ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Nuova Serie - Voi. XXX (CIV) - FASC. I ARTURO PACINI I PRESUPPOSTI POLITICI DEL «SECOLO DEI GENOVESI»: LA RIFORMA DEL 1528 GENOVA — MCMXC NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VIA ALBARO, 11 _ ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Nuova Serie - Voi. XXX (CIV) - FASC. I ARTURO PACINI I PRESUPPOSTI POLITICI DEL «SECOLO DEI GENOVESI»: LA RIFORMA DEL 1528 GENOVA — MCMXC NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VIA ALBARO, 11 a John e Mary Carol e ai miei genitori Nel compiere le mie ricerche ho contratto debiti di riconoscenza verso molte persone che mi hanno aiutato e consigliato. Anzitutto il prof. Mario Mirri che mi ha guidato nel lavoro, spronandomi a raffrontare gli esiti della ricerca d’archivio con il dibattito generale sullo stato nel delicato momento di transizione fra Medioevo ed età moderna. I proff. Elena Fasano Guarini, Vito Piergiovanni ed il dott. Michele Olivari sono stati prodighi di consigli e di incoraggiamenti. Sono grato al prof. Dino Puncuh ed alla Società Ligure di Storia Patria per avermi concesso un cospicuo spazio negli « Atti », cosi ricchi di prestigiosi contributi. La direttrice dell’Archivio Storico del Comune di Genova, dott. Liana Saginati, mi ha aiutato con grande gentilezza e competenza; i dott. Carlo Bitossi e Alfonso Assini dellArchivio di Stato si sono prodigati oltre i doveri del loro ufficio. Un ringraziamento tutto particolare lo devo a Rodolfo Savelli e a Franca Fortini. La loro amicizia è stata un sostegno indispensabile. Rodolfo Savelli mi ha guidato con maestria neU’intricato mondo degli archivi genovesi e segnalato un gran numero di preziosi documenti. Sobbarcandosi il compito della rilettura del manoscritto mi ha permesso di evitare molti errori e inesattezze. Ringrazio infine mia moglie, che ha trovato modo di aiutarmi in ogni circostanza. ABBREVIAZIONI ASCG Archivio Storico del Comune Genova ASG Archivio di Stato Genova ASM Archivio di Stato Modena BCB Biblioteca Civica Berio BNM Biblioteca Nacional Madrid BUG Biblioteca Universitaria Genova RAHM Reai Academia de Ia Historia Madrid INTRODUZIONE 1. Il secolo dei genovesi Nel tentativo di precisare i motivi e l’ambito di ricerca del presente lavoro è forse utile ricordare un giudizio di F. C. Spooner che, più di trent’anni or sono, parlando del mercato finanziario europeo alla metà del Cinquecento, affermava: « Nous sommes alors à l’aube de ce qu’il faudra bien appeler, un jour ou l’autre, le "siècle des Génois » 1. Queste parole dello storico inglese, oltre a proporre in termini espliciti una nuova prospettiva di lettura delle vicende economiche europee cinque-secentesche ricca di conseguenze per lo studio dell economia in età moderna, suggerivano già allora, implicitamente, anche una revisione dei termini tradizionali di giudizio sull’Italia del tardo Ri-nascimento e sulla natura delle varie realtà statali che ne componevano il frammentato panorama 2. 1 F. C. Spooner, L’Economìe Mondiale et les Frappes Monétaires en France. 1493-1680, Paris 1956, p. 21. Spooner dà poi una dimensione concreta dell’ascesa della città ligure al ruolo di potenza finanziaria mondiale quando, parlando delle rotte seguite dai tesori americani dopo la breve « pénitence » in terra iberica, nota il progressivo affermarsi nella seconda metà del Cinquecento della via che attraverso Barcellona conduceva direttamente l’argento spagnolo a Genova in alternativa alla tradizionale destinazione di Anversa: « Peu à peu cette route allait grandir et faire de Gènes la capitale financière du siècle de l’argent. Elle fut ce qu’avait été Augsbourg, au temps de l’or », ibid., pp. 24-25. 2 II saggio di E. Fasano Guarini, Gli stati dell’Italia centro-settentrionale tra Quattro e Cinquecento·, continuità e trasformazioni, in « Società e storia », VI, 1983, n. 21, pp. 617-639, ricostruisce le tappe più significative del generale ripensamento sulle problematiche concernenti i destini italiani nel Cinquecento, e si conclude con un giusto rifiuto dell’« equazione "crisi del XVI secolo” uguale catastrofe », ibid., p. 630. Un contributo importante per l’originalità dell’impostazione e quel- lo di I. Wallerstein, The Modem World - System. Capitalist Agriculture and thè Origins of European World - Economy in thè Sixteenth Century, New York-San Fran- — 7 — Prima di Spooner già F. Braudel aveva parlato del « très grand chapitre de la prosperité des banquiers génois », formula che più tardi avrebbe anch’egli sostituito con « siècle des génois », dandone, per quanto possibile in un problema di storia economica, una scansione cronologica precisa: si tratta del lungo periodo di predominio dei banchieri genovesi nella finanza europea che segue alla breve egemonia dei Fugger e che, partendo grosso modo dalla metà del Cinquecento, giunse fino agli anni quaranta-cinquanta del secolo successivo3. A questa visione che riconosce la centralità del ruolo della città ligure hanno molto contribuito con i loro classici lavori alcuni storici spagnoli come R. Carande e F. Ruiz Martin: al primo si deve, come è noto, la dettagliata analisi della sempre crescente attività finanziaria di alcune tra le principali famiglie genovesi presso la corte spagnola4, del secondo, dopo altri significativi contributi, si attende da cisco - London 1974 (trad. it. Il sistema mondiale dell’economia moderna, Bologna 1978). Wallerstein opera una totale revisione della storia europea in età moderna ponendola in una prospettiva mondiale. In tale quadro il mito della crisi italiana del Cinquecento si frantuma, e i diversi esiti che le varie zone della penisola conobbero nel periodo del dominio spagnolo possono così essere spiegati sulla base dello specifico ruolo delle singole aree regionali in un meccanismo economico sempre più internazionale. In quest’ottica è senza dubbio possibile leggere le vicende degli stati italiani di antico regime in modo nuovo, prescindendo dal pesante retaggio del confronto con i passati splendori tardo-medievali. 3 La prima citazione è tratta da F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, Paris 1949, p. 394 (trad. it. Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino 1953). Braudel adottò 1 espressione « siècle des génois » nella versione riveduta ed ampliata dello stesso testo redatta in vista della traduzione in lingua inglese: La Méditerranée cit., Paris 1966, p. 454 (trad. it. Civiltà e imperi cit., Torino 1982, p. 536). È senza dubbio un merito dello storico francese l’aver imposto all’attenzione di tutti il grande ruolo dei banchieri genovesi nella finanza europea cinque-secentesca anche se non mancavano, in epoca precedente, significativi interventi come quelli di A. E. Sayous, Le róle des Genois lors des premiers mouvements réguliers d’affaires entre VEspagne et le Nouveau-Monde (1505-1520), in « Boletin de la Sociedad Geogràfica Nacional », LXXII, 1932, pp. 1-20, e Les débuts du commerce de l’Espagne avec l'Amérique (1503-1518), in « Revue Historique », CLXXIV, 1934, pp. 185-215, o di R. S. Lopez, Il predominio economico dei genovesi nella monarchia spagnola, in « Giornale storico e letterario della Liguria », 1936, pp. 65-74. 4 R. Carande, Carlos V y sus Banqueros, 3 voli., Madrid 1943-1967. Il terzo tempo la pubblicazione di un volume sull’argomento che si presume importantissimo e che, per quanto si può evincere dal titolo, sposta ancora più indietro, fino al 1528, la data di inizio della grande ascesa dei banchieri genovesi a posizioni di monopolio nel settore del credito alla corona spagnola 5. Siamo quindi di fronte ad un fenomeno che, pur in attesa di un definitivo inquadramento storiografico (il lavoro di Carande si limita all’epoca di Carlo V), è stato oggetto dell’attenzione e dell’interesse volume della grande opera dello storico spagnolo, edito nel 1967, ci fornisce una puntuale ricostruzione delle vicende finanziarie dell’impero di Carlo V dal suo inizio nel 1519 alla sua fine nel 1556. In esso l’importanza del ruolo dei banchieri liguri è messa chiaramente in luce nel suo progressivo affermarsi. Di quest’opera è recentemente uscita una traduzione italiana (Carlo V e i suoi banchieri, Genova 1987) condotta su un’edizione abbreviata pubblicata a Barcellona nel 1977. 5 Di grande interesse è anzitutto F. Ruiz Martin, Lettres marchandes échan-gées entre Florence et Medina del Campo, Paris 1965. Nella lunga introduzione alle fonti archivistiche pubblicate l’autore delimita cronologicamente il « siècle des génois » riconoscendo nel contempo i meriti di Braudel per aver attirato su di esso l’attenzione degli storici: « L’histoire économique du monde dominé par la Monarchie Hispanique possède, entre 1528 et 1627, un dénominateur commun, sur lequel Fernand Braudel a attiré l’attention en 1949: ce siècle est celui des Génois. Partout, ils sont les intermédiaires décisifs. Et rien n’est compréhensible si on ne l’examine, ne l’interprète à travers leurs normes et leurs positions », ibid., p. XXIX. Ruiz Martin inoltre ci informa delle sue ricerche di cui « les résultats en paraìtront sous peu, à Madrid, dans un ouvrage intitulé: El siglo de los geno-veses en Castilla (1528-1627): capitalismo cosmopolita y capitalismos nacionales», ibid., ρ. XXX. Ancora non si ha notizia della pubblicazione di questo libro che tuttavia già Braudel utilizzò dattiloscritto nella stesura di alcune parti del suo rielaborato Méditerranée nell’edizione del 1966, e sul quale egli esprime un positivo giudizio: «... a mio parere è il più bel libro sulla Spagna del secolo XVI, dopo i classici lavori di Ramón Carande », F. Braudel, Civiltà e imperi cit., Torino 1982, p. 536. Vedi, a proposito del « secolo dei genovesi », anche il lavoro di G. Doria, Un pittore fiammingo nel « secolo dei genovesi », in Rubens a Genova, Genova 1977, e soprattutto, dello stesso autore, il saggio Conoscenza del mercato e sistema informativo: il knoiu-how dei mercanti-finanzieri genovesi nei secoli XVI e XVII, in La repubblica internazionale del denaro tra XV e XVII secolo, a cura di A. De Maddalena e H. Kellenbenz, Bologna 1986, pp. 57-122. Questo saggio fa il punto sull’attuale situazione delle ricerche riguardanti l’attività economica dei genovesi nella prima età moderna e contiene nelle note una bibliografia aggiornata e preziosa. — 9 — di alcuni tra i maggiori storici del nostro secolo. Si tratta di una vicenda di enorme portata che fece di Genova la « capitale du crédit et, sans doute, de la richesse du monde »6: una ricchezza che durò molto al di là dei limiti cronologici sopra ipotizzati se, riferendosi alla fine del Seicento, si è potuto parlare della città ligure come « probablement encore la ville la plus riche du monde d’alors »7. Simbolo di questo secolare predominio furono le fiere di « Bisen-zone », senza dubbio il maggiore centro del movimento di capitali del- 1 Europa dell’epoca e sulle quali il controllo dei genovesi era assoluto s. Le stesse tecniche finanziarie conobbero alcune significative innovazioni, come il patto di ricorsa studiato da G. Mandich9, che risultarono talvolta sconcertanti per i contemporanei. Una famosa e più volte citata frase di un Fugger riassume la situazione con malcelata stizza e con un certo senso di impotenza: « Négocier avec les Génois, ce n’est pas négocier argent comptant comme avec nous, Allemands, mais né- 6 F. C. Spooner, L’Économie Mondiale cit., p. 63. 7 Ibid., p. 37. 8 Sulle fiere di Besangon si dispone di una vasta e qualificata letteratura. Gli spostamenti dei banchieri genovesi alla ricerca di una sede sicura per i periodici incontri nei quali avvenivano vaste operazioni di « compensazione » tra i vari operatori economici sono stati ricostruiti nel dettaglio. Dopo l’inevitabile abbandono di Lione a causa delle vicende politiche della Repubblica, essi si spostarono a Montuel e a Chambery e quindi nel 1535 a Besangon. Successivamente, quando nel 1579 le fiere genovesi dei cambi si trasferirono a Piacenza, esse mantennero il nome della capitale della Franca Contea, sinonimo ormai del predominio dei genovesi sulla finanza europea. Citiamo sull’argomento solo le opere fondamentali senza addentrarci nella folta messe di articoli comparsa soprattutto in riviste francesi. Oltre i lavori di Braudel, Carande, Ruiz Martin e Spooner cui già abbiamo accennato, sono da ricordare J. Gentil Da Silva, Banque et crédit en Italie au XVIIe siècle, tome I, Les foires de change et la dépréciation monétaire, Paris 1969; R. De Roover, L'Évolution de la Lettre de Change, XIVe-XVIIIe siècles, Paris 1953; D. Gioffrè, Génes et les foires de change de Lyon à Besangon, Paris 1960; G. Mandich, Le pacte de ricorsa et le marché italien des changes au XVIIe siècle, Paris 1953; H. van der Wee, Monetary, Credit and Banking Systems, in The Cambridge Economie History of Europe, volume V, The Economie Organization of Early Modem Europe (trad. it. Storia economica Cambridge, volume V, Economia e società in Europa nell’età moderna, Torino 1978). 9 G. Mandich, Le pacte de ricorsa cit. — 10 — goder sur des papiers . . . » 10. È il « secolo di carta » di cui parla Braudel, che da alcuni decenni si andava profilando ma che solo allora divenne una realtà11. La grande spregiudicatezza e le nuove tecniche messe a punto permisero ai finanzieri liguri di superare i pericolosi scogli delle ripetute bancarotte spagnole susseguitesi dal 1557 al 1647. Tali bancarotte, causa determinante del crollo dei Fugger, si concludevano con un « medio generai » che comportava una svalutazione del debito e una riduzione degli interessi12. I genovesi riuscirono a sopravvivere e a prosperare ripartendo i danni sulla vasta area di drenaggio del capitale investito nei prestiti alla corona ,3. 10 F. C. Spooner, L’Économie Mondiale cit., p. 59. R. Ehrenberg cita un’affermazione dell’agente spagnolo dei Fugger, secondo il quale « les Génois possédaient plus de papier que d’argent comptant ». Un fatto che, assieme all’entità dei prestiti dei finanzieri genovesi alla corona, faceva dire ai Fugger « que ces gens risquaient gros partout ». R. Ehrenberg, Das Zeitalter der Fugger. Geldkapitàl und Credit-verkehr im 16. ]ahrhundert, 2 voli, Frankfurt 1896 (ed. frane, abbreviata, Le Siècle des Fugger, Paris 1955). Le citazioni sono tratte dall’ed. frane, a p. 171. 11 F. Braudel, Civiltà e imperi cit., ed. 1982, pp. 544-546. Vedi anche R. Ehrenberg, Le Siècle des Fugger cit., p. 199, quando afferma che: « Quant à l’in-fluence des banquiers génois, elle résulte dune excellente organisation du crédit mis par le moyen des foires au Service du trafic International. Ils pouvaient aussi utiliser, comme moyens de payement, des créances de tous les pays d’Europe sans mettre en circulation de grandes quantités de numéraire. En temps de crise seule-ment, le métal prit à nouveau la place du crédit et alors cet édifice de papier, érigé trop tòt, avec trop de hardiesse, s’écroula ». 12 Sul problema del « medio generai », un concordato che portava al rimborso dei prestiti a breve termine (« asientos ») in titoli di debito pubblico consolidato («juros»), è stato pubblicato di recente un saggio di G. Muto, «Decretos» e «medios generales »: la gestione delle crisi finanziarie nell’Italia spagnola, in La repubblica internazionale del denaro cit., pp. 275-332. 13 Ecco quanto afferma Ehrenberg al riguardo: « De mème, au XVIe siècle, les dépòts à intérèt ont joué un ròle néfaste lors de la banqueroute des maisons allemandes et italiennes. Seuls les Génois furent assez avisés pour renverser les róles lors des banqueroutes espagnoles. Assaillis par leurs créanciers, ils parvinrent à les faire patienter jusqu’à ce que le roi reprìt ses paiements. Ayant dù accepter un remboursement réduit en rentes dévalorisées, ils payèrent leurs créanciers de la mème manière, car on ne devait rembourser en argent liquide que les dépòts sans intérèt », Le Siècle des Fugger cit., p. 192. Vedi anche F. Braudel, Civiltà — 11 — 2. Il problema generale dei presupposti Individuare i presupposti, sia economico-sociali che politici, del « secolo dei genovesi » significherebbe accedere a chiavi di lettura del fenomeno estremamente suggestive. Già Braudel affermava che « la fortuna di Genova è stata preparata in anticipo » 14. Un suggerimento che però ancora non ha trovato un’eco adeguata. Mancano infatti studi specifici sulle precondizioni che la resero possibile e che devono essere ricercate un po’ in tutti i principali campi di studio sulla storia della città a cavallo tra Medioevo ed età moderna. Alcuni dati generali possono essere desunti dalla letteratura storiografica. Anzitutto si è messa nel dovuto risalto l’importanza della antica ricchezza della città e della precoce e sempre più profonda penetrazione dei suoi uomini d’affari nell’economia dell’area iberica a livello sia commerciale che finanziario. Ne parla diffusamente J. Heers all’inizio del suo libro su Genova nel Quattrocento quando rileva come le energie dei mercanti liguri si riversarono prontamente verso l’occidente, e in particolare verso i regni spagnoli e il Portogallo, allorché l’avanzata turca chiuse in modo sempre più completo gli spazi commerciali ad oriente15. Già Sayous aveva illustrato il ruolo dei geno- e imperi cit., ed. 1982, p. 537 e sgg.; J. Gentil Da Silva, Banque et crédit cit., p. 560 e sgg.; F. Ruiz Martin, Lettres marchandes cit., p. XXX e sgg.; H. van der Wee, Sistemi monetari cit., p. 428 e sgg.; G. Doria, Un pittore fiammingo cit., p. 28, n. 51. 14 Secondo lo storico francese i successi cinque-secenteschi della città ligure furono determinati « dalla sua antica ricchezza, dal voltafaccia politico del 1528, nonché dal suo precoce inserimento in Andalusia e a Siviglia, dalla sua partecipazione non soltanto al commercio tra la Spagna e le Indie (ben noto dopo i lavori di André E. Sayous), ma anche tra Siviglia e i Paesi Bassi, quest’ultimo commercio nutrendo il primo», F. Braudel, Civiltà e imperi cit., p. 536 e sgg. 15 J. Heers, Gènes au XVe siècle. Activité économique et problèmes sociaux, Paris 1961, pp. 1 e sgg. e 363 e sgg. Lo stesso autore nel saggio Portugais et Génois aux XVe siècle-, la rivalité Atlantique-Méditerranée, in Actos do III Colòquio International de Estudios Luso-Brasileiros, II, Lisbona 1960, pp. 138-147, ristampato nella raccolta Société et economie à Génes, London 1979, si sofferma sui caratteri particolari della colonia genovese di Lisbona, presto « portoghesizzata », rispetto ai genovesi di Siviglia e di Cadice che rimasero strettamente legati alla madrepa- — 12 — vesi nel lanciare la « puissante machine sévillane, cette première machine européenne à exploiter l’Amérique »16: significativa e massiccia presenza su un asse che sarebbe stato sempre più importante per la società spagnola. Complemento di ciò fu la penetrazione nei traffici sulle rotte fra la penisola iberica e i Paesi Bassi che costituirono il naturale nutrimento degli scambi con le Indie 17. Si è rilevato poi come l’attività delle più ricche famiglie genovesi in campo finanziario fosse, all'inizio del Cinquecento, molto vasta. R. Ehrenberg, nel suo classico lavoro sui Fugger, ne ha ricostruito alcuni momenti fondamentali18. Troviamo il denaro dei banchieri genovesi dietro eventi politico-militari della massima importanza. I Sauli fornirono centoventimila dei centosessantamila ducati che la città concesse a Car- lo Vili per approntare la sua discesa in Italia nel 1494 (gli altri quarantamila vennero dalla Repubblica e dal Banco di San Giorgio) I9. Dopo quest’episodio fu la presenza in Spagna del credito genovese ad accentuarsi notevolmente. Infatti i Grimaldi, i Fornari e i Vivaldi furono al secondo posto, dopo i Fugger, tra i finanziatori di Carlo V tria. Sui genovesi a Siviglia ed in generale in Spagna sono disponibili vari testi: R. Carande, Sevilla fortaleza y mercado, in « Anuario de Historia del Derecho Espafiol », II, 1925, pp. 33, 55 e sgg.; R. Pike, Entreprise and Adventure. The Genoese in Seville and thè Opening of thè New World, Ithaca 1966; E. Otte, Il ruolo dei Genovesi nella Spagna del XV e XVI secolo, in La repubblica inter- nazionale del denaro cit., pp. 17-56. Sullo spostamento degli interessi dei mercanti genovesi da oriente a occidente, si veda F. Braudel, Civiltà e imperi cit., ed. 1982, pp. 362-365. 16 La citazione è tratta da F. C. Spooner, L’Économie Mondiale cit., p. 9. Due contributi di A. E. Sayous sono: Le róle des Génois cit., e Les débuts du commerce cit. 17 Vedi D. Gioffrè, Il commercio d’importazione genovese alla luce dei registri del dazio (1495-1537), in Studi in onore di A. E anfani, voi. V, Milano 1962, p. 138 e sgg. 18 La pionieristica opera di R. Ehrenberg, Le Siècle des Fugger cit., conserva inalterato, a quasi un secolo di distanza dalla pubblicazione, tutto il suo valore. Appare ingiustificata, visti i continui riferimenti all’attività dei finanzieri genovesi in essa contenuti, l’osservazione di Braudel quando afferma: « nous lui reprocherions [.. .] de n’avoir pas reconnu aux Génois une place suffisamment grande ». F. Braudel, La Méditerranée cit., ed. 1949, p. 394. 19 Vedi R. Ehrenberg, Le Siècle des Fugger cit., p. 157 e sgg. — 13 — nella sua lotta contro Francesco I per la corona imperiale, e prestarono il loro denaro all’Asburgo mentre la città era saldamente sotto il dominio del re francese20. A causa del progressivo affermarsi presso la corte cesarea della grande « politica italiana » di Mercurino da Gatti-nara, la ricerca dei mezzi necessari a sostenere gli sforzi militari dell’impero si indirizzò poi, in modo graduale ma sempre più deciso, verso la penisola, e in particolar modo verso i capitali genovesi. Un processo questo che, come già aveva intuito Ehrenberg e come poi dimostrò Carande, era in pieno svolgimento nel periodo che va dal 1522 al 1528 21. Questa vasta e qualificata letteratura mostra come esistessero dei validissimi motivi economici che spingevano la Repubblica all’alleanza con la Spagna e con Carlo V. Tuttavia non bisogna sottovalutare l’importanza degli interessi commerciali e finanziari dei genovesi in Francia. I rapporti con Lione, le cui fiere costituivano il principale mercato europeo dei capitali all’inizio del secolo XVI, cominciarono a ridimensionarsi solo a partire dalla fine degli anni trenta del Cinquecento, solo cioè dopo che nel 1528 la città aveva operato una chiara scelta di campo filoimperiale nel conflitto franco-asburgico22. Dobbia- 20 Ibid., pp. 43 e sgg. e 157 e sgg. 21 Ehrenberg, afferma che: « La partecipation [dei genovesi] aux emprunts de ce dernier [l’imperatore] augmenta surtout à partir de 1524 [. . .] En 1525, les relations d’affaires entre l’Empereur et les Génois se firent plus étroites. A ce moment, d’ailleurs, et jusqu’à la paix de Cambrai, les Fugger firent peu d’affaires avec l’Empereur qui était surtout lié par des emprunts contractés à Anvers et à Gènes », ibid., pp. 159-160. Secondo Carande: « Puede decirse que, con ritmo lento, desde 1524 se acusa la colaboración de los mercaderes genoveses en los planes y las campafias de Carlos V » (Carlos V y sus Banqueros cit., voi. Ili, p. 65 e sgg.). Vedi sotto, p. 210 e sgg. 22 Vedi al riguardo di D. Gioffrè: Gènes et les foires cit., pp. 7-31, e II commercio d’importazione cit., pp. 168-175. Resta il dubbio infatti che il grande interesse suscitato dall’attività dei genovesi in Spagna all’inizio dell’epoca moderna sia legato agli esiti successivi della storia economica europea. Come si è rivelato fecondo lo studio degli « hombres de negocios » genovesi in Spagna, anche quel- lo dell’attività degli « hommes d’affaires », sempre genovesi, nella Francia meridionale ed a Lione nei primi tre decenni del secolo XVI potrebbe riservare delle sorprese. Indagini in questo senso avrebbero il merito di restituire la sua reale complessità a questo periodo, che si è spesso tentato di dipingere, sia da un — 14 — mo quindi chiederci se l’indubbio interesse dei liguri per il mondo iberico rende legittima la posizione di chi, recentemente, dopo aver descritto la loro attività economica in Spagna nei primi tre decenni del Cinquecento, ha affermato che: « il decisivo cambiamento di fronte di Genova nel 1528 fu solo la conseguenza politica di una decisione economica presa già all’inizio degli anni venti»23. Se la parola «solo» fosse sostituita con « anche », non ci sarebbe niente da obiettare. Così com’è, invece, la frase pare inaccettabile perché improntata ad un eccessivo determinismo. Dopo aver studiato le tormentate vicende della Repubblica genovese negli anni drammatici delle guerre d’Italia, siamo indotti ad affermare che per capire i complessi avvenimenti del 1528 è necessario rivalutare le « ragioni della politica » che sono anche « le ragioni degli stati ». Si impone cioè una diversificazione dei settori di ricerca, senza peraltro incorrere nell’errore di privilegiare la capacità esplicativa della propria indagine rispetto alle altre: bisogna cercare negli « avvenimenti », come suggerisce Braudel, quelle « luci congiunte » capaci di disegnare « una certa storia degli uomini »24: una storia che è frutto di più cause concomitanti, incapaci però se prese singolarmente di predeterminarne gli esiti. 3. I presupposti politici Le vicende economiche cui abbiamo or ora accennato, già molto studiate e collegate con tutta evidenza alla grande ascesa cinque-secentesca dei finanzieri genovesi, non costituiscono la materia del presente lavoro. Qui tratteremo specificamente delle premesse politiche interne punto di vista economico che politico, come inevitabilmente destinato a prefigurare gli equilibri secenteschi. Molte notizie sui finanziamenti genovesi al re di Francia Carlo Vili si trovano in Y. Labande-Mailfert, Charles Vili et son milieu (1470-1498). La jeunesse au pouvoir, Paris 1975. 23 E. Otte, Il ruolo dei Genovesi cit., p. 33. Il corsivo è nostro. 24 F. Braudel, Civiltà e imperi cit., ed. 1982, pp. 961-963. — 15 — e internazionali di quell’ascesa. Anche in questa prospettiva si impone però una selezione degli argomenti per superare alcune impasses della storigrafia tradizionale. Una data ha attirato l’attenzione degli storici: il 1528. In quell’anno si verificò una duplice decisiva svolta nella storia genovese. Come è noto, Andrea Doria fu allora protagonista del famoso e discusso « voltafaccia »: nell’estate, dopo alcuni mesi di trattative seguite con apprensione in tutte le corti europee, egli abbandonò Francesco I per entrare al servizio di Carlo V. Per la Spagna l’apporto strategico delle galere del Doria, e della stessa Repubblica che si schierò a fianco del-l’Asburgo, risultò fondamentale nel prosieguo della guerra per la supremazia in Italia. Subito dopo l’ingresso vittorioso in Genova dell'ammiraglio nel settembre — che segnò la fine dell’ultima breve dominazione francese e il definitivo inserimento della Repubblica, nominalmente indipendente, nell’orbita ispano-imperiale - fu portato a termine un progetto di riforma a lungo auspicato e perseguito con tenacia da una parte sempre più cospicua della cittadinanza. Con le leggi del 1528 si mutarono le regole di fondo della vita politica genovese per quanto riguardava sia l’ordinamento istituzionale sia la partecipazione dei singoli alla gestione della cosa pubblica. Uno dei contenuti fondamentali della riforma fu il patto di unità con cui i genovesi intesero sopprimere le fazioni, considerate la causa primaria delle discordie civili. Si cercò di raggiungere questo obiettivo definendo in modo preciso la classe politica tramite la creazione di un « libro » in cui furono iscritti, su un piano di assoluta parità individuale, i nomi di coloro che dopo il 1528 avrebbero avuto il diritto di ricoprire le cariche pubbliche. Strumento tecnico di questo riassetto della classe politica furono i « ventotto alberghi » tra i quali vennero suddivisi i membri del nuovo ceto dirigente. Si intese cioè utilizzare un sistema aggregativo diverso dalle fazioni, destinato a regolare in alternativa ad esse i ritmi della vita politica e l’accesso alle magistrature. Il nesso generale tra i due ordini di problemi, interno ed internazionale, è di per sé ovvio nel momento in cui si affronta la storia delle Repubbliche italiane del primo Cinquecento. Un nesso che risulta ancora più chiaro per il centro ligure, in cui i primi tre decenni del secolo furono un ininterrotto susseguirsi di « esterne do- — 16 — minazioni ». Il dominio diretto francese e la « protezione » spagnola (e poi imperiale) si alternarono in perfetta sincronia con il prevalere nella lotta politica interna di uno dei due schieramenti contrapposti degli « adorni » e dei « fregosi ». Nonostante ciò, manca nella storiografia genovese un tentativo di comprendere in modo unitario gli eventi che condussero, ad un tempo, alla scelta filo-asburgica e alla riforma. La solidità del nuovo assetto istituzionale - destinato a sopravvivere nelle sue strutture di fondo fino alla caduta della Repubblica sotto la spinta delle armate francesi nel maggio 1797 - e la prosperità che Genova conobbe dopo il definitivo consolidarsi dell’alleanza imperiale, giustificano pienamente il valore simbolico che il 1528 è venuto sempre più assumendo. Se l’importanza di questi avvenimenti è indubbia, è contestabile però il fatto che Andrea Doria sia stato considerato il loro unico artefice e promotore25. In realtà, sia il problema della collocazione nel quadro strategico europeo, sia quello di costituire un assetto istituzionale e un sistema di poteri quanto più possibile unitari, avevano origini lontane, ed al raggiungimento deH’obiettivo di por fine alla cronica instabilità del sistema politico concorsero tutte le forze sociali cittadine. Tale instabilità aveva le sue radici nella logica delle fazioni ereditate dal Medioevo; essa tuttavia, nel nuovo panorama delle guerre d’Italia, minava le basi della prosperità di Genova e ne metteva in dubbio la stessa esistenza come stato indipendente. Riassumendo, due sono le considerazioni di fondo che vogliamo mettere in rilievo. Anzittutto che il « secolo dei genovesi » fu il risultato non solo di una vitalità economica plurisecolare, di una conso- 25 Ben poco c’è da ricavare dalle lunghe e invecchiate polemiche, per lo più finalizzate ad esprimere un giudizio etico sulla condotta dell’ammiraglio, che hanno visto contrapposti gli storici italiani da un lato e i francesi dall’altro. Basti ricordare alcuni datati lavori: E. Petit, Andrea Doria. Un admiral condottière au XVIe siècle, 1466-1560, Paris 1887; E. Celesia, La congiura del conte G. L. Fieschi, Genova 1865. Si rimanda comunque per ulteriori informazioni alla bibliografia contenuta nel libro di V. Vitale, Breviario della storia di Genova. Lineamenti storici ed orientamenti bibliografici, Genova 1955. Il recente saggio di E. Grendi, Andrea Doria, uomo del Rinascimento, in « Atti della Società Ligure di Storia Patria », n. s., XIX, 1979, rompe in modo deciso con questa non brillante tradizione storiografica. — 17 — lidata presenza sui mercati spagnoli e di grandi capacità innovative per quanto riguarda le tecniche finanziarie, ma anche di avvenimenti e di scelte di politica internazionale ed interna che non sono riducibili alla pur essenziale figura di Andrea Doria. In secondo luogo che il « 1528 » ha rappresentato, per oltre quattro secoli, nella storiografia e nella pubblicistica genovesi, un punto di riferimento fondamentale dall’enorme valore esplicativo; il voltafaccia del Doria e la riforma unitaria si sono però trasformati in comodi miti volti a spiegare in modo spesso semplicistico la storia genovese del Cinque e del Seicento. Ciò è avvenuto per la mancanza di ricerche che chiarissero i legami tra politica interna ed internazionale; che ripercorrendo la storia dell’ideale di « unione » ne illustrassero il retroterra politico; che analizzando i meccanismi della riforma ne svelassero il reale significato. Detto questo bisogna però ammettere che esistono molti lati oscuri, concernenti veri e propri elementi di struttura della vita cittadina, che rendono ancora oggi arduo capire i ritmi secondo i quali si è evoluta la società genovese. Parlare del retroterra e delle origini della riforma significa infatti porre il problema fondamentale della natura e del ruolo degli schieramenti in lotta per il potere. Purtroppo le linee di divisione politica all’interno alla Repubblica sono conosciute solo nei loro termini astratti e ciò nel quadro di una complessità senza confronti nel pur movimentato panorama delle città italiane del Rinascimento. Nobili contro popolari, guelfi contro ghibellini, adorni contro fregosi, affrontandosi in momenti successivi senza mai scomparire del tutto, danno l’idea di u,na realtà politica fluida al limite dell’in-coerenza. In essa i gruppi si coagulano per poi disgregarsi e lasciare il posto ad altri tipi di schieramenti, con un andamento ciclico di cui è difficile capire i motivi. È fuor di dubbio che, di fronte ad un quadro così articolato, solo nel momento in cui saremo in grado di dare alle fazioni dei contorni più precisi, quando verranno alla luce la loro composizione sociale ed il loro patrimonio ideale e di progettua-lita politica, quando nobili, popolari, mercanti, artefici, bianchi, neri, adorni e fregosi non saranno più etichette ma gruppi familiari e individui nel loro concreto agire, solo allora riusciremo ad avere chiavi di lettura di una sufficiente attendibilità. Per non parlare poi della tipica istituzione genovese degli alberghi. Sorti come forma di organizzazione dei grandi aggregati nobiliari, essi furono lo strumento tecnico di riorganizzazione della classe dirigente nella riforma unitaria, ma ben — 18 — poco si conosce del loro ruolo, della loro storia, del loro rapporto con gli schieramenti politici nell’epoca precedente il 1528 26. Non vorremmo mettere troppo l’accento sui grossi nodi irrisolti che Genova pone a chi tenta un approccio alle sue vicende, ma, nel lavoro di ricerca, appare subito chiaro che solo facendo luce sulle strutture di fondo della vita collettiva sarà possibile avere un quadro interpretativo soddisfacente. Le vie praticabili a tal fine sembrano essere sia una paziente ricerca prosopografica che permetta di accertare permanenze e soluzioni di continuità nell’atteggiamento di forze politiche e sociali sempre più ampie, sia un’indagine sulla capacità di queste forze di esprimere ideologie, di produrre quelle visioni del passato e quei progetti per il futuro che erano il necessario collante per aggregare vaste aree di consenso. D’altro canto, Pesemplarietà e l’unicità ad un tempo delle vicende genovesi del Cinquecento in rapporto ai destini complessivi dell’Italia rinascimentale fanno intuire grosse potenzialità a livello di indagine comparata e sono un forte stimolo a intraprendere ricerche su aspetti ancora così poco noti della storia della città ligure. 4. Le linee di ricerca Con il presente lavoro si è intanto cercato di chiarire il significato dei fatti del 1528. Più in generale si è tentato di ricostruire il clima politico in cui ad un tempo furono compiute la riforma, 1’« unione » e la scelta filoimperiale della Repubblica: tre ingredienti che risultarono decisivi nel rilancio delle sorti di Genova dopo il periodo delle « esterne dominazioni ». Tale simultaneità non fu però né casuale né inevitabile, ma frutto della spinta convergente di diversi fattori. I problemi emersi e le fonti archivistiche utilizzate nello studio di un momento così importante della storia genovese hanno offerto l’opportunità di delineare due campi di indagine, isolabili in modo abbastanza preciso, anche se tra loro strettamente connessi. 26 Per un esame degli studi di J. Heers ed E. Grendi sugli alberghi, vedi sotto, p. 32 e sgg. — 19 — Anzitutto, nel lavoro svolto per una preliminare ricostruzione degli eventi che immediatamente precedettero il 1528, si è via via imposta alla nostra attenzione la diversità tra le politiche e i metodi di controllo delle due potenze che si alternarono nel dominio sulla città; politiche e metodi che ebbero come interlocutore il ceto dirigente genovese con l’immagine che esso aveva di sé e delle proprie esigenze fondamentali. È indubbio che le politiche di Francia e Spagna (successivamente dell’impero) verso la città abbiano pesato nel risolvere il problema di una stabile collocazione di Genova nello scacchiere internazionale. Le diverse caratteristiche del rapporto di subalternità tra il piccolo stato ligure e le due grandi entità territoriali e dinastiche che se ne contendevano l’appoggio e i servigi, interagendo come elemento causale con altri fattori (come ad esempio la vicenda personale del Doria e le inclinazioni, per motivi di tipo più prettamente economico, della aristocrazia mercantile e bancaria), contribuirono a spingere la Repubblica all’alleanza con l’imperatore. Significative divergenze sono riscontrabili nell’azione di Luigi XII e Francesco I da un lato e di Carlo V dall’altro, sia rispetto alle varie componenti sociali del ceto dirigente cittadino sia verso lo stato genovese in quanto tale. Per contro i massimi organismi politici della Repubblica, anche nelle più drammatiche vicende militari, percepivano con chiarezza le imprescindibili regole di convivenza tra la città e chi in un dato momento si trovava ad esercitare su di essa una qualche sovranità, o tentava di istaurarla. Un fatto questo che lascia intendere come valutazioni sulla ricettività dell’interlocutore alle istanze di autonomia dello stato genovese fossero presenti nel determinare gli orientamenti di politica internazionale dei vari gruppi di fazione e infine della collettività. Nel primo capitolo, quindi, si è iniziato a tracciare un quadro di quelli che potremmo definire due diversi « modelli di dominio », della Francia e dell’impero; un quadro che, data l’inevitabile parzialità dei sondaggi nel materiale d’archivio, rimane impressionistico, ma forse non del tutto privo di fondamento. Nell’esporre i risultati di questa parte della ricerca si è ritenuto di non procedere ad una ricostruzione nei suoi dettagli di tutta la vicenda politica degli anni che immediatamen- — 20 — te precedettero il 1528 27. Ai nostri fini è apparso preferibile individuare e trattare in modo più approfondito un certo numero di momenti chiave nei quali emerge con evidenza la natura dei due modelli. Il secondo campo di indagine è stato la riforma del 1528. Obiettivo fondamentale è stato quello di scoprirne i meccanismi di fondo e di ricostruire il confronto politico che ne fu il retroterra. Ben poco si sapeva al riguardo e i risultati del presente lavoro non sono del tutto risolutivi. Copie delle leggi, più o meno complete, sono presenti un po’ in tutti gli archivi genovesi a testimoniare l’importanza attribuita all’evento da parte dei contemporanei. Tuttavia assai scarso è il materiale documentario relativo alle fasi di elaborazione della riforma e all’attività della magistratura cui fu affidato il compito di studiarne i contenuti e metterne a punto il testo. Vista l’impossibilità quindi di una soluzione diretta del problema si è tentato di utilizzare al meglio, per altre vie, quanto è stato possibile reperire nelle dispersive fonti dell’Archivio di Stato. In prima istanza abbiamo cercato di identificare le tappe della gestazione del progetto unitario: gestazione che si è rivelata lunga e complessa al di là di quanto si era potuto supporre fino ad oggi. Sono così emersi alcuni significativi precedenti che sembrano confermare appieno le stimolanti ipotesi fatte da R. Savelli su una inattesa origine popolare delle istanze riformatrici realizzatesi nel 1528 28. Abbiamo poi tentato di ricostruire le coordinate del quadro politico emerso dalla riforma procedendo all’esame dei « libri » che riportano i nomi dei cittadini « ascritti » nei 28 alberghi. Le notizie sulla nuova « classe di governo » sono state « arricchite » con dati di identificazione politica personale raccolti da elenchi di diversa natura. Questa operazione, i cui criteri saranno illustrati dettagliatamente in seguito, ha permesso di individuare, per buona parte dei membri del 27 Sul periodo 1522-1528 il saggio di G. Oreste, Genova e Andrea Doria nella fase critica del conflitto franco-asburgico, in « Atti della Società Ligure di Storia Patria», LXXII, 1950, pp. 2-71, è accurato sebbene per alcuni aspetti molto sintetico. 28 R. Savelli, Dalle confraternite allo stato: il sistema assistenziale genovese nel Cinquecento, in « Atti della Società Ligure di Storia Patria », n. s. XXIV, 1984, pp. 182-186. ceto politico genovese di quel periodo, la « fazione » e il « colore » di appartenenza. Da questa elaborazione di dati riguardanti gli ascritti ùYunicus ordo del 1528 risulta un quadro abbastanza inedito che consente di correggere gran parte dei giudizi fino ad ora prevalenti sulla riforma. Se poi quest ultima parte del lavoro e i criteri che le sono alla base non peccano di arbitrarietà, il 1528 e il suo liber possono rappresentare il punto di riferimento, di partenza o di arrivo, per un dettagliato studio del ceto dirigente e della vita politica genovesi nel secolo a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento: di arrivo per il periodo delle « esterne dominazioni », di partenza per indagini, sul versante politico interno, relative al « secolo dei genovesi ». Un ruolo peraltro giustificato dall’indubbia rilevanza che questo momento ebbe per la città all’inizio dell’età moderna. Le due parti della ricerca sopra descritte forniscono inoltre, come vedremo, delle indicazioni convergenti che pongono in una luce nuova la storia di Genova nei primi tre decenni del XVI secolo. 5. Le divisioni interne Per facilitare l’esposizione della ricerca, crediamo opportuno accennare brevemente alle principali divisioni politiche interne alla Repubblica ed alle caratteristiche forme di aggregazione dei gruppi familiari, gli « alberghi », che contradistinsero la società genovese. Abbiamo già detto delle notevoli difficoltà che si incontrano nel- lo studio della storia politica di Genova agli inizi dell’età moderna. Il groviglio apparentemente inestricabile delle fazioni sembra spesso rendere inutile ogni sforzo diretto a ricercare delle costanti, delle regole interpretative generali. Queste incertezze risultano ancora più marcate nel momento in cui si affrontano gli anni che portarono alla riforma unitaria del 1528, caratterizzati proprio dal tentativo, solo in parte coronato da successo, di dare un taglio alle lotte civili e di rifondare così il ceto dirigente cittadino in un clima di pace e di concordia. Uno schema generale delle divisioni politiche ci è fornito dagli annalisti. Su schieramenti contrapposti troviamo nobili e popolari (i — 22 — secondi a loro volta scissi in mercanti e artefici), bianchi e neri,, sostenitori degli Adorno e dei Fregoso. Il primo sforzo necessario è quel- lo di superare l’idea che si trattasse di binomi separati, riferiti cioè a sezioni diverse del corpo sociale. Così, giustamente, si esprimeva Guicciardini parlando delle fazioni genovesi: « E si confondono in modo tutte queste divisioni che spesso quegli che sono d’una medesima parte, contro alla parte opposita, sono eziandio tra se medesimi divisi in varie parti, e per contrario congiunti in una parte con quegli che seguitano un’altra parte »29. Bisogna cioè immaginare ciascun binomio di fazione contemporaneamente attivo nella realtà genovese e capace di mobilitare, in momenti successivi, le stesse persone su schieramenti tra loro non omogenei: ad esempio, in un periodo in cui prevaleva il conflitto tra adorni e fregosi, un singolo individuo nell’agire come membro di uno di questi due gruppi poteva trovarsi sul fronte opposto rispetto agli alleati di una fase precedente quando invece era stato in primo piano il contrasto tra nobili e popolari. Tenendo presente questo fatto, che solo in apparenza rende incoerenti i sistemi di aggregazione politica, si evita sia di ricorrere a periodizzazioni di tipo troppo generale, inevitabilmente riduttive della complessità del fenomeno, sia di ricondurre tutti i vari livelli della lotta per il potere ad una divisione unica. 6. Nobili e popolari Solo negli ultimi venticinque anni c’è stato uno specifico interesse da parte di alcuni studiosi per il problema della ricostruzione delle coordinate di fondo del quadro politico genovese nel tardo Medioevo e all’inizio dell’età moderna. La loro attenzione si è concentrata quasi unicamente sulla prima delle dicotomie cui abbiamo accennato, cioè quella tra nobili e popolari. Si tratta senza dubbio della contrapposizione che caratterizzò con maggiore continuità la vita della Repubblica, sopravvivendo persino alla riforma unitaria. Sarà qui suffi- 29 F. Guicciardini, Storia d’Italia, Torino 1971, voi. II, p. 655. — 23 — ciente ripercorrerne brevemente la storia e delinearne gli aspetti fondamentali 30. Il conflitto tra nobili e popolari in Genova è incentrato, ben prima del Cinquecento, sulla costante ricerca da parte dei due gruppi di mutare a proprio favore quelle norme istituzionali che, definendo le modalità di accesso ai pubblici uffici, determinavano la composizione stessa del ceto dirigente. La divisione delle cariche tra queste due fazioni risale al 1290, ma tale equilibrio fu infranto nel 1339 a segui- 30 Sulle varie fasi dell’evoluzione del contrasto tra nobiltà e popolo si trovano numerosi riferimenti nei seguenti lavori: di G. Petti Balbi, Genesi e composizione di un ceto dirigente·, i « populares » a Genova nei secoli XIII e XIV, in Spazio, società, potere nell Italia dei Comuni, a cura di G. Rossetti, Napoli 1986, pp. 85-103; di E. Grendi, Un esempio di arcaismo politico: le conventicole nobiliari a Genova e la riforma del 1528, in «Rivista storica italiana», LXXVIII, 1966, n. 4, pp. 948-968, Capitazioni e nobiltà genovese in età moderna, in « Quaderni storici », IX, 1974, n. 26, pp. 403-444, Profilo storico degli alberghi genovesi, in «Mélanges de l’École Fran?aise de Rome», LXXXVII, 1975, η. 1, pp. 241-302, Problemi di storia degli alberghi genovesi, in La storia dei genovesi, voi. I, Atti del convegno di studi sui ceti dirigenti nelle istituzioni della Repubblica di Genova (Genova, 7-9 novembre 1980), Genova 1981, pp. 183-197 (alcuni dei saggi di E. Grendi sono ora raccolti, con qualche leggera modifica, nel volume La repubblica aristocratica dei genovesi. Politica, carità e commercio fra Cinque e Seicento, Bologna 1987) ; sempre in La storia dei genovesi, voi. I cit., si vedano: G. Forcheri, Dalla « Compagna » al Popolo, pp. 73-89; A. Agosto, Nobili e popolari: l origine del dogato, pp. 91-120; G. Barni, La divisione del potere nelle costituzioni Adorno del 1363 e del 1413 (Nobili e Popolari), pp. 121-158; e in La Storia dei genovesi, voi. IV, Atti del convegno di studi sui ceti dirigenti nelle istituzioni della Repubblica di Genova (Genova, 28-30 aprile 1983), Genova 1984, i seguenti saggi: di C. Cattaneo Mallone, La nobiltà genovese dal Boccanegra alla riforma di Andrea Doria, pp. 97-137; G. Forcheri, Dalle «Regulae» costituzionali del 1413 alla Riforma del 1528, pp. 7-29. Si vedano inoltre: di G. Balbi, Boccanegra Simone, in Dizionario Biografico degli Italiani, IX, Roma 1968, pp. 37-40; di V. Piergiovanni, Il senato della Repubblica di Genova nella « riforma » di Andrea Doria, in « Annali della Facoltà di Giurisprudenza », Università di Genova, IV, 1965, η. 1, pp. 230-275, Gli statuti civili e criminali di Genova nel Medioevo, Genova 1980, ed II sistema europeo e le istituzioni repubblicane di Genova nel Quattrocento in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XIII, 1983, η. 1, pp. 3-46; di A. Petracchi, Norma e prassi « costituzionale » nella serenissima Repubblica di Genova. I: La rifoma del 1528, in « Nuova rivista storica », LXIV, 1980, pp. 43-80; e di M. Nicora, La nobiltà genovese dal 1528 al 1700, in Miscellanea storica ligure, II, Milano 1961, pp. 217-310. — 24 — to dell’acclamazione di Simone Boccanegra a Doge. In quell’anno venne infatti istituito il dogato a vita e i nobili furono totalmente esclusi dal governo. Si tratta senza dubbio del momento di più chiaro predominio popolare nella storia genovese, ma questa situazione durò ben poco in tali termini estremi. Le maggiori famiglie della nobiltà, superato per la gravità del pericolo ogni contrasto interno, si opposero militarmente al Doge obbligandolo prima a far loro delle concessioni, quindi all’abbandono della carica ed alla fuga. Sotto il suo successore Giovanni da Murta, i nobili furono riammessi al governo ma anche se gli spazi politico-istituzionali loro attribuiti vennero riconfermati dalle leggi del 1363 — redatte durante il dogato di Gabriele Adorno — tutti i testi costituzionali di questo periodo furono permeati da un forte atteggiamento antinobiliare, eredità del breve ma importante periodo del Boccanegra. Inoltre la carica di Doge a vita rimase, da quando fu istituita nel 1339 a quando fu soppressa nel 1528, appannaggio dei soli popolari. Tuttavia questo monopolio popolare sul dogato, sancito a livello statutario, si svuotò, almeno in parte, di sostanza a causa del restringersi della lotta per la suprema carica cittadina a poche famiglie, e quindi ai soli membri dei casati Adorno e Fregoso che divennero i nuclei aggregatori di fazioni scarsamente connotate da un punto di vista sociale. Il processo di completa reintegrazione dei nobili negli altri uffici pubblici, che portò ad eliminare progressivamente ogni discriminazione e a creare un perfetto equilibrio tra le rappresentanze dei due gruppi nelle magistrature, iniziò nel 1396 quando venne decisa la spartizione paritaria dell’anzianato (massima carica collegiale della Repubblica) e fu portato a termine da Giorgio Adorno con le leggi del 1413. Le stesse castellarne (comandi dei presidi fortificati), vitali dal punto di vista strategico-militare, tornarono allora ad essere equamente suddivise. Nell’eleggere i membri delle varie magistrature della Repubblica si doveva, secondo le Regulae del 1413, aver cura di scegliere illos quos crediderint sufficientes, magisque aptos et idoneos ad officia su-pradicta, medios tamen nobiles et medios populares·, quorum popula-larium medii sint mercatores et reliqui medii sint artistae31. Tale nor- 31 La citazione delle leggi è tratta da V. Piergiovanni, Il sistema europeo cit., p. 17; il riferimento d’archivio è ASG, ms. 133, Leges Reipublicae Ge- — 25 — mativa uscì inalterata dalla revisione istituzionale del 1443 e rimase in vigore fino alla riforma del 1528. L’unico periodo in cui venne seguita una diversa prassi circa l’accesso dei cittadini ai pubblici uffici fu quello della rivolta antinobiliare del 1506-1507 32. Durante la prima fase dei moti venne imposta la cosiddetta « legge dei due terzi »: sotto la spinta del popolo in armi si stabilì infatti che nel comporre le magistrature non si dovesse più adottare la regola della divisione a metà tra nobiltà e popolo, ma che ciascuno dei « tre ordini » (nobili, mercanti, artefici) avrebbe ricoperto un terzo dei posti disponibili. Si trattò comunque di una breve parentesi che fu chiusa in modo repentino dall’intervento dell’esercito francese, guidato dallo stesso sovrano Luigi XII, nell’aprile del 1507. Giungiamo così alla riforma unitaria del 1528. Finalità esplicitamente affermata dell’« unione »33 fu quella di estirpare dalla vita politica cittadina tutte le divisioni faziose. Con evidenza, per quanto riguarda i due contrapposti schieramenti dei nobili e dei popolari, essa nuensis latae anno 1413. Regulae proprie vocantur, c. 93 r. Vedi anche, sempre di V. Piergiovanni, Gli statuti cit., pp. 152-162. 32 Su questa rivolta sono ancora fondamentali i lavori di E. Pandiani, Un anno di storia genovese, in « Atti della Società Ligure di Storia Patria », XXXVII, 1905, e Genova e Andrea Doria nel primo quarto del Cinquecento, Genova 1949. Tra le opere degli annalisti sono da segnalare Alessandro Saivago, Cronaca di Ge nova, pubblicata da C. Desimoni in « Atti della Società Ligure di Storia Patria », XIII, 1873, II, pp. 365-486; Agostino Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, Genova, Antonio Bellono, 1537 (ed. anas. Bologna 1981) ; Oberto Foglietta, Istorie di Genova, Genova, Eredi Bartoli, 1597 (ed. anas. Bologna 1969); Giovanni Saivago, Historie di Genova, ms. dell’Archivio Doria, presso la Facoltà di Economia e Commercio di Genova, scat. 417, n. 1912; e soprattutto Bartolomeo Senarega, De rebus genuensibus Commentaria ab anno MCDLXXXVIII usque ad annum MDXIV, edito da E. Pandiani in RIS2, tomo XXIV, Bologna 1929-32. Sen za dubbio la parte dell’opera di B. Senarega dedicata ai fatti del 1506-7 costituisce una delle migliori fonti disponibili. 33 I termini « riforma » ed « unione » sono in certa misura intercambiabili. Con la parola « riforma » si intende la riorganizzazione globale sia delle regole della vita politica che dell’ordinamento istituzionale; 1’ « unione » invece è la parte della riforma relativa alla fusione del ceto dirigente in un unicus ordo. Nel contempo 1’ « unione » stessa costituisce il nucleo ideale, l’elemento cardine cui deve essere riferita ogni singola norma contenuta nelle leggi del 1528. fallì tale obiettivo. Infatti dopo il 1528 questi gruppi si ripresentarono con le mutate etichette di nobili « vecchi » e « nuovi » ed i loro contrasti tornarono ad occupare per altro mezzo secolo il centro della scena politica genovese. Tappe fondamentali del conflitto furono le leggi del 1547 (denominate del « Garibetto ») e gli accordi di Casale del 1576 in cui sfociarono i moti antinobiliari iniziati l’anno precedente35. Solo dopo il 1576 prese il via un lento ma reale processo destinato a saldare in un unico blocco i vari settori dell’aristocrazia genovese, e ciò in virtù degli effetti di profondi mutamenti, sia economico-sociali, sia politici, che coinvolsero un po’ tutta la vita cittadina36. 7. « Adorni » e « fregosi » Nell’affrontare questo secondo livello di divisione, di tipo più propriamente verticale, che caratterizzava la vita politica genovese, bisogna anzitutto rilevare la pressoché assoluta mancanza di studi al riguardo. Il problema è in primo luogo nelle fonti d’archivio. Fino ad oggi non si è riusciti a raccogliere dati significativi sulla reale composizione dei due schieramenti formati dai partigiani degli Adorno e dei Fregoso. Abbiamo solo le sommarie e spesso interessate notizie forniteci dagli annalisti; mancano però elenchi di nomi o di magistrature che, indicando l’adesione di individui o famiglie alluna o all’altra delle due 34 Sulla legge del « Garibetto » l’unica ricerca specifica è quella di A. Pelacchi, Norma e prassi « costituzionale » nella Serenissima Repubblica di Genova. II: Modifiche al sistema: « Garibetto » e « Leges Novae », in « Nuova Rivista Storica », LXIV, 1980, pp. 524-564. Per un’analisi delle conclusioni cui perviene A. Petracchi nei suoi lavori dedicati alla storia genovese, vedi sotto, p. 389 e sgg. 35 Sui fatti del 1575-1576 e sui contenuti delle Leges Novae, i contributi decisivi venuti da G. Doria - R. Savelli, « Cittadini di governo » a Genova: Ricchezza e potere tra Cinque e Seicento, in « Materiali per una storia della cultura giuridica», X, 1980, n. 2, pp. 277-355, e soprattutto da R. Savelli, Repubblica oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano 1981, rendono inutile dilungarsi in ulteriori indicazioni bibliografiche. 36 Sull’evoluzione politica genovese nell’epoca successiva agli accordi di Casale cfr., oltre ai lavori citati alla nota precedente, C. Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Torino 1978, pp. 75-170. — 27 — fazioni, permettano di calcolarne il peso e lo spessore. Siamo ben lontani dal poter identificare con certezza la natura di questi gruppi ed il loro rapporto con le altre componenti della vita politica cittadina; non ci resta quindi che fare il punto su quanto è possibile capire in base alle testimonianze degli storici coevi. La contrapposizione tra gli Adorno e i Fregoso come fenomeno capace di coinvolgere gran parte dei genovesi derivò dalle tumultuose vicende del Trecento e fu strettamente legata al conflitto tra nobili e popolari e tra guelfi e ghibellini. Essa sorse in conseguenza dell’esclusione dei nobili dalla carica di Doge istituita nel 1339 e divenne via via sempre più importante tanto da segnare, sebbene con significati e valenze diversi, tutte le principali vicende della Repubblica fino a Cinquecento inoltrato 37. La grande ondata popolare del Trecento comportò il polarizzarsi delle forze sociali cittadine intorno alle due famiglie degli Adorno e dei Fregoso, alle quali, a fine secolo, già era ristretta la lotta per la maggiore carica della Repubblica. Gli Adorno divennero i capi carismatici della parte ghibellina popolare, i Fregoso di quella guelfa. Nei due schieramenti confluirono tuttavia anche le famiglie nobili che mai, come abbiamo visto, persero del tutto la loro influenza sulla vita politica e che anzi in tal modo ribadivano il carattere decisivo del loro ruolo. Nei secoli XIV e XV la composizione delle parti dogali mutò frequentemente e solo all’inizio del Cinquecento si giunse ad una stabilizzazione. Troviamo allora le quattro grandi famiglie nobili coinvolte in alleanze non coerenti rispetto al loro originario orientamento di fazione. Infatti i Fieschi ed i Grimaldi, nobili guelfi, insieme agli Spinola, nobili ghibellini, finirono per sostenere gli Adorno (popolari ghibellini) , mentre i Doria, nobili ghibellini, appoggiarono i Fregoso (popolari guelfi) 38. 37 Si vedano al riguardo V. Vitale, Breviario cit., pp. 140-207; J. Heers, Génes au XVc siècle cit., pp. 562-611; C. Costantini, La Repubblica cit., pp. 9-16; V. Piergiovanni, Il sistema europeo cit., pp. 20 e sg., 24. Il saggio di Piergio-vanni è però l’unico in cui viene messa nel giusto rilievo l’importanza per la storia del Quattrocento genovese della lotta tra i sostenitori delle due famiglie dogali. 38 Al riguardo si veda anzitutto Filippo Casoni, Annali della Repubblica di Genova del secolo decimo sesto, Genova, Casamara, 1799, tomo I, pp. 21-22 — 28 — Quanto qui riportato è ciò che si può trarre dagli annalisti e, come spesso accade quando si cerca di indagare la storia politica della Repubblica in questi secoli, ci troviamo di fronte ad un quadro a dir poco contraddittorio. I tre sistemi di divisione, ognuno rappresentato da un binomio contrapposto, si intrecciano con modalità la cui logica è, per ora, oscura. Di fronte a fenomeni così complessi ogni sforzo teso a semplificare o a ridurre a modelli interpretativi generali la specifica situazione genovese risulta inadeguato. Una cosa sembra però certa: le fazioni degli Adorno e dei Fregoso non avevano una composizione sociale rigidamente determinata. Il fatto che le due famiglie-guida fossero originariamente popolari perde così molto del suo significato, come perde significato, in parte, la norma del monopolio popolare sul dogato. Non si può tuttavia affermare che si trattasse di semplici aggregati clientelari. Diversità, anche se non accentuate, nella provenienza sociale degli aderenti ai due gruppi c’erano, e finirono, come vedremo per la rivolta del 1506, con il pesare non poco sugli orientamenti dei capiparte39. 8. Bianchi e neri Anche sulla divisione bianchi-neri mancano studi specifici, in particolare per quanto riguarda il Cinquecento. Ci limiteremo quindi ad esporre le poche certezze acquisite sull’argomento dalla storiografia e a formulare alcune ipotesi. Sia negli scritti degli annalisti che nei testi legislativi la parola « colore » è utilizzata per designare indifferentemente un po’ tutti i vari gruppi che componevano il frammentato sistema politico genovese. Tuttavia il suo significato andò progressivamente restringendosi ad indicare la divisione tra « bianchi » e « neri ». Questi due termini si sostitui- (l’opera del Casoni ebbe già una prima edizione nel 1708), e, oltre alle opere citate alla nota precedente, H. Sieveking, Studio sulle finanze genovesi nel medioevo e in particolare sulla casa di S. Giorgio, in « Atti della Società Ligure di Storia Patria », XXXV, 1905-1906, parte seconda, pp. 20-21 e 155-159. 39 Vedi sotto, p. 166 e sgg. — 29 — rono rispettivamente a quelli di « ghibellino » e di « guelfo » di tradizione medievale. In diverse liste rintracciate negli archivi genovesi si trovano infatti elencate sotto la denominazione di bianchi le più importanti famiglie ghibelline, sotto quella di neri le principali famiglie guelfe. Cercheremo più avanti di stabilire in base a queste fonti il peso politico dei due gruppi, nonché la loro composizione interna; per ora basti rilevare che anch’essi ebbero un ruolo rilevante nel determinare l’accesso dei singoli individui alle cariche pubbliche40. Già prima del 1363, afferma V. Vitale, venne introdotta la prassi della divisione paritetica degli uffici tra guelfi e ghibellini, che veniva così a sovrapporsi a quella tra nobili e popolari o, nei momenti in cui i nobili venivano estromessi dal governo, tra mercanti e artefici41. Nel 1413 si tentò di modificare tale sistema. Nella revisione costituzionale di quell’anno si stabilì infatti che tam in datione, seu col-lattone, vel concessione quorumcumque Officiorum Communis, quam in electione aliquorum futurorum officialium dicti Communis seu pro Communi eligendorum, [ . . . ] non possit, vel debeat haberi respectus ad collorem aliquem, guelforum seu ghibellinorum seu inter ghibellinos et guelfos divisio fieri, vel dicin. La legge non sortì però gli effetti sperati ed alla fine del Quattro-cento e nei primi decenni del Cinquecento troviamo sempre in uso il vecchio e consolidato sistema: ciascuno dei quattro gruppi, nobili bianchi e nobili neri, popolari bianchi e popolari neri, continuò ad occupare un quarto dei posti disponibili in ogni magistratura. Il tentativo di formulare ipotesi generali sulla natura e sul significato della divisione in guelfi e ghibellini all’inizio del Cinquecento è reso ancora più difficile dal fatto, già rilevato da E. Grendi, che alcuni membri del ceto dirigente mutavano « colore » durante la loro carriera politica43. Questi cambiamenti di fronte, che interessavano singo- 40 Vedi J. Heers, Gènes au XVe siècle cit., p. 585 e sgg. 41 V. Vitale, Breviario cit., p. 140. ASG, ms. 133, Leges 1413, cap. 73, cc. 92r.-93v. La citazione è tratta da V. Piergiovanni, Il sistema europeo cit., p. 17. 43 Grendi, Profilo storico cit., p. 24. Come esempio possiamo citare una personalità di primo piano quale Adamo Centurione, il ricchissimo mer- — 30 — li individui, sembrano determinati da motivi di opportunità politica. La prevalenza numerica dei bianchi, sia tra i nobili che tra i popolari, faceva sì che, stante la paritetica ripartizione delle cariche, un individuo avesse maggiori occasioni di affermarsi nella vita pubblica dichiarandosi di colore nero. Frutto in parte dei mutamenti di colore, ma anche del costituirsi di blocchi plurifamiliari (gli alberghi) che non sempre imponevano l’obbligo di un comune orientamento di fazione, è la non perfetta omogeneità di alcuni alberghi e famiglie rispetto alla divisione in bianchi e neri. Mentre si riscontra una assoluta stabilità nel tempo delPallineamento degli individui e in generale dei gruppi cognominici rispetto alla divisione tra nobiltà e popolo, in alcuni alberghi nobili (come i Saivago, i Cattaneo, i Pinelli e i Gentile) e famiglie popolari (come i Costa, i Levanto e gli Oneto) si trovano sia bianchi sia neri. Il problema di individuare il posto occupato da questi due schieramenti nella logica complessiva delle lotte di fazione è quindi del tutto aperto. Un utile indizio, capace forse di indicare un primo campo di ricerca, ci viene da un documento redatto durante la rivolta del 1506 di cui avremo modo di parlare diffusamente in seguito. In esso si stabilisce un accostamento ed un rapporto di filiazione tra le divisioni in guelfi e ghibellini ed in adorni e fregosi**. Un legame di qualche tipo sembra plausibile ancora nel Cinquecento. Entrambi questi binomi contrapposti tagliavano verticalmente la società genovese ed avevano una connotazione sociale assai meno significativa rispetto a quella dei gruppi nobile e popolare. In ogni caso il comune destino cante che accumulò un’immensa fortuna nei traffici finanziari con la Spagna. Elemento di spicco di un albergo prevalentemente bianco, egli fu registrato sotto tale colore in una lista non datata ma di inizio Cinquecento; risulta aver poi mutato fazione in un momento per ora imprecisato prima del 1521, anno in cui lo troviamo tra i Consiglieri di San Giorgio, e in anni successivi tra i Boni viri de tabula, sempre con nobile di colore nero. Il primo elenco è contenuto in ASG, ms. 87, cc. 61r.-71t>. e il riferimento al Centurione è a c. 63 r. I dati sui Consiglieri di San Giorgio sono tratti dai manoscritti di G. B. Cicala, conservati in ASCG, mss. 439-443. Troviamo il Centurione fra i Consiglieri di San Giorgio dell’anno 1521 in ASCG, ms. 443, p. 295. 44 Per il testo del documento ed una discussione del suo significato, vedi sotto, p. 150 e sgg. — 31 — delle divisioni tra guelfi e ghibellini e tra adorni e fregosi - ambedue scomparvero, perlomeno dalla scena cittadina, dopo la riforma del 1528 -testimonia una loro sostanziale affinità. 9. Gli alberghi Agli alberghi genovesi si sono interessati negli ultimi decenni soprattutto E. Grendi e J. Heers ed è dai loro lavori che abbiamo attinto la maggior parte delle notizie che seguono45. Grendi definisce l’albergo come un « istituto a carattere demotopografico » che da un lato aggrega una parte della popolazione secondo il principio familiare della comunanza del cognome, e dall’altro organizza lo spazio urbano, caricandosi così di valenze socio-politiche e culturali 46. In linea generale, almeno da una certa epoca in poi, un dato albergo sorge e comunque si sviluppa con un atto notarile che sancisce in modo formale o la sua creazione ex novo sulla base della volontà di gruppi familiari distinti, o il suo incremento con l’incorporazione di nuovi elementi graditi. Una procedura « contrattuale » quindi che, non basandosi solitamente su legami di sangue, spiega la estrema mobilità del panorama di queste forme associative, caratterizzato dal- 1 improvvisa nascita o dissoluzione di gruppi a seconda dell’affermarsi o dell’esaurirsi dei motivi della loro esistenza47. 45 Lo storico francese, dopo aver messo brillantemente in luce il dinamismo e la precoce modernità della società genovese del Quattrocento con il suo famoso lavoro Gènes au XVe siècle cit., ha dedicato le sue ricerche alla realtà socio-politica urbana nel basso Medioevo. In questa seconda prospettiva egli ci ha fornito un vero e proprio « tableau de synthèse » con il libro Le clan familial au Moyen Age, Paris 1974 (trad. it. Il clan familiare nel Medioevo, Napoli 1976) in cui ha larghissima parte l’indagine sugli alberghi genovesi. Heers, basandosi sull’ampia produzione storiografica che ha messo in evidenza i legami tra mondo rurale e urbano, tra ceti dirigenti cittadini e feudalità dei territori, conclude, in modo tutt’altro che convincente, sostenendo la tesi del tradizionalismo di fondo dell’ambiente sociale urbano nel periodo tardo medievale e rinascimentale. Molto più duttile e soprattutto più attento alla specificità del caso genovese il lavoro di E. Grendi, Profilo storico cit. 46 Ibid., p. 248. 47 Vedi di J. Heers, Le clan familial cit., pp. 97-99, e Gènes au XVe siècle cit., pp. 566 e 574 e sgg. — 32 — Le ragioni che portavano alla costituzione degli alberghi erano assai varie. La spinta poteva derivare da comuni interessi economici, che venivano così a trasformarsi in proficue forme di monopolio, oppure dalla volontà di realizzare un coordinamento di sforzi finalizzato a scopi di egemonia politica. In comune però c’era una costante che Grendi giustamente definisce il « premio del numero ». Egli dimostra come gli alberghi rappresentassero un’effettiva élite del potere e della ricchezza, e come la forza di un albergo fosse sempre legata alla sua consistenza numerica. I registri fiscali dell’ « avaria » (imposta diretta individuale) e gli elenchi delle magistrature ci danno una chiara prova quantitativa di tale realtà. I gruppi familiari più grandi erano infatti quelli nei quali si concentravano il maggior numero di cariche e le fortune economiche più cospicue48. Per ogni membro dell’albergo l’appartenenza a questa struttura fa-miliar-consortile comportava tutta una serie di espressioni di socialità che riempivano una buona parte della sua vita individuale. Insieme al nuovo cognome si acquisivano una serie di significativi diritti, come quello di godere dei privilegi consolidati del gruppo; di partecipare alla gestione degli spazi fisici ad esso riservati quali piazze, logge, chiese; di inserirsi nella ripartizione di spazi cerimoniali, in specie ecclesiastici, che erano per il cognomen chiare affermazioni di prestigio; di godere dei meccanismi di mutua assistenza sempre stabiliti negli statuti dell’albergo e ampiamente testimoniati dai « cartulari » (registri) delle Compere di San Giorgio49. Ovviamente vi era per il singolo individuo anche una serie di doveri che comprendeva talvolta l’obbligo di residenza nella zona di concentrazione immobiliare dell’albergo, e sempre quelli 43 E. Grendi, Capitazioni e nobiltà cit., pp. 407-410. 49 Sul significato dell’albergo come istituzione culturale e sulle prerogative dei vari gruppi nell’area urbana, vedi E. Grendi, Profilo storico cit., pp. 263-268, e J. Heers, Le clan familial cit., pp. 149 e sgg., 159-161, 168-172, 257 e sgg. Per le forme di mutua assistenza all’interno dell’albergo (per lo più rivolte a soccorrere categorie esposte come i poveri, le figlie da maritare senza dote, i giovani studenti) si vedano i lavori ora citati di Grendi (p. 268 e sgg.) e di Heers (pp. 245-247). Spesso si ricorreva in questi casi ai «luoghi» di San Giorgio (titoli del debito pubblico, facilmente trasferibili) che venivano intestati al nome dell’albergo. — 33 — di obbedire alle direttive degli organi collegiali, e di sottostare alla loro giurisdizione. Quanto sin qui esposto riassume, in modo assai sommario, alcune certezze acquisite sull’argomento. Ma quando da una visione sincronica si passa ad una prospettiva storica, nel momento in cui si tenta di calare gli alberghi nel vivo della storia genovese, ci si trova di nuovo coinvolti nel problema delle divisioni politiche interne alla Repubblica. L’albergo fu infatti in origine una forma tipicamente nobiliare di legame tra gruppi di famiglie con interessi comuni. Osservando i registri delle « avarie », si nota come nel Tre e Quattrocento la città risultasse divisa ai fini fiscali in alberghi per quanto riguarda la nobiltà, e in « cone-stagie », ripartizioni topografiche dell’area urbana, per il popolo50. Gli alberghi affondavano quindi le loro radici tanto nella realtà economica quanto nella vita politica genovese e rimandavano alla divisione tra nobiltà e popolo. Come abbiamo detto, nel lavoro che ci ha consentito di identificare gli schieramenti di appartenenza dei cittadini di governo inseriti nell’ unicus ordo del 1528, abbiamo riscontrato una totale coerenza nell’allineamento delle famiglie e degli alberghi a questi due gruppi. Appare evidente quindi che, nel momento in cui un determinato individuo ricopriva una qualche carica pubblica, lo faceva si come portatore di un cognomen, ma anche come membro di uno di questi due schieramenti in cui il cognomen si riconosceva appieno. Ecco quindi riaffiorare nella loro complessità i quesiti sulla natura di fondo delle divisioni politiche genovesi, sul grado di presenza in esse di connotati di tipo economico-sociale, sulle ragioni del loro confuso intrecciarsi. Quesiti che devono essere posti non solo nello studio delle fazioni ma anche nell’analisi delle forme associative tra gruppi familiari. Anche per 1 istituto dell’albergo il 1528 rappresentò un momento di svolta. I dodici Riformatori che crearono 1’ unicus ordo scelsero 28 Sia gli uni che le altre erano poi collocati nelle tradizionali otto « compagne » in cui era suddivisa la città. Questo modo diverso di ripartire il prelievo fiscale corrispose per un certo periodo ad una realtà di fatto: solo i nobili erano organizzati in alberghi. La fissità della prassi amministrativa non tenne conto però del sorgere, a partire dalla seconda metà del secolo XIV, di alberghi di origine popolare. — 34 — alberghi e ripartirono tra essi i cittadini di governo. Nati come libere aggregazioni, gli alberghi assunsero rilevanza istituzionale e furono usati come strumento per unificare il ceto dirigente. Si tentò così di disperdere le fazioni e di ricomporre un mitico clima di concordia e di pace civile. Da allora gli alberghi ebbero una duplice dimensione: continuarono da un lato ad esistere nei modi consueti come associazioni private dei membri « naturali », cioè di coloro che degli alberghi facevano parte da prima del 1528; funzionarono dall’altro come entità politiche nei meccanismi di distribuzione delle cariche senza che gli ascritti ex lege fossero realmente assimilati. Purtroppo anche per il 1528, come per l’epoca successiva, mancano studi adeguati, a conferma del fatto che la storia degli alberghi è ancora in buona parte da scrivere. 10. Alcune questioni di metodo Ci sembra utile a questo punto, prima di iniziare ad esporre i risultati della nostra ricerca, esaminare alcune questioni metodologiche. Per chi studia la storia politico-istituzionale genovese nel periodo a cavallo tra Medioevo ed età moderna è inevitabile l’incontro-scontro con alcuni strumenti interpretativi messi a punto dalla storiografia ed applicati con diseguale efficacia nelle ricerche di storia urbana. Si tratta dei concetti di « arcaismo politico », di « clientela » e di « aristocratiz-zazione ». Il loro congiunto impiego nello studio delle vicende genovesi ha fatto emergere un’interpretazione globale della storia ligure ormai profondamente radicata e largamente condivisa51. 51 Ovviamente queste idee guida non sono state elaborate per interpretare lo specifico caso genovese. Esse sono nate in settori diversi delle scienze sociali e sono state usate con non lievi variazioni di ruolo e di significato all’interno di griglie interpretative spesso antitetiche, in vista di una spiegazione globale degli sviluppi propri del panorama italiano nel periodo di passaggio dal frantumato quadro territoriale dell’epoca dei comuni ai più definiti assetti raggiunti con il sorgere e consolidarsi degli stati regionali. Non è quindi possibile ricondurle ad un’unica matrice. Tuttavia la maggiore o minore centralità ad esse assegnata costituisce talvolta l’elemento caratterizzante delle diverse posizioni assunte dagli studiosi di fronte al fenomeno del più solido strutturarsi, sia sul versante interno, — 35 — I primi due concetti, quelli di « arcaismo » e di « clientela », sono ampiamente presenti nelle opere di alcuni storici che si sono dedicati allo studio delle caratteristiche forme di aggregazione sovrafamiliare proprie del mondo genovese. Si può anzi sostenere che Genova con i suoi alberghi è stata il cavallo di battaglia degli assertori del primato delle forme verticali di integrazione politica; di quanti hanno proposto una lettura della storia politica delle città tardo medievali nella chiave di uno scontro tra ristretti gruppi di potere, negando l’esistenza di un’origine economico-sociale dei conflitti interni ed il carattere « di classe » delle organizzazioni in essi impegnate. II fatto di aver posto in primo piano le solidarietà di tipo clientelare, di cui 1’ « albergo » costituisce la specifica espressione nell’ambito ligure, ha ad un tempo ridimensionato e delegittimato il ruolo degli aggregati politici tradizionali. La domanda che viene implicitamente posta nel caso genovese è se le divisioni in nobili-popolari, adorni-fregosi, bianchi-neri rappresentassero gruppi socialmente omogenei, o comunque capaci di proporsi come guida della collettività, o se invece fossero semplici residui anacronistici, echi del passato medievale che inquinavano la vita cittadina e ne complicavano lo sviluppo al di là della loro effettiva rilevanza. La risposta che J. Heers dà a questa domanda non lascia spazio ad equivoci: concludendo il capitolo su Les cadres politiques nel suo libro Gènes au XVC siècle, lo storico francese sostiene che gli schieramenti politici genovesi erano « des systèmes archa'iques qui ne répon-dent plus, sauf pour certains nobles, aux realités de la vie économique et de la structure sociale »32. Da qui a giudicare la totalità del sistema politico-istituzionale genovese come arcaico il passo è breve53. sia sul piano territoriale, delle organizzazioni di potere in epoca post-comunale. Importanti lavori di sintesi su queste problematiche sono quelli di G. Chittolini, La crisi delle libertà comunali e le origini dello Stato territoriale in « Rivista Storica Italiana », LXXXII, 1970, ora in La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado, Torino 1979, e Introduzione a La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello Stato del Rinascimento, a cura dello stesso, Bologna 1979, e di E. Fasano Guarini, Gli stati dell’Italia centro-settentrionale cit. 52 J. Heers, Gènes au XVe siècle cit., p. 589. È soprattutto J. Heers ad utilizzare con estrema frequenza il concetto di « arcaismo » riferito alla realtà politica genovese con accenti di polemica sempre più duri verso la storiografia marxista e d’impostazione economicista in genere, — 36 — Quello di arcaismo però non è un concetto assoluto ed assume un valore semantico solo allorché è riferito ad altre realtà non arcaiche. Dato che stiamo parlando di « sistema politico-istituzionale », e quindi di « stato », è facile osservare come della Repubblica di Genova si sia comunemente rilevata l’incapacità a costituirsi in stato regionale. È chiaro che il termine di paragone rispetto a cui l’organizzazione genovese del potere è definita arcaica, il « luogo » del non arcaismo, sono in ambito italiano gli stati regionali, in ambito europeo i grandi stati monarchico-territoriali e da un punto di vista teorico la categoria di « stato moderno ». Le fazioni, quindi, vengono considerate la causa e ad un tempo il frutto dell’arcaismo, aggregati politici privi di agganci con la realtà economico-sociale e incapaci di rappresentare sezioni omogenee del corpo sociale. Esse sono dipinte sia come una vecchia eredità medievale, sia come contenitori di gruppi clientelari. Arcaismo, clientele, « caos delle accusata di voler trovare ad ogni costo dei motivi socio-economici alla base delle lotte politiche nella città del tardo medioevo. Parlando delle fazioni guelfa e ghibellina egli afferma: « ni partis politiques ni "classes” sociales ou groupes d’in-térèts, ces "couleurs”, ces factions génoises du Quattrocento sont en somme des survivances, des traditions [...] Ce sont seulement des étiquettes, des noms, des habitudes », ibid., p. 587. È anche indicativo il fatto che nell’analizzare le divisioni politiche nella Genova del Quattrocento lo storico francese si limiti a prendere in considerazione nobili-popolari e bianchi-neri e ciò proprio in riferimento alla storia del secolo che vide il definitivo affermarsi del monopolio sul dogato delle due maggiori famiglie popolari. Si veda inoltre, sul concetto di arcaismo riferito a Genova, J. Heers, Partiti e vita politica nell’Occidente medievale, Milano 1983, p. 69. (Si tratta della traduzione italiana condotta in base all’edizione inglese, Parties and politicai li]e in thè medieval West, Amsterdam - New York-Oxford 1977, ampliata rispetto all’originale francese). Anche il discusso lavoro di J. Heers, Le clan familial cit., è tutto basato sulla tesi del tradizionalismo di fondo della società urbana in epoca tardo medievale e rinascimentale, una tematica poi ripresa in S. Bertelli, Il potere oligarchico nello stato-città medievale, Firenze 1978. E. Grendi, pur prendendo le distanze dalle tesi di Heers (Profilo storico cit., pp. 289-291), parla di «arcaismo della società politica genovese» (Un esempio di arcaismo cit., pp. 948-951). Un accurato esame critico delle affermazioni di Heers e del suo ricorso al concetto di arcaismo lo troviamo in V. Piergiovanni, Il sistema europeo cit., pp. 1-10 e 46. Vedi anche la breve premessa di C. Costantini, al volume Nobiltà e governo a Genova tra Cinque e Seicento, in « Miscellanea storica ligure », XII, 1980, n. 2, pp. V - IX. — 37 — fazioni » costituirebbero i termini « strutturali » in cui si è mossa la politica genovese del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento. Ciò in un Europa dove, al contrario, l’evoluzione tendente a costituire più solide forme statuali aveva già prodotto notevoli risultati. Il processo di aristocratizzazione e di oligarchizzazione del potere avrebbe rappresentato, in tale quadro, un veicolo di razionalità capace, se non di colmare il divario che separava lo stato ligure dall’esperienza degli stati regionali italiani, perlomeno di sottrarre il sistema politico genovese alla precarietà che lo caratterizzava. Le tre riforme instituzio-nali del XVI secolo (1528, 1547, 1576) sarebbero quindi, nella sostanza, le tappe decisive della creazione di un compatto, e sempre più chiuso, ceto dirigente cittadino, in grado finalmente di superare le proprie divisioni interne, di dare stabilità al governo della Repubblica. Per quanto riguarda specificamente il 1528 troviamo però un’ulteriore articolazione del giudizio degli storici. Da un lato rimane ferma l’idea della continuità dell evoluzione politica genovese del Cinquecento in senso oligarchico ed aristocratico, e la riforma cosiddetta « doriana » ne costituirebbe la prima decisiva tappa avendo sancito l’espulsione dalla vita politica cittadina di gran parte delle forze popolari e artigiane fortemente presenti e attive in epoca anteriore. Dall’altro si sono però denunciate le inadeguatezze del nuovo assetto istituzionale, la sua incapacita di estirpare tutte le divisioni faziose. Il risorgere del dualismo tra nobili e popolari ha portato a definire « effimero » il successo della riforma e fallimentare 1 esito dello sforzo di progettualità politica che produsse l’ideale dell’ « unione » 54. Questa interpretazione della storia genovese, che pur ha rappresentato il quadro di riferimento in cui sono iniziate le nostre ricerche, si è dimostrata via via sempre più inadeguata. 54 A parlare di « successo effimero » della riforma è A. Petracchi (Norma e prassi, II, cit., p. 524); E. Grendi (Capitazioni e nobiltà cit., p. 441) afferma che «unione », perseguita inserendo i membri del ceto dirigente nei ventotto alberis !’ * . man’iestamente uno scacco ». Si tratta solo di due esempi ma la tesi del fallimento della riforma come progetto di abolizione delle discordie civili è, in modo più o meno esplicito, presente in tutti i lavori citati sopra, p. 24 n. 30. — 38 — 11. Il primato politico degli alberghi·. un assunto ideologico o una realtà storica? Vagliare criticamente la consistenza di questa interpretazione significa anzitutto confrontarsi con la tesi di J. Heers circa l’assoluta centralità degli alberghi nel sistema politico cittadino. Un confronto reso ancor più urgente dall’importanza ad essi attribuita come prova del primato in genere delle forme clientelari di aggregazione politica in epoca tardo medievale e all’inizio dell’età moderna. Al riguardo dobbiamo anzitutto ribadire la necessità di ulteriori indagini. Ciò al fine di sottrarre sia questo particolare aspetto, sia la vicenda politica genovese in generale, a controversie ideologiche e metodologiche che hanno finito con l’immiserirne la complessità. Basti pensare alle posizioni assunte da Heers nel suo libro Le clan familial au Moyen Age. Non risultano certo immotivate le parole dello storico francese che, inserendosi nella ormai vecchia polemica suscitata dal libro di B. F. Porchnev sulle rivolte popolari nella Francia del Seicento, invitava alla prudenza nel considerare le stratificazioni sociali in epoca preindustriale55. È senza dubbio giusta la preferenza che egli accorda a parole « neutrali » come « gruppi » e « categorie » rispetto alle « classi » di tradizione marxista56. Molto meno convincente è invece 55 Nella virulenta discussione suscitata dal libro di B. F. Porchnev, Les sou-lèvements populaires en Trance au XVIIe siècle, Paris 1963, (trad. it., condotta sull’edizione abbreviata francese uscita nel 1973 presso Flammarion, Lotte contadine e urbane nel grand siècle, Milano 1976) negli ambienti storiografici francesi, Heers si è schierato risolutamente {Le clan familial cit., pp. 7-12, 120-126 e 261-267) dalla parte di R. Mousnier, principale oppositore del tentativo operato dal Porchnev di interpretare la monarchia francese del « grand siècle » come apparato repressivo a servizio di una formazione sociale ancora feudale. È nel contesto di questo dibattito sulla natura della lotta politica nell’« ancien regime » che devono essere inquadrate talune pagine di Heers che altrimenti resterebbero incomprensibilmente astiose nei confronti degli storici marxisti. 56 Egli sostiene che « l’emploi mème involontaire, par commodité, du mot "classe” ne peut qu’introduire des confusions regrettables. Mieux vaut parler, selon le cas, de catégories sociales, de niveaux de fortunes, de genres de vie, d’activités professionnelles et de métiers. Ces expressions, plus precises, ont au moins le mérite de signifier quelque chose », J. Heers, Le clan familial cit., p. 11. — 39 — quando afferma « l’importanza decisiva dei legami verticali, delle strutture sociali che pesano sulla vita politica e sui conflitti molto più dei contrasti economici tra livelli di fortuna o tra le classi, entità assai mal definite di cui è assai difficile verificare l’esistenza, se non nelle opere di certi storici »57. Riducendo il significato del termine « sociali » al concetto di « legami di parentela » o « di clan », si ottiene l’assunto fondamentale, il presupposto metodologico del lavoro dello storico francese. Una volta ricostruiti i nessi tra realtà cittadina e mondo rurale egli giunge al rifiuto « de la thèse, maintenant dépassée, sur le ca-ractère nouveau, originai, révolutionnaire en quelque sorte des marchands et de l’aristocratie urbaine »58. È di per sé difficile accettare liquidazioni di fenomeni che sono molto più che semplici miti storiografici e condividiamo in pieno la critica generale alle posizioni di Heers fatta da G. Tabacco. Quest’ultimo, recensendo Le clan familial au Moyen Age, affermava: « disconoscere, se non la presenza, certo l’efficacia delle divisioni orizzontali della società cittadina, significa impoverire sotto un altro rispetto il quadro complesso e contraddittorio di quella società »59. Tuttavia, poiché nei lavori di Heers la realtà genovese ha un peso determinante (il libro sopra ricordato è sorretto nella sua struttura dalla documentazione relativa agli alberghi genovesi), ci sentiamo punti nel vivo da numerose affermazioni in essi contenute. Limitandoci ad un esempio tra molti possibili, notiamo che una conseguenza dei presupposti ideologici cui si è fatto riferimento è quanto Heers sostiene riguardo alla riforma unitaria del 1528. Partendo dall’assunto che gli alberghi costituiscono il decisivo elemento di raccordo e di articolazione dell’agire politico del ceto dirigente cittadino, egli afferma che la « consécration et la reconnaissance du pouvoir des clans correspond exactement à la réforme accomplie à Gènes par An-dreà Doria [. . .] en 1528 »60. Heers, basandosi su una teorizzazione glo- 57 J· Heers, Partiti e vita politica cit., p. 199. Vedi anche dello stesso Le clan familial cit., p. 121, η. 1. 58 Ibid., p. 21 e sg. 59 «Studi Medievali», 3a serie, XVII, 1976, p. 221. 60 J. Heers, Le clan familial cit., p. 96 e sg. — 40 — baie circa il carattere dei conflitti politici interni alle città del tardo Medioevo e senza aver approfondito le vicende del primo Cinquecento genovese, riduce la riforma del 1528 a semplice sigillo del potere dei clan. Egli, non comprendendo la differenza profonda tra gli alberghi del periodo precedente il 1528 (reali associazioni di persone nate per libera scelta) e quelli sorti dalla riforma (aggregazioni artificiali create d’autorità dai legislatori per raggiungere finalità del tutto diverse), confonde quello che fu solo uno strumento tecnico per realizzare un progetto politico quanto mai ampio e complesso, dalle origini lontane e dalla sofferta gestazione, con la sostanza di quel progetto politico stesso61. Scompare nell’interpretazione di Heers ogni contesto storico determinato, scompaiono gli uomini che con esso dovettero confrontarsi nella ricerca di soluzioni atte a garantire la sopravvivenza dello stato. È evidente come l’attenzione, peraltro legittima, alle permanenze, ai caratteri strutturali del processo storico, ha condotto Heers a considerare la storia come specchio di queste permanenze e strutture, perdendo di vista una qualunque prospettiva globale e diacronica. Risulta quindi senz’altro giusta la precisazione di E. Grendi secondo la quale « in ogni caso non c’è alcuna necessità di attribuire a questa "classe” [cioè la parte del ceto dirigente genovese organizzata in alberghi] quei caratteri esclusivi e “feudali” che Heers, alla ricerca di un rapporto di filiazione tra gens territoriale e clan urbano, le attribuisce necessariamente »62. Tale critica deve però a mio giudizio essere estesa all’affermazione, condivisa da entrambi gli studiosi, del primato assoluto delle « forme di integrazione verticale », del rapporto « patroni-clienti » sia all’interno dell’albergo che nel complesso della 61 R. Savelli (Le Repubblica oligarchica cit., p. 62 e sgg.) ha mostrato come, dopo le critiche portate da Oberto Foglietta (Delle cose della Repubblica di Genova, Roma, Baldo, 1559, p. 85 e sgg.) al sistema degli alberghi alla fine degli anni Cinquanta del XVI secolo, nel tumultuoso periodo che portò alle leggi di Casale del 1576, numerose furono le proposte per sopprimere questo sistema. Si pensò ad esempio di sostituirlo con la ripartizione della nobiltà in otto « seggi » territoriali (quartieri). Ciò dimostra come i 28 alberghi fossero considerati dai contemporanei un mero espediente tecnico passibile di essere sostituito o addirittura soppresso (come realmente avvenne con le leggi del 1576). 62 E. Grendi, Profilo storico cit., pp. 289-290. — 41 — vita politica63. Altrimenti si rischia di appiattire una realtà quanto mai complessa, rappresentando come uniformi nella loro natura sistemi di schieramenti tra loro molto diversi. Le clientele sono senza dubbio importanti, ma prevalgono solo in alcuni momenti, e in ogni caso non esauriscono il problema delle fazioni. Come vedremo, sembra essere piuttosto lo sviluppo della problematica politica a selezionare con i suoi contenuti aggregati diversi dalle connotazioni economico-sociali più o meno significative ma comunque sempre presenti. In particolare è inaccettabile che Heers, usando il concetto antropo-logico di « clan » come chiave unica per spiegare la conflittualita politica, finisca per annullare il significato della contrapposizione tra la nobiltà organizzata in alberghi e 1’ « élite » del popolo che prese a modello quella stessa struttura sovrafamiliare. Se in tal modo si elimina ogni possibile confusione tra quest’ « élite » e il resto del « popolo » fatto di piccoli mercatores e artifices, si rischia nel contempo di sottacere tutta una serie di legami che ancora nel corso del secolo XVI erano capaci di mobilitare tutto il « popolo » come unità contrapposta ai nobili. La centralità nel quadro politico cinquecentesco di tali legami è percepibile in momenti e su piani diversi. Anzitutto è significativo che membri di spicco dei grandi alberghi popolari come i Giustiniani, i Sauli, i Fornari e i Franchi risultassero a più riprese coinvolti in sommosse dall’evidente carattere antinobiliare, e che nei momenti in cui esplodeva la tensione sociale, allorché tutti i genovesi scendevano in campo per avanzare le proprie rivendicazioni, fossero proprio le famiglie di più antica nobiltà a dover abbandonare la scena cittadina. In secondo luogo bisogna tener presente la capacità dei gruppi di produrre ideologie: di farsi cioè portatori di una progettualità politica in grado di prefigurare alternative agli assetti vigenti, e di elaborare una interpretazione della storia cittadina atta a sostenere tale progettualità. È anche su questo piano che devono essere valutati sia la profondità dello iato che separava la nobiltà dal popolo (intesi come gruppi politici definiti) sia la capacità di quest’ultimo di recepire le istanze che provenivano dagli strati sociali non rappresentati direttamente nelle istituzioni. 63 Ibid., p. 289. — 42 — Collegato a quanto abbiamo appena detto è il problema di come avvicinarsi alle rivolte popolari del XVI secolo. In generale la storiografia le ha considerate in due modi: o come episodi immersi nel fluire di una politica che era esclusivo terreno d’azione delle oligarchie dominanti — e in questo caso la rivolta diviene un’anacronistica esplosione di violenza, da leggere eventualmente nella chiave di un uso strumentale della plebe da parte di individui o gruppi del ceto dirigente alla ricerca di più ampi spazi nell’area del potere — o come un anticipazione, troppo precoce per produrre risultati concreti, delle ondate rivoluzionarie sei-settecentesche. Nel caso genovese queste interpretazioni non soddisfano. I risultati della nostra ricerca ci inducono a credere che le due rivolte del 1506 e del 1575 siano state parte integrante del processo di evoluzione politico-sociale; addirittura esse costituirono due tappe fondamentali nella presa di coscienza da parte della comunità cittadina dei cambiamenti avvenuti nel sistema europeo degli stati in cui essa doveva di necessità operare. Il problema è semmai stabilire tra questi due momenti un nesso, che può essere individuato nella presenza di un ideologia popolare abbozzata sommariamente nel 1506, compiutamente elaborata nel 1528, ancora nel 1575 in grado di mobilitare tutto il popolo genovese contro la « nobiltà vecchia ». 12. Un’alternativa al concetto di arcaismo Nell’interpretazione che abbiamo a suo tempo descritta il concetto di « arcaismo » ha una duplice funzione e significato. Da un lato, in quanto antitesi di « modernità », serve a connotare negativamente 1 oggetto cui è riferito, nel nostro caso il sistema politico-istituzionale genovese. È questa l’accezione in cui viene utilizzato da Heers nella sua monografia sulla Genova quattrocentesca, quasi a mettere in risalto, per contrasto, un’economia caratterizzata da tecniche finanziarie, mercantili e imprenditoriali già « capitalistiche ». In secondo luogo, in quanto capace di assimilare la realtà urbana d’epoca tardo medievale a forme più antiche di civiltà, esso vorrebbe renderne possibile lo studio con le — 43 — tecniche proprie della ricerca socio-antropologica 64. È innegabile che l’instabilità politica della Genova tre-cinquecen-tesca, sentita già dai contemporanei come un unicum nel panorama italiano, abbia fortemente influito sul giudizio degli storici. Da qui il frequente ricorso a termini come « anarchia » e « caos », ad indicare l’impossibilità di ricondurre in schemi coerenti i conflitti interni alla città ligure in questo periodo; conflitti che, apparentemente privi di ogni logica, non sembrano trovare sbocco, come altrove nella penisola, in un rafforzamento delle strutture statali. Il concetto di « arcaismo » ad un tempo conserva la sostanza di questo giudizio negativo e avanza una soluzione interpretativa nella chiave di un predominio delle divisioni verticali, delle forme clientelari di aggregazione politica. Rifiutando questa prospettiva, e con essa l’idea di « arcaismo », si pone tuttavia il problema di individuare dei criteri che ci permettano di affrontare il turbolento mondo delle fazioni. Studiando la storia genovese nei primi tre decenni del XVI secolo, emergono alcune regolarità che possono aiutare a comprendere il funzionamento del sistema politico-istituzionale cittadino. Le divisioni tra nobili e popolari e tra adorni e fregosi risultano con evidenza riferite a comparti diversi dell’apparato istituzionale. Gli Adorno e i Fregoso, con i loro seguaci, erano in lotta per il dogato, i nobili e i popolari avevano nelle magistrature le sedi del loro confronto. Abbiamo utilizzato il termine lotta in riferimento alle fazioni dogali perché il loro avvicendarsi al vertice dello stato avveniva secondo la logica deH’esclusione. I più compromessi con la fazione perdente erano costretti ad abbandonare la città ed a rifugiarsi presso qualche sostenitore esterno. Tra i nobili e popolari è invece più giusto parlare di confronto in quanto prevaleva una logica di equilibrio. Non era cioè pensabile reggere la Repubblica senza la presenza di entrambi questi due gruppi. Uno di essi poteva auspicare, o addirittura tentare di imporre con la forza, un diverso livello di equilibrio — è quanto avvenne durante la rivolta popolare del 1506 64 È in questo contesto che Heers può avanzare, riferendosi ai legami parentali e clientelari nelle città del tardo Medioevo, affermazioni del tipo: « Les hommes appartiennent avant tout à leur tribù » (Le clan familial cit., p. 263) o parlare di « héritage resté très vif, très présent, des sociétés primitives de ca-ractère tribai », ibid., p. 12. — 44 — con la legge dei « due terzi » — ma non certo l’esclusione totale della controparte. Tenendo poi conto del fatto che il continuo succedersi degli Adorno e dei Fregoso nella carica di Doge non causò mai nel Cinquecento un mutamento degli equilibri tra nobili e popolari all’interno delle magistrature, possiamo ben intuire come questi due livelli di divisione fossero tra loro profondamente diversi. Il problema diviene allora capire i motivi che determinarono i caratteri propri alle singole fasi di conflittualità politica interna. A tal fine può essere utile cercare negli oggetti reali della contesa politica i fattori capaci di selezionare di volta in volta gli schieramenti significativi. In questo modo è forse possibile dare una prima risposta alla giusta esigenza avanzata da Grendi « di ridurre a regole, [di] trovare le costanti logiche di quegli innumerevoli conflitti »6:>, senza ricorrere però alle visioni totalizzanti e astoriche proprie delle metodologie socio-antropologiche. È quindi necessario partire dalle questioni di fondo che la città si trovò a dover affrontare in un dato periodo, osservando come i sistemi di fazione reagirono rispetto all’evolvere delle problematiche politiche. Nello scegliere questa prospettiva, che ci consente di guardare dall’interno la realtà genovese, intendiamo recepire il suggerimento avanzato da V. Piergiovanni nel suo saggio II sistema europeo e le istituzioni repubblicane nella Genova nel Quattrocento. In questa sede egli notava l’importanza troppo spesso trascurata della pressione internazionale cui la città fu costantemente sottoposta nel secolo XV è a 65 E. Grendi, Un esempio di arcaismo cit., p. 948. 66 V. Piergiovanni, Il sistema europeo cit., pp. 3-10. Partendo da una critica serrata delle tesi di Heers che identifica le cause dell’instabilità genovese nel contrasto tra nobiltà feudale e ceto mercantile, l’autore finisce con il proporre l’interpretazione di quest’instabilità in rapporto al panorama europeo: « la chiave di lettura delle vicende del Quattrocento genovese sta, a nostro parere, nella incidenza delle situazioni internazionali piuttosto che nel contrasto interno, in termini quasi manichei, tra nobiltà feudale e mercantile ». Sulla pressione militare cui la Repubblica fu sottoposta nel corso del Quattro e Cinquecento, vedi V. Vitale, Breviario cit., pp. 129-179 e, per il secolo XVI, P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952. — 45 — mio giudizio proprio l’intrecciarsi nella vita politica urbana di questo elemento con la lotta delle fazioni per il controllo dello stato a costituire una chiave per decifrare la logica degli schieramenti e le cause del prevalere più o meno prolungato di una delle contrapposizioni di cui si è detto. Una rilettura della storia genovese su queste basi sembra possibile. Per quanto riguarda i fattori più propriamente endogeni, abbiamo detto come la nobiltà, esclusa dal dogato, si divise nell’appoggio alle grandi famiglie popolari che si contendevano tale carica in un regime di monopolio. Tuttavia allorché si giunse, come a più riprese nella seconda metà del Trecento, a mettere in dubbio l’accesso dei nobili alle magistrature, la divisione « orizzontale » tra nobili e popolari torno a prevalere, ma in modo non definitivo. Infatti, quando alla logica dello scontro aperto si sostituiva la ricerca di un equilibrio tra i due gruppi, quando cioè si giungeva a concordare una gestione paritaria del potere tramite norme su un’equa spartizione delle cariche, il conflitto tra nobili e popolari risultava disattivato e la scena politica genovese era occupata da altri schieramenti. Una situazione di equilibrio tra nobiltà e popolo fu sancita in modo pressoché definitivo nel 1413, e sulla scorta di un assetto che si dimostrò duraturo venne in primo piano la divisione fra adorni e fregosi. La lotta tra le due famiglie dogali ed i loro partigiani fu l’asse portante della storia della Repubblica per oltre un secolo e la caratteristica saliente del loro ruolo divenne ben presto quella di porsi come interlocutori privilegiati dei grandi stati territoriali che tentavano di assoggettare la ricca città ligure. Se nel XV secolo, come giustamente afferma Piergiovanni, « Genova anticipa gli eventi e fa quasi da laboratorio nella ricerca di un modello di rapporto ottimale fra stati grandi e piccoli, sperimentando la soggezione totale o il protettorato straniero »6?, nei primi decenni del Cinquecento la Repubblica si trovò a dover sostenere prove ancora più dure nel quadro di un conflitto che aveva assunto dimensioni europee. In questo frangente il ruolo degli Adorno e dei Fregoso fu quello di costituire 1 elemento di saldatura tra avvenimenti interni ed inter- 67 V. Piergiovanni, Il sistema europeo cit., p. 7. — 46 — nazionali, il fulcro su cui Francia, Milano, Spagna e successivamente l’impero fecero leva per garantirsi una posizione strategica essenziale per dar corpo alle loro mire espansionistiche. Nelle pagine che seguiranno saggeremo la validità di quest’ipotesi utilizzandola per interpretare le vicende genovesi nel tormentato periodo delle guerre d’Italia. Come punto di riferimento fondamentale abbiamo assunto la riforma del 1528. In essa si riflettono tutti i problemi che lo stato e la collettività genovesi si trovarono ad affrontare nel trentennio precedente. Il destino delle due famiglie dogali fu molto diverso e risultò inequivocabilmente determinato dalla rigorosa definizione della classe politica che avvenne con la stesura del « libro delle descrizioni » nel 1528 68. I Fregoso scomparvero di fatto dalla scena. Un solo membro di questo prestigioso casato trovò posto tra i cittadini di governo, mentre altri si affermarono come prelati e condottieri al servizio dei re francesi e di altri principi. Gli Adorno, invece, furono inseriti in blocco nel nuovo ceto dirigente, continuarono la loro attività di grandi mercanti in Genova ed ottennero numerosi feudi e privilegi nei territori della corona spagnola. Il dualismo Adorno-Fregoso, comunque, non risorse dopo l’atto legislativo dei « Dodici Riformatori » che proclamarono 1’ « unione ». Si chiuse così un lungo ciclo storico; riammettendo i nobili alla massima carica della Repubblica, fu rimossa la causa originaria della divisione di tutta la società genovese nei due partiti che sostenevano le famiglie dogali. Si tratta di un fatto eccezionale spesso trascurato dalla storiografia e che noi intendiamo recuperare nella pienezza del suo significato. Appare evidente che nel parlare di un sostanziale fallimento dell’« unione » realizzata nel 1528 si è guardato solo agli sviluppi della situazione politica genovese successivi a quella data, al fatto che essa non ruiscì ad estirpare tutte le divisioni. NelPesprimere questi giudizi si è però trascurato di approfondire il quadro in cui il progetto di « unione » maturò, ed è solo lo studio dei primi tre difficili decenni del XVI secolo che può darci la misura dei problemi che la riforma contribuì a risolvere. L’insuccesso fu solo parziale e dopo il 1528 il quadro politico 68 Vedi sotto, pp. 347-388. — 47 — genovese risultò molto semplificato e purgato proprio di quegli antagonismi che, nel primo periodo delle guerre d’Italia, si erano rivelati incompatibili con la sopravvivenza della Repubblica. Tutto ciò dimostra anche quanto sia artificiosa una lettura del progetto di « unione » nei termini di una serrata compiuta ai danni del popolo, momento iniziale dell’affermarsi di quella chiusa e sempre più sclerotica Repubblica oligarchica e nobiliare che nel Sei e Settecento finì per esser preda di un’aristocrazia preoccupata solo della salvaguardia del suo assoluto potere. In tal modo non si è fatto altro che interpretare la riforma del 1528 alla luce degli esiti più tardi dell’evoluzione economica e politica della società genovese, anticipando di oltre mezzo secolo il corso degli eventi. Uno degli obiettivi della presente ricerca è dimostrare invece che questi giudizi, tanto diffusi da somigliare a certezze, devono essere corretti o perlomeno articolati in modo diverso. Sono soprattutto le definizioni della riforma come « aristocratica » o addirittura « nobiliare » che, se non bene intese e circoscritte, rischiano di essere fuorvianti69. La nostra indagine ci ha portato ad un distacco sempre più profondo dalle tesi tradizionali e la parte conclusiva del lavoro sarà dedicata proprio ad un serrato confronto tra quanto di nuovo crediamo di poter dire sui complessi eventi del 1528, ed in particolare sull’« unione », e i giudizi che a tutt’oggi prevalgono nella storiografia. 69 In M. Nicora, La nobiltà genovese cit., p. 6, si parla della riforma come « prima costituzione aristocratica di Genova »; in G. Forcheri, Dalle « Regulae » costituzionali cit., p. 19, viene adottata la definizione, per la Repubblica del periodo successivo al 1528, di « stato oligarchico »; in A. Petracchi, Norma e prassi I, cit., p. 43, si parla di « serrata » degli alberghi che divengono così « strumenti per 1 appropriazione del potere politico »; il concetto di serrata compare pure in E. Grendi, Capitazioni e nobiltà cit., p. 403, dove viene detto che la riforma fu «un episodio chiaramente conservatore». Lo stesso E. Grendi (ivi, p. 443) parla di uno «sviluppo oligarchico del governo della Repubblica [...] implicito nel disegno costituzionale del 1528/76 », e in Un esempio di arcaismo cit., p. 950, afferma che la rinnovata aristocrazia « trova nel 1528 la sua prima espressione di solidarietà (certamente non conculsiva) con la serrata della Riforma ». C. Costantini {Le Repubblica cit., p. 37) parla più prudentemente di un « indirizzo di tipo oligarchico » che emerge dalle leggi del 1528. Queste citazioni sono sufficienti a far capire quanto radicata sia l’interpretazione tradizionale della riforma come atto di chiusura anti-popolare del ceto dirigente cittadino. CAPITOLO I TRA FRANCIA E SPAGNA: DUE MODELLI DI DOMINIO La centralità del ruolo di Genova nelle guerre d’Italia era un evidente conseguenza della posizione geografica e dell’assetto politico della città. La prima ne fece, con un’espressione frequentemente usata dagli storici e dai politici del Quattro e Cinquecento, la vera « porta d Italia » '; il secondo la rese campo di prova e sensibile indicatore dei diversi sistemi di dominio delle potenze europee2. 1 Vedi sotto, p. 119 e sgg. Ricordiamo come Mercurino di Gattinara in un memoriale a Carlo V, redatto tra l’ottobre del 1523 e il gennaio del 1524, definì Genova e Milano « les clefs et la porte pour pouvoir garder et dominer toute l’Italie », E. Gossart, Notes pour servir a l’histoire du règne de Cbarles-Quint, Bruxelles 1897, p. 112; questo memoriale si trova anche riassunto in K. Brandi, Kaiser Karl V, Munchen 1937 (trad. it. Carlo V, Torino 1961, pp. 200-204) e ad esso fa riferimento J. M. Headley, The Emperor and his chancellor, Cambridge 1983, p. 6. Sempre il Gattinara in una lettera del 1527, allarmato, invitava 1 imperatore a difendere Genova « porta d’Italia »: chiudere questa porta ai francesi era 1 unico modo per conservare sia la Lombardia che il resto della penisola. Questa lettera è riassunta in F.B. Von Bucholtz, Geschichte der Regierung Ferdinand des Ersten, Wien 1831, voi. 3, pp. 84-86, citato da C. Bornate nelle note all’edizione da lui curata di Mercurino Arborio di Gattinara, Historia vite et gestorum per dominum magnum cancellarium, in « Miscellanea di Storia Italiana », serie III, XVI, 1915, p. 351 e sgg. Per il Quattrocento vedi A. Borlandi, « ]anua, janua Italiae »: uno sguardo al Quattrocento genovese, in « Archivio Storico Italiano », CXLIII, 1985, pp. 15-38. 2 Abbiamo già accennato all’immagine di V. Piergiovanni (Il sistema europeo cit., p. 7) della Repubblica come « laboratorio » in cui, prima che altrove, La Repubblica occupava una posizione strategica essenziale. Per i Valois costituiva sia il punto di partenza dei vari tentativi di conquista della penisola sia il terreno di lotta fondamentale per evitare il pericolo del completo accerchiamento asburgico. Per il re di Spagna Carlo I, poi imperatore, Genova fu se possibile ancora più importante: era l’unica via d’accesso alla pianura padana, ed insieme a Milano rappresentava l’elemento di saldatura fra il Mediterraneo occidentale, dove si affacciavano il regno di Napoli e la Spagna, e i domini centro e nord-europei della casa d’Asburgo. Il quadro politico interno, reso instabile dal perenne conflitto delle fazioni cittadine, favoriva la volontà egemonica delle grandi monarchie. Inoltre la Repubblica si era rivelata più volte incapace di gestire in modo adeguato la propria difesa. La stessa struttura territoriale dello stato genovese sembrava accentuare la sua vulnerabilità. Esclusa infatti la fascia costiera direttamente soggetta, la Liguria era controllata da grandi famiglie feudali. I Fieschi o i Malaspina, ad esempio, erano a capo di vaste zone appenniniche che si ponevano rispetto alla « dominante » come entità in certa misura autonome3. Per questi motivi le vicende della Repubblica nei secoli XV e XVI risultarono pesantemente condizionate da interventi esterni. Dal 1499, concluso l’ultimo periodo di dominio milanese, la città fu o sottoposta alla Francia o legata alla Spagna (poi all’impero). Ogni cambiamento di fronte nel sistema delle alleanze europee comportava un mutamento nell’assetto istituzionale e la necessità di negoziare ex novo i rapporti politici ed economici con le aree d’influenza francese e ispa-no-imperiale. È chiaro che ogni singola fase ebbe caratteristiche sue proprie. Nonostante ciò si possono identificare le linee di fondo, tra loro assai diverse, che la monarchia francese da un lato e Carlo d’Asburgo dall’altro seguirono nel gestire le relazioni con la città ligure. Utilizzando soprattutto la corrispondenza tra le autorità cittadine vennero sperimentate le possibilità di sopravvivenza di un piccolo stato nel quadro europeo caratterizzato dal formarsi dei grandi stati territoriali. 3 Vedi al riguardo J. Heers, Gènes au XVe siècle cit., pp. 564 e sgg., 592 e sgg. — 50 — e i loro ambasciatori, cercheremo di delineare, nel contesto politicomilitare delle guerre d’Italia, sia i problemi concreti che Genova dovette affrontare nei rapporti con le due grandi potenze, sia i modi in cui la sperimentazione diretta della loro egemonia incise sulle scelte politiche che via via i genovesi si trovarono a dover compiere. 1. Genova sotto il dominio di Luigi XII Dopo la prima infruttuosa spedizione di Carlo Vili in Italia, il nuovo intervento di Luigi XII portò nel settembre del 1499 alla conquista della Lombardia. Genova seguì le sorti del ducato di Milano e giurò fedeltà al re nell’ottobre dello stesso anno. Iniziò così il lungo periodo di dominio che, con la breve interruzione della rivolta popolare del 1506, durò fino al giugno del 1512. Per capire la natura dei rapporti tra Genova e Luigi XII risulta essenziale l’atteggiamento di quest’ultimo nei confronti delle varie componenti della società cittadina. Più volte è stata sottolineata 1 importanza che un rigido ideale di nobiltà, basato su modelli cavallereschi e sull’antichità del lignaggio, ebbe nell’organizzazione politica e militare della monarchia francese4; un ideale che condizionò profondamente i rapporti con le città italiane oggetto della volontà egemonica dei sovrani d’oltralpe. Il Guicciardini, narrando proprio le vicende genovesi del 1506, per spiegare i motivi che rendevano i tumulti « molestissimi » a Luigi XII, ricordava la « inclinazione che hanno comunemente i franciosi al nome de’ gentiluomini »5. In effetti tale « inclinazione » si era da tempo tradotta in atti politici concreti volti a stabilire un legame diretto e privilegiato tra il sovrano e i maggiori esponenti della feudalità ligure. Ciò influì non poco sui delicati equilibri sociali interni, innescando gravi tensioni che sfociarono poi nella rivol- 4 Vedi la recente sintesi di C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Bari 1988, p. 33 e sgg. 5 F. Guicciardini, Storia d’Italia cit., voi. II, p. 657. — 51 — ta popolare. Un aspetto non ancora sottolineato della politica filonobiliare di Luigi XII è costituito dal ricorso ad investiture feudali a favore delle grandi famiglie della nobiltà ligure e lombarda6. Le fonti archivistiche genovesi permettono però di documentare anche altri motivi di attrito. Due emergono per la loro importanza: il primo consiste nello spazio accordato dal sovrano alle ripetute istanze dei savonesi volte ad ottenere lo scioglimento dei vincoli di dipendenza che li legavano a Genova7; il secondo nei tentativi delle autorità francesi di modificare i meccanismi politico-istituzionali cittadini, specie in campo giudiziario. Partiamo dalla questione savonese. In linea generale risulta evidente che le guerre d’Italia ebbero tra le altre conseguenze quella di sconvolgere gli assetti territoriali, ormai da tempo consolidati, di alcuni dei maggiori stati della penisola. Al caso ligure può essere accostato quel- lo toscano. Pisa, come Savona, prese occasione dagli eventi politico-militari per rivendicare la propria indipendenza dalla dominante. Entrambe le vicende, con modalità e tempi diversi, si conclusero con la sconfitta delle città minori. Tale esito non era tuttavia scontato e sia Pisa che Savona fondavano le loro speranze su solidi motivi. Tra le condizioni poste dai genovesi nel 1499 per la translatio inclytae civitatis ]anue ejusque domimi in christianissimum Regem Francorum 8, c’era quella che il sovrano dovesse rispettare le convenzioni 6 Al problema sono dedicate alcune pagine in R. Cresta, Genova sotto il dominio francese: verso i moti popolari del 1506, tesi di laurea discussa presso l’Univer-sità degli studi di Pisa nell’anno accademico 1983-84, p. 165 e sgg. 7 Al riguardo, disponiamo di due lavori che contengono una puntuale ricostruzione dei fatti e a cui rimandiamo: E. Pandiani, Controversie tra Genova e Savona durante il pontificato di Giulio II, in Savona nella storia e nell’arte, Genova 1928, pp. 167-202, C. Russo, L’arbitrato di Giulio II nella secolare lotta tra Genova e Savona, in « Atti della Regia Deputazione di Storia Patria per la Liguria, sezione di Savona », XXIV, 1942, pp. 4-130. 