del doc. dei 21 settembre 1589 (v. n. 8 dell’introduzione) si pubblicano solo la iustificatio e gli estratti relativi al nostro studio, a cui fu aggiunta in seguito la notizia del processo del 1596 2 Depennato: solito 4 1620, 29 agosto Archivio Parrocchiale Busalla, Se. E, Cause Sarissola, Giovi, Vallecalda; Registro cit. p. 30. Lettera dell’arcivescovo e atto per la benedizione o rebenedizione del convento situato nella strada per andare sui Giovi: Al molto rev.do come fratello, il rettore e vicario foraneo di Fiacone. Molto reverendo come fratello. Intendo che la chiesa di Santa Maria della Guardia, che si pretende d’officiare dai padri di Santo Agostino, sia ristaurata et redificata in maniera che con decenza possa in essa celebrarsi. Potrà però visitar detta chiesa e trovandola nello stato indicato, la potrà rebenedire, acciò possa celebrarvisi, che con questo le ne dò la facoltà necessaria, e Dio ne guardi. Genova li 29 agosto 1620. Come fratello affezionatissimo. Firmato De Marini Arcivescovo di Genova. 5 1620, 5 settembre Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, cause Sarissola, Giovi, Vallecalda; Registro cit., p. 30. In nomine Domini amen. Anno a nativitate eiusdem 1620, indicione 3a, die vero sabbati 5 settembris. Notum sit omnibus et universis qualiter multus reverendus dominus P. Cristophorus Salvaghus, rector ecclesie Sancti Laurentii loci Flaconi et vica- - 307 - rius foraneus, de ordine et mandato illustrissimi archiepiscopi Ianuensis, vigore litteram sibi directam ■, datam Genue, sub die 29 augusti proxime preteriti per me notarium infrascriptum, visis et lectis, indutus stola et pluviali, ac servatis solitis solemni-tatibus, ad forman sacrorum canonum benedici seu rebenedici, ad presentiam mei infrascripti notarii aliorumque personarum tam ville Iughi quam aliorum villarum et loci Buzalle, ecclesiam Sancte Marie de Guardia, conventus confratrum Sancti Augustini, situatam prope dictum conventum, de presenti distructum, existens inter locum Buzalle et villarum Iughi, in propria iurisdictione Buzalle. Et in Qua ecclesia a ias celebrabantur sacra et divina officia a predictis confratribus Ordinis Eremitarum ancti Augustini et deinde per multos annos fuit profanata et destructa, ed de recenti in parte restaurata, ad instantiam multi reverendi domini fra Angeli Carenzani, e icto Ordine Eremitarum Sancti Augustini, ac vicarii perpetui, ut asserit, dicte ecc esie conventus etc. predictos de quibus omnibus me Georgium Tagliavacche notarium. Actum in dicta ecclesia Sancte Marie de Guardia, presentibus magnifico Ioanne ana de Ferraris quondam Baptiste et Marco Tagliavacca quondam...2 testibus vocatis et rogatis. 1 Così nel testo - Lacuna nel testo 6 1639, 4 settembre Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Mortuorum 1620-1712, p- 16, atto ^ Giovan Francesco Bocardo, d’ettà d’anni 35, confessato e comunicato da m^ rectore infrascripto et ricevuto l’Oliosanto, hà reso l’anima sua a Dio e fu sep0 nella Chiesa parocchiale di S. Georgio di Buzala; vero è che la sua morte è s gu in questo modo, cioè essendo venuto da Niza della paglia amalato, doppo a giorni della sua infìrmità, quantunque da me era giornalmente visitato secondo i solito et esortandolo a confessarsi, non però da me si volse mai confessare, che: a del mese li venne uno accidente e ritrovandosi Maria del quondam Batino 8 vacca, lo esortò parimente alla confessione, massima da me suo rettore, il Qua e ^ rispose che da me non si voleva confessare, come pecora che fuggiva la voce pastore, stante che aveva rispetto poiché aveva alcuni peccati che per vergogna no^ li confessava. Si diede però subito ordine che fosse confessato prima dal Padre ac liete della Madonna della Guardia, appresso il quale fecce una confessione genera e, benché all improvviso, et il giorno seguente si comunicò da me e nell’istesso giorno a 4 hora li venne uno accidente che durò circa doi miserere e vi si trovorno presenti Giovanni Servarezza e Antonio Tamagno, Giulia Moglie di Antonio Malherba, tutti di BuzaLIa, i quali tutti testificorno che stimavano fosse del tutto morto; et haveva la bocca talmente aperta che humanamente per forza d’oncini non si porrebbe aprire siffattamente bocca d’huomo e messe la lingua fuori un grosso palmo talmente spaventoso spectacolo che non se li scorgevano occhi nella testa; di poi li venne un gran tremore, che difficilmente lo potevano tenere li soprannominati, et in quel mentre io gionsi appresso di esso, il quale, tornato in sè, disse queste parole alla nostra presenza e di tutti li astanti, quali erano molti: «Fatte bene fatte bene, perchè mi — 308 — sono trovato nell’inferno e sentivo quelle voci che dicevano — in eterno, in eterno — con pena crudele che sentiva nella gamba dritta tutta negra ». Il quale disse che la Madonna Santissima del Rosario li haveva fatto gratia, e tornato bene in suo essere, prese uno quadro della B.V.M. e li rese molte gratie e poi si confessò di nuovo da me, e li diedi l’olio santo, e fattoli fare le solite proteste di tutto cuore si riunisse nel voler di Dio dando segno a tutti di vera contricione rese lo spirito a mezzanotte. Io Vincenzo Rossi rettore della chiesa parochiale di S. Giorgio ex actibus d. Georgii Tagliavaccae nottarii et pretoris dicti loci Buzallae. 7 1642, 31 agosto Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Matrimoniorum 1621-7113, p. 19, atto 93. Ioannes Bapta Tagliavacca, filius Bartolomei Tagliavacca, et Clementia Iacobineta, filia quondam Dominici Oliverii Burgi Furnariorum, coniuncti fuerunt in matrimonium, per verba de presenti et coram me infrascripto, de licentia reverendi domini rectoris Vincentii Rubei in scriptis, in ecclesia Sancte Marie della Guardia monasterii Sancti Augustini, posita in iurisdictione parochie Sancti Georgii Buzalle, factis prius tribus solitis pubblicationibus inter missarum solemna, iuxta formam sacrosancti concilii Tridentini, quarum prima fuit die decima tertia, secunda die 20, et tertia die 22, nullum-que impedimentum inventum fuit, benedictionemque nuptialem sponsa recepit. Testes fuerunt domini Albertus, Francisais quondam Marcantonii de Oliveriis et Christo-phorus quondam Leonis item de Oliveriis in quorum fidem. Ego reverendus dominus Ioannes Baptista filius quondam domini Augustini de Oliveriis, manu propria. 8 1647, 26 aprile Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Baptizatorum qui nati sunt ex legitimo matrimonio 1620-1700, p. 52, atto 64. Monica, filia Francisci et Arghentine de Turri coniugum, nata die 25 dicti mensis, baptizata fuit die ut supra a me prè Augustino Maria Sbarbaro, priore monasterii Sancte Marie vulgo nuncupati della Guardia di Buzalla. Patrini eius fuerunt Andreas Tagliavache et Maria de Turri, uxor Baptiste. 9 1647, 30 aprile Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Matrimoniorum 1621-1713, p. 26, atto 14. Die 30 Aprilis 1647. Bartholomeus delli Agosti, loci Sarisole, Dertonensis dio-cesis, et Catharina, fìlia Thome Bottarii, eiusdem loci, habitans haec Buzale, de licentia — 309 - revendissimorum dominorum vicariorum archiepiscopalis Genue et episcopalis Derto-nensis, coniuncti fuerunt in matrimonium per verba de presenti; beneditionemque nuptialem receperunt a me infrascripto prè, de licentia multi reverendi domini rectoris, factis prius tribus solitis pubblicationibus inter missarum solemnia, nulloque detecto impedimento, quarum prima facta fuit die dominica preteriti martii cum duobus dominicis sequentibus. Testes a me vocati fuerunt magnifici Georgius et Bartholomeus Taglia vacche, ambo de oppido Buzale, omniaque servata fuere iusta formam sacrosancti concilii Tridentini, et in fidem. Ego frater Augustinus Maria Sbarbaris, vicarius Sancte Marie della Guardia loci Buzale. 10 1649, 17 maggio Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Mortuorum 1620-1712, p. 35, atto 91. Augustinus Ansaldus, filius Pantalei, ville Grofolieti, parochie Insule, Genuen sis diocesis, prope ecclesiam Sancte Marie Virginis de Guardia, Iugi Buzale, Buza am Genue veniens, a latronibus agressus fuit noctu, quem prius fuerunt grassati, ac deine, emisso sclopo glande percussus, mortuus cecidit nullo habito sacramento, sed ha ita fide ab admodum reverendo rectore Insule, quod nullus haberet impedimentus , a quod privandus sit ecclesiastica sepultura. Ideo eius corpus sepultum fuit in ecc esia parochiale Sancti Georgi Buzale, die ut supra. 1 Così nel testo 11 1649, 26 dicembre Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Mortuorum 1620-1712, p. 37, atto 106. Virgilius Zengius de villis Borzonasche, abitator Buzale, in communione sancte matris Ecclesie animam Deo reddidit cum positus esset in carcere, mandato illustrissimi domini patroni. Paucis diebus priusquam moreretur, peccata sua fuit confessus multo reverendo patri Sancte Marie de Guardia Buzale. Etatis annorum 72. Eius autem corpus fuit sepultum in ecclesia Sancti Georgi Buzale. 12 1655-56 Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. S, Cause Sarissola, Giovi, Vallecalda; Registro cit., p. 37. Proclama fatto del 1655 e pubblicato del 1656. Per parte e comandamento dell’illustrissimo signor Filippo Maria Pinelo capitano di Polcevera, e commissionato da serenissimi Collegi della Serenissima Repub- — 310 — blica di Genova, a far riconoscere di nuovo et agiustare espressamente, per mezzo del magnifico Carlo Antonio Paggi, la linea già anni sono da lui riservata in carta, nel dissegno da lui presentato a Serenissimi Colleggi, dentro la quale ogni anno, sintanto che saranno conosciute, e nel merito decise, le differenze che vertono fra gli uomini delle ville di Montanesi, Giovo, Fumerri, e Paveto, da una parte, e quelli di Buzalla, dall’altra, per occasioni di siti e boschi da quelli di Buzalla pretesi controversi, dovrà l’una parte e l’altra contenersi. Si notifica per la presente pubblica grida a tutti gli uomini di dette ville et a sudditi della Serenissima Repubblica niuno escluso, che signoria illustrissima, per esecuzione di quanto li prefati serenissimi della Repubblica hanno ordinato sotto li 22 del presente, ha fatto dividere li detti siti e boschi con l’apposizione de termini murati in calcina, dentro de’ quali tanto li uomini di dette ville e sudditi della Serenissima Repubblica, quanto quelli di Buzalla, pretermesso qualsivoglia pretesto, dovranno respettivamente contenersi. Et a detta parte di levante il termine divisorio per ora, e sino a tanto che segua il giudicio, e senza pregiudicio della giurisdizione della Serenissima Repubblica e sue raggioni, e delle preterizioni di detti di Polcevera e Buzalla, dovrà cominciarsi essere per retta linea l’albero bricolato del quale si fa menzione nella visita del magnifico Giovanni Francesco Sauli, a piedi del quale resta aposto uno termine murato in calcina; e da esso per retta linea si viene a referire su la costiera vicino Alliano o sia Fessarello, espresso nella detta visita di detto magnifico Sauli, che è il primo verso tramontana in riguardo due altri, che seguitano verso levante, e verso il monte Peisalupo dove si è posto un altro termine murato in calcina vicino a un albero, che si è fatto bricolare, ed intagliare con un segno di croce; e da esso ascendendo per retta linea, e secondo li alberi che si sono segnati, si va trovare per detta costiera un altro termine, posto e murato in calcina vicino ad un altro albero bricolato e segnato in distanza d’un altro, che scendendo per un altro altiero d’alto e basso, e lontano da essa palmi centoventitre in circa; et è la costiera che resta fra il terzo riano ed il secondo, che scendendo dal monte Peisalupo va ascendendo in detta linea dalle radici di detta costiera vicino alla quale parimente si è posto un altro termine a faccia del monte del monastero in vicinanza del bosco nominato Cappellino, a mezzo della qual salita in circa verso levante è stato murato in calcina un altro termine ed un altro poscia sopra detto monte del monastero vicino al bosco di Cappellino; ed indi scendendo per la falda dell’istesso bosco di Cappellino fino alla strada pubblica, che va a Buzalla, vicino ed in faccia al riano delle Levrere, in distanza di palmi 1724 dalla porta della chiesa del monastero sito in faccia di detto riano. Sarà divisorio, fra esse parti come sopra, tutto il sito che resta designato e posto dentro delli termini parimente aposti sino alla metà del monte, ascendendo sopra della costiera di Cappellino, che mira a retta linea per l’ultimo termine posto in faccia come sopra al detto riano delle Levrere; dal qual riano delle Levrere sino al riano di San Martino per retta linea ascendendo sin sopra nel piano di detta collina, dove vicino dieci palmi o circa ad un albero di due branche, osia due alberi di castagne attaccati insieme, stato segnato al tempo dalla visita fatta dal Magnifico Gio Francesco Sauli, si è posto un termine in calcina, quale retta linea dalla parte di levante và ascendere in detto riano di San Martino conforme appare dalla continuazione dei termini fabricati in calcina; e dalla parte verso maestrale per retta linea và a - 311 - terminare a quella estremità del riano d’Agneto, sbocca nelle Buzallette; conforme resta detta linea designata nell’alberi, e maggiormente espressa con l’apposizione di altri termini in proporzionata distanza fatti apporre per maggior chiarezza di detta linea. Il tutto sotto pena alli contrafacienti: se saranno uomini, arbitraria sin in tre anni di galera; se saranno donne o ragazzi di minor età d’anni venti, di lire duecento moneta corrente per ogniuna contrafazione; per quali saranno tenuti rispetto alle donne i loro mariti, se ne avranno, o li loro più prossimi parenti; et in fatto di comodità tanto d’essi contrafacienti, quanto de parenti e padri, à pagar detta pena restino obligate le loro rispettive ville. ... Comandando inoltre a tutti li uomini di dette ville, et ad ogniuno sud ito e a Serenissima Repubblica, che debbano conservare e diffendere comunemente li termini suddetti; sotto pena, in caso d’amozione d’alcuni di essi, di tre anni di galera, e scuti cento argento, oltre ogni altra pena così legale come statutaria in qual fossero a qual pena di scuti cento argento sii tenuta detta villa se non darà in chiaro 1 e quente che fosse di detta villa; inoltre si notiffica et intima a tutti li sudditi, e sino c siano ogni anno fatti li raccolti delle castagne, cioè per tutto il giorno di San ard^. ogni anno debba trattenere ogni anno il suo bestiame, che non entri in e di castagna, sotto pena di scuti quattro argento per ogni bestia, d aplicarsi per terzo all’accusatore, osia esecutore. ., Delle quali cose l’illustrissimo comandato se ne facci la presente pub ca gr ^ da pubblicarsi in tutte dette ville et in la valle di Polcevera, e ne luog i so consueti. . Data monastero della Guardia delli Giovi a dì 28 Settembre anno 1656. P Marcantonio Marengo nottaro. 13 1699, 2 marzo Archivio Parrocchiale Busalla, Liber Mortuorum 1620-1712, p. 99, atto 159. 1699 die 2 martii. Frater Alexander, laicus Ordinis Eremitarum Sancti Augu stini, degens in monasterio Sancte Marie Guardie, etatis annorum 58 circiter, munitus sacramentis penitentie, eucharistie, estremunctionis, atque anime comendationis, o i die prima dicti et deinde die dicta in hac parochia sepultus fuit. 14 1725, 15 maggio Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi Vallecalda, c. 18. In nomine Domini amen. Anno a nativitate eiusdem millesimo septingentesimo vigesimo quinto, indicione tertia Romanorum more, die vero martii decima quinta mensis maii, in tertiis, in canonica multi reverendi domini rectoris ecclesie parroc-chialis Buzalle, Ioannes Maria Amorosius quondam Cipriani presentis loci, testis1 — 312 — Particolare ingrandito della carta precedente con l’indicazione del Monastero vocatus, productus, receptus et per me notarium infrascriptum summarie examinatus, ad instantiam et requisitionem multi reverendi domini Luce Marie Carri, moderni rectoris ecclesie parrocchialis Buzalle, fidem facere intendentis de infrascriptis, cui testi, delato iuramento veritatis dicende, quod prestitit, tactis etc., monitus prius etc., ac intellecta mente producentis etc., suo iuramento testificando dixit: « Io dico che a mia memoria non hó mai veduto ne sentito dire che la processione delle Roga-zioni della chiesa parrocchiale del Giovo o’ sia il parroco di ditta chiesa con ditta processione habbi passato la sommità del Giovo di quà dall’aquapendente, ove era in ditta sommità una croce di legno, a mano sinistra andando sul Giovo da Buzalla, et vicino alla ditta croce vi era un albero di amarene; e solamente quest’anno ha passato detto termine essendo arrivata assai molto di sotto al monastero de reverendi Padri Agostiniani di Buzalla, in un sito che è dirimpetto alla massaria detta Casa da basso ho2 sentito dire più e più volte dà miei maggiori e dall’illustrissimo signor marchese Carlo Spinola nostro signore, et altre persone vecchie, che il parroco della chiesa di Buzalla andava con la processione delle Rogazioni sino alla detta sommità del Giovo dall aquapendente in qua, ove era sudetta croce, quale ho veduto a mio tempo, e detto albero d’amarene3, più e più volte per essere, dal detto sito ove era detta croce in qua4, della parrocchia di Buzalla, che è quanto etc.». Interrogatus de causa scientie etc. refert: « Per le ragioni dette di sopra e per che le processioni si fanno pubblicamente; e se il reverendo parroco del Giovo avesse fatto sudette processioni delle altre volte di qua dalla sudetta sommità come hà fatto quest’anno si saprebbe, e si sarebbe sentito dire e qualched’uno l’avrebbe5 udito; et essendo io d’anni 75 e che ho sempre praticato e prattico in questo luogo e suo territorio, lo sapria ò averei sentito dire, e se fosse differentemente di quello che hò deposto, lo direi ». Est etatis ïam dicte etc., in bonis scuta centum producentis etc., in reliquis adequata etc., non attinet etc., de quibus omnibus etc.6 me Cesarem de Potestate notarium etc. Actum ubi supra etc., presentibus Baptista Gamba quondam Vincendi et Francisco Feralasco quondam Sebastiani, testibus notis ad predicta vocatis etc. Die ea paulo post predicta ad bancum mei notarii siti Buzalle presentis loci Franciscus Tamaneus quondam Bartholomei, alius testis ut supra vocatus, productus, receptus et per me dictum notarium summarie examinatus, ad eandem instantiam et requisitionem dicti multi reverendi domini Luce Marie Carri, rectoris ecclesie predicte Buzalle, fidem facere intendentis de infrascriptis etc., cui testi delato iuramento veritatis dicende, quod prestitit tactis etc., monitus prius etc., ac intellecta mente producentis etc., suo iuramento testificando dixit: « Io dico con tutta verità d’aver sentito dire più e più volte dà miei maggiori et altra persona antica, ancora fra quali da madonna Lazarina, che è morta due anni fà circa d’ettà d’anni novanta, e dà Antonio Maria Feralasco, che è morto mesi sono d’ettà d’anni 85, che in loro tempo hanno veduto li parrochi della chiesa di Buzalla andare con la processione delle Rogazioni e con detta processione essere andati sino alla sommità del Giovo dove era una croce a mano sinistra andando a Genova; per essere, da detto sito in quà, della parrocchia di Buzalla7, e detta croce mi ricordo benissimo avergliela io medesimo veduta, et era vicino ad un albero di amarena che vi era, e ve l’hò veduta moltissime volte nel andare a Genova e ritornare con la mia mula a Buzalla, e mai hò sentito dire che il parroco