ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA NUOVA SERIE IX (LXXXIII) FASC. I GENOVA - MCMLXIX NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VIA ALBARO, lì ATTI DELLA SOCIETÀ' LIGURE DI STORIA PATRIA FONDATA NEL 1858 Nuova Serie - IX (LXXXIII) Fase. I - Gennaio-Giugno 1969 COMITATO DIRETTIVO FRANCO BORLANDI (Presidente) - LEONIDA BALESTRERI - NILO CALVINI CESARE CATTANEO MALLONE - GIORGIO COSTAMAGNA - CARLO DE NEGRI - T. OSSIAN DE NEGRI - GUIDO FARRIS - GIUSEPPE FELLONI GIOVANNI FORCHERI - LUIGI MARCHINI - GIUSEPPE ORESTE GIOVANNI PESCE - GEO PISTARINO - DINO PUNCUH Direzione ed Amministrazione: VIA ALBARO, 11 - GENOVA Abbonamento annuo: Lire 5.000 (estero Lire 6.000) Un fascicolo separato Lire 3.000 Conto Corrente Postale n. 4-7362 intestato alla Società SOMMARIO pag. 5 » 7 Atti Sociali................ Albo Sociale..........................; Giulia Petracco Sicardi, Note linguistiche sui documenti genovesi altomedioevali - I, Contractum..........• • » Domenico Gioffrè, Note sull'assicurazione e sugli assicuratori genovesi tra Medioevo ed Età Moderna........... Giovanni Forcheri, Il ritorno allo stato dì polizia dopo la Costituzione dei 1576 ......... Danilo Presotto, Da Genova alle Indie alla meta del Seicento - Un singo- lare contratto di arruolamento marittimo.......» Alberto Brocca, Il procedimento criminale ordinario a Genova nel XVIII secolo..............» ” Giorgio Costamagna, Un progetto di riordinamento dell’Archivio Segreto negli ultimi decenni di indipendenza della Repubblica - Una priorità genovese? ..............*143 Giuliano Balestreri «......*......* Arturo Dellepiane.....• ..... 27 53 » 149 ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA NUOVA SERIE IX (LXXXIII) GENOVA - MCMLXIX NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VIA ALBARO, 11 ATTI SOCIALI II 14 dicembre 1968 si è tenuta l’assemblea generale dei soci per procedere al rinnovo delle cariche sociali. L’assemblea, cui hanno partecipato 137 soci, si è aperta con la relazione del Presidente uscente, prof. Franco Borlandi. Espressa la sua soddisfazione per il conseguimento di una sede degna e decorosa ed il suo particolare ringraziamento al Comune di Genova ed a quei consiglieri che più di altri si sono adoperati in tale impresa onerosa, il Presidente ha illustrato ai soci il lavoro svolto dal Consiglio uscente nel triennio 1965-68. Premesso che l’aumento considerevole dei soci, passati da 229 a 322, è da porre in relazione con la generale ripresa della Società, manifestatasi, oltreché attraverso la nuova sede, anche con gli Atti, la cui pubblicazione, col fascicolo che viene presentato in assemblea, rispetta finalmente la periodicità semestrale, il Presidente si è soffermato sulla situazione finanziaria della Società che, attraverso il sistema delle tre quote, consente di guardare con fiducia all’avvenire. In particolare, il prof. Borlandi ha posto l’accento sulla stampa degli Atti, che costituiscono ancora il maggiore impegno della Società: la pubblicazione, nel corso del triennio, di tre volumi, oltre al fascicolo in ritardo del 1965, per un totale di 1320 pagine,, corrisponde a quanto era stato fatto nel triennio 1962-65 e risponde agli impegni che il Consiglio aveva assunto in passato. L’aumento dei cambi, con le pubblicazioni di altri sodalizi storici regionali e locali, rappresenta la testimonianza evidente della validità della nostra pubblicazione e dei riconoscimenti che essa riscuote; la collaborazione di studiosi stranieri e la traduzione di lavori di storia genovese pubblicati in lingue scarsamente accessibili alla maggioranza dei soci sono prove ulteriori dell’ampliamento degli orizzonti. Dopo aver accennato all’incremento della Biblioteca (circa 150 nuovi pezzi entrati a far parte del patrimonio librario della Società) ed aver caldamente invitato i soci a depositare presso la biblioteca una copia delle loro pubblicazioni di carattere storico, soprattutto per favorire la redazione dei notiziari bibliografici, il Presidente ha accennato all’aumento dei frequentatori della biblioteca, ormai aperta anche al sabato ed ai nuovi problemi che attendono la Società: la sua crescita e l’awenuta soluzione del più importante problema logistico impongono ormai al Consiglio di adeguare le strutture alla nuova realtà; ne consegue la necessità di provvedere alla riforma dello Statuto, una traccia del quale è stata già approntata dal Consiglio uscente. Richiamati i soci ad una più attiva partecipazione alla vita sociale, soprattutto agli incontri mensili di studio, il Presidente ha concluso la sua esposizione indicando i maggiori problemi che il nuovo Consiglio dovrà affrontare: la compilazione di un inventario patrimoniale, procrastinato in attesa della nuova sede, il riordinamento dei manoscritti, degli incunaboli, delle cinquecentine e dei libri rari, la realizzazione degli indici analitici della prima serie degli Atti, il coordinamento delle attività sociali con quelle di altri organismi e società storiche della Regione. Dopo la relazione del Presidente, che l’assemblea ha approvato all’unanimità, si è proceduto al rinnovo delle cariche. Sono stati eletti: Presidente: prof. Franco Borlandi. Vicepresidenti: dott. Leonida Balestreri, dott. Giovanni Pesce. Consiglieri: prof. Nilo Calvini, dott. Cesare Cattaneo Mallone, prof. Giorgio Costamagna, dott. Carlo De Negri, prof. T. Ossian De Negri, prof. Guido Farris, prof. Giuseppe Felloni, avv. Giovanni Forcheri, dott. Luigi Marchini, prof. Giuseppe Oreste, prof. Geo Pistarino, prof. Dino Puncuh. Il Consiglio direttivo, nella sua prima riunione, ha confermato nella carica di Segretario il prof. Dino Puncuh, in quella di Delegato alla contabilità il dott. Leonida Balestreri, in quella di Bibliotecario il dott. Luigi Marchini, in quella di Tesoriere il prof. Giuseppe Felloni. Iniziati nella tarda primavera, si sono svolti i seguenti incontri mensili: il prof. Guido Farris ha intrattenuto i soci sulla campagna di scavi nella collina di Castello; il dott. Giovanni Pesce ha illustrato gli scopi e le funzioni della mostra della ceramica ligure di Albisola; entrambe le conversazioni sono state accompagnate da una ricca serie di diapositive. Nell’ultimo trimestre dell’anno, il prof. Franco Borlandi ha presentato il libro di Giorgio Doria, Uomini e terre di un borgo collinare; il dott. Giulio Giaccherò la Storia di Genova di T. Ossian de Negri; il dott. G. Giacomo Musso ha dato conto del lavoro di ricerca condotto nell’Archivio di Stato di Genova sulla presenza ligure nel Levante. ALBO SOCIALE * k CONSIGLIO DIRETTIVO Borlandi prof. Franco Pesce dott. Giovanni Balestreri dott. Leonida Puncuh prof. Dino Marchini dott. Luigi Felloni prof. Giuseppe Calvini prof. Nilo Cattaneo Mallone dott. Cesare Costamagna prof. Giorgio De Negri dott. Carlo De Negri prof. T. Ossian Farris prof. Guido Forcheri avv. Giovanni Oreste prof. Giuseppe Pistarino prof. Geo Presidente Vicepresidente Vicepresidente e Delegato alla contabilità Segretario Bibliotecario T esoriere Consigliere SOCI ONORARI Coardi di Carpenetto Mazza contessa Giuseppina Doehaert prof. Renée - Bruxelles FCrueger prof. Hilmar C. - University of Cincinnati - Ohio Lopez prof. Roberto - Yale University - New Hawen, Connecticut Pastine prof. Onorato Pedullà ing. Augusto SOCI CORRISPONDENTI » Baratier prof. Edouard - Marsiglia Saèz prof. Emilio - Barcellona — 7 — SOCI VITALIZI Bruzzo not. dott. Alfonso (1934) Cambiaso march. Pier Giuseppe (1929) Candioti Alberto M. (1924) Cattaneo di Beiforte march, ing. Angelo (1930) Cattaneo Adorno n. Luserna di Rorà march. Giuseppina (1930) Cerutti dott. Franco (1942) Doria march, dott. Gian Carlo (1926) Gallo Serra march. Matilde (1927) Gropallo march. Marcello (1920) Guagno ing. Enrico (1927) Guala Amedeo (1928) Negrotto Cambiaso n. Giustiniani march. Matilde (1932) Pallavicino Gropallo march. Maria (1925) Pallavicino march, dott. Stefano Ludovico (1929) Peragallo Cornelio (1926) Podestà Cataldi N.D. baronessa Giuseppina (1937) Sauli Scassi march, dott. arch. Ambrogio (1929) Serra march. Orso (1927) SOCI ANNUALI Agnoli Pisoni dott. Bianca Maria (1962) Agosto dott. Aldo Ettore (1959) Airaldi dott. Gabriella (1967) Alfonso don Luigi (1969) AUavena dott. Giorgio (1952) Ametis prof. Serafino (1968) Antola dott. Maria Teresa (1968) Aonzo dott. Giovanni (1963) Archivio di Stato di Genova (1950) Archivio di Stato di Imperia (1965) Asquasciati dott. Luigi (1968) Astengo ing. Giacomo (1968) Attoma ing. Fernando (1967) Bagnasco dott. Cristoforo (1966) Balard prof. Michel - Parigi (1966) Balbi dott. Giovanna (1962) Balestreri dott. Leonida (1934) Balestreri Victor (1967) Ballabio Gianni (1968) Balletto dott. Laura (1965) Balletto dott. Maria Luisa (1967)1 Baratti Anna (1968) Barbarossa dott. Gioconda (1969) Barnao dott. Giacomo (1968) Barni prof. Gianluigi - Milano (1940) Basili dott. Aurelia (1962) Beltrame rag. Ferruccio (1951) Berini ing. Federico - La Spezia (1928) Berlingeri prof. avv. Francesco (1956) Bernabò Brea prof. Luigi - Siracusa 1942) 1943) 1965) 1968) 1967) 1968) 1858) Berri prof. Pietro Bertino dott. Antonio Bevilacqua Maria Teresa Bianchi dott. Giorgio Bianchi dott. Laura Biblioteca civica Berio - Genova Biblioteca civica Bruschi - Genova-Sestri (1950). Biblioteca civica Gallino - Genova-Sam- Carosi dott. Giuseppe (1968) pierdarena (1930) Carpaneto P. Cassiano O.M.C. (1937) Biblioteca civica G. L. Lercari - Genova Carpaneto mons. prof. Giuseppe (1937) (1928) Carugo dott. Luigia (1965) Biblioteca comunale di Imperia (1932) Casareto Giuseppe (1967) Biblioteca dell’Università di Lovanio Caselli dott. Aldo - Washington (U.S.A.) (1949) (1954) Bisi Giovanna - Novi L. (1964) Cassa di Risparmio di Genova (1923) Bocksruth P. Michele - O.S.B. - Bru- Cattanei dott. Giovanni (1967) xelles (1936) Cattaneo Mallone dott. Cesare (1954) Bodoano avv. Angelo (1946) Cattaneo di Beiforte Vittoria (1969) Boido rag. G. Vittorio (1958) Caudo dott. Gaetana (1965) Boldorini prof. Alberto (1962) Caumont Caimi conte Lodovico (1920) Bolgiaghi Emilio (1968) Ceciarelli Patrizia (1968) Bollero dott. Roberta (1963) Cecon Gianna Maria (1964) Bolognesi Elio (1965) Cerisola dott. Maddalena (1966) Bonessio di Terzet Ettore (1967) Chiesa Maria Rosa (1968) Bonfigli mons. Casimiro - La Spezia Chiabrera Castelli Gaioli Boidi conte (1963) dott. Paolo - Acqui (1952) Bonini Silvana (1966) Chiaudano prof. Mario - Torino (1958) Borghero cav. Angelo - Novi L. (1966) Cialdea prof. Basilio - Roma (1964) Borlandi dott. Antonia (1962) Cicardi dott. Ernesto (1964) Borlandi prof. Franco (1962) Cimaschi dott. Leopoldo (1950) Bosio prof. Bernardino (1957) Circolo Artistico Tunnel (1882) Bossi Ildebrando (1950) Cittadella dott. Marika (1967) Bottasso prof. Enzo (1968) Clerici Maria Carla (1962) Briasco Giancarlo (1963) Cocchi dott. Cesare (1956) Bulferetti prof. Luigi (1961) Cocito prof. Luciana (1968) Buongiorno Mario (1968) Codignola prof. Arturo (1923) Burioni Secondo (1968) Coialbu dott. Graziella (1968) Burlando dott. Federico (1947) Comune di La Spezia (1917) Caffarello dott. Nelida (1964) Congregazione operai evangelici franzo- Calcagni ing. Antonio (1966) niani (1968) Calvini prof. Nilo (1939) Consorzio Autonomo del Porto di Ge- Camera di Commercio e Industria di nova (1922) Genova (1921) Cornice dott. Alberto (1962) Camera di Commercio e Industria di Cornice Mariangela (1962) La Spezia (1921) Coscia dott. Daisy (1964) Campi Piacentino Luisa (1968) Costamagna prof. Giorgio (1950) Canepa Emilio (1969) Costantini prof. Claudio (1962) Canepa ing. Stefano - Sanremo (1947) Cottalasso prof. Massimo (1963) Cannavo Clelia (1967) Cottica dott. Maria Grazia (1966) Capogna dott. Benedetto (1969) Crovetto avv. Augusto (1964) Carbone dott. Enrico (1966) D’Almeida Oscar (1966) Caria rag. Antonio (1969) Damonte ing. Mario (1966) Damonte dott. Mario (1968) Gallamini ing. Luigi (1965) DeUacasa prof. Adriana (1968) Gallerani dott. Luigi (1966) Dellacasa dott. Maria Teresa (1961) Galli dott. Maria Rosa (1969) Dellepiane dott. Riccardo (1966) Galiucci Oreste (1968) Delle Piane dott. Enrico (1968) Gamberini dott. Leopoldo (1964) Delle Piane dott. Gian Marino (1963) Gandini dott. Carlo (1950) Del Massa dott. Mario (1965) Ganfini Pastine prof. Flora (1968) De Magistris Leandro (1965) Garibbo dott. Luciana (1968) De Martini ing. Luigi (1965) Garino prof. Mario (1950) De Negri dott. Carlo (1950) Garzoglio rag. Ettore (1949) De Negri prof. Teofilo Ossian (1932) Gerbi Adolfo (1968) De Rege di Donato ing. Maurizio (1969) Gerbino dott. Anna (1966) De Toni prof. Giovanni (1965) Giaccherò dott. Giulio (1945) Doccini Emma (1968) Giampaoli avv. Giorgio - Carrara (1932) Dolcino Michelangelo (1968) Giglio Agostino (1968) Direzione Belle Arti e Storia del Comu- Giglio Celesti dott. Laura (1968) ne di Genova (1932) Gioffrè prof. Domenico (1952) Dodero dott. Siro (1967) Giordano dott. Amalia (1961) Donaver avv. Giorgio (1968) Giorgini Paola (1968) Doria Giorgio (1952) Giulietti dott. Maria Grazia (1967) Dossena dott. Mario (1949) Giustiniani march. Enrico - Roma (1920) Dotson John - Frederick (U.S.A.) (1967) Giustiniani march. Raimondo Roma Falconi arch. Luigi (1962) (1920) Farrauto Mirella (1967) Giustolisi Maria Giovanna (1968) Farris prof. Guido (1968) Grasso Mario (1965) Farris Barbero dott. Giuseppina (1968) Grendi prof. Edoardo (1963) Fasciolo rag. G. Battista (1964) Gritta Tassorello march, avv. Giambat- Felloni prof. Giuseppe (1954) tista (1938) Ferralasco geom. Giorgio (1965) Grossi Bianchi arch. Luciano (1966) Ferrarese Abramo Valerio (1968) Guelfi dott. Franca (1965) Ferrari ing. Emilio Luigi (1957) Guerra Bensa dott. Maria (1968) Ferrari dott. Graziella (1968) Guerello dott. Franco Maria, S.J. (1955) Ferrerò dott. Maria Teresa (1961) Guerrieri Tiscornia Giancarlo (1969) Festa dott. Aldo (1965) Guiglia avv. Giacomo - Roma (1928) Fiaschini dott. Giulio (1966) Gustinelli dott. Carlo (1964) Fiocchi Franco (1965) Imazio Renato (1968) Fontana dott. Maria Stella (1965) Invrea march. Giorgio (1953) Forcheri avv. Giovanni (1964) Jacopino Carbone dott. Maria Silvia Forgione dott. Maria Antonietta (1968) (1967) Frascoli Attilio (1968) Janin Enrico (1968) Frisione Luigi (1968) Jona Vistoso Clelia (1952) Fuselli prof. Eugenio (1969) Lagomarsino dott. Giacomo (1968) Gaetti P. Alberto Maria (1963) Lamboglia prof. Nino - Bordighera (1931) Gaggero arch. Nino (1969) La Torre Daniela (1969) Galizia dott. Maria (1966) Lertora prof. Elsa (1934) 10 — Levi dott. Giovanni (1968) Lombardo prof. Manlio (1969) Luxardo Nicolò - Torreglia (Padova) (1957) Magnanelli dott. Pier Paolo (1968) Maira dott. Maria (1965) Malandra dott. Guido (1967) Mangiarne dott. Stefania (1962) Mannoni dott. Tiziano (1968) Manzitti dott. Francesco (1947) Maragliano Caranza march. Franco Maria - Firenze (1951) Marchini dott. Luigi (1929) Martignone dott. Franco (1968) Martinasco Francesco (1968) Mascardi sac. prof. Antonio (1967) Massa dott. Paola (1965) Mazza Pallavicino N.D. Maria Gerolama (1968) Mazzino arch. Edoardo (1962) Medicina Milena (1968) Melioli ing. Giovanni (1963) Menduni dott. Rita (1965) Meneghini Emilio - La Spezia (1964) Merega prof. Massimo (1969) Merello Altea dott. Maria Grazia (1964) Michetti dott. Valerio (1969) Migone Bartolomeo - Roma (1956) Molinari Edilio (1969) Morano dott. Maria Teresa (1963) Morelli Anita (1954) Morgavi dott. Gerolamo (1935) Moro dott. Gianfranco (1966) Morozzo della Rocca dott. Raimondo -Venezia (1937) Musso dott. Gian Giacomo (1968) Mutto dott. Maria Paola (1968) Nada prof. Narciso - Torino (1963) Nada Patrone prof. Anna Maria (1968) Negro dott. Giovanni (1961) Nicora dott. Marisa (1962) Nocera dott. Marina (1966) Oderò dott. Giorgio (1969) Olivieri Antonio (1965) Orempi Mario (1968) Oreste prof. Giuseppe (1936) Pagliari prof. Gualtiero (1965) Panelli prof. Livio (1968) Paolillo Antonio (1968) Papasidero Enzo (1968) Paravagna Giovanni Battista (1969) Perfumo dott. Maria Grazia (1968) Pareto cav. Edilio (1963) Pareto Spinola march, dott. Gian Benedetto (1966) Parodi prof. Giuseppe (1969) Passalacqua dott. Ugo (1947) Pastorino dott. Giannina (1967) Pastorino Mauro Valerio (1968) Penaglia prof. avv. Giuseppe (1967) Perasso dott. Flavia (1965) Perillo Gaetano (1964) Pertusati sac. dott. Domenico (1965) Pesce dott. Giovanni (1936) Petracco Sicardi prof. Giulia (1967) Petrucci dott. Vito Elio (1968) Piaggio dott. Andrea ( 1968) Piastra William (1968) Piatti dott. Rosella (1966) Piergiovanni dott. Vito (1965) Piersantelli prof. Giuseppe (1925) Piccardo Enrico (1968) Pistarino prof. Geo (1953) Poleggi prof. Ennio (1964) Poli dott. Achille (1968) Polonio dott. Valeria (1959) Porro Sivori dott. Gabriella (1966) Presotto dott. Danilo (1963) Profumo dott. Luis (1965) Prosdocimi prof. Luigi (1962) Puncuh prof. Dino (1956) Puri ing. Ambrogio (1948) Raimondo dott. Annabella (1966) Raiteri dott. Silvana (1965) Rebora dott. Giovanni (1962) Redoano Coppedè dott. Gino (1969) Repetto sac. Francesco (1966) Riccioni rag. Leo (1965) Riccomagno dott. Domenico (1965) — 11 — Rimassa rag. Ugo (1964) Risso dott. Livio (1958) Rollero comm. Mario (1967) Rossi prof. Angelo (1962) Saginati dott. Liana (1963) Saivago Raggi march. Camilla - Molare Alessandria (1957) Salvatico dott. Angelo (1969) Salvi dott. Giovanni (1968) Scarpa Ernesto (1968) Schiaffino dott. Tito (1961) Schiavone prof. Michele (1968) Sciascia dott. Maria (1965) Schiappacasse dott. Giuseppe (1968) Schmuckher Aidano (1967) Scotti sac. prof. Pietro (1948) Sertorio march, aw. Nicolò (1947) Silvestrini dott. Giovanni (1968) Slessarev dott. Vsevolod - Cincinnati (1964) Società del Casino (1897) Società Economica di Chiavari (1916) Sopranis march, dott. Giuseppe (1920) Spinola march. Marco - Tassarolo (Alessandria) (1925) Supino cap. Giocondo (1967) Surdich dott. Francesco (1967) Tacchella dott. Lorenzo - Verona (1957) Talice dott. Michele (1968) Tamburini dott. Antonio (1966) Thellung ing. Luigi (1968) Tiscornia dott. Carlo Maria (1961) Tomaini Placido - Arezzo (1963) Toniolo dott. Paola (1962) Toriello Alma (1964) Traverso Tino (1967) Trucchi dott. Luigi (1964) Trucco Agostino (1968) Trucco dott. Maurizio (1964) Turletti Tola dott. Fabio (1968) Urbani dott. Rossana (1967) Vaccarezza avv. Giacomo (1964) Valdettaro march. Carlo - Milano (1951) Vallebella rag. Giovanni (1963) Vialetto Anna (1966) Vicini avv. Giancarlo (1969) Vignolo dott. Aldo - Roma (1954) Vignolo Fabrizio - Roma (1964) Vigo Cesare (1952) Villa dott. Paola (1956) Villa geom. Silvio (1950) Viola sac. prof. Giuseppe (1950) Virgilio dott. Jacopo (1948) Vitale prof. Emanuele (1958) Vitale dott. Gaetano - Torino (1958) Zaccaro Lagomaggiore dott. Adele (1962) Zonza comm. Luigi (1929) Zucca Mario (1960) Zunino dott. Stella Maris (1968) — 12 — GIULIA PETRACCO SICARDI NOTE LINGUISTICHE SUI DOCUMENTI GENOVESI ALTOMEDIOVALI I - CONTRACTUM Tutti i « livelli » del X secolo, trascritti nel Registro della Curia arcivescovile di Genova *, portano in capo al testo del documento una doppia sigla CV CV (Tav., n. 1), che il Belgrano, editore del Registro, scioglie in CVM Cum. La sigla, non avendo alcun rapporto col testo che segue, è evidentemente un’abbreviazione introduttiva2. Lo scorso anno, quando ebbi ad occuparmi della lingua dei contratti agrari altomedioevali per presentare una relazione al convegno « Lingua parlata e lingua scritta », organizzato dal Centro di studi linguistici e filologici siciliani, cercai nei fondi delle Abbazie di San Siro e di Santo Stefano, conservati presso 1 Archivio di Stato di Genova, gli originali più antichi di questo tipo di documenti. In essi — il primo in ordine di tempo è il doc. 45 del Fondo S. Stefano e risale al 1031 — ritrovai la stessa sigla, ma scritta in maniera alquanto diversa (Tav., n. 2), in quanto il segno di abbreviazione, confrontato con quelli usati nel documento, non corrispondeva esattamente né a (-m) né a (-us)y e il fatto mi confermò nell’idea che non si trattasse soltanto di sostituzione di una lettera o di una terminazione con un segno, ma di una vera e propria sigla che riduceva a due lettere e un segno un’intera parola. Anche i docc. 53 (a. 1050) e 14 (a. 1012) dello stesso Fondo confermavano l’ipotesi, in quanto nel primo l’abbreviazione era costituita dalla sola C iniziale, seguita da un segno criptografico (Tav., n. 3) che non aveva corrispondenza nel testo, nel secondo poi si ritornava a cu, ma il segno dell’abbreviazione era ancora diverso (Tav., n. 4). Il doc. 53 1 Per il testo del Registro, cfr. Atti della Società Ligure di Storia Patria (ASLi), II, parte I, 1863, dove esso è stato pubblicato a cura di L. T. Belgrano. 2 Un precedente tentativo di interpretazione della sigla, proposto in forma assai dubitativa dall’A., si trova in E. Besta, Il diritto ligure dalla caduta dell’Im-pero Romano al secolo Decimo (Storia di Genova, Milano, 1941, vol. II), p. 312. Ad interpretare cu cu come clarissimus mi pare che si opponga il fatto che nei documenti tardo romani si ha sempre uc, cioè «(ir) c(larissimus), e che nelle carte piacentine del sec. Vili, che conservano questi titoli per i vari personaggi, gli ecclesiastici portano sempre quello di u(tr) u(enerabilis), mentre, come u.c., è e signato lo scriptor cartulae. — 15 — è probabilmente una trascrizione, e così pure lo è certamente il doc. 14, il che dimostra che ancora per qualche tempo, nell’XI secolo, la sigla era compresa e tenuta distinta dalle altre normali abbreviazioni del testo, mentre dubito assai che il trascrittore del Registro, un secolo dopo, ne valutasse e comprendesse ancora il significato. A Palermo, durante le giornate del Convegno, proposi il mio enigma al prof. Paolo Collura, ed egli mi suggerì l’idea che, dato il contenuto dei documenti in questione,, si potesse trattare della parola contractus. L’ipotesi mi parve subito estremamente allettante e mi dedicai, in una breve ricerca sui materiali altomedioevali che mi sono familiari, a raccogliere elementi in sostegno di essa, studiando l’uso della parola contractus, oltre che nelle fonti latine, anche nelle formule e nelle carte notarili dei secc. VIII-X. Esporrò qui i risultati della mia ricerca. Il Thesaurus linguae latinae3 offre una ricca serie di esempi della parola, che è attestata a partire da Varrone e Sulpicio Rufo e che presenta quattro realizzazioni semantiche: 1) il significato originario, etimologico, di actus contrahendi (esempio classico, in Varrone, rust. 1, 68, contractu acinorum « l’uva va raccolta quando gli acini cominciano ad avvizzire »); 2) il significato tecnico, del linguaggio giuridico, per cui contractus è sinonimo di conventum, stipulatio, pactum, obligatio ecc.; 3) un significato limitativo di « momento in cui un affare ha luogo », che è limitato, pare, ad un passo di Quintiliano: dicam quae ac ta sint ante ipsum rei contractum (« prima che la cosa avesse effetto »), dicam quae in ipsa, dicam quae postea; 4) un significato più generico, che si riscontra soltanto quando contractus è usato in unione ad altre parole, come conuersatio, tractatus, colloquium, actus, per rendere l’idea generale di « contatti umani » (cito, per tutti, l’esempio dello pseudo Fulgenzio di Ruspe, praedest., 16: in omnibus humanae conuersationis actibus atque contractibus). Dall analisi semantica della parola risulta evidente il processo metaforico, per cui contractus si allontanò dal significato etimologico, proprio del nome verbale di contrahere, ed ebbe fortuna come termine del lin- 3 Thesaurus linguae Latinae, vol. IV, Lipsia, 1906-9, col. 752 (s.v. contractum) e col. 753 (s.v. contractus'). Lo citerò come Thesaurus o con l’abbreviazione Thll. — 16 — èssasi m y a... e -, ° ^ “pao dcfrnf facn> fdrjmcaî^.ubiprtê oomnus Lan rutfUs epfu^vtitic& 10Ç5 -itbomas fàmuli 4 Syn >n um medie tatticuujxstc nfìluT. benedirle* fàmulo i$yn cutmne crfilus uitìJittaa^.-ifiutius qmofó fmffmte momius fuór unus a&fnis fuomir. Tmiio còdici ocarc-noti uibcins peamus aqua Codice Membranaceo - XCII - c. 106 y. -.{XcroicfU-riucnlìf ‘fìsrpKlni pmmjtrvy'rif ; ^ altero ù re?'dcrn*f ìff^Urr^^P^ fisAcrrUjV h^CJLrriirf- WW uJf^ fwîr u|ÿ auj^ »»*'f ^ ww Unfw^tnftmìo *■ ' >&■*!**’ «âtflp Monastero S. Stefano - mazzo 1 - fase. 14. guaggio giuridico, senza tuttavia eliminare i sinonimi concorrenti {pactum, conuentio e simili). A questo tipo di lingua tecnica, la cui tradizione in epoca latina è di carattere dotto, contractus dovette la lunga conservazione del tipo di declinazione dei temi in -u, quando nella lingua parlata era già in atto la contaminazione tra temi in -o e temi in -u che doveva approdare alla scomparsa, come tipo morfologico di una certa consistenza, della cosiddetta quarta declinazione latina nelle lingue romanze4. Gli esempi che il Thesaurus dà per illustrare la fraseologia di contractus presentano numerosi casi, in cui la declinazione dei temi in -u è sicura3, qualche caso, in cui, trattandosi dell’accusativo, potrebbe anche esservi una contaminazione con i temi in -o, ma i casi, in cui si tratta certamente di contractum, neutro — cioè della forma normale nell’alto Medioevo e che sta probabilmente alla base della sigla genovese — sono molto rari e tardi: il più antico, dell’Italia, risale probabilmente al IV secolo6. Su questa base possiamo quindi individuare, per la tarda latinità, una coppia morfologica contractus / contractum, la prima, forma dotta, la seconda, dell’uso parlato. La fortuna di contractum si sviluppa 4 Cfr. C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, III ed., Bologna, 1962, p. 203. 5 Cfr. Tbll., l.c.: Paul. 5, 1, 20, omnem obligationem pro contractu habendam; Geli. 20, 1, 41, in negotiorum quoque contractibus; Tert., adv. Mare. 4, 37, dissoluens uiolentiorum contractum obnexus; Ambr., off. 3, 10, 66, quid loquar de contractibus ceteris?; Cassiod., var. 2, 10, 2, contractu ... cassato ecc. 6 Ecco la documentazione (cito da Tbll., s.w. contractus, contractum)-. 1) Itala, Is. 58, 6, in Lucifero, vescovo di Cagliari, morto verso il 370, Athan. 1, 4: Solue obligationes uiolentorum contractorum; 2) Favonio Eulogio, retore Cartaginese, Disputatio de somnio Scipionis, inizio del V secolo, p. 15: Systematum uero partes ex certo contracto pronuntiationis existunt (« da una certa unione dei suoni »; i codici hanno tutti contracto; il Baiter emenda in -u nell’edizione); 3) Gregorio di Tours, De uirtutibus sancti Iuliani, cap. 11, titolo: De contracto qui die dominica boues iunxit; cap. 39: De alio contracto-, 4) Glossari (qui cito dal Corpus glossariorum Latinorum, edito dal Goetz, Lipsia, 1888 sgg.): a) Glossae Latino Graecae: (II, 114, 44) contractus / (IL 115, 6) contractum / ixsTayaptauov ; b) Glossae Stephani (III, 443, 73): contractum / cruvaXXayu.a; c) Glossae Loiselii (III, 429, 16): idem. - 17 — dal VI secolo in poi e nelle carte altomedioevali non si avrà più che qualche traccia malsicura di contractus. Sempre nelle fonti latine è importante, ai nostri fini, rilevare per quale componente semantica contractus si distingueva dai termini sinonimi. Gli esempi citati nel Thesaurus parlano in favore di un uso generico di contractus per il rapporto giuridico stabilito volontariamente e liberamente tra due persone, frutto, diremmo noi, e risultato di una « contrattazione diretta », e che determina un legame tra i « contraenti ». Perciò si può parlare, rispetto al contractus, di soluere (Papiniano, 46, 3, 95, 2), infirmare (Ermogene, 49y 14, 46, 2), confirmare (Paolo, 45, 1, 35, 2), renouare (Ulpiano, 2, 14, 7, 6). Poiché contractus ha valore generico, si distinguerà il genus contractus (Labeone, 18, 1, 80, 3). In pratica poi il contractus ha carattere privato. Quindi si usa particolarmente in materia di matrimonio1 r è basato sulla bona fides 8; anche un servo può fare un contratto e il padrone deve riconoscerlo 9. Gli esempi più antichi di contractum nei documenti altomedioevali sono fomiti dalle formule notarili del territorio gallico e di Reichenau ,0. Quelle che contengono la parola che ci interessa non risalgono probabilmente oltre rVIII secolon, ed in esse contractum conserva il significato generico che ha nelle fonti latine testé esaminate, cioè un significato molto vicino a quello delPit. contratto-, si usa quindi per indicare, ad esempio, qualsiasi contratto, attraverso il quale un donatore ha acquisito i beni che dona alla chiesa 12. 7 Sulp. Ruf., Geli. 4, 4, 2: is contractus stipulationum sponsionumque dicebatur sponsalia; Firm. math. 5, 3, 21: contractus equivale a matrimonium, cfr. 1, 4, 43; 7, 17, 10: tabulae matrimoniales. Queste e le citazioni delle note seguenti sono, come al solito, dal Tbll., Le. 8 Symm., Epist. 2, 87: bonae fidei contractum non posse rescindi; cfr. Aug., in psalm. 102, 6: initus est bonae fidei contractus 9 Ulp. 4, 4, 16, 3: ratum habeat serui contractum dominus. 10 Cito da MGH, Sectio V, Formulae, p. I, ed. Zeumer, Hannover, 1882. 11 Come è noto (Zeumer, op. cit., p. 2), le Formulae Andecavenses del VI secolo sono soltanto le prime 34, le altre furono aggiunte in epoca posteriore. Le Formulae Augienses (Zeumer, p. 340), provenienti dall’abbazia di Reichenau, sono deU’VIII secolo. 12 Formulae Andecavenses, n. 41 (Zeumer, p. 18): ... tunc tu tris portionis de omne corpore facultatis mei, quem in pago illo et illi ex alato parentum meorum uel de qualibet contractum mihi legibus obuenit ... tibi transcribo. Nei documenti altomedioevali italiani che conosco, l’uso di contractum è limitato ad una formula introduttiva degli atti di permuta, che è in uso anche a Genova nel X secolo e che suona, nella forma più stereotipata, press’a poco così: Commutatio bonae fidei noscitur esse contractum, ut uicem emptionis obtineat firmitatem, eodemque nexu obligat contrahentes (« la permuta è riconosciuta come un contratto stipulato in buona fede, sicché ha il valore di una vendita e obbliga i contraenti con lo stesso legame »). Essa, per il bonae fidei contractum riecheggia i passi di Simmaco e di Sant’Agostino che ho citato sopra, alla nota 8. Premetto la documentazione completa della formula, per quanto sta nelle mie conoscenzeI3, e farò poi alcune osservazioni su questi materiali, che mi sembrano interessanti per la conoscenza e la valutazione linguistica dei formulari giuridici altomedioevali in uso in Liguria: 1. a. 761, Pavia: Comutatio bone fidei noscitur esse contractum, ut uicem emptionis optineat firmitatem eodemque nexu obligat contrahentes ( = CDLI4, doc. 155, II, p. 78, copia del XII secolo); 2. a. 771, Brescia: Comutatio bone fidei noscitur esse contractum, [ut] uecim emcionis opteneat firmitatem eodemque nexo obligant contrahentes ( = CDL, doc. 257, II, p. 346, trascrizione del XII secolo); 3. a. 870, Marescandi ( = probab. Mascandola, nel com. di Ziano, PC): Cornu tacio bone fidei nussiltur. . .] firmitatem eodemque nexo oblican(t) contraentes Formulae Augienses, n. B, 1 (Zeumer, p. 348): . . . res quasdam nobis tam de paternico quam de maternico hereditario iure prouenisse, nec non et de quodam modo iusto contracto ... pro remedio animarum nostrarum ad loca sanctorum delegare contendimus ..n. B, 2 (Zeumer, p. 348): dum non est incognitum, sed omnimodis diuulgatum, qualiter nobis hereditario iure, paternico simul et maternico, cum quolibet iusto contracto prouenit hereditas... In questo uso contractum, nelle carte non italiane, ha un concorrente in adtractum, cfr. Ducange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, s.v. ad tractum (si citano una carta di Clodoveo III ed altri esempi). 13 Ho tenuto presenti i documenti pubblicati da L. T. Belgrano nel Cartario Genovese (ASLi II, parte I) e in appendice al Registro della Curia (ASLi II, parte II, pp. 411 e sgg.), quelli di Bobbio, pubblicati da C. Cipolla nel Codice diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio, Roma, 1918, quelli di Asti, pubblicati dal Gabotto, in Biblioteca della Società storica subalpina (BSSS), 28, 1904, e i documenti inediti, trascritti recentemente da me nelPArchivio Capitolare di Piacenza, nonché, naturalmente, i documenti raccolti da L. Schiaparelli nel Codice diplomatico longobardo, voli. I e II, Roma, 1929-33. 14 CDL = Codice diplomatico longobardo cit. alla nota 13. (= documento inedito, conservato nell’Archivio Capitolare di Piacenza, fondo Permute, doc. 12, in originale, ma mutilo al margine destro); 4. a. 880, Moriano (presso Varsi, PR): Comutacio bone fidei contracto esse uidetur uicem emcionis (documento inedito, conservato nello stesso Archivio, Fondo Permute, doc. 18, originale); 5. a. 886, Asti: Comutacio bone fidei e t noscitur esse contractum et uicem emcionis o ptinet ad firmitatem eodemque nexu obligo (!) contraentes (= BSSS 28, doc. 16); 6. a. 886, Asti: Comutacio bona fidei nussitur esse contractum et uicem emcionis obtenead firmitatem eodemque nexu oblicad contraentes (=BSSS 28, doc. 17 15); 7. a. 886, Asti: Comutacionis bone fidei nuscitur esse contractum et uicem emcionis obtenead firmitatem eodemque nixum oblicant contraentes (= BSSS 28, doc. 18); 8. a. 897, Asti: Comutacio bona fidei nussitur esse contractum et uicem emcionis obtinead firmitatem eodemque nexsum oblicant contraentes (= BSSS 28, doc. 29); 9. a. 910, Asti: Comutacio bone fidei nussitur esse contractum et uicem hemcionis obtinead firmitatem eodemque nexu oblicant contraentes ( = BSSS 28, doc. 42 16); 10. a. 911, Asti: Comutacio bona fidei nuscitur esse contractum in uicem encionis obtinead firmitates eodemque nexsum oblicat contraentes ( = BSSS 28, doc. 43417); 11. a. 913, Asti: Comutacio bona fidei nussitur esse contractum et uicem encionis opteneat firmitatem eodemque nexu oblico contraentes (= BSSS 28, doc. 44); 12. a. 917 (?), Pavia: Comutacio bone fidei nussitur esse contractu18, ut uicem encionis obtinead firmitatis eodemque nexu oblicant contraentes ( = CDB 19, doc. 87, I, p. 291, originale); 13. a. 940, Asti: Comutacio bone fidei nossitur esse contractum u t uicem encionis obtinead firmitatem eodemque nexu oblicant contraentes ( = BSSS 28, 15 Si trova anche nei docc. 19 (dello stesso anno), 26 (a 895), 27 (a. 896). 16 Si trova anche nei docc. 42 (a. 910), 45 (a. 916). 17 Si trova anche nel doc. 46 (a. 924). 18 Può essere tanto per contractum, quanto per contractus, maschile, come in Petroni germanu eius, Renoaldi germanu eius, — espressioni che dovrebbero rendere un genitivo latino, essendo dipendenti da signum crucis manus —, e che si leggono m una carta piacentina dell’816, pubblicata da E. Falconi, Le carte più antiche di S. Antonino di Piacenza, Parma, 1959, p. 5, doc. 3. 