8 II testo dei patti tra Genova e Luigi XII è pubblicato in Documents pour l’histoire de l’établissement de la domination frangaise à Gènes, raccolti da L. G. Pélissier, in « Atti della Società Ligure di Storia Patria », XXIV, 1892, pp. 477-500, sulla base di un documento conservato alla Biblioteca Braidense di Milano; una copia è conservata in ASG, Archivio Segreto 2752/A. — 52 — esistenti tra il comune di Genova e quello di Savona. Il problema era in primo luogo fiscale: fu chiesto al re che i commerciarli, cioè gli esattori delle imposte sui commerci, potessero svolgere liberamente le loro attività nel porto savonese riscuotendo gli oneri consueti. Luigi XII rispose che egli non avrebbe mai accordato alcunché a Savona in pregiudizio di Genova, aggiungendo però che qualora fossero sorte controversie tra le due città, iustitiam faciet. Il re, pur rassicurando i genovesi in termini generali, si riservava quindi uno spazio di intervento . Ambasciatori savonesi si recarono alla corte di Francia per chiedere il riconoscimento deH’autonomia politica della loro città da Genova ma non ottennero risultati concreti: Luigi XII rimase fedele alle promesse fatte al momento della translatio del dominio ligure. Le speranze dei savonesi si riaccesero però con l’elezione al pontificato del loro concittadino Giuliano della Rovere (Giulio II) nel 1503. Essi ricorsero quindi alla giustizia ecclesiastica. La Rota romana, nonostante le energiche proteste del Governatore francese a Genova Philippe de Clèves, signore di Ravenstein, ermse all’inizio del 1506 un giudizio che liberava Savona dagli obblighi contratti con il giuramento di fedeltà verso la dominante. Le due parti in causa si rivolsero al re, i savonesi per ottenere la ratifica della sentenza romana, i genovesi per protestare contro di essa. Luigi XII rinviò la soluzione della controversia, ma di lì a poco lo scoppio della rivolta antinobiliare fece passare in second’ordine la questione dei rapporti tra le due città rivali. I primi anni del dominio francese videro anche il ricorso da parte di Luigi XII a quella politica di infeudazione cui abbiamo accennato. Nei patti dell’ottobre 1499 tra la città e il re, troviamo un articolo intitolato De juramento fidelitatis per vassallos faciendo communi Janue. In esso i genovesi chiesero che i vassalli feudatarii et conventio-nati Communis Janue e i loro successori, che prima della translatio erano tenuti a prestare giuramento di fedeltà al comune, dovessero da allora in poi giurare al Governatore francese ed al consiglio degli Anziani nomine dictae communitatis in forma solita, ampia, et antea consueta. Luigi XII accettò che l’atto fosse compiuto di fronte al Governatore ed agli Anziani, ma nomine suae Majestatis et dictae communitatis ed 9 L. G. Pélissier, Documents cit., p. 497. — 53 — inoltre re servat a in omnibus superioritate prefatae Majestatis 10. Di questa superioritas Luigi XII fece ampio uso per motivi e con finalità diversi. Durante il suo soggiorno a Milano nel 1499 egli accordò numerosi privilegi e donazioni a cittadini genovesi. Confermò, ad esempio, a Giovanni Spinola il dominio di Serravalle. Nell’atto ufficiale si afferma che, avendo lo Spinola, come suo dovere, « fait [. . .] la foy et hommaige du chasteau, territoire, seigneurie et juridicion dudit Saint Raval [sic] », e considerati i suoi « bons singuliers et recommandables services », il re riconosceva a lui ed ai suoi successori tutti i diritti consueti sul castello, sul territorio e sulla signoria di quella strategica località dell’Oltregiogo Tali motivazioni mostrano come Luigi XII intendesse usare le infeudazioni per premiare alcuni esponenti della nobiltà a lui favorevoli. Nell’ottobre del 1501 George d’Amboise, luogotenente del re ci tra montes, avocò a sé il giudizio su una controversia sorta tra il nobile alessandrino Francesco Trotti, da una parte, e Antonio Spinola, Batti-stino Campofregoso e Domenico Doria, dall’altra, « pour raison des places, chasteaulx, terres et seigneuries d’Ova [Ovada] et Roussillon et leurs appartenences »12. L’Amboise, considerati i « plusieurs bons et recommandables services que le dict Francisque Trot a cy devant fait au Roy notre seigneur en maintes manieres », decise a suo favore condannando i genovesi al pagamento delle spese legali. Certo furono tenuti presenti anche « certains droiz et tiltres qu’il [Francesco Trotti] a produictz », ma ancora una volta risulta evidente la volontà di premiare con la concessione di feudi i meriti acquisiti nei confronti della corona. In questi termini può essere interpretata anche la soluzione data nel 1503 dalle autorità francesi al contrasto tra i Doria e i Fieschi per il luogo di Loano. Corrado Doria aveva venduto questo feudo con castello, beni e giurisdizione a Giovanni Doria per 10.000 ducati, liberando l’acquirente dalle promesse di cessione fatte in precedenza a Gian Luigi Fieschi. Quest’ultimo ricorse al Gran Consiglio del re che dichia- 10 Ibid., p. 486. 11 Ibid., p. 501. 12 ASG, Archivio Segreto 354 (Paesi, Ovada), doc. 9. — 54 — rò nulla la vendita e aggiudicò Loano al Fieschi. Contro la sentenza si appellarono, ma inutilmente, prima Pietro Battista e poi Stefano e Gerolamo Doria. La controversia fu definitivamente risolta con un decreto del Gran Consiglio in data del 4 settembre 1504 che, rigettando ogni opposizione, confermò i diritti del Fieschi '3. I tre casi che abbiamo scelto e brevemente descritto hanno ciascuno un’importanza particolare: Serravalle e Ovada erano situate al- lo sbocco di due vitali arterie di comunicazione. A Serravalle conduceva la via dei Giovi, e ad Ovada quella che partendo da Voltri valicava il passo del Turchino. È superfluo sottolineare l’importanza per Genova che quei luoghi fossero nelle mani di famiglie o persone gradite, legate politicamente ed economicamente all’ambiente cittadino. Il caso di Loano è importante invece perché vide coinvolto Gian Luigi Fieschi. Se in questo primo periodo della « seigneurie » di Luigi XII la nobiltà ligure nel suo complesso rafforzò le proprie posizioni, il risultato della causa riguardante Loano dimostra che anche all interno della nobiltà gli equilibri di forza stavano mutando. A trarne vantaggio furono proprio i Fieschi, la grande famiglia che possedeva nel Levante ligure un vasto dominio territoriale definito da J. Heers «un État [...] montagnard »14, ed è su questo dominio che i Fieschi basavano le loro aspirazioni politiche. II ruolo di Gian Luigi Fieschi in questi anni non può essere equivocato. Per il suo potere e prestigio egli constitui il principale referente del sovrano francese che lo nominò Governatore della riviera di levante fin dal 1499: una carica che gli permise di controllare politicamente e militarmente anche la fascia costiera su cui incombevano i suoi possedimenti appenninici. Nel 1506 tutti i motivi di tensione accumulati negli anni precedenti si esplicitarono nella violenta esplosione di una rivolta popolare. I nobili, posti per legge in minoranza all’interno delle magistrature, abbandonarono la città e si rivolsero al re perché ristabilisse i vecchi ordinamenti. Il governo popolare cercò fino all ultimo di convincere 13 La documentazione relativa a questa controversia è conservata in ASG, Archivio Segreto 351 (Paesi, Loano). i* J. Heers, Gènes au XVe siècle cit., p. 599. — 55 — Luigi XII che la rivolta non aveva un significato anti-francese, ma il progressivo radicalizzarsi delle passioni portò infine all’intervento armato del sovrano nell’aprile del 1507. In questi mesi il contrasto fra Genova e Savona si ripropose intrecciandosi con quello tra nobili e popolari. Mentre nella prima città il popolo si impadroniva del potere, i nobili scelsero proprio la seconda come base per organizzarsi e preparare una controffensiva. In un diario anonimo scritto durante i giorni della rivolta, si afferma che il 12 novembre erano partiti da Savona gli ambasciatori dei nobili diretti a Luigi XII e a Giulio II15 e che il 21 dicembre « li gentilhomini, che sono la magior parte a Savona, hanno fatto 700 fanti e 150 cavalli » per difendere la città I6. Allarmati da questi arruolamenti, gli Anziani di Genova scrissero al Governatore francese di Savona, Yves d’Alègre, protestando contro le iniziative dei nobili, « contrarie a lo pacifico del stato », e sostenendo che i timori di un attacco da parte genovese erano del tutto infondati 17. Gli atti di reciproca ostilità tra le due maggiori città liguri proseguirono tuttavia fino all’intervento militare di Luigi XII. Nel periodo della rivolta il problema del governo delle riviere emerse in primo piano. Si trattava di un problema strettamente legato al- lo scontro sociale in corso in quanto il levante ligure era, come abbiamo visto, in mano a Gian Luigi Fieschi. L’odio del popolo genovese contro il Fieschi, indiscusso capo dei nobili fuorusciti, era profondo I8; 15 E. Pandiani, Un anno cit., p. 344. 16 Ibid., p. 352. 17 Lettera del 27 dicembre 1506, ibid., p. 501 e sg., vedi anche p. 154. 18 In un’istruzione del 12 novembre 1506 agli ambasciatori in Francia, i rappresentanti del governo popolare affermavano che gli abitanti della riviera di levante, dopo la cacciata del Fieschi, avevano potuto parlare liberamente; si era allora capito che « havevano iusta causa de lamentarsi per li mali comportamenti e dani a loro facti per lui [il Fieschi] e soi officiali. E ultra de questo se qualche fiata è accaduto alcuno delinquente in la cita, passando in la sua jurisdictione de là da l’aqua de Bisagno l’havevano come per franchisia. De tute queste cosse e seghuito verso de lui tanta indignatione, che li populi volevano andare ad ogni modo ad expugnare le [sue] castelle ». Il Fieschi, si afferma nell’istruzione, nel- 1 espletare i suoi compiti, « à facto tanto ch’el se haveva reducto tuto l’imperio de la rivera de levante sotto de sì, dando lui tuti li officii e governando tuto a suo modo, senza ricognoscere alcuno superiore, in maniera che dire se poteva che la — 56 — gli scontri armati all’interno della città furono quasi sempre determinati dalla volontà di cacciarlo o di impedire un suo ritorno '9. I rappresentanti del governo popolare sapevano che solo ricomponendo l’unità del dominio sotto l’egida cittadina avrebbero potuto sconfiggere la nobiltà. Gli Anziani e gli ufficiali di Balìa scrissero al re affermando che l’unico mezzo per ristabilire l’ordine e quietare gli animi era che la riviera de levante e altri lochi de commune siano reduti tuti al detto commune sotto la signoria de Monsignore nostro gubernatore [Philippe de Clèves], perché governandosse corno è stata gubernata sino a qui [dal Fieschi], seria causa de vivere semper in suspecto, e ne seghuiria mille mali. E a questo modo, essendo tuto el paese sotto lo imperio del Gubernatore de la Maestà vostra, ne seghuiria una grande concordia e pace e una grande gloria a la Maestà vostra, etiam questo ne à consentito per li capituli nostri20. Ben presto Rapallo, Chiavari, Spezia e altre fortezze del levante furono conquistate dalle milizie popolari; Luigi XII ordinò in modo perentorio che fossero consegnate al Clèves ma i genovesi, pur dichiarandosi disponibili in linea di principio, rifiutarono di obbedire, adducendo a motivo che « questa plebe ha impresso questa opinione che monsignor el Gubernatore habia grandissima inclinatione verso de mes-ser Ioanne Luise e non facevano grande differentia da che li detti loci e fortece fussino in mano del prefato Gubernatore come se fussi-no state in mano del detto messer Ioanne Luise»21. La questione della riviera di levante aveva anche un altro aspet- regia maestà non fusse né cognosciuta né nominata in la metà de la jurisdictione genuese, dando salvaconducti a suo piacere e governandola come da segnore », ibid., p. 460 e sg. Testimonianze dell’odio contro il Fieschi nutrito in particolar modo dai « minuti » sono in un’istruzione a Nicola Oderico e in una lettera al re, entrambe del 9 novembre 1506, ibid., pp. 443-450; vedi anche B. Senarega, De rebus genuensibus cit., p. 105 e sg. 19 Per ben tre volte il Fieschi fu cacciato dal popolo in armi: ciò accadde il 19 e il 20 luglio e il 4 settembre, quando la sollevazione fu al grido « Franza, viva populo, fora lo gatto [insegna dei Fieschi] », vedi E. Pandiani, Un anno cit., pp. 37, 323, 444-448, 460. 20 Lettera al re del 9 settembre 1506, ibid., p. 449. 21 ASG, Archivio Segreto 2177, istruzione a Nicola Oderico del 22 ottobre 1506. — 57 — to. Se la fascia costiera era in mano genovese, incombevano però sempre su di essa i domini del Fieschi, i cui castelli erano tanto vicini alla città da costituire un’insostenibile minaccia. Gli Anziani prospettarono al riguardo tre soluzioni alternative: secondo un’istruzione del 12 novembre 1506, i nuovi ambasciatori in Francia avrebbero dovuto chiedere il riconoscimento dei diritti del comune su quei castelli e la loro consegna alle autorità genovesi22; nel caso che questa proposta non fosse stata accolta, fu loro ordinato di invitare il re a prendere diretto possesso delle roccaforti23 e, in ultima istanza, di avallare le pretese che su di esse vantavano i fratelli Galeazzo e Antonio Maria Pallavicino24. Si trattava quindi di una strategia articolata mirante a ridisegnare l’assetto del levante ligure, utilizzando anche i contrasti tra le grandi fa- 22 « [Direte] a sua Maestà che noi in le dicte castelle habiamo tale rasone, che intendiamo quelle a noi spectare, pregando humilmenti e strictamenti quella che la voglia tenire modo, cum la sua auctorità e brazo che pervengano in noi, perché a questo modo, ultra el debito de la justicia, resterà questa sua cità perpetuo quieta, e se excluderà ogni occasione de novità e perturbacione che possia esser facta », E. Pandiani, Un anno cit., p. 461. 23 « E quando per sua Maestà a questo modo non paresse de inclinare, almanco prendi in le sue mano le dicte castelle, a ciò che a questo modo e sua Maestà e noi possiamo essere bem sicuri de perpetua tranquilità e pace. E poi, havuta per sua Maestà la possessione de quelle, ordinerà che se facia justicia a le parte », ibid. 24 «La conclusione de tuta questa nostra instructione [...] è fare intendere a sua Maestà in che reputatione in la cità si trova al presente meser Ioanne Luise, e quale sono state fino a qui le opere sue e quanto impossibile sia, stando a le castelle e in le nostre confine, che le rivere e la cità mai possiano quietare, e per questo tenereti tute le forme possibile che non solum sia removuto da le perte nostre, ma che etiamdio li sia levato le dicte castelle, [...] e lo desiderio nostro per li rispetti dicti è che vengano in noi o ad extremum in sua Maestà, el che se afferma. Ma se pur vedesti perduto la speranza che in noi dovessino pervenire, vi notifichiamo corno questi fratelli, meser Galeacio e meser Antonio Maria Pallavicini, pretendeno le dicte castelle spectare a loro, hereditario nomine del quondam meser Carolo dal Fiesco, e per questo, [. ..] vogliamo che sotto quelli modi che a le prudentie vostre parirano più accomodati, diate a loro ogni favore possibile cum grande destreza, come è detto, tuto facendo perciò senza preiudicio de le nostre rasone, e quando vi paresse bisogno in tale caxo ancora ne fareti qualche protestacione. E questo vi se dice che non pervenendo in noi, né in la Maestà del re, pare a noi sia manco male se mettono in loro mano », ibid., p. 467 e sg. — 58 — miglie nobiliari per collocare elementi graditi nei punti strategici del dominio. In questo senso può essere interpretata anche la posizione, molto più prudente, assunta dal governo popolare riguardo alla causa pendente davanti al Consiglio regio tra Giovanni Spinola e Pietro Maria As-sereto per il luogo di Serravalle. Una controversia che lasciava intravedere la possibilità di sottrarre al controllo degli Spinola lo sbocco della via dei Giovi25. In ogni caso, le speranze del popolo di prevalere sulla nobiltà pur mantenendo Genova nell’orbita francese si rivelarono vane. La rottura si verificò sul problema delle fortezze che, nonostante i perentori ordini in tal senso, non furono mai consegnate al Governatore; in realtà il problema di fondo era che Luigi XII vedeva nella nobiltà l’unico valido interlocutore nella gestione del dominio sulla Liguria. Dopo aver sedato la rivolta con le armi, il re impostò su nuove basi i rapporti con la città: ristabilì il vecchio sistema della ripartizione paritaria degli uffici tra nobili e popolari, ordinò la costruzione di una nuova fortezza (la « Briglia ») sull’altura di Capo di Faro, condannò i genovesi al pagamento di 200.000 scudi per le spese di guerra e abolì i vecchi patti del 1499 sostituendoli con più restrittivi privilegi, non più concordati ma unilateralmente concessi26. Riguardo alla questione savonese, Luigi XII affermò che avrebbe provveduto secondo l’utilità e le ragioni delle parti ad evictandum dis-sentiones et contentiones, senza concedere aliquid alteri parti ex ipsis Ianuensibus vel Saonensibus in preiudicium alterius27. L’atteggiamento del re era mutato in modo non favorevole ai genovesi: nei patti del 25 Sempre con l’istruzione del 12 novembre si informarono gli ambasciatori che in città era giunta notizia della sentenza del Consiglio favorevole all’Assereto. Questi ne aveva richiesto l’esecuzione, ma al re « era stato dato ad intendere che facendo tale executione seria contra el desiderio e voluntà de la cità ». Le autorità genovesi affermarono che ciò «se cognoscie non esser vero, e per questo [. . .] siamo contenti che faciati intendere a la prefata Maestà che noi siamo non solo contenti, ma dexideriamo che la iusticia se facia a ciascuno corno conviene », ibid., p. 467. 26 II testo dei privilegi è stato pubblicato da E. Pandiani, ibid., pp. 533-550. 27 Ibid., p. 545. — 59 — 1499 egli si era impegnato a non concedere a Savona niente che fosse in prejuditium dicte Communitatis Januensis28 ; ora preannunciava un giudizio ponendo l’accento sull’equidistanza rispetto ai contendenti. Certo i savonesi nutrivano grandi speranze. La controversia tra le due città fu però affidata al nuovo Governatore francese a Genova Raoul de Lannoy (novembre 1507) che giudicò a favore dei genovesi. Savona, contando sull’appoggio di Giulio II, ricorse di nuovo al foro ecclesiastico (agosto 1508) che dichiarò nulla la sentenza e finì per scomunicare il Lannoy29. Dopo alterne vicende giudiziarie la causa fu rimessa al Gran Consiglio di Francia (luglio 1509) e gli ultimi anni del dominio di Luigi XII trascorsero tra lungaggini e cavilli procedurali senza che i savonesi riuscissero ad ottenere l’annullamento dei vincoli di dipendenza dal comune di Genova. Ciò fu dovuto senza dubbio anche al progressivo deteriorarsi dei rapporti tra Luigi XII e Giulio II che porto nell estate del 1510 all’alleanza veneto-pontificia e nell’ottobre 1511 alla costituzione della Lega santa, promossa dal Papa contro i francesi. L’appoggio del Della Rovere e la sentenza della Rota del 1506, che costituivano le principali armi dei savonesi, finirono così per ritorcersi contro di loro. Negli anni successivi alla rivolta i genovesi furono impegnati anche su altri fronti. Cercarono inutilmente di ottenere una riduzione del risarcimento di 200.000 scudi dovuto al re, ma dovettero sopratutto difendersi dai tentativi sempre più pressanti delle autorità francesi di inserirsi nelle questioni politiche interne e di modificare i consolidati meccanismi istituzionali cittadini. Dal giugno del 1507 il Governatore Raoul de Lannoy fu affiancato da un nuovo magistrato di nomina regia: il « Presidente di giustizia » Pietro di Sant Andrea30. Costui si rivelò ben presto personaggio assai scomodo, facendosi assertore di una interpretazione restrittiva dei privilegi concessi da Luigi XII. Per contrastarlo i genovesi istituirono una magistratura composta da due dottori e quattro eminenti cit- 28 L. G. Pélissier, Oocuments cit., p. 497. 29 E. Pandiani, Controversie cit., p. 178, 30 La lettera di nomina del 9 giugno 1507 è in ASG, Archivio Segreto 1649; cfr. E. Pandiani, Un anno cit., p. 417. — 60 — tadini e denominata « Conservatori dei privilegi ». Tra i Conservatori e il Presidente nacque un’aspra diatriba i cui contenuti sono descritti in un’istruzione del 10 marzo 1508 agli ambasciatori in Francia, Giovanni Lerici ed Oberto Spinola31. Il Presidente andava sostenendo che i privilegi non erano « conventione reciproce » bensì « speciale concessione e gratie » e che per questo il re li poteva alterare secondo la sua volontà; affermava inoltre che essendo le deliberazioni degli Anziani subordinate al consenso « o saltem presentia » del Governatore, quest’ultimo, in quanto luogotenente del re, fosse in diritto di « fare e deliberare el tuto » e quindi anche di « intromettersi in ogni causa civile senza exclusione alcuna ». Il Sant’Andrea traeva un’altra conseguenza dal suo ragionamento: e cioè che egli stesso in quanto Presidente di Giustizia aveva l’autorità di « audire ogni querella, et a quella darli remedio opportuno »32. Nella visione del Sant’Andrea, il potere del re non conosceva alcuna limitazione ed i rappresentanti regi erano in diritto di intervenire nella giustizia civile ogni qualvolta lo ritenessero necessario, scavalcando la legislazione cittadina. I Conservatori, opponendosi a questa « fantasia » del Presidente, affermavano che non era loro intenzione mettere in dubbio l’autorità del re, « el quale è supremo signore », ma chiedere il rispetto dei privilegi che Luigi XII aveva concesso di sua volontà dopo aver « inteso la forma del nostro vivere ». Il secondo capitolo dei privilegi, appun- 31 ASG, Archivio Segreto 2177. 32 « Monsignor predicto Presidente è venuto a questa conclusione: che li Magnifici Antiani nulla possiano fare senza consentimento o saltem presentia del prefato monsignore Gubernatore. Ma sua signoria fa una consequentia tuta aliena dal vero, che el detto monsignore Gubernatore possia fare e deliberare el tutto, corno locumtenente de la maestà del re, e sopra questo fundamento dice che sua excellentia pò oldire ogni querella e intromettersi in ogni causa civile senza exclusione alcuna, dicendo che quel che habiamo dal re non sono conventione reciproce, ma che le sono speciale concessione e gratie, quale sono in potestate regis poter alterare sicondo che a sua maestà piace e pare, come quello chi vorraa sotto questo fi[n]gimento tirare ad sé qualunche causa e intrometersi in ogni cossa de la quale a lui sia facta querella, subiungendo che frustra monsignore Gubernatore tenerla el loco ch’el tene, se lo non potesse corno locumtenente del re dare remedio in ogni causa che a sua excellentia fusse proposita, et che essendo lui Presidente de iusticia, vano seria questo suo officio, se lo non potesse audire ogni querella, et a quella darli remedio opportuno », ivi. to, vincolava alla presenza del Governatore solo le decisioni degli Anziani ed imponeva al Governatore stesso di giurare in ingressu officii l’osservanza degli statuti cittadini33. Ma c’era anche una questione di principio: « sua maestà etiam in parlamento parisiensi, e cossi li soi predecessori, si sono sottomessi a le legie ». Il re governava quindi con le leggi del suo popolo e in Genova doveva governare con le leggi dei genovesi, grazie alle quali la città « de picola è venuta a tanta grandessa ». Genova per gli imperativi della sua vita economica (« non havendo né campi né vigne, e vivendo [...] sopra la sola fede [tra mercanti] ») necessitava di un’assoluta certezza nelle procedure della giustizia civile perché, quando li contracti chi se fano da mercadante a mercadante, poi che sono passati sotto el iudicio de’ nostri magistrati, si potessino tirare a novo iudicio, o vero ad altro tribunale, non seria chi se potesse fidare l’uno de l’altro, e a questo modo tutte le cause seriano immortale. Si insisteva poi sui vantaggi che comportava il giudizio collegiale di una magistratura mettendo in risalto che nessuno mai, né i re di Francia e i duchi di Milano quando ebbero il dominio della città, né i dogi genovesi, aveva osato alterare « questa forma del nostro governo civile ». Ora, si affermava quasi con dispetto, « uno homo solo, per esserli stato delligato da la maestà del re una simplice cura ch’el sia Presidente de iusticia, para a sua signoria poter invertire questo bello ordine secondo sua fantasia ». In definitiva un cambiamento della pras- 33 Si tratta del capitolo intitolato De Gubernatore et eius officio ac iura-mento per eum prestando (E. Pandiani, Un anno cit., p. 537 e sg.). Nella istruzione del 10 marzo si afferma inoltre: « non obstat che per la signoria del predicto monsignor Presidente se dica che monsignor nostro Gubernatore, come locumtenente, habia la persona del re, perché vedereti in fine concessionum quale a voi habiamo date, che a lui tamquam locumtenente, comanda expressamenti la observantia de le dette nostre concessione, et voi spedato messer Iohanne [Tarn· basciatore Lerici] sapeti per quel che n’è detto: in locumtenentem non transfertur regia potestas », ASG, Archivio Segreto 2177. 34 Qualora il Presidente fosse riuscito a realizzare i suoi progetti sarebbe accaduto « che tuto el fundamento del civile se restringesse sotto el iudicio de uno homo solo, el quale, quantunque sia excellente e doctissimo, pò inganarsi et errare corno tutti li altri homini », ivi. — 62 — si giudiziaria non avrebbe giovato allo « stato » regio e sarebbe stato del tutto contrario al bene della città. Il Sant’Andrea era determinato a realizzare i suoi progetti e le autorità genovesi impartirono ordini precisi ai propri rappresentanti in Francia. Fu fatto loro presente « questo articulo essere de maior importantia che tutte le altre commissione a voi date »; essi dovevano anzitutto ottenere le lettere per la conferma e l’obbligo di osservanza dei privilegi, quindi dovevano chiedere udienza al legato (George d’Am-boise) e al cancelliere (Jean de Ganay) ed intimar loro che in avvenire non fossero introdotte novità in materia giudiziaria senza sentire le ragioni dei genovesi; tali ragioni, infatti, erano « de sorta che quando fussino alterate, ageret de summa rerum, e questa cità restaria in confussione cum detrimento del stato de la maestà del re ». Gli ambasciatori furono invitati a non abbandonare la corte senza aver avuto piena soddisfazione. Se il Presidente non fosse stato dissuaso dai suoi piani, sarebbe stata inviata una legazione composta da « tuti li primi homini de questa cità, non potendo el vivere nostro comportare che questo articulo a modo alcuno ne sia alterato »35. Gli ambasciatori il 3 maggio ottennero formale assicurazione che le lettere patenti sui privilegi sarebbero state concesse36 e le inviarono a Genova il 23 37. Il Sant’Andrea non rinunciò tuttavia al suo tentativo di espandere le prerogative regie nel campo della giustizia civile. Tra la fine di ottobre ed i primi di novembre del 1508 a Genova si decise di sottoporre a sindacato il Podestà, i Vicari ed il Giudice dei 35 Queste direttive furono ribadite in un’istruzione del 1° aprile 1508 in cui si precisò che la conferma dei privilegi doveva avvenire con « lettere patente in pergameno » e non con « lettere missive » poiché di queste ultime, per esperienze recenti, « habiamo cognosciuto [...] si fa pocha stima», ivi. 36 Ivi. Così nella lettera: « habiamo obtenuto la commissione del tenore infrascripto: videlicet ch’el re vole ne siano observati nostri privilegii per sua maiestà ultimamente concessi, cossi nella administracione de iusticia, corno nel facto de le cabelle di Sancto Giorgio [...] et questa è la totale resolucione di questa materia cum lettere patente le qual cercharemo di trare quam citius ». 37 Ivi. Gli ambasciatori affermarono di aver ottenuto le lettere « post multos labores et solitaciones et longissimi examini sopra le cosse nostre ». — 63 — malefici iuxta formam privilegiorum 38. Fu fatta una richiesta in tal senso al Governatore (Frangois de Rochechouart aveva da poco sostituito Raoul de Lannoy) ed al Presidente di giustizia che diedero il loro assenso, avanzando però la pretesa di « voler in tuto intervenire a tale sindicato ». I genovesi risposero che ciò era contro i privilegi e « che, in ultra, quelli chi contra dicti officialii voleno dar querella, quando la dovesseno dare in presentia loro se renderiano molto più timidi e non se poteria cossi bene intendere la nocentia o innocentia de dicti officiali ». In definitiva i genovesi erano disposti a concedere che il Governatore ed il Presidente assistessero all’emanazione della sentenza, ma non che partecipassero al giudizio. Il nuovo ambasciatore in Francia, Stefano Vivaldi, fu incaricato di protestare contro le ingerenze dei rappresentanti del re39 e riuscì ad ottenere l’effetto sperato. Con una lettera del 18 novembre40 egli annunciò che, grazie anche all’intervento delPex-governatore Lannoy, Luigi XII aveva deciso « de cetero più non tenere Presidente di giustizia così, havendoli facto intendere che dicto officio è molestissimo a tuta la cità per essere causa de turbacione a li iudicii ordinarii ». In sua vece sarebbe stato inviato un Vicario ducale francese di cui si diceva essere « homo de bene et persona pacifica » e che sarebbe giunto a Genova entro Natale. La notizia fu accolta con grande soddisfazione41, ma l’avvicendamento tra il Presidente ed il Vicario ducale si rivelò più difficile del previsto in quanto il primo non si decideva ad andarsene, e la città, oltre tutto, fu costretta per alcuni mesi a pagare gli stipendi ad entrambi i magistrati42. 38 II terzo capitolo dei privilegi, dal titolo De potestate et aliis officialibus, stabiliva che il podestà ed i suoi ufficiali non dovevano essere genovesi o districtuales·, che sarebbero stati stipendiati dal Comune; che avrebbero amministrato la giustizia in base agli ordinamenti cittadini e, illis deficientibus, secundum iura communia·, che dicti potestates et officiales sindacabuntur annuatim secundum formam dictorum Statutorum et ordinamentorum Civitatis Ianue, E. Pandiani, Un anno cit., p. 538. 39 Istruzione del 7 novembre 1508 in ASG, Archivio Segreto 2177. 40 Ivi. 41 Ivi, istruzione al Vivaldi del 29 novembre 1508. 42 Con un’istruzione del 24 dicembre 1508 (ivi) il Vivaldi fu informato che — 64 — Finalmente il 12 marzo 1509 il Sant’Andrea partì. Nel prendere licenza, egli si presentò agli Anziani pronunciando un discorso « molto amorevole verso de la cità » e promise di interporre i suoi buoni uffici presso il re. I genovesi erano tuttavia diffidenti ed invitarono l’ambasciatore Vivaldi a stare in guardia: il Presidente aveva sperato in un dono di commiato che non gli era stato concesso. Le buone parole non potevano celare la realtà dei fatti: a causa del suo operato, « sotto questa umbra de salvare la auctorità del re, siamo stati inducti in molte dificultà quale per el passato mai erano state inducte né usate »43. Il Vivaldi fu anche informato che il Podestà, i Vicari e il Giudice dei malefici, sottoposti a sindacato, erano stati giudicati colpevoli e privati del loro ufficio, ma tramavano per rientrare in carica grazie all’appoggio del Sant’Andrea. Bisognava opporsi con ogni mezzo a tale eventualità: se costoro « fusseno confermati saria pesimo exemplo perché de qui in avante non seria chi temese el sindacato »44. È del tutto evidente a questo punto che le intromissioni dei rappresentanti del re nella giustizia civile cittadina costituivano un problema assai grave ed il diritto di nomina dei maggiori organi giusdicenti riservato al Governatore contribuiva a renderlo più acuto. I genovesi cercavano almeno di osteggiare le candidature meno gradite e nel marzo del 1509 si temeva di un « messer Falco », avvocato fi- il Vicario ducale aveva assunto la sua carica e stava dando buona prova di sé: « per quel che possiamo iudicare lo troviamo de bona doctrina, persona quieta e sin a qui alieno de avaricia e, summarie, a nostro iudicio ne possiamo expectare bona administratione ». Il Presidente tuttavia non mostrava intenzione di abbandonare la città e così pure un « advocato fiscale chi doveva succedere in el parlamento di Milano »; tutti questi ufficiali regi dovevano essere pagati e ciò causava sconcerto nelle autorità genovesi. Vedi anche l’istruzione al Vivaldi del 17 gennaio 1509 e una lettera al re del 12 marzo, ivi. 43 Ivi, istruzione a Stefano Vivaldi in data 13 marzo 1509. 44 All’inizio di maggio l’ex Podestà ed i due ex Vicari raggiunsero la corte che si trovava in Lombardia al seguito dell’esercito francese impegnato nella guerra contro Venezia. L’ambasciatore Vivaldi si presentò subito al Rochechouart (anch’egli in corte) ricordandogli che quei magistrati avevano mal operato nel periodo del loro ufficio e non avevano manus mundas; essi avrebbero chiesto di essere reintegrati ma ciò era contrario al volere dei genovesi, ivi, lettera di Stefano Vivaldi del 3 maggio 1509. — 65 — scale del ducato di Milano, che aveva affiancato il Presidente di giustizia appoggiandolo nella sua politica, e che ora aspirava alla carica di Podestà. Gli Anziani e l’ufficio di Balìa, rivolgendosi al Vivaldi, affermavano ironicamente: « a voi è noto corno el seria al nostro proposito per li soi passati governi in li officii dove se è experimentato », e aggiungevano in modo perentorio « lui essere lo ultimo chi faccia a lo proposito de questa cità et ideo tenereti quelle forme per le quale de questo possiamo essere sicuri »45. Per colmare i vuoti istituzionali creatisi con il sindacato, le funzioni del Podestà furono temporaneamente assunte dal Luogotenente del Governatore, « monsignore di Montebruno ». Su di lui le autorità genovesi espressero un giudizio positivo (« sino a qui per quel che vediamo se porta bene ») ed appoggiarono la proposta del Governatore di mantenerlo in carica fino all’imminente venuta del re in Italia, « e poi, cognosciuto soi portamenti, potrà sua maestà deliberare quel che meglio li parirà »46. La designazione dei nuovi Vicari avvenne agli inizi di maggio e si rivelò assai poco felice, provocando un’ulteriore polemica. Per Vicario della « sala di sopra » il Governatore scelse sì un forestiero, come prevedevano le Regulae, ma sposato con una genovese della famiglia Spinola; l’ufficio di Vicario della « sala di sotto » fu assegnato all’ex Giudice dei malefici. Entrambe le nomine furono definite « molestissime »: « la prima per essere l’homo quasi genuese havendo dona genuese », la seconda perché la « permutacione » di magistrati giudiziari era contraria alle leggi cittadine e quindi ai privilegi; tanto più che il Governatore aveva varie volte solennemente promesso « le cambiare tuti li officiali ». L’ambasciatore Vivaldi fu informato di tutto perché chiedesse la revoca di queste nomine che erano « contra la mente de tuta la cità »47. Egli protestò con il Governatore, allora presente in corte, durante una udienza che degenerò in un vero e proprio alterco48. Secondo il Roche- 45 Ivi, istruzione del 13 marzo 1509. 46 Ivi. 47 Ivi, istruzione del 14 maggio 1509. 48 Ivi, lettera di Stefano Vivaldi del 16 maggio 1509. — 66 — chouart la scelta dei Vicari non aveva leso i privilegi. Indispettito dalle repliche del Vivaldi affermò che se fosse stato ancora importunato avrebbe provveduto ad inviare dei magistrati d’oltralpe, cosa di cui i genovesi avrebbero avuto modo di pentirsi; in un accesso d’ira accusò i genovesi di aver sperato che il re fosse sconfitto nella guerra contro i veneziani, proferendo « altre parole più aguse et non ben composte »; disse infine di sapere che « tuti li magistrati et maxime il senato se faxeano a parcialità ». L’ambasciatore si difese come potè ma di fronte all’ostinazione del Governatore preferì ritirarsi. Nel giugno 1509 un nuovo motivo di tensione venne a turbare i rapporti tra la città e Luigi XII: quest’ultimo aveva infatti iniziato a distribuire a proprio arbitrio « guberni, officii et potestarie » delle riviere liguri. Le autorità genovesi scrissero subito al Governatore affermando che ufficiali nominati direttamente dal re non avrebbero portato il dovuto rispetto né a lui né al senato cittadino, tanto più che « la dieta maiestà del re è solita semper dare li dicti officii a suo bono piacere, non determinando tempo alcuno, quali officii per le nostre constitutione, etiam per antiana consuetudine, non si debbano dare si non per uno ano e in fine del ano debbano essere sindicati ». Senza dubbio Luigi XII aveva agito in buona fede, credendo di « fare piacere a questa sua cità », ma « in vero è tuto el contrario [. . .] parendo a noi che questo sia uno grande abuso ». Al Rochechouart fu richiesto di intercedere presso il sovrano affinché revocasse le nomine già effettuate e si astenesse dal farne di nuove49. Nel luglio del 1509 tornò in primo piano il problema della giustizia civile cittadina. I Conservatori dei privilegi denunciarono pressioni miranti a « tirare le cause fori de la iurisdictione nostra ». La linea politica perseguita a suo tempo dal Presidente di giustizia non si era spenta, ed aveva inoltre il sostegno di una parte della cittadinanza. A detta dei Conservatori, due erano le categorie interessa- 49 Ivi, lettera del 22 giugno 1509. Lo stesso giorno fu scritta un’istruzione a Stefano Vivaldi in cui gli fu ordinato di adoprarsi per ottenere il ripristino del consueto sistema di elezione degli ufficiali delle riviere. Sempre in questo documento si trova un breve accenno ad una richiesta del re che le autorità genovesi si rivolgessero a lui scrivendo in francese. A tale riguardo, risposero gli Anziani, « ne faremo qualche consulta, importando tanto questo articulo quanto lo importa ». — 67 — te a gettare discredito sulla giustizia genovese: in primo luogo « chi vole vivere d’altro che de mercadantia, chi studiano per loro particulare commodo piacere a chi tale novità ricercha » (il riferimento sembra essere a coloro che rinunciando al commercio intendevano « vivere » dei benefici elargiti dal sovrano) ; la seconda categoria « ha origine da’ littiganti, quali quando le cose a loro non succedano sicundo le loro voglie, cossi corno accade per tutto el mondo, dano sempre carricho a chi è sopra la iusticia ». In realtà, si affermava, la giustizia genovese era molto migliore di quanto sostenevano i suoi denigratori e l’introduzione del diritto di appello all’autorità regia non avrebbe portato « niente de bono »: Luigi XII sarebbe stato importunato di continuo e i litiganti avrebbero visto moltiplicarsi « incommodi e spese »; d’altro canto era pur necessario « che l’una de le parte perda », ed i perdenti avrebbero finito col sentirsi « offesi da la dieta maestà del re »; lo stesso Governatore e le magistrature cittadine avrebbero visto svanire la loro autorità ed i privilegi concessi dal re sarebbero stati gravemente lesi50. All’inizio del 1510, si stava preparando un attacco ancora più duro contro l’autonomia politica dello stato genovese. L’anno precedente un commissario regio, quel Falcon d’Aurillac a suo tempo collaboratore del Presidente di giustizia Pietro di Sant’Andrea, aveva condotto un’indagine in città e nelle riviere sull’organizzazione politica genovese e sull’amministrazione della giustizia, informando di tutto il Gran Cancelliere Jean de Ganay. Quest’ultimo chiamò l’ambasciatore Stefano Vivaldi, per contestargli il fatto che in Genova fosse stato istituito, ex novo e senza il consenso delle autorità francesi, l’ufficio dei Conservatori dei privilegi e che al Governatore non fosse consentito di assistere ai suoi lavori. Questa magistratura inoltre, secondo il Ganay, violava « regiam auctoritatem al quale re solum spectat interpretare privilegia ». Dopo ripetuti tentativi di sminuire il significato delle rege concessioni si cercava ora di colpire l’organo istituzionale cui spettava tutelarle51. Il Vivaldi replicò affermando che i Conservatori avevano il com- 50 Ivi, istruzione al Vivaldi del 29 luglio 1509. 51 Ivi, lettera di Stefano Vivaldi del 21 febbraio 1510. pito non di interpretare ma di difendere i privilegi di recente confermati dal re con lettere patenti. Senza la loro opera i genovesi non avrebbero avuto modo di far sentire le loro ragioni e i loro diritti sarebbero rimasti oppressi dato che il Governatore, contro l’inequivocabile volontà di Luigi XII, « tutto il iorno se vole impachiare de la iustitia et advocat causas ordinarias ad sé ». Non contro l’autorità regia, bensì a sua difesa si era creata la nuova magistratura escludendo da essa il Governatore52. L’ambasciatore confermò che l’ufficio non esisteva al tempo di Philippe de Clèves, signore di Ravenstein (cioè fino al 1506): sed ea de causa, perché esso Ravasten mai non se è impazato de nostri privilegii et per questo non era bisogno farli offitio, qua cessante causa cessat effectus, sed da poi ch’el signor Gubernatore ha voluto impazarse e stato necessario trovar qualche forma per nostra indemnità. Il colloquio si spostò quindi sul problema dell’inosservanza dei privilegi. Il Vivaldi chiese nuove lettere di conferma che obbligassero il Rochechouart ad assumere una diversa condotta, ma il Cancelliere rispose che erano sufficienti le lettere già concesse e lo invitò a stilare un memoriale sulle presunte violazioni53. L’esito dell’incontro non poteva certo considerarsi positivo; a detta del Vivaldi il magistrato dei Conservatori era in pericolo: « circha ordinatione dicti officii, dubito non li metteno qualche provisione o di levarlo in totum o saltem metterli qualche temperamento non obstante habbia assai cridato, perché esso domino Falco [d’Aurillac] ne è venuto molto bene instructo et non so da cui ». 52 Nella lettera si afferma: « isto modo cives et tota civitas remanent privati per indirrectum dictis privilegis, et per questo è stato ordinato dicto magistrato et non che habbia a interpretare dicti privilegii, sed solum ad hoc che quando accade de simili abusi et corruptelle, corno tutto il iorno accade, possano essere col signor Gubernatore et altri soi offitiali per farli intendere la ragione de soi citadini, quali non hariano forma de poter dire el facto suo imo, remanerent oppressi iuribus suis et né per questo se potrà dire essere contra l’auctorità regia, imo potius el contrario, volendo mantenere quello che sua maestà s’era dignata concedere », ivi. 53 Ciò fece l’ambasciatore ricordando tra l’altro « le cause et rechiami a li quali tutti el signor gubernatore dà audientia, quali doveriano essere remissi ad magistratus ordinarios ». — 69 — Alla metà del marzo 1510 una notizia mise la città in grande apprensione: dalla Francia stavano per partire « doi doctori », diretti a Genova; non si conoscevano né i loro nomi né il loro incarico ma il fatto non prometteva niente di buono. Il Vivaldi, interpellato, rispose che l’unica persona in procinto di lasciare la corte era quel « domino Falco » autore dell’indagine sulla giustizia genovese, ma per quanto si sapeva era diretto a Milano54. Dopo ulteriori indagini l’ambasciatore comunicò di aver saputo che l’Aurillac, una volta giunto a Milano, « ha a venire costì insieme con uno altro suo compagno per dare ordine opportuno a le informatione per lui prese costì et de le riviere »55. I cittadini ben presto constatarono di non essersi preoccupati invano. I due commissari giunsero a Genova 1’ 11 luglio e presentarono una lettera in cui si affermava che il re, mosso da « immenso amore » verso i genovesi, intendeva far sì che la città fosse governata « secondo la debita forma di justitia », rimuovendo « ogni sinistro modo de vivere per lo quale se vede nascere scandali e discordie »56. A tal fine Luigi XII aveva impartito ordini che dovevano essere tassativamente osservati e ne aveva affidato la pubblicazione ai commissari affinché nessuno potesse « per alcuna justa ignorantia excusarse ». Essi avevano inoltre l’esplicito incarico di prendere quei provvedimenti che sembrassero loro opportuni per il bene dei sudditi liguri « secundo la mente de la sua sacra Maestà de la quale sono bene informati ». II primo degli ordini conteneva il divieto assoluto di vendere gli uffici giudiziari sia della città che delle riviere. Tali uffici dovevano essere affdati a « homini da bene, vdonei e sufficienti e di ogni suspi-tione mundi ». Ai prescelti, prima dell’inizio del mandato, doveva essere imposto l’obbligo di versare una cauzione a garanzia del giuramento di esercitare in prima persona il proprio ufficio, facendo in esso « continua residentia », senza ricorrere a sostituti. Gli abitanti o comunità delle riviere che ritenessero di essere stati danneggiati « da li notari o scribe de li officii » avevano facoltà di presentare entro otto giorni dall’emanazione della grida le loro « querelle ». 54 Ivi, lettera del 26 marzo 1510. 55 Ivi, lettera del 22 aprile 1510. 56 ASG, Archivio Segreto 1649. — 70 — Il Governatore avrebbe provveduto a fare « bona et expedita justicia et senza figura de processo ». Era fatto poi divieto a qualunque magistrato « di intrometterse de alcuno caso reservato al prefato christianissimo re o vero al suo Gubernatore », o di procedere alla confisca di beni. Nessuno, nel dominio genovese, doveva concedere ai malfattori remissioni di condanne alla pena capitale, o ad altre pene corporali, in quanto ciò era inviolabile prerogativa regia. Era vietato inoltre nel caso di reati passibili di una pena pecuniaria procedere ad una composizione prima dell’espletamento del processo e dell’emissione della sentenza. Luigi XII aveva preso una ferma decisione anche riguardo all attività dei Conservatori dei privilegi. Ai componenti la magistratura fu ordinato che più non ardiscano intrometterse de exercitare tale officio per modo alcuno, ma da quello se debeno abstenire, né per questa causa per alcun modo congregale, atexo che lo dicto officio he facto senza alcuna permissione aut licentia regia. E però sua Maestà l’ha cassato e annullato, e cassa e annulla57. In queste parole c’è il senso complessivo dell’iniziativa del sovrano. Con il mandato ai due commissari si intendeva chiudere la polemica sui privilegi iniziata dal 1507. L’intervento diretto di Luigi XII confermava l’interpretazione restrittiva che di essi aveva dato a suo tempo il Presidente Pietro di Sant’Andrea e mirava ad aprire alle autorità francesi in città spazi di potere fino ad allora gelosamente difesi dai genovesi. Il re impartì disposizioni per la riforma della procedura seguita nell’eleggere gli Anziani; confermò il divieto per i cittadini di portare armi ed affidò al Governatore il compito di fare « bona et breve iu-sticia » sulle « querelle » raccolte dal commissario Aurillac durante l’indagine svolta nelle riviere. L’ultimo dei problemi affrontati riguardava il prelievo fiscale nel dominio ligure. Ovunque cresceva il malcontento: si lamentavano universalmente tute le terre dele rivere tanto de levante quanto de ponente, contra li gabelloti de questa inclita cità de Genua per causa de nove im- 57 Per i trasgressori era prevista una pena di mille ducati d oro. — 71 — positione et gabelle sopra el grano e biava, a essi misse et imposte et intollerabile corno dicono li homini di diete terre, o che si voleno exigere e levare de novo, [...] e altre impositione indebite et inconsuete. Il re invitò i querelanti a comparire di fronte al Governatore ed ai Commissari, i quali avrebbero provveduto «in tale modo et sorte [. . .] che li subditi regii non sarano indebitamente et contra rasone gravati né opressi ». Veniva così ribadito un assunto fondamentale. Nonostante l’esistenza di privilegi che garantivano il dominio di Genova sulle riviere, tutti gli abitanti della Liguria, i cittadini genovesi come i rivieraschi, erano prima di tutto sudditi del re di Francia e come tali soggetti alla sua tutela e suprema giurisdizione. La risposta delle autorità genovesi non si fece attendere. Il 14 luglio, quattro cittadini deputati58 stilarono un documento indirizzato al Governatore e ai due commissari59. Esordirono ringraziando la Maestà del re per l’affezione che dimostrava nei confronti delle città ma avanzarono l’ipotesi che su alcuni punti fosse stata « non bene informata ». Il primo ad essere affrontato fu l’articolo delle « ordinationi » riguardante il prelievo fiscale dalle riviere « per essere [. . . ] de li altri più importante ». Se, come ordinava il re, il giudizio sulle querele dei rivieraschi contro l’esazione delle gabelle fosse stato affidato al Governatore, ciò avrebbe causato « universalmenti danno intollerabile ». Da gran tempo, fere ab urbe condita, « tute le rasone delle cabel-le [...] e non solamente le rasone ma ancora [...] tuta la iurisdic-tione di quelle » erano state trasferite in San Giorgio. Il comune aveva rinunciato ad amministrare autonomamente il sistema fiscale, al punto da non poter introdurre nessuna nuova imposta senza il permesso della « Casa », da cui la città dipendeva per le sue necessità finanziarie e per soddisfare le richieste del re. La prosperità di San Giorgio si basava unicamente sulla « reputatione » e sulla « fede » che in esso riponevano i genovesi. Ciò era stato ben compreso da Luigi XII che aveva concesso sponte e mottu proprio ampi privilegi, il principale dei quali era « che non sia chi se possia impedire né intrometere de cosse per- 58 Si tratta di Melchion Negrone, Anfreone Usodimare, Stefano Giustiniani e Battista Botto. 59 ASG, Archivio Segreto 1649. — 72 — tinente a gabelle excepto dicto officio [di San Giorgio] ». Il comune, perché fossero salvaguardati i diritti di ognuno, aveva costituito un’apposito officio (i Consoli delle calleghe) formato da cittadini non coinvolti nell’appalto delle imposte, con il compito di giudicare nelle cause « tra cabelloti da una parte et debitori de cabelle, cossi de la terra corno de le rivere, parte altera ». Contro le sentenze dei Consoli era prevista la possibilità di appello all’ufficio di San Giorgio dal quale « num-quam è uscito iniusta sententia ». Modificare questo meccanismo avrebbe significato colpire la reputazione di San Giorgio; mancando la fiducia dei cittadini nell’istituto preposto alla gestione del debito pubblico, tutto il sistema politico-finanziario dello stato genovese sarebbe crollato. In sostanza, si affermava, « le compere e la casa de San Giorgio sono veramenti l’anima de questa cità, e alterata l’anima totum corpus dissolvitur ». I quattro « deputati » entrarono poi nel merito delle proteste degli abitanti delle riviere contro le gabelle sui grani. Essi anzitutto ribadirono che, salva semper auctoritate et superioritate regis supremi domini, questi de le rivere sono subditi de questa communità et liberum est superiori prò necessitatibus publicis nova onera imponere. Al di là di tale dichiarazione di principio, fecero presente che nel dominio ligure erano stati sempre imposti gli stessi carichi fiscali adottati in Genova e che dall’inizio del secolo non era stata introdotta nessuna nuova imposta sui frumenti. Se le proteste fossero state accolte e le gabelle sui grani diminuite ne seguirla questo absurdo, che li grani anderiano tuti in rivera. E quando la cità cum tanta multitudine de populo havesse bisogno de grano, saria a questo modo necessitata andarli a prehendere in rivera. Nel contestare l’ordine che affidava al Governatore il compito di giudicare sulle querele raccolte dal commissario Aurillac durante la sua indagine nelle riviere, furono adottati argomenti che già conosciamo: ciò avrebbe causato « uno danno et confusione incredibile »; Genova, essendo edificata su un arido scoglio e vivendo di solo commercio, se governa et se mantiene solamenti de fede, sensa la quale rueret fonda-mentum totius negotiationis, e perciò li nostri antiqui, questo cognosciuto, ano costituito alcuni magistrati diversi sicondo le negociatione e ciascuno de — 73 — loro sotto particulare regulle sensa remedio de appellatione, non ad altro fine si non che in contractu quocunque mercantili li contrahenti fussino sicuri non essere tirati a diversi fori per cavillationes et longa littigia, aciò che inter mercatores sublata occasione cavillationum se restasse sopra la fede più ampia, pura e sincera. In sostanza qualunque intromissione esterna nella giustizia civile cittadina avrebbe introdotto un elemento di incertezza intollerabile per l’economia genovese. Dopo aver esaminato in modo breve alcuni altri articoli delle « ordinazioni » rege, i quattro deputati conclusero affermando di aver stilato le loro « risposte » simpliciter et mercatorio more, non avuto de quelle alcuna conferentia cum doctori né cum alcuni magistrati o privati sicondo li ordini e constitutione nostre maxime per la brevità et incomodità del tempo. Il dichiarato carattere estemporaneo del documento non diminuisce il suo significato. Il testo delle « ordinationi » e le risposte dei genovesi sintetizzano con efficacia i contenuti e i motivi dello scontro tra due concezioni diverse della giustizia e del potere. Da una parte la visione gerarchica della monarchia francese che ponendo tutti i liguri, genovesi, savonesi o rivieraschi, su uno stesso piano in quanto sudditi, ammetteva il ricorso ad istanze superiori ed infine alla persona del sovrano. Dall’altra quella cittadina e mercantile tesa soprattutto a salvaguardare l’autonomia e il potere delle magistrature della dominante, la brevità dei processi, la certezza delle procedure e l’inappellabilità delle sentenze. Se le riforme volute dal re fossero state attuate l’organizzazione cittadina avrebbe ricevuto un duro colpo, ma nuovi fatti intervennero a modificare i rapporti tra Genova e Luigi XII. Il richiamo alla « brevità et incomodità del tempo » lascia intendere che i genovesi avevano anche altre cose di cui preoccuparsi. Fin dai primi mesi del 1510 c’erano stati chiari segni di un ravvicinamento tra Giulio II e la Repubblica di Venezia ma solo nell’estate prese il via un’offensiva militare congiunta veneto-pontificia mirante a cacciare i francesi dall’Italia. In questa offensiva grande importanza era attribuita alla « liberazione » di Genova e nel luglio ebbe luogo il primo tentativo in tal senso. Gli assalitori confidavano in una rivolta, ma la città rimase fedele al re e si difese con fermezza. Il 6 luglio, quando ormai i piani di Giulio II erano stati scoperti, fu convocato un grande consiglio di oltre 300 cittadini che a larga maggioranza acconsentì alle richieste del Governatore di fare « provisione de denari a tutela del stato»60. Giano ed Ottaviano Fregoso, con l’appoggio di un piccolo esercito agli ordini di Marcantonio Colonna, erano entrati nel territorio ligure e il 17 luglio si congiunsero a Chiavari con la flotta veneta comandata da Gerolamo Contarini. Pur controllando gran parte della riviera di levante, gli assalitori non riuscirono a conquistare Genova e dovettero abbandonare l’impresa. Questi avvenimenti ebbero grande risonanza. Machiavelli, allora « nunzio » presso la corte di Francia, in una lettera del 26 luglio diede notizia alle autorità fiorentine che Genova era salva, e pose l’accento sul fatto che nel consiglio « dove si raguna trecento cittadini, si propose se si doveva spendere dei denari di San Giorgio per difendere Genova per la Maestà del re, e che messo el partito non vi fu se non otto fave discordante»61. Si trattava di una prova di compattezza e di fedeltà che aumentò grandemente la reputazione dei genovesi presso il re e tutta la corte. Il nuovo ambasciatore genovese Giovanni Battista Lasagna riferì62 che Luigi XII aveva pronunciato parole di elogio nei confronti dei cittadini che si erano mostrati fedeli e costanti « così in palatio como in Sancti Giorgio, et tam in publico quam in privato ». Sull’esito del voto per finanziare la difesa il Lasagna affermò che « lo effecto de Sancto Giorgio, a lo re e tu ti li altri, e non immerito, ultra le altre demostratione, è stato gratissimo, perché quella è demonstratione del core e non ge est paliatione »; il sovrano, ridendo, aveva anche fatto notare che il Governatore gli aveva scritto di soli 5 voti contrari, mentre le lettere da Genova riferivano di 8 « balotole negre »; la sostanza non mutava: la prova dell’assedio era stata brillantemente superata e l’immagine della città ne aveva tratto vantaggio. Dopo un’udienza privata concessa da Luigi XII « nella sua camera », il Lasagna potè finalmente affermare: 60 ASG, Archivio Segreto 676. 61 N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, Milano 1964, voi. Ili, p. 1256. 62 ASG, Archivio Segreto 2177, lettera del 25 luglio 1510. — 75 — la cità nostra, sine dubio, est cresciuta de grandissimo favore appresso lo re e tuta la corte, et genoesi a questo puncto hano guadagnato assai et recuperato la fama perduta [nel 1506], et semo tenuti homini savii, costanti e fideli, e sopra tuto quello conseglio ita unanimiter facto in Sancto Giorgio è parso una cosa miranda, et ha ben satisfacto lo animo de tuti. Tale era ormai la stima conquistata che « monsignor de Paris » (Etienne Poncher) aveva affermato, « in maximo numero de li principali », « che a Paris lo re non havereiva trovato tanta fede et unione et maxime parlandosse de spendere denarii per lo re, e cum iudicii e balotole segrete »; in corte tutti dicevano che i genovesi avrebbero dovuto essere contenti del pericolo corso grazie al quale avevano potuto mostrare al re il loro « bono animo e constantia »6Ì e le più alte autorità assicuravano che la questione dei privilegi si sarebbe risolta per il meglioM. All’inizio di agosto si venne ad un decisivo chiarimento. Il Lasagna, informato della presenza in Genova dei commissari regi Aurillac e Four-nier e delle loro iniziative che avevano turbato la quiete cittadina, si recò dal Cancelliere Ganay e dall’ex Governatore Lannoy per avere delle spiegazioni. Il primo assicurò che all’Aurillac non era stata data facoltà di poter « in alcuna cosa derrogare a li privillegii » che, per volontà del re e della corte, dovevano essere inviolabiliter osservati. Il secondo riferì che Luigi XII aveva esternato grande soddisfazione per la fedeltà dimostrata dai genovesi e gli aveva chiesto « che cosa grata poria fare a Genoa a demonstrarge lo bono animo suo ». Il Lannoy aveva risposto senza esitare che piaxesse a sua maestà de conservarge e far che ge sia conservato tuti li privillegii e concessione che ha facto a quella cità e a Sancto Georgio, li quali conservando non erat in aliquo dubitare che li genoesi seriano semper fideli como hano demonstrato, et che non era cosa alcuna chi potesse alienare la mente de li genoesi, salvo se li soi privillegii non ge fusseno observati, le quale cose confirmano quelli chi erano presenti. Quibus auditis, rex dixit che intendeiva dixeseno el vero e che la mente e intentione sua era che dicti 63 II Lasagna cita a questo proposito il versetto biblico (Mt. 18,7) : propter e a scriptum est quod necesse est ut aliquando eveniant scandala, sed ve homini illi per quem scandala veniunt, ivi, lettera dei 27 luglio 1510. 64 Ivi, lettera di G. B. Lasagna del 30 luglio 1510. — 76 — privillegii e concessione fusseno ben guardati e mantenuti e che non fusseno in alcuna cosa violati65. Il re, che confermò al Lasagna quanto aveva dichiarato al Lannoy, aggiunse che avrebbe accresciuto i privilegi di cui godeva la città ligure e concluse assicurando che avrebbe ordinato alPAurillac di abbandonare Genova e non più ritornarvi66. I commissari furono effettivamente richiamati, ma non per questo nei due restanti anni del dominio di Luigi XII mancarono motivi di controversia. Il Governatore Rochechouart risultò a tal punto molesto ai genovesi che nel maggio 1511 furono inviati in Francia quattro oratori per chiederne la definitiva rimozione 67. Complessivamente il periodo di egemonia francese che va dal 1499 al 1512 presenta caratteristiche inequivocabili. Gli equilibri sociali interni tra nobiltà e popolo furono turbati in modo grave; l’assetto territoriale dello stato fu minacciato dal ricorso ad infeudazioni che, instaurando un legame diretto tra il monarca e i possessori delle terre appenniniche, recidevano, o perlomeno assottigliavano, i vincoli di dipendenza dalla città dominante; l’esistenza stessa di un unico stato ligure comprendente le due riviere fu messa in dubbio dal riproporsi della questione savonese; il consolidato sistema cittadino di amministrazione della giustizia, e soprattutto della giustizia civile che costituiva il cuore della vita politica ed economica in un centro mercantile di prima grandezza qual era Genova, dovette subire continui attacchi da parte delle autorità francesi, per niente intenzionate a rimanere escluse da questo punto nevralgico dell’apparato di potere. Tutti questi aspetti furono tra loro strettamente collegati. La designazione di Gianluigi Fieschi a Governatore della riviera di levante era il frutto di una scelta filonobiliare in ambito cittadino, che si traduceva in precise strategie di politica territoriale ed istituzionale. Non sarebbe tuttavia giusto presentare un quadro univocamente negativo del primo periodo cinquecentesco di dominio francese. Le conti- 65 Ivi, lettera di G. B. Lasagna del 2 agosto 1510. « Ivi. 67 Vedi B. Senarega, De rebus genuensibus cit., p. 142 e sg. — 77 — nue profferte di fedeltà al re contenute nel carteggio diplomatico di questi anni, frequenti anche nei mesi della rivolta del 1506, la tendenza ad addossare le responsabilità dei momenti di tensione ai ministri e mai al sovrano, la fiducia sempre riposta in Luigi XII cui si imputava semmai il fatto di dar credito a « consiglieri » male intenzionati, testimoniano che i metodi di governo della monarchia francese riscuotevano un certo consenso. Essi costituivano un’alternativa ai « regimi » delle fazioni degli Adorno e dei Fregoso che creavano una frattura netta tra cittadini e una discriminazione nei confronti della parte perdente. Pur non riuscendo ad eliminare del tutto le fazioni dogali, Luigi XII offrì una prospettiva di stabilità politico-istituzionale in cui i mercanti genovesi vedevano una delle condizioni essenziali per la prosperità dei loro traffici. Con questi elementi di attrazione e di repulsa insiti nel modello di dominio francese si confrontò la società genovese nel suo insieme. Solo più tardi, quando grazie alle strategie dinastiche degli Asburgo Carlo V diede nuova vitalità all’ideologia e alla politica dell’impero, così affini, nella concreta prassi di governo, alla polisinodia territoriale di tradizione aragonese, nacque la possibilità di una scelta alternativa; solo allora risultò chiaro ai genovesi che il prezzo imposto, in termini di autonomia politica, dal dominio francese era troppo alto. 2. Il periodo di Ottaviano Fregoso (1515-1522) Negli ultimi anni del dominio di Luigi XII, dopo una momentanea, e parziale, eclisse, tornò in primo piano il contrasto fra adorni e fregosi. Nel giugno del 1512, i francesi, già sconfitti in Lombardia, furono cacciati da Genova e Giano Fregoso divenne Doge con l’appoggio della Lega Santa. Secondo la logica delle fazioni cittadine, gli Adorno e i Fieschi, con i loro sostenitori, si avvicinarono alla Francia e sull’onda della nuova offensiva di Luigi XII nel 1513, Antoniotto Adorno ricoprì per soli ventidue giorni, tra il maggio e il giugno di quell’anno, la carica di Governatore per conto del re. La battaglia di Novara segnò la fine di quest’effimera riscossa e quindi del breve predominio di Antoniotto e della sua fazione. Il nuovo Doge, Ottaviano Fregoso, salì al potere con l’appoggio spagnolo e con il consenso di Leone X. — 78 — Ecco quindi che nel breve arco di un anno, dal giugno 1512 allo stesso mese dell’anno successivo, la città mutò ben quattro governi nel segno dell’alternanza tra gli Adorno e i Fregoso e del ribaltamento della collocazione di Genova negli schieramenti internazionali. Nell’agosto del 1514 Ottaviano Fregoso riuscì, dopo gli infruttuosi tentativi compiuti nei due anni precedenti, ad espugnare la munitissima fortezza della Briglia a Capo di Faro, ancora nelle mani dei francesi, e ordinandone la distruzione si guadagnò il favore dei cittadini. Anche la questione savonese sembrava prossima ad essere risolta. Dopo la morte di Giulio II e la sconfitta di Luigi XII, i savonesi videro tramontare le residue speranze di recuperare la « libertà » e si impegnarono, con nuovi patti firmati il 23 agosto 1515, a rispettare le antiche convenzioni, a non più appellarsi ad autorità esterne contro le sentenze del Senato genovese6S. Il relativamente ampio consenso che Ottaviano Fregoso aveva saputo conquistare sembrava costituire una garanzia di stabilità ma, per un’iniziativa dello stesso Doge, si giunse di lì a poco ad un nuovo mutamento di regime. Allorché Francesco I nell’agosto del 1515 sferrò l’offensiva in Norditalia, il Fregoso, rispettando accordi segreti da tempo sottoscritti, abbandonò l’alleanza ispano-pontificia ed accorse in suo aiuto. Duemila fanti furono inviati in appoggio all’esercito francese ed al re fu concesso un prestito di 80.000 scudi, sborsati per meta dal comune e per metà da privati cittadini. Il 26 ottobre, con un solenne giuramento prestato a Milano di fronte al re vittorioso, Ottaviano assunse la carica di Governatore di Genova in nome del cristianissimo, rinunciando così alla dignità dogale. Il dominio di Francesco I sulla Liguria durò fino al maggio del 1522 ed ebbe caratteristiche diverse da quello di Luigi XII. Furono anzitutto rimessi in vigore i patti del 1499 che, rispetto ai privilegi concessi nel 1507, garantivano alla città una maggiore autonomia. Cera poi la presenza di un genovese al vertice dello stato. Ciò rappresentava un fatto nuovo perché sempre i re di Francia, quando o per conquista o per dedizione erano divenuti signori di Genova, avevano inviato un Governatore d’oltralpe. Ottaviano Fregoso, per la carica che ricopriva, 68 Vedi E. Pandiani, Controversie cit., p. 198 e sgg. — 79 — era il rappresentante diretto del re a Genova, ma era anche il capo di una fazione cittadina che costituiva una salda base di consenso al dominio francese. Per Francesco I si trattava non di una scelta ma di una circostanza imposta dal modo in cui aveva recuperato la Liguria. Tale circostanza ebbe però un enorme peso in quanto l’eterogenea composizione sociale della parte fregosa (caratteristica questa di entrambe le fazioni dogali) impedì a Francesco I di proseguire la politica filonobiliare di Luigi XII. La presenza di un Governatore genovese impedì anche il risorgere dei gravi motivi di tensione che avevano caratterizzato gli anni successivi alla rivolta del 1506, quando i rappresentanti del re avevano cercato con caparbietà di conquistarsi un ruolo eminente nella giustizia civile cittadina. Vi furono però anche elementi di continuità con il periodo di Luigi XII e non mancarono motivi di tensione tra Genova e il sovrano francese. Gli uni e gli altri possono essere individuati nella politica di Francesco I verso il territorio ligure e nelle pressioni di tipo finanziario cui la città fu sottoposta. Si riaprirono subito i contrasti intorno alle infeudazioni. I duemila fanti inviati nell’agosto del 1515 dal Fregoso in Lombardia permisero anche il recupero di Ovada, rimasta fino ad allora in mano ai Trotti, e quello di un altro vicino luogo fortificato, Gavi, posseduto dai Guaschi. Da questi avvenimenti prese il via una lunga vicenda giudiziaria che si protrasse dal 1515 al 1520 ed ebbe come parti in causa il comune di Genova da un lato e le due famiglie alessandrine dal- 1 altro. Vi furono coinvolti ambasciatori, giuristi, e vari personaggi, genovesi e non, che godevano di una qualche autorità presso la corte francese. Il materiale documentario è molto abbondante. Abbiamo le lettere degli ambasciatori Giovanni Doria, Nicola Oderico e Giovan Battista de Mari69, che, inviati in epoche successive presso Francesco I, scrissero continui resoconti della causa; quelle di Giovanni Gioacchino da Passano 70, genovese molto ascoltato a corte, che fece sforzi continui per ottenere il favore di membri del Gran Consiglio del re; infine le 69 ASG, Archivio Segreto 2177 e 2178. 70 ASG, Archivio Segreto 2178. — 80 — lettere del « dottore » Corrado Sofia che, affiancato da Bartolomeo da Prato e da Antonio De Foo, rappresentò il comune di Genova durante le varie fasi del giudizio71. Da questa fitta corrispondenza la questione di Gavi e di Ovada emerge in tutta la sua importanza. La cosa non stupisce: già abbiamo detto come Ovada fosse posta allo sbocco della via che partendo da Voltri valicava il passo del Turchino; a Gavi conduceva invece 1 altra vitale arteria di comunicazione tra Genova e il Norditalia, quella che seguiva la valle Polcevera fino a Pontedecimo per valicare poi 1 Appennino attraverso il colle della Bocchetta. La lite con i Guaschi e con i Trotti vedeva quindi in gioco la possibilità per Genova di controllare posizioni strategiche essenziali sia per il commercio che per la difesa. Sarebbe possibile ricostruire fin nei minimi particolari le varie fasi della lite per il possesso dei due feudi. Ci limiteremo qui ad esaminare il caso di Ovada, documentato in forma riepilogativa da una pergamena in cui Francesco I comunicava ai genovesi, e rendeva nel contempo esecutiva, la sentenza del 21 marzo 1517 emanata dal Gran Consiglio di Francia72. La causa ebbe inizio nel 1515 quando i figli di Francesco Trotti (indicati come « Pierre Jean Paule Trotte et ses freres ») si rivolsero alla Cancelleria milanese sostenendo i loro diritti sul luogo e castello di Ovada con le sue appartenenze, posti nella giurisdizione del ducato e che il loro padre aveva acquistato nel 1501 da Luigi XII. In virtù di questa vendita il defunto Francesco Trotti aveva posseduto legittima-mente Ovada fino al 1512, quando a Luigi XII era subentrato Massimiliano Sforza. Nel 1512 infatti Antoniotto e Gerolamo Adorno avevano strappato Ovada al Trotti, godendone il possesso durante il periodo in cui lo Sforza era stato signore di Milano. Nel 1515, con la riconquista della Lombardia da parte di Francesco I, i figli del Trotti avevano ripreso il castello di Ovada cacciandone gli Adorno, ma successivamente le truppe mandate da Ottaviano Fregoso in soccorso dell’esercito francese « de voye de fait et en forme de guerre » avevano di nuovo cacciato i Trotti dai loro possessi. 71 ASG, Archivio Segreto 1959. 72 ASG, Archivio Segreto 354 (Paesi, Ovada), doc. 14. — 81 — Questi ultimi per avere giustizia si rivolsero al re che incaricò Guillaume Luillier, membro del Gran Consiglio e consigliere del Senato di Milano, di giudicare sulla controversia. Ottaviano Fregoso rifiutò di comparire in giudizio, allegando « le dit Luillier estre suspect » e dichiarando inoltre che di Ovada erano legittimi « gouverneurs et pos-sesseurs » gli Anziani e la comunità di Genova. Dopo lunghe schermaglie procedurali, il Luillier si proclamò giudice competente e ordinò la restituzione di Ovada ai Trotti, condannando i genovesi al pagamento delle spese processuali. Ottaviano Fregoso e gli Anziani ricorsero al Gran Consiglio del re in appello. Dopo alcuni rinvìi entrambe le parti presentarono i propri « griefz ». I Trotti continuarono a motivare le loro richieste sulla base della « vendiction » del 1501. I genovesi ribadirono che da tempo immemorabile a loro « compectoit et appartenoit » la signoria e terra di Ovada, « de tout droit de proprieté et seigneurie », mettendo di conseguenza in dubbio la legittimità della vendita conclusa da Luigi XII. Venne inoltre posto un problema fondamentale: se cioè i luoghi contesi fossero soggetti alla giurisdizione di Genova o di Milano. I rappresentanti della città ligure riconfermarono le « suspicione » nei confronti del Luillier in quanto giudice non competente, e si dissero pronti a fornire « Instruments autentiques » a sostegno dei loro argomenti e a prova che i Trotti « avoient tenu le dict lieu de Uvade par possession clandestine ». Non ci dilungheremo nel seguire i particolari della contesa tra le due parti. I genovesi conclusero le loro perorazioni appellandosi agli accordi recentemente sottoscritti dal re, secondo i quali egli s’impegnava non solo a « entrectenir mantenir et garder » tutte le terre soggette al comune di Genova ma anche a restituire quelle terre, luoghi e signorie che fossero stati « usurpez [. . . ] detenuz ou occupez ou eussent esté vendues, alienees et mises en aultruy mains par quelques personnes que se fussent [compreso quindi Luigi XII] ». L’istanza di fondo del- lo stato genovese, da cui dipendeva anche la disponibilità ad accettare la signoria francese, era che fosse garantita l’integrità del dominio. Una istanza che Francesco I, come Luigi XII, disattese manipolando il territorio ligure in forma sempre più lesiva degli interessi cittadini. Il Comune, parallelamente alla causa principale, seguì altre due vie: prima invitò il sovrano a prendere personalmente possesso di Ova- — 82 — da; in un secondo tempo sostenne le pretese di Antonio Spinola che già aveva intentato una causa, peraltro infruttuosa, contro i Trotti al tempo di Luigi XII. Si cercò in questo modo di aggirare l’ostacolo dell’inequivocabile tendenza della giustizia francese a favorire nelle controversie territoriali le grandi famiglie detentrici di feudi. Si ritenne necessario avanzare proposte alternative per sostituire il comune nel ruolo di interlocutore dei Trotti con delle controparti che avessero maggiori possibilità di successo. In particolare si intese contrapporre ad una famiglia della nobiltà lombarda uno dei maggiori gruppi nobiliari della Liguria, quello degli Spinola. Nonostante tutti gli sforzi, però, il Gran Consiglio di Francia si espresse a favore dei Trotti e Ottaviano Fregoso fu costretto a riconsegnare nelle loro mani il castello di Ovada. La sentenza fu sfavorevole anche per Gavi che fu restituita ai Guaschi. Ci siamo soffermati su queste controversie territoriali per due motivi. Anzitutto perché esse risultano, sulla base della corrispondenza diplomatica, uno dei principali, se non il principale, motivo di tensione tra Genova e la Francia nel periodo 1515-1522; in secondo luogo perché costituiscono un episodio di una storia dello stato genovese che, se da un lato è ancora tutta da scrivere, dall’altro risulta, nei pochi accenni presenti nella letteratura, già impostata sul confronto non del tutto legittimo con le realtà degli stati regionali italiani del Cinquecento. Un confronto dal quale esce inevitabilmente il quadro di uno stato genovese debole, « che in pratica abbandona il proprio territorio a se stesso », di un ceto dirigente cittadino formato da mercanti e finanzieri, da affaristi privi di ogni « senso dello stato » . Ovviamente in queste tesi c’è del vero. Tuttavia, bisogna tener presente che i governanti genovesi agivano in base ad esigenze non omogenee a quelle degli stati regionali fondati in misura più rilevante su un’economia agricola. Sarebbe più giusto quindi dire che essi avevano un’« altro senso dello stato », frutto dei caratteri originali (e originari) 7i G. Assereto, Dall’amministrazione patrizia all’amministrazione moderna: Genova, in L’amministrazione nella storia moderna, I, Milano 1985, pp. 95 159. Assereto definisce la tesi dell’inconsistenza dello stato genovese come un «luogo comune storiografico » che è però, a suo giudizio, « ben fondato su alcuni ati i fatto evidenti ed incontestabili », ibid., p. 95. Si veda inoltre E. Grendi, Introduzione alla storia moderna della Repubblica di Genova, Genova 1976, p. 214. — 83 — della realtà ligure. Come abbiamo visto, i genovesi difesero con grande accanimento l’assetto del proprio territorio quando vennero messi in discussione alcuni punti che loro giudicavano essenziali. In primo luogo il comune aveva la necessità di tutelare i passi appenninici che permettevano l’accesso alla Lombardia. L’altro elemento decisivo per la sopravvivenza era il controllo sulle città della riviera, e in particolare sull’eterna rivale Savona: unico centro costiero in grado di costituire un’alternativa come via di collegamento tra il Mediterraneo occidentale e l’Italia del nord. Anche rispetto a questo problema vi furono dei contrasti fra Genova e la Francia durante il periodo di Ottaviano Fregoso. In varie lettere gli ambasciatori Giovanni Doria e Nicola Oderico espressero preoccupazione per il fatto che i savonesi, muovendosi autonomamente sul piano diplomatico, premevano a corte per ottenere privilegi e favori74. La questione di Savona non giunse però a maturazione sotto il governatorato del Fregoso. Invece, come vedremo, tra il 1527 e il 1528 essa divenne il nodo fondamentale nei rapporti tra Genova e Francesco I, e addirittura, intrecciandosi al dibattito sulla riforma, costituì uno dei più importanti motivi delle scelte istituzionali e politiche del 1528. I problemi territoriali non erano gli unici a rendere difficile la convivenza tra Genova e la Francia. Gli ambasciatori furono incaricati di trattare anche questioni commerciali e di tributi. Sin dal 1515 i genovesi cercarono, tra mille difficoltà, di ottenere il privilegio della « naturalità », cioè di poter svolgere in quanto sudditi la loro attività di mercanti nei domini del re senza alcuna limitazione. Rispetto ai tributi i contrasti furono fin dall’inizio latenti ma esplosero intorno alla metà del 1517. Come abbiamo detto, Ottaviano Fregoso all’epoca del « voltafaccia » aveva sovvenzionato Francesco I con la riguardevole somma di 80.000 scudi. Già due anni dopo pervennero nuove richieste di danaro. La risposta fu negativa e la reazione francese violenta. I genovesi, accusati di non contribuire come invece facevano gli altri sudditi (i milanesi in primo luogo) e di costituire un peso per le finanze rege 75, cer- 74 ASG, Archivio Segreto 2177, lettere del 13 novembre 1515, del 16, 19, 23 e 30 gennaio 1517, dell’agosto 1517. 75 L’ambasciatore Nicola Oderico in una lettera del 9 agosto 1517 (ASG, — 84 — cavano di giustificarsi invocando la rigidità delle strutture fiscali cittadine. Queste scusanti vennero sdegnosamente respinte e l’ambasciatore Nicola Oderico riferì che in mancanza di contributi il re minacciava di rinunciare al « governo » di Genova, in qual caxo, volendo essere inimici di sua Maestà se poterla facile intendere qual ruina ne seguirebbe e volendo restare in amicitia sua Maestà non accep-terebe se non pagandoli bona quantità como fano li altri76. Alle proteste dell’ambasciatore, che ricordava come già i genovesi avessero prestato ingenti somme al re, fu seccamente risposto che « non era da commemorare li cinquanta e venticinquemila scuti prestati inpe-roché cum lo interesso se sarebeno havuti da mori et turchi »77. In sostanza il tributo era visto come condizione perché i genovesi continuassero a godere dei vantaggi dello status di sudditi del re (in primo luogo quello di poter commerciare liberamente « in Lombardia, Provintia et Frantia »), e le loro resistenze vennero paragonate sfavorevolmente con la « facilità » con cui le « altre terre subiecte », i « gentiluomini » e i « signori » avevano risposto alle richieste del sovrano78. Archivio Segreto 2177) riferì sui movimentati colloqui avuti con il Gran Cancelliere Duprat: « il prefato canzellero mi dette risposta [...] che sua Maestà non havia alcun beneficio imo più presto dano da questa cità commemorando le provisione notorie che dava in questa cità e che non è conveniente che [...] si recusasse da noi contributione, essendosse contributi tuti li altri subditi: Milano cum taglione et persino el prefato gran maestro il quale per tal causa havia venduta la propria vasella de oro e de argento. Et benche io dicesse che mancava modo a trovar denari non possendosi imponere cabelle, niente di manco le mie parole tendevano che questa cità non voleva ossequire a sua Maestà de tal requesta ». 76 Ivi, lettera del 15 agosto 1517. 77 Ivi. 78 Le minacce più esplicite le troviamo in una lettera del 20 agosto del (ivi) nella quale l’Oderico riferisce le risposte avute dal Gran Cancelliere e dal Lautrec, secondo le quali «sua Maestà non vorrebe tenere questa patria in tal modo, e quando ne volesse lassarne la nostra libertà se poteria considerare de qual conditione sarebe il stato nostro, essendo necessario che alhora fussimo o inimici de sua Maestà e che in tal casu indubitata sequiria la ruina nostra cum sola la interdictione de negotiare in Lombardia, Provintia et Frantia, o vero vo lendo essere soi amici seria necessario dar a sua Maestà grande tributo come ano — 85 — Nel deterioramento dei rapporti tra la città e la Francia che si verificò intorno al 1517, la questione dei tributi ebbe senza dubbio una notevole importanza e venne ad intrecciarsi con quella di Gavi e di Ovada. Ricevuto nel marzo l’ordine di restituire i castelli ai Guaschi e ai Trotti, le autorità genovesi inviarono presso la corte un ambasciatore per protestare contro tale ingiunzione. Questi tuttavia, afferma il Giustiniani, non venne neppure ricevuto, « perché il re voleva constringere la Repubblica che li prestassi ottanta millia scuti, come haveva fatto gli anni passati [...]. Et non si vergognorono gli ufficiali del re di dire all’ambasciatore, che non haria mai udienza se il re non era compiaciuto di questo prestito che richiedeva »79. Le richieste di danaro si intensificarono dopo la morte di Massimiliano I ed erano senz’altro legate all’affannosa ricerca di fondi per « comprare » i voti degli elettori imperiali. Il tono delle richieste divenne allora molto meno perentorio, ma i genovesi che, come è noto, contribuirono a finanziare l’elezione di Carlo I di Spagna, rifiutarono anche questa volta di accondiscendere al volere del re 80. 3. Verso il sacco del 1522: un « vivere alieno da le altre città » Con la riunione nel 1519 sotto la corona imperiale dei domini spagnoli e asburgici, la rottura degli equilibri strategici sanciti dalla « pace perpetua » del 1516 era ormai evidente e la riapertura del conflitto per il predominio in Italia ne fu la logica conseguenza 81. Al cen- le altre natione sotoposte a sua protectione, il qual tributo seria de maior importantia che pagar una volta solo la quantità richiesta ». 79 A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXXII v. e sg. 80 Vedi R. Ehrenberg, Le siècle des Fugger cit., p. 44. Le numerose lettere con le quali Francesco I chiedeva cospicui prestiti nella primavera del 1519 sono conservate in ASG, Archivio Segreto 2780. 81 Vedi K. Brandi, Carlo V cit., pp. 102-106 e P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare cit., p. 537 e sgg. — 86 — tro della contesa fu ancora una volta il ducato di Milano e con esso Genova inesorabilmente legata ai suoi destini. La lotta per la città ligure entrò così nella sua fase decisiva. Per la Francia essa continuò ad essere caposaldo imprescindibile per qualunque sviluppo della sua politica italiana; per l’impero di Carlo V divenne nodo fondamentale dal punto di vista militare, marittimo-commerciale e finanziario. Le operazioni nel nord della penisola iniziarono come di consueto con il tentativo, questa volta da parte imperiale, di impadronirsi di Genova via mare, mentre Prospero Colonna a capo delle truppe ispa-no-pontifice penetrava in Lombardia. L’attacco navale dell agosto 1521 fu un fallimento, ma l’esercito cesareo riuscì ugualmente a conquistare Milano nel novembre grazie soprattutto all’abilità del suo supremo comandante 82. Fin dalle prime fasi del conflitto si evidenziarono tutti i gravi problemi connessi, per Genova, all’alleanza con la Francia. I successi imperiali resero la posizione della città sempre più scomoda e 1 isolamento politico e commerciale, conseguente all’ostilità che i suoi mercanti incontravano nei territori soggetti o fedeli a Carlo V, divenne insostenibile. Tali difficoltà si manifestarono anzitutto nel problema immediato e vitale del rifornimento annonario. Realtà urbana totalmente votata al commercio, all’industria, alla finanza, e priva di un retroterra adatto a vaste colture di cereali, Genova dipendeva da altre zone del Mediterraneo per sfamare la sua popolazione. La salvaguardia dei rifornimenti di grano provenzale e siciliano era una preoccupazione costante e il riaccendersi del conflitto tra le grandi potenze metteva in forse le possibilità di accesso a quei mercati. Le autorità presero drastiche misure che testimoniano la gravità del momento. Nel marzo 1522 fecero armare due navi, affidandole al commissario Tommaso Italiano. Suo compito era impadronirsi di tutti i vascelli carichi di grano che si fosse trovato ad incrociare. L istruzione che Ottaviano Fregoso diede al commissario fornisce un quadro chiaro delle difficoltà derivanti dalla riapertura del conflitto e fornisce indicazioni su problemi che vanno ben al di là dell’immediato oggetto del provvedimento: 82 Ivi. — 87 — Thoma, come a voi debe essere noto, per le guerre che al presente occorrono tra la Maestà Cesarea e il Cristianissimo Re signor nostro, a questa cità, habitanti e districtuali di quella li sono state e sono serrate le traete de li grani quasi in ogni loco e specialmenti ne li loci de la prefata Maestà Cesarea che sono quelli loci dove per la più parte genoexi solevano haver le loro provisione, il che iudicamo proceda perché li nimici nostri existimano che prohibendo il trare victualie li debia più facilmente far succedere el mutar del stato qui a preiudicio del prefato Cristianissimo e nostro83. Gli imperiali avevano imposto un blocco che mirava a indebolire il regime filofrancese ed il Fregoso era ben consapevole che « lo havere habundantia di victualie è una de le principale cose a potersi nel stato conservare » M. Questa situazione, d’altra parte, aveva gravi conseguenze sulla vita commerciale complessiva della città, vista l’importanza dei rapporti economici genovesi con la Spagna e con l’Italia meridionale. Il problema dei grani era il sintomo di un malessere più profondo che l’entrata in Milano degli eserciti cesarei aveva acuito; ma il precipitare degli eventi bellici doveva riservare ben più spiacevoli sorprese. La morte di Papa Leone X, avvenuta il 1 dicembre 1521, mettendo in dubbio il quadro delle alleanze, provocò un certo disordine nelle schiere ispano-pontifice. I consistenti rinforzi di fanteria svizzera giunti in soccorso del generale Lautrec nel gennaio del 1522 accentuarono ulteriormente la superiorità numerica dell’esercito francese e l’ascesa al soglio pontificio dell’ex-precettore di Carlo V, Adriano di Utrecht, provocò un riequilibrio solo parziale degli eserciti in campo. A corto di denaro per il pagamento delle fanterie svizzere, il Lautrec fu però costretto ad accettare il rischio di una battaglia offensiva che si concluse a favore degli imperiali. La vittoria delle truppe cesaree nella battaglia della Bicocca, il 27 aprile 1522, fu un duro colpo per il regime di Ottaviano Fregoso. Le fondate voci sull’intenzione del Colonna di muovere le sue schiere contro Genova si facevano sempre più insistenti: infatti una parte dell’esercito imperiale, comandata dal marchese di Pescara, già ai primi di maggio aveva iniziato a scendere verso il territorio ligure85. 83 ASG, Archivio Segreto 2707/C, doc. 131. 84 Ivi. 85 Vedi P. Pieri, II Rinascimento e la crisi militare cit., pp. 539-546; K. Brandi, Carlo V cit., pp. 136-156. Gli avvenimenti rischiavano di precipitare e il Governatore inviò d’urgenza Domenico Doria come ambasciatore al re cristianissimo, ma durante il viaggio verso la corte francese questi si ammalò e venne sostituito da Cattaneo Lomellino. Disponiamo così di una prima istruzione, del 17 maggio 1522, redatta per il Doria e di altre due, rispettivamente del 20 e 22 maggio, per il Lomellino86. Questi tre documenti sono di notevole interesse: essi forniscono, da un lato, una precisa testimonianza sulla difficile situazione politico-militare; dall altro, mettono in luce le esigenze fondamentali di Genova legate ai caratteri della sua struttura economico-sociale. L’istruzione a Domenico Doria illustra « li gran travagli » e « le molte inurie » cui erano sottoposti i mercanti genovesi « a causa de le guerre [. . .] in Lombardia e lo odio che è stato ed è del pontefice, del re dei Romani et cusì de tute le natione a loro subiecte, che quasi com-prendeno tuti cristiani exclusa la Maestà Sua et suoi subditi ». Le ingenti spese militari ed ancor più l’isolamento commerciale dovuto alla chiusura dei principali mercati avevano messo a dura prova la fedeltà di Genova alla Francia87. Nonostante ciò il Fregoso sapeva bene che il suo destino personale era indissolubilmente legato alla permanenza della città sotto il dominio di Francesco I. La cacciata dei francesi avrebbe significato la sconfitta della parte fregosa e l’esautoramento del suo indiscusso capo: con l’esercito imperiale si trovavano infatti i fratelli Antoniotto e Gerolamo Adorno e le regole della vita politica cittadina rendevano di fatto inevitabile il dogato di uno di loro in caso di vittoria imperiale. Il Governatore affermava che i disagi erano gravi ma che « si è supportato il tuto voluntieri et cusì se intende fare in l’advenire »88. In realtà il quadro politico interno era molto più incerto. Se per il Fregoso l’alleanza con Francesco I era un imperativo imprescindibile, ben diversa era la situazione per Genova nel suo complesso. Che la città non fosse compatta nell’appoggio al regime vigente ce lo conferma un annotazione del Sanudo: 86 ASG, Archivio Segreto 2707/C, doc. 132. 87 Ivi. 88 Ivi. — 89 — In Zenoa per il governador che al presente domina tien con Franza, domino Otavian de Campofregoso, par habbi scoperto certo tratato di la parte contraria Fregosa et Adorna, che voleva dar la terra via, unde le mandano fuora di la terra 89. Nonostante queste incrinature del consenso interno che, a quanto pare, arrivarono a dividere anche la fazione al potere, la minaccia più immediata proveniva dagli eserciti cesarei. Già il 20 maggio il contingente comandato dal marchese di Pescara, che si era avvicinato da occidente seguendo la Val Polcevera, era giunto sotto le mura della città90. La situazione precipitò repentinamente e il 22 maggio, « ritrovandosi le cose in altri termini da quelli erano », fu scritta la seconda istruzione per il Lomellino: infatti le artiglierie imperiali erano entrate in azione e « continuamenti ne com-bateno da più bande»91. Si aveva notizia dell’avvicinarsi della restante parte dell’esercito cesareo rimasto in Lombardia agli ordini del Colonna e dell’intervento di una flotta in suo appoggio: sette galere napoletane e due del Papa si stavano dirigendo verso la città con il compito di bloccare ogni possibile aiuto francese via mare92. Un altro fatto, per il Fregoso, doveva avere una rilevanza politica ed un peso psicologico enormi: i Fieschi, con il loro esercito di montanari, si erano schierati con i nemici di Francesco I per cacciarlo dall’ultimo suo dominio in Italia. La più grande potenza feudale dell’en-troterra ligure era scesa in campo con la sua temibile forza militare di cui solo la presenza imperiale smorzava le valenze anti-cittadine93. 89 Marino Sanudo, I diari, a cura di R. Fulin e altri, 58 voli., Venezia 1879-1903, voi. XXXIII, col. 271. 90 NelPistruzione del 20 maggio (ASG, Archivio Segreto 2707/C, doc. 132) si afferma che « la cità se trova el campo atorno come la dubitava, el quale è asai potente ». 91 Ivi, istruzione del 22 maggio 1522. 92 Ivi. 93 Secondo l’istruzione (ivi) il Lomellino doveva far presente al re « che oltre li sopradicti apparati contra di questa cità destinati, si sono discoperti inimici di sua Maestà il signor Conte da Fiescho e il fratello che sono in campo con detti nimici e che pur hano gran numero de subditi e qualche amici e forze talmenti — 90 — Genova, di fronte ad un così formidabile schieramento nemico, vittorioso sulla potente armata francese in Lombardia, aveva mobilitato le proprie risorse nel tentativo di rafforzare l’apparato difensivo, ma solo un consistente aiuto francese poteva salvare la città. Nel formulare le richieste di soccorso il Fregoso affrontò due ordini di problemi: in primo luogo pose le esigenze militari più immediate, e quindi la questione della politica globale del re in Italia. Le richieste per la difesa rispecchiano il drammatico precipitare degli eventi. Finché l’assedio fu una minaccia, sia pure concreta e vicina, il Governatore si affannò a domandare tempestivi soccorsi di truppe94. Il 20 e il 22 maggio, quando ormai le artiglierie imperiali bombardavano la città, il Fregoso, persa ogni speranza negli aiuti diretti, chiese una nuova offensiva francese in Lombardia o almeno un azione di disturbo che obbligasse il nemico a togliere 1 assedio . I documenti passano poi a trattare problemi più generali, quali le possibili conseguenze di una conquista di Genova da parte delle truppe cesaree e la politica di medio periodo del re cristianissimo nei confronti dell’Italia. Nel fare ciò essi non perdono certo di interesse; anzi è proprio sul terreno delle ipotesi sui possibili sviluppi futuri che iniziano a rivelarsi le condizioni giudicate necessarie per la stabile adesione della città ad un qualunque sistema di alleanze: l’altro soccorso è che Sua Maestà se disponesi in tuto di voler atendere a le cose de Italia come credemo che la voglia, però quando altramente fuse et noi si confermasimo bene questa volta e defendesimo la cità, non si seria facto niente, dovendosi ben sapere che in altro modo se la potria perdere che ad intrarli dentro li inimici%. che se non siamo presto presto soccorsi si ritrovarimo qui ristrecti cum periculo grande di andare in perditione e noi e le moglie e figli nostri ». 94 « Sua Maestà » si scriveva « la ci vogli mandare, tanto prestamente quanto la pò, da tre in quattromila fanti [...] ma come si dice conveneria che fuseno in tempo qual al parer nostro ha da essere brevissimo [...] perché il soccorso fuor di tempo non iovaria », ivi, istruzione del 17 maggio 1522. 95 Ivi, istruzione del 22 maggio. 96 Forse il Fregoso considerò troppo esplicita la frase in corsivo nel passaggio appena citato, perché decise, nella versione definitiva del documento, di sostituirla con più banali considerazioni di ordine strategico-militare (« per essere — 91 — Si intuisce in queste parole quanto per Genova fosse pesante il ruolo di avamposto francese in mezzo alla vasta area di influenza imperiale che comprendeva quasi tutte le zone per lei economicamente vitali. So- lo una chiara politica di egemonia in Italia da parte di Francesco I avrebbe permesso alla città di conservare inalterate le basi della sua ricchezza e con esse la sua fedeltà al sovrano. In caso contrario il rischio di una spinta interna verso il ribaltamente delle alleanze sarebbe stato inevitabile. Nella confusa situazione che precedette il sacco, minacce, suppliche e giustificazioni preventive97 si accavallavano. La posta in gioco era alta per tutti: per gli imperiali i quali « voleno in ogni modo ottenere questa cità come complemento e stabilimento [delle loro conquiste in Lombardia] »; per il re di Francia in quanto della perdita della Repubblica « poteria anche dispiacer a Sua Maestà quanto d’ognaltra terra quale se sii »; soprattutto per i genovesi che rischiavano di perdere non solo i beni presenti entro le mura ma anche quanto accumulato con il commercio nei territori ora soggetti a Carlo V. Il crollo avrebbe inoltre coinvolto la Casa di San Giorgio, struttura portante della finanza pubblica98. Per una città come Genova tutto ciò sarebbe stato più grave che per qualunque altra, perché 1 essere e il vivere nostro è alieno da le altre cità, quale se ben perdono il mobile loro li resteno li feudi e le possessione che non gli possono mancare situata nel modo che è la si potria ancho prendere cum una obsidione mediocremente longa »), ivi, istruzione del 17 maggio a Domenico Doria. Se in quel momento c era ancora qualche ritegno nel prospettare espressamente il pericolo di una insurrezione anti-francese, già nell’istruzione del 20 (ivi), quando gli eserciti imperiali erano alle porte, tali scrupoli erano scomparsi: « [se l’aiuto francese] non e presto e non ci leva costoro di torno, è molto da dubitare che questi popoli, qua i sono volubili, [...] non potessero fare qualche novità et inconveniente, el quale quando seguisse la terra et noi se ne pareresimo excusati ». Il Fregoso iniziò a mettere le mani avanti: ormai gli aiuti sembravano essere troppo in ritardo e se Genova fosse caduta nelle mani di Carlo V «se ne excusamo cum quella Maestà che ciò non serà processo non che la volontà e evotion nostra non li sia stata e sia sempre bona, ma più tosto da impotencia o da qualche sinistro che potessi occorrere come più de le volte ne li casi de la guerra sole occorrere », ivi, istruzione del 22 maggio 1522. . 9,8 Nella stessa istruzione a Cattaneo Lomellino del 22 maggio, il Fregoso analizzo le disastrose conseguenze di un’eventuale conquista della città con la forza — 92 — e poi facilmenti se ristorano, il che non seguirla così a noi se altro seguirà, che Dio noi vogli, quali restariamo del tuto ruinati e destructi ". Il fatto che le catastrofiche previsioni del Fregoso si siano solo in parte realizzate, nel pur drammatico episodio del sacco, non toglie niente alla chiarezza e al significato di un’analisi che coglieva alcuni dati di fondo della realtà genovese. Genova, al contrario delle altre città, non aveva terre («li feudi e le possessione), non aveva cioè una fonte di ricchezza sicura (« che non gli possono mancare ») e rinnovabile (« e poi facilmenti si ristorano »). L’unica risorsa dei genovesi era « il mobile », il denaro frutto di una vocazione mercantile imposta dai caratteri del territorio ligure. Questo è quanto si può evincere dal parole del Governatore, ma il problema della mancanza di terra è più ampio. I significati di questa costante originaria andrebbero riscoperti in relazione alle varie fasi della storia cittadina. Se il dato più evidente è l’incapacità del dominio ad assolvere il compito di rifornire adeguatamente di derrate alimentari la popolazione urbana, la scarsa appetibilità dell’entroterra ligure ebbe come conseguenza che i mercanti cittadini non si risolsero mai a dirigere capitali verso l’investimento fondiario l0°: un fatto questo che può aiutare a capire le caratteristiche dello stato genovese, il cui mancato approdo a forme d’organizzazione tipiche degli stati regionali potrebbe essere il risultato non tanto di incapacità, quanto di diverse motivazioni strutturali. Una considerazione non marginale doveva ancora aggiungere il Fregoso nel suo colloquio a distanza con il sovrano francese: una Genova ricca in campo imperiale sarebbe stata a lui più utile che una citta di- da parte dell’esercito cesareo. I genovesi rischiavano di perdere « non solamente questi beni che qui si ritroviamo ma anche tuti gli altri beni nostri mobili che si ritrovano ne li paesi del Re dei Romani che, excluso li paesi de la Maesta sua, quasi comprendono tuta cristianità; [...] oltre a lo periculo di perdere tute le nostre cose restariamo anche in tal caso privati de li redditi nostri cioè di la casa di Sancto Giorgio ne la quale consistono e de li quali tanti citadini e povere vidue, religiosi, hospitali e altri loci pii si governano», ivi. 99 Ivi. 100 Vedi J. Heers, Génes au XVe siècle cit., pp. 601-611. — 93 — strutta; anche in caso di cambiamento di regime l’antica devozione al re sarebbe certo sopravvissuta101. Vista l’impossibilità di un arrivo in tempo utile degli aiuti, il Governatore chiese infine che a Genova fosse concesso di destreggiarsi autonomamente102. Più gravide di conseguenze pratiche erano ormai però le trattative con i comandanti cesarei. Già dal 21 maggio il Pescara assediava la città da ponente e poco dopo sopraggiunse nella valle del Bisagno il Colonna con il resto dell’esercito. Intanto, Ottaviano Fregoso si era tirato in disparte affidando i poteri di vertice agli Anziani e ad una Balìa di dodici cittadini. Egli aveva autorizzato le magistrature a ricercare un accordo con gli imperiali, ma in realtà il negoziato fu condotto sempre con la speranza di un aiuto francese1.). Da parte veneziana, il Sanudo, nel fornire un nrnuzioso resoconto delle trattative, mostra di condividere il giudizio dato dal Centurione sull’importanza della missione condotta da Gerolamo e sulle sue notevolissime capacità di negoziatore a servizio della causa imperiale (M. Sanudo, J diarii cit., voi. XXXIII e XXXIV, ad ind. sub voce « Adorno, Gerolamo»). Dopo la morte dell’Adorno avvenuta il 30 marzo 1523, subentrò al suo posto il protonotario Caracciolo. Nel luglio 1523 fu firmato il trattato che prevedeva, nelle sue lince generali, la conservazione dell’integrità territoriale della Repubblica di Venezia mentre essa si impegnava, in cambio, a mantenere lo statu quo in Italia che, come sappiamo, vedeva i francesi totalmente esclusi dalla penisola. Fu questa l’intesa che permise all’imperatore di impegnarsi nell’invasione della Provenza senza il timore di un attacco alle spalle diretto contro il milanese. 161 ASG, Archivio Segreto 2718, Libro de recolecta cit., c. 9 v. — 117 — lo V. Antoniotto Adorno governava saggiamente la città e dopo la morte del fratello i membri della fazione si erano stretti attorno a lui. Era necessario solo che l’imperatore esprimesse apertamente il suo appoggio. Il Doge avrebbe così acquistato prestigio e « reputatione, con la quale si governa più questo stato che con forze » 162. Veniva così ribadita 1 affermazione del Giustiniani163 secondo cui Genova doveva essere conquistata politicamente e non militarmente, con accordi cioè che rispettassero le regole della vita politica interna. I regimi, come i sistemi di alleanze, dovevano necessariamente poggiare sopra una larga base di consenso. Per quanto riguardava poi i debiti accumulati dalla famiglia Adorno, il Centurione chiese che fossero trasferite ad Antoniotto le cariche ricoperte dal fratello presso la corte cesarea con i relativi appannaggi164. Così il Centurione affrontò il compito non semplice di dimostrare contemporaneamente la saldezza del regime adornesco a Genova e la necessità del sostegno di Carlo V: « la Repubblica nostra, a Dio gratia, è al presente tanto ben governata per il prefato Duce con la sua bontà et prudentia quanto si potria più desiderare. E tutta la factione soa, poi la morte del prefato Conte suo fratello, si e tanto acesa a la conservatione de questo governo, parendoli essere apoch.iti li capi de quella casa et quasi redutti in luy, che più presto si può giudicare essersi avanzato in la sicurezza del stato presente che minuito per decta morte, talmente che non bisogna altro salvo del favore di Vostra Maestà per augumento de soa reputatione, con la quale si governa più questo stato che con forze, le quale gioveriano pocho a cavarne li servicii et boni effecti che lui con arte et benivolentia ne alcanza. Certificandola che se altre relatione li sono facte, quelle procedono da malicie et invidie de contrarii, ogni studio de li quali non è altro che malignare et per tutte le vie et forme offendere la bontà et valore e fidel servitù del dicto Duce verso Vostra Maestà, la quale non ha de prestarli fede, per ogni bon rispecto et maxime per non pregiudicare al honore del prefato Duce, la conservatione del quale non importa pocho il servitio suo», ivi, cc. lì v. -12 r. 163 Vedi sopra, p. 96. 64 « El predicto conte Hieronymo era consiglerò e ciambellano de Vostra Maestà et oltra haveva da quella mille ducati de pensione annuaria in le tratte del Regno de Napoli. Suplica adoncha il prefato Duce a Vostra Maestà che, sì come la servitù de ambi doi fratelli si è ridutta in esso solo, parimente si degni farli gratia e mercede che in persona soa sian continuati decti officii et decta pensione nel medisimo modo et forma che li aveva el dicto Conte suo fratello, acioché anchora si cognoscha che Vostra Maestà ha redutto la affectione che portava a li doi in lui solo », ASG, Archivio Segreto 2718, Libro de recolecla cit., c. 12 r. — 118 — Il vuoto lasciato da Gerolamo al vertice della fazione e il bilancio familiare in rosso non erano i soli problemi da affrontare. I fuorusciti partigiani dei Fregoso avevano in Provenza le loro basi e costituivano una grave minaccia. I genovesi, per impedire che i nemici di Carlo V si impadronissero della città, « il che saria non mancho danno de la Lombardia et altri potentati sostenuti da Soa Maestà quanto de noi propri », e per salvaguardare quel poco di commercio che ancora si svolgeva sulle coste liguri, erano costretti a sostenere un eccessivo sforzo finanziario per la difesa165. Il ceto dirigente genovese aveva l’orgogliosa coscienza del ruolo strategico della Repubblica nel conflitto tra le grandi potenze: Genova « porta » della penisola, via di accesso privilegiata a Milano, era esposta in prima fila alla minaccia di invasione da parte dei nemici dell’imperatore; in quanto zona di frontiera doveva essere convenientemente sostenuta e difesa. Soprattutto Carlo V avrebbe dovuto far cessare le continue molestie dei suoi rappresentanti in Italia che, alla ricerca di denaro, entravano spesso in dissidio con le magistrature cittadine166. 165 Nell’istruzione del 25 luglio si afferma che i genovesi si sentivano minacciati « per essere vicini corno siamo a quella Prohenza piena de fuorusciti che al continuo ne minacciano et hano galere et altri legni in copia. Volendo sostenire et farsi forte che per questa porta nostra non possino intrare (il che saria non mancho danno de la Lombardia et altri potentati sostenuti da Soa Maestà quanto de noi propri) siamo necessitati spendere, così per la guardia de la cità et tutta la riviera, corno per la guardia de la marina, acioché li trafichi pochi che pur ne restano de la mercantia non si perdano », ivi, c. 2 v. 166 II Doge e gli Anziani protestavano contro i ministri cesarei « da li quali al continuo siamo stati molestati a sufragare lo exercito di Lombardia, et tanto stimulati et anchora menaciati che è stato bisogno pagare in sufragio de decto exercito ducati ventiquattromila, da poi prendere a stipendio trecento spagnoli posti in le galere, et novamenti altri cinquecento fanti conducti di qua, per modo che (dovendo noi essere suffragati) habiamo facto subventione a quelli da li quali epso sufragio ne doveria et debe venire », ivi, c. 2 r. e sg. In fin dei conti, ricordavano al Centurione, «il fundamento principale et causa de la ambasiata vostra [...] è perché noi in questa frontiera, stante queste discordie, non possiamo [fare] a manco di spendere assai et continuare la spesa, volendo sostenersi et prohibire questa intrata a li inimici [...] Imo è di necessità havere qualche spacio et quiete da potersi restaurare, et a la spesa tanto grande bisogna essere sufragati, e quando ciò ne manchasse sapia soa Maestà che restariamo tanto debili che facilmente li inimici ne poteriano invadere et havere», ivi, cc. 3v.-4r. — 119 — Il Centurione espose puntigliosamente queste argomentazioni nel- 1 udienza del 22 settembre. Egli affermava essere necessaria « la restaurazione de quella Republica tanto importante a la exaltatione e gloria de Vostra Maestà » e aggiungeva poi che: La Republica nostra per naturai devotione che ha a Vostra Maestà et per opera del prefato Duce, da poi s’è redutta nel presente governo sotto protectione sua, non obstante le calamità patite et in che si trova, procedente da grande et insuportabile spese facte da pocho tempo in qua per le guerre et dal extremo infortunio del saco, ha suplito (oltra ogni humana consideratione, cavando forze de fiacheza) ed altre extreme spese per substenta-tione del exercito de Vostra Maestà in Lombardia, abenché fusse molto più ragione de essere essa Repubblica, non solamente preservata da simili carri-chi, ma anchor più presto subvenuta che agravata, attento che, essendo propugnacolo per mar et per terra de tutta Italia, ha di continuo più car-richi extraordinarii che qual si vogli altra cità de Italia, et quella contro la quale più insidie si pensano et preparano da più bande, del che si è visto sempre chiara experientia [...] il che tutto non obstante, li ministri de Vostra Maestà in Italia non cessano de molestare continuamente la dieta cità con voler da quella ciò che non può fare, et non havendo alcun respecto a le calamità soe et di corno resta talmente exhausta che a pocho più perderà il fiato senza poter respirare, habandonandosi a beneficio di natura, del che Vostra Maestà seria pocho servito167. A motivare le richieste di aiuto vennero addotti gli stessi argomenti che Ottaviano Fregoso aveva usato nel 1522 rivolgendosi a Francesco I. Le entrate della città, « non uscendo da alcuni fructi de la terra, salvo solamente de la industria che induce el trafico et tratta mercantile », avevano patito in sommo grado gli effetti della guerra; i danni del sacco, il blocco dei traffici con la Lombardia e l’insicurezza dei mari avevano prostrato l’economia cittadina e contratto i proventi fiscali l68. Da 167 Ivi, cc. 9 v. -10 r. 168 L incapacità di Genova di sostenere il peso finanziario della costituzione di un valido apparato difensivo contro la minaccia francese era determinata dal fatto che « le spese et la substentatione comune bisogna che escano da li redditi che altramenti non saria forma a sostenirsi, perché, quando si volesse per private borse fare ditte spese, tanto seria come forestarsi, che niuno citadino de importantia potria supportare simile carricho, et li redditi de la cità sono tanto impegnati che saria necessario diminuire et non più agiongere in modo alcuno, non uscendo da alcuni fructi de la terra, salvo solamente de la industria che induce el trafico — 120 — questa situazione derivavano imperativi precisi dal punto di vista di una strategia globale dell’impero. La difesa di Genova doveva essere finanziata da tutti i membri della lega, dal Duca di Milano, dai fiorentini, dal regno di Napoli, dal pontefice, perché « la grassezza de loro paesi lo può meglio supportare, li quali produceno continui fructi et intrate in pace et in guerra, che li sono libere o ver poco impegnate » I69. Si trattava di un richiamo agli aspetti strutturali della vita economica cittadina che condizionavano inevitabilmente i contenuti di qualunque accordo volto ad inserire la Repubblica in un sistema di alleanze. Un solo elemento doveva essere ancora aggiunto per completare il quadro della situazione della città: il sacco del 1522. Presso la corte cesarea c’erano dei malevoli commentatori che mettevano in dubbio la reale portata dei danni subiti. Al dire delle autorità genovesi l’infondatezza di queste voci si sarebbe palesata a pieno in breve tempo, con le disastrose conseguenze che il sacco avrebbe prodotto sulla finanza pubblica. L’ultima vendita in appalto delle gabelle era avvenuta prima del giugno 1522 ai prezzi consueti ma la contrazione dei traffici, inevitabile dopo le perdite subite, oltre a rovinare gli ultimi acquirenti, et tratta mercantile, el quale restando (come vedemo) mortificato et quasi in tutto anichilato, sì per il manchamento del mobile perduto corno per le interditione occurrente in tutta Lombardia, da la quale in magior parte procede tutto il trafico nostro ». Il Centurione perciò avrebbe dovuto chiedere con forza che « non solamente non siamo da li agenti et ministri soy molestati, ma che anche siamo subvenuti » come avveniva ai tempi di Ferdinando il Cattolico, ivi, cc. 2v.-3 r. 169 « A noy seria più convenevole » affermarono gli Anziani, speranzosi, « che non havessimo a contribuire in alcuna spesa bastando già la contributione et spese facte [...] Se pur vedrete bisognare che concorriamo, procurarete sia per quanto manco fia possibile. » A sostenere il peso della difesa di Genova (« de questa guardia nostra ») dovevano essere gli altri membri della Lega « de iusticia et per necessità ». Persino i lombardi, sebbene in prima linea nelle operazioni belliche, avrebbero potuto contribuire più agevolmente che non i liguri, data appunto « la grassezza de loro paesi » che producono « continui fructi et intrate in pace et in guerra », ma anche perché « poi Ia victoria havuta per Soa Maestà in Italia, la Lombardia si è ingrassata de le spoglie nostre, et ha speso pocho o nulla per mantenimento dell’exercito ». Gli Anziani opponevano alla prosperità, persino in tempo di guerra, della Lombardia, una Genova « senza entrate de fructi », reduce dai danni del sacco, esposta a continue spese, tanto che « possiamo dire, et è vero, essere disfacti », ivi, cc. 4 r. - 4 v. avrebbe fatto crollare il valore delle gabelle alla successiva gara per la loro aggiudicazione l7°. Quanto sin qui esposto riguarda le richieste più specificamente connesse al nuovo ruolo della Repubblica come alleata di Carlo V nel conflitto con la Francia. Il Centurione nel 1523 si trovò a dover affrontare anche quei problemi che aveva lasciato irrisolti al termine della sua prima missione. Per quanto riguarda la composizione generale delle rappresaglie in corso, venne ribadita la proposta che la Repubblica e Carlo V provvedessero ognuno a soddisfare i propri sudditi cui fossero stati concessi diritti di rappresaglia prima della capitulatio del 170 Ecco quanto si afferma nell’istruzione del 25 luglio: « Et havuta decta privata audientia, vogliamo exponiate in la substantia si dirà de sotto: per non contristare la Maestà Vostra obmeterasi dire alchuna cosa del infortunio a noi seguito in la intrata ne la cità l’ano passato del exercito di Sua Maestà. Il caso infelice reputiamo sia proceduto per voluntà divina a punitione de peccati, che se così sia, de tutto sia ringraciato epso omnipotente. Certa cosa è che il dano tanto grande è stato che se lo adiutorio divino non ce provede, in lo quale speriamo, giunto quello di Vostra Maestà, a noi per forze nostre o vero ingenio, pare quemadmodum impossibile redrizarsi. E avanti che più oltra si procedi non pensi la Maestà Vostra implicarsi contradictione di questo nostro parlare cum quello che potria essere venuto a noticia de Vostra Maestà, che pur in la cità non manchano denari et negocii; egli è vero che alcuni (non però gran numero) de citadini quale soleno traficare fuori de la cità le mercantie loro sono restati non in tutto disfatti come la moltitudine quale si può domandar il corpo et substantia de la cità, e questi tali havendo quello si trovavano fuori de le mano reducto in le man loro, viene per questo dimostrarsi quello potria essere se diria de facti nostri, la quale dimostratione assai più fa di colore che non di sapore et effectuale substantia, perché lo grande dezaniamento nel quale siamo causa ogni mobile restare in apparentia et quando si voltasse nel mercimoniare non è di grande momento. Li direti anchora che per sorte di alquanto riparo tuti li daciti et intrate de la cità (da le quale si trano le spese) erano vendute a precii assai boni, e per questo non si dimostra in tutto la calamità nostra. Li comperatori di quelli, se non che sono divisi in grande numero de persone e secundo la conditione presente assai opulenti, restariano disfatti per lo dano suportarano, lo quale dano a la nova vendita che di breve si ha da fare si cognoscerà più, perché non si troverano vendere secundo non diciamo al solito, ma Dio vogli sia per li doi tersi, alhora si harà da sentire in la comunità, che per insino adesso (taliter qualiter quasi mendicando et sforzandosi, facendo de lo impossibile possibile) pur havemo trovato forma a la spesa et obtemperato (al meglio si è possuto satisfare) li agenti per Soa Maestà », ivi, c. \ v. e sg. — 122 — 1519. Per la causa del Governatore di Minorca, dopo la sentenza sfavorevole ai genovesi del Consiglio di Aragona ed il loro ricorso in appello al regio Consiglio di Spagna, al Centurione fu ordinato di proporre che venisse inclusa nella trattativa di composizione generale delle rappresaglie, ed in via subordinata di cercare un accordo diretto extragiudiziale con la parte avversa. Doveva essere anche affrontata una questione economica della massima importanza: la legge castigliana che stabiliva il diritto di precedenza delle navi dei sudditi su quelle dei « forestieri » per il carico delle merci nei porti del regno costituiva un ostacolo al libero commercio che i genovesi non potevano tollerare. Il Centurione subito nella prima udienza chiese all’imperatore « che le carrache et altri vasi maritimi de Genoa potessino carricare in questi soy regni non obstante la prohibitione de la prematicha, per alcuna sublevatione de quella misera cità da tante ruyne patite et importando al servicio de Vostra Maestà ». Era l’unico modo per rilanciare i destini della Repubblica. Per Carlo V si trattava di un fatto di equità, ma anche di interesse in quanto una ripresa dell’attività commerciale dei genovesi avrebbe avuto benefici effetti sulle finanze dei suoi regni171. Vediamo ora l’esito delle trattative condotte dal Centurione. Per quanto riguarda le richieste di appoggio al regime degli Adorno, Carlo V inviò il 20 dicembre 1523 una lettera patente al Doge e alla comunità di Genova in cui noster et Sacri Imperii fidelis dilectus Antoniotto Adorno venne ufficialmente investito del reggimento e amministrazione della città, per le sue virtù e singolari meriti e tanto magis per essere fratello di quel Gerolamo cuius dum viveret officia atque in nos studia maiora esse non potuissent. Carlo V prese il Doge, tutta la sua 171 « Havendo respecto che, per essere epsa Republica cosa soa, non la ha da tratare in li comodi come extranea, salvo equalmente sì in li beneficii como in li servicii. Quanto più che del commercio de diete carrache et navilii, questi soy regni ne conseguirano utile, et non il preiudicio che alcuni pretendono (e non bene) poter reuscire de Ia inobservantia de decta prematica, corno se ben si examinasse constarla lo opposito, iunto che le intrate regie, de decta prohibitione patischano grande detrimento, che se non fusse per evitare fastidio de prolixità a Vostra Maestà chiariria con vive et facile ragione, resalvandomi a farlo quando e dove quella comandarà. Et per tanto humilmente la supplico per parte de decta Republica che si degni exaudirla de dicta dispensatione», ivi, cc. 101>. -11 r. — 123 — famiglia e la stessa Genova sotto la sua et Sacri Romani Imperii tuitionem atque singularem protectionem er salvaguardiam contro qualunque principe o potentato tentasse di molestarli, confermando inoltre alla città tutti i privilegi, immunità e prerogative cui aveva diritto in quanto Camera Imperiale172. Carlo V si rivolse ad Antoniotto Adorno definendolo Consiliarius et Cambellanus noster; questi erano i titoli di cui aveva goduto Gerolamo, e quindi si può affermare che le richieste avanzate dal Centurione erano state pienamente accolte. Negli anni successivi il Doge non si dimostrò sempre all’altezza dei compiti, ma la sua fedeltà alla causa imperiale rimase ferma, come non venne mai meno l’appoggio di Carlo V a lui e alla sua famiglia 173. La trattativa sull’entità dei contributi della Repubblica alla lega antifrancese e sulle spese per difendere la città furono assai più laboriose. Nel settembre del 1523, grazie anche all’intervento del Gran Cancelliere Mercurino di Gattinara, il contributo di Genova fu ridotto a soli 3000 ducati al mese. Il Centurione giudicò insufficiente questo provvedimento e presentò a Carlo V un memoriale per chiedere ulteriori sgravi m. Il momento non era però dei più favorevoli: proprio in quei giorni Francesco I aveva dato il via alla controffensiva per riconquistare Milano ed un grosso esercito agli ordini di Guillaume de Bonnivet era entrato in Lombardia. Genova inviò a sue spese un contingente di 3000 fanti in appoggio alle forze imperiali e questo gesto indusse Carlo V a sospendere temporaneamente la quota di contribuzione 175. La situazione militare si stabilizzò durante l’inverno. Bonnivet non era riuscito a prendere Milano nell’autunno del 1523 e si dispose ad attendere la buona stagione per ritentare l’impresa. Il permanere della minaccia costrinse la Repubblica a mantenere il proprio apparato difen- 172 Ivi, c. 12 v. e sg. 173 Vedi sotto, p. 201 e sgg. ASG, Archivio Segreto 2410, lettera di Martino Centurione del 27 settembre 1523. 