della chiesa parrocchiale del Giovo sii venuto con la processione delle Rogazioni di quà della croce suddetta, come ha fatto quest’anno, che è arrivato s - 313 - fino in un sito che resta dirimpetto alla massaria del signor marchese Carlo Spinola nostro padrone chiamata la Cà da Basso di qua dal monastero dei reverendi Padri Agostiniani di Buzalla e se fosse stato altre volte si saprebbe, sicome si sà che vi son stati altre volte quelli di Buzalla sino alla croce suddetta et hoc est etc. ». Interrogatus de causa scientie etc., refert per ea que supra etc., est etatis annorum 65 circiter etc., in bonis scuta centum etc., non attinet etc., in reliquis adequate etc. Ea successive in dicto loco etc. Andreas Malerba quondam Antonii alius testis vocatus, productus, receptus et per me iam dictum notarium summarie examintus, ad eandem instantiam et requisitionem dicti multi reverendi domini rectoris Carri, fidem facere intendentis de infrascriptis etc. Cui testi delato iuramento veritatis dicende etc., quod prestitit tactis etc., monitus prius etc., ac intellecta mente piodu-centis etc., suo iuramento testificando dixit: « Io dico che il giorno dè 7 del corrente mese di maggio, alla mattina, il parroco della chiesa del Giovo è venuto con la processione delle Rogazioni di qua longo9 sino sotto del monastero dei reverendi padri Agostiniani di Buzalla, per contro la massaria della Casa da Basso, assistito da gente del Giovo armata; e che mai i parrochi10 della chiesa sudetta del Giovo hanno Pas sato a mia memoria la sommità del Giovo, ove si dice « alla crocetta », per chè vi era una croce di legno la quale era divisorio fra il Giovo e Buzalla, et i parioc i di Buzalla altra volta andavano con la processione delle Rogazioni sino alla croce sudetta per essere11 della parrocchia di Buzalla sino a detta croce, qual croce mi ricordo avervi veduto più e più volte è quanto etc. ». Interrogatus de causa scientia refert: « Per averlo sentito dire moltissime volte da mia nona et altre persone anti che 12, fra quali da madonna Lazarina madre di Steffano Salvaressa quondam Biaggio, quali mi hanno detto più volte esservi loro medesmi andati con detta processione delle Rogationi di Buzalla e col parroco, sino alla sommità del Giovo sudetto dà casa d’un certo Antonio sopranominato il Tondo, ove era detta croce; e mai aveva passato detto termine il parroco del Giovo con detta processione dall’aquapendendente in qua verso Buzalla, et il parroco di Buzalla dall’aquapendente in là verso il Giovo ». etatis annorum 65 etc., in bonis scuta centum etc., et ultra etc., non attinet etc., in reliquis adequatis etc. Ea successive in dicto loco etc. Paulinus Malerba quondam Augustini presentis loci alius testis vocatus, productus, receptus, et per me iam dictum notarium summarie examinatus, ad eandem instantiam et requisitionem ante dicti multi reverendi domini rectoris Carri, fidem facere intendentis de infrascriptis etc., cui testi delato îura-mento veritatis dicende, quod prestitit tactis etc. monitus prius etc., ac intellecta mente producentis etc., suo iuramento testificando dixit: « Io dico che li huomini dà villaggi di Polcevera non hanno mai oltrepassato la sommità del Giovo con la processione delle Rogazioni, se non quest’anno à 7 del corrente mese di maggio, che sono venuti con detta processione e gente armata sino sotto13 al monastero di Buzalla dirimpetto alla massaria della Casa da Basso, in quale monastero altre volte stavano li reverendi padri Agostiniani et altre volte 14 questi di Buzalla 15 con la processione delle Rogazioni andavano sino alla sommità sudetta del Giovo, ove era una croce di legno la quale era termine tra Buzalla e il Giovo, avendo io testimonio inteso 16 ciò dà miei maggiori, et17 altre persone18 antiche mentre vivevano, fra quali madonna Lazarina Salvaressa quondam Biaggio; et altri19 esservi loro medesmi andati20 con detta processione sino alla croce sudetta, et hoc est». Interrogatus de causa scientia — 314 — etc., îefert pro ea que supra dixit etc., est etatis annorum 65 etc., in bonis scuta centum, et ultra, etc., non attinet etc., in reliquis adequate etc., de quibus omnibus etc. me iam dictum notarium Cesarem de Potestate notarium. Actum ut supra etc., presentibus Baptista Gamba quondam Vincentii et Iacobo Antonio de Potestate filio mei notarii testibus notis ad predicta vocatis etc. Die ea, in vesperis, in dicto loco, Dominicus Tamaneus quondam Baptiste pre-sentis loci, alius testis vocatus, productus, receptus et per me iam dictum notarium summarie examinatus, ad eandem instantiam et requisitionem antedicti multi reverendi domini Luce Marie Carri, rectoris ecclesie parrochialis Buzalle, fidem facere intendentis de infrascriptis etc., cui testi delato iuramento veritatis dicende, quod prestitit, tactis etc., monitus prius etc., ac intellecta mente producentis etc., suo iuramento testificando dixit: « Io dico che il giorno de 7 del corrente mese di maggio andando alii 21 boschi di compagnia di Giorgio mio figlio e di Giacomo mio nipote da fratello, essendo nella massaria del signor marchese nostro padrone detta la Casa da Basso, viddimo la processione delle Rogazioni della chiesa del Giovo scortata da alquanti huomini armati, la quale era assai per grande tratto22 sotto dal monastero de reverendi padri Agostiniani di Buzalla, dirimpetto a sudetta massaria, il che non ha fatto giamai per l’adietro, mentre non ha giamai per l’adietro oltrepassato la sommità del Giovo, ove dicono « la crocetta »; perchè essendovi altra volta23 una croce di legno la quale più e più volte ho veduto; ed era termine divisorio della parrochia del Giovo e di Buzalla e perciò il parroco della chiesa di Buzalla andava altra volta con la processione delle Rogazioni fino alla sommità del Giovo ove era suddetta croce 24, e niuno de sudetti parrochi respettivamente oltrepassava suddetta croce con detta loro processione per la raggione detta di sopra, et hoc est »25. Interrogatus de causa scientia etc., refert: « Per aver veduto suddetto giorno de 7 corrente la sudetta processione del Giovo come sopra ho deposto scortata da gente armata di quà e di là dalli rialli, et avevano anche della gente armata in detta massaria detta la Cà da Basso, ove eravamo quando udimmo detta processione, per non l’averla mai per 1 adietro veduto passare sudetta croce, ne sentito dire differentemente, et aver sentito dire da miei maggiori, et altre persone più antiche mentre vivevano, che a’ loro tempo sono andati di compagnia del parroco et popolo di Buzalla, secondo si suol fare 2(1 la processione delle Rogazioni, sino alla sommità del Giovo ove era la croce, in tutto come hò deposto etc. ». Est etatis annorum 70 etc., in bonis scuta centum, et ultra etc., non attinet etc., in reliquis adequata etc. Ea successive in dicto loco Georgius Francescus filius Dominici presentis loci, alius testis vocatus, receptus et per me iam dictum notarium summarie examinatus, ad eandem instantiam et requisitionem predicti multi reverendi domini rectoris Carri ecclesie parrochialis Buzalle, fidem facere intendentis de infranscriptis etc., cui testi delato iuramento veritatis dicende, quod prestitit, tactis etc., monitus prius etc., ac intellecta mente producentis etc., suo iuramento testificando dixit: « Io dico che quel giorno della prima Rogatione, che si son fatte di questo mese in lunedi, essendo ne boschi con mio padre e mio cugino Giacomo Traverso, viddimo27 la processione delle Rogationi della parrocchia28 del Giovo29, e vi erano di qua e di la da i riali delli huomini30 del Rivo e del Giovo armati, che scortavano detta processione la quale arrivò fino sotto del monastero di Buzalla, per contro la massaria detta la Chà da Basso del signor marchese Carlo Spinola nostro padrone, dove eravamo e restammo - 315 - i masari, di tal novità non avendo mai sentito dire, che habbi passato la sommità del Giovo per l’addietro detta processione; anzi che ho sentito dire più volte 31 dà Lazarina Salvaressa, che ho conosciuto vecchia32, et altre persone antiche, che non solo detta processione del Giovo non passava oltre una croce di legno che eia piantata nella sommità del Giovo ove dicono « alla crocetta », ma anche che la processione delle Rogazioni di Buzalla altre volte andava sino alla sommità suddetta ove era detta croce; e mi ha detto anche predetta Lazarina che in compagnia dell’altre persone antiche vi era andata più e più volte, et hoc est etc. ». Interrogatus de causa scientia, refert pro ea que supra etc., est etatis annorum 24 circiter etc., in bonis sub patria potestate etc., non attinet etc., in reliquis adequata etc., pro quibus omnibus etc. me dictum Cesarem de Potestate notarium etc. Actum ubi supra, presentibus Ambrosio Podio quondam Georgii et Ioanne Baptista quondam Dominici testibus notis ad predicta vocatis. Anno et indicione predicta, die vero mercurii, 16 dicti mensis mai, in tertiis, ad bancum mei notarii situm Buzalle. Georgius Feralascus quondam Marci Antonii presentis loci, alius testis vocatus, productus, receptus e per me dictum notarium summarie examinatus, ad eandem instantiam et requisitionem dicti multi reveren i domini rectoris Luce Marie Carri, rectoris ecclesie predicte Buzalle, fidem facere inten dentis de infrascriptis, cui testi, delato iuramento veritatis dicende, quod prestitit, tactis etc., monitus prius ac intellecta mente producentis, suo iuramento testificando dixit: « Io dico che ritrovandomi d’ettà d’anni 73 compiti, mai hò veduto ne sentito dire dà altre persone più antiche, ne dà miei maggiori, che li huomini delle Cimalie della Polcevera, particolarmente quelli del Giovo, siano mai stati per l’addietio con la processione delle Rogazioni oltre34 la sommità del Giovo verso Buzalla, ove era una croce di legno, escluso quest’anno; e viceversa quelli di Buzalla con la loro proces sione delle Rogazioni arrivarono altre volte sino alla sommità sudetta, ove era sudetta croce; avendo così sentito sdire più e più volte e dà sudetti miei maggiori e dà altre persone più antiche mentre vivevano, e vi erano andati loro tante volte con detta processione, et hoc est ». Interrogatus de causa scientia refert pro ea que supra etc., est etatis iam dicte etc., in bonis scuta centum et ultra etc., non attinet etc., in reli quis adequata etc., de quibus omnibus etc., me iam dictum Cesarem de Potestate notarium. Actum ubi supra etc., presentibus Baptista Bamba quondam Vincentii et Ioanne Baptista Malerba quondam Dominici, testibus notis ad predicta vocatis. 1 Depenato: de notaro 2 Depennato-, ben 3 Segue parola depennata di difficile lettura 4 Depennato: territorio 5 Depennato-, detto 6 Depenna- o. iJie ea paulo post predicta ad bancum mei notarii Buzalle 7 Depennato: ter- *,Itonl Depennato: al riale che era 9 Depennato: il riale delle seguito da parola illeggibile_ 10 Depennato: sudetti 11 Depennato: territorio Depennato: da altri 13 Depennato: al riale che seguito da parola illeggibile Depennato: il parroco della chiesa 15 Depennato: altra volta è arrivato 16 Depennato: dire 17 Depennato: dà 18 Depennato: più 19 Depennato: persone antiche per 20 Depennato: loro stati 21 Depennato: miei 22 De- pennato: fin sotto e fin sotto il riale che resta 23 Depennato: in quel tempo 27 RePennat0: di legno 25 Depennato: et hoc est 26 Segue parola depennata. Depennato: calar già dal Giovo 28 Depennato: chiesa 29 Depennato: in sito seguito da parola illeggibile e da chiesa e venir verso Buzalla 30 Depennato: delle cimalie 31 Parola illeggibile depennata 32 Depennalo: vecchia 33 Depen- nato: escluso quest’anno 34 Depennato: passati — 316 — * 15 1757, aprile Archivio Parrocchiale Busalla, Se. E, Cause Sarissola Giovi Vallecalda, c. 21. Processo costrutto dal notaro e commissario Nicollò Maria Villavecchia, d’ordine del magnifico D. Giò. Agostino Frontelli, sindico della Serenissima Republica, sotto del giorno 4 aprile 1757; del quale ne segue il tenore: 1757 die martis 19 mensis aprilis in tertiis — circa horam decimam quinta 1 — in officcio sive ad bancum curie Buzalle recepte fuere littere magnifici Augustini D. Ioanni Frontelli sindici illustrissimi et excellentissimi Collegii illustrissimorum et excellentissimorum dominorum Procuratorum Serenissime Reipublice Genue per manus Ioannis Baptiste Malerbe, filii alterius Ioannis Baptiste, tenoris sequentis: Nempe a tergo — « AI magnifico signore signor procuratore colendissimo il signor Nicollò Maria Villavecchia commissario — Buzalla ». Intus vero. « Magnifico signore signor procuratore colendissimo; gli eccellentissimi deputati ai quali ho comunicato il di lui foglio in data de 31 marzo — lodando il di lui zelo ed attenzione — mi hanno imposto di significarle dover egli fare giudiciale ricognicione e processo del sito ove è stato da guardiani di San Giorgio eseguito l’arresto, acciò constare possa del commesso attentato entro i confini indubitati del feudo di Buzalla per poterne indi passare con sicurezza le doglianze ove si conviene. Fatto il piccolo processo, ossia recognizione, doverà subito trasmetterlo per il succennato effetto, e godendo io intanto l’occasione di rafermarle la mia antica osservanza mi do il vantaggio di essere di signoria vostra illustrissima, Genova li 4 aprile 1757, devotissimo et obbligatissimo servitore C. Gian Agostino Frontelli Sindico ». Qui cade la relazione del Baricello. Examen Emanuel Tamanei, 1757, 21 aprile. Ad bancum curie predicti magnifici domini commissarii ac notarii comparuit Emanuel Tamaneus Nicolosii, dè mandato vocatus et prò curia infrascripta examinatus, cui delato iuramento veritatis dicende, interogatus opportune, respondit: « In quanto fin ove gionga il confine del territorio di questo feudo di Buzalla in ascendere da questo luogo verso Giovi, per quello che ho dagli antichi sentito dire, erano fino alla sommità dei detti Giovi da dove l’acqua spande verso questa parte di Scrivia; ma quello che di certo io posso dire è che li confini sudetti si fanno senza contradizione da questo luogo, andando per strada maestra, verso detti Giovi fino di rimpetto alla casa rotta ossiano murasse dette il Monastero. Ed infatti io mi ricordo certissimo che l’ultima volta vi fu occasione di formarvi li rastelli per bisogno della sanità, questi si piantarono immediatamente di rimpetto alla detta casa del monastero, che si davano e ricevevano per li canali di legno a tale effetto piantati ossian postivi, le mercanzie, grani et altro; e mi ricordo di ciò benissimo, perchè io vi feci più giorni osteria e fino alle dette murasse ogni anno, quando le strade si riempino di nevi, da quelli di Buzalla si va a farne lo spaccio ». Est etatis annorum 66. Seguono in processo gli esami degli infradescritti, le deposizioni de quali si omettono, e solo si riporta il rispettivo loro nome, per essere :! suo esame quasi conforme al sudetto Tamagno. Nomi: Leonardo Chiappara. Gio- - 317 - Batta Tagliavacche. Giuseppe Amoroso. Francesco Costa. Domenico Feralasco. Pietro Balbi. Antonio Tamagno. Spedito detto processo aH’illustrissimo et eccellentissimo Collegio il 25 aprile 1757. Firmato Nicollò Maria Villavecchia commissario e notaro. 1 Così nel testo 16 1804-1810 Archivio Parrocchiale Busalla, Seat. E, Cause Sarissola, Giovi, Vallecalda; Registro cit., pp. 97-100 1 Extrait des registres criminels du ci devant luge civil, et criminels du canton de Ronco esistens en dépôt au greffe du tribunal de premiere instance séant a Novi délivré par moi greffier soussigné du memme tribunal a ce autorisé par ordonance de messieur le président dû dit tribunal en date du 14 iuillet 1810 enregistrée a Novi le disept memme mois par Palùt qui a perçu deux franc omis autres actes antérieurs, et postérieurs, qui ne nous ont pas été requis. Giorno di venerdì quindici marzo 1805 alla mattina. Il prefato cittadino giudice, visto che dalla giurata deposizione di suddetto derubato Agostino Pesciallo consta che il sito del commesso delitto sia in questa giurisdizione di Ronco, così anche instando 1 agente fiscale, decreta farsi l’opportuna visita al sito del comesso delitto, sorrogando in sua vece per tale oggetto il cittadino Angelo Maria De Lucchi quon dam Giuseppe di Buzalla etc. e così etc. Copia Maurizio Corazza giudice. Copia Michele De Cavi cancelliere. A detto al dopo pranzo nella strada pubblica de Giovi si è fatto accesso per il cittadino Angelo De Lucchi quondam Giuseppe giudice surrogato in vigor di decreto di questa mattina di cui in atti, unitamente a me nottaro concelliere, essendovi di compagnia l’uscere Clemente Odicini come si costuma, e dopo aver proseguito il cammino per la sudetta strada de Giovi dalla parte verso Buzalla lungo la strada che conduce verso Giovi, ed arrivati in un sito dove dicesi il Monastero, e proseguendo sempre il cammino verso i Giovi in distanza di detto sito duecentocinquanta passi, ed arrivati ad un picolo ridale che traversa detta stiada quale è tutta lastricata di risuolo ossia pietra, il sudetto derubato Giovanni Agostino Pesciallo disse: « Fermatevi, cittadino giudice sorrogato; questo è il sito preciso dove fui assaltato il giorno sette corrente come da mia deposizione di cui in atti. Di là son venuti gli aggressori (indicando verso la strada de’ Giovi) ed in questo sito mi lasciarono dopo detta aggressione ». E si è veduto ed osservato essere detta strada in larghezza di palmi sedici, quale strada incomincia dal luogo di Buzalla e conduce al luogo dei Giovi, Ricco, Polcevera, e Genova; e da Buzalla, Borgo Fornari, Ronco, Isola, ed altri luoghi. A dritta di detta strada andando a Giovi vi è una balza ossia dirupo che immediatamente conduce nel sotto posto torrente di Migliarese e di là da esso le terre boschive communali, e da sinistra vi sono alcune terre campive e boschive parimenti di ragione communali. Quale strada ella è frequentata si di giorno che di notte tanto da bestie portanti che da tiro, si carriche che vuote, come pure da viandanti, senza alcuna contradizione e perciò è pubblica, e da tutti è riconosciuta per tale come di tutto ne hanno attestato e fatto fede li — 318 — cittadini Francesco d’anni trenta circa, ed Agostino d’anni ventisei circa, fratelli Semini quondam Pasquale della parochia de Giovi, e ciò con rispettivo loro giuramento toccate un doppo l’altro le Scritture per mano di me detto cancelliere, rendendomi causa di loro scienza per essere pratici di suddetta strada, averla sempre veduta frequentare come sopra, sapere che conduce in detti rispettivi luoghi e tale etc. Indi avendo tutto inteso, veduto ed osservato, si è fatta partenza essendo stati presenti a tutto quanto sopra per testimonii li cittadini Antonio Balbi di Agostino, ed Antonio Traverso di Giovanni Battista chiamati. Copia Michele de’ Cavi cancelliere. Pour copie conforme a la requete du seigneur Antoine Deferrari. Copia Ricci greffier. Extrait etc. Giorno di lunedi dodici del mese di marzo 1804. Alla mattina nell’ufficio su-detto. L comparso, nanti il prefato cittadino giudice, il suddetto Ignazio Poggi come sopra citato, al quale è stato ingionto di portarsi assieme a me infrascritto capo aggion-to in assenza del cancelliere per il pubblico ufficio della seguita grassazione di cui in atti, per fare la già decretata visita, sorrogando a tale effetto in suo luogo il cittadino Giuseppe Costa di Giorgio Maria pubblico ricevitore in Buzalla per assistere alla sudetta visita, stante che egli trovasi occupato in affari di curia e così ad ogni etc. si è fatto partenza etc. Copia me Maurizio Corazza giudice. Copia