19 CDB = Codice diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio, cit. alla nota 13. — 20 — doc. 55; permuta inserita in un placito tenuto da Uberto, conte di Asti, che la conferma 20); 14. a. 948, Asti: Commutatio bona et fidei nossitur esse contractum et uicem emcionis obtinead firmitatem eodemque nexsum oblicant contradbantes (!) ( = BSSS 28, doc. 64 21 ); 15. a. 954, Asti: Commutatio bona et fide nossitur esse contradatum ut uicem emcionis optineat firmitatem eodemque nexu oblicantur contradbantes ( = BSSS 28, doc. 68); 16. a. 955, Asti: Comutatio bona et fidei nossitur esse contradhatum ut uicem emcionis optinead firmitatem eodemque nexsum oblicant contradantes (= BSSS 28, doc. 71 2); 17. a. 960, Tortona: Commutatio bone fidei nossitur esse contractum, ut uicem emtionis obtineat firmitatem eodemque nexu oblicat [.....] (= ASLi, II, parte II, 1863, doc. 3 dell’Appendice, p. 413, originale); 18. a. 961, S. Marzano di Tortona: iComuìtacio bone fidei nossitur esse contractum, ut uicem emcionis obtinead firmitatem, heodemque nexu oblicant contrahentes ( = CDB, doc. 92, I, p. 316, originale); 19. a. 964, Genova: Comutacio bone fidei nositur esse contractum ut uicem emtionis obtineat firmitatem eodemque nexum (!) obligant cotraentes (!) (= documento conservato presso l’Archivio di Stato di Genova, fondo S. Siro, m. 1, doc. 2, originale); 20. a. 971, Monte Capraro, fraz. di Fabbrica Curone, AL: Comutacio bone fidei nossitur esse contractus, ut uicem emcionis obtinead firmitatem [.....] (= ASLi, II, parte II, 1863, doc. 4 deìY Appendice, p. 417, originale); 21. a. 1000, Genova: Commutatio bone fidei nositur ese contractum, ut uice emcionis optinead firmitatem, eodemque necxum oblicat contraentes (= ASLi, II, parte I, doc. 34 del Cartario genovese, p. 56, originale). La prima osservazione da fare su questi materiali è che i documenti citati sono tutti carte originali, salvo i due più antichi, e gli unici di età longobarda. Poiché lo Schiaparelli non solleva dubbi sulla loro autenticità, non mi pare che lo stato poco felice della tradizione manoscritta23 20 Si trova anche nei docc. 66 (a. 950), 69 (a. 955), 76, 78, 79 (a. 957), 81, 82 (a. 960), 83 (a. 961), 88 (a. 964), 89 (a, 966), 90 (a. 967), 91 (a. 969), 93 (a. 973), 99 (a. 980), 103 (a. 981), 110 (a. 987), 118, 120 (a. 995), 122 (a. 996), 124, 125 (a. 999). 21 Si trova già, ma mutila, nel doc. 59 (a. 943) e ritorna nel doc. 67 (a. 953), ma con ut uicem anziché et uicem e con oblicant anziché oblicantur. 22 Si trova anche nei documenti 70 (a. 955), 71, 72 (a. 956), in quest’ultimo con bone fidei anziché bona et fide, 74 (a. 957). 23 Cfr. quanto ne dice lo Schiaparelli in CDL, II, pp. 77-8 e 346. — 21 — ci autorizzi a respingere senz’altro il valore di questa documentazione che riporterebbe l’uso della formula almeno all’ultimo periodo dell’età longobarda. Tuttavia qualche dubbio sussiste: tra il 771 e l’870 c’è un lasso di tempo notevole, senza documenti, mentre dall’870 in poi la tradizione risulta ininterrotta. Tanto la carta dell’870, quanto quella del 917, cioè due documenti che contengono la formula nella stesura che diventerà poi fìssa e stereotipata anche nei documenti genovesi del X secolo, sono atti stipulati da due persone ex genere Francorum 24. Un’eco della formula si trova in una delle Formulae imperiales (ed. Zeumer, cit.,. n. 54, p. 326): In ter omnes, qui diuini uel humani iuris scientiam adsecuti sunt, constat, non solum immutari non debere, uerum etiam summa firmitate subnixum manere, quidquid bona fide contractum est; propterea debet interdum conjirmari, quod inter partes pro ambarum utilitate commutatum est. Si tratta appunto di una formula di permuta e le Formulae imperiales sono, secondo lo Zeumer (op. cit., p. 285), da riferirsi alla curia di Ludovico il Pio. Anche se vogliamo accettare la documentazione di età longobarda, è certo che in quel periodo la formula non era di uso generale in Italia, e neppure si incontrava di frequente: tra le 17 permute raccolte nel Codice diplomatico longobardo — 11 di Lucca, 1 di Val Cornia (Livorno), 1 di Va] Ceno (Appennino parmense - piacentino), 1 di Treviso e 3 relative al monastero di S. Salvatore di Brescia —, soltanto due, entrambe per S. Salvatore0, contengono la nostra formula. Le altre usano una terminologia e un formulario diversi, in cui si parla, per la « permuta », di vicaneum, cartula cambiationis, cambium (CDL, docc. 92, 113, 160, 164, 199, 229, 236, 237, 240, 265, 286 — Lucca e Val Cornia), vica- 24 Nel primo atto Gamenulfus ex genere Francorum permuta col notaio Er-mempertus; quattro dei testimoni sono pure Franchi. Nel secondo atto la permuta avviene tra 1 abate di Bobbio Teudelassio e Rothari ex genere Francorum, e troviamo le formule caratteristiche di origine salica: Insuper ipse Rot bar i per cultellum, uuamtonem, uuasonem terre seu festucum notatum adque ramum arboris de predictis rebus eidem Teudelasi aba a parte ipsius monasterii legitimam fecit traditionem et corporalem uestituram et se exinde foris expullit uuarpiui (!) et absa sito fecit... (CDB, I, p. 292). 25 Che la terza permuta relativa a S. Salvatore non contenga la formula, non ci dice nulla, perche ci e stata tramandata in forma abbreviata nel Regesto di Farfa. Cfr. CDL, II, p. 247. — 22 — rìum, carta o pagina vicariationis26, nel doc. 289, di Treviso. Anche il termine commutacio — con cui inizia la nostra formula — è limitato ai documenti dell’Italia settentrionale27. Sembra quindi di dover concludere che la nostra formula, se esisteva in età longobarda, era limitata ad una zona ristretta dell’Italia settentrionale che faceva capo a Pavia. In secondo luogo va rilevato che la formula non è stata creata in un tempo solo e tramandata senza alterazioni e senza contaminazioni. Il documento dell’880, di Moriano 28, ce ne dà una redazione molto lineare: Comutacio bone fidei contracto esse uidetur uicem emcionis (« la permuta è un contractus bone fidei che fa le veci di una vendita »). Qui non abbiamo nessuna incongruenza sintattica e l’espressione bone fidei contracto richiama direttamente i passi di Sant’Agostino e di Simmaco, 26 Naturalmente le carte presentano forme alterate foneticamente e morfologicamente dei termini citati qui sopra: uiganeo, ueganationes, uegario, uegarationis. 27 Fa eccezione soltanto il doc. 113, di Lucca, che tuttavia è la riproduzione ufficiale di una permuta tra la Chiesa di Lucca e la corte regia, fatta su richiesta del re Astolfo, perchè l’originale era andato perduto. Un’influenza del formulario settentrionale non è quindi da escludere, e del resto il termine commutacio vi compare una volta sola, accanto ai normali cambium e uiganeum. 28 Un’identificazione topografica precisa di Moriano, per quanto so finora, è impossibile. Siccome però la permuta riguarda beni situati a Contile, nel comune di Varsi (PR) e menziona tra gli ad fines anche la chiesa di S. Pietro di Varsi, dovremmo essere nella valle del Ceno o del Taro o nella zona di Castell’Arquato (PC), cioè in quel territorio che nel Medioevo costituiva i fines Castellana, la montanea Piacentina. Zona interna, isolata, in gran parte corrispondente all’antico territorio municipale di Veleia, presenta tutte le caratteristiche dell’« area meno esposta » (secondo la terminologia del Bartoli, Saggi di linguistica spaziale, Torino, 1945). Qui sopravvive fino alla fine dell’VIII secolo l’antichissima formula della mancipatio negli atti di vendita; qui le formule variano da paese a paese e quindi, per le permute, mentre troviamo a Moriano la formula citata nell’esempio 4 (a. 880), abbiamo formule diverse a Bardi, in età longobarda (CDL, doc. 249, II, p. 326, a 770: In Dei nomine placuet adque conuenet inter... ut sibi inuicem cummutare terra aperta, ita et cunmutauerunt), e a Varsi nell’875 (documento inedito, conservato nell’Archivio Capitolare di Piacenza, fondo Permute, n. 15: Placuit adque conuenit bona uoluntatem inter... ut in Dei nomine comutacio de rebus inter se fere (!) deberent, siculi presente fecerunt...). Qui ancora la sopravvivenza di contrahere, contractum nel linguaggio giuridico è confermata indirettamente dall’uso di contractor « soggetto del contratto » negli atti di vendita di Varsi di età longobarda (CDL, docc. 52, 60, 64, 79, 129, 144, a. 735-760). — 23 — citati sopra, alla nota 8. Questa formula potrebbe benisimo essere di tradizione ininterrotta e indipendente, dall’epoca romana. La redazione più complessa della formula, che si trova negli altri esempi da me citati,, tradisce invece la sua origine composita e secondaria attraverso due elementi: l’aplologia di emptionis e la forma plurale del verbo obligant. La proposizione ut uicem emptionis obtineat firmitatem è infatti nata con ogni probabilità da un incrocio tra uicem emptionis (« come una vendita ») e emptionis obtineat firmitatem (« abbia la validità di una vendita »), in cui fu poi eliminata la ripetizione di emptionis. Quanto ad obligant, possiamo dire che questa dovrebbe essere la forma originaria, giacché ricompare insistentemente in parecchi documenti di luoghi diversi (esempi 2, 3, 7, 8, 9, 12, 13, 14, 16, 18, 19: Brescia, Marescandi, probabilmente nell’Oltrepò Pavese, Asti, Pavia, Tortona, Genova) ed essendo in palese disaccordo con il soggetto singolare commutacio, deve certo la sua persistenza alla forza della tradizione29. La documentazione della formula nelle carte di Asti illumina ulteriormente la sua origine composita. Essa viene introdotta soltanto nel-1 886, perchè le due permute precedenti, conservate nell’Archivio Capitolare di Asti, usano un formulario del tutto diverso30. Dal momento della sua introduzione subisce un processo di correzione e di contamina- 29 Una traccia di soggetto plurale si trova soltanto nell’esempio 7 (Asti, a. 886), che ha commutationis anziché commutacio. Per me, infatti, commutationis sta per commutationes, nom. plur., e presenta ancora la confusione e / i, propria dei documenti di età romana tarda, ma che si prolunga, in certi ambienti e in certi contesti, anche fino al sec. X. Si confronti, nella permuta di Eldeprando (Archivio di Stato di Genova, Fondo S. Siro, doc. 2), tinore per tenore e, nella donazione di Teodeberga (stesso Archivio, Fondo S. Stefano, doc. 1, del 971), sumus uobis componituris (= componitores); habitatoris per habitatores in una divisione di beni a Varsi (doc. inedito delTArchivio Capitolare di Piacenza, fondo Divisioni, n. 7, r. 5, a. 903), per finis et coerencias (altro doc. inedito dello stesso Archivio, fondo Donazioni diverse, n. 26, r. 10, a. 904). 30 La prima (doc. 3 della raccolta in BSSS 28) è del 792 e inizia così: Notitia commudacionis, qualiter uigario fecerunt inter se... La seconda (doc. 13 della stessa raccolta) è dell’878: Comutacio ea que ab aliis quanitur (?!) uegario inter se fecerunt. Quest ultima formula è molto oscura e sospetto che vi sia qualche errore di trascrizione, comunque non ha nulla a che fare con il tipo che compare otto anni dopo, nell’886. — 24 — zione che ci aiuta in parte a spiegare le incongruenze morfologico-sin-tattiche della formula, nella sua redazione definitiva. Nel primo esempio, infatti, (n. 5, dell’886), a parte lo stranissimo obligo, abbiamo una struttura sintattica coerente, che si sviluppa attraverso la paratassi: et noscitur ... et uicem emptionis obtinet ... et eodem nexu [obligat]. Nel secondo esempio, invece, (n. 6, dello stesso anno) subisce già l’influenza di un altro modello, nel quale la seconda proposizione è costruita in ipotassi, con il congiuntivo, sicché, pur mantenendo et, sostituisce optinet, con obtenead. Qui troviamo già anche l’incongruenza dovuta all’aplologia di emptionis, che nell’esempio precedente non esisteva (là si diceva corretta-mente uicem emptionis optinet ad firmitatem, « quanto a validità, fa le veci di una vendita »). Ormai le incongruenze sintattiche della formula sono state assunte e si cerca, negli anni successivi, di ovviarvi con qualche correzione (in uicem emptionis, nell’esempio 10, anziché et uicem emptionis; eodemque nexu oblicantur contradantes, nell’esempio 15, anziché eodemque nexu oblicant contrahentes). Ma la vicenda della formula subisce una nuova complicazione tra il 943 e il 957 (7 documenti): contrahentes e contractum vengono mutati rispettivamente in contradbantes (notare la grafia con h che tradisce la sostituzione!) e contradatum (esempi 14, 15, 16). Si tratta evidentemente di un’alterazione dovuta a volgarismo e a etimologia popolare; ce lo conferma l’altra variante che troviamo in alcuni documenti di questo gruppo: bona et fide anziché bona fidei31 : essa mirava a specificare il tipo di contratto (contra-dare = permutare). Finalmente la redazione standard della formula, ormai in uso stabile nelle zone vicine (Tortona, Pavia) e che qualche notaio di Asti aveva continuato ad usare anche nel periodo di fortuna di contradare (v. i documenti citati alla nota 20),, riprende il sopravvento dal 960 in poi, e definitivamente. 31 Anche questa variante, tuttavia, non è un errore banale, bensì un tentativo piuttosto infelice di correggere l’anomalia bona fidei che appare in alcuni degli esempi più antichi di Asti (nn. 6, 10, 11) e che era nata, a sua volta, dall’incrocio tra bona fide contractum (espressione con valore verbale: « pattuito in buona fede ») e bonae fidei contractum (con valore nominale: «contratto di buona fede», ossia « stipulato in buona fede »). — 25 — Tutta questa vicenda della formula, sui cui mi sono volontariamente indugiata, mi pare esemplare per trarre alcune conclusioni. Ci induce alla prudenza nell'attribuire un’origine molto antica alle formule stereotipate dei documenti medioevali. Esse contengono, bensì, elementi antichi, espressioni che risaliranno con tutta probabilità all’età romana, ma hanno subito, attraverso la tradizione notarile, numerose alterazioni. La tradizione poi non è mai unitaria, anzi possiamo dire che dalla molteplicità si procede verso l’unità, soprattutto attraverso fatti di contaminazione tra redazioni diverse. Certe formule inoltre, per circostanze che ormai ci sfuggono, non hanno fortuna e cessano di essere usate col-1 estinguersi di una tradizione notarile locale; altre, invece, partendo dal centro in cui si sono formate, si diffondono anche in un raggio abbastanza ampio di territorio. Chi studia i documenti medioevali genovesi — per cui non si risale oltre il X secolo, anzi sono frequenti soltanto a partire dalla metà di esso non deve perdere di vista, a mio parere,, il quadro che ci offrono le zone dell entroterra (Asti, Piacenza), dove la tradizione risale ininterrotta fino all Vili secolo. Il formulario delle carte genovesi, che nel X secolo appare così rigidamente fissato (si pensi ai « livelli » della Curia che si possono dire identici l’uno all’altro), può anche non essere molto antico. Soltanto l’analisi linguistica delle formule e delle espressioni contenute in esse e il confronto con i formulari della zona padana, della Toscana e d oltralpe potrà illuminarci sulla genesi e sulla preistoria del linguaggio giuridico genovese altomedioevale, che è di notevole interesse, perchè, se in alcuni casi, come nella formula della commutacio testé esaminata, concorda con l’entroterra padano, in altri, per esempio nei livelli della Curia, se ne distacca completamente. Intanto, accertato che la parola contractum era in uso a Genova nel X secolo, mi pare che nessuna difficoltà di carattere -filologico o guistico si opponga alla mia proposta di risolvere in contractum la sigla iniziale dei « livelli » genovesi. — 26 — DOMENICO GIOFFRÈ NOTE SULL’ASSICURAZIONE E SUGLI ASSICURATORI GENOVESI TRA MEDIOEVO ED ETÀ MODERNA Non vi è accordo, ancora oggi, fra gli studiosi del diritto e dell economia sull’origine dell’assicurazione a premi. La derivazione romana è stata ipotizzata da alcuni sulla base di certe affermazioni di Livio e di Svetonio *, ma negli esempi addotti l’assunzione del rischio è di solito una clausola accessoria ad un contratto diverso nè si ha corresponsione di corrispettivo alcuno per l’alea. Anche 1 istituto del foenus nauticum, da molti considerato come un’assicurazione in embrione , pur contenendo in sè elementi dell’assicurazione non fu che un prestito aleatorio del quale mantiene la struttura e la funzione. Del resto, per 1 affermarsi dell’assicurazione a premio, mancavano in Roma i presupposti economici che sono alla base dell esigenza assicurativa. E, quando questa si presentava, vi provvedeva lo Stato stesso con 1 accollare su di se il danno dell’evento. E’ solo con l’affermarsi delle città marinare,, col conseguente dilatarsi dei traffici marittimi e terrestri nel fervido ambiente mercantile italiano che si sente la necessità delle contrattazioni a premio relative al rischio marittimo; le clausole salvo in terra, con la quale si assumeva il rischio, l’altra ad risicum Dei maris et gentium, con la quale lo si respingeva, appaiono negli ultimi anni dell’XI secolo e si apponevano a vari contratti (cambi, commenda, ecc.). Difficile fissare il periodo di tempo nel quale sono sorti i primi contratti di assicurazione. Una parte della dottrina (Goldschmidt, Bensa, ecc.) rifacendosi alla voce del verbo securare usata in alcuni documenti degli inizi del XIV secolo e attribuendogli una particolare interpretazione ascrive i primi contratti di assicurazione allo stesso arco di tempo: per costoro farebbero riferimento a questo contratto alcuni passi 1 Lo storico romano nelle sue storie informa che in occasione delle guerre puniche, lo Stato provvide a garantire direttamente dai rischi delle tempeste il vettovagliamento destinato all’esercito impegnato fuori dei confini. Svetonio, a sua volta, narra che l’imperatore Claudio, in occasione di una carestia, assunse a suo carico lo stesso rischio per il grano inviato in Italia. 2 Col quale un capitalista mutuava una somma da investire in imprese commerciali oltre mare con l’obbligo di restituirla con l’interesse. — 29 — del Breve portus Kallaritani (1318), degli statuti di Calimala (1322), dei libri della ragione Francesco Del Bene e Compagni di Firenze (1318-1320) e della « quietanza grossetana » (22 aprile 1329). Altri invece (Schaube, Cecchini,, ecc.) negano che tali notizie si riferiscano all’assicurazione e spostano la sua applicazione allo scadere del primo cinquantennio dello stesso secolo. Certo è che il Pegolotti che ha compilato la sua pratica di mercatura verso il 1340 non fa alcun cenno, neppure indiretto, a questo contratto. Comunque il documento più antico di assicurazione da tutti riconosciuto come tale è quello del 23 ottobre 1347 inserito fra le minute del notaio genovese Tomaso Casanova ed edito dal Bensa. Non è nostro intendimento, nè questa ne sarebbe la sede, rifare la storia del contratto di assicurazione già più o meno ampiamente trattata, anche se, alla luce delle nuove risultanze documentarie, alcune affermazioni vanno rivedute e certe conclusioni ridimensionate. Richiameremo qui, invece, soltanto le informazioni necessarie a comprendere l’aspetto esteriore e formale di questo negozio, quale ci appare nel corso dei secoli XIV e XV3. E , innanzitutto, necessario rilevare la scarsa originalità di questo contratto nel suo costrutto esteriore: si prende in prestito per esso il formulario del cambio marittimo, del mutuo, della venditio, ma il contratto non conoscerà mai una propria autonomia ed una fisionomia a se stante. Nella stipula di una assicurazione avanti il notaio è sempre presente 1 artifìcio. A differenza di quanto avviene su altre piazze, è costante la cura di mascherare l’esistenza del premio dietro schermi cautelari, con la scelta di schemi contrattuali presi in prestito da altri istituti 3 Opera fondamentale per la storia dell’assicurazione a Genova è quella di E. Bensa, Il contratto di assicurazione nel Medioevo, Genova, 1884. Lavori più recenti sono quelli di R. Doehaerd, Chiffres d’assurance à Gênes en 1427-1428, in Revue belge de Philologie et d’Histoire, XXV, 1949, fasd 3-4, Bruxelles, 1949; J. Heers, Le prix de l’assurance maritime à la fin du Moyen-âge, in Revue d’Histoire économique et sociale, 1959. Cfr. dello stesso, Gênes au XVe siècle, Parigi, 1961. Per le altre opere attinenti alla storia dell’assicurazione si rinvia alle citazioni contenute in R. Doehaerd, Les relations commerciales entre Gênes, la Belgique et l'Outremont, Bruxelles-Roma, 1945, t. I, pp. 138-139. — 30 — ma piegati all’esigenza del fine. Ed è strano che accanto a tecniche finanziarie veramente progredite e di avanguardia vi siano nella Genova medioevale pratiche almeno esteriormente ancora primitive ed in ritardo sulla evoluzione già da tempo raggiunta nel restante mondo economico. E’ stato spiegato, a torto od a ragione, questo atteggiamento dell’uomo d’affari genovese come segno di una particolare mentalità, come prodotto degli scrupoli di cui non riesce a liberarsi al cospetto dell’opinione pubblica, anche se poi, nella realtà e concretezza di ogni giorno, opera ed agisce come qualsiasi altro uomo del proprio tempo. Il principio che le norme dell’attività umana negli affari dovevano derivare dalle leggi morali era concetto fondamentale nella vita del Medioevo. Trattasi però di un ossequio solo formale da parte del mercante a contatto con la realtà economica richiedente sempre più crediti e capitali. E le eccezioni di usura nella pratica delPassicurazione dovevano essere piuttosto frequenti se, contra alegantes quod cambia et assicuramela sint usuraria, il legislatore laico in Genova è costretto ad intervenire con una delle prime leggi che si conoscano in materia di copertura del rischio4. Comunque sia la finalità dell’assicurazione si raggiungeva con alcune particolari stipule su cui ci soffermeremo brevemente. Nei secoli XII e XIII si garantiva dai rischi di mare la mercanzia in viaggio mediante il contratto di cambio marittimo con pegno. L’accordo per realizzarsi richiedeva più condizioni: il proprietario della mercanzia da trasferire oltre mare vendeva a termine una certa quantità di moneta avente corso nel porto di destinazione della merce; il compratore anticipava il prezzo di acquisto concedendo in effetti un prestito al mercante; il cambio tuttavia non avveniva se la mercanzia assegnata in pegno non arrivava a buon porto. Si otteneva, in tal modo, il trasferimento del rischio dal proprietario della merce ad un terzo, il quale però conservava nel contratto una posizione non facile in quanto, in caso di sinistro, perdeva il capitale investito nell’operazione e il beneficio ad essa connesso. Fra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento la diffusione della lettera di cambio tolse al contratto di cambio marittimo gran parte della propria utilità e negli atti dei notai la copertura del rischio marittimo si raggiunge con 4 Legge del doge Gabriele Adorno del 22 ottobre 1369 in Archivio di Stato di Genova (A.S.G.), Diversorum negotiorum Cancelleriae, n. 501, c. 133. Il decreto è pubblicato dal Bensa {Il contratto cit., pp. 149-151). — 31 — un altro espediente: il mercante vendeva all’assicuratore la merce che egli voleva trasferire in altro porto, riservandosi tuttavia il diritto di riacquistarla per un prezzo prestabilito una volta giunta a destinazione senza danno. Nel frattempo le cose viaggiavano a rischio del compratore-assicuratore. Fra il prezzo di acquisto e di rivendita vi era di fatto sempre una differenza in più che costituiva il benefìcio o premio dell’assicuratore. Anche se la posizione di quest’ultimo risultava ora migliorata, tuttavia egli non può ancora vantare il diritto ad un compenso che più tardi consisterà appunto nel pagamento anticipato del premio. E’ dopo la metà dello stesso secolo che il contratto di assicurazione conosce una ulteriore evoluzione in un quadro economico caratterizzato, dopo un periodo di crisi, dall’intensificarsi dei trasporti marittimi e dal moltiplicarsi delle società commerciali con filiali nei porti più importanti. Si abbandonano le forme precedenti e si ricorre alla formula del mutuo: 1 assicuratore dichiarava di aver ricevuto gratis et amore dal proprietario della merce una data somma impegnandosi a restituirla entro un termine prestabilito; il negozio tuttavia si riteneva nullo qualora una certa nave o una certa quantità di merce fosse arrivata sana e salva in un porto prefissato. L’accordo era del tutto fittizio: l’impegno dell’assicuratore di restituire la somma rappresentava l’indennizzo da corrispondere all assicurato in caso di sinistro: di qui la clausola limitativa del salvo in porto. Verso 1 ultimo ventennio del XIV secolo questo sistema cade in desuetudine. La clausola del rischio è trasferita in un altro tipo di contratto, quello della compravendita a termine. E’ la forma che durerà più a lungo e che si conserverà fin quando, al declinare del secolo XV, al- 1 assicurazione per mano di notaio non si sostituirà del tutto e definitivamente 1 accordo per semplice scrittura privata (apodisia) o per intesa verbale. Gran parte dei documenti di assicurazione esposti nella mostra genovese ricalcano proprio questo modulo: l’assicuratore dichiara all’assicurato di aver acquistato da lui tot de suis rebus e promette di pagarne il prezzo ad una certa scadenza. La clausola del rischio condiziona però 1 intesa e dà al contratto il suo vero significato: l’impegno di corri - 5 Cfr. Mostra storica del documento assicurativo XIV-XVI secolo, Genova, — 32 — spondere il prezzo dovuto sarebbe rimasto cassum et irritum, nullius valoris et momenti se la mercanzia acquistata e caricata su una nave avesse raggiunto sana e salva un certa località. Come è facilmente intuibile, trattasi sempre di un artificio, di un negozio simulato: in realtà nulla è stato venduto, comprato o trasferito e le parti intervenienti alla stipula ed il notaio lo sanno bene e conoscono il significato nascosto e la portata del negozio. L’assicurazione invece nella sua forma reale e più semplice, praticata normalmente nelle altre città italiane ed estere, possiamo trovarla in Genova solo quando l’accordo è stretto direttamente tra il mercante e l’assicuratore, con l’intervento eventuale del sensale. A questa pratica il mercante genovese doveva far ricorso già dalla fine del XIV secolo: agli inizi se ne hanno soltanto prove indirette essendo la documentazione « privata » piuttosto rara nell’Archivio di Stato di Genova in questo scorcio di secolo. Successivamente invece, alcuni registri di conto forniscono ampie prove della coesistenza delle due forme di assicurazione, per notaio e per « apodisia », simulata cioè o scoperta. Il formulario base del contratto di assicurazione si arricchisce di una folla di dettagli che puntualizzano la mercanzia assicurata, il tipo di nave, il porto di imbarco e di sbarco, l’itinerario, i principali scali intermedi, il termine per reclamare i danni, il tempo di copertura del rischio. Venivano scartati di solito i rischi connessi ai vizi della cosa o del suo contenente; così di solito in una assicurazione sul trasferimento di un carico di olio si trova la clausola limitativa non teneatur de span-dimento vel rumpimento iarrarum existent e nave ad salv amentum 6; nel garantire un trasporto di vasi di Malaga gli assicuratori dichiarano non teneatur de rumpimento vasorum1-, la clausola: non teneatur de balneato accompagnava quasi costantemente l’assicurazione della merce che poteva deteriorarsi con l’umidità ed il salino8. A queste limitazioni corrispondevano ovviamente riduzioni del premio dovuto. Qualche volta tuttavia l’assicurato richiedeva la copertura totale del rischio: questo tipo di assicurazione veniva chiamato ad florentinam, 6 Cfr. contratto del 18 aprile 1393: Mostra cit., p. 50. 7 Cfr. A.S.G., notaio Andreolo Caito, 1393, c. 202. 8 Cfr. contratto del 9 ottobre 1398: Mostra cit., p. 45. — 33 — e risicum ad florentinam l’onere dell’assicuratore Il formulario del negozio, tuttavia, rimaneva quello solito che già conosciamo. La portata di questa assicurazione era davvero vastissima come si ricava dalle esplicite dichiarazioni che l’assicurato fa apporre nel contratto: quando Matteo Viacava assicura per 1223 fiorini l’allume caricato in Genova per Barcellona sulla nave del biscaglino Pietro Extimenes fa dichiarare nel rogito: et demum sit obligatus assecurator ab omni casu et in omne eventu dictum Mateum indempnem conservare 10. In un altro contratto « alla fiorentina » leggiamo: teneatur de goasto, marcido, furto, manchamento, a ribalderia patroni etiam si mutasset viagium et de reprehensaliis n. Dovremo attenderci in questi casi un premio commisurato alla dilatazione della garanzia ed al maggior onere degli assicuratori; nei due atti citati il tasso del premio è modestissimo, appena del 4 %, corrispondente di fatto a quello praticato sullo stesso percorso Genova-Barcellona con eguale tipo di nave12. Ed a proposito del premio dobbiamo osservare che è molto difficile trovarne menzione nei contratti di assicurazione prima delPinizio della seconda metà del XV secolo: successivamente la citazione è sempre più frequente e si accompagna di solito all elenco delle spese per i sensali, per lo scriba e notaio, per la gabella e per altri gravami secondari. L’intensificarsi della domanda di capitali di assicurazione fa sì che sempre maggiore sia il numero dei chiamati a partecipare al finanziamento del negozio; d’altra parte la tenuità dei premi si otteneva proprio col largo frazionamento del rischio. Vi sono polizze nelle quali abbiamo contato fino a trenta partecipi; nella produzione assicurativa del notaio i loro nominativi si ripetono con larga frequenza ma quasi sempre in combinazioni diverse. Non vi è di solito fra essi un vincolo associativo e 9 Si chiamava inoltre « alla fiorentina » l’assicurazione diretta ( per apodisiam ) fra assicuratore e mercante, senza intervento del notaio, come ampiamente prati-cavasi in Toscana. 10 Cfr. contratto del 5 novembre 1459: Mostra dt., p. 45. 11 Cfr. contratto dèi 14 novembre 1459: Mostra cit., p. 57. 12 Non sono comunque da trarre conclusioni valide basandosi su due soli documenti. — 34 — ciascuno partecipa liberamente per la quota che ritiene più conveniente. Non era sempre facile, comunque, riunire attorno ad un carico tanti capitalisti disposti ad accollarsi l’onere del rischio, tanto più che spesso la nave ed il carico sono lontani dal porto di Genova ed il proprietario dei beni è assente o agisce a mezzo di interposta persona che è di solito il notaio. Tratto di unione fra assicurati e assicuratori è allora il sensale ed il suo intervento è indicativo dell’avanzato stadio di sviluppo della pratica assicurativa. Egli fa appello ai finanziatori disponibili sulla piazza e li mette in contatto con lo speditore della merce. E’ un personaggio, il sensale di assicurazione, di tutto rispetto: la sua testimonianza ha pubblica fede ed egli è al corrente, mediante una fitta rete di informatori, della posizione delle navi nei vari porti e delle merci in movimento; svolge di fatto una funzione davvero essenziale nel negozio con l’accostare la domanda e l’offerta anche in situazioni difficili e diverse e col portare poi le parti davanti al banco del notaio per la stesura del relativo accordo. Talora, anzi, il sensale si sostituisce al notaio e concreta l’accordo fra gli interessati con una scrittura privata o semplice apodixia o polizza di piazza 13. E’ questa una abitudine che sempre più nella seconda metà del Quattrocento tende ad estendersi nonostante un primo atteggiamento negativo del legislatore che obbedisce a preoccupazioni fiscali. Purtroppo non ci è pervenuta la documentazione che il sensale raccoglieva nel corso della propria attività e che doveva esibire, su richiesta del collettore della gabella del V2 per cento sulle assicurazioni. Una fortunata combinazione, tuttavia, ha permesso di rinvenire fra i quinterni di un cartolare notarile il quaderno di uno di questi mediatori della fine del ’300. E’ facile capire che trattasi di documenti estremamente rari e del massimo interesse: essi saranno utilizzati dall’INA in uno studio sulle assicurazioni di prossima conclusione. Non sembra che vi sia,, in linea di massima, una specializzazione nel negozio, aliena del resto alle abitudini del tempo. Citiamo, fra i molti disponibili, l’esempio del notaio Antonio da Ponte: nell’ottobre del 1398, con altri nove finanziatori, garantisce mille fiorini di allume che viaggiano da Savona all’Ecluse e concorre successivamente ad altre negoziazioni dello stesso genere. Giovanni Piccamiglio, che è tutt’altro che un assi- 13 Talvolta due o tre sensali costituiscono fra di loro una associazione: si piarla in tal caso di « banca della segurtà ». — 35 — curatore, sottoscrive nello spazio di tre anni trentanove contratti per un totale di 6.607 lire di buona moneta 14. Possiamo quindi vedere colui che si accolla i rischi del terzo, dedicarsi contemporaneamente ad altre attività, essere armatore, capitano dell’impresa, mercante, patrono e reinvestire il capitale liberato dalla scadenza assicurativa in altre operazioni, per cui è molto più spesso assicurato che assicuratore. Dobbiamo ammettere tuttavia che non mancano casi nei quali gli interventi intensi e ripetuti in questo campo con partecipazione di notevole importo lasciano presumere una vera specializzazione professionale o almeno un’attività tanto preponderante da minimizzarne altre eventuali. Ma si tratta di situazioni niente affatto generalizzate e non numerose. La sottoscrizione di una garanzia assicurativa era molto spesso un modo come un altro di mettere a frutto una somma disponibile, il tentare un profitto quasi sempre reale e soprattutto consistente, come è stato dimostrato laddove si è tentato di misurare la rimunerazione ed il beneficio del capitale così impiegato 15. Del tutto intonata al ruolo che Genova svolge in questi secoli e 1 attiva presenza in essa di consistenti gruppi di operatori economici sia italiani che stranieri: chi sfoglia i cartolari notarili della fine del ’300 rimane sorpreso del numero di fiorentini, di pisani, di lucchesi e senesi che, largamente provvisti di capitali,, esercitano il traffico dell’assicurazione ora in proprio ora quali corrispondenti delle filiali da essi rappresentate. Citiamo a caso Luca Paccini, Simone de Guasconi, Maghinardo Bozzano, Luca Sere, Oberto Cavalcanti, Francesco Cioci, Lorenzo Fiore, Landò Vannelli, tralasciando tanti altri egualmente impegnati nella stessa pratica. Talvolta però la riunione di più assicuratori per la copertura del rischio su di un carico viaggiante non era opera del sensale: fra i vari interessati si era preventivamente stabilita una intesa per l’esercizio del J. Heers, Le livre de comptes de Giovanni Piccamiglio homme d’affaires génois, Parigi, 1959, p. 31. 