175 L’imperatore scrisse in tal senso ai suoi ministri in Italia: lettere a Prospero Colonna, all’ambasciatore cesareo a Roma Luis Fernandez de Cordova, duca di Sessa, ed al commissario dell’esercito Fernando Marin, abate di Najera, in ASG, Archivio Segreto 2718, Libro de recolecta cit., c. 21 v. e sg. — 124 — sivo e le autorità cittadine tornarono all’attacco per ottenere l’esenzione dai contributi alla lega. Gli Anziani scrissero al Centurione che dopo la sua partenza le spese si erano triplicate; che la riduzione del contributo a 3000 ducati suonava come una beffa perché la città, tra stipendi di fanti e mantenimento di galere, era costretta a spendere 16000 ducati ogni mese; che i ministri cesarei, nonostante tutto, continuavano a chiedere denaro 176. Le proteste dei genovesi indussero Carlo V a scrivere a Charles de Lannoy, viceré di Napoli, ribadendo che la Repubblica era tenuta a contribuire per soli tremila ducati e che da tale somma dovevano essere dedotte le spese straordinarie da essa fino ad allora sostenute per la propria difesa l77. I francesi erano però ormai sulla difensiva e, sconfitti alla fine di aprile nella battaglia di Romagnano, abbandonarono la Lombardia. Gli imperiali videro aprirsi la possibilità di realizzare il piano di invasione della Provenza da tempo progettato. Per la Repubblica si trattava ora di ottenere dei privilegi in caso di favorevole esito dell’impresa. Nel giugno, durante il patteggiamento sull’entità dei contributi genovesi, il Centurione chiese che, dopo la vittoria, la Repubblica potesse accedere liberamente al grano provenzale. Di fronte alle esitanti risposte di Carlo V egli protestò,78: alcune concessioni preventive erano assolutamente necessarie, governandose questa comunità in simile cose de spendere denari per voti de numero de persone, ne le quale se includeno molte de la contraria factione et altre quale move più la speranza ferma de alcun apparente commodo (benché incerto) che la inclinatione a li più devoti de Soa Maestà. Et non 176 Istruzioni a Martino Centurione del 6 e 21 gennaio 1524, in ASG, Archivio Segreto 2822. 177 Lettera del 15 marzo 1524 in ASG, Archivio Segreto 2718, Libro de re-colecta cit., c. 22 r. e sg. Vedi anche il memoriale del Centurione in data 31 marzo e la lettera al Lannoy dell’8 aprile, ivi, cc. 26 v., 29 r. 178 « Se Soa Maestà se dimostra tanto stretto in cose che non li costano salvo bone parolle (dele quale è più da credere che non ne debia reuscire alcun effecto che altramente), quale mercede potranno aspettare mei superiori quando esso effecto accadessi, et maxime negandole in cose dove loro habino ad exponere de propria voluntà senza obligatione la roba et le proprie vite? », ivi, c. 37 r. — 125 — possendo altramente haver forma al denaro, bisogna de necessità cerchar et trovare simili modi per condurli al desiderato intentoI79. Grazie alla mediazione di Gattinara, il 3 luglio il Centurione ottenne che la Repubblica avesse in Provenza « tratta de grani francha de ogni dricto » 18°. L’impresa sul suolo francese non ebbe però l’esito sperato; Marsiglia resistette all’assedio e alla fine di settembre l’esercito imperiale iniziò a ritirarsi. La fulminea controffensiva di Francesco I riportò la guerra in Lombardia. La Repubblica si sentiva di nuovo minacciata ed il Centurione chiese l’appoggio militare e finanziario della lega: Genova non era in grado di resistere da sola, da anni ormai « corno propugnaci de Ytalia » aveva esaurito le proprie forze e l’imperatore doveva capire « que mas importa su conservacion a los estados y gloria suos y a la defensyon de toda Ytalia qu’el estado de Milan ». Il 3 ottobre Carlo V ordinò al Lannoy di dislocare l’esercito in Lombardia in modo che potesse soccorrere la Repubblica in caso di necessità, di inviare a Genova la flotta di galere agli ordini di Ugo de Moncada e di avvisare gli stati membri della lega « para que acudan y contribuyan en la defensyon de la dicha ciudad, viendo quanto ymporta a la quietud y seguridad de toda Ytalia » 181. L’imprevedibile esito della battaglia di Pavia nel febbraio del 1525, da cui i francesi uscirono sconfitti ed il loro re prigioniero, allontanò per il momento ogni minaccia. I genovesi tuttavia, dopo tanti pericoli e travagli, avevano ottenuto il riconoscimento del ruolo strategico della città che imponeva all’alleato imperiale di concorrere alla sua difesa. Certo negli anni successivi la guerra tra gli Asburgo e i Valois avrebbe di nuovo coinvolto direttamente la Repubblica; il denaro genovese però sarebbe uscito dalle mura cittadine non più in forma di contributi estorti dai ministri cesarei, ma come pagamento di cedole di cambio 179 Ivi, cc. 37 r. - 37 v. 180 Ivi c. 38 v. Vedi anche la lettera di Carlo V ad Antoniotto Adorno del luglio 1525, ivi, c. 48 r. e sg. 181 Per il memoriale del Centurione e la lettera al Lannoy del 3 ottobre vedi ivi, cc. 54 v. - 56 r. — 126 — concesse con lauti profitti dai banchieri liguri agli Asburgo di Spagna 182. Rispetto alla composizione generale delle rappresaglie in corso, le trattative non furono neppure iniziate per un inconveniente assai curioso, ma caratteristico. Tutta la documentazione relativa era stata spedita nel 1520 in Fiandra, dove si stava recando Carlo V con tutta la corte, al mercante Agostino Fornari in previsione dell’invio colà di un nuovo ambasciatore. Nonostante tutti gli sforzi compiuti nei tre anni di permanenza in Spagna dal 1523 al 1526, il Centurione non riuscì a tornare in possesso del prezioso materiale che il Fornari si rifiutò sempre di spedire per l’alto costo dei « corrieri » 183. Quanto alla causa del Governatore di Minorca, il Centurione si dichiarò subito pessimista circa la possibilità di un esito favorevole del ricorso contro la sentenza del Consiglio di Aragona 184 e, non essendoci alcuna speranza di includerla nella composizione generale delle rappresaglie, cercò di pervenire ad una composizione diretta. È certo significativa, e giustificata, la tenacia dei genovesi, fermamente risoluti a non permettere che si stabilisse un precedente di appello ad altro tribunale contro la sentenza di una magistratura cittadina; ciò dimostra quanta importanza avesse per loro la quinta additio della capitolazione del 1519 che garantiva dal ricorso ad autorità esterne. Alcune istruzioni inviate all’ambasciatore dopo il 1523 mettono in luce questo aspetto della questione. Anzitutto le massime autorità della Repubblica si meravigliavano dell’atteggiamento dei ministri spa- 182 Vedi sotto, p. 210 e sgg. 183 Vedi lettere del Centurione del 13 dicembre 1523, 3 aprile, 24 maggio, 13 giugno, 10 luglio, 8 e 28 settembre 1524 e 8 gennaio 1525 in ASG, Archivio Segreto 2410, e le istruzioni delle autorità genovesi del 21 gennaio e 16 novembre 1524 in ASG, Archivio Segreto 2822. Qui, come in molti altri casi (quale ad esempio quello del Governatore di Minorca), la scarsa organizzazione della Cancelleria genovese ostacolò non poco le trattative. 184 Così nella lettera del 13 dicembre 1523 (ASG, Archivio Segreto 2410) : « al fine proseguendo la causa si multiplicherà danno et spese con vergogna, ben credo che quanto a la concessione presentanea de la represalia la sententia data in favor suo Io anno 1520 in Barcellona sia stata iniusta, quia non fuerunt servate solemnitates que per nova capitula pacis requiruntur, ma questo può solamente servire a differire et non ad evitare el danno ». — 127 — gnoli e difendevano l’operato della giustizia genovese185. La conferma della sentenza del Consiglio di Aragona avrebbe messo in forse l’applicazione del trattato del 1519. Stabilire un simile precedente equivaleva a dire che nil proficerent federa pa.is le quale vole che demandata la iusticia in locho, quando li è facta bisogna che le parte quiethano, perché seria in facultà de ciaschuno damnificato che obtenese sentencia contraria querelarse di novo et dire che la sentencia iniusta è spetie de denegatione de iustitia, et a questo non mai non si haria remedio et saria in facultà dele parte damnificate sempre haver patente adito di querelarse e molestarse luna l’altra et le capituiarione seriano di vento186. L’atteggiamento delle autorità genovesi oscillava tra una forzata fiducia nel buon senso del Consiglio d’Aragona 187, e la minaccia di impugnare, nel caso di innesco del meccanismo dei ricorsi, il gran numero di sentenze sfavorevoli che i cittadini della Repubblica avevano subito in Spagna I88. « Ogni iusticia vole quod partes acquiescant sententie late hic, essendo tale la dispositione de le capitulatione », insistevano, « et veramenti par una strana cossa che per non essere uscita la 183 Così nell’istruzione del 21 gennaio 1524 (ASG, Archivio Segreto 2822) : «quanto a la pratica et longa narrazione del governatore de Minorcha [...] n’é parso strano che habbi tanto favore et che la sententia data qui per lo officio de mare sii iudicata iniusta che se possi ascrivere a denegazione de iusticia, perche non s’è per solito in questa cità dar sententie tanto iniuste ». 186 jvj 187 « Noi non si possiamo persuadere che quel consiglio de Aragona habbi de mai far tal cosa [confermare la sentenza] perché s’è consigliato con messer Lasagna [il giurisperito che negoziò a suo tempo la capitulatio del 1519] qual dice obte-nute le sentencie in loco dove se dice che sii nasciuto il danno bisogna quetare et che molti di nostri subditi quali hanno havuto sententia contro sono quetati in li lor regni e cossi è il dovere », ivi. Il parere del Lasagna fu ribadito in un’istruzione del 13 aprile 1524 (ivi): a suo giudizio, si afferma, «la capitulatione ci sufraga de drito » e se la sentenza favorevole al San Clemente non fosse stata revocata « saria in facultà de ogni interessato, poi di haver obtenuto sentencia contra, di lamentarse di iniusticia ». In tal caso « noi haressimo el campo latissimo de introdurre un milione de cause in piede cum dire esserne stato facto da li ministri regii iniusticia », ivi. — 128 — sententia per loro, che davanti a quella corte ci molestino »; mentre, al contrario, mai passò per l’animo de citadini nostri interessati o danneggiati da loro subditi, se mai reportorno sentencia da quelle iusticie, querelarsi qui perché oltra che cognoscevano loro essere un attingere col ditto in cielo, noi li aressimo aborriti corno tentanti cossa fora de ogni convenientia et de iusticia 189. Quanto premesse mantenere il principio dell’inappellabilità delle sentenze ad autorità esterne è dimostrato dal fatto che i genovesi, dopo tanto esitare, si dichiararono pronti a far riesaminare la causa da « novi giudici, senza che il già iudicato li facci preiudicio »: una soluzione anomala ma che avrebbe pur sempre permesso di salvaguardare la competenza genovese sul processo 19°. Il Centurione riferì che i rappresentanti del Governatore di Minorca avevano « pigliato molta altercatione, parendosi al fine di tanto tempo essere schermiti con tal proposta, dicendo [. . .] che sia ridicula cosa dire che di novo mandi il governatore a repetere la iusticia soa a soe spese e da chi ge l’ha una volta denegata notoriamente ». L’ambasciatore chiese poi l’autorizzazione a procedere ad un accordo extragiudiziale, perché lasciando terminare la causa « per iusticia », cioè con l’esecuzione della sentenza aragonese, « tra danno interessi et multiplichi, [. . .] serà a la Republica nostra la più dannosa represaglia de quante se siano anchora concesse »191. Mostrando stupore del brusco rifiuto opposto dalla controparte, il Doge e i magistrati dell’ufficio di Spagna si dissero pronti a concedere garanzie che andavano ben oltre la disponibilità ad una corretta riconsiderazione della causa. Essi invitarono il Centurione a far presente alla controparte che « li subditi e officiali de sua maestà sono non solamente favoriti, ma honorati e reputati corno patroni », tanto che doveva « tenere per indubitato che se harano ragione la troveremo presta, favori-bile e cum tutte loro satisfactione » 192. 189 Istruzione del 25 febbraio 1525, ivi. >*> Ivi. 191 Lettera del 23 marzo 1525, ASG, Archivio Segreto 2410. 192 Istruzione del 12 maggio 1525, ASG, Archivio Segreto 2822. Pur confermando la proposta gli Anziani sottolinearono il rischio che essa presentava come pre- — 129 — Niente avrebbe però convinto il Governatore di Minorca a sottoporsi ad un nuovo giudizio di una magistratura genovese, e quando tutto ormai lasciava prevedere una rottura del negoziato, il Centurione seppe abilmente trovare la formula giusta: propose cioè che le parti addivenissero in Genova ad un « compromesso arbitrario » da affidare a due persone scelte congiuntamente, e che le spese fossero tutte a carico del comune. Dopo lunghe trattative furono scelti come « iudici arbitri » l’ambasciatore cesareo a Genova Lope de Soria e Nicola Grimaldi; in caso di disaccordo essi potevano ricorrere ad un « terzo a loro ben visto » 193. Ovviamente queste offerte risentono del clima politico degli anni successivi al 1522: sono le offerte della Genova filoimperiale di Antoniotto Adorno. Nonostante ciò i significati generali delle posizioni delle due controparti non erano mutati rispetto al 1519. La causa del Governatore di Minorca è solo un esempio tra molti, ma dietro la specificità del caso giudiziario si celano le caratteristiche (ed alcuni problemi di fondo) dei rapporti tra Genova e la Spagna. Si trattava di rapporti basati su grandi e reciproci interessi commerciali ed era proprio su questo terreno che talvolta si innescavano gravi tensioni cui si cercava di far fronte con regolamentazioni di vario tipo. Come abbiamo visto però la firma della capitulatio del 1519 non aveva risolto tutti i problemi; anzi era proprio nella fase di applicazione dell’accordo che venivano in primo piano delicate questioni di competenza giurisdizionale. I genovesi, durante le trattative con il San Clemente, si mostrarono disponibili a cedere su molti punti; rimasero però irremovibili riguardo alla competenza. Poiché a Genova era stata emessa la prima sentenza, lì la causa doveva avere il suo corso, e la proposta finale del Centurione, accettata dalle due parti, faceva salvo questo principio. Il negoziato sulla « prammatica delle nave » è però quello che mag- cedente: « cum questo reale exemplo preiudicamo a la compositione de la pace [■ . .] e non tanto per questa causa, quanto che se ne poteriano suscitare de le altre, nei quali caxi seria sempre alligato che non obstante le sententie date qui, si possia haver rigresso da sua Maestà e quelle iusticie, e cossi cum li favori che mai non mancano, infrangere le sententie che se havessino ». 193 Lettera del 5 maggio 1526, ASG, Archivio Segreto 2410. L’assenso della autorità genovesi venne con l’istruzione del 13 giugno, ASG, Archivio Segreto 2822. — 130 — giormente illumina la natura e le potenzialità dei rapporti tra Genova e l’impero. Abbiamo visto come il Centurione fosse giunto, nell’ottobre 1519, a desolanti conclusioni sull’atteggiamento dei ministri spagnoli, a suo giudizio intenti soprattutto al conseguimento di un utile privato anziché ad un disbrigo « con la ragione » degli affari di stato 194; nel settembre del 1523 egli registrò invece la presenza di un nuovo importante interlocutore dal quale si potevano attendere grandi servigi in favore della Repubblica. Subito dopo i primi contatti con la corte l’ambasciatore potè affermare: in vero havemo grande debito al [...] gran cancellerò per la bona volontà che ne dimostra adeo che son certo si possiamo promettere del mezo suo ogni bono officio, et che essendo lui quasi totum continens, maxime in le cose de Italia, debbia assai giovare haverlo per bono amico et protectore 195. Viene così in primo piano la figura di Mercurino Arborio di Gattinara, come principale artefice della politica imperiale ed in specie di quanto in essa riguardava i rapporti con gli stati italiani. Pervenuto ai vertici del potere nell’ottobre del 1518 come « Gran Cancelliere di tutti gli stati e i paesi del re », il Gattinara, come è noto, fu fautore dell’elezione di Carlo alla corona imperiale e propugnatore di quel progetto di « monarchia universale » che costituì una delle basi ideologiche fondamentali della attività di governo del sovrano asburgico196. Nella corrispondenza relativa alla prima ambasceria del Centurione non abbiamo trovato precisi riferimenti alla posizione assunta dal Gattinara sui vari problemi che riguardavano i rapporti tra Genova e la Spagna. Nel gruppo di lettere relativo al periodo 1523-1526 invece si delinea assai precisamente il suo ruolo di mediatore tra le istanze proprie delle varie componenti della compagine imperiale. Banco di prova della compatibilità tra le esigenze della Repubblica e gli intenti politici del Gran Cancelliere fu la trattativa sulla « pram- 194 Vedi sopra, p. 110 e sgg. 195 ASG, Archivio Segreto 2410, lettera del 27 settembre 1523. 196 Al riguardo ci limitiamo a citare la grande opera di K. Brandi, Carlo V cit., soprattutto pp. 36-281; e qualla di F. Chabod, Carlo V e il suo impero, Torino 1985, soprattutto pp. 97-110. — 131 — matica de le nave ». Come abbiamo visto, nel 1519-20, l’atteggiamento assunto dal Centurione su questo delicato argomento era stato puramente difensivo. In sostanza egli aveva cercato di impedire che il divieto di carico da parte delle navi straniere vigente nei porti castigliani fosse esteso al regno di Aragona. Questo limitato ma importante obiettivo era stato raggiunto. Rispetto al 1519-20 la posizione della città nei confronti di Carlo V era però radicalmente mutata; la svolta del 1522 aveva infatti trasformato Genova in uno dei principali capisaldi imperiali in Italia. Questa situazione le dava una maggiore forza contrattuale e conferiva legittimità a nuove richieste che come dominio francese essa non aveva potuto avanzare. Nel suo nuovo ruolo di fedele alleato, la Repubblica chiedeva ora la totale esclusione delle navi genovesi da questa misura protezionistica. Le speranze furono però ben presto deluse. I mercanti genovesi in Castiglia comunicarono alle autorità cittadine la rinnovata pubblicazione della prammatica, aggravata nei suoi termini con nuovi vincoli e nuove pene. Gli Anziani scrissero al Centurione affermando di aver accolto la notizia con maraviglia et rationabile admiratione [...] attezo che speravamo che per mezo de la vostra andata da Cesare si dovessi obtenere exclusione o vera-menti gratia che tal pragmaticha non dovessi comprehender li vasselli de genuesi e subditi nostri per molte e molte ragione, e la potissima per parersi più che subditi di soa alteza, como in effecto siamo militando e regen-dosi sotto l’ombra di sua grandeza e etiam tutti dediti a la servitù imperiale, imo se iudichiamo regiuti per mezo a cossi dire de un gubernatore di quella, ita che con vere ragioni non se po’ dire essere forasteri, imo includersi sotto il lato e generale vocabulo de li subditi di sua altezal97. Tra i molteplici effetti negativi del divieto di carico nei porti castigliani, c era quello di scoraggiare a Genova l’attività cantieristica. La mancanza di una flotta non solo avrebbe causato la contrazione dei traffici ma avrebbe reso la città vulnerabile agli attacchi francesi provenienti dal mare 198. 197 ASG, Archivio Segreto 2822, lettera del 6 gennaio 1524. 198 Cosi nella lettera del 6 gennaio (ivi) : « se sua maestà pensa di valerse di questa sua cità, bisogna anche che la pensi di valersene prima che la sia del tutto disfatta, e una di quelle cose che più opera la ruina de principali è pur manchar — 132 — Le richieste dei genovesi incontravano però gravi ostacoli. C’erano difficoltà oggettive come la scarsa disponibilità dei ministri cesarei intenti ai preparativi della guerra di Provenza e c’era soprattutto l’opposizione accanita degli interessi commerciali privilegiati che si esprimevano nelle cortes. Un cattivo auspicio veniva poi dall’iniziale insuccesso di Enrico Vili. Alleatosi con Carlo V per invadere la Francia meridionale, il re d’Inghilterra aveva insistentemente, ma invano, richiesto alle cortes castigliane di escludere i propri sudditi dagli effetti della prammatica. Neppure i mercanti fiamminghi, « meri subditi de soa maestà », erano riusciti in tale intento. In entrambi i casi si era dovuto ri- de vasselli senza li quali vien a essere una arida stipula, giontovi che senza vasselli non si possiam difendere dalle grosse armate di Provenza che tutta via stano preparane a danni de la grandeza de lo impero cesareo, e se non fussino stati alcuni pochi che questa proxima estate con gran faticha havemo qui retenuti tra forasteri [...] se occupava questa cità da la armata fransosa. De manera che non havendo exercitio le nave e vaselli, ciaschaduno fuge il fabricarne e a questa via mancha il trafico, e questa sua cità si destruge e ruinasi, del che sua maestà li rencrescerebe, [...] se in questo tempo non siamo restoratti tanto in la subventione de le spese, cossi per il passato corno per lo advenire, et in lo excludere questa cità da tal pragmaticha ». Ovviamente i genovesi cercavano in ogni modo di mettere in luce gli inconvenienti che la mancanza di una flotta genovese causava allo stesso imperatore, come si vede pure in una successiva lettera al Centurione del 21 gennaio 1524 (ivi) : « A la importante pratica de la pragmatica, essendose tanto dicto e replicato e non vedendo effecto alcuno, dir non possiamo altro excepto che cognoscendo la bontà cesarea bisogna che non intenda bene il nostro ben servire, perché non si possiamo persuadere che non ne havesse compiaciuto e tanto più quanto se li fosse fatto intendere che questa grada che se li requere non mancho viene in beneficio de sua alteza corno nostro, perché se questi ministri regi e maxime il signor viceré ha avuto necessità de una barchia per servitio di Cesare, non è stato possibile il compiacerlo per manchamento d’epse, il quale viceré e oratore cesareo qui assistente scriveno a sua maestà in favore de tale gratia, la quale cercharette cum tutta vostra forza e intellecto obtenire, saltem de speciale gratia como soi subditi e ad beneplacitum, perché effectualmenti non havendo da essere messi nel numero de forasteri, anci de soi subditi e affectionati. Questo articulo, che sii tanto di beneficio a sua alteza corno a noi, dexideraressimo che li fossi fatto intendere bene per onde studiate farlo e obtener lo intento. E veramenti quando considerarà li particulari desegni cum li quale se pò valere de noi e maxime in cosse de vasselli, cognoscerà che doveressimo essere inviati a cer-chare la impetratione de tal gratia, ultra che se questa gratia non se obtene, in ultimo la fabrica si attenua e si resterà un di tanto exausti che né sua maestà né noi haremo poi né forza né conxilio a restaurarsi ». - 133 - correre ad un intervento dell’imperatore che scavalcasse le volontà delle cortes 199. Alla questione del libero commercio nei porti castigliani il Centurione dedicava, il 16 febbraio 1524, una lunga lettera cifrata. Questo documento, il cui interesse ci ha ripagato dello sforzo di decriptazione, mostra il clima di generale ostilità incontrato da chiunque cercasse di ottenere dal sovrano provvedimenti ritenuti lesivi dei privilegi dei regni spagnoli. L’ambasciatore affermava: Una de le cose publice che mi siano state incarniate più importante, iudico sia el remedio de la prematica de le nave per la quale le nostre non possono in questi regni liberamente carricare, et sopra questo subito ne la arrivata mia mi sono adoperato per quelli miglior modi che ho saputo usarli, et quello che ho possuto cavare da Cesare et principali suoi ministri è stato che, passando queste necessità che a sua maestà occorrono de trattare con costoro [cioè le cortes] per queste guerre, non s'è fatto grande speranza de privilegiare le nave nostre, perché con queste occurrentie sua maestà non si elege de exasperare più costoro in simile cose, le quale hano extre-mamente a core, dicendomi che in le corte tenute in Valladolid si era sopra questo molto altercato, et che con extrema fatica havea sua maestà potuto excludere de detta prematica le nave de inglesi per osservare lo obligo che ne ha preso con el re in la nuova capitulazione seco, de modo che seria impossibile poterne compiacere adesso, persuadendomi che si dissimulasse questo effecto per fin che tale stimulo mancasse a sua maestà, perché non si alterasse più questo, et che ne succedesse poi maggior difficulta, del che tutto ho dato aviso, et ho scritto che mi sopracederei senza fare sopra ciò altro per fin che vostre signorie mi ordinasseno quel che più li occorresse 200. Queste giustificazioni avanzate dai ministri cesarei, che parevano prospettare una futura soluzione del problema, celavano invece una realtà ben diversa. Con sconcerto il Centurione esponeva i risultati delle sue ulteriori indagini: Dopoi, investigando quello che in dette corte se è tractato et resoluto sopra detta facenda, ho trovato non solum essere stata confermata detta prematica, 199 Vedi la lettera del Centurione del 13 dicembre 1523, ASG, Archivio Segreto 2410. Ivi, lettera del 16 febbraio 1524. Le parole in corsivo sono in cifra nel documento. — 134 — ma anchora haverli agionto che a niun modo nave extranee possano più carricare cosa alcuna in questi regni, directe vel indirecte, de modo si come per la prematica potevano carricare le extranee in defedo de quelle de naturali, ne l’advenire è proibito per la ditta additione in tutto el carricare a le extranee 201. Quindi non solo le aspettative della Repubblica venivano deluse, ma i genovesi dovevano subire addirittura un’ulteriore misura protezionistica che prevedeva la totale chiusura dei porti castigliani alle navi straniere. Di fronte a questa allarmente prospettiva il Centurione reagì in modo deciso. Così prosegue infatti il documento: Del che mi sono nuovamente forte lamentato, et dittoli sopra questo apertamente tutto quello che se li poteva dire, excedendo forsi più che mancho li termini riverentiali, et intercetera che la Repubblica nostra sententaria questo effecto et deliberatione [...], talmente che anche lei se refrederia da tanta obsequentia solita, et con molta ragione, poiché Soa Maestà poteva haver cognosciuto che molto più se è potuta servire de le nave nostre a suoi desideri senza alcuna spesa sua che non de quelle di spagnoli con pagarle, et facendo intendere che tanto incombeva al servicio de Soa Maestà conservare Genova possente in mare, quanto importava a l’utile et bene di essa Repubblica. [E] per proprio interesse cognosceria et harebbe forsi per bene de rivedere questa exorbitanda, et che Soa Maestà come capo de tutti haveva a tener cura equale de tutti i soi membri, et non permettere che si perdesse l’uno per l’altro in diminutione de soa grandeza. Ho cognosciuto essere punti de le cose preditte, mi hanno dato speranza di remediare questo nuovo inconveniente, confermandomi la speranza et quasi certeza del futuro remedio al tutto 202. Il Centurione minacciò anche drastiche misure di ritorsione: un dazio del 25 % sulle esportazioni da Genova verso la Castiglia effettuate con navi non genovesi ed in più il divieto ai mercanti liguri di acquistare beni in terra castigliana. I porti aragonesi, non soggetti a misure protezionistiche, costituivano una valida alternativa; i genovesi vi avreb- 201 Ivi. La supplica delle Cortes di Valladolid e la risposta affermativa di Carlo V cui il Centurione fa riferimento sono in ASG, Archivio Segreto 2718, Libro de recolecta cit., c. 42 r. e sg. 202 Lettera del 16 febbraio 1524, ASG, Archivio Segreto 2410. — 135 — bero dirottato i loro traffici obbligando i castigliani a « mutare sentencia » 203. La lettera termina con alcuni accenni allo scontro politico e agli antagonismi che laceravano la Spagna. Accenni che ci danno la misura della scarsa coesione interna dell’impero di Carlo V e delle difficoltà di inserimento del sovrano fiammingo nei domini ricevuti dalla madre Giovanna: Ho voluto dar piena relatione di tutto quello che passa a vostre signorie a ciò che, con loro prudentia, provedano in quello che meglio li parirà. Certificandole che tutti li suggetti de la corona de Castiglia sono tanto invidiosi de ogni altra natione et tanto ambitiosi et superbi che non possono tollerare bene alcuno in altri, nel che molto più sono invenenati adesso che per el passato essendoli molestissimo questo iugo de governo da parte extere, da le quale li pare che’l proprio sangue indegnamente li sia biaste-mato. Et volesse Dio che sapessimo cognoscere il bene nostro perché non credo che meglio ne potessi seguire che abandonare queste residentie continue et trattare con loro corno fano venetiani per più et più respecti che non sono qui da dire. Nostro signor Dio si degni illuminarne qualche volta204. È interessante il breve accenno che il Centurione fa a quella che, a suo giudizio, sarebbe stata una misura destinata a risolvere alla fonte tutte le contese tra la Repubblica e la Spagna. I mercanti genovesi avrebbero dovuto « abandonare queste residentie continue » per condurre i loro commerci secondo l’esempio dei veneziani. L’ambasciatore tornò su questo tema constatando la netta differenza tra due antitetiche modalità di penetrazione commerciale. Da un lato il « modello » 203 Cosi nella lettera dell’ambasciatore (ivi): «io qua in questi propositi ho ditto che per tal rispetti si è platicato così de imporre uno diricto de XXV per cento generale sopra tutte le robe che se conducesseno in quelle parte de Castiglia sopra altre nave che de Genova per obviare el trafico de nave extranee, et che niuno havesse a cercare più merci de qua, perché si cognoscesse quanto importa a questi regni el trafico de la natione nostra, senza lo quale li redditi di questi regni vegneriano ad niente, et la diminutione de la intrata saria tanto grande che la necessità li reduria a mutare sentencia, perché molto più incomodo sentirla Castiglia de mancare del trafico nostro per detti respecti che noi del loro, maxime restandone libero quello che la Corona de Aragona, quale in tutto è opposito a loro governi et fini ». 204 Ivi. — 136 — genovese basato su vaste colonie di residenti nei centri mercantili di maggior interesse. Dall’altro quello veneziano, per contrasto, caratterizzato dalla centralità della madrepatria. Inutile dire che i successivi decenni avrebbero dimostrato le notevoli potenzialità insite nel sistema genovese. In questo particolare momento di non ancora consolidato accordo tra la Repubblica e la Spagna, il Centurione metteva invece in risalto gli aspetti negativi della presenza fisica dei genovesi nei territori iberici; presenza che li esponeva all’arbitrio delle autorità spagnole 205. Dopo le note di fiducia contenute nelle prime lettere era tornato a prevalere il pessimismo. È importante comunque rilevare la non omogeneità di atteggiamento da parte dei ministri cesarei di fronte al problema della prammatica. In una missiva del 25 febbraio l’ambasciatore così si esprimeva nell’informare i magistrati della Repubblica sulle sue iniziative volte ad ottenere l’annullamento della « additione » decisa nelle cortes castigliane: Illustrissimi et magnifici domini observandissimi. Per la alligata ho scritto a vostre signorie quanto è occorso circa la prematica prohibitiva de car-richar le nave nostre, il che affermo. Dopoi adoperandomi per mezo del signor gran cancellerò che se remediassi saltem adesso lo inconveniente del’ul-tima additione fatta a detta prematica si come ho detto, et soa signoria havendo sopra ciò usato ogni buon termine, questi ministri castigliani se sono talmente oposti a questo effecto che non vi è stato modo de poterli removere da la obstinata et pessima loro intentione et proposito, talmente ch’el prefato signor gran cancellerò ne ha preso alteratione et me ha dicto chiaramente che me ne lamenti con soa maestà et cum li altri, perché forsi de qui sucederà alcuna bona provisione con la quale soa maestà ne eximisca da tutta questa prohibitione poiché la tien Genoa per camera soa imperiale, et si ha servito et serve più de le forze maritime de essa che de le altre et oltra di questo mi ha persuaso a dover scrivere a le signorie vostre che 205 In una lettera dell’8 aprile 1524 (ivi), l’ambasciatore, in uno sfogo dovuto alla scarsa disponibilità incontrata nei ministri imperiali, affermava: « io mi dubito che in modo alcuno mai debia sucedere cosa alcuna di bene per la patria nostra per fin che viviamo cum loro in tanti suggelli, et che la necessità o lume de la ragione ne faci habandonar queste residentie continue, traficando in ogni loco a modo de venetiani; il che licet prima facie parà cosa dificile e incomoda, se si considera li danni che hanno li residenti continui, quali si provano ogni giorno nel restretto de nostri mercanti quali al fine tutti o la magior parte ci lassino la piuma e li suggetti, che in comune ne patisce tutta la Repubblica, et la utile reputazione che se ne conseguirla, forsi che si giudicarla al manco male ». — 137 — se ne resentono cum tutti li ministri cesarei in quelle parte, de forma che habino a scrivere qua li inconvenienti et deservitii de soa maestà che di questo possano succedere, et sopra tutto che saria bene cerchar modi et forme de lege costì con le quale se potesse a costoro diminuire el trafico de queste soe nave et commodità che recevino de la natione nostra. Io lo ho ringratiato de questi ricordi, et de l’opera fatta, pur non ho lassato de increparlo de qualche pusilanimità, che in questo mi pare habie usato de lassarsi tanto superchiare da costoro et di quello che più oltra mi è ocorso per accenderlo più in questa materia 206. Ecco quindi che il Gatdnara era divenuto nella corte imperiale il punto di riferimento fondamentale per la Repubblica: si alterava per l’ostinazione dei ministri castigliani, incitava il Centurione a lamentarsi con Carlo V per l’ingiusto trattamento, addirittura consigliava l’adozione di misure legislative che, limitando il traffico delle navi castigliane e i servizi della flotta genovese, facessero toccare con mano gli inconvenienti dell’intransigenza spagnola nel perseguire una politica protezionistica. Questo documento mostra con chiarezza il ruolo svolto dal Gattinara. Da una parte i ministri castigliani che con la loro « pessima intentione » difendevano posizioni di privilegio. Dall’altra il Gran Cancelliere portatore di istanze diverse, di una diversa visione del ruolo del potere cesareo. In una specifica questione di politica commerciale si riflettono dunque quegli atteggiamenti generali che già K. Brandi e quindi F. Chabod identificarono con chiarezza. Gli antitetici interessi dei vari paesi che costituirono la formidabile eredità dinastica di Carlo V, a cui si sommò la corona imperiale, si esprimevano nei contrasti tra i suoi stessi collaboratori. Contrasti che rivelano la scarsa unitarietà di un edificio in cui, come afferma Chabod, « ognuna delle grandi parti (Spagna, Paesi Bassi, Germania, e fin l’Italia, almeno attraverso l’opera di alcuni dei maggiori collaboratori di Carlo) ha cercato di premere nel senso esclusivo dei propri interessi, delle proprie tradizioni, senza preoccuparsi se quegli interessi e quelle tradizioni potevano accordarsi con gli interessi e le tradizioni di altri dei domini di Carlo V. È un insieme costituito da forze eterogenee, da popoli e paesi che hanno ben 206 Ivi, lettera del 25 febbraio 1524, pubblicata da C. Bornate in appendice a M. Arborio di Gattinara, Historia vite cit., p. 438 e sgg. — 138 — diversa personalità morale, politica, economica, e hanno interessi assai diversi, quando non addirittura antitetici » 207. Dopo il tramonto della politica di pacificazione con la Francia voluta da Guillaume de Chièvres e dalla componente fiamminga del regio Consiglio, la lotta fu tra i ministri spagnoli e il Gattinara, assertore quest’ultimo di un ideale universalistico nel quale il problema italiano era il nodo fondamentale da sciogliere per la pacificazione dell’Europa. E qui, come dice Chabod, « veramente, il contrasto di tendenze tra il Gran Cancelliere e molti degli spagnoli è totale e aperto » 208. Se il viaggio in Italia di Carlo V e la sua incoronazione a Bologna nel febbraio 1530 furono « il trionfo del Gattinara », gli anni che vanno dal 1521 fino al 1528 furono il periodo della contrastata affermazione della « politica italiana » del Gran Cancelliere. Con questi presupposti è più agevole comprendere la situazione che abbiamo cercato fin qui di descrivere. L’alto patronato sugli stati della penisola, che secondo il Gattinara avrebbe permesso a Carlo V « di conservare, con tutta l’Italia, le chiavi della dominazione universale » 209, doveva realizzarsi in una politica che non lasciava spazio alle istanze protezionistiche dei regni iberici. Ecco quindi che l’episodio della prammatica può essere ricondotto con sufficiente coerenza al problema più generale delle caratteristiche di fondo e dei conflitti interni all’impero asburgico, dai quali emergevano faticosamente le linee della politica internazionale dell’imperatore. È forse a questo livello che si trovano le più profonde motivazioni dei destini cinquecenteschi della Repubblica. Genova nel 1528 sarebbe giunta ad un accordo con un Impero in cui la politica di Gattinara, rispettosa delle forme istituzionali, deH’integrità territoriale, e dei privilegi commerciali dei domini italiani, era ormai consolidata. Ma nel 1524 si trattava di un processo ancora in atto. In seguito alle allarmanti notizie contenute nelle lettere del 16 e del 25 febbraio, le magistrature cittadine scrissero all’ambasciatore approvando il suo comportamento e invitandolo a proseguire con impegno le trattative, 207 F. Chabod, Carlo V cit., p. 97. 208 Ibid., p. 100. 209 K. Brandi, Carlo V cit., p. 202. — 139 — nonostante l’opposizione dei ministri spagnoli, « perché sarà tanto più gloriosa la vittoria quanto maior difficultà harette havuto in riportarla »; confermarono inoltre la disponibilità ad attuare misure commerciali di ritorsione 21°. Il Centurione presentò un memoriale il 31 di marzo, protestando contro la recente addizione alla prammatica decisa dalle cortes castigliane a Valladolid che proibiva alle navi straniere di caricare anche in mancanza di quelle dei «naturali»211. Dopo un ritardo nella trattativa per una malattia del Gran Cancelliere212, questi informò l’ambasciatore che Carlo V, in Consiglio segreto, aveva manifestato la volontà di revocare 1 addizione, e si era detto desideroso di compiacere i genovesi anche sulla richiesta di esenzione completa delle loro navi dalla prammatica. Nonostante queste buone notizie il Centurione non abbandonò il suo solito pessimismo 213. Il Gattinara, incaricato di trovare un accordo con -l0 ASG, Archivio Segreto 2822, istruzione del 13 aprile 1524. 211 Di ciò, si afferma nel memoriale, « la dicha Republica generalmente ha quedado muy triste y afligida, viendose apocar el numero de sus carracas y naos por la destrugion passada [il sacco] y por faltarles este comeriio [in Castiglia] », ASG, Archivio Segreto 2718, Libro de recolecta cit., c. 28 r. 212 ASG, Archivio Segreto 2410, lettera del 3 aprile 1524. 213 Così prosegue la lettera del 3 aprile: «Circa la prematica de le nave [il Gran Cancelliere] mi ha risposto, anche per parte de soa maestà, che si è risoluto in consiglio secreto de revocare la aditione fatta novamente in le corte de Valle-dolid a ditta prematica, per la quale si è prohibito totalmente che nave extranee non possino in alcun caso carricare, reducendo detta prematica a li primi termini, cioè che solamente precedano le nave naturale nel carricare a le extranee, e che per quanto a 1 altra parte di eximere le nave nostre in tutto da detta prematica che soa maestà, essendo grandemente desiderosa de compiacerne, ha dato cura al detto gran canzellero de platicare, et trovar alcun modo con questi consiglieri de Spagna per farne tal gratia, et mi disse el prefato gran canzellero che lo faria el dì seguente, si come intendo fece. Imperò non sento che circa questa ultima parte habi possuto adaptar cosa alcuna a satisfattione nostra, et credo che se soa Maestà non piglia questa cosa più forte di quel che fa, cognoscendo costoro che li procede tanto respettosamente, mai se ne haverà alcun bono effecto, attento la qualità e intentione de spagnoli già denotata a vostre signorie [...] Solicito lo effetto quanto posso [...] ma io dubito assai che al presente non se ne debia cavare più de quanto ho scritto de sopra, e che se non ne aiuta qualche necessità grande che habino de aiuti nostri, debia essere molto dificile obtenere lo intento nostro », ivi. — 140 — i ministri spagnoli, riuscì invece ad imporre la sua linea. Nella decretatici relativa al memoriale del 31 marzo, Carlo V ristabilì i vecchi termini della prammatica; per quanto riguardava i genovesi, affermò che essi erano sudditi del Sacro Impero ma non « naturales » dei suoi regni; nonostante ciò, « su magestad por gratificar la dicha ciudad de Genova, permitirà de gracia que comos subditos suyos [.. . ] y durante su beneplacito, puedan [...] cargar sus navios como los otros subditos en la dicha ley exceptuados » 214. Il Centurione salutò con entusiasmo queste decisioni ma gli ostacoli non erano ancora stati tutti superati. I ministri castigliani riuscirono a bloccare il decreto ed il 6 maggio l’ambasciatore invitò Carlo V a non prestar orecchio alle « sinistras ynformaciones de personas que tienen mas cuenta de sus proprias passiones que de la grandeza de vuestra Magestad »; se i genovesi dovevano servirlo in quanto sudditi dell’impero, come tali andavano trattati « asy en los beneficios corno en los servicios » 21S. Finalmente il 21 di maggio il decreto venne firmato: Carlo V ordinò che le navi dei genovesi potessero caricare in tutti i porti dei suoi regni al pari di quelle «de los naturales y suditos [...] non embar-gante las leyes y prematicas destos dichos nuestros reynos »216. Il giorno successivo il Centurione scrisse una lettera per informare i suoi superiori del successo ottenuto. Il colorito stile della missiva ci dà chiara misura delle tensioni innescate da tale provvedimento e delle difficoltà che l’ambasciatore ed ancor più il Gattinara avevano incontrato nel perseguire questo difficile obiettivo: Tandem soa maestà ha risoluto che, non obstante li impedimenti posti per questi ministri castigliani in la grada del carricare de nostre nave, si expe-discano le patente le quale manderò a far publicare in tutti li porti maritimi [.. . 1 e certificole che non si è expedita da gran tempo in qua cosa in questa corte più combattuta di questa, talmente che detti ministri spagnoli ne hanno fatto tante mormoratione che qua si aspettava che mi lapi-dasseno, ma tutto è per il meglio, parendomi che di questa altercatione ne 214 Archivio Segreto 2718, Libro de recolecla cit., c. 28 v. 2'5 Ivi, c. 31 r. 216 Ivi, c. 32 r., varie copie autenticate del decreto sono conservate in ASG, Archivio Segreto 2734. — 141 — sia riuscita tal stabilità et fermeza ne la mente de soa maestà che niuno basteria più a morderla, maxime perseverando la cità in soa devotione, e per tanto mi par che sicuramente, con tal certeza si possa ognuno de nostri con bono animo mettersi a fabricar nave al solito modo antico217. Si era così realizzata quella « gloriosa vittoria » verso cui gli Anziani avevano spronato lo scoraggiato ambasciatore. Addirittura, la violenza dell’ « altercatione » con i ministri castigliani sarebbe servita per fissare in modo indelebile nella mente dell’imperatore la necessità di favorire i commerci genovesi. Questo documento è anche un’importante testimonianza di come Carlo V si fosse allineato con risolutezza alle posizioni del Gran Cancelliere; un chiaro segno dell’influenza determinante che il Gattinara si stava conquistando218. Il Centurione rimase alla corte di Spagna fino all’agosto del 1526 ma noi interromperemo qui l’analisi del suo operato. A partire dal 1525, nelle trattative tra i due paesi emerse il problema della riforma istituzionale e dell’ « unione » che i genovesi cercavano di realizzare. Si tratta di un tema che troverà spazio nel successivo capitolo e che affronteremo con l’ausilio della corrispondenza deH’ambasciatore cesareo a Genova Lope de Soria. Dal 1526 al 1528 la città non ebbe un suo rappresentante presso Carlo V. Solo dopo la liberazione di Genova da parte di Andrea Doria, lo stesso Centurione e Giovanni Battista Grimaldi furono inviati in Spagna allo scopo di ottenere l’appoggio imperiale al nuovo assetto politico della Repubblica219. 217 ASG, Archivio Segreto 2410, lettera del 22 maggio 1524. 218 L esito del negoziato sulla prammatica è stato considerato da G. Oreste (Genova e Andrea Doria cit., p. 13) una controprova della subalternità della Genova di Antoniotto Adorno rispetto alla politica cesarea, in quanto l’esclusione dei mercanti liguri dai suoi effetti venne successivamente revocata. Ci furono effettivamente ancora dei contrasti, e la soluzione definitiva del problema avvenne solo nel 1535 (vedi il carteggio dell’oratore in Spagna Giovanni Battista Lercaro in ASG, Archivio Segreto 2410, e l’istruzione per lui redatta il 6 marzo 1534 in ASG, Archivio Segreto 2707/C). La revoca dell’esenzione appare però più legata alle vicende politico-militari dell’ultimo dominio francese a Genova nel 1527-1528 che non allo scarso peso politico della Repubblica al tempo dell’Adorno. La prima istruzione ai due ambasciatori, presumibilmente della fine del settembre 1528, è conservata in ASG, Archivio Segreto 2707/C, doc. 145 bi*. — 142 — Per quanto riguarda la Francia, nel periodo 1522-1528 la documentazione è assai scarsa. Nei fondi dell’Archivio di Stato abbiamo trovato solo tre lettere dell’incaricato d’affari Giovanni Battista de Mari, risalenti alla fine del 1522 e all’inizio del 1523, che trattano di problemi minori 220. Per il momento quindi, pare che dopo il sacco la Repubblica non abbia mantenuto stabilmente un suo legato alla corte del cristianissimo. Solo neH’ultimo periodo di dominio francese, a cavallo del 1527-1528, Giovanni Battista Lasagna fu inviato da Francesco I; ma anche di questa ambasceria abbiamo solo testimonianze indirette. 6. A proposito dei due modelli Guardando complessivamente ai rapporti tra Genova e le due grandi potenze europee del primo Cinquecento un dato di fatto risulta evidente. In questo periodo la città fu o suddita di un monarca francese, o alleata dei re cattolici e poi dell’imperatore. Si tratta già di una differenza importante. I genovesi nel sottomettersi a Luigi XII ed a Francesco I, nel riconoscerli come « signori », rinunciavano alla « libertà », accettavano un Governatore di nomina regia che si presentava come il fulcro dell’apparato istituzionale. Allorché la città gravitava nell’orbita ispano-imperiale manteneva invece l’assetto repubblicano. Certo il rinnovato vigore dell’impero dopo l’elezione di Carlo d’Asburgo incoraggiò i genovesi a riesumare gli antichi vincoli di dipendenza dalla massima autorità temporale del mondo cristiano; ma ciò serviva da un lato a contrastare sul piano giuridico i diritti dinastici vantati dai re francesi sul ducato di Milano e quindi sulla Liguria; dall’altro a consolidare proficui legami politici ed economici, senza vere rinunce di sovranità. Queste diversità di fondo si articolavano concretamente nei modi di gestione del potere. Nei periodi di dominio francese la città subì i ripetuti e tenaci tentativi di ingerenza dei rappresentanti del re e vide attaccata l’integrità del proprio dominio dalla pratica delle infeudazioni. Difficoltà gravi sorsero anche nei rapporti con Carlo V dopo il 1522: 220 ASG, Archivio Segreto 2178. — 143 — inserire le relazioni economiche tra Genova e la Spagna in un quadro giuridico che desse garanzie ai sudditi dei due stati fu impresa tutt'altro che semplice; la potente ma quasi ingovernabile macchina bellica imperiale, dissanguando le pubbliche finanze genovesi, sembrava sfuggire alle regole del patto di reciproca utilità che veniva consolidandosi tra la Repubblica e Carlo V; un patto che di lì a poco avrebbe reso i banchieri genovesi incontrastati signori del mercato mondiale del denaro. Nonostante che entrambe le situazioni creassero gravi scompensi, si potevano chiaramente intravedere le prospettive di maggiore autonomia garantite dall’alleanza imperiale. L’amministrazione della giustÌ2ia, nucleo vitale del potere cittadino, costituisce al riguardo un ottimo indicatore. In questo campo i genovesi si difesero con tenacia contro ogni ingerenza, perseguendo nell’arco di tre decenni i medesimi obiettivi: brevità dei processi, certezza delle procedure, inappellabilità delle sentenze ad autorità esterne. Tutto ciò venne recepito nella capitulatio del 1519 tra Genova e i re di Spagna, che fu redatta su una base di assoluta reciprocità. Certo la sua applicazione incontrò numerosi ostacoli, ma essa costituiva un riferimento giuridico certo per il confronto tra le parti. I patti con i re di Francia o i privilegi da loro concessi erano qualcosa di sostanzialmente diverso. La loro interpretazione era soggetta al vincolo della suprema autorità del sovrano; essi erano alla mercé dei rappresentanti regi che mal sopportavano di rimanere privi del fondamentale strumento di potere rappresentato dal diritto di intervento nella giustizia cittadina. Anche il modo di attingere alle ricchezze genovesi fu assai diverso. Francesco I chiedeva dei contributi che riteneva gli fossero dovuti dalla città come da qualunque altro suo dominio; Carlo V, dopo aver difeso con scarso successo la Repubblica dalle angherie dei suoi capitani sempre a corto di denaro, iniziò già a partire dal 1524 ad avvalersi sistematicamente dei prestiti dei mercanti genovesi. Contestualmente la citta vide riconosciuta da parte imperiale la specificità della sua posizione strategica, della sua vita politica e della sua economia. L’esenzione dalla prammatica e dai contributi alla Lega furono conquiste importanti che devono essere viste nel quadro complessivo del costituirsi di un rapporto privilegiato tra Genova e Carlo V. La tematica dei modelli di egemonia francese e imperiale non si esaurisce con il presente capitolo. Essa troverà spazio anche nelle pagine — 144 — dedicate alla riforma unitaria. Dal 1525 al 1528 i genovesi dovettero nuovamente fare i conti con la questione di Savona. La più importante città della riviera di ponente venne da Francesco I sottratta alla giurisdizione della Repubblica con l’intento di costituire un polo alternativo per il controllo della Liguria. La politica dei Valois, caratterizzata dalla tendenza a manipolare il dominio genovese, fece un salto di qualità che contribuì in modo decisivo ad accelerare il processo di ri-pensamento delle regole e dei contenuti della vita politica cittadina conclusosi poi con le leggi del 1528. — 145 — CAPITOLO II LA RIFORMA EI SUOI PRECEDENTI CINQUECENTESCHI 1. Un’insospettata origine popolare. Il giuramento del 1506 Nel tentativo di ricostruire la storia ideale e politica della riforma del 1528, è necessario anzitutto scomporre i suoi contenuti per individuarne il nucleo originario. Tale nucleo si arricchì via via di nuovi contributi in un lento processo di elaborazione nel quale si rispecchia, come vedremo, il mutare, sia dei temi del dibattito politico, sia degli equilibri di forza all’interno del ceto dirigente cittadino nei primi tre decenni del secolo XVI. Le magistrature che furono incaricate, tra il 1527 e il 1528, di redigere le nuove norme « costituzionali » dello stato genovese perseguirono due obiettivi di fondo: da un lato il riordino dell’assetto istituzionale, dall altro 1’« unione », che mirava a cambiare le regole della vita pubblica cittadina, liberandola dagli antagonismi tra i vari gruppi di fazione. Entrambi questi indirizzi erano poi frutto del complessivo intento di eliminare le cause di una cronica instabilità che minacciava ormai la stessa esistenza della Repubblica. Nel 1528 si chiuse un’epoca, quella dei « dogi perpetui » e delle « esterne dominazioni », e nacque, con il dogato biennale, il sistema politico della Genova moderna. Se questo aspetto istituzionale rimase fissato nella coscienza collettiva grazie all’estrema solidità che la nuova struttura dimostrò di possedere nel corso dei secoli, risulta evidente dal — 146 — contatto con le fonti coeve che fu la creazione di un unicus ordo di cittadini dotati di diritti politici a dare l’impronta al progetto di riforma come venne elaborato nel 1528. Centrale fu soprattutto l’idea di « unione » che esprimeva in maniera compiuta il progressivo maturare in larghi settori della classe politica di una profonda quanto antica spinta al superamento delle proprie divisioni. Il « veleno delle discordie civili » non era certo una prerogativa della città ligure. La vita interna di gran parte degli stati italiani in questo scorcio del Rinascimento era segnata da forti tensioni, ma senza dubbio a Genova la situazione appariva più grave1. È abbastanza naturale quindi che nel ceto dirigente, e più in generale nella coscienza collettiva, fosse da tempo nata una decisa ostilità verso le fazioni e una chiara esigenza di stabilità politica. Già nel Tre-Quattrocento, qui come nelle altre città dell’Italia centro-settentrionale, si levarono ripetuti appelli alla concordia civile, appelli che talvolta riuscirono a concretizzarsi in atti legislativi. I risultati però, almeno per quanto riguarda Genova, furono sempre molto modesti e di breve durata. Così fu ad esempio per la già citata revisio- 1 Tralasciando le numerose invettive con cui gli annalisti genovesi biasimavano i cittadini della Repubblica per la loro eccessiva faziosità, ricordiamo solamente le testimonianze di due osservatori esterni. Anzitutto Francesco Guicciardini che (Storia d’Italia cit., voi. II, pp. 654-655) definiva Genova « città veramente edificata in quel luogo per lo imperio del mare », ma a ciò « impedita dal pestifero veleno delle discordie civili »; Genova « non è come molte dell’altre d’Italia sottoposta ad una sola divisione ma divisa in più parti; perché vi sono ancora le reliquie delle antiche contenzioni de’ guelfi e de’ ghibellini»; c’è inoltre, sosteneva lo storico fiorentino, « la discordia [. . .] tra i gentiluomini e i popolari [...]. Ma non è divisione manco potente quella tra gli Adorni e i Fregosi ». È rimasta classica, poi, la contrapposizione che il Machiavelli (Istorie fiorentine cit., libro Vili, cap. XXIX, pp. 560-562) stabilì tra il Banco di San Giorgio « come parte bene e ugualmente amministrata » e il Comune lacerato dalle lotte di fazione. Così egli affermava che in Genova si poteva « vedere dentro a uno medesimo cerchio, infra i medesimi cittadini, la libertà e la tirannide, la vita civile e la corrotta, la giustizia e la licenza ». Una tesi questa che ancor oggi influenza, nel bene e nel male, i giudizi spesso severi degli storici sullo stato e sulla vita politica genovesi (vedi J. Heers, Gènes au XVe siècle cit., pp. 562-611; C. Costantini, La Repubblica di Genova cit., pp. 25-29 e, criticamente con nuovi stimoli alla ricerca, V. Piergiovanni, Il sistema europeo e le istituzioni repubblicane cit., p. 3 e sgg.). — 147 — ne costituzionale del 1413, nella quale si stabilì che nell'assegnare gli uffici non si tenesse alcun conto della divisione tra guelfi e ghibellini2. Le cose tuttavia non mutarono, e all’inizio del Cinquecento non si era riusciti in alcun modo a semplificare il quadro politico interno. Ma questi lontani precedenti non significano molto per le finalità della nostra ricerca. È necessario trovare elaborazioni più vicine al 1528 e più legate agli esiti conclusivi della riforma. A queste caratteristiche risponde il primo tentativo cinquecentesco di mutare alle radici le regole della vita politica genovese: un tentativo che, sorprendentemente, è frutto della rivolta antinobiliare del 1506. Prima tuttavia di rivisitare il breve ma straordinario periodo conclusosi con il dogato del tintore di seta Paolo da Novi, vorremmo proporre un testo della metà del XV secolo dove è richiamato più volte concetto di « unione ». Un sommario esame di questo documento ed cuni accenni al quadro storico-politico in cui fu redatto ci permetteranno di cogliere, almeno in parte, la diversità del contesto quattrocentesco rispetto a quello successivo alla discesa di Carlo Vili in Italia. Il Doge Pietro Fregoso, una volta terminato l’aspro conflitto con iovan Filippo Fieschi, strinse nel maggio 1454 un patto politico con g i artefici genovesi al fine di rafforzare il proprio potere messo in pencolo dalla pressione turca sulle colonie orientali della Repubblica e a perdurare della guerra con il re di Aragona. Nel giuramento che sanciva 1 accordo, queste furono le parole con cui esordì il Fregoso: perché Io altissimo Dio in ogni suo principal comandamento comanda la unione, o pregeremo tuti divotamente che essendo questa unione al ben de populo, ne exaudischa et dia gratia per sua benignità, che quella vera pace chi debbe esser lo bem universale de tutto lo populo della cità de Zenoa, ne Ila acressa e cum la sua forza ne Ha fortifiche3. Il Doge si proponeva come difensore degli artefici contro ogni « cru-ee tyrama », affermando preferire « lasarme levar prima le budelle 2 Vedi sopra, p. 30. di A f .ei““”mo dd έ pubblicalo in appendice al bel saggio B°rl“d'· ' «<*»* ■« nel dw,o di Pie.ro F„Z, — 148 — cha che ad auno minimo artese sia facto iniuria, forza ni villania ». Di nuovo fu poi invocata l’unione come dono divino: et cossi corno questa tale unione è data da Dio et principiata ad laude sua et cressimento del ben de questa illustrissima cità, cossi piaserà a Dio che ogni dì ella cresserà et multiplicherà per modo che li artesi collegati insieme et lo populo averano delle honoranze, utilitade sì et sifactamente che a populo chi sia in christianità non haran invidia. Ed ancora, in conclusione, « solo a voi per arboro dago la pace intre voi, la unione et perseveranza, et facendo cossi non ve mancherà gratia, triunpho in la vostra cità, et merito a levarla ogni dì de pericolo di sub versione ». Anzittutto è importante notare che fu il Doge, un Fregoso, a richiamare per ben quattro volte l’unione come massimo bene per gli artefici e per il popolo in genere, come presupposto del loro « trionfo ». In secondo luogo colpisce la fisicità del linguaggio che dimostra l’esigenza di comunicare in modo chiaro e inequivocabile le intenzioni del supremo capo della Repubblica alle larghe fasce di popolo destinatarie del messaggio. Per queste sue caratteristiche, il documento permette di cogliere bene il clima di un periodo in cui il vertice istituzionale dello stato genovese era ancora permeabile alle istanze provenienti dalla società, e le famiglie che lottavano per occuparlo erano ancora capaci di esercitare una potente forza di attrazione nei confronti dei gruppi sociali organizzati. Il Doge poteva ancora con una qualche giustificazione fregiarsi del titolo di defensor populi in quanto esercitava una certa « protezione » nei confronti del popolo stesso. Solo mezzo secolo più tardi un accordo tra un capoparte Adorno o Fregoso e gli artefici, ed un testo come quello sopra citato, sarebbero stati inconcepibili. È evidente che per capire la profonda diversità del quadro politico cinquecentesco sarebbe necessario ricostruire l’evoluzione del ruolo e della funzione politica del dogato. La scarsità di studi sulle vicende del tardo Quattrocento genovese impedisce per ora un’analisi di questo tipo. Possiamo tuttavia constatare una realtà di in La storia dei genovesi cit., voi. IV, pp. 353-402, p. 380 e sg. Un’altra copia del documento, oltre quelle citate da A. Borlandi, si trova in ASG, Archivio Segreto 3141. — 149 — fatto: nel primo Cinquecento diviene evidente l’allontanamento del dogato stesso dalle forze sociali cittadine. L’inizio del XVI secolo è il momento di approdo di un processo che le guerre d’Italia contribuirono in modo decisivo ad accelerare: da allora gli Adorno e i Fregoso, seppur in misura diversa, cercarono il supporto alla loro volontà di supremazia sempre meno entro le mura cittadine e sempre più all’esterno di esse, nell’appoggio dei « principi » in lotta per il predominio sulla penisola. Ai vivaci appelli rivolti agli artefici ed al popolo si sostituirono il misurato linguaggio e gli infingimenti delle trame diplomatiche; sempre più le corti europee soppiantarono le logge cittadine come centri delle strategie condotte dalle famiglie dogali che pur continuavano ad avere un enorme peso sulle sorti della Repubblica. Legato a questo processo è il mutamento di significato del termine « unione ». Tale parola che, come abbiamo visto, fu enfaticamente ripetuta da un « cappellazzo » del Quattrocento (così erano definiti gli Adorno e i Fregoso) per ribadire la solidità del patto con gli artefici, si arricchì all’inizio del XVI secolo di nuovi significati di condanna proprio delle fazioni dogali, e di contenuti programmatici miranti alla loro soppressione. Non bisogna tuttavia pensare a drastici momenti di svolta. Come vedremo, la presa di coscienza dell’estraniazione dal mondo cittadino dei pretendenti alla massima carica della Repubblica e l’emergere di strategie politico-istituzionali alternative all’assetto ereditato dal Quattrocento furono lenti e non privi di esitazioni; nonostante ciò l’aggressività delle grandi potenze e la minaccia, nuova in quei termini, che essa rappresentava, costituirono una spinta decisiva verso una riorganizzazione generale dello stato. Analizzando alcuni documenti del 1506 potremo cogliere in modo concreto il senso dei mutamenti cui abbiamo accennato. Presso la Biblioteca Berio di Genova è conservato un manoscritto dal titolo « Libro di Pace e Concordia » contenente il testo di un giuramento (e il relativo elenco di firmatari) prestato da cittadini genovesi che, nel bel mezzo della rivolta anti-nobiliare, si impegnarono a rifiutare, almeno in parte, la logica delle fazioni. Riportiamo per intero il testo dell’inedito documento: [Ne]l nome de la Sancta et individua trinità e del glorioso precursore Sancto Johanne Baptista et invinctissimo cavaler Sancto Georgio protectori et defen- — 150 — sori de la inclita cita de Genoa et a laude et gloria de tuta la corte celestiale. Ad augumento manutenimento et deffensione del presente felicissimo stato del christianissimo re di Francia signor nostro et a perpetua pace quite e concordia del populo genoese. Considerando specialmenti le persone infra-scripte quante ruine, quante iacture, incendii, morte et altri innumerabili dani ha patito questa commiseranda cità de Genoa quasi dal principio de la soa fondacione fine al dì presente, non è nesuno de quelli che tuto non trema et si spaventi et grandementi si maravegli che li loro antecessori a tante calamità et miserie non habiano trovato alcuno salutifero remedio. Et revolgendo diligentementi tute le conditione de li tempi, sono certi che la principal causa di tanta ruina, corno mostra la longa experientia, sia stata la discordia, divisione e parcialità abominanda che sono regnate in la cità de Genoa, et in quella hano facto forti fondamenti. E primo la division de guelfi et de gibel-lini, la qual non solamenti a questa patria genoese, ma a tuta la Italia, ha causato tanta ruina et dano che fine al presente in memoria de li homini viventi si rivolge et parla di quella maladeta et detestabile goerra la qual vulgarmenti si ihama goerra di mezo. E chi volesse narrare in quanta miseria a quelli tempi per epsa goerra fo reducta questa commiseranda patria, non è cor si duro che non si movesse e lachrime et compassione, et non basteria il presente giorno a narrarne la meità. Et non essendo epsa divisione extincta, ma più presto augumenta et cresciuta, ne suscita un’altra di Goalchi et Montaldi, et ultimamenti de Adurni et Fregosi, non manco nociva che la predicta, et con ciò sia cossa che fine al giorno presente li officii, dignità, et altre cosse se siano conferti et distribuiti apertamenti sotto reprobati nomi et factione de guelfi et gibellini, et tacitamente Adurni et Fregosi. Et cossi lor passati sotto questo reprobato modo siano vistuti et caschati ne la fossa et cecità che lor medesmi se hano causato. Et dubitando, che se li viventi al presente non se converterano et desponerano le maledicte factione et parcialità, de la ira de Dio, et che non tenda el suo archo et prepari total ruina a questa cità, il che Dio non voglia, essendo scripto per Iesu Christo verità ineffabile, che ogni regno in sé diviso serà dissolato e le case sopra le case ruinerano. Et per lo contrario intendendo che le picole cosse per la concordia crescano, et amoniti de tali sancti et honesti documenti, et volendo fare como fano li boni et providi marinari] che per ogni via e modo cerchano di schivare li periculi da venire, et questo volendo cum lo adiutorio de Dio, dal quale procede ogni bene, levare via et al tuto exterpare et radicare ogni divisione et parcialità, casone di tanti errori, et redurre questa fluctuante nave conquassata et fatigata al porto di vera salute mediante la intercessione de la intemerata Vergine Maria et precursore Sancto Johanne Baptista et cava-lere Sancto Georgio, acioché questo aflicto populo genoese, sotto el nome del christianissimo re de Francia nostro signore, si possi restaurare augu-mentare et epso stato regale fine a la exposicione delle proprie facultà et vite mantenere, sono devenuti a la concordia, pace e sancta unione corno di sotto se contiene, cioè che fino a ora ogniuno di loro per loro e soi heredi et successori renunciano, refudando, si spogliano et da loro al tuto discaciano — 151 — ogni nome et effecto de guelfo e gebellino, Adurno e Fregoso, et di qualuncha altra factione, seta, parcialità et divisione sotto qual nome si voglia, che si potesse apellare e nominare non excludendoni nisuna. Et prometteno a lo omnipotente Dio al quale non si pò inganare, et a l’uno et l’altro di loro, chi per lo avenire per nisuno tempo non mantignirano né accepterano né nutrirano palesamenti né secreto, per recto né per indirecto, publicamenti né privatamenti alcune de le predicte divisione et parcialità così specialmenti corno generalmenti de sopra nominate, ma secondo la lor possanza et forsa quelle et ogniuna di quelle et ogni altra che si cerchasse de suscitare extin-guerano, amorterano e confunderano, né alcuno officio, dignità né altre cosse, tacitamenti né expressamenti accepterano né conferirano sotto li nomi de le factione predicte, ma più presto ogni publico e privato a tal materia pertinente se farà et conferirà sicondo li meriti, virtù, bontà et sufficientia de le persone, servando nientedimeno semper la reformatione de li offici) et altre cosse facte in lo ano presente, a dì [in bianco, ma 19] de lugio, corno appare in li acti de lo excelso Bartolomeo de Senarega cancellerò et confirmata per la sacra maiestà regale, et havendo semper le mente et lo intellecto dricto al sacratissimo nome de Yhesu Christo et al christianissimo re de Francia, signor nostro, et suo legitimo succesore et representante la persona di quello, et tenendo semper li dicti nomi per fermo et inmobile stendardo et guida de epso populo di Genoa. Et tute le predicte cosse, a perpetua memoria et per laudabile exemplo di loro posteri, hano promisso et promitteno observare e fare observare fine a la expositione de le proprie facultà, et di lor proprie mano si sono sottoscripti e iurato corno di sopra et facto sottoscrivere per quelli che non sapesseno o non potesseno o vero fosse difficultà particularmenti ogniuno fare sottoscrivere in el presente libro, il quale se ihamerà e nominerà libro di pace et concordia de lo populo de Genoa4. Su molti aspetti di questo suggestivo documento avremo agio di tornare, ma veniamo subito ai due fatti più importanti. Anzitutto la datazione: come si vede dai riferimenti cronologici contenuti nel testo, 4 BCB, mr. 1.4.9. La scoperta del « Libro di pace e concordia » è di R. Savelli che ne segnalò il ritrovamento nel saggio Dalle confraternite allo stato cit., p. 183. Un cenno all’esistenza del « Libro » è contenuto nell’ultimo dei sei volumi delle Memorie di G.B. Cicala (ASCG, ms. 443, c. 121). Sotto l’anno 1506 troviamo qui infatti un breve elenco di cittadini popolari divisi in mercanti e membri delle varie corporazioni che abbiamo verificato essere tra i firmatari del giuramento. A fianco della lista è riportata la seguente nota: « Nel foliazzo di quest’anno è un decreto di estinguere le fattioni Adorna e Fregosa. Vi sono sottoscrizioni di molti cittadini poste in lista di mercadanti e d’artefici et in essa sono li notati ». L’uso del termine « decreto » lascia il dubbio che il giuramento avesse poi avuto un seguito legislativo, — 152 — la stesura del « Libro di pace e concordia » fu posteriore al 19 luglio 1506, giorno in cui venne approvata la « legge dei due terzi »5. L’accenno alla conferma di quella legge da parte della « sacra maiestà regale » fa supporre che il « Libro » sia posteriore anche al 29 settembre, allorché giunse a Genova una lettera dell’ambasciatore alla corte francese Nicola Oderico, con la notizia che il re aveva deciso di ratificare l’avvenuta riforma degli uffici6. Non si può tuttavia escludere che da parte popolare si considerasse equivalente al consenso regio l’atteggiamento favorevole del luogotenente Filippo Roccabertino. D’altro canto le appassionate dichiarazioni di fedeltà nei confronti di Luigi XII sembrano collocare la stesura del documento prima del dicembre dello stesso anno, prima cioè del definitivo deteriorarsi dei rapporti con il sovrano a causa della decisione dei genovesi di impegnarsi nell’assedio di Monaco, roccaforte del nobile Luciano Grimaldi. Il fatto però che so- lo il 28 marzo del 1507 la città si risolse ufficialmente a « fare bona guerra al re »7 non permette di escludere una redazione più tarda. Certa quindi è la stesura tra il 19 luglio 1506 ed il 28 marzo 1507, probabile tra il 29 settembre 1506 ed il dicembre dello stesso anno. Cerchiamo ora di identificare gli autori del giuramento: il titolo completo del manoscritto è, secondo quanto si afferma nelle ultime righe del testo citato, « Libro di pace et concordia de lo populo de Genoa ». È infatti il « popolo » che parla in esso (per quattro volte viene usata l’espressione « populo genoese » o « de Genoa ») e che, con quest’atto, anche se un decreto difficilmente sarebbe stato corredato da un elenco di privati cittadini sottoscrittori. 5 La revisione istituzionale che ebbe luogo nel 1506 fu portata a termine con decreti successivi in un arco di tempo che va dal luglio al dicembre di quell’anno. Già il 19 luglio però fu approvata la legge che stabiliva un nuovo criterio di divisione dei posti disponibili in ogni magistratura tra nobili, mercanti e artefici, assegnando la maggioranza dei due terzi alla parte popolare. Lo stesso giorno avvenne la prima electio antianorum secundum novam reformationem. Le varie tappe di elaborazione delle leggi possono essere seguite nel manoscritto ASG, ms. 137. 6 ASG, Archivio Segreto 2177, lettera del 21 settembre da Blois ricevuta a Genova il 29. Vedi E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 67 e sgg. 7 Ibid., p. 383. — 153 — decide di « levare via et al tuto exterpare et radicare ogni divisione et parcialità » dal suo interno. Il problema di stabilire con quale accezione venga qui impiegata la parola « populo » è risolto dalle liste dei firmatari: sono i mercanti e gli artefici genovesi in rivolta contro la nobiltà; tra essi troviamo sia membri del ceto dirigente cittadino, sia, e sono la maggioranza, oscuri lavoratori iscritti alle arti meno prestigiose. In questo frangente il « popolo » come gruppo politico si era fatto portatore di un’esigenza propria del « populo de Genoa » in senso lato. Il fatto è di per sé singolare: nella ricerca dei precedenti di quella che la storiografia definisce « riforma doriana » (l’atto che avrebbe sancito la chiusura oligarchica dell’aristocrazia genovese) ci siamo imbattuti in un documento che è il frutto delPultimo tentativo di stabilire un chiaro predominio popolare sulla Repubblica; ed è il popolo che in esso si oppone con fermezza al dominio delle fazioni. Tra il testo del giuramento e quelli delle due riforme dell’aprile e dell’ottobre 1528 c’è, come cercheremo più avanti di dimostrare, una chiara continuità di ispirazione e di intenti. Persino il tono di profonda religiosità che pervade tutto il « Libro di pace e concordia » ha una precisa eco nel preambolo alla versione della riforma emanata nell’aprile8. È indicativo il fatto che la parola « unione » risulti accompagnata dall’aggettivo « sancta » e inserita in un contesto dove istanze di rinnovamento politico e forte senso religioso si fondono in una speranza e volontà di catarsi collettiva. Vedremo poi nel prosieguo del lavoro come questa prima indicazione verrà confermata dal sostegno che all’ideale di « unione » diedero illustri religiosi e uomini di fede. Ma passiamo ad esaminare più da vicino il testo citato. Esso inizia con la constatazione del miserevole stato della città e delle innumerevoli disavventure da essa patite fin dal principio della sua storia. Alla meraviglia per l’incapacità degli « antecessori » a porre un qualche rimedio a « tante calamità e miserie » segue poi l’analisi delle loro cause: queste erano da identificare nelle discordie civili, nella « parcialità abominanda » che tutti gli storici del Cinquecento riconoscevano essere caratteristica della vita politica genovese. In primo luogo venne ri- 8 Vedi sotto, p. 296 e sgg. — 154 — chiamata la divisione tra guelfi e ghibellini, di lontana origine medievale e propria di ogni parte d’Italia; essa tuttavia, pur sopravvivendo, ne aveva suscitato un’altra « di Goalchi et Montaldi, et ultimamenti de Adurni et Fregosi ». Il riferimento è qui alle fazioni capeggiate dalle grandi famiglie popolari che, a partire dal 1339, data di istituzione del dogato a vita, si contesero la suprema carica della Repubblica. Un accenno ai meccanismi istituzionali ci informa poi che gli uffici venivano distribuiti non solo, come sapevamo, tra guelfi e ghibellini, ma anche, « tacitamente », tra i sostenitori degli Adorno e dei Fregoso. Una lunga serie di invocazioni precede infine il giuramento vero e proprio. In quest’ultimo i firmatari, constatata la loro comune volontà di riconciliarsi « in concordia, pace e sancta unione », si impegnarono a rinunciare ad « ogni nome et effecto de guelfo e gebellino, Adurno e Fregoso, et de qualuncha altra factione, seta, parcialità et divisione sotto qual nome si voglia, che si potesse apellare e nominare non excluden-doni nisuna ». E più sotto « prometteno », a Dio e reciprocamente tra di loro, che in futuro non alimenteranno « alcune de le predicte divisione et parcialità così specialmenti corno generalmenti de sopra nominate ». Il rifiuto delle fazioni fu quindi totale e venne anche respinta la vecchia logica delle quote ad esse spettanti nel distribuire le cariche pubbliche (« né alcuno officio, dignità né altre cosse, tacitamen-ti né expressamenti accepterano, né conferirano sotto li nomi de le factione predicte »). Subito dopo però i giuranti si rivelarono nel loro credo politico di popolari accettando gli esiti della rivolta in corso: le magistrature avrebbero dovuto sì essere assegnate tenendo conto dei « meriti, virtù, bontà, et sufficientia delle persone » ma « servando nientedimeno semper le reformatione de li officij et altre cosse facte in lo ano presente a dì [19] de lugio ». Fu quindi accettata una legge che confermava la rilevanza istituzionale dei gruppi formati da nobiltà e popolo pur mutandone i reciproci rapporti di forza. Oltre a quest’ultima apparente contraddizione, il « Libro di pace e concordia » ci pone una serie di problemi. Il primo è di contesto: perché il popolo nel bel mezzo della rivolta del 1506, in un momento in cui il suo nemico dichiarato era la nobiltà, ritenne necessario assumere una posizione così netta di condanna nei confronti delle fazioni dei guelfi e ghibellini e degli Adorno e dei Fregoso (tanto più che queste due ultime famiglie erano il simbolo dell’egemonia popolare sul dogato) ? In secondo luogo dobbiamo chiederci se la visione tradizionale — 155 — della rivolta, tutta incentrata sullo scontro tra nobili e popolari, non sia perlomeno parziale, se cioè non ci siano stati altri fattori che giocarono in essa un ruolo importante. Infine: il « Libro », come momento simbolico di compattazione dei molteplici settori dello schieramento popolare, è riconducibile all’interno del consueto schema interpretativo della strumentalizzazione della plebe da parte del popolo grasso, secondo cui quest’ultimo avrebbe « istigato » la massa degli artefici, usandola contro la nobiltà, per poi abbandonare lo scomodo alleato non appena si profilò la minaccia della repressione regia? Affrontati questi problemi, potremo meglio capire il significato del giuramento e suffragare in modo adeguato l’affermazione che esso, in quanto espressione dell’ideologia popolare, costituì un precedente significativo della « unione » del 1528. Metter mano ad un riesame critico di quanto accadde a Genova nei drammatici mesi della rivolta popolare sarebbe un compito affascinante quanto arduo. Il bel libro di Pandiani sui moti del 1506, per quanto datato, è un monumento di erudizione, di perizia archivistica e di equilibrio interpretativo. Ci limiteremo quindi, attingendo largamente al materiale d’archivio in esso pubblicato, a mettere in risalto alcune tematiche cui l’autore, trovatosi a gestire una massa documentaria assai ampia relativa a quella che era una vera « scoperta » storiografica, aveva necessariamente dovuto concedere uno spazio limitato. Iniziamo dal problema del contesto storico del « Libro ». Nel tentativo di giustificare la « legge dei due terzi » agli occhi delle autorità d’oltralpe, i popolari genovesi affermavano che tale provvedimento era giusto ex tribus precipue rationibus·, anzitutto perché essi erano di gran lunga più numerosi dei nobili, perché la città aveva una antica tradizione di governo popolare e, soprattutto, quia iusticia magis eque administrabitur, que res non est parvi momenti, nam cum ipsi nobiles pauci numero sint, erat eis facile habere inter se unionem et intelligentiam, prout semper et cum effectu habuerunt, adeo quod nemo licet iusticiam haberet illam consequi poterat, nisi pro ipsorum arbitrio, quia habentes ipsi medietatem vocum in officis, aut obtinebant quicquid volebant, aut obviabant, adeo quod, non solum in huiusmodi causis civilem iusticiam concernentibus, sed etiam in ceteris omnibus, reliquos subiectos tenebant9. 9 Istruzione in data 6 agosto 1506 a N. Oderico in ASG, Archivio Segreto — 156 — L’amministrazione della giustizia costituiva senza dubbio uno dei settori più delicati della vita cittadina. Le ampie competenze giurisdizionali delle magistrature anche politiche giustificano ulteriormente il fatto che, da sempre, le modalità per accedervi fossero materia di conflitto. Per un gruppo, avere per garanzia statutaria la maggioranza in ogni magistratura significava non solo decidere le sorti della collettività in politica interna ed internazionale, ma anche poter assicurare in sede di giudizio un trattamento favorevole ai suoi membri. Meno scontato è che nella Genova del Cinquecento, pur caratterizzata dalla presenza di numerose fazioni, il problema dell’accesso alle cariche pubbliche venisse concepito principalmente in termini di rapporti di forza tra nobili e popolari. Il brano sopra citato ci illustra come questi ultimi nel 1506 interpretassero il sistema istituzionale vigente: nonostante la paritetica ripartizione degli uffici tra i due gruppi, la maggiore compattezza della nobiltà era sufficiente a garantirle un predominio di fatto. Complemento necessario all’esercizio di questo predominio nobiliare era far sì che il popolo rimanesse diviso al suo interno. La viva voce dell’anonimo diarista che scrisse giorno per giorno sui fatti della rivolta è al riguardo quanto mai eloquente. Dietro l’agire di personaggi ambigui egli scorge l’istigazione di «alcuni [nobili] [. . .] li quali vorriano che li populi minuti stessero male insieme e se tagliassero a pezi l’uno l’altro »10. Essendo questa la situazione appare evidente e giustificato che il popolo vedesse nel perseguimento di una maggiore compattezza interna uno dei suoi obiettivi primari. Inutile moltiplicare le citazioni; lo stesso « Libro di pace e concordia » esprime questa forte pulsione all’unità presente tra le file del popolo genovese: un’unità 2707/C, pubblicata da E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., pp. 431-440. Il Diario, reso noto dal Pandiani e pubblicato in appendice, inizia con le seguenti parole: « In lo nome de Cristo, in l’anno de 1506 in lo tempo dii Christianissimo re di Franza, del detto anno lo populo della nostra città, obprobiato dalli nostri gentilho-mini per tale modo che non era nisuno del populo chi presumesse contrastar con loro e già anni fa non era nisuno del populo chi havesse litigio avanti d’alcuno magistrato con gentilhomini che potesse haver ragione», ibid., p. 313. Anche F. Guicciardini (Storia d’Italia cit., voi. II, p. 656) accenna al problema degli uffici: « perché partecipando i nobili negli uffici per parte eguale non si poteva, per mezzo de’ magistrati e de’ giudici, resistere alla tirannide loro ». 10 E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 381. — 157 — sentita come ineliminabile presupposto di una valida resistenza al potere nobiliare. È interessante vedere invece quali erano gli elementi perturbatori, quali, potremmo dire, gli strumenti con cui la nobiltà cercava di mantenere il popolo diviso al suo interno. A tal fine è utile una lettera scritta dall’ambasciatore Nicola Oderico dalla corte francese a Blois e indirizzata agli Anziani e agli ufficiali di Balìa in data 17 settembre 1506. In essa si narra l’esito di una tormentata udienza durante la quale il re aveva rivolto gravi accuse e minacce nei confronti dei genovesi « perché avia informacione che per populari era stata procurata la venuta di domino Octaviano Campofregoso » 11. Il riferimento è ad un episodio avvenuto nell’agosto 1506: Giano e Ottaviano Fregoso tentarono di recarsi da Roma a Genova al fine di provocare disordini. Il progetto tuttavia fallì per l’intervento di Giulio II che, in modo forse non del tutto disinteressato, si dimostrò a più riprese favorevole al popolo in rivolta 12. La reazione dell’Oderico a questa accusa fu vivacissima. Egli affermò di attendere da Roma prove documentarie inoppugnabili dell istigazione nobiliare celata dietro il destabilizzante gesto dei Fregoso, ma si appellò soprattutto alle ragioni dell’evidenza: Ben che se probasse per raxone et presumptione concludente, imperò che la venuta de domino Octaviano non poteva cauzare se non divisione nel populo, como è cossa evidente e manifesta, la qual divisione era et è totaliter contraria a la presente intentione et proposito populare, et che tal divisione era la principale intentione et proposito de nobili, li quali in ciò ano posto ogni lor speranza corno ano tentato già per diversi modi; e a questo proposito li deduxi le lettere de domino Fregosino, concludendo che li capelatii, dove procedeva la discordia, erano resercati da quelli al proposito de li quali facia la discordia et consequenter da li nobili et non da quelli a li quali la sola concordia iova et è fondamento maximo e principale. Et a questo me parse che sua reverendissima signoria [il legato pontificio George d’Amboise, arcivescovo di Rouen] restasse quieta, replicandomi che non se perseverasse più in queste commotione. 11 ASG, Archivio Segreto 2177. Vedi E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 67 e sgg. 12 Cfr. quanto afferma Pandiani sulPatteggiamento del Pontefice che avrebbe considerato i torbidi di Genova un diversivo atto a favorire la nativa Savona, ibid., pp. 4 e 124. — 158 — L’Oderico, con ferrea logica, dimostrò agli interlocutori che a chiamare i Fregoso non potevano essere stati che i nobili. I « cappellazzi » erano un fattore di divisione e il popolo in quel momento cercava l’unità, essi erano in definitiva il maggiore ostacolo al raggiungimento del-l’obbiettivo di una stretta solidarietà orizzontale tra i gruppi sociali impegnati nella rivolta. Il ruolo delle fazioni degli Adorno e dei Fregoso nei tumulti del 1506, che l’esposizione strettamente cronologica scelta dal Pandiani non pone nella dovuta luce, risulta di evidente importanza allorché si raccolgono le varie indicazioni ad esso relative contenute nei documenti. All’inizio del Diario, l’anonimo estensore, dopo aver narrato il ri-sentimento popolare per gli episodi di violenza di cui si erano resi protagonisti i nobili prima dello scoppio dei moti, afferma: lo populo s’è resentito grandissimamente, e grandi e piccoli, e perché era grandissima divisione et odio in lo populo da Adorni et Fregosi s’è quietato l’odio e la parcialità e se congregò grande moltitudine de homini in la piazza delli Giustiniani e ivi fecino conseglio e feceno XII capitani de populoB. Ecco quindi che, sin dal principio (la nota è alla data 27 giugno), il momento decisivo per il popolo, il presupposto di una sua efficace azione politica, fu l’abbandono delle divisioni interne determinate dalle fazioni dogali, ed è su queste basi che furono eletti i dodici capitani deputati a trattare con il luogotenente francese e gli Anziani, per far sì che « lo populo non fosse così sofocato e dispregiato dalli gentilho-mini » 14. La già citata istruzione all’Oderico del 6 agosto ci informa che, il 20 luglio, l’arrivo di un Adorno in vai Bisagno, unito ai timori per 13 Ibid., p. 314. L’affermazione del diarista deve però essere integrata: tra i dodici troviamo sia uomini « di fazione », come Domenico Adorno, Stefano di Capriata, adornesco (ibid., p. 352), e Francesco Camogli, notaio, considerato «la miglior testa di populo avessero li Fregosi» (ibid., p. 359), sia personaggi assai noti, come Stefano Giustiniani ed Antonio Sauli, o più oscuri, come Bartolomeo Cebà ed Antonio Albaro, che di lì a poco avrebbero aderito al giuramento del « Libro di pace e concordia ». Nella composizione di questa rappresentanza si riflettono le due vie possibili per il raggiungimento dell’unità del popolo: quella dell’accordo tra le fazioni dogali e quella del loro sradicamento dalla vita politica cittadina. 14 Ibid., p. 314. — 159 — le manovre dei Fieschi nella loro dimora di via Lata, suscitò una nuova sollevazione, più violenta di quella di due giorni avanti: essendosi diffusa suspicionem de Capellacijs, vi si afferma, la plebe prese le armi gridando una voce vivat rex et moriantur Capellacij15. Lo stesso documento contiene notizie più dettagliate su questa volontà dei popolari di deporre « l’odio e la parcialità » che li dividevano: Cui maiestati regie etiam subiungetis [si ordinò alJOderico] quemadmodum, diebus aliquot post exactas commotiones opifices omnes civitatis sese iureiu-rando astrinserunt et magnis promissionibus obligaverunt quod si Capelacii cuiusvis generis, ipsorum quemquam tentarent aut ad aliud requirerent, constantissimi semper erunt et fidelissimi erga regiam maiestatem et eius felicissimum statum 16. Subito la volontà del popolo di opporsi ad un eventuale governo di fazione, adorna o fregosa che fosse, si era quindi formalizzata in un giuramento. Non dovrebbe trattarsi dell’episodio che diede origine al « Libro di pace e concordia », sia per la precocità, sia per il fatto che i soli opifices furono protagonisti di questo primo giuramento, ma come vedremo il ricorso a questi « riti » collettivi di solidarietà fu assai frequente nel periodo della rivolta. Il 24 settembre venne fatta una grida contro gli oppositori al governo popolare17 : furono dichiarati banditi e ribelli ventuno uomini accusati di essere « venuti cum arme per turbare el presente felice stato e mettere in tumulto il populo de questa cità », e sulla loro testa fu posta una taglia di 10 ducati ognuno nel caso fossero stati catturati o vivi o morti; la stessa pena era prevista per coloro che al soldo di Gian Luigi Fieschi avevano preso le armi contro il popolo se non le avessero deposte entro due giorni; inoltre si ordinava che non sia alchuno chi ose ni presume portare calse de divisa de cape-lacio alchuno o de chi facesse o far volesse officio de capelacio sotto pena 15 Ibid., p. 436. Simile la versione fornita dal Diario: «in manco d’una hora fu tutta la terra in arme e molto magiormente che non fu la prima; non era homo de populo che non fosse armato o poco o assai, vechij e giovani cridando: Franza, populo, e fora capelazi » (ibid., p. 318). 16 Ibid., p. 436. 17 ASG, Archivio Segreto 3083. — 160 — » de la forca. Notificando a ogni persona che de le predicte cose se farà diligente cerca e ogniuno si goarde de la mala ventura 1S. Ecco quindi che mentre si dichiaravano banditi e ribelli i sostenitori dei nobili e si scatenava contro di loro una caccia all’uomo, si minacciava la forca a chi avesse turbato la quiete pubblica palesando la propria adesione ad una delle famiglie dogali. È significativo che in uno dei « momenti caldi » della rivolta nobili e cappellazzi venissero posti sullo stesso piano come nemici del governo popolare. Le vicende relative all’emanazione di questa grida hanno altri motivi di interesse. Due sono le copie del documento: una prima senza data e soprattutto senza la consueta nota che testimonia la proclamatio da parte del banditore, la seconda con la data del 24 settembre e con un poscritto certificante che die ea era avvenuta la pubblicazione. Sempre del 24 settembre è un’altra nota del cancelliere Paolo Cabella nella quale afferma che cum bis aut ter requisitum fuisset proclama su-prascriptum [la prima copia della grida] et prò eo impetrando multi mercatores et artifices comparuissent in senatu et coram officio balie, tandem hodie habito examine super eo quod deliberatum fuit per senatum et dictum officium, gli era stato ordinato di trascrivere il detto proclama in munda papiro e di provvedere alla sua pubblicazione. Il Cabella aggiunse che i mercatores e gli artifices che avevano premuto perché si prendesse questo provvedimento lo avevano fatto nomine totius populi19. Segue nel documento una lista di nomi con la precisazione che anche altri, quorum nomina brevitatis causa omissa sunt, avevano sostenuto l’iniziativa. Tenendo presente sia l’agire congiunto di mercanti ed artefici, sia il fatto che alcuni dei nomi riportati dal Cabella compaiono anche nel « Libro di pace e concordia », e che lo stesso Cabella fu uno dei notai addetti alla raccolta delle firme contenute nel « Libro », si può scorgere nel proclama contro i sostenitori 18 Ivi. Parzialmente diversa la versione del Diario (E. Prandini, Un anno di storia genovese cit., p. 332), dove si afferma che i sostenitori dei cappellazzi, qualora si fossero manifestati apertamente, avrebbero subito quattro tratti di corda ed ogni altra pena corporale e pecuniaria decisa ad arbitrio del magistrato dei « pacificatori », e che fu promesso un premio di 10 ducati e il beneficio dell’anonimato a quanti avessero sporto denuncia contro i contravventori. 19 ASG, Archivio Segreto 3083. — 161 — dei nobili e dei capellazzi una tappa del formarsi di quell’area di consenso che di lì a poco avrebbe di nuovo lasciato traccia di sé nel giuramento di sopprimere le fazioni. La grida però non sortì effetti risolutivi ed il problema degli intrighi dei capellazzi continuò ad essere all’ordine del giorno. Il 4 ottobre furono scoperte trame degli Adorno. Venne arrestato e torturato un certo «Paulo della Costa [...] loro colaterale» che fungeva da corriere. Questi, vistosi scoperto, aveva inghiottito una lettera che teneva nascosta sotto il basto di un mulo. Lo stesso giorno il dottore Corrado Sofia fu quasi linciato a morte dagli artefici solo perché era entrato in città proveniente da Serravalle, « loco de Adorni »20. Il 23 ottobre, poi, più di duecento « borghesi » giurarono sul Crocifisso e sulla Vergine « di non parlare di parte alcuna e tutti esser per contra a chi parlasse de capelazzi »21. Lo stesso diarista, a quanto sembra simpatizzante dei Fregoso22, ebbe un accorato accento nel dar notizia, in data 3 novembre, delle trame dei nobili riuniti ad Arquata: « tutto facevano per ponere qui uno capelazo e, a giudicio mio, credo che non mancherà, e meschina questa terra » 23. Un sentimento di sfiducia domina invece allorché egli narra (20 novembre) le acuite tensioni tra i sostenitori delle famiglie dogali, sfociate in un grande consiglio in cui « ha giurato ogniu-no da lassar le parte de Adorni e Fregozi e Guelfi e Ghibellini e ogniuno tirar a un voler », ma subito aggiunge: « che Dio voglia se 20 E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., pp. 335-336. Facciamo notare in margine che Pandiani, per quanto riguarda la vicenda di Corrado Sofia, interpreta la frase del Diario « fu assalito da detti artegiani e datoli diverse ferite, in le quali n’haveva doe mortale in la testa» nel senso che il Sofia venne ucciso (ibid., p. 61). Come abbiamo visto però esiste una ampia documentazione nella corrispondenza relativa alla causa di Gavi e Ovada a testimonianza del fatto che il « dottore » sopravvisse a questo brutto momento. Nella lunga contesa giudiziaria per il controllo sui due luoghi dellOltregiovo che al tempo di Ottaviano Fregoso vide contrapposti, davanti al parlamento di Parigi, da una parte i Guaschi e i Trotti e dall’altra il Comune di Genova, il Sofia patrocinò quest’ultimo (vedi sopra, p. 81). 21 E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 341. 22 Cfr. ibid., pp. 308-309. 23 Ibid., p. 343. — 162 — li possa perseverare, quod non credo »24. Del 12 novembre è una lunga istruzione data ai due nuovi ambasciatori inviati alla corte francese ad affiancare l’Oderico. In essa, tra le altre cose, dopo aver messo in risalto la volontà del conte Gian Luigi Fieschi di « tenire semper la cità divissa in dua parte, per augu-mentare per simile via il grado suo », ed il pericolo che per Genova rappresentavano « le castelle » del conte « per essere tanto propinque alla città, e sopra el capo a le riviere, che sono receptacolo de capel-lacij, donde procede ut plurimum la mutacione de li stati a Genua, e infiniti altri mali », si manifesta la ferma contrarietà dei popolari ad una delle richieste rivolte dai nobili al re: E perché è stato detto per questi oratori de nobili, doversi requerire al re ch’el voglia mettere qui uno capellacio per Gubernatore suo per ani quattro, cum sicurtà de ducati CC, se intendesti questo si mettesse a campo, ve li contraponareti cum ogni forzo e industria, affermando franchamenti, questo populo a modo alcuno non volere capellacio che sia, e tuto à iurato sopra el crucifixo de non consentire a stato de capellacij, e per quel chi s è veduto manifestamenti che quando è stato suspecto che alcuno privato habia havuto pensamento de tale sorte, se li è andato alla vita a tagliarlo a pecij 25. Nonostante tutto, i contrasti in seno al popolo continuarono a manifestarsi tra la fine del 1506 e l’inizio del 1507. Anche le riviere erano scosse dagli scontri tra le fazioni degli Adorno e dei Fregoso76, e su alcuni commissari inviati a Monaco per seguire le vicende dell’assedio pesavano gravi sospetti27. In città si rumoreggiava contro gli « ador-neschi » che monopolizzavano le cancellerie « di Palazzo » e di San Giorgio e prevalevano in molti altri uffici28. Il 4 gennaio fu intercettata una lettera di Tommaso Burgaro a 24 Ibid., pp. 345-346. 25 ASG, Archivio Segreto 2707/C, pubblicata da E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., pp. 457-470. Sia per la datazione, sia per il fatto che non viene specificata alcuna categoria particolare come promotrice del giuramento, siamo propensi a ritenere che nel brano citato ci si riferisca proprio al « Libro di pace e concordia ». 26 Ibid., pp. 347-348. 27 Ibid., p. 350. 28 Ibid., p. 352. — 163 — Giovanni Doria in cui incitava i nobili a « venire ad ogni modo con uno capelazo Fregozo ». Ancora una volta si fece « congregaccione in Senato de diversi cittadini privati con tutti li altri offici e se tornò a reconciliare li animi e disposeno di star tutti bene insieme; il simile feceno tutte le arti »29. Evidentemente i nobili si erano mossi prima dell'invito del Burgaro se già Γ8 giunse nuova che Ottaviano Fregoso « con moltitudine di gente e cavali » si stava dirigendo verso Genova. La notizia venne confermata in una lettera di Giulio II del giorno seguente che confortava i cittadini all’unità. Gli Anziani intimarono ad Ottaviano di abbandonare il territorio genovese, ma egli diede una risposta interlocutoria, giunse con le sue truppe fino a Sestri Levante ed entrò quindi clandestinamente in città per conferire con i sostenitori della sua parte. Non trovandoli disposti a seguirlo (« visto l’animo delli suoi amici, che la maggior parte erano disposti a prender Monaco e star bene insieme »), il Fregoso abbandonò la città non senza correre qualche rischio Il 12 gennaio fu poi imprigionato e torturato il nobile Baldassarre Lomellino con l’accusa di aver avuto contatti con Ottaviano. Il Lomellino confessò, denunciando tuttavia anche i preparativi degli Adorno che avevano fatto affluire in città uomini ed armi31. Come già era avvenuto in precedenza nei momenti in cui « li sospetti erano grandi », la reazione del popolo fu un tentativo di rappacificare gli animi e rinsaldare i legami tra le sue componenti: il 13 gennaio, è annotato nel Diario, « s’è congregato grandissima moltitudine d’artegiani, la compagnia de Jesus in Santo Siro e hanno fatto tutti insieme, cossi d’uno color come dell’altro, e se chiamava la compagnia de Jesus »32. Infine, la stessa elezione di Paolo da Novi a Doge il 10 aprile del 1507 fu una scelta dettata dalla volontà di mantenere salda l’unità del popolo. I nemici erano ormai vicini, l’assedio era posto sia da terra sia dal mare (« era arrivato galere quattro e fuste due de re de Napoli in favore delli gentilhomini »). Si riunì un affollatissimo con- 29 Ibid., p. 355. 30 Per le varie fasi del tentativo di Ottaviano Fregoso, vedi ibid., pp. 356-359. 31 Ibid., pp. 359-360. 32 Ibid., p. 361. — 164 — siglio per decidere le misure più opportune per la difesa « attento che se haveva li inimici appresso e non havevamo socorso da banda alcuna ». Nella drammatica situazione « qualcheduno ha argumentato de fare venire li capelazi dentro », ma il popolo seppe reagire e « finalmente », afferma il diarista, « per alcuni particulari, fu sollevato d. Paolo da Nove, che era tintore di seta ». Ancora una volta la soluzione unitaria aveva finito per prevalere 33. Il primo quesito che ci eravamo posti era quello riguardante 1 motivi che portarono alla stesura del « Libro di pace e concordia ». Nel complesso si può affermare che non vi è dubbio alcuno circa la prevalente matrice nobiliare delle trame dei cappellazzi, anche se queste trame erano ordite fidando nei solidi legami che ancora univano alcuni settori del popolo alle due famiglie dogali. Nonostante tutte le possibili incertezze ed apparenti incongruenze della rivolta antinobiliare, l’esame dei fatti del 1506 ci consegna un risultato importante: se la divisione del popolo era l’obiettivo essenziale perseguito dai nobili al fine di salvaguardare il proprio potere, gli Adorno e i Fregoso erano lo strumento atto a raggiungere tale obiettivo. Su questa base è agevole comprendere quanto importante fosse per il popolo la salva-guardia della propria unità interna. Da queste constatazioni deriva il secondo dei problemi sollevati dal giuramento. Visto con quanta forza era sentita la necessità del rifiuto delle fazioni dogali, è ovvio chiedersi se il tradizionale quadro della rivolta (tutto incentrato sul conflitto tra nobili e popolari) non neghi loro uno spazio che in realtà ebbero. L’opera di Pandiani ci consegna in modo assai ben definito il quadro della rivolta antinobiliare. In tale quadro la volontà del popolo di conservare salda la propria unità contro l’azione disgregante delle fazioni dogali può essere proficuamente collocata: questo è quanto abbiamo cercato di illustrare nelle pagine precedenti. Già la lettura del Diario dimostra tuttavia che esistono altre prospettive da cui osservare le vicende del 1506; prospettive che forniscono ulteriori, utili suggerimenti di carattere generale sul sistema politico cittadino. La sollevazione delle « cappette », per chi studia le cose genovesi, ha un valore del tutto particolare in quanto 33 Ibid., p. 388. — 165 — in essa si esplicitano alcuni meccanismi della realtà politico-sociale che non emergono in modo altrettanto chiaro nei periodi di pacifico fluire della vita della collettività. Se a causa della politica di Luigi XII, chiaramente tesa a favorire la nobiltà, i genovesi si erano divisi secondo la linea più vicina alla realtà dei gruppi sociali esistenti, nobiltà e popolo, ciò non significa certo che quest’ultimo fosse del tutto immune rispetto alla tradizionale capacità aggregativa delle fazioni dogali. Certo il popolo tentò a più riprese di eliminare le parti adorna e fregosa, tuttavia esse svolsero un ruolo attivo e caratterizzante, e costituiscono un’altra indispensabile chiave di lettura dei fatti del 1506. È indubbio che già all’inizio del Cinquecento queste fazioni avessero assunto un carattere clientelare. Il loro legame privilegiato con il popolo era ormai da tempo rotto, ma l’esigenza di partecipare alla gestione di uno spazio istituzionale, il dogato, che ancora esisteva nei termini ereditati dal Trecento, faceva sì che il popolo risultasse in certa misura coinvolto nel dualismo tra Adorno e Fregoso. Esistono alcuni indizi che lasciano intuire come la componente popolare delle due fazioni dogali si diversificasse per l’area sociale di provenienza. Tale diversità è difficile da dimostrare per oggettivi problemi di documentazione34 ; deve però essere considerata in quanto sembra aver influito sul ruolo dei due gruppi nel periodo della rivolta. Pur ribadendo il carattere ipotetico di quanto diremo, è necessario saggiare la capacità esplicativa di un’indicazione al riguardo contenuta nel Diario. Accennando alle controversie tra adorni e fregosi che il 20 novembre portarono ad un ennesimo giuramento, l’anonimo diarista afferma: « perché le parte se accendevano per li contegni usavano quelli del color adorno e de populo grasso, per che la magior parte sono di questo color, li animi se accendevano in le parte e quelli del color fregoso se incomenzavano a resentire »35. Sembrerebbe quindi che gli Adorno avessero l’appoggio della maggioranza dei mercanti e degli artefici più ricchi (così deve essere intesa l’espressione « populo grasso »36). 34 Vedi sopra, p. 27 e sg. 35 E. Pandiani, Un atto di storia genovese cit., p. 345. 36 Non bisogna infatti dimenticare che alcune arti accoglievano al loro interno persone molto ricche che svolgevano attività imprenditoriali e mercantili. L’esempio — 166 — Quest’affermazione, per ora, è purtroppo in minima parte suffragatale su base documentaria (si può solo dire che molti dei Giustiniani e dei Sauli, le due maggiori famiglie popolari di parte bianca, sostenevano gli Adorno) 37; tuttavia essa permetterebbe di capire sia alcune delle situazioni che si vennero a creare nel periodo della rivolta sia i motivi dell’agire delle due famiglie dogali. Anzitutto, se i più ricchi e influenti popolari erano « adorneschi » risulta del tutto plausibile il prevalere, cui abbiamo già accennato, di questi ultimi nelle magistrature. In generale, per quanto riguarda gli equilibri di forza tra le due fazioni dogali, sembra chiaro che la parte degli Adorno era stata favorita dalla cacciata dei nobili; la loro assenza doveva invece aver fortemente indebolito la componente popolare della parte fregosa pur attivamente impegnata nella rivolta. Questo stato di cose spiega anche perché, quando i nobili tentarono di suscitare disordini in città accendendo le contese tra i popolari, la loro scelta si indirizzò proprio su Ottaviano e Giano Campofregoso. Per i Fregoso infatti la minaccia che i moti antinobilari si trasformassero in un consolidato dominio degli Adorno era evidente. I partigiani popolari dei Fregoso non accettavano certo passivamente il prevalere della parte avversa. Se il reinsediamento a Finale, nel settembre del 1506, di Alfonso del Carretto, precedentemente spodestato dal fratello, è interpretabile come un atto voluto dalla fazione classico è quello dell’arte della seta, studiata da P. Massa, caratterizzata dalla figura del mercante-imprenditore che, oltre ad organizzare la produzione di panni serici su scala assai ampia, si occupava anche dello smercio del prodotto finito. Vedi di P. Massa: L’arte genovese della seta nella normativa del XV e del XVI secolo, in « Atti della Società Ligure di Storia Patria », voi. X/II, 1970; Un’impresa serica genovese della prima metà del Cinquecento, Milano 1974, e La « fabbrica » dei velluti genovesi, da Genova a Zoagli, Milano 1981. 37 II « Diario » ci fornisce i nomi di tre Giustiniani « adorneschi »: Bricio, Pietro Battista, Greghetto (E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., pp. 350 e 352). Vedremo poi (sotto, p. 204 e sgg.) come anche altri Giustiniani (Domenico, Gerolamo, Giuliano e Stefano, quest’ultimo personalità di primo piano nella storia cittadina dei primi tre decenni del Cinquecento) erano considerati dagli Adorno indispensabdi consiglieri insieme a due Sauli (Domenico e Francesco). Bisogna però tener presente che proprio i Giustiniani figurano in massa tra i firmatari del « Libro di pace e concordia », a testimonianza della fluidità del quadro politico genovese di questo periodo. — 167 — degli Adorno3S che in quella località del ponente ligure avevano una tradizionale base di appoggio39, allorché nel dicembre gli « adorneschi » chiesero insistentemente che si andasse in soccorso del marchese minacciato dai nobili, « li fu resposto, se lo signore de Finale haveva paura di perdere la signoria, consignasse le fortezze a San Georgio che li faria bono partito e se prenderla l’impresa ». Erano evidentemente i sostenitori dei Fregoso a non essere disposti ad impegnare il comu- . ne in uno sforzo che avrebbe inevitabilmente favorito la parte avversa. Il Diario continua in questi termini: « Inteso questo hanno cambiato parole [gli Adorno] e tramavano infra loro darli socorso e questo facevano perché quello loco era stato sempre lo refugio loro, perché quelli che sono fora [i Fregoso] sono con la santità di nostro signore »40. La stessa revoca dei commissari deputati all’impresa di Monaco nel dicembre 1506 era legata ai timori per i rapporti assai sospetti che intercorrevano tra i Del Carretto, gli Adorno e i Grimaldi (l’altra grande famiglia di nobiltà guelfa, insieme ai Fieschi, tradizionale sostenitrice degli Adorno). Alcune lettere segrete, consegnate da un certo Ferro della Pira da parte del marchese del Finale ai soli commissari di parte adorna, fecero scattare il provvedimento41. Anche le ripetute accuse lanciate dall’anonimo diarista, simpatizzante dei Fregoso, contro « ladri e traditori » che tentavano di affossare l’impresa di Monaco sono evidentemente dirette contro gli Adorno che, memori dell’antica alleanza con i Grimaldi, avrebbero a suo giudizio ostacolato le operazioni militari dell’assedio42. Il fatto che le fazioni dogali fossero tanto radicate nella realtà cittadina e capaci di dividere così nettamente il popolo genovese spiega perché a più riprese, durante la rivolta, fu necessario cercare un equilibrio nell’apparato istituzionale tra i sostenitori degli Adorno e dei Fregoso, rinunciando implicitamente all’unità del fronte popolare, o meglio perseguendo tale unità non a prescindere dalle parti dogali ma 38 E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., pp. 333-334. * 39 Ibid., pp. 347-348 e 360. 40 Ibid., p. 348. 41 Ibid., p. 350. 42 Vedi ad es. ibid., pp. 362, 363, 367 e passim. — 168 — * tramite una loro paritetica presenza nei posti di comando. Così deve essere interpretata la pratica dell’imborsamento come descritta nel Diario alla data del 12 novembre: vennero quel giorno « insachetati » cento nobili, cento mercanti, e duecento artefici (poi ridotti anch’essi a cento tramite sorteggio) tutti « acoloriti », cioè « metà della volta fre-gosa e metà della volta adorna»43. Il 21 dicembre, poi, a seguito della già ricordata polemica sulla prevalenza degli « adorneschi » negli uffici, si decise di formare una magistratura di otto membri, « cioè quattro per parte », con il compito di correggere tale squilibrio 44. Anche la rappresentanza artigiana creata il 17 febbraio 1507 con la « cura de pacificare la terra » era composta da dodici membri « cioè sei per colore »43. La pacificazione perseguita dai firmatari del « Libro di pace e concordia » non era quindi l’unica strada per neutralizzare la forza disgregante che, per il popolo, avevano le fazioni dogali. Se ciò dimostra ancora una volta la complessità di un quadro politico in cui l’ideale unitario non aveva ancora conquistato unanimità di consensi, rimane intatta la validità di un progetto che si sarebbe alla lunga rivelato vincente. Il terzo problema che il « Libro » ci aveva posto riguardava la sua inconciliabilità con la tradizionale tesi sul carattere puramente strumentale dell’alleanza tra popolo e plebe durante i moti del 1506. In una recente opera di sintesi sulla Genova moderna si parla appunto della rivolta nei termini di un « incauto tentativo [da parte dei popolari] di usare la plebe contro i nobili » e di « una coalizione popolare-plebea [...] nata come espediente tattico in una contesa faziosa relativamente tradizionale »46. Una siffatta tesi, oltre ad impedire la comprensione dell’originalità del contesto cinquecentesco, estremizza in modo discutibile i termini dell’analisi di Pandiani che a più riprese aveva messo in risalto le diversificazioni economiche, sociali e politiche presenti all’interno del popolo e, ovviamente, tra questo e la plebe. Analisi quest’ultima senza dubbio corretta che, tuttavia, anziché aggiungere una « Ibid., p. 344. 44 Ibid., p. 352. « Ibid., p. 372. ^ C. Costantini, La Repubblica dì Genova cit., pp. 13-14. — 169 — ulteriore articolazione dell’indagine, ha indotto ad una lettura troppo schematica; ha cioè portato a sminuire il significato della solidarietà interna al « populo genoese » inteso nell’accezione più ampia. Paradossalmente, il dato fondamentale del popolo in rivolta è rimasto sullo sfondo, relegato in secondo piano. Si è dimenticato che mercanti, artefici e plebe, nonostante le disparità di fortune e di prestigio, avevano trovato, nell’opposizicne alla nobiltà e su problemi concreti quali la giustizia e la ripartizione degli uffici, le ragioni di un’allenza difficile ma non fittizia. È ovvio che il grido « viva populo »47, con cui la massa degli artigiani si presentava sulla scena politica per rivendicare un proprio autonomo ruolo, ha un significato complesso. Il « popolo » cui inneggiano i « minuti » non è, o meglio non è solo, quello che troviamo richiamato nelle Regulae. Anzi, è del tutto evidente che quel grido fu talvolta motivo di angoscia per i ricchi mercanti ed artefici che godevano del diritto di accesso alle magistrature. E non si tratta, come si è affermato, dell’ambiguità di una terminologia politica incapace di dar conto della reale articolazione delle forze sociali48, né del carattere mitico dell’idea di « popolo », residuo di un lontano passato medievale. Dietro questa presunta ambiguità c’è il complesso e stratificato mondo cittadino; ci sono, persistenti, i fattori di solidarietà e di divisione tra i gruppi sociali. È il prevalere, alterno, degli uni o degli altri che, nelle diverse situazioni, dà un significato concreto al termine « popolo ». La citata istruzione del 6 agosto ci aiuta a comprendere la complessità dei rapporti tra le forze sociali impegnate nella rivolta. Nel descrivere il contegno dei nobili nel giugno 1506, vi si parla di alcuni qui has nobilium insolentias ad totius populi contumeliam referebant, e fu la plebe a prendere le armi: nam minimi quidam ex ipsa plebe, abiecta patientia, et furoris calore incensi, sumptis armis, per civitatem discurrere ceperunt·, qui, ut in magno populo accidere solet, hanno trasmesso il contagio della sommossa al resto della città. Ecco che nel descrivere l’inizio dei moti i termini popolo e plebe si sovrappongono, tendono a fondersi senza tuttavia riuscirvi completamente. Compaiono infatti subito i cives boni che, contristati da tanta violenza, si adope- 47 Vedi ad es. E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 340 e passim. 