Vincenzo de Gaspari capo aggiunto incaricato. A detto giorno circa le ore sedici italiane nella strada pubblica che da Buzalla conduce sui Giovi in vicinanza di un tiro di schioppo circa da un luogo denominato il Monastero, si è fatto accesso per il cittadino Giuseppe Costa di Giorgio Maria giudice sorrogato come dagli atti, me infrascritto capo aggiorno in assenza del cancelliere Michele de Cavi, essendovi anche di compagnia il giandarme Guglielmo Cremona deputato in qualità d’uscere, come è di costume. E viaggio facendo per detta strada gionti che fummo in distanza di detto tiro di schioppo da detto luogo appellato il Monastero e precisamente in un sito ove la strada è meno rapida da gli altri luoghi; pochi passi al disotto del qual sito vi esiste una chinetta che conduce fuori l’acqua che si dilaterebbe per la medesima strada, e meno rapida degli2 a sinistra della quale andando verso li Giovi vi esiste il monte denominato Cappellino, e dalla parte destra altro monte chiamato Levrere; l’uno e l’altro dei quali si asserisce essere le communaglie spettanti agli individui di Buzalla, mediante però, fra detta strada e monte Levrero, una chiudenda di pochissime spine ed una scossesa rupe, ed un torrente chiamato Migliarese. Gionti che fummo in detto sito, come dissi, ad indicazione di sudetto Ignazio Poggi presente, si è veduto detto sito e precisamente additandolo disse: « Cittadino giudice sorrogato, questo è il luogo ove sono stato assaltato (indicando il mezzo della succennata strada), come hò deposto per atti della curia di Ronco ». Quindi dal prefato giudice sorrogato si è pure osservato essere detta strada lastricata di pietra, quale l’ordine misurata dal predetto Cremona usciere deputato si è ritrovata palmi tredici circa in larghezza. Indi dal prefato giudice sorrogato sono stati elletti in periti per riconoscere sudetta strada se sia pubblica ò nò li cittadini Antonio Repetto quondam Antonio Maria d’anni 40 circa e Carlo Crocco quondam Michele d’anni 44 quali, d’ordine chiamati e comparsi e primieramente, deferto il giuramento d’ordine a detto Repetto, che prestò toccate le Scritture etc., ed opportunamente interrogato etc., ha risposto: « Dico ed attesto essere questo sito, che ora mi viene indicato da questo giandarme deputato in qualità d’uscere, è strada pubblica frequentata da viandanti, la quale al disotto conduce a Buzalla, Borgo, Ronco, Isola e Novi, - 319 - e che verso al in su, conduce su i Giovi, Polcevera e Genova; e ciò lo sò per essere io di Buzalla, avena sempre veduto passare uomini carrichi e vuoti si di giorno che di notte con delle bestie d’ogni qualità, senza che alcuno siasi mai opposto ne vi abbia contradetto; ed essere ciò pubblico, e notorio ». Indi pure, deferto il giuramento al suddetto Carlo Crocco, che prestò toccate le Scritture, deponendo in tutto e per tutto siccome ha detto e deposto il sudetto Repetto. Quali cose sono state fatte, notate e descritte da me infrascritto capo aggionto alla presenza del prefato giudice sorrogato, essendovi per testimoni li cittadini Luiggi Villavecchia di Alberto e Ambrogio Gallino quondam Francesco alle predette cose chiamati. Indi si è fatta partenza. Copia Vincenzo de Gaspari capo aggionto come sopra. Pour copie conforme alla requete du sieur Antoine De Ferrari. Signé Ricci greffier. Copia di certifficati. Empire Français. A la requete de Monsieur Antoine dè Ferrari, maire de la commune de Buzalla, arrondissement de Novi, département de Genes, je souxigne Maurice Corazza homme de loi, et juxe de paix du canton de Savignone, certifié en la qualité d’ex juge civil et criminel dù canton de Ronco sous 1 ancien governement ligurien qu’il a six ans environs. J’ai été obligé de faire des visites criminelles pour les corp des délits d’assassinats sur le chemin public appelle de Giovi du ressort de dit canton de Ronco, et de la dite commune de Buzalla, et une visite été avenué sur le chemin public pur le lieu nommé le Monastero dont la description resuite des actes, et des registres du dit tribunal de Ronco qui ont ete transportes de Novi en execution de lois, en foi de quoi j’ai délivré le present certificat. Savignone le jour sept decembre 1809. Signe Mauric Corazza juge de paix de Savignone, et ex juge du canton de Ronco. ] Il testo non è molto corretto 2 Depennato', altri giunti pochi passi al disotto — 320 — Uno studio sugli schiavi a Genova nel XIII secolo Lo studio del fenomeno della schiavitù medievale, in particolare dal punto di vista economico e sociale, sembra tornato di moda in questi ultimi anni. Dopo le numerose pubblicazioni di fine Ottocento e degli inizi del nostro secolo, vi era stata infatti una lunga pausa ed il problema sembrava dimenticato o almeno messo da parte. È dei primi anni del dopoguerra l’improvviso ridestarsi dell’interesse per l’argomento, col susseguirsi di numerose monografie, più o meno limitate, più o meno parziali, ma pur sempre, nel complesso, valido contributo alla ulteriore migliore conoscenza dell’istituto e del suo diverso atteggiarsi nelle varie regioni. La schiavitù a Venezia, Milano, Firenze, Siena, Pisa e in molte altre città era stata da tempo adeguatamente trattata. Mancava ancora per Genova uno studio d’assieme e sappiamo quanta parte la Superba ebbe nel traffico degli schiavi, che del resto si inserivano fra gli « articoli » principali del grande commercio internazionale. Iniziava nel 1947 il Tria \ con una accurata indagine basata sulle leggi e disposizioni statutarie della Repubblica genovese e sui documenti notarili raccolti ma non editi da Marcello Sta-glieno. L’istituto del servaggio è visto però dal Tria quasi esclusivamente con l’occhio del giurista, dello studioso della storia del diritto; il suo lavoro quindi si sofferma principalmente sulla collocazione dello schiavo nell’ambiente strutturato dalla normativa del tempo. A questo studio meritorio ed ampio, hanno fatto seguito recentemente, l’articolo della Balbi2, che indaga fra XII e XIII secolo, quello del Delorti, che si rapporta alla schia- 1 L. Tria, La schiavitù in Liguria, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, LXX, Genova 1947. 2 G. Balbi, La schiavitù a Genova fra i sec. XII e XIII, in Mélanges offerts à René Crozat, Poitiers 1966, pp. 1025-1029. 3 R. Delort, Quelques précisions sur le commerce des ésclaves à Gênes vers la fin du XIVe siècle, in Mélanges d’archéologie et d’histoire, 78, 1966, pp. 215-250. - 321 - vitù di fine ’300, del Pistarino4, che penetra soprattutto l’aspetto morale e sociale del problema e, ultimo arrivato in ordine di tempo, il lavoro del Balard qui considerato 5. Lo studioso francese, nell’ambito di una vasta indagine sulla documentazione attinente alle colonie genovesi del Levante nei secoli XIII e XIV, ha utilizzato i rogiti notarili relativi alla schiavitù reperiti nel corso della propria ricerca ed ha ad essi consacrato un breve ma esauriente saggio. Limite cronologico iniziale dello studio è il 1239 coincidente con la conquista del reame di Valencia da parte dei Castigliani che rende disponibili schiere di « mancipia » saraceni. Per cogliere a distanza gli effetti sulla schiavitù derivanti dall’insediamento dei Genovesi nelle colonie della Tauride, l’autore chiude il suo studio con l’anno 1300. Le fonti, lo abbiamo già detto, sono esclusivamente quelle notarili, né, considerato il tempo a cui il lavoro si riporta, potevano essere diverse. Non sono infatti ancora disponibili nel XII secolo quelle scritturazioni di carattere amministrativo-fiscale che in periodi più tardi offrono alle ricerche una larga messe di dati diversi ma complementari a quelli che suggerisce il rogito notarile. Il ’200 poi, a differenza di quello successivo, è un secolo di evoluzione per il commercio dei « mancipia »: esso vede infatti il ribaltarsi dei mercati di approvvigionamento della « mercanzia umana », il variare della composizione etnica degli schiavi, il graduale sostituirsi alla mano d’opera servile saracena (di Spagna e di Barberia) di quella degli schiavi di Oriente. Alla fine del secolo le « teste » originarie delle regioni del Caucaso e delle rive del Mar Nero superano decisamente per importanza economica e consistenza numerica quelle saracene. E la presenza di russi, tatari, abkhazi, circassi, mingreli, unitamente a quella di poche unità del sud est europeo, sarà una caratteristica costante nella storia della schiavitù del Trecento e di buona parte del secolo XV. G. Pistarino, Fra liberi e schiave a Genova nel Quattrocento, in Anuario de estudios medievales, I, 1964, pp. 351-374. 5 Michel Balard, Remarques sur les esclaves à Gênes dans le seconde moitié du XIII' siècle, in Mélanges d’Archéologie et d’histoire, t. 80, 1968, pp. 627-680. Non possiamo fare a meno di ricordare in proposito la produzione di C. Verlinden che si pone come lo storico attuale della schiavitù. Alla pubblicazione del suo primo voiume che interessa la schiavitù in Spagna e in Francia, hanno fatto seguito numerosi articoli in preparazione del secondo volume che dovrebbe riferirsi alle regioni mediterranee, Italia in prima linea. — 322 — Il Balard dedica un primo capitolo alle fonti della servitù. I fatti di guerra, la corsa, le razzie, la pirateria danno un apporto molto modesto all’incremento della popolazione servile operante in Genova e l’autore ne penetra acutamente i limiti. Il mercato degli schiavi è alimentato invece soprattutto dalla tratta, dal traffico cioè internazionalmente organizzato che ha stazioni ed interessati in tutti i luoghi di rifornimento e di deposito. Questo varrà anche per i secoli successivi e fra le merci che si contrattano nel Levante e che si « stivano » sulle navi la presenza di schiavi sarà un fatto del tutto normale. In relazione alle varie fasi della « reconquista » spagnola dei reami arabi, centri della tratta furono Valencia, Murcia e Minorca. Dopo il trattato del Ninfeo che apre alla Repubblica i mercati del Mar Nero, Caffa e Tana diventano i principali centri per l’approvvigionamento degli schiavi. Il reclutamento e l’assorbimento dei ceppi etnici è ormai estremamente vario e nel composito quadro della schiavitù in Genova troviamo almeno 10-12 componenti razziali diverse; non mancano tra essi i « mancipia » appartenenti a popolazioni cristiane (russi, ungheresi, albanesi, ecc.) verso i quali non tarderà a manifestarsi, alla fine del Trecento, il benevolo interessamento della Chiesa affermante, anche se con scarsi effetti pratici, l’illegittimità della loro riduzione allo stato servile. La metà circa di questi schiavi orientali; come l’articolista mette in luce, porta prenomi cristiani, un progresso netto rispetto alla situazione precedente che vedeva battezzati soltanto una esigua minoranza di schiavi saraceni. Altro aspetto interessante su cui indaga il Balard, pervenendo a conclusioni piuttosto originali, è il rapporto numerico tra i sessi: il 63 % degli schiavi è costituito da donne, segno indubbio che a Genova si cercava soprattutto una mano d’opera domestica. I non liberi che prestano i loro servizi nella città ligure sono elementi giovanissimi. È raro che si immettano nel circuito commerciale schiavi che abbiano sorpassato i 20-25 anni; le contrattazioni, rileva lo studioso, concernono soggetti la cui età media per le donne si stabilisce attorno ai 18 anni. Gli uomini invece sono nell’insieme più giovani (età media 17,6): è una caratteristica questa che si manterrà anche in seguito ma destinata lentamente ad evolvere. Difficile per il Balard addivenire ad una media dei prezzi considerata la scarsità degli atti disponibili; sesso, colore, età, razza sono tutti fattori che concorrono a determinare il valore di mercato - 323 - di uno schiavo e la minuta notarile del secolo XIII è ancora piuttosto avara di dettagli di cui invece abbonderà qualche secolo dopo. Comunque i prezzi degli schiavi segnano nel XIII secolo una continua ascesa: il Balard stabilisce che dalle 4-7 lire di moneta corrente del primo cinquantennio si passa alle 18-22 lire allo scadere del secolo. La lievitazione dei prezzi è di molto superiore alla svalutazione della lira e va ricercata quindi nell alterarsi deH’equilibrio fra domanda e offerta. L'utilizzazione degli schiavi è argomento di indubbio interesse. La professione del « dominus » dello schiavo offre in proposito elementi orientativi. Resta tuttavia il fatto che le donne erano destinate soprattutto al servizio nella casa, ma fra le più giovani ed avvenenti non mancano quelle votate al concubinato ed al baliatico. I maschi invece sono ausiliari nelle botteghe artigiane e nelle arti. L’ampia disponibilità che si crea sul mercato genovese con l’apertura dei porti del Mar Nero, oltre a soddisfare le esigenze della grande città ligure, rende anche possibile una riesportazione di « mancipia »: da piazza di assorbimento Genova, verso la fine del ’200, diventa anche mercato di ridistribuzione. Ai clienti più assidui, provenienti dall’Italia meridionale e centrale, si aggiungono nell’ultimo ventennio del secolo catalani e maiorchini che da esportatori diventano acquirenti. Ma la tratta degli schiavi da Genova verso il complesso catalano - aragonese non conosce ancora quel respiro che invece è una caratteristica del tempo successivo. L’ultimo capitolo è dedicato al tema dell’affrancamento; lo studioso francese analizza accuratamente modalità, condizioni e motivi che spingono all’atto liberatorio: sensibilità morale ed umana gratitudine per 1 servigi avuti, età avanzata dello schiavo, sono tutti elementi che concorrono nella manumissione. Fra questi il Balard annovera anche i motivi religiosi che individua nella dizione « prò remedio anime » apposta frequentemente negli atti di affrancazione. Pur non negandone l’influenza, pensiamo si tratti soprattutto di formule solitamente ricorrenti nel frasario del notaio per rogiti del genere: del resto nella vita medioevale tutto si colora di religioso. La pregevole indagine si conclude col quesito sulla sorte degli affrancati nel contesto della società genovese. Al problema, ricco di suggestione, non può rispondersi che frammentariamente; sulla scorta dei dati in suo possesso il Balard si sforza comunque di fornire alcuni esempi indicativi. — 324 — L’articolo, ampiamente documentato e condotto da esperto dell’economia medioevale costituisce un valido apporto alla conoscenza di alcuni aspetti della schiavitù nella Genova dell’epoca. Ma solo il concorso di numerosi lavori del genere e soprattutto una visione panmediterranea dell’istituto potrà ricomporre l’ampio quadro di un fenomeno che interessa il diritto, l’economia, il costume della società medioevale. Domenico Gioffrè XI Congresso Internazionale di Storia Marittima Con una larga partecipazione di studiosi provenienti da almeno 19 paesi, il 27 agosto 1969 si è inaugurato a Bari l’XI Congresso Internazionale di Storia Marittima. Aperti i lavori a Trani il 28 mattina, alla sera dello stesso giorno i congressisti, tornati a Bari, si sono imbarcati sulla motonave Ausonia che è partita alla volta di Rodi salutata dalle salve del caccia « Alpino » e dalle evoluzioni di un elicottero della marina militare. L’Organizzazione del Congresso, destinando le ore di navigazione alle riunioni scientifiche, ha offerto a tutti i partecipanti l’opportunità di visitare Rodi, Beiruth e Baalbeck, Famagosta e Nicosia, Istambul, Candia e Cnossos e, in fine, Dubrovnik. Una rotta che ciascuno aveva seguito — a tavolino — leggendo Heyd, o Lopez o... Pegolotti. Ma l’Ospedale dei Cavalieri a Rodi, le mura di Famagosta, la torre dei Genovesi a Costantinopoli evocano, nel paesaggio di cui sono parte, una storia che le pietre raccontano meglio dei libri. La dimensione delle città, ad esempio, racchiuse da mura ancora intatte; i porti, destinati ad accogliere galere genovesi, veneziane e poi turche, evocano assedi e battaglie navali, ma avvertono anche che il quadro delle grandi gesta era contenuto in un’angusta cornice. Insomma, un nutrito gruppo di storici ha veduto, nella dimensione reale, ciò che nessuno era mai riuscito ad inserire in un libro, neppure con le migliori illustrazioni. Ma veniamo al Congresso. L’assenza di J. Heers e di J. Bergier, che si erano iscritti con relazioni interessanti il Mediterraneo nord occi- — 325 - dentale, ha purtroppo eliminato dal calendario quegli interventi che avrebbero interessato più da vicino la Liguria; parlando del Mediterraneo, però, era inevitabile che Genova e soprattutto i genovesi, facessero capolino in più di una relazione. F. Sevillano Colom ha indicato nell’Archivio di Palma di Maiorca, di cui è direttore,, una ricchissima raccolta di fonti che interessano i genovesi: « los mas antiguos mercaderes que venieron con sus naves y carga-mentos a traficar por las Baleares » (F. Sodevilla, Història de Catalunya, Barcellona, 1963, p. 10). La notizia più antica è del 1232, appena tre anni dopo la « conquista »: si tratta di otto genovesi elencati tra i beneficiari dei contratti enfiteutici con cui si installarono 434 abitanti, soltanto per 99 dei quali, però, è indicata l’origine. È possibile, quindi, che i genovesi fossero più di otto. Per lo stesso secolo, la menzione di un alfun-dica januensium è già molto frequente ed in un documento, a margine, si legge lotja dels genoveses. È noto che, soprattutto dopo la conquista della Sardegna da parte degli Aragonesi, i rapporti tra Genova e la Corona di Aragona divennero ostili e che i genovesi furono amici del Regno indipendente di Maiorca (1276-1343) finché lo stesso si mantenne al di fuori della politica aragonese o addirittura entrò con essa in conflitto (Jaime III contro Pedro IV). Quando assecondò la politica aragonese, Maiorca incontrò l’ostilità di Genova. I registri dell’ancoraggio dell’Archivio di Palma segnalano due momenti di depressione nel movimento delle navi genovesi: 1321-24 e 1329-1337. Il primo momento — collegato con l’impresa di Sardegna — vede pirati liguri nel mare delle Baleari: almeno otto documenti del 1320 danno notizia di assalti a navi maiorchine da parte di genovesi. Il secondo momento è in relazione con i moti scoppiati in Maiorca contro i genovesi il 16 novembre 1330, moti che causarono anche l’incendio e la distruzione della casa dei Bardi di Firenze, rei di avere avvertito, in Siviglia, le quattro galee genovesi provenienti dalle Fiandre (forse con merci dei Bardi) del fatto che in Maiorca si stavano armando otto galee per attaccarle. L’isola fu sempre uno scalo importante per le navi genovesi e soprattutto per quelle dirette in Fiandra o di là provenienti; questo traffico è documentato dalle fonti che attestano anche come, dopo il 1340, i genovesi non mandassero più navi isolate a Maiorca, ma convogli più o meno numerosi. Ai viaggi di Fiandra erano certamente interessati i Bardi nel 1330 e dei convogli genovesi si valevano in genere i mercanti toscani per i loro commerci con il Nord Europa come appare dalla documentazione che il Prof. Melis ha — 326 — citato a questo proposito per la fine del Trecento, documentazione copiosissima tratta dall’Archivio Datini di Prato. Seppure non più in qualità di protagonisti, Genova ed i genovesi sono tornati alla ribalta in più occasioni, come nella relazione di H. Kel-lenbenz, « II commercio della Germania con il Levante attraverso i porti di Venezia e Genova », in cui è stata rilevata, tra l’altro, l’aspirazione dei mercanti tedeschi ad operare anche al di fuori dello stretto controllo che Venezia esercitava attraverso il « Fondaco dei tedeschi »; nella