ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA NUOVA SERIE XII (LXXXVI) FASC. II GENOVA - MCMLXXII nella sede della società ligure di storia patria VIA ALBARO, 11 4TTi della società' ligure di storia patria FONDATA NEL 1858 Nuova Serie - XII (LXXXVI) COMITATO DIRETTIVO FRANCO BORLANDI (Presidente) - LEONIDA BALESTRERI - ENRICO CARBONE - CESARE CATTANEO MALLONE - GIORGIO COSTAMAGNA TARLO DE NEGRI - T. OSSIAN DE NEGRI - GUIDO FARRIS - GIUSEPPE FELLONI - GIOVANNI FORCHERI - LUIGI MARCHINI - GIUSEPPE ORESTE GIOVANNI PESCE - ENNIO POLEGGI - DINO PUNCUH Direzione ed Amministrazione: VIA ALBARO, 11 - GENOVA Abbonamento annuo: Lire 5.000 (estero Lire 6.000) Un fascicolo separato Lire 3.000 Conto Corrente Postale n. 4-7362 intestato alla Società SOMMARIO Massimo Quaini, Per la storia del paesaggio agrario in Liguria . . . pag. 201 Giovanni Forcheri, Aspetti della giustizia genovese alla fine del ’500. La questione del braccio regio...........» 361 Note dArchivio - Rassegne - Congressi Gillian Moore, La spedizione dei fratelli Vivaldi e nuovi documenti d’archivio ................ Aldo Agosto, Gli elenchi originali dei prigionieri della battaglia di Ponza Maria Carla Lamberti, Mercanti tedeschi a Genova nel XVII secolo Nota aggiuntiva........ Luigi Alfonso, Aspetti della personalità del Card. Stefano Durazzo arci vescovo dì Genova (1635-1664)..... _ Giovanni Pesce, Schede numismatiche Desimoni - II parte Giovanni de Toni..... Giuseppe Piersantelli..... Notiziario bibliografico .... » 387 » 403 » 447 » 449 » 517 » 553 » 555 » 565 MASSIMO QUAINI PER LA STORIA DEL PAESAGGIO AGRARIO IN LIGURIA NOTE DI GEOGRAFIA STORICA SULLE STRUTTURE AGRARIE DELLA LIGURIA MEDIEVALE E MODERNA ABBREVIAZIONI A.N.P.: Archivio Nazionale di Parigi A.S.G.: Archivio di Stato di Genova A.CG.: Archivio Comunale di Genova A.S.S.: Archivio di Stato di Savona B.C.B.: Biblioteca Civica Berio BUG.: Biblioteca Universitaria Genova « Asli »: Atti Società Ligure di Storia Patria « A.S.S.S.P. »: Atti Società Savonese di Storia Patria Questo lavoro è pubblicato con il contributo finanziario della Camera di Commercio, Industria, Agricoltura e Artigianato di Savona. « Et c’est bien notre drame à nous, c’est que le géographe est victime de la durée, de ce temps qui lui file, qui lui glisse constamment entre les doigts; alors pour ne pas devenir historien, il se condamne à fuire en avant, à faire de la prospective et à suggerer le futur » (André Blanc)1. 1. I CARATTERI ORIGINALI DEL PAESAGGIO AGRARIO DELLA LIGURIA. E’ stato più volte rilevato, ma raramente approfondito, che le strutture agrarie mediterranee si caratterizzano per la loro estrema varietà e complessità2. Tale caratterizzazione deriva, in generale, dall’applicazione 1 La citazione di A. Blanc non è gratuita. Contribuisce, credo, a far comprendere, all’autore prima che al lettore, la natura e i limiti di questo lavoro e la ragione del doppio titolo. Sono infatti convinto che la contraddizione messa in evidenza dal geografo francese non si supera nè confluendo nella storia nè fuggendo dalla storia. Anche se spesso il geografo deve farsi storico per affrontare problemi tradizionalmente geografici, quali quelli della genesi ed evoluzione dei paesaggi agrari, la sua storia sarà una storia particolare, una geo-storia, cioè una storia delle strutture territoriali e della « longe durée » più che degli avvenimenti, una storia quindi poco rispettosa dell’ordine cronologico e delle tradizionali periodizzazioni. Una cosa che, forse, oltre a infastidire gli storici e i geografi specialisti, finirà anche per frastornare il lettore comune posto di fronte a inconsueti collegamenti fra storia contemporanea e storia medievale, fra storia moderna e protostoria. Desidero ancora precisare che questo lavoro, pur inserendosi in un precedente programma di ricerca che in parte si è giovato anche di un contributo del C.N.R. (contratto n. 70.00648/08 115.3652), ha preso l’avvio da due conferenze tenute presso la Camera di Commercio di Savona, che intendo qui ringraziare non solo per l’apporto di informazioni tecniche, agronomiche, ma anche per il generoso contributo finanziario che ha consentito la pubblicazione. Un ringraziamento anche alla Dott.ssa A. Manzini per la sua preziosa collaborazione nell’allestimento delle carte e ai numerosi studenti che in questi anni, con intelligenza e entusiasmo hanno seguito alcune direttrici di ricerca alle quali faccio riferimento in questo lavoro. I risultati delle loro ricerche si rivelano fin d’ora preziosi per un approfondimento dei molti problemi che in questa sede vengono spesso soltanto enunciati. Ringrazio infine il Dott. D. Moreno per le sue osservazioni di cui ho in più occasioni approfittato e che dovrei citare molto più spesso di quanto possa fare. 2 Si vedano soprattutto i manuali di M. Derruau, Nouveau précis de géographie humaine, Paris 1969, p. 185 e sgg.; P. Birot, La Méditerranée et le Moyen-Orient, di parametri e concetti elaborati nello studio della geografia agraria dell’Europa occidentale e perciò sostanzialmente estrinseci alla realtà del mondo rurale mediterraneo3. Ma se è vero, come già nel 1964 notava P. Bi-rot, che gli sviluppi della ricerca in Europa « cominciata da più di mezzo secolo, non fanno che aggravare le incertezze » anche a proposito delle fondamentali categorie interpretative, vien fatto di domandarsi se sia ancora sufficiente osservare che nel mondo mediterraneo sono spesso giustapposti i due grandi paesaggi — 1 ’openfield e l'enclos — che dividono l’Europa occidentale e coesistono l’individualismo agrario e gli obblighi comunitari, che di tali paesaggi sarebbero le matrici culturali4. Il fatto è che va sempre più maturando la consapevolezza che paesaggi e strutture agrarie sono soprattutto un prodotto storico e come tali sono il risultato di combinazioni di fattori, diverse non solo da regione a regione ma anche da periodo a periodo, secondo uno stratificarsi dovuto più alla discontinuità storica che alla continuità. È infatti il concetto di discontinuità e l’esigenza di una più precisa periodizzazione che hanno messo in crisi le vecchie certezze. Basta pensare all’importanza che di recente hanno assunto temi come le variazioni storiche del clima, i villaggi rurali abbandonati (ovvero le fasi di discontinuità e di crisi nella storia del popolamento e dell’insediamento), l’alternarsi a breve periodo di col- Paris 1964, I, p. 133 e sgg.; A. Meynier, Les paysages agraires, Paris 1958, p. 15 sgg.; R. Lebeau, Les grands types des structures agraire dans le monde, Paris 1969, p. 51 e sgg. 3 In proposito si vedano le osservazioni di E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 19723, p. 12 e sgg.; H. Desplanques, Contribution à l’étude des paysages ruraux en Italie Centrale: l’arbre fourrager, in Géographie et Histoire agraires, in «Annales de l’Est », 21, 1959, pp. 97-98; L. Gambi, Questioni di geografia, Napoli 1964, p. 132 e sgg. Le medesime osservazioni faceva già L. Febvre a proposito della storia dell’insediamento (cfr. L. Febvre, Pour une histoire à port entère, Paris 1962, pp. 398-403). 4 P. Birot cit., p. 165. Per il significato di questi termini: paesaggio d’enclos (preferibile a quello di bocage più ristretto) per indicare il paesaggio a campi chiusi e openfield o paesaggio a campi aperti, ormai entrati nell’uso, si può utilmente consultare, come anche per gli altri termini specialistici qui impiegati: P. Fenelon, Vocabulaire de géographie agraire, Gap-Tours 1970; P. George (sotto la dir. di), Dic-tionaire de géographie, Paris 1970; oltre beninteso ai noti classici e in primo luogo a M. Bloch, I caratteri originali della storia rurale francese, Torino 1973; per talune osservazioni sulla terminologia da impiegare nello studio dei paesaggi agrari italiani cfr. E. Sereni, Storia cit., pp. 13-14. - 204 - ture e paesaggi per effetto delle leggi del mercato e della commercializzazione e in breve i molteplici temi che emergono dallo studio sempre più affinato delle strutture e congiunture economiche e demografiche, delle strutture sociali, tecniche e colturali, il cui grado di sviluppo e specializzazione anche metodologica rende sempre più necessario il lavoro interdisciplinare o almeno, quando questo non sia possibile, la ricerca problematizzata che esce dagli schemi cristallizzati delle discipline. Comunque sia, non si può negare che la storia e geografia agraria di una contrada mediterranea esiga oggi un approccio nuovo e diverso basato non solo su quanto ha di più originale il mondo mediterraneo rispetto all’Europa occidentale — in questo senso (come vedremo subito) si è messo l’accento sulle piantagioni — ma soprattutto sui caratteri originali di ogni regione e sub-regione del mondo mediterraneo. Nel Medi-terraneo (e forse non solo nel Mediterraneo) ogni regione agraria, per quanto forti possano essere le concordanze, è un mondo a sé, distinto da particolari tecniche e sistemi di coltivazione, da particolari paesaggi, da particolari circuiti commerciali e sistemi di organizzazione territoriale. Ciò è soprattutto evidente in Liguria, regione tipicamente mediterranea anche perché tipicamente frammentata in aree diverse, con diverse vocazioni e civiltà agrarie, con diverso grado di integrazione nel più ampio tessuto regionale e interregionale e diversi ritmi di sviluppo. Se in prima approssimazione ci accostiamo ai paesaggi, cioè alle fattezze esterne delle strutture agrarie caratteristiche della Liguria pre-rivoluzione industriale, notiamo facilmente una serie di contrasti non solo fra i paesaggi della Liguria marittima e quelli della Liguria montana o ancora padana — come viene abitualmente considerata la Liguria sotto questo aspetto, cioè rimandando le differenze agrarie alle differenze altimetriche e climatiche — ma anche all’interno di ciascuna di queste tre zone. Al loro interno è infatti altrettanto agevole cogliere contrasti, che tuttavia nessuno studioso moderno si è finora curato, non dico, di spiegare, ma neppure di descrivere 5. 5 Sulla arretratezza degli studi storici si veda F. Surdich, Per una storia agraria della Liguria medievale-, note sulle ricerche interdisciplinari, in « Nuova Rivista Storica », LIV, 1970, pp. 287-316; E. Grendi, Problemi e studi di storia economica genovese (secoli XVI-XVII), in « Rivista Storica Italiana », LXXXIV, 1972, pp. 1022-1059. A sua volta, il quadro dell’evoluzione agraria della Liguria risultante dalle indagini dei geografi, è largamente viziato da una concezione immobilistica e deterministica. Si veda per esempio quanto scrive E. Scarin: « l’economia agricola è rimasta quindi - 205 - Prendiamo per esempio le culture arboree e arbustive, nelle quali il Desplanques ha individuato « l’architettura permanente del paesaggio agrario » e il più caratteristico « fenomeno di struttura agraria » delle regioni mediterranee6. Per quanto concerne la vite, in Liguria sono presenti tutti i sistemi di coltivazione: dalla classica alberata toscana (cultura promiscua), all’allevamento ad alberello basso (cultura specializzata), al sistema delle topie o pergolati alti, ai filari sostenuti da pali e canne, sia alternati alle colture erbacee, sia ai limiti dei campi o ai margini delle fasce piantate a ulivi (e parzialmente appoggiate a queste o altre piante). Non diversamente avviene nella cultura dell’ulivo: qui il contrasto è ancora più evidente e lo possiamo cogliere agevolmente anche oggi. L’ulivo infatti determina o contribuisce a determinare un notevole contrasto fra il Basso Ponente7, dove si afferma come monocultura che in sempre la stessa attraverso il tempo: raccolta delle olive... utilizzazione degli ortaggi e della frutta... la coltura della vite dà una produzione ridotta... » (E. Scarin, La casa rurale nella Liguria, Genova 1957, p. 14). Ancora più rigide le opinioni di A. Brasa circa « la radicata anelasticità mentale del coltivatore ligure... derivante da un tradizionale conservatorismo per cui nulla era buono nelle attività agricole se non risaliva per lo meno all’epoca nella quale, imperante Ottaviano, Terenzio Varrone scrisse il suo Rerum Rusticarum » (A. Brusa, Problemi di geografia agraria in Liguria, in «Rivista Italiana di Economia, Demografia e Statistica», XII, 1958, p. 11 (dell’estratto). A proposito di determinismo si veda anche quanto, riguardo a una vallata del Finale, scrive G. Ferro: la prevalenza « delle attività agricole... risulta determinata da fatti ambientali e perciò difficilmente poteva modificarsi... Non vi è stato abbandono di aree vallive da parte della popolazione, ma al contrario un costante, continuo tentativo di conquistare nuovi terreni coltivabili: e ciò e stato determinato dalla fisionomia chiusa della valle » (G. Ferro, Le condizioni economiche della vallata del Pora nel secolo XVII, in « Annali di Ricerche e Studi di Geografia », VII, 1957, p. 100 (sott. mie). Su questa tendenza deterministica, sempre ricorrente negli studi geografici anche perchè rappresenta la chiave più comoda per chiudere tutti i problemi dando l’impressione di risolverli, si vedano anche le citazioni e osservazioni alla nota 21 e 53. 6 Si veda H. Desplanques, Il paesaggio rurale della coltura promiscua in Italia, in « Rivista Geografica Italiana », LXVI, 1959, pp. 29-30. 7 L’espressione geografica Basso Ponente è di G. M. Piccone e serve a designare « tutto il paese situato al Ponente del Capo delle Mele: o per dir meglio tutta la parte marittima del Circondario di Porto Maurizio nel Dipartimento di Montenotte e del Circondario di S. Remo in quello delle Alpi Marittime » (G. M. Piccone, Saggi sull’economia olearia preceduti da un discorso preliminare sulla restaurazione dell'agri-cotura, Genova 1808, I, p. 138). - 206 - termini di paesaggio significa formazione di « boschi » di ulivi per effetto della densità delle piante e delle sistemazioni del suolo talvolta più elementari, e il resto della Liguria dove permane la cultura promiscua, più intensiva, che associa l’ulivo non solo alle culture erbacee ma anche ad altre piantagioni, come la vite e quella, comunissima in passato, del fico. Vedremo più avanti come sui due sistemi, alla fine del Settecento e nel-l’Ottocento, si sviluppò un interessante dibattito8. Alle aree destinate alla cultura esclusiva dell’albero, che talvolta si caratterizzano come culture estensive e seccagne, fanno contrasto le huer-tas: gli spazi più o meno vasti conquistati dall’agricoltura intensiva irrigua, nelle pianure litoranee, nei delta, nei fondi alluvionali e prima ancora nelle aree pedemontane. Questo ambiente rurale, distribuito su tutta la fascia costiera e soprattutto in prossimità dei centri urbani, è il paesaggio delle « ville » suburbane e delle sedi rurali sparse, dei giardini di agrumi, degli orti e più in generale della cultura promiscua. Un paesaggio caratterizzato da una morfologia fondiaria assai minuta e spesso a « campi chiusi », se vogliamo usare questa classificazione che nella sua genericità nasconde contenuti molto diversi. Le chiusure sono spesso rappresentate da alti muri a calce, molto costosi ma utili, oltre che per difendere le colture dai furti e dai denti del bestiame, anche per riparare dal vento le piantagioni più delicate, come gli agrumi9. Già da questi pochi cenni si comprende come la forma che assume il paesaggio agrario nella Liguria costiera non possa trovare la sua unica spiegazione nella dialettica agricoltura-pastorizia 10. Nella Liguria marittima la libera circolazione del bestiame pare da tempo contrastata e con la precoce scomparsa del maggese le aree per il pascolo delle greggi locali o transumanti si sono ridotte alle aree permanentemente incolte, che in generale corrispondono alle comunaglie, spesso messe a profitto dalle comunità come « bandite » periodicamente affittate a pastori locali o forestieri, fino a quando, dai primi secoli dell’età moderna, anche le terre comunali vengono parzialmente assoggetate all’appropriazione individuale dell’agricoltore. 8 Per questi aspetti si vedano i paragrafi 4 e 7 e per i paesaggi della vite soprattutto il par. 5. 9 Anche per le aree orticole liguri rimando al prafagrafo 3. 10 per un tentativo di spiegare la formazione dei paesaggi agrari in termini di dialettica agricoltura-pastorizia, cfr. X. De Planhol, Essai sur la genèse du paysage rural de champs ouvertes, in Géographie et Histoire agraire cit., pp. 414-424. - 207 - Né il paesaggio agrario ligure può spiegarsi in termini di dialettica individualismo - comunitarismo agrario. Abbiamo infatti molti esempi di coesistenza e complementarietà di obblighi comunitari con le più caratteristiche espressioni dell’individualismo agrario, quali notiamo nel paesaggio delle ville e dei giardini e orti della Liguria costiera. Per esempio, nelle aree dove l’acqua è più preziosa perché più scarsa e più necessaria per l’agricoltura — ad es. a Sanremo, dove sono irrigati oltre gli orti e gli agrumeti anche i castagneti — la distribuzione è strettamente regolata dal Comune e dai suoi ufficiali. Per spiegare questa o altre forme di usi collettivi — per es. l’uso dei boschi e dei pascoli — o addirittura forme di gestione comunale della produzione e distribuzione, non occorre certo rifarsi a presunte sopravvivenze di comuniSmo agrario primitivo e preromano, che nella maggioranza dei casi conducono a inconsistenti pe-riodizzazioni11. Esistono, certo, anche in Liguria problemi di convivenza fra agricoltura e pastorizia e contrasti fra appropriazione individuale e proprietà collettiva della terra, ma le forze che si urtano danno origine a equilibri e paesaggi diversi nel tempo e nello spazio. In qualche area si nota una stretta integrazione fra allevamento e agricoltura e l’economia agricola delle « ville » costiere e pedemontane trova il suo naturale prolungamento nei pascoli della montagna 12. È vero, si è finora sottovalutato il ruolo 11 Si dimostra ancora sensibile a questa teoria, sorretta da una vasta letteratura (la cui credibilità è oggi molto ridotta) anche O. Ribeiro, Il Mediterraneo. Ambiente e tradizione, Milano 1972, p. 64: « il regime comunitario a cui è assoggettata con frequenza l’utilizzazione dell’acqua di irrigazione fa supporre una remota ascendenza preromana, essendo esso contrario all’individualismo agrario che il diritto romano favoriva ». Oggi in sostanza si tende a ricostruire concretamente e storicamente la genesi delle istituzioni comunitarie (che talvolta nascono addirittura in età moderna) piuttosto che rifarsi ai « grandi sistemi » storiografici della scuola tedesca, sulla caducità dei quali ha scritto di recente G. Tabacco, Problemi di popolamento e di insediamento nell’alto Medioevo, in « Rivista Storica Italiana », LXXIX, 1967, p. 74 e sgg. 12 D. Moreno, Per una storia della montagna ligure. Note sul paesaggio della Montagna di Fascia, in « Miscellanea Storica Ligure », II, 1970, pp. 73-122. E ancora le successive integrazioni dello stesso A. in Territorio società e tecnologia nella Liguria pre-industriale, in Atti II Convegno « Cote d’Azur-Riviera dei Fiori: Pollutions et Aménagement », Genova 1972. Sempre dal Moreno ci aspettiamo lo studio conclusivo sull’organizzazione territoriale della Montagna genovese. - 208 - che l’allevamento continua a rivestire, con oscillazioni storiche che sono ancora da ricostruire, anche nelle comunità costiere, tuttavia mi pare si possa riconoscere che altrove il rapporto fra fascia costiera e montagna, fra agricoltura e pastorizia è mediato innanzitutto dalla distanza, dall’in-terporsi, fra i due poli di queste attività, di altre comunità organizzate in modo diverso. La diversa organizzazione territoriale che le comunità liguri si danno, a seconda delle condizioni ambientali e storiche, la possiamo leggere con immediatezza anche nella configurazione dei territori comunali. Si veda, per esempio, con quanta diversità si disegnano sulla carta i confini delle comunità di due aree della Liguria occidentale contigue, ma caratterizzate da condizioni ambientali e soprattutto storiche divergenti (tav. I). Anche la collina e la montagna presentano in Liguria paesaggi non uniformi. Ora infatti la « montagna » è caratterizzata dalla risalita delle colture della fascia pedemontana e in particolare dalle colture arboree: come la « montagna » olivata del Ponente, dove però l’olivicoltura speculativa non riesce, non può sostituirsi del tutto alle forme più antiche della policoltura, alle colture di sussistenza, anche a causa dei minori rendimenti dell’ulivo in condizioni altimetriche e climatiche meno favorevoli. Si nota così anche verticalmente il medesimo contrasto che abbiamo constatato esistere orizzontalmente, per così dire, cioè fra Levante e Ponente. Altrove e in periodi anche diversi sono le piante della « montagna » che scendono verso la fascia pedemontana, costiera. È soprattutto il caso del castagno, che ancora oggi, in alcuni distretti, della Liguria risulta contiguo, frammisto all’ulivo, e che in passato aveva un’importanza e una diffusione diffìcilmente riconoscibile per chi si limita a giudicare sulla base degli schemi zonali della geo-botanica ,3. Anche il castagno, come la vite e l’ulivo, può dare origine a paesaggi diversi: ora infatti lo troviamo diffuso in boschi che probabilmente sono originari, ora in vere e 13 Si vedano però le osservazioni di F. Orsino, Lineamenti geobotanici della Liguria, in « Archivio Botanico e Biogeografico Italiano », XIV, 1969, p. 224: « la distribuzione del castagneto in Liguria è stata enormemente influenzata dall’uomo... per cui esso ha occupato e continua a occupare tutt’ora uno spazio senz’altro molto maggiore di quello che probabilmente aveva in origine... Pur essendo nel complesso una specie moderatamente termofila, è in grado di sopportare, entro certi limiti, intensi freddi invernali e notevoli caldi estivi, per cui la sua distribuzione altitu-dinale è assai ampia ». Sulla diffusione e utilità di questa pianta in Liguria cfr. più avanti, in particolare al paragrafo 7. — 209 — proprie piantagioni su pendii terrazzati, ora anche in cultura promiscua. Spiegare queste diverse configurazioni verticali e orizzontali del paesaggio agrario della Liguria significa non solo far ricorso ad una precisa periodizzazione e collocazione storica, ma anche chiamare in causa i molteplici fattori geografici, economici e sociali che organizzano la vita delle diverse cellule in cui si articola il tessuto regionale l4. Fra questi fattori possiamo fin d’ora sottolineare — anche perché negli studi geografici non ha il dovuto rilievo — la precoce dipendenza dal mercato dell’agricoltura ligure, o meglio di determinate regioni agrarie della Liguria: è a questa dipendenza che si deve la mobilità, il dinamismo dei paesaggi agrari, come non manca di notare all’inizio dell’Ottocento uno dei maggiori agro-mi figuri: « I Liguri nascono con una testa calcolatrice. Dotati dalla natura di un genio perspicace, intraprendente, per mala sorte le impressioni dell’educazione erano atte a rivolgerlo verso le speculazioni passeggere... Per un seguito di questa oscillazione perpetua, abbiamo veduto nel giro di parecchi anni passare e riprendere, e passare nuovamente il regno degli agrumi, dei gelsi, delle viti, e dell’ulivo, a proporzione che il prezzo di tali frutti, delle sete, del vino e dell’olio hanno più o meno eccitato l’avidità sconsigliata de’ contadini, e de’ possidenti... Quindi accadde di veder atterrati de’ vigorosi castagni, per fare posto a languide viti, le quali forse strappate a vicenda cederanno di bel nuovo il mal usurpato soggiorno al castagno reduce dall’esilio. Si son veduti gli aranci e i limoni popolare gli orti, e frammezzarsi agli ulivi, ed alle viti; e poscia piantarsi gli ulivi e le viti in quelle fosse istesse, dalle quali si scavavano i ceppi degli agrumi gelati. Si sono veduti i gelsi empire le valli e i monti, e torreggiar sulla vigna, ed ombreggiar la semente; e si è veduto in seguito sterminarli con smania, dopo averli piantati senza riflessione, e per leggerezza. All’incarimento costante dell’olio, alla combinazione di parecchie annate abbondanti dee pure l’ulivo la rapida sua propagazione »1S. Attraverso il mercato e i movimenti demografici la Liguria rurale si salda alla storia agraria del Mediterraneo. Per la sua stessa posizione 14 Su alcuni problemi che pone lo studio delle cellule territoriali del tessuto regionale nella Liguria pre-industriale mi sia consentito rimandare a M. Quaini, Una regione in via di trasformazione: la Liguria occidentale nell’età napoleonica, in « A.S.S.S.P. », n.s. V, 1973. Si veda anche D. Moreno, Territorio cit., e Per la storia cit., che costituiscono ottimi esempi di indagini su aree omogenee. 15 G. M. Piccone, Saggi cit., I, pp. XXXV-XXXVI. - 210 - e funzione storica: crocevia di strade di terra e di mare, piattaforma di collegamento fra il mondo padano e continentale e il mondo mediterraneo la Liguria molto ha trasmesso e molto ha ricevuto. Lo constateremo più avanti per l’ulivo, la vite e gli agrumi, lo possiamo fin d’ora notare per le piante ortensi, per molte delle quali la Liguria ha avuto un’indubbia funzione di « relais » nei confronti del mezzogiorno della Francia 16. Veicolo di queste trasmissioni di tecniche e piante sono stati sia i traffici e gli investimenti fondiari dei mercanti genovesi fuori della Liguria, sia una precoce e notevole emigrazione di contadini in diverse regioni del Mediterraneo, come avremo più volte occasione di rilevare. Questa rapida e generica evocazione di temi, se da un lato può dare un’idea dell’originalità della storia agraria della Liguria, dall’altro è anche un indice dello stato degli studi in questo campo, che come è già stato rilevato, è purtroppo molto arretrato. In tale congiuntura degli studi geografici e storici mi sembrano auspicabili due orientamenti integrati di ricerca. Da un lato lo studio delle minori unità territoriali che costituivano le cellule vive del tessuto regionale prima che si affermassero i fattori unificanti della società industriale moderna. A questa scala l’analisi può, direi deve, essere globale: al di là delle artificiali divisioni disciplinari dell’oggetto, l’indagine deve raggiungere tutti i fenomeni e i fattori che consentono di dare una spiegazione esaustiva alla peculiare organizzazione umana del territorio. D’altro lato, l’individuazione e soprattutto la valutazione delle peculiarità sub-regionali esigono parametri di confronto a scala regionale e interregionale. Di qui la necessità di orientare l’indagine anche verso la sintesi regionale. Ma data la carenza di studi, la sintesi non può che essere parziale, non può farsi, a breve scadenza, se non isolando singoli fenomeni e aspetti del paesaggio agrario regionale. Anche entro questi limiti la sintesi può avere, credo, la sua utilità: a condizione che si selezionino elementi significativi: per esempio, le culture arboree che più hanno contribuito a modellare il paesaggio agrario della regione. 16 Interessanti cenni su questa funzione della Liguria, sulla quale torneremo più volte, in E. Le Roy Ladurie, Les paysans de Languedoc, Paris 1966, p. 60 e sgg. — 211 - 2. Per la storicizzazione dell’ambiente. Il clima e le acque. Prima di affrontare lo studio dei più importanti connotati del paesaggio agrario della Liguria, può essere utile esaminare alcune delle caratteristiche ambientali della regione. Non allo scopo di dare la solita, inutile introduzione di geografia fisica, dove nel solito ordine e acriticamente si passano in rassegna le « condizioni » geologiche, pedologiche, morfologiche, climatiche, idrauliche, botaniche ecc., ma per avviare la storicizzazione dell’ambiente naturale ligure nelle sue componenti più significative. In questo paragrafo si prenderanno dunque in esame solo alcuni degli elementi che più risultano integrati nella storia umana e si tralasceranno quei fenomeni che rimangono sul piano di una mera « storia » naturale, per il fatto di svolgersi secondo una scala temporale il cui metro non è comparabile neppure con la scala dei tempi più lunghi della storia umana. F. Braudel, il fondatore della moderna geo-storia delle contrade mediterranee, ha verificato, in pagine che sono fra le meglio riuscite della sua « thèse », la definizione etimologica del Mediterraneo come « mare fra terre », sottolineando la presenza « imponente e arcigna » della montagna, il contrasto fra il paesaggio urbanizzato, disteso lungo gli stretti piani costieri e incorniciato dai paesaggi della vite e dell’ulivo, da un lato, e, dall’altro, ancora aderente alle Riviere, « lo spessore della montagna: questo mondo arroccato, irto di baluardi, con le sue rare case e i suoi villaggi, i suoi nord alla verticale » 17. Un contrasto non solo paesistico, ma anche climatico: la neve incornicia a lungo le frange costiere dove fiorisce l’arancio e crescono piante esotiche. Si direbbe che il Braudel, delineando le caratteristiche del « suo » Mediterraneo abbia avuto soprattutto presente la Liguria, alla quale dedica invece solo qualche fuggevole riferimento. Ma di tale « mediterra-neità » della Liguria — cioè come terra di violenti contrasti paesistici e climatici — non è difficile reperire le esemplificazioni che il Braudel non aveva evidentemente sottomano. Verso la fine del XVIII secolo, quando le piantagioni e i vivai di aranci di Nervi sono famosi anche fuori della Liguria, a neanche 10 chilometri, in linea d’aria, gli uomini possono morire sotto le valanghe, co- 17 F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris 1966, I, pp. 22-24. — 212 — me, nel gennaio del 1792, accade a un tal Antonio Timossi nell’alta Val Polcevera: a magna nivis quantitate e monte proximo cadente in profundam foveam deiectus, statim obiit, post dies 20 repertus e con lui anche il figlio che lo accompagnava, come si legge nel libro dei defunti della parrocchia di Gallaneto 18. Allo stesso modo, non lontano dai giardini di agrumi e di palme di Sanremo gli uomini cadono di frequente vittime di lupi affamati. Un cronista sanremasco ci ha lasciato a questo proposito un resoconto impressionante, che mostra come la montagna di Sanremo dovesse essere, almeno in parte, dominio della « selva selvaggia » medievale, ancora nel 1815, quando risulta che « alli 29 di agosto erano già 46 persone fra morsicati e 25 mangiati dalli lupi rapaci » 19. Malgrado tutte le precauzioni prese dal Comune — per esempio, « mandò dei tamburi ad appostarsi nelle valli ad indicare con proclami le valli dove doveva andarsi a fare legna e foglia » — anche il 2 settembre « il lupo ha sorpreso, mentre faceva foglie ai confini dei boschi di Perinaldo certo Donato e lo ha strangolato ». Il 9 settembre tre cacciatori di Verezzo uccidono un lupo maschio nel territorio di Baiardo. Ancora il 12 settembre « uno dei grossi lupi, nel prato di S. Romolo — dunque alle porte di Sanremo — ha preso e ucciso il figlio del manente di anni 6 circa ». I cacciatori locali non sono sufficienti e nello stesso anno e nel seguente, continuando le stragi, sono inviati a Sanremo cacciatori del reggimento di Nizza e addirittura cacciatori valdostani (pp. 153-154). Come spiegare questo « inselvatichirsi » della montagna di Sanremo? II Comune aveva certo difeso i suoi boschi dagli assalti dei dissodatori e dalle forme più distruttive di utilizzazione pastorale e mercantile, affinché potessero frangere i venti settentrionali e continuare a fornire il legname per la costruzione delle barche e vascelli: condizioni ambedue necessarie per la produzione e commercio delle « frutta » sulle quali si manteneva l’economia locale. Ma la discesa dei lupi era certo anche favorita dagli inverni particolarmente rigidi che si susseguono nel Settecento e nei primi decenni dell’Ottocento. Lo stesso cronista di Sanremo già ricordato così rievoca il memorabile inverno del 1709: 18 N. Schiappacasse, Gallaneto di Val di Polcevera, Genova 1895, pp. 15-16. 19 II Manoscritto Borea. Cronache di Sanremo e della Liguria occidentale, Bordighera 1970, p. 153. — 213 - « 1709, 9 genajo. Venne qui in S. Remo per 3 giorni e 3 notti tanta neve che per le strade ve n’era l’alteza di due palmi e per le contrade tanto durò che le donne furono obligate a portarla via perchè don quella neve che era gettata dalle terrazze faceva un gran monte. Fu questa accompagnata da gran vento e fu tale il danno che ambedue causarono alle nostre campagne, che non si salvò un frutto di limoni, e cetroni, e pochissime foglie si ritrovarono su gli alberi; essendo tutti restati come le Roveri; non andarono esenti in quest’anno dal freddo e dal gelo che quelle piante che erano vicino alle case. Le Olivi perderono anche le foglie e nelle alture seccarono quasi tutte, temendo ancora che non seccassero nelle bassure. Il freddo che faceva pareva quasi intollerabile. Fu scritto da Genova che il vino si aggiacciava ne’ bicchieri, e quel che è più l’orina neil’vaso notturno si trovo agghiacciata... Nell’Italia e nella Francia sono morte persone dal puro freddo; in Sanremo però non s’amallarono gran gente ma in Genova in un mese e mezzo perirono più di 4000 persone, ed essendosi a qualcheduno fatta 1 anatomia vi si trovò il sangue aghiacciato » (p. 109). Sullo stesso inverno potrebbero citarsi altre testimonianze — su alcune dovremo ritornare a proposito degli effetti delle avversità climatiche sulle piantagioni — ma più che alla eccezionalità di un anno (certo esagerata nelle notizie riferite) conviene riferirsi alla serie di inverni particolarmente rigidi che a cominciare soprattutto dalla fine del Cinquecento si susseguono nel Seicento e particolarmente nel Settecento, fino alla metà del XIX secolo: rappresentano il volto concreto e l’aspetto più percepibile di quella che gli studiosi hanno chiamato « piccola età glaciale »2G. Ritornando all’esempio di Sanremo, possiamo notare che anche nell’anno della discesa dei lupi si registra in gennaio un « gelo universale con carico di neve », che, come del resto si verificava da molti anni, produsse notevoli danni alle piantagioni. Agli anni e periodi freddi si alternavano, anche durante la piccola età glaciale, anni e cicli caldi, ed allora le intemperanze delPinverno erano di segno opposto a quelle finora registrate, come per esempio capitò ancora a Sanremo, nel 1639: « in gennaro e febbraro stante il caldo che faciea, come fosse di estate si ada-quavano li orti e nel mese di marzo si è posto il divieto » (p. 92) cioè, 20 Sulle variazioni del clima in età storica e sulla « piccola età glaciale » cfr. E. Le Roy Ladurie, Histoire du climat depuis l’an mil, Paris 1967 e, per gli aggiornamenti dello stesso autore, gli studi raccolti in Le territoire de l’historien, Paris 1973, p. 419 e sgg. Sempre dal cit. Manoscritto Borea si ricava questa serie di inverni rigidi fra il 1709 e il 1820: 1731, 1755, 1769, 1770, 1771, 1782, 1789, 1792, 1809, 1810, 1811, 1812, 1814, 1815, 1820. - 214 - la distribuzione dell’acqua, per la sua scarsità, viene regolata esclusiva-mente dagli ufficiali del Comune. In sostanza, i periodi o le stagioni di maggior siccità, quando il Comune decretava novene e processioni « col quadro di N. S. della Costa... accompagnata nell’atto d’uscire Halla pioggia » (p. 116), alternandosi alle eccessive precipitazioni (quando non alle alluvioni) così frequenti nelle stagioni intermedie, ponevano un unico problema: quello del controllo sulle scarse risorse idriche e della protezione dalla violenza delle acque. Già da questi pochi esempi emergono i dati ambientali più significativi, soprattutto in rapporto alla storia agraria della Liguria: il clima e le acque. Ad essi si riferiscono, con particolare attenzione, gli uomini del passato ed è in gran parte sulle loro testimonianze che possiamo ricostruire le condizioni ambientali in età medievale e moderna. Possiamo ricavare da queste testimonianze, oltre a informazioni più o meno precise su alcune delle « strutture ambientali » nelle quali e sulle quali si svolge dialetticamente l’azione umana, anche gli elementi per una pe-riodizzazione di tali strutture, per una vera e propria ecologia storica o storia ecologica della Liguria? Il quesito è importante perchè solo nel caso di una risposta affermativa è possibile superare la sostanziale dicotomia fra ambiente e uomo, fra la fissità e la non-storia dell’ambiente naturale e la storia umana, alla quale abbiamo già accennato21. È la storicizzazione del clima che in questi ultimi anni ha fatto i maggiori progressi, grazie allo sforzo congiunto di storici, naturalisti e climatologi. In Liguria, per ricostruire le variazioni storiche del clima non si può ricorrere nè alla glaciologia storica (è evidente), nè per il momento ai risultati della dendroclimatologia (anche ammettendo che tali risultati possano esere significativi): l’unica fonte che può garantire una certa antichità e continuità di rilevazioni è rappresentata dai bandi delle vendemmie, dal momento che le osservazioni metereologiche iniziano solo alla fine del Settecento 22. 21 In generale su questi problemi si veda D. Moreno, Territorio cit., e M. Quaini, Riflessioni e ipotesi in tema di geografia storica, Genova 1968. Ma si veda anche la nota 53. 22 II primo a fare regolari osservazioni metereologiche fu in Genova Domenico Franzoni, esattamente dal 1782 al 1796 (cfr. Descrizione di Genova e del Genovesato ossia Nuova Guida di Genova, Genova 1846, I, pp. 143-4). Quasi contemporanea- — 215 - Tuttavia non si può dimenticare che anche la deliberazione che annualmente viene presa circa la data di inizio della vendemmia non è solo espressione dell’andamento climatico stagionale, ma è anche espressione dei rapporti sociali stabiliti all’interno di una comunità, rapporti che variano nel tempo, come nel tempo possono variare le esigenze tecnico-economiche che reggono la coldvazione di un vigneto (si pensi alla influenza che possono avere trasformazioni nei sistemi di allevamento della vite, 1 introduzione di nuovi vitigni e ancora l’apertura di nuovi mercati e il miglioramento della qualità del vino). A tal fine è stato opportunamente osservato che le serie delle vendemmie non sono indicative delle tendenze climatiche di lungo periodo (che sono invece soprattutto riflesse nelle serie glaciologiche), ma delle fluttuazioni corte, delle oscillazioni brevi e violente del clima, che sono poi quelle che più si riflettono sulla storia umana e quindi consentono di porre le basi di una storia ecologica seria, fondata sulla comparazione rigorosa, anno per anno, dei dati climatici (limitatamente però al periodo primave-rile-estivo) e dei dati sui raccolti23. È stato, comunque, anche grazie a tali serie fenologiche che si è potuto stabilire una precisa periodizzazione del clima in età medievale e moderna, che costituisce oggi un quadro imprescindibile per qualsiasi indagine nel campo della storia agraria. Un quadro che tuttavia appare ancora troppo poco mediterraneo. Anche per questo credo rivesta notevole interesse il tentativo di raccogliere la serie di date delle vendemmie del comune di Alben-ga fatto da Maria R. Mazzei24. mente osservazioni metereologiche compaiono sugli « Avvisi » di Genova, spesso accompagnate da interessanti informazioni circa le conseguenze del clima sulle piantagioni (cfr. per esempio nell’anno 1789 le proposte per salvare dal gelo gli agrumi). 23 Cfr. E. Le Roy Ladurie, Les paysans cit., p. 19 e sgg.; Climat et récoltes aux XVII et XVIII siècles, in « Annales E.S.C. », V, 1960, pp. 450, 459 e sgg. 24 M. R. Mazzei, Le variazioni del clima nella Piana di Albenga in età moderna, tesi di laurea presso la Fac. di Lettere, Univ. di Genova (relat. L. Bulferetti), a. acc. 1971-72. Per quanto mi risulta quella di Albenga è la serie più ricca di bandi delle vendemmie in Liguria. Gli archivi delle Cinque Terre non li hanno conservati. Per il Settecento qualche materiale esiste invece a Finale. Un buon punto di osservazione potrebbe essere Taggia, noto centro viticolo medievale. Purtroppo pero i due ultimi archivi citati sono poco accessibili. Non mi risulta esista documentazione in proposito nè a Genova (presso l’archivio comunale) nè a Savona, ma in questo settore le ricerche sono ancora in gran parte da fare. Si potrebbe forse ovviare alla carenza di dati sulle vendemmie utilizzando le segnalazioni sul raccolto dell olio, — 216 — Quali applicazioni può avere, ai fini dello studio dei maggiori problemi della storia umana e agraria in particolare, la conoscenza delle variazioni climatiche? E’ un quesito al quale si può dare una risposta evidentemente solo a scala regionale e disponendo di una gamma di informazioni sui fenomeni e tendenze climatiche più ampia di quelle deducibili dalle serie delle vendemmie. Anche nella storia del clima non possono separarsi i tempi lunghi (per es. le variazioni secolari della temperatura), dai tempi brevi (per es. brevi cicli caldi alternati a brevi fasi fredde o ancora fasi umide alternate a fasi aride ecc.) e ancora dagli « avvenimenti» (gelate, alluvioni ecc.), che nelle regioni mediterranee assumono spesso caratteristiche di particolare violenza. A questo fine non c’è dubbio che, accanto alle fonti naturalistiche, assumono tutta la loro importanza anche le fonti più soggettive che registrano soprattutto gli avvenimenti, le manifestazioni più percepibili dei trends climatici 2S. Possiamo ancora ricostruire gli inverni (e talvolta anche le estati) genovesi e della montagna sovrastante Genova sulla base della Gabella della Neve, appaltata per assicurare alla città un sicuro approvvigionamento di neve, molto richiesta nell’alimentazione del tempo 26. Per esempio nel luglio del 1695 l’impresario si lamenta che « per la gran caduta di nevi » di quell anno i genovesi abbiano continuato a rifornirsi da « neviere » esistenti in città. Nel dicembre del 1698 vi è invece penuria perche nevica una sola volta e « e neve congelata, nè capace di potersi attaccare in terra ». Nel 1706 « non nevicò che in poca quantità » nei luoghi soliti dove si faceva la raccolta (e cioè al di qua del Giogo) e si dovette trasportare la neve dai « monti più rimoti ». Nel 1707 situazione simile: le provviste fatte di qua dai Giovi si esauriscono in agosto. Nel 1708 « cadde la neve in queste vicinanze » ma fu seguita « da diluvi d’acque continuate per mesi continui » che danneggiarono le riserve. Nel come suggerisce E. Grendi, Introduzione alla storia moderna della Repubblica di Genova, Genova 1973, p. 96. 25 Esiste un ricco materiale ancora in gran parte da raccogliere non solo nelle cronache ma anche nei registri delle deliberazioni consiliari e nei registri parrocchiali (su quest’ultimo tipo di fonte si vedano le recenti osservazioni di E. Le Roy Ladurie, Le territoire cit., p. 511 e sgg.). Fra le testimonianze più curiose di questo tipo che mi sono capitate ricordo quella del Commissario di Finale che il 29 agosto 1716 comunica al governo genovese di non poter visitare i boschi più elevati a causa della neve (A.S.G., Antica Finanza, n. 402, Boschi 1701-1719). 26 A.S.G., Antica Finanza, n. 776, Neve. — 217 - 2 1709 « crebbero i disastri giacché essendo accaduta quell’invernata così orrida accompagnata da geli mai più veduti, ad esclusione di quattro mesi d’estate il rimanente dell’anno passò senza minimo smaltimento di neve ». Nel 1710 « passò l’estate così temperata et irregolare che non si potè introitare che poco più dell’anno precedente ». Lo stesso avvenne negli anni 1711 e 1712, in cui « un solo fosso fu sufficiente per la provvista de la Città ». Scarse precipitazioni nevose nel 1720, più abbondanti nel 1721, ma « la fresca estate occorsa nel 1721 e il caldo moderato e breve del 1722 », oltre il « raro accesso de forestieri » hanno nuovamente fatto calare i guadagni dell’impresario. Raccolta abbondante nel 1726, utilizzata anche nell’anno seguente in cui non nevica « in parte benché minima di qua da Giovi e Antola ». Lo stesso avviene nel 1728 ed è necessario ricorrere alla neve dei Giovi e del-l’Antola. In questo anno l’impresario si lamenta anche del fatto che lo smaltimento annuale non arriva a balle 3200, perché non si consuma più « il ge- lo dell’acque fresche come si faceva per il passato ». Nel 1774 l’impresario rileva che alla provvista cittadina di neve « vi ha provveduto il cielo con moltissime cascate di nevi, le quali hanno obbligato a tener del tutto chiuse per qualche mese le stappole » che erano 6 in città e 9 nei sobborghi (queste ultime restavano aperte solo nell’estate). Arrestiamoci qui e osserviamo soltanto come la neve poteva costituire una risorsa non del tutto disprezzabile per i montanari dell’alta Polcevera impiegati nella raccolta, conservazione e trasporto della neve: qualche volta l’impresario si lamenta dell’aumento del prezzo del vino « solito darsi alli huomini quando sono alla raccolta delle nevi »27. Anche potendo tener conto di tutta la complessa dimensione dei fenomeni climatici regionali non si può esagerare — se non si vuole cadere in nuove forme di determinismo climatico — il ruolo del clima e delle sue variazioni come fattore dell’evoluzione socio-economica di una determinata regione. È già stato da più parti osservato che ogni fenomeno al quale si è voluto dare una spiegazione storico-climatica può trovare una spiegazione 27 Sul fenomeno dell’approvvigionamento e del commercio della neve in una area « genovese » si veda X. De Planhol, L’ancien commerce de la neige en Corse: neige d’Ajaccio et neige da Bastia, in « Mediterranée », IX, 1968, pp. 5-22 (le più ricche famiglie genovesi consumavano fino a 15 kg. di neve al giorno). Cfr. anche B. Spano, Neviere e precipitazioni nevose nel Salento, in « Rivista Geografica Italiana », LXX, 1963, pp. 177-209. - 218 - altrettanto, se non maggiormente plausibile, in fenomeni economici. È il caso, per esempio, della crisi demografica della seconda metà del XIV secolo: « la storiografia più autorevole pone all’origine del fenomeno la scarsa resistenza che una popolazione fisicamente debilitata opponeva alle ondate epidemiche. E l’indebolimento sarebbe stato causato dall’eccessiva pressione demografica su terre ormai esauste, e da una serie di cattivi raccolti dovuti a un generale peggioramento del clima ». Ma lo studio stesso delle variazioni e delle manifestazioni climatiche nel Piemonte nord-occidentale ha indotto lo storico a « negare forti responsabilità del clima rispetto alla crisi demografica » del Trecento28. Per le società cerealicole moderne dell’Europa occidentale è stata invece sottolineata la coincidenza fra le serie dei prezzi dei cereali e le serie climatiche, basata sul fatto che i « cicli » più o meno decennali dei prezzi del grano, in un’economia tradizionale, sono sensibili alle variazioni delle quantità prodotte e perciò alle conseguenze del clima sui raccolti; in questo senso si è ammesso che l’andamento delle stagioni «contribuisce a spiegare le grandi crisi alimentari, la fame e le carestie dell’Ancien Regime »M. Siamo di fronte a un diverso comportamento, non casuale, strutturale delle società agricole centro-europee rispetto alle società agricole mediterranee? Le conseguenze del clima sono più sensibili sui sistemi agrari dell’Europa centro-occidentale o sui sistemi agrari mediterranei? Quel che è certo è che dobbiamo tenere conto dei sistemi agrari se vogliamo studiare le reazioni delle società agricole rispetto al clima, alle sue variazioni e in particolare alle avversità atmosferiche. Nelle regioni mediterranee l’annata favorevole alla vite — quando cioè si verificano cicli caldi e aridi — è in genere sfavorevole ai cereali, al fieno, e solo in parte agli agrumi e a molte piante da frutto che temono i periodi di siccità ed eccessivo calore. Gli inverni troppo freddi mentre non danneggiano la cerealicoltura e arrecano pochi danni alPallevamento, sono in- 28 C. Rotelli, Una campagna medievale, Torino 1973, p. 87 e p. 96. 29 E. Le Roy Ladurie, Climat et récoltes cit., p. 462; ma, ad evitare equivoci, si tengano presenti le conclusioni metodologiche: « les hommes font leur propre histoire et certains éléments climatiques, dans une socieété donnée, n’acquièrent d’importance... que parce qu’elles réagissent sur un complexe historiquement déterminé de pratiques culturales... Il n’y a pas de déterminisme climatique: il y a simplement, pour un lieu et une epoque donnés, un certain nombre de déterminations climatiques » (p. 464). — 219 — vece estremamente pericolosi per le piantagioni: il gelo brucia i vitigni, gli ulivi e prima ancora gli agrumi. Gli effetti negativi del clima possono così essere compensati dalla varietà dei raccolti che la policoltura consente. Ne possiamo avere qualche conferma anche nelle fonti prevalentemente cronachistiche della Liguria, che abbiamo sottomano. Per esempio a Bagnone, in Lunigiana, nel maggio del 1448, secondo l’interessante cronaca di Giovanni di Faie, una forte tempesta accompagnata da grandine compromise quasi integralmente il raccolto dell’uva, in compenso « fue grandisima quantità d’olio in del payese, che non credo che XX ani la fose tanta abondancia... e nota che credo che quel verno se facese più de cento prede da metere olio »30. Diversa ancora la situazione nel 1453, sul cui andamento il nostro cronista dà un preciso resoconto che fra l’altro dimostra con quanta attenzione gli uomini del medioevo guardassero alle vicende climatiche: « Nota che l’ano del 1453 non foe so no 15 die d’estate, che durò el fredo grande infino a’ di due de lulio. E poi fo quasi corno una primavera infino a’ di 8 d’agosto. E alora cominciò el caldo e durò infino a’ di 22 d’aghosto. Poy cominciò a rafredare. La state fue umidisima: la brunada vene a’ di 15 di setenbre e nevoe in su l’arpe. Del grano foe così ragionevolmente e così del vino: holive poche, che era l’ano che ne doveano fare. El vino foe gramo e broschi, e stetese a incominciare de vendegnare infino a’ di 2 d’otobre. Mele foe poche, panigo corno grano, castagne poche; fortune de tenpeste foe in più loghi. L’otono foe in de l’ultimo suo asay bono; frute pochisime de tute ragioni » (p. 573). Sotto il 30 ottobre dello stesso anno ricorda ancora « uno grandissimo vento, ed era fredo e nevava ali monti; holive, castagni derocò in grande quantità » (p. 575). Un anno dunque particolarmente sfortunato, tale da produrre fame e carestia, anche perché « el panigo e le castagne sono più che i due terzi del pane » (p. 587) della Lunigiana e perché « la carestia venia de Lombardia dove dé venire l’abondancia », ma « per mare arivò ala Speza tanta abondancia de grano che deviciò la Lulixana e parte dela Lombardia » (p. 575). Dopo il formidabile inverno del 1709, il cui gelo continuato danneg- 30 I. Bichierai, Cronache di Giovanni Antonio di Faie, in « Asli », X, 1884, pp. 557-558. Interessante, fra l’altro, l’accenno all’uso di contenitori di pietra per conservare l’olio, mentre in altre regioni già si usavano le giare. - 220 - giò peraltro sia i seminativi sia le piantagioni31, si ebbero abbondanti raccolti di cereali, che insieme alla vendita del legname ricavato dalle piante distrutte dal freddo, limitarono l’ampiezza della crisi economica che in altre regioni mediterranee, dal punto di vista agrario, ebbe conseguenze in parte irreversibili 32. Secondo il Le Roy Ladurie, per esempio, l’olivicoltura franco-mediterranea non si risolleva più: già in decadenza economica dopo il 1670, già colpita dalle gelate del decennio 1690, l’inverno del 1709 fa letteralmente tacere la voce degli olivicoltori francesi sul mercato internazionale per più di una generazione; dell’ascesa del prezzo dell’olio approfittano i concorrenti climaticamente più favoriti; e quando si ricostituiscono le piantagioni distrutte, si pianta la vite più che l’ulvo33. Dopo aver preso in esame soprattutto alcuni elementi per una tipologia dei climi e degli effetti climatici, possiamo trarre, ad imitazione di quanto ha fatto il Le Roy Ladurie, qualche conclusione nel senso di quella storia ecologica della Liguria dianzi auspicata? È indubbio che anche in Liguria — lo suggeriscono le citate testimonianze dirette dei contemporanei o di quanti ne conservarono più vivo il ricordo — i freddi inverni della 31 Si vedano per esempio le osservazioni del parroco di Varigotti sotto lanno 1709 di gennaio: « memoria come nel detto mese incominciò alli sette un gelo così horrido che essendo durato giorni deciotto ha rovinato tutti li seminati che erano in campagna e così quasi tutte le olive per tutta la riviera di Genova; piante di citroni e limoni. Nel mese di maggio molte olive brottirono et altre sono rimaste seche o rade bisognerà tagliarle. Chi l’ha tagliate subito ha fatto meglio perchè hanno brottito meglio » (Archivio Parrocchiale di Varigotti, Liber defunctorum dal 1655). Altre e dettagliate informazioni per un’area al confine orientale della Liguria in G. Sforza, Massa di Lunigliana nella prima metà del secolo XVIII, in « Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le Provincie Modenesi», s. V, vol. V, 1905, p. 99 e sgg.. Sono soprattutto descrizioni tratte dai cronisti locali, delle conseguenze degli inverni del 1659, 1688, 1709 e 1782. Per la Toscana cfr. anche L. Ciaravellini, L’olivo e il gelo, in « Boll. Società Storica Maremmana », 6 (aprile 1963), p. 53 e sgg. 32 Cfr. G. M. Pira, Storia della città e principato di Oneglia, Genova 1849, p. 88: « si provarono nel 1709 terribili conseguenze di un eccessivo freddo che destossi il giorno 13 di febbraio... e discese a nove gradi sotto il gelo... Tutti erano, per un sì funesto accidente, compresi dal timore di dover morire di fame. In effetto moltissime famiglie dovettero emigrare. Ma la Provvidenza fece che le popolazioni rimaste trovassero per quell’anno la loro sussistenza nella vendita di quelle legne che si esportavano all’estero e che abbondanti cereali raccogliessero negli anni susseguenti sullo stesso suolo dei perduti oliveti ». 33 E. Le Roy Ladurie, Les paysans cit., p. 49. — 221 — «piccola età glaciale» prelevano un pesante tributo sulla produzione e anche sul capitale agricolo che in Liguria è quasi completamente costituito dalle piantagioni di ulivi, viti e agrumi34. Possiamo andare oltre questa constatazione e riconoscere per esempio nelle variazioni del clima un fattore importante nella formazione e trasformazione del paesaggio agrario? Di fronte a tentazioni di questo tipo dobbiamo tenere presente un fatto incontrovertibile: le condizioni climatiche fra il 1550 e il 1850 sono molto peggiori e infinitamente più sfavorevoli alle classiche piantagioni mediterranee di quelle che si riscontrano nel periodo 1850-1950 che ha visto il loro progressivo abbandono. Ciò dimostra che il fattore clima non è sufficiente a spiegare l’evoluzione agraria di una regione, ma è altrettanto certo che concorre a determinare le condizioni economiche della espansione o della riduzione di una determinata coltura. Vi concorre naturalmente in maniera diversa a seconda che si tratti di una economia di tipo tradizionale o di una economia in via di trasformazione e di rapida industrializzazione. Quanto il Le Roy Ladurie ha notato per l’olivicoltura francese ancien regime e nell’ambito del mercato internazionale può avere una sua validità anche all’interno della Liguria pre-industriale. La concorrenza accentuata dalle evenienze climatiche si è verificata anche all’interno dell’olivicoltura ligure, come notava il Piccone a proposito degli effetti del gelo del 1594 o il Fornara a proposito dei freddi inverni del XVII secolo35. Quest’ultimo 34 Fra i tanti esempi che potrebbero citarsi mi limito ad uno lunigianese: nel 1782, in seguito ad un vento freddo e secco « chiamato dai genovesi lampo marino » sopravvenuto il 16 febbraio, si bruciarono tutte le piante di agrumi e « il danno apportato in questo nostro territorio si giudica di trentamila scudi » (G. Sforza, Massa cit., p. 12). 35 G. M. Piccone suppose che « il severissimo gelo del 1494... avesse estinto, o almeno ridotta in molti cantoni all’infanzia l’economia olearia. L’alto prezzo dell’olio, la molteplicità delle piantine che dovea derivarne, servì probabimente di stimolo alla promozione di questa coltura » (G. M. Piccone, Saggi cit., I, p. 145). Circa un secolo dopo, D. Fornara spiega lo sviluppo topografico e economico di Taggia — che dal XVII secolo fu tale da giustificare il titolo di città — con alcuni geli che colpirono i distretti vicini e risparmiarono gli uliveti di Taggia. Alla frequenza di geli si dovrebbe anche la « trasformazione della coltura dell’olivo a bosco, invece che ad orlatura dei piani, essendosi capito a prova che le piante accompagnate da altre resistevano di più. La quale nuova disposizione, mentre aumentò di molto la produzione, accelerò... la crisi attuale dell’olivicoltura nostrana » (D. Fornara, I Benedettini e la Madonna del Canneto a Taggia, Chieri 1928, p. 99). - 222 - ci suggerisce anche che il clima, il raffreddamento del clima, ha avuto un’influenza determinante nella diffusione del sistema di coltivazione a bosco, che nel Basso Ponente soppianta la classica cultura promiscua. Ma soprattutto in questo caso, anche se può essere vero che i boschi di ulivi si difendono dal freddo (e soprattutto dai freddi venti settentrionali) meglio delle piante sparse, non è innanzitutto l’ascesa dei prezzi di una determinata produzione agraria che spinge verso la monocultura? Anche nel caso degli agrumi constatiamo che, finché la congiuntura commerciale rimane favorevole, gli agricoltori perseverano nella coltivazione degli aranci, anche nello sfavorevolissimo (climaticamente) Settecento e dalla combinazione di tali circostanze climatiche e economiche deriva anche la selezione di una pianta più produttiva e più resistente al freddo36. Qualche geografo ha visto nella fragilità dell ambiente mediterraneo il filo conduttore della geografia umana del Mediterraneo 37. Dal punto di vista delle condizioni e conseguenze climatiche, più che di fragilità parlerei di discontinuità nello spazio e nel tempo: condizioni climatiche e condizioni economiche, ambedue storicamente determinate e geograficamente differenziate, congiurano in parti diverse a determinare la mobilità dei paesaggi agrari, la continua sostituzione di colture, che abbiamo evocato, con le parole di G.M. Piccone, alla fine del primo paragrafo. 36 Cfr. A Bianchi, Osservazioni sul clima, sul territorio e sulle acque della Liguria marittima di un coltivatore di Diano, Genova 1817-1818, I, p. 9: « tutto il secolo diciottesimo fu sotto questo rapporto infame in Liguria. Vi furono più di dieci gelate parziarie, in cui perirono in gran parte gli agrumi... il vantaggio della coltivazione degli agrumi, generalmente parlando, è divenuto problematico. E un fatto, che non ostante la facilità d’acclimatarsi che hanno le piante, le coltivazioni degli agrumi vanno deperendo. A Finale si è dovuto prendere 1 espediente di rinunziare all’innesto degli aranci e di non rilevare più che delle piante venute di grana. Nella valle di Diano, ove cinquantanni addietro si tenevano in piena terra i limoni, anche nelle coltivazioni di poggio, ora deperiscono gli aranci nelle più riparate esposizioni di piano. Chi vorrà conservarne converrà si appigli al metodo de Finalini ». Il Bianchi, sul quale avremo modo di tornare più avanti, fornisce molte altre informazioni sulle variazioni e conseguenze del clima in età moderna. Tutta la sua opera è costruita sulla tesi di un raffreddamento del clima in età moderna. Solo le cause sono errate, attribuendo l’A. la maggior responsabilità al disboscamento, un fattore che, pur avendo qualche scarsa influenza sul microclima di qualche vallata, può sol tanto aggravare le conseguenze sul suolo, per esempio, di una fase climatica eccessivamente umida e fredda, messa in atto da fattori che solo in questi ultimi anni la climatologia dinamica va scoprendo. 37 Cfr. per es. M. Le Lannou, Aspetti geografici dei paesi mediterranei, in «La Geografia nelle Scuole», Vili, 1963, p. 7. — 223 — Non sono soltanto gli inverni più rigidi che possono mettere in forse i raccolti delle piantagioni della Liguria. Un altro problema che la agricoltura ligure dovette affrontare fu quello del controllo delle acque nella duplice dimensione della scarsità dell’acqua e della protezione dalle alluvioni. Nel periodico ripetersi di questi due estremi si svolge la storia di tanti territori liguri, come di tante regioni mediterranee. In questo senso non cogliamo infatti una caratteristica originale della storia delle campagne liguri, ma anche una superficiale conoscenza di questi fenomeni dimostra che gli stessi problemi non furono risolti ovunque in modo analogo. In ogni periodo della loro storia i paesaggi della Liguria, anche là dove sono attestati sulle medesime condizioni naturali, presentano forti individualità locali e subregionali: vallata per vallata, spiaggia per spiaggia, non è difficile scoprire come le stesse strutture ambientali sono diversamente valorizzate dagli uomini a seconda delle forze sociali, economiche e politiche di ogni comunità. Certo, ovunque sui pendii ripidi della montagna ligure si impone al- 1 uomo la soluzione del terrazzamento artificiale: ma quante forme diverse, quanti nomi diversi, quanti materiali differenti sono impiegati per risolvere il medesimo problema di ampliare lo spazio coltivabile e di contrastare l’erosione del suolo. Contrastare l’erosione solo parzialmente, perché dopo ogni pioggia violenta occorre riprendere un lavoro che non risulta mai compiuto: ricostruire qualche muretto, riportare a monte la terra trasportata dalle acque ecc.3S. Non ovunque, invece, il controllo delle acque in funzione della distribuzione delle scarse risorse idriche ha dato origine alle forme di gestione collettiva o comunitaria che riscontriamo a Sanremo, anche se è vero che un po’ dovunque gli Statuti contengono norme che regolano l’utilizzazione delle acque 39. G. Rovereto, La storia delle « fasce » dei liguri, in « Le Vie d’Italia », XXX, 1924, pp. 529-35. Cfr. anche L. Pedreschi, I terrazzamenti agrari in Val di Sercbio, « Pubblicazioni Istituto Geografia Univ. Pisa », 10, 1963. 39 Lo Chabrol, ai primi dell’Ottocento, osservava che nelle aree orticole, oltre alle cisterne e ai pozzi, « on amène également, dans des conduits établis à frais communs, les eaux des rivières et des torrents qui passent dans le voisinage. Des règlements fixent les jours d’irrigation et déterminent la quantité d’heures pour chaque propriétaire» (G. Chabrol De Volvic, Statistique des provinces de Savone, d Oneille, d Acqui et de partie de la province de Mondovt, formant l’ancien Département de Montenotte, Paris 1824, II, p. 166). Più che di consorzi fra proprietari, si - 224 - Più in generale, non tutti i territori costieri hanno saputo piegare (o dominare) la naturale rete idrografica alle esigenze della redditizia agricoltura irrigua: gli orti e giardini di Genova, di Savona, di Chiavari e di Sanremo — ciascuno con propri sistemi di irrigazione che attendono ancora uno studio — non li ritroviamo nelle stesse proporzioni in Albenga, dove lo sviluppo orticolo è tardivo e sembra dovuto soprattutto alla iniziativa degli ortolani polceveraschi e bisagnini40. Soltanto in anni recenti Albenga riuscì a dominare i suoi corsi d acqua e in particolare il Centa che ne raccoglie i principali e le cui frequenti disastrose alluvioni rendevano alquanto precaria la costosa bonifica della più vasta pianura alluvionale della Liguria. Dall inizio dell età moderna corografi e viaggiatori sono concordi sulla cattiva aria di Albenga determinata sia dalPimpaludamento sia dalla macerazione della canapa che si faceva nelle acque stagnanti. Nel 1652, il podestà di Albenga così presentava la situazione: « La città di Albenga nel mezzo di due stagni con terreno atto alla seminazione del canape, nel metterlo a marcire dà tanto fetore e corrompe di guisa le acque, che nel fine della state e principio dell’autunno, l’aria che resta grossa siffattamente viene ad infettare, che pochi degli abitatori di essa e vicini possono conservarsi sani, e per questo ha acquistato nome di mal sana e tanto che molti in magistrati eletti hanno mancato di venirvi, e delli venuti chi ci ha lasciato la vita e chi nella partenza più sembianza di morte che apparenza di vita ha dato»41. trattava di un controllo e di una iniziativa comunale: anche i più piccoli comuni rurali eleggevano magistrati o « boni homines legales super acquis et viis ». Sulla più complessa organizzazione messa in atto dalla comunità di Sanremo vedi più avanti. Un’altra osservazione interessante dello Chabrol riguarda le tecniche di sol-levamento dell’acqua: il metodo più usato era quello delle «cicogne» («ce moyen est dispendieux à cause des journées d’hommes qu’il faut employer à ce travail, aux mois de juillet, août et septembre ») ma in qualche comune si era allora cominciato a far uso di una macchina chiamata « noria » mossa da un bue (una innovazione che risulterebbe introdotta con molti secoli di ritardo rispetto a altre huertas mediterranee). 40 Qualche cenno in A. Brusa, La piana ortofrutticola di Albenga, Genova 1956, p. 50 e sgg. Ma il problema rimane ancora tutto da studiare in ambedue le aree interessate alla migrazione. 41 Citato in G. Rossi, Storia della città e diocesi di Albenga, Albenga 1870, p. 292. Le variazioni dell’assetto idrografico della piana e la sequenza delle alluvioni, in età medievale e moderna, sono state ricostruite da V. ZUCCHI, Topografia storica della piana di Albenga. I corsi d’acqua, «Rivista Ingauna e Intemelia», IV (1938), pp. 18-52. — 225 — Anche la tendenza dei più ricchi cittadini albenganesi a costruire le loro ville sulle colline che chiudono, soprattutto a occidente, la piana, più che da ragioni economiche, sarebbe determinata dall’esigenza di sfuggire l’aria malsana della pianura. All’inizio del XVIII secolo vediamo i magistrati genovesi preoccuparsi delle crescenti occupazioni abusive delle spiagge demaniali, che si andavano verificando un po’ ovunque in Liguria (ma il fenomeno era soprattutto evidente sul litorale savonese e di Chiavari - Lavagna) e delle quali profittavano sia i più ricchi per costruire o ampliare le loro ville, sia gli ortolani per estendere i confini delle loro concessioni; ma ad Albenga il commissario risponde che « li siti arenili delli lidi marittimi di questo contado d’Albenga sono così poco d’estimazione che da questi Sig.ri Consoli sono allivellati... a vilissimo prezzo; e l’altri, che per caggioni del-l’inondatione procedono dalle alluvioni fatte ne’ beni de particulari li danno a perpetuo per poche lire, a caggione dell’imminente pericolo siano usurpate dall’acqua novamente »42. Ancora nel 1783 G. B. Grimaldi nel Ragionamento teorico-pratico sopra le cause, gli abusi e i rimedi della mendicità, scriveva che « la sola Contea di Albenga può occupare e dare impiego a diecimila nuovi coloni, se colà vi fosse fra proprietari denaro bastevole a rinvigorire l’agricoltura di quella fertile provincia »43. La situazione non risulta molto migliorata né nell’età napoleonica né verso la metà dell’Ottocento44. 42 A.C.G., Siti arenili, n. 291 (lettera del Commissario di Albenga in data 28-2-1713). Segnalo l’interesse di questo fondo composto da più filze (ricche anche di materiale cartografico), che documentano un interessante e finora poco conosciuto processo di bonifica e colonizzazione agraria delle spiagge lasciate libere dal mare. 43 B.U.G., F V 19, c.. 44 Sull’età napoleonica cfr. G. Chabrol de Volvic, Statistique cit., I, p. 135. Per il periodo seguente G. Casalis, Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856, I, p. 141. Si individuano le cause degli scarsi progressi agricoli nello scoraggiamento prodotto nei proprietari dal costante pericolo delle alluvioni. Ma in altre aree della Liguria, in primo luogo a Genova, nelle basse valli del Bisagno e del Polcevera, il pericolo delle piene sussistette anche nell’Ottocento e non impedì di trasformare le sjxmde e la foce dei due torrenti in fertili e redditizi orti (sulle alluvioni del Bisagno molte notizie in F. Podestà, Escursioni archeologiche in vai di Bisagno, Genova 1878, p. 33 e sgg.). Un’ampia documentazione sulla pericolosità dei torrenti in Liguria si può reperire nell’inchiesta promossa dall’istituto Nazionale nel 1798-1799, dove il punto 9 del - 226 - I capitali che secondo il Grimaldi mancavano ad Albenga vennero largamente impiegati nel vicino litorale savonese, in quello genovese, nel chiavarese e anche nella vasta piana alluvionale della Magra43. In tutti questi casi all’iniziativa dei più grossi capitalisti genovesi si unisce l’iniziativa — l’investimento di lavoro più che di capitale — dei coltivatori diretti. Riassumiamo brevemente il caso di Chiavari così diverso da quello di Albenga. Dal XV secolo i Padri del Comune cominciano a regolare l’occupazione dei siti arenili e a contrastare le usurpazioni dei conduttori o proprietari di orti, che di fronte al continuo, naturale accrescimento della spiaggia, spostavano in avanti le « chiovende », rappresentate spesso da siepi vive 46. Le carte topografiche del XVII secolo ci mostrano in tutta la sua ampiezza il classico paesaggio degli orti alberati, accuratamente cintati e irrigati mediante i pozzi a cicogna; la documentazione archivistica, d’altra parte, consente di ricostruire anno per anno la completa bonifica delle spiagge di Chiavari e di Lavagna, che non si arresta neppure di fronte alle più impegnative colmate delle lagune costiere47. Dal 1760 in poi sorgono all’interno della fascia ortiva, che ormai separa Chiavari dal mare, le prime ville dei marchesi Torriglia e Rivarola ed anche questo è un segno della elevata redditività di queste terre4S. questionario inviato ai comuni è dedicato al problema « se vi siano fiumi e torrenti, se il loro letto si alzi e si dilati visibilmente » e il questo 13 « come sarebbe eseguibile Pincanellamento e quali vantaggi ne deriverebbero ». L inchiesta non è completa ma copre gran parte della regione (cfr. A.S.G., Repubblica Ligure, n. 610). 45 Alla Marinella, nel piano alluvionale sottostante le rovine di Luni, un’ampia area di recente bonifica risulta chiaramente in M. Vinzoni, Il Dominio della Ser.ma Repubblica di Genova in Terraferma, in B.C.B. L Atlante come noto risale alla metà del Settecento. In A.S.G., Magistrato delle Comunità. Filze del col. Vinzoni, n. Ili, si apprende che questa tenuta era di Nicolò Serra (una carta più precisa e dettagliata della stessa tenuta dovuta probabilmente al Vinzoni si conserva in A.S.G., Raccolta Cartografica, b. 12). 46 A. Ferretto, Il distretto di Chiavari preromano, romano e medievale, Chiavari 1928, p. 533 e sgg. (riporta le parti essenziali di un’indagine di G. Sanguineti rimasta inedita). 47 Sull’interesse di questa documentazione, di cui alla nota 42, aveva già scritto G. Rovereto, Liguria geologica, Roma 1939, p. 95. Per il resto cfr. A. Ferretto, Il Distretto cit., pp. 570-571. 48 Nel 1806 il prefetto del Dipartimento degli Appennini, riferendosi soprattutto al litorale di Chiavari e di Lavagna, osservava che « ces jardins sont cultivés en grains et légumes et donnent au moins deux récoltés par an. Jamais cette terre — 227 - Potremmo individuare processi simili in altre regioni costiere che mostrano nelle belle tavole dell’Atlante dei Domini di Matteo Vinzoni un analogo paesaggio agrario litoraneo 49. Sono poi frequenti i casi di edifici e di orti che si sono spinti troppo avanti e che devono essere abbandonati perché la spiaggia, periodicamente (in occasione delle maggiori tempeste di mare) o gradatamente (per un ciclo di erosione), torna ad essere invasa dal mare50. A questo punto non è più sufficiente spiegare i destini diversi di Albenga e di Chiavari, ma diventa necessario individuare le ragioni del sensibile avanzamento delle spiagge, ben documentato in età moderna, che fornisce il supporto fisico di questo movimento colonizzatore e di bonifica. Secondo la più antica interpretazione si tratterebbe di un'accresciuta azione costruttiva dei fiumi per effetto di un maggior apporto di materiali solidi, collegata a determinate caratteristiche climatiche di quella che noi oggi chiamiamo « piccola età glaciale ». Il problema diventa allora quello di vedere come tali caratteristiche si manifestano nei bacini le cui acque sarebbero responsabili di tale azione. La storia della formazioni delle piane alluvionali ci riporta comunque alla storia della montagna. Uno studio dedicato all’alta Provenza ha individuato alla fine del XVII secolo una notevole crisi economica che sarebbe determinata dal dissesto idrologico conseguenza del disboscamento, a sua volta determinato dal sovraccarico pastorale e dalle pratiche agrarie distruttive particolar- ne repose: elle est cultivé et arrosée avec un soin extrême. Beaucoup sont situés sur des plages de sable pure délaissées par la mer; mais à force de soins, d’eaux et d’engrais ils n’en produisent pas moins deux récoltes par an » (A.N.P., F 10/353). Da un’inchiesta successiva (collocata nello stesso fondo archivistico), si ricava che una delle piante più usate in Chiavari per chiudere gli orti era l’agave americana. 49 M. Vinzoni, Il Dominio cit.,; si vedano in particolare le tavole 24, 25, 30, 31, 48 (del I voi.) e le tavole 16, 21, 36, 37, 44, 48, 51, 58, 59 (del II vol.). 50 E ancora il caso di Chiavari a cominciare dal 1810 (cfr. G. Rovereto, Liguria cit., p. 97). Di notizie di tempeste di mare particolarmente distruttive sono piene le cronache della Liguria: cfr. per esempio V. Verzellino, Delle Memorie particolari della città di Savona, Savona 1885 (sotto gli anni 1613, 1634 si produssero danni negli orti della Foce di Savona e a Albisola crollarono 7 case ecc.); F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1799-1800 (sotto gli anni 1636, 1640, 1693: gravi danni a Genova e nelle Riviere). Ma su questi fenomeni si veda soprattutto il contributo di M. Ascari, Variazioni storiche della linea di battiglia della Riviera Ligure di Ponente, in M. Ascari, M. Baccino, G. Sanguineti, Le spiagge della Riviera ligure, Roma 1937. - 228 - mente diffuse sulla montagna provenzale in seguito alla ripresa demografica del Cinquecento. In effetti, un censimento del 1698 fornisce un quadro desolante di questa regione in preda all’erosione dei torrenti che distruggono interi villaggi e i migliori terreni51. Constatiamo gli stessi processi anche nella montagna ligure? Le alluvioni e la maggior sedimentazione che si manifestano a valle sono la conseguenza di una spinta colonizzatrice che dal Cinquecento sembra manifestarsi anche sulla montagna ligure? Esiste questa solidarietà o integrazione fra le ondate di colonizzazione della montagna e le fasi di bonifica dei siti arenili? Mi sembrano ipotesi ammissibili e che meriterebbero di essere verificate. Oppure dobbiamo ammettere che i fattori dei fenomeni in questione sono soltanto climatici, sul tipo di variazioni sopravvenute nel regime dei venti che soffiano sul golfo ligure, come opinava il Rovereto? Dobbiamo credere che la crisi economica e sociale, che colpisce anche la montagna ligure nel Settecento, sia determinata dal peggioramento del clima, a sua volta dovuto a cause di dimensioni planetarie, come sembra proporre Pinna? Sono soluzioni assolutamente deterministiche che mi sembrano poco compatibili con l’approccio rigorosamente umanistico al quale inten diamo attenerci52. . , Certo il fatto che oggi ci si renda conto in sede scientifica (perché in passato, e forse anche nella mentalità popolare, se ne aveva piena coscien za 53) che le modificazioni ambientali non appartengono soltanto al passato 51 T. Sclafert, Cultures en Haute Provence. Déboisements et pâturages au Moyen Age, Paris 1959, p. 167 e sgg.; p. 213 e sgg. 52 Cfr. G. Rovereto, Liguria cit., p. 95 e sgg.; M. Pinna, Le variazioni del clima in epoca storica e i loro effetti sulla vita e le attività umane, in « Bo ettino Società Geografica Italiana», s. IX, vol. X, 1969, pp. 240-241. 53 E’ curioso notare che mentre nei primi naturalisti, geologi e geomorfologi dell’Ottocento e fino al Rovereto l’ambiente naturale ligure è sempre considerato anche in termini umanistici, cioè anche come risultato dell attività umana e quindi anche in termini storici (basterà ricordare l’articolo citato del Rovereto sulle « fasce »), nei più recenti studi geografici l’ambiente è ridotto alla « estensione dei bacini idrografici, alla direzione delle valli, all’ampiezza del fondovalle e dei terrazzi, allanda mento delle linee di spartiacque e di dorsale », cioè a un ambiente modellato nelle ere geologiche e che come tale, essendo l’intervento umano inessenziale, eserdta una funzione di « deus ex machina » nella spiega2Ìone dei fenomeni umani (cfr., come esempio di questa concezione deterministica dell’ambiente, A. Vallega, Aspetti funzionali dell’insediamento umano in Liguria, Genova 1969, p. 18 e sgg.). — 229 — remoto né sono estranee all’azione dell’uomo, se da un lato impone allo studioso di unificare storia naturale e storia umana, dall’altro rende più difficile spiegare processi che risentono in ogni momento del gioco complesso di fattori endogeni e esogeni. Non è facile, per esempio costruire modelli storici delle fasi di colonizzazione validi a scala regionale: a parte le difficoltà che si pongono per l’età medievale (fino a quando i medievisti liguri non si decideranno a mettere anche in questo settore la storia ligure al passo con le più moderne tendenze della storiografia), anche per l’età moderna (per la quale si vanno promuovendo studi in questo senso) ci si scontrerà sempre con le condizioni ambientali e storiche locali e sub-re-gionali M. Mi limito ad un solo esempio, per il quale mi è stato possibile raccogliere un certo numero di informazioni: la bassa valle della Magra. Qui alla confluenza di due fra i maggiori corsi d’acqua della regione, la frequenza delle alluvioni ha fatto sorgere un’istituzione di cui non si conosce l’eguale in altre sub-regioni della Liguria: le releva glie. Con tale termine si intendeva la misurazione e assegnazione delle terre alluvionate (o anche alluvionabili), resa necessaria dal fatto che in occasione di ogni straripamento si perdevano i « termini » dei diversi appezzamenti, sia di privati sia di comunità, e sopravvenivano usurpazioni e controversie55. Tali esigenze, che non erano in fondo diverse da quelle che suggerivano analoghi procedimenti già agli antichi egizi, favorivano la formazione di un paesaggio a campi regolari, geometrici, quale appunto possiamo constatare nella più antica documentazione cartografica che a questo proposito ci è stata tramandata 56. 54 Su questi temi si veda ancora D. Moreno, Territorio cit., e dello stesso A. un contributo in corso di stampa nel n. 24 dei « Quaderni Storici » dedicato a Archeologia e geografia del popolamento. 35 Libro di varie notizie appartenenti alla Communita di Bolano per Giurisdizione, Dritti e Giuri della medesima... 1791 (registro cartaceo conservato presso una famiglia di Bolano). Si vedano le motivazioni addotte per la releva glia del 1698: « considerando a’ pregiudizi cagionati dall’alluvione de’ fiumi Macra e Vara in questa giurisdizione, al Piano, e il danno che ne ricevono gl’interessati in quelle [proprietà] talmente mutate per l’inondazione che la maggior parte de’ Possessori più non discernono il suo e molti si fanno lecito usurpare quello d’altri... ». 36 La più antica rappresentazione cartografica inerente le relevaglie si trova in E. Spina, raccolta di Diverse piante (1598), in A.S.G., Manoscritti, n. 423. Si riferisce a relevaglie fatte nel 1583 e anni seguenti. Un’altra bella carta delle relevaglie si trova anche nel comune di Arcola, ma si riferisce al Settecento. - 230 - Il fatto che la Magra e la Vara divagassero di frequente nel loro ampio letto poneva analoghi problemi anche per i confini delle comunità insediate sulla sommità dei primi rilievi prospicienti le due valli e rendeva periodicamente necessari accordi fra le stesse comunità non solo in materia di confini, ma anche per mettere in atto dispositivi di prevenzione e difesa dalle alluvioni. Così vediamo le comunità di Vezzano, Bolano e Arcola accordarsi nel 1598 sulla necessità di costruire lungo la linea di confine, in pianura, una strada larga palmi 10 e un fosso di palmi 6, intensamente alberati (ciascuno si impegna a piantare ogni anno 100 alberi); e vietare, sia di « tagliare, arrancare, guastare o in qualunque modo dannificare né portar via alcuna sorta di macchia, alberi o qualsivoglia altra sorte d’arbusti... nella Pianura » delle tre comunità, sia di « pascolare alcuna sorte di bestiame, così in monte che in piano, acciocché l’erba, sterpi ed altre cose possano crescere e resistere all’impeto di detti fiumi ». Si fa eccezione per « quelle terre che dalli Relevatori pubblici o deputati saranno state rilevate e successivamente da detti Relevatori assegnate a’ loro Padroni: pos-sino da essi Padroni o di loro ordine essere smacchiate, lavorate e coltivate senza incorrere in pena alcuna ». La comunità di Vezzano in particolare, doveva ogni anno « far elezione di quattro Officiali sopra la riparazione della sua Pianura », i quali avevano come compito precipuo di « far fare ripari in quei luoghi di detta Pianura che giudicheranno più necessari e bisognosi per mantenere per quanto si potrà detti fiumi ristretti verso Lunigiana »; a questo scopo avevano facoltà di « prendere a loro beneplacito macchie anco nelle terre de’ Particolari, ancorché lavorate, coltivate e rilevate come sopra per convertirle in ripari e beneficare detta Pianura ». Era ancora fatto assoluto divieto di « lavorare, sboscare, zappare né in altro modo domesticare alcuna terra presso il Fiume a dieci canne » di distanza 57. Il fatto che le relevaglie fossero decretate anche a pochi anni di distanza (per esempio nel 1681 e nel 1698), dimostra l’importanza che queste terre, spesso descritte come campive, vineate e arborate, avevano nell’economia delle comunità delle basse valli della Magra e del Vara. Si tratta tuttavia di una agricoltura di fondovalle alquanto precaria che ha bisogno di integrarsi e, direi, di poggiare sui più sicuri redditi dei « monti » 57 Libro di varie Notizie cit. Talvolta, nelle comunità rurali dove il pericolo delle acque è meno grave, sono le confraternite che si incaricano della manutenzione degli argini e dei ponti, come si ricorda ancora per lunga tradizione a Borzonosca. — 231 — (come in contrasto alla « pianura » è chiamato tutto il territorio collinare). Nel 1602 Bolano lamenta che « il fiume Vara da alcuni anni in qua, partendosi dal suo letto solito, ha traversato e diviso per mezzo una buona parte del suo territorio ». Nel 1646, la stessa comunità, in una supplica a Genova, è costretta a dichiarare: « per il passato avevamo la nostra Pianura di potersi riparare alli bisogni; dalla Magra e Vara nostri nemici siamo stati tanto sbattuti a segno che ne conviene andare al Monte. Abbiamo certe boscaglie aride ed incolte, dalle quali non ne caviamo neanco legne fertili. Ha questo pubblico e generale Parlamento determinato farne segregazione a tutti58 ». È vero: i fiumi sono spesso in Liguria nemici dell’uomo, le bonifiche non possono mai considerarsi definitive e la colonizzazione agraria oscilla così fra la « pianura » e il « monte », secondo una successione di fasi, che non sono per il momento riducibili a un modello storico regionale. 3. La formazione dei paesaggi agrari nella Liguria medievale 59. Dal « profondo » alto medioevo emergono alcuni interessanti aspetti della vita agraria nel territorio di Sanremo. Nel 979 diciasette famiglie del castello di S. Romolo ottengono in concessione enfiteutica dal vescovo genovese 28 appezzamenti. Gli assegnatari si impegnano a corrispondere: del 58 Libro di varie Notizie cit. Allo scopo di avviare un dossier su questi problemi segnalo ancora un gruppo di documenti che si riferisce alla « deputazione » del torrente Lavagnola di Savona: A.S.S., Libro di scritture spettante alla reparatione del fiume Lavagnola, n. 1594/9; Carte diverse riguardanti l’ex-deputazione del torrente Letimbro, n. 1597. Vi si trovano fra l’altro le caratate (una sorta di catasto) che venivano fatte per la ripartizione, fra i proprietari interessati, delle spese di riparazione e costruzione dei mezzi per prevenire le alluvioni. La Deputazione venne costituita nel 1690, in seguito ad una disastrosa alluvione. Questo paragrafo non ha la pretesa di individuare la genesi dei paesaggi agrari della Liguria — la documentazione alto-medievale è troppo scarsa per tentare — ma ha soltanto lo scopo di individuare, sulla base della documentazione disponibile, prevalentemente edita, alcuni momenti medievali nella costruzione dei più caratteristici paesaggi agrari della regione. Di qui anche l’attenzione che viene prevalentemente rivolta all’ulivo, alla vite e alle culture arboree: allo scopo appunto di tentare di datare alcuni degli elementi portanti dell’architettura del paesaggio ligure. - 232 — prodotto dei seminativi la nona parte per il primo anno, l’ottava per il secondo e la settima dal terzo anno in avanti; delle nuove piantagioni di fichi, viti e ulivi, trascorsi i primi dieci anni, la metà del prodotto. Si tratta di condizioni che sono in evidente rapporto con la necessità di mettere a cultura terre definite a paganis saracenis... vastate et depopulate. Dal XI al XIII secolo il paesaggio agrario emerge con maggiori dettagli: fra le viti e i seminativi (cereali e fave) — le culture tradizionali, sulle quali soltanto poteva esercitarsi il diritto di decima da parte della diocesi genovese secondo l’opinione dei sanromolesi — compaiono altre culture: porri, cavoli, lino, canapa e nuove piantagioni di fichi, agrumi e altri alberi fruttiferi (fra i quali non sono espressamente citati gli ulivi). Dalla documentazione pervenuta risulta che il merito di questo sviluppo delle culture arboree spetta soprattutto ai liberi coltivatori che vediamo in lotta contro le esagerate pretese del vescovo genovese. Dalla ricognizione dei diritti vescovili, effettuata negli anni 1215-20, risultano numerose le vigne — fra cui una vineam et cribum — soprattutto nella contrada Villetta, e numerosi gli orti e ciriali fra i quali si può ricordare la possessionem... de orto quodam qui est in plano Sancti Romuli, scilicet de cereis, vitis et terra illius orti » 60. Sulle condizioni del distretto agrario a levante di Sanremo nel XI secolo gettano qualche luce alcune locazioni di beni siti in loco et fundo Porciano (attuale comune di S. Stefano) fatte dall’abate del monastero genovese di S. Stefano. Risultavano colture dominanti i cereali (frumento e orzo), le fave e la vite. Del prodotto della vite i coloni devono un quarto, mentre dei seminativi la settima parte se la terra è già coltivata, la nona parte per il prodotto di ogni nuovo dissodamento. È evidente l’incoraggiamento ad estendere lo spazio agrario sia con seminativi sia con vigneti, per i quali il canone da corrispondere si deve ritenere piuttosto 60 Si veda A. Canepa, Illustrazioni di antichi documenti riferentisi al Castello di S. Romolo, in « Boll. Società Storica e Archeologica Ingauna e Intemelia », I, 1934, p. 21 e sgg. Per le ultime citazioni vedi L. T. Belgrano, Il secondo registro della Curia arcivescovile di Genova, in « Asli », XVIII, 1887, pp. 319. 324. A ponente di Sanremo non mancano indicazioni sull’olivicoltura medievale. Per esempio gli Statuti di Apricale (1267) contengono una rubrica intitolata De alienis olivis non colligendis, dove fra l’altro, si parla di aramare olivas, cioè dell’operazione di abbacchiare i rami per far cadere le olive (cfr. G. Rossi, Glossario medioevale ligure, in «Miscellanea di Storia Italiana», 1896-1909; rist. anast. Bologna 1971; s. v. «aramare »). — 233 - 3 tenue. Nel XIII secolo, dall’inventario dei beni e diritti di Pagano di Ceva in Arma e Bussana venduti al comune genovese ricaviamo l’idea di un paesaggio agrario composto di orti, « figareti » e soprattutto vigneti, fra i quali fa spicco un magnum vignaretum quod est ubi dicitur « planum pineta-rum »: toponimo interessante in quanto indica che la vite ha sostituito, in seguito a pastini o ronchi, la pineta originaria. La vite doveva essere ancora una coltura « signorile » se i canoni che gli uomini di Bussana dovevano a Pagano di Ceva erano corrisposti soprattutto in grano, spelta e avena61. È però probabile che sotto il nuovo dominio genovese (che si espresse con la costituzione della Podesteria di Taggia) la vite si sia largamente diffusa e sia diventata, per così dire, una coltura « popolare » e di esportazione. Infatti nel XV secolo Arma è lo scalo dei vini di Taggia esportati dai mercanti genovesi fino in Gran Bretagna. È un fatto da sotto-lineare, non solo in quanto ridimensiona come vedremo ciò che alcuni storici locali hanno creduto di affermare circa l’importanza originaria dell’olivicoltura nella valle di Taggia, ma anche perché mette in luce un potente fattore di sviluppo delle colture specializzate (o per meglio dire della specializzazione dell’agricoltura): le città, i mercanti, i mercati62. Per i territori di Porto Maurizio e di Oneglia, destinati a diventare la più importante area olivicola della Liguria, non disponiamo finora di documentazione molto antica, tuttavia gli studi più recenti vanno verificando quanto già scriveva il Doneaud nel 1875: « il territorio della Repubblica di Porto Maurizio, coperto di boschi nei primissimi tempi, fu in seguito, nella miglior parte, ridotto a vigneti; a tal che il vino era il suo prodotto principale il quale bastava non solamente alla interna consumazione, ma costituiva eziandio uno dei principali generi di esportazione. La produzione dell olio, a tutto il secolo XIV non era ancora che molto secondaria; ben è 61 Sul distretto di S. Stefano L. T. Belgrano, Cartario genovese ed illustrazione del registro arcivescovile, in « Asli », II, 1870-73, pp. 137-138; 180-181. Per il territorio di Arma, Taggia e Bussana si vedano i documenti raccolti da V. Donetti, Arma e Bussana: appunti storici con illustrazione di alcuni documenti, Bussana 1914, so-prattutto alle pp. 73 e sgg. Su Arma come scalo del vino tabiese e bussanese si veda il doc. del 1429 riportato da V. Donetti cit.: locus Alme habet scarum et portum sive locum in quo solent onerari apud mare vina et alie res tam Tabie quam Buzane (p. 104). E’ una interessante precisazione topografica alle informazioni che sul commercio del vino di Taggia fornisce J. Heers, Gênes au XIV siècle. Activité économique et problèmes sociaux, Paris 1961, p. 360. — 234 — vero che gli statuti, specialmente nell’ultima riforma del 1405, si affaticano a difendere, con ripetute prescrizioni, i vigneti contro gli ulivi che già minacciavano di dovere prendere un giorno il sopravvento, ma quel giorno era ancora lontano e non doveva apparire che col sorgere del secolo XVI »a. Dagli Statuti medievali (anteriori al 1405) del distretto di Porto Maurizio emergono gli essenziali connotati del paesaggio agrario: nella grande varietà di produzioni — uvas, persica, poma, pisca, celexias, mesicas, ami-gdolas, nuces, mei granos, citronos, olivas, cicera, lentes, fabes... caules, po-ros, gesse vel alia spinatia, cucurbitas, melona, cucumera, bledas, braxia sive aliqua ortalia, biava sive spicus tozellae, herbam, foliacanam et qua-cumlibet aliorum fructua — particolare rilievo hanno, sia da un punto di vista economico sia da un punto di vista paesistico, campi e vigneti che in molti casi dovevano coesistere secondo la classica tradizione mediterranea della cultura mista, della « terra aggregata », come dicono i documenti medievali M. A questo proposito, anche per richiamarmi a quanto detto nel primo paragrafo, si può ricordare che nella rubrica degli statuti intitolata « De bandis bestiarum in alienis clausis, agregatis, blavis et vineis inventarum » risulta che clausa, agrega, blavae et .vinea ubicumque sint, toto anno bannit e sint omnibus bestiis65. 63 G. Doneaud, Storia dell’antica comunità di Porto Maurizio, Oneglia 1875, p. 114. 64 G. Doneaud cit., p. XCIX. Non tutti i termini risultano immediatamente comprensibili, come per es. mesica (fico fiore), gesse (bietole), ecc. Il fatto che sovente nella documentazione medievale si incontrino termini di incerto significato (in quanto varietà dialettali) fa desiderare l’opportunità di un moderno glossario del latino medioevale ligure, essendo quello di G. Rossi incompleto e talvolta impreciso. Ritengo per esempio che il termine cerialis (o cirialis) spiegato dal Rossi come « orto » possa essere messo in relazione con cereus = cedro e quindi possa essere spiegato come giardino di agrumi. Altri termini come cribus, anch’esso presente nei documenti citati sopra per Sanremo, rimangono inspiegati. 65 Sull’uso di « agregum » nel significato di « terra aggregata » (ossia di campo o seminativo aggregato di alberi fruttiferi) cfr. G. Rossi, Glossario cit., p. 14. Di notevole interesse è il fatto che sia le terre recintate, chiuse (« clausa »), sia quelle che non lo sono esplicitamente ma sono destinate alle colture arboree, arbustive e seminative siano permanentemente vietate al percorso del bestiame. Talvolta il divieto si limita al periodo in cui le terre sono effettivamente coltivate e gli alberi sono in frutto, ma in generale esiste una fascia abbastanza vasta attorno al centro abitato che risulta permanentemente esclusa dal pascolo, che si esercita invece, — 235 — Per quanto riguarda Oneglia, il suo più recente storico ha ricordato come nei secoli medievali la valle di Oneglia risulti sovrappopolata rispetto alle magre risorse del suolo e come nel XV e ancora nel XVI secolo abbia dato origine ad una notevole emigrazione prevalentemente contadina sia verso la Provenza sia verso la Corsica e Genova e ne deduce che la prosperità prodotta dalla coltura dell’olivo debba essere posticipata 66. Anche negli statuti della Valle di Oneglia, riferibili al XV secolo, l’olivo non ha più rilievo di quanto ne abbiano i fichi e gli altri alberi fruttiferi: come a Porto Maurizio doveva costituire una produzione secondaria rispetto alla vite. Significativo della scarsa diffusione dell’olivo mi sembra anche il fatto che gli ulivi fossero esclusi dall’obbligo di vendere gli alberi situati in terreno altrui67. Il fatto stesso, abbastanza comune nella documentazione medievale, che un proprietario possedesse qualche pianta, talvolta la parte di una pianta, in terreno non suo, è, almeno a prima vista, una prova della dispersione e rarità degli ulivi68. Più sviluppata doveva essere nello stesso periodo la cultura dell ulivo nella prossima valle di Diano, anche tenendo conto del fatto che all inizio del Cinquecento risultava il distretto olivicolo più importante della Li- ma non in modo incontrollato, nella fascia periferica. E’ una distinzione che in qualche modo si può confrontare con quella di iti-field e outfield, pur non essendo nel nostro caso altrettanto netta la distinzione in rapporto al carattere collettivo o individuale della proprietà. 66 G. Molle, Oneglia nella sua storia, Milano 1972, I, p. 167 e sgg., p. 308. 67 Sugli Statuti della Valle di Oneglia, oltre all’ampia analisi di G. Molle cit., I, p. 249 e sgg.; V. Agnesi, Appunti sugli antichi statuti della Valle di Oneglia, « Riv. Ingauna e Intemelia», n.s. I, 1946, pp. 34-37: «l’agricoltura era alquanto più varia, in confronto dell’attuale. In grande onore la vigna, che produceva uve bianche per vini chiari... La vigna era consociata con l’olivo, che ne guarniva i confini. Non ancora esisteva l’oliveto folto e continuo, generalizzatosi in seguito... Nè ancora veniva d’oltremare il grano, ma era seminato pure tra gli ulivi, con l’orzo e le biade... » (p. 35). 68 Anche secondo E. Bonifacy, Evolution sociale d’une commune provengale pendant sept siècles. La Gaude, Paris 1912; il fatto di trovare piante isolate sul terreno altrui è un evidente segno di rarità dell’ulivo. Lo studio di questo autore riguarda una comunità provenzale (La Gaude - Valle del Varo) ed è interessante perche da una precisa indagine dell’evoluzione agraria compiuta sui catasti risulta che lo sviluppo dell olivicoltura inizia nella seconda metà del XVIII secolo quando gli oliveti passano dall 1 % del valore delle terre all’11,7 %, per arrivare intorno al 1880 al 21,7 %. Nel XIV secolo prevalevano invece grani, fichi, vino, lino, canapa, ortaglie. — 236 — guria 69. Lo dimostrerebbero le esenzioni dai dazi sul mercato di Genova di cui godono alcuni dei principali prodotti della valle di Diano, fra cui l’olio, nel XIV secolo, e soprattutto gli Statuti del 1363 dove come è stato più volte notato troviamo una delle più antiche regolamentazioni del mestiere del frantoiano e dove sono espressamente citati i mercatores olei10. Non sono state finora messe in luce talune caratteristiche strutture del paesaggio agrario ligure che emergono con particolare evidenza negli statuti di Diano. Innanzitutto i « chiosi » che vengono così definiti: clausus intelligatur terra non vacua sed arborata arboribus domesticis et blavis et repleta e che derivano il loro nome dal fatto di essere chiusi per proteggere tali colture permanenti dai denti del bestiame. Le « chiudende » risultano costituite, lontano dai centri abitati, da siepi sia verdi sia secche ovvero da steccati e fitti filari di alberi, da muri presso gli abitati e lungo le strade 71. Nei « chiosi » non abitati si trovano spesso i « barreghi » e le « sopene » costruzioni in pietre a secco utilizzati come ricovero temporaneo 72. Della piana di Albenga si possono ricostruire, finora, alcuni lineamenti agrari solo a partire dal XIII secolo. Anche in questa aerea sembrano prevalere i seminativi, compresi in essi anche la canapa e il lino, la vite e fra le culture arboree soprattutto i fichi. Dell’olivo gli Statuti del 1288 presentano un solo cenno in una rubrica che sembra peraltro indicarne la rarità, mentre norme più dettagliate verranno inserite negli Statuti del 1519. Anche gli altri documenti medievali finora disponibili sembrano indi- 69 Della valle di Diano, A. Giustiniani, intorno al 1530, dice innanzitutto essere « famosa per la bontà e quantità d’olio, quale in quella nasce abbondantissimamente, talché molte fiate gionge a diciotto e vintimillia barrili » (A. Giustiniani, Castigatissimi annali con la loro copiosa tavola della... Repubblica di Genoa, Genova 1537, c. IV). 70 G. C. Lasagna, La « Comunitas Diani » e i suoi ordinamenti medioevali, « Rivista Ingauna e Intemelia », XVIII, 1963, pp. 28-31. 71 G. Rossi, La valle di Diano e i suoi Statuti antichi, in « Miscellanea di Storia Italiana », XXXVIII, 1902, p. 92 e sgg. 72 Si tratta delle « caselle », la cui terminologia locale è molto varia e meriterebbe uno studio specifico, esteso a tutte le diverse forme e tipi di insediamento temporaneo, i cui nomi, talvolta caduti in disuso, si possono reperire nei catasti e nei documenti notarili. Cfr. N. Vassallo, Ricerche preliminari sulle « caselle » nei dintorni di Imperia, in « Rivista Ingauna e Intemelia », n.s. XIII, 1958, pp. 1-13. — 237 — care che nel XIII secolo l’ulivo è considerato alla stregua delle altre piante da frutto: fichi, mandorli, susini, meli, ciliegi ecc.73. Nel contado di Albenga si esercitò l’azione di numerosi monasteri sia liguri sia padani. Fra i liguri di notevole ampiezza erano le proprietà del monastero benedettino di S. Martino dell’isola Gallinaria, del quale tuttavia non ci è pervenuta documentazione sufficiente per verificare l’azione di sviluppo agrario riconosciuta da autorevoli studiosi '4. Fra i monasteri piemontesi un certo rilievo ebbe la Certosa di Casotto, la quale oltre a possedere numerosi appezzamenti nel territorio di Villanova e un bel podere « con viti, orto, prato, giardino ed alberi fruttiferi ed edifizi » in Leca, nel XIII secolo, ritraeva da due pezze olivate, site nel territorio di Salea, cinque libbre d’olio all’anno75. Una descrizione più completa e precisa del paesaggio agrario della Piana di Albenga può trarsi dagli estimi e catasti, che, oltre ad essere i più antichi della Liguria, presentano anche un sistema di catastazione che se non è più attendibile è però più completo di quello delle restanti regioni liguri76. Dall’analisi ancora inedita che del catasto del 1420 ha fatto 73 Per i documenti più antichi si veda N. Lamboglia, Le più antiche carte dell’archivio storico ingauno, « Riv. Ingauna e Intemelia», III, 1937, pp. 103-113; G. Rolandi Ricci, Le vicende medioevali del castello di Ortovero, Ivi, III, 1937, pp. 115-148 (di notevole interesse soprattutto, i docc. I, III: sia per le prestazioni dovute al signore locale, sia per i prodotti del suolo, sia per gli strumenti del lavoro agricolo). Di notevole utilità anche V. Zucchi, Le lotte tra il Comune di Albenga e i Marchesi di Clavesana nei secoli XIII-XIV, Albenga 1945, (cfr. per es. 1’« inventario dei danni procurati alla proprietà di Guglielmo Neco in Leca: arbores, inter parvos et magnos, et plantulas arborum, scilicet ficus, amindole, soseni, malorum, celexarum et olivarum, quinquaginta octo. Item vites, inter parvos et magnos, centum sexaginta duos. Item arbores centroni tres, unus magnus et duo palvi; p. 171, a. 1289). Circa gli Statuti, P. Accame, Statuti antichi di Albenga (1288-1350), Finalborgo 1901: l’accenno agli ulivi è nella rubrica Ut cogatur habens arborem in aliena terra eam vendere (su questo problema cfr. nota 68). 74 G. Penco, Il monastero dell’isola Gallinaria e le sue vicende medioevali, in « Rivista Ingauna e Intemelia », XVIII, 1963, p. 15 e sgg. ?J G. Barelli, Cartario della Certosa di Casotto, Torino 1957, pp. 113-4 e sgg. 76 A differenza delle « caratate », nome col quale sono designati i catasti genovesi, quelli di Albenga (che in questo caso godeva di una sua autonomia amministrativa), pur essendo basati sulle denunce fatte dai proprietari davanti al notaio (sistema che si prestava a frodi), non erano privi delle misure agrarie fornite appezzamento per appezzamento e per tipo di coltura. — 238 — B. Ascoli traggo conferma che nel contado albenganese l’ordinamento colturale più frequente era quello viticolo: alla vite erano riservate tutte le zone meglio esposte e più asciutte della piana e i versamenti collinari prossimi alla città. Nella parte più bassa e umida della piana prevalevano i seminativi (cereali e canapa); attorno alle mura si concentravano le aree orticole 77. Alquanto dettagliata potrebbe essere la ricostruzione delle strutture e dei paesaggi agrari nel distretto di Toirano, a partire dall’inizio del XIII secolo, per la disponibilità di numerosi documenti riguardanti le tenute dei signori locali, del vescovo di Albenga e del monastero di S. Pietro78. Tale documentazione, che interessa un’area più vasta dell’attuale territorio comunale di Toirano, consente ancora una volta di verificare che la produzione agraria era imperniata sui cereali (e soprattutto sui cereali cosidetti inferiori: orzo, avena, segale), sui fichi e sul vino e solo secondariamente sull’olio. La scarsa diffusione dell’ulivo, in un distretto che all inizio del Cinquecento risulterà esportatore di olio, è dimostrata da alcuni significativi documenti: un atto del 1235 in cui sono vendute 15 piante di ulivo sparse in tre località diverse, un altro atto del 1282 in cui oggetto di una compra-vendita è addirittura la quarta parte di un albero di ulivo. Nei canoni in natura, dovuti, sempre nel XIII secolo, dai numerosi livellari del monastero e dei signori locali, solo in qualche raro caso compare la metà delle olive, molto più spesso si incontrano cereali, legumi, vino o mosto, carne ecc. Gli stessi documenti, se fatti parlare, dicono molto anche su altri aspetti del paesaggio agrario. I « chiosi » che si incontrano nei lembi orientali della piana di Albenga e rappresentano isole di culture seminative e arboree fra i prati e i gerbidi soggetti al pascolo regolato dal Comune di 77 B. Ascoli, Ricerche di geografia storica nella piana di Albenga; tesi di laurea, Fac. di Magistero dell’Univ. di Genova, a. acc. 1969-70. Successive tesi sempre di laureati in geografia storica presso la Facoltà di Magistero hanno esteso 1 indagine anche ai secoli XVI e XVII e alle Ville, per cui oggi, coordinando queste ricerche, si potrebbe ricostruire l’evoluzione agraria della piana di Albenga dalla fine del Medioevo al Novecento. Mi auguro che questo obbiettivo possa essere raggiunto in un tempo ragionevole da parte degli stessi laureati e con la collaborazione degli enti interessati ai risultati di queste indagini. 78 P. Accame, Instrumenta episcoporum Albinganensium a cura di G. Pesce, Albenga 1933; P. Accame, Storia dell’Abbazia di S. Pietro di Varatella, Albenga 1893 (questi ultimi documenti si riferiscono anche al XII secolo). — 239 — Albenga '9. I « mansi » che nel territorio toiranese rappresentano spesso nuclei di popolamento, costituiti da più famiglie raccolte in gruppi consortili (consorzi popolari), spesso solidali nei confronti delle prestazioni dovute al signore. Si tratta di un tipo di insediamento rurale che in questi secoli doveva costituire la norma anche in molte altre aree costiere, dove si dissolse soprattutto in seguito allo sviluppo dei maggiori centri marittimi, rimanendo invece quasi inalterato nelle aree più conservative e più rurali dell interno. In altre parole, negli ultimi secoli del medioevo (e in parte anche in età moderna) si determinò una ristrutturazione dell’insediamento, che, nella fascia costiera, si polarizzò nei centri e nelle case sparse, comportando l’abbandono di numerosi nuclei80. Per gli aspetti che in questa sede più ci interessano, si può forse notare, verso la fine del XIV secolo, un incremento dell’olivo, sempre però associato alle tradizionali culture del fico e della vite, a costituire appezzamenti così descritti: quodam peci am terre aratorie fcubus, vitibus, olivis et aliis arboribus agregata, e non di rado provvisti di abitazione colonica 8I. Anche nel territorio di Pietra, che come vedremo rappresenterà nel Cinquecento un non indifferente distretto olivicolo, nel XIII secolo, si fanno notare i vigneti, che, in quanto coltura di maggior pregio, risultano addensati soprattutto attorno al castrum 82. Le condizioni della cultura dell’olivo non dovevano essere molto diverse neppure nel territorio di Finale. In località S. Donato, ancora oggi coperta da fitti oliveti, dall’inventario dei beni di un defunto risultano, nel 1233, tre appezzamenti vineati e un solo albero di ulivo. Nel secolo successivo citazioni come pecia una terre pastineata olivis et aliis diversis alboribus indicano recenti piantagioni (ad esempio nel territorio di Verzi), in cui l’ulivo peraltro divide il proprio spazio con altre piante da frutto. 19 Per es. P. Accame, Instrumenta episcoporum cit., pp. 66-67 sgg. Per il regolamento e l’utilizzazione pastorale della stessa area cfr. P. Accame, Statuti antichi di Albenga cit., p. 69 e sgg. 80 Si tratta solo di un’ipotesi, che non mi pare in contraddizione con quella che più avanti verrà esposta circa specifici fattori agrari. I fenomeni di abbandono di sedi rurali e di ristrutturazione dell’insediamento sono fenomeni complessi sui quali si riflettono, in modo più o meno determinante, tutti i fattori e gli elementi di una specifica organizzazione territoriale (cfr. più avanti par. 7). 81 Si veda per es. P. Accame, Storia dell’Abbazia di S. Pietro cit., doc. XXXIII, (1389), p. 117 e sgg. 82 P. Accame, Instrumenta episcoporum cit., p. 99 e sgg. — 240 - In questo senso non è difficile trovare esempi di terre vineate et arborate ficuum et olivarum: cioè esempi di quella cultura promiscua che proprio nel Finale ebbe una delle sue più accurate e ammirate esecuzioni83. Con maggior precisione emergono i lineamenti del paesaggio agrario medievale nel distretto di Noli. Già nel XII secolo ronchi e pastini avevano guadagnato all’agricoltura la maggior parte di un territorio invero poco favorevole, costringendo il Comune di Noli a difendere i residui lembi di vegetazione boschiva con capitoli che sono fra i più antichi esempi di legislazione forestale. In particolare queste norme vietavano, oltre al pascolo delle capre, anche la pratica della coltura temporanea, che, eliminando la vegetazione spontanea senza dare al suolo in pendenza una sistemazione agraria duratura, creava condizioni favorevoli alla azione distruttiva delle acque dilavanti. Fra le piantagioni più diffuse, promosse dallo stesso comune, emergono anche qui la vite e il fico, ma non era assente 1 olivo, ricordato sia negli Statuti di Noli sia in quelli della dipendente terra di Segno 84. Nel contiguo territorio di Spotorno, fra i diritti e le proprietà del monastero benedettino di S. Eugenio dell’isola di Bergeggi, è citato, nel XII secolo, un oliveto 85. Sembra che la coltura dell’olivo risulti già documentata nell anno 877 83 G. Salvi, Per la storia del Finale. Tre questioni di storia finalese in « Asli », LXI, 1933, pp. 187-8, 218 e sgg. Ulteriore documentazione per il XVI secolo in N. Garoni, Codice della Liguria, diplomatico, storico e giuridico, Genova 1870, che conferma il paesaggio delle terre «aggregate» con frequente ricorrenza dell ulivo (per es. terra tam laborativa, seminativa, ficubus et ollivis quam vinea aggregata, ma non mancano le terre aggregate di soli olivi a giudicare dai canoni pagati solo in olio). Circa i contratti di conduzione il tipo più frequente prevede la divisione a metà dei prodotti: granum, seminata omnia, ficus et vinea ad medietatem con eccezione dell’olio che talvolta è a metà per i primi anni, poi e più spesso è ad tertiam (cioè due terzi al proprietario o talvolta 3/5). 84 B. Gandoglia, Documenti nolesi, in « A.S.S.S.P. », II, 1889-90, p. 648: Statuti del Castello di Segno del 1254, rubrica Quod nemo boscet in pineta nisi causa pastinandi continue. Per le colture della vite e del fico e per 1 estrazione dell olio si veda alle pp. 629 e 647. Ancora C. Russo - L. Vivaldo, Gli statuti di Noli, in « A.S.S.S.P. », XXVII, 1949, pp. 55-131. 85 F. Guerello, L’erezione del vescovato di Noli, in Miscellanea di Storia Ligure in on. di G. Falco, Milano 1962, p. 163. — 241 — in fine saonense86, tuttavia, soltanto dalla fine del XII secolo disponiamo per questa regione di informazioni sufficientemente ampie per riconoscere — in modo certo ancora relativo — il posto che le culture arboree e arbustive occupano nel paesaggio agrario del savonese. In attesa dell’auspicabile edizione dei più antichi notai savonesi, ci soccorrono, come fonte diretta, le carte dell’archivio capitolare di Savona, gli Statuti e altri dormenti 87. Gli studi sulla più antica documentazione notarile, peraltro scarsamente utilizzata dal punto di vista agrario 8S, indicano come « cultura di maggior valore e più redditizia... quella del vino; i ricchi pergolati della Fossalvaria e una coltivazione intensiva, valutabile a due terzi delle aree coltivabili, permettono di soddisfare il fabbisogno locale, incrementando altresì l’esportazione »89. La fascia più intensamente vitata sembra essere quella che si stende attorno alla città e alle ville: da Legino a Lavagnola, Villa Piana, Ranco, Valloria. Anche l’esame dei valori delle terre in rapporto alla destinazione colturale indica la favorevole congiuntura della vite rispetto alle altre piantagioni. L’ulivo non è però assente e qualche oliveto raggiunge stime considerevoli. A proposito di olivicoltura si può ancora ricordare un atto del 1179 in cui il proprietario di un oliveto si impegna di fornire al manente la metà degli uomini necessari per la raccolta delle olive90. 86 A. Ferretto, Cronotassi di Savona dal 690 al 1200, in Savona nella storia e nell’arte. Scritti oferti a P. Boselli, Genova 1928, p. 289. 87 V. Pongiglione, Le carte dell’archivio capitolare di Savona, Pinerolo 1913; L. Balletto, Statuta antiquissima Saone, Bordighera 1971, 2 voli. 88 II rilievo vale, oltre che per i notai savonesi, anche per quelli genovesi editi e inediti. Deve infatti considerarsi del tutto insufficiente almeno dal punto di vista della storia del paesaggio il lavoro di A. Sisto, Contributo allo studio dell’agricoltura in Liguria (1180-1220), in Miscellanea di Storia Ligure in onore di G. Falco cit., pp. 117-125. 89 D. Puncuh, La vita savonese agli inizi del Duecento, in Miscellanea di Storia Ligure in onore di G. Falco cit., p. 143. Interessanti anche le informazioni che si traggono da V. Pongiglione, Il libro del Podestà di Savona dell’anno 1250, in « A.S.S.S.P. », XXVIII, 1956. Non solo risulta che i più frequenti reati sono commessi da uomini e bestie contro le vigne, ma spesso dalle testimonianze emergono vivaci quadri di vita rurale savonese (cfr. per esempio alle pp. 149-150 e ancora alle pp. 75, 84, 94-95 ecc.). 90 Si veda ancora D. Puncuh cit., pp. 143-4; F. Noberasco, Savona allo spirare del secolo XII, in « A.S.S.S.P. », XIV, 1932, p. 240. In un altro contratto del 1182 - 242 — Anche i livelli di terre del Capitolo indicano, nel XIII secolo, come prevalente destinazione colturale la vite, a Vado, a Legino, a Ranco ecc. Adiacente alla vite si incontra spesso il castagno quasi a configurare una coltura promiscua che, almeno per la fascia costiera, definirei sorprendente91. Il ter cium vini rappresenta spesso uno dei canoni corrisposti nei più antichi contratti di livello 92. Che la viticoltura rappresentasse 1 esempio forse più importante di agricoltura intensiva mi sembra provato dal fatto che solo gli appezzamenti vineati risultano dotati di abitazione rurale (domus superposita) e ancora dalla frequenza con la quale si incontrano le terre caneate, che, come noto, fornivano uno dei più usati sostegni alla vite 93. Le terre del Capitolo savonese risultano ancora produrre biade, legumi, frutti, ortaggi, ma non olio. Un’analoga configurazione presenta, verso la metà del XIII secolo, il contado di Albisola, dove si alternano soprattutto vigneti, seminativi, castagneti e prati. Da un’inchiesta dei diritti del comune di Genova in Albisola, definita da V. Poggi « una pittura autentica delle condizioni di Albissola verso la metà del secolo XIII », risulta che il Comune di Savona percepiva dagli uomini del suo terziere tertium vini et quintum de biava et prò por-tonaria a dictis hominibus pro sappa quartarium unam siliginis et pro pare bouum quartinum unum, dove oltre al fatto che la produzione agraria è imperniata sulla vigna e sui seminativi, è soprattutto da ritenere 1 accenno alla il colono si impegna a fornire al padrone un pasto per tre, alla vendemmia, composto di pane, vino, carne e ravioli. All’incirca nello stesso periodo, nella zona di Albenga, il signore di Ortovero si impegnava a fornire ai contadini, che gli prestavano una giornata di lavoro con i buoi, solo pane e vino (G. Rolandi Ricci, Le vicende cit., p. 124). 91 Si veda per es. V. Pongiglione, Le carte cit., pp. 13-14 (doc. IX, a. 1211): terciam partem pro indiviso cuiusdam terre vineate cum arboribus castanearum... que iacet ad Rancbum. Per il sec. XIV, cfr. p. 37 e sgg. 92 V. Pongiglione, Le carte cit., pp. 4-5. Secondo F. Noberasco, Savona allo spirare cit., i patti colonici concessi dal vescovo sarebbero stati più « larghi », accontentandosi il vescovo solo di 1/4 del vino, mentre i proprietari laici in generale avevano la metà del vino, delle olive e delle castagne e il quinto delle granaglie. Non si comprende bene come potesse sussistere tale varietà di trattamento e come a questo stato di fatto possa corrispondere « anche una miglior coltura dei fondi ecclesiastici, una maggior ricchezza di voci di cose coltivate » (p. 239). 93 V. Pongiglione, Le carte cit., pp. 36-37: livello di una pecia terre canneti et ortalis con obbligo di accrescere la piantagione di canne. — 243 — lavorazione della terra mediante aratro trainato da buoi94. Questa tecnica, che non risulta essere stata in Liguria molto usata, doveva soprattutto interessare la piana alluvionale del Sansobbia, che a differenza di altre pianure costiere, risulta precocemente bonificata 95. Ne troviamo una conferma anche negli Statuti della fine del XIV secolo, dai quali sarebbe possibile trarre molti altri interessanti elementi della organizzazione agraria di questo territorio: ci limitiamo soltanto a verificare che nella ricca gamma di culture e prodotti: vinea, orto, cevolario, canetto, figaretto, prato, iardino, castagnetta... ortalia, videlicet caules, pepones, cucumeros, rapas, spinaceos, cepos, aleos seu quelibet alia ortalia et quelibet alia fructa, videlicet uvas, fichus, persicha, amigdola, nuces, nizolas, poma, pirra, folie, herba, castanea..., non è menzionato l’ulivo, che secondo V. Poggi doveva esistere fin dal 1179 96. È invece largamente confermata e anticipata al XIV secolo la vocazione orticola di questo distretto agrario, che nel XVI secolo venne dal Giustiniani lodato per « la bontà degli agli e delle cipolle » 97. L’ulivo non figura nemmeno negli Statuti della vicina Celle, dove fra 1 altro risulta che gli abitanti erano obbligati a fare orti nelle proprie terre e a piantarvi ogni anno e per lo spazio di dieci anni arbores tres fructuum, videlicet brignarum, cellexorum et alliorum fructuum 98. 94 V. Poggi, Albisola. Appunti archeologici, storici ed artistici, in «A.S.S.S.P.», II (1889-1890), pp. 218, 249. 95 La piana di Albisola presenta notevole interesse anche dal punto di vista del popolamento medievale. Infatti intorno al XI secolo si verifica l’abbandono del-1 antico insediamento ubicato presso la chiesa di S. Pietro (non si sa per quali ragioni, ma la datazione è verificata dallo scavo archeologico) e quasi nello stesso periodo nasce la Marina attorno alla chiesa di S. Benedetto e al priorato benedettino che la tradizione vuole derivato dall’abbazia di S. Colombano di Bobbio (cfr. anche V. Poggi cit., I, p. 70). 96 Per gli Statuti di Albisola mi sono valso della trascrizione di A. Gerbino, tesi di laurea presso la Fac. Magistero dell’Università di Genova; per l’ulivo cfr. V. Poggi cit., II, p. 232. 97 A. Giustiniani cit., c. VIII. 98 M. Cerisola, Gli Statuti di Celle (1414), Bordighera 1971: cap. XXXVI e XXXIX. Da altri capitoli emergono interessanti tratti del paesaggio agrario e della organizzazione territoriale. In particolare il cap. LI De bestis inventis in alienis terris vieta alle bestie miunte e grosse di entrare in orto, vinea laborativa, seminata, castagneto, figareto, caneto, prato (ed anche nei boschi dei particolari) sine expressa licentia et voluntate domini, entro un’area che comprendeva gran parte del territorio del comune. Facevano eccezione solo le comunaglie limitate ai lembi più marginali — 244 — Per il contado savonese, invece, gli Statuti del 1345 si preoccupano di coloro che raccolgono le olive altrui e di salvaguardare i diritti dei produttori dalle frodi dei factores olei. Tuttavia anche da questi più antichi statuti di Savona (Statuta Antiquissima) emergono come elementi dominanti del paesaggio agrario savonese le vigne, gli orti, i seminativi, i castagneti, i boschi, i canneti e i prati. L’ulivo sembra aver soprattutto la funzione di far da spalliera ai campi insieme ad altre piante fruttifere e non (pioppi, salici, susini, querce ecc.), come indica una rubrica che proibisce di piantare sui confini delle terre alberi che superino m. 2,50 99. Con grande cura e con numerosi capitoli il Comune savonese, analogamente a molti altri comuni del tempo, regola la produzione e il commercio del vino. Si tratta di una legislazione chiaramente protezionistica che non riscontriamo, con questa generalità, per nessuna altra coltura del tempo e che almeno in parte spiega la maggior diffusione della viticoltura rispetto alle nostre produzioni agrarie. Il paesaggio agrario savonese non risulta aver subito notevoli trasformazioni, quanto a destinazioni colturali, neppure all’inizio dell’età moderna. Lo conferma l’analisi ancora inedita del più antico catasto savonese (1530), compiuta da R. Botta 10°. Se è interessante notare che vigne, orti e « viridari » non mancavano neppure nelle più compatte contrade cittadine (la Quarda, Untoria, Scarziera ecc.), è soprattutto alla fascia suburbana e alle ville — cioè ai centri rurali del distretto savonese — che dobbiamo guardare per farci un’idea della fisionomia agraria del savonese. Attorno al Borgo di S. Giovanni si notano soprattutto orti e viridari in pianura, vigne soprattutto sui pendii collinari che salgono verso Vallo-ria, dove si riscontra anche un isolato nemus ollivarum a cui per altro è attribuito uno scarso valore d’estimo. Attorno al Borgo di Porta Bellaria si stende un’area orticola che si salda con quella di Borgo S. Giovanni: ambe- e le vigne lasciate incolte da almeno 4 anni. I pendii erano almeno in parte già terrazzati come risulta dal divieto di estrarre pietre dalle « macerie » e di lavorare troppo vicino alle stesse (evidentemente per non farle franare). A proposito di lavori agricoli, la citazione di boverii e di laborare cum bobus fa pensare che anche qui fosse in uso l’aratro, ma credo limitatamente a qualche boverius che prestava la sua opera agli altri contadini in occasione delle operazioni annuali di aratura. 99 L. Balletto, Statuta cit., II, pp. 73-74. 100 R. Botta, Ricerche di geografia storica in Savona, tesi di laurea presso Fac. Magistero, Univ. di Genova, a. acc. 1969-70. — 245 - due sfruttano, anche con i caratteristici pozzi a cicogna, le possibilità irrigue del Lavagnola e della sua piana alluvionale. L’importanza dell’orticoltura savonese è anche dimostrata dal fatto che gli ortolani dei due citati sobborghi erano riuniti in un’arte — è singolare ma insieme indicativo del carattere intensivo di questo settore dell’agricoltura che gli ortolani fossero equiparati a tutti gli effetti agli artigiani — la quale regolava sia determinati aspetti della produzione sia la vendita da farsi nella pubblica piazza delle erbe. A questo proposito, l’unica deroga a lavorare e vendere nei giorni festivi era per le insalate e i meloni, produzioni evidentemente di tutto rispetto e caratterizzanti l’orticoltura savonese, mentre per i prodotti più comuni quali agli, cipolle e rape era consentita l’introduzione sul mercato savonese solo nei giorni feriali e anche da parte di produttori forestieri. Era ancora severamente vietato « esportare fuori della Città e suo distretto lettami di qual si voglia sorte, dovendo essi restar per provigioni di orti e vigne de cittadini »: è un evidente sintomo della nota carenza di stallatico che affliggeva l’agricoltura ligure del versante marittimo. Tanto più che i capitoli dell’arte vietano che « siano posti in li orti alcuni lettami de quintane, tresende o condutti, o, de sorte simili che possino apportare alcuno cattivo odore, o sapore, o mala sanità all’ortaglie » 101. Si ricollega infine a quanto detto nell’introduzione, circa la diffusione nel Mediterraneo di semenze migliorate dall’orticoltura ligure, una precisa norma che vietava di « mandar fuori in alcuna parte del mondo alcuna quantità di semenza di garbusi nata in questo territorio ». Si trattava di una varietà pregiata di cavolo, protetta a Savona dall’introduzione di semenze forestiere e molto richiesta all’estero, soprattutto dalle aree orticole della Francia meridionale 102. Ritornando, dopo questa breve digressione, al catasto del 1530, riscontriamo che al di là del Lavagnola (l’attuale Letimbro), tornavano a prevalere le vigne, soprattutto sui pendii collinari della Rocca. Nelle ville più settentrionali di Lavagnola e di S. Bernardo si notano numerosi castagneti che talvolta si affiancano alle vigne e un bosco di olivi et vinea. A Legino sono numerose le vigne e rari gli oliveti, di cui non si ha specifica menzione nel territorio di Quiliano. 101 G. Migliardi - F. Noberasco - I. Scovazzi, Statuti corporativi savonesi, in « A.S.S.S.P. », XIII, 1931, p. 154 e sgg. 102 Cfr. E. Le Roy Ladurie, Le paysans cit., p. 64. — 246 — Oltre all’area orticola suburbana, l’elemento più originale del paesaggio agrario tardo-medievale e rinascimentale è costituito dalle « ville », cioè le case rurali sparse, edificate dalle famiglie più ricche con la duplice funzione di residenza estiva e di azienda agraria spesso di notevoli dimensioni e valore. A questi investimenti fondiari, che non possiamo ancora datare con precisione, si deve probabilmente anche uno sviluppo delle culture arboree che dovette interessare diverse aree nelle quali nel Cinquecento troviamo insediate le « ville » dei Savonesi. Queste aree secondo la descrizione di A. Abate, risalente al 1570, sono il citato borgo di S. Giovanni, dove « sono molti orti e giardini e ville de’ cittadini con terre e belli palacii » e ancora « andando verso Lavagnola sempre si trova palacii e ville e giardini e orti e 4 molini tuti de’ cittadini fino a Lavagnola... », nella quale fra le « ville » dei cittadini disseminate « in quantità e belesa » si nota « gran numero de caze e orti e posesioni de’ contadini ». Anche la fascia degli « infiniti orti di citadini » che si stende lungo il borgo di Porta Bellera si prolunga in direzione di Vado: « andando a tuta via per la strada maistra se trova infiniti orti e ville giardini e posesioni de’ citadini così a man drita corno a la sinistra fino a lo confine de la villa de Leze (Legino) », nella quale « sono infinite posesioni dove nasie otimi vini e la più parte e la megiore posesione sono de citadini de Saona fornite de belle terre e palacii e caze onorevoli... » 103. Anche il Comune, nel Cinquecento, dà impulso alle culture arboree, come risulta da una interessante controversia con i contadini di Vezzi, alla quale dedichiamo un po’ di spazio per contribuire a far luce anche sui paesaggi e le condizioni di vita della « montagna » savonese. Si lamentavano i « poveri omini » della villa di Vezzi del fatto che il massaro delle proprietà del Comune savonese e i « primati » della villa di Vezzi, avendo piantato circa un migliaio di « arbori de fruti... da terme a terme » (cioè lungo i confini), volessero entrare nelle terre dei loro vicini per cogliere i frutti. Si lamentavano ancora che fossero stati « arancati » molti termini e deviate le acque già utilizzate collettivamente per irrigare le terre di tutti. A questo proposito possiamo notare come le pratiche irrigue fossero diffuse anche nell’agricoltura della « montagna » ligure. Dicono dunque i contadini di Vezzi al commissario savonese: « vedete voi quela montagna che v’è qui per contra, quela se domanda lo Corina e tuti li homini de la villa poveri 103 A. Abate, Cronache savonesi dal 1500 al 1570 (a cura di G. Assereto), Savona 1897, pp. 221-224. — 247 - e richi ge ano uno peso de terra dove semenano tute le loro ortagie e in dita montagna ge sorge molte fontane de aqua viva quale suplise a beverare tute le semense da sima al fondo, con questo ordine che quando l’aqua vene, lo primo più alto la prende in lo suo sorco e quando lui à beverato la lascia andare in lo sorco che ge a preso e quelo se ne serve e da la sima fino al fondo debe esere li soi sorchi e luno la debe dare a latro e a questo modo laqua suplise a tuti e a poveri e a richi... » 104. Per il contado genovese la documentazione è molto ricca e se adeguatamente interrogata può fornire indicazioni anche sugli aspetti meno noti e apparentemente meno individuabili del paesaggio agrario: per esempio sulla forma dei campi. È noto quale importanza M. Bloch e con lui i geografi francesi abbiano dato alla parcellazione, ricavata dalle piante catastali, nella definizione delle civiltà agrarie. Dal Cartario genovese, dal Registro della curia arcivescovile e talvolta anche dai protocolli notarili possiamo ricavare una serie di misure di terre che ci consentono di valutare, se non il loro disegno, almeno il loro rapporto di allungamento (cfr. Appendice). Accanto all’estensione e alla forma emergono altre fondamentali caratteristiche del paesaggio agrario delle culture arboree, che possiamo cominciare a datare. In un atto di locazione del 1226 un certo Giovanni di S. Michele prende in affitto per 6 anni da Guglielmo Balneo un podere suburbano, situato sulla collina di S. Tommaso, e si impegna ad abitarvi e fra le altre cose a claudere dictas terras de spinis et macerias relevare et refi-cere ubi rupte fuerint10S. Si tratta innanzitutto di uno dei più antichi documenti in cui « maceria » assume, oltre al significato allora comune di muro, anche quello di terrazzamento, « fascia » o appunto « maxea », come è rimasto nell’uso dialettale m. Lo stesso atto ci riguarda ancor più da vicino quando descrive le specifiche prestazioni dovute dal manente o mezzadro di un podere che si rivela prevalentemente olivicolo: dictam terram meliorare et non deteriorare et collere annuatim et dare medietatem totius olei olivarum... facendo tu 1M A. Abate cit., p. 147. Cfr. anche G. Filippi, Studi di storia ligure (Savona), Roma 1897, pp. 209-225; dove si commentano gli Statuti del 1456 della terra di Vezzi, per molti aspetti simili agli Statuti di Quiliano, editi da F. Bruno, in « A.S. S.S.P. », II, 1889-90, pp. 321-376. 103 A. Ferretto, Liber Magistri Salmonis (1222-1226), in « Asii », XXXV, 1906, doc. 1190 (e cfr. anche doc. 802, circa la diffusione dell'ulivo in questa area). 106 Cfr. G. Rovereto, La storia delle fasce cit. — 248 — oleum tuis expensis et colligendo olivas similiter tuis expensis... et ponere ibi quator plantas ficuum annuatim et ipsas adultire bona fide et cavare annuatim olivas... et ponere ibi letamen de tercio in tercio anno... Questa area che dal colle di S. Tommaso — chiesa e monastero femminile cisterciense — risale verso Granarolo appare la più olivicola dell’intero suburbio genovese: vi sono infatti frequenti, nello stesso periodo, le citazioni di pecie oliveti. All’altro capo della città la collina di Carignano sembra invece caratterizzata da una precoce specializzazione viticola. Si veda per esempio, in un documento dell’anno 1000, la permuta di terre fra l’abate di S. Stefano e due cittadini genovesi riguardante cinque appezzamenti siti in Carignano, di cui quattro definiti cum vinea et alios arbores fructiferos e uno cum vinea et alios arbores fructiferos et olivectis e altri documenti coevi con ulteriori indicazioni, sempre in Carignano, di vigne o di coltura promiscua a base viticola 107. Dato che abbiamo nominato 1 abbazia benedettina di S. Stefano possiamo aggiungere che se sulle sue terre non risulta assente l’ulivo, tuttavia i più antichi contratti ad pastinandum concernenti terre del monastero non prevedono esplicitamente piantagioni di ulivi ma soprattutto di viti e di castagni10S. L’area suburbana genovese sembra, a cominciare dal XIII secolo, andare assumendo il suo peculiare paesaggio: accanto ai numerosi insediamenti ecclesiastici e monastici, sui quali esiste una abbondante documentazione, cominciano a sorgere le « ville » dei cittadini e l’agricoltura va precocemente modellandosi sulle esigenze del mercato cittadino, come dimostra anche la formazione dell’area orticola della piana del Bisagno. Delle « ville », che con le loro caratteristiche architettoniche di tipo urbano diedero un’impronta cittadina al paesaggio agrario della fascia costiera fra Voltri e Nervi, come già notava il Petrarca 109, non conosciamo ancora il processo di formazione e diffusione. Dalle indagini di J. Heers e soprattutto di E. Poleggi ricaviamo che « nel 1463 ... per i soli immobili di proprietà privata si avevano almeno 3819 “case” nel centro urbano e 1525 nei borghi ... nei sobborghi di Levante vi erano 70 palatia, facilmente identificabili con le residenze più ricche e di nobile architettura e 65 erano ia7 L. T. Belgrano, Cartario cit., docc. 34, 52, 143. 108 L. T. Belgrano, Cartario cit., docc. 20, 46, 91, 94 ecc. Livelli più tardi in A. Ferretto, Liber cit., passim. 109 Cfr. F. Petrarca, Epistolae de rebus familiaribus et variae, Firenze, 1862, II, p. 298. — 249 — 4 quelli di Ponente ». Era dunque sicuramente superiore a 150 « il numero delle case di campagna che alla metà del secolo XV decoravano per la gioia dei viaggiatori le strade di ingresso alla città » no. Un viaggiatore, Giovanni Ridolfi, non ha mancato di cogliere e di tramandarci nel 1480 i lineamenti di questo paesaggio e la vivace circolazione umana che l’insediamento delle ville dei cittadini aveva determinato in Val Polcevera: « e poi entri per la valle del fiume Pozevero insino a Genova... nella quale valle sono assai case di cittadini che hanno poco terreno, cioè giardini, tutti murati intorno che paiono quei muri su per que’ colli di qua e di là un labirinto, et ciascheduno colle sue mulette a ora di desinare et di cena se ne vanno a’ giardini e poi tornano nella città alle lor mercanzie » 1H. Negli stessi anni, un umanista ligure, Antonio Ivani, integrava con simili annotazioni una pictura della città di Genova e delle sue valli inviata al fiorentino Donato Acciaiuoli: « Cerni Pulcifera non potest, vallis ab amne nomen ducens. Est enim a latere occidentali frequens populo et villis, ducitque ad montana, incipiens a suburbio ubi naves onerariae fabricantur. Vallis ea planitiem habet amenam, non amplam admodum, sed oblongam millia circiter decem passuum, quae in Galliam quoque cisalpinam ducit. Numerus est undique villarum longe maior quam pictura ostendit. Sunt enim frequentes et amenae, utiles parum, utpote carentes amplitudine agri et ubertate. Singula quarum predia murorum ambitu cinguntur »1I2. Anche per dare un senso a questo precoce fenomeno della villa genovese possiamo ancora ricordare che negli stessi anni Anseimo Adorno osservava che le ville e le case extra-urbane genovesi erano ben più numerose di quelle che il viaggiatore incontrava nel contado fiorentino 113. All’inizio del Cinquecento la descrizione del Giustiniani dà particolare rilievo, oltre alle ville di Cornigliano e Sampierdarena, a quelle di Carignano: « vi sono 50 giardini o sia ville de’ Cittadini molto dilettevoli, ornate di magnifici edificii e superbe case », di Albaro: « comprende 144 case 110 E. Poleggi, Genova e l’architettura di villa nel XV secolo, in « Boll, del Centro Internazionale di Studi d’Architettura A. Palladio», XI, 1969, pp. 231-242. Cfr. anche E. De Negri - C. Fera - L. Grossi Bianch - E. Poleggi, Catalogo delle ville genovesi, Genova 1967. 111 Spigolature e notizie, in « Giornale Ligustico », XVII, 1890, p. 235. 112 Cfr. C. Braggio, Giacomo Bracelli e l’umanesimo dei liguri, in « Asli ». XXIII, 1890, doc. V, p. 269. 113 Cfr. E. De Negri - C. Fera - L. Grossi Bianchi - E. Poleggi cit., p. 46. — 250 — delle quali vi ne sono 46 di contadini, e il restante de’ citadini, che tutte hanno fruttifere e amene ville, tal ché è Cittadino che ha in la sua villa pere di vintidue specie; sono queste ville dottate di domestico, di salvatico, di acqua, di are per ucellare, tutte murate in cerco e la struttura delle magnifiche case è superbissima » e ancora di Quarto: « queste ville di Quarto sono più utili che le altre per la grandezza loro, quale è capace non solamente di oliveti e di vigne ma etiandio di campi per seminare biade ». Anche per l’area orticola del Piano di Bisagno si può utilmente confrontare l’essenziale descrizione del Giustiniani, che rileva che dalla spiaggia « verso la montagna in larghezza di un miglio, e longhezza di dua sono bellissimi e fruttiferi horti coltivati con molta diligenza, per il che producono ogni specie e ogni varietà di herbe e di frutti hortilicii in grandissima abondantia » U4. La formazione e le caratteristiche di questa importante area di agricoltura intensiva e irrigua meriterebbe (come del resto anche la « villa ») uno studio a sé. In questa sede è sufficiente ricordare che il Comune genovese vi prestò sempre molta attenzione e che i suoi provvedimenti, che contribuirono a dare a questo territorio l’aspetto che gli riconosciamo nella bella incisione settecentesca del Giolfi 115, erano talvolta determinati da ragioni che andavano contro la naturale tendenza delle aree suburbane orticole a frammentarsi in tanti compartimenti chiusi. Un decreto dei Padri del Comune del 1561 ribadisce infatti l’obbligo di non chiudere gli orti siti in Plana Bizannis né con muri ne con altri impedimenti, quominus cives spa-cianài gratia ad recreandum animum libere possint per hortos ipsos vagare et pertransire 1I6. Questa preoccupazione di garantire a tutti i cittadini la piena godibilità dell’ambiente suburbano, anche contro la tendenza all’appropriazione individuale e esclusiva del territorio, è documentata già nel XII secolo e si può dunque assumere come uno dei fattori che concorsero 114 A. Giustiniani cit., c. XVI. 115 A. Giolfi, Veduta della collina di Albaro (1770 circa), in Coll. Topografica del Comune di Genova, V, 8/1. 