48 C. Costantini, La Repubblica di Genova cit., p. 9 e sgg. — 170 — rano per sedare i tumulti di piazza. Troviamo poi descritta la sollevazione del 18 luglio: verum, ita furente iam prope universa plebe contra nobilitatem et petente reformari particionem officiorum civilium in quibus se male tractari dicebat, eo quod nobiles medietatem illorum habentes, universum populum sibi su-biectum faciebant49. La gran massa dei genovesi (universa plebe) prese le armi per chiedere una riforma che riscattasse tutto il popolo (universum populum). Popolo e plebe combattevano quindi una comune battaglia su un problema, quello della giustizia, che coinvolgeva indistintamente tutta la collettività. La legge dei due terzi era un obiettivo verso cui convergeva l’azione anche di forze estranee alla classe politica propriamente detta. Né la tesi sul « carattere privatistico del comune cittadino », né la visione generale della storia politica come storia dei ceti dirigenti danno conto di queste solidarietà. La vita del comune era una « dimensione del politico » in cui, per vie diverse dalla partecipazione ai pubblici uffici, si muovevano tutte le forze sociali urbane; i gruppi che componevano il ceto dirigente non rappresentavano mai unicamente se stessi; in quanto produttori di ideologie tese alla creazione di consenso essi dovevano in qualche modo recepire le istanze che provenivano dalla società. Lo stesso documento ci mostra ancora la plebe che, non soddisfatta delle risposte del luogotenente Roccabertino, acrius instabat ut requisitioni suae annuere vellet. Subito dopo la descrizione della riforma ci si premurò tuttavia di chiarire che essa non era stata indotta a fluctuatione minute et infime plebis ma da ben altre ragioni e che, per quanto riguarda i tumulti (de ipsa commotione plebis), cives omnes boni, tam mercatores quam artifices, plurimum atque plurimum doluerunt, qui iusticiam suam in dictis officijs per talem viam nullo modo experiri voluissent. I buoni cittadini avrebbero preferito subcumbere et in subiectione qua erant permanere, quam simili via armorum aut quavis alia preter quam civili procedere, ma, si afferma, fuit, ut credi potest, voluntas Oei che le cose andassero in questo modo50. 49 E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 433 e sg. 50 Ibid., pp. 434-436. — 171 — Quello tra popolo e plebe era un rapporto difficile, in cui la coscienza della diversità non impediva la ricerca di un comune terreno ideologico-programmatico e rivendicativo. Scorrendo le pagine del Diario troviamo un continuo alternarsi di momenti di attrito e riti di pacificazione in cui si incontrano, di volta in volta, contrapposti o solidali i « minuti » e il « popolo grasso ». Traspare spesso una maggior prontezza degli artefici nel reagire alle situazioni di pericolo. Ad esempio, nel settembre 1506, quando si sparse la notizia che i nobili avrebbero attaccato la città concedendone il saccheggio alle proprie truppe, una parte del populo, lo grasso, havea noticia di questo caso, era atterriti e [. . .] chi ne ha liberato è statto la volontà di Dio, che ha inspirato lo populo menuto che, contra la volontà del populo grasso, hanno preso 1 arme e con tanto amore e velocità che non è persona al mondo che lo potesse credere51. In altri momenti si evidenziarono profonde divergenze sulle decisioni da prendere che rischiavano di portare allo scontro armato all interno del popolo: sempre nel settembre la perdita di La Spezia, riconquistata per i nobili da Filippino Fieschi, suscitò gravi sospetti nel popolo minuto che fu per ponersi in arme, o tagliar a pezi alcuni di populo grasso, che, a mio giudicio, saria stato di necessità con sei o otto artexani, che oviavano ogni giorno il spendere in quello faceva di grande necessità52. Allorché nel febbraio 1507 i magistrati genovesi decisero di consegnare al re di Francia, nominalmente ancora signore di Genova, le fortezze delle riviere strappate ai nobili, una « grandissima moltitudine de populo minuto » si recò al palazzo pubblico proferendo « grandissime mi-nacie de tagliare a pezi chi [i moderati] parlava di dare le Rivere al governatore »53. Tuttavia non mancarono i momenti di solidarietà. Il 21 dicembre, ci informa il Diario, « non se potria estimare l’unione, amor se mostravano con effetti in tutto lo populo »; ognuno voleva dare il proprio contributo per sostenere l’impresa di Monaco: « tutte arte se of- 51 Ibid., p. 329. 52 Ibid., p. 332. 53 Ibid., p. 372. — 172 — ferseno chi de denari chi de fantieria, [...] il simile quelli de popu- lo grasso davano denari ». Né mancano le dichiarazioni sulla inscindibilità delle varie componenti del popolo: quando furono nominati dagli artefici 12 loro rappresentanti per il controllo dell’attività delle magistrature « pubbliche », subito si riunirono in la capella delli scrivani certa somma da mercadanti con li 12 artegiam e ivi esposeno che li pareva bene ellegere altri tanti mercadanti in compagnia loro, acioché non paresse volere partir l’ongia dalla carne e la carne da l’ongia M. Se è indispensabile essere consapevoli che i gruppi impegnati nella rivolta erano profondamente diversi per status sociale, e, in parte, per obiettivi e strategie politiche, bisogna però ricordare che la convergenza verificatasi nel 1506 fu molto di più di una momentanea unità d’intenti. Siamo quindi di fronte ad una realtà politico-sociale complessa, polivalente, difficilmente interpretabile con strumenti concettuali non dotati della necessaria duttilità (ed in ciò una concezione verticistica ed elitaria della lotta politica è altrettanto, se non più, inconcludente dell’interpretazione classista). Se il popolo non era una compatta unità, se era percorso da divisioni interne sia di carattere sociale (mercanti-artefici) sia di carattere più propriamente politico (adorni-fregosi), questo stesso popolo all’unità tendeva con forza e coscienza degli imperativi dettati dal proprio ruolo. È facile immaginare 1 importanza che l’elaborazione del concetto di un’unione del popolo ebbe nel sostenere, sia da un punto di vista ideologico che pratico, la lotta contro la nobiltà. Quella lunga serie di giuramenti che si susseguirono senza^ sosta nei mesi della rivolta provano sia il sussistere di profonde divisioni aH’interno del popolo, sia la coscienza di una sua fondamentale unità che le trascendeva; voler ridurre questi momenti di solidarietà a sem plici espedienti posti in essere da minoranze alla ricerca di consenso, considerare la gran massa dei genovesi una semplice forza d urto ma novrata da poche famiglie eminenti, è una razionalizzazione fuorviarne. I motivi per cui si giunse nel 1506 alla stesura del « Libro di pace e concordia » dovrebbero essere, per quanto detto sin qui, sufficientemente chiari. Spiegare come e perché la volontà di costituire un sal- 5+ Ibid., p. 373. — 173 — do blocco politico popolare in opposizione alla nobiltà si trasformò nell’ideale di una « unione » di tutti i « cives » in un « unicus ordo » è l’obiettivo essenziale che cercheremo di raggiungere nel prosieguo del lavoro 55. Già da ora è però possibile mettere in luce le potenzialità insite in questa prima forma in cui si elaborò un’ideologia fondata sul rifiuto delle fazioni. A tal fine è utile chiarire in che modo vennero usati nel « Libro » termini come « factione », « seta » e « divisione », ed a cosa gli estensori del testo intendessero con essi riferirsi. L’ultimo problema postoci dal giuramento riguardava la contraddizione tra l’intento di estirpare tutte le divisioni « non excludendoni nisuna » e la dichiarata volontà di rispettare la legge del 19 luglio che sanciva la rilevanza istituzionale dei gruppi nobile e popolare. La contraddizione è tuttavia apparente e può essere spiegata proprio ricorrendo al testo delle leggi del 1506. Nel decreto de reformatione officiorum si afferma: cum sit quod ordines civium in nostra civitate in tres partes divisi sint nobiles, mercatores et artifices, sintque isti duo ordines de populo, ut hic habeatur pro lege et inviolabile decreto, quod de cetero ab hodie in antea omnia officia civitatis Ianue, incipiendo a Magnificis Dominis Antianis cuiuscumque auctoritatis dignitatis preminentie quocumque nomine appellantur sive parva sive magna, et demum ut sub uno vocabulo omnia comprehendantur, fiant et sint hoc modo: videlicet due tertie partes conferantur popularibus, hoc est hominibus de populo, et reliqua tertia pars nobilibus, ita et taliter ut sive in magno sive in parvo numero semper tertia pars sit nobilium, et due tertie partes sint popularium cum prius pro dimidia fierent56. Mancano studi sul linguaggio politico e legislativo, e ricerche in È inutile sottolineare che questa lettura delle fondamentali linee di sviluppo della storia genovese del primo Cinquecento, pur mantenendo la centralità del fenomeno dell « unione », ribalta la tradizionale tesi secondo cui, come è stato recentemente scritto, « è già nei provvedimenti e negli istituti elaborati durante e dopo la repressione del moto plebeo del 1506-7 — per esempio in direzione di un più stretto controllo politico e poliziesco dei corpi artigiani — che vanno ricercati i precedenti più significativi della formula di governo adottata nel ’28 » (C. Costantini, La Repubblica di Genova cit., p. 14). Noi al contrario siamo propensi ad individuare i presupposti della riforma unitaria del 1528 non nella repressione dei moti del 1506, ma nelle energie che i moti liberarono, nella presa di coscienza che essi imposero di alcuni meccanismi di fondo del sistema politico genovese. 56 ASG, ms. 137, cc. lv.-2 r. - 174 - questo senso contribuirebbero senz’altro a chiarire le differenze strutturali tra i vari sistemi di fazione. Tuttavia, il fatto che nel testo della legge gli « ordines civium in nostra civitate » vengano designati proprio con i termini « nobiles », « popolares », « mercatores » e « artifices » autorizza a pensare che questi termini costituissero il supporto concettuale in base al quale i genovesi del primo Cinquecento interpretavano non solo la vita politica, ma anche la realtà socio-economica urbana. Nei documenti, allorché si fa riferimento all’assetto politico-istituzionale creato nel luglio del 1506, è sempre utilizzato il concetto di « ordo ». Così nella lettera al re di Francia del 21 luglio: « essendo la cità sotto trei ordeni, soè nobili, mercadanti e artexani, li quali mercadanti e artexani comuni ter si domandano populo »57; così in quella al Governatore Philippe de Clèves della stessa data: « sapiando corno sono divisi li ordeni de li citadini de la cità, soè nobili, mercanti ed artexani de la cità corno dé bene intendere vostra excellentia per ha-verne qui tanto tempo governato »58; in quella al Papa Giulio II del 30 luglio: ut sunt ordines civium in tres partes divisi·, nobiles, mercatores et artifices, ita tripartito civilia officia dividerentur, que prius inter nobiles et eos quos de popullo appellamus per dimidia conferebantur59 ; e nella citata istruzione del 6 agosto all’Oderico: quod officia civilia de cetero conferri deberent pro tercio nobilibus, mercatoribus, et artificibus, sicut civitas hec per ipsos tres ordines distinguiturω. Che il termine « ordo » abbia un significato sociale oltre che politico ce lo conferma un altro suo utilizzo. In un’istruzione del 21 dicembre 1506 inviata dagli Anziani agli ambasciatori presso il re di Francia, Nicola Oderico, Paolo de Franchi e Simone Giovo, si rende noto che « hano deliberato questi nove eletti de la plebe [i tribuni] de mandare a la prefata maestà due de l’ordine loro, per maiore satisfactione de ogniuno »61. Dunque anche la plebe è un ordine e non solo i nobiles, i mercatores e gli artifices; lo è tuttavia in un’accezione 57 E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 422. 58 Ibid., p. 425. 55 Ibid., p. 427. «> Ibid., p. 434. 61 ASG, Archivio Segreto 2177. — 175 — diversa. I tre maggiori sono ordines civium e cives si è in rapporto al Comune come entità politica. Loro è l’incondizionato possesso di uno spazio istituzionale da cui la plebe è esclusa. Il decreto con cui Filippo Roccabertino concesse i due terzi dei pubblici uffici ai popolari ci aiuta a capire queste distinzioni. Per l’autorità conferitagli egli dat et libere concedit populo Ianue seu hominibus de populo Ianue et vult quod de cetero habeant duas tertias partes in omnibus officiis et ex nunc dat illis et concedit liberam et effectualem ac realem possessionem dictarum duarum tertiarum partium dictorum officiorum62. È degna di nota l’esigenza di circoscrivere il significato del termine popolo. Esso, l’abbiamo visto, veniva usato per indicare sia la totalità degli abitanti non nobili, e quindi anche la plebe63, sia 1 insieme dei due ordines civium dei mercatores e degli artifices64. Con la specificazione seu hominibus de popolo si cercava di eliminare il possibile equivoco: al popolo, come gruppo politico definito e legalmente riconosciuto, veniva attribuita la possessionem libera, effettuale e reale dei due terzi degli uffici. Il rimanente terzo era, implicitamente, ap-pannagio dell’ordine dei nobili. I cives sono quindi il « comune », sono coloro che, suddivisi in ordini, occupano di diritto un’area politica definibile, con un termine equivoco ma difficile da sostituire, come pubblica. Gli Anziani genovesi ci danno testimonianza del significato della parola « ordine » applicato alla plebe allorché, parlando dei suoi due ambasciatori, lasciano intendere la loro estraneità alla sfera pubblica del « Comune »: i due « dicono volersi de subito spaciare [quindi l’iniziativa è del tutto autonoma e non soggetta al controllo delle magistrature] sì che venendo, in la gionta loro li dareti introductione e ogni informatione necessaria facendoli li onori e altre comodità possibile »6S. Dunque gli ambasciatori del comune dovevano prestare tutto il loro aiuto ai due rappresentanti della plebe. Questi ultimi tuttavia risulta- 62 E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 421. 63 Vedi sopra, p. 170 e sgg. 64 Vedi sopra, p. 25 e sgg. 65 ASG, Archivio Segreto 2177, istruzione del 21 dicembre 1506. — 176 — no chiaramente essere emanazione di un’entità diversa e ben distinta da quella per cui prestavano la loro opera l’Oderico e compagni. Se quindi non è lecito sovrapporre l’area semantica coperta dal termine ordo in quanto riferito alla plebe da un lato, e ai cives dall’altro, resta comunque il dato di fondo dell’ineliminabilità, della permanenza di tali categorie, e ciò in quanto esse costituiscono la struttura del corpo sociale. Nella legge dei due terzi in modo esplicito, nel « Libro di pace e concordia » implicitamente, nobiltà e popolo non sono fazioni ma « ordini », realtà dalle quali è impossibile prescindere (come vedremo nobili o popolari si nasce e si resta sino alla morte senza possibilità di equivoco). Le fazioni, si afferma nel giuramento, sono invece il frutto dei « reprobati nomi » di adorni e fregosi, e di guelfi e ghibellini che, affondate le loro radici nell’animo dei genovesi, sono stati « la principal causa de tanta ruina ». Le fazioni sembra vengano percepite come un qualcosa di estraneo al corpo sociale, una sovrapposizione dagli effetti disastrosi che per questo deve essere estirpata in nome della « concordia pace e sancta unione » dei cittadini. Se tuttavia ci discostiamo dai testi legislativi e dai documenti che ne descrivono il contenuto, è possibile vedere come nobiltà e popolo potessero essere concepiti in modo diverso da quello sopra descritto. Nel dicembre del 1506 si trovarono contemporaneamente presenti davanti a Luigi XII due ambascerie genovesi, una inviata dal governo popolare, l’altra dai nobili fuoriusciti. L’Oderico, inviato popolare, raccontò in una lettera del 5 dicembre l’esito di un’udienza reale svoltasi due giorni avanti66. I nobili, ricevuti da Luigi XII in presenza del legato, del Cancelliere e di tutto il Consiglio regio, furono accolti dal sovrano « cum grande honore siandose levata sua maestà et stando in piedi ». L’Oderico comprese subito la piega che avrebbe preso la situazione: essendo l’udienza pubblica i nobili avrebbero cercato in ogni modo di « deprimere questo populo et exaltar la nobiltà per induer sua maestà et li astanti a indignacione contra questo populo ». Egli era ben cosciente del clima sfavorevole che lo circondava « perché già avia 66 Ivi. È indicativo che in questo documento l’Oderico parli di Genova come Repubblica. Il termine non è aderente al contesto istituzionale del dominio francese ma il suo utilizzo è del tutto comprensibile nel clima politico della rivolta. — 177 — sentito vociferar per questa corte che era inconveniente la plebe ignorante dominasse et che li nobili in ne li quali regnava la prudentia fu-seno scaciati », ed aveva a più riprese tentato di convincere 1 « principali de questa corte » facendo loro conoscere « la qualità e la condicione de questo populo la quale era apta et suficiente a lo guberno non manco de loro [i nobili], et che ad ogni modo a loro era data la sua parte ». Nel corso dell’udienza Stefano Vivaldi, un « dottore » a capo della rappresentanza nobiliare, fece una oratione asay breve, ne la prima parte de la quale dice che obme-teva le laude regie corno cosa notissima et che etiam obmeteva la laude de la nobiltà non volendo far corno avia fato l’ambasatore de la sediciosa plebe [lo stesso Oderico] lo qual havia laudato la plebe, qua laus cum ore proprio sordesit; ne la seconda devene a la naratione como dicti nobili erano stati ingiuriati atrocementi per instigatione de alcuni, et che aviano patito stupri, adulterij, rubarle et morte, et che erano stati constreti abandonar la tera et le proprie caze, loro mogliere et figlioli, havendo fato tanti beneficij in questa tera, imperò che tutto quel che se ritrovava de bono in quella era stato per loro, corno demostravano le struture et edificii de cieze et templi et consti-tucione de elemosine, così per li moderni corno per li predecesori, li quali in testimonium huius ducebant de marmore vultus, poi dixe che ben se seriano vendicati de questa plebe la quale tuta o la maior parte ducebat originem da le lor ville et castelli se non fusse stato el respecto che aviano avutto a Sua Maestà soto la protetione de la quale existimavano essere securi 67. Vista l’accoglienza favorevole riservata dalla corte alle ragioni addotte dal Vivaldi, l’Oderico si sentì in dovere di intervenire: Suplicay a Sua Maestà che attento che publicamenti era stato offeso questo excelso senato et populo, che etiam publicamenti me fusse permiso iustificarlo et così mi fu conceso [. ..] Me parse al proposito tochar due parte principale contra la depresione del populo et le allegate iniurie, el resto reservarmi corno dirò inferius, et questo li dixi che indebitamenti, et contra verità questo populo non era da apelarsy plebe, però che in quell non li manchavano gran numero di nobili re et effectu, imperò che tra quello li erano connumerati doctori, cavaleri, conti, admirati, capitaney de exerciti et li duci che erano stati de 67 L’accenno del Vivaldi alle statue di nobili benemeriti va riferito alle sculture in onore di chi aveva fatto consistenti lasciti a San Giorgio (ancora conservate nell’omonimo palazzo). — 178 — la tera et molti li quali e de antiquità, richessa et gloria rerum gestarum non solum se li equavano et inguaiavano ma etiam li antecedevano corno se potia demostrar et per il passato et per il presente, et che la sua nobiltà era più presto una certa compagnia la qual s’era voluta separare da li altri per di-stintione de certe famiglie, le quali excepte, niuno per quanta dignità havesse in questa cità se apelava nobile contra ogni raxone scripta et non scripta, et tanto più che ne loro exercicy non erano differenti da li altri, excepto alcuni pochi, vivendo ogniuno così nobili corno altri de exercitio de nego-ciacione 68. Argomenti simili vennero avanzati in un’istruzione ai tre oratori inviati al Clèves nell’agosto del 1506, in cui si nega ai nobili qualsiasi diversità di status. Sia questi che i popolari, vi si afferma, « se possono più tosto appellare tutti mercadanti »: in questa cità quelli che se ihamano Gentilhomini non sono più nobili che multi de quelli se ihamano populari: né per antiquità né per sangue né etiam per honori o altre dignità consequite: né epsi populari, mancho nobili cha epsi ihamati Gentilhomini: li quali, re vera, se possano più tosto appellare tutti mercadanti: ma questa essere più presto una division de colori antiqua-menti pervenuta da factione como è de ghibellini e guelfi, et variatosi spesso le forme de li gradi loro secundo che sono occursi li regimenti della terra; non diciamo però questo perché a la vera nobiltà non si habia sempre quello debito respecto che si conviene69. Infine, il problema dell’infondatezza delle pretese di superiorità dei nobili genovesi è affrontato in un’altra istruzione, questa volta per 1 O-derico, redatta tra il 7 e l’ll agosto 1506, in cui lo si invita ad illustrare al re che hec nomina nobilitatis et populi, licet alibi generalia sint, 68 II Diario (E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 351) alla data 19 dicembre riferisce che a Genova la lettera dell’Oderico fu accolta favorevolmente (sull’originale si trova come giorno di arrivo il 17, ma può darsi che la notizia ed il contenuto della missiva abbiano impiegato un paio di giorni per uscire dal palazzo, e comunque il Diario non è sempre preciso nelle date) : il re « haveva dato audien-za alli gentilhomini ch’erano andati nella audienza; a caso se li trovò lo spettabile dottore Nicolò Oderigo nostro primo ambasciador, lo quale ha fatto lo debito suo honorevolmente e reprobò tutte le loro parole, taliter che restorno tutti confusi e la sua contradicione fu accetata da tutta la corte ». 69 ASG, Archivio Segreto 1817, istruzione del 7-8 agosto del 1506. Vedi E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 26. apud nos re vera esse nomina factionum, le parole nobiltà e popolo a Genova non indicano cioè come altrove la discendenza da una stirpe, rimandano bensì all’appartenenza ad una fazione sicut videtis esse guelfos et gibellinos; da ciò deriva che populares nobilibus non emulantur tamquam superioribus, quoniam hac ratione inter populares plurimi sunt qui et rebus gestis, ut alias diximus, et virtute ac titulis plurimos eorum antecellant. Ex quo si forte apud regem iactatum fuisset nos nobilitatem contemnere, non credat huiusmodi delatoribus, quia illam, ut decet, in precio ponimus, et vere nobilium dignitatis rationem, ut decet, semper habemus70. Ci siamo dilungati in queste citazioni perché esse costituiscono un prezioso surrogato di una pubblicistica politica che, assente nel primo Cinquecento, inizierà a fiorire solo nella seconda metà del secolo . Questi brani lasciano intravedere molto delle cause della rivolta e dei motivi di incomprensione che determinarono alla lunga la rottura tra Genova e la monarchia francese. È chiaro che a corte circolavano idee sulle realtà socio-politiche urbane inapplicabili al caso genovese. Noi dovremo tuttavia concentrare la nostra attenzione su quanto concerne più strettamente le categorie con cui da parte popolare veniva interpretata la dialettica politica interna. Il problema è spiegare la contraddizione tra l’utilizzo del termine « ordine » e quello di « fazione » in riferimento ai gruppi nobile e popolare; o meglio, chiarire che non di contraddizione si tratta ma di complementarietà, una complementarietà, come avremo modo di vedere, oltremodo feconda. Si è rilevato che il termine ordo era utilizzato nei testi legislativi. È altrettanto evidente che quello di « fazione » era impiegato allorché da parte popolare ci si trovava a dover controbattere le pretese di superiorità avanzate dai nobili. Siamo cioè, in questo secondo caso, nel campo della polemica ideologica, della contrapposizione tra due modi antitetici di interpretare la realtà cittadina. La visione nobiliare è facile da identificare: da una parte stanno i nobili, da sempre autori 70 ASG, Archivio Segreto 2707/C. 71 Ci riferiamo al copioso materiale prodotto nel ventennio precedente le leggi di Casale del 1576 che è stato rinvenuto da R. Savelli e valorizzato nel suo lavoro La Repubblica oligarchica cit. — 180 — di « tanti benefici in questa tera », cui spetta il merito di « tutto que- lo che se ritrova in quella de bono »; dall’altra tutto il resto dei genovesi qualificabili in modo generale come « plebe ». Un’ideologia quindi strutturalmente basata su un assunto di diversità, di divisione, di estraneità rispetto alla restante parte del corpo sociale. La visione dei popolari si richiama invece alla specificità del caso genovese: qui, affermano, la nobiltà non è come altrove emanazione di una stirpe depositaria di un particolare stile di vita, essa esercita la mercatura al pari degli altri cittadini. Negare la sua superiorità non significa mancare al « debito respecto » che si conviene ai veri nobili, ma constatare un dato di fatto. Una visione quindi che afferma l’omogeneità del ceto dirigente cittadino, la sua unità nell’esercizio generalizzato di attività commerciali e produttive. Il passo successivo è inevitabilmente quel- lo di ridurre la nobiltà al rango di fazione al pari dei « nomi » di guelfo e ghibellino, senza alcun richiamo a diversificazioni di carattere sociale. A questo punto sembra legittimo stabilire un parallelo tra il binomio ordine-fazione applicato alla nobiltà dai protagonisti della rivolta e presente nella visione popolare della realtà politica, e il binomio cooptazione-eliminazione proprio della concreta prassi di riforma seguita nel 1528; cooptazione cioè nell 'unicus ordo di tutti i cives dotati di diritti politici, fossero essi nobili o popolari, e contemporanea eliminazione dei « nomi » di nobiltà e popolo in quanto atti ad identificare sezioni specifiche e contrapposte del « corpo » dei cives. È in questo senso che avevamo parlato di potenzialità insite nell’ideologia popolare quale si era espressa nel 1506 e di complementarietà dei concetti di ordine e fazione. Essi esprimono ad un tempo la irrinunciabilità alla dialettica politica con la parte nobiliare e la coscienza di un’unità di fondo del ceto dirigente cittadino. Tutto questo, per le ragioni sin qui esposte, era un patrimonio dell’ideologia popolare, inconcepibile per i nobili arroccati nella presunzione della loro superiorità. Tale complesso intreccio di elementi è il presupposto storico fondamentale dell’« unione » del 1528. Non bisogna poi dimenticare che nel popolo del 1506 era già chiaramente presente la consapevolezza della negatività del ruolo delle fazioni, sia adorna e fregosa che guelfa e ghibellina. Mentre per esso i « cappellazzi » erano una fonte di discordia, per la nobiltà svolgevano una duplice positiva funzione. Anzitutto le avevano permesso di proporsi come forza decisiva nella gestione di un settore importantissimo dell’apparato istituzionale, il do- — 181 — gato, che sorto come espressione della supremazia popolare, aveva via via mutato il suo ruolo a causa del progressivo reinserimento dei nobili nella vita politica cittadina. In secondo luogo costituivano lo strumento per rompere l’unità del fronte popolare. L’avversione popolare verso i «cappellazzi», testimoniata così diffusamente nel 1506-7, è importante se si pensa che uno degli obiettivi (e dei risultati) fonda-mentali della riforma del 1528 fu quello di ricondurre gli Adorno e i Fregoso nei ranghi dei comuni cittadini e di spezzare il loro monopolio della massima carica della Repubblica. Tutto ciò, oltre a spiegare il contenuto del « Libro di pace e concordia » (e i motivi che spinsero i firmatari a sottoscriverne il contenuto) , ci aiuta a situarlo rispetto ai successivi progetti di « unione ». Ben diverso, come vedremo, fu infatti il contesto politico del secondo e terzo decennio del Cinquecento, quando, tramontata almeno per il momento ogni prospettiva di egemonia popolare e venuto in primo piano il problema di trovare una stabile collocazione della Repubblica nel sistema delle alleanze internazionali, anche la spinta unitaria si presentò con forme e finalità diverse. L’ideale di « unione » nella sua prima fase sorse sull’onda della spinta antinobiliare con contenuti volti a neutralizzare l’azione disgregante delle « parti » dogali. Già allora, tuttavia, la visione popolare aveva in sé i presupposti perché quest’ideale si trasformasse in qualcosa di diverso, pur conservando molto dei suoi caratteri di origine e del primigenio terreno di nascita. Tali presupposti consistevano nella capacità-necessità che il popolo aveva di considerare se stesso e la nobiltà ordini, e, ad un tempo, fazioni: ordini in quanto ineliminabili ed entrambi necessari per la gestione della cosa pubblica; fazioni poiché so- lo così il popolo poteva controbattere le pretese di superiorità dei nobili, ed affermare quindi l’unità organica del ceto dirigente genovese. Se la sostanza e il merito dell’« unione » del 1528 fu di eliminare le fazioni degli Adorno e dei Fregoso, perché si giungesse a tanto era necessaria la creazione di un’ampia area di consenso frutto del confluire sia dei nobili che dei popolari su posizioni comuni. Negli eventi che seguirono il 1506 vanno ricercate le cause che determinarono la nascita di questa area; cause che, come vedremo, furono legate ai mutamenti del quadro politico internazionale indotti dalle guerre per il predominio in Italia. A quel punto il popolo aveva già pronto un patrimo- — 182 — nio ideale che, formatosi nel « crogiuolo » della rivolta, costituì la base di partenza per il perseguimento di nuovi obiettivi72. Prima di concludere quest’esame dei fatti del 1506 vorremmo aggiungere alcune altre considerazioni sul « Libro di pace e concordia ». Nell’illustrare la « discordia, divisione e parcialità abominanda che sono regnate in la cità de Genoa », i redattori del testo, come detto, citarono soltanto la divisione tra guelfi e ghibellini e quella tra partigiani degli Adorno e dei Fregoso. È interessante però il fatto che venisse stabilito un rapporto di filiazione diretta tra i due tipi di schiera-menti («la division de guelfi et de gibellini [...] ne suscita un’altra di Goalchi et Montaldi, et ultimamenti de Adurni et Fregosi »). Purtroppo sono scarsi i dati che abbiamo sulla composizione dei gruppi che sostenevano le due famiglie in lotta per il dogato; il fatto però che ancora nel Cinquecento per spiegare il loro antagonismo si ricorresse a questo legame originario potrebbe significare che, almeno in parte, la logica della divisione tra guelfi e ghibellini si fosse trasferita in quella adorni-fregosi. Allo stato attuale delle conoscenze è impossibile dire di più al riguardo. Una cosa è però certa e cioè che affermazioni come quelle contenute nel giuramento del 1506, scaturite dal vivo degli avvenimenti, tagliano corto su ogni tentativo di semplificare il quadro politico genovese di questi anni. La divisione tra guelfi e ghibellini, spesso, se non ignorata, almeno ascritta al tradizionalismo di una società arcaica, era invece presente e ben viva nella città e niente autorizza a considerarla un residuo anacronistico di un lontano passato, vuoto di ogni riferimento ad obiettivi politici concreti. Il problema diventa semmai quello di capire quali aggregati di uomini e di interessi si celavano dietro nomi ormai completamente avulsi dal loro significato originario e 72 Non vogliamo certo dare con ciò una falsa impressione di linearità agli sviluppi politici genovesi successivi al 1506. Come vedremo, la presa di coscienza dei mutamenti avvenuti su scala europea e degli adattamenti necessari sul fronte interno fu lenta e non priva di esitazioni e di alternative. Inoltre il concorso all elaborazione dell’idea di « unione » fu assai ampio, e vi trovarono spazio anche alcuni capi delle fazioni dogali: in particolare, un uomo di grande intelligenza politica, Ottaviano Fregoso, e una personalità più modesta, Antoniotto Adorno, che tuttavia seppe farsi guidare da Stefano Giustiniani, l’importanza del cui ruolo non ci stancheremo di sottolineare. in quale clima sociale e politico una determinata polarizzazione potesse imporsi sulle altre. Nel giuramento si ritrova anche un breve ma significativo accenno al sistema in base al quale venivano distribuite le cariche pubbliche. Vi si afferma infatti che nell’assegnare gli uffici si teneva conto « tacitamente » anche della divisione tra adorni e fregosi. Il « tacitamente » è senza dubbio a proposito. Nei testi costituzionali infatti non si incontrano norme relative ad una tale prassi, mentre a più riprese si sancì « apertamente » una ripartizione più o meno paritetica delle cariche tra nobili e popolari e tra guelfi e ghibellini, e vediamo spesso nelle liste di magistrati i nomi degli eletti suddivisi secondo questi gruppi di appartenenza. È molto probabile che nel periodo di dominazione di Luigi XII, durante il quale, come abbiamo detto, la presenza di un governatore straniero risolse a monte il problema della lotta per la massima carica, i partigiani delle due famiglie dogali partecipassero in ugual misura alla spartizione degli uffici. Anche nelle fasi di egemonia di un Adorno o di un Fregoso è comunque sicuro che solo i più compromessi con la fazione perdente erano costretti ad abbandonare Genova, mentre gli altri continuavano ad agire entro le mura cittadine e nelle istituzioni in attesa che uno spostamento degli equilibri internazionali permettesse un nuovo cambiamento di regime. Il testo vero e proprio del giuramento non esaurisce però i motivi di interesse che il « Libro di pace e concordia » ci propone. Il manoscritto è composto di 99 carte di cui solo le prime tre contengono la parte del documento sopra citata; nelle restanti 96 sono elencati i nomi di coloro (1641, tutti popolari) che aderirono alPiniziativa. Ci occuperemo più approfonditamente di questa lista nell’ultimo capitolo. Per ora sono sufficienti alcune note descrittive. Anzitutto precisiamo che il manoscritto è una copia, senza dubbio coeva, dell’originale atto notarile, e redatta con evidenti pretese calligrafiche. L’intero documento, e anche le numerosissime firme, sono di un’unica mano. Le prime 26 carte delle sottoscrizioni contengono nomi seguiti dalla formula affirmo omnia suprascripta cum iuramento oppure affirmo in omnibus ul supra o altre simili. Talvolta si trova aggiunto manu mea o manu propria a significare che la firma è stata apposta dallo stesso giurante. Altre volte uno scribente me Paulo o uno scribente prò eo me Paulo sta a significare che la persona aveva delegato il notaio ad apporre la sua — 184 — firma perché analfabeta o comunque non in grado di scrivere73. Fra questi vi è anche il nome di un personaggio illustre: quello del futuro Doge Paolo da Novi. Riportiamo per intero il testo del suo giuramento: Paulus de Novi confitens se nescire scribere scribente me Paulo de Cabella notario eius precibus suo juramento affirmat in omnibus ut supra14 . Le carte 14 r. e 14 v. contengono l’adesione di 27 membri della ricchissima famiglia/albergo dei Giustiniani, mentre vi sono sparse in altre carte ancora 5 firme che aggiungendosi alle precedenti portano il totale a 32. È da notare che tra essi troviamo Stefano che in seguito sarebbe divenuto uno dei più accaniti fautori dell’« unione ». Dalla carta 14 v. fino alla carta 50 r. i firmatari sono suddivisi secondo 25 arti di appartenenza 7\ Scompare per questi la formula individuale che viene sostituita alla fine dell’elenco dei membri di ogni arte da una formula collettiva. Riportiamo ad esempio quella dei cimatori: Spedati homines Artis accimatorum iuraverunt supradicta scriptura omnia observare et adimplere in omnibus prout in supradicta continentur, eisdem lecta per Cyprianum Folietam notarium loco mei Pauli de Ferrariis notarii et scribe16. II « Libro di pace e concordia » è quindi importante, oltre che per il bel testo e per lo spaccato che ci fornisce della società genovese, anche per la sua articolazione interna che fa intravedere le diverse modalità di accesso delle due componenti del popolo ad un atto di estrema 73 I notai impegnati nella raccolta delle firme furono, oltre a Paolo De Ferrari che sembra coordinare tutta l’operazione, Paolo Cabella (cancelliere della Repubblica) , Antonio Pestarino, Cipriano Foglietta, Giovanni Borella, Stefano Brevei, Vincenzo Raggio e Battista de Martignone. 74 BCB, mr. I.4.9., c. 9 r. 75 Si tratta nell’ordine delle seguenti arti: bombaxiorum (13r.-13v.), accimatorum (15 r. -15 v.), macellariorum (18 r. -18y.), berrectorum (19 r.-20 r.), for-magiariorum (21r.-22v.), speciariorum (23 r. -24 v.), pélipariorum (25 r. -25 v.), vitreorum (26 r. - 28 v.), textorum panorum (28 v. - 31 v.), tintorum (32r.-33r.), copertoriorum (34r.-34v.), coralorum (37 r.-38r.), confectorum cordoanorum (39 r. -40 r.), liberariorum (41 r.), seateriorum (42 r.), magistrorum assie (43 r.-44 r.), calceolariorum (45 r. - 46 v.), cultelariorum (41r.-48r.) berberiorum (49 r. - 50 r.). Si nota l’assenza di alcune arti, quali quelle dei lanaioli e dei notai, e il fatto che solo 17 setaioli aderirono al giuramento. 76 Ivi, c. 15 v. — 185 — rilevanza politica, quale fu appunto questo giuramento. Una cospicua parte di individui (probabilmente mercanti), e tra essi i membri delle maggiori famiglie/albergo popolari, Giustiniani, Sauli, Franchi, Fornari, firmò personalmente; i più invece (gli artefici) diedero il loro assenso dopo la lettura del testo del giuramento fatta da un notaio presso la loggia o il luogo di incontro e di raduno della loro arte. Ciò lascia intuire la struttura diversificata del popolo e quale importanza le arti avessero al suo interno. Un fatto questo che potrebbe in parte riequilibrare la tesi diffusa circa la totale assenza di un ruolo politico istituzionale delle organizzazioni corporative nella Genova del Cinquecento 77. 2. Ottaviano Fregoso, padre dell’ « unione » I maggiori storici genovesi cinque e secenteschi, tralasciando o ignorando la « sancta unione » del 1506, fecero risalire al governatorato di Ottaviano Fregoso il primo tentativo di stabilire nuove regole di convivenza politica. Nelle loro opere, però, quest’episodio viene collocato in momenti diversi, cosa che rende difficile una sua datazione precisa o addirittura sapere se di uno o più tentativi si sia trattato. Purtroppo, le ricerche svolte presso l’Archivio di Stato di Genova non hanno dato finora alcun frutto per l’arco di tempo che va dal 1515 al 1522. Tuttavia, visto il gran disordine che regna nelle filze « atti del senato » e diversorum, è del tutto possibile che ulteriori indagini possano portare a qualche risultato. Ci limiteremo quindi ad impostare il problema sulla base delle notizie raccolte nella letteratura annalistica, cercando di capire il clima politico in cui il progetto di « unione » prese nuovo vigore e nuova forma. Luigi XII, sconfitto il popolo ribelle, durante la solenne cerimonia del giuramento di fedeltà dei genovesi svoltasi 1Ί1 maggio 1507, fece bruciare pubblicamente il libro contenente i vecchi patti del 1499 77 Cfr. J. Heers, Gènes au XVe siècle cit., p. 584 e sgg., da cui P. Massa, L’arte della seta cit., p. 19. — 186 — che regolavano i rapporti tra la città e il re di Francia78. Vennero tuttavia concessi, come abbiamo visto, nuovi privilegi79. In questi fu introdotto un capitolo (il ventisettesimo) dal titolo De evictandis acclamationibus factionum. In esso si stabiliva: ad evictandum tumultus et seditiones [. . .] quod nulli liceat cuiuscunque status conditionis vel gradus existat pro quacumque causa invocare et acclamare Adorno o Fregoso o Populo neque aliam quamcumque invocationem preterquam nomen nostrum Regium et Francie ®°. I trasgressori sarebbero stati puniti irremissibiliter con la pena di morte e la confisca di tutti i beni. Evidentemente la rivolta delle cappette aveva insegnato anche ai francesi che tra le cause maggiori di instabilità del loro dominio c’erano le fazioni dogali. Nonostante gli attriti causati dal Presidente di giustizia Pietro di Sant’Andrea, il periodo del governatorato di Raoul de Lannoy (dal maggio del 1507 al settembre 1508) trascorse senza grandi sussulti. L’opera del Lannoy (fu grazie a lui, come abbiamo visto, che i genovesi ottennero la revoca del mandato al Presidente di giustizia81) fu apprezzata dalla maggior parte dei cittadini, talché « pareva benissimo che il regimento della città fusse regio e non tyrannico »82. Il successivo Governatore, FranQois de Rochechouart, non seppe conquistarsi l’animo dei genovesi e i suoi metodi di governo generarono scontento 83. Nel 1510 la situazione sia interna che internazionale si aggravò notevolmente. Dopo la sconfitta dei veneziani ad opera della Lega di Cambrai, riottenute dalla Serenissima le terre dello stato pontificio che erano state all’origine della guerra, Giulio II si trovava a dover fron- 78 Vedi E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 276 e gli annalisti genovesi in genere all’anno 1507. Il testo dei patti del 1499 e pubblicato in G. Pelis-sier, Documents cit., pp. 483-500. 79 Vedi sopra, p. 59. Il testo dei nuovi privilegi è pubblicato in E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., pp. 533-550. so Ibid., p. 546. 81 Vedi sopra, p. 64. 82 A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXVI r. Il Lannoy è definito, sempre dal Giustiniani, «homo molto virtuoso e da bene», ibid., c. CCLXV r. 83 Vedi B. Senarega, De rebus genuensibus cit., p. 142 e sgg. — 187 — teggiare la minaccia, assai grave per la Chiesa, dell’egemonia francese nell’Italia del nord. Già all’inizio del 1510 erano evidenti le nuove direttrici della politica papale. Giulio II, revocato nel febbraio l’interdetto contro i veneziani, dichiarò guerra nel marzo al duca di Ferrara, alleato di Luigi XII, e stipulò un accordo con gli svizzeri per la fornitura di fanterie: tutte mosse dal chiaro significato anti-francese. In questo clima politico ripresero ad agire apertamente in Genova le fazioni. Il Giustiniani ed il Senarega accennano all’esistenza in città di un’associazione segreta, di parte fregosa, denominata « la Botte » e formata sia di nobili sia di popolari che con il loro comportamento « diedero materie di grande odio, et di gran discordia in la città ». In segno di sfida i « cospiratori » esposero in pubblico una piccola botte di argento nella bottega di un « argenterò » a significare che « loro erano colligati e stretti insieme come le doghe della botte et menavano la città a lor modo »84. La pronta risposta francese venne con gli ordini del re affidati ai commissari Falcon d’Aurillac e Hugues Fournier e consegnati in scriptis al Senato genovese nel luglio del 1510. Già abbiamo analizzato la parte di questo documento relativa alle questioni fiscali e giudiziarie. L’ottavo capitolo affrontò la materia propriamente politico-costituzionale. In esso si notificava che il re era venuto a conoscenza corno ne la cità de Genua se fano certe congregatione, tractati, monopolii, e unione, vulgarmente appellata la botta, per causa de electione de Anziani et altri officiali dessa cità, et che in tale electione molte se cometteno fraude, collusione, et affectione, e li offitii se contribuisseno fra loro uniti85. Per dare conveniente rimedio, e far sì che nell’eleggere i magistrati fosse usata equità « et cessa ogni passione et affectione et che li ydonei et più da bene de la terra, tanto de luna parte quanto de l’altra, siano electi », fu proibito a chiunque, di qualsivoglia grado stato e condizione, « che non presuma da qui avanti fare, né tenere, directe nec per indirectum, mentione alcuna de dicta congregatione, tractati, monopolii, 84 A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXVIr; vedi anche B. Senarega, De rebus genuensibus cit., pp. 133-134; E. Pandiani, Genova e Andrea Doria nel primo quarto del Cinquecento, Genova 1949, p. 82. 83 ASG, Archivio Segreto 1649; vedi sopra, p. 70 e sgg. — 188 — o unione, nominata la botta, né altra simile, né fare alcuna electione de Anziani né de altri officiali secondo dicta affectione »: ciò affinché le cose pubbliche fossero trattate con « sincerità, amore e debito modo ». La pena prevista per i trasgressori era di mille ducati a favore della Camera regia. Luigi XII tuttavia si spinse oltre questo divieto: nel ribadire la sua ferma volontà « che totalmente cessano simile passione e modi » diede incarico al Governatore di stabilire un nuovo modo di eleggere gli Anziani. La materia era estremamente delicata ed i genovesi erano restii ad accettare su di essa un intervento regio. I quattro cittadini deputati a rispondere alle ingiunzioni dei commissari sostennero che sul problema degli Anziani il re era stato male informato, e chiesero quindi che in alcun modo non si alterasse « quel che a tanto tempore citra mai è stato alterato »; in definitiva, con tono ossequioso ma deciso, affermarono se ringratia infinitamenti la Maestà del re per quanto cognosciamo da ogni canto la grande clementia sua, quale supplichiamo se degne ordinare che non sia alterato la nostra forma del vivere, perché quando si facesse, ne seguirla a questa sua devotissima cità grande confusione, il che siamo certi sia alieno da la singulare carità sua verso de quella86 Nei mesi successivi, come abbiamo visto, le questioni militari ebbero il sopravvento e le autorità francesi rinunciarono ad effettuare la riforma dell’Anzianato. Rimane tuttavia la testimonianza del fatto che le fazioni dogali avevano ripreso la loro attività, e che Luigi XII aveva tentato di impedirne il risorgere, anche se la sua azione restò priva di effetti. Già nell’agosto 1510 Giulio II, con l’aiuto di Venezia, iniziò a mettere in atto il suo piano per liberare l’Italia dai francesi, e per raggiungere questo obiettivo era necessario anzitutto cacciarli da Genova. Per ben tre volte nell’agosto, nel settembre e nell’ottobre, il Papa cercò di mettere un doge Fregoso a capo della Repubblica. Questi tentativi fallirono, come fallì Alessandro Fregoso nell’aprile del 1511 quando si introdusse in città con l’intenzione di «eccitar tumulto»87. Le 86 ASG, Archivio Segreto 1649. 87 A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXVII r. parti dogali trovarono un terreno favorevole in questi avvenimenti: il fatto che Genova fosse al centro della guerra fra il papa e la Francia ridiede loro vigore, ed i Fregoso divennero lo strumento di Giulio II, mentre gli Adorno, di necessità e per spirito di autodifesa, si strinsero al dominio francese. Via via che la situazione militare si faceva più pericolosa emersero anche altre forze. Nell’ottobre 1511 il papa riuscì a costituire una larga coalizione anti-francese, la « Lega santa », e nell’aprile-maggio del 1512, dopo la battaglia di Ravenna, gli svizzeri occuparono il milanese. Per difendere Genova fu dato incarico a Gerolamo Fieschi, a Renato di Savoia ed al marchese di Finale di condurre in città duemila fanti, ma, afferma il Senarega, cum suspicio orta videretur, vel vera, vel ficta, conductores quos supra diximus Adurnae factioni favere, creati cives octo, qui animos in concordia continerent et, obliti factionum, regis reique publicae studia amplectantur. Ordinatum insuper est ut factionum duces, quos capellacios vocamus, si eos ad turbandam civitatem venire contingeret, tamquam hostes ejicerent, eorumque potentiae quoquomodo fortiter adversarentur88. C’era quindi chi si opponeva al predominio delle fazioni dogali, ma i tempi erano ad esse favorevoli e la città nei dodici mesi successivi avrebbe conosciuto un periodo di instabilità senza pari nella sua pur tormentata storia. Nel breve volgere di un anno si succedettero ben quatttro diversi governi: dal dominio francese si passò al dogato di Giano Fregoso (giugno 1512), quindi al breve governatorato di Antoniotto Adorno in nome di Luigi XII (soli 23 giorni a cavallo del maggio-giugno 1513) frutto dell’effimera controffensiva francese in Lombardia, ed infine al dogato di Ottaviano Fregoso. La città aveva duramente pagato la lotta fra le fazioni anche dal punto di vista finanziario. L’elezione di Giano Fregoso a Doge era costata alla Repubblica 12.000 ducati pagati al Cardinale Matthàus Schinner, legato pontificio in Germania, come rappresentante della Lega; quella di Ottaviano Fregoso costò ben 80.000 ducati pagati a Ramón di Cardona per l’aiuto 88 B. Senarega, De rebus genuensibus cit., pp. 148-149, vedi anche A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXVII v. — 190 — militare fornito89. I pesanti esborsi sopportati e l’instabilità politica dei dodici mesi precedenti indussero le autorità genovesi ad emanare, Pii luglio 1513, un decretum solennissimum contra eos qui aspirant ducatum ianuensem et ad illum adipiscendum promittunt exteris gentibus magnas pecuniarum summas. Al solenne decreto, che si cercò di fare in modo da garantirne la durata perpetuis temporibus, lavorò una commissione di dodici membri, tra i quali Stefano Giustiniani, con l’aiuto di quattro dottori90. La dichiarazione che troviamo in apertura del documento riveste un particolare interesse: i dodici deputati affermavano di aver fatto la nuova legge considerantes post adventum in Ittaliam exterarum nationum inductum morem fuisse omnibus ante seculis inauditum, ut qui ducatui, gubernacioni, seu regimini, suo sive alieno nomine, ianuensis rei publice aspirant ad principes nationum et duces exercituum recurrunt. In queste parole inizia ad emergere la coscienza del mutamento indotto dalle guerre d’Italia. La presenza e le alterne fortune degli eserciti stranieri nella penisola, cui ricorrevano gli aspiranti al governo della città, di fatto i membri delle famiglie Adorno e Fregoso, erano all’origine sia dell’instabilità politica dello stato genovese sia dei gravi esborsi finanziari cui abbiamo accennato. Il decreto stabiliva che chiunque, cuiuscumque prenominis, familie, dignitatis, conditionis et status, aspirando al governo della città suo sive alieno nomine, avesse cercato aiuto presso principi stranieri promet- 89 Anche al re di Francia erano stati promessi 90.000 ducati da parte degli Adorno, che però « amisso statu » non furono pagati: vedi B. Senarega, De rebus genuensibus cit., p. 165. Il testo dei patti tra Ottaviano Fregoso e il Cardona sono in ASG, Archivio Segreto 2734, e 3096. 90 L’ufficio di Balìa incaricato del reperimento della somma promessa al Cardona volle il parere ed il consenso preventivi di un gran consiglio che si radunò il 22 giugno 1513 (il verbale è in ASG, Archivio Segreto 678), e si concluse con l’elezione della commissione dei dodici cui fu affidato il compito di elaborare il decreto. Quest’ultimo fu completato PII luglio, approvato il 13 da un gran consiglio di 400 cittadini, ed infine ratificato, con alcune lievi modifiche, dai Protettori e dal Consiglio di San Giorgio il 26 (il testo del decreto si trova nel registro sopra citato e in ASG, Archivio Segreto 1649). Su questa vicenda vedi B. Senarega, De rebus genuensibus cit., p. 164 e sg., con note di E. Pandiani, e di quest’ultimo, Genova e Andrea Doria cit., pp. 129-132. — 191 — tendo in cambio denaro sarebbe stato giudicato hostis publicus et rebellis huius civitatis et rei publice et cadat et intelligatur cecidisse in crimen lese maiestatis. Il trasgressore sarebbe incorso nelle pene previste per tale crimine ed i suoi beni, compresa la dote della moglie, sarebbero stati confiscati. Questo decreto era sia un monito contro gli Adorno che stavano cercando presso Massimiliano Sforza l’appoggio per riconquistare la città, sia una condanna del recente operato di Giano e Ottaviano Fregoso che avevano riconquistato il dogato grazie all’appoggio straniero pagato poi con denari della Repubblica; esso era in sostanza il primo tentativo di reagire ad un mutamento profondo dovuto al fatto che dopo il lungo dominio di Luigi XII, durato oltre un decennio e turbato solo dalla rivolta popolare del 1506-1507, si erano riaffermate in primo piano le fazioni dogali in coincidenza con il momentaneo declino dell’egemonia francese nell’Italia del nord: una situazione nuova per il Cinquecento di cui Genova aveva iniziato a sperimentare le gravi conseguenze. È in questo quadro, come tra poco vedremo, che l’ideale di « unione » si riaffacciò sulla scena politica cittadina con caratteristiche nuove, quelle stesse che avrebbe conservato fino ai decisivi anni venti del Cinquecento. Tutto ciò avvenne nel periodo di governo di Ottaviano Fregoso, un periodo assai originale che vale la pena di descrivere brevemente in alcuni suoi tratti. Gli storici cinquecenteschi, e non soltanto gli annalisti genovesi, sono concordi nel tessere le lodi di Ottaviano 91 ; in particolare il Senarega mette in luce due aspetti della sua personalità. Anzittutto egli era alieno da spirito di parte: nam ab omni factionis studio longe abfuit, sine differentia jus dici voluit, et postposito partium respectu, iustitiae cultor praecipuus fuit, ed ancora nullumque discrimen voluit inter factionum homines, in his quae ad justitiam ministrandam pertinerent. Seditiosos facinorososque a familiaritate et sui consue- 91 Ad esempio Guicciardini (Storia d’Italia cit., voi. III, p. 1478) lo definisce « principe certamente di eccellentissima virtù, e per la giustizia sua e per altre parti notabili amato tanto in quella città quanto può essere amato uno principe nelle terre piene di fazioni ». Vedi anche Baldassarre Castiglione, Libro del Cortegiano, Milano 1972, p. 24, e N. Machiavelli, Discorsi cit., p. 353. Una rassegna delle lodi rivolte dai contemporanei ad Ottaviano si trova in L. M. Levati, I dogi perpetui di Genova, studio biografico, Genova 1928, p. 522 e sg., ed E. Pandiani, Genova e Andrea Doria cit., p. 123 e sg. — 192 — tudine amovit, eorumque conjurationes disjecit, quos precedens dux maximi faciebat, cum magno iustitiae et Reipublicae detrimento. Ottaviano era poi uomo di grande religiosità, uso a ricorrere al consiglio di uomini pii, religiosorum praesertim, quos legentes quotidie audire solet, eorumque consilio uti, in his potissimum quae Dei timorem rectamque conscientiam respicerent92. Da un punto di vista politico il governo di Ottaviano Fregoso si distinse subito dai precedenti per il massiccio ricorso a grandi assemblee di cittadini. Una maggiore collegialità nelle decisioni che stava a significare la ricerca di un consenso più ampio di quello proprio ad un governo di parte93. Al riguardo sono indicativi i consigli ad un ipotetico principe che il Castiglione pone in bocca di Ottaviano nel XXXI capitolo del quarto libro del Cortegiano. Da essi emerge un’ideale forma di governo che sembra tener conto delle specifiche caratteristiche del caso genovese. Secondo Ottaviano il principe avrebbe dovuto scegliere « un numero di gentilomini » a formare un « consiglio de’ nobili » e allo stesso tempo far sì « che fossero eletti tra ’l populo altri di minor grado, dei quali si facesse un consiglio populare ». I due organismi, consultandosi reciprocamente sulle « occorrenzie della città » relative « al publico ed al privato », avrebbero assistito il principe nell’attività di governo; « ed in tal modo » concluse il Fregoso, si facesse del principe, come di capo, e dei nobili e dei populari, come de’ membri, un corpo solo unito insieme, il governo del quale nascesse principalmente dal principe, nientedimeno participasse ancora degli altri; e così aria questo stato forma de tre governi boni, che è il regno, gli ottimati, e ’l populo 94. Vari furono i segni della volontà di Ottaviano di proporsi non come rappresentante di una fazione ma di tutti i genovesi. Dopo l’ascesa al potere di un nuovo Doge o di un nuovo « signore », avveniva che 92 B. Senarega, De rebus genuensibus cit., p. 169. Un’altra virtù riconosciuta ad Ottaviano era la carità: infatti egli donava ai poveri buona parte del salarium erogatogli dalla Repubblica (ivi). 93 Vedi, ivi, le note di E. Pandiani e, di quest’ultimo, Genova ed Andrea Doria cit., p. 160. 94 B. Castiglione, Cortegiano cit., p. 311. — 193 — questi facesse dipingere le proprie insegne sopra le porte della città in luogo delle precedenti; così avevano fatto Luigi XII e dopo di lui Giano Fregoso (non Antoniotto Adorno cui mancò il tempo). Ottaviano invece, su consiglio del sacerdote Raffaele Ponzone, ex-cancelliere della Repubblica e bandito dopo la rivolta del 1506-1507, decise che in luogo delle proprie insegne fosse dipinta l’immagine della Madonna e del Bambino con ai due lati quelle dei santi Nazario e Celso che predicarono il cristianesimo a Genova ai tempi di Nerone9S. Un’altro concreto segno degli indirizzi del Doge fu la distruzione della fortezza della « Briglia ». Edificata da Luigi XII nel 1507, questa fortezza era considerata inespugnabile e resistette all’assedio dal giugno del 1512 all’agosto del 1514. Dopo che se ne fu impadronito, Ottaviano la fece radere al suolo nonostante il parere contrario del fratello Federico, arcivescovo di Salerno, che vedeva nella « Briglia » uno strumento atto a salvaguardare in ogni circostanza il potere della fazione fregosa96. La personalità di Ottaviano e la politica conciliatrice da lui adottata -insieme al periodo di instabilità sperimentato negli anni 1512-1513 -sono elementi essenziali per comprendere a pieno il risorgere dell’ideale di « unione ». Il primo ad offrire qualche notizia al riguardo fu Agostino Giustiniani, lo storico genovese più vicino agli avvenimenti (i suoi annali furono stampati per la prima volta nel 1537). Egli, dopo aver descritto il « voltafaccia » del Fregoso, che nell’aprile del 1515 restituì Genova alla Francia assumendo il titolo di Governatore in nome di Francesco I, afferma: Et per che già di qualche tempo inanzi si ragionava di asmorzare le fattioni et le parti della città et i colori, et di fare una unione di consenso di Ottaviano. Si congregorono molti cittadini nel chiostro di S. Lorenzo, et ragio-norono di questa tal unione. Et sopravenne Federigo Fregoso Archivescovo di Salerno fratello di Ottaviano con alquanti della fattion sua, et dimostrò non haver grato quel che si trattava fra cittadini, et usò parole minacciose, e fece detenire Giuliano Giustiniano con alquanti della fattione Adorna, i 9:3 Vedi E. Pandiani, Genova e Andrea Doria cit., p. 136, e B. Senarega, De rebus genuensibus cit., p. 169. 96 Vedi in genere gli annalisti genovesi per il periodo 1512-1515 ed in particolare F. Casoni, Annali cit., ed 0. Foglietta, Istorie di Genova, Genova, Eredi Bar-toli, 1597 (ed. anastatica, Bologna 1969). Inoltre N. Machiavelli, Discorsi cit., p. 353. — 194 — quali non dimeno assai presto furono rilassati, et la cosa dell’unione restò sopita, et non si parlò di quella insino a molti giorni97. Il Giustiniani fornisce un quadro generale nel quale collocare i fatti. Anzitutto una città in cui si sentiva da tempo l’esigenza di estirpare le discordie civili. Quindi i due protagonisti: da un lato Ottaviano Fregoso che, come abbiamo visto, era considerato da molti suoi illustri contemporanei uomo saggio e prudente; dall’altro Federico, fratello di Ottaviano, a quel tempo spirito fazioso per eccellenza che si opponeva a qualunque iniziativa minacciasse il potere del suo casato. Sullo sfondo la difficile convivenza tra le due fazioni dogali che nell’incerto panorama internazionale delle guerre d’Italia stavano dominando la politica genovese. La seconda opera in cui troviamo dei riferimenti all’ « unione » che si cercò di realizzare sotto il Fregoso è La Repubblica di Genova di Oberto Foglietta. Con questo polemico libello, scritto in forma di dialogo e pubblicato nel 1559 98, siamo già nel clima di scontro aperto tra nobili « vecchi » e « nuovi » che seguì alla riforma del « Garibetto » nel 1547. Per il Foglietta, risolutamente filopopolare, Ottaviano diviene lo strumento con cui opporsi al mito di Andrea Doria artefice della libertà della Repubblica e dell’« unione » dei cittadini. Il percorso logico seguito dall’autore è facilmente ricostruibile: Genova ha conosciuto nella sua movimentata storia innumerevoli occasionali « liberatori », ma è sempre poi ricaduta sotto il dominio straniero; così sarebbe avvenuto anche dopo la cacciata dei francesi ad opera dell ammiraglio nel 1528 se, dice il Foglietta, «non vi fosse stata 1 unione e riforma, alla quale sola unione e riforma si ha ad avere obbligo della perpetuità di questa libertà ». Il problema è quindi a chi attribuire il merito di aver dato origine al processo che si concluse con le leggi del 1528. Al riguardo per il Foglietta non esistono dubbi: Della quale unione e riforma non essendo stato in alcun modo il principe Doria cagione né autore, non pare per necessaria conseguenza autore di que- 97 A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXXII r. 98 O. Foglietta, La Republica di Genova, Roma, Antonio Biado, 1559 (rist. anastatica, Bologna 1975). — 195 — sta libertà perpetua. E se ad alcuno si dovesse dare questa laude, ed averne qualche obligo, il signor Ottaviano principalmente sarebbe desso". Oltre a queste affermazioni fortemente connotate da un punto di vista politico, il Foglietta ci fornisce anche utili notizie sui protagonisti di questo primo tentativo di riforma. Se infatti Ottaviano fu « il primo il quale si svegliasse a dimostrare questo segno di amore alla patria, di volerla mediante l’unione de’ cittadini ridurre a miglior stato, e riformare il corrotto vivere passato », larga parte ebbero anche gli « assidui conforti di Raffaello Ponsono, segretario del pubblico, il quale, lasciato l’officio, si era fatto sacerdote » I0°. Ispiratore dei buoni propositi del Fregoso quindi sarebbe stato Raffaele Ponzone. Personaggio assai singolare, il Ponzone costituisce un trait d’union sia con gli ambienti devoti che gravitavano intorno alla confraternita del Divino Amore, sia con i fatti del 1506 101. Egli fu cancelliere della Repubblica durante la rivolta popolare; il suo nome è tra quelli di coloro che, dopo la riconquista di Genova da parte di Luigi XII, furono esclusi dal perdono concesso dal re ai cittadini coinvolti nei moti antinobiliari, e subirono la confisca dei beni e il bando 102. Sul secondo periodo genovese dell’ex-cancelliere, che, fattosi sacerdote, divenne il principale consigliere di Ottaviano Fregoso, sappiamo poco: ne parla brevemente ancora il Foglietta negli Eloggi, dove mette però in luce un’altro aspetto dell’attività di quest’uomo che « ritiratosi dalle cure pubbliche, et dall’ambitione di questa vita » si era dedicato interamente « al servigio di Dio »: 99 Ibid., p. 141. 100 Ibid., p. 137. 101 A segnalare la presenza del Ponzone negli elenchi del « Divino Amore » è R. Savelli, Dalle confraternite allo stato cit., p. 183. Sarebbe di estremo interesse sapere se la sua adesione alla confraternita avvenne prima o dopo la rivolta del 1506. 102 La lista dei nomina exceptorum a supradicta generali gratta è conservata in ASG, Archivio Segreto 1649, decreto d’indulto in data 11 maggio 1507, pubblicata in E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., p. 529. Nel manoscritto ASCG, ms. 447, contenente le Memorie di G.B. Cicala, troviamo sopra lo stesso elenco la seguente nota: « A 14 Maggio vanno alle case di coloro che hanno bandito per ordine del re di Franza [. . .] cercando i loro beni ». — 196 — La pietà di costui, l’innocenza, la bontà congionte con una singolare prudenza furono tali che passando i termini della patria, vennero a notizia de Sommi Pontefici; li quali non istimarono essere cosa punto sconvenevole alla maestà loro, di conferire con esso seco, per mezzo di lettere, molte particolarità appartenenti alla religione. Certa cosa è, che havendo Ottaviano, per lungo, et dimestico uso conosciuto di quanto giudicio fusse Raffaello negli affari del mondo, continuamente lo volle appresso di sé103. I legami tra il Ponzone e la curia pontificia sono testimoniati da alcune lettere in cui egli si rivolge ad Adriano VI ed ai cardinali con un tono di estrema durezza per alcuni fatti minori accaduti a Genova durante il sacco imperiale del 1522 104. Ciò avvalora l’affermazione del Foglietta sul ruolo di consigliere svolto dal Ponzone, ruolo che in quel caso gli permise di assumere le vesti di severo censore della politica papale. Come vedremo l’ex-cancelliere non fu né il solo ecclesiastico, né il solo consigliere spirituale e politico di pontefici a poter essere annoverato tra i « padri » dell’« unione », ne, tantomeno, fu il solo tra questi « padri » ad essere stato in precedenza coinvolto nei moti antinobiliari del 1506. Questi tratti della figura del Ponzone non sono altro che un primo indizio, ma introducono altri elementi di dubbio circa la tesi che vede nella riforma del 1528 un semplice atto di alchimia politico-istituzionale voluto dalla nobiltà per escludere il popolo o parte di esso dalla scena politica cittadina; una tesi che a mio giudizio ingiustamente nega, o perlomeno sottovaluta, la forza ideale del concetto di « unione » e misconosce gli ambienti sociali che ne furono portatori. II Foglietta, oltre ad esaltare le virtù di Ottaviano, che « per unire e fare libera la sua patria si contentava di spogliarsi del principato », accenna anche ad una magistratura di Riformatori: « e per questa cagione furono creati dodici cittadini sopra questa cura, li quali si chiamavano li dodici della unione ». L’autore prosegue narrando anch’egli di un intervento di Federico Fregoso e della sua fazione che fece fal- li» GH Eloggi di M. Oberto Foglietta degli huomini chiari della Liguria tradotti da Lorenzo Conti..., Genova 1579, c. 68 r. 104 Questa corrispondenza è segnalata in R. Savelli, Dalle confraternite allo stato cit., p. 184. — 197 — lire questo primo tentativo, « talché nelli tempi di Ottaviano si sparse solamente quel primo seme di questo bene »105. Purtroppo le opere del Foglietta da cui abbiamo tratto i brani sopra citati non contengono nessun riferimento cronologico che permetta di datare i fatti narrati. Non ci sono di aiuto nemmeno le Istorie scritte dallo stesso autore e pubblicate nel 1597, nelle quali non troviamo alcun cenno al progetto di « unione » patrocinato da Ottaviano; né la cosa stupisce se si pensa che il libello su La Republica di Genova era costato al Foglietta l’esilio, dal quale fu richiamato solo alla metà degli anni settanta. È abbastanza logico quindi che egli si muovesse con estrema prudenza nell’assolvere il compito affidatogli dalla Repubblica di scrivere in forma di annali la storia della città. Incontriamo una traccia della tentata « unione » sotto Ottaviano nella Relazione della Republica di Genova, di Goffredo Lomellino, redatta nel 1575 106. Il Lomellino ricalca il citato brano del Giustiniani ma pone i fatti prima del voltafaccia del Fregoso. Accennano a tentativi di « unione » ancora due fonti, piuttosto tarde ma solitamente attendibili. Anzitutto i manoscritti di Giovanni Battista Cicala che useremo con estrema frequenza nel prosieguo del lavoro. Questo patrizio genovese « si mostrò indefesso », afferma il Sopranis, « in raccogliere nei pubblici archivi molte quasi spente memorie concernenti all’istoria di Genova »im. Egli ebbe il privilegio di accedere liberamente agli archivi della Repubblica e i sei grossi volumi manoscritti da lui compilati contengono fitti appunti posti in margine ad elenchi di magistrature, a copie di lettere e di decreti disposti in un ordine rigidamente cronologico fino al 1528 108. 105 O. Foglietta, La Republica di Genova cit., p. 137. 106 BUG, ms. B.I.7., Relazione della Republica di Genova di mons. Lomellino chierico di Camera della Santa sede Apostolica fatta l’anno 1575, cc. 16 v. ■ 17 r. 107 R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova, Calenzani, 1667. Queste notizie sono tratte dal saggio di L. Saginati, L’Archivio storico del Comune di Genova: fondi archivistici e manoscritti, in « Atti della Società Ligure di Storia Patria », n.s., XVII, 1977, p. 657. 108 I volumi delle Memorie della città di Genova e di tutto il suo dominio scritte da G. B. Cicala sono conservati in ASCG, ms. 438-443. Il Cicala oltre a copiare o riassumere documenti d’archivio raccolse notizie dai manoscritti dei racco- — 198 — Il Cicala registra due diversi momenti durante il periodo di Ottaviano in cui si tentò di realizzare 1’« unione ». Sotto la data del 1515 egli riporta quanto affermato dal Giustiniani negli Annali citandolo e-splicitamente come fonte109. Sotto l’anno 1519 troviamo invece la seguente nota: Ottaviano Fregoso governatore regio e di suo consentimento si cominciò a far pratica dell’unione vedendo le cose de Francesi in Italia declinare, ma prendendo poi in appresso buona piega fu interrotta da Federico Fregoso Arcivescovo di Salerno no. Forse il Cicala si riferisce, parlando delle difficoltà dei francesi, all’elezione di Carlo d’Asburgo ad imperatore avvenuta nel giugno del 1519; il riferimento è comunque troppo breve per azzardare una qualche ipotesi. Rimangono ora da analizzare alcuni passi contenuti negli Annali di Filippo Casoni. In questo lavoro, scritto nella seconda metà del Seicento, l’autore non accenna al tentativo di « unione » del 1515-1516 di cui parla Giustiniani, ma si dilunga molto su uno successivo che egli colloca nel 1520-21 111. Lo schema è il solito: Ottaviano è favorevole all’iniziativa; il Ponzone lo conforta nel suo intento di abolire le fazioni; Federico Fregoso si oppone e determina il fallimento del progetto. Il Casoni, oltre a riferire della creazione di un magistrato di Riformatori (come già aveva fatto il Foglietta) elenca i nomi dei suoi componenti112. Tenendo presente che quanto afferma il Casoni deve an- glitori di memorie storiche che lo avevano preceduto: in specie da quelli di A. Roccatagliata, di F. Federici e di G. Pallavicino. 109 ASCG, ms. 443, c. 228. no Ivi, c. 277. m F. Casoni, Annali cit., Lib. II, pp. 177-179. i'2 Trascriviamo questi nomi riuniti secondo il gruppo politico di appartenenza: Giovanni Giacomo Doria, Agostino Pallavicino e Battista Spinola, nobili bianchi; Anfrano Usodimare, Battista Lomellino e Pietro Grimaldi, nobili neri; Stefano Giustiniani e Stefano Franchi Cocarello, mercanti bianchi; Antonio Sauli, mercante nero; Agostino De Ferrari, artefice bianco; Tommaso Invrea e Agostino Maggiolo, artefici neri. Un elemento di dubbio deriva dal fatto che, secondo il Giustiniani, agli stessi dodici cittadini (tranne G.B. De Franchi Cocarello al posto di Stefano), fu data «larga e piena balìa [...] insino il passato mese di gennaro [del 1522]» di condurre le trattative con i condottieri cesarei che assediavano Genova (A. Giusti- — 199 — cora essere comprovato da documenti ufficiali, ma anche il fatto che 1 autore si dimostra, in tutti i casi in cui siamo in grado di riscontrare le sue notizie con fonti dirette, molto informato e preciso, commentiamo brevemente la composizione della magistratura. In questa come nelle successive magistrature create allo stesso fine (esclusa l’ultima del settembre 1528), venne rispettata la tradizionale regola della divisione paritaria dei posti sia tra nobili e popolari che tra bianchi e neri. Diversi membri di questo collegio ricomparvero tra i Riformatori eletti a più riprese tra il 1525 e il 1528, ed in particolare Stefano Giusti-mani e Agostino Pallavicino vi ebbero un ruolo permanente. Inoltre notiamo come il Ponzone non costituisca l’unico legame con i fatti del 1506. Il Giustiniani, Antonio Sauli e Tommaso Invrea furono tra i giuranti del « Libro di pace e concordia »; sempre il Giustiniani e il Sauli, insieme ad Agostino De Ferrari, sono nella lista « di quelli cittadini che furono de fattione li anni de 1506 e 1507 che fu il viva populo de Genova » 113. In questo paragrafo si è inteso unicamente impostare, sulla base delle testimonianze degli storici coevi, la ricerca sul primo tentativo di realizzare 1’« unione ». Riassumendo, si può affermare che nel periodo del governatorato di Ottaviano Fregoso una o due volte questo tentativo avvenne 114. In entrambi i casi si trattò di periodi di acuta tensione internazionale; situazione, questa, che costituiva, come vedremo, il terreno più favorevole perché gli ideali di riforma e di « unione » potessero imporsi come temi centrali della vita politica cittadina. mani, Annali cit., c. CCLXXV y. ). È impossibile allo stato attuale delle conoscenze sapere quale dei due autori riporti con esattezza le competenze di questo collegio. uo dai si anche che si tratti della stessa magistratura di cui il Giustiniani e il Casoni mettono in rilievo due diverse fasi di attività. è pubblicata in E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., pp. 551-53. Il riferimento d archivio è ASG, ms. 118, carte aggiunte. Ne troviamo una copia anche in ASG, ms. 48, c. 23 r. L ipotesi che in due momenti successivi, sotto Ottaviano, si fosse cercato di a olire le fazioni non può essere scartata a priori. Da un lato la testimonianza del ìustiniani sul tentativo del 1516 è difficilmente contestabile visto che l’autore era assai vicino agli avvenimenti; dall’altro il Cicala e il Casoni, molto impegnati nella raccolta di materiale archivistico, sono concordi nel situare un tentativo analogo verso la fine del governatorato del Fregoso. È anche probabile, date le affinità nel rac- — 200 — 3. Il tentativo fallito del 1525 Fosse avvenuto nel 1515-16 o nel 1519-21 o in entrambe le date, dopo il tentativo di Ottaviano Fregoso non si incontrano più tracce del progetto di « unione » fino al 1525. In quell’anno invece i documenti dimostrano l’esistenza di un disegno di riforma e testimoniano anche il suo livello assai avanzato di elaborazione. È anzitutto Agostino Giustiniani a fornirci alcune notizie: egli riferisce molto succintamente che, con il consenso del Doge Antoniotto Adorno, si era ripreso a lavorare sull’« unione ». Erano stati anche eletti due ambasciatori, Filippo Sauli e Tommaso Cattaneo, che avevano il compito di informare di tutto l’imperatore; ma, come scrisse l’annalista, questi ambasciatori « non partitero mai »115. Nessuna traccia di questi fatti è invece presente nelle Istorie di Genova di Oberto Foglietta, negli annali del Bonfadio, né in quelli, di solito molto ricchi, del Casoni. Paradossalmente contiene un maggior numero di informazioni una fonte veneziana. Infatti Marino Sanudo, nei Diarii, riporta una lettera dell’oratore veneto a Milano, datata 19 marzo 1525, nella quale si dava notizia che: In Genoa quelli gentilhomeni et popolo se hanno unito insieme e hanno concluso novo governo: che più non si fazi Doxe perpetuo, ma se eleza un numero di nobili che ad tempus siano, i quali governarano la loro città cussi tutta unita, e li offici equalmente siano distribuidi. Et hanno electo doi oratori a l’Imperador, aziò confermi questo ordine suo; li quali procurano di haver un salvacondutto dal re Christianissimo per poter andar per la Franza [. . .] Et aziò il Duce renonci la dignità lui ha, acciò si fazi si bon effecto li prometono dar ducati 150.000 over tanti loci di Santo Zorzi che li dà ducati 6000 de intrata. Noto li dicti oratori vanno a la Cesarea Maestà, ze-noesi sono domino Filippo Sauli episcopo de Brignate [cioè, Brugnato] e domino Tomaso Cataneo, ambedoe zenoesi116. conto, che il tentativo di « unione » descritto dal Foglietta sia quello cui si riferiscono i due storici secenteschi. 115 A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXXVIII r. 116 M. Sanudo, 1 diarii cit., voi. XXXVIII, coll. 112-113. — 201 — Si tratta di un brano interessante che deve però essere esplicitato. Anzitutto l’oratore veneto parla di « gentilhomeni et populo » che « se hanno unito insieme e hanno concluso novo governo ». Da queste parole sembra che la riforma fosse già avvenuta, e inoltre le due fazioni dei nobili e dei popolari appaiono piuttosto promotrici del progetto di « unione » che non vituperato bersaglio di un atto legislativo tendente al loro annientamento. Ma vediamo gli obiettivi del loro patto di azione. Si mirava ad abolire la carica di Doge a vita. Ecco delinearsi già in questo momento uno dei punti decisivi della revisione istituzionale attuata nel 1528 che stabilì la durata biennale della massima magistratura cittadina. Nel 1525 però il problema del dogato si pose in modo diverso, esso era una questione preliminare, il primo nodo da sciogliere per realizzare 1’« unione » e non ancora l’oggetto di una organica legge di riforma. Dovendo fare i conti con un Doge ancora in carica, si decise di offrire un cospicuo « premio » ad Antoniotto Adorno perché rinunciasse al suo grado e di imboccare la strada di una signoria collegiale. Le redini del governo della Repubblica sarebbero passate nelle mani di « un numero di nobili » eletti per un periodo di tempo definito (ad. tempus). La parola « nobili » in questo contesto deve essere intesa nel senso àt\Y unicus ordo frutto dell’« unione », in quanto è impensabile che da parte popolare si fosse rinunciato in questo momento alla metà spettante di diritto dei membri di ogni magistratura. Si stabilì inoltre che « li offici equalmente siano distribuidi ». Una equa distribuzione che doveva avvenire tra nobili e popolari, e che, notiamo, sarebbe stata tacitamente rispettata anche dopo il 1528 in riferimento al nuovo (solo nominalmente) antagonismo tra « nobili vecchi » e « nobili nuovi ». Molti quindi risultano essere i punti di contatto tra questa, ancora in parte sconosciuta, riforma del 1525 e la versione definitiva dell’ottobre 1528. Nei manoscritti di Giovanni Battista Cicala troviamo i nomi di dodici cittadini « nominati per reformare il stato et le leggi della città con amplissima autorità et balìa, chiamati refformatori dell’unione et della Republica, come in atti di Ambrogio Senarega cancellerò dell’eccelso comune di Genova » U7. 117 ASCG, ms. 443, c. 345. Riportiamo i nomi dei dodici magistrati secondo i gruppi politici da noi identificati: Agostino del fu Pietro Pallavicino, Battista del fu — 202 — La magistratura era composta, come prevedibile, da sei nobili e sei popolari. Di nuovo analizziamo la componente popolare per scoprire eventuali legami con i fatti del 1506. Stefano Giustiniani e Bartolomeo Sofia risultano essere tra i giuranti del « Libro di pace e concordia » e tra i « cittadini di fazione » il cui elenco è fornito dal Pandiani. Raffaele Fornari e Battista Botto compaiono anch’essi tra i « cittadini di fazione »11δ. Inutile ripetere quanto detto nel secondo paragrafo del presente capitolo: il legame dei successivi tentativi di riforma con gli ideali del giuramento popolare del 1506 fu costantemente riaffermato dalla presenza nelle magistrature dei Riformatori di personaggi coinvolti direttamente nella rivolta. Ma è soprattutto la figura di Stefano Giustiniani ad attirare il nostro interesse. Insieme a Raffaele Ponzone, consigliere di Ottaviano Fregoso, egli rappresenta la continuità nell’evoluzione del progetto di riforma dalla prima, originaria, ispirazione popolare. Il Foglietta nel suo libello sulla Repubblica di Genova ha parole di elogio per entrambi. Ecco quanto afferma a proposito del Giustiniani: [Il seme gettato dal Fregoso] benché per allora non producesse frutto alcuno, restò però nell’animo di pochi buoni, fra’ quali è da laudare la virtù, costanza ed assidua diligenza di Stefano Giustiniano, il quale non cessò mai di esortare all’unione e riforma della Repubblica gli cittadini e gli Adorni ancora, gli quali erano successi nello stato ad Ottaviano, in modo che la pratica si cominciò caldamente a ripigliare nel tempo degli Adorni119. Negli Eloggi, lo stesso Foglietta ci fornisce il ritratto del Giustiniani: un uomo che dalla giovinezza fino all’estrema vecchiaia si diede alla cura della Republica [...] et furono si chiari in lui gli essempi di prudenza, di saviezza, et d’una maravigliosa continenza in ogni qualità di cose, ch’egli perciò ne divenne in così fatta autorità et oppenione in Genova, che il tutto dipendeva dalla sua moderatione, et consiglio. Et ciò che si Tommaso Spinola e Girolamo del fu Agostino Doria, nobili bianchi; Franco Fieschi, Ansaldo Grimaldi e Battista del fu Stefano Lomellino, nobili neri; Raffaele de Fornari e Stefano Giustiniani, mercanti bianchi; Francesco del fu Paolo Sauli, mercante nero; Bartolomeo Sofia e Giovanni Ballano, artefici bianchi; Battista Botto, artefice nero. "8 E. Pandiani, Un anno di storia genovese cit., pp. 551-553. 119 O. Foglietta, La Republica di Genova cit., p. 133. — 203 — racconta di Pitagora, intorno al ricercamento delle cose naturali, il medesimo fugli attribuito circa gli affari civili, ed il maneggio della Republica. Imperocché tutto quello, ch’ei diceva, era reputato e giusto, e ragionevole, cui niuno sarebbe stato ardito di contraddire. Oltre di questo dee Genova sua patria, per haver ella drizzato lo stato della Republica, e disposti gli animi de cittadini alla pace, et alla concordia, riconoscerlo in grandissima parte dalla virtù, et sollecitudine di Stefano. Il quale con suoi continui ricordi, et persuasioni, ridusse le voglie loro, assai lontane dalla quiete, a sommo desiderio di pace, et di publica tranquillità. Vi s’aggiunse, che essendo dipoi creato uno de’ dodici riformatori, si può veramente affermare ch’egli facesse, quelle leggi, con le quali hoggidì si regge la città nostra, poscia che tutte le cose si costituirono con l’ingegno et l’industria sua 12°. Ci si perdonino queste lunghe citazioni ma riteniamo utile raccogliere lo scarso materiale esistente sui maggiori protagonisti della riforma, su uomini politici di cui, a meno di qualche fortunato ritrovamento di memoriali o di corrispondenze private, non riusciremo mai a conoscere la vita e la personalità. Si tratta di figure importanti che diedero l’impronta a momenti decisivi della storia cittadina, ed anche i pochi tratti che possiamo cogliere nella letteratura celebrativa devono essere presi in considerazione. Che il Foglietta non esagerasse, a parte il richiamo a Pitagora, nelPaffermare la grande « autorità et oppenione » goduta dal Giustiniani a Genova ce lo conferma un memoriale scritto per il fratello Antoniotto da Gerolamo Adorno alla fine del 1522, prima di partire come ambasciatore di Carlo V per Venezia, dove sarebbe morto l’anno successivo121. Già abbiamo detto della statura politica di Gerolamo che, 120 O. Foglietta, Eloggi cit., c. 110 r. 121 Società Ligure di Storia Patria, ms. 248 (trascrizione ottocentesca). Si tratta di un documento assai singolare che lascia intravedere al di là dell’assetto istituzionale vigente alcuni dei meccanismi del governo di fazione. Purtroppo è una testimonianza isolata e dovrà quindi essere inserita in un ambito di ricerca autonomo di cui si darà conto in altra sede. Non possiamo esimerci tuttavia dal dire che l’assetto istituzionale repubblicano e il regime di fazione non furono due livelli separati qualificabili, l’uno in termini di « facciata », l’altro in quelli di « reale esercizio del potere ». Di fatto la « parte » egemone, nella fattispecie gli Adorno, doveva, per governare, sia mantenersi entro i limiti della « legalità » repubblicana, sia coinvolgere in modo più o meno organico i suoi avversari politici. Questi correttivi al regime di fazione non erano irrilevanti. L’assetto istituzionale repubblicano esisteva in funzione — 204 — nonostante avesse lasciato al fratello la carica di Doge, era considerato il vero capo della fazione degli Adorno, nonché uno dei principali artefici della politica imperiale in Italia. Egli, nel memoriale, stilò una lunga serie di raccomandazioni incitando il fratello ad essere assiduo e « risvegliato » nel controllo dei subordinati; giunto poi alle questioni di governo affermava: « se occorre partecipar cosa di stato cum più citadini me pare il principale di tutti sia M. Stefano Iustiniano, chi è savio, amorevole, bono et secreto »m; più oltre Gerolamo ribadiva il suo consiglio: Item recordo a vostra signoria revederse spesso col prefato messer Steffano sopra tutte le cose de la cità et alcuna del stato, et parlo ad ora che non puossi essere troppo notato questo effetto, et perché sopra quello che se sia pratichato e manegiato, et ora se praticha et manegia, per trovare l’ordinario de la cità, lui ne è più de tutti importantissimo, non ne bisogna su questo dire, salvo che vostra signoria se informi da lui et nel restretto proceda cum il piedi soi; ma bisogna ben lo facia de sorte, ch’a li altri non paia che la pigli in questo la legge da esso, perché essendo emulato, potria difficultare questa opinione nell’effetto, convenendo dare et lassare la sua parte de l’ambitione et persuasione propria ad ogniuno123. L’Adorno qui si riferiva inizialmente alle questioni politiche in genere, poi a quelle finanziarie (« l’ordinario »). Il fratello avrebbe dovuto seguire in tutto le indicazioni del Giustiniani senza però darlo a vedere per non suscitare l’invidia degli altri. La figura del Giustiniani inizia a precisarsi come quella di un uomo legato sì agli Adorno ma non un uomo di fazione in senso stretto. A lui Antoniotto sarebbe dovuto ricorrere per « tutte le cose de la cità », ma solo per alcune cose « del stato» (riguardanti cioè il regime degli Adorno), soprattutto se era necessario renderle di pubblico dominio; sembra ci si rivolgesse a lui più per la sua eminenza tra i cittadini e per le sue doti morali che non per la fedeltà di parte. di un sistema politico dove agiva una pluralità di forze (nel nostro caso i nobili ed i popolari oltre agli adorni ed ai fregosi) i cui spazi politici non potevano essere compressi senza gravi pericoli per la stabilità del regime stesso. È per questo, a mio giudizio, che Genova, nonostante la presenza a partire da metà Trecento di un Doge a vita, rimase, a giusto titolo, una Repubblica. 122 Ivi, c. 2 v. 123 Ivi, cc. 3 r.-v. — 205 — C’era poi una questione che stava particolarmente a cuore a Gerolamo e cioè l’indennizzo per i « damnificati » del sacco. Il ritorno al potere degli Adorno aveva coinciso con il saccheggio della città da parte delle truppe imperiali. Bisognava quindi riconquistare la benevolenza dei genovesi, attenuare nella coscienza collettiva il nesso tra il regime e il ricordo delle violenze subite in un evento tanto traumatico. Gerolamo, nel memoriale, invitò il fratello a mostrare ogni disponibilità nei confronti delle proposte di « messer Stefano, il quale li ha pensato et pensa assai sopra », e a dare del suo come egli, Gerolamo, era disposto a « metterli tutto quello mi dà la cità de provigione, como ho detto in baglia » m. In queste parole si scorge l’intelligenza del- 1 uomo politico preoccupato di ricostruire un’immagine positiva del regime. L’atteggiamento del Giustiniani ci sembra invece del tutto consono alle doti di prudenza, di moderazione e di giustizia che si sono delineate come proprie della sua personalità e del suo agire politico. Abbiamo già detto che sia il « popolare » Giustiniani, sia il « nobile » Agostino Pallavicino, furono costantemente presenti nelle magistrature dei Riformatori125, ma li troviamo entrambi anche tra i duodecim pacificatores del 1506, eletti per ristabilire un clima di concordia dopo i conflitti dei mesi precedenti126. Si tratta di uomini che, da fronti opposti, cercarono, nel 1506 come nel periodo 1515-28, di comporre i dissidi tra i cittadini, di moderare e quindi abolire le discordie civili. Anche per il Pallavicino c’è una menzione nel citato memoriale di Gerolamo Adorno. Quest’ultimo consigliò al fratello di far sì che nelle magistrature fossero eletti coloro che « paiano amici dubiosi » in modo da coinvolgerli nel meccanismo di potere, ed aggiunse « non è male, in quelli magistrati che non tochano a trovar denari, metterli alcuno de la parte contraria che sia tenuto omo da bene e tra gli altri recordo Augustino Pallavicino » ’27. Il Pallavicino era quindi un parti- 124 Ivi, c. 3 v. 125 Vedi sotto, pp. 269, 325. 126 L’elenco dei pacificatores è in ASG, ms. 137, c. 3 r. Anche E. Grendi (Andrea Doria, uomo del Rinascimento cit., p. 102) pare ravvisare una continuità ideale fra i pacificatori del 1506 e le successive magistrature create per realizzare la riforma e P« unione ». 127 Società Ligure di Storia Patria, ms. 248, c. 4 r. — 206 — giano dei Fregoso, ma riconosciuto dagli avversari politici come « omo da bene ». Questi indizi non hanno alcun valore probante ma da essi prende corpo un’immagine dei « padri » dell’« unione » che lascia intuire come la riforma del 1528 non possa essere letta solo alla luce della volontà egemonica di un determinato gruppo di fazione. Tra i « pacificatores » del 1506 vi era un altro fautore dell’« unione », Agostino Foglietta, che appoggiò il progetto dall’esterno nel periodo che va dal 1525 al 1527. Anch’egli, come il Ponzone, è nella lista di coloro che furono banditi nel 1507 dopo la riconquista della città da parte di Luigi XII e divenne in seguito consigliere di pontefici. Affidiamo ancora una volta alla testimonianza di Oberto Foglietta, nipote di Agostino, il compito di fornirci qualche notizia su questo affascinante personaggio. Ecco quanto si trova nel polemico scritto del 1559: trattavasi questa cosa [l’« unione»], con gran piacere di tutta Italia e di papa Clemente, il quale mostrava volerla aiutare e favorire, indotto a ciò dalle prudenti persuasioni d’Agostino Foglietta, cittadino caldissimo in questo santo consiglio, il quale non cessava ancora di esortarvi per sue lettere il signor Antoniotto Adornom. Il favore di Clemente VII risulta provato da un suo breve del febbraio 1525 e dalle fonti spagnole cui attingeremo largamente. Delle lettere di Agostino non abbiamo, purtroppo, trovato traccia ma è assai probabile che ci fosse una regolare corrispondenza tra questi e il Doge: Gerolamo Adorno nel memoriale del 1522 ricordava al fratello di scrivere a « messer Augustino a Roma », avvisando però di non trattare se non « le cose che importino al servitio dell’imperatore »m. Agostino, infatti, era un deciso sostenitore di un indirizzo filocesareo della politica papale. Molto ricco di particolari è il ritratto che Oberto Foglietta fa del- lo zio negli Eloggi·. [I contemporanei] tanto attribuivano alla singolare prudenza, e al sapere, di Agostino, et al suo quasi divino ingegno nell’antivedere le cose d’avenire, che fermamente era da ciascuno creduto ciò, che egli predetto havesse. Con [le] quali virtù [. . .] si acquistò tanta grada, e autorità appresso Papa Giulio secon- 128 O. Foglietta, La Republica di Genova cit., p. 138. 129 Società Ligure di Storia Patria, ms. 248, cc. 2 v. - 3 r. — 207 — do, Leone decimo, e Clemente settimo, ch’egli reggeva in tutto i maggiori affari del pontificato 13°. Oberto fa due esempi delle qualità profetiche dello zio: il primo quando Agostino convinse Leone X ad allearsi con Carlo V per cacciare i francesi dall’Italia131, e il secondo quando egli indarno si sforzò di spiccare papa Clemente da far lega contra Cesare, il quale Clemente, essendo da poi preso, e racchiuso nella rocca, tardo s’avvide e confessò di havere con la rovina di tutte le cose, e col sacco di Roma, antiposti i cattivi consigli a saggi ricordi del Foglietta132‘. Agostino, sempre a detta del nipote, cercò con ogni mezzo di far sì che Clemente VII prendesse sotto la sua protezione i genovesi « i quali pur all’hora s’affaticavano di riacquistare la libertà, e a regolare tutta la Republica, e a riassettare gli ordini, e gli animi de’ cittadini », incontrando in ciò la dura opposizione del Giberti133. 130 O. Foglietta, Eleggi cit., c. 112 r. 131 L’accordo fu sancito a Roma il 28 maggio 1521. Vedi K. Brandi, Carlo V cit., pp. 136-141. 132 O. Foglietta, Eloggi cit., c. 112 r. Il riferimento è ai fatti successivi al sacco di Roma del 1527. 133 Ibid. In realtà le cose erano più complesse di come le descrisse Oberto Foglietta. A detta del Guicciardini due erano i principali consiglieri di Clemente VII: il tedesco Schonberg ed il genovese Giberti, il primo filoimperiale ed il secondo filo-francese (Storia d’Italia cit., pp. 1669-1670). Sebbene lo storico fiorentino non faccia mai il nome del Foglietta, è certo che questi svolse un ruolo importante tra i fautori di un’intesa tra il Papa e Carlo V: lo dimostrano sia il brano citato del memoriale di Gerolamo Adorno, sia una lettera del 4 novembre 1524 indirizzata da Fernando Marin, abate di Nàjera e commissario dell’esercito imperiale, a Carlo V (BNM, ms. 2021321, doc. n° 56). In questa lettera il Marin riferiva notizie ricevute dal duca di Sessa « corno persona que conosce muy bien la bondad y condifion del Papa y la malinidad de quantos le stan ?erca »; unica eccezione, a detta del duca, « el Folleta que fierto es muy gierto servidor de vuestra Magestad ». Se Agostino Foglietta e Giovan Matteo Giberti appartenevano a schieramenti contrapposti, non sembra, per ora, suffragata l’affermazione di Oberto che il loro dualismo riguardasse anche le cose genovesi. Dato che Agostino morì accidentalmente durante il sacco di Roma, il suo appoggio all’« unione » va riferito ai tentativi del 1525 e del 1527; le fonti spagnole testimoniano però che anche il datario Giberti in questo periodo si mostrò ad essa favorevole. Sembrerebbe quindi che entrambi questi illustri genovesi, — 208 — Queste notizie sono interessanti perché iniziano a mettere in luce come la riforma delle istituzioni genovesi non fosse solo un problema di politica interna ma coinvolgesse in modo diretto la strategia delle grandi potenze impegnate nel conflitto per l’egemonia in Italia. A porci sull’avviso, indicando i legami tra la riforma e le vicende politiche internazionali, è lo stesso Cicala che scrisse due note sui motivi che avevano indotto le autorità genovesi ad incoraggiare la ripresa del progetto di « unione ». Nella prima, assai breve, si afferma che: « Antoniotto Adorno duce trattò l’unione pensando di aggiustarsi con francesi, ma vista la prigionia del loro re Francesco I sotto Pavia furono detti trattati rotti »!34. Nella seconda il Cicala fu più esplicito: la [. . .] pratica dell’unione fu ripigliata dal duce Antoniotto Adorno con segreta intelligenza di Carlo V per mezzo del cardinale Gattinara temendosi della prosperità de francesi ma, essendo stato rotto e fatto prigione Francesco I re di Franza sotto Pavia e prosperando li imperiali, ditta pratica di unione fu interrotta e prohibita dal duce135. È significativa la menzione del Gattinara come direttamente coinvolto nel progetto di riforma. Nell’insieme però il dato più importante è il nesso estremamente chiaro tra 1’« unione » come problema interno e la situazione politico militare internazionale. Con questo nesso il Cicala spiega il perché sia del risorgere (« temendosi della prosperità de francesi »), sia del fallimento (« essendo stato rotto e fatto prigione Francesco I re di Franza») delle pratiche di «unione» nel 1525. Cerchiamo quindi brevemente di fare il punto sulle vicende del conflitto franco-asburgico a cavallo tra il 1524 e il 1525 136 e sul livello di separati da profonda rivalità, abbiano, anche se per motivi diversi, ritenuto di incoraggiare il processo di rinnovamento in atto all’interno della Repubblica ligure. Alcune lettere, non particolarmente significative, inviate all’inizio del 1525 dal Foglietta al cardinale Giovanni Salviati, legato pontificio in Lombardia, sono pubblicate in A. Desjardins, Négociations diplomatiques de la Trance avec la Toscane, Paris 1861. Per quanto riguarda la politica papale durante il terzo decennio del Cinquecento rinviamo ad A. Prosperi, Tra evangelismo e controriforma: G.M. Giberti, Roma 1969. ASCG, ms. 443, c. 343. 135 Ivi, c. 345. 136 Su questa fase delle guerre d’Italia, vedi P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare cit., pp. 544-566. — 209 — coinvolgimento in esse della Repubblica di Genova. L’invasione della Provenza da parte delle truppe imperiali comandate dal duca di Borbone che, spostando il conflitto in territorio francese, avrebbe dovuto segnare il tramonto delle pretese di Francesco I all’egemonia sull’Italia settentrionale, si era risolta in un fallimento davanti alle mura di Marsiglia strenuamente difese da truppe franco-italiane. Il fulmineo contrattacco francese nell’ottobre del 1524 aveva obbligato gli imperiali a ripiegare su Pavia e Francesco I era divenuto senza colpo ferire padrone del ducato di Milano. La situazione strategica e politica si fece estremamente difficile per Carlo V. Il suo isolamento nella penisola divenne totale quando Clemente VII, intimorito dai successi del re cristianissimo e spinto dal Giberti, nel dicembre stipulò un’alleanza con la Francia e con VeneziaI3?. Questo è il quadro che l’imperatore aveva davanti allorché, « disperatissimo della situazione », scrisse di suo pugno le brevi pagine di « meditazioni » rese famose dal Brandi13S. Ma vediamo come nella Genova filocesarea degli Adorno era vissuta questa drammatica vigilia della battaglia di Pavia. Nel giro di pochi anni la città ligure aveva stretto saldi legami con Carlo V e, sebbene non mancassero motivi di attrito, era divenuta un nodo nevralgico della strategia imperiale. Genova costituiva in primo luogo il centro di raccolta delle notizie che provenivano dalla fitta rete di agenti cesarei sparsi in tutta la penisola, e di smistamento degli ordini impartiti dalla corte; un fatto questo che spiega la straordinaria ricchezza della corrispondenza dell’ambasciatore imperiale presso la Repubblica don Lope de Soria. In secondo luogo, la città, dotata di una attrezzatura cantieristica di buon livello, era il punto di riferimento essenziale nei programmi di costruzione di una flotta capace di contrastare il predominio francese sul Mediterraneo settentrionale, esigenza questa sentita in modo sempre più impellente da parte dei rappresentanti di Carlo V in Italia. Inoltre risulta evidente che Genova era di- 137 Le accorate parole scritte da Lope de Soria a Carlo V il 15 gennaio 1525 nel dar notizia della nuova lega anti-imperiale testimoniano la gravità del momento: « de aqui adelante yo creo que v. Magestad sera solo en Italia para hazer la guerra sin servicio ni socorro de otro ninguno » (RAHM, ms. 34, cc. 47-50, il duplicato di questa lettera è in BNM, ms. 2021662, doc. n° 3). 138 K. Brandi, Carlo V cit., pp. 207-209. — 210 — venuta già dal 1524 il vero polmone finanziario della macchina bellica imperiale. La ripresa della guerra in Lombardia imponeva di convogliarvi i danari per il pagamento delle truppe, e nella città ligure, vicina al teatro delle operazioni, i grandi banchieri avevano la liquidità necessaria allo scopo. È soprattutto la figura di Ansaldo Grimaldi (uno dei membri della magistratura dei Dodici Riformatori) a balzare in primo piano. Era quasi sempre a lui che si faceva ricorso per trasformare in danaro contante le lettere di cambio negoziate in Spagna con altri genovesi (Grimaldi, Centurione, Fornari ecc.) 139. Il Soria nel maggio del 1524, dopo aver presentato ad Ansaldo lettere di cambio per ben 100.000 ducati e 44.000 scudi, poteva notare ammirato: « se han tornado aqui para enbiar al dicho visorrey sesenta y siete mil y seis cientos escudos en pocos dias » I4°. 139 Risalgono all’ottobre del 1523 i primi contatti di cui abbiamo notizia tra gli agenti cesarei e il Grimaldi: quest’ultimo avrebbe dovuto pagare a Fernando Ma-rin, commissario dell’esercito imperiale, 40.000 ducati sulla base di lettere di cambio emesse da banchieri genovesi residenti in Spagna. Ci furono tuttavia alcune difficoltà perché dopo il pagamento della prima rata (20.000 ducati) il Grimaldi si rifiutò di sborsare il resto della cifra « porque dize — affermava il Marin que tiene letras de sus respondientes que no han sido pagados corno esperavan en la feria de Medina de Ruyseco ». Il Doge, chiamato ad interporre i suoi buoni uffici, non ottenne risultati, e solo a seguito di una garanzia personale offerta dal Doge, da Lope de Soria e da Ugo de Moncada (« nosomos obligados los tres de pagarlo en caso que no sea pagado por los ministros de Vuestra Magestad ») il Grimaldi si risolse a pagare la metà della seconda rata prevista, cioè 10.000 ducati. Sulla base di garanzie simili offerte da gentiluomini e mercanti milanesi il Grimaldi pagò infine anche gli ultimi 10.000 ducati. Su questo episodio si vedano le lettere di Fernando Marin a Carlo V del 14 ottobre, del 7, 21 e del 30 novembre, dell’8, 11 e 28 dicembre 1523, da Milano, pubblicate in E. Pacheco y De Leyva, La politica espaiiola in Italia. Cor-respondencia de Don Fernando Mann, abad de Najera, con Carlo I, Madrid 1919, pp. 457-491 e quella di Lope de Soria, sempre a Carlo V, da Genova, del 2 dicembre (RAHM, ms. A-29, c. 510) e 16 dicembre 1523 (ivi, c. 535). 140 Lettera di Lope de Soria a Carlo V, da Genova, dell’8 maggio 1524, in BNM, ms. 2021462, doc. n° 2. Certo alcuni meccanismi dovevano ancora essere perfezionati: nell’aprile 1524 Fernando Marin si presentò a Genova per raccogliere 40.000 scudi sotto la sua garanzia, quella del viceré di Napoli, di Antoniotto Adorno, di Lope de Soria e di Ugo de Moncada; ma, egli sosteneva, « los banqueros no se con-tentan de fianzas tan qualificadas y buenas, si no que quieren otros banqueros sus yguales » (si veda la lettera del Marin a Carlo V, da Genova, del 23 aprile 1524 in RAHM, ms. A-31, c. 174 e un estratto della stessa con in margine la minuta di rispo- — 211 — A questi rapporti di affari felicemente instaurati tra Carlo V e i finanzieri genovesi facevano tuttavia da contraltare le continue richieste di danaro rivolte alla Repubblica per il sostentamento degli eserciti imperiali. Abbiamo già visto le proteste inoltrate su questo punto da Martino Centurione che però tardarono non poco a produrre gli effetti sperati . Nel 1524 tali proteste si moltiplicarono142 ed erano il sintomo di una divaricazione tra gli interessi dell’élite dei banchieri, che già avevano iniziato a trarre pingui profitti dai prestiti alla corona, e quelli della collettività dei cittadini su cui gravava l’onere dei contributi di guerra 143. Il Doge e i magistrati si trovavano a svolgere il ruo- sta dell imperatore in RAHM, ms. A-33, c. 157 r. - v.) ; la diffidenza dei banchieri era legata al fatto che ancora non si era risolta la questione dei 40.000 ducati di Ansaldo Grimaldi di cui abbiamo parlato alla nota precedente. Il Marin scriveva a Car- lo V il 10 aprile 1524 supplicando l’invio di « una fee de los dichos respondentes [di Ansaldo] como son contentos y pagados porque con ella se cassara la dicha obliga-cion » (BNM, ms. 2021321, doc. n° 46). Tutto si risolse però positivamente e lo stesso Grimaldi si rese poi disponibile al pagamento della cedola di cambio dei 100.000 ducati (lettera di Lope de Soria a Carlo V del 3 maggio 1524 in RAHM, ms. A-33, cc. 151 v. -152). 141 Vedi sopra, p. 120 e sgg. 142 È del 13 aprile 1524 una lettera di Antoniotto Adorno a Carlo V nella quale chiedeva che si tenesse conto del miserevole stato della città e la si esentasse dai contributi di guerra (RAHM, ms. A-31, c. 77). Il Doge replicò le sue proteste 111 maggio (RAHM, ms. A-31, c. 216), e in due lettere, una del 12 agosto (RAHM, ms. A-32, cc. 45-66, un estratto della stessa lettera con in margine la minuta di risposta dell’imperatore in RAHM, ms. A-33, cc. 210-211) e una 13 agosto (BNM, ms. 202092), affermava di essersi impegnato per oltre 100.000 ducati per il servizio dell’imperatore e che per far ciò aveva dovuto vendere alcuni suoi castelli. 143 Alcune lettere del Soria ci danno l’idea di questi oneri. In una del 15 gennaio 1525 egli ammetteva che « la necessidad desta ciudad es en verdad muy grande porque de tres afios aca han padefido grandissimas adversidades y gastos y por esto puede creher vuestra Magestad que hazen mas de lo possible y per-sevararan en elio tanto quanto las fuergas les bastaran » (RAHM, ms. A-36, cc. 47-50, copia della stessa lettera in BNM, ms. 2021462, doc. n° 3). Negli stessi termini si esprimeva il Soria in una missiva del 26 gennaio, iniziando a dar conto degli espedienti fiscali utilizzati per trovare denaro « a causa de las adversidades y gastos que han padecido y padecen de continuo por lo qual està en mucho trabajo està comunidad no sabiendo en que manera poderse mas sostener continuando algunos dias en los dichos gastos porque no hallan forma para haver el dinero que es — 212 — 10 di mediatori tra queste opposte istanze, un compito reso ancor più difficile dall’incertezza sulle sorti del conflitto in corso. Un fatto militare di una certa gravità portò ad una soglia critica 11 malcontento e i timori dei genovesi: la sconfitta di don Ugo de Moncada a Varazze m. Il modo in cui essa maturò non è privo di interesse. Alla fine del 1524 si era riproposta con urgenza la necessità di rafforzare la flotta imperiale per far fronte alla discesa di contingenti francesi agli ordini del duca d’Albania nel meridione d’Italia. Come altre volte in casi analoghi, si decise che in Genova si provvedesse all’armamento delle navi. Fu raggiunto un accordo in base al quale le spese avrebbero dovuto essere suddivise a metà tra Carlo V e la Repubblica, che sperava con la nuova flotta di poter meglio difendere i propri traffici145. All’inizio del 1525, una volta compiuto l’armamento, l’equilibrio di forze nel Mediterraneo settentrionale sembrava definitivamente ribaltato a favore degli imperiali e l’armata di mare francese si ritirò nel porto di Vado, fortificandolom. Tuttavia, dopo solo necessario, que ya tienen tan cargadas todas las gabellas y derechos que no pueden mas, y hasta a las mulas en que cavalgan han puesto que pague cadaqual que la tenga dos ducados cada ano, y no saben de donde sacar lo que se ha da gastar en este mes de hebrero » (RAHM, ms. A-34 cc. 69-73, copia in BNM, ms. 2021462, doc. n° 4). In un’altra lettera del 2 febbraio lo stesso ambasciatore cesareo si diceva stupito degli sforzi « miracolosi » compiuti dai genovesi: « agora han hallado modo él [il Doge] y la comunidad de haver hasta sessenta mil ducados para los gastos que se offrecen, que es cosa milagrosa de la manera que estos dineros se sacan, que hasta poner derechos en las dotes que se dan a las mugeres ha sido necessario por no hallar otra cosa en que cargar, y el gasto que tiene al presente està comunidad es grande» (RAMM, ms. A-34, cc. 101-103, un duplicato di questa lettera si trova in BNM, ms. 2021462, doc. n° 6). 144 Per una descrizione sommaria della battaglia di Varazze vedi A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLLXVII v. e sg. 145 È quanto affermava Lope de Soria nella lettera a Carlo V del 15 gennaio 1525, in RAHM, ms. A-34, cc. 47-50, copia in BNM, ms. 2021462, doc. n° 3. 146 L’ambasciatore cesareo comunicava soddisfatto che « con estos tenemos mejor y mas fuerte armada que los enemigos, porque tenemos XXV velas gruesas entre carracas y otras naves y XV galeras y algunos vergantines, que todo esto es mucho mayor numero de velas que es la contraria y con muy buena gente y buena artilleria [...] de suerte que la francesa se fortifica dentro del puerto de Vaya con poner artilleria en tierra en ciertos bestiones [...] y hazer una cadena de — 213 — un mese che la flotta si trovava inattiva a Genova a causa del maltempo, già mancavano i denari per mantenerla. Il Moncada impegnò la sua argenteria (« su piata ») in cambio di 2.500 ducati che avrebbero consentito, con altrettanti forniti dalla Repubblica, di coprire le spese per altri quindici giorni: era chiaro a tutti che si imponeva un utilizzo della flotta a breve scadenza prima che venisse smantellata per carenza di fondi147. Il Moncada partì quindi la notte del 28 gennaio a capo di 3.000 fanti a bordo delle galere, diretto a Varazze dove si erano concentrati circa 2.000 nemici provenienti da Savona. Dopo lo sbarco sopraggiunse però la flotta francese che, messe in fuga le galere imperiali, prese a bombardare le truppe del Moncada. La disfatta, secondo quanto comunico il Soria a Carlo V, fu totale: fueron muertos y presos algunas personas principales de los nuestros y entre otros don Ugo de Moncada que no sabemos hastagora si es bivo ni muerto si no que lo vieron tornar preso y tambien tomaron a Barnabe Adorno y a su hermano [.. .] y segun hazen relacion dizen que faltaran entre muertos y presos quatrocientos hombres148. La mattina del 30 la flotta francese comparve di fronte a Genova quando le galere imperiali ancora non erano potute entrare in porto per i venti contrari. Nello scontro i francesi ebbero la meglio, catturando la capitana e due navi, e disperdendo le altre. I vincitori attesero poi fuori del porto gli sviluppi della situazione che al Soria appariva assai grave: toda su armada [dei francesi] està surgida delante desta ciudad y toda la tierra en armas y la gente del pueblo muy temerosa, temo de rebolucion antenas y otras cosas a la boca del puerto para evitar que la nuestra no pueda entrar a envestirla, porque conocen que si la nuestra la halla a la vela no se podria defender y cierto seria rota con el ayuda de Dios, y agora pensamos el modo que se deve tener para romper la dicha armada, porque haziendose assi seria quitar todo el designo del rey de Francia y causa de una gran victoria por todas partes », ivi. 147 Lettera di Lope de Soria a Carlo V del 26 gennaio 1525 in RAHM, ms. A-34 cc. 69-73, copia in BNM, ms. 2021462, doc. n° 4. 148 Lettera di Lope de Soria a Carlo V del 30 gennaio 1525 in RAHM, ms. A-34, c. 87, copia in BNM, ms. 2021462, doc. n° 5. — 214 — de pueblo mas que no de los de fuera, y sobrestos havemos scrito al visorrey que nos embie alguna gente·49. Il primo febbraio giunse a Genova un araldo del marchese di Sa-Juzzo intimando che la città gli fosse consegnata « corno cosa que es del rey de Francia ». Il Doge rispose in modo perentorio « que està ciudad no es del rey de Francia y que si la querra haver ha de ser con las armas y no de otra manera » 15°. Il fermo atteggiamento del-l'Adorno fu lodato dal Soria151 ma il momento rimaneva grave e la flotta francese continuava a stazionare di fronte al porto « pensando que se reboltasse està ciudad »l52. La città non si rivoltò ma le pratiche di « unione », che già da qualche tempo erano iniziate, divennero di pubblico dominio. In una lettera a Carlo V del 13 febbraio 1525 153 il Soria comunicò di essere stato informato dal Doge in data 3 febbraio della convocazione per quel- lo stesso giorno di un Consiglio generale « para eligir doze personas calificadas assi fragosos como adornos para que ellos iunctamente con él atiendan al govierno desta ciudad y del estado y tengan poder amplissimo para proveer en todas las cosas necessarias ». Compito dei Dodici sarebbe stato di far sì « que se hiziesse union de fragosos y adornos porque todos iunctos atendiessen a la defension desta ciudad ». Il Gran Consiglio fu effettivamente riunito ed elesse il magistrato dei Riformatori. A conferma di quanto scritto dall’ambasciatore cesareo, presso PArchivio di Stato di Genova negli atti del Senato si trova il testo originale di un giuramento prestato, sempre 3 febbraio, da parte del Prestantissimus Magistratus duodecim civium per excelsum Communem Januae ellectorum [f] deputatorum ad reformandum regimen, Ivi. '5® Si tratta delle parole del Doge come riportate dal Soria in una lettera a Carlo V del 2 febbraio 1525 (BNM, ns. 2021462, doc. n° 6). 151 Queste furono le parole dell’ambasciatore cesareo: « El duque de Genova amuestra y ha mostrado todo buen coragon para defender està ciudad y servir a vuestra Magestad, y pienso que perseverara en elio quanto fuere possible », ivi. 152 Ivi. 153 RAHM, ms. A-34, cc. 118-126. — 215 — statum ac leges civitatis Januae 154. I magistrati, già ne conosciamo i nomi, si impegnarono solennemente (ad Sancta Dei Evangelia tactis corporaliter scripturis) a rispettare ed a far rispettare le leggi che omni meliore modo, via, iure et forma avrebbero cercato di redigere. Si impegnarono inoltre a perseguire quicumque predicte reformationi parere recusaverit. Costoro sa- 1 ebbero stati esclusi quibuscumque dignitatibus, honoribus, prerogati-vis, privilegiis et utilitatibus genuensibus quovis modo concessis vel acquisitis seu de cetero quomodolibet concedendis vel acquirendis 155. Si tratta di una delle poche testimonianze del tentativo di « unione » svoltosi nel 1525 conservate presso gli archivi genovesi. Niente è rimasto delle trattative che dovettero precedere il Consiglio del 3 febbraio e poco della successiva attività dei Riformatori156. Ci vengono tuttavia in aiuto, fortunatamente, le numerose lettere del Soria, nelle quali egli riferiva puntualmente all’imperatore gli sviluppi della situazione politica interna della Repubblica. Nella citata lettera del 13 febbraio157 l’ambasciatore cesareo, cercando di spiegare il clima in cui si era iniziato a parlare di « unione », in parte riferendo le giustificazioni avanzate dal Doge, in parte mettendo del suo, completa il quadro che già in parte conosciamo. La città era in preda a gravi inquietudini: la cattura di don Ugo de Moncada, la perdita della « capitana » e di altre due navi, l’assedio posto 154 ASG, Senato, Sala Senarega 1204, foglio sparso. I Dodici potevano operare cum amplissima potestate et balia virtute magni consilii habita in aula magna palatii Communis Januae. Una copia dell’atto si trova, allegata ad una proroga del 10 maggio 1527, in ASCG, Brignole-Sale, ms. 105.E.8. 155 Ivi. 136 II motivo è facilmente intuibile. Se l’ambasciatore cesareo era stato informato solo a cose fatte era perché si temeva un suo attegiamento negativo che avrebbe bloccato sul nascere il progetto di riforma. Le trattative che avevano portato al Consiglio del 3 febbraio dovettero essere svolte nella massima segretezza e non lasciarono quindi traccia nei pubblici archivi. La magistratura dei Dodici ebbe poi poco tempo per espletare la sua funzione in quanto a partire dal 24 febbraio, cioè dopo la battaglia di Pavia, 1’« unione » era, per il momento, politicamente sconfitta. 