relazione di M. Malowist, che ha citato genovesi a Mosca e lungo le vie delle steppe; e nella relazione di S. Goldenberg che li ha ricordati attivi nei paesi danubiani. Nessuna meraviglia, comunque, nell’incontrare genovesi — sopratutto se di Pera o di Caffa — impegnati in traffici lungo il Volga, il Dnieper o il Danubio; qualche perplessità, invece, nel vederne minimizzato il ruolo insieme con gli altri italiani, nella relazione di J. Richard, « La Mediterranée es ses relations avec son arrière-pays oriental (XIe-XVIe siècles) »; perplessità condivisa da Ch. Verlinden che è intervenuto per ricordare le signorie genovesi e veneziane in Oriente, i rapporti di parentela di alcuni genovesi con l’imperatore, i lombardi di Negroponte cui vanno aggiunti veneziani e genovesi. Ma è forse lecito pensare che un discorso che copre ben cinque secoli non può che essere sintetico. Nella relazione del Vice-Presidente dell’Accademia dei Lincei, Prof. E. Cerulli su «Il Mar Rosso nella storia della navigazione medioevale », Genova ha invece il posto che le spetta. Le vie per l’Asia erano vie aperte dai genovesi: Boiardo fece seguire al suo Orlando innamorato la via dell’india sulla base della via genovese per Caffa e l’Ariosto indicherà poi ad Astolfo, diretto in Etiopia, la via genovese per la valle del Nilo secondo le indicazioni della cartografia genovese-maiorchina del XIII secolo. Episodi della presenza di Genova al Cairo — alcuni dei quali noti ai lettori di R. S. Lopez — hanno offerto agli studiosi presenti un chiaro quadro dell’intraprendenza e, diciamolo pure, della « larghezza di vedute » dei genovesi, non alieni dal godere i favori del nemico della Fede, come quel Saivago eletto pubblicamente fratello del Sultano, o come i figli di Benedetto Zaccaria pronti a fornire schiavi per le esigenze particolari dello stesso Sultano. La posizione dei genovesi non mancava di suscitare apprensione presso tutti gli interessati ai traffici con l’Oriente e soprattutto a Venezia. Quando l’impero Persiano concesse due galee ai genovesi perchè si recassero a Bab- el-Mandeb, il tentativo pare sia fallito per noie politiche in patria, ma a Venezia si pensò - 327 - addirittura di inviare una squadra navale ad Aden per bloccare il Mar Rosso. Dal Mar Rosso l’interesse dei congressisti si è rivolto alla costa nord occidentale dell’Africa,, dove la presenza dei mercanti genovesi è stata ricordata da J. Devisse, « Routes africaines occidentales et liaisons commerciales avec la Méditerranée à partir du XIe siècle», in termini che ne rivelano l’importanza: « Sur les côtes nord-africaines, enfin, l’apparition des commerçants européens dans les ports du Maghreb modifie les formes du commerce africain», dove per commercianti europei si intendono, sopratutto i marsigliesi ed i genovesi, questi ultimi colti nel momento in cui stringono un patto di pace che li unisce agli Almohadi (1154). Ceuta dal XII secolo; Honain e Orano che si sviluppano nel XIII, poi Bugia e infine Tunisi (dove prevarranno catalani e veneziani) sono i punti più important/ dell’insediamento europeo, ma catalani e genovesi estesero le loro attività anche alla costa atlantica del Marocco fin dal secolo XIII «lorsqu’ils ont été certains que l’or, aussi, y arrivait ». Nel XIII e XIV secolo la base principale dei contatti con i mercanti dell’interno era Fez, dove i genovesi « demeurent puissants », ma essi riuscirono a spingersi oltre (Malfante) e la loro politica li mantenne a lungo nelle loro posizioni, sia ricorrendo a ricchi doni — Raud-al-Quirtas segnala che nel 1291 un’ambasciata di mercanti genovesi portò superbi doni al sultano merinide, tra i quali un albero in oro sui cui rami si trovavano uccelli canterini — sia scegliendo, in Africa come altrove, la via degli scambi liberi piuttosto che quella dell’occupazione militare preferita da Catalani e da Portoghesi. Questi ultimi videro ben presto sparire ogni traffico dalle loro colonie (Ceuta ed Orano ne fecero l’esperienza nel XV e XVI secolo): le carovane potevano infatti cambiare rotta e far cessare del tutto 1’afHusso di mercanzie nei porti occupati, incanalando il traffico, senza eccessivo disagio, verso i vicini scali liberi. Giovanni Rebora — 328 — I Congresso Storico Liguria Catalogna Dal 14 al 19 ottobre 1969 si sono svolti i lavori del « Primo Congresso Storico Liguria-Catalogna », organizzato dall’istituto Internazionale di Studi Liguri e con la collaborazione dell’istituto di Paleografia e Storia Medioevale dell’Università di Genova. La manifestazione, alla quale hanno partecipato un folto e scelto gruppo di studiosi italiani, spagnoli e francesi, si è svolta sotto gli auspici delle città di Genova e Barcellona. Le sedi del Congresso sono state Bordighera, Villa Hanbury presso la Mortola, Albenga, Finale Ligure e Genova. Sono state presentate circa quaranta fra relazioni e comunicazioni, interessanti ed abbracciami quasi tutti gli aspetti della storia e delle discipline ad essa connesse. I lavori hanno avuto inizio nel pomeriggio del 14 ottobre, nella sede centrale dell’istituto internazionale di Studi Liguri, Museo Bicknell, relatori su argomenti ampiamente introduttivi Luis Pericot con « Liguria e Catalogna -nella preistoria », Nino Lamboglia con « Liguri, Iberi e Romani fra l’Arno e l’Ebro », Geo Pistarino con « Genova e Barcellona: incontro e scontro di due civiltà ». La mattina del giorno seguente, sempre nel salone del museo Bicknell, si è tenuta la seduta del Congresso, con le relazioni e comunicazioni riguardanti rapporti ed episodi storici fra Catalogna e Genova, nei secc. XII-XIV: di IosÈ Enrique Ruiz Dome-nech,. « En torno a un tratado entre Genova y Barcelona en la primera midad del siglo XII », di Joan-G. Cabestany Fort, « Un episodi dels inicis de la rivalitat entre Barcelona i Genova (1322); di JosÈ Trenchs Odena, « Piratas genoveses y el colector en Portugal. El catalan Juan Gar-riga »; di Antonio Maria Aragò, « Relaciones entre el puerto de Barcelona y la Liguria a travês de los registros de fletes maritimos, siglo XIV) ». Nel pomeriggio, nella stessa sede, si è tenuta la seconda seduta dei lavori, dedicata in prevalenza ai rapporti marittimi e commerciali fra Genova e Catalogna, nonché sulla diplomatica nei secc. XIV-XV. Le relazioni e comunicazioni lette sono le seguenti: Felipe Mateu y Llopis, « Genova y las "Maritimas” de la ”Senyoria del Rey de Aragò” — 329 - en 1352 »; Giorgio Costamagna, « Note di diplomatica sui documenti della corona di Aragona »; Maria Teresa Ferrer, « Dos registros de V ”Officium provisonis navigiorum Januensium” »; Mirella Blason-Ber-ton, « Note sulla guerra catalano-genovese del 1351 »; Maria Mercedes Costa Peredas, « Aspectos de las relaciones entre Genova y la Corona de Aragon en el periodo 1360-1386 »; Giovanni Calamari, « Materie prime del traffico fra Genova e Catalogna fra Tre e Quattrocento, la lana e il guado-, Silvana Fossati Raiteri, «Il processo contro Rodrigo de Luna per l’atto di pirateria ai danni di una nave genovese nel 1414 »., La terza seduta del Congresso ha avuto luogo il giorno seguente nel salone della magnifica Villa Hanbury presso la Mortola, con la lettura delle relazioni e comunicazioni di Graziella Ferrari, « Rapporti commerciali tra Savona e Barcellona »; di Josepha Costa Restagno,, « Documenti catalani nell’Archivio Storico Ingauno »; di Anna Sicardi Bruz-zone, « L’isola Gallinaria e la Catalogna ». Dopo una doverosa visita ai magnifici giardini Hanbury, nel pomeriggio è iniziata la quarta seduta del congresso con le seguenti relazioni e comunicazioni: di Alberto Boscolo, « Genova e gli Stati Mediterranei nella politica di Ferdinando I d’Aragona dal 1412 al 1414 » letto da altri in sua assenza; di Massimo Quaini, « Raporti fra la cartografia catalana e ligure nel Medioevo »; di Gabriella Airaldi, « Il collegio notarile di Genova e di Barcellona nel secolo XV »; di Gian Giacomo Musso, « I Genovesi e i Catalani nel Levante nel primo Quattrocento »; di Aldo Agosto, «Nuovi reperti archivistici sulla battaglia di Ponza (1435)»', di Mario Damonte, « L’Ufficio di Catalogna in un documento del 1441 »; di Giovanna Balbi, « Genova e la Corona d’Aragona dal 1464 al 1478 »; di Franco Martignone, « Genovesi e Catalani fra il 1478 e il 1482 ». Al termine, nelle sale di villa Hanbury è seguito un ricevimento, durante il quale tra i congressisti si sono scambiati saluti ed auspici nelle parlate ligure occidentale, provenzale, catalana e piemontese. Quindi è stata raggiunta la cattedrale di Ventimiglia dove il Prof. Lamboglia ha illustrato l’opera di restauro di questo monumento. Il giorno seguente, il Congresso si è spostato ad Albenga, dove, dopo una rapida visita alla città medioevale, si è tenuta la quinta seduta del congresso, nel Palazzo Vecchio del Comune. Le comunicazioni e relazioni sono state le seguenti: Juan Ainaud De Lasarte, « Relaciones artisticas entre la Liguria y Catalogna en la Edad Media », letta in sua assenza da P. Verrié; Paolo Verrié, « Il Battistero — 330 — di Barcellona e quelli di Provenza, Liguria e Lombardia »; Francisca allarés, « Il culto di S. Eulalia ad Albenga »\ Giulia Petracco Si- cardi, « Isoglosse fonetiche e morfologiche comuni alla Liguria e alla Catalogna ». Il giorno 18 ottobre a Genova, dopo la visita ai monumenti medio-eva i genovesi ed alla « Mostra dei pittori genovesi del Sei e Settecento » allestita a Palazzo Bianco, è seguito un ricevimento ufficiale del Congresso a parte del Comune di Genova a Palazzo Tursi, alla presenza dei Sindaci di Genova e Barcellona nonché delle autorità genovesi e liguri. Quindi i congressisti hanno visitato con vivo interesse la « Mostra dei Documenti Storici sulle relazioni medievali tra Liguria e Catalogna » realizzata nel salone dell Archivio di Stato di Genova, dalla Direzione del medesimo. Il pomeriggio, nel salone dei Capitani del Popolo di Palazzo San Giorgio di Genova, ha fatto seguito la sesta seduta del Congresso con la esposizone dei lavori di Mario Tangheroni, « Pisa, Genova ed Aragona all epoca di Alfonso il Benigno », di Francesco Surdich, « I Catalani a Lerici e a Porto Venere nella prima metà del sec. XV ». La mattina dell ultimo giorno, nella stessa sede, ha parlato Josep Maria Madurell Marimon, « Ambrosio Patinanti mercader genovés en Barcelona »; Victoria Mora, « ]aume Ferrer mercante valenciano en Genova en el 1421-1426 »; Giulio Fia schini, «Il problema catalano nella storiografia genovese dett’800 » limitatamente allo storico Giuseppe Maria Canale. Mario del Treppo, ha fatto una « Relazione di chiusura del Congresso ». Federigo Udina Martorell, ha esposto un sunto della propria comunicazione « Relaciones econòmicas entre la Liguria y Cataluna en la Edad Media. Estrado de la cuestion ». I congressisti quindi si sono recati in escursione a S. Fruttuoso di Capodimonte, presso Camogli, per visitare lAbbazia e le tombe dei D’Oria. Per motivi di forza maggiore non hanno potuto prendere parte ai lavori colle proprie relazioni e comunicazioni: Illuminato Peri, F. Casula, Jean-Pierre Cuvillier, Maria Teresa Ferrer, Stella Maris Zunino, Luigi Bulferetti, Guy Romestan, Alberto Boscolo, Juan Ainaud de Lasarte, J. Kyrris Costas, Gian Carlo Sorgia, Jean-Gabriel Gigot, Federigo Melis, Josep Maria Madurell Marimon. Aldo Agosto - 331 - NOTIZIARIO BIBLIOGRAFICO PREISTORIA - STORIA ANTICA Tiziano Mannoni, Le ricerche archeologiche nell’area urbana di Genova 1964-68, in Bollettino ligustico per la Storia e la Cultura Regionale, XIX, 1/2, 1967, pp. 9-32. Questa « nota preliminare », come la intitola l’A., costituisce il più organico contributo fornito sinora dall’archeologia alla storia preurbana di Genova. L’esame analitico e puntigliosamente illustrato dei reperti si riferisce in particolare agli scavi eseguiti nell area di Portoria (Via B. Bosco), nella cattedrale di S. Lorenzo e accanto al campanile di S. Silvestro sulla collina di Castello. L’A. che ha affrontato le ricerche con prospettive ampie e coraggioso impegno nonostante una diffusa indifferenza della città a questi problemi ed alle prime eccezionali indicazioni, dichiara modestamente di evitare « ogni apprezzamento critico ed ogni ipotesi o deduzione storica di carattere generale » anche per lo stadio iniziale degli indagini. Non si può però mancare di segnalare due vistose informazioni che emergono nettamente dai lavori del Mannoni: la retrodatazione dell’area « prege-nuate » della collina di Castello al secolo VI a.C. e l’accertamento dell’esistenza di una chiesa altomedievale sull’era dell’attuale S. Lorenzo eretto attorno al 1118. (e. p.) SECC. VII-XIV Gabriella Airaldi, Un’ambasceria a Zara nel 1386-87, in Miscellanea di Studi storici, I, Genova 1969, pp. 137-209 (Collana storica di fonti e studi diretta da Geo Pistarino, 1). Nel quadro di una politica intesa a preservare la propria autonomia comunale dall’invadenza adriadca di Venezia, la città di Zara elegge nel 1386 un capitano del popolo genovese, Piero Picono. Alla cerimonia ufficiale non poteva mancare la presenza dei Genovesi che vi furono rappresentati da Lorenzo Gentile e da Melchion de Vetraruoea. L’A. pubblica l’edizione del manuale delle spese dell’ambasceria, destinato in gran parte alla registrazione delle spese per mezzi di trasporto, per vitto e alloggio, per le minute spese, non escluse quelle voluttuarie. Pi-R Maria Conti, Limi nell’alto Medioevo, Padova, Cedam, 1967. Basato, necessariamente, su ricerche archeologiche e sulle fonti narrative, traccia un’ampio profilo della storia lunense dal ni al ix secolo, dalla penetrazione, cioè, del cristianesimo, al quale l’A. fa largo posto, come pure alle vicende religiose, alla - 335 - progressiva decadenza della città ad opera degli Arabi e dei Normanni. Largo spazia viene dedicato ai problemi amministrativi in età tardo romana, alla funzione militare della cittì, con precidi riferimenti alla tavola peutingeriana e all’Itinerarium Antonini, ai periodi bizantino e longobardo. È doveroso osservare, tuttavia, che i limiti posti dalle fonti archeologiche non sempre rendono convincenti ricerche di questa natura. Maria Teresa Ferrer I Mallol, Documenti catalani sulla spedizione francogenovese in Berberia (1390), in Miscellanea di Studi storici, I, Genova 1969, pp-211-261 (Collana storica di fonti e studi diretta da Geo Pistarino, 1)- L A. pubblica e studia un gruppo di documenti dell’Archivio della Corona d Aragona riflettenti le preoccupazioni catalane nei confronti della spedizione francogenovese, comandata dal duca di Borbone, contro la Berberia nel 1390. Data la tensione esistente nei rapporti tra Genova e Aragona, regolati da una pace fragilissima e recente, qualunque accenno a spedizioni navali genovesi non poteva non destare i sospetti dei Catalani che, ignorando, in un primo tempo, per la segretezza che circondava la spedizione, gli obiettivi della stessa, potevano giustamente sospettare di essere gli oggetti di questo armamento. La stessa notizia della partecipazione all impresa del marchese di Monferrato, che vantava i diritti sul regno di Maiorca, non era fatta per dissipare i sospetti. Per di più, quando notizie più precise, fornite da un partecipante alla spedizione, Filippo di Bar, cognato di re Giovanni I, chiarirono la meta della spedizione, non cessarono per questo le preoccupazioni catalane, tenute deste dall informazione che la spedizione avrebbe toccato, durante il viaggio, le acque della Sardegna, dove i Genovesi non avevano riconosciuto de iure la presenza aragonese, e delle Baleari. I documenti seguono puntualmente lo stato d’animo del momento, gli armamenti apprestati, il senso di sollievo per lo scampato pericolo, fino all’entusiasmo, alla partecipazione attiva all impresa di guerrieri catalani, all’interesse per un’impresa che si sentiva come patrimonio comune del mondo cristiano. La spedizione non ebbe 1 esito sperato e si concluse per i Genovesi con la promessa barbaresca di liberare i prigionieri cristiani, di pagare un tributo per 15 anni ed una somma, di 10.000 ducati, entro l’anno. L A. discute in fine e, sulla base della documentazione aragonese, respinge la versione che del ritorno della flotta offre la cronaca del duca di Borbone, accettata acriticamente dal Delaville le Roulx, (La France en Orient au xiv siècle. Expéditions du maréchal Boucicaut, Parigi 1886), Brunschvig (La Berbérie Orientale sous les Hafsides, des origines à la fin du xv siècle, Parigi 1940) e del Mirot (Une expédition française en Tunisie au xiv siècle. Le siège de Mahdia (1390), in Revue des Etudes historiques, XCVII, 1931, pp. 357-406), secondo la quale la spedizione, nel ritorno, avrebbe combattuto con successo in Sardegna, conquistando, addirittura, la città di Cagliari, affidata quindi ai Genovesi. E tuttavia, afferma l’A., la cronaca, pur inventando sicuramente i fatti, tradisce lo spirito di aperta inimicizia tra Genovesi e Catalani, le speranze dei primi, i timori dei secondi. (d. p.) — 336 — Giulio Fiaschini, Acqui nel Duecento. La crisi del Comune, in Miscellanea dì studi storici, I, Genova, 1969, pp. 99-136 (Collana storica di fonti e studi diretta da G. Pistarino, 1). Lo studio del F., che può considerarsi il seguito di un suo precedente articolo sull’evoluzione delle istituzioni acquesi durante gli anni della brevissima « fioritura comunale » (G. Fiaschini, Acqui nel Duecento. Sviluppi politici e giuridici, in Miscellanea di storia ligure in memoria di Giorgio Falco, Genova, 1966, pp. 89-112 -Università di Genova, Istituto di paleografia e storia medievale, Fonti e studi, XII), si basa essenzialmente, pur non trascurando le varie fonti narrative, sull ampia raccolta documentaria su Acqui medievale compilata dal Moriondo (G. B. Moriondo, Monumenta acquensia, voli. 2, Torino, 1789-90). L’A. segue con minuziosa cura tutta una serie di contrasti che si protraggono con alterne vicende, col mutare di luoghi e di protagonisti, per quasi mezzo secolo. Tali avvenimenti, che iniziano nel 1234 sotto forma di lotte cittadine tra il podestà Amizone da Busto e la Curia vescovile, perdono però dopo qualche decennio il carattere campanilistico e vengono a inquadrarsi in un nuovo contesto più generale, originato dalla maturazione del « processo evolutivo determinato dalla crisi generale della società contemporanea », in cui il marchesato di Monferrato viene a svolgere un ruolo preminente. Gli Aleramici infatti, che erano stati da tempo promossi dalla Casa Sveva alla carica di conservatori fiduciari delle parti imperiali in Italia, alla morte di Federico II cominciano a svolgere una politica autonoma e accentratrice, che li porta a imporsi ben presto sui centri urbani indifesi e logorati internamente da antagonismi campanilistici. Il merito principale dell’instaurazione del nuovo corso politico spetta a Guglielmo VII, il quale, abilmente destreggiandosi nell’agone internazionale per il predominio in Italia tra Svevi e Angioini — Manfredi impegnato a rinsaldare in Italia le fila del partito imperiale e Carlo d’Angiò a estendere la propria influenza nel Piemonte meridionale —, riesce a stringere attorno a sé le forze ghibelline e a sottrarre prima Asti e poi nel 1264 Acqui (i fuorusciti acquesi gli avevano offerto già nel 1260 la iurisdictionem tam realem quam personalem civitatis Aquis) allo schieramento angioino: è « la dinamica delle forze nuove », osserva il F., che « schianta le pastoie della tradizione immobilistica, lasciando intravvedere, al di là di quanto conceda la semplice documentazione d’archivio, un