15 Renée Doehaerd afierma in proposito (Chiffres d’assurances cit., p. 750) che « si aucune des cargaisons assurées par Tobias Ususmaris n’a fait naufrage en 1428 il a retiré d’investissements successifs allant de 100 à 200 florins, répartis en 20 assurances, un intérêt de 217.000 frs. »! La studiosa belga si basa per dette con- c usioni sui rogiti del notaio Branca Bagnara, filza 20, conservati neU’Archivio di Stato genovese. negozio assicurativo in un determinato periodo di tempo. Nella compagnia o società così costituita i singoli membri si impegnavano a coprire per quote determinate i rischi connessi alle operazioni dividendone perdite e profitti in proporzione alle somme investite. Tale genere di associazione, nel corso del secolo XV, non sembra molto diffuso in Genova a giudicare almeno dal numero scarsissimo dei contratti rimasti, mentre si fa più frequente nel successivo. Sono stati riuniti tre di questi atti, uno per il secolo XV e due per quello seguente 16. Il primo porta la data dell’ll luglio 1431; con esso Brancaleone Maruffo, Giulio Dondo e Baliano Pinello costituiscono una « compagnia » della durata di un anno per esercitare l’assicurazione super navibus, cochis, galeis, navigiis et seu barchis et corpore et naulis. Non vi è quindi praticamente limitazione alcuna sul tipo di imbarcazione da garantire,, comprendendosi nella dizione riportata i tonnellaggi più diversi, dal minimo (barche) al massimo (coche). I contraenti convengono inoltre di coprire i rischi non solo di mare ma anche di terra, quelli sulla vita e si impegnano per di più nelle assicurazioni de partito, in quelle negoziazioni, cioè, nelle quali, non essendovi per l’assicurato un rischio reale, doveva parlarsi più che altro di scommesse. Più ricca di dettagli è una stipula del secolo successivo e precisa-mente del 25 aprile 1569. Alcuni capitalisti genovesi, tutti noti nel campo degli affari, danno mandato ad Antonio Lomellino di « prendere la se-curtà » per un anno e per loro conto in Palermo. Vengono tuttavia esclusi « li vascelli piccoli come sono fregate, barche, brigantini et simili » a meno che non abbiano una portata superiore alle 1500 salme (300 tonnellate). Non può assicurarsi inoltre alcuna nave « napolitana » e genovese che sia « di mancho portata di salme tremilia circa » (600 tonnellate). A differenza quindi del precedente contratto sopra commentato, in questo gli associati non vogliono correre rischi se non connessi a natanti che tengono bene il mare e di portata senza dubbio notevole, almeno per quei tempi. Il fatto poi che il tonnellaggio sia espresso in « salme » e non in cantari come di solito, ci autorizza a pensare che la protezione andava al trasporto del grano. Palermo infatti era il centro delle negoziazioni di questo genere e qui venivano rilasciati gli « asientos » o licenze di espor- 16 Cfr. anche i due contratti di società indicati dal Bensa nell’opera citata a pag. 80. tazione del cereale imbarcato nei vari « carrigatori » dell’isola. Ed a conferma di ciò non vi è nel contratto indicazione alcuna dei beni su cui doveva operare l’assicurazione. Sono del tutto escluse le « sigurita » per tempo, mentre è consentita soltanto l’assicurazione per singoli viaggi. Il beneficio, « se ve ne sarà, il che piaccia a Dio » e il danno « che Dio noi voglia » deve essere ripartito « prò rata » alla fine dell’anno fra i vari soci ai quali ogni quattro mesi il Lomellino deve far relazione minuta dell’attività svolta. Interessante è la determinazione del limite massimo di copertura che ogni partecipe è disposto a dare per singolo viaggio e per « vascello »: i quattro garantiscono ciascuno un valore non superiore alle 100 oncie d’oro, moneta di Sicilia, mentre per il quinto (Centurione) la quota è di 150 oncie. Il limite di impegno della società,, quindi, per singolo viaggio ed imbarcazione, non superava le 550 oncie. I soci interessati all’affare sono cinque: Nicolò Palavicino, Cristoforo Centurione, G. B. de Nigro, Bartolomeo Lomellino e G. B. Spinola, tutti residenti in Genova; Antonio Lomellino invece agiva in conto sociale in Palermo con la provvigione del V2 per cento su ogni negozio. L’ultimo contratto di società è in data 5 novembre 1573. La compagnia operante in Genova è costituita fra Ottaviano Vivaldi, Geronimo Cibo, Angelo Riccobono e Agostino de Nigro. Poteva essere assicurata « qualsivoglia persona, ufficio o magistrato sopra qualsivoglia vascello navigabile, per qualsivoglia parte del mondo così per tempo come per uno 0 più viaggi, così sopra corpi, noli, corredi ed aparati di detti vascelli come sopra robbe, merci, beni,, vettovaglie, gioie, denari, sete, ori, argenti come anco sopra la vita di qualsivoglia persona che navigasse ». E’ evidente l’ampiezza delle operazioni sulle quali la società si propone di intervenire per la copertura del rischio: un limite apprezzabile invece riguarda l’assicurazione sulla vita, per la quale si considera soltanto il rischio connesso ai viaggi marittimi. La sicurtà non poteva eccedere la somma di 100 scudi d’oro e i soci partecipavano in parti uguali a vantaggi e perdite. L’incremento dei traffici, il sentito bisogno di « viver seguri quando 1 po » (secondo l’efficace espressione di un documento veneziano del Quattrocento) col restare al riparo dai molti rischi insiti nella lunga navigazione rende sempre più estesa la lista dei beni su cui opera l’assicura- — 38 - zione; ne passeremo in rassegna alcuni citati nei rogiti esposti, soffermandoci talvolta per qualche breve considerazione. Sei contratti hanno per oggetto specie metalliche e preziosi; il commercio e l’esportazione delle monete sono da tempo inseriti in un movimento di vasto respiro ampiamente internazionalizzato, nel quale gli uomini d’affari genovesi appaiono i più interessati. Dalla città ligure, nei secoli cui si riferisce la nostra documentazione, si esportano preziosi anche sotto forme di panni intessuti d’oro e d’argento, di oreficerie, di oro filato e gioielli e non sempre questa attività, discreta e silenziosa, è registrata in modo chiaro nelle carte di archivio. Nel contratto di assicurazione, invece, sembra che gli assicuratori esigessero una dichiarazione esplicita sulla natura del bene. Possiamo così vedere ziliati d’argento e ducati d’oro trasportati da Gaeta a Beyruth per conto di Federico Boccanegra sulle galee di scorta alle navi del « passaggio di Siria » 17, altro numerario andare da Maiorca a Napoli per conto di Andrea Martino 18, Antonio Ma-ruffo stipulare il 27 marzo del 1411 due distinte assicurazioni per 450 fiorini su del vasellame d’argento in viaggio per Famagosta, assicuratori liguri e fiorentini garantire il 20 agosto 1398 a Battista Cattaneo un carico d’argento per 300 fiorini sulla rotta Portopisano-Siviglia 19. In un estratto conto, infine, della fideicommissaria del quondam Nicola da Chiavari20, fra le varie voci di uscita, vi sono, nel 1427, 150 lire spese per assicurare 5000 lire in bisanti inviati dalla Tana a Caffa. Il tasso del premio, di appena il 3 %, lascia prevedere una navigazione tranquilla e senza inconvenienti. Alcune stipule della fine del secolo XIV concernono la protezione del traffico delle giarre e dei fusti d’olio che attraversano tutto il Mediterraneo sempre nella stessa direzione; si tratta d’olio di Spagna, dell’Africa del Nord, di Puglia che prende la via dell’Oriente21. I Genovesi lo cari- 17 Cfr. contratto del 1° settembre 1398: Mostra cit., p. 49. 18 Cfr. contratto del 9 marzo 1411: Mostra cit., p. 49. 19 Altri beni e gioielli sono assicurati per conto di Martino de Podio sulla « coca » di Celesterio Nigro che naviga da Famagosta a Genova (contratto del 22 agosto 1393: Mostra cit., p. 47). 20 Inserto fra gli atti della filza 6 del notaio Giovanni Labaino. 21 Cfr. i contratti in data 18 aprile 1393, 10 e 30 settembre 1398, 16 settembre 1400: Mostra cit., pp. 50 e 51. — 39 — cano a Cadice, a Maiorca, a Siviglia, a Gaeta, a Tunisi, ed i porti di destinazione sono sempre o quasi Alessandria e Chio. E’ un grosso negozio quello dell’olio che consente di riportare dal Levante, almeno in parte, le merci tradizionali che esso fornisce. Questo traffico, tuttavia, passa lontano da Genova anche se i vettori, i capitali, e gli interessi in esso investiti sono prevalentemente liguri22. Sappiamo che sul finire del ’300 aumenta la varietà dei beni in circolazione sugli itinerari a lungo percorso, itinerari riservati prima in gran parte ai soli prodotti pregiati. Anche a seguito della adozione dei noli differenziati merci povere sono immesse in un circuito internazionale mentre di riflesso si dilata il consumo di alimenti limitato dapprima ad un ambito regionale e ristretto. L’assicurazione accompagna ora i carichi di frutta che dal regno musulmano di Granata raggiungono i porti sia dell’Oriente che dell’Occidente. Una di queste navi viaggia da Muleca a Genova, altra va da Cadice all’Ecluse ed a Middelburg. La merce (fichi, mandorle, uva, ecc.) è di proprietà della « compagnia de la fruta », società a capitale genovese, installata a Malaga, all’incrocio della linea Oriente-Atlantico, che ha filiali ad Almeria ed in altri centri del reame nasride. La società, di cui sappiamo ben poco, sembra detenere il monopolio delle esportazioni di prodotti ortofrutticoli dello Stato musulmano di Spagna con un amplissimo giro di interessi23. Un altro alimento, il vino, così in primo piano nei consumi domestici medioevali, viaggia dai mercati di produzione a quelli di consumo, coperto anch’esso dall’assicurazione, al centro di un largo traffico che impegna navi e capitali. Nel nostro caso non si tratta di vini pregiati, quali la malvasia egea o il vino di Tiro, ma del vino campano e corso. Con un atto del 25 febbraio 1410 una grossa partita di questo prodotto per un valore di 500 fiorini, è trasferita da Napoli ai porti dell’Inghilterra (Southampton e Sandwich). Sappiamo del resto che la città partenopea con il suo ampio retroterra era un grosso centro vinicolo e che la « botte » napoletana era stata adottata come misura tipo. Un secondo atto si riferisce invece al vino di Corsica (di Calvi, San Fiorenzo, San Colombano, ecc.) 22 L’cvlio delle riviere genovesi è escluso da questo commercio perchè viene assorbito quasi tutto dal consumo locale. 23 Cfr. contratti del 27 novembre 1398 e del 9 gennaio 1410: Mostra cit., p. 55. — 40 — immesso sul mercato genovese dove trova un buon piazzamento: nella limitatissima bilancia delle esportazioni corse forse costituiva esso l’articolo principale. Quattrocento fiorini di pastello lombardo vengono assicurati sulla tratta Genova-Maiorca con un rogito del 13 agosto 1398; questo materiale tintorio, fra i più importanti del basso medioevo, serviva per tingere di azzurro le cotonate, costituiva il solo grosso articolo di esportazione dal porto di Genova ed era indispensabile all’industria dei panni di Inghilterra e delle Fiandre. Notevole la partecipazione finanziaria degli assicuratori nella protezione del traffico dell’allume di Focea: in tre viaggi, due verso l’Ecluse con partenza da Genova e Savona ed il terzo da Cadice ai porti inglesi essi arrischiano 2250 lire24. In uno dei contratti è prevista anche l’eventualità del trasbordo del minerale su altro legno (a Cadice o Lisbona), l’assicurazione tuttavia non copre il rischio dell’operazione. Cinque documenti concernono l’assicurazione di quei panni lana fiamminghi che conoscono una così larga fortuna nel commercio medioevale. In questo campo Valerano Lomellino ci si svela come un grosso esportatore: nello stesso giorno (21 agosto del 1393) conclude tre distinte assicurazioni per 1062 lire su drappi di sua proprietà, imbarcati sulle galee di Gotifredo Doria ed Andreolo Spinola naviganti di conserva alla volta di Chio e sulla coca di Pietro de Camilla da Siviglia alla stessa isola. Quest'ultima assicurazione opera per sei mesi mentre negli altri due casi l’efficacia è limitata a quattro. Si assumono l’onere dell’operazione i fiorentini Maghinardo de Boccianis, Simone Guascono, Gerio di Lappi Gerio, Lorenzo Paccini25. Nelle restanti due stipule, interessanti sempre lo stesso prodotto viaggiante sul percorso Ecluse-Genova e Portovenere-Chio, è importante 24 Cfr. i contratti del 9 marzo 1350, del 9 ottobre 1398 e del 6 novembre 1459 (Mostra cit., pp. 44 e 45). Il solo Enrico Giustiniano, ad esempio, fa garantire con mille fiorini da Lanzarotto Cicala e compagni l’allume spedito in Fiandra in un solo viaggio. L’allume era indispensabile a sgrassare le fibre, a fissare il colore dei panni, nonché alla lavorazione del cuoio e delle pelli. 25 Cfr. i tre contratti dell’agosto 1393: Mostra cit., pp. 52 e 53; cfr. inoltre per il contratto in data 11 settembre 1400, A.S.G., notaio Teramo de Maggiolo, 1396-98, c. 134 r.; e per il contratto in data 18 novembre 1410, A.S.G., notaio Giuliano Canella, 1408-10, c. 172 v. - 41 - la clausola per la quale se durante la navigazione i panni fossero stati venduti, l’assicurazione operava sulle altre merci caricate: abbiamo così di fatto la spersonalizzazione del carico che consente di far passare il rischio da una merce all’altra e dai beni al corpo stesso della nave. In percorso inverso a quello sopra segnalato l’assicurazione accompagna il trasferimento di prodotti che evocano i mercati d’Oriente e d’A-frica. Si tratta di spezie (pepe,, zenzero, cannella, cardamone, borraina, ecc.) e di avorio (zanne di elefante) che da Genova vengono redistribuiti verso le regioni dell’Ovest europeo e verso la Provenza. Anche qui 1 ampiezza delle prestazioni dei garanti è piuttosto sensibile raggiungendo le tre mila lire in moneta di Genova. La larga disponibilità di capitali e l’attitudine al negozio abile e temerario spinge gli assicuratori genovesi a non limitare la copertura del rischio ai soli trasporti marittimi e terrestri; si impegnano essi anche in altre forme di risarcimento dove la frequenza dell’evento temuto è più difficile da valutare ed il calcolo delle probabilità quindi più oneroso e incerto. Sono d’altronde sollecitati in ciò dallo stesso uomo di affari che, estendendo la propria attività nei campi più diversi e disparati, laddove si profili la possibilità di un investimento redditizio, sente nel contempo 1 esigenza di garantirsi da quei possibili eventi che possano mettere in forse il profitto disegnato. Pur negli angusti limiti della documentazione prodotta per la mostra genovese, ci sembra significativa, ad esempio, l’incidenza dell’assicurazione sull esercizio dell’appalto dei pubblici introiti. E’ ben noto che sia la Repubblica genovese che le Compere non riscuotevano direttamente le entrate di propria pertinenza, che era diffuso cioè il sistema dell’appalto e della percezione indiretta: ogni gabella veniva venduta all’incanto a specialisti della percezione a condizioni e modalità determinate. La vendita di queste rendite, in origine limitata ad un anno, venne successivamente fatta per un triennio o per un tempo ancora più lungo. Notevole per certi tipi di introiti la difficoltà di valutare per un arco di tempo così esteso i rischi e le incertezze connesse all’operazione; risultato di queste esitazioni era che l’asta andava spesso deserta e che lo scriba dei cartolari del consulatus apponeva il non venditum sulla carta intestata alla gabella: nessuno dei partecipanti alle gare aveva osato — 42 - investire il proprio denaro in una operazione molto spesso lucrativa, ma talvolta anche incerta per il verificarsi di turbe e di eventi gravemente determinanti. Ed i ricorsi di appaltatori e collettori al Banco di S. Giorgio per lamentare la contrazione di un determinato cespite preso in appalto, per chiedere la riduzione del prezzo d’acquisto, sono numerosissimi nelle serie di archivio e indicativi di un profondo disagio. Gli esattori trovarono una prima difesa nel frazionare ad una quota parte l’impegno finanziario: per alcune gabelle di particolare importanza la partecipazione all’appalto è opera di grosse società che contano decine di cointeressati all’affare e dove la stessa quota unitaria (o carato) è ulteriormente frazionata e cedibile. Contro l’alea residua legata a guerre, depressioni economiche, rivolgimenti politici e circostanze varie l’acquirente si garantiva ricorrendo all’assicurazione che serviva così a superare perplessità ed a vincere le ultime titubanze. Il 24 novembre 1459, ad esempio, Geronimo Brondi e compagni contraggono un’assicurazione di 430 fiorini per cautelarsi dai danni di una possibile epidemia in città con conseguente sospensione dell’attività delle curie. Nel nostro caso gli assicurati avevano acquistato il diritto alla riscossione dell 'introitus pignoris bandi26, della tassa cioè sulle cause civili. Qualche decesso sospetto verificatosi in Genova aveva fatto forse temere l’approssimarsi di una peste, cosa del resto non insolita in quei tempi, e sappiamo che ogni attività pubblica in tal caso veniva sospesa e limitata, compresa anche l’amministrazione della giustizia, con quale contrazione nel gettito dei diritti connessi è facilmente intuibile. Nel contratto in esame il tasso del premio, fissato al 4 %, non è affatto elevato, segno evidente che il rischio non era considerato attuale da parte degli assuntori: la lettura delle carte d’archivio e delle cronache dell’epoca non segnala infatti nel 1460 il verificarsi di epidemia alcuna2'. 26 Per esso Fattore di una causa pendente avanti all’Officio di Mercanzia era tenuto a pagare al momento della denuncia del credito o della insinuazione della domanda, sotto pena del diniego di udienza, tre denari di genovini per ogni lira sul totale della somma chiesta in giudizio: Mostra cit., p. 62. 27 Eguale situazione contempla il contratto del 13 dicembre 1459 (Mostra cit., p. 62): anche in questo caso è l’acquirente di una gabella che garantisce l’introito comperato dalla stasi conseguente alla peste. Diverso invece era il caso previsto dal legislatore quando vietava le assicurazioni contro la peste, assicurazioni — 43 — L’opportunità, o meglio la necessità per i pubblici appaltatori di coprire con una assicurazione i redditi acquisiti,, risultava evidente inoltre in particolari circostanze: a ciò si riportano tre documenti inseriti fra i contratti esposti e la cui comprensione non risulterebbe chiara senza una necessaria premessa. L’anno fiscale genovese iniziava col due febbraio e di solito a questa data si aveva la scadenza delle vecchie assegnazioni ed il subentrare dei nuovi assegnatari delle gabelle. Era interesse perciò dei collettori uscenti, di segnare entro questo termine il maggior numero di partite all’attivo. Delicata poi si faceva la situazione alla scadenza indicata per gli appaltatori dei carati maris o diritto di dogana, la principale imposta genovese, che nel corso del ’400 gravava col 20 % il valore delle merci introdotte via mare28. I capitalisti appaltatori di questa entrata si adoperavano affinchè prima del due di febbraio approdasse a Genova il maggior numero possibile di navi rappresentando il mancato o ritardato arrivo una notevole decurtazione degli introiti per i nuovi emptores dello stesso gettito. Di qui 1 abitudine ormai diffusa, alPavvicinarsi della scadenza dell esercizio, di ricorrere all’assicurazione. Pertanto il 5 dicembre del 1459 Benedetto di Val di Taro assicura per 200 fiorini il mancato arrivo dalla Sicilia, entro la scadenza dell’appalto, della nave del biscaglino Ochoa de Noya: quale appaltatore della gabella sul grano, egli aveva interesse a che la nave, che stava caricando frumento in Sicilia, pervenisse in tempo utile a Genova. Il tasso del premio è del 25 % ma, espresso com’è in lire di paghe, corrisponde in questi anni ad un tasso reale del 20 % 29. Ai due contratti successivi sono interessati Paolo de Franchis e Girolamo Grillo nella qualità di appaltatori dei carati maris. Oggetto dell assicurazione è l’arrivo da Siviglia della nave di Lucano de Marinis. Il primo di essi si garantisce per 200 fiorini, l’altro per 555, ma che si configuravano piuttosto cqme scommesse per l’assenza di interesse nell’assicurato. Il gettito era considerevolissimo, ma legato al movimento delle navi e allo sviluppo del commercio. Nel 1445 esso aveva raggiunto la somma di 100 mila lire di moneta corrente. 29 Cfr. Mostra cit., p. 61. — 44 - ad un tasso differente, essendo il negozio concluso in tempi diversi anche se di poco30. Il patto si accentra sulle indennità in caso di ritardo nell’arrivo: in tutte queste stipule non si prende affatto in considerazione il naufragio o la cattura della nave. Frequente nei minutari notarili è anche il contratto di assicurazione sulla vita, pur se inteso in senso diverso dall’odierno: esso presenta oggi soprattutto un carattere direttamente previdenziale, mentre nel negozio medioevale si assicura di solito la vita di un terzo la cui scomparsa farebbe venir meno concessioni o privilegi. Si configura invece come un vero e proprio contratto di indennizzo l’assicurazione contro i rischi di morte dipendenti da parto. E le filze notarili del XV secolo contengono centinaia di questi contratti, quasi tutti relativi a schiave prossime alla maternità. Sappiamo che le più giovani e belle di costoro, oltre che alla servitù domestica erano destinate al concubinato ed agli amori ancellari accettati come fatto normale dal costume e dal legislatore del tempo. La gravidanza pertanto della schiava era cosa frequentissima e comune. L’evento, tuttavia, poteva far correre al dominus serio pericolo, considerata la mortalità notevole in quei tempi conseguente alla gestazione, al parto ed al puerperio. Di qui la premura e l’interesse del proprietario della donna di garantirsi dall’eventuale danno col ricorso all’assicurazione31. Indicativi della frequenza di questo evento e del conseguente ricorso alla copertura dell’assicurazione sono i risultati dello spoglio di alcune soltanto delle filze notarili: fra i rogiti del notaio Branca Bagnara abbiamo contato quarantotto di queste assicurazioni per il triennio 1428-1430 (filza 19) e quarantuno nel biennio 1440-1441 (filza 6). Fra 30 Un contratto è del 1° dicembre 1459, l’altro del 27 dello stesso mese. Il tasso reale del premio nel primo caso è del 25 %, nel secondo del 24 %. L’elevato premio è legato al rischio notevole accresciuto anche dalle possibili intese segrete dei patroni delle navi con i nuovi appaltatori: Mostra cit., pp. 60 e 61. 31 Solo di rado invece trattasi, al contrario di quanto reputava il Bensa, di un onere imposto al colpevole dell’ingravidazione dal padrone della donna; nel perseguire il « reo » il proprietario era già abbondantemente garantito dalle norme del tempo che si preoccupavano di tutelare non la personalità della schiava offesa nell’intimo, ma la proprietà del dominus. Gfr. E. Bensa, L’assicurazione,.nel medio evo, cit., p. 130. - 45 - le minute del notaio Duracino per il periodo 1453-1465 sono compresi altri 132 atti della stessa natura. Se dal notaio passiamo alla persona dell'assicuratore troviamo conferma ulteriore di quanto sopra: Pelegro Sucha, fra il 1440 e il 1441 si presenta per ben quarantun volte come assicuratore di un egual numero di schiave gestanti, con un impegno, a lire 150-160 prò capite, che oltrepassa la rispettabile somma di 6.000 lire di moneta corrente2. Le cifre assicurative corrispondono di solito al valore medio delle schiave e si adeguano poi all’ascesa dei prezzi conseguente alla congiuntura che caratterizza il mercato della mano d opera servile. Un interesse di natura diversa è protetto nell’accordo che porta la data del 26 settembre 1455 un certo Geronimo Viacava fa assicurare per tre anni e per 80 lire la vita di Antonio Cattaneo: la nostra attenzione è attratta dal termine assegnato alla copertura del rischio: questa durerà usque ad il tempus quo fient excusationes locorum Compera-rum Sancti Georgii anni 1459. E’ facile allora puntualizzare la situazione: l assicurato attende la soluzione di un credito in lire di paghe che non può avvenire che tre anni dopo, quando il Banco di San Giorgio effettuerà le « scuse », pagherà cioè i proventi dei « luoghi »; il creditore nell’attesa garantisce il credito vantato assicurando la vita del debitore fino al momento nel quale le proprie spettanze potranno realizzarsi. Un controllo sui grossi cartolari delle « paghe » degli anni indicati, potrebbe dare la conferma di tale rapporto. Assicurazioni legate alla sopravvivenza di una determinata persona sono anche quelle contratte sotto le date del 10 aprile 1427 14 e del 5 gennaio 1572". Nella prima Luca Gentile fa assicurare per 600 fiorini la vita della propria moglie Framenga in attesa di prole; nell’altra Giulio Cibo contrae una garanzia assicurativa di 1700 scudi di oro sulla vita del papa Pio V. Questa ultima stipula è particolarmente interessante: la copertura dell’evento dura dal 31 marzo al 1° luglio dello stesso anno ^572. Il papa muore il 1° maggio di quell’anno e quindi il Cibo doveva 32 A.S.G., notaio Branca Bagnata, filyj 6. 33 Cfr. Mostra cit., p. 58. 34 Cfr. Mostra cit., p. 58. 35 Cfr. Mostra cit., p. 60. — 46 - essere bene informato delle condizioni di salute del pontefice. Quali interessi spinsero l’assicurato a compiere il negozio? Il decesso del pontefice segnava forse la decadenza del Cibo da qualche particolare concessione? Quale il premio pagato? L’interrogativo rimane aperto e meriterebbe una risposta, possibile forse con una ricerca approfondita fra le carte di archivio. Estranei quasi certamente al negozio dell’assicurazione rettamente inteso, configurandosi piuttosto come scommesse (pur se il formulario è quello solito) sono i tre atti nei quali un Giovanni Agostino de Bar-gagli si garantisce contro il cambio di dominio nelle città di Verona e di Bergamo36. Non disponiamo di elementi chiarificatori sui moventi che spinsero l’interessato: il fatto che nel giro di un paio di mesi egli stipuli più convenzioni dello stesso tipo ci induce a vedere in esse un intento speculativo contro cui il legislatore aveva cercato di porre rimedio, quando vietava che l’assicurazione fieri possit super vita prin-cipum et locorum mutationes. E l’assenza del rischio, il quale tipizza invece il contratto assicurativo, è dichiarata dallo stesso Agostino quando attesta nullum habere rixicum in dicta civitate sed fieri facere hanc securitatem pro eius avisu et electione sua. E’ stato ripetutamente e da più parti affermato che nella Genova medioevale l’assicurazione è legata ai trasporti marittimi e che fra le molte centinaia di minute notarili è ben difficile rinvenire contratti di assicurazione terrestre. Anche se indubbiamente il grosso delle polizze di assicurazione fino a noi pervenute si riferisce a trasferimenti via mare, uno spoglio accurato e capillare non manca di fornire esempi di viaggi terrestri coperti con la pratica dell’assicurazione. Precisiamo fin d’ora che le assicurazioni terrestri da noi rinvenute hanno per oggetto soltanto beni di alto prezzo, come balle di seta, di spezie, di fili d’oro, di drappi fini e preziosi, tutta merce dal volume ridotto e che tollera sia il prezzo notevole del nolo, sia l’aggravio rappresentato dal premio dell’assicurazione con le spese connesse. Questa assicurazione tuttavia interessa una parte estremamente ridotta del mo- 36 Cfr. Mostra dt., p. 63. vimento commerciale per via terra, al contrario di quanto avveniva invece per i trasporti marittimi. Sappiamo che nei secoli XIV e XV cui si riferiscono quasi tutti i documenti esposti, i trasporti terrestri sono notevolmente sviluppati e perfettamente organizzati e che l’abitudine dei lunghi viaggi dall Italia verso le grandi fiere internazionali, al di là delle Alpi, continua. Gli itinerari a grandi distanze sono sempre animati da un regolare e continuo via vai di muli e carriaggi: basterebbe ricordare in proposito che i soli scambi fra Genova e la Lombardia, limitatamente alla « condotta » del sale e del pastello, impegnavano non meno di 60 mila muli all anno, come abbiamo potuto ricavare dai cartolari del pedaggio e della gabella del guado. Ed il volume di questo traffico era così notevole da offrire a un noto studioso belga37 lo spunto per una tesi suggestiva ma ardita, quella del ruolo secondario della via marittima fra i Paesi Bassi e 1 Italia conseguente alla utilizzazione fino al XVII secolo degli itinerari terrestri. L’assicurazione tuttavia non opera che su una parte estremamente ridotta di questi viaggi. Questo disinteresse degli operatori economici genovesi è davvero singolare mentre in pari tempo Toscani e Veneziani praticavano ampiamente anche questo tipo di assicurazione. E noto che gli incerti dell’itinerario terrestre erano notevoli e rinnovantisi all attraversamento di territori di dominio diverso, che il calcolo del rischio era laborioso e complesso, che la difesa di convogli dalle offese degli uomini e del tempo piuttosto problematica. Forse l’estremo frazionamento dei carichi (si pensi al numero notevolissimo delle unità di trasporto viaggianti) opposto al concentramento che si verificava sulle grosse coche genovesi, stemperava i rischi e gli eventuali danni conseguenti a sinistri. Ecco comunque, con qualche dettaglio, il contenuto di due contratti aventi ad oggetto il negozio in questione. Trattasi nel primo caso di un rogito del 23 agosto del 1395 di mano del notaio Bartolomeo Gatto38: Andriolo de Mari, figura ben nota negli ambienti economici della sua città, deve spedire super mulis et bestiis a Francesco Cattaneo residente in Parigi 12 barili di zenzero 37 J- Van Houtte, Bruges et Anvers marchés « nationaux » et marchés « internationaux » du XIV au XVIe siecle, in Revue du Nord, 1952. 38 Cfr. Mostra cit., p. 65. - 48 - dal peso dichiarato di 108 rubbi (kg. 1200 circa). Per garantirsi dai pericoli del lungo trasferimento egli contrae una assicurazione per 800 lire di genovini. L’accordo,, che ripete le formule già note della compra-vendita fittizia, prevede l’assunzione del rischio da parte dell’assicuratore Guglielmo Buccino limitatamente a tre mesi e la decadenza del diritto dell’assicurato al risarcimento entro un anno dall’avvenuto sinistro. La garanzia operava appena caricati sui muli i barili e cessava una volta consegnati questi ultimi in Parigi sani e salvi al Cattaneo. Nella polizza stipulata il 9 ottobre del 141939 Demetrio Cattaneo e Marcellino Grillo assumono, limitatamente a 100 fiorini, il rischio di una partita di oro filato e di zendado da trasportare a Bruges ed appartenente a Bartolomeo de Franchis. L’itinerario previsto è metà terrestre e metà fluviale (per terram et per aquas). Vettore è Guirardo Mal-goarnito correrius e la validità della copertura è limitata a 4 mesi. Pensiamo di poter ricostruire le tappe principali del lungo ed avventuroso viaggio, attingendo all’itinerario descritto dal Borei nel suo libro sulle fiere di Ginevra40 : partendo da Voltri i muli scavalcavano il Turchino attraversando Rossiglione, Ovada, Acqui, Asti, Torino ed Avigliana; seguivano poi la Dora Riparia per ridiscendere la Maurienne al di là del Frejus. Ginevra veniva raggiunta sia per la strada del San Bernardo, di Albertville e della Tarentaise, sia attraverso Chambery e Aix. Al di là di Ginevra le strade erano diverse: nel periodo a cui si riporta l’atto sopra citato la rotta più frequentata passava per Besançon, Mirecourt, Metz, Bruxelles per toccare infine Bruges. L’assicurazione accompagna la mercanzia nel suo spostamento dai mercati di origine o di imbarco a quelli di destinazione, disegna e ricompone, viaggio per viaggio e per un dato periodo, la carta dei traffici vicini e lontani, gli itinerari vecchi e nuovi. I pochi documenti regestati nel catalogo della Mostra genovese (secc. XIV-XVI) si riferiscono a 45 viaggi rappresentativi di quasi tutti i principali percorsi marittimi dell’epoca: gli estremi sono Caffa, Costantinopoli, Chio, da una parte, l’Ecluse, Southampton, Sandwich, Edimburgo dall’altra. Lungo questo asse Oriente-Occi- 39 Cfr. A.S.G., notaio Giuliano Canella, VI, c. 104 v. 40 F. Borel, Les Foires de Genève au XVe siècle, Ginevra, 1892. — 49 — dente un gran numero di scali, di percorsi minori, di tappe. La linea « diretta » da Chio al Mar del Nord sembra ormai sempre più rara almeno nella seconda metà del ’400; un insieme di percorsi invece non interessano il porto genovese: Maiorca-Napoli, Napoli-Middelburg, Cadice-1 Ecluse, Cadice-Alessandria, Tunisi-Porto Pisano, Siviglia-Pera. La copertura assicurativa di questi carichi avviene tuttavia nella città ligure in assenza talvolta degli stessi proprietari nonostante le navi non rinnovino a Genova i loro carichi. Accanto a queste, altre assicurazioni su merci che da Genova vanno verso i porti del Tirreno, verso l’area iberica, il mondo musulmano, i paesi del Mar del Nord. E la garanzia non si limita alle navi genovesi ed alle relative mercanzie, è data anche alle unità delle marine biscagline, catalane, sicule, ragusane, a quelle unità che si offrono come ausiliarie nello spazio marittimo mediterraneo. Chi consulta il cartolare della gabella del Ys per cento sulle assicurazioni deU’anno 1485, uno dei pochi registri superstiti della serie, troverà una ricca messe di notizie, se vi abbinerà i contratti notarili avrà informazioni sui beni circolanti, sui mercati di produzione e di sbocco, sul volume dei traffici, sul tempo e sul ritmo della navigazione, sugli scali principali e intermedi, sulla con centrazione dei traffici, sul grande e piccolo cabottaggio, sugli operatori economici, sulla sicurezza delle varie rotte. L’adozione dell assicurazione a mezzo sensale prima e per « apodisia » poi, tende a snellire il negozio ed a liberarlo dai precedenti impacci formali: ne consegue un dilatarsi del negozio, uno sviluppo sempre maggiore della pratica assicurativa. Attraverso le minute di un « solo » notaio una studiosa belga ha potuto affermare che nel 1427 il montante globale delle assicurazioni assunse alla rispettabile cifra di 213 mila fiorini d’oro41. Al computo sfuggono ovviamente le contrattazioni effettuate a cura di altri notai, quelle soprattutto concretate per semplice accordo fra le parti. Una sì gran mole di contrattazioni ed il verificarsi del danno temuto dava luogo tuttavia a qualche inconveniente. Anche se la procedura prevista per la riscossione dell’indennità era di solito rapida non mancavano mai contese fra assicurati ed assicuratori che davano luogo a lunghe inchieste ed a processi avanti all’Officio del Mare o ad arbitri scelti dalle parti. Nelle filze dei notai giudiziari gli atti che vi si riferi- 41 R. Doehaerd, Chiffres d’assurances cit., p. 751. — 50 — scono si contano a decine; colpisce soprattutto chi legge quei documenti l’esasperata ricerca del cavillo, le eccezioni avanzate di continuo da parte dell’assicuratore, l’interpretazione talvolta forzata delle clausole in polizza. Fatte le debite proporzioni viene fatto di pensare alle lagnanze del mercante Andrea Ruiz contro gli assicuratori di Bruges. H. Lapeyre in proposito così si esprime: « André Ruiz, qui devait réciter souvent son ” Salve Regina ”, nous dit qu’avec eux quand il s’agit d’encaisser la prime c’est ” vita dulcedo ”, mais s’il faut indemniser l’assuré c’est ” ad te suspiramus ” » 42. 