157 RAHM, ms. A-34, cc. 118-126. — 216 — per mare e per terra dalle forze francesi, avevano suscitato crescenti timori e la notte del 30 gennaio una vera ondata di panico aveva percorso la città (« se escondieron muchos y muchos en monasterios y en casa de fragosos pensando que en aquella noche se reboltasse està ciudad »). Ad agitare gli animi, affermava il Soria, era soprattutto la paura del sacco, esperienza che Genova aveva vissuto solo pochi anni prima. C’era inoltre l’impossibilità di reperire denaro per le spese di difesa. La Casa di San Giorgio, il cui consiglio rispecchiava fedelmente le divisioni politiche cittadine e recipiva con prontezza gli umori e le ansie del momento, aveva serrato i cordoni della borsa portando lo stato alla paralisi. L’« unione » fu lo strumento per superare queste gravi difficoltà. La nomina dei Dodici ridiede animo ai cittadini e sbloccò la situazione: « el mismo dia despues de ser elegidos estos doze tuvieron otro consejo generai en San Jorge por hallar modo de haver dineros y de treziento y trenta que fueron en este consejo todos fueron concordes en que se hoviessen sessenta mil ducados luego para suplir a las ne-cessidades presentes y estos se haveran muy presto ». Lo stesso ambasciatore cesareo ammise che il Doge aveva dovuto acconsentire all’« unione » « porque mas facilmente se hoviesse està summa de dineros porque en otra manera fuera casi imposible estandos divisos y no hallando este dinero no se pudiera sostener la gente de guerra y assi se perderla facilmente està ciudad ». L’unanimità del consiglio di San Giorgio è una prova di quanto già fosse larga la base di consenso su cui poggiava il progetto unitario. Quando ormai nei cittadini disorientati prevalevano le spinte emozionali, esso fu l’unico strumento per ricomporre un quadro politico coerente, per restituire allo stato quel tanto di legittimità che permettesse di esercitare una qualche azione di governo. Certo non bisogna astrarre l’ideale di « unione » dal groviglio di passioni che agitava la vita della Repubblica; vederlo come totale alternativa all’ormai deleterio sistema delle fazioni significherebbe semplificare le cose. Le lettere dell’attento e sospettoso Lope de Soria, zelante difensore del predominio imperiale su una città considerata la chiave per la supremazia in Italia, sono un monito al riguardo. A più riprese, come vedremo, le parti dogali tentarono di fare dell’« u-nione » un espediente temporaneo per la conquista del potere, uno strumento per riaffermare la vecchia logica delle fazioni. Fu però la vasta area di consenso di cui abbiamo parlato a far sì che l’idea di « unio- — 217 — ne » riuscisse ad emergere dai tentadvi di uso strumentale come una forza autonoma capace di aggregare dei gruppi sociali portatori di un progetto politico nuovo e alternativo. Abbiamo utilizzato la lettera del Soria per capire cosa realmente accadde a Genova in questi primi mesi del 1525: resta ora da vedere il suo giudizio in merito, un giudizio che peraltro stenta a delinearsi con chiarezza data la complessità del momento. Il Doge nel riferirgli delle pratiche di « unione » aveva sostenuto che tutto si faceva per meglio servire alla causa imperiale e questo avevano ribadito i Dodici Riformatori: le sconfitte subite, l’assedio, il panico dei cittadini, il rifiuto di S. Giorgio di fornire il denaro necessario per la difesa, erano tutte cose che il Soria aveva visto con i propri occhi. Egli non poteva non concordare con questa analisi: senza il via libera all’« unione » San Giorgio non avrebbe concesso prestiti alla Repubblica e la città sarebbe caduta in mano francese « mediante la passion de la parte fragosa y el mucho miedo que amostrava la parte adorna ». Se in quel momento 1 « unione » era l’unica via praticabile, c’erano però da capire i reali intenti dei suoi fautori e in generale delle forze politiche genovesi; 1 incerto esito della guerra aveva infatti rimesso in moto il gioco delle fazioni. I sostenitori dell’« unione » avevano ottenuto un successo conquistando il consenso del Doge alla creazione di una magistratura di Riformatori, ma le due parti dogali continuavano ad agire autonomamente. I partigiani dei Fregoso avevano intavolato trattative con il marchese di Saluzzo per staccare Genova dall’alleanza cesarea; sul partito filoimperiale degli adorneschi c’era da fare poco affidamento: combattuto tra la volontà di mantenere la propria supremazia e i timori per le conseguenze di una vittoria degli avversari ottenuta con le armi, aveva finito, per paura, con il consentire all’« unione » in vista di un passaggio indolore della Repubblica dalla parte dei francesi; solo del Doge, a detta del Soria, ci si poteva fidare: aveva sbagliato « en plati-car y traher tan a cabo està novedad sin hazerlo saber al visorrey ni a mi » ma sul suo « buen cora5on » non c’erano dubbi. Né questa fiducia era scalfita dalle trattative intavolate dall'Adorno con il re di Francia: ai « grandes partidos » offerti da quest’ultimo egli aveva sempre opposto un fermo diniego. C’erano anche pressioni esterne che avevano pesato sugli indirizzi delle fazioni: da Roma erano giunte lettere al Doge « y [ad] algunos otros particulares acordandoles que se deven hazer neutrales y seran fuera de peligros y gastos y si està union — 218 — passa addante, lo qual ahun pongo en duda, y la guerra durasse, tengo por ?ierto que los deste pueblo tentaran de hazerse neutrales ». Per quanto riguardava 1’« unione » come fatto di politica interna genovese, il Soria sembrava percepire la sua non incompatibilità con la fedeltà della Repubblica a Carlo V. Egli affermava di essere convinto che l’imperatore no havria enojo dello pues su voluntad no es otra ecepto de tenerlos en paz y conservarlos en sus libertades, y quanto mas unidos fussen para el buen govierno y defension de la ciudad y stado tanto mas contento seria. Una cosa però che lo preoccupava: non dovevano verificarsi rivolte « porque qualquiera novedad en los pueblos suele ser mala ». Era quindi l’eventualità di un tumulto ed anche, come vedremo, dell’istaurar-si di un governo di popolo ad allarmare l’ambasciatore. Gli argomenti avanzati dal Doge su questo punto non davano affidamento. L’Adorno gli aveva assicurato che « no sera parte el pueblo para hazer nin-guna novedad contra su voluntad », ma, affermava il Soria, « yo creo que si lo piensan y lo pruevan no sera parte el duque para remediarlo porque con este titulo de union ya parece al populo que non ha de ser el duque mas de hun ciudadano particular ». Il problema dell’atteggiamento del popolo ha un altro aspetto nella visione offerta dal Soria. Egli, pur costretto dal suo ruolo a leggere la realtà genovese distinguendo tra filofrancesi e filoimperiali, cioè fregosi e adorni, colse 1’« anima » popolare dell’« unione » quando affermò che i suoi fautori « ya comen9an de platicar que no haya noble-za si no que todos sean yguales en los officios y regimiento ». Considerando la esasperata faziosità dei cittadini genovesi, proseguì il Soria, ciò avrebbe portato ad una degenerazione violenta della lotta politica: « y si esto se propone y se contradize vendran en tales diferencias y divisiones que pensaran en distruirse los unos los otros corno ya se ha hecho otras vezes ». In conclusione, e giustamente, il Soria riteneva che nell’immedia-to sarebbero stati decisivi gli esiti delle operazioni militari in Lombardia; P« unione » dei genovesi poteva non nuocere alla causa imperiale, presentava tuttavia dei rischi, ma en fin todo consiste en el sucesso del los exercitos de Lombardia porque haviendo victoria él de vuestra magestad todo esto sera nada y solo havrà — 219 — servido para haver estos dineros [...] y si tambien quedasse vencedor el rey de Francia sea cierto vuestra Magestad que luego tomaran partido los desta ciudad con él, el qual tambien les revocara todos estos sus designos. Volendo riassumere il senso di questo tentativo di « unione », si può affermare che con esso si intendeva rompere il meccanismo perverso dell alternanza Adorno-Fregoso. Ciò, si sperava, avrebbe permesso di mantenere la Repubblica in una posizione di neutralità, mettendola al riparo dal pericolo di un saccheggio. La soluzione unitaria inoltre, visto 1 andamento della guerra in Lombardia, era tutt’altro che disprezzabile per gli imperiali. L’eventuale cacciata di Antoniotto Adorno, ancora in carica, avrebbe gettato Genova nelle mani di un Fregoso e quindi della Francia. Un epilogo che poteva essere evitato solo con una riforma istituzionale che eliminasse le due fazioni dogali e il motivo del loro contendere, cioè il dogato popolare a vita. Se questi erano i tratti fondamentali del quadro che si era venuto delineando all inizio del 1525, alcuni altri particolari ci permettono di capire meglio il senso degli avvenimenti. Sebbene i rapporti tra la città e l’ambasciatore cesareo non si fossero ancora del tutto deteriorati, sono individuabili i segni di un allontanamento delle iniziative politiche dei magistrati genovesi dall’assunto della fedeltà imperiale della Repubblica. Come abbiamo visto le pratiche per 1’« unione » erano state avviate, con l’assenso del Doge, all insaputa del Soria, che fu messo di fronte al fatto compiuto. Un’altra più grave iniziativa fu presa dai Dodici alla metà del febbraio 1525, quando essi cominciarono a trattare una tregua con i francesi. Di ciò sia il Doge che il Soria furono informati solo il 18 febbraio quando ormai i termini della sospensione delle ostilità erano definiti; due giorni dopo ci fu la ratifica formale dell’accordo158. I Dodici inviarono, non a caso, Ansaldo Grimaldi ad esporre al Soria i motivi che li avevano indotti a negoziare la tregua. Il Grimaldi disse che avevano agito considerando el temor que la gente desta ciudad tenian del armada francesa la qual estava para venir aqui por ver si podria reboltar està ciudad y en caso que 138 Lettere di Lope de Soria a Carlo V del 25 febbraio 1525, in due copie, in RAHM, ms. A-34 cc. 172-179, e del 26 febbraio 1525 in RAHM, ms. A-34 — 220 — esto no le hiziesse pensava la dicha armada de passar a destruyr està ribera de llevante corno havia destruyda la de ponente, lo qual facilmente podrian hazer por no tener armada para estar al oposito della, de lo qual està ciudad padeferia muchos dafios y peligro a causa que todos los bastimentos de que agora mantiene està ciudad vienen de la dicha ribera y occupandola los ene-migos seria ponerlos en mucha necessidad la qual podria causar alcuna alteracion de pueblo 159. Queste ragioni non convinsero l’ambasciatore il quale disapprovò il fatto che i genovesi lo avessero tenuto all’oscuro di quanto stava accadendo. I due episodi mostrano come fosse in atto una presa di distanza della città nei confronti del Soria ed in generale della causa imperiale, e in questa luce vanno viste le stesse pratiche di « unione ». In tale atteggiamento c’era tuttavia una carica di novità che deve essere sottolineata. All’inizio del 1525, infatti, ci fu chi pensò di gestire una situazione politico-militare senza dubbio drammatica in un modo diverso rispetto al tradizionale alternarsi tra regimi di parte, adorna e fregosa, con il conseguente ribaltamento delle alleanze internazionali. Si iniziò cioè a pensare al futuro della Repubblica in termini di neutralità. Nella seconda metà di gennaio giunse da Roma un primo autorevole ed ufficiale incoraggiamento a proseguire sulla via dell’« unione ». Si tratta di una lettera del cardinale Innocenzo Cibo, arcivescovo di Genova, indirizzata illustrissimo domino Antoniotto Adorno duci lanuae, ac magnificis XII electis. In essa il prelato affermava di essere venuto a conoscenza, con grande gioia, della prudente et laudabile deliberatione, et election facta per vostra signoria [il Doge] de quelli XII gentilhomini per la reformatione, conservatione et universale quiete de quella illustrissima et hactenus afflicta cita, et de la publica demonstratione de tucto quel populo, et desiderio grande che dieta reformatione omninamente succeda, il che veramente existimiamo non senza divina inspiratione esser seguito 16°. cc. 183-184. Una copia dei capitoli della tregua tra il re di Francia e Genova si trova in RAHM, ms. A-32, cc. 336-337. 159 Lettera di Lope de Soria a Carlo V del 25 febbraio 1525 citata alla nota precedente. 160 ASG, Archivio Segreto 2804, Lettere di Cardinali, la lettera del Cibo è in data 20 gennaio 1525. — 221 — BIBLIOTECA _ La soddisfazione dell’arcivescovo è probabilmente da mettere in rapporto con il vantaggio che la riforma unitaria poteva recare al partito filofrancese, e quindi alla famiglia Medici cui era legato da stretti vincoli di sangue, nonché con il prevalere in curia della linea politica del Giberti. Il grande favore della cittadinanza, cui si accenna nella lettera del Cibo, doveva aver innescato un dibattito assai ampio e diffuso in larghi strati sociali, se le autorità ritennero necessario emanare un bando per porre fine al gran parlare che si faceva sull’attività dei riformatori . Questo invito alla prudenza trova la sua ragion d’essere nel fatto che la riforma non era solo un problema interno ma rimandava a livelli decisionali che, come ora vedremo, superavano di gran lunga l’ambito cittadino. Prima che giungesse in Spagna la notizia della battaglia di Pavia, 161 ASG, Senato, Sala Senarega 1204, foglio sparso. Il decreto è purtroppo senza data; ne riportiamo il contenuto che è comunque indicativo delle grandi attese dei genovesi: « Essendo pervenuto a noticia de lo illustrissimo signor duce e del magistrato prestantissimo de li signori dodeci ellecti novamente cum la balia a ciascheduni nota, che molti mancho che consideratamenti ragionano cum persone d ogni sorte de quel che s’habi a statuire, ordinare, debba e possi farsi per epsi illustrissimo duce et signori XII, designando tra loro e sosorrando quel che non se gli apertene circa la cura ad epsi attributa. Lo che essendo di molta importantia et somamenti nocivo a la principal cura loro e a l’opera che si studia condurre a perfectione per diverse ragione, quale tutte per degni e laudabili respecti si ometeno, di comandamento del prelibita [sic] illustrissimo duce et magnifici XII, si fa publico et universal bando e prohibitione che, de qui inanti, non sia alchuno di qualunche stato e grado si sia, che osa né presuma ragionare di quel che s’habi da tractare, negotiare, ho sia statuire per epso illustrissimo duce et magnifici dodece, pertinente in che modo si vogli a la cura e balìa loro, né farne manco argomenti, né argomentarla etiam sotto specie di conforti e persuasione, anci cum patientia, fermeza d’animo, e bon proponimento, tacitamente expectino la resolutione et determinatione loro, che Dio per sua bontà indrizi, sotto pena che sarà iudicato meritare colui che se trovasse delinquente arbitraria a loro illustrissimo signore e magni-ficencie, secondo la graveza de la dezobedientia, admonendo ogniuno che adver-tischi a non dare in questo principio exemplo al resto. E quando, corno pò facilmente accadere, nascesse ne la mente di qualche bon citadino di far qualche ricordi utili per la impreiza, trovi qual si voglia di loro, ho vero in publico expon-gan e narrin il coniecto loro e saran volenteri e al suo debito loco posti li loro amorevoli ricordi ». — 222 — delle pratiche di « unione » fu informato il legato genovese presso la corte cesarea Martino Centurione, che, il 3 marzo 1525, presentò a Carlo V un primo memoriale su questo tema162. Si tratta di un documento assai interessante in quanto ci permette, dopo aver esaminato la versione dei fatti offerta dal Soria, di capire in che luce i genovesi intendevano presentare i recenti sviluppi della vita politica cittadina. L’ambasciatore cercò di esporre ogni argomento possibile a sostegno della sua richiesta di un deciso assenso imperiale alla riforma. Come preambolo troviamo le rituali profferte di fedeltà seguite dalle solite lamentele per la disperata situazione della Repubblica. Riconosciamo nel documento le parole e talvolta le frasi contenute nelle istruzioni delle autorità genovesi all’ambasciatore redatte a partire dal 1523. La Repubblica estenuata, « reduzida al ultimo extermjnjo y final des-trugion », faceva miracoli « sacando fuergas de flaqueza, supliendo con yngenio y artes en lo que faltaban las fuer?as » per soddisfare le esorbitanti richieste dei ministri cesarei. Nel far ciò essa si sottoponeva ad uno sforzo che nessuno dei regni « naturales » di Carlo V sarebbe stato disposto a sopportare. Seguono le consuete affermazioni sulla sviscerata servitù (« entranable servidumbre ») di Antoniotto Adorno, che era a capo della Repubblica non per il proprio interesse, ma solo perché essa rimanesse fedele all’imperatore. La successiva parte del documento riguarda in modo diretto 1’« unione ». La causa fondamentale che aveva condotto il Doge a concedere il suo assenso al progetto di riforma era stata il timore che la controffensiva francese facesse cadere Genova nelle mani dei nemici dell’imperatore: Conogiendo que la necessidad hiziera caer luego el dicho estado en manos de los enemigos de vuestra magestad, acordó por final remedio de tal yncon-venjente yntroduzir en la dicha Republica platica de unjon, con la qual se pudiesse en lo venjdero de sy mesma governar y sostener libre de toda tiranja y sugegion, dexando las pargialidades que la han conduzido en los terminos do se halla. 162 Esso è riportato sotto il titolo « Copia de uno memoriale dato in Madrid a soa maestà a tre di marzo 1525 sopra la unione de Genoa », nel Libro de reco-lecta cit., ASG, Archivio Segreto 2718, cc. 68 p. - 69 — 223 — Tutto ciò è in accordo con quanto già sappiamo. È importante notare come, nelle parole del Centurione, per la Repubblica « yntroduzir platica de unjon » significasse libertà da ogni tirannide e rifiuto delle lotte di fazione. Ecco il binomio « unione e libertà » che divenne nell’ottobre 1528 l’asse portante della riforma. È necessario capire però a cosa ci si riferisse parlando di « tiranja » e di « parcialidades ». L’Oreste fa giustamente notare che nella Genova dei primi decenni del Cinquecento con la parola « libertà » si intendeva soprattutto libertà dai francesi163. Quest accezione riferita al testo che stiamo analizzando è del tutto plausibile. In fondo, la Repubblica nei periodi di dominio francese era diretta-mente soggetta al re che poneva fra i suoi titoli quello di « seigneur de Genues ». Tiranni erano quindi i sovrani francesi? Probabilmente sì. È altrettanto vero però che lo strumento principale di controllo nelle mani di Francesco I era stato, perlomeno a partire dal 1515, la fazione dei Fregoso, e comunque la lotta tra le due famiglie dogali era la contrapposizione politica interna rispetto alla quale le potenze territoriali, italiane e europee, si erano mosse fin dal secolo XV nei loro tentativi di conquistare un’egemonia sulla città ligure. L’instabilità della Repubblica che tante volte aveva causato la perdita della libertà era originata dalla lotta tra Adorno e Fregoso, e le tirannie, frutto di tale instabilità, spesso si personificavano nel predominio di un rappresentante di una delle due famiglie. Questo almeno era quanto aveva insegnato l’ultimo tormentato decennio durante il quale il « sacco » aveva aperto gli occhi sulle conseguenze di un’esasperata faziosità. Tutto ciò ci allontana inequivocabilmente dalla tesi secondo cui sa- 163 G. Oreste, Genova e Andrea Doria cit., p. 5. Nella lettera di Lope de Soria del 15 gennaio 1525 è in questo senso che viene utilizzata la parola libertà: su ordine di Carlo V l’ambasciatore aveva incitato i genovesi a difendersi « offe-regiendoles de parte de vuestra Magestad que no les faltara en aiudarles con todas sus fuergas para mantenerlos en su libertad y defenderles este estado ». Più oltre egli invita l’imperatore a « confortare » i cittadini « dandoles todas buenas esper-angas que los soccorrerà y librarà destos trabajos y de toda tirannya » (RAHM, ms. A-34, cc. 47-50, copia della stessa lettera in BNM, ms. 2021462, doc. n° 3). Sempre il Soria nella lettera del 26 gennaio riferisce il pensiero dei genovesi che « conocen el cuydado que tiene vuestra Magestad de liberar a ellos y a toda Italia de toda tiranya y que todos gozen de sus libertades » (RAHM, ms. A-34 cc. 69-73, copia in BNM, ms. 2021462, doc. n° 4). — 224 — rebbe stata « la paura della plebe », frutto della rivolta del 1506, il terreno su cui nacque un nuovo patto di potere all’interno dell’aristocrazia cittadina, realizzato stabilmente nel 1528 164. L’« unione » aveva invece cause molto più vicine, e soprattutto di diversa natura. Essa non era il frutto di soli avvenimenti interni la cui maturazione sarebbe stata ritardata ma non interrotta dall’alternarsi del dominio dei sovrani stranieril65. Sono proprio le vicende della politica internazionale, e il porsi diversificato delle varie componenti del ceto dirigente cittadino rispetto ai tentativi di egemonia delle grandi potenze a spiegare meglio l’insorgere dell’esigenza di riforma e il variare dei suoi destini. Il terreno sul quale s’affermò la spinta interna all’« unione » fu la stanchezza dei genovesi per l’instabilità della Repubblica. Un’instabilità le cui origini lontane vanno ricercate nelle mire che le grandi potenze nutrivano verso Genova, e nel fatto che queste mire trovavano nelle lotte faziose, ma soprattutto in quella fra le due famiglie dogali, la base su cui affermarsi. Questa situazione, dopo vari dissesti, era stata più che mai duramente pagata con i tragici fatti del 1522 e si potrebbe affermare che non la paura della plebe ma la paura di un nuovo sacco muoveva i cittadini verso 1’« unione ». La riforma è legata al 1506 non dalla volontà di esorcizzare la minaccia sociale che allora si era profilata ma dal fatto che la rivolta fu il momento di prima elaborazione di un programma politico di superamento delle divisioni faziose. L’obiettivo nel 1525, come nel 1528, non fu colpire il « popolo » o la « plebe » ma porre fine al predominio degli Adorno e dei Fregoso, ad un tempo artefici e strumento della tirannia. Avremo modo in seguito di fornire altri elementi a sostegno dell’interpretazione qui esposta. Torniamo però al documento. Il Centurione affermava che il tema della riforma era stato introdotto dal Doge in un gran Consiglio, convocato all’uopo, en el qual propuso la materia con muchas persuasiones para yntroduzir los coragones de cada uno a la dicha unjon y reformagion de govierno, en manera que perdiendo la memorja de las dichas pargialidades todos tendiesen a un solo fin del bien y augmento de la Republica, para poderse perpetuamente defender de toda tiranja y opresion de qualqujer principe y sefior. m C. Costantini, La Repubblica cit., pp. 8-9. 165 Ivi, p. 14. — 225 — È difficile sapere se il Doge si fosse inserito in un precedente dibattito in corso (come si evince dalle lettere del Soria che riferiscono sempre di un semplice « consentimiento » dell’Adorno) o se lui in prima persona avesse dato il via alle pratiche di « unione » (come affermava il legato genovese, forse per dare un’immagine più rassicurante di quanto stava avvenendo nella città ligure). In ogni caso, secondo le parole del Centurione, la cittadinanza si dimostrò subito favorevole: opera di Dio, dopo decenni di discordie, che « puede ser equiparada a la con-version de Sanct Paulo ». Certo è che molti in questo momento avevano interesse a trovare in Genova un nuovo e più « neutrale » assetto delle istituzioni. Il resto del documento è tutto dedicato a ricercare buoni argomenti che permettessero di conquistare l’appoggio dell’imperatore alla riforma: « dos respectos » avevano spinto il Doge, prima di tutto il servizio di sua maestà, « haviendo por muy cierto que sera mas servido de la dicha unjon, reparo y augmento de la dicha Republica que de otra forma alguna de govierno en ella »; quindi la volontà di restaurare 1’« antiguo buen govierno » grazie al quale Genova era stata nei secoli passati « tan prosperada y grande »; tre motivi dovevano convincere Carlo V a concedere il suo assenso, cioè che « con tal govierno nunca ella [Genova] caerà mas en manos de sus enemigos » (e così fu effettivamente dopo il 1528), inoltre l’imperatore avrebbe conquistato la gloria di aver risollevato le sorti della città (« por ganar tal gloria que por su mano tan buena obra se haga »), infine la Repubblica, prospera e fedele, avrebbe potuto soddisfare molto meglio le richieste finanziarie di sua maestà (« estando la dicha Republica libre y prosperada, se podrà vuestra magestad prometer della en qualqujer riempo muy mayores servicios que de otra manera »). Il tono complessivo del memoriale è comunque determinato dall’estrema decisione dell’ambasciatore nell’avanzare le sue richieste, e ciò testimonia una posizione di relativa forza dovuta senza dubbio alla non certo brillante situazione politico-militare di Carlo V. Il momento era tale che permetteva di rivendicare non solo l’assenso all’« unione » e un pronto invio della flotta per difendersi dall’assedio navale, ma anche privilegi « majores de los que le han congedido los antecessores de vuestra magestad ». A questo primo memoriale comunque non si diede risposta imme- — 226 — diata. Esso passò al vaglio del Consiglio segreto, come risulta da quanto riportato in calce al documento dove la firma Mercurinus è preceduta dalla dizione « a consulta ». Appena sette giorni dopo che fu presentato il primo memoriale del Centurione, il 10 marzo giunse a Madrid la notizia della sconfitta francese a Pavia che aveva portato alla cattura di Francesco 1166. Il successo cesareo, quantomai inatteso, indebolì drasticamente la posizione dei fautori della riforma. Quello che pochi giorni prima poteva essere considerato il male minore, sia per Carlo V che per l’Adorno, diveniva ora un inutile rischio. Nessuna emergenza obbligava più l’imperatore a trovare un’alternativa alla provata fedeltà di Antoniotto che dava garanzie ben maggiori rispetto ad una Repubblica « libre de toda tiranja », ma dagli orientamenti di politica estera di fatto imprevedibili, al di là delle profferte di devozione. Tuttavia il legato genovese presentò il 14 marzo un secondo memoriale sul problema dell’« unione » 167. Questo nuovo documento risente in modo chiaro degli sconvolgenti effetti della battaglia di Pavia. In esso il Centurione dovette abbandonare il tono quasi ricattatorio che la disperata situazione degli eserciti cesarei gli aveva permesso di usare solo pochi giorni prima. Il memoriale inizia con un invito a riconoscere la mano di Dio dietro l’inaspettata vittoria168. Il principale motivo invocato per ottenere l’appoggio di Carlo V all’« unione » dei genovesi era adesso il carattere divino della sua missione (« haverlo Dios escogido sobre todos los otros 166 Si veda al riguardo K. Brandi, Carlo V cit., pp. 209-212. Questa data è confermata anche dalla lettera di Iacopo Corsi, ambasciatore fiorentino presso Carlo V, indirizzata agli Otto di Pratica il 27 marzo 1525, pubblicata in « Archivio Storico Italiano», serie I, tomo XV, pp. 320-325; lettera che mostra l’estrema compostezza e moderazione dell’imperatore nel ricevere una notizia tanto importante. 167 ASG, Archivio Segreto 2718, Libro de recoleta cit., cc. 70 r.- 71 r. 168 Ivi: « [Vostra maestà] es tanto mas obligado a recono?er este don divino tan extremado de tal victoria conseguida contra ellos [i francesi] no haver pro-gedido salvo de solo Dios, y por la misma causa, siendo mas que notorio que segund su calidad y milagrosa grandeza sobre toda esperanga y consideragion, y contra tan multiplicadas fuer?as de acomulados contrarios, no puede ella en alguna parte ser atribuida a obra humana ». — 227 — principes para quererse servir de su menisterio ...»), per rispetto della quale egli doveva usare clemenza con gli sconfitti e gratitudine verso i leali servitori. La sua gratitudine si doveva esprimere per quanto riguardava Genova nel confermare quell’« unione » che era stata scelta, in circostanze drammatiche, come unica via per mantenere la fedeltà cesarea e per evitare la caduta della città in mano ai francesiI69. Il Centurione, facendo di necessità virtù, tentò di sostenere che dopo la sconfitta dei francesi la riforma sarebbe stata ancor più vantaggiosa per l’imperatore: pues que agora la puede estableger mucho mejor y con mayor auctoridad y dignjdad de vuestra cesarea Magestad que antes, quando se yntroduzió con la negessidad de preservar la dicha republica de la cayda que se le representava. Haviendo gessado, a Dios gratias, la tal negessidad, digo que cumple a su servigio effectuar la dicha reformagion en manera que con ella quede perpetuamente fixa su ymperial prehemjnengia en la dicha Republica, sin que corra mas peligro de caer en tiempo alguno. La cosa più saggia, proseguì, sarebbe che Carlo V « haga entender ala dicha Republica que su fin et yntengion ha siempre sido de reduzirla en la dicha antigua libertad de Camara Imperiai y buen govierno, y de extingujr sus parcialidades », guadagnando così perpetuamente « los co-ra?°nes de todos unjdos, y mediante tal unjon, conservarà mas segura- 169 Ivi: « [Vostra maestà] se digne considerar con quanta devogion y voluntad le han fielmente y bien servido el duque y la Republica de Genova en toda la guerra pasada quedando en ellos solamente la fe de vuestra magestad perdida en lo restante de Italia, con sostener las calamidades y miserias que son muy notorias, y exponerse a su final destruigion, y que quando otra forma no les quedó para mantenerse en su servigio, se unjeron todas las pargialidades de la dicha Republica a reformar su govierno, en manera que evadiendo sus acostumbradas sugegiones tiranicas y pargiales que la han conduzido en los termjnos do se halla se pudiesse reduzir en su antigua libertad de Camara Ymperial, con la qual perpetuamente se haya de conservar en la devogion y obsequjo naturai que al Sacro Imperio tiene, y pueda cobrar su antigua prosperidad para poderle mejor servir, no mjrando el duque a su particular ynteresse et pringipalidad que pospuso por el servigio de vuestra magestad y bien de su Republica que son muy conjuntos, talmente que con essa forma se aseguró el dicho estado de no caer en manos de los enemigos de vuestra magestad estando en evidentissimo peligro dello, por la perdida de don Ugo de Moncada y estrecha obsidion en que se hallava la dicha ciudad ». — 228 — mente el dicho estado para siempre que con todas las fuergas del mundo ». Patrocinare 1’« unione » in tempo di pace insomma, oltre ad essere una magnanima azione degna dell’imperatore, avrebbe permesso ai genovesi di resistere saldamente a qualunque aggressione e conquistato a Carlo la loro intramontabile fedeltà e gratitudine. Per difendere la città dall’eventuale accusa di aver agito senza una diretta autorizzazione, l’ambasciatore fece inoltre presente che per l’incalzare degli avvenimenti si era stati costretti ad accertare il solo consenso dei ministri cesarei in Italia, cosa, come abbiamo visto, solo parzialmente vera. Si nota nel complesso una decisa caduta di tono rispetto al precedente memoriale; si avverte con chiarezza la difficoltà per il Centurione di trovare argomenti che, passato il momento di pericolo, potessero convincere l’imperatore a prendere in considerazione le sue richieste. Comunque la decretatio relativa al memoriale del 14 marzo e firmata dal Gattinara fu cauta ed evasiva. Si decise di attendere il « pare-cer » di Antoniotto Adorno perché « sobre matura examinagion se pue-da proveer lo que paciere a su magestad que convenga a su servicio y al bien de la Republica ». Lo straordinario esito della battaglia di Pavia impresse una decisa svolta anche all’atteggiamento verso 1’« unione » dell’ambasciatore cesareo a Genova. Il Soria in una lettera del 2 marzo 1525 170 giudicò negativamente il comportamento dei cittadini che « estando la victoria dudosa » non avevano « tenido todo el respecto que se requiere a buenos y fieles servitores ». Essi avevano trattato con il nemico e tentato di mutare la forma di governo « pensando en hazer la union de adornos y fragosos y nuevo regimiento corno republica sin sabiduria de vuestra Magestad ni de sus ministros ». Per quanto riguarda 1’« unione » in quanto tale, disse l’ambasciatore, se la si facesse « con los terminos devidos no seria mala para el servicio de vuestra Magestad, pero yo la tengo por cosa im-possible segun son apassionados en sus parcialidades los desta ciudad ». Un deciso incoraggiamento a realizzare 1’« unione » venne invece da Roma. Ai primi di marzo giunse infatti un breve di Clemente VII indi- 170 RAHM, ms. A-34, cc. 189-190, copia della stessa lettera in BNM, ms. 2021462, doc. n° 7. — 229 — rizzato al Doge ed al popolo di Genova 171. In esso il Papa affermava che il « diletto figlio Domenico » 172 gli aveva a lungo descritto la inauditam consensionem dei cittadini per la salvezza della loro patria e ad formam aliquam verae et bene temperatae reipublicae constituendam [. . .] per quam factionibus discordiisque civilibus aliquando liberata recuperare pristinam auctoritatem et potentiam posset. Tutto ciò era stato motivo di grande gioia per il Pontefice, sia per la particolare affezione che lo legava alla citta, sia perché suo compito precipuo era conserere pacem, tollere discordiam, et labentem ex omni parte propter huiusmodi factiones et bella christianitatem quibus remediis possumus fulcire et sustinere. Finalmente i genovesi, edotti dai gravi danni subiti a causa delle discordie civili, si erano decisi a convertere in publicum privatas voluntates et patriae pietatem. Queste ultime parole forniscono una sintesi assai suggestiva, ed aderente al vero, della vicenda dell’« unione »: la gran parte dei genovesi sentivano ormai da tempo la perniciosità delle fazioni dogali, ma il processo per trasformare queste privatas voluntates in atti di rilevanza istituzionale era stato ostacolato dall’inerzia di un sistema politico che le grandi potenze dall’esterno ed alcuni cittadini all’interno avevano interesse a sostenere. Il breve prosegue nella condanna delle discordie civili, con un tradizionale richiamo evangelico che ritroveremo anche nel preambolo alla riforma dell aprile 1528 173. Dopo alcuni ulteriori accenni al ruolo del Il breve è pubblicato in P. Balan, Monumenta saeculi XVI historiam illustrantia, Oeniponte, 1885, pp. 90-93, e porta la data dei 18 febbraio 1525. Con ogni probabilità si tratta di Domenico Sauli. Questi nella sua auto-biografia racconta che nell’autunno del 1524 aveva abbandonato Genova per recarsi a Roma e ^ che da lungo tempo aveva rapporti di stretta amicizia sia con emente ^ VII sia con il Giberti. In seguito il Sauli fu ampiamente utilizzato dal datario nelle trattative per costituire una lega anti-imperiale, la cosiddetta «congiura del Morone»; vedi D. Sauli, Autobiografia, in «Miscellanea di Storia Italiana», voi. XVII, 1878, e A. Prosperi, Tra evangelismo e Controriforma cit., pp. 57-61. 173 Parafrasando i passi di Mt 12:26, Me 3:23-26, Le 11:18, così si afferma nel breve: Atque idem Deus et Dominus noster Jesus Christus ita ab omni contentione dissidio discordia abhorrens fuit ut cum in sancto evangelio ostenderet quae inde in regnis omnibus venirent mala, etiam regnum Belzebub contra se divisum stare diutius negaverit posse. P. Balan, Monumenta cit., p. 91. — 230 — Pontefice quale tutore della pace nella cristianità, c’è l’enunciazione della speranza che la rinnovata e rinvigorita Repubblica genovese potesse costituire firmae et stabilis anchorae frenum per la vacillante Repubblica cristiana. Il Papa si rivolse quindi direttamente al Doge Adorno: Certe magnum tuum erit, fili Antoni, virtutis nomen et animi magnitudinis si de tua aliquantum dignitate detraxeris ut sit per te dignitas patriae tuae sublimior. Grande sarebbe stato il merito del Doge se avesse rinunciato al suo grado per il bene della patria, ma grande anche il merito di tutti coloro che si fossero impegnati nell’opera di riforma. Clemente VII concluse il breve ribadendo il suo appoggio e patrocinio a quanto si stava facendo a Genova in concordi ac bene morata republica constituenda. Per comprendere appieno il significato di questo documento bisogna ancora una volta rifarsi agli esiti della battaglia di Pavia. La notizia della cattura di Francesco I giunse a Roma nella notte tra il 26 ed il 27 febbraio. Fu un colpo terribile per il Giberti, principale fautore ed artefice dell’alleanza tra Clemente VII e Francesco I. L’arcivescovo Schòn-berg, capo della corrente filoimperiale presso la curia pontificia, rientrò a Roma solo il 4 marzo, e quindi il Giberti, fino a quella data ancora padrone del campo, ripresosi dall’iniziale sgomento potè compiere i primi passi per il rilancio della sua politica m. Da un lato egli cercò di creare i presupposti per una resistenza armata all’egemonia imperiale grazie all’alleanza con i cantoni elvetici175. Dall’altro, come abbiamo visto, offrì un incondizionato appoggio ai genovesi impegnati a realizzare 1’« unione » nella speranza che la città ligure assumesse poi una posizione neutrale. L’indefessa attività del vescovo di Verona fu indirizzata nei mesi successivi a costituire una lega anti-imperiale tra la Francia e gli stati 174 Vedi A. Virgili, Dopo la battaglia di Pavia. Marzo-giugno 152?, in « Archivio Storico Italiano», s. V, IV, 1890, p. 253 e sgg., e soprattutto, su questo momento come su tutta la vicenda del vescovo di Verona, A. Prosperi, Tra evangelismo e Controriforma cit. 175 Poco prima della battaglia di Pavia era stato inviato in Svizzera il vescovo di Veroli Ennio Filonardi ad arruolare nuove truppe, e già la sera del 26 febbraio, e di nuovo il 5 marzo, il Giberti gli inviò delle istruzioni per renderlo consapevole dell’accresciuta importanza della sua missione dopo la cattura del re di Francia. — 231 — italiani. A questo infruttuoso tentativo, conosciuto come « congiura del Morone », la Repubblica rimase sostanzialmente estranea, fatto che finì col giovare non poco alla realizzazione, per i genovesi, di quella « libertà » che i congiurati perseguivano su scala italiana. Torniamo ora alla corrispondenza del Soria che in una lunga lettera del 5 aprile 176 cercò di riepilogare l’accaduto e motivare adeguatamente il suo giudizio negativo sull’« unione ». Con quest’ultima, egli affermava, i genovesi intendevano « governarse corno hazen los venecianos por algu-nas personas de la ciudad y no tener mas cabos de parcialidad y echar al duque con darle cierta renta perpetua y alguna summa en contado y derribar el castillo » 177. Dopo aver ricordato il modello rappresentato dalla Repubblica di Venezia, l’ambasciatore ripercorse le tappe che già conosciamo: la notte di panico del 30 gennaio, la convocazione del consiglio, 1 elezione dei Dodici, il loro giuramento; richiamò i buoni motivi che avevano spinto il Doge a dare il suo assenso e la positiva risposta di San Giorgio alle richieste finanziarie del governo dovuta all’avvio delle pratiche di « unione ». Dopo la battaglia di Pavia, scriveva il Soria, « ha comengado a resfriarse està union por aquellos que alhora fueron los inventores della »; lo preoccupava però l’intensificarsi delle pressioni provenienti da Roma, da dove era giunto, come sappiamo, il breve in cui si assicurava « todo favor » della curia pontificia all’« unione », ed il « datario del Papa » aveva scritto ai genovesi per sollecitarli a « traher a cabo » la riforma del governo. In città i partigiani dei Fregoso, consci « que toda mudanga les podria ser provechosa y que no pueden estar peor de lo que agora estan », sostenevano la necessità di fare 1’« unione », appoggiati in questo dai popolari, « los unos por la passion que tienen por la parcialidad y los otros por ygualarse con los gentiles hombres »; gli adorneschi invece, passato il pericolo, erano ora risolutamente contrari. Il Doge, allettato dalle offerte di denaro, era favorevole, convinto che lasciando il dogato con il consenso dell’imperatore non gli sarebbe stato 176 RAHM, ms. A-34, cc. 220-224. 177 Più oltre in questa stessa lettera il Soria parla di cinquemila ducati di rendita perpetua in luoghi del banco di San Giorgio e di venticinquemila in contanti come indennizzo per la rinuncia delPAdorno alla carica di doge. — 232 — precluso un eventuale ritorno ai vertici dello stato genovese qualora se ne fosse presentata la necessità, « y ganar lo uno y lo otro ». Il Soria comunicò quindi che i Dodici e « la comunidad » avevano deciso di inviare come ambasciatori Filippo Sauli e Tommaso Cattaneo con l’incarico di perorare presso Carlo V la causa dell’« unione ». Egli anticipò le « muchas razones » che avrebbero avanzato (grosso modo le stesse addotte dal Centurione) ; ragioni che « a prima facie pareceran sanctas y buenas ». L’imperatore tuttavia non avrebbe dovuto lasciarsi convincere: Yo creo que vuestra Cesarea Magestad deve tener entera informacion de la importancia y qualidad desta ciudad y quanto importa a su servicio tenerla sugieta de suerte que pueda servirse della seguramente y que non pueda volver a sus enemigos, y para esto no me parece que seria buena la dicha union porque en la bertad [sic] no lo sera en el efecto union porque solo Dios abasta hazer que no sean divisos y apassionados los desta ciudad en sus parcialidades, y estando el govierno en manos de muchos y de barias opiniones no sé qué seguridad podrà tener vuestra Magestad dellos porque 10 servan lealmente en caso de necessidad y que no volgan a sus enemigos o que los fragosos no procuren de poner alguno de sus partiales con el favor de hun Papa o de Francia. Y quando algo desto se siguesse de quien tomaria la emienda y a quien castigaria vuestra Magestad? 11 Soria prevenne una logica obiezione: qualcuno avrebbe potuto affermare che avendo i genovesi tanti beni in Spagna, ed essendo quindi esposti ad eventuali rappresaglie, mai avrebbero osato porsi contro l’imperatore, ma, affermava, « yo respondo que toda Genova no vale tanto quanto seria el dano que vuestra Magestad poderia recebir en caso que ellos se reboltassen para desservirlo y el castigo seria pagar los justos por los peccadores quando vuestra Magestad mandasse tornar sus hazien-das y el dano no se podria escusar ». In sostanza l’ambasciatore cesareo riteneva che Genova non si potesse reggere come una Repubblica « sin tener una cabega ». Era necessario che il Doge, o un rappresentante diretto di Carlo V, governasse insieme « con los que pensassen governar hecha la union ». Senza un capo, concluse il Soria, « segun son enemigos los unos de los otros no seria union, si no confusion y desservicio de vuestra Magestad y en breves dias havria entrellos muchos escandalos corno ya ha estado en precinto de haverlos sobra este articulo ». La risposta dilatoria al secondo memoriale del Centurione e l’at- — 233 — teggiamento negativo dell’ambasciatore cesareo ebbero il potere di affossare per il momento la riforma? Ecco quanto sull’argomento riferisce il Sanudo nel trascrivere una lettera di Francesco Gonzaga spedita a Venezia da Roma e redatta il 28 marzo 1525: Se intende, questi signori imperiali non si contentano che genoesi mandino in executione quello loro pensiero che haveano fatto di governar Genoa in libertà nel modo fu provisto, dicendo questo non esser in proposito di la Cesarea Maestà; e rezercano che ’l governo perseveri come ha fato fin qui, in Duce signor Antoniotto Adorno con l’autorità che ha hauto sempre; e cussi si pensa si exeguirà senza innovare alcuna altra cosa178. Le fonti genovesi dimostrano invece che il rifiuto imperiale o non fu così reciso o comunque non scoraggiò subito i fautori della riforma. A più riprese, nel leggere i memoriali del Centurione, si ha la netta impressione che la riforma fosse già entrata nella sua fase esecutiva in un qualche momento compreso tra il 3 febbraio e il marzo 1525. Purtroppo non si è ritrovato traccia di ciò negli archivi genovesi. Tuttavia un importante documento testimonia perlomeno l’avanzato grado di elaborazione del progetto unitario. Nei « manoscritti di Parigi » (si tratta di un nutrito fondo di documenti genovesi sottratti per ordine di Napoleone e restituito pochi decenni fa) è conservato infatti un elenco, ancora non segnalato, di ventotto alberghi nei quali era stato ripartito un gran numero di famiglie genovesim. L’intestazione del documento non lascia dubbi sulla data della sua stesura: Nomina civium aggregatorum anno 1525 die 15 aprilis, facti per duodecim viros ad unionem faciendam. Già nel 1525 si era pensato di utilizzare ventotto alberghi come base della riorganizzazione del ceto dirigente, con una distribuzione delle famiglie assai simile a quella definitiva del 1528. Il fatto che il documento porti la data del 15 aprile dimostra come a quell epoca i genovesi lavorassero ancora alla riforma. Infatti un terzo memoriale contenuto nel « Libro » del Centurione ci informa di come a Genova all inizio della seconda metà del 1525 si continuasse a sperare di ottenere il consenso cesareo all’« unione »: 178 M. Sanudo, I diarii cit., voi. XXXVIII, coll. 155-156. 179 ASG, Manoscritti di Parigi, voi. I, cc. 243 r. - 244 r. — 234 — El embaxador de Genova: digo que ya sabe vuestra magestad corno Jacome Centurione gentilhombre embiado por el duque de Genova a consultarle lo que ha occurrido y su pareger agerca la reformagion del govierno de aquella Republica, le ha fecho relagion dello y dado memorial de lo mas sustancial, para que vuestra magestad sobre devjda examinagion pueda proveher lo que le pareciere que cumpla a su servigio y al bien de la dicha Republica de cuya restauragion se confia que tenga el cuydado que la razon pide, por todos los respectos dichos que es superfluo replicar. Y por que se ha diferido la resolugion hasta la llegada del Illustrisimo visorrey de Napoles ynformado de las cosas de aquellas partes el qual agora se halla presente, suplico a vuestra majestad se digne ordenar sobrello lo que a su bondad y clemencia pareciere que mas conviene !8°. Il documento fu presentato all’imperatore il 13 luglio 1525 a Toledo. Si chiedeva ancora una volta che egli esprimesse la sua volontà sul nuovo assetto politico della Repubblica. In Spagna si era atteso, per prendere una decisione definitiva sulla riforma, l’arrivo del viceré di Napoli, Charles di Lannoy, evidentemente incaricato di verificare di persona le intenzioni dei genovesi. Il Lannoy infatti si recò a Genova in giugno come responsabile del trasferimento di Francesco I in Spagna. Egli giunse a Barcellona con il re cristianissimo il 19 dello stesso mese. Nonostante la sua presenza, la risposta imperiale fu di nuovo evasiva. Stavolta si rinviò definitivamente la decisione al momento del tanto atteso e contrastato viaggio di Carlo V in Italia: Al premiero: que pues este negocio es de tanta consequentia y tanto importa al buen govierno de aquella republica y sossiego de la dicha ciudad, es razon que con grande deliberation y muy maduramente antes que ottorgar la union platicada entre ella sea su magestad bien informada del danno o provecho que della se podria seguir a la dicha Republica, y si en ella corno camera imperiai se ha el respecto qual conviene a l’auctoridad et preheminengia de su magestad, y por estas razones para poderse mejor informar del todo, su magestad reserva la resolugion del dicho negocio a su yda en ItaliaI81. La risposta equivaleva ad un rifiuto, perlomeno momentaneo, e da questo momento si incontrano solo accenni sporadici all’« unione » che 180 ASG, Archivio Segreto 2718, Libro de recolecta cit., c. 85 v. Un’altra copia di questo documento è contenuta in ASG, Archivio Segreto 2734, Materie politiche. Privilegi concessioni e trattati, foglio sparso. 181 Ivi. — 235 — tornò in primo piano nel dibattito politico all’inizio del 1527 m. Il dato che risulta a mio giudizio da questa documentazione riguardante il tentativo di riforma unitaria del 1525 è che i suoi risultati dipendevano in modo strettissimo dalle oscillanti vicende internazionali, e che essa mirava a porre fine ai mutamenti di regime indotti dal prevalere ora di una ora dell’altra delle due grandi potenze europee. Per raggiungere questo obiettivo si dovevano eliminare le fazioni, ma era soprattutto necessario ridurre i membri delle due famiglie degli Adorno e dei Fregoso al rango di privati cittadini, togliendo loro il monopolio sul dogato. Era l’unico modo per sganciare i destini della Repubblica dai mutevoli esiti delle guerre d’Italia, e ciò si poteva ottenere solo agendo sui meccanismi istituzionali ed eliminando la carica di Doge a vita. Gli esiti del conflitto franco-asburgico potevano, alternativamente, favorire o ostacolare il progetto di riforma. Era quindi necessario, al di là del più o meno momentaneo favore incontrato dall’« unione » presso i due sovrani o presso i loro più stretti collaboratori, una forte spinta riformatrice all’interno che, creando uno stato di permanente tensione, permettesse di cogliere le occasioni fornite dal continuo rimescolarsi del quadro politico europeo. È ciò che avvenne nel 1527-1528 quando il progetto di « unione », ripreso nell’ultimo periodo di dominazione francese, passò di fatto inalterato alla Genova filoasburgica di Andrea Doria. 182 Ricordiamo solo un’istruzione redatta in data 15 settembre 1525 per Nicola Pinelli inviato dal governo genovese all’arcivescovo della città e cardinale Innocenzo Cibo (ASG, ms. 652, pp. 1597-1600). Il Pinelli avrebbe dovuto far presente al Cibo il grave disordine in cui versava a Genova « lo spirituale » a causa del fatto che egli non risiedeva nella sua sede arcivescovile e invitarlo quindi a rinunciare ad essa. L’istruzione esordisce in questi termini: « Messer Nicolò, l’aver iddio, mo’ fa l’anno, illuminato dar principio a riformare la città, e col suo aiuto havendola ridotta a vivere in forma di Repubblica, vedendo che da buoni principii ne dipende la fine e ottimi frutti, e caminando dietro all’opera, a mezo del camino, si siamo aveduti che poco gioveria haver regula .o lo stato nostro seculare quando il spirituale restasse con il solito disordine ». Negli inventari della Reai Academia de la Historia di Madrid abbiamo poi trovato il breve sunto di una lettera del Soria a Carlo V in data 8 giugno 1526, nel quale si accenna a « negociaciones para la unión de los dos bandos de los Adornos y de los Fragosos para la pacificación de dicha ciudad ». Tuttavia non è stato possibile consultare il manoscritto in cui era contenuta la lettera in quanto sottoposto a restauro. — 236 — 4. Il tentativo di « unione » del 1527 e l’emergere del problema di Savona Le pratiche di « unione » ripresero nel febbraio del 1527 e risultano da allora intrinsecamente legate al problema di Savona. Esiste una evidente sinergia tra la volontà di eliminare, sul fronte interno, le lotte di fazione e quella di ridefinire i rapporti tra Genova ed il maggiore centro urbano del suo dominio: si trattava delle due facce del processo di rifondazione politica della Repubblica in atto nel terzo decennio del Cinquecento; non sarà quindi inutile ricostruire brevemente i caratteri della difficile convivenza tra le due città durante il dogato di Antoniotto Adorno. Nel settembre 1523 Vofficium Saone genovese inviò nella città soggetta Giovanni Battista de Mari in qualità di commissario. Egli, secondo l’istruzione per lui redatta, avrebbe dovuto, con un brigantino e trenta-due uomini di equipaggio, stazionare nel porto in modo da poter fermare tutte le navi in entrata e in uscita permettendo libero transito solo a quelle provviste di regolare licenza sottoscritta dal cancelliere e munita di sigillo; le altre dovevano essere catturate ed inviate a Genova con le loro mercanzie183. L’unica eccezione riguardava le vettovaglie: le navi cariche di grano, formaggio, olio, vino e carne salata potevano attraccare liberamente, sempre che si trattasse di merci di proprietà dei savonesi e destinate al sostentamento della città 184. L’area soggetta al control- lo del commissario comprendeva anche i « lochi circonvicini », ed in particolare Albisola, perché si aveva notizia che per eludere i divieti si trasportavano via terra le merci da Savona ad altri approdi minori della riviera da dove poi uscivano indisturbate. Gli ordini impartiti erano tassativi: « tutto quello cognoscerete esser in fraude prenderete e lascerete cridare chi si voglia, mandando poi tutto qua con cauto modo in poter nostro ». Era prevista l’eventualità che si presentassero nel porto di Savona dei « vasselli grossi » contro i quali il brigantino genovese non sarebbe potuto intervenire con la forza. In questo caso il de Mari i» ASG, ms. 652, c. 1587. 184 Ivi, cc. 1588-1589. — 237 — avrebbe dovuto solo presentare al capitano della nave « un comandamento o sia patente » che intimava sotto gravi pene il divieto di attracco; se la nave fosse entrata ugualmente sarebbe stata bombardata dagli artiglieri della rocca 185. Queste forti restrizioni commerciali suscitarono com’è ovvio il malcontento dei savonesi186; tuttavia, nel marzo 1524 i magistrati genovesi decisero di aumentare la vigilanza, inviando « alla guardia di Vado », piccolo porto ad occidente di Savona, un certo Stefano Gentile da Noli. Questi aveva il compito di far buone guardie tanto di giorno come di note che non passeno robbe né mercantie alcune sopra lo vostro termine per andare a Savona, né edam che escano da Savona per che loco si sia, e siano dette robbe e merci tanto de savonesi come de qualsivoglia altra persona e niuna esclusa, imperoché nostra intentione è che né per mare né per terra traffego alcuno de che cosa si voglia se possa far da che banda si voglia in Savona, né etiam da Savona in altro qual si voglia locoI87. La concezione del dominio che sottostà a questi provvedimenti è semplice: in nessun modo l’attività commerciale dei genovesi doveva subire la concorrenza dei centri rivieraschi. La Repubblica come stato territoriale aveva la sua ragione d’essere nella difesa del monopolio economico della dominante. Quanto questo modo di pensare fosse radicato nel ceto politico genovese, ce lo testimonia una lettera di Martino Centurione del 13 giugno 1524 188. Dopo aver condotto con successo la lun- 185 Per garantirsi ji corretto comportamento del commissario le autorità genovesi non lesinarono né premi né minacce: oltre alle 25 lire di « salario » questi avrebbe ricevuto un terzo delle merci sequestrate da dividere con i suoi uomini; se però fosse stato colto « in prendere mangiarle », se cioè si fosse lasciato corrompere, sarebbe stato privato del soldo e duramente punito, ivi. 186 Ai contrasti tra Genova e Savona si riferiscono due lettere di Lope de Soria a Carlo V dell 8 e 25 febbraio 1524, RAHM, ms. A-30, rispettivamente cc. 143-144 e cc. 260-263. 187 Istruzione a Stefano Gentile del 2 marzo 1524, in ASG, Archivio Segreto 2707yC, una copia in ASG, ms. 652, c. 1590. Il Gentile nello svolgere il suo compito doveva seguire norme simili a quelle stabilite per il commissario Giovanni Battista de Mari di cui era un sottoposto. 188 ASG, Archivio Segreto 2410. — 238 — ga lotta per la revoca della « prammatica delle nave » ed aver ottenuto il diritto di carico per le imbarcazioni liguri nei porti spagnoli, egli si rese conto che di tale privilegio avrebbero beneficiato oltre ai genovesi anche i sudditi delle riviere: Io dubito assai che con questa licencia obtenuta de poter carricare ogni vassello de la natione nostra in Spagna, in tempo di pace li vasselli picoli leverano lo aviamento a li grossi et che li riveraschi con essi picoli se ne valerano assai. Se per questo paresse a vostre signorie che dieta licencia se facesse restringere per sole nave de convento [in convoglio] o de più de tanta portata, forsi che seria a proposito per togliere questo inconveniente al fabricar nave grosse. L’ambasciatore proponeva addirittura di chiedere alle autorità spagnole di restringere i termini di revoca della « prammatica » pur di evitare a Genova la concorrenza delle riviere. I savonesi non erano però disposti ad accettare passivamente le misure che limitavano la loro attività commerciale e, ci informa il Centurione, cercavano « per vie indirecte, sotto molte secretanze et cautelle, di havere alchun sufragio da la cesarea Maestà sopra li casi soi con la communità nostra » 189. Il rappresentante genovese riferì di aver contestato la legittimità del ricorso all’autorità imperiale da parte di sudditi della Repubblica e, andando oltre l’aspetto giuridico del problema per coglierne il nucleo politico, di aver fatto intendere a soa Maestà e a questi signori che dando orecchie a simile cose ne resulterebe la perdita de la total devotione de la communità a soa Maestà, dependendo da simile materia ogni final bene et male de la città nostra, et fattoli sommariamente intendere li perversi portamenti di detti savonesi et le iustificatione usate per li nostri, il che mi pare pur che habbi giovato assai e talmente che fin qui gli è stata serrata ogni porta. Le parole dell’ambasciatore non lasciavano adito a dubbi: la questione di Savona era talmente importante che un intervento imperiale su questa materia avrebbe messo in forse la fedeltà di Genova a Carlo V. I savonesi continuarono a premere per ottenere la protezione cesarea, ma l’offensiva di Francesco I alla fine del 1524 rimescolò le carte: Savona cadde in mano francese e fu occupata dalle truppe del marchese di Sa- 189 Ivi, lettera del 10 luglio 1525. luzzo fino alla battaglia di Pavia. Dopo la cattura del loro re i francesi abbandonarono il ponente ligure che tornò sotto il controllo genovese. A questo punto la politica della Repubblica nei confronti di Savona si fece ancora più dura e dalle restrizioni al commercio si passò ad un intervento diretto sulle strutture del porto per renderlo inagibile. Nel marzo del 1525 vennero inviati a Savona quattro commissari con il compito di ispezionare il molo, decidere il punto « dove si giudicherà esser più facile a rovinare e a maggior danno » ed iniziare quindi lo smantellamento; « e così — fu ordinato — fareti si vada appresso per fino a tanto sarà rovinato tanta parte di detto molo che pare sufficiente alla total devastatione di detto porto » l90. Gli operai dovevano alloggiare nel castello e non in case di privati, e ciò al fine di evitare ogni attrito con la popolazione191. Era prevedibile che alcuni savonesi si sarebbero fatti avanti cercando di ottenere la sospensione dei lavori192, ma ai commissari fu dato il tassativo ordine di non dare udienza, di invitare i querelanti a rivolgersi ai magistrati genovesi e di proseguire senza indugi nell’opera loro, « perché altro non desideriamo che la prestezza e così in quella prò maiori parte consiste vostro affare, perché un’hora a finire il lavoro n’è un anno per molti respetti quali hora si ommettono ». C’era quindi la determinazione di portare a compimento l’opera, e con la massima celerità. 90 Istruzione del Doge e déll’officium Saone ai commissari per la distruzione del porto di Savona in data 13 marzo 1525, in ASG, ms. 652, cc. 1594-1596. Secondo precedenti stime sarebbe stato necessario demolire non meno di cento palmi (venticinque metri) di molo, gettando poi tutto il materiale rimosso nelle acque del porto. Questo aspetto preoccupava molto le autorità genovesi che affermavano: « nostra intentione e che in tutte le attioni vostre e de questa impresa talmente vi conteniate e sia adoperato che in modo alcuno non possa nascer rissa alcuna in quel luoco, né che niuno giustamente si possa querelare, ma che solamente il disegno per lo quale in quel molo sete destinati, del rovinar di detto molo, si venga pacificamente ad empire ». I quattrocento soldati di stanza in città dovevano essere subito pagati dai commissari onde evitare che qualche loro « malo contegno » facesse scoppiale un tumulto, in definitiva niente doveva essere tralasciato perché la demolizione del molo avvenisse « quietamente », ivi. 192 « Crediamo verrano in castello alcuna volta qualche saonesi, tanto forse a nome publico come privato, a persuadervi per qualche cosa e massime di qualche so-evatione della terra andando appresso all’opera, et altre consimili parole per astalar 1 affar vostro », ivi. — 240 — La piega presa dai rapporti tra Genova e Savona suscitò inquietudine nelPambasciatore cesareo Lope de Soria che il 5 aprile del 1525 scrisse, in cifra, a Carlo V invitandolo ad intervenire 193: Sahona [...] es tierra de importanda y tiene differendas con los desta comunidad a causa que estos quieren tenerlos subjectos y que no reconozcan otro superior que a ellos por via directa ni indirecta, y los de Sahona no lo quieren consentir si no que quieren tener a vuestra Magestad por superior en todas cosas o a lo menos pais en caso que entre ellos y los desta ciudad naciessen nuevas differencias, y sobre esto fazen los desta ciudad tantas vexaciones a los de Sahona que la tienen destruyda totalmente, porque entre otras cosas le tienen vedado que no traete de mercancia alguna ni [. ..] salga en su puerto ningun navio para cargar ni descargar cosa alguna, y en esto vuestra magestad deve mandar proveher assi por lo que conviene a su servicio corno por quitar tales differendas como hay entre ellos. Le parole del Soria inquadrano bene i termini del contrasto tra le due città. Il riconoscimento del diritto di appello all’autorità imperiale costituiva la più importante delle richieste avanzate dai savonesi presso la corte cesarea 194. Il Soria tornò sull’argomento in una lettera del 12 maggio 195 in cui consigliava a Carlo V di scrivere « a los unos y a los otros que diessen fin a las dichas sus diferencias porque con ellas se destruie Saona y no gana nada Genova », ed affermava inoltre di non essere certo che i genovesi fossero nel giusto essendo Savona « tierra de Imperio ». Nonostante che l’ambasciatore cesareo fosse favorevole ad una composizione del dissidio, verso la fine del 1525 a Genova si iniziò a discutere di nuovi, duri provvedimenti contro la città rivale. Il Marchese di Pescara, venuto a conoscenza del fatto, scrisse nell’ottobre al Doge ed agli Anziani diffidandoli dal prendere iniziative contro Savona 196. La sua i» RAHM, ms. A-34, cc. 220-224. 194 Di ciò si preoccupava assai il Centurione che in una lettera dell’8 gennaio 1525 avvertì dell’insistenza dei savonesi «che sempre martellano per ogni via sopra loro desiderii» talché, «non provedendovi, ne potria reuscire qualche inconveniente », ASG, Archivio Segreto 2410. 195 RAHM, ms. A-34, cc. 283-285. 196 A questa lettera, di cui non abbiamo trovato traccia, si accenna nell’istruzione, scritta in data 10 novembre 1525, a Giovanni Battista Lasagna incaricato di — 241 — ingiunzione non fu però rispettata e Lope de Soria comunicò a Carlo V in una lettera del 4 novembre 197 di essere venuto a conoscenza del progetto di ostruire il porto di Savona colando a picco alla sua imboccatura due navi cariche di pietre 198. Egli riferì di aver udito le ragioni addotte dai genovesi199 e di aver espresso le sue riserve: yo he rogado a los desta ciudad de parte de vuestra magestad que miren bien lo que hazen y que sea conforme a justicia, porque no se puedan quexar los de Saona que por fuerga le hazen dar obediencia, y hazerlo que no deven, pudiendolo consultar con vuestra Magestad la qual mandarla determinar conforme a la justicia de todos y desta manera havria efecto su derecho sin violencia ni escandalo. Il Soria aggiunse poi alle ragioni di giustizia altri motivi: il porto di Savona poteva essere molto utile a Carlo V in quanto costituiva per la flotta imperiale un’alternativa nei casi di emergenza determinati dal maltempo o quando Genova fosse colpita dalla peste. Egli si dichiarava incerto sugli sviluppi della situazione: c’era la possibilità che si trattasse di sempiici minacce per intimorire i savonesi ed indurli all’obbedienza ma « segun son enemigos los desta ciudad [i genovesi], de Saona» era più probabile che si effettuasse quanto progettato. Il giudizio finale portare risposta al Pescara (ASG, Archivio Segreto 2707/C, copia in ASG, ms. 652, c. 1602). Se ne parla anche in una missiva dell’abate di Nàjera a Carlo V del 7 novembre (BNM, ms. 2021321, doc. n° 74) in cui si afferma: «ha mas de XV dias que il marques istituió al duce de Genova y a la cibdad que en ninguna manera hiziessen esecugion alguna contra Saona porque no hera tiempo de hazer semejantes cosas, estando las cosas de Italia en la alteragion que stan ». La lettera del Pescara è quindi da collocare prima del 23 ottobre 1525. Su entrambi i documenti sopra citati torneremo tra poco. 197 RAHM, ms. A-36, cc. 127-130. « Estan determinados los de Genova de romper el puerto de Savona y esfon-dar a la boca dèi dos naves cargadas de pietra porque no se pueda hazer alli mas puerto ni se puedan recoger ningunos navios », ivi. « Dizen los de Genova que les viene mucho dano por aquel puerto assi en los derechos de las mercandas como en quitarse el trato desta ciudad por aquella comodidad que tienen los navios de yr alli, y assi mismo quieren los de Genova que los de Saona les den entera obediencia como a supremos sus sefiores corno la dan los otros lugares de la ribera diziendo que assi les pertinece este lugar corno los otros », ivi. — 242 — che concluse la lettera è di estremo interesse: « no sé enteramente la justicia de ninguna de las partes, però si Genova la tiene justa cosa es que haya efecto pues ella es la cabeqa y la que gasta y serve a vuestra Magestad ». In queste parole c’è una parte importante della politica cesarea nei confronti della Repubblica: era Genova a servire la causa imperiale ed a sborsare denari per essa; che quindi, fintanto che rimaneva fedele alleata, si regolasse nei problemi politico-territoriali interni come meglio credeva. Si tratta di un atteggiamento ben diverso, come vedremo, da quello che Francesco I avrebbe adottato di lì a poco, proprio rispetto alla questione savonese. Lo stesso 4 novembre, mentre l’ambasciatore cesareo scriveva la sua lettera, quattro commissari ebbero l’incarico di condurre nel porto di Savona tre vascelli carichi di pietre e di affondarli « in quel luoco di detto porto a più devastatione e rovina di quello, così com’è de bisogno e desiderio nostro » 20°; l’ordine fu eseguito nei due giorni successivi. Solo il 10 novembre si decise di inviare Giovanni Battista Lasagna, in qualità di oratore, dal marchese di Pescara per giustificare il fatto di aver ignorato la sua ingiunzione. Il Lasagna avrebbe dovuto riferire, ossequiosamente ma con fermezza, che non era stato possibile tornare sulle decisioni prese e che Genova era nel pieno diritto di eseguirle201. Di particolare interesse è una lettera, inviata il 7 novembre da Milano, dell’abate di Nàjera a Carlo V, nella quale si comunicava l’avvenuto affondamento delle navi nel porto di Savona e si riferivano alcuni sospetti sul significato politico di quanto era accaduto: Algunos quieren dezir que ha seydo pratica que el datario ha tenido y tiene con algunos principales de Genova, con disseno que si Genova penshasse algun dia mudar estado y el armada de vuestra Magestad no estuviesse en Genova, que tam poco pudiesse estar en Saona. Estas son cosas delicadas, y es menester llevarlas y disimularlas de manera que nosse quiebren. Del 200 L’istruzione dell’ufficio di Savona ai quattro commissari è in ASG, ms. 652, c. 1601. 201 Questi erano gli ordini per il Lasagna: « soa excellentia satisfereti a non essere stato possibile quella compiacere in lo astarle l’impresa in corso et etiam quella fareti capace de la grande iusticia nostra ad poter exequire e fare quel al presente contra dicti saonesi se fa », ASG, Archivio Segreto 2707/C, copia in ASG, ms. 652, c. 1602. — 243 — duce fasta hora no ay sospecha ni creo que la avra, mas en la cibdad ay hartos amigos del datario y de su profession y que han solicitado esto de Saona, lo qual por lo que yo he podido entender por verdad es fuerga y ynjusticia que con el tiempo merece pena, vuestra magestad deve mandar venyr las galeras con toda diligenda a Genova porque otramente no està nada segura 202. L abate vide quindi dietro i provvedimenti presi contro Savona, come pochi mesi prima il Soria dietro le pratiche di « unione », le trame del Giberti e dei suoi « amici » filofrancesi in Genova. Non è possibile per ora verificare l’attendibilità di queste affermazioni; è tuttavia probabile che in esse ci sia una parte di verità, ma solo una parte. Giustamente calati nel loro ruolo, il Marin e il Soria dividevano i genovesi in partigiani della Francia, fregosi, e dell’impero, adorni, e qualunque iniziativa che vedesse coinvolti i primi appariva loro come una minaccia; essi non erano per questo in grado di capire che problemi come quelli di Savona e dell « unione » erano capaci di scuotere l’animo dei cittadini e chiamavano in gioco forze politiche e sociali non riconducibili alla contrapposizione tra le parti dogali. Nonostante le riserve degli agenti cesarei, Genova continuò la sua dura politica nei confronti della città rivale. Il 22 novembre quattro nuovi commissari furono inviati a Savona « per la total perfettione » della rovina del porto 203 e Martino Centurione fu debitamente informato perché difendesse di fronte a Carlo V l’operato della Repubblica . Nel marzo del 1526 gli Anziani condannarono Savona al pagamento di 125.000 ducati d’oro ed inviarono Pietro Maruffo e France- BNM, ms. 2021321, doc. n° 74. Notiamo, brevemente, la discordanza delle fonti sul numero effettivo delle navi affondate nel porto di Savona: due diceva il Soria nella lettera del 4 novembre, tre l’istruzione ai commissari sempre in data 4 novembre, cinque la lettera dell abate di Nàjera e di nuovo cinque quella di Lope de Sona del 17 novembre ( quest’ultima in RAHM, ms. A-36, cc. 192-193). È probabile che si sia trattato effettivamente di cinque navi: le due lettere che concordano su questa cifra erano infatti state scritte ad affondamento avvenuto. 203 Le direttive per i nuovi commissari si trovano in ASG, ms 652 cc 1603- 1604. 204 Due istruzioni per il Centurione furono redatte in data 5 e 7 gennaio 1526 ivi, rispettivamente cc. 1607-1608 e 1609-1610. — 244 — sco Spinola a esigere l’enorme somma 205. Gli ordini loro impartiti mostrano l’inflessibile determinazione dei genovesi: i due commissari, una volta giunti in Savona, avrebbero dovuto informarsi su « quali cittadini saranno più a proposito a far prender in quella città », e dell’ubicazione dei magazzini dove erano conservate le loro merci; quindi si sarebbe proceduto all’arresto di un numero di savonesi tale che con il loro riscatto si potesse coprire la somma dei 125.000 ducati; per questo era necessario, si afferma nell’istruzione, non incarcerare « salvo buone borse e che le persone volgari siano lasciate stare ». Prevedendo che i savonesi più ricchi si sarebbero resi irreperibili, ai commissari era stata fornita una « licenza de suspetto », grazie alla quale essi ebbero amplissimi poteri di giustizia e il diritto di perquisire qualunque abitazione. Dopo che Francesco I fu liberato il 17 aprile del 1526, in seguito alla firma della pace di Madrid nel gennaio, quello dei rapporti tra Genova e Savona cessò di essere un problema di politica interna e tornò a collocarsi nel più ampio quadro del conflitto franco-asburgico. Secondo quanto aveva lucidamente previsto il Gattinara, Francesco I denunciò come estorto il trattato di Madrid e concluse a Cognac, il 22 maggio, la nuova « Lega santa » con il Papa, lo Sforza, Firenze e Venezia. Di nuovo, come alla fine del 1524, Carlo V era solo in Italia contro una potente coalizione. Negli accordi di Cognac fu stabilito (secondo le parole di uno dei protagonisti, Francesco Guicciardini) che « recuperandosi Genova [Francesco I] vi avesse quella superiorità che vi soleva avere per il passato; e che volendo Antoniotto Adorno, che allora ne era Doge, accordarsi con la lega, fusse accettato, ma riconoscendo il re di Francia per superiore, nel modo che pochi anni innanzi aveva fatto Ottaviano Fregoso » 206 ; se il Doge avesse rifiutato tale offerta, Federico Fregoso, arcivescovo di Salerno, avrebbe governato Genova in nome del re. La fedeltà cesarea di Antoniotto rimase ferma e l’esercito della lega iniziò l’offensiva militare in Lombardia, accompagnata « dall’eterna mossa contro Genova » 207. Come in altre occasioni si decise di istituire un 205 L’istruzione ai due, redatta in data 3 marzo 1526, è trascritta ivi, cc. 1611- 1612. 206 F. Guicciardini, Storia d’Italia cit., voi. Ili, p. 1719. 207 P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare cit., pp. 568-569. Alla metà di luglio — 245 — blocco navale confidando nel fatto che la città ligure « non poteva [. ..] stare molti dì col mare serrato per le mercanzie, per gli esercizi e per le vettovaglie »20s. La flotta francese si costituì a Marsiglia tra il luglio e 1 agosto del 1526 e fu affidata al comando di Pedro Navarro, mentre Federigo Fregoso ebbe il compito di gestire gli aspetti politici della conquista di Genova. Questa situazione generò subito dei contrasti; il Fregoso pretendeva di avere la direzione strategica dell’impresa 209 e chiedeva lettere del re che obbligassero il Navarro in tal senso, ma le lettere non arrivarono nella forma dovuta e i rapporti tra i due divennero sempre più tesi210. La flotta lasciò Marsiglia raggiungendo la riviera di ponente verso la metà di agosto e non stupisce certo, vista la politica adottata da Genova nei confronti di Savona, se quest’ultima si consegnò il Soria scriveva a Carlo V che Genova, difesa solo da sei galere, era gravemente minacciata dalle forze della lega (lettera del 15 luglio 1526 in RAHM, ms. A-38, c. 40 e sgg.). L importanza attribuita alla conquista di Genova risulta chiaramente da una lettera di Francesco Vettori al Machiavelli scritta il 24 agosto. In essa il Vettori si diceva convinto che « nella revolutione di Genova consistessi assai la victoria [della lega] », e più oltre, « se [gli imperiali] havessino perduto Genova, non potrebbono havere né denari né imbasciate né lettere » (pubblicata in Altri documenti di Storia Italiana, a cura di G. Molini, in « Archivio Storico Italiano », app. 9, t. 1, 1844, pp. 417-419, e in N. Machiavelli, Lettere, a cura di F. Gaeta, Milano 1961, pp. 485-487). 208 F. Guicciardini, Storia d’Italia cit., voi. III, p. 1736. ; un lettera al Montmorency del 25 luglio 1526, il Fregoso auspicava che «1 armata [.. .] mi presti l’obedientia che si conviene a questa impresa» e chiedeva che il Navarro « in le cose di Genova faccia quello ch’io li dirò » (Documenti di Storia Italiana, a cura di G. Molini, Firenze 1836-37, voi. I, p. 213). Già il 31 luglio arcivescovo, sempre al Gran Maestro, scriveva indignato « s’io non haverò l’ubi-dientia de 1 armata in le cose de Genova poco li importarà la mia persona sanza au-thontà, et oltre che mi mancherà il modo di poter servire, mi mancherà etiam l’animo, perche havendomi lassato li miei predecessori tanta authorità in quel paese, come io li ho, io non intendo che in le cose di Genoa mi debba essere alcun altro superiore, salvo il re », ivi, p. 214. Il Fregoso in una lettera dell’8 agosto al Montmorency affermava: « Quando io cognoscerò che in l’impresa di Genova si tenga di me quel conto che ricerca authorita che m’han lassati li miei predecessori da ducento anni in qua, io seguiterò ad affaticarmi per el servitio del re [...]. Quando io veda il contrario, cioè che l’opera mia non sia giudicata dal re et da gli altri molto necessaria [. ..] io me tornarò indietro senza alcun dubbio, et lasserò fare a gli altri », ivi, p. 216. Nonostante le minacce 1 arcivescovo finì col partire insieme al Navarro. — 246 — «per accordo anzi per volontà»21'. Federico Fregoso in una lettera ad Anne de Montmorency del 20 agosto 1526 212 sosteneva che la città si era resa a lui personalmente, ma che il Navarro aveva mandato altri a parlare con i savonesi, trattando « molte cose fora del bisogno [. . .] il che se sarà inteso a Genova non servirà niente »; il Fregoso si rifiutò inoltre di prendere l’obbedienza di Savona, affermando che non « mi era lecito pigliarla in sino a tanto ch’io non habbi el dominio di Genova, della quale Saona è suggetta ». La posizione dell’arcivescovo è chiara e non era certo immotivata. Pur mostrandosi risentito per essere stato scavalcato dal Navarro, egli sapeva che la sua autorità di capoparte a niente sarebbe valsa qualora avesse avallato il progetto di separare Savona dal dominio della Repubblica. Erano accaduti altri episodi che rischiavano di compromettere l’esito dell’impresa: in particolare parve inopportuna sia al Fregoso sia ad Andrea Doria la cattura di alcune navi genovesi i cui equipaggi erano stati messi al remo. Queste navi erano proprietà di cittadini di parte fregosa ma il Navarro non aveva voluto sentir ragioni 2B. L’arcivescovo protestò vivacemente, ricordando al Montmorency che « la reputatione governa assai le cose nostre di Genova », ed aggiunse, « se la benevolentia che genovesi mi portano, et maxime la parte mia, non ce fa haver Genova, non creda già el re né vostra excellentia che con questa armata siamo sufficienti a sforzarla »214. Si trattava di opporsi al solito atteggiamento dei francesi che, con leggerezza, facevano e disfacevano a piacimento nei territori conquistati senza curarsi delle conseguenze politiche dei loro atti; quello stesso atteggiamento che avreb- 211 F. Guicciardini, Storia d’Italia cit., voi. Ili, p. 1775. Il Casoni {Annali cit,. p. 215) afferma che gli abitanti di Savona « di niente più desiderosi che di sottrarsi al dominio de’ genovesi » obbligarono il Governatore a patteggiare la resa. 212 Documenti di Storia Italiana cit., pp. 216-219. 213 In una lettera al cardinale Sadoleto del 16 settembre 1526 (pubblicata in P. Balan, Monumenta saeculi XVI cit., pp. 374-376) il Doria scriveva che la maggior parte dei trenta vascelli genovesi catturati erano di « amici de’ Fregozi, di sorte che il dano sopraviene a li nostri, li quali non hano mancho dexiderio di noi che vi [a Genova] intriamo ». Tutto ciò era paradossale al punto che « poterano dire li nostri inimici [gli adorneschi] et sperare de essere dannificati quando a li nostri medesimi si fa danno ». 214 Documenti di Storia Italiana cit., p. 217. — 247 — be, di lì a poco, alienato per sempre il re cristianissimo dall’animo dei genovesi. Nei mesi successivi entrambe le riviere caddero in mano francese e Genova subì un ferreo blocco navale; solo le consuete incertezze di Francesco I, e lo scarso coordinamento tra i vari stati membri della Lega, separati da reciproche diffidenze, impedirono la conquista della città stremata per « mancamento di vettovaglie »215. L’assedio continuò e il malcontento dei genovesi si espresse nel modo consueto: il rifiuto da parte di San Giorgio di concedere prestiti allo stato, tanto che il Doge fu costretto ad un intervento di forza216. Agli inizi del 1527 la situazione era ormai disperata se, come afferma il Foglietta, « il pane si distribuiva per lo popolo per testa, e si davano solo tre pani il dì per huomo e quelli assai piccoli » 217. Le analogie tra questi drammatici mesi e quelli che precedettero la battaglia di Pavia sono evidenti: Savona e le riviere erano sottratte 213 F. Guicciardini, Storia d’Italia cit., voi. Ili, p. 1775 e sg. Una lettera del Soria a Carlo V del 17 settembre 1526 (due copie in RAHM, mS,’. CC# ^^33 e 335-337, con soluzione della parte cifrata a cc. 339-340) dà un idea delle difficoltà in cui si dibatteva la Repubblica. Il dissidio delle fazioni doga i paralizzava lo siato: non c’è « forma para gastar — sosteneva l’ambasciatore — por que comprendo la qualidad desta ciudad, que la mitad della querrian el dafio e vuestra Magestad, que son los fragosos [...] y tienen hartas platicas e inteligen-cias con los enemigos de vuestra Magestad y a revolver està ciudad; y los adornos, que son servidores de vuestra Magestad, tambien muestran temor de ser destruidos ». oria doveva però ammettere che la città era stremata: « en verdad han sido y son muy grandes los gastos y danos que han tenido y tienen de quatro anos aca, y no tienen rentas para suplir a elio, si no que cada vez que tienen necessidad son forfados e^ imponer nuevos derechos en todas cosas; ya està todo tan cargado que no pueden mas y si mucho les durassen estos travajos seria impossible suplir a los gastos, y el ° menud° es£3 con mucho temor de hambre, por que saben que no hay en està ciudad trigo para tres meses, ni lo pueden haver estando corno agora estan las gale-e ^a> ^or ^ue estas toman todos los navios ». È inoltre del primo novembre 1526 una lettera di Teodoro Trivulzio al re di Francia che riporta alcune notizie di un genovese appena venuto « de la città propria »: « Il duce più volte haveva dimandato cinquanta millia scuti, quali la terra gli haveva recusati. Al fine havendo fatto armare il capitano, de la piazza con l’altre genti che sono in la città, et minaciando che li contradicenti senano tagliati in pezzi, quelli de la terra havevano consentito», Documenti di Storia Italiana cit., p. 249. 217 O. Foglietta, Istorie di Genova cit., p. 658. — 248 — al dominio della Repubblica; gli eserciti di Carlo V combattevano in Lombardia contro le superiori forze di una lega anti-imperiale che comprendeva oltre alla Francia i maggiori stati della penisola; le navi nemiche di fronte al porto di Genova aspettavano che la città si ribellasse 0 si arrendesse per fame, mentre San Giorgio era riluttante a finanziare 1 costi di difesa. Nel 1525 come nel 1527 questo fu il terreno sul quale ripresero vigore le pratiche di « unione ». Lope de Soria in una lettera del 16 febbraio 1527 a Carlo V218 riferiva di averne avuto notizia dal Doge e metteva in rapporto il dibattito sulla riforma con l’incertezza degli esiti della guerra in Lombardia219. Tali «pratiche» erano ristrette a pochi cittadini principali i quali non intendevano ancora renderle di pubblico dominio. Tutti comunque erano convinti che la riforma non avrebbe incontrato ostacoli. Il Doge infatti non si sarebbe opposto al-1’« unione » per tre motivi: anzitutto « por quitarse de trabajos que no son de su condicion ni disposicion de persona » 22°; perché vi avrebbe avuto un profitto personale in denaro; infine perché riteneva di potersi ben giustificare di fronte all’imperatore dicendo che l’unanimità del consenso alla riforma e la mancanza di fondi per la difesa non lasciavano altra via d’uscita221. Il Soria riteneva che un insuccesso militare degli eserciti cesarei avrebbe inevitabilmente condotto all’« unione » dei genovesi; in quel caso sarebbe stato necessario che Carlo V, per evitare sorprese da parte del nuovo governo della Repubblica, si impadronisse del castello e delle galere. Questo progetto doveva però rimanere segreto; se il Doge e i cit- 218 RAHM, ms. A-40, cc. 153-162. 219 « Me ha dicho el duque de Genova que andan platicando estos de la ciudad de hazer la union que platicaron los dias passados y que piensan que la haran en caso que no sean favorables las cosas de vuestra Magestad en Italia », ivi. 220 Le condizioni di salute del doge preoccupavano non poco il Soria che in questa stessa lettera affermava poco oltre: Genova « corno ahora està y ha estado ha sido y es con peligro de perderse cada hora, y en otras cosas por la indisposicion de la persona del duque que no puede entender nada si no assentado o en la cama », ivi. 221 Secondo il Soria, il Doge riteneva di avere « lecita escusa ya con vuestra Magestad diziendo que los de la ciudad unidamente lo quisieron hazer [l’« unione »], él no lo pudo destorbar y que no tenia mas forma para sostener la ciudad por no tener dineros del comun ni suyos », ivi. — 249 — tadini ne fossero venuti a conoscenza ne avrebbero tratto motivo per accostarsi alla Francia 222. In definitiva la cosa migliore era dissimulare « y darles [ai genovesi] toda buena esperanfa » e quando « el mundo se assienta con buenas pazes sera bien que vuestra Magestad se assegure muy bien desta ciudad, pues della pende mucha parte de la conservacion y segurdad de los stados que tiene vuestra Magestad en Italia ». L’elaborazione del progetto unitario proseguì nei mesi successivi ed il Soria in una lettera del 9 maggio 223 potè fornire a Carlo V una sintesi delle sue caratteristiche: Tengo avisado vuestra cesarea Magestad de las platicas que andan entre el duque de Genova y los de la comunidad para fazer una union y governarse corno Florencia y otras republicas por los mismos ciudadanos, sin tener adornos ni fragosos, quitas todas las parcialidades y colores de la ciudad y gentiles hombres y que todo[s] sean iguales y entren en los officios y govierno de toda qualidad de ciudadanos 224. L accenno al caso fiorentino, come a quello veneziano richiamato in precedenza dall ambasciatore cesareo 225, non sembra motivato da precise assonanze con il tipo di regime che si stava cercando di istaurare a Genova, tanto più che l’ultima esperienza repubblicana di Firenze, nata dalla cacciata dei Medici dopo il sacco di Roma, non era ancora iniziata. Il Soria sembra piuttosto pensare ad un concetto generale di « Repubblica » capace di comprendere sia Venezia che la Firenze medicea del 1512- 1527. Nella città ligure 1’« unione » avrebbe dovuto portare ad un governo di cives senza più fazioni e capiparte al vertice dello stato. Niente più adorni e fregosi ma anche niente più nobiltà: tutti i cittadini sareb- « Seria necessario que, fecha està union, tornasse vuestra Magestad en su mano este castello y las galeras de la comunidad y para esto haria tambien algunos inconvenientes, lo uno que si la fortaleza quisiesse tornar vuestra Magestad en su poder podria ser que no se contentassen dello el duque y los de la comunidad, y en tal caso pensassen de haver platicas con los contrarios de vuestra Magestad contra su imperiai servicio, y lo otro que, segun lo que fasta hora han servido, pareceria usar contra ellos de ingratitud y desconfiancia », ivi. 223 RAHM, ms. A-40, cc. 386-397. 224 Ivi. Similmente in una lettera a Carlo V del 16 maggio (RAHM, ms. A-41, cc. 377-378). 225 Vedi sopra, p. 232. — 250 — bero stati uguali nella gestione della cosa pubblica, e agli uffici avrebbero avuto accesso « toda qualidad de ciudadanos ». Ventura, riferendosi ai centri della terraferma veneta, aveva ben identificato i limiti ma anche la legittimità dell’attribuzione delPappellativo di « democratici » a certi momenti della storia politico-istituzionale urbana tra Medioevo ed età moderna 226. In questo senso si può affermare che il Soria coglieva con le sue parole il carattere « democratico », la spinta ad un allargamento delle basi del potere, che erano propri dell’idea di « unione » 227. Nonostante l’ambasciatore avesse intimato ai genovesi « que no in-noven tal cosa » senza il permesso dell’imperatore, il dibattito sulla riforma era andato avanti, ed il Soria era sempre più convinto che 1’« unione » avrebbe danneggiato gli interessi cesarei in Italia: la salda autorità che Carlo V poteva esercitare sul Doge sarebbe svanita, y fecha la union se habria da negociar con muchos y en està ciudad son todos de varias opiniones y unos enemigos mortales de otros y por esto digo y me parece que sera impossible que sea verdadera union la que quieren fazer si no poner mucha confusion y quitar a vuestra Magestad tacitamente la auctoridad que agora tiene. A detta del Soria si stava svolgendo a Genova un intricato gioco di inganni in cui « el duque [. . . ] anda por enganyar a los ciudadanos y ellos a él y no sé si todos piensan con buenas palabras enganyar a vuestra Magestad ». Il Doge consentiva all’« unione » di buon animo per intascare il premio che gli era stato promesso come indennizzo (« cinco mil ducados de renta en san Jorge y cierta summa en dinero ») e contava, essendogli stata garantita la permanenza in carica per almeno due anni, di potersi destreggiare qualunque piega avesse preso la situazione. Nel caso di un rifiuto opposto alla riforma da parte di Carlo V, l'Adorno sarebbe apparso del tutto innocente di fronte ai suoi concittadini, conservando così la carica e i denari; in caso contrario egli si sarebbe tolto da una 226 A. Ventura, Nobiltà e popolo cit., pp. 11-12. 227 In un’altra lettera del 16 maggio (RAHM, ms. A-40, cc. 420-433) l’ambasciatore cesareo rilevava le speranze del popolo di ribaltare a proprio favore, con 1’« unione », i rapporti di forza con la nobiltà: « el pueblo piensa que [. ..] seran todos yguales con està union y no seran dominados de los gentiles hombres corno fasta agora, antes piensan de ser ellos sobre los gentiles hombres ». - 251 — situazione scomoda senza deteriorare i propri rapporti con l’imperatore che nei due anni successivi avrebbe potuto riconfermarlo nel suo grado. I cittadini, dal canto loro, piensan que en ser fecha la union diran al duque que se vaya con Dios diziendo que no puede ser union estando él en el govierno por ser cabeza de parcialidad y que no tendrà fuergas para contradezirles y diran que quieren estar en libertad y servir a vuestra Magestad sin tirano, y esto seria lo mas cierto si vuestra Magestad en tal caso no le favorecisse para que estoviesse a pesar dellos 228. Le pratiche di « unione » erano troppo avanzate per essere interrotte in altro modo che con la forza, ma il Soria era contrario a questa soluzione. Egli consigliava di attendere l’esito della guerra dopo di che Carlo V avrebbe dovuto assegurarse bien desta ciudad por lo mucho que importa a su imperiai servicio y esto seria tambien el servicio de Dios y bien de la ciudad que se governasse por un governador de vuestra Magestad que fiziesse igual justicia a todos sin tiranizar y no estar corno agora està y desto serian muy contentos la mayor parte de la ciudad. L ambasciatore percepiva il malcontento dei genovesi verso i regimi di fazione e auspicava, forse avanzando la propria candidatura, l’invio di un governatore di nomina imperiale: una soluzione che avrebbe garan- RAHM, ms. A-40, cc. 386-397. In una delle citate lettere del 16 maggio (ivi, cc. 420-433) il Soria articolò ulteriormente la sua tesi, indicando come autori dei reciproci inganni non più solamente il Doge e i cittadini, ma anche, tra questi ultimi, i partigiani degli Adorno e dei Fregoso: « Podria ser que vuestra magestad se mera-villasse en ver que digo de la variedad de opiniones y voluntades que ay en està ciudad, y siendo asci corno puede unirse, digo que los unos piensan engafiar a los otros con la dicha union, los adcrnos piensan que pues queda la fortaleza y las armas en sus manos, que siempre podran fazer lo que quierran en la ciudad, y los fragosos piensan que les conviene poner rebueltas en la ciudad porque no pueden perder con ellas ni estar peores de lo que estan, si no que arriscan de avancar y ser yguales con los adornos, y ahun de tener forma para hecharlos fuera [...] y el duque piensa que pues le dan dineros para los gastos necessarios y le dexen estar dos anyos, que en este tiempo se assentara el mundo y, pues tiene la fortaleza y las armas en su mano, que se harà lo que él querrà, y con estos pensamientos que faze cada qual a su proposito tienen todos voluntad que se faga la dicha union y no para estar unidos corno buenos amigos y verinos, y por esto yo les tengo dicho que se diga confusion y no union ». — 252 — tito a pieno la fedeltà della Repubblica. Tale proposta era motivata anche da altri argomenti, come la salute del Doge, che nonostante la provata fedeltà era « tan mal despuesto de la persona que no es bien sufficiente para el govierno », e le pressioni che provenivano dal Pontefice, il cui datario Giberti appoggiava 1’« unione » « con intelligencias de al-gunos desta ciudad con titulo de ponerla en libertad ». C’era poi un ulteriore elemento di incertezza: i tempi erano maturi per la riforma, ma i cittadini avevano « concertado entre ellos de no la publicar ni effectuar esto fasta ver el successo de Savona, si la tomaran o no, y despues fazer la dicha union ». I genovesi avevano cioè deciso di riconquistare Savona che era in mano francese e di subordinare all’esito dell’impresa la promulgazione della riforma. Questo nesso è di estrema importanza e permette di cogliere uno dei nodi fondamentali su cui si articolava il progetto complessivo di rinnovamento delle istituzioni repubblicane. Il Soria era consapevole del danno enorme che Genova subiva a causa della perdita di Savona, ed intuiva i progetti dei francesi: el conde Pedro Navarro està en ella [Savona] y la fortifica mucho y piensa el rey de Francia hazer alli otra Genova, quitando de aqui todo este trafego y tener cercada desde alli a Genova y con esto fazer que estos sean forgados de tornar partido con él y esto dan a entender al rey de Francia el dicho conde Pedro Navarro y los otros ladrones que alli estan porque les parece mas provechoso estar alli enemigos de Genova que es tornarla por lo que cada dia se les offerezce robar a los genoveses. Il piano dei francesi quindi, tramite il rafforzamento di Savona, mirava a costituire un polo economico e strategico autonomo nel ponente ligure; prevedendo che ciò avrebbe portato, presto o tardi, alla caduta della stessa Genova. Da parte genovese si imponeva quindi una pronta riconquista della città rivale e per questo si giunse ad un accordo con gli imperiali: Antonio de Leyva avrebbe fornito, in cambio di ventimila scudi, i quattromila fanti e gli otto cannoni che, insieme a mille uomini assoldati dalla Repubblica, sarebbero stati destinati all impresa. Solo quando Savona fosse tornata sotto il dominio genovese si sarebbe resa ufficiale la riforma unitaria. Il Soria ci aiuta a capire i motivi di questa scelta: Podrà dezir vuestra Magestad y su consejo que es contrario querer los de Genova hazer la union y por otra parte hazer la empresa de Saona con su [di — 253 — Carlo V] gente, respondo corno arriba tengo dicho que no publican la union fasta ver el successo de Saona, y si la toman piensan que se concertaran tacitamente con el rey de Francia para que no les dé fatiga, pues seran neutrales, y que les aiudarà en esto el Papa con el dicho rey de Francia, maxime siendo genoves el datario, y sera cierto vuestra Magestad que ay muchos en està ciudad que desean alterarla contra su imperiai servicio, para esto de continuo solicita-dos del datario y de venecianos y del duque Francisco Sforcia y otros, y por todos respectos sera bien que vuestra Magestad tuviesse alla contentos algunos desta ciudad con alguna pension y otros favores, y quando desto parezca bien a vuestra Magestad yo diré los que me parece que deven ser. Cerchiamo di riepilogare i termini della situazione: era anzitutto necessario riconquistare Savona perché da ciò dipendeva la prosperità di Genova e per farlo era indispensabile l’appoggio militare degli imperiali. Il Soria era risolutamente contrario all’« unione » per l’esigenza di neutralità che l’accompagnava; doveva essere quindi il Doge ad avanzare la richiesta di aiuto prima che fosse compiuta la riforma. Certo il Soria sapeva che appena Savona fosse tornata ai genovesi questi avrebbero fatto 1 « unione », ma sapeva anche che da un momento all’altro la città poteva cadere in mano francese; per evitare ciò era necessario cacciare i nemici da Savona, altrimenti, riforma o non riforma, si sarebbe persa tutta la Liguria. Giocando su questo dilemma i genovesi ottennero l’appoggio imperiale. In secondo luogo sappiamo che 1’« unione » mirava ad eliminare le fazioni all’interno (soprattutto quelle degli adorni e dei fregosi) al fine di garantire la libertà e, sul piano internazionale, la neutralità della Repubblica. Ora è evidente che l’obiettivo della neutralità doveva essere perseguito solo dopo che il dominio fosse stato ricostituito nella sua integrità; con Savona in mano francese mai gli imperiali avrebbero rinunciato a Genova; e la Liguria, o meglio le sue città e il suo mare, avrebbero continuato ad essere oggetto di contesa. Una volta riconquistata Savona invece, la Repubblica avrebbe potuto patteggiare la sua neutralità con Francesco I godendo dell’appoggio papale, e giocare le sue carte da una posizione di relativa forza con gli imperiali. Tutto ciò prefigura la collocazione internazionale effettivamente assunta dallo stato genovese dopo il 1528; di fatto la via per realizzare la mitica triade « unione-libertà-neutralità » non fu quella sopra indicata e Genova avrebbe subito un altro anno di dominio francese prima di poter realizzare la riforma. Questi precedenti sono tuttavia significativi in quanto dimo- — 254 — strano che il periodo di Antoniotto Adorno, ritenuto una fase di grigia sudditanza all’imperatore, fu denso di fermenti politici; che i genovesi, coinvolti nel conflitto tra le grandi monarchie, seppero elaborare, adattandola a mutevoli situazioni politiche, una strategia vincente per conservare le istituzioni repubblicane. Il Soria comprendeva bene le difficoltà del momento e consigliava a Carlo V di agire con moderazione ma con fermezza, senza un uso brutale della forza che avrebbe rischiato di causare una rivolta, ma anche senza rinunciare a gestire la nuova delicata fase di evoluzione politica della Repubblica. Per ora comunque, l’ambasciatore lo ripete più volte, « lo mejor seria que no se inovasse nada porque toda novedad trahe alteracion y esto no conviene al servicio de Vuestra Magestad ». L’imperatore, agli inviati genovesi, avrebbe dovuto dissimulare il suo giudizio sull’unione y tambien amostrar dello algun sentimiento dulcemente, ni loarla ni reprovarla del todo y darles buenas palabras fasta que tome assiento el mundo; porque son gente del diablo y no conviene al servicio de vuestra Magestad darles por agora causa de fazer alguna alteracion, maxime que el duque ni es amado ni temido y poca causa abastaria para alterar este pueblo. L’apprezzamento sulla persona del Doge dà la dimensione di un uomo che, dopo la morte del fratello Gerolamo e senza la sua guida, si era trovato coinvolto in vicende troppo grandi per lui. Il tagliente giudizio sui genovesi, « gente del diablo », dà invece la misura dell’incapacità del Soria di capire il senso dell’evoluzione che si stava compiendo nella città ligure. In ogni modo egli riteneva che, fatta l’unione, l’invio di un governatore fosse necessario. I genovesi, dopo il sacco, non erano a suo giudizio degli alleati affidabili; se Carlo intendeva averli dalla sua parte doveva costringerli con la forza. Inoltre la città era stanca del dominio degli Adorno e dei Fregoso e avrebbe accettato di buon grado un governatore di nomina imperiale 229. 229 «Los de la comunidad [...] no tienen la voluntad muy buena al servicio de vuestra Magestad despues que fueron saqueados, y si vuestra Magestad los ha de dominar ha de ser por vera fuerga y no porque ellos le tengan aficion verdadera pero, corno tengo dicho, haviendo de estar debaxo el dominio de vuestra Magestad mas contentos serian de tener un governador de su parte que no estos cabos partes de adornos ni fragosos que se pueden dezir tiranos », ivi. — 255 — Il Soria fece presente un altro aspetto della situazione che per noi è di estremo interesse. Egli si sentiva ormai isolato: essendo noto il suo atteggiamento contrario alla riforma i cittadini tentavano di condurre le loro « pratiche » a sua insaputa. C’erano tuttavia anche degli scontenti su cui era possibile far leva, degli oppositori al progetto di « unione » che vedevano in esso una minaccia alla loro preminenza politica e sociale: muchos desta ciudad estan descontentos y esto maxime todos los gentiles hom-bres porque quieren quitarles sus preheminentias y fazerlos iguales con los del pueblo, entre otros el conde de Flisco y todos sus parientes que es mucha parte dentro y fuera de la ciudad y con esto facilmente podrà vuestra Magestad dominar està ciudad a toda su voluntad 23°. Furono quindi i nobili, o meglio alcuni di essi, ad opporsi alla riforma, ed ebbero occasione di farlo ufficialmente in occasione di una iniziativa presa dal magistrato dei riformatori di recente ricostituito. Il Soria in una lettera del 17 maggio comunicò all’imperatore che il magistrato dei riformatori aveva citato molti cittadini perché « juras-sen de tener por buena la dicha union » e di accettare le leggi di prossima emanazione. Molti si erano però rifiutati « y han pasado entre ellos palabras de enojo ». L’ambasciatore sottolineò il rifiuto dei Fie-schi e di molti tra gli Spinola: si trattava dei due maggiori casati della citta, e su di essi Carlo V poteva contare « para asegurarse bien desta ciudad quando fuere tiempo»231. Negli archivi genovesi abbiamo il riscontro documentario di quanto affermato dal Soria. Il 10 maggio 1527, nell’abitazione di Agostino del fu Battista Lomellino, venne rinnovato il giuramento dei Dodici Riformatori del 3 febbraio 1525 232. Il testo del giuramento e i nomi dei com- 230 RAHM, ms. A-40, cc. 386-397. Altri elementi si ricavano dalla già citata lettera del 16 maggio (ivi, cc. 428-433) in cui il Soria invitava Carlo V a dare pensioni al Fieschi e ad altri nobili, « y tambien mandar escrivir alguna vez al dicho conde de Flisco agradeciendole los servicios y buena voluntad, porque en verdad importa y puede mucho en està tierra y siempre lo he conocido buen servidor de vuestra Magestad ». 231 RAHM, ms. A-40, cc. 436-440. 232 ASCG, Brignole Sale, ms. 105.E.8., cc. lr.-4r. — 256 — ponenti della magistratura sono gli stessi di due anni prima. Si erano aggiunte soltanto alcune righe a testimoniare la rinnovata volontà di portare a termine l’opera interrotta nell’estate del 1525 233. Nel documento si ritrovano anche due liste di cittadini. Nella prima sono riportati i nomi di coloro che in date successive (14, 15, 20 e 22 maggio) juraverunt di appoggiare 1’« unione » e l’opera dei Dodici. Nella seconda, assai più breve, sono invece i nomi di alcuni cittadini qui jurare recusaverunt. Questi elenchi confermano la tesi di fondo che abbiamo sostenuto dall’inizio di questo capitolo. Dall’analisi delle liste si ricava che dei 127 giuranti, 86 sono popolari e 41 nobili, mentre tra coloro che rifiutarono, la proporzione è simile ma inversa: 14 nobili e solo 6 popolari. Un dato che dimostra la forte e costante presenza del « popolo » nell’elaborazione del progetto unitario cui fa riscontro una maggiore riluttanza della nobiltà. Il documento inoltre rivela che ancora nel 1527 mancava un omogeneo consenso alla riforma da parte delle varie componenti della classe politica cittadina. Un settore di opposizione rimase attivo fino all’ultimo se i Riformatori dell’ottobre 1528 parlavano ancora delle insidie di quelli che eam diu Rempublicam in ipsis seditionibus invaserant 234. Evidentemente coloro che si erano fatti grandi con l’adesione alle fazioni non avevano timore nel 1527 ad esporsi pubblicamente. Della metà di maggio è un memoriale sulle cause dell’« unione » che fu consegnato al Soria perché lo spedisse all’imperatore 235. Si tratta di un documento importante che ci permette di osservare la situazione politica della Repubblica non, come abbiamo fatto finora, con gli occhi dell’ambasciatore cesareo ma con quelli dei genovesi. Il memoriale esordisce dichiarando « lo ardor grande lo quale è di questo effetto in la magior parte de li citadini et non solo in li contrarii [fregosi] ma in gran parte de nostri [adorni] »: con ciò si mirava a smentire il Soria che poneva in cattiva luce 1’« unione » dipingendola come una manovra dei filofrancesi, partigiani dei Fregoso. A rendere necessaria la riforma 233 Ivi, c. 2 r. 234 Così nel preambolo alle leggi di riforma, ASCG, ms. 88, p. 53. 235 Questo memoriale (RAHM, ms. A-41, c. 383 r.-υ.) è senza data ma ad esso accenna il Soria in una lettera a Carlo V del 16 maggio 1527, ivi, cc. 380-381. — 257 — c’erano motivi, sia sostanziali, sia contingenti. I primi derivavano dal coinvolgimento di Genova nella guerra a fianco dell’imperatore. A causa di questa alleanza la città aveva subito gravi danni, sia per i beni sottratti dai nemici (navi e merci catturate), sia per i contributi estorti dai ministri cesarei; c’erano poi le difficoltà commerciali legate al conflitto, difficolta non più sostenibili per essere i « negotii », come tutti sapevano, « quelli che sustengono la cità ». Sempre, la Repubblica, quando era stata « a la devotione » di qualche principe, aveva ricevuto aiuti per la difesa; nessun soccorso era invece venuto dall’imperatore durante 1 assedio né di vettovaglie né di altro tipo. Era poi intervenuta, fatto gravissimo, la perdita di Savona, la cui permanenza « in mane de inimici » avrebbe determinato « la destructione de questa città ». I capitani cesarei erano disposti ad impegnarsi nella riconquista di Savona solo se pagati e in Genova non c’era possibilità di trovar denaro. Infine la « fame grande patita », conseguenza del blocco navale, rendeva evidente il pericolo di una rivolta popolare. A tutto ciò si poteva porre rimedio solo con la riforma unitaria. Essa avrebbe calmato il popolo, allontanato il pericolo di tumulti 236 e avrebbe permesso di trovare i denari per 1 impresa di Savona 237. Di un’eventuale neutralità della Repubblica mai si parla espressamente nel memoriale, ma essa è tra le righe quando si afferma, riguardo ai contributi di guerra, che persistendo le divisioni faziose « continuaranno e multiplicaranno le spese », e quando la riforma viene presentata come il presupposto di una ripresa delle attività commerciali. La causa contingente che imponeva di realizzare 1 « unione » in tempi brevi era di ordine economico: si avvicinava l’estate, stagione decisiva per i traffici marittimi; molti mercanti attendevano 1 arrivo di navi contenenti le loro merci e tutta la città, « procedendo ad essa lo alimento dal mare », attendeva le navi inviate alla ricerca di grano: non era quindi possibile affrontare un altro periodo di blocco navale senza « qualche disordine ». 236 « Quando si fusse perseverato in contradire a questa reformation, essendo li populi tutti indiavolati per la penuria et per le molte graveze le quale ogni giorno se agiongano, se è temuto ch’avesse potuto nascere alcuno disordine per il quale la cità fusse divenuta a tumulto », RAHM, ms. A-41, c. 383 r. 237 Dovendo procedere in ciò « col proprio denaro de la cità, non si è trovato forma salvo mediante questa reformatione », ivi. — 258 — Le tre lettere del Soria che accompagnarono il memoriale non aggiungono molto a quanto già sappiamo. In due di esse si accenna alle opere di fortificazione intraprese dal Navarro a Savona e alla decisione dei genovesi « de tornarla antes que sea fortificada del todo » 238 ; la terza 239 ripropone la consueta « lettura » della riforma che sappiamo propria degli agenti cesarei: la neutralità della Repubblica, che ormai appariva come l’inevitabile corollario dell’« unione », era inaccettabile ; far accedere al governo i partigiani dei Fregoso avrebbe significato perdere qualunque autorità. Per il momento tuttavia, affermava il Soria, Carlo V doveva dissimulare le sue intenzioni perché i genovesi « son gente del diablo y amigos de novidades y poca escusa les abastaria para fazer alguna rebolucion ». Dopo che la guerra fosse terminata, solo un governatore di nomina imperiale che avesse in suo potere la fortezza e le galere avrebbe potuto garantire la fedeltà della Repubblica. Seguendo il filo cronologico della documentazione, a questo punto troviamo un’altra fonte che ci conferma come, nell ottica dei contemporanei, il problema politico centrale per Genova fosse in questo momento la soppressione del predominio degli Adorno e dei Fregoso. Si tratta di una testimonianza che introduce per la prima volta la figura di Andrea Doria. Sino al 1527 niente infatti autorizza a stabilire un qualche legame tra il Doria e le pratiche di « unione ». Il materiale d’archivio riguardante la riforma, che la storiografia più tarda ha de finito « doriana », non lascia ipotizzare un intervento dell ammiraglio pri ma del 1527-1528. È un prezioso memoriale del Gattinara a Carlo V a fornirci utili indicazioni. Fin dal 1525 l’imperatore aveva intavolato trattative con il Doria per assicurarsi i servizi suoi e della sua flotta. Lo stesso Gran Cancelliere si occupò della questione durante la sua breve permanenza in Italia nel 1527. La storia del suo avventuroso viaggio è ricostruita 238 II Soria approvava la decisione della Repubblica e chiedeva aiuti visto che da Savona era agevole l’ingresso di fanti francesi in Lombardia (RAHM, ms. A-41, cc 377.378 ) e che se i genovesi non la « tornaseli a su obedientia seria per 1 a està ciudad [Genova] », ivi, cc. 380-381. 239 RAHM, ms. A-40, cc. 420-433. 240 « Està union es principio de neutralidad, y la neutralidad principio de tener platicas con el Papa y Francia », ivi. — 259 - dal Borriate'41: durante l’andata, costretto a sostare a Pàlamos in maggio, Mercurino entrò in contatto con un non meglio identificato « buon padre eremita » che già in passato aveva avuto contatti con il Doria nel tentativo di favorire un accordo tra questi e l’imperatore. Il memoriale si basava appunto sui loro colloqui. L’eremita riferì al Gattinara le condizioni poste dall’ammiraglio per entrare al servizio di sua maestà cesarea. Alcune furono definite « raisonnables », come quelle riguardanti « son traictement, et du pardon de luy et ses parents ». C’era però un altra richiesta: « il demandoit de reduisre la cité et seigneurie de Gennes que ne deust demoure subsdite ny a Adornos ny a Fraguo-sos se non a l’empereur conforme a leurs privillièges ». La valutazione del Gattinara è cauta ma possibilista: « que cela se pourroit dresser plus aysement estant luy en Service de sa maiesté et ayant prins con-fidance de luy, que ne pourroit faire maitenant ». Il Doria aveva posto come condizione quello che fu l’obiettivo fondamentale dei vari progetti d’« unione » susseguitisi in questi primi tre decenni del Cinquecento: eliminare dalla vita politica genovese le fazioni degli Adorno e dei Fregoso, per restituire, aggiungerei, stabilità alla Repubblica, per metterla al riparo dalle mire delle potenze straniere, per permetterle infine di riconquistare quel tanto di « libertà » che le condizioni del tardo Rinascimento potevano concedere ai piccoli stati dell’Italia centro-settentrionale. Sarebbe stata una « libertà » limitata, da mantenere all’ombra di una delle grandi potenze, sufficiente però a rilanciare i destini, soprattutto economici, di Genova. Il repentino precipitare della situazione italiana mise tuttavia in crisi questi progetti. Dopo il sacco di Roma da parte degli imperiali, il Doria passò al servizio di Francesco I e aggiunse le sue galere a quelle del Navarro che bloccavano la costa ligure. In Francia fu allestito un esercito che alla fine di luglio passò le Alpi, e ciò poneva fine alle speranze dei genovesi di riconquistare Savona. In Genova si trovava dalla fine di giugno lo stesso Gattinara che fu informato del progetto 241 C. Bornate, I negoziati per attirare Andrea D’Oria al servizio di Carlo V, in « Giornale storico e letterario della Liguria », XVIII, 1942, fase. II, pp." 51-57. Il Bornate pubblica nell’appendice documentaria il memoriale del Gattinara (P. 73). — 260 — di « unione » 242. La situazione militare stava però precipitando mentre le riserve di grano della città erano agli sgoccioli: la riforma passò in secondo piano rispetto ai problemi di sopravvivenza. Il Soria in una lettera del 21 luglio a Carlo V comunicava che si era in attesa di alcune navi cariche di grano e se non fossero riuscite a forzare il blocco, c’era da temere una rivolta « por la falta de trigo » 243; il Gattinara scriveva il 29 denunciando il pericolo in cui Genova, porta d Italia, si trovava: se fosse caduta in mano ai nemici, la Lombardia e 1 Italia potevano considerarsi perdute 244. Ancora pochi giorni e la città sarebbe tornata sotto il dominio di Francesco I. Anche il tentativo di riforma svoltosi nell’ultimo periodo del dogato di Antoniotto Adorno era fallito, ma i tempi erano ormai maturi, e il dibattito sull’« unione » proseguì fino alla promulgazione delle leggi dell’aprile 1528. 5. L’atteggiamento francese verso la riforma durante il governatorato di Teodoro Trivulzio La Repubblica assediata non resistette a lungo al nuovo impeto che Francesco I diede alle operazioni in Italia dopo il sacco di Roma. Le vicende militari che portarono all’istaurazione dell ultimo dominio francese, descritte dagli annalisti con abbondanza di particolari, sono abbastanza note. Sul mare Andrea Doria teneva bloccato il porto im pedendo che giungesse qualsiasi aiuto esterno. Dopo aver distrutto in Corsica due delle quattro navi di scorta ai vascelli genovesi inviati alla ricerca di grano, la flotta della lega si recò nei pressi di Portofino, dove erano le sette galere adibite alla difesa della Repubblica, e vi fece sbarcare un contingente comandato da Filippino Doria. Da Genova giunse Agostino Spinola, « capitano della piazza », con ottocento fanti, che 242 Lettera del Soria a Carlo V del 7 luglio 1527, in RAHM, ms. A-41, cc. 22-26. 2« Ivi, cc. 29-31. 244 F. B. Von Bucholtz, Gescbichte der Regierung Ferdinand des Ersten cit., III, pp. 84-86. — 261 — sconfisse e catturò Filippino Doria. In città si ebbe però notizia del- 1 imminente arrivo dell’esercito del Lautrec, e lo Spinola fu richiamato. Andrea Doria ne approfittò per impadronirsi di due delle sette galere della Repubblica 24'\ Subito questo colpo, i genovesi assediati decisero di trattare ed inviarono Vincenzo Pallavicino dal Lautrec perché comunicasse le condizioni della resa. Secondo l’istruzione per lui redatta in data 6 agosto 1527 246, il Pallavicino avrebbe dovuto chiedere la reintegrazione di Savona e delle riviere, 1 allontanamento dell’esercito per evitare il rischio di un saccheggio, salvacondotti per le persone e i beni del Doge, di Lope de Soria, di Agostino Spinola e di Sinibaldo Fieschi, nonché di altri esponenti del regime degli Adorno, garanzie per i loro possessi terrieri, un indulto generale per i cittadini e che fossero loro restituiti i beni sequestrati dai francesi a partire dal 1522. C’era poi una condizione, che è per noi di estremo interesse, riguardante la scelta del governatore: « per pacifico e quiete universale della città » questi non doveva essere genovese, e venne formulata una rosa di nomi con una espressa preferenza nei confronti di Teodoro Trivulzio 247. A detta del Giustiniani, il Lautrec assentì a tutte le richieste tranne alla restituzione di Savona che esulava dai suoi poteri24S. Per questo o per altri motivi la città decise di non venire a patti. A risolvere la situazione fu l’intervento di Cesare Fregoso che si staccò con circa Vedi A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXXVIII v. Su questi fatti riferisce il Soria in due lettere a Carlo V del 27-30 agosto (RAHM, ms. A-41, cc. 125-128, copia ivi cc. 137-141) e del 17 settembre 1527 (BNM, ms. 2021462, doc. n° 15; la parte cifrata di quest’ultima lettera è « in chiaro » nel ms. A-41 della RAHM a c 216. 246 ASG, ms. 652, pp. 1643-45. 247 Così nell’istruzione al Pallavicino: « vorriamo [...] procurassi de far dichiarare il governatore quale sua christianissima maestà doverà deputare al regimento della città, il quale noi vorriamo fosse l’illustrissimo signor Teodoro da Trivulci parendone signor qualificato et attissimo a tale regimento [...] e quando per qualche causa non potessi ottenere esso signor Teodoro, in tal caso procurarete de farne nominare un’altro di simile qualificatione, overo simile al signor Bayli di Almiens et a Monsignor di Rochaihoare, li quali in altri tempi hanno havuto detto governo, evitando quanto potreti altre persone [...] e a modo alcuno non vogliamo sii geno-vese », ivi. 248 A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXXIXr. — 262 — trecento fanti dall’esercito francese prendendo la via di Genova, mentre il Gattinara, la notte del 14 agosto, abbandonava la città a bordo di un brigantino 249. Il Fregoso, attaccato, riuscì non solo a sconfiggere il manipolo degli assalitori genovesi e a catturare Agostino Spinola, ma anche a prevalere su una compagnia di spagnoli che era a guardia del Monastero di San Teodoro, fuori le mura. Il rovescio indusse i genovesi alla resa. Il 18 agosto Antoniotto Adorno si ritirò nella fortezza del Castelletto; il Soria, Sinibaldo Fieschi ed altri membri della fazione degli Adorno si rifugiarono nel castello di Montoggio. Il Fregoso rimase padrone della città, entrandovi, affermava il Soria, pacificamente « sin gente de guerra » 250. Il 22 arrivò a Genova Teodoro Trivulzio che assunse la carica di Governatore in nome del re di Francia, mentre il Fregoso se ne partì dopo aver ricevuto una somma di danaro ed una rendita in San Giorgio. Riguardo alla scelta del Governatore, l’ambasciatore cesareo affermava: Los de la parte fragosa estan mal contentos porque no queda el Fragoso en el govierno, corno quiera que en generai toda la ciudad està mas contenta de tener un governador estrangero que estar debaxo Adorno ni Fragoso25 . Antoniotto Adorno consegnò il Castelletto al Trivulzio dopo soli nove giorni. La subitanea resa era dovuta, secondo il Soria, all imprevidenza, dappocaggine e avarizia del Doge. Questi aveva sempre assi curato che la fortezza era rifornita di viveri e munizioni bastanti per due mesi; in realtà non era in grado di resistere neanche 15 giorni . 249 Ai rischi corsi durante questa drammatica fuga, Gattinara accenno nella sua autobiografia Historia vite cit., p. 353 sg., vedi anche C. Bornate, I negoziati per attirare Andrea Doria cit., p. 61 e sg. Il Soria in una lettera del 27-30 agosto 1527 a Carlo V (RAHM, ms. A-41, cc. 125-128) affermava che il Gattinara aveva lasciato Genova il 17 agosto. 