largo moto di umanità in rapido sviluppo verso una situazione sociale a base più ampia» (p. 114). Gli anni successivi sono ancora teatro di aspre lotte che iniziano coi propositi di rivincita da parte di Carlo d’Angiò, al quale si uniscono ben presto gli Alessan drini assieme agli Astigiani, contro Guglielmo VII. Quest ultimo, però, forte di un contingente di armati inviatogli dal suocero Alfonso di Castiglia e sfruttando con abilità le occasioni offertegli dalla traballante situazione politica, riesce a far corner gere a suo favore prima la politica dei Genovesi (1273), poi la stessa città di Asti dopo la rottura avutasi con Alessandria, nel 1274, e infine, nel 1275, Tommaso di Saluzzo. La città di Acqui, riconquistata nel 1270 da Alessandria, viene definitivamente ripresa nel 1272 e Guglielmo VII, al fine di non ripetere gli errori commessi dai suoi predecessori, fa redigere nel 1277 la copia rinnovata degli antichi statuti comunali, le cui convenzioni vengono solennemente promulgate il 2 maggio 1278. - 337 - Se si ritiene che gli statuti del ’77 abbiano voluto « coronare un processo di rigenerazione civile », è un fatto puramente illusorio, avverte il F.; infatti, da un attento esame delle sole convenzioni che regolano la vita istituzionale del Comune, balza subito in evidenza che le facoltà e i poteri concessi ai cittadini e al comune di Acqui devono essere esercitati solo « cum voluntate ipsius domini marchionis ». E in definitiva, conclude il F., la volontà di « mascherare il governo personale [del marchese] con un regime di tipo comunale », poiché « è venuto a mancare per sempre lo spirito dell autonomia... che è il senso più autentico della civiltà comunale » (P- 136). (Angelo Aromando) Giangiacomo Musso, Note d’archivio sulla «Massaria» di Gaffa, in Studi genuensi, V, 1964-65, pp. 62-68. Le «note di archivio » sulla « Massaria » di Caffa, organo che presiedeva all’am-mimstrazione di una delle più importanti colonie genovesi nel Levante, vogliono anticipare i risultati di una ricerca « capillare » che l’A. sta conducendo in tutti i fondi e e serie dell Archivio di Stato di Genova e che, secondo le sue intenzioni, dovrebbe costituire « uno dei muri maestri del costruendo edificio della storia dell’ultimo secolo elle dominazioni dei Genovesi in Levante, una storia che si sta cercando di fare con una impostazione analitico-documentaria » (p. 65). ., ,^e n°,^.7"*e C^e ^ c* °^re sono da considerarsi una novità assoluta, poiché registro e a « Caffè Massaria » da cui sono tratte, per la « posizione archivistica o eccentrica rispetto a quella in cui avrebbe dovuto essere » (p. 70), era stato completamente ignorato negli studi precedenti. Sebbene in modo sommario, le notizie ri ente sono interessantissime per i preziosi elementi offerti sulla vita della nia, c e vanno dall amministrazione finanziaria ai servizi logistici, quali armamenti, - at^r^ difesa, manutenzione e vettovagliamento, dalle testimonianze sulla vita a e a co onia, considerata un « punto di osservazione e di controllo politico mutare, none è uno scalo marittimo», ai rapporti politico-diplomatici con i potentati de] 1 °nC C insediamenti mercantili ai rapporti con le chiese e gli abitanti °S,SCrVare ^er° c^e ta^ n°tizie riguardano solo un periodo ben limitato , j f 1° C’ come avverte TA., tale registro e altri simili sulla vita delle altre o orne; e evante non devono far sorgere nel «ricercatore sprovveduto e fretto USOria fiducia di poter trarre solo da essi un « quadro complessivo, gene-e struttura e, di un secolo di storia di quelle genti e di quei paesi... senza ricorrere ai fondi generali » (p. 66) dell’archivio di stato di Genova. (Angelo Aromando) Flavia Perasso, Genova, Savona e la genesi del « Registro della catena », in Studi genuensi, V, l%4-65, pp. 52-56. L economia di Savona, in massima parte incentrata sul nemus da cui si assicurava la fornitura di materie prime per le sue costruzioni navali e attraverso il quale passavano importanti arterie viarie che le permettevano facili comunicazioni con l’en- — 338 — troterra piemontese, era destinata inevitabilmente a scontrarsi con la crescente egemonia politico-economica genovese. Genova, infatti, aveva cercato, con le convenzioni del 1153, di imporre varie limitazioni a Savona — non sempre però osservate —, al fine di impedire che svolgesse nel pelagus un commercio autonomo o contrastante con gli interessi della Dominante. Il successivo motivo di contrasto si ebbe verso la metà del xm secolo per il possesso della castellania di Quiliano, che assieme a quelle di Legino e Lavagnola sotto 1 influenza indiscussa di Savona, come osserva l’A., formavano la parte meridionale del « grande bosco » savonese ormai disboscata e ridotta a coltura. La controversia conseguente che ne sorse e le sue lunghe vicissitudini sono « una prova eloquente del valore che le due parti attribuivano al suo possesso e della difficoltà di definire, attraverso documenti ineccepibili, i loro diritti» (pp. 54-55). Quasi in concomitanza al sorgere di tale vertenza e forse in ragione di essa, 1 anno 1265 segnò per l’appunto la data di nascita del Registro della catena, — il cui scopo era quello di raccogliere in un’unica fonte, di facile consultazione, tutti « i privilegi, le convenzioni, i giuramenti di fedeltà, le sentenze » e ogni altro documento della vita pubblica savonese. Dalla prima redazione, effettuata, su incarico del comune, dal notaio Giacomo Testa, ne venne tratta una successiva che è quella che si conserva attualmente presso l’archivio di stato di Savona. Quest’ultima venne man mano ampliata e accresciuta nei secoli successivi, tanto da poter essere considerata in ogni tempo come la raccolta più completa de « i più importanti atti costitutivi della vita politica e amministrativa del comune di Savona dall’XI al XVI secolo » (p. 52). (Angelo Aromando) Ugo Pianezza, I rapporti economici fra Genova e Piacenza nella seconda metà del secolo xn, in Studi genuensi, V, 1964-65, pp. 39-51. Partendo dalla considerazione che Genova, uscita ormai vittoriosa dalle competizioni, avvenute nella prima metà del secolo XII, che l’avevano impegnata sui mari con le altre città marinare, è ormai divenuta « un porto di transito internazionale, dove si scambia il meglio della produzione industriale europea con le materie prime e i manufatti del mondo mussulmano » (p. 40), l’A. vuole cogliere qualche aspetto soltanto di tale profonda penetrazione economica, mettendo in rilievo come essa venga raggiunta con un ampliamento di mercato rivolto contemporaneamente non solo verso l’immediato entroterra ma anche oltre la cerchia montana. In tale contesto i rapporti economici con Piacenza, su cui l’A. basa esclusivamente la sua trattazione, vengono a costituire un aspetto indicativo di tale tematica e delle febbrili attività commerciali da cui sono presi i Genovesi dalla seconda metà del secolo xii in poi. L’inizio dei rapporti commerciali con Piacenza, osserva FA., è da farsi risalire all’epoca tardo-imperiale, e la Postumia, la principale opera viaria esistente tra le due città, ne facilitò in parte lo sviluppo. Indubbiamente gli scambi che potevano avvenire in quella proprietà erano esclusivamente modesti, ossia prodotti artigianali, da una parte, e prodotti agricoli, dall’altra; mentre invece diversa è la situazione che si - 339 - riscontra nella seconda metà del secolo xn, allorché Genova, accanto a una incontrastata egemonia politica, si presenta sulla scena internazionale con una accentuata penetrazione economica. L A., nell’offrire un’interessante interpretazione dello sviluppo economico di Genova, constata nel contempo come esso non avvenga armonicamente tra i vari settori; infatti, egli osserva, accanto a un’industria a carattere meramente embrionale, fatta eccezione ovviamente per quella cantieristica o navale, fiorisce un commercio imponente, poiché Genova « è una città che vive in modo esclusivo e completo dell’attività commerciale esercitata attraverso i mari » (p. 40) e, si può aggiungere, sulla terraferma. Per cui i motivi deU’allacciamento dei rapporti con Piacenza sono da cercarsi nell esistenza in quest’ultima città di una fiorente industria tessile, la cui produzione principale era costituita dai panni « lombardeschi », e nella necessità di attingere sempre nuove mercanzie da sempre più nuovi mercati. L esistenza di una industria tessile a Piacenza si basa, osserva l’A., su due circostanze molto significative, ossia sul fatto che i Genovesi diano ai Piacentini, come risulta da un documento della metà del secolo xn, a pagamento di un debito precedentemente contratto, una partita di materia colorante, quale l’indaco e sulla constatazione, risultante da un altro documento del 1160, che si parli di una societas costituitasi tra un genovese e un piacentino, in cui il primo porta come capitale una somma di danaro e 1 altro alcune « pecias fustaneorum de Placentia ». Altre attività ugualmente documentate risultano essere quella della lavorazione delle pelli e del cuoio, di cui Genova forniva le materie prime, e quella di finanziamento, che avveniva con un certo equilibrio tra cittadini genovesi e piacentini sotto forma di prestiti con la formula gratis et amore, ossia senza corresponsione di interessi — anche se poi la realta era diversa —, oppure con l’altra tantum de tuis rebus quando voleva icare la quantità di merci o di danaro che passava da una parte all’altra. Lo studio dell A., che si svolge sulla scorta della più recente bibliografia in ateria, è diretto soprattutto alla ricerca della documentazione di tali rapporti, nonché a evidenziare il nesso di « complementarietà » esistente tra le due economie. (Angelo Aromando) Geo Pistarino, La prima pagina della storia di Novi, in Novinostra, IX, 1969, fase. 3, pp. 2-6. Dall’esame di due documenti del 1135 e del 1157, l’A. mette in luce come le prime paçine della storia novese s’inquadrino nell’azione politica ed espansionistica genovese a! di là dell’Appennino. Tracciato un breve schizzo della formazione del castrum e del burgus, sorti, il primo nello stesso periodo (sec. x-xi) in cui altri castelli emergono alla storia, il secondo dal « consueto fenomeno di sviluppo di un ceto rurale e mercantile locale e di confluenza di elementi provenienti da località vicine e lontane », 1 A. osserva come dal confronto dei due documenti emergano due situazioni storiche profondamente diverse, riflettenti la' progressiva affermazione di Novi come caposaldo genovese verso la Valle Padana. — 340 — Francesco Surdich, Su un manoscritto della Berio relativo a Cipro, in La Borio, 1967, n. 3 pp. 27-36, 1 illustr. Dall’esame di un codicetto Beriano del sec. xiv, contenente copia dei trattati fra Genova e Cipro del 18 aprile 1365 e del 21 ottobre 1374, l’A. prende lo spunto per tracciare un quadro dei rapporti fra i due stati nei secoli xm-xiv, della politica di penetrazione genovese nell’isola e, in genere, nel bacino del Mediterraneo Orientale, politica che provocherà « la reazione di coloro che in misura maggiore avrebbero subito le conseguenze negative dell’egemonia in Cipro e della rottura del prece dente equilibrio, primi fra tutti i Veneziani ». SECC. XV - XVI Giovanna Balbi, L’epistolario di ]acopo Bracelli, Genova 1969 (Collana storica di fonti e studi diretta da Geo Pistarino, 2). L’A. pubblica l’edizione di 78 lettere di Jacopo Bracelli, oltre a 9 a lui indi-rizzate, offrendo un’edizione che si basa sostanzialmente sul ms. beriano, non 1 gnando il ricorso ad altri mss. che presentano lezioni migliori, enza preten apportare nuovi elementi alle monografie del Braggio e del Gabotto c e res , mancanza di studi più approfonditi e di indagini accurate e sistemane e biblioteche italiane, le opere più complete sull’umanesimo lipre, • 0 re’ c • sta edizione, uno spunto valido all’approfondimento del c ima spiritua e e Quattrocento genovese, mettendo in luce, soprattutto attraverso e nu i al testo, i molteplici rapporti che legavano gli uomini di 8enovesl A nisti italiani. L’edizione è assai curata e corredata dagli indici delle lettere spondenti, dei nomi di persona, di luogo, delle cose notevoli e degli autori Giovanna Balbi, Le lettere di Jacopo Bracelli e il cod. cf. 26 della biblioteca Berio, in La Berio, 1967, n. 2, pp. 5-14, 2 illustr. L’A. studia particolarmente il codice beriano che «rappresenta la più ricca fonte per la storia dell’umanesimo ligure ». «nera di Composto nella second, meri, del secolo x, in ambiente genovese .dopm* vari copisti, questo codice, oltre le lettere del Bracelli contiene que e sti, Enea Silvio Piccolomini, Poggio Bra.ciolini, il P.notmtt., G.ov.nn Andrea Bus,, Francesco Barbaro, Antonio Cassarino, Jacopo Curio, e bram deUAfacd i Pe^ , del De mne,M h„,«c di Poggio, il De Mio Mmo «ne.o delF=oor™ di Enea Silvio: del Bracelli contiene, inoltre, il De A» gc.m.ta e parte 0'“ VA.'",Z> che il codice risulta superiore agli altri per — nostro umani.., poiché, se non tutte vi Sgut.no, ben trenta sono pns»tt erfu mente nel Beriano e « il quadro oHerto è quatto ma, «arto: dtómm cui, ^ vicende politiche, problemi quotidiani di vi., f.mtl.ate, .nate del «ladano, di governo e del padre affiorano in questa raccolta». - 341 - 1 .i personalità del Bracelli emerge chiara e simpatica nella vita culturale geno-\V ' ' ^ '* la caP°> documentando la continuità del movimento umanistico sorto a a line del sec. xiv con gli Stella; le sue lettere rivelano l’amore per la patria, qiun o, ormai, per Genova era iniziata la parabola discendente, l’amore per la fami-~ 1 sent,minto dell amicizia inteso nel significato più profondo e costituiscono, n conclude 1 A., « una testimonianza quanto mai varia e istruttiva della vita genovese a meta del Quattrocento ». . Cal\ini, Una strana cinquecentina genovese: Decisione Rotae Genuae de Mercatura, in La Berio, 1968, n. 1, pp. 24-29. , .... * '* un la^I0nt° fra il volume delle « Decisiones » recante sul frontispizio la marca MI v'yvtt ' i'0'1310 Antonio Roccatagliata e soci e il dato: «Genuae anno y, ' * e * 'diurne della stessa opera con la marca, sul frontispizio, di Giordano 1 e ! ■ • U° <( Venetiis MDLXXXII », l’A. rileva l’identità tipografica del testo , m 1 * '°Jumi i quali differiscono unicamente nelle carte preliminari contenenti e ta.e privi egi. Ritiene trattarsi di stampa eseguita a Genova per opera di Antonio , associato al Roccatagliata; spiega il divario con la lite insorta fra i due, in 3, . 1 3 ^ua^e il Bellone abbandono repentinamente la nostra città quando solo P ' semp ari delle « Decisiones » erano stati diffusi tra il pubblico; la diffusione manenti esemplari venne poi affidata dal Belloni allo Ziletti, previa sostituzione so o primo fascicolo e relative modifiche ai dati tipografici e ai privilegi. Maddalena Cerisola, Una riforma statutaria del collegio notarile genovese nel secolo xvj, in Miscellanea di Studi storici I, Genova 1969, pp. 385-443 (Collana storica di fonti e studi diretta da Geo Pistarino, 1). ,. „ L A- Pubblica il testo di norme statutarie contenute nel ms. 764 dell’Archivio 1 • 1 encna> divise in tre libri: il primo illustra la struttura interna del Col-g , secondo contiene norme di carattere disciplinare, il terzo definisce le modalità ^ ., amm*sslone al Collegio e per l’esercizio della professione notarile. Dopo aver r! i ItC|i I16 az*one ne^ test0 1558-1561 (il ms. è privo di autenticazioni e di a ase statuti del 1462 (D. Puncuh, Gli statuti del collegio dei notai 5n Z//COl° ^sce^anea di storia ligure in memoria di Giorgio Falco, rlpll’A^k- • j- 265-310), e di un testo statutario dei secc. xvi-xvii (ms. 765 Ui0 1 tat0 ^ Genova), l’A. perviene alla conclusione che le disposizioni te^rT m eSame n°n ^urono mai emanate, ma costituiscono un progetto di statuto in-, averso una codificazione minuziosa e complicata, a superare la crisi latente nel notariato genovese del Cinquecento. p , jLE0P°!'D0 De La Rosa Ovverà, La varia fortuna de los Rivarola, in Attuario de tstudios Atlanticos, Madrid-Las Palmas, XII, 1966, pp. 167-200. Cristofom cTdt SPUnt° dalk figUra di Francesco S°Pranis RivaroI° _ amico di Dotenfp fi °i°m ° Per SV0^gere in tema storico-genealogico l’insediamento di una XVI secolo3™1KvS°VeSe di C0mmerdanti e banchieri aUe Canarie agli inizi del — 342 — In appendice i rami della schiatta « de los Riveroles » (il cognome si adattò alla fonetica castigliana) canariensi stabilitisi successivamente nel Venezuela che a loro volta modificarono il cognome in « Riverón ». (Giancarlo Briasco) Paul Oskar Kristeller, The humanist Bartolomeo Vado and bis unknoivn correspondance, in From thè Renaissance to thè Counter-Reformation. Essays in honor of Garret Mattingly, New York, 1965, pp. 56-74. Da un ms. della Bibliteca Universitaria di Valladolid, contenente 75 lettere dell’umanista ligure, 52 delle quali ancora ignote, l’A. getta nuova luce sulla biografia del Facio, sulla sua famiglia, sui suoi rapporti epistolari con Guarino, il Panormita, Poggio Bracciolini, Enea Silvio Piccolomini, Francesco Barbaro etc. Particolare interesse hanno per la storia culturale della Liguria le lettere al genovese Giacomo Curio e al cardinale Giorgio Fieschi. L’A. si sofferma, inoltre, su alcune opere del Facio che il manoscritto spagnuolo consente di studiare con maggiore sicurezza. r.SMAPIAARH, Mìa Si'xtj sì; tr,v Xt'ov Tevcuarou xxt ‘Evetoü /.ara to sto; 1454, in « Pubblicazione a cura della Società Archeologica di Atene » 1964, vol. C, pp. 33-46. Nel luglio 1453, fuggendo da Costantinopoli conquistata dai Turchi, il nobile veneziano Zaccaria Grioni, durante una sosta a Chio, viene incarcerato dal podestà genovese ad istanza di Benedetto Saivago, creditore dello stesso Zaccaria. Scarcerato, dietro esborso di una forte cauzione, il veneziano chiede l’intervento del suo governo. L’A. esamina la fondatezza o meno dell’operato genovese e delle proteste veneziane, sulla base della giurisprudenza del tempo. Franco Martignone, Politica ed economia in Genova sulla fine del Quattro-cento, in Studi genuensi, V, 1964-65, pp. 99-125. Ë, da un lato, l’esame delle strutture politiche di Genova verso la fine del Quattrocento e, dall’altro, quello delle strutture economiche genovesi, il cui predominio è dato dalle attività marittimo-commerciali su quelle artigianali e industriali. Le analisi che l’A. svolge, traendole prevalentemente dal fondo Archivio Segreto, Diversorum Communis lanue (di cinque documenti viene data in appendice anche la trascrizione), portano però a delle conclusioni sorprendenti e apparentemente contraddittorie: « Genova alla fine del Quattrocento è uno stato con una struttura politica estremamente debole, ma una grande potenza economica» (p. 116). Ciò è forse da spigearsi, si chiede l’A., con il fatto che in Genova, contrariamente a quanto avviene di solito, « economia e politica siano independenti »? « Esiste invece — egli spiega — un rapporto molto stretto, anche se fuori dagli schemi consueti. I Genovesi, infatti, sono portati a vedere nello stato, più che una protezione, una remora alla libera esplicazione delle loro attività commerciali, nè si limitano ad avere un atteggiamento ostile nei suoi confronti, ma giungono persino a metterlo al loro servizio, facendogli fare da paravento alle loro transazioni interna- - 343 - zionali e sfruttandolo sul piano dell’esazione delle tasse, che diventano fonte di guadagno per gran parte dei finanzieri genovesi» (p. 118), i quali, poi, esercitano attraverso il Banco di S. Giorgio un grandissimo potere