42 H. Lapeyre, Une famille de marchandes-, les Ruiz, Parigi, 1953 p. 236. GIOVANNI FORCHERI IL RITORNO ALLO STATO DI POLIZIA DOPO LA COSTITUZIONE DEL 1576 La Costituzione genovese del 1576 attraverso le disposizioni contenute nella sua seconda parte, dal titolo Erectio Rotae Criminalis, poneva in essere un regime di vera e propria separazione dei poteri fra organi di governo e organi di giustizia, concentrando in via esclusiva in questi ultimi la competenza a conoscere di qualsiasi reato'. Cadeva di conseguenza il precedente sistema, in linea con quanto allora praticato negli altri Stati non soltanto italiani, per cui, nonostante la presenza di un giudice ordinario con competenza generale in materia penale, tuttavia per certe particolari materie, il potere punitivo era attribuito anche agli organi di governo e di amministrazione, talvolta in via esclusiva, talvolta in via concorrente con quello del giudice ordinario. Con le leggi fondamentali del 1576, il cittadino, qualunque sia la materia, non potrà più essere sottratto al proprio giudice naturale, mentre anche i massimi organi di governo non potranno più arrogarsi facoltà alcuna di giurisdizione criminale nè potranno comunque interferire negli affari dei giudici2. Il nuovo sistema comportava anche un’altra sensibile conseguenza: nella prassi giudiziaria del periodo intermedio era in uso, accanto al processo formale (che sia pure attraverso le opinabili forme in cui si 1 Cap. 12: « Apud hoc Tribunal resideat omnis auctoritas et iurisdictio causatum criminalium respectu eorum delictorum quae in Civitate et tribus Curiis Bisam-niensi, Porciferana et Vulturensi committentur, tam in procedendo quam in decidendo. Verum respectu eorum delictorum quae in universo Dominio, comprehensa etiam Provincia Corsicae, fieri contiget singuli provinciarum et locorum Praetores et Iusdicentes, demptis tamen locis exemptis et separatis, si quae sunt, processus legitime instruent et decident ». 2 Cap. 14: « Nemo possit cognitionem et iurisdictionem D. Praetoris et Auditorum Rotae cumulative aut privative impedire, nec causarum et processuum criminalium cursum, nec earum decisionum retardare, minime suspendere; sublatis etiam Statutis et Decretis incipientibus: Liceat praeterea praedictis Procuratoribus et in--cipien: Item, declaraverunt ad abundantiam potius cautelam, quae Magnificis Procuratoribus et Illustrissimae Dominationi notionem criminalem hactenus dederunt; coe-terisque Legibus aut Statutis in contrarium facientibus, non obstantibus quibuscunque ». — 55 — svolgeva dava sempre all’imputato un minimo di garanzia di giustizia) quello sommario nel quale, non solo il giudice era svincolato dalla osservanza delle formalità di procedura, ma poteva il più delle volte, assolvere o condannare ex informata conscientia, cioè a suo arbitrio anziché secondo le prove legittimamente raccolte3. Il procedimento sommario, consentito eccezionalmente davanti al giudice ordinario in casi espressamente previsti, era invece pressoché di regola nei giudizi davanti agli organi di governo, cui era tradizionalmente consentito di procedere manu regia o nullo ordine servato. La Costituzione del 1576 toglie quindi di mezzo la ulteriore possibilità di procedure del genere giacché la Rota e i Giusdicenti locali, in quanto giudici ordinari, dovranno rispettare le regole del processo e giudicare iuxta alligata et probata4. Unica limitata eccezione al sistema viene fatta per i reati contro la personalità dello Stato, prevedendosi che in tal caso due membri del governo siedano accanto ai rotali al fine di controllarne il corretto e rapido procedere senza peraltro possibilità, almeno teorica, di influire sulla decisione5. Il sistema instaurato nel 1576, anche se sconosciuto dalla precedente costituzione del 1528, non era tuttavia una novità assoluta per 3 Cfr. V. Manzini, Trattato di Diritto Processuale Penale, Torino 1931, L p. 18 e sgg. 4 Cap. 13: « Procedet Praetor Genuae in omnibus delictis, non modo ad partis instantiam, sive accusationem, verum etiam ex officio; et non solum per capturam et inquisitionem, sed etiam praeceptis poenalibus ubi ita aliis Auditoribus Rotae convenire videatur, iuxta iuris et statutorum formam. Et ubi de crimine publico agi contigat, parte etiam non instante, teneatur ex officio procedere ac omni studio et diligentia veritatem criminis inquirere; cogendo etiam testes de delicto informatos omnibus iuris remediis, etiam per quaestiones et tormenta ad veritatem dicendam et pro modo culpae et iuxta Statutorum et Legum sanctiones reos punire ». Espressa conferma si ricava dalla legge 9 febbraio 1612 « De auctoritate S.rum Collegiorum super Milites » (cap. 24, libro 1° St. Crim. del 1671) che recita: «... per le Leggi fatte 1 anno 1576 la giustizia criminale di tutti i delitti che seguono nella Città resta appoggiata alla Rota Criminale... de’ quali conviene regolarmente procedere con le forme ordinarie e giudicare secundum acta et probata ». 5 Cap. 14, terzo comma. Genova. Tralasciando le epoche più antiche, nelle leggi costituzionali del 1363 6 troviamo la rubrica De prohibita intromissione iustitie, traslata poi nel testo costituzionale del 14131, la quale, attribuendo al Pretore e alla sua Curia competenza generale in materia penale, imponeva al Doge e al Consiglio degli Anziani di astenersi dagli affari della giustizia. La rubrica faceva però eccezione per i reati contro la personalità dello Stato e le altre ipotesi espressamente indicate, nelle quali risorgeva la competenza del governo ed era altresì previsto il procedimento sommario. Peraltro le numerose ipotesi contenute già nello stesso testo costituzionale comportanti deroga a favore del governo o di altri uffici dell’amministrazione dello Stato, non consentono di affermare che già allora fosse stato realizzato appieno un regime di separazione dei poteri quale invece risulta dalle leggi del 1576. Non sembra però che i politici fossero troppo inclini ad accettare il principio del quale i costituenti del 1576 avevano fatto uno dei cardini della riforma dello Stato. Costoro, come stranieri e non tocchi dal calore dei problemi locali, avevano agito da giuristi piuttosto che da politici, seguendo uno schema astratto ideologicamente lodevole, ma che peraltro, agli occhi del pratico doveva apparire sconvolgente. Nasce quindi subito l’inevitabile conflitto fra diritto e ragion di Stato, nel quale, conforme a una costante storica, sarà la seconda a prevalere attraverso un continuo lavorio di modifiche costituzionali che, partendo da piccole cose, toccherà il vertice nel 1677, allorché si consentirà addirittura agli Inquisitori di Stato di sottoporre a nuovo processo per via sommaria coloro che già fossero stati assolti per insufficienza di prove da parte della Rota dalla imputazione di furto8. Tuttavia non è da credere che questa attività di demolizione del principio della separazione dell’esecutivo dal giudiziario sia avvenuta, almeno sul principio, senza contrasti. Sono significativi al riguardo alcuni documenti del maggio 1595 nei quali l’urto tra i fautori del tradizionale Stato di polizia e quelli del nuovo Stato di diritto quale, almeno 6 H.P.M., Leges Genuenses, Torino 1910, col. 243 e sgg. 7 Archivio di Stato di Genova (A.S.G.), Manoscritto 133. 8 Legge 25 novembre 1677. — 57 — in via embrionale, era scaturito dalla riforma costituzionale, sembra avere avuto un momento incandescente9. Il 29 aprile i Collegi, nei quali dovevano essere prevalenti i fautori dello Stato di polizia, predispongono un progetto di legge per la restituzione temporanea ad un tribunale straordinario, formato di nove membri fra Governatori e Procuratori, dei poteri giurisdizionali penali e di polizia già di spettanza del Senato sotto la costituzione del 1528. Il che equivaleva ad abolire il fondamentale primo comma del capitolo 14 delle leggi del 76 riportato alla nota 2. Nella relazione che precede il testo trasmesso all’approvazione del Consiglio Minore 10 si legge: « Si commettono giornalmente, come si vede, delitti e misfatti enormi nella città, parte de quali meriterebbero pronta e straordinaria provisione; nè Tribunale alcuno è nella Repubblica che possa dargliela nè per questo a ciò si provede, e li delinquenti se ne vanno per la maggior parte impuniti... Il che non deve con ragione apportare molta noia all’animo di ogni buon cittadino zelante del ben pubblico, amatore della quiete universale della città e desideroso finalmente della conservazione della Repubblica. Perciò che non ha dubbio alcuno che dove non è amministrata la giustizia criminale verso di ognuno indifferentemente con fedeltà e virilità et provvisto secondo li casi prontamente come si conviene, si può con ragione temere che quivi le cose vadano a male et non rovinino come habbiamo gli esempi di altre Repubbliche et Stati ». A questo punto la relazione scende decisamente nel vivo: « Et considerando noi onde possa questo difetto avvenire, da altro non troviamo eh egli dipenda dall’essere la giustizia criminale appoggiata in tutto alla Ruota Criminale, la quale non può procedere se non ordinariamente con puntigli et lunghezze con le quali si dà tempo al tempo in maniera che la giustizia rimane delusa, et nel procedere anco ordinariamente non usa forse quella diligenza e quel . igore che deve, o perchè essendo gli Auditori di essa forastieri temino allhora l’autorità e possanza de’ delinquenti e difensori o protettori loro, o perchè altri rispetti et oggetti li ritengano nel fare et esseguire compitamente ciò che la giustizia vuole, quantunque per altro habbino buona volontà di farlo. Et questa cosa tanto più pericolosa è che non ha, si può dire, essa Ruota superiore alcuno, poco o nulla potendo a ciò rimediare il Senato per le parole della legge: Curabit tamen Ill.ma Dominatio... » n A.S.G., Archivio Segreto, Propositionum, mazzo 2, anno 1595, nn. 160 e 161. 10 A.S.G., Archivio Segreto, Propositionum, mazzo 2, anno 1595. n. 160. Non si tratta di una legge specifica, ma del secondo comma del cap. 14 della seconda parte della ^istituzione del 1576. — 58 - Quindi, l’indipendenza dei giudici dall’esecutivo (non ha si può dire essa Ruota superiore alcuno) e l’obbligo del rispetto delle norme di procedura (la quale non può procedere se non ordinariamente), sono respinti come concetti perniciosi da parte del governo, il quale dichiara di preferire che « sia nella Repubblica un capo il quale habbia nel criminale autorità sufficiente se vogliamo, come pur dobbiamo veder tutti, che la giustizia abbia il luogo suo, che sia la quiete universalmente nella città et si conservi lo Stato nostro et possiamo lasciarlo libero alla posterità come l’habbiamo ricevuto da’ maggiori nostri. . . ». Da qui la già riferita conclusione di creare, per il periodo di tre anni, un tribunale composto di membri del governo « con la stessa autorità et bailia che per le leggi del 1528 haveva il Senato nel criminale ». Senonchè, non sembra che altrettanto fautrice dello Stato di polizia fosse la maggioranza dei componenti del Consiglio Minore i quali, nella seduta del 18 maggio, decidono di aggiornarsi e quindi, il giorno 2;> successivo respingono il provvedimento con 46 voti favorevoli e 63 contrari. Ora, considerato che i membri dei due Collegi si congregavano insieme con i Consiglieri e votavano alla pari di essi, si deve dedurne che la maggioranza contraria dei membri del Consiglio veri e propri era risultata sensibile. I Collegi tuttavia non disarmano ed il 27 maggio predispongono un nuovo disegno di legge, non diverso nella sostanza dal precedente, che prevede, per il più limitato periodo di un anno, l’affidamento ad essi delle facoltà « che aveva il Senato nel criminale prima delle nuove leggi fatte l’anno 1576 » 12. Sottoposto al Consiglio Minore nella seduta del 30 maggio, il provvedimento riporta 58 voti favorevoli e 46 contrari, non sufficienti per l’approvazione di un disegno di legge di modifica costituzionale. Lo stesso 30 maggio i Collegi,, resisi evidentemente conto della inutilità di insistere ancora, ripiegano d’urgenza su di un più limitato provvedimento 13 articolato su tre punti: 1) competenza ai Collegi di giudicare e punire coloro che « terranno bravi, o siano scavezzi o sbricchi di quelle pene che parranno ad essi Collegi »; 12 A.S.G., Archivio Segreto, Propositionum, mazzo 2, anno 1595, n. 161. n A.S.G., Archivio Segreto, Propositionum, mazzo 2, anno 1595, n. 162. — 59 — 2) competenza ancora ai Collegi nei confronti dei contravventori agli « ordini di portar armi »; 3) limitazione di tali facoltà a due anni « per provare il frutto che daranno ». Riconvocato ancora nello stesso giorno 30 maggio, il Consiglio Minore approva con 92 voti favorevoli e soli 12 contrari. Portato il giorno successivo al Consiglio Maggiore, il provvedimento diventa legge dello Stato dopo avere ottenuto 218 voti favorevoli contro 115 contrari. Sempre nella laboriosa giornata del 30 maggio i Collegi predispongono ancora un altro provvedimento che, senza por tempo in mezzo, sottopongono immediatamente al Consiglio Minore14, il quale lo accetterà favorevolmente, consentendone l’invio al Consiglio Maggiore che lo approverà a sua volta il giorno successivo 31 maggio. Convertito così in legge, costituirà poi il capitolo 26 del primo Libro degli Statuti Criminali compilati nel 1671 15. Di particolare interesse è la prima parte di esso, che precede il testo della legge vera e propria, costituita dalla relazione al Consiglio Maggiore, nella quale i Collegi ammettono che in più di un caso il Senato aveva ritenuto lecito di concedere braccio regio alla Rota; il che significava attribuzione ad essa di facoltà di procedere, in quel particolare caso, per via sommaria 16. La relazione spiega che non potevano esservi dubbi sulla legittimità dell’operato del Senato, ma che tuttavia, per togliere definitivamente ogni equivoco, era opportuno far intervenire una legge che lo dichiarasse espressamente. A ben vedere, invece,, i Collegi non dovevano esserne affatto sicuri. 14 A.S.G., Archivio Segreto, Propositionum, maz20 3, anno 1595, n. 163. 15 Criminalium Jurium S.mae Reipublicae Genuensis libri duo, Genova 1669; da correggere in 1671. 16 O. Cavalcano, Tractatus de Brachio Regio, Venezia 1608, Parte l3, n. 1: « Saepe contigit ob delictorum gravitatem Brachium quod Regium ìuncupatur a Regibus et Principibus, nec non ab aliis Dominis talem potestatem habentibus, im-partiri iudicibus maleficiorum vel delegatis, pro indaganda et eruenda veritate criminum atrocissimorum occultorumque, ut rigorosissime ac viriliter manu regia procedant contra quoscunque suspectos, et culpabiles et delinquentes severe puniant ». Più oltre, al n. 15: « Brachium Regium esse quondam facultatem el potestatem extraordinariam iudicibus ordinariis vel delegatis concessam procedenti extraordinarie nulla iuris solemnitate inspecta ». Resta infatti alquanto difficile comprendere come di fronte al dettato costituzionale (capp. 13 e 14) che, da una parte, imponeva alla Rota di procedere iuxta iuris et Statutorum formam e di giudicare pure iuxta Statutorum et legum sanctiones e, dall’altra parte, faceva obbligo al governo di astenersi dagli affari della giustizia penale, potesse il Senato ergersi a superiore della Rota, imponendole di procedere altrimenti in tutti i casi ad esso meglio visti. Evidentemente il Senato doveva essersi appigliato alla solita « legge Curabit » già citata a nota 11, cioè all’infelice secondo comma del capitolo 14 della seconda parte delle leggi del 1576. Ivi, i costituenti, dopo avere disposto l’abrogazione di qualsiasi norma che attribuisse poteri giurisdizionali penali agli organi di governo, avevano proseguito con le parole: Curabit tamen Illustrissima Dominatio ut Praetor et Auditores Rotae iustitiam fideliter et viriliter exerceant, senza però precisare come tale controllo dovesse praticamente avvenire. I Collegi quindi si attaccano a questa nebulosa disposizione di contenuto meramente programmatico, pretendendo di farla prevalere sulle norme specifiche ed inequivoche che impedivano loro di interferire negli affari della Rota. Ma si trattava evidentemente di una interpretazione di comodo che avrebbe potuto un giorno trovare contrari i Sindicatori; meglio quindi mettersi al riparo a mezzo di una legge chiarificatiice. La proposta, che costituisce un nuovo attacco ai principi costituzionali e un ulteriore passo sulla strada del ritorno allo Stato di polizia , 17 Sul punto non possono sussistere dubbi ove si ponga la questione nei suoi termini di diritto. La facoltà di braccio regio è, secondo la dottrina intermedia, uno deoli attributi naturali e qualificanti della sovranità, cioè del Princeps superiorem no°n recognoscens. Il Principe come titolare della plenitudo potestatis è lex animata in terris perchè fonte del diritto positivo che egli stesso ed egli solo può creare e modificare a suo placito («Princeps qui potest auferre consuetudinem nedum prae teritam etiam futuram, et ideo etiam non obstantibus Statutis, mdex noster inquirere poterit ex officio, quia Princeps est supra ius positivum; Princeps ita derogare potest ex causa »: O. Cavalcano cit., parte 1 , n. 33). La norma costituita vige e si applica in quanto atto di volontà del Principe; cessa quindi di avere effetto o può essere derogata in un caso particolare solo che eeli lo voglia. Ora le redole del processo ordinario o formale, salvo quelle poche recepite dal diritto naturale, appartengono al diritto positivo: si applicano cioè e i giudici devono seguirle perchè il Principe così vuole ed impone. Ma allorché egli, qui est trova nel Consiglio Minore 87 consensi a fronte di 17 voti contrari, in quello Maggiore 259 contro 79. supra itis positivum, ritiene che una giusta causa consigli che in uno specifico caso il giudice proceda fuori delle regole ordinarie, può con un suo atto di volontà, che è legge, imporgli di seguire altre forme. Quel determinato processo quindi, in base ad una lex specialis (rescritto di braccio regio), deve svolgersi senza la osservanza delle norme previste nella lex generalis. Venendo al caso specifico, è da osservare che Genova è una Repubblica, alla quale, in quanto sovrana perchè superiorem non recognoscens, spetta qualifica di Principe e quindi la potestà di dar braccio regio ai propri giudici. Ma qual è 1 organo o la persona che, agendo in nome della Repubblica, può disporre di tale potere? La costituzione del 1576 non si è limitata a disporre la separazione del potere di giustizia criminale da quello di governo, ma ha sottratto a quest’ultimo anche quello legislativo. I collegi conservano soltanto la facoltà di predisporre i progetti di legge che, per diventare tali, necessitano delle successive approvazioni dei due Consigli (Costituzione, parte 1‘, cap. 47). Ora, abbiamo visto sopra come, per la dottrina tradizionale, la facoltà di braccio regio fosse un attributo del Principe in quanto legislatore e come il provvedimento nel quale tale facoltà si esplicava avesse natura di legge. Ne consegue che, dopo la riforma del 1576, non esiste nella organizzazione della Repubblica, alcun organo, e tanto meno il Senato, il quale, da solo, possa dar braccio regio alla Rota. Sarebbe stato invece necessario seguire tutta la trafila ordinaria — Collegi, Consiglio Minore, Consiglio Maggiore — prevista per produrre una legge. Nascerà quindi una polemica tra i tradizionalisti che, non avendo compreso lo spirito della riforma, si ostinano a voler incarnare il Principe nel Senato, senza rendersi conto che esso non è più il depositario della plenitudo potestatis, ed una minoranza di giuristi illuminati la quale ha invece compreso che, dalla riforma, è venuto alla luce, sia pure in via embrionale, lo Stato di diritto che riserva a sè solo i poteri di Principe, riducendo gli uffici a organi e gli uomini a funzionari. I termini della polemica sono attestati dal Cavalcano (Tractatus cit., p. 9, n. 41) che, a sua volta, li ricava da una decisione contenuta nella raccolta della giurisprudenza della Rota Esecutiva edita dal Cartario, « ubi tractat an ad Serenissimum Senatum vel ad duo Collegia spectet Brachium Regium concedere, vel ad Consilium 400 optimatorum Principem repraesentantium. Et concludit: ad Senatum. Et ita consuetudine fuisse interpretatas in hac parte novas Reformationes alio-quin saepe frustatorium hoc remedium esse si ad Maius Consilium spectaret ». Come vedesi, è ancora una volta una esigenza politica (alioquin frustatorium koc remedium esse) a prevalere e a ridurre al silenzio coloro che, invece, consci della necessità della occorrenza di una legge, esigevano che non si potesse prescindere dal voto dei Consigli. — 62 - Nel quadro di questa attività di continuo rigetto del principio della separazione del potere giurisdizionale penale da quello di governo, rientrano anche i poteri di polizia cher a partire dal 1607, vengono attribuiti al Consiglio Minore con la Legge dei Biglietti la quale consentiva che, senza alcuna istruttoria e raccolta di prove, ma col solo voto segreto ed immotivato della maggioranza dei tre quinti dei Consiglieri, qualunque individuo potesse essere spedito per due anni al confino. Le ragioni del provvedimento, che denotano ancora la opportunità politica di far intervenire l’esecutivo in materia riservata alla Rota e di consentire il ricorso a procedure straordinarie, si leggono nella relazione che accompagna il testo all’approvazione del Consiglio Maggiore18: « E’ un pezzo che con molta passione d’animo sentiamo li disordini e li delitti che seguono nella città, non solo di portare armi et archibuggi in squadriglie e tanto numero che i ministri non ardiscono affrontarle, ma di molte insolenze e rumori e, quel che è peggio, d’ammazzare gli huomini con archibuggiate; e tutto che per l’autorità che ci compete habbiamo fatto molti ordini et proviggioni che sono state stimate necessarie, non vediamo però che abbiano giovato; anzi, per quanto si presenta, vanno tuttavia essi disordini continuando, per il che, discorso noi (Collegi) questa pratica e poi essaminata col Minor Consiglio come disposto dalle leggi, è stato da tutti giudicato e risoluto che il levare dalla città per via straordinaria, al che non arriva l’autorità della Ruota Criminale, qualcheduno che possa esser reputato d’animo meno riposato di quello che alla quiete pubblica e al vivere civile si conviene, sia per apportare qualche rimedio a quegli inconvenienti, e forse col ti more di questa pena frenare coloro che non contiene la virtù, la onde habbiamo noi prima col necessario numero de’ voti deliberato e, successivamente, il Minor Con siglio parimenti col necessario, anzi larghissimo numero de voti, è stato approvato di proporre alle SS.VV. quel che segue... ». La legge, approvata per il solo periodo di un anno ed in via asso lutamente provvisoria, continuerà però ad essere costantemente mante nuta in vigore attraverso una serie di provvedimenti di proroga della sua validità, alcuni dei quali introdurranno modifiche e perfezionamenti a testo originario del 1607. Nel volume Criminalium Jurium S.mae Reipublicae Genuensis libri duo citato a nota 15, la Legge dei Biglietti è riprodotta nella sezione contenente le Leges Criminales Temporariae, nel testo risu tante a provvedimento di proroga approvato il 19 settembre 1658, con e sue 18 A.S.G., Archivio Segreto, Propositionum, mazzo 4, anno 1607, n. 13 — 63 — cessive aggiunte del 30 aprile 1666 e 1 dicembre 1663. Si tratta, praticamente, del testo conclusivo che, in seguito, subirà soltanto lievissime modifiche. Vediamola quindi da vicino. All’inizio di ogni mese il Consiglio Minore doveva tenere una particolare seduta nella quale tutto si svolgeva in silenzio e, conforme ad un emendamento introdotto con la legge di proroga del 1658, era anche vietato ai Collegi di « rappresentare informatione o notitia alcuna contro chi che sia ». In questa atmosfera di segretezza ognuno dei convenuti, ivi compresi i membri dei due Collegi che, more solito, si riunivano insieme con i Consiglieri veri e propri, dopo avere prestato giuramento di non « nominare alcuno che in sua coscienza alla forma di questa legge non meriti d’essere rilegato », poteva scrivere il nome, cioè nominare in una scheda, o biglietto, di una persona che, a suo giudizio, fosse meritevole di tale pena. Colui che non intendesse lasciare in bianco la scheda, aveva la scelta di effettuare una nomina pura e semplice con la sola indicazione della persona, ovvero una nomina motivata, indicando accanto al nome della persona anche le ragioni che lo avevano spinto a scrivere quel nome. Queste non erano però a discrezione, ma andavano effettuate nel solo ambito delle seguenti ipotesi: per portare o per tenere archibuggi prohibitiI?; per dare aiuto o ricetto a banditi; per insolenze e mali termini; per fraudar o cooperar in qualunque modo che siano fraudate le gabelle per dar amparo, ricetto o aiuto ai furbi e malviventi. Non potevano peraltro nominarsi i membri dei due Collegi e coloro che fossero in carcere da oltre due mesi, considerandosi senza effetto le nomine effettuate in contrasto di tale divieto. Esaurite le formalità di compilazione, ciascuno consegnava il pr°‘ prio biglietto, chiuso e sigillato, al Segretario, che lo introduceva in una cassetta ferrata collocata davanti al seggio del Doge. 19 Estesa, con legge 16 gennaio 1675, anche alle pistole. 20 Estesa, con legge 1 dicembre 1663, a coloro che avendo interesse in una gabella, intervenissero nei Magistrati per prendere decisioni su di essa. - 64 - La consegna a mani del Segretario è una novità introdotta dalla legge di proroga del 1658, sostitutiva del precedente sistema di imbus-solamento diretto da parte dei votanti. Evidentemente si dovevano essere verificati in precedenza degli episodi di scorrettezza, tanto è vero che 1 emendamento viene giustificato al fine di « prohibire che non possa alcuna delle persone de’ Serenissimi Collegi e de’ Magnifici Consiglieri del Minor Consiglio porre nella cassetta più biglietti in vece di uno » 21. Concluse le operazioni di voto, il Segretario procedeva allo spoglio leggendo il contenuto d’ogni scheda, con l’obbligo di non dare atto di eventuali nomine di persone non consentite o di causali diverse da quelle ammesse. Dopodiché il Segretario bruciava le schede e pubblicava un lista comprendente i nomi delle persone colpite da almeno quattro nomine pure e semplici ovvero motivate da causale diversa da quella per frode di gabelle. Per i colpiti da quest’ultima causale bastava invece che il loro nome fosse stato fatto in tre biglietti perchè venissero, non solo compresi nella lista, ma anche resi noti fuori del Consiglio, « affinchè a tutti nella città resti nota la qualità di quello o quelli che delinquiranno in materia di gabelle, acciò nell’occasione se ne possa tener quel conto che richiede la gravità del fatto ». A questo punto tutti coloro che, con o senza causale, fossero stati nominati in almeno sei biglietti2, senza nemmeno essere informati, venivano rinviati immediatamente a giudizio, cioè posti « sotto palle dalli Collegi e Consiglio e se vi concorreranno li tre quinti almeno delle palle affirmative. . . resti questo relegato fuori dal Dominio della Repubblica per due anni in quella città o provincia distante dal Dominio cinquanta miglia (escluse però le isole) che sarà da’ Serenissimi Collegi dichiarata. Potrà però farsi la rilegatione in Venetia o in Sicilia o nelle città particolari di quel Regno, se così parrà ». Da notare che, con la successiva legge 1 dicembre 1663 23 i poteri del Consiglio verranno ancora allargati, consentendo ad esso non solo la possibilità di disporre la relegazione in Corsica,, ma anche quella di con- 21 Criminalium Jurium cit., sez. Leges temporariae, p. 70. 22 Per il testo originario del 1607 ne bastavano quattro. 23 Criminalium Jurium cit., sez. Leges temporariae, p. 133. — 65 — dannare, alternativamente, a due anni di galera « secondo la qualità delle persone che fossero nominate, prima di andare li nominati sotto espe rienza de’ voti ». . . ., La legge di proroga del 1658 aveva tuttavia un poco mitigato a^ sprezza di questa procedura extra ordinem introducendo la possi 1 ita di reclamo da parte del condannato, da proporsi entro otto giorni a a notifica della decisione, al Consiglio Minore che poteva quindi revocarla concorrendo i tre quinti dei voti favorevoli. A questo punto aveva inizio la via crucis del condannato i qua e, come prima cosa, doveva versare una cauzione di duemila senti oro a garanzia degli obblighi della relegazione. In caso di mancato ver^ samento negli otto giorni dalla richiesta, egli veniva ipso iure^ et condannato « in pena di scuti duamilla d’oro in oro, e di più incorso nella pena di bando perpetuo », senza possibilità di venirne rimesso non osservata prima detta rilegazione e pagata la pena pecuniaria ». Indi, dalla località di esilio, egli, ogni due mesi, doveva far nire alla Cancelleria del Senato una « fede autentica dell osservanza e rilegazione », con la possibilità, ove tale fede venisse dichiarata non i nea da parte del Consiglio Minore, di vedersi condannare alla me esima pena stabilita per il mancato versamento della cauzione. Nel caso poi mancato invio della fede, si aggiungeva ancora la pena della « UP 1C tione della relegatione ». Come vedesiy si trattava di una procedura sommarissima, ass mente disinvolta e completamente in contrasto con i principi costituzio nali del 1576, che si prestava a qualsiasi abuso, considerato anCjie,(\,e esisteva la possibilità, attraverso cavilli, di contestare la legittimità e fedi di osservanza degli obblighi di relegazione. Unica cautela, più che la possibilità di reclamo introdotta nel 1658, era la necessità dell’intervento della elevata maggioranza dei tre quinti dei voti del Consiglio per potersi pronunciare la condanna. L”unica successiva modifica di un certo rilievo è quella della legge 30 aprile 166624 concernente i figli di famiglia incorsi nel provvedimento per biglietti, che dava possibilità al Consiglio Minore di commutare i due anni di confino nella « rilegazione in Torre » per tempo non inferiore a sei mesi « secondo la qualità del delitto ». 24 Criminalium Jurium cit., sez. Leges temporariae, p. 149. Le ragioni di tale emendamento sono motivate con la considerazione che « gli eccessi per i quali si danno le dette pene sono il più delle volte commessi da giovani figli di famiglia li quali, in luogo di riceverne il dovuto castigo, ne ricavano premio, perchè se ne vanno a spasso a vedere il mondo a spese del padre al quale, all’afflittione che ha delli mali portamenti del figlio, si aggiunge la pena non meritata di dovergli provvedere largamente per le spese che per detto conto ha da fare, sì che in effetti, si può dire che il colpevole vien rimunerato e l’innocente condannato ». DANILO PRESOTTO DA GENOVA ALLE INDIE ALLA METÀ DEL SEICENTO Un singolare contratto di arruolamento marittimo Il secondo venticinquennio del XVII secolo aveva aperto al commercio genovese una lunga fase di depressione e di difficoltà di ogni specie. Nel marzo 1625 l’invasione del territorio della Repubblica da parte di Carlo Emanuele di Savoia1 aveva dato inizio ad una guerra che si sarebbe protratta un anno, per non terminare effettivamente scaduti i quattro mesi di una tregua concordata a Monzon 2. Nel 1627,. una nuova bancarotta della corona spagnola sorprendeva i finanziatori genovesi « creditori del Re di circa dieci milioni di pezzi » ed « . . . il commercio quasi tutto cessò, con manifesta rovina del pubblico e dei privati, la quale rovina fu sì universale ed estrema, che non ne andò esente famiglia »3. L’anno seguente si ebbero le prime notizie di « contagio » dalla Francia4, ma soltanto nel 1629 la presenza ormai accertata della peste, sia in Provenza sia nella Linguadoca, sia in Catalogna, produceva una sospensione dei traffici5. Nel 1631, la peste, da tempo attiva in Spagna, in Francia, a Milano ed a Torino, arrivava anche a Livorno6, evitava tuttavia il territorio della Repubblica, ma ne paralizzava i traffici, costringendo i genovesi all’inattività7. 1 F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova del secolo XVII, Genova. 1800, V, p. 56. 2 F. Casoni cit., p. 113. 3 F. Casoni cit., p. 124; G. D. Peri, Il negotiante, Venezia, 1682, parte III, p. 62. 4 A. de Capmanï y De Montpalau, Memorias historicas sobre la marina, comer-cio y artes de la antigua ciudad de Barcelona, Madrid, 1792, IV, p. 72. 5 A. de Capmany y De Montpalau cit., p. 71; J. V. Vives, Historia Social y Economica de Espana y America, Barcellona, 1957, III, p. 264. 6 Archivio di Stato di Genova (abbrev. ASG), Magistrato della Sanità, filza n. 74, Litterarum extra domimi, 1629-1631; A. Capmany de Montpalau cit., p. 71; F. Casoni cit., p. 188 e sgg.; L. Bergasse, Histoire du commerce de Marseille, Parigi, 1954, IV, p. 37. 7 ASG, San Giorgio, Caratis Maris, filza n. 65 (provvisorio), Relatione sul contagio, 1630. — 71 — Negli anni seguenti, il continuare delle guerre,, le carestie, le inflazioni di « viglione » in territorio spagnolo s, la presenza costante e minacciosa di pirati barbareschi, il cui ardire si spingeva persino in razzie nei paesi della costa ligure9, erano rilevanti ostacoli alla anche parziale • 10 * ripresa del commercio. Nel 1639, la rivolta di Barcellona prima , poi quella della intera Catalogna e del Portogallo n, alimentavano la reticenza dei genovesi alla concessione di nuovi prestiti alla corona spagnola, reticenza che doveva ripercuotersi negativamente sugli affari. Le « ritorsioni fiscali e gli aggravi fatti da Ministri spagnoli a genovesi » producevano una ulteriore contrazione del commercio che Genova fino ad allora era riuscita a mantenere con la penisola iberica e che, benché in decadenza, rappresentava pur sempre la dorsale dei traffici genovesi. E questi dovevano essere ben modesti, se si considera che « la vigilanza ai varchi, alle porte, ai moli et alle marine » era affidata a Genova, per sincera ammissione dell’amministrazione delle gabelle, esclusivamente a « persone idiote, mendiche, vecchie et poco sane, come dall aspetto si vede »13. Nel 1641, ogni investimento in Spagna appariva come aleatorio, se non del tutto improduttivo, tanto che un uomo d’affari genovese, Alessandro Pallavicini, segnalava da Madrid: « non posso abbastanza dire le làstime e miserie che si sentono in ogni parte di questi regni. Si spendono tesori senza nessun genere di frutto »I4. 