116 C. Desimoni, Statuto dei Padri del Comune della Repubblica di Genova, Genova 1885, p. 266; cfr. anche pp. 259-260. Ma già nel XII secolo gli orti situati in plano Bisane risultano chiusi da siepi e muri (cfr. C. Imperiale, Codice diploma tico della Repubblica di Genova, 2 voli., Roma 1936-1942, I, doc. 68). Interessanti notizie sugli orti del Bisagno in F. Podestà cit., p. 40 e sgg. — 251 — alla formazione del paesaggio fortemente umanizzato dell’immediato contado genovese 117. Attraverso il Registro della Curia arcivescovile è possibile ricostruire i lineamenti dell’economia agraria del più vasto contado genovese. Anche in questo caso dobbiamo sforzarci di rimanere nei limiti che ci siamo proposti, perché le suggestioni e gli spunti che offrono questi documenti sono moltissimi e stupisce come, essendo passati più di cento anni dall edizione, nessun medievista abbia finora dimostrato di apprezzare la fatica del Bei-grano. Rimandando ad altra occasione un’indagine più analitica, mi limito alla situazione agraria che emerge da un inventario delle terre e delle prestazioni degli uomini che le tenevano a livello, risalente alla metà del XII secolo m. I beni fondiari della Curia erano soprattutto concentrati nella valle del Bisagno ed avevano il loro centro direzionale nella domoculta di Molas-sana. Dalle prestazioni degli operari (cioè di quanti devono prestare giornate lavorative) si nota chiaramente che la coltura di maggior pregio era la vite. Per esempio gli « operari » di Molassana jaciunt opera, putant vineam et faciunt perticas de domo culta et ducunt ad vineam et cavant ipsam et vindemiant et ducunt in torculare et pistant et ponunt mustum in butes et propaginant ipsam, et colligunt fenum et ponunt in domum et colligunt castaneas et ponunt in cratem. Anche Voperario dei predii sprovvisti di vigna è ugualmente chiamato a contribuire alla produzione vinicola, non fosse altro che per fare patos prò vinea o fare e stringere butes et torcularia et tinam e talvolta anche a facere vineam e aiutare a portare il vino al mare. Di fatto la vite risulta ampiamente diffusa da Sampierdarena ad Albaro su tutta la fascia collinare sia del bacino del Polcevera che del Bisagno e quando i canoni dei livelli sono in natura il vino vi figura per la metà della produzione, quasi sempre insieme alla metà delle castagne. - • • v Il castagno, ampiamente diffuso, doveva occupare tutti i versanti più umidi. Oltre al frutto, per la raccolta e preparazione del quale non mancano particolari prestazioni d’opera, se ne ricavavano anche i pali per le topie 117 Nel 1145 i Consoli del Comune decretano che la chiesa di S. Siro abbia in proprietà il piano di Castelletto e che vi possa innalzare edifici ita videlicet quod omni tempore vacuum maneat ai utilitatem ipsius ecclesie, ad hoc ut populus possit unde videre civitatem et mare (C. Imperiale cit., I, doc. 141). 118 L. T. Belgrano, Il registro della Curia arcivescovile di Genova, in « Asii », II, parte II, 1872, p. 33 e sgg. — 252 — (pergolati delle vigne) e scandole per la copertura dei tetti. Scopriamo così che aree a poca distanza da Genova presentavano allora paesaggi che sia nella vegetazione sia nelle abitazioni rurali risultano molto simili a quelli della più elevata montagna ligure e che solo la successiva evoluzione agricola e sociale ha fatto scomparire. Ciò non stupisce se si intende che l’area di diffusione del castagno comprendeva anche le terre di Albaro che, come si è già notato, si apprestava allora a ricevere una nuova organizzazione territoriale e agraria che se non escludeva del tutto il castagno lo relegava però nella parte « selvatica » delle « ville » u9. Fra le colture di tipo mediterraneo risulta quasi onnipresente il fico (il cui prodotto continuò ad essere molto apprezzato sia in città sia nelle campagne per molti secoli), mentre l’olio per la mensa vescovile sembra provenire solo dalle piantagioni delle curie di Nervi e di Lavagna, località dove peraltro l’olivo risulta associato alla vite e ai seminativi, come indicano i canoni in natura. Gli operari della curia di Lavagna sono gli unici che alle solite prestazioni aggiungono quelle di colligere olivas et facere oleum. È la conferma della continuità di una tradizione olivicola del Chia-varese che, come vedremo fra poco, è documentabile a partire dall’ottavo secolo. A Levante di Genova la povertà della documentazione ci consente di dire poco sull’interessante distretto agrario che si stende da Camogli a Rapallo: gli sparsi documenti medievali richiamano i paesaggi della cultura promiscua a base viticola che abbiamo ritrovato lungo tutto l’arco costiero e la vitale presenza del castagno accuratamente coltivato m. Una ricca documentazione prevalentemente ecclesiastica ci consente invece di ricostruire alcuni connotati del paesaggio agrario sia alto-medievale 119 per ia diffusione del castagno anche in Albaro cfr. L. T. Belgrano, Cartario cit., docc. 20, 156. 120 Ma interessanti documenti in A. Ferretto, Liber dt., docc. 46-47, 51: in Bana si acquista nel 1222: terciam partem quatuor arborum olivarum communium con una terza persona, medietatem unius arboris olive, medietatem unius ficus cum ecclesia Sancti Nicolai, sextam partem unius arboris olive communis cum monasterio de Pedemontis. Cfr. anche doc. 790 dove si cita una pecia terre castagneti in qua sunt arbores due olivarum... iuxta maceriam-, esempio evidentissimo di quella promiscuità fra olivo e castagno che, pedologicamente assurda, era invece molto diffusa in questa area, com vedremo più avanti. Infine per il paesaggio agrario di Rapallo è interessante il doc. 966 riguardante una lite per l’uso di una sorgente e dove è citato un olivaie o fractorium. - 253 — sia basso-medievale nell’area chiavarese e nei restanti lembi della Liguria orientale. La serie più antica di documenti riguarda le tenute del monastero di Bobbio: a cominciare dall 'Alpe Adra, un vasto territorio, compreso fra la valle del Petronio e Moneglia, donato ai monaci da Carlo Magno nel 774 e ricco tanto di pascoli e di castagneti quanto di vigneti e oliveti. Da questo complesso unitario in anni successivi i monaci staccarono un oliveto da cui ricavavano per la parte padronale, nelle buone annate, 150 libbre d olio, e la piccola corte di Castiglione, che nella seconda metà del IX secolo risulta divisa in una parte padronale nella quale si seminavano ogni anno 8 moggia di grano e si raccoglievano nelle buone annate 9 anfore di vino, un carro di fieno e 40 libbre d’olio; e in una parte allivellata che rendeva 4 anfore e mezzo di vino e 41 libbre d’olio. Altre proprietà il monastero aveva nelle valli di Sestri e di Lavagna, similmente coltivate a grano, vite, olivo e non prive di castagneti e prati121. Complessivamente da queste tenute il monastero ricavava non più di trecento libbre d’olio che se paragonate alle 2430 libbre tratte dalla corte di Garda inducono a ridimensionare l’interpretazione del Formentini che vede nelle corti rivierasche aziende agricole specializzate nelle culture della vite e dell’olivo, organizzate secondo il modello poderale romano ed eredi di ville rustiche romane, in opposizione all’economia chiusa e autosufficiente delle corti montane di derivazione ligure. Quel che è certo è che l’approvvigionamento d’olio per gli usi liturgici e per la mensa del monastero di Bobbio, oltre che per la sua attività commerciale, si basava più sugli oliveti del Garda che su quelli della Liguria marittima o delle colline parmensi122. 121 Oltre a G. Buzzi, Codice diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio, vol. Ili, Roma 1918, p. 92 e sgg.; V. Polonio, Il monastero di S. Colombano di Bobbio dalla fondazione all’epoca carolingia, Genova 1962, pp. 116-122; e soprattutto U. Formentini, Studi Veleiati e Bobbiesi, in « Memorie Accademia Lu-nigianese di Scienze G. Cappellini », XVII, 1936, p. 68 e sgg. 122 Sulla presenza dell’ulivo nel medioevo sulle colline parmensi cfr. le indicazioni di P. L. Spaggiari, L’agricoltura negli Stati parmensi dal 1750 al 1859, Milano 1966, pp. 30-31. Il Formentini studiando la Curtis de Carice (Bedonia) ritiene che la produzione di olio documentata per questa tenuta dovesse provenire da appezzamenti situati in Liguria, proprio in quanto non tiene conto degli oliveti delle colline parmensi. E anche questa una conseguenza della sopravvalutazione dell’olivicoltura ligure medievale alla quale non sfugge neppure il Formentini e che almeno in parte — 254 — È però un fatto che nella valle del Petronio si concentrano nel Medio Evo numerose fondazioni e tenute di grandi abbazie: Bobbio, Brugnato, S. Marziano di Tortona (come erede dell’abbazia di S. Onorato di Pa-trania), S. Savino di Piacenza, S. Fruttuoso di Capodimonte. Tale concentrazione anche per il fatto di essere in evidente rapporto con « l’eccezionale importanza di questo territorio nel sistema stradale » della Liguria, può certo spiegare una precoce evoluzione verso un’economia di mercato, verso una specializzazione anche olivicola l2}. Nella zona di Levanto e Moneglia è documentato intorno all XI secolo un grande oliveto del monastero di S. Venerio del Tino, mentre nella Valle di Sestri e nel territorio di Chiavari e di Lavagna diverse proprietà della mensa vescovile di Genova mostrano il consueto ordinamento culturale: « figareti », vigneti, oliveti, campi, rovereti, boschi, ecc. Le terre dei monasteri situate nella valle di Sestri, attraverso concessioni livellarie e feudali, vengono gradatamente assorbite da un nuovo ceto militare, col quale si scontra il Comune genovese nel suo espansionismo territoriale. Le vicende di questa guerra « dovevano aver desolato le vecchie culture monastiche del territorio, poiché il Comune, con numerose concessioni libellarie e enfiteutiche stipulate dal podestà di Sestri, fra il 1183 e il 1212, ne promuove il ripopolamento e la restaurazione agri- io induce a contrapporre le tenute montane del monastero a quelle marittime, all interno di un quadro storico di continuità romana e pre-romana che è poco convincente. Sarebbe bastato confrontare la produzione ligure di olio con quella delle tenute del Garda per non cadere in questo errore di prospettiva. Lo sviluppo di una olivicoltura specializzata nella Valle del Po, che può aver avuto il suo epicentro sulle rive del Lago di Garda, può far pensare a una trasmissione di tecniche culturali e di varietà dalla valle padana alla Liguria nell alto medioevo: si capovolgerebbe la tradizionale interpretazione di una trasmissione esclusivamente mediterranea, sulla quale mi soffermo più avanti. L’olivicoltura padana e più in generale questo allargamento dell’area agricola mediterranea non è stata ancora adeguatamente studiata (si veda comunque il recente studio di G. Pasquali, Olivi e olio nella Lombardia prealpina. Contributo allo studio delle colture e delle rese agricole altomedievali, in « Studi Medievali », XIII, 1972, pp. 257-165; cfr. anche A. R. Toniolo, La distribuzione dell'olivo e l’estensione della provincia climatica mediterranea nel Veneto occidentale, in « Rivista Geografica Italiana », XXI, 1914, pp. 2-45, 137-175, 204-250). 123 Su questi aspetti si veda ancora U. Formentini, Brugnato, in «Memorie Accademia Lunigianese Scienze G. Cappellini », XX, 1939, p. 6 e sgg., pp. 13, 17, 35. — 255 — cola » ''4. Si tratta di veri e propri contratti ad pastinandum suggeriti dal fatto che predicte terre ad curiam Frascarii pertinentes inculte essent et quasi deserte e impegnanti gli assegnatari a terras ipsas meliorare et bonificare et non deteriorare... et convenientibus arboribus inserere. Talvolta si precisa: pastinare debeant, vinea, ficubus, et castaneis, secundum quod terre conveniens fuerit; quanto ai canoni da corrispondere questi in genere si limitano alla metà del prodotto delle culture arboree (castagne, ghiande, olio, vino) e a un quinto o un quarto dei prodotti deU’aratorio I25. Queste concessioni rappresentano un interessante esempio di politica agraria del Comune genovese e quindi anche un indice dell’interessamento della classe mercantile genovese verso la produzione agraria. Le condizioni del mercato non sono tuttavia ancora tali da ripristinare — se già esisteva — o sviluppare la coltura specializzata dell’ulivo, in quanto, come ora si è visto, i coloni che prendono a livello o in enfiteusi le terre si impegnano ad una coltura diversificata. La stessa politica agraria il Comune genovese aveva già promosso a Portovenere, dove, nel 1141, assegna diverse terre ad laborandum et pastinandum de vineis, ficis, olivis, castaneis sive de aliis arboris fructiferis e i coloni debent eam terram habere pastinatam usque ad annos duodecim... completis vero duodecim annis debent reddere de predicta terra tercium de vino, de oleo, de ficis sicis, de castaneis, de frumento, de ordeo, de panigo et de omni biava... » 126. Anche nel distretto di Portovenere, che possiamo prendere come campione della situazione nell’estrema Liguria orientale, la coltura dominante era la vite, come risulta da una attenta analisi delle carte del monastero di S. Venerio del Tino 127. '-4 U. Formentini, Brugnato cit., p. 23. E per gli aspetti precedentemente illustrati si veda p. 18 e sgg. m C. Imperiale cit., II, docc. 144, 145, 168, 199, 201, 202 (erroneamente 1 Imperiale identifica con Celle Ligure la Celle dei docc. 144-145 che si trova chiaramente lo dicono i documenti — nella curia di Frascato). 126 C. Imperiale cit., I, doc. 113. 27 Cfr. G. PiSTARiNO, L’economia agraria del « districtus Portusveneris », in «Annali di Ricerche e Studi di Geografia», X, 1954, p. 117 e sgg. Dello stesso A. anche Corsica medievale. Le terre di S. Venerio, in Miscellanea di storia ligure in onore di G. Falco cit., p. 18 e sgg. da cui emerge, da un alto il debole sviluppo della vite e dell ulivo prima del XIV secolo e dall’altro il predominio della cereali- — 256 — 4. Un problema centrale: l’origine e la diffusione dell’ulivo. Passando dal medioevo all’età moderna, siamo innanzitutto costretti a rinunciare a un tentativo di sintesi dei principali lineamenti del paesaggio agrario ligure, in quanto, accanto alla già constatata carenza di studi, la documentazione edita è, per ovvi motivi, meno rappresentativa, data la massa considerevolissima delle fonti disponibili negli archivi. Non solo, ma, in molti casi, lavorando sulle fonti edite, ci troviamo nella condizione di dover saltare dal XIII al XVI secolo e quindi di escludere i secoli che conobbero la depressione demografica e economica dalla quale uscirono le strutture agrarie dell’età moderna. È quindi giocoforza limitarsi ad alcuni quadri monografici su singole culture, rompendo 1 unità del paesaggio agrario e riservandoci di riunificare gli sparsi elementi nel capitolo conclusivo. Con tale metodo è tuttavia più facile far emergere i fattori antropici che spiegano la dinamica dei paesaggi agrari ed è anche più agevole mettere a profitto le informazioni che la letteratura agronomica è andata accumulando negli ultimi due secoli. È almeno dal XVIII secolo che filosofi, agronomi, storici e letterati si interrogano sull’origine e la diffusione dell ulivo in Liguria. Essendosi dato credito all’opinione dei geografi classici e in particolare a Strabone, il quale afferma che la Liguria importava l’olio e il vino dall’Italia, si è guardato soprattutto alle origini medievali e si sono affacciate due teorie. La prima vuole che l’ulivo sia stato portato in Liguria dai Crociati di ritorno dalla Palestina o che comunque si sia diffuso posteriormente al secolo XII 128. La seconda che ha avuto maggior fortuna ritiene che l’introduzione dell’ulivo sia opera dei monaci benedettini. Non vi è storico locale, soprattutto del Ponente, che non abbia attribuito il terrazzamento dei versanti collinari e la diffusione dell olivo agli insediamenti coltura. Secondo P. Parisella, Gli olivi di Corsica gloria di Genova, in « Corsica antica e moderna», III, 1934, p. 105 e sgg. (articolo molto mediocre),^si deve ai grandi proprietari genovesi e in particolare ai Doria lo sviluppo dell olivicoltura corsa. Ma sulle iniziative arboricole genovesi in Corsica cfr. P. Simi, L’adataptton humaine dans la dépression centrale de la Corse, Gap 1966, p. 169 e sgg. 128 Cfr. per esempio A. Bianchi, Osservazioni cit., I, p. 153 e sgg.; G. Navone, Passeggiata per la Liguria occidentale fatta nell anno 1827, Ventimiglia 1932, p. 112, D. Bertolotti, Viaggio nella Liguria marittima, Torino 1834, III, p. 268 (do\e peraltro si riferiscono anche le tesi dell’ulivo come pianta indigena e dell’introduzione da parte dei Focesi). — 257 — monastici, che già nell’alto medioevo si distribuirono, a più riprese, lungo le coste e nel retroterra della Liguria. Fra i primi sostenitori di questa tesi si può ricordare il Pira, che, in una descrizione geografica della Valle di Oneglia scritta in età napoleonica, osserva che « l’enorme man d’opera » profusa nelle « fasce » olivate è « il risultato di sette secoli » e che essa « si rese maggiormente attiva in seguito all’aumento e alla civilizzazione degli abitanti » e allorché « la tagliasca che si coltiva fra noi » fu donata « dai Benedettini che vi si stabilirono dopo l’invasione dei Saraceni di Frassineto » 129. Anche secondo studiosi più recenti — da D. Fornara a L. Giordano a padre Penco — al monacheSimo e in particolare a quello di derivazione bobbiese sarebbe da attribuirsi l’introduzione e diffusione dell’olivo nella Liguria occidentale I3°. Secondo questi autori il più importante centro di diffusione della coltura dell’olivo nella Liguria medievale sarebbe da individuarsi in Taggia — sia per il nome tagliasca o taggiasca che prese la varietà più diffusa nel Basso Ponente, sia per l’esistenza dell’abbazia benedettina di S. Maria del Canneto e per altre testimonianze monastiche più labili; da Taggia l’ulivo si sarebbe diffuso non solo nelle valli occidentali ma anche nella Liguria orientale e precisamente nella valle di Lavagna, dove gli stessi benedettini avrebbero fondato un altro monastero e vi avrebbero diffuso la stessa varietà d’olivo nota nel Levante appunto con il nome di lavagnina 131. 129 G. M. Pira, cit. p. 61. 13° d Fornara, I Benedettini cit., p. 97 e sgg.; L. Giordano, I Benedettini nella Liguria Occidentale, Albenga 1931, pp. 13-14. La stessa tesi la ritroviamo, fra i molti, anche in R. Ramoino, Memorie storiche di Pontedassio, Sanremo, p. 126; e fra gli autori più recenti in A. Brusa, La piana cit., p. 43 (dello stesso autore anche in Problemi cit., p. 10) e ancora fra i tecnici: G. Esmenard - F. Saia. Indagini sul- l irrigazione nella zona litoranea della Liguria posta fra Borgio e Taggia, Cuneo 1950, p. 79. Per una visione generale cfr. G. Penco, Estensione e diffusione della bonifica benedettina, in La bonifica benedettina, Roma s. d., pp. 53-84; dello stesso A. anche Storta del monacheSimo in Italia, Roma 1961, pp. 108-109 e segg. e per una applicazione di questa tesi al territorio di Albenga G. Penco, Il monastero cit., p. 15 e sgg. Sul piano scientifico, la tesi risale almeno al Muratori che appunto ai benedettini attribuiva « la propagazione e la coltura della pingue oliva che nella gemina riviera è già famosa avanti il secolo decimo» (cfr. P. Tomaini, Brugnato città abbaziale e vescovile. Documenti e notizie, Città di Castello 1957, p. 26). Qualche cenno in G. Ravenna, Memorie della contea e del comune di Lavagna, Chiavari 1879, pp. 99-101. — 258 — In generale la teoria benedettina risulta costruita su una tradizione popolare che gli studiosi locali si propongono di verificare con una serie di labili indizi storici e onomastici. Che a questa tradizione non si possa, in sede scientifica, dare molto credito mi pare dimostrato dal fatto che essa tende, con evidente esagerazione, ad attribuire ai benedettini tutto quanto di positivo nei secoli oscuri del Medioevo è stato introdotto nelle campagne liguri: i terrazzamenti, l’olivo, la cultura della vite, i frantoi, la tessitura, la lavorazione del ferro e finanche la lavorazione della carta. In sostanza gran parte di questa « storiografia » è viziata dalla tendenza a considerare i fenomeni della storia delle tecniche e della storia agraria in particolare nella dimensione temporale della storia « aweni-mentale » e di conseguenza a personalizzare fenomeni che sono in genere il risultato di secolari sforzi di masse anonime. Alla storia agraria occorre in altre parole restituire la sua totalità e il suo spessore storico tanto più evidente in una regione mediterranea come la Liguria, in cui lo stratificarsi dei paesaggi agrari e delle tecniche rurali, affonda le sue radici almeno nella protostoria. Si era già mosso in questa direzione uno dei maggiori agronomi liguri: l’abate G. M. Piccone, autore, in età napoleonica, dei Saggi sull’economia olearia, la più completa e approfondita trattazione dell olivi coltura ligure e mediterranea del tempo132. Il Piccone per 1 età antica si richiama ai geografi classici che escludono la diffusione dell olivo e della vite in Liguria e si interroga se tale esclusione si debba protrarre anche per tutta l’età imperiale, « mentre la Liguria marittima era diventata l’ordinaria comunicazione fra l’Italia e la Gallia Narbonese; mentre i Romani vi moltiplicavano le colonie, i municipi, i ponti, le stazioni marittime e militari... » (p. 57). Siamo di fronte a un interrogativo che sembra condurre a una risposta negativa. Di fatto, il Piccone mostra credere alla esistenza delle culture della vite e dell’olivo nell’età tardo- 132 G. M. Piccone, Saggi cit. Le citazioni di pagine fatte nel testo si riferiscono sempre a quest’opera e al primo volume. L opera attirò 1 attenzione anche i > in « Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia », t. V, 1810, p. 250 e sgg.; c e giustamente ne mise in rilievo il respiro storico: « modestamente egli intitola il primo capo: Frammenti istorici sull’ulivo e sull’olio. Ma questi pretesi frammenti sono a quanto ho letto degli scrittori italiani e francesi, la sola storia compiuta, attesa a difficoltà della cosa... ». — 259 — romana, dal momento che le ritiene coinvolte nel generale abk -della agricoltura caratteristico del periodo altomedievale andono Il quadro catastrofico che il Piccone dà dell’Alto Medioevo m sostanza si riassume nel dominio dell’erosione accelerata e dell’ sionismo del bosco a danno delle superfici agrarie abbandonate 1T**' certamente dalla concezione illuministica del medioevo, ma viene in ^7 che modo verificato « ne’ frammenti della critica e neUe rivoluzioni Î suolo » (p. 130), vale a dire nello studio della scarsa do™^; ^ Storica disponibile per i secoli anteriori al Mille e nell'esame delle vT nazioni storiche del suolo. a" Alla documentazione storica il Piccone può invece ricorrere lir— per.ricostnlire h difosi°“ M'olivo nel basso medio-. Le conclusioni a cui giunge si possono così riassumere: mentre ne Genovesato i documenti sarebbero poveri di indizi sull'olivicoC nel Savonese, Statuti e notai medievali indicherebbero una notevole dif’ fusione dell’ulivo m. Nel Basso Ponente, cioè a ponente di C^ M* ivo, sempre secondo il Piccone, avrebbe acquistato importanza eco’ nomica solo verso la fine del medioevo e avrebbe avuto come e„° propulsore la valle di Diano. Meno preciso può essere il Piccone sulla Riviera di Levante: se accerta che 1 ulivo vi era già presente nell’VIII secolo, gli mancano però abrve pet,,t,“n,t;scef *1 Medio Evo una diffusione compa- de a quella della Liguria occidentale, anche se in definitiva non si sente di negarla per taluni distretti agricoliI35. È invece in grado di affermare con tutta sicurezza che la specializzazione olivicola del Basso Ponente e più in generale l’impronta che l’ulivo ha dato all’intera cornice co mare della Liguria marittima sono fenomeni tardi, del XVIII secolo come vedremo fra poco. n 1Ì3 11 Pl^C°"eofa in partico,are riferimento all’archivio notarile di Genova e a quello comunale di Savona, per il quale potè valersi della collaborazione di T. Belloro. savonesi Sl deve senza dubbio alle ricerche più sistematiche compiute nell’archivio oe2i si “• ? Î qUeSt° 8enere Che n°n corrisP°nde alla realtà quale noi Pkcone m "ra ° QI COg^ere con ben maggior facilità rispetto al tempo del aoricolT nM11?'1163 S°Pjrattutt0> a«raverso la descrizione del Giustiniani, l’importanza Sù amico ï ?CStrÌ LeVantC’ d0VC eSSere verosimile ** «i «"vi «il nastero di R * ncordato nella donazione di Carlo Magno al mo- nastero di Bobbio (cfr. pp. 133; 143.). — 260 — Nello stesso clima politico e culturale, ma con spirito e risultati diversi, si muove un’altra interessante figura di agronomo ligure: A. Bianchi, autore con lo pseudonimo di Un coltivatore di Diano, delle Osservazioni sul clima, sul territorio, sulle acque della Liguria Marittima. Un’opera che per quanto sia oggi per molti aspetti superata (come abbiamo già accennato) non era priva di interessanti spunti storici, che vennero più volte ripresi e finanche plagiati136. Il Bianchi, già funzionario dell’amministrazione forestale del Dipartimento di Montenotte, parte da premesse alquanto lontane dal Piccone: mentre per questi l’agricoltura ha sempre costituito e deve costituire la attività basilare e principale della popolazione ligure, perché « qualunque opulenza la quale non deriva dalla terra è del tutto artificiale »137, per il « Coltivatore di Diano » l’agricoltura è vista come un’attività minore, subordinata all’industria del mare, alla navigazione soprattutto, essendo « la nautica la più necessaria e la più vantaggiosa fra le professioni in Liguria » (p. 104). Secondo il Bianchi, la diffusione dell’ulivo che deve forse la sua introduzione ai Crociati, sarebbe soprattutto da mettere in rapporto con la crisi del commercio marittimo genovese, conseguenza della perdita delle colonie nel Levante prima e della scoperta del Nuovo Mondo poi. I Liguri, costretti a ritirarsi dalla « professione nautica » si trovarono nella necessità di cercare i mezzi di sussistenza soprattutto nell’agricoltura. Per far posto quindi alle coltivazioni degli agrumi, ulivi, viti, castagni « si produsse il disboscamento e lo scasso di tutte le colline » (pp. 155-156). All’ipotesi del ruolo delle Crociate nella diffusione dell’ulivo in Liguria si richiamò esplicitamente, ma in modo del tutto autonomo e originale, un’altro agronomo e botanico savonese: G. Gallesio, anch’egli formatosi in età napoleonica. Nella sua monumentale e validissima opera dedicata alle principali piante da frutto, intitolata Pomona Italiana, traccia un sintetico ma preciso e stimolante ritratto della varietà di ulivo detta in Liguria taggiasca o lavagnina e da lui denominata Ulivo gentile, secondo l’uso toscano. Da questa trattazione ritengo utile estrarre la precisa ricostruzione topografica delle varietà diffuse in Liguria, in quanto, i 136 A. Bianchi, Osservazioni cit. Le citazioni di pagine nel testo si riferiscono a quest’opera e al primo volume. 137 G. M. Piccone, Saggi cit., I, p. LXXI. - 261 - come vedremo, se ne potranno trarre interessanti spunti anche dal punto di vista dell’origine della olivicoltura ligure: « Il territorio di Nizza è il paese delI’Ulivo Gentile. Ivi egli si trova quasi esclusivo, e vi prende delle dimensioni gigantesche. Il nome di nostrale che gli è dato dai Nizzardi è una prova che vi è naturalizzato da lunghissimo tempo e che non vi è stato introdotto secondariamente da paesi circonvicini. Io vi ho vedute delle piante magnifiche, specialmente nel territorio di Villafranca, dove riceve il nome di Oliole e dove pare che sia antichissimo. Molte varieta si mischiano a questa nel territorio di Monaco e in quello di Mentone, ma ritorna a diventar esclusiva in quello di Ventimiglia: colà l’U.G. comincia a prendere il nome di Tagliasca o Taggiasca, nome che conserva in tutta la costa occidentale della Liguria e che pare debba ripetersi dalla città di Taggia, presso la quale se ne vedono piante antichissime, e dove può esserne cominciata la coltivazione per i Genovesi. Il dominio delle Taggiasche continua quasi senza rivali sino alla valle di Andora, e rende celebri gli oli di Ventimiglia, Taggia, San Remo, Porto-Maurizio, Oneglia e Diano. Su Andora la Tagliasca comincia a trovarsi mischiata colle Colombare, le quali continuano quasi sole sino a Noli, ma da qualche tempo le va scacciando e prende il loro posto, giacché, a malgrado delle prevenzioni locali, è stato riconosciuto che la Colombaia, quantunque produca un’oliva un poco più oleosa, è però meno feconda specialmente lontana dal mare, e il suo olio è meno fino. Il paese che resta fra Noli e Rapallo non è dei più oleiferi e presenta un misto di varietà diverse fra le quali primeggiano le Pignole (Morajole) e le Mortine, ma appena si passa il capo di Portofino l’U.G. riprende il suo predominio e diventa quasi esclusivo nelle belle colline di Chiavari e in quelle di Lavagna, paese che gli dà il suo nome. La Lavagnina è un’oliva che si tiene per privilegiata anche nella Liguria orientale e se l’olio che produce in quel litorale non gode la riputazione di quelli di Nizza e di Diano ciò si deve attribuire al modo difettoso di estrarlo piuttosto che al terreno o alla varietà. La Lunigiana è ricca di questi ulivi, ma non vi si riconoscono più coi nomi di Tagliasche o di Lavagnine. Essi vi ricevono il nome di Razzole, nome che conservano nel Carrarese e nel Massese, ove si trovano mischiate a diverse altre varieta... diventano più rare nel Pietra-Santino ove regnano le Morajole, ma riprendono la loro primazia nell’entrar nel Lucchese ove si coltivano sole e dove danno quell’olio prezioso che gira in tutta la Germania e vi gode la riputazione di primo olio del mondo. Così esse non vi ricevono alcun nome particolare, e si chiamano Olive Lucchesi, come in Nizza si dicono Olive Nostrali e a Grasse Oliviers ». Dalla ricostruzione della diffusione di questa varietà nel Mediterraneo occidentale, dalla quale risulta che essa « è rinchiusa fra la Provenza e il Lago Perugino », emergono interessanti ipotesi sulla sua origine: « in alcune regioni la sua coltura è recente, in altre è antichissima, in nessuna è indigeno, mentre se fosse indigeno la sua coltura avrebbe un centro e pare — 262 — invece che ne abbia due. Quale è dunque il suo paese originario e quando è venuto fra noi? Ecco due quistioni che presentano un qualche interesse e molte difficoltà: io mi riservo ad esporre le mie idee su questo punto in un altro lavoro. Per ora osservo soltanto che vi sono due punti nei quali la sua cultura si mostra antichissima e quasi esclusiva. Sono questi il Pisano e il Nizzardo »138. Dopo aver riconosciuto che in questi distretti non vi sarebbero indizi della coltivazione dell’olivo in età romana, conclude affermando che, dato che non si può supporre che sia derivato dall’Italia centro-meridionale dove la varietà non esiste, né dalla Grecia o dalla Africa dove « i marinai che ho consultato dicono che non si trova », le circostanze fanno congetturare che sia venuto dalla Palestina. Qualunque sia oggi il valore di queste conclusioni, c’è da rammaricarsi che il Gallesio non abbia potuto tener fede all’impegno di ricostruire la storia dell’ulivo e della maggiore varietà ligure, in quanto, essendo, come riconoscono anche i moderni botanici, un naturalista dotato di grande erudizione storica, siamo sicuri che avrebbe raggiunto risultati di notevole interesse m. In effetti sia il Gallesio sia il Piccone posero le premesse per uno studio scientificamente documentato della diffusione dell’ulivo in Liguria, considerando ambedue l’opportunità di precise indagini d’archivio. Purtroppo, come vedremo meglio più avanti, il loro invito non venne raccolto e negli anni seguenti gli studiosi, non solo continuarono a rifarsi alla tradizione popolare dell’origine benedettina, ma, in definitiva, guardarono alla Liguria più attraverso le lenti deformanti (per così dire) di A. Bianchi che con l’ottica adottata dal Piccone, dal Gallesio o ancor prima dal naturalista genovese D. Viviani I4°. 138 G. Gallesio, Pomona italiana ossia trattato degli alberi fruttiferi, Pisa 1817. 139 Sull’opera di G. Gallesio cfr. B. Braschi, G. Gallesio genetista e pomologo, in «Annali di Botanica», XIX, 1931, pp. 76-98. 140 Non ebbe molta fortuna neppure il programma di ricerca che D. Viviani aveva annotato nei suoi appunti corografici sulla Liguria orientale e che solo in parte venne da lui stesso realizzato. Tale programma prevedeva, fra l’altro, questi punti: « vedere quali piante sono passate presso di noi dai Romani — Trasmigrazioni di popoli — I Mori devon molto aver introdotto di piante africane nella Spagna -Commercio de’ Genovesi atto a queste introduzioni - Giardino di Fieschi - Lauro ceraso del Principe Doria primo in Europa - Stabilimento a CafEa - Le piante di quei paesi sono passate presso di noi - Se la Liguria ha introdotto piante in altri luoghi - — 263 — Se è vero che le fonti d’archivio consentono di fare la storia dell’olivo solo a partire dal basso medioevo, è altrettanto vero che oggi il problema dell’origine si può porre su nuove basi. Oggi infatti lo sviluppo di nuove tecniche di indagine nel campo delle scienze storiche non solo consente allo studioso di completare le lacune della documentazione d’archivio, già lamentate dal Piccone per il periodo dal sesto al dodicesimo secolo, ma anche di integrare e verificare gli elementi spesso parziali e talvolta anche erronei che si possono ricavare dalle fonti letterarie. In particolare lo scavo archeologico e le molteplici tecniche di indagine di tipo naturalistico che si possono impiegare a latere di uno scavo stratigrafico di ville rustiche romane o di villaggi medioevali che consistono su terre già colonizzate in età romana, potrebbero fornire reperti e dati precisi sulla coltivazione dell’olivo nell’antichità. Si pensi a reperti come macine da olio, frammenti di legno d’olivo ecc. Si pensi ancora ad analisi polliniche databili con l’ausilio di reperti archeologici o con altri sistemi di datazione assoluta 141. Solo da queste nuove fonti possono derivare elementi di giudizio in grado di capovolgere o almeno modificare le conclusioni che si è soliti trarre dalle fonti letterarie e geografiche antiche, che, per quanto riguarda la Liguria, raramente sono frutto di una conoscenza diretta del territorio e che, oltre ad essere talvolta contradditorie, sono nel complesso troppo generiche e insufficienti. Molto possono ancora dare in Liguria le fotografie aeree: tracce di insediamenti, indizi di scomparse coperture forestali e soprattutto elementi di sistemazioni agrarie e parcellazioni antiche si possono leggere sotto 1 orditura di più recenti paesaggi agrari. Nel corso di un’indagine sugli insediamenti abbandonati in età medievale e moderna, svolta soprattutto nella Piana di Albenga, è stato fatto un tentativo di utilizzazione della fotografia aerea. Non ha dato finora grossi risultati dal pun- Crociate... » (Cfr. G. Andriani, La Liguria orientale nella descrizione inedita di Domenico Viviani (1806), in «Atti Società Ligure di Scienze e Lettere», n.s., I, 1922, PP. 61-62). 141 In generale si veda T. Mannoni, Sui metodi dello scavo archeologico nella Liguria montana. Applicazioni di geopedologia e geomorfologia, in « Bollettino Ligustico », XXI, 1970, pp. 49-64. Come saggio di applicazione delle analisi polliniche alla storia agraria, si veda E. Le Roy Ladurie - J. P. Barry, Histoire agricole et phyto gèo graphie, in « Annales E.S.C. », XVII, 1962, pp. 434447. — 264 — to di vista della storia dell’insediamento, ma in compenso ha rivelato l’esistenza di un’antica parcellazione di forma regolare presso Peagna, ai margini nord-orientali della piana, dove la toponomastica e la morfologia avevano indicato la probabile esistenza di un fundus romano (Paerno). Da una prima misurazione del reticolato visibile nella foto aerea si è arrivati alla conclusione, da verificare con più precise misurazioni sul terreno, che si può trattare di un frammento di agro centuriato, dato che la distanza fra le linee rette che delimitano le parcelle sono di 35 m., distanza che corrisponde AVactus romano (120 piedi), cioè alla base metrica agraria usata nella centuriazione 142. Questo risultato, che probabilmente non rimarrà isolato in quanto l’indagine non è stata ancora estesa a tutto l’agro albenganese, mi sembra importante, non solo perché in generale dimostra che la morfologia della Liguria, così lontana dagli esempi classici della centuriazione, non è stata un ostacolo alla colonizzazione romana, ma soprattutto perché offre indizi di un’intensa romanizzazione anche sotto l’aspetto agrario e quindi concorre a verificare l’ipotesi di una diffusione delle colture arboree e arbustive tipiche del paesaggio della villa romana. Sempre ai margini della piana di Albenga, anzi in una zona già nettamente collinare, presso Arnasco, in località Arvelio — sede di un abitato medievale abbandonato — durante un sopralluogo per studiare la possibile ubicazione dell’insediamento medievale che non ha lasciato evidenti tracce, sono stati rinvenuti incorporati nelle « fasce » frammenti di tegoloni e di ceramica di età romana da riferirsi a una ancora non ben determinata sede rurale, che, comunque sia, prova la penetrazione della colonizzazione agraria in età romana anche lungo le minori vallecole del retroterra albenganese, dove più che l’angusto fondovalle sono i versanti che si prestano all’agricoltura e in particolare alle colture arboree e arbustive. Questi indizi — ai quali molti altri potrebbero aggiungersi anche attraverso uno studio specifico (che non era nelle nostre intenzioni) delle relazioni di scavo e dei reperti di ville rustiche romane che gli archeologi hanno portato alla luce soprattutto nel Ponente — rendono plausi- 142 Si veda la tav. II, ricavata dalla fotografia aerea dell’area di Capriolo. Ringrazio il Prof. G. Schiemdt per le preziose indicazioni che mi ha dato a questo proposito. — 265 - 5 bile 1 ipotesi già ammessa dal Piccone e più tardi avanzata anche dal Formentini circa uno sviluppo delle colture arboree e in particolare del- 1 ulivo nell’età imperiale soprattutto per effetto della diffusione dell’azienda agraria romana di tipo « capitalistico » N3. D’altra parte una tendenza ad anticipare la diffusione dell’olivo in Liguria rispetto alle tradizionali teorie della introduzione da parte dei benedettini o dei crociati, era già viva nei primi decenni dell’Ottocento e venne ripresa anche da G. B. Spo-torno con queste parole: « e credono molti che i Focesi arricchissero di così util pianta la Gallia meridionale, allorché vennero dall’Oriente a fondarvi Marsiglia. Se questa opinione non s ha da sprezzare in tal caso di leggeri s’intende che recaron gli ulivi a Nizza, colonia de’ Marsigliesi greci; e da Nizza poterono agevolmente venire trapiantati in Ventimiglia, S. Remo, Portomaurizio, Diano ed Albenga »144. 143 P. Formentini, Conciliaboli, pievi e corti nella Liguria di Levante. Saggio sulle istituzioni liguri nell’antichità e nell’alto-medioevo, in « Memorie Accademia Lunigianese Scienze G. Capellini », VI e VII, 1925-1926, p. 63 (dell’estratto): « appartiene alla colonizzazione romana la trasformazione agricola di molta parte del suolo, 1 introduzione della coltura dell’ulivo e in gran parte anche della vite »; ancora a p. 69: « nel concentramento latifondistico della proprietà, sul declino dell’impero, si sarà per certo avverata l’accumulazione in una mano di grande maggioranza delle quote di partecipazione al compascolo... Forse, in gran parte, sull’antico compascuo s estese in Liguria la cultura dell’ulivo, sconosciuta al tempo di Strabone ». Diversa 1 opinione di G. Lamboglia che ritiene che già in età pre-romana si siano diffuse « le coltivazioni fondamentali della Liguria storica, l’olivo e la vite, sebbene Strabone ci dica che all età sua nè l’uno nè l’altro bastavano ai bisogni locali e venivano importati sul mercato di Genova in cambio di legname, pelli e miele » (N. Lamboglia, Liguria antica, Milano 1941, p. 153). 144 G. B. Spotorno, Lettere sopra la Liguria. I, La coltivazione degli ulivi, in « Nuovo Giornale Ligustico di Lettere Scienze e Arti », s. II, I, 1837, p. 43. L’articolo dello Spotorno è in particolare diretto contro la tesi della diffusione da parte dei Crociati. Propendeva per l’introduzione greca anche un naturalista nizzardo: A. Risso, Histoire naturelle des principales productions de l’Europe meridionale... Paris 1826, II. P- 4. Circa la diffusione dell’ulivo sul litorale provenzale in età preromana si veda F. Benoit, Recherches sur l’hellenisation du Midi de la Gaule, Aix-en-Provence, Gap 1965, p. 12; molto interessante anche lo studio di J. Nicod, Grandeur et décadence de l’oléiculture provençale, in « Revue de Géographie Alpnie », XLIV, 1956, p. 249 e sgg. Più in generale, interessante anche per l’approccio archeologico al tema, si veda G. Vallet, L’introduction de l’olivier en Italie centrale d'après les données de la céramique, in Hommages à Albert Grenier, Bruxelles 1962, III, p. 1554 e sgg. — 266 — Se è vero che la complessità del problema dell’origine, dell’introduzione della coltivazione dell’ulivo in Liguria, connessa con la scarsità e imprecisione delle fonti letterarie, richiede di lavorare con la più vasta gamma di tecniche di indagine e quindi con tempi lunghi, è anche vero che l’opportunità di un approccio interdisciplinare non può costituire un alibi per rimandare lo studio delle fasi di diffusione e sviluppo dell’olivicoltura, per il quale non mancano elementi di giudizio né nella letteratura né nella documentaz.'one. Da questo punto di vista è opportuno tenere distinto il problema dell’introduzione dell’ulivo — problema complicato anche dal fatto che non mi risulta sia stato finora stabilito con certezza se l’ulivo selvatico facesse o non facesse parte della flora originaria della Liguria 143 — dal problema della diffusione e sviluppo della cultura dell’ulivo: problema che, in una prospettiva geo-storica, ha più rilievo del primo in quanto mira soprattutto a individuare la fase di « decollo » deH’olivicoltura ligure e con ciò a spiegare concretamente la formazione del paesaggio olivicolo, ancora oggi caratteristico di molte aree del territorio ligure. Già il Montesquieu, in una famosa lettera da Genova del 1782, osservava: « dacché i genovesi hanno perduto un pò dei loro capitali a Vienna, Venezia, in Spagna e in Francia, hanno preso a spendere il loro denaro nel disboscare le montagne per piantarvi degli ulivi e da ventanni a questa parte tali colture sono molto aumentate... » 146. Il Piccone, con maggior cognizione dei tempi e dei fattori storici, datava la massiccia diffusione dell’ulivo al periodo successivo alla pace di Acquisgrana: « il gran, cangiamento di scena è avvenuto nel secolo di recente spirato. Tre lustri di riposo, che successero alla pace di Acquisgrana, avendo rese familiari al nord dell’Europa le produzioni del mezzogiorno, innalzarono fra di noi il prezzo del- 145 G. B. Spotorno, Lettere cit., riferisce l’opinione del botanico ligure Bertoloni, secondo la quale l’ulivo sarebbe una pianta indigena. Anche in Francia nell’Ottocento si propendeva per l’anteriorità dell’oleastro, ma più di recente tale ipotesi venne abbandonata (cfr. A. G. Haudricourt - L. Hédin, L’homme et les plantes cultivées, Paris, 1943, p. 108 e sgg.). 146 La lettera, riportata in C. Bo, Echi di Genova negli scrìtti di autori stranieri, Torino 1966; così prosegue: « l’olio della riviera di ponente è migliore di quello della riviera di levante. L’olio è davvero il prodotto dei genovesi. La Francia ne compera molto, visto che la Provenza non basta alle necessita del Regno » (p. 13). l'olio, solito ad aggirarsi pria di questa epoca dalle lire 30 alle 50 il barile, lo innalzarono dissi ad una progressione del doppio più forte, cioè dalle lire 60 fino alle 100. Le scarse raccolte degli anni passati e la chiusura del Levante alla navigazione 10 hanno fatto poscia balzare dalle 150 alle 200 e più. E’ nondimeno sicuro che il prodotto olioso della Liguria si è nel corso d’un secolo per lo men duplicato, non solo in ragione delle piantagioni novelle, che subentrarono alle boscaglie e alle viti, ma ancora in grazia della profusion de suoi concimi, colla quale il Basso Ponente si è argomentato di moltiplicare la fertilità de suoi Uliveti. Non più si valutan le annate complete sovra i diciotto o venti mila barili del territorio Dianese che faceano le meraviglie di Giustiniani: ma bensì sulla base de’ duecento mila, di cui sono capaci le sole valli di Porto Maurizio e di Oneglia. Non si tratta più di stabilimenti isolati ovvero interrotti: l’ulivo ha penetrato in tutta 1 estensione del litorale: si è inoltrato e si inoltra pur tuttavia verso gli Appennini: le piante cerali, le selvagge e le vinifere gli vanno di mano in mano cedendo il loro soggiorno: infine esso avrebbe già invaso senza riserva tutta la parte montuosa della Liguria; se il clima co’ suoi rigori non gli opponesse di tratto in tratto una barriera di bronzo » '47. Questo è quanto ci consente di dire la letteratura tecnica e storica sull origine e diffusione dell’olivicoltura ligure. L’indagine condotta nel 3° paragrafo sulle fonti medievali edite ha in sostanza detto che 1 ulivo non ha nei paesaggi agrari della Liguria medievale maggior rilievo non solo della vite ma neppure di altre piante da frutto, come per esempio 11 castagno e il fico. Vediamo ora se e come è possibile ricostruire le fasi di sviluppo dell’olivicoltura nei secoli dell’età moderna. Sulla base di una fonte omogenea ed estesa a buona parte del territorio ligure — la « caratata » del 1531 — possiamo riconoscere, che ancora nei primi decenni del Cinquecento, la produzione di vino eccedeva 1 autoconsumo in un numero di comunità largamente superiore rispetto alle comunità che registravano un’eccedenza di olio 148. Lasciando parlare la carta, ricavata da questa fonte, circa di opportuni confronti fra le più importanti produzioni agrarie nelle diverse terre della regione ligure, mi limito a citare i maggiori centri olivicoli. È però necessario premettere che sia la carta sia l’elenco dei mag- 147 G. M. Piccone, Saggi cit., I, pp. 145-146. 148 G. Gorkini, La popolazione dello Stato ligure nel 1531 sotto l’aspetto statistico e sociale, in Atti Congresso Internazionale per lo Studio della Popolazione, Roma, 1932, I, pp. 521-575. Su questa fonte cfr. J. Heers, Les limites des méthodes statistiques pour les recherches de démographie médiévales, in « Annales de Démographie historique », 1968, pp. 43 e sgg. — 268 — giori centri produttori di olio sono desunti da un estimo (« caratata ») della popolazione esteso soltanto a tutte le terre direttamente soggette al Dominio genovese. Mancano quindi nell’estimo, a causa della loro particolare condizione di loca immurila o di loca conventionata o infine di feudi: Diano, Noli, Levanto, Portovenere e numerosi centri della Val di Vara; Ventimiglia, Sanremo, Albenga, Savona, Sestri Levante, Lavagna, Finale, Loano, Oneglia, Lingueglietta, Dolceacqua e altri minori centri. Per alcuni di questi territori si può tuttavia ricorrere alla coeva descrizione della Liguria di A. Giustiniani149. In base dunque alla « caratata » del 1531 producono olio con qualche eccedenza rispetto al consumo locale i seguenti territori: Ceriana (« qualche poco de avantagio »), Porto Maurizio (« secondo che occorrono le annate»), Cervo («qualche pochi da vendere»), Toirano (uneccedenza di 700/800 barili l’anno), Pietra («in una bona annata barrili 1500 » come produzione totale), Giustenice (in una buona annata 200 barili da vendere) 15°. Oltre ad alcuni di questi territori, il Giustiniani, nella Riviera di Ponente, segnala la produzione agraria delle valli di Oneglia e del Maro ( abbondanti la prima « d’olio e di altri frutti » e la seconda « di vino, d’olio e di frutti »), della Valle di Diano (produzione abbondantissima di olio: da 18 a 20 mila barili nelle buone annate, ma la valle abbonda anche « di vino, fichi e d’ogni altro frutto ») e la valle d’Arroscia (produzione di olio, vino, grano e altri frutti)151. Nella Riviera di Levante secondo la « caratata »: Arcola (« qualche cosa d’avantaglio »), Vezzano (« vino et olio per loro uso e per venderne »), Castiglione (« da venderne qualche pochi »), Chiavari (« olio per loro uso e da venderne da barili mille in circa »), Rapallo (« oleo per loro uso et in una conveniente annata da venderne de barili 3 mila in circa »), Recco (« olio per loro e da venderne »), Sori (« da venderne 149 A. Giustiniani cit. Sulle caratteristiche di questa fonte cfr. M. Quaini, La « Descrittone della Lyguria » di A. Giustiniani. Contributo allo studio della tradizione corografica ligure, in Miscellanea di geografia in on. di P. Revelli, Genova 1971, pp. 143 e sgg. 150 G. Gorrini cit., pp. 543, 546, 547, 549, 550. Nel caso di Toirano la caratata fa cenno anche agli « edifici de oleo » che si dicono « ruinati dalla rivera [fiume], e li hanno dati a resar per anni XII senza profetto » (p. 548). 151 A. Giustiniani cit., cc. IV, V, VI. — 269 — barili 100 in circa »)152. Con il Giustiniani possiamo ancora ricordare Sestri Levante, da cui i mulattieri di Castiglione fanno una notevole espor-tazone di olio in « Lombardia », e Levanto segnalato per la solita abbondanza di « vino, olio e altri frutti » 153. Data l’assenza di informazioni per alcuni importanti distretti agrari non è facile trarre precise deduzioni dai dati piuttosto approssimativi e non del tutto omogenei della caratata e del Giustiniani. Emergono tuttavia due aree nettamente olivicole: la Valle di Diano e la Podesteria di Rapallo; seguono altre terre come Chiavari, Toirano e forse Pietra, dove la produzione si può definire notevole, date le dimensioni del territorio o la consistenza del mercato interno. Un secolo dopo, confrontando 1 ammontare della tassa dell’olio che le comunità pagavano a Genova, troviamo in testa Oneglia (L 3904), seguita da Diano (L 2899), Porto Maurizio (L 2560), Chiavari (L 1287) e Rapallo (L 1103). Più significative le variazioni dal 1594 al 1663 della stessa tassa calcolate, per subregioni e in percentuale, da E. GrendiI54. Mentre il Basso Ponente, da Diano a Porto (esclusa Oneglia), passa dal 30,2 °/o al 46,7 °/o, il Levante (da Recco a Lavagna) passa dal 30,2% al 21,6%. Una notevole diminuzione registra anche lo spezzino (da Sestri a Sarzana): dal 17,4% al 6,7%, mentre un lieve incremento si ha per la fascia litoranea da Pietra a Cervo: dal 19,2% al 21,5%. Il Ponente (esattamente da Pietra a Porto Maurizio) fornisce, nel 1663, il 68,3 % della tassa del- 1 olio ripartita sull’intero territorio della Repubblica di Genova: risulta dunque già ben avviata quella specializzazione olivicola che alla fine del Settecento darà produzioni elevatissime, mentre, per cause che finora ci sfuggono, in decadenza appare l’olivicoltura nelle aree della Liguria orientale dove l’olivo poteva forse vantare la più antica tradizione o comunque la più consistente eredità medioevale (come abbiamo già visto). Se confrontiamo i dati dei primi decenni del Cinquecento — senza dubbio parziali e approssimativi ma preziosi per il periodo al quale risalgono — con le cifre più precise che all’inizio dell’Ottocento ci fornisce per il Dipartimento di Montenotte una statistica dell’età napoleonica circa la capacità produttiva degli oliveti — criterio corrispondente a quello delle «buone annate» usato dalla «caratata» del 1531 — possiamo 152 G. Gorrini cit., pp. 559, 560, 569, 570, 571, 572, 573. 153 A. Giustiniani cit., c. XIX r. 154 E. Grendi, Introduzione cit., pp. 29-30. avere un’idea dello straordinario incremento produttivo, nel corso di meno di tre secoli, limitatamente alla fascia costiera fra Taggia e Arenzano comprendente, da tempo, i maggiori centri produttori. La maggior produzione si riscontra nella fascia fra Riva di Taggia e Laigueglia, cioè a ponente di Capo Mele, dove l’olio rappresenta la « coltura esclusiva » (in totale 375.000 barili). A meno di un quarto di tale ammontare si riduce invece la produzione della fascia fra Alassio e Arenzano, dove l’olio è presente come « coltura parziale » (in tutto 94.000 barili). Secondo una graduatoria, per circoscrizioni amministrative del tempo (cantoni), troviamo in testa Porto Maurizio, che con il suo territorio disteso fra Dolcedo e Lingueglietta può produrre 180.000 barili; seguono Oneglia e la sua valle con 120.000, Diano con 40.000, Cervo, Andora e Laigueglia con 25.000 ciascuno, Finale con 24.000, Albenga con 20.000, Toirano con 12.000, Riva di Taggia, Alassio, Loa-no e Pietra con 10.000 ciascuno e infine l’intera fascia fra Noli e Arenzano con in tutto 8.000 barili155. Questi dati sono tuttavia ingannevoli in quanto si riferiscono alla annata piena, che in media viene ogni dieci anni; pertanto più vicino alla realtà è il calcolo della produzione media annua, stimata dallo Chabrol intorno ai 135.000 barili. È una produzione considerevole infatti, negli stessi anni, il Dipartimento degli Appennini non superava i 44.320 barili ogni due anni: cioè una produzione media annua di soli 22.000 barili 156. 155 A.S.S., Dipartimento Montenotte, n. 374. 156 G. Chabrol cit. II, p. 159; A.N.P., F 10, 431-432, Etat de situation de la culture des oliviers dans le Département des Apennins (1811). In una risposta alla stessa inchiesta il sottoprefetto del circondario di Sarzana valutava a 20.300 barili la produzione di « un anno comune ». Come si può notare i dati non sono molto concordanti e ciò è anche dovuto ai diversi criteri di valutazione dell annata comune o media. I calcoli dello Chabrol danno l’impressione di essere più precisi e anche per questo non sono del tutto comparabili con quelli degli altri Dipartimenti. Inferiore alla realtà doveva essere la valutazione del sotto-prefetto di Porto Maurizio nel 1807 per questo circondario: 71.000 barili, in quanto doveva basarsi sulle dichiarazioni dei comuni. Interessante invece la statistica del numero dei mulini da olio sempre nello stesso circondario: 263 a acqua e 1937 a forza animale. La manifattura dell’olio era dunque molto dispersa nelle campagne e ogni proprietario medio sembra avere il suo frantoio « a sangue » (A.S.S., Dipartimento di Montenotte, 63). — 271 - Se da quanto abbiamo finora raccolto emergono alcuni lineamenti dell’evoluzione dell’olivicoltura in Liguria, che confermano che le fasi più importanti della diffusione dell’ulivo sono racchiuse fra la metà del Cinquecento e l’inizio dell’Ottocento, non altrettanto agevole risulta, allo stato attuale delle ricerche, dare una spiegazione a questa evoluzione, individuarne le cause. Più che suggerire o proporre soluzioni siamo ancora nella condizione di dare soltanto un inventario dei problemi che si pongono. Innanzitutto il problema dei prezzi e dell’organizzazione del mercato dell olio. Lo storico dell’economia può spiegarci quando è diventato più vantaggioso produrre olio e meno produrre vino, dato che l’alternativa che si poneva al coltivatore ligure era soprattutto tra queste due produzioni. Per spiegare perchè e quando sono mutate le ragioni di scambio fra questi due fondamentali prodotti del suolo ligure sarà necessario studiare come era organizzato il mercato dell’olio e il ruolo considerevole che vi aveva Genova sia per assicurare il proprio approvvigionamento sia nella distribu-bione del prodotto fuori della Liguria 157. La storia del commercio dell’olio è ancora in gran parte da fare, anche se non mancano sparsi elementi che se opportunamente raccolti potrebbero consentire, anche per l’età medievale, un’utile sintesi preparatoria 158. Indagini in corso sull’andamento dei prezzi dell’olio nell’età moderna suggeriscono un movimento ascendente fra il 1530 e il 1609 (con un boom nel decennio 1570-79), una stagnazione o movimenti positivi di scarsa Sui sistemi di valutazione della produzione dell’olio nelle diverse comunità (« caratate degli ulivi » e « stima delle brocche ») per la ripartizione della tassa dellolio, qualche cenno in A. R. Scarsella, Annali di S. Margherita dai suoi primordi sino all anno 1914, Rapallo 1914, cfr. soprattutto sub ann. 1603, 1653, 1680, 1697, 1715, 1724, 1735 ecc. Anche il commercio dell’olio è evidentemente in rapporto allo sviluppo dell olivicoltura ligure. Così non è un caso che nel medioevo si abbiano importazioni di olio dalla Provenza (cfr. per es. L. Stouff, Les relations d’Arles et de la Ligurie au début du XV siècle à travers quelques documents arlésiens, in Atti 1 Congrès Historique Provence-Ligurie, Bordighera 1966, p. 179 e sgg.). Ancora nel 1540 un Bernardino Cepolino di Albenga compra a Salon la bellezza di 59 tonn. i olio (cfr. P. Paillard, Vie économique et sociale à Salon-de-Provence de 1470 a 1550, m « Provence Historique », XX, 1970, pp. 201-202). Verso il XVIII secolo rapporti commerciali si rovesciano e Genova e le Riviere si avviano ad alimentare k saPonerie marsigliesi (cfr. J. Allemand, Les relations commerciales entre Marseille et Gênes de 1660 à 1789, in Atti I Congrès cit., p. 216). — 272 — ampiezza fin verso la fine del Seicento, quando si registra un sensibile aumento che dura fino al 1710-19. Segue una flessione intorno al 1730, ma poi il prezzo sale constantemente e registra una forte impennata dopo il 1763. Ancora più significativo l’andamento della ragione di scambio fra olio e vino: risulta favorevole all’olio nel decennio 1530-39 e soprattutto nell’ultimo trentennio del XVIII secolo. Dobbiamo arguire che le due maggiori spinte del mercato alla diffusione dell’ulivo vanno identificate in questi due periodi? Per il secondo non c’è dubbio e l’espansione sembra provata anche da altre testimonianze, per il periodo precedente credo siano necessari ulteriori ricerche e verifiche sul significato dei prezzi disponibili e sui limiti dell’azione del mercato sull’orientamento delle produzioni agrarie 159 . Una più ampia inchiesta sui prezzi (come anche su eventuali decime) potrà individuare anche a scala locale e con maggior precisione le fasi di sviluppo e i momenti di discontinuità e con ciò collegare l’andamento della produzione olearia anche ad altri fattori ed innanzitutto agli accidenti climatici, sui cui effetti generali ci siamo peraltro già soffermati. Le Roy Ladurie osserva a questo proposito che in Linguadoca, fra il 1492 e il 1564, i contadini moltiplicano le piantagioni di ulivi « mettant à profit tout à la fois la douceur des hivers et l’essor des marchés ». Circa quest’ultimo fattore mette in evidenza come sotto questa espansione si indovini la domanda ovunque crescente dei consumi locali e della cucina mediterranea, come anche il richiamo della manifattura della lana e del sapone160. Precisate in termini economici le fasi di espansione della cultura e della produzione olearia, diventa possibile e necessaria un’indagine in termini geografici, per conoscere attraverso quali forme di paesaggio agrario si sono realizzate le nuove piantagioni. Il contrasto fra la cultura specializzata del Basso Ponente e la cultura promiscua del resto della Liguria nasce in questi primi secoli dell’età moderna e prima di chiedersene il perchè si dovrebbe studiare, sui catasti, come l’ulivo ha progredito nelle aree più significative della regione fra il XVI e il XIX secolo 161. Occorre 159 E. Grendi, Introduzione cit., p. 128 e sgg. 160 E. Le Roy Ladurie, Les paysans cit., pp. 203-204. 161 L’unica difficoltà è data dalla abbondanza della documentazione: accanto alle caratate normali, che, dato il sistema di stima sul terreno degli appezzamenti, si prestano molto bene a studi sui paesaggi agrari, non si possono trascurare le « caratate degli ulivi », che tuttavia, per quanto finora risulta, ci sono pervenute in minor numero. — 273 - arrivare a datare il momento in cui nel Basso Ponente l’uliveto specializzato diventa predominante e se lo diventa soprattutto per il dissodamento e il terrazzamento dei suoli incolti e per l’apporto di nuove piantagioni, oppure attraverso l’ispessimento delle piante di ulivo nel tradizionale seminativo arborato con conseguente abbandono sia del seminativo sia di altre culture arboree. Si dovrebbero ancora ricostruire, oltre ai limiti entro i quali l’uliveto specializzato si introduce nella Liguria orientale, anche i tempi e i modi della marcia dell’ulivo verso Nord, che in Liguria significa soprattutto ascesa ad altezze considerevoli: all’inizio dell’Otto-cento lo Chabrol osservava che il villaggio di S. Antonio di Pornassio, a 656 m. sul livello del mare, è il punto più elevato raggiunto dall’ulivo nel Dipartimento di Montenotte 162. Se conoscessimo gli anni della sua introduzione a queste altitudini, potremmo arrischiare anche noi un calcolo della velocità di marcia dell’ulivo: una penetrazione che dovette essere abbastanza rapida ma anche reversibile, contrastata dai più deboli rendimenti e dalle avversità climatiche 163. In attesa delle indagini sulle caratate dell’olio e sui catasti e dello spoglio della ricca documentazione onegliese presso i’Archivio di Stato di Torino, mi limito a fornire ancora qualche elemento per completare nelle sue linee generali la parabola dell’ulivo in Liguria, allo scopo soprattutto di datare e spiegare la crisi dell’olivicoltura. Fino a quando dura la congiuntura favorevole dell’ulivo? Quali le cause della sua decadenza? Un buon punto di partenza è offerto dalla documentazione dell età napoleonica e dagli studi dello Chabrol che, sia nella Statistique, sia in una memoria manoscritta ancora inedita, ha ampiamente analizzato le condizioni dell’olivicoltura ligure164. Ai primi dell’Ottocento l’ulivo aveva assunto un’estensione che non doveva essere lontana dal suo livello massimo: 162 A.N.P., F 14/10182: Carte du département de Montenotte redìgée par les soins du Monsieur le Prefet Comte Chabrol de Volvick. 163 Cfr. per esempio il caso degli oliveti del beneficio parrocchiale di Can-deasco nell’alta valle dell’impero che piantati nella seconda metà del Settecento per profittare dell’aumento del prezzo dell’olio, patirono danni nell’inverno del 1789 (Archivio Parrocchiale di Candeasco, Libro ove sono notati i beni, redditi e usi). 1M A.N.P., F 10/431432: Mémoire sur la culture et le produit des oliviers dans le Département de Montenotte (firmata Chabrol, aprile 1807). E’ quasi integralmente rifusa nella Statistique cit., II, p. 149 e sgg. Quando nel testo citiamo, fra parentesi, le pagine, ci riferiamo alla Statistique e al vol. II. — 274 — « Il n’existe plus aujourd’hui, depuis Alassio jusqu’à Taggia, limite du département, une seule colline qui ne soit garnie d’oliviers. Cet arbre réussit moins bien d’Alassio à Arenzano; cependant les plantations s’améliorent sensiblement chaque année. Le territoire de Finale n’a presque plus rien à souhaiter à cet égard, tandis que le vallon d’Albenga, les environs de Savone, offrent encore beaucoup de défrichements à faire; il est vrai que les vents du nord qui regnent dans ces deux cantons n’y laissent croître qu’une plante peu productive » (p. 150). A questo proposito, il sottoprefetto di Porto Maurizio notava nel 1811, non solo che « on voit des campagnes qui naguère étoient en friche ou couvertes d’arbres sauvages, entièrement peuplées d oliviers; et tous calculs faits, on peut avancer avec fondement que la plantation actuelle est deux fois plus considérable qu’elle ne l’était avant 1709 », ma addirittura che il territorio non era più suscettibile di nuove piantagioni. Né l’ulivo poteva guadagnare nuovo spazio dalla riduzione di altre culture dal momento che nei cantoni di Alassio, Borgo Maro, Diano, Oneglia, Porto Maurizio e Santo Stefano « si l’on excepte quelques parties de terrein destinées au jardinage; quelques coteaux plantés de vignes et quelques prés, le territoire de ces communes est entièrement couvert d’oliviers... la recolte des vins et des grains y est si peu de chose qu elle suffirait à peine pour pourvoir aux besoins des populations pendant la moitié d’un mois » I65. Di queste e altre condizioni geografiche e economiche tiene conto 10 Chabrol nelle sue osservazioni sulla redditività dell ulivo, interessanti per arrivare a comprendere le cause della ancora lontana crisi olivicola. 11 calcolo del rendimento di una piantagione di ulivi è fatto in due modi: prima stabilendo i costi della produzione media annua di un ettaro di oliveto specializzato in regime di conduzione diretta; poi riferendosi alla effettiva contabilità di un podere in affitto nel corso di dieci anni. Secondo il primo calcolo il coltivatore diretto avrebbe un reddito netto di 900 fr. secondo il prezzo eccezionalmente elevato dell’olio a barile (fr. 140) del 1807 o di circa la metà secondo il prezzo medio di 75 fr. Non è minore il reddito nel secondo caso: « une terre contenant 426 oliviers, et occupant un hectare et un cinquième d’hectare dans un terrain ordinaire, fut achetée 8.000 fr. d après les bases habituelles de l’estimation; cette terre produisit en dix ans 99 barils d huile. En déduisant un 165 A.N.P., F 10/431-432: risposta del sotto-prefetto di Porto Maurizio alla citata inchiesta sull’olivicoltura del 1811. — 275 - tiers pour le fermier, c’est-à-dire 33 barils, et en calculant le prix à 75 fr., le revenu de 66 barils restant est de 4.950 fr.; la dépense pour l’entretien des murs, pour l’engrais, et autres frais de culture qui n’étoient point à la charge du fermier, fut pendant ces dix années de 950 fr. Ainsi le bénéfice net de six ans fut de 4.000 fr. et le revenu annuel de 5 pour cent du prix de l’achat. Ce produit seroit beaucoup plus considérable si on le calculoit d’après la valeur que les circonstances lui ont donnée en 1807 » (p. 158). La conclusione è, in ogni caso, estremamente positiva: « il est certain que le produit des olives, quoique inconstant et peu sûr, fournit encore dans les anneés de grandes récoltes des capitaux considérables, que d habiles mains peuvent multiplier encore par le commerce... » (p. 161-1). Constateremo più avanti come nello stesso periodo il reddito delle altre produzioni agrarie e in particolare del vino fosse inferiore. Ma dobbiamo fin d’ora constatare che già nel periodo d’oro dell’olivicoltura ponentina non tardarono a levarsi voci preoccupate circa la possibilità dell estensione della monocultura dell’ulivo fuori dei limiti del Basso Ponente. Fra i primi a prendere posizione contro il sistema di coltivazione del Basso Ponente e a favore di quello prevalente nella Liguria orientale: Giambattista Solari, socio fondatore della Società Economica del territorio di Chiavari, che in un discorso presso la medesima Società così descriveva i termini della questione: « si ascoltano tuttogiorno encomj fatti ai Proprietarj degli uliveti che ricoprono tutta la superficie dell’occidentale Riviera della nostra Repubblica, perchè non permettono che il loro terreno venga aduggiato da altri frapposti alberi, nè da sementi di qual siasi specie, e perchè alimentano i loro ulivi con straccioni di lana a gran costo tirati da lontane Provincie, onde vantano ulivi di alta mole e copiosi raccolti; e del pari odonsi continue doglianze perchè nel nostro territorio gli ulivi si mirano collocati in massima vicinanza fra loro, e sono i loro piccioli vuoti occupati da molti altri alberi, e il sottoposto terreno viene ogni anno coperto da seminati e per 1 ordinario niun concime si porge loro, onde mostrar non possiamo che piccioli ulivi da quali si coglie un frutto alla lor piccolezza corrispondente » 166 G. Solari, Ragionamento del socio Giambattista Solari letto nella generale adunanza della Società Economica del Territorio di Chiavari tenutasi a’ 30 nov. 1791, Genova, 1792, p. 5. Qualche anno prima anonime istruzioni sulla coltivazione del-1 ulivo e estrazione dell’olio vennero pubblicate sugli «Avvisi « (maggio 1788). Il Solari era così convinto della superiorità della cultura promiscua da teorizzarla sotto — 276 — Si domandava infine quale dei due sistemi fosse preferibile e concludeva che precisi calcoli comparativi potrebbero dimostrare essere più vantaggioso il tradizionale metodo della cultura promiscua. Prima del Solari aveva invece mostrato ammirazione per il sistema della cultura specializzata Domenico Grimaldi, nota figura di illuminista, che raccomandò e diffuse in Calabria i metodi di estrazione dell’olio e i sistemi di coltivazione praticati nella Liguria di Ponente e nel contado di Aix-en-Provence, dove, come nella Liguria occidentale e a differenza della fascia costiera provenzale, prevaleva l’olivicoltura a selva 16?. Un altro agronomo ligure che intorno agli stessi anni si dedicò allo sviluppo dell’olivicoltura fuori della Liguria, B. Gandolfi, tenendo presente soprattutto le esigenze del contadino più che del grande proprietario, si dimostrò più favorevole ai vantaggi della cultura promiscua, che peraltro non gli risultava del tutto abbandonata neppure nel Basso Ponente 168, dove tuttavia l’olivicoltura si caratterizzava per originali tecniche di lavorazione del suolo determinate dal prevalere della cultura specializzata: « se il fondo è destinato unicamente all’olivo non si costuma nel principato di Oneglia ed in altri luoghi di arare la terra che una sola volta all’anno, ne’ mesi di marzo, aprile e maggio, laddove nella maggior parte degli altri paesi d’Italia si suole il concetto di coltivazione relativa in opposizione alla coltivazione assoluta (pp. 4-5). Ma era anche convinto che si dovessero introdurre molti perfezionamenti nei metodi di estrazione dell’olio se si voleva raggiungere la qualità dell’olio del Basso Ponente. Sui sistemi di lavorazione dell’olio molte informazioni nella già citata inchiesta dell’istituto Nazionale (1798-99). 167 D. Grimaldi, Istruzione sulla nuova manifattura dell’olio introdotta nella Calabria dal marchese Domenico Grimaldi di Messimeri patrizio genovese, Napoli 1773. Riconosciuto che nella Riviera di Ponente « la manifattura di questo liquore è la meglio praticata di tutta l’Italia », dà soprattutto una descrizione dettagliata e figurata dei frantoi a acqua, a sangue e dei lavatoi delle sanse all’uso genovese e dichiara di averli introdotti con successo nella sua proprietà di Seminara valendosi anche dell’immigrazione di alcuni olivicultori del Ponente (sul Grimaldi cfr. Illuministi italiani, V, Milano-Napoli 1962, pp. 409-505). 168 B. Gandolfi, Saggio teorico-pratico sopra gli ulivi, l’olio e i saponi, Roma 1793, p. 21: « non è l’ulivo sì nemico delle biade, e dell’altre piante come lo è la quercia, la noce ecc., che senza pregiudizio di quelle non possa produrre il prezioso suo frutto... Chi ne dubita scriva in molte città della Provenza, in Oneglia, al Porto Maurizio ecc. e s’informi se in tutti i paesi adjacenti si seminano alternativamente ogni anno grano, fave, ceci ecc., e si coltivano fichi, meli, viti, mandorli ecc. in que — 277 — arare più volte. Io posso assicurare per altro, che una sola aratura de primi equivale infatti a tre de’ secondi, perchè oltre ad essere assai profonda ha anche lo straordinario vantaggio che dietro al bifolco vanno due uomini armati di bidente per voltare sottosopra la terra smossa dal vomere... » 169. L’orientamento dominante è ben presto a favore della cultura promiscua anche fra gli studiosi ponentini: segno evidente che già all inizio dell’Ottocento si manifestano i primi sintomi della crisi dell’olivicoltura specializzata nel maggior distretto olivicolo della Liguria. Più che mai nostalgico dell’antica cultura promiscua si dimostra anche G. Piccone, il quale, dopo aver individuate, attraverso un serrato esame comparativo dello « stato attivo e passivo dell’economia olearia », le principali differenze fra il Basso Ponente e il restante « cratere linguistico » e dopo aver messo in evidenza i vantaggi e gli svantaggi della cultura specializzata, conclude dicendo che se la promiscuità delle culture provoca da un lato una concorrenza dannosa fra le piante, dall altro « la ruina non è si grande che non trovi il compenso in una serie di vantaggi ancor più ragguardevoli. Provvede fra gli altri una molteplicità d’occupazioni e di risorse. La distribuzione ragionata de’ lavori, e de terreni medesimi, da’ quali ritraesi raccolta di ulive ». In sostanza mentre nella Liguria orientale i seminativi sotto gli ulivi si fanno tutti gli anni, come per 1 appunto osserva il Solari, nel Ponente e in Provenza si alternano con l’anno di produzione degli olivi: è una sorta di maggese che viene così introdotto nelle terre olivate. Sarebbero quindi tre i sistemi di coltivazione dell’ulivo: in piena cultura promiscua, con seminativi ad anni alterni in funzione della produzione olivicola (talvolta si usa infatti la tecnica del sovescio per ingrassare gli ulivi) e a selva, cioè senza seminativi. 169 B. Gandolfi cit., p. 124. Anche il Gandolfi, che era originario di Torria (frazione di Chiusanico), ha un ruolo non indifferente nella diffusione delle tecniche messe a punto dagli olivicoltori liguri. Le introdusse e perfezionò nelle proprietà del principe Doria a Tivoli e ancora a Frascati nella proprietà dell’aw. Paolo Borsari. Nella sua opera dedica ampio spazio ai sistemi di estrazione dell’olio e alla descrizione dei molini (cfr. pp. 335-424, con 12 tavole). I frantoi del Gandolfi, stimato « professore di fisica nella Romana Sapienza », suscitarono l’interesse di L. Alvarez da Cunha e Figueiredo, in Su due nuovi molini a olio. Lettera diretta in Lisbona a S.E. D. Alessandro di Susa e Holstein, Roma 1795. Sui problemi dell’olivicoltura, fra il Gandolfi e G. Presta, autore di studi che concernevano soprattutto l’olivicoltura pugliese, si ebbe in quegli anni un interessante dibattito sul quale si veda G. Donno, Su una controversia olivicolo-olearia della fine del Settecento, in « Rivista di Storia dell’Agricoltura », X, 1970, pp. 153-177. — 278 — prodotti, che di rado falliscono o ridondan tutti ad un tempo, sbandisce dalle famiglie de’ coltivatori due funesti consiglieri, l’infingarda agiatezza e la desolante miseria. Vi fissa invece quell’aurea mediocrità, di cui si compiace la Religione e il Principato » I70. Un’eco delle argomentazioni del Piccone si coglie anche nelle parole che all’olivicoltura dedica il maggior storico di Oneglia, G. Pira, il quale, dopo aver riconosciuto che anticamente « solevansi... piantare gli ulivi all’intorno, o per spalliera de’ fondi vineati e seminativi, come in altri paesi si mettono i salci ed i pioppi », risponde negativamente alla domanda « se sia stato un reale vantaggio l’avere abbandonata la coltura dei cereali e delle viti per imboschire di ulivi il territorio per l’addietro così ben ripartito » e propone di ritornare all’equilibrio economico che anticamente derivava dall’essere « il territorio atterzato di vigne, seminativi ed oliveti » 171. Da questo momento non è esagerato dire che non si odono che lamenti sugli svantaggi della monocultura dell’ulivo nella Riviera di Ponente: da Nizza a Savona si ripete il detto popolare « chi non possiede che olivi è sempre povero » 172 e nel 1875 si arriva ad affermare autorevolmente che la proprietà olivata « rappresenta la parte più povera di tutta l’economia rurale, che immiserisce massari e padroni, lasciando a questi la poco invidiabile fortuna di essere distinti per un censo che non hanno » ,73. 170 G. M. Piccone, Saggi cit., I, p. 162 e sgg. 171 G. M. Pira cit., p. 64. Cfr. anche D. Capponi, L’ulivo in Riviera. Conferenze al Comizio Agrario di Savona nel dicembre 1877, Savona 1878. Anche il Capponi è un sostenitore della coltura mista dell’ulivo contro l’uliveto a selva introdotto — dice — per contrastare i geli del XVIII secolo e per le speculazioni connesse con gli aumenti del prezzo dell’olio dell’inizio del XIX secolo. 172 Riporta il detto popolare anche F. E. Fodere, Voyage aux Alpes Maritimes ou histoire naturelle, agraire, civile et medicale du Comté de Nice et pays limitrophes, Paris 1821, II, p. 93. Da questo A. si possono trarre molte informazioni sull’olivicoltura nell’estrema Liguria occidentale e nel Nizzardo. Fra i migliori oliveti annovera quelli di Perinaldo e quanto ai sistemi di coltivazione osserva che « on en laboure le sol tous les ans dans les mois de Fevrier, Mars et Avril, et on les élague au moins tous les deux ans en automme et en hiver » e che soprattutto da questa operazione dipende una buona raccolta. 173 G. Cappi, La coltivazione dell’olivo e l’estrazione dell’olio nelle province oleifere italiane, S. Remo 1875. — 279 — Ricordiamoci dell’analisi dello Chabrol: come si arriva a questo rovesciamento di prospettiva? Lo studio moderno di un agronomo albenganese — E. Della Valle — ci consente sia di verificare i calcoli dello Chabrol sia di seguire le successive variazioni del reddito di un ettaro a uliveto. Il Della Valle partendo dalla constatazione che « al principio del secolo XIX il prezzo dell’olio per chilo era pari a circa una volta e mezzo il costo della giornata » dell’uomo di campagna, dimostra che ogni pianta di ulivo, che produceva (se ben coltivata) 1 Kg. di olio, « rendeva il valore di una giornata e mezza contro una spesa di giornate 0,39, cioè lasciava un reddito netto di giornate 1,50 meno 0,39 = giornate 1,11. Siccome era costato giornate 20, il capitale impiegato rendeva circa il 5,50% ». Il costo annuale a pianta, pari a 0,39, risulta così composto: 0,20 manodopera, 0,09 fertilizzanti, 0,05 bestiame impiegato in diversi lavori agricoli e 0,05 per manutenzione dei muretti a secco, tasse ecc. Le spese annuali di coltura corrispondono dunque in questo periodo a circa 1/4 del prezzo di vendita del prodotto: lo stesso rapporto e un analogo reddito abbiamo riscontrato anche nello Chabrol, pur essendo i due calcoli largamente indipendenti174. È dunque il reddito molto elevato che spiega la continua espansione dell’ulivo, sia con nuove piantagioni sia con l’infittirsi delle piante, e ancora quella caratteristica di « coltivazione forzata » (per l’abbondante e irregolare uso di fertilizzante) di cui parlava il sotto-prefetto di Porto Maurizio175. A proposito di nuove piantagioni mi pare interessante riportare il calcolo fatto dal Della Valle per valutare il costo dell’impianto di un oliveto di collina in giornate di lavoro e per pianta: « per l’escavazione di pietrame da muratura, suo trasporto in collina a dorso di mulo sino a piè d’opera e per la costruzione del muro, occorrono almeno tre giornate d uomo per m.3 e una giornata di mulo. Ponendo il costo della giornata di mulo pari a quello della giornata d’uomo, un m.3 di muro a secco finito assorbe quattro giornate. Pertanto, siccome per ogni olivo occorrono m.3 2,8 di muro, le giornate impiegate per pianta sono... in cifra tonda giornate 11 per pianta. Inoltre in ragione di 500 olivi ad ettaro per ogni albero s’impegnano m.2 20 di terreno la cui sistemazione 174 E. Della Valle, Considerazioni economiche sulla coltivazione dell’olivo in Liguria, Genova 1950. Le citazioni di pagine fatte nel testo tra parentesi si riferiscono a questo opuscolo. 175 A.N.P., F 10/431-432 cit. — 280 — importa: scasso generale, spiegamento, trasporto di terreno a ridosso dei muri, ed infine spianamento. Per 20 m.2 di tale lavoro occorrono al minimo giornate 2 » (p. 5). Si tratta di una valutazione estremamente interessante: non si potrebbe applicare su più larga scala per tentare un calcolo anche approssimativo dell’enorme quantità di lavoro incorporata nelle « fasce » uli-vate (o anche non ulivate), oggi in quasi completa rovina176? Oltre a questi motivi di interesse, l’analisi del Della Valle consente di seguire l’evoluzione della redditività dell’ulivo e spiega in tal modo le fasi e le cause della crisi olivicola: « verso la metà del secolo XIX il prezzo dell’olio era suppergiù pari al prezzo della giornata dell’uomo di campagna. Allora il reddito di un albero, pari a un chilo di olio in media per anno, veniva a dare un netto di 1 — 0,39 = giornate 0,61 che rispetto al capitale di giornate 20 rappresentava un reddito di circa 3% ». È chiaro, come riconosce il Della Valle, che il 3% rappresenta il tasso minimo al quale il proprietario non coltivatore possa impiegare il capitale neirimpianto di un oliveto, ma, dobbiamo aggiungere, tale tasso era ancora largamente conveniente per il proprietario coltivatore, per il quale l’impianto era un investimento di lavoro più che di capitale. Verso il 1880, quando l’olio scende a 3/4 del prezzo della giornata, il reddito riferito al capitale impiegato scende all’1,8%; il rapporto fra costi e prezzo è ancora di 1 a 2 (mentre era ancora di 1 a 3 nel 1850). Verso il 1900, soprattutto per effetto dell’aumento del prezzo della giornata, il reddito si annulla e l’oliveto comincia a diventare passivo e tale rimane fino al 1914. La conseguenza fu che molti trovarono più conveniente abbattere le piante, dato anche l’aumento del prezzo della legna: « trasformarono il già oliveto in vigneto od altro e molti pure quelli che, venduta la legna, l’abbandonarono, per cercar lavoro altrove, magari rimanendo contadini e pigliando in affitto delle terre in pianura. Altri trovandosi in condizioni di poter condurre dell’acqua nel loro terreno lo trasformarono in orto-frutteto se quella era abbondante, se invece era scarsa, in carciofeto e albicoccheto. Altri ancora, nei terreni di clima più adatto, abbatterono gli olivi e si diedero alla floricoltura. Ed anzi si può dire che fu proprio l’acutezza della crisi dell’olio che diede origine in parecchi paesi della Riviera ad una felice innovazione di culture apportandovi un benessere prima insperato » (p. 9). 176 Ovviamente, quando si potesse, attraverso una precisa indagine geo-storica, inviduare le fasi storiche di terrazzamento dei pendii. — 281 — 5. Per la storia della vite. A grandi linee, diverse e anche opposte si presentano le vicende della viticoltura in Liguria: a dimostrare che, anche neH’ambito della trilogia mediterranea, vite e olivo possono essere in concorrenza. Abbiamo visto come nei secoli basso-medievali la viticoltura rappresentasse la più caratteristica produzione agraria: non solo una nota dominante nel paesaggio, ma anche l’unica produzione (ad eccezione degli agrumi di Sanremo) ad essere largamente commercializzata. Di gran-de pregio i vini di Taggia e delle Cinque Terre, il cui mercato nel XIX e XV secolo si estendeva da Roma a Londra 177. Eppure quello della viticoltura ligure rimane ancora un capitolo poco noto non solo nella storia agraria ligure, ma anche e soprattutto nella storia della vite e del vino in Europa. Se è vero che anche la localizzazione di questi vigneti di qualità della Liguria « resta inspiegabile se si rifiuta di accettare l’idea che essi sono creazione dell’uomo, piuttosto che espressioni dell’ambiente naturale » 1/8 — ciò è soprattutto evidente nelle Cinque Terre, dove si può addirittura parlare di costruzione umana dello stesso suolo coltivabile —; non altrettanto chiari sono i fattori che spiegano una distribuzione dei maggiori vigneti di pregio in due aree periferiche rispetto ai maggiori centri urbani della regione. Anche in questo caso se si vorrà spiegare storicamente lo sviluppo vinicolo medievale della Valle Argentina e delle 177 J’ Heeks, Gênes, cit., pp. 359-361. Dello stesso A. cfr. anche Le livre de Compte de Giovanni Piccamiglio homme d’affaires génois, Gap-Aix-en-Provence 1958, p. 42 e sgg. Con questo breve paragrafo dedicato alla vite intendo soltanto mettere in evidenza 1 interesse di alcuni temi della storia della viticoltura ligure, alla quale finora gli studiosi liguri non hanno rivolto alcuna atenzione. E così, per esempio, non si è parato di vigneti liguri nei due convegni internazionali sulla storia della viticoltura tenutisi nel ’71 a Grenoble e a Pavia, dai quali ha preso origine il Centro internazionale per la storia della vite e del vino. Il programma del centro è tale da suscitare 1 interesse sia dei geografi sia degli storici. Propone infatti come scopi di ricerca, una cartografia dei vigneti europei nelle epoche successive del loro sviluppo, o studio dell evoluzione del paesaggio viticolo (coltura su terrazzamenti, vigna alta e vigna bassa, culture intercalari o associate); lo studio del ruolo delle Società a§^c°ltura e Stato e la diffusione delle malattie di origine americana nel XIX e secolo (cfr. C. Higounet, Deux colloques sur l’histoire de la vigne et du vin, in «Annales du Midi», 84, 1972, pp. 336-337). R- Dion, Histoire de la vigne e du vin en France, Paris 1959, p. 37. — 282 — Cinque Terre occorrerà esaminare a fondo la configurazione dei rapporti città-campagna (e senza limitarsi a Genova) e l’organizzazione del mercato regionale e interregionale 179. Nel più vasto ambito della viticoltura mediterranea e europea, la storia dei vigneti della Liguria potrebbe portare un prezioso contributo alla soluzione di un problema già affrontato da R. Dion, ma non ancora risolto in modo convincente. Si tratta dell’origine della produzione dei vini liquorosi, che fino alla metà del XIII secolo rimase una caratteristica dell’Oriente mediterraneo (malvasie e moscati) e che solo dopo questa data, secondo il Dion, si sarebbero prodotti nell’Europa occidentale a partire da piantagioni della penisola iberica ’80. Ma se si tiene presente che la varietà occidentale più nota di tali vini è la vernaccia (o grenache) non si può negare valore all’ipotesi che uno dei primi e più qualificati centri di produzione e di diffusione nell’Europa mediterranea occidentale sia stata la Liguria dove vernacce e moscati costituivano il principale prodotto delle due maggiori aree vinicole: rispettivamente le Cinque Terre e Taggia. In particolare la vernaccia è citata come vino famoso delle Cinque Terre (il più noto sembra quello di Corniglia) già nel 1285 da Fra Salimbene e in seguito da numerosi altri scrittori181. L’ipotesi di una precoce diffusione del vitigno della vernaccia in Liguria e di un trasferimento dalla Liguria alla Spagna in età tardo-medievale sembra confermata anche da alcuni indizi che lasciano intrawe- 179 Fin d’ora si può tenere presente che i trasporti via mare, mediante le flottiglie di barche di cui erano dotati tutti gli scali della Liguria, erano molto più economici dei trasporti terrestri a dorso di mulo o su carri e che perciò un centro come Genova aveva più interesse ad approvvigionarsi dalle Riviere che dal suo hinterland. Anche il vino prodotto nelle vigne vescovili di Nervi e di Sampierdarena arrivava via mare alle cantine dell’arcivescovo di Genova. 180 R. Dion, Histoire cit., p. 317 e sgg. 181 Oltre alla numerosa letteratura esistente sui vigneti e i vini delle Cinque Terre (per la quale si veda P. Revelli, Le Cinque Terre e gli Otto Luoghi della Liguria. Contributo al glossario dei nomi territoriali italiani, « Rend. Accademia Lincei, Classe Scienze Mor. Stor. Filol. », s. Vili, vol. IV, 1949, pp. 22 e sgg.); cfr. anche L. Messedaglia, Leggendo la « Cronica » di frate Salimbene da Parma. Note per la storia della vita economica e del costume nel secolo XIII, in « Atti Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti », CHI, 1943-44, p. 404-405. — 283 — dere un interessante collegamento (anche per altre specie coltivate) fra la Liguria e il bacino dell’Ebro 182. Mentre le informazioni che si possono trarre dalla documentazione medievale si rivelano utili solo per ricostruire i lineamenti dei paesaggi agrari (come abbiamo cercato di fare), il sorgere nel XV e XVI secolo di una letteratura corografica e di una vera e propria letteratura enologica ci consente di delineare la geografia viticola della Liguria con particolare riferimento ai vitigni più pregiati. Già il Bracelli, nella Descriptio orae ligusticae databile alla metà del XV secolo, aveva dato particolare rilievo a Taggia: exiguum oppidum, sed vitis generositate iam non obscurum: quippe quae vini nobilitate quod Muscatum vocant, tantum sibi nomen paraverit, ut non Cypriis, non Creticis, non Falernis montibus inferior putetur; ed aveva ricordato anche Diano, Andora, Moneglia, Framura e le Cinque Terre, delle quali aveva dato una colorita descrizione destinata ad essere parafrasata da tutti i corografi successivi: « Inde in ora Castella quinque paribus prope intervallis in ter se distantia: Mons Ruber, Vulnetia, quod nunc Vernatia vulgus nominat, Cornelia, Manarola, Rivus maior, non in Italia tantum sed apud Gallos Britannosque ob vini nobilitatem celebria. Res spectaculo digna, videre montes non declives modo, sed adeo précipités ut aves quoque transvolando fatigent, saxosos, nihil humoris retinentes, stratos palmite adeo ieiuno et gracili; ut hederae quam viti similior videatur. Hinc exprimi vindemiam qua mensas regias instruamus» 183. Non solo nel Giustiniani, un secolo dopo, ma ancora nel Targioni Tozzetti e nell Ottocento, si sentono gli echi lontani del Bracelli e soltanto con il Guidoni, naturalista di Vernazza, verranno corrette le esagerazioni di tutta una tradizione letteraria che non a caso nasce in età umanistica 184. E. Le Roy Ladurie, afferma decisamente, basandosi anche sulla letteratura tecnica e geografica, che «le Grenache, cépage aragonais du Bassin de l’Èbre [è] s très lointain dun plant génois du XV siècle» (E. Le Roy Ladurie, Les paysans cit., p. 58, cfr. anche p. 64 su possibili collegamenti fra le huertas delPEbro e le huertas liguri e in particolare savonese). ... Andriani, Giacomo Bracelli nella storia della geografia, in « Asli », LII, 1924, pp. 234-237. G. Targioni Tozzetti, Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della oscana, t. 11, Firenze 1772, p. 59: «in tale tratto di paese [Cinque Terre], veri- — 284 — Il quadro che emerge intorno alla metà del Cinquecento non differisce molto da quello dei secoli precedenti. Se crediamo a Sante Lancerio, il noto bottigliere di Paolo III e il primo enologo moderno, dalla Liguria e in particolare da Taggia giungevano a Roma i migliori vini moscatelli dell’intera penisola; sia dalla Liguria occidentale (Taggia e Oneglia) sia dalle Cinque Terre provenivano altri vini bianchi e rossi, con la denominazione di « vini di Riviera », considerati « molto buoni » (« et è un delicato bere, massime la state »). Ancora dalle Cinque Terre giungeva a Roma il « vino razzese » (o rossese), molto stimato, di maggior gradazione alcolica dei precedenti, per l’adozione di una originale tecnica di semi-appassimento dell’uva: « usano farlo dolce sopra la vite, quando l’uva è matura, col pigliare il racemolo e lo storcono e poi lo lasciano attaccato alla vite per 8 giorni e coltolo fanno vino buono e perfetto » 185. Nel 1539 lo stesso Lancerio fece, al seguito di Paolo III, un viaggio da Roma a Nizza, del quale ha lasciato un diario essenzialmente ga- ficasi che quod natura negavit industria peperit, perchè non essendo egli altro che monti sassosi e dirupati in modo che neppure vi possono montare le capre, nientedimeno abbondano di vigne, dette vignali, al sommo fruttifere, per coltivare le quali è necessario che gli uomini si calino dalle rupi, legati nel mezo del corpo con una corda, siccome anche per vendemmiare le uve, delle quali si ricava il tanto eccellente liquore chiamato vino amabile delle Cinque Terre, gratissimo fino in Francia e Inghilterra. La coltivazione delle vigne di questo paese è veramente singolare e semplicissima, poiché senza confondersi in far fosse e divelti nel terreno che non vi è, i magliuoli delle viti si ficcano nei suoli della poca terra che restano fra i filoni e le commettiture delle pietre, di cui sono formate le dirupate pendici di quei monti e non si fa loro altra carezza e non si da governo e non vi è bisogno di pali o altro sostegno. Nientedimeno le viti in quelle fessure, tra masso e masso, a guisa de’ capperi... vegetano a meraviglia e spandono ciondoloni giù per le balze i loro lunghi tralci, rigogliosi quanto sarebbero se le medesime viti fossero coltivate in campi ubertosi; lo che da motivo di ponderare se la coltivazione della vite fra noi tanto decantata sia migliore... ». Ma su questa descrizione, che ha l’aria di essere molto libresca, cfr. le correzioni apportate da G. Guidoni, Memoria sulla vite e i vini delle Cinque Terre, Genova 1925. 185 G. Ferraro, I vini d’Italia giudicati da papa Paolo III (Farnese) e dal suo bottigliere Sante Lancerio, in «La Rivista Europea», VII, 1876, pp. 105, 110. La memoria del Lancerio è stata ripubblicata in E. Faccioli (a c. di), Arte della Cucina. Libri di ricette, testi sopra lo scalco, il trinciante e i vini dal XIV al XIX secolo, Milano 1966, I, pp. 317-341. — 285 - stronomiço-enologico, dal quale risulta che in Liguria si bevevano buoni vini anche a Sarzana, La Spezia (« dove sono ottimi et perfetti vini tanto rossi che bianchi »), Portofino, Genova (dove naturalmente si trovano « buoni vini navicati », ma anche « paesani ») e a Savona (« fa ottimi vini tanto bianchi quanto rossi »),86. I giudizi del Lancerio sono sostanzialmente condivisi (se non parafrasati) da Andrea Bacci, medico e naturalista romano, autore del noto trattato De naturali vinorum historia (1596). Più originale invece il quadro che dei vini della Liguria delinea un altro medico: Bartolomeo Paschetti, un nobile veronese fattosi genovese, a quanto pare, anche per la bontà del clima e l’eccellenza delle produzioni agrarie della Liguria, fra le quali non manca di lodare i vini: «A tre generi si riducono i vostri vini: piccoli, mediocri e grandi. Piccoli sono quelli che voi altrimenti chiamate bruschi e acerbi, de’ quali abbondano le vostre Riviere: mediocri quelli che il volgo a Genova chiama ritondi, non asperi, non acerbi... Grandi sono i moscatelli di Tabbia, gli Amabili e i Razzesi delle Cinque Terre, i vini di Pietranera e di Capocorso... vini tutti da bere tre mesi all’anno: genaio, febraio e marzo, e non a tutto pasto essendo molto potenti. Li moscatelli e gli Amabili sono in grandissimo preggio essendo dolci e di sapore soavissimo; onde la maggior parte di essi conduconsi fuori del dominio, a Roma particolarmente e in Alemagna. Il moscatello tiene più del dolce e del color dell’oro, l’Amabile è più bianco di colore, manco dolce, ma di un sapore amabilissimo e soavissimo. E’ egli più grande del moscatello, inferior di forze al Razzese, il quale non tenendo sapor di dolce, ma che anzi si accosta più all amaro, resta perciò più caldo... Vero è che la maggior parte di detti vini Razzesi, come segue anco degli altri vini eccellenti, vengono falsificati e mescolati con altri vini inferiori di bontà e di sapore, tanto grande è la cupidigia del guadagno, così poca la lealtà de gli huomini... Gli vini piccoli tutti sono generalmente asperi e acerbi più o meno secondo 1 uve e i luoghi dove sono situate, più o manco caldi, più o manco esposti al sole: tali sono i vini di molti luoghi dell’una e dell’altra riviera... Tali sono i vini delle vostre ville, tali quelli di Bisagno e di Pozzevera parlando in generale, che in alcun luogo si fanno vini maturi e mediocremente grandi, come nella Valle di Pozzevera sono i vini della Costa di Rivarolo e di Coronata, nella Valle di Bisagno quelli di Siro di Stroppa e di Montecignano... Gli vini mediocri sono di due sorti. Alcuni accostandosi alla natura del vino grande e questi sono buoni per l’invernata, altri si avicinano più alla natura del vino piccolo, perciò restano migliori per bere l’estate. Et perchè in alcuno de’ sopradetti luoghi nascono vini dell’una e dell’altra conditione come primieramente a Savona, a G. Ferraro cit., p. 94 e sgg. — 286 — Chiavari, a Sestri, a Monegiia e alla Speda, perciò conviene haver cognitione separatamente dell’una e dell’altra sorte di detti vini. Quelli del Cervo, come che tengono natura e conditione di vino anzi grande che piccolo, sono migliori per bere l’invernata che l’estate. A Savona nascono vini per l’una e per l’altra stagione, però la maggior parte di essi ritengono in sè alquanto del grasso e restano fumosi. Onde l’estate a quelli si preferiscono certi vini di Lerice e di Monegiia, come più delicati e più saporiti di quelli di Savona. Da Ventimiglia conduconsi a Genova l’invernata vini bianchi e neri, più utili, portando molta acqua, che grati al gusto o sani al corpo, essendo vini grossi, molli e insipidi, facili a generar ostruttioni e sangue grosso. Dalla Riviera di Ponente escono pochi altri vini eletti e buoni dai Moscatelli in poi, li quali parte vengono da S. Remo, parte da Tabbia. Però la maggior parte e i migliori conduconosi da Tabbia. Dalle Riviere di Levante escono vini in gran quantità e in somma bontà: con-ciosiachè da Monegiia conduconosi a Genova vini per l’una e per l’altra stagione, perfettissimi e a mio parere come che sieno di forze mediocri, di sostanza sottili e rari e di sapor gratissimo, molto sani e accomodati ad ogni età e ad ogni complessione. Al color e al sapor loro ottimamente rispondendo la bontà e la finezza che in sè contengono. A Sestri si fanno vini per l’una e per l’altra stagione mediocremente buoni. Sono in pregio particolarmente quelli del Girolo, come vini al gusto soavi, mediocremente grandi e che in sè riteggono del picante. Da Chiaveri escono vini in grandissima quantità: la maggior parte leggieri e piccoli e perciò migliori all estate che il verno. Ma quelli del Castello, vini generalmente stimati eccellentìssimi e finissimi, sono anzi grandi che piccoli, s’approssimano alla natura dell’amabile e sono di odor e di sapor soavissimo. Vero è che sono molto pochi gli vini che si fanno in detto luogo del Castello, di singoiar bontà, benché molti vengono portati a Genova sotto nome e colore di vini del Castello di Chiavari, come parimenti segue dei vini del Girolo, S. Arenzo e d’altri luoghi ne’ quali nascer sogliono vini di somma bontà. Dalle Cinque Terre, che sono Vernazza, Corniglia, Rio maggiore, Monterosso, Ma-neirola, vengono a Genova, oltre gli Amabili e Razzesi, altri vini generalmente chiamati mezzi Razzesi mediocremente grandi... Dei vini piccoli asperi e acerbi è abbondantissima la Specie, si conducono la maggior parte a Genova l’estate, nella qual stagione sono più maturi e meno acerbi. Nascono nondimeno alle colline uve buonissime, delle quali fannosi vini mediocremente potenti, benché non in tanta quantità, come dei piccoli e leggieri quali a Genova si chiamano bruschi. A Lerice nascono vini ottimi per l una e l’altra stagione, massime nel luogo di Santo Arenzo, vini che tengono del piccante e al gusto molto saporiti... Sono molto pregiati nella vostra Città insieme con i vini del Girolo e del Castello di Chiavari, come che tutti siano di forza mediocri, di sapore soavissimo. Cosi tengono il primo luogo fra i vini mediocri, sì come fra i grandi l’Amabile, vino certamente soavissimo e preciosissimo, cui fu degnamente posto il nome di Amabile, essendo al palato, allo stomaco amabilissimo e accomanditissimo ad ogni età e ad ogni complessione... »187. 187 B. Paschetti, Del conservare la sanità e del vivere de' Genovesi, Genov* 1602, pp. 337-342. — 287 - Lo studio delle « caratate » e dei catasti liguri fra Seicento e Settecento potrà dirci se anche la Liguria partecipa (in quale misura e in quali aree) a quello sviluppo viticolo che dal Seicento, ma ancor più nel Settecento, interessa le contigue regioni mediterranee: Provenza, Lingua-doca e Catalogna. Per quanto si può finora valutare sembra che la Liguria faccia eccezione a questa comune tendenza dell’agricoltura mediterranea e, più che una riqualificazione viticola, manifesti e rafforzi la nuova vocazione olivicola. La nostra è soltanto una ipotesi di lavoro, basata forse più sulla suggestione dell'imperialismo dell’ulivo (sul quale ci siamo a lungo soffermati) che su una preliminare ricostruzione delle vicende della vite in età moderna, la quale rimane ancora tutta da fare secondo il programma che P. Vilar proponeva nel 1953 a geografi e storici18s. Quel che è certo è che nella seconda metà del Settecento, nell’ambiente genovese la viticoltura non doveva essere molto in onore, se nel 1770 Gerolamo Gnecco, nel primo trattato sull’agricoltura del Ge-novesato, si esprimeva in questo senso: « Non parlerò della vigna con grand’impegno, giacché per lo più divora il frutto ne a spesa, oltre all essere un seminario di litigj tra il Padrone e i contadini, e oltre essere oggetto di rapina continua de’ legnami che la sostengono, e dell’uve. Perciò ne e terre de luoghi circonvicini alla città di Genova qualunque altra coltivazione, piantata d alberi sarà assai più utile. Tuttavia in alcuni paesi dello Stato non saranno tanto fuor di proposito le vigne; non vi si potendo profittare per via d’altra mic ìore coltivazione. Conviene però osservare che per le vigne fanno molto a proposito i terreni di collina leggieri, magri e secchi, incapaci di produr grani, di nutrir 8.e“’ v’ 0 a^tri alberi fruttiferi. E’ bensì vero che la coltivazione di simili terreni ie e notabile spesa, se hanno a rendersi fertili e a mantenersi in buon essere... P. Vilar, Géographie et histoire statistique. Histoire sociale et techniques t Uvu°n'- Que^ues Points d’histoire de la viticolture méditerranéenne, in Éven-^ !St0*re vivante, Paris 1953, p. 131: «Tout cela suggère évidemment la né-Aux d' etU 'er SUr ^3Ce’ et façon concrète, les modalités de l’extension viticole, tion ifPenS est‘e^e obtenue? Production et surface croissent-elles propor- en prenj T1 ,Que rePrésentent les frais de plantation, les frais de culture? Et qui laree d * a propriétaires, métayers, fermiers? Une étude statistique assez lome d CeS7l0nnées est malhereusement difficile... ». Cfr. anche P. Vilar, La Cata-Roy Lauti i sj>a%ne moderne, Paris 196; per la Linguadoca e la Provenza: E. Le Prove RIE>; ^ Paysans cit., p. 517 e sgg.; R. Baehrel, Une croissance-, la Basse 1961 CPUIS ^ siècle jusqu’à la veille de la Révolution, Paris p. 5g Q ggg^ — 288 — Cio non ostante i contadini amano talmente la vigna, che pare non possano stame senza: ed il male è che hanno introdotto in quasi tutte le terre vignate molti abusi, specialmente quello di seminarvi sementi di spiga, e di piantarvi cavoli in quantità ed altre cose pregiudiziali... » ,89. Se è vero che le opinioni del Gnecco sembrano concordare con la congiuntura economica del suo tempo che pocanzi abbiamo riconosciuto essere nettamente favorevole all’ulivo, è anche vero che sul piano della « dottrina » agraria tali opinioni non potevano essere considerate del tutto convincenti. Infatti, qualche anno dopo, Luigi Maineri, negli « Avvisi » di Genova, si richiamava forse al Gnecco, quando riconosceva che i maggiori difetti dell’agricoltura genovese erano « l’incuria nostra e l’ignoranza in ciò che appartiene al vino; né potrà così facilmente trovarsi opinione più strana di quella che è invalsa fra l’universale de’ nostri cittadini: non essere, cioè, i terreni delle vicinanze di Genova atti alla produzione di buon vino » 190. In generale riconosceva che per « la produzione di vino perfetto » non vi è « specie alcuna di terra più atta della secca e sassosa; della simile in conseguenza a quella di queste nostre montagne, dove d’altronde i frutti tutti e gli erbaggi riescono di così squisito sapore e dove i vini hanno naturalmente e senza alcun artifizio quella limpidezza che dai bevitori raffinati è considerata siccome pregio singolarissimo e principale » (pp. 350-351). Riferendosi in particolare ai terreni della Val Polcevera e della Val Bisogno, sosteneva che la vite era « la sola via di renderli molto utili al possessore ». Esponeva quindi un progetto di messa a cultura dei terreni incolti, ritenendo che in tal modo il territorio attorno a Genova sarebbe stato in grado di « fornire quel che manca al consumo di tutta la nazione », valutato a circa 170.000 mezzarole e a un valore di cinque milioni di lire (p. 358). A tale scopo il Maineri esaminava i principali vitigni coltivati intorno a Genova: 189 G. Gnecco, Riflessioni sopra l’agricoltura del Genovesato co mezzi propri a migliorarla e a toglierne gli abusi e vizi inveterati, Genova 1770, pp. 154-155. Sul-PA. cfr. M. Calegari, La Società Patria delle Arti e Manifatture. Iniziativa imprenditoriale e rinnovamento tecnologico nel riformismo genovese del Settecento, Firenze 1969, pp. 6-7. 190 L. Maineri, Seguito de’ Pensieri patriottici sopra l’Agricoltura, in « Avvisi », 18 aprile 1778, p. 350. Sull’identificazione dell’autore anonimo dei Pensieri patriottici sopra l’Agricoltura, cfr. M. Calegari cit., p. 11. — 289 - « fra le specie di uva bianca che si coltivano vicino alla città, non ne conosco una sola che sia atta a far buon vino senza diligenze soverchie. Sebbene anche fra le nere ve ne siano delle pessime, la maggior parte però sono preferibili a qualunque uva bianca. La migliore che io conosca è il Rebè ma fa poco frutto appunto come i vitigni trasportati di Francia, taluno de’ quali qui matura di luglio ed è dolcissimo. Il Rebè coltivato e ridotto a vino secondo i principi dell’Abate Rosiers fa vino ammirabile, e che, per quel che io ne credo, potrebbe perfezionato eguagliare il migliore Borgogna, a cui somiglia. Il Nebbiolo al contrario è di una fertilità portentosa e costante e quando trovasi in circostanze adattate fa vino migliore del Monferrato, più squisito, ma coltivato alla peggio e colto immaturo, secondo l’uso ordinario de’ nostri contadini, il vino che produce è intollerabile, e a palati dilicati per la sua acerbezza, ed al gusto capriccioso del popolo, perchè è nero; cosichè non si sa dove esitarlo » (p. 351). Per 1 impianto di nuovi vigneti proponeva: « uva Boara se il sito è arioso, e di Cianchetta se è soggetto alle guazze, oppur di Nebbiolo qualunque sia il sito ». Il Maineri concordava con il Gnecco circa l’esigenza di tenere il terreno « coltivato a vigna senza sementi e senza alcun albero, coi filagni lontani fra i sette e i dieci palmi » (p. 358), ma denunciava anche la abitudine a vendemmiare l’uva acerba, ritrovandone la causa nell’avidità del contadino e riconoscendo che il risultato era un vino leggero che non poteva essere tagliato con acqua come i vini forestieri e che quindi era meno economico per il consumatore. Nel 1797, 1 Inchiesta dell’istituto Nazionale, rivelando che la tenenza alla vendemmia precoce è comune a quasi tutta la Liguria, conerma, come è stato osservato, la debole specializzazione e la debolezza mercantile della viticoltura 191. Circa le notevoli spese che la coltivazione della vite incontra, altri osservatori, negli stessi anni, ritengono che esse consistano soprattutto nel « gran costo dei legnami »: nascono anche da questa esigenza diversi progetti di rimboschimento dei monti liguri, dovuti al Piccone, a G.B. ini, a A. Bianchi, oltre che all’amministrazione francese 192. Cfr. E. Grendi, Introduzione cit., p. 94. G. M. Piccone, Memoria sul ristabilimento e sulla cultura de’ Boschi del Ge- 17%; Lettere di G; B. Pini a G. De Ambrosis ,1802), in B.U.G., a ■ . .’ ' Bianchi, Osservazioni cit. (del Bianchi cfr. anche Memoria sulla Sard.lmStr^ ^°SC^‘ della Riviera di Ponente (1815), in A.S.G., Prefettura npll’Jr 'a i n’ Bulferetti - C. Costantini, Industria e commercio in Liguria nell età del Risorgimento, Milano 1966, pp. 458-59. — 290 — Sulla base delle statistiche dell’età napoleonica è possibile riconsiderare in modo più dettagliato e preciso il problema dei costi e delle tecniche di coltivazione193. A Savona, nel 1806, la coltura della vite risulta estremamente costosa appunto per il molto legname necessario, dato il prevalente sistema di coltivazione a pergolato alto o a filari. A Varazze e negli altri comuni del cantone le spese sono valutate a 1/2 del valore commerciale del prodotto (come per il grano e gli ortaggi), a 1/3 per l’ulivo e la frutticoltura. Nel Finale le spese per la vigna, divise in parti eguali fra il legname da una parte e i concimi e l’aratura dall’altra, si elevano a 2/3, mentre per l’ulivo si mantiene sotto 1/3. Molto più elevati risultano anche i costi della coltura dei cereali, dei legumi e dei fiori. Soltanto la canapa e gli agrumi si avvicinano alle condizioni economiche dell’olivicoltura. Nel cantone di Pietra i costi non variano rispetto a Finale ma rapportandosi a un prezzo del vino più elevato, le condizioni sono più favorevoli (circa 1/2). Tuttavia sia nel Finale sia nel cantone di Pietra non vengono, in generale computate le spese di vendemmia e di manutenzione dei muretti a secco, con le quali il reddito tenderebbe ad annullarsi. Nel contado di Albenga i prezzi del vino, oscillanti fra 7 e 16 fr. al q., dimostrano forse l’esistenza di qualche area di cultura specializzata, con produzione pregiata, in particolare a Garlenda e Ortovero 194. In generale i costi di cultura sono superiori alla metà del valore commerciale del prodotto, tranne che per i due centri citati. Diversa la situazione nel cantone di Porto Maurizio dove il prezzo si mantiene su livelli in media più elevati e dove le spese per la vite (e anche per i seminativi) si aggirano sulla metà (scendendo talvolta a 1/3): ma anche l’olio accentua la sua redditività (spese = 2/5). È apparentemente singolare che la specializzazione olivicola mantenga nel cantone di Porto Maurizio condizioni di redditività della viticoltura maggiori di quelle che si verificano nelle aree di cultura promiscua. Tale fenomeno si spie- 193 Si tratta soprattutto delle statistiche per la preparazione del catasto, risalenti al 1807 e conservate in A.S.S., Dipartimento di Montenotte, n. 374. Cfr. G. Chabrol, Statistique cit., I, p. 134 e sgg. dove peraltro si lodano i vini di Borghetto, Campochiesa, Zuccarello, Onzo, Amasco, Villanova ma si tace dei vini di Garlenda e per Ortovero si riconosce che il vino è poco stimato. — 291 - ga con la scarsità (che fa salire il prezzo) o con la buona qualità del prodotto? 195. A sua volta, lo Chabrol ci ha lasciato per lo stesso periodo una descrizione esauriente del paesaggio viticolo del versante marittimo del Dipartimento di Montenotte e soprattutto del circondario di Savona, dove la vigna risultava la coltura dominante 196 : « Les vignes sont plantées en haies et en berceaux. Celles qui sont plantées en haie dans la plaine sont éloignées l’une de l’autre de deux, trois et cinq mètres, selon la profondeur du fonds. Le terrein entre les vignes est partout ensemencé. Sur les terrasses, la vigne est plantée à deux décimètres du mur de soutènement. En plaine et dans les jardins, elle monte jusqu’à trois mètres, et est soutenue par de gros échalas. Il lui faut en outre une quantité de roseaux qu’on lie jusqu’à trois rangs tout le long et au travers de la haie. Dans les pays de montagnes dépourvus de roseaux, on emploie de longues perches qui coûtent plus cher, mais qui durent plus long-temps. Le bois taillis de châtaignier, les branches menues des vieux châtaigniers, des mûriers et d’autres plantes fournissent les èchalas et les soutiens nécessaires... Dans les campagne de quelque étendue on trouve de beaux berceaux de vignes; on Sulla qualità dei vini in parte del circondario di Portomaurizio interessanti le osservazioni di A. Viale, in B.U.G., ms. G V 18 cit., c. 161 e sgg.; loda sopratutto il vino di Diano Castello e mette in evidenza gli aspetti del commercio e \ino che contribuiscono a peggiorare la qualità dei vini locali. Un miglioramento nella coltura della vite o comunque un più favorevole atteggiamento nella « (rispetto a 30 anni prima) sembra maturare in questi anni, se o iamo credere a G. De Ambrosiis, Memoria sulla statistica ossia ristretto dì eografia fisica e politica della Liguria..., Genova 1802, p. 11: «L’Agricoltura delle ^gne prospera per ogni dove in tutta la Liguria; questa pianta che per la domesti-c ezza della sua indole, per la preziosità, abbondanza e ricchezza del suo frutto menta a preierenza da tutte le altre, produce varie ed ottime qualità di vini squisiti: e giurisdizioni del Lemmo, Cerusa, Colombo, Centa e Golfo di Venere somministrano in abbondanza de’ vini neri, ricchi e gustosi, e de’ bianchi utili e grati; l’eco-mica co tivazione di questa pianta è ammirabile, soprattutto perchè la maggior isposta a spalliera, lascia luogo allo stesso terreno di produrre e riprodurre di-qua "tà di Biade, Legumi, Verdure e Frutti ». In effetti nei verbali dell’istituto a e risulta che fra i temi proposti vi sono anche i miglioramenti della cultura Tc d> fa" ? vi"° (cfe BUG" “• F v 2»■ al second !,ABR0L> Statistique cit., II. Le citazioni nel testo si riferiscono sempre fra la L’ '0urne- All età napoleonica risale probabilmente uno scambio di vitigni eiardinr, eUna 6 ^ ^ranc*a> dove quegli anni Chaptal andava raccogliendo, in un francese . P®nmentale, tutti i vitigni dell’impero. Nelle carte deH’amministrazione chi all ’ •8Una S* trova sPesso menzione dell’invio a Parigi di vitigni (dagli elen-§ s potrebbe dunque dedurre una completa ampelografia della Liguria). — 292 — en couvre les sentiers, les fossés qui ne sont pas susceptibles d’ensemencements, et toutes les parties de terrains près des murs des enclos. Les riches propriétaires font soutenir ces berceaux par des piliers bâtis en mortiers de chaux et sable, et entre ces piliers par des fourches. Les vignes en berceaux sont plus productives et leurs grappes moins exposées à l’action des vents marins, qui les endommagent. Les vignes ne reçoivent d’autre labour et d’autre engrais que celui des semences cultivées à leur pied » (p. 193). Con altrettanta precisione, lo Chabrol, oltre a indicare i vitigni migliori — barbarossa, vermentino, rossese e pisano —, mette in evidenza i difletti di lavorazione e le aree di miglior produzione: « Le mélange que l’on fait, dans la fabrication du vin, de toutes sortes de raisins, dont les différentes qualités ne sont pas arrivées au même degré de maturité et sans les corriger l’un par l’autre, en réunissant les plus doux avec les plus spiritueux, rend les vins de ce pays assez mediocres: on ne songe qu’à distribuer le peu de raisin noir dans les différentes tonneaux pour donner un peu de couleur au vin qui est en général blanc; il est rare qu’il puisse se conserver au-delà d’un an. Les deux Albis-sola, Celle, et quelques communes dans les cantons de Finale, produisent le vin le plus spiritueux. On peut le conserver jusqu’à deux ans. Une autre cause qui tend à détériorer le goût du vin provient des mélanges que font les négotiants; on mêle le bon vin et le médiocre avec le mauvais pour en tirer parti » (p. 195). Quanto all’entità della produzione lo Chabrol osserva ancora che « nel circondario di Savona il consumo locale assorbe quasi tutta la produzione; quando vi è eccedenza la si smercia nei cantoni vicini e talvolta a Genova. Nel circondario di Porto Maurizio, i vini sono ben lontani dall’essere sufficienti al consumo interno, al quale suppliscono quelli di Francia e del circondario di Ceva » (p. 195). Lo Chabrol non manca infine di mettere in evidenza anche le conseguenze spesso negative dei patti colonici: « Le produit du vin est partagé entre le propriétaire et le colon d’après des conventions qui varient dans presque tous les cantons, et souvent dans la même commune. Les deux tiers, les trois quarts, les trois cinquièmes sont pour le propriétaire, quelquefois tous les premiers vins lui appartiennent, et le vin pressé revient au colon; quelquefois le colon n’a que le petit vin; enfin il y a des contrats portant des conditions d’un autre genre. Par exemple, le colon a le tiers du vin, mais il est obbligé de le vendre à un prix fixé antérieurement; et comme ces sortes de contrats datent d’une époque reculée, où tous les prix étoient inférieurs, il en résulte que le pauvre colon n’ayant pas le courage d’abandonner la culture du fonds qu il tient de ses pères, paye très cher à un propriétaire avide son attachement pour le sol qui 1 a vu naître » (p. 194-5). — 293 - Molte informazioni sulla geografìa della vite in Liguria agli inizi del XIX secolo è possibile ricavare da Giorgio Gallesio, che possiamo considerare il fondatore dell’ampelografia ligure. Nella Pomona italiana studia 26 vitigni italiani, di cui più della metà riguardano strettamente la Liguria. Lo scopo dell’opera è quello « di far conoscere i migliori vitigni che possediamo, stabilendone i caratteri, indicando i luoghi ove si coltivano, e combinandone la sinonimia nello stato presente della coltura » 197. Di fronte al problema della sinonimia, che allora come oggi affligge ogni ampelografo (sia il tecnico che lo storico), il Gallesio riconosce che l’unico metodo valido è quello « dell’esame individuale dei vitigni percorrendo al tempo della vendemmia i paesi dove si coltivano » 19s. Da questa larga esperienza di naturalista-viaggiatore deriva una somma di osservazioni che ci consentono non solo di ricostruire la distribuzione geografica dei principali vitigni della Liguria e dei più diffusi sistemi di coltivazione, ma anche di porre i maggiori problemi della storia della viticoltura ligure. Sono sostanzialmente due le più importanti varietà di vitigni diffuse in Liguria: il vermentino e il rossese. Il vermentino « è il vitigno prediletto del Genovesato, e quello che gode la riputazione la più estesa fra le varietà che si coltivano da Ventimiglia a Sarzana. La sua fecondità, la precocità e la dolcezza della sua uva, e le qualità del vino che produce formano un insieme di pregi difficili a trovarsi riuniti in un altro vitigno ». Il Gallesio aggiunge ancora che quando le viti di Vermentino siano coltivate « in luoghi aprichi, tenute basse e potate a pochi occhi... il suo vino naturale è un vino asciutto, maturo e gentile che somiglia ai vini del Reno. Quando si fa prendere all uva un mezzo appassimento e si priva così di una parte della sua acqua di vegetazione, queste qualità aumentano di intensità, e si ottiene un vino secco ma più generoso e di maggior corpo somigliante ai vini di Grave. Se poi il disseccamento dell’uva è tale da lasciare la parte zuccherina in una proporzione più forte, allora il vino che ne risulta prende le qualità di vino-liquore. Ma anche in questo caso il vino di Vermentino si distingue da quello di altre uve: ei non ha mai il mieloso dei vini moscati e dei vini santi; ei conserva il secco che gli è proprio e G. Gallesio, Pomona cit., s. v. Uva Vermentino. L’opera del Gallesio, che venne pubblicata a dispense, si trova variamente rilegata nelle biblioteche, pertanto mi imito a indicare, al posto della pag. e del volume il titolo della monografia sotto a quale sono raccolte le osservazioni dell’A. G. Gallesio, Pomona cit., s. v. Uva Fuella. — 294 — il dolce che spiega resta così ben combinato cogli altri principi che cangia carattere e prende un rilievo che lo fa gareggiare coi vini di Spagna e lo avvicina al Tokai del commercio e al Capo » Dopo aver osservato che « un vitigno così prezioso non poteva essere ignorato in Italia nei tempi in cui i nostri vini andavano nel commercio in paragone di quelli di Francia e di Spagna non ancora perfezionati », e non trovandone traccia, in questi secoli, sotto il nome di Vermentino, crede di poterlo identificare con il vino famoso, nel Quattrocento e Cinquecento, sotto il nome di Vernaccia e composto principalmente dalla qualità di uva che nelle Cinque Terre è nota sotto il nome di Piccabon 200. Malgrado la fortuna della Vernaccia il Gallesio osserva che « il Vermentino è ancora al presente un’uva tutta genovese. Dalla parte occidentale di questa regione essa non è andata al di là della Provenza... dalla parte orientale io non l’ho trovata che sino a Pietra-Santa. Il primo paese ove si incontri come uva classica c il territorio di Ventimiglia. A dir vero essa non abbonda moltissimo in quel paese, perchè vi regnano le uve nere, e fra queste il Rossese di Dolce-acqua, uva particolare da cui si cava un vino da pasteggiare, asciutto che ha della analogia col vino di Nizza. Vi primeggia però fra le bianche e cuopre i pergolati che circondano le magnifiche villeggiature dei Ventimigliesi nella deliziosa valletta di Latte. Tutti conoscono e apprezzano il Vermentino nel resto della Liguria occidentale, ma soltanto il Finarese e il Savonese forniscono dei vini fini. Nel resto di quel territorio eminentemente oleifero, si coltiva come uva di lusso da servire alle mense più tosto che da far vino. E’ questo l’uso del Vermentino nei contorni di Genova e in tutta la provincia di Chiavari, ma nell’entrare nel territorio di Levanto ei ritoma a prendere il suo ascendente e lo conserva nelle Cinque Terre, ove primeggia sopra tutte le altre varietà fra il Rossese e l'Albarola sotto il nome di Piccabon. Usciti dalle Cinque Terre, ei riprende di nuovo il nome di Vermentino e lo mantiene nel Sarza-nese, nel Massese e nel Pietrasantino, ove la sua coltura diventa meno estesa e dove finisce » 201. Il Rossese si può considerare « la vite classica della Liguria orientale: è un vitigno vigoroso che produce bene in qualunque modo si tenga... Il vino è bianco, sottile, secco e spiritoso e di serbo, e se la vite è in luogo aprico, somiglia ai vini del Reno. Quando se ne limita la fermen- 199 G. Gallesio, Pomona cit., s. v. Uva Vermentino. 200 Questa identificazione non è accettata da G. Molon, Am pelo grafia, Milano 1906, II, p. 1194. 201 G. Gallesio, Pomona cit., s. v. Uva Vermentino. - 295 - tazione prende un pizzico che piace a molti, e quando è concentrato acquista uno spirito che lo avicina al vino di Madera ». Quanto alla sua area di diffusione oltre alle Cinque Terre, dove produceva il famoso vino Raz-zese, « era estesa da tempi remotissimi a tutta la Liguria, e specialmente alle belle colline di Savona, conosciute anche al presente per i loro vini bianchi, che uniscono al secco dei vini francesi la fragranza dei vini di • 202 Spagna e una leggerezza che gli rende proprj a pasteggiare » . Notevole diffusione aveva in Liguria anche l’uva Albarola o Bian-chetta del Genovesato-. « una delle uve colle quali è composta il vino famoso delle Cinque Terre, e quello specialmente con cui si fa il vino-liquore celebrato dal Baccio sotto il nome di Amabile ». « La sua coltivazione comincia nella Polcevera, dove è conosciuta sotto il nome di Bianchetta e dove forma il fondo dei vini secchi e gentili di Coronata e dei suoi contorni. Essa continua nella Riviera di Levante e conserva il suo nome genovese di Bianchetta sino a Sestri. Giunti a Levanto comincia a cangiarlo per prendere quello di Albarola, che conserva nelle Cinque Terre, ove spiega tutte le sue qualità in grazia del modo ingegnoso con cui è tenuta a pergole basse, che l’espongono a tutta la forza del calore solare riverberato dal sole » 203. Un’altro antico vitigno ligure è quello dell’uva Claretto di Nizza o Pignola Bianca che entra nella composizione del vino di Nizza, conosciuto sotto il nome di Belletto e che risulta diffuso anche nel Genovesato, « ove gode di molta reputazione, sebbene sotto altri nomi. I Savonesi la distin guono con quello di Caviorna, ed è una delle uve che entrano nella composizione dei vini famosi di Albisola e di quelli di Legino che hanno ispirato così felicemente il nostro Chiabrera. In Finale dove è stata introdotta da tempo antichissimo, vi riceve il nome di Uva Pignola bianca e lo conserva in molti altri luoghi del littorale... Il vino della Claretta, fatto separatamente con metodi ordinarj è bianco, sciolto e secco, ma leggiero e di poco corpo: unita al mosto delle uve nere concorre a darvi l’asciutto e ne corregge l’asprezza e la densità » 204. Analoga diffusione e funzione ha l’uva Crovino o Trincherà di Nizza, una uva nera usata prevalentemente per correggere l’asprezza delle uve bianche; mentre l’uva Barbarossa, di origine toscana, risulta soprattutto diffusa nel Finale. 202 G. Gallesio, Pomona cit. s. v. Uva Rossese. 203 G. Gallesio, Pomona cit., s. v. Uva Albarola. 204 G. Gallesio, Pomona cit., s. v. Uva Claretta di Nizza. — 296 — Interessanti e ancora da verificare le osservazioni di carattere storico. A proposito dei moscati osserva per esempio che « dopo che i Francesi hanno applicato il metodo dell’incollamento e del solfa-mento ai Moscati di Lunel e di Frontignano, tutti gli altri hanno ceduto il posto a questi, e non vi era rimasto che l’Aleatico di Firenze che si sostenesse... Ora i moscati sono caduti tutti, nè ardiscono più comparire nelle mense di lusso, ove si preferiscono i Madera, i Heres, i Ximenes... i Moscati si sostengono solo nelle taverne o nei conviti famigliari dei paesi che ne abbondano e nei quali il gusto pel dolce e pel profumato prevale ancora... » 205. A queste cause il Gallesio si richiama, più in generale, anche per spiegare la decadenza delle famose vernacce liguri e toscane: « dopo che gli speculatori oltramontani hanno trovato il modo di dare ai loro vini la resistenza all’azione intima del fermento e a quella del contatto dell’aria rendendoli capaci di agitazione e di viaggi, essi hanno invasa l’Italia e il loro basso prezzo, unito alla proprietà di conservarsi lungo tempo, gli hanno vinta la concorrenza e hanno scacciato dalle mense di lusso i vini fini del nostro territorio. Forse la moda vi ha avuto la sua parte e il gusto deciso dei Toscani per i vini neri si è unito alla moda per escludere le uve bianche... » 206. In sostanza la causa fondamentale della decadenza della viticoltura ligure consisterebbe soprattutto nella concorrenza dei vigneti spagnoli e francesi che, sollecitati soprattutto dalla domanda del mercato americano, registrano un grande sviluppo e un notevole miglioramento nelle tecniche di vinificazione e di trasporto a lunga distanza. È un’ipotesi che credo sia ancora proponibile anche tenendo conto delle più recenti indagini sulla storia della vite in Europa e tenendo presente non solo le sollecitazioni del mercato americano, ma anche di quello europeo. La caduta della viticoltura è in Liguria complementare alla parabola ascendente dell’ulivo e, come si è già accennato, la divergenza sembra accentuarsi soprattutto dalla fine del Settecento quando l’espansionismo dell’ulivo, in particolare nella Liguria occidentale, scaccia la vite, come, ancora nel 1872, ricordava uno scrittore di Taggia: « dall’epoca della dominazione francese, per l’avvenuto rialzo nel prezzo degli olii e il ribasso nel prezzo de’ vini, si cominciò a piantar un 'oliveta ovunque c’era un posto disponibile e le vigne scomparvero... La vite abbondava una volta sulle 205 G. Gallesio, Pomona cit., s. v. Uva Moscadella Nera. 206 G. Gallesio, Pomona cit. s. v. Uva Vermentino. — 297 — 7 nostre colline... attualmente non si ha più la provvista per l’intero consumo. Confinata ad alcune località presso i boschi troppo rigide per gli ulivi, e negli orti ove per i frequenti inaffiamenti dà un prodotto di qualità inferiore, la vigna è scomparsa dalle colline » 207. Concludeva, come abbiamo già visto fare numerosi agronomi dell’Ot-tocento, ribadendo la convenienza di « ritornare in parte all’antico siste-ma, giacché attualmente gli olivi, toccandosi e intrecciandosi l’uno l’altro ne rami e nelle radici, non possono produrre che fogliame... » 208. Non è questa la sede per ricostruire la storia recente della vite in Liguria, ma, fra gli elementi di cui si dovrà tenere conto, particolare importanza ha ancora una volta il mercato, la congiuntura economica, la quale è in larga misura determinata non solo dalla lenta crisi olivicola della quale abbiamo già posto in evidenza alcuni fattori — ma anche dalla infezione filosserica, la quale, colpendo i vigneti francesi prima di quelli italiani, suscita anche in Liguria una più forte domanda sia interna che esterna, come nota anche l’inchiesta Jacini 209. Un altro aspetto che si dovrà tenere costantemente presente è rappresentato dalle tecniche di coltivazione, da considerarsi non solo come sintomi di decadenza o come fattori di ripresa, ma anche come agenti modellatori dei paesaggi agrari. A questo proposito un’abbondante messe di informazioni, finora non adeguatamente utilizzate, forniscono sia 1 inchiesta Jacini sia la precisa monografia del Cappi210. Ambedue indicano 207 G. Martini, Taggia e i suoi dintorni, Oneglia 1872, pp. 60-61. -08 G. Martini cit., p. 60. Aggiungeva: « richiamando alla prisca coltura delle viti una porzione di quelle colline che l’esperienza ha dimostrato poco adatte alla prospera vegetazione dell’ulivo, si potrebbe pure rimettere in onore la coltura del mandorlo, che attecchisce benissimo ne’ terreni secchi e molto soleggiati. In tali località v erano un secolo addietro moltissimi mandorli» (p. 61). Sulla coltivazione della vite nella Valle Argentina negli ultimi decenni delPOttocento cfr. le interessanti corrispondenze di G. B. Tirocco, in « Bollettino Società dei Viticoltori Italiani », 1888-1889. Per esempio, il 18 ottobre 1888, notava che «la Valle Argentina da un decennio a questa parte, si è cambiata in un vero vigneto si potrebbe dire specializzato ». Fra le varietà selezionate notava il brachetto, il crovaiolo, il rossese, la barbarossa e Yormeasca (dolcetto). A. Bertani, Relazione sulla Vili Circoscrizione (Porto Maurizio, Genova e Massa Carrara), in Atti Giunta per l’inchiesta Agraria, X, Roma, 1883, P- 323. 210 A. Bertani, cit. p. 319 e segg.; G. Cappi, La viticoltura e la vinificazione nelle tre Provincie della Liguria, Milano 1887. Quest’opera si basa su un preciso que- — 298 — che gli ultimi decenni dell’Ottocento sono caratterizzati da profonde trasformazioni e da un indubbio miglioramento nella viticoltura, dovuto in gran parte all’opera dei Comizi Agrari. A questo proposito sarà sufficiente citare un solo esempio che si riferisce allo sviluppo della moderna viticoltura nell’Albenganese. Ai primi dell’Ottocento, il Piccone citava la piana di Albenga « per l’ampiezza e fertilità del terreno, il languore e lo stato deplorabile della coltura » e vedeva nella viticoltura « il piano di una coltivazione più ricca, più attiva », di cui già esisteva « il modello nella mole dei grappoli che pendono dalle loro ville suburbane e nell’eccellenza de’ loro Ciamboschv. ma fatalmente il totale prodotto non è che un picciolo saggio del prodotto possibile ». Si richiamava anche all’esempio dell’agro sarzanese e del chia-varese dove « una selva di pioppi, di frassini, di salici prestano l’appoggio maritale ad una selva di viti»211. A metà dell’Ottocento, nella Descrizione di Genova e del Genovesato, fra « i vigneti che danno il miglior vino » si citavano anche quelli di Albenga, insieme ad Albisola, Polcevera e Cinque Terre212. Ma è soltanto nel 1873 che il Comizio agrario circondariale, conscio degli inconvenienti che all’industria viticola derivano dalla molteplicità delle qualità di viti che si coltivano, « ordinò una mostra di tutti i vitigni coltivati nel circondario allo scopo di potere studiare tutte le qualità di viti coltivate e poscia emettere il suo ragionato parere sulla convenienza di abbandonare quelle varietà meno adatte e ritenere le più convenienti, e dare più abbondante raccolto unitamente ad un tipo unico di vino ». Le varietà censite furono 20 di uve nere e 16 di uve bianche. Fra le prime fu scelto il bracchetto stionario che non trascura nè la natura, qualità e distribuzione dei vitigni, nè i sistemi di coltivazione e di vendemmia, nè infine i redditi e le spese sia per la cultura specalizzata sia per quella promiscua. Sempre per lo stesso periodo si può utilmente consultare anche L. Beretta, La viticoltura e l’enologia in Liguria, Genova 1884. Non ho inteso trattare, in questa sede, della distribuzione della vite in Liguria nelPOttocento, per la quale offre un buon punto di partenza (come per molti altri aspetti dell’economia agraria nel XIX secolo) G. Felloni, Popolazione e sviluppo economico della Liguria nel secolo XIX, Torino 1961; nuovi dati anche in E. Grendi, Introduzione cit., pp. 94 e sgg. 211 G. M. Piccone, Saggi cit., I, p. XXV-XXVI. 212 Descrizione di Genova cit., II, p. 94. Ma si vedano anche le osservazioni, attribuibili a G. B. Spotorno, in G. Casalis, Dizionario cit., s. v. Savona; come pure le osservazioni di ignoto autore s. v. Oneglia e La Spezia. — 299 - « sia per essere la varietà più diffusa e conosciuta nel circondario, sia perché dà il più abbondante prodotto in ogni qualità di terreno, in rapporto sempre alle altre, sia perché somministra eccellente vino, il quale gode già stima in commercio, sopra ogni altro; sia per essere tal vino fornito dei necessari elementi alcolici e zuccherini da resistere anche a lunghi viaggi di mare in caso d’esportazione ». Fra le uve bianche la scelta cadde sul pigato di Albenga, « chiamato vermentino a Loano, Pietra Ligure e Finale » . Fra i due vitigni ebbe maggior fortuna il pigato, che è oggi considerato uno dei vini più pregiati della Liguria: è una conferma di quella « vocazione » per i vini bianchi che siamo andati documentando per tutto il corso della storia della vite e del vino in Liguria. 6. Una cultura fortemente commercializzata: gli agrumi. La cultura degli agrumi in Liguria, pur avendo caratterizzato talvolta in modo predominante il paesaggio agrario di alcuni tratti del litorale ligure, è stata finora del tutto trascurata dagli studiosi moderni. Sarà forse perché oggi questa coltivazione, a differenza dell’ulivo e della vite, si riduce a poche piante inselvatichite che hanno più una funzione ornamentale che economica 214. Si tratta quindi di una componente dei paesaggi agrari della Liguria che è oggi possibile ricostruire rifacendosi quasi esclusiva-mente alla documentazione storica. L’interesse maggiore di uno studio siffatto consiste, credo, nella possibilità di cogliere, ancora una volta, alcuni caratteri originali della stona agraria della Liguria: un’indubbia funzione di « relais » nell’introduzione e diffusione in Europa delle più importanti varietà, una precoce commercializzazione in conseguenza di una notevole specializzazione nella coltivazione delle specie più richieste e di avanzate tecniche di produzione. 213 A. Bertani cit., p. 322. Anche secondo M. Maglioni, L’Italia agricola. Monografia del circondario di Albenga, Albenga 1881, pp. 130; il pigato va identificato con il vermentino. Le indagini più recenti tendono invece a distinguere i due vitigni (cfr. R. Carlone, «Pigato», Treviso 1962: riconosce tuttavia che è molto simile al vermentino e che per tale ragione è stato confuso con quello, non ritrovandone menzione nei trattati di ampelografia). 214 Si pensi ai viali alberati di aranci che si trovano ancora a Nervi e a Diano Marina, come residui di una cultura le cui fortune economiche, anche dal punto di vista ornamentale, sono da tempo tramontate. — 300 — Anche questa coltura pone interessanti problemi di introduzione e diffusione che furono soprattutto affrontati dal Gallesio, nel Traité du Citrus, del quale si vedano innanzitutto le interessanti premesse metodo-logiche: « l’histoire du citrus a été l’objet du chapitre IV : il étoit intéressant, pour compléter ce Traité, de rassembler aussi quelques détails historiques relatifs aux transmigrations de ces beaux végétaux: mais ce n’est pas seulement pour faire un luxe d’érudition que je me suis appliqué à des recherches longues et pénibles sur ce sujet; mon but principal a été de jeter de la lumière sur les problèmes physiologiques que j’avois tenté de résoudre, et d’en appuyer la solution par des observations et pat des faits puisés dans l’histoire... je me suis efforcé de tracer la veritable histoire agricole de cette famille et des branches qui la composent, plutôt pour connoître la marche de la nature dans l’acclimatation de ces végétaux, et les causes qui en ont entravé ou facilité les progrès, que pour relever la gloire de ceux qui en ont enrichi nos climats » 215. Per quanto siano molti gli spunti di « veritable histoire agricole », anche in questo caso (come già per l’ulivo e anche per il fico), è un vero peccato che l’A. non abbia completato la sua opera con la parte stretta-mente agronomica, la quale doveva fra l’altro contenere « un traité de sa culture et de ses maladies, des observations sur les gelées et leurs phénomènes et l’histoire de plus célébrés gelées que cet arbre a souffertes dans le pays méridionaux de la France » (p. XIV). Ciascuna delle tre specie fondamentali del genere « citrus », vale a dire cedri, limoni e aranci, ha una sua storia. Secondo il Gallesio le tre specie si sono acclimatate in Europa secondo questo ordine: mentre i cedri vi erano già coltivati negli ultimi secoli dell’impero romano, i limoni e gli aranci erano ancora sconosciuti nel X e XI secolo. Coerentemente con quanto proporrà più tardi a proposito delYUlivo gentile, il Gallesio ritiene che fu in conseguenza delle crociate che « i Siciliani, i Genovesi, i Provenzali trasportarono a Salerno, a Sanremo e a Hières il limone e l’arancio » (p. 255), ma non esclude che anche gli Arabi abbiano avuto un ruolo considerevole nella diffusione di queste piante in Africa e Spagna 215 G. Gallesio, Traité du citrus, Paris 1811, pp. XIII-XIV. Le citazioni di pagine nel testo si riferiscono a questo volume. 216 G. Gallesio, Traité cit., pp. 254-258. Analoga anche l’interpretazione di A. Risso, Histoire naturelle des principales productions de l’Europe Meridionale et - 301 - Il tentativo del Gallesio di dare una periodizzazione alla diffusione del limone e dell’arancio in Italia incontra notevoli difficoltà nella terminologia usata nei secoli medievali per designare le diverse specie e varietà di agrumi. La stessa difficoltà incontriamo anche noi, se vogliamo, per esempio, stabilire che cosa si nasconda sotto la più antica e diffusa denominazione di « cereus », che abbiamo già incontrato in documenti medievali che si riferiscono al Basso Ponente (Sanremo e Diano, per es.), o ancora per districare l’ingarbugliata matassa dei nomi attribuiti alle varietà di arancio e, per stabilire per esempio, quando si è diffuso il nome dialettale di « citroni » per indicare l’arancio (e quale tipo di arancio?). Malgrado tali difficoltà non c’è dubbio, come riconosce ancora il Gallesio, che la Liguria sia la regione italiana in cui la cultura degli agrumi fa, nei secoli medievali, i maggiori progressi. Un’esplicita testimonianza in questo senso è fornita da Matteo Selvatico, un medico mantovano che verso la metà del XIII secolo scrive: Limon est fructus ex speciebus pomorum citrinorum, quae sunt quatuor: citrum primum, et citr angulus... tertio est limon, et quarto est lima vulgo dicta, quae omnes notae sunt maxime in Liguria. Sulla base della descrizione che lo stesso Selvatico dà dei frutti e delle piante, il Gallesio ha identificato il cedro (citrum), 1 arancio amaro (citrangulus), il limone e il pomo d’Adamo (lima)2X1 ■ Forte di questa preziosa testimonianza (e di altre coeve) il Gallesio può affermare che « la Sicile et le royaume de Naples ont cultive, peutêtre avant le Liguriens, le citronier et l’oranger; mais, malgré l’avantage du climat, cette culture n’a été pendant long-temps dans ce pays qu’un objet de curiosité, borné à quelques endroits délicieux »: è una tesi che di recente è stata confermata da uno studio esemplare sui paesaggi agrari medievali della Conca d’Oro di Palermo218. Un problema particolare pone l’introduzione dell’arancio a frutti particulièrment de celles des environs de Nice et des Alpes Maritimes, Paris 1826, t. I, p. 343. Non mi è riuscito di reperire l’opera espressamente dedicata agli agrumi da A. Risso - G. Poiteau, Histoire naturelle des orangers, Paris 18222. 2,7 G. Gallesio, Traité cit., pp. 264-269. Interessante anche quanto M. Silvatico aggiunge a proposito del fatto che mulieres nostrae nicienses et pedemontanae dant huiusmodi acetositatem cum oleo pueris eius contra vermes et juvantur (cit. in G. Gallesio, Traité cit., p. 269). 218 G. Gallesio, Traité cit., p. 270. Lo studio è quello di H. Bresc, Les jardins de Paierme, in « Mélanges de l’Ecole française de Rome », t. 84, 1972, p. 55 e sgg. — 302 — dolci, che, secondo l’opinione prevalente, si diffuse in Europa nel XVI secolo ad opera dei Portoghesi, mentre secondo il Gallesio è ai mercanti italiani e soprattutto ai genovesi che si deve il trasferimento di questa pianta dalla Siria in Europa. Anche in questo caso l’ipotesi del Gallesio risulta confermata dalla documentata notizia che l’arancio dolce è presente in Sicilia prima del 1487 219. I genovesi non erano solo interessati al commercio degli agrumi come riconosce il Gallesio ma dimostrano di apprezzare, assai precocemente, l’arancio anche come pianta ornamentale e per esempio, nel 1369, il Comune fa piantare dodici alberi di arancio nella piazza di S. Tommaso 220. Erano due in Liguria le aree in cui la coltura degli agrumi aveva assunto fin dal medioevo un’importanza tale da costituire un elemento caratterizzante del paesaggio e dell’economia agraria. Sanremo a ponente e Rapallo a levante. Del golfo di Rapallo il Bracelli nel 1418 diceva: hinc vinum, oleum, castane ac citroni, sic vulgariter nominati, in magna copia transferuntur » 221. Di Sanremo si limita a dire citri ferax, mentre maggiori particolari dà il Giustiniani al principio del Cinquecento: « Il territorio di San Remo è tutto pieno di Citroni, Limoni, Cedri e Aranzi non solamente dilettevoli al vedere e buoni al gusto ma di grande utilità, come che questi frutti si portino per mare e per terra in più luoghi; vi sono ancora moltitudine di alberi di palme, i frutti de’ quali non pervengono alla maturità, e il Pontefice Romano è solito ogni anno mandare un cursore a comprar le palme per la so- 219 G. Gallesio, Traité cit., p. 315 e sgg. Diversa l’opinione di A. Risso, Histoire naturelle des principales cit., II, p. 345; dove si sottolinea il ruolo dei portoghesi, negando l’interpretazione del Gallesio. Ma lo studio recente di H. Bresc cit., p. 73, documentando appunto l’esistenza dell’arancio dolce già nel 1480 conferma la tesi del Gallesio. Cfr. anche J. M. Houston, The western mediterranean world. An introduction to its régional landscapes, London 19672, p. 122. 220 A. Merli - L. T. Belgrano, Il Palazzo del principe d’Oria a Vassoio in Genova, in « Asli », X, 1874, p. 5. In questi anni risulta già molto attivo il commercio di agrumi di Sanremo fatto dagli stessi sanremaschi. Per esempio nel 1359 un Sappia di Sanremo promette a un mercante di Avignone di trasportare nella citta pontificia, prima della metà quaresima da 40.000 a 60.000 aranci. Contratti simili sono rogati a Arles anche negli anni seguenti: i notevoli quantitativi sbarcati non erano solo diretti al consumo locale, ma venivano anche ridistribuiti nelle regioni circostanti (cfr. L. Stouff, Les relations cit., p. 180). 221 G. Andriani, Giacomo Bracelli cit., p. 246. - 303 - lennita qual si celebra la Dominica inanti la Pasqua. Gli Hebrei etiandio di Alamagna e di altri luoghi mandano a comprar dei cedri, per la solennità dei Tabernaculi, a S. Remo » 222. La fama degli agrumeti di Sanremo era nel Cinquecento ben viva anche in Francia se F. Rabelais nel libro V (cap. XXXIII) di Gargantua e Vantagruele, così si esprime a proposito del vigneto del tempio della Bottiglia: « le dette vigne furono piantate un tempo dal buon Bacco, con tal benedizione, che portavano foglia e fiore e frutto in ogni stagione, come gli aranceti di San Remo ». Fra le molte descrizioni del singolare paesaggio agrario di Sanremo, che potrebbero citarsi mi piace riferire ancora quella del tutto inedita di F. Casoni: « Sanremo, terra grassa, popolata e mercantile... comanda ad un fertile et amenissimo territorio popolato per ogni parte da boschetti di limoni, per mezzo dell! quali torreggiano gli alberi delle palme con grandissimo spetacolo de’ naviganti. Nel tempo poi che fioriscono i cedri e i limoni tale fragranza ne ridonda nel vicino mare che la gustano i naviganti anco in lontananza di molte miglia da terra... » 223- Che la Liguria fosse nell’età moderna la regione italiana in cui la cultura degli agrumi era più avanzata e produttiva è anche dimostrato dal primo trattato italiano sugli agrumi dovuto a G. B. Ferrari 224. Vi si da questa moderna versione della leggenda dei giardini delle Esperidi: « Igitur in agrum Saiodii fertilem et iucundum, fluctuosi Benaci oceano appositum, cum sua citro concessit Aegie. Ligusticam in oram, perpetuo veris tepore soe-cundam, transtulit malum limoniam Arethusa. Denique Hespertusam, aurantiae mali cultricem, cum Brutia tellus, tum Campania Felix, deliciis omnibus portuosa, pellexit » (p. 50). È una evidente specializzazione: la cultura del cedro ha il suo centro sul lago di Garda, quella del limone sulle coste liguri e infine quella del- 1 arancio nell Italia meridionale. Il Ferrari ammette però che in Liguria erano diffuse e sagacemente coltivate anche le altre specie di agrumi. Oltre ai limoni di Sanremo e liguri, ricorda infatti una varietà « genovese » di 222 A. Giustiniani, Castigatissimi Annali cit., c. Ili v. F. Casoni, Breve Descrizione della Liguria e della città di Genova, in A.C.G., Manoscritti Brignole Sale, n. 110 bis E 15, c. 3. 4 B- Ferrari, Hesperides sive malorum aureorum cultura et usu, Roma 1646. Le citazioni di pagine nel testo si riferiscono a questa opera. — 304 — cedro e di lumia, e quando parla di produttività degli aranci non trova di meglio che citare esemplari di Sanremo che producono fino a 2000 frutti. Frequenti anche i riferimenti alla Liguria nella trattazione dei sistemi di coltivazione, e in particolare dell’irrigazione, che presentano caratteristiche diverse nella Riviera di Ponente — rigant per aestivos tantum calores altero quoque tertiove die Genuenses, post quindenos vero dies in ora que vulgo dicitur Divi Remi — rispetto alla Liguria orientale, in alcuni luoghi della quale aurei mali arbor densa et plurima, olei intersita, citra opem aquationis, misto nemore feliciter adolescit (p. 125). Dove, non solo il Ferrari sembra tener conto delle diverse caratteristiche climatiche delle due Riviere, ma, cosa più interessante, sembra individuare due diversi sistemi di coltivazione riconducibili, nella Liguria orientale, alla già notata promiscuità delle piantagioni (misto nemore) e nel Ponente alla tendenza alla specializzazione. In un interessante capitolo, interamente dedicato alla Liguria e intitolato Arboris limoniae situs, il Ferrari tratteggia efficacemente (anche se in un latino eccessivamente barocco) il fondersi di condizioni naturali e umane che è all’origine dei ligustici Hesperidum horti: « Haec sese felicitas illi potissimum plagae induisit, ubi theatralem in speciem, ad assidui veris autumnique laetum spectaculum, naturae artifìcio ample lunatus Ligurie sinus, prima videlicet inchoantis Italiae amoenitas, perpetuis ?. tergo Apennini iugis, sterilem septentrionis hiemen summoventibus, fertilem ab insinuante se austro marique teporem concipit: unde felicissimo dignus conceptu, aureus Medici mali toto anno partus existit. Accedit nihil non superans genuensis industria: quae nativa saxa sic edomat et mansuefacit, ut auriferis arboribus amenissime silvescere doceat. Quidni enim opulentissimae urbis opes suas iam non capientis, res quoque agrestis auresceret? Quidni amplissima scena villarum, aedibus magnificentissimis urbem ruri continuantium, silvis etiam, intermicante fructu pulchre virentibus, coruscaret? In hoc naturae gaudentis theatro sublimis atque spectabilis contemplatrix et miratrix Genua, deliciis suis utrinque beata sic fruitur, ut quibus magis applaudat, ignoret. Interim odoratae medicarum arborum filiae, ligusticae aurae sic e portu solventibus aspirant, ut, dum vela impellunt, beato e litore aegre abeuntium animos retineant ipsosque vectores, quibus adversae restant, vehementius ad se rapiant. Quin etiam qui lungo tractu ad vigesimum usque milliare marinas per undas porrigitur iucundus odor, illud efficit, ut sinus ligusticus novo dici debeat nomine Oceanus odoratus » (p. 341). Il Ferrari infine dà una singolare sintesi grafica dell’agrumicoltura ligure: una bella incisione in cui, nel ricco scenario di una villa genovese, sono rappresentate le principali operazioni e attrezzi della coltivazione degli agrumi. Negli anni in cui scriveva il Ferrari, il commercio degli agrumi, e in - 305 - particolare dei limoni di Sanremo, aveva acquistato una notevole importanza se attirava anche mercanti forestieri, come quel Berardo Portelli, veneziano, che nel 1662 stipula un contratto con la comunità di Sanremo, obbligandosi a « raccogliere e smaltire ogn’anno venticinque milioni di Limoni a L. 6 per migliaro ». Tale contratto concedeva al mercante veneziano il monopolio della vendita dei limoni, riconoscendo gli stessi san-remaschi che la produzione annuale non superava i 27 milioni di limoni « mercantili ». Dai documenti prodotti nella controversia, che tale contratto suscitò fra gli stessi mercanti e produttori di Sanremo, risulta che ogni anno erano spediti nelle Fiandre e in Inghilterra circa 16.000 casse di limoni « minuti » (detti anche « alla tedesca ») e che la produzione di « tutte le frutte di S. Remo, escluse le tedesche » ammontava a 17 milioni di pezzi. Il Comune ricavava inoltre lire 8.000 dalla « gabella del-l’estrattione de’ Limoni » e lire 1.000 dalla gabella della « frutta tedesca » e ancora lire 900 dall’impresa dell’agro 225. Si comprende perciò come nelle additiones cinquecentesche agli statuti della comunità di Sanremo si riconosca innanzitutto che « tutto il luogo di S. Remo si mantiene delli frutti, quali ivi nascono, e che è il maggiore e principale negotio che ivi si faccia, massime di cetroni e limoni e senza quello quel luogo se n’anderia distrutto e rovinato » 226. Di qui, sempre negli Statuti, la minuziosa regolamentazione di tutte le fasi della produzione e commercio degli agrumi che si fa più vincolante e severa ad ogni riforma. Non è questa la sede per riferire dettagliatamente tale organizzazione che, pur distinguendosi per alcuni tratti originali, si può accostare alle norme che regolano, in altri paesi mediterranei e in particolare in Spagna, le attività orticole 227; per il momento mi limito a pren- 225 A.S.G., Magistrato delle Comunità, n. 860. Ampia documentazione anche in Sezione Archivio di Stato di Sanremo (S.A.S.S.), Carte Pinelli, n. 27. 226 Degli Statuti di Sanremo esistono diverse copie manoscritte sia in Sanremo sia a Genova. Ho tratto le citazioni che seguono nel testo dalla tesi di laurea di E. Balbo, Contributi alla geografia storica degli agrumi nel Sanremese, Fac. Magistero, Univ. Genova, a. acc. 1971-72; che ha trascritto i capitoli riguardanti la cultura degli agrumi da copie conservate nell’Archivio Storico del Comune di Sanremo e in S.A.S.S. 227 Ma anche in Provenza e in Linguadoca: cfr. N. Coulet, Tour une histoire du jardin. Vergers et potagers à Aix-en-Provence: 1350-1450, in « Le Moyen Age », XXII, 1967, p. 254 e sgg.; E. Le Roy Ladurie, Les paysans cit., p. 86 e sgg. Per ulteriore bibliografia si veda anche H. Bresc cit., p. 57 e sgg. — 306 — dere in considerazione i « decreti delle acque », in base ai quali è possibile dare un’idea dell’organizzazione e dei paesaggi agrari prevalenti nel territorio di Sanremo. Fra il più antico testo statutario, che risale, con ogni probabilità, ai primi secoli del basso medioevo, e i nuovi decreti delle acque del 1608 si nota una notevole evoluzione che è indicativa dello sviluppo dell’agrumicoltura e delle crescenti preoccupazioni della comunità per assicurare sia la la quantità sia la qualità della produzione. Anticamente infatti la legislazione statutaria si limitava in sostanza a riconoscere i diritti acquisiti sulle acque, demandando ai partecipes di una chiusa o canale la divisione delle acque e la definizione di eventuali controversie, limitando il diritto dei nuovi utenti solo a quelle acque non ancora divise o vincolando le nuove utenze al consenso dei partecipes già costituiti. Nei decreti del 1608 la distribuzione delle acque è invece assunta completamente dalla collettività che ogni anno « al tempo dell’estate » (quando cioè si verifica « la gran carestia dell’aque ») elegge due « soprastanti alle aque » per ogni vallone o « fossato ». I valloni sono due: il Vallone della Madonna del Convento e il Vallone del Pescio o Tinasso, ciascuno con diversi canali. Per ciascun vallone sono previsti turni settimanali di distribuzione dell’acqua che garantiscono l’irrigazione di tutti i giardini almeno una volta la settimana. Si prendeva ogni cura affinchè non si verificasse alcuno spreco d’acqua e si comminavano pene severe a quanti in « tempo di divieto » irrigassero le piante di agrumi, al di fuori dei turni stabiliti, o a quanti irrigassero, anche durante i turni, le viti, i castagni (per questi era concessa l’acqua solo tre volte l’anno) o le ortaglie (per queste si prevedevano concessioni di acqua solo ogni quindici giorni). Per gli altri centri di coltivazione degli agrumi in Liguria le informazioni sono più disperse e frammentarie. Sul golfo di Rapallo e in particolare su S. Margherita, definita dal Ferrari citri pomarijs ornatissima m, la documentazione catastale seicentesca (registri di proprietà e caratate) dimostra che le piante di agrumi erano discretamente diffuse nel quadro del classico sistema della cultura promiscua e di per se non davano origine ad alcuna forma di organizzazione di tipo collettivo 229. Altre aree di coltiva- 228 G. B. Ferrari cit., p. 100. 229 Si veda più avanti al paragrafo seguente. - 307 - zione erano Nervi, Levanto, Monegiia, Bonassola e Monterosso 23°. Nella Riviera di Ponente lo Chabrol ricorda che prima del 1782 « l’esportazione annuale di aranci che si faceva a Finale ammontava a più di un milione di frutti»231. Nello Chabrol, sempre a proposito del Savonese, non mancano indicazioni sui tempi di diffusione dell 'arancio dolce e sui modi di coltivazione, la cui verifica potrebbe consentire una più articolata periodizzazione: « On ne les connoissoit pas encore en 1500, epoque à la quelle la culture en étoit déjà très avancée à Gênes, Nervi, Menton, et San-Remo. On commença vers 1500 à l’introduire à Savone, et on y vit bientôt les jardins se couvrir de plantations d’orangers et de citronniers; les gelées emportèrent tous ces arbres à la fin du siècle passé, excepté dans le Finalais ou cette culture ne s’étoit introduite que vers la moitié du dix-septième siècle, mais ou elle prospera d’une manière surprenante; et c’est ancore aujourd’hui une des richesses du pays. Les plantations qu’on fit en premier lieu n’étoient qu’un objet d’agrément et de luxe; ce ne fut que vers la moitié du dernier siècle qu’elles commencèrent à devenir un objet de spéculation. Les prix augmentèrent en proportion du débit; alors on donna à la culture de l’oranger des soins plus attentifs et plus étendus: les jardins se multiplièrent successivement. Les progrès de la culture étoient dûs à la découvert d’une nouvelle espèce, celle de 1 oranger franc. Jusqu’à la moitié du siècle les orangers étoient transportés des pépinières de Nervi, où l’on faisoit un grand commerce. On les greffoit sur l’oranger aigre; ils prospèroient assez, mais ils venoient rarement de la grosseur de l’espèce qu on appelle grana. Cette espèce que les Finalais ont cultivée les premiers en Ligurie...232. Il Gallesio, al quale si rifa in gran parte lo Chabrol, si sofferma a lungo sulle innovazioni dei coltivatori di Finale e sulla base di precise testimonianze vanta la superiorità degli aranceti finalesi anche sui giardini di Palermo m. -30 Ne fanno fede le carte seicentesche, le fonti corografiche e la letteratura storica locale, sulle quali non mi è possibile soffermarmi per il momento. Converrà infatti riprendere questo argomento. Su Nervi si vedrà più avanti. 231 G. Chabrol, Statistique cit. II, p. 177. 232 G. Chabrol, Statistique cit., II, p. 175. 33 G. Gallesio, Traité cit., p. 353: «M. Vacca, propriétaire de Final, et possesseur d une grande quantité d’orangers, se trouvant à Palerme en 1790, fut voir ime maison de plaisance de M. le marquis Airoldi, alors président de Sicile: n’ayant vu que de petits arbres dans ces jardin, ainsi que dans ceux du reste de l’isle, il en témoinga son étonnement, et fit une description si avantageuse des orangers de Final, qu on la crut exagérée; mais les détails dont elle étoit accompagnée étoient si posi- — 308 — Quanto poi al ruolo di Nervi come centro di smistamento delle pianticelle di agrumi in Europa, esso risulta ben documentato nella letteratura agronomica francese del XVIII secolo e per esempio nei noti trattati del-l’Abbé Rozier, che ricorda come i Genovesi avessero stabilito un redditizio commercio, dal quale dipendevano anche i « pepinieristes » della Provenza, che a loro volta smistavano le varietà liguri nella Francia settentrionale, dove si era diffusa la moda della coltivazione in serra di limoni e aranci 234. Più analitiche informazioni sulla cultura degli agrumi in Liguria le dobbiamo all’amministrazione francese, la quale promosse due inchieste (nel 1808 e nel 1812) anche su questo settore dell’agricoltura233. Di particolare interesse alcune lettere di esperti interpellati dal prefetto di Genova: Carlo Di Negro e Giuseppe Grimaldi. Il Di Negro sostiene, per esempio, che il commercio degli agrumi nel Dipartimento di Genova merita grande considerazione e che tale coltura offre « un coup d’oeil magnifique de luxe et de beauté ». Nei comuni più favoriti come Nervi, Bo-gliasco e Corsanego « le voyageur étonné voit avec plaisir ces arbres croître tifs, que M. Airoldi, grand amateur d’orangers et homme très instruit, se décida à faire exprès un voyage a Final pour voir nos plantations: il y vint de 1793 à 1794, et fut si surpris de la beauté de nos arbres, que, retournant en Sicile, il fit partir avec lui une famille de cultivateurs pour faire conduire ses plantations selon la méthode de Final ». Si tratta dunque di un altro caso di trasmissione di tecniche e piante liguri nella Italia meridionale, che pur essendo climaticamente più favorita era nondimento più arrenata sia nell’olivicoltura sia nella coltura degli agrumi. 234 Cfr. Ab. Rozier (a cura di), Cours complet d’Agriculture theorique, pratique, économique..., t. V, s. v. Oranger; cfr. anche A. J. Bourde, Agronomie et agronomes en France au XVIII siècle, Paris 1967, I, p. 437 e sgg. Sulla cultura degli agrumi a Nervi cfr. anche quanto scriveva G. Gnecco, Riflessioni cit., p. 129: « sopra la cura, la coltivazione e il commercio d’ogni qualità di piante e frutti d’agrumi, sono naturalmente abili gli abitanti del luogo di Nervi, attesa la gran quantità che ivi ne hanno. Riescono gli agrumi in detto luogo di perfetta qualità e più durevole che non in altri. Ve n’ha di bellissime piante, le quali ab origine vi si sono sempre mantenute, e vi hanno copiosamente moltiplicato; tale essendo la natura di quel terreno e la dolcezza di quel clima, che favorevoli concorrono alla conservazione ed aumento di sì nobili piante e alla feconda produzione di sì pregiabili frutti ». La produzione di agrumi, oltre ad essere esportata, alimentava l’industria genovese delle confetture che dava origine a una notevole esportazione in Spagna, Olanda, Germania, Inghilterra e nel Levante (cfr. L. Bulferetti - Costantini cit., p. 194). 235 A.N.P., F 10/431-432. - 309 - et vegeter en pleine terre, exposés aux injurs de l’air et former pour ainsi dire des forêts entières parfumées d’une atmosphère odoreuse qui se répend même fort loin ». Sempre secondo il Di Negro gli agrumi, diffusi anche nei comuni di Sestri Ponente e di Pegli, coprivano una superficie di 60.000 m.2, per un totale approssimativo di 12.000 piante 236. È una cifra considerevole: nel Dipartimento di Montenotte, secondo una più precisa statistica del Gallesio, il numero delle piante di arancio ammontava a 5930, di cui 2102 a Finale e 2000 a Savona (il resto era distribuito negli altri comuni e in particolare a Oneglia, Loano e Varazze). Agli aranci si devono aggiungere i limoni di cui il numero doveva superare le 5000 piante 237. Nel Dipartimento degli Appennini, che copre quasi tutta la Riviera di Levante, un calcolo approssimativo dà la cifra di 60.000 piante, distribuite nei comuni di Chiavari, S. Margherita, Rapallo, Lavagna, Sestri, Monegiia, Bonassola, Monterosso, Lerici, Levanto, Portovenere, Framura, Vernazza, Deiva, Spezia e Riomaggiore 238. Precise informazioni le stesse fonti forniscono anche sui sistemi di coltivazione e quindi sui paesaggi. Come abbiamo già notato, nel Dipartimento di Genova, gli agrumi risultano sia piantati a « verger » (a bosco), sia, soprattutto i limoni e i cedri, a spalliera, negli orti e giardini, dove convivono con altre piante da frutto. Lo stesso avviene nel Dipartimento degli Appennini, mentre più articolato appare il quadro che il Gallesio offre per il Dipartimento di Montenotte. Nel comune di Finale si trovano soprattutto boschi di aranci, nel comune di Savona, dove si notano anche i chinotti, le piante sono invece mescolate con gli altri alberi da frutto e con gli ortaggi, mentre boschi di aranci si incontrano nel cantone di Varazze, dove sono molto frequenti anche i limoni coltivati a spalliera, negli orti. Ben avviata risulta in questi anni la coltura e produzione di agrumi a Ventimiglia, dove però sembra che il maggior sviluppo si verifichi verso la metà dell’Ottocento 239. All’inizio dell’Ottocento secondo l’opinione lo- 236 A.S.G., Prefettura francese, n. 1152. Lettera di Carlo Di Negro in data 5-9-1808. 237 A.N.P., F 10/431-432, Tableau Statistique de la Culture et du Produit des Orangers et des Limoniers dans le Départemnt de Montenotte pour servir de complément au Memoire sur les Orangers présenté a M. Chabrol... par M. Gallesio de Final. 238 A.N.P., F 10/431-432. Risposta in data 16-4-1812 del prefetto del Dip. degli Appennini al questionario sulla cultura degli agrumi. 239 G. Rossi, Storia della città di Ventimiglia, Torino 1857, p. 338. — 310 — cale i limoni di Ventimiglia erano da preferirsi a quelli di Mentone e di Sanremo: infatti « sono nella massima parte di qualità “Bignetta”, hanno maggior quantità di agro, e nelle lontane spedizioni resistono più al viaggio, impassiscono nel trasporto ma non marciscono come succede non poche volte a quelli di altri paesi e si conservano sempre in bontà più degli altri » 240. Più antico e considerevole lo sviluppo che l’agrumicoltura aveva preso nel territorio di Mentone, Monaco, Villafranca e Nizza. Secondo il Fo-deré, anche a Mentone esisteva nel Settecento un « Magistrato dei limoni », che, analogamente a quello di Sanremo, aveva lo scopo di sostenere il prezzo e « sottrarre i produttori al monopolio dei grossi mercanti ». All inizio dell’Ottocento, sempre a Mentone, ben 400 uomini risultavano occupati per 4 o 5 mesi nella raccolta e preparazione dei frutti per lo smercio 241. Ancora in età napoleonica, la produzione della sola campagna di Nizza è valutata a circa 10 milioni di frutti ed è considerata in continuo aumento, anche se viene fatto osservare che gli agrumi di Nizza non possono sostenere la concorrenza degli aranci di Maiorca e di Hières, pur avendo il pregio di conservarsi più a lungo 242. I viaggiatori danno spesso ammirate descrizioni del paesaggio intensamente umanizzato della coltura degli agrumi: « On arrive du Cap Martin à Menton par une route délicieuse, au milieu des oliviers et surtout des plus belles plantations de citronniers, qui forment le principal produit de l’industrie des habitants. Ils préferent cette culture à celle des orangers et des cédrats, dont ils n’ont qu’une petite quantité. On fait usage de puits à roues, très-multipliés, pour obtenir l’eau nécessaire pour les arrosages qui sont dirigés avec beaucoup d’art. Comme l’eau est indispensable pour cette culture, elle est récherchée avec une attention dont on ne sauroit se former une idée qu en voyant les travaux et les fouilles considérables qu’on est obligé de faire pour s en procurer, 240 Notizie storiche e statistiche della città di Ventimiglia (1806), ms. della Biblioteca G. Rossi (Istituto Internazionale di Studi Liguri). 241 F. E. Fodere cit., II, p. 106 e sgg. La coltura degli agrumi è attestata a Mentone fin dal secolo XV. Infatti fra i beni e i redditi del dominio signorile verso la fine del XV secolo, sono citati 67 arbores sitronariorum (cfr. A. Fighiera, Menton sous la domination milanaise. Une députation au duc Galéas Sforza en 1470, in « Nice Historique », LVII, 1954, p. 53). 242 A. Fighiera, Les productions de la campagne niçoise au début du XIX siècle d’après l’abbé Bonifaci, in « Nice Historique », LIX, 1956, p. 8. — 311 — et l’attention avec laquelle on s’attache à recueillir dans des citernes celle qui tombe de l’atmosphere, ou qu’on retient par des digues au pied des montagnes escarpces qui bordent cette plaine étroite » 243. Un altro viaggiatore il berlinese Sulzer mette in evidenza gli elevati rendimenti della cultura degli aranci, che, alla fine del Settecento, risultava assai diffusa nel contado di Nizza: « in un picciolo orto che secondo me non poteva giungere a dugento pertiche quadrate, ho io veduto una innumerevole quantità di frutta sugli alberi ed il proprietario mi assicurò che aveva venduto 60 mila di que’ frutti in un anno. Il prezzo medio di un migliaio è di 21 o 22 lire. E siccome tutta la pianura intorno a Nizza ed alcune alture ancora sono per la maggior parte piantate di aranci, si deve congetturare che la vendita esser ne debba considerabile. Ciò non di meno questo ramo di coltivazione è alquanto incerto, perchè in certe annate o gela il frutto già maturo per metà nell’inverno o sul fiorire in primavera. Un monaco benedettino, gran dilettante ed attento coltivatore di giardini, mi disse, che un tal caso si riproduce più di frequente da alcuni anni che per lo addietro...» 244. Anche fra coloro che rispondono ai questionari deH’amministrazione francese, se c’è chi mette l’accento sullo stato di guerra come fattore di depressione commerciale 245, ci sono, e sono più numerosi, coloro che sot- 243 M. Faujas De Saint Fond, Voyage géologique de Nice à Vintimille, Port-Maurice, Noli, Savonne, Voltri et Gênes, par la route de la Corniche, in « Annales du Museum d’Histoire Naturelle de Paris », XI, 1808, p. 19 (dell’estratto). Anche qui la varietà più pregiata di limoni è la « bignetta ». Il Faujas da anche interessanti informazioni sulla raccolta e il commercio, ricordando sia i magistrati che ad essi sovrintendevano sia i criteri di selezione dei frutti avviati alla vendita. La qualità del frutto dipendeva anche dall’epoca del raccolto: «la première recolte des citrons commence ordinairement vers le 21 du mois de novembre, et dure jusqu au 21 du mois de mars; car tous ne mûrissent pas en même temps. Cette premiere cueillette porte le nomme de primo fiore, citrons de première fleur: ce sont les plus parfaits et qui supportent le mieux le transport. Ceux qu’on récolte depuis le 21 du mois de mars jusqu’au 21 du mois de juin s’appelent secondo fiore, fruits de seconde fleur; ils sont considérés comme bons, mais un peu inférieurs aux premières. Enfin il s’en recueille encore depuis le 21 du mois de juin jusqu’au 21 du mois de septembre, qui portent le nom de verdame ». 244 G. Sulzer, Viaggio da Berlino a Nizza e ritorno (a cura di C. Amoretti), Milano 1838. Il viaggio di Sulzer risulta compiuto verso la fine del Settecento. 245 Per esempio G. Grimaldi in una lettera al prefetto di Genova in data 7-9-1808 (in A.S.G., Prefettura Francese, n. 1152) fornisce interessanti informazioni sui prezzi e la situazione congiunturale del commercio degli agrumi. — 312 — tolineano 1 influenza negativa del clima24é. Per esempio, Giuseppe Grimaldi, nel 1808, dopo aver constatato che negli ultimi 26 anni vi sono state tre forti gelate molto distruttive, arriva a sostenere: « c’est que la taille faite des forêts en Provence ruina nos oliviers et nos orangers et que les récoltés ne sont plus comme jadis » 247. È la stessa tesi che, come abbiamo visto, si accingeva a sostenere anche il Coltivatore di Diano 248. L agrumicoltura ligure è stata dunque vittima del peggioramento del clima, della cosidetta piccola età glaciale? Lo Chabrol lo nega decisamente: « les cultivateurs prétendent que les gelées étoient moins frequentes aux siècles passés; ils en attribuent la cause à la coupe des arbres qui cou-vroient les montagnes et qui defendoient les vallées des vents du nord; mais en observant l’histoire des gelées, on voit qu’elles étoient tout au moins aussi fréquentes dans le quatorzième siècle qu’elles le sont au-jourd hui... » 249. Ma oggi possiamo agevolmente riconoscere che le gelate che si susseguirono nel Settecento e all’inizio dell’Ottocento e che, quanto agli effetti negativi su limoni e aranci, vennero soprattutto registrati a Sanremo 2:)0, furono di gran lunga più frequenti e più gravi di quelle dei secoli precedenti e posteriori. Malgrado questa constatazione non credo si possa attribuire al peggioramento del clima l’abbandono di questa cultura 2M. 246 Per esempio il sindaco di Nervi nella risposta al questionario sulla coltura degli agrumi in data 11-9-1808 (A.S.G., Prefettura Francese, n. 1152). 247 G. Grimaldi cit. 248 A. Bianchi, Osservazioni cit. (cfr. nota 36). 249 G. Chabrol, Statistique cit., II, p. 179. 250 Si veda per es. Il Manoscritto Borea cit. 231 L’evoluzione dell’ agrumicoltura ligure nell’ Ottocento è ancora tutta da ricostruire. Secondo E. Suvaigo, segretario della Società agraria di Nizza, ancora verso la fine dell’Ottocento « au point de vue économique, les Orangers ont une grande importance dans nos régions et font mouvoir des capitaux considérables ». I principali centri di produzione sul litorale ligure e provenzale erano Hyères, Cannes, Grasse, Nice, Mentone, Bordighera, Sanremo, Savona e Nervi. Ma la concorrenza dei prodotti dei giardini spagnoli, siciliani e in generale dell Italia meridionale e delle coste dell’Africa si faceva già sentire da qualche decennio e, fra 1 altro, risulta che il mandarino (innestato sull’arancio dolce e su quello amaro) si diffonde verso la metà del XIX secolo in Provenza e a Sanremo (qui esattamente nel 1848) per rimpiazzare l’arancio messo in crisi soprattutto dalla concorrenza spagnola e algerina (cfr. E. Sauvaigo, Les cultures sur le littoral de la Méditerranée, Paris 1894, p. 249 — 313 — 8 7. Contrasti di paesaggi e di tecniche rurali. Abbiamo disarticolato il paesaggio agrario della Liguria moderna nelle sue più significative componenti vegetali, allo scopo di datarne, anche attraverso il sussidio della storia economica, le principali trasformazioni e di individuarne alcuni fattori, ma siamo stati spesso risospinti a considerare la configurazione paesistica che il dinamismo delle culture determina e abbiamo più volte provato l’impossibilità (a causa della carenza di studi locali e subregionali) di realizzare quell'approccio geostorico ai problemi agrari della regione ligure dal quale siamo partiti. La nostra indagine ha finora privilegiato i paesaggi e le strutture agrarie della Liguria occidentale: qui si localizzano infatti, oltre ad una delle più antiche e importanti aree viticole (Taggia) e ad una delle più progredite e tipiche huertas mediterranee (Savona), lo sviluppo sorprendente dell’olivicoltura e della cultura degli agrumi. Dobbiamo derivarne necessariamente un’idea di povertà e di arretratezza agricola della Liguria orientale, escludendone soltanto la fertile banlieu genovese (dal Bisagno a Nervi), qualche isola di agricoltura irrigua (Chiavari, Sestri, Levanto ecc.) e di viticoltura specializzata (Cinque Terre)? Sarebbe facile a questo punto invocare la geo-morfologia e addebitare le apparentemente scarse « vocazioni » agrarie del Levante alle indiscutibili differenze ambientali che vi si possono riscontrare rispetto al Ponente. Ma, anche a prescindere dal carattere deterministico di questa tesi, è assurdo introdurre una spiegazione causale prima di aver ricostruito 1 lineamenti di ciò che si intende spiegare. Vediamo dunque se è possibile unificare le diverse componenti del paesaggio agrario finora considerate separatamente, cominciando dalla Lunigiana e dalla Riviera orientale: due « regioni » che in parte si sovrappongono 252. e segg-)- Sulle vicende della agrumicoltura ligure nella seconda metà dell’Ottocento si veda anche D. Monterumici, Notizie statistiche, geografiche ed agricole sul circondario di Sanremo, Treviso 1881, p. 14 e sgg.; A. Bertani cit., p. 306 e sgg.: vi si afferma che la coltura degli agrumi « in un colla coltura orticola, può dirsi la base della produzione » agraria della zona litoranea della Liguria. 252 Si tratta di due regioni non ben definite geograficamente. Secondo la tradizione, tuttavia, la Lunigiana si estende fino al limite orientale della Diocesi di Genova e in tal modo si sovrappone in larga parte alla Riviera orientale dell’antico Dominio genovese: cfr. G. Targioni Tozzetti cit., X, p. 179 e sgg; P. Revelli, Riviera. Contributo al « Glossario dei nomi territoriali italiani », in « Annali Ricerche e Studì di Geografia», 5, 1948, pp. 1-45; con ampia bibliografia). — 314 — Per un primo approccio possiamo affidarci alle descrizioni dei viaggiatori, naturalisti e agronomi che nel Settecento e ai primi dell’Ottocento cominciano ad attraversare l’Appennino. Talvolta, viaggiatori frettolosi, che attraversano rapidamente la Liguria per raggiungere altre regioni o particolari obbiettivi del loro interesse scientifico, ci lasciano solo scarne impressioni, che tuttavia non vanno scartate: ci insegnano infatti a guardare la realta delle società e dei paesaggi della Liguria pre-industriale, con gli occhi dei contemporanei (anche se in generale sono occhi di cittadini), che è cosa preziosa se pensiamo quanto possa essere deformante 1 ottica delle nostre moderne teorie economiche disinvoltamente applicate alla storia di società diverse 253. Non era certamente un viaggiatore frettoloso Giovanni Targioni Tozzetti, che nei suoi viaggi, non solo dimostra curiosità per ogni fenomeno naturale e umano, ma spesso entra anche negli archivi locali per studiare nei documenti, non meno che nelle vestigia materiali, (naturali e umane), la storia delle terre esplorate. Per questi e altri motivi — fra cui la vastissima erudizione che gli consente di trarre profitto dalle esperienze dei suoi predecessori — il quadro che ci ha lasciato della Lunigiana a metà del Settecento è fra i più precisi che si possano avere in Italia in quest’epoca 254. Già la presentazione generale della regione lunigianese pone il problema del rapporto fra caratteristiche ambientali, popolazione, produzione agraria e sussistenze: « Il terreno della Lunigiana in genere, sebbene non è molto spazioso, è per la maggior parte formato da pendici di monti e di colline, da poche strisce di pianura lungo i fiumi e dai piani di Pontremoli, di Busatica, di Groppoli, Sarzana e di Massa in poi; nientedimeno è ameno, delizioso e per avventura abitato a pro- 253 Qualche osservazione in questo senso anche in A. Grendi, Introduzione cit., p. 41 e sgg.; p. 85 e sgg.; e soprattutto in W. Kula, Problemi e metodi di^ storia economica, Milano 1972, passim. Di recente si è anche proposto come « antidoto » l’esperienza dell’antropologia sociale: E. Grendi (a cura di), L’antropologia economica, Torino 1972, (per es. p. LXI). 254 G. Targioni Tozzetti cit.; manca, a quanto mi risulta, uno studio sufficientemente ampio su questa interessante figura di naturalista e erudito settecentesco (cfr. le rapide osservazioni di F. Rodolico, La Toscana descritta dai naturalisti del Settecento, Firenze 1945). — 315 — porzione d’ogni altra parte d’Italia, e per la moltitudine degli abitatori, eh è grandissima, essendo coltivato dovunque meglio si può, si rende fertilissimo ed abbondante d’ogni cosa per il vivere umano » (X, 356). Riferendosi alla produzione di « grani e biade », osserva: Le sementi di grani e biade, si fanno nella Lunigiana nella maggior copia e colla maggior diligenza che si puote, rispetto alla poca quantità che vi e di terreni campivi e la numerosa popolazione della Provincia... Tutte le campagne domestiche della Lunigiana, danno frutte di tutte le sorte in quantità grande e tante ricolte di granella che se non fossero le inondazioni della Magra e di altri fiumi, che per la troppa vicinanza degli Appennini precipitano violentemente a danno delle pianure, il paese non avrebbe bisogno di biade forestiere, perchè produrrebbe bastante quantità di grano, miglio, panico ed altre biade » (X, 368). Dalle molteplici esperienze fatte nei numerosi viaggi in Toscana e in Lunigiana il Targioni si sente in grado di cavare una « legge »: « ormai ho fatte tante osservazioni e riflessioni, che resto persuaso essere proporzionale al numero degli abitanti la coltivazione e la rendita del terreno, in guisa tale che una popolazione, per cagion d’esempio, di 10000 anime ricaverà tanto frutto da 10000 stiora di terreno, quanto ne ricaverà una ugualmente numerosa da 20000. Le prove ce le somministrano varie provincie della Toscana, ed io ne ho accennate alquante ne’ miei viaggi; ma convincentissima è la descritta coltivazione delle viti che si pratica nelle Cinque Terre ai confini della Lunigiana... » (XI, 63). Ma accanto alla « maravigliosa industria » degli agricoltori delle Cinque Terre, il Targioni non manca di lodare quella non inferiore che dimostrano « i contadini dell’isola Palmaria, dei contorni del Golfo della Spezia, del territorio di Monte Marcello accanto a Capo Corvo, di Trebiano e d’intorno a Sarzana, all’Ameglia, a Fivizzano ed a Bagnone, i quali ricavano buone ricolte da scarsi terreni coltivati » (X, 368). Non ci siamo finora occupati di cerealicoltura: le precise informazioni del Targioni ci costringono a farlo. Cominciamo dal Pontremolese: accanto alla frutticoltura, prospera la cultura dei cereali con intensi avvicendamenti annuali, come nella piana alluvionale del Verde: « tale terreno è molto fertile, e soprattutto la segala vi fa a meraviglia, che si semina ove l’anno precedente è stato seminato il grano, ma nel terzo vi si semina mistura, cioè scanzola, e fave o in luogo di quelle li ceci, oppure li ravviati, detti piselli abusivamente e nelle terre grasse si semina il grano due volte di seguito, come nel piano del villaggio di Ponticello... Nella Valle di Vignuola, vi è buon fondo di terreno, ma patisce l’asciutto, ed il vino non vi viene perfetto; per altro ben coltivato rende a grano diciotto per uno» (X, 358). - 316 - Meno estenuante per la terra e quindi più moderno il sistema adottato nella valle di Zeri, dove «per tenere i campi impinguati, roncando di marzo la segala, vi seminano il trifoglio, quale poi segano nei tre anni successivi ed in capo al terzo dissodano i campi e vi seminano grano, il quale vi rende all’incirca un 14 per uno e nel piano costumano, quando si roncano le fave, affine di estirpare lerbe, di seminarvi il panico, perchè viene più bello dell’altro, che si semina dopo raccolta la segala » (X, 370). Il maggese, che nella classica agricoltura mediterranea si accompagna alla rotazione biennale (o anche triennale), sembra limitato a qualche esempio marginale, che, più che ai sistemi di regolari avvicendamenti che abbiamo finora incontrato, attiene a forme di coltura temporanea: « fanno anche nel Pontremolese li moccali, cioè volendo seminare in terre non coltivate, quali lasciano in riposo per alcun’anno, ove non si prende alcun’altro frutto che il sementato o il pascolo, si dissoda il terreno coll 'aratolo o col zappone e vi si semina il moccolo e poi per due anni vi si semina il grano, ma nel secondo anno il raccolto è magro, sicché per tre anni vi si ricava qualche frutto» (X, 370). Altri interessanti aspetti, come i tipi di siepi che chiudono i campi e le caratteristiche del seminativo arborato, sono tratti dagli Statoti medievali di Pontremoli, nei quali per esempio si proibisce « il piantar alberi nei campi del piano detto di Verdeno, che facciano uggia ai terreni de’ padronati confinanti, exceptis altadenis de vitibus et lignamine non virenti e senza escludere nemmeno piros, cerasas, celsus, persicos et ficus (X, 366-7). Fra gli alberi fruttiferi il Targioni non può non mettere in primo piano i castagneti, il cui prodotto abbiamo già visto essere, insieme al panigo, « i due terzi del pane della Lunigiana », come osservava, nel Quattrocento, Giovanni di Faie. Sempre dagli Statuti medievali ricava l’impressione, a mio avviso fondata, che tale cultura risalga in gran parte al Medioevo e che si sia sostituita all’antica copertura forestale costituita da faggi, abeti e querce: « i castagneti... sono vastissimi e numerosissimi nelle parti montuose della Lunigiana e le castagne servono di salubre e copioso alimento, non solamente ai montanari loro coltivatori, ma si spandono anche fra gli abitanti dei luoghi più bassi e si smerciano fuori della provincia. La coltivazione dei castagni non pare che fosse praticata dagli antichi Liguri e con tutta verisimiglianza si deve ridurre ai tempi di mezzo... i più belli castagneti sono quelli del villaggio della Cervara, per- - 317 - chè sotto non vi nascono nè sterpi, nè utici (credo scope), sicché il suolo sembra un tappeto erboso continuato... Non è però così bene impellicciato il suolo degli altri castagneti, perchè generalmente è nudo e sassoso, avendo l’acqua strascicato al basso la terra che vi era trattenuta dagli antichi e folti boschi aborigini, stati distrutti dagli uomini, per surrogarvi castagneti » (X, 359-60). Ritorneremo ancora sul castagno, anche perché altre aree della Liguria appenninica e alpina fanno parte di quell’ampia frontiera mediterranea e europea che il Le Roy Ladurie ha definito « l’Internazionale della povertà e del castagno » o di quella che anche qualche geografo chiama « la civiltà del castagno », ma fin d’ora vorrei sottolineare che laddove la storia della montagna è più leggibile, per le maggiori opportunità archivistiche, si individua nel Cinquecento un’importante fase di nuove piantagioni, che si sostituiscono alla presistente copertura forestale per diboscamento e per innesto compiuto, non solo sui castagni selvatici, ma anche sui roveri 255. Per la vite e l’olivo il Targioni nota sia le aree di coltivazione sia i diversi metodi di coltura. Alla descrizione un po’ libresca dei vigneti delle Cinque Terre (sulla quale ci siamo già soffermati), alle rapide annotazioni su altre aree di vigneto specializzato nello spezzino e nel sarzanese, si aggiunge l’osservazione diretta su un’isola di classica cultura promiscua: « nel Pontremolese le viti si lasciano perpetuamente sugli alberi, cioè Loppi o aceri, frassini ed anche olmi, i quali da piccoli si avvezzano a portare i rami a guisa di corona (come i loppi o aceri nel piano di Firenze), intorno alla quale si distendono i tralci delle viti, inclinandone i capi e legandoli così chinati intorno ai rami di detti alberi con salci; ed ogni anno detti alberi si potano quanto le viti (X, 361-2). 255 Lo sviluppo della castagnicoltura nel Cinquecento è soprattutto documentabile nell’Appennino genovese sulla base delle filze della Camera del Governo (A.S.G.) e in particolare per la Valle dell’Orba. L’innesto sui roveri che con stupore avevo incontrato nella documentazione d’archivio citata e che mi era stata esclusa da diversi « esperti » (compresi alcuni geografi) è confermata da G. Gallesio, Pomona cit., s. v. Castagno sulla base di autori precedenti e di una specifica esperienza ligure. L’importanza del castagno nella Liguria orientale è ancora documentata dal fatto che il termine dialettale érburu « albero » è usato a Borzonasca anche per denotare l’albero per eccellenza, che in quelle parti è il castagno, onde Inte g’erburi = « fra i castagni, nei castagneti» (cfr. N. Lagomaggiore - N. Mezzana, Contributo allo studio dei nomi volgari delle piante in Liguria, in «Atti Società Ligure Scienze Naturali e Geografiche », XI, 1902, s. v. castagno). - 318 - Anche per l’ulivo possiamo constatare come la Lunigiana risulti divisa fra il sistema della cultura a bosco e quello della cultura mista. Il miglior olio, secondo il Targioni, proviene dagli oliveti specializzati e in particolare da quelli di Barbazzano (Lerici), onde il detto popolare, usato per designare le più pregiate produzioni della Lunigiana: « Formaggio di Compiano, Olio di Barbazzano e Vino delle Cinque Terre ». Il fatto che l’uliveto a bosco (« come nei monti pisani e nel Pietra-santino », dice il Targioni), oltre che sulle pendici marittime, risulti diffuso anche nel Pontremolese, ci fa restringere l’area della classica cultura mista ligure al Genovesato vero e proprio, come più avanti avremo modo di verificare. Certo anche in questo lembo più orientale della Riviera non mancano esempi di coltura mista, come possiamo documentare nello Spezzino sulla base di fonti quasi coeve o risalenti al XVII secolo 256, ma anche questi esempi sono spesso indicativi di una tendenza alla specializzazione, alla monocultura — del castagno nella montagna appenninica, della vite o dell’ulivo nella fascia costiera — che ci induce ad accostare i due estremi della Liguria e a ritrovare magari altre concordanze paesistiche e sociali 257. Ancora interessanti, nelle relazioni del Targioni, le osservazioni su alcune aree orticole e soprattutto sull’allevamento, che, non diversamente da quanto avviene anche nell’estremo Ponente, determina ampi movimenti 256 Cfr. per esempio la « caratata » di La Spezia del 1612 sulla quale hanno condotto una prima indagine C. Rossi e R. Rossi in una tesi di laurea in Geografia storica presso la Fac. di Magistero (Univ. Genova) nell’a. acc. 1970-71. La cultura mista si accompagna a un diffuso insediamento per nuclei e case sparse che risulta ben documentato nel 1612. Per l’evoluzione successiva cfr. la cit. Inchiesta dell’istituto Nazionale (A.S.G., Repubblica Ligure, n. 610), per es. sotto la parrocchia di Pegazzano: l’agricoltura si pratica con il «coltivare vignato in detti campi seminati, come pure coltivare l’olivato del quale piccola parte la seminano e la maggior parte no ». La specializzazione sembra, almeno in questa zona dello Spezzino, una tendenza recente e per esempio il parroco di Fezzano dichiara: « l’agricoltura che si potrebbe introdurre con maggior profitto, ella sarebbe, a mio giudizio, di proibire il seminare ed invece far piantare delle viti nei luoghi dove sono gli alberi d’olivo, chè in questo luogo si fa per mala sorte la prima e si trasanda con danno la seconda ». 257 per esempio nelle forme dell’insediamento, che, ad eccezione di qualche area attorno ai maggiori centri urbani e in qualche area della montagna, si presenta accentrato e compatto non meno che nell’estremo Ponente. — 319 — di mandrie e greggi transumanti che interessano diversi Stati 258. I viaggiatori che nel Settecento attraversano l’Appennino genovese non dimostrano l’ampio ventaglio di interessi del Targioni. Per esempio, Paolo Spadoni, un allievo modenese dello Spallanzani, nell’attra-versare l’Appennino dall’alta Valle Scrivia a Rapallo, per Torriglia e Nei-rone, si limita ad osservare da un lato la differenza climatica fra i due versanti 250 e dall’altro la « salvatichezza » di questa montagna sia sotto l’aspetto ambientale sia dal punto di vista della sua popolzione, definita di « indole sospettosa » 26°. Per il primo aspetto si veda quanto scrive, anche a proposito dei paesaggi agrari: « Per arrivare sul fine della faticosa giornata alla città di Rapallo, attraversai tutto a piè due alte giogaje capaci di intiepidire qualunque fervido naturalista. Imperciocché le strade sono irregolari e ripidissime... Malgrado però tale salvatichezza quegli Appennini dalla parte del Nord restano quasi generalmente vestiti di noderosi castagni, di fredde noci ed altre simili piante fruttifere. Spuntano ancora fra esse, or quà or là, lingue di terra, ossieno ripiani coltivati»261. In età napoleonica, un anonimo raccoglitore di « usi e costumi degli italiani » attraversa l’Appennino percorrendo da Bobbio la strada della Scoffera. La sua è una lettura soprattutto etnografica dell'Appennino ligure: in primo piano figurano i mulattieri, gli osti di montagna e quindi tutto un antichissimo modo di viaggiare; ma non mancano le annotazioni sui villaggi, le abitazioni e l’alimentazione della popolazione appenninica 258 G. Targioni Tozzetti cit., XI, p. 373: « gli erbaggi negli orti della Lunigiana, mercé la bontà del terreno e delle acque, riescono buonissimi. Ma ottimi sono quelli che in abbondanza raccolgonsi ne’ giardini e orti intorno a Fivizzano ed in specie i grossi e saporiti sedani... i quali si mandano come una rarità in diverse parti d’Italia ». SuH’allevamento cfr. p. 377 e sgg. 259 P. Spadoni, Lettere odeporiche sulle montagne ligustiche, Bologna 1973, pp. 57-78: « si passa in un tratto sott’altro cielo. Infatti di qua le campagne spogliate erano delle scarse biade che vi si raccolgono ed i poveri contadini tutti intenti a trebbiarle. Di là per contrario verdeggiavano ancora e parea che la bionda Cerere permetter non così tosto volesse ai mietitori di passarvi le adunche falci ». 260 P. Spadoni cit., p. 67. L’osservazione si riferisce agli abitanti di Cicagna (Fontanabuona). 261 P. Spadoni cit., pp. 67-68. 262 L’Hermite en Italie ou observations sur les moeurs et usages des Italiens au commencement du XIX siècle, Bruxelles 1824. E’ interessante notare che, come - 320 - e sull’agricoltura del cantone di Bobbio, non molto arretrata a quanto risulta da una precisa inchiesta fornita al nostro Autore dal sotto-prefetto di Bobbio: « Quoique les terres soient couvertes de glaces pendant huit mois de l’année, le sol produit plusieurs récoltes par an. J’ai vu faucher un pré au commencement de mai, en juillet, en septembre, et après la Saint Martin, quand déjà le vent du nord dépouillait les arbres et les vignes de leur feuillage. La terre ne se repose point; sur trois années elle n’a pas, comme en France, une année de jachère. Elle produit d’abord du blé que l’on moissonne aux premiers jours de juillet à Bobbio; on y sème ensuite du maïs... que l’on récolte en septembre; il y a de bonnes terres qui produisent ancore d’autres fruits après la récolte du maïs... » 263. Si noti: ancora una conferma dell’assenza del maggese, che costituisce uno dei più interessanti caratteri originali dell’agricoltura ligure (anche della montagna appenninica), come in fondo rileva anche il funzionario napoleonico attraverso il confronto con la regione francese. Il quadro agrario delPAppennino ligure si completa e si arricchisce di nuovi problemi attraverso le osservazioni di un noto agronomo svizzero, Lullin de Chateauvieux, che nell’estate del 1812 attraversa l’appen-nino lunense (oggi si direbbe tosco-emiliano) e da Pontremoli scende, per la « montagna genovese », al Bracco e prosegue per Genova2M. Molto analitica la descrizione delle risorse e dei generi di vita della popolazione dell’alto Appennino: « ce pays sans culture nourrit ses habitants avec ses productions spontanées, c’est-à-dire avec ses châtaigniers; mais aussi dans quelle abondance et avec quelle vigueur ils croissent sur les penchans de ces monts: leur fruit est plus gros et d’une qualité bien supérieure à ceux qu’on recueille dans le nord. Il se mange ici sous toutes les formes; mais surtout sous celle d’un gateau plat, auquel on donne le hanno messo in evidenza gli storici dell’etnologia, è in età napoleonica che questa disciplina nasce come scienza (cfr. J. Poirier, Histoire de l’ethnologie, Paris 1969, pp. 21-22; P. Toschi, Guida allo studio delle tradizioni popolari, Torino 1962 (dove si pubblica il questionario àdYAccademie Celtique che diede origine alla prima raccolta di materiale etnografico in Italia; non è finora possibile dire se tale questionario, di notevole interesse anche per la storia agraria, sia stato applicato in Liguria). 263 L’Hermite en Italie cit., p. 176. 264 F. Lullin de Chateauvieux, Lettres ecrites d’Italie en 1812 et 1813 à M. C. Pictet, Geneve 1820. - 321 - nom de pain, forme qui, je l’avoue, m’a paru la seule mauvaise; le pain de froment vient de Parme, et c’est un grand luxe auquel on se livre que dans des occasions graves » (p. 65-66). Non essendo ancora nota e praticata la cultura della patata, « les moyens d’existence de cette population apennine, toute-à-fait confiés aux forces de la nature, consistent ainsi en châtaignes, dont la récolte est casuelle, et en produits animaux d’un faible rapport... cependant cette population est passablement nombreuse et le sol très divisé. Ses habitants ont beaucoup d’industrie: la première de toutes c’est l’excessive économie: ils fabriquent eux-memes leurs meubles et leurs vêtemens et ne connoissent presqu’aucun autre besoin. Ils font beaucoup de charbon, seule manière d’exploiter les forêts, et enfin leur principal revenu consiste dans l’émigration... » (pp. 66-67). Un’ultima acuta osservazione del Lullin coglie una caratteristica comune a tutto l’alto Appennino e forse a gran parte del mondo della montagna: « un pays qui suffit à peine à nourrir sa population, et dont aucune récolte ne fournit de denrées vendables, ni, par conséquent, de produit net, a été abandonné par les capitalistes à ses seuls habitants; aussi le paysan est-il dans toutes ces chaînes de l’Apennin, propriétaire du sol qu’il foule. C’est la seule partie de l’Italie ou cela ait lieu, et c’est le trait distinctif de ces contrées » (p. 68). Fa forse eccezione la montagna ligure occupata dai cosidetti Feudi imperiali, in mano a famiglie del mondo capitalistico genovese, come per esempio la Val d’Aveto. A questa prospettiva di ricerca G. Doria ha di recente dato un notevolissimo contributo, che tuttavia riguarda un’area del Monferrato che non sempre si può assimilare alla realtà della montagna appenninica 265. Infatti, con la formazione dell’azienda agraria dei Doria in posizione dominante, l’intera società rurale e l’agricoltura di Mon-taldeo, pur tecnicamente arretrata, appaiono in stretta dipendenza dal mercato genovese. Ma questo collegamtnto con il mercato urbano non è soltanto la conseguenza dell’inserimento dei Doria. I risultati di recenti indagini di D. Moreno (che non solo ha ricostruito il paesaggio agrario creato dalla moderna colonizzazione agricola delle aree forestali e il carattere in larga misura « democratico » delle società della montagna ligure) mettono 265 G. Doria, Uomini e terre di un borgo collinare dal XVI al XVIII secolo, Milano 1968. - 322 - in rilievo come spesso, nella montagna, si delinei « una singolare situazione che integra un modo di produzione pre-neolitico (la colletta dei vegetali spontanei) ad una economia mercantile, quella genovese»266. Non potendo in questa sede riaprire questi problemi, mi piace ricordare che già il Montesquieu aveva compreso questo collegamento delle aree più povere con il mercato e aveva notato che i funghi costituivano un’importante fonte di reddito per quella parte più interna e settentrionale del paese, dove « non ci sono che castagni e i contadini vivono di castagne. Ciononostante, tutte le colline sono piene di case di contadini e questo paese povero sembra molto popolato » 267. Anche il Targioni aveva sottolineato l’importanza economica della raccolta dei funghi ricordando che in qualche comunità della Lunigiana, come a Vinca (Alpi Apuane) « si vende ogni anno al pubblico incanto la privativa delle Frugnolare per un canone rispettabile » 268. È interessante constatare come i viaggiatori più attenti colgono le differenze fra la montagna e il basso versante marittimo dell’Appennino sia sotto l’aspetto dei paesaggi sia sotto l’aspetto delle strutture sociali. Il Lullin osserva come passando dall’alta montagna tosco-parmense, teatro di un’attiva transumanza che fornisce alti redditi alle sottostanti comunità proprietarie dei pascoli, alla bassa montagna genovese il quadro cambia notevolmente e non in meglio: « au-delà de la Magra... je trouvai le sol génois, avec son luxe, sa misère et son abandon ». È una definizione della terra ligure che ritorna spesso sotto la penna del nostro autore. Non solo incamminandosi verso il Bracco nota: « je traversai des croupes stériles, des pentes où vegetaient quelques châtaigniers rabougris, des vallons à demi dévastés par les eaux, des villages qui indiquaient la misère des habitants; comme leur physionomie semblait indiquer la férocité »; ma anche scendendo dal Bracco verso la Riviera e verso Genova ritrova i tratti « de la nature stèrile et pompeuse », di una terra che « n’offre qu’une aride nudité ou une parure inutile » 269. Sono impressioni e giudizi non molto diversi da quelli che qualche anno prima aveva dato l’illustre agronomo inglese A. Young. Di fronte 266 D. Moreno, Territorio cit., p. 6. 267 Cfr. C. Bo cit., p. 13 (cfr. nota 146). 268 G. Targioni Tozzetti cit., X, p. 351. 269 F. Lullin de Chateauvieux cit., p. 78 e sgg. — 323 - ai classici paesaggi mediterranei della Provenza aveva ripetutamente notato la « chétive perspective » determinata da montagne denudate o coperte da povera vegetazione che cingono da presso melanconici oliveti («la couleur des olives nuit à la verdure de la vallée »), frutteti e orti eccessivamente frammentati da muri e case. I suoi parametri risultano ben chiari: « la perspective du riche feuillage de nos forêts septentrionales », le vaste pianure dominio dell’aratro e della cerealicoltura, i parchi e le ville inglesi m. E così quando si trova di fronte all’alternativa di raggiungere Torino passando per Genova o per Cuneo la sua maggior preoccupazione è di non perdere « la vue de vingt lieus de superbes arrosemens depuis Coni jusqu’a Turin » e la bellezza del paesaggio della pianura piemontese271. Se vogliamo quindi approfondire le differenze paesistiche e strutturali di un mondo che ancora alla fine del Settecento appariva agli osservatori esterni ancora in larga parte repulsivo e impenetrabile, come quei contadini della Fontanabuona che nel 1971 tenevano sotto il loro vigile sguardo P. Spadoni « non diversamente da quello che lo sia oggigiorno il buon Re dei Francesi », come notava lo stesso Spadoni 272; dobbiamo affidarci all’esperienza di D. Viviani e di A. Bertoloni, due interessanti figure di botanici liguri del primo Ottocento che per la molteplicità dei loro interessi possiamo accostare al Targioni Tozzetti 273. Il Viviani distingue innanzitutto il mondo appenninico vero e proprio dalla fascia marittima: « quoiqu’elle se trouve à contact des Apennins, elle en diffère pourtant par l’aspect du pays, le climat, les productions et les moeurs même des habitants » 274. Sulla stessa distinzione si pronunciava anche il Bertoloni, con grande chiarezza ma da un punto di vista più strettamente botanico: 270 A. Young, Voyage en Italie pendent l’année 1789, Paris 1796, pp. 14-15. Su quest’ultimo aspetto cfr. anche più avanti. 271 A. Young cit., p. 35. 272 P. Spadoni cit., p. 67. 273 Anche su questi naturalisti liguri del primo Ottocento non esistono studi che inquadrino la loro personalità e la loro opera nella cultura genovese e italiana del tempo. La tendenza è a sottovalutare la cultura scientifica ligure, come dimostra l’opera di F. Rodolico, L’esplorazione naturalistica dell’Appennino, Firenze 1963, p. 73. 274 D. Viviani, Voyage dans les Appenninns de la ci-devant Ligurie pour servir d’introduction a l’histoire naturelle de ce pays, Gênes 1807. - 324 - « Intendo per regione marittima del Dipartimento degli Appennini, quel tratto di paese che dal mare si distende entro terra sino là dove può coltivarsi abbondantemente 1 olivo. Gran parte di essa per l’appunto è coperta di deliziosi e folti oli-veti, pel di cui prodotto si introita principalmente il denaro onde provvedere agli altri generi più necessari alla vita, de’ quali si manca. Hannovi oltre all’olivo degli ameni vigneti, e nella parte più scoscesa al mare delle folte piniere... La parte più interna del paese non è a dir vero sprovveduta affatto d’olivo e di vigne, ma segnatamente del primo la cosa è tanto tenue ed il prodotto che se ne ricava è tanto men buono, che non vale la pena di farne cenno. La seminagione è di poco momento tanto nella prima che nella seconda regione; solo che in quest’ultima subentrano agli olivi ed alle viti dell’altra vasti castagneti, mandre numerose e boscaglie di picciol fusto... » 275. Del più « profondo » mondo appenninico, ben esemplificato dalla Val di Vara — la stessa valle percorsa anche dal Lullin —, il Viviani dà una descrizione che abbraccia tutti gli aspetti (sociali, economici, geografici, paesistici, naturalistici ecc.) di una realtà secolare: « Toute la population de l’intérieur des Apennins de la Ligurie orientale est rassemblée en villages généralement mal bâtis et mal propres, dont la population est ordinairement entre 300 et 1000 ames. Leurs maisons sont si rapprochées que de loin on dirait, qu’un seul toit couvre tout le village. Cette manière de bâtir, qui ne permet pas la libre circulation d’air dans l’intérieur des maisons, ne contribue pas peu à la rapide propagation des maladies contagieuses qui, malgré la position elevée de ces villages, y font des grands ravages dès qu’elles y penètrent. Les habitants de ces pays montueux, presque partout étrangers à toute sorte de manufactures, sont tous donnés aux travaux ruraux; ce qui rend ces pays dépeuplés dans la journée. Pendant l’hiver ils passent leur soirée autour d’un grand feu qui sert, en même-tems, à faire sécher leurs châtaignes. Comme leurs maisons sont ordinairement mal réparées, on n’obtient ce dessèchement, au point qu’il faut pour réduire les châtaignes en farine, sans un feu violent. Il faut, à la vérité, être abitué à ce degré de chaleur pour y résister à la longue, d’autant plus que ce feu, entrenu ordinairement par de bois frais, rend une fumée insupportable... » (pp. 25-26). Già questa viva descrizione della casa e delle abitudini della gente dell’Appennino mostra quanto la vita della popolazione fosse condizionata dalla « branche d’agricolture la plus étendue et la plus productive de l’intérieur des Apennins, le Châtaignier. Il en est ici de ce arbre, comme de l’Olivier dans la Ligurie maritime. Son fruit, préparé en différentes manières pendant qu’il est frais, fournit, par lui seul, presque toute la subsi- 275 A. Neri, Uno scritto inedito di A. Bertoloni, Sarzana 1879, pp. 28-29. - 325 - stance de ces habitants: on le desseche pour le mettre en farine et en faire du pain, dont on se nourrit pendant toute l’année » (p. 26). Tutto il prodotto dei campi di grano, allineati di preferenza lungo il corso dei torrenti nei pochi spazi pianeggianti, è venduto ai centri costieri; come del resto anche gran parte del vino, che pur non essendo di buona qualità viene acquistato dai mercanti della Spezia, di Levanto e di Sestri che lo tagliano con i più generosi vini della costa e lo mettono in commercio sotto il nome di vini nostrali. La principale ragione della inferiorità del vino delTAppennino rispetto a quello della fascia costiera consiste, secondo il Viviani, nel diverso sistema di coltivazione, che dà origine a due diversi paesaggi della vite, di cui quello della Liguria interna appare più interessante paesisticamente che produttivamente: « on trouve fort-commode de tenir les vignes arrangées en feston sur les branches circulaires de l’Obier que l’on coupe exprès pour lui donner une forme convenable: ils font avec cet arbre de longues allées, dans les plaines sur-tout, ce qui décore fort-bien les champs» (p. 26). Interessanti, ma ancora tutte da verificare, le conclusioni del Viviani: « Comme le produit du sol est la seule ressource des habitants de l’intérieur des Apennins de la Ligurie orientale, ainsi leur population, dans la même étendue de pays, est à-peu-près deux fois moindre que celle de la région maritime, qui tire en partie du dehors sa subsistance. Mais cette population, soutenue par les produits du pays qu’elle habite, et par conséquence moins sujette aux vicissitudes politiques, se maintient dans des proportions moins variables pour le nombre. Il ne faut pas moins compter parmi les causes, qui contribuent davantage à cette uniformité de la population, le genre d’agricolture de ces montagnes dont les produits ne sont pas sujets à ces causes de destruction qui de tems en tems portent la détresse dans les pays maritimes. Les Blés, le Châtaigniers, les Vignes, qui forment ensemble presque toutes les ressources territoriales des Apennins, ne sont sujets qu’à des altérations annuelles dans leurs produits tandis qu’un changement brusque de la temperature décide quelque fois de la vie de tous les Oliviers dans les pays maritimes, et plonge par plusieurs années les habitants dans la misère » (pp. 26-27). Della Liguria marittima (la fascia costiera) il Viviani si occupa a fondo in una descrizione ancora manoscritta, che per quel poco che se ne può conoscere si rivela molto ricca di spunti. Mi limito soltanto a riferire come il Viviani coglie il contrasto fondamentale fra il paesaggio appenninico già descritto e quello della fascia litoranea, che vede magnificamente realizzato fra Recco e Camogli, dove domina la più intensa promiscuità delle culture arboree: « le vigne, gli oliveti, gli alberi da frutto e gli aranci, va- — 326 - riamente mescolati fra loro offrono all’occhio una varietà di colore, di forma, di produzione che incanta »; e dove prevale l’insediamento sparso, stimato superiore non solo a quello accentrato della montagna ma anche a quello dei borghi costieri: « Lungi di vedere le case ravvicinate in villaggi, come suol essere ovunque, vedesi un numero prodigioso di case disseminate e sparse quasi a distanza uguale fra loro, fra vasti oliveti che cuoprono tutta la montagna. Ciascheduna casa è l’abitazione di una famiglia che ha attorno la proprietà di terreno che le spetta, o che conduce in affitto... così nessuna parte della Liguria e, si può dire senza timore di sbaglio, nessun paese d’Europa, presenta in così poco spazio ugual numero di abitanti » rìb. Si tratta di un paesaggio agrario che si realizza compiutamente solo nella Liguria orientale e più precisamente nel versante marittimo fra il Bisagno e Sestri Levante. Altri attenti viaggiatori come D. Bertolotti lo celebreranno anche in confronto con il paesaggio agrario del Passo Ponente: « tutto il tratto da Rapallo a Chiavari è un continuo oliveto, non interrotto che da alcune foreste di pini. Ma non è un tristo oliveto, solitario sopra il nudo terreno. Perchè i Liguri orientali, tirati dalle angustie del coltivabile suolo, non lasciano che l’ulivo, tirannicamente insocievole, occupi solo il luogo, checché richieg-gano le leggi della buona georgica. Onde sotto l’ulivo piantano essi la vite, e tra j filari della vite seminano il frumento e la segale; nè trascurano il ciliegio, il mandorlo, il pesco ma specialmente il fico, i cui frutti seccati al sole, porgono ad essi l’invernale alimento. Di che nasce una quadruplice coltivazione sopra un solo terreno, e questa con assiduo ed amoroso studio condotta. Cresce poi l’ammirazione per chi considera che in quei solchi aperti tra vigneti che stanno dentro un oliveto essi stessi, si raccolgono due prodotti di cereali in un anno» 277. Da un punto di vista agrario le componenti di questo paesaggio che si riassume sotto il nome di villa, che ha in questo caso il significato di podere dotato di abitazione rurale per il « manente » o per il proprietario coltivatore, sono state più volte analizzate. L’aveva già fatto per esempio 276 G. Andriani, La Liguria orientale cit., p. 58. Interessante anche lo spunto sulle minori unità ambientali e culturali della Liguria orientale rappresentanti ciascuna un mondo parzialmente autonomo che ha il suo polo di attrazione nei borghi marittimi (p. 56). 277 D. Bertolotti cit., Ili, p. 84. — 327 - un anonimo studioso di problemi agrari (identificabile con il già citato Maineri), in una memoria inviata agli « Avvisi » di Genova nel 1778, dove si notava che « in Polcevera, in Bisagno e in alcune parti della Riviera », per il fatto che la coltivazione si fa esclusivamente a zappa, sei-settecento cannelle di terreno (e talvolta anche tre-quattrocento) « benché quasi sempre di qualità ingratissima bastano ciononostante a mantenere una intiera famiglia e a corrispondere al padrone del fondo una pigione annua così forte, che farebbe stupire i forestieri, se volessero paragonarla con ciò che ricavano essi dalle lor terre, misura per misura ». Tale unita fondiaria che costituisce « ciò che i Genovesi chiamano una Villa », risulta bene integrata con i territori boschivi e prativi della fascia più elevata dai quali viene il fieno e lo strame necessari per produrre il letame e così pure il legname, le canne e i salici necessari alla vite m. Anche G. Gnecco nelle sue Riflessioni sulle campagne del Genovesato si era soprattutto riferito al podere a coltura promiscua, del quale aveva soprattutto inteso mettere in rilievo i difetti derivanti dai patti colonici che spingono il « manente » a poco curarsi delle vigne e oliveti (il cui prodotto è dovuto in gran parte al padrone), a soffocarli « con sementi, erbaggi ed altri importuni vegetali », dei quali tiene 1 intero prodotto 279. Non stupisce che il Magnifico Gerolamo Gnecco si dimostri favorevole ad una maggior pressione sui contadini: egli rappresenta la facies capitalistica di un’organizzazione agraria che fin dalla sua origine medievale appare divisa fra le esigenze di una agricoltura di sussistenza (si pensi alla densità di popolazione che vive dei prodotti della classica policoltura mediterranea) e gli investimenti della classe mercantile genovese. Uno spirito forse più mercantile che capitalistico in senso moderno, se è vero che 278 « Avvisi », 15 agosto 1778, pp. 487-488. 279 G. Gnecco, Aggiunta alle riflessioni sopra l’agricoltura del Genovesato, Genova 1773, p. 57. Cfr. anche Riflessioni cit., p. 171 e sgg. Per quanto in Liguria (o almeno nel Genovesato) le forme di conduzione siano più varie che in Toscana (cfr. ancora G. Gnecco, Aggiunta cit., p. 132 e sgg.) tuttavia anche in Liguria la coltura promiscua appare strettamente connessa con la conduzione di tipo mezzadrile, con « la propensione del mezzadro a promiscuare e consociare le culture e la sua indisponibilità nei confronti delle culture specializzate e mercantili »: in sostanza il mercato passa in secondo piano rispetto alle esigenze alimentari della famglia contadina (cfr. C. Pazzagli, L’agricoltura toscana nella prima metà dell’800, Firenze 1973, pp. 341, 396 e sgg.), Le stesse critiche dello Gnecco si ritrovano in Toscana nei più celebri agronomi del primo Ottocento. - 328 - A. Young non avrebbe neppure apprezzato le ville dei ricchi genovesi, dove « le jardinage, qui chez nous n’est qu’un amusement, devient ici un objet d’économie et de revenu, deux choses incompatibles... une scène de plaisir ne devroit pas former un objet de lucre » m. Lo stesso Gnecco, costruendo la sua villa sul Monte di Portofino in un’area incolta e del tutto sfavorevole all’agricoltura, non aveva molto apprezzato la vegetazione originaria e a duro prezzo aveva terrazzato il ripido versante del Monte per piantarvi castagni, olivi e fichi, come risulta dalla precisa pianta di D. Policardi del 1787 e dalla coeva descrizione che ci ha lasciato il naturalista svizzero De Saussure, nel corso dell’esplorazione del Promontorio di Portofino 281. La villa di G. Gnecco appartiene all’ultima fase di espansione della villa genovese ancien regime e non a caso si localizza in un’area che da un punto di vista agricolo deve considerarsi marginale. Nel III paragrafo abbiamo visto come l’organizzazione agraria della villa genovese risultasse nel 280 A. Young, cit., p. 34. Cfr., alla fine di questo paragrafo, la citazione com pietà di questo interessante passo. Diverse ovviamente le definizioni che della villi vengono date in Liguria: cfr. per es. Descrizioni di Genova cit., II. P- 76-77: «Nelle vicinanze delle città, ed anche nell’interno di quelle, molte sono le possessioni dette ville, nome che significa podere con abitazione civile pel padrone ed altra, separata o no, per il coltivatore; è come uno stabilimento sperimentale agrario, perchè vi trovi assieme orto, frutteto, bosco, prato e vigne; sovente è racchiuso da un muro fatto a cemento. La vastità e il bell’aspetto degli edifizi, sì numerosi anche nelle meno centrali parti della Liguria, provano ed il gran conto che di tali possessioni fecero e fanno i proprietari e l’agiatezza di questi ». Cfr. anche D. Bertolotti cit., I, pp. 392-393. 281 H. B. De Saussure, Voyage dans les Alpes, III, Neuchatel 1796, p. 150: « Du petit port où l’on amarra notre bateau, nous montâmes par des escaliers taillées dans le roc, à une jolie retraite que s’est fait construire un riche négociant de Nervi, nommé M. Gnecco. Le bas de la montagne, du coté du Nord, est couvert d arbres et d’arbustes toujours verds, de myrthes, de pins maritimes, de chênes verds et d’arbousiers qui viennent là d’une grandeur et d’une beauté peu communes. Plus haut, où le rocher plus aride et plus rapide refusoit de produire de la verdure, M. Gnecco a fait pratiquer des plattes-bandes en terrasses les unes sur les autres, les a garnies de terre et il y a planté des châtaigniers, des oliviers et des figuiers qui ont parfaitement réussi. Au milieu de ces plantations est une petite maison simple et commode, creusée en partie dans le roc. Tout cela n’a pu s’executer qu en faisant sauter avec beaucoup de travail et de dépense la brèche dure et tenace qui forme la base de cette montagne... ». Per la carta del Policardi, che conferma che la villa appartiene proprio al magnifico Gerolamo Gnecco, cfr. la tav. V. — 329 — 9 Cinquecento diffusa soprattutto fra Pegli e Quinto. Ma vi sono elementi per giudicare che, nello stesso periodo, tale struttura agraria non è esclusiva della banlieu genovese o ancora della banlieu savonese, ma è anche alla base del paesaggio agrario di tutta l’area che a cavallo del Monte di Portofino si distende verso Chiavari e Sestri Levante. Dobbiamo certamente tener distinta la villa-palazzo che costituisce anche la residenza estiva di una ricca famiglia genovese, dalla villa come podere con abitazione per il solo manente o per il proprietario coltivatore: sono due significati dello stesso termine che presuppongono una forte differenziazione economica e sociale, ma che sono unificati dal medesimo paesaggio della cultura mista. Il registro figurato delle proprietà della famiglia Pino, di origine genovese forse, ma da tempo trapiantata a S. Margherita, ci consente di constatare nel Seicento, queste differenze socio-economiche e questa continuità di paesaggio m. Le piante che qui vengono pubblicate sono la migliore illustrazione dei tipi di villa prevalenti nella Riviera genovese e del loro paesaggio. Il patrimonio fondiario della famiglia Pino, che nel catasto del 1642 raggiungeva un valore di L. 19.810, era uno dei più cospicui del territorio di S. Margherita, dove peraltro riscontriamo, sempre dalla caratata del 1642, che il 3 % dei proprietari detiene più del 30% dell’intero estimo 283. La stessa storia del patrimonio Pino dimostra, con tutta evidenza, una tendenza alla concentrazione fondiaria, che si attua anche mediante una accurata politica di ricomposizione fondiaria soprattutto attorno al nucleo delle ville 284. Da un punto di vista paesistico le descrizioni degli appezzamenti nella 282 Delineationi delle ville, terre e case lasciate dal q. Vincenzo Pino e suoi nipoti con le scritture degli acquisti... per me Gio. Vincenzo Pino l’anno MDCLX, in Biblioteca della Società Economica di Chiavari, Y I 18, ms. di cc. 293. Su questa e altra documentazione catastale dello stesso archivio (parzialmente utilizzata da E. Scarin, La casa rurale cit.), cfr. la tesi di laurea in geografia storica di F. Carabio discussa alla Fac. di Magistero a. acc. 1970-71. 283 Ho elaborato alcuni dei dati raccolti da A. M. Genovese, Ricerche de geografia storica nel quartiere di Pessino (Fac. Magistero dell’Univ. di Genova a. acc. 1969-70), che ha schedato una caratata del 1642 conservata in A.S.G., Magistrato delle Comunità, n. 770. 284 Indicativa soprattutto la storia dello stabile del Zoncheto nel Piano di S. Margherita che risulta composto di 13 appezzamenti acquistati fra il 1593 e il 1664. La villa di Corso è addirittura composta di 16 appezzamenti acquistati fra il 1573 - 330 - « caratata » dimostrano come in questa area della Liguria la cultura promiscua si imponga anche sulle esigenze pedologiche delle piante: vediamo infatti il castagno convivere spesso con l’ulivo. Per dare un’idea di questo paesaggio è sufficiente prendere una piccola area, per es. quella descritta, sempre nello stesso catasto, sotto il toponimo Paviario-, vi troviamo due discrete proprietà così descritte: « una terra con casa, vigna, cetroni e altri frutti » (L. 10.000) alla quale è annessa un altro minore appezzamento con olivi e fichi; « una terra castagnata con vigna, olive, altri frutti e casa » (L. 3.000). A queste due maggiori ville fanno corona piccoli poderi: « terra con casa, viti, olivi e altri frutti » (L. 400), « una terra con carro-tola, vigna e altri frutti » (L. 200) e un’altra « terra con carrotola, olive, vigne e altri frutti » (L. 300); infine due appezzamenti senza edifici rurali, l’uno con « pini, vigna e altri frutti » (L. 200) e l’altro con olivi e fichi (L. 100). Basandosi ancora sulle caratate seicentesche, A. Manzini, con un’indagine ancora inedita, ha illustrato i paesaggi agrari della Valle di Ca-mogli e della Pieve di Uscio, dimostrando come l’insediamento sparso sia più diffuso nella valle di Camogli, dove evidentemente meglio poteva realizzarsi l’agricoltura promiscua di villa, mentre man mano che penetriamo nell’area montana si nota una tendenza all’agglomerazione, sia pure per piccoli nuclei. La frequenza, soprattutto nella Valle di Camogli, del toponimo Cà seguito dal cognome e il fatto che nel 1640 non si ritrovino in molti casi fra i proprietari i cognomi originari, fa pensare che la diffusione dell’insediamento sparso sia anteriore di almeno un secolo al più antico catasto (1640) che si è pervenuto 285. Dal punto di vista delle pratiche agrarie caratteristiche dell’agricoltura di villa, l’inchiesta dell’istituto Nazionale (1798-99) offre interessanti informazioni. Si veda per esempio la descrizione della fisionomia agricola del territorio di Zoagli, una comunità che allora contava 1560 anime di cui 300 uomini risultavano impiegati nella navigazione: e il 1654. Ma non solo le ville costiere sono interessate da questa politica di ricomposizione fondiaria: per esempio, più alPinterno, lo stabile del Trugone, che risulta una delle più antiche proprietà della famiglia Pino e che era prevalentemente destinato alla coltura del castagno, fra il 1580 e il 1658, risulta accresciuto di oltre 14 appezzamenti acquistati o permutati. 285 A. Manzini, Ricerche di geografia storica nella valle di Camogli e nella Pieve di Uscio, tesi di laurea presso la Facoltà di Magistero dell’Univ. di Genova, a. acc. 1970-1971. — 331 — « l’estensione del territorio, che in circonferenza porterà in 4 miglia circa, e coltivata d’olivi, vigna e diversi alberi da frutta... L’agricoltura che si pratica dà grano, orzo, granone e da qualche tempo qualche poca quantità di patate, e così hanno sempre praticato... I prodotti del terreno coltivato sono che il grano dà il 6 per uno, e così l’orzo, il granone e l’altro; li olivi ogni due anni, la vigna è più tosto abondante rispetto al terreno... In questo comune tutto è coltivato, pochissima selva di qualche alberi di quercia e pini, qualche boschetto di alberi di castagne e quel che è stato riducibile alla coltivazione è ridotto...» 286. Nel vicino territorio di S. Maria del Campo (retroterra di Rapallo) la stessa inchiesta ci fornisce ulteriori precisazioni: « la coltura che si pratica nella primavera: si rompe il terreno sino alla solita cava, e vi si seminano delli fasoli, cavoli, della merga, e delle altre ortaglie; nello autunno poi sopra l’istessa coltura vi si semina in parte il grano, in parte fave, ed altre misture. Questa è la coltura che da immemorabile sempre si è praticata... Il terreno coltivato produce alla collina vino, olio, fichi et altre frutta, grano, fave et altre biade; più al basso produce vino, fichi, moroni, pomi, grano, merga, canne e cavoli, vi sono però pochi boschi di castagne... Li monti sono quasi tutti rocche spolpate, ne quali vi sono piccoli canti, che con tre once di grano si seminano, ed il secondo anno vi seminano la mistura, e poi si lasciano passare quattro anni: vi nasce poca erba, non vi sono alberi a selva... se in questi monti vi fossero piantati degli alberi salvatici, sarebbero di maggior profitto e le piogge non tanto gli spolperebbero... » 287. Ancora, nel territorio di S. Margherita, nella parrocchia di S. Giacomo di Corte: « l’agricoltura moderna è quella medesima che si pratticava duecent’anni in addietro. Li principali prodotti sono Foglio, il vino, e le frutta, e qualche quantità di gelsi, sementi. E’ da notarsi che la vigna fra noi si mantiene sopra alti vignali credendosi che altrimenti non frutterebbe, ed anche ciò risulta dall’esperienze che se ne sono fatte. Si raccoglie del vino parimenti dalle viti, che si fanno salire su le ?lture di cerese, olmi, e queste viti producono ancora maggior copia di vino. L’oglio non è coltivato come in ponente, e sarebbe suscettibile di miglioramento. Vivono però dei particolari che hanno cominciato a migliorare la coltura delle ulive con 286 A.S.G., Repubblica Ligure, n. 610. 287 A.S.G., Repubblica Ligure cit. Non era indifferente l’allevamento, in questa comunità: « le bestie del paese sono vacche, pecore, capre e majali o sia tossini. Le vacche saranno in circa cento, le pecore saranno in circa trecento cinquanta. Le quali al principio di maggio le mandano alla montagna e poi le ridducono al paese al principio dell’autunno... ». - 332 - del profitto. E’ da notarsi che generalmente il vino, l’oglio, le frutta non hanno dei luoghi distinti, che il tutto è mischiato nella medesima fascia, e ville, che si seminano tutti i terreni domestici quantunque arborati...» 288. I miglioramenti e le innovazioni introdotte dai « particolari » si moltiplicarono in età napoleonica, quando, oltre all’impulso che ebbe la coltivazione del granoturco e delle patate, si introdusse l’uso « di certe zappe di due punte che prima non si usavano, e servono per lavorar nella vigna » — che altro non sono che il bidente o « magaglio » comunissimo nel Ponente — e ancora l’uso, anch’esso derivato dalla Liguria occidentale, di « rompere il terreno e ingrassare gli ulivi. Giobatta Pino fu il primo che li facesse ingrassare e sfondorare, colla disapprovazione di tutti i contadini, che credevano dovessero seccare gli alberi. Lo seguitarono poi vedendone l’utilità » 289. In generale, anche da una lettura sommaria dell’inchiesta dell’istituto Nazionale si ricava che, mentre nelle valli della Magra e della Vara è frequente l’uso dell’aratro aggiogato ai buoi, sulla fascia litoranea e a ponente del Bracco l’agricoltura « a braccia », come dicono molti dei parroci e dei sindaci interpellati, è quasi esclusiva. Le successive inchieste dell’amministrazione francese confermano questa impressione dell’importanza della zappa e della vanga (ma anche l’assenza della zappa a due punte o bidente) e della diffusione dell’aratro solo nelle comunità dello Spezzino 29°. Le statistiche francesi ci consentono anche di concludere e in qualche modo verificare il nostro esame dei paesaggi agrari della Liguria orientale (allora quasi integralmente inquadrata nel Dipartimento degli Appennini) con una serie di rilevazioni sulla distribuzione delle principali colture291: 288 A.S.G., Repubblica Ligure cit. Si veda anche quanto scrive la Municipalità di S. Ambrogio della Costa, presso Rapallo: « L’agricoltura si pratica attualmente nell’ulivi, vigna, grano, orzo e qualche poche pattate; quest’arte in cotesto comune da qualche tempi, e principalmente dall’anno del gelo degli ulivi e dirotta grandine successivamente sofferta, si è ravvivata principalmente nel piantare gran quantità di vigna... il produtto del terreno coltivato sarà di circa 400 circa barili doglio ogni anno, poche castagne e 70 in 80 mine di grano ». 289 A. R. Scarsella cit., II, p. 140. 290 Si vedano le taw. allegate e più avanti un tentativo di definizione delle aree culturali liguri in rapporto all’area di diffusione dei principali attrezzi agricoli. 291 A.N.P., F 10/353, Tableau de la surface du Département des Apennins et de sa Division agricole (2 agosto 1809). — 333 — DIVISIONE DEL TERRITORIO DEL DIPART. DEGLI APPENNINI Ettari Eaux, chemins et emplacement des villes et villages . . 60.000 Terres vaines et vagues....................40.000 Pâtures..............10.000 Châtaigniers............. 200.000 Oliviers............................30.000 Vignes............................30.000 Terres labourables...........10.000 Jardins..............5.000 Prairies..............1.000 Bois taillis.............21.000 Bois de futaie et demi futaie........9.000 Totale 416.000 Come si può notare il castagneto costituisce da solo quasi la metà dell’intero territorio e i 3/4 del suolo messo a cultura. Lo riconosce anche il Prefetto del Dipartimento, che aggiunge che i castagneti « sont en général fort beaux et d’un grand rapport; et beaucoup de particuliers possèdent d’assez bons revenus en châtaigniers; cependant il n’est pas moins vrai que les plus belles forêts de cette espèce ne peuvent pas nourrir un grand nombre d’habitants et ne font pas un pays riche ». Seguono per importanza gli oliveti e i vigneti, sui quali le osservazioni del Prefetto si ricollegano al dibattito fra sostenitori della cultura promiscua e sostenitori della cultura specializzata al quale ci siamo già riferiti. Alla questione il Rolland porta argomenti di notevole interesse, in quanto ci offrono una delle chiavi per spiegare le strutture del paesaggio agrario del Levante e il contrasto con il Ponente. A proposito del sistema di coltivare l’ulivo nota: « Dans ce Département le dessous des arbres est presque partout cultivé en grain ou legumes. C’est une question parmi les agriculteurs si le produit qu’on retire de cette culture inférieure ne nuit pas au produit de l’arbre. Il me paroit que pour un grand propriétaire d’oliviers il convient mieux de ne pas cultiver le dessous des arbres, mais il doit être assez riche pour suffire aux dépenses d’eploitation dans les années de stérilité, et le resultat de ce genre de culture rend le pays plus riche mais moins peuplé. La culture au contraire adopté dans le Département convient mieux a des petits propriétaires; le cultivateur trouve chaque année sa nourriture sous les arbres; le propriétaire n’a point d’avance à faire et le pays ainsi cultivé est proportionellement plus habité, mais moins riche »792. * 292 A.N.P., F 10/353, Tableau cit. i - 334 - \ Anche il successore del prefetto Rolland 293 attribuiva alle strutture sociali, in particolare alla « natura dei contratti e agli usi del paese » secondo i quali l’olio è riservato al proprietario del terreno e le sementi al contadino-coltivatore, le ragioni e gli svantaggi della cultura non specializzata dell’ulivo, prevalente nel Dipartimento degli Appennini, ad esclusione dello Spezzino, ma diffusa anche nel Dipartimento di Genova o genovesato, come risulta anche dalla Descrizione di Genova e del Genovesato (1846): « l’interno di Genova mostra i ben belli olivi: questi vi sono frammisti ad ogni maniera di piante e di coltura; non hanno altro benefizio di lavoro o di concime che quello che il villico accorda al terreno per riguardo del grano e de’ legumi che vi semina; e l’olivo vi è quasi oggetto di coltura secondaria. Nel Basso Ponente e in più luoghi delle altre provincie (così alla Spezia) nulla si semina sotto l’olivo, o solo dopo fatta la raccolta del frutto, e alora se ne hanno fave, faggioli, cavoli ecc., ovvero si profitta dell’erba spontanea di quel maggese, o vi si seminano (in qualche rara località) lupini per seppellirli poi con letame, a piè degli olivi » 294. Anche a proposito della vite, il prefetto Rolland, oltre a dare ima dettagliata descrizione dei prevalenti sistemi di coltura, ritrovava gli stessi problemi: « Il en est de la vigne comme de l’olivier, il y en a extrêmement peu qui soit basse et sur de petits echalats; généralement elle est porté par de grands arbres ou de hauts echalats qui alors sont plantés par allées. Le dessous des arbres ou l’entre deux des ceps est cultivé en grains ou legumes, quelque fois en prairie. On n’estime guere dans le revenu de la terre que le produit de la vigne; l’autre culture est comme celle qui croit sous l’olivier, elle nourrit le cultivateur. Le produit de la vigne dans ce Département est assuré, il manque bien rarement, mais son prix et son débit sont très incertains...»295. Anche questo sistema di allevamento della vite, pur non essendo il più idoneo a garantire un prodotto di qualità, aveva trovato entusiasti sostenitori, come Antonio Bertoloni, che negli stessi anni, scriveva: « E’ ammirabile l’economia suggerita dalla mancanza del legname, colla quale si provvede in alcuni luoghi anche montuosi del Dipartimento, al sostegno ossia 293 A.N.P., F 10/431-432 (Risposta del prefetto Duval all’inchiesta sull’olivicoltura; 23 settembre 1811). 294 Descrizione di Genova cit., II, p. 86. 295 A.N.P., F 10/353, Tableau cit. — 335 — armatura della vite. Sull’insegnamento degli antichi, maritasi all’albero che d’ordinario suol essere YAcer campester L., i di cui rami si tengono vagamente aperti a foggia di cesto, affinchè la vite vi si possa spandere più ampiamente, ed il sole la tocchi quanto mai può. Nè solo risparmiasi in tal guisa l’armatura della vite da noi tanto costosa, che anzi il podere somminstra continuamente del legname per gli altri bisogni della villa e domestici»296. Oltre ai dati generali già riportati ritengo utile riportare le più precise e analitiche rilevazioni della ripartizione delle colture nel circondario di Sarzana, accompagnati da tutta una serie di informazioni dovute al sotto-prefetto Torre, che completano sotto molti aspetti il quadro finora delineato 297 : DIVISIONE DEL TERRITORIO DEL CIRCONDARIO DI SARZANA Ettari Terres labourables...........2.350 Terres vaines et vagues..........2.855 Vergers et terreins plantés..................417 Hautins (vignes sur echalas et culture melée en colline) . . 29.873 Vignes..............4.077 Jardins d’orangers et citroniers................50 Jardin potagers........................500 Olivets..............7.282 Châtaigniers..........................33.563 Près ou prairis........................604 Pâtures et pacages...........21.484 Bois futayes..........................983 Bois taillys.............3.742 Roseaux............................111 Pepinières d’oliviers, chatagniers et vignes..........42 Maisons d’habitation et bâtiments ruraux............349 Ruisseaux et rivières...........1.736 Grandes routes........................194 Chemins vicinaux......................337 Totale 116.462 296 A. Neri, Uno scritto inedito cit., p. 36. 297 A.N.P., F 10/353, Reponse du Sous-Préfet de Sarzane aux Questions... Ré-lativement à I’Agriculture de son Arrondissement (1812). - 336 - Un solo rilievo: si noti soprattutto la diffusione della cultura mista a dominante viticola e l’importanza dell’oliveto specializzato, che ha una estensione quasi doppia del vigneto specializzato Interessanti anche le informazioni sulle pratiche agrarie: sono soprattutto i comuni di Sarzana, Castelnuovo, Ortonovo, S. Stefano, Arcola e Spezia che fanno uso dell’aratro e dei buoi, altrove sono gli uomini che lavorano il terreno e fanno tutto 298. A questo proposito, il Prefetto Rolland, per l’intero dipartimento, aveva affermato che « tous les travaux de la campagne y compris les transports des fumiers, récoltes, bois [si fanno] à bras et à dos d’hommes... les mulets ne servent qu’au commerce » 299. Ma sotto questo punto di vista dobbiamo notare una differenza: evidentemente il prefetto Rolland aveva presente soprattutto il chiavarese, perché nel circondario di Sarzana ogni azienda, che in media è di 3 ettari in pianura e di 2 in montagna, ha una sua dotazione di animali domestici che per i poderi di pianura sono rappresentati da due buoi e 2 o 3 muli e per quelli di montagna da 10 o 12 pecore. Degne di nota le informazioni sui sistemi di rotazione che arricchiscono lo scarso dossier ricavato dal Targioni. Per le terre arborate di vigne e alberi da frutta il sistema prevalente è triennale: 1° anno frumento, 2° segale o mistura, 3° fave, fagioli o lupini; mentre in pianura prevale una rotazione biennale che alterna al frumento il mais. I rapporti se-mente-prodotto sono di 1 a 4 per il frumento e gli altri cereali, di 1 a 68 per il mais e di 1 a 5 per le fave e i fagioli. Dal punto di vista del paesaggio si nota ancora che le terre sono chiuse, solo lungo i sentieri vicinali e le strade, con siepi o più raramente con muri 300. I viaggiatori — per esempio lo svizzero De Saussure e l’onegliese C. Amoretti301 — che verso la fine del Settecento percorrono la Riviera di Ponente, in generale, fra Genova e Savona, non sono colpiti da par- 298 A.N.P., F 10/353, Réponses cit. 299 A.N.P., F 10/353, Tableau cit. 300 A.N.P., F 10/353, Réponses cit. 301 H. B. De Saussure, Voyage, III cit.; C. Amoretti, Viaggio da Milano a Nizza, in G. Sulzer cit. Le indicazioni di pgg. nel testo si riferiscono ai volumi citati (le citazioni del De Saussure si distinguono immediatamente per essere in francese). — 337 - ticolari paesaggi: oltre i ben noti giardini e palazzi magnifici di Sam-pierdarena, Sestri e Pegli, osservano tratti di paesaggio generalmente vario, dominati dall’ulivo e dalla vite, ma anche ampi spazi incolti che la strada attraversa laddove si interna o sale, qualche collina coperta di castagni e soprattutto fra Voltri e Varazze uno scenario di montagne « aride e selvagge ». Ma presto « on est tout-à-coup tiré de cette mélan-conique solitude par l’aspect d’un golfe charmant, au fond duquel est le bourg de Vareggio [Varazze] entouré de jardins, d’orangers, d’oliviers ecc. »30:. Ancora maggiore il contrasto con la verdeggiante piana e il « bel paesaggio » di Albisola: « ... on passe à Albizola, village situé dans un golfe et dont les environs bien cultivés, sont décorés de beaux jardins et de plusieurs palais. Là et sur le penchant des collines qui entourent le bassin, la végétation est d’une vigueur remarquable; les vignes, les mûriers, les oliviers, les figuiers, les haies de grenadiers, sont d’une grandeur et d’une force extraordinaire; leurs feuilles plus vertes et plus grandes que partout ailleurs: on comprend sans peine, comment on a choisi ce lieu-là pour des maisons de plaisance » (p. 165). A Savona, che al De Saussure, più che per i suoi palazzi e le sue chiese, piace « surtout par ses jardins et par la beauté de la végétation dans ses environs » (p. 166), che ancora una volta fanno contrasto con le montagne dalle cime nude e sterili che separano le valli ben coltivate di Spotorno e Noli. In questa stessa montagna l’Amoretti nota però un genere particolare di coltivazione: « sta su una cresta fra due più alti poggi il villaggio di Vezzi: e vedesi un genere di coltivazione diverso dal veduto finora, poiché nè agrumi e ulivi qui reggono; ma v’ha, oltre le vigne e le biade, di gran piantagioni di fichi, i cui frutti servono di cibo invernale a quegli abitatori, mentre le foglie dansi per pascolo non disaggradevole al bestiame (p. 25). Generalmente apprezzato il paesaggio che il viaggiatore incontra scendendo su Finale « per una via scomoda in vero, ma in mezzo a vigne prima, indi a uliveti, ove le piante poste al basso altissime sono, quasi elevandosi per bere più pura l’aria e la luce » (p. 27). Finale, in questi anni, è soprattutto famosa per i suoi frutteti e in particolare per 302 H. B. De Saussure cit., Ili, pp. 162, 164. — 338 - la produzione delle sue « belle e saporite mele », localmente dette po-mi-carli 303. Il De Saussure è invece particolarmente colpito da quel « magnifique bassin, dont quelques parties sont d’une richesse et d’un fertilité admirables » che si apre alla vista del viaggiatore sulla Caprazzoppa e che a ponente appare delimitato dal Capo delle Mele. In particolare il De Saussura nota, fra Borgio e Pietra, il « terrein parfaitement plat, couvert des plus beaux oliviers, qui forment une forêt » (p. 171), men-tra l’Amoretti ammira soprattutto gli estesi orti di Borghetto e di Cenale « abbondanti di erbaggi, che gli abitanti somministrano a’ vicini paesi, e a Genova stessa trasportano talora» (p. 31). Interessante la descrizione della piana di Albenga nelPAmoretti, interessato non solo ai grandiosi fenomeni dell’idrografia — il cambiamento del corso del Centa e l’impaludamento costiero — ma anche alla fisionomia agraria: « ivi i monti sempre più s’allontanano, onde è estesa la campagna e fertilissima; sicché non è infrequente che un campo a grano dia il dodici per uno. Generalmente si semina a grano e a canape: vi si coltivano le vigne e un po’ anche i gelsi. I salici e i canneti sono delle vigne necessario corredo » (pp. 31-32). Diverso il paesaggio che ancora l’Amoretti incontra per raggiungere Alassio, sia circa la vegetazione spontanea sia circa le coltivazioni: « sono fiorenti non solo la ginestra comune e la spinosa, ma i mirti, i melograni selvatici, i leandri e altri vaghissimi arbusti... La coltivazione è per lo più a ulivi, fra i quali talor vedrete qualche caxubbo. Poca è la vigna fuorché nel piano e ivi sempre accompagnata da fichi e altri alberi fruttiferi e sovente pur da agrumi » (p. 35). Da Alassio in avanti il paesaggio sembra uniformarsi: non sollecita infatti particolari osservazioni, se non la constatazione, ovvia nell’one-gliese Amoretti, del dominio dell’ulivo, particolarmente nelle tre valli del Principato di Oneglia, ove la coltivazione degli ulivi è stata portata « alla sua perfezione, principalmente da che il caro prezzo dell’olio ne rende 303 A. L. Millin, Voyage en Savoie, en Piémont, à Nice et à Gènes, Paris 1816, II, p. 147. Cfr. anche G. Gallesio, Pomona cit., s. v. Melo Carlo o Finalino: «è una varietà indigena nel territorio di Finale [...] in Finale solamente essa è coltivata in grande e [...] da questo solo paese se ne fa un commercio, provvedendosene tutto il Genovesato, Nizza, Marsiglia, Barcellona, Cadice». — 339 - tanto vantaggioso il prodotto ». Questa occupa « quasi tutto il fondo, lasciandone poca parte alle viti e alle biade ». Solo dove « l’esposizione settentrionale queste e quelli ricusa », sorgono ampi castagneti, mentre sui monti « erbe salubri, odorifere e rare, come lo zafferano, il timo, la lavanda ecc. ». Anche se sulla costa prosperano altre piante da frutto, come gli agrumi, « generalmente però il prodotto utile è l’olio da cui ricavasi con che provvedere quanto è necessario al sostentamento, ai comodi e ai piaceri della vita» (pp. 42-43). Per il De Saussure solo presso Sanremo « la natura se ranime: on traverse des jardins remplis d’orangers, de citronniers et de palmiers de la plus grande beauté. St. Remo, est en effet de tout l’Etat de Gênes l’endroit le plus renommé pour les productions de ce genre; c’est-là que se préparé la meilleure eau de fleurs d’oranges et la meilleure essence de citron » (p. 183). Gli aranceti di Sanremo, le palme di Bordighera sono per molti viaggiatori l’espressione più evidente di un clima particolarmente benigno che il De Saussure esamina nelle sue componenti, mentre quasi un secolo prima un poeta inglese, J. Addison, si era limitato a osservare come gli abitanti di Sanremo, in pieno inverno, avessero le spalle coperte solo dallo « spessore di una camicia » e come ciò si traducesse in « una grande fortuna per la gente povera » 304. L’Amoretti nota invece la stretta associazione fra agrumi e ulivi: « presso S. Remo più che altrove coltivansi gli agrumi e non contenti gli abitatori d’averne estesi giardini, ne hanno piantati degli alberi anche sotto gli ulivi, che per tale oggetto tengonsi più alti » (p. 47). Lo stesso sistema di coltivazione colpirà, qualche anno dopo, anche un naturalista francese, buon conoscitore dei paesaggi provenzali. L’osservazione si riferisce alla piana fra il Nervia e il Roia, « plantée des plus nombreux et des plus superbes oliviers et arrosée par les eaux de la Roya. Rien n’est aussi riche, aussi fertile et aussi bien abrité que ce beau pays. Je n’oublierai point d’y avoir vu à peu de distance de la Bordighera, un champ d’oliviers de la plus grande élévation et de la puis belle venue, sous lesquelles étoit une plantation de citroniers chargés de fruits, arrosée par un petit ruisseau qui répandoit une si douce fraîcheur, et donnoit une si forte vie 304 S. Bosio, Le voyage d’Addison de Marseille à San Remo par mer en 1699, in « Armanac Nissart », XXIII, 1937, p. 69. — 340 - à la végétation, que ces arbres, loin de se nuire, sembloient se disputer de force et de vigueur sous le brillant soleil qui les animoit. Je doute qu’on puisse citer beaucoup d’exemples en ce genre » 305. Anche un naturalista vicentino, G. Merzari-Pencati, ancora nei primi anni dell’Ottocento, nota lo stesso fenomeno, che dobbiamo quindi considerare come uno degli aspetti più originali del paesaggio agrario del Basso Ponente, forse per la ragione che rompe la monotonia dell’olivicoltura a bosco: « vidi a Nizza e nel Genovesato qualche campo in cui la regione inferiore dell’aria era occupata in totalità dagli aranci, mentre la superiore era coperta da olivi, che si toccavano reciprocamente formando un tetto continuo. Qual forza di vegetazione! » 306. Soffermiamoci sull’uniformità dei paesaggi del Basso Ponente, che queste eccezioni mettono ancor più evidenza. Costituisce un evidente carattere differenziale rispetto alla varietà dei paesaggi della Liguria orientale. Il Merzari-Pencati ci offre una chiave per comprenderla: « La Riviera di Ponente è una catena non interrotta di monti lunga 120 miglia, bagnata, senza margine frammezzo, dal mare. Il litorale è sempre intagliato a festoni; sicché da Nizza a Genova un promontorio montuoso succede per ben 40 fiate ad una baja continentale più o meno vasta, che ha per corda la grande strada, ed alla di cui bocca è addossata una corrispondente baja marina; ed una baja piana alterna con un promontorio altrettante volte... In ciascuno di questi seni trovasi sempre una pianura egualissima; e ciò è naturale, giacché in ogni seno sboccano uno o due torrenti, i quali colle loro materie di trasporto adeguarono la vallata fino ad un miglio o due miglia addentro. Hannovi costantemente in ciascheduno dei seni uno o due grossi borghi o città, di cui le posizioni non presenterebbero al paesista che delle prospettive vaghe sì ma ripetute, se si eccettui quella di Bordighera, ch’è la sola di tutta la Riviera di Ponente che si cavi dall’ordinario. Si passa un torrente; sfilasi davanti un borgo, ch’è disteso lungo la spiaggia o se è una città questa si attraversa per mezzo; e sempre prima di entrarvi e sortendo godesi della vista di una valle elittica, i di cut monti son coperti di olivi fino all’altezza di 100 tese e di qualche convento posto in un sito pittorico dei contorni » (pp. 167-168). L’eccezione di Bordighera è dovuta al carattere esotico del suo paesaggio agrario dominato da vasti palmeti: « l’on se croit presque en Afri- 305 M. Faujas de Saint Fond cit., p. 31 (dell’estratto). 306 G. Marzari - Pencati, Corsa pel Bacino del Rodano e per la Liguria d’Oc-cidente, Vicenza 1806, p. 166. — 341 — que, car ses arbres sont si robustes, si élévés et si nombreux, qu’ils prospèrent ici comme dans leur terre natale », dice il Faujas, che di tale coltivazione mette in evidenza anche le dimensioni economiche e commerciali 307. Superata Ventimiglia — nei cui contorni « coltivasi, oltre gli oliveti anche molta vigna; e v’ha eziandio del terreno incolto che la comunità affitta a’ pastori, i quali neH’inverno qui scendono dalle Alpi nevose »308 — entriamo in una subregione, che costituisce un’interessantissima area di transizione fra la Liguria e la Provenza. Un’area che ci può aiutare, come già la Lunigiana, a cogliere nuove peculiarità, nuove differenze sia rispetto alla Provenza sia rispetto alla restante Liguria e quindi di ridare tutta la sua concretezza, la sua vita, i suoi colori al quadro di cui l’uniformità ambientale, constatata dal Merzari-Pencati, costituisce, per così dire, solo la cornice o l’immobile scenario. Ci sono alcuni aspetti che colpiscono il viaggiatore che entra in Liguria dalla Provenza e cominciano a differenziare le due regioni. Nel 1601, un segretario del cardinale Aldobrandini, giunto a Nizza proveniente da Lione, descrivendo Nizza, notava innanzitutto le case « fabbricate all’italiana », belle in confronto alle « catapecchie di Provenza », e poi le « prime delicatezze italiane, per i bergamotti et altri frutti stupendi, carciofi, cavoli fiori, capparini, limonetti teneri, grossi cedri et ottimi vini ». Forse il cardinale era stato accolto con maggior lusso nelle terre liguri, come per esempio a Loano, dove il principe Doria aveva apparecchiato un banchetto incomparabile « per la delicatezza delle vivande e politezza del servizio ben simile allo stile di Roma, ma che l’avanza facilmente in alcune squisitezze di condimenti »; nondimeno emerge chia- 307 M. Faujas de Saint Fond cit., p. 31; G. Marzari - Pencati cit., p. 170: « Bordighera è un borgo posto sul pendio d’un colle tutto coperto di datteri, aventi fin 50 piedi di altezza. Non fruttificano e si coltivano al solo oggetto di vendere annualmente le foglie bianche che costituiscono il nuovo bottone terminale, ad uso di decorare gli altari in Roma. Quantunque un bottone non si venda che 4 soldi e non ve n’abbia che un solo per pianta, mi si assicurò che molti ricchi signori del luogo non hanno altra proprietà che tale raccolta; onde convien che v’abbiano (come in fatto i paesani raccontano) dei boschi immensi di datteri nei monti superiori ». Su questa coltura singolare, che come noto si sviluppò in seguito a una convenzione con Roma che concedeva a Sanremo il privilegio di fornire le palme alla Chiesa, cfr. anche G. Gallesio, Vornom cit. s.v. Valma Dattilifera. 308 C. Amoretti cit., pp. 52-53. - 342 - ramente qualche tratto originale di una alimentazione e di una cucina liguri: « ci hanno fatto venire nausea di confetture e di canditi, ma non di cavoli fiori, d’insalata, di bergamotti et altri frutti esquisiti et sebbene ne abbiamo sempre havuti » 309. Questa ricchezza di vegetali squisiti è in evidente relazione con le pregiate produzioni dell’orticoltura ligure, alla quale la Provenza, come molte altre terre italiane e forestiere, sono debitrici di semi e varietà310. Dobbiamo chiamare in causa la forte influenza della città, con le esigenze e i suoi gusti più raffinati, sulla campagna ligure? Di questa influenza urbana non sono un indice anche le caratteristiche dei borghi e delle abitazioni delle Riviere? Duecento anni dopo il viaggio dell’Aldo-brandini anche il Merzari-Pencati notava, in contrasto con la « mal proprietà delle strade e delle case » di alcuni villaggi provenzali, « il gusto dei colori » con cui si tingono le case e ancora i selciati delle strade che nei « frequentissimi borghi della Riviera » sono costruiti facendo uso di ciottoli fluitati, « con maestria non più vista »: ciò che dà a questi paesi « un aspetto di singolare bellezza, malgrado il popolo miserabilissimo di cui sono abitati » (p. 171). Gli interrogativi che abbiamo posto rimangono ed è impossibile darne una qualsiasi risposta prima che si siano versati nuovi e copiosi materiali nel dossier dell’alimentazione, della casa, dell’insediamento e delle tecniche rurali della Riviera di Ponente, tali da consentire l’individuazione, se non di precise aree culturali, almeno di differenziazioni rispetto al Levante, al Genovesato e alla Provenza. Tentiamo qualche approccio: pur essendo già molti i problemi lasciati aperti, mi sia consentito, avviandomi alla conclusione, di indicare ancora qualche prospettiva di ricerca. 309 P. M. Salvago, Passaggio del Cardinale Pietro Aldobrandini nel Genovesato Vanno 1601, in « Giornale Ligustico», IV, 1877, pp. 266-270. A proposito di «delicatezze » liguri e in particolare di carciofi, nel Settecento, il celebre Parmentier dice di preferire il carciofo detto sucré de Gênes-. « il est ainsi nommé parce qu’il a effectivement un goût fin et sucré: on le préféré au rouge par sa delicatesse et on le mange également crud ... on tire les ailletons de Gênes par la voie de courriers (cfr. Nouveau Dictionnaire d’Histoire naturelle appliqué aux arts, Venezia 1804-1808 (ristampa), II, p. 290-291). 310 Un esame sistematico dei trattati di agricoltura italiani e stranieri consentirebbero di tracciare i limiti dell’area di influenza della orticoltura ligure, estesa non solo ai paesi mediterranei. Cfr. per esempio V. Tanara, L’economia del cittadino in villa, Venezia 1713, pp. 244-245. — 343 - Bartolomeo Paschetti, il medico veronese di cui abbiamo già saccheggiato l’opera preziosa a proposito dei vini, offre molti spunti sulla cucina genovese (e « lombarda »: in ciò non dimentica la sua origine) con qualche allusione all’alimentazione delle Riviere. Parlando del pane, osserva, che il grano, essendo la Liguria paese montuoso, arido e sterile, « vien quasi tutto di fuori, fatta eccezione per la To-sella, grano bellissimo, albissimo, nettissimo », che producono « in conveniente quantità il Contato di Nove, le montagne di Savignone, di Mongiardi-no e di Carega e altri luoghi circonvicini »; e nota ancora che in Liguria non si usa fare pane condito con sale311. Prima di chiedersi se quest’ultimo sia un uso generalizzato, occorre domandarsi quale sia il ruolo del pane di frumento nell alimentazione delle campagne e quale il ruolo degli altri generi panificabili o dei sostituti del pane. Il Paschetti non parla né di farina, né di pane di castagne: sulle mense dei cittadini o meglio dei cittadini ricchi le castagne compaiono solo fra le frutta; ma già sappiamo che la farina di castagne era largamente usata nell’Appennino ligure e lunigianese, dove veniva cotta in speciali recipienti (« testi), del tutto sconosciuti nella Riviera di Ponente e in particolare nel Savonese, dove infatti neppure si faceva farina di castagne 312. Dobbiamo pensare ad una vocazione più cerealicola o ad una maggior consumo di cereali panificabili nella montagna della Riviera di Ponente? Secondo la « caratata » del 1531 la podesteria montana di Tri ora era l’unico territorio che producesse cereali (e anche castagne) in eccedenza e gli Statuti coevi documentano l’esistenza di « panaterii », « gabellotti panis » e l’uso di focacce dette astrocee, che sembrano molto comuni nel Ponente3I3. 311 B. Paschetti cit. p. 348. In questo la Liguria, sempre che risulti confermato tale uso anche per il resto della regione e anche per il Settecento, si differenzia dalla Provenza e fa blocco con la Toscana (cfr. J. J. Hémardinquer, Le pain et le sel: une révolution, in Pour une histoire de l’alimentation (a cura di J. J. Hf.mar-dinquer), Paris 1970, p. 298. 312 G. Casalis cit., s.v. Savona cit. Cfr. anche T. Mannoni, Il « testo » e la sua diffusione nella Liguria di Levante, in « Bollettino Ligustico », XVII, 1965, pp. 50-64 313 G. Gorrini cit., p. 544; F. Ferraironi, Statuti comunali di Triora del secolo XVI, Bordighera 1956, pp. 32, 78. Una dettagliata legislazione, che consente di ricostruire nei particolari i procedimenti della panificazione, si trova negli Statuta Antiquissima Saône (cfr. L. Balletto cit., I, p. 253 e sgg.). Sulle astrocee cfr. anche G. Rossi, Glossario cit. — 344 — In Provenza e soprattutto in Linguadoca negli ultimi secoli del Medioevo l’orzo è abbandonato a favore del frumento e più tardi anche della segale: così al classico avvicendamento mediterraneo orzo-frumento succede il sistema continentale frumento-segale-avena314. È un’evoluzione che si verifica anche in Liguria? Per il momento non mi è possibile fornire che due punti di riferimento: nei canoni in natura dovuti dai coloni toiranesi nel XIII secolo l’orzo è il prodotto più frequente. Nelle statistiche francesi del primo Ottocento, l’orzo risulta ancora presente in tutto l’Albenganese, nelle parti montane del cantone di S. Stefano e nel cantone di Borgomaro; in media la sua produzione corrisponde a circa il 50% della produzione di frumento. La segale è quasi sconosciuta: solo nelle parti più montane al confine col Piemonte diventa un prodotto di qualche considerazione; il rapporto diventa favorevole alla segale e all’avena soprattutto nel circondario di Ceva315. Un’altra differenza fra la Liguria occidentale e la Lunigiana e lo Spezzino, dove, nel Settecento, la segale, che entra abitualmente nella rotazione triennale, sembra aver soppiantato l’orzo. Lo Chabrol, a sua volta, osserva che nel circondario di Savona il consumo pro-capite di grano è inferiore rispetto agli altri circondari del Dipartimento, per il fatto che nel regime alimentare della sua popolazione entrerebbe una maggior percentuale di ortaggi, frutta e in particolare di fischi316. A questo proposito, ancora nel 1881 un agronomo albenganese osservava: 314 E. Le Roy Ladurie, Les paysans cit., pp. 180-184. Per la Provenza cfr. L. Stouff, Ravitaillement et alimentation en Provence aux XIV et XV siècles, Paris 1970, p. 46 e sgg. 315 P. Accame, Instrumenta episcoporum cit., passim; A.S.S., Dipartimento di Montenotte, n. 374 cit. Un indizio dell’importanza che la segale assume nel XVII secolo nell’alimentazione della popolazione della montagna ligure si può vedere nel fatto che sul mercato di Genova nel 1619 la domanda di segale cresce « a causa del magro raccolto di castagne » e dal fatto che l’andamento del suo prezzo mostra che « i consumi alimentari delle classi povere sono assai rigidi e consuetudinari anche quando lo scarto fra i prezzi della segale e del frumento ... si riduce a cifre di scarsa entità » (M. C. Lamberti, Mercanti tedeschi a Genova nel XVII secolo: l’attività della compagnia Raynolt negli anni 1619-20, in « Asli », N.S., XII, 1972, p. 96). Interessante anche quanto riferisce G. Doria a proposito di Montaldeo, dove nel 1689 l’orzo si fa seminare, nell’azienda Doria, da contadini polceveraschi « perchè i contadini locali non hanno pratica di tale coltura » (G. Doria cit., p. 35). 316 G. Chabrol, Statistique cit., II, p. 254. — 345 — 13 « è il fico che gode di preferenza le simpatie del povero contadino; per quanto l’ingordigia di questo albero gli rubi una parte delle raccolte, per quanto l’ombra della sua verzura sia nociva allo sviluppo delle pianticelle negli orti, il miglior posto è assegnato alla pianta che dà « il pane dei poveri », come dicono in Alassio »317. Già il Paschetti osservava che, oltre legumi come fave, piselli, lenticchie e ceci, nelle Riviere e soprattutto nelle classi più povere si consumavano molte « erbe » e in particolare cavoli, lattughe, cicoria (sia le cime dette « carzuoli », sia le radici che si mangiano d’inverno « haven-done grandissima copia ») e la zucca, sia fresca, sia « quella che dura serbasi all’invernata cibo della vile e povera plebaglia » soprattutto nella Riviera di ponente318. Secondo il Cevasco, i cittadini genovesi, nei primi decenni dell’Ottocento, consumavano 1/2 kg. di ortaggi al giorno319. F. Casoni descrivendo il territorio di Taggia, oltre al moscato, all’olio, alle mandorle e ai fichi « oltre modo grossi e dolci, che seccati riescono gratissimi », ricorda « zucche di corpo vasto, le cortecce delle quali separate dalle midolla e seccate nel ombra si conservano per minestra saporita nel verno » 320. Minestre (fatte anche con boragine, acetosa, endivia, bietole ecc.) e insalate (in cui si mescolano erbe « fredde », come la lattuga, e erbe « calde » come la menta e la boragine) sono, a quanto pare, un’alimento base; così anche le frutta che i genovesi usano, 317 M. Maglione cit., p. 420. Ma i fichi non costituivano soltanto uno degli alimenti base dei contadini, ma anche un genere di esportazione. Cfr. per esempio in Bauchino - Cherlero, Historia plantarum..., Ebroduni 1650: «sed hodie etiam, quia nostris faucibus nihil ingustatum volumus, etiam magnae illae purpurae, Genuen-ses dictae... in Germaniam importantur ». Questo passo che si riferisce ad una varietà di fichi liguri è citato in N. Lagomaggiore - N. Mezzana cit., nella copia con numerose annotazioni manoscritte (di uno dei due A.) conservata in B.C.B. 318 B. Paschetti cit., p. 406 e sgg. 319 G. Cevasco, Statistique de la ville de Gênes, Genova 1938, I, p. 156. 320 F. Casoni, Breve Descrittione cit., c. 4, Più in generale cfr. quanto scrive il Tanara: « le zucche bianche... volendo gran sole e molt’acqua da noi poco si costumano, anzi havendone fatto io venir seme di Genova, non hanno fatto il frutto grosso, come ho veduto colà, ove tagliate in fette e secche al sole le fanno venire toste come sassi, poi le mandano per tutto il mondo con molto utile, per adoperarsi in minestre e copriture di pelati lessi, che siano con salami e salcizze (V. Tanara cit., P. 259). — 346 — « ogni stagione e particolarmente l’estate e l’autunno », mangiare « ogni dì innanzi e nella fine del pasto »321. L. Stoufï ha negato, di recente, che esista nel Quattrocento una cucina provenzale, in quanto il grasso più usato anche come condimento delle minestre è ancora il lardo (come in tutta l’Europa) e l’olio ha un uso limitato alla cottura delle uova e del pesce. Avviene lo stesso in Liguria? In effetti sembra che il consumo pro-capite di olio aumenti solo a partire dal Cinquecento e che tale incremento, insieme alla domanda della manifattura della lana e del sapone, sia alla base dello sviluppo quasi generale dell’olivicoltura mediterranea in questo periodo. È, dunque, necessario studiare concretamente la storia dell’alimentazione, della cucina e il diverso ruolo dei grassi vegetali e animali, anche per capire il dinamismo delle culture e dei paesaggi 322. Non poteva invece aumentare il consumo pro-capite di vino che in alcuni paesi mediterranei, nel Basso Medioevo, pare raggiungesse anche nelle classi popolari il « tetto » di 2 litri al giorno. Un consumo molto elevato che da solo spiega come quasi ovunque nel Medioevo la viticoltura si trovasse al secondo posto, subito dopo i cereali, e occupasse almeno il 10 % della superficie coltivabile di ogni comunità 323. Ma sono consumi che sembrano nettamente superiori a quelli attestati a Genova: nel XV secolo 286 litri a persona all’anno, nel XVII secolo 235 e ai primi dell’Ottocento 150 litri 324. È una diminuzione costante del consumo rispetto ad una più fortunata fase medievale o siamo di fronte soltanto 321 B. Paschetti cit., p. 418; sull’importanza delle minestre di verdura nell’alimentazione mediterranea cfr. L. Stouff, Ravitaillement cit., p. 259 e sgg. e p. 104 e sgg. 322 Su questi aspetti cfr. L. Stouff, Ravitaillement cit., p. 261; E. Le Roy Ladurie,Lei paysans cit., pp. 203-204. Tra i grassi vegetali un suo posto aveva anche l’olio di mandorle: cfr. B. Paschetti cit., p. 259; E. Le Roy Ladurie nota parallelamente allo sviluppo dell’ovicoltura, un incremento della coltura del mandorlo, che sembra partecipare alla fortuna dei grassi vegetali che contrassegna l’inizio dell’età moderna. 323 E. Le Roy Ladurie, Les paysans cit., pp. 209, 266. Per la Provenza L. Stouff, Ravitaillement cit., pp. 229-230. 324 Cfr. J. Heers, Le livre cit.; J. Day, Prix agricoles en Méditerranée à la fin du XIV siècle, in «Annales E.S.C. », 1961, p. 629; E. Grendi, Introduzione cit., p. 36; G. Chabrol, Statistique cit., II, p. 235. — 347 — ad un mutamento di gusto quale ad esempio quello di consumare vini a più elevata gradazione alcolica? 325. Un geografo francese a conclusione di un esame globale dei caratteri originali del villaggio provenzale e dell’abitazione rurale ha creduto di individuare « une civilisation du rocher... où l’utilisation (pratique? rituelle? magique? défensive? agricole?) des lieux escarpés, de la rocaille, de la pierre taillée, dressée, creusée, aménagée de cent manières diverses, constituait la base de l’installation hamuaine » 326. Già il Dion aveva proposto una « civilisation arboricole », spiegando Pinsedimento di sommità come espressione di una civiltà agraria che mette in valore e percio intende anche difendere con la presenza umana la sommità e i versanti dei rilievi destinati alle classiche culture della vite e dell’ulivo 327. Su questi temi è in corso da anni un dibattito fra i geografi, che finora non ha interessato, se non in maniera marginale, la Liguria, dove ci si e limitati a spiegare le forme dell’insediamento accentrato e arroccato, così caratteristico del Basso Ponente (ma anche della Lunigiana), nella migliore delle ipotesi, con l’olivicoltura, ritenuta già nel medioevo « la forma più importante di utilizzazione del suolo » 328. Per spiegare le forme dell insediamento rurale non è tuttavia sufficiente datare, dare una periodizza-zione alle principali culture arboree e arbustive, ma occorre effettivamente studiare in chiave di « civilisation » l’insediamento umano: dalla cellula elementare (la casa) alle più elevate forme di organizzazione e di socialità (il villaggio), fino all’organizzazione del territorio sfruttato e 325 Sia nel Seicento che nel Settecento è largamente documentato nei cittadini e negli strati più agiati l’uso di bere il vino allungato con acqua o neve e a questo scopo si preferivano i vini di elevata gradazione alcoolica. Questo uso può forse spiegare la diminuzione del quantitativo di vino a testa. Rimane tuttavia da conoscere la quantità e la qualità del vino consumato nelle classi popolari e nella popolazione rurale la quale in molti casi si accontentava de vinello tratto dai mosti già spremuti (in questo caso si può comprendere anche un consumo di 2 litri al giorno). 326 R. Livet, Habitat rural et structures agraires en Basse-Provence, Gap-Aix-en-Provence, 1962, p. 213 e sgg. 327 R. Dion, Effets de l’insécurité sur le choix de sites d’habitat rural, « Information Géographique », 1946, p. 143 e sgg. Spunti in questo senso si trovano già nei notissimi Principes de géographie humaine di Vidal De La Blache. 328 Cfr. per esempio M. R. Prete, Le valli più occidentali della Liguria, in « Annali di Ricerche e Studi di Geografia », 7, 1949, p. 20; E. Scarin, La casa rurale cit., p. 14. — 348 - messo a cultura dalla comunità 329. In questa prospettiva è difficile scindere una « civilisation arboricole » da una « civilisation du rocher »: non sono che due aspetti di una stessa civiltà agraria. Quale miglior espressione della « civilisation du rocher » della costruzione delle « fasce » destinate soprattutto ad ospitare le culture della vite e dell’ulivo? Un anonimo collaboratore di G. De Ambrosis ce ne ha lasciato una magnifica descrizione riferita al Finale: « L’industria di questi abitatori è forse superiore a quanto si conosca al mondo in questo genere. Tutte le campagne, anche le più fertili, non sono che macerie che sostengono poca terra a scalini come in tanti vasi. I coloni laboriosi rompono queste rocche colla polvere e colle mazze, elevano dei muri senza calce nell’orlo delle cave da dove hanno tirati quei scogli e coi frantumi delle pietre che hanno rotte, mescolati alla poca terra, che frammezza quelle rocche, ne colmano il vuoto, come in un vaso, e vi piantano la vigna e gli ulivi. Ogni certo tratto di tempo gli anni e le pioggie rovescano questi sostegni fattizii delle loro campagne, e sono costretti a ripetere lo stesso lavoro, andando sovente ben lontano a rompere delle altre rocche per suplire alla corrosione che il tempo produce in quelle che rovinano. Tutto questo lavoro pare incredibile a chi non lo vede e gli immensi oliveti, che cuoprono questo paese, tutti formati e sostenuti in questa maniera, sono un prodigio di attività e di industria campestre che sorprende il filosofo che lo rifletta. Con questo metodo ciononostante si è coltivato un tratto di paese assai considerevole e mediante questo metodo le produzioni agricole di questo territorio sono di qualche considerazione»330. I terrazzamenti, come del resto anche le « caselle » spesso alloggiate nei muri delle fasce, non sono certo una caratteristica soltanto ligure: ma uno studio approfondito delle tecniche e della nomenclatura, come anche delle principali fasi del terrazzamento dei versanti, consentirebbe di individuare interessanti peculiarità locali: discordanze fra le diverse sub-regioni liguri e magari concordanze fra il Ponente e certi distretti della regione provenzale, come per esempio nell’uso del termine « fascia » (« faissa » in Provenza) o ancora per l’area di diffusione delle « ca- 329 Ho trattato questi problemi nell’art. Geografia storica o storia sociale del popolamento rurale?, di prossima pubblicazione in « Quaderni Storici », n. 24, 1973. 330 B.U.G., ms. G V 18 (Notizie statistiche sulla Giurisdizione delle Arene Candide) 1802. Il manoscritto è anonimo. Che l’A. sia Agostino Bianchi, che in quegli anni si avviava a diventare funzionario dell’amministrazione forestale del Dipartimento di Montenotte? Non si potrebbe neppure escludere il nome di G. Gallesio. — 349 - selle », che, molto dilatata a ponente, si chiude, verso levante, con il Savonese331. La casa rurale. Ancora tutti da studiare gli imprestiti di tecniche fra Liguria e Provenza. Il fatto che la tecnica più usata in Provenza per assicurare la stabilità della sporgenza del tetto sia detta « génoise » o ancora il fatto che nel 1789, negli « Avvisi » di Genova si propagandasse la tecnica provenzale impiegata nella costruzione delle « case di terra » (un tipo di costruzione che pure era largamente diffuso nell Alessandrino), fa pensare che i contatti fra le due regioni siano stati molto intensi (più intensi che fra la Liguria marittima e il mondo padano?) . Ma a parte il tema non facile degli imprestiti di tecniche, la casa rurale rimane ancora tutta da studiare nella sua genesi, nella sua evoluzione, nella sua tecnologia e non potrà esserlo se non verrà inserita nel contesto storico delle fasi di popolamento e di colonizzazione agraria. Anche gli imprestiti possono trovare una spiegazione nelle immigrazioni rurali che a più riprese fra medioevo e età moderna interessarono la Provenza orientale ripopolata da cospicui contingenti di famiglie della diocesi di Ventimiglia e di Albenga, fra le quali non è forse un caso che vi siano anche alcuni muratori 333. Ad alcune di queste famiglie, provenienti anche da Sanremo, si deve, a quanto sostiene J. Heers, anche l’introduzione della coltivazione degli agrumi nella Provenza orientale e in particolare a Biot, alla fine del XV secolo334. Questa emigrazione di genti liguri, che nello stesso periodo è attestata anche nella Lunigiana, è un importante indizio di una sfasatura fra la dinamica della popolazione ligure e quella provenzale. Nel Quattro- 331 Come abbiamo già accennato nel 2° paragrafo lo studio migliore e 1 unico sui terrazzamenti in Liguria rimane quello di G. Rovereto, La storia delle fasce cit., interessante anche sotto l’aspetto degli attrezzi agricoli. Sulle « caselle » cfr. N. Vassallo cit. (cfr. n. 72). 332 Cfr. R. Livet cit., p. 178; « Avvisi », 5 settembre 1789. Sulla distribuzione e tecnica delle case di terra in Provenza cfr. ancora R. Livet cit., p. 174 e sgg. e nell’Alessandrino 0. Baldacci, L’ambiente geografico della casa di terra in Italia, in Studi geografici in onore di R. Biasutti, Firenze 1958. 333 R. Jeancard, Les Seigneuries d’Outre-Siagne de la Reine Jeanne à Francois Ier, Cannes 1952, pp. 47 e sgg. 334 J. Heers, Gênes cit., p. 325. — 350 — cento in Liguria c’è eccedenza di braccia e molte famiglie contadine si trasferiscono in Provenza, in Toscana, in Sicilia e a Genova, dove per esempio ortolani del Ponente vanno a ingrossare le file dei « bisagnini »33S. È un periodo di forte crescita demografica che anticipa in Liguria i tempi della « eruzione demografica » che si verifica soprattutto nel Cinquecento in Provenza e Linguadoca — l’emigrazione ligure in Provenza comincia subito dopo la metà del Quattrocento e si chiude nel 1520 — o è soltanto un periodo di pressione fiscale e signorile sui contadini? L’uno e l’altro fattore, che non sembrano del tutto escludersi, possono aver contribuito a determinare un periodo di « fame di terra », di colonizzazione di aree marginali, di estensione dei terrazzamenti e non ultimo di fondazione di nuovi villaggi e borghi 336. Se la tendenza al ripopolamento si è effettivamente propagata da un epicentro italiano o addirittura ligure verso il Golfo del Leone, come ipotizza Le Roy Ladurie, è altrettanto probabile che nel XVII secolo si siano manifestate in Liguria precoci tendenze allo spopolamento, delle quali si può trovare un indizio consistente nella fase di abbandono di piccoli villaggi rurali che colpisce l’albenganese, in gran parte nel XVII secolo. Le rovine di questi villaggi sono ancora visibili e sono stati di recente studiati anche con il sussidio dello scavo archeologico 337. Nell’estate del 1971, in località Capriolo, nella fascia pedemontana e nord-orientale della Piana di Albenga, è stato fatto un saggio di scavo alPinterno di una abitazione dell’antico villaggio abbandonato nel XVII secolo. Fra le strutture murarie parzialmente ancora in elevazione vi era uno strato considerevole di macerie contenenti frammenti di ceramica soprattutto del secolo XVII. Questo fatto è stato spiegato, in modo convincente, con l’accurato spietramento dei campi fatto, appunto nel XVII secolo, per impiantare l’oliveto, che ancora oggi domina il paesaggio e 335 J. Heers, Gênes cit., p. 29 e sgg. 336 Si tratta di problemi che restano ancora in gran parte da studiare e che rientrano in un programma di ricerca sulle vicende del popolamento nell’area provenzale e ligure-occidentale che intende proseguire, in collaborazione con il Centre d’études des Sociétés Méditerranéennes deO’Università di Aix-en-Provence, l’indagine già avviata dal Gruppo Ligure di Ricerca sulle sedi abbandonate, di cui si veda alla nota seguente. 337 Cfr. Un approccio interdisciplinare allo studio delle sedi abbandonate in Liguria, Genova 1971. — 351 - che prendeva il posto del diverso ordinamento culturale presistente Ecco una concreta verifica della diffusione in età moderna della cultura dell’ulivo e insieme un collegamento da spiegare con un fenomeno di spopolamento o comunque di ristrutturazione dell’insediamento. Localmente se si interrogano i contadini emergono due cause: 1 inaridimento del suolo e le « formiche ». Che l’ulivo come cultura seccagna abbia sostituito le colture irrigue che dovevano un tempo circondare l’abitato abbandonato, penso sia da imputarsi più all’uomo che al clima. Ricollegandoci anche a quanto ebbe a riconoscere il Piccone circa le conseguenze della monocultura dell’ulivo, intesa come passaggio ad una agricoltura con minore intensità di lavoro, sulla popolazione e sui suoi generi di vita: — « ridotta essendo nel Basso Ponente a’ soli Uliveti la massa generale della rustica economia, e non porgendo gli ulivi occupazioni quotidiane, non porgono perciò stesso un congruo trattenimento a colonie fisse di coltivatori » 339 — potremmo anche vedere nell affermarsi massiccio dell’olivicoltura nel XVII secolo una delle cause o almeno uno dei fatti correlati all’abbandono dei minori villaggi rurali, in particolare di quei villaggi in cui, forse non a caso, l’ulivo campeggia negli antichi vani di abitazione. In altre parole, ovunque la coltura, in larga parte estensiva e di speculazione, dell’ulivo si sostituisce alla tradizionale coltura promiscua, più intensiva e volta a garantire la sussistenza della famiglia coltivatrice, dovremmo riscontrare segni di spopolamento di nuclei e villaggi, una tendenza al diradarsi delle maglie dell’insediamento e allo sviluppo dei « centri », sede preferenziale degli olivicoltori. Se questa ipotesi sarà verificata potremo riscontrare un’altra differenza con il Genovesato e il Levante, dove negli stessi anni sembra manifestarsi una tendenza opposta: lo sviluppo della cultura promiscua si accompagna infatti a quella dispersione della popolazione che è elemento essenziale dell’agricoltura di villa. È chiaro comunque che se si vogliono comprendere e spiegare le strutture dell’insediamento, e soprattutto dell’insediamento accentrato, nella loro genesi, evoluzione e persistenza, si deve avviare lo studio delle sedi al loro interno, nei rapporti fra gli uomini che ne fanno parte, 338 Questa spiegazione si deve a T. Marinoni che insieme a M. C. Paoli hanno rispettivamente seguito e diretto lo scavo, sul quale si veda una relazione preliminare in « Notiziario di Archeologia Medievale », 31 maggio 1972. 339 G. M. Piccone, Saggi cit., I, p. 160. — 352 — prima che nei rapporti fra l’uomo e la terra o, peggio, fra l’uomo e l’ambiente naturale 34°. Anche negli attrezzi agricoli notiamo concordanze e discordanze fra Liguria occidentale, Provenza, Liguria orientale e Lunigiana. Le inchieste napoleoniche ci consentono ancora una volta di ricostruire una carta sommaria della distribuzione dei più usati attrezzi agricoli. Nel Cantone di Savona il mezzo più in uso per lavorare la terra è la zappa a due punte. Il fatto che nello stesso terreno si coltivino grano, legumi, frutta, vigne e oliveti non consente — si dice — di usare l’aratro. Lo stesso avviene nel Cantone di Varazze, di Finale e di Noli. Dal cantone di Pietra, fatta eccezione per i comuni più montuosi, comincia l’uso promiscuo dell’aratro e della zappa: non solo nel senso che in genere dietro all’uomo che guida l’aratro un altro uomo ripassa il terreno con la zappa, ma anche nel senso che anche in questi cantoni la zappa è l’unico strumento impiegato nei terreni più scoscesi. Una giornata di aratura costa in genere più del doppio di una giornata da zappatore. Nell’Albenganese, compreso anche il cantone di Pieve, si dà questo elenco di strumenti: charme, bêche, pique, pioche, cognée, marteau, levier, pal en fer, faux. Si notino, accanto agli strumenti impiegati per lavorare la terra (aratro, vanga e bidente), gli attrezzi per rompere la roccia e costruire i muretti a secco delle fasce: nei conti dei costi delle colture si valuta spesso anche la giornata dei costruttori di muretti a secco. Ad Alassio e Laigueglia « non si costumano aratri, né vanghe, ma bensì una zappa a due punte, vulgo magalio ». Nel cantone di Porto Maurizio « charrue » e « magalio », cioè aratro e zappa a due punte, si alternano, ma più usato appare il secondo strumento, anche se sappiamo che vi era l’abitudine di arare anche sotto gli ulivi. Ma a Caramagna, per esempio, dove pure la metà del suolo coltivato è in piano, si dice che il terreno è così forte che si può usare so- lo il ferro a due punte [magalio). Lo stesso avviene nel cantone di Oneglia e di S. Stefano, mentre in quello di Diano è prevalente l’uso dell’aratro. Aratro e zappa sono promiscuamente usati nel cantone di Bor- 340 Su questo approccio allo studio del popolamento rurale, che si distingue da quello tradizionalmente geografico-deterministico per la ferma convinzione che i fenomeni sociali, come in definitiva sono anche i fatti di popolamento, non possono essere spiegati da fattori extra-sociali, cfr. l’art, cit. Geografia storica o storia sociale del popolamento rurale? jcfr. nota 329). — 353 - gomaro, come anche a Carpasio, appendice montana del cantone di S. Stefano 341. Lo Chabrol ha ricapitolato queste informazioni per 1 intero dipartimento, osservando che il tipo di aratro prevalente sia nei circondari padani sia in quelli marittimi è l’aratro asimmetrico, che, cioè, rovescia la terra da una sola parte: è usato prevalentemente nei terreni piani o leggermente inclinati, altrove il lavoro si fa a braccia con il badile, usato nei terreni leggeri e con la zappa a due denti usata nelle terre forti e soprattutto nella fascia costiera, e infine con la zappa triangolare e piena usata per rivoltare la terra già smossa 342. Se confrontiamo i disegni degli aratri del Dipartimento di Monte-notte con quelli del circondario di Sarzana possiamo notare come ci troviamo di fronte a due distinte aree culturali. Non si tratta tuttavia dell’opposizione fra Y araire e la charme, che riproporrebbe all interno della Liguria l’opposizione fra le tecniche mediterranee e le tecniche continentali, in quanto anche l’aratro asimmetrico del Ponente appartiene ancora alla famiglia dell’aratro mediterraneo ed è stato definito da A. Haudri-court e M. J. Brunhes Delamarre come « araire chambige charrutisé », cioè una forma di transizione fra Varaire e la charrue, che in età moderna troviamo diffusa anche in Linguadoca e in Provenza. Gli aratri della Liguria orientale appartengono invece nettamente al tipo di aratro simmetrico e direi al tipo definito « araire manche-sep » che d altra parte non risulta neppure estraneo alle Alpi marittime m. Anche se in definitiva lo strumento asimmetrico non aveva molta più efficacia del classico aratro mediterraneo e se nell’aratro del circondario di Sarzana due « orecchi » assolvevano alla medesima funzione di rivoltare le zolle, tuttavia il versoio fisso degli aratri del Dipartimento di Montenotte mi pare si debba interpretare come un segno di maggior complessità e elaborazione degli attrezzi aratori nella regione occidentale, come è anche di- 341 A.S.S., Dipartimento di Montenotte, n. 374 cit. 342 G. Chabrol, Statistique cit., II, pp. 142-143. 343 A. Haudricourt - M. J. Brunhes Delamarre, L’homme et la charrue à travers le monde, Paris 1955, pp. 386, 208. Lo studio delle tecniche agricole ha fatto di recente notevoli progressi in Italia, ma ancora una volta la Liguria è rimasta indietro. Per un’area contigua alla Liguria e che presenta notevoli punti di contatto cfr. B. Farolfi, Strumenti e pratiche agrarie in Toscana dall’età napoleonica all’Unità, Milano 1969; C. Pazzagli cit., p. 149 e sgg. — 354 — mostrato dall’adozione della ruota che si nota in uno degli aratri del circondario di Ceva. A quando risalga il tipo di aratro più progredito della Liguria occidentale, non è possibile sapere. È invece probabile che la Liguria, come anche la Provenza, ne vada debitrice alle valli piemontesi, dove risulta diffuso con il nome di « sciloria ». Saremmo quindi di fronte a un’area culturale che fa perno sulle Alpi Marittime e si estende dalla Liguria occidentale alle basse valli piemontesi, fino al Var 344. L’opposizione fra le due aree liguri risulta approfondita se guardiamo agli attrezzi della zappicoltura. Come abbiamo già accennato il bidente è del tutto assente nel Levante, mentre è di larghissimo uso nel Ponente e la sua area di diffusione si estende anche alla Provenza secondo il Sereni sarebbe di origine provenzale il nome magalio o magau — e alla Linguadoca 345. Più diffìcile individuare precise aree culturali dal punto di vista delle rotazioni o, per dir meglio, distinguere diversi regimi agrari. Lo Chabrol osserva innanzittutto che il maggese è presente solo nel circondario di Acqui. Nei circondari di Savona e Porto Maurizio prevale una rotazione biennale: primo anno frumento, secondo anno legumi, con 1 eccezione dei cantoni di Finale, Pietra e Albenga dove si alternano frumento, canapa e cavoli M6. Non si può dunque parlare di vera e propria rotazione biennale o triennale in quanto non compare 1 anno di riposo che era invece largamente usato in Provenza e Linguadoca. L assenza di maggese non è comunque una peculiarità ligure-occidentale, in quanto anche nel circondario di Sarzana abbiamo notato avvicendamenti biennali e triennali senza maggese. Si tratta di un progresso recente o di un siste- 344 A. Haudricourt - M. J. Brunhes Delamarre cit., pp. 435-436. Si tratta naturalmente soltanto di ipotesi di lavoro che dovranno essere verificate da precise indagini sub-regionali. Pur tenendo presenti le osservazioni dello Chabrol, rimane ancora studiare sotto questo aspetto il versante marittimo della Liguria occidentale, sul quale ci mancano i preziosi materiali dell’inchiesta francese. Ma anche il versante padano presenta interessanti particolarità. Cfr. per esempio quanto ricorda G. Doria a proposito di Montaldeo, dove ancora nel 1757 « non esiste un uomo capace di arare con i buoi, bisogna farlo venire da Casaleggio che dista 8 km. » (G. Doria cit., p. 26). 345 E. Sereni, Comunità rurali nell’Italia antica, Roma 1955, p. 540; E. Le Roy Ladurie, Les paysans cit., p. 85; dove il bidente è soprattutto un attrezzo usato nelle vigne. 346 G. Chabrol, Statistique cit., II, p. 142. — 355 - ma già stabilito fin dai secoli medievali? Non è possibile finora dare una risposta. Tuttavia, sia che si tratti di una pratica agraria antica o recente, essa presuppone e rende più grave il problema di ricostituire la fertilità del terreno con un’abbondante concimazione. Data la scarsità del bestiame, il concime, soprattutto nel Ponente, doveva essere in larga parte acquistato: anche sotto questo aspetto constatiamo la stretta dipendenza della agricoltura ligure dal mercato. L’importazione di stracci di lana è già documentata nel Seicento ed è soprattutto in rapporto alla coltura dell’ulivo 347. Nella generale povertà di stallatico si ricorre a qualsiasi tipo di fertilizzante: dal fogliame e « brughi » (arbusti) alle alghe marine, dalla « rumenta » delle città trasportata e venduta in campagna dai « ru-mentari » fino agli escrementi umani molto appetiti soprattutto se provengono da famiglie ben nutrite: un sistema che ci è soprattutto descritto dai viaggiatori inglesi e tedeschi i quali oltre che stupiti ne rimangono spesso scandalizzati 348. Quanto ai rendimenti riportiamo la valutazione dello Chabrol: « En général les terrains ensemencés peuvent être divisés en trois classes sous le rapport des produits. La première, qui est la plus rare, rend quelquefois jusqu’à dix pour un, semence déduite. On ne trouve de terrains semblables que dans les arrondissements de Ceva et d’Acqui. La seconde classe produit aussi jusqu’à sept pour un; elle est commune en Ligurie. La troisième rapporte entre 347 Importazioni di stracci di lana risultano per esempio dalle filze delPArchivio vescovile di Albenga fin dal Seicento per l’ingrasso degli ulivi delle proprietà della diocesi. Nel Settecento poi gli agronomi ne parlano come di un uso soprattutto ligure (ligure-occidentale). 348 Cfr. G. Sulzer cit., p. 203: « Il contadino non ha altro bestiame che uno o due asini e ben di rado un paio di capre; una vacca è cosa rarissima, e quindi il concime esser deve pochissimo. Ma la diligenza supplisce alla scarsezza. Tutto ciò che può esservi d’immondo o andare a male in una casa è diligentemente raccolto e gettato in grosse giare collocate sotterra, ed allorché il tutto è giunto ad un certo grado di fermentazione, se ne bagnano le radici delle piante. Comunemente ogni orto, che confina con istrada di passaggio, ha un picciolo ricovero aperto verso strada e murato verso l’interno, dove può il passeggero soddisfare a qualche urgente bisogno. Simili latrine trovansi secondo Kampfer in tutte le strade pubbliche al Giappone. Ma la più parte dell’ingrasso si ritrae dalla città, nella quale tutto ciò che va in corruzione si conserva con quella stessa cura con cui le provvigioni stesse da bocca. E quelle immondizie sono vendute e caramente pagate. Sonovi famiglie che ne ritraggono annualmente cento e più lire. Il proprietario del giardino nel quale io — 356 — cinq en trois; elle est la plus générale sur-tout dans les pays montagneux où le terrain est leger et sujet à la sécheresse » 349. Anche nel versante marittimo vi sono alcune aree di elevata produttività, dove si possono anche superare i rendimenti padani, come nella piana di Albenga e in quella di Nizza 33°. Ma proprio l’esempio di Nizza ci consente di concludere che in Liguria i rendimenti più elevati, i maggiori profitti derivano dalla cultura degli ortaggi e delle frutta, come non mancò di notare anche un osservatore attento come Arthur Young. Quando A. Young, nel 1789, si ferma a Nizza, il console inglese lo invita a visitare gli orti e i giardini considerati il più singolare fenomeno della geografia agraria del contado di Nizza. Altrettanto singolari sono le osservazioni di A. Young: abitava pagava annualmente trecento lire per le immondizie delle prigioni ». Concludeva osservando che « le immondizie, che giornalmente gettansi nella Sprea a Berlino, paghrebbonsi certamente a Nizza 30 m. scudi l’anno » (p. 204). Informazioni di questo genere, e sempre riferite a Nizza, anche in T. Smollet, Lettres de Nice sur Nice et ses environs (1763-1765), a cura di E. Pilatte, Nice 1919, p. 128: «dans la ville de Nice chaque maison est pourvue d’un de ces réceptacles, dont le contenu est précieusement conservé pour la vente. Le paysans vient l’enlever à l’aube, avec ses ânes et ses barils et paye selon la qualité, qu’il apprécié par le goût et par l’odorat. La vidange qui provient d’une famille protestante, laquelle mange gras touts les jours, atteint un prix beaucoup plus élvèvé que celle d’un bon catholique, qui fait maigre la moitié de l’année ». Per il resto della Liguria cfr. Descrizione di Genova cit., II, pp. 97-98; A. Bertani cit., p. 447 e sgg. e p. 351, dove si osserva che i letti del Bisagno e della Polcevera « mediante l’assidua opera della zappetta e del concime di spazzatura, dell’acqua pompata dai bassi fondi del fiume e dall’instancabile operosità del ligure ortolano, furono convertiti in rigogliose ortaglie ». 349 G. Chabrol, Statistique cit., I, p. 145. 350 Per la piana di Albenga cfr. Descrizione di Genova cit., II, p. 79: « il reddito del grano varia secondo i terreni. Nei migliori (così in Albenga) si ottiene sino a 12, più sovente 8 a 9 per uno di semenza; ciò nelle buone annate: nei mediocri si cava il 7 all’8 ed è il più comune. Ne’ terreni montagnosi o soggetti a siccità si cava dal 3 al 5 per uno. Nelle migliori regioni di Novi, in pianura, la media è dal 4 al 5, e dal 2 al 3 nelle men fertili colline ». Per la piana di Nizza il Foderé per esempio parla di rendimenti di 15, 16, 17 e anche 18 per 1 nei campi destinati esclusivamente ai cereali e osserva che, anche nel contado di Nizza, tali rendimenti sono rari « parce que, le propriétés étant très-morcelées chaque particulier veut à la fois, dans le même champ, le grain, la vigne, l’olivier et divers arbres fruitiers, ce qui fait que le grain n’y peut produire que tout au plus six pour un dans les meilleures terres » (F. E. Fodere cit., p. 51). — 357 - « Te me transportai avec M. Green dans plusieurs jardins si fertiles par le moyen des arrosemens, qu’ils étoient vraiment dignes de remarques, mais leur plus grande produit consiste en oranges et en citrons, les premières en grande quantité: il s’y trouve aussi quelques bergamotes, que l’on cultive par curiosité. Nous vîmes le jardin d’un Seigneur, contenant à peine deux arpens, qui donne pour trente louis d’oranges par an, outre les autres légumes. La grande valeur de ces productions est précisément la raison pour laquelle je n amerois pas de pa reils jardins, s’il étoient sous la direction de la noblesse de Nice, vous voyez la perversité de la nature humaine! Un arpent de jardin est un objet important dans le revenu d’un noble, qu’on regarde comme fort à son aise quand il a cent cinquante ou deux cents louis de rente. Aussi, le jardinage, qui chez nous n est qu’un amusement, devient ici un objet d’économie et de revenu, deux chose in compatibles. C’est à-peu-près comme une belle chambre garnie que le propriétaire loue à des étrangers, et dont il ne fait pas lui-même usage: ces seigneurs ven en. leurs oranges et n’en gardent pas même une seule pour eux...»351. Per quanto queste osservazioni siano chiaramente influenzate dal modello inglese della villa, nondimeno, A. Young, oltre all aspetto dell elevato reddito della frutticoltura che ci premeva sottolineare, non manca di cogliere il problema di fondo di ogni indagine sulle campagne. « la destinazione della rendita dominicale », il problema che inevitabilmente si pone se, superando il preliminare approccio ai paesaggi, si vogliono attingere le strutture delle società rurali 352. 351 A. Young cit., p. 34. Non si tratta di una osservazione isolata quasi negli stessi anni sempre a proposito di Nizza, G. Sulzer, dopo aver riconosciuto le note voli spese per procurarsi il concime, osservava: « gli orti sono un reddito considera bile. Il proprietario di quello nel quale io abitava, che lo aveva affittato per la meta del prodotto, mi disse che la sua parte, un anno per l’altro ammontava a mille lire. Quel giardino è lungo 180 passi comuni e largo 156, e consiste quasi tutto in er-baggi da cucina, essendovi pochi limoni ed aranci per entro. Un giardiniere od ortolano, col quale io avevo fatto conoscenza, pagava per 1 orto che aveva preso a pigione e che era lungo 150 passi e largo 125, 700 lire l’anno » (G. Sulzer cit., p. 204). 352 Cf. M. Berengo, A proposito di proprietà fondiaria, in « Rivista Storica Italiana», LXXXII, 1970, p. 147. Lo studio del regime fondiario e in particolare della distribuzione della proprietà tranne il caso di Montaldeo, e ancora tutto da fare in Liguria soprattutto per l’età medievale e moderna. Per il medioevo ed una area marginale della Liguria cfr. L. Katuskina, II libro dei contratti del notaio Antonio Bonizi da Verrucola Bosi (1417-1425), in « Asli », n. s., Vili, 1968, pp. 109-175. — 358 — APPENDICE Nel Cartario Genovese e nel Registro Arcivescovile pubblicati da L. T. Belgrano si possono reperire numerose indicazioni di misure di appezzamenti, dalle quali è possibile, non solo farsi un’idea della estensione ma anche della forma delle pecie. Le unità di misura sono in generale la pertica e la tabula (sulle quali e sulle altre misure agrarie si veda P. Rocca, Pesi e misure antiche di Genova e del Genovesato, Genova 1871). Essendo la pertica un’unità di misura lineare (a sua volta suddivisa in piedi) è possibile spesso ricavare un’idea del rapporto di allungamento delle parcelle e anche del loro disegno approssimativo quando il documento riporti le misure dei quattro lati. Per trarne qualche conclusione sarà naturalmente necessario raccogliere una serie sufficientemente numerosa di misure. In questo primo approccio mi limito soltanto a fornire qualche esempio tratto dal Cartario Genovese cit.: — pecia de terra una cum vinea et arbores fructiferos... per mensura in longitudo perticas undecim et in latitudo de uno capite perticas octo et pedes septem et de alio capite perticas similiter octo et pedes tres (doc. XXXI, a. 999, loc. Valle Vesano). — pecia una de terra... per mensura iusta in longitudo ab uno latere perticas decem et octo, ab alio latere perticas viginti et ex traverso de uno capite perticas quimque, de subteriore capite iusta erosa est per mensura iusta perticas tres (doc. XLIV, a. 1006, loc. prope Ecclesia Sancti Martini). — pecias quatuor de terra cum vinea et alios arbores fructiferos: - prima pecia... est pro mensura iusta da una parte perticas sex, de alia parte perticas octo et pedes sex, de tercia parte perticas tres, de quarta parte perticas decem et pedes sex; - secunda pecia... est pro mensura iusta de una parte perticas duodecim, de alia parte perticas duas, de tercia parte perticas decem et pedes sex, de quarta parte perticas una; - tercia pecia... est pro mensura iusta de una parte perticas novem, de alia parte perticas similiter novem, de tercia parte pertica una et pedes sex, de quarta pertica una et pedes duos; - pecia una de terra cum vinea et alios arbores et olivectis... pro mensura iusta de una parte perticas decem, de alia parte perticas viginti et quatuor et pedes duos, de tercia parte perticas septem, de quarta parte perticas tres (doc. XXXIV, a. 1000, loc. Caleniano). — 359 - Per farsi un’idea dell’estensione di queste pecie si può tenere presente che secondo il Rocca la pertica formata da 12 piedi Domini Liuprandi Rex corrispondeva a m. 5,35. Molti altri appezzamenti talvolta anche nello stesso documento sono misurati sempre in pertiche, ma non più nei loro lati, bensì in giru et circuitu, cosa che non consente di ricostruire la loro forma. — 360 — TAVOLE M.Carmo ,G i u s t e n i ce\ | Tovo Pietra Ligure, B o i s s a n Castelvecchio \ Ì * Loano Balestrino fToiran Comune Provincia Spartiacque Ceri ale 200=-^ iCisano Arnasco Vendone Onzo Ortoveroi Albenga V i 11 a n o v a #. Casa nova ^ L e r r o n e G a r I e noa I a s s i o Tav. I Il confronto fra le configurazioni territoriali dei comuni di due aree strettamente contigue della Liguria occidentale mostra come diversamente, in passato, si sia organizzata la vita economica delle comunità liguri. Limitandoci ad una lettura immediata possiamo riconoscere come nel primo caso (in alto) anche le comunità marittime più lontane (per es. Pietra e Loano) abbiano partecipato alla spartizione e alla utilizzazione dei pascoli del Monte Carino. Nel secondo caso (in basso) i comuni — per es. Ortovero, Villanova, Garlenda e la stessa Albenga — si distendono su zone altimetriche omogenee, presumibilmente perchè hanno organizzato in modo diverso la pastorizia e il rapporto agricoltura-allevamento. Tav. II La lettura della fotografia aerea di un’area non lontana da Albenga mostra, sotto la trama della più recente morfologia fondiaria, un reticolo di linee parallele, nelle quali un più attento esame da parte degli specialisti potrà forse individuare i resti della centuriazione romana o comunque le tracce di una regolare colonizzazione (altomedievale?) in questa zona marginale dell’agro albenganese. La carta nella quale si può anche notare la localizzazione del villaggio abbandonato di Capriolo, è stata ricavata da una fotografia aerea gentilmente fornita dal Consorzio di Bonifica del Centa. 1 Triora 2 Ce r i a na 3 Taggia 4 Bussana 5 Santo Stefa no 6 Porto Maurizio 7 Cervo 8 Andora 9 Toirano 10 Giustenice 11 Pietra 12 Costa di Vado 13 Albisola 14 Stera 15 Celle 16 Voitri 17 Polcevera (Podesteria) 18 Bisagno (Podesteria) 19 Recco 20 Rapallo 21 Chiavari 22 Castiglione e Gorela 23 Monegiia 24 Framura 25 Carro e Castello 26 Monterosso 27 Vernazza 28 Corniglia 29 Riomaggiore 30 Manarola 31 Biassa 32 Spezia 33 Tivegna 34 Polverara 35 Vezzano 36 Arcola 37 Trebbiano olio 9 m vino O B frutta O CU produzione superiore al fabbisogno locale pari « « inferiore « « Dominio della Repubblica Comu ni federati Territori non soggetti a Genova REPUBBLICA DI GENOVA PRODUZIONE DI OLIO, VINO E FRUTTA NEL 1531 Tav. Ili La rappresentazione cartografica della « caratata » del 1531, purtroppo mancante dei dati di molte comunità liguri, può fornire un’idea abbastanza precisa delle condizioni agrarie della Liguria. Per le tre più caratteristiche produzioni (olio, vino e frutta) e a livello di comunità, si nota la quasi totale insufficienza produttiva di tutta la fascia costiera fra Genova e Pietra, di contro alla possibilità di buone eccedenze nella Liguria orientale, fra Recco e la Magra, e nell’estremo Ponente. Il sistema di rappresentazione adottato e il tipo di fonte non consentono di misurare l’entità dell’eccedenza rispetto al consumo e perciò mettono sullo stesso piano economie rurali diverse. Tuttavia il fatto che sia nel Levante che nel Ponente tali eccedenze si manifestino, spesso e nella stessa comunità, per più prodotti mostra che, tranne forse nelle Cinque Terre dove si nota un’evidente specializzazione viticola, la produzione agraria avviene in gran parte all’interno della tradizionale coltura promiscua e che perciò non è ancora avvenuta, sotto questo aspetto, la differenziazione fra Liguria orientale e Liguria occidentale. Tav. IV Il confronto fra la « caratata » del 1612 della podesteria di S. Stefano e la « caratata » del 1642 della sola comunità di S. Stefano mostra tutti i limiti della fonte-caratate per lo studio dell’evoluzione dei paesaggi agrari: a distanza di 30 anni cambia il sistema di classificazione e descrizione degli appezzamenti. Malgrado ciò qualche indicazione si può trarre soprattutto in riferimento all’olivicoltura: è notevole l’espansione nel territorio di S. Stefano, dove i piccoli nuclei di coltivazione esistenti nel 1612 si estendono soprattutto sulle terre zerbive (cioè incolte più o meno temporaneamente) non tanto come oliveto specializzato, ma ancora in coltura promiscua, cioè in consociazione con la vite e qualche seminativo. Difficile dire qualcosa di preciso sulle altre colture e in primo luogo sulla vite, che nel più esplicito catasto del 1642 copre un’area molto estesa e dunque nel catasto precedente doveva essere compresa nella generica designazione di terra ed essere quindi onnipresente (è tuttavia significativo che questa coltura tradizionale non abbia una sua precisa designazione). La carta è tratta dalla tesi di laurea in geografia storica di R. Russo (1971-72). Tav. V L’incisione che G. B. Ferrari, l’agronomo romano che nel Seicento scrive la più nota opera sull’agrumicoltura in Italia, dedica alla Liguria, considerata la terra d elezione dei limoni. Nel ricco giardino della villa genovese, oltre alle immagini della tipica iconografia barocca, si notano alcune delle operazioni e degli strumenti della coltivazione degli agrumi, rappresentati realisticamente. Tav. VI Le due incisioni tratte ancora dall’opera del Ferrari rappresentano due delle principali varietà di limone coltivate in Sanremo: il Limon Sancti Remi e il limon ceriescus (nome che deriva dalla somigilanza con il cedro). Non sono le uniche varietà: sono anche ricordati un limon genuensis (con caratteristiche diverse dai precedenti) e un limon ponzinus ligusticus. diffuso anche questo soprattutto nel territorio di Sanremo. Val la pena ricordare ancora che l’opera di G. B. Ferrari intitolata Hesperides sive de malorum aureorum cultura et usu e stampata a Roma nel 1646 è uno dei pochissimi trattati italiani citati nella letteratura agronomica francese del XVIII secolo. Tav. VII Il miglior commento a questa precisa pianta, datata al 1781, dell’ing. Domenico Policardi è senza dubbio quello che ci ha lasciato il noto naturalista svizzero H. B. De Saussure, all’incirca nello stesso periodo, appunto con la descrizione della villa del Mag.co Gerolamo Gnecco: « Du petit port où l’on amarra notre bateau, nous montâmes par des escaliers taillées dans le roc, à une jolie retraite que s’est fait construire un riche négociant de Nervi, nommé M. Gnecco. Le bas de la montagne, du coté du Nord, est couvert d’arbres et d’arbustes toujours verds, de myrthes, de pins maritimes, de chênes verds et d’arbousiers qui viennent là d’une grandeur et d’une beauté peu communes. Plus haut, où le rocher plus aride et plus rapide re-fusoit de produire de la verdure, M. Gnecco a fait pratiquer des plattes-bandes en terrasses les unes sur les autres, les a garnies de terre et il y a planté des châtaigniers, des oliviers et des figuiers qui ont parfaitement réussi. Au milieu de ces plantations est une petite maison simple et commode, creusée en partie dans le roc. Tout cela n’a pu s’executer qu’en faisant sauter avec beaucoup de travail et de dépense la brèche dure et tenace qui forme la base de cette montagne... ». Sr - V,'. Tav. Vili Dal manoscritto delle proprietà della famiglia Pino (conservato presso la Società Economica di Chiavari) si sono estratti due esempi di ville del territorio di S. Margherita. In alto la delineatione del stabile del Zoncheto (disegno di cm. 56x41) che comprende un fondo pianeggiante, murato, confinante con la strada e la spiaggia, composto di 13 appezzamenti e otato di più case (fra cui anche la residenza di uno ei rami della famiglia Pino). In basso la delineatione della vdla d’Aloro (cm. 28 x 41): un fondo di collina, terrazzato, caratterizzato dalla comunissima casa rurale su fascia con scala esterna; nell’atto di acquisto i questa proprietà si legge: «terra arborata olivis, viti us, citronis, limonis, pomis, quercubus et aliis diversis arboribus ». Tav. IX Un bell esempio di villa litoranea perfettamente murata e estesa sulla spiaggia quasi a lambire il mare. Sorprendente la casa, classicamente mediterranea nel tetto a terrazza, soprattutto per l’inedito ponte levatoio e per le merlature che fanno subito pensare alle incursioni barbaresche, violenze esterne che furono sicuramente un fattore condizionante la forma della casa rurale litoranea del XVI e XVII secolo (feritoie, merli, guardiole, ecc.). Si vedano in proposito anche gli esempi maggiori delle ville patrizie suburbane, sul tipo di quella rappresentata nella tavola seguente. La carta non offre molti elementi nè per la datazione (ma direi prima metà del XVII secolo), nè per la localizzazione (ma direi Riviera di Ponente, anche per la presenza delle palme). La destinazione quasi esclusivamente viticola — vite coltivata a filari e a pergole alte lungo il sentiero interno — fa pensare che la villa non sia lontana da qualche centro urbano e possa essere di proprietà di un borghese desideroso soprattutto di rifornire la propria cantina. Si notino ancora il pozzo a bilancere, il palmeto confinante e due solitari alberi, entro il perimetro della terra murata, che dal portamento dei rami si direbbero fichi, mentre sembrano olivi quelli rappresentati al margine superiore del disegno (A.S.G., Raccolta cartografica, cartella non catalogata). Tav. X Disegno della villa detta la Spagnola sita sul litorale savonese occidentale. La veduta panoramica che risale all’inizio del Settecento ed è dovuta ad un pittore-cartografo che dimostra un notevole gusto per la rappresentazione di un paesaggio vivo, in movimento (si noti l’animazione della « strada pubblica », del mare e della spiaggia), si propone di documentare l’occupazione abusiva a scopi agricoli di due « siti arenili » (F e E): un processo di colonizzazione sul quale ci siamo già soffermati nel testo. Ma il valore del disegno non sta tanto in questo aspetto, quanto nel fornirci una precisa rappresentazione del complesso di una villa savonese. Si tratta di un ampio e ricco possesso di una famiglia nobile genovese (Du-razzo) in cui l’edificio principale, destinato alla residenza del proprietario, appare fortificato e non a caso è posto su un angolo della cinta muraria. Al centro del fondo è posta la casa del manente la cui pianta è a corte: una forma inconsueta nella Liguria marittima, ma che trova interessanti conferme nella colonizzazione anch’essa « capitalistica » del Bosco di Savona. Fra gli annessi del podere si nota ancora sulla sinistra un rustico o stalla. Sulla collina un altro edificio a torre. Il paesaggio agrario è chiaramente quello della cultura promiscua: filari di viti intercalati a seminativi e piante da frutto (direi olivi): lo stesso paesaggio che, sia pure più confusamente, si può leggere anche sulle colline prospicienti la villa (A.S.G., Padri del Comune, n. 291). w Q C VJ -3 JO ^2 ^=5 VO £ ^ ^ o^a; - s a: o h Tt: Hj$3:i-.s* . »f ^ ^ ^ ^ 3 ç ^ t ^ u S; * oo^ Ks.s^s 5 * . M ! i 1*34 l^i '«BBSSfitf ■al'JÎMktJÏ«-l Tav. XI Nella tavola che si propone di dirimere una controversia di confine con Zuccarello, il cartografo genovese seicentesco non ha potuto fare a meno di rappresentare il fitto oliveto che ricoprendo il fondo-valle e le prime pendici montane avvolge da Nord il caratteristico nucleo della Beguda, frazione di Con-scente (Valle del Neva, Albenga). Sulla montagna, già rappresentata nella tav. I, la carta indica anche una sede pastorale (A.S.G., Archivio Segreto, Confinium, n. 92). Tav. XII Questa rappresentazione panoramica della bassa valle dell’impero offre una non schematica idea dei paesaggi dominanti nel corso del Seicento. Le pendici collinari appaiono già intensamente olivate, ma non sono rare le vigne, concentrate soprattutto attorno a Porto Maurizio. Lungo l’ampio greto del fiume e verso la spiaggia del mare sono sorte alcune ville murate, talvolta con abitazione. Nell’ampio letto del fiume, che scorre molto liberamente e non è ancora attraversato da alcun ponte, si nota verso la foce un invaso naturale che sembrerebbe utilizzato per la pesca o come « porticciolo » (A.S.G., Manoscritti, n. 575). Tav. XIII Dal manoscritto intitolato Diverse Piante di Ercole Spina (A.S.G., Manoscritti, n. 423) si estrae questa tavola della Relevaglia fatta Vanno 1581 nel locho detto Cepo. Si noti la forma dei campi non regolare ma chiaramente influenzata dalle operazioni dei « re-levatori », in un territorio in cui gli unici punti di riferimento, oltre al corso cangiante della Magra, appaiono essere le strade dall’andamento anch’esso rettilineo. Nel margine inferiore del disegno il letto del fiume non pone gli stessi problemi perchè contenuto dalle pendici del Monte Carpione. La carta è importante perchè risulta essere la più antica mappa catastale nota in Liguria. Tav. XIV Dal notissimo Atlante dei Domini di Matteo Vinzcni, nel quale sono documentati soprattutto i paesaggi agrari suburbani, mi limito a riprodurre la tavola dedicata alla Marinella, cioè all’ultima terra verso Levante della Repubblica genovese. E’ un’area che mostra ancora tracce dell’impaludamento connesso con l’abbandono della città di Luni, di cui ’1 Vinzoni, da appassionato archeologo, rileva il perimetro e i principali monumenti anche in una serie di tavole allegate. In questo paesaggio del rudere e della « città morta » si inserisce in età moderna, dopo le anonime e forse collettive bonifiche medievali delle comunità circostanti, l’azione individuale di un capitalista genovese. Di tale bonifica la carta rappresenta gli aspetti paesistici più evidenti: strade rettilinee alberate, canali (fossi e fossoni) e piantagioni. Un nuovo paesaggio che si impone su quello tradizionale circostante. Tav. XV Un altro « paesaggio del rudere » ma del tutto diverso dal precedente. Non più una città romana ma un villaggio rurale abbandonato all’inizio dell’età moderna: Capriolo, ai margini nord-orientali della piana di Albenga. All’interno del perimetro dei muri in rovina delle case crescono gli ulivi. L’immagine suggestiva fa pensare che l’ulivo abbia contribuito a scacciare gli antichi abitanti. Il fatto che gli ulivi non abbiano l’aspetto di piante secolari — essendo l’abbandono databile al XVII secolo — è probabilmente da mettere in relazione con il rinnovo della piantagione in seguito ad uno dei frequenti geli del XVIII secolo o ancora nella prima metà dell’Otto-cento. Tav. XVI La vanga e la zappa o zappetta: gli strumenti più usati nel dipartimento degli Appennini. La vanga è soprattutto impiegata per i lavori profondi, di rinnovo (come dicono i toscani) ossia per rivoltare lo strato coltivabile della terra. La vangatura per tutta la prima metà dell’Ottocento rimane una pratica assai valida anche rispetto alle più progredite regioni agrarie, in quanto può raggiungere una profondità che è quasi doppia di quella consentita dall’aratro simmetrico mediterraneo ed è anche superiore a quella conseguibile con i migliori strumenti aratori europei dell’inizio dell’Ottocento. Rispetto a questi ultimi richiede un impiego di forza-lavoro infinitamente superiore e può quindi essere di uso corrente solo nelle regioni in cui c’è abbondanza di braccia. La zappa come strumenti di rinnovo è soprattutto usato nei terreni collinari e montani più difficili e più in generale per la apertura delle fosse per le viti e gli ulivi. Il rigio, strumento tutto di legno dall’uso imprecisato, sembra essere una pecularietà di questa zona: non compare infatti nelle analoghe tavole dei prossimi dipartimenti toscani (le tavole qui pubblicate sono tratte, come è spiegato nel testo, dall’A.N.P. e si riferiscono all’età napoleonica). I I ! I I i i i ' I I I I I i i i Ì i i ! i , Tav. XVII I più usati strumenti per il lavoro dei campi nel cantone di La Spezia: aratri, zappe e erpice. L’aratro è quello classico simmetrico di uso comune anche in Toscana. Il vomere non è altro che il ferro della vanga (lo si nota bene nella fìg. seguente). Questo tipo di aratro capace solo di lavorazioni superficiali è connesso alla sistemazione del suolo detta in Toscana a porche, caratteristica dei terreni coltivati a cereali. Le orecchie molto divergenti dell’aratro servono soprattutto per preparare il solco per la semina; infatti come notano gli agronomi toscani esse « rigettano la terra rotta dal vomere, ma la rovesciano poco » (su questi aspetti si veda C. Pazzagli, L'agricoltura toscana cit., passim.). (Vynsi aj (ftnesd, e A'/C? CtACtÌSt“icc’ Ju Oriti*' /eJ je Co.t1(t puujvj lìL* OTIomov^) Tav. XVIII A differenza della tavola del Cantone di La Spezia, in questa che si riferisce al più orientale territorio di Ortonovo (e lo stesso avviene nel comune di Sarzana, la cui tavola molto simile non viene pubblicata) si nota l’associazione vanga-aratro. Se l’assenza della vanga nella tavola di La Spezia non è casuale si può pensare che il Sarzanese partecipi più dello Spezzino al sistema toscano che per i terreni a cereali alternava la vangatura profonda (in genere triennale o quadriennale) con le arature superficiali annuali. Un sistema che, come è stato ancora osservato dal Pazzagli, non era inferiore, quanto a rese, a quelli diversi, imperniati sui pesanti aratri con avantreno, del Nord-Italia. Tavv. XIX-XX L’aratro in uso nel circondario di Acqui (tav. XIX) e nel circondario di Ceva (tav. XX). Si noti subito la differenza fondamentale con gli strumenti aratori delle precedenti tavole: la forma asimmetrica per ottenere il rovesciamento della zolla. Anche il vomere si distingue per una forma più appuntita,, più idonea a lavorare in profondità. Più in generale l’aratro del circondario di Acqui appare più pesante, più complesso, più evoluto (sembra per esempio impiegare più ferro di quello della Liguria orientale). Nell’aratro del circondario di Ceva il disegno più elementare sembra voler mettere in evidenza l’avantreno o carretto, nel quale, come noto, Marc Bloch vedeva l’elemento tecnico più importante per distinguere e classificare gli strumenti aratori. Il problema che tuttavia rimane ancora scoperto è quello di conoscere i limiti dell’impiego e della diffusione geografica di questo tipo di aratro « nordico » soprattutto rispetto alla montagna e al versante marittimo della Liguria. INDICE DELLE TAVOLE I La configurazione territoriale delle comunità in due aree dell’Al-benganese. II Tracce di centuriazione nella piana di Albenga. Ili Le produzioni di olio, vino e frutta in Liguria nel 1531. IV L’espansione dell’ulivo nel territorio di S. Stefano fra il 1612 e il 1642. V Operazioni e strumenti della coltivazione dei limoni in Liguria (1646). VI Principali varietà di limoni coltivati a Sanremo (1646). VII La villa dell’agronomo genovese Gerolamo Gnecco. Vili Esempi seicenteschi di ville nel Levante (S. Margherita). IX Una villa a ordinamento viticolo nel Ponente (sec. XVII). X Una villa patrizia del litorale savonese (sec. XVIII). XI Un esempio di cultura specializzata dell’olivo nell’Albenganese (sec. XVII). XII I paesaggi agrari intorno a Porto Maurizio nel XVII secolo. XIII Le relevaglie. La più antica mappa catastale ligure (1581 circa). XIV II paesaggio del rudere antico e la bonifica moderna nel territorio di Luni (sec. XVIII). XV II paesaggio del villaggio abbandonato in età moderna nell’Albenganese. XVI I principali attrezzi agrari nel Dipartimento degli Appennini (1812). XVII Aratri e zappe nel cantone di La Spezia (1812). XVIII L’associazione aratro-vanga nel Sarzanese (1812). XIX L’aratro nel circondario di Acqui (1812). XX L’aratro nel circondario di Ceva (1812). GIOVANNI FORCHERI ASPETTI DELLA GIUSTIZIA GENOVESE ALLA FINE DEL ’500 LA QUESTIONE DEL BRACCIO REGIO h . Lo spunto per questa conversazione mi è stato offerto da una delle decisioni contenute nella raccolta delle Decisiones della Rota Esecutiva genovese di Flaminio Cartari, edita a Venezia nel 1603 *. Si tratta, in particolare non di una sentenza, ma di un parere che la Rota Esecutiva aveva dato a richiesta del Senato, del quale non è indicata la data, ma attribuibile comunque al periodo 1587-1590 considerato il riferimento che fa ad una legge emanata nell’87, rinnovata poi nel ’90, ma con alcune modifiche. Il richiamo che il testo fa alla lettera della legge quale era prima delle modifiche del ’90, dà quindi la certezza dell’anteriorità del parere a quest’ultima data. Il documento, al di là di quelle che possono essere le affermazioni di diritto che contiene 2, ha un particolare interesse in quanto attraverso di esso si ha la prova nel rifiuto delle autorità di governo genovesi di accettare lo spirito della nuova costituzione del 1576, in particolare, della sua seconda parte, dal titolo ìirectio Rotae Criminalis. Per bene intenderci, è necessario, a questo punto, fare un succinto quadro della posizione. Il processo penale del diritto intermedio era quello che era; le garanzie di giustizia accordate all’imputato erano assai modeste; purtuttavia, il giudice ordinario, quanto al procedere, era tenuto a mantenersi nell’ambito delle norme di legge che regolavano il processo, ancorché queste fossero tali da lasciargli buon margine di discrezionalità. Le cose però diventavano più preoccupanti per l’imputato allorché nei suoi confronti veniva proceduto anziché con il rito ordinario, con quello straordinario. In tal caso l’arbitrio del giudice diventava pressoché assoluto sia in procedendo che in decidendo. 1 Decisiones Rotae Causarum Executivarum Reipublicae Genuensis, Venezia 1603, Decisio LXVII, p. 183 e sgg. Quanto a Flaminio Cartari, dottore di leggi nativo di Orvieto (1531-1593), che fu giudice della Rota genovese, notizie in: Archivio Storico delle Marche e Umbria, 1886, vol. Ili, p. 385. 2 E’ menzionato da G. L. Casaregi, Elucubrationes ac resolutiones in aliquot et ad integra Statuta De Decretis ac De Successonibus ecc., Genova 1647, p. 8, n. 9, ove tratta della sovranità nell’ambito dello Stato genovese, nonche da 0. Cavalcano, Tractatus de Brachio Regio, Venezia 1608. Parte 1\ p. 9, n. 41. — 363 - L’applicazione di siffatta procedura non era rara in quanto ad essa si ricorreva tutte le volte che anziché davanti al giudice ordinario, il processo doveva svolgersi davanti ad un organo di governo o di amministrazione tenuto conto della qualità del reato o della persona. Poteva inoltre farvi ricorso anche il giudice ordinario quante volte la legge lo prevedesse, di solito in considerazione del reato, ovvero glielo imponesse, caso per caso, il Principe. Sistema, questo, logico in ordinamenti che non conoscevano il principio della separazione dei poteri, di tal che l’intervento dell’esecutivo negli affari della giustizia costituiva un fatto del tutto normale. Il sistema genovese anteriore alla Costituzione del 1576, non si discostava da questo quadro3. Con la entrata in vigore di quest’ultimo testo costituzionale, invece, le cose a Genova cambiano radicalmente. In sostanza, con esso, viene stabilita una ferrea separazione ed indipendenza del potere giurisdizionale penale da quello di governo in conformità di queste regole principali: a) 1 amministrazione della giustizia penale viene affidata in via esclusiva al giudice ordinario: Rota Criminale nell’ambito cittadino; Giusdicenti locali nel resto del territorio dello Stato4; b) Rota e Giusdicenti debbono procedere e giudicare sempre conforme a legge e nel rispetto di essa, cioè formalmente, senza più possibilità di ricorso al rito sommario o straordinario5; Per la verità, se anziché alla costituzione del 1528, badiamo a quelle prece enti del 1363 e del 1413, troviamo in entrambe la rubrica De prohibita intromissione iustitiae, nella quale, pur entro certi limiti, la esigenza dalla separazione del potere di governo da quello giurisdizionale risulta seriamente avvertita. Apud hoc Tribunal resideat omnis auctoritas et iurisdictio causarum criminalium respectu eorum delictorum quae in Civitate et tribus Curiis Bisamniensi, orciferana et Vultur ensi committentur, tam in procedendo quam in decidendo, erum, respectu eorum delictorum quae in universo Dominio, comprehensa etiam ovincia orsicae, fieri contiget, singuli Provinciarum et locorum Praetores et iusdicentes (demptis tamen locis exemptis et separatis, si quae sunt) processus legitime instruent et decident (Parte 2a. art. 12). ç ^roce^et— iuxta iuris et Statutorum formam... et pro modo culpae et iuxta Statutorum et legum sanctiones, reos punire (Parte 2*, art. 13). Che questa sia la rea e portata della norma si evince, fra l’altro, dalla legge 9 febbraio 1612, costi-uente il cap XXIV, Libro 1”, degli Statuti Criminali del 1671, ove sta scritto £. °ta e lusdicenti debbano « regolarmente procedere con le forme ordinarie e giudicare poi secundum acta et probata» in base alle «leggi fatte l’anno 1576». — 364 - c) gli organi di governo e di amministrazione, non solo vengono privati di qualsiasi competenza penale, ma nemmeno possono più interferire negli affari dei giudici. Ad eliminazione di ogni dubbio l’art. 14 della Parte seconda del testo costituzionale abroga espressamente le anteriori disposizioni che affidavano con larghezza competenza penale al governo, in ispecie al Collegio dei Procuratori6; d) il medesimo art. 14, nella sua seconda parte (la cosidetta Lex Curabit, come, dalle sue parole iniziali, la chiameranno, nell’uso corrente, le fonti genovesi) ammette fra Senato e giudici un solo rapporto di natura meramente amministrativa, limitata ad un controllo esterno in ordine al loro diligente operare7. L’unica, eccezionale possibilità di intervento del governo in materia penale è quella prevista dall’art. 44 della prima Parte del testo costituzionale; ribadendosi l’avvenuto totale trasferimento del potere giurisdizionale penale al giudice ordinario 8, si stabilisce tuttavia come, nei casi 6 iberno possit cognitionem et iurisdictionem D. Praetoris et Auditorum Rotae cumulative aut privative impedire, nec causarum et processuum criminalium cursum, j nec earum decisionem retardare, minimeve suspendere; sublatis etiam Statutis et Decretis incipientibus-. « Liceat praeterea praedictis Procuratoribus » et incipien « Item, declaraverunt, ad abundantiam potius cautelam etc. » (disposizioni della Costituzione del del 1528) quae Magnificis Procuratoribus et Illustrissima; Dominationi notionem criminalem hactenus dederunt (Parte 2a, art. 14). 7 Curabit tamen Illustrissima Dominatio ut Praetor et Auditores Rotae iusti-tiam fideliter et viriliter exerceant (Parte 2a, art. 14). Declaramus nimirum Illustrissimam Dominationem Praetorem et Rotae Criminalis Auditores, singulis sabbatis cuiusvis hebdomadae, aliisve diebus, pro referendis processibus ad se vocare non posse, neque debere. Verum si ob aliquam causam seu querelam, de alicuius carcerati negotio tractare contigerit, eo casu, aliquem ex Auditoribus Rotae vocare posse decleramus; qui Illustrissimae Dominationi ita statum causae ingenere referat, ut dignitatis Senatus ratio habeatur, dum tamen ob id secreta processus non pandantur et iustitia detrimentum nulla in re patiatur, neve cognitio et iurisdictio D. Praetoris et Auditorum Rotae cumulative aut privative impediatur; nec causarum et processuum criminalium cursus, nec earum decisiones retardentur, minimeve suspendantur, iuxta formam et tenorem dicti cap. 14, cui in nullo, per praesentem declarationem praeiudicatum censeatur (Parte 2a, Declaratio in cap. 14). 8 Licet eo quo possumus studio et fervore, administrationem iustitiae criminalis iuxta legum Statutorumque formam Praetori et Rotae ita commendaverimus, ut nemo possit nec cumulative, nec privative, eorum iurisdictionem impedire. Non ignoramus tamen... (Parte la, art. 44). — 365 — di delitti che, in linguaggio odierno, potremmo definire contro la personalità dello Stato, i due Collegi riuniti debbano chiamare a sè il Presidente e i due uditori della Rota, per far qualcosa che dalla norma non si comprende bene in che consistesse esattamente9. Lo precisano comunque le parole finali delPart. 14 della Parte seconda (si tratta ancora della Lex Curabit), stabilendo come, in tal caso, i due Collegi dovessero deputare uno o due dei propri membri affinchè simpliciter assistent all’attività dei rotali10. Le parole simpliciter assistent, sembrano quindi attestare come, anche in questo particolarissimo caso, si trattasse sempre di un controllo ab externo, che, almeno in teoria, non avrebbe dovuto influire sulla decisione. In questo solo ed unico caso, il medesimo art. 44 faceva però anche risorgere la possibilità del rito straordinario, giacché in esso si legge come i rotali dovessero procedere servata et non servata forma juris et suprema auctoritate ac regia manu-, cioè in via sommaria, in deroga alla regola generale dell’art. 14 della Parte seconda del testo costituzionale, ribadita dalle parole iniziali del medesimo art. 44 della Parte prima, al fine di assicurare la più sicura punizione dei colpevoli. Di fronte a queste disposizioni che, tra l’altro, hanno il pregio di una non comune chiarezza, il governo rifiuta di adeguarsi. La ragion di Stato non può ammettere che tutta la giustizia penale resti affidata alle 9 ... Non ignoramus tamen, quandoque, non modo in Civitate, verum in Dominio, evenire posse subitos quosdam et repentinos casus, in quibus, servata et non servata forma iuris et suprema auctoritate ac regia manu providendum est, ne publica quies ac pacificus Reipublicae status perditum eant, cum vel populus insanit, vel seditiosi tumultuantur, vel perditorum et flagitiosorum hominum turmae vias publicas hostili more invadunt, agrosque et ditionem Genuensem depopulantur. Hisce casibus et aliis huiusmodi, quibus ad Illustrissimam Dominationem pertinet auctoritate sua omnia sedare, Excellentissimus Dux, iunctis duobus Collegiis, voca-toque Praetore, quatenus expediat et Rota, ut auctoritati etiam consilium iungatur, et nulla interposita mora, scelerum auctores debitis poenis affici curabit mox participes et suspectos detineri faciet, veritatem criminis inquiret, ut pro modo culpae quisquam debitas luat poenas (Parte la, art. 44). 10 Excipitur tamen casus criminis lesae Maiestatis et seditionis, in quibus Illustrissima Dominatio, quae ex his criminibus de facili labefectari possit, unum, vel duos Gubernatores vel Procuratores deputare valebit, qui causis huiusmodi, cum Praetore et Rota simpliciter assistent et curabunt, ut huiusmodi processus, ea qua decet in tam gravibus delictis, diligentia perficiantur et pro iustitia a Praetore et Rota expediantur. Adiungendo etiam, ubi ita eis conveniens videatur, duos ex Rotae Civilis Auditoribus (Parte 2‘, art. 14). - 366 - sole mani dei rotali, i quali, non solo sono legati nel procedere dall’obbli-go del rispetto del rito ordinario, ma oltretutto debbono anche essere degli stranieri, come tali disinteressati al bene della Repubblicau. Il governo, posto di fronte ad una innovazione di questa portata, trema, paventando il disfacimento dello Stato 12. Comincia così quasi subito un lavorio continuo e pressante per arrivare a superare le disposizioni costituzionali, rimettendo in piedi il sistema penalistico quo ante. Si tratta di un lavorio che incontrerà anche non poche opposizioni, particolarmente efficaci nel 1595, allorché il governo chiederà ai Consigli di approvare alcuni disegni di legge, assoluta-mente eversivi del sistema. Dell’argomento ho già trattato io stesso in una breve nota pubblicata negli Atti di questa Società 13: ad esso questa conversazione intende portare un ulteriore contributo. Questa manovra del governo comincia in maniera delicata, con il ricorso ad interpretazioni di comodo, atte a svisare il senso delle norme del ’76; con la presentazione di disegni di legge restitutivi di una ristretta competenza giurisdizionale penale agli organi della pubblica amministrazione nelle materie di loro specifica attribuzione14; con la presentazione, ancora, di disegni di legge speciali motivati dalla necessità 11 Tribunal trium lureconsultorum exterorum, qui iudicio, auctoritate, integritate et rerum experientia polleant; quique nulla cum civibus Genuensibus affinitate coniuncti sint (Parte 2a, art. 1). 12 Significativa al riguardo la Relazione alla legge di riforma criminale approvata dal Maggior Consiglio il 27 novembre 1587 : « Ognuno può manifestamente conoscere che la giustizia criminale in questa città, almeno da alcuni anni in qua, è debilitata non poco, anzi se dir si può, lacerata grandemente; cosa degna più presto di commiserazione che di meraviglia, poscia che le leggi ultimamente riformate (la Costituzione del ’76) abdicandovi ogni sopraintendenza da chi amministra la Repubblica e chi è membro suo, l’ha totalmente commessa in mano di tre Dottori che in essa non hanno alcun interesse e verisimilmente non molto amore ». [Archivio di Stato di Genova (A.S.G.), Archivio Segreto, Propositionum, Mazzo 1, n. 198], 13 II ritorno allo Stato di polizia dopo la Costituzione del 1576, in « Asli », n. s. IX, 1969, p. 53 e sgg. 14 Fra il 1576 e il 1597, leggi: 4 settembre 1576 per i Magistrati e Uffici dei Padri del Comune, Censori, Monete, Sanità, Abbondanza, Poveri, Consoli della Seta; 10 dicembre 1578 per l’Ufficio di Virtù; 11 ottobre 1580 per l’Ufficio delle Galere; 21 luglio 1581 per i Protettori di San Giorgio; 18 agosto 1588 per i Provvisori del Vino; 1 marzo 1593 per i Governatori dei Carati del Mare; 16 novembre 1593 per i Provvisori dell’Olio; 29 ottobre 1597 per il Magistrato di Redenzione dei Prigionieri. — 367 - di superare situazioni momentanee e da tenere in vigore in via provvisoria solo per un limitato numero di anni, così da scalfire, in apparenza, del tutto marginalmente le disposizioni costituzionali. Senonchè, va notato subito, cessato il loro iniziale periodo di validità, quasi tutte queste leggi temporanee verranno mantenute in vigore per altro eguale o più lungo periodo, attraverso successivi provvedimenti di proroga, quasicchè le ragioni momentanee e contingenti che ne avevano giustificato l’originaria emanazione, fossero diventate croniche. A partire poi dal 1595, l’attacco al principio della separazione del potere giurisdizionale penale da quello di governo, sancito dalla costituzione, si farà, come detto, più sensibile con la presentazione di disegni di legge di maggior portata quanto al contenuto. Può di conseguenza affermarsi che, con la continua proroga della validità nel tempo di disposizioni provvisorie e contingenti del genere, il principio della separazione dei poteri, come sopra voluto dal costituente del ’76, sia rimasto, sul piano pratico, lettera morta fino all’ultimo giorno di vita della Repubblica, ancorché mai fosse intervenuta una espressa abrogazione delle norme che lo sancivano. Poste queste premesse, possiamo dire come il parere della Rota Esecutiva da cui ho preso lo spunto per questa conversazione riguardi una interpretazione di comodo, pretesa dal Senato, per affermare la sussistenza di certi suoi poteri in materia penale che, invece, la costituzione del ’76 gli aveva definitivamente tolto. I termini della questione, quali appaiono appunto attraverso la lettura del parere, erano questi: prima del ’76, vigendo la Costituzione del ’28, a Genova, il Principe lo si personalizzava nel Senato, nel quale si riconosceva l’organo che materialmente esercitava la sovranità in nome della Repubblica di cui costituiva, simbolicamente, la testa. Il Senato quindi, come incarnazione del Principe, aveva la piena ed assoluta potestas, tipica ed esclusiva del Sovrano, qualificante del Sovrano stesso. Come nello Stato monarchico, Principe era colui che sedeva sul trono e a lui solo apparteneva la potestas assoluta, così a Genova, mancando la persona fisica del monarca, era il Senato ad incarnarlo. II Principe, la cui volontà era legge, vincolante ed obbligatoria per tutti i cittadini (e il Senato genovese per la costituzione del ’28 aveva la funzione legislativa)15, poteva quindi, tutte le volte che lo avesse voluto, 15 V. Piergiovanni, Il Senato della Repubblica di Genova nella Riforma di Andrea Doria, in « Annali della Facoltà di Giurisprudenza », 1965, p. 252. - 368 — imporre al giudice di procedere e decidere anziché secondo le ordinarie regole di procedura (pur esse valide e cogenti perchè volute dal Principe), secondo forme e modalità sommarie. Il provvedimento con il quale il Principe, di volta in volta, a suo placito, ordinava al giudice di procedere sommariamente, si definiva di concessione di « braccio regio » o « mano regia ». Il Senato genovese, sotto la costituzione del ’28, era quindi solito concedere il braccio regio ai giudici. Senonchè, la costituzione del ’76, a differenza di quel pasticcio, generatore di discordie, che era stata quella del ’28, dando invece allo Stato genovese un preciso assetto organizzativo, aveva collocato il Senato nell’ambito di questo assetto, determinandone le specifiche, invalicabili competenze, con dei limiti tali da escludere che esso potesse considerarsi ancora il depositario della piena potestas. Tra l’altro, a togliere ogni dubbio, tre disposizioni della Parte prima del testo (artt. 10, 12 e 49) erano ben chiare nel dire come la qualifica di Principe spettasse soltanto al Consiglio Maggiore 16. Tale affermazione non era stata buttata lì a caso dal costituente, ma era la conclusione logica che derivava dai principi a cui aveva informato tutta la sua opera. Il costituente del ’76, stabilendo, non solo la separazione del potere di governo da quello di giurisdizione penale, ma anche da quello legislativo, veniva ad attribuire al Consiglio Maggiore quello che era il massimo fra i cosidetti diritti di regalia o di sovranità, cioè quello di approvare le leggi. In questa materia, la Costituzione (art. 47 Parte prima) affida al governo, costituito dai due Collegi, soltanto l’iniziativa dei disegni, riservandone poi l’approvazione al Consiglio Minore e, in ultima istanza, al Consiglio Maggiore. Questo, al quale spetta l’ultima parola perchè possa approvarsi una legge, diventa quindi, nell’ambito di quell’ordinamento, l’umco organo nel quale può personificarsi il Principe17. *6 Consiliarii Maioris Concilii, quod Principis seu Reipublicae personam refert... (art. 10). Quadringentos Patres eligere qui futuro anno Concilium Maius et personam Principis seu Reipublicae referant (art. 12). .. . nisi Concilio Maiori, quod Principem ipsum et Republicam refert... fart. 49). 17 G. L. Casaregi cit., p. 9, nn. 7-10: Et licet huiusmodi Senatus non habeant authoritatem leges condendi, ut insinuat Valasc. consult. 148, n 26, 27 et — 369 - Il Senato, però, rifiuta di ammettere che le leggi del ’76 possano avergli tolto la facoltà di braccio regio e continua a pretendere di esercitarla, nonostante, come visto, si trattasse di prerogativa specifica di Principe, col quale non poteva più identificarsi. Il Senato quindi, così comportandosi, non solo rifiuta il principio della separazione dell’esecutivo dal potere di giurisdizione penale sancito da una legge che anch’esso Senato è tenuto ad osservare, ma fa altresì rivivere nell ordinamento genovese quelle procedure straordinarie che la nuova carta costituzionale aveva definitivamente bandito, salvo il caso eccezionalissimo di reati contro la personalità dello Stato. Le insistenze senatorie troveranno una prima concreta eco presso i Consigli nel 1587, cosicché, a sanatoria della posizione, con la legge di riforma criminale approvata il 27 novembre di quell’anno (legge, al solito, temporanea, valida per soli tre anni, emanata per superare una conclamata situazione contingente, la quale sarà, peraltro, seguita, per due secoli, da tutta una continua serie di leggi temporanee di proroga che, pur mai formalmente abrogandolo, impediranno sempre l’applicazione integrale del sistema penalistico del ’76), verrà affermato, all’art. 14, la facoltà del Senato di concedere braccio regio ai giudici « in tutti i casi e delitti criminali » I8. Tuttavia, il legislatore, forse perchè si rendeva proprio conto di far saltare uno dei cardini della costituzione, nell’attribuire al Senato tale facoltà, lo fa con le opportune cautele, stabilendo che, contrariamente alla regola generale (art. 19 della Parte prima del testo costituzionale) per cui erano sufficienti otto voti conformi dei suoi membri per la validità delle proprie decisioni, nel caso di concessione di braccio regio, la deli- Autumnez, « De donat. reg. » par. 1, cap. 10, num. 3, et de nostro Senatu, qui non possit leges condere, nisi coacto Maiori, vel Minori Consilio, respective secundum qualitatis legum, uti habetur in LL. 1576 cap. 47 et declarationibus ibi adiunctis. Sed haec absoluta potestas residet penes Maius Consilium, quod vere Principem vel Rempublicam repraesentat, uti habetur in dictis Novis Legibus, cap. 10, « De Maiori Concilio », et adnotatum reliquit Cartar. decis. 67, num. 6, 7. Id tamen nihil penitus operatur, quin vere Principem non repraesentet Senatus in eo toto quod a Principe, vel a lege authoritatis habuit... 18 ... Si dichiara che esso Serenissimo Senato habbia autorità di concedere in tutti i casi e delitti criminali, braccio regio in procedendo e dare assistenti, etiamdio in quelli casi dove la legge fosse dubia... - 370 - bera dovesse riportare almeno dieci voti favorevoli19. Una maggioranza piuttosto elevata, ove si consideri che il Senato si componeva del Doge e di dodici Governatori. Sembrerebbe questa una vittoria del Senato, senonchè, come si evince dal parere in esame, tanto non gli era bastato. Il Senato rifiuta l’interpretazione, unica accettabile del resto, per cui la legge dell’87 gli avrebbe « restituito » la facoltà di braccio regio che le leggi del ’76 gli avevano tolto; d’altra parte deve giustificare il suo precedente operato, cosicché, ove avesse accettato una tesi del genere, avrebbe finito per ammettere di aver violato le leggi fondamentali dello Stato tutte le volte che fra il ’76 e l’87 aveva preteso di esercitare tale facoltà. Secondo il Senato, l’art. 14 della legge dell’87, lungi dal restituirgli ex novo tale facoltà, si limitava ad apportare una semplice deroga temporanea al disposto dell’art. 19 della Parte prima della Costituzione, esigendo che per poter deliberare in materia dovessero intervenire dieci voti favorevoli dei suoi membri anziché soltanto otto. Non solo, ma poiché sempre secondo l’interpretazioce di comodo del Senato, le disposizioni della legge dell’87 avrebbero dovuto considerarsi applicabili soltanto al territorio compreso fra le mura cittadine e non al resto del Dominio, quanto ai reati commessi nel Dominio medesimo, gli sarebbe rimasta intatta la precedente facoltà di deliberare il braccio regio anche con soli otto voti favorevoli. A questo punto, la Rota Criminale, trovatasi di fronte ad un provvedimento del genere, concernente imputati per fatti commessi nel Dominio dopo il 1587, punta i piedi e invita il Senato a meditare meglio sulla posizione. Il Senato non se la sente di insistere con i rotali, forse per tema di tirarsi addosso una censura dei Sindacatori Supremi e sceglie una via morbida: quella di chiedere un parere pro-veritàte alla Rota Esecutiva. Perchè propiro a quest ultima, che era il giudice dell’esecuzione civile, non si comprende o, almeno, non saprei dire. Ora, per quanto il testo di questo parere, contenuto appunto nella volendo però che in conceder esso braccio regio et in dare assistenti, vi concorrino almeno dieci voti e, non concorrendovi, ma che arrivino sino al numero di otto, in tal caso, si debba proporre il negotio alli due Serenissimi Collegi, li quali possano concedere detto braccio regio e dare nei casi suddetti li assistenti concorrendovi però li due terzi de lor voti almeno. - 371 - raccolta del Cartari, sia così farragginoso da diventare difficile intenderne le conclusioni, sembrerebbe che la Rota Esecutiva si fosse astenuta da qualsiasi pronuncia in ordine alla permanenza o meno nel Senato della facoltà di braccio fra il ’76 e l’87. Una pronuncia negativa lo avrebbe infatti, come visto, messo in difficoltà: meglio quindi astenersene se vi era la possibilità di decidere con argomenti che rendevano inutile ed ultronea la questione. La Rota infatti, una volta accertato che, contrariamente a quanto il Senato pretendeva, la legge dell’87 doveva intendersi di portata generale a tutto il territorio dello Stato, poteva avere, per questo solo, la opportunità di dichiarare ininfluente la questione ai fini della decisione del caso specifico sottoposto al suo esame. Si trattasse infatti di reati commessi nella città o nel Dominio, dopo l’entrata in vigore della legge di riforma del 27 novembre 1587 occorrevano sempre i dieci voti favorevoli almeno per la validità del provvedimento di concessione di braccio ìegio. Se quindi il provvedimento che aveva suscitato il contrasto fra Rota Criminale e Senato, risultava successivo alla entrata in vigore della legge di riforma, era soltanto a quest’ultima che si doveva badare per accertarne la legittimità o meno, nulla importando ai fini del caso specifico andare a vedere come stavano le cose prima dell’entrata in vigore della legge stessa. Ora, a parte questa considerazione, l’interesse principale che il testo del parere può suscitare sta proprio laddove riproduce le tesi avanzate dal Senato che ne lumeggiano la inequivoca volontà di non accettare le limitazioni di potere impostegli dalla nuova Costituzione, nonché laddove espone le ragioni che dimostravano la infondatezza di tali tesi. Il tutto collocato in un quadro, che dal parere risulta evidente, di una mentalità allora ben diffusa, che faceva diventare oscura anche la più chiara delle norme, con la pretesa di interpretarla sempre, non per quello che voleva veramente dire conforme al suo contenuto, ma trasponendola nell’ambito di pretesi principi generali che si ricavavano da sovente rivolgibili in più sensi affermazioni dei dottori del giure. Tutte le volte che una norma urtava contro questi sommi principi, gli uomini di legge, che parevano averli assorbiti quasi si fosse trattato di soporiferi che impedivano loro di utilizzare il cervello, impostavano il ragionamento rovesciando l’ordine naturale delle fonti del diritto. La dottrina che, rispetto alla legge, costituisce fonte secondaria, diventava invece pressoché primaria, cosicché occorreva andare a cercare complica- - 372 - tissime giustificazioni per poter ammettere che una norma potesse volere qualcosa in contrario ai sommi principi predicati dai dottori. Tutte le volte quindi che una norma cozzava contro tale tradizionale insegnamento, si considerava oscura e di dubbia interpretazione, finendo talvolta per superarne la lettera e la volontà proprio nel tentativo, per renderla chiara, di riportarla nell’ambito di esso. Questa impostazione del ragionamento appare già dalle prime righe del parere in esame ove è la stessa Rota Esecutiva a confessarlo, dichiarando come le fosse costato gran fatica risolvere la questione, non già allegando la poca chiarezza del testo, ma affermando invece che si trattava di dover concludere nel senso di limitare le competenze di un Senato, argomento di per sè odioso e contrario al comune dogma per cui, invece, la sua competenza doveva sempre presumersi illimitata 20. Ed è anche significativo di questa mentalità come le ragioni addotte dal Senato, assolutamente contrarie allo spirito e alla impostazione del testo costituzionale, risultino giustificate in base al comune principio, che sembrava dovesse prevalere sulla volontà innovativa del testo, del ne superaedificata ruerent21. In un mondo in cui nulla doveva cambiare, ove il più piccolo dei movimenti veniva paventato come potenziale causa della fine dell’universo, diventava logico che di questa comune ratio l’uomo di leggi dovesse fare un dogma interpretativo che portava a minimizzare il contenuto di qualsiasi novità che potesse scaturire da una norma. Era un processo a Galileo che si ripeteva di continuo. Ma torniamo da vicino al parere. La prima difficoltà che si opponeva alla tesi senatoria, era questa: il braccio regio, conforme proprio all’insegnamento dei dottori, è facoltà 20 Non levis fuit quae nobis per Serenissimum Senatum Reipublicae Genuensis proposita fuit consultuatio. An concessio brachii regii facta per ipsum Serenissimum Senatum, ex quo ad torturam proceditur ex processu informativo Rotae Criminali, octo votis et suffragiis concurrentibus valeat, et subsistat ex cap. 14 reformationum. Nam, dictam concessionem impugnando, tractabatur de restringendo potestatem tanti Senatus, quod satis odiosum est, cuius contrarium, quod iurisdictio conservatur, favorabile censetur L.si idem cum eodem. 21 In contrarium praesupponebatur pro fundamento, ne superaedificata ruerent. c. cum Paulus 1 q. 1 Butr. et Salyc. in L. mandpia C. de servis fugit.; Dec. cons. 291 n. 8 et cons. 511. Tiber. Decian. consil. 1, num. 16, lib. I. — 373 - riservata al Principe in quanto manifestazione del potere di giurisdizione, che è attributo della sovranità. Per la nuova costituzione genovese, che vede nel solo Consiglio Maggiore il soggetto della suprema potestas, cioè il Principe, questo e nessun altro organo dello Stato può essere il depositario del potere di giurisdizione e ne può delegare ad altri l’esercizio attraverso un suo atto di volontà: cioè una legge regolarmente approvata da parte della maggioranza dei suoi membri, considerato che la tipica manifestazione di volontà del Consiglio consiste nell’atto di approvazione delle leggi dello Stato. Ora, poiché, conforme sempre all’insegnamento dei dottori, il possesso del potere di giurisdizione negli organi dello Stato non può mai presumersi, ma essi debbono, di volta in volta, provarne la ricevuta delega da parte del Principe che ne è il depositario, il Senato avrebbe dovuto quindi provare di avere ricevuto tale delega attraverso un atto di volontà del Principe, cioè una legge approvata dal Consiglio Maggiore. lale legge esisteva, ma poiché si trattava di quella di riforma criminale dell’87, solo da quella data il Senato, nel nuovo ordinamento genovese aveva acquistato la facoltà di concessione di braccio regio ai giudici, che poteva e doveva però esercitare nei limiti e nel rispetto delle forme impostegli dalla legge stessa che gliela aveva delegata. Una costruzione barocca per dire, in sostanza, come avendo la costituzione del ’76 attribuito in via esclusiva al giudice ordinario il potere di giurisdizione penale, soltanto attraverso una regolare legge dello Stato, modificatrice di quanto sopra, il Senato avrebbe potuto acquistare competenza in materia. Quest’ultimo replica eccependo che, a suo vedere, non occorreva una legge del Consiglio Maggiore per delegargli una facoltà che egli già possedeva sotto la vigenza della Costituzione del ’28 e che quella del ’76 non gli aveva affatto tolto. A sostegno adduce la tradizionale distinzione fra giurisdizione ordinaria e straordinaria, asserendo che, mentre il costituente del ’76 avrebbe delegato in via esclusiva alla Rota e ai Giusdicenti locali l’esercizio del potere di giurisdizione penale ordinaria, altrettanto non avrebbe fatto per quello di giurisdizione straordinaria. Di quest’ultimo infatti il testo non parla affatto, segno che aveva inteso lasciarlo al Senato che già lo possedeva in precedenza. Il giurista del giorno d’oggi, rifacendosi alla interpretazione logica, avrebbe facilmente replicato, come l’art. 44 della Parte prima del testo, - 374 — messo in relazione agli artt. 12 e 14 della Parte seconda, concentrando in via esclusiva il potere di giurisdizione nelle mani del giudice ordinario ed escludendo qualsiasi interferenza dell’esecutivo su di esso nonché imponendo il rispetto della procedura ordinaria, stava a significare come a Genova, dopo il ’76, di giurisdizione penale straordinaria non potesse più parlarsi, salva la ipotesi eccezionale prevista dal medesimo art. 44. Inutile quindi cavillare per andare a cercare il soggetto di un potere che la costituzione aveva abolito. Invece il Senato, dichiarandosi ben sicuro della sua tesi, ne inferiva che pur dopo il ’76, nulla essendo stato innovato in materia, conforme alla disposizione generale (art. 19 Parte prima) per cui bastava il voto conforme di otto dei suoi membri per la validità delle sue decisioni, era sua facoltà di deliberare legittimamente la concessione del braccio regio ai giudici concorrendo tale maggioranza. E a riprova del non avvenuto affidamento al giudice ordinario del potere di giurisdizione straordinaria, il Senato adduce ancora proprio il ridetto art. 44, nel quale stava scritto che nel caso di reati contro la personalità dello Stato, la Rota poteva, in via eccezionale, derogare dalle regole della procedura ordinaria, ma ciò solo dopo essere comparsa davanti ai due Collegi, allo scopo, dice il Senato, di farsi delegare da essi quel potere, che essa non aveva, di procedere in via straordinaria. Se dunque la Rota, in questi casi, doveva richiedere ai due Collegi delega per poter procedere al di fuori del rito ordinario, ciò significava che la costituzione del '76 non poteva averle delegato anche il potere di giurisdizione straordinaria. Il Senato però finge di non accorgersi che mettendosi su questa strada, minacciava di arrivare a dimostrare che comunque, se erano i due Collegi e non lui solo a poter concedere la delega alla Rota, caso mai la nuova Costituzione avrebbe attribuito ad entrambi i Collegi congiunta-mente il potere di giurisdizione straordinaria. Ma, come vedremo, troverà l’argomento per superare anche questa piuttosto pesante eccezione, rilevando che: a) la norma non avrebbe riguardato la ipotesi di concessione del braccio regio; b) la necessità dell’intervento di entrambi i Collegi avrebbe dovuto considerarsi comunque eccezionale per la sola e tassativa ipotesi ivi considerata di delitti contro la personalità dello Stato. 7» ? — 375 — Si trattava di due argomenti manifestamente infondati. Il primo, in quanto nell’art. 44 stava proprio sancito l’obbligo della Rota di procedere, in tal caso, manu regìa, in deroga a quello generale di procedere invece sempre nelle forme ordinarie: Licet eo quo possumus studio et fervore administrationem iustitiae criminalis iuxta legum et Statutorum formam Praetori et Rotae ita commendaverimus, ut nemo possit nec cumulative, nec privative eorum iurisdictionem impedire; non ignoramus tamen, quandoque non modo in Civitate verum in Dominio, evenire posse subitos quosdam et repentinos casus in quibus servata et non servata forma iuris et suprema auctoritate ac regia manu providendum est... Il secondo argomento, anche se meno sfacciato, era tuttavia risibile. Se infatti, nei casi più gravi, quali quelli considerati dall’art. 44, ove più sollecito e snello avrebbe dovuto essere l’intervento dell’autorità politica presso i giudici, si voleva che si muovessero insieme i due Collegi, diventava incomprensibile perchè, nei casi meno gravi, ove tale intervento era meno pressante, esso dovesse invece diventare più semplice, bastando che si muovesse il solo Senato. Quest’ultimo comunque, sempre per superare le contrarie argomentazioni, si trova anche costretto a spiegare perchè neli’87 sarebbe dovuta intervenire una apposita legge per attribuirgli la facoltà di braccio regio. Se infatti l’avesse davvero conservata nonostante le disposizioni del ’76, non vi sarebbe stata nessuna necessità di riaccordargliela nell’87. Il Senato cerca di cavarsela, spiegando che la novità introdotta dalla legge dell’87 concerneva solo le modalità della procedura di concessione, per la quale venivano imposti i dieci voti favorevoli almeno dei suoi membri, in luogo dei soli otto che in precedenza sarebbero stati sufficienti. E qui si appoggia alle parole dell’art. 14 della legge: « Salva quell’autorità che possa competere al Serenissimo Senato, in osservazione delle leggi» a cautela e in quanto sia di bisogno. Si dichiara... che esso Serenissimo Senato abbia autorità di concedere... braccio regio... eziandio in quelli casi dove la legge fosse dubbia e... vi concorrano dieci voti ». Le parole iniziali « salva quell’autorità che possa competere... a cautela... in quanto di bisogno » starebbero proprio a dimostrare che ìa legge dell’87, lungi dall’accordargliela ex novo, con decorrerla dalla sua entrata in vigore, chiariva invece definitivamente, per quanto di bisogno, come il Senato possedesse già in precedenza tale facoltà. La Rota, nel parere, sembra avere respinto il rilievo con l’osservazione secondo cui, fra le due parti della norma doveva considerarsi pre- — 376 — valente la seconda, costituendo la prima una mera riserva dubitativa, come tale priva di pratico contenuto, considerato anche come essa si esprimesse al condizionale. Da notare, a questo punto, come nel parere non si trovi l’argomento logico che il giurista del giorno d’oggi avrebbe utilizzato per escludere che la legge dell’87 potesse costituire un punto d’appoggio per la tesi del Senato. La legge, lo dice il suo proemio, si era resa necessaria perchè si riteneva che « la giustizia criminale in questa Città » non fosse amministrata con la dovuta solerzia. Fatto che si diceva « degno più presto di commiserazione che di meraviglia » proprio perchè « le leggi ultimamente riformate », cioè la Costituzione del ’76, « abdicandovi sopra ogni sopra-intendenza da chi amministra la Repubblica » la aveva « totalmente commessa in mano di tre dottori », cioè della Rota. Ma, se il Senato avesse conservato invece il potere di giurisdizione straordinaria pur dopo il ’76, come si sarebbe fatto a scrivere che le « leggi ultimamente riformate » gli avevano tolto « ogni sopraintenden-za » negli affari penali? Ed inoltre, volendoglisi dare un maggior potere di quanto prima non avesse, perchè gli si sarebbe messa la pastoia dei dieci voti, quando in precedenza, già sarebbe potuto intervenire per il braccio regio con soli otto? Queste semplici considerazioni di ordine logico, nel parere, che è impostato conforme a quello che era il modo di ragionare del giurista dell’epoca, non si trovano. L’immane sforzo del Senato volto alla dimostrazione della permanenza in esso del potere di giurisdizione straordinaria pur dopo il ’76, tendeva, come si è già detto, a due scopi. Il primo a giustificare i provvedimenti di concessione di braccio regio emanati fra il ’76 e l’87; il secondo, più specificamente, in relazione all’oggetto in discussione, a sostenere la possibilità di concederlo, nonostante la legge dell’87, ancora con soli otto voti favorevoli dei suoi membri allorché si trattasse di reati commessi fuori dell’ambito delle mura cittadine. Come infatti si è pure già visto, il Senato pretendeva trovare la novità introdotta dalla legge dell’87, esclusivamente laddove essa stabiliva che i provvedimenti di concessione di braccio regio dovessero venire presi con la maggioranza qualificata dei dieci voti, anziché con quella normale di soli otto almeno. Ove quindi fosse stato accertato che la legge aveva portata limitata al solo ambito cittadino e non si estendeva al Do- - 377 - 12 minio, ne sarebbe derivato che, quanto ai reati ivi commessi, nulla doveva intendersi innovato, con la conseguenza che avrebbe potuto continuare a concedere ai giudici il braccio regio anche con deliberazione presa con soli otto voti, così come era stato solito fare nel passato. Per dimostrare la limitazione territoriale di applicabilità della legge, il Senato si appoggia alle parole iniziali del suo proemio, laddove stava scritto che essa si era resa necessaria in quanto « ognuno può manifestamente conoscere che la giustizia criminale in questa Città, almeno da alcuni anni in qua, è debilitata non poco... ». Pertanto, dice il Senato, se la legge è stata emanata per porre rimedio alle disfunzioni della giustizia manifestatesi nell’ambito della Città di Genova, essa si applica esclusivamente in questo medesimo ambito e non oltre. Nel parere della Rota si legge che così pretendendo, il Senato veniva a fare confusione fra l’occasione della legge (il fatto constatato nell’ambito cittadino) e la sua ratio che era invece quella di assicurare un miglior corso della giustizia, esigenza comune a tutto il territorio dello Stato. Anche attraverso questo rilievo possiamo notare la palese preferenza del giurista dell’epoca per il ricorso all’argomento sottile, cioè la tradizionale distinzione dottrinaria tra occasione e ratio della legge, anziché all’argomento risolutivo e preliminare derivante dalla interpretazione logica del complesso del proemio il quale, come si è visto, poneva come presupposto della necessità della riforma proprio la indipendenza del giudice dal governo; con la conseguenza che, per questo solo, doveva già escludersi che al Senato, dopo il ’76, potessero ancora competere facoltà di giurisdizione straordinaria penale e quindi quella di concessione di braccio regio che rientrava in tale categoria. Questi gli argomenti che si traggono dal parere della Rota Esecutiva contenuto nella raccolta del Cartari a dimostrazione di come gli organi di governo genovesi si fossero tenacemente opposti ad accettare la grande novità introdotta dalla Costituzione del ’76, cioè l’indipendenza del potere giurisdizionale penale da quello esecutivo. E al riguardo è interessante notare l’atteggiamento bifido del Senato il quale, mentre lo vediamo qui, davanti ai giudici, impegnato a cercare di distoreere il senso del testo costituzionale, lo vedremo, invece, allorché gli tornerà comodo, sostenere in altra sede disinvoltamente tutto il contrario. Andiamo infatti ancora una volta alla Relazione, che ne costituisce poi il proemio, della legge di riforma criminale dell’87. Vi troviamo — 378 — scritto, con parole inequivoche, come tutti i mali della giustizia genovese derivino dal sistema introdotto nel ’76, essendo « cosa degna più presto di commiseratione che di meraviglia » che la giustizia penale risulti « totalmente commessa » al giudice ordinario « abdicandovisi ogni soprain-tendenza da chi amministra la Repubblica ». Più chiaro di così il riconoscimento, che proviene proprio dall’estensore della Relazione, cioè Senato e Camera dei Procuratori, della portata delle leggi del ’76 nel senso che esse avevano introdotto una ferrea separazione ed indipendenza dei giudici dal governo, non poteva essere. Ancora: la legge temporanea di riforma criminale dell’87 era stata dichiarata valida per soli tre anni. Giunta a scadenza, i Collegi ne presentavano un nuovo progetto, da valere per altri tre anni, che ricalcava pressoché pedissequamente il testo precedente. Questa seconda legge di riforma criminale otterrà la definitiva approvazione del Consiglio Maggiore il 20 dicembre 1590. Tuttavia, qui, il Senato subisce un primo infortunio in quanto, come si legge nel verbale di approvazione steso in calce all’originale del progetto, a seguito dell’accoglimento di un emendamento all’art. 14 proposto da Matteo Senarega davanti al Consiglio Minore, il quorum minimo di voti necessari per la concessione del braccio regio verrà portato da dieci a undici22. 22 Die ea (7 dicembre 1590) proposito per me Cancellarium et Secretarium suprascriptum, iussu Serenissimorum Collegiorum, centumvirali Concilio in legitimo numero ad, eorum conspectum congregato, de confirmandis per triennium dictis preinsertis quadraginta duobus capitulis, et successive de statuendo et sanctiendo in sententiam illorum quae nunc per me dictum Cancellarium et Secretarium lecta iuerunt dicto Minori Concilio; et inde, data Conciliariis facultate dicendi quae vellent super negotio proposito, et viso quod nemo assurgebat, datis et collectis super propositis calculis, octoginta afirmativi et triginta duo repugnantes inventi sunt. Quando, vocatis mandato praefatorum Serenissimorum Collegiorum nonnullis de dicto Concilio, inter quos Magnificus Mattheus Senarega laudassent quod dicta capitula approbaverant reformato tamen quartodecimo, in quo agitur de concedendo brachio regio, cum hac declaratione quod in brachio regio concedendo undecim saltem vota Serenissimi Senatus requirantur, et si evenerit quod novem tantum concurrant, eo casu exponatur Serenissimis Collegiis. Qua opininione dicti M. Matthei mox a praefatis Serenissimis Collegii examinata et ea quattuor ex quinque partibus suffragiorum approbata, fuit denuo propositum negotium dicto Minori Concilio cum dicta reformatione dicti quartodecimi capituli et sic dato item facultate Conciliariis dicendi quae vellent, et cum nemo assurgeret, proposito ut qui essent opinionis confirmandi dicta quadraginta duo capitula per triennium cum dicta reformatione - 379 — Nel marzo del 1594, troviamo ancora i Consigli chiamati ad approvare un successivo disegno di legge di riforma proposto dai Collegi ad avvenuta scadenza della validità di quella del ’90. Si trattava di un testo del tutto analogo, salvo qualche aggiunta, ai due precedenti, da restare in vigore per cinque anni. Questa volta, il Senato subisce davanti al Consiglio Minore un secondo, ben più grave infortunio, giacché, mentre le altre parti del testo vengono approvate, l’art. 14 viene respinto. Approvata definitivamente dal Consiglio Maggiore, il 9 marzo 1594, la nuova legge di riforma non conterrà più la disposizione relativa al braccio regio 23. A questo punto, se il Senato fosse stato coerente con quanto lo abbiamo visto sostenere nel parere contenuto nella raccolta del Cartari, avrebbe dovuto rallegrarsi, considerato come l’avvenuta abrogazione del- respectu dicti quartidecimi capituli suum daret votum favorabile ut inde negotium Maiori Concilio proponi posset; datis propterea et collectis suffragiis octoginta octo faventia et viginti unum repugnantia inventa sunt... (A.S.G., Archivio Segreto, Propositionum, Mazzo 2, n. 22). In sostanza, messa ai voti la legge nel testo predisposto dai Consigli, essa non viene approvata, perchè riporta solo 80 voti favorevoli contro 32; non si raggiungono cioè i 4/5 dei voti favorevoli necessari per l’approvazione di un progetto di legge da parte del Consiglio Minore. A questo punto, si apre una discussione e Matteo Senarega propone l’emendamento. Conforme quindi alla procedura prevista dalTart. 47 della parte prima della Costituzione, i due Collegi approvano seduta stante un nuovo disegno della legge stessa con l’emendamento Senarega. Ciò fatto, lo presentano al Consiglio che lo approva con 88 voti favorevoli e soli 21 contrari. Da notare come, la prima volta si fossero raccolti complessivamente 112 voti, la seconda volta solo 109, di cui 88 costituivano il numero minimo indispensabile per raggiungere i 4/5. 23 Questa volta, davanti al Consiglio Minore, la votazione non avviene più, come era accaduto il 7 dicembre 1590, su tutta la legge in blocco, ma separata-mente, articolo per articolo. Nel verbale di seduta dell’8 marzo 1594 (A.S.G., Archivio Segreto, Propositionum, Mazzo 2, n. 123) si trova infatti annotato a fianco di ciascun articolo del progetto presentato dai Collegi, il numero dei voti riportati rispettivamente favorevoli e contrari. In particolare, mentre sui primi quattro articoli il numero complessivo dei votanti risulta di 109, su tutti i successivi trenta-tre risulta invece di 107. La maggoranza minima indispensabile (4/5) per l’approvazione dei primi quattro articoli era quindi di 88 voti, per i successivi di 86 almeno. Il quattordicesimo, che prevede la facoltà di braccio regio per il Senato, riporta soltanto 84 voti favorevoli contro 23. Il successivo 9 marzo, il testo, dal quale erano stati stralciati gli art. 14 e 15 (concerneva l’obbligo del Fiscale di fare istanza al Senato perchè nei casi più gravi concedesse il braccio regio), è approvato dal Consiglio Maggiore con 213 voti favorevoli e 120 contrari. — 380 — l’art. 14 non ne avrebbe affatto intaccato il preesistente potere di braccio regio; anzi gli avrebbe ridato, per l’avvenire, la facoltà di concederlo con soli otto voti favorevoli dei suoi membri così come, appunto secondo la sua tesi, aveva asserito di poter fare fino a quando il ridetto art. 14 non era intervenuto a richiedere la maggioranza più qualificata. All’opposto, lo vediamo invece, il 29 aprile 1595, presentare un disegno di legge 24 — che peraltro verrà respinto dal Consiglio Minore — tendente a restituire agli organi di governo i medesimi poteri giurisdizionali penali che avevano prima della Costituzione del ’76. Nella Relazione a tale proposta si ammette, senza ombra di equivoco, la assoluta indi-pendenza della Rota Criminale dal governo, nonché la impossibilità per quest’ultimo di prendere qualsiasi « provvisione » in materia penale, al di là del poco o nulla che gli consentiva la legge Curabit, cioè l’art. 14 della Parte seconda della Costituzione. Nella Relazione stessa, si giustifica la necessità della legge proprio attribuendo la causa di un preteso dilagare della delinquenza al fatto che la giustizia penale risultava « appoggiata in tutto alla Ruota Criminale la quale non può procedere se non ordinariamente ». Non solo, ma prosegue ancora la Relazione: « et questa cosa tanto più pericolosa è che non ha, si può dire, essa Ruota superiore alcuno, poco o nulla potendo a ciò rimediare il Senato per le parole della legge Curabit tamen III.ma Dominatio ». Qui, dunque, come già nella Relazione alla legge dell’87, contrariamente a quanto lo avevamo visto sostenere nel parere contenuto nella raccolta del Cartari, è proprio lo stesso Senato a conclamare la assoluta indipendenza del giudice dall’esecutivo sancita dalla Costituzione del ’76. Si tratta di un atteggiamento manifestamente contraddittorio che, però, a mio vedere, ha una sua logica e si spiega nel quadro della tenace e continua attività del governo volta ad abbattere lo scomodo presupposto costituzionale della separazione dei poteri. Quando infatti ha da fare con i giudici, noi vediamo il Senato atteggiarsi a sicumera e prepotenza nella speranza che essi non osino dimostrarsi eccessivamente intransigenti davanti alla sua autorità. Quando invece si trova davanti ai Consigli, certamente sul piano pratico ben più liberi dei giudici nei suoi confronti, il Senato cambia volto, improntando il suo atteggiamento ad astuzia, col ricorso alla rappresentazione 24 A.S.G., Archivio Segreto, Propositionum, Mazzo 2, n. 160. - 381 - i di situazioni di pericolo, magari opportunamente gonfiate, allo scopo di creare il panico per spingerli ad approvare norme eversive di un sistema che, per troppo amore di perfezione giuridica, non aveva tenuto in conto sufficiente la ragion di Stato. La questione del braccio regio giungerà comunque al suo epilogo con la legge perpetua approvata dal Consiglio Maggiore il 31 maggio 1595° che diventerà, in prosieguo, il cap. XXVI del Libro I degli Statuti Criminali del 1671. Sarà la vittoria definitiva del Senato il quale, non solo si vedrà restituire ima facoltà che i Consigli gli avevano negato con la legge di riforma del ’94, ma se la vedrà restituire, oltre che in via perpetua, anche senza più la limitazione di poterne usare soltanto concorrendo una particolare alta maggioranza dei voti dei suoi componenti, così come gli avevano imposto le leggi dell’87 e del ’90. Evidentemente, i Consigli, che in passato avevano avuto sull’argomento le esitazioni che si sono viste, dovevano avere, nel ’95, cambiato idea, convinti dagli argomenti che i Collegi avevano speso nella Relazione: « Habbiamo con prova riconosciuto esser stato di molto giovamento, per verificazione de delitti, la concessione del braccio regio che, nelle occorrenze, è stata fatta dal Serenissimo Senato alla Ruota Criminale e le deputazioni di assistenti che si sono fatte in quelle cause criminali che è stato giudicato a proposito. E poiché seguono da tempo in qua delli eccessi e misfatti di qualità che è ragione e necessario che siano puniti per indennità della giustizia e degli offesi e per conservazione insieme della Repubblica, e è anco necessario usare le suddette diligenze per metterli in chiaro... ». Ma, a parte ciò, la Relazione si fa più interessante laddove accenna espressamente ai passati contrasti sulla questione e chiede ai Consigli di volerli eliminare una volta per sempre. La Relazione infatti, così testualmente prosegue: « perciò, essendo qualche volta stato da alcuni dubitato se dal Serenissimo Senato possa concedersi braccio regio per le cause spettanti alla cognitione della Ruota Criminale e in essa deputare assistenti; se ben da Collegi è stato costante-mente preteso sempre e tenuto che simile autorità competa al prefato Serenissimo Senato e ne è tuttavia al possesso, si giudicheria espediente per levare ogni sorta di dubbi, che fosse provvisto e deliberato in conformità dell’infrascritti capitoli ». Quale fosse il fondamento delle pretese del Senato e dei dubbi a cui accenna la Relazione, abbiamo visto attraverso il parere della Rota Esecutiva che mi ha dato lo spunto per questa conversazione. 25 A.S.G., Archivio Segreto, Propositionum, Mazzo 2, n. 163. — 382 — POSTILLA Al termine di questa conversazione, tenuta il 22 gennaio 1973 nella sede della nostra Società ,attraverso la discussione che ne è seguita si sono focalizzati alcuni argomenti che ho ritenuto utile ricordare. Ci si è chiesti anzitutto perchè la classe politica genovese possa essersi dimostrata così riluttante ad accettare una carta costituzionale subito dopo la sua entrata in vigore. Al quesito si è creduto di poter dare risposta ricordando l’origine piuttosta anomala di tale carta. Essa non fu infatti il prodotto di un compromesso politico direttamente raggiunto fra gli interessati, ma ebbe forma di lodo arbitrale reso dai delegati di tre Potenze straniere (Roma, Madrid, Vienna) le quali, ad evitare conseguenze negative per l’equilibrio europeo, avevano ritenuto opportuno intervenire presso coloro che avevano scatenato in Genova ima guerra civile di gravità tale da far temere per la sua stessa sovranità. E poiché, per eliminare le ragioni del dissenso che scaturivano dal sistema costituzionale instaurato nel 1528, aggravate dalla riforma del ’47, pareva indispensabile trovarne uno nuovo, fu così che i delegati delle tre Potenze riuscirono ad ottenere dalle parti in contesa la nomina ad arbitri con il mandato di redigere essi quella nuova carta costituzionale di cui tutti avvertivano il bisogno, ma non riuscivano a darsi. Come ogni lodo arbitrale che si rispetti, anche le Leges Novae del 1576, dovevano aver scontentato gli uni e gli altri, suscitando comprensibili opposizioni. L’altra considerazione che si è fatta è questa: la Costituzione del ’76, specie se considerata in entrambe le Parti di cui si compone, compresa cioè la seconda dal titolo Erectio Rotae Criminalis, denunzia, ad evidenza, la mano del giurista piuttosto che quella del politico. Il che rimane spiegabile tenendo conto della sua particolare origine di cui ora si è detto. Essa infatti, a ben guardare, concreta un vero e proprio modello di sistema costituzionale che segue un filone dottrinario ben individuabile, il quale: conosce lo Stato come ente sovrano, distinto e al di sopra dei cittadini e delle loro interne organizzazioni di categoria; articola tutta l’azione dello Stato in una serie di uffici, ciascuno tenuto alla piena osservanza della legge, limitato, quanto al proprio operare, entro - 383 - un preciso ed invalicabile ambito di competenza. Da questo sistema, dove domina il principio della separazione del potere di governo da quello giurisdizionale penale e da quello legislativo, nasce, a ben guardare, lo « Stato di diritto », naturalmente in termini da riferirsi all’epoca. Viene quindi logica la domanda: se tanta preparazione giuridica che sottosta al testo fosse degli stessi delegati delle Potenze straniere che lo avevano sottoscritto, ovvero costoro si fossero valsi dell’opera di uno o più giuristi di fiducia. Viene così anche logico di domandarsi chi essi fossero. Ché se, come non è da escludersi a priori, si fosse trattato di genovesi, si aprirebbe un grosso spiraglio per la conoscenza della cultura giuridica genovese del ’500, della quale poco o nulla sappiamo e della quale il testo costituzionale del ’76 verrebbe ad attestare l’altissimo livello. La discussione mi ha anche dato agio di risollevare una questione sulla quale insisto e non da ieri. Cioè, mentre si continua, per forza di tradizione, a vedere nella Costituzione del 1528 la matrice del moderno Stato genovese, si continua anche a non considerare la portata di quella del 1576, la quale, in realtà, non costituisce, come tante volte si è affermato, un semplice aggiornamento di quella precedente, ma dà invece alla Repubblica un ordinamento assolutamente nuovo, ben lontano, sul piano del diritto, da quello posto in essere nel ’28. La sostanziale validità del testo del ’28, la vedrei infatti laddove aferma, senza equivoci, la piena sovranità genovese sul piano internazio-na e come Respublica Superiorem non recognoscens, traducendo in termini giuridici quello che era stato il grande risultato politico dell’opera i Andrea Doria. Quanto però al sistema organizzativo interno, si trattava di un documento che rifletteva il medesimo disordine che allora permeava le vie cittadine. Questo ordine giuridico interno, che si svolge sullo schema dello << -tato di diritto », assolutamente sconosciuto dalla Costituzione del ’28; crea invece quella del 76, la quale merita pertanto ben maggiore attenzione di quanta fino ad oggi non le sia stata riservata. — 384 — NOTE D’ARCHIVIO - RASSEGNE CONGRESSI La spedizione dei fratelli Vivaldi e nuovi documenti d’archivio * L’avventuroso viaggio di scoperta intrapreso nella primavera del 1291 dai fratelli Ugolino e Vadino Vivaldi, che tentarono di raggiungere le Indie circumnavigando l’Africa, fu un’impresa che, se avesse avuto successo, avrebbe cambiato il corso della storia europea1. E’ comprensibile che questo viaggio nell’ignoto abbia attratto l’immaginazione degli scrittori posteriori, dal momento che questi potevano constatare quale sviluppo tentativi simili avevano prodotto due secoli più tardi; ma che non si trattasse di una spedizione commerciale del tutto ordinaria se ne accorsero anche i contemporanei dei due fratelli. Jacopo Doria, annalista ufficiale genovese, egli stesso uomo d’affari e come tale ben consapevole delle possibili conseguenze economiche del viaggio, lo descrisse giustamente come « invero mirabile non solo a quelli che la videro ma anche a quelli che l’ascoltano »2, e nonostante la riservatezza abituale dei Genovesi sulle loro scoperte — nota infatti Roberto Lopez, « ai loro occhi, ogni nuovo progresso non era una gloria da proclamare, ma un segreto commerciale da proteggere »3 — l’impresa dei Vivaldi dovette essere ben conosciuta sia in Italia sia ai popoli marinari del Mediterraneo4. Il racconto di Anto- * Ringrazio infinitamente il Signor Renzo Lagomarsino per il suo prezioso aiuto a fare la traduzione italiana ed il Dottor Aldo Agosto deir Archivio di Stato di Genova per i suoi gentilissimi consigli. ' Tale affermazione non ci sembra esagerata dato lo sviluppo dell economia occidentale seguito ai viaggi quattrocenteschi degli scopritori italiani e portoghesi sulla stessa rotta tentata dai Vivaldi. 2 Annali Genovesi di Caffaro e i suoi continuatori. Jacopo Boria, trad. italiana a cura di G. Monleone, Genova 1930, vol. IX p. 29. 3 R. S. Lopez, Nuove luci sugli italiani in Estremo Oriente prima di Colombo, Convegno Internazionale di Studi Colombiani, Atti, vol. Ili, Genova 1951, p. 346 4 Ci si domanda però se la notizia sarebbe stata così diffusa e se ne avremmo trovato perfino il ricordo negli Annali, allorché la spedizione avesse avuto il successo. - 387 - niotto Usodimare, centocinquant’anni d’opo, ci testimonia della lunga tradizione del tentativo nella stessa Genova5, e sebbene oltre Jacopo Doria soltanto due cronisti contemporanei pervenuti fino a noi abbiano registrato la vicenda, la netta diversità fra queste fonti non genovesi _ il dotto padovano Pietro d’Abano 6, e PAnonimo spagnolo del Libro del Conoscimento de todos los Reynos 7 — attesta quale diffusione dovettero avere quelle notizie. Sfortunatamente per gli storici moderni, i particolari che gli antichi ritennero opportuno tramandare alla posterità sono poco puntuali, e, sebbene dal 1845 8 un fiume di scritti sia stato dedicato ai Vivaldi, molti autori non hanno trovato altra via che quella di teorizzare, con ingegno ma senza prove, per rivestire un poco lo scheletro del fatto documentato9. Soprattutto il disastroso epilogo della spedizione, che sarebbe avvenuto al largo di qualche imprecisata costa africana, di cui parlano sia il Libro del Conoscimiento sia l’Itinerarium dell’Usodi-mare in termini passibili di differenti interpretazioni, ha originato ipotesi Itinerarium Antoniotti Ususmaris, codice della Biblioteca Universitaria di Geno\a. I brani riguardanti la spedizione Vivaldi vennero pubblicati sia da Luigi Belgrano, Nota sulla spedizione Vivaldi, in «Atti della Società Ligure di Storia atria », voi. 15, p. 320, sia da Rinaldo Caddeo, Le Navigazioni Atlantiche di Al-vise Ca’ da Mosto, Antoniotto Usodimare e Niccoloso da Recco, Milano 1926, appendice A, doc. IV, p. 112, 6 pIEXR0 d’Abano (1250-1316), Conciliator Differentiarum, Venezia 1548, p. 107; brano pubblicato dal Caddeo (op. cit. appendice A, doc. II, p. 112). El Libro del Conoscimiento de todos los Reynos, tierras y senorias que son por el mundo, que escribio un franciscano espanol a mediados del siglo XIV, pub-cato a cura di Jimenez de la Espada, « Boletin de la Sociedad Geografica », voi. appendice, Madrid 1877. Brano pubblicato sia dal Belgrano sia dal Caddeo (op CH., app. A, doc. A, doc. Ili, p. 112). 8 La data è quella della pubblicazione dell’opera di M. G. Canale, Degli Antichi Navigatori Genovesi, la prima di una certa serietà, la quale adopera non solo Je tonti notarili, ma fa cenno anche al ricordo di 'Jacopo Doria negli Annali, il cui rano risulta mancante nei manoscritti consultati dal Muratori per la sua edizione del Furtr°PP°, questa scoperta rimase sconosciuta al mondo accademico. ,„,q 9,San(\le PrWe, talmente scarse che- Prima che Georg Pertz comunicasse nel 59 all Accademia delle Scienze di Monaco le parole di Jacopo Doria riguardanti i Vivaldi, la spedizione era denigrata dagli studiosi, soprattutto dal Visconte di San-tarem, come fabbricazione di cronisti genovesi bramosi di gloria per la loro città. Fu q esta comunicazione che attrasse attenzione e non l’opera anteriore del Canale. - 388 - e polemiche: tante che, in assenza di fatti nuovi, avrebbero esaurito l’argomento. Al contrario, nel campo meno discusso della genesi ed organizzazione del viaggio, c’è ancora da dire, ed è appunto di questa fase della famosa impresa che si tratta nel presente contributo. La fonte basilare rimane la cronaca ufficiale di Jacopo Doria, alle cui parole viene aggiunta attendibilità dalla sua stretta parentela con il principale armatore dei Vivaldi10. Sarebbe bene ripetere le sue esatte parole sull’argomento. All’anno 1291 egli scrive: « Eodem quippe anno Thedisius Aurie, Ugolinus de Vivaldo et eius frater, cum quibusdam aliis civibus Janue, ceperunt facere quoddam viagium, quod aliquis usque nunc facere minime attemptavit. Nam armaverunt optime duas galeas, et victualibus, aqua ed aliis necessariis infra eis impositis, miserunt eas de mense madii deversus Strictum Septe11, ut per mare Oceanum irent ad partes Indie, mercimonia utilia inde deferentes. In quibus iverunt dicti duo fratres de Vivaldo personaliter, et duo fratres Minores; quod quidem mirabile fuit non solum videntibus, sed etiam audientibus. Et postquam locum qui dicitur Gozora transierunt, aliqua certa nova non habuerunt de eis. Dominus autem eos custodiat et sanos et incolumes reducat ad propria »12. Si noterà che questo resoconto non fornisce il nome del secondo Vivaldi nè quello delle galee sulle quali partirono, omissione che M. G. Canale, primo scrittore moderno ad occuparsene seriamente, cerca di ovviare ricorrendo all’archivio notarile genovese. Essendo questo, come risaputo, il più vasto in Italia per il periodo in questione, gli parve ragionevole supporre che un tentativo come questo, così importante per il futuro del commercio genovese, avrebbe dovuto lasciare tracce fra le migliaia di atti rogati ogni anno dai notai della città. Infatti, le ricerche del Canale e d’altri furono premiate da due documenti, dal primo dei quali risulta il nome di Vadino come assai probabile compagno del fratello Ugolino, poiché assume, un mese solo prima della loro partenza, anche la rappresentanza di questo in un contratto di cambio di 500 lire genovesi con Antonio de Nigrono, pagabili in Majorca, appunto sulla 10 Jacopo era fratello del capitano Lamba Doria, padre dell’armatore Tedisio. 11 Cioè lo stretto di Ceuta. 12 Caffari et continuatorum Annales Januenses, a cura di G. Pertz, Mon. Germ. Hist. Scriptores, vol. 18, p. 335. — 389 - rotta di una galea diretta deversus Strictum Septe,3. Il secondo era la ricevuta di Tedisio Doria, in data del 26 marzo 1291, di un investimento di 750 lire genovesi impegnate da Daniele Tartaro, in quacumque galea volueris ex galeis duabus meis ituris ad presens, dante Domino, ad partes Romanie, quarum una vocatur Sanctus Anthonius et altera Alegrancia14. Sugli altri rogiti notarili che di volta in volta sono stati associati ai Vivaldi non si ritiene doversi indugiare, dal momento che il nesso, nemmeno attendibile, è stato da lungo tempo del tutto demolito IS; per quanto riguarda invece 1 identificazione di Vadino, essa non è mai stata seriamente contestata, perchè suffragata anche dal racconto dell’Usodimare 16. Il tema 13 Archivio di Stato di Genova (A.SG.), sezione notarile, Angelino da Sestri, reg. 64, c. 119 r., 1291 aprile 3. Il rogito è stato pubblicato integralmente da P. Re-velli, Cristoforo Colombo e la Scuola Cartografica Genovese. Genova 1937, voi. II, p. 446, doc. IX. 14 A.S.G., not. cit., c. 63 r; P. Revelli cit., doc. VII, p. 444-5. Il Revelli corregge la lettura erronea del Belgrano (cit., p. 326), il quale lesse libras 75 invece di libras 750 e transeuntes invece di ituris, errori ripetuti dal Caddeo (cit., app. A doc. VII, p. 113) e da Alberto Magnaghi (vedi la nota 20). Qui ci si riferisce specialmente all'accommendacio ricevuta da Giacomo Argi-lofi per commerciare per dieci anni per diversas partes mundi. Il documento è pubblicato dal Caddeo (cit., p. 113) ma la sua pertinenza ai Vivaldi è confutata dal Magnaghi, con piena giustificazione. Ciò nonostante l’affermazione del tutto infondata che 1 Argilofi partisse insieme con i fratelli Vivaldi viene ripetuta ancora una volta nella nuova edizione dell’opera del Caddeo, Milano 1956, p. 20. NeJ Itinerarium, risultano i nomi dei fratelli come Vadino e Guido: quest ultimo evidentemente è errato. Non c’è da meravigliarsi che la tradizione orale abbia conservato indenne il nome inconsueto di Vadino, mentre quello più comune di Ugolino viene cambiato: anzi il fatto che il fratello non nominato da Jacopo Doria sia ancora conosciuto ai tempi dell’Usodimare ci testimonia il cammino indi-pendente di questa tradizione popolare. L’errato nome « Guido » per Ugolino non è di per sè motivo bastante ad invalidare il racconto dell’Usodimare, come da alcuni preteso. Non è attendibile la congettura del Belgrano che Guido fosse un altro rateilo compagno dei due noti i quali avevano secondo le fonti notarili ed opere genealogiche un solo altro fratello, chiamato Corrado. Questi sicuramente non partì con gli altri, come vediamo da A.S.G., notaio Ugolino da Scalpa, cartolare 130 c. r., 1 settembre 1293: Iacobus de Pino Lanerius qui habito in burgo Sancti Ste-p ani confiteor tibi Tealdo Cazano me a te habuisse et recepisse integram racionem t satisfactionem de tercia parte sachorum 165 orexelle quam terciam partem con-ssus fuisti Philippo de Pino ipsum ]ohannem habet in dictis sachis 165 et quos - 390 - dell Alle grama e della Sant’Antonio merita comunque la più stretta considerazione. Il documento che reca i nomi di queste due galee attrasse attenzione all’inizio non solo perchè gettava luce sull’attività armatoriale di Tedisio Doria poco prima della partenza dei Vivaldi, ma anche a causa della singolare coincidenza fra il nome di una delle galee, Alegrancia, e la più settentrionale delle isole Canarie, riscoperte in quegli anni dai navigatori genovesi. Questa identità favorì la congettura del Canale, accettata in seguito anche da Cornelio Desimoni17 e Luigi Belgrano18, che quest’isola sia stata toccata e battezzata dagli stessi Vivaldi; e con l’appoggio di tali illustri studiosi, questa idea seducente guadagnò presto ampio credito. Il legame del nome dimostrava, apparentemente oltre ogni dubbio, che l’atto del 26 marzo si riferiva davvero alle galee dei Vivaldi, cosicché gli scrittori posteriori ebbero per scontata l’identificazione, che divenne parte integrante della leggenda19. Bisogna giungere fino all’anno 1935 per trovare nell’opera di Alberto Magnaghi20 il primo deciso tentativo di invalidare tale connessione. Nell’intento di sgombrare il terreno alla sua teoria prediletta, per la quale lo scopo dei Vivaldi sarebbe stato quello di attraversare l’Adan-tico, il Magnaghi sottopose gli scritti degli studiosi precedenti ad una critica acre, dalla quale non uscirono indenni 1 ’Allegranza e la Sant’Antonio. Le sue obiezioni su questo argomento sono quattro. In primo luogo, egli asserisce che « entrambe le navi sono abbastanza frequentemente ricor- sacbos 165 onerari fecisti in nave Andrioli de Merlo et Conradi de Vivaldo et quant terciam partem promissisti dare michi lanuam nomine dicti Philipini, ut de pre-dictis continetur plenius in instrumento facto manu Lucheti Gonele notarii, 1292 die 26 septembris. Questo documento è inedito. 17 C. Desimoni, Sugli scopritori genovesi nel Medio Evo, in « Giornale Ligustico », vol. I, 1874 p. 266. 18 L. T. Belgrano cit., p. 326. 19 Per esempio, Giovanni Monleone, in una nota alla sua traduzione del 1930 degli Annali di Jacopo Doria (cit., p. 29), parla della eroica spedizione dei fratelli Ugolino e Vadino Vivaldi, compiuta con le due galee, Allegranza e Sant’Antonio, fomite da Tedisio Doria », senza alcuna esitazione o riserva. 20 A. Magnaghi, Precursori di Colombo? Il tentativo di viaggio transoceanico dei Genovesi fratelli Vivaldi nel 1291, Società Reale Geografica, Memorie, vol. XVIII, Roma 1935. - 391 - date in documenti genovesi anteriori », dei quali cita esempi tratti dal Canale che risalgono fino al 1263 21. E’ ovvio, dice, che nonostante il lasso di tempo e la diversità dei proprietari, queste non erano navi differenti che portavano lo stesso nome ma « sempre le stesse navi, che passano con frequenza... da uno o più noleggiatori ad altri. D’altra parte, almeno lungo i decenni dal 1250 al 1290, non troviamo mai la coesistenza di navi aventi il medesimo nome». Allora sarebbe assurdo ritenere che per un rischioso viaggio su di una rotta mai tentata, i Vivaldi volessero usare navi così vecchie; per di più (conforme i documenti addotti dal Magnaghi) la Sant’Antonio è sempre descritta come navis e non come galea, per la quale sarebbe dunque stata una disadatta compagna. E, se questo non bastasse per convincere il lettore, ci sarebbe ancora il fatto che nel documento del 26 marzo, le navi sono transeuntes ad presens... ad partes Romanie, e se si trovano in marzo dirette verso l’impero bizantino, come possono rientrare a Genova in tempo per essere pronte in maggio per salpare di nuovo? Finalmente, dice, perchè dobbiamo presumere che queste due galee costituissero l’intera flotta di Tedisio Doria? Per tutti questi motivi, ritiene egli che « si debba assolutamente escludere che i Vivaldi abbiano intrapreso il viaggio su quelle due navi »22. Sulla conclusione, come vedremo, c’è ancora da discutere, ma le argomentazioni per le quali il Magnaghi vi giunge, devono essere decisamente respinte. In primo luogo, non è affatto « ovvio » che semplice-mente per il fatto che due bastimenti rechino, a distanza di decenni, lo stesso nome, siano la stessa nave: piuttosto il contrario. Altrimenti la flotta genovese avrebbe dovuto essere benedetta da una straordinaria longevità, dato che, come ha dimostrato Giovanna BalbiB, fin dai primi documenti sino a noi pervenuti, lo stesso nome viene ripetuto più volte, essendo nel XIII secolo i nomi Allegranza e Sant’Antonio fra i più co- 21 Ibid., p. 97. Tutti questi esempi sono di navi appartenenti a differenti proprietari, e non è dimostrabile che fra di esse esista altro nesso oltre il nome, nè cerca il Magnaghi di dimostrarlo, bensì asserisce senza provare. 22 Ibid., pp. 96-99. 23 G. Balbi, I nomi di nave a Genova nei secoli XII e XIII, in Miscellanea di Storia Ligure in memoria di Giorgio Talco, Genova 1966. — 392 - muni24. Se, per seguire il Magnaghi, volessimo ammettere tale improbabile durata della vita di una nave, non potremmo comunque negare che in quel periodo esistevano di fatto navi omonime: vi erano nomi talmente diffusi che, come nota la Balbi, si dovevano completare con aggettivi distintivi, per esempio la Paradisus Magnus e la Paradisus Minor del 1251 25. E’ perciò impossibile dedurre dai soli nomi qualcosa di certo sull’ Allegranza e sulla Sant’Antonio di Tedisio Doria, e questo fatto invalida anche il secondo argomento del Magnaghi, se non sia già stato demolito dalla scelta di esempi dell’autore stesso. E’ vero che nei documenti conosciuti il nome Sant’Antonio appartiene a naves o Ugni più spesso che a galee, ma non esclusivamente — la Sant’Antonio di Benedetto Zaccaria, che si trovava nel 1278 in compagnia appunto di un’altra Allegranza sulla rotta della Fiandra e dell’Inghilterra, era infatti una galea e non come dice il Magnaghi, una /wms26. Tale mancanza di precisione capovolge anche il terzo punto, quello del fattore tempo, infatti l’ironica 24 G. Balbi cit., p. 85: « alle [galee] i Genovesi conferivano nomi assai strani e belli, con una predilezione particolare per il termine Alegrancia, attribuito a tre imbarcazioni ». 25 G. Balbi cit., p. 81. I documenti che recano i nomi di queste navi sono editi da E. H. Byrne, Genoese Shipping in thè Twelfth and Thirteenth Centuries, Cambridge, Mass., 1930, docc. XXIII, XXV. La Balbi scrive appunto, riferendosi all’epoca delimitata dal Magnaghi, « probabilmente i nomi attribuiti alle navi si erano ormai generalizzati e non erano più sufficienti per individuare le varie imbarcazioni: così i notai ricorrono spesso alla primitiva consuetudine di accompagnare il nome del proprietario o del luogo di costruzione al nome della nave, specie se questo è di carattere religioso ». Più spesso ancora, le navi vengono indicate, senza alcun nome proprio, soltanto come galea Thedixìi Aurie ecc. In circostanze simili è difficile trovare esempi di navi omonime immuni alia poco logica argomentazione del Magnaghi, ma nei seguenti due esempi, citati dalla Balbi (cit., p. 83) si può vedere chiaramente che si tratta di navi differenti con nomi identici: nel 1282, Benedetto Zaccaria riceve a nolo alcune parti della navis Santa Maria, dai proprietari Richus de Recho e suo figlio, il quale nome ricorre quattro anni più tardi come quello della navis nova posseduta da Jacopo Lomellini e Beltramino de Mari; la San Pietro, nel 1251 navis di Guglielmo Boccanegra, viene indicata dopo due anni come navis nova appartenente a Guglielmo Daniele. 26 II documento, che attribuisce a Benedetto Zaccaria non solo il possesso della galea Sant’Antonio ma anche di una Allegranza, è stato pubblicato da Renée Doehaerd, Les Relations Commerciales entre Gênes, la Belgique et l'Outremont, ... ecc., Rome-Bruxelles 1941, vol. III, doc. 1356, 12 maggio 1273. — 393 — 13 argomentazione del Magnaghi si basa questa volta su un errore di lettura. L’atto del 26 marzo non reca, come egli afferma, duas galeas ad pre-sens... transeuntes ad partes Romanie — il che certamente implicherebbe che le navi siano già per mare — ma galeis duabus ad presens... ituris..., formula notarile consueta per un viaggio da iniziarsi nella successiva stagione di navigazione27. Poiché il quarto punto è meramente retorico28, si 27 La lettura giusta è già stata pubblicata dal Revelli (cit. doc. VI, pp. 444-5), il quale però non nota come la sua lettura invalidi l’argomentazione del Magnaghi. Tale lettura è stata da noi verificata sull’originale. M Tedisio Doria aveva infatti altre navi in esercizio nell’anno 1291, come risulta dal notaio Conrado de Castello de Rapallo, cart. 132, c. 43 r., 14 maggio 1291: Carlinus filius quondam Guirardi de Arquata confiteor tibi Bertolino filio quondam Guiberti de Brosano de Clavaro me emisse et habuisse a te tot de tuis rebus per le quali egli promette di pagare 16 lire 8 soldi usque ad dies octo postquam aplicue-rimus in galea Thedisii de Auria apud, Alegueriam (Alghero). Notaio Guillelmus de Zoalio, cart. 131, c. 35 v., 18 luglio 1291:' Nos Thedisius Aurie et Andriolus Pilosus naulizamus vobis Sorleono Lecavelè~èTCuce Lombardi de Luca galeam nostram vocatam Sanctus Matheus, que est in partibus vel in itinere pervenendo Ianuam ad eundum et navigandum cum ea et levandum et portandum in ea ballas vestras infrascriptas de Ianua aput Neapolim pro naulo infrascripto, quam galeam paratam munitam et ad (sic) armatam ad planum et posticium vegeriis et armis et supersalientibus et omni alia sua sarcia et apparata sufficientibus et necessariis ad eam ad modum galearum de Romania promittimus et convenimus vobis habere in portu Ianue et inde discessisse de ipso portu cum dicta galea et ballis vestris pro eundo in dictum viagium usque medium mensem augusti proxime venturum et tibi dicto Sorleono levare et promittimus tibi honerare in dicta galea in portu Ianue ballas 50 et tibi Luce ballas 40 et ipsas ballas portare ad dictum locum et ibi vobis tradere et consignare pro naulo ad tacionem de solidis 20 ianuinorum pro qualibet balla, solvendo ut infra. Alioquin si condicio non est observata teneamur et vobis promittimus non accipere et vos non teneamini nobis dare pro naulo cuiusque balle ultra 10 solidos ianuinos, non obstantibus infrascriptis sub pena dupli et obligatione bonorum nostrorum, et nos predicti Sor-leonus et Luca pro predictis et ex dicta causa promittimus et convenimus vobis The-disio et Andriolo honerare seu inmittere seu honerari et inmitti facere in dicta galea ballas suprascriptas videlicet ego Sorleonus ballas 50 et ego Luca ballas 40 usque dies 6 mensis Augusti proxime venturi et vobis dare et solvere in Neapoli pro naulo cuiuscumque balle dictarum ballarum solidos 20 januinos infra diem secundum postquam dicta galea illuc applicuerit. Salvo ea quod dictum est supra de solidis 10, sub pena dupli quantitatis nauli non solute seu restitucionis dampnorum et expensarum et obligacione bonorum nostrorum. Ratis manentibus supradictis. Actum Ianue ante s tacionem Malocellorum. Testes Lanfranchus Galeta et Lapus de Deo. Anno dominice nativitatis 1291, die 18 julii circa terciam, indicione tercia. Not cit. c. 43 v., 24 luglio - 394 - vedrà come le obiezioni del Magnaghi rispetto all’Allegranza e alla Sant’Antonio sono del tutto infondate. Sulla questione di queste galee gettano una nuova luce due documenti recentemente scoperti nell’archivio notarile genovese e qui riprodotti per la prima volta. Sono due rogiti del notatio Lanfranco Cazano, datati 26 luglio e 1 agosto 1291 29, concernenti il nolo di due galee che Tedisio Doria tratta con un gruppo prima di quattro e poi di sei mercanti genovesi, per salpare ai primi d’agosto ad partes Syrie, restando pattuito il naulum piuttosto elevato di 950 e 750 lire genovesi rispettivamente. Di queste galee, una, ancora senza nome, si trova in cantiere — scaria de porta Vacarum — quindi o in costruzione o in riparazione30; l’altra è data 1291: Ego Tbedisius Aurie confiteor tibi Lapo Saxeti de Florentia quod ut meis precibus et mandato et ut tibi deberem promittere et attendere infrascripta honerasti et intravisti in quadam galea mea ballas 76 boldronorum valentes libras 500 ianuinas pro ipsis deferendis in dicta galea de lanua apud Ilicem ad omnem meum periculum risicum fortunam et eventum cuiuscumque gentis, promittens tibi dictas ballas boldronorum deferre seu deferi facere et inde exhonerari in terra in dicta galea de Janua apud Ilicem usque menses duos proxime venturos ad omnem meum risicum et fortunam periculum et eventum cuiuscumque gentis, aut tibi dare et solvere ad dictum terminum predictas libras 500 pro valimento dictorum boldronorum. Alioquin pena dupli dicte quantitatis cum dampnis et expensis quos et quas propterea feceris vel substineris tibi stipulanti promissa. Ratis manentibus supradictis pro qua pena et ad se observandum omnia bona mea habita et habenda tibi pignore obligo. Renuncians privilegium fori (?) et omni iure. Pro predicto aut Thedixio de predicto attendendis et observandis Idetus Maniavacha versus dictum Lapum intercesse et fideiusse et se solempniter obligavit et se iure constituit primum et principalem debitorem et observatorem sub ypotheka et obligacione bonorum suorum. Renuncians iure de postremis (?) et privilegium fori et omni iure. Actum Ianue ante stacionem Malocellorum. Testes Nicolaus de Fontanella et Francischus Turrellus. Anno dominice nativitatis 1291 die 24 j tilii post vesperas, indicione ter eia. [dicto millesimo (?)] die 9 augusti cassatum mandato et voluntate dicti Lapi confitentis... (illeggibile). Tuttavia la consistenza della flotta di Tedisio Doria non ha rilevanza sul- l’ipotesi che Y Allegranza e la Sant’Antonio possano essere state le imbarcazioni dei Vivaldi. 29 Nonostante che questi rogiti siano del notaio Lanfranco Cazano, si trovano nel cartolare 13 parte II, oggi attribuito a Giovanni Enrico de Porta, c. 71 r. e v., c. 76 r. e v. 30 II termine scaria o scarium non si trova nel Du Cange, Glossarium, il quale reca però scar, scarum, rinvenuti in documenti marsigliesi col significato di agger ad ripam. Dagli esempi genovesi si deduce che la voce in questione — abbastanza rara — 395 — semplicemente come Alegrancia. Siccome, secondo Jacopo Doria, i Vivaldi partirono in maggio, la più immediata conclusione sarebbe che essi non poterono dunque navigare su questa galea, e che i dubbi del Magnaghi siano di fatto giustificati. Tuttavia, i due documenti di cui stiamo trattando sono così atipici nella forma e nel contenuto da meritare un esame più approfondito prima di accantonarli. Tanto per cominciare, entrambi gli atti sono versioni dello stesso contratto, il quale dovette essere riveduto a causa delle variazioni avvenute nel numero dei noleggiatori e neH’ammontare degli investimenti. Ai quattro del primo, Manuele de Marino, Giorgio Doria, Leonardo Fala-monica e Nicolò de Mari fu Jacopo, rappresentanti di alcune delle più ricche ed economicamente attive famiglie di Genova, si aggiunsero una settimana dopo Ansaldo Calvo e Luchino Malocello, i cui apporti fecero salire il totale depositato in cambio alla somma del tutto rispettabile di 14.500 lire. Di questo, 4.500 vennero fornite dal solo Manuele de Marino, il quale quasi raddoppiò il suo iniziale impegno di 2.500 lire, mentre Leonardo Falamonica aveva nel frattempo evidentemente ripensato alla faccenda e aveva diminuito la sua parte da 2.500 a 2.000 lire. E’ tuttavia da notare come alquanto singolare che tali variazioni nel numero dei noleggiatori e nell ammontare degli impegni non abbiano provocato nessun aumento della cifra stabilita del naulum\ ciò fa dubitare che il contratto sia un semplice nolo. Infatti, sebbene tali nomi e sì alto ammontare implichino un affare molto importante, ne resta incerto invece lo scopo preciso, ed è proprio questa mancanza di chiarezza che fa riflettere. Di norma, nei contratti di nolo vengono precisamente indicati tutti i particolari: la rotta, il numero e la durata degli scali, le condizioni di si riferisce con tutta probabilità ai cantieri, e precisamente allo scalo. A.S.G., notaio Bartolomeo de Pareto, cart. 116, c. 155 r., 10 febbraio 1329, Gandino e Bartolomeo de Mari nominano un procuratore al fine di ricevere denaro ad essi dovuto occasione navis seu coche nostre... que constucta fuit in scarto de bestio; notaio Francesco Mo-rasso cart. 118, c. 90 r., 21 gennaio 1301: Timonus de Monterubeo magister axie promette di costruire per Simone de Cassina da Recco una barca, quam barcham factam et completam promitto tibi consegnare... in scario. Francesco Podestà, nell’opera Escursioni Archeologiche in vai Bisogno, Genova 1878, p. 34, scrive dello « scalo della Foce, o scarium Bisamnis, sul quale nel 1410 troviamo in costruzione una nave di Liobello Lecavello, della portata di 9000 cantara ». - 396 - carico e scarico, i termini di pagamento del naulum, senza lasciare alcun appiglio a successive contestazioni31. In questo caso, di contro, abbiamo solo la data della partenza e la vaga indicazione ad, partes Syrie 32. Inoltre mentre in un contratto tipico l’ammontare del carico è descritto in numero di balle di mercanzie ecc., qui c’è invece un investimento di denaro in cambio, una forma del tutto insolita. Dal vero cambium questo rogito è dissimile quanto lo è dal naulum: infatti mancano i soliti particolareggiati termini del rimborso33, e anche se lo volessimo considerare un prestito per l’armamento delle navi, resta sempre assai singolare: tali casi infatti assumono generalmente la forma di mutua o di accommenda- 31 Esempio di un naulum tipico: A.S.G., notaio dongiovanni de Langasco, cart. 119, c. 116 r., 5 marzo 1310: Ego Conradus de Guisulfo dominus et patronus cuiusdam navis mee vocate Sancto lohanne Batiste que nunc est in portu ]anue la noleggia a Jacopo de Marino e Claritino de Claritea rappresentanti di Andriolo de Marino e Tedisio de Claritea, pro eundo de ]anua Manfredoniam et deinde Famagostam de insula Cipri et deinde in Layaciam... paratam per totum mensem marcii... cum ma-rinariis 60. La nave dovrà fermarsi un mese a Manfredonia per caricare buces olei consuetas 800 et ultra dictam quantitatem tam oleum quam granum quam quascumque alias merces vobis placuerint... ad complementum dicte navis. Corrado o suo figlio Rainerio verranno avvisati entro quattro giorni dal loro arrivo in porto nel caso in cui il carico da prendere a bordo sia superiore alle 800 buces olei convenute. Quindi la nave proseguirà per Famagosta, dove scaricherà la parte del carico indicata dai noleggiatori, il resto dovendo essere trasportato fino a Lajazzo, per un nolo di IO'2 bissancios albos per bucis, ed alla stessa tariffa per le altre mercanzie. Si può vedere quanto grande sia la differenza fra questo e il contratto di cui stiamo trattando. 32 Nel contratto del 26 luglio (vedi doc. I) si legge chiaramente la frase cancellata ad partes Romanie. Per i notai genovesi, il termine Syria comprendeva tutte le coste orientali del Mediterraneo, dalla Piccola Armenia ad Alessandria d’Egitto, compresa l’isola di Cipro. Romania invece abbracciava la Grecia, le isole dell’Egeo, Turchia, l’impero bizantino vero e proprio, ed inoltre tutti i paesi intorno al Mar Nero. Dunque la destinazione del viaggio non venne indicata con tanta precisione. 33 E’ estremamente raro, se non unico, trovare mescolate in un contratto le forme sia del nolo sia del cambio. Esempio tipico di cambio: A.S.G., notaio Parentino de Quinto, reg. 8, c. 127 v., 6 giugno 1313: Ego Iohannes filius quondam Pagani de Pon-torno draperius confiteor tibi Gregorio Scalete filio Lucbeti Scalete me a te habuisse et recepisse tot denarios ianuinos cambiabili in Peyra de Romania con yperpreros 108 charatos 8 bonos et expendibiles ad sagium de Peyra... infra dies 15 postquam illuc aplicuerit galea domìni Bonifacii Malocellì, o nel caso in cui non venissero pagati entro questo termine, il pagamento sarebbe da effettuarsi in Genova in dodici giorni dalla presentazione dello strumento medesimo. — 397 - ciones, con una durata ben definita, essendo espressamente stabilito che essi sono sussidi per l’allestimento della nave e le paghe dell’equipaggio34. Da qualsiasi punto di vista lo si esamini, nolo, cambio o mutuo, il documento che ci è dinnanzi resta dunque fuori del comune æ; ed io non credo che sia già stato osservato come simile peculiarità caratterizzi anche il rogito anteriore riguardante l’Allegranza. Qui, sebbene l’investimento di Daniele Tartaro sia espresso più ortodossamente come contributo all’armamento delle galee, non risulta il termine del rimborso, e la sola condizione stabilita è che entro sei mesi dalla partenza egli debba specificare a Tedisio Doria in quale delle due navi l’investimento si consideri impegnato36. Esaurienti ricerche nei notai genovesi non hanno prodotto nulla che si possa affiancare a questi due contratti, e la loro singolarità porta alla conclusione seguente. In primo luogo, è assai poco probabile che questi due atti, entrambi 34 A.S.G., notaio Bartolomeo de Pareto, reg. 115, c. 165 r., 30 marzo 1312: Ma nuele Tartaro riceve da Francesco Lomellini, che agisce per se stesso e come procuratore di Giorgio Spinola, Ansaldo Maniavacca, Francesco Oltremarino e Bonifacio Lomellini un'accommendacio di 3900 lire implicatas in galea vocata Sancta Maria que nunc est in portu Ianue in qua navigare debeo personaliter ad pud (sic) Frandala, prò... corredo, apparata et conductu marinariorum ipsius galee. Not. cit., c. 191 v., 3 aprile 1312: Nos Guido Spinulla, Pagitanus de Mari et Valentunus de Rappallo confitemur tibi Guizardo de Manarolia filio quondam Delomedi qui habitas in Sancto Thoma in corpore cuiusdam ligni nostri de bandis vocati Sanctus Nicolaus qui nunc est in portu Ianue navigaturi adpud Tunexim in sarda corredo conductu marinariorum et apparatu ipsius habes libras 201 solidis 5 et in emptionem dicti ligni et sarda posuisti libras 201 solidos 5, restituibili al ritorno della nave dal presente viaggio. 35 Con tutta probabilità esso è da considerarsi come una specie di societas, comprendente elementi dei tre tipi di contratto: Tedisio Doria investe le sue galee, per le quali, qualunque sia l’esito, riceve un nolo garantito, ed i mercanti investono danaro per l’allestimento e probabilmente per il carico delle navi. Da questo anticipo dovrebbero ricavare frutto adeguato al risultato del viaggio, rischiando però la perdita totale. 36 A.S.G., notaio Angelino da Sestri, cart. 64, c. 168 r: Ita tamen quod me certificare et non respondere seu notum facere debeas infra menses 6 postquam dicte galee discesserunt de portu Ianue pro eundo ad dictas partes in qua videlicet ex dictis galds malueris te velle debere habere dictas libras 750 et quas libras 750 habui el recepi a te pro ipsis ponendis et exponendis in dictis galeis-, P. Revelli cit., doc. VII, p. 444-5. - 398 - straordinari, entrambi riguardanti la stessa galea37, si riferiscano a tentativi diversi solo perchè distanziati da pochi mesi. Dato che l’atipicità dei contratti implica un’impresa anche essa atipica, per la quale le consuete forme notarili non bastavano, risulta di conseguenza che anche il periodo di tempo necessario alla maturazione del progetto ed alla ricerca e certezza dei finanziamenti sia congruo, cioè più lungo del consueto. Le variazioni verificatesi entro la sola settimana 26 luglio - 1 agosto nel numero dei noleggiatori e nell’ammontare dell’investimento rivelano la presenza di dubbi, o di rischi finanziari maggiori del solito, i quali avrebbero costretto l’armatore Tedisio Doria a cercare per tempo un sostegno adeguato per la spedizione progettata, e si può ritenere del tutto verosimile che l’investimento di Daniele Tartaro in data del 26 marzo faccia parte di tale finanziamento. In questo rogito la durata del viaggio da compiere è prevista superiore a sei mesi, e dato che al 26 luglio, giorno in cui V Alle gran za si trova sicuramente in portu lanue, ne sono passati solo quattro, è giustificato sostenere che la partenza che nel primo contratto veniva indicata soltanto come futura non sia ancora avvenuta. Una volta accettata la relazione esposta più sopra, ci troviamo dinanzi ad una spedizione commerciale lunga, difficile da realizzare, fuori del comune, ma allo stesso tempo tale che in caso di successo avrebbe senza dubbio conseguito importanti risultati finanziari — non avrebbe altrimenti attratto l’effettivo appoggio di un tale grappolo di ricchi mercanti della cttà, i quali si impegnavano senza garanzia e senza termine prefissato per il rimborso dei loro investimenti. Ed era, per di più, una impresa organizzata da Tedisio Doria. Per l’anno 1291 noi conosciamo un solo viaggio per il quale vengano a collimare tutte le caratteristiche suddette — un viaggio organizzato proprio da Tedisio Doria, il quale 37 Cioè V Allegranza. Per quanto riguarda l’altra, non è nominata nei contratti qui pubblicati, e, sebbene secondo il documento del 26 marzo essa dovesse essere la Sant’Antonio, il fatto che i contratti posteriori non solo non la nominano così, ma parlino di una galea in cantiere, quindi probabilmente appena costruita, implica che non sia la stessa. Ammesso che la nostra ipotesi esposta in conclusione di questo articolo sia sostenibile, ulteriore dubbio che la seconda galea del viaggio in questione sia la Sant’Antonio sorge dal fatto che questo nome appartiene ad una galea di Tedisio Doria in un rogito del 17 luglio 1297, sei anni dopo, in cui Odoardo Lercaro riceve un’accom mendacio da Peyre Lercaro di 50 lire implicatas in quadam galea vocata Sanctus Anthonius quam habeo comuniter cum Thedisio Aurie: A.S.G., notaio Giovanni de Finamore, cart. 122, c. 153 r. — 399 — certamente non avrebbe rischiato la sua fortuna due volte nello stesso anno in avventure di incerta durata; un viaggio tale da far riflettere gli armatori, il cui arrischiato finanziamento avrebbe dovuto essere certamente raccolto con molto anticipo: il viaggio cioè dei fratelli Vivaldi. Non è dunque possibile — perfino Omero talvolta sonnecchia ed i cronisti, è dimostrato, possono errare — che Jacopo Doria nel guardare indietro abbia confuso il mese della loro partenza, e che quello che noi abbiamo, nonostante la data, sia un elenco dei nomi di quegli altri cives Ianue che contribuirono ad armare la famosa e sfortunata spedizione? 38. Gilliam Moore Il fatto che le galee sono noleggiate per navigare ad partes Syrie e che il documento del 26 marzo si riferisce ad un viaggio ad partes Romanie non implica necessariamente una contraddizione, non ci dà un’idea precisa sulla loro destinazione, n atti le formule potevano anche essere confuse o usate con approssimazione, come si vede da A.S.G., notaio Simone de Albario, cart. 120, parte II, c. 163 r., 23 maggio 1291 dove Manfredo Grillo riceve da Giovanni Tavano un'accomendacio di 77 lire 8 so di per commerciare in Romania, e quo Deus me melius administraverit, e poi un altra di 104 lire 17 soldi 4 denarii da Tommaso de Murta per commerciare in Syria e quo Deus me melius administraverit, nello stesso viaggio. I Vivaldi e i loro armatori avrebbero anche potuto pensare che, circumnavigando l’Africa, si arrivava per esempio alle coste del Golfo Persico ed altri paesi, i quali certamente, anche se raggiunti per nuove rotte, potevano essere indicati come Syria o Romania nel senso più ampio che questi termini avevano, vedi nota 32). La carta geografica pubblicata da Manno Sanudo il Vecchio nel suo libro Secreta Fidelium Crucis Super Terrae Sanctae Recuperatione et Conservatione (edito dal Bongars, Gesta Dei per Francos, vol. II, carta III, Hanover 1611) e basata sull’opera cartografica verso il 1318, del Genovese Pietro Vesconte, adopera il termine Syria per indicare non solo la zona costiera tra la Piccola Armenia e l’Egitto, ma anche il retroterra fino al fiume Tigri, zona designata Mesopotamia Syrie. Il nome quindi comprendeva paesi raggiungibili ai circumnavigatori dell’Afnca, e per di più conosciuti dai Genovesi certamente dal 1290, anno in cui dei marinai genovesi accettarono il servizio del Khan Arghun a Baghdad, col compito di navigare sul Tigri e di costruire navi nel Golfo Persico (Bar Hebraeus, Chronicon Syriacum, ed. Bruns e Kirsch, Lipsia 1789, vol. I p. 620; Johannis Vito-durani Chronicon in « Archiv fur schweizerische Geschichte », vol. XI, p. 52, Zurigo 1856). Guillaume Adamo aggiunge che, arrivati a Basra, i Genovesi si divisero tra Guelfi e Ghibellini e si ammazzarono (Adam, De modo Sarracenos extirpandi, Recueil des Historiens des Croisades-, Documents Arméniens, vol. II, p. 551). — 400 — DOCUMENTI I 1291, luglio 26 A.S.G., sezione notarile, notaio Giovanni Enrico de Porta, cartolare 13, parte II, c. 71 r. e v. Ego Thedisius Aurie covenio et promitto vobis Manueli de Marino... 3 Taliter inter se et sibi invicem concesserunt Thedisius Aurie ex una parte et Manuele de Marino et Georgius Aurie et Leonardus Falamonica et Nicolaus de Mari quondam Jacobi consocii ex altera videlicet quia dictus Thedisius promisit et convenit et rogavit (?) predictis duas galeas, unam que est nunc scaria de porta Vacarum, et aliam que dicitur Alegran-cia, pro eundo ad partes Syrieb, armatas et furnitas illam quam elegerint ipsi mercatores et armatas de omnibus baristariis ad ipsas galeas usque ad dies vili mensis augusti proxime et iverit (?) cum ipsam (sic) quo elegerint ad voluntatem ipsorum mercatorum, precio librarum dccccl galee suprascriptis (?) galeis0. Et Thedisius promisit predictas. Qui mercatores promiserunt prestare dicto Thedisio in ipsas galeas in cambio quantitates infrascriptas, videlicet dictus Manuele libras 2500, Georgius libras 2000, Leonardus libras 2500, Nicolaus de Mari libras 2500d. Predicta omnia et singula promiserunt inter se et sibi invicem dicti mercatores attendere et observare sub pena librarum 500 ianuensium, stipulata et promissa et bonorum suorum obligacione, ratis etc. Testibus Rubeo de Oliva et Lanfranco de Mari, die 26 iulii, inter vesperas et complenam. Non testata Thedisius d. vi. d. xi mercatores. a Frase cancellata e ricominciata. b Romanie: cancellata. c Dopo la parola galee con la quale il notaio termina la riga, al di sotto di suprascriptis si trovano inserite le parole minus Alegrancie. d Libras 5000: cancellata. II 1291, agosto 1 A.S.G., sezione notarile, not. cit. c. 76 r. e v. Nos Manuele de...a Nos Thedisius Aurie naulizo vobis Manueli de Marinis, Ansaldo Calve (sic) Nicolai de Mari quondam Iacobi, Leonardo Falamonica et Georgio Aurie b et Luchino Ma- — 401 — locello galeas duas meas que sunt in porto Ianue, una quarum est scaria de porta Vacarum, quas galeas promitto vobis habere munitas de sarcia corredo et apparata ad satenciam (?)c, et bene armatas de vigeriis et marinariis ad satenciam (?)c, ad voluntatem vestram usque dies x proxime, quas galeas promitto habere paratas ad dictum terminum pro navigando ad partes Syrie ad voluntatem dictorum mercatorum, precio librarum dccccl et Alegrancie librarum dccl, quod naulum Alegrancie promisit re-ciperisse ( ? ) precio librarum dl. In quibus galeis promiserunt predicti d et habere in cambio etiam e quantitates infrascriptas, videlicet Nicolaus de Mari libras 2500, Manuel da Marino libras 4500f, Ansaldus Calvus libras 2500, Georgius Aurie libras 2000, Leonardus Falamonica libras 2000, Luchinus Malocellus libras 2000 et promisit (?) dictus Thedisius sequi (?). Predicta omnia et singula promiserunt attendere sub pena librarum 500 ianuensium pro quolibet nostrum. Ratis. Testes Tomasellus Ususmaris, Guirardus de Mabilia, Leonardus de Molinezo, [die] prima augusti in ecclesia Sancte Marie in Vineis inter nonas et vesperas. a Frase depennata. b Et Lanfrancus de Mari: cancellata. c Lettura molto incerta. d mercatores prestari: depennata. e mercibus: cancellato. f La cifra è depennata tre volte: libras 7000, la seconda illeggibile, la terza libras 3000. — 402 — Gli elenchi originali DEI PRIGIONIERI DELLA BATTAGLIA DI PONZA. La celebratissima battaglia di Ponza combattutasi dal 4 al 5 agosto 1435 tra le flotte siculo-aragonese e quella genovese, ritenuta per le sue caratteristiche una delle più singolari vittorie navali della storia, benché universalmente nota nel suo episodio e nei suoi effetti mediati ed immediati, attraverso una costante critica storica *, tuttavia di essa è rimasto fìn’ora vago e pressoché sconosciuto uno dei suoi aspetti più interessanti: la consistenza precisa, i nomi del gran numero dei prigionieri quasi tutti illustri e soprattutto i prezzi fissati dai Genovesi per il loro riscatto individuale 2. I L’argomento non ha mai mancato di interessare gli studiosi anche per le sue conseguenze politiche, talora con l'apporto di notizie inedite e contributi originali, in modo da poter interpretare con sempre maggior aderenza il quadro storico nel quale si inserisce e le conseguenze connesse al fatto in se stesso. II Sismondi chiama questa vittoria genovese « la plus importante, la plus glorieuse, qui de tout le siècle eût remportée sur la Mediterranée » (Hist. des Républiques italiennes du moyen âge, Zurigo e Parigi, 1807-18). E desta ancor maggiore interesse se si considera il modo assai « semplice » ed economico, nel quale fu condotta dai Genovesi la battaglia, quando già si conoscevano e si impiegavano le artiglierie. Le fonti dell’epoca infatti ci informano che essi impiegarono sapone, olio, piccole pignatte incendiarie, calce viva e cenere, le quali cose venivano buttate dall alto delle gabbie sulle navi nemiche situate contro vento, in modo che dalla parte avversaria l’uno non vedeva l’altro e non distingueva i nemici dai propri (Rer. Ital. Script., XXI, 1101). Rimandiamo per quanto riguarda i fatti ai più recenti ed informati lavori ed alla bibliografia in essi riportata: T. De Marinis, La liberazione di Alfonso d’Aragona, prigioniero dei Genovesi, in « Arch. Stor. della Prov. Napol. », LXXIII, Napoli, 1955; G. Balbi, Uomini d’arme e di cultura nel Quattrocento genovese. Biagio Assereto, in «Atti Soc. Ligure di Storia Patria», N.S. II (LXXXVI), fase. II, Genova 1962 (ma 1963); nonché l’ottima sintesi degli eventi in T. O. De Negri, Storia di Genova, Milano 1968, p. 553 e sgg. 2 Così pure il ricchissimo bottino catturato agli Aragonesi, elementi caratteristici mai approfonditi e pur sempre ricordati con varia evidenza dagli scrittori dell argomento, ma piuttosto quali aspetti clamorosi solitamente in funzione e ad esaltazione della figura dell’Assereto, sotto il cui nome si ha una relazione della battaglia, parimenti — 403 — I prigionieri ed il bottino figurano scrupolosamente registrati ed annotati nelle loro vicende se pur saltuariamente dal 2 settembre 1435 al 10 gennaio 1437 in un registro conservato presso l’Archivio di Stato di Genova ed appartenente alla serie « Galearum Introitus et exitus » del- 1 anno 1435, della cui scoperta abbiamo già avuto occasione di dare notizia 3. Per la parte riguardante i prigionieri catturati agli Aragonesi, dei quali esclusivamente trattiamo in questa sede, il predetto registro contiene sei elenchi principali redatti in varie epoche successive a partire dal 2 settembre 1435 fino al 16 giugno 1436 4. Di questi, sebbene i più importanti siano quelli datati al 2 settembre 1435, perchè contenenti tutti i nomi dei prigionieri e quelli del 23 settembre 1435, ove sono indicati i prezzi fissati per il riscatto di ciascun individuo, tuttavia meritano attenzione anche gli altri elenchi ed annotazioni parziali che permettono di seguire cronologicamente la sorte di molti personaggi5. diventata famosa e discussa dagli studiosi nelle varie redazioni in cui è pervenuta fino a noi. Riguardo a tale relazione, siamo lieti che in questa occasione ci sia stato possibile verificare quale fra le principali, sia risultata più esatta e rispondente alla reale entità delle forze impiegate nel conflitto e dei prigionieri catturati, così venendo incontro ad un voto già espresso dal Vitale (si cfr. V. Vitale, La relazione di Biagio Assereto sulla battaglia di Ponza, in « Boll, ligust. », V-4, 1953, pp. 99-104; G. Balbi cit., cap. II, infra, per la bibliografia). 3 A.S.G., Antico Comune, « Galearum Introitus et Exitus », Reg. n. 753, anno 1435. Per ogni riferimento d’ordine paleografico-diplomatistico del registro e del fondo cui fa parte, come pure di altre indicazioni generali e particolari sull’argomento trattatto, rimandiamo alla nostra comunicazione tenuta il 16 ottobre 1969 al I Congresso storico Liguria-Catalogna: A. Agosto, Nuovi reperti archivistici sulla battaglia di Ponza (1435), in Mostra documentaria Liguria-Catalogna, XII-XV Sec.... ecc., Archivio di Stato, Genova, 1969 (ma 1971), pp. 65-77. L. T. Belgrano, Vita privata dei Genovesi, Genova, 1875, II ed., p. 99, nota 3, parlando di « Orerie e gemme », fu 1 unico che citò il presente registro fino ad ora rimasto compieta-mente inedito, attribuendolo erroneamente al fondo del Banco di S. Giorgio e limitandosi peraltro all indicazione « a titolo di curiosità » di alcuni pezzi più pregevoli dell elenco di gioielli catturati dai Genovesi ad Alfonso d’Aragona. 4 Tali elenchi si trovano alle carte IIII-VI v. (23-9-1435); c.c. XXVI v. -XXV e c.c. XXV v. - XXVII (16-6-1436); c.c. LXI-LXII (28-4-1436); c.c. LXII1 (26-4-1436); c.c. LXXXX - LXXXXIIII v. (2-9-1935). Come si vede, l’ordine cronologico delle registrazioni non corrisponde alla progressione delle carte, procedendo spesso a ritroso. 5 Le altre carte che trattano dei prigionieri, sono le seguenti: c. VIIi>.; c.c. XXVII - XXVIII v.; c. LXIIII r. e v.- cc. LXXXXV - LXXXXVI. — 404 — Gli schiavi, non figuranti sugli elenchi, si ritrovano registrati al momento della loro vendita in pubbliche calleghe autorizzate dagli ufficiali dell 'Officium Hotinorum, l’organo che era stato creato con funzioni temporanee per quell’occasione6. Il primo elenco, datato al 2 settembre 1435 e dall’intitolazione misuratamente orgogliosa7, indica che i prigionieri furono rinchiusi nelle carceri della Malapaga sotto il controllo di quattro ufficiali deputati alla custodia di quella prigione8. I nomi dei catturati sono ivi registrati in gruppi, senza alcun particolare ordine o distinzione di ceto e nazionalità, solamente suddivisi per ogni nave che li aveva condotti a Genova9. 6 I pochi schiavi, una quarantina in tutto, che risultano nel registro, sono per la maggior parte « mauri », dei quali i maschi sono valutati nelle vendite a prezzi da 12 e 16 lire, fino a 93 lire, oscillando però la maggior parte fra le 70-80 lire; le femmine invece, appena una decina, sono valutate da 130 a 141 lire (si vedano le carte III r. e v., VII, XIII, XIIII r. e v., XXIII, XXXII v., LIIII, LXX). Per i prezzi, che sembrano rientrare nella norma di quell epoca, si cfr. 1 esauriente lavoro di D. Gioffrè, Il Mercato degli schiavi a Genova nel sec. XV, Genova 1971, specialmente alle pp. 131-133 e 136-137, ove gli schiavi sono valutati minuziosamente per sesso, età e razza. 7 Ripetiamo, come già altra volta a tal proposito, che 1 ortografia dei nomi in questo e negli altri elenchi, è essenzialmente fonetica, per cui non è infrequente riscontrare talora qualche diversità di lezione al ripetersi di stessi nominativi (cfr. A. Agosto cit., nota 11). Abbiamo ragione di ritenere peraltro, che i nominativi di queste elencazioni; siano molto meno scorrette di altre descrizioni riportate da qualche autore. 8 Queste carceri erano riservate normalmente ai debitori condannati per insolvenza; (per le caratteristiche di tale singolare prigione, si veda in E. Pandiani, La vita della Rep.ca di Genova nell’età di C. Colombo, Genova, 1952, p. 29 e sgg., nonché L. Balestreri, Le prigioni della Malapaga, in « La Casana », Genova, marzo-giugno 1960). 9 Le navi che sbarcarono i prigionieri sono le seguenti: La nave di Cipriano de Mari; la nave di Galeotto Lomellino; la «Calva» di Giacomo Calvi; la nave di Andreolo Doria; la « Cialia », che è una nave catturata agli Spagnoli; la nave di Geronimo Falamonica; la « Justiniana » di Giacomo Giustiniano; la nave di Giacomo Raibaldi; la nave di Carlo Italiano; la nave di Eliano Spinola; la « Per-nixia » di Giovanni Pernice; la galea di Ottobono Imperiale. Seguono tali elencazioni, così distinte per nave, spesso ulteriori e posteriori annotazioni, riguardanti prigionieri consegnati in date successive. — 405 — Si ha un totale di 230 individui dei quali almeno 169 risultano di nazionalità spagnola 10, 57 italiani n; 3 portoghesi ed 1 provenzale di Per-pignano. In grandissima parte sono personaggi illustri, nobili, militi e titolati, ma anche molti « famuli », « frati » di ordini religiosi e militari, barbieri e medici, mercanti, patroni di navi, « pueri », scribi e notai, nonché alcuni altri esercitanti mestieri connessi con l’esercizio della nave, come « calafato », « marinaio », « maestro d’ascia », « tubefa », ossia una sorta di trombettiere reale 12. I nomi dei prigionieri figurano preceduti dalle lettere M, G, C, L, che come abbiamo potuto constatare sono iniziali indicanti la loro successiva destinazione: M il carcere della « Malapaga », G quello della « Grimal- 10 Di tale numero, 71 appaiono indicati solamente con la qualifica generica « de Ispania » o « ispaniolus », mentre per tutti gli altri è specificata la città o la regione di provenienza. In ordine di maggioranza 21 di Barcellona e 10 indicati semplicemente « Catalanus »; 17 di Valencia; 8 di Saragozza; 4 di Siviglia e di Maiorca; 3 di Castiglia, di Cordova, di Navarra e di Salamanca, 2 di Burgos, di « Castro in Ispania » di Guascogna, di Tarragona, di Valladolid; 1 di Murcia. Si aggiungano alcuni « pueri ». 11 Indicati come « de Neapoli » o « neapolitanus » 21, più uno di Gaeta e uno di Capua; un totale di 19 Siciliani, dei quali 5 di Messina, 2 di « Girgenti » c « Agrigenti », 1 di Palermo; 4 Sardi dei quali uno di Alghero, di Orestano e di Cagliari; uno di Malta, di Todi, di Montealbano, ecc. 12 I nobili accertati sono più di 85, dei quali 55 sono qualificati « milex ». I servitori al seguito dei propri padroni sono 23. I barbieri e medici sono in tutto 8. I « patroni » 5. Coloro che sono qualificati con « frater » sono una decina. I personaggi indicati con « milex » corrispondono ai « cavaglieri aureati » o « di sprone d’oro » che PAssereto reputa imbarcati sulla flotta spagnola in numero di 120; infatti erano così chiamati i gentiluomini ordinati « cavalieri », perchè avevano il diritto di portare speroni dorati. Lo stesso Assereto in un documento ufficiale genovese coevo che riassume gli eventi e consacra la vittoria di Ponza, è chiamato ... nunc aureata militia donatus... cioè era stato in allora creato cavaliere dal Governatore e dal Consiglio degli Anziani di Genova, in riconoscimento della sua impresa (G. Balbi cit., p. 138). A.S.G. Antico Comum, Diversorum Registri, n. 21/516, doc. 553, cc. 208-209 v., 1435, dicembre 5. Era già stato investito col feudo nobile di Serravalle, da Filippo Maria Visconti in premio della sua impresa e fedeltà il 27-9-1435 (G. Balbi cit., p. 137); nel registro in oggetto, a c. LXXVII v., in calce ad elenco di oggetti sacri, in data 10-9-1435 (A. Agosto cit., nota 34). — 406 — dina », C il « Castelletto » ed L lo stato di libera circolazione per la città, pur sotto controllo13. In queste liste non sono compresi naturalmente « i prigionieri di sangue reale » che su ordine del Duca di Milano, l’Assereto sbarcò non a Genova assieme a tutti gli altri, ma successivamente a Savona, da dove poi furono inviati direttamente nella capitale lombardaM, eccetto Giovanni d’Aragona fratello d’Alfonso, che fu rinchiuso nel Castelletto 15. Ma oltre ai due Re ed all’infante Enrico, maestro di S. Giacomo, altro fratello, mancano i nominativi dei maggiori personaggi catturati e citati dalla famosa lettera che l’Assereto inviò alla Signoria di Genova subito dopo l’esito della battaglia e ricordati pure da tutti gli storici16. 13 II carcere detto « la Grimaldina » era riservato solitamente ai detenuti politici e si trovava ubicato nella parte dell’antico palazzo del Comune, a ponente della « Torre del Popolo », prospettante sull’attuale via Tomaso Reggio (cfr. O. Grosso e G. Pessagno, Il Palazzo del Comune di Genovo, Genova 1933; A. Agosto cit., p. 71; F. Sborgi, Il Palazzo Ducale di Genova, Genova 1970). Il Castelletto, la poderosa fortezza incombente sulla città, più volte demolito e ricostruito, verrà smantellato anche per le vicende conseguenti alla battaglia di Ponza, e culminate con la liberazione dal giogo visconteo (O. Grosso e G. Pessagno, Il Castelletto di Genova, in « Gazzetta di Genova », 1914, n. 2, pp. 7-9). 14 Come narra più precisamente il Serra, «... Il vittorioso ammiraglio sentito il messaggio, distribuisce le sue navi in due schiere, la capitana sulla coda, e fa cammino a ponente... » (G. Serra, Storia dell’antica Liguria e di Genova, Torino 1834, tomo 3°, p. 161). 15 E’ riportato solitamente dagli storici che costui fu sbarcato a Genova e rinchiuso nel Castelletto, prima di raggiungere Milano. Il De Marinis (cit., p. 11) ha trascritto un parziale elenco dei prigionieri, di fonte spagnuola (Bibl. Naz. di Madrid, Codice Misceli, del sec. XV, n. 7811, da c. 396 a c. 398 v.) nel quale risulta che Giovanni di Navarra giunse a Genova il 27 agosto e fu messo nel Castelletto assieme ad altri quattro personaggi. « A xxij de agost fonch junt lo rey de Navarra en Genova e mes en lo castellet ab los infra seguents: Menichio de Aguila, Ruiz Diez de Mendcça, Los fìlls del compte de Castro... ». Nessuno di costoro trova riscontro nei prigionieri che risultano dal registro rinchiusi in un primo tempo nel Castelletto. 16 G. Balbi cit., p. 125, nota 106; pp. 126-130; A. Agosto cit., p. 69 e nota 8. I prigionieri illustri citati dalla lettera dell’Assereto nelle sue versioni, ma più completi del doc. cit. dell’A.S.G., Diversorum registri, n. 21/516, doc. 533, sono «...Rex ipse cum Johanne germano suo Navarie Rege. Captus item Enricus^ germanus etiam regius, magister militie Sancti Jacobi, captus Johannes Antonius Ursinus Dux Suesse, Johannes Antonius Ursinus princeps Tarentinus, Josias patruus ducis Adrie, Gaspar — 407 - Un prigioniero di sangue reale invece, « d. Jame de Aragò o Ara-gono », che sappiamo essere figlio di don Alfonso d’Aragona, duca di Gandìa, risulta ricoverato all’ospedale dello Scalo, perchè infermus 17. Forse anche qualche altro individuo di sangue reale, o parente dei re è presente nell elenco, come ad es. certo Alonsus de Larcono milex, filius q. Martini Regis, ma è difficile individuarliI8. Sono molti i nomi degli spagnoli che posteriormente a questo evento, si stabiliranno nel regno di Napoli e di Sicilia 19. Ritornando per un momento alla consistenza numerica dei prigio- natus comitis Fundorum, Nicola Specialis Vicerex Trinacrie, Didacus comes Castri in Hispania, dominus Johannes magister Cantere, in Hispania... ». Manca in queste elenco solamente Menegucio dell’Aquila, che invece è citato nella relazione del- 1 Assereto. Solo alcuni di questi personaggi, compaiono negli elenchi del registro in esame. Secondo la lista parziale dei prigionieri riportata dal De Marinis (loc. cit.), con il re Alfonso il 29 di agosto giunsero a Savona « Lo infant don Anrich; Due de Cessa; Los enyegnos dos; Lo Princep de Taranto; Mosser Blanes. »; e di là mandati nel castello di Novi e quindi « a Pavia o a Mila », ai 6 di settembre. Non solamente pertanto i personaggi « di sangue reale », come continuano a ripetere gli storici, ma altresì i più importanti al seguito dell’Aragonese, raggiunsero subito Milano. 17 c. LXXXX v. Si veda un altro parziale elenco dei prigionieri riportato da F. Federici, nelle sue Collectanee, (A.S.G., Sez. Manoscritti, ms. 47, parte II, c. 61 v. e 62), tratto dallo Zurita e dove è indicato: « D. Jaime di D. Alonso d Aragon, Duca di Candia ». Costui infatti risulterebbe figlio di Alfonso duca di Gandìa, connestabile di Castiglia, e che fu pretendente alla corona d’Aragona nel 1410, definito dal Las Cases « Le plus proche mâle de la souche royale. Il était petit fils de roi... Exclu, parce qu’une branche cadette ne devait arriver qu’après de 1 ainée ». A. Lesage (Comte de Las Cases), Atlas Historique, Généalogique, Chronologique et Géographique, Bruxelles 1836, tav. XVII, infra. Questo Don Jaime, che risulta registrato nella lista dei prigionieri catturati dalla nave di Giacomo Lomellini, doveva trovarsi assieme a Giovanni re di Navarra, che si diede al «Capitan Lomellino», come dice il Serra (cit., t. 3°, p. 156). Una nostra precedente identificazione del medesimo, deve ritenersi pertanto erronea. L'hospitalis Scarii, era situato dove ancor oggi lo ricordano una piazzetta ed un vicolo di tal nome, fra la via di Prè ed il lato a mare. Cessò di esistere assieme ad altri in Genova, quando si volle favorire lo sviluppo di quello maggiore di Pam-matone (si cfr.: C. Carpaneto da Langasco, Vammatone, cinque secoli di vita ospedaliera, Genova 1953, pp. 4-5 e nota 10, dal quale però viene erroneamente collocato al centro della città di allora). 18 c. LXXXXIII v. Ex navi Caroli Italiani. 19 Si cfr.: E. Portal, Cronologia siculo-spagnuola, in « Giornale Araldico-Genealogico-Diplomatico », Anno XI, t. II, Bari, pp. 323-333. — 408 — nieri e tenendo presente come non possa che essere esatta nelle registrazioni in oggetto, perchè eseguite sotto il controllo diretto di un notaio in funzione di cancelliere ed alla presenza di ufficiali responsabili20, sembrerebbe deludere alquanto, in confronto alla decantata moltitudine che i vari scrittori su questa battaglia hanno riportato, peraltro spesso con discordanza. Inoltre questa vera consistenza trova riscontro, pur calcolato all’in-grosso, solo nei dati di una delle due redazioni principali attraverso le quali ci è pervenuta la celebrata relazione, scritta o dettata dall’Assereto, per annunciare la vittoria alla Signoria di Genova. La redazione è quella detta del « Federici »21, non ostante gli studiosi filologicamente ritengano più corretta l’altra, detta del « Cicala »22. Infatti la versione del Federici precisa come gli uomini che presero parte alla battaglia fossero circa seimila, concordando altresì col numero degli imbarcati nella stessa indicato23, senza contare nobili, cavalieri e mercanti pure presenti24; mentre nelle altre redazioni il numero che si 20 Come risulta costantemente inelle varie registrazioni anche delle prede, nel contesto del registro medesimo. 21 Federici, Collectanee cit., c. 62 r.-v. Egli afferma di averla trascritta dall’originale. Sui problemi dell’autenticità e veridicità del documento, si cfr. V. Vitale, cit.; G. Balbi cit., cap. II. 22 Ibid. 23 Confermato da A. Giustiniani, Castigatissimi Annali della Repubblica di Genova, Genova 1537, ad annum, 1435: « .. .e furono i soldati con le ciurme sei mila huomini ». Nella redazione del Federici le quattordici navi « elette inter vinti, delle quae nave erano e sono sei grosse, le altre commune... co huomini sei millia, pet quello che possemo saver da elli; si che la menò da 300 a 400 huomini avea, le altre 500 in 600, la reale huomini 800... Erano con le dette navi galee undixi e bar-botte sei... ». In tal numero evidentemente non sono compresi gli uomini delle galee e cioè del rimanente della flotta di parte spagnuola, come potrebbe intendersi dal racconto di qualche storico. Il facile calcolo lo dimostrerebbe immediatamente, tenendo conto che le galee, pur rimanendo pressoché immutate nelle loro dimensioni essenziali fino all’età moderna, giunsero con l’avvento delle armi da fuoco, ad avere cinquecento uomini, fra ciurme e soldati (si cfr. A. Guglielmotti, Vocabolario Marino e Militare, Roma, s.d., ma 1889). 24 II Giustiniani (cit., ad annum), riporta: «... furono senza dubbio presi più di cento signori... » e quindi: «...Furono presi più di duecento cavalieri di sprone d’oro... »; ed inoltre: « furono ancora presi molti nobili ricchi... ». Il numero di tutti costoro può avvicinarsi a quanto è detto nella continuazione dell Assereto alla sua relazione, riportata in veneto dal cronista padovano del sec. XV Andrea Gatari - 409 - 14 ricava è troppo alto, pur mancando l’indicazione totale degli uomini25. Ed i conti tornano sempre e solo con i dati della redazione del Federici, calcolando le navi catturate, in numero di 12 (compresa la reale che era la più grande)26, meno 600 morti o più27 ed infine aggiungendo un mas- (e da lui inserita nel Diario del Concilio di Basilea) dove l’Assereto, prima di far seguire una parziale lista di prigionieri, giunta fino a noi scorrettissima nei nominativi, affermava: « Certificando ala Serenidade vostra che più di quatrocento zen-tilhuomini sono vostri prexoni;... » (pubbl. da C. Manfroni, Due nuovi documenti per la storia della Marineria Genovese, in « Giorn. Stor. e Lett. della Liguria », anno V, 1904, p. 40). Il parziale elenco predetto, conta 98 nomi, più «... molti altri nobili cittadini e mercatanti et artesanni sonno statti prexi, che molto sarìa longo ascriver tati per nome ». 25 «... la menor nave di quelle da CC in CCC huomini havea, l’altre più grosse da cinquecento in seicento, le reali nave di ottocento in mille... » (V. Vitale cit., testo del Cicala). 26 Di 14 navi due fuggirono dalla battaglia in Sicilia, con Don Pedro fratello del re Alfonso, assieme alle 9 galee rimaste di 11. La redazione della lettera del- I Assereto, riferita dal Federici, è chiara: « due navi delle soe galee fur levae dalla battaia et son scampae per portà la novella », ove dovrebbe leggersi « due navi dalle soe galee... » ecc. La redazione della stessa relazione del Gatari (cit. alla nota 24), dice pure: « Le altre doe nave et soe galìe sonno campate per portar novelle ». E così il coevo doc. ufficiale della cancelleria Genovese cit., del 5 Dicembre 1435 (A.S.G., Diversorum Registri, 21/516, n. 533) parla chiaro: Quartus autem germanus regius Petrus, quem Aragonei regni infantem vocant, beneficio fuge preservatus est. Namque trahentibus duas naves eius triremibus, nactus prora secundos ventos Trinacriam petijt. II Giustiniani (cit., ad annum) da parte sua conferma: « Delle navi del re una sola si salvò e le galere vedendo le navi esser prese, riceverono Pietro fratello minore del Re, e lo portarono in Sicilia... ». Infine che a fuggire non furono solo due galere con l’infante don Pedro, ma due navi più le galere rimaste (9 perchè due perdute in battaglia: una bruciata e 1 altra affondata) è confermato anche dal doc. di fonte spagnuola, riportato dal De Marinis (cit.) in coda al parziale elenco lei prigionieri. Infatti sono elencati i nomi di due navi, col titolo: « Les naus que sont escapades ... ab lo nfante don Pedro ». Quindi seguono i nomi di undici galee, seguite dalla dicitura: « Les dites gualeres sen anaren ab don Pedro ». Da queste undici non è difficile toglierne due, dato che i loro comandanti risultano nell’elenco dei prigionieri. Sono « La gualera de moss. Ramon Boyl » e una de « Les gualeres de moss. Beluis ». Ma molti storici erroneamente hanno continuato a dire che don Pedro fuggì con due galere. 21 Questo dato è presente in tutte le redazioni della relazione dell’Assereto e riprese da tutti gli storici. — 410 — simo di 400 fra nobili, cavalieri e mercanti, nonché togliendo dal calcolo ancora 5.000 prigionieri che dovettero essere sbarcati a terra perchè « gli erano di sovraccarico »28. Si ottiene così un numero di 242 persone circa, meno che più, nelle quali rientrano anche i prigionieri di sangue reale e gli altri, inviati subito a Milano. Da quanto sopra, in breve possiamo trarre due considerazioni principali. La prima è la conferma che la redazione del Federici sia la più esatta e quindi la più vicina all’originale della relazione; e con essa le altre da questa derivate, compresa quella pubblicata da Andrea Gatari, in quanto concerne specialmente i dati numerici. Il riscontro è positivo altresì con il prezioso documento già citato del 5 dicembre 1435 conservato nei Diversorum Registri dell’Archivio di Stato di Genova e siamo ben lieti di dare conferma in ciò, a quanto già intuito dal Vitale29. La seconda considerazione ci fa comprendere la discordanza e la con- 28 Così il Bargellini, Storia Popolare di Genova, Genova 1856, I, p. 334. Il già citato doc. del 5 dicembre 1435 (A.S.G., Diversorum registri, 21/516, n. 533), dice esplicitamente: ... innumerique alii proceres et terrarum domini, ita ut in captivis recensitis quod quinquemilium virorum numerum excedebant, plus quam ducenti equites aureate militie dinumerati sint ». Il Giustiniani (loc. cit.) dice: « E tanti furono i prigionieri che il Capitano Biagio ne sbarcava per sua maggiore sicurezza 5.000 in terra, nei quali scapparono secretamente molti gentil’huomini »; seguito da F. M. Accinelli, Compendio della storia di Genova, Genova 1851, ad annum, ecc. Ancora altri stilla scorta del Giustiniani, fra i quali A. V. Vecchi, Storia Generale della marina militare, Livorno 1885, vol. I, p. 246, ove si precisa: «...cinquemila prigionieri di minor conto...». Il calcolo necessariamente approssimativo, interpretando i dati utili critica-mente, è il seguente: nell’armata Aragonese vi erano 6 navi grosse, con ciascuna 500-600 uomini, le altre 8 navi comuni ciascuna con 300-400 e la reale con 800, per un totale di circa 6.000, come è detto sempre nella relazione riportata dal Federici; calcolando il valore intermedio di 550 uomini X 5 e 350 X 8, più 800 uomini della nave reale, ed applicando la media ponderata, otteniamo: 2.750 + 2.800 + 800 6.350 - = - = 453,5 X 12 (navi catturate) = 5.442 + 400 5 + 8 + 1 14 (signori, cavalieri, nobili e mercanti) = 5.842 — 600 morti = 5.242 — 5.000 e più = meno di 242. Cioè 12 al max. in più del numero dato dal primo elenco dei prigionieri a c. LXXXXI, del 2 settembre 1435, senza contare i prigionieri condotti subito a Milano. 29 V. Vitale, cit. — 411 - fusione tra i vari autori di storia, sul numero dei prigionieri, già annotato con curiosità dal Federici stesso, quando nei primi decenni del sec. XVII, trascrisse la relazione dell’Assereto30. Continuando con le elencazioni successive, abbiamo in data 4 e 6 settembre, un’altra breve lista con i nomi delle varie navi informante che 37 persone furono trasferite dalle carceri della Malapaga a quelle della « Grimaldina », molto probabilmente per limiti di ricettività ad un tal numero di individui31. Annotazioni posteriori di alcuni giorni indicano 30 La carenza di fonti e di una critica organica dei dati sull’avvenimento, nonché le ingannevoli affermazioni contenute nelle varie redazioni della relazione dell’Assereto, come: «... et infiniti conti, baroni et gentilhomeni e anchora Meneguzzo del- 1 Aquila, capitano di duecento lance (o trecento) e cinquecento nel Serra (cit. lib. VI, p. 159); li prigionieri sono migliara de migliarci. Erano ancora sopra le predette navi prese homini mille d’arme della più bella e zente che sia al mondo... » ecc. Il Federici (Collectanee, cit.) prima di dare il suo pur parziale elenco dei prigionieri, si era divertito a riportare la disparità delle opinioni dei vari storici: « Il Giustiniano in annali nostri dice che furono 200 cavalieri à Spron d’oro e più altri 100 Signori di Feudi / Paolo Emilio, [e] Il Biondo p. 2°, dicono 300 Nobili Cavalieri. Il Bugati dice molti di più e nomina li prigionieri. Il Masella oltre gli infrascripti, dice che restarono prigioni più di 1500 huomini. Il Zurita nomina tutti gli infrascritti, cioè:...» (segue l’elenco di 90 individui in tutto). Non siamo riusciti ad appagare la nostra curiosità con l’elenco che il Federici dice riportato da Gasparo Bugati o Bugatto, milanese, che visse nella seconda metà del sec. XVI ed è autore di una Historia universale del principio del Mondo sino all’anno 1569, Venezia 1570 (si cfr. G. M. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, 2 voli., Brescia, 1753-63). Tuttavia potremmo continuare l’elenco di altri scrittori a cominciare con il Dì Costanzo, Ist. del Regno di Napoli, libri 20, Napoli, Aquila 1527-1518, «... non si legge che mai altra armata abbia avuto tanti personaggi quanto questa e dove furono presi più di 1500 uomini d’Italia, ma più di 1000 baroni e cavalieri... ». 31 cc. LXXXXV v. - LXXXXVI. I nomi corrispondono tutti a coloro che nel precedente elenco erano contrassegnati con « G », eccetto quelli che prima risultavano sulla nave « Cialia » ed ora su quella di Andreolo Doria. Tale nave detta « Cialia » risulta essere una di quelle catturate alla flotta nemica. Ciò si ricava chiaramente dal seguente appunto del nostro registro, a c. XXII: « + die XXVII aprilis [1436]... Preda prò Ambrosio Testa de Saona prò grano suo recepto in navi Cialia que fuit capta a nostratibus in conflictu dato per classem nostram classi Ser.mi Domini Regis Aragonum... ». Nei nomi di navi pur scorrettamente trascritti che seguono la parziale lista dei prigionieri riportata dal De Marinis (cit.) figura una nave detta « Ciatge ». Da un controllo con le successive elencazioni, ci risulta che le indicazioni M, G, C, L, presenti nella prima, sono posteriori alla data del 4 settembre. — 412 — già come qualcuno fosse riuscito ad essere liberato, per l’intercessione del governatore milanese, presso gli ufficiali sovrintendenti e il Consiglio degli Anziani32. Successivamente il 23 settembre i prigionieri vengono elencati con i prezzi fissati per il loro riscatto, espresso in ducati33. I riscatti più alti in ordine decrescente vanno da 18.750 a 3.000 e non superano la decina; gli altri prezzi hanno quotazioni varie che scendono fino a minimi da 125 34. Annotazioni posteriori indicano almeno dodici individui che furono liberati o inviati a Milano con diverse giustificazioni35. Un’annotazione del 17 dicembre 1435 indica che un certo Francinetus 32 c. LXXXXVI, 5 settembre. Georgetus, tubeta Regis è il primo ad essere rilasciato, con una prolissa e precisa giustificazione degli ordini ricevuti a tal proposito. 33 Da c. IIII a c. VI v. Nelle intitolazioni delle registrazioni, risulta che la percentuale spettante al Comune di Genova per il riscatto è di una metà, un quarto ai « patroni » della flotta genovese ed un quarto diviso fra gli equipaggi. Per eliminare facili contestazioni riguardo ai prigionieri più importanti, si era proceduto al sorteggio (si cfr. A.S.G., Litterarum, n. gen. 1/1783, doc. 384 del 15 sett. 1435). 34 Si ha oltre al caso limite max. di 18.750, casi singoli di 12.500 e 10.000 c. VI, di 7.500 ed altri sopra i 3.000, per un totale di 12 casi; seguono 6 casi oltre 2.000, 13 di 1.000 e oltre, 43 di 500 e oltre, 3 da 400 e oltre, 13 da 300 e oltre, 32 da 250 , 34 da 125. Interessante sarebbe conoscere in base a qual criterio furono stabiliti tali prezzi individuali. Il riscatto più alto, di 30.000 ducati fu invero pagato dal Re Alfonso d’Aragona al duca di Milano per sè e per i suoi compagni di prigionia che gli erano stati condotti direttamente, come è stato recentemente messo in luce dal De Marinis (cit.) sulla base di due nuovi documenti da lui scoperti e pubblicati (si cfr. la sintesi storica in proposito del De Negri, cit., e P. Pacca, I Visconti, « Le grandi famiglie d’Europa », Milano 1972, p. 103). Ai Genovesi, com’è noto, da parte milanese si voleva far credere in un primo tempo che Alfonso d’Aragona avrebbe loro pagato per sè un notevole riscatto, quale l’isola di Sardegna, al che essi non avevano prestato naturalmente ingenuo orecchio: A. Giustiniani cit. ad annum, nonché A. Pesce, Sulle Relazioni fra Genova e Filippo Maria Visconti, dal 1435 al 1438, in « Bibliot. della Soc. Stor. Subalpina », LXXXVIII, Torino 1921, p. 4. 35 Quattro risultano liberati il 21 maggio dell’anno seguente, 1436; gli altri per ordine di Nicolò Picinino, capitano di ventura al servizio del duca milanese (c. V) o su richiesta delegata direttamente dal Re d’Aragona, o per deliberazione del nuovo doge di Genova e del Consiglio degli Anziani (c. V». e VI); uno di essi era fuggito con l’aiuto del « Giudice dei Malefici », (c. VI v.). — 413 — de Heril era nel carcere della Malapaga sotto ignote spoglie 36 ; poi non si trova alcun accenno a prigionieri, fino al 26 aprile 1436 con la registrazione di coloro che a quella data si trovano ancora rinchiusi nella Gri-maldina37, sempre con i loro prezzi di riscatto, ricontrollati con una successiva revisione Pii maggio38. Fra essi vi sono i nomi di tre che erano evasi con mezzi ingegnosi, due dei quali fuggiti dalla Malapaga e quindi ripresi, erano stati trasferiti nella Grimaldina, da dove forse era più difficile uscire. Un altro prigioniero risultava fuori dal carcere. Al 28 aprile un’inchiesta sui reclusi della Malapaga condotta dagli ufficiali responsabili dei bottini, dà ancora 109 individui dei quali 17 erano stati poi rilasciati liberi e 7 venivano rinchiusi solo la sera, perchè di giorno facevano i servitori fuori della prigione39. Alcune annotazioni datate 8 e 17 maggio, la seconda su un foglietto infilato nella contro coperta del registro, si riferiscono singolarmente al riscatto di alcuni pirigionieri, al giuramento e all’omaggio resi da altri all’autorità genovese40. Fa seguito a questo punto una lista senza data con 10 fra i prigionieri più illustri, scarcerati dalla Malapaga per promissione et fideiussione o per infermità, con la giustificazione per ciascuno di essi41. Non sono più segnate le quotazioni di riscatto. 36 c. XVI. E’ l’ultima indicazione del 1435 riferentesi ai prigionieri. 37 c. LXIII. Si contano 24 nominativi. 38 Ibid. 39 c. LXI r. e v. e c. LXII. Le date di rilascio sono il 2, 5, 6, 18, 19 maggio. Si fa ogni tanto riferimento ad un altro registro, che è rimasto ignoto alle nostre ricerche d’archivio. Le possibilità di ottenere la liberazione senza pagare il riscatto, almeno per i più importanti personaggi, non dovevano mancare ed i casi non sono rari fino a che Genova non si scosse dal giogo milanese alla fine del 1435, se il fenomeno veniva giudicato suscettibile di accenno da parte del Giustiniani (cit., ad annum 1435) cfr. A. Agosto cit., p. 73. 40 c. XXIII. Sul verso del foglietto è riportata una citazione di Pompeo Trogo, tratta evidentemente dalle sue Historiae Philippicae, in 44 libri, nel riassunto di Giustino. Si veda la nota 27 degli elenchi. 41 c. LXVIII v. La datazione, pur restando indeterminata, si può ascrivere alla primavera del 1436, come si può dedurre da un altro elenco seguente a questo e più ampio. Si fa riferimento sempre più spesso all’altro registro, dell’anno 1436, che come abbiamo dianzi accennato, forse non è pervenuto fino ai nostri tempi: «... ut continetur in diversa de MCCCCXXXVI... ». - 414 - Un’altra elencazione più ampia di ben 74 individui pure non datata, posteriore alla precedente, ma certamente al 18 aprile come si desume da un’annotazione nella stessa, dà il nome di quelli che avevano ottenuto di stare fuori di prigione sotto fideiussione42. Subito dopo, sotto il titolo Liberati a carcere et captivitate si enumerano 17 persone43 che però, eccetto uno, non corrispondono a quelle d’ugual numero precedentemente accennate44. Di seguito l’intitolazione Missi Mediolani qui non redierunt precede 5 nomi di illustri prigionieri con i loro alti prezzi riscatto, evidentemente mai pagati, i quali si erano fatti mandare a Milano su richiesta di quel duca e su desiderio di Alfonso suo prigioniero-ospite43. In data 16 giugno, ordinati alfabeticamente per nome, si leggono 44 persone rinchiuse quel giorno stesso nel carcere della Malapaga46 e risultanti far parte quasi tutte di quello stesso più numeroso gruppo che si trovava fuori del carcere sub fideiussione, precedentemente osservato. Molto probabilmente a costoro era venuta a mancare la garanzia loro accordata in un primo momento47. Dello stesso giorno è un elenco di 65 prigionieri che non furono lasciati uscire dalla Malapaga e che si ritrovano, come dice l’intestazione, néW.' inquisitio del 28 aprile fatta in detto carcere48. Sempre alla stessa data e di seguito, son elencati i prigionieri ancora detenuti nella Grimaldina in numero di 9 49 e 31 altri che in quello stesso giorno uscivano sotto fideiussione, a causa di malattia o per aver ottenuto grazia50. Di seguito, ma senza data, si leggono i nominativi di altri 8 indi- « c. LXIII v. - LXIIII. 43 c. LXIIII. La diversità dell’inchiostrazione e della mano indicano chiaramente due tempi diversi. 44 c. LXI - LXII. Si cfr. la nota 37. 45 c. LXIIII. I riscatti superano i 3.000 ducati ciascuno. « c. XXIIII. « Cfr. c. LXIII v. 48 c. XXV. Solamente alcuni non trovano riscontro nell’elenco predetto a c. LXI-LXII. 49 c. XXVII. Uno di questi nove individui, come da annotazione successivamente aggiunta, in data 21 giugno fu traslocato nel carcere della Malapaga. 50 c. XXVII -XXVIII. Si fa riferimento ancora per ogni individuo, al già accennato altro registro. - 415 - vidui, cioè di coloro che già prigionieri, partirono per Milano e pertanto si trovavano in libertà51. Quindi un titolo indicante coloro che erano stati liberati dalla prigionia, non è seguito neppure da un nome52, mentre in data 21 giugno solo un individuo risultava trasferito dalla Grimaldina alla Malapaga, benché il titolo sembri riferirsi a più persone53. Infine il 4 luglio 1 ultimo riferimento del registo relativo ai prigionieri riporta 4 nominativi usciti quel giorno stesso dalla Malapaga M. Aldo Agosto 51 XXVIII. Olim captivi qui eo quod profecti sunt Mediolanum, sunt in eorum libertatem. 52 c. XXVIII v. Liberati a captivitate sunt hi. La pagina è rimasta bianca. 53 c. XXVIIII. 54 c. XXVIIII v. Le indicazioni relative alla successiva sorte dei prigionieri si fermano a tale data e se potessimo disporre dell’altro registro al quale così frequentemente da un certo momento in poi si trovano i rimandi ed i riferimenti, potremmo agevolmente seguire forse fino all’ultimo tutti questi prigionieri. Ci è noto peraltro, come riporta il Giustiniani (cit.) che nel 1436 Genova fu colpita da una grave pestilenza e « non essendo troppo ferma di soccorrere alla necessità pubblica, si pigliò di partito, che i prigioni ch’erano restati in Genova dell’armata Aragonese si potessero riscattare con un certo poco prezzo, e di questi denari si servì la Repubblica nei suoi bisogni » (cfr. A. Agosto, cit., p. 74). E’ tuttavia possibile trovare riferimenti utili e provvedimenti individuali nelle serie archivistiche della cancelleria genovese, quali i Diversorum registri di quegli anni. — 416 — [Carta lxxxxi] + mccccxxxv die ija septembris Captivi capti per feliciem classem nostram in victoria consecuta contra Serenissimum Regem Aragonum et numerossam classem suam et consignati in carceribus Malpage intra distregos, Egregiis Baptiste de Leonardo, Jacobo Lomelino, Simoni Grillo et Cosme Adurno officialibus et superstantibus deputatis ad custodiam dictorum carcerum, cum aliis secum deputatis sunt ut infra et primo: Ex navi Cipriani de Mari L. Stefanus de Maioricha, tubeta Magistri Sancti Jacobi M. d. Salvador, frater Melchionis Orestani M. Johannes Fugasotus, patronus navis L.1 d. Antonius Rubeus de Messana, dictus Spatafora L.M. Tuiho de Umano de Messana, filius Angeli L.1 d. Maceus de Jennario de Neapoli, milex M. Johannes de Tapia de Roa, de Ispania L.1 Laurentius de Sancto Dominico de Ispania, marinarius liberatus cum messanensibus ut dicitur2 G. Gabriel Morelus de Barchinonia, magister axie G. Bartolomeus de Malta, Bartholomei Corbe, famulus G. Antonius Torsellus de Saragoza de Cicilia, calafatus G. Johannes de Barchinonia, famulus in Fugasoti G. Salvus de Valeoliti de Ispania, famulus domini Salvatoris M. Dominicus de Monteleone de Sardinia, famulus L.1 Stefanus de Jennario de Neapoli, puer d. Macei Colardus de Palavania habet puerum unum Nicolaus de Lagneto habuit puerum unum Bernardus de Camblaxio, peurum unum d. Monsegner Jucalar de Maioricis, consignatus certis mercatoribus catalanis, pro parte patroni Johannes Boch, olim patronus, consignatus fuit ut supra Maxius Romanus de Messana, consignatus domini Andree de Serra 1 Depennato M 2 Avvertiamo una tantum, che le parti in corsivo indicano aggiunte coeve ma successive, al testo originario. - 417 — In domo Cepriani de Mari sunt tres Barberii Stefanus de Maioricha, tubeta in navi Magister Gaspar Peregrinus, medicus Regis | Bartolomeus de Luname, barberius Nicolaus Nadal, barberius [c. lxxxxi verso] Ex navi domini Galeoti Lomelini G. Johannes Calvetus Pasqualis de Petralia Insule Sicilie G. Franciscus de Calatanuceta de Sicilia, Dominici G. Lodisius de Calatanuceta, Petri de Sicilia G. Jacobus dictus Degus de Portugali q. Johanni, tubeta Regis Navarre G. Ferrandus de Sancto Vincentio Johannis, tubeta Regis Navarre L. d. Carlinhius de Loduce de Neapoli, milex M. d. Lopes de Angulo de Corduba, milex M. d. Gonsalvus de Lobiano, milex M. d. Johannes de Poiles, milex M. d. Ferrandus de Sandoar, milex M. d. Paris Amadeus de Panormo, milex M. Frater Petrus Pardus, Ordinis Sancti Johannis M. Frater Simonus de Heredia, Ordinis Sancti Johannis M. d. Johannes de Luce de Navarra, milex 3 d. Jame de Aragò, in hospitale c. Frater Johannis Carolus Lercarius de Sicilia M. Franciscus de Lobiano de Corduba M. Lodixius de Solis de Salamancha M. Raimondus Ranalis de Castilia M. d. Antonius Oliverius, patronus die secunda septembris Jame de Aragono infirmus ex supradescriptis, consignatus fuit hodie per Antonium Castagnola hospitalerio hospitalis Scarij. die vi septembris M. d. Guliermus Raimondus de Calatanuceta, comes M. d. Johannes Orzila, secretarius Serenissimi domini Regis M. Jacobus de Lagamoza | fratr 4 M. Restamus de Lagomozaj consignati fuerunt per Sorleonum Lomelinum catalani in domo Cipriani 3 Depennato M 4 Negli elenchi successivi, il cognome è correttamente scritto de La Leonesa. [c. LXXXXIl] Ex navi Calva M. d. Johannes de Panda de Salamancha de Ispania M. d. Petrus de Panda, eius frater L. d. Carolus Ihesuant, milex de Neapoli L. d. Dragonetus de Bonifacio de Neapoli, milex L. 5 d. Thomas de Gregorio de Mesana, milex M. d. Serlisonus Rodericus, milex, de Ispania de Baecia M. d. Ferrandus de Perea, milex spagnolus de Gratia Mugnozo M. d. Petrus Igno ispanus, milex M. d. Johannes de Biesina de Ispania, milex G. d. Pardus de Valentia, de Ordine de Monteiza, filius gubernatoris Alegherii M. d. Mendus Gemiso ispanus, milex de Sibilia M. d. Guliermus Raimondus de Valentia, milex M. Ferrando de Gonea ) . , _ .. ,, TT . _ } fratres de Portugal: M. Vascus de Gonea M. Alonsus Bosmediano, ispanus M. Johannis Stagna de Valentia M. Martinus de Sancta Cruce L. Andreas de Bonifacio de Neapoli, fiilus q. domini Oberti militis G. Johannes de Remo de Valentia M. Janicus de Lisono ispanus, nepos domini Lisoni M. Johannes de Goadrahiara, filius Gonsali Dies de Ispania L. Cola de Bonifatio de Messana, nobilis M. Bartolomeus de Laurentio de Barchinonia, barberius M. Magister Gabriel Ceriolus de Barchinonia, barberius M. d. Petrus de Amat, mercator de Barchinonia L.5 Colla Agatula de Caieta + die v septembris M. d. Alonsus Enriches de Castilia, milex, consignatus per Antoniotum Lercarium Ea die M. d. Josia de Aquaviva, consignatus per Galeatium Pinelum [c. Lxxxxii verso] Ex navi Andrioli de Auria M. Monseum Johannes de Vilaragut de Valentia, miles L. Viordo Capegi de Neapoli L. d. Carolus Paganus de Neapoli 5 Depennato M — 419 — M. Johannes Pagera catalanus M. d. Frater Petrus de Moregia, Ordinis Sancti Johannis M. d. Antonius de Lagonella Sanihi de Aragona, miles M. Arnaldus Rogerius de Balegherio catalanus, subdiaconus M. Johannes Calbeta de Valentia Johannis M. Bemardus Laurentius patronus in Figareti M. Gaspar Reverditus, olim scriba in ' Figareti M. Bernardus de Ferraria de Lisbat, diocesis gironensis, catalanus M. Bernardus Johannes puer, filius Lodixii Johannis de Valentia M. Janichus de Aranda die vi septembris C. d. Johannes Gorrea, milex de Aragono M. Jacobus Encardona, mercator de Barchinonia consignati per Jeronimum de Auria + die xvi septembris Non relaxetur dictus Jacobus a dictis carceribus nisi de voluntate et consensu Magistri Philipi de Monelia et Antonii de Gunbertis, vigore mandati Domini Lo-cumtenentis et Consilii, scripti manu Jacobi de Bracellis Cancellarii die xiii septembris infilati. Ex nave Cialie6 M. Jame Prach de Barchinonia, mercator M. Johannes Sorilus de Barchinonia Francisci Juvenis, mercatoris M. Petrus Castilonus Jame de Barchinonia M. Bartolomeus Barahina de Ortele Jame M. Johannes de Peralta de Saragoza Garcerii G. Georgius Stefanus de Araguxia, habitator Barchinonie [c. lxxxxiii] Ex nave Jeronimi Falamonica M. Petrus Johannes de Vila Vilefranche, catalanus, nobilis M. Frater Degus de Lacantera, Ordinis Sancti Johannis M. d. Antonius de Foihena, milex G. Petrus Boldrich, magister axie. Ex nave Justiniana M. Degus de Monetmarino de Sibilia G. Jacobus de Spalera de Alegherio, mercator 6 A c. lxiii è detta Sealia — 420 — n pp ossssssssssssssspg: Michael Gilibertus de Perpignano, notarius d. Antonellus filius domini Rogerii Gaitani d. Otobello filius Magnificis ducis Suesse Dum Antonius de Vintimilio, filius comitis Johannis d. Antonius de Artia de Capoa, milex d. Gorelus Carraffa, de Neapoli, milex d. Saniho Moncaip de Aragona, milex d. Michael de Embon de Montibus de Jacha, milex d. Ludovicus Pardus de Lacasta de Valentia, milex d. Frater Johannes Baratelus, milex Sancti Johannis Martinus Garao de Empodar de Barchinonia Andreas Goastalaqua siculus, cum filio comitis Johannis restitit Johannes Paliax de Catalonia Guier de Barchinonia Rolandus de La villa de Todo Salvator de Spigno, famulus domini Antoneli Gaspar Siba de Valentia, scriba navis Magnane7 Petrus Cacus de Valentia + die vi septembris d. Simon Artale, milex Johannes de Magnana, quondam Jofredi est penes Simonem Justinianum Lxxxxin verso ] Ex navi Luce Italiani Lodixius Homedes de Barchinonia, patronus Indois Johannes Stefanus de Barchinonia, mercator Galserano Signor de Barchinonia Beltram Romeo de Barchinonia Pasqual de Sibilia, barberius Georgetus de Maioricis, tubeta Ex navi Jacobi Raibaldi M. Pnm Jnham Hp Sancto Magior, magister de Lacantera M. d. Frater Johannes de Heredia, milex Sancti Johannis L. d. Paduanus Paganus de Neapoli, milex in G. d. Franciscus Momboi de Calari, milex L. Ferrandus de Latorre de Ocagna, famulus L. Petrus de Badaioza, famulus L. Petrus de Heredia, famulus 7 Frater Petrus Chuchus segue depennato. — 421 — Ex navi Caroli Italiani M. d. Dego Faihardus de Murcia, milex M. Frater Rogerius de Ambel, Ordinis Sancti Johannis, precepetorie de Ambel M. Michael de Diest, famulus suprascripti M. Rodericus Martinus de Amerò de Castilia, famulus domini Diegi M. Franciscus de Magneo de Barchinonia Raimondi, mercator M. Johannes de Valeolida de Villa Arpana j £ratres M. d. Franciscus de Vila Alpando, fìlius Roigarcie miles J M. d. Alonsus de Larcono, milex, filius q. Martini Regis M. Lodixius Tarich de Saragosa, filius Johannis L. Michael de Calatan, filius Antonii de Heredia de Aragono M. d. Frater Gratia de Lanaiha, milex Sancti Johannis M. Raimondus de Saminati, filius Raimondi, nobilis L. Augierius Lercarius de Sanfradello de Sicilia, filius q. Eugerii militis [c. lxxxxiiii] Ex dieta navi Caroli M. Maser de Jurgenti, filius Manfredi, notarii M. Johannes, famulus Comitis de Castro L. Petrus Carbonus de Neapoli, filius Carlucii, nobilis M. d. Johannes Salmentus de Borgos, filius q. Johannis, milex L.8 Franciscus de Brionis q. Gregorii, famulus suprascripti M. d. Rodericus de Augur de Corduba, milex + die vi septembris M. d. Raimondus Boil, vice rex Castrorum Neapolis M. d. Monseum Fortum de Heredia, milex Sancti Johannis C. Magister Johannis Aloisius, medicus vel barberius regis Navarre M. d. Degus Gomes de Sandual comes Castri consignati per Carolum Italianum patronum, etc. Ex navi Eliani Spinula M. d. Raimondus Giribertus, milex M. d. Franciscus de Rii, milex M. d. Belengerius de Rii, cum uno famulo M. d. Frater Lodixius de Spuihio, frater de Monteiza M. d. Franciscus de Suaxl de Barchinonia, milex cum uno famulo G. Thomas Potencia servitor Regis M. Marinus Cosia, filius domini Michaelis 8 Depennato M — 422 — gsssggssBsss-ppppppp s p p p ggrgsspsgpB-gssp .......... —. d. Lop>es Simono, milex, cum suo famulo d. Franciscus de Sistaro, milex valentianus Johannes Forte de Aragono, armiger d. Franciscus Soler, milex G. d. Franciscus Belvisus, milex, cum uno famulo Alfonsus de Vedo, famulus de Engoter Johannes de deschi, nobilis, cum famulo Lodixius de Montaguto, nobilis valentianus Bastardus de Corneli Johannes de Sparsa, nobilis d. Johannes Caraffa, milex de Neapoli d. Thomas Carraffa, milex Troilus Pignatelli de Neapoli, nobilis Lodixius Stondito, nobilis d. Johannes de Gunara, milex de Taracona Lxxxxini versoi De nave dicti Eliani Johannes Serotha Goasconus, gladiator Johannes Marcus de Satia de Valentia Johannes Cardona de Barchinonia, cum uno famulo, nobilis Relaxatus famulus, quare puer in utilis Simono de Aragono Manuel Gamisanus valentianus Joham Junagnes, barberius Johannes Franceize, panaterius Badassar Boner de Valentia Johannis Petrus Amar, macerius Petrus de Montealbano G. Frater Janiceta Ordinis Sancti Johanni9 d. Rainerius de Funes, milex, de Saragoza de Aragono Johannes de Moncai de Teracona, milex, con uno famulo d. Petrus de Cardona, con uno famulo Petrus Cazes, nobilis catalanus Frater Raimondus Sestar, Ordinis Sancti Johannis Frater Raimondus de Soler, Ordinis Sancti Johannis d. Mugno Mesia, milex Ispanie Dego Marmoreizu, milex de Sibilia d. Ferrandus de Vintimilia, milex con uno famulo, nomine Rogierus d. Martinus Diexe, milex 9 Depennato de Saragoza de Aragono - 423 - M. Fredericus de Vintimilia M. Michael Pelegrinus M. Belengerius Stelith de Barchinonia, Bernardi M. Belengerius de Monpalao M. Johannes de Funes, aragonensis, nobilis Petri Balle M. Franceize Laurentius, goasconus M. Johannes Galiar de Saragozo de Aragono, nobilis con uno famulo M. Giliem Pao de Maioricis, Gabrielis M. Johannis Estar, servitor Regis die v septembris presentate etc. L. d. Franciscus Pannonus, milex Neapolitanus + relaxatus de mandato Domini Opicini M. d. Lodixius Caraihola de Neapoli, milex die iii septembris 10 d. Johannes Moncai, Michael de Embon, Rannerius de Funex 11 promiserunt presentare Johannem de Funex infirmum, missum ad hospitalem Scarii et Francexium de Montirono vel solvere florenos ducentos auri. + die vii septembris M. d. Gaspar filius domini Xtofori Gaietani, consignatum per Franciscum de Axereto + die xvij septembris Relaxatus fuit a carceribus Malpage dominus Franciscus Pannonus, de mandato Domini Opicini. [c. lxxxxv] Ex nave Pernixia M. d. Petrus Mantello milex de Saraguxia est penes Rihardum Squarzaficum, infirmus M. Guilermus Saboar de Valentia, olim potestas Portuveneris, servitor Secretarii, in domo Xtiani de Facio Ex Galea Otoboni Imperialis 10 d. Gispertus Far Catalanus, habitator Agrigenti 10 M depennato. 11 Depennato Strunex ed in sopralinea Funex — 424 — + die vij septembris Dictus Otobonus constitutus et cetera promissit dictis dominis Offitialibus presentare semper ad mandatum dictorum dominorum Offitialium sub pena florenorum quingentorum in auro et promissit fidem suam illum bene custodire ac ab eo capi facere juramentum a suo consule. Ea die Andreolus de Auria denunciat quod mandato admirati in Gaieta dimisit dominum Petraconum Caraihulam, sub cauptione et promissione Antonii Calvi qui promisit illum presentare sub pena florenorum mille in auro et sic afìrmat Jacobus Calvus frater dicti Antonii. Ea die Jacobus Raibaldus denuntiat quod sclutetur quid sit de monsem Filipo Boii Ea die et fuit die vi ut dixit Andreolus de Auria predictus dicit quod consignavit Patronum de Ingarrono, Lanfrancho Imperiali et Conrado de Grimaldis. [c. lxxxxv versoi + die mi septembris Infrascripti de mandato magnifici domini Commissarii et spectabilis officii Balie, extracti sunt de carceribus Malapage et consignati infrascriptis cavaleriis pro ipsis consignandis suprastantibus carcerum Grimaldine, iuxta mandatum prefatorum domini commissarii et officii Balie, quorum nomina sunt hec: De nave Lomelina Johannes Calvetus Pasqualis de Petralia, insule Sicilie, cum filio parvo Franciscus de Calatanuceta Dominici de Sicilia Lodixius de Calatanuceta Petri Jacobus dictus Degus de Portugali q. Johannis, tubeta Regis Navarre Ferrandus de Sancto Vincentio Johannis, tubeta dicti Regis12 De nave Cipriani de Mari Gabriel Morelus de Barchinonia, magister axie Bartolomeus de Malta Antonius Torsellus de Saragoza 12 Depennato-. Johannis Gabriel Morelus - 425 - 15 Johannes de Barchinonia, famulus Fugasoti Salvus de Valeoliti de Ispania Stefanus de Maioricis, tubeta suprascripti dati fuerunt Bono militi De nave Aurie 4- Bernardus de Ferraria de Lixbat, diocesis Gironensis Johannes Sorigus de Barchinonia Petrus de Castiliono de Barchinonia Bartolomeus de Baraihina de Orteles Johannes de Peralta de Saracosa Johannes Stefanus de Araguxia, habitator Barchinonie13 De navi Justiniana seconde Petrus Cucus de Valentia14 De nave Lucheti Pasqual de Sibilia, barberius de nave Jeronimi Falamonice Petrus Boldic de nave Calvua Johannes de Remo Gabriel Ceriolus de Barchinonia, barberius de nave Spinula Thomas Potensa Alfonsus de Viodo, famulus d. Jngoterrij Bastardus de Corneli de Catania Lodixius Stonditus de Neapoli, nobilis Johannes Cerotha, goasconus [c. lxxxxvi] Ser de Johannes Marchus de Satia Simonus de Aragono Manuel Gamisanus Johannes Inuagnes Barberius Johannes Franceize, panaterius Badassar Voner de Valentia Petrus Amar, macerius Petrus de Montealbano 13 Georgius anziché Johannes come nel prec. elenco. 14 Depennato: de Va... — 426 - + die v septembris Relaxatus fuit hodie de mandato dominorum officialium ex carceribus Mal-page ex commissione prestantissimi d. Locumtenentis Magnifici domini commissarii et officii Balie, Georgetus tubeta Regis. De nave Antonioti Italiam Dom Johannes de Vintimilia filius d...15 [c. mi] + mccccxxxv die xxnj septembris Patroni debent pro quarta parte partimenti captivorum eis date ad sorte* et primo: Pro Jacobo Jncardona de Siracusis saxitus est ad instantiam fratris Philipi de Monelia, Ordinis predicatorum ut in foliatio apparet. duc. IIIDCCL em pro d. Petro Cabalares » ÏÏD » » d. Johanne de Gorrea » ÏÏD » » d. Raimondo Boii vicerege castrorum Neapolis » ÏÎÎDCCL » » d. Gaspare filio domini Christofori Gaietani, cap¬ tus per D. Opecinum et missus Mediolanum » mcxxvi » » d. Martinus Dies milite de Aragono » MDCCCLXXV » » d. Lodixio Carrahiola » ÏÏD » » d. Pardo de Valentia, filio gubernatoris Alegerii 2> MDCCCLXXV » » d. Gisperto Far Catalano, habitator Agrigenti in manibus Otoboni Imperialis16 » ÏÏCCL 16 » » d. Nicola Speciale et filio16 » » d. Alfonso de Cardona » MCCL » » Petro de Spinola, die xxi mai) 1436 liberatus est quare erat cum amb assat oribus Barchinonie » MCCL » » Fratre Johanne Eredia » MCCL » » Macia Justo de Barchinonia, mercator » CCCLXXV » » Martino Garao de Empodar de Barchinonia » D » » Gaspare Carrera, mercatore » DCXXV » » Lopes de Angulo » CCL » » Francisco de Enril, milite » D » » Johanne Stephano de Barchinonia, mercatore » CCL » » Gilio Feri, mercatore « CCCLXXV » » Galserano Signor de Barchinonia » CXXV 15 II periodo non continua. 16 Depennato. — 427 — Item pro Arnaldo Rogerio de Balengerio de Valencia subdiacono due. DCXXV » » Fratre Rogerio de Ambel » CCL » » Jacobo et Restano de la Leonesa fratribus » d [c. mi versoi Ea die Item Dicti patroni pro Domino Ferando de Perea milite duc. CXXV » pro d. Dego Faihardo de Murcia » CCL » » Cola Agatula de Gaieta » CCL » » d. Belengerio de Mon Palao » D » » Giliem Pao de Maioricis » CCL » » Janico Nepote D. Lisoni de Ispania » LXIIl/^ » » Bertrame Romeo de Barchinonia » CCCLXXV » » d. Francisco Monboil de Calari » D » » Serlisono Roderico, milite » CXXV » » Gracia de Peralto » CCCLXXV » » d. Alonso de la Corno, milite » CXXV » » d. Toma Caraffa, milite » cxxvy2 » » Ferrando et Vasco de Gonea de Portugalli fratribus » CCL » » Gradano de Orcello nepote ambaxatoribus Barchi- nonie, die xxi maij 1436 Uberatus ut patet in actis » CCCLXXV » » Guillelmo Sabar, olim potestate Portuveneris » CCL » » Francisco de Magnea de Barchinonia, mercator » CCL » » Badasale de Romeo, nepote ambassatoris Barchinonie, die xx; maij, liberatus ut patet in actis » CCCLXXV » » Raimondo de Spinula nepote ambassatoris Barchi- nonie, die xxj maij liberatus, ut patet in actis » CCCLXXV » » M. Jame Fixico » ccccxxxra^ » » Gorello Caraffa milite » CCL » » Fratre Simono de Eredia » DCXXV » » Monsem Johanna de Bonastra » DCXXV » » d. Ferrando de Vintimilia filio Comitis Johannis » DCXXV » » Belengerio famulo Alvixii Medexi r> CXXV summa ducc. de xxxvijDCCCXii % [c. v] Die xxiii septembris Botinerii Debent pro d. Antonelo filio d. Rogerii Gaietani duc. MDCCCLXXV Item pro d. Nicola Spetiale et filio » ÏÏTCXXV » » d. Dego Gomes Comite Castri » ÏÏTDCCL - 428 - î « i i ! Item pro d. Francisco Pandono duc. » » d. Francisco Belviso » » » Monse Johanna de Vilaragut » » » Monsegner Jncalar de Maioricis in manibus mercatorum catalanorum » » » d. Petracone Caraihola, in Andrea de Serra » » » Monse Johanna Busot ambassator Barchinonie die xxi maij liberatus, ut patet in actis Mathei » » » D. Belengerio de Fon Coberta » » » Marino Cossia filio d. Michaelis » » » Gaspare Fibla de Valencia scriba Magnani » » » d. Gulien Martorello de Azizer » » » Johanne Corbet de Valencia » » » 'Johanne de Vintimilia » » » d. Simone de Artalo milite » » » Johanne et d. Francisco de Vila Alpandi fratribus » » » d. Anthonio Fogeva » » » d. Dego Mesia » » » Franceize Laurentio goascono » » » Johanne Coco Comite de Castro » » » d. Anthonio Arcilla de Capoa relaxatus et liberatus ad contemplationem Nicolai Picinini per pre-stantissimum dominum locuntenentem et consilium et officium » » » Johanne nominato Jacobo Palias » » » Raimondo Belenger Maldac » » » d. Raimondo Giliberto milite catalano » d. Petro Mantello de Saragoza » Fransono Aguria » Monsem Fortum de Eredia milite » Michaele Pelegrino de Valencia » d. Roderico de Angui de Corduba » Petro Johanne de Villa Vilefranche catalano » Petro Panda de Salamacha » d. Johanne Salmento de Borgos » [c. v verso] Item dicti botinerii pro Anthonio de Argonela de Alago duc. » pro Johanne Galiar de Saragoza » » » Anthonio de Calatan de Eredia » » » Petro Amigo de Barchinonia patrono » » » d. Francisco de Isual de Barchinonia milite » — 429 — ÏIÏDCCL VÏÏD MDCCCLXXV MCCL MCCL MCCL DCXXV CCL CXXV CCL CXXV DCXXV D CCL CXXV CXXV CXXV LXXII1/2 CCL D DCXXV D CLXxxvn% CXXV DCXXV CCCLXXV CLXXXVII % CCL CXXV CXXV CLXXXVII l/j CCL CCL CCL DCXXV » T Item pro fratre Johanne Baratelo, de isto annuerunt Magnifici domini capitanei et consilium ad requisitionem Gasparis Lercarii et aliquorum mercatorum ad requisitionem Regis Aragonum et eum liberaverunt Bernardo Johannis puero filio Johannis de Valencia Johanne de Panda de Solomancha Lodixio de Monte Agut nobile Johanne de Sparsa nobile Otobello filio Magnifici d. ducis Suese d. Gaspare Pelegrino medico regis Petro Amar de Barchinonia Johanne de Stagna de Valencia Johanne de Foenes nobile d. Jame de Alagó fratre Petro de Moregia Miglos de Goasconia liberatus per III. dominum ducem et consilium virtute deliberationis manu Thome de Credentia die sunt d.17 duc. CXXV CXXV CCL CCL DCXXV DCXXV CCCLXXV CXXV CCL D D15 CXXV [c. Vi] Ea die Comune Janue debet pro dimidia partimenti captivorum etc. et primo: pro Johanne Orxilla relaxatus et missus Ill.mo Domino nostro duc. XÏÏD Item pro d. Johanne de Sancto Maior magistro de Lacantera » ÏÎD » » d. Josia de Aquaviva » x » » d. Ingoterio de Nava saxitus prout continetur in diversa in 37 alia habet saxita est in carecere gri- maldine » XVÏIÎDCCL » » d. Gisperto de Far catalano » ÏÏCCL » » d. Francisco Castiliono die xxi maii liberatus est ut in actis Mathei continetur » MCCL » » comite de Campobaso » MCCL » » d. Guillelmo Raimondo comite de Calatanucheta » MCCL Michaele Ros de Barchinonia » MCCL Enfugasoto » dccl fratre Dego de Lacantera ordinis sancti Johannis » CXXV Gaspare Reverdito scriba Infigareti » CXXV » » » » « Ò 17 II periodo non continua. 430 - Item pro Lodisio Tarie de Saragoza duc. » » d. Paride Amadeo de Panormo » » » d. Lopes de Simeno » » » Masor de Jurgenti filio Manfredi notario » » » Johanne Estar servitore Regis » » » Johanne de Cleschi de Valencia nobile » » » Frederico de Vintimilio » » » Mendo Gemiso de Sibilia » » » Dego Marmoregio de Sibilia milite » » » Monsem Johanna de Cazas novas de Barchinonia mercatore » » » d. Petro de Cardona » » » Bernardo Pires » » » fratre Petro de Moregia » » » fratre Petro Pardo » » » d. Anthonio de Vintimilio filio comitis Johannis est penes Dorinum de Grimaldis virtute delibera- tionis III. Domini Ducis et Consilii manu Iacobi die... » fratre Raimondo de Soler » Jame Plac de Berchinonia mercatore » d. Melchione de Riberas » d. Saniho Moncaip milite de Aragono » Lodisio de Calatan » d. Johanne Biesmo, milite de Ispania » d. 'Johanne de Chimarra de Terracona » d. Ferrando de Aronos » d. Carafollo Caraffa » d. Johanne de Luce de Navarra » liberatus per III. Dom. Ducem et Consilium virtute deliberationis ipsorum manu Thoma de Credentia die... [c. VI versoi die xxin septembris Comune etc. debet pro d. Belengerio Scolic de Barchinonia duc. Item pro d. Ferrando de Sandoal » » » Lodixio Omedes de Barchinonia patrono Endois » » » fratre Raimondo Sostai » » » d. Michaele de Embon de Montis de Jacha milite » » » d. Salvatore fratre Melchionis de Arestano » » » d. Belengerio de Enril milite » » » Giner de Barchinonia » » » d. Alonso Enrich de Ispania » » » Bernardo Laurentio patrono » CCL CCL DCXXV CXXV CXXV CCL CXXV CXXV CCCLXXV CCCLXXV DCXXV CXXV D CCCLXXV DCXXV CCCLXXV CCL DCXXV D DCXXV CXXV D DCXXV CCL CXXV D CCCLXXV CCCLXXV CCL CCCLXXV DCXXV D CCL CCL CCL — 431 - < Item prò comite Lazaro d. Gonsalo de Lobrano Johanne Jubot patrono Anthonio Oliverio patrono Johannes de Poiles Laurentio Safonte de Barchinonia mercatore Petro Cazes catalano nobile Johanne Cardona de Barchinonia nobile saxitus in carceribus Malpage dictus Johannes ad instantiam Filipi de Monelia vigore mandati infilati 18 Magnifico Alonso medico vel barberio Regis Navarre d. Petro Igno de Ispania Jacobo Spalera de Alegerio fratre Gispesperto 19 Monserigo ordinis de Montoisa d. Francisco Soler milite d. Guillelmo Raimondo de Valencia d. Ludovico Pardo de la Casta de Valencia d. Francisco de Sistara de Valencia fratre Gracia de Lanacha milite sancti Johannis Francois de Oris de Ozona d. Johanne de Terrascona de Moncaip d. Johanne Caraffa milite d. Rainerio de Fones de Saragoza Johanne Forte de Aragono Michael Malato Francis de Eril Raimondo de Xaminati nobile Johanne Pagera catalano d. Gisperto de Sgoanes de Barchinonia milite Gre-gorius Jonches opera Martini de Cavalaria aufugit ut notum est in parte domino Judici Malleficiorum qui habet illum detentum duc. CCL » CLXXXVII y2 » CCL » CCL » CCL » CCCLXXV » CCL » D CCL CXXV DCXXV D CCCLXXV D DCXXV D CCL DCXXV D cccxii y2 D CLxxxvrt 1/2 CXXV DCXXV CXXV DCXXV » cccc [c. XVl] die xvii decembris Nota quod Francinetus de Heril erat in carcere Malpage veluti ignotus sed dictus Francinetus de Heril pro eo in diversa in 41 intercessit quare revideatur. [c. lxiii] Infrascripti sunt + mccccxxxx die xxvi aprilis Captivi capti in conflictu classis ser.mi Regis Aragonum 18 Depennato. 19 Così nel testo. — 432 — i Y) >x ui fvrvvHXy - ' 9 • W»w—â» e ^?4xv-Aw + Çj?T|J 8- |Cr4 7ty»rVCW > s ®?r"f flQ jrvw**« c+flux. -^^p g ^ ^ £-- uL^ f _ C~“ KV, Sj A.S.G., Antico Comune, Galearum introitus et exitus, anno 1435, n. gen. 753, c. V: [1435], settembre, 23. Primo d. Engoterra de Nave due. xvniDCCCL Item pro d. Franciscus Belvisus » viid » d. Franciscus Monboil de Calari » D » Jacobus Spalera de Alegerio » DCXXV » Don Petrus Encardona » DCXXV » d. Franciscus de Eril » DCXXV » d. Raimundus Boyl » IIIDCCL » d. Petrus Encabagneres » IID » Jacobus Encardona de Siracusis » IIIDCCL » d. Johannes de Gorrea20 » IID » Johannes de Bonastra » DCXXV » Johannes Orzina Regius Secretarius » XIID » Petrus Martines » — » d. Guillelmus Raimundus Comes Calatenucete20 Relaxatus die vini maij » MCCL » d. Lopes Simenes » DCXXV » d. Franciscus de Isual de Barchinonia » DCXXV » Johannes de Sparsa missus ad carcerem predictum et inclusus die secunda maij quare fregebat carceres Ma-lapage cum verrogio » Johannes Stagna de Valentia inclussus in dictum carcerem quare aulïugit per foramen rupture carceris » CXXV » Serlisonus Rodericus qui auffugebat cum barrile » d. Michael de Embon » Frater Janicotus » d. Franciscus Sitai » Johannetus famulus domini Francisci de Isual » Ludovicus Pardus extra ■ carcerem die vnn maij + die xi maij Suprascripti de acordio revissi cum Christoforo Tiringello Cancellario strenui Manfredi Ravascherii sunt in carcere Grimaldine. [c. lxi] + mccccxxxvi die xxviii aprilis Inquisitio captivorum reclusorum in Carcere Malpage hodie facta per me Paulum presentibus nobilibus Martino Lomellino et Gregorio Grillo. Et primo scripti sunt cum taxationibus ut melius revideantur d. Salvator frater Melchionis de Arestano, relaxatus die die xxviii maij duc. DCXXV 20 Depennato. — 433 — d. Ranaris de Funes de Agesarea Augusta sive de Saragoza duc. d. Belengerius de Eril » d. frater Fortunus de Eredia relaxatus pro curanda eius valetudine » d. Johannes de ViUaragut » d. Sanihius Moncaip de Aragono » Macia Justus de Barchinonia mercator » don Alfonsus de Cardona relaxatus » d. Restanus de La leonessa » d. 'Johannes Caraffa » Fredericus de Vintimilio » d. Ferrandus de Vintimilio filius comitis Johannis relaxatus » Michael Pelegrinus de Valencia » d. Ferrandus Vascas de la Govea » Colla Agatula caietanus » Petrus Cazes de Calatau miles » d. Johannes de Vintimilio » d. Simon de Artale cassus quare in racione relaxatorum » Johannes de Fortes de Aragono » d. Paris Amadeus de Panormo » d. Lodisius de Calatau » Johannes del Boch scriptus imbot patronus relaxatus » die xviiii maij d. Franciscus et Johannes de Villa Alpando fratres » d. Alonsus de Locamo » d. Caraffelus Caraffa » Johannes Pagera catalanus » d. Gispertus Sgoanex de Barchinonia » d. Caraffelus Caraffa » Johannes Pagera catalanus » d. Belengherius Stelit de Barchinonia » d. Belengherius de Monpalao » d. Frater Monsorigus ordinis de Monteisa relaxatus » Petrus Amar » d. Rodericus de Angui de Corduba » Frater Raimondus de Soler » Bertrame Romeus de Barchinonia20 » Lodisius Homedes de Barchinonia » Frater Raimondus Siscal » Marinus Cossia filius d. Michaelis » Johannes Sparsa nobilis20, die ii maij missus est ad carcerem Grimaldinam » Johannes Cleschi de Valentia » Bernardus Laurentius patronus » Frater Garcia de Lanaiha » D D DCXXV MDCCCLXXV D CCCLXXV MCCL CCL CCCXII l/2 CXXV DCXXV CCCLXX CCL CCL CCL DCXXV D CLXXXVXI y2 CCL DCXXV CCL CCL CXXV CCL D CCCC CCL DCXXV D D D CCCLXXV CLXXXVIII/2 CCCLXXV CCCLXXV CCCLXXV CCL CCL CCL CCL CCL CCL - 434 - Guiliermus Raimondus de Valentia due. Gaspar Fibla olim scriba navis Imagnane » bis Matia Justus de Barchinonia » d. Johannes de Moncaip20 [c. lxi verso ] Gaspar Reverditus olim scriba navis Infigareti due. Don Alfonsus de Cardona relaxatus21 cassus quare bis » Lodisius de Monteagut » Johannes Galiar » Petrus de Spinola, liberatus » Michael Malatus » Garcia de Peralta » Johannes Fugasotus » Johannes de Funes n Frater Petrus de Moregia » Petrus Amicus de Barchinonia » Laurentius Safont de Barchnonia » Gaspar Carrera mercator » Johannes de Cases Noves mercator » Jame Plat de Barchinonia » d. Guillelmus Martorelus relaxatus22 » Johannes de Poiles scriptus de Palius23 » Raimundus Belengerius maldac » Ferrandus de Sandonal » Johannes, sed nominatur Jacobus25 de Palius » Johannes de Cardona de Barchinonia » d. Franciscus de Soler » d. Johannes de Terracona de Moncaia » d. Thomas Caraffa miles, cassatus quare in ratione relaxatorum 26 liberatus » Galaranus Ocellus sive Rosilionus » d. Melchion de Riberas » d. Johannes Salmento de Borgos » Lodisio Taric, alias Tarin de Cesaria Augusta » Frater Simenus de Eredia » d. Martinus Dies » 21 Depennato relaxatus. 22 A margine. 23 Depennata l’aggiunta. 24 Cassato il d 25 sed nominatus Jacobus aggiunto in sopralinea. 26 A margine. D CXXV CCCLXXV CXXV MCCL CCL CCL MCCL CXXV CCCLXXV DCCL CCL D CCL CCCLXXV DCXXV CCCLXXV CCL CCL DCCL24 DCXXV CCCLV D D CCCLXXV D cccxii y2 CCCLXXV DCXXV CXXV CCL DCXXV MCCCCLXXV — 435 — d. Lopes de Angulo duc. CCL Johannes Stephanus de Barchinonia Franciscus Manleo de Barchinonia Guilielmus Pao de Maioricis d. Ferrandus Aronos Franceize Laurentinus Goasconus de Montirono Bernardus Pieres sive Petrus de Maioricis Raimondus de Xaminati nobilis est die v maij relaxatus pro curanda eius valitudine Micheletus de Calatau de Eredia die vi maij relaxatus ut in diversa in xvi continetur d. Pardus de Valentia filius gubernatoris AOegerii Gabriel Giner de Barchinonia Guilielmus Ferrerius relaxatus Andreas Goastalaqua, qui erat ex ignotis missus pridie ad carcerem grimaldine, relaxatus Martinus de Sancta Cruce ex illis, relaxatus [c. LXIl] Bartholomeus Laurus de Barchinonia barberius est ex ignotis pridiem missus ad carcerem Grimaldine extra carcerem die xviin maij Antonius Peres Arnardus Goasconus Franciscus Torales Franciscus Soler Frater Jofredus Pardus Franciscus de Malta famulus Goasconus famulus Goliart Johanees de Moros Johannes Soribes Johannes Calvetus Johannes Goliar Michael Gilibert Michael Goasconus Petrus Johannes de Masdovegies Petrus Serra Petrus Balle Petrus Textor Petrus Ussia famulus Petrus Hit Maioretus Raimondus Plao » CCL » CCL » CCL » DCXXV » CXXV » CXXV » CXXV » CCL » MDCCCLXXV » CCL — 436 - Ex supradescriptis hi sunt qui sunt extra listregos ut famulentur captivis inclusis in dictum carcerem et sero recluduntur. Primo Franciscus de Jhivelerio puer Goasconus famulus Goliart puer Burdus Dominicus de Milia Petrus Ussia Franciscus de Malta famulus Michael [c. xxm] + die vin maii Consignatus fuit in carcerem Malpage et recomissus per me Paulum Mainerium notarium mandato Officii Egregio Johanni de Francis de Pagana officiali dicti carce* ris. Christoforus Sebenda de Sibilia ut asserit hodie mihi presentato ex commissione Egregii Jacobi de Bracellis Cancellarii quare captus a navibus armatis sub ductu Generosi Bartholomei de Auria et eidem Johanni mandatum est quod nullam novitatem seu consignationem de ipso Christoforo faciat absque mandato dicti Officii. [foglietto infilato nella copertina] + die xxvil maij Pro domino Johanne de Orzina d. Raimondus Boil prò f° cccl d. Petrus Encabagneres prò fi0 cccl in presentia Gregorii de Campofregoso et Johannis de Federico ea die dictus d. Johannes Petrus et Raimondus fecerunt iuramentum et fidem in manibus Janus de Campofregoso ea die dicti domini Johannes Petrus et Raimondus fecerunt idem iuramentum et homa-gium domini Petri propria manu Testes Andreas Gentilis et d. Thomasius Caraffa ac d. Guillelums Raimondus. [sul verso] Sed Affrorum sicuri causa iustior fuit ita et fortuna superior fuit: in Epithoma Pompei Trogi libro xviiii27. 27 Stando alla natura del testo, non è forse casuale questa citazione di Pompeo Trogo sul verso dell’annotazione. — 437 — [c. Lxviii versoi + Jhesus Inferius descripti sunt extracti ex carceribus Malpage d. Nicola de Speciali et d. Vasalus eius filius habuerunt gratiam standi extra carceres Malpage cum promissione et fideiussionibus ut continetur in diversa de mccccxxxvi in carta m d. Gisbertus de Far de Barchinonia relaxatus fuit cum promissione et fideiussione se presentandi infra annum unum... ut apparet in diversa de xxxvi 28 in carta ini d. Angelus comes de Campobasso et d. Petraconus Caraihola habuerunt gratiam standi extra carceres Malpage cum promissione et fideiussione ut continetur in diversa de xxxvi28 in carta v d. Restanus de Lagonissa Relaxatus fuit propter infirmitatem et est in domo Ambrosii Sauli cum promissione et fideiussione ut continetur in diversa in vi d. Belengerius de Roncoberta est in domo d. Nicolai Justiniani propter malam valetudinem, habet fideiubsionem in diversa de veteri in carta v Michael Ros catalanus est in domo Lanfranchi Imperialis cum promissione et fideiub-sione ut continetur in diversa magno primo in carta xxii Gabriel Ingaronus est in domo dicti Lanfranchi cum promissione et cauptione ut continetur in diversa primo magno in carta cvini d. Lopes de Angulo est in domo Gasparis Lercarii sub fideiubsione de ducatis quingentis [c. lxiii versoi Existentes extra carceres sub fideiubsione d. Nicola de Speciali et filius licet sint duo don Johannes de Sancte Maior, magister de Lacantera d. Franciscus Castilionus d. Angelus comes de Campobasso Michael Ros de Barchinonia d. Gaspar Pelegrinus d. Antonelus filius domini Rogerii caietani d. Petraconus Caraiola d. Johannes Busot, ambassator Barchinonie d. Raimondus Gilisbert d. Arnardus Rogierius de Belegerio, subdiaconus Frater Rogerius de Ambel preceptor ut in diversa novo in xv continetur d. Jacobus de Lalagonessa29 Gabriel Ingarronus Frater Johannes de Eredia 28 Leggasi mccccxxxvi. 29 Jacobus in sopralinea, Restanus depennato. — 438 - Guillelmus Sabar ut continetur d. Belengerius Roncoybeta profectus Cataloniam habet fideiussionem ut in diversa novo in vii continetur d. Gispertus de Far de Barchinonia profectus Siciliam habet fideiussionem ut in diversa novo in un continetur Frater Petrus Pardus ut in diversa novo in XI continetur Don Antonius de Vintimilio consingatus Dorino de Grimaldis ex mandato Illustris domini ducis et consilii vigore deliberationis ipsorum scrpte manu Jacobi de Bra-cellis cancellarii die xviiii aprilis Comes Lazarus de Arcellis ut in diversa veteri in xvii continetur Raimondus Xaminati ut in diversa novo in xvii continetur Petrus Serra ut in dicto et carta predictis continetur Frater Fortunius de Eredia ut in dicto diversa in carta xvi continetur Micheletus de Calatau ut in dicto diversa in xvi continetur Gabriel Gimer de Barchinonia30. d. Guillelmus Raimondus comes Calatanucete ut in diversa in xv continetur d. Simon de Artale ut continetur in diversa in xvii d. Thomasius Caraffa ut continetur in diversa in xvii Petricus Garcia famulus Secretarii ut continetur in carta xvii Johannes Xaguretus de Valentia ut continetur in carta xii d. Guilelmus Martorelus ut continetur in diversa in xvm Arnardus Goasconus ut continetur in dicto in xvm d. Guilelmus Raimondus de Moncada ut continetur31 d. Johannes de Moncaio ut continetur in diversa in xviiii d. Salvator de Alborea ut continetur in predicto in xviiii d. Lodisius Pardus ut continetur in predicto in xx B.irtholomeus Laurentius de Barchinonia ut continetur in xxi Johannes de Boch ut continetur in xxi d. Johannes de Gorrea ut continetur in xxtii Johannes de Moros ut continetur in xxiii Don Petrus de Cardona ut continetur in xxim [c. LXIIII ] Dominus Lopes Simenes in XXV » Alfunsus Encardona » XXV » Ferrandus de Vintimilio » XXVI » Franciscus de Isual » XXVI » Johannes de Bonastra » XXVII Johannes Almanus » XXVII Guilelmus Ferrerius » XXVII 30 Depennato. 31 Depennato. — 439 - Dominus Raimondus Boil duc. XXVIII Martinus de Sancta Cruce » XXVIIII Frater Gilibertus Moserigus » XXVIIII Dominus Johannes de Vintimilio » XXX » Petrus Encabagneres » XXXI » Johannes Orzina » XXXII » Belengherius Monpaolo » xxxmi » Ugurellus Caraffa » xxxv Andrea Goastalaqua » XXXVI Johannes de Galiath » XXXVI Laurentius de Fluviano32 » XXXVI Dominus Petrus Cazes » XXXI- Gerlisonus de Locamo » XXXVIIII [c. LXiiii versoi Altobello filius domini ducis Suesse Dominus Berengherius de Eril » Caraffelus Caraffa Johannes Caraffa Dominus Paris Amadeus Johannes de Fortes Franciscus Toraglies Johannes de Sparsa [c. lxiiii] Liberati a carcere et captivitate d. Antonius de Fogeva d. Antonius Ardila de Capoa d. Petrus de Panda de Salamancha d. Johannes de Panda fr. Dedus de Lacantera Mendus Gemissus de Sibilia Degus Marmoregius de Sibilia d. Johannes Biesina sive de Biedina Petrus Igues hispanus Johannes Luce de Navaria Miglos de Goascogna d. Franciscus Castelionus d. Johannes Busot 32 In data xvi giugno è scritto Fulviatio anziché Fluviano. ambassatores Barchinonie in xxxviil » XXXVIIII » XXXVIIII » XXXVIIII » xxxx » xxxx » XXXXI » XXXXIIII — 440 — Petrus de Spinula Raimondus de Spinula Garceranus Orselionus et Badasar de Romeo liberati sunt die xxi maii per llll. Dom. Ducem Consilium et Officium Provissionis ut patet in actis Mathei Missi Mediolanum qui non redierunt d. Gaspar filius domini Christofori Caietani duc. ÏÏÏCXXV d. Lodisius Caraihola » ÏÏD d. Degus comes Castri » ÏTÏDCCL d. Franciscus Pannonus » IIIDCCL d. Josias de Aqua viva habet fideiussionem de florenis ÏÏÏ ut in diversa veteri in 44 continetur » X [c. xxini versoi 4- die xvi junii Infrascripti hodie reclusi fuerunt in carcere Malpage mandato Venerandi Officii deputati super agendis butinorum et revisi cum scripto Gregorii Grilli quorum nomina sunt hec Andreas Goastalaqua Altobelus filius domini ducis Suesse d. Berengherius de Eril d. Berengherius de Monpalao Colla Agatula d. Caraffelus Caraffa d. Franciscus de Isual d. Francinus de Eril frater Fortunus de Eredia don Ferrandus de Vintimilio frater Giribertus Monserigus d. Guilelmus Martorelus d. Guilelmus Raimondus comes Calatenucete d. Gispertus dexgoanes Guilelmus de Spinula olim potestas Portusveneris Guilelmus Ferrerius d. Johannes de Bonastra d Johannes de Moncaio Johannes de Fortes Johannes del Boch d. Johannes Caraffa frater Johannes de Eredia — 441 — 16 Johannes de Sparsa dominus Johannes de Gorea d. Johannes Orzina d. Johannes de Gimara Johannes Xagueretus Laurentius de Fulviatio barberius d. Lodisius Pardus d. Lopes Simenus d. Melchion de Rebelies Marinus Cossia Michael Ros Martinus de Sancta Cruce d. Petrus de Cardona d. Petrus Cazes d. Petrus Encabagneres d. Paris Amadeus frater Petrus Pardus [c. xxv] d. Restanus de La Leonessa d. Raimondus Gilabert d. Raimondus Belengerius de Maldas Saminati de Navaria Simon de Artale [c. xxv versoi + die xvi Junij Hi sunt captivi qui non extracti fuerunt ex carceribus Malpage et in ilio sunt ultra antescriptos nuper in ipso carcere repositos. Nam die xxviii aprilis inqui-sio facta fuit primo: Alonsus de Locamo Antonius Peres d. Belengerius Stelit de Barchinonia Bernardus Laurentius olim patronus Bernardus Peres sive Petrus de Maioricis Cristoforus Sebenda de Sibilia d. Ferrandus de La Govea d. Franciscus de Villalpando Ferrandus de Sandoval d. Franciscus de Soler Franciscus de Manleo de Barchinonia - 442 - Franciscus sive Franceize Laurentius goasconus de Montirono scriptus est Francois de oris de Orzona d. Ferrandus de Arinos Fredericus de Vintimilio Francinetus de Eril fratei Garcia de Lanaihia Guilelmus Raimondus de Valentia Gaspar Fibla olim scriba navis Imagnane Gaspar Reverditus olim scriba navis Infigareti Garcia de Peralta Gaspar Carrera mercator Guilelmus Pao de Maioricis Gabriel Giner de Barchinonia d. Johannes de Villa Aragut Johannes de Villalpando Johannes Pagera catalanus Johannes Cleschi de Valentia Johannes de Goliar Johannes Fugasotus Johannes de Funes Monsem Johannes sive Johannes de Cases noves mercator Jame Plac de Barchinonia, mercator [c. xxvi ] d. Johannes de Poiles mercator33 Johannes de Palias qui vere nominatur Jacobus Johannes de Cardona de Barchinonia Johannes de Salinento de Borgos Johannes Stephanus de Barchinonia frater Jofredus Pardus Johannes Soribes d. Lodisius de Calatau Lodisius Homedes de Barchinonia Lodisius de Monte Agut Laurentius34 Lodisius35 Sanfot de Barchinonia mercator Lodisius Tarim sive Tarit de Cesarea Augusta d. Lopes de Angulo Macia Justus sive Messia de Barchinonia mercator d. Michael pelegrinus de Valentia 33 d. e mercator depennati. 34 In sopralinea. 35 Depennato. — 443 - Martinus Garao de Empodar Michael Malatus d. Martinus Dies Michael Gilibert Michael Goasconus Petrus Amar fr. Petrus de Moregia Petrus Amicus de Barchinonia d. Pardus de Valentia filius Gubernatoris AUegherii [c. xxvi versoi Petrus Johannes de Masdovegies Petrus Balle Petrus Textor Petrus Ussia famulus Petrus Hit Maioretus d. Remires de Funes frater Simenus de Eredia d. Sanihius de Moncaio [c. xxvii] + mccccxxxvi die xvi Junii Restantes detenti in Grimaldina sunt hi d. Engoterra de nave d. Franciscus Belvisus d. Franciscus de Monboil de Calari Jacobus Spalera de Alegerio - Jacobus Encardona de Siracuxio + die xxi Junii dictus Jacobus extractus est de Grimaldina et repositus in Malapaga Johannes de Stagna de Valentia frater Janicotus d. Michael de Embon Petrus Martines [c. xxvii] + mccccxxxvi die xvi junij Exeuntes hodie extra carcerem sub fideiussione occasione eorum egritudinis vel ex gratia d. Arnardus Rogerius Archidiaconus, in diversa veteri d. Angelus Comes Campi Bassi — 444 — Antonius Oliverius olim patronus navis egrotus ad hospicium sancti Juliani d. Antonelus filius domini Rogerii Caietani d. Alfonsus de Cardona egrotus in xxv Arnardus Goasconus, famuuls in xvin Bartolomeus Laurentius barberius in xxi ex gratia quare pauper d. Francinus de Siscal in diversa, in xxxvi egrotus Franciscus Toraglies egrotus in xxxxi Franciscus de Villa Alpando in xxxxvi [c. xxvn versoi dn. Johan Magister de La Cantera d. Jacobus de la Leonessa egrotus in xi Johannes de Moros egrotus in xxm dn. Johan de Vintimilio egrotus in xxx Johannes de Galiath famulatur domino Raimondo Boii in xxxvi Johannes Corbet de Valentia dictus Calvetus, in xviii famulatur domino Martino Dies Ser Jaime36 Ferrerius, in xviii famulatur Donino Petro de Cardona M. Jame Quintana fixicus in domo Anfreoni Catanei Ser Lisonus de Locamo de Lo Camo37 egrotus in diversa in xxxviii Johannes de Villalpando in xxxxvi Micheletus de Calatau egrotus in xvi d. Nicola de Speciali ex gratia in m d. Petraconus Caraiola in xviii ex gratia Petrus Serra famulatur Saminati de Navaria in xxxxim Petricus Garcia famulatur Secretario in xvii Fr. Rogerius preceptor de Ambel ex gratia per sex dies pro recuperandis pecuniis in xv debet reponi in carcerem infra dies sex inceptos die xvtii Junii d. Raimondus Boii egrotus in xxviii [c. xxviii] d. Salvator de Arborea egrotus in xx d. Thomasius Caraffa in xvii d. Vasalus de Speciali ex gratia in m d. Ugurellus Caraffa egrotus in xxxv Olim captivi qui eo quod profecti sunt Mediolanum, sunt in eorum libertate d. Gaspar filius domini Christofori Caietani d. Lodisius Caraiolla 36 Johannes depennato. 37 Così ripetuto nel testo. — 445 — d. Franciscus Pandonus Monsegner Jncalar de Maioricis, quem Ciprianus de Mari numquam consignavit dominis Officialibus Johanees Cocus38 comitis Castri, sed pro eo promixit Gaspar Lercarius in diversa in xxiiii d. Antonio Ardila de Capoa M. Gaspar Pelegrinus medicus, relaxatus sub fîdeiussionibus Cipriani de Mari vel aliorum pro eo, ut patet instrumento scripto manu Antonii filii Laurentii de Villa, cum duobus barbitonsoribus Comes Lazarus de Arcellis sub promissione Sorleoni Lomelini ut in diversa veteri in xvn continetur [c. xxviii versoi Liberati a captivitate sunt hi39 [c. XXVIIII] + mccccxxxvi die xxi Junij Extracti de Grimaldina et repositi in Malapaga Jacobus Encardona de Siracuxio [c. xxvim versoi + mccccxxxvi die mi Julij Extracti sunt hodie de Malpaga infrascripti de mandato Illustriss.mi domini ducis etc. et comissione sive consensu domini Barnabe de Vivaldis pro infirmis qui promisserunt et caverunt prout in manuale diversorum apparet Michael Ros d. Belengerius de Monplau Guillelmus Raimondus de Valenda dictus Corels et Bernardus Peres 38 come depenanto. 39 La pagina è bianca. — 446 - Mercanti tedeschi a Genova nel XVII secolo Nota aggiuntiva Devo all’interessamento del prof. Franco Borlandi ed alla dottrina del prof. Georg Lutz dell’istituto Storico Germanico di Roma e del dott. Klaus Jaitner della Gòrresgesellschaft, la possibilità di sciogliere la riserva avanzata nell’articolo sul copialettere dei Raynolt da me pubblicato nel precedente fascicolo di questi « Atti ». Le lettere in lingua tedesca contenute nel copialettere, di lettura e di interpretazione estremamente ardue, sono 17 e sono relative ad un arco di tempo che va dal 23 maggio all’11 settembre 1619. Otto di esse si riferiscono alla prima operazione di acquisto di frumento a Danzica, avvenuta nella primavera-estate del 1619, cioè nel periodo a proposito del quale la testimonianza del copialettere è assai frammentaria. Sono dirette a Norimberga e a Venezia, centri principali del complesso meccanismo di pagamenti e rimborsi che verrà messo in moto dagli acquisti granari di Ponente del 1619-20; danno comunicazione di emissione di tratte e avanzano richieste per la concessione di crediti al fattore di Danzica dei Raynolt, Filippo Fortembach; ma i corrispondenti non sono gli stessi del periodo successivo: Tobias Ronnig a Norimberga, anziché i Lumaga e gli Odescalchi, Hans Widman a Venezia, in luogo delle case bancarie degli Otti, dei Ferrari e degli Strozzi. Quale ruolo hanno svolto questi personaggi, e di quale entità, nella concessione di crediti a Filippo Fortembach? E’ impossibile stabilire se si siano affiancati o abbiano sostituito i corrispondenti delle lettere italiane: infatti, è vero che le prime lettere indirizzate a questi ultimi sono già tutte riferite alla seconda ordinazione di frumento, ma la somma trattata con il Ronig e il Widman (1000 fiorini di Norimberga), rispetto a quelle impegnate dai Raynolt nei successivi acquisti di grano di Ponente (da 10.000 a 50.000 fiorini di Norimberga), è troppo modesta perchè si possa pensare che sia stata sufficiente al finanziamento dell’intera operazione. — 447 - Le altre lettere in tedesco, non riferibili agli acquisti di frumento della primavera-estate del 1619, contengono notizie varie su attività minori della ditta Raynolt, per lo più non collegabili con il resto del copia-lettere. Alcune sono indirizzate a corrispondenti sconosciuti: Pietro Seul-lyn e Matheus von Collen ad Amsterdam, Franz Full a Monaco, Jorg Khrister a Francoforte; altre a personaggi appena nominati in seguito e comunque di scarso rilievo: i Buschen e Salamone Vorchnecht a Danzica, Amedeo Echoit a Lindau. Per conto dei Seullyn e von Collen di Amsterdam i Raynolt hanno venduto del piombo a Genova e assicurano di aver già fatto rimessa della somma ricevuta; al Full di Monaco chiedono documenti per procedere contro un principe dell’impero, loro debitore; ai Buschen di Danzica danno l’incarico di provvedere denaro a Norimberga, Francoforte e Danzica per la seconda operazione di acquisto di frumento; con Salamone Vorchnecht sono in lite per aver venduto il suo grano a prezzo troppo basso. Perchè, dopo l’U settembre 1619, il copialettere non contiene più lettere in tedesco? Si possono formulare due ipotesi, e il manoscritto non fornisce elementi definitivi di giudizio: che, dal settembre 1619 in poi, al copialettere italiano se ne affianchi un altro, tedesco, non pervenutoci; oppure che, a partire dalla stessa data, i rapporti con i corrispondenti delle lettere tedesche si interrompano (l’unico destinatario di quattro lettere successive, in italiano, è Amedeo Echoit di Lindau e per un affare marginale). Maria Carla Lamberti — 448 — Aspetti della personalità del Card. Stefano Durazzo Arcivescovo di Genova (1635-1664) Il Card. Durazzo tra familiari e parenti Volendo- fare anche soltanto un tuffo nel Seicento genovese, per usare una espressione di A. G. Barrili, non è possibile non fermarsi un momento davanti alla figura e all’opera del grande Arcivescovo genovese. E’ un personaggio che in un corpo mingherlino e malaticcio porta una statura morale ciclopica, uno di quegli uomini veramente grandi che condizionano e stimolano il progresso morale e sociale dell’umanità, che fanno perdonare alla storia la sua esistenza per narrare pure le ribalderie dei prepotenti e le aberrazioni degli erranti. Non è mio intento stenderne la biografìa. Il Card. Durazzo ha già trovato il suo biografo1. Il mio intento è quello di dare risalto ad alcuni aspetti della personalità e fatti della vita del grande arcivescovo, rimasti tuttavia nell’ombra. Sarà possibile nel corso di questo breve studio rettificare inesattezze riguardanti la persona e la famiglia dell’Arcivescovo e colmare lacune con il richiamo a documenti ritenuti ormai irreperibili2. Lo stesso ultimo biografo avverte « che gli errori di date e di particolari riguardanti il Card. Durazzo sono evidenti e numerosi negli autori del XVII e XVIII secolo »3. Diciamo subito che la doverosa esaltazione d’un grande, non significa necessariamente quella di tutto un casato. Si può rimproverare nel P. Levati mancanza di obbiettività in quel suo ritenere tutti perfetti i suoi Dogi4; ma non si possono presentare tutti perfetti i Durazzo, per non scivolare nello stesso errore. 1 G. A. Musso, II Card. Stefano Durazzo Arcivescovo di Genova, Roma-Genova 1959. Vedi recensione di Dino Puncuh in « Rivista di storia della Chiesa in Italia », XIV, 1960, pp. 471-477. 2 G. A. Musso cit., p. 18, nota 2; p. 56, n. 7; pp. 156-157, n. 6; p. 290, n. 12. 3 G. A. Musso cit., p. 292. 4 G. A. Musso cit., pp. 203-204, n. 1. — 449 — Perchè non dichiarare apertamente che il casato dei Durazzo ebbe inizio da un pirata? La notizia è di Federico Federici, storiografo ufficiale della Repubblica, la cui autorità in materia è indiscussa. Scrive l’illustre genealogista: 1380. Giacomo Durazzo di Albania faceva il ladro di mare o sia pirata e saccheggiava i luoghi del golfo di Venezia. Partissi poi per tema di non inciampare in la pena quando fosse stato colto ed imbarcossi su legno genovese portando seco il cognome di Durazzo luogo dal quale si era partito e con mutar paese fece fortuna, se bene disceso da gente assai bassa ». E non abbiamo nel 1650 un altro Giacomo Durazzo processato per connivenza con uno zio traditore della patria e incarcerato? 5. E perchè non ricordare l’atto di criminosa spavalderia d’un altro Durazzo? Narra un contemporaneo che il 2 maggio 1653 occasione triplicis explosionis sclopi brevioris quam ordinarii in platea de Cicadis nel giorno del giovedì santo, con grave pericolo per il passaggio degli orato-rianti di S. Ambrogio, fu denunciato Eugenio Durazzo di Geronimo e condannato alla relegazione per due anni6. Costui era un nipote del Cardinale. E perchè non dire altrettanto coraggiosamente che nel sec. XVIII proprio un altro Stefano Durazzo fu parricida? « 5 marzo 1792: Pietro Ignazio Francesco dell’Ecc.mo Stefano fu ucciso da suo figlio Stefano nel luogo di Terralba in Bisagno»; Stefano fu arrestato ed è prigioniero in torre con uno staffiere che fu poi liberato; ma Stefano « continova in prigione ». Mentre Camilla col figlio diceva il rosario al piano di sotto, di sopra uno scoppio d’arma da fuoco ferì Pietro nel capo, lo lasciò semi-morto; visse ancora alcuni giorni. L’arma non si trovò; Stefano negava, « non si può scuoprire ancora il micidiale » 7. Lo stesso ms. dice che l’ucciso era nato il 28 dicembre 1717. La stessa fonte ripete la notizia una seconda volta; Pietro Ignazio Francesco fu ucciso dal figlio Stefano8. Un’altra fonte autorevole, per essere vicinissima al triste avvenimento, ripete senz’altro che Stefano è parricida9. 5 Famiglie di Genova, ms. del sec. XVIII, in B.U.G. (Biblioteca Universitaria di Genova) c. 44; A. Della Cella, Famiglie di Genova, ms. del sec. XVIII in B.C.B. (Biblioteca Civica Berio) I, cc. 180-181; F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, Genova 1851, I, p. 117. 6 A.S.G. (Archivio di Stato di Genova), Pratiche trattate nei concili della Repubblica anni 1645-1655, ms. del sec. XVII, num. 676. 7 Famiglie e notizie di Genova, ms. del sec. XVIII in B.U.G., cc. 88-89; il de litto però fu consumato la sera del 4 marzo, non il 5. 8 Famiglie e notizie di Genova cit., c. 169. 9 A.S.G., Alberi genealogici di anonimo dell’800, ms. num. 495, c. 421; ma si legga sull’episodio, documentato ed esauriente, G. Portigliotti, Una tragedia familiare — 450 — Chi era questo Stefano? Un discendente di Cesare fratello del Card. Arcivescovo, secondo questa serie genealogica: Cesare-Pietro-Stefano-Pier Ignazio Francesco-Stefano il parricida. Chi era Camilla? Camilla, figlia di Carlo Lorenzo Paglia o Pagli o Paggi, era la giovanissima seconda moglie del Marchese Pietro Ignazio Francesco; lei di anni 24, lui di anni 75. Dopo 33 anni di matrimonio, il Marchese, rimasto vedovo a 64 anni, passava a seconde nozze con Camilletta sedicenne il 24 febbraio 1784 nella chiesa di S. Fruttuoso, a soli 54 giorni dalla avvenuta vedovanza. Al tempo del delitto la prima moglie, Elena Brignole, era morta già da nove anni. Chi era il figlio che con Camilla recitava il rosario e prima della fine scomparve? Era il figliastro perchè figlio della prima moglie: Stefano che riconosciuto parricida dal tribunale fu condannato al carcere perpetuo in Torre 10. A completare il quadro fosco di passione, di anormalità, di tragedia, delineato dal Portigliotti, caratteristico di questa famiglia, vediamo alcune notizie indicative sulla famiglia stessa e particolarmente su una serie di decessi che contribuirono a funestarne la serenità11. Il 1° febbraio 1747 muore la madre di Pietro: Battina Durazzo vedova dell’Ecc.mo Stefano, in età di anni 50 e il 4 è sepolta alla Consolazione. Il 19 giugno 1755 muore un figlio di Pietro: è Francesco, d’anni 2 e il 20 è sepolto alla Consolazione. Il 10 dicembre 1759 gli nasce e muore subito una figlia tanto che nemmeno ebbero tempo di darle un nome e il 12 fu sepolta alla Consolazione. Il 22 luglio 1761 gli muore un’altra figlia: Artemisia Lavinia Dominica di due mesi e il 23 è sepolta in S. Sabina. Il 14 gennaio 1773 gli muore il figlio Giovanni Carlo, d’anni cinque, e il 16 è sepolto alla Consolazione. Poi è la volta della prima moglie di Pietro: Elena o Eienetta, figlia dell’Ill.mo Francesco Maria Brignole, che muore il 30 dicembre 1783 a 54 anni e il 3 gennaio 1784 è sepolta alla Consolazione. Poi tocca ad un fratello di Pietro: Cesare Lorenzo che muore il 2 aprile 1788 di colpo apoplettico in età d’anni 68 e il 5 aprile è sepolto alla Consolazione. nel 1792 in « Raccoglitore ligure » del 30 giugno 1934, pp. 10-12 e del luglio 1934, pp. 2-5. 10 G. Portigliotti cit., II parte. 11 Chiesa di S. Sabina, Libro defunti 1745-1790 in A.S.S. (Archivio chiesa di S. Siro). — 451 — Come vedremo nel corso di questa presentazione di personaggi, che sono stretti da vincoli di parentela col Card. Stefano Durazzo, la morte precoce tra loro è assai frequente; due soli ebbero vita veramente lunga: Giovanni Durazzo che morì d’anni 90 circa e il 3 ottobre 1626 fu sepolto alla Consolazione e Vincenzo Durazzo fu Matteo che fu Doge, e morì d’anni 90 il 29 febbraio 1724 e il 2 marzo fu sepolto alla Consolazione 12. Torniamo al parricida. Secondo il ms. citato, Stefano era stato battezzato in S. Sabina il 13 luglio 1751. La notizia è esatta: è sostenuta dall’atto originale che dice: « Stefano Maria, nato il 12 luglio 1751, fu battezzato il 13 dal Priore di S. Sabina, Francesco Maria Solari. Fu padrino lo zio Cesare Durazzo fu Stefano, madrina Lavinia Brignole, moglie di Francesco Maria »13. Quindi al tempo del delitto aveva 41 anni. Un altro fratello del parricida, Cesare, nacque il 26 novembre 1756 e fu battezzato in casa il 27 dal Priore Angelo M. Carenzo de licentia Vicarii Generalis Francisci N. De Vecchi; lo stesso priore supplì le cerimonie il 28 marzo 1757. Fu padrino Giacomo M. Brignole di Francesco M., di S. Siro; madrina Lilla Carrega, moglie dell’Ill.mo Filippo, di S. Maria Maddalena 14. Anche l’atto di morte dell’ucciso è registrato in S. Sabina; vi si legge che il 5 marzo 1792 l’Ill.mo Pietro Ignazio Francesco Durazzo del fu Ecc.mo Stefano morì d’anni 76 e l’ottavo giorno fu sepolto alla Consolazione 15; non vi si accenna all’uccisione, nè all’autopsia che precedette il seppellimento. Il redattore dell’atto o non sapeva nulla di quel delitto, o non volle tramandarne memoria ai posteri per tema di infamare un Durazzo, di famiglia dogale. E’ ben diffìcile però ammettere l’ignoranza del misfatto mentre ogni « carrùggio » e ogni casa ne mormoravano; tanto più trattandosi d’un casato che anche in quel secolo diede alla Chiesa e alla Repubblica perso- 12 Chiesa di S. Vincenzo, Libro B.M.D. 1623-1638, in A.C.C. (Archivio chiesa della Consolazione); Chiesa di S. Giorgio, Libro B.M.D. 1661-1784, atto num. 1243. 13 Famiglie di Genova cit., in nota 5. Chiesa di S. Sabina, Libro B. 1728-1756 (A.S.S.). 14 Libro B. cit. alla nota prec., c. 41. 15 Chiesa di S. Sabina, Libro Defunti 1790-1833, in A.S.S., c. 4. Neppure gli Avvisi di Genova del 19 marzo 1792 fecero cenno del delitto, pur dando notizia della morte del marchese. — 452 — naggi illustri. E chi avrebbe impedito al redattore di farne memoria? Basti pensare che si era già in pieno clima di rivolta antinobiliare. E però rimane altrettanto vero che tra pirata e parricida, il nostro Card. Stefano Durazzo è sorto come un astro fra tanti altri Durazzo degni di memoria. Il Card. Durazzo non è nato nel 1596, nè a Multedo di Pegli, come erroneamente viene asserito dall’ultimo suo biografo16 e da altri storici prima di lui. E’ nato a Multedo, fuori porta dell’Acquasola, e fu battezzato a San Bartolomeo degli Armeni il 6 agosto 1594. L’atto si legge ancor oggi nel-l’Archivio della Chiesa della Consolazione (v. tav. allegata). Restano così restituiti al Cardinale i suoi due anni di vita. Forse il primo a diffondere la data errata fu Alfonso Ciaconio, molto consultato dall’ultimo biografo; il Ciaconio fu ritenuto autorevole anche da altri storici. I manoscritti delle « genealogie dei Durazzo » e delle « scritture riguardanti la Famiglia Durazzo » citano proprio la data secondo il Ciaconio 17. Persino storici autorevoli e peritissimi di storia genovese e ligure o non conoscevano tale data o la davano errata. L’esattissimo notaio Nicolò Perazzo non ha la data di nascita; non la sa con esattezza e quindi non ne fa cenno 1S. L. I. Grassi, canonico di N. S. del Rimedio, già bibliotecario della R. Università di Genova, dà solo le date di nomina; quindi non ha nè quella di nascita nè quella di morte19. Angelo Remondini, che col fratello Marcello, è notissimo compilatore della storia delle parrocchie, chiese, oratori dell’Archidiocesi di Genova, occupandosi di Cardinali liguri, non dà la data di nascita del Cardinale Durazzo, mentre la dà di altri20. 16 G. A. Musso cit., pp. 18, 304. L’atto originale si legge in Liber Baptiza-torum Parochie S. Vincentii ab anno 1590 usque ad annum 1603, in A.C.C. 17 Alfonsus Ciaconius, Vitae et res gestae Pontificum Romanorum et S.R.E. Cardinalium, Roma 1677, IV, col. 593; Genealogie dei Durazzo e Scritture riguardanti la famiglia Durazzo, mss. della B.C.B., I, pp. 581-672. 18 N. Perazzo, Storia dei Vescovi e Arcivescovi di Genova, 1768, ms. B.C.B., pp. 93-96. 19 L. I. Grassi, Catalogo di tutti i Sommi Pontefici, Cardinali, Patriarchi, Arcivescovi, Vescovi e Superiori Generali d’ordini religiosi nati nella Liguria, Ge-Sampier-darena 1858. 20 A. Remondini, I Cardinali Liguri... note cronologiche, Genova 1879. - 453 - Lo stesso Arturo Ferretto, così impegnato nella ricerca di cose genovesi e liguri, ripete l’errore di farlo nascere nel 159621. Anche Paolo Marcello Raffo, bibliotecario della Franzoniana, scrivendo sul Durazzo ne fissava erroneamente la data di nascita al 1° agosto 159522. Ma ecco finalmente Antonio Costa23 che analizzando con competenza di storico alcuni aspetti controversi dei rapporti tra il Card. Durazzo e il Senato in un articolo pubblicato in quattro puntate, dava la data di nascita esatta, ne trascriveva l’atto originale e indicava come ragioni per la scelta della chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni per il battesimo le seguenti: la sua vicinanza al palazzo dei Durazzo, i gravi calori dell’estate e la costituzione gracile del neonato24. G. B. Boero, scrivendo un articolo sul Cardinale Stefano Durazzo Arcivescovo di Genova, dava a sua volta la data di nascita esatta ed esatto il nome della chiesa dove il Durazzo fu battezzato, senza specificare tuttavia che l’atto si legge nell’Archivio della chiesa della Consolazione25. A. Coletti, scrivendo sul Card. Stefano Durazzo un libro che, nonostante il titolo, anziché una biografia del grande Arcivescovo, è piuttosto una storia del Seminario Metropolitano dalle origini fino al 1896, ignorando il Costa e il Boero, ripeteva la data errata26. Mons. Giuseppe Mario Carpa-neto 77, che donò alla Franzoniana con la sua biblioteca privata anche il testo del Coletti, rettificava l’errore postillandovi la data esatta. 21 A. Ferretto, I Cardinali Arcivescovi di Genova, reminiscenze patrie, in « II Cittadino » del 20 marzo 1919, 3a puntata. 22 P. M. Raffo, L’assenza del Card. Durazzo dal rito del 1637 in « Il Nuovo Cittadino » del 17 ottobre 1937. 23 Per una conoscenza di A. Costa, sacerdote e studioso di cose di Liguria, vedere: Necrologio, profilo biografico ed elenco opere in « Giornale Storico e letterario della Liguria », 1939, pp. 78, 79. 24 A. Costa, Il Card. Durazzo in « Il Nuovo Cittadino » del 17, 20, 22 ottobre e 3 novembre 1937. 25 G. B. Boero, Il Card. Durazzo, in Riv. Municip. « Genova », 1943, fase. V, pp. 34-35. 26 A. Coletti, Il Card. Stefano Durazzo, Genova 1951. 27 Sul quale v. F. Repetto, G. M. Carpaneto, in « Asii » N.S., XI, (85), 1971, pp. 375-378. — 454 — Anche il « Dizionario delle strade di Genova » che pure ben merita il successo che ottenne, in questo particolare minimo è caduto in errore a. Quanto al luogo di nascita del Cardinale, l’ultimo biografo equivocò sul nome Multedo; egli ritenne trattarsi di quello di Pegli e invece era quello «fuori porta dell’Acquasola »; oggi si direbbe: in Castelletto29. Non abbiamo ancora oggi passo e salita Multedo nella toponomastica cittadina di questa zona? Era sufficiente la conoscenza di due testamenti di Durazzo per rendersi conto dell’abbaglio preso. Il testamento nuncupativo di Pietro, padre del Cardinale, fu rogato dal notaio il 16 dicembre 1631; mentre il testatore parla, stando a letto infermo, stabilendo la destinazione di una casa di sua proprietà, dichiara « posta in la villa di Multedo fuori delle porte de Aquasola di questa città di Genova ecc. ». Il testamento consta di venti lunghe facciate ed è tutto assai interessante per la conoscenza di questa famiglia Durazzo30. La famiglia di Pietro passava la stagione estiva nella villa di Multedo. L’identificazione esatta veniva fuori pure dal testamento di un altro Durazzo: Giovanni Luca fu Geronimo, sposo di Maria Francesca Pallavicino fu Paolo Geronimo, benefico fondatore del Collegio Durazzo per giovani nobili decaduti31, che si conclude con l’indicazione: « fatto nella villa di Multedo contro la chiesa di S. Bartolomeo fuori le porte dell’Aquasola della presente città di Genova » Il Giovan Luca morì il 29 luglio 1679 e il 1° agosto fu sepolto nella chiesa di S. Ambrogio o del Gesù33. Di lui parlerò ancora tra breve. 28 Dizionario delle strade di Genova, dispensa 29, alla voce: Vico Durazzo. 29 G„ A. Musso cit., pp. 18, 304. 30 A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 46, anno 1631. 31 La lapide di fondazione del Collegio si trova nel palazzo già di Marcellino Durazzo a S. Margherita Ligure: Genealogie dei Durazzo, ms. cit. 32 A.S.G., Not. G. B. Gianelli Castiglione, 24 luglio 1679, riportato per intero in Scritture riguardanti la famiglia Durazzo, ms. cit., pp. 123-131. 33 Chiesa di S. M. delle Vigne, Libro Defunti 1569-1708. Molti sono i Durazzo sepolti in S. Ambrogio alla fine del Seicento e nel primo Settecento: se ne leggono gli atti in S. Sisto. L’atto di nascita di questo cugino del card. Stefano Durazzo si legge in Archivio parrocchiale di S. Lorenzo, Libro B.M. 1626-1666; « 23 agosto 1628, Gio. Lucha figlio del s.r Genonimo Durazzo e della s.ra Maria sua moglie è stato battezzato da me prete Gio. Lasagna nella Cappella Ducale de licentia di Mons. Vicario come consta nelli atti del not. Giacomo Conio (cioè Cuneo) sotto il dì 23 — 455 — A questo punto, mi è parso indispensabile seguire il grande Cardinale in mezzo ai familiari, non solo per supplire al silenzio o alle inesattezze riguardanti la sua famiglia, mettendo sotto gli occhi del lettore notizie tolte dai documenti ufficiali e originali e utili per ulteriori valutazioni. storiche, ma per cogliere di costoro giudizi e reazioni. Questo ramo della famiglia Durazzo ebbe prevalentemente la culla nelle chiese di S. Pietro in Banchi e di S. Bartolomeo degli Armeni e la tomba in quella di S. Maria della Consolazione, nel sepolcro ivi fondato da Giovanni Grimaldi Durazzo q. Francesco con suo testamento del 19 dicembre 1545 34. Ed ecco anzitutto il certificato di matrimonio dei genitori del Cardinale: il 17 febbraio 1586 nella chiesa di S. Giorgio di Genova divennero sposi Aurelia del fu Agostino Saluzzo e Pietro di Giacomo Durazzo e di Mariettina di Vincenzo Maggiolo. La registrazione del matrimonio è avvenuta in S. Pietro di Banchi, i cui registri sono conservati nellArchivio parrocchiale della Cattedrale di S. Lorenzo35. Precedentemente si erano sposati in Banchi zia e zio paterni del Cardinale. Maddalena Durazzo « figlia di olim duce di Genova » andava sposa il 30 ottobre 1582 a Federico de Franchi, figlio del Ser.mo Geronimo doge di Genova; lo zio Giovanni, il primogenito di Giacomo, si univa a Virginia, figlia di Luca Giustiniano, il 25 gennaio 1586 in S. Maria di Castello36. agosto 1628; il padrino il Ser.mo S.r Gio. Lucha Chiavari Duce di Genova, la madrina la s.ra Cattarina moglie del s.r Marcello Durazzo». Maria, madre del Gio. Lucha, è una figlia del Doge Giov. Luca Chiavari: v. L. M. Levati, Dogi biennali di Genova, Genova 1930, parte I, p. 456. 34 Not. Girolamo Pallavicino de Coronato; il testamento è riportato da: Scritture riguardanti la famiglia Durazzo, ms. cit., cc. 23-30; vi sono nominati i figli-Antonio, Giacomo nonno del ns. Cardinale e Vincenzo. II testatore morì nel febbraio 1546. 35 Libro matrimoni 1564 fino al 23 giugno 1586 e battesimi dal 1553 al 23 giugno 1586. La nonna paterna del ns. Cardinale fece testamento in not. Francesco Bado il 7 settembre 1579. Nomina i figli Giovanni, Pietro, Agostino ed altri quattro; v. Scritture riguardanti la famiglia Durazzo, ms. cit. Il Levati la nomina una volta esattamente e una volta col nome errato di Vincenza: Dogi biennali di Genova cit., parte I, pp. 154, 390. 36 Dal libro M.B. di cui alla nota prec.; di altri zii e zie del ns. e loro matrimoni v. Genealogie dei Durazzo, ms. cit., pp. 581-672. — 456 — Atto di battesimo del Card. Stefano Durazzo. (liber Baptizatorum Parochie S. Vincentii ab anno 1)90 usque ad annum 1603, in A.C.C.) Sui figli di Pietro e Aurelia trovai parecchi dettagli biografici. Di quello che fu il primo nato, Giacomo, venne fuori solo l’atto di morte; importante per dimostrare l’infondatezza di una attribuzione della quale parleremo. Dice che Dominus lacobus Duratius filius domini Petri morì di anni 26 e il 15 agosto 1613 fu sepolto alla Consolazione; era nato quindi nel 1587 37. Quattro nascite sono registrate in S. Pietro in Banchi; Mariettina è battezzata il 21 ottobre 1588; Nicola il 20 dicembre 1589; Cassandra il 12 febbraio 1591; Battista il 14 marzo 1592 38. Di Cesare si legge l’atto di nascita nella chiesa della Consolazione; fu battezzato 1593 die 26 junii in Ecclesia S.ti Bartolomei de Armenis etc.39. A questo punto arriva Stefano, il futuro Cardinale Arcivescovo, che, come dissi, fu battezzato il 6 agosto 1594. Dalle mie ricerche non risulta che il Cardinale abbia avuto cinque fratelli maschi ma che egli fu uno dei cinque; anche il genealogista anonimo del ’800, al solito bene informato, nomina in tutto cinque fratelli maschi41. Si conoscono esattamente anche le date di morte dei genitori del Cardinale Arcivescovo; i relativi atti sono registrati ambedue in Banchi42. Primo a lasciare questa terra fu Pietro; il certificato dice: 1631 die 18 decembris 111.mus Petrus Duratius ex ordine senatorio senex annorum 83 defunctus est in nostra parochia et sepultus est in ecclesia S. Marie de Consolatione in Bisane p. 21 (= preti 21)43. 37 Chiesa di S. Vincenzo, Libro matrim. e defunti 1601-1623, in A.C.C. 38 Libro battesimi e alcuni matrimoni 1585-1625. Non si deve confondere questo Battista Durazzo di Pietro con Gio. Battista di Vincenzo, cugino in secondo grado del Card. Stefano (v. Levati cit., parte II, pp. 47-57) e neppure con Battista di Antonio (v. suo testamento del 24 maggio 1583 in A.S.G., not. Pellegro Poliasca). 39 Chiesa di S. Vincenzo, Liber Bapt.orum 1590-1603, in A.C.C., c. 12 r. 40 G. A. Musso cit., p. 18. 41 A.S.G., Alberi genealogici cit., c. 421. 42 S. Pietro in Banchi, Libro Defunti 1625-1701 in Arch. parr. di S. Lorenzo; il Levati, non conoscendo l’atto di morte, ipotizzò l’a. 1633 (op. cit., parte I, p. 395, nota 1); il Musso (cit., p. 55), segue il Levati. 43 Memorie di varie cose di Genova ecc., ms. del sec. XVII in B.C.B., c. 132 riferisce la data di morte di Pietro Durazzo al 19 dicembre 1631. G. A. Musso cit., p. 56, nota 7, riferisce la• morte di Aurelia «agli anni giovanili del porporato». - 457 - 17 La moglie Aurelia lo seguì a distanza di meno d’un anno: 1632 die 4 septembris Aurelia uxor q. III.mi Petri Duratii defuncta est in nostra parochia ac sepulta est in ecclesia S. Marie de Consolatione extra muros p. 15 ( = preti 15). S. Pietro in Banchi ci presenta pure la famiglia di Nicola, come vedemmo fratello del Cardinale. Nicola vi contrae matrimonio il 15 aprile 1619 con Ersilia, figlia del- 1 Ill.mo Giacomo Raggio e di Geronima; la sposa non è precoce, ma giovanissima: conta appena 18 anni; era stata battezzata lei pure in Banchi il 15 febbraio 1601 44. Anche in questa casa gioie di nascite e lutti si inseguono. Il 12 luglio 1620 è battezzato in S. Lorenzo Giacomo; fa da padrino Pietro Durazzo, Doge di Genova; madrina è Geronima moglie di Giacomo Raggio43. Il 1° febbraio 1622 è battezzato in Banchi Francesco Maria e la madrina è Aurelia Durazzo Saluzzo. L’anno dopo nasce Giorgio Maria che è battezzato il 24 aprile 1623; le cerimonie furono completate l’8 maggio; padr. Gio. Antonio Raggio; madr. Antonia moglie di G. B. Durazzo. Il 18 agosto 1624 viene battezzata in ecclesia S. Bartolomei de Multedo Maria Aurelia; è madrina Giovanna Maria, moglie di Cesare Durazzo46. In casa, in pericolo di morte, il 19 dicembre 1627 viene battezzato Giovanni Antonio. Pietro Francesco nasce ed è battezzato il 19 dicembre 1632; è padrino Cesare Durazzo e madrina Ortensia, moglie di Tomaso Raggio. Il 25 ottobre 1636 nasce Brigida; fa da padrino Cesare Durazzo; però procuratorio nomine Eminentissimi ac Rev.mi Card.lis... Duratii Archiepiscopi lanuensis; madrina è Maria Aurelia, figlia del Ser.mo Doge Giovanni Francesco Brignole, moglie di G. B. Raggio fu Antonio47. Questa nipote del Cardinale divenne poi piissima Serva di Dio nel monastero delle Turchine48. La morte precoce si presenta inesorabile anche in casa Nicola-Ersilia. 44 S. Pietro in Banchi, Libro B.M. 1583-1625 in Arch. parr. di S. Lorenzo. 45 Arch. parr. di S. Lorenzo, Libro B., 1607-1627. 46 Chiesa di S. Vincenzo, Libro B.M.D., 1623-1638, in A.C.C. 47 S. Pietro in Banchi, Libro B. 1625-1674, in Arch. parr. di Lorenzo. 48 Per conoscere il clima incandescente di spiritualità di questo ordine religioso nel Seicento v. P. Giovanni Salvaterra S. I., La fondazione dell’Ordine della S.S. Annunziata detto delle Celesti volgarmente delle Turchine, Genova 1681, parte prima. — 458 - Il 29 dicembre 1627 muore in età di 16 giorni (sic.) Giovanni Antonio ed è sepolto alla Consolazione. Il 3 maggio 1634 muore in età di 15 giorni un altro neonato del quale l’atto neppure registra il nome ed è sepolto alla Consolazione. Nemmeno il nome Stefano porta fortuna a questi genitori; il 1° febbraio 1638 muore il loro figlio Stefano di giorni 2 ed è sepolto alla Consolazione. Nel volgere di pochi anni c’è un altro defunto in questa famiglia; è Giacomo che muore a 24 anni il 21 agosto 1644 ed è sepolto alla Consolazione. Nicola aveva ereditato per testamento dal padre la casa, con le botteghe e i fondachi, sita « in piazza Nova de’ M.ci Marini » che era stata proprietà del bisnonno Giovanni, poi del nonno Giacomo e ultimamente del padre Pietro. Non sarà inutile ricordare che Pietro, oltre questa e la già ricordata casa e villa sopra S. Bartolomeo degli Armeni, ne possedeva una posta ad marinam Sarzani Genue49 e altra, con villa, che furono già di Pietro Clavarino, a Terralba50. Nella stagione estiva Nicola con la famiglia lasciava S. Pietro in Banchi e saliva alla villa di Multedo, sopra la porta dell’Acquasola. Nella chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni si battezzavano allora altri Durazzo. Il 21 settembre 1626 Nicola e Ersilia vi portarono Battistina che fu battezzata dal Rettore della Consolazione de licentia Rev.mi Vicarii ut in actis D. Io. Antonii Roccataliata cancellarii; padrino fu Tomaso Raggio e madrina la M.ca Maria moglie di Bernardo Garbarino51. L’11 agosto 1630 vi battezzavano Geronima; amministrò il sacramento il P. Lorenzo curato di S. Vincenzo ut ex actis D. Iacobi Cunei che era notaio e cancelliere arcivescovile; fu padrino Giovanni Battista Durazzo e madrina la M.ca Anna Maria figlia del fu Bartolomeo Garbarino52. Da una fides vite del 12 dicembre 1631 abbiamo conferma che Nicola ebbe anche un’altra figlia di nome Maria Aurelia, come già sappiamo "3. Ma ecco un altro Stefano; il suo nome indubbiamente vuole essere un omaggio al Cardinale. L’atto dice: 1641 die 31 Augusti Stephanus filius Magnifici Nicolai Duratii et Dominae Ersiliae baptizatus fuit domi ob imminens periculum per Rev. Presb. Magistrum 49 A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 45, locazione del 4 agosto 1630. 50 A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 46, locazione dell’8 maggio 1631. 51 Chiesa di S. Vincenzo, Libro B.M.D. 1623-1638, in A.C.C., n. 55. 52 Dal libro di cui alla nota prec., n. 65. 53 A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 46. - 459 - puerorum dicti Magnifici Nicolai; in ecclesia vetere Sancti Bartolomei de licentia Em. Cardinalis fratris predicti Magnifici completae sunt sacrae ceremoniae per me Rectorem. Compatribus excell. illustr. domino Hieronimo Duratio ex senatorio ordine Serenissimae Reipublicae nomine et vice Em. Cardinalis Archiepiscopi et Magnifica Ioanna Duratia 54. Dopo aver dato al fratello Cardinale almeno 12 nipoti, quelli qui da me accertati, Nicola morì 3 anni prima del grande prelato e la signora Ersilia 10 anni dopo. Nicola infatti morì il 3 aprile 1664 (d’anni 74) e fu sepolto alla Consolazione il giorno 7. Ersilia invece morì l’il agosto 1677 e fu sepolta al Gesù55. La precedette di due anni il nipotino Bartolomeo Maria, figlio di Pietro Francesco, che di circa un mese morì il 19 marzo 1675 a Sestri P. e il 20 fu sepolto alla Consolazione. S. Pietro in Banchi ci dà notizie anche sulla famiglia di Giovanni, zio del Cardinale, ma più complete le ricaviamo dal testamento di Virginia Giustiniani sua moglie 56. Virginia nomina i figli Emilia e Giovanni con i loro figli, suoi nipoti. Emilia va sposa a Baldassarre Odone fu Nicola il 9 giugno 1610 57. L’11 aprile 1619 il Rettore di Banchi nella chiesa di S. Agnese benediceva le nozze di Giovanni con Battina Balbi di Geronimo e di Geronima58. Il giorno precedente si erano sposati in casa Balbi59. Virginia nomina come figli di Emilia: Giannettino Odone, il Rev.do Don Nicolò e Maria Francesca; come figli di Giovanni nomina: Angela Maria, Giacomo a battes.o Giacomo Maria, e Carlo, a battes.o Carlo Emanuele. Notizia dei due maschi Giacomo e Carlo abbiamo pure da una fid.es vite che presenta il loro padre già deceduto; la data del documento è il 20 marzo 1631 60. In più da una cessio et alia dell’8 febbraio 1631 54 Chiesa di S. Vincenzo, Liber Bapt.orum ab a. 1639 usque 1655, in A.C.C., n. 78. 55 S. Pietro della Porta o de Banchis, Libro Defunti 1625-1701, in A.C.C. per i decessi di casa Nicola Durazzo. 56 A.S.G., Not. G. Francesco Poggio, fz. 32, testamento di Virginia Durazzo Giustiniani del 15 febbraio 1633 con codicilli del 12 e 14 febbraio 1638, fo. 55. 57 Chiesa S. Pietro in Banchi, Libro M.D. 1585-1638, in Arch. parr. S. Lorenzo. 58 Chiesa S. Pietro in Banchi, Libro B.M. 1583-1625 in Arch. parr. S. Lorenzo. 59 Chiesa S. Agnese e del Carmine, Libro M. 1603-1700, atto del 10 aprile 1619. 60 A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 45. — 460 - e da una procura del 26 marzo 1631 si apprende che tra i sei fedecom-missari, tutori, curatori del fu Giovanni fu Giovanni fu Giacomo e dei due figli maschi eredi, vi fu Agostino Durazzo e vi sono Pietro Durazzo e Pantaleo Balbi61. Anche su questi figli si trovano alcuni atti originali. Nella chiesa di S. Agnese e del Carmine il 27 marzo 1620 viene battezzato Giacomo Francesco Maria di Giovanni Durazzo e di Battina Balbi di Geronimo; è padrino Geronimo Balbi, madrina Virginia Durazzo Il 7 gennaio 1621 è battezzato Carlo Emanuele; fa da padrino Baldassarre Odone, madrina Geronima Balbi63. Questo neonato non sopravvisse. Infatti il 26 febbraio 1622 viene battezzato in S. Lorenzo Carlo Emanuele Maria; fa da padrino Pietro Durazzo, madrina Emilia Durazzo, moglie di Baldassarre Odone64. Uno dei figli di Giovanni e Battina ebbe alle sue nozze un testimone d’eccezione; infatti la mattina del 7 febbraio 1639 quando nella chiesa di S. Siro si unirono in matrimonio Giacomo fu Giovanni Durazzo di S. Fede e Maria fu Vincenzo Lomellini di S. Siro, uno dei due testimoni fu il Card. Arcivescovo di Genova, Stefano Durazzo. Lascio al lettore immaginare l’imbarazzo del prete celebrante che si sarà chiesto: ma che cosa salta mai in testa a questi promessi sposi di farsi venire per testimone proprio il Cardinale in persona65. Non mi risulta che altri Durazzo abbiano avuto un tale privilegio. Il gesto sta a dimostrare una volta di più che l’Arcivescovo, nonostante la proverbiale austerità, aveva mente e cuore aperti alla comprensione e alla sensibilità per gli affetti umani e familiari. Virginia morì il 16 novembre 1638 d’anni 74 circa e fu sepolta alla Consolazione66. 61 Ibidem. 62 Chiesa di S. Agnese e del Carmine, Libro B. 1603-1639, c, 200. 63 Ibidem, c. 208. 64 Arch. parr. S. Lorenzo, Libro B. 1607-1627. 65 Chiesa di S. Siro, Libro B.M.D. 1639; A.S.G., Not. Gio. Francesco Queirolo, fz. 57, a. 1632-1646, nn. 69 e 50: testamento di Giacomo Durazzo fu Giovanni del 23 maggia 1638 nel quale nomina il fratello Carlo Emanuele; codicilli del 15 giugno 1640 e annullamento di testamento. 66 Chiesa di S. Pietro in Banchi, Libro M.D. 1585-1638, in Arch. parr. di S. Lorenzo. A.S.G., Not. Gio. Tomaso Podio: testamento di Baldassarre Odone del 18 luglio 1636 nel quale nomina la moglie fra gli esecutori testamentari; v. pure: Scrit- - 461 - Anche Battista, fratello del Cardinale, più anziano di lui di due anni, detto Battista semplicemente anche nel testamento del padre, ha parecchi figli da Antonia Adorno sua sposa. Il 9 ottobre 1622 si presentano alla Consolazione per il battesimo del figlio Giovanni67. Il 26 novembre 1623 Paola Maria Caterina è battezzata in S. Donato e registrata in Banchi; il 18 gennaio 1625 è battezzato in Banchi Gabriele col nome del nonno materno che era appunto Gabriele Adorno68. Il 10 aprile 1626 è battezzata Maria Francesca; fa da padrino Cesare Durazzo. Il 13 giugno 1627 è battezzato Francesco Maria; è madrina Aurelia Durazzo, moglie di Pietro69. Il 28 settembre 1628 Battista e Antonia arrivano a S. Bartolomeo degli Armeni con un altro neonato, Urbano; vien battezzato da P. Lorenzo, curato di S. Vincenzo de licentia Rev.di Vicarii. Il padrino è Pietro, padre di Battista e del Cardinale, madrina Ersilia moglie di Nicola; è registrato alla Consolazione70. Una fides vite del 12 dicembre 1631 parla delle figlie Laura Maria e Francesca71. Antonia Adorno, moglie di Battista, nel suo testamento nomina Laura Maria moglie di Giovanni Carlo Brignole, Francesca moglie di Giacomo Saluzzo, la nuora Francisca, il figlio Giovanni e il figlio Gabriele. Battista ha dato perciò al fratello Cardinale almeno otto nipoti. Antonia stabilisce che il pagamento della dote al genero Giacomo Saluzzo, in lire 28.000, come in atti del notaio Giovanni Stefano Solari, avvenga in questo modo: lire 14.000 siano versate dopo la morte della testatrice e 14.000 dopo la morte del Cardinale Stefano Durazzo suo cognato; al figlio Gabriele raccomanda il pagamento del debito al cognato di ture riguardanti la famiglia Durazzo, ms. cit., cc. 55, 57; A.S.G., Not. Gio. Francesco Poggio, fz. 32, n. 168: testamento di Pantaleo Balbi di Pantaleo del 17 settembre 1644 nel palazzo Balbi, che, dice, cominciato a costruire nel 1618, « che è il primo posto nella strada nuova delli sig.ri Balbi in la vicinanza della piazza del Guastato ». 67 Chiesa di S. Vincenzo, Libro B. 1603-1623 (A.C.C.). 68 Chiesa di S. Pietro in Banchi, Libro B.M., 1585-1625 in Arch. parr. S. Lorenzo. 69 Chiesa di S. Pietro in Banchi, Libro B. 1625-1674 in Arch. parr. S. Lorenzo. 70 Chiesa di S. Vincenzo, Libro B.M.D. 1623-1638, in A.C.C., n. 81. 71 A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 46. — 462 — lui: Giovanni Carlo Brignole72. Battista morì il 21 novembre 1636 in casa di Franco Lercaro in via nova e fu sepolto alla Consolazione il 24 73. Anche di Cesare, altro fratello del Cardinale, abbiamo alcune notizie biografiche sconosciute al P. Levati74 e al Musso75 che di lui si occuparono. Cesare andò a nozze con Maria Giovanna di Giacomo Maria Cer-vetto nella chiesa di S. Marcellino il 25 novembre 1621 76. Maria Giovanna nel suo testamento nomina 6 loro figli: Giacomo Maria, Pietro, Marcello e Battista e le figlie Aurelia e Maria Caterina; di questi, Pietro fu battezzato a S. Bartolomeo degli Armeni e fu registrato alla Consolazione il 14 luglio 1632; gli fu padrino lo zio Nicolò e madrina Francesca, ved. di Bartolomeo Cervetto77. Di uno di essi ho trovato l’atto di morte a S. Sabina; dice così: 1649 die prima aprilis M. Iacobus Maria filius M. D. Cesaris Duratii in Comunione S.e Matris Ecclesie obiit die trigesima mensis martii proxime praeteriti receptis S.S.mis Sacramentis penit. Euch.e et extr. unct.is et hodie sepultus fuit in ecclesia R. R. Patrum Sanctae Mariae de Consolatione extra muros civ. Genuae78. Da un atto di procura siamo informati che il suocero di Cesare ha da tempo lasciato i suoi. Infatti, il 10 aprile 1631, in casa di Pietro Durazzo, in Piazza de Marini, Maria Giovanna, moglie di Cesare Durazzo, dichiarava che suo padre Giacomo Maria Cervetto era morto senza far testamento e non aveva lasciato altri figli che lei; la stessa citava un inventario del 13 dicembre 1629 e rilasciava procura per i beni paterni in Napoli a Francesco Castagnette di Gio. Geronimo79. 72 A.S.G., Not. Gio. Francesco Poggio, fz. 32, n. 222: testamento di Antonia Durazzo Adorno del 21 novembre 1656, con codicilli del gennaio 1657, fatto in casa della testatrice presso « piazza Spinoli de Locoli ». Contiene notizia della morte di lei in data 1 giugno 1657. 73 Chiesa della Maddalena, Libro B.M.D. all’anno 1636. 74 L. M. Levati cit., II, pp. 266-242. 75 G. A. Musso cit., p. 18, n. 3; p. 284 con notizie prese dal Levati. 76 Chiesa di S. Pietro in Banchi, Libro M. 1585-1638, in Arch. parr. S. Lorenzo. 77 Chiesa di S. Vincenzo, Libro B.M.D. 1623-1638, in A.C.C.; A.S.G., Not. Gio. Francesco Poggio, fz. 32, n. 172: testamenti di Maria Giovanna Cervetto del 19 agosto 1633 e del 6 maggio 1645. 78 Chiesa di S. Sabina, Libro B.M.D. 1616-1650, in A.S.S. 79 A.S.G., Not. Gberardi Camillo, fz. 64, 1631 - 2°; Not. Gio. Giacomo Pinceto, 13 dicembre 1629. - 463 - Alla ricerca di notizie biografiche mi vengono alla mano altri documenti d’affari utili allo scopo. Una serie di dichiarazioni dello stesso Cesare Durazzo, in un esposto al Senato, comprende anche la denuncia del numero di sette figli; inoltre che l’azienda di suo padre — trascrivo quasi alla lettera — fu tassata di un milione e 200.000 lire; e che a lui non toccò la quarta parte perchè « svantaggiato in qualche legati »; che per disavventura « i contanti e redditi si trovano negli stati di Spagna la più parte »; in conseguenza la sua parte non gli bastò « a pagare i disordini che in vita di suo padre haveno fatto » e gli restarono « i soliti redditi con molti debiti in scudi di marche ». L’esposto fu letto da apposita commissione il 2 marzo 1646 80. Da un atto di battesimo della chiesa di S. Sabina abbiamo conferma della sua abitazione in via del Campo; si legge infatti che fu battezzato «un ignoto abbandonato in ostio (= portico) del M.co Cesare Durazzo in via del Campo il 26 luglio 1635 »81. Da un certificato di esistenza in vita in data 18 dicembre 1657 siamo informati che i fratelli Pietro e Marcello attestano che il fratello Battista è a Parma82. La data di morte di Cesare non la trovarono nè il Musso nè il Levati che lo dichiara apertamente. Cesare, verosimilmente, morì nella casa in contrada Campi dove °ggi diremmo in via del Campo; ed è per questo forse che la sua morte è registrata a S. Sabina. L’atto dice testualmente: 1680 die XI decembris Ex.mus Cesar Duratius q. Ser.mi Petri, Senatorii ordinis perpetuus procurator, perceptis Sanctissimis Sacramentis ac Deo commendatus in communione fidelium obiit die 8 dicti, aetatis suae annorum 88 circiter et sepultus fuit in ecclesia S. Mariae de Consolatione 83. Per 1’importanza storica del personaggio ritengo opportuno offrire un elenco di documenti e atti notarili dai quali si possono attingere ulteriori notizie su di lui e la famiglia 80 A.S.G., Not. Giacomo Campasso, fz. 3, n. 105. 81 Chiesa di S. Sabina, Libro B.M.D. 1616-1650, in A.S.S. 82 A.S.G., Not. G. B. Badaracco, fz. 24: fides vitae duorum Duratiorum. 83 Chiesa di S. Sabina, Libro D. 1675-1745, in A.S.S.; L. M. Levati cit. II, p. 239. 84 Elenco di documenti riguardanti Cesare Durazzo, fratello del Card. Stefano: A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 45: procura del 2 agosto 1630 dalla quale risulta — 464 - Cesare nel suo testamento del 1657 scrive nei confronti del fratello Stefano: « All’Ecc.mo e Rev.mo Sig. Cardinale mio signore e fratello, dichiaro per infiniti capi esserle obbligato, lo prego e scongiuro con ogni humiltà et affetto a proteggere mia moglie e figli con quella amorevolezza con la quale sino al presente si c degnato di far grada a tutta la nostra casa ». L’elogio è ripetuto in quello del 1664. Del Dogato di Cesare scrissero l’elogio A. C. Rivarola e il P. Matteo Taverna gesuita85. E’ notorio però che, secondo l’uso del tempo, orazioni che Cesare aveva una casa in Via del Campo; ibidem: locazione del 17 settembre 1630 dalla quale risulta proprietario d’una casa in villa S. Bernardini-, dal testamento del padre, cit., la casa e villa Durazzo in S. Bartolomeo degli Armeni, servatis servandis, era anche per lui; Not. G. B. Aronio, fz. 11: testamento di Cesare del 23 giugno 1657, sconosciuto al Levati e al Musso che citano solo quello dell’8 luglio 1664 (L. M. Levati cit., II, p. 239; G. A. Musso cit., p. 283, n. 3). Aveva fatto un altro testamento, poi annullato, in Corsica dove fu governatore (1645-1647); Not. Gio. Giacomo Pinceto, filze 1 e 2: moltissimi atti d’affari per Cesare e la moglie; Not. Giacomo Campasso, fz. 2: locazione del 31 maggio 1662 con la quale affitta ad Alessandro Grimaldi fu Pietro due mansiones sotto la casa dello stesso Cesare « che chiamano rimessa di carrozza » per lire 100 annue; Not. Gio. Francesco Castagnola: moiri atti come governatore di Corsica; Not. Diego Bacigalupo: procura del 4 nov. 1665 quando era Doge; Militarium, fz. 1113: Cesare, capitano di Chiavari, è creditore di lire 1242 da lui anticipate per i soldati il 26 nov. 1627; Not. G. B. Bada-racco, fz. 24: con procura del 24 nov. 1657 il Rev.do Marcello figlio di Cesare, è nominato suo procuratore dal Card. Stefano Durazzo per riscuotergli una somma di lire 2546 e soldi 3 che gli doveva il fu G. B. Aronio, suo notaio, e quindi il figlio Gio. Geronimo; Chiesa di S. Sabina, Libro B.M.D. 1631-1674, dà notizia di due decessi in casa di Pietro, figlio di Cesare; Giacomo Maria, figlio di Pietro, muore il 19 marzo 1673 di soli 8 giorni; Giacomo Maria, figlio di Pietro, muore il 19 dicembre 1674 di soli 9 giorni; in quell’anno Pietro era governatore di Genova. Pietro fu Doge di Genova nel biennio 1685-1687; A.S.G., Not. G. B. Garelli, fz. 5: testamento di Pietro Durazzo di Cesare, del 14 settembre 1676, con codicilli; ibidem, altro del 20 settembre 1681 con codicilli. P. A\tero M. da S. Bonaventura, I Lazzaretti della Città e Riviere di Genova del 1657, Genova 1658, pp. 260-261; 381: tesse l’elogio di Cesare, come del fratello Card. Stefano, per il loro eroico comportamento verso gli appestati; A.S.G., AL. 676, che parla di Cesare come incaricato della Repubblica a Milano. 85 A. C. Rivarola, La primavera regnante; se ne trova copia all’Arch. Civ. e alla B. Franzoniana; M. Taverna, La durevolezza della felicità presagita nella coronazione del Ser.mo Cesare Durazzo Duce della Ser.ma Repubblica di Genova, Milano 1667. - 465 - ed elogi non mancarono a nessun doge; l’ebbero quindi anche gli altri dogi Durazzo 86. Prima di chiudere questo « excursus » di notizie biografiche sui Durazzo, familiari o parenti prossimi dell’Arcivescovo, bisogna dedicare un po di spazio allo zio Agostino, figura eminente nella vita pubblica e arti-stico-religiosa del tempo. E notorio che questo pio e munifico Agostino Durazzo, zio del Cardinale, innalzò la magnifica cappella dell’Assunta nella chiesa del Gesù, dove si ammira sopra l’altare il celebre dipinto di Guido Reni, rappresentante la Madonna con i dodici apostoli; dovremo riparlarne. Agostino era andato a nozze nella chiesa di S. Marcellino il 9 febbraio 1589 con Geronima Brignole, dell’Ill.mo Antonio; gli sposi ricevettero poi la benedizione nuziale in San Pietro in Banchi ili giorno 1187. Un notaio ci dà la data precisa della sua morte: 8 ottobre 1630 88. L atto di morte, da me trovato nella chiesa della Consolazione conferma e precisa che Agostino morì d’anni 75 in villa Multedi sopra l’Acquasola e fu sepolto alla Consolazione il 9 ottobre 1630 accompagnato da 50 preti, dal Rev. do P. Rettore e da altrettanti frati di detta chiesa89. Agostino lasciò alla sua morte tre figli maschi: Giacomo Filippo, Marcello e Geronimo: non nomina le figlie e nemmeno il figlio Francesco che era nato ed era stato battezzato in Banchi il 10 aprile 1595 90. Morì 86 Camillo De Mari, La coronazione del Ser.mo Gio. Battista Durazzo con prefazione di Agostino Castelli, 7 maggio 1640, dedicata a Mons. Francesco Durazzo vescovo di Brugnato, suo figlio; P. Vincenzo Renieri, monaco olivetano genovese, recitò e stampò egli pure l’orazione per la coronazione di G. B. Durazzo e ne diede notizia al grande Galilei. Le due orazioni sono raccolte in un volumetto, edito in Genova, con sonetti, canzoni, poesie in latino e in italiano tutte in lode di G. B. Durazzo; una copia è alla B.U.G.. In onore di Pietro Durazzo uscì Petrus Duratius Dux Genuensium inauguratus, Genova 1620. E’ noto che P. Levati riferisce per ogni doge oratore e titolo dell’orazione. 87 Chiesa di S. Marcellino, Libro B.D.M. 1561-1615, in A.S.S. per la coniunctio; Chiesa di S. Pietro in Banchi, Libro B. 1585-1638, in Arch. parr. S. Lorenzo per la benedictio. 88 A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 45; la data di morte di Agostino si legge in aditio hereditatis del 19 ottobre 1630, in una procura del 25 ottobre e in altra del 6 nov. 1630. 89 Chiesa della Consolazione, Libro B.MD. 1623-1638. 90 Chiesa di S. Pietro in Banchi, Libro B.M. 1583-1625, in Arch. parr. S. Lorenzo. Scrissero l’elogio di Giacomo Filippo Durazzo: T. Campora, Vita del P. — 466 - prima del padre? Fu diseredato? Non lo so. I tre figli furono tutti degni dell’ottimo padre. Giacomo Filippo nacque il 4 novembre 1589 e fu battezzato il 12 novembre91; andò a nozze con Maria Maddalena, figlia di Gio. Francesco Brignole-Sale; il 2 marzo 1620 furono benedette nella chiesa di S. M. di Castello92. Marcello contrasse matrimonio con Caterina, figlia del fu Geronimo Balbi; parla di lei nel suo testamento. Agostino, come riferisce più volte sempre con le stesse parole il suo notaio, fece testamento il 13 marzo 1630. Il testatore, nominando i tre figli maschi suddetti precisa che Geronimo a battesimo fu chiamato Giovanni Domenico; riferisce inoltre d’aver comprato dai fratelli Antoniotto e Giovanni Battista Saoli di Stefano una casa in piazza de Gradi, dietro alla casa grande che Agostino fabbricò in vico del Filo e Canneto; l’alzò d’un piano, ricavandovi la cappella, una stanza, terrazzo e con un ponte sospeso l’unì alla sua casa grande. Il testamento è nuncupativo e fu steso dal notaio nel chiostro di S. Lorenzo, nell’ufficio di Misericordia il 13 marzo 1630 93. Troviamo Maria Maddalena Brignole come madrina al battesimo della nipotina Elena, di Giov. Battista Raggio e di Aurelia, amministrato dal parroco di S. Giorgio nella chiesa di S. Marcellino e al quale fu padrino Emanuele Brignole fu Giov. Battista l’il novembre 1650 94. Ricordata con una targa in S. Bartolomeo degli Armeni è la nobil-donna Lucrezia Durazzo, sorella di Agostino e zia del Cardinale; sposa di Pantaleo Balbi, diede un generoso contributo alla costruzione della sacri-stia (1618) di detta chiesa. Ippolito Durazzo, Genova 1690, capo XI, e G. Giscardi, Diario dei Santi, Beati, Venerabili e d’altri Servi di Dio della Liguria, ras. B. Franzoniana. 91 Chiesa della Consolazione, Libro B. 1577-1590. 92 chiesa di S. Pietro in Banchi, Libro B. 1585-1639, in Arch. parr. S. Lorenzo; A.S.G., Not. Gio. Andrea Celesia, testamento di Marcello Durazzo fu Agostino del 16 aprile 1632, n. 89; L. M. Levati dt., II, pp. 30-31. 93 A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 45: notizia del testamento è in una procura del 25 nov. 1630; in una « cessione e altro » dell’8 febbraio 1631 e in altra procura del 28 marzo 1631; si apprende che Agostino fece testamento in not. Carlo Albata, del quale non esiste più nessuna filza all’A.S.G.. Il testamento però si può leggere in Scritture riguardanti la famiglia Durazzo, ms. cit., cc. 31-39. Il not. Carlo Albara risulta deceduto prima dell’ll aprile 1631; A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 46, procura dell’11 aprile 1631. 94 Chiesa di S. Marcellino, Libro B.M.D. 1615-1673, in A.S.S. - 467 - 1 Agostino ebbe nipoti illustri, cugini secondi del Cardinale. Dal figlio Giacomo Filippo nacquero: Maria Geronima, Giuseppe Maria, Vincenzo, Ippolito Giacinto, Agostino e altri95. La prima nata, appunto Maria Geronima, fu battezzata a S. Lorenzo il 29 maggio 1621; fu illustre suora turchina; sua madre, la già nominata Maria Maddalena, fu monaca turchina assai distinta e sorella di quel famoso marchese Anton Giulio Brignole Sale che tanto fece parlare di sè, prima per la sua spensieratezza, poi per la sua pietà e austerità da sacerdote e da religioso della Compagnia di Gesù96. A S. Lorenzo fu battezzato pure un altro figlio: Gio. Agostino Carlo il 24 novembre 1622. Ippolito fu religioso della Compagnia di Gesù venerato per le sue singolari virtù. Ne scrisse la vita un religioso della stessa Compagnia97; nacque a Genova il 13 agosto 1628 e vi morì il 24 aprile 1671. Anche Vincenzo fu religioso della compagnia di Gesù. Agostino fu battezzato a S. Bartolomeo degli Armeni dal Rettore di S. Vincenzo de licentia il 20 agosto 1631; gli fu padrino Pietro Durazzo, per 1 ultima volta, pochi mesi prima di morire98; manca il nome della madrina. Un altro figlio, Marcello, fu battezzato il 21 ottobre 1634 a San Vincenzo; fu padrino Anton Giulio Brignole e madrina Ersilia, moglie di Nicola Durazzo. Si può rilevare che il Card. Durazzo vivente ebbe parenti quattro Marcelli: un nipote, un cugino in primo grado e due in secondo; diciannove anni dopo la sua morte, il 3 settembre 1686, il primo dei quattro, il figlio di Cesare, diventò Cardinale. Merita un ricordo particolare Giovanni Agostino Durazzo, altro cugino secondo del Card. Stefano; egli è celebre nella storia economico-politica di Genova perchè a soli 33 anni si accinse a compiere (1665-1666) una missione assai difficile: quella di conseguire a Costantinopoli privilegi 93 Arch. parr. di S. Lorenzo, Libro B. 1607-1627, p. 477 e sgg.; A.S.G., Not. Ottavio Castiglione, fz. 45: fid.es vitae di tre fratelli Durazzo del 20 marzo 1631. 96 G. A. Musso cit., p. 175, n. 3; 208, n. 8; 261, n. 17. Michele de Marinis, Anton Giulio Brignole Sale e i suoi tempi, Genova 1914. 97 T. Campora cit. , 98 Chiesa di S. Vincenzo, Libro B.M.D. 1623-1638, n. 81, in A.C.C.; A.S.G., Collegi Diversorum, 1602, n. 23: petizione del 4 marzo 1602, con firma autografa di Pietro Durazzo, padre del futuro Card. Stefano; Not. Ambrogio Rapallo, fz. 56, in atto del 1613 troviamo Pietro Durazzo nella Commissione per la costruzione di strada Balbi; L. M. Levati cit., II, p. 369. — 468 — commerciali per la Repubblica di Genova. Abile e fortunato negoziatore vi riuscì egregiamente95. Giovanni Agostino Durazzo nacque da Geronimo di Agostino e da Maria Chiavari e fu battezzato nella cattedrale di S. Lorenzo il 13 marzo 1632; contrasse matrimonio con Maddalena, figlia del conte Napoleone Spinola, nella chiesa di S. Sabina il 6 febbraio 1668; concluse la sua esistenza a soli 45 anni morendo il 30 marzo 1677 nella parrocchia delle Vigne e il 3 aprile fu sepolto al Gesù, o chiesa di S. Ambrogio*00. Gio. Agostino fu il 3° tra sette fratelli101. Geronimo, il padre, morì d’anni 67 il 29 agosto 1664 e il 1° settembre fu sepolto nella chiesa del Gesù. Aveva fatto testamento il 25 agosto 1664 102. Gio. Agostino Durazzo divenne erede per la settima parte di suo fratello Eugenio il 2 dicembre 1664; il primogenito Gio. Luca, altro fratello, dal padre ereditò le due case « in Sussilia », la casa a S. Margherita di Rapallo, censi, statue, pitture e gemme preziose in scatola d’oro con diamante e ziffa e « Cupido » con scritta « ti amo » quando Gio. Luca stabilì le sue nozze con Francesca di Paolo Geronimo Pallavicino 103. Di un’altra casa passata in proprietà agli eredi di Geronimo Durazzo sappiamo da un altro atto notarile del 24 gennaio 1646; dice che Gero- 99 Onorato Pastine, Genova e l’impero ottomano nel sec. XVII, in « Asli », LXXIII, 1952; Giulio Giaccherò, Storia economica del Settecento genovese, Genova 1951, cap. II. Sull’ambasceria di Gio. Agostino Durazzo alla porta Ottomana e le «capitolazioni» dell’11 nov. 1665 e la presentazione del Durazzo ai Collegi il 9 febbraio 1666 G. A. Musso cit., p. 17, n. 1 cita sbrigativamente il Gio. Agostino. 100 Arch. parr. di S. Lorenzo, Libro BM. 1627-1660; Chiesa di S. Sabina, Libro B.M. 1651-1674, in A.S.S., cc. 382, 383; Chiesa di S.M. delle Vigne, Libro D. 1569-1708, atto di morte 30 marzo 1677. E’ noto che Domenico Piola rappresentò sulla tela « il reale banchetto a cui fu trattato Gio. Agostino Durazzo da Maometto IV » (Vite ecc., Soprani-Ratti, II, p. 39). Eugenio Durazzo commissionò a Gio. Lorenzo Bertolotto un quadro rappresentante Gio. Agostino Du,razzo che come ambasciatore della Repubblica viene introdotto in Costantinopoli all’udienza di Maometto IV. (Vite ecc., Soprani-Ratti, II, p. 103). Gio. Maria Delle Piane ritrasse Gio. Agostino « vestito alla turchesca » (Vite ecc., Soprani-Ratti, II, p. 148). 101 A.S.G., No/. Giacomo Campasso, fz. 2; atto di accettazione e dichiarazione del 3 gennaio 1665 nel quale sono nominati i sette fratelli: Gio. Luca, Eugenio, Gio. Agostino, Marcello, Stefano, Gio. Francesco, Gio. Domenico. 102 Chiesa di S. Pietro in Banchi, Libro D. 1625-1701, in Arch. parr. S. Lorenzo; A.S.G., Not. Giacomo Campasso, fz. 2: testam, di Geronimo Durazzo del 25 agosto 1664. 103 A.S.G., Not. Giacomo Campasso, fz. 2: atto del 3 gennaio 1665. - 469 — lamo Durazzo fu Agostino e Giacomo Filippo suo fratello concedono in affitto a Battista Campostano la terra che hanno nella « villa di Pino Sottano, capitaneato di Polcevera » nominata Venezia; egli pagherà il fitto consegnando tutto il vino bianco e nero'104. Questo dettagliato resoconto sul casato del Card. Durazzo e sulla vasta rete di parentele con altre potenti famiglie del patriziato genovese consentirà al lettore di vedere in più giusta luce la natura dei rapporti Arcivescovo-Repubblica, sui quali dovremo soffermarci nel corso di questo studio. Per quanto si riferisce alla morte e sepoltura dell'Arcivescovo, il Musso è ricco di preziose notizie. Egli dichiara tuttavia di non aver potuto rinvenire l’opuscolo a stampa contenente l’orazione funebre recitata in occasione dei solenni funerali fatti « più tardi » nella Cattedrale di S. Lorenzo in Genova per iniziativa delle tre nobili case dei Durazzo 105. L’opuscolo esiste e si trova nella biblioteca Franzoniana. Si intitola: Dichiarazione dell’apparato funebre fatto nell’esequie dell’Em.mo e Rev.mo Stefano Card. Durazzo già Arcivescovo di Genova, nella chiesa metropolitana di S. Lorenzo dalle tre case Durazzo heredi dello stesso, in Genova, per Giovanni Battista Tiboldi MDCLXVII, vicino alla piazza di Banchi con licenza de Superiori »106. Contiene la descrizione dell’artistico e monumentale tumulo a tre piani ornato di dipinti e statue con sei iscrizioni latine, oltre quella all’esterno della chiesa, opera dell’ingegnere e pittore Stefano Camogli, con i tre gigli, arma e simbolo delle tre case Durazzo. Contiene pure l’orazione funebre pronunciata dal Rev.do Giacomo Calvi, prevosto della collegiata delle Vigne. Nell’orazione staglia un episodio che getta una splendida luce sulla personalità del grande defunto107. Il Cardinale viene a sapere d’un vecchio che odia mortalmente un nemico. Invita il vecchio alla sua presenza, estrae dal petto il Crocifisso, s’inginocchia ai piedi del vecchio, lo supplica di concedere il perdono. Il risultato è immediatamente raggiunto. 104 A.S.G., Not. Giov. Battista Strata, fz. 9. Soprani-Ratti, Vite ecc., accenna alla villa Durazzo di Pino in vol. II, pp. 142, 219, 381. 105 G. A. Musso cit., pp. 287-292; 290, n. 12. 106 Dichiarazione ecc., alla B. Franzon. (segnato XIII, B. 9). 107 Quanto a Stefano Camogli o Camoggi sappiamo che era cognato di Domenico Piola (Soprani-Ratti, Vite dei pittori, ecc., II, p. 31). — 470 — L’amore della cultura e dell’arte Circa le doti che il nostro Durazzo poteva ereditare dal casato, si può accennare a queU’amore per la cultura e per le arti che fu tipico dei Durazzo1. Ma dopo questa affermazione generica, non è giusto passar oltre senza curarsi di alcuni episodi che gettano nuova luce sulla sua personalità. Dico subito però che alcuni storici d’arte moderni gli attribuiscono un merito artistico che con tutta probabilità il Durazzo non ebbe; affermano che la pala dell’Assunta per la Cappella dei Durazzo nella chiesa del Gesù a Genova, la cui esecuzione collocano fra il 1616 e il luglio 1617, fu commissionata al celebre Guido Reni dal nostro Cardinale allora legato di Bologna2; in poche righe molte inesattezze. Il Durazzo nel 1616-17 non solo non era Cardinale, ma nemmeno ancora sacerdote; fu ordinato infatti l’anno 1618 e contava 24 anni3; fu eletto Cardinale il 28 novembre 1633 4 e fu legato a Bologna dal giugno 1640 ai primi di novembre del 16425. E’ notorio che per la sua nomina a Cardinale si fecero in Genova « pubbliche e private allegrezze » le sere dei giorni 7, 8, 9 dicembre 1633 6. Mentre era ancora studente, il Durazzo può aver conosciuto il sommo artista in Roma e aver saputo dell’urto che ebbe col genovese Card. Spinola. Per quell’urto il Reni rinunziò alla commessa d’una tavola con la storia di Attila, per S. Pietro in Vaticano, restituì sdegnosamente l’anticipo 1 G. A. Musso cit., p. 17. 2 Mostra di Guido Reni, catalogo critico a cura di G. C. Cavalli con la collaborazione di A. Emiliani e di L. Puglioli Mandelli, Bologna 1954, pp. 52, 53; e ancora: Guido Reni a cura di C. Gnudi e G. C. Cavalli, Firenze 1955, pp. 68, 69. L’errore di indicare come committente il Card. Stefano Durazzo è ripetuto in: La pittura a Genova e in Liguria dal Seicento al primo Novecento, Genova 1971, p. 96. 3 G. A. Musso cit., p. 30. 4 G. A. Musso cit., p. 45, n. 2. 5 G. A. Musso cit., pp. 114, 128. 6 Memorie di varie cose di Genova dall’anno 1516 all’a. 1647 con le notizie del q. Ser.mo Alessandro Giustiniani, ad uso dell’avvocato Carlo Cuneo, ms. in B.C3., c. 140. - 471 - dei 400 scudi; lasciò Roma, era il 1614, per non più tornarvi e si ritirò a Bologna 7. Gli storici moderni si rifanno al Malvasia e al Bellori; ma la paternità dell ordinazione della celebre pala non è poggiata da loro a nessun documento. C’è chi ritiene più prudente attribuire genericamente la commissione dell’Assunta alla famiglia Durazzo, come hanno fatto per esempio il Labò, il Grosso, e prima di tutti, il Soprani-Ratti8; ma senza dubbio si deve attribuire la paternità della commissione ad Agostino Durazzo, zio di Stefano poi Cardinale Arcivescovo, e non suo fratello, con fondamento sull iscrizione che si legge oggi davanti alla cappella, come la lesse il Piaggio nel 1720: Deiparae in coelum Assumptae Augustinus Duratius lacobi olim filius Duci (illeggibile) sibi posterisque posuit anno 1627- at vos mortuo ne prohibeatis gratiam e su altre fonti usate già dal P. Levati9. Il Durazzo già Cardinale e Legato a Bologna ebbe veramente rapporti 7 Vite dei pittori, scultori, architetti che hanno lavorato in Roma morti dal 1641 al 1673 di Giambattista Passeri pittore e poeta; la ediz., Roma 1772, p. 75. 8 II Gesù (S.S. Andrea e Ambrogio) di M. Labò, Genova 1932, p. 36; G. B. Boero cit.; O. Grosso, Catalogo della Galleria di Palazzo Bianco, Milano 1912, p. 51; R. Soprani - C. G. Ratti cit., II, pp. iii, n. 2. 9 D. Piaggio, Epitaphia, sepulchra et inscriptiones cum stemmatibus marmorea et lapidea existentibus in ecclesiis etc. ms. sec. XVIII (1720) della B.C.B., I, c. 276. P.L.M. Levati cit., I, p. 154. A proposito della maestosa dimora dei Durazzo in Via Balbi, in quel palazzo noto ancor oggi popolarmente come Palazzo Reale, si impongono alcune rettifiche. Il Musso (cit., p. 18, n. 3) attribuisce l’erezione dell’ex Palazzo Reale a Giacomo Durazzo, fratello dell'Arcivescovo; altra volta (p. 56, n. 7) lo attribuisce a Pietro Durazzo, suo padre. Il palazzo non è opera del padre Pietro e tanto meno del figlio Giacomo, fratello del Card. Stefano; il palazzo non è nato Durazzo, è nato Balbi. Dai Soprani-Ratti (cit., p. 321) è aggiudicato ai Balbi. M. G. Rutteri, autrice degli Indici, alle Vite ecc. del Soprani-Ratti, 1965, non esita (pp. 58, 61, 62) ad attribuirlo a Francesco Maria Balbi (del quale in Soprani-Ratti cit., II, p. 40). Si richiama ai Balbi in proposito anche C. C. Malvasia, Felsina pittrice, 1841, II, pp. 118, 355. Soprattutto dopo le ricerche esaurienti e la documentazione offerta dal Labò sull’argomento, non è lecito ripetere l’errata attribuzione. Si vedano di M. Labò, I palazzi e le ville che non sono più del Re, Milano 1921, p. 78; I palazzi della Conferenza-Palazzo Reale, in « Il Lavoro del 7 marzo 1922 »; L’Ansaldo in lite e lo Strozzi perito, in « Riv. Mun. Genova », V, 30 aprile 1925, p. 431, n. 4. Si vedano pure A. Giusti, Palazzi di Genova, Varazze 1928, p. 11, estratto da: Italia industriale artistica, Torino V, 1922; M. de Benedetti, Palazzi e ville reali d’Italia, Firenze 1913, II. Ripetono l’errore del Levati (cit., I, p. 394) e del Musso, — 472 — con Guido Reni, ma nell’agosto del 1642. Al Malvasia dobbiamo essere grati, noi Genovesi in particolare, per aver raccolto e conservato alla storia un episodio degno della nobiltà d’animo del nostro Durazzo10. Reni si ammalò il 6 agosto e fu ricoverato all’Ospedale della Vita a Bologna. Aveva 67 anni. « Ciò intesosi per la città ferono a gara molti de’ primi Cavalieri per averlo in casa loro e ordinargli quella servitù di che nelle sue stanze e senza il governo di donne era privo; e 1 Cardinal Durazzi tentò di farlo portare nel suo freschissimo quarto a basso del Palagio pubblico e che riguarda il Giardino; e perchè tutti rifiutò e si elesse la casa del mercante Ferri, lo mandò a servire con la sua seggia a’ suoi lettighieri medesimi, vestiti a livrea, accompagnato da uno dei suoi aiutanti di camera alla nuova abitazione ». Il Reni, come è noto, si spense alle due di notte del 18 agosto 1642 e fu sepolto nella Cappella Guidotti della chiesa di S. Domenico nella sua Bologna 11. Nel Card. Legato la stima dell’uomo e dell’artista prevalsero sull’antipatia che il Reni s’era guadagnata indebitandosi fortemente nel gioco delle carte. Prima che col Reni, il Card. Durazzo, nel tempo in cui egli era legato pontificio a Ferrara, ebbe rapporti di stima e di lavoro col Guercino ’2. Scrive il Malvasia: « 1635: La Comunità di Cento fece fare per donare all’Em.mo Durazzo legato di Ferrara, un S. Gioseffo col puttino che intento rimira gli instromenti di falegname, per alludere alla passione, ecc.... ». La commissione, scrive ancora, fu affidata al celebre Cav. Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino da Cento B. E più oltre aggiunge: « Il dì 4 giugno. Dalli Signori Consoli di Cento si è ricevuto ducatoni 140 per il quadro di S. Giuseppe col Puttino, il quale hanno donato all’Em.mo Signor Card. Durazzo Legato di Ferrara, che fanno in tutto scudi 192 »14 anche A. Codignola, I fasti del palazzo Durazzo e dell’Hostaria Falconis, in « Gazzetta di Genova », a. 87°, num. X del 31 ottobre 1919, pp. 10-12 e A. Dellepiane, Vecchie dimore genovesi - palazzo reale, in « Il Lavoro » del 6 settembre 1935. 10 Can. Conte C. C. Malvasia, Felsina pittrice, Bologna 1678; 1841; 1967, P- 39. 11 C. C. Malvasia, Le pitture di Bologna, Bologna 1686, p. 265. 12 G. A. Musso cit., p. 57 e sgg. 13 C. C. Malvasia, Felsina pittrice cit., p. 263. 14 Ibidem, p. 313. - 473 - 1B E lo stesso Card. Durazzo dà ordinazioni al Guercino: « Il dì IO nov. 1636 daH’Em.mo Sig. Card. Durazzo Legato di Ferrara, si è ricevuto ducatoni 150 per il quadro della Madonna col Bambino valutato detto quadro per una figura e mezzo, quali danari fanno a lire 5.5 la somma di scudi 103 lire 3 »15. « 1637. Un S. Giovanni nel deserto all’Em.mo Card. Durazzo». « Il di 4 giugno 1637, dalTEm.mo Card. Durazzo Legato di Ferrara, si è ricevuto ducatoni di Mantova numero 100 per il quadro del S. Giovanni nel Deserto che fanno scudi 129 lire 13 »lé. « S. Giovanni nel Deserto, figura intera al naturale colla macchietta del Salvatore in lontananza, lavoro finito di seconda maniera che fu fatto eseguire dal Card. Durazzo di Genova per farne dono alla di lui sorella maritata in casa Menglii di Forlì, dove trovavasi detto quadro nella già soppressa Confraternita detta delle Stigmate di giuspatronato di detta casa Menghi »17. Non ho fatto ricerche per sapere quale era questa sorella, ma forse fu Cassandra, perchè l’altra sorella, Maria, andò sposa a Bernardo Garbarino fu Francesco 18. Anche una cognata ci offre indirettamente una testimonianza della sensibilità del Cardinale in fatto di gusto artistico. Maria Giovanna Cervetto fu Giacomo Maria, moglie di Cesare, fratello dell'Arcivescovo, gli lascia per testamento un dipinto, del quale non ci dichiara l’autore: « Item lascia all’Em.mo Signor Cardinale Stefano Durazzo suo cognato un quadro di Nostra Signora con nostro Signore in braccio e S. Giobatta e due angeli, in tavola » 19. Se si pensa che nomina esecutori testamentari e curatori dei suoi sei figli, il marito e il Card. Stefano alla cui speciale protezione e pietà caldamente li raccomanda, se ne deduce facilmente che al Cardinale cognato, con quel dono, vuol fare un omaggio degno di lui e di suo massimo gradimento. Il nostro Durazzo da buon genovese gusta anche il suono delle campane. Si deduce da una documentata notizia della fusione duna campana su ordine suo. 15 Ibidem, p. 315; cfr. anche II Guercino, Catalogo critico dei dipinti a cura di Denis Mahon, Bologna 1968; Nefta Grimaldi, Il Guercino, Bologna, s. d.; Nefta Barbanti Grimaldi, Il Guercino, Bologna 1968, pp. 97, 98, 99. 16 C. C. Malvasia, Felsina pittrice cit., pp. 264-316. 17 Ibidem, p. 343. 18 Dal testamento del padre, Pietro Durazzo, cit. 19 A.S.G., Notaio Gio. Francesco Foggio, fz. 32, n. 222: testamento di Maria Giovanna Cervetto del 6 maggio 1645, in casa Airolo, sotto l’abitazione di lei, in vicinanza del Campo. — 474 — « Giovedì 25 agosto 1650 pro fabbrica campane. Bernardino Cascione fu Antonio di Oneglia, abitante in Genova, promette al Card. Durazzo di fabbricare una campana di metallo in ogni perfetione, di rubbi 12 in peso in circa, da consegnare in Genova fra giorni 10 ». La promessa è fatta al Cardinale, in persona d’un suo incaricato, il Rev.do Giovanni Geronimo Sanseverino; questi a sua volta promette di pagare al Cascione soldi 17 per ogni libra di peso, che fa, aggiunge il documento, lire 150 di moneta corrente di Genova; somma attualmente a mano del notaio Cane, arcivescovile G. B. Aronio. Nello stesso documento si legge la dichiarazione delPavvenuto pagamento della campana che vien detta ora di rubbi 11 e libbre 19 20. Non è detto a chi fosse destinata quella campana; nulla si può dedurre dal fatto che il Rev.mo Sanseverino era canonico di S. Lorenzo. Indubbiamente il Durazzo si è dimostrato sempre, cuore e mente, aperto in tutte le direzioni: del sapere, dell’arte, degli affetti familiari, dei rapporti sociali. A questo riguardo vai la pena dì presentare un documento a stampa, sperdutosi ormai in una miscellanea e sfuggito all’ultimo biografo21. Egli accenna alle provvide cure del Card. Durazzo legato di Bologna, per il riordinamento e l’incremento degli studi nella famosa Università22 Passo preliminare di questa riforma fu la promulgazione di una serie di disposizioni, già studiate e compilate allo scopo dal Card. Sacchetti, suo predecessore, in data 8 febbraio 1639, ma pubblicate a stampa il 12 luglio 1641 per decreto del Durazzo in data 26 giugno 1641. Si tratta di una lettura interessantissima che dimostra l’impegno dei responsabili per salvaguardare la serietà e la superiorità dello « Studio ». Il nostro ebbe rapporti con altri uomini famosi del suo secolo. Conobbe Gian Domenico Cassini, se non prima, nel 1646. Infatti nel detto anno il Cassini in presenza del Card. Durazzo discusse e difese valorosa- 20 A.S.G., Not. G. B. Badaracco, fz. bis 17-1650-11. 21 Ordinationi ecc. in Miscellanea alla Bibl. Franzoniana di Genova (segnata Ma-B-41), fase. 50, cc. 446-455. Assolutamente anacronistico sarebbe oggi l’art. 38 che suona così: Essendo molte volte i Dottori nel leggere e gli Scolari nell’udire le Lettioni disturbati dallo strepito de carri e carrozze che passano per le strade convicine alle Scuole: Si ordina e comanda che si tirino le catene alle avenute delle dette strade, dove altre volte furono rimesse in tempo del già Sig. Card. Giustiniano Legato, e stiano tirate per tutte quell’hore e spatio di tempo che si legge ». 22 G. A. Musso cit., pp. 117-118. Sul Card. Giulio Sacchetti vedi lungo e interessante art. sul quotidiano L’Osservatore Romano del 4 gennaio 1959. - 475 - mente tesi di filosofia e di teologia, particolarmente del Card. Lugo, studiate dal futuro scienziato sotto la guida del P. Ghiringhelli23. Legato pontificio in Romagna, il Durazzo accettò la dedica d’un'opera di un giurista genovese, cultore d’astronomia, Francesco Montebruno. L’opera porta il titolo seguente: << Ephemerides novissimae — motum coelestium — Fr.sci Montebruni j.u.d. Patritij Genuensis ad longitudinem Inclitae Urbis Bononiae — ab anno 1640 ad annum 1645 ex Philippi Lansbergi Mathematici celeberrimi recentissimis et exactissimis observationibus summo studio supputatae ... ad Em.mum Principem — Stephanum Duratium — S.R.E. Cardinalem Amplissimum — Genuae Archiepisco-pum et Bononiae a latere — Legatum meritissimum — Bononiae 1640 — typis Io.Bapt. Ferronij ». Seguono due pagine latine di dedica nella quale l’autore esalta insignes animi tui dotes, e in 4a pag. l’enfatica affermazione: Em.mo Principi Steph. Card.li Duratio Astronomia in Opere contenta se vovet!24. Se le cure e lo zelo del ministero pastorale non fossero stati congegnali alla sua vocazione, il Durazzo sarebbe stato indubbiamente nel laicato un grande uomo di governo, un politico, un diplomatico, ma anche lo studioso che estende il suo interesse agli incontri con le persone colte e gode della conversazione dei dotti. Quando i collaboratori del gesuita P. Bolland, cioè i P. P. Godefroid Henschen e Daniel Papebroek viaggiarono in Italia dal 1660 al 1662, si trattennero a Genova dal 5 al 20 marzo 1662. Il P. Doria li accompagnò dal Cardinale Arcivescovo: il Durazzo si interessò molto ai loro studi e alle loro ricerche25. E’ noto che la società dei Bollandisti, sorta appunto nel sec. XVII, 23 Louis Guillaume Figuier, La cencia y sus hombres... dall’antichità al sec. XIX, con i ritratti dei personaggi, tradotta in spagnolo, sulla 3a ediz. francese, da Don Pelegrin Casabò y Pages, Barcellona 1880. Nel II tomo, pp. 1039-1071, l’autore traccia la biografia di G. D. Cassini dalla sua Autobiografia edita postuma a Parigi nel 1810. L’episodio citato alle pp. 1040-1042. 24 La 2a ediz. dell’opera, parte prima, il Montebruno la dedicò a Pietro Bar-gellino bolognese i.u.d. La seconda parte, dal 1651 al 1660, non fu dedicata nè al Durazzo nè al Bargellino. L’opera si trova nella B.U.G. Vedi pure: C. Desimoni, Notizie di Paris Maria Saivago e del suo osservatorio in Carbonara, in « Giornale ligustico», 1875, p. 475. 25 M. Battistini, I Padri Bollandisti Henschenio e Papebrochio a Genova nel 1661, in « Giornale storico e letterario della Liguria », VII, 1931, pp. 43-45. — 476 — iniziò la monumentale pubblicazione degli Acta Sanctorum in armonia alle esigenze della progredita critica storica. Cordialità e interesse il Cardinale manifestò pure in occasione del soggiorno genovese del nunzio Rossetti. Mons. Carlo Rossetti fu a Genova dal 13 al 19 luglio 1639, ospite dell Arcivescovo che lo ricevette « con onore e benignità singolari ». Lettura interessante è la cronaca del viaggio di questo nunzio pontificio, mandato dal papa Urbano VIII in Inghilterra nel 1639, pervenuta a noi mercè la descrizione che ne ha lasciata il suo segretario Domenico Fantozzi Parma, pubblicata a Bologna, da Giuseppe Ferraro nel 1885 presso l’editore Romagnoli 26. E’ da escludere che il Cardinale abbia accolto il nunzio in episcopio per cattivarsi le grazie dei Barberini: è nota la fierezza del suo carattere. Non era in alcun modo obbligato a dargli alloggio: più d’una antica famiglia patrizia genovese avrebbe desiderato accogliere il personaggio; paradossalmente, non poteva essere semplice gentilezza, il movente del- 1 ospitalità al nunzio; la fede del Cardinale, il suo amore alla Chiesa, la sua bontà, la sua appassionata apertura per tutti i problemi storici, politici, religiosi, culturali inclusi nella missione del nunzio, furono i veri motivi della disinteressata fraterna ospitalità. A questo punto bisognerebbe dedicare un capitolo a parte al Card. Durazzo costruttore di chiese e campanili, restauratore di chiese fatiscenti, sì da essere definito « l’appassionato propulsore dell’architettura religiosa barocca del Genovesato », ma l’argomento è già stato trattato da specialisti27. 26 A. Neri, Passaggio da Genova del Nunzio Mons. Carlo Rossetti, in « Giornale Ligustico », 1885, pp. 468475. 27 G. Colmuto, Chiese barocche liguri a colonne binate, Genova 1970, pp. 141, 142, 159, 162, 163, 166, 168. - 477 - Il Governo Genovese e il Cardinale Arcivescovo Le lotte incessanti tra il Governo della Repubblica e il Cardinale Durazzo sono collocate daH’ultimo biografo in modo decisamente anacronistico in un ambiente storico, che pure egli dà prova di conoscere bene. Emerge di continuo l’impegno di esaltazione del suo personaggio, che davvero la merita incondizionatamente; qua e là affiora timidamente il tentativo di giustificare con le condizioni dei tempi l’atteggiamento del Senato; in realtà prevale ad ogni occasione in confronto di quest’ultimo un giudizio poco oggettivo. Il biografo si rende conto che quei contrasti, pure sconcertanti, « facevano parte del bagaglio morale del secolo XVII » e cita ad esempio la « contestazione » del Duca di Savoia. Ammette che « c’era forse una certa scusante in tale atteggiamento: una piccola potenza come la Repubblica ligure, incapace ormai di conservare la gloriosa eredità del suo passato, viveva nel continuo timore di vedersi sminuita di fronte alle Grandi Potenze, dall’autorità della Chiesa ». Nella sua onestà di storico, sembra che voglia essere imparziale anche verso il Senato: « per senso di obbiettività dobbiamo segnalare l’unica attenuante che ebbe forse il Governo nel vedere in ogni atto del Card. Durazzo un atteggiamento contro la sua autorità » e vede l’attenuante nelle turbolenze interne della Repubblica, ma ad essere obbiettivo, proprio non riesce. Il biografo tocca più volte la vera ragione dei contrasti: «... Governo della Repubblica sempre sospettoso che ogni minimo gesto del Prelato potesse in qualche modo costituire una lesione alla sua dignità o una menomazione dell’autorità dello stato... » e di questo timore di menomazione parla ancora altre volte, e tuttavia non avverte nè riconosce la sua portata storica nè la sua validità. Gli avvenimenti o episodi che costituiscono le varie fasi dei contrasti li conosce e li espone: la controversia sull’ubicazione, nel presbiterio dell’altar maggiore in S. Lorenzo, della cattedra arcivescovile e del trono ducale; la controversia sulla priorità del saluto da parte del predicatore, dell’incensazione, del bacio di pace; - 478 - la controversia sul titolo di Eminenza ai Cardinali stabilito da Urbano Vili con decreto 10 giugno 1630; la controversia per il cerimoniale d’ingresso in diocesi dell’Arci-vescovo; la controversia per l’incoronazione del Doge; la controversia sul sinodo del 1643; la controversia sui terratici tra « gride » del Senato e scomuniche del-l’Arci vescovo; la controversia sull’estensione dei poteri del Magistrato dei Protettori del Seminario '. La vertenza per la collocazione della sedia arcivescovile nella Cattedrale di S. Lorenzo ebbe ripercussioni internazionali. Sull’atteggiamento della Francia riferiscono diverse lettere del residente genovese a Parigi, Bernardo Baliano. Il 2 ottobre 1665 il Baliano scriveva al governo di Genova: « Avendo saputo che trattandosi in Roma in una congregazione di Cardinali qualche differenza tra V.V.S.S.Ser.me e cotesto Mons. Arcivescovo per causa della sedia episcopale e del baldacchino molti di essi Cardinali l’intendevano a favore di V.V.S.S.Ser.me, ma che il Cardinale di Retz vi si era gagliarda-mente opposto sostenendo con grande energia le parti dell’Arcivescovo »; egli fu redarguito dal Re di Francia e la sua opposizione alla Repubblica, in seguito a questo intervento cessò. In altra lettera del 20 ottobre il Residente torna a trattare dell’atteggiamento mutato del Cardinale di Retz e rispondendo ad una interrogazione di « Monsù di Lionne » scrive: « Essendo il nuovo Arcivescovo molto inferiore di dignità al passato che era Cardinale, la Repubblica Ser.ma per caminar con coherenza ha giudicato a proposito trattarlo in alcune cose differentemente dal suo predecessore... furono addotte le prerogative o qualità Regie della Repubblica a giustificare le novità introdotte dopo Mons. (de) Marini ». Il 24 ottobre i Serenissimi sarivono al loro residente a Parigi: « Fu vero che il Cardinale di Retz evocandosi in Roma nella Congregazione di Immunità dove si discorreva del luogo da noi assegnato alla Catedra di questo Mons. Arcivescovo trasportata dal posto ove la teneva il M. Card. Du Razzo (sic) alla parte dell’Epistola, si riscaldò molto contro tale deliberazione, dicendo che era una mostruosità questa i G. A. Musso cit., pp. 72, 73 , 74, 81, 82-89, 136, 141, 142, 149, 205-214, 218-222, 278. - 479 - trasportatione di cattedra; di fatto, per quanto per parte nostra non si sia operato se non un fatto necessario et aggiustato al dovere et ad ogni convenienza in riguardo della conservazione della dignità della Repubblica per le considerazioni che vedrete espresse nell’accluso capitolo di lettera scritta a Roma al M.co Ferdinando Raggio, Capitolo di lettera scritta a Roma al M.co Ferdinando Raggio li 24 luglio 1665... Per quel che spetta poi alla seconda parte della mutuazione di questa Sedia Archiepiscopale nè pure vediamo che si possa formare doglianza attesoché rimasta vacante questa Catedrale per la rinoncia fattane dal sig. Card, Durazzo e precorse qua le voci di non dover essere più provvista di Cardinale, ma di altro semplice Prelato che come tale non potrà giammai parer conveniente che dovesse occupare l'istesso posto che havea il sig. Cardinale, la Repubblica si è mossa con le preco-gnitioni opportune del luogo e trattamenti che hanno gli Arcivescovi e Vescovi ne Stati di tutti gli altri Prencipi d’Italia a stabilire a quel Prelato non Cardinale che dovea esser eletto, quel luogo e trattamento più decente e degno che potea giammai esser desiderato. Onde non scorgiamo potersi considerare cosa alcuna in questa operatione che non sia aggiustata a dovere et alle misure di quel decoro col quale è mente della Repubblica che sia riconosciuto e trattato il suo Arcivescovo. Il che tanto è vero che dopo di sortitane l’elettione in persona del Mons. Spinola anco tutti li suoi parenti et amici concordemente hanno confessato che non potea ricevere in ciò maggior honore et dimostratione di paterno affetto della Repubblica di quello (che) è seguito nella repositione di detta sedia non variata in altro nel sostanziale di essa. Per le quali considerationi si dovea sempre aspettare che fosse da Sua Santità lodato e non disapprovato il successo il quale per se stesso largamente si difende... ». Il Residente Ferdinando Raggi il 14 novembre 1665 scriveva da Roma ai Ser.mi Collegi sull’argomento: Il Card, di Retz dice havergliene parlato Mons. di Bourlemont et havergliene da Parigi scritto Mons. di Lionne e che egli farà le sue parti in servitio della Repubblica Ser.ma, ma metteria in consideratione di esser ancor egli ecclesiastico, onde lodava che si pensasse di troncare questa controversia con qualche mezo termine; questo mezo termine però egli non l’ha specificato, né mostrato segno d’haverlo in pronto ». Sempre per esigenza di dignità, una lettera di sua Maestà Cristianissima alla Repubblica fu respinta perchè invece di essere indirizzata ai « Carissimi e Grandi Amici » diceva ai « Carissimi e Buoni Amici »; così postillava il Cancelliere dei Serenissimi una lettera del Residente Baliano da Parigi del 10 ottobre 1664 1 bis. Ma bisogna dire che le fasi del contrasto tra le due autorità non si esauriscono in questo elenco; molti altri episodi ai quali fanno riferimento documenti ufficiali, o sono sfuggiti al biografo, o di proposito evitò d’in- lbls A.S.G., Busta Francia n. 14/2190, anno 1664; n. 15/2191, anno 1665-1667. Legazione di Bernardo Baliano gentiluomo residente appresso il Re Cristianissimo dall’anno 1663 al 1666, ms. del sec. XVII della B.C.B. - 480 - eluderli per non appesantire forse la narrazione. Accenno ad alcuni perchè chiariscono meglio la politica del secolo e le rispettive posizioni delle due autorità. Un foglio del 20 febbraio 1665 oltre alla critica abituale circa la posizione della sedia, il baldacchino più alto, l’uso dei gradi, rimprovera al-l’Arcivescovo che funzionando nella chiesa delle Vigne tralasciò l’orazione prò Repubblica Genuensi1. L’episodio delle proteste contro i Vicari Generali dell’Arci vescovo, è molto significativo. « Il Ser.mi non vogliono come Vicario Generale della Diocesi un prete forestiero che fu già uditore del Card. Torres e conseguentemente dipendente degli Spagnoli: costui è Giulio Cesare Borea Marchiano. L’Arcivescovo lo sostituisca con un genovese »3. Questa notizia data da un documento ufficiale è confermata da uno scambio di corrispondenza ufficiosa tra Bartolomeo Passano e il Card. Durazzo a Bologna. Bartolomeo Passano scrive al Card. Durazzo l’8 marzo 1642 e gli ricorda ancora il malcontento della Repubblica nei confronti di Giulio Cesare Borea in quanto asservito allo straniero. Dalla lettera si è informati che c’era stata qualche richiesta anche nei confronti del Mar-Iiani, detto erroneamente Maragliano, in quanto sempre indisposto; se n’era chiesta la sostituzione con un altro, ma non con il Borea. Una nobilissima lettera autografa del Card. Durazzo da Bologna, del 22 marzo 1642, al Passano dichiara che il Marliani se lo è chiamato a Bologna per provvedere alla sua guarigione; che comunque non ne affretterà il ritorno in Diocesi come Vicario; ribadisce e rivendica la sua piena libertà di ministero4. E’ degno di nota, per una spassionata valutazione dei fatti, che questo Mons. Giovanni Agostino Marliani scrive al Senato genovese il 5 febbraio 1645 per dargli notizia di essere stato eletto da Papa Innocenzo X, 2 A.S.G., Secretorum, n.g. 1581, anni 1644 in 1665. 3 A.S.G., Secretorum n.g. 1568, anni 1632 in 1638, n. 32; Memorie di varie cose di Genova dalla. 1516 sino di'a. 1647 con le notizie del q. Ser.mo Alessandro Giustiniani (la narrazione però comincia dal 6 aprile 1611), ms. in B.C.B., c. 171. Il Borea aveva sostituito il Marliani a metà settembre 1640; cfr. pure D. Cambiaso, I Vicari generali degli Arcivescovi di Genova, in « Asli », XII, 1972, pp. 11-70. 4 A.S.G., Litterarum Senato, A.S. (Archivio segreto), n.g. 1987, a. 1642-1646, n. 316. - 481 - Vescovo di Mariana in Corsica5. Va pure ricordato che il Marliani fu stimato e ben voluto vescovo di Reggio Emilia dal 1662 al 16746. Nel 1662 vi fu un’altra protesta del Senato contro un altro Vicario Generale. Il Senato Genovese incaricava i M.ci G. B. Lomellino e G. B. Centurione di significare al Card. Arcivescovo che il suo Vicario doveva essere espulso entro un mese e sostituito da uno migliore a causa della sua condotta per nulla edificante. Se il Cardinale non assentirà, entro altri otto giorni i due incaricati dovranno accompagnare il Vicario fuori della città e di tutto il territorio della Repubblica. I due vanno dall’Arcivescovo il giorno 4 settembre e il 5 riferiscono al Senato7. Vi furono, se pure di breve durata, due controversie tra Senato, Canonici di S. Lorenzo e Arcivescovo per trasformazioni che i Canonici progettavano nella sacristia di S. Lorenzo prima e nel chiostro poi. Un ms., sempre esattamente informato, narra gli incidenti così: « li 18 febbraio 1639, li Canonici della cattedrale di Genova tentavano di far certa fabbrica nella sacristia maggiore. Il Senato il vieta col mandar li Tedeschi che impediscono; fa intendere al Cardinale Arcivescovo che la chiesa e quella sacristia era jus-Patronato della Repubblica; che rimova i canonici da quella pretenzione; (il Card.) risponde che levi i Tedeschi, ricusando di far parola che non procederanno oltre essi Canonici; con che non furono levati essi Tedeschi; onde esso Cardinale ordinò che nel Duomo suddetto non si celebrassero Messe et egli stesso trasportò il S.S. Sacramento in S. Giovanni il Vecchio. « Li 26 febbraio 1639 il Senato leva i Tedeschi posti nella sacristia della Cattedrale e vi pone due segretari di palazzo; rArcivescovo trasporta il S.S. in chiesa»8. Un’altra fonte riporta l’episodio più succintamente, riferendo « che nel 1639 vi fu urto tra l’Arcivescovo e il Senato per l’occasione che i Canonici vollero apportare modifiche alla sacristia per renderla più comoda e il Senato per difendere il suo giuspatronato vi mandò manipulus preto-rianorum militum ai impedire ogni novità »9. 5 Memorie cit., cc. 22-51. 6 U. Zuccardi Merli, Vescovo genovese del '600 in quel di Reggio nell'Emilia, in « A Compagna » del maggio 1930, pp. 13-15. 7 A.S.G., Manuali Decreti Senato, n. 912, cc. 95-96 del 30 agosto 1662. 8 Memorie cit., c. 166. 9 A.S.G., Sinodi e scritture riguardanti gli Arcivescovi di Genova, dal 163) al 1745) v.n.g. 612 contenente « pandetta delle scritture intorno la pratica de’ terratici; relazione della gionta di giurisdizione per incamminar il trattato di aggiustamento ecc.; memorie ricavate dalla relazione del Card. Durazzo fatta ad limina pet il triennio 25 del 30 settembre 1659». - 482 - Il collegio dei Canonici Metropolitani dispone la riforma del chiostro, ma il Senato lo giudica proprietà della Repubblica e pone il veto; siamo nel 1644 10. Per giudicare obbiettivamente questo atteggiamento del Senato non bisogna dimenticare che proprio nel Seicento, per iniziativa e opera del Senato, ex aere pubblico splendidi e costosi abbellimenti furono fatti nel coro e nell’abside di S. Lorenzo Quanto ai lavori del chiostro furono iniziati, poi sospesi e quindi autorizzati; è notorio che urgeva limitare la spesa pubblica e più ancora riservarsi l’iniziativa a sostegno dell’autorità e del prestigio. Un decreto del 18 dicembre 1643 a firma del canc. Orazio Spinola prescriveva: Intimetur operariis et fabris murariis qui operam modo dant constructioni validi muri in claustro Ecclesie D. Laurentii ut cessent ab opere ipso sub poena etc. per Ser.mum Senatum ad calculos n. Tuttavia il pilastro da finire del chiostro di S. Lorenzo fu oggetto di ripensamento e la cessazione già intimata fu sospesa dopo circa due mesi. Si legge infatti: « Ex.mi et M.ci Deputati ad fabricam Ecclesie D.(ivi) Laurentii in tertio et legitimo numero congregati ex facultate ipsis Ex.mis et M.cis Deputatis per Ser.mum Senatum die 12 p.ntis tributa ad calculos, R.R. Canonicis d.e Ecclesie concesserunt ne opus validi muri quadrato lapide in claustro dicte ecclesie construi ceptum detrimentum patiatur, ut opus predictum perfici facere possint et propterea pro nunc suspensa iniunctio fabris murariis facta et ita - 1644 die 16 februarii » ’3. Vi fu la controversia del « rollo »; dopo aver ricordato l’incidente per il titolo di Eminenza14, il solito cronista aggiunge: « voleva l’Arcivescovo che la sua famiglia ( = i domestici) portasse le armi, nè voleva dare il rollo, onde perciò si astenne l’Arcivescovo di comparire trattenendosi nella sua legazione di Ferrara. Questo avvenne nel giugno 1635 »1S. Come non ricordare l’episodio dello stemma? Le Memorie (v. mia nota 3) narrano intanto che « il 9 novembre 1637 gionge in Genova venendo di verso Milano il Card. Durazzo et entra privatamente ». Su questa data sono concordi il Casoni, lo Schiaffino e il Musso. 10 Memorie cit., c. 185 v. 11 A. Ferretto, La Cattedrale di Genova 1118-1918, Genova 1918; G. Salvi, La Cattedrale di Genova, Torino 1931. 12 A.S.G., Secretorum, n.g. 1570, a. 1643-1644, n. 328. 13 A.S.G., Iurisdictionalium, n.g. 1084, fase. 7. 14 G. A. Musso cit., pp. 81, 82. 15 Memorie cit., c. 146. - 483 - Il cronista prosegue: « Eransi accordate altre pretensioni che vivevano tra di loro ( = Arcivescovo e Senato), cioè quella dell’armi che si pongono sopra la porta del Palazzo Archiepiscopale volendo il Senato la parte destra di quella del Pontefice; a che si rimediò con non porvi quella dell’Arcivescovo, ma solo quella del Pontefice e della Repubblica; e quella del titolo riccusando il Senato di dar di Eminenza all’Arcivescovo, con che si aggiustò che non si visitassero »16. Non va sottaciuto che nel rifiutare il titolo di eminenza il Senato genovese aveva l’esempio di altri .« Prencipi e particolarmente della Repubblica Venetiana 17 ». A proposito della controversia del trono e della sua soluzione raggiunta dopo la decisione della Commissione Pontificia rivestono importanza grande i particolari che il noto biografo omette. Un anonimo contemporaneo scrive: « Si erano acconcie per mezzo d’interpositori delle parti elette, le differenze che vivevano in Genova tra la Repubblica e il Card. Arcivescovo e nella Pentecoste se ne vidde dimostrationi in S. Lorenzo nella quale fu ritirato adentro per qualche palmi il maggior altare e dato luogo alla sede del Doge a man destra nel luogo stesso dove soleva esser quella dell’Arcivescovo; e più adentro dalla stessa parte vicino la piccola porta di sacristia (che) conduce nel cuoro fu posta quella dell’Arcivescovo che nel condurvesi non passerà dinanzi a quella del Doge né dinanti l’altare, ma per via della sacristia e per la più piccola porta entrare nel cuoro »18. La controversia dei terratici si protrasse per 15 anni dal 1643 al 1658; si svolse, secondo un cronista, in 55 parti o fasi; vi furono protagonisti personaggi influenti, giuristi, consultori teologi e laici per ambo le parti in contesa: Don Andrea Fossa dei Canonici Lateranensi, G. B. Noceto d. C. di Gesù, Giovanni Maria Camogli della C. di Gesù, Don Giovanni Giacomo Sauli chierico regolare e altri, il M.co Raffaele della Torre dottore, il M.co Bendinelli Sauli, l’Ecc.mo Felice de Mari, G. B. Lomellino, Raffaele e Bartolomeo della Torre, Luigi Benedetto Gentile: tutti, successivamente e in veste diversa per il Senato; per l’Arcivescovo incaricati il M.co Pietro Francesco Serra e il M.co Giovanni Giacomo Cat- 16 Memorie cit., c. 159 r. et v.\ G. A. Musso cit., p. 83; F. Casoni, Gli Annali della Repubblica di Genova, Genova 1799; A. Schiaffino, Annali ecclesiastici della Liguria, ms. del sec. XVII in B.C.B. 17 Memorie cit., c. 146. 18 Memorie cit., c. 191 v.\ G. A. Musso cit., p. 136. - 484 - taneo dottori; il fedelissimo Emanuele Brignole, e l’agente Pietro Ai-cardo 19. Sono di scena naturalmente anche cancellieri e cintraco che subiscono le conseguenze dei contrasti. Fu soprattutto il 1648 un anno di durissimi scontri. L’Arcivescovo ricevette anche un pressante invito a fare il Pastore e non il Principe20. Il Senato, preso tra disordine e abusi, moltiplica decreti e gride in fatto di moneta, preoccupato non solo del valore di essa, ma di salvaguardare il suo diritto esclusivo di far legge in materia di tanta importanza. Praticamente in città e nel dominio è in corso un doppio tipo di moneta: quella di Cartulario e quella corrente; la prima approvata secondo la giusta valuta della moneta con editto perpetuo e universale, la seconda tollerata e fissata di tempo in tempo per ovviare al disordine. Secondo il Senato i ferratici si pagavano in moneta corrente; l’Arcivescovo stabilì che si pagassero in moneta di Cartulario di S. Giorgio. Nessuna meraviglia che da ambe le parti si giungesse a penalità severe per i contravventori. Il Card. Durazzo, con decreto 30 aprile 1648 consegnato al notaio cancelliere G. B. Aronio, dichiara invalida e nulla la grida del Senato pubblicata nei giorni 22 e 23 dello stesso mese; lancia là scomunica maggiore a lui riservata contro gli enfiteuti che seguiranno la grida e contro i notari che ne tuteleranno le ragioni. I Ser.mi Collegi a loro volta con decreto 15 maggio 1648 impugnano il decreto arcivescovile affisso alla porta della Cattedrale, delle altre chiese e luoghi pubblici; lo dichiarano nullo, ne vietano l’osservanza sotto pena, per i notari, di privazione del notariato e di scuti 200.000 da pagare alla Ecc.ma Camera; e per gli enfiteuti sotto pena di nullità dell’atto. A questo punto bisogna tener conto di tre fatti che rivestono importanza specifica per una valutazione oggettiva di tutta la questione: 1) il notaio G. B. Aronio, cancelliere dell’Arcivescovo, venne incar- 19 Sulla controversia dei terratici una informazione completa si può avere dal volume primo, fra otto, di ms. con inserti a stampa, già citato e che s’intitola: A.S.G., Sinodi e scritture riguardanti gli Arcivescovi di Genova. Cfr. pure Notizie storiche politiche della Repubblica di Genova, ms. del sec. XVII in B.U.G., pp. 134-137, 145, 146, 153; G. A. Musso cit., pp. 205-209; D. Puncuh, Recensione cit., p. 476. 20 A. Neri, Saggio della corrispondenza di Ferdinando Raggi agente della Repubblica genovese a Roma, in « Rivista Europea », a. IX, vol. V, Firenze, 1878, p. 692. - 485 - cerato d’ordine del Senato; venne liberato a fine luglio 1648, ma non fu riammesso al notariato. L’Aronio, notaio pubblico, era stato eletto cancelliere della Curia Arcivescovile al posto del defunto Giovanni Pensa il 13 marzo 1636. Già un’altra volta era stato colpito da sanzioni penali; il 12 maggio 1642 con decreto del Senato veniva sospeso dal notariato e dal Venerando Collegio dei Notari di Genova. Il decreto venne letto nei luoghi consueti dal cintraco a suon di tromba; la ragione della sospensione non è dichiarata; ma, forse, proprio la data della sospensione autorizza a considerare il cancelliere arcivescovile impigliato nella battaglia dei decreti sui terratici21. 2) Anche questa volta, come in occasione della controversia della cattedra o del trono, si intromette fra Senato e Arcivescovo una Congregazione romana. L’Arcivescovo riceve una lettera datata 23 giugno (?) 1658, a firma Card. Ginetti, nella quale si richiede che avvenga da ambe le parti la revoca dei rispettivi decreti; che da parte della Repubblica sia scarcerato il cancelliere, cioè il notaio G. B. Aronio; che resti del concordato fede autentica in Curia. 3) Il 23 maggio 1658 rimane una data famosa nella controversia dei terratici. In questa data i Ser.mi Collegi decretano che il cap. XXVII del Sinodo resti abolito, e stabiliscono la valutazione dello scudo d’argento per il pagamento dei terratici in lire 5 e soldi 16 71. In questa data il Cardinale Arcivescovo abolisce il cap. XXVII del Sinodo e il suo decreto dei terratici promulgato già due volte in difesa del patrimonio ecclesiastico: il 2 gennaio 1644 e il 21 marzo 1658. Anche il Senato revoca i suoi due editti circa i terratici dei beni ecclesiastici. E’ da notare che la revoca bilaterale dei decreti avvenne in questa data 23 maggio 1658, nel pomeriggio per ambedue le autorità alla stessa ora! Se è esatta la data di giugno della lettera del Card. Ginetti essa giungeva a sanzionare ciò che da un mese era già avvenuto; se giugno è errore del copista e va letto maggio, è chiaro allora che la lettera fu determinante per la scelta del giorno del concordato. Logicamente esistono pure voci di privati in difesa dell’Arcivescovo. Chi vuol sentire una di queste voci, non ufficiale, sull’argomento, 21 A.S.G., Not. G. B. Aronio, fz. 1, a. 1635 in 1636, n. 226; Atti Senato, fz. 4, n.g. 2050, n. 136. 22 G. A. Musso cit., pp. 148, 205. - 486 - può leggersi un manoscritto anonimo di contemporaneo che si definisce cittadino secolare; l’autore sostiene essere in facoltà dell’Arcivescovo far legge sui terratici; mette in guardia lor Signorie Ser.me dai loro consultori e consiglieri e con corredo di erudite citazioni prende le difese dell’Arci-vescovo23. Concludo questa serie di contrasti rievocando la controversia della cassetta, quella per la riapertura del Santuario della Guardia e quella per i'amministrazione della carità in favore delle chiese povere. Come è noto, Maria S.S. era stata proclamata Regina della Repubblica ed era stato stabilito di festeggiarLa per questo titolo ogni anno il giorno dell’Annunciazione. Per incrementare la devozione alla Vergine, i Fabbri-ceri di S. Lorenzo proposero la fondazione di una « Arcicompagnia della Beatissima Vergine Reina » e ne dettarono i « Capitoli ». Il Senato diede la sua approvazione in data 23 dicembre 1650. In occasione della fondazione, per l’altar maggiore di S. Lorenzo fu modellata una nuova statua della Vergine in bronzo; gettò l’opera G. B. Bianco su disegno di Domenico Fiasella; la nuova statua andò a sostituire quella precedente (1637) in legno di G. B. Bissoni24. Con altro decreto del Senato, in data 12 agosto 1652, fu stabilito di far benedire la statua dal Cardinale Arcivescovo in Cattedrale ai primi vespri dell’Assunta con un cerimoniale solennissimo: uscita dei Tedeschi (= le milizie cittadine), suono di tutte le campane, scoppi di mortaretti, luminarie per tutta la città, spari d’artiglieria. Il cintraco Giovanni Ste- 23 Famiglie e cose di Genova, ms. del sec. XVIII (segn. Ma-B-41) alla B. Franzoniana, fase. 22, cc. 248-256, relazione che si riferisce al 1648. Per una conoscenza più completa della complicata e dibattutissima controversia sui valori nominale, reale, comparativo della moneta del Seicento v. G. B. Corazzari, (poi religioso domenicano col nome di Fra Pietro) Tractatus de augumento monetae etc., Roma, R.C.A. 1641; Io., Concordia generalis doctorum ad regulas solutionum etc., Roma, R.CA. 1642; Gio. Dom. Gaito, Tractatus obsolutissimus de credito ex libris, epistolis, cambiis, apocis, instrumentis publicis, obligationibus penes acta omnique alia publica inter vivos scriptura, pignore et bipothecis, Venetiis, apud Iuntas, 1641. 24 P. Novella, Le parrocchie di Genova, ossia memorie storiche delle chiese, monasteri, cappelle, oratori e pii istituti della città, ms. del 1922, nella B. Fransoniana, p. 170; L. A. Cervetto, La Madonna di Rilievo in S. Lorenzo, su « Il Cittadino » del 10 marzo 1894; G. Salvi, La Cattedrale di Genova cit., pp. 941-942, dove la data 1632, invece di 1652, è forse errore di stampa, come in G. A. Musso cit., p. 68, n. 10. - 487 - fano Semino pubblicò il decreto sulle consuete piazze, a suon di tromba. I Ser.mi Collegi con nuovo decreto del 19 agosto 1652 stabilirono che « li musici di Cappella al doppo pranzo cantino in musica le Littanie alla detta statua di N. Signora in S. Lorenzo ». Gli Ill.mi Deputati Gio Batta I.omellino e Geronimo Marini, circa il modo di maggiormente venerare la statua, con due relazioni del 18 settembre e del 21 ottobre 1652, proposero di tenerle sei lumi quotidianamente accesi; che una di queste lampade restasse accesa anche di notte; che un prete, scelto dai fabbriceri per la cura della Cappella, ne avesse custodia. Tutte le Compagnie di oratorianti della Diocesi a turno, annualmente, per devozione, dovevano regalare la cera per le lampade; il che, pare, non avvenne; la spesa fu comunque calcolata in lire 2500 annue. Per non gravare la Camera fu stabilito di porre una cassetta che sarebbe stata amministrata o da due membri del Ser.mo Collegio oppure dai quattro fabbri ceri di S. Lorenzo. L’8 settembre (sic) 1652 i Fabbriceri posero in S. Lorenzo la cassetta per detto scopo. Pro e contro la collocazione nacquero subito e si ripeterono le discussioni dei teologi. Il Vicario dell’Arcivescovo « pretende » che sia scomunicato l’operaio che fissò la cassetta; inoltre che siano colpiti di sospensione i preti di S. Lorenzo e il custode se dispongono delle offerte della cassetta. Quindi sotto la pena di scomunica « il pontezatore Gio Batta Giordano » tolga la cassetta. I Collegi sono invitati a provvedere. Ne nacque una causa vera e propria, con interrogatori, pareri di canonisti, relazioni di teologi e si leggono i nomi di Don Andrea Fossa, abate dei Canonici Lateranensi; Giovanni Maria Camogli, della Compagnia di Gesù; Fra Angelico Riccoboni, Agostiniano; Fra Giovanni Tomaso da Vezzano Minimo e di altri Il Senato, con decreto del 15 ottobre 1652, delegò Gio Batta Lomel-lino e Pier Maria Gentile a trattare con l’Arcivescovo « perchè non permetta al Vicario di derogare all’uso antico »: in fin dei conti i fabbriceri sono gentiluomini della città e provvedono « a ristorare chiesa, campane ecc. ». I due delegati vanno dall’Arcivescovo il 23 ottobre 1652. Dichiarano che come c’è una cassetta alla Cappella di S. Giovanni Battista e di N. Sig.ra del Soccorso, così dovrebbe essere accolta quella alla statua di N. Sig.ra Protettrice della Repubblica voluta dai Ser.mi Collegi per in- 25 A.S.G., lurisdictionalium, n.g. 1087, n. 130. cremento della devozione a Maria Vergine. La relazione dei due delegati all’Arcivescovo esiste in duplice copia. Il Cardinale Arcivescovo prende occasione per lamentarsi anche d’altre discordie, tra l’altre di quella sulla chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni per la quale i Collegi appellarono al Papa per avervi religiosi di loro scelta26. Il 4 novembre 1652 il Segretario dei Collegi riceve dal Cardinale Arcivescovo il decreto nel quale la cassetta è definita non ammessa. Una discordia simile si era già verificata nel 1618-1620. I Collegi, il 26 agosto 1618, avevano emesso decreto di costruire in marmo nella Cattedrale la Cappella di N. Sig.ra del Soccorso e il 3 dicembre dello stesso anno decreto di collocare una cassetta per le offerte per l’esecuzione del progetto. Si sosteneva, da parte dei Collegi, che l’amministrazione della cassetta doveva essere lasciata ai laici, dal momento che la chiesa di S. Lorenzo proprio «con offerte di laici fu fondata di nuovo » e abbellita « mentre gli ecclesiastici di detta Cattedrale godono intieramente delle loro rendite e distributioni senza concorrervi con un soldo »; da parte ecclesiastica si voleva invece la rimozione della cassetta perchè maximum affert damnum introitibus ecclesiae come si legge nel libro minore della Masseria, del Capitolo e dei Canonici di S. Lorenzo all’anno 1620, scritto dall’arcidiacono Giulio Cesare Alberico. Quanto alla sorte definitiva della cassetta del 1652, in una nota del 16 febbraio 1657, che, trattando di eventuali cassette per i poveri, ricorda quanto accadde altre volte e particolarmente nel 1652, testualmente si legge: « quello (che) è seguito ultimamente quando si espose quella per la statua di N. Sig.ra Protettrice nel qual tempo fu preteso dal Cardinale Arcivescovo che non si potesse esporre et che la distribuzione poi toccasse all’ecclesiastico il che diede occasione a qualche controversia se bene poi non è seguito altro havendo il Ser.mo Senato persistito che tocca a laici come in effetto è seguito e tuttavia si pratica»27. La controversia per la riapertura del Santuario della Guardia fu di assai minori proporzioni. Il 18 giugno 1657 il Senato emette ordine per il capitano di Polcevera di aprire il Santuario; l’ordine fu ripetuto il 6 luglio: egli doveva riaprire la chiesa anche contro il parere del Magistrato di Sanità 26 Notizie storiche politiche della Repubblica di Genova, ms. cit., pp. 264-275: supplica dei P.P. Gesuiti per ottenere S. Bartolomeo degli Armeni, con risposta di Agostino Centurione. 27 A.S.G., lurisdictionalium, n.g. 1086, n. 37. - 489 - 19 e portare però « l’altare in piazza perchè le persone non si affollassero e causassero qualche inconveniente ». Ma c’è l’ordine del Cardinale di chiuderla. Il capitano di Polcevera va dal Rettore Don Bacigalupo e lo esorta a recarsi dal Cardinale per ottenere la riapertura 2S. Si volevano preghiere per la cessazione della peste che, nonostante il voto del Natale 1656, si protrasse ancora per quasi un anno29. Anche i lasciti prò chiese povere, per lo stesso motivo delle « precedenze » diedero origine a controversie fra le due autorità, laica ed ecclesiastica. Ricordiamo un solo episodio. E’ l’anno 1654; fra le altre ci sono due opere a favore di chiese povere: una laica di 4 membri, una mista delPArcivescovo e di 4 membri. Si disputa se l’Arcivescovo abbia ancora diritto di dare 2 voti in occasione della assegnazione di sussidi a chiese povere rurali dal lascito di Antonio Spinola fu Cesare prò chiese povere del Dominio. Vi sono pure altri lasciti che danno origine a dispute: quello di Laura Brignole del 7 maggio 1632 prò chiese povere di montagna, e quello del Card. Orazio Spinola del 1617 prò chiese povere; il prelato nel testamento stabiliva che il voto dell’Arcivescovo valesse quanto quelli di tutti i laici insieme30. Nell’ottobre del 1657 il Card. Durazzo si trovò di fronte ad un nuovo conflitto diplomatico col governo genovese: un famiglio del foro laicale un bel mattino abbandonò il suo posto e corse ad iscriversi tra i famigli 28 A.S.G., Iurisdictionalium, n.g. 1100, n. 47. 29 A.S.G., Propositionum Senato (A.S.), n.g. 1041, mazzo 15, n. 90: voto di erigere una chiesa da dedicare all’immacolata; fu poi quella dell’Albergo dei Poveri; Iurisdictionalium, n.g. 1097, n. 59. Si noti il tono di una supplica del 21 aprile 1621 al Senato: I Serenissimi si facciano Protettori della Protettrice di tutti, perchè i canonici delle Vigne pretendono l’amministrazione della sontuosa cappella per la devozione nata nel 1616 affidata dai Capitoli a dodici gentiluomini, e così guastano ogni cosa. 30 A.S.G., Iurisdictionalium, n.g. 1087, n. 122; L. M. Levati, Vescovi barnabiti che in Liguria ebbero i natali o la sede, Genova 1909, pp. 53-100 per una biografia di Mons. Paggi. Per una questione della parrocchia di Tribogna, papa Alessandro VII il 23 ottobre 1656 aveva nominato Mons. Paggi delegato apostolico. Mons. Paggi, oltreché vescovo di Brugnato, fu scrittore e storico. Per incarico del governo di Genova pose mano a scrivere una « Istoria di Genova », in due libri; uno con gli avvenimenti del 1527, l’altro dai tempi più antichi al 1296, rimasta incompleta per la sua morte. Il Paggi, a battesimo Giuseppe Maria, in religione G. B., era figlio del famoso pittore genovese G. B. Paggi. - 490 - che erano al servizio dell’Arcivescovo. Nonostante il flagello della peste, ne nacque una controversia e per dirimerla fu nominato un arbitro nella persona di Mons. G. B. Paggi, vescovo di Brugnato. Questi trovò la soluzione contro la scomunica e in favore agli addetti al foro laicale. Questo quadro di contrasti può essere visto in luce quasi esclusiva di lotta personalistica contro PArcivescovo solo da chi ne ragiona dal suo osservatorio di uomo del secolo ventesimo. Non fa meraviglia quindi che si possano giudicare « futili e miserande questioni di prestigio e di orgoglio personale », « ubriacatura di vanità e di orgoglio », « malafede... nelle miserande lotte », « malevolenza dei governanti e voluti equivoci della politica », « grettezza d’animo e viltà dei governanti della Repubblica », « famigerata Giunta di Giurisdizione », « Congiura vera e propria intesa a pugnalare alla schiena il Santo Arcivescovo ». Con buona pace del dotto biografo dico chiaramente che è dovere dello storico imparziale difendere il Senato contro questa angusta interpretazione e difendere l’Arcivescovo contro l’infelice giudizio dell’erudito barnabita 31. Questo particolare aspetto dell’attività del Senato va inserito e osservato nel quadro più vasto di tutta la storia della Repubblica, della storia d’Italia, e d’Europa, se si vuole evitare il rischio di interpretazioni anacronistiche e ingiuste. E’ chiaro anzitutto che non si trattava di lotta personale contro l’Ar-civescovo Durazzo. Eloquente a questo riguardo fu il caso ben anteriore del Vescovato di Noli. Gregorio IX, in data 25 ottobre 1239 lo aveva innalzato a sede vescovile sufïraganea deH’Arcivescovo di Genova; Alessandro VI, con decreto del 24 gennaio 1502, aveva stabilito l’unione del vescovato di Noli con quello di Savona. Ne nacque una controversia, incresciosa, lunga e fastidiosa per l’opposizione del Governo della Repubblica il quale « non aveva altra mira che di salvaguardare la dignità della patria ». Pio III e definitivamente Giulio II ebbero il merito di chiudere felicemente l’agitata parentesi della storia del Vescovato di Noli, e con Giulio II siamo all’inizio de 1503. Se questo minuscolo vescovato conservò la sua autonomia fino al 31 G. A. Musso cit., pp. 12, 83, 136, n. 11, 150, 278, 75 e 222, 203, 204, n. 1, 209. P. L. M. Levati cit., II, pp. 39, 40, 95, 117, 118, 119, 184. — 491 — 13 aprile 1814, ciò fu dovuto ad una particolare questione di prestigio sollevata dal Senato della Repubblica32. Proprio durante il dogato di Giovanni Battista Lercaro fu Stefano (1563-1565) si verificò la controversia delle due dignità come al tempo del Durazzo; ma ecco come la vide un documento ufficiale contemporaneo: «... ritornato Mons. Arcivescovo dal Concilio di Trento incominciò a pretendere, contro il solito, di precedere nelle solennità al Duce; e che il predicatore, presente la Sig.ria 111.ma, salutasse prima lo Arcivescovo e che il sacerdote alla Messa le dasse l’incenso e la pace e le presentasse l’Evangelo prima; sopra il che, avuta l’informazione di quel (che) si costumava in Venezia e altrove, ne nacquero più dispute, non mancando alcuni del Senato (la caosa la sanno loro) a intenderla per l’Arcivescovo, ancorché non si contentasse, siccome accondiscendeva il Senato, che nella sua chiesa il predicatore predicasse la parola di Dio e non salutasse alcuno; e che facesse fare il Duce a sue spese per onor publico due paci e due turribili a fine che unitamente fosse onorato lo spirituale e il temporale; qual capo non accordandosi durante il tempo del detto Duce, il Mons Arcivescovo ne avanzò poco »33. Chi non conosce una analoga burrascosa contesa avvenuta nella Cattedrale di Savona il 15 agosto 1667 davanti al popolo? E non è arcinota la vertenza della collocazione della sedia del Commissario nel presbiterio della Cattedrale di Sarzana di fronte a quella del vescovo Mons. Prospero Spinola e la protesta del vescovo? Se ne trova un accenno ufficiale in data 13 marzo 1635 altro in data 13 settembre 1645; e si sa che la vertenza si protrasse fino al 1648 35. Sono arcinoti agli storici i casi analoghi toccati ai vescovi di Savona e d’Albenga nello stesso sec. XVII e se ne possono citare molti altri del sec. XVIII. Non a caso mi sono dilungato al principio di questo studio a elencare battesimi e matrimoni di casa Durazzo: la vasta rete di parentele dei Durazzo con potenti casati come i Brignole, Grimaldi, Pallavicini, i Balbi, i Saluzzo, Raggi, Giustiniani, De Franchi, Lercari, Adorno, Maggiolo, Odone, Cervetto, Chiavari, che avevano i loro rappresentanti in Senato, non avalla la tesi dell’azione contro la persona dell’Arcivescovo. 32 C. Bornate, Giulio II e il vescovato di Noli, Genova 1938. 33 Narrazione del Sindicato dell’Ill.mo Sig. G. B. Lercari nel suo governo di Duce della Ser.ma Repubblica di Genova, raccolto per Stefano De Benedetti, Milano, ed. Pacifico Ponzio, 1584, cc. 22 r. e v.; L. M. Levati cit., II, pp. 338-339. 34 A.S.G., Secretorum, n.g. 1577, a. 1629-1642, n. 131. 35 A.S.G., lurisdictionalium, n.g. 1080, n. 117; G. A. Musso cit., pp. 74, n. 3, 131. - 492 - Anche la lettura di alcuni brani del « Cerimoniale » è più che sufficiente da sola a provare che è proprio la inevitabile ossessione delle onoranze che intorbida i rapporti fra le due autorità con più o meno convinzione o passione da ambe le parti in contrasto. Vediamone alcuni. Il 27 ottobre 1639 al Card. Durazzo fu concessa una galera che lo portò sino a Civitavecchia. « Il Cardinale partendo per Roma non fece visita ai Ser.mi come era tenuto; si dovrà considerare se gli si debba far visita al suo ritorno; mandò il segretario per via dell’Em.za che le teste coronate non danno ». « Ultimo agosto 1641 - Visita del Vicario dell’Arcivescovo. Fu da sua Serenità a congratularsi da parte del Card. Durazzo. Il Duce (Gio Agostino De Marini, fratello del def.to arcivescovo Gio Domenico, eletto il 14 agosto) gli andò incontro due passi. Il Ser.mo nel rispondere, parlando del Cardinale, non gli diede mai titolo di Eminenza nè di Eminentissimo ». Il 9 dicembre 1642 una galera prende a Livorno il Cardinale di ritorno dalla legazione di Bologna; otto gentiluomini furono deputati di andargli incontro nel porto. « Dovea mandare ancora a ringratiare il Duce et a renderle la visita, ma non lo fece ». Il 7 marzo 1643, era la festa di S. Tomaso d’Aquino. Si sentì dire che il Cardinale sarebbe andato a sentire la predica a S. Domenico « e che lo Baldacchino di Sua Em.za sarebbe stato posto assai vicino alla bancha dove erano solito di sedere molti Ecc.mi Senatori et 111.mi Procuratori talvolta anco sino al numero legitimo ». Ritengono giuste le loro « pretensioni » e decidono di non andare. L’8 novembre 1644 il Card. Durazzo è ritornato da Roma; niente « officio nè complimenti perchè non ci tratta da teste coronate ». Il 6 novembre 1646 « due Ill.mi Procuratori sono deputati a negotiare col sig. Card. Arcivescovo: Gio Luca Chiavari e Luciano Spinola; fece offerta della precedenza, ma non la diede »36. E’ chiaro; non si tratta tanto di astio personale, quanto di quella che è l’arcinota « ossessione delle cerimonie » e delle precedenze37. 36 A.S.G., Cerimoniale della Repubblica di Genova dal 1637 al 1650, ms. n. 476, pp. 23, 100, 101, 106, 192; Scritture e note relative alle questioni della Repubblica col Card. Stefano Durazzo, ms. del sec XVII in B.U.G.; Documenti vari spettanti alla collocazione della sedia arcivescovile nella chiesa di S. Lorenzo in Genova, ms. del sec. XVIII in B.U.G.; Miscellanea di scritti vari, ms. della B.U.G., voi. 1°, n. 3. 37 P. Negri, Cristina Alessandra di Svezia a Piacenza, in « Bollettino storico piacentino », anno IV, sett.-ott. 1909, fascic. V. — 493 — Altrettanto significativi furono molti altri casi verificatisi in epoca anteriore e posteriore al Card. Durazzo. E’ notorio che i gravi contrasti tra l’arcivescovo Alessandro Centurione e la Repubblica (1591-1596), diedero origine alla nascita della Giunta di Giurisdizione. C’è una lettera di Papa Benedetto XIV del 20 luglio 1754, indirizzata a Mons. Constantino Serra, vescovo d’Albenga, sulle note vertenze con la Repubblica Ser.ma per la cattedra vescovile e la sede dell’Ecc.mo Governatore nella Collegiata di S. Remo. La lettera contiene prescrizioni per regolare il contrasto cerimoniale'col commissario. La cattedra vescovile, scrive il Papa, « sarà rimessa nel suo luogo a cornu Evangelii nè sarà più rimossa e nella stessa linea in cui sarà la cattedra vescovile, dovrà collocarsi la sedia del Commissario, non però immediatamente alla pari della cattedra, ma con qualche piccola distanza ed abbassamento »3S. Lo stesso contrasto si verificò in Novi. Mons. Anduxar, vescovo di Tortona, ne parla in una sua memoria; della concessione di Benedetto XIV al Governatore di S. Remo scrive: « è d’uopo conchiudere che abbia voluto decidere unicamente il fatto allora proposto, o col titolo della prescrizione o con qualunque altro, ma non dare norma generale ». Il p. Giuseppe Marina della Compagnia di Gesù, e teologo della Ser.ma Repubblica, demolendo tutte le osservazioni e prove del vescovo Anduxar, dimostrò e sostenne che la prassi si fondava sul diritto e sulla costumanza special-mente di Roma39. E non c’è stata una lunga serie di vertenze fra Mons. Giulio Cesare Lomellino, dei chierici regolari minori, vescovo di Sarzana e il Governo genovese sempre per la questione della sedia nel 1759? 40. E non vi fu una battaglia a base di scomuniche e interdetti da parte dello stesso Vescovo e di editti da parte del Ser.mo Senato per i diritti delPoratorio di S. Rocco di Lerici « perpetuamente sotto la protezione e giurisdizione del Ser.mo Trono » nel 1763?4!. Per la difesa della laicità e dell’indipendenza del « Magistrato di Misericordia » è notorio che l’urto tra Vescovi e Senato dura dal Quattro- 38 F. Casoni cit., IV, p. 191; Memorie di storia patria genovese, ms. della B.U.G., cc. 129-131; L. M. Levati cit., I, pp. 198, 209, 223, 224, 233. 39 Memorie di storia patria genovese cit., cc. 133-135. 40 Ibidem, cc. 137-142. 41 Ibidem, cc. 143-157. - 494 - cento al Settecento; con decreto dell’8 maggio 1767, promulgato il 14 successivo, il Senato, contro l’ingerenza del Vescovo, obbliga i notai, nei confronti dei testamenti con legati pii o pii lasciti, a darne comunicazione al Magistrato di Misericordia entro due mesi dalla morte del disponente e vieta ai parroci di attenersi alle prescrizioni vescovili42. In funzione dunque della accennata « ossessione » alla quale nel Seicento nessuna potenza e nessuna personalità si sottraeva, si discutevano e si prendevano provvedimenti su cose minime, come pure le decisioni più gravi, ma non soltanto in quel secolo. A Genova, in una riunione del Consiglio Minore Duplicato in data 14 luglio 1651 si lesse una interessantissima relazione sulla scelta del Cardinale Protettore della Repubblica presso la Corte di Roma. Tra i pretendenti il Card. Orsini avrebbe a un certo punto accettato « per un piatto di 3000 scudi l’anno ». Ma la sua difficoltà e dei Cardinali in genere ad accettare la nomina stava nel fatto che « non accettano dalla Repubblica l’Ill.mo, vogliono l’Eminenza » 43. E’ notorio che se il Card. Mazzarino venne iscritto alla nobiltà genovese, ciò avvenne soprattutto perchè per il suo particolare intervento il nostro ambasciatore ebbe dal Cristianissimo e dalla Regina le onoranze regie, risultato, questo « tanto giustamente desiderato e bramato dalla Repubblica ». Avvenne così che i Ser.mi Collegi chiesero al Gran Consiglio piena facoltà di ascrivere in nobiltà il Cardinale e uno o due suoi nipoti secondo il suo desiderio. Il Minor Consiglio approvò la proposta con 106 voti favorevoli e tre contrari e il Gran Consiglio con 295 favorevoli e 21 contrari44. Nemmeno i più alti avvenimenti religiosi si sottraggono a questo clima; sbaglierebbe chi li interpretasse in chiave di esclusiva profonda religiosità, trascurandone l’aspetto politico certamente non secondario. Questa visione degli eventi su sfondo politico è sostenuta unanimemente 42 Ibidem, cc. 1-69. 43 A.S.G., Pratiche trattate nei Concili della Repubblica 1645-1655, ms. n. 676, con una Memoria di varie cose occorse particolarmente per gli interessi della Repubblica con la corte di Roma. 44 Ibidem, dalla seduta del Consiglio Minore Duplicato dell’ll febbraio 1655. Il 20 febbraio 1655 una deliberazione del governo di Genova, iscriveva il Mazzarino in nobiltà. Cfr. anche O. Pastine, Cromwell, Mazzarino e la nobiltà genovese, in « Riv. Mun. Genova », settembre 1953, pp. 30-35. - 495 - da tre valenti studiosi di storia genovese: V. Vitale, R. Ciasca e O. Pastine. Il primo scrive: « E’ noto che la proclamazione della Madonna (1637) a sovrana di Genova ha un valore politico come ultimo termine della costante aspirazione genovese di sottrarsi a ogni esterna autorità e ogni dipendenza anche formale dallTmpero »45. Il secondo a sua volta dimostra con ampia documentazione che Genova difende la sua dignità e indipendenza di fronte a tutti: Spagna, Impero, Papa, Arcivescovo, Inquisitore, Malta, Venezia; a tutti i costi, in ogni occasione; sempre esigentissima nel richiedere la meticolosa osservanza del protocollo e che non poteva comportarsi altrimenti4Ó. Le precedenze aprivano vulcani di emozioni; per la sola questione della precedenza a Malta, furono scritte montagne di carte. Il più sicuro conoscitore del Seicento afferma che la politica genovese è ispirata senza dubbio ad un principio egoistico, ma avverte che tale principio è dominante nella politica di tutti gli stati europei e perciò anche di quelli italiani47. Val la pena di riferire un altro episodio di questa infeconda politica di onoranze e di precedenze. Il Card. Durazzo si occupò delle fiere di cambio di Piacenza scrivendone al Card. Odoardo Farnese di Parma48. Il prelato genovese sapeva benissimo che le istituzioni genovesi nel 43 C. Astengo, La consacrazione di Genova a Maria SS. ed il cambiamento del tipo monetale del 1637, in « Rivista Numismatica e Scienze affini », 1937, num. 4, 5; recensione di V. Vitale in « Giornale storico e letterario della Liguria », 1938, pp. 226-227; L. M. Levati cit., II, p. 434; V. Vitale, La Repubblica di Genova alla ricerca di regie onoranze in «Bollettino Ligustico», 1949, p. 91; Id., Perchè Genova non aiutò Venezia, in «Giornale di Genova», del 20 gennaio 1940; Id., La Diplomazia genovese, Milano 1941. 46 R. Ciasca, Affermazioni di sovranità della Repubblica di Genova nel sec. XVII, in « Giornale storico e letterario della Liguria», 1938, pp. 81-91; pp. 161-181. 47 O. Pastine, La politica di Genova nella lotta veneto-turca dalla guerra di Candia alla pace di Passarovitz, in «Asii», LXVII, 1938, pp. 1-154. Dello stesso, Rapporti fra Genova e Venezia nel sec. XVII e Giov. Bernardo Veneroso, in « Giornale storico e letterario della Liguria», 1938, pp. 190-210; 260-266; Id., Una questione della politica italiana del Seicento, in « Rivista storica italiana », 1939, N.S., pp. 42-83. V. Vitale, Recensione dei tre lavori del Pastine, in «La Nuova Italia», 1941, pp. 62-66. 48 U. Benassi, Per la storia delle fiere dei cambi, in « Bollettino storico piacentino », 1915, 1° febbraio. - 496 - A 1641 abbandonarono definitivamente le fiere di cambio nella Piacenza far-nesiana, non per « una ragione di carattere economico o di serio interesse politico, bensì per un motivo inerente a quella formalistica suscettibilità secentesca di cui tanti esempi si hanno nella vita di questa età ». Era avvenuto questo: quando il nostro Magistrato di fiera, si recò a rendere visita di omaggio al Duca, questi non si curò di concedergli il consueto onore di tenere il cappello in testa49. Riporto a conferma due citazioni che non trovai utilizzate dagli storici, ma che costituiscono una voce eloquentissima sulla, per qualcuno, ancor « vexata quaestio ». La prima citazione è questa: « Si doveva far ponto nella prima venuta a Genova del Card. Durazzo Arcivescovo e non lasciarlo entrare nella Diocesi se non era risoluto a trattar con la Repubblica. Perchè è veramente cosa molto nuova che l’Ecclesiastico non debba trattar col laico et è di poco decoro e dignità pubblica che sia venuto il nuovo Arcivescovo e non habbi visitato il Principe laico. Cosa degna da ponderarsi. Perchè se non si facciamo stimare nella propria casa nostra, che speranza possiamo havere di farsi stimare fuori della Patria e nelle Corti de Principi? »50. E veniamo alla seconda citazione; si tratta di ima espressione programmatica pronunciata in una seduta del Consiglio Minore Duplicato del 17 febbraio 1655; vi si lessero lettere di ambasciatori, si trattò della spinosa questione del Finale, si biasimò il Governatore di Milano perchè al ritiro delle galere della nostra Repubblica dal Finale dava spiegazioni lontane dal vero; in modo particolare si discusse sulla lettera che il Governatore per mezzo del suo segretario Diego di Laura presentò al « Senor Dux » (a questo punto riportata in spagnolo e in italiano) e si rilevò che era poco rispettosa nella forma e nella sostanza della dignità del Doge e della Repubblica, perchè ostentava in favore della Spagna una superiorità sopra « la nostra Repubblica che non riconosce altri superiori che Dio e la B. V. Maria sua S.S. Madre »51. Per rendersi conto dell’importanza di questa fonte, è bene notare che 49 O. Pastine, Fiere di cambio e cerimoniale secentesco, in « Giornale storico e letterario della Liguria», 1940, pp. 109-122; 163-175; 1941, pp. 11-18; 163, 167, 169. so A.S.G., Ms. 676 cit., c. 65. 51 Ibidem, alla data 17 febbraio 1655. E’ assai significativo un brano di testa- mento citato da A. Costa, Curiosità genovesi del ’600, in « Atti della Società Ligustica di Scienze e Lettere», 1935, p. 191. — 497 — il ms. non è di anonimo, come risulta dalla pandetta dell’A.S.G., ma di un noto contemporaneo, membro del Consiglio stesso, Giovanni Battista Raggio di Francesco52, appartenente ad un casato che proprio in quel secolo diede non solo congiurati, ma personaggi alle più alte cariche della Repubblica, Cardinali alla Chiesa e anime eroiche alla società del tempo53. La documentazione addotta, avalla il giudizio, in apparenza sbrigativo, che del contegno del Doge e del Senato nei rapporti con l’Arcivescovo dava Antonio Costa: « Buoni amici, del resto, ogni qualvolta non entravano in gioco quelle benedette questioni di protocollo »54. E che fossero buoni amici ne è prova la copiosa corrispondenza intercorsa fra il Senato e il Tesoriere della Camera Apostolica, Mons. Durazzo; si conservano centinaia di lettere del Mons. Durazzo tesoriere al Senato genovese55; ne è prova una collaborazione sia pure indiretta che il Cardinale Arcivescovo chiedeva al Senato nel governo del Clero, che, in parte, fu una spina continua al suo cuore di buon pastore. Si legge infatti in un atto ufficiale del 24 gennaio 1656: « Cesare Durazzo del Magistrato degli Inquisitori di Stato avverte che avendo parlato col fratello Arcivescovo, gradirebbe essere avvisato delle notizie che hanno 32 II compilatore del ms. 676 cit., al 5 maggio 1655 dichiara di non esser intervenuto al Consiglio Duplicato essendo stato eletto capitano di Chiavari. Era facile sapere che fu eletto « dal Grande Consiglio dei 400 nel numero dei maggiori giusdicenti per un anno a cominciare dal 1° maggio e a finire l’ultimo aprile 1656 capitano di Chiavari il M.co Giov. Battista Raggio di Francesco » che nel 1660 fu mandato ambasciatore della Repubblica all’imperatore Leopoldo: A.S.G., Manuali Decreti Senato, n.g. 903, a 1655, c. 24; P. Antero M. da S. Bonaventura cit., p. 525. 33 A. Della Cella, Famiglie di Genova, ms. cit., I, pp. 180-181; 269, 276, 277, per dettagli sulla morte di Stefano Raggi il congiurato e della Ven.le Cecilia Raggi: P. I. Taurisano, La serva di Dio Suor Maria Raggi da Scio, Roma 1958; Memorie di varie cose di Genova, ecc., ms. cit., p. 185. Sul Card. Ottaviano Raggi, zio del Card. Lorenzo Raggi, importante personaggio della Curia Romana, morto a Roma il 31 dicembre 1643: A.S.G., Litterarum, n.g. 1986, a 1637-1641 (contiene tre grossi blocchi di lettere del Card. Ottaviano da Roma a Genova); G. A. Musso cit., p. 51, n. 12 per Mons. Lorenzo Raggi, tesoriere della Camera Apostolica. V. ancora, A. Neri, Saggio cit.; L. M. Levati cit., II, pp. 105, 114-116. 54 A Costa, Il suo ingresso in Diocesi, in « Il Nuovo cittadino » del 22 ottobre 1937; G. A. Musso cit., p. 99. 53 A.S.G., Litterarum Senato (A.S.), n.g. 1983 e 1984. Di un caso curioso, costituito da una proposta di un genovese al papa, passato all’esame del tesoriere della C. A. Mons. Durazzo con breve di Urbano VIII del giugno 1636, dà notizia A. N. in « Giornale ligustico » a. 1877, pp. 206-207. - 498 - di eccessi di persone ecclesiastiche per poterli correggere, per contenerli nelli dovuti termini di vivere religioso, e castigarli, bisognando, con maggior fondamento »56. E non è a dire che di collaborazione non ci fosse bisogno; gli « eccessi » sia nel clero secolare che regolare si verificavano e non tanto raramente: i casi abbondano; la collaborazione era utile anche a difesa del clero. Prima che il Durazzo fosse Arcivescovo, precisamente nel novembre 1617, tre preti a Genova uccisero per rapina un cavaliere e la domestica e li gettarono nel pozzo di S. Stefano; uno di essi, che confessò fra i tormenti, fu impiccato sul molo57. E’ arcinoto, tanto da non aver bisogno di copiosa documentazione, che chi uccise il giovane pittore Pellegro Piola sulla piazza di Sarzano il 25 novembre 1640 fu il Rev.do chierico Giov. Battista Bianco, del quale non si sa con certezza dai documenti ufficiali se fosse già sacerdote58. Naturalmente tale condizione del clero non era esclusiva di Genova. Si legga, ad esempio, una Brevis et compendiosa enarratio eorum que continentur in processu fabricato contra Rev.dum P. Augustinum Ulmum (Olmi), olim (=per 16 anni) rectorem ecclesie par.lis Fosdenovi causa veneni propinati (nel brodo) Ill.mo Domino Iacobo Malaspina Marchioni Fosdenovi cum participatione, ope, et consilio eiusdem Ulmi ». Il prete fu riconosciuto colpevole, carcerato in Roma a Torre di Nona e condannato all’ergastolo ad arbitrio della Sacra Congregazione il 1° dicembre 1641 59. Si legga il processo contro prete Gio. Batta Rollero, rettore della villa di S. Michele di Casarza in Sestri Levante (1664-1667) che fece uccidere la domestica dal proprio nipote60. E’ innegabile tuttavia, che, per uno spirito eccezionalmente elevato, come era il Card. Durazzo, e non lui soltanto, quella politica, quella vita, genovese e italiana « necessariamente circoscritta entro confini angusti », senza mai « spaziare con ampio respiro nel campo più vasto degli interessi generali » non poteva che costituire un penoso e diuturno tormento. 56 A.S.G., Secretorum, n.g. 1575, anni 1656-1657, n. 223. 57 Memorie di varie cose di Genova, ms. cit., c. 94. 58 M. Staglieno, Appunti e documenti sull’uccisione di Pellegro Piola, in « Giornale Ligustico », 1877, pp. 105-117; A.S.G., Iurisdictionalium, n.g. 1099, n. 24; per il caso del Rettore di S. Desiderio di Bavari, da molto tempo prigioniero nelle carceri arcivescovili » per qualche parola scandalosa... pregiudiciali allo stato ». 59 A.S.G., Confinium, n.g. 55, a. 1639-1642, n. 21 a stampa. 60 A.S.G., Iurisdictionalium, n.g. 1117, n. 25. - 499 — I documenti ci attestano anzi che nelle competizioni, egli, forte e mite, seppe cedere, quasi sempre, e spesso per il primo, per amor di pace. Non possiamo biasimarlo per aver usata la scomunica a tutela dei beni ecclesiastici temporali o d’aver sostenuto energicamente la sua autorità di Arcivescovo61; « anche lui — scrive ancora il Costa — era figlio del suo tempo e noi certamente non gli chiederemo il miracolo di sorpassare i secoli e di considerare le cose come potremmo considerarle noi del sec. XX » 62, che alle idee nuove siamo giunti « attraverso una lenta e faticosa elaborazione ». Dobbiamo anzi aggiungere, come anche opina il Musso, che il grande Arcivescovo giunse alla rinunzia (11 novembre 1664), non per protesta o per amor di quieto vivere, tanto meno per motivi di salute, ma per formale invito della Curia Romana a. Il frettoloso breve di Alessandro VII, che esiste nell’originale, di nomina del successore G. B. Spinola, porta la data del 13 novembre. E ciò prova altresì quanto la Curia Romana stessa fosse gelosa in fatto di onoranze e precedenze64 e poco riguardosa di fronte a ragioni politiche. Volendo essere oggettivi bisogna ammettere che le controversie c’erano fra ecclesiastici, anche senza inframmettenza di laici. Non ammette il biografo che il Cardinale riuscì a comporre una lite antichissima che esisteva fra canonici e sacerdoti nella Collegiata delle Vigne? E ancora, che le annose controversie fra i cappellani della Massa di S. 61 A.S.G., Iurisdictionalium, n.g. 1096, n. 148 per lettera autografa (= l.a.) del Durazzo da Roma Pii ottobre 1624 circa la cattura in chiesa del sig. Giovanni Lo-mellini; ibidem, n. 170 per l.a. del Durazzo il 13 settembre 1624 sui Teatini a S. Giorgio; n.g. 1098, n. 183 per l.a. del Durazzo da Roma PII giugno 1627 per ratto di donna maritata; n.g. 1099, n. 152 per l.a. (?) del Durazzo da Roma il 16 dicembre 1628 su argomenti vari. 62 A. Costa, L’Arcivescovo Durazzo all'opera, in « Il Nuovo Cittadino » del 3 novembre 1937. Un personaggio che soffrì molto a causa dei contrasti tra il Governo di Genova e l’Arcivescovo fu Virginia Centurione Bracelli, grande figura che meriterebbe d’essere meglio conosciuta. Un degnissimo fratello di lei, G.B. Centurione, durante l’episcopato del Durazzo, fu membro della Giunta di Giurisdizione e Doge. L. M. Levati cit., II, pp. 174, 184. Per l’opinione pubblica sui detti contrasti, v. L. M. Levati cit., II, p. 45; G. A. Musso cit., pp. 136-137. 63 L. M. Levati, cit., II, pp. 226-242; G. A. Musso cit., pp. 273-277; D. Puncuh, Recensione cit., p. 476. Si noti che a soli sei mesi dalla rinunzia del Card. Durazzo, fu eletto Doge suo fratello Cesare, di 72 anni, il 18 aprile 1665. 64 A.S.G., Iurisdictionalium, n.g. 1117, n. 20. - 500 - Lorenzo, solo tramite la S. Congregazione, il Cardinale riuscì a dirimerle? Il biografo riduce tutto ad un accenno generico in una nota63. Ma esiste sulla vertenza una vasta e dettagliata documentazione. « Ex dubiis dati dalla Massa alla S. Congregazione e rissoluti come segue » cito qualche comma del documento con i suoi numeri marginali: 4) « Il cappellano di Massa se solennemente fa l’uffizio ai vespri, non deve sedere al luogo dove siede il canonico quando fa l’offitio. 6) Proveda l’Arcivescovo conforme la mente della S. Congregazione come si debba andare a N.S. di Castello la vigilia di Pentecoste; ha provisto che vadino ad appararsi a Castello. 8) Sono tenuti li Preti di Massa a star in piedi finché finisca 1 incensazione intera; non così li canonici, ma solamente mentre essi si incensano ». Esiste pure un decreto dell’Arcivescovo del 30 ottobre 1640 nel quale egli detta regole ai canonici e cappellani di S. Lorenzo sul modo di entrare dal coro; sull’ordine da seguire, sul modo di salutarsi entrando o uscendo dal coro, sul numero di tiri di turibolo « per evitare difficoltà e liti ». Con quale ragione meravigliarsi se appositi decreti dei varii Governi stabilivano il numero esatto e diverso di passi da fare nel ricevere una Autorità, quando a tutt’oggi nelle chiese il numero di incensazioni è regolato da norme precise? E quanto fu lunga la lite ancora fra le due categorie di preti sulla scelta dei custodi di S. Lorenzo! I trenta cappellani di Massa volevano che i due preti custodi fossero scelti sempre fra loro; i canonici invece ne scelsero anche da fuori Massa; quindi periodicamente « sentenze, decreti, provisioni » Se queste interminabili contese fiorivano all’ombra della Cattedrale, è facile intuire quale brulichio di casi dovesse verificarsi a cominciare da un passo più in là. Concludiamo col riferire uno solo fra i moltissimi episodi di contese per diritti ecclesiastici, non sempre, come questo, conclusi pacificamente. Nel territorio della parrocchia di S. Martino della Cella a Sampierdarena il 6 gennaio 1657 moriva un figlio abortivo del nob. Gio. 65 F. M. Accinelli, cit., Ili, anno 1770, pp. 68-69; G. A. Musso dt., p. 276. 66 A.S.G., lurisdictionalium, n.g. 1117, n. 7. — 501 — ■ Filippo Spinola fu nob. Bacchione e 1*8 veniva sepolto nella chiesa di S. Nicola del Boschetto. A questo punto una giostra di personaggi comparisce attorno al protagonista per giustificare la sua rinuncia ad un diritto. Per non guastare la spontaneità del testo, vai la pena di riferirlo letteralmente con le parole che il parroco scrisse in coda all’atto: « Nota qualmente alla sepoltura di detto cadavere vi sono intervenuti 4 monachi del Boschetto, 5 preti di S. Martino di Sampierdarena e 5 di S.to Luca di Genova; ho ricevuto la torcia del corpo e lire 5 per la sepoltura per mano di Gio. Francesco Lopez ch’haweva cura di fare il mortorio. Li preti di S.to Luca sono andati sotto la mia croce essendo stata la prima; il mio curato è andato a mano dritta del Curato di S.to Luca e io per cortesia mi sono compiaciuto di dar la mano dritta al sig. Prevosto di S.to Luca, per cortesia dico, e così sanno e me n’hanno pregato il sig. Cristoforo Passano, il prè Nicolò Spinola hora Rettore del Collegio de P.P. Gie-suiti di Genova, il detto sig. Gio. Francesco Lopez e il Rev. Cavagnaro che serve per Capellano in casa del sig. Gio. Filippo Spinola »67. , Diciamo pure che la colpa di tanti contrasti fra autorità civili e religiose va addossata non tanto alle persone, quanto alle istituzioni e al secolo, che tuttavia, sia detto ben chiaro, non è soltanto un secolo di smancerie, ma anche di grandi realizzazioni; non è solo un secolo di contendenti, ma, come è universalmente risaputo, di scienziati, di artisti, di santi; se è vero che quelle controversie, durate incessanti fino a tutto il sec. XVIII, furono spazzate via, come da scopa magica, dalla rivoluzione francese, è più vero ancora che queste figure continuano a grandeggiare sul piano della storia68. 67 Chiesa di S. Martino de S. Petro de Arena, Libro D., 1654-1686; atto del 6 gennaio 1657. 68 L. M. Levati cit., II, p. 252. - 502 - La personalità del Cardinale nelle lettere di un diplomatico, DI UN POPOLANO E DI DUE SANTI Una testimonianza validissima in favore del nostro Cardinale Arcivescovo Stefano Durazzo viene offerta da un suo contemporaneo: Fulvio lesti; smentisce una volta di più, se fosse necessario, l’infelice giudizio del Levati sul grande Prelato il quale, secondo lui, non avrebbe saputo trattare con le autorità della Repubblica. Fulvio Testi fu poeta e diplomatico, segretario e consigliere di Francesco I d’Este, duca di Modena, governatore di Garfagnana, cavaliere dell’ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro presso la corte di Torino, ambasciatore del suo signore presso la corte di Madrid, fervente italiano particolarmente antispagnolo; vittima, oggi si direbbe, della politica, che lo ridusse a morire in carcere di morte violenta il 28 agosto 1646 '. E’ cosa notissima che le sue Rime, che svelavano le ingiustizie, l’egoismo, la pochezza del governo spagnolo, arrogante e spavaldo con i deboli, gli fruttarono 9 mesi di esilio; si può ben dire che, come uomo, fu « quello sfortunato cortigiano di Fulvio Testi »2. Quest’uomo visse in un ambiente che gli consentì « di trattare con imperatori, principi, cardinali, di discutere da « solo a solo » con il Papa di questioni politiche e di canzoni « alla pindarica » e « all’oraziana », conobbe personalmente il Durazzo e trattò spesso e a lungo con lui, quando era tesoriere della Camera Apostolica, di rapporti d’affari fra il suo « Ser.mo Principe » e la Santa Sede3. 1 G. Capasso, Fulvio Testi e Carlo Emanuele 1° di Savoia, in «Rivista Europea », N.S., anni XI, 1880, vol. XVII, pp. 193-205. 2 F. F. Frugoni, De’ ritratti critici abbozzati e contornati, p. 247; C. Calca-terra, Un cinquantennio di studi sulla letteratura italiana, 1886-1936, Firenze 1937, I, p. 253. 3 Fulvio Testi, Lettere, a cura di Maria Luisa Doglio, Bari 1967; Lettere di F. Testi, ms. del sec. XIX in B.U.G.: contiene 96 lettere del Testi da Genova al suo Principe; O. Pierini, Fulvio Testi e G. B. Marino in polemica, Fossombrone 1903 e in « Rassegna Nazionale », 1903, voi. sesto, p. 330. — 503 — Il Testi ci dà notizia di volta in volta delle promozioni del Durazzo, dei suoi rapporti con i Barberini, del suo tatto e della sua rettitudine negli affari. Dai giudizi che di lui ci dà il Testi emerge un Durazzo anticonformista alla politica di Urbano Vili e dei Barberini, e tuttavia un uomo di carattere mite e conciliante. Ma ascoltiamo dettagliatamente notizie e apprezzamenti man mano che l’epistolario del Testi ce li viene fornendo. Il segretario del Duca di Modena è a Roma; dalla città eterna sono moltissime le lettere che scrive al suo Principe. Il 28 novembre 1633 gli dà immediatamente la notizia dell’elevazione alla porpora del nostro, che proprio quel giorno fu fatto Cardinale con Rocci, Monti, Bichi, Ubaldeschi, Brancaccio, Oreggio, Carpegna, con una riserva del Papa « in pectore », pare per Mons. Ceva4. Moltissime volte il Testi tratterà per conto di Francesco I di Este della vendita della Mesola alla Camera Apostolica; poi, per la intromissione dei Veneziani, il Duca finirà per rifiutarsi alla vendita. Il 24 dicembre 1633 il Testi riferisce d’essersi occupato della vendita della Mesola alla C. A. « parlandone col signor Card. Durazzo; ma egli non s’è cavato fuori, allegando che così fatti maneggi non toccano più a lui »5. Ancora con un’altra lettera della stessa vigilia di Natale il Testi dava assicurazione al Duca che avrebbe presentato nel modo migliore la sua lettera di congratulazioni al Durazzo per la sua promozione6. Interessantissima è la lettera dell’ 11 gennaio 1634. Il Testi vi narra d’aver presentato la lettera del Duca al Cardinale Durazzo « ottimamente disposto verso la Ser.ma Sua persona e casa » e aggiunge: « Ieri dopo pranzo ebbi con Sua Eminenza prolisso ragionamento »; trattarono la vendita della Mesola; il Card, avrebbe offerto 70.000 scudi di Ferrara, mentre il Duca voleva 70.000 scudi di Roma. Passarono poi alla politica « e ragionando di queste turbolenze che passano tra il Papa e gli Spagnoli » il Durazzo gli disse « e perchè non sarèbbe bene lo stabilir più tosto una riunione di tutti i principi italiani a reciproca difesa? »7. Si comincia a vociferare sul nuovo titolare della Legazione di Ferrara; 4 F. Testi (Doglio) cit., n. 467, vol. I, p. 490. 5 Ibidem, n. 491, vol. I, p. 513. 6 Ibidem, n. 505, vol. I, p. 523. 7 Ibidem, n. 533, vol. II, p. 13. — 504 - con altra dell’ 11 gennaio 1634 il Testi scrive al suo signore: « si dice pure tuttavia che Baldeschi vada a Ferrara; ma non ci mancano degli altri che mettono la legazione in testa di Durazzo »8. Il Papa tenne congregazione o Consiglio di Stato e vi fu chiamato anche il Durazzo « che è in gran posto di confidenza »: ancora da Roma, il 18 gennaio 16349. In data 2 febbraio 1634, il conte Testi narra d'essersi intrattenuto a lungo col Card. Durazzo sopra l’affare della Mesola. Durante il colloquio il Cardinale gli disse: « Per utile della Camera io non ho mai appreso che sia bene il far questo contratto, perchè ella è indebitata di passa diecenove millioni e non veggo che frutto possa cavare dalla Mesola. Il Papa forse e il sig. Card. Barberino si muovono a questo per qualche rispetto politico e sopra ciò bisogna aspettare le risposte del legato ». Il Testi, per meglio avviare l’affare, risolse di servirsi del conte Alfonso Montecatini che « è intricatissimo di Durazzo il quale negli interessi di Ferrara ha sempre differito al giudicio di questo uomo » 10. Per la legazione di Ferrara sono ancora in voce Durazzo e Baldeschi: « il termine della legazione del Card. Pallotto è finito a maggio prossimo »; cosi nella lettera 4 febbraio 1634 11. Con un’altra dello stesso giorno dà notizia al suo signore che il Durazzo non è più tesoriereI2. In data 8 lo informa che al posto del Durazzo andrà il Cèsi; però l’affare della Mesola resta ancora affidato al Durazzo 13. La sottile conoscenza degli uomini, propria del Testi, ci presenta magistralmente il Durazzo in un incontro che lascia intuire quanto mai imbarazzante per il suo carattere retto e forte; la lettera è del 4 marzo 1634: « Il Card. Durazzo fu introdotto da Barberino mentre i nuovi ambasciatori stavano negoziando. Credesi che ciò fosse per leggere loro una tale scrittura fatta da esso d’ordine de’ Padroni, nella quale si mostra distintamente quanto Sua Santità abbia speso in dar aiuto a Cesare et in difendere lo stato ecclesiastico dai pericoli che gli sovrastavano d’eserciti forestieri, in fortificare diversi luoghi, in far ar 8 Ibidem, n. 536, vol. II, p. 16. 9 Ibidem, n. 548, vol. II, p. 26. 10 Ibidem, n. 574, vol. II, pp. 54-55. 11 Ibidem, n. 576, vol. II, p. 57. 12 Ibidem, n. 582, vol. II, p. 61. 13 Ibidem, n. 593, vol. II, pp. 69, 618; 84 il 25 febbraio 1634. - 5C5 - 20 merie e cose altre simili; e ciò per iscansare il rimprovero che potesse farsi d’aver cacciato ogni cosa in gola a’ nipoti »14. II Testi si recò tre volte a casa del Durazzo per trattare della Mesola, senza tuttavia trovarlo. « Ci ritornerò tante volte che conseguirò l’intento » (lettera del 4 marzo 1634)15. Pochi giorni dopo, il 10 marzo, Testi riferisce che, parlando col nostro Cardinale, si lamentò dell’atteggiamento ostile del Card. Pallotto ed espresse il desiderio di vedere a quel posto il Durazzo. « Egli non se n’è gettato via », anzi si dichiaro benissimo disposto verso il duca di Modena; e qui il Testi conclude « e certo egli non può essere più amorevole di quello che è » 16. I colloqui fra il Testi e il Durazzo si moltiplicano: l’il marzo c’è notizia che si intrattennero di questioni politiche per il Duca 17. I ministri spagnoli insistono perchè la Santa Sede aiuti con danari 1 Impero come fa il Re Cattolico e Testi osserva: « il Card. Durazzo si affatica per mostrare a questi ministri spagnoli l’angustie in cui si trova la Camera Apostolica... » (lettera 15 marzo 1634),8. La Mesola e una fonte di continua preoccupazione per il Testi, e si rammarica che il Card. Durazzo nè a lui nè al Card. Barberini ne abbia fatto cenno (altra del 15 marzo 1634)19. II 18 marzo c’è un inciso del quale deve tener conto chi vuole essere oggettivo nel giudicare il Durazzo: il Card. Durazzo e il Panciroli... « sono i più confidenti che abbia Barberino e quelli che più degli altri sono ammessi ai negozi »20. Durazzo però non fu mai in politica ligio all’assolutismo Barberiniano e finì col perderne il favore. Interessantissima di nuovo un’altra lettera del 18 marzo 1634, sempre da Roma e sempre al suo Principe: il Testi narra che trattò col Durazzo della Mesola, d’una porpora per il principe Obizo e di lega degli stati 14 Ibidem, n. 624, vol. II, pp. 9l; 92, V. pure: F. Bellegrandi, Un computista fra archibugi e spingarde, in « Osservatore Romano » del 16-6->1968. 15 F. Testi (Doglio) cit., n. 629, voL II, p. 95. 16 Ibidem, n. 640, vol. II, p. 104. 17 Ibidem, n. 646, vol. II, p. 109. 18 Ibidem, n. 647, vol. II, p. 112. 19 Ibidem, n. 648, vol. II, pp. 113, 114. 20 Ibidem, n. 651, vol. II, p. 117. — 506 — italiani; a questo proposito, il Durazzo che la propugnava, dissipando nel suo interlocutore il dubbio che parlasse a nome di terzi, vedi di Urbano Vili, gli disse « ch’egli parlava di suo proposito e di suo segno confidentemente, come si fa con gli amici... »21. Il Durazzo, da vero spirito superiore, vedeva la storia d’Italia proiettata su un piano molto più ampio di quello dei particolarismi e degli egoismi del tempo. Senza dubbio anche per questo riscosse l’ammirazione del Testi che pure, sul piano pratico, considerava il progetto utopistico. In altra lettera, sempre da Roma, del 18 marzo 1634, il Testi accenna ad un altro suo colloquio con il Card. Durazzo: « giovedì sera m’abboccai col sig. C. D. »; trattarono a lungo della Mesola, « negotio » voluto dal Papa e malvisto dai Veneziani72. « Il Card. Durazzo se ne andrà dopo Pasqua alla sua legazione di Ferrara » e il Testi non manca di manifestare il timore che andando via lui l’affare della Mesola non si concluderà più (lettera del 4 aprile 1634) 23. Un altro giudizio lusinghiero nei confronti del nostro leggiamo il 17 aprile 1634; il Testi ha sentore che a Ferrara si sta tramando a danno del suo signore e aggiunge « io risolvo di trattarne col sig. Card. Durazzo al quale stimerei bene che, giunto che sia a Ferrara, V. A. raccomandasse i suoi interessi, perch’egli è di cortese natura e verso di lei si mostra così bene affetto che farà ogni cosa per darle gusto ed ella senza fastidiare Sua Santità, conseguirà l’intento suo »24. Di un colloquio del Card. Durazzo col Card. Aldobrandini su argomenti politici riferisce in lettera del 17 aprile 163425. In altra dello stesso giorno ci avverte che « ... il sig. Card. Durazzo partirà tra pochissimi giorni per la sua legazione »76. Riprende l’argomento il 19 aprile 1634: « Il sig. Card. Durazzo sabato parte alla volta di Genova e farà il viaggio pel mare. Si figura che possa arrivarci verso la fine del corrente mese di aprile. Fa conto Sua Eminenza di fermarsi in detta corte per diece o dodici giorni e poi d’andarsi ad imbarcare nel Po per tirar di lungo a Ferrara; onde al calcolo ch’io fo potrebbe Sua Eminenza passare da Bruscello verso il sedici o dieciotto del 21 Ibidem, n. 653, voi. II, P' 121. 22 Ìbidem, n. 655, voi. II, p- 124. 23 Ibidem, n. 685, voi. II, p- 155. 24 Ibidem, n. 691, voi. II, p- 163. 25 Ibidem, n. 703, voi. II, p- 171. 26 Ibidem, n. 716, voi. II, p- 181. — 507 — venturo. Suppongo che V. A. sia per invitar Sua Eminenza a smontare in terra, o per mandarle almeno qualche rinfrescamento in barca; e certo merita per la sua cortesia ogni maggior dimostrazione d’affetto e d’onore »27. Corrispondono abbastanza le date previste dal Testi con le date reali dei viaggi. Sappiamo da fonte solitamente bene informata che « il 2 maggio 1634 con due galee del Pontefice venendo di Roma giungono in Genova i Cardinali Agostino Spinola e Stefano Durazzo stato fatto dal Pontefice legato di Ferrara: sono alloggiati da parenti, visitati dal Doge e da Collegi; rendono le visite »28. Il 18 maggio 1634 il Card. Durazzo parte da Genova per la sua legazione29. Un altro episodio che s’inserisce nei rapporti difficili fra il Barberini e il Durazzo ci viene narrato dal Testi in una lettera del 10 giugno 1634. Rilevato l’odio che c’è fra i due fratelli Barberini (Francesco e Antonio), aggiunge: « Antonio avendo inteso che un tale Bazicalupi lasciato qui agente dal Card. Durazzo abbia parlato in suo detrimento, era venuto in pensiero di farlo bastonare in solennissima forma; ma sconsigliato dagli amici e ridotto a sentimenti più moderati, ha scritto al Card. Durazzo che lo levi di qui, se non vuole che gl intervenga di peggio » 30. Le occasioni del malcontento barberiniano si moltiplicano. Da una lettera del 14 giugno 1634 sappiamo che il Testi trattando della Mesola col Barberini, ne ricavò la dichiarazione seguente: « l’esito sarebbe tanto più facile quanto più sarà amorevole il mezzo del sig. Card. Durazzo legate di Ferrara ». Evidentemente non si accordavano le ragioni della politica e delle finanze e Durazzo dal canto suo era « amorevole », ma non un debole che cede a inopportune o ingiuste pressioni, fossero pure barberiniane . La stima del Testi pel Durazzo affiora ad ogni occasione. In lettera del 28 giugno 1634 scrive che corre voce d’una calata di Francesi in Italia; dicono d’andar a Loreto, ma forse son diretti a Napoli; anche questa volta la politica verrebbe in veste di... disciplinante. Il Testi suggerisce al suo signore di tenerli lontani dal suo stato con un bando per sospetto di peste 27 Ibidem, n. 729, vol. II, p. 192. 28 Memorie di varie cose di Genova, ms. cit., c. 141 r. 29 Ibidem, c. 141 v. 30 F. Testi (Doglio) cit., n. 755, vol. II, p. 217. 31 Ibidem, n. 766, vol. II, p. 232. — 508 — « camminando di concerto col Card. Durazzo Legato di Ferrara, a cui si può dire ogni cosa in confidenza » 32. Una lettera gustosissima è quella del 15 luglio 1634; emerge in essa l’arguzia dello scrittore e la profonda capacità d’introspezione di umori e di valori umani. Il Papa « pentitosi della passata promozione » di alcuni soggetti al cardinalato, avrebbe espresso giudizi satirici nei loro confronti. « Disse del Card. Durazzo ch’egli non era buono se non da far conti. Di Balde-schi che non aveva nissuna sperienza e ch’era troppo rozzo di costumi e troppo innanzi nell’età per farsi. Di Bichi che non lo conosceva e che Barberini l’aveva voluto, ma che, per le relazioni che ne teneva, ben presto se ne sarebbe chiarito. Di Monti che egli era un furbetto ed un ghiottoncello. Di Rocci ch’era un asino ed un ignoran-taccio. Di Carpegna che non valeva l’acqua di cui si lava il volto. Di Brancaccio che non era buono se non da dir l’uficio ». Storia o invenzione, la diceria era significativa, ma più ancora il giudizio che il Testi pronuncia sul Card. Durazzo. « Per dir il vero, chi distillasse tutti i suggetti sopradetti non ne caverebbe altra sustanza che questa, trattone solo il Card. Durazzo che, per quanto l’ho praticato, mi è paruto signore di gran qualità » 33. In altre due lettere, il Testi ci presenta ancora il Durazzo in relazione col Barberini e con Mons. Mazzarino; lettere del 26 luglio e del 19 agosto 1634 34: « Il sig. Cardinale ier mattina mi disse, ma in gran confidenza, ch’egli andrebbe pur anche a Ferrara per abboccarsi col Card. Durazzo sopra le differenze de Viniziani »; « Mons. Mazzerino » nunzio straordinario alla corte di Francia, anderà a Ferrara « per abboccarsi col sig. Card. Durazzo ». Dei rapporti del Durazzo con Francesco I d’Este duca di Modena, abbiamo ancora traccia in tre lettere dello stesso duca al Cardinale. Nel maggio 1640 gli scrive per congratularsi della sua nomina alla legazione di Bologna e gli rende « le dovute affettuosissime grazie del cortese ragguaglio che s’è compiaciuta di darmene»35. Nell ottobre 1644 il duca ringrazia il Cardinale per la sua benevolenza nei suoi confronti; afferma che porterà memoria delle sue infinite obbligazioni e manifesta il suo « singolarissimo dispiacere » per la dipartita del Cardinale da Bolo- 32 Ibidem, n. 786, vol. II, p. 258. 33 Ibidem, n. 813, vol. II, p. 286. 34 Ibidem, n. 833, vol. II, pp. 307 e 892, p. 359. 35 Ibidem, n. 1408, vol. III, p. 167. — 509 — gna36. Infine, il 18 novembre 1644, «rendo a V. Em.za affettuosissime grazie della parte che mi dà del suo prospero arrivo a cotesta Sua chiesa et aspettando che a tanti onori si agiunga anche quello dei suoi comandamenti ecc. » 37. Concludendo, sulla testimonianza del Testi, bisogna riconoscere che è di gran valore non solo per la posizione politica dello scrittore ma pure per la sua personalità. Il Testi, pur essendo fratello di un vescovo38, è spirito libero, anzi spregiudicato; le sue « stroncature » sui preti, sul Papa, sui papi in genere sono frequenti, spiritose e sferzanti39 ; il che, mentre non gli pregiudica affatto la sua posizione di vero credente40, neppure gli impedisce di ammirare nobili sentimenti in persone di chiesa, come nel caso del nostro Card. Durazzo. Del carattere indipendente e buono del nostro Card. Durazzo abbiamo testimonianza anche in una voce umile, che non voglio tralasciare appunto perchè viene dal basso ed è tuttora inedita e sconosciuta. Questa voce è di Giovanni Paolo, figlio di Giovanni Ambrogio Peirano notaio, fu Agostino notaio; di lui abbiamo tre lettere al padre a Genova: due da Roma ed una da Civitavecchia41. Nella prima lettera da Roma, del 15 novembre 1631, dopo averlo rassicurato di goder ottima salute, si lamenta che non trova impiego e soggiunge: « Agiontovi che Mons. Durazzo il quale ha animo de giovarmi sta hore per hore di essere Cardinale e non vole impegnarsi con Padroni. Per me saria bene che fosse promosso quanto prima poiché si farebbe nuovo thesoriere che non essendo 36 Ibidem, n. 1864, vol. Ili, p. 511. 37 Ibidem, n. 1881, vol. Ili, p. 521. 38 Ibidem, n. 345, vol. I, p. 371. 39 Ibidem, vol. I, pp. 400, 405, 408, 456, 506: « faccia Dio quello ch’è per il meglio, se bene il meglio fosse che morissero quattro o sei Papi in due mesi »; vol. II, p. 45 «... in questo paese non credo se non nei morti e se questi (preti) vogliono che io creda a loro, sanno come hanno a fare»; p. 188, 189, 332, 367, 726. Vol. Ili, p. 293, 345. 40 F. Testi (Doglio), cit., vol. Ili, p. 531 c’è la sua professione di fede cattolica. 41 A.S.G., Not. Giovanni Stefano Ceronico fu Tomaso, fz. 3° e ultima, anno 1626. se. 849; evidentemente le tre lettere sono finite lì, fuori posto, chi sa quando e da dove; e ci rimangono. — 510 — pratico delle cose seguite a Bologna haveria a caro la mia persona. L’accomodarmi alii servitii de questo Cardinali (sic) per Gentilhuomo, mi è forte atteso». Noi sappiamo che Giovanni Paolo, quanto alla promozione del Durazzo a Cardinale, avrebbe dovuto attendere due anni. Nella seconda lettera da Roma, il 4 gennaio 1632, scrive al padre: « haverei a caro stare a Roma dove Mons. Durazzo mi vede volentieri, per lui non manca che non faccia ogni dilligenza acciò resti impiegato, mandando a chiamare li mercanti... »; ma presso di loro non c’è possibilità di impiego. Il Durazzo allora l’ha consigliato d’accettare un patronato di galera che egli si industria a procurargli. A questo punto Giovanni Paolo ci dà una notizia cronologica preziosa: al Durazzo è giunta notizia della morte del sig. Pietro, suo padre, e Monsignore ha sospeso le udienze. La terza lettera è scritta da Civitavecchia il 14 gennaio 1632. Giovanni Paolo si trova in questa città « per essere stato amesso al carrico di munitionero delle galere di Nostro Signore ( = il papa)... d’accordio con Mons. Durazzo... ». Nella lettera si parla diffusamente di un Giovanni Antonio Bacigalupo incarcerato perchè sospettato di furto. Si tratta forse di quel « Bazicalupi » che si trovò più tardi a subire l’ira del Card. Antonio Barberini? Questo quadretto di un Durazzo che mentre resiste a potenti e prepotenti anche ecclesiastici, si piega premurosamente verso un popolano genovese per trovargli lavoro, è davvero simpatico ed eloquente. Il Durazzo ebbe rapporti diretti anche con due santi. San Giuseppe Calasanzio, il grande pedagogista fondatore delle Scuole Pie, e il nostro Durazzo si conobbero personalmente. Ne fa fede una lettera del Calasanzio scritta da Roma l’8 agosto 1625 al Doge di Genova Giacomo Lomellini. Questi, con lettera del 9 luglio 1625, a nome della popolazione di Bor-zonasca, chiedeva al santo prete spagnolo di aprire in quel borgo una casa con religiosi del suo ordine, gli Scolopi. Essendo allora ristretto il loro numero, il Calasanzio provvide per una missione temporanea e vi mandò insieme con due confratelli il P. Pietro Andrea Taccione a Iesu Maria che vi si trattenne circa sei mesi. Non c’è notizia che dopo di lui siano stati mandati altri religiosi. Lo storico dell’Ordine, l’ungherese P. Giorgio Santha, aggiunge che nel 1662 fu ripetuto, senza esito, il tentativo di far accettare agli Scolopi il convento di S. Bartolomeo di Borzonasca non senza la speranza d’una apertura di loro scuole. Che cosa indusse il popolo di Borzonasca a chiedere, mediante l’intervento del Doge, i religiosi del Calasanzio? - 511 - r .1 AlTorigine dell’episodio c’è la scostumatezza d’un prete secolare che ' provocò anzitutto la sollevazione del paese; questo sacerdote era in cura d anime a Borzonasca, nel Chiavarese, fin dai primi anni del Seicento. Non so se si tratta di quel prete Giovanni Godano, rettore di Fegino, sul cui conto arrivò in Senato una forte protesta contro la sua vita immorale e assassina, in data primo giugno 1615, con una lettera anonima dalla quale » si sa pure che il prete era stato scacciato a furore di popolo da una parrocchia, non precisata, del Chiavarese. Al Senato giunsero parecchie lettere « orbe » di protesta e si reclamavano e si suggerivano energici provvedimenti disciplinari. Nonostante l’anonimato, meno ingiustificato allora che oggi, i fatti denunciati non erano f favola e gli umori popolari erano davvero esacerbati. Il Senato chiese l’intervento del Calasanzio e per questo scrisse a Mons. Stefano Durazzo a Roma affidando a lui la lettera per il Calasanzio che fu appunto consegnata personalmente, come attesta il destinatario stesso42. Mons. Durazzo si trovava a Roma fin dal periodo dei suoi studi ed era in quest’epoca prefetto dell’Annona Pontificia. L’attività del Durazzo come amministratore pontificio è pure documentata come già sappiamo da moltissime sue lettere al Senato di Genova, tuttora inedite43. Non mancarono indubbiamente le occasioni di altri incontri in quegli anni. Ne abbiamo testimonianza in due lettere del Calasanzio44, una da Roma del 15 luglio 1626 al Padre Ministro delle Scuole Pie a Narni, dove si legge: « Il negotio della estrattione del grano trattarò quanto prima con Mons. Durazzo che è sopra la grascia come scrive ». L’altra per lo stesso affare ancora allo stesso destinatario da Roma il 5 agosto 1626 dove si 42 La lettera del Calasanzio al Doge di Genova dell’8 agosto 1625, è una di ( quattro da me rinvenute all’A.S.G. e trasmesse agli Scolopi che le pubblicarono in « Ephemerides Calasanctianae » del febbraio 1968, pp. 80-85, col commento del P. Giorgio Santha (vedi pure « Ephem. Cai. » dell’aprile 1967, pp. 164-169); nell’art. però è dichiarata soltanto la collocazione della 4° lettera. Quella della prima è la seg.: Iurisdictionalium, n.g. 1099, c. 32; quella della 2° e terza è la seg.: Litterarum Senato, A.S., filza n.g. 1984, a. 1623 in 1629. A.S.G., Secretorum, n.g. 1563, anni 1612 in 1615, n. 257, per il prete Godano. A.S.G., Iurisdictionalium, passim, per il prete anonimo. 43 A.S.G., Litterarum Senato (A.S.), fz. 1983, a. 1619-1624; fz. 1984, a. 1623-1629. 44 S. Giuseppe Calasanzio, Epistolario edito e commentato da Leodegario Picanyol, vol. II, lettere 478, 488. J — 512 — i legge: « Quanto alla tratta ha detto Mons. Durazzo che non si può dare dalla parte di Cervetere o Bracciano perchè la Camera fa da quella parte la provisione — si vedrà da che parte si potrà dare, però ne diano aviso da che altra parte sarebbe a proposito et si procurarà ». Più frequenti furono i rapporti del Calasanzio col Durazzo come Arcivescovo di Genova in merito alle ben note gravi e dolorose vicende della Congregazione; vi accenna in otto lettere il Calasanzio stesso scrivendo il 19 novembre 1639 da Roma al Padre Gio. Batta Costantini di S. Tecla, Visitatore delle Scuole Pie a Narni; il 26 novembre 1639 da Roma al Padre Giacomo Tocco del SS. Sacramento, V. Provinciale delle Scuole Pie alle Carcare: nella stessa data da Roma al Costantini. Visitatore a Genova; il 17 dicembre 1639 da Roma al Costantini a Genova; il 21 gennaio 1640 allo stesso a Genova; il 7 dicembre 1641 da Roma al Padre Giovanni Francesco Bafici, Provinciale di Genova; il 4 gennaio 1642 allo stesso; in questa lettera avverte che « si è scritto in Bologna al Sig. Card. Durazzo...; e infine il 15 febbraio 1642 da Roma al Bafici in Genova. Vi si legge: « Circa il Breve si è tanto importunato il sig. Card. Durazzo che rimette l’esse-cutione di quel Breve al sig. Vicario, e di Bologna rispondono che l’hanno mandato alla Curia Ecc.ca di Genova et in questo particolare qui non si può fare altro »45. Il Breve del quale si parla con tanta frequenza è il Religiosos viros di Urbano Vili del 22 ottobre 1639. Nel tentativo di indurre all’obbedienza e al fervore i « relasati e gli apostati » il Calasanzio ebbe il pieno appoggio del Card. Durazzo e anche quello del Senato genovese che concesse l’intervento del braccio secolare richiesto dal santo stesso; ma senza risultato perchè, come scrive il P. Santha: P.P. Ianuenses non oboedierunt nec acquieverunt. Sui rapporti fra il Durazzo e S. Vincenzo de Paoli, improntati a reciproca e profonda amicizia, protrattisi per almeno 16 anni dal 1645 al 1660, anno della morte del santo francese, e che si esplicarono in una preziosa collaborazione intenta alla soluzione di gravi problemi religioso-sociali con frutti sorprendenti di realizzazioni ardite precorritrici dei tempi nostri, si è intrattenuto sufficientemente il Musso4é. Giova però dare un elenco almeno delle principali lettere nelle quali San Vincenzo esalta la bontà e « G. Calasanzio cit., lettere 3195, 3201, 3202, 3216, 3237, 3815, 3862, 3925. « G. A. Musso cit., capp. XVI, XVII, XXIV, XXV. - 513 - la virtù del Durazzo, per aver una prova più documentata della stima illimitata ch’egli nutre per il Cardinale genovese47. San Vincenzo aveva chiesto al P. Stefano Blatiron un ritratto del Card. Durazzo 48. Ma ecco in quali termini dichiara la sua gioia per averlo ricevuto «... Je reçus hier au soir son tableau que je tiendrai bien cher et bien precieux toute ma vie (il sottolineato è autografo del santo) et que vous m avez fait en cela un présent des plus riches et des plus agréables que vous me pouviez faire »49. San Vincenzo, che si dimostra sempre preoccupato di compiacere il Durazzo nelle sue domande di missionari e nei suoi progetti di zelo pastorale, sollecito a consultarlo su tutti i problemi riguardanti i missionari della casa di Fassolo in Genova, riconoscente per l’interessamento e i generosi contributi del Durazzo per la fondazione di case in Genova e in Roma, non si perita di giudicare realisticamente l’atteggiamento d’un Barberini, il Card. Francesco, vescovo di Porto; non è alieno dal compiacerlo quando gli chiede una missione per la sua diocesi, ma osserva che da lui non c’è da sperare « grande assistance »50. S. Vincenzo non è mai pago di ringraziamenti al Durazzo perchè dei missionari ne fa « l’oggetto di tutte le sue bontà »; si dichiara spesso impotente a ringraziarlo adeguatamente e afferma che « soltanto Iddio sarà il suo ringraziamento ». In particolare ringrazia il Durazzo per aver sostenuto i missionari dimostrando al governo genovese che non potevano stabilirsi in Corsica alle condizioni poste da esso51. 47 S. Vincent de Paul, Correspondence, entretiens, documents par Coste Pierre, Parigi 1920-1925. V. lettere n. 829 del 2 agosto, 863 del 27 settembre, 892 del 23 novembre, 897 del 27 novembre 1646; 917 del 18 febbraio 1647; 1065 del 25 settembre 1648, 1257 del 9 settembre 1650 sull’offerta della casa di Sturla; 1378 del 7 luglio 1651: S. Vincenzo riconosce la bontà di Dio da quella del Durazzo; 1388 del 28 luglio 1651; 1402 del settembre 1651 in latino al Durazzo; 1404 del 15 settembre 1651. 48 G. A. Musso cit., p. 269. 49 S. Vincent cit., lettere n. 1822 del 31 dicembre 1654; 1787 del 23 ottobre 1654; 1985 del 31 dicembre 1655. 50 Ibidem, lett. del 30 novembre 1657. 51 Ibidem, lettere n. 2649 del 30 agosto; 2694 del 30 ottobre; 2720 del 15 novembre 1658; 2900 dell’ll luglio; 2947 del 29 agosto; 2960 del 5 settembre; 2975 del 12 settembre; 2982 del 19 settembre; 2989 del 26 settembre; 3006 del 18 ottobre; — 514 — Tre giorni dopo l’ultima di queste lettere, il 27 settembre 1660, S. Vincenzo si spegneva; si può ben dire che moriva attestando pubblicamente ancora una volta la sua ammirata e commossa gratitudine per PArcivescovo Durazzo. Anche recentemente uno studioso della Congregazione, documentando la riverenza di S. Vincenzo de Paoli per la Sede Apostolica, ha sentito il bisogno di porre in risalto la profonda venerazione del santo francese per il nostro Card. Stefano Durazzo52. Questo grande arcivescovo ha ben meritato di tramandare ai posteri anche l’immagine delle sue sembianze; un ritratto del Durazzo di mano del pittore Gio. Bernardo Carbone si trova a Palazzo Bianco; un altro, forse della stessa mano, è nel Seminario Arcivescovile Maggiore; a differenza del precedente questo ritratto reca in più la leggenda: scitis quid fecerim vobis53. Luigi Alfonso 3035 del 5 dicembre 1659; 3116 del 16 aprile; 3137 del 4 giugno; 3292 del 24 settembre 1660. 52 Raymond Chalumeau, Saint Vincent de Paul et le Saint-Siège, in « Archivum Historiae Pontificiae», Roma 1967, pp. 284-285. 53 O. Grosso, Catalogo della Galleria di Palazzo Bianco, Milano 1912, p. 17. Attualmente il ritratto è in sala 11, deposito primo. Nell’opera La pittura a Genova e in Liguria dal Seicento al primo Novecento, Genova 1971, p. 318, è catalogato come ritratto del Card. Ippolito Durazzo. - 515 — Schede numismatiche di Cornelio Desimoni PARTE SECONDA* 149 1222. La prima notizia dei minuti distinti dai grossi si ha nel Gandolfi, Storia della moneta di Genova, vol. II, pag. 238; vedi anche il manoscritto delle monete e loro valore, alla Biblioteca Civica; [vedi anche la scheda n. 20], 150 1276-1277. Notizia di argento portato in zecca e della battitura di ianuinorum minutorum per un ammontare di L. 390. (A.S.G., Fogliazzo Notariorum, II, 8.7). 151 1327-1330. Notizie sui clapucini: loro titolo e coniazione. (A.S.G., Atti notaro Bartolomeo Pareto: Cancelleria della Zecca, a carte 47 e 72). * Questo gruppo di schede (dal 149 al 193), venne senza dubbio utilizzato dal Desimoni per un particolare studio sui minuti comparso nel 1882 sul « Giornale Ligustico ». Fu inoltre utilizzato per completare alcuni vuoti delle Tavole Descrittive delle Monete della, zecca di Genova, pubblicate nel vol. XXII (1890) di questi stessi << Atti ». A parte alcune segnalazioni frammentarie apparse in epoche anteriori, le Annotazioni Numismatiche del Ruggero iniziano lo studio metodico di questa singolare moneta genovese che, a partire dal 1280, venne battuta dalla zecca con la funzione di rappresentare il denaro del quale conservò la funzione, benché degradata nel peso e nella lega. Si conoscono minuti dei Dogi a vita e delle dominazioni straniere e minuti del lungo periodo dei Dogi biennali, suddivisi nei due tipi col castello e con la Madonna. La classificazione e l’attribuzione dei sìngoli pezzi è assai difficile perchè si tratta di monete di piccole dimensioni e di metallo facilmente ossidabile a causa della bassa lega. I minuti conservano caratteristiche comuni: mentre sul rovescio è sempre rappresentata la croce, sul diritto appare il castello ad eccezione dei minuti apparsi verso il 1652 e seguenti (cioè dopo il 1637), sui quali la Madonna sostituisce il castello. I minuti delle Signorie straniere recano talvolta particolari contrassegni che facilitano l’attribuzione. Le maggiori difficoltà per la classificazione sono rappresentate dalla leggenda che è ridotta a lettere iniziali non sempre individuabili a causa della battitura irregolare. Particolarmente importanti le iniziali sul diritto della moneta (iniziali del titolare) e quelle sul rovescio e talora sul diritto riferibili allo zecchiere. Si tratta di una moneta caratteristica per a zecca di Genova, oggetto di grande interesse perchè battuta in grande quantità e ritrovabile nei ripostigli^ e nei reperti di scavo: per taluni periodi rappresenta l’unica testimonianza dell’attività della zecca (così per Filippo di Clèves — 1499-1506 — governatore per il re di Francia, e per il doge Ottaviano di Campofregoso, 1513-1515). Nelle schede che seguono sono riunite le notizie riguardanti i minuti comparsi tra il 1222 ed il 1616. Nella scheda n. 193 sono descritti 25 tipi di minuti segnalati al Desimoni da collezionisti suoi contemporanei con attribuzioni interpretabili dalle iniziali. - 517 — 152 1370-1378. Minuto del Doge Domenico di Campofregoso: iniziali D.C. sul rovescio: CO-NR-AD-US ... (segnalato dal Franchini). 153 1390. I minuti si devono battere al titolo di oncie 1 e 1/2; una libbra di bigliotie di minuti si paga in Zecca soldi 27,9. (A.S.G., Archivio Banco S. Giorgio, Regolamento Zecca). 154 1392. Sono citati i minuti a proposito della manutenzione della sede del Banco, in expensa reparationis palacii. (A.S.G., Archivio S. Giorgio). 155 1396-1409. Minuti di Carlo VI re di Francia e signore di Genova. Evidenti sul diritto le lettere iniziali K.R. (Karolus. Rex). I due esemplari esaminati hanno il diametro di 13 e 15 millimetri. (segnalati dal Franchini). 156 1404-1405. In una libbra di minuti devono esservi oncie 1 e 1/2 di argento (come nel 1390); 1 libbra di pasta monetaria per battere minuti è valutata soldi 36. (A.S.G., Registro Zecca dell’Archivio di S. Giorgio). 157 (1409-1413). Minuto attribuito a Teodoro di Monferrato per la lettera T sulla leggenda del diritto (Castello____UA.T). (segnalato dal Franchini). 158 1421-1435. Minuti di Filippo Maria Visconti duca di Milano e signore di Genova. Sono citati 12 esemplari con le iniziali F.M. (Filippo Maria). (segnalati dal Ruggero). 159 1429. 11 gennaio. II denaro nuovo corra per denari 1; il denaro vecchio (d’argento) corra pei denari 1 g 1/2, come risulterebbe dalla Grida di quell’anno. (A.S.G., Codex diversorum, X-944). - 518 - 160 1436-1442. Minuto di Tomaso di Campofregoso doge XXI, citato ma non descritto, (segnalato da Franchini). 16; 1440. 15 gennaio e 15 giugno. Alla prima data si parla della fabbrica di denari minuti fino a 10.000 fiorini; alla seconda data, della fabbrica di denari minuti. (A.S.G., Archivio di S. Giorgio, codice Diversorum, n. 28). 162 1443-1447. Minuto di Raffaele Adorno doge XXII: R.A. DUX. IAN. (segnalato dal Franchini e dal Ruggero). 163 (1443-1447)? (Minuto molto probabilmente assegnabile a Raffaele Adorno). Il Desimoni lo attribuisce a Barbara Adorno per le iniziali B.A. che forse vanno lette R.A. (segnalato dal Franchini e citato dal Sambon). 164 1444. A questa data i minuti sono in lega argento-rame (argento 1/4). (manca indicazione della fonte). 165 1445. Spesa per la fabbricazione dei minuti: soldi 5 (?). (A.S.G., registro Constitutiones ceche). 166 1446. 10 gennaio. Non si permetta di battere minuti. (A.S.G., Diversorum 1446-X-972). 167 1447. 20 novembre. Deliberatum est cudi denarios minutos da fiorini 10 in 12 mila. (A.S.G., Diversorum, 1447). 168 1 447. Minuto del doge Giano (o Giacomo?) di Camprofregoso (1447-1448). Castello, J.C.DUX...I; sul rovescio la croce; in un braccio: SB. (segnalato dal Franchini). - 519 — 169 (1450-1458). Minuti di Pietro di Campofregoso. Sul diritto, castello: P (rosetta) C (chiuso) A. Sul rovescio, croce: CO-NR-AD-US. (due esemplari segnalati dal Franchini). 170 1452. 26 febbraio. In zecca è molto metallo da fabbricarne parte sestini, parte minuti; ma siccome si batte molto peggiore di quello che è stabilito dalle leggi, si richiama alla osservanza di queste. (A.S.G., Diversorum, 1452-53. 10. 987). 171 1452. 2 marzo. Essendo in zecca diverse monete di biglione depositate da’ mercanti, si decreta se ne faccian minuti fino a L. 11.000. (A.S.G., Diversorum, 1452. 10. 985). 172 1452. I sestini come i minuti si battono multos deteriores quam patiantur leges et constitutiones Comunis lanue vel invenitur licentia ulla scripta ex qua permissum sit tam malam monetam fabricari. Ora essendovi in Zecca molto metallo per fabbricarne, si decreta che si osservino le leggi. (A.S.G., Diversorum 1452, X). 173 1458. 20 agosto. Decreverunt quod in cecha lanue fabricari possit moneta denariorum minutorum usque ad summam librarum 12500 monete currentis. (A.S.G., Diversorum, 1458-1460, X. 1000). 174 1458-1461. Minuti di Carlo VII re di Francia, signore di Genova. Sul diritto: C (chiuso). R . F . (5 esemplari segnalati dal Franchini). 175 1460. Si fabbrichino denari minuti per L. 8000 di fiorini. (A.S.G., Diversorum, 1460, X-1005). — 520 — 176 1461. 2 maggio. Licenza cudi posse denarios minutos pro summa florenorum 4000 maxime quod civitas moneta argentea vacua est adeo ut vix aureus unus cambiari possit. (A.S.G., Diversorum, 1460-1461, X-1006). 177 1461-1462. Minuti di Ludovico di Campofregoso (?). Sul diritto: L. C. (chiuso) DUX. Sul rovescio: CO-NR-AD-US. (due esemplari segnalati dal Franchini e dal Ruggero). 178 1461. Minuto di Prospero Adorno. Sul diritto: P. A. DUX. (segnalato dal Franchini). 179 1474-1475. A Pietro di Frevante sono date L. 15 in sachetis tribus minutorum; successivamente sono date L. 150 in sacchetti 300. (A.S.G., Archivio S. Giorgio, registro Officiorum ceche). 180 1483-1488. Paolo di Campofregoso cardinale e doge. Sul diritto: P.C.CA. Sul rovescio: CO-NR-AD-US. (segnalato dal Franchini). 181 1488-1499. Agostino Adorno governatore per il duca di Milano. Sul diritto: A.G. DUX JAN.M (segnalato dal Ruggero). 182 1492. 19 ottobre. Gli ufficiali delle monete, sentito il sindaco dell’ufficio riferente che in una libbra di minuti ci deve essere posta un’oncia di argento fino di saggio: sentito il fonditore che pretende che l’oncia da porre in detta libbra deve essere di bontà di once 11 e 1/2, discussa la pratica, decidono che l’oncia deve essere di argento fino di saggio. (A.S.G..Archivio segreto, codice n. 15). - 521 - 21 183 1507-1512. Ludovico XII re di Francia, signore di Genova. Sul diritto: L.R. (segnalato dal Franchini). 184 1513-1515. Ottaviano di Campofregoso doge. Sul diritto: O.C. E quasi tutto rame: castello e lettere in forma moderna. V’è la sigla N come nei minuti di Francesco I. Sul rovescio sigle M.C. (non sarebbe Maximilianus Caesar?). (segnalato dal Ruggero). 185 1522-1527. Antoniotto Adorno doge. Sul diritto: A. A. Sul rovescio: CO-NR-AD-E peso gr. 0,528. (segnalato dal Franchini). 186 1527-1528. Francesco I re di Francia, signore di Genova. Sul diritto: F.R.F.D.JAN B. Sul rovescio: CO-NR-AD-US. (segnalato dal Franchini e citato dal Sambon). 187 1569-1581. Dogi biennali. Sul rovescio: croce, ai quattro angoli: CRR LB (Luca Bruno). (segnalato dal Franchini). 188 1592. I minuti, al titolo di mezz’oncia, devono essere in peso gr. 0,498. (manca indicazione della fonte). 189 1592-1605. Minuto che ha sul rovescio le iniziali I.V. (Jeronimus Viglevanus). (segnalato dal Ruggero). — 522 — 190 1607. Calcolo della spesa per stampare minuti e da 4. (A.S.G., Diversorum 1607; vedi anche in Politicorum alla stessa data). 191 1607-1610. Minuto con lettere iniziali H.P. (zecchiere Hieronimus Paggi). (non risulta da chi segnalato). 192 1615-1616. Minuti col castello e lettere D G RP G. Rovescio: croce e lettere C R R IZ (zecchiere Joseph Zino). (due esemplari segnalati dal marchese Centurione e dall’Avignone; altro esemplare segnalato dal Franchini). 193 Minuti del periodo del castello, non classificati: 1. Sul diritto: D (gotica) Janua; lettera finale D. Sul rovescio: CO-NR-AD-US in lettere gotiche. 2. Altro esemplare identico, con lettera finale I. (non risulta da chi segnalato). 3. Sul diritto lettera C finale; Sul rovescio si legge solo CO nel 1° angolo della croce. (segnalato dal Franchini). 4. Sul diritto: A . JANUA . B. (segnalato dalla signora ved. Campofregoso). 5. Sul diritto: G. IANU ... A; in fine: L. Sul rovescio: CO-NR-AD-US (due esemplari). (non risulta da chi segnalati). 6. Sul diritto: L JANUA I Sul rovescio: CO-NR-AD-US.S (3 esemplari). (segnalati dal Franchini). 7. Sul diritto, dopo la crocetta: O. .C. Sul rovescio, in fine leggenda, una specie di martello. (segnalato dal Franchini). 8. Sul diritto: L JANUA B (oppure R). Sul rovescio si intravvede un giglio sulla croce. (segnalato dal Franchini). 9. Altri 3 esemplari con giglio anche nel secondo angolo della croce). (segnalati dal Franchini). 10. Sul diritto: rosetta, V . A .. O. Sul rovescio: D.G.R.A. (la G non è completa; la R è dubbia). (non risulta da chi segnalato). 11. Sul diritto: D.G.R.G. — 523 — Sul rovescio: CO NR B in finale. (non risulta da chi segnalato). 12. Sul rovescio, tra i bracci della croce: C . II . R . R. (segnalato dal Franchini). 13. Sul diritto: C . I........ Sul rovescio: in un braccio della croce: P.C. (non risulta da chi segnalato). 14. Sul diritto: O . I . P (?) Sul rovescio: in un braccio della croce: S . B. (segnalato dal Franchini). 15. Sul diritto: G V____VA. Sul rovescio: C.R.R.. I.P. (3 esemplari segnalati dal Franchini). 16. Sul diritto: C.I..... Sul rovescio: nel quarto braccio della croce P.C. (segnalato dal Franchini). 17. Sul diritto: A. G..... Sul rovescio: nel terzo angolo della croce R; nel quarto F.G. (segnalato dal Franchini). 18. Sul diritto: rosetta A . U ... O. Sul rovescio: nel quarto braccio della croce P.C. (segnalato dal Franchini). 19. Sul diritto: D.G.R.G. Sul rovescio: negli angoli della croce C.O. NR .... B. (segnalato dal Franchini). 20. Sul rovescio: CO . N . RA . DR. (non risulta da chi segnalato). 21. Sul diritto: ......A.G. Sul rovescio: ... C . F . (oppure R). (segnalato dal Franchini). 22. Sul rovescio: CO.N.RADUS. (segnalato dal Franchini). 23. Sul diritto: C. R. A. R. (abbreviazione di Carolus Rex Francorum?). Sul rovescio: C. R ... (segnalato dal Franchini). 24. Sul diritto: rosetta F . G. (segnalato dal Franchini). 25. Sul diritto: DUX . IA I. Sul rovescio: CO AD X. (segnalato dal Franchini). 194 1108-1110. Il Poch nomina denari nuovi in Atti della chiesa delle Vigne. (Poch. Reg. 2°, a carte 70). — 524 - 195 1138. In un documento relativo alla chiesa di S. Stefano sono citati i denari Bruneti. (Poch, IV, Reg. 8°, a carte 38). 196 1139-1437. Peso in fino di argento per i denari da 1/12° di soldo di buona moneta: 1139 peso in argento fino gr. 0,366 1370 peso in argento fino gr. 0,122 1172 » » » 0,348 1390 » » » 0,119 1288 » » » 0,198 1404 » » » 0,117 1309 » » » 0,198 1412 » » » 0,100 1327 » » » 0,189 1429 » » » 0,082 1335 » » » 0,176 1437 » » » 0,079 (dati rilevati dal Desimoni sui ragguagli dei registri della zecca). 197 1149. Notizie sulla vendita della battitura della moneta genovese. (in Iurium, a questa data; notizia ripresa dal Gandolfi). 198 1201. Argento venduto ai Malaspina a lire genovesi 3, soldi 16 e denari 11 e 10/13 a libbra. (non si conosce la fonte). 199 1252. Compare il Civitas Janua in biglione: le iniziali dello zecchiere sono: R S Y. Si tratta della petachina o sesino. Il suo peso varia da gr. 1,390 a 1,060. Sul rovescio è scritto CONRADUS REX . S. Forse alcune sono battute verso il 1396 o verso il 1409 perchè nel 1872 sono state trovate con le petachine di Carlo VI. (appunto del Desimoni). 200 2269. Si ha notizia di genovini d’oro e d’argento in un documento di Viterbo, (appunto del Desimoni su notizia fornita dall’Avignone: vedi n. 142). 201 1280-1290. Il genovino d’oro Janua quam Deus protegat d’oro fino è uguale al fiorino e pesa gr. 3,535. Il grosso d’argento, dello stesso tipo, o soldo effettivo, è uguale a due steriini e pesa gr. 2,80. (appunto originale). — 525 — 202 1348. La lega d argento da impiegarsi per le monete deve essere uguale a quella degli steriini. La stessa lega deve essere usata dai battifolii. (appunto originale. Vedi anche lo'Statuto dell’arte dei Battiloro all’Archivio Storico del Comune di Genova: N.d.R.). 203 1364. Si ha notizia di carestia di argento: è ostacolata la battitura delle monete, (appunto originale). 204 1365. Il grosso d argento vale due soldi (il suo peso è di gr. 3,04; quello del fino è di gr. 2,913). (Registro Zecca in Archivio di S. Giorgio; pesi calcolati dal Desimoni). 205 1370. Il grosso di Genova, quello del Papa ed il crociato si devono calcolare a 12 e 1/2 a fiorino. (appunto originale). 206 1377. Si tenga presente che in quest’anno si nominano i grossi genovini d’argento a Pera. (appunto originale). 1380. Vengono nominati i denari e le medaglie; si afferma anche due libre bolzonum valgono L. 3. (A.S.G., Archivio di S. Giorgio, Registrum Ceche). Seguono gli appunti originali del Desimoni: « Perciò libbra una in peso di denari vale soldi 30 ossia pezzi 360; dunque un denaro in peso = a gr. 0,879 e una medaglia allo stesso titolo = a gr. 0,439 e siccome l’argento allora vale Lire dieci, in tal caso la lega del minuto deve essere circa oncie 1 e 3/4. Trovo invece in esso registro titolo oncie 1 e 1/2». 208 1387. A Ceva pagamento dell’annua somma di L. 85 genovine in fiorini d’oro a soldi 27,10. Ma allora fiorini fabbricati a Ceva valevano solo 27,10 mentre a Firenze valevano soldi 28. (Olivero: Storia di Ceva, a pag. 67. Il rilievo era già stato fatto dal Gazzera nel 1833: N.D.R. ). — 526 — 209 1404. Di Libbre 5000 argento de liga venetorum si facciati metà sexini e metà minuti. Lega de denari minuti è a oncie 1 e l'/2. Una libbra vale soldi 36 (così peso di fino = a gr. 7,33), Spesa per far minuti, soldi 5 per libbra. (dal Registro della zecca in S. Giorgio). 210 1404-1437. Peso in argento-lega ed in argento-fino calcolato su alcune monete di questi anni. Trovo che nel 1404 le petachine erano 240 a libbra: allora la petachina doveva pesare gr. 1,319 e di argento fino gr. 0,659. 211 1412. Occorrono 104 grossi per fare una libra. Il grosso pesa gr. 3,045; di fino in ogni grosso gr. 2,918. 212 1421-1436. Sotto Filippo Maria Visconti corre un grosso minore di quello del 1419: infatti il suo peso è di gr. 2,40 e forse valeva soldi due. 213 1437. Soldini a once 6 a L. 8,5 a libbra; loro peso gr. 1,799; di fino, gr. 0,899. Pela-chelle (petachine) al titolo di millesimi 333: ne cadono 240 a libbra. Ma allora sono 1 denari redivivi! Infatti pesano gr. 1,319, ma di fino gr. 0,43. Inoltre in una libbra cadono 420 minuti: peso del minuto in quest’anno gr. 0,75 ma di fino contengono gr. 0,073. 214 1421. Argento recato in S. Giorgio per fondere per scarsezza di numerario. (La notizia, ripetuta in questo appunto, è già comparsa al n. 11). (rilevata presso l’Archivio S. Giorgio). 215 1437-1445. Fino al 1437 pare nei documenti si usasse sempre dire fiorino alla moneta d’oro genovina; ma al 1445 nelle nuove Constituciones ceche si dice florenos e semplicemente ducatos nel calcolo delle spese. (appunto originale). 216 1443-1455. Soprastanti alla zecca: al 23 dicembre 1443, Giano Grillo e Raffaele de Mario; al 2 gennaio 1453, Ottobono Saivago; al 31 gennaio dello stesso anno, Pietro Gentile q. — 527 — Valeriano; al 7 gennaio 1454, Bartolomeo Lomellini q. Gio e Antonio Navone; al 1° ottobre 1455, Ottaviano di S. Salvatore; al 28 dicembre dello stesso anno, Cristiano quarciafico (a completamento dell’appunto frammentario riferito al n. 34). (A.S.G., Diversorum capituli 1443-1461, n. 1125). 217 1452. 22 gennaio. Decreto del Doge Pietro Fregoso che considerando spettare ai Protettori Compere i S. Giorgio e del Capitolo la riforma della zecca, all’elezione degli Ufficiali oprastanti ecc. ed anche la remissione secondo la facoltà loro concessa l’anno 1445 agosto, in quest anno per puro riguardo ad esso Doge nominarono il di lui appresentante Damiano Castagna da esercitare per un anno insieme ad Ottobono a v aBo. ma che questo non si tragga ad esempio spettando ad essi Protettori la nomina senza riguardo al Doge. (A.S.G., Arch. S. Giorgio, Codice n. 15 - Decreti 1411-1469 o parvarum Regularum). 218 1465. _ Corso di monete genovesi a Milano: in quella città corrono due specie di grossi eno\a. uno maggiore vale soldi di Milano 6,3; l’altro minore vale soldi 5. Inoltre corrono peggioni di Genova (o diciottenni) e noveni o da denari 9. Ma allora il soldo Deno\ ese sta a quello milanese come 2 a 3 ed il grosso maggiore di Genova deve valere eno\a soldi 4,2 ed il grosso minore soldi 3,2; inoltre il peggione deve essere per orza i soldino di Genova che vale soldi 1 ed il noveno a Milano deve essere il sexino di Genova o patachina. (appunto originale). 219 1481-1483. In questi anni il grosso a Genova corre a soldi 5 e pesa gr. 3,574 (fino gr. 3,425). i conseguenza il soldo pesa di argento fino gr. 0,685 e la lira, sempre di fino pesa gr. 13,700. (appunto originale). 220 1484. 3 luglio. Il ducato d’oro di Genova è valutato in soldi 55. (A.S.G., Atti del notaro Tomaso Dracino). 221 1488. Undici scudi d’oro del sole valgono 33 libbre. (A.S.G., Segreteria S. Giorgio, filza di quell’anno). 222 1490-1499. Peso in argento-lega ed in fino di monete genovesi. Il testone a Genova vale soldi 15 e pesa gr. 10,198 (fino gr. 9,696). I minuti — 528 — pesano gr. 0,538 (fino gr. 0,044) e ne entrano 588 a libbra; ciò alla data del 1490. Nel 1493 circola il grossone a soldi 20 che è la lira effettiva di argento del peso di gr. 13,344 (fino gr. 12,778); di conseguenza la lira equivale a 20 soldi del peso ciascuno di gr. 0,638 (di argento fino). Nel 1498 e nel successivo 1499 continua il calo del peso, sicché il grossone va a gr. 13,198 ed a gr. 13,014; il soldo a gr. di fino 0,632 ed a gr. 0,623; infine la lira va a gr. 12,647 e gr. 12,472. (appunto originale). 1496. Lettera interessante per i ragionamenti sul valore di diverse monete d’Italia in corso in quell’anno. (A.S.G., Filza «Acciaio» (?) nella Cancelleria dell’Archivio S. Giorgio, pag. 41). 1507. 7 luglio. Ordine di battere scudi del sole. Si specifica anche che i cavallotti di ogni stampa valgono 4 soldi. (A.S.G., Diversorum Officii monetae). 1507. 14 settembre. Grida ove è detto essersi venduto il partito della zecca alli nobili Battista Doria e compagnia. (A.S.G., Diversorum Officii monetae, atti di Nicolò Brignole cancelliere). 1507. Il Testone da L. 1 e da n. 3 a ducato d’oro pesa gr. 12,342 (peso del fino gr. 11,828); il soldo è ragguagliato a gr. 0,591. In questa stessa data sono nominati per la prima volta i nuovi Cavallotti, cioè grossi soliti, ma peggiorati molto nel titolo; per ciò ora proibiti. Due anni dopo l’Ufficio della moneta li ritira per soldi 3,10 e 1/2, mentre hanno ancora corso per soldi 4: sono anche detti della stampa del Re (Ludovico XII). Il testone da 1 lira nel 1507 pesa gr. 12,342 (fino gr. 11,828): tre di essi equivalgono ad un ducato d’oro. Nel 1522 è al corso di soldi 18 e nei successivi anni 1523-1524 equivale a soldi 17. In questi ultimi anni ha lo stesso valore di quelli di Milano, Savoia-Piemonte, ecc. Una grida di quell’epoca mette i testoni alla tariffa di soldi 17, ma in realtà corrono a Genova, come a Milano ed a Torino a soldi 18. (appunto originale). 1538. Occorrono 4 testoni per uno scudo d’oro che vale L. 3,8 anche a Milano ed a Torino. Allora è giusto il valore del testone a soldi 3,8. (appunto originale). — 529 — 1541. Primo scudo d’oro con la data e della qualità detta delle 5 stampe o zecche e posto in circolazione a L. 3,8. Il testone di Genova valutato a Nizza e ragguagliato al Trono veneto; ivi pure valutato il così detto Terzo di Genova e detto del peso di denari 10,12 a gr. 13,448 che è dunque il testone o grassone del 1493 da una lira o da tre a ducato, onde viene il suo nome di Terzo (N.B.: anche nelle tariffe di Piemonte è notato al 1529 il Terzo di Genova vecchio con croce e quattro stelle ed è certo lo stesso testone nominato a Nizza sebbene il numero delle stelle non corrisponda come pure v’è errore nel ragguaglio). (appunto originale). 1544. Il testone di Genova di quest’anno è nominato nelle tariffe di Piemonte e rag guagliato ad altri: però il primo sta al secondo come 24 a 25. (appunto originale). 1545. Cavallotti detti de dimidia (certo perchè oncie 6 di fino — millesimi 500 — erano al taglio di 90 a libbra). Così peso gr. 3,519. (A.S.G., Diversorum Officii monetarum). 1554. Prima moneta d’argento con data: cioè testone di tipo veneto. E’ il nuovo testone e il suo peso effettivo si è trovato da gr. 9,70 a 9,83 (gli altri due tipi compaiono nel 1558 e 1561). A Nizza è nominata la lira di Genova ragguagliata al Reale di Spagna e al grosso di Nizza che sono dati a gr. 10,001. Si vede da ciò che la nuova lira di Genova non è altro che il detto testone del tipo veneto. (appunto originale). 1562. Anche in quest’anno la lira di Genova è nominata nelle tariffe del Piemonte e ragguagliata sul Reale di Spagna: il suo peso è però di gr. 9,699. (appunto originale). 1567. Circolano testoni fabbricati da L. 1 e del peso di gr. 9,317 (fino gr. 8,929). A questa stessa data si ha il pezzo da L. 2 o doppio testone: stesso titolo ma peso doppio, ossia gr. 18,634. Vi deve pure essere e fu presentato in zecca il pezzo da L. 4 di questo stesso anno, ossia lo scudo d’argento detto senza corona, colla cifra 4 tra due stelle e iniziali dello zecchiere A.S. con la data e con Conradus II; dev’essere del titolo identico dei suoi spezzati da L. 2 e L. 1 e pesa gr. 37,... (appunto originale; cfr. n. 107). 234 1569. La spesa per monetare una libbra d’argento in scudi ammonta a soldi 14,7: dunque anche qui è accertato lo scudo d’argento. (A.S.G., Diversorum Officii monetae). 235 1571. In Tariffe di Piemonte è nominato lo scudo d’argento di Genova: è un’altra conferma dello scudo del 1567. (appunto originale). 236 1 585. Notizia in quest’anno che i cavallotti vengono battuti in numero di 95 per libbra. Pesano gr. 3,334. Infatti gr. 3,334 per 95 = a gr. 316,73 cioè una libbra. (appunto originale). 237 1588-1599. Equivalenti in peso della pasta di argento fino: per ogni soldino gr. 1,092 per gli 8 denari » 0,728 per i 4 denari » 0,642 per i minuti » 0,536 (appunto originale). al titolo di onde 4. al titolo di onde 2 e di 1/2 oncia 238 1 593 . 31 dicembre. Ordine di far fabbricare monete d’argento aggiustato con l’oro: che per un oncia d’oro si abbia lira una d’argento fino (rapporto di 1 a 12). Si fabbrichino scudi, mezzi e quarti in conformità di peso alle da 2 lire e da 4 lire ultimamente fabbricate e con base lo scudo al taglio di pezzi 8 e 1/4 per libbra. N.B. E’ questo lo scudo d’argento, o scudo grande che durera fino agli ultimi tempi della Repubblica con pochissima modificazione. (A.S.G., Diversorum Officii monetae). 239 1593 . 31 dicembre. Si ha conferma dell’immissione al corso del nuovo scudo di Genova detto con corona al valore di L. 4,8 al taglio di pezzi 8 ed 1/4 a libbra al solito titolo. — 531 - Così peso gr. 38,504 (fino gr. 36,90). In proporzione la lira contiene ora di fino gr. 8,386. Ora lo scudo d’oro vale quanto uno scudo d’argento. (appunto originale). 240 1 594 e 1596. In questi anni si ha il pezzo da scudi 1 e 1/2 con castello e Griffi (sic). C’è l’anello anziché la corona. Peso trovato in gr. 56. (appunto originale con riferimento al Reichel: Die Reichel’sche Miinzsammlung in S.t Petersburg, 1843). 241 1599-1602. I cavallotti coll’argento fino in gr. 1,659 e del peso di gr. 3,182 valgono circa Lire 20, soldi 1 e denari 6 e 3/4 a libbra. Lo scudo d’argento vale L. 4,10; il Ducatone d’argento L. 3,2; in peso lo scudo è esattamente gr. 38,394 a titolo 958 (fino gr. 36,794): a L. 0,22 viene L. 8,168. (appunto originale). 242 1 606. Si ha notizia in quest’anno che alla fiera di Piacenza sono ammessi gli scudi ed i mezzi scudi di Genova. (appunto originale). 243 1 607. La pasta per fare i soldini vale L. 14, soldi 10 e denari 10 e 3/4 a libbra e contiene argento in millesimi 333. (A.S.G., Diversorum Officii monetae). 244 1609. Il Ducatone di Genova è nominato nelle Tariffe di Bologna ed è descritto come tipo veneto: peso gr. 32,045 e del titolo di millesimi 951. (appunto originale). 245 1614. Trovo notizia che l’argento fino vale alla libra L. 38.3.8 e 3/4 ed il rame vale soldi 10. (notizia originale). 246 1614. Il pezzo da 8 Reali (non genovese) al taglio di 11 e 1/2 a libbra vale L. 3,1. I Ducatoni si spendono a L. 4 sebbene a tariffa siano ancora valutati L. 3,12. (appunto originale). - 532 - 247 1618. Un cosidetto Tallaro di Genova è nominato nelle tariffe e si ragguaglia a 2/3 di scudo; non se ne conosce pezzo reale a meno che non sia un tallero degli Spinola, (appunto originale). 248 1620. In tariffa di questa data vengono nominati insieme i Ducatoni di Genova e di Firenze. Dunque valore, forse peso e titolo identici. (Tariffario di Milano). 249 1625-1626. Nuovi tipi di monete da denari 20, da 8 e da 4. I pezzi da denari 20 (con la cifra 20 in cifre arabe) sono in pasta da L. 7,18 moneta corrente per libbra al titolo di oncie 1 e 1/2 (millesimi 125) e pesano gr. 3,340 (fino gr. 0,420) e così pezzi da den. 8 peso gr. 1,336 (fino gr. 0,161); pezzi da den. 4 peso gr. 0,668 (fino gr. 0,084). (appunto originale). 250 1626. In una pratica della Gabella vino v’è la liquidazione nell’Uffido di S. Giorgio dell’antica lira di Genovini in moneta corrente in quest’anno: doè a soldi 20 di quei Genovini pari a soldi 50 ora correnti. (A.S.G., Archivio Segreto, Atti notaro Gio Batta Schiaffino). 251 1630. Compare il cavallotto con il tipo di S. Bernardo al solito peso e titolo. In questo anno i cavallotti si spendono per soldi 5 e così anche il Governo tollera che si spendano o sieno ricevuti nelle sue casse in settembre, benché per tariffa. (appunto originale). 252 1637. Decretato che d’ora in poi l’argento invece dell’oro sia la base della monetazione e viene quindi realizzato lo Statuto sulla valutazione dei debiti anteriori. La Madonna sostituita al castello negli scudi e la leggenda: et rege eos al Cunradus. Ma il castello continua sui cavallotti che rappresentano l’antico grosso, sebbene il titolo sia di gran lunga inferiore. (appunto originale). 253 1 639. Pro Lombardia Reverini: supplica al Serenissimo Senato per censo in moneta corrente di Genova. Il documento porta contestazioni sul valore della somma. (A.S.G., Senato, filza n. 11). - 533 — 254 1639-1640. Compaiono pezzi nuovi da soldi 10 e 5 in mistura con un terzo di argento e due terzi di rame (titolo millesimi 333). Tali pezzi sono battuti col metallo dei soldini fusi, ma siccome inferiori al giusto valore, vengono successivamente ritirati dalla circolazione. (appunto originale). 255 1641. Viene battuta la nuova lira: poiché in quest’anno lo scudo sale al valore di lire 6, la lira rappresenta un sesto dello scudo e pesa gr. 6,399. Infatti gr. 6,339 x 6 = gr. 38,394. _ "^e ^ra non è posseduta che dal Marchese Agostino Adorno, ma ne sono i disegni presso i signori Avignone e Franchini; essa pesa di fatto gr. 6,30 ed ha una cifra arabica 20. Vi sono però pezzi da 10 soldi con cifra romana X. (appunto originale). L’esemplare è descritto dal Corpus Nummorum alla data del 1641: N.d.R. 256 1643. E segnalata la Lira con la cifra romana XX (e sua metà). (appunto originale). 257 1 653. E ordinata la battitura di pezzi da denari 8 e da den. 4 col metallo cavato dal ritiro dei pezzi da soldi 10 e 5 perchè troppo bassi di titolo (vedi n. 254). In quest anno compaiono i pezzi detti da dicciassettesimi, perchè n. 17 equivalgono a 1 scudo. Il diciassettesimo pesa gr. 2,25. Questo taglio di pezzi a soldi 8 rappresenta in peso e fors anche in titolo il Luigino di Francia, che colà era un da 5 soldi o quarto di lira, ma tra noi valeva soldi 8 e perciò era anche detto ottavetto. Tali pezzi furono poi contraffatti e a molto peggior titolo in molte zecche per essere spediti in Levante ove erano ricercati. (appunto originale). 258 1658. Per decreto dell Arcivescovo Card. Durazzo lo scudo d’argento nei Canoni ecclesiastici (livelli, enfiteusi, censi etc. a favore di chiese etc.) dovrà essere valutato a L. 5,16. (Archivio della Curia di Genova). 259 1659. Lo scudo d’argento è salito a L. 7. Il Ducatone di Genova vale ora L. 5,14. Il Realone, cioè il pezzo da 8 Reali vale L. 4,16. (appunto originale). - 534 - 260 1663. Il Cavallotto, tassato per L. 3 (ossia ne occorrono 3 per formare una lira), vale ora soldi 6 e denari 8. (appunto originale). 261 1666. Pezzo nuovo di San Giorgio; forse rappresenta un da 8 Reali, sua metà e quarto e ottavo. Il suo peso effettivo è di gr. 25,50 di argento al 924. (appunto originale). 262 1670. Lo scudo d’argento (con la Madonna) vale ora L. 7,8. E’ stato messo in corso lo scudo (nuovo) di S. Gio. Battista detto dal Santo che vi è sopra col Non surrexit maior, posto a L. 4, perciò rinnovante l’antico valore dello scudo d’argento o grande del 1567, il quale scado grande però continua a valere L. 4,10 di cartulario, come quando tale valore fu fissato nel 1599 e 1602 e nel commercio vale L. 7,8 come si è detto sopra. Detto scudo di S. GB. si batte al mulino col nuovo metodo introdotto, ma per ora soltanto la terza parte così di esse monete come dei suoi spezzati per esperimento. Il suo taglio e peso è a 924 millesimi e gr. 21,287. (appunto originale). 263 1 674. La battitura delle nuove monete fu data in impresa a Gio. Luca Maggiolo. Vedi i suoi Capitoli. (A.S.G., Senato). 264 1678. Anche i Cavallotti che hanno impresso sopra il loro valore di soldi 6,8 sono stati falsificati: stare in guardia. (A.S.G., Diversorum 1670/75). 265 1 705. Anche nello scudo di S. Giovanni Battista si osserva in quest’anno un leggero ribasso nel peso: ora è di den. 18,22; così il peso è di gr. 20,805. (appunto originale). 266 1 728. Nelle Tariffe di Milano è segnalato il Giorgino o da soldi 24 di Genova, (appunto originale). - 535 — 267 1741. Lo scudo di S. Giovanni Battista è ancora in peso gr. 20,805; lo scudo grande vale ora L. 8,16 sebbene in tariffa o in banco continui a L. 7,12 come nel 1675. A questa data è pure ricordato il mezzo Giorgino o da soldi 12. (appunto originale). 268 1743. Il Cavallotto in mistura è in corso a 4 soldi e pesa gr. 3,958; il pezzo da soldi 2 al taglio di n. 160 a libbra pesa gr. 1,979. (appunto originale). 269 1746-1752. La Madonnina o Concezione (cioè la nuova lira) pesa gr. 4,536; la mezza, detta da soldi 10 pesa gr. 2,268; il terzo, o da soldi 6,8 pesa gr. 1,512. Nel 1747 si vede la Madonnina doppia o da 2 lire: titolo uguale e peso doppio. Nel 1752 (?) il S. Gio. Batta da 4 lire salito a L. 4,12. (osservazioni desunte da Le monete e zecche d’Italia di Carli-Rubbi, 1794). 270 1792-1814. Nuova monetazione: scudo doppio nuovo o da L. 8 del peso di gr. 33,269; lo scudo da 4 lire in proporzione; la lira scende a gr. 3,696. N.B. Lo scudo grande o vecchio d’argento della Repubblica essendo rimasto la base monetaria sola dal 1602 in poi, nel 1792 acquista il valore di L. 9,16 e la lira di fino è uguale a gr. 3,754. Inoltre non essendosi dal 1792 in poi verificate altre variazioni nei valori monetari fino al finire della Repubblica, ne venne da tutto ciò che con Editto Regio del 1816, dopo la riunione della Liguria al Piemonte (come anche con anteriori decreti sotto l’impero Francese), la lira genovese fu ragguagliata ad un sesto di meno della lira nuova di Piemonte essendo di peso gr. 5 e di titolo millesimi 900 (come l’attuale lira italiana), resta al fino di gr. 4,50; deducendo da tale fino un sesto, la lira genovese avrà di fino gr. 3,75, appunto come vedemmo la lira del 1792, ragionata al valore dello scudo grande. Fu anche fissato nelle tariffe Imperiali e Regie il valore attuale del grammo d’argento fino monetato a L. 0,222. Così mentre gr. 4,50 di fino stabiliscono la lira francese e quella italiana, gr. 3,75 stabiliscono la lira genovese ultima della Repubblica a L. 0,833 come è il suo noto valore. Infine volendosi calcolare in prezzi odierni (circa il 1870, N.d.R.) il valore di tutte le monete di cui demmo riscontro dal prinicipio fino alla fine della Repubblica, non si ha altro a fare che moltiplicare per le sudette L. 0,222 la rispettiva quantità di fino argento che ogni una di esse monete contiene: il risultato sarà il valore in moneta odierna. Sul finire della Repubblica ossia sotto l’impero Francese fu anche liquidata la lira di cartulario o di numerato in lire italiane o francesi 1,942 ossia lire italiane 194,4 per lire 100 genovesi. — 536 — Veramente avuta ragione allo scudo d’argento o grande a L. 4,10 di numerato, mentre in fine della Repubblica valeva L. 9,16, una lira di numerato dovrebbe valere più di lire due di moneta corrente: ma forse si ebbe riguardo ad una media di più anni, e fors’anche del secolo perchè, come vedemmo testé, L. 9,16 lo scudo dà per una lire 3,754 e per 4,10 nel 1602 dà L. 8,176. Ora invece una lira attuale a L. 3,754 che moltiplicato per 1942 darebbe 7,290. (appunto originale). 271 1885. Nota sul metodo del Cinagli per la descrizione generale delle monete pontificie accettato con parecchie modifiche dall’avvocato Avignone e da me per la descrizione delle monete genovesi. La mia relazione analoga fu presentata nel 1885 dal cav. Belgrano all’istituto Storico di Roma. (Riassunto). In quattro cartelle manoscritte (nella prima di esse è riportata ancora una volta la data 24 aprile 1885) il Desimoni riassume alcune pagine del Cinagli, Le monete dei Papi descritte in tavole sinottiche. Fermo 1848, per particolari periodi. Ad esempio a proposito degli zecchini senatoriali, riporta la descrizione degli stessi col metodo delle colonne, ciascun gruppo delle quali, riferito al diritto ed al rovescio di ogni moneta, contiene tutte le notizie. Dà risalto ad alcuni pezzi delle emissioni dei Pontefici liguri: Sisto IV ed Innocenzo Vili, ma descrive anche altre monete soprattutto per rilievi e considerazioni sui testoni e doppi gitili. Riferendosi al Cinagli il Desimoni programmò la compilazione delle Tavole descrittive delle monete della zecca d Genova trovando molto pratico adottare il sistema a colonne per rias sumere, senza dimenticarne alcuno a fianco di ogni moneta, tutti gli elementi indispensabili per una esatta interpretazione ed inquadramento delle monete genovesi. « Il criterio del Cinagli » continua il Desimoni « si riconosce come il meglio redatto per ottenere tutta la brevità possibile col maggior numero dei dati in esso contenuti. Ma per una parte la zecca pontificia conta tale vastità e varietà di specie le quali non hanno luogo nella zecca di Genova piuttosto molto semplice e quasi uniforme nel tipo. Per l’altra il Cinagli ha trascurato di inserire nelle sue colonne dati importanti quali sono il peso in grammi ed il titolo almeno legale in millesimi delle singole monete, e così anche la serie degli zecchieri non è compresa nella disposizione delle colonne. Perciò si è pensato di modificare il metodo del Cinagli adattandolo alla zecca genovese ed aggiungendovi i diversi particolari sovraccennati. Le colonne saranno 14 ed in esse dovrà farsi cenno dei seguenti dati: numero d’ordine generale progressivo; metallo; specie moneta; peso; titolo; Diritto, Rovescio: per questi due ultimi elementi si dovrà considerare: l’impronta, la leggenda; varianti della stessa; collezione, ecc. Nella compilazione delle tavole tener conto dei quaderni del sig. Franchini in cui sono descritte in tutto 1768 monete o circa » (i quaderni sono dodici). Nelle cartelle si notano riferimenti a correzioni di errori evidenziati dalla consultazione del volume del Cinagli. Vi si trovano anche molti riferimenti di partcolari rilevati nelle monete genovesi: ad esempio nelle monete di Gregorio III (731-741) il Desimoni — 537 — 22 nota che la lettera E di « PAPE » ha la forma dell’epsilon lunato che cominciò ad usarsi dai Latini fin dal secolo VI. Inoltre a proposito della crocetta preposta all’epigrafe, comune alle monete papali dagli inizi fino all’epoca di Paolo II, è ricordato che anche sulle monete di Genova è generalizzato tale uso. 272 (Senza data) Perizia per il contratto Ligalupo. Il sottoscritto onorato dall’Ill.mo Tribunale Civile di Mondovl dell’incaricato di accertare la corrispondenza in attuale moneta italiana e il valore legale degli scudi doro della già Repubblica di Genova che erano in corso negli anni 1580 e 1682, ravvisa utile per la soluzione del quesito premettere le seguenti avvertenze. La suddetta Repubblica soleva determinare il prezzo effettivo d’oro o d’argento, talvolta esprimendo il numero di tali pezze da tagliarsi in una libbra del peso suo proprio, talvolta mediante il peso dei singoli pezzi espresso in oncie, danari, carati o grani. La libbra usata nel Genovesato per i pesi delle monete, metalli preziosi, gioie e per la farmacia era detta di peso sottile e si divideva in oncie dodici: l’oncia poi si divideva in danari ventiquattro, il danaro in carati sei ossia grani ventiquattro,, e il carato in grani quattro-, di guisa che in ultimo una libbra veniva a contenere grani seimila novecento dodici. Cessata la Repubblica colla di lei riunione nel 1805 allTmpero Francese, fu constatato officialmente il ragguaglio di essa libbra al peso metrico o decimale, e fu trovato essere pari a grammi trecentosedici e centigrammi settantacinque (gr. 316,75), come appare dal quadro dei pesi e misure pubblicato con Ordinanza del Prefetto di Genova del 4 giugno 1811; è noto che il peso metrico francese fu adottato anche in Piemonte ed in ultimo in tutta Italia. Ma per quanto riguarda il caso presente basta citare il Regio Editto 26 ottobre 1826. Dal che si deduce che un grano del peso di Genova della libbra sottile equivale in peso odierno o metrico a grammi 0,0458. Passando al titolo o bontà della moneta, la Repubblica seguì l’uso allora generale di esprimere l’oro finissimo e separato da ogni altro metallo (per quanto l’arte permetteva), chiamandolo oro di ventiquattro carati. Una moneta d’qro adunque si figurava come idealmente divisa in ventiquattro parti, delle quali quando una, due o tre parti non erano d’oro ma di altro più basso metallo: si chiamava allora a bontà di soli 23, 22, 21 carati in proporzione considerandosi soltanto l’oro fino in essa moneta contenuto; e per poter esprimere con maggior precisione questa bontà, si suddividevano i carati in metà, terzi, quarti, ottavi e simili, dicendosi oro a ventitré carati e mezzo, a 22 carati e un quarto o un ottavo e smili. E’ noto che al presente la moneta si figura divisa in mille partì e si esprime il tìtolo indicando i soli millesimi dell’oro fino, trascurata la lega. La più antica moneta d’oro dei Genovesi fu il Fiorino o Ducato del peso di grammi tre e mezzo e più, e del titolo di carati ventiquattro. Ma sul finire del secolo XV vi fu sostituito il cosidetto scudo, che era alquanto inferiore di peso e di titolo di detto fiorino. Nel 1541 questo scudo fu ragguagliato agli altri dello stesso nome battuti a Firenze, Venezia, Spagna e Napoli, onde venne il nome generalmente usato — 538 — di scudo delle cinque stampe; ma ciascuna zecca aveva naturalmente il proprio tipo, ed è noto che lo scudo di Genova aveva da una parte la croce attorniata dalla leggenda Cunradus Romanorum Rex, dall’altra il cosidetto Castello attorniato dalla leggenda Dux et Gubernatores Reipublicae Genuensis; continuando tale tipo senza sostanziali mutazioni, salvocchè nel 1637 fu sostituita al Castello la Madonna e che furono battuti in progresso di tempo altri pezzi multipli dello scudo come doppie e simili di peso in proporzione e di diametro vario. Dalla Grida del 15 giugno 1602 inserita agli atti della presente causa si rileva che a quel tempo lo scudo d’oro in oro di Genova e delle altre quattro zecche succitate aveva il peso di denari tre, grani uno e un terzo di grano al peso di Genova, e la bontà di carati ventuno e settq ottavi. Per mezzo delle premesse osservazioni si osserva: 1) che il peso di 3.1.1/3 ossia di grani settantatre e un terzo si trasforma nel peso decimale di grammi tre e milligrammi trecentosessantuno (3,361); 2) che il titolo di carati 21,7/8 si trasforma in millesimi novecentotredici (0.913); 3) che cosi l’oro tutto fino contenuto nello scudo del 1602 si riduce a grammi tre e millesimi sessantuno (gr. 3,061). Per avere il valore di esso oro fino in moneta odierna, fa d’uopo esaminare la legislazione monetaria vigente nel regno d’Italia. Le Regie Patenti del 6 agosto 1816 e 4 dicembre 1821 adottando il sistema monetario introdotto dall’antecedente Impero Francese ordinavano la coniazione di pezzi nuovi d’oro da Lire venti al titolo di millesimi novecento e al taglio di pezzi centocinquanta cinque al chilogramma, e tale sistema continuò ed è esteso ora a tutto il Regno. Donde si rileva che la moneta da lire venti in oro dee pesare grammi sei e milligrammi quattrocento cinquantuno (gr. 6,451); 4) che essendo al titolo di millesimi novecento, il fino oro in essa contenuto si riduce a grammi cinque e millesimi ottocento sei (gr. 5,806); 5) che se grammi cinque e milligrammi ottocentosei oro fino valgono in moderna moneta italiana lire venti, un grammo di oro fino deve venire al valore di lire tre e millesimi quattrocento quarantaquattro (L. 3,444 al grammo). 6) Dal che tutto discende infine che lo scudo delle cinque stampe del 1602, contenendo d’oro fino come sopra grammi tre e millesimi sessantuno, dee valere in moneta nostra italiana lire dieci e millesimi cinquecentoquarantaquattro; e (trascurati i millesimi), lire dieci e centesimi cinquantaquattro (L. 10,54). Questo è l’estimo del valore dello scudo del 1602. Ma è certo che non può essere sensibilmente diverso il valore dello scudo del 1580 a cui si riferisce il contratto Ligalupo nella presente causa. Una Grida ufficiale genovese del 26 dicembre 1571 che trovasi nei fogliazzi del Magistrato di Monete in questo Archivio di Governo ci palesa che a quel tempo il titolo degli scudi delle cinque stampe era di carati 21 e 7/8 come fu visto nel 1602 e che il loro taglio era a pezzi novantaquattro e un quarto per una libbra peso di Genova. Ora sottoponendo questa base del 1571 al calcolo come sopra, si trova che una libbra pari a grammi 316,75 divisa in scudi 94 e 1/4 assegna ad ogni pezzo il peso di grammi tre e millesimi trecentosessanta (gr. 3,360), dunque colla differenza di un solo millesimo dal peso dello scudo del 1602; - 539 — il quale millesimo ridotto a fino non oltrepassa il valore di tre millesimi di lira italiana e quindi non è a tenerne alcun conto. Seguendo la storia dello scudo delle cinque stampe per giungere all’anno 1682 a cui si riferisce il secondo contratto della presento causa, è certo del pari che il peso del 1602 in denari tre, grani uno e un terzo non variò punto in tutto questo intervallo e specialmente dal 1675 al 1684, come si riconosce dalle diverse gride pubblicate a quei tempi quasi d’anno in anno, confermative l’una dell’altra, e che indicano precisamente il suddetto peso. Gride che si trovano negli Atti del Magistrato di Monete nell’Archivio di Governo di Genova e in più altre collezioni anche private. E’ da osservare che in questo e nei seguenti periodi le gride parlano più frequentemente della Doppia che dello scudo, poiché, abbondando l’oro, la doppia era divenuta la nuova base, ma non lasciano di parlare dello scudo qualificandolo anche come mezza doppia, e assegnandogli la metà del valore, come assengano alla doppia il peso di danari sei, grani 2 e 2/3 che è il doppio peso dello scudo del 1602, e la chiamano doppia di Genova, Venezia, Firenze, Napoli e Spagna: dunque delle solite cinque stampe. Ma se il peso legale dello scudo rimase inalterato, il titolo per contro mutò alquanto e fu migliorato di un ottavo di carato, cioè fu recato a carati 22 pari a millesimi novecentodiciassette (0,917). Ciò avvenne cominciando dal 1672 e continuando al 1680-1684 e fino al 1710 almeno, come si vede nelle gride relative. Ciò posto, col nuovo titolo in millesimi novecentodiciassette (0,917) e col solito peso di grammi 3,361 ne viene Io scudo del 1682 in oro fino a gr. tre e milligrammi 82 (gr. 3,082) La quale quantità d’oro fino valutata come sopra a lire tre e millesimi quattrocen-toquarantaquattro al grammo assegna allo scudo del 1682 il valore in moneta odierna italiana di lire dieci e centesimi 61 L. 10,61 L’esattezza dei risultati ottenuti col suddescritto metodo della riduzione in oro fino delle monete antiche e moderne viene confermata dagli analoghi risultati che si otterrebbero calcolando l’aumento dei valori che presero di mano in mano le monete dal 1580, ai nostri giorni. Difatti lo scudo delle cinque stampe che nel 1580 valeva lire quattro e soldi dieci, come si vede nella Grida agli atti, era già salito a lire sei e soldi dieci nell’anno 1630 o, che è lo stesso, la sua doppia valeva lire tredici; d’allora in poi questa doppia passò rapidamente a lire 17 e soldi 8 nel 1659; a lire 18 e soldi 16 dal 1675 al 1690 epoca del secondo contratto contemplato nella presente causa. Nel 1739 valeva L. 21 e soldi 12; nel 1751 L. 23 e soldi 12. Nel 1758 fu cambiato il sistema di monetazione battendosi una doppia nuova con altri moltipli, ma continuò a valutarsi nelle gride la doppia anteriore (detta perciò vecchia) e il suo corso fu posto a L. 25 e soldi 4 nel 1792 e nel 1803, cioè fino allo spirare della Repubblica. Aggregata la Repubblica allTmpero Francese fu constatato il ragguaglio della moneta in ragione di soldi ventiquattro di Genova per un Franco pari a Lira una nuova di Piemonte dopo la riunione del Genovesato sotto l’Augusta casa di Savoia e pari ad una odierna Lira italiana (vedasi il Decreto Imperiale del 15 novembre 1810, e il Regio Editto 26 dicembre 1826). Su tali basi la Doppia Vecchia continuando a — 540 — valere nel 1810 come già nel 1792 lire di Genova 25 e soldi 4 in moneta nuova fu ragguagliata a franchi 21: come si vede anche espressamente dichiarato nell’opuscolo del Chianale Conti fatti ecc. approvato dalla Prefettura di Genova e stampato ivi nel 1811. Se dunque la Doppia vecchia o anteriore al 1758 vale ancora oggi lire ventuno, la sua metà o scudo vale lire dieci e centesimi cinquanta. Questo secondo metodo sembra produrre una differenza di quattro a undici centesimi in meno sui risultati ottenuti col primo metodo, ma la differenza ha la sua ragione di esistere e conferma sempre più l’esattezza della proposta soluzione. La Doppia vecchia è indicata nella grida del 1792 del solito peso di denari sei ,grani 2 e 2/3, ma nel titolo di carati 21 e 3/4 (millesimi 906), quindi alquanto peggiore di quello degli scudi d’oro del 1580 e del 1682. Sottoposto questo inferiore titolo al calcolo, come sopra, dà infatti allo scudo il valore di lire dieci e centesimi quaranta nove in cinquanta. Ma questo peggioramento di titolo è posteriore all’anno 1710 almeno, in cui per grida dura ancora il titolo di carati 22; perciò non può applicarsi alli anni 1580 e 1682, ai quali si riferiva il quesito fatto al sottoscritto. 273 (Senza data, ma prima del 1879. Vedi per la raccolta Avignone il n. 145). Relazione-stima delle raccolte Avignone e Franchini. A Genova son due Medaglieri consistenti in ispecie di monete e medaglie genovesi. Appartengono agli eredi dei compianti Aw. Gaetano Avignone e Sig. Luigi Franchini, i quali vi spesero intorno tutta la loro vita ed espressero più volte il desiderio che fossero rimaste tali collezioni ad uso pubblico ed inalienabile, ma le circostanze di famiglia non conseintivano loro il disporne in tal guisa. Queste due collezioni si distinguono tra sè pel modo seguente. Quella del-l’Aw. Avignone ha la serie forse più continua delle monete e medaglie: vi ha raccolto le monete non solo prettamente genovesi, ma e dei feudatari Spinola, Doria, Centurione ecc. e delle Colonie genovesi in Oriente Scio, Metellino, essendo stata cominciata molto tempo prima e proseguita da un perfetto e colto conoscitore della materia, il quale vi ha aggiunto manoscritti legati a libro con disegni, lucidi, cataloghi, collezioni ed estratti di documenti per la storia di esse monete ed infine una collezione di stampati giornali, riviste, libri antichi, rare tariffe di Anversa, Fiandra, ecc. anche parecchi Placards, alcuni tedesci, il Trésor Numismatique, il Museo Imperiale di Vienna, Kohler, le opere più capitali anche per le monete estere, Cohen, Sabatier, Castiglioni, Reichel, Furse, Lambros, Saucly, ecc. Il medagliere Franchini assai meno fornito di libri sebbene ne abbia anch esso i principali, si distingue per due particolari. Quanto a pezzi genovini ha avuto la fortuna ed anche il coraggio negli ultimi anni di acquistare delle monete rarissime ed anche uniche, come un ducatone d’argento della Repubblica sotto Luigi XII, un Doge XVIII in oro, un mezzo ducato del Doge XXIV, un ducato battuto pei genovesi della colonia di Galata fra i recentemente scoperti, ed ha gran belli e rari pezzi d oro e d’argento di altre monete delle colonie e feudali. Inoltre questo Medagliere non si è ristretto alla sola Genova; oltre qualche centinaio di consolari romane (che non si credono di valore rilevante nè rare) possiede delle serie di ducati d oro d altre zecche: Senatori di Roma e Papi 100 circa, Dogi Veneti 100 circa, Gran Maestri di Rodi — 541 — e Malta 14 o 15, qualche pezzo d’oro di Savona, di Urbino, di Firenze Repubblica e Medici; molti pezzi d’argento dei Comuni italiani e delle dominazioni di feudatari e colonie complessivamente forse un 500 medaglie, un 700 pezzi d’oro, più di 4000 d argento e, compreso il rame o biglione, un totale di 6600 e più pezzi, giudicandone da un catalogo scorso in fretta e non sempre sicuro nelle denominazioni delle monete ma degno di fede abbastanza. Chi scrive non pretende essere collettore, non è nemmeno perciò conoscitore dei prezzi commerciali per dare un valore ai due medaglieri, però crede ricordarsi che più anni fa essendo Sindaco il Barone Podestà si tentò di fare acquisto della Collezione Avignone, trattando pei costui eredi il nipote della vedova e suo consulente 1 Aw. Molfino Deputato del Regno: ma cessato il Sindacato Podestà fra le angustie del bilancio civico e le crisi municipali frequenti non se ne parlò più. Allora pare che si andassero ravvicinando i contraenti sopra una somma approssimativa di L. 50.000 salvo a verifica più accurata di certe parti. La vedova Avignone non desiderava contante, ma era contenta che secondo il desiderio manifestato in morte dal marito, il Medagliere passasse in proprietà del Municipio per uso pubblico ed avrebbe preso volentieri in pagamento delle cedole del Debito della Città di Genova per assicurare una rendita annua ai figli. La collezione Franchini non potrà certamente valere di meno dei prezzi sovra-notati specialmente essendo molto più ricco in oro e in pezzi non genovesi e rari, ma la vedova si trova in bisogno anche più urgente di assicurarsi una rendita, essendo riuscita scarsa oltre l’aspettativa la liquidazione commerciale coi parenti del marito. Essa perciò ne pretende e spera molto ma frattanto non ha potuto accordarsi colle diverse offerte fattele: peranco notizie recentissime fanno temere che o abbia contrattato o stia per finire se anche ora non è avvenuto, è certo che la vedova più volentieri e a niun prezzo che ad altri cederebbe che ad uno dei nostri pubblici depositi, sia perchè tale era il desiderio del morto, sia perchè non avrebbe a pagar grosse mediazioni, non temerebbe frodi e sarebbe ben lieta di poter a un sol tratto sbarazzarsi di tanti fastidi ed assicurarsi la vita avvenire (forse anche con vitalizio non avendo figli). E deplorabilissimo che due collezioni così preziose debban andar perdute per Genova, forse anche per lo Stato, giacché chi si offre a comprare son persone che sono solite a rivendere a grandi musei o ricchi curiosi di rarità, disperdendovi tali tesori come è già avvenuto per la collezione, preziosa, del Marchese Giuseppe Durazzo. Per queste mediazioni e rivendite pel numero crescente dei ricchi amatori specie fuori d’Italia è ormai non solo difficile ma ormai impossibile formare una Collezione anche mediocre fra noi, oltreché mancano ora qui quasi a tutti i collettori che possano e vogliano dedicarsi, e la sostituzione dei biglietti al contante ha reso così raro l’apparire di una moneta anche antica, la quale una volta era inconsciamente frammischiata alle moderne. Che cosa resta a Genova ormai? Non parlando della collezione romana del Delucchi o della pure romana ma non molto rilevante donata dal Caccianotti al Municipio ed ora trasportata all’Accademia di Belle Arti col piccolo Museo Principe Oddone, ristringendoci insomma alle cose genovesi, non abbiamo che le tre collezioni: 1) la Varni molto più preziosa per altri rispetti e la quale ad ogni modo finirà anch’essa, — 542 — ne siamo certi, col disperdersi dopo la sua morte; 2) il medagliere degli Eredi del Marchese Adorno, prezioso per più pezzi, alcuno unico, ma non molto rilevante per numero, nè per serie continua, colla giunta di opere poco o punto accessibili; 3) il medagliere dell’Università di qualche rilievo ma, come è noto, stato in parte dilapidato e, come è noto, lasciando da parte l’onestà degli attuali ufficiali, le guarentigie per la conservazionq dei pezzi non sono sufficientemente scritte nei relativi regolamenti, onde può ancora avvenire ciò che si sa essere avvenuto in tempi antichi: che senza la menoma intenzione di danneggiare, anzi volendo favorire la collezione, si faccia cambio di monete rare del medagliere con altre più appariscenti ma comuni: per cui il compratore va poi in giro gloriandosi di aver ingannato l’ufficiale. I signori Cav. Gaetano Cabella e Dott. Gio. Batta Pisano che ormai sono soli a far acquisto di qualche moneta, oltre il Comm. Varni, hanno cominciato troppo da poco, e si vogliono mantenere in modesti confini, per poter al giorno d’oggi contare sopra una, almeno futura, sperabile collezione. Dovremo dunque disperare? Certo L. 100.000 non sono cosa da poco, ma al giorno d’oggi vi sono anche mezzi straordinari che una volta non c’erano: coupons di cedole, concorsi di vari Corpi morali: Stato, Provincia, Comune. Quel che manca di più è l’intelligenza del valore morale e intellettuale (parliamo in generale e special-mente per Genova); diversamente non si vedrebbero simili cose ed altre che non è qui il luogo di indicare. Ma se mai vi fosse l’intenzione di fare qualche cosa per la conservazione dei due Medaglieri, si faccia presto; sovratutto non si creda di riuscire intralciando le pratiche con proibizioni di esportazione, diffidamenti e simili: sarebbe questo il modo più spiccio di farli sparire in un attimo senza speranza ulteriore. L’Aw. Avignone dopo aver pubblicato negli Atti della Società Ligure di Storia Patria la Descrizione compiuta delle Medaglie Liguri possedute da lui o tratte da altre fonti manoscritte o stampate, ha anche compuito un manoscritto in tavole sul metodo del Cinagli ma migliorato, ove sono descritte cronologicamente a colonne e colle opportune osservazioni tutte le monete genovesi da lui possedute o cavate da tariffe, disegni inediti, libri, col nome dell’attuale possessore o dal libro e manoscritto, col diametro, metallo, peso e leggenda, tipo sigle o varianti e loro spiegazione, se possibile indizi di falsificazioni, insomma con una pienezza che lascia pochi desideri annoverando (non vi sono ancora comprese le colonie, nè i feudatari) n. 1841 pezzi differenti tutti almeno per qualche varietà nel tipo, nella leggenda. A questo lavoro cooperarono il sig. Franchini colla descrizione che vi aggiunse delle proprie monete anche le più recenti dopo finito il lavoro e l’Avv. Desimoni, il quale occupandosi specialmente della storia economica Genovese e studiando il maggior numero possibile di documenti relativi, vi ha potuto inserire per ogni moneta il titolo almeno legale, il nome ufficiale ed il volgare della moneta medesima: avrebbe anche potuto aggiungere il taglio legale in pesi genovesi e metrici, ma ha preferito il peso effettivo in milligrammi. Tale descrizione è ora posseduta dalla Società Ligure predetta per volere dell’Avv. Avignone e suoi Cooperatori, e si prevede che resterà l’unico resto a consilazione dei Genovesi avvenire, se almeno si pubblicherà la stessa negli Atti della Società come ne fu più volte espresso il desiderio e già sarebbe stato compiuto, se non facessero difetto i fondi necessari e che non dovrebbero essere di poco rilievo se si vuol fare la pubblicazione con quella decenza a cui gli Atti hanno finora aspirato — 543 — e con qualche successo. A tale scopo fu anche intenzione del sig. Franchini di eseguire dei calchi diligenti in gesso delle principali monete, da rimanere nella Biblioteca della Società, ma la sua morte prematura ne impedì il compimento; però alcune vetrine già fornite di questi gessi, vennero consegnate dalla vedova di lui, conscia delle sue intenzioni. 274 (Senza data). Moneta di Banco e di Cartulario. Nelle Leges Comperarum S. Georgii, edizione del 1698, pag. 121, n. 926 e pag. 933 si trova valutato lo scudo d’argento di Genova in lire quattro e mezzo ossia soldi novanta. In Grida dei Commissionati della pratica delle monete del 4 Xbre 1670, si dice: « ferma restando la valutazione del scuto d’argento in lire sette e soldi otto avendo considerato essersi sempre regolato detto scudo d’argento a soldi 90 di cartulario ecc. ». Di che si vede che lo scudo continuando a crescere in moneta corrente ne’ Cartolari di S. Giorgio rimaneva fisso a L. 4,10 onde prese nome di moneta di cartulario. In altra Grida del 1675 27 marzo lo stesso scudo è valutato a L. 7,12. Difatti così era ricevuto nel nuovo Banco di moneta corrente institutito il 28 novembre e 1 dicembre 1674 del quale vedonsi i capitoli nelle leggi di S. Giorgio edizione del 1720 pag. 157 n. 1082 e segg. dove però non si parla che di moneta da riceversi a corso di grida senza dire il valore di L. 7,12 perchè risulta dalle stesse Gride. Ora che queste due valutazioni in moneta di Cartulario e in moneta di Banco sieno rimaste ferme anche a ben inoltrato il secolo XVIII si prova dal seguente esempio ricavato dal Codice cartaceo manoscritto della Biblioteca Civica segnato D.2.7.30 Compilationes Legum Reip. Genuens. che è una specie di commento e collazione delle leggi del 1576 colle precedenti e seguenti fin verso il 1774. A pag. 241 parlandosi del Capitano di Sarzana si dice essere la spesa di L. 2408.1.6 di moneta di cartulario e cioè: L. 1452.17 suo onorario » 690. 4.6 caporale » 264 paga di due scrivani Totale L. 2408. 1.6 moneta di cartulario. Le suddette L. 2408.1.6 di moneta di cartulario convertite in moneta di Banco collo scuto d argento a L. 7,12 fanno la somma di L. 4066,19 come sotto si distingue: L. 1453.17 numerato L. 2455. 7.9 Banco » 690. 4.6 » » 1165.14.3 » 264 » » 455.17.4 L. 2408. 1.6 » L 4066.10.4 Da questo esempio si vede chiarissimo: 1) che la moneta di cartulario e di numerato ancora ben inoltrato il secolo XVIII era identica; 2) che nello stesso tempo lo scudo d’argento in moneta di Banco resta ferma a L. 7,12 come era al principio — 544 — della sua instituzione; 3) che tale essendo il valore dello scudo di Banco nell’esempio succitato, se ne deduce per la regola del tre che lo scudo stesso in moneta di numerato o di cartulario resta ferma anch’essa in L. 4.4.10 perchè così va bene il conto di L. 2408.1.6 numerato, pari a L. 4066.19.4 di Banco. 275 (Senza data, ma forse del 1870). Lettera presumibilmente inviata al Desimoni da F. Garoni. Gli statuti e i documenti del Finaro, dal principio del secolo XIII alla fine del XV fanno menzione di tre sorte di monete; ordinatamente di quella di Genova, distinta in lire, soldi e danari; alcuna volta di moneta del Finaro egualmente divisa e talvolta pure di fiorini. Ma la moneta di Genova avendo avuto corso legale salvo poche e brevi eccezioni per tutta l’antica Liguria e tenendo il campo nei documenti liguri, è debito mio riferirmi a quello che ne dicono gli eruditi genovesi cui soli soccorrono i mezzi e cui soli spetta sciogliere l’enimma dell’antica moneta di Genova. Molta e meritata lode ottenne il Gandolfi colla sua opera Moneta antica di Genova, ivi, Ferrando, 1841, voi. 2°, in ottavo e un nuovo e accurato lavoro sarà pubblicato intorno ad esso col sussidio di molti e nuovi documenti negli Atti della Società Ligure di Storia Patria. Il Cav. T. Belgrano avendone udito la lettura si è compiaciuto di farmi conoscere il ragguaglio in esso instituito dell’antica moneta di Genova coll’italiana corrente che è così: antica lira di Genova, antico soldo, antico denaro. La moneta del Finaro era affatto ideale e secondo l’uso dei paesi piccoli è probabile che fosse di molto minor valore della genovese. I marchesi del Finaro ottennero dagli imperatori solamente nel secolo XVI il privilegio di battere moneta e pare che non ne abbiano fatto mai uso, imperciocché di questi signori non si conosce moneta nessuna. II fiorino equivaleva a quello di Firenze, calcolato circa lire italiane dodici. 276 (Senza data). Moneta di cartolario, di paghe, di banco, fuori banco, ecc. *. La moneta Genovina (januina) è il nome generale delle monete uscite dalla Zecca della Repubblica dal 1140 fino alla sua caduta al 1804 e 1814 e si calcolava, come per tutto altrove, a lire di soldi 20 e da soldo di denari 12. Il denaro (frazione più piccola) peggiorando sempre più e nel peso e nella lega, ne veniva che una buona moneta d’argento che fosse sempre mutabile, di peso come di lega, doveva sempre * Questo appunto senza data, inviato in successiva stesura al Belgrano, riguarda con certezza la nota introduttiva alle tavole dei valori in lire antiche e italiane delle principali monete d’oro e d’argento genovesi dal 1139 al 1804 apparso, a caura del Desimoni nel volume Della vita privata dei Genovesi di L. T. Belgrano, Genova, 1875. — 545 — più aumentare di valore, cioè a dire doveva equivalere a sempre maggior numero di denari, soldi e lire. Tale buona moneta d’argento immutabile a Genova fu lo scudo cominciato a coniarsi nel 1593 e durato come base monetaria fino agli ultimi tempi della Repubblica. Moneta di cartulario: questo scudo nel 1604 valeva lire di Genova quattro e mezzo tanto nel Banco di S. Giorgio quanto negli Uffici della Repubblica e in piazza. Ma siccome in piazza questo aumentò di valore pel motivo suddetto, mentre ne’ cartolari di S. Giorgio non mutò mai, quindi è che la lira di cartulario cominciò presto a distinguersi dalla lira corrente, coè che correva in piazza ed in commercio. Quattro lire di cartulario bastarono fino agli ultimi tempi a formare uno scudo d’argento, ma di lira corrente ve ne vollero lire 5, poi 6, 7, 8, infine esso scudo venne fino a lire genovine 9 e soldi 16 (non parlo dì due altre specie di scudi di Genova da L. 4 e da L. 8 coniati nei secoli seguenti, che non hanno a che fare con la presente questione). Dal fin qui detto si veda che alla fine della Repubblica la lira genovina doveva valere meno della metà della lira del 1600; ma pure officialmente le azioni o luoghi di San Giorgio di lire cento di cartulario ciascuno furono ragguagliati soltanto a lire 194 e soldi 4, forse perchè fu presa la media dei valori dell’ultimo secolo. I proventi (interessi) dei luoghi dunque doveano essere pagati anch’essi in moneta di cartolario, ma per la nota disposizione fatta verso il 1456 che tali proventi non si pagassero, e non venissero maturati che dopo anni 4 (mi pare), il luogatario (azionista), nel 1457 non avrebbe ricevuto proventi. Allora l’Ufficio di S. Giorgio fece una speculazione di sconto: offrì pagare in contanti pronti (in numerato) ma con suo guadagno; invece di soldi 20 per lira, pagò per esempio soldi 16 se nel primo anno, essendo più distante il tempo della scadenza; soldi 17 invece se i proventi erano domandati al secondo anno; soldi 18 o 19 al terzo anno e così sempre più in proporzione dell’avvi-cinarsi della scadenza, come si fa oggi in tutti gli sconti. Questi soldi 16, 17 ecc. sono la così detta lira di paghe che è sempre minore di quella di numerato perchè questa è a pronti contanti, quella cresce a poco a poco. Si chiamano paghe le rate dei pagamenti e mi ricordo di aver veduti esempi di tale parola (in senso almeno analogo) in Toscana e nelle storie dell’Ammirato. Il documento che si chiede sulla dilazione dei 4 anni a pagare i proventi, credo possa essere la Bolla di Papa Callisto di quell’anno, o forse meglio del 1454 riferita nel Cuneo nei documenti in fine. I cartolari e relativi manuali di numerato servono per iscrivervi tutto il danaro contante riscosso o pagato dalPUfficio di S. Giorgio, sono insomma il libro di cassa. Del resto il fatto della dilazione è certo e durò più secoli, finché fu abolita, come non più utile, la distinzione tra la moneta di numerato e di paghe ed io a Genova ho nota della data di questa abolizione. L’Ufficio di S. Giorgio oltre il precipuo suo scopo delle Compere, Luoghi e debito pubblico, stabilì nel secolo XVI una Banca di deposito ove Comuni e privati potessero porre denaro e ritirarlo a piacimento o girarlo ad altri. Dapprima si ricevevano a parte le monete (scudi d’oro, scudi d’argento, Reali di Spagna) si scrivevano pure a parte nei rispettivi Cartulari (cartulari degli scudi d’oro, cartulari degli scudi d’argento, cartulari de’ Reali) e si restituivano nelle stesse specie e numero depositato. Allora non era necessario dare un valore a queste monete, ma tale maniera di deposito è molto incomoda. Si pensò quindi nel secolo XVII a ricevere il danaro — 546 — non più in ispecie e numero, ma valutato a moneta corrente, si scrisse, il tale deposita lire sette, o anche scrivendo che depositava uno scudo, si aggiungeva il suo valore di lire sette, ed erano lire sette in qualunque moneta che si restituivano, non più uno scudo d’argento. Quindi vennero i Cartolari di Banco di moneta corrente i quali non hanno a che fare con i cartolari di Numerato di cui sopra si è detto: perchè la Banca di deposito, benché dipendente dallo stesso ufficio di S. Giorgio, era tenuta separata dalle Compere ed aveva persino uno speciale Tesoriere. Nel tempo che si introdusse la Banca di moneta corrente (credo nel 1675) il solito scudo d’argento valeva in tal moneta lire sette come testé fu detto. Ma non tardò lo scudo ad aumentare, eppure la Banca continuò a prenderlo fino all’ultimo a L. 7, mentre in piazza o fuori banco cresceva a L. 8 e 9 e più come vedemmo. Quindi nacque la lira di Banco, sette delle quali valevano uno scudo, mentre fuori banco ce ne volevano L. 9 e 16 e di numero bastavano L. 4,10. Più tardi però, in particolari ancora non ben note circostanze, l’Uffizio di San Giorgio ammise un aumento del valore dello scudo, dapprima dal 15 per cento di più del valore di Banco, poi anche con l’aumento al 25 per cento. Il primo aumento del 15 per cento fu detto moneta di permesso (cioè di tolleranza). - 547 - INDICE I numeri si riferiscono alle schede. I nomi delle monete sono in corsivo. A Adorno Agostino, 18, 60, 181. Adorno Antoniotto, 95, 141, 162, 163, 185. Adorno Barnaba, 163. Adorno Prospero, 178. Adorno Raffaele, 141, 162, 163. Agostaro, 148 . Annona ufficio 117. Appaltatore monete, 83. Aquilino d’argento, 146. Argento in zecca, 99, 214. Argento, suo costo, 245. Auraldo, generale di Francia, 93. Auria (Jacopo de), 86. Avignone (biblioteca), 145. B Balbi Paolo, falsario, 127. Battifogli, 202. Belgrano L.T., 276. Berrettoni, 92. Biglione (bojonum?), 27, 171, 199. Bonfiglio Pietro (soprastante zecca), 39. Borledi della Corsica, 50. Boyer, generale di Normandia, 93, Bobbolo, 129. Bracelli Stefano, notaro della zecca, 67. Brera (museo di), 144. Brignole Nicolò, cancelliere zecca, 93. Bruneti, bruni, 192 195. Bruno Luca, zecchiere, 187. C Campofregoso Battista, 35, 55. Domenico, 152. Giano, 168. Ludovico, 177. Otta- viano 93, 184 (in nota). Paolo, 180. Pietro, 169, 217. Tomaso, 160. Càntera, 2. Carato 2. Carlo V, 96. - VI, 142. - VII, 141, 174. Casali (de) Francesco, messo del comune di Milano, 62. Casazza (falsario) 135. Castagna Damiano, rappresentante del doge nel 1452, 217. Cavallotti, 76, 77, 83, 113 , 224, 226, 236, 241, 260, 264, 268; - de dimidia, 230; -di Firenze, 87; - di S. Bernardo, 148. Centurione Adamo, soprastante alla zecca, 11; - feudatario, 273. Ceva (fiorini d’oro battuti a), 208. Chianale, atore di Conti fatti, 272. Chiesa di S. Giovanni di Prè, 146; - di S. Marco, 116; - di S. Stefano, 195 -delle Vigne, 194. Cima Nicolò, falsario, 130. Cinagli A., autore di Le monete dei Papi, 271. Cipro (re di), 19. Ciullo d’Alcamo, 148. Clapucini, 151. Clèves (Filippo di), governatore di Genova, 149 (nota). Corsini, feudatario, 130. Costi battitura monete, 9, 10, e passim. Cremolino (monete falsificate a), 54, 72. D Decreti battitura monete, 91. Denari, 8, 20, 196, 237, 249, 257, 275; - nuovi, 194; da - tre; 92; da - quattro, 111, 114, 249, 257; da - otto, 92, 111, - 548 - 114, 196, 207, 213, 237, 242, 257; da - venti, 249; da - ventiquattro, 92; da - trentadue, 92. Diciassetesimo di scudo, 257. Dogi biennali, minuti, 187. Doppie, multipli, 141; - vecchie, 273. Doria A, 98; - Battista, 225; - Bernabò, 146; - GB, 112. Drago Domenico, argentiere, 116. Duacino T, notaro, 220. Ducati, 27, 43, 215, 220, 272; - d’oro, 93; - di Luigi XII, 80; - veneti, 19; - larghi delle quattro stampe, 41, 63, 75; - di Galata colonia genovese, 273. Ducatoni, 244, 246, 248, 259; - della benedizione, 104, 119, 143; - di Firenze, 248. Durazzo, arcivescovo di Genova, cardinale, 258; - marchese (raccolta del), 273. F Falsificatori, 125-127, 133, 136. Filippo M. Visconti, 158, 212. Final (monete del), 275. Fiorini, 37, 44; - di Genova o genovini, 7, 161, 167, 175-176, 205, 208, 215, 272; - del Reno, 69; - di Utrecht, 65. Fonditore zecca, 182. Francesco I, 186. Franchini, calchi di monete possedute, 273; vedi anche «raccolta». Franco francese, 272. Fregoso (arma dei), 91. Frevante (Pietro di, dipendente della zecca), 179. G Gabella, vino, 250. Gallacio di Levanto, soprastante alla zecca, 11. Gandolfi G., 149, 197, 275. Garibaldo (de) Gasparinus, 87. Garoni ,F, 275. Genovini, 200, 201, 243; - lalsi a Cremo-lino, 54. Gentile Pietro, soprastante alla zecca, 216. Gigliati di Scio, 53. Giorgino e sua frazione, 266-267. Grillo Giano, soprastante alla zecca, 216. Gride sulle monete, 12, 26, 29, 55, 56, 60, 70, 71, 74, 84, 93, 272, 274. Grossetti del sole, 82. Grossi, 7, 24, 41, 52, 53, 82, 84, 89, 159, 201, 204, 205, 206, 211, 212, 219, 226; - Bolognesi, 66; - di Firenze, 87; - multiplo, 148; - di Milano, 82; - Regali, 82. Grosso crociato, 205; - di Filippo M. Visconti, 212; - Libertas Genuensium, 98; - multiplo, 148. Grossone, 58, 59, 82, 222. I Imperatore di Costantinopoli, 1. I perpero, 1, 124. Iaseph Ebreus, falsario, 57. L Leges Comperarum S. Georgii, 274. Leggi delle Compere di S. Giorgio, 273. Lerino, Luigini di, 138. Libbra di Genova, 173, 198, 207, 209, 211, 272. Lira, 2, 103, 222, 232, 239, 275; - di cartulario, o di numerato, 270; - nuova, 255, 256; - di Piemonte, 270, 272; da lire otto, vedi scudi; da lire quattro, vedi scudi e 118; da lire due e da lira una, 118, 233. Livorno, acquisto di, 11. Loano, scudo della galera, ecc, 143. Luigi XII, 78, 183, 226. Luigini, 128, 138, 257. M Madonnine, 269; - falsificate, 132. Maestro di zecca, 115. — 549 — Magistrato monetario, 24, 100. Maggiolo Gio Luca, imprenditore monete, 263. Malaspina, marchesi, 198. Marcelli, 66, 69. Marchese di Monferrato, 57. Marco di Zecca, 108, 110. Mario (de) Raffaele, soprastante zecca 216. Maximilianus Caesar, 184. Medaglia o mezzo denaro, 207. Medagliere dell’Università, 273. Milano (duca di), 45, 48-49, 61-62, 73, 218, 226-227, 266; - Tariffario, 248. Minuti, 23, 27, 30, 38, 40, 114, 122, 149-193, 209, 213, 222. Monaco (monete del principato di), 143. Moneta dei bianchi, 112. Monete, battitura delle, 197, 204; - corse falsificate, 50; - di Banco, 274; - di cartulario e di numerato, 273-274, 276; -di Monaco al museo di Vienna, 143; -false, 29, 43, 49, 52, 82, 95, 105-106, 132-135, 137; - inventari, 18; - riforma delle, 64; - scadute, 42; - straniere a Genova, 31-33, 37, 51; - tosate, 36; valore, 223. Morelesh (generale, R°. Resoriere), 93. Museo Imperiale di Vienna, 273. N Navone Antonio, soprastante alla zecca, 216. Noveni, 218. Novi (Paolo da), falsario, 136. O Orabono Francesco, zecchiere, 97. Ordini di battitura monete, 16, 17, 20. Oro da consegnare in zecca, 93. Ottavetti, 257. P Paggi Hieronimus, zecchiere, 191. Paghe ai monetieri, 3-5. Palazzo S. Giorgio (restauro), 154. Pareto Bartolomeo, notaro, 151. Parpagliole, 92. Pasqua Stefano, 104. Patral Matteo, falsario, 125. P e gioiti, 218. Pera colonia genovese, 206. Perizia sul valore degli scudi d’oro del 1580-1602, 272. Peso monetale, 131. Petachelle, 219. Petachine, 8, 23, 27, 47, 92, 142, 199, 210, 218. Piacenza (fiera di), 242. Podestà Andrea (barone), sindaco di Genova, 273. Portiere della zecca, 27. Predosa (monete falsificate alla), 105. Procuratori della Repubblica, 100. Protettori delle compere di S. Giorgio, 217. R Raccolta numismatica Adorno, 141, 273; - Avignone, 143, 273; - Caccianotti, 273; - Delucchi, 273; - Franchini, 148, 274; - museo imperiale di Vienna, 143; - del principe di Montenevoso, 143; - del principe Oddone, 273; - Varni, 273. Rame, suo valore, 238. Reali da otto, 246, 259, 261; - di Spagna, 321. Realone, 259. Regie patenti di Sardegna, 272. Remedi, marchese, 146. Reverini Lombardo, censuario, 253. Rodi, gran maestri, 273. Rivarola Domenico, falsario, 133. Ruggero G., 147, 169 (in nota). - 550 - s Sacristia delia zecca, 27. Saggi di monete, passim e 86. Saltarello Lanfranco Eligio, falsario, 136. Saivago Ottobono, soprastante alla zecca, 216, 217. Salvatore (di San) Ottobono, soprastante alla zecca, 216. Sant’Evasio, 131. Sant’Omobono, 131. Savona, 101, 146. Scaglia Giovanni, officiale di moneta, 112. Schiaffino G.B, notaro, 250. Scpr Gio, falsario 136. Scudi, 114, 234, 235, 238-239; - d’argento, 104, 107, 148, 258-259, 262, 270, 272, 273; - del Re, 75; - del sole, 75, 93, 224; - de marco, 93; - delle cinque stampe, 272; - d’oro, 102, 221, 228, 247, 272 e passim; - d’oro doppio con A A, 130; - frazioni, 238+238; - uno e mezzo, 240; - da lire tre, 148; - da lire quattro, 148, 233; da lire otto, 270; - di S. Giovanni, 262, 265; - sua valutazione, 274; - di Firenze, Napoli, Spagna, Venezia, 272. Seborga, vedi Lerino. Serra Nicolò, ufficiale di moneta, 112. Sesini, 209, 218. Sestini, 41, 171-172. Soldi, 2, 5, 10, 20, 40, 80, 98, 114, 254. Soldini, 27, 41, 213, 237, 243, 254. Soldo, 207, 219, 222, 226, 250, 275. Soprastanti zecca, 3, 6, 10-11, 15, 22, 27, 34-35, 39, 46, 123, 216-217. Spinola Benedetto, appaltatore dei cavallotti, 83. Squarciafico Cristiano, soprastante alla zecca, 216. Statuti Fabbri, oro e argento, 68; - per la nuova monetazione, 245. Steriini, 201-202. Supplica per le monete, 253. T Tallaro di Genova, 247. Tariffe monete, 241; - Bologna, 252; -Piemonte, 229, 232, 235; - Torino, 227. Teodoro di Monferrato, 157. Terzo di Genova, 228. Testoni, 75, 109, 222, 223, 226, 229, 233; - doppio con arma Adorno, 141 ; - di Milano, 75; - di Savona, 75; - tipo veneto, 231. Trono, 228. Trucco Antonio, appaltatore dei cavallotti, 228. U Uffiziali di zecca, 34. V Vallechiara (ritrovamento monete in via), 142. Valutazione monete, passim e 85. Viglevano Gerolamo, soprastante alla zecca, 123, 189. Visconti Stefano, 146. Viterbo (monete genovesi a), 200. Voltri (da) Andrea, falsario, 136. Z Zecca, 14, 25, 28, 120, 121, 140. Zino Joseph, zecchiere, 192. — 551 — GIOVANNI DE TONI La scomparsa del prof. Giovanni de Toni, repentinamente avvenuta in Genova l’8 gennaio 1973, segna una grande perdita per la nostra città ed un grave lutto per la Società Ligure di Storia Patria. Giovanni de Toni era nostro Socio dal 1965 quando, per una fortunata combinazione, numerosi cultori delle discipline numismatiche entrarono a far parte di questo Sodalizio, ma era anche quello 1 anno nel quale il prof, de Toni lasciava la direzione della Clinica Pediatrica della Università di Genova per raggiunti limiti d’età. Ritenendosi meno pressato dagli impegni che fino allora lo avevano assorbito, non esitò a programmare una maggior dedizione al riordinamento delle monete venete e dell’impero romano d Oriente, che da molti anni aveva raccolto seguendo una innata passione giovanile. Non è qui superfluo ricordare l’eccelsa figura di Giovanni de Toni caposcuola della Pediatria italiana, anche se in altre sedi più appropriate ciò è stato ripetutamente fatto: fu Maestro insigne ed infaticabile ed alla Sua scuola si formarono numerosi cattedratici ed uscirono intere generazioni di pediatri. Tutto ciò in oltre quarant anni spesi nella vita universitaria, dei quali trenta come Direttore di Clinica Pediatrica dapprima a Modena e poi a Genova: fu ricercatore instancabile, un vero studioso, un Maestro. Al Suo nome sono legate numerose malattie pediatriche ed infiniti contributi alla terapia delle forme morbose, che vanno dalla neonatologia, all’infanzia, all’età dello sviluppo. E proprio dal metodico studio e dalle ordinate osservazioni sull’accrescimento del bambino, dalle indagini rilevate nei piccoli pazienti che da ogni parte Gli venivano affidati, Giovanni de Toni concepì ed avvio la nuova scienza dell accrescimento, lasciandoci quel cospicuo Trattato di Auxologia che riassume in sè l’opera principale della Sua vita di studioso. La produzione scientifica di Giovanni de Toni comprende inoltre 450 lavori che spaziano in tutti i campi della Pediatria, non escluso quello storico-medico. Fondò numerose Società Pediatriche, diresse Riviste e Giornali di Pediatria, organizzò dappertutto Congressi e Convegni, portando ovunque 1 instancabile fervido contributo del Suo sapere. La nostra Società Lo ebbe tra i soci più qualificati nel campo delle ricerche numismatiche: innamorato della Sua Venezia, ove era nato il 3 marzo 1895, fu un appassionato studioso della storia della Serenissima e del suo dominio coloniale che per secoli si estese nel Mediterraneo orientale. Per questo de Toni seppe radunare una importante collezione di monete di Venezia e dei possedimenti veneziani nell’Egeo e ad essa abbino la mirabile serie delle emissioni auree dell’impero d’Oriente. Non tralasciò mai occasione per aggiungere qualche esemplare alla Sua raccolta che teneva perfettamente ordinata. Di ritorno dai frequenti viaggi per congressi, appena rientrato al Gaslini per riprendere il Suo posto di Presidente della Società Italiana di Pediatria, mi chiamava subito presso di Sè e prima ancora di occuparsi dei numerosi problemi che Lo attendevano, mi mostrava gli ultimi acquisti spesso fatti in fortunose circostanze. In ogni città del mondo, anche la più lontana, in ogni paese sperduto nei deserti, de Toni trovava sempre qualche pezzo da aggiungere alla Sua raccolta. Era un vero numismatico e considerava le monete e le medaglie un prezioso contributo per la storia civile, economica e geografica di tutti i popoli. Si può ben dire che Giovanni de Toni avesse introdotto nel collezionismo delle monete gli stessi metodi di indagine che da sempre aveva perseguito nella Sua vita di medico ricercatore. Forse, rivolgendosi alla Numismatica ed alla Medaglistica (allestì in quello che Lui chiamava il Suo museo « nipiologico » una serie di medaglie e monete dedicate al bambino ed alla pediatria), aveva cercato di riempire anche con questa nuova attività, il vuoto delle ore libere. Giovanni Pesce - 554 - GIUSEPPE PIERSANTELLI La morte di Giuseppe Piersantelli, avvenuta la mattina del 21 aprile 1973, priva la Società Ligure di Storia Patria di uno tra i suoi soci più anziani, — ne faceva parte dal 1925 — ed il Consiglio direttivo di un consigliere ricco di esperienza, assiduo, dinamico. Non è compito agevole tracciare un ritratto completo nei multiformi aspetti della sua vita di uomo di studio e di uomo d’azione, bibliotecario, docente, pubblicista, educatore, funzionario, organizzatore, scrittore, sempre prodigantesi senza risparmio, con lucida intelligenza, con volitiva tenacia e generosità combattiva. Era nato a Genova il 4 aprile del 1907; dal padre, Nicolò, avvocato e funzionario neH’Amministrazione provinciale, e dalla madre, Teresa Cortese, donna colta e d’animo squisitamente buono, venne educato agli affetti e alle memorie famigliari; del nonno paterno, Giuseppe, di cui egli rinnovava il nome, apprezzato compositore ed insegnante di musica, morto nel 1904 e pertanto da lui non conosciuto, raccoglierà amorevolmente i dati biografici coordinandoli in un limpido profilo che sarà una tra le prime pubblicazioni sue, nel 1933; conobbe invece la nonna paterna, una Connio, ed amava ricordare che essa apparteneva alla famiglia donde, nel settecento, era sortita quella Nicoletta che fu la moglie fedele e amata del grande Goldoni. A Genova il Piersantelli compì tutto il corso degli studii: elementari presso i Fratelli delle scuole cristiane, medii presso il ginnasio-liceo Colombo, universitarii nelle facoltà di giurisprudenza, laureato nel luglio 1930, di lettere, laureato nell’ottobre del 1931, e di scienze politiche, laureato nel luglio del 1936. La passione per la storia dell’arte e, particolarmente per quella genovese, direttiva costante della sua futura carriera di studioso, si palesò in lui giovanissimo. Ancora studente universitario avvicinò Gaetano Poggi e Giovanni Campora, che agli occhi della nuova generazione apparivano un — 555 — poco come i santi patriarchi dell’archeologia e della storia medievale ligure; consiglieri ed assessori del municipio di Genova negli anni tra l’ultimo Ottocento ed il primo Novecento, allorché nella città molto di nuovo si costruiva e troppo di vecchio si distruggeva, avevano entrambi combattuto buone battaglie, anche se non sempre vittoriose, per salvare da inconsulte demolizioni preziose testimonianze del passato; si erano adoperati per riportare alla luce in antichi edificii, degradati dai secoli e ancor più dall ignoranza e dall’avidità, le nobili linee di quando Genova, nei suoi palazzi, nelle sue loggie, nei suoi giardini aveva destato l’ammirazione del Petrarca e di Enea Silvio. E non sembrerà superfluo aggiungere per inciso che, sia il Poggi, sia il Campora, appartennero lungo tempo alla nostra Società e ne furono « uffiziali » secondo la dizione un po’ arcaicizzante dello statuto, vice-presidente l’uno, consigliere l’altro. Specialmente il Campora si mostrò favorevole verso quel giovane dall’ingegno pronto ed aperto, gli fu largo di consigli e di incoraggiamenti, lo volle suo assistente, e poi lo designò suo successore nella cattedra di archeologia e storia del- 1 arte presso l'Accademia ligustica di belle arti; e del Campora il Piersantelli si considerò sempre devoto discepolo: II mio Maestro intitolò una notizia biografica pubblicata nel 1932 in occasione delle onoranze tributate dall'Accademia al valentuomo. Nel frattempo, nelle aule universitarie, imparava ad addentrarsi nei labirintici sentieri della propedeutica e dell’euristica: si laureò in legge sostenendo una tesi di storia del diritto romano sotto la guida severa, ma benevola ai giovani di buona volontà, del professor Adolfo Rossello, un antico allievo, a Berlino, di Teodoro Momsen; in lettere con una tesi di storia romana sotto la guida del professor Giovanni Niccolini, un allievo di Ettore Pais. Base indispensabile alle discipline storiche, oltre la parola stampata sui libri, è 1 interpretazione di quella, indicibilmente suggestiva, vergata dalla mano degli antichi scribi calami, stili, aut pennae suffragio e lo studente Piersantelli cominciò a prendere dimestichezza con i tesori che l’Ar-chivio di stato genovese conserva; frequentò il corso di paleografia e diplomatica tenuto dal professor Emilio Marengo, un altro « uffiziale » della nostra Società, autore degli studi, che si leggono negli Atti, su Genova e Tunisi, su Alfonso II, marchese del Finale e la repubblica di Genova, studii che, insieme ad altri suoi lavori, gli assicurano un posto assai onorevole nella storiografia ligure del primo Novecento. — 556 - Provvisto così di un sostanzioso viatico intellettuale il giovane Piersantelli uscì dalle scuole e si accinse ad affrontare la vita con quella baldanza e con quella larga vena di umorismo che saranno una sorta di molla propulsoria tra le varie componenti del suo temperamento instancabilmente fattivo. Nel 1934 superò classificandosi brillantemente un concorso per funzionario nel municipio di Genova e, per quasi un quarantennio, ne percorrerà la carriera giungendo ai gradi più elevati. Il 19 agosto del 1937 è la data, che resterà sempre profondamente dolce al suo cuore, del matrimonio con la signorina Maria Thea e la nuova famiglia, allietata da un bambino e da una bambina, costituirà da allora in poi il centro intimo e caldo dal quale egli in ogni circostanza della vita, lieta e meno lieta, attingerà forza, serenità e fiducia. Tra le sue pubblicazioni in quel giro d’anni si è già accennato ai profili di Giovanni Campora e del nonno, Giuseppe Piersantelli, musicista,; sono da rammentare ancora due profili di suoi colleghi nell’insegnamento presso l’Accademia: l’uno concerne Lorenzo Massa, scultore robusto ed elegante noto per varie opere in Italia e nelle Americhe, meno noto come pittore di delicati ritratti a pastello, il che venne messo in giusto rilievo dal Piersantelli; l’altro Gerolamo Luigi Leggero, titolare della scuola d'arte decorativa, pittore freschista dalla tavolozza smagliante, epigono non indegno dei grandi predecessori in quell’arte per cui Genova era stata famosa e celebrata nei secoli. Nel decennio 1927-1937 tre lavori caratterizzano particolarmente il progressivo evolversi ed affermarsi del Piersantelli scrittore: la Istruzione storico-artistica della Chiesa Abbaziale Commendatizia di San Bartolomeo del Fossato che è del 1927; La politica demografica di Augusto del 1932, e La penetrazione commerciale genovese nel Sahara a mezzo il secolo XV del 1937. Nel primo di essi si avverte l’influenza del Campora; tuttavia, rivela già qualche cosa di più che una promettente affermazione dell’autore ventenne; il secondo segna un notevole progresso nell’impegno e nel rigore della preparazione scientifica; il terzo, più ampio, apparso con una prefazione di Paolo Revelli, cattedratico illustre della scuola di geografia della nostra Università, presenta la piena e definitiva misura della personalità dell’autore nella raggiunta ed equilibrata fusione tra la ricerca documentaria e la perspicuità del dettato. Doti che si ritrovano in un successivo lavoro dedicato all’illustrazione ed all’interpretazione critica di un dipinto celebre, come il titolo stesso enuncia: La Derelitta di Sandro Botticelli. Questo volume uscì nel 1942, in un momento non propizio: erano gli anni della guerra scellerata, — riprendiamo, e con ragione ancor maggiore, l’aggettivo con cui un vecchio segretario della nostra Società, Francesco Poggi, aveva qualificato il conflitto 1915-18 —, ed il lavoro, sebbene accolto favorevolmente, non ottenne forse l’eco che avrebbe conseguito in un clima più sereno. Sopravvennero gli atroci, interminabili mesi dell’occupazione da parte dei nazisti e delle brigate nere: nella clandestinità, Giuseppe Piersantelli assunse il compito di assicurare un rifugio a perseguitati politici e a quanti delle vecchie forze armate disciolte rifiutavano di sottomettersi ai Diktat degli occupanti; provvide inoltre a vettovagliare i partigiani operanti lungo il Polcevera e lo Scrivia e, per tali attività, gli verranno riconosciute due campagne della guerra di liberazione. Nel dopo guerra, le rovine d’ogni genere, materiali e morali, offrono alla straordinaria capacità organizzativa del Piersantelli, fino allora rimasta in ombra, la possibilità di venire utilizzata in più direzioni. Una vecchia istituzione benefica, cara ai genovesi, la nave scuola Redenzione, creata da Nicolò Garaventa nell’ormai lontano 1883, appariva praticamente distrutta e proprio quando la sua missione di raccolta e di rieducazione dei fanciulli abbandonati e traviati era maggiormente necessaria in mezzo alle innumerevoli miserie lasciate dalla guerra. Rappresentante del municipio in seno ad un comitato cittadino costituito per il ripristino di quell’ente, venne nominato il Piersantelli nel 1947; le sue realistiche valutazioni, la tempestività delle misure proposte, l’energia nell’attuarle si imposero; eletto nel 1951 presidente, portò, in un primo tempo, a felice conclusione le pratiche col Ministero della difesa per ottenere una nave in disarmo che rimpiazzasse quella ridotta ad una carcassa inservibile durante i bombardamenti sul porto, e così, la Fondazione Garaventa potè tornare alla sua funzione rieducatrice; successivamente ottenne pure dallo stesso ministero, presso Peveragno in provincia di Cuneo, un vasto terreno con costruzioni che con modica spesa si poterono adattare a scuole, dormitori etc. e per i marinaretti garaventini ci fu non soltanto la nave scuola sul mare ma anche, in collina, una salubre colonia estiva. Un altro compito, di alto e difficile impegno, richiedente congiunte le qualità di uomo di studio e di uomo d’azione, attendeva nel frattempo il Piersantelli: la biblioteca Berio, la più antica, copiosa e frequentata tra le biblioteche civiche genovesi era andata semidistrutta nel palazzo innalzato un secolo prima da Carlo Barabino in piazza De Ferrari; più di cinquantamila volumi bruciati, una buona parte dei rimanenti danneggiati - 558 - dalle scheggie delle bombe, dal fuoco e dall’acqua. Il primo contatto del Piersantelli con quelle rovine avvenne nel 1947; dopo un periodo di incertezze, di remore burocratiche, di dispareri e di contraddizioni amministrative, accolte dal nostro con impennate d’impazienza e con recriminazioni poco ortodosse da parte di un civico funzionario, nel 1952, egli, finalmente, bibliotecario capo del comune effettivo e non solo di nome, potè intraprendere un’opera continuativa e coerente di ricostruzione. La tappa iniziale è segnata dalle date 1953-1956; un piccolo gruppo di esperti assunti dal Comune, negli enormi, cimiterialmente gelidi saloni al primo piano del palazzo in corso di trasformazione, fra l’andirivieni di squadre di architetti, capomastri, muratori, pavimentatori, falegnami, elettricisti, diede inizio a un lavoro preparatorio di recupero e d’inventario dei volumi superstiti e, poi, di catalogazione dei nuovi acquisti. Il professor Piersantelli, per antonomasia, tout court, il « professore » oltre soprintendere a tali operazioni, battagliava con le varie ripartizioni comunali, carpiva consensi ed autorizzazioni dagli amministratori, partiva per Roma, strappava contributi straordinari al Ministero della pubblica istruzione, alla Direzione delle Accademie e biblioteche. Il 12 maggio 1956 la Berio, sia pur funzionando ancora parzialmente, veniva riaperta al pubblico con due sale di lettura, una sala per i cataloghi e tre grandi magazzini attrezzati con scaffalature metalliche; quando, nel 1972, il professore, raggiunti i limiti di età, dovrà lasciare la biblioteca, le sale di lettura saranno aumentate a tre, i magazzini a cinque, in più gli uffici e, al primo piano del palazzo, una sezione di conservazione per i manoscritti e per una parte dei libri a stampa rari. Il numero dei volumi, inizialmente di circa cinquantamila, sarà superiore ai duecentomila. Il compito del bibliotecario capo non si esauriva con la costruzione della Berio; delle altre biblioteche civiche sia nel vecchio centro, sia nei comuni annessi a Genova nel 1926, unica funzionante era la Lercari, nella bella villa Imperiale in zona di Terralba, all’« Albero d’Oro »; chiuse, nella parte di ponente della città, la Rapetti e la biblioteca di Voltri; ri dotte a meno che mediocri depositi di libri in disordine, in locali infelici, inutilizzabili dal pubblico, la Gallino di San Pier d’Arena, la Bruschi di Sestri... In dieci anni, dal 1954 al ’64, rinacquero: la Gallino in un edificio appositamente eretto; sistemate le altre in sedi decorose e funzionali, di ubicazione comoda per i lettori; rinnovata, in tutte, la suppellettile libraria e nuovo e idoneo l’ammobigliamento. Il risultato di tanto lavoro e di tanta energia spesi dal Piersantelli nella progettazione e - 559 - nell attuazione poteva senza esagerazione definirsi imponente; bisognava, tuttavia, avere presente il progressivo espandersi della popolazione in nuovi centri urbani ed ecco sorgere tutta una rete di biblioteche periferiche: la Aurelio Saffi a Molassana, la Federico Campanella a Prato, la Luigi Augusto Cervetto a Rivarolo, la Gaetano Poggi a Coronata, la Francesco Domenico Guerrazzi a Cornigliano, la Francesco Podestà, in Via Sacheri a Marassi e, così, 1 intelaiatura bibliotecnica della città risultò formata. In connessione a tali sviluppi e non pago di essi, il Piersantelli ideò e realizzò, a varii livelli, alcune iniziative nel campo delle discipline biblioteconomiche; rammentiamo anzi tutto quella, di alto significato culturale e storico, del corso sulle scritture notarili medioevali genovesi, istituito dall Amministrazione civica, assenziente l’Ufficio centrale degli Archivi di Stato, presso l’Archivio genovese, corso tenuto dall’allora suo direttore, il nostro illustre professor Giorgio Costamagna, un nome che rende superfluo ogni elogio. E’ inoltre da rammentare il corso superiore di perfezionamento per bibliotecari, nella letteratura giovanile, prodromo di quella biblioteca internazionale per ragazzi, creata sul tipo della Jugend-bibliothek di Monaco di Baviera, e intitolata ad Edmondo De Amicis, la quale, sistemata nel piano superiore del palazzo Imperiale, sede della Ler-cariana, fu il coronamento di una lunga tenacemente perseguita aspirazione del Piersantelli; infine una scuola di tecnica della legatura e del restauro del libro. Promosse direttamente mostre, come quella di manoscritti e libri rari della Berio, e partecipò, sempre con cimeli beriani, ad altre mostre importanti quali, in Genova, la Internazionale Colombiana; la Portuale genovese; la Storica del notariato medievale ligure; a Roma la Nazionale della miniatura, e quella dei Cinque secoli del Libro italiano; a Milano, quella dei Manoscritti biblici ebraici decorati; a Bruxelles quella de La miniature italienne du Xe au XVIe siècle. Fondò, diresse, animò due riviste: La Berio, bollettino d’informazioni bibliografiche, oggi al suo dodicesimo anno, e II Minuzzolo, emanazione del Centro studi sulla letteratura giovanile, al suo nono anno. Tanta attività sarebbe stata sufficiente a riempire una vita; invece il Piersantelli non rinunciò — e non gli sarebbe stato possibile — alla sua vocazione di scrittore. Tra l’una e l’altra pratica d’ufficio, tra una ispezione a questa o a quella biblioteca, viaggiando avanti e indietro fra Genova e Roma per i frequenti contatti che, nell’interesse delle istituzioni genovesi egli manteneva con i superiori dicasteri, tra l’uno e l’altro — 560 — Congresso dell’A.I.B., l’Associazione italiana bibliotecari, cui regolarmente interveniva prospettando con facile, spesso caustica eloquenza, il succo delle sue esperienze professionali, egli prendeva appunti, rivedeva quelli già presi, li riordinava, completava, modificava, ed ogni tanto usciva un suo articolo, un opuscolo, un volume e tutti presentavano quella caratteristica impronta di spigliatezza nella forma e di meditata critica nella sostanza che avrebbero fatto supporre nell’autore una metodica assiduità a tavolino e non già quella sua vita movimentatissima sotto l’impulso degli innumerevoli impegni. Sue pubblicazioni di carattere storico-artistico d’argomento genovese: L’atlante di carte marine di Francesco Ghisolfi e la storia della pittura in Genova nel Cinquecento (1947); La pittura nella Charta del navicare del Cantino (1953); Il palazzo della Levante; La pittura nelle carte nautiche medioevali italiane (1953); La cartografia genovese nel Medio Evo (1955); La schizzo cartografico di Colombo e il San Cristoforo nella carta del suo pilota (1956); L’Atlante Luxoro (1971); La congregazione Lasal-liana a Genova da centotrent’anni (1967); L’istituto dei Ciechi Davide Chiossone (1969) e le note introduttive all’edizione in fac-simile (Roma, Voliti, 1966) della Gerusalemme liberata con le figure di Bernardo Castello, stampata a Genova da Girolamo Bartoli nel 1590. Sono attinenti alla pluriennale sua esperienza di funzionario: Gli enti locali di fronte al problema della produttività e delle pubbliche relazioni (1958); Semplificazione dei metodi organici e produttivi negli enti locali (1960). E si riferiscono particolarmente alla sua vita di bibliotecario: La Berio com’è (1956); Le biblioteche civiche minori di Genova (1956); Le biblioteche degli enti locali nella legislazione vigente (1957); Biblioteche per ragazzi (1958); Esperienze e prospettive per una realizzazione organica e globale del servizio pubblico di lettura (1961); La biblioteca Dino Bruschi di Genova-Sestri (1963); La biblioteca Gallino di San Pier d’Arena (1964); Storia delle biblioteche civiche genovesi (1964); L’organizzazione bibliotecaria del Comune di Genova (1966); Alcune edizioni delle opere di Montale (1967); La Biblioteca Franzoniana degli Operai evangelici (1967). Collegati alle sue lezioni di biblioteconomia presso la Facoltà di Magistero sono due volumi: Il libro (1971), Il manoscritto (1972); di un terzo volume, intitolato Le biblioteche aveva finito di correggere le bozze di stampa pochi giorni prima della morte. - 561 - Ma un altro aspetto del Piersantelli uomo di lettere è offerto da un piccolo gruppo di pubblicazioni le quali possono dare qualche idea della molteplicità dei suoi interessi culturali e della sua umanità: è del 1955, 1 edizione cui prepose il titolo Così al vento nelle foglie lievi..., da lui curata e corredata di una introduzione e di note, delle poesie in lingua italiana di Carlo Malinverni, il poeta dialettale anticipatore del Firpo in certa sottile, contenuta malinconia. Il volumetto intitolato Istantanee apparso, con una presentazione amichevole e bella di Leonida Balestreri, nel 1957, esprime nella dedica: a mia moglie affettuosamente la sua più intima maniera di sentire che solo ai famigliari ed a pochi vecchi amici era dato di apprezzare pienamente e contiene una serie di rapide, briose rievocazioni autobiografiche. L’anno precedente, 1956, aveva pubblicato un profilo: Vitale mio, rievocatore dei suoi rapporti con Vito Antonio Vitale, storico, segretario e poi presidente della nostra Società. E si potrebbe pensare che lo spirito del padre Giambattista Spotorno, il grande prefetto della Beriana dal 1824 al 1844, autore di una, ai suoi tempi, celebrata « Arte epigrafica », avesse comunicato al suo successore di oltre un secolo dopo il gusto per il comporre epigrafi; con questo titolo appunto, Epigrafi, i Piersantelli ne raccolse tredici in un opuscolo del 1967 alle quali sono da aggiungere quelle dettate più tardi da lui per i sepolcri di Federico Ricci e Giovanni Monleone, nel Pantheon di Stagliene. All opera del Piersantelli non mancarono riconoscimenti; oltre la commenda al Merito della Repubblica, ebbe, proposta dal Ministero di razia e Giustizia, nel 1951, la medaglia d’oro per i benemeriti della re-enzione sociale e fu nominato consigliere onorario di Corte d’Appello, sezione minori, presso il Tribunale di Genova; nel 1963 ebbe, proposta dal mistero della Pubblica Istruzione, la medaglia d’oro per i benemeriti e a scuola, cultura, arte; dai librai pontremolesi, nel 1970 fu eletto « Cit-ta ino della Città del Libro » e gli fu offerta la « gerla d’oro »; dalla i omPa£na * nel 1973 tra i prescelti per un premio istituito per celebrare il cinquantenario di fondazione della società. Fu Accademico di merito, nella classe degli scrittori d’arte, dell’Ac-ca ernia igustica di belle arti; Socio effettivo dell’Accademia ligure di cienze e lettere, classe di lettere e scienze morali e storiche; si è già detto l’appartenenza al consiglio direttivo della nostra Società di cui per un triennio fu anche Vice presidente. Non gli mancarono avversari, ma tutti resero omaggio alla sua esemplare operosità. E un ultimo dettaglio può giovare a illuminare più ad- — 562 — dentro la sua ricca e complessa personalità umana ed a far meglio comprendere il senso doloroso di vuoto lasciato dalla sua scomparsa: in quella triste mattina del 23 aprile, nella chiesa di San Francesco d’Albaro, confusi tra la folla degli amici e dei colleghi convenuti per dare l’estremo saluto a Lui che, dopo tanto operare, si avviava verso la pace suprema della tomba di Staglieno, dove lo attendevano i suoi vecchi, si potevano scorgere, turbati e commossi, molti di quegli umili che il suo grande cuore sempre aveva, in diverse maniere, nelle più svariate circostanze, silenziosamente, confortato e beneficato. Luigi Marchini - 563 — - . . NOTIZIARIO BIBLIOGRAFICO PREISTORIA - STORIA ANTICA O. Giuggiola, Ricerche preistoriche nel Finalese in « Atti e memorie della Società Savonese di stora patria», n.s., IV, 1970-71, pp. 277-279. L’A. premette una breve cronaca sulle ricerche preistoriche e protostoriche del Finalese, territorio quanto mai ricco d’insediamenti umani nelle numerose e celebri grotte che tanto materiale diedero nelle campagne di scavo di Issel e Morelli e recentemente di Cardini. Riconosciuta la necessità di una maggiore sorveglianza del territorio (gli ispettori onorari non sono in grado di scongiurare le malefatte dei ricercatori clandestini), l’A. prospetta la possibilità, tramite l’istituto internazionale di studi liguri, di continuare, sia pure in misura modesta, le campagne di scavo, specie nei tre grandi cantieri delle Arene Candide, del Pollerà e dell’Arma delle Manie. In quest’ultima l’A., che guida il gruppo ricerche dell’istituto di studi liguri, sta conducendo gli scavi con una serie ininterrotta di campagne che hanno dato finora risultati più che lusinghieri. (Giovanni Pesce) Tiziano Mannoni, La ceramica dell’età del ferro nel Genovesato. Saggio di studio mineralogico, in « Studi Genuensi », Vili, 1970-71, pp. 3-26, 1 tavola, 1 cartina e 3 tabelle di analisi. E’ un tentativo di utilizzazione delle analisi mineralogiche condotte dall’A. su 82 campioni tipici di ceramica dell’Età del Ferro rinvenuti negli scavi archeologici di Genova e di undici Castellari del genovesato, per ampliare le conscenze sulla funzione di questi insediamenti e sui rapporti tra loro intercorrenti. La ricerca si articola perciò su due piani. Uno riguarda la scelta dei campioni rappresentativi, la loro analisi mineralogico-petrografica e soprattutto l’indicazione dei bacini geologici di provenienza delle terre impiegate. Sul piano archeologico l’A., dopo aver segnalato il contesto di rinvenimento delle ceramiche analizzate onde trarne una cronologia, formula interessanti considerazioni interpretative, sotto un profilo economico-am-bientale, a partire dai risultati delle analisi eseguite. Ne risulta che il Genovesato può essere diviso in due aree di diffusione delle ceramiche di produzione voltrese e chiavarese. La produzione locale si verifica solo a partire dal IV secolo a. C. con l’afEermazione di Genova, la quale dipende in un primo tempo dalla produzione voltrese. - 567 - D. Restagno, Il riordinamento della collezione archeologica parrocchiale di Albisola Superiore, in « Atti e memorie della Società Savonese di Storia Patria », n. s., IV, 1970-71, pp. 280-281. Il materiale recuperato nel 1880 con una breve campagna di scavi effettuati dal can. Giovanni Schiappapietra e dal sindaco Gerolamo Gavotti sull’area della chiesetta di S. Pietro in Albisola Superiore è stato recentemente riordinato e schedato dalla A. che, per incarico della Soprintendenza alle antichità per la Liguria, ha studiato il prezioso materiale. Nel riferire i primi risultati delle indagini, l’A. si augura che il materiale possa sollecitamente costituire il primo nucleo per un futuro museo archeologico albisolese. „ , (Giovanni Pesce) Giorgio Sacco, Novae Novarum', fu essa il primo centro manifatturiero di Valle Scrivia?, in «Novinostra», XII, 1972, n. 2, pp. 2-11, con 2 illustraz. nel testo e 2 cartine. Tra varie ed eleganti divagazioni informa sulle origini di Novi che, analogamente ad altre località dell’Italia romana (p. es. una «ad Novas », i.e. «tabernas», sulla via Cassia presso il Lago Trasimeno, e un’altra sulla Via Clodia presso il Lago di Bracciano) indicherebbe insediamenti commerciali o manifatturieri presso importanti nodi stradali. Novi Ligure, tra Serravalle Scrivia e Alessandria, risalirebbe all’età degli Antonini, poiché in quell’epoca reperti archeologici attestano 1 esistenza di varie « tabernae ». Oreste) SECC. VII - XIV G. Airaldi, La «.carta Novarum» del 1192 nella prassi diplomatica dei trattati intercomunali, in « Bollettino storico, bibliografico subalpino », LXX, 1972, pp-205-216; anche in « Novinostra », XII, 1972, n. 4, pp. 2-11. L’A esamina il trattato tra Novi e Tortona del 1192 che dovrebbe presupporre un precedente accordo, più gravoso per Novi, forse come contraltare al trattato Ge nova-Alessandria del 1181, come quello del 1192 doveva contrapporsi a quello genovese-alessandrino dello stesso anno che configurava due blocchi contrapposti, sulla valle Scrivia l’uno, sulla vai Bormida l’altro. Viene posta particolarmente in risalto ia superiorità di Tortona nei confronti di Novi, manifestata dall’approvazione del trattato da parte dei soli organi di governo del comune tortonese, mentre da parte novese interviene l’impegno giurato di tutti i cittadini. L’atto notarile conclusivo, qui ripubblicato, compendia le varie fasi attraverso le quali è passato l’accordo. (D. P.) — 568 — Gabriella Airaldi, I Genovesi a Licostomo nel sec. XIV, in «Studi medievali », Y serie, XIII, 1972, pp. 967-981. La scoperta, dovuta a G. G. Musso, nell’Archivio di Stato di Genova di un piccolo gruppo di documenti — sedici — rogati a Licostomo, alla foce del Danubio da due notai genovesi, negli anni 1373 e 1383-84, e la loro prossima pubblicazione a cura di G. Balbi e S. Raiteri, hanno consentito all’A. di trarre alcune conclusioni in merito all’attività genovese in qudl’area, all’organizzazione amministrativa delle colonie genovesi in Oltremare, oltre alla prassi notarile e ad alcune questioni finanziarie e monetarie. G. Airaldi, Note di cronologia sui libri iurium medievali liguri, in « Studi Genuensi », Vili, 1970-71, pp. 38-68. Controllo e, in qualche caso, rettifica o proposta di nuove soluzioni, delle date dei documenti del Liber privilegiorum ecclesiae lanuensis, a cura di D. Puncuh e del Regesto del codice Pelavicino, a cura di M. Lupo Gentile. G. Airaldi, Note di diplomatica ligure, in «Atti della Accademia Ligure di Scienze e Lettere », XXVIII, 1971, pp. 142-151. Il saggio è diviso in due parti: nella prima l’A. riprende il tema (già trattato da L. T. Belgrano, I sigilli del comune di Genova nel medio evo, in « Rivista della Numismatica antica e moderna», 1864, fase. I) dell’uso del sigillo plumbeo del comune di Genova, delle cui raffigurazioni illustra il significato; nella seconda dimostra che i signa comunali di convalidazione erano usati, oltre che negli uffici centrali del Dominio genovese, anche in quelli periferici, come, ad es, a Vezzano. p j G. Airaldi, Ospedali medievali genovesi. Santa Maria di Terralba, in « Rassegna degli Archivi di Stato », XXXII, 1972, pp. 2746. Pubblica, illustrandoli, alcuni documenti trecenteschi, tratti dal fondo del monastero del Tino dell’Archivio di Stato di Torino, sulla fondazione dell’ospedale di S. Maria di Terralba. Nel 1315 Ranuccio Gato da Pistoia, cittadino genovese, fondava l’ospedale, concedendolo ai monaci dell’abbazia di San Venerio del Tino; nel caso di inosservanza delle clausole stabilite nell’atto di fondazione sarebbero subentrati, nell’ordine, i francescani, i domenicani di Genova o, infine, la pieve di San Martino. Roberto Allegri, Il Libarnese nel periodo feudale, in « Novinostra », XII, 1972, n. 3, pp. 17-26. L’A, prende in considerazione il fenomeno della feudalizzazione del territorio che, nel corso del secolo XI vi provocò la formazione di una pluralità di autonome organizzazioni sviluppatesi attorno agli antichi tradizionali castra e a quelli sorti successivamente a presidio delle curtes. Considera quindi le principali fra queste organizzazioni: il Vescovado - Contea di Tortona e i Marchesati di Gavi e del Bosco. - 569 - Quanto al primo, ricorda 1 attività espansionistica dei Vescovi i quali già da Ottone I avevano ottenuto la districtio su alcuni luoghi. Quanto agli altri, nota come essi, collocati in un territorio compreso fra la marca obertenga e quella aleramica, si s\ ilupparono ai margini del Vescovado - Contea di Tortona. Del marchesato di Gavi, nelle mani di famiglia di origine obertenga, vengono descritti i limiti territoriali alla fine dell XI secolo che comprendevano un ambito da Gavi a Gattorba, Tassarolo, Pasturana, Bisio, Torre del Gazzolo, Amero. Del marchesato del Bosco, nelle mani imcce di famiglia aleramica, con il suo centro d’origine presso la confluenza del emme con 1 Oiba, viene indicata la estensione sempre sul finire del secolo XI ra apriata e Basaluzzo, poi allargata nel secolo successivo anche a Castel del Gazzo. B. Bosio, La charta di fondazione e donazione dell’abbazia di San Quintino, Visone 1972, pp. 244. Della pergamena del 4 maggio 991, conservata nella Biblioteca civica di Sa-avona’ ' a °^ert0 una trascrizione nuova per l’interpretazione di alcuni nomi propu i uogo e di persona, seguita dall’illustrazione e dalla storia della tradizione, a a tra uzione in italiano, da un’ampia spiegazione storica, da un’appendice comprendente 1 elenco delle 55 località menzionate dalla charta e da un repertorio di alcune notiz.e aggiornate su luoghi, persone e cose notevoli contenuti nel documento; da ricor are sopì.ututto le notizie sugli Aleramici, sui vescovi di Savona e di Acqui, sui Saraceni e sulle scorrerie nei secc. IX e X, sugli abati di San Quintino, sull’unione del monastero alla mensa vescovile di Savona, del 13 novembre 1500 etc. (D p) G. Caneva II pane sulle antiche navi genovesi, in « L’arte bianca. La panificazione italiana » del 7 settembre 1970. Documenti tratti daU’Archivio di Stato di Genova sui contratti marittimi con mercanti e corsari stipulati in forma di mutui in panatico a Genova, a Bonifacio e in altre basi. Cuoiai Crr R'.Del PoNTE> M «tractatus de potestate Summi Pontificis » di Guglielmo da Sanano, in « Studi medievali », XII, 1971, pp. 997-1094. contestare 1 " kfeve ma succosa introduzione del Capitani, intesa soprattutto a deìSTpontPr“ °fP0S!2,0neA<;eI trattato del frate genovese (sul quale v. l’art. fdImJrT r,-1 'n <>’ n-S-’ XI’ P- 419> a,Ia Monarchia di Dante, ad m inazione fi ] 1 H t ‘V™" Can°nÌStÌche- •’A- ha fatto ricorso e alla deter- r“ R Del Ponte deU’0Pera (*316-22), segue l’edizione del testo, a cura di R. Del Ponte, preceduto da una breve prefazione. M.N. Conti, Intorno all’ordine degli elenchi v , , ■ , ■ • • in diocesi di Luni, in «Archivio storico per le oro,in * " pp 57.63 Per Je Prince parmensi », s. IV, 21, 1969, Rilievi per l’identificazione di chiese poco note della Lunigiana. — 570 - R. Del Ponte, Un presunto oppositore della « Monarchia » dantesca: Guglielmo da Sanano, in Omaggio a Camillo Guerrieri Crocetti, Genova 1971, pp. 253-269. Pur non condividendo l’ipotesi tradizionale che il trattato « de potestate Summi Pontificis » del francescano genovese sia stato scritto in opposizione alla Monarchia dantesca, ne mette in luce i punti di contatto. Leone Liagre-df-Sturler, Les Relations commerciales entre Gênes, la Belgique et l’Outremont, d’après les Archives Notariales Génoises (1320-1400), Études d’histoire économique et sociale, publiées par l’institut historique belge de Rome, Bruxelles-Rome 1969, 2 tomi, pp. CLXXII, 979. L’A. premette a questa notevole raccolta specializzata di atti tratti dal grande fondo notarile genovese una amplissima e metodica introduzione che si articola in quattro parti principali, e costituisce al tempo stesso una guida ragionata ed una sintesi critica della vasta mole di documenti esaminati, preziosa strumentazione al servizio dello studioso. Nella prima parte, ai limiti cronologici abbracciati (1320-52. I e 1352-1400, II), seguono quelli relativi al quadro geografico specificando l'accezione che in questa opera si è voluto dare al termine « Outremont » e pertanto vi si comprende 1 Inghilterra, l’Irlanda, i Paesi Bassi, il Belgio, la Svizzera, la Germania, nonché la parte della Francia delimitata a sud delle due Borgogne. Quindi, si passa a trattare l’aspetto, la conservazione e caratteristiche dei documenti e dei fondi notarili genovesi; di alcuni criteri e scelte tecniche adottate, come pure dei notai; ma non tralasciando di inquadrare il tutto con una visione sintetica della situazione politica genovese nel secolo XIV. Chiude tale prima parte un cenno sul commercio delle nazioni oltramontane e di coloro che di là si stabilirono in Genova. La seconda parte considera essenzialmente la natura degli atti notarili esaminati e trascritti distinguendo inizialmente tutti quelli non puramente commerciali e derivanti in special modo dalla funzione cancelleresca esercitata altresì dal notaio in Genova. Seguono quindi analiticamente i contratti relativi all’ingaggio degli uomini ed ai negozi giuridici di interesse commerciale, precipuamente ai vari e più tipici contratti medioevali, sia terrestri che marittimi o misti, compresi i mutui, i cambi e le assicurazioni La terza parte è dedicata alle correnti commerciali verso Genova ed oltre, e viceversa, con la trattazione delle merci più tipiche trasportate e commerciate nell’uno e nell’altro senso. La quarta parte tratta in particolare le relazioni di affari fra Genova e diverse regioni, quali i Paesi Bassi, l’Inghilterra, la Francia, la Germania e la Svizzera, la Penisola Iberica. Infine, si accenna ai tipi di navi impiegate ed ai porti oltramontani più frequentati dai Genovesi. Vasti ed articolati indici ed un’appendice modernamente concepita facilitano in ogni modo la ricerca essenziale. Fa premessa all’opera un’aggiornata e selezionata bibliografia. — 571 - Alcune pressoché lievi inesattezze onomastiche e toponomastiche, facile insidia per chi lavori su materiali stranieri, nonché alcune visualizzazioni personali dell’A., fra le quali 1 intendimento di aver fornito una documentazione esauriente, non tolgono pregio all’opera nella sua interezza ed articolazione, che senz’altro ha pienamente raggiunto, a nostro avviso il proprio vero scopo, di raccogliere e dare una visione generale e complessa con riflessione sintetica, dei fenomeni trattati. (Aldo Agosto) Francesco Licontri, II più antico esempio di consuetudines adprobate; le Consuetudini di Genova del 958 ed il loro fondamento giuridico, in « Studi Genuensi », Vili, (1970-71), PP. 27-37. LA. propone un argomento che è stato caro a pressoché tutti gli storici del diritto. Il lavoro riassume, ad essa rifacendosi senza riserve, la teoria sviluppata dal Calasso nel suo Medioevo del Diritto in materia di consuetudine e relativa adpro-balio. Si discosta però dal Calasso nel punto in cui questi aveva visto la formula della ad probat io (facendola risalire appunto al 958 e dichiarandola la più antica conosciuta) non nelle parole del diploma di Berengario e Adalberto di quell anno, ma in quelle del testo informale e non datato delle Consuetudini genovesi, considerandolo parte integrante del diploma stesso. L’A. invece ritiene di dover mettere il testo delle Consuetudini in relazione al giuramento del Marchese Alberto del 1056 piuttosto che al diploma del 958, vedendo direttamente in quest’ultimo la formula della adprobatio. Specifica le ragioni che giustificano tale postdatazione, ma non spiega come possano riportarsi sotto l’unica categoria della adprobatio consuetudinis due atti, quali il diploma di Berengario e Adalberto ed il testo della Consuetudini che hanno fra loro natura giuridica ben diversa e lontana. Seguono alcune considerazioni sul contenuto delle singole consuetudini genovesi svolte sulla scorta delle tradizionali affermazioni della dottrina. I A. Paravicini Bagliani, Cardinali di curia e famiglie cardinalizie dal 1227 al 1254, Padova, ed. Antenore, 1972, voli. 2, pp. XC-610. Interessano il lettore ligure le pp. 61-71, dedicate al card. Sinibaldo Fieschi (poi Innocenzo IV), 329-340, al card. Guglielmo Fieschi, 358-379, al card. Ottobono Fieschi, del quale vengono messe in risalto le abbondanti entrate e la famiglia numerosa. Le pp. 533-534 e 536-537 vengono dedicate ai genovesi Ottone Grillo e Ru-baldo Fieschi, ai quali l’A. non riconosce la qualifica cardinalizia loro attribuita da alcuni scrittori. V. Piergiovanni, Sinibaldo dei Fieschi decretalista. Ricerche sulla vita, in « Studia Gratiana », 14, 1967, pp. 126-154. Esamina in particolare se Innocenzo IV sia stato in gioventù monaco benedettino concludendo per il no, pur affacciando l’ipotesi che il Fieschi abbia avuto in un monastero (S. Pietro di Caprarolio?) una prima formazione disciplinare. Di qui — 572 — il futuro pontefice sarebbe passato a Parma dove, presso lo zio, vescovo della città, avrebbe iniziato gli studi, completati in seguito a Bologna (1213-1225/26), godendo nel fratempo delle rendite di un canonicato nella Cattedra di Parma, di cui l’A. ha rinvenuto tracce nell’Archivio Capitolare di quella città. Confuta infine l’opinione di numerosi studiosi che il Fieschi sia stato vescovo di Albenga. (D. P.) G. Pistarino, Genova e Novi preludio ad Alessandria, in « Rivista di storia, arte e archeologia della provincia di Alessandria », LXXX-LXXXI, 1971-72, pp. 1-29. Esamina il trattato del 1135, mediante il quale i Novesi cedono il loro castello alle chiese di San Lorenzo di Genova e di San Siro di Pavia. Si tratta di una dipendenza politica mascherata da un’operazione di carattere formalmente religioso, in cui la chiesa assume in pratica la rappresentanza legale della civitas. Vi si nota l’interesse comune antitortonese, nella volontà di mantenere vive e attive le vie di comunicazione con Pavia. Il trattato con Novi è il logico corollario dell’accordo Genova-Pavia del 1130, inteso a creare una sorta di condominio tra Po ed Appennino, a fiaccare la resistenza di Tortona e a garantire l’apertura sulla Valle Padana. Il trattato del 1157 si presenta, invece, più favorevole a Novi, segno che i suoi cittadini hanno ormai acquisito « il senso del loro avvenire commerciale sulla via del mare, mentre a Genova ci si è resi perfettamente conto dell’importanza di Novi quale caposaldo del loro sistema di penetrazione nella Valle Padana ». « Di qui alla fondazione di Alessandria — conclude FA. — con l’intervento genovese, non v’è che un passo ». (D. P.) Geo Pistarino, Notai genovesi in Oltremare. Alti rogati a Chilia da Antonio di Ponzò (1360-61), Bordighera 1971, pp. 224 (Istituto internazionale di studi liguri. Collana storica dell’01tremare ligure, I). Preceduti da un’ampia ed articolata introduzione paleografico-diplomatica che evidenzia i problemi posti dal testo, i criteri dell’edizione ed i principali aspetti offerti dalla ricca documentazione, vengono editi gli atti rogati a Chilia, alle foci del Danubio, dal notaio Antonio di Ponzò fra il novembre 1360 ed il maggio 1361. Se si considera la funzione di Chilia, che era quella di far confluire sui mercati di Costantinopoli le merci provenienti da una vasta area geografica corrispondente all’in-circa all’attuale Romania, ben si potrà comprendere l’importanza di un testo che, sebbene copra solo i mesi cosiddetti « morti » per l’attività economica, è sufficiente di per sè ad offrirci una validissima testimonianza dell’attività del centro danubiano. Un accurato indice dei nomi di persona e di luogo, delle cariche e delle professioni, delle misure e delle monete conclude il lavoro. G. Pistarino, Rassegna storiografica sul Medioevo acquese, in « Studi Genuen-si », VIII, 1970-71, pp. 191-204. Rilevato come in passato le ricerche storiche su Acqui siano state trascurate, sia per l’interesse prevalentemente archeologico della zona, sia per la sua posizione - 573 - decentrata rispetto alle correnti culturali della fine del secolo scorso e del nostro secolo, sia infine perchè Acqui si colloca vicina a Genova, ma fuori dai confini della Repubblica, e troppo lontana da Torino, l’A. ha messo in luce come nell’ultimo decennio, soprattutto ad opera della sezione acquese dell’istituto Internazionale di Studi Liguri, si sia operata una ripresa generale di studi, attraverso scavi, conferenze, scoperta di nuovo materiale d’archivio. G. Pistarino, Sul tema dei rapporti tra Genovesi e Catalani, in « Critica Storica », n.s., IX, 1972, pp. 558-567. Messi in luce due diversi sistemi, « quello genovese di una comunità economica operante per mezzo di massicci investimenti di capitali in area internazionale e quello catalano-aragonese di una costruzione politica attuata attraverso l’espansione territoriale e la formazione di un più vasto complesso statale », l’A. rileva come ancora nel secolo XIII Genova, impegnata nella lotta con Pisa e nei problemi dell’impero latino d Oriente, non si avvide del pericolo aragonese-catalano. Solo dopo la insurrezione del Vespro e l'espansione aragonese verso le isole del Tirreno, in una direttrice che « sbarrava trasversalmente » il Mediterraneo fin verso l’impero bizantino, si avvertono echi delle preoccupazioni genovesi già nei cronisti della fine del secolo. Significativo appare quindi all A., come « ricerca di spazio economico e di tutela mercantile » di fronte « alla struttura rigida e autocratica dello stato aragonese » il susse-guirsi in Genova, a partire dalla metà del ’300, di signorie straniere — milanese e francese all’insegna di « costruzioni statali di tipo più moderno ». (D. P.) G. Pistarino, Sulla tradizione testuale dei trattati tra Genova e Novi del 1135 e 1157, in «Rivista di storia, arte e archeologia della provincia di Alessandria», LXXX-LXXXI, 1971-72, pp. 195-205. L’esame della tradizione è condotto sui Libri iurium. L’A. afferma che dal- 1 originale del 1135 (qui ripubblicato) derivano due discendenze: la prima attraverso il codice Vetustior (che però potrebbe anche derivare da un perduto ms. scritto nel 1233 dal notaio Lantelmo), il cod. D (lurium VII) fino al cod. A (della Biblioteca Universitaria di Genova); l’altra (cod. B, detto anche Duplicatum) dalla copia del 1233 perduta. Per il trattato del 1157 non esistono originali: data per scontata la prima derivazione, l’A. ritiene che nel 1233 il notaio Lantelmo si sia servito di un Registro Comunis (e quindi di una copia), dal quale potrebbe anche derivare il Vetustior. (D. P.) C. Roella, Le origini romane della potenza navale di Genova nel Medioevo, in «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino», 1967-68, pp. 461-481. Dopo aver documentato la continuità della vita e della civiltà romana in Liguria almeno fino a Rotari ed aver rilevato la vitalità della documentazione dei rapporti tra Roma e la Francia attraverso la Liguria nei secc. VII-X, l’A. rileva che non — 574 - sembra possibile che, date le condizioni economiche, politiche e sociali dei secc. X-XI, Genova abbia potuto « diventare rapidamente una potenza marittima senza aver conservato un certo movimento marittimo anche nei secoli precedenti ». Prove di questo potrebbero essere il culto in Liguria di santi che non compaiono nel calendario romano del sec. X; i tributi che si riscuotevano nel secolo XII e che manifesterebbero un’origine anteriore al secolo X; il diritto del mare che sarebbe una continuazione diretta delle norme fondamentali degli ordinamenti romani. P. Tomaini, Una controversia tra la pieve di Ceda e la rettoria di S. Nicolò di Chiesanuova in comune di Levanto, in « Giornale storico della Lunigiana e del territorio lucense », n.s., XIX, 1968, pp. 51-56. Pubblica due docc. del 1382 relativi alla controversia per un censo che la parrocchia di Chiesanuova doveva pagare a quella di Ceula (Montale di Levanto), che era la matrice dalla quale erano derivate tutte le parrocchie della Valle di Levanto, tra cui la stessa cappella di S. Nicolò, staccatasi, a giudizio dell’A., nel secolo XII. SECC. XV - XVI E. Cavalli, II più antico ms. delle visite pastorali della diocesi di Limi, in «Giornale storico della Lunigiana», n.s., XIX, 1968, pp. 65-123; XX, 1968, pp. 191-229. Continuazione del lavoro già segnalato in « Asli », n.s., XI, p. 425. Clara Cipollina, Ordini per la Comunità di Gavi - Commissariato contro Antonio Zanardo Podestà di Gavi, in « Novinostra », XII, 1972, p. 4, pp. 24-28. Contiene il riassunto di due documenti del 1582, tratti dall’Archivio di Stato di Genova. Il primo, volto ad evitare l’eccessivo indebitamento dei proprietari fondiari locali, vieta agli ebrei di prestare loro denaro con garanzia diversa da quella del pegno su mobili, limitando altresì la misura degli interessi. Il secondo è il verbale del processo di sindacato del Podestà Zanardo, in carica nel 1581, conclusosi con la sua condanna a 12 anni di relegazione in Corsica quale responsabile di essersi appropriato di pubblico denaro destinato a paghe di lavoratori edili, nonché di aver venduto a proprio vantaggio quantitativi di calce dello Stato da impiegarsi in opere pubbliche. Raffaele Colapietra, I Genovesi a Napoli nel primo Cinquecento, in « Storia e Politica », 1968, n. 3, pp. 386-419. Con gli ultimi anni della dinastia aragonese, la colonia genovese a Napoli conosce una decisa affermazione, sia sul piano politico, sia su quello finanziario. L’A. - 575 - illustra i principali aspetti del fenomeno fino alla metà del Cinquecento, soffermandosi in primo luogo sull’attività economica di Germano Ravaschieri, documentabile dal 1509, e su quella di Cosmo Pinelli, suo socio dal 1523. Le loro fortune, derivanti inizialmente dal commercio del grano e dai prestiti alla nobiltà e poi consolidate con acquisti di terre e di censi, attirarono a Napoli altri genovesi, per lo più patrizi, che diedero vita ad imprese importanti; tra esse l’A. ricorda il banco Spinola ed il banco Imperiali, di cui si elencano le principali attività finanziarie svolte rispettivamente nel 1531 e nel 1542. L’allargamento della sfera genovese d’azione ai prestiti alla corona, che si accompagnò all’ottenimento di numerosi feudi, e esemplificata con riferimento al principato di Melfi, di cui Andrea Doria fu investito nel 1532 e della cui consistenza patrimoniale viene fornito un quadro dettagliato. Raffaele Colapietra, Le rendite dei Genovesi nel regno di Napoli in un documento del 1571, in «Critica storica», 1968, n. 1, pp. 93-101. Un documento ufficiale della Sommaria napoletana, conservato nell’archivio Doria Pamphili di Roma, consente di conoscere l’importo delle rendite pubbliche spettanti ai Genovesi nel 1571, la loro natura e l’epoca della loro acquisizione. Pur senza fornire l’ammontare complessivo di tutte le rendite percepite dai genovesi, 1 Autore indica, provincia per provincia, i maggiori interessati, tra cui emergono i Doria, gli Squarciafico, gli Spinola, i De Mari, i Grimaldi. M. N. Conti, Gli statuti quattrocenteschi di Bolano, in « Memorie dell’Acca-demia lunigianese G. Capellini », XXXVII, 1967, pp. 53-102. Dopo una breve nota storica sul paese, l’A. pubblica gli staniti che vennero dati alla comunità di Bolano nel 1408, al momento, cioè, della sottomissione a Carlo VI di Francia. Si tratta di una parziale modifica di quelli malaspiniani del 1304, dei quali conservano ben 44 capitoli su 67 del testo quattrocentesco; gli altri 23 sarebbero « di dettato genovese e quindi nuovi per la legislazione di Bolano ». G. Farris, Amicizia ed entusiasmo per le « humanae litterae » in una lettera inedita di Jacopo Bracelli a fra Lorenzo Guglielmo Traversagni, in « Atti e memorie della Società Savonese di Storia Patria », n.s., Ili, 1970, pp. 139-142. Pubblica, con commento, una lettera del Bracelli, non inedita perchè edita dalla Balbi (L’epistolario di Jacopo Bracelli, Genova 1969, n. 78) del 9 marzo 1461 (l’indicazione dell’anno in G. Balbi cit.), nella quale si discorre di un’opera nuova del Traversagni che dovrebbe essere la Semita recta ad montem salutis Giovanni Farris, Un «Planctus Mariae» inedito del secolo XV, in «Atti e Memorie della Società Savonese di Storia patria», n.s, IV, 1970-71, pp. 111-125. Riprendendo eoo buoni argomenti eri,ici I, gene*, congn,a„ deI Nob„MCO errea 1. a.trtoone a Urbano Vegerio, familiare M c„d. Gi„|jan0 Mh R„crCj di - 576 - un Poemetto sulla Passione di Cristo, conservato in un manoscritto savonese, che comprende anche un « Planctus Mariae », trascurato dal Noberasco, l’A. esamina brevemente ma compiutamente quest’ultimo mettendolo in relazione con le « Meditationes Vitae Christi » del francescano Giovanni de Caulibus. In appendice è trascritto il testo. (G. Oreste) Giovanni Farris, Valore storico e linguistico di un trattatello inedito e in volgare sulla Messa, scritto a Legino presso Savona nel 1456, in « Atti e Memorie della Società Savonese di Storia patria», n.s., IV, 1970-71, pp. 85-110. Illustrazione di un documento di storia della pietà a Savona, del quale è trascritto il testo, interessante sia per le derivazioni che è possibile individuare dalla letteratura religiosa medievale (e che vengono puntualmente indicate), sia anche sotto il profilo linguistico. Sono analizzati in particolari aspetti fonetici, grammaticali, lessicali e stilistici, ed è aggiunto un glossario ragionato. Le singole osservazioni sono ampiamente appoggiate alla bibliografia sull’argcmento. (G. Oreste) Domenico Gioffrè, Il mercato degli schiavi a Genova nel secolo XV, Genova, Bozzi, pp. 329. Si tratta di un volume basato prevalentemente su una mole rilevantissima di rogiti notarili pazientemente rintracciati attraverso lo spoglio di circa 88.000 atti contenuti in circa 250 filze dell’Archivio di Stato di Genova. I risultati sono condensati nei regesti degli atti utilizzati ed in una esposizione che li precede, in cui FA., considerate le varie componenti etniche che costituivano la classe servile della Genova del Quattrocento, cercando di cogliere, di ogni gruppo o stirpe, l’importanza, la consistenza e la fisionomia, si è soffermato sui prezzi di mercato degli schiavi come indice dello stato della domanda e dell’offerta. L’età degli schiavi trattati, la densità della popolazione servile e la sua collocazione nel quadro della società genovese del tempo sono state oggetto di particolare attenzione da parte dell’A., insieme alla utilizzazione della mano d’opera servile, al mercato interno, all’importazione che lo alimentava, alla velocità di circolazione ed alle correnti di esportazione, essendo Genova non solo un mercato, ma anche un centro di transito nella tratta degli schiavi. G. Malandra, Una tariffa del collegio dei notai di Savona nel 1484, in « Atti e memorie della Società savonese di storia patria», n.s., III, 1970, pp. 41-55. Pubblica una tariffa, stabilita dal collegio dei notai savonesi il 3 giugno 1484. I notai partecipanti sono 12; l’A. ritiene che il collegio non abbia avuto statuti propri. G. G. Musso, Documenti su Genova e gli Ebrei tra il Quattro e il Cinquecento. in « La Rassegna mensile di Israel », XXVI, novembre 1970, pp. 1-10. Riprendendo il tema, da lui già trattato in altre sedi, FA., oltre a mettere in luce la duplicità dell’atteggiamento genovese, diviso tra un formale atteggiamento per- - 577 - secutorio (frutto del quale può essere il proclama del 6 giugno 1492 per il quale nessun patrono di nave poteva caricare ebrei e loro beni « provenienti da dove che sia e dove che sia diretti ») e il possibilismo commerciale che tendeva a distingure, nell’ambito della popolazione ebraica fuggiasca dalla Spagna, quelle persone (medici e mercanti in primis) che potevano rendersi utili alla Repubblica, accenna alla presenza di schiavi ebrei a Genova ed alla particolare posizione della città, intesa come punto di transito per i fuggiaschi dalla Spagna. (D. P.) G. G. Musso, Per la storia degli Ebrei a Genova. Note su bibliogragfia e documenti, in « La Berio », 1972, n. 2, pp. 8-17. Prendendo lo spunto dalla recente pubblicazione del Brizzolari (sulla quale v. « Asli », n.s., XI, pp. 447), l’A. mette a fuoco, attraverso la bibliografia più recente ed il materiale archivistico da lui stesso rintracciato negli archivi genovesi, lo stato della questione. Sfatando il mito della tolleranza genovese nei confronti degli Ebrei, 1 A. precisa che mentre la Repubblica si adegua formalmente alle correnti persecutorie, tuttavia, è pronta a mitigare l’intransigenza là dove intravveda una qualche utilità per la cittadinanza genovese. Si tratta comunque di agevolazioni individuali, in genere in favore di professionisti (ad es. i medici). Occorre soprattutto, nota il Musso, distinguere tra il trattamento praticato in città e quello periferico o praticato nel dominio coloniale. (D. P.) M. Scarrone, Chiese della città e diocesi di Savona nel 1530. Il ms. Zuccarello, in « Atti e memorie della Società savonese di storia patria », n.s., IV, 1970-71, pp. 296-305. Redatto da Giovanni Zuccarello, cappellano della Cattedrale di Savona, il ms. contiene la trascrizione di numerosi docc. antichi riguardanti il Capitolo della Cattedrale, nonché un prezioso elenco, delle chiese con l’indicazione, purtroppo incompleta, dei loro redditi. Marcella Traverso, Nuovi documenti sulla situazione politica genovese nel secondo Cinquecento, in « La Berio », XI, 1971, n. 3, pp. 5-17. Stralcio di una trattazione che l’autrice sta preparando sulle vicende genovesi del 1575-76, e di cui anticipa alcuni documenti che illustrano la lotta politica interna tra il febbraio e l’ottobre del 1576. (G. Oreste) L. Vivaldo, I capitoli dell’arte dei calderai di Savona, in « Atti e memorie della Società savonese di storia patria », n.s., III, 1970, pp. 23-40. Pubblica gli statuti, tratti da un ms. dell’archivio delle Scuole Pie di Savona, dell’arte, separatasi da quella dei fabbri nel 1480. I capitoli, scritti parte in volgare parte in latino, appartengono quindi alla fine del secolo XV, con aggiunte cinquecentesche. - 578 - SECC. XVII - XVIII Aldo Andreoli, Alcune fonti degli Annali muratoriani relative ai fatti di Genova degli anni 1746-47, in «Giornale storico della Letteratura italiana», C.XLV, a. LXXXV, fase. 450-451, 1968, pp. 350-368. Prende in esame alcuni documenti provenienti da Genova, di cui il Muratori si servì ampiamente per i suoi Annali: una relazione del 16 o 17 dicembre 1746, pubblicata anonima a Venezia nel 1747; undici lettere private del 1746 e 1747, inedite, inviate allo storico modenese da persone diverse, e scritte « a caldo ». L’esposizione vuol essere intenzionalmente informativa, come segnalazione di fonti, e non come approfondimento di ricerche intorno alla pubblicazione degli Annali. Tuttavia ne risultano pertinenti conferme delle caratteristiche del metodo mura-toriano e soprattutto dello spirito dell’autore, che antiretorico, bonario e familiare nello stile, fu tutt’altro che indifferente a quelle vicende genovesi, nella cui trattazione inseriva un personale calore di simpatia per quel moto di popolo, visto e narrato come una difesa della libertà, e in un tono quale raramente si rincontra così vivo nella monumentale opera. Questa doveva appunto terminare con la vittoria di Genova, prima di concludersi con la nota finale polemica contro le velenose critiche dell’abate Cenni. Seguono interessanti notizie sui rapporti del Muratori con il genovese G. Fi Doria, uomo politico e scrittore, autore di una storia di Genova degli anni 1745-47. pubblicata a Modena nel 1749, di cui il M. stesso curò la stampa, pur non potendosene avvalere per i suoi Annali, già in corso di pubblicazione. ^ Oreste' Maurice Aymard, Bilancio di una lunga crisi finanziaria, in « Rivista Storica Italiana», LXXXIV, 1972, pp. 988-1021. Rileva che l’aiuto fornito dalla Sicilia alla Spagna durante la guerra dei Tren t’anni è costituito, oltre che dalle rimesse in denaro di cui il Trasselli ha documen tato l’entità dal 1629 al 1643, anche dall’invio di viveri e di munizioni; dopo il 1641, anzi, le spedizioni di grano prendono il sopravvento sui finanziamenti in denaro con tante, come del resto era accaduto prima del 1629. Per reperire le risorse ingenti chieste dalla Spagna, il regno di Sicilia ricorre soprattutto, in un primo tempo all’ina sprimento fiscale ed in un secondo tempo all emissione di prestiti pubblici ed a \ en-dite patrimoniali. Tra il 1620 ed il 1651 gli introiti venduti ammontano in capitale a circa 5,5 milioni d scudi, di cui il 43 % è acqustato da genovesi operanti da tempo in Sicilia o giuntivi dopo il 1610. Tra tale data ed il 1650-60 la colonia genovese in Sicilia si rinnova profondamente, nel senso che ad un’immigrazione numerosa di elementi poveri si sostituisce man mano una corrente numericamente modesta di ricchi mercanti, in stretto contatto con capitalisti residenti a Genova. Dopo il 1650-60 i persistenti bisogni dell’erario siciliano finiscono per ritorcersi sugli stessi finanziatori genovesi, che abbandonano gradualmente le proprie posizioni, anche sotto la pressione della peggiorata situazione economica dell’isola. ^ ^ - 579 - René Boudard, La révolution française vue par des citoyens génois au lendemain du 10 août 1792, in «Rivista italiana di studi napoleonici», VII, n. 20, 2 giugno 1968, pp. 126-132. Sulla base di quei caratteristici documenti genovesi che furono gli anonimi « biglietti di calice », l’A. traccia un quadro della opinione pubblica genovese nel 1792, anno cruciale nella storia della rivoluzione francese: opinioni le più contrastanti, orientate sia a tentar di proteggere l’aristocratica Repubblica dal « veleno » delle idee rivoluzionarie, sia a cercar di mantenere una rigorosa politica di neutralità tra Francia e Inghilterra. Pur non mancando qualche voce simpatizzante per la rivoluzione, si rileva una maggioranza di opinione « codina », di conservatori disperatamente attaccati alla tradizione oligarchica, mentre, nutriti delle idee nuove già appaiono elementi più giovani e attivi, appartenenti al patriziato povero o alla borghesia di affari, a far causa comune con gli elementi popolari. L’integrale citazione di parecchi di questi biglietti, alcuni dei quali veramente notevoli per acume politico, chiarezza d’idee, vigore di espressione (naturalmente, in una prospettiva « vista da destra »), rende particolarmente interessante il breve articolo. (G. Oreste) Antonio Carusi, Una poesia sulla guerra Sabauda-Genovase del 1625 per il feudo di Zuccarello, in « Atti e memorie della Società Savonese di Storia Patria », n. 5, II, 1968, pp. 139-142. Per mera casualità un foglio sul quale nel 1625 Giovanni Ambrogio Divizia aveva scritto diciotto versi in chiave virgiliana sotto il titolo In Plebis totiusque Ligurie destructionem-loannis Ambrosii Divitie carmina ha finito per pervenire fino a noi conservato presso l’Archivio di Stato di Imperia, per essere stato riutilizzato dall’Attuario di Stellanello, notaro Stefano Divizia, il 2 maggio 1626, al fine di stendervi un atto del suo ufficio. L’A. dà l’edizione di questi diciotto versi nei quali il poeta, probabile testimone delle atrocità commesse dai Piemontesi nella Liguria di ponente nel corso della guerra del 1624-26, sfoga la sua indignazione con riferimento alla distruzione di Pieve di Teco da parte del Marchese di Cortanze dopo che l’aveva espugnata cacciandone il suo difensore Gerolamo Doria. Osvaldo Chiareno, Genova settecentesca nel giudizio di Leandro Femtndez de Moratin, in La Casana, ottobre-dicembre 1971, pp. 47-52. La messe di dati ricchi di interesse storico e densi di valore umano che emergono dalle impressioni di viaggiatori stranieri nelle diverse epoche ospiti di Genova hanno trovato nell’opera di numerosi studiosi — da Gaston H. Broche a Tito Rosina — illustratori attenti ed interessati. Alla collana di siffatte rievocazioni ha aggiunto ora un nuovo prezioso anello Osvaldo Chiareno che ha ripreso, con aderente equilibrato sforzo di interpretazione, i giudizi espressi relativamente alla Superba da Leandro Fernandez de Moratin in occasione di un suo viaggio in Italia nel corso del 1794. Quello che il grande commediografo spagnolo trova in Genova non appare sotto più - 580 - di un aspetto molto dissimile da quanto visto da altri illustri ospiti stranieri: le caratteristiche paesaggistiche e le strutture urbanistiche ed architettoniche della città, nonché il carattere chiuso e scontroso degli abitanti sono temi, gli uni e l’altro, sui quali più a lungo si intrattiene il de Moratin, senza peraltro dirci nulla di nuovo, anche se il suo linguaggio risulta sovente di particolare tono ammirativo. Delle sue annotazioni, proprio invece per il fatto di. essere esse piuttosto inusitate, appaiono assai interessanti quelle relative alle tre pubbliche biblioteche cittadine: quella di S. Ambrogio, quella dei Missionari vicina a S. Matteo, e quella, infine, dell’abate Berio allora situata nei pressi della chiesa di S. Paolo nella zona dell’attuale piazza Campetto. Uno scorcio, questo, della vita culturale della Genova settecentesca presentato in lusinghiera maniera, e ai nostri occhi tanto più apprezzabile in quanto tracciato da un autentico competente in materia, dato che nei suoi viaggi nei diversi paesi d’Europa il de Moratin si occupava, tra l’altro, per incarico del suo mecenate Manuel Godoy, principe de la Paz y de Bassano, di studiare proprio l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche biblioteche. (Silvano Balestreri) Clara Cipollina, Gavi nel settecento, in « Novinostra », XII, 1972, n. 2, pp. 12-22. Si tratta di una panoramica dello stato del territorio del Capitaneato di Gavi nel XVIII secolo, con dettagliati riferimenti alle sue strade ed ai suoi mulini. Chiudono il lavoro interessanti notazioni sulla locale fortezza effettuate in buona parte su documenti cartografici e relazioni del Vinzoni. Isabella Corvetto, L’elaborazione della « Reina Hester » di A. Cebà, in « La Berio», XII, 1972, n. 2, pp. 6-21. Accurato e diligente esame di un manoscritto scritto da più mani, la seconda delle quali viene supposta autografa sulla base di un’attenta e minuziosa analisi della grafia, messa in relazione con la storia conosciuta della composizione della tragedia, stampata a Genova nel 1615. L’analisi, in cui appare prevalente l’interesse filologico su quello critico-letterario, non manca tuttavia di pertinenti annotazioni sull’opera, vista come espressione della notevole operosità letteraria genovese in pieno dima l“ (G. 0«e> M. Da Passano, Il processo di costituzionalizzazioite nella Repubblica ligure (1797-1799) in Materiali per una storia della cultura giuridica, raccolti da G. Tarello, III/l, Bologna, Il Mulino, 1973, pp. 77-260. Nel panorama degli studi che con interesse sempre crescente sono stati dedicati in questi ultimi anni ai processi di costituzionalizzazione e di codificazione in Europa ed in America, la storiografa giuridica italiana si presenta alquanto lacunosa e, per Genova in particolare, del tutto inesistente. E’ da accogliere pertanto con vivo interesse il lungo studio del Da Passano il quale, ponendo ordine nella documentazione giuridica e utilizzando la vasta libellistica, ha ricostruito le vicende e analizzato i - 581 - risultati della prima costituzione della Repubblica ligure (1798). Per Genova, come per il resto d’Europa preso d’assalto dalle idee rivoluzionarie e dalle armate francesi, si trattò di un periodo tumultuoso anche nella legislazione. Basti pensare che un anno dopo ( 1799) la costituzione cessò di aver vigore e fu sostituita da una nuova solo nel 1802. Questa seconda, che ci auguriamo possa essere a sua volta oggetto di uno studio, durò solo tre anni fino alla annessione della Repubblica alla Francia (1805), e anche essa presenta motivi di interesse dal momento che esprime il rigetto delle più avanzate istanze rivoluzionarie rispecchiando la stabilizzazione voluta da Napoleone ed accolta dalla costituzione francese dell’anno Vili. A tal proposito è indicativo che al suo processo di formazione abbia partecipato il Corvetto. Anche per futuri studi potrà essere un’ottima base il saggio del Da Passano, che si fa soprattutto apprezzare per la vastità della documentazione e per il costante e preciso riferimento del dato giuridico alla realtà storica del periodo. Il saggio è diviso in due parti, la prima dedicata al dibattito genovese sui principi fondamentali che dovevano reggere la nuova struttura costituzionale, e la seconda alle singole istituzioni viste nel loro concreto funzionamento. Il tipo di documentazione utilizzata è naturalmente diverso per le due parti, basandosi la prima sulla vasta libellistica, in gran parte anonima, fiorita in quegli anni, e la seconda su raccolte di leggi e documenti ufficiali di magistrature. Ma anche nell’analisi delle singole istituzioni si fa larga parte alle reazioni ed alle idee suscitate dalle innovazioni, per modo che l’A. appare sempre attento ad evitare le schematizzazioni ed i dogmatismi giuridici. Egli preferisce il costante confronto delle singole istituzioni non con astratti modelli costituzionali, costruiti sull’esempio francese, ma con la realtà giuridica e sociale che doveva incorporarle ed utilizzarle. Non si vuole con questo affermare che l’A. non metta in luce gli apporti visibili e le influenza indirette della costituzione francese, ma si vuol mettere in rilevo la capacità dell’A. di non considerarli solo formulazioni tecniche ma anche strumenti di azione politica e veicoli di ideologie. Una volta assunti tali presupposti si comprende come per il Da Passano il rilievo dato alla documentazione di natura non strettamente tecnica sui principi della costituzione, contenuta per lo più in periodici, sia stato il frutto di una scelta e, nei risultati, si è rivelato prezioso per comporre il complesso panorama istituzionale genovese di quegli anni. Tramite questi scritti si riesce a capire, ad esempio, come l’assunzione di modelli francesi, e di uno piuttosto che di un altro, più che scarsa propensione alla originalità stia a significare la coincidenza degli obbiettivi e degli interessi di cui sono ormai espressione i « giacobini » in Francia come a Genova (pp. 89-90). Ancora più sintomatiche, al riguardo, sono le discussioni intorno al principio di eguaglianza che, mutuato anch’esso come formulazione tecnica dalla costituzione francese del 1795, provoca disaccordi nel momento in cui dal piano della democrazia politica e giuridica si passa a quella che oggi diremmo democrazia economica e sociale (p. 101). Accaniti contrasti trovano poi i principi, importati d’oltralpe, riguardanti il diritto successorio e i fedecommessi, e quelli sulle corporazioni. Si può aggiungere, per concludere, che il Da Passano, alla fine del suo saggio, riporta una piccola ma interessante parte della documentazione raccolta negli archivi e nelle biblioteche di Genova e di Parigi, completando in tal modo con una significativa esemplificazione il suo pregevole contributo. (Vito Piergiovanni/ - 582 - Teofilo Ossian De Negri, Il feudo di Carrosio e il principio della « sovranità territoriale nel Settecento, in Miscellanea di geografia storica e di storia della geografia nel primo centenario della nascita di Paolo Revelli, Genova 1972, pp. 33-74. Il problema dei collegamenti terrestri con le terre padane, così acuto e pressante ai giorni nostri, è un po’ il problema di sempre per la città di Genova. Problema di ardua risoluzione per le implicazioni d’ordine storico, geografico, economico, politico e tecnico che hanno creato da sempre difficoltà di notevole peso. L’A. esamina la situazione venutasi a creare alle spalle di Genova sulla importantissima via della Val di Lemme con il passaggio del territorio di Carrosio, dapprima « feudo imperiale » degli Spinola e dei Lercari, allo stato sabaudo. L’avvenimento (sancito dai preliminari per la pace di Vienna del 1735, e poi confermato dal trattato del 1738 che assegnò ai Savoia i feudi impropriamente detti « delle Langhe ») fu di capitale importanza per la vecchia Repubblica che veniva a trovarsi, in posizione chiave sull’arteria più vitale per i suoi traffici terrestri, non più qualche signorotto che si accontentava di esigere pedaggi, ma uno stato in piena fase di espansione, da sempre desideroso di ottenere uno sbocco al mare più agevole di quelli che già possedeva nella Riviera di Ponente; uno stato che basava la sua potenza proprio su quel concetto di territorialità — derivatogli dalla origine feudale dei Savoia — che la Repubblica aveva sempre considerato marginale ancora impegnata in un ormai anacronistico concetto di preminenza economico-commerciale. Testimonianza dell’importanza del modesto paese della Val di Lemme è la cosidetta « guerra di Carrosio » che, nel 1798, vedrà la neonata Republica Ligure napoleonica impegnarsi in quello che il De Negri stesso (Storia di Genova) chiama un « tragico carnevale ». Il problema di aggirare Carrosio sabauda doveva restare soltanto teorico: l’ondata napoleonica che avrebbe preparato il campo all’incorporazione di Genova e dei suoi domini nel Regno di Sardegna era vicina. Restano, documento di un’epoca quanto mai interessante per la storia della nostra città, gli studi e le relazioni di chi fu incaricato di escogitare nuovi passaggi. In questo settore lo studio si fa stretta-mente geografico ponendo in evidenza, attraverso i progetti dell’epoca, la grande difficoltà frapposta dall’impervio territorio appenninico all’aggiramento di una strettoia apparentemente di facile superamento. Matteo Vinzoni, in particolare, fra i progettisti settecenteschi lavorò molto a progettare varianti che, se hanno il valore tecnico di opere di ingegneria viaria, testimoniano anche della necesità per Genova di cercare un nuovo equilibrio commerciale che consentisse la sopravvivenza della Repubblica aprendole i mercati lombardo-emiliani qualora le fossero preclusi quelli lombardo-piemontesi. L’A. pone in particolare evidenza l’aspetto pratico dell’opera del Vinzoni, sempre accurato e preciso nell’esaminare le possibilità reali di eseguire le opere progettate, e conclude il brillante saggio — condotto con il ben noto acume storico — richiamando il lettore all’interesse che episodi apparentemente di poco momento, possono avere per la migliore comprensione dei grandi avvenimenti storici. (Pietro Barozzi) - 583 - T. O. De Negri, Matteo Vinzoni, in « La Casana », 1971, n. 4, pp. 17-27. L’A. prende le mosse dal volume che, ad iniziativa dell’istituto di Scienze Geografiche della nostra Facoltà di Magistero, venne stampato per onorare la memoria di Paolo Revelli nel centenario della nascita. Gli argomenti trattati hanno suscitato l’interesse degli studiosi della geografia ligure, tanto da far ritenere imminente la programmazione di un atlante storico generale della Liguria. Il De Negri, nel commentare l’iniziativa, segnala l’opportunità di ricordare l’opera di Matteo Vinzoni, cartografo ufficiale della Repubblica di Genova e caposcuola della cartografia settecentesca. (Giovanni Pesce) Giuseppe Felloni, Le circoscrizioni territoriali civili ed ecclesiastiche nella repubblica di Genova alla fine del secolo XVIII, in « Rivista Storica Italiana », LXXXIV, 1972, pp. 1067-1101. Partendo dalla constatazione di una lacuna paralizzante per il progresso degli studi sulla storia genovese, FA. descrive l’articolazione dell’amministrazione territoriale della repubblica nel 1777, precisando le relazioni esistenti tra circoscrizioni civili, parrocchiali e diocesane. Il lavoro offre perciò una base territoriale di confronto per Fuso dei documenti esistenti negli archivi pubblici ed ecclesiastici ed è corredato da una carta geografica in cui sono raffigurati i vari distretti amministrativi della repubblica. Pier Augusto Gemignani, Osservazioni di un medico del '600, in « Genova », n. 12, dicembre 1969, pp. 36-40. L’A. esamina le acute osservazioni climatologiche e di meteoropatologia di un medico igienista « ante litteram », Bartolomeo Paschetti, veronese, già discepolo del Mercuriale e poi medico della famiglia Pallavicino, contenute nel suo libro edito in Genova nel 1602 e intitolato: «Del conservare la sanità et del vivere dè Genovesi». José-Gentil da Silva, Forza-lavoro, deprezzamento della moneta e strategia del capitale nel XVII secolo. (Elementi genovesi per un modello sull’instaurazione dei rapporti capitalistici di produzione), in « Rivista Storica Italiana », LXXXIV, 1972, pp. 945-977. L’A. auspica la creazione di un modello onnicomprensivo che leghi tra loro popolazione, produzione, moneta e metodi di arricchimento in un’economia capitalistica. Per Genova, le attuali conoscenze storiche consentono di intravvedere alcune relazioni strutturali, ma — per la loro incompletezza — non si prestano ancora ad unificarle in uno schema d’insieme. , ,. - 584 - Hermann Kellenbenz, Cristoph Furtenbach a Genova e il suo testamento, in «Rivista Storica Italiana», LXXXIV, 1972, pp. 1102-1113. Fornisce alcune notizie sui Furtenbach, mercanti tedeschi assai attivi tra il sec. XVI ed il XVII. L’A. si sofferma in particolare su Cristoph e, attingendo in parte al suo testamento ed in parte ad altre fonti, dimostra che fino alla morte (1643) egli svolse a Genova un’importante attività economica, dapprima come agente dei Fuggei e poi in proprio, insieme con alcuni congiunti. ^ f ) G. Malandra, Una memoria settecentesca sull’ospedale di San Paolo, in « Atti e memorie della Società Savonese di storia patria», n.s. III, 1970, pp. 143-146. Pubblica una relazione (tratta dal fondo Archivio Pubblico dell’Archivio di Stato di Savona) sulle origini e sulla vita dell’ospedale, redatta nel 1727, probabilmente per rivendicare l’autonomia dell’ospedale dall’autorità vescovile, dal notaio Filippo Alberto Pollero, che potè lavorare su documenti del tempo. G. Malandra, L’oratorio dei Beghini a Savona, in «Atti e memorie della Società savonese di storia patria, n.s. III, 1970, pp. 147-153. L’oratorio, dedicato alla Natività di Maria, innalzato nel 1602 dall’omonima Compagnia, fu demolito nel 1683. Si pubblica in questa sede la relazione tecnica e un progetto del 1691 per la ricostruzione dell’oratorio, del quale oggi non rimangono che poche tracce. Giovanni Massa, Pietro Paleocapa (1788-1868), in «Atti e Memorie della Società Savonese di Storia patria», n.s, IV, 1970-71, pp. 123-136. Breve profilo del Paleocapa, ingegnere e uomo politico, studioso di materie tecniche, organizzatore e realizzatore di varie opere pubbliche (ferrovie, opere idrauliche), più volte ministro nel governo piemontese e noto anche per l’attenzione ri volta ai progetti del taglio dell’istmo di Suez. La commemorazione, fatta nell’ambiente savonese, lo ricorda come promotore dello sviluppo ferroviario piemontese, che apriva, con il tronco Torino-Savona, a questa città importanti sbocchi commerciali; il progetto era stato presentato in Parlamento appunto dal Paleocapa. Buona parte dell’articolo sottolinea gli effetti benefici che le ferrovie ebbero sullo sviluppo economico i Savona. (G. Oreste) Leo Morabito, Il giornalismo giacobino genovese (179/-1799), Torino, Associazione Piemontese dei Bibliotecari, pp. 293. L’importanza del periodo della Repubblica Democratica Ligure come fase di incubazione di idee e di principi che si sarebbero poi sviluppati ed affermati nel corso del Risorgimento appare sempre più vasta e decisiva a mano a mano che vengono approfondendosi gli studi ad essa relativi. L’apporto di uomini politici locali non meno che di molti emigrati provenienti dalle diverse regioni della Penisola al giornalismo genovese di quel tempo è stato quanto mai vasto ed elaborato, e, soprattutto, ricco di elementi concreti dalla consistenza sovente di autentiche anticipazioni. Se si pone mente che tra i compilatori di questi fogli democratici fu anche il padre di Giuseppe Mazzini, il dottor Giacomo, ci si trova in mano una chiave atta a disserrare forse più di una porta di quello che in seguito fu il progressivo evolversi del pensiero politico del settore di punta degli ambienti progressisti di Genova, e dell’azione di essi ai fini del raggiungimento dell’unità nazionale degli italiani. Parrà strano, ma, nonostante il suo significato e il suo valore, il giornalismo giacobino genovese — quello, tanto per intenderci, che abbraccia l’arco di anni che vanno dal 1797 al 1799 — non aveva avuto sino ad oggi una trattazione realmente esauriente: non erano sì mancate monografie rivolte ad illustrare le vicende di questo o quel periodico (e tra esse ve ne è una, pregevolissima, dedicata da Vito Vitale, proprio nelle pagine degli « Atti della Società Ligure di Storia Patria », al « Redattore Italiano »), e, più di recente uno studio di carattere generale di Renzo De Felice che, trattando in un grosso volume della stampa giacobina di ogni parte d’Italia, non aveva ovviamente tralasciato di dedicare un ampio capitolo ai giornali genovesi di quella tendenza. Difettava però, sino ad oggi, una pubblicazione, che, approfondendo il tema, cercasse di dare di esso una panoramica il più possibilmente completa. A questi intendimenti ha inteso ora rispondere con il suo volume Leo Morabito, e la sua risposta è stata più che degna e convincente, tanto per l’ampiezza della ricerca quanto per l’approfondimento dei particolari. Si tratta, insomma, di un lavoro condotto sotto il segno della diligenza più rigorosa, e impostato con apprezzabile senso interpretativo: un lavoro, in una parola, davvero esemplare. Lo riconosciamo con compiacimento associandoci alle elogiative valutazioni espresse nella prefazione al volume da Carlo Visone, Assessore alla Cultura della Regione Piemonte. In sintesi si può infatti concludere che le ricerche condotte dal Morabito gli « hanno consentito di accertare l’uscita di ben trenta periodici nei due anni e mezzo intercorrenti fra la costituzione della Repubblica Ligure e la fine del 1799. Sette di essi non sono comparsi in alcuno degli elenchi bibliografici dedicati a questo periodo: di parecchi altri erano finora rimasti ignoti i numeri o i manifesti di pubblicazione, qui illustrati». Molto è, dunque, quanto di nuovo questo volume mette a disposizione degli studiosi, e proprio per siffatta ragione è facile prevedere che il merito suo ancor più potrà valutarsi in seguito quando sulla sua preziosa traccia si saranno condotte altre e ancor più approfondite ricerche relativamente a questo periodo di così profonda eco nella storia di Genova non meno che di quella di tutta la nazione italiana. (Leonida Balestreri) G. Penco, Nuovi documenti della Certosa di Savona, in « Benedictina », XVI, 1969, pp. 283-289. Ad integrazione dell’articolo già segnalato in « Asli », n.s., XI, p. 454, pubblica 10 documenti del secolo XVIII. - 586 - Sacra congregatio pro causis sanctorum. Beatificationis et canonizationis servae Dei Virginiae Centurione Bracelli... positio super introductione causae et super virtutibus ex officio exarata., Roma 1971, pp. 554. Raccolta amplissima di materiale documentario, in gran parte inedito, sulla vita della fondatrice delle Figlie di N. S. al Monte Calvario (Brignoline). Vi si ripubblicano anche brani della vita scritta dal P. Antera di San Bonaventura e, soprattutto, l’inedito Embrione della vita, scritto dal nipote della Bracelli, Scipione Alberto Squarciafìco. R. Savelli, Un seguace italiano dì Selden: Pietro Battista Borghi, in Materiali per una storia della cultura giuridica, racdolti da G. Tarello, III/l, Bologna, Il Mulino, 1973, pp. 13-76. La migliore conoscenza della storia delle istituzioni e della cultura giuridica genovese rientra tra gli scopi di una interessante iniziativa dell'istituto di Filosofia del diritto dell’IJni vers ita di Genova, i Materiali per una storia della cultura giuridica, raccolti da G. Tarello e giunti al loro terzo anno di vita. A Genova sono dedicati due degli studi del terzo volume, aperto da un articolo del Savelli riguardante una importante opera della letteratura giuridica genovese del Seicento. Nella polemica dottrinaria sulla libertà dei mari, che fiancheggiò nella prima metà del secolo XVII la lotta fra le maggiori potenze marittime europee, fu presente, infatti, anche la Repubblica di Genova con un libro di Pietro Battista Borghi intitolato De Dominio Serenissimae Genuensis Reipublicae in Mari Ligustico. L’opera, pur con difetti di originalità dovuti all’influsso sull’autore delle opinioni del Selden, ebbe una larghissima diffusione soprattutto fuori d’Italia. Una gran parte di tale fortuna fu certo dovuta alla circostanza che i polemisti olandesi, il Graswinckel in particolare, attraverso l’opera del Borghi vollero controbattere la tesi di Selden, contro il quale non osavano rivolgersi direttamente per non compromettere ulteriormente i rapporti con gli inglesi. Al di là di questo fatto contingente e dei suoi intrinseci limiti dottrinali, molto ben individuati dal Savelli, l’opera del Borghi si impose anche perchè portatrice delle istanze di uno Stato che, pur ridimensionato come potenza politica, conservava una certa importanza nel campo dei traffici marittimi. Questa somma di motivi concorse a far circolare e studiare questo libro e lo rende ancor oggi meritevole di una attenta considerazione ai fini della ricostruzione della storia e della cultura giuridica seicentesca. In tale prospettiva, oltre che per il parallelo interesse rivestito per la storia della cultura genovese e della sua collocazione in ambito europeo, il Savelli propone una riconsiderazione del libro del Borghi e della sua influenza sul dibattito per la libertà dei mari. Già una studiosa olandese, J. K. Oudendijk (Status and extent of adjacent waters - A historical orientation, Leyden 1970, pp. 72-74), facendo di recente una specie di consuntivo storico del problema delle acque terirtoriali da Grazio in poi, ha dedicato particolare attenzione allo scrittore genovese, attribuendogli, in definitiva, l’importanza che già i contemporanei gli avevano riconosciuta. Attraverso tale rivalutazione, pur nei limiti confessati di un’opera che vuol essere di orienta- - 587 - mento e non di discussione di problemi storici, la Oudendijk ha implicitamente sottolineato sia l’esigenza di un più approfondito esame del libro, spesso citato ma mai studiato nella storiografia internazionalistica, sia la necessità di una migliore conoscenza di un autore noto per lo più indirettamente come corrispondente di illustri personaggi a lui contemporanei. 3i traita di due 'acune che l’A. colma in maniera completa: egli ha infatti compiuto, e ne dà conto nella prima parte, una approfondita ricerca biografica, ricca di inediti (alcune lettere sono anche pubblicate in appendice), mentre nella seconda parte ha proposto un intelligente esame dell’opera del Borghi, condotto attraverso continui e puntuali riferimenti alle diverse situazioni storiche che hanno determinato gli sviluppi teorici. Il Savelli identifica la ragione prossima della stesura del libro nella necessità per la Repubblica di inserirsi nel dibattito sulla libertà dei mari con un’opera che difendesse le sue pretese di dominio sul mar ligure, ed anche per questa parte si può ascrivere a merito dell’A. il reperimento di nuova documentazione. Opportunamente inserita in questo contesto l’opera del Borghi mostra più chiaramente pregi e limiti. I pregi derivano soprattutto dal fatto che il saggio « costituisce indubbiamente un salto di qualità nel livello della pubblicistica genovese, riuscendo a dare una dimensione di carattere generale al problema del Mar ligure, e immettendo al contempo nella cultura genovese la conoscenza del dibattito europeo » (p. 39). I difetti stanno soprattutto in una certa approssimazione dell’argomentazione giuridica dovuta anche, è opportuno ricordarlo, alla difficoltà di conciliare una posizione favorevole al controllo di tutto il Mar ligure da parte di Genova con la negazione del medesimo diritto alla Spagna attraverso il Marchesato di Finale. Il concetto di « dominio di fatto », a cui Borghi finirà per appellarsi, verrà smantellato da Graswinckel, il quale riuscirà ad imporre le idee graziane di libertà dei mari fondate sul diritto naturale che non ammette, se non molto limitatamente, il dominium sulle acque. Il merito teorico maggiore di Grozio rispetto a Selden ed a Borghi sta proprio, come rivela 1 A. nella conclusione della sua acuta analisi, nell’essere riuscito a difendere gli interessi olandesi, contrastanti con quelli inglesi e genovesi, postulando un diritto universale. (Vito Piergiovanni) M. Scarrone, Un'antica veduta del Castellare) di Albisola, in « Atti e memorie della Società savonese di storia patria », n.s. Ili, 1970, p. 153. Pubblica una tavola del 1719 del Castellaro allegata agli atti di una causa per diritto di passaggio che si tenne nella curia vescovile di Savona. F. Siccardo, La Madonna della Misericordia a Parigi, in « Atti e memorie della Società savonese di storia patria », n.s., Ili, 1970, pp. 57-70. Nel 1661 l’agostiniano fratei Fiacre, per ordine della Regina madre di Francia, partiva da Parigi per collocare in tre santuari mariani una copia del Trattato dei Pirenei. Diretto a Loreto, venne costretto da una tempesta a sostare a Savona dove, visitato il santuario della Misericordia, esprimeva il desiderio di introdurne il culto a Parigi. Assicuratosi l’appoggio delle due regine di Francia, nel 1662 commissio- — 588 — nava una statua della Madonna a Genova, che venne successivamente collocata nella chiesa di Notre-Dame-des-Victoires. Gabriella Sivori, Il tramonto dell’industria serica genovese, in « Rivista Storica Italiana », LXXXIV, 1972, pp. 893-944. Nel momento del suo massimo fulgore, intorno al 1565, l’industria serica genovese era rivolta soprattutto ai mercati esteri e dava lavoro, a tempo pieno o solo per una parte dell’anno, a 30-35 mila persone. A partire dagli ultimi decenni del Cinquecento, tuttavia, la produzione entrò in una crisi inarrestabile e progressiva, che viene documentata nei tempi e nell’entità sino alla fine del Seicento. Per chiarirne le ragioni, dopo aver descritto l’ordinamento del lavoro, FA. esamina la struttura dei costi di produzione, mettendo in rilievo l’elevata incidenza del costo della seta greggia e della tessitura. Queste due voci furono quelle su cui i setaioli fecero maggiormente leva per combattere la crescente ripulsa dei mercati esteri per i tessuti genovesi. Non mancarono tentativi per adulterare le qualità merceologiche dei prodotti e per liberarsi dal conformismo vincolante ai tipi tradizionali; i rimedi adottati non consentirono di rovesciare la tendenza al declino per la rigidità eccessiva dell’apparato produttivo, per l’incapacità del governo di offrire un aiuto sostanzioso agli esportatori e per le politiche protezionistiche introdotte negli altri paesi. (g. f-) Carmelo Trasselli, Finanza genovese e pagamenti esteri (1629-1643), in «Rivista Storica Italiana », LXXXIV, 1972, pp. 978-987. L’Archivio di Stato di Palermo ha ricevuto in dono un gruppo di documenti, smembrati da un archivio privato genovese e riguardanti i finanziamenti effettuati dalla tesoreria del regno di Sicilia a favore della monarchia spagnola dal novembre 1629 al gennaio 1643. Le somme, inviate soprattutto a Genova od 2 Milano, ma tramite la piazza ligure, ammontano a quasi 7 milioni di scudi siciliani e provengono presumibilmente da anticipazioni a breve termine che il tesoro siciliano ha ricevuto da finanzieri che operavano in Sicilia. L'A. descrive la distribuzione nel tempo di tali rimesse ed elenca sia i nomi dei mercanti che spiccano le lettere di cambio da Palermo (per lo più genovesi), sia quelli dei trassati nelle piazze d’arrivo, sia quelli dei beneficiari (principalmente rappresentanti 0 funzionari del governo spagnolo). (g- f.) SECC. XIX - XX Leonida Balestreri, Giuseppe Mazzini, momenti dì una grande vita, Genova 1972, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, pp. 67. Edita in occasione del centenario della morte di Mazzini, le cui celebrazioni ebbero con il 47° Congresso Nazionale di Storia del Risorgimento il loro momento culminante, questa opera è essenzialmente dedicata ai giovani. - 589 - Realizzata per iniziativa della Cassa di Risparmio di Genova e Imperia 1 edizione è stata pubblicata sotto gli auspici del Comitato Promotore per le celebrazioni mazziniane di Genova. L A. non si è lasciato però condizionare dalla particolare destinazione dell opera, alunni della scuola media, biblioteche scolastiche, istituzioni educative, ed ha contemperato la rigorosità dei documenti con l’efficacia stilistica. Ha così realizzato uno svelto volumetto i cui testi sono integrati dai disegni di Franco Resecco e dalla riproduzione di documenti e autografi mazziniani conservati presso l’istituto mazziniano di Genova. Il lettore, anche se non più giovane, può immediatamente delineare attraverso le pagine del libro la figura del patriota genovese ed i momenti fondamentali della sua ^ vita. L’A. ha sempre inquadrato il cammino umano ed il pensiero di Mazzini nell ambito dei gravi avvenimenti europei di quegli anni, nè ha tralasciato 1 influenza che altri pensatori politici e letterari ebbero sull’apostolo dell’indipendenza italiana. Nel capitolo conclusivo infine, il Balestreri compie un esame complessivo della figura mazziniana ed indica l’atualità del retaggio spirituale e del rigoroso messaggio morale che Mazzini ha lasciato alle generazioni future. (Victor Balestreri) Leonida Balestreri, La rivista «La Liguria illustrata» (1913-1916) e i suoi orientamenti politici e culturali, in Atti del VII Congresso nazionale di storia del giornalismo, Trieste 1972, pp. 57-79. La personalità di Amedeo Pescio, sagace illustratore della storia e del fol klore ligure, nonché giornalista di largo seguito tra il pubblico più qualificato, occupa un posto di rilievo nella storia della cultura a Genova nei primi decenni di questo secolo. Prova e misura del suo impegno di studioso e di divulgatore sono date, fra 1 altro, dalla rivista « La Liguria illustrata », da lui fondata e diretta per tutto i periodo tra il 1913 e il 1916 durante il quale essa ebbe vita. L’eccezionaiità del mo mento quello della preparazione dell’intervento e quello dei primi anni di guerra — in cui questa pubblicazione apparve rende le sue pagine singolarmente interessanti, come espressione di un sentimento nazionale di chiara origine risorgimentale e come il riflesso di posizioni letterarie sovente con tutta evidenza plasmate sui modelli dannunziani. . ., (Silvano Balestreri) Victor Balestreri, La Gazzetta di Genova e l’opera del suo direttore Giovanni M.onleone, in Atti del VII Congresso Nazionale di Storia del Giornalismo, Trieste 1972, Coana ed., pp. 80-94. La comunicazione presentata nel corso del VII Congresso Nazionale di Storia del Giornalismo, che aveva per tema il giornalismo italiano dal 1900 al 1918, delinea la funzione culturale e sociale che la Gazzetta di Genova svolse durante il periodo della sua pubblicazione, cessata nel 1922. Tratta anche di scorcio la figura del direttore Giovanni Monleone nell’ambito dell’indirizzo che impresse alla rivista. At- traverso l’esame delle pagine della Gazzetta di Genova l’A. ricostruisce un clima di vivacità umana ed artistica ormai spento nella nostra città. (Silvano Balestren) A. Borzacchiello, Mons. Angelo Cambiaso, vescovo di Albenga (1915-1946), Albenga 1966. Biografia di un vescovo poverissimo, con particolare accento all’azione pastorale da lui svolta tra le due guerre mondiali. Luigi Cattanei, Aspetti della cultura neoguelfa in Liguria. Pagine inedite del padre Atanasio Canata, in « Atti e Memorie della Società Savonese di Storia patria », n.s, IV, 1970-71, pp. 239-274. Preso spunto da alcune lettere di Pietro Sbarbaro al Tommaseo, l’A. rievoca il vivace ambiente letterario e politico savonese intorno al 1850-60, in cui gli scolopi intessevano una fitta trama di rapporti con la generale cultura italiana. L’analisi si concentra sulla figura del padre Canata, del quale sono stati messi in luce recentemente alcuni scritti in occasione del centenario della morte (1867): appunti letterari e tracce di lezioni che risentivano, anche con esplicite citazioni e richiami, di una atmosfera « giobertiana », in cui la lettura di scrittori e poeti, a cominciare da Dante, si inseriva in un clima di appassionata attualità. Il p. Canata, reso popolare dal capolavoro di G. C. Abba, portava nel suo insegnamento una passione patriottica che si nutriva anzitutto di culto dantesco (annualmente leggeva e commentava una intera cantica e faceva imparare a memoria dagli alunni i canti più belli) e sotto lo stimolo del pensiero di Foscolo, Gioberti, Tommaseo, faceva di Dante un emblema di storia viva. Un siffatto spirito si ritrova anche nelle successive pagine intorno al Petrarca, visto attraverso il pregiudizio romantico-risorgimentale del confronto con Dante, ma con acume critico notevole e sensibilità di lettore di poesia, doti che tornano lungo tutta l’analisi della storia letteraria italiana tracciata fino ai maggiori dell’Ottocento. Tuttavia lo schema giobertiano non è ciecamente accolto ma ripensato anche con at teggiamenti originali, e sopratttutto con uno stile incisivo personale e nervoso, che corrisponde appieno al focoso temperamento del p. Canata, « impegnato » nel suo insegnamento come religioso e come patriota. L’A. segue passo passo e commenta puntualmente le annotazioni critiche, facendo risaltare una immagine assai viva e interessante di quello scrittore, che si sentiva maestro di vita prima che critico di letteratura. Seguono alcune lettere inedite di P. Sbarbaro e del Canata a Tommaseo; del Canata a G. B. Niccolini; del p. Garassini e del p. Leoncini al Tommaseo. (G. Oreste) Nello Cerisola, Storia delle industrie imperiesi, Savona 1973, editrice Liguria, pp. 601. Opera storica e di consultazione, frutto di paziente lavoro e minuziosa ricerca. Nella prefazione avverte l’Autore: «... non credevamo di trovare tanto materiale per una storia industriale localizzata ad una provincia territorialmente modesta, che - 591 - molti conoscono, ma che altrettanto ritengono scarsamente importante sotto il profilo industriale ». Il volume è così lievitato assumendo una consistenza ed un rilievo notevoli. Nello Cerisola ricostruisce la storia delle industrie della provincia d Imperia, dalle più antiche sorte intorno al 1850 a quelle che hanno pochi anni di esistenza. I dati, anche se sono riportate notizie sino alla metà del 1972, possono ritenersi aggiornati al periodo compreso tra il 1970 ed il 1971. Di ogni azienda vengono ricordati i personaggi e le date significative non disgiunte dal momento storico in cui si sono collocati. Il volume dopo aver tracciato l’evoluzione dell’industria imperiese dalle prime modeste attività fino al presente proteso verso il futuro, passa in rassegna i vari settori aziendali. Qui sono rappresentati una varietà d’industrie veramente insospettata, che esula dalle tradizionali istituzioni locali deH’industria olearia, molitoria o floricola. Una nutritissima bibliografia, l’indice dei nomi e materiale fotografico, completano l’opera che si costituisce oltre che momento di studio, come una nitida imma-gine dell’operosità imperiese. (Vktor ^ Emilio Costa, Il Regno di Sardegna nel decennio 1848-1858, in Bibliografia dell’età del Risorgimento, in onore di Alberto M. Ghisalberti, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1971, vol. I, pp. 467-566. Questa ampia accuratissima rassegna bibliografica costituisce una delle parti dì maggiore interesse di una grandiosa opera in tre volumi, che, volta ad onorare la figura di quell’illustre maestro di studi storici che è Alberto M. Ghisalberti, onora nel più degno dei modi tutta la cultura italiana. La onora e, nel tempo medesimo, la potenzia per la validità, in vero fuori dell’ordinario, dello strumento di lavoro che essa fornisce agli studiosi relativamente alle ricerche dedicate ad un periodo tra i più densi di eventi della storia italiana. Chi ha dimestichezza con certo genere di indagini e di studi sa infatti quanto valga il sussidio di adeguati repertori bibliografici, soprattutto ai fini di evitare il peso di ricerche preliminari lunghe e faticose e sempre gravate dal timore di incorrere in deplorevoli omissioni. Se teniamo presente che per aver sottomano una bibliografia delle regioni dell’antico Regno di Sardegna, bisogna, piaccia o non piaccia, fare capo a quella redatta da Antonio Manno, ma ormai vecchia di un’ottantina d’anni, ci si rende conto dell’importanza che necessariamente riveste ogni nuova compilazione di siffatto genere relativa a questo importante settore, Non è soltanto una necessità di aggiornamento, ma anche quella della stesura in termini di maggiore scientificità che impone la redazione di nuovi lavori di adeguata ampiezza. Ciò che è stato realizzato da Emilio Costa risponde come di meglio non si potrebbe alle esigenze prospettate. Per darci un quadro del panorama bibliografico relativo alle vicende del Regno di Sardegna nel corso di un solo decennio il Costa ha redatto una trattazione di cento fittissime pagine, di una consistenza quale forse mai nessuna precedente raccolta in argomento è stata in grado di presentare. Ma affermare questo non è dire tutto, nè, tanto meno, indicare ciò che la compilazione racchiude di più notevole quanto a significato e valore. - 592 - Ampia e diffusa senza essere inutilmente dispersiva con il riferimento a pubblicazioni che non abbiano un loro positivo contenuto, La bibliografia del Costa offre virtualmente la traccia per lo sviluppo di qualsiasi argomento relativo al tema ed a! periodo considerato. L’accorta suddistinzione dei vari capitoli — ben ventotto, non pochi dei quali a loro volta divisi in paragrafi — offre allo studioso il panorama immediato di quanto può interessargli, sgombrandogli il campo dalle difficoltà e dagli ostacoli connessi alle esigenze di uno tra i primi lavori preliminari di ricerca, quello appunto della individuazione degli opportuni riferimenti bibliografici. Il valore di questa compilazione del Costa ancor più che non al presente potrà pertanto essere meglio considerato in futuro, tanto sotto l’aspetto di strumento atto a semplificare e facilitare i lavori che in questo campo i nostri studiosi vorranno intraprendere quanto — e a noi sembra cosa ancor più importante — come guida, e addirittura si direbbe come indirizzo, meditato ed approfondito, dei lavori stessi. . (Leonida Balestreri) Emilio Costa - Bianca Montale, « La Liguria », in Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di Alberto M. Ghisalberti, Firenze, Leo S. Olschki editore, 1971, vol. I, pp. 567-613. Quello che Genova e, in genere, l’intera regione ligure hanno rappresentato come insostituibile elemento di propulsione del processo risorgimentale italiano viene prospettato una volta di più, in una forma tanto evidente da poter quasi essere definita visiva, da questa organica rassegna bibliografica, in cui tutto è fissato e raccolto di ciò che ha significato fatti concreti e valori reali del moto di rinascita unitaria del nostro Paese. Alcune dense equilibrate pagine di introduzione, e una razionale suddistinzione della materia portano immediatamente il lettore in medias res, evitandogli lo sforzo di quella preliminare ricerca bibliografica che tanto — e sovente con ben scarso frutto — appesantisce la preparazione di ogni lavoro di ricostruzione storica di un certo impegno. Le annotazioni — o, meglio, i commenti complessivi — che accompagnano ogni capitolo in cui la bibliografia è distinta danno una sorta di indicazione ragionata e qualificante del valore del complesso degli scritti citati. La portata pertanto di questa opera del Costa e della Montale va bene al di là di quanto da compilazioni del genere si sia abitualmente soliti attenderci. In certo senso si può affermare che in queste pagine, più che il puro sussidio bibliografico, si traccine le linee essenziali di un’infinità di possibili lavori sul Risorgimento in Liguria, lavori molti dei quali attendono ancora i loro illustratori. In particolare questo ci part possa dirsi, oltre che per la vita economica della Genova del tempo, per quanto si attiene all’opposizione cattolica in genere e al giornalismo, in ispecie, che di questa corrente ideologica era l’espressione più diretta. Da sottolineare inoltre l’importanza dei riferimenti in ordine, ad esempio, all’opera del clero mazziniano e democratico, e, ancor più, relativamente all’insurrezione del 1849 e ai moti del 1857, episodi che hanno significato in maniera del tutto particolare di taluni aspetti, veramente unici, della partecipazione del popolo della Superba all’azione risorgimentale. (Leonida Balestreriì - 593 - Gherardo Dal Colle, O.F.M. Cap., Le tombe dei Galliera nel nostro convento di S. Nicolò in Voltri, in « L’Italia francescana », 45, 1970, pp. 87-97. Documenti relativi alla costruzione di una cripta fatta scavare, nel 1865, sotto la chiesa per la tomba di famiglia. Luigi di Paola, L’Istituto Idrografico della Marina-, 1872-1972, Genova 1972, F.lli Pagano ed., pp. 98, 10 tavole fuori testo. L’Istituto Idrografico della Marina, arroccato a passo Osservatorio sulla collina soprastante il Porto, è un’istituzione gelosamente genovese. E come tanti aspetti della nostra città è maggiormente conosciuto in tutto il mondo che dai genovesi stessi. Nel 1972 è ricorso il primo centenario della fondazione. Per tale ricorrenza e stato edito un prezioso volume, fornito di numerose fotografie e riproduzioni, che ricostruisce la vita dell’istituto dai primi anni alle attuali dimensioni. Fondato daH’ammiraglio Magnaghi, l’allora Ufficio Idrografico della Marina ha saputo conquistare nel suo primo secolo di esistenza un posto di rilievo in campo nazionale ed internazionale non solo militare. Gli uomini dell’istituto hanno infatti operato in tutto il mondo dalle terre polari con la spedizione Nobile, alla lontana Cina, ai mari africani, fornendo' carte nautiche e rilievi che oggi costituiscono la base per ogni realizzazione cartografica e per una sicura navigazione. Il volume edito a cura dell’Ufficio Storico della Marina con la collaborazione dell Istituto Idrografico, è presentato da una prefazione dell’ammiraglio Capo di Stato Maggiore Giuseppe Rosselli Lorenzini. Ricorda uomini e fatti con una rigorosa documentazione fotografica e testimoniale. (Victor Balestreri) Giorgio Doria, Investimenti e sviluppo economico a Genova alla vigilia della prima guerra mondiale. Volume primo-. Le premesse (18D-1882), Milano, Giuffrè, 1969, pp. IX, 399. In queste « premesse » a cui seguirà nel 1973 un più ampio volume dedicato al periodo 1882-1915, l’A. affronta una serie di interrogativi a cui si è trovato di fronte studiando in profondità gli orientamenti e le caratteristiche degli investimenti di capitali genovesi nel primo quindicennio di questo secolo e nell’ultimo ventennio del secolo precedente. Per rispondere a questi interrogativi egli è stato tratto a procedere a ritroso, spingendosi molto indietro nel tempo ed inseguendo, nell’arco di un settan-tennio, le alternative e le vicende degli investimenti genovesi e quelle dei capitali stranieri. « Ho cercato di individuare — sono parole dell’Autore — la dimensione, la successione temporale e le interconnessioni dei principali fenomeni economici che avevano come teatro la città o come protagonisti i suoi cittadini. Il tentativo è stato quello di cogliere i trasferimenti del capitale dalle rotte del Piata e del Mar Nero alle industrie di Sampierdarena e della Val Polcevera, ai caseggiati che si arrampicano sulle colline di Genova, dagli ” scagni ” dell’angiporto alle miniere di Sardegna e agli zuccherifici della pianura padana, dalle banche dei ” carruggi ” o di Via Nuova alle speculazioni sull’Esquilino; oppure la calata dei marchi e delle sterline, attraverso - 594 - le lunghe trafile di accorte mediazioni, fino ai piroscafi, ai gasometri, agli omnibus, agli altiforni di Liguria ». Attingendo ad una vastissima bibliografia ed a materiali reperiti in laboriose ricerche presso gli archivi di Genova, di Torino, di Roma, di Parigi e di Londra, FA. ha ricostruito un quadro vivo ed efficace delle tormentate vicende dell’economia genovese dall’alba del secolo scorso alla vigilia del decollo che si profila negli anni compresi fra il 1869 ed il 1882, con la crisi della vela e la concentrazione dell’armamento, l’affermarsi della siderurgia, la nascita dei colossi finanziari nel campo dell’industria saccarifera, l’estendersi dei servizi pubblici, in cui tuttavia prevale l’iniziativa straniera, la proliferazione degli istituti di credito e la dura lezione del crollo bancario del 1874-75, gli investimenti alternativi rappresentati dalla grande espansione urbana e dal rinnovamento edilizio, la clamorosa entrata delle banche nella speculazione immobiliare, la massiccia penetrazione del capitale straniero, ed in particolare tedesco, e la corrispondente ripresa di deflusso di capitale da Genova verso la Sardegna, il basso Alessandrino, l’Emilia, la Romagna, la «bassa» veronese, Torino e la Toscana. Si tratta di un solido libro, in cui la sintesi è sempre basata su analisi approfondite. In esso FA, individuando fasi e tendenze, è riuscito a dare un senso storico agli atteggiamenti ed alle scelte degli operatori economici del periodo considerato. Clara Gabanizza, Beethoven a Genova nell’Ottocento, in « Nuova Rivista Musicale Italiana », VI, n. 3, luglio-settembre 1972, pag. 36. La storia della musica a Genova — per quanto ad essa non abbiano mancato di dedicarsi studiosi tra i più qualificati quali, tanto per fare qualche nome, Remo Giazotto, Mario Pedemonte, Pietro Berri e Giuliano Balestreri — costituisce un settore di ricerche ancora in gran parte da esplorare. Lo dimostra una volta di più questa interessante monografia della Gabanizza che, addentrandosi nelle vicende della vita musicale della Superba nel corso dell’Ottocento, porta in luce elementi di notevole interesse relativamente agli orientamenti e ai gusti degli ambienti artistici e culturali della città. Due fatti emergono in particolare da questa trattazione: la lentezza, per non dire la difficoltà, con la quale la musica di Beethoven riuscì a penetrare tra il pubblico genovese, e l’apporto, più rilevante forse di quanto si possa a tutta prima supporre, che i non pochi membri delle colonie inglese e tedesca ebbero a dare allo sviluppo e all’ammodernamento della vita culturale cittadina. (Silvano Balestreri) J. Leflon, Les heures qui ont immortalisé le nom de Savone, in « Atti e memorie della Società savonese di storia patria », n.s, I, 1967, pp. 191-203. Testo del discorso pronunciato a Savona F8 maggio 1965 in occasione del 150° anniversario dell’incoronazione della immagine di N. S. della Misericordia, compiuta da Pio VII il 10 maggio 1915. L’A. si è soffermato in particolare sulla prigionia savonese del papa (1809-1812). Pubblica una lettera di un ufficiale francese addetto alla guardia del papa, del 12 gennaio 1810. - 595 - E. Marantoni Sguerzo, Un mancato meeting anticonciliare a Savona il 9 gennaio 1870, in «Bollettino Ligustico», XXIII, 1971, pp. 65-71. Pietro Sbarbaro promosse per il 9 gennaio 1870 un meeting avverso al Concilio Vaticano I a Savona. In tale occasione il sottoprefetto di Savona ebbe istruzioni (approvate dal ministro Lanza) dal prefetto di Genova di non vietare la riunione, ma di predisporre opportune misure affinchè essa non degenerasse. Mancano notizie ulteriori, ma si suppone, anche per il silenzio della stampa locale, che l’incontro non abbia avuto luogo. I monasteri italiani della Congregazione Sublacense (1843-1972). Saggi storici nel primo centenario della congregazione, Parma, Scuola tip. Benedettina, 1972, pp. 616, con 43 illustraz. f.t. La Provincia Italiana della Congregazione Sublacense, approvata definitivamente da Pio IX il 9 marzo 1872, ha celebrato il suo primo secolo di vita con questo volume miscellaneo, i cui vari articoli illustrano il movimento di riforma monastica, che ebbe un primo inizio dall’opera delPab. Pietro Casaretto nel 1843 e che si è sviluppata in un lungo arco di tempo, fino a inserirsi nello spirito del recente rinnovamento conciliare. Il significato di questi saggi, che integrano un precedente volume su « Don Pietro Casaretto e gli inizi della Congregazione Sublacense » (pubblicato negli «Studia monastica» di Monserrat, 1972) è presentato in una breve introduzione dell’ab. S. Bovo, Visitatore della Provincia italiana. II volume comprende due parti: saggi su monasteri e profili di monaci. Nella 1 pai te interessano la Liguria uno studio di Nicola Mornacchi sui Monasteri di Genova ed uno di Gregorio Penco sul Monastero di Finalpia. Il Mornacchi, sulla base di un’ampia documentazione originale tratta da vari archivi, traccia le linee essenziali del ripristino della primitiva osservanza cassinese in Genova, che per opera del Casaretto costituì il centro propulsore del movimento, nelle sue successive sedi di Pegli (1843-44), S. Giuliano (1844-75), S. Nicola del Boschetto (1884-1939), S. Andrea di Sestri (1904-58), S. Maria della Castagna (dal 1962). La dotta e documentata trattazione, ricca di notizie e di particolari, non perde di vista 1 intero ambiente sociale e politico genovese, nelle cui vicende spesso toimentate, e specialmente tra il 1840 e il 1850, questi benedettini ebbero una loro presenza attiva. Lo studio del Penco si concentra sul monastero di S. Maria di Finalpia, nella provincia di Savona, raccogliendo e ordinando lo scarso materiale archivistico e gli accenni che si trovano in varie pubblicazioni. Il monastero, al quale era annessa una cura parrocchiale e che dalla sua fondazione (1476) era stato tenuto dalla Congregazione benedettina olivetana, fu concesso nel 1843 al Casaretto, che stava conducendo la sua opera di restaurazione monastica nel Genovesato e in Italia. A causa di vicende politiche ed ecclesiastiche i benedettini lasciarono Finalpia nel 1855; ma nel 1905 vi rientrarono e nel clima generale di restaurazione ecclesiastica dei primi del Novecento la piccola comunità finalese, per opera dell’abate Bolognani, fu promo- - 596 - trice di un movimento liturgico con la pubblicazione della «Rivista liturgica » (1914), la prima del genere in Italia, cui collaboré anche il card. Schuster di Milano. Nella II parte del voi. si danno diciotto profili di monaci italiani, fra i quali meritano ricordo, in relazione alla Liguria, gli abati: Pietro Casaretto (1810-1878), figura complessa, discussa e spesso travisata; Raffaele (al secolo Agostino) Testa (1813-1886), suo principale collaboratore in Genova; Nicola Canevello (1829-1899), curatore delle costituzioni e delle dichiarazioni alla Regola; Teodoro (Carlo) Cappelli '1869-1929), genovese, arcivescovo di Salerno; Beda (Giovanni) Cardinale (1869-1933). gioii, missionario in Africa e Australia; Mauro Serafini (1859-1925): Isidoro (Michele) Sain (1869-1932), istriano, vescovo di Fiume italiana; Gregorio (Carlo) Grasso (1869-1929), genovese, archivescovo di Salerno; Beda (Giovanni) Cardinale (1969-1933), vescovo e diplomatico; Giuseppe (Emanuele) Caronti (1882-1966), animatore della «Rivista liturgica»; Pio (Domenico) Alfonso (1888-1946), liturgista. Chiudono il volume, di notevole interesse per la storia ecclesiastica, vista anche in connessione con la storia generale d’Italia, e assai ricco di informazioni e riferimenti archivistici e bibliografici, alcuni utili repertori: cronotassi della provincia italiana, 260 brevi schede biografiche, tre indici (onomastico, topografico e delle illustrazioni) e un indice generale analitico-sistematico. (Giuseppe Oreste) Bianca Montale, Vincenzo Ricci. Dagli anni giovanili alla formazione del primo gabinetto costituzionale, in « Bollettino Storico-bibliograficc subalpino », LXVI, 1968, pp. 429-464. Riuscito profilo, visto dall’interno, della figura del Ricci, che nel regno sabaudo, dall’angolo visuale di Genova, del suo ambiente e dei suoi interessi, ebbe una posizione di notevole rilievo. Attraverso le fluttuazioni dei suoi atteggiamenti politici ne vengono còlte le caratteristiche essenziali della personalità e ne viene individuata una linea costante di sviluppo nella « genovesità », quasi simbolo di quel settore dell’aristocrazia genovese che nel primo Ottocento venne maturando, con l’occhio sempre puntato criticamente sulla rivale Torino, un suo patriottismo liberale di stampo « inglese », con aperture nazionali ed europee proprio perchè antipiemontesi. Nel tracciare la formazione e i primi anni della vita pubblica del Ricci si dànno brevi ma essenziali accenni ai vari interessi economico-politici nonché sociali di lui tra il 1840 e il ’48 in diversi campi: gli asili infantili aportiani e i problemi dell’educazione elementare e professionale; la cura e consulenza tecnico-amministrativa in varie istituzioni di beneficenza; i problemi della navigazione, del commercio e delle comunicazioni tra Genova e l’ampio retroterra non solo italiano ma europeo; la partecipazione alla vita amministrativa della città; la partecipazione all’8° Congresso degli Scienziati del 1846 come amministratore e come presidente di una delle Commissioni di studio (industria e agricoltura). Il 1846, mentre incoraggiava fiduciose prospettive di rinnovamento in senso liberale e moderno, vedeva anche attenuarsi nel R. l’antipiemontesismo: trasformazione che lo accomuna ad altri esponenti dell’ambiente politico genovese: speranze si - 597 - aprivano, linee di azione si precisavano, sia pure con una certa qual moderazione e prudenza realistica, contatti si stringevano con le punte più avanzate dell’opinione (mazziniani, giobertiani); sicché è del tutto naturale che il R. si trovasse in prima linea verso le fine del 1847 quando vennero presentate a Carlo Alberto pubbliche richieste di riforme. Scrivendo al Gioberti il 15 ottobre 1847 il R. intuiva nella condotta del re il timore che « non è possibile di assalire i Tedeschi senza un allargamento di politica interna »: ma ciò significava appunto cogliere la sostanza del problema italiano nella connessione tra i nodi cruciali della libertà e della indipendenza. Nel braccio di ferro che andò così sviluppandosi tra dicembre e gennaio ’48, fra il re da una parte e l’opinione pubblica dall’altra, l’ambiente liberale genovese rappresentò una posizione di punta, in cui il R. si trovò direttamente impegnato, severo e aspro in giudizi privatamente espressi (cfr. p.es. la lettera al Gioberti del gennaio 1848), ma cauto e prudente nell’azione e nella stesura delle richieste. Ma i tempi incalzavano: ai primi di febbraio il Corpo decurionale di Torino si mosse, il 7 febbr. il Consiglio comunale di Genova dopo un applaudito rapporto del R., deliberò di chiedere al re la costituzione. Nella frattura che andava delineandosi fra « moderati » e « democratici » il R. si avvicina a questi, più vivaci e più pronti ad avvertire la necessità di inserire energicamente Genova nel generale movimento delle restanti parti d’Italia. Gli avvenimenti precipitano; e fu ancora in primo piano il R., capitano della Guardia Civica, ministro nel primo gabinetto costituzionale, deputato di Genova nel primo Parlamento piemontese. Di grande interesse umano e politico le quattro lettere inedite pubblicate in appendice: al Gioberti (20 agosto 1846; 15 ottobre 1847; 29 gennaio 1848) e a Lorenzo Valerio (1 marzo 1848), documento vivo di un acuto spirito critico. (G. Oreste) I moti della Lunigiana nei carteggi di Domenico Buffa (1853-1854), a cura di Emilio Costa, Genova, Comitato Promotore per le Celebrazioni Mazziniane, 1972, pp. LXXXVII-287. Studioso particolarmente acuto della vita e dell’opera di Domenico Buffa, Emilio Costa ha dedotto dai carteggi dell’eminente uomo politico ovadese, materiale di primissima mano e del più vivo interesse per illustrare in tutta la molteplcità dei suoi aspetti le vicende dei tentativi insurrezionali organizzati a due riprese (settembre 1853 e maggio 1854) da agitatori mazziniani nella zona della Lunigiana. La ricostruzione fattane dal Costa in dense e ben costrutte pagine introduttive, e l’ampia documentazione portata a corredo dell’illustrazione stessa fanno di questo volume cosa estremamente interessante. I due tentativi — ai quali, come è noto, va in modo preminente congiunto il nome di Felice Orsini — sono qui presentati come furono visti dalle autorità piemontesi, essendo infatti in quel tempo Domenico Buffa intendente generale a Genova, con giurisdizione anche su La Spezia, Sarzana e zone finitime. I particolari e i punti di vista che emergono dalle corrispondenze ufficiali vengono utilizzati dal Costa per raffrontarli con le informazioni di parte democratica - 598 - che in argomento erano già note, e per dedurne così un quadro della situazione il più aderente possibile alla realtà, sino ad oggi in verità non approfondita in forma del tutto chiara. A parte il valore dell’ampia appendice di documenti inserita nel volume, meritano una particolare considerazione le pagine che il Costa dedica a l’emigrazione politica e al movimento mazziniano nel Regno di Sardegna dopo il 6 febbraio 1853, nonché all’organizzazione mazziniana e ai fermenti rivoluzionari nella provincia di Levante. Molti sono gli elementi di chiarificazione — quando non addirittura di novità — che sono prospettati agli studiosi, ad essi offrendo i mezzi per un approfondimento che ben può ritenersi definitivo di due episodi di rilevante momento nella storia delle vicende risorgimentali in Liguria. (Leonida Balestreri) Vladimir Nevler, Mazzini e Tolstoi, in Bollettino della Domus Mazziniana, XVIII, 1972, pp. 194-203. Sulla base di documenti originali conservati nell’Archivio Tolstoj di Jasnaja Poljana sono qui lumeggiati taluni aspetti e talune particolarità dei rapporti di comprensione e di ammirazione che ebbero ad unire l’autore di Guerra e pace all’Apostolo della libertà italiana. In ispecie è qui ricordato come Tolstoj tenesse molto cara una lettera di Mazzini donatagli nel 1861 a Londra da Alessandro Herzen, e come egli, oltre che ad aver personalmente tradotto per i lettori del suo Paese una lettera del grande genovese sull’immortalità dell’anima apparsa sulla rivista inglese « The Labour Prophet », abbia patrocinato la traduzione in russo dei Doveri dell'uomo, cosa che difatti fu realizzata nel 1902 a cura di Lex Nikiforov. (Silvano Balestreri) G. Oreste, Mons. Andrea Charvaz (1793-1870), in « Bollettino Ligustico », XXII, 1970, pp. 86-108. Testo della conversazione tenuta a Genova il 23 aprile 1971 per celebrare il primo centenario della morte dello Charvaz, precettore dei figli di Carlo Alberto, vescovo di Pinerolo (1833-1847), arcivescovo di Genova dal 1852 al 1869. L’A. ha fatto largo spazio all’esame degli scritti dello Charvaz, soprattutto nell’intento di metterne in risalto la condotta moderata sia in campo politico, sia, soprattutto, nella sua azione pastorale. (D. P.) Giorgio Pedrocco, Aspetti tecnologici deU’industrializzazione siderurgica del litorale ligure (1800-1861), in «Le Machine», II, 1969-70, n. 6-7, pp. 108-119. Il passaggio dal metodo catalano alla nuova siderurgia viene esaminato dal Pedrocco in relazione ai mutamenti che avvengono a livello economico-sociale e politico. Così agli accresciuti bisogni (ferrovia Torino-Genova, illuminazione a gas. acquedotti, costruzioni di navi in ferro) fa riscontro la decisione di ridurre i dazi di importazione dei materiali ferrosi. Le due circostanze stimolano il rinnovamento tecnologico degli impianti e già sorgono timori e preoccupazioni per l’inquinamento - 599 - atmosferico, sacrificati però sull’altare della nascente industria che si sviluppa disordinatamente, senza una specializzazione di settore. Nel periodo cavourriano si avvertono già i primi sintomi di quella crisi che affliggerà poi cronicamente la siderurgia italiana ed è sintomatica la mozione del Consiglio Comunale di Sarnpierdarena che chiede allo Stato la preferenza nell’assegnazione delle commesse al fine di mantenere la continuità di produzione. Sarà tuttavia l’introduzione del metodo Bessemer, di lì a qualche anno, a rivoluzionare radicalmente l’industria del ferro. ~ , , (Enrico Carbone) Giorgio Pedrocco, Le ferriere catalano-liguri nella prima metà del XIX secolo: struttura, vicende ed innovazioni tecniche, in « Le Machine », I, 1967-68, n. 1, pp. 27-38. L’A., dopo aver illustrato la struttura tecnico-industriale delle ferriere liguri all’inizio del secolo XIX, attraverso i procedimenti tradizionali tipici, passa ad esaminare, servendosi anche degli indici elaborati del minerale importato in Liguria dall’isola d’Elba dal 1807 al 1834, la progressiva estinzione verso la metà del secolo delle ferriere catalano-liguri, determinata dalla concorrenza dei materiali ferrosi svedesi ed inglesi. Le innovazioni introdotte allo scopo di restituire a questo settore industriale la passata competitività mirarono essenzialmente a una riduzione dei costi, mediante un minor consumo del carbone di legna anziché alla sua sostituzione col carbon fossile rinnovando integralmente la struttura della siderurgia ligure. Il Pedrocco attribuisce questa scelta al fatto che il carbone di legna era reperibile sul posto contrariamente al carbon fossile da importarsi dall’Estero, ma non tralascia di prendere in considerazione l’influenza esercitata dall’industria siderurgica francese sugli ingegneri del Regno di Sardegna, formatisi in quella scuola. D’altronde le necessità di mercato erano ancora molto limitate e le prospettive di consumo derivanti dalle ferrovie e dalle costruzioni navali in ferro assai lontane. Tuttavia è illuminante la citazione, che il Pedrocco riporta testualmente, di una nota dell’intendente generale di Genova in data 30 settembre 1844 che cosi conclude «... finché i nostri fabbricanti da ferro continueranno ad esser ligi ai loro antichissimi metodi e vorranno sempre esser retrogradi in faccia a tanti miglioramenti ormai generali, dovrà dirsi che sono essi i nemici del proprio interesse. (Enrico Carbone) Giorgio Pedrocco, Gli inizi dell’industria del gas illuminante a Genova, in « Le Machine », vol. Il, 1969-70, nn. 4-5, pp. 30-47. L’A. illustra l’introduzione deH’illuminazione col gas prodotto dalla distillazione del carbone fossile nel comune di Genova, avvenuta nel 1846 con notevole ritardo rispetto alle altre città europee, se si pensa che già dal 1803 Londra e dal 1818 Parigi avevano adottato tale sistema, peraltro introdotto a Torino nel 1838. Promotore di questo tipo di illuminazione a Genova era stato il Cav. L. Z. - 600 - Quaglia che sul settimanale locale « L’Espero » nel 1842 faceva voti perchè anche nella nostra città venisse installata un’officina per la produzione di gas illuminante, mettendo in rilievo la maggior convenienza rispetto alle altre città italiane del costo della materia prima, il carbon fossile inglese. Fu tuttavia l’ingegnere francese Chevillet che, proveniente da Lione, provvide mediante un procedimento, diremmo oggi promozionale, ad impiantare in un caffè nei pressi della Loggia di Banchi tale tipo di illuminazione per darne un saggio ai genovesi. Il Pedrocco attinge ai documenti comunali e agli atti notarili per fornire un quadro dettagliato e gustoso dei problemi che tale innovazione aveva portato nei costumi del tempo, mettendo in luce i timori che il nuovo tipo di illuminazione aveva destato nelle autorità, preoccupate — fra l’altro — che, a differenza di quello tradizionale ad olio, potesse essere completamente interrotto operando sull’officina del gas. Lo studio, corredato da interessanti notizie tecniche, è completato — in appendice — dall’« Inventario di tutti gli oggetti mobili ed immobili formanti 1 of ficina a gaz della Compagnia per l’illuminazione della città di Genova », 1 attuale A.M.G.A. (Enrico Carbone) Gaetano Perillo, ì comunisti e In lotta di classe iti Liguria (novembre 1922 novembre 1926, 3a puntata, in Movimento Operaio e Socialista, gennaio-marzo 1972, pp. 67-98. Ricco di dati e di una documentazione per non piccola parte oggi di più che difficile reperimento, questo articolo continua la serie di quelli che Gaetano Perillo sta dedicando alle vicende del Partito Comunista in Liguria nel periodo che va dalla progressiva conquista del potere da parte dei fascisti alla trasformazione del loro governo in regime totalitario. Le informazioni, raccolte in queste pagine risultano quanto mai interessanti, tanto più che di esse l’A. è venuto a suo tempo a diretta conoscenza nella veste di dirigente del suo partito. A parte le considerazioni relativamente agli errori tattici e strategici dell’opposizione democratica al fascismo, assumono un particolare valore le annotazioni qui tracciate in ordine agli stati d animo degli ambienti operai, e alla risibile demagogica linea di condotta dei cosiddetti sindacati fascisti dei lavoratori. Di rilievo anche le notizie attinenti la stampa comunista (e, in ispecie, il periodico « Falce e martello », pubblicato agli inizi del 1923 per sopperire alle frequenti mancanze de «L’Unità», di continuo assoggettata a sequestri), nonché i riferimenti agli effettivi delle diverse « cellule », alla visita di Togliatti a Genova nel marzo 1925, e allo svolgimento del 4° Congresso comunista ligure tenutosi clandestinamente nel dicembre 1925 a S. Olcese. (Victor Balestreri) Gian Bino Quinto, Ragazzi dell'Uno, Genova, Fratelli Pagano Tipografi Editori, pp. 104. E’ questo il terzo « quaderno » di una serie di appunti relativi ai ricordi di infanzia e di adolescenza di un nostro concittadino nato con il secolo attuale, nell’uno appunto, o — se si vuol essere più chiari — nel 1901. 601 - 20 Come quelle dei volumetti che le hanno precedute sono pagine vive e spontanee, coraggiosamente sincere, che danno — se pur da un particolare angolo visuale — un quadro assai nitido della vita genovese dei primi decenni del secolo attuale. Sono descrizioni rapide di scorci soprattutto di costume, pur non mancando, insieme con essi, riferimenti precisi e coloriti a fatti specifici che — direttamente o meno — ebbero a ripercuotersi nella vita genovese del tempo: le prime manifestazioni aeronautiche svoltesi nella città (come quelle legate ai nomi di Ciro Cirri e Filippo Ce-vasco), il ritorno in patria dalla Crimea delle ceneri del generale Alessandro della Marmora, la visita del re per l’esposizione coloniale, l’elezione a pontefice del cardinale della Chiesa, e, infine, lo scoppio della prima guerra mondiale. Un complesso pertanto di particolari e di annotazioni assi interessanti, cui ogni amatore di cose genovesi non può che riferirsi con vivo piacere, anche perchè agli uni e alle altre si accompagna la trascrizione di alcune poco note ma molto espressive poesie in vernacolo di quella bella figura di uomo e di professionista che è stato il dottor Baciccia Rapallo. (Silvano Balestreri) E. Roni, L’ctutoaffondamento dì 10 navi nel porto di Savona il mattino del 9 settembre 1943, in « Atti e memorie della Società savonese di storia patria », n.s., II, 1968, pp. 85-120. L’A., già comandante la Capitaneria del porto di Savona nel 1943, pubblica una dettagliata relazione sugli avvenimenti del tempo che lo videro protagonista della vicenda nella quale ben 10 piroscafi mercantili si autoaffondarono nel porto di Savona sotto gli occhi dei Tedeschi che stavano occupando la città. G. Salvi, La distruzione della badia genovese di Capo Faro, in « Benedioti-na », XV, 1968, pp. 337-344. Descrive la progressiva distruzione del monastero genovese, avvenuta nel secolo scorso, dopo che nel 1798, soppresso il convento, i monaci di San Benigno erano stati trasferiti al monastero di S. Nicolò del Boschetto. Presenta, inoltre, un’accurata descrizione del vecchio edificio. Pietro Scotti, Un prete esploratore: Alberto Maria De Agostini, in Miscellanea di geografia storica e di storia della geografia nel primo centenario della nascita di Paolo Revelli, Genova 1972, pp. 161-171. L’opera del salesiano Alberto M. De Agostini nella Terra del Fuoco contribuì alla migliore conoscenza di quell’estrema propaggine dell’America ove l’esploratore unì il suo magistero spirituale all’appassionata ricerca antropologica, etnografica, botanica, geografica. Numerose opere illustrate da buone riproduzioni cartografiche che attestano la lunga attività di padre De Agostini che ebbe, oltre a scopi scientifici, anche intendimenti pratici miranti a valorizzare territori potenzialmente ricchi di risorse notevoli ma assai spesso trascurati, con conseguenti fenomeni di sottosviluppo nelle popolazioni. (Pietro Barozzi) - 602 - R. Tresse, La résistance à l'impôt indirect de San-Retno à Cannes à ta fin du premier empire français (mars 1814-décembre 1815), in « Atti del II congresso storico Liguria-Provenza (Grasse, 11-14 ottobre 1968), Bordighera, Aix, Marseille, 1971, pp. 166-178. Sebbene soppressi nel febbraio 1791, i dazi di consumo sono ristabiliti negli anni seguenti per far fronte alle esigenze dell’erario francese. Durante il Consolato la riscossione di tali tributi è affidata ad un’amministrazione centrale che estende la propria giurisdizione anche sui territori annessi e, tra l’altro, anche al Nizzardo ed al distretto di San Remo. Il controllo ossessivo esercitato da Parigi, i conflitti di com petenza tra i vari ministeri, di cui le amministrazioni locali sono vittime, e l'aggravamento progressivo delle aliquote fiscali provocano un malcontento generale che nell’aprile 1814, dopo il ritiro delle truppe napoleoniche dalla Riviera ligure verso la Provenza, sfocia in una rivolta aperta contro l’impero. Le manifestazioni popolari di giubilo per il ritorno delle autorità monarchiche sono dovute in parte alla speranza che esso significhi l’abolizione degli odiati dazi, ma gli enti pubblici versano in condizioni finanziarie disperate e le imposte sono conservate anche dalle nuove amministrazioni. VARIA A. Carattino, Storia del monte Carmelo di Loano, in « Atti e memorie della Società savonese di storia patria», n.s, IV, 1970-71, pp. 141-200. Cronaca, seriamente documentata ma condotta con criterio annalistico, del convento di Loano, fondato nel 1602 per opera dei Doria, conri di Loano. A. Ceriolo Verrando, Bordighera nella storia, Bordighera 1971, pp. 262 (Col lana storico-archeologica della Liguria Occidentale, XIX). Impostato in occasione del V centenario della fondazione di Bordighera, il volume non ha nulla della pubblicazione occasionale, ma si inserisce degnamente nel ricco filone delle storie municipali liguri che per la Riviera di Ponente vanta una validissima tradizione. Materia difficile — quella di Bordighera — perchè le origini del paese altomedievale (che corrisponderebbe all’incirca all’attuale paese vecchio) si confondono con le fortune del monastero di Montmajour (e non con S. Onorato di Lerins come pensavano alcuni studiosi), da cui dipendeva il monastero di S. Am-pelio, posto sull’omonimo capo, il cui culto appare documentato già nei secc. X-XI, Nelle lotte che opposero Genova a Ventimiglia il castrum che sorgeva attorno al monastero venne assumendo rilievo, mentre il vecchio toponimo legato al culto del santo protettore veniva cedendo il passo, nel secolo XIII, al nuovo Burdigheta; nello stesso periodo, mentre amministrativamente il paese veniva assorbito da Ventimiglia, i monaci abbandonavano il monastero, cedendo il passo ai canonici regolari di S. Agostino di Ventimiglia. - 603 - La nuova Bordighera nasce nel 1470 quando, rompendo il consueto schema migratorio che vede i Liguri del Ponente dirigersi verso la Francia, 31 famiglie del-l’entroterra si associavano tra loro per fondare un nuovo centro abitato in una zona che, evidentemente, doveva offrire buone possibilità di lavoro. Con la fondazione del nuovo centro e di un parrocchia (S. Maria Maddalena), decadeva sempre più S. Ampelio, ridotto a priorato e concesso, d’ora in poi, in commenda. L’A., non trascurando gli apporti dell’archeologia e della geografia storica e prestando viva attenzione agli aspetti demografici, urbanistici ed economici della zona, è riuscita a distinguere le vicende peculiari di Bordighera da quelle di Ventimiglia, alla cui storia il nuovo centro è strettamente e dialetticamente legato. Frutto di questo legame dialettico è proprio, nel 1630, la separazione da Ventimiglia delle 8 ville e la costituzione, attorno a Bordighera, in quanto unico centro costiero, della Confederazione della Magnifica Comunità degli Otto Luoghi, che durerà circa un secolo con autonomia amministrativa e proprio codice penale. Le vicende dei secoli seguenti, fino ai nostri giorni, sono tratteggiate mirabilmente sotto l’aspetto della trasformazione urbanistica collegata all’attività turistica di Bordighera. Un’appendice documentaria (28 docc.) e 74 tra tavole fuori testo, illustrazioni e prospetti completano il volume. (D. P.) Giorgio Costamagna, II notaio a Genova Ira prestigio e potere, Roma 1970, Consiglio Naz. del notariato, pp. XVIII-316, 16 tavv. f.t. Si apre con questo volume la nuova collana di « Studi storici sul notariato italiano », promossa dal Consiglio Nazionale del Notariato. E non a caso si apre con lo studio del C. sul notariato genovese; sia per la fondamentale importanza che l’istituto notarile ha avuto nella storia di Genova, sia per la personalità dell’A. che ad esso ha dedicato la maggior parte dei suoi studi. Come tutti i lavori di sintesi anche questo volume riveste per il lettore un duplice significato: da una parte quello di punto fermo su alcuni aspetti della storia del notariato genovese — e pensiamo in particolar modo ai capitoli dedicati alla preparazione professionale del notaio (cap. Ili), al collegio (cap. V), alle sedi e agli archivi dello stesso (cap. VI) —; dall’altra quello di punto d appoggio per ulteriori approfondimenti sia in campo specificamente genovese, sia soprattutto nell allargamento dell’indagine in altre direzioni. Ricordiamo a questo proposito i tre capitoli chiave che da soli rappresentano la struttura portante dell’intero volume. Due di essi, «Il documento notarile» (cap. II) e « Il notaio nella vita pubblica» (cap. IV) riflettono assai bene tutta la vasta indagine condotta in passato dall A., mentre il primo (« Il notaio e la publica fides »), pur strettamente collegato al II, dal quale non si può prescindere, potrà essere suscitatore di ripensamenti e di nuovi sviluppi per la storia di quell’esigenza di certezza necessaria ad ogni certificazione. E proprio in questo capitolo l’A. ha superato spesso l’indagine giuridico-diplo-matistica (sempre, comunque, abilmente sfumata in un libro destinato anche a lettori meno esigenti), coinvolgendo nella ricerca la stessa società genovese e mostrando (il tema riapparirà nel capitolo dedicato al collegio) come «tra prestigio e potere» il notaio genovese dovette al primo, cioè al prestigio, « quella espressione di qualità morali e della sapienza tecnica che valsero a contrassegnare la classe notarile » l’acquisizione di quella « publica fides » sulla quale costruì il potere; come, di conse- - 604 - guenza, lo stesso prestigio, in quanto messo al servizio di interessi particolari, finì per impallidire « incrinando nella considerazione sociale i motivi di rispetto che avevano accompagnato e secondato il notariato genovese dal suo sorgere al momento del suo più autentico splendore ». Seguono un’appendice con l’elenco dei rettori del collegio dal 1576 alla fine della Repubblica, 16 tavole fuori testo, l’indice delle stesse e quello dei nomi di persona, di luogo e delle cose notevoli. Gherardo Dal Colle, O.F.M. Cap, Juppiter tonans e Barbara serenans nel convento di S. Nicolò in Voltri, in «L’Italia francescana», 45, 1970, pp. 291-299. Dalla cronaca del convento, fondato nel 1568, l’A. raccoglie notizie sui danni causati dal fulmine nel Santuario delle Grazie nel '700 e nell’800. Giuseppe Delfino - Aidano Schmuckher, Stregoneria magia, credenze e super stizioni a Genova e in Liguria, Firenze, Leo S. Olschki editore, pp. 87. Le particolari propensioni psicologiche dei liguri, e il loro carattere concreto e raziocinante farebbero supporre che tra di essi la pianta delle superstizioni non debba aver mai trovato un terreno molto fertile: Questo libro porta invece alquante prove in senso del tutto contrario. Vero è che il mondo dei secoli passati era ancorato a principi e a credenze che con quanto costituisce il costume di oggi sovente ben poco hanno a che fare, ma che questo abbia potuto condurre a casi clamorosi e, soprattutto, tragici (quale quello, ad esempio, nel 1587-1588, del processo e della condanna delle « streghe » di Triora) è cosa che davvero sconvolge. Se ai nostri occhi di uomini del mondo di oggi appare manifesto che non pochi dei perseguiti per stregoneria altro non erano che dei poveri psicopatici dei quali coloro che li circondavano non comprendevano le stranezze che vedevano anzi in forma del tutto travisata, rimane invece incomprensibile come quanti — religiosi e uomini di legge — che si dicevano agire in nome del giusto e in difesa della normalità potessero elaborare così complicate casistiche di immaginari delitti ed applicare tanto sadicamente crudeli sistemi di tortura. C’è in questo libro riportato un dato statistico, citato in base alle asserzioni di Lamberto Daneo, ed è un dato che riempie insieme di orrore e di meraviglia: a Genova, nel secolo XVI, nel breve spazio di tre mesi, come accusate di stregoneria, sarebbero state condannate a morte più di cinquecento persone. Anche se, per ipotesi, un’indicazione siffatta dovesse peccare per eccesso, resta tuttavia palese la straordinaria ampiezza di questa sconvolgente azione inquisitoriale e repressiva. I non pochi casi dettagliatamente ricordati nelle pagine alle quali in questa nota vien fatto riferimento danno la misura, e, con essa, i lineamenti caratteristici di questa situazione. Non solo questo, peraltro, essendo che, attraverso tale rievocazione di tanto orribili vicende, si penetra come non mai nel profondo della storia della regione ligure, individuando l’origine dì certe credenze e dei proverbi e dei detti popolari che, da esse ormai avulsi, continuano ad essere tra noi ripetuti. Un buon contributo è pertanto quello che questo libro porta alla migliore conoscenza di taluni aspetti delle vicende storiche e del costume dei tempi passati in terra di Liguria. (Leonida Balestreri) - 605 - Giuseppe Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano, Giuffrè, 1971, pp. XXVII-705. Con questo poderoso volume, l’A. ha portato un contributo decisivo alla storia di Genova come potenza finanziaria. E’ a tutti noto che i Genovesi, perdute le posizioni nel Mar Nero e nel Levante, si erano rivolti ad altri tipi di attività nel settore dell industria (prima con la seta e poi con la carta) e soprattutto in quello della grande finanza internazionale. Quest’ultima attività era però conosciuta solo nella sua fase iniziale, dalla metà del Cinquecento ai primi decenni del Seicento, grazie agli studi dell Ehrenberg e poi del Braudel, ripresi da Ruggiero Romano, Dominguez Ortiz, Ruiz Martin, Ramon Carande. Per i due secoli seguiti ai primi decenni del Seicento il ruolo internazionale dei banchieri genovesi, più avvertito che noto, era rimasto avvolto nelle tenebre più fitte, da cui emergevano soltanto le fiere dei cambi e qualche informazione erratica, anche se esplicita (Kulischer, Di Tucci, Giaccherò). In queste tenebre si è addentrato il Felloni con impegno e tenacia, mettendo a profitto un imponente bibliografia, ma soprattutto rintracciando ed interpretando documenti spesso ardui, in ricerche compiute in archivi privati (Cattaneo della Volta, Doria, Negrone, Saivago Raggi) ed in archivi pubblici di Genova, Milano, Torino, Roma, Venezia, Bologna, Ferrara, Londra e Parigi. Partendo dall’analisi della composizione dei patrimoni di un gruppo di famiglie patrizie e constatata la loro decisa propensione verso investimenti di carattere finanziario con punte frequenti tra il 60 ed il 70 per cento, e ravvisate analoghe caratteristiche negli altri strati della società genovese, l’A. ricostruisce, in due distinte parti della sua opera, il volume e le vicende delle due forme tipiche degli investimenti finanziari: quelli in titoli del debito pubblico e quelli in mutui o prestiti esteri « alla maniera di Genova ». Per dare una dimensione alla presenza genovese nel debito pubblico di vari paesi, l’A. è stato indotto a ricostruire le caratteristiche e le vicende del debito pubblico della Repubblica di Genova e di quella di Venezia, dello Stato della Chiesa (con le legazioni di Bologna e di Ferrara), della Lombardia austriaca e del napoleonico Regno d’Italia, della Francia, dell’Austria e di altri paesi nel cui debito pubblico gli investimenti genovesi manifestarono un minore impegno (Toscana, Spagna, Napoli, Sicilia, Gran Bretagna e Regno Sardo). Degli investimenti in prestiti esteri « alla maniera di Genova » l’A. è riuscito a ricostruire un elenco di quasi seicento mutui contratti a Genova fra il 1686 ed il 1810, indicando di ciascuno l’ammontare e le caratteristiche (mutuatario, somma prestata, interesse, scadenza e modalità di rimborso), in una preziosa appendice che supera largamente il centinaio di pagine. Fra i mutuatari, accanto a città come Bologna, Modena, Reggio, Parma, Piacenza, Verona, Torino, Urbino e Palermo, figurano quelle di Lione, Parigi, Sédan, Bordeaux, Metz, Avignone, Marsiglia e Copenhagen, città e comunità del Granducato di Toscana, i tre stati di Provenza, di Linguadoca e del Maçonnais, gli stati dell’Austria inferiore, del ducato di Stiria, del Mecklemburg e del regno di Svezia, il clero di Francia, il clero regolare della Stiria e dell’Austria inferiore e superiore, i Benedettini di Stiria, i Gesuiti di Boemia e di Varsavia, una confraternita di Lisbona, opere pie di Roma, Siena, Bologna, Piacenza, Ingolstadt, Lione e Parigi. Sempre fra i mutuatari non manca un gruppo di fermieri, di imprenditori, di società commerciali di Milano, Torino, Venezia, Ferrara, Trieste, Versailles e St. - 606 - Germain en Laye, Parigi, Lione, Marsiglia, Londra, Lipsia e Ginevra, ma più nutrita è la rappresentanza della nobiltà di ogni paese. Quella di origini genovesi vi ha una piccola parte con Carlo Ambrogio e Carlo Gioachino Spinola Marchesi di los Balbases, che risiedono a Madrid, Placido Imperiale, che è a Napoli, Gian Luca Pallavicino, a Vienna ed a Bologna, Alessandro Botta Adorno, a Pavia. Per il resto, sfogliando le pagine che elencano i mutui esteri « alla maniera di Genova », si ha l’impressione di avere fra le mani un autentico Gotha. L’imperatrice Maria Teresa vi figura 25 volte, ma i suoi predecessori Leopoldo I e Carlo VI avevano già ottenuto crediti a Genova, come li ottengono, più tardi, i suoi successori Giuseppe II e Leopoldo II. I re di Svezia Adolfo Federico II, Gustavo III e Gustavo IV Adolfo figurano complessivamente in 13 contratti di mutuo, seguiti a breve distanza da Cristiano VII di Danimarca e Norvegia. Caterina di Russia vi figura 5 volte ed Alessandro I, una sola. Ai duchi di Sassonia, a quelli di Baviera, ai re di Polonia ed a quelli di Sardegna, a Luigi XVI ed a Pio VI, si affiancano i duchi di Parma e Piacenza, di Modena e Reggio, Francesco II granduca di Toscana, i principi di Monaco, Giuseppe Venceslao di Liechtenstein ed, in lunga serie, ecclesiastici come l’arcivescovo di Treviri, rampolli delle più grandi case del patriziato europeo, Wittelsbach, Borboni, Hohenzollern, Brunswick-Lünenberg, il Duca di Ossuna, Principi di Condé, di Soubise, di Schwar-zenberg, di Fürstenberg, dalla Polonia, da Dresda, dalla Boemia, dalla Svezia e dalla Sassonia, un duca di Orléans, un duca di Chartres, un duca d’Angiò, duchi di Brissac, di Choiseul, d’Harcourt e di La Tour d’Auvergne, un conte di Artois ed un nutrito manipolo di dignitari dell’Impero e del patriziato ungherese. Di ogni forma di investimento l’A. ha indagato gli aspetti tecnici, i protagonisti umani e il destino, non sempre brillante, a seguito della rivoluzione francese e della bufera napoleonica. Questo libro, sia pure con diversa impostazione e con una diversa finalità, finisce quindi per collegarsi al volume di Giorgio Doria segnalato in questo stesso Notiziario. Fra le varie caratteristiche individuate dall’A. almeno una deve essere segnalata: l’abbandono degli investimenti genovesi in Ispagna ed il deciso orientamento verso i paesi dell’Europa centro-settentrionale. Pier Augusto Gemignani, La beneficenza e l’assistenza ospedaliera nella storia di Genova, in « La voce del Gaslini », anni 1969-1972, pp. 1-54. L’A. esamina da un punto di vista storico-medico l’evoluzione e gli aspetti sociologici della beneficenza genovese, tracciando un quadro sintetico dell’epidemiologia delle principali carestie. Esamina inoltre l’opera di E. Vernazza ed E. Brignole e l’attività assistenziale della Compagnia del Mandiletto, del Magistrato di Misericordia e dell’Ufficio dei Poveri, dell’Albergo dei Poveri e delle maggiori confraternite. Pier Augusto Gemignani, La Compagnia della Pietà o del Mandiletto, in « Liguria », n. 10, ottobre 1971, pp. 17-19; Origini e intitolazioni della Compagnia del Mandiletto, in «Liguria», n. 1-2, gennaio-febbraio 1972, pp. 9-12; Statuti ed evoluzione della Compagnia del Mandiletto, in « Liguria », n. 7, luglio 1972, pp. 7-10. L’A. esamina la storia della Compagnia del Mandiletto, tracciandone gli aspetti sociologici e spirituali, la morfologia associativa e l’opera assistenziale. - 607 - Pier Augusto Gemignani, E’ in costante aumento il peso demografico delle classi anziane, in «Genova», n. 6, giugno 1969, pp. 20-24; Considerazioni sull’assistenza geriatrica a Genova, in « Genova », n. 8, luglio 1972, pp. 8-14. LA. analizza il fenomeno demografico dell’invecchiamento della popolazione genovese dal 1861 in poi, il profilo nosologico delle classi anziane e le conseguenti necessità assistenziali a tipo alberghiero ed ospedaliero. Traccia inoltre un quadro degli istituti di ricovero, proponendo uno schema organizzativo di assistenza geriatrica che non trascuri la personalità psicologica degli anziani avversi a tutte le condizioni, anche latenti, di segregazione e quindi di spersonalizzazione. Nel quadro di una illuminata politica assistenziale, cioè condotta sul piano clinico, sociale e psicologico, esamina la singolare preveggenza dei Genovesi dal secolo XV in poi, ed in particolare di Ettore Vernazza, Bartolomeo Bosco ed Emanuele Brignole. Pier Augusto Gemignani, Il movimento dei Bianchi e gli oratori segreti a Genova, in « Genova », n. 2, agosto 1972, pp. 22-26. L’A. traccia una breve storia del movimento dei Bianchi a Genova e in Liguria, esaminandone gli aspetti associativi e spirituali. Analizza inoltre alcuni caratteri delle confraternite genovesi, tra cui la segretezza e l’irradiazione in altre regioni italiane. Edoardo Grendi, Problemi e studi di storia economica genovese (secoli XVI-XVII, in «Rivista Storica Italiana», LXXXIV, 1972, pp. 1022-1060. Sulla base delle attuali conoscenze storiografiche, l’A. si propone di stendere un primo bilancio dell’economia genovese nei secc. XVI-XVII e di indicare i settori nei quali, a suo parere, la ricerca può e deve essere utilmente proseguita. Rilevata la necessità di studiare meglio l’importanza dell’olivo e di alcune industrie stanziate nel territorio della repubblica, egli concentra l’attenzione sulla capitale ed in particolare sui problemi dell’approvvigionamento. Il grano consumato in città, interamente importato, costituiva una voce di rilievo nel suo commercio estero, che era equilibrato con l’esportazione di alcune produzioni locali e con l’attività finanziaria all’estero. Le notizie disponibili sul movimento commerciale e sulla sua struttura sono però ancora inadeguate per una ricostruzione soddisfacente dell’economia genovese del tempo; a tale scopo dovrebbero avere una notevole utilità anche le ricerche su singoli operatori. In ogni caso occorre interpretare i fatti alla luce di una problematica che investa anche le strutture politiche e sociali. , 4 (g. t') G. B. Gritta, L’eremo di Monterosso nelle Cinque Terre, Genova 1972, pp. 230. Un’ordinazna di sospensione dei lavori di restauro sui ruderi della chiesa di S. Lorenzo in Terricio (oggi S. Maria Maddalena) ha fornito all’A. lo spunto per il suo studio. Vi si tratta di uno dei più antichi e meno conosciuti eremi della Lunigiana, - 608 - per secoli officiato da eremiti, annesso, nel 1478, al monastero di San Gerolamo della Cervara, alienato nel 1595 a causa della scarsità delle rendite. Largo spazio viene riservato dalPA. alle vicende di Monterosso, sia attraverso un’ampia ricognizione del materiale documentario (in parte proveniente dall’archivio familiare dello stesso A.), sia attraverso il ricorso a ricordi personali. Segue un’appendice dedicata al monastero della Cervara ed alla figura del benedettino Antonio Bono da Monterosso (1487-1557), autore del ms. Il tesoro della Cervara conservato attualmente nella Biblioteca della Società Economica di Chiavari. (D. P.) J. Heers, Un exemple de ville méditerranéenne médiévale-. Gênes, in « Dio-gène», n. 71, 1970, pp. 52-63. Contrariamente ad altre piazze del Mediterraneo, attivi centri di scambi culturali o religiosi, Genova non sembra essersi aperta all’esterno se non attraverso il commercio. Città strettamente medievale, ricorda l’A., senza passato romano, dal pae saggio urbano frazionato, Genova esercitò poca influenza politica ed economica sul retroterra montano, tanto che i mercanti della città e gli abitanti dell’Appennino si ignoravano sostanzialmente. Le grandi correnti del traffico internazionale hanno fatto di Genova una città carovaniera sotto due punti di vista: da una parte il porto, i suoi moli, le sue botte-guccie; dall’altra le sue viuzze strette che si prolungano verso l’Appennino con delle mulattiere attraverso le quali passano le mercanzie dirette verso l’interno. Gli scambi culturali devono certo di più alla presenza di numerosi stranieri: mercanti che costituiscono delle piccole colonie, con le loro case ed i loro consoli: schiavi domestici che contribuiscono alla modificazione del fondo etnico, portando con sè attitudini mentali e motivi religiosi particolari. La colonizzazione d’oltre mare è anche all’origine d’un intenso movimento di uomini e della penetrazione d’influenze orientali a Genova, per esempio nel campo deh vestiario e dell’architettura. Ne risulta un cosmopolitismo della cultura genovese, di cui il simbolo migliore è l’attaccamento prolungato al latino degli affari, dialetto internazionale, facilmente compre» * tutti. (MkW Bak[d) R. S. Lopez, Venise et Gênes-, deux styles, une réussite, in « Diogène », n. 71, 1970, pp. 43-51. Venezia e Genova sono state punti di contatto tra l’Oriente e l’Occidente: la situazione delle due città non è sufficiente tuttavia a spiegare una riuscita dovuta soprattutto alPiniziativa degli abitanti. L’A. ha così messo in luce le differenze tra le due città. Venezia, figlia di Bisanzio e depositaria dello spirito dinamico dei comuni italiani, ha saputo creare uno stato nel quale tutta la popolazione si identificava, nobili e popolani, ricchi e poveri, tutti partecipi dei benefici del commercio e dell’accesso a cariche lucrative, a condizione di essere cittadini « du dedans et du dehors ». A di- - 609 - spetto della divisione sociale instaurata alla fine del secolo XIII e malgrado una certa sclerosi delle istituzioni, la repubblica di Venezia durò più di mille anni, grazie al- 1 energia e alla perseveranza dei suoi cittadini, anche attraverso le prove più dure. A Genova, al contrario, Io Stato non è affatto la somma degli interessi comuni; esso è nato da un accordo temporaneo, spesso rimesso in discussione da rivolte e sommosse, accordo stipulato per la protezione di interessi particolari. Mancarono costantemente allo stato genovese mezzi militari e finanziari sufficienti per impostare una determinata politica. All’interno della società genovese si notano rivalità feroci, ma nessuna gerarchia stretta: nobili e popolani si raggruppavano negli alberghi e la oligarchia del Cinquecento non è certo una casta chiusa. Genova accoglie volentieri gli stranieri se essi apportano qualcosa, mentre Venezia li allontana dal commercio. Nei suoi possessi lontani Genova non s’è fatta amare, laddove Venezia, al contrario, ha saputo guadagnarsi la benevolenza durevole delle popolazioni d’oltremare grazie alla pace ed alla buona amministrazione che essa apportava. In definitiva, conclude l’A., ci troviamo di fronte a due potenze marittime e coloniali, costruite attraverso vie particolarmente differenti. (Michel Balard) G. Malandra, I capitoli del collegio degli avvocati di Savona, in « Atti e memorie della Società sovonese di storia patria », n.s., Ili, 1970, pp. 71-87. Il collegio nacque con la riforma degli statuti savonesi del 1581, modellando il suo ordinamento forense su quello genovese. Il testo qui pubblicato, in volgare, appartiene al secolo XVII, con l’aggiunta di una riforma dei capitoli della fine dello stesso secolo. Caterina Massa, Industrie abbandonate nel territorio di Toirano. Note di geografia storica, in Miscellanea di geografia storica e dì storia della geografia nel primo centenario della nascita di Paolo Revelli, Genova 1972, pp. 93-101. Fabbricazione di carta e industria molitoria: queste le prime indicazioni del tardo Medio Evo inerenti una zona che già precedentemente aveva visto attività artigianali quali gualchiere e forni. Le instabili condizioni idrografche del Varatella, soggetto a piene rovinose, possono aver influito sull’abbandono di queste attività economiche sovente danneggiate negli impianti che dalle acque del torrente traevano la loro ragione d’essere. Il quadro delle attività piccolo industriali è completato da installazioni di gombi (frantoi per la produzione di olio d’oliva) e di fornaci per calce, la cui materia prima veniva fornita da rocce calcaree che abbondano nella vallata che presenta interessanti fenomeni dolomitici. L’A. ha rilevato i dati consultando documenti d’archivio ed effettuando ricognizioni sul terreno le quali hanno rivelato abbondanti resti di edifici ormai in inoltrato stadio di decadenza, testimonianza della cessazione di attività di tipo artigianale che non hanno potuto resistere alla concorrenza industriale moderna la quale — peraltro — non avrebbe potuto trovare nell’angusta vallata gli spazi necessari alla installazione di acconci impianti. (Pietro Barozzi) - 610 - Gian Michele Merloni, L'Archivio storico del Comune di Cassano Spinola. in « Novinostra », XII, 1972, n. 3, pp. 32-34. L’A. dà notizia del riordinamento in corso dell’archivio storico del Comune di Cassano Spinola, facendone seguire un sommario inventario e ricordando come esso contenga anche due Catasti, rispettivamente dei primi del XVIII secodo e del 1811. M. G. Mistrangelo, Le pievi della diocesi di Savona, in « Atti e memorie della Società savonese di storia patria », n.s., II, 1968, pp. 5-44. Tentativo di ricostruzione delle circoscrizione della diocesi di Vado, poi di Savona, segnata a Nord della linea displuviale, a Oriente dal torrente Lerone (Cogo-leto), ad Occidente dal Porrà (Finale). Rilevato come le antiche pievi abbiano sede in prossimità del mare, l’A. si sofferma in particolare sulla pieve del Finale, sulle più antiche pievi della diocesi, di cui rileva i mutamenti. Particolare accento viene posto sulla rete stradale e sui primi vescovi della diocesi. Giacomo Molle, Oneglia nella sua storia, I, Milano 1972, pp. 328. L’A. ha tracciato la storia di Oneglia dalle origini fino al passaggio sotto la dinastia dei Savoia (1576), attraverso la signoria dei vescovi di Albenga, prima, e le due successive dinastie dei Doria. Particolare interesse viene prestato alla legislazione statutaria e all’ordinamento della Valle di Oneglia. Larghissima la consultazione delle fonti, molte delle quali inedite, e della bibliografia. Diego Moreno, Una carta inedita di Battista Carrosio di Voltaggio, pittore-cartografo, in Miscellanea di geografia storica e di storia della geografia nel primo centenario della nascita di Paolo Revelli, Genova 1972, pp. 103-114. Gli interessi genovesi legati alla via della Bocchetta costituiscono sempre un motivo valido di studio, ed ogni contributo che ad essi si riferisca è apprezzabile. Ciò vale anche per questa carta che rappresenta uno dei punti nodali dell’itinerario verso le terre padane: il « feudo » di S. Cristoforo che il cartografo rappresenta in visione prospettica in un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Genova. L’A. pone in evidenza l’importanta dell’opera neH’intricato groviglio di controversie di confine fra la Repubblica e i territori d’Oltregiogo. ponendolo a confronto con schizzi coevi ed analizzandone minutamente il contenuto. (Pietro Barozzii Papeles de Estado - Genova (siglos XVI-XVIII) por D. Ricardo Magdaleno (Catalogo XXV del Archivo de Simancas), Valladolid 1972, pp. XIII, 383. Accuratamente preparato da Adela Gonzales Vega, questo prezioso catalogo è stato pubblicato ad iniziativa del Prof. Borlandi e con il contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, nel quadro di una collaborazoine instaurata Ira quest’ultimo e l’Archivio Generale di Simancas. La storiografia genovese può così disporre — final- - 611 - mente — di uno strumento analogo a quelli da tempo resi pubblici per i paesi tedeschi, per le Fiandre, la Francia, l’Inghilterra, Napoli, Sicilia, Milano e Savoia. Il catalogo riguarda le carte della Segreteria di Stato, costituite prevalentemente da corrispondenza da Genova o per Genova, dispacci e minute di dispacci, consulte del Consiglio di Stato, relazioni di Ambasciatori e carte relative a « negocios notabiles », con qualche documento anteriore al 1528 (anni 1495 e 1516), ma prendendo praticamente 1 avvio dagli accordi stipulati fra Carlo V ed Andrea Doria. Esso copre quindi tutto il periodo della « preponderanza spagnola » in Europa, che a lungo si identificò con la preponderanza finanziaria dei genovesi in Ispagna. Per facilitare gli studiosi, di ogni documento è indicata, oltre alla collocazione, anche la numerazione delle carte ed al volume farà seguito la pubblicazione di indici analitici. Si tratta di un primo passo diretto a rendere più accessibile un fondo archivistico di fondamentale importanza, in cui studiosi italiani e stranieri vanno da tempo spigolando o mietendo e di cui, in anni lontani, fu dato un ampio saggio nel vol. Vili della prima serie di questi Atti, a cura di Massimiliano Spinola, L. T. Belgrano e Francesco Podestà. La documentazione descritta non esaurisce certo gli interessi degli studiosi di storia ligure. Altri fondi archivistici conservati negli immensi depositi di Simancas dovranno essere considerati con analoga attenzione, ma già il catalogo ora pubblicato offre elementi e dettagli, anche inattesi, di particolare rilevanza, specialmente per il XVI secolo ed ogni studioso vi troverà copiosi riferimenti sulla storia della Repubblica, sui suoi problemi interni ed esterni (politici, militari, economici, finanziari, religiosi e morali), sulle attività degli esponenti delle maggiori famiglie, sulla situazione nel Levante mediterraneo, nell’Africa settentrionale, in Ispagna ed in Fiandra. Gregorio Penco, I primo monastero cassinese di Genova: S. Niccolò del Boschetto, in « Bencdictina », XIX, 1972, pp. 415-430. Il monastero genovese de! Boschetto fu la prima fondazione che la congregazione di Santa Giustina di Padova ebbe fuori dal territorio veneto. Donato dai Grimaldi, con la collaborazione degli Spinola, nel primo ventennio del Quattrocento, sicuramente priorato dal 1424, San Nicolò raggiunse ben presto un notevole livello spirituale, tale da costituire una potente forza di attrazione; esso incorporava così gradualmente l’agostiniano S. Maria di Cassinelle ed i conventi della Congregazione Ligure, nata nel 1421 (S. Giuliano, S. Benigno, S. Gerolamo della Cervara). Dopo aver accennato ai rapporti che intrattennero con il monastero S. Caterina Fieschi Adorno ed il Vernazza, FA. ricorda le figure di alcuni priori di maggiore rilievo ed i principali avvenimenti della comunità benedettina. G. Pistarino, La Liguria: regione nazione, in « Atti della Accademia Ligure di Scienze e lettere », XXVIII, 1971, pp. 20-47. Dopo aver esaminato le varie testimonianze sulla configurazione della Liguria in età classica ed il successivo spezzettamento nelle tre marche, in senso verticale p iatitudinale anziché orizzontale e longitudinale, conseguenza del regresso bizantino, della costituzione dell’impero carolingio, del sistema feudale e del conseguente prevalere della terra sul mare, fino a « inglobare la vita della costa negli schemi del re- - 612 - troterra », TA. mette in luce la funzione unificatrice, in senso orizzontale, di Genova, favorita dalla sua posizione, al centro dell’arco ligure, ma necessariamente protesa, «tante l’angustia di un retroterra limitato al di là dell’appennino da nuove strutture territoriali, verso il mare, nell’attuazione di un imperialismo economico e marittimo, più della formazione di un Dominio che di un vero e proprio stato regionale; il quale, d altra parte, subirà nel corso dei secoli non poche presenze estranee, e proprio lungo la tradizionale spinta verticale, fino a far mancare, nelle carte geopolitiche dei secc. XVI-XVII la stessa denominazione di Liguria. Nè poteva esistere unità amministrativa, sia per le legislazioni particolari che Genova lasciava sopravvivere, sia per il tenace accentramento economico praticato dalla Dominante a danno dei centri minori. Due tradizioni s’intrawedono quindi, che verranno ad incontrarsi solo nel 1797 quando, con l’avvento della Repubblica Democratica Ligure, verranno a coincidere la Liguria come unità statale (il Dominio) e la Liguria come espressione geografica (dal Varo al Magra, con confini più sfumati verso l’entroterra). A questo punto, l’A. si chiede se esista o meno una nazione ligure. Potè esistere come fusione di elemento autoctono ligure-latino con quello greco-bizantino, come espressione di una solidarietà economica che univa i paesi dell’arco ligure, di comuni esigenze di difesa, di una cultura uniforme, accentuata, durante i primi tempi dell’invasione longobarda, dalla separazione della chiesa ligure da quella milanese. Alla perdita di questa coscienza unitaria in epoca feudale seguirà, a partire dal sec. XI, per opera di Genova, la ripresa del tema nazionale, ma in senso genovese, cementata sul mare e negli insediamenti coloniali genovesi. Si giungerà così ad una civiltà cittadina e regionale, arricchita, tuttavia, dagli elementi molteplici con cui essa è venuta a contatto. (D. P.) Angelo M. G. Scorza, Enciclopedia Araldica Italiana, Presentazione di Leonida Balestreri. Pubblicazione a cura della Società Economica di Chiavari, 1953-1973, pp. XVI-3058, con ili. e taw. fuori testo. Questa pubblicazione, particolarmente estesa ed approfondita, ha tutta una sua storia, non priva di un significativo contenuto che ben rientra nella maniera più commovente nella sfera del sentimento. Avviata alle stampe a dispense con la diffusione del primo fascicolo nel lontano 1953, fu dall’Autore personalmente curata sino al momento della sua scomparsa, avvenuta, tra il generale compianto, nel dicembre 1962. Era questa l’opera che, tra le molte sue, lo Scorza giudicava la più impegnativa e quella destinata a raccogliere attorno a sè l’interesse più vasto. Per questo ad essa si era dedicato con particolare attenzione, sicché quando prematuramente fu colto dalla morte, il lavoro, anche se ancora non del tutto pubblicato, poteva lo stesso dirsi virtualmente compiuto. Ciò, almeno, per quanto aveva attinenza alla raccolta del materiale Non fu quindi difficile alla consorte dell’Autore, signora Matilde Spanio, continuare la pubblicazione basandosi su tutto l’imponente complesso di elementi lasciati dal marito, e portare così a compimento l’opera nella sua interezza. Di alta interesse e significato, e non solo per quanto si attiene al campo strettamente scientifico, è stato quanto realizzato della valente compagna dell’Autore, dando con il suo intellimenze interessamento valida misura della sua attenta compene- - 613 - trazione nel pur arduo lavoro del marito. In questo impegno, almeno per la parte editoriale, la signora si è trovata peraltro affiancata dai dirigenti della Società Economica di Chiavari. Ciò perchè — ed è un altro aspetto del valore morale di questa vicenda — alla sua morte lo Scorza, memore di appartenere ad un ramo della grande famiglia dei Fieschi, volle che le sue cose, compresi i diritti sulle opere del suo ingegno, fossero devolute a quella che in campo culturale è l’istituzione di maggiore prestigio e di più antica tradizione che operi nella terra che è stata culla della sua gente. Un gesto, questo, che, per quello che ha voluto essere il suo senso intimo e profondo, ha degnamente coronato la vita di uno studioso tra i più appassionati che la nostra Liguria abbia avuto ad esprimere in questi ultimi decenni. Al pari degli altri lavori dello Scorza questa Enciclopedia Araldica Italiana si impone all’attenzione degli studiosi per la diligenza delle ricerce su cui essa è fondata e per la straordinaria dovizia di particolari che nelle sue pagine figurano raccolti Si tratta di migliaia e migliaia di nominativi di famiglie nobili italiane, così di quelle appartenenti alle diverse regioni del territorio dell’attuale Repubblica come di quelle originarie di zone nostre oltre frontiera, prima fra le quali — cosa che per noi liguri ha particolare importanza — la Corsica. A parte l’utilità di aver radunato in un’unica raccolta le armi di tutte le famiglie, fiorenti od estinte, di ogni terra italiana, l’interesse maggiore della trattazione dello Scorza sta nel fatto di aver egli indicato tutti i feudi ed i predicati dei diversi casati. Un lavoro di una vastità, e — perchè no? — di una difficoltà del tutto fuori dell’ordinario. La prematura scomparsa dell’Autore ha fatto sì che l’opera risulti priva di quell’appendice da lui preannunciata in poche righe di prefazione al primo capitolo, appendice nella quale sarebbe stato suo proposito fornire l’elenco dei testi consultati e l’indicazione delle fonti dalle quali gli stemmi risultano attinti. La forzata mancanza di questa parte integrativa certamente rappresenta quasi una sorta di mutilazione del volume, mutilazione tanto più grave perchè si tratta di ricerche in gran parte del tutto personali e, come tali, presso che impossibili ad essere sostituite con i risultati di studi compiuti da altri. Un’altra cosa ancora: è un vero peccato che manchi nelle indicazioni relative ai criteri adottati dallo Scorza per redigere la sua gigantesca compilazione, e, cioè, le ragioni in base alle quali nella specificazione delle famiglie nobili italiane egli si discosta in molteplici casi dagli elenchi che sono stati stesi da altri studiosi della materia, quali, in primo luogo, lo Spreti, estensore della Enciclopedia storico-nobiliare italiana, composta — come è noto — di ben otto volumi. Aggiunte ed omissioni che figurano nell’opera dello Scorza sono state fatte certamente a ragion veduta, e pertanto la conoscenza delle motivazioni di esse potrebbe avere per gli studiosi un interesse del tutto particolare. L'Enciclopedia Araldica Italiana dimostra comunque, anche attraverso le annotazioni che si è venuti facendo, e che, ovviamente, non possono rivestire il minimo carattere di critica, l’organicità e la completezza della sua strutturazione. Un’opera, dunque, degna di ogni migliore apprezzamento come il risultato di una ricerca attenta, di un approfondimento meditato, e, soprattutto, di una chiarezza di stesura, per cui, in questo particolare campo di studi, ben pochi sono i termini di paragone ai quali è possibile far riferimento. (Leonida Balestreri) - 614 - SCIENZE AUSILIARIE Aldo Agosto, Regolo cronologico a sistema universale per trovare l'indizione e per la diretta conversione delle datazioni medioevali nello stile moderno, in « Archivi e Cultura», Rass. dell’Associaz. Naz. Archivistica Italiana, n. 1-2, gennaio-dicembre 1968, pp. 27-34. L A. presenta e spiega un regolo da lui studiato e realizzato, che permette senza calcoli con estrema semplicità e rapidità, di chiarire e risolvere selettivametne ogni difficoltà fra i vari sistemi di datazione cristiani in uso ne! medio evo e lo stile attuale (1 gennaio - 31 dicembre), tenendo presente che le date espresse nei diversi computi di datazione medioevali, variamente sfasati rispetto a quello attuale, possono trovarsi numericamente nei confronti di quest’ultimo, in anticipo o in ritardo di un anno. Ma tale regolo appare di grande utilità, quando nei documenti anteriori al sec. XIII non viene menzionato lo stile o quando in certe regioni venivano usati contemporaneamente ed indifferentemente diversi computi di datazione. E’ ovvio sottolineare 1 essenziale importanza per lo studioso e per lo storico, di poter datare esattamente un avvenimento documentato. Questo regolo permette di riconoscere automaticamente anche l’indizione relativa ad un anno, ma permette altresì di risolvere e controllare date di dubbia lettura o incomplete per lacune da guasti del documento. Pertanto i vari stili cristiani medievali, unitamente ai vari computi del numero dcH’Indizione (ivi compresa naturalmente quella « genovese ») sono disposti visivamente in un chiaro grafico comparativo, contraddistinti da diversa colorazione. Fanno da complemento naturale al regolo, sul verso dello stesso, un calendario romano, il computo mobile dei giorni del mese secondo la « Consuetudo Bononiensis » ed un calendario perpetuo. (Angelo Aromando) AA. VV., Indagine sulle risorse paesaggìstiche e sulle aree verdi della fascia costiera ligure: Aspetto Urbanistico, Genova, Ist. di Architettura e Tecnica Urbanistica dell’Università di Genova, 1967-68, (ma 1970), pp. 186. Terzo volume, che conclude l’indagine sulle « risorse paesaggistiche » progettata in funzione dell’apertura dei nuovi percorsi autostradali lungo le Riviere. Conclusivo di una ricerca impegnativa che ha interessato tutta la Regione merita oltre che una segnalazione qualche rapido cenno di valutazione. I lavori raccolti sotto il titolo Aspetto Urbanistico sono aperti da una Introduzione (p. 9-30) dovuta ad E. Fuselli, direttore nella ricerca. Nel presentare il lavoro come frutto di una esperienza interdisciplinare l’A. tiene a sottolineare che le eventuali eterogeneità che si potrebbero riscontrare in questo settore urbanistico sono da imputarsi alla « sensibilità » dei singoli ricercatori. Su questo punto fonda-mentale tuttavia è difficile essere d’accordo, o quantomeno è difficile distinguere quanto l’assenza di omogeneità sia imputabile al singolo ricercatore e quanto invece al metodo urbanistico adottato. L’introduzione è tuttavia interessante per molti aspetti - 615 - e Io diviene particolarmente per i materiali che, inspiegabilmente sono offerti in nota Così ad esempio il « Grafico della dotazione degli strumenti di disciplina urbanistica » al 19ò9 che pone in evidenza il pauroso vuoto esistente per molti tratti delle Riviere, Ancora in nota è relegata una parte dei contributi geografici apportati da E. Scarin a questa indagine; altri dello stesso A. avevano veduto la luce in tempi diversi ed in sedi separate. Un tale trattamento riservato al « Settore geografico » — inizialmente previsto allo stesso piano degli altri contributi disciplinari nell’Organiz-zazione della ricerca (cfr. p. 3) — traduce un atteggiamento sempre più diffuso verso la geografia « ufficiale », positivistica, cui è concesso sempre minor spazio scientifico e culturale nei confronti delle nuove e meno nuove scienze del territorio: 1 ecologia, la geologia, l’urbanistica. Atteggiamento largamente giustificato: resterebbe da valutare però in un caso come questo, il tipo di apporto che propone alternativamente l’urbanistica. Apre la serie dei contributi R. Molinari che nelle pagine successive all’introduzione (p. 31-78) studia il territorio costiero della provincia di Imperia secondo gli schemi di lettura del paesaggio oggettivo e percettivo proposti da K. Lynch. Conclude il lavoro una densa nota metodologica (p. 67-78) che si propone al lettore come indispensabile chiave per la comprensione del tipo di approccio adottato dall’A. Anche questo contributo, per quanto impegnativo non risolve l’equivoco tra « paesaggio » e « panorama » che percorre tutto il volume. Dimenticando la realtà si privilegia la lettura soggettiva, estetica, dell’ambiente. Il territorio costiero della provincia di Savona è analizzato da D. Buscaglia distinguendone otto diverse aree, da est ad ovest, i cui criteri di omogeneità interna restano però abbastanza oscuri. Manca d’altronde qui una nota metodologica che potrebbe in parte giustificare le scelte dell’A. (p. 79-110). G. Forno dedica una trentina di pagine (p. 111-144) alla descrizione della lascia costiera della provincia di Genova compresa tra Arenzano e Recco suddivisa in cinque minori aree di indagine. Anche in questo caso tale suddivisione pianimetrica, per riprendere le parole dell’A. « ha valore meramente metodologico e soggettivo ». In realtà il criterio di valutazione oscilla tra l’apprezzamento soggettivo degli interventi umani recenti sulle pre-esistenze naturalistiche o storiche a seconda dei casi. Interessante il cenno fatto ad alcuni monumenti di archeologia industriale: la filanda di Arenzano, le cartiere ed i forni da calce a Voltri. Altrove però l’A. si limita alla enumerazione dei « luoghi » ad alto potenziale panoramico ». Viene riprodotto in un graiico lo « Schema di figurabilità » dell’intera area di studio anch’esso derivato dalle teorie del Lynch, grafico che stupisce non ritrovare nelle precedenti ricerche sull’imperiese ed il Savonese. F. Delmonte descrive il territorio costiero della provincia genovese compreso tra i due capisaldi del Monte di Portofino e di Sestri Levante, suddividendolo in quattro aree di studio (p. 145-162). Segue una nota metodologica coincidente con uno « Schema di figurabilità » dedicato al Monte di Portofino. Territorio « caldo » per una indagine sulla compromissione del paesaggio costiero in Italia che comprende casi come quello del Monte di Portofino e di Rapallo. Quest’ultimo centro è giudicato dall’A. — che ha invece toni lirici nella descrizione dell’abitato di — 616 - Camogli — « una esperienza sorprendente come conseguenza di uno squilibrio di normativa edilizia ». Chiude la serie delle ricerche F. Marmori che descrive il territorio costiero della provincia di La Spezia (163-183) in quattro diverse sub-aree. Nella nota metodologica e nello « Schema di figurabili » che chiudono il lavoro si propongono però degli « insiemi paesistici » che non rispettano le aree adottate nell’indagine. Ciascun ricercatore ha dedicato infine alla zona analizzata due carte in scala 1:100.000 in cui sono riportate rispettivamente una valutazione dello stato di compromissione del paesagio (le valutazioni di alta, inedia, bassa compromissione ivi adottate sono derivate in definitiva dalla entità degli interventi edili più recenti) ed un censimento degli elementi ritenuti più significativi: monumenti, centri storici, aree a parco, punti panoramici, ecc.. Raccolti in dieci nitide tavole questi grafici concludono il volume. ,, (Diego Moreno) Autori vari, Ma se ghe penso... - Materiale fotografico di Michelangelo Dol cino, Genova 1972, Realizzazioni Grafiche Artigiane, pp. 97. L’editore Merli ha voluto riproporre con questo volume alcune pagine di « campioni » della pubblicistica genovese incentrate su argomenti liguri. Sono sette brani impressionistici e vivaci di Giovanni Ansaldo, Mario Bettinotti, Costanzo Carbone, Umberto V. Cavassa, Orlando Grosso, Arturo Saiucci e Camillo Sbarbaro. Il poeta dell’incomunicabilità è presente con una serie di articoli apparsi sulla « Gazzetta di Genova » -30 novembre 1920, 31 gennaio 1921, 30 aprile 1921 - e qui raccolti col titolo di « Impressioni genovesi ». Ai testi fanno cornice trentasette fotografie pressoché inedite, commentate da Michelangelo Dolcino. Tra queste sono da segnalare una splendida immagine del Carlo Felice e di Piazza De Ferrari, i lavori di copertura del Bisagno, la nascita di via Piave. In tal modo il volume oltre a costituire una piacevole lettura diviene documento storico di una Genova che non esiste più. ,... „ , .. (Victor Balestreri' Hugo Blake, I « Bacini » del campanile di S. Ambrogio a Varazze, in « Bollettino Ligustico », XXII, 1970, pp. 130-136 13 figg. nel testo. Il lavoro è preceduto da una breve nota del pittore prof. Guglielmo Bozzanc che aveva avuto modo di esplorare, salendo per i ponteggi messi in opera dalla Soprintendenza ai Monumenti per il restauro, il campanile, di precisare la localizzazione dei bacini sulle quattro facciate e di tracciare uno schema della loro distribuzione (schizzo a fig. 1). Nel lavoro vero e proprio, FA. classifica mediante una accurata analisi compa rativa i 24 bacini che sono ancora rimasti sui 31 originariamente esistenti. Li raggruppa tipologicamente in sette classi che descrive singolarmente e fornisce i dati per mezzo dei quali se ne può stabilire la provenienza e la datazione. Si tratta di prodotti di Centri medio-orientali ed andalusi riferibili a due periodi: uno intorno - 617 - 27 al 1300 e l’altro al tardo 1400; conclude suggerendo che la collocazione dei bacini sul campanile di S. Ambrogio nuovo a Varazze deve essere riferibile a due periodi diversi e rivela che il gruppo di queste ceramiche rappresenta uno dei più importanti reperti di ceramica a lustro ispano-moresca. Luigi Cattanei, Da una commedia inedita al capolavoro di G. Cesare Abba, in « Atti e Memorie della Società Savonese di Storia patria», n.s. III, 1970, pp. 91-120. Attraverso l’analisi di un abbozzo di tragedia su Spartaco, l’A. mira a verificare quale peso questa abbia avuto nella genesi ideale e stilistica del capolavoro garibaldino, sulla base anche della corrispondenza epistolare con amici (Mario Pratesi, Sciavo) con i quali l’Abba scambiava propositi e osservazioni critiche. L idea di rappresentare lo schiavo ribelle, affacciatasi già nel 1868 sotto la suggestione dell’omonima tragedia del Nievo e forse anche dello stesso Manzoni, del Carcano, del Quinet, venne poi ripresa nel 1872 (« mi parve di aver afferrato il tipo che del grande ribelle si forma nella fantasia di chi rammenta la storia attraversando i campi dell Italia meridionale »). Con puntuali raffronti tra il testo della tragedia e quello delle « Noterelle » si mette in rilievo la progressiva conquista di un linguaggio schiettamente poetico, fatto di semplicità cercata e raggiunta, in cui espressioni ed immagini care al sentimento del poeta riaffiorano a volte letteralmente, ma come alleggerite e purificate. E vengono sottolineate e analizzate le evidenti analogie tra la figura di Garibaldi e quella dello schiavo trace, emergenti fra suggestioni culturali di ispirazione romantica (Foscolo, Bvron). Seguono quattro lettere inedite dell’Abba ad amici. Oreste) M. N. Conti, Chiese che scompaiono, in « Memorie dell’Accademia lunigia-nese di scienze G. Capellini », XXXVII, 1967, pp. 15-51. Anche se di carattere prevalentemente architettonico, lo studio, munito di rilievi e di un abbondante materiale fotografico, non è privo di utili e circostanziate informazioni storiche; le chiese prese in esame sono: S. Nicolò di Villafranca, S. Benedetto in Talavorno, S. Nicolao di Pietra Còrice, S. Pietro di Pisciula. Giorgio Costamagna, Studi di Paleografia e Diplomatica, Roma 1972, pp. 354, 6 tavv. (Fonti e studi del Corpus membranarum italicarum, IX). La lettura del bel volume sul notariato genovese avrà indotto più di un lettore a rammaricarsi per la difficoltà di rintracciare in riviste o in volumi miscellanei i diversi contributi scritti precedentemente dal Costamagna sui più disparati aspetti dell’attività notarile. Bene ha fatto quindi FA. — quasi a voler segnare, dopo l’ampia sintesi sul notariato (v. pag. 604 di questo fascicolo), un doveroso periodo di riflessione — a riproporci, riuniti in unica sede, 19 contributi, alcuni dei quali pressoché introvabili, undici dei quali di prevalente interesse genovese. A! settore paleo-grafico propriamente detto appartengono: La più recente notizia dorsale in note ta-chigrafiche: 1065 («Bollettino Ligustico», II, 1950); Un raro monogramma in note tachigrafiche sillabiche (« Asli », LXXII 1950) Un monogramma in note tachigrafiche — 618 — di notevole importanza paleografica (« Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere », Vili, 1951), che si collocano tutti nel filone della tachigrafia medievale, allo studio della quale FA. ha portato un contributo di particolare rilievo. Di ampio respiro, soprattutto perchè segna un collegamento tra la paleografia e la diplomatica, quella notarile in particolar modo, è La scomparsa della tachigrafia notarile nell’av-vento deU’imbreviatura (« Asli », n.s., III, 1963). Allo stesso ambito notarile si rifanno: La data cronica dei più antichi documenti privati genovesi («Asli», LXXII, 1950); Documenti pontifici inserti nelle imbreviature dei notai genovesi (« Bollettino Ligustico», 1953); I notai del Sacro Palazzo a Genova; secc. X-XI («Atti dell’Acca-demia Ligure di Scienze e Lettere», 1954); La convalidazione delle convenzioni tra comuni a Genova nel sec. XII « Bull. delFArch. Paleogr. Ital., n.s., X, 1955); La tripliec redazione dell’« instrumentum » genovese, Genova 1961 (Notai Liguri dei secc. XII e XIII, vol. VIII); Note di diplomatica comunale: il «Signum communis» e il « Signum populi » a Genova nei secoli XII e XIII (Miscellanea di storia ligure in onore di Giorgio Falco, Milano 1964; cfr. segnalazione in « Asli », n.s., Ili, 1963, p. 376); A proposito di alcune convenzioni medievali tra Genova e i comuni ■provenzali (Atti del I Convegno storico Liguria Provenza, Bordighera 1966; cfr. segnalazione in « Asli », n.s., VI, 1966, p. 342. Ugo Dachà-Marina Dachà, Rapporti tra esplorazioni geografiche e medicina Note sul Milione di Marco Polo, in Miscellanea di geografia storica e di storia della geografia nel primo centenario della nascita di Paolo Revelli, Genova 1972, pp. 15-20 La lettura del Milione offre una vastissima serie di spunti interessanti i più diversi campi di studio. Il valore realistico dell’opera, dopo i fondamentali studi dello Yule e del Benedetto, non è più messo in dubbio, e la grossolana qualifica di « libro delle meraviglie » che al testo poliano fu per lungo tempo attribuita appare sempre meno pertinente ad un’opera che voleva essere una vera e propria guida per il mer cante-viaggiatore che si avventurasse nell’Asia sconfinata. Riprendendo appunti inediti di Paolo Revelli, gli Autori pongono in rilievo alcuni aspetti delle osservazioni del Polo inerenti la medicina, le norme igieniche e l’alimentazione dei popoli da lui visitati. Anche questo contributo, pur limitato, conferma le caratteristiche fondamentali del Milione e l’intuito del Polo che ha saputo — nonostante mancasse delle basi culturali necessarie per comprendere gli argomenti medici trattati — rendersi conto di essere a contatto con una civiltà che in tanti campi (ed essenzialmente in quello medico) era così diversa e sovente più progredita di quella europea. Di particolare interesse risultano le indicazioni sui rapporti uomo-ambiente per quanto riguarda l’alimentazione e le terapie. (Pietro Barozzi) Carlo De Negri, La foce dell’Entella. Note di geografia storica, in Miscellanea di geografia storica e di storia della geografia nel primo centenario della nascita di Paolo Revelli, Genova 1972, pp. 21-23. Esaminando antiche carte del Chiavarese (secoli XVII, XVIII e XIX) FA. traccia un profilo del variare della foce del fiume che si è andata spostando da ovest ad est, — 619 — lasciando un territorio — dapprima paludoso e successivamente bonificato — che è stato utilizzato per l’espansione urbana di Chiavari. Questa variazione è stata determinata dall’intervento dell’uomo teso a favorire un deflusso delle acque fluviali al mare più razionale e più vantaggioso per le attività dei rivieraschi. In particolare di notevole importanza appaiono le opere decise nel periodo napoleonico che prevedevano importanti lavori di arginatura, rettifica e restringimento del corso d’acqua, miranti ad evitare le disastrose ricorrenti alluvioni (una, particolarmente catastrofica, è ricordata nel 1701) cui prima si era cercato di ovviare operando sbarramenti mediante ramaglie per diminuire la velocità delle piene. Di pari passo con lo spostamento della foce dell’Entella si sviluppa il fenomeno deH’arretramento della spiaggia di Chiavari: l’A. conclude affermando che esso è dovuto ad imprevidenza ed incompetenza da parte di chi, nel lodevole tentativo di regolamentare il deflusso delle acque dell’Entella, non si è reso conto di alterare un equilibrio naturale che avrebbe potuto essere in qualche modo salvato creando i presupposti artificiali (moli appositamente collocati) per compensare, agendo sulle correnti costiere e frenando la loro opera erosiva, la sedimentazione che l’Entella operava allorché sfociava liberamente e che doveva venire a mancare ad imbrigliamento avvenuto. (Pietro Barozzi) G. Farris, Frammenti di laudi in ligure antico, in « Atti e memorie della Società savonese di storia patria », n.s. III, 1970, pp. 5-22. Pubblica cinque frammenti, databili al sec. XIV, in « dialetto illustre ligure ». G. Farris, Frammenti di un antico codice della Divina Commedia, Savona 1970, pp. 32, 4 tavv. Esamina quattro frammenti contenenti passi del Paradiso, tratti dall’Archivio di Stato di Savona, appartenenti ad unico codice, che l’A. riconduce con sicurezza alla tradizione dei cosidetti « Danti del Cento ». ^ •, Sergio Gallo, Il materiale cartografico dell’Archivio Storico del Comune di Busalla, in Miscellanea di geografia storica e di storia della geografia nel primo centenario della nascita di Paolo Revelli, Genova 1972, pp. 79-90. Prende in esame tredici carte manoscritte che consentono di seguire l’evoluzione degli insediamenti umani a Busalla e nelle località adiacenÈi, dal secolo XVI al secolo XIX. Di particolare interesse risultano una carta tardo-cinquecentesca e quelle del 1725 e del 1726 che recano delineati con cura i confini fra il Comune di Busalla e quelli polceveraschi, oggetti di secolari controversie. Delle carte conservate nell’Archivio comunale di Busalla l’A. dà una minuta descrizione. (Pietro Barozzi) — 620 — Carola Ghiara, Per la storia della tecnica tintoria: una fonte genovese del « Plictho »?, in « Le Machine », II, 1969-70, nn. 4-5, pp. 7-18. L’importanza dello studio consiste nell’aver rintracciato una fonte genovese del famoso Plictho de l’arte de tentori che insegna a tenger panni, telle, bombasi et sede si per l’arthe magiore come per la comune apparso a Venezia nel 1548 ad opera di Gioanventura Rosetti. La ricerca delle fonti del « Plictho » non si è rivelata agevole e sino ad oggi se ne è potuta indicare solo una in un codice della Biblioteca Marciana di Venezia. L’accurata indagine dell’A. su un codice manoscritto conservato presso la Biblioteca Universitaria di Genova sotto il titolo Medicinalia quam plurima permette di accertare l’esistenza di quella fonte genovese che lo stesso Rosetti aveva indicato genericamente nella prefazione al Plictho. Lo studio, ricco di sicuri riferimenti filologici, porta in calce i testi raffrontati del codice genovese e del Plictho. (Enrico Carbone) N. Lamboglia, Monumenti medioevali della Riviera di Ponente. Torino, Ist. bancario San Paolo, 1970, pp. 180. Ampia e documentata illustrazione del patrimonio monumentale ed artistico delle province di Imperia e di Savona. Con acume e precisione, l’A. ha inquadrato le testimonianze artistiche nella storia civile e religiosa del Medio Evo (trascurando l’età moderna), « periodo in cui la tradizione di autonomia storica ed economica vi sopravvisse a lungo alla supremazia artistica genovese ». Il volume è riccamente illustrato attraverso l’utilizzazione del materiale fotografico dell’istituto Internazionale di Studi Liguri. (D. P.) Tiziano Mannoni, Innovazioni, tecniche nell’arte ceramica del XVI secolo in Liguria, in «Le Machine», Bollettino dell’istituto Italiano per la Storia della Tee cnica, II, 6-7, 1969-70, pp. 101-104, 1 tabella di analisi. Breve nota che riassume i dati tecnici relativi alla ceramica ligure, nella sua particolare fase di trasformazione tra medioevo ed età moderna, così come essi emergono da alcuni giacimenti di scarti di produzione, scavati con metodo archeologico, e da analisi chimiche e fisiche condotte sugli scarti stessi e su normali prodotti ceramici coevi. Lo studio delle tecniche messe in rilievo riguarda soprattutto le materie prime degli impasti e delle ciperte, l’infornatura del finito ed i materiali refrattari. Nelle conclusioni FA. fa considerazioni sulla validità del « Piccolpasso » come fonte tecnologica, e sul metodo archeologico per le ricerche di Storia della Tecnica. Tiziano Mannoni, Sui metodi di scavo archeologico nella Liguria montana (Applicazioni di geopedologia e geomorfologia), in «Bollettino Ligustico», XXII, 1970, pp. 51-64, 6 figg. nel testo. L’A. trae dalle Scienze della Terra alcuni concetti e metodi atti ad interpretare le varie giaciture di reperti archeologici in aree non soggette alla regolare sedimentazione. Descrive dodici casi di stratigrafie normali, anomale, false e rove- - 621 - sciate. Il lavoro, derivato anche da appunti utilizzati per lezioni sulla tecnica di scavo archeologico, è principalmente basato su osservazioni ed esperienze condotte in Liguria, ma può risultare validissimo per le necessità di applicazione metodologica ad altre aree montane. Renzo Molinari, Proposta per l’istituzione di un Parco Regionale del Monte Beigua, Genova 1973, Basile ed, pp. 168, L. 2.000. Il volume realizzato su iniziativa del Centro Studi dell’Unione Camere di Commercio Liguri intende essere un contributo alla pianificazione regionale. Rappresenta, fra tanto parlare di ecologia, una proposta concreta, frutto di più di un anno di ricerche intense e documentate. L’A. ha diviso l’opera in due parti — la prima, descrizione dei valori paesistici, la seconda, indicazioni e proposte operative — ed in undici capitoli che abbracciano tra gli altri gli aspetti economici, quelli ricreativi, quelli scientifici ed urbanistici. L’opera che ha avuto una lunga gestazione per i preliminari contatti con le amministrazioni comunali e per la necessità di rilievi aggiornati, propone la realizzazione di un parco regionale del Monte Beigua compreso tra il mare ed il confine ligure-piemontese, il colle del Giovo ad Ovest e il passo del Turchino ad Est. Tale realizzazione, rivela lo studio, è improcrastinabile se vogliamo salvare l’unico polmone verde, naturale ricambio di aria e di acque, compreso tra le zone industriali di Genova e Savona. Il libro rigorosamente documentato da fotografie e rilievi è integrato da una nutrita bibliografia. (Victor Baiestreri) Eugenio Pedemonte, Il vecchio commercialista racconta..., Genova, a cura dell’Au tore, 1971, pp. 145. Queste agili pagine, dietro lo schermo di una figura di fantasia, tracciano piacevolmente il filo delle reali lunghe e varie esperienze di un professionista genovese tra i più noti e stimati. Non si tratta, ovviamente, di una pubblicazione che vada inquadrata nel novero di quelle da qualificarsi « di storia », ma la ricchezza dei dati e dei riferimenti in essa contenuti, e le aderenti valutazioni di uomini e di cose di volta in volta formulate fanno di questo lavoro quasi una piccola trattazione relativa agli usi ed agli atteggiamenti di un certo ambiente professionale e, attraverso essi, di tutta, si può dire, la vita sociale di Genova nel periodo che, grosso modo, va dalla metà dell’Ottocento ai primi decenni del secolo attuale. E’, insomma, un’autentica descrizione di costume e di folklore, di prima mano, come dimostrano certi azzeccati commenti e visivamente confermano i numerosissimi efficaci bozzetti di Andel intercalati nel testo. (Silvano Balestreri) G. Pesce, Ceramica ligure da farmacia, in « Galeno », XVIII, 1970, pp. 1-18. L’A. descrive ed illustra parte della produzione ligure delle maioliche da « spezieria ». Premesse alcune caratteristiche di tecnica ceramica, vengono illustrati esem- — 622 — plari che per la forma, l’uso del colore ed i tipi della decorazione sono caratteristici della produzione ceramica ligure. G. Pesce, Libri d’argomento storico medico, in « La voce del Gaslini », 1970. Si dà notizia di un nucleo di libri di medicina dei secoli passati lasciati all’istituto Giannina Gaslini dal dott. G. B. Costa Staricco. Particolare interesse per la Liguria rivestono alcuni libri di medicina scritti da studiosi liguri: del noto medico albenganese Matteo Giorgi la biblioteca del Gaslini possiede L’arte piccola del medicare, curioso trattato nel quale si danno particolari istruzioni per la cura delle affezioni intestinali con i clismi di olio d’oliva; del medico Bartolomeo Alizeri esiste il trattato sulla peste con dotte disquisizioni sull’esperienza da lui fatta all’ospedale Pammatone in occasione della epidemia del 1656. E’ pure ricordata l’opera del padre Antero sui lazzaretti della città e Riviere di Genova, stampata nel 1656. Molti libri sono estremamente rari: tra essi la medicina di Ippocrate spiegata al popolo in dieci lezioni (Genova 1850) ed il trattato della scrofolo, sifilide ed erpete del dott. Balestreri pubblicato nel 1855. La storia della medicina di Genova e delle Riviere è presente con la Biografia medica ligure del Pescetto. Importante infine la produzione di G. A. Mongiardini sulla materia medica. G. Pesce, Medaglie liguri a soggetto medico, in « Medaglia », 4, 1972. pp. 53-70. L’A. riprende dal volume dell’Avignone (Le medaglie dei Liguri e della Liguria. in « Asli », Vili, 1972) il materiale medaglistico riguardante i medici e la medicina della Liguria, integrandolo con la descrizione delle medaglie apparse al 1972. Vengono descritte ed in parte illustrate 82 medaglie che riguardano oltre che i medici e la medicina della Liguria, integrandolo con la descrizione delle medaglie apparse fino al 1972. Vengono descritte ed in parte illustrate 82 medaglie che riguardano oltre che i medici illustri e la medicina, gli ospedali, l’università, i congressi sanitari e la beneficenza. G. Pesce, Mezzo tallero inedito delle Fiandre di Filippo Spinola per Tassarolo, in «Rivista Italiana di Numismatica», s. V, XIX, 1971, pp. 225-229. Prendendo alla lettera il dispositivo della concessione imperiale di aprire una zecca nel feudo di Tassarolo (1560) per battere monete d’oro, d’argento e di rame, cuiuscumque generis et valoris, Filippo Spinola (1616-1668) battè monete delle Fiandre modificate nella leggenda se confrontate con i pezzi originali dei Paesi Bassi. Si tratta di una vera falsificazione, ma di « contraffazione » come si usa dire in gergo numismatico. Mentre il tallero di Filippo Spinola è noto al Corpus Nummorum Italicorum, il mezzo tallero qui descritto è inedito e pertanto di notevole interesse. L’attribuzione alla zecca di Tassarolo è possibile per l’attributo di Comes Palatinus di cui lo Spinola era insignito. - 623 - Giuseppe Piersantelli, L’atlante Luxoro, in Miscellanea di geografia storica e di storia della geografia nel primo centenario della nascita di Paolo Revelli, Genova 1972, pp. 115-141. Il piccolo atlante di proprietà della civica biblioteca Berio, che l’A. attribuisce al grande cartografo genovese Pietro Vesconte Maggiolo, mostrando così di condividere la tesi a suo tempo propugnata dal Revelli, è un interessantissimo esempio di raccolta di carte nautiche databile — con tutta probabilità — al primo decennio del Trecento. Illustrando il documento e rifacendone la lunga e controversa storia che riguarda l’attribuzione della paternità dell’atlante e la sua datazione, storia alla quale hanno preso parte studiosi italiani e stranieri di chiara fama, l’A. pone in evidenza 1 importanza della scuola cartografica genovese e si addentra in una dotta disamina delle caratteristiche linguistiche, storiche e cartografiche collegate al prezioso atlante, nato forse più come oggetto da consultazione per qualche dotto appassionato del-1 epoca che come vera e propria raccolta di carte nautiche (e ciò spiegherebbe il suo formato ridotto ed anche il buon stato di conservazione nel quale ci è pervenuto. (Pietro Barozzi) Massimo Quaini, La « Descrittione della Liguria» di Agostino Giustiniani contributo allo studio della tradizione corografica ligure, in Miscellanea di geografia storica e di storia della geografia nel primo centenario della nascita dì Paolo Revelli, Genova 1972, pp. 143-159. L’importanza dell’annalista Giustiniani è ben nota per la sua precisione e per la sua organicità. Proprio per questo motivo il Giustiniani sentì il bisogno di premettere ai suoi « Castigatissimi Annali » una introduzione corografica, appunto la « Descrittione » che in questo studio viene presa in esame. L’A. riconosce ad essa una notevole importanza nella tradizione corografica ligure, e specialmente una spiccata originalità, che assume aspetti di notevole « modernità » per quanto riguarda l’interpretazione del territorio e degli insediamenti umani, legati da reciproci fattori di condizionamento. Esempio tipico della concezione corografica del Giustiniani è costituito dall’individuazione nelle « valli » delle unità subregionali le qual vengono — a loro volta — riunite a formare le tre caratteristiche partizioni della regione: « Liguria montana » (cioè il versante marittimo), « Liguria transappenninica » (cioè l’oltregioco) e « Liguria apuana ». Dai punto di vista antropico il Giustiniani considera gli abitanti suddivisi in Liguri marittimi e Liguri montani, senza peraltro che queste complesse suddivisioni fìsiche che si intersecano con quella antropica gli facciano perdere di vista l’essenziale unitarietà della Liguria che egli ha sempre ben presente. Si tratta di una visione globale e sintetica, basata su profonda conoscenza e accurata analisi, secondo quelli che sono i canoni fondamentali della corografia. L’A. del saggio mette in risalto proprio questa particolare caratteristica esemplificando con abbondanza e competenza. (Pietro Barozzi) — 624 — Massimo Quaini, Per un programma di lavoro della commissione di studio per la geografia storica e la toponomastica della sabazia, in « Atti e Memorie delia Società Savonese di Storia Patria», n.s. IV, 1970, pp. 314-319. Riprendendo precedenti programmi, l’A. prepone una ricerca a livello territoriale comunale sulla toponomastica, ricerca da condursi oltre che con l’inchiesta diretta anche ricorrendo al materiale microtoponomastico riportato nei documenti catastali dell’età moderna. Si provvederebbe in tal modo alla salvaguardia di un patrimonio culturale del territorio savonese affidato per gran parte alla sola tradizione orale e destinato alla sparizione in breve volgere di tempo. In questo senso sembra interessante la parte del programma che prevede una collaterale raccolta di materiali sulle tecniche agricole tradizionali (terrazzamenti, ecc.). (Diego Moreno) Massimo Quaini, Clara Cipollina, Teofilo 0. De Negri, Pagine per un Atlante, in «Bollettino Ligustico», XXIII, 1971, pp. 25-64. Interessànte « lezione » di storia della geografia e geografia storica della Sabazia. Riprendendo in termini aggiornati una vecchia proposta di un Atlante storico regionale — che si presenterebbe come un lavoro dalle caratteristiche assai diverse rispetto all’Atlante Storico Italiano finanziato dal C.N.R. — si sono raccolte queste pagine che constano essenzialmente di una presentazione del De Negri, uno studio di storia della cartografia ligure del Quaini che riguarda la più antica rappresentazione cartografica del golfo di Vado sino ad oggi nota ed un contributo di geografia storica della Cipollina dedicato al porto di Savona. Il Quaini, con ricchezza di riferimenti illustra una « Pianta » databile alla seconda metà del XVI secolo e discute l’ipotesi di una scuola di topografi e cartografi savonesi attiva in quel periodo estremamente importante per il problema della nascita della cartografia terrestre in Liguria. Il secondo contributo riguarda l’insabbiamento del porto di Savona tra Sei e Settecento. In esso la Cipollina, partendo da un problema di ingegneria portuale — già noto alla storiografia locale ma a cui vengono apportati nuovi documenti inediti — illustra numerose rappresentazioni cartografiche del porto di Savona eseguite in quegli anni in relazione al problema del suo progressivo insabbiamento. Chiude i contributi il De Negri con una Appendice dedicata al cartografo Geronimo Ignazio Fiori della cui produzione pubblica un campione particolarmente significativo che riguarda i « terraggi de Noli » alla fine del XVII secolo. (Diego Moreno 1 Silvio Riolfo, Giuseppe Cavi poeta di Savona, in « Atti e Memorie della Società Savonese di Storia patria», n.s., II, 1968, pp. 121-138. Discorso commemorativo, arricchito da ricordi personali, sul poeta dialettale savonese G. Cava (1870-1940), che ebbe una certa fama di scrittore, in versi e in prosa, nel decennio 1930-40, scoprendo già sessantenne una sua vena delicata ed espressiva in quadretti e annotazioni di vita locale, di tono casalingo ma non dimesso. Di famiglia modesta, il Cava esercitò il mestiere di tipografo, facendosi una personale cultura e mettendola al servizio delle nascenti lotte operaie. Condananto e rifugiatosi - 625 — all estero, rientrò in Italia nel 1902 e diresse a Savona un giornaletto umoristico, « Il Marciapiede », durato un quinquennio tra molte difficoltà. Nel 1923, liquidata la sua stamperia, si trasformò in cartolaio e costruttore di modesti giocattoli di sua invenzione. Sue poesie pubblicate nel 1930 richiamarono l’attenzione di A. S Novale e di P. Sbarbaro. Ebbe nel 1931 un impiego nella Biblioteca Civica, che però dovette lasciare per i suoi sentimenti di libertà, vivendo con saltuaria collaborazione al quotidiano genovese « Il Lavoro ». (G. Oreste) Bruno Rombi, I segreti della provincia di Genova, Bologna 1972, pp. 226. Anche se, in rapporto al titolo che ripete quello della collana editoriale in cui il volume è inserito, il testo che qui ci viene presentato poco mantiene della promessa di svelare « i segreti » della provincia di Genova, si deve riconoscere lo stesso che ci troviamo di fronte ad una pubblicazione di notevole interesse. Nato come guida turistica dei diversi centri — capoluogo escluso — della circoscrizione amministrativa di Genova, il volume raccoglie nelle sue pagine un complesso più che rilevante di dati statistici, e di informazioni di vario genere. Quanto peraltro rende ai nostri occhi maggiormente degne di attenzione queste pagine è l’insieme delle brevi ricostruzioni delle vicende storiche delle diverse località ricordate. Non tutte della stessa ampiezza e non tutte egualmente dettagliate, queste sintesi della storia dei vari comuni della riviera e dell’entroterra di Genova offrono, pur con tutti i loro limiti, delle panoramiche dai contorni nitidamente delineati. Aggiungono pregio ed interesse al volume, oltre una ventina di succinte trattazioni monografiche attinenti ai più svariati argomenti relativi alla storia, all’arte e alla vita delle diverse località, quali, ad esempio, « L arte della filigrana », « La pietra nera o lavagna », « La cucina ligure », « I chiodaioli della valle Stura », « I cantieri di Riva », e « I velluti di Zoagli ». (Leonida Balestreri) Carlo Varaldo, Contributo alla conoscenza di G. B. Croce, in « Atti e Memorie della Società Savonese di Storia patria», n.s, IV, 1970-71, pp. 291-296. Del pittore genovese (1615 ca. - 1670), personaggio minore del grande barocco genovese, vengono precisati alcuni particolari della biografia e della produzione artistica, sulla scorta di documenti rintracciati nell’Archivio di Stato di Savona, i quali fra l’altro consentono di attribuirgli due tele considerate finora di autore ignoto: una Madonna del Rosario con Santi, ora nella Chiesa parrocchiale di Valleggia, e una Madonna con S. Giuseppe, S. Domenico e S. Nicola, ora nel Santuario della Pace (ma in quest’ultima l’abito di San Domenico intorno al 1880 fu ridipinto, mutandolo in quello di San Francesco). _ (G. Oreste) — 626 — INDICE DEL VOLUME ' Domenico Cambiaso, I Vicari generali degli arcivescovi di Genova..........pag. 11 Maria Carla Lamberti, Mercanti tedeschi a Genova nel XVII secolo: l’attività della compagnia Raynolt negli anni 1619-20.........» 71 Massimo Quaini, Per la storia del paesaggio agrario in Liguria ..........» 201 Giovanni Forcheri, Aspetti della giustizia genovese alla fine del ’500. La questione del braccio regio . . » 361 Note d’Archivio - Rassegne - Congressi Renato Piattoli, Un documento lucchese concernente Lamba Doria.........pag- 125 Luigi Alfonso, La fondazione della « Casa della Missione » di Fassolo in Genova......» 131 Giovanni Pesce, Schede numismastiche Desimoni . . » 155, 517 Giovanni Pesce, IV Convegno internazionale della ceramica - Albisola........» 187 Leonida Balestreri, Il XLVI Congresso nazionale dell’istituto per la storia del Risorgimento . . . » 190 F. B., A cinquant’anni dalla Conferenza di Genova. Il Convegno italo-sovietico.......» 195 Gillian Moore, La spedizione dei fratelli Vivaldi e nuovi documenti d’archivio.......» 387 Aldo Agosto, Gli elenchi originali dei prigionieri della battaglia di Ponza........» 403 — 629 — Maria Carla Lamberti, Mercanti tedeschi a Genova nel XVII secolo. Nota aggiuntiva.....Pag- 447 Luigi Alfonso, Aspetti della personalità del Card. Stefano Durazzo, arcivescovo di Genova (1635-1664) » 449 Albo sociale...........pag. 5 Giovanni de Toni.........» 553 Giuseppe Piersantelli.........» 555 Notiziario bibliografico........» 565 — 630 — Direttore responsabile: Dino Puncuh, Segretario della Società Autorizzazione del Tribunale di Genova N. 610 in data 19 Luglio 1963 Tipografia Ferrari-Occella & C. - Alessandria