economico. E così le interessanti conclusioni, che da tali considerazioni l’A. trae, sono essenzialmente due, ossia che « in Genova economia e politica coincidono, nel senso che la seconda è totalmente in funzione della prima » (ivi) e che alla carenza dei poteri dello stato sopperisce egregiamente il Banco di S. Giorgio, « l’unico centro di potere, che possa essere definito tale a ragione» (p. 119). (Angelo Aromando) Aristotele Morello, Le regole del Ridotto degli Incurabili, l’« Instrumentum locorum » ed il testamento di Ettore Vernazza notaro e benefattore del '500. - Estratto da Scritti giuridici in onore del notaio Vincenzo Baratta, Napoli, Jovene, 1969, pp. 281-321. Nella fase di trasformazione, iniziatasi verso la fine del secolo XIV, dell assistenza sanitaria e ospedaliera da una forma di gestione prettamente religiosa in forme laiche e nell’epoca in cui l’opera di beneficenza si fondava esclusivamente sull azione individuale, si inserisce la figura del notaio ligure Ettore Vernazza, vissuto tra il 1470 circa e il 1524. La nuova attività del Vernazza, già socio nell’ultimo decennio del secolo XV della Compagnia del Mandiletto e subito dopo della Confraternita e Oratorio del Divino Amore, si inserisce in un periodo assai funesto all’Italia per la diffusione di una epidemia della « morbo gallico o mal franzese » e per le sue disastrose conseguenze. Ad ovviare a tale stato di cose, a Genova i soci della Confraternita fondano il «Ridotto degli incurabili» che, annesso provvisoriamente nel 1500 alle dipendenze dell’Ospedale di Pammatone, ottiene nel 1503 la personalità giuridica o, come si diceva allora, il privilegio della giurisdizione civile. La dinamica azione del Vernazza, resa vieppiù febbrile dopo la prematura scomparsa della moglie, è intessuta oltre che da realizzazioni pratiche, quali 1 ampliamento delle attività del Ridotto, detto poi comunemente « Ospedaletto », 1 erezione a Roma e Napoli di associazioni consimili e l’impulso dato alla creazione di una stretta forma di collegamento nazionale e internazionale tra ospedali di diverse città e paesi, da audaci programmazioni in una visione della realtà assistenziale in molti punti precorritrice dei fondamenti giuridici e delle « impostazioni strutturali » tuttora applicati nel campo dell’odierna assistenza pubblica: fatti e idee fedelmente espressi nelle « Regole » e nell’« Instrumentum locorum », i due documenti del Vernazza, oltre il « testamento », riportati integralmente dal M. in appendice. In particolare, mentre le « Regole o Codice dello Spedaletto del Ridotto », documento che si conserva nell’archivio dell’Ospedaletto, costituiscono un « modello, tuttora valido, di estesa democraticità », YInstrumentum locorum, che unitamente al testamento si conserva presso l’archivio di stato di Genova — atti notaio Battista Strata —, « può definirsi a un tempo testamento spirituale, tavola di fondazione e codice generale dell’assistenza ospedaliera» (p. 290). . (Angelo Aromando) — 344 — Ennio Poleggi, Strada Nuova - una lottizzazione del Cinquecento a Genova, SAGEP Editrice, Genova 1968, pp. 498, 236 foto nel testo 31 foto t. in bianco e nero e a colori, 9 inserti. Lo studio è distribuito in tre parti: nei primi quattro capitoli sono esposti la tradizione residenziale ed il fatto della strada nel quadro della urbanistica contemporanea e dei suoi principali operatori; nei capitoli seguenti i palazzi eretti sulla strada nel secolo xvi sono illustrati singolarmente con particolare attenzione a quel problema che ciascuno propone con maggior evidenza e inoltre, sulle testimonianze dei viaggiatori, si ricostruisce la fortuna di Strada Nuova; infine l’appendice raccoglie i regesti aggiornati degli autori più attivi e la trascrizione integrale dei documenti più utili. La lettura fotografica, del tutto inedita, è stata condotta su un piano dichiaratamente descrittivo delle architetture e delle tecniche decorative più interessanti, nel rispetto delle naturali e limitate condizioni di visibilità degli edifici e della strada. L’indagine, intessendo nuove informazioni ha indubbiamente mutato il profilo mitico di Strada Nuova. La presenza dell’amministrazione pubblica e della sua efficiente burocrazia propone una nuova genesi dell’idea urbanistica mentre la riconosciuta assenza dell’Alessi, per l’impossibilità obiettiva di attribuire alla sua personalità una qualsiasi parte dell’impresa, fa luogo ad un inesplorato vivaio di autori formato dalla secolare ricerca architettonica della città. Valeria Polonio, Crisi e riforma nella chiesa genovese ai tempi dell’arcivescovo Giacomo Imperiale (1439-1452), in Miscellanea di Studi storici I, Genova 1969, pp. 263-363 (Collana storica di fonti e studi diretta da Geo Pistarino 1). Sulla base di un folto gruppo di documenti inediti dell’Archivio Capitolare di San Lorenzo, l’A. illustra le vicende che opposero lungamente l’arcivescovo di Genova, Giacomo Imperiale, al papa Eugenio IV a proposito delle riforme che il pontefice intendeva operare nelle strutture della Chiesa genovese, nel quadro di quella più vasta azione di rinnovamento della Chiesa che resta il segno distintivo del pontefice veneziano. L’istituto della commenda, la mancata residenza dei titolari dei benefici, l’impoverimento spirituale e materiale di tanti organismi ecclesiastici trovano la più decisa opposizione del papa, che appoggia la propria azione a comunità nuove o riorganizzate, come le congregazioni di S. Giustina di Padova o di S. Giorgio in Alga di Venezia, entrambe presenti in Genova, o ricorrendo largamente anche agli ordini mendicanti. Al suo volere è legata l’introduzione dei Domenicani in S. Maria di Castello nel 1442, che assume il significato di una vera e propria dichiarazione di guerra; vengono a conflitto, talvolta con toni di un’asprezza inusitata, due volontà contrastanti: da una parte il pontefice che vuole tagliare i troppi rami secchi (tra i quali vengono ricordati anche molti priorati mortariensi di Genova, da tempo in crisi) per agire in profondità su un organismo malato; dall’altra l’arcivescovo, esponente di un mondo ecclesiastico che, forte della lunga tradizione, non intende cedere sul terreno dei privilegi. E tuttavia, anche se non mancarono contatti sospetti con gli esponenti del concilio di Basilea (tra i quali Matteo del Carretto, vescovo di Albenga), l’A. riporta giustamente questi contrasti all’ambiente locale genovese, al senso di una tenace tradizione, nonché al conservatorismo dei troppi interessi locali minacciati. A - 345 - proposito dei quali, ci sembra di poter aggiungere che gli episodi di S. Giovanni di Pré e di S. Andrea di Sestri, dietro ai quali FA. avverte i riflessi dello scisma di Basilea, possano tradire anche programmi di epurazione di elementi milanesi come Racello dell’Oro e Antonio de Grassi, appartenenti all 'entourage di Filippo Maria Visconti. Lo stesso appoggio che i dogi Tommaso di Campofregoso e Raffaele Adorno offrono all’azione papale, anche contro lo stesso arcivescovo, va forse al di là della politica ecclesiastica come, del resto, sembra dimostrato dagli sforzi per l’unione con le chiese orientali, tenacemente perseguita da Eugenio IV con l’appoggio della repubblica di Genova, scarsamente assecondata dal suo clero. Nè i contrasti hanno termine con la morte del papa: anche se il nuovo pontefice, Nicolò V, più sensibile all’ambiente ligure dal quale proviene, lascia cadere alcune iniziative del predecessore, non per questo si spengono le polemiche che, anzi, riprendono più vivaci a proposito della riforma del convento femminile dei SS. Giacomo e Filippo, già in passato oggetto dell’attenzione di Eugenio IV. Lo studio termina con l’esame degli interventi dell’imperiale nell’ampliamento e nell’abbellimento del palazzo arcivescovile e della Cattedrale, nella ricognizione delle reliquie di San Siro e nell’accrescimento del patrimonio librario della biblioteca arci-vescovile; segue quindi l’edizione di 18 documenti inediti, tra i quali spiccano il testamento dell’imperiale e l’inventario della sua biblioteca. (d. p.) Luigi Alfonso, La legazione di Bernardo Baliano in un ms. della Berio, in La Berio 1967, n. ], pp. 16-37, 2 illustr. L’A., sulla scorta di documenti da lui rintracciati nell’Archivio di Stato, negli archivi parrocchiali di San Siro, di San Lorenzo, di San Giacomo di Carignano, della Cattedrale di Savona, tesse la biografia di Bernardo Baliano, figlio del più noto Gian Battista, lo scienziato in rapporti col Galilei, completando e quando è il caso, correggendo quanto era stato scritto precedentemente. Ne segue Fattività politica e diplomatica culminata nella difficile legazione presso la corte del Re Sole, adempiuta con abilità e lode. Per questo periodo FA. si vale, oltre che dei documenti d’archivio, di un sontuoso manoscritto bedano dal titolo « Legatione / di / Bernardo Baliano / gentilhuomo residente / appresso il / re christianissimo / dall’Anno 1663 in 1666 » entro cornice, stemma e figure allegoriche finemente tratteggiate a penna. Manoscritto probabilmente fatto esemplare dallo stesso Bernardo e legare in cuoio con fregi e denteile dorate sui piatti, pregevole specimen della troppo ignorata biblio-pegia genovese del tempo. Le lettere del Baliano raccolte in questo manoscritto non solo si occupano di questioni politiche; di esse, osserva FA. « ci sarebbe pure da fare un’antologia d’una lunga serie d’aneddoti che proiettano una luce particolare sulla corte e sul secolo» e riferisce alcuni di tali aneddoti a riprova dell’affermazione che le lettere del Baliano, le quali non hanno la pretesa letteraria di altri epistolari del tempo, « si leggono con piacere e con grande interesse; egli sa evitare la pedanteria, le ripetizioni, l’ampollosità; spesso la sua non sembra nemmeno prosa secentesca ». - 346 - Nilo Calvtni, Francesco Maria Accinelli, in La Berio, 1967, n. 3, pp. 4042. Breve e succoso profilo del noto autore settecentesco nei suoi multiformi aspetti, di storico, cartografo, topografo, controversista, nonché pittore «non sempre enccn miabile », arricchito di un brano dell’ultima parte del terzo volume del Compendio della storia di Genova, omesso nell’edizione procurata dal Lertora nel 1851. SECC. XVII-XVIII Nilo Calvini, Martino Natali - Vincenzo Palmieri, in La Berio, 1966, n. 2, pp. 27-31; n. 3, pp. 33-36. L’A. esprime le proprie riserve circa l’opinione di qualche studioso che il giansenismo ligure sia stato « un movimento di breve durata... un riflesso di idee divulgate in altri centri, un fallito tentativo di governo politico »; a riprova del contrario, rammenta « coloro che, liguri di nascita, propagarono fuori Liguria le loro idee, le quali rimbalzarono poi di riflesso anche a Genova » e si sofferma « proprio su due di essi, Martino Natali e Vincenzo Palmieri, caratteristici esempi di giansenisti liguri che esplicarono fuori patria la loro maggiore attività ». Del Natali, cui l’A. precedentemente aveva dedicato uno studio apparso nel 1950, è rievocata la vita combattiva a Roma e a Pavia, il duplice carattere della sua attività di scrittore, « ora stampando opere per il popolo, ora profondamente dottrinarie, ma sempre con lo scopo di diffondere la vera dottrina negli indotti e di correggere gli errori dei dotti », e, poi, la solitudine degli ultimi anni, quando era imminente la penetrazione della rivoluzine francese in Italia, e il Natali « troppo preso dal passato, non vide il presente che avanzava distruggendo anche parte del suo insegnamento ». Del Palmieri rievoca la gioventù austera e studiosa a Genova, la collaborazione al Sinodo Pistoiese, l’insegnamento presso le Università di Pisa e di Pavia, il ritiro a vita privata a Genova, dove « amareggiato ma non sconfitto continuò a studiare e a scrivere con immutata energia, sebbene in riservata solitudine», e le incessanti polemiche durate fin quasi alla morte sopravvenuta nel 1820. Valeria Polonio, Erudizione settecentesca a Genova. I manoscritti beriani e Nicolò Domenico Muzio, in La Berio, 1967 n. 3, pp. 5-27, 3 illustr. Il notevole interesse che, per la storia genovese, presenta un gruppo di manoscritti settecenteschi conservati nella biblioteca Berio è messo in luce dall’A. che, in tutti, rileva la comune caratteristica della ricerca erudita, così che « si può parlare di un indirizzo di studio affermato: i nostri studiosi [il Muzio, il Richieri, il Giscar-di, l’Accinelli, il Poch, il Della Cella, il Remondini] si occupano di cose genovesi con una metodolgia e con interessi ben individuati... In linea generale si può dire che l’oggetto di studio sia costituito da due grossi filoni: da un lato le ricerche genealogiche, dall’altro la storia ecclesiastica, o meglio la storia degli enti ecclesiastici». Di tante fatiche, degne, nella ricerca, nell’ordinamento, nella trascrizione di innumerevoli documenti, della pazienza di un certosino, pochissimo è stato dato alle stampe, ed osserva FA. « si potrebbe parlare di una sorta di aristocratico passatempo - 347 - personale volto umilmente al silenzio o a un limitato giro di appassionati », ma proprio per la modesta e laboriosa opera di questi studiosi è ancora possibile, oggi, la conoscenza di molti documenti i cui originali andarono dispersi; e, pertanto, i manoscritti beriani hanno il valore di fonte insostituibile. L’A. passa quindi a trattare particolarmente del Muzio, « personaggio-tipo, esemplare per interessi, metodo e fecondità di produzione ». Finora del notaio Nicolò Domenico Muzio, si sapeva solamente che era l’autore delle ventiquattro opere manoscritte alla Berio, che era stato in corrispondenza con Scipione Maffei e, sopratutto, col Muratori. In questo studio l’A., da ricerche originali d’archivio, ne delinea un profilo biografico, dalle origini, nella Riviera di Levante, dove, a Sestri esercita la professione, a Genova dove, nel 1699, entra a far parte del Collegio dei Notari e, nel 1713, viene eletto custode dell’Archivio Notarile, carica che terrà fino alla morte, avvenuta nel 1713, abbinando, in seguito, l’altra importante carica di Archivista della Repubblica. L’A. esamina l’opera di erudito del Muzio, nel suo valore e nei suoi limiti; si sofferma poi sulla collaborazione ai R.I.S. e sui rapporti col Muratori e ne prospetta opportunamente un’interpretazione più conforme alla verità, dimostrando quanto sia da modificare il giudizio immeritatamente severo che il Pandiani aveva formulato sul nostro notaio-archivista. SECC. XIX - XX Libero Accini, Organizzazione Bianco - Missione speciale in Liguria (1944) Milano, U. Mursia & C. 1969, pp. 243. Una nobile testimonianza della lotta partigiana ed una superba pagina dell eroismo anelante alla libertà offre Libero Accini nell’« Organizzazione Bianco ». Libero Accini, corrispondente di guerra con la Marina fino all’estate del 1943, dopo il 25 luglio, data d’inizio della sua rievocazione, segue un corso di addestramento presso un Comando Britannico nelle Puglie, per partecipare attivamente alla lotta partigiana nel Nord d’Italia. Paracadutato sul monte Ayona prende contatto con elementi della Resistenza ligure, non limitandosi al suo compito: dare vita ad una rete di informazioni, ma costituendo la cosiddetta « Organizzazione Bianco », centro di operazioni di sabotaggio nella zona di Genova e della Spezia. Arrestato subisce da parte dei nazi-fascisti mostruose torture a Genova e a Verona nel vano tentativo di strappargli preziose informazioni politico-militari. Il libro non si limita a rappresentare una drammatica documentazione per la storia della nostra Resistenza, ma è anche messaggio dell’umano valore. „ , (Silvano Balestreri) Leonida Balestreri, Consistenza e orientamenti della stampa operaia genovese attorno alla metà dell’Ottocento, in Movimento operaio e socialista, Genova, anno XV, n. 2, aprile-giugno 1969, pp. 195-210. Inquadrando le vicende del giornalismo genovese nel contesto politico-economico-sociale della città alla metà del secolo scorso, l’A. fornisce ampio ragguaglio relati- — 348 — vamente alle posizioni ideologiche e all’azione pratica di alcuni periodici, che più direttamente miravano a farsi interpreti delle esigenze della classe lavoratrice. I giornali qui in particolare studiati sono II Povero (1851), L’Associazione (1851), La Libertà (1851), Libertà Associazione (1852), Il Lavoro (1852-1853) e Associazione e Lavoro (1853-1854). Leonida Balestreri, Il diario del 1866 di Carlo Persiani garibaldino genovese, in Rassegna Storica del Risorgimento, Roma, anno LVI, fascicolo I, gennaio-marzo 1969, pp. 61-71. Breve ma interessante presentazione del diario relativo alla campagna garibaldina del 1866 nel Trenteino redatto dal genovese Carlo Persiani. Si tratta di uno scritto, prima d ora del tutto sconosciuto, che, in forma succinta ma non per questo meno efficace, fissa i momenti essenziali dell’azione del I Battaglione Bersaglieri Volontari, operante sotto il comando di Antonio Mosto. Tale formazione continuava sotto la nuova denominazione imposta dal Governo sabaudo le gloriose tradizioni dei Carabinieri genovesi, essendo pur essa composta in massima parte da elementi provenienti dalla regione ligure. Ferruccio Beltrame, Ricordo di Ettore Perosio - Note bibliografiche, Prefazione di Giacomo Costa, Genova, sotto gli auspici della « Giovine Orchestra Genovese », 1969, pp. 48. A grandi linee, con accenti di commossa ammirazione, sono rievocate in queste pagine la vita e 1 opera del compositore e direttore d’orchestra genovese m.° Ettore Perosio (1868-1919). L accuratezza dell’indagine e l’abbondanza delle citazioni da giornali e riviste con cui essa è completata fanno sì che il profilo che del grande musicista ne risulta apparisca particolarmente convincente ed efficace, assumendo la veste di un degno omaggio alla memoria di una delle figure più rappresentative che la storia della musica in Liguria abbia mai annoverato. (Leonida Balestreri) Nilo Calvini, Spigolature. Un poemetto in dialetto genovese sul colera del 1835. Note su alcuni opuscoli, in La Berio, 1967, n. 1, pp. 38-41. Si dì notizia di tre opuscoli di carattere scientifico sull’epidemia colerica che infierì a Genova nel 1835, pubblicati dai medici Luigi Goggi, Giovanni Soleri, Luigi Ghiraldi e di un poemetto in 76 ottave ispirato dal morbo a un poeta dialettale che si cela sotto lo pseudonimo di Ittinio Riccalbo e di cui il Calvini ha identificato il vero nome: Antonio Pescetto, padre di Gian Battista, autore della Bibliografia medica ligure, di cui il primo, e solo, volume venne pubblicato a Genova, presso la tipografia dei Sordo-Muti, nel 1846. — 349 — Descrizione della citta di Genova da un anonimo del 1818 - presentazione, ricerca iconografica e note a cura di Ennio e Fiorella Poleggi, SAGEP Editrice, Genova 1969, pp. XVITT - 335, 35 tavv. f. t. in bianco e nero e a colori, 115 ili. in b. e n. nel testo. L opera, riccamente illustrata da un corpus di vedute del tempo in buona parte inedite, fornisce l’edizione di un manoscritto anonimo conservato presso la Civica Biblioteca Berio sotto la segnatura IV.3.21. Il testo, puntualmente descrittivo di ogni ambiente urbano e delle opere che si conservano nelle chiese e nelle raccolte private, « restituisce agli studi una fonte preziosa ed ai genovesi la possibilità di convincersi, dopo centocinquant’anni di indifferenza o di attenzioni sbagliate, che la loro città ebbe una forma ricca e nobile, per nulla inferiore ai maggiori centri italiani, perfettamente coerente alla sua storia di grande porto del Mediterraneo medievale e in seguito di polo del capitalismo europeo ». La presentazione di Ennio Poleggi, intesa ad inquadrare il manoscritto nella produzione delle opere descrittive della città stampate nel secolo xix e la personalità dell’anonimo autore nei problemi dell’urbanistica genovese contemporanea, estende la sua problematica in più di seicento note che commentano o precisano le vicende della città parallelamente alle osservazioni dell’autore sovente interessato ai problemi di sviluppo di Genova nei primi anni dell’annessione al Regno Sardo. Felice Faldi, Il Priore di S. Sabina. Il servo di Dio Don Giuseppe Farinetta. Geno/a, Tip. Don Bosco, 1967, pp. 200. LA. traccia un ampio profilo biografico del Frassinetti (1804-1867), parroco a Quinto, priore di Santa Sabina, teologo e maestro di ascetica del clero genovese dell Ottocento. Il lavoro è frutto di approfondite indagini degli atti dei processi ecclesiastici di alcuni mss. della Biblioteca del Seminario e di una vasta bibliografia. Giorgio Gimelli, Cronache Militari della Resistenza in Liguria, vol. II» Fari-gliano (Cuneo) 1969, ed. Istituto Storico della Resistenza in Liguria, pp. 541 con quattro carte militari fuori testo. Dopo aver dedicato la sua attenzione nel I volume, edito nel 1965, alle origini della Resistenza ed ai suoi primi mesi di vita, Giorgio Gimelli prende in esame, nel- 1 opera in questione, il periodo che va dall’aprile all’agosto 1944. Momento particolarmente delicato per l’organizzazione partigiana, poiché, mentre le formazioni si ingrossavano occupando vaste zone di territorio, rilevavano pure insufficienze logistiche e di materiale, proprio quando le forze nazi-fasciste compivano i grandi rastrellamenti dell’estate 1944. Vi furono così raggruppamenti e reparti che cedettero, palesando la mancanza di una tecnica di guerriglia, ma gli uomini che superarono quel periodo cruciale diedero vita effettiva all’esercito partigiano del Nord. L’autore intende dare un quadro complessivo della Resistenza Ligure; è infatti in preparazione la terza parte dell’opera che coprirà l’arco di tempo compreso tra il settembre 1944 ed il maggio 1945. Diretto protagonista di quei mesi di lotta, fece parte della « Sezione Stampa » della Sesta Zona Operativa che grosso modo occupava — 350 — 1 Appennino retrostante Genova. Ma la diretta partecipazione ad episodi di guerra non gli impedisce un lucido esame che più che sereno si potrebbe dire freddamente severo. Per ogni avvenimento — attività del GAP, combattimenti, arresti, contributi delle popolazioni — il Gimelli ha prodotto documenti, coadiuvato nel lavoro di ricerca relativo agli Archivi di Stato dall’istituto di Storia Moderna e Contemporanea dell Università di Genova, e testimonianze. Di particolare interesse per una immediata collocazione geografica degli scontri e degli spostamenti militari le cartine in appendice, drammatiche le testimonianze. Libro di indubbio valore per rigore storico ed impegno sociale, fa luce su uno dei meno conosciuti movimenti partigiani d’Italia. (Victor Balestreri) Maria Teresa Morano, I manoscritti di Paolo Novella e la sua collaborazione alla « Settimana Religiosa », in La Berio, 1968, n. 2, pp. 5-27. Paolo Novella (1871-1938), «uomo schivo, di modeste capacità, molto legato alla sua città natale », così è definito dall’A., raccolse indefessamente, ma senza molto acume critico, una quantità di notizie su cose genovesi. Parte sono pubblicate in articoli nel periodico « La Settimana Religiosa », al quale collaboré dal 1902 sino alla morte, parte sono rimaste inedite in molti manoscritti. Premesso un cenno biografico del Novella l’A. fornisce un indice di quanto è pubblicato ed una descrizione dei manoscritti che, oggi, si trovano nelle biblioteche Berio, Franzoniana, dell’Ufficio Belle Arti e del Monastero di Santa Maria della Castagna. Giulio E. M. Peloso, Genovesi illustri: Nel centenario della morte di Filippo Bettini, in Genova, rivista mensile del Comune, anno 49°, n. 9, settembre 1969, pp. 28-29. L'Autore, che ebbe per madre Isabella (Elisa) (1863-1943) di Marcello Bettini, tenuta a battesimo nel 1863 nella chiesa delle Vigne dallo zio Filippo, ha tratteggiato brillantemente il profilo del grande giurista genovese, che fu amico fedele di Giuseppe Mazzini. I molti dati sull’aw. Filippo Bettini, di cui ricorre il primo centenario della morte, e sulla sua famiglia, pubblicati nell’articolo, rendono questo particolarmente interessante per la storia del risorgimento nazionale. Leonello Sartoris, Giuliano Balestreri, in rivista Genova, anno 49°, n. 6, giugno 1969; Giuliano Balestreri (1909-1969), Estratto dalla rassegna Liguria, anno XXXVI, n. 7, luglio 1969. La scomparsa del nostro consocio dott. Giuliano Balestreri, avvenuta lo scorso giugno, ha suscitato larga eco di rimpianti, di cui si sono fatti interpreti giornali e riviste di ogni parte d’Italia: da II Pubblicista di Roma a II Pensiero Mazziniano di Torino e a Studi Grafici di Padova. I quotidiani e altri periodici della nostra regione hanno ampiamente tratteggiato i multiformi aspetti della sua vita e della sua opera, — 351 — ponendo in particolare evidenza l’attività da lui svolta quale illustratore della storia e del folklore ligustici, non meno che quale autore di poesie e di lavori teatrali in genovese. Non diversamente da quanto già fatto nelle pagine dei nostri Atti dal dott. Giovanni Pesce, anche le rievocazioni apparse sulle due maggiori riviste locali — Genova e Liguria appunto — sottolineano con larghezza d’informazioni e precisione di riferimenti la vastità e il valore dei contributi storici e letterari del dott. Balestreri. Aggiungono motivo di commozione al ricordo di questo nostro appassionato studioso tre sentiti componimenti poetici dedicati alla sua memoria, rispettivamente da Nicola Ghiglione e Aldo G. B. Rossi su Liguria, e da Sandro Patrone sulla rivista Genova. VARIA Emilio Bkiozzc, Sintesi storica della provincia ligure-pedemontana dei frati minori conventuali di S. Francesco d’Assisi. 1240-1967, Genova, Tip. dell’immacolata, 1968, pp. 43. Brevi note dedicate all’illustrazione dei principali avvenimenti relativi alla storia dell’Ordine, con elenco dei provinciali di Liguria e Piemonte. L’A. si è proposto di offrire un primo schema per una storia completa dell’Ordine, ricorrendo anche a mss. dell’Archivio del Convento di Albaro. Mario Buongiorno, Gli emolumenti dei dogi perpetui genovesi, in Studi genuensi, V, 1964-65, pp. 57-61. Riportando dati interessanti dalle scritture contabili dell’Archivio Segreto, 1 A. vuole offrirci « una breve panoramica, di interesse esclusivamente finanziario, di quali furono le azioni e le ambizioni dei dogi genovesi dalla loro creazione alla riforma di Andrea Doria, e solo limitatamente ai loro appannaggi » (p. 57). Anche se le conclusioni del B. sembrano già potersi dedurre in anticipo, non si può nascondere che la sua disamina venga svolta con un certo brio, non disgiunto da una certa spregiudicatezza; così, a proposito del più famoso dei dogi e primo dux vita naturai durante, Simon Boccanegra, considerato dagli storici del tardo risorgimento « quale eroe popolare dall’animo forte e magnanimo », il B. osserva argutamente che in effetti « fu per il suo popolo qualcosa di affine ad una vorace sanguisuga » (p. 58). Nè sembra, aggiunge, che gli altri dogi che gli succedettero, appartenenti quasi esclusiva-mente alle due più eminenti famiglie « popolari », gli Adorno e i Campofregoso — poi « saggiamente escluse da ambizioni dogali da Andrea Doria nella sua riforma del 1528 » (pp. 57-58) — gli siano stati da meno. (Angelo Aromando) Valeria Polonio, Le maggiori fonti storiche del Medioevo ligure, in Studi genuensi, V, 1964-65, pp. 5-38. Lo studio della P., a carattere prevalentemente « informativo », vuole essere un sommario delle « voci più significative giunte a noi attraverso i secoli dal mondo e dalla vita liguri del Medioevo » (p. 5) destinato agli studiosi. Si tratta, come avverte — 352 — subito 1 A., di fonti già parzialmente note e pubblicate; ma, data la loro dispersione in tali e tante edizioni, se ne avverte attualmente la necessità di raggrupparle. È il primo tentativo che, conscio delle difficoltà insite in una ricerca del genere e di qualche inevitabile e trascurabile dimenticanza, tralascia di proposito le « numerose testimonianze di carattere monumentale », per interessarsi esclusivamente dei documenti e delle cronache. Il sommario distingue pertanto le Fonti documentarie dalle Fonti narrative. Nelle prime sono compresi gli archivi genovesi e liguri in genere (fondi Materie politiche e Notai che si conservano presso l’Archivio di Stato di Genova e altri fondi che si conservano presso altri archivi statali, comunali, di enti religiosi e privati), tra i quali si dà una certa preminenza alle antiche raccolte di documenti costituite dai Libri iurium, conservati presso l’Archivio di Stato e la Biblioteca di Genova, dal Codice diplomatico della Repubblica di Genova e dalle Leges genuenses. Interessanti sono le note esplicite che seguono il titolo delle fonti più consistenti e che contengono preziose notizie. L altro gruppo di fonti considerate è costituito dalle Fonti narrative. Per quanto ■si debba presupporre l’esistenza di annali precedenti al Caffaro, tuttavia di essi non è rimasta alcuna traccia; pertanto quelli di Caffaro, che vanno dalla fine dell’xi secolo fino al 1163, restano i primi annali della storia di Genova pervenuti fino a noi. L opera del Caffaro interessantissima, poiché basata sulla diretta partecipazione a molte delle vicende narrate e sulla altrettanto diretta conoscenza dei « documenti-fonte » cui l’autore aveva la più ampia possibilità di accedere, venne poi ripresa dai successivi annalisti: si interrompe alla fine del xm secolo con l’ultimo annalista Iacopo Doria. Di diversa impostazione è invece la Cronaca di Iacopo da Varazze: si tratta in sostanza di un’opera enciclopedica, in cui la trattazione degli eventi storici, dalle origini di Genova fino alla fine del xm secolo, è mista ad argomenti di natura varia, ■che spaziano da problemi meramente familiari e sociali fino a comprendervi problemi di natura prettamente religiosa. Seguono le trattazioni che riguardano gli Annalisti quattrocenteschi e gli Scrittori di formazione umanistica. Lo studio della P., che raggiunge pienamente il suo scopo, si fa ammirare anche per la proprietà e la sobrietà espressive. (Angelo Aromando) Massimo Quaini, I boschi della Liguria e la loro utilizzazione per i cantieri navali: note di geografia storica, in Rivista Geografica Italiana, LXXV, 1968, pp. 508-537. L’A. affronta il problema dell’approvvigionamento del legname per i cantieri navali della Riviera attraverso una serie di ricerche limitate per ora ai secc. xvi e xvn, pur senza tralasciare qualche richiamo al Quattrocento ed al Settecento. Le fonti sono prevalentemente costituite dalla letteratura corografica, che, soprattutto per quanto riguarda il Seicento, è in gran parte inedita, e da sondaggi nella ricca serie di filze che raccolgono gli atti della « Camera del Governo » (Sez. 2, Finanze) presso l’Archivio •di Stato di Genova. Dalla ricerca risulta che il manto forestale della Liguria e, di conseguala, la sua importanza economica, durante i secoli xvi e xvii era assai più notevole di quanto — 353 — finora avevano supposto gli studiosi di storia e di geografia storica. In particolare viene provata l’esistenza nella Riviera di Ponente di aree forestali costituite di specie arboree idonee alle costruzioni navali. Non per caso, quindi, i cantieri erano in passato localizzati soprattutto nella Liguria occidentale: a Sampierdarena, allo sbocco della boscosa vai Polcevera, ad Arenzano e Varazze, rifornite dai vicini monti del-l’Oltre-Giogo (boschi di Sassello e dell’Orba), a Savona, famosa già in epoca medievale per il suo grande nemus, a Finale, e in altri centri minori che godevano della vicinanza alle foreste delle Alpi Marittime (boschi di Taggia, Ceriana, Baiardo, Sanremo). Per la Riviera di Levante, durante l’epoca moderna, è stata accertata una sola area boschiva, situata nelle alte valli chiavaresi, utilizzata per le costruzioni navali di Genova e di Chiavari. Invece non si è trovata traccia, nella documentazione genovese, di altre aree boschive, il cui sfruttamento è attestato per l’epoca medievale. Tutte queste aree forestali risultano, nei secoli XVI e XVII ma spesso già durante il Medioevo, minacciate dagli interessi agricoli e pastorali della popolazione e dall attività di ferriere, fornaci, vetrerie e altri impianti industriali. I tentativi fatti da Genova e dagli altri centri marinari per difendere una materia prima tanto preziosa per la loro economia marittima non ebbero, in generale, alcun effetto. Tutto ciò contribuisce a spiegare il notevole disboscamento della Liguria, molto evidente alla fine del xvii secolo. Lo studio è corredato da alcune tavole che mettono in evidenza la riduzione del bosco di Toirano a vantaggio degli incolti e dei prati a causa dell’allevamento, 1 isolamento del bosco di Savona dalla primitiva area forestale savonese-finalese, la sua riduzione verso il confine con i territori sabaudi, le ampie radure create al suo interno dagli insediamenti agricoli, la distribuzione delle parti riservate alla preservazione del patrimonio forestale, il bosco di faggi del Monte Penna, al di là della displuviale in un’area controversa con il Ducato di Parma che serviva Genova e Chiavali per 1 approvvigionamento dei cantieri navali, oltre che da due carte ad illustrazione dello sfruttamento dei boschi liguri in epoca medievale e moderna e delle condizioni odierne del manto forestale della regione. Virginia Rau, Estudos de História, Lisbona, 1968. Una raccolta di studi ormai esauriti, o dispersi, giunge sempre gradita agli studiosi e, poiché alcuni di questi studi riguardano direttamente o indirettamente i genovesi. sembra opportuno segnalarne la pubblicazione in questa sede. Il volume si apre con un articolo apparso per la prima volta a Lisbona nel 1956 e poi elaborato per gli « Studi in onore di Armando Sapori »: Urna familia de mercadores italianos em Portugal no século XV: os Lomellini. Già presenti sul mercato finanziario di Lisbona nel XIII secolo (nel 1278 si incontra un « don Vivaldo genoves cidadao de Lisbôa ») i genovesi acquistarono una posizione preminente nella colonia italiana in Portogallo all’inizio del XIV secolo quando Emanuele Pessagno fu nominato ammiraglio delle galee di Re Dionigi (1317). Le concessioni di Alfonso IV e di Pedro I diedero agli italiani ampie possibilità di manovra su una piazza che si avviava a diventare « o grande centro da mercanda genovesa » e genovesi e fiorentini non tardarono a suscitare le proteste dei — 354 — ; mercanti locali soprattutto quando la loro espansione minacciò seriamente anche il commercio interno locale infiltrandosi addirittura nel commercio al dettaglio. Dalla metà del XIV secolo, l’antagonismo tra mercanti portoghesi da una parte e mercanti italiani dall’altra, provocò sequestri in mare e in terra insulti e affronti contro gli stranieri e petizioni al Re da parte dei mercanti locali, che privi di « così grandi capitali » non potevano sostenere la concorrenza straniera. Legati ai genovesi da troppo importanti interessi finanziari, i Re non concedevano ai loro sudditi che provvedimenti intesi a porteggere il commercio al minuto, ma si guardavano bene dall’intaccare i privilegi concessi ai loro finanziatori. In questo ambiente, appare documentato, nel 1424, il primo Lomellino: Bartolomeo. Dopo di lui compaiono, nel corso del XV secolo, anche alcuni suoi parenti: Marco, il più importante di tutti per l’ingente attività mercantile e finanziaria svolta sotto la protezione di Alfonso V, poi i suoi fratelli Daniele, Filippo, Cosma, quindi Leonardo, Ambrogio Giovanni Antonio, Giuliano, Battista ed altri, tutti parenti stretti. L’A. segue le tracce di tutti i membri della famiglia mettendone in luce l’attività: monopolio del sughero, commercio e produzione dello zucchero a Madera, operazioni finanziarie con la Corona che, nella persona del Re Don Alfonso V, fu prodiga di privilegi, onori, cariche pubbliche e tangibili doni, come quando Marco Lomellino, rientrato in Portogallo dopo essere stato Console dei Portoghesi a Genova, e finalmente naturalizzato portoghese, ottenne in dono i beni sequestrati a certo Alvaro Anes. Il Portogallo ospitò più di una famiglia genovese la cui stirpe, conclude l’A., di generazione in generazione, è giunta sino ai nostri giorni, tanto in Madera come in Portogallo. Il volume contiene anche una nota sui documenti dell’Archivio Datini di Prato riguardanti Lisbona ed un articolo dedicato a Luca Giraldi, banchiere fiorentino legato agli Affaitadi di Cremona, operante in Lisbona intorno alla metà del Cinquecento. In appendice a quest’ultimo articolo, FA. presenta un lungo documento in cui si accenna alla missione in Turchia di Edoardo Cattaneo, nel 1541. Di maggiore interesse per la Storia dei genovesi è la comunicazione che FA. presentò nell’aprile d-1 1967 al colloquio internazionale di Colonia: « Privilégios e legi-slaçâo portuguesa referentes a mercadores estrangeiros (séculos XV e XVI), in cui sono raccolte tra le altre notizie, anche citazioni di mercanti genovesi come Geronimo e Cristoforo Marabotto che ottengono « carta de segurança » nel 1444, Desiderio Vivaldo (1446), Giovanni e Francesco Usodimare (1452 e 1454), o come Antonio Saivago implicato, nel 1519, in un incidente con i mercanti tedeschi scesi a contendere il campo a genovesi con forze adeguate all’impresa, anche a giudicare dai nomi: Fugger, Welser, Hochstetter, Imhof, Hischvogel ecc. Il volume si chiude con una relazione sul commercio del sale portoghese nei secoli XIV-XVIII (argomento che è stato oggetto di ampia trattazione da parte dell’A.) presentata al colloquio sui «Problèmes de l’histoire du trafic maritime du sel» tenutosi a Parigi nel 1961, e con uno studio su alcuni aspetti del pensiero economico portoghese durante il secolo XVI, inerente soprattutto i problemi del cambio. In appendice, FA. pubblica alcune disposizioni in materia di cambi ed una traduzione in portoghese — riassunta — dell’originale latino del «Tratado do Càmbio » di Fernào Rebelo. (Giovanni Rebora) — 355 - 1 E. S. Zevakin - N. A. Pencko, Ocerki po istorii genuezkich kolonii na Zapad-rtorn Kavkaze v XIII i XV vv. [Ricerche sulla storia delle colonie genovesi nel Caucaso occidentale nei secoli xm-xv], trad. di M. T. Dellacasa, in Miscellanea di studi storici, I, Genova, 1969, pp. 7-98 (Collana storica di fonti e studi diretta da Geo Pistarino, 1). Non e affatto una novità che la storiografia russa si sia interessata, fin dal secolo scorso, degli insediamenti genovesi su territori che attualmente fanno parte del- 1 U.R.S.S.; ciò che invece costituisce una novità assoluta è che tali studi vengano ora tradotti e pubblicati anche in Italia. Infatti, alla pubblicazione della versione italiana della Storia delle colonie genovesi in Crimea di Murzakevic in Miscellanea di storia ligure in memoria di Giorgio Falco, Genova 1966, pp. 375-435 (N. Murzakevic, Istoria genuezskich posolenii v Krymu, Odessa 1837) — opera ormai invecchiata, ma sempre interessante, dato l’anno di pubblicazione e sebbene condotta con metodo storico non molto rigoroso e con la riserva dovuta alla parziale conoscenza delle fonti documentarie —, ha fatto seguito il presente studio apparso nel 1938 