25<> Secondo l’ambasciatore cesareo non fu fatto alcun danno, escluso che « antes que entrasen saquearon mi posada algunos ciudadanos de la parte fragosa y easy de-lante mis ojos », ivi. 251 Ivi. 252 « Como quiera que el duque de Genova haya servido fielmente a vuestra Magestad, él es hombre de poco govierno y de pocos amigos en la eluda , y muy ava- L Adorno, ottenute garanzie per sé, il suo seguito ed i suoi beni, prese la via della Mirandola (la moglie era della famiglia dei Pico) dove fu raggiunto dal Soria. Quest’ultimo riteneva inevitabile l’accaduto: Genova era stata presa dai francesi per fame dopo un blocco navale durato un intero anno; di fronte alla minaccia di un intervento del Lautrec, la resa si era imposta per mancanza di uomini d’arme e di vettovaglie; Carlo V, per questi motivi, doveva considerare i cittadini del tutto innocenti 253. Genova doveva comunque essere riconquistata ad ogni costo: lo que mas conviene al estado y servicio de vuestra Magestad es tener Genova porque es la puerta y llave d’Italia y por donde se da forma de aver dineros, y avisos, y fuergas de armada de mar y otras muchas comodidades, por lo qual vuestra Magestad deve cobrarla o por acuerdo o por fuerga Dei complessi avvenimenti dell’agosto 1527, quello che maggior- ro corno agora se es mostrado en la provision que havia fecha en el castillo, haviendo mucho tiempo que yo y otros le havemos exhortado que lo proviesse bien, y de continuo ha dicho que estava bien provehido alomenos por dos meses y no tenia provision para quinze dias, y en fin en todo este hombre es para poco », ivi. 253 Lettera di Lope de Soria a Carlo V del 30 agosto 1527 in BNM, ms. 2021462, doc. n° 12. Lettera del 17 settembre in BNM, ms. 2021462, doc. n° 15. Si accenna qui al triplice ruolo svolto dalla città nel sistema imperiale: finanziatrice delle operazioni militari, centro di raccolta delle notizie provenienti dalla rete degli informatori cesarei in Italia, fulcro dei progetti di creazione di una forte armata di mare (vedi sopra, p. 210 e sgg.). L’Adorno si propose come governatore nel caso che la città fosse stata riconquistata. Il Soria, scrivendo in cifra, sconsigliava però a Carlo V tale soluzione. La fedeltà di Antoniotto era indubbia, ma altrettanto lo era la sua inettitudine; oltre a ciò, la favorevole accoglienza riservata al Trivulzio dai genovesi aveva rafforzato il Soria nella convinzione che fosse preferibile un governatore straniero: « cobrando vuestra Magestad a Genova deve poner en ella un governa-dor que la govierne de su parte, y desto sera muy contenta toda la ciudad, y sera servicio de Dios y de vuestra Magestad, porque estos cabos de parcialidades de Adornos y Fragosos, no hazen ninguna iusticia y destruyen aquella ciudad», e più oltre, «a lo que comprendo, mas conviene a vuestra Magestad, que sea el governador estrangero que no naturai de la tierra y cabeza de parte » (RAHM, ms. A-41, c. 216 cit.). Laconico fu il commento di Carlo V a questi consigli del Sona: «que quando fuere cobrada [Genova], se podrà mirar lo que mas convenga» (ivi, c. 371 v.). — 264 — mente ha attirato l’attenzione degli storici è senza dubbio la scelta di Teodoro Trivulzio come Governatore o, se vogliamo, la mancata elezione a tale carica di Cesare Fregoso come avrebbe suggerito la logica dell’alternanza al potere tra le due famiglie dogali. Per spiegare questa decisione, di notevole importanza per le ulteriori vicende della riforma, gli annalisti genovesi adducono ragioni diverse. Analizziamole brevemente. Il Giustiniani, contemporaneo, annotava il fatto senza alcun commento 255. Il Foglietta, filopopolare, nella seconda metà del Cinquecento affermava che la cagione che il re non vi pose Cesare, credo, che fussi per acquistare ugualmente la grazia di tutti i cittadini con mostrare che l’animo suo non pendesse né da questa né da quella parte, perché se havesse posto a quel governo Cesare la parte avversa gli sarebbe stata poco di certo affezionata256. Scrivendo anch’egli nella seconda metà del secolo, Goffredo Lomellino attribuiva al Doria e ai nobili la responsabilità, o meglio il merito, di aver impedito che a Cesare Fregoso fosse concessa la carica di Governatore: aspirando ad essere governatore regio, come era stato Ottaviano, Cesare Fregoso figlio di [in bianco, ma Giano], Andrea Doria con tutti gli altri nobili desiderosi di liberarsi hormai dalle tirannidi di quelli capi delle fattioni, et annichilar l’autorità loro, vinsero che fusse fatto governatore Teodoro Trivulzio 257. Il Lomellino proseguiva affermando che sia il Doria, sia in genere la fazione dei nobili, acquistarono per quest’azione grande credito e già riscaldati di ridurre un giorno dall’infelice citta a qualche miglior forma di republica, alla quale non si potea pervenire se non con 1 estintion delle fattioni, et unione de’ cittadini, de’ quali la principale era quella de nobili e popolari, si unirono con molti homini primarii del popolo già inclinati a quest impresa sotto Ottavian Fregoso, e riscaldati sotto gli Adorni, e convennero che si dovesse instituire una republica di ottimati governata da un corpo d huomi-ni, senza distintione alcuna più fra di loro 258. 255 A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXXIX v. 256 O. Foglietta, Istorie di Genova cit., p. 660. 257 G. Lomellino, Relazione cit., c. 17 r. 258 Ivi. — 265 — I racconti del Lomellino e del Foglietta vennero sintetizzati nel tardo Seicento dal Casoni. Quest’ultimo affermava che il re diede al Trivulzio la carica di Governatore per evitare di inimicarsi la fazione degli Adorno, ed aggiungeva, per non alienarsi il consenso di Sinibal-do Fieschi, tradizionale nemico dei Fregoso, senza il cui appoggio era impossibile ottenere la stabilità del dominio francese su Genova 259. Il Casoni citava poi esplicitamente la relazione del Lomellino, sfumandone però l’accento: fu il Doria a non voler il Fregoso come Governatore, ma non fu il Doria insieme alla fazione nobiliare, bensì il solo Doria ad acquistare molto credito così con la fazione dei nobili, come con quella dei popolari, i quali tutti stracchi e annojati dei passati travagli già meditavano di ridurre l’infelice patria a qualche migliore stato di governo2ω. Per il Casoni quindi non sono i nobili, da una posizione di forza, ad accordarsi con i « primarii del popolo » per realizzare 1’« unione » (Lomellino) , ma nobili e popolo congiunti che agiscono in tal senso. Le varie versioni dei fatti proposte da questi autori si distinguono per qualcosa di più che semplici differenze di accento. Il Foglietta, come sappiamo, scrisse le Istorie dopo il ritorno dall’esilio che si era procurato con un libello antinobiliare sulla Repubblica di Genova dove, con accanimento, smentiva la legittimità storica del titolo già attribuito al Doria di « padre dell’unione ». È quindi comprensibile che ne taccia eventuali meriti nei fatti del 1527. Il Lomellino offre una visione filonobiliare. Il Casoni, massimo annalista della Genova moderna, dimostra un certo equilibrio nell’uso delle fonti secondarie. Una recente sintesi, infine, si basa su quanto detto sia dal Lomellino sia dal Casoni per insistere sulla formazione di un’asse privilegiato Do-ria-Fieschi come supporto fondamentale della riforma, intesa come realizzazione di un progetto oligarchico del ceto dirigente261. Le fonti d’archivio danno indicazioni diverse. Anzitutto è da notare che lo stesso Trivulzio, in un momento di attrito con le autorità 259 F. Casoni, Annali cit., libro III, p. 237. 260 Ibid., p. 238. 261 C. Costantini, La Repubblica cit., pp. 15 e sg. e 36 e sgg. — 266 — francesi, si disse felice delle voci che circolavano circa una sua sostituzione e affermava che mai in alcun modo aveva chiesto la carica che ricopriva in Genova 262. Il problema di chi lo volle come Governatore è quindi aperto. Il citato memoriale del Gattinara non smentisce, anzi rende in parte plausibile la ricostruzione dei fatti proposta dal Lomellino, perché dimostra che il Doria era ormai contrario al persistere delle fazioni dogali 263. L’istruzione a Vincenzo Pallavicino e la lettera del Soria del 27-30 agosto 264 dimostrano però che la nomina del Trivulzio era auspicata anche dagli adorneschi e fu gradita alla gran parte dei genovesi. Se quindi il Doria intervenne, lo fece allineandosi alla volontà della maggioranza dei cittadini che già da tempo, e senza che in ciò intervenisse l’ammiraglio, auspicavano l’esautoramento delle famiglie dogali. Un accordo tra il Doria e il Fieschi per escludere Cesare Fregoso e per gestire una riforma delle istituzioni non è provato, tanto più che il Fieschi abbandonò Genova quando essa passò ai Francesi, ritirandosi nel suo castello di Montoggio, e di un tale accordo mai si parla nelle lettere del sempre informato e sospettoso Soria. Un conto però è accettare la possibilità di un’influenza del Doria sulla scelta del Trivulzio come Governatore regio, una cosa ben diversa è invece avvalorare l’interpretazione che il Lomellino diede del fenomeno complessivo dell’« unione ». In ogni caso bisogna tener presente che dopo il 1528, e ancora nella seconda metà del secolo, la polemica tra nobili e popolari (ormai nobili « vecchi » e nobili « nuovi ») era aperta e che le due parti fornivano, per la storia dei primi tre decenni del Cinquecento, modelli di interpretazione del tutto antitetici. 262 « Desidero più levarmi di qua che molti non pensano; né passai in Italia per il governo di Genova, né manco il ricercai da monsignor de Lautrech, né ne scrissi mai al re, né feci parlar mai per miei agenti, come esso monsignor gran maestro può sapere. Imperò volsi compiacere a monsignor de Lautrech per la importantia grande che considerava per il servizio del re; ma però volsi anzi il partir mio del campo, ch’esso monsignor de Lautrech mi promettesse far opera di non lasciarmi lungamente qua, et honne fatto sempre instantia », lettera del Trivulzio da Genova, senza data né destinatario, pubblicata in Altri documenti di Storia Italiana cit., p. 434. 263 Vedi sopra, p. 260. 264 Vedi sopra, p. 262 e sgg. — 267 — Ci siamo soffermati su questo singolo fatto, un esempio fra molti anche se di indubbia rilevanza, per cominciare a mettere in luce i successivi livelli di lettura del fenomeno « riforma ». Un fenomeno che risulta prima filtrato attraverso il dibattito politico successivo al 1528 e quindi consolidato dagli storici in interpretazioni spesso basate più sugli esiti dell’ulteriore evoluzione della società genovese che non su una precisa conoscenza dei termini in cui le questioni si ponevano al-1 inizio del Cinquecento. È necessario muoversi con prudenza tra le fonti narrative del tardo Cinque e del Seicento sull’« unione ». Nella maggior parte dei casi esse risultano più utili per capire i contenuti del dibattito politico in corso al tempo della loro stesura che non per i lumi che possono gettare sul problema della riforma. Ma torniamo alle vicende del nuovo regime francese. Tra le sue prime iniziative vi fu il divieto per i banchieri genovesi di svolgere attività di cambio con gli agenti cesarei e di pagare le rate dei cambi già in corso di riscossione263. Furono inoltre presi dei provvedimenti giudiziari nei confronti delle persone più coinvolte con il passato regime filoimperiale degli Adorno. Tra queste spiccano Stefano Grimaldi, Stefano e Agostino Spinola che avevano raggiunto ben presto Antoniotto Adorno ed il Soria alla Mirandola 266. Il 6 settembre, in un consiglio di circa trecento cittadini, alla presenza del Governatore e delle più alte magistrature, venne proposta l’elezione di una Balìa « con la facultà e possanza solite », giustificandone 1 utilità con un riferimento generico all’« occorrenza de tempi », e soprattutto con l’urgenza di ottenere la restituzione di Savona, ancora nelle mani di Francesco 1 267. Quello stesso giorno furono eletti otto Vedi lettera del Soria a Carlo V del 17 settembre 1527 in BNM, ms. 2021462, doc. n° 15. L’ambasciatore per ovviare a questa proibizione consigliava che si rilasciassero quietanze liberatorie ai banchieri anche per le somme non an- cora pagate, in modo da toglierli dagli impicci e far calmare le acque, dopodiché si sarebbe trovato il modo di riallacciare ι rapporti. 266 Così il Soria: « Aqui son benidos Esteban de Grimaldo y el capitan de la plaza de Genova y Esteban del Burgo, por no poder buenamente estar en Genova por lo que se han amostrado servidores de vuestra Magestad [. ..] y agora tenemos aviso de Genova que los procesan por no comparecer al mandamiento que les han hecho que se represienten », ivi. 267 ASCG, ms. 88, c. 1. — 268 — cittadini e si stabilì in sei mesi la durata del loro mandato 268. Da quando era tornata sotto il dominio francese, Genova non aveva mai cessato di impegnarsi per ottenere che Savona le fosse restituita. Francesco I inviò, sempre nel settembre 1527, il suo « valet de chambre » Jacques Colin in Liguria perché informasse la corte sul conflitto tra le due città. Il Colin prese le parti dei savonesi, entrando per questo motivo in dissidio sia con il Trivulzio sia con Andrea Doria. Forse furono proprio i negativi sviluppi della questione di Savona ad indurre i genovesi a dichiarare pubblicamente i compiti dell’ufficio di Balìa che, con l’aggiunta di quattro nuovi membri in data 20 dicembre, fu definito prò unione facienda 269. Nonostante questa tardiva dichiarazione dei compiti della Balìa, è assai probabile che 1’« unione » fosse fin dall’inizio tra i suoi obiettivi2/0. Gerolamo Doria, Agostino Pallavicino, Battista Lomellino, Stefano Giustiniani, Agostino De Ferrari, che troviamo tra gli eletti del 6 settembre, avevano partecipato 268 jvj; c 4 Riportiamo i loro nomi come indicati nel manoscritto sul quale seguiremo da ora in avanti l’attività legislativa riguardante 1’« unione », aggiungendo il gruppo di appartenenza politico: Gerolamo del fu Agostino Doria e Agostino del fu Pietro Pallavicino, nobili bianchi; Battista del fu Gerolamo Lomellino e Nicola Grimaldi Cebà, nobili neri; Stefano Giustiniani, mercante bianco; Giovanni Battista Sauli, mercante nero; Agostino De Ferrari, artefice bianco; Giovanni Davagna, artefice nero. Successivamente si procedette ad alcune sostituzioni: in luogo di Battista Lomellino, nobile nero, Agostino del fu Battista Lomellino, pure nobile nero, in luogo di Nicola Grimaldi Cebà, nobile nero, Domenico Grimaldi Cebà, anch egli nobile nero; in luogo di Giovanni Battista Sauli, mercante nero, Agostino Sauli, sempre mercante nero, e poi Giovanni Battista di Stefano Moneglia, artefice bianco. Come si vede, tre dei quattro avvicendamenti coinvolsero membri delle stesse famiglie, ed è possibile che queste sostituzioni siano avvenute in seguito a decessi causati dalla peste che già cominciava a mietere vittime in città. 269 c 5 J nuovi aggiunti furono: Battista del fu Antonio Spinola, nobile bianco; Giovanni Battista Fornari, mercante bianco; Franco Fieschi, nobile nero; Bernardo Zerbi, artefice nero. 270 Ci conforta in quest’idea il Casoni (Annali cit., libro III, p. 246 e sg.) il quale afferma che gli otto membri della Balia non « si tolsero subitamente la maschera, con mostrare in pubblico il disegno, che avevano di riunire il corpo loro, e di regolare il governo in differente forma del passato, ma andarono coprendo questa loro intenzione coll’apparente ragione di rimediare a’ disordini, e a’ pencoli della Repubblica, e di reintegrarla in quegli stati, che durante i torbidi delle passate guerre avea perduti ». — 269 — alle precedenti magistrature dei Riformatori. Questi uomini avevano perseguito la causa dell’« unione » sotto tutti i regimi che si erano succeduti a Genova negli ultimi dieci anni. Anche per questa Balìa venne rispettata la paritaria ripartizione dei posti fra nobili e popolari. Se effettuiamo un confronto con la lista dei giuranti del « Libro di pace e concordia » e con quelle dei coinvolti nei moti del 1506, troviamo una nuova conferma che i fatti di quell anno non determinarono nessuna discriminazione antipopolare, né per quanto riguarda la successiva distribuzione delle cariche, né durante 1 elaborazione della riforma. Nella componente popolare della Balìa, contando anche i membri poi sostituiti, abbiamo infatti quattro « giuranti » del 1506 271 e uno degli « uomini di fazione » 272 secondo le liste del Pandiani: una massiccia presenza che con lievi oscillazioni abbiamo sempre trovata nelle magistrature dei Riformatori. L’erudito secentesco Federico Federici ci aiuta a comprendere i fattori di politica internazionale che avevano permesso il risorgere del progetto di « unione » subito dopo la conquista francese. Egli afferma che: sott’il governo di Francia, governatore Teodoro Trivultio, furono di nuovo quelle pratiche [di « unione »] ripigliate e passate molt’avanti di consenso del detto Trivultio, ben si deve credere con notitia del suo re, perché trattandosi in que’ tempi la restitutione dei due figli del re di Francia riposti in mano dell’imperatore per ostaggi quando il re fu di Spagna liberato, si pratticava in la conventione che all’hora fra detti due principi si faceva, che s’havessero a restituir tutte le piazze nel grado e stato ch’erano dal tempo che fra detti due principi restava convenuto, e perché se tal pratica si conchiudeva si harebbe havuto a restituire la città di Genova al governo degli Adorni, tornava più a conto a’ francesi che la città restasse unita e posta in libertà, più presto che a rimetterla in mano all’Adorno adherente dell’imperatore, però assai presto che quella praticha non hebbe effetto, prohibì il Trivultio che più non si continuasse trattar né di unione né di libertà 273. 271 Stefano Giustiniani, Giovanni Battista Sauli, Giovanni Battista Moneglia e Bernardo Zerbi. 272 Agostino De Ferrari. 273 F. Federici, Principio dell’istorie qualle incomincia l’anno 1522, in quale la città di Genova fu sacheggiata, sino all’anno 1575 che s’estinse la legge de 1547, in ASG, ms. 56, c. 41 v. e sg., vedi anche la raccolta del Cicala, ASCG, ms. 443, c. 355. — 270 — La proposta interpretativa è estremamente interessante. Ricostruiamo nelle sue linee essenziali la situazione europea nel 1527. L’alleanza tra Francesco I ed Enrico Vili del 30 aprile di quell’anno aveva infine dato sostanza ai vari segni di ravvicinamento fra i due sovrani che si erano già manifestati all’indomani della battaglia di Pavia. L’alleanza uscì rafforzata dagli sconvolgenti effetti sulle coscienze dei contemporanei del sacco di Roma e della prigionia del pontefice. Un’ambasceria comune franco-inglese iniziò a Valladolid le trattative con i rappresentanti imperiali. Il Guicciardini ci informa diffusamente sulla materia del negoziato. È inutile entrare nei particolari: basti sapere che una delle principali condizioni poste da Carlo V era che « subito che fusse stipulata la concordia, si partissino tutte le genti franzesi di Italia [e quindi anche da Genova], il che el re [di Francia] recusava se prima non gli erano restituiti i suoi figlioli »m. Il cristianissimo chiedeva d’altro canto il ristabilimento di Francesco Sforza nel ducato di Milano. Appare chiaro che, in vista di un simile accordo, era allettante per Francesco I la prospettiva di una riforma istituzionale che potesse impedire la reintegrazione di Antoniotto Adorno nella carica di Doge e quindi il ritorno della Repubblica sotto il controllo di Carlo V. Una Genova neutrale e il ducato di Milano con a capo lo Sforza sarebbero stati due porte aperte nell’Italia del nord273. Le manovre francesi volte a favorire 1’« unione » ebbero il loro momento cruciale nell’ottobre-novembre del 1527 e come protagonista Giovanni Gioacchino da Passano, un genovese di grande credito ed autorità alla corte di Francesco I. Di ciò si trova testimonianza in una raccolta di lettere indirizzate al da Passano e date alle stampe all inizio del XVII secolo con l’intento di provare che questi doveva essere considerato al pari, se non più, di Andrea Doria artefice della riforma del 1528 276. La sostanza della proposta, approvata dal re e di 274 F. Guicciardini, Storia d’Italia cit., voi. Ili, p. 1888. 275 Su questo periodo si veda K. Brandi, Carlo V cit., p. 252 e sgg. 276 Littere et altre scritture concernenti all’unione di Genova, per quale si verifica, che di essa fu inventore, mottore, et quasi executore Gio: Gioacchino de Signori di Passano, nelli anni 1527 et 1528, Casale, Pantaleone Goffii Stamperia Ducale, 1615. Anche G. Saivago (Historie di Genova, ms. in ADG, scat. 417, n. 1912, I, c. 26 e sgg.) parla diffusamente del tentativo del Da Passano che portò le offerte — 271 — cui il da Passano fu l’architetto e il latore, era che Genova tornasse libera Repubblica, che si facesse 1’« unione » e che il supremo grado (di Doge o di Governatore) andasse a Federico Fregoso, arcivescovo di Salerno, allora esule in Francia. Essendo quest’ultimo senza prole e senza parenti vicini, non c’era chi potesse dissuaderlo dal disegno di rifondare il governo della città 277. Le proposte provenienti d’oltralpe non risultarono gradite ai genovesi che non ritenevano « a proposito proceder se non per la via introdotta » 278, forse alludendo al progetto elaborato ai tempi di Antoniotto Adorno che prevedeva l’eliminazione del dogato a vita. Un altro grave ostacolo fu posto dallo stesso Fregoso. Egli scrisse al da Passano il 29 dicembre del 1527 279, dichiarando che non era possibile prevedere a cosa avrebbero portato le pratiche di « unione »; ed inoltre affermava: però non so vedere, come si possa far unione, dove è tanta disunione, et diversità, salvo simulatamente, il che credo che seria molto danoso, et poco stabile, per molte ragioni, [...] solo dirò bene al mio parere esser due cose ex diametro contrarie, la Repubblica di molti, et il Principato di uno, però ne io, ne altri al giudicio mio, è buono per questa opera, imo è necessario, che se la Republica deve esser comune, [...] che nissun particolar, del re ai genovesi « di volerli liberare de la soa servitù et de tiranni et farli signori liberi et padroni del loro dominio ». Egli afferma che, nei lavori preparatori per la riforma « di continuo se li investigava, con di continuo formare nuovi modeli, pigliare informationi de le antique republiche et masime de la veneta, essendo quella la quale habbi più durato, et duri », ibid., c. 29 v. Di tutto ciò, purtroppo, non abbiamo trovato traccia. 277 Lettera di Andrea da Passano al fratello Giovanni Gioacchino scritta da Napoli il 2 ottobre 1527, Littere et altre scritture cit., pp. 3-9. Andrea sapeva della prossima andata del fratello a Genova per ridurla in « bona et stabile unione » ed approvava che « quel governo venga in mano del predetto Monsignor nostro Reverendissimo, et Illustrissimo di Salerno, il quale è quello capellasso, che debba ragionevolmente esser più inclinato a ponere la patria in libertà, per non havere figlioli, ne alcuno del sangue suo propinquo, che li possi perturbare uno tanto santo proposito ». 278 Lettera di Nicola Grimaldi al da Passano del 19 novembre 1527, ibid., p. 10 e sg. 279 Ibid., pp. 16-19. La lettera è scritta da Digione, dove il Fregoso era a quest’epoca abate di S. Denis. — 272 — vi habbia più autorità dell’altro, o vero che molti altri, altrimenti voi, mu-tarete forsi li tituli, et li soprascritti, ma lo intrinseco sarà a l’usato, o forsi peggio. Non si riesce bene a capire se il Fregoso fosse preoccupato dell’effet-tiva realizzazione della riforma o del fatto che la proposta del da Passano non dava garanzie per il suo potere personale. Certo è che 1 arcivescovo rifiutò di prestarsi al gioco; più oltre ribadì espressamente: «solo mi resta dirvi, [...] che se sentite parlar di me in simile pratiche, vi piacerà per salute dell’anima mia, et quiete del corpo tagliarne ogni ragionamento ». La matrice del progetto è chiara. Già il Soria aveva denunciato il tentativo delle parti dogali di strumentalizzare a loro vantaggio l’ideale di « unione ». In questo caso i sostenitori dei Fregoso, vittoriosi ma scontenti dopo i fatti dell’agosto 1527 (per la scelta di un Governatore straniero, il Trivulzio, in luogo di Cesare Fregoso), cercarono di usare la riforma per mettere al vertice dello stato il massimo rappresentante della loro fazione. I successivi sviluppi della politica internazionale resero vano il tentativo del da Pasasno. Le trattative per la restituzione dei figli del cristianissimo fallirono e alla fine del 1527 la rottura tra Francesco I e Carlo V fu totale. La reciproca dichiarazione di guerra avvenne quando il conflitto militare era ormai già ripreso. A questo punto i francesi non avevano più alcun interesse che fosse realizzata la riforma a Genova. Confrontando la situazione creatasi alla fine del 1527 con quella del febbraio 1525, ci accorgiamo di molte importanti somiglianze. In ambedue i casi, lo stato straniero « dominante » appoggiò il progetto di « unione » al fine di porsi al riparo da un prevedibile mutamento di regime in Genova che, rimettendo in sella l’opposta fazione cittadina (nella logica deH’alternanza Adorno-Fregoso), avrebbe riconsegnato la Repubblica nelle mani della potenza nemica. Si tratta di una significativa analogia nonostante le palesi diversità tra i due momenti: infatti, alla spinta contingente rappresentata nel 1525 dalla minaccia militare, corrispose nel 1527 la prospettiva di un accordo internazionale, e soprattutto la Francia era subentrata all’impero come potenza egemone sulla città. Tuttavia identico fu il modo di agire di Francesco I e di Carlo V. Entrambi mostrarono di favorire la riforma per manovrare — 273 — le vicende interne genovesi, con lo scopo ultimo di salvaguardare le prospettive della propria strategia europea. Ma i due sovrani si servirono di un ideale, P« unione », che era il risultato, come abbiamo già detto, di una faticosa elaborazione del ceto dirigente cittadino. Un ideale che aveva una sua storia ed una sua forza autonome, e che mirava ad estirpare con le fazioni (soprattutto con quelle degli Adorno e dei Fregoso) lo strumento dei tentativi egemonici delle grandi monarchie sulla Repubblica. È su questi due livelli, interno e internazionale, che si snoda la vicenda dell’« unione »: due piani che, come vedremo, spiegano anche perché il suo successo finale ebbe luogo proprio nel 1528. A questo punto è necessario esporre quanto sappiamo sull’ulteriore evolversi dell’atteggiamento dei francesi rispetto all’« unione ». Purtroppo il ricco carteggio degli ambasciatori genovesi, al quale abbiamo largamente attinto nella stesura del primo capitolo, si interrompe per i rapporti con la Spagna nel 1526, per quelli con la Francia addirittura nel 1523. C’è quindi una lacuna proprio negli anni decisivi per la riforma. Disponiamo per il periodo 1527-1528, a parte qualche documento sparso, dei soli testi legislativi che, in quanto elaborazioni conclusive, svelano relativamente poco sul dibattito politico a monte e sugli orientamenti (come sui rapporti di forza) tra i vari gruppi politici. È tuttavia possibile abbozzare un quadro sommario. Martino Centurione, in una lettera scritta da Burgos il 17 gennaio 1528, informava il figlio Gerolamo del totale fallimento delle trattative tra Francesco I e Carlo V e, preoccupato dei riflessi che ciò avrebbe avuto sulla situazione genovese, chiedeva notizie « de li andamenti dela cità, de le pendentie de Saona et de li tractamenti de questo governo et de Francesi, et sopra tutto de la unione » 28°. Il momento non era più favorevole, ma i cittadini continuavano a lavorare per la riforma. È quanto si evince da alcune lettere del Soria e del Trivulzio. Il primo scriveva dalla Mirandola Γ8 e l’il febbraio informando Carlo V che i genovesi avevano offerto al re di Francia una cospicua somma di denaro per ottenere il suo consenso all’« unione » e che erano intenzionati a conferire ad Andrea Doria la carica di « confaloniere »281 ; il 280 Documenti di Storia Italiana cit., voi. II, pp. 3-4. 281 «Tan bien informarà el dicho Estevan [Spinola] a vuestra Magestad de la — 274 — secondo inviò da Genova due importanti lettere indirizzate ad un personaggio ignoto, forse un suo agente alla corte francese, perché facesse da tramite con il Gran Maestro Anne de Montmorency282. Ecco come il Governatore si esprimeva, nella prima missiva, verso la metà del febbraio 1528: dopoi che vi ho scritto questi giorni, li cittadini che cercano l’unione hanno avuto lettere da li suoi de corte che sollecitano la impresa, che erano stati con monsignor il Cardinale [il Gran Cancelliere Antoine Duprat] per tale effecto con diverse proposte et offerte; et il prefato monsignore gli havea dato buona speranza e dittoli che pariaria al re, e poi gli daria risposta: e questa è la sustanza de le lettere hanno de corte. Basandosi su un atteggiamento possibilista della corte francese, anche se a questo punto non più risolutamente favorevole, in Genova i fau- estrecha platica que agora se tiene en Genova para hazer la union, y que sea confa-lonero Andrea Doria, y esto lo procuran él y sus parientes y amigos pensando tener todo el govierno y mando de la ciudad en su mano, y servir al rey de Francia, con el qual rey procuran que les dé licencia para hazerla, y le prometen buen servicio de dinero por elio» (lettera dell’ll febbraio in RAHM, ms. A-42, cc. 136-138, pressapoco negli stessi termini la lettera dell’8, ivi, cc. 123-126). Mai più troveremo accenno all’intenzione di conferire al Doria tale carica, ma il fatto non è da escludere, e può essere interpretato sia nel modo proposto dal Soria, sia come una mossa dei fautori dell’« unione » volta a fare dell’ammiraglio il garante istituzionale della fedeltà genovese a Francesco I. In fondo questo fu il ruolo del Doria nei confronti di Carlo V dopo la riforma dell’ottobre 1528. 282 Altri documenti di Storia Italiana cit., pp. 431-435. Per queste due lettere c’è anzitutto un problema di datazione. Il Molini afferma che furono scritte nel maggio del 1528, basandosi sul fatto che da esse risulta la presenza di Andrea Doria a Genova. Ma noi sappiamo che l’ammiraglio tornò in patria subito dopo la sfortunata impresa di Sardegna che aveva causato i noti e gravi dissapori con Renzo da Ceri, e cioè nel febbraio (vedi G. Oreste, Genova e Andrea Doria cit., p. 25). In entrambe le lettere si parla dell’« unione » come ancora non realizzata (quindi esse furono scritte prima del 2 aprile 1528), mentre solo nella seconda di un grave dissidio con Jacques Colin. Lo stesso Molini pubblicò altre lettere del Trivulzio, tra cui una al re del 28 febbraio dove si scagliava con veemenza, quasi con gli stessi termini, contro il Colin (Documenti di Storia Italiana cit., p. 16 e sg.); è chiaro che la seconda lettera non datata è da mettere in rapporto con quest’ultima, tanto più che i riferimenti alla polemica con il « valet de chambre » scompaiono dalle successive lettere del marzo-luglio 1528. Per questi motivi la datazione più probabile dei due documenti è tra la metà e la fine del febbraio 1528. — 275 — tori della riforma, affermava il Governatore, « dicono fra li cittadini haver lettere de corte che tutto è accordato e appuntato col re, il che dicono per tirar li animi de cittadini alle voglie loro e raffreddare gli altri che gli sono contra ». Il Trivulzio espresse quindi la propria posizione parlando dei colloqui personalmente avuti con esponenti genovesi favorevoli all’« unione »: questi giorni, alcuni de loro hanno parlato con me di tal unione mostrando volersi consultare con me e cercar di ridurmi con loro; et havendoli io ditto liberamente la opinione mia, che io sono per conservare il stato del re a Genova e non voglio alterarlo, con farli intendere che non si potria havere miglior governo che quello di sua Maestà, sono restati mezzi confusi: niente di manco vanno dicendo che havendo lor parlato con me, mi hanno trovato de la opinione loro, il che è falso. Il fatto è assai significativo: di fronte ad un parere negativo del Governatore, non solo i genovesi non si sentirono vincolati a seguire le sue direttive, ma addirittura sparsero la voce che egli era favorevole alla riforma. Il Trivulzio riferì che si era parlato di offrire al re « qualche somma de denari, acciò si potesse fare questa unione », ma era difficile trovare i fondi necessari. Il « senato » (cioè gli Anziani) non intendeva prendere una decisione al riguardo, decisione che « secondo li ordini de la città » spettava al « grande consiglio, quale è al manco di 300 cittadini ». I sostenitori dell’« unione » erano riluttanti però a convocare il consiglio per il timore di subire una sconfitta. Da un lato quindi la corte francese non aveva impartito precise direttive, dall’altro in Genova un forte ed attivo « partito » della riforma doveva ancora fare i conti con un’opposizione abbastanza consistente o comunque con un’opinione pubblica non ancora del tutto conquistata agli ideali di « pace e concordia ». In mezzo, come abbiamo visto, c’era il Trivulzio, decisamente contrario ad ogni tipo di mutamento del sistema di governo. La seconda lettera 283 mette ancor meglio in luce lo scarso coordinamento della politica francese sul problema del nuovo assetto costitu- 283 Altri documenti di Storia Italiana cit., pp. 433-435. — 276 — zionale che i genovesi intendevano dare alla loro Repubblica. Il Trivulzio si lamentava che fossero trapelate notizie sulla sua corrispondenza riservata con Francesco I, soprattutto che tali notizie fossero giunte ai genovesi presenti in cortem, e proseguiva esprimendosi con malcelata stizza sulle voci a lui giunte riguardanti una sua possibile sostituzione. Egli infatti affermava di aver saputo che Clemente VII stava tramando per ottenere che un uomo di sua fiducia fosse mandato a Genova per rimpiazzarlo nella carica di Governatore. Il Trivulzio sosteneva di non essere preoccupato per tali voci, di non aver mai chiesto la carica che ricopriva e anzi, nell’accettarla, di aver avuto assicurazioni del Lautrec che la sua permanenza a Genova sarebbe stata breve. In conclusione se « gli metterà homo più atto e più sufficiente al servitio del re, tanto mi sarà più grato, perché desidero più levarmi di qua che molti non pensano ». È difficile giurare sulla sincerità del Governatore, anche se il suo ruolo doveva in effetti essere molto scomodo. A questo punto il documento testimonia l’asprezza del dissidio che esisteva con Jacques Colin: Quello che grandemente me dispiacerla, seria che il re et esso monsignor gran maestro fussero entrambi in questa deliberatione di mandare un altro qua per lettere che li potesse havere scritte et per relatione che possi haver fatto a bocca Iacomo Colino; la qualità del quale è tanto manifesta 284 « Farete intendere a monsignore il gran maestro [Anne de Montmorency] ch’io scrissi alli dì passati al re quello mi occorreva per mente sopra la unione di Genova, il che gli scrissi per farli sapere la mera verità, parendomi che per debito mio non potesse mancare de dirgli quello ch’io sentiva; e benché io non scrivessi, se ben mi ricordo, che fusse impossibile che ditta unione seguisse, intendo che gli agenti de questa città, quali se trovano a corte, dicono aver inteso da esso monsignor gran maestro ch’io debba aver scritto essere impossibile che ditta unione possi havere effetto. La qual cosa, ancorché mi renda certo ch’esso monsignor non l’abbi alterata più de quello me habbi scritto, mi ha fatto stare molto admirato, parendomi che non sia al proposito per servitio del re che le cose se scrivano a Sua Maestà siano dette, massimamente a quelli che vi hanno interesse, benché per questo non restarò di scrivere liberamente e senza rispetto alcuno tutto quello mi occorrerà per servitio de Sua Maestà: imperò ne ho voluto advertire sua eccellenza, rimettendomi sempre al suo prudentissimo parere, che meglio seria non lassare intendere quello se scrive al re per quelli che sopra ogni altra cosa desiderano il servitio de Sua Maestà, perché a quelli che se dicono li aggiungono e diminuiscono come li piace, senza rispetto di persona», ibid., p. 433 e sg. — 277 — che non occorre ne scriva altro; né tengo conto de cosa che habbia scritta né detta di me, perché non vorrei che uno de la qualità sua porgesse una bona parola per me, et ogni bono officio che facesse in mia laude lo reputerei fusse in mio dishonore: et se havesse voluto consentire a sue diman-de harebbe scritto e parlato d’altra sorte; ma quelle cose che ricercava e voleva sotto spetie de un poco de emolumento che potesse venire in mano al re, tendevano alla disperatione et evidente danno di questa città, de la quale per servitio del re bisogna tenerne più conto che un par de Iacomo Colino non pensa. Ma esso Colino per fare qualche suo particolare guadagno non si curava del resto 285. Contro il Colin si scagliava alla fine di marzo anche Andrea Doria in una lettera al Montmorency definendolo un « coquin escervellé, qui pour mettre en bourse deux cens escuz supporterà très voluntiers tout dommage du Roy ». L’ammiraglio concluse la missiva in tono minaccioso affermando: « touchant les choses de ceste ville et de Saonne [. . .] le temps vous fera certain qui aura approché plus près de la verite, pour le bien du Roy, ou Jacques Colin ou moi» 286. Sappiamo che il Colin era favorevole ad una sottrazione permanente di Savona al dominio della Repubblica ed in ciò è probabile che avesse il sostegno entusiasta dei savonesi, disposti anche a dare al re quel « poco di emolumento » di cui parlava il Trivulzio. Per contro sia il Governatore sia il Doria sapevano che i vantaggi che potevano venire alla Francia da Savona indipendente non avrebbero compensato il danno della sicura perdita di Genova. Una cosa è chiara: mentre i problemi di Savona e dell’« unione » continuavano ad essere strettamente congiunti, la corte e i due rappresentanti del re erano in aperto contrasto fra di loro. Da parte francese si stava palesando un’incapacità di fondo ad inserirsi con decisioni pronte nel dibattito politico interno sul riassetto delle istituzioni cittadine, probabilmente mai interrotto dopo il 1525. 285 Ibid., p. 434 e sg. Come detto, negli stessi termini si esprimeva il Trivulzio in una lettera a Francesco I del 28 febbraio 1528, Documenti di Storia Italiana cit., voi. II, p. 16 e sg. 286 Lettera dell’ammiraglio al Montmorency del 24 marzo 1528, in M. Spinola, Considerazioni su vari giudizi di alcuni recenti scrittori riguardanti la storia di Genova, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», IV/4, 1867, pp. 428-429. — 278 — Questa situazione si rivelò favorevole ai sostenitori della riforma che, nonostante l’opposizione del Trivulzio, riuscirono nell’aprile del 1528 a varare le nuove leggi. Per spiegare questo fatto bisogna tener presente quanto è emerso sin qui. Abbiamo messo in luce l’analogia strutturale esistente fra le situazioni del 1525 e del 1527-28. Tra questi due momenti vi era però anche una differenza importante. Nell’ultimo periodo di dominio francese, mancò infatti un capofazione cittadino al vertice dello stato, capace, mobilitando i propri sostenitori, di bloccare il progetto di riforma una volta esauritosi il favore della potenza egemone al progetto stesso. Come abbiamo detto la congiuntura internazionale che aveva indotto la Francia ad appoggiare 1’« unione » nell’autunno del 1527 durò fino agli inizi dell’anno successivo: cioè fino al fallimento delle trattative volute da Francesco I per la liberazione dei suoi figli trattenuti come ostaggi dall’imperatore. Fu però sufficiente, a questo punto, la sola spinta interna determinata dai larghi consensi che la riforma aveva conquistato tra i genovesi. Essa fu tale che il Trivulzio non riuscì a bloccare l’attività dei Dodici, i quali nell’aprile del 1528 emanarono le nuove leggi nonostante il suo parere sfavorevole. Tra il 1515 e il 1521 le pratiche di «unione» furono avviate con il patrocinio di Ottaviano Fregoso, nel 1525-1527 per volontà di Anto-niotto Adorno. L’iniziale loro favore non impedì però una repentina inversione di rotta. Nel primo caso l’intervento del fratello di Ottaviano, Federico, nel secondo l’ossequiosità del Doge alle direttive imperiali, bastarono a mettere fine alle speranze dei fautori della riforma. Cioè, nel momento in cui un capofazione ricopriva la massima carica della Repubblica, la riforma era esposta ai mutamenti di umore della fazione dominante, fossero essi determinati da un rigurgito di spirito di parte o dalle direttive della potenza egemone. Nel 1527-1528, invece, il progetto di « unione » venne ripreso quando a capo della città era un personaggio, il Trivulzio, non direttamente legato agli Adorno o ai Fregoso. Se la presenza di un Governatore straniero favorì il successo della riforma, incise però profondamente sui suoi contenuti. Le fonti archivistiche genovesi tacciono sull’atteggiamento del Trivulzio, tuttavia sappiamo che egli fu presente all’elaborazione delle « nuove leggi » emanate nell’aprile 1528. Tutti gli annalisti indistintamente lodano il Governatore — « uomo di somma bontà e amatore della pubblica quiete » - e affermano che concesse subito il suo appoggio all’ « unione ». È — 279 — evidente invece ch’egli manteneva pubblicamente un atteggiamento conciliante per non rendere odioso il dominio francese, salvo esprimere il suo parere contrario nelle lettere a Francesco I e nella ristretta cerchia in cui veniva elaborata la riforma. Nella prima lettera del febbraio 1528, il Trivulzio, come abbiamo visto, affermava che i cittadini cercavano di « ottenere che se reduca questa citta a uso de repubblica » ma egli era intenzionato a « conservare lo stato del re a Genova », sostenendo « che non si potria havere miglior governo che quello di sua Maestà » 287. La riforma, ormai lo sappiamo, mirava all unione dei cittadini, alla libertà e alla neutralità della Repubblica. Ciò significava l’instaurazione di un governo autonomo che mal si conciliava con la presenza di un rappresentante regio a capo della città. Il Trivulzio si opponeva, non sappiamo se per difendere gli interessi superiori del cristianissimo o per non perdere la sua carica (o per entrambi questi validi motivi). Di fatto, il testo della riforma del- 1 aprile 1528, lungi dall’abolire la carica di Governatore regio, la conservò, attribuendole delicati compiti istituzionali. 6. La fase preparatoria della prima versione della riforma (aprile 1528) Dopo aver decifrato per quanto possibile le caratteristiche dell’atteggiamento francese sul problema specifico dell’« unione », è ora necessario seguire 1 iter legislativo che portò all’approvazione della riforma. C è anzitutto un problema di fonti. Per i primi decenni del Cinquecento non esistono raccolte organiche degli atti delle magistrature genovesi, e ciò vale anche per i Dodici Riformatori. I documenti che riguardano le leggi del 1528 sono dispersi in vari fondi, in forma di minute o di appunti presi dai cancellieri per lo più durante lo svolgimento delle grandi assemblee consiliari. Abbiamo trovato alcune delibere dei Riformatori, ma non un insieme di materiali preparatori simi- 287 Altri documenti di Storia Italiana cit., p. 431. — 280 — le a quello utilizzato da Savelli nel suo libro sulle Leges Novae del 1576 288. Non mancano invece le raccolte cinque e secentesche delle leggi del 1528. Esse hanno, grosso modo, tutte la medesima struttura: riportano le principali deliberazioni delle magistrature e dei consigli a partire dal 5 settembre 1527 fino all’emanazione del primo testo della riforma dell’aprile 1528, e quindi proseguono con le stesse modalità fino al testo definitivo dell’ottobre. L’attendibilità di queste raccolte è dimostrata dal loro confronto con le minute disperse nei fondi dell’Archivio Segreto. Le minute, piene di cancellature e di aggiunte, erano evidentemente gli appunti che servivano ai cancellieri per la stesura dei verbali: verbali ora perduti che furono copiati nella seconda metà del Cinquecento e nel Seicento 289. In qualche caso tuttavia, come vedremo, le minute si rivelano, per i brani successivamente soppressi, assai più interessanti che non i documenti ufficiali riportati nei manoscritti più tardi. Già abbiamo visto come il 6 settembre 1527 venisse eletta una Balìa di otto membri con il compito di fare tutto il possibile per ottenere dai francesi la restituzione di Savona, e come il 20 dicembre fossero stati aggiunti quattro membri a tale magistratura, a quel punto definita esplicitamente prò unione jacienda. Il 7 marzo 1528 il mandato della Balìa arrivò al suo termine senza che i due obiettivi per i quali era stata creata fossero stati raggiunti. Si tenne quindi il 9 marzo una grande assemblea cui presero parte il Governatore, gli Anziani, le più importanti magistrature ed oltre quattrocento cittadini. In questa sede si stabilì che il potere della Balìa doveva essere prorogato per un periodo di tempo da stabilire secondo il giudizio del Senato (cioè dagli Anziani). La decisione fu di confermare la Balìa fino al 15 maggio 1528 29°. 288 Si veda il cap. IV, « Modelli e consilia per le nuove leggi », in R. Savelli, La Repubblica oligarchica cit., pp. 153-201. 289 Tra queste raccolte utilizzeremo, nei casi in cui mancano le minute di cancelleria, quella conservata in ASCG, ms. 88. 290 Questo fu il tema proposto all’assemblea del 9 marzo: « Signori, come doveri sapere, la auctorità e possansa al magnifico offitio de bailia atribuita è spirata a li VII del presente meise, e perché le occorrentie de l’Italia e quasi di tuta la chri-stianità sono nel grado, tumulti e turbulentie di guerra come ogniuno intende, non parendone per tali rispecti, sì per mantenimento de la quiete e pacifico de la cità, — 281 — Verso la fine del marzo 1528 Gaspare Bracelli e Benedetto Vivaldi furono inviati a Francesco I per chiedere che Savona fosse reintegrata nel dominio genovese. Anche i Protettori di San Giorgio scrissero una istruzione ai due oratori per ricordare loro che « non è possibile conservare la cità, già tanto afflicta per li grandi danni et calamità patiti per mantenere el stato regio, se sua Maestà non restituisce essa cità de Saona a lo excelso commune nostro »291. I Protettori indicarono poi le basi giuridiche su cui poggiava la richiesta. Diversi capitoli delle convenzioni dell’anno 1515, si affermava, dimostrano apertamenti che soa Maestà non ha potuto de iure privarne non solum de la possessione immo nec etiam de alchuna de le ragione, auctorità et iurisdictione de la communità nostra in la dieta cità de Saona et lo suo territorio, et maxime havendo soa Maestà per essi privilegii et conventione promisso et iharito che li debbiamo godere perpetuis temporibus, ne se può allegare che per parte nostra sia stata facta alchuna cosa chi possa haver derrogato a detti privilegii, li quali non solamenti ne debbeno essere mantenuti come ne è stato promisso, immo etiam ampliati come ricerca la fidelità et opere nostre come anche per la non anchora seguita reintegratione de le membre nostre, de la quale detto offitio havia particular cura, essere bono conseglio che se stia senza offitio de bailia in la cità, imperò vi havemo facto dimandar qui a ciò che considerato da voi il tuto, posiate consulta’ aregorda’ e delibera’ quello e quanto parerà a voi si debia in predictis fa e delibera’, e circa ciò porgere e dare il vostro prudente ricordo e conseglio ». Furono richiesti a esporre il proprio parere Tommaso Cattaneo e Giovanni Battista del fu Stefano Moneglia. Il Cattaneo propose che fosse rimessa al Governatore ed al consiglio la scelta tra prorogare la presente Balìa di sei mesi e crearne una nuova con gli stessi poteri della precedente. Il Moneglia, membro della Balìa, si espresse invece risolutamente per una proroga del mandato da stabilirsi ad arbitrio del senato. Le due proposte furono messe ai voti e quella del Moneglia vinse per 82 voti contro 78 (ASG, Archivio Segreto 3124, documento di mano del cancelliere G.B. Zino). 291 ASG, Archivio Segreto 712. Vediamo brevemente la materia regolata nei capitoli delle convenzioni del 1515 invocati dai Protettori di San Giorgio. Il re concedeva o accettava: nel IV capitolo che tutti i vassalli, feudatari e convenzionati del comune di Genova fossero obbligati a prestare giuramento di fedeltà al comune stesso; nel V che gli abitanti del dominio genovese dovessero prestare obbedienza al Governatore regio secondo le «regole» della città. Il re prometteva: nel VII capitolo di difendere la città ed il distretto e tutte le terre del comune e di San Giorgio; nell’VIII di non alienare o — 282 — Le ultime parole lasciano intuire che c’era un equivoco di fondo. I rapporti tra Genova e la monarchia francese erano stati regolati nei primi decenni del Cinquecento, prima dalle convenzioni e privilegi del 1499 pattuiti tra la comunità e Luigi XII, quindi dai privilegi unilateralmente concessi sempre da Luigi XII nel 1507, e infine dalle convenzioni del 1499 rinnovate nel 1515 da Ottaviano Fregoso e Francesco I. Come abbiamo visto, furono proprio alcuni capitoli dei patti del 1499 e 1515 ad essere invocati dai Protettori di San Giorgio. Questi patti non erano però stati ancora riconfermati dal re. Un atto ufficiale in tal senso era necessario ad ogni successione al trono, ma poteva esserlo anche dopo che vi fosse stata una soluzione nella continuità del dominio di uno stesso sovrano. Francesco I nel 1527-28 non riteneva validi gli accordi del 1515, e anzi rinviava i tempi della conferma per legittimare la sua politica verso Genova e riservarsi il diritto di conquista nei confronti del ponente ligure m. Poco dopo la partenza del Bracelli e del Vivaldi, giunsero a Genova alcune lettere dell’ambasciatore in Francia Giovanni Battista Lasagna. A quel punto il dibattito sull’« unione » si esplicito in modo completo. Secondo Giovanni Saivago, i genovesi speravano ancora di ottenere sia il consenso del re alla riforma sia la restituzione di Savona e per questo, affermava, « se potria dire che non stesse mai in tanta aspectacione il populo Israhelitico quando era ne la captività egiptiacha de ritornare dividere alcun territorio del dominio della città; nel IX di non imporre tasse dirette (si aveva sentore che ciò sarebbe avvenuto in Savona); nel X di reintegrare nel dominio della città tutte « le membre » eventualmente alienate od usurpate; nell’XI che gli emolumenti delle condanne spettassero interamente alla città; nel XX di non concedere a nessuna « cità, terra, comunità o singular persone » alcunché in pregiudizio del comune o delle Compere di San Giorgio. Nel XXIII capitolo il re, pur riservandosi di agire contro il marchesato di Finale, faceva salve « le ragioni del feudo » che Genova vantava nei confronti di quella località. Nel XXIX il re prometteva di non ostacolare in alcun modo l’esazione dei crediti che Genova vantava nei confronti dei luoghi soggetti. Le convenzioni del 1515 sono pubblicate in L. G. Pélissier, Documenti cit., pp. 484-499. 293 Ciò è provato dal fatto che il re concesse il rinnovo solo nel luglio del 1528 contestualmente alla reintegrazione di Savona nel dominio genovese. La lettera di Francesco I che comunica il rinnovo delle convenzioni del 1515, il testo di queste ultime e la lettera patente per la restituzione di Savona sono conservate in ASG, Archivio Segreto 2780. — 283 — ne la terra de promissione, quanta era quella de genovesi aspetando le lettere di Fransa » 294. Le lettere, come abbiamo detto, arrivarono alla fine di marzo ma il loro contenuto non era quello sperato. Esse comunicavano un secco no della corte francese a tutte le richieste genovesi. La voce si sparse subito per la città lasciando tutti « in la maggior confusione se potessi essere » m. I Riformatori si trovarono a dover scegliere se piegarsi o meno al volere del re. Essi decisero di proseguire nell’espletamento del loro mandato e di sfruttare il malcontento popolare. Dopo aver rinunciato a revocare l’ormai inutile mandato ai due nuovi ambasciatori « per non dare suspetto a francesi », si optò per la convocazione di un grande consiglio. Seguendo una procedura inusitata i cittadini furono chiamati a raccolta al suono della campana grossa e fu dato a tutti libero accesso alla sala grande del palazzo. G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 29 v. Notiamo la particolare importanza dell’opera del Saivago per conoscere le vicende del 1528. Egli svolse varie delicate missioni su incarico dei Riformatori e successivamente di Andrea Doria, si dimostra sempre informatissimo sia sulle questioni interne sia su quelle internazionali. Ogni volta che è stato possibile un confronto con i documenti d archivio il suo racconto si è rivelato puntuale ed attendibile. Si tratta in definitiva di un opera di grande valore e suggestione narrativa che purtroppo non ha ancora trovato un benevolo editore. Ibid., c. 30 r. Il Saivago racconta il drammatico evolversi delle trattative presso la corte francese che indusse il Lasagna ad inviare queste lettere: tramontate le possibilità di una pace tra Francesco I e Carlo V, il Cancelliere Du-prat comunicò agli ambasciatori genovesi «che per alhora non si travaglaseno a ricerchare chose nove, non essendo al presente al servitio del Re de intendere in simille pratiche, riservandosi un altro tempo più comodo». Rivoltisi al re e alla regina madre Luisa di Savoia per dolersi di quanto detto dal Duprat, gli ambasciatori ebbero delle risposte « crude e inaspettate », per cui decisero di dare « aviso in Genova del seguito», accioché i cittadini rinunciassero a «ogni speranza di pottere più ottenere chosa alchuna di questo negotio », ibid., c. 30 v. Il Saivago illustra anche in modo estremamente chiaro il clima di malcontento causato in Genova dalle inattese notizie comunicate dal Lasagna: «le lettere contenevano tutto il contrario di quelo si aspetaria, chosa la quale si publichò subito per la città. Hora ogniuno pò considerare qual dovesse essere l’animo de genovesi, massime de principali, et de quelli desideravano il vivere pacifico et pottere godere li beni loro con le famiglie, senza ansietà di destruzioni tirraniche, con le quale perseverando, haviano deliberato di abbandonare ogni loro beni et ricerchare nove habitationi », ivi. — 284 — Avvenne così che il 2 aprile si trovarono riuniti il Governatore, gli Anziani, gli ufficiali di Moneta, i Protettori di San Giorgio e la Balìa dei Riformatori di fronte a circa mille cittadini 296. Bisogna a questo punto rilevare che nelle raccolte delle leggi non c’è alcun accenno alle lettere del Lasagna (esse riportano solo i sunti di due discorsi pronunciati da Pantaleone Casanova, priore degli Anziani, e da Agostino Pallavicino, membro della Balìa 297); queste lettere, inoltre, non sono conservate, per quanto ne sappiamo, nei fondi dell’Archivio di Stato. In una minuta di verbale redatta dal cancelliere Giovan Battista Zino invece, le cause della convocazione di un’assemblea così insolitamente ampia sono esplicitamente dichiarate 298. Simile nella sua struttura al testo riportato nelle varie raccolte delle leggi, la minuta contiene alcuni brani, in seguito soppressi, che sono di estrema utilità. Nella parte iniziale di questo verbale si afferma che in apertura di seduta, prima che il Pallavicino e il Casanova prendessero la parola, era stato esposto il contenuto di tre lettere (del 14, 18 e 19 marzo) del Lasagna. In esse, inter ceterum si comunicava de dilatione per christianissimum Regem, dominum nostrum data prefato domino Joanni Baptiste oratori nostro predicto circa civitatis Saone et iurisdictionum suarum restitutionem nobis. Una pessima notizia per i genovesi, ma non era tutto: Francesco I ad suggestionem ac importunitatem saonensium aveva inviato delle lettere quibuscumque predicte maiestatis regie capitaneis et ceteris ut prestent favorem vasis ac navibus 296 Nello spiegare il perché di una convocazione così insolitamente ampia, il Saivago fa capire la natura dei meccanismi decisionali da cui sorse 1’« unione », sempre caratterizzati da ricorso ad assemblee « allargate » di cittadini: « li quali dodici consigliato tra loro di quello dovesseno fare et senza forsi fatto il simille con altri, fu risoluto di doversi fare una congregatione publicha, in la sala grande del palazzo, con il suono della campana grossa, chosa inusitata per il pasato, nella quale li potteseno intervenire tutti quelli vollevano con darli noticia di quello sequiva, et secondo le oppinioni del generale, risolvere quello si giudicherà honore et utille, tanto per lo pubblicho, quanto per il privato », ivi. Il Saivago sbaglia il mese ma non il giorno della convocazione dell’assemblea. Egli afferma che avvenne il giovedì di marzo antecedente la domenica delle Palme, ibid., c. 31 r, mentre in realtà il giovedì precedente la domenica delle Palme del 1528 cadde il 2 aprile. 297 ASCG, ms. 88, pp. 8-14. 298 ASG, Archivio Segreto 1649, doc. n. 100. — 285 — * illis que cum mercibus Saonam accedent et quod quispiam sub gravibus penis impedimentum aliquod vasis ac navibus ipsis non interf erant 299. Notizie peggiori non si potevano avere. Non solo il re rinviava ogni decisione circa la richiesta genovese di rientrare in possesso di Savona, ma ordinava ai suoi capitani di favorire e proteggere il traffico commerciale verso l’eterna rivale. Fu a tutti chiaro che Savona era al centro di un progetto politico mirante a spezzare l’unità della Liguria. Sfruttando il secolare antagonismo tra le due città, i francesi volevano fare in modo che gli alterni destini di Genova non coinvolgessero entrambe le riviere. Offrendosi ai savonesi come garante della tanto desiderata autonomia, Francesco I agiva con la non infondata speranza di conquistarsi la loro perpetua fedeltà. Tutto ciò costituiva una grave minaccia. Lo sviluppo di Savona sotto l’egida francese metteva in pericolo la prosperità di Genova e la sua stessa esistenza come stato 300. Il Giustiniani, parlando delle nuove fortificazioni volute dai francesi a Savona e del favore concesso ai suoi commerci, affermava che ciò « era pregiudicio et gran danno de l’entrate dei commercii et della gabella del sale e della Republica » . Francesco I era sordo alle proteste dei genovesi, « anzi Anche il Saivago riferisce la pubblica lettura delle missive del Lasagna e ne riassume il contenuto: « Erano dette lettere de doe o vero tre datte del principio del mese di marzo, ne le quale si conteneva che, essendo andato dal Grand hancelieri, per havere le espeditioni de le gratie volleva fare il re, già tante volte offerte et promesse alla medesima città che in cambio di miele havia havuto fielle amarissimo et che vollendoli replichare alchuna chosa era intrato in grandissima colera con dire che al re non li accomodava, ni volleva fare alhora chosa alchuna, così importando al suo regno, et che vedando non pottere ottenere chosa sopra la libertà, non havia manchato de dirli de la restitutione di Savona, havutane la medesima resolutione con dirli che li ambasciatori savonesi offerivano C mila ducati al re, a ciò non dese Savona a genovesi [...]. Vi erano anchora in dette lettere de le altre particularità ruinose, la minore de la quale haveria bastato a mettere in confusione et disperatione non solum una città piena de afflitione et miseria, ma un regno potentissimo; concludendo nel fine essere disperato di pottere ottenere più chosa alchuna bona », G. Saivago, Historie di Genova cit cc 31 r. - 31 v. 300 Particolarmente esplicito al riguardo è Filippo Casoni (Annali cit libro III, p. 101). 301 A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXXX v. — 286 — pareva che cercassi per ogni modo e per ogni via di magnificar Savona con la depressione di Genova » 302. La storia dei rapporti tra le due più importanti città della Liguria, che noi abbiamo più volte sfiorato, è ancora da scrivere, non solo per il 1527-1528, ma per tutto il primo Cinquecento. L’argomento è di straordinaria importanza, e qui possiamo solo affermare con certezza che il problema di Savona ebbe la funzione di catalizzatore nei riguardi del progetto di « unione » che fino ad allora non era riuscito ad ottenere un unanime consenso. Il ceto dirigente genovese, di fronte a questa grave minaccia che incombeva sulla sua prosperità e sulla sua stessa esistenza come gruppo egemone nella Liguria, trovò la determinazione, e a questo punto direi anche la saggezza, necessarie a superare i suoi antagonismi interni. Terminata la pubblica lettura delle tre missive del Lasagna, racconta il Saivago, tanto fu lo sconcerto degli astanti che si temette « de qualche sulevationi populare contra il statto reggio » e solo l’intervento di alcuni tra i principali cittadini impedì che accadesse il peggio 303. Riportata la calma nell’assemblea, iniziò un dibattito in cui il problema di Savona e quello dell’« unione » furono strettamente congiunti. Continueremo d’ora in poi a utilizzare la minuta dello Zino, molto più ricca rispetto al ripulito testo tramandato nelle successive raccolte. Pantaleone Casanova, primo richiesto ad esporre il suo parere, se non credere dixit quod ea que de dilatione et aliis supra narratis sequuta sunt, processerint neque procedant nisi a suggestione et malis informationibus per saonen-ses subditos nostros de nobis apud ipsum regem factis. Ma l’ardire dei savonesi era nato a nostrarum divisionum et partialitatum peccatis. Infatti, quas huiuscemodi informationes nulli est dubium quod saonenses ipsi non fuissent ausi facere neque fecissent, si divisiones et partialitates nostras, quibus continuo afficimur, non agnoscerent et sentirent. Secondo il Casanova, la spinosa questione di Savona non era il primo né sarebbe stato l’ultimo dei mali causati dalle fazioni; esse avrebbero portato la città alla totale rovina: a quibus discordiis ac divisionibus, ultra damna, dispendia et incommoda nobis iam sequuta, si non erit in his provisum, 302 Ivi. 303 G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 31 v. — 287 — dubitandum non esset in totalem ruinam ac precipitium rempublicam nostram, quod Deus avertat, ire debere. Il Casanova concluse chiedendo una decisione dell assemblea de rebus maxime importantie prout hec sunt. Non vogliamo addentrarci in un minuzioso confronto tra le due versioni del discorso del priore degli Anziani contenute nella minuta e nelle raccolte. Basta dire che nelle seconde scompaiono i riferimenti all’oggetto reale del dibattito (cioè le lettere del Lasagna) e che la questione di Savona è introdotta in secondo piano rispetto al problema dell’« unione ». Sempre nelle raccolte, c’è poi un accenno al fatto che la soppressione delle fazioni avrebbe potuto rendere più facili i rapporti tra la città e il re cristianissimo suo signore; accenno che manca completamente nella minuta. Nella minuta dello Zino segue un sunto del discorso di Agostino Pallavicino, vero manifesto dell’« unione ». Il Pallavicino prese le mosse dal « summo dispiacere » che a suo avviso tutti avevano provato nel sentire le « lettere legiute » del Lasagna, « dispiacere » però da ascrivere solo a « le peccate nostre e precipue per le varie opinione e diversi colori in la cità così di nobili et ignobili, gelfi e gibelin [ i ] come de altre partialità e divisione sono tra noi ». Le divisioni interne avevano dato « core » ai savonesi di rivolgersi al re di Francia con « sinistre e male informatione », e solo per quelle « informatione » sua maestà « clementissima e iustissi-ma » aveva provveduto a danno della città. Perseverare dunque nell’errore sarebbe pericolosissimo: « se non se li provvedesse, non è dubio alcuno che actum esset de nobis: [. . .] sachi, prede e altri danni sino a qui seguiti sono niente in comparatione di quello si parla ». Privata delle sue « membre » la città diventerebbe « uno nido dove non è se non pietre, e ne bisogneria habandonare et andare ad habitare altrove ». In conclusione, secondo il Pallavicino, bisognava procedere, « salva sempre l’auctorità del re », ad abolire ogni colore e partialità sì de nobili come de ignobili, guelfi e gibelini e di cadaun altra sorte e spetie de division, e che se facia e stabilisca uno corpo di una civiltà chi sia ad unum velie et ad unum nolle, sotto quelli modi, nome e forme parirà a chi de ciò serà dato cura, e che di far e stabilire tale effecto se dia cura e balìa a quelle persone et a quello numero de quelli citadini che possia pareire et occorrere a questi signori, illustre signore governatore et magnifici antiani, cum quella facultà auctorità e balìa che mai ad alchuno altro sia stata detta [data], precipue di compareire nanzi al magnifico offitio di Sancto Georgio, et impegnare e obligare ogni pegno di commune sì in genere come in specie et ulterius che, per obviare che — 288 — quelle cose si minaciano e temono, de le quale in dette lettere si contiene, non habbiano a poteire seguire in alcun modo, che quelli chi harano questa cura possino prevalerse anche de le facultà de li citadini di quella parte che a loro parirà a mantenimento sempre del stato de la prefata christianis-sima maestà e conservatione delle iurisdictione e membre de la cità nostra, senza preiudicio sempre de l’auctorità de l’offitio de la Bailia. Doveva essere subito realizzata 1’« unione », confidando nella clemenza del re e nei buoni uffici del Governatore 304. Un bel testo, significativo per l’urgenza con la quale il Pallavicino propose che quella stessa assemblea abolisse i colori e le fazioni affidando il compito di creare « uno corpo di una civiltà » ad un’apposita Balìa di cittadini, molto esplicito per quanto riguarda il nesso tra 1’« unione » e il problema di Savona, meno chiaro nel punto in cui si chiese che ai Riformatori fossero dati amplissimi poteri in materia finanziaria. Perché era necessario che alla magistratura fosse concessa un’autorità « che mai ad alchuno altro sia stata data »? Non solo essa doveva essere in grado di « impegnare e obligare ogni pegno di commune » presso San Giorgio, ma doveva avere il diritto di « prevalerse anche de le facultà de li citadini », e senza alcun limite (« di quella parte che a loro parirà »). Si parla di una minaccia: « quelle cose si minaciano e temono, de le quale in dette lettere si contiene ». Purtroppo non abbiamo le lettere del Lasagna. Sembra difficile però che ci si riferisse agli eserciti cesarei. L’iniziativa in quel momento era nelle mani della potente armata francese comandata dal Lautrec. Carlo V aveva deciso di inviare nuove truppe tedesche agli ordini di Enrico di Braunschweig, ma il pericolo per Genova era relativo e di là da venire. Gli imperiali erano nel nord come nel sud d’Italia sulla difensiva. Inoltre, nel riassunto delle tre lettere non si fa riferimento a eventi militari. Il Saivago afferma che l’oratore, prudentemente, si espresse in modo « ch’el non se podette cognoscere ch’el offendese il stato regio » 305. La sostanza del suo messaggio fu però chiara a tutti. La minaccia per la città era nei provvedimenti riguardanti Savona, che nei piani di Francesco I pareva essere destinata a primeggiare sulla Liguria, e in un intervento 304 ASG, Archivio Segreto 1649. 305 G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 31 r. — 289 — militare francese volto ad impedire la realizzazione della riforma. Il Pallavicino affermava di voler salvaguardare lo « stato de la prefata christia-nissima maestà », ma diceva anche di voler « la conservatione delle iuri-sdictione e membre de la cità nostra »: due obiettivi che in quel momento si contraddicevano l’un l’altro. Nonostante gli infingimenti e le prudenze necessari per la presenza del Governatore, è sempre più evidente che i rapporti tra la Repubblica e la Francia erano ormai alla rottura. Notiamo inoltre che, per mettere in risalto la gravità della questione di Savona, vennero portati come paragone « sachi, prede e altri danni »: un palese riferimento al sacco del 1522, la cui drammaticità, secondo le parole del Pallavicino, impallidiva rispetto all’insostenibile situazione che si veniva prefigurando. Savona, il sacco, la fine della prosperità di Genova: questi erano i temi del dibattito politico, gli strumenti per^ creare consenso. Erano queste immagini di sciagura e non il ricordo dei moti del 1506 e la minaccia plebea a dover essere esorcizzati. Il documento conferma però soprattutto il legame strettissimo tra il problema di Savona e quello dell’« unione ». Un legame che ha un duplice significato, diretto e nel contempo generale: diretto nel senso che 1 alienazione di Savona costituì una forte spinta per i genovesi a superare le loro divisioni, generale nel senso che essa fu l’ulteriore manifestazione delle caratteristiche proprie del sistema di dominio francese. Nel 1527-1528, come già nel periodo del governatorato di Ottaviano Fregoso, i più gravi motivi di tensione tra la Repubblica e Francesco I nacquero dallo scarso rispetto di quest’ultimo per l’integrità del dominio genovese. La manipolazione del territorio da parte delle autorità francesi in forme sempre più lesive dei diritti della « dominante » fu, come abbiamo visto, una caratteristica dei periodi nei quali i re cristianissimi erano signori di Genova. Luigi XII iniziò con la sua vasta politica di infeudazione a favore della nobiltà, genovese e non; Francesco I proseguì dirimendo la spinosa questione di Gavi e Ovada a sfavore della Repubblica; infine, ancora Francesco I, togliendo a Genova il controllo su Savona e favorendone uno sviluppo commerciale autonomo, sembrava voler cambiare tutto l’assetto territoriale del dominio ligure. Alla luce di questi fatti il problema dei due modelli analizzato nel primo capitolo assume una notevole rilevanza. I sovrani francesi si consi eravano « signori di Genova » a pieno titolo e si arrogavano ampi diritti sul suo territorio. Siamo lontanissimi dalla visione del Gattinara — 290 — secondo cui l’impero doveva mirare, non al diretto dominio, ma ad una sorta di « patronato » che permettesse di controllare in modo mediato la politica della Repubblica. È con questa significativa diversità di atteggiamento delle due grandi potenze che si misuravano nel 1528 i fautori della riforma. Il discorso del Pallavicino ci ha spinto a queste considerazioni di carattere generale. L’oratore successivo, il « popolare » Tommaso Bigna, richiamò l’assemblea alla situazione politica concreta. Egli offrì una soluzione radicale alla solita inconcludenza di queste grandi consulte; un giudizio che sembra riferirsi anche alle lungaggini dell’opera dei Riformatori. Sempre il 2 aprile, richiesto del suo parere, egli ha detto tra l’altre cose lui haver visto più volte essersi vegnuo in queste consulte e non mai essersi concluso niente; e per questo effecto, acioché per adesso non segua il medesimo, lui esser di parere che, quando quello che s’è scripto [nelle lettere del Lasagna] proceda da la mera voluntà del re, che statim volanter se expedisca doi altri oratori a farli cognoscere la nostra iusticia; secundo, che sino di adesso se abolisca e scanzelli tuti li colori sotto la forma de li que siamo visc[i]ui fino al presente et che li magistrati tuti sino adesso se elegano senza colori indifferenter, sotto sempre l’obedientia del christianissimo re nostro. Si tratta di un’incitazione a seguire una procedura d’urgenza che imponesse 1’« unione », superando le incertezze dei Riformatori. L attesa degli esiti della trattativa con la corte aveva infatti portato solo ad un aggravamento della questione di Savona. Nonostante la finale profferta di fedeltà, imposta dalla presenza del Governatore, si sente anche qui la crescente tensione fra Genova e la Francia. Il sunto dell intervento del Bigna fu comunque cancellato nella minuta di Giovan Battista Zino e non venne poi riportato nelle successive raccolte delle leggi. Evidentemente le alchimie legislative nelle quali erano impegnati i Dodici della Balìa per salvaguardare gli equilibri interni del ceto dirigente cittadino non erano compatibili con soluzioni cosi spicce come il procedere semplicemente all’elezione dei magistrati, senza tener conto delle fazioni e dei colori. Quest’ultima era in fondo la strada che intendevano seguire i firmatari del « Libro di pace e concordia », e tra i giuranti del 1506 ritroviamo un Tommaso Bigna, maestro dell arte della seta . La situa- Ancora una volta il Saivago si dimostra preciso e attendibile, egli regi- — 291 — zione del 1528 era, rispetto al 1506, ben diversa, più semplice e più complessa ad un tempo, in ogni caso meno definita per quanto riguarda i rapporti di forza tra i vari gruppi. Come vedremo, infatti, l’assetto istituzionale creato dalla riforma altro non fu che un calibrato congegno mirante ad assicurare una convivenza il meno possibile conflittuale tra nobili e popolari. L ultimo intervento nell’assemblea del 2 aprile fu quello di Giovan Battista Moneglia. Egli, pur concordando in tutto con il Pallavicino, propose che il compito di portare a termine 1’« unione » fosse affidato ai Dodici della Balìa (di cui anch’egli era membro) e che costoro pubblicassero a brevissima scadenza quanto avevano già in buona parte elaborato. Il parere del Moneglia venne approvato301. Il Saivago racconta lo sconcerto del Trivulzio per gli esiti dell’assemblea: habbiando sentito il governatore reggio tanta conformità de opinioni [...] parendoli corno in effetto erano, in pregiuditio del suo re, fu pentito di havere concesso di lassare fare detta congregatione, et cosi numerosa et da ui inaspetata, et vogliandoli in quello potteva darli remedio, incomminciò con accomodate parole de dire et persuadere a audienti che non si volles-se procedere con chaldeza a innovare chosa alchuna 308. Il Trivulzio affermò che spesso erano scoppiate guerre a causa di ambasciatori « facili a scrivere ogni chosa senza considerare bene »; così doveva essere accaduto per le lettere del Lasagna. Egli si dichiarò testimone e garante dell amore del re verso i genovesi e promise « in fede de chavaliero et gentilhuomo » di farsi fautore e protettore delle loro richieste. stra puntualmente l’intervento del Bigna e avvalora la nostra interpretazione sostenendo che «Tomaso Bigna dice che se dovesse fare la liberatione de la patria aliiora et corno la saria statta chosa tumultuosa, la non fu aprovata» (ibid., c. 31 r.). significativo che nella memoria del Saivago la volontà espressa dal Bigna di abolire le fazioni divenga « tout court» la volontà di liberare la patria. 307 Dicti XII deputati debeant reformationes pro maiori parte ab eis ru-minatas ad concordiam nostram pertinentes perficere et publicare in omnibus secundum m videbitur infra Octavam Paschae Resurrectionis Domini proxime venturam [cioè entro il 19 aprile del 1528], ASCG, ms. 88, p. 13. 308 G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 31 v. e sg. — 292 — Quanto detto fin qui non lascia dubbio alcuno sul carattere antifrancese dell’assemblea del 2 aprile. Il discorso del Governatore, peraltro, non dovette rassicurare molto i cittadini, né scoraggiò l’opera della Balìa preposta ad elaborare le nuove leggi. Già il 10 fu promulgato, anche se in parte incompleto, il testo della prima versione della riforma. Un fitto intreccio di corrispondenza fece seguito ai fatti della prima decade di aprile. Il Soria, in una lettera del giorno 14 a Carlo V, descrisse il clima di estrema tensione che regnava in città: En Genova estan muy rebueltos a causa que el rey de Francia ha dado a Saona toda la ribera de poniente que era de Genova, y tambien les ha dado que ellos vendan el sal v hagan los comercios corno se hazian en Genova, por lo qual estan determinados de hazer en està semana de Pascua la union, y creo que sera cierto, no embargante que el rey de Francia les ha mandado que no innovasen nada m. Il Doria scrisse direttamente a Francesco I il 6 aprile. Dopo aver ricordato che molte volte aveva espresso il suo parere negativo sulla politica francese verso Savona, diede notizia degli ultimi sviluppi: vous fais savoir qu’il est venu icy nouvelles certaines aux habitants comme oultre la jurisdiction de Saonne, leur avez oste le revenu des commerces et gabelles. Or, Sire, quant à la seigneurie, j’ay de tout temps veu Saonne subjecte à Gennes et non Gennes a Saonne. Vous povez penser doncq que le contraire se pourroit mal aysement supporter au coeur de tout le peuple È interessante il modo in cui l’ammiraglio illustro poi le conseguenze economico-sociali e politiche in Genova della perdita dei proventi daziari savonesi. Ciò aveva provocato il malcontento di tutti i cittadini perché le gabelle di Savona costituivano il « meilleur revenu » di San Giorgio e da questo istituto dipendeva la sopravvivenza dei meno abbienti tra i genovesi: le vedove, gli orfani, i religiosi e religiose nei conventi, e tramite questi ultimi, gli « infiniz povres » della città. Queste categorie con il tracollo di San Giorgio sarebbero state condannate ad 309 RAHM, ms A-42, c. 243 e sg., copia ivi, c. 411 e sg. Il Soria scriveva dalla Mirandola e non sapeva che già la riforma era stata approvata il 10 aprile. 310 La lettera è pubblicata in appendice a M. Spinola, Considerazioni cit., pp. 430-433. — 293 — una terribile indigenza, ed il re doveva considerare « quelle exclama-tion peuvent faire tant de povres personnes qui meurent de faim, a faulte de leur povoir subvenir ». Tutto ciò poteva essere evitato solo rimettendo « les dictz commerces et gabelles selon le premier estat ». È possibile che sollevando questi temi il Doria intendesse far leva sui sacri doveri del monarca, secondo la tradizione primo protettore dei religiosi, delle vedove, degli orfani e dei poveri. È tuttavia da notare il ruolo che la Casa di San Giorgio assume nello svolgersi dell’argomentazione. Come struttura portante del debito pubblico, essa costituiva l’elemento di saldatura tra gli interessi dello stato e quelli della massa dei genovesi, dato che molti, chi più chi meno, avevano denari investiti nei « luoghi »311. Il 25 aprile, il Soria, venuto a conoscenza dell’approvazione della riforma, ne sottolineò il significato antifrancese scrivendo a Carlo V312. Verso la fine di aprile giunse poi in città una lettera di Francesco I ai genovesi spedita il 20 dello stesso mese. In essa si rivelano appieno i timori per la tensione manifestatasi a Genova dopo le lettere del Lasagna. Si tratta del primo tentativo del cristianissimo di invertire la rotta di una politica che stava conducendo al tracollo il dominio francese sulla 311 In questa chiave, a mio giudizio, deve essere interpretato l’intervento politico di San Giorgio all’inizio del 1525, quando condizionò la riapertura del credito allo stato al successo dell’unione. Notiamo, inoltre, che nel dibattito sul rapporto tra San Giorgio e la Repubblica dovrebbe essere valutata la possibilità di applicare al caso genovese lo schema interpretativo utilizzato da M. Becker nello studio del Monte delle doti fiorentino {Economie Change and thè Emerging Fiorentine Territorial State, in « Studies in thè Renaissance », XXX, 1966, pp. 7-39, trad. it. Le trasformazioni della finanza e l’emergere dello stato territoriale a Firenze nel Trecento, in G. Chittolini, La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, Bologna 1979, pp. 149-186). Il Becker vede infatti nel debito pubblico consolidato l’origine di « nuove forme di fedeltà alla cosa pubblica », di una « più vivace sollecitudine per la vita dello stato » da parte di tutti i cittadini. « Tambien tengo aviso en este punto corno en Genova han fecho la union y la han publicado, tengo por cierto que en ser este nuevo exercito en Lombardia querran librarse del dominio de franceses, pero no querran el duque Antonioto Adorno ni otro capellacio, que ansi llaman a qualquier tyrano, si no que si havran de estar debaxo el dominio de vuestra Magestad, querran que los mantenga en libertad », RAHM, ms. A-42, cc. 279-280. — 294 — Repubblica. Rivolgendosi ai « tres chers et bien amez » sudditi di Genova, il re si dichiarava « advertyz du malcontentement et desplaisir » causati dalle lettere del Lasagna relative alla « response qu’il dict lui avoir esté faicte » da parte del regio Consiglio. Quanto ai contenuti di quelle lettere, il re si dichiarava del tutto stupito, giacché qualunque cosa fosse stata « diete ou escripte », egli mai aveva avuto altre intenzioni nei confronti dei cittadini che quella « de vous bien et favorable-ment tracter comme nos bons, vrais et loyaulx subgectz ». Con forse una sfumatura di ironia aggiunse: « povez estre asseurez que vous ne serez jamais si opulans en biens, honneurs et richesses que nous ne voulissions que vous ne fussiez encores plus »m. Il paternalistico distacco con il quale i re cristianissimi solitamente si rivolgevano ai « subgectz » liguri qui si attenua, per far posto ad una preoccupata difesa dall’accusa di volere la rovina della città, e ad un tentativo di offrirsi come garante e fautore della ricchezza del patriziato urbano, confidando così di riconquistare la fiducia dei genovesi. Come vedremo, né questa lettera, né l’atto ufficiale del 13 luglio 1528 con cui il re restituì Savona alla Repubblica314, riuscirono a sanare i guasti di una politica improntata da sempre allo scarso rispetto dell autonomia e delPintegrità territoriale genovesi. 7. Il testo dell’aprile 1528 L’ultimo periodo di dominio francese, un anno ricco di avvenimenti e decisivo per le sorti della riforma, si e rivelato assai meno lineare di quanto ci si potesse aspettare. Un suo attento riesame ci ha permesso di vedere più in profondità nelle vicende dell’« unione ». Passiamo ora a considerare il testo della riforma emanato sotto i francesi. Che cosa è legittimo attendersi da un’analisi delle leggi? Non certo informazioni dirette sui contrasti e sui dibattiti politici che ne furono il retroterra. Comunque un confronto tra le redazioni dell aprile 313 ASG, Archivio Segreto 2780, doc. n. 179. w Ivi, n. 155. — 295 — e dell ottobre si impone. Pur in una sostanziale continuità d’intenti, i due testi sono profondamente diversi, come diversa fu la situazione in cui ciascuno di essi venne alla luce. Il testo dell aprile può essere diviso in due parti315. Un lungo preambolo redatto con il fine di spiegare i motivi che avevano spinto i genovesi all « unione » precede la vera e propria revisione istituzionale, ancora incompleta, ma che i Dodici si riservarono di portare a termine entro breve tempo. Iniziamo quindi con quello che per comodità abbiamo definito preambolo e cerchiamo di porre in un ordine logico le varie argomentazioni addotte. Anzitutto venne esposto il dato di fatto ritenuto fondamentale: dei tanti e gravi mali che da gran tempo affliggevano Genova erano responsabili la discordia e la faziosità dei cittadini. Questa situazione aveva fatto sì che non modo privatae omnes civium ac publicae facultates fossero duramente colpite, ma che lo stesso nome della patria un tempo onorato e celebre fosse ora sminuito e quasi cancellato. Il tutto si configurava come una punizione celeste. La discordia dei cittadini era un peccato contro la Maestà divina la quale aveva perciò moltiplicato nel presente secolo i flagelli contro la città. Flagelli che preludevano alla pena finale, la dannazione delle anime316. Solo un intervento di Dio poteva risollevare le sorti della città. I suoi mali sarebbero divenuti sempre più gravi nisi Deus Optimus Maximus presenti rimedio, quod optamus et speramus, averterit. _ ^ questo punto i Dodici Riformatori attinsero a piene mani dai testi sacri (dai Salmi, dai Vangeli, dalle Epistole, soprattutto quelle paoli-ne) per spiegare ed esaltare il salutifero intervento divino. Si ricorse pri- 315 Di questa prima versione delle leggi abbiamo ritrovato un originale di mano di G.B. Zino in ASG, Archivio Segreto 1649, doc. n. 101. Si tratta certamente di una minuta, in quanto vi sono alcune cancellature, ma il testo è assai simile a quello contenuto nelle raccolte delle leggi. Le successive citazioni sono comunque tratte da questo originale. Un’altra copia, peraltro scritta con pessima grana, si trova in ASG, Archivio Segreto 733/E. 316 Verum illud quoque quod malorum omnium gravissimum, et nobis omnibus magis deplorandum est, hinc etiam efficitur, ut Divina Maiestas nostris hui-scemodt delictis iure se adeo a nobis lesam atque offensam existimet, ut in presenti hoc saeculo illius in nos toties multiplicari videamus flagella, atque in futuro aeternam animarum damnationem non temere ab eo nobis imminere timeamus, Abtj, Archivio Segreto 1649, doc. n. 101, c. Ir. — 296 — ma all’immagine della cecità: i cittadini erano vissuti con gli occhi chiusi e ciechi nella discordia, dovevano quindi ringraziare Dio cum [. . .] oculi civium illius beneficio ac dono aperti fuerint, cui caecorum oculus aperire atque illuminare novum non est (Salmi 146:8). Si proseguì poi sul tema delle tenebre che avvolgono la mente umana e della luce divina che illumina la retta via: [cum] ille etiam pedibus nostris lucernae suae lumen admoverit, qui Pater luminum est et dicitur (Salmi 119:105; Giacomo 1:17), i cittadini, illius etenim clarissima luce ac fulgore ut confidimus illuminati, avevano finalmente compreso che l’unico remedio a tante calamità era estirpare dai loro animi le discordie e le fazioni, vere radici di ogni male, per piantare in vece loro i semi della santa pace e concordia, que deinceps communi ac perpetuo omnium studio et cura quasi perennibus quibusdam aquis irriganda [. . .] sunt317. Sentenze di antica saggezza vennero addotte per giustificare 1 « unione »: come tutti sapevano concordia parvae res crescunt, discordia vero maximae etiam quaeque dilabuntur (Sallustio, De bello Jugurtino, 10, 6). Senza la concordia lo stesso nome di città perdeva il suo significato e la sua ragione di esistere, cum ea ratione ab antiquis civitas dicta sit quod esse debeat civium unitas 31S. Ma ancora una volta giunge decisiva e potente la citazione evangelica (Matteo 12:25, Marco 3:25, Luca 11:17): et sacro Christi eloquio edocti meminimus quod omne regnum in se divisum desolabitur, et domus supra domum cadet319. L’« unione », verso cui spingeva la divina luce, avrebbe rinsaldato anche la fedeltà e la devozione di Genova verso il re di Francia i cui interessi coincidevano con quelli della città. Riassumendo, tre sarebbero stati i benefici effetti della riforma: anzitutto, si poteva con essa allontanare l’ira di Dio e illius misericordiam et benevolentiam conciliare, si sarebbero poi risollevati i publica et privata negotia, infine sarebbe stato possibile offrire firmiora et maiora regi nostro studia atque ossequia a civitate 320. Seguono nel testo i nomi dei Riformatori che in base al potere con- ™ Ivi. 318 Ivi, c. 1 r. -1 v. 3» Ivi, c. 1 v 32° Ivi. — 297 — ferito loro dal Maggior Consiglio emanarono le varie norme di legge 32‘. La lista dei Dodici inizia con il nome di Stephanus Justinianus Prior che, come sappiamo, era uno dei più vecchi e decisi fautori dell’« unione ». Si afferma inoltre, sempre a proposito dei Dodici, che omnes in examine fere omnium infrascriptorum intervenerunt. Tutti quindi furono assiduamente presenti ai lavori della magistratura, anche se, ci si premurò subito di aggiungere, hodie in eorum deliberatione absens fuerit prefatus Stephanus egrotatus·. assente quindi oggi, ma non nell’elaborazione della riforma. La malattia (forse la peste che già colpiva duramente la città) gli impedì di vedere questo risultato di tanti anni di impegno politico. È comunque l’ultima volta che incontriamo il Giustiniani. Alla ripresa dell attività dei Dodici Riformatori nel settembre, dopo cioè la riconquista di Genova da parte di Andrea Doria, egli non faceva più parte della magistratura e la sua assenza può forse spiegare in parte le differenze tra i testi delle due versioni della riforma. Il prologo dell’aprile si chiude con un’ultima invocazione alla Santa Trinità, alla Vergine Maria, a San Giovanni Battista, le cui ceneri si riteneva fossero conservate in San Lorenzo, ai santi e a tutta la corte celeste. In quest invocazione troviamo citati altri due passi delle sacre scritture che propongono tematiche di unione, di riconciliazione e di concordia: prima 1 immagine giovannea del Padre che invia l’unigenito Suo Figlio, il Buon Pastore, perché riconduca ad un solo gregge il genere umano disperso (Giovanni 10:16); segue una lunga parafrasi del brano della lettera di San Paolo agli efesini in cui si parla dell’unione in Cristo (pietra angolare della Casa di Dio) dei popoli prima divisi degli ebrei e dei gentili (Efesini 2:14-22) 322. Così si conclude il prologo, questo 321 Ivi. 322 Invocato etiam sanctae atque individuae trinitatis nomine, quae ut dispersum olim ac dissipatum humani generis gregem sub uno rursus pastore in unum ovile congregatum adduceret, utque disiuncti diu antea duo illi parietes iudeorum nimirum et gentium populi in unum angularem ecclesiae lapidem coniuncti unirentur, salutare illud nobis praestitit remedium, quo aeternus Pater, et suum nobis unigenitum filium missit, qui pastor eis esset, et lapis, et sanctum pariter spiritum suum tradidit, cuius spiratione coelestia sua in nos dona confirmarentur, ipsius etiam Beatissimae ac Gloriosissimae Virginis Matris Dei, Iohannisque precursore cuius sacri cineres in maiori huius nostrae civitatis ecclesia repositi summa cum veneratione a maioribus nostris hactenus asservati sunt, sanctorumque omnium — 298 — bell’esempio di commistione tra riformismo politico e una spiritualità cristiana venata di influenze evangeliche; una commistione propria della più viva cultura del pieno e tardo Rinascimento, una sorta di religiosità civica che aveva toccato non molti anni prima, nella Firenze di Savonarola, i più alti livelli di espressione. Il senso di profonda e ispirata devozione che emana da tutto il prologo lo accomuna chiaramente al « Libro di Pace e Concordia » del 1506. I due testi hanno lo stesso tono, le stesse invocazioni, e talvolta addirittura le stesse parole. In entrambi la saggezza antica si esprime con il detto delle piccole cose che prosperano nella concordia e decadono, con le grandi, nella discordia. In entrambi si ritrova la citazione evangelica dei regni in sé divisi che si dissolvono, nei quali « le case sopra le case ruinerano ». Che non si trattasse di un formulario generalizzato e universale è provato dal fatto che nell’ottobre scomparve il tono di religiosità con tutti i riferimenti alle sacre scritture. Pur nella loro diversa origine, il giuramento del 1506 e il prologo dell’aprile attingevano alla stessa fonte ideale e spirituale. Certo insieme con il vivissimo volgare del « Libro di pace e concordia » si perse nelle leggi dell aprile la condanna precisa e mirata di due delle tre divisioni faziose che tormentavano la città; scomparvero anche le belle immagini marinaresche, tutte genovesi, dei « boni et providi marinarij » che cercano in ogni modo di schivare i pericoli e della città che come « fluttuante nave conquassata et fatigata » era alla ricerca di un « porto di vera salute ». Se il testo legislativo scritto in latino non ha la vivacità popolare del giuramento del 1506, esso tuttavia arricchisce e rende più definita 1 ispirazione religiosa dell’« unione ». La proposta interpretativa di R. Savelli, secondo la quale « ambienti profondamente connotati in senso religioso » sarebbero stati il terreno di coltura nel quale nacque e si sviluppò 1 ideale di « unione », risulta confermata dall’analisi di questi due testi 323. Si tratta di ambienti, a mio giudizio, originariamente « popolari », intrisi di quella visione della realtà diffusa nei grandi centri italiani a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento in cui riforma politica e rinnovamento religioso erano due ac tocius celestis curie auxilio et favore implorato omni meliori via ac modo, de-decernimus, ordinamus et reformamus in omnibus ut infra, ivi, c. 2 r. Troviamo in questo brano anche riferimenti a Corinzi 10:4, Giovanni 10:11, Ebrei 2:4 e 13.20. 323 R. Savelli, Dalle confraternite allo stato cit., p. 186. volti dello stesso ideale. Non dimentichiamo infine che tre membri su sei della componente popolare del magistrato dei Dodici avevano sotto-scritto il « Libro » del 1506. Un ultimo accenno alla letteratura annalistica ed elogiativa può aiutare a cogliere il sostrato religioso dell’« unione ». Sempre Savelli ha attirato 1 attenzione su un brano di Giovanni Saivago in cui si afferma che il monaco benedettino Gregorio Cortese fu l’estensore del testo definitivo delle leggi del 1528 324. Una testimonianza ancora tutta da verificare ma che coinvolge nel progetto di riforma un’eminente personalità vicina agli ambienti genovesi del « Divino Amore ». Negli anni 1527-1528 1 « unione » ebbe tra i suoi sostenitori un altro illustre uomo di chiesa, il domenicano Marco Cattaneo, che, afferma il Foglietta, « con ardentissimo zelo, e singolare loquenza, non cessava nelle sue predicazioni di esortare gli cittadini a questa santa opera » 325. È evidente che tutti questi indizi richiamano la necessità di accurate indagini sui nessi tra politica e cultura religiosa nel primo Cinquecento genovese 326. Nei due documenti che stiamo confrontando si ritrovano grandi profferte di fedeltà al re cristianissimo. Si tratta di un’assonanza che deriva da situazioni contingenti, in quanto entrambi furono redatti mentre Genova si trovava sotto la sovranità di un monarca francese. Questo fatto può illuminare un’altra caratteristica del prologo dell’aprile: mai Ibid., p. 185. Citiamo dal Saivago (Historie di Genova cit., c. 45 r.)·. « Detta forma di gowerno del senato, la fu inventata da Don Gregorio da Modena, monacho de la religione de Santo Benedetto, conforme al gowerno de la loro religione [...] et lui hebbe cura de reformarle et metterle in lingua latina ». Sulla figura del Cortese si vedano di G. Fragnito, Il cardinale Gregorio Cortese (1483P-1548) nella crisi religiosa del Cinquecento, in « Benedictina », XXX, 1983, e la voce in Dizionario Biografico degli Italiani, voi. 29. O. Foglietta, La Republica di Genova cit., p. 139. Lo stesso, negli Eloggi cit., c. 121 r., ci fornisce un vivo ritratto del Cattaneo, celebre ed eloquentissimo predicatore, autore di una « Istitutione della vita cristiana » e di un « Cinque-foglio del Divino Amore », e « huomo altresì benemerito della salute della patria, et della concordia degli ordini, e della reformatione di tutta la Republica ». 3 6 Un primo contributo in questa direzione, cronologicamente spostato rispetto ai nostri interessi, è quello di S. Seidel Menchi, Passione civile e aneliti erasmiani di riforma nel patriziato genovese del primo Cinquecento·. Ludovico Spinola, in « Rinascimento », XVIII, 1978, pp. 87-134, — 300 — in esso troviamo la parola « libertà » o accenni a tirannidi rispetto alle quali la città avrebbe dovuto essere riscattata. È significativo che in tutto il preambolo solo due volte si incontri il termine respublica e sempre in un’accezione amministrativa. Mai si parla di una Repubblica da restaurare, cioè di una sua rifondazione basata sull’indipendenza e su un recupero di sovranità. La soggezione a Francesco I impediva lo sviluppo di questo aspetto dell’« unione ». La legge dell’aprile era il frutto di un compromesso tra i sostenitori della riforma e le posizioni del Trivulzio. Ciò risulta confermato dall’assetto istituzionale creato dalla riforma stessa, che ora passeremo a considerare. Se l’esame del preambolo mirava ad identificare ascendenze culturali e retaggi ideologici dell’« unione », con l’analisi del nuovo assetto delle magistrature si entra nel campo decisivo dell’indagine sull’apparato di potere, su come, politicamente, dovevano essere gestiti nel futuro i rapporti di forza tra le varie componenti del ceto dirigente cittadino. Anzitutto bisogna notare che la versione dell’aprile è largamente incompiuta. I magistrati preposti affermarono che iustis moti rationibus si erano decisi a varare questa prima parte della legge anche se, temporis angustia, molti argomenti non erano stati affrontati. Altre disposizioni dovevano essere aggiunte, e lo stesso testo allora presentato era suscettibile di ulteriori modifiche. I Dodici si riservarono l’autorità di proseguire nel loro lavoro fino alla scadenza del mandato, dopodiché, se necessario, un’altra magistratura di Riformatori avrebbe portato a termine la loro opera 327. Nei due lunghi testi legislativi, dell’aprile e dell’ottobre, sono numerose le materie trattate. Si trovano norme riguardanti il riassetto del ceto dirigente, la riorganizzazione delle magistrature, il mutamento dei criteri elettivi, la redistribuzione delle competenze, il comportamento degli ufficiali della Repubblica, la loro retribuzione. Largo spazio è infine dedicato ad una complessa revisione dell’apparato giudiziario mirante a rendere più snello il suo funzionamento ed a scoraggiare liti pretestuose e protratte nel tempo. Tutti questi aspetti della riforma sono di estremo interesse. Per molti di essi, specie per il problema « giustizia », sarebbero possibili e 327 ASG, Archivio Segreto 1649, doc. n. 101, c. 5 r. — 301 — anzi necessarie indagini specifiche. Visti i nostri obiettivi si impone però una selezione. A noi, in questo momento, interessa la storia politica della Repubblica, la dialettica, più o meno conflittuale, dei gruppi coinvolti nella gestione del potere. I rapporti di forza tra questi gruppi, di cui la riforma fu il prodotto, si esplicitano in modo più evidente nei criteri di rifondazione della classe politica e nelle rinnovate norme per l’elezione delle principali magistrature, ed è su questi aspetti che incentreremo la nostra analisi. Il problema affrontato dai Dodici fu trasformare 1’« unione », cioè l’ideale astratto di una cittadinanza non più divisa da odio di parte, in norme concrete. Il primo passo fu quello di creare una classe politica organicamente strutturata e definita, i cui membri accedessero alla amministrazione della Repubblica su un piede di parità. Si stabilì che nel- 1 elezione dei magistrati non si doveva più tener alcun conto delle fazioni e dei colori e si creò un unicus [.. .] omnium civium rempublicam administrantium ordo 328. I Riformatori avevano scelto i membri di questo unicus ordo e solo ad essi spettava il nome di « nobili ». I cittadini designati erano stati suddivisi in ventotto famiglie seu, ut vulgo dicitur, alberga 329. Ciò significava che i singoli avrebbero perso il loro cognome originario per acquisire quello dell’albergo nel quale erano stati inseriti. Gli alberghi stessi, da associazioni a carattere privatistico, assunsero così un importante rilievo istituzionale. Tale istituto, si legge, universum eorum ordinem complectitur qui cives nobiles apellabuntur. A scanso di equivoci si precisò esplicitamente che questa nuova ripartizione dei cittadini si riferiva solo alla sfera politica. Nelle questioni patrimoniali private (testamenti, lasciti, fidecommessi, elemosine, ecc.) ci si doveva comportare come se presens reformatio facta non fuisset 33°. Allo scopo di evitare ogni dubbio, i nomi di tutti i « nobili », di tutti coloro cioè che avrebbero goduto di pieni diritti politici, erano stati iscritti in un liber descriptionum (quello che, non nelle leggi ma solo 328 Ivi, c. 1 r. 329 Ivi. È inutile riportarne qui l’elenco in quanto avremo modo nel prossimo capitolo di analizzare nel dettaglio la composizione di questi ventotto alberghi. 330 Ivi, all’inizio di c. 3 r. si trova un segno di rimando alla c. 5 r. dove si trova la norma citata. — 302 — in seguito, sarebbe stato chiamato « libro d’oro », o « della nobiltà »). Si tratta di una notizia importante: in aprile quindi fu redatto un primo libro dei civesiìl. Anticipiamo qui che ne abbiamo trovato due trascrizioni tarde, e che la sua struttura è simile, ma non identica, a quella del libro dell’ottobre 332. La nuova « nobiltà », secondo quanto si stabilì nella legge, era ereditaria: seguendo una particolare procedura, i nomi dei figli legittimi degli « ascritti », al compimento del diciottesimo anno di età, sarebbero stati inseriti nel « libro ». I discendenti avrebbero goduto così in reipu-blicae administrationem loco graduque maiorum suorum 333. Il nuovo ceto dirigente non era però chiuso. Annualmente potevano essere ascritti al « libro », e distribuiti tra i ventotto alberghi, sette cittadini genovesi e tre abitanti delle riviere e del dominio, i quali, con i loro discendenti, sarebbero così divenuti « nobili » a tutti gli effetti. La loro designazione spettava al Governatore e agli Anziani, e i prescelti dovevano essere di nascita legittima. Inoltre i tre provenienti dalle riviere o dal dominio erano obbligati, una volta ascritti, a trasferirsi in città 334. È importante sapere che genere di criteri dichiararono di aver seguito i Riformatori nel designare coloro che furono inseriti nell 'unicus ordo. I Dodici affermarono: ut apud eos cives potissimum reipublicae cura resideat, qui dignitate vitae, integritate morum diuturnaque maiorum habitatione in hac urbe, merito preferre debent, illos tantum in nobilium civium numerum describi voluimus, quos publicae famae testificatione tales esse cognovimus, qui inter eos merito computari debeant, in illum igitur numerum omnium ordinum cives redigimus qui merito nobilium civium denominatione eo pacto, quo diximus, appellari potuerunt 335. Dignità di vita, integrità di costumi, lunga abitazione in città degli an- 331 Ivi, cc. 2 r.-2 v. 332 Si tratta dei mss. ASCG 338, Memorie storiche di Giulio Pallavicino, su cui vedi sotto, p. 349 e sgg., e BCB IX.3.8., Nobilitatis Reipublicae genuensis libri tres. 333 ASG, Archivio Segreto 1649, doc. n. 101, c. 2 v. 334 Ivi. 335 Ivi, c. 2 r. — 303 — fenati: sono tutti caratteri di una nobiltà civica. Non vi è nessun riferimento a titoli o al sangue. Gli stessi Riformatori affermarono di aver scelto individui di ogni ordine, senza alcun criterio precostituito al di fuori del merito, e della antica genovesità 336. Per quanto riguarda i principi da seguire nelle ascrizioni annuali, i Dodici stabilirono che si avesse riguardo alle doti personali, anch’esse però sempre di carattere civile. I prescelti sarebbero dovuti essere i cittadini aliorum etiam ordinum [. . .] qui ingenio, ?noribus, moderatione, meritis in Rempublicam, ceterarum-que virtutum ornamento, erano degni di accedere alla nobiltà 337. I legislatori entrarono poi nel vivo della vera e propria riforma istituzionale. Vennero anzitutto stabilite le norme per l’elezione di un Maggior Consiglio che, composto di quattrocento persone, sarebbe stato la massima assemblea cittadina 338. Dal suo interno dovevano provenire tutti i membri delle magistrature. La scelta dei quattrocento consiglieri era affidata al sorteggio: i nomi di tutti i cittadini « nobili », cioè di tutti gli iscritti al « libro », andavano inseriti in urnam sive in sacu-lum, per procedere poi all’estrazione. Solo per il primo anno si ritenne necessario stabilire una diversa procedura: trecento nominativi solamente sarebbero stati estratti a sorte, mentre gli stessi Riformatori si riservarono il diritto di eleggere, per suffragio, i rimanenti cento. Questo per assicurare che nel primo delicato periodo di applicazione della riforma fossero presenti nel Maggior Consiglio i cittadini universalmente ritenuti capaci e autorevoli moribus, ingenio atque prudentia. Dal secondo anno in poi, il ricambio era affidato al sorteggio: ogni anno infatti, cento membri del Consiglio, estratti a sorte, sarebbero stati sostituiti con altri cento estratti dall’urna contenente i nomi degli iscritti al « libro ». A queste operazioni erano preposti il Governatore e gli Anziani. Come unico correttivo, estremamente importante, al sorteggio, si stabilì che fosse garantita una distribuzione proporzionale fra i ven- 336 II Saivago (Historie di Genova, cit., c. 32 v.) sostiene che furono inseriti nel « libro » « tutti quelli cittadini de tutte le sorte solitte et habille de essere de magistrati ». 337 ASG, Archivio Segreto 1649, doc. n. 101, c. 2 v. Richiamiamo l’attenzione sull’uso del termine « ordo » che viene fatto in questi casi: uso che ci conferma quanto esposto sopra, p. 174 e sgg. 338 Sul Consiglio Maggiore, ASG, Archivio Segreto 1649, doc. n. 101, c. 3 r. — 304 — totto alberghi. Questa clausola doveva essere applicata non solo nella prassi annuale per la sostituzione dei cento membri uscenti del Consiglio, ma anche nella prima elezione fatta in parte per suffragio. Concretamente, questa norma significava che durante le operazioni di estrazione, quando un albergo avesse raggiunto la quota di consiglieri ad esso spettante, eventuali nominativi estratti di quell’albergo sarebbero stati messi da parte e poi reimborsati 339. Si riteneva, però, che nel caso si fosse presentata la necessità di frequenti convocazioni, l’elevato numero di membri del Consiglio Maggiore avrebbe reso difficile il suo funzionamento. Perciò si istituì un Minor Consiglio di cento membri, la cui estrazione per sorte, dai quattrocento di quello Maggiore, era affidata al Governatore e agli Anziani 34°. Anche in questo caso, e per motivi analoghi a quelli dichiarati per il Consiglio Maggiore, il primo anno la scelta dei cento sarebbe stata effettuata per suffragio dagli stessi Riformatori. A questo punto, il testo inizia a descrivere le norme per 1 elezione dei vari ufficiali della Repubblica. Il compito di stabilire il numero delle magistrature minori e quello dei loro membri venne affidato al Governatore e agli Anziani. I Riformatori stabilirono solo alcuni criteri di massima e cioè che il numero dei magistrati venisse ridotto, e che in ogni caso i membri di ciascun ufficio dovessero essere di numero dispari, in modo che fosse sempre possibile emettere una sentenza (il numero dispari garantiva che in giudizio si costituisse sempre una maggioranza) . Il Governatore e gli Anziani dovevano procedere nell elezione estraendo a sorte i membri delle magistrature tra i quattrocento del Maggior Consiglio341. Due successivi paragrafi fissarono l’autorità e le norme per 1 elezione di una nuova importante magistratura, quella dei Dodici Procuratori 342. Le sue competenze sarebbero state molto vaste nel controllo delle finanze pubbliche, nella regolamentazione del commercio, nell ap- 339 Di fatto, nei primi sorteggi dei consiglieri di cui abbiamo notizia, si usarono 28 borse, una per albergo. Vedi sotto, p. 394 e sg. 340 Sul Minor Consiglio, ASG, Archivio Segreto 1649, doc. n. 101, c. 3 r. - 3 f. 341 Ivi, cc. 3 v. - 4 r. 342 Sui Procuratori, ivi, cc. 4 r.-5 r. — 305 — provvigionamento annonario, ed infine in materia giudiziaria. Le regole per i ricorsi contro le sentenze di primo grado stabilivano che spettasse ai Procuratori il compito di scegliere per ogni causa d’appello la magistratura competente. I Procuratori per il primo anno dovevano essere eletti per suffragio dai Riformatori, quindi rinnovati per un terzo ogni quattro mesi dal Governatore e dagli Anziani tramite l’estrazione a sorte di quattro membri del Maggior Consiglio che sostituissero, per le prime due volte i Procuratori di età più avanzata, e in seguito quelli che da più tempo erano in carica. A questo punto, i Riformatori conclusero riservando a se stessi o ai loro successori il compito, non ancora assolto, di emanare le norme riguardanti i tre uffici maggiori, gli Anziani, la Balìa e l’ufficio di Moneta, e dichiararono che queste norme avrebbero dovuto richiamarsi ai criteri generali della riforma, cioè l’estinzione delle fazioni e dei colori, e 1 incorporazione dei « nobili » nei ventotto alberghi 343. La riforma dell aprile 1528, nonostante fosse incompiuta, conteneva già molto della versione definitiva dell’ottobre. L 'unicus ordo suddiviso nei ventotto alberghi del liber descriptionum esisteva già dopo 1 aprile. Per quanto riguarda l’assetto istituzionale, esso fu solo abbozzato, ma prefigurava le regole fondamentali della futura vita politica della città. La creazione del Maggior Consiglio come organo supremo e come serbatoio al quale attingere i membri di tutte le magistrature era il dato più importante. Visto che sia le magistrature, sia il Minor Consiglio, venivano eletti per sorteggio al suo interno, una volta stabiliti i quattrocento nomi dei membri della maggiore assemblea, erano di fatto fissati i presupposti della dialettica politica tra le varie componenti del ceto dirigente. Nella scelta dei quattrocento vi erano, come abbiamo visto, due regole fondamentali: la sorte ed il correttivo di una proporzionale ripartizione fra i ventotto alberghi. Queste due norme acquisteranno la pienezza del loro significato politico solo dopo l’analisi degli ascritti al libro della nobiltà che compiremo nel prossimo capitolo. Per quanto riguarda i vertici del potere cittadino, i Dodici non affrontarono la questione del capo supremo, Doge od altro che fosse. Fu di fatto accettata la presenza di un Governatore di nomina regia, cui 343 Ivi, cc. 5v.-6r. — 306 — vennero affidati importanti compiti istituzionali. Si legiferò, cioè, presupponendo la permanenza di Genova sotto il dominio del re di Francia. È proprio su questo punto che, come abbiamo detto, il testo dell’aprile manifesta tutta la sua incompletezza. In questa prima versione della riforma, il problema essenziale della direzione politica dello stato venne del tutto eluso. Si dissertò molto sulla questione della giustizia e sull’ufficio dei Procuratori, ma non si accennò mai alle competenze e alle modalità d’elezione delle magistrature più propriamente « politiche »: un silenzio o voluto o imposto dall’esterno. Al Governatore e agli Anziani fu demandato il compito di gestire il sistema dei sorteggi, mentre, come abbiamo visto, si rimandava ad un tempo futuro l’emanazione delle norme sugli Anziani stessi, sulla Balìa e sull’ufficio di Moneta. Il 15 di aprile la riforma fu approvata dagli Anziani e venne data pubblica notizia del fatto 344. Vista la complessità della materia non si ritenne possibile comunicare il contenuto delle leggi tramite grida. I banditori, in data 21 aprile, informarono però i cittadini che copie del testo della riforma si trovavano presso i cancellieri del Senato e chiunque avesse voluto poteva prenderne visione. Si invitavano poi i genovesi a rallegrarsi e ad interiorizzare i valori di unione e di concordia proclamati nella legge 345. Venne stabilito inoltre che fino all ottava di Pasqua (cioè per i tre giorni successivi alla grida) fosse proibito « tener banchi » in quanto erano previsti « tre giorni continui [di] processione solenne » 346. Il 21 aprile fu emanato anche un decreto che stabiliva per coloro che erano stati aggregati negli alberghi, come per chi fosse stato aggregato in futuro, l’obbligo di adottare a tutti gli effetti, sia nelle scritture pubbliche e private, sia nella vita di ogni giorno, il nome dell albergo nel quale erano stati inseriti. Pena per i trasgressori era la privazione della « civiltà », più sanzioni pecuniarie ancora da stabilirsi 347. 344 II testo del bando è in ASG, Archivio Segreto 1649. 345 « Adunque ognuno renda gratie a Dio di tanto dono e studiisi anche reformarsi nell’animo acciò che il Signor Dio ci doni gratia di poter perseverare ne’ buoni ordini di esse reformationi », ivi. 346 Ivi. 347 ASG, Archivio Segreto 1649, doc. n. 102, di mano del cancelliere G. B. Zino. — 307 — Il giorno successivo, la notizia dell’avvenuta riforma fu divulgata nel territorio della Repubblica. Nella lettera alle comunità delle riviere34S, si annunciava che in Genova, per decreto dei Dodici, era stata abolita ogni fazione, che si erano aggregati in ventotto alberghi diversi e non poco numero di cittadini di ogni sorte et facto deliberatione et legie che ogni anno in quelli se gli ne possino agiongere septe de li habitanti in la cità e trei de li habitanti fori de la cità nel distrecto nostro di Genova. Si invitavano poi i sudditi a seguire l’esempio dei « superiori », sì in abolire et extirpare del tuto ogni colore factionc e partialità sotto la quale sino a qui cum tanta ruina e destructione de turi si è vissuto, come anche in vivere in bona concordia amore e pace et a deponere ogni odio e malevolentia che tra alchuno de vostri restasse. Si chiedeva inoltre l’invio a Genova di rappresentanti da tutti i luoghi e città del dominio, affinché i Dodici potessero concludere la loro opera emanando norme riguardanti il territorio. Mentre a Genova si festeggiava con solenni processioni l’entrata in vigore delle nuove leggi, a Giovanni Saivago fu dato un importante incarico. Egli, come è ovvio, narra con dovizia di particolari i fatti di cui fu protagonista 349. L’imminente discesa in Italia di un esercito comandato dal duca di Braunschweig, in appoggio alle forze imperiali assediate a Milano, preoccupava non poco il Trivulzio. Le autorità cittadine temevano invece « che francesi, per le novità sequite ne li consegli, mandaseno presidio di soldati, per cautelarse del statto di Genova et ovviare quello si tratava contra de loro ». I Riformatori decisero quindi di assoldare 1300 fanti, all’insaputa del Governatore, e inviarono a tal fine il Saivago dal duca Francesco Sforza che si trovava con le sue truppe a Lodi. Al Governatore, ignaro del reale scopo della missione, fu detto che il Saivago avrebbe raccolto notizie sui movimenti del duca di Braunschweig 35°. 348 ASG, Archivio Segreto 1649, di mano del cancelliere G. B. Zino. Copia del- lo stesso documento in ASG, Archivio Segreto 3124. 