8 J. V, Vives cit., p. 277 e sgg.: «...Se duplico el valor nominai de la calderilla (vellon ... acunado antes 1599) mediante un resello en los cecos. . • » 21 ottobre 1634. «...Una pragmatica de 11 marzo 1636 a los poseedores de vellon de cobre que lo entregasan en la cerca mas proxima ... con el fin de resellarlo triplicando su tarifa... ». 9 F. Casoni cit., p. 237; L. Bergasse cit., p. 64. 10 P. Vilar, Histoire de l'Espagne, Parigi, 1965, p. 27. 11 J. V. Vives cit., p. 277. 12 F. Casoni cit., p. 245. ASG, San Giorgio, Caratis Maris, filza n. 78 (provvisorio), Relatione sui guardiani, 13 agosto 1640. In una Relatione seguente risulta omessa la parola « idioti », 17 agosto 1640. Archivio Doria (Istituto di Storia Economica dell’Università di Genova), busta n. 104, 5 giugno 1641. — 72 — La navigazione ligure, limitata ormai quasi esclusivamente ad un traffico locale, era ridotta a cullarsi su posizioni nostalgiche ed a ricorrere, al massimo, ad isolate iniziative velleitarie. Non si trovavano più nemmeno equipaggi per le galee armate dalla Repubblica pur ricorrendo a « gente di pessima qualità »; fatto, questo, estremamente grave in quanto a tali galee era affidata prevalentemente la difesa dei mari. Un esempio della qualità di questi equipaggi raffazzonati alla meglio, è offerto dalla vicenda di sette galee armate nel 1642, riprendendo un progetto del 1638. Uscite in convoglio con altre sei galee, dirette nei mari di Sardegna, « senza che mai gli si presentasse la opportunità di alcuna preda », vagavano per 35 giorni, fino a quando, a Bastia, le ciurme ammutinate abbandonavano le navi e, scese a terra,, si davano al saccheggio delle campagne. A nulla valevano le esortazioni, gli ordini, i proclami dei comandi; gran parte degli equipaggi si disperdeva nell’isola e le « galee della libertà duravano gran fatica a ricondursi a Genova e quindi per molti anni non fecesi più parola di armarne»15. Nel 1643, un relatore del Minor Consiglio, dichiarava: « le navi si consumano senza navigare. . . i marinai stanno oggi a spatio, senza impiego. . . » Ió. Quattro anni dopo, il mancato rinnovamento della flotta e l’assenza di nuove forze, suscitavano allarmi in seno alla Giunta di Stato ed al Senato della Repubblica, sia per la sicurezza dello Stato, sia per le possibilità di approvvigionamento della popolazione di Genova, tradizionalmente assicurata dal solo rifornimento marittimo. D’altra parte, ancora nel 1647, una nuova bancarotta spagnola, pur non avendo dato origine a dissesti disastrosi quali quelli lamentati nel 1627 17, aveva distrutto qualsiasi superstite fiducia nelle speculazioni finanziarie e mercantili intraprese in Spagna, orientando le attenzioni genovesi verso lidi meno aleatori ed in particolare al di fuori del Medi-terraneo, dove un nuovo stato, quello delle Provincie Unite dei Paesi Bassi,, offriva un singolare esempio di decollo come potenza marittima e coloniale, alimentando le speranze e le illusioni di molti. 15 F. Casoni cit., p. 257. 16 ASG, Archivio Segreto, Litterarum Senato, (fogliazzi), filza n. 1986. Relatione su navi, 12 gennaio! 1643. 17 F. Braudel, in Aspetti e cause della decadenza economica veneziana nel secolo XVII, Atti del Convegno, Venezia, 1961, p. XVII. - 73 - Di fatto, anche prima che esplodesse la guerra dei trent anni, gli olandesi avevano soppiantato la presenza delle navi e del commercio delle città anseatiche già attive nel bacino mediterraneo. Persino Venezia non era riuscita ad evitare interferenze olandesi nel suo commercio con il levante o ad ottenere che, contro la regola, il Fondaco dei Tedeschi non accogliesse anche carichi di provenienza olandese. Le prime navi colleganti direttamente l’india con Genova erano state, fin dal 1624, delle navi olandesi; ed olandesi — e non più anseatiche — erano le navi che importavano a Genova legnami e granaglie 1S. L’apertura verso i Paesi Bassi appariva quindi inevitabile sia su piano politico, sia su quello economico: sul primo, per sottrarre ad un pauroso isolamento la Repubblica, assolutamente indifesa; sul secon o, per assicurare ai territori genovesi sicurezza e rifornimenti per mare . 18 L. Beutin, Der deutsche Seehandel im Mittelmeergebiet bis zu den N P leunischen Kriegen, Neumünster, 1933, pp. 34, 35 e 41 su cui F. Bori.andi, » a-gini e fonti per la storia del commercio tedesco, estr. dalla Rivista Storica Ita t , Serie IV, v. VI, fase. III-IV, 1935, p. 10 e sgg. , NÛY Architectura Navalis das ist von dem Schiffgebdu pubblicata a ma n 1629 da Joseph Furttenbach, appartenente ad una famiglia da tempo operant Genova, già gli olandesi erano considerati insieme agli anseatici come appartenen ad una medesima «nazione» (L. Beutin cit., p. 47; F. Borlandi cit. p-mentre a Livorno la « Nazione Olandese - Alemanna » si sarebbe sciolta nel 1 dando vita alla « Natione Hollandese » (L. Beutin cit., pp. 13, 14 e 48; F. IANDI cit., p. 12)1. 19 ASG, Archivio Segreto, Politicorum 1642*1649, mazzo n. 9, filza n- 1^55. TI 23 novembre 1647 la « Gionta di Stato » osservava al Senato della Repubblica. «... L’amicitia co’ i Principi sono del pari utili che desiderabili. Di queste, n’ e molto scarsa se non priva la Repubblica ed convenendo per nostro parere applicar 1 animo a contratharne qualcheduna, non ci è sovvenuto alcuno più a proposito per la nostra bisogna, che quello degli Stati Uniti della Fiandra. .. U beneficio, che da questa amicitia si calcola per la Republica ne’ suoi bisogni, è grande perchè potendo noi ricevere li danni maggiori per via di mare, .... se non haveremo chi per mare possa darci aiuto et soministare viveri, non vi è dubbio che per il forzoso consumo di un popolo così numeroso si troveremo in angustie grandi quando chi volesse, havesse le forze bastanti da travagliarci per mare e per terra. Nel qual caso nissuno altro potria con più pronti et efficaci aiuti venir in nostro soccorso, di quello potriano fare li Stati Generali, li quali, oltre la ragion di Stato, che li Per" suaderebbe col mezzo però sempre del nostro denaro a non lasciarci perdere, se palesassero amicitia con noi, potrebbero servirsi dell’apparenza di questo oggetto per scusar, con chi bisognasse, l’atione... ». — 74 — In questa prospettiva si inseriva tempestivamente una iniziativa privata, con la costituzione, proprio agli inizi del 1647, di una « Compagnia di Negotio » dotata di un capitale di 100.000 scudi, con lo scopo dichiarato di « aprire navigatione et trafico di mercantie nelle Indie Orientali, in particolare nel Giappone, suoi vicini, et altri luoghi liberi et praticabili »20. E’ evidente che la realizzazione di un simile proposito non potesse essere considerata che nel quadro di una stretta collaborazione con gli Stati Generali delle Provincie Unite o, quanto meno, di una loro benevola tolleranza, in quanto gli olandesi con la Compagnia delle Indie, già da almeno un trentennio, si erano assicurati il dominio incontrastato dei mari dell’Estremo Oriente. Per impostare l’iniziativa su basi realistiche, la nuova « Compagnia di Negotio » si affrettò a provvedersi di naviglio adatto, ordinando proprio a cantieri di Amsterdam le due navi che avrebbero dovuto effettuare la prima spedizione21 ed affidando a piloti ed a marinai olandesi i compiti di maggiore responsabilità a bordo delle due imbarcazioni22. Alla fine dello stesso anno, le due navi, battezzate « San Giovanni Battista » e « San Bernardo », caricavano merci a Genova ed agli inizi del 1648 prendevano il mare, imbarcando anche una delegazione dei mercanti promotori dell’iniziativa: cinque « Gentilhomini » genovesi, ai quali venivano affidate lettere di cambio per 312.000 reali23. ASG, Archivio Segreto, filza Maritimarum, n. 1666. Minuta di lettera dei « Deputati della Compagnia delle Indie Orientali » al Senato della Repubblica di Genova, marzo 1647. Sul tentativo genovese in Estremo Oriente, un cenno in G. Pessagno nella sua Introduzione al volume di C. Mioli, La consulta dei mercanti genovesi, Genova, 1928, p. 36; ed anche G. Pessagno, La grande navigazione al secolo XVII e la Compagnia delle Indie Orientali, Genova, 1930. 21 ASG, Minuta cit. e ASG, filza Maritimarum cit., Lettera del Senato della Repubblica di Genova agli Stati Generali delle Provincie Unite dei Paesi Bassi, 31 dicembre 1650. ASG, Archivio Segreto, Litterarum Senato (registri), n. 132/1908, Lettera del Senato agli Stati Generali delle Provincie Unite dei Paesi Bassi, 4 e 13 agosto 1650. 22 ASG, filza Maritimarum, minuta cit. 23 ASG, Archivio Segreto, Litterarum Senato (fogliazzi), filza n. 1988. Minuta di lettera del Senato della Repubblica di Genova agli Stati Generali delle Provincie [Inite dei Paesi Bassi, 31 dicembre 1650. - 75 - L’ingaggio dei piloti e dei marinai olandesi aveva però posto un problema del tutto inconsueto alla marina locale: quello di dover provvedere alla stesura di un contratto di arruolamento, un capitolato di doveri e di diritti individuali e collettivi sulla base del quale si sarebbe dovuta organizzare la vita di bordo, attribuire le responsablità, e definire i rapporti economici tra i finanziatori ed i membri di un equipaggio costituito da elementi così diversi. Il compito era tutt’altro che facile per assoluta mancanza « di precedenti », ostacolo — questo reso ancora più grave dal fatto che, nel Mediterraneo, nel corso dei secoli, il contratto di arruolamento marittimo era andato semplificandosi nei suoi requisiti formali, abbandonando il ricorso a scarni documenti notarili per adottare forme ancora più semplici: la concisa annotazione nel registro della nave ed anche la semplice stretta di mano24. D’altra parte, per i viaggi tradizionali nel bacino Mediterraneo, dalla fine del XIV secolo, i rapporti tra armatore e membri dell’equipaggio, erano stati genericamente ma sufficientemente inquadrati da alcune regole dei Consolati del Mare, alle quali, le parti in contestazione, potevano sempre fare riferimento. Tutto questo veniva però a mancare nel previsto viaggio oceanico, sia perchè i più importanti componenti dell’equipaggio, essendo olandesi, non erano tenuti a conoscere nè riconoscevano le istituzioni mediterranee, sia perchè la durata del viaggio e le miglia da percorrere rendevano impossible — per lungo tempo — l’eventuale ricorso alle amministrazioni di terra25. Del resto anche per quest’ultime, un’impresa ^ Lattes, II diritto marittimo privato nelle carte liguri dei secoli XII e fU> ^oma> 1939, p. 35 e Note di diritto commerciale e marittimo dagli Statuti Savonesi del Medio Evo, Genova, 1928, p. 352; F. Schupfer, Il diritto delle obbligazioni in Italia nell’età del Risorgimento,, Torino, 1921, III, p. 55. D’altra parte la consuetudine medievale aveva trovato conferma definitiva nel 1494 nell’edizione barcellonese delle leggi del Consolato del mare, che al cap. 109 statuiva. « .. • A marinaio è impegnato col capitano, una volta accordatosi con lui e datagli la mano, a partire con lui, come se fosse obbligato da scrittura di notaio (. . es mester que - mariner vaia ab all axi be com si n’ havia fata carta de notari) »: J. M. Pardessus, Collection de lois maritimes antérieures au XVIII siècle, Parigi, 1828, II, P- 1°9' R. Zeno, Storia del diritto marittimo nel Mediterraneo, Roma, 1915, P- 48. ncora R. Zeno, ne 11 Consolato di Mare di Malta, Napoli, 1936, pp. 7, 8: « Nel . • • periodo, che va dal sec. XIV in poi, sorgono Consolati di Mare, che hanno .. ■ giurisdizione territoriale non soltanto per il porto di loro competenza ... e sono dei tribunali speciali in quanto giudicano tutte le cause in materia marittima». — 76 - « mai più in Genova praticata »26, non avendo precedenti e comportando eventi e rischi eccezionali, avrebbe posto di fronte ad avvenimenti mai contemplati, mettendo l’arbitro nell’impossibilità di riferirsi alla consuetudine. Considerati infine i disagi ai quali il viaggio avrebbe sottoposto l’intero equipaggio provandolo assai duramente, occorreva elaborare un documento bene accetto alle ciume, ma preciso e rigido nello stabilire la disciplina ed i rapporti gerarchici; severo e cauto, specie in quelle punizioni che avrebbero potuto diminuire l’efficienza dell’equipaggio o fiaccarne lo spirito. Il contratto avrebbe dovuto essere al tempo stesso prudentemente conservatore, ma anche arditamente liberale; rispettare le abitudini e la sensibilità di persone di diverso censo, di diversa religione e di differente estrazione. Nonostante le difficoltà, il contratto fu stipulato, e copia di esso, nel marzo 1647, venne presentata al Senato della Repubblica insieme alla richiesta di esclusiva e di privilegio, che la « Compagnia di Negotio » ritenne opportuno avanzare27. Il testo, contenuto in dodici carte, è costituito da ben 37 articoli preceduti da un preambolo, di carattere generale, sui doveri, sui compiti e sulle retribuzioni dell’equipaggio28. Il documento rappresenta sostanzialmente un contratto di arruolamento « a viaggio », la cui durata era condizionata dal raggiungimento delle Indie, dall’aver fatto scalo in tutti gli approdi indicati dai delegati della Compagnia, dal ritornare a Genova e dall’ottenere dal Magistrato della Sanità la libera pratica. Il personale era previsto fosse pagato a Vedi anche C. Targa, Ponderationi sopra la contrattatane maritima, Genova, 1692, cap. XI, pp. 34-65 e G. M. Casaregi, Il Consolato del Mare, Venezia, 1737, cap. 72, 116, 125, 126, 132, 133, 134, 135, 165, 166 e 176. 26 ASG, Archivio Segreto, filza Maritimarum, n. 1666, minuta cit. 27 « .. . Supplichiamo honorare et autorizare l’opera, gratiando la compagnia di privilegio per anni cinquanta almeno, acciò altri che essa, e quelli che dalla medesima saranno ammessi, non possino traficare in dette parti, nè di qui, nè d’al-trove, nè sotto nome altrui della natione genovese, si possa in maniera alcuna armare navi, vascelli o altro1 che sia, nè tampoco per altra strada valersi di simil navigatione, nè procurare huomini, pilotti o altra sorte di persone per il traffico di dette Indie Orientali, nè sotto qualsivoglia pretesto o quesito o colore, stendardo, o altromodo che sia, proseguire simili negotij, sotto pena della perdita de’ vascelli, merci et effetti, et altro... ». ASG, filza Maritimarum, n. 1666, minuta cit. 28 Ibidem, Contratto di arruolamento per le navi d’indie, 22 gennaio 1648. — 77 — mese, e ricevuta una mensilità « a bon conto » prima della partenza, avrebbe riscosso i salari maturati durante la permanenza sulla nave, al termine del viaggio29. Nel Mediterraneo, un contratto di questo tipo era del tutto inconsueto, preferendo le parti accordarsi con contratti definiti « a parte »> cioè con clausole che prevedevano la partecipazione dell’equipaggio alla ripartizione degli utili conseguiti dalla spedizione30. Non sembra improbabile l’ipotesi, che la scelta di un contratto che rendesse indipendente il guadagno dell’arruolato dalle fortune del viaggio, fosse stata desiderata, se non imposta, dalla parte di equipaggio di estrazione olandese, in quanto un contemporaneo, il Peri, distingue il contratto « olandese o fiammingo », che era un contratto analogo al nostro, dai contratti « Ragusei, Biscaini e Francesi », che erano invece contratti « a parte » . Nella stesura degli articoli i compilatori del contratto sembrano aver avuto quale costante preoccupazione quegli eventi che 1 esperienza indicava come causa di disordine e di disastro. Dopo aver considerato che il viaggio si presumeva « esser longo », venivano definite le modalità « tanto del bevere, come del mangiare », sia perchè l’equipaggio si mantenesse in forza, sia perchè i viveri rimanessero sufficienti (« far reo delle vettovaglie ») (art. 3). Si fa cenno anche ad una « carta o lista della ratione » da essere redatta, ma di essa non si è trovata traccia. Sembra comunque logico supporre che le razioni previste per l’equipaggio non potessero differenziarsi molto da quelle consuete32, restando tuttavia alla discrezione del comando di ridurle — anche drasticamente — in caso di emergenza. Tutti 29 Ibidem, Preambolo al contratto cit. Per la necessità di interessare alle fortune del viaggio il marittimo arruolato, v. R. Dì Tucci, La nave e i contratti marittimi, Torino, 1933, p. 51, « • • •Ia ricerca della gente di mare doveva essere assai forte e attiva: la schiavitù dava il rematore legato ma non il marinaio ». 31 G. D. Peri, Il negotiante, Venezia, 1682, parte III, pp. 34-36. M ^ * trattament0 * era Previsto dettagliatamente al cap. 142 del Consolato e are' w• La Domenica, Martedì, Giovedì, carne e minestra a sufficienza una i3 2 giorno, e gli altri giorni della settimana si deve dar loro minestra e companatico, cioè formaggio o pesce crudo o cotto, o sardelle salate, o cipolle condite in o io, sa e, aceto e sempre una libbra e mezzo di biscotto il giorno per cadauno, overo pane a proportione ... e per bere, tre coppe di vino la mattina e due la sera... » (Cfr. C. Targa cit., p. 65; G. M. Casaregi cit., p. 134; J. M. Pardessus — 78 - dovevano mangiare alle ore stabilite la propria razione di cibo e bere soltanto il vino distribuito pro-capite (art. 4). Il pericolo che membri dell’equipaggio si ubriacassero era evidentemente temuto. Per evitarlo, si puniva chi rubava vino, come era proibito trattenere, vendere o cedere la propria razione di vino, o la parte di essa eventualmente non consumata nel corso del pasto (art. 5). L’ubriachezza, per le sue possibili conseguenze, era stata considerata severamente, anche quando un membro dell’equipaggio si fosse ubriacato a terra. Il reato, messo in atto, sia a bordo, sia a terra, era punito con il doppio della pena se commesso da un ufficiale (art. 11). Le vettovaglie, durante la loro permanenza nella cambusa delle navi, potevano parzialmente avariarsi, ma nell’impossibilità di sostituirle, l’equipaggio doveva fare buon viso a cattivo gioco, consumandole ugualmente. Per questo motivo, salva diversa disposizione del comando, in nessun caso il cibo distribuito poteva essere gettato in mare, magari col pretesto che fosse divenuto immangiabile (art. 6). Per il riposo notturno, che era previsto dovesse svolgersi esclusiva-mente, almeno per la ciurma, su amache, precise disposizioni vietavano di provocare rumori, di trasferirsi dal posto assegnato, di tenere presso di sè della paglia o del fieno, probabili esche di incendio (art. 20), mentre per la stessa preoccupazione, era severamente vietato il trasporto o l’uso sotto o sopra coperta di fiamme o fuochi di qualsiasi genere (articoli 13 e 15). Persino il fumare col narghilè (« bevere tabacco ») era vietato e tollerato soltanto sul ponte ma esclusivamente all’aperto, nella zona della coperta compresa tra gli alberi di trinchetto e di maestra (art. 14)33. cit., II, p. 36 che riporta integralmente il cap. 100 del Consolato del Mare, ediz. Barcellona, 1494, dove si descrive identico trattamento). Meno dettagliato e meno ricco è invece il « trattamento » previsto per i timonieri « et altra gente di cavo » nel Codice delle Galee (manoscritto B. VI. 14, della Biblioteca Universitaria di Genova, pp. 176 e 177), la cui disposizione, emanata nel 1644, forse teneva conto del fatto che i viaggi delle galere avevano sempre una modesta durata limitandosi a seguire brevi percorsi. Sul vitto degli equipaggi v. ora anche G. Ligabue, Storia delle forniture navali e dell’alimentazione di bordo, Venezia, 1968, passim, che però si riferisce prevalentemente agli equipaggi della marina da guerra. 33 II divieto di fumare risulta sancito frequentemente. Si veda, ad esempio, nel cit. Codice delle Galee, p. 90 (disposizione 11 luglio 1618). - 79 - La tutela degli interessi della « Compagnia di Negotio » era assicurata dal divieto, esteso a tutti i membri dell’equipaggio, di commerciare in proprio e di caricare sulle navi merci o preziosi oggetto di acquisto o di baratto (art. 2), sventando così concorrenze sleali ed evasione di noli, mentre la tutela della personalità e del costume dei naviganti — di così diversa provenienza — e della loro sensibilità religiosa e morale veniva garantita con una sanzione analoga a quella ancora in uso presso Accademie navali: « indegnità di conversare o bevere o mangiare con gli altri alla mensa, od in compagnia d’altri » (art. 22) . Quando poi gli equipaggi si fossero trovati ad operare a terra,, qualsiasi foima d’insulto o di violenza a danno di « indiani, loro persone, mogli et figlioli », nonché di loro averi, sarebbe stata oggetto di punizione qualora non risultasse da ordini del capitano (art. 37). Il capitano, a sua volta, aveva nella spedizione responsabilità e compiti nettamente distinti da quelli del direttore. Da quanto risulta implicitamente dal testo del contratto, al direttore, quale rappresentante della « Compagnia del Negotio », erano riservate le decisioni relative alla condotta economica dell’impresa (art. 2, 21, 37), mentre al capitano, assistito o sostituito dal « commisso » (scrivano), erano attribuite le re sponsabilità nautiche, militari e disciplinari (art. 3, 6, 9, 13, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 24, 25, 36 e 37). Nella spedizione un ruolo a parte figura assegnato all « bospitalero o procuratore politico civile », qualcosa di più di un attuale commissario di bordo, in quanto gli erano affidati accanto a compiti di rappresentanza, quali quello di manifestare alle autorità di terra o ad altre navi le comunicazioni del proprio comando, anche la tutela dei feriti, degli ammalati, dei minori e dei deboli. A lui spettava inoltre raccogliere le ultime volontà dei moribondi, inventariare i beni dei deceduti e procedere alla loro vendita all’asta sul ponte della nave, fra tutti i membri dell equipaggio, accreditando il ricavato sul conto del morto, a favore degli eredi (art. 25). Agli ammalati ed ai feriti veniva assicurata assistenza da parte di un « barbero » e di un « sottobarbero » a cui non si doveva compenso alcuno 34 Altre disposizioni provvedevano ad assicurare la pulizia delle navi: divieti i abbandonare indumenti personali sporchi o bagnati e di « bruttare » ed « ormare dentro la nave in loco insolito » (art. 35). se non quando avessero cura di piaghe o di ferite non conseguenti al servizio (art. 23 e 24). Essi operavano alle dipendenze dell’« hospitalero » che, fra i suoi compiti, aveva anche quello di disporre le cure di ammalati o feriti, provvedendo a farli medicare o curare « dii debiti tempi » e facendo loro somministrare « cibo et remedi giovevoli » (art. 25). Poiché l’inazione, l’attesa ed i disagi avrebbero in poco tempo deteriorato il carattere delle persone, il gioco e le scommesse, considerati origine di dispute e di liti, erano stati tassativamente vietati35. D’altra parte, la passione e l’interesse dei giocatori erano già stati sensibilmente mortificati dall applicazione della inderogabile regola: « quod vincens in ludo reprobato tenetur lucro victo restituere » (art. IO)36. Anche la tentazione di nascondere o di sottrarre strumenti od attrezzi dei maestri d’ascia, dei piloti, del bombardiere o del « barbero » era vivamente scoraggiata, specie quando comportava un intento malizioso, quale per esempio — quello di ridurre la permanenza in mare, obbligando a scali imprevisti (art. 34). Un’altra preoccupazoine inevitabile era quella relativa ad eventuali liti, magari degenerate in risse, od addirittura in ferimenti (art. 7). In queste disposizioni, oltre alla sommaria descrizione del reato, era enunciata una serie di punizioni, alcune delle quali, particolarmente crudeli e pittoresche, sembrano tradire una origine extra-mediterranea37. Chi, in una rissa, avesse estratto il coltello, « sarà con un coltello per la mano inchiodato all’albero. . . sino a che tiri lui medesimo il coltello »; qualora avesse ferito un compagno, sarebbe stato sottoposto al giro sotto la chiglia della nave (art. 8); se lo avesse ammazzato, — giudicato colpevole — « insieme col morto, sarà gettato in mare » (art. 12). In genere alla pena corporale si accompagnava o si alternava una pena pecuniaria; a volte, a scelta del punito, una maggiorazione della pena in danaro esentava dall’applicazione della pena corporale (art. 11). 35 Analoghi divieti si ritrovano a p. 90 del cit. Codice delle Galee (disposizione 3 marzo 1614). 36 Cfr.: F. Schupfer cit., p. 177. 37 Punizioni del genere erano, ad esempio, prescritte negli art. 25, 26, 27 e 28, nel titolo V, del « Diritto Marittimo della Lega Anseatica », Reces 164: J. M. Pardessus cit., II, pp. 542 e 543. Altre pene crudeli erano previste dal « Diritto Marittimo dei Paesi Bassi Meridionali e Settentrionali », Ordinanze del 1551 e del 1563, art. IX, XIX, XXIII. Sempre in J. M. Pardessus cit., IV, pp. 44-56. - 81 - Poiché non tutti i reati erano previsti dal contratto di arruolamento e poiché d'altra parte il medesimo reato poteva essere stato perpetrato in circostanze diverse, l’esercizio della giustizia era normalmente affidato al « Consiglio della nave », organo giudicante composto da cinque membri, dei quali tre (il « direttore », il capitano e lo scrivano) erano fissi e due, scelti tra i rimanenti ufficiali e sottufficiali (art. 21). Per le cause de nite « criminali », per le quali si poteva prevedere la pena capitale,, la sentenza era invece pronunciata da tutto l’equipaggio (con esclusione dei minoren ni), che esprimeva il voto in assemblea (art. 12). La sentenza proposta diventava esecutiva se i quattro quinti dei votanti avessero giudicato im putato colpevole. Tuttavia, l’eventuale esecuzione veniva messa in atto solo nel viaggio di andata. Se la nave si fosse trovata sulla via del ritorno, era previso che si facesse il possibile per consegnare il condannato a a ordinaria magistratura di terra (art. 12). • ’ di’ Non scarse attenzioni venivano riservate dal contratto ai servizi guardia e di vedetta nonché all’efficienza dei mezzi di difesa e di o esa (art. 17 e 19). Il bombardiere ed il suo aiutante erano severamente te nuti a mantenere le polveri ben asciutte, a capovolgere periodicamente i barili o — se le condizioni lo permettevano — ad esporre le polveri sole (art. 32). Particolare risalto era stato dato al loro impegno di man tenere ordinate e ben disposte, presso le rispettive bocche da fuoco, e palle da cannone di calibro adatto (art. 33) e, nell’ipotesi che la paura, una iniziativa precipitosa o l’uso sconsiderato delle bocche da fuoco prò vocassero disordini od incidenti, massimamente nei mari dell India era previsto che l’apertura del fuoco dovesse avvenire solo per ordine e capitano o del « commisso » (artu 16). D’altra parte, nell’eventualità che le navi dovessero « pendolare » in alcuni mari e che l’equipaggio o parte di esso avesse dovuto stabilirsi a terra, gli arruolati erano impegnati a trasformarsi in zappatori, mura tori e carpentieri, essendo loro compito scavare trincee, innalzare difese, costruire fortini e bastioni, ovunque il comando lo avesse decretato, senza il diritto ad alcun compenso speciale (art. 36). In complesso, il contratto, per la tutela e la difesa delle navi, delle persone, delle merci e dei valori trasportati, esigendo coraggio, fedeltà e cieca obbedienza da parte del personale arruolato, vincolava anche quest’ultimo agli stessi risultati della spedizione. I salari degli equipaggi erano infatti indissolubilmente legati al destino della nave (art. 28). Se — 82 — questa fosse naufragata, tutto quanto era stato guadagnato sarebbe anato perduto con essa, salvo il caso in cui la nave fosse affondata od incendiata in combattimento38. Solo in questa eventualità i salari maturati dall’equipaggio sarebbero stati regolarmente pagati (art. 31). Analogamente la « Compagnia di Negotio » era impegnata a corrispondere i salari maturati agli eredi di quegli arruolati che fossero deceduti, impazziti o caduti in prigionia nel corso del viaggio (art. 30). Disposizioni particolari erano infine dirette ad assicurare eque indennità a coloro che, durante il viaggio, avessero subito gravi e permanenti menomazioni (art. 27). Il fatto che tutti gli indennizzi fossero stati quantificati in fiorini, tradisce ancora una volta una marcata influenza olandese. Le menomazioni meglio risarcite erano assegnate a coloro che avessero perduto entrambe le mani (1.000 fiorini), entrambi gli occhi (900 fiorini) o le due gambe (800 fiorini); quest’ultime erano state valutate alla pari con la perdita del solo braccio destro. Decisamente a buon mercato (almeno per l’armatore), la perdita di un occhio, il destro od il sinistro dell’arruolato, valutati 300 fiorini (art. 27). Curioso è il raffronto che può stabilirsi fra gli indici delle indennità previste dal nostro contratto per i vari casi di inabiltà permanente e quelli oggi accordati — di massima — dagli Istituti Previdenziali pubblici e privati (quali PI.N.A.I.L., etc.). Menomazione l„dici di inabilità riconosciuta Nel 1648 Attualmente Perdita delle due braccia 100 100 Perdita dei due occhi 90 100 Perdita delle due gambe 80 100 Perdita del braccio destro 80 70-75 Perdita del braccid sinistro 50 65-70 Perdita della mano destra 60 70 Perdita della mano sinistra 40 65 Perdita di una gamba 45 50-75 Perdita di un occhio 30 35 38 Nel contratto di arruolamento della Compagnia delle Indie Orientali di Genova, manca, a proposito dei doveri dell’equipaggio (fedeltà, obbedienza, ecc.), una clausola relativamente consueta nei contratti di noleggio di navi olandesi o fiamminghe; clausola che garantiva all’equipaggio il diritto di « neutralità nei casi - 83 - La meticolosa oculatezza impiegata nella stesura del contratto, 1 ac cordo tra le parti, l’astuzia e la politica dei finanziatori genovesi non salvarono tuttavia la spedizione dal fallimento. Le due navi comp età rono infatti felicemente la circumnavigazione del continente africano e la traversata dell’Oceano Indiano, riuscirono ad evitare di are sca o nelle basi olandesi, ma arrivate nei mari dell’Arcipelago della Son a, sor prese dalle navi della Compagnia delle Indie, venivano catturate e morchiate a Batavia39. Resi i due « vascelli . .. inutili alla navigazione ^ gli arruolati di origine olandese erano prelevati con la forza a e unità e — in qualità di sudditi dei Paesi Bassi — imbarcati su nav: della Compagnia delle Indie Orientali. Si verificava così che 1 espe le escogitato dai genovesi con l’arruolamento di personale olandese, si r torceva a danno di chi l’aveva architettato. Gli olandesi . cando una regola simile a quella prevista dai mercanti genovesi , si prendevano « marinai e piloti olandesi che vi tenevano sopra » e barcavano sulle proprie navi con la conseguenza « di perdere i vasce , le mercantie e gli utili di esse, et abbandonando alla discrezione a trui le vite dei cittadini genovesi »41. Dal sequestro delle due unità, nacque tra la Repubblica genovese gli Stati Generali delle Provincie Unite un incidente diplomati co. ut tavia, nè Genova, legata ai rifornimenti di cereali che con le navi o an desi le pervenivano dal Nord Europa, nè gli olandesi, interessati a re stare in buoni rapporti con una piazza ricca e formalmente neutra come quella genovese, stimarono opportuna una rottura aperta delle oro relazioni. La questione, così, di corrispondenza in corrispondenza, si protrasse per oltre due anni, mantenendo viva nei genovesi la speranza di farsi restituire le navi. Questa speranza andava però definitivamente di avvistamento di navi connazionali sole ». Archivio Doria, busta n. 102 (proposte di contratti di noleggio delle navi: La speranza, Il sole dorato, Il tempio Salomone, L angelo, Il profeta Elia, La fede, Il cervo volante). Anni 1638-1640. 89 ASG, Archivio Segreto, Litterarum Senato (fogliazzi), filza n. 1*588. Minuta di lettera del Senato della Repubblica di Genova per gli Stati Generali delle Pro vincie Unite dei Paesi Bassi, 31 dicembre 1650. 40 Cfr. n. 27. 41 ASG, Archivio Segreto, Litterarum Senato (registri), n. 132/1908. Lettera del Senato della Repubblica di Genova agli Stati Generali delle Provincie Unite dei Paesi Bassi, 4 agosto 1650. — 84 - delusa, nel dicembre del 1650,, quando giungeva notizia che le due unità erano « state fatte miseramente perire » nel porto di Batavia42. Col tempo i mercanti ed i componenti dell’equipaggio genovesi ritornarono in patria. Rimase un’unica dolorosa preoccupazione: la sorte dei 312.000 reali in lettere di cambio, consegnate dai genovesi, al momento della cattura, nelle mani degli olandesi E però certo che l’equipaggio, come la delegazione dei mercanti imbarcata sulle due navi, avrebbero potuto rallegrarsi di essere sfuggiti ad una carneficina analoga a quella subita, poco più di trent’anni prima, dall equipaggio della nave normanna « La Magdaleine », che nel 1616 aveva tentato la medesima avventura. Sulla via del ritorno, presa la nave, carica d oro, di perle, di spezie e di altre ricche merci orientali, il capitano ed il suo commesso erano stati pugnalati dopo allucinanti torture44, tredici marinai erano stati impiccati ai pennoni della nave ed a tutte le altre persone trovate a bordo erano state bruciate, fino alla morte, le piante dei piedi45. 42 ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, filza n. 1666. Lettera del Senato della Repubblica di Genova agli Stati Generali delle Provincie Unite dei Paesi Bassi, 31 dicembre 1650. 43 Ibidem. 44 C. e P. Breard, Documents relatifs à la marine normande et à ses armements aux XVI' et XVII'« siècles, Rouen, 1899, p. 217: «...Fit à lui et à son lieutenent serrer et étreindre la teste avec des cordes en telle sorte qu’il leur fit sortir les yeux de la teste... ». 45 Ibidem, p. 217 : «... Fit pendre treize matelots aux haubans de son navire et fit brûler la plante des pieds aux autres jusques à ce qu’ils eussent rendre l’esprit, cruauté qui est sans example... ». - 85 — IL CONTRATTO DI ARRUOLAMENTO Noi sotto nominati, officiali e marinari, dichiariamo essersi convenuti, accor dati et obbligati, come in virtù di questa noi s’obblighiamo, alii molt ustns ^ Signori Deputati della Compagnia dell’Indie Orientali, concessa et eretta in enov^, per servire a loro, sopra le loro navi nominate San Gio. Batta, e San Bernar o^qu^ sto futuro viaggio da questa città e porto di Genova verso le parti dell n ie ne tali, et durante detto viaggio ubbidire, et osservare gl’ordini qui sotto ^ forme a noi sarà ordinato da quelli direttori, commissi e capitani che da putati della detta Compagnia saranno posti et stabiliti al governo delle su navi. Et tutti noi altri sottonominati officiali et marinari promettiamo di are tenza da questo suddetto porto con sudette navi verso le sudette Indie, verso luoghi, porti, e spiaggie come piacerà a detti direttori, commessi e capitani e e ^ et ivi scarricare, et recarricare, dissavorare et di nuovo insavorrare le navi , le ancore al fondo et fermarsi, et di nuovo tante volte, quante a noi sara or m far partenza dall’uno verso un altro luogo, e questo per tale salario a ragi°n^^ mesate, quanto ognuno di noi resta accordato di guadagnare ogni mese, cominci il primo mese, quando ognuno di noi haverà accettato e fatto giuramento i os vario, et ricevuto un mese di salario a bon conto. Et correranno le dette mesate si a tanto che noi, con l’agiuto di Dio, con le nostre navi saremmo ritornati et ar vati a Genova, et ottenuto la pratica dal pregiatissimo Magistrato della Samta. Primo Tutti gli officiali, e marinari saranno obbligati al tempo preciso condo dal capitano sarà ordinato, trovarsi alla nave, sotto pena di un mese di sa ano, dal che all’absente sarà senza dilatione dato debito al suo conto. 2 Nessuno delli officiali o marinari essendo al servitio della compagnia, p trà portare con lui denari o mercantia per negotiare in quelle parti nè per conto suo, nè per conto d altri, nelle navi (salvo con l’espresso consenso delli deputati e daton prima nota in scritto della qualità e quantità)b, nè meno al ritorno, carricare o have nella nave alcuna mercantia, nè oro, nè argento o altro, che havesse negotiato o barattato con altro effetto, (che sobra con pubblica notitia, et registrato dal seri vano della nave, con consenso delli direttori o commissi, in debita forma)c, s°tt0 pena della confiscatione a prò della compagnia. 3 Et havendo da esser un viaggio longo, è per questo necessario essere bon ordine nel vitto, tanto del bevere come del mangiare, tanto per conservatione a Dissavorare e di nuovo insavorrare-, sta per allibbare e zavorrare. b II passo fra parentesi è cancellato nel testo. c II passo fra parentesi è cancellato nel testo. — 86 - della sanità, come per far fare reo della vettovaglia et haverne per il bisogno. Si doverà ogn uno contentare con tale ratione come li direttori, çomissi e capitani ordineranno nel Conseglio della Nave, secondo l’occasione e tempi, conforme la •carta o lista della ratione, che sarà fatta. Et chi vi contradirà sarà posto nella prigione della proa per due settimane, et per sua ratione haverà solo pane et acqua. 4 Ogn’uno sarà tenuto di bevete lui la sua ratione del vino, all’hora quando a lui sarà data, senza custodirlo, nè venderlo, o darlo ad altri, et a chi non gusterà di beverlo, lo lascerà nella botte, senza poterlo doppo pretendere o haverlo. 5° Niuno potrà prender vino, o altra vetovaglia, di nascosto o secreta-mente, sotto pena d’esser posto per due settimane intiere a pane et acqua nella prigione, ma solo quello che sarà ordinato a tale effetto di trare lo vino e dispensare le vettovaglie, le potrà pigliare quando sarà hora e tempo. 6° Nessuno potrà cacchiared alcuna vettovaglia di carne, pesce, formaggio, nè altra qualsivoglia cosa nel mare, sotto pretesto che non sia buona, solo col consenso del capitano et comisso, al giudicio de’ quali starà se la tal vettovaglia sarà bona da mangiare o no, sotto pena a chi farà in contrario di stare otto giorni nelli ferri, prigione a pane et acqua. 7° Et per mantenere concordia e pace nelle navi durante il viaggio nessuno non potrà fare nè questione nè rissa, sotto la pena di esser battuto con un pezzo di corda per suo quarteroc. 8° Chi darà pugni ad un altro sarà posto per tre giorni nelli ferri in prigione; ma chi rancherà coltello in collera per ferire un altro, sarà con un coltello per la mano inchiodato all’albero, et starvi tanto sino a che tiri lui medesimo il coltello per la mano, ma se il tale haverà ferito un altro e fatto uscire sangue, sarà passato sotto lo primo della navef et, nè mas nè meno, cascare in pena di sei mesi di suo salario. 9° Et essendo che per gli giuochi de’ dadi et carte nascono molte disgra-tie et inimicitie, nessuno non potrà havere nè tenere nella nave nè altrove appresso di sè nè dadi, nè carte; nè simili instromenti di gioco portare, nè fare, nè tenere appresso di sè, che solo quello, che sarà concesso per passatempo co’ speciale licenza del direttore e capitano, sotto pena di stare ogni volta una settimana in prigione, a pane et acqua nelli ferri, et che carte, et dadi, o altri instromenti illeciti saranno gettati nel mare. 10° Et tutto quello che con giuoco o scommessa durante questo viaggio uno haverà guadagnato all’altro, lo perditore non sarà tenuto al pagamento et essendo già pagato, lo vincitore dovrà restituirlo, overo si darà debito al conto del fuadagnatore, et tanto quello, che haverà guadagnato, come quello che haverà perso caderanno in pena arbitraria al conseglio della nave. 11° Se alcuno, tanto in nave come fuori di questo porto o città, in altra parte, s’ubriacherà, cascherà in pena di esser posto per due settimane continue nella d Cacchiare-, sta per buttare. e Quartero-, sta per responsabile del turno di guardia. ! Sarà passato sotto il primo della nave: sta per essere trascinato sotto la chiglia della nave. - 87 - prigione della proa, a pane et acqua. Se la cosa sarà fatta da uno della carnei a di poppa cascherà in pena doppia, overo si redimerà con tre mesi di salario per pena, 12° Se alcuno amassera un altro nella nave, nel viaggio dell andata verso quelle parti d’indie, et che doppo matura consideratione delli ufficiali del onsi glio della Nave et de tutti gli altri marinari della medesima nave che passe ranna l’ettà d’anni ..., et doppo esser dato tempo di giorni doi al reo i a e^are-quello che vorrà in sua diffesa, sarà lo reo sententiato a morte dalle quattro quinte parti delli giudici, all’hora lo reo insieme col morto, sarà gettato in mare bandonato. Ma se tale caso di amazzamento seguirà nel viaggio di ritorno, farà lo possibile di tenere lo delinquente prigione, per condurlo e consignar o qu in mano alla Giustizia Suprema. 13° Nessuno potrà andare con fuoco o candela o altro lume, basso, nè nel corpo s della nave, nè nella bottigliaria, nè nella dispensa, ne m^ meno nella camera della polvere, nè adoprar in altra parte delia nave, ne ^ nè lume, che solo con espresso consenso delli direttori, capitani e comissi, pena d’esser gravemente castigato ad arbitrio del conseglio della nave. 14° Et per oviare et impedire gli pericoli del fuoco che possono col bevere del tabacco, resta prohibito ad ogn’uno di comprare o ven er^ rattare del tabacco, e nessuno lo potrà bevere, nè di giorno nè di notte, c sopra la nave, alla scoperta, fra gli alberi maestra e trinchetto, overo a tro simile concesso dal direttore, capitano e commisso, sotto che lo contrafacen volta sarà posto per quattro giorni nella prigione della prora, a pane et aqua 15° Più resta prohibito a tutti, niuno escluso, di havere o tenere app ^ di sè michie o candele accese, o altro fuoco, quando bene lo havesse compra suoi propri denari, nè adoprarlo se non ex-officio et bisogno della nave l’hora con speciale licenza del capitano e commisso, sotto pena di stare otto g nelli ferri prigione, et perdita di un mese di salario. . 16° Nessuno potrà far sparare artigliarla nella nave, nemeno Pe r ^ altre simili bocche da fuoco, sopra battelli o chialuppe, massime in le Partl 1 Indie, senza speciale ordine del capitano o commisso, sotto pena di un mes salario. 17° Nessuno potrà con battello o altro vascello andar dalla nave a per qualsivoglia cause doppo che sarà poste la guardia o sentinella, solo speciale licenza del direttore o capitano. 18° Nessuno dopo la guardia potrà far rumore, ma ogn’uno tenersi e guar dar il luoco ove sarà posto o ordinato dal capitano. 19° Nessuna guardia lascierà, nè di giorno nè di notte, fuori di questo porto accostarsi alla nave vascello alcuno senza consenso del direttore o capitano» sotto pena corporale. 20 Nessuno si potrà impadronire d’alcun dormitorio o cameretta senza speciale licenza del capitano; nè meno nessuno potrà tenere nè fieno, nè paglia * Nel corpo: sta per sotto coperta. nè il suo dormitorio o saccone, senza licenza del capitano, sotto pena di un mese di salario. 21° Et per oviare et impedire qualsivoglia disordine et far il dovere, sarà sopra ogni nave formato e stabilito un conseglio di nave di cinque persone per giudici, cioè saranno lo direttore, Io capitano, lo commisso, et due delli ufficiali delle navi, li più discreti et habili fra piloto, nocchiero, guardiano overo bombarderò, che disponeranno nelle cose civili overo criminali o falli leggieri sottoposti a pene di prigionia, pecuniarie, et di inchiodare all’albero, o flagellatione con corda. Et le cause criminali di maggior castigo si faranno come nel capitolo 12°. 22° Nessuno doverà biastemare Iddio nè suoi Santi, nè spergiurare, nè disturbare alcuno nelle sue orationi nè divotioni, ma ognuno si comporterà modestamente, virtuosamente et honoratamente, senza dare alcun scandalo a qualsivoglia persona, o far o dir cosa meno che honesta, sotto perdita di qualsivogli suo ufficio o dignità. Et chi darà causa di scandalo o commetterà cosa dishonesta, sarà tenuto per indegno di conversare, o bevere, o mangiare con gl’altri alla mensa, o in compagnia d’altri. 23° Lo barbero et sottobarbero saranno! obbligati di esser pronti e vigilanti e di far ogni possibile diligenza per curare, guarire, et restaurare li feriti et amalati, senza altro premio o salario che le accordate mesate, et se da alcuno havessero ricevuto o goduto altro salario, recompensa, o mercede, lo doveranno ristituire, e quello per tale effetto a loro promesso non sarà valido. 24° Però da piaghe o altre ferite non havute nel servitio della Compagnia nelle navi potranno haver mercede o pagamento, a discretione del capitano o del ;omisso. 25° L’ospedalero, o procuratore politico civile, haverà particolare cura delli amalati et feriti che alli debiti tempi siano medicati e curati e somministrato loro cibo et remedij giovevoli, et in caso che alcuno vogli far testamento, darne notitia al capitano et commesso per operare che la volontà del testatore sia bene intesa, esposta in scritto, et da testimonii non interessati verificata, e registrato nelli libri della nave. Et l’azenda o heredità inventariata et quelle robbe che ha in nave, vendute alT’incanto avanti all’albero maestro, et li compratori fattine debitori al loro conto de salarij, con avertire, che non siano quelli debitori per maggior somma carricata, che possono esser creditori, o in altro modo lo testatore, overo sua vedova e pupilli, patiscono; et che la heredità vadi in mano del capitano o comesso, per essere al salvo arrivo, data alli signori Deputati. Et più lo tal hospidalero et procuratore haverà particolare cura di far che li minori o innocenti non siano agravati, oppressi overo maltrattati dalli insolenti, ma da li superiori protegiuti in quello sarà di ragione; et in occasione di dover mandare alcuno in terra, overo a altro vascello, capo di armata, o squadre o in alcun luogo dove non sarà bene di andare direttore, per non esser per caso di trattenimento o rite-nimento privato, di tale indiscomodo, o altro simile, lo procuratore sarà pronto di andare et fare quello che dal direttore o capitano sarà ordinato, senza alcuna con-traditione. 26° Quando in occasione d’incontrare navi per camino, in marina o in porto, la trombetta o tamburo darà segno dell’arme, promettiamo di esser subito - 89 - pronti et esponer la nostra persona, ogn’uno in particolare et tutti insieme in ogni pericolo, per diffondere la nave e robbe et la vita dei nostri superiori, et le nostre, ponendosi nelli luoghi assegnati et ordinati ad ogn’uno di noi, per resistere et offendere li nostri nemici, per quanto a noi sarà possibile, sotto pena della nostra vita et de esser stimati infami. 27° Al’incontro gli Deputati della Compagnia hanno promettuto a noi che in caso che nel deffendere la nave et mercantia alcuno delli ufficiali o marinari sara ferito e perderà la sanità della sua vita, di farli curare e guarire et mantenere per mezzo di chirurghi a modo tale, che se alcuno delli ufficiali o marinari nella attuale diffesa et servitio loro, resterà stropiato, sarà ricompensato nel modo seguente, se condo la causa, a ragione che se uno haverà: Perso lo braccio dritto sarà ricompensato con fiorini ottocento, Per lo braccio sinistro fiorini cinquecento; Per una gamba fiorini quattrocentocinquanta; Per ambe le gambe fiorini ottocento; Per la perdita di un occhio fiorini trecento; Per ambi li occhi fiorini novecento; Per la mano sinistra fiorini quattrocento; Per la mano dritta, seicento; Per ambe le mani fiorini mille. Et in caso, che uno fosse stato ferito et della ferita rimanesse guarito a modo che, nè più nè meno, tuttavia restasse stropiato, sarà ricompensato a discrett et giudicio di buoni huomini intelligenti di simil caso, doppo che si havverà avu mira e bastante informatione, e verificatione per li capi, et ufficiali, che sa stati presenti al successo. . 28 Et acciò che quelli che navigando sopra l’una overo 1 altra nave. 1 incontro saranno offensivi o defensivi, habbiano bona o maggior cura a guar a-la loro nave d’ogni pericolo d’abbrugiamento o naufragio, habbiano a sapere per loro cautella et hipoteca delli loro salari)' o altro che hanno nella nave, haranno la nave con quelle mercantie che vi sono dentro, compreso denari contanti, oro-argento, ma non altra cosa fuori della nave, a modo tale che ogn’uno delli u eia i e marinari ne corre lo risico e pericolo delli suoi salarij sopra la medesima nave ove se ritrova, e successivamente, perdendosi la nave et le robbe che sono in essa, si milmente perde ancora tutte le sue mesate et salarij guadagnati sopra la nave, senza potere pretendere niente dalla Compagnia suddetta. 29 Se alcuno officiale o marinaro diventasse infedele e fuggisse alla parte nemica, overo fugisse con la mesata o salario ricevuto, saranno confiscati suoi beni e salarij se sarà creditore, ma bandito e pubblicato per infame, et venendo in potere delli nostri ufficiali, sara castigato corporalmente secondo che meriterà, sino alla morte. 30 Se alcuno delli ufficiali o marinari durante lo viaggio venirà a morire, overo divenisse insensato o scemo di cervello o prigione essendo in servitio della compagnia, in tal caso, quando la nave sarà arrivata di ritorno a salvamento, sarà — 90 — dato o pagato alii heredi overo più propinqui di quello, sino al tempo che è stato vivo overo habile o in servitio delia compagnia. 31" Gl’ufficiali e marinari, li quali combattendo offensive overo defensive contro nemici, o per incendio o per esser affondato e perderanno loro nave, loro saranno pagati delli salarij che saranno creditori avanti tal caso, ma se la nave sarà presa dalli inimici saranno ancora presi et persi loro salarij. 32° Lo bombardiere e suo compagno sarà tenuto ogni quendici giorni una volta, di voltare li barrili della polvere il sotto di sopra, et con occasione di bon tempo, quando il fuoco da per tutto sarà bene estinto, portare la detta polvere al sole, e potendo seguire in terra, fuori d’ogni pericolo, sarà tanto meglio. 33° Similmente haverà particolar cura de le palle delli pezzi siano appresso ogni pezzo overo a suoi luoghi le medesime e proprie palle confacenti alli medesimi pezzi, acciò che in tempo del bisogno non segua confusione in haver appresso li pezzi balle più grosse o piccole del dovere, sotto pena di tre mesi di salario del detto bombarderò se disquiderà. 34° Nessuno dovrà ascondere overo stralattareh, nè poner o metter in luoghi non soliti o usati alcuni instrumenti appartenenti a maestri d’ascia, pilotti, bombarderò, chirurgo, scalco, o altro simile, e chi lo farà malitiosamente, overo a caso pensato, sarà casticato col cavo di corda avanti l’albero. 35° Nessuno doverà nè bruttare nè orinare dentro la nave in loco insolito, ma farlo nelli luoghi ordinati; ne meno havendo lavato o bagnato suoi vestimenti, lassarli nelli canti bagnati a putrire, guastar, o far puzzare, senza finirle a nereggiare et asciugare, sotto pena di perdere la sua ratione del vino. 36° Ogni ufficiale o marinaro sarà obbligato, quando sarà ordinato dal direttore e capitano per loro sicurezza particolare, come in servizio della compagnia et diffesa di tutto lo commune, a travagliare e lavorare a fare fortezza, battaria o altro lavoro con sappe, badile, con coffe o simile, senza haverne altro premio che la vettovaglia libera, oltre la ratione ordinaria durante lo tempo che si lavorerà. 37° Nessun officiale nè marinaro, essendo in servitio della compagnia, non doverà a qualsivoglia indiano dare o fare insulto, nè forzo, ne insolentia, ne prender loro alcuna cosa sua, nè disgustar le loro persone, mogli e figlioli, se non sarà ordinato dal capitano o direttore, sotto pena di esser castigato secondo l’occasione, etiamDio corporalmente. h Stralattare: sta per collocare, nascondere tra le « latte » (tavole od ossature dei ponti). - 91 - ALBERTO BROCCA IL PROCEDIMENTO CRIMINALE ORDINARIO A GENOVA NEL XVIII SECOLO Sommario-, l. Premesse. 2. L’inizio della fase informativa del procedimento. 3. II procedimento in contumacia. 4. L’interrogatorio dell’imputato e la fase difensiva. 5. La sentenza, i rimedi contro di essa, l’esecuzione. 6. Cenni sui procedimenti straordinari. 7. Brevi considerazioni conclusive. 1. Ad occuparsi di storia del diritto penale si riceve oggi facilmente l’impressione che gli scritti in materia possano distinguersi abbastanza chiaramente in due categorie. Da un lato sembrano stare le ricerche, prevalentemente dovute agli studiosi di storia del diritto, che mirano, pur nella diversità di metodo e di impostazione, alla pubblicazione delle fonti, alla ricostruzione degli ordinamenti, alla individuazione di quelli che ne furono gli svolgimenti, all’analisi dei vari e fra loro diversi periodi,, ad un esame del fenomeno penalistico nei suoi molteplici aspetti. Dall’altro lato pare si pongano gli scritti, in prevalenza degli studiosi del diritto penale vigente, che, sulla base del giudizio formulato dagli illuministi nel corso di un’aspra lotta ideologica, avendo riguardo soprattutto a quella parte, pur rilevantissima, del fenomeno generale, che è la politica criminale, formulano prevalentemente delle valutazioni che in genere consistono in un globale giudizio negativo sul tipo di pene e il modo di infliggerle almeno fino al Beccaria. Accanto a questa impressione si pone poi la constatazione di come le ricerche storiche in campo penale siano scarse, non recenti tranne qualche eccezione, e spesso tendenti a visioni generali, indubbiamente stimolanti ma di incerta corrispondenza alla multiforme realtà. Di qui la giustificazione di una indagine che, entro precisi limiti locali e temporali, intende ricostruire il procedimento penale dell’ordinamento genovese della fine del XVIII secolo, documentandolo particolarmente con quelle fonti che possono suggerire un ambiente e i suoi ideali1 1 Anche per Genova il Settecento fu un secolo pieno di contrasti, difficile da ricomporre in un quadro sommario o da ridurre in un giudizio univoco. E varia- - 95 - e sottolineando, d’altro lato, la posizione critica dei contemporanei rispetto a quel modo di attuare il diritto. Le ricerche locali sono infatti caratterizzate dalia concretezza ed è sulla scorta del differenziato contributo di indagini aderenti alla realtà che si possono eliminare le generalizzazioni e procedere a certe revisioni. D’altro lato, sottolineare esclusivamente il giudizio dei contemporanei significa cercare di soddisfare l’esigenza di liberarsi dagli errori di impostazione che possono derivare dal costringere gli istituti del passato entro schemi attuali e da quell’atteggiamento che, lungi dall'imparare qualcosa dalla storia, sembra piuttosto voler a quella insegnare, sulla base di successive esperienze e diverse acquisizioni. La ricerca 2 ha inteso prescindere da problemi di origine e di evoluzione dei vari istituti, avendo piuttosto lo scopo di sorprendere lo svolgimento di un complesso procedimento storico in un suo momento particolarmente significativo: nel saliente periodo di crisi in cui i giudizi ne- mente è stato giudicato. Per una esposizione della storiografia in materia nelle sue varie tendenze, che vanno da una valutazione globalmente negativa causa la neutralità sempre mantenuta dalla Repubblica e giudicata « antirisorgimentale » a positive considerazioni fondate soprattutto sulla ribellione popolare antiaustriaca, da ri-costruzioni storiche sulla frivola base della vita mondana ad una rivalutazione generale del secolo ad opera di studiosi locali che offrono un panorama più documentato della multiforme vita cittadina, cfr. L. Garibbo, La politica genovese dal 1792 al 1805, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova, 1967, I, p. 201 e sgg. 2 Per la storia del diritto e della procedura penale sono tuttora fondamentali le opere generali di P. Del Giudice, Storia della procedura, Milano 1902 (in A. Perule, Storia del diritto italiano); C. Calisse, Svolgimento storico del diritto penale in Italia dalle invasioni barbariche alle riforme del sec. XVIII, Milano 1906 (in E. Pessina, Enciclopedia del diritto penale, vol. II); P. Del Giudice, Fonti (dal sec. XVI ai giorni nostri), Milano 1923 (in P. Del Giudice, Storia del diritto italiano)-, E. Besta, Fonti (dalla caduta dell’impero romano al sec. XVI), Milano 1925 (in P. Del Giudice, Storia cit.); G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, Milano 1927 (in P. Del Giudice, Storia cit.). Importante per il nostro campo di indagine è pure la ricerca di P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, Milano 1954. Per puntuali riferimenti all’amministrazione della giustizia criminale nella Repubblica di Genova cfr., tra i rari lavori di storia del diritto genovese (materia ancor tutta da scoprire, salvo qualche branca particolare e alcuni interventi), G. Forcheri, Doge, governatori, procuratori, consigli e magistrati dèlia Repubblica di Genova, Genova 1968. - 96 - gativi e con essi la coscienza riflessa sui sistemi e sulle pratiche della giustizia criminale trovarono diffusione e consenso 3. Per la ricostruzione dell 'iter processuale sono state utilizzate le opere di dottrina4, gli Statuti criminali5 e gli atti giudiziari6 del Settecento genovese. 3 Ricerche documentate (Mereu, Storia del diritto penale nel ‘500. Studi e ricerche, vol. I, Napoli 1964) tendono a sfatare il mito deH’illuminismo come periodo culturale in cui sarebbero sorti i presupposti umanitari del moderno diritto penale, dimostrando analoghi presupposti nel pensiero di epoche precedenti, il che non toglie che fu soltanto nel Settecnto che certi fermenti e certe istanze assunsero rilievo e furono condivise. Le opere pubblicate a Genova per il periodo che ci interessa sono: Emanuele Vignolo, Praxis iudiciaria criminalis, 1695, e Ignazio Carbonara, Institutiones criminales, 1790. La prima, il cui autore (che pubblicò anche una Teoria e pratica de’ Notari, di cui si ebbero diverse edizioni nel Settecento), fu membro del collegio notarile genovese, è un libretto di circa duecento pagine recante le formule di tutti gli atti da stendersi da parte del notaio lungo lo svolgimento del procedimento criminale: le riproduzioni dei vari atti, complete ed esemplificate, sono legate fra loro, logicamente e cronologicamente, da trafiletti in corsivo che sintetizzano pianamente lo svolgersi del giudizio. La seconda, il cui autore fu membro del collegio dei Giurisperiti, è, si direbbe oggi, un manuale completo di diritto e di procedura penale: ogni singolo argomento è trattato con chiarezza ed uniformità; l’autore definisce, costruisce, espone in colloquio costante con la dottrina comune e con le fonti locali e generali; ne è derivata una trattazione organica del diritto criminale ragionato ed esposto nei suoi molteplici fondamenti. Sulla scorta del Carbonara, viene talora fatto riferimento, nella presente ricerca, ai maggiori cri-minalisti: soprattutto Claro e Farinacio, i quali conservavano nel XVIII secolo immutata la loro autorità. 5 L’edizione degli Statuti Criminali della Serenissima Repubblica ancora in uso nel Settecento è quella del 1671: Criminalium lurium serenissimae Reipublicae Genuensis libri duo, Genova 1669. Si tratta di una riedizione degli Statuti del 1590 che sotto gli stessi titoli riporta pure le varie innovazioni legislative succedutesi nel tempo e che soltanto due anni dopo la sua messa a punto ottenne l’approvazione del Senato. Il primo libro riunisce, in 126 capitoli, con un ordine sistematico piuttosto approssimativo, due serie di norme: quelle sull’ordinamento delle magistrature con competenza criminale e quelle sulla procedura; il secondo libro è quello che oggi diremmo di parte speciale, cioè un elenco, in 149 capitoli, dei vari delitti sanzionati con le relative pene. 6 Gli originali dei documenti qui pubblicati si trovano nell’Archivio di Stato di Genova dove, sparse ma abbondanti, sono le varie testimonianze sull’andamento della giustizia criminale della Repubblica aristocratica. La succinta ricostruzione di - 97 - I riferimenti al modo di svolgersi del procedimento in altre terre d’Italia nello stesso periodo, inseriti al fine di offrire una dimensione più ampia e un termine di raffronto, sono stati limitati ai momenti e agli aspetti più salienti del processo genovese7. Le note al testo in caratteri ordinari contengono l’indicazione delle fonti o la riproduzione di documenti rinvenuti inerenti alle varie fasi del procedimento. Le note in corsivo riportano, invece, di volta in volta, alcune delle diverse critiche che i contemporanei muovevano al procedimento criminale del loro tempo s. Le illustrazioni al testo sono riproduzioni di quadretti ex-voto della fine del XVII secolo conservati nel deposito di Palazzo Rosso a Genova. 2. E vediamo lo svolgimento del processo ordinario innanzi alla Rota Criminale della Serenissima Repubblica di Genova 9. un intero processo celebrato a Genova nel Settecento si trova in G. Portigliotti, Patrizio genovese parricida, in Annali dell’Ospedale Psichiatrico della Provincia di Genova, 1931. 7 E’ stato fatto riferimento alla situazione di: Piemonte (Cost. del 1770); Ferrara (Statuta Urbis Penarne, 1587); Milano (Statuti del 1773); Padova (Statuta Patavina antiqua et reformata, 1682); Roma (Statuta almae Urbis Romae, 1611); Venezia (Statuti criminali del dominio veneto del 1751); Napoli (Legislazione di Ferdinando IV); Lucca (Statuti del 1539); Corsica (Statuti civili e criminali, 1602), Toscana (Riforma della legislazione criminale del 1786): per una più abbondante utilizzazione di queste fonti cfr. P. Del Giudice cit., passim; G. Salviolt cit.,. passim. 8 Sono stati utilizzati: C. Beccakia, Dei delitti e delle pene, ed. Giuffrè; Milano 1965 e F. M. Pagano, Considerazioni sul processo criminale, Milano 1801. Per una più ampia esposizione dei fermenti culturali e delle innovazioni nel diritto penale del Settecento, cfr. E. Pessina, Il diritto penale in Italia da Cesare Beccaria sino alla promulgazione del codice penale vigente, Milano 1906 (in E. Pessina, Enc. cit.). Sono state anche riportate, al fine di testimoniare le critiche che da diversi punti di vista e per diverse esigenze venivano mosse dai singoli al modo di rendere la giustizia penale, alcune lettere anonime (generalmente di protesta o di denuncia, indirizzate ai magistrati della Città per il tramite di una buca ancora oggi visibile neU’atrio di destra di Palazzo Ducale). 9 Nel 1576, anno in cui la Città si dava la Costituzione che l’avrebbe retta fino alla caduta del regime aristocratico, era stata istituita la Rota Criminale con competenza generale ed esclusiva in materia penale: « Apud hoc Tribunale resideat - 98 - procedimento può iniziare, secondo una distinzione generale e comune agli altri ordinamenti dell’epoca, o ad istanza di parte (per causa di qualcuno) o d ufficio (per denuncia anonima o rapporto)10. Data, come si vedrà, la struttura inquisitoria del procedimento, la accusa del privato ancora prevista nelle leggi », si era praticamente trasformata nella querela di parte riservata all’offeso e come tale era intesa dalla omnis auctoritas et iurisdictio causarum criminalium eorum delictorum quae in civitate et in tribus curiis Bisamniensi, Porciferana et Vulturensi committuntur tam in procedendo quam in decidendo (Erectio Rotae Criminalis, «Letum 1576 in 1590 » in A.S.G., Bibi. n. 42). Nel Settecento peraltro la Rota era solo una delle numerose magistrature nella Città e nel Dominio con competenza penale, essendosi quasi subito abbandonato il chiaro sistema instaurato nel 1576 che praticamente importava una divisione del potere giurisdizionale da quello di governo: incidenza nell’amministrazione della giustizia e giurisdizione penale ebbero fin dal 1587 e con sempre maggiore estensione le supreme magistrature della Città (cfr. Crim. lur. cit., 1. I, cap. XXII a XXXV); vi erano poi un gran numero di magistrature minori con competenza specifica in vari campi che, oltre al potere disciplinare nei confronti dei loro dipendenti, avevano una vera e propria iurisdictio criminalis nei confronti di quanti evadevano la legge in quei settori alla cui tutela erano preposte (cfr. Crim. lur. cit 1. I, cap. XXXVI a L). Resta da verificare il rapporto fra il lavoro svolto dalla Rota e quello svolto dalle altre autorità con competenza criminale (come pure la incidenza del potere politico sull’amministrazione della giustizia) per avere un quadro della rilevanza pratica del processo ordinario qui descritto. Parte rilevante nello « scagno criminale » aveva poi l’Awocato Fiscale, le cui precipue incombenze consistevano nella difesa delle ragioni del Fisco nelle cause trattate davanti alla Rota sia che si procedesse d’ufficio sia ad istanza di parte, nel rivedere con cura i processi, nell’assistere la Rota quando si dovevano trattare, consultare o terminare le cause o redigere le sentenze, nell’addurre, allegare o richiedere tutto quello che stimasse conveniente per la giustizia quando si dava udienza agli avvocati e procuratori dei rei e in contraddittorio e fuori di esso (A.S.G., Arch Segreto, Politicorum, n 1652, « Relazione sopra la direzione dello scagno criminale ». 10 Crim. lur. cit., 1. I, cap. I; E. Vignolo cit., p. 1: « In iudiciis criminalibus de iure quinque modis procedendi potest: per accusationem, per denuntiationem, per exceptionem, per inquisitionem et extraordinarie. Oggi però il tutto si riduce a due modi in tutte le cause, cioè aut proceditur ad partis instantiam aut ex officio ». 11 Crim. lur. cit., 1. I, capp. LXV e LXVI. Disposizioni analoghe si trovano negli Statuta Urbis Ferrariae cit., pressoché contemporanei a quelli genovesi: 1. Ili De maleficiis, cap I De forma procedendi super accusationibus, p. 118. dottrina non solo genovese n. Il querelante doveva sottoporsi alla poena talionis, mitigata dagli Statuti Criminali nell’obbligo del versamento di una cauzione che, in caso di assoluzione, sarebbe servita per le spese prò cessuali13. I rapporti competevano, oltre che alla polizia 14, a due categorie di pubblici denunziatori: i Rectores per Parochias 15 e i Barbitonsores seu ChirurgiI6; ma il procedimento poteva iniziare anche in seguito a denun 12 Cfr. al riguardo: I. Carbonara cit., cap. IV, De accusatione, p- 25 e sgg, cfr. anche le considerazioni in proposito di G. Salvioli cit., II, P- 374. 13 Crim. Iur cit., 1. I. cap. LXVI, Quod denuntians vel accusans caveat; I. Carbonara cit., pp. 30 e 31; C. Beccaria cit., p. 34: «Ma ogni governo e hlicano e monarchico deve dare al calunniatore la stessa pena che tocc ere l’accusato »; F. M. Pagano cit., p. 123: « Non obbligandosi gli accusatori a a pena di calunnia, nè presso di noi condannandosi nell’istesso giudizio in cui si a l’accusato innocente, il calunniatore, come dalle leggi romane e del regno viene pr scritto, l’audacia de’ falsi accusatori resasi baldanzosa, il numero delle cause nonda il foro ». 14 A.S.G, ms. 683, Notizie di sentenze criminali e loro esecuzione (179 1796): « 1794 20 giugno. Denuncia del Bargello Simone d Oberti che in ica pitan Viale di guarnizione nel forte di Santa Maria. Il Bargello Simone d O erti fere per debito suo come in appresso: sono venuto in cognizione che il Signor ap Viale di guarnizione nel forte di Santa Maria abbia qualche notizia relativa^ a u club di giacobini che è nella giurisdizione di Sarzana (...); ciò che rifero all oggetto di questo Eccellentissimo et Illustrissimo Magistrato: si proceda ulteriormente a cognizione e punizione del reo ». 15 Crim. Iur. cit., 1. I, c. LXIV. De denunciatoribus delictorum: « Expedit maxime pro iustitia recte et fideliter administranda, adesse in Civitate Denuncia tores criminum. Ideo sancitum est in unaquaque Parochia, per vicinos singulo trien nio, eligi debere duos Officiales, qui teneantur omnia delicta quae in sua Parochia committi contingent, ea quae diurno tempore saltem in die immediate frequenti, quae vero nocturno saltem intra biduum, Praetori denuntiare, exprimendo delicti tempus, locum, delinquentes, offensi nomen et cognomen et testium qui adfuerint vel sciverint, aliasque circumstantias omnes quas de his acceperint ». Istituzione analoga era quella prevista dagli Statuti di Milano del 1773, al c. CLXXXXVIII « Degli Anziani delle Parrocchie ». 16 Crim. Iur. cit., 1. I, c. LXX. De notificationibus a Chirurgis faciendis, c. LXXI De relationibus Chirurgorum sine iuramento non admittendis. Disposizioni analoghe si trovano per Padova negli Statuta patavina antiqua et reformata, 1682, car. 224. — 100 — _ cia segreta 17. Riguardo alle denuncie Farinacio18 consigliava di evitare qualsiasi penalità o esclusione di categorie che potessero ammutolire gli accusatori o restringerne il numero e anche negli altri ordinamenti, come in quello genovese, si può credere ci si attenesse più o meno assoluta-mente a tale suggerimento 19. In seguito alla notitia criminis ha inizio quella che veniva chiamata generalis inquisitio-, il giudice decreta l’inizio dell’attività informativa, mirante ad accertare la commissione del fatto di reato, il c.d. corpus delieti20. Le modalità di accertamento del fatto variavano in corrispondenza del tipo di reato 21 e, se del caso, si ricorreva all’opera di periti. Le « visite » peritali potevano riguardare: lo stato delle persone, i cadaveri, lo stato delle cose22. La prova del fatto era, come negli altri ordinamenti, condizione 17 I. Carbonara cit., p. 38: Tertia denuntiationum species est in delatoribus illis, qui ad auriculam iudicis in secreto accedunt, aliosque de criminibus et maleficiis diffamant, quos Sussurrones et Curiae Vituperatores appellat Farinae, quaest. 16 n. 17 et vulgo dicuntur «Spie», ad quorum delationes ut secretus remaneat accusator , saepe saepius incohantur processus cum solitis illis dictionibus « pervenit ad aures», contra quem procedendi modum graviter invehit (...segue la citazione di Dottori contrari alle accuse segrete ritenute causa di nullità del procedimento); quidquid tamen dicant praefati DD. contrarium in nostro Dominio usum receptum fuit prout ego vidi et in dies video plures et quidem graves processus a praedicto «pervenit ad aures» initium sumere. C. Beccaria cit., p. 33: «Evidenti ma consagrati disordini, e in molte nazioni resi necessari per la debolezza della costituzione sono le accuse segrete. Un tal costume rende gli uomini mendaci e coperti ». >8 Qu. 16. 19 Cfr. peraltro gli Statuta almae Urbis Romae del 1611: 1. II, c. Ili De cautione ab accusare volentibus praestanda et poena eorum qui delieta non probaverint; e gli Statuti criminali del Dominio veneto, 1751 che ritenevano irrilevanti le accuse di domestiche o donne di mala vita di essere state sedotte (p. 17). 20 E. Vignolo cit., p. 10: « Dopo questi principi si deve considerare la qualità del delitto e se richiede la visita per far constare del corpo di esso delitto ». 21 I. Carbonara cit., c. VI, De corpore delieti in genere descrive dettagliata-mente i diversi accorgimenti richiesti soprattutto in ordine alla differenza fra reati istantanei e permanenti. 22 Gli Statuti Criminali genovesi contengono numerose e dettagliate norme sugli interventi (« visite ») peritali e sulle modalità degli stessi (la relazione inizierà con visitatum se si tratta di ferita, con visum se si tratta di cadavere, accessum se si tratta di danni) (Sr. 1. I, capp. LXXIII a LXXX). - 101 - indispensabile perchè il procedimento avanzasse nella fase dell’inquisizione speciale, altrimenti si archiviava23. L’accertamento del corpus delieti e una legitima informatio erano richieste per procedere alla cattura 24 del-l’indiziato25, a parte, naturalmente, i casi di flagranza 26. 23 I. Carbonara cit., p. 39: Talis est efficaciae ac talis prerogativae corpus delicti, ut contra neminem inquiri possit, nisi prius de eo legitimae constet, iuxta communem et praticatam opinionem, a qua nemo est ex DD. qui discrepat, teste Farinae, q. 2 n. 1 vers. Quare. G. Salvioli (cit., II, p. 384) osserva che furono i criminalisti italiani del sec. XVI a imporre l’obbligo dell 'ingenere come base dell’istruzione, dato che nè il diritto romano nè il diritto canonico conobbero la necessità della prova del corpo del delitto indipendentemente dal suo autore. 24 I. Carbonara cit., p. 151, che si richiama all’autorità di Baldo, Bartolo, Claro e Farinacio, concordi nel ritenere che il procedimento non poteva iniziare con la cattura. 25 A.S.G., ms. 681, Notizie di sentenze criminali e loro esecuzione: « 1701, 22 8bre. Il preteso ladro della Sacra Pisside mancata nella chiesa di San Teodoro la mattina del Sabato 22 ottobre si dice chiamarsi Francesco Maria Bertoni di Spigno. Viene descritto dalli testimoni: per un giovine; d’età d’anni venticinque in ven-totto; di stamra ordinaria; di faccia spipora, brunetto; capelli corti alquanto ricci; vestito con marsina di panno nero con bottoni grossi; rivertichetta con barbette corte all’uso come si suol dire da Abbate. La persona sopra descritta resta peraltro gravemente indiziata sopra tale furto sacrilego; mentre più testimoni dipongono respective (...segue il lungo elenco e la descrizione delle testimonianze). Tutti questi indizi basterebbero se il reo fosse presente alla tortura e così formare l’inquisizione speciale in contumacia. Ma perchè non è certa la identità della persona sopra descritta, si stima necessario il ricercare con tutta la premura per indagare insieme la di lui qualità e fama e per arrestarlo ovunque capitasse quando veramente si identificasse la di lui persona ». 26 I. Carbonara cit., p. 151: in caso di flagranza chiunque poteva procedere all’arresto. Sugli inconvenienti che derivavano dall’incapacità degli organi di polizia in merito alla cattura dei delinquenti, significativo è il seguente biglietto di calice: « Foglio ricevuto nella cassetta degli avvisi segreti il 20 Gennaio 1770: ” Ill.mi Signori. Chi desidera togliere via gli inconvenienti che con notabile danno vanno seguendo per tutti li tribunali e massime nelli affari segreti delle catture che devono farsi in occasione da rei che in questo Governo Serenissimo trovansi, si fà presente che alcuni di Birri o con impegno di Ministri o con spesa manuale di denaro, ottengono li Baricellati tanto di Genova come di Riviera, senza sapere ne leggere ne scrivere; ciò seguito, esercitando simili caose, essendo a questi presentato qualche ordine in iscritto da rispettivi Tribunali, fà d’uopo che lo faccino leggere, dal che nasce l’avviso del reo... ” » (A.S.G., f. 492 « Magistrato de’ Supremi Sindacatori. Atti di Amministrazione »). - 102 - Il giudizio sulla sufficienza delle risultanze in ordine all’arresto era affidato alla discrezionalità del giudice, il quale doveva valutare l’entità del reato, le condizioni sociali e la fama del soggetto27. Anche negli altri ordinamenti il mandato di cattura, che doveva esser sempre preceduto dall informazione, era lasciato all’arbitrio del giudice28. A Genova le carceri si trovavano nel Palazzo che è attualmente sede dell’Archivio di Stato29. In ordine alla « libertà provvisoria » gli Statuti Criminali sotto la rubrica De reis in carceribus temere non retinendis30 disponevano che, per temperare la norma (libro I, cap. XVII) secondo la quale nessuno poteva essere liberato se non terminato il procedimento che lo riguardava, per la scarcerazione anticipata ci si rimetteva « arbitrio Domini Praetoris et Auditorum Rotae qui secundum qualitatem facti et personarum nec non et 27 Ad ogni buon conto il Carbonara (cit., p. 151) aggiunge: certe si Iudex essem haud haererem in decernenda captura: Iustitiae enim consulere debemus et proinde suspectus arrestare ne per fugam impunitatem quaerat. 28 Gli Statuta Patavina cit. (car. 146) stabilivano, sotto la rubrica De carceribus et carcerandis: Quicumque fuerit de aliquo crimine accusatus vel denuntiatus seu inquisitus ex officio Domini Potestatis, propter quod debeat corporaliter puniri, possit capi et detineri, et personaliter in carceres detrudi et retineri prout Domini Potestati conveniens videbitur, quamdiu cognitum et pronuntiatum fuerit contra ■eum. Per analoghe notizie su altri Stati e per l’affermazione che tale discrezionalità si era, per via di interpretazione, conferita al giudice, dato che questi poteva infliggere anche pene arbitrarie, cfr. G. Salvioli cit., II, p. 386; C. Beccaria cit., p. 23: « Un errore non meno comune che contrario al fine sociale, che è l’opinione della propria sicurezza, è di lasciar arbitro il magistrato esecutore delle leggi, di imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti e di lasciare impunito un amico ad onta degli indizi più forti di reità ». 29 Cfr. F. Alizeri, Guida illustrativa del cittadino e del forestiero per la città di Genova e sue adiacenze, Genova 1875, pp. 107 e 673. Dalle « Istruzioni di quello che deve osservare il Carceriere e Agiutanti delle Carceri Criminali di Genova » (A.S.G., Miscellanea di documenti a stampa della Repubblica di Genova, busta 28) riportiamo due frasi indicative delle condizioni in cui si trovavano i detenuti: « che non si possa mettere nè levare Traverse, Zeppi e Manette a Carcerati senza ordine del Mag. Auditore della Rota »; « La Mag. Rota li destinerà il numero per ogni camera de’ Carcerati ». 30 Crim. lur. cit., 1. I, c. XVIII. - 103 - indiciorum quibus unusquisque detentus gravabitur, quod iustutn et con-veniens eis visum fuerit statuent »31. L’attività istruttoria, segreta (in quanto si svolgeva tenendone completamente all’oscuro l’indiziato e il suo eventuale difensore)32 e scritta (in quanto tutte le risultanze e attività venivano fissate in molteplici e predeterminati verbali)33, prosegue quindi al fine di individuare con certezza l’autore del reato e di raccogliere contro di lui prove sufficienti (inquisitio specialis)-, il sistema inquisitorio, sostanzialmente con gli stessi caratteri, si praticava in tutti i Tribunali d’Italia M. 31 Al riguardo, sulle lungaggini del procedimento, cfr. A.S.G., f. 492 cit.r «23 marzo 1770. Ill.mi Signori. Non posso fare a meno di notificare a VV.SS. lll.me come provveditori di Giustizia di questa M.ca Rota Criminale che prosiegue con certi termini di giustizia non troppo adattabili alle nostre leggi, perchè questa mi sembra un’arte e non un Tribunale di Giustizia », Biglietto di Calice che lamenta il mancato rispetto dei termini perentori e dilatori. 32 F. M. Pagano cit., al cap. XII « Origine del segreto e misterioso procedimento » e al cap. XIV « Origine degli intrighi e laberinti del presente processo » formula delle ipotesi sul perchè si passò dal sistema accusatorio a quello inquisitorio e critica l’ibrido informe cui si giunse volendo conciliare i testi romani basati sul sistema accusatorio e le opposte tendenze inquisitorie. 33 F. M. Pagano cit., pp. 157-161: «A chiaro giorno si scorge quanti dati mancano a’ giudici nel sistema della presente scritta inquisizione (...). La probabilità della prova nascente dalla fede de’ testimoni (...) decresce tanto più quanti sono i mezzi pei i quali passa, innanzi che al giudice provenga (. . .). Nella scritta informazione o vengono fedelmente trascritte le parole de’ testimoni per lo più idioti ed ignoranti, e la contradizione smentirà i loro detti, o dall’inquisitore si disporranno in miglior forma le idee, ed allora si giudicherà su quello che l’inqui-sitore dice, e non già sulle fedeli deposizioni de’ testimoni ». 34 Lo attestano per il secolo XVII i criminalisti Claro (par. finali, qu. 3,. n. 6) e Farinacio (Quaest. Crim., vol. I, qu. 1, n. 10): G. Salvioli cit., vol. II, p. 378. Il Fiorelli (cit., vol. I, p. 71 in nota) ricorda che « per la conferma data con altissima autorità alla nuova tendenza, ebbe fondamentale importanza il Concilio Lateranense IV del 1215, che sotto la rubrica « De inquisitionibus » (cap. 8)' enunciò principi generali e regole di applicazione cui la pratica si sarebbe attenuta per secoli persino nel formulario ». Il procedimento inquisitorio era confermato per il Piemonte dalle Costituzioni del 1770 che attribuivano agli avvocati fiscali il compito di promuovere informazioni e di vigilare sulle istruzioni segrete dei giudicanti; a Venezia particolarmente, attraverso il procedimento inquisitorio, veniva posto il diritto al servizio' della politica interna (cfr. al riguardo G. Salvioli cit., vol. II, p. 378). - 104 - Vengono chiamati a deporre coloro che dalle prime informazioni risultano essere in grado di fornire testimonianze utili35. Emesso il decreto di citazione, se i testi non comparivano entro tre giorni erano multati: veniva poi ripetuta la citazione con comminazione di pene più rigorose e infine venivano tradotti dalla polizia36. Non potevano rendere testimonanza i genitori, i figli e gli altri consanguinei e affini fino al quarto grado37. L’esame che, partendo dal generale, doveva arrivare fino ai particolari 38, avveniva in segreto39, alla presenza del giudice, sotto giuramento, e di esso il notaio redigeva verbale che doveva infine essere sottoscritto. Era prevista la possibilità innanzitutto di carcerare40 e successivamente di torturare i testi reticenti o convinti di mendacio4t. La tortura, sia per i testimoni, sia, come si vedrà, per il reo, non era il mezzo principale e normale di accertamento della verità, ma sol- 35 E. Vignolo cit., p. 14: « Il giudice proseguendo il processo per provare chi sia il delinquente deve citare tutti i testimoni (e da hora in avvenire le formule che si assegnano per un processo sono uguali per tutti li processi del mondo) ». I. Carbonara cit., p. 160: Probationes et indicia fere semper et testium depositione desumuntur. 36 Crim. lur. cit., 1. I, caP- LXXXI « De testibus cogendis »; E. Vignolo cit., pp. 16-17. 37 Cum natura repugnet nec Leges annuant quod sumantur arma de domo rei: I. Carbonara cit., p. 162. 38 I. Carbonara cit., p. 161. 39 Nullo penitus vocato, nec citato ipso inquisito quamvis esset in carceribus detentus (...); processus informativus etenim iit pro instructione et informatione iudicis ad acquirendas probationes et indicia quibus possit reus examinari-. I. Carbonara cit., p. 163. A Napoli però, nel 1789, Ferdinando IV ordinò che i testimoni nei processi criminali si interrogassero dinanzi ai giudici, in presenza dell’imputato e del suo difensore che avevano diritto di far loro direttamente quelle domande che credevano opportune (cfr. P. Del Giudice cit., vol. II, p. 186 in nota, che si rifa a Sclopis, Legisl. It., III, II, p. 680). 40 F. M. Pagano cit., p. 147: «Ragione vuole che siano carcerati que’ testimoni soltanto, i quali non vogliono deporre ciò che del delitto sanno. Quando l’in-quisitore abbia argomenti della loro scienza, ricusando di dire il vero, a ragione li può restringere. Ma codesti indizi sono dalla legge fissati? Dipendono soltanto dall’animo del giudice ». 41 E. Vignolo cit., pp. 17-18: « Se non volessero dire la verità si tengono alquanto carcerati e quando la causa fosse grave e che fossero verosimilmente informati si puonno anche torturare quando veritas aliunde haberi non possit ». - 105 - tanto, da un punto di vista teorico, uno strumento sostitutivo ed eventuale 4:. Numerosi erano i requisiti richiesti43 e varie le modalità di espletamento 44. Le disposizioni sulla tortura giudiziaria che sia negli Statuti Criminali genovesi sia, in genere nelle altre leggi particolari italiane, erano apparentemente sporadiche e manchevoli, venivano completate nella pratica giudiziaria dalla legge comune romana e canonica e dalla dottrina45. « Se con tutte queste diligenze »46 sono state raccolte prove sufficienti da consentire all’Avvocato Fiscale di motivare le sue accuse47, viene citato il reo per l’esame. 42 Requiritur quod veritas aliunde haberi nequeat, tortura enim est remedium subsidiarium pro veritate eruenda L. Editum ff. de Quae st., Farin. qu. 40 n. 3\ I. Carbonara cit., p. 234. Cfr. al riguardo P. Fiorelli cit., vol. I, p. 256 e sgg.; vol. II, p. 3 e sgg. 43 Cfr. I. Carbonara cit., cap. XXII, De Tortura. Sempre si richiedeva l’idoneità fisica per la sottoposizione alla tortura: a tal fine il teste veniva visitato da un medico. In G. Portigliotti cit., p. 11, è riportata la relazione di ima di queste visite: « Avendo fatte tutte le operazioni possibili ho trovato il Sessarego essere idoneo alla tortura; ma siccome ha accennato d’esser soggetto a qualche deliquio et essendo vero questo asserito deliquio, judico non esser capace a subire tormento ». 44 Avvertito per l’ultima volta di dire la verità nella stanza della tortura e persistendo nella reticenza, si procede al supplizio alla presenza del giudice e di un notaio: Tunc Dominus mandavit in altum eievari, qui sic elevatus coepit clamare: ohimè! (E. Vignolo cit., p. 19). Sui vari tipi di tortura dice il Carbonara (cit., p. 217): Sub torturae nomine omnia tormentorum genera complectuntur, quae a Judicibus vel zelo, vel vanae gloriae affectatione, vel intestina quadam tyrannide adinventa fuerunt ad veritatem extorquendam, totque tormentorum immanem diversitatem quisque videre poterit penes « Judic. Prax. Crim. Cap. 37 n. 18, Farin. qu. 38 n. 60 et segg. »; ea enim singillatim recensere supervacaneum existimo, ani-musque abhorret, magis quia exulant a Curiis nostris quae nonnisi quatuor agnoverunt cruciatus videlicet sibiliorum, taxillorum, funis, atque vigiliae, neque aliis uti debemus. 45 Cfr. al riguardo P. Fiorelli cit., vol. I, p. 82 e sgg. 46 E. Vignolo cit., p. 20. 47 F. M. Pagano cit., p. 130: « Allorché l’inquisitore sulle tracce dall’accusatore additate compila l’informo fiscale, considera l’azione del reo per quella parte sola che aggrava il delitto, ma non rileva le circostanze che ne fanno la discolpa. E’ pur questa una voce, la quale in bocca a ciascun inquisitore si ritrova ognora: ” a! difensivo le prove del reo”; a quel difensivo cui nulla fede si dà, come diremo a suo proprio luogo ». - 106 - « Se non si fosse trovato tanto da formare l’inquesta contro del reo, si può citare il reo preteso ad informandam curiam perchè quello non comparendo si acquista indicio contro di lui »48. Se, per ipotesi, il reo preteso non compare, resta « provato che è il processo contro del reo e gli si forma l’inquesta contro, quale non è altro che il libello che dà il giudice contro del reo ad istanza del Fisco, richiedendo che come reo sia citato (per l’esame) e poi condannato in contumacia quando non compaia »49. 3. Risulterebbe da materiale d’Archivio50 che, nel Settecento, a Genova, di cento querelati o inquisiti dalla Rota Criminale, « a piede libero », dieci soltanto andavano a rispondere alla citazione. Se il reo preteso non compariva, era prevista una reiterazione della citazione a comparire con fissazione di un ulteriore termine, a pena di nullità del procedimento 51. Scaduti i termini il giudice emana la sentenza contumaciale52, sentenza infallibilmente di condanna: « contumax vero habetur pro confesso et convicto per Statuta per totam Italiam vigentia »53. 48 E. Vignolo cit., p. 20. 49 E. Vignolo cit., p. 23. 50 A.S.G., Archivio Segreto, Politicorum, 1650 4 55. 51 Crim. Iur. cit., 1. I, cap. LXXXVI De modo procedendi contra accusatos vel inquisitos contumaces. « Si avverta a non mandare fuora il secondo comando all’inquesta, che non sia passato il termine del primo e a non mandare il terzo che non sia passato il termine del secondo, altrimenti sarebbe cum inculcatione terminorum e gli comandi sarebbono nulli »: termini dilatori (E. Vignolo cit., p. 26). 52 Per Genova, data la pluralità di magistrature criminali, occorre specificare: « Se il giudice sarà di quelli che non hanno obbligo di mandare il voto in Rota, non havrà altro da fare se non la sentenza contumaciale con la sua notificazione e proclama. Ma se sarà di quelli che hanno obbligo di mandare il processo con il voto farà copiare il processo e lo manderà alla Rota » (E. Vignolo cit., p. 19). Nello stesso senso: I. Carbonara cit., p. 172, il quale cita a questo proposito il Vignolo. Sulla natura e finalità del votum Rotae cfr. G. Forcheri cit., pp. 105-106. 53 Caballus, Résolut. Crim. 1629, vol. II, casus 256 (riportato da G. Sal-VIOLI cit., vol. II, p. 401). - 107 - In tale sentenza54 era fissato l’ulteriore termine di quindici giorni, entro il quale il condannato, comparendo personalmente 55 e ponendosi a disposizione della giustizia poteva purgare la contumacia. Se tale termine trascorreva senza che il condannato si presentasse, la sentenza passava in giudicato56. Nel caso però fosse stata pronunciata per indizi e non dietro prova piena, era ancora offerta al contumace la possibilità di chiedere al Senato, entro due anni dalla condanna, la facoltà di presentare le proprie difese, con inversione dell’onere della prova, spettando al reo di dimostrare la propria innocenza contro la presunzione di colpevolezza derivante dalla sentenza contumaciale,, al fine di ottenere la liberazione dalla pena sia corporale che pecuniaria se la richiesta fosse stata formulata entro il primo anno e altrimenti la liberazione dalla sola pena corporale Una tale rigorosa disciplina della contumacia che partendo dal valutare sfavorevolmente la mancata presenza del reo, arrivava a comminare al condannato pesanti incapacità di diritto privato e di diritto pubblico 58 54 A.S.G., f. 12 Rota Criminale 1724 a 1741: «Podestà e Uditori della Magnifica Rota Criminale della Serenissima Repubblica di Genova. Avendo noi formato processo et inquesta contro degli infrascritti rei per gli infrascritti da loro commessi delitti et essendo stati citati per tre volte alla forma del Statuto e non essendosi curati di comparire perciò li abbiamo dichiarati rei contumaci confessi e convinti degli infrascritti rispettivi delitti e come tali li abbiamo in contumacia condannati alle infrascritte pene, col solito termine di giorni quindici per ciascheduno per comparire e purgare la contumacia... (seguono i nomi dei rei accompagnati dall’indicazione dei delitti commessi e della relativa pena inflitta) ». 53 E. Vignolo cit., p. 33: « Niuno non può essere sentito in contumacia nè per sè nè per mezzo di Procuratore se prima non si presenta nelle forze del Giudice et in carcere quando non fosse assente o avesse qualche altro legittimo impedimento ». 56 Crim. Iur. cit., 1. I, cap. LXXVI cit.; E. Vignolo cit., p. 34. 57 Crim. Iur. cit., 1. I, cap. LXXXIII De litteris princips ad novas defensiones; E. Vignolo cit., p. 34. 58 Cfr. Crim. Iur. cit., 1. II, cap. CV De iure non reddendo foro iudicatis seu forestatis e cap. CXXII Quod nullus ob delictum, vel ob aes alienum exui factus, seu forestatus ad officium vel dignitatem promoveatur, nec ad Arcis vel Castri custodiam admittatur aut ad stipendia Reipublicae recipiatur. Con i termini bannitus ed exui le fonti comprendono promiscuamente sia i condannati alla relegazione (di solito in Corsica), sia i condannati in contumacia ai quali per ciò stesso veniva applicato il bando (cfr. G. Forcheri cit., p. 119). - 108 - Ex-voto dedicato al Cristo di S. Maria di Castello: « Tratto di corda Fine secolo XVII, olio su tela, m. 1,50 X 0,87 (Deposito di Pai. Rosso, Genova) e a consentire a chiunque di uccidere il bandito condannato a morte in contumacia 59, era sostanzialmente comune a tutti gli ordinamenti contemporanei 60. 4. L’esame dell’imputato è l’atto che chiude la fase informativa del procedimento criminale. Vi si arrivava nel caso di indiziato che rispondesse alla citazione di cui si è detto (il che era automatico quando il preteso reo fosse carcerato), ma avveniva anche per il condannato in contumacia che si presentasse per far cadere la condanna. Senza intervento di difensore e all’oscuro delle risultanze finali raccolte contro di lui, il reo preteso viene sottoposto ad interrogatori dal cui risultato dipende l’eventuale proseguimento del processo 61. Si discuteva fra i Dottori se si dovesse imporre il giuramento 62, se si potessero far domande tranello63, se si potesse, fin da quel momento, procedere alla tortura M. 59 Crim. Iur. cit., 1. II, cap. CVI De exulibus impune laedendis et occidendis e cap. CXXIII De proemio occidentis rebellem vel capite damnatum et exidem capientis. 60 Cfr. al riguardo G. Salvioli cit., II, p. 396 e sgg. 61 E. Vignolo cit., p. 39: « Resta ora a vedersi ciò che debba farsi quando (il reo) compaia. Et è che si deve esaminare citra praeiudicium Fisci: si andrà interrogando diligentemente per vedere di coglierlo in bugie, variazioni e farlo reo, e non pregiudicandosi nell’esame si rilascia con sicurtà e pregiudicandosi si prende per reo e gli si dà il constituto ». 62 II Carbonara (cit., p. 182) ricorda che, al riguardo, dura est altercatio inter DD. In materia le Cost. Piemontesi del 1770 imponevano il giuramento di dire la verità sui fatti altrui e per i propri minaccia di pena pecuniaria e tortura (cfr. P. Del Giudice cit., p. 148 in nota). C. Beccaria cit., p. 37 : « Una contraddizione fra le leggi e i sentimenti naturali dell’uomo, nasce dai giuramenti che si esigono dal reo, acciocché sia un uomo veridico quando ha il massimo interesse di esser bugiardo; quasi che l’uomo potesse giurare da dovero di contribuire alla propria distribuzione; quasi che la religione non tacesse nella maggior parte degli uomini quando parla l’interesse. 63 I. Carbonara cit., p. 185: An liceat interrogationes dubiae, obscurae ac so-phisticatae et iudex quibusdam uti possit cautelis ad eruendam veritatem (...) respondemus cum distinctione personarum-, erano lecite solo per gli imputati istruiti. 64 I. Carbonara cit., p. 187. Il Vignolo, dando per certa la cosa, pone a questo punto la riproduzione degli atti da redigersi durante lo svolgimento della tortura. - 109 - Durante l’esame l’imputato doveva essere libero nella persona 65. Lo scopo di questo interrogatorio formale era quello, innanzitutto, di verificare le prove raccolte66 e, eventualmente, di ottenere la confessione del reo67. Qualora il reo preteso non riesca a scagionarsi, l’esame, che viene riportato per iscritto, si conclude con la seguente formula: « Non obstante pertinaci ipsius C. negativa (haec verba autem omittuntur cum reo confesso) attentis adminiculis praesumptionibus, coniecturis, indiciis atque probationibus in processu cumulatis, {et si reus confessus fuerit adduntur verba-. ) attentaque eius confessione, Phiscum et Curiam praetendunt ipsum C. fuisse et esse neum homicidii dolo patrati sub modis et formis de quibus in processu {sin vero de alio crimine specificatur nomen delicti) ideoque incursum fuisse et esse in poenam seu poenas a legibus et Statutis huius Reipublicae Sen. inflictas contra similia patrantes, quibus erit suis loco et tempore puniendus, ideo dicat quid sibi occurrat »6S. Viene dunque assegnato al reo un termine per difendersi69; a tal fine 65 I. Carbonara cit., pp. 183-184: Iure inspecto manicis ferreis solutus examinandus est reus (...), de consuetudine tamen contrarium aliquando servatur praecipue cum personis facinorosis (...), prout etiam interrogari debent in loco a quo per fenestras se proicere non valeant, prout cuidam carcerato continit anno 1734 dum a Cancellario Excellentis s. Magistratus Inquisitorum Status in propria camera examini fuit suppositus. Cum nobilibus autem urbanius agendum est quam cum caeteris. 66 I. Carbonara cit., p. 205: Contestatis indiciis ac probationibus etiam per testium lecturam. 67 I. Carbonara cit., p. 199. F. M. Pagano cit., p. 175: « Si diè forza all’inquisitorio processo di prova legale, in virtù della quale si condanna l’accusato. Si volle a tenor delle romane leggi interrogare il reo: si formò un miscuglio d’inquisitorio e di accusatorio processo». 68 I. Carbonara cit., pp. 205-206. E. Vignolo cit., p. 45: « Nota che quando il giudice avesse già costituito il reo, se volesse produrre nuovi testimoni sopra nuovi indici che aggravano nuovamente il reo (...), doverà poi costituire nuovamente il reo et assegnargli nuovamente le difese ». Il Pagano (cit., p. 163), critica la diffusa opi-nione, definita frutto di « riposta metafisica e scolastica sottigliezza » secondo la quale venga a questo punto stipulato un contratto con il reo vincolandosi il giudice a non poterlo altrimenti condannare che secondo la forma deH’ammonimento, comportando ciò un vincolo agli interessi della giustizia. 69 Era questo un momento fondamentale che figurava nel procedimento penale in ogni Stato: v per esempio, gli Statuti di Corsica del 1571 e le Costituzioni Pie- - 110- gli è concessa la possibilità di vedere il proprio avvocato (le legislazioni di parecchi Stati, compreso quello genovese, prevedono l’assegnazione di un « difensore d’ufficio »70) e i propri parenti71 e di farsi rilasciare copia di tutti gli atti processuali72: termina il segreto istruttorio73. L’imputato prepara memorie difensive74 od eccezioni alle varie testimonianze raccolte contro di lui. E’ costume generale che il preteso reo venga udito in giudizio fuori dal carcere75. Si ripetono le prove alla presenza del reo: i testimoni vengono richiamati e confrontati76. moritesi del 1770 citati in Del Giudice cit., vol. II, p. 142. Al riguardo notava il Beccaria (cit., p. 47): « Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e i mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo così breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno dei principali freni dei delitti ». 70 Era questa, tra le altre, mansione dei Protettori dei Poveri Carcerati, magistratura istituita nel 1575; cfr. A.S.G., ms. 675, Magistrature di Genova; A.S.G., Libro dei Protettori delli Poveri Carcerati, principiato l'ultimo dì di agosto del 1662 (ms. 86). Disposizioni analoghe erano contenute in L. veneta del 1537; Cost. piem. cit., IV, 12; Nuova Legislaz. Crim. Tose. cit. (cfr. P. Del Giudice cit., vol. II, p. 152 in nota). 71 I. Carbonara cit., p. 223: Legitimato processu eo ipso quo reis assignatur terminus ad faciendas defensiones, debent etiam poni ad largam in publico carcere ut non modo advocatis et procuratoribus sed etiam cum consanguineis et amicis libere alloqui possint, suaeque incolumitati consulere. Nello stesso senso E. Vignolo cit., p. 70: « Frattanto il reo si pone alla larga per non farlo marcire nelle carceri ». 72 E. Vignolo cit., p. 72: « Fa di mestiere di dare omninamente la copia del processo, acciocché possa fare le sue difese; non è però il giudice tenuto ad altro che a decretargliele e se il reo le vuole è tenuto di farsi estrarre copie a sue spese ). 73 Precisano le Cost. Piemontesi cit. che non deve nelle copie essere soppresso il nome dei testimoni. 74 F. M. Pagano cit., p. 218: « Finalmente il reo fa le sue prove nel difensivo. A ciascuno è ben noto quell’assioma del foro, cioè che le difese del reo si scrivono, ma non si leggono affatto ». 75 Cfr. al riguardo P. Del Giudice cit., vol. II, p. 152, che cita la concorde opinione del Farinacio e Claro e le analoghe disposizioni nella legislazione toscana e dello Stato pontificio. 76 E. Vignolo cit., pp. 76-78-80. F. M. Pagano cit., pp. 108-109: « La ripetizione de’ testimoni è una di quelle giuridiche finzioni che i dottori introdussero per - Ili - 5. Esaurito il procedimento difensivo può darsi, innanzitutto, che il reo sia riuscito a confutare le prove raccolte contro di lui77 ; nel qual caso viene pronunciata sentenza di assoluzione78. Nel caso invece che la difesa sia risultata inefficace bisogna distinguere: se gli elementi raccolti dall’accusa costituiscono prova piena 79 viene emanata sentenza di condanna80. Se invece gli elementi raccolti costituiscono soltanto indizi e il presunto reo pur non essendo riuscito a demolirli nelle sue difese continua a negarsi colpevole, è possibile, col concorso di determinati requisiti81 supplire al difetto dell’inquisitorio processo e per adattare alla nuova forma de’ giudizi le romane antiche leggi »; pp. 177-178: « Quest’atto che ad una mera formalità si è ridotto, prolunga il giudizio e non giova al reo, che avvenutamente sovente dà per ripetuti i testimoni (...). La sofistica forense vuole che sacrosanto sia il sistema fiscale, individuo il processo, ogni testimonio esaminato, accettato dal Fisco e quindi vero ». 77 Diverse erano le reazioni dell’ordinamento secondo che le testimonianze fiscali venissero annullate per mancanza di elementi formali o nella sostanza, nel quale ultimo caso soltanto il teste falso torquendus est ad videndum a quo fuerit subornatus: I. Carbonara cit., pp. 215-216. 78 P. Del Giudice cit., vol. II, p. 153. Se rimaneva fermo qualche indizio, ma non tale da autorizzare l’uso della tortura (o l’imputato ne era esente) gli veniva imposto di purgarsi col giuramento: Claro, qu. 63, 4; Farinacio qu. 196, 36; Const. crim. Teresiana 39, 12 (cfr. P. Del Giudice cit., vol. II, p. 153). 79 Probatio plena constatur ex duorum testium depositione (...); sufficit quod sint idonei (...) videlicet contra ipsos testes nulla resultet exceptio: I. Carbonara cit., p. 154, che si rifà, tra gli altri, al Farinacio, il quale conferma l’esigenza della prova piena etiam in casu quo ageretur ad poenam pecuniariam minimam (qu. 86, n. 6-9). 80 I. Carbonara cit., p. 154: Ad poenam ordinariam inferendam sive ex officio sive ad accusatoris instantiam procedatur, in criminalibus plena ac luce meridiana clarior requiritur probatio. « Se invece il reo morisse in prigione prima della sentenza si deve far constare della morte facendo la visita al cadavere nella forma solita e con questo resta terminata la causa perchè mors omni solvit, vi sono però dei casi nei quali etiam dopo morte si può procedere, come nel delitto di lesa maestà ad memoriam damnandam et bona confiscanda »; E. Vignolo cit., p. 50. 81 Vediamone l’elenco in I. Carbonara cit., c. XXII De tortura, pp. 226 e 254: quod de corpore delicti constet; quod lis fuerit contestata cum reo; ad torturam deveniri nequit nisi in criminibus quorum poena sit corporalis; debunt praecedere indicia (...) non ideo tam proxima tantum sed etiam sola remota sufficere dicimus, concurrente adhuc discrimine respectu Nobilium ac Doctorum, quod in iis magis urgentia ac clariora debent esse indicia ut ad torturam procedatur quam in aliis ut - 112 - sottoporlo a tortura82. Se neppure cosi il presunto reo confessa, deve essere rilasciato83. Se invece confessa, la confessione resa durante il tormento deve essere ratificata successivamente: se il reo rifiuta è possibile ripetere la tortura sola confessio videatur deficere; quod processus fuerit legitimatus (...) cum congruo tetmine ad faciendas defensiones; quod inquisitus iudicia contra ipsum cumulata in suis defensionibus non diluerit; quod reus de iure torqui valeat ». Tutto ciò dunque è richiesto « ut ludex examinata cum rei Advocatis causa, decretum (inappellabile) proferat illum esse torquendum (...), quod et praescribit St. ns. Cr. I, caput LXXXIV, (...) ne aperiatur via impunitati in detrimentum Reipublicae, (...) cum enim nemo criminis alicuius damnari queat nisi convictus aut confessus fuerit (.. .) et quamvis hoc indagandi genus fragile aliquando atque pericolosum sit, ut inquit Ulpian, 1. I, par. 23, f}. de Quaest». Per analoghi elenchi di requisiti, cfr. per esempio: St. Ferrara cit., 1. III, c. XLI, Ex quibus causis et quando possit quis torqueri; St. Roma cit., 1. II, c. XIII, De quaetionibus et tormentis, St. Corsica cit., c. 14 « Delia tortura ». 82 I. Carbonara cit., p. 254 e sgg.: Formula tum examinis tum torturae in reo homicidii animo deliberato patrati, gravato ab immediata fuga a loco commissi delieti, a confessione extraiudiciali, a publica voce et fama, a capitali inimicitia cum occiso ex zelotypia (gelosia) procedente, a cultro reperto in cadavere occisi et a testibus recognito de proprietate ipsius inquisiti et ab uno teste de visu. Die Iovis 21 lanuarii ann. 1791, in altero ex Atriolis Excell. D. Gubernatoris Palatii et coram eodem, nec non adsistente M. D. Vicario (...): Int. et monitus ut se disponat ad veritatem fatendam quam nullo modo negare potest, non solum quia plura urgent contra se indicio, sed etiam quia exceptiones contra testes Phiscales deductae vel nullius sunt momenti vel falsae compartae sunt. — Res. L’eccezioni contro de’ testimoni da me suggerite a’ MM. miei avvocati sono più che vere, se poi non sono state provate, devo compiangere la mia disgrazia (...) io so che Paolo fu ucciso vicino alla Piazza della Chiesa di Nervi con colpo di coltello nel petto, ma questo so per averlo inteso dire da altri. (...) che mia moglie amoreggiasse con detto Paolo l’ho saputo da che sono in dette carceri, nel resto ciò che dico o i testimoni è falso. (...) Tunc D. visa pertinacia ipsius, pro ventate habenda cum alius modus non suppetat, inhaerendo voto M. Rotae Crim mandavit ipsum C. ad locum torturae adduci (...) — Resp. Signore fate di me ciò che volete, che sono nelle vostre mani e siete il padrone, io però non posso dir altro nè sono debitore della morte di detto Paolo. '(...) Et cum pertinax esset in neganda ventate, praefatus Exc. D. positu in cursu horologio pulveris pulsata nunc hora tredici, praesentibus D. Gaspare de Novellis Phisico et Melchiore de lanuariis Chirurgo ad haec vocatis, mandavit ipsum C. in junem elevari, qui sic elevatus clamare coepit alta voce « O Signore Iddio misericor- - 113 - fino a quattro volte, dopo di che persistendo il malcapitato nella ritrattazione, deve essere assolto M. 1 ' In caso invece di confessione ratificata, il giudice emana sentenza 1 condanna. dia. Madonna del Monte assistetemi, abbiate pietà di me Maria Santissima » et pluds~ haec replicavit et inde tacuit et post aliquantulum silentii item clamare coepit « O ior o Dio che giustizia è mai questa ». ■ C — Int. An vere dictus Paulus unquam amore prosecutus fuerit uxorem ipsius . — Resp. Che amore, che Paolo, ahi testimoni indegni, ahi giudice ingiusto. Et tacuit deinde palluit in vultu et tremuit (allora fu fatto calare, pero, poco dopo, su parere del Chirurgo, si ripetè la tortura). . — Resp. Come anche i medici sono crudeli? E come posso aver finto il deliquio. (Ma per quel giorno il presunto reo persistette sulla negativa). Die 22 dicti mens't lanuarii (...) et iterum per D monitus ad veritatem Ta ^ dam quia sin minus procedetur contra ipsum C. ad iuris et facti remedia videlicet a torturam (...). (Silenzio del reo. Nuova tortura). — Resp. Eh non siete ancora contenti cani traditori che mi tenete qui tant Et current e hora secunda fuit in t. et monitus ad veritatem fatendam super de quibus hactenus fuerit int. et hortatus. — Resp. Ah Signore non posso più, eccomi qui determinato a dire la verit — Et int. ut eam ergo dicat. — Resp. Signore illustriss. è vero che nel giorno 4 d’agosto dell anno p p-uccisi detto Paolo per motivi di gelosia (...) (segue dettagliata confessione). Testimonianza di temuta stregonaria e superstizione sono le pp- 66-67 del gnolo, dove si parla con circospezione dei remedia contra torturam usati dai rei e ov è detto fra l’altro, che durante gli interrogatori sotto tortura « dovrà il giudice inte rompergli con vari ragionamenti, acciocché non possino con voce bassa dire cosa alcuna. Fra le numerose fonti concordi sull’uso della tortura, cfr. Claro, qu. 45, 5 ss., Farinacio, qu. 37, 176 ss.; Cost. Modenesi, IV 9 7; Cost. Piemontesi IV 11 20 (citate in P. Del Giudice cit., vol. II, p. 149 nota). Delle vibranti e ben note critiche alla tortura di Beccaria, Pagano e Verri, ci limitiamo a riportare alcune frasi fra le più significative: C. Beccaria cit., p- 38 sgg. « Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni, mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare il delitto, o per le contraddizioni nelle quali incorre o per la scoperta de’ complici o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti, di cui potrebbe esser reo ma dei quali non è stato accusato »; « questo crogiuolo infame della verita è un monumento ancora esistente dell’antica e selvaggia legislazione, quando erano chiamati "giudizi di Dio” le prove del fuoco e dell’acqua bollente e l’incerta sorte- — 114 — E’ l’Avvocato Fiscale che deve poi aver cura della esecuzione 85. Le sentenze rotali e quelle degli altri giusdicenti del Dominio emanate dopo aver riferito il voto alla Rota, nonostante espressa disposizione delle armi »; « 1 esito della tortura è un affare di temperamento e di calcolo che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema: data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre di un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessare reo di un dato delitto ». F. M. Pagano cit., p. 168: « uno de’ divini giudizi che nel secolo della coltura vergognosamente ci rimane ancora. Critica alla tortura, se pur da un diverso punto di vista, è quella contenuta in un biglietto anonimo del 9 aprile 1770: « Ser.mi Signori. Che la legge condanni a tormenti i rei per la confessione de’ loro delitti, va benissimo; l’atrocità de’ crimini merita la crudeltà della legge, ma che i rei gravemente infermi, dopo la subita tortura, debbano abbandonarsi da medici e da chirurgi e così a rischio di morire senza Saci amenti come arrivò al Capraiese, ed ieri al Calabrese, ciò non vuoisi dalla legge, dalla religione e dalla carità ed è questo il massimo de’ disordini che dovrebbe esser castigato in chi presiede alle carceri » (A.S.G., Diversorum, f. 309; il documento è riprodotto anche in P. L. Levati, I dogi di Genova dal 1746 al 1771 e vita genovese degli stessi anni, Genova 1915, p. 370. Le istanze illuministiche ebbero numerosi riflessi pratici già nel XVIII secolo: fu innovata la legislazione prussiana; in Austria Giuseppe II abolì la tortura; la 1 ïammatica Napoletana del 1774 ingiunse ai giudici la motivazione delle sentenze; Caterina II iniziò un vasto movimento di riforma; abolì la tortura e la pena di morte, la riforma della legislazione criminale in Toscana effettuata nel 1786 da Pietro Leopoldo di Lorena; l’accademia di Mantova nel 1775 bandiva un concorso sul tema « Ricercare gli abusi delle legg: criminali e i mezzi di rimediarvi ». 83 E. Vignolo cit., pp. 55-56: « che se il reo sosterrà la negativa, si rilasci con sicurtà di doversi presentare novis vel non novis supervenientibus indiciis». Così, Claro, qu. 62 2 (cit. in P. Del Giudice cit., vol. II, p. 230). 84 E. Vignolo cit., pp. 57-62. 85 Cfr. A.S.G., ms. 681 cit., Notizie di sentenze criminali e loro esecuzione: << 1707 28 7embre. Successo e morte del Signor Gio Bernardo Giustiniano assassinato in propria casa da Francesco Gardella suo staffiere. (...) Fu sentenziato il Francesco Gardella a dover essere tenagliato a tenaglia calda e fredda, condotto nel Palazzetto sopra la carretta strascinata a coda di cavallo per la strada che corre verso la strada Imperiale e scendendo giù per questa in Campetto e poi in Soziglia, Lucrali, sino in la piazza nominata d’Aijroli dove in vista e capo di strada nuova. Là fu dal ministro in prima tagliato il braccio destro poi impiccato e squartato, furono posti la testa e li quarti d esso alla Porta di S. Tommaso e dell’Arco. (Prosegue poi il documento con diversa mano di stesura:) l’esecuzione suddetta contro del detto Francesco Gardella che escludeva l’appellabilità e Pimpugnabilità 86, risulta 87 che, sulla scorta del trattamento riservato alle sentenze contumaciali, erano impugnabili per nullità avanti i Supremi Sindacatori per gli stessi motivi che quelle. « primo il difetto di giurisdizione e se il giudice avesse ecceduto la potestà e bailia concessagli. Secondo se non fosse stata osservata la forma dello Statuto de contumacibus e la forma degli ordini posti sotto il detto Statuto de sent, etc., cap. CII. Terzo quando agli delinquenti fossero imposte pene maggiori di quelle o diverse da quelle che si impongono dagli statuti e ordini criminali della Repubblica » che era del luogo di Neirone, dominio della Ser.ma Repubblica fu fatta nel giorno di sabato 10 marzo 1708. Le tenagliate date fuorno dodici cioè sei calde e sei fredde, la sua testa, la mano destra ed un quarto del corpo furono posti alle porte dell arco, altro quarto al portello di strada nuova, altro alle porte dell’Acquasola et altro alle porte di San Tommaso. Tutti li Bancalari matricolati dovettero lavorare nel fare i steccato dentro del quale era il palco per giustiziare d.o Francesco ». Sempre a proposito dell’esecuzione delle sentenze, c conservata in Archivio, (ms. 681 cit.) testimonianza di un intervento a favore (!) del condannato da parte del Magi strato dei Protettori dei Poveri Carcerati: « 1698 23 ottobre. Udita ne’ Ser.mi Collegi 1 istanza fatta dal M. Alessandro Saluzzo, uno de’ Protettori de’ Poveri Carcerati, che Stefano Zino detto il Gancino, carcerato e condannato in pena di forca, per un escre scenza dicarce alla gola che rende molto difficile l’esecuzione della sentenza di forca, desidera che gli si permuti la forma della morte in quella di testa, stimando il detto povero carcerato di potere in questa guida salvare l’anima, quando peraltro sa be nissimo di non meritare grazia alcuna (...). La pena di morte in cui è condannato i detto Gancino si eseguisca con tagliargli la testa invece di impiccarlo ». 86 Crim. Iur. cit., 1. I, cap. XCVI, p. 118. Non liceal cuiquam provocare, appellare nec de nullitate dicere, sed ipsae (sententiae) prout latae fuerint executioni mittantur, verum ubi agatur de poena mortis aut mutilationis membris, si in Civitate et Diserte tum agatur per triduum, si in insula Corsicae per dies viginti, si vero in aliis Civitatibus et terris Dominii per quindecim dies ab exeeutione suspendatur. 87 Cfr. Legge 10 marzo 1611, divenuta U cap. CII, 1. I Crim. Iur. cit. e le considerazioni al riguardo di G. Forcheri cit., pp. 109-110. 88 E. Vignolo cit., p. 103. Sull’estensione dell’impugnabilità, cfr. Crim. Iur. cit., cap. Cil cit., p. 122: « La giustizia riceve grandissimo pregiudizio dal modo e forma che si è ritenuto fin qui nel proporre e trattare le domande di eccesso e nullità delle sentenze criminali così per via di attione come per via di eccetione, lasciandosi con molta facilità la strada aperta in commettere e dissimulare molti eccessi e nullità ne processi e sentenze contumaciali e tirandosi poi in lungo la decisione di dette domande di eccesso ». — 116 — 6. Se quello sin qui visto era lo svolgimento ordinario del procedimento criminale innanzi alla Rota, va subito detto però che numerose erano le eventualità in seguito alle quali era data al giudice facoltà di deviare dalla norma 89. Ci si limita qui ad accennare ad alcuni fenomeni particolarmente rilevanti in tal senso. Dopo alcune discussioni, era stata confermata la possibilità per il Senato di concedere « braccio Reggio » alla Rota90. In caso, poi, di mancato raggiungimento della prova piena e in presenza di determinati indizi costituenti prova semipiena, competeva al giudice la facoltà di infliggere ex informata conscientia pene straordinarie, cioè non previste dalla legge e rimesse alla sua discrezionalità 91. Quando, infine, si trattava di delitti definiti gravi, categoria non rigorosamente delimitata, buona parte di quelle formalità che per certi aspetti costituivano garanzie per l’imputato, potevano essere tralasciate o limitate in seguito a discrezionale valutazione del giudice92. Deviazioni che in pratica avvenivano anche oltre i casi espressamente previsti: A.S.G., Diversorum, f. 309: « Serenissimi Signori. Si è martirizzato e ucciso un uomo senza sentenza, senza pubblico esempio e con esporlo alla disperazione e all’inferno. Tre punti di gravissima meditazione per la giustizia, per la religione, per l’opinione di barbarie che ne può derivare alla nazione genovese. Non è il primo caso e non vi può essere legge neppure tra i popoli selvaggi che autorizzi una simile atrocità; dunque provvedimenti per calmare i fremiti della natura e per riparare all’orrore dei Tribunali e alla dannazione di uomini cristiani che la legge non riconosce ancora come rei e che non hanno perduti i diritti all’umanità. L’orrore del delitto si cangia in orroie dei Giudici. Quale scandalo per la Città! Quale obbrobrio presso le altre nazioni! Dunque per 1 amor di Dio, Signori Serenissimi, qualche provvedimento». (Questo documento è parzialmente pubblicato in P. L. Levati cit., p. 370). 90 Cfr. Crim. lur. cit., 1. I, cap. XXVI. De auctoritate Serenissimi Senatus concedendi brachium Regium et adsistentes deputandi in causis criminalibus. Cfr. al riguardo, più in generale, M. Cavalcano, Tractatus de brachio regio, sive de libera et absoluta potestate ìudicis Supremi in prosequendo, iudicando et exequendo, Venezia 1608. 91 Cfr. I. Carbonara cit., pp. 154 e 202. Sull’esistenza della facoltà di irrogare la pena straordinaria anche negli altri ordinamenti, cfr. G. Salvioli cit., II, p. 541. In questa sede va fatto cenno anche della esistenza di alcuni casi (G. Forcheri cit., p. Ili e sgg.) in cui potevano gli Inquistori di Stato condannare gli imputati eià assolti dalla Rota. Cfr. per es. I. Carbonara cit. a proposito della quantità di indizi necessaria per la cattura (p. 151) e a proposito della concessione agli imputati, finito l’informa- — 117 — 7. Le considerazioni che seguono vogliono essere soltanto brevi spunti per un discorso che dovrebbe andare ben più in profondità e in estensione sul materiale fin qui visto. Un dato comune a tutti gli ordinamenti del tempo e facilmente verificabile è l’incompletezza e l’insufficienza delle disposizioni statutarie in materia processuale: gli Statuti Criminali della Serenissima Repubblica di Genova sono stati, nella ricostruzione del procedimento penale, necessariamente e abbondantemente integrati sia attraverso la dottrina, sia attraverso la prassi; sarebbe da chiedersi la portata di questo che, nel delineare i vari passaggi, è stato utilizzato come un composito sistema di fonti , nella valutazione del giudice del tempo, al fine, soprattutto, di indagare per il Settecento il significativo rapporto fra diritto e lex scripta, rapporto che oggi, per tanti aspetti, sembra impoverirsi nell’identificazione fra le due entità. Per l’ordinamento esaminato, sia nell’incompletezza delle disposizioni processuali, sia nella tensione spesso così evidente fra la singola, mutevole disposizione sostanziale e il fermo principio cui sempre si rifà, diritto e legge risultano non coincidere: quello un sistema di valori gerarchico da sai vaguardare e da far valere con la coazione, questa uno strumento vana mente considerato secondo i diversi punti di vista. Per i più del popolo la lex scripta è la « grida », il modo con cui chi governa ordina e fa conoscere le proprie statuizioni; per chi ha 1 autorità di emanarla è uno strumento di governo considerato immancabile ed efficace; per gli studiosi del diritto è una fonte da inquadrare risolutamente in tivo, della facoltà di parlare con amici e difensori (p. 223). C. Beccaria cit., p- 30 in nota: « Presso i criminalisti la credibilità di un testimonio diventa tanto maggiore quanto più il delitto è atroce. Ecco il ferreo assioma dettato dalla più crudele imbe cillità: ”in atrocissimis leviores coniecturae sufficiunt et licet iudici iura transgredi Traduciamolo in volgare e gli Europei veggano uno de’ moltissimi ed egualmente irragionevoli dettami di coloro ai quali, senza quasi saperlo, sono soggetti: negli atrocissimi delitti (cioè nei meno probabili) le più leggere congetture bastano ed è lecito al giudice di oltrepassare il diritto ». 93 Di cui, con indubbio ma assorbente vigore polemico, diceva Beccaria (cit., p. 3): «Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore, fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia coi riti longobardi ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa hanno tuttavia il nome di leggi ». — 118 — un più vasto sistema che con la sua autorità e la sua immutata saggezza la completa e la giustifica; per i giudici è qualcosa da applicare con costante riferimento alla prevalente opinione, il che tranquillizza la coscienza e tiene lontani i Supremi Sindacatori. La pena, invece, è per tutti una indiscussa conseguenza del reato. E in vigore un diritto penale come baluardo della società nei suoi principi, un ordinamento che mostra maggior sensibilità e considerazione per il delitto commesso che per la persona del suo attore: la reazione del diritto deve essere pari al male fatto per annullarlo e per impedire il nascere negli altri. All esemplarità della punizione è necessaria la identificazione certa dell autore del reato; così il processo, piuttosto che momento di verifica della fondatezza di un’accusa, è mezzo per la ricerca del colpevole, e la segretezza, la ristretta possibilità di difesa,, la tortura ne sono tutti strumenti. Non si tratta di antitesi rispetto ai fini del processo penale di oggi, il quale presenta tanti momenti e aspetti in comune con quello genovese del XVIII secolo, ma di un sensibile spostamento di accento che si coglie molto spesso e che ha le sue conseguenze soprattutto nel render plausibili certi mezzi di indagine e di prova. La terminologia degli Statuti e della dottrina, gli argomenti diffusamente trattati e quelli invece trascurati, suggeriscono costantemente lo scopo sempre tenuto di mira da un ordinamento che non conosce la diffidenza per l’autorità dello Stato sui cittadini. Detrimento deriverebbe alla Repubblica se il crimine non fosse adeguatemente perseguito, e il processo è momento fondamentale nella persecuzione dell’illecito. D’altro canto, politica criminale non se ne fa, se per far ciò si intende porre attenzione all’aspetto preventivo e all’incidenza della legislazione sulla criminalità. Il singolo, preso in un meccanismo punitivo che lo trascende, considera miracoloso l’uscirne indenne: miracoloso cioè fatto avvenuto al di fuori delle proprie possibilità e del proprio diritto. Significativi a tale riguardo sono i quadretti ex-voto rinvenuti: testimoniano sia il ringraziamento per l’essere scampati da un « incidente », sia il considerare la tortura come giudizio ordalico. L’illuminismo sottopone a critica sempre più radicale i principi fondamentali di un tale sistema penalistico e di ciò si sente l’eco anche a Genova, ma, diversamente che altrove, non si fanno innovazioni, le quali verranno solo col contemporaneo sovvertimento del sistema istituzionale: — 119 — i Supremi Sindacatori, considerando, tra l’altro, che « intorno l’inutilità o ingiustizia della tortura hanno saputo filosofare li moderni novatori, che, in sostanza, toltane la vivacità dell’impressione avuta, hanno rilevato niente più che quello che li scrittori de’ secoli passati e sino dai tempi delle leggi romane avevano rimarcato » furono contrari all’abolizione. Sarebbe interessante chiedersi, sulle orme del Manzoni95, se quel sistema, riconfermato in pieno di fronte alle critiche che gli venivano mosse,, poteva rendere giustizia: bisognerebbe tener conto dei tempi, degli strumenti, delle conoscenze. Ma, ancor più, sarebbe interessante domandarsi perchè e in che senso, cioè con riferimento a quale visione del mondo, a quale ordine di valori, i legislatori, gli studiosi e i giudici del tempo, erano convinti di fare, in quel modo, giustizia: bisognerebbe mettere in evidenza i molteplici rapporti fra potere politico e magistratura e soprattutto bisognerebbe indagare i fondamenti e il diffuso modo di pensare che era alla base del sistema di accertare il crimine fin qui descritto. 94 Cfr. P. L. Levati cit., pp. 370-371, il quale riporta, da materiale d’Archivio, la parte citata del parere dei Sindacatori. 95 II quale, nell’introduzione alla sua Storia della Colonna infame, in polemica col Verri, che dal processo agli untori aveva tratto argomento contro la tortura dimostrando come questa aveva potuto far condannare per un delitto moralmente e fisicamente impossibile, sostiene doversi imputare la tragica sentenza alle perverse passioni che animarono i giudici, i quali pur nell’ignoranza dei tempi e con la possibilità della tortura, avevano tanto spesso avuto sotto gli occhi la verità. — 120 — GIORGIO COSTAMAGNA UN PROGETTO DI RIORDINAMENTO DELL’ARCHIVIO SEGRETO NEGLI ULTIMI DECENNI DI INDIPENDENZA DELLA REPUBBLICA UNA PRIORITÀ GENOVESE? Lo studioso che per la prima volta sfogli gli inventari del cosiddetto « Archivio Segreto » della Repubblica di Genova prova indubbiamente un certo senso di sgomento. Già la denominazione di « Archivio Segreto », in contrapposizione a quella di « Archivio Palese », anche se tut-t:altro che inusitata, sembra ridestare tenebrose rimembranze di stato d' polizia e misteriosi intenti di occultamento di documenti, ma, soprattutto, sono alcune serie archivistiche non facilmente collegabili al contesto dell’archivio a rendere difficile la comprensione delle strutture amministrative, e, conseguentemene, una ricerca meditata e coerente. Non a torto egli si chiede come abbia potuto avere origine la raccolta che viene indicata con il termine di « Politicorum » o come sia nata quella dei « Secretorum ». Semplici raccolte, indubbiamente, dove i documenti si susseguono senza legame alcuno nè con gli atti che li hanno preceduti e preparati nè con quelli di cui sono stati la premessa, che non hanno, pertanto, nulla di un archivio, se per archivio si deve intendere il complesso delle scritture poste in essere da un ente, sia esso persona giuridica o fisica, nella propria attività e che, perciò, restano l'una all’altra legate da un inscindibile nesso determinato dall’attività stessa. Fortunatamente, però, chi non si sia lasciato confondere dalla prima impressione può constatare, proseguendo nelle sue indagini, come 1’« Archivio Segreto » conservi ancora, al di là delle eccezioni cui si è accennato, una certa compatta organicità che permette, nella gran maggioranza dei casi, la ricostruzione della vita delle istituzioni e degli uffici e rende spesso evidente l’iter percorso da ogni documento nei vari momenti della sua vita amministrativa. Chiarire come sia stato possibile conservargli attraverso i tempi, specie nel ’700, una tale preziosa caratteristica, purtroppo per altri grandi archivi come Milano andata perduta, è lo scopo di queste note, cui si aggiunge, a maggior chiarimento, l’interessante documento, recentemente venuto alla luce, che ne ha suggerito le conclusioni '. Il secolo dei lumi fu, infatti, un periodo di grande travaglio per gli Archivi e molti tra di essi, che pur erano giunti alle soglie del Settecento mantenendo integre 1 Cfr. documento trascritto in appendice. — 123 — le proprie strutture originarie, subirono, per le ragioni che si andrà esponendo, profondi rimaneggiamenti che ancor oggi rendono spesso estremamente arduo ricostruire il meccanismo di funzionamento dei vari uffici che loro dettero origine. Prima,, tuttavia, di considerare gli ordinamenti dell’« Archivio Segreto » negli uldmi decenni di vita indipendente della Repubblica, sarà bene rendersi conto di dove lo stesso fosse conservato. Si è in grado di precisare, al proposito, come nel Palazzo Ducale avessero sede tutti gli uffici che oggi diremmo dicasteri dello stato con i rispettivi archivi nonché i maggiori tribunali quali la « Rota Civile » e la « Rota Criminale ». Ci dà precisa notizia della loro ubicazione una serie di « piante » dello stesso edifìcio disegnate nel 1729 dal famoso capitano Tallone, ingegnere della Repubblica, attualmente conservate2 nell’archivio di Stato e di cui ebbe a valersi anche Orlando Grosso 3 per ricostruire la successione delle varie fasi della costruzione del palazzo. Veniamo così a conoscere che al terzo piano, vale a dire a quello ubicato al livello degli attuali cortili, avevano sede i « Magistrati » « Dell’Abbondanza », « di Corsica », « del Riscatto degli Schiavi », « degli Straordinari », « delle Galere », « di Terraferma », « delle Comunità », « degli Inquisitori », « dei Supremi Sindicatori », « degli Inquisitori di Stato », « dell’Arsenale »r la « Giunta dei Confini », la « Cancellarla » nonché le « Ruote » civile e criminale. Allo stesso piano era anche sistemato 1 Archivio del « Magistrato di Guerra ». Gli altri archivi, invece, erano tutti al quarto piano dell’edificio, compreso il « Segreto », il quale aveva sede in alcuni locali prospicenti l’allora « Piazza dei Fonghi » ora via T. Reggio. Il più importante deposito documentario della Repubblica, dunque, al principio del Settecento, era conservato in due sale adiacenti alle « Cancellarie » che non dovevano, però, risultare del tutto idonee, soprattutto per quanto si riferisce alla capienza, perchè, a giudicare dalla pianta rimastaci, munita di regolare scala in palmi di Genova, non superavano i 900 metri cubi di volume 2 Archivio di Stato di Genova (A.S.G.), Tipi e mappe, busta n. 9, pianta n. 100. 3 O. Grosso - G. Pessagno, II Palazzo del Comune di Genova, Genova 1933, p. 100 e sgg. — 124 - La mancanza di spazio fu certamente ima delle cause che nel corso del secolo spinsero il Senato a ricercare una più idonea sistemazione per l’archivio; essa, tuttavia, doveva passare in seconda linea di fronte alla questione ben più importante del suo ordinamento. Era questo un problema che ormai la cultura dell’epoca poneva con urgenza, sollecitata dalla pubblicazione di fonti — si pensi al Muratori — e dai nascenti studi di paleografìa e di diplomatica, che nel Mabillon e nei Maurini avevano trovato i primi grandi cultori. Al contrario, l’archivistica, la discipina, cioè, che avrebbe dovuto suggerire le opportune soluzioni, muoveva appena i primi, incerti passi. Se in Italia, infatti, già nel Seicento il Bonifacio4, il Barisone5, il Giussani6 avevano dato inizio ad una letteratura archivistica non si può certo sostenere che i loro intenti andassero molto al di là di una generica illustrazione della utilità degli archivi, del rispetto ad essi dovuto e dell’ordine con cui era bene fossero conservati. Nel secolo seguente, invece, specie il Lemoine 7 ed il Batteney8 in Francia affrontavano veramente il problema dell’ordinamento degli archivi del passato ed in Germania il Fladt ed il Waldmayer si appassionavano nel tentativo di creare una scienza degli archivi in formazione, una « Registraturwissenschaft ». Bisogna riconoscere all’illuminismo il merito di avere, nella sua ansia di razionalizzazione, offerto una prima valida giustificazione all’autonomia della nuova disciplina, fornendole, al di là della semplice osservazione, degli schemi razionali, sia pure discutibili, capaci di interpretare i « fatti » archivistici, senza i quali nessuno studio può elevarsi alla dignità di scienza. Parrà strano che proprio una tale corrente di pensiero, spesso non a torto tacciata di antistoricismo, che indubbiamente tendeva a misurare, fuori e al di sopra della realtà effettuale della storia, passato e presente col metro della pura ragione, abbia potuto dare un decisivo impulso agli studi di archivistica. Ma se l’illuminismo distaccava, in un 4 B. Bonifacio, De archiviti liber singularis, Venezia 1632. 5 A. Barisone, Commentarii de Archiviis antiquorum. 6 N. Giussani, Methodus archivorum sive eadem tenendi ac disponendi, Milano 1684. 7 P. C. Lemoine, Diplomatique pratique oti traité de l'arrangement des archives et des trésors d’icelles, Metz 1765. 8 Bettenay de Bouvouloir, L’archiviste français, Parigi 1775. — 125 — certo senso, l’età propria dal passato proiettandola fuori del tempo nella realtà extratemporale della ragione e della scienza, quasi vagheggiando una umanità senza memoria, per fatale, implicita conseguenza doveva affidarsi alla storia per convincere l’umanità che la storia stessa, da tutti fino a quel momento considerata quasi un vegliardo di vasta esperienza da consultare, non era, invece, che una congerie, una stratificazione incoerente di istituzioni costruite dalla passionalità violenta e passionale dell’uomo. Non scriveva forse Voltaire, proprio ricercandone gli argomenti nel passato: « quando si pensa che Newton, Locke, Clarke sarebbero stati perseguiti in Francia, imprigionati a Roma, bruciati a Lisbona, che cosa bisogna pensare della ragione umana? ». E seriamente rispondeva: « essa è nata in questo secolo » 9. Di qui la necessità di facilitare l’accesso alla documentazione e, per raggiungere lo scopo, il ricorso a raggruppamenti, a selezioni, a classificazioni, a più o meno arbitrarie tassonomie. Sulla stessa scia di pensiero, Pier Camillo Lemoine, che pur intitolava ancora la sua opera « Diplomatique pratique ou traité de l’arrangement des archives et des trésors d’icelles » 10, quasi a conferma di come l’archivistica fosse incapace di staccarsi dalla disciplina che l’aveva tenuta a battesimo, pensava ad un sistema di classificazione che distribuisse le carte in classi per materie astrattamente concepite senza riguardo alcuno alla realtà storica degli archivi di cui avevano fatto parte, alla loro provenienza, alla loro formazione e ordinamento originario. Formule senza contorni trasformanti il documento in un quesito di valutazione razionale, dove ogni testimonianza, perduti i collegamenti con le altre a lei precedenti o susseguenti, veniva privata della ricchezza e della varietà dei significati di cui queste potevano arricchirla per trasformarsi in un elemento astratto e convenzionale, alla stessa stregua con cui in generale ci si affaticava a sostituire all’uomo reale che vive in un dato tempo e in un dato luogo, in mezzo a specifiche circostanze storiche, l’uomo puro ente di ragione, esatto come una formula, consequenziale come un teorema. Il sistema, però, doveva divenire il credo ufficiale del governo teresiano in Austria ed in Italia e, più tardi, della Rivoluzione e del- 9 Voltaire, Lettres philosophiques, Parigi, p. 76. 10 Cfr. nota n. 7. - 126 - l’impero francesi, anche se non mancarono i sostenitori di un ordinamento puramente cronologico 11. Tali idee ebbero certo vasta risonanza anche in Italia, ma, forse, la sorte toccata agli archivi milanesi, dove molte antiche serie vennero scompaginate per distribuire le carte in gruppi corrispondenti a categorie predeterminate, ha condotto troppo precipitosamente a pensare che esse abbiano goduto un largo favore senza trovare una critica appropriata ed efficace. La dottrina, anzi, specie quella tedesca, tende a rivendicare la benemerenza della reazione alle teorie archivistiche dell’illuminismo ad alcune dichiarazioni, di ispirazione romantica, quale quella della classe storico-filosofica dell’Accademia delle Scienze di Berlino che, nel 1819, raccomandava di non mescolare con un ordinamento materiale carte di archivi di diversa origine. Istituzioni che poi dovevano trovare una perfetta enunciazione da parte del Von Sybel nel regolamento, redatto nel 1881, per i lavori di riordinamento dell’Archi-vio di Stato Prussiano e nell’opera fondamentale degli archivisti olandesi Muller, Faith e Fruin u, tanto che alcuno fu indotto a parlare di un sistema prussiano-olandese 13. A mano a mano, però, che nuovi documenti vengono alla luce si può tranquillamente affermare che in Italia già alla fine del Settecento o nei primissimi anni del nuovo secolo, forse in maniera meno scientifica ma con visione empiricamente acuta ed efficace, non mancassero le critiche e le opposizioni ai sistemi di ordinamento illuministici, sollevate con la precisa coscienza della necessità di salvaguardare la provenienza e l’organicità degli archivi. E’ stato giustamente posto in luce come il Regolamento del Grande Archivio del Regno delle Due Sicilie del 1818 ripudiasse ogni ordinamento del genere. Del resto non è significativo che esso sia nato in un ambiente dove l’espressione « formule algebriche », a proposito delle ideo- 11 Si veda, ad esempio, l’opera di I. C. De Chevrières, Nouvel archiviste, Parigi 1775. 12 S. Muller, J. A. Feith e R. Fruin, Handleindung voor het Ordenen en Bescbryven van Archieven, trad. it. di G. Bonelli e G. Vittani, Milano. 13 Cfr. L. Bittner, Gesamtinventar des Viener Hans, Hof und Staatsarchiv, Vienna 1936, I, p. 10; cfr. anche: Adolf Brenneke, Archivìstica, trad. ital. di R. Perrella, in Archivio della Fondazione Italiana per la Storia Amministrativa. Milano 1968, p. 86 e segg. — 127 — logie francesi, era stata coniata dal Cuoco, ammiratore e seguace della « Scienza Nuova » del Vico? A Genova, già tra il 1760 ed il 1770, si discuteva appassionatamente e con perfetta cognizione di causa sulla possibilità di applicazione dell’ordinamento per materia all’Archivio Segreto della Repubblica. Forse a dare occasione al contrasto tra i sostenitori di diversi sistemi fu la necessità di valersi della documentazione nei conflitti giurisdizionali che travagliavano lo Stato. In questi anni, infatti, infuriavano sia le più aspre lotte con gli insorti di Corsica sia le contese con la Corte Romana e con gli Ordini Religiosi. E, come fu giustamente osservato 14, se pur non ai primi posti, la città poteva figurare nella carta « filosofica » d’Italia. Sta di fatto che nell’ottobre del 1764 15 i Supremi Sindicatori, forse messi sull avviso da qualche « biglietto di calice », incominciano a preoccuparsi delle condizioni in cui versa l’archivio. Ci si lagna del disordine, della difficoltà nel ricercare e reperire le pratiche, della confusione con cui si versano all’archivio i documenti da parte delle varie cancellerie. Viene, allora, dato incarico al Magnifico G. B. Negrone di informarsi nonché di riferire in proposito e, come primo provvedimento, si ingiunge ai segretari delle varie Cancellerie di osservare attentamente le disposizioni riguardanti la conservazione della documentazione « sotto pena di sindacato » 16. Un anno dopo, il 4 dicembre 1765 17, si commette a Matteo Sena-rega 1 incarico di « fare stendere una esposizione al Senato » in materia. La relazione, che ci è pervenuta unita alla disposizione dei Supremi, dopo aver brevemente illustrato gli inconvenienti a cui danno luogo le precarie condizioni di conservazione delle carte, senza entrare in particolari di tecnica archivistica e lamentando semplicemente che le carte siano tenute « senza alcun ordine di tempo o di materia », si preoccupa soprattutto di suggerire il modo per reperire i mezzi finanziari che permettano 14 S. Rotta, Documenti per la storia dell’illuminismo a Genova. Lettere di .g0*ttm Lomellini a Paolo Frisi, in Miscellanea di Storia Ligure, Genova, Istituto