sulla rivista Istoriceskie Zapiski [Memorie storiche]. L’interesse del presente lavoro è dato, non tanto dalla rigorosa ricerca delle fonti — gli Autori infatti si basano esclusivamente su quel complesso di fonti documentarie, già edite nei secoli xix e xx, che sono tratte in gran parte dal fondo Banco di S. Giorgio e che costituiscono il Codice tauro-ligure —, quanto dall’inquadramento in un tutto organico di « notizie e dati dispersi » in varie pubblicazioni. A tal proposito gli aspetti di maggior rilievo trattati vanno dalla fondazione in Crimea della Colonia di Caffa, « il principale deposito per il commercio genovese del Mar Nero », alla successiva fondazione sulle coste del Caucaso occidentale di vari centri commerciali (gli Autori riescono a enumerarne 39 tra colonie e insediamenti, i più importanti dei quali Matrega e Kopa); dalla trattazione degli scambi e rapporti commerciali alla strutturazione dell’amministrazione coloniale nonché degli esami sui caratteri delle colonie e sui metodi della politica coloniale genovese agli accenni sull’attività missionara. Il periodo abbracciato va dal trattato di Ninfeo (1261), con il quale Genova ottenne l’accesso al Mar Nero, alla cessione delle colonie del Mar Nero al Banco di S. Giorgio (1453), alla caduta di Caffa (1475) sotto l’incalzare dei Turchi. Nonostante le pregevolezze che presenta tale lavoro, ciò non ci esime dall’avan-zare almeno un paio di rilievi: il primo deriva dalla netta impostazione stalinista che vien data all’articolo e che traspare dall’intero contesto, come, ad es., quando si afferma che « gli storici borghesi cercarono di tacere il sistema di oppressione e i metodi della politica coloniale. Nel caso migliore essi hanno steso brevi annotazioni sulle "rivolte” e sui "disordini” nelle colonie: tali sono i termini usuali per il mascheramento delle lotte di classe » (p. 70) oppure che « l’attività missionaria dei cattolici era uno strumento molto importante nelle mani dei colonizzatori italiani » (p. 78) mentre gli stessi « missionari dell’Occidente » sono considerati dagli Autori una « avanguardia dei conquistatori europei » (p. 80); l’altro rilievo è invece « stretta-mente tecnico » e riflette il problema delle citazioni dei testi originali latini e italiani che spesso sono tradotti, ovviamente in russo, in maniera difforme, incompleta o disordinata. (Angelo Aromando) — 356 — ( SCIENZE AUSILIARIE Luigi Alfonso, Bernardo e Valerio Castello, in La Berio, 1968, n. 1, pp. 30-40; n. 2, pp. 28-40. Minuziose e pazienti ricerche d’archivio hanno consentito all’A. di arricchire con dettagli di prima mano la biografia dei due artisti. Viene, fra l’altro, apportato un contributo chiarificatore all’intricato problema della discendenza di Bernardo Castello che si ammogliò due volte ed ebbe una ventina di figli tra maschi e femmine. Di queste e di quelli l’A. fornisce notizie: nascita, morte, matrimoni, professione dei figli, tra i quali due, Giacomo Maria e Valerio, seguitarono l’arte paterna. Si dà, quindi, notizia della cappella fondata da Bernardo nella chiesa di San Martino d’Albaro dove il pittore e i suoi famigliari sono sepolti e, in appendice, ne viene riportato l’atto costitutivo. Giovanna Balbi, Gli incunaboli della Biblioteca Vranzoniana di Genova, in Miscellanea di Studi storia I, Genova 1969, pp. 365-384 (Collana stanca di fonti e studi diretta da Geo Pistarino, 1). Descrizione di 37 incunaboli (30 della Biblioteca Franzoniana, 7 della Biblioteca delle Missioni Urbane di San Carlo), in gran parte provenienti da monasteri e conventi, di argomento religioso, filosofico e giuridico. Tre di essi non sono registrati nell’Indice generale degli incunaboli italiani, 16 sono da aggiungere, uno è ritenuto unico in Italia, altri due sono i soli esemplari integri in Italia. Seguono l’indice degli autori, dei commentatori e dei curatori di edizione e l’indice dei tipografi ed editori. Carlo Ceschi - Léonard von Matt, Chiese di Genova, Stringa editore, Genova, 1968, pp. 265, 148 ili. in b. e n. e 19 a colori. L’A. lo presenta come un’opera nè di estetica nè di belle immagini, ma piuttosto una testimonianza della Fede a Genova. Il libro distribuisce la materia nelle grandi epoche tradizionali con gli opportuni riferimenti agli avvenimenti coevi della storia urbana; alla presentazione di ogni epoca segue la descrizione illustrata delle chiese principali con esaurienti didascalie. Il capitolo finale, con diverso ritmo ed impegno espositivo, è dedicato alla Cattedrale ed ai suoi tesori millenari. B. Limoncelli - M. Marini, Ricerca geomorfologica, in Indagine sulle risorse paesaggistiche e sulle aree verdi della fascia costiera Ligure, Genova, Ist. di Architettura e tecnica urbanistica dell’Università di Genova, 1969, pp. 147. Il libro presenta i risultati di una ricerca, condotta sotto la direzione del Prof. Eugenio Fuselli, allo scopo di analizzare il paesaggio costiero della Liguria in ogni sua struttura, considerandone la nascita e l’evoluzione sotto l’impulso degli agenti modellatori attivi e del terreno geologicamente inteso. L’analisi compiuta dai due Autori consente di « interpretare » ciò che appare oggi ai nostri occhi, in quanto la — 357 — geologia di ogni zona ha fornito la trama di base su cui si è svolta la storia delle piante, degli animali e quindi anche dell’uomo. In sostanza, il volume, dalla descrizione degli aspetti più appariscenti e noti di quella struttura terrestre che osserviamo percorrendo la Riviera, perviene ad illustrare come tali aspetti si sono fermati e successivamente modificati per quelle vicende della natura che gli uomini tanto sovente hanno ignorato o dimenticato. Testimonianza di uno stato di fatto in evoluzione e riconoscimento di valori da conservare ad oltranza, il volume, come osserva il Prof. Fuselli in una limpida introduzione, reca « qualche altro argomento » in ausilio alla fermezza di coloro che già si adoperano nell azione di tutela, e di preparazione per coloro che dovranno, con senso di responsabilità affrontare questo compito! Edoardo Mazzino e Teofilo O. De Negri - Léonard Von Matt, II Centro Storico di Genova, Stringa Editore, Genova 1969, pp. 275, 31 disegni, 163 ili. in b. en., 13 a colori. II volume è ricco di piante, ricostruzioni grafiche dell’iconografia della città e di prospetti di palazzi perduti o trasformati, rare foto d’assieme e preziosi dettagli sontuosamente fotografati. L’opera, nata dalla collaborazione di un architetto, di uno storico e di un « maestro fotografo » racchiude un contenuto vario di spunti e problemi in brevi schede ed immagini eloquenti, per sollecitare gli amatori e confortare i difensori ad una indagine, sia pure impressionistica quale il mutevole soggetto comporta, della trama evolutiva della città storica. Il testo appare orientato su due grandi direttrici: la prima abbraccia lo sviluppo della città antica alla luce delle significanze politiche e sociali e degli irrisolti problemi attuali, la seconda svolge il linguaggio delle immagini fotografiche, puntualizzate da didascalie essenziali, lungo l’itinerario ideale di alcuni valori monumentali, di strutture urbanistiche, di impressioni ambientali. Colorito da note citazioni di viaggiatori sui valori di Genova ed arricchito da un indice analitico, vuole divulgare il grande tema della città sconosciuta con un obbiettivo fotografico secco e preciso che indugia sovente sul dettaglio e sulla scena di costume. (e. p.) Donatella Morozzo Della Rocca, La chiesa e il convento di S. Maria di Castello, in Quaderni dell’istituto di Elementi di Architettura e Rilievo dei Monumenti dell’Università di Genova, 1969, n. 2, pp. 109-148. L’articolo, arricchito da molti rilievi del complesso monumentale di Castello, si presenta come una dimostrazione della utilità metodologica assunta dal rilievo quando si avvalga di precise informazioni storiche, che l’Autrice cita ampiamente da opere recenti e del secolo xix. (e. p.) Mostra dei Manoscritti e Libri Rari della Biblioteca Berio, Catalogo, Genova, 1969. Il catalogo, curato con amore e con rara competenza dal dott. Luigi Marchini, Conservatore onorario dei Manoscritti della Beriana, e dalla dr. Rossella Piatti, Con- — 358 — servatrice effettiva degli stessi, mira a dare al visitatore una visione il più possibilmente completa delle stupende raccolte librarie che la più importante tra le biblioteche comunali genovesi conserva, senza tuttavia, nulla tralasciare nella descrizione di ogni volume esposto del necessario rigore scientifico. Seguendo la traccia suggerita dalla storia gloriosa della città sono illustrati codici, incunabuli, cinquecentine, talora mirabilmente miniati, talaltra riccamente rilegati, che alla stessa si riferiscono e che indubbiamente costituiscono un patrimonio librario di altissimo interesse per gli studiosi. Si pensi, soprattutto, alla superba raccolta di statuti genovesi, di città delle riviere nonché di importanti corporazioni professionali che, in molti casi, sola può rendere possibili e fruttuose indagini e ricerche in materia. Nè mancano documenti originali, sia pubblici che privati, che, se pur non conservati in vere e proprie serie di archivio, possono costituire valido complemento a quelli custoditi in altre sedi. Utilissime anche alcune raccolte di copie di documenti oggi andati perduti, quale quella del Poch. Non è questa la sede per tentare una enumerazione delle unità più significative esposte, a partire dal famosissimo « Libro d’ore », scritto in lettere dorate su pergamena purpurea e miniato dal Marmitta, fino ai meravigliosi antifonari illustrati dal Riccio, non si può tuttavia trascurare un’ultima, particolare menzione per due importantissime collezioni, vale a dire quella Dantesca e quella Colombiana, ricche di opere veramente rare e preziose per gli studi. (G. C.) Mostra dei pittori genovesi a Genova nel ’600 e nel '700 - Catalogo, Cinisello Balsamo, 1969, pp. XXVIII - 365, 137 foto in bianco e nero, 12 a colori. L’autorevole introduzione di Caterina Marcenaro, direttore della Divisione Belle Arti e Storia del Comune e ordinatrice della Mostra, dopo aver ripercorso il lacunoso cammino della magra e tarda fortuna critica della pittura genovese del ’600 e '700, individua nell’importazione massiccia dell’alta pittura europea e nella conseguente formazione delle grandi quadrerie barocche il concorso più determinante alla formazione della nuova cultura figurale del ’600 genovese. Alla decadenza di una parte delle quadrerie avite seguita al decesso di alcuni patrizi, a danni bellici e alla svalutazione della moneta, fa riscontro nell’ultimo dopoguerra la costituzione di nuove quadrerie composte esclusivamente di opere del ’600 e ’700 genovese puntigliosamente ricercate e reperite sul mercato estero e special-mente inglese. Queste nuove collezioni « che rasentano spesso il rigore specialistico » hanno fornito un importante contributo numerico e qualitativo ai dipinti esposti e catalogati, sopratutto nel settore degli inediti. Il criteri informatore della Mostra, che ha inteso appunto valorizzare le quadrerie private e anche pubbliche genovesi e ha limitato la scelta alle opere comprese nella cinta daziaria della città, ha determinato anche l’esclusione di autori come Luciano Borzone, Gio Batta e Andrea Carlone, Lorenzo de Ferrari non sufficiente-mente rappresentati entro questi limiti. I registri documentati e le schede di esauriente informazione storico-critica con bibliografia sono stati redatti da G. M. Botto, Paola Costa, Giuliano Frabetti, Laura Tagliaferro. , . (e. p.) — 359 - Narratori di Liguria, Torino 1968, Antologia a cura di Adriano Grande e Piero Raimondi, pp. XXV, 381. La casa editrice Mursia, curando la pubblicazione della collana Scrittori moderni e contemporanei, intende dare una visione completa e sufficientemente esauriente della narrativa italiana. Ogni pubblicazione è dedicata ad una regione; da poco tempo è stato edito il volume Narratori di Liguria. Si tratta di un’antologia che accanto a nomi noti, pure in campo nazionale, riporta le pagine di altri autori più gelosamente liguri per tradizione e sentimento. Il libro, arricchito da una prefazione di Adriano Grande, si avvale per l’oculata scelta e la parte specificamente critica e filologica della cura di Piero Raimondi. L’introduzione offre un quadro generale dei caratteri tipici della narrativa ligure, per soffermarsi poi sui singoli scrittori. Raimondi si domanda perchè lo spirito ligure sia più indotto alla ricerca interiore o all’immaginare nostalgiche avventure su mari lontani, e, come mai, la vita quotidiana nella problematicità dei suoi conflitti sembri dimenticata o per lo meno non interessi l’artista ligure. Risponde: « non già perchè sia facile o piacevole, ma perchè gli basta viverla nella sua asprezza ». Qui, forse, la chiave interpretativa di un mondo, la Liguria, non più solo poeticamente inteso ma tragicamente vissuto, al di là della psicologia dei suoi interpreti. Così la tematica della Solinas Donghi e del Montale, apparentemente diversa per equilibrio e tono, si rifà al medesimo canone ispiratore. Efficaci nella loro sinteticità le monografie degli autori che precedono i brani scelti. Loro caratteristica è la criticità, l’amorosa criticità, diremmo, con cui il Raimondi ha studiato l’uomo e l’artista non astraendolo dal contesto sociale del suo tempo. Ricco, sempre interessante il commento a piè di pagina, svela parole, modi, abitudini, espressioni gergali di un mondo che si sta perdendo. Opera d’informazione, di lettura piacevole non disgiunta da un carattere di scientificità, presenta oltre all’interesse suo proprio, uno stimolo di approfondimento per il lett0re' (Victor Balestreri) Rinaldo Orengo, Le arti del mare in Dante, Roma, Volpe, 1969, pp. 380. In un libro in cui l’autore si è riproposto di scoprire nella « Commedia » tutti i passi ove direttamente o indirettamente sono richiamati il mare, la navigazione, le industrie navali etc., non mancano numerosi accenni a Genova e alla Liguria. Franca Parodi Leverà, L’« Historia geografica della Repubblica di Genova » di Ludovico della Spina da Maily, in La Berio, 1966, n. 3, pp. 5-27, 5 illustr. Descrizione esauriente di un manoscritto beriano datato 1691, al quale è unita una grande carta geografica (mm. 1260 x 605) incisa in rame e datata 1696, opera l’uno e l’altra di un certo Ludovico della Spina da Maily che si qualifica « Dottore in Sacra Teologia, Protonotario Apostolico » nonché geografo della Serenissima Repubblica di Genova. L’A. rende conto delle ricerche eseguite in archivii e biblioteche italiane e francesi per individuare questo misterioso personaggio ed espone le ragioni prò e contro l’identificazione di lui con quel « chevalier de Mailly », francese, che, — 360 — nell ultimo quarto del secolo xvii, pubblicò una « Histoire de la république de Gênes, depuis son établissement jusqu’à present ». Rileva pregi e difetti della carta geografica e si sofferma particolarmente sul manoscritto, che ritiene « presenti un interesse maggiore », in quanto « la descrizione geografica si riferisce all’ambiente fisico, agli abitanti, alle attività svolte, in particolar modo a quelle agricole, ed ai commerci ». Pur riscontrando « inesattezze sia per quanto riguarda la giusta posizione dei luoghi, che per l’articolazione delle coste e l’ampiezza dei golfi », esprime un giudizio, in sostanza, favorevole al Maily « uomo di cultura al quale si possono perdonare gli errori cartografici e cui si ha da essere grati per la descrizione che offre della Liguria costiera della quale si dimostra sempre molto ammirato. Aidano Schmuckher, La Cabala Genovese del « Cbiaravalle di Casamara » - Storia del lotto (Aneddoti e curiosità genovesi), Genova, A. Piovani, Antica Tipografia Casamara, 1969, pp. 94. Prendendo l’avvio da una breve illustrazione di un elemento marginale, ma non per questo meno caratteristico, dell’antico folklore genovese, quello del gioco del lotto, l’A. ci offre un’ampia illustrazione della « cabala » del Casamara, il noto almanacco che viene pubblicato nella nostra città da poco meno di tre secoli. L’interpretazione dei sogni ai fini di una loro utilizzazione quali indicazioni e suggerimenti per tentare la sorte al gioco così come si può dedurre appunto dalla raccolta pluricente-naria dell’antica pubblicazione dà modo all’A. di condensare in breve tutta una serie di annotazioni e di dati di non trascurabile interesse, siano essi proverbi e « curiosità » pertinenti ai singoli casi raffigurati oppure brani di poesie genovesi in carattere con le varie parti della trattazione. Tra quest’ultime risultano raccolte nel volume composizioni di numerosi autori sia antichi che moderni (da Gian Giacomo Cavalli, Paolo Foglietta, Steva De Franchi, Martin Piaggio, Nicolò Bacigalupo, a Edoardo Firpo, Aldo Acquarone, Ore Leo, C. Vettorello, G. B. Rapallo, Giuliano Balestreri e Mario Cappello), il che conferisce al volume stesso il carattere di un’autentica piccola antologia in ordine a questa particolarità della vita locale dal lontano passato sino ai giorni nostri. (Leonida Balestreri) - 361 - ■ _ INDICE Giulia Petracco Sicardi - Note linguistiche sui documenti genovesi altomedioevali - I. Contractum.....pag. 13 Domenico Gioffré - Note sull’assicurazione e sugli assicuratori genovesi tra Medioevo ed Età Moderna ...» 27 Giovanni Forcheri - Il ritorno allo stato di polizia dopo la Costituzione del 1576 ........» 53 Danilo Presotto - Da Genova alle Indie alla metà del Seicento - Un singolare contratto di arruolamento marittimo . » 69 Alberto Brocca - Il procedimento criminale ordinario a Genova nel XVIII secolo........» 93 Giorgio Costamagna - Un progetto di riordinamento dell’Ar-chivio Segreto negli ultimi decenni di indipendenza della Repubblica - Una priorità genovese?.....» 121 Carmelo Trasselli - Genovesi in Sicilia.....» 153 Secondo Convegno del Centro Ligure per la storia della ceramica (Albisola - 31 maggio-2 giugno 1969) . . » 179 Guido Farris - Discorso inaugurale......» 181 Guido Farris - Vittorio A. Ferrarese - Contributo alla conoscenza della tipologia e della stilistica della maiolica ligure del XV secolo..........» 187 Giovanni Pesce -1 vasi da farmacia del secolo XVI nei reperti di scavo di Genova e Savona.......» 223 Livio Panelli - Piastrelle del secolo XVI di fabbricazione genovese ...........» 231 Arrigo Cameirana - Contributo per una topografia delle antiche fornaci ceramiche savonesi.......» 237 Tiziano Mannoni - Gli scarti di fornace e la cava del XVI secolo in via S. Vincenzo a Genova. Dati geologici ed archeologici. Analisi di materiali......» 249 Guido Farris - Vittorio A. Ferrarese - Metodi di produzione della ceramica in Liguria nel XVI secolo . . . » 273 Francesco Aguzzi - Bacini architettonici a Pavia ...» 287 - 363 - Note d’Archivio - Rassegne - Congressi Gian Piero Mentasti - Mauro Valerio Pastorino - Primo contributo alla storia del Monastero Agostiniano della Guardia in Busalla.........Pa§- 295 Domenico Gioffré - Uno studio sugli schiavi a Genova nel XIII secolo ..........» 321 Giovanni Rebora - XI Congresso Internazionale di Storia Marittima ............ » 325 Aldo Agosto - I Congresso storico Liguria-Catalogna . . » 329 Atti Sociali................» 5 Albo Sociale............» ^ Giuliano Balestreri..........» 143 Arturo Dellepiane..........» 149 Notiziario bibliografico..........» 333 Direttore responsabile: Dino Puncuh, Segretario della Società Autorizzazione del Tribunale di Genova N. 610 in data 19 Luglio 1963