349 Per quanto segue vedi G. Saivago, Historie di Genova cit., cc. 32 v. - 33 v. 350 « Et per non darne suspetto al governatore, li diceno ch’el seria bene di — 308 — I risultati della missione furono positivi. Il Saivago si presentò allo Sforza con una lettera del Trivulzio che chiedeva notizie sull’esercito tedesco. Ricevuta la risposta, subito palesò che « la soa venuta da Soa Ecelentia, era del tutto diversa che di voliere sapere nova di Allemagna, ma che la era per darli parte di quello sequiva al presente in Genova ». Raccontò quindi delle reiterate promesse, fatte e poi rimangiate da Francesco I, di concedere ai genovesi la libertà e della loro decisione di volersi ugualmente togliere dalla soggezione « de principi et de tiranni [. . .] et governarse da loro stessi». Il duca accolse queste notizie con entusiasmo351, promise di concedere Pontremoli, Serravalle, Novi e Gavi, luoghi forti di confine, a protezione della nuova libera Repubblica genovese e diede al Saivago una lettera patente per reclutare armati tra le sue stesse truppe. Seguendo gli ordini del Trivulzio, l’ambasciatore si recò presso l’esercito veneto e, ritornato quindi a Genova, comunicò al Governatore le notizie dell’esercito tedesco e ai Riformatori quanto aveva trattato con Francesco Sforza, facendo in modo di non « dare suspetto a francesi, li quali con facilità haveriano ruinato ogni chosa et processo contra le persone de cittadini ». II Saivago registra poi l’incomprensibile comportamento del Trivulzio. Le manovre dei Riformatori erano in realtà di pubblico dominio ed egli avrebbe potuto « con pocho presidio » porvi rimedio; ma, afferma, « Iddio il quale havia anchora pietà de la povera Genova, li levava lo intelletto ». Che il Governatore fosse caduto in pieno nell’inganno ordito dai fautori dell’« unione » lo testimonia una lettera da lui indirizzata al duca di Ferrara Alfonso d’Este il 7 maggio 1528. Al duca che mandare una persona al Ducha Sforza, il quale era in Lodi, et allo esercito veneto, il quale era in Giera d’Ada, per sapere il proprio de la venuta del prefatto Ducha di Brensuich, et bisognando, provederse in tempo, chosa la quale credette et la aprovò », ibid., c. 32 v. 351 « Non ebbe tempo il Saivago de finire la soa proposta, che il Ducha lo ab-braciò, con farli quelle careze si possano imaginare, con ralegrarse pur asai che genovesi havesseno havuto in memoria di darli parte di quello tratavano, chosa la quale con il tempo potteva reuscire in commodo de tutte le parti, maravegliandosi che tanti cittadini prudenti et valorosi sieno statti tanto a cognoscere nel grado dove erano, et havere comportato tanto tempo di essere in preda de villi tiranni », ibid., c. 33 r. — 309 — aveva chiesto ragguagli circa gli ultimi sviluppi della vita politica genovese, il Trivulzio rispose: Questa abolicione dei collori, et unione, che hano fatta, sera molto più a beneficio del re, che non era stando la città divisa nel modo che si trovava prima, et già in questi mottivi fatti per nemici che passorno et si troveno di qua dal Po, essa unione ha giovato molto a trovar il modo del denaro per far provisione de genti, et assicurarsi quando detti nemici havessero voluto tentar le cose di questa città, che prima gli erano difficultà [a] trovar denari 352. Quelle truppe che i Riformatori avevano voluto, ed il Saivago reclutato, temendo un intervento francese, il Governatore continuava a credere fossero destinate alla difesa della città contro gli eserciti imperiali. Questa lettera tuttavia non testimonia solo di un inganno riuscito; essa contiene anche delle valutazioni degne di essere sottolineate. Parlando delle vicende che avevano portato all’emanazione della riforma, il Trivulzio affermava: sono già molti dì che al re parse dare intentione a questi de volerli lassare fare unione, et metterli in libertà, ma poi per le occorrencie che sono sopravenute, s’è risolto de volerli tenere come boni suggetti; per il che, vedendo essi che la libertà non gli reusciva, e trovandosi de già haver miso in camino le cose della unione, hano voluto abolire li collori et passioni che erano tra loro da gentilhomini a populi, da gelfi a gibellini, et da mercadanti a artesi et da fregosi ad adorni, che mai io non vidi tanta confusione de parcialità. Ciò conferma che le leggi dell’aprile erano il frutto di un compromesso. « Unione » e libertà, con l’implicito corollario della neutralità, era quanto perseguivano i sostenitori della riforma; Francesco I, dopo il fallimento delle trattative con l’imperatore, aveva frustrato l’aspirazione dei genovesi alla libertà, mortificando una parte essenziale del nuovo patrimonio ideale repubblicano elaborato negli ultimi venticinque anni. 352 ASM, Archivio Segreto Estense, carteggi di oratori e corrispondenti presso le corti, « Genova », b. 1. Quando a Genova si parlava di denaro pubblico, si parlava di San Giorgio e come si vede le cose non erano cambiate dai tempi di Antoniotto Adorno: San Giorgio continuava ad essere un sensibile indicatore degli orientamenti politici dei genovesi. — 310 — Il Trivulzio non capì che la pur monca riforma dell’aprile aveva un sostanziale significato antifrancese. Egli percepiva tuttavia le incognite della situazione allorché subordinava il suo ottimismo sul nuovo assetto politico-istituzionale alla soluzione del problema savonese: [la riforma] non leva cosa alcuna dalla ubediencia et suggetione che hanno al re, non tocca ponto la supremità de sua Maestà, vero è che questi cittadini si trovino in qualche malcontentezza a causa ch’el re non se risolve de restituirgli alcune loro intrate del comercio et sale, che soleveno scodere a Savona, benché io credo che sua Maestà non li lassarà in questa malcontentezza, il che quando si faccia [...] la abolicione dei colori et unione serà a proposito et beneficio de sua Maestà. A detta del Saivago, dopo l’aprile del 1528 l’attività della Balìa dei Riformatori fu intralciata dalla pestilenza. La gravità del contagio indusse molti ad abbandonare la città, ma le pratiche di « unione » non si spensero 353. Il 15 maggio il mandato della Balìa giunse a termine senza che fossero state emanate altre leggi. In un’assemblea riunitasi il giorno successivo, Tommaso Cattaneo propose la conferma dei magistrati uscenti. Corrado Soffia invece propose che fossero il Governatore e gli Anziani a decidere sul da farsi. Fu approvato il parere del secondo e die ea in vesperis fu eletta una nuova Balìa per menses sex, citra tamen der-rogationem auctoritatis Balìae attributae Magnificis Dominis XII, tam circa reformationem eis commissam, quam circa reintegrationem membrar um civitatis quae in suo robore permaneant ac permanere intelligan-tur. Dunque la prima Balìa dei Dodici rimase competente per i problemi dell’« unione » e di Savona, mentre la seconda doveva occuparsi della « conservazione della quiete e pacifico della città » 354. La nuova Balìa risulta ancora composta di quattro nobili e quattro popolari (o meglio, a questo punto, « nobili nuovi ») 355. I doppi co- 353 G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 33 v. 354 ASG, Archivio Segreto 3124. Una conferma delle diverse competenze delle due Balìe viene da G. Saivago (Historie di Genova cit., c. 36 r.) il quale afferma che la nuova magistratura fu fatta «per provvedere alla goardia de la città». Più oltre (c. 40 r. ) lo stesso autore nota che i Dodici Riformatori non si erano riuniti per qualche tempo « non habbiando più loro cura del governo de la citta, essendo stato dal governatore datto alli Vili novi de la Balìa ». 355 Domenico del fu Costantino Doria e Adamo Centurione, nobili bianchi; Giaco- — 311 — gnomi per i popolari significano che già si utilizzava il « libro delle descrizioni »; tuttavia la riforma non aveva modificato la regola della paritetica ripartizione degli uffici tra i due gruppi: una regola non scritta ma che rimase sostanzialmente in vigore anche dopo l’ottobre del 1528. Quindi non solo la distinzione tra nobili e popolari sopravvisse all « unione » sotto le nuove etichette di « vecchi » e « nuovi », ma addirittura nelle nomine agli uffici l’antica prassi continuò ad essere rispettata. 8. I fatti dell’estate 1528 La riforma dell aprile del 1528, come abbiamo visto, era incompleta sotto gli aspetti sia formale che sostanziale. Mancava, e a ciò si poteva rime iare, la normativa riguardante le più alte magistrature cittadine; soprattutto però era mortificata l’aspirazione dei genovesi alla libertà. uest ultima carenza non poteva essere rimossa a livello legislativo in quanto aveva origine nelle caratteristiche del dominio francese. Anche recentemente si è sostenuto la tesi che, dal punto di vista della « liber-i risultati della svolta del 1528 furono modesti: Genova, passata campo asburgico, avrebbe goduto di « capacità d’autonomia decisamente imitate »^ . Ciò è vero solo in termini astratti. Allora come SS > a « i ertà », intesa come autodeterminazione di uno stato sovrano, era qualcosa di estremamente relativo. La libertà « possi-e» era o ìettivo dei fautori dell’« unione »; essi, tramite la ritorma delle istituzioni repubblicane, miravano a quel tanto di autonomia c e permettesse di raggiungere una maggiore stabilità politica e di i anelare 1 economia cittadina. In questo senso, le differenze tra il « pos- ÌU GÌ°rgÌ0 Grimaldi> nobili Sifone Maggiolo artefice n 6 T°S°’ mercanti bianchi; Agostino Usodimare ΓαίtVe nt„ CΓν Γ * Usodimate Maggiolo, risS i sS n i r, RaPfl0’ n0taÌ° 6 artefke nero- L’el— ^ tratto 1 ™«“giLp-41· u £"°” · “ di >»»“■ * -e» « 356 C. Costantini, La Repubblica cit., p. 19. — 312 — sibile » sotto i francesi e il « possibile » sotto l’impero erano, come abbiamo visto e come vedremo, notevoli. Se osservati in quest’ottica, i risultati conclusivi della riforma furono tutt’altro che modesti, e vennero realizzati proprio grazie ad Andrea Doria, protagonista delle vicende non solo genovesi ma anche europee della primavera e dell’estate del 1528. Egli, abbandonato Francesco I e divenuto « asentista » di Carlo V, decise con le sue galere le sorti della guerra, e liberando Genova dai francesi con il colpo di mano del 12 settembre, permise la piena realizzazione della riforma. È quest’ultimo nesso che cercheremo di analizzare, anche se il grande rilievo del personaggio richiederebbe una trattazione ben più ampia, e forse i tempi sarebbero maturi per un lavoro di largo respiro capace di sintetizzare la miriade di studi, per lo più datati, sulla sua vita 357. D’altro canto è doveroso rilevare che la vicenda del Doria, proprio per la sua vasta risonanza europea, ha in parte fuorviato gli storici genovesi, ha finito con l’oscurare i reali meccanismi in cui si articolava e si esprimeva la vita politica cittadina. Infine, come abbiamo già detto, non ci sentiamo di condividere i tentativi anche recenti di attribuire al Doria la veste di ispiratore e di artefice dell’« unione ». Essi ripropongono un’interpretazione filonobiliare cinque e secentesca, senza tener conto che esistevano altre letture della storia della riforma che contestavano in modo deciso l’attribuzione al Doria del ruolo di « padre » dell « unione ». All’inizio del 1528 l’ammiraglio fu impegnato nella sfortunata impresa di Sardegna, durante la quale entrò in aspro dissidio con Renzo da Ceri. Il Guicciardini fornisce con sinteticità e chiarezza la sua interpretazione riguardo al comportamento del Doria. Lo storico fiorentino avanza il dubbio che egli, allora, « già avesse nel petto nuovi concetti » 358. Rientrato a Livorno con le sue galere, il Doria avrebbe dovuto, secondo i piani della lega, recarsi a Napoli per istituire un blocco navale in appoggio all’esercito comandato dal Lautrec. L’ammiraglio invece « si ri- 357 A questo riguardo è da segnalare l’importanza delle Historie di Genova del Saivago. Quest’ultimo, nel 1528, fu tra i collaboratori più diretti ed importanti di Andrea Doria e fu lui ad avere i primi contatti con gli imperiali per conto dell’ammiraglio. Si tratta quindi di una fonte di prim’ordine fino ad ora non adeguatamente utilizzata. 3=8 F. Guicciardini, Storia d’Italia cit., voi. Ili, p. 1898 e sg. — 313 — tirò a Genova [febbraio 1528] allegando essere necessario e alle galere e a lui concedere riposo; o perché questa fosse la cagione o perché gli interessi delle cose di Genova gli inclinassino già l’animo a nuovi pensieri »3 9. In tutte le corti d’Italia, in Francia e in Spagna, ci si interrogava in quelle settimane su quali fossero le sue intenzioni; da questo momento il problema del ruolo di Andrea Doria nelle vicende interne genovesi acquista un’indubbia rilevanza. In città, si è visto, due erano i temi del dibattito politico: Γ« unione » e Savona. L’« unione » mirava, oltre che ad eliminare i dissidi interni, a ridurre la città, secondo le parole del Trivulzio, « ad uso di repubblica » 360 : era posto cioè nei rapporti con la Francia il problema della libertà. Della questione di Savona sappiamo quanto e perché angustiasse i genovesi. È appunto rispetto a questi temi che il Guicciardini tenta di decifrare l’atteggiamento del Doria. Egli afferma che i genovesi avevano « dimandato al re che concedesse loro che si governassino liberamente da se stessi, offerendogli per il dono della libertà dugento-mila ducati », e che l’ammiraglio era « autore o almeno confortatore che facessino queste dimande ». Sulla questione savonese il Guicciardini afferma: E pullulava anche un’altra causa importante di controversia: perché, avendo il re smembrato la città di Savona da’ genovesi, si dubitava che, voltandosi infra non molto tempo, per favore del re e per la opportunità del sito, a Savona la maggiore parte del commercio delle mercatanzie, e quivi facendo scala 1 armate regie, quivi fabricandosi i legni per lui, Genova non si spogliasse di frequenza d abitatori e di ricchezze: però il Doria s’affaticava molto col re che Savona fusse rimessa nella antica subiezione de’ genovesi. Francesco I aveva risposto negativamente sia alla richiesta di « libertà » sia sul problema di Savona; questa, allo storico fiorentino, pareva essere la causa del comportamento scarsamente battagliero del Doria durante 1 impresa di Sardegna e del suo rifiuto a recarsi personalmente ad eseguire il blocco navale di Napoli361. Sappiamo che già dall’inizio del 1527 il Doria era contrario al 359 Ibid., p. 1912. 360 Vedi sopra, p. 280. 361 F. Guicciardini, Storia d’Italia cit., p. 1912. — 314 predominio degli Adorno e dei Fregoso 362 e che nel dicembre incoraggiò il da Passano a proseguire nella sua opera a favore dell’« unione » e della libertà dei genovesi363. Il Saivago racconta che l’ammiraglio, appena tornato in città nel febbraio 1528, dopo essere stato ragguagliato dai Riformatori su tutto quello che avevano trattato fino a quel momento, si offrì di « esponere la vita et beni a questa santa et honorata opera et intervenire con loro sempre che lo richiederiano »364. Come abbiamo visto, nella lettera a Francesco I del 24 marzo, il Doria chiese con insistenza la restituzione di Savona 365. Sempre il Saivago racconta un significativo episodio accaduto durante la tumultuosa assemblea del 2 aprile: dopo che il Trivulzio aveva cercato di salvare il salvabile giurando sul buon animo di Francesco I verso i genovesi, « si voltò a Andrea Doria, acciò che non solum dovesse aprovare il suo detto, ma come offitiario et stipendiario del Re, dovesse anchora lui dire de più in favore de soa Maestà », ma l’ammiraglio « con una parola compite, dicendo che non li accadeva dire altro» 366. Il 13 aprile, subito dopo l’emanazione della riforma, in una lettera a Francesco I il Doria chiese ad un tempo la restituzione di Savona e la licenza di interrompere la sua condotta 367. Tra aperte prese di posizione e significative coincidenze di date, ce n’è abbastanza per rendere plausibile quanto afferma Guicciardini circa il fatto che il Doria fosse « autore o almeno confortatore » delle richieste inoltrate dai genovesi a Francesco I, che cioè avesse incoraggiato e appoggiato i fautori della riforma. 362 Vedi sopra, p. 260, quanto contenuto nel memoriale del Gattinara del maggio 1527. 363 È del 12 dicembre 1527 una lettera deH’ammiraglio scritta da « Porto Longo Sardo » al da Passano in Genova, in cui salutava l’amico con calore e si felicitava per il suo ritorno nella comune patria, tanto più « per intendere la cauza, tanto bona, et laudabile, come mi è scritto da diversi, de la unione di quella, non conossendo se potessi praticare per miglior mediatore, però vi prego strettamente a non mancarli, esponendoli ogni vostra opera acompagnata dalla sua virtù, acciò habi bono fine, qual sucedendo vi resterà di perpetua fama », in Littere et altre scritture cit., p. 14. 364 G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 29 v. 365 Vedi sopra, p. 278. 366 G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 32 r. 367 La lettera è pubblicata in appendice a M. Spinola, Considerazioni cit., pp. 430-433. — 315 — Il quadro non muta nei mesi successivi. Forse temendo di perdere i servigi dell ammiraglio, alla fine di maggio il re di Francia fece sapere di essere disposto a rinunciare al dominio diretto su Savona. Il Trivulzio, in una lettera del 4 giugno al Montmorency, affermava [di] haver trovato esso M. Andrea de questa dispositione, che vedendo succedere 1 effetto della restitutione de Savona a questa città, gli pareva che 1 re gli faccia maggior gracia che se gli donasse qualunche altra recompensa, et restarà tanto contento de Sua Maestà che più gli sarà cara questa restitutione, che se gli donasse un stato, et farà ciò che per il Re gli è stato rechiesto. Il che io credo, perché molte volte nel parlare che mi ha fatto, ho compreso che ama molto il demonstrarsi che tanto stima il beneficio de la patria sua quanto ciascun’altra cosa 368. Sempre il 4 giugno, il Doria scrisse al Montmorency che questi ed il re non avrebbero potuto concedergli « maggior gratia » che restituire a Genova il dominio di Savona 369. Le promesse tuttavia rimasero tali e si avvicinava la scadenza dell’accordo che legava il Doria a Francesco I. Tra l’inizio di giugno e la metà di luglio del 1528 si svolsero le trattative che portarono l’ammiraglio alla parte di Carlo V. Su questa materia tanti hanno scritto e noi non abbiamo molto da aggiungere a quanto detto dal Bornate e dall’Oreste . Il Doria manifestò la sua intenzione di abbandonare il re di rancia ed offrì a Clemente VII i suoi servigi, intavolando nello stesso tempo trattative con gli imperiali. La diffidenza reciproca che regnava tra il Papa e Francesco I rese impraticabile la prima via e tra il 9 e il ^vr\ U^'° ^U. s'^ata un intesa di massima tra l’ammiraglio e il principe dOrange, Filiberto di Chàlon, per conto di Carlo V371. Riportiamo il primo articolo dell’accordo che riguarda specifica-mente il futuro assetto politico della città: r' a dornanda a sua Caesarea Maestà che sempre che gli sia concesso graia a io e evare Genova da lo soggieto de soi jnimici, sia posta in libertà 368 Documenti di Storia Italiana cit., voi. II, p. 33. 369 Ibid., p. 34. 370 C. Bornate, I negoziati cit., e G. Oreste, Genova e Andrea Doria cit. , 371 ^er moltI medm Particolari su queste intricate vicende, vedi G. Saivago, Histone di Genova cit., c. 33 v. e sgg. — 316 — soa, et remessa a vivere in forma de repubblica et reintegrata de tutto il suo dominio et specialmente della Terra de Savona, della quale conservatione senza altro pagamento né graveza di quella che la Cità vorrà corte-semente dare ne permetta la protetione, et ordini et comandi a tutti li soi Capitanei in Italia che la conserveno et deffendano da ogni forzo et violentia de chi la volesse perturbarem. Il 19 dello stesso mese la bozza dell’accordo giunse all’imperatore e fu da questi pienamente approvata. Le firme all’atto definitivo furono apposte da Erasmo Doria e dai rappresentanti imperiali il 10 di agosto, a Madrid. Il 12 settembre Andrea Doria liberò Genova dai francesi. Chiedendo la libertà di Genova, la reintegrazione di Savona e la forma di governo repubblicana, l’ammiraglio, di fatto, si allineava alle posizioni dei fautori dell’« unione ». Il problema dei motivi che lo spinsero ad abbandonare la Francia per l’impero ha per noi un interesse relativo. Non è indispensabile sapere se il « voltafaccia » fu opera del « pater patriae » intento a salvaguardare il futuro della sua città o di un astuto « signore della guerra ». Il Doria aveva molte ragioni per essere scontento del cristianissimo: oltre quelle, più propriamente politiche, riguardanti la Repubblica, c’erano stipendi arretrati non pagati, c’era un credito di ventimila scudi per la consegna del principe d’Orange, poi liberato dal re in seguito al trattato di Madrid, c’era la pretesa francese di disporre dei numerosi prigionieri catturati da Filippino Doria nella battaglia di Capo d’Orso dell’aprile del 1528, c’era inoltre la malevolenza dei massimi consiglieri di Francesco I, il Montmorency, il Duprat ed altri. Capire quali di questi motivi lo spinsero ad abbandonare i francesi è assai difficile. Certo il Doria fu una figura veramente singolare. Della sua corrispondenza con re, principi e prelati stupisce la dura schiettezza, la capacità di andare subito al nocciolo dei problemi, anche dei più spinosi. Abbandonando per un attimo il filo della narrazione, vorremmo ricordare due significativi documenti. Anzitutto una relazione dell’ambasciatore fiorentino Baldassarre Carducci del dicembre 1528 373. Egli, nel recarsi alla corte francese, fece tappa a Genova ed ebbe un colloquio con il 372 Pubblicato in C. Bornate, I negoziati cit., Appendice, doc. II, p. 74. 373 A. Desjardins, Négociations cit., pp. 1033-1037. — 317 — Doria. Quando il Carducci si congratulò con l’ammiraglio per le sue imprese, questi dichiarò che aveva liberato la sua patria, « senza speranza d alcuna ricompensa, perché [altrimenti] saria giudicato tal cosa esser più tosto stata di mercanzia che d’amor della patria »; prese quindi in disparte l’ambasciatore e gli disse che non mediocre pericolo soprastava, non solamente sopra l’una e l’altra republica, ma sopra tutta Italia. E questo è perché, come sua signoria può certissimamente affermare, cercandosi per la Maestà del Re con ogni instanza pace con Cesare per la recuperazione de’ figliuoli, dandosi, ut utar verbis suis, il foglio bianco e facultà di potersi insignorire di tutta Italia, senza fare alcuno riservo e distinzione alcuna d’amico suo, si può imaginare qual sia per essere il fine della povera Italia in universale e particolare; al che si vedeva poco remedio, considerate l’operazione sinistre e poco a proposito di questi Francesi. Non di manco messer Andrea Doria ne confortava vostre signorie a pensar bene ai casi loro. Il Carducci dissentì. Il Doria si astenne dal proseguire, dicendo che se 1 ambasciatore fosse tornato in patria « lascerebbe al quanto più intendere, ma che al presente bastava questo »; tuttavia, se i governanti fiorentini volevano sapere di più, che mandassero un loro uomo: « egli gli aprirebbe interamente il concetto suo». Con questo monito, l’ammiraglio dimostrava di aver intuito con chiarezza i futuri sviluppi della situazione italiana. La sua acuta lucidità è in questo caso esaltata dal fatto di rivolgersi ad un rappresentante di quella Repubblica fiorentina che nel 1530 avrebbe tragicamente pagato la sua fedeltà all’alleato francese374. Vediamo ora un documento dal tono e dai contenuti assai diversi. Si tratta di una lettera di Renzo da Ceri dell’Anguillara del 14 agosto 1528, senza 1 indicazione del destinatario, forse inviata a qualche personaggio della corte di Francesco 1375. Il Ceri, venuto a conoscenza del passaggio del Doria agli imperiali, suggeriva il modo per risolvere la questione genovese (si tenga presente che ancora la città non era stata liberata). Egli proponeva di « smantellare Genova » per non aver ne- . 374 Sull’aspro dibattito suscitato a Firenze dalle parole dette dal Doria al Carducci, vedi C. Roth, The Last Fiorentine Repuhlic (1527-1530), London 1925, p. 122. 375 Documenti di Storia Italiana cit., voi. II, c. 53 e sg. — 318 — cessità di tenervi una guarnigione; di prendere in ostaggio cento delle più importanti famiglie cittadine e di trasferirle a Parigi « con le donne et figlioli, et così il Re monstraria che quatro semplici mercanti non li estimasse »; di obbligare i genovesi a ricostruire la fortezza della Briglia a loro spese; di toglier loro la Corsica e tutte le fortezze delle riviere. Così facendo, « in sey mexi sarà Genua sugetta corno una villa de cento fochi » ed il re otterrebbe da essa « quella obedientia che ha de la più piccola villa de Franza ». Se i suoi consigli non fossero stati seguiti, affermava Renzo da Ceri, la città sarebbe passata dalla parte di Carlo V a causa della mancata restituzione di Savona e l’imperatore « si valeria de Genua per 500 mila scuti per le guerre de Italia, come ha fatto per il passato ». In questo caso, la lucidità nel prevedere i futuri sviluppi della situazione genovese si accompagna ad una farneticante proposta sul come opporvisi. Non era questo il modo di garantirsi l’appoggio delle città mercantili italiane; non era distruggendole che ci si poteva valere delle loro ricchezze per sostenere una strategia di dominio europeo. Certo, conosciamo l’odio che Renzo da Ceri nutriva verso Andrea Doria, ma conosciamo anche il credito di cui egli godeva presso la corte francese. È improbabile che Francesco I abbia mai pensato di realizzare un progetto del genere, ma, come i suoi predecessori, egli pensava gli fosse dovuta un’obbedienza assoluta, non lontana dai termini in cui la dipingeva il Ceri. A questo punto sarebbe fin troppo facile proporre il confronto con uno dei tanti memoriali del Gattinara in cui esortava l’imperatore a perseguire forme mediate ed indirette di controllo sugli stati della penisola. Abbiamo individuato gli orientamenti di Andrea Doria ed i limiti posti dal dominio francese alla realizzazione della riforma. L’ammiraglio era estremamente sensibile ai destini di Genova, ma doveva anche gestire una flotta che era tutto il suo avere; era un Doria, ma aveva costruito dal nulla la sua fortuna ed ambiva ad essere onorato e rispettato dai suoi concittadini. Queste ragioni del suo agire non vennero mai meno, e non è necessario fare di lui l’unico artefice dell’« unione » per apprezzarne il ruolo storico. Il dato di fatto importante per noi è che la vicenda personale del Doria si innestò in un momento decisivo della storia della città: nel momento in cui il dibattito sull’« unione » era ormai maturato, in cui la spinta interna alla riforma era sufficientemente forte e la sua elabo- — 319 — razione già largamente compiuta. La liberazione di Genova, seguita dall’inevitabile passaggio della Repubblica nel campo imperiale, costituì 1 ultima di quelle circostanze favorevoli che, come abbiamo detto, nel biennio 1527-1528 portarono al successo della riforma. Nel 1522 come nel 1525 1’« unione » era fallita perché Ottaviano Fregoso e Antoniotto Adorno erano rimasti irretiti nell’ingranaggio delle loro fazioni. La presenza al vertice dello stato, a cominciare dalla seconda metà del 1527, di un Governatore straniero, estraneo alla logica dei gruppi politici cittadini, fu una prima condizione favorevole. Francesco I fornì poi, certo involontariamente, con la questione di Savona lo strumento per creare intorno all’« unione » quell’unanimità di consensi che essa non era riuscita a conquistarsi fino ad allora. Questi furono i due contributi fondamentali che l’ultimo dominio francese diede alla riforma, dopo di che esso divenne un intralcio in quanto ne ostacolava l’integrale realizzazione. Il merito del Doria fu di creare l’ultima condizione a questo punto necessaria: cacciare i francesi e coinvolgere Genova nell’alleanza con Carlo V, sotto la cui egida la città avrebbe beneficiato di quei margini di autonomia essenziali per portare a compimento la riforma e stabilizzare la situazione interna. Una volta raggiunti questi obiettivi, lo stato genovese si sarebbe trovato di fronte un interlocutore, l’impero, con il quale poteva convivere senza rinunciare in toto alla propria sovranità. Per quanto riguarda il ruolo di Andrea Doria nell 'insieme di questo processo, è indubbia 1 importanza del suo apporto nel creare una situazione favorevole al compimento della riforma, ma nel contempo appare storicamente fondata 1 affermazione del Foglietta secondo cui non fu « m alcuno modo il principe Doria cagione né autore » dell’« unione » 376. Il 13 settembre, giorno successivo alla cacciata dei francesi, venne convocata una grande assemblea cui presenziarono le maggiori magistrature e circa seicento cittadini. Il cancelliere Ambrogio « Gentile » Sena-rega lesse una lunga orazione il cui testo è riportato nelle varie racco te delle leggi . Egli iniziò con l’esaltazione dei meriti di Andrea Doria, restauratore della libertà in una Genova « ancella, anzi schiava 376 O. Foglietta, La Republica di Genova cit., p. 141. 377 ASCG, ms. 88, pp. 41-48. — 320 — de signori extranei, e instrumento d’ogni loro apetito, e pravo volere », e proseguì constatando la disperata situazione della Repubblica, che aveva indotto molti cittadini ad allontanarsi dalla patria. Il Senarega entrò quindi nel vivo del problema più scottante, quel- lo di Savona, insistendo sul nesso, che ormai ben conosciamo, tra l’ardire dei savonesi e le divisioni interne dei cittadini: e quel che più c’attrista, i sudditi nostri da noi fatti grandi e col nostro sangue e danari acquistati, per la discordia nostra a noi fatti ribelli contra della sua madre Genova, tutti han recalcitrato, e fra gli altri la disubbidiente e ritrosa Savona comesso ha li falli che sapete, è a tanta audacia pervenuta che non contenta di sgregarsi dal suo capo tentava farsi principale nel Dominio nostro, cosa veramente troppo abominevole, e questo non per altro [è avvenuto] se non per la discordia civile nostra, per erradication della quale sapete quanti anni sono che se vi pensa il rimedio, trovatone una buona parte e messone alquanti in esecutione, benché essendo all ora sottoposti ad altri, e non in nostra libertà, come siamo adesso, non si sia potuto finir l’opera, che far bisogna adesso poiché tutti il desideriamo e siamo d’un volere, e l’occasione non potria essere migliore, e la desiata libertà da Dio mandata, e far lo dobbiamo senza ingiuria d altri, anzi, se spogliati dalla loro cieca proprietà giudicar vorranno, con utilità loro, alla qual libertà con notitia di tutti in molti tempi, e dalla Santità di nostro Signore [il Papa, Clemente VII], e da esso re christianissimo, e dal dominio veneto invitati e persuasi fussimo, e la qual col nome di Gesù deliberato havemmo abbracciare, e per quella come unico et ultimo refugio mantenere, lasciarci la vita di quelli cittadini che rimasti sono vivi, le facoltà et il resto. Due punti di questo brano ci sembrano di particolare interesse. Anzitutto c’è la riconferma esplicita del nesso tra libertà e riforma: quella libertà, ad un tempo presupposto e corollario dell’« unione », che era assente sotto i francesi (« essendo all’ora sottoposti ad altri ») e che Dio, per mezzo di Andrea Doria, aveva restituito alla Repubblica. C’è poi la dichiarata volontà di voler compiere 1’« opera » (cioè la riforma) « senza ingiuria d’altri ». Gli « altri » erano il re di Francia, il Papa, i veneziani, che, si affermava, niente avevano da temere dalle nuove leggi. Il favore che essi, a più riprese tra il 1525 ed il 1527, avevano manifestato nei confronti delle pratiche di « unione » veniva ricordato, sia per legittimare la riforma, sia per dare di essa un’immagine univocamente positiva. Era un modo per introdurre il tema della neutralità. Certo si trattava di un tema difficile perché Genova non poteva dirsi a pieno titolo neutrale. Il Senarega lo affrontò con accenti diversi. Prima affermò: egli è ben vero che ci bisogna esser molto avvertiti acciò che coloro che di noi han sempre dissegnato et esperimentato essere istrumento atto a casi e voglie loro non ne turbassero questa nostra felicità e neutralità nella quale perseverare intendiamo. Era questa una prospettiva più generale che coinvolgeva nel ruolo di possibili perturbatori della « felicità e neutralità » della Repubblica sia la Francia che l’impero. Il prosieguo del discorso fu invece più attento ai concreti pericoli che si profilavano all’orizzonte: e tanto più temer bisogna, quanto che di fresco siamo usciti di sugettione e le forze di chi vorrà sturbarne propinque e grande, e da temer assai, quando non facessimo l’ultimo nostro sforzo e provisione per ovviarle con trovar provision di denari e gagliarda per esserne exausti, e all’incontro da non far gran stima de nemici [quando] in effetto vogliamo mettersi in ordine con tutte le forze nostre, senza le quali provisioni siamo esposti a manifestissimo pericolo, e a non più rimediabil danno, perché in vero, quando mancassimo di provedersi, fra pochi giorni caderessimo in forze altrui e provaressimo ogni esterminio peggiore forsi delli altre volte patiti. Il riferimento era alPimminente minaccia dell’esercito francese comandato dal Saint Poi. Esercito che giunse poi sino alle porte di Genova gridando « Franza e Fregoso » e fu accolto dai cittadini al grido « Imperio, Cesare e libertà » 378. Il Senarega terminò il suo discorso con un’appello affinché ognuno si mostrasse « pronto e liberale a trovar denaro, nervo essential della guerra », per confermare « questa nostra felicità che Dio promesso n’ha; usando in 1 avvenire di questa nostra libertà e neutralità in servitio di Dio e lode della Patria nostra ». Bisogna dunque concludere che la Genova « neutrale » era solo una finzione cui corrispondeva una realtà ben diversa? Ancora una volta si potrebbe cedere alla tentazione di mettere in risalto lo iato esistente tra le affermazioni di principio e le situazioni concrete, di sostenere la << modestia » dei risultati effettivi della riforma. A mio giudizio invece, uti 'zzo, apparentemente equivoco, del concetto di neutralità acquista un suo preciso significato se teniamo presente il quadro complessivo elle forze tra le quali la Repubblica era costretta a muoversi. . . 378 M- Sanudo> 1 diarii cit., col. 293, sunto di una lettera di Francesco Contarmi, oratore veneziano presso il Saint-Paul, da Alessandria, del 20 dicembre 1528. — 322 — Certo i genovesi erano perfettamente consci che la recuperata libertà ad opera del Doria significava per la Repubblica un ritorno all’alleanza con l’impero 379. Non è tuttavia possibile porre sullo stesso piano il periodo del dogato di Antoniotto Adorno e quello successivo alla riforma. Durante il primo, come abbiamo visto, gli Anziani e i magistrati delPufficio di Spagna affermarono, nel gennaio del 1524, che la città era retta « per mezo a cossi dire de un gubernatore » 38°. Nel secondo, il rapporto con l’impero fu impostato sulla base della perentoria condizione posta da Andrea Doria al principe d’Orange per entrare al servizio di Carlo V: che Genova godesse della « protettone » cesarea, ma subordinatamente alla libertà, alla forma di governo repubblicana e alla reintegrazione del dominio. La libertà, dopo i fatti del settembre, doveva essere salvaguardata rispetto all’impero, nella cui orbita la città doveva necessariamente muoversi, e difesa contro i francesi. È in relazione a questi due fronti che si inserisce il concetto di neutralità, non intesa come equidistanza tra Francesco I e Carlo V, ma come capacità della Repubblica di dotarsi di una forma di governo politicamente meno esposta, che fosse essa stessa garante di un certo grado di autonomia. Solo grazie all’elasticità dell’egemonia imperiale era stato possibile rifondare lo stato genovese. Si voleva che proprio la nuova formula istituzionale permettesse in futuro alla città di scivolare indenne fra le alterne sorti dei conflitti europei. Ciò non era stato possibile finché aveva prevalso la logica della contrapposizione tra gli Adorno e i Fregoso. Eliminata questa divisione, semplificato il quadro politico interno, si cercava ora una formula istituzionale capace di sopravvivere ad una nuova eventuale supremazia francese in Italia. Abbiamo già parlato della « libertà » come un concetto relativo, 379 Ecco quanto veniva ingiunto agli ambasciatori Martino Centurione e Gio-van Battista Grimaldi, inviati a Carlo V dopo il 13 settembre: « offerirete la citta nostra e questa Republica a detta Soa Maestà in generale, certificandola li cittadini tutti di essa, universalmente esser devoti e prompti al servizio, comodo e grandessa di Soa Maestà ». L’istruzione è pubblicata in Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, voi. I, Spagna (1494-1617), Roma 1951, pp. 103-108. 380 Vedi sopra, p. 132. — 323 — di una « libertà possibile », perseguita dai genovesi nel terzo decennio del Cinquecento. Un discorso analogo vale per la « neutralità » e ciò, a mio giudizio, non sminuisce minimamente i risultati della riforma. Ma torniamo all’assemblea del 13 settembre. Dopo la lettura del- 1 orazione del cancelliere, prese la parola Battista Lomellino che propose di rinnovare per sei mesi la Balìa dei Dodici, affinché portasse a compimento la riforma. Egli offrì inoltre mille ducati per la difesa della Repubblica, invitando gli astanti a seguire il suo esempio di liberalità. Propose infine che alla Balìa fosse data « edam la facultà di poter tassare quelle persone che da loro non si tassassero»381. 9. Il testo dell’ottobre 1528 Il consesso del 13 settembre, approvata la « sentenza » di Battista Lomellino, prorogò l’autorità dei Dodici Riformatori per altri sei mesi. Essi compilarono un nuovo « libro delle descrizioni », assai diverso dal precedente anche perché i cittadini ascritti erano stati decimati dalla pestilenza; completarono le norme istituzionali lasciate a metà nella versione dell aprile ed il 2 ottobre avviarono il nuovo meccanismo con l’elezione e 1 insediamento del primo Doge biennale e dei Collegi, Governatori e Procuratori, che da allora in poi avrebbero costituito il supremo magistrato della Repubblica. Prima di esaminare il testo delle nuove leggi, dobbiamo affrontare un problema riguardante la composizione della magistratura dei Riformatori. In seguito a vari avvicendamenti, essa risultò nel settembre assai mutata rispetto all’aprile 382. ASCG, ms. 88, pp. 46-48. È curioso quanto si afferma alla fine della Pj . .. e . me no· quam quidem sententiam vulgari sermone conscriptam ne nr f l' ™inui ™ ea> seu ^as formari in aliquo [...] posset. Si era quindi preferito adottare il volgare anziché il latino affinché l’orazione non potesse in alcun modo essere manipolata. nomi T IVR-fPP' 48;49· ** .filare il confronto poniamo di seguito prima i r udlR?rmr Γ 1528: BatdSta dd fu Antonio Gerolamo fu Agostino Dona e Agostino del fu Pietro Pallavicino, nobili bianchi; Fran- — 324 — In particolare era mutata la proporzione tra nobili e popolari: nell’aprile i due gruppi sono rappresentati in modo paritetico; nel settembre c’erano invece otto nobili e solo quattro popolari. Dal confronto dei nomi risulta che a due dei quattro popolari usciti di carica finirono con il subentrare due nobili, Simone Centurione e Filippo Cattaneo 383. Si tratta di una circostanza che deve essere chiarita. Se le sostituzioni rispecchiavano una deliberata scelta dettata da un mutamento degli equilibri di forza tra i due gruppi, la tesi della matrice nobiliare dell’ultima, definitiva versione della riforma dovrebbe essere ripresa in considerazione. Né gli annalisti, né i manoscritti delle leggi danno conto di questi avvicendamenti; anzi i primi introducono un elemento di incertezza riportando, per momenti non sempre identificabili, compresi tra l’aprile e l’ottobre 1528, liste di Riformatori tra loro non identiche. È però da escludere che le sostituzioni fossero avvenute a causa della riconquista della città ad opera di Andrea Doria. Tutte le storie di Genova narrano della grande ed informale adunanza tenutasi in piazza Doria il 12 settembre, durante la quale l’ammiraglio pronunciò il celebre discorso a favore dell’« unione ». Il Saivago precisa che a questa assemblea parteciparono anche i Riformatori ed elenca i dodici nomi della seconda lista riportata in nota. Dunque le sostituzioni erano avvenute prima; molto prima se, come egli afferma, da diverso tempo la magistratura non si co Fieschi, Agostino del fu Battista Lomellino e Domenico Grimaldi Cebà, nobili neri; Giovanni Battista Fornari e Stefano Giustiniani, mercanti bianchi; Agostino De Ferrari e Giovanni Battista del fu Stefano Moneglia, artefici bianchi; Bernardo Zerbi e Giovanni Davagna, artefici neri; e poi quelli del settembre: Battista del fu Antonio Spinola, Gerolamo del fu Agostino Doria, Agostino del fu Pietro Pallavicino, Simone Centurione e Filippo del fu Cristoforo Cattaneo, nobili bianchi; Franco Fieschi, Agostino del fu Battista Lomellino e Paulo del fu Lazzaro Grimaldi, nobili neri; Giovanni Battista Fornari e Tommaso del fu Raffaele Giustiniani, mercanti bianchi; Giovanni Marini Davagna e Vincenzo Sauli Rappallo, artefici neri. 383 Notiamo che Simone Centurione fu tra coloro che rifiutarono di giurare 1’« unione » nel maggio del 1527 (ASCG, Brignole Sale, ms. 105. E. 8. c. 4 r.). Forse la sua comparsa nella magistratura è sintomo del fatto che i settori della nobiltà fino ad allora recalcitranti davanti alla riforma avevano finito per confluire nei ranghi dei suoi fautori. — 325 — era più riunita a causa della peste m. Un indizio per sciogliere il dilemma ce lo fornisce il Cicala. Egli dà uno schema di surrogazioni in base al quale appare che Agostino Pallavicino, Filippo Cattaneo e Simone Centurione si sostituirono l’un l’altro come membri dei Riformatori 385; è chiaro tuttavia che si trattò di sostituzioni momentanee, in quanto tutti e tre facevano parte di quella magistratura dopo il 12 settembre e quindi erano, a quella data, ancora in vita. Colleghiamo questo indizio con quanto afferma il Saivago sul clima politico successivo la cacciata dei rancesi. A suo dire i popolari temevano che, habbiando hora la nobiltà non solum la forza de le armi, essendo tutte in pottere loro, et di avantaglio la toga, essendo Vili nobili in li XII reormatori, li quali pottevano fare ogni chosa, seguito questo per la morte e i loro [dei membri popolari del magistrato] habbiandoli sempre fattoli mejt^..et mett®> secondo il solito, non se vendichaseno de le iniurie et pregna tii pasati, distribuendosi non solum la dignità duchale, ma una parte del gowerno 386. La presenza di una maggioranza di nobili tra i Riformatori era quindi n atto importante; riguardo a come si era creata, il brano fa capire c e mai si derogò dalla regola della ripartizione paritaria e che decisivi urono i decessi causati dalla peste tra i membri popolari della magistratura. iò significa, implicitamente, che la soluzione al nostro proma potre e essere nella prassi seguita per le surrogazioni. Per quan-appiamo, questa materia non è ancora stata studiata; su base dedut-em rete be però che, essendosi verificate delle sostituzioni tempo-tra^ a cuni nobili (il Pallavicino, il Cattaneo ed il Centurione), i m avessero acquisito il diritto di subentrare a qualunque altro i- j. 6 3 ma^stratura fosse venuto a mancare, o che comunque, nel sconcerto e di disorganizzazione che regnava nella città così ramente provata dal morbo, tutti coloro che avevano fatto parte della merXl ff' Se,Per bfeVe temp°’ f°SSero Poi stati accettati come membri effettivi con l'improvvisa ripresa dei lavori. Questo fatto spie- perche due nobili, entrari temporaneamente in carica per sosti- 384 G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 40 r. 3to ASCG, ms. 443, c. 361. 386 G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 44 r. — 326 — tuire un rappresentante del loro stesso gruppo, avessero finito con il sostituire due popolari usciti definitivamente dal novero dei Riformatori in quanto deceduti. Questa ipotesi sembrerebbe confermata dal fatto che tutti e quattro i popolari surrogati tra l’aprile ed il settembre (Giustiniani, Ferrari, Zerbi e Moneglia) morirono in quei mesi. I quattro, infatti, regolarmente ascritti nel primo « libro delle descrizioni », erano assenti nel secondo. Tutto lascia pensare quindi, anche se non ne abbiamo la certezza, che sia stato il caso e non una precisa volontà politica a determinare la prevalenza dei nobili tra i Riformatori. Questa prevalenza però c’era e, come abbiamo visto, preoccupava non poco i popolari. Resta quindi il problema di capire se, e quanto, incise sull’elaborazione delle leggi. Sempre il Saivago afferma che i timori del popolo si rivelarono infondati, in quanto i nobili « di presto se chiarirno, con fare cognoscere che in loro non vi erano malignità ni pasioni, anci ogni amorevolesa et benignità, et desiderosi de la conservatione de la republicha et quiete generale » 387. La stessa scelta del primo Doge biennale, fatta dai Riformatori nella persona di Oberto « Cattaneo » Lazzario che prima del-1’« unione » era un mercante popolare, mirava a consolidare il clima di concordia civile 388. Il testo delle leggi dell’ottobre conferma nel complesso quanto affermato dal Saivago, anche se alcune differenze con quello dell aprile sussistono, a testimoniare forse la diversa composizione del magistrato dei Riformatori. I cambiamenti sono forti, come vedremo, per quanto riguarda il tono del preambolo e si avvertono in qualche sfumatura delle modalità di futuro accesso all 'unicus ordo; complessivamente però si rimase fedeli allo spirito dell’ideale di « unione ». Veniamo ora ai contenuti del preambolo della riforma dell’ottobre389. Come nell’aprile, si esordì descrivendo le gravi calamità che ave- 387 IvL 388 II Saivago afferma (ibid. c. 44 v.) che il Lazzario era «persona di non molto nascimento et inaspetata, essendo però huomo da bene, ma inesperto de governi de statti, eletione la quale fece meravigliare molti, et alegrata da populari li quali aspetavano il contrario, cioè duce nobile ». 389 Continueremo a seguire nell’esposizione il manoscritto ASCG, ms. 88. — 327 — vano colpito la Repubblica a causa della discordia dei cittadini, per passare poi al confronto della situazione attuale con il passato. In aprile ci si rammaricava che il nome di Genova un tempo honoratum e celebre fosse ora imminutum ac pene prorsus deletum. In ottobre il tono era completamente mutato: accadeva che il nome un tempo tremendum della città oggi da tutti contemptui ludibrioque haberetur. Il tema venne poi sviluppato con la stessa aggressività: et qui [cioè, noi, i genovesi] potentissimis subactis nationibus imperare consueveramus, tyrannorum iu-go captivam cervicem turpiter summittere cogeremur 39°. Scompare nel testo dell’ottobre il tono irenistico di cristiana umiltà che era la nota dominante nell’aprile. Non c’è traccia dell’interpretazione dei mali della città come punizione divina che preludeva alla dannazione eterna delle anime. Scompaiono tutte le citazioni bibliche: l’immagine della cecità dei cittadini, di Dio Pater luminum che rischiara la via da seguire, 1 immagine evangelica dei regni divisi nei quali le case rovineranno sopra le case, e soprattutto scompaiono le due immagini, dal chiaro significato allegorico, del Cristo, unico Buon Pastore che raccoglie in un solo gregge il genere umano disperso, e pietra angolare che unisce i due muri divisi degli ebrei e dei gentili. Vediamo con cosa vennero sostituiti i riferimenti alle sacre scrit-ture.^ Anzittutto con considerazioni di ordine politico: le abominevoli sedizioni erano responsabili del miserando stato della Repubblica e il potere delle fazioni si esprimeva nel fatto che solo uomini di parte venivano eletti alle cariche pubbliche391. Continuando su questa strada, non so o i genovesi sarebbero stati costretti a rimanere in servitù, quod qui em bonis omnibus et paulo erectioris animi solet esse gravissimum, ma si sarebbe giunti al punto ut nullam rempublicam haberemus. Anche nel testo dell ottobre si scorse l’intervento divino dietro la ecisione ei genovesi di riformare gli ordinamenti della Repub-. 3 . a,.^Ua^ diversità rispetto all’aprile: non più il Dio offeso ma sencor ìoso c e, ispirando ideali di fratellanza, incitava a spargere divinae 390 Ivi, p. 51. 391 Quae omnia cuinam accepta relerantur ~ ..... zitiosh ·, ■ ejerantur, quam perniciosissimis odus et fla- g osis seditionibus, quae ita universos cives infecerant, ut in procurandis trovinciis m gerendis magistratibus, in administranda Republica nnn nnf · j v geretur ,ed a s,Jilhmn ' "»i — 328 — sanctaeque pacis ac concordiae semina, bensì un Dio che, miserrimam flo-rentissimae civitatis sortem detestatus, indicava la via per quam [. . .] ad nostri nominis aeternam gloriam et Reipublicae colapsae gloriosam instaurationem caperemus m. L’« unione », quindi, non era più la strada da seguire per evitare la dannazione delle anime, ma lo strumento per ridare eterna gloria a Genova e ai genovesi. Il preambolo dell’ottobre prosegue ripercorrendo le tappe della riforma nel 1527-1528. La ricostruzione fornita è assai interessante: sugli ideali che animavano i fautori dell’« unione », si afferma, tale era stato il consenso dei cittadini quo maxima concepta spes eius futurae Reipublicae quae mox suis viribus et suorum civium virtute in pristinam libertatem et a tam gravi et diuturno iugo sese eripere posset. Erano stati eletti così i Riformatori e benché non debilia fundamenta libertatis iam iacta forent, il progetto venne bloccato dalle frange più faziose della cittadinanza, da coloro che si erano impadroniti della Repubblica nelle discordie civili 393. Come abbiamo visto, il preambolo dell’aprile si conclude con 1 invocazione alla Trinità, alla Vergine e al Battista. Nell’ottobre tale invocazione fu sostituita da un lungo panegirico di Andrea Doria. Si tratta del primo esempio di quella letteratura filo-doriana che fiorì con abbondanza per tutto il resto del Cinquecento. Il grande ammiraglio venne descritto come inviato di Dio (Deus [. . .] nobis caelitus dimisit ducem clarissimum et civem optimum Andream Auriam) e restauratore della libertà. Egli, arbitro delle contese tra i sovrani d’Europa (is, deiectos principes ut cuique aderebat, protinus erigebat, fortunatos deprimebat cumque omnia solus posse videretur), aveva anteposto a tutto la salvezza della patria, senza chiedere altro quam nostram in Republica 392 Ivi, p. 52. 393 Non modo reliqua non superstruendi, sed ne id quidem quod in animo optimus quisque haberet eloquendi potestas erat, adversantibus his qui eam diu Rempublicam in ipsis seditionibus invaserant, quibus eo minor resistendi vis erat, quo frequentioribus opulentissimorum civium decoctionibus crebrisque incursionibus et direptionibus consternati et pestifera contagione quae civitatem universamque oram ligusticam antea confertissimam in solitudinem redactura videbatur perterriti. Quae cum libuisset pati cogebatur, spesque omnis potiundae Reipublicae abiecta erat, ivi, p. 53. — 329 — conservanda vigilantia[m], in tuenda libertate fortitudinem, in communi concordia constantiam. Una figura dunque eroica, disinteressata e, oltretutto, nobile veniva proposta come principale, o addirittura unico, artefice della libertà, e quindi in definitiva dell’« unione » 394. Riassumiamo quanto è emerso dall’analisi comparata del testo del giuramento contenuto nel « Libro di pace e concordia » e dei due preamboli del 1528. È importante, a mio giudizio, aver riscontrato la permanenza di una medesima ispirazione, di uno stesso retroterra culturale per il giuramento del 1506 e per il preambolo dell’aprile. Non si vogliono certo confondere due situazioni storiche (il 1506 ed il 1528) estremamente diverse tra di loro. Il concetto di « unione » nell’arco di un ventennio aveva mutato completamente il suo significato. Da strumento per creare un più omogeneo blocco antinobiliare, era divenuto 1 ideale di un’ampia parte del ceto dirigente che vedeva nell’esautora-mento delle fazioni il mezzo per porre fine alla grave instabilità della Repubblica. Chiaramente ciò aveva portato ad una diversificazione e ad un ampliamento, sia della base sociale e politica in cui si reclutavano i fautori dell’« unione », sia delle fonti ideali e culturali che contribuirono alla sua elaborazione. Questo filo, che già univa il testo del 1506 e quello dell’aprile 1528, si interruppe in parte nell’ottobre. Ciò non può tuttavia significare che nel giro di pochi mesi si fosse improvvisamente interrotto l’apporto di forze sociali e politiche (i popolari, appunto) che dall’inizio avevano sempre aspirato alla realizzazione della riforma. Un così marcato mutamento di tono è un fatto importante, ma non tale da recidere i legami con l’elaborazione precedente. Si può avanzare l’ipotesi che a provocare questo mutamento fossero stati la presenza maggioritaria dei nobili tra i Riformatori ed il ruolo avuto da Andrea Doria nel liberare la città dal dominio francese: senza dubbio, con le sostituzioni dovute ai decessi per peste tra i Riformatori, cambiarono gli equilibri di potere e di prestigio all’interno della magistratura, e cambiò la mano del redattore del testo. Forse dopo la scomparsa di Stefano Giustiniani era divenuta prevalente nel gruppo che stese il preambolo delle leggi l’influenza di altri, o forse si trattò di un m Ivi, pp. 53-55. — 330 — avvicendamento nella cancelleria. Per il momento gli elementi di cui disponiamo non ci permettono di fare che delle congetture. Vediamo ora la parte istituzionale della riforma dell’ottobre. Essa ricalca all’inizio quanto era stato stabilito nell’aprile. Per quanto riguarda la nuova struttura del ceto dirigente, si confermarono la costituzione dell 'unicus ordo di cittadini « nobili », la creazione del liber, l’abolizione delle fazioni (in generale e come criterio per distribuire le cariche), la ripartizione nei ventotto alberghi di tutti i cittadini in possesso di diritti politici e l’ereditarietà di tale status. Si confermò anche la possibile ascrizione annuale di sette cittadini genovesi e di tre abitanti delle riviere o del dominio, con conseguente acquisizione della « nobiltà » per loro e per i discendenti legittimi 395. Riguardo ai criteri per le ascrizioni annuali si incontra però un importante differenza rispetto all’aprile. I nuovi « nobili » (quelli da ascrivere annualmente), potevano essere scelti dum tamen sint bonae famae, et de legitimo matrimonio procreati, et in posterum mechanicam artem non exerceant. Questo per i sette genovesi. La stessa regola è ribadita per i tre delle riviere: ciascuno ascrivibile sempre che Genuam ibi do- . 396 micilium habiturus transmigrare velit, nec mecanicam artem exercere Perché in ottobre si decise di introdurre questa nuova norma? Anzitutto si tenga presente che sia nel definire le qualità per le quali i cittadini erano stati scelti nella stesura del libro, sia nell esporre i criteri da seguire nelle ascrizioni annuali, il testo dell’ottobre ricalca fedelmente il precedente dell’aprile. In entrambi i casi si definì implicitamente il concetto di « nobiltà » con doti che abbiamo definito « civiche » senza riferimento al « sangue » e a titoli. Il divieto di esercitare arti meccaniche introdotto nell’ottobre, lo ripetiamo, si riferiva ai soli dieci ascritti annuali e riguardava il futuro della loro vita come nobili genovesi. Solo un’altra volta nelle leggi di riforma fu ripreso questo argomento: nello stabilire le norme per il decoro delle due massime magistrature dei Governatori e dei Procuratori. Troviamo infatti un paragrafo dal titolo Ne quispiam Gubernator et procurator artem ullam exerceat, negotiis mercaturae exceptis. Vediamone il contenuto: 395 Ivi, ρρ. 57-59. 396 Ivi, pp. 59-60. — 331 — Et quia indecorum videtur eos qui Reipublicae personam prae se ferunt, his implicari negotiis, ex quibus detrahatur auctoritati Magistratus, digni-tatisque contemptus inde proveniat, statuimus ut quicumque in Procuratorum numero, vel Gubernatorum ordine funguntur aliquam artem exercere, mercaturae negotiis exceptis 397. Anche in questo caso il divieto era circoscritto e limitato: i nobili non avrebbero dovuto esercitare arte (tranne la mercanzia) ut junguntur, mentre esercitavano, la funzione di Governatori o di Procuratori. Non si preclusero tali cariche agli artefici. Semplicemente non si voleva che i massimi magistrati, con i loro servitori e con le loro vesti di seta, bazzicassero per le botteghe impegnati in umili lavori 398. Si trattava certo di una novità importante; per la prima volta una legge genovese introduceva una norma che qualificava implicitamente 1 esercizio delle arti meccaniche come non consono ai cittadini di governo. Il problema di definire le attività economiche compatibili con lo status nobiliare costituì uno dei nodi che le Leges novae del 1576 si incaricarono di sciogliere3". L’accanito dibattito politico sulle arti meccaniche svoltosi nel 1575-1576 tuttavia traeva la sua ragione d’essere proprio dal fatto che le citate norme delle leggi dell’ottobre 1528 non avevano inciso sulla struttura dell 'unicus ordo 400. Esse appaiono come frutto di un nuovo patteggiamento tra nobili e popolari, avvenuto però su posizioni di forza mutate in modo non decisivo rispetto all’aprile. Tenendo conto di questi divieti, infatti, gli individui inizialmente ascritti al liber avrebbero potuto esercitare le arti meccaniche purché interrompessero la loro attività durante i periodi in cui occupavano le cariche di Governatore o Procuratore, funzioni peraltro retribuite con un compenso rispettiva- 397 Ivi, p. 94. Era previsto che il « pubblico » fornisse a ciascuno dei magistrati due vesti i seta (una di velluto e una di raso), ed altre di lana togali forma amplitu-dimque magistratus convenientes. 399 R. Savelli, La Repubblica oligarchica cit., pp. 75 e sg., 98 e sgg., 102, 157 e sgg., 214 e sgg. 4°° Nd 1575-76, alcuni tra i nobili vecchi sostenevano che se tutti coloro che esercitavano arti meccaniche fossero stati esclusi dall 'unicus ordo, « l’ordine dei nobili nuovi si verria a minuir tanto che quello dei Vecchi non harebbe necessita di questa legge del 47 [il Garibetto] come ha adesso », ivi p 156 — 332 — mente di 1000 e di 300 lire annue. Nelle ascrizioni annuali, poi, non si sarebbe dovuto tener conto del fatto che i prescelti avessero o meno esercitato un’arte meccanica, purché essi se ne fossero astenuti dopo la aggregazione alla nobiltà. Si tratta quindi di norme non molto restrittive. Se applicate, avrebbero potuto incidere sulla struttura del ceto dirigente solo nel lungo periodo vista l’esiguità delle nuove ascrizioni (dieci all’anno) rispetto al numero complessivo dei membri del rifondato ceto dirigente (oltre millecinquecento) . Inoltre dato che, come vedremo, gli artifices erano ampiamente presenti nel liber descriptionum, una discriminazione nei loro riguardi avrebbe contraddetto il principio cardine dell’assoluta parità tra i vari membri dell 'unicus ordo. È da escludere anche che tali norme fossero il frutto di intenti egemonici dell’aristocrazia mercantile nel suo complesso (cioè di un blocco politico sorto dall’alleanza di tutti i mercanti sia nobili che popolari) da realizzare a danno degli artefici. Una soluzione di questo tipo, pur riunendo larga parte dell’élite della ricchezza, avrebbe creato una situazione sociale esplosiva. Inoltre, l’immediato riproporsi, poco dopo la realizzazione della riforma, dell’antago-nismo tra nobili e popolari sotto i rinnovati nomi di « nobili vecchi » e « nobili nuovi » testimonia che non si erano ancora verificate rotture nel « popolo ». Ciò che si vuole affermare è che il « popolo », lungi dall’essere vittima di una riforma interpretata dalla storiografia come atto di chiusura antipopolare del ceto dirigente cittadino, fu parte attiva nel realizzare 1’« unione ». Anzi, i documenti d’archivio indicano che, rispetto ai « nobili », la parte popolare si schierò con maggiore omogeneità e coerenza a favore della riforma. È probabile che, come abbiamo detto, grazie al prestigio acquistato da Andrea Doria, le posizioni dei nobili si fossero rafforzate e che tra l’aprile e l’ottobre nobili e popolari avessero ridiscusso i contenuti della riforma. Tuttavia, a parte i segnalati cambiamenti di stile e le limitate norme restrittive sull’esercizio delle arti meccaniche, l’assetto di potere creato nell’ottobre non fu molto diverso rispetto a quello dell’aprile. Evidentemente i nobili (o parte di essi) avrebbero preferito non trovare gli artefici nei ranghi della nuova nobiltà. Altrettanto evidente è però che, nonostante il mutamento del « clima politico » verificatosi con i fatti del settembre, la loro non era la visione egemone. — 333 — Proseguiamo ora nell’analisi della parte istituzionale della riforma dell ottobre. Su questo argomento esiste già uno studio di A. Petracchi e ad esso rimandiamo per i dettagli 401 ; ci limiteremo qui a considerare i contenuti politicamente più significativi delle leggi, con l’obiettivo di comprendere i principali problemi di assetto del potere e di gestione dello stato cui i Dodici cercarono di dare una risposta. Nel far ciò, lo ripetiamo, si perde molto della complessità di un testo costituzionale che meriterebbe uno studio complessivo a sé, al di là del principio del- 1 « unione » che è stato il filo conduttore della presente ricerca. Per quanto concerne i due Consigli, Maggiore e Minore, vennero confermate le norme contenute nel testo dell’aprilem. La nostra analisi inizia quindi là dove la prima versione della riforma si era interrotta, cioè dal vertice politico della Repubblica. Al riguardo si trova la prima impoi tante novità: infatti la legge stabilì che la suprema et maxima potestas dovesse risiedere in un organismo collegiale, il « Supremo Magistrato », composto dal Doge e da otto Governatori. Ma veniamo al testo. Dopo le norme sui Consigli, troviamo un capitolo intitolato De duce constituendom. In esso si affermò la necessità i dotare la Repubblica di un capo: civitas similis est humano corpori, cui si desit caput, informe quippiam, et simile monstro reputabitur. Si ecise quindi di costituire un magistrato che avesse la somma autorità tegendi atque ordinandi cives omnes, et civitati nostrae subditos, in universo Dominio genuense, et extra illud. Di questo magistrato avrebbe atto parte unus, superiore cura et dignitate ma aequalis tamen auctoritatis caeteris. Quell unus è il Doge, ma prima che venisse pronunciata paro a esso fu definito come semplice membro del Supremo Magi- giato ed utile j*CC^’ ^0,ma e P’assi I cit. Si tratta di un lavoro molto particolareg- Γ Le e dell quant° Πδ7? 13 Pura descr“ dei c“ti formali dd- Sus oni in C°mPeten2e ddIA Vark Tuttavia non condividiamo rate riguardo 1 T Pr°P°Ste· Q;eSte “ * basano su ipotesi, rivelatesi er- Ms?di ;rm°adelle che —a f- 402 ASCG, ms. 88, pp. 62-66. 403 Ivi, pp. 66-67. — 334 — I Dodici ebbero la massima cura nel dettare norme a salvaguardia della superiore dignità del Doge: gli assegnarono un lauto stipendio di 6000 lire annue, una honorificam in palatio publico habitationem e dieci famigli; gli fu fatto obbligo di indossare sempre un birectum sericum. Infine, affinché coloro che avessero ottenuto supremum huius dignitatis gradum non restassero mai privi alicuius praeminentiae, fu stabilito che i Dogi, al termine del loro mandato biennale, e dopo il positivo giudizio dei Sindacatori sul loro operato, avrebbero assunto l’importante carica di Procuratori a vita. Altrettanta cura e, direi, rigidezza fu però posta nella limitazione dei poteri del Doge: abbiamo già detto della sua pari autorità rispetto ad ognuno degli otto Governatori, ma nel testo si aggiunse che qualsiasi sua iniziativa autonoma l’avrebbe fatto incorrere nella pena inobe-dientiae, infidelitatis et periurii. Nel contesto delle norme riguardanti l’autorità dogale, questo accento messo con decisione sul tema della collegialità delle decisioni prese in seno al Supremo Magistrato ha un significato preciso e inequivocabile. Si mirava cioè a creare un assetto istituzionale che rendesse impossibile una riedizione dell’alterno predominio degli Adorno e dei Fregoso. Si tratta di un’esigenza che già nel 1525 i fautori dell’« unione » avevano posto con chiarezza e che nell’ottobre del 1528 si concretizzò a pieno. Altre norme confermano questa interpretazione: la durata biennale del mandato dogale, il divieto assoluto di una sua proroga, la vacanza di eleggibilità, stabilita in cinque anni a partire dal termine del mandato, per tutti i membri dell albergo del Doge uscente. Le stesse parole dei Riformatori non lasciano dubbi: il temperamento dei poteri del Doge era finalizzato ad evitare che dum ex uno pendet potestas ipsam corrumpi contigat, ed ancora ut nunquam valeat in tyra-njdem declinarem. Si mirava soprattutto a scongiurare il maggior pe- 404 Dopo aver stabilito le complesse norme per l’elezione del Doge, i Dodici esplicitano i loro timori: Et quia nihil est in libera Republica maiori consilio providendum, quam ut ii qui supremis magistratibus sunt constituti se ipsos quoque, sicut et caeteros cives, legibus intelligantur esse sublectos, obstruendique omnes aditus, quibus ad intemperatam potestatem, quae fere tirannidi similis est, perveniri potest. Hi namque recte et constitutarum rerumpublicarum occasus praecipue esse consueverunt, qua in re nihil adeo tutum, atque salubre visum fuit, quam — 335 — ricolo per le ben fondate repubbliche, cioè la tirannide derivante dalla ereditarietà delle cariche. Un altra caratteristica del regime precedente il 1528 doveva essere eliminata: 1 eccessiva brevità dei mandati delle magistrature. Sia gli Anziani sia, in genere, le Balìe (queste ultime con alcune eccezioni) erano di durata quadrimestrale. Ciò favoriva senza dubbio una concentrazione del potere nelle mani del Doge che ricopriva una carica teoricamente vitalizia. La riforma fece sì che i membri del Supremo Magistrato rimanessero ai vertici della Repubblica per ben quattro anni. Infatti i Governatori, alla scadenza del loro mandato biennale, entravano a far parte, previo giudizio favorevole dei Sindacatori Supremi, della magistratura dei Procuratori per un periodo di altri due anni 405. Ciò era un evidente garanzia contro ogni accentramento di potere, vista soprattutto la temibile funzione di controllo che i Procuratori stessi esercitavano sulle attività del Supremo Magistrato. Quello che ora abbiamo descritto è uno dei due aspetti fondamentali della riforma. Oltre alla funzione che potremmo definire « negativa », rivolta «contro» le disfunzioni del sistema dei Dogi perpetui, e eSgi del 1528 avevano come obiettivo la regolamentazione « in positivo » della convivenza, all’interno delle istituzioni, delle varie componenti del ceto dirigente cittadino. La riforma doveva cioè creare una struttura nella quale tutti i possibili casi di conflittualità fossero non so o componibili, ma da risolvere necessariamente con un accordo. Come presupposto bisogna tenere presente che mentre la divisione tra partigiam degli Adorno e dei Fregoso venne di fatto eliminata dalla vita politica genovese (e con essa quella tra guelfi e ghibellini), nobili e popolari continuarono dopo il 1528 a contendersi il controllo politico della Repubblica, ed è rispetto alla ricerca di un equilibrio tra questi riforma11^1 ° £ eSSSre ^etta ^uona parte dei contenuti della A questo riguardo risultano fondamentali tre aspetti del nuovo Sulle magistrature dei Governatori e ri**; p 74-76, 83-85. 61 Procuratori: ivi, pp. 67-68, — 336 — sistema istituzionale: la collegialità delle decisioni, il meccanismo dei controlli e, soprattutto, le norme che regolano l’accesso alle magistrature. Abbiamo già accennato alla collegialità nel trattare delle limitazioni poste ai poteri del Doge, ma essa costituisce un principio decisivo anche per il funzionamento di tutto l’apparato del potere pubblico. Vale la pena a questo proposito di tornare sul concetto di vertice politico. Doge e Governatori, congiuntamente, costituivano senza dubbio gli organi più importanti del sistema istituzionale. La loro autorità risultò tuttavia notevolmente temperata dal conferimento ai Consigli di attribuzioni che furono nell’ottobre molto più ampie e meglio precisate che non in aprile. Le diverse competenze dei Consigli e delle magistrature furono definite in modo tale che ai primi spettasse il diritto di decidere sulle questioni di maggiore gravità. Ad esempio, nessun piano di spesa che superasse le 6000 lire poteva essere varato senza il voto dei Consigli, ed in particolare, del Minore per le spese da 6000 a 15000 lire e del Maggiore per quelle che superavano le 15000 lire I provvedimenti riguardanti la guerra dovevano essere elaborati congiuntamente dal Supremo Magistrato e dai Procuratori, ma la decisione finale spettava al Consiglio Minore, e si potrebbe continuare con altri esempi 407. Traspare da queste norme qualcosa di più che non la volontà di ovviare al pericolo di un dominio personale. C’era anche il fermo proposito di impedire il prevalere di gruppi particolari. Si potrebbe affermare che alle magistrature spettava il disbrigo degli affari correnti, mentre ai Consigli era demandata la facoltà di decidere sulle questioni di maggior rilievo. In ogni caso, a mio giudizio, è necessario comprendere nella nozione di « vertice politico » anche le due assemblee cittadine. Queste perlomeno sembrano essere state le intenzioni del legislatore. In definitiva, i Riformatori stabilirono che l’esercizio del potere appartenesse 2&l unicus ordo nel suo complesso. Più specificamente, la sovranità risiedeva nei due Consigli che erano espressione diretta, attraverso il meccanismo della sorte, della totalità degli iscritti nel liber. Tale idea era all’origine di tanta insistenza sulla collegialità delle Ivi, p. 82. «ο? Ivi, pp. 94-95. — 337 — decisioni. In questo senso spingevano anche le norme sulle maggioranze richieste in sede di voto. Notiamo anzitutto che per le decisioni sia dei Consigli sia del Supremo Magistrato sia dei Procuratori, era richiesta la maggioranza dei due terzi. Poche erano le eccezioni, come ad esempio all ultimo livello di elezione del Doge, quando il Maggior Consiglio votava a maggioranza semplice su una rosa di quattro candidati; ma in questo caso, come negli altri in cui ciò avveniva, il voto conclusivo era 1 ultima fase di lunghe procedure volte ad ostacolare il predominio di gruppi ristretti. Il principio della collegialità si espresse anche nelPobbligo, per le decisioni su materie di particolare delicatezza, di un voto congiunto di più magistrature: ad esempio, i contratti per il rifornimento annonario dovevano essere sottoposti al voto congiunto del Supremo Magistrato e dei Procuratori con maggioranza dei due terzi 408. Consideriamo ora il sistema di controlli creato dalla riforma come ulteriore garanzia contro eventuali tentativi miranti a vanificare lo spirito dell ideale di « unione ». Al centro di questo sistema c’erano tre importanti magistrature: dei Procuratori, dei Sindacatori Supremi e dei Sindacatori Minori. Ai primi, dotati di ampi poteri in campo giudiziario e nel controllo delle pubbliche finanze, spettava anche il compito istituzionale di vigilare sull’operato del Doge e dei Governatori. Essi potevano presenziare alle sedute del Supremo Magistrato, chiedere chiarimenti ed esporre pareri, senza però il diritto di voto. Con una maggioranza di due terzi erano tuttavia in grado di porre in stato di accusa sia il Supremo Magistrato nel suo complesso sia ogni suo singolo membro di fronte al Minor Consiglio. Questo, con votazione a maggioranza di due terzi, avrebbe stabilito l’assoluzione o la condanna 409. Ai Sindacatori Minori era demandata la funzione di controllo sull’operato di tutti i magistrati, esclusi Doge, Governatori e Procuratori4I0. I Supremi Sindacatori avevano il vastissimo compito di vigilare sulla condotta del Supremo Magistrato e dei Procuratori e di controllare in seconda istanza 1 attività dei Sindacatori Minori e di tutte le magistrature, con 408 Ivi, pp. 91-93. 409 Ivi, pp. 83-86. 410 Ivi, pp. 116-117 — 338 — diritto di avocazione per le cause sulle quali pendesse a loro giudizio un sospetto di irregolarità. Decisivo era poi il voto del Consiglio Minore che decideva con una maggioranza dei due terzi sulle accuse eventualmente mosse dai Supremi Sindacatori411. Concludiamo ora la nostra analisi della parte istituzionale della riforma esaminando i meccanismi elettorali. Da sempre, nella vita politica genovese, la ripartizione degli uffici aveva costituito il problema centrale nella gestione del potere. Gli equilibri di forza all’interno del ceto dirigente erano di fatto espressi dalla capacità dei vari gruppi di garantirsi una quota più o meno ampia delle magistrature. Si può quindi affermare che i criteri elettivi costituiscono il « cuore » della riforma, il terreno su cui nobili e popolari giocarono una partita che aveva come posta l’egemonia sulla Repubblica. Per un tema così delicato è forse utile, per maggiore chiarezza, esporre mediante alcune schede le fondamentali norme di funzionamento ed i sistemi di elezione, prima dei Consigli e poi delle magistrature più importanti. MAGGIOR CONSIGLIO Norme di funzionamento Numero dei membri: quattrocento. Numero legale: trecento. Maggioranza legale: in genere i due terzi. Modalità di elezione Sono identiche a quelle stabilite per l’aprile. 1. Per il primo anno trecento consiglieri sono estratti a sorte da tutti gli iscritti al « libro delle descrizioni », mentre gli altri cento vengono eletti a « balle » dai Riformatori. 2. In seguito si procederà annualmente ad un rinnovo parziale tramite «i Ivi, pp. 117-121. — 339 — estrazione a sorte, dal numero dei quattrocento, di cento consiglieri uscenti e di altrettanti nuovi consiglieri cavati, sempre a sorte, dall’urna contenente i nomi degli iscritti al « libro » *. È essenziale tener presente che in tutte le operazioni di cui al punto 1 e 2 si deve aver cura di mantenere la paritaria distribuzione dei consiglieri tra i ventotto alberghi. * Questa norma venne mutata l’8 marzo 1529: si stabilì che il rinnovo dovesse essere totale ogni anno (ASCG, ms. 88, p. 160). MINOR CONSIGLIO Norme di funzionamento Numero di membri: cento. Numero legale: ottanta. Maggioranza legale: in genere i due terzi. Modalità di elezione Anche in questo caso non mutano rispetto all’aprile. 1. Per il primo anno i cento del Consiglio Minore vengono eletti « a balle » dai Riformatori tra i quattrocento del Consiglio Maggiore. 2. In seguito i cento del Consiglio Minore verranno estratti a sorte annualmente sempre fra i quattrocento del Maggiore. Anche per la procedura elettiva del Minor Consiglio vige la regola della paritaria distribuzione tra gli alberghi. SUPREMO MAGISTRATO È composto dal Doge e dai Governatori. Ne esamineremo congiunta-mente il funzionamento e separatamente le modalità di elezione. Norme di funzionamento Numero di membri: nove, il Doge più otto Governatori. Numero legale: sei, il Doge più cinque Governatori. Maggioranza legale: in genere i due terzi. — 340 — Il Doge non ha nessun potere autonomo. Tutte le decisioni devono essere prese collegialmente dal Supremo Magistrato, all’interno del quale il Doge ha una preminenza solo formale in quanto dispone di un unico voto come tutti gli altri Governatori. Il principio della collegialità vale anche per i singoli Governatori: infatti nessuna decisione può essere presa senza la presenza del numero legale del Supremo Magistrato. Il maggiore in età dei Governatori diviene il Priore della magistratura. Giunto al termine del suo mandato biennale, il Doge, previo parere favorevole dei Supremi Sindacatori, entra a vita nella magistratura dei Procuratori. I due Governatori uscenti semestralmente, previo parere favorevole dei Supremi Sindacatori, subentrano ai Procuratori uscenti sempre con scadenza semestrale. DOGE Eleggibilità Età superiore ai cinquanta anni. Vacanza di eleggibilità di tutti gli iscritti ad un albergo per i cinque anni successivi alla scadenza del dogato di un membro dello stesso albergo. Non rieleggibilità del Doge dopo la fine del mandato biennale. Modalità di elezione La scelta del primo Doge spetta ai Riformatori dopo di che si procederà secondo le seguenti modalità: 1° LIVELLO : Governatori e Procuratori non eleggibili alla carica di Doge (che hanno cioè meno di cinquanta anni o che superando quell’età hanno avuto un Doge nel loro albergo negli ultimi cinque anni) compilano una lista ciascuno con 28 nomi, uno per albergo. Questi nomi (un multiplo imprecisato di 28) vengono posti in un’urna da cui si estraggono a sorte 28 nomi, sempre uno per albergo. Si ottengono così 28 elettori di prima istanza. 2“ LIVELLO : I 28 elettori di prima istanza, insieme ai Governatori e Procuratori — 341 — non eleggibili al dogato, scelgono quattro cittadini « a balle », i quali possono non essere nel Consiglio dei quattrocento ma devono avere i requisiti per divenire Doge. I quattro assieme ai Governatori e ai Procuratori eleggibili formano il lotto dei candidati alla carica di Doge. 3° LIVELLO : I 28 elettori di prima istanza, insieme ai Procuratori e Governatori non eleggibili, scelgono « a balle » 28 cittadini, uno per albergo, a maggioranza dei due terzi. Si hanno così i 28 elettori di seconda istanza. 4° LIVELLO : I Governatori e Procuratori non eleggibili, insieme ai 56 elettori di prima e di seconda istanza, vengono tutti imborsati. Se ne cavano a sorte 28, uno per albergo. Si hanno così i 28 elettori di terza istanza. 5° LIVELLO : I 28 elettori di terza istanza eleggono « a balle », con maggioranza dei due terzi, quattro cittadini dal lotto dei candidati formatosi al secondo livello. 6» LIVELLO : II Maggior Consiglio elegge il Doge, a maggioranza semplice, tra i quattro scelti al quinto livello. GOVERNATORI Eleggibilità Quattro degli otto Governatori devono avere più di cinquanta anni di età, gli altri quattro da quarantacinque a settanta anni. Un singolo individuo non può essere rieletto alla carica di Governatore se non dopo cinque anni dalla scadenza del suo mandato, membri dello stesso albergo non possono essere eletti per tre anni dalla stessa data. Modalità di elezione La scelta dei primi otto Governatori spetta ai Dodici, dopo di che si procederà secondo le seguenti norme: Ogni sei mesi due Governatori escono dalla magistratura (per i primi due anni i più vecchi in età tra i prescelti dai Riformatori, dopo i due anni i più anziani nella carica) e vengono sostituiti da due nuovi scelti con le seguenti modalità: — 342 — 1°, 2° E 3° LIVELLO : Stessa procedura seguita per l’elezione del Doge, solo però al fine di ottenere gli elettori di prima e di seconda istanza. Inoltre, nessuno dei Procuratori e dei Governatori viene escluso dalla partecipazione al meccanismo elettorale. 4° LIVELLO : I nomi dei 56 elettori di prima e di seconda istanza vengono imborsati. Si cavano poi dall’urna a sorte 28 nomi, uno per albergo, e si ottengono così i 28 elettori di terza istanza. 5" LIVELLO : Ognuno dei 28 elettori di terza istanza compila una lista contenente un nome per ogni albergo i cui membri sono eleggibili alla carica di Governatore. Si ottiene così una lista che, dopo tre anni dall’entrata in vigore della riforma, potrà contenere fino a 280 nomi (280 è un massimo teorico in quanto i ventotto elettori potevano anche indicare per uno o più alberghi gli stessi nomi). 6“ LIVELLO : II Consiglio Maggiore vota i nomi contenuti in questa lista; i due cittadini che ottengono il maggior numero di suffragi saranno i due nuovi Governatori. La medesima procedura deve essere seguita per le eventuali sostituzioni. PROCURATORI Norme di funzionamento Numero dei membri: otto ordinari più un numero variabile di Procuratori perpetui (gli ex-Dogi) . Maggioranza legale: in genere i due terzi. Modalità di elezione La scelta dei primi otto Procuratori spetta ai Riformatori dopo di che si procederà secondo le seguenti norme: Ogni semestre due Procuratori escono dalla magistratura (per i primi due anni i più vecchi in età tra i prescelti dai Riformatori, dopo i due anni i più anziani in carica) e vengono sostituiti dai due Governatori uscenti previo giudizio favorevole dei Supremi Sindacatori sul loro operato. — 343 — L’età minima per accedere alla carica di Procuratore viene stabilita in quaranta anni. Viste le modalità ordinarie di accesso la norma era rilevante solo nel caso si fosse reso necessario sostituire eccezionalmente uno dei membri della magistratura. I Dogi al termine del loro mandato diventano Procuratori a vita, previo sempre giudizio favorevole sul loro operato da parte dei Supremi Sindacatori. Conseguentemente la magistratura potrà essere composta di un numero di membri superiore a quello inizialmente stabilito. ANZIANI * Quest importante magistratura, con vaste competenze giudiziarie, è composta da otto cives genovesi e da un dottore in legge forestiero. Modalità di elezione La prima designazione è fatta direttamente dai Riformatori dopo di che si procederà secondo le seguenti norme: 1. Ogni sei mesi la magistratura viene interamente rinnovata estraendo a sorte i nomi di cinque degli otto Anziani dai quattrocento del Maggior Consiglio, gli altri tre sono eletti « a balle », sempre dal numero dei quattrocento, da parte del Supremo Magistrato. 2. Ogni anno il Supremo Magistrato e i Procuratori designano congiuntamente il dottore forestiero. Dopo breve tempo la magistratura venne soppressa. Le sue competenze giudiziarie di vertice vennero assorbite dal Magistrato degli Straordinari (istituito il 30 dicembre 1530) e dalla Rota Civile (istituita il 12 marzo 1529 con decorrenza dal 1° gennaio dell’anno successivo) 412. I Riformatori passarono poi a stabilire un sistema misto di elezione e sorteggio per la designazione dei membri delle alte magistrature minori. Per la prima volta la scelta dei magistrati venne fatta direttamente 412 La legge che istituisce la Rota Civile è in ASCG, ms. 88, pp. 162-163. dai Dodici, dopo di che si sarebbero osservati i seguenti criteri: 1. Tutti i magistrati sarebbero stati scelti fra i quattrocento del Maggior Consiglio. 2. Ogni singola magistratura doveva essere composta da un numero dispari di membri. 3. Si doveva procedere alla designazione in questo modo: in magistrature composte, ad esempio, da tre, cinque, sette membri, rispettivamente due, tre e quattro di essi dovevano essere estratti a sorte, gli altri eletti « a balle » dal Supremo Magistrato413. Eccezioni a questa procedura erano l’ufficio di Moneta e le due magistrature dei Sindacatori Supremi e Minori. Per l’ufficio di Moneta, composto di cinque membri, si stabilì la norma dell’elezione « a balle » da parte del Supremo Magistrato e degli ufficiali uscenti414. Per i Sindacatori Minori (tre membri) la designazione doveva avvenire, sempre « a balle », ad opera del Supremo Magistrato e dei Supremi Sindacatori riuniti congiuntamente, e con una maggioranza dei due terzi sul nome di ogni singolo prescelto415. Per i Sindacatori Supremi, vista l’importanza della magistratura, le norme furono più complesse. La magistratura era composta di cinque membri ed Andrea Doria era Sindacatore Supremo a vita. Dei quattro rimanenti uno ogni anno sarebbe uscito di carica (per i primi tre anni il più anziano in età, quindi il più vecchio nella carica) per essere sostituito da un magistrato eletto « a balle » dal Minor Consiglio 416. Ad un primo esame, questi meccanismi elettorali colpiscono per la loro notevole complessità. Essi risultano fondati su una commistione del principio della sorte e di quello del suffragio, spesso utilizzati a stadi o livelli successivi. Il loro significato, finora incompreso, può però essere esplicitato solo dopo un’analisi approfondita del « libro delle descrizioni ». È infatti nella struttura del nuovo ceto dirigente creata con l’istituzione àeìYunicus ordo che dobbiamo cercare la chiave per capire il 'V 413 Ivi, pp. 110-111. 414 Ivi, pp. 111-112. 415 Ivi, pp. 116-117. 416 Ivi, pp. 117-121. — 345 — reale funzionamento delle procedure elettive e delle istituzioni in generale. Complessivamente la parte istituzionale del testo dell’ottobre 1528 può essere interpretata come il tentativo da parte dei Dodici Riformatori di fornire soluzioni ad alcuni problemi che si ponevano alla loro coscienza politica di genovesi, direi quasi in un ordine gerarchico. Anzitutto bisognava esorcizzare per sempre il pericolo della « tirannia », rendere cioè irripetibile la disastrosa esperienza dei Dogi perpetui. Alla luce di questo obiettivo, le norme sulla collegialità, sui controlli, sui sistemi elettivi e sulla durata delle magistrature ci svelano un loro primo significato. Il mandato di fatto quadriennale dei Governatori (che assumevano poi la carica di Procuratori) creava però il problema di un ricambio troppo limitato delle magistrature di vertice. Ciò contrastava con il secondo obiettivo della riforma, quello di impedire il formarsi di ristretti gruppi di potere. Per ovviare a quest’inconveniente si ampliarono le competenze dei Consigli. Questi ultimi, ricordiamolo, erano l’espressione più diretta dell 'unicus ordo. La scelta dei loro membri dal liber descriptionum, dopo il primo anno interamente per sorte, era la necessaria conseguenza del fondamentale principio della completa uguaglianza tra i cittadini di governo. I Consigli così eletti tuttavia non davano una assoluta garanzia né sulla loro specifica competenza né sui loro orientamenti. I loro poteri vennero quindi limitati proprio sul problema più spinoso. 1 elezione del Supremo Magistrato. Una questione tanto delicata per gli equilibri interni del ceto dirigente non poteva essere demandata ad un Consiglio di cui 1 elezione per sorte rendeva imprevedibile la composizione. Si spiega così la complessità delle procedure di designazione del Doge e dei Governatori. il’ ^UeSte an^c*Pazi°ni) per altro necessarie a conclusione dell’analisi e apparato istituzionale, saranno esplicitate nel capitolo seguente, e ne forniscono la chiave di lettura. — 346 — CAPITOLO III L’ANALISI DEI DUE « LIBRI » DEL 1528: L’UNICUS ORDO E I SISTEMI ELETTORALI 1. Il significato della parola « unione » Uno dei risultati del presente lavoro, che crediamo di aver sufficientemente illustrato, è che 1’« unione » nacque non dai soli sviluppi interni alla società genovese, ma dalla loro interazione con un potente fattore di mutamento, l’inedito quadro internazionale sorto dal conflitto franco-asburgico. Questa prospettiva pone implicitamente la necessità di riconsiderare un po’ tutta la storia della Repubblica nel primo Cinquecento. Per quanto riguarda le leggi del 1528, la loro interpretazione, predominante nella storiografia, come atto di chiusura aristocratica, come « serrata » il cui carattere antipopolare si sarebbe accentuato nel corso degli anni, risulta inconciliabile con quanto abbiamo esposto nel precedente capitolo. A far nascere dubbi su questa tesi consolidata è il clima politico in cui, nei primi tre decenni del Cinquecento, si vennero via via delineando i contenuti della riforma. Essa non sembra essere stata il prodotto del prevalere di uno specifico gruppo di fazione o un accordo di vertice tra le élites del potere al fine di emarginare altre fasce della cittadinanza: di escludere cioè dalla gestione della res publica la parte meno abbiente del populus espellendola dalla classe politica. La riforma appare piuttosto un momento di aggregazione di tutti i cives - del ceto dirigente nel suo complesso - che seppero recepire — 347 — le istanze provenienti da vasti settori della società genovese; l’atto con cui la comunità cittadina cercò di rifondare il proprio sistema politicoistituzionale, eliminando le divisioni faziose, strumento dei tentativi di dominio delle grandi potenze. Tentativi che minacciavano la libertà, la prosperità, la stessa esistenza della Repubblica come stato indipendente ed egemone sulla Liguria. Per essere adeguatamente provata questa tesi deve però reggere il confronto con gli esiti istituzionali della riforma. Abbiamo già accennatoci fatto che uno degli oggetti primari della lotta tra i vari gruppi politici era la ripartizione delle cariche; su questo terreno di contesa si esplicitavano i rapporti di forza tra le varie componenti del ceto dirigente. Se la riforma avesse sancito il prevalere di una di queste componenti, i meccanismi elettorali stabiliti nel 1528 avrebbero dovuto esserne^ di riflesso pesantemente condizionati. Ma tali meccanismi, come si e visto, se presi isolatamente non permettono che considerazioni assai generiche. Il loro significato preciso può emergere solo in seguito al confronto con i « libri delle descrizioni » contenenti i nomi dei cittadini che godevano del diritto di accedere alle magistrature. Quest’ultimo capitolo sarà dedicato per intero a chiarire, attraverso l’analisi dei « libri », il significato reale delle istituzioni nate nel 1528. I suoi risultati permetteranno, si spera, di rimuovere in modo definitivo la vecchia interpretazione della riforma come « serrata » nobiliare. 2. I « libri delle descrizioni » Nel tentativo di ricostruire la consistenza e i caratteri del ceto dirigente che uscì dalla riforma, si sono utilizzate, oltre ai « libri delle descrizioni », numerose altre liste di cittadini conservate negli archivi genovesi e risalenti al mezzo secolo che precedette il 1528. Si tratta di elenchi di vano genere. Alcuni riportano semplicemente nomi e cognomi di individui, altri indicano la loro appartenenza a gruppi politici, altri ancora danno la composizione delle diverse magistrature. L’idea base per 1 impiego di questo materiale è stata quella di fondere la massa eterogenea di notizie in esso contenuta in una specie di « banca dati » comune che permettesse di accedere contemporaneamente a tutte le no- — 348 — tizie in nostro possesso riguardanti ogni singolo individuo o famiglia presente nei « libri » del 1528. Questo lavoro è stato svolto in modo parallelo all’indagine sui precedenti della riforma, e le due linee di ricerca hanno finito col dare risultati significativamente convergenti. L’obiettivo da raggiungere era creare i presupposti per un’analisi « politica » precisa e puntuale dell 'unicus ordo. Si tratta di un compito che la storiografia genovese non ha mai affrontato: un compito peraltro difficile, vista la struttura di per sé assai scarna dei « libri delle descrizioni ». La sola via praticabile era quella di arricchire questa struttura con dati che permettessero di identificare politicamente il maggior numero possibile di ascritti '. I due « libri », quello dell’aprile e quello dell’ottobre, hanno rappresentato nel lavoro sulle liste il punto di riferimento costante; da essi inizieremo quindi la nostra analisi delle fonti. Il « libro » dell’aprile non risulta segnalato dalla letteratura. Ne abbiamo ritrovato due copie tarde, una all’Archivio del Comune2 e una presso la Biblioteca Be-rio3; all’Archivio di Stato non siamo riusciti a rintracciare l’originale. Si è comunque deciso di utilizzare le copie in quanto i molteplici riferimenti al « libro » contenuti nelle leggi dell’aprile non lasciano dubbi circa la sua esistenza; inoltre il fatto che i due manoscritti siano quasi identici fa suppporre che almeno uno di essi (o forse entrambi) sia stato trascritto da un originale perduto, o perlomeno fino ad oggi non rintracciato. Per quanto riguarda invece il « libro » dell’ottobre, esiste un apparente problema di abbondanza. Le copie, sia nell’Archivio di Stato 1 In questo capitolo, usando l’espressione « dati di identificazione politica », o altre analoghe, intendiamo riferirci ai dati disponibili circa l’appartenenza dei singoli individui ad uno dei sei gruppi (nobili, mercanti e artefici, rispettivamente bianchi e neri) tra i quali venivano suddivise le cariche pubbliche. È evidente che avremmo preferito fornire indicazioni sugli orientamenti dei singoli e dei gruppi rispetto ai concreti temi di politica interna ed internazionale e sulla composizione delle due fazioni degli Adorno e dei Fregoso. Le fonti ci hanno permesso, per ora, solo questo primo, comunque significativo, livello di approccio al quadro politico genovese. 2 ASCG, ms. 338, Miscellanea di materie storiche di messer Giulio Pallavicino. 3 BCB, ms. IX. 3. 8. — 349 — che in quello del Comune, sia nella Biblioteca Berio che in quella universitaria, sono innumerevoli. Si tratta però sempre di copie tarde, fatte su originali della seconda metà del Cinquecento, che non possono essere impiegate ai nostri fini perché riportano, senza data, le ascrizioni successive al 1528 (cosa che rende impossibile identificare il corpo iniziale dell unicus ordo). Fortunatamente, a fugare ogni incertezza, abbiamo ritrovato l’originale del 1528 (o meglio, pensiamo, uno degli originali), che porta quasi su ogni pagina le firme autografe di Giovanni Battista Zino e di Ambrogio Senarega, cancellieri della Repubblica al tempo della riforma4. Questo « libro » fu tenuto aggiornato fino al 1534 con numerose aggiunte di ascritti a vario titolo5 e costituisce una base certa per intraprendere l’analisi del ceto dirigente quale si configurò subito dopo 1’« unione ». Infatti, il nucleo originario dei cives nobiles del 1528 è nettamente distinto da un punto di vista grafico rispetto ai nomi di coloro che furono inseriti in date posteriori. In entrambi i « libri », i cittadini genovesi per i quali fu sancito il diritto di accesso alle cariche pubbliche sono suddivisi in ventotto alberghi. Riguardo al criterio di designazione degli alberghi, la storiografia anche recente afferma che furono scelti quelli che avevano almeno « sei case aperte in Genova ». Quest’espressione sta probabilmente a significare sei capifamiglia presenti in città, ma nelle leggi non troviamo nessun accenno al riguardo. Conferme, più o meno coeve, che tale fu il criterio seguito vengono dagli annalisti6 e da un memoriale di Innocenzo Cibo di cui ci occuperemo più avanti7. Restano comunque alcuni dubbi in quanto tre dei ventotto alberghi ebbero, nel « li- 4 ASG, ms. 181. Una copia fedele di questo originale è in ASCG, ms. 157. Troviamo> at^ esempio, ascritti annuali electione, oppure per decretum super oblitis, o ancora iusta formam novorum legum quomodo filii. La storia dei ceto ingente cittadino successiva al 1528 deve ancora in buona parte essere scritta. U meglio, i dati numerici sulle nuove ascrizioni indicati da M. Nicora in La nobiltà genovese cit, attendono di essere calati nel vivo delle vicende politiche successive alla riforma. 6 G. Saivago, Historie di Genova cit, c. 32 r., parla di « V case aperte » come criterio di scelta dei 28 alberghi; O. Foglietta, La Republica di Genova cit, P. 8/, e Cj. Lomellino, Relazione cit. (BUG, ms. B.I.7.), c. 19 v., di sei. 7 Vedi sotto, p. 398. — 350 — bro » dell’ottobre, meno di sei ascritti naturali (cioè che portavano il cognome dell’albergo già prima della riforma) : si tratta dei Cibo, dei Cicala e dei Promontorio, rappresentati nell’ordine da 3, 4 e 3 individui. Il fatto però che la quota delle « sei case » fosse stata raggiunta da tutti i ventotto alberghi nell’aprile potrebbe significare che nell’ottobre si mantenne la scelta degli alberghi fatta precedentemente, anche se le decimazioni causate dalla peste avevano assai ridotto la consistenza numerica di alcuni di essi. Un altro problema è costituito dall’albergo Cibo. Sopra l’indicazione del nome di questa famiglia nobile troviamo nel manoscritto dell’aprile, soppresso con una cancellatura, il cognome popolare Sopranis 8. Che ci fosse stata incertezza sulla scelta del piccolo albergo Cibo (cui però apparteneva Innocenzo, allora arcivescovo di Genova) è testimoniato anche dal fatto che in un altro elenco dei ventotto alberghi risalente all’aprile 1525, non individuale ma per cognomi, era stata inserita la famiglia Sopranis e non la Cibo9. Nell’ottobre comunque venne confermata la seconda ed i Cibo diedero il nome ad uno dei ventotto alberghi della versione definitiva della riforma10. Forse la loro esigui- 8 ASCG, ms. 338, c. 136 r. Membri della famiglia Sopranis si ritrovano nei Botti viri de tabula del 1501, negli Anziani del 1483, del 1501 e del 1505, nell’ufficio di Moneta e nei Protettori di San Giorgio del 1504, sempre come popolari, mercanti bianchi. Questi dati sono ricavati dagli elenchi di magistrature del manoscritto ASCG, ms. 443. 9 ASG, Manoscritti di Parigi, voi. 1, c. 243 r. La lista è qui indicata come contenente nomina seu cognomina civium aggregatorum anno 1525 die 15 apri-lis, facti per duodecim viros ad unionem faciendam. 10 La questione è abbastanza ingarbugliata: nel « libro » dell’aprile, sotto intestazione come l’abbiamo descritta, troviamo quattro nomi (Gerolamo, Agostino, Giacomo q. Antonio e Antonio q. Bartolomeo) senza l’indicazione del cognome (ASCG, ms. 338, c. 136 r.). Questi nomi tuttavia sono di membri della famiglia Sopranis come dimostra il confronto con il « libro » dell’ottobre (ASG, ms. 188, "4 c. 49 v.). Nell’aprile troviamo quattro membri della famiglia Cibo (David, Gero- lamo, Alaono e Battista) ascritti all’albergo Pinelli (ASCG, ms. 338, c. 129 f.). Nel « libro » dell’ottobre tre dei quattro Cibo compaiono nell’albergo ora denominato Cibo, prima Sopranis. Il quarto invece è un approbando, sempre nello stesso albergo ora Cibo (ASG, ms. 188, c. 30 - 31 f.). Questi fatti portano a pensare che i Riformatori deH’aprile avessero previsto che l’albergo portasse il co- — 351 — 1 tà numerica, considerata un ostacolo nell’aprile, fu accettata in ottobre quando già altre due famiglie (Cicala e Promontorio) erano calate al di sotto del limite delle « sei case aperte ». Cominciamo ora a descrivere il « libro » dell’aprile. Per i membri « naturali » di ciascuno dei ventotto alberghi si trova indicato il solo nome, spesso accompagnato dal patronimico. Gli inseriti ex legibus, che con l’entrata in vigore della riforma perdevano il loro cognome per adottare quello dell’albergo, sono invece indicati con il nome, il cognome e più raramente, purtroppo, con il patronimico. Il numero totale degli ascritti nell’aprile è di 2032 persone. È possibile che questa cifra sia lievemente approssimata per difetto poiché in quattro casi troviamo, al posto del nome individuale, un’indicazione collettiva: nell’albergo Franchi è riportata la voce loannes Baptista quondam Sebastiani de Franciscis et fratresu, nell’albergo Pallavicino Fran-ciscus de Palodio [Parodi] et fratresn, nell’albergo Saivago Antonius loda et nepotes e Dexiderius Battalia et fratres 13. In questi casi abbiamo contato come due individui ciascun gruppo di fratelli o nipoti, in quanto il loro numero, comunque superiore ad uno, non risulta essere precisato. Quando invece nel documento si specifica quanti figli, fratelli o nipoti furono ascritti abbiamo considerato una voce per ciascuno di essi. In ogni caso l’elemento di incertezza che viene così introdotto è trascurabile in rapporto all’elevato numero complessivo dei cittadini inseriti nell 'unicus ordo. Un primo approccio ai dati contenuti nel « libro » dell’aprile è fornito dalla Tabella I. In essa riportiamo, nella prima colonna i nomi degli alberghi (l’asterisco contrassegna quelli di origine popolare), gnome della famiglia popolare Sopranis. È probabile che pressioni del cardinale Cibo portassero a riconsiderare la questione, nonostante l’esiguità numerica della sua famiglia. Non sappiamo se il mutamento avvenne già ad aprile o non piuttosto neH’intervallo tra l’aprile e la stesura del « libro » dell’ottobre. È possibile infatti che l’estensore del manoscritto ASCG, ms. 338 abbia cancellato l’indicazione corretta « Sopranis », per sostituirla con quella corrispondente all’assetto definitivo dell’ottobre. 11 ASCG, ms. 338, c. 134 v. 12 Ivi, c. 130 v. 13 Ivi, c. 118 v. — 352 — nella seconda il numero di individui ascritti ad ogni singolo albergo e nella terza la percentuale degli ascritti a ciascun albergo rispetto al totale. TABELLA I Distribuzione nei ventotto alberghi dei 2032 cittadini ascritti nel « libro » dell’aprile 1528 14. CALVI 48 2,36% ITALIANO 63 3,10% CATTANEO 74 3,64% LERCARO 67 3,30% CENTURIONE 70 3,45% LOMELLINO 109 5,36% CIBO 50 2,46% MARINI 63 3,10% CICALA 52 2,56% NEGRO 58 2,85% DORIA 111 5,46% NEGRONE 60 2,95% FIESCHI 63 3,10% PALLAVICINO 67 3,30% FORNARI 68 3,35% PINELLI 69 3,40% FRANCHI 104 5,12% * PROMONTORIO 42 2,07% GENTILE 65 3,20% SALVAGO 75 3,69% GIUSTINIANI 92 4,53% * SAULI 61 3,00% GRILLO 47 2,31% SPINOLA 227 11,17% GRIMALDI 81 3,99% USODIMARE 49 2,41% IMPERIALE 48 2,36% VIVALDI 49 2,41% Risulta subito evidente da questa prima tabella la netta spropor- zione numerica tra gli alberghi di origine nobiliare (23) e quelli popolari (5). Sarebbe però errato considerare questo fatto come riflesso di una supremazia dei nobili alPinterno del nuovo ceto dirigente. Tale divario fu determinato, una volta scelti gli alberghi come strumento tecnico-istituzionale di riassetto della classe politica, dalla maggiore e >4 Si è indicato l’albergo Sopranis, poi Cibo, con la denominazione definitiva in attesa di scoprire di più al riguardo; per 1 albergo Italiano si è preferita questa dizione, presente nei manoscritti, anziché quella di « Interiano » che divenne di uso corrente solo più tardi. — 353 — più antica diffusione dell’istituto dell’albergo nell’area sociale della nobiltà. Questo squilibrio, come vedremo, è in ogni caso più che controbilanciato dall’abbondante presenza di famiglie popolari in tutti i ventotto alberghi. In secondo luogo è da registrare la diversa consistenza numerica degli alberghi. La sproporzione è vistosa tra i grandi gruppi come gli Spinola, i Doria, i Lomellino, e gli alberghi piccoli come i Promontorio, i Calvi, gli Usodimare e i Vivaldi. Chiaramente, la consistenza che l’albergo aveva prima del 1528 finì col riflettersi almeno in parte nel « libro ». In ogni caso, come vedremo, le massicce concentrazioni presenti soprattutto in alcuni alberghi nobiliari penalizzarono sia i singoli ascritti a tali alberghi sia in generale la componente nobiliare del ceto dirigente cittadino. Diamo ora un primo sguardo al « libro » dell’ottobre. Rispetto a quello dell’aprile esso presenta alcune importanti novità. Anche in questa seconda stesura il nome di ognuno dei ventotto alberghi è posto ad intestazione di una o più carte del manoscritto, e sotto il nome del-1 albergo sono riportati i nomi, i cognomi e talvolta i patronimici dei cittadini ascritti, che però risultano suddivisi in approbati ed approbandi. I primi erano coloro che a pieno titolo vennero inseriti nella nobiltà e dopo l’elenco dei loro nomi si trova la seguente nota: suprascripti sunt hii qui approbati fuerunt ad consilia et offitia ac magistratus civitatis. Per i secondi invece la nota è: infrascripti sunt approbandi per illustrissimam dominationem et sempercumque fuerint approbati poterunt eligi ad officia, consilia et magistratus civitatis. Si tratta cioè di individui che ancora erano in attesa di una decisione definitiva riguardo al loro inserimento nelYunicus ordo 15. Presentiamo i dati numerici più generali riguardanti il « libro » dell’ottobre in forma tabellare, utilizzando due prospetti, uno per gli approbati (Tabella II), e uno per gli approbandi (Tabella III) ; in essi sono indicati il nome dell’albergo, il numero di membri e le rispettive percentuali in rapporto al totale. Bisogna tener presente che per gli approbati le cifre non sono del tutto esatte poiché anche in 15 Nelle leggi dell’ottobre non è presente alcun accenno a queste due categorie. Accettiamo quindi per ora il dato di fatto della loro esistenza che cercheremo di spiegare nel prosieguo del lavoro. — 354 — questa seconda versione del « libro » troviamo alcune voci collettive al posto delle indicazioni individuali ’6. Nello stilare la Tabella II, come si è fatto per quella relativa al « libro » dell’aprile, abbiamo considerato due individui per ogni gruppo di fratelli o di figli dei quali non viene specificato il numero, e quindi il totale complessivo di 1517 approbati da noi fornito potrebbe risultare approssimato per difetto. TABELLA II Distribuzione nei ventotto alberghi dei 1517 cittadini ascritti come approbati nel « libro » dell’ottobre 1528. CALVI 36 2,37% ITALIANO 44 2,90% CATTANEO 49 3,23% LERCARO 47 3,10% CENTURIONE 62 4,09% LOMELLINO 82 5,41% CIBO 41 2,70% MARINI 39 2,57% CICALA 35 2,31% NEGRO 46 3,03% DORIA 95 6,26% NEGRONE 48 3,16% FIESCHI 45 2,97% PALLAVICINO 47 3,10% FORNARI 44 2,90% PINELLI 48 3,16% FRANCHI 74 4,88% * PROMONTORIO 26 1,71% GENTILE 47 3,10% SALVAGO 56 3,69% GIUSTINIANI 59 3,89% SAULI 50 3,30% GRILLO 35 2,31% SPINOLA 187 12,33% GRIMALDI 74 4,88% USODIMARE 36 2,37% IMPERIALE 31 2,04% VIVALDI 34 2,24% 16 Nell’albergo Doria Antonius Malaspina et fratres, (ASG, Archivio Segreto, ms. 181, c. 14 v.) ; nell’albergo Franchi di nuovo lohannes Baptista et fratres quondam Sebastiani de Franciscis (ivi, c. 42 v.) ; nell’albergo Imperiale Bartho-lameus Ioardus et filii (ivi, c. 18 v.); nell’albergo Di Negro Andreas et fratres Pasqua (ivi, c. 10 v.)\ nell’albergo Pallavicino Franciscus Parodius et fratres (ivi, c. 32 v.). Quello dei Malaspina è uno dei pochissimi casi nel « libro » dell’ottobre, che come abbiamo detto è un originale, in cui all’interno di una lista di approbati cambia la mano dell’estensore del documento. Confrontando le varie grafie dei cancellieri impegnati nella redazione del « libro », si vede come gli elen- — 355 — TABELLA III Distribuzione nei ventotto alberghi dei 620 cittadini ascritti come approbandi nel « libro » dell’ottobre 1528. CALVI 20 3,23% ITALIANO 23 3,71% CATTANEO 25 4,03% LERCARO 22 3,55% CENTURIONE 20 3,23% LOMELLINO 21 3,39% CIBO 20 3,23% MARINI 24 3,87% CICALA 26 4,19% NEGRO 18 2,90% DORIA 22 3,55% NEGRONE 16 2,58% FIESCHI 15 2,42% PALLA VICINO 19 3,06% FORNARI 15 2,42% PINELLI 27 4,35% FRANCHI 42 6,77% * PROMONTORIO 24 3,87% GENTILE 22 3,55% SALVAGO 15 2,42% GIUSTINIANI 36 5,81% * SAULI 15 2,42% GRILLO 23 3,71% SPINOLA 40 6,45% GRIMALDI 7 1,13% USODIMARE 16 2,58% IMPERIALE 23 3,71% VIVALDI 24 3,87% Osservando questi dati, si nota subito che restano valide le considerazioni fatte per il « libro » dell’aprile sulla sproporzione tra alberghi nobili e popolari e tra il numero di individui inseriti nei diversi alberghi. Dal confronto fra le prime due tabelle risulta però soprattutto evidente la forte differenza fra il numero complessivo degli ascritti nell’aprile e nell’ottobre, considerando, come è giusto, ascritti nella versione definitiva del unicus ordo i soli approbati. Confrontando individuo per individuo le due stesure del « libro », emergono questi primi dati: in aprile ci furono 2032 ascritti, dei quali nell ottobre 1358 vennero confermati, 294 finirono negli approbandi chi furono scritti da Ambrogio Senarega anche se portano in calce la firma di Giovanni Battista Zino. La voce Malaspina nell’albergo Doria fu scritta dalla mano di quest’ultimo. Può trattarsi quindi di una correzione per rimediare ad una svista, oppure di un’aggiunta, comunque di poco successiva al resto della lista. — 356 — e 380 non ricomparvero né fra gli approbati né fra gli approbandi. In ottobre ci furono inoltre 159 nuovi « aggiunti » tra gli approbati che portarono il loro totale a 1517 individui e 326 nuovi « aggiunti » tra gli approbandi per un totale di 620. Un bel dedalo di cifre. Fin dal principio c’eravamo posti delle domande precise. Chi erano i membri delle due versioni dell’unicus or doi Come furono distribuiti tra gli alberghi? Si seguì il metodo di mescolare le fazioni, o fu in base ad esse che vennero raggruppati i singoli individui e le famiglie? Oppure altri criteri ancora guidarono i Riformatori nella loro opera? L’aver rilevato la sostanziale differenza tra i due « libri », oltre a porre ulteriori quesiti, rafforzava il nostro proposito di cercare risposte soddisfacenti per vie nuove. Cosa era avvenuto tra l’aprile e l’ottobre che indusse a mutare cosi radicalmente la struttura del « libro »? Rispetto all’aprile molti cittadini erano stati esclusi, altri messi in lista di attesa, altri ancora aggiunti ex novo. Sorgeva naturale il sospetto che tra i due momenti ci fosse stato un grave scontro tra le fazioni con dei vincitori e degli sconfitti. Il pensiero correva immediatamente al luogo comune della serrata aristocratica; ai popolari, soprattutto agli artefici, penalizzati, sconfitti dalla cosidetta « riforma doriana ». Inizialmente l’idea fu quella di confermare questa ipotesi quantificando l’entità della vittoria dei nobili. Per far ciò era necessario scoprire per il maggior numero possibile di ascritti, di esclusi, di aggiunti e di approbandi, almeno la fazione ed il colore di appartenenza, sperando di ottenere dalle cifre indicazioni decisive. Di fatto alcuni dei quesiti posti dal confronto tra i due « libri » sono rimasti almeno in parte irrisolti. Tuttavia il lavoro che da essi ha preso origine ci ha consentito di escludere con certezza che nel 1528 si fosse giunti ad un qualunque tipo di discriminazione nei confronti dei popolari. 3. Le fonti per l’identificazione politica individuale Per proseguire nel lavoro era indispensabile a questo punto disporre di documenti che permettessero di identificare la collocazione — 357 — politica di un congruo numero di ascritti (almeno rispetto ai gruppi in cui era articolata la partecipazione alle cariche). Negli archivi genovesi abbiamo trovato due fonti di eccezionale interesse e perfettamente adatte ai nostri scopi. Anzitutto una lunga lista inserita nel manoscritto 87 dell Archivio di Stato di Genova. Di difficile datazione, ma comunque anteriore al 1528, essa contiene i nomi di 1113 cittadini ripartiti in nobili, mercanti, e artefici, e ognuno di questi gruppi è a sua volta diviso in bianchi e neri. Altre copie di questo documento sono presenti in alcuni manoscritti tardi dove viene definito come l’elenco dei membri del « Consiglio » dell’anno 1518 17. Con 1 ausilio di una tabella (Tabella IV) si può vedere la consistenza dei sei schieramenti così come risulta dal ms. ASG 87, espressa in base al numero delle persone e a quello delle famiglie 18. 17 Ad esempio, ASCG, ms. 443, pp. 271-272. 18 Notiamo che la cifra complessiva che compare nel totale della colonna « famiglie » è leggermente superiore al numero dei cognomi presenti nella lista, perché in alcuni casi persone dal medesimo cognome compaiono in più di un gruppo. Il problema del grado di omogeneità politica esistente all’interno delle famiglie sarà affrontato in seguito; nella tabella, comunque, i cognomi sono stati conteggiati in ciascuno dei gruppi in cui compaiono. Un caso particolare è costituito da alcune grandi famiglie che hanno due rami ben distinti. Per gli Spinola di Luccoli e di San Luca, tutti nobili bianchi, come per i Di Negro di Banchi e di San Lorenzo, tutti nobili neri, il cognome è stato contato un’unica volta. Al contrario, i Giustiniani, mercanti bianchi, e i Giustiniani Banca, mercanti neri, sono stati considerati due volte, sia fra i mercanti bianchi che fra quelli neri. Precisiamo inoltre che nell’utilizzare i termini « famiglia » e « albergo », in questo capitolo si è talvolta rinunciato a distinguerne i significati. Spesso le due realtà vengono accostate, come in queste prime tabelle, oppure i due termini sono alternati per indicare gruppi di persone che portano lo stesso cognome. Quest uso potrà sembrare, a seconda dei casi, più o meno legittimo, ma al livello attuale delle conoscenze sul fenomeno degli alberghi è assai difficile organizzare diversamente sia le ricerche che i criteri di esposizione. — 358 — TABELLA IV Consistenza dei gruppi di cittadini divisi per fazioni e colori secondo il ms. ASG 87. Fazione e colore n° di persone n° di famiglie NOBILI BIANCHI NOBILI NERI MERCANTI BIANCHI MERCANTI NERI ARTEFICI BIANCHI ARTEFICI NERI 301 170 191 102 203 146 18 17 33 41 82 63 Totale 1113 254 Queste cifre rendono assai improbabile che la lista riportasse i nomi dei membri di un Consiglio cittadino. Il Saivago afferma che per i Consigli si era soliti « fare eletioni di CCC cittadini, mettà nobili, quarto merchadanti, et quarto artefici, et di più mettà guelfi et mettà gi-belini »19. Nella tabella troviamo invece 471 nobili e 642 popolari, 293 mercanti e 349 artefici, e anche una netta prevalenza dei bianchi sui neri. Il numero complessivo dei nomi registrati appare inoltre troppo elevato per essere riferito ad un Consiglio. Certo, in casi eccezionali potevano essere convocate assemblee molto ampie, come era avvenuto il 2 aprile 1528 quando si riunirono circa mille cittadini, ma non è rimasta traccia di un evento di questo genere nel 1518. Un’altra ipotesi che possiamo formulare è che si tratti di un’elenco, degli inizi del Cinquecento, ma non necessariamente del 1518, contenente i nomi dei cittadini tra i quali potevano essere designati i magistrati della Repubblica. In questo caso la disparità numerica tra i gruppi politici, trattandosi di eleggibili ma non di eletti, non incrinerebbe la regola della divisione paritaria. 19 G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 31 r. — 359 — Ma veniamo all’analisi della Tabella IV. Un semplice sguardo al numero delle famiglie presenti nei singoli gruppi dà la misura della diversa consistenza delle casate nobili e popolari. Infatti il numero medio di individui appartenenti alle 35 famiglie della nobiltà è di 13,5; quello dei membri delle 219 famiglie popolari di 2,9. Queste cifre, per la natura della fonte, non hanno un significato specifico, dimostrano tuttavia che l’utilizzo su larga scala del sistema dell’« al-bergazione » da parte della nobiltà aveva notevolmente contratto il numero di cognomi. Il popolo risulta invece essere più disperso, anche se le norme istituzionali che stabilivano il diritto, per i mercanti co-me per gli artefici, a precise quote di presenza nelle magistrature garantivano gli equilibri complessivi fra i due schieramenti. Ad ogni modo già l’elenco di nomi contenuto nel ms. ASG 87, a prescindere dal fatto che si trattasse di consiglieri o di cittadini eleggibili, ci ha indicato la collocazione politica di un numero ragguardevole di genovesi. La procedura per l’impiego di questi dati è stata relativamente semplice: si è iniziato con la verifica della loro attendibilità tramite il confronto con altre liste, quindi si è proceduto ad attribuirli ai nomi che compaiono nei due « libri » dell’aprile e dell’ottobre, seguendo criteri il più possibile prudenti (sui quali torneremo in seguito). La seconda fonte utile per reperire dati di identificazione politica individuale e costituita dai lunghi elenchi dei Boni viri de tabula che abbiamo tratti dall’ultimo volume dei manoscritti di Giovanni Battista Cicala20. I membri di questa « magistratura » (il termine è improprio in quanto si tratta solo di una lista dalla quale potevano essere estratti i nomi di individui deputati a svolgere una funzione di arbitrato) erano oltre 160 all’anno e risultano divisi negli stessi schiera-menti che abbiamo visti nella Tabella IV. Inoltre per ciascuno di questi sei gruppi vi è un’ulteriore ripartizione, tecnica e non politica, in « medi » e « terzi », legata alla fase della procedura di arbitrato21. 20 ASCG, ms. 443. Al riguardo vedi: Statuta e decreta communis lanuae, Venezia, apud Dominicum Nicolinum, 1567, che contiene gli statuti del 1413-14 ancora in vigore al- — 360 — Sono stati impiegati per la nostra ricerca gli elenchi dei Boni viri de tabula degli anni dal 1521 al 1528, escluso il 1522, mancante nel manoscritto del Cicala. In questo modo abbiamo registrato 1192 « presenze » relative a circa 550 persone di cui si conosce ora il gruppo politico di appartenenza. Purtroppo il ricorrere assai frequente degli stessi nomi in anni successivi pone alcuni problemi: anzitutto riduce il numero di informazioni utili; inoltre ci rende impossibile essere più precisi riguardo al numero di persone in quanto, nei molti casi in cui manca il patronimico, non si può essere sicuri se due « presenze » registrate con lo stesso nome e cognome siano relative alla stessa persona. Nonostante ciò i Boni viri costituiscono un’eccellente base di controllo della lista contenuta nel ms. ASG 87, oltre che un’importante fonte aggiuntiva di dati. Presentiamo una quinta tabella con l’indicazione del numero di « presenze » (colonna « presenze »), accorpate poi secondo il cognome (colonna « famiglie »), per ognuno dei sei gruppi politici considerati. l’inizio del secolo XVI. Queste leggi prevedevano l’esistenza di tre « borse », due contenenti i nomi, separati, dei Boni viri « medi » nobili e popolari, ed una per i Boni viri « terzi » in cui nobili e popolari erano invece mescolati. Al primo intervento di arbitrato richiesto dalle due parti coinvolte in una causa civile, venivano estratti due Boni viri o dalla « borsa » dei nobili o da quella dei popolari o uno da ciascuna di esse a seconda che i due contendenti fossero entrambi nobili, entrambi popolari, oppure uno nobile ed uno popolare. Se i due Boni viri erano concordi nel giudizio, la loro sentenza passava in giudicato senza possibilità di appello, in caso contrario si sarebbe ricorsi alla estrazione di un altro Bonus vir, stavolta dalla borsa dei « terzi », il cui giudizio sarebbe stato definitivo. Nel 1506 la composizione e il funzionamento della magistratura vennero adeguati alla legge dei due terzi. Nel testo della riforma di quell’anno si incontra al capitolo diciottesimo il capoverso Forma creandi bonos viros de Tabula (ASG, ms. 137, cc. 9 v. -10>\). Vi si stabilì che fossero annualmente eletti 120 Boni viri, cioè « quaranta per ciascun ordine modo aliorum magistratum ». Riposti i nomi in tre sacchetti separati, nel caso si fosse ricorso all’arbitrato si doveva estrarre un nome a sorte da ciascun sacchetto. Se i tre fossero stati concordi nel giudizio, la loro sentenza sarebbe passata in rem iudicatam sine appellatione. Altrimenti altri tre sarebbero subentrati, con la possibilità, nel caso che le prime due sentenze fossero state discordi, di un’ulteriore estrazione a sorte di tre nuovi Boni viri, « la sententia de li quali - si afferma - debia remanere diffinitiva ». — 361 — TABELLA V22 Boni vili de tabula (1521; 1523-1528) distribuiti secondo le fazioni e i colori. Fazione e colore n° di presenze n° di famiglie NOBILI BIANCHI 300 19 NOBILI NERI 295 21 MERCANTI BIANCHI 149 23 MERCANTI NERI 147 26 ARTEFICI BIANCHI 151 53 ARTEFICI NERI 150 64 Totale 1192 206 Anche per i Boni viri, veniva di fatto rispettata la regola della paritetica ripartizione fra nobili e popolari, tra mercanti e artefici, e tra bianchi e neri. Accorpando le singole cifre possiamo vedere che a 595 nobili corrispondono 597 popolari, a 296 mercanti 301 artefici, e a 600 bianchi 592 neri. Bianchi e neri risultano essere rappresentati in modo quasi esattamente paritario anche all’interno di ciascuno dei tre gruppi dei nobili, dei mercanti e degli artefici. Cerchiamo ora di penetrare più in profondità, di vedere se, oltre alle cifre riportate nelle due precedenti tabelle, la lista del ms. ASG 87 e quelle dei Boni viri de tabula sono in grado di fornirci qualche suggerimento di carattere più generale sulla natura delle fazioni e sulla logica secondo la quale i cittadini genovesi del primo Cinquecento in esse si inserivano. Notiamo anzitutto che nell’individuare quali gruppi familiari facevano parte della nobiltà e quali del popolo si sono incontrati ben pochi problemi. I nomi degli alberghi nobili sono conosciuti e non si è riscontrata alcuna discrepanza né all’interno delle liste né tra queste e ^ Precisiamo a scanso di equivoci che la tabella V (relativa a «presenze») non e omologa e confrontabile con la tabella IV (relativa a persone). Sarà possibile redigere, per i Boni viri, una tabella in base alle persone solo dopo un ulteriore accumulo di dati che permetta di individuare i casi di omonimia — 362 — la letteratura storica sull’argomento. L’omogeneità dell’appartenenza dei membri di una qualunque famiglia a uno di questi due schiera-menti è, possiamo dire, totale. Nessun individuo registrato con un « cognome » nobile è collocato tra i popolari, come viceversa nessun membro di casate popolari risulta inserito tra i nobili. Fra le migliaia di nominativi esaminati si sono incontrate alcune possibili eccezioni a questa regola solo nell’elenco di coloro che sottoscrissero il « Libro di pace e concordia » nel 1506. Tra i giuranti troviamo quattro individui che portano cognomi di casate nobili: il mercante Cristoforo Gualterio, il macellaio Antonio Di Negro, e i cordai Alessandro e Giovanni Saivago di Voltaggio. Forse tutte e quattro le eccezioni (che cesserebbero così di essere tali) sono spiegabili con l’abitudine di concedere il « cognome » dell’albergo, al di là della prassi dell’ascrizione, ad individui anche di umile origine (ad esempio schiavi affrancati o famigli) che pur non avendo particolari legami di interesse o di sangue con il casato, avevano vissuto nella dimora del padrone 23. Ciò spiega perché cognomi « importanti » compaiono anche nelle associazioni di mestiere o comunque negli strati meno alti della gerarchia sociale, nel « popolo » quindi, ma sempre al di sotto della fascia che esprimeva la componente non nobiliare della classe politica. In definitiva si può affermare che la condizione di « nobile », politicamente intesa, era ereditaria; ed altrettanto si può dire per quella di « popolare » in riferimento alle grandi casate quali, ad esempio, Giustiniani, Franchi, Sauli e Fornari. Per quanto riguarda gli individui non nobili che accedevano solo saltuariamente alle cariche pubbliche - i protagonisti del ricambio che caratterizzava una parte del gruppo popolare - il problema è diverso: non conosciamo, purtroppo, i criteri di selezione grazie ai quali essi divenivano homines de populo, cioè entravano a fare parte dei cives popolari; erano comunque « popolo » nel senso ampio, sociale, della parola. 23 Al riguardo vedi J. Heers, Le clan familial cit., p. 75 e sgg. Il Foglietta (La Republica di Genova cit., p. 41), intento a confutare la tesi di una maggiore antichità delle casate nobiliari, afferma: «Non sappiamo noi e ne conosciamo non piccolo numero, li quali non accade nominare, li quali sono libertini, figliuoli essi o nipoti di schiavi stati di uomini di quello albergo, li quali fatti franchi da padroni ritennero sempre il nome della casata del padrone? ». — 363 — Senza dubbio meno netta della distinzione tra nobili e popolari è quella di questi ultimi in mercanti e artefici. Nella lista del ms. ASG 87 e in quella dei Boni viri, abbiamo raccolto dati complessivamente su 226 famiglie popolari. Di queste, solo 21 (il 9,29 % del totale) avevano tra i propri membri sia mercatores che artifices, mentre 205 (90,71%) erano esclusivamente rappresentate o dal primo gruppo o dal secondo (62 da individui appartenenti ai soli mercatores, 143 da individui indicati tutti come artifices). È da notare che le maggiori famiglie popolari, le cinque che nel 1528 furono deputate a costituire albergo nel nuovo assetto istituzionale, risultano tutte composte di soli mercanti. Sembra prevalere quindi un alto grado di omogeneità. Tuttavia dobbiamo chiederci se ciò rispecchia una realtà effettiva. Mentre a prima vista sembra ragionevole che la divisione dei popolari tra mercanti e artefici avvenisse in base alla professione24, è difficile credere che i due schieramenti fossero così rigidi come fanno supporre i nostri dati. È probabile che le cifre sopra riportate non siano un indice attendibile per conoscere le attività economiche reali delle diverse famiglie. Il tipo di fonte, politica, che abbiamo utilizzato permette di rilevare 1 attività professionale esercitata solo dai membri più prestigiosi del casato, gli unici in pratica ad accedere alle cariche pubbliche. In effetti, come vedremo meglio in seguito, gli elenchi dei giuranti del 1506 dimostrano che molte famiglie popolari erano composte sia da iscritti alle arti sia da mercatores. Passiamo ora ad analizzare la divisione tra bianchi e neri. Per quanto riguarda i nobili, nella lista del ms. ASG 87 e in quella dei Boni viri de tabula, abbiamo raccolto dati su 37 famiglie, delle quali 14 risultano essere composte di soli bianchi e 17 di soli neri. Sei in- 24 Alla c. 68 del VI volume dei manoscritti del Cicala (ASCG, ms. 433) ΤΡ°Γ Una n°ta significativa: «Raffaele di Canevaie a 17 gennaro [1501] fu eletto dell ufficio di mercantia come artefice bianco, et perciò compare in senato dolendosi, dice che non è artefice, e non esercitò mai arte, e perciò fu escusato, et poi interrogato sotto che titolo o colore voleva essere eletto alli magistrati, et lui rispose per mercante bianco, e così fu riposto nelli mercanti bianchi ». Sembra quindi da questo brano che fosse possibile una scelta volontaria della fazione per i popolari, legata però per quanto riguarda l’inserimento tra i mercanti o tra gli artefici all’esercizio di una certa attività professionale. — 364 — vece sono per così dire « miste », e cioè i Cattaneo, i Gentile, gl’Ita-liano, i Saivago, i Centurione e i Pinelli. I membri delle prime quattro di queste famiglie-albergo si incontrano in entrambe le liste sia tra i bianchi che tra i neri; per le ultime due la cosa è più dubbia. Nella lista del manoscritto ASG 87, infatti, i Centurione (38 individui) e i Pinelli (5 individui) sono tutti indicati come nobili bianchi. Negli elenchi dei Boni viri, invece, abbiamo per i Centurione 9 individui registrati come bianchi e 4 come neri, e per i Pinelli 3 bianchi e 2 neri. Certo, dietro queste discordanze possono celarsi errori del compilatore dei documenti. Tuttavia, lavorando come abbiamo fatto su numeri relativamente grandi, la linea di tendenza che risulta, cioè una tutto sommato generale omogeneità interna delle famiglie nobili rispetto alla divisione bianchi-neri, dovrebbe essere attendibile. Inoltre, come è ben noto, gli alberghi genovesi erano entità mobili che si accrescevano con l’inglobamento di nuovi gruppi familiari, e talvolta la comunanza di interessi, magari economici, poteva non costituire necessariamente una spinta alPuniformazione degli schieramenti politici. Vediamo ora come i popolari (mercanti e artefici) si dividevano in bianchi e neri. Duecentoventisei sono i cognomi di individui del popolo per i quali risultano disponibili dati di identificazione politica. Per chiarezza indichiamo in un prospetto (Tabella VI) i risultati dell’analisi volta a distinguere le famiglie politicamente uniformi da quelle « miste ». TABELLA VI Divisione dei cognomi popolari per i quali il ms. ASG 87 o gli elenchi dei Boni viri de tabula danno indicazioni sul colore. MERCANTI BIANCHI 26 MERCANTI NERI 35 MERCANTI BIANCHI E NERI 1 ARTEFICI BIANCHI 73 ARTEFICI NERI 63 ARTEFICI BIANCHI E NERI 7 MERCANTI - ARTEFICI BIANCHI 5 MERCANTI - ARTEFICI NERI 11 MERCANTI - ARTEFICI BIANCHI E NERI 5 — 365 — Dunque su 226 cognomi solo 13 (il 5,75% del totale) risultano schierati in modo non unitario rispetto alla divisione bianchi-neri. Per alcuni di questi cognomi poi la mancanza di omogeneità è relativa, in quanto indica il diverso orientamento politico di distinti rami della famiglia. Tra i Giustiniani, il maggiore albergo popolare, composto da un alto numero di famiglie, la divisione tra bianchi e neri ricalca quella fra Giustiniani (mercanti bianchi) e Giustiniani Banca (mercanti neri) ; lo stesso discorso vale per i Costa e i Costa Cavalini, e si potrebbe continuare con innumerevoli distinguo quasi per ognuna delle 13 famiglie che abbiamo definito come « miste ». Spiegazioni ancora più precise potranno senz’altro venire estendendo questa indagine a fonti di altra natura, genealogiche o notarili. Tuttavia sembra già delinearsi un quadro che rivela una notevole uniformità nella collocazione delle famiglie all’interno dei sei gruppi politici considerati. Per concludere si può quindi affermare che gli schieramenti politici interni alla Repubblica erano meno caotici di quanto ci si potesse attendere. Se è relativamente facile portare esempi di alberghi o famiglie politicamente non omogenei, sarebbe sbagliato basarsi su questi esempi per giudicare caotico tutto il sistema politico genovese. Una storia più accurata degli alberghi potrebbe dar conto del presunto disordine regnante nel microcosmo delle fazioni. 4. I criteri per l’utilizzo dei dati sulle fazioni e sui colori Una volta completato il controllo e l’ordinamento delle liste suddivise per fazioni, si è proceduto, come abbiamo detto, ad attribuire i dati politici individuali in esse contenuti agli ascritti nei due « libri » del 1528. Per far ciò è stato necessario adottare alcuni criteri estensivi che abbiamo cercato di rendere il più possibile sicuri per mezzo di continue verifiche. È utile a questo punto fornire precisazioni sui metodi seguiti, corredate da alcuni esempi. Per i nobili, come abbiamo detto, le difficoltà sono state relativamente poche e si è attribuita tale qualifica a tutti i cognomi che risultano compresi tra i nobiles nella lista del ms. ASG 87 e negli elen- — 366 — chi dei Boni viri. Maggiore prudenza è stata invece necessaria nello stabilire se i singoli individui erano bianchi o neri. Abbiamo quindi assegnato il « colore » (« bianco » o « nero ») a tutte le persone che portavano cognomi per i quali è stata riscontrata una totale omogeneità di schieramento rispetto a questa divisione. Per i sei alberghi nobi- li composti sia da bianchi che da neri si è attribuito il colore su base individuale, solo cioè a quei nomi per i quali si è trovato un riscontro preciso. Prendiamo come esempio tra i sei alberghi « misti » quello dei Cattaneo. I suoi membri sono tutti nobili senza possibilità di equivoco e come tali sono stati considerati in blocco. Il colore invece è stato assegnato individuo per individuo. Ad esempio Agostino del fu Lorenzo Cattaneo compare nel ms. ASG 87 e nei Boni viri del 1524 e del 1526 (oltre che in varie altre magistrature) sempre come nobile bianco e tale è stato considerato nella scheda individuale relativa sia al « libro » dell’aprile 1528 che a quello dell’ottobre (nel secondo egli risulta essere un approbando). Un altro metodo seguito per individuare la fazione e il colore dei membri dell’albergo Cattaneo (o di persone appartenenti ad altre famiglie nelle quali si trovano sia bianchi che neri) è stato quello di ricostruire la composizione politica delle magistrature cui essi avevano partecipato. Prendiamo ad esempio Filippo del fu Giacomo Cattaneo. Egli compare nel « libro » dell’aprile e in quello dell’ottobre come approbato, tra i membri dell’ufficio di Mercanzia del 1521 e del 1523, rispettivamente nelle prima e terza « mobba » (periodo d’ufficio), ed è assente nelle liste divise per fazioni. Si è proceduto quindi all’analisi delle due magistrature. Prendendo degli otto magistrati del 1521 i primi quattro, che hanno un cognome nobile, ed escludendo Filippo Cattaneo, si è provato ad identificare fazione e colore degli altri tre: Agabito Grillo e Gabriele Negrone erano nobili bianchi, Cassano Camilla era un nobile nero. A questo punto, per la regola della divisione paritaria degli uffici, Filippo Cattaneo non poteva essere altro che un nobile nero25. 25 Seguendo lo stesso procedimento per la terza « mobba » dell’ufficio di Mercanzia del 1523, si ottiene la medesima indicazione. Tra i quattro nobili tro- — 367 — Allorché è stato impossibile utilizzare una di queste due procedure, si è rinunciato ad attribuire il « colore ». Questo è il caso ad esempio di Nicola di Giovanni Francesco Cattaneo che compare solo nel « libro » dell’aprile e in quello di ottobre come approbando. Criteri simili sono stati impiegati con i popolari, per i quali si è però dovuto porre una maggiore attenzione nella ricerca di riscontri individuali, dato il numero di membri talvolta limitato presente per ciascuna famiglia. Nelle schede individuali si è inserita la qualifica di mercante o artefice nei casi in cui era presente una completa omogeneità nella collocazione della famiglia in questi due gruppi. In caso contrario, o si è proceduto su base individuale, quando ciò era possibile, o si e rinunciato in blocco ad attribuire tale qualifica, considerando la famiglia come genericamente « popolare ». Identici criteri sono stati seguiti nelPattribuire il colore. 5. Popolari e nobili·, un primo approccio ai « libri delle descrizioni » in base ai gruppi familiari Abbiamo già accennato al doppio significato della parola « popolo »: da un lato essa identifica un gruppo politico, dall’altro una fascia sociale della cittadinanza. Le due realtà non coincidono del tutto, e da ciò nasce il rischio di generare degli equivoci, e quindi l’esigenza di fornire, per quanto possibile, delle precisazioni. A tal fine risulta di estrema utilità il « Libro di pace e concordia » del 1506 che è anche qualcosa di simile ad una raccolta di matricole delle arti: una raccolta senza dubbio incompleta, perché il giuramento fu un atto di volontà politica individuale, comunque significativa visto l’elevato numero dei firmatari. Confrontare, sia per i singoli sia per i gruppi familiari, la lista dei giuranti con quella degli ascritti ai «libri» del 1528 può costituire un primo approccio al problema del rapporto tra il « popo- lo » come entità politica e come aggregato sociale. viamo infatti, oltre al Cattaneo, i bianchi Franco Doria e Oberto Squarciafico e il nobile nero Stefano Marini. — 368 — Nella lista del 1506 troviamo i nomi di 1641 individui dei quali 110 vennero inseriti nei «libri» del 1528, in una delle due versioni o in entrambe. La loro presenza risulta essere così distribuita: 87 compaiono nel « libro » dell’aprile, di essi 21 furono esclusi dalla versione successiva, 56 vennero invece confermati, cioè posti tra gli approbati dall’ottobre, e 10 finirono tra gli approbandi sempre dell’ottobre. Inoltre furono inseriti ex novo 9 giuranti del 1506 tra gli approbati (portando così a 65 il numero totale dei firmatari del « libro di pace e concordia » presenti nell 'unicus ordo dell’ottobre) e 14 tra gli approbandi (per un totale di 24). Complessivamente, il 6,70% dei firmatari del 1506 fu preso in considerazione in vista dell’inserimento nell 'unicus ordo. Il dato non è di per sé molto significativo. L’arco di ventidue anni che separa il momento in cui venne stilato il « Libro di pace e concordia » e quello in cui furono compilati i « libri delle descrizioni » è un grave ostacolo al confronto tra le due liste basato sugli individui. Molti giuranti del 1506 potevano nel 1528 essere già morti o, per altre ragioni, non più attivi politicamente. Comunque questi dati confermano che nel 1528 non ci fu discriminazione nei riguardi dei partecipanti alla rivolta del 1506 26. Qualcosa di più possiamo domandare ad un confronto basato sui cognomi. Per le famiglie ventidue anni sono meno di una generazione e risulta quindi più facile, pur con tutte le riserve del caso, la ricerca di eventuali continuità. Nella lista dei giuranti del 1506 troviamo 797 famiglie delle quali 560 non compaiono nei « libri » del 1528; le rimanenti 237 sono rappresentate da una o più persone o nel « libro » dell’aprile o in quello dell’ottobre o in entrambi. La percentuale di « presenza » che per gli individui era del 6,70% diviene subito più consistente salendo al 29,73 %. Dobbiamo però arricchire in qualche modo queste cifre perchè acquistino un senso. Per capire il significato di questo 29,73 % (per valutare cioè se sia tanto o poco), l’unico parametro che può aiutarci è il grado di partecipazione alle cariche delle famiglie popolari nel periodo che precedette la riforma; è necessaria cioè un’ulteriore chia- 26 E. Grendi (Profilo storico cit., p. 241) parla di «una nobiltà che era stata costituita nel 1528 sulla base della partecipazione familiare alle cariche prima del 1506 ». — 369 — ve di lettura che ci permetta di confrontare la classe politica nata dal-1’« unione » con quella del pre-1528. In questo modo si può iniziare ad affrontare il problema che ci eravamo posti fin dall’inizio: scoprire quali criteri adottarono i Riformatori per creare la specifica situazione alla quale abbiamo applicato il nostro lavoro contabile. Come ha recentemente ricordato R. Savelli, le Regulae del 1363 e del 1413 affidavano ai vicedogi il compito di tenere due libri contenenti i nomi dei nobili e dei popolari che erano ritenuti ad negotia communis apti27. Esistevano dunque prima del 1528 delle liste dei cittadini eleggibili. Di esse purtroppo non è rimasta traccia; è quindi necessario ricostruire il ceto politico in modo indiretto tramite i dati sulla partecipazione degli individui (e quindi delle famiglie) alla vita pubblica. Non ci nascondiamo le difficoltà derivanti dall’uso di questo procedimento. Le cifre relative agli eletti, con ogni probabilità, non comprendono tutti i membri del ceto politico, in quanto poteva accadere che non tutti gli eleggibili entrassero poi in una qualche magistratura; è evidente cioè che risulterebbe congruo e basato su fonti omogenee solo un confronto tra i « libri » del periodo precedente il 1528 con quelli nati dalla riforma. Non disponendo dei primi, abbiamo deciso di utilizzare le liste di magistrati. Esse costituiscono comunque un primo approccio al problema della definizione del ceto politico del pre-1528, dato che tutti gli eletti dovevano necessariamente figurare tra gli eleggibili. A questo scopo abbiamo schedato per tre periodi, 1481-1485, 1501-1505, 1521-1528, i membri di 21 magistrature, di tutte quelle cioè che sono risultate essere presenti con una certa continuità 28. R. Savelli, Le mani della Repubblica. La cancelleria genovese dalla fine del recento agli inizi del Seicento, in corso di stampa negli Studi in memoria di G. Ta-rello. Per le Regulae del 1363 vedi Historiae Patriae Monumenta, voi. XVIII, Torino 1901; per quelle del 1413 vedi ASG, Manoscritti di Parigi 19. Su questi due testi vedi di V. Piergiovanni, Gli statuti civili e criminali cit, p. 101 e sgg.; Lezioni di stona giuridica genovese. Il Medioevo, Genova 1983, p. Ili e sgg. e II sistema europeo cit. I motivi che ci hanno indotto a scegliere questi tre periodi sono legati alla struttura complessiva della ricerca. I tre punti di riferimento, sotto l’aspetto documentario, per la ricostruzione della dinamica del ceto dirigente genovese a cavallo dei secoli XV e XVI sono: il giuramento di fedeltà a Lodovico Sforza del 1488 (sottoscritto da oltre 3000 cittadini), il giuramento del 1506 per l’unione del popolo, e — 370 — Si è così ottenuto l’elenco dei nomi di oltre 3000 eletti alle magistrature, che inizieremo ad utilizzare confrontandolo con la lista del 1506. Delle 560 famiglie presenti nel « Libro di pace e concordia » e non inserite nei «libri» del 1528 ben 542 (il 96,78%) non risulta abbiano mai fornito magistrati alla Repubblica nei tre periodi presi a campione. Delle restanti 18 (3,22%), 15 ebbero loro membri nelle magistrature solo nei primi due periodi (cioè negli otto anni precedenti la riforma nessun membro di queste 15 famiglie risulta aver ricoperto una qualche carica), e solamente 3 sono presenti nella lista dei magistrati riguardante il periodo 1521-1528. Se analizziamo secondo gli stessi criteri le 237 famiglie che ebbero loro membri sia tra i giuranti del 1506 che in uno dei due, o in entrambi, i « libri » del 1528, troviamo una situazione ben diversa. Delle 237 famiglie, 49 avevano fornito magistrati alla Repubblica so- lo nei primi due periodi campione, 101 in tutti e tre i periodi, mentre 87 non compaiono mai nelle liste delle magistrature. Questi risultati hanno a mio giudizio un preciso significato. Proviamo a trarre da essi alcune conclusioni. Che il « populus » come gruppo politico non comprendesse tutto il popolo delle arti e della mercanzia — che cioè solo una limitata parte dei mercanti e degli artefici accedesse alle cariche pubbliche — è un fatto di immediata evidenza. Altrettanto evidente è che, per le famiglie popolari i cui membri giurarono nel 1506, il criterio selettivo utilizzato per l’inserimento nell 'unicus ordo fu in generale quello dell’appartenenza o meno alla classe politica; si guardò cioè se i loro membri avessero avuto prima del 1528 accesso alle magistrature cittadine. Il fatto poi che si fossero i « libri » del 1528. Si è ritenuto quindi giusto schedare le magistrature per i periodi immediatamente precedenti queste date o a cavallo di esse. Per varie ragioni la lista dei giuranti del 1488 è stata utilizzata in questo lavoro in modo del tutto marginale ma essa potrà essere utile per future ricerche sul tardo Quattrocento. Le magistrature di cui abbiamo analizzato la composizione sono: Anziani, Balìa, Banchi, Censori, Gazarla, ufficiali di Mare, ufficiali di Mare di Scio, Mercanzia, Misericordia, ufficiali di Moneta, ufficiali delle Monete, Protettori di S. Giorgio, ufficiali di Quarantaquattro, Rotti, ufficiali del Sale, ufficiali di Scio, Sindacatori, ufficiali di Sanità e Padri del Comune. I dati sulle magistrature sono tratti dal volume di G. B. Cicala, ASCG, ms 433. Per controlli campione sulle liste del Cicala sono stati utilizzati la Collectanea del Federici (ASG, mss. 47-48) ed il manoscritto ASCG, 314. — 371 — ascritte ai « libri » famiglie che da tempo (almeno dal 1520) non erano rappresentate nelle magistrature depone a favore della nostra tesi che nello spirito dell’« unione » e nella prassi dei Riformatori era presente la volontà di abbracciare nel patto di concordia civile fasce molto larghe di cittadini. Aver ottenuto risultati univoci attraverso il confronto della lista dei giuranti del 1506 con l’elenco dei magistrati ci mette sull’avviso che prima di giudicare « largo » o « stretto » il regime nato nel 1528 - prima di decidere se e in che modo il termine « serrata » è applicabile alla riforma — bisogna valutare la composizione dell 'unicus ordo in rapporto al ceto dirigente cittadino come si presentava prima del 1528, capire cioè il significato della riforma rispetto al precedente assetto del potere. A tal fine, considerando l’accesso alle cariche come espressione dell’appartenenza di individui e famiglie alla classe politica, può essere utile, come prima approssimazione, il raffronto tra la lista dei magistrati e i « libri delle descrizioni ». Procediamo quindi ad un’analisi parallela, sempre in base alle famiglie, degli elenchi delle magistrature e della versione definitiva del- 1 unicus ordo come risulta dalla lista degli approbati dell’ottobre29. Negli elenchi delle magistrature vi sono complessivamente 335 cognomi, dei quali 38 (l’ll,35%) nobili e 297 (l’88,65%) popolari. Dei 38 cognomi di famiglie nobili 35 sono presenti anche nella lista degli approbati mentre solo 3 (Carmendino, Marabotto e Vento) sono assenti . È quindi chiaro che, per quanto riguarda la nobiltà, nel 1528 furono inglobate nell ’ unicus ordo quelle famiglie o alberghi che già facevano parte del ceto dirigente cittadino. Sezionando ulteriormente queste cifre, vediamo che in 5 casi (Aimari, Cibo, Ghi- II confronto sulla base dei cognomi è necessario in quanto ci permette meglio di cogliere eventuali flussi o movimenti all’interno del ceto dirigente cittadino su un arco di tempo mediamente lungo quale quello coperto dai tre periodi campione di magistrature considerati. Membri delle famiglie Carmendino e Vento, però, furono inseriti nel « libro » dell aprile e una parte di essi finì tra gli « approbandi ». Quindi l’unica << esclusione » (il termine è inesatto in quanto si tratta di famiglie poco numerose in cui la morte di un individuo poteva determinare una scomparsa del cognomen dal novero di quelli che fornivano membri alla classe politica cittadina) rimane quella dei Marabotto. — 372 — solfi, Gualterio, Sansone) la riforma sancì il recupero di gruppi familiari che da tempo (perlomeno a partire dal 1521) non avevano partecipato tramite loro membri alla gestione diretta della res publica. In un caso (Malaspina) venne cooptata una famiglia che non ritroviamo mai nei nostri elenchi delle magistrature31. Il confronto risulta più complesso per i cognomi popolari dato il loro numero assai elevato. Dei 297 cognomi popolari presenti nelle magistrature per i tre periodi considerati, 207 (il 69,70 %) sono presenti anche nella lista degli approbati dell’ottobre, mentre 90 (il 30,30%) non vi figurano. Di queste 90 famiglie non cooptate, però, 60 (il 66,67 %) non risulta aver fornito magistrati alla Repubblica negli otto anni che precedettero la riforma, e solo 30 (il 33,33 %) sono presenti nella lista del periodo campione di magistrature relativo al 1521-1528. Quindi la maggior parte delle 90 famiglie, che per comodità definiamo « escluse », era già da alcuni anni fuori della cerchia cui era riservata la gestione diretta del potere. Se poi si tiene conto nel calcolo delle percentuali di cooptazione non solo, come abbiamo fatto finora, degli approbati, ma anche degli approbandi (che costituivano una categoria intermedia tra gli « ascritti » e i « non ascritti »), il numero dei cognomi esclusi si riduce notevolmente. Un ultimo dato chiarisce, a mio giudizio, la questione in modo definitivo: partendo dalle liste degli approbati dell’ottobre 1528 anziché da quelle relative alle magistrature, vediamo che il totale dei cognomi popolari inseriti nell 'unicus ordo è di 288. Di questi, 81 sono di famiglie che non compaiono mai nei tre periodi campione di cui abbiamo schedato le magistrature. Quali conclusioni dobbiamo trarre da queste cifre? E. Grendi, dopo aver analizzato i dati riguardanti la presenza delle varie famiglie tra gli Anziani per il periodo che va dal 1400 al 1528, definisce i 60 31 Quello dei Malaspina è un caso a parte. Signori di feudi appenninici, oltre che di Massa e Carrara, essi erano legati a Genova in modo assai indiretto. J. Heers afferma (Génes au XVe siècle cit., pp. 537-539) che « Les Malaspina vivent toujours dans leurs "rocche" des vallées de la Lunigiana [...] tous en dehors de la cité mar-chande ». Sono un esempio di quei limitati settori della nobiltà ligure che rimasero estranei allo sviluppo commerciale e finanziario genovese. Probabilmente la loro inclusione nel « libro » era conseguente ai legami di parentela con la famiglia Cibo. — 373 — « nuovi cognomi popolari » da lui via via incontrati come il prodotto di un « turnover del tutto normale »32. Ciò che accadde nel 1528 sembra invece qualcosa di diverso da un fisiologico ricambio: 90 famiglie uscirono dalla classe politica nel giro di oltre un quarantennio e 81 vi furono inserite in blocco con la creazione dell 'unicus ordo. Non abbiamo alcuna intenzione di forzare i dati che abbiamo elaborato: è chiaro che colmando i vuoti che separano i periodi campione di magistrature considerati, il numero delle famiglie popolari « escluse » può solo aumentare, mentre quello delle famiglie, sempre popolari, ascritte nonostante non avessero precedenti politici, può solo diminuire. Tuttavia 1 indicazione di fondo non muta: una parte consistente delle famiglie popolari inserite dai Riformatori nel « libro » dell’ottobre era da tempo fuori dalla cerchia di quelle cui era riservata la gestione del potere. Altri dati sarebbero necessari per ricostruire nel dettaglio la dinamica di flusso del ceto dirigente genovese, per scoprire cioè i ritmi con cui avveniva il ricambio nelle fasce del popolo che accedevano so- lo marginalmente alle cariche. La presenza di 288 famiglie popolari nel- I unicus ordo è però già di per sé un fatto importante; è la testimonianza che alla base della riforma non ci fu la logica dell’esclusione ma quella del consenso. Creando il « libro » dei cittadini di governo, non si intese sbarrare a qualcuno la strada del potere, ma premiare (e ad un tempo garantire) l’appoggio all’« unione » e al nuovo assetto istituzionale della maggioranza dei genovesi che potevano aspirare ad un ruolo politico attivo. Ci confortano in questa nostra opinione due testimonianze, tanto più significative in quanto provengono da sponde politiche opposte. II popolare Oberto Foglietta, riguardo al metodo seguito dai Riformatori nel creare 1 unicus ordo, afferma: « Né in quel corpo furono posti altri cittadini, se non coloro che già erano stati per addietro partecipi del governo pubblico »33. Parimenti, il nobile Giovanni Saivago sostiene che nei ventotto alberghi furono inseriti « tutti quelli cittadini de tutte le sorte solitte et habille da essere de’ magistrati » Venne- 32 E. Grendi, Capitolazioni e nobiltà cit., p. 470 e sgg. 33 O. Foglietta, La Repubblica di Genova cit., p. 91. 34 G. Saivago, Historìe di Genova cit., c. 32 r. — 374 — ro scelti quindi « cittadini de tutte le sorte » che « per addietro » avevano partecipato al governo. Questi criteri « larghi » portarono alla cooptazione di individui che nel periodo precedente al 1528 erano ai margini della classe politica ed accedevano saltuariamente, con lunghi intervalli di assenza, alle cariche pubbliche. Nel concludere questo paragrafo dobbiamo affrontare un problema che è solo in apparenza terminologico, cioè l’uso del termine « serrata » per definire gli intenti e gli esiti della riforma del 1528; un uso che è ormai penetrato, sia a livello scientifico che divulgativo, nella letteratura storiografica sul Cinquecento genovese35. È chiaro che creando Yunicus ordo si intese fissare con precisione l’area sociale dei cittadini di governo. Le Regulae del 1363 e del 1413 prevedevano che i nomi degli eleggibili nobili e popolari fossero forniti, rispettivamente, dai principales de albergis e dai conestabiles — carica questa che rimandava alla divisione di Genova in otto « conestagie »36 Le nuove leggi, in accordo con l’intento generale di estirpare le divisioni faziose, espropriarono i due gruppi nobile e popolare di questa prerogativa, fissarono la composizione della categoria dei cives nobiles e stabilirono che l’inserimento in essa di nuovi individui fosse deciso dai maggiori organi istituzionali della Repubblica. Ci fu quindi, senza dubbio, un atto di regolamentazione forte, innovativo e, per alcuni aspetti, anche restrittivo. Qualificarlo con il termine « serrata » equivale però ad attribuirgli altri significati che sono inapplicabili alla riforma unitaria. Allorché si afferma che nel 1528 si compì un atto di chiusura, si presuppone che esso fu perpetrato da coloro che si costituirono depositari del potere pubblico contro coloro che ne furono esclusi. La soluzione al problema di trovare le vittime della « serrata » era, ed è, chiaramente fornita dal luogo comune dell’aristocratizzazione che si sarebbe compiuta nell’Italia tardo rinascimentale: la vittima a Genova sarebbe stato quindi il popolo, o meglio gli artigiani e i mercanti meno ricchi: coloro in definitiva che non erano stati capaci di organizzarsi in forma consortile tramite l’istituto del- 35 Vedi sopra, p. 48. Historiae Patriae M.oniwienta> voi. XVIII, Regulae 1363 cit., coll. 268-269, ASG, Manoscritti di Parigi 19, Regulae 1413 cit., cc. 44 v. - 45 r.; vedi R. Savelli, Le mani della Repubblica cit. — 375 — l’albergoj7. Vedremo in seguito come la vistosa sproporzione tra alberghi di origine nobile e popolare abbia condizionato pesantemente e in modo fuorviante l’interpretazione delle leggi del 1528. Per ora basta rilevare come la nostra ricerca ci abbia portato a conclusioni assai diverse: conclusioni che si possono riassumere affermando che i protagonisti, i fautori della riforma intesero realizzare non una « serrata » ma 1 « unione ». Cercarono cioè, per i motivi più volte esposti, di trasformare in realtà l’ideale della pax et concordia che aveva alimentato i tentativi di ritornare al mitico « buon governo » precedente all’insorgere delle divisioni faziose. Per questo riteniamo più utile, parlando della riforma, usare concetti come riorganizzazione del ceto dirigente e regolamentazione del suo incremento tramite le ascrizioni annuali, piuttosto che quello di « serrata ». Così facendo si evita di gettare sul 1528 1 ombra degli esiti secenteschi di un processo di aristocratizzazione che, reale o meno, nel primo Cinquecento non costituiva ancora il problema chiave della vita politico-sociale genovese. 6. I dati complessivi riguardanti gli ascritti del 1528 L analisi del « libro delle descrizioni » condotta sulla base dei gruppi familiari ha costituito un primo approccio ai risultati della riforma che già ci ha fatto intravedere 1 'unicus ordo in una prospettiva nuova. Ci ha permesso di stabilire che 1’« unione » non determinò una contrazione della classe politica rispetto al periodo precedente il 1528. Il passo successivo è quello di esaminare i « libri » su base individuale per appurare se nel 1528, o tra l’aprile e l’ottobre di quell’anno, si verificò un mutamento degli equilibri di forza tra i gruppi politici. A questo scopo sono state predisposte le cinque tabelle riportate nelle pagine seguenti (Tabelle VII-XI) che riassumono i dati riguardanti i singoli ascritti alle due versioni del « libro ». 37 Sull’idea di una « serrata degli alberghi » avvenuta nel 1528, vedi sotto, p. 404 e sgg. — 376 — NOTA ALLE TABELLE VII-XI Le cinque tabelle che seguono riassumono i dati sugli ascritti ai due « libri delle descrizioni »: TABELLA VII Gli ascritti al « libro » dell’aprile. TABELLA Vili Gli ascritti al « libro » dell’ottobre come approbati. TABELLA IX Gli ascritti al « libro » dell’ottobre come approbandi. TABELLA X Gli individui che abbiamo chiamato « esclusi »: cioè coloro che, ascritti nel « libro » dell’aprile, non compaiono più fra gli approbati di quello dell’ottobre. TABELLA XI Gli individui che abbiamo chiamato « aggiunti »: cioè gli ascritti nel « libro » dell’ottobre come approbati che non erano presenti in quello dell’aprile. I dati relativi ai ventotto alberghi (elencati in ordine alfabetico) sono disposti sulle seguenti colonne: 1. Il numero dei «nobili bianchi». 2. Il numero dei « nobili neri ». 3. Il numero di persone appartenenti a famiglie o alberghi nobili in cui sono presenti sia bianchi che neri, e sulle quali non abbiamo riscontri che permettano di attribuire uno dei due colori a livello individuale. 4. Il numero totale dei nobili (1+2+3). 5. Il numero dei « mercanti bianchi ». 6. Il numero dei « mercanti neri ». 7. Il numero totale dei mercanti (5 + 6). 8. Il numero degli « artefici bianchi ». 9. Il numero degli « artefici neri ». 10. Il numero totale degli artefici (8+9). 11. Il numero delle persone appartenenti a famiglie popolari in cui sono presenti sia bianchi che neri, e sulle quali non abbiamo riscontri che permettano di attribuire uno dei due colori a livello individuale. 12. Il numero totale di popolari (7 + 10+11). 13. Il numero totale di cittadini nobili e popolari (4 + 12). — 377 — TABELLA VII Gli ascritti al « libro » dell’aprile 1 2 3 4 5 '■£ 2 a e *C 3 3 « G a •c 3 1> G « !£ 'Jo u *-l 'Z, 'Z o o 'M 2 H CALVI 3 14 2 19 2 CATTANEO 15 12 13 40 10 CENTURIONE 36 7 43 CIBO 16 CICALA 19 3 22 DORIA 86 86 FIESCHI 27 27 1 FORNARI 48 FRANCHI 77 GENTILE 11 2 24 37 6 GIUSTINIANI 61 GRILLO 19 19 9 GRIMALDI 50 50 1 IMPERIALE 18 18 ITALIANO 4 5 16 25 4 LERCARO 9 32 41 LOMELLINO 82 1 83 1 MARINI 4 33 37 6 NEGRO 30 30 1 NEGRONE 33 33 PALLA VICINO 36 36 17 PINELLI 18 5 23 25 PROMONTORIO 13 SALVAGO 8 8 23 39 3 SAULI 1 SPINOLA 200 200 USODIMARE 7 16 23 VIVALDI 21 21 11 Totale 529 344 79 952 313 6 7 8 9 10 11 12 13 i neri nercanti JS neri ‘u Ή U i+-i ci a V "o ce u a, In o Mercant Totale i V Artefici V Popolar jj Totale V-M o O a G o o "rt (J υ {-4 ψΐ-j o O £ V <υ 'Z, 2 z s s CALVI 3 10 2 15 2 12 CATTANEO 7 8 9 24 2 1 CENTURIONE 30 7 37 2 CIBO 3 3 12 10 CICALA 9 9 12 DORIA 69 3 72 2 FIESCHI 17 17 1 1 FORNARI 30 2 FRANCHI 48 3 GENTILE 8 2 19 29 3 GIUSTINIANI 41 4 GRILLO 17 17 7 GRIMALDI 41 41 1 IMPERIALE 12 12 ITALIANO 1 3 10 14 4 2 LERCARO 5 23 28 2 LOMELLINO 59 59 1 7 MARINI 21 21 1 1 NEGRO 20 20 1 NEGRONE 26 26 PALLAVICINO 22 22 11 2 PINELLI 13 1 14 18 3 PROMONTORIO 6 SALVAGO 7 5 16 28 2 SAULI 23 SPINOLA 159 159 USODIMARE 5 13 18 1 VIVALDI 21 21 7 Totale 414 233 59 706 199 89 7 8 9 10 11 12 13 c 2 "j-l 2 'B Λ u « O e o « a <υ 3 G 4-1 6 « jy 'y ’o 'rt rt JU JS « ì+j V4-< O 'w Q υ a o o < < H cS H H H 14 2 5 7 21 36 3 4 8 12 10 25 49 2 5 11 16 7 25 62 22 4 1 5 11 38 41 12 4 4 10 26 35 2 5 10 15 6 23 95 2 8 10 18 8 28 45 32 5 4 9 3 44 44 51 7 8 15 8 74 74 3 5 8 13 2 18 47 45 2 1 3 11 59 59 7 6 1 7 4 18 35 1 10 9 19 13 33 74 9 8 17 2 19 31 6 9 12 21 3 30 44 2 6 6 12 5 19 47 8 10 2 12 3 23 82 2 4 2 6 10 18 39 1 19 2 21 4 26 46 11 6 17 5 22 48 13 4 4 8 25 47 21 1 6 7 6 34 48 6 18 18 2 26 26 2 18 3 21 5 28 56 23 7 13 20 7 50 50 9 15 24 4 28 187 1 6 9 15 2 18 36 7 2 2 4 13 34 288 198 162 360 163 811 1517 — 379 — TABELLA IX Gli approbandi nel « libro » dell’ottobre CALVI CATTANEO CENTURIONE CIBO CICALA DORIA FIESCHI FORNARI FRANCHI GENTILE GIUSTINIANI GRILLO GRIMALDI IMPERIALE ITALIANO LERCARO LOMELLINO MARINI NEGRO NEGRONE PALLA VICINO PINELLI PROMONTORIO SALVAGO SAULI SPINOLA USODIMARE VIVALDI Totale 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 2 ΐ> c 'Π G « u ce ce c 'IH 0 G * n ce ce <3 0 G <υ 3 L-i tx c G 6 G ce o a U C G u :b ;g (L· t-l jj V 4-* "o o *ce o Z o V s J-l u o a H 4-1 Z t-i s < < H o H 2 2 3 3 6 6 9 18 20 4 3 2 9 5 2 7 3 3 6 16 25 5 5 4 1 5 10 15 20 1 1 1 3 4 1 3 4 11 19 20 7 2 9 5 5 4 4 8 17 26 9 9 4 4 1 1 8 13 22 5 5 3 3 3 1 4 3 10 15 2 2 1 2 3 10 15 15 24 24 3 3 6 12 42 42 1 4 5 2 2 4 3 7 8 17 22 22 4 26 2 2 8 36 36 2 2 1 3 4 3 5 8 9 21 23 2 2 1 3 4 1 5 7 4 4 6 5 11 8 19 23 5 5 5 3 8 10 18 23 1 9 10 10 10 2 12 22 5 5 2 2 3 3 11 16 21 1 10 11 1 1 5 5 7 13 24 5 5 1 2 3 10 13 18 3 3 8 1 9 4 13 16 6 6 5 5 5 5 3 13 19 3 3 5 5 3 2 5 14 24 27 4 4 7 7 13 24 24 1 3 4 6 1 7 4 11 15 1 1 4 3 7 7 15 15 29 29 3 3 6 5 11 40 2 1 3 2 4 6 7 13 16 4 4 3 3 17 24 24 77 46 14 137 79 27 106 101 51 152 225 483 620 — 380 — TABELLA X Gli « esclusi » fra l’aprile e l’ottobre 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 2 3 a U υ c 2 ’u « U G ce u "o C3 u c C ’u 3 3 G u 13 4) 1» *s a 13 <υ 0 V C M o G e E w a .-H c G V !2 u C3 11 jy 13 13 *73 u u M-l « o Q « i-t (-1 υ a o o V n o z z H s 2 < < w H £ 2; P-. CALVI 4 4 1 7 8 1 1 2 10 14 CATTANEO 9 4 4 17 6 3 9 4 3 7 2 18 35 CENTURIONE 8 8 1 1 2 2 3 6 14 CIBO 3 5 8 3 3 5 16 16 CICALA 10 3 13 5 5 4 4 9 22 DORIA 20 20 1 8 9 1 10 30 FIESCHI 12 12 6 6 3 2 5 5 16 28 FORNARI 19 19 3 4 7 1 27 27 FRANCHI 32 32 1 1 4 37 37 GENTILE 2 6 8 3 3 5 4 9 1 13 21 GIUSTINIANI 22 5 27 6 6 6 39 39 GRILLO 2 2 3 3 6 5 11 13 GRIMALDI 9 9 2 5 7 1 8 17 IMPERIALE 6 6 3 7 10 4 14 20 ITALIANO 3 2 6 11 1 1 2 7 9 5 15 26 LERCARO 4 9 13 2 2 4 4 8 1 11 24 LOMELLINO 25 1 26 3 3 3 3 6 32 MARINI 3 14 17 5 1 6 7 13 30 NEGRO 10 10 7 1 8 2 10 20 NEGRONE 8 8 7 3 10 2 12 20 PALLAVICINO 15 15 9 9 3 3 1 13 28 PINELLI 5 1 6 8 8 4 4 2 14 20 PROMONTORIO 7 7 9 9 16 16 SALVAGO 1 2 8 11 3 3 12 12 3 18 29 SAULI 1 4 5 3 6 9 1 15 15 SPINOLA 42 42 3 4 7 7 49 USODIMARE 2 4 6 2 8 10 10 16 VIVALDI 4 4 12 16 16 Totale 140 99 25 264 127 45 172 91 73 164 74 410 674 — 381 — CALVI CATTANEO CENTURIONE CIBO CICALA DORIA FIESCHI FORNARI FRANCHI GENTILE GIUSTINIANI GRILLO GRIMALDI IMPERIALE ITALIANO LERCARO LOMELLINO MARINI NEGRO NEGRONE PALLAVICINO PINELLI PROMONTORIO SALVAGO SAULI SPINOLA USODIMARE VIVALDI Totale TAVOLA XI Gli « aggiunti » dell’ottobre λ 10 11 12 13 C G 'r iG W S-ι Λ c . . .^5 *—< w'g ^ S ·2 ι> ΰ °< 3 c § -a -a g ^ « a .c a <υ <υ ι-Q ^ ìh w Ίΰ *'<[> *cj Q Ί3 *73 oo 1 1 2 2 2 1 2 2 4 5 9 10 2 1 1 3 4 6 2 2 2 4 4 5 5 5 6 1 1 3 1 4 2 7 13 2 1 1 2 6 8 10 2 2 2 4 4 3 3 2 2 2 7 7 3 3 3 3 1 1 5 6 6 1 1 1 1 1 1 2 8 10 10 3 3 3 3 1 1 6 6 7 7 4 4 4 2 1 1 2 2 3 5 1 3 3 2 5 6 4 4 3 7 7 1 5 1 6 1 7 8 1 3 3 2 2 2 7 8 3 18 13 6 19 40 27 67 1 54 2 10 4 8 2 1 140 2 10 4 9 3 1 158 — 382 — Iniziamo ad analizzare la tabella VII relativa al « libro » dell’aprile. Complessivamente i popolari rappresentano il 53,15% degli ascritti, i nobili il 46,85%. Tra i popolari i totali degli artefici e dei mercanti sono pressoché uguali. In tutti e tre i gruppi i bianchi sono largamente più numerosi dei neri. Quest’ultimo dato non stupisce: la prevalenza numerica dei bianchi all’interno della classe politica genovese è un fatto riconosciuto dalla letteratura e verificabile nelle fonti di archivio38. Anzitutto risulta subito smentita l’idea diffusa che nel 1528 gli artefici fossero stati esclusi dal governo della Repubblica: questa tesi si basa evidentemente più sulla tradizione che non su un’analisi dei contenuti effettivi del « libro »39. Significativo è anche il dato riguardante il rapporto tra nobili e popolari. Questi ultimi sono massicciamente presenti, sono anzi, anche se di poco, in maggioranza. Ma i dati della tabella VII si riferiscono alla prima versione del- 1 'unicus ordo, quella voluta dai Riformatori dell’aprile che, come abbiamo detto, è stata fino ad oggi sconosciuta. Prima di trarre delle conclusioni è necessario interpretare il rimescolamento che portò al « libro » dell’ottobre. Iniziamo con la tabella X redatta in base alla lista degli 38 Lo abbiamo visto per esempio nell’analisi della lista per fazioni (ms. ASG 87). E. Grendi accenna al fenomeno della prevalenza numerica dei bianchi all’interno della nobiltà in Profilo storico cit., p. 245. 39 Vedi ad esempio J. Heers, Gènes au XVe siècle cit., p. 610, dove si afferma che nel 1528 la riforma « met sur pied un véritable gouvernement de la grande ari-stocratie. On crée 28 "alberghi”, qui rassemblent tous les banquiers, marchands; tous les magistrats et les membres des Conseils sont pris parmi les membres de ces "alberghi", ce qui élimine totalement les artisans de la vie politique ». E. Grendi ( Un esempio di arcaismo cit., p. 950) sostiene che la riforma sancì « l’esclusione degli artigiani dalle cariche ». Lo stesso autore sostituisce in lavori successivi (Profilo storico cit., p. 241; Capitazioni e nobiltà cit., p. 403; Andrea Doria cit., p. 151; Introduzione alla storia moderna cit., p. 67) questa tesi con un’altra dal significato pressoché analogo: cioè che nel 1528 vennero inseriti nel « Libro » « i discendenti diretti di coloro che già avevano esercitato le principali cariche prima del 1506, prima cioè della rivolta delle “cappette" ». Anche questa interpretazione non è però suffragata da prove convincenti. Inoltre abbiamo verificato che durante la rivolta non ci fu un significativo ricambio all’interno del ceto dirigente. La «legge dei due terzi » intendeva modificare le proporzioni di presenza nelle magistrature di nobili, mercanti e artefici e non garantire l’accesso alla classe politica di fasce della cittadinanza che prima ne erano escluse. — 383 — « esclusi ». È bene precisare, a scanso di equivoci, che quest’ultimo elenco è stato « costruito » da noi in base al confronto tra i due « libri ». Esso è composto dai nomi di tutti coloro che, ascritti nel « libro » dell’aprile, risultano assenti dalla lista degli approbati dell’ottobre (si tenga presente infatti che una parte di questi « esclusi », 294 su 674, finirono negli approbandi.) I totali della Tabella X presentano per i nobili come per i popolari la consueta proporzione tra bianchi e neri. È quindi evidente che non venne attuata nessuna discriminazione mirante ad espellere dalla classe politica uno dei due « colori ». Più indicativo è, ancora una volta, il rapporto tra nobili e popolari. Dei 674 « esclusi », ben 410 (il 60,83 %) sono popolari, e solo 264 (il 31,17%) sono nobili. Prima i concludere però che i primi uscirono sconfitti dalla drammatica estate del 1528, analizziamo i totali della tabella XI, stilata in base alla lista degli « aggiunti » 40. Di nuovo si riscontra una proporzione tra bianchi e neri che possiamo definire normale: a questo punto è da escludere che un eventua-e scontro tra le fazioni abbia avuto come protagonisti le parti guelfa e ghibellina. Per quanto riguarda il rapporto nobili-popolari vediamo che dei 158 «aggiunti» ben 140 (1*88,6196) sono individui del popo- o e solo 18 (1Ί1,39%) sono invece nobili. Queste ultime cifre riequilibrano quasi esattamente, a livello di percentuali, la sproporzione registrata nelle esclusioni. Osservando infatti i totali della tabella Vili re ativa agli approbati del « libro » dell’ottobre, si nota subito che il rapporto^ tra nobili e popolari resta pressoché invariato rispetto alla prima versione dell unicus ordo: nel «libro» dell’aprile, abbiamo detto, 46,85% nobili e 53,15% popolari, nell’ottobre rispettivamente 46,54% e 53,46%. Quindi la prevalenza del popolo risulta di poco incrementata, mentre al suo interno cresce nettamente, fino a prevalere in modo eciso, la presenza degli artefici. Le considerazioni provvisorie che avevamo formulato analizzando la tabella VII tratta dal « libro » dell’apri-e *riSU *ano pienafliente confermate: nel 1528 non ci fu nesssuna pe-nalizzazione del popolo e tanto meno degli artefici. Come per gli « esclusi », anche in questo caso si tratta di un elenco compi-tobre nCerCa C°nfr0ntand0 ° <> dell’aprile e gli approbati dell’ot- — 384 — Resta da spiegare il dato numerico più evidente: il calo degli ascritti da 2032 in aprile a 1517 in ottobre (continuiamo a considerare Y unicus ordo dell’ottobre composto dai soli approbati). Su questo punto non siamo in grado di dare una risposta precisa, come non siamo in grado di chiarire il reale significato delle differenze esistenti tra i due « libri ». Non abbiamo per ora scoperto documenti che permettano di comprendere che cosa indusse i Riformatori a mutare la struttura e in parte i contenuti del « libro ». Un quesito soprattutto si pone con evidenza. L’inserimento negli approbandi che significato aveva per i 620 genovesi che lo subirono? Fu un atto punitivo o l’apertura di una possibilità di accesso all 'unicus ordo? Le cifre fin qui proposte non ci aiutano più di tanto. Certo per i 294 individui ascritti nell’aprile e che nell’ottobre si ritrovarono in lista d’attesa l’appartenenza alla categoria degli approbandi non dovette essere una buona notizia; per i 326 che vi furono inseriti ex novo (che quindi in aprile non erano stati cooptati) si trattava invece di un primo passo per entrare nella categoria dei cives nobiles. I dati sugli approbandi possono essere ulteriormente scissi. I 294 approbandi ex-ascritti dell’aprile sono per il 49,30% nobili e per il 50,70% popolari. I 326 approbandi inseriti ex novo sono invece per il 98,32 % popolari e solo per l’1,68 % nobili. Osservata da questo punto di vista, l’istituzione di questa nuova categoria sarebbe da considerare come un fatto negativo più per i nobili che per i popolari. Per i primi fu globalmente il sintomo di un declassamento, per i secondi una prima tappa verso l’accesso al nuovo ceto dirigente. Se però guardiamo le stesse cifre dal punto di vista degli « esclusi », vediamo che l’aspetto del problema muta radicalmente: il 54,9% dei nobili esclusi finì negli approbandi, mentre solo il 36,41% dei popolari esclusi ebbe la stessa sorte. Cioè per la maggior parte dei popolari l’esclusione fu senza appello, per molti dei nobili essa poteva essere considerata solo provvisoria. A questo punto riteniamo di aver abbondantemente superato la soglia oltre la quale non è legittimo chiedere alle sole cifre la spiegazione di una scelta dei Riformatori di cui esse, pur essendo il prodotto, non possono dar conto. Possiamo solo fare delle ipotesi, che come tali devono essere considerate. Riprendiamo il problema partendo dal calo degli ascritti che si verificò tra l’aprile e l’ottobre (da 2032 a 1517). Una delle cause che potrebbe aver determinato così numerose « esclusioni » è la pesti- — 385 — lenza dell estate del 1528. Valutare però il numero dei decessi da essa causato risulta difficile. Mancano studi specifici al riguardo41 ; certo è che la peste di quell’anno colpì molto l’immaginazione dei contemporanei e dovette essere realmente assai grave. A parte le testimonianze del Giustiniani, in seguito riprese dagli annalisti genovesi cinque e secenteschi , troviamo notizie del contagio che colpì la città anche nei Diari del Sanudo. Questi trascrisse una lettera di Pasquale de’ Pasquali che in data 14 novembre 1528 affermava quanto segue: Et a proposito dovete saper quanto crudel e contagiosa sia stata la peste di tutta questa estate passata a Genoa, et quanto processo gli habbia fatto, che è stato ancor più de quello possiate haver inteso, però che a memoria de homeni non fu mai vista una tanta e cosi generai contagione43. La lettera del de’ Pasquali prosegue illustrando i disastrosi effetti della peste sull apparato difensivo della città, quando essa era ancora in mano al Trivulzio. Unico rimedio per i genovesi rimase la fuga, e « per quella cagione la città era del tutto dishabitata et derelita et li cittadini che sono rimasti si erano ridotti alle ville et a li monti per conservarsi ». Un’altra lettera copiata dal Sanudo e scritta il 4 ottobre da Francesco Doria a « Sier Hironimo di Nicolò in Venetia » (anch’egli probabilmente un Doria) fornisce il tragico resoconto degli effetti del Vi è inoltre una vistosa discordanza tra le valutazioni sulla popolazione complessiva di Genova nella prima età moderna proposte anche recentemente dagli stona: J. Heers (Gènes au XVe siècle cit., pp. 23-46) parla di 100.000 unità. Questa cifra risulta drasticamente dimezzata negli attenti studi di G. Felloni (Per la storia della popolazione di Genova nei secoli XVI e XVII, in « Archivio Storico Italiano », CX, 1952; e Popolazione e case a Genova nel 1531-35, in « Atti della Società Ligure di Storia Patria», n.s., IV, 1964, pp. 303-323). In A. Giustiniani, Annali cit., c. CCLXXIX v., si afferma che nel 1528 ci fu « una pestilenza tanto grande che i vecchi dicono che la pestilenza del mille quatro-cento novanta tre et molte altre che si ricordano per eccessive in comparation di questa furono nulla. Et la città col paese restò grandemente despopulata ». Particolarmente viva un’altra testimonianza diretta, quella di G. Saivago (Historie di Genova cit., c. 29 r.), che parla di « una crudelissima peste [...] de la quale tanto ne la città, quanto^ nel dominio, ne moriteno migliaia et migliaia di persone, di modo che la città restò tutta vacua di habitanti et solum le mura con lo essere cresciute le herbi per le strade: spetaculo horendo da vederse ». 43 M. Sanudo, 1 diarii cit., voi. XLVIII, coll. 206-207. — 386 — morbo: « de la quale peste se ne è morto assai et se stima che in tutto lo genoese sia morto centomila persone, infra li quali qui a Zena 10 milia »44. Ma è soprattutto una frase della lettera che attira la nostra attenzione: « et è morto de li mercadanti et ricchi assai, li quali hanno dato per la mercantia grande danno a la città»45. Vittime della peste si contarono quindi anche negli strati alti della popolazione, per cui una parte delle « esclusioni » definitive che abbiamo rilevato confrontando il « libro » dell’ottobre con quello dell’aprile avvenne senza dubbio in seguito a decessi. Inoltre, vista la fuga dei cittadini « alle ville et a li monti », è anche possibile che gli approbandi o parte di essi fossero individui non presenti in città di cui mancavano notizie certe. È probabile però che criteri di tipo politico siano stati seguiti dai Riformatori nel dividere i cittadini in approbati ed approbandi o nell’esclu-derne altri dall 'unicus ordo. L’ipotesi più ovvia è che tra gli « esclusi » o gli approbandi fossero stati posti i membri più compromessi del partito filofrancese dei Fregoso: ad esempio un Giovanni Gioacchino Da Passano, eminente genovese al servizio del re di Francia, per il quale svolse importanti missioni diplomatiche, dopo essere stato inserito nell’albergo Lomellino in aprile non fu ascritto in ottobre nonostante fosse ancora in vita46. Se questo fu il criterio, non venne però applicato in modo rigoroso, in quanto fra gli approbati dell’ottobre troviamo nell’albergo Cattaneo Benedetto Tagliacarne, che era precettore dei figli di Francesco 147. 44 Ivi, col. 121. Riportiamo qui una notizia sulla consistenza demografica della popolazione genovese tratta dalla corrispondenza dall’ambasciatore cesareo Lope de Soria. In una lettera a Carlo V dell’ll maggio 1527 (RAHM, ms. A-40, cc. 386-397) egli comunicava che le autorità cittadine, per la carenza di vettovaglie, avevano fatto una « nomina de la gente que era dentro de la ciudad para variar della, y se hallaron passadas sessenta mil bocas sin los monasterios ». Se da questa cifra togliamo i 10.000 morti per peste del 1528, indicati nella lettera di Francesco Doria, otteniamo un totale di un ordine di grandezza assai vicino a quello indicato da G. Felloni per il 1531-1535 (Popolazione e case cit.). « M. Sanudo, I diarii cit., voi. XLVIII, col. 121. Anche G. Saivago (Historie di Genova cit., p. 29 r) dice trattarsi di una pestilenza «de la quale ne moriteno infinite persone, masime cittadini principali ». « Sulla figura del De Passano, vedi G. Saivago, Historie di Genova cit., c. 22 r. e sgg., oltre ai materiali sopra citati, p. 271 e sgg. 47 Bisogna però tenere presente anche il fatto che, mentre il Tagliacarne era - 387 - Comunque questi dubbi e queste incertezze non sminuiscono più di tanto 1 utilità del lavoro sulle liste. La Tabella Vili, frutto della dissezione dell unicus ordo secondo il criterio dell’appartenenza politica, fornisce una chiave per penetrare i reali significati della parte istituzionale della riforma. 7. L « unicus ordo » e le norme elettorali del 1528 È così giunto il momento di abbandonare l’analisi comparata dei due « libri delle descrizioni ». Non ci è possibile per ora fornire ulteriori elementi per risolvere i quesiti posti da tale confronto. Non ci rimane quindi che rivolgere la nostra attenzione all’obiettivo principale di questo capitolo: scoprire cioè con quali equilibri e con quali indirizzi si aprì, nel 1528, la nuova fase della vita politica genovese. Conoscendo la struttura dell’unicus ordo e i sistemi di elezione stabiliti dalla riforma, siamo ora in grado di fare ipotesi precise e suffragate da un ampia serie di riscontri. Iniziamo dalle assemblee cittadine, ricordando brevemente quanto stabilirono le leggi per la designazione dei loro membri. Abbiamo detto che i quattrocento del Consiglio Maggiore dovevano essere per il primo anno nominati con un sistema misto: trecento a sorte tra tutti i componenti del « libro » e cento « a balle » dai Riformatori. Gli stessi, sempre e solo per il primo anno, si riservarono anche il potere di scegliere, tra i quattrocento del Consiglio Maggiore, anche i cento membri del Minore. In ogni fase di questa procedura si doveva rispettare il principio dell equa ripartizione tra i ventotto alberghi. Era previsto poi il rinnovo annuale a sorte (sia degli uscenti che degli entranti) di cento membri del Consiglio Maggiore e il rinnovo a sorte dell’intero Consiglio Minore, sempre nel rispetto della paritaria rappresentanza tra gli alberghi. Ancora di recente e stata sostenuta la tesi che questa norma su- ormai fuori dalla vita politica genovese, il Da Passano era nel 1528 ancora una personalità di primissimo piano. — 388 — gli alberghi costituiva il più chiaro sintomo del predominio dei nobili all’interno del nuovo apparato instituzionale creato dalla riforma, e ciò a causa dell’evidente sproporzione tra alberghi nobili e popolari nella misura di 23 a 5 48. Questa conclusione è del tutto errata in quanto si basa su un equivoco di fondo circa i contenuti del « libro delle descrizioni ». Di fatto si è ritenuto che i 23 alberghi di origine nobiliare fossero composti di soli nobili e che quindi tutti i popolari fossero confluiti nei 5 alberghi di origine popolare49. Ciò avrebbe poi pesantemente influito sulla vita politica cittadina al momento del riacutizzarsi dei contrasti tra « vecchi » e « nuovi » 50. La situazione era invece ben diversa. Riprendiamo a questo punto la Tabella Vili riguardante gli approbati dell’ottobre ed estraiamo da essa i soli dati riguardanti le presenze complessive di nobili e di popolari in ciascuno degli alberghi (Tabella XII) : 48 G. Forcheri (Dalle « Regulae » costituzionali cit., p. 12 e sgg.), interpretando le norme che regolavano la formazione dei Consigli, afferma che i ventitré alberghi nobili (di nobili « vecchi ») e i cinque popolari (di nobili « nuovi ») « nonostante fossero dichiarati paritari, si trovavano collocati su due sponde politiche opposte, cosicché, disporre la proporzionale partecipazione al Consiglio di tutti gli alberghi significava, dal punto di vista politico, istituzionalizzare la prevalenza di quelli dei vecchi nel rapporto da 23 a 5, nonostante il forte numero delle persone che facevano parte di quelli dei nuovi ». A. Petracchi (Norma e prassi I cit., p. 46) sostiene che i nobili vecchi sarebbero stati « favoriti nelle elezioni in cui la scelta era proporzionale agli alberghi ». 49 Sempre A. Petracchi (ibid.) parla di ventotto alberghi « ai quali si unirono ora (nel 1528) i rami collaterali », evidentemente pensando che solo individui legati da parentela ai ventitré alberghi nobili prescelti fossero confluiti in essi. La posizione di G. Forcheri (Dalle «Regulae» costituzionali cit., p. 12) e in parte diversa. Egli ammette: « non può affermarsi che dei primi [i ventitré alberghi nobili] facessero parte esclusivamente persone che provenivano dalla nobiltà tradizionale e dei secondi [i cinque alberghi popolari] soggetti di origine popolare ». Non attribuisce però a questo fatto alcun peso politico, presumendo forse che i popolari eventualmente inseriti in alberghi nobili avessero aderito alla fazione dei loro « ospiti ». Più oltre (ibid., p. 18) afferma tuttavia che i popolari erano «riuniti in soli cinque alberghi ». 50 Da queste ipotesi errate sulla composizione dei 28 alberghi derivano le difficoltà incontrate da A. Petracchi (Norma e prassi I cit., p. 46 e Norma e prassi II cit., p. 526) nello spiegare gli equilibri politici successivi al 1528. — 389 — TABELLA XII Distribuzione nei ventotto alberghi e fra nobili e popolari dei 1517 cittadini ascritti nell’ottobre 1528. Albergo Nob. Pop. Tot. Albergo Nob. Pop. Tot. CALVI 15 21 36 ITALIANO 14 30 44 CATTANEO 24 25 49 LERCARO 28 19 47 CENTURIONE 37 25 62 LOMELLINO 59 23 82 CIBO 3 38 41 MARINI 21 18 39 CICALA 9 26 35 NEGRO 20 26 46 DORIA 72 23 95 NEGRONE 26 22 48 FIESCHI 17 28 45 PALLA VICINO 22 25 47 * FORNARI 44 44 PINELLI 14 34 48 * FRANCHI 74 74 ···· PROMONTORIO 26 26 GENTILE 29 18 47 SALVAGO 28 28 56 * GIUSTINIANI 59 59 *SAULI 50 50 GRILLO 17 18 35 SPINOLA 159 28 187 GRIMALDI 41 33 74 USODIMARE 18 18 36 IMPERIALE 12 19 31 VIVALDI 21 13 34 Totale 706 811 1517 Come si può vedere da questo prospetto i cinque alberghi popolari erano composti da soli mercanti e artefici; al contrario i ventitré alberghi nobili non erano affatto composti unicamente o quasi di nobili. Solo in dieci dei ventitré si registra una prevalenza della nobiltà, in undici c’è una maggioranza di popolari, mentre nei Saivago e negli Uso-dimare i due gruppi si equivalgono esattamente. Ma vediamo in base a queste cifre che cosa poteva accadere all’atto di eleggere il Maggior Consiglio. La norma sull’equa ripartizione fra i 28 alberghi comportava che ad ognuno di essi spettassero circa 14 consiglieri. Dai 5 alberghi che risultano essere composti di soli popolari provenivano quindi circa 70 membri del Consiglio che dovevano essere necessariamente popolari (se — 390 — si tiene poi conto che l’albergo Cibo era composto di 3 nobili e 38 popolari, tale cifra può essere portata tranquillamente a 83-84). La prevalenza della componente popolare in oltre la metà dei rimanenti 23 alberghi nobili dava all’elezione per sorteggio un significato politico preciso. Da un punto di vista di probabilità statistica i nobili risultavano nettamente sfavoriti. Altre circostanze, e soprattutto la grande concentrazione dei nobili in pochi alberghi, tendevano ad accentuare lo squilibrio del sistema a favore del popolo. Il 32,72% di tutti i nobili (231 su 706) si trovava raccolto in due soli alberghi (Spinola e Doria), che potevano però esprimere solo 28 consiglieri, il 7 % dei membri dell’assemblea. Eseguendo gli stessi conteggi per i 5 alberghi composti di soli popolari, otteniamo risultati ben diversi: essi contengono il 31,2% dei popolari, ed esprimono però il 17,5% dei 400 membri del Maggior Consiglio. Le cifre della Tabella XII possono essere elaborate in altri modi: ad esempio, facendo l’ipotesi che i 14 consiglieri dell’albergo Spinola fossero tutti nobili, vediamo che ogni consigliere rappresenta ben 11 membri della famiglia Spinola. Se invece eseguiamo questo conteggio per l’albergo popolare più numeroso (i Franchi) si ottiene un coefficiente di rappresentanza di 1 a 5. Considerando invece il più piccolo albergo popolare (i Promontorio) tale coefficiente non è neppure di 1 a 2: cioè la probabilità di entrare a far parte del Consiglio per i 26 Promontorio era altissima, mentre al contrario risultava estremamente bassa per gli Spinola. Gli Spinola « originari » rappresentavano 1*85,03% del totale dei membri del loro albergo (159 su 187) e da soli più del 10% di tutti gli ascritti al « libro »: una forza notevole ma sterile, in quanto l’albergo Spinola poteva esprimere come gli altri solo 14 consiglieri. In sostanza la tesi tradizionale può essere tranquillamente ribaltata. Se l’elezione del Consiglio Maggiore fosse stata affidata alla sola sorte, la prevalenza dei popolari sarebbe stata modesta (perlomeno fino a quando l’accumularsi delle ascrizioni annuali non avesse ulteriormente accentuato gli squilibri interni a Viunicus ordo). La norma della proporzionalità tra gli alberghi rese invece da subito inevitabile una larga maggioranza popolare nelle assemblee cittadine. È inutile dilungarci sul Consiglio Minore: esso era l’immagine su scala ridotta di quello Maggiore. Non ci resta a questo punto che verificare le nostre conclusioni analizzando i Consigli degli anni immedia- — 391 — tamente successivi alla riforma. La prima elezione avvenne subito dopo che le leggi furono emanate, probabilmente già nell’ottobre del 1528. Le liste dei membri delle due assemblee sono nel volume dei manuali del Senato di quell’anno51. Presentiamo quindi nella tabella XIII la composizione del Consiglio Maggiore, ripartendo i membri di ciascun albergo in nobili e popolari; un identico criterio è stato seguito nel compilare la tabella XIV relativa al Consiglio Minore: TABELLA XIII Distribuzione nei ventotto alberghi e fra nobili e « popolari » dei membri del Maggior Consiglio del 1528 Albergo Nob. Pop. Tot. Albergo Nob. Pop. Tot. CALVI 3 9 12 ITALIANO 7 8 15 CATTANEO 8 8 16 LERCARO 8 5 13 CENTURIONE 8 10 18 LOMELLINO 8 10 18 CIBO 12 12 MARINI 8 4 12 CICALA 6 9 15 NEGRO 5 7 12 DORIA 14 4 18 NEGRONE 6 6 12 FIESCHI 7 7 14 PALLAVICINO 8 6 14 *FORNARI 12 12 PINELLI 2 11 13 * FRANCHI 17 17 * PROMONTORIO 11 11 GENTILE 6 7 13 SALVAGO 7 5 12 * GIUSTINIANI 16 16 * SAULI 15 15 GRILLO 6 5 11 SPINOLA 19 2 21 GRIMALDI 9 8 17 USODIMARE 5 9 14 IMPERIALE 2 10 12 VIVALDI 6 8 14 Totale 158 241 399 51 ASG, Archivio Segreto 752, cc. 28-35. — 392 — TABELLA XIV Distribuzione nei ventotto alberghi e fra nobili e « popolari » dei membri del Minor Consiglio del 1528 Albergo Nob. Pop. Tot. Albergo Nob. Pop. Tot. CALVI 2 2 4 ITALIANO 1 3 4 CATTANEO 1 3 4 LERCARO 3 3 CENTURIONE 2 2 4 LOMELLINO 2 2 4 CIBO 3 3 MARINI 2 1 3 CICALA 2 2 4 NEGRO 2 1 3 DORIA 3 1 4 NEGRONE 3 1 4 FIESCHI 1 2 3 PALLAVICINO 2 2 4 *FORNARI 4 4 PINELLI 3 3 * FRANCHI 4 4 * PROMONTORIO 3 3 GENTILE 2 1 3 SALVAGO 1 2 3 * GIUSTINIANI 4 4 * SAULI 4 4 GRILLO 1 1 2 SPINOLA 4 1 5 GRIMALDI 3 2 5 USODIMARE 2 1 3 IMPERIALE 1 2 3 VIVALDI 2 1 3 Totale 42 58 100 Come si può vedere, in entrambi i Consigli si registra una maggioranza popolare: cospicua per il Maggiore, meno ampia per il Minore. Dobbiamo tuttavia ricordare che in questa prima tornata il sistema elettorale stabilito dalle nuove leggi non funzionava integralmente: come abbiamo visto i Riformatori si erano riservati per il primo anno di scegliere per suffragio 100 dei 400 membri del Consiglio Maggiore e il Minore per intero. Tale facoltà, che i Dodici si erano attribuiti con il dichiarato fine di far accedere ai Consigli, nella prima delicata fase di sperimentazione del rinnovato apparato istituzionale, i cittadini più capaci ed autorevoli 52, permise loro di ridurre lo squilibrio tra nobili e popolari all’in- 52 ASCG, ms. 88, p. 63. — 393 — terno delle assemblee. Una decisione, quest’ultima, dettata dalla volontà di evitare 1 insorgere di motivi di contrasto all'interno dell 'unicus ordo appena creato. La stessa norma sulla divisione paritaria dei posti dei Consigli tra i ventotto alberghi venne applicata in modo assai elastico: la banda di oscillazione è relativamente più ampia che nei Consigli successivi; per il Maggiore si va dagli 11 membri eletti tra i Promontorio e i Grillo ai 22 degli Spinola. Come vedremo tra poco, nel 1529 il margine fu più ristretto: gli alberghi meno rappresentati nel Consiglio Maggiore furono allora i Pinelli e gli Usodimare con 13 membri, il più rappresentato fu di nuovo quello degli Spinola con 17 consiglieri. Queste considerazioni ci esimono da una analisi più approfondita delle assemblee del 1528; analisi che effettueremo invece per l’anno successivo. È la composizione dei Consigli del 1529 che può far piena luce sul significato delle norme elettorali contenute nella riforma. Abbiamo già accennato al fatto che l’8 marzo tali norme furono in parte modificate. I due Consigli sarebbero stati eletti integralmente a sorte tra i membri dell unicus ordo senza alcuna eccezione e i quattrocento consiglieri uscenti sarebbero stati rieleggibili dopo un anno di vacanza53. Troviamo la lista dei membri dei due consigli cittadini, di mano del cancelliere Zino, nello stesso manoscritto contenente il « libro » dell’ottobre. Essa è preceduta dalla seguente nota: MDXXVHII die X marcii Consilium maius quadrigentorum civium hodie sorte extractum ex saculis vigincti octo ubi omnes familiae singulatim insachetatae erant, videlicet illi ex ipsis familiis ad officia, consilia ac magistratus aprobati. Quod consilium habet incipere die prima mai] proximi et durare per totum annum presen-tem, ex quo consilio extrahendi sunt magistratus et offitia a die ipsa mai) Si tratta quindi dei primi consigli eletti secondo le nuove norme emanate 1 8 marzo. Il brano sopra citato ci aiuta anche a capire le modalità con cui avveniva l’estrazione a sorte: i nomi furono tolti ex saculis vigincti octo in cui erano stati posti singulatim i nomi dei membri di 53 Ivi, pp. 169-161. 54 ASG, ms. 181, cc. 55 r. - 57 v. — 394 — ciascuno dei ventotto alberghi. Quindi si usavano ventotto sacchetti, uno per albergo, cosa che rendeva più facile applicare la regola della ripartizione paritaria55. Presentiamo nella tabella XV e XVI i risultati dell’analisi della composizione dei Consigli Maggiore e Minore del 1529: analisi condotta secondo le modalità delle due tabelle precedenti. TABELLA XV Distribuzione nei ventotto alberghi e fra nobili e « popolari » dei membri del Maggior Consiglio del 1529 Albergo Nob. Pop. Tot. Albergo Nob. Pop. Tot. CALVI 5 9 14 ITALIANO 3 11 14 CATTANEO 6 8 14 LERCARO 5 9 14 CENTURIONE 6 8 14 LOMELLINO 10 6 16 CIBO 14 14 MARINI 5 9 14 CICALA 5 9 14 NEGRO 5 9 14 DORIA 12 4 16 NEGRONE 5 9 14 FIESCHI 5 9 14 PALLAVICINO 5 9 14 *FORNARI 14 14 PINELLI 2 11 13 * FRANCHI 14 14 * PROMONTORIO 14 14 GENTILE 9 5 14 SALVAGO 6 8 14 * GIUSTINIANI 16 16 *SAULI 14 14 GRILLO 6 8 14 SPINOLA 16 1 17 GRIMALDI 7 7 14 USODIMARE 4 9 13 IMPERIALE 3 11 14 VIVALDI 5 9 14 Totale 135 264 399 55 A. Petracchi avanza dei dubbi sulla effettiva applicazione della norma relativa alla rappresentanza paritaria dei ventotto alberghi all’interno dei Consigli (Norma e prassi II cit., pp. 533-534 e 560). L’esame della lista originale dei membri delle assemblee del 1529 fuga del tutto queste perplessità. — 395 — TABELLA XVI Distribuzione nei ventotto alberghi e fra nobili e « popolari » dei membri del Minor Consiglio del 1529 Albergo Nob. Pop. Tot. CALVI 1 3 4 CATTANEO 1 2 3 CENTURIONE 1 2 3 CIBO 3 3 CICALA 1 2 3 DORIA 2 2 4 FIESCHI 1 2 3 *FORNARI 4 4 * FRANCHI 3 3 GENTILE 2 1 3 * GIUSTINIANI 3 3 GRILLO 2 2 4 GRIMALDI 2 1 3 IMPERIALE 4 4 Albergo Nob. Pop. Tot. ITALIANO 3 3 LERCARO 2 1 3 LOMELLINO 1 3 4 MARINI 3 3 NEGRO 2 2 4 NEGRONE 2 2 4 PALLA VICINO 1 2 3 PINELLI 1 2 3 * PROMONTORIO 3 3 SALVAGO 2 1 3 *SAULI 3 3 SPINOLA 3 1 4 USODIMARE 1 2 3 VIVALDI 2 1 3 Totale 30 63 93 Allorché i Consigli furono designati integralmente a sorte, in entrambi la maggioranza popolare divenne schiacciante. Anche questa volta, nel Maggiore i cinque alberghi di origine popolare ed anche l’albergo Cibo erano rappresentati unicamente da membri del popolo, e ciò costituiva uno dei fattori decisivi nel determinare la valenza politica del sistema elettorale. Per gli altri 22 alberghi di origine nobiliare si hanno le seguenti cifre: in 17 si registra una prevalenza dei consiglieri popolari, in 4 una prevalenza di quelli nobili, in uno (i Grimaldi) i due gruppi sono rappresentati dallo stesso numero di individui. Risulta evidente inoltre che il modo in cui i popolari erano distribuiti al- 1 interno degli alberghi nobili finiva per avvantaggiare i primi, in quanto la norma sulla rappresentanza paritetica degli alberghi favoriva i membri degli alberghi meno numerosi, ed è proprio in questi ultimi che troviamo consistenti maggioranze popolari: come nei Cibo, nei Ci- — 396 — cala, nei Fieschi, negli Italiano. Per contro la stessa norma penalizzava fortemente le grandi concentrazioni nobiliari (Doria, Lomellino, Spinola) e con esse la nobiltà nel suo insieme. Nel Consiglio Minore si ripropone, ed anzi si aggrava lo stato di inferiorità numerica dei nobili. Le conseguenze di un simile stato di cose erano notevoli, visto che un’ampia quota dei membri di gran parte delle magistrature veniva designata tramite il sorteggio fra i 400 del Maggior Consiglio. E non solo: era appunto il Maggior Consiglio, con la sua maggioranza popolare, che sceglieva fra rose di candidati più o meno numerose il Doge e i Governatori. Si creò quindi una situazione anomala: esisteva a mio giudizio uno squilibrio di fondo nel sistema istituzionale a favore del popolo che poteva essere compensato o reso ininfluente solo da un reale dissolversi dei contrasti interni. Nel contempo però un Consiglio come quello del 1529 era una « spada di Damocle », una minaccia costante per i nobili; in pratica, l’equa distribuzione delle magistrature e l’alternanza al dogato tra nobili e popolari dipendevano da un atto di volontà del popolo mirante al rispetto degli accordi presi. La riforma avrebbe cioè funzionato fintanto che fosse sopravvissuto lo « spirito » dell’« unione » 56. Questa era la situazione nel 1529 e per deliberata scelta non intendiamo spingere le nostre conclusioni oltre questa data. L’obiettivo della ricerca è stato ricostruire la storia dell’ideale di « unione » ed il percorso che condusse alla realizzazione della riforma. In questa sede, gli esiti successivi all’emanazione delle nuove leggi ci interessano solo 56 Sarebbe ozioso a questo punto proseguire nel confronto con la tesi tradizionale in quanto la nostra base documentaria ci ha condotto in una direzione diametralmente opposta. Basti un esempio: G. Forcheri (Dalle «Regulae» costituzionali cit., pp. 16-17), dopo aver analizzato il sistema di elezione dei Governatori, conclude che le norme di vacanza (per i Governatori le leggi del 1528 prevedevano la ineleggibilità per tre anni di tutti i membri di un albergo dopo che uno di loro avesse ricoperto tale carica) avrebbe impedito di sostituire i popolari uscenti con altri popolari. I «vecchi», cioè i membri dei 23 alberghi nobili, avrebbero quindi ottenuto ben presto una maggioranza schiacciante anche in questa magistratura. Una volta appurato che tra gli individui ascritti in questi 23 alberghi c’era un gran numero di popolari, questa tesi risulta destituita di fondamento. — 397 - in quanto ne chiariscono i contenuti. Non siamo per ora in grado di dire fino a quando fu applicata la norma sull’equa ripartizione tra gli alberghi dei membri dei Consigli. Certo è che, se il quadro politicoistituzionale nato dalla riforma fu come lo abbiamo dipinto, la storia genovese dei decenni successivi deve di necessità essere ripensata. Intanto forniamo una testimonianza che vivifichi l’arido lavoro contabile che abbiamo fin qui svolto. A riprova della validità della nostra interpretazione possiamo portare un interessante memoriale scritto da Innocenzo Cibo, cardinale e arcivescovo di Genova57. Il documento, senza data (fu però redatto dal prelato tra il 1545 ed il 1547, periodo in cui egli era di fatto a capo del marchesato di Massa), reca il titolo di « Considerazioni sulla forma di governo di Genova ». Si tratta di una testimonianza significativa, lasciata da un osservatore attento e diretta-mente coinvolto qual era il cardinale Cibo. Analizziamo il contenuto del memoriale58. La prima parte descrit- 57 Archivio di Stato di Massa, Archivio del cardinale Innocenzo Cibo, Carte di corredo, Busta 8, n. 45. Sulla figura del Cibo si veda la voce di F. Petrucci, Innocenzo Cibo, in Dizionario Biografico degli Italiani cit., voi. 25, pp. 249-255. 58 Riportiamo qui il testo integrale del documento: « In Genova sono case di gentilhomini antiche 23 non ostante che prima della riforma ve ne fossero più. Oltre haver riempito le vecchie case delli popolari cioè quelle che non aveano più di 5 case aperte, ne hano adiunto casate cinque che prima era [sic] nominate de mercanti o popolari grassi di modo che li adiunti alle casate 23 vecchie con li cinque novi superano di gran via le case et homini de li gentiluomini antichi. Né per questo né li adiunti nelle case né le 5 per casa de popolari grassi si sono però incorporati né uniti alla nobiltà. Anzi riservatasi quella loro antica volontà et tirar tutti ad uno che sia segur che in mano loro resta più l’autorità del stato che delli gentiluomini vecchi. Oltre a questo è in auctorità del collegio della signoria et procuratori ogni anno anobilitar fino al numero di 7 che in processo di tempo etc. De tucti li soprascripti homeni e casati che de 1100 o 200 in circa de 17 [anni] in su se ne cava 400 [a] sorte che fanno il consiglio generale. Appresso de quelli è tutta l’autorità. Et per crearsi così il duce come la signoria per li suffragi et extractione a sorte secundo la forma delli capitoli delle reformatione ne nasce che essendo loro popolari più in numero li è più facile di creare de loro et delli gentiluomini delle case hanti-che chi li pare et stando così si pò più presto chiamare questo modo di governo più iustamente stato populare che de optimati nonostante che fino a qui non se sia — 398 — tiva concorda con quanto si era desunto dall’esame del « libro delle descrizioni »: a Genova esistevano 23 casate antiche di « gentilhomini », di nobili « vecchi », che però i Riformatori avevano « riempito » (il termine non è certo improprio) di uomini del « popolo ». I popolari « adiun-ti alle casate 23 vecchie » più gli ascritti ai 5 alberghi « che prima era nominate de’ mercanti o popolari grassi », erano in netta maggioranza all’interno dell 'unicus ordo (« superano di gran via le case de li genti-luomeni antichi »). Anche quest’affermazione è pienamente comprovata dall’analisi delle liste e, senza dubbio, dopo il 1528, lo squilibrio tra nobili vecchi e nuovi si accentuò a causa delle varie ascrizioni, ordinarie e straordinarie. Si sente poi nel Cibo la voce dell’uomo di parte nobiliare: i popolari, tradendo per così dire lo spirito dell’« unione », non si erano « incorporati et uniti alla nobiltà ». Avevano anzi continuato ad agire con una volontà politica concorde (così può essere interpretato il brano « riservandosi quella loro antica volontà et tirar tutti ad uno ») con l’obiettivo (« che sia segur ») di far sì che « in man loro resta più l’autorità del stato che delli gentiluomeni vecchi ». Evidentemente il clima politico del 1528 era ormai lontano. Dissipatesi col tempo le minacce che avevano spinto i cittadini genovesi all’« unione », acquistata quella stabilità che era l’obiettivo fondamentale dei fautori della riforma, il vecchio antagonismo tra nobili e popolari si era riacceso ed il sistema istituzionale si era rivelato favorevole ad una rinnovata prevalenza del « popolo ». Dopo aver accennato al meccanismo delle ascrizioni annuali, destinate peraltro ad aumentare la sproporzione numerica tra nobiltà e popolo all’interno del ceto dirigente, il Cibo analizza i sistemi elettivi che, come abbiamo detto, erano il « cuore » della riforma istituzionale. Anzitutto il Maggior Consiglio: i suoi 400 membri erano scelti estraen- visto effecto nissuno tristo de quello segno della creazione del Duce De Fornari che toccava alle casate vecchie. Creare o riformare uno stato dove fossi quello numero che a le 23 case vecchie con relassare li adiu[n]ti et delle cinque aggiungerneli fino al numero de altre 23 deli quali gentiluomini antichi et casate habilitate al stato se elegessi uno per casa de età et fama convenienti et creare uno duce a vita ed 8 signori et così quelli altri magistrati della città che concernessi la fermezza del stato ». — 399 — done a sorte i nomi tra coloro che facevano parte dell 'unicus ordo, e, afferma il prelato, « appresso de quelli è tutta l’autorità »59. Secondo il Cibo erano proprio i meccanismi elettorali vigenti per la designazione del Supremo Magistrato (« et per crearsi così il duce come la signoria per li suffragi et extractione a sorte secundo la forma de li capitoli delle reformatione ») a far sì (« ne nasce ») che i popolari, in maggioranza alPinterno del Consiglio Maggiore (« essendo loro popolari più in numero ») potessero condizionare a proprio vaneggio la scelta dei magistrati («li è più facile di creare de loro et delli gentiluomini delle case antiche che li pare »). Il documento contiene poi una frase che e il riassunto di buona parte del nostro lavoro: « et stando così si pò più presto chiamare questo modo di governo più iustamente stato populare che de optimati ». Un’affermazione che, fatta da un partigiano dei vecchi, sembra addirittura forzare il significato delle ipotesi che abbiamo proposto. A noi, in fondo, premeva dimostrare che i popolari non uscirono penalizzati dalla riforma del 1528, ma che anzi, più numerosi dei nobili nel « libro », essi riuscirono a conquistare la maggioranza nel Consiglio Maggiore. La successiva parte del memoriale permette una sua datazione approssimativa: questo stato di cose non ha causato « fino a qui » — afferma il Cibo — « effecto nessuno tristo », al di fuori dell’elezione del Doge popolare Giovanni Battista De Fornari, avvenuta quando tale carica « toccava alle casate vecchie ». Il documento è quindi posteriore al 4 gennaio del 1545, data in cui fu eletto il De Fornari, e precedente la legge del « Garibetto », varata alla fine del 1547, che, con alcuni ritocchi al testo del 1528, garantì l’equa ripartizione delle magistrature tra « vecchi » e « nuovi ». La frase « toccava alle casate vecchie » riferita alla massima carica della Repubblica significa che, sebbene non scritta, era operante la regola dell’alternanza tra nobili e popolari al dogato60. Il cardinale è impreciso quando parla di millecento o milleduecento individui come totale dei membri delYunicus ordo. L’espressione « de 17 in su » è riferita all età minima dei consiglieri (la stessa prevista per le ascrizioni dei figli) che era peraltro di 18 e non di 17 anni (ASG, ms. 88, pp. 58-59 e 62), a meno che la norma del 1528 non fosse stata in seguito modificata. Mentre per gli « uffici » formati di più membri si procedeva alla divisione — 400 — Innocenzo Cibo concluse il suo memoriale escogitando una modifica dell’assetto istituzionale61. Per riformare lo stato bisognava scorporare (« relassare ») dai 23 alberghi nobili (« case vecchie ») i popolari che vi erano stati inseriti nel 1528 (« li adiunti »). Questi popolari dovevano poi essere riuniti in 18 alberghi che, insieme ai 5 alberghi « nuovi » già esistenti, avrebbe portato il numero di questi ultimi a 23. A 46 grandi elettori, uno per albergo, doveva essere affidato il compito di designare « uno doge a vita », « 8 signori » (i Governatori) e le più importanti magistrature. Quest’ultima parte del documento dimostra ancora una volta come si fosse ormai lontani dal 1528. Tanto lontani che si poteva, dimenticando le grandi calamità del periodo dei Dogi perpetui, caldeggiare l’elezione di un Doge a vita. Su Genova negli anni '40 del Cinquecento si sa troppo poco (e noi non abbiamo ancora svolto ricerche specifiche su questo periodo) per valutare la rilevanza politica concreta che ebbe questa proposta. Essa comunque ci aiuta a capire gli esiti della riforma del 1528. Ancora alla data di stesura del memoriale, il problema da risolvere era la designazione del Maggior Consiglio in cui esisteva una ormai consolidata maggioranza popolare. Non sappiamo da quale procedura tale maggioranza fosse prodotta nei primi anni quaranta del Cinquecento: se fosse cioè il frutto della norma sull’equa ripartizione tra gli alberghi dei membri dei « posti », per il Doge, magistratura individuale, la ripartizione era garantita dall’alternanza. 61 Si pone così anche il problema del perché il Cibo avesse redatto questa memoria. Una proposta di riforma dello stato genovese fatta da un personaggio di tale levatura lascia incuriositi. Ricordiamo che perlomeno dal 1530 il cardinale era divenuto uno strenuo difensore degli interessi di Carlo V in Italia. Egli ebbe un ruolo di primissimo piano nella vita politica fiorentina sotto Alessandro de’ Medici; gestì il passaggio dello stato a Cosimo I di cui si attirò l’inimicizia per i suoi atteggiamenti filospagnoli; accolse l’imperatore a Genova il 2 settembre 1541 e lo ospitò in altre occasioni durante il suo soggiorno nella penisola; grazie a Carlo V divenne nell’aprile del 1542 «cardinale protettore di Allemagna»; nel 1546-47, durante i contrasti tra Ricciarda Malaspina e il figlio Giulio, quest’ultimo dovette consegnare, per volere dell’imperatore, lo stato di Massa proprio allo zio Innocenzo Cibo. Questi strettissimi legami tra il cardinale e Carlo V ed il periodo critico attraversato dal dominio imperiale in Italia alla metà degli anni quaranta del Cinquecento, rendono plausbile l’ipotesi che il progetto di riforma fosse indirizzato ad un interlocutore imperiale. — 401 — dei Consigli, oppure dell’incremento numerico dei « nuovi » a causa delle ascrizioni successive al 1528. Il Cibo tuttavia cercava delle soluzioni nell’ambito delle coordinate istituzionali create dalla riforma: pensava cioè di modificare il sistema degli alberghi che solo le Leges Novae del 1576 avrebbero definitivamente cancellato. Vi è nel documento un’altra affermazione interessante: « tutta l’autorità » sarebbe concentrata nelle mani dei 400 del Maggior Consiglio. Ceravamo fatti un’idea simile anche se non così decisa, considerando il modo molto esteso con cui nel testo della riforma si era applicato il principio della collegialità. Un’ulteriore conferma viene da una comunicazione del segretario dell’oratore fiorentino a Venezia fatta in data 30 ottobre 1528. Così la registrò il Sanudo: Vene il secretario de l’orator fiorentino dal Serenissimo, et monstrò letere di soi signori X, dì 24, a l’orator suo. Avisano haver letere che a Zenoa hanno creato uno doxe per doi anni, potendo esser refato per tre altri, con 8 conservatori di libertà, di quali do stagino sempre col Doxe in palazo. Questi però non hanno molta autorità senza un Conseio di 400. Hanno etiam facto 8 procuratori del Comun, et 5 sindaci, nel numero di quali è missier Andrea Doria62. In questo riassunto del Sanudo (o nell’originale relazione del segretario) ci sono alcune inesattezze: i Governatori vengono chiamati « conservatori di libertà » (un nome che non ritroviamo nelle fonti legislative genovesi ma che comunque è suggestivo ed in linea con il clima del 1528), i Supremi Sindacatori prendono il nome di «Sindaci », il Doge, si afferma, cosa non vera, poteva essere prorogato per tre anni dopo la scadenza del mandato biennale. Gli altri particolari sono però esatti: l’obbligo per due degli otto Governatori di risiedere con il Doge nel palazzo pubblico, l’esistenza del Consiglio dei quattrocento, Andrea Doria membro della magistratura dei Sindacatori. Le due testimonianze concordano nel considerare la maggiore assemblea cittadina come un importante centro di potere63. Il fatto poi che le leggi del 62 M. Sanudo, I diarii cit., voi. XLVIII, col. 111. 63 È significativo il fatto che la lettera dell’oratore fiorentino sia del 1528, mentre il memoriale del Cibo è databile tra il 1545 e il 1547. La prima può quindi — 402 — 1547, a parte alcuni ritocchi marginali ai sistemi di designazione del Doge e dei Governatori, furono incentrate sulle norme per eleggere il Maggior Consiglio (era agendo su di esso che si intendeva eliminare il predominio dei popolari sulla politica cittadina), non lascia dubbi circa la sua rilevanza istituzionale. È chiaro che un problema così delicato come quello della ripartizione del potere tra Consigli e magistrature dovrà essere affrontato con un’ampia indagine specifica sull’attività di governo successiva al 1528. Sembrano tuttavia almeno premature, visto l’attuale stato delle conoscenze, talune recenti affermazioni sulla marginalità del ruolo svolto dal Consiglio dei quattrocentoM. A mio giudizio le cose stavano diversa-mente. Nel 1528, alle assemblee cittadine furono attribuiti maggiori compiti rispetto all’epoca precedente. Il ruolo loro assegnato fu il frutto della volontà di realizzare quel principio di gestione collegiale del potere che costituiva uno dei contenuti fondamentali dell’« unione ». 8. Una proposta di reinterpretazione della riforma Cercando di dimostrare che il concetto di « serrata nobiliare » non può essere una valida sintesi dei contenuti della riforma, abbiamo fatto un primo passo, non sufficiente tuttavia per capire che cosa, in positivo, intendessero fare i genovesi nel 1528. Restano oscuri alcuni punti decisivi. Abbiamo appurato che, data la struttura del « libro delle descrizioni », uno squilibrio tra la presenza dei nobili e dei popolari nelle magistrature era inevitabile. Se questi due gruppi promossero 1’« unione » agendo da posizioni di forza sostanzialmente paritarie, è difficile comprendere i motivi che spinsero la nobiltà ad accettare, anzi a cooperare attivamente alla costruzione di un assetto istituzionale a lei sfavorevole. essere considerata un tentativo di interpretare le intenzioni dei Riformatori mentre il secondo è una sorta di consuntivo del ventennio precedente la legge del « Garibetto », del periodo in cui la riforma fu applicata nella sua versione originale. 64 Cfr. G. Forcheri, Dalle « Regulae » costituzionali cit., p. 18. — 403 — D’altro canto, l’insieme delle norme contenute nella riforma si configurano come una complessa sperimentazione che, basandosi su un articolato sistema di controlli, su una vasta applicazione del principio della collegialità e su complicati criteri elettorali, mirava, da un lato, ad impedire un ritorno al regime dei Dogi perpetui e, dall’altro, a permettere una convivenza il meno possibile conflittuale fra nobiltà e popolo. L unica possibilità che abbiamo per comprendere il senso globale di tale sperimentazione è quella di porci, con il bagaglio di conoscenze che abbiamo acquisito, nell’ottica dei contemporanei per capire i concreti problemi che i legislatori affrontarono e le soluzioni che intesero proporre. Nel compiere questo mutamento di prospettiva, ci troviamo a dover interpretare i tre elementi cardine delle leggi del 1528: Y unicus ordo, il sistema degli alberghi e il quadro istituzionale. Per quanto riguarda la struttura dell’unicus ordo si impone la scelta tra due diverse ipotesi: o, cosa assai improbabile, i Dodici Riformatori nel redigere i « libri » non furono capaci di prevedere le conseguenze politiche che la loro scelta degli ascritti avrebbe comportato, oppure non poterono (o meglio, non vollero) escludere le ampie fasce sociali popolari e artigiane così largamente presenti tra i cives nobiles. È però la stessa storia dell’ideale d’« unione » ad indicarci la via da seguire. Se qualcosa si è scoperto sulla riforma, è che essa maturò e si definì nelle sue articolazioni in un lungo processo di faticosa e progressiva conquista di sempre più numerose adesioni interne. Nel concreto evolversi del progetto di « unione », il problema fu sempre incrementare la base politica e sociale di consenso e non quello di escludere settori della cittadinanza. La cosa più probabile è che i Riformatori si fossero trovati di fronte ad una fascia non comprimibile di individui di cui era inevitabile e necessaria l’ascrizione aWunicus ordo. Su questa base essi tentarono di edificare un sistema elettorale che salvaguardasse, pur nella sproporzione numerica, l’equilibrio tra i gruppi nobile e popolare. Il secondo problema è più arduo e riguarda il modo in cui fu strutturato il « libro delle descrizioni ». Se, come abbiamo visto, fu la norma sulla ripartizione paritaria dei quattrocento membri del Consiglio Maggiore tra i ventotto alberghi a determinare la prevalenza del popolo in questo punto chiave dell’apparato istituzionale, resta oscuro il perché della creazione del « sistema degli alberghi » come struttura di accesso alla gestione politica della Repubblica degli ascritti all’unicus ordo. — 404 — Per quanti sforzi si facciano, se interpretiamo la riforma alla luce degli eventi successivi al 1528, cioè del riaccendersi del contrasto tra nobili e popolari sotto le rinnovate etichette di nobili vecchi e nuovi, il sistema degli alberghi rimane un’astrusità, e così lo consideravano gli stessi genovesi della seconda metà del Cinquecento. Tutti calati nelle nuove divisioni, essi erano unanimemente scontenti di « quell’indegno empiastro d'Alberghi » che nel 1576 riuscirono infine ad abolire65. Certo gli alberghi a Genova avevano una lunga tradizione; la confluenza in essi di famiglie o singoli individui, spinti non da vincoli di parentela ma dai più vari motivi di ordine economico e politico, era una prassi consolidata. Si tratta però di procedure che riguardavano in primo luogo la sfera privata. Il fatto che nel 1528 si decise di trasferire la « logica » e la « tecnica » degli alberghi, maturata per così dire nella « società », sul piano delle pubbliche istituzioni resta da decifrare. I motivi di questa scelta possono risultare più chiari se consideriamo, come è doveroso, non tanto gli eventi politici che portarono al « Garibetto » e alle Leges Novae del 1576 quanto quelli che precedettero la riforma e che permisero il successo dei suoi fautori. In quest’ottica si impone il pieno recupero della forza ideale del concetto di « unione ». Decenni di alterno dominio degli Adorno e dei Fregoso e, per il loro tramite, delle potenze straniere, avevano fatto maturare in un numero via via crescente di genovesi la ferma volontà di abolire le fazioni. Se da un lato c’era in tutti la coscienza che per risollevare i destini della Repubblica era necessario in primo luogo eliminare la carica di Doge a vita e ricondurre così gli Adorno e i Fregoso allo stato di privati cittadini, dall’altro, come provano i testi legislativi del 1528, l’ideale 65 Questa colorita espressione è in ASCG, ms. 463, scrittura anonima, cc. 286-298, citata in C. Costantini, La Repubblica cit., p. 510. Lo stesso Foglietta, popolare ed accanito difensore dello spirito e della lettera della riforma del 1528 contro coloro che volevano affossarla, alla domanda del perché si ricorse al sistema degli alberghi risponde: « E credo, che come fu bene fare di tutta la cittadinanza un corpo, che così bene si sarebbe potuto fare ciò, lasciando vivi tutti i nomi delle altre famiglie, né vi so vedere difficoltà alcuna contraria, che pare pure cosa crudele spegnere la memoria ed il nome di una casata antica, e per molti egregi meriti chiara, senza alcuna colpa sua » (La Republica di Genova cit., p. 86). - 405 — di « unione » acquistò il significato più generale della rinuncia a tutte le divisioni faziose, compresa quella tra nobili e popolari66. Si credette allora di poter finalmente realizzare con Yunicus ordo quel mito della « pace e concordia » interne che tanto peso aveva avuto nella coscienza collettiva dei genovesi del primo Cinquecento. Con questi presupposti è possibile avanzare ipotesi sul significato del sistema degli alberghi, mettendo l’accento sulla funzione da essi svolta nella riformata struttura dello stato. Se consideriamo in generale i modi in cui si articolava la vita politica nelle Repubbliche cittadine dell’Italia del tardo Rinascimento, è immediatamente verificabile la diffusa tendenza a dare rilievo istituzionale alle forme di aggregazione sorte nel corso dei secoli in ogni distinta realtà urbana. A Genova erano le fazioni (nobili bianchi e neri, popolari bianchi e neri) a regolare l’accesso dei singoli individui al potere. A Siena un simile ruolo era svolto dai « terzi » e dai « monti »67. In entrambi i casi l’evolversi della situazione politico-sociale poteva indurre mutamenti più o meno durevoli nell’equilibrio tra i vari gruppi, ma rimaneva inalterata la struttura del meccanismo di distribuzione delle cariche. Essa forniva le imprescindibili coordinate in base alle quali i contemporanei pensavano o vivevano la lotta politica all’interno delle rispettive realtà cittadine. Nella Genova dei primi tre decenni del Cinquecento fu dolorosamente sperimentata l’impossibilità di conservare ad un tempo la logica interna delle fazioni e la libertà repubblicana in un quadro politico-mi-litare che non era più né regionale né italiano, ma europeo. In questo senso le guerre d’Italia rappresentano un vero spartiacque nella storia della città ligure68. Il conflitto tra Francia e Impero per il predo- 66 L istituzione dei ventotto alberghi fu fatta extincta penitus denominatione popularium aut nobilium eo modo qui hactenus viguit (ASCG, ms. 88, p. 57). 67 Vedi A. K. Isaacs, Popolo e monti nella Siena del primo Cinquecento, in « Rivista Storica Italiana », LXXXII, 1970, pp. 32-80. Il caso di Lucca, in cui i novanta membri del Consiglio Generale venivano scelti in parti uguali all’interno dei « terzieri » cittadini, è forse l’espressione di una realtà più stabilizzata. Vedi M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1965, p. 22 e sgg. 68 II Foglietta (La Republica di Genova cit., p. Ili) mette bene in luce il carattere del mutamento verificatosi con le guerre d’Italia, mutamento che impose — 406 — minio nella penisola pose ai genovesi una specie di ultimatum: o disciplinare la vita politica interna o rinunciare completamente a qualunque possibilità di autogoverno. Abolire le fazioni significava però aprire un vuoto nel sistema politico che doveva essere riempito per due motivi: uno contingente e cioè che senza norme alternative sulla modalità di accesso dei singoli idividui al potere l’esautoramento delle fazioni rischiava di essere una mera espressione di volontà, un’inefficace dichiarazione di principio; il secondo motivo era invece strutturale: l’inserimento dei membri del ceto dirigente in « contenitori collettivi » che incanalassero e regolassero il flusso dei cives agli uffici e alle magistrature rappresentava 1 unico modo in cui risultava concepibile, per i genovesi del primo Cinquecento, il funzionamento dello stato-Repubblica. Posta la situazione in questi termini, e rivalutata a pieno titolo la forza ideale del concetto d’« unione », ci accorgiamo che la scelta, da parte dei Riformatori, degli alberghi come strumento di rifondazione del ceto dirigente cittadino non aveva alternative, in quanto essi erano 1 unica forma strutturata di solidarietà presente si?, tra i nobili che tra i popolari. Nessuno degli altri sistemi aggregativi della società genovese era utilizzabile per un tale scopo. Non lo erano per ovvie ragioni le arti, e neppure le conestagie, entità topografiche in cui si suddivideva 1 organizzazione del populus. I genovesi, obbligati per la prima volta nel Cinquecento da forti pressioni esterne a trasformare il mito dell’unità dei cittadini in concreta prassi politica, avevano a disposizione negli alberghi un valido strumento. Essi lo utilizzarono convinti che come nella « società » gli alberghi si erano rivelati capaci di compattare individui e famiglie non ai genovesi una revisione degli assetti politici interni: « Se le discordie civili ci ridussero spesso a cercare governi forastieri, erano allora certe qualità di tempi, nelle quali era in facoltà dei cittadini medesimi agevolmente mandarli via ogni volta che volevano, come, sempre che quelli governi sono loro rinscresciuti, hanno fatto. Ma ora ciascuno vede che le cose sono talmente cambiate, che non potendosi venire se non in mano de’ principi potentissimi, considerando colui, il quale vi entrasse, di quanta opportunità fosse Genova a’ suoi disegni, e come ella è solita a fastidire e cambiare, spesso li governi forestieri, se ne assicurerebbe in modo che non potriamo scherzare’, e ci ridurrebbe, e con fortezze e con altri infiniti presidj, in uno stato di servitù, la quale Dio proibisca da noi ». - 407 — legati da vincoli di parentela, così, nella sfera politica, potessero costituirsi come poli di aggregazione alternativi rispetto alle fazioni. Inquadrando il ceto dirigente negli alberghi si mirava a destrutturare i gruppi politici preesistenti. Sperimentati da secoli in vista del perseguimento dei più vari interessi privati, gli alberghi vennero inseriti nel sistema istituzionale per la salvaguardia del massimo bene collettivo: la libertà e l’autonomia della Repubblica. Quale fu la concreta procedura seguita dai Riformatori nelPaprile 1528 lo rivela il Trivulzio nella citata lettera del 7 maggio al duca di Ferrara Alfonso d’Este: « hano fatti XXVIII alberghi, sotto li quali hano misso a sorte la maggior parte delli boni cittadini della città »69. Il criterio del sorteggio dovette però essere applicato ai cognomi più che agli individui perché, a parte qualche sporadico caso, quando ci si trovò a dover ascrivere più membri di uno stesso gruppo familiare essi furono inseriti nel medesimo albergo70. I compilatori del « libro » del- 1 ottobre non fecero altro che rielaborare quello dell’aprile, introducendo la già ricordata distinzione tra approbati ed approbandi. Tramite il sorteggio delle famiglie ascritte nei 28 alberghi, i Riformatori cercarono quindi di disperdere i membri delle fazioni. Nobili, popolari, mercanti, artefici, bianchi e neri, e, presumibilmente, partigiani degli Adorno e dei Fregoso vennero mescolati confidando di ottenere con l’assimilazione dei singoli agli alberghi il dissolvimento dello spirito di parte71. In quest’ottica acquista un ulteriore significato la stes- 69 ASM, Archivio Segreto Estense, carteggi di oratori e corrispondenti presso le corti, «Genova», b. 1. 70 G. Saivago (Historie di Genova cit., c. 32 r. ) conferma quanto scritto dal Trivulzio: i Riformatori stabilirono di inserire nelle «XXVIII casate, a sorte, [...] quelli saranno eletti et tenuti habili [al governo] ». Come sempre accade nei periodi di instabilità politica e di rinnovamento, anche nel 1528 ci fu chi cercò appoggi e raccomandazioni personali. È il caso di un certo Ambrogio Rivarola che scrisse il 18 marzo una lettera a Giovanni Gioacchino da Passano chiedendo il suo aiuto per essere « acettato per Cittadino, et esser nello Albergo de Marini dove è intrato mei fratelli, et altri di casa nostra per esser Cittadini, che non intrandovi per mezo vostro, altro non penso farli» (Lettere et altre scritture cit., p. 30). Il Rivarola non ottenne però la desiderata ascrizione sìl’umcus ordo. 71 Un manoscritto anonimo della seconda metà del Cinquecento (BCB, mr. X, 2, 60) è particolarmente esplicito al riguardo: si crearono i ventotto alberghi « spe- — 408 — sa norma sull’accesso paritetico dei 28 alberghi al Consiglio Maggiore, che, come abbiamo visto, determinava in esso una netta maggioranza popolare. Evidentemente, e ciò è in accordo con quanto veniamo dicendo, i Riformatori temevano più un eventuale predominio di alcuni alberghi che non il crearsi di uno squilibrio tra nobili e popolari all’interno delle assemblee cittadine. Anche l’obbligo stabilito dalla legge di comporre ogni magistratura di un numero dispari di membri sembra essere un contributo all’esautoramento delle fazioni, oltre che un espediente per snellire le procedure rendendo inevitabile il formarsi di una maggioranza. È inutile dire a questo punto che non crediamo alla recente tesi della « serrata » degli alberghi: cioè che la riforma fosse una chiusura oligarchica dell’aristocrazia mercantile sia nobile che popolare già organizzata in alberghi72. La nostra ricerca ci spinge invece a riconoscere una maggiore e più profonda incidenza dell’ideale d’«unione ». Gli alberghi appaiono più lo strumento per realizzare quest’ideale che non i protagonisti di un’operazione di chiusura a loro esclusivo vantaggio. Alla luce di quanto finora detto, si può tentare di chiarire il perché della scelta del termine « nobiltà » per designare 1’unicus ordo nato rando che questa trasformazione, introducendola per legge, dovesse partorire quel vero effetto di unione et conforme naturalezza che in altri tempi aveva partorito, quando molte famiglie per privata e propria risoluzione, così dell’un colore come dell’altro, si erano insieme unite e trasformate ». Lo stesso Foglietta ( La Republica di Genova cit., p. 87), poco convinto dell’utilità dell’istituzione del sistema degli alberghi, mette bene in luce l’impiego da parte dei Riformatori della tecnica dell’« alber-gazione » già sperimentata a livello privato: « Perciocché volendosi ridurre le famiglie a poco numero, si deliberò per fuggire le emulazioni, e le comparazioni di più o meno antico, di più o meno splendido, lasciare vive tutte le famiglie numerose, e spegnere le ridotte a poco numero. E perciò si concluse, che a restare avessero quelle famiglie, le quali avevano allora in Genova sei case aperte, le altre, come per il poco numero meno considerabili, si traspiantassero in queste, seguendosi in ciò un uso antico della città nostra, che quando una famiglia era ridotta a poco numero, ancora che antichissima e nobile fosse, ella lasciava il suo nome, e si riduceva nell’albergo di un’altra famiglia, non già superiore a lei di altro, che di numero, ovvero due o tre, e talvolta sei o otto famiglie ridotte a poco numero, erano usate unirsi tutte in un corpo di albergo, e lasciare ciascuna il suo nome vecchio, e prenderne uno nuovo, non mai più stato in Genova, comune a tutti di quella ragunanza ». 72 A. Petracchi, Norma e prassi I cit., p. 43. — 409 — nel 1528. Non si tratta di un problema marginale in quanto a mio giudizio è proprio l’uso di questo termine assieme alla sproporzione tra alberghi di origine nobile e popolare ad aver almeno in parte oscurato il reale significato della riforma. Anche in questo caso ci si può facilmente accorgere come, dopo il consolidamento alla fine del Cinquecento e nel Seicento della Repubblica aristocratica, si sia dispersa con l’interpretazione popolare dell’« unione » una buona parte di verità storica. Vediamo cosa risponde il Foglietta, popolare, per bocca di Princi-valle, alle affermazioni di Anseimo (l’altro protagonista del vivace dialogo del 1559) secondo il quale nel 1528 i nobili avevano fatto magnanimo dono del loro prestigioso nome agli altri cittadini di governo: Che stima si ha a fare di quel dono, il quale non porta seco utile, comodo, ne onore alcuno? Ma mostra che non vi ricordiate, che questo nome di nobile non fu per dono dato dai domandati nobili a popolari. Anzi, non curandosene i popolari, li nobili fecero, come si suol dire, con le mani e con li piedi, che questo nome restasse vivo. Perciocché la cosa non è tanto vechia, che in Genova infiniti non si ricordino, che quando fu fatto della civiltà tutto un corpo e s’istituì l’unione, fu dubitato che nome si doveva porre ai cittadini di questo corpo; e se ne proposero molti, come è ottimati, uomini di consiglio, nobili ed altri nomi, e questo di nobile fu più comunemente ricevuto, facendo di ciò, come io vi ho detto, grande istanza li nobili, e coprendo la loro intenzione con questo colore di ragione, che egli ci darebbe più riputazione appresso de’ forestieri73. Nonostante lo stile polemico, questo brano contiene a mio giudizio delle verità. Tra nobili e popolari esisteva da sempre, oltre ad un acceso antagonismo, la contesa su quale dei due gruppi sopravanzasse l’altro per dignità e per più antica presenza nelle massime cariche della Repubblica. Se pensiamo alle aspre diatribe che per questi motivi scoppiavano su questioni di cerimoniale74, appare verosimile quanto afferma il Foglietta sulle alternative all’attribuzione della qualifica di nobili ai membri dell’unicus ordo. È anche probabile che considerazioni sull’immagine esterna del ceto dirigente cittadino abbiano effettivamente pesato sulla 73 O. Foglietta, La Republica di Genova cit., pp. 91-92. 74 Basta ricordare la lite sorta tra nobili e popolari nel 1502 sul diritto di precedenza nell’ossequio a Luigi XII in visita a Genova. Vedi al riguardo B. Senarega, De rebus genuensibus cit., p. 89. scelta del termine, data l’importanza che nel Cinquecento avevano acquistato i rapporti diplomatici con le corti europee75. Inoltre, non siamo in grado di dire se e quanto i grandi alberghi popolari fossero alieni dall’aspirazione propria dei ricchi borghesi del Cinquecento ad acquisire in patria e all’estero uno status nobiliare. Comunque, oltre a questi motivi, agì l’imperativo derivante dalla scelta degli alberghi come elemento tecnico di riorganizzazione della classe politica. Organismi per origine e per tradizione nobiliari, una volta posti al centro del sistema politico-istituzionale, gli alberghi resero logica e direi quasi necessaria la scelta del termine « nobiltà » per definire i membri delVunicus ordo: termine che perde così buona parte del contenuto ideologico di cui viene caricato ogniqualvolta lo si associa al concetto di « serrata ». Precisati quelli che furono gli obiettivi e gli strumenti con i quali si realizzò 1’« unione » dei genovesi, non ci resta a questo punto che interpretare, nell’ottica degli estensori del testo legislativo, le norme riguardanti le modalità di accesso dei singoli individui alle cariche pubbliche. Per i consigli il meccanismo della scelta per sorte era inevitabile. La parità tra i singoli membri dell 'unicus ordo era un principio fonda-mentale che, nella designazione delle assemblee cittadine, doveva necessariamente esprimersi in un criterio quanto più possibile neutrale. La sorte senza alcun correttivo avrebbe però creato dei problemi assai gravi. La grande sproporzione numerica tra gli alberghi (il più piccolo, quello dei Promontorio, era composto di 26 membri; il maggiore, quello degli Spinola, di 187) rischiava di favorire il predominio dei gruppi familiari più consistenti. Da ciò la norma che ripartiva equamente tra i ventotto alberghi i quattrocento membri del Consiglio Maggiore. C’era poi il problema della elezione del Doge. Un problema ricco di sfaccettature e che un’esperienza pluridecennale additava ai contemporanei come il nodo più difficile da sciogliere e come la fonte potenziale delle più gravi minacce per la vita della Repubblica. Ci si preoccupò anzitutto di rendere inattuabile il ritorno al pernicioso regime del dogato a vita. Questo obiettivo fu perseguito con le rigorose norme con- 75 Su un simile utilizzo del titolo di «nobile» in una realtà, quella lucchese, che ha non pochi punti di contatto con quella di Genova, si veda M. Berengo, Nobili e mercanti cit., p. 57 e sgg. — 411 — cernenti la limitazione sia dei poteri effettivi del Doge che della durata del suo mandato. Ma come doveva essere eletto il massimo rappresentante dello stato genovese? Era nella logica dell’« unione » che il Doge, come in genere gli altri componenti del Supremo Magistrato, fosse designato dall’organo collegiale che rappresentava direttamente il corpo sovrano degli ascritti al « libro ». Tuttavia un Consiglio dei Quattrocento composto in maggioranza da popolari non offriva garanzie sufficienti ai Riformatori. Essi perseguirono infatti l’obiettivo di dosare l’accesso di nobili e popolari alle cariche in modo tale da evitare che un subitaneo squilibrio di rappresentanza tra i due gruppi riaccendesse l’odio di parte, vanificando lo spirito di concordia civile. Rispettare nella prima fase di applicazione della riforma la logica dell’alternanza era una sorta di misura preventiva assolutamente necessaria. Non si poteva d’altronde permettere che il Doge fosse scelto da un corpo ristretto di grandi elettori senza incorrere nel pericolo, sempre accuratamente evitato dai Riformatori (con la vasta applicazione del principio della collegialità e con un accurato sistema di controlli), di favorire l’affermarsi del predominio di limitate cerehie di cittadini o di gruppi familiari. Il dilemma posto dall’esigenza di far convivere una designazione « guidata » con il principio della sovranità del- 1 unicus ordo di cui era depositario il Consiglio Maggiore fu risolto con una complessa procedura elettorale strutturata in sei livelli successivi. Essa permetteva di presentare al voto del Consiglio una rosa tanto ristretta di candidati da rendere meno rischioso l’esito della scelta finale. L elezione dei Governatori e dei Procuratori, che costituivano insieme al Doge il vertice politico della Repubblica, poneva problemi simili anche se in modo parzialmente diverso e forse meno drastico. Si trattava cioè di magistrature troppo importanti per affidare la designazione dei loro membri al solo criterio della sorte, troppo ambite e decisive negli equilibri di forza tra nobili e popolo per esporle all’arbitrio di un Consiglio a maggioranza popolare, e anche troppo pericolose per essere affidate a corpi ristretti di elettori o per stabilire un meccanismo di autoriproduzione. Ancora una volta si preferì una soluzione intermedia: si decise cioè di confermare, per il rinnovo semestrale di due degli otto Governatori, i primi cinque livelli di procedura fissati per la scelta del doge; dal sesto livello sarebbe poi uscita una rosa precostituita di candidati da presentare al voto finale del Consiglio Maggiore. Una rosa che non poteva peraltro essere ristretta oltre un certo grado senza far dege- — 412 — nerare il complessivo quadro istituzionale in una forma di dittatura di collegi, come era avvenuto in altre città italiane con il sistema delle « balìe ». Infatti, se nell’elezione biennale del Doge si finiva per presentare solo quattro candidati, in quella semestrale dei due Governatori, una volta che il meccanismo avesse funzionato a pieno regime, cioè quando la rotazione determinata dalle norme sulle « vacanza » si fosse stabilizzata, sarebbe stato possibile presentare un numero molto alto di candidati. Per le altre cariche, con alcune eccezioni, si optò per un sistema misto: una parte dei membri di ciascuna magistratura veniva designata a sorte tra i 400 del Consiglio Maggiore, il rimanente doveva essere eletto « a balle » dal Supremo Magistrato. Lo scopo di questo sistema misto è a mio giudizio chiaro. Se la sorte avesse determinato, come era quasi inevitabile, la prevalenza del popolo in una magistratura, Doge e Governatori avrebbero potuto operare un riequilibrio scegliendo dei nobili per la parte di loro competenza. In conclusione, nel 1528 non ci furono vincitori né sconfitti tra nobiltà e popolo. Unico a prevalere fu allora l’ideale di concordia civile, cioè la speranza e la volontà di rispondere in modo positivo, eliminando le lotte intestine, alle pressioni di forze esterne; pressioni che nei primi tre decenni del secolo XVI erano mutate per intensità e natura rispetto al periodo precedente. — 413 — INDICE DEI NOMI * Adorno (famiglia): 23, 25, 27-29, 44-47, 78, 79, 81, 96, 100, 116-118, 123, 149-151, 155, 159, 161-168, 182-184, 187, 190-192, 203-206, 210, 220, 224, 225, 236, 252, 255, 259, 260, 262- 266, 270, 273, 274, 279, 315, 323, 335, 336, 349, 405, 408. Adorno, Antoniotto: 78, 81, 89, 95, 98, 100, 101, 103, 115-120, 123, 124, 126, 129, 130, 142, 183, 190, 191, 194, 201, 202, 204-207, 209, 211, 212, 215-223, 225-234, 237, 240-242, 244, 245, 248, 249, 251-255, 261-264, 268, 270-272, 279, 294, 310, 320, 323. Adorno, Barnaba: 214. Adorno, Domenico: 159. Adorno, Gabriele: 25. Adorno, Gerolamo: 81, 89, 95, 96, 100, 116-119, 123, 124, 204-208, 255. Adorno, Giorgio: 25. Adriano VI, Papa: 88-90. Agosto, A.: 24. Aimari (famiglia) : 372. Albany, John Stuart, duca di: 213. Albaro, Antonio: 159. Alègre, Yves d’ : 56. Alfonso V, re d’Aragona: 113, 148. Amboise, George d’ : 54, 63, 158. Asburgo (famiglia) : 50, 78, 102, 117, 126, 127. Assereto, G.: 83. Assereto, Pietro Maria: 59. Aurillac, Falcon d’: 65, 68-71, 73, 76, 77, 188, 189. Balan, P.: 230, 247. Ballano, Giovanni: 203. Bar ni, G.: 24. Basadonne, Simone: 312. Becker, M.: 294. Berengo, Ai.: 406, 411. Bertelli, S.·. 37, 75. Bigna, Tommaso: 291, 292. Boccanegra, Simone: 25. Bonfadio, Iacopo: 201. Bonnivet, Guillaume de: 124. Borbone, Carlo, duca di: 210. Borella, Giovanni: 185. Borlandi, A.·. 49, 148, 149. Bornate, C.: 49, 138, 260, 263, 316, 317. Botto, Battista: 72, 203. * Sono in carattere tondo i nomi dei personaggi vissuti nel periodo oggetto di questo volume e degli autori che hanno scritto nel Cinque e nel Seicento; in corsivo i nomi degli autori di epoca più recente. - 415 — Brandi, Κ.: 49, 86, 88, 131, 138, 139, 208, 210, 227, 271. Braudel, F.: 8-13, 15. Bracelli, Gaspare: 282, 283. Braunschweig, Enrico di: 289, 308. Brevei, Stefano: 185. Bucboltz, F. B. von: 49, 261. Burgaro, Tommaso: 163, 164. Cabella, Paolo: 161, 185. Calvi (famiglia/albergo): 353-356, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Camilla, Cassano: 367. Camilla, Tedisio: 102, 103. Camogli, Francesco: 159. Campofregoso: vedi Fregoso. Canevaie, Raffaele: 364. Capriata, Stefano: 159. Caracciolo, Marino: 117. Carande, R.: 8-10, 13, 14. Cardona, Ramón de: 190, 191. Carducci, Baldassarre: 317, 318. Carlo V, imperatore: 9, 13, 14, 16, 20, 49, 50, 78, 86-89, 92-96, 101, 102, 106, 108, 110-113, 115-120, 122-127, 129, 131-144, 199, 201, 204, 207-215, 219-221, 223, 224, 226-229, 232, 233, 235, 236, 238, 239, 241-246, 248-257, 259, 261-264, 268, 270, 271, 273-275, 279, 284, 289, 293, 294, 310, 313, 316-320, 323, 387, 401. Carlo Vili, re di Francia: 13, 15, 51, 148. Carmendino (famiglia): 372. Casanova, Pantaleo: 105, 285, 287, 288. Casoni, Filippo: 28, 29, 194, 199-201, 247, 266, 269, 286. Castiglione, Baldassarre: 192, 193. Cattaneo (famiglia/albergo): 31, 353, 355, 356, 365, 367, 378-382, 387, 390, 392, 393, 395, 396. Cattaneo, Agostino di Lorenzo: 367. Cattaneo, Filippo di Cristoforo: 325, 326. Cattaneo, Filippo di Giacomo: 367, 368. Cattaneo, Marco: 300. Cattaneo, Nicola di Giovanni Francesco: 368. Cattaneo, Tommaso: 95, 201, 233, 282, 311. Cattaneo Mallone, C. : 24. Cebà, Bartolomeo: 159. Cebà, v. anche Grimaldi Cebà. Celesta, E.: 17. Centurione (famiglia/albergo): 211, 353, 355, 356, 365, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Centurione, Adamo: 30, 31, 311. Centurione, Gerolamo: 274. Centurione, Giacomo: 235. Centurione, Martino: 101, 103-127, 129-142, 212, 223-229, 233, 234, 238, 239, 241, 244, 274, 323. Centurione, Simone: 325, 326. Ceri, Renzo da (Orsini, Lorenzo dell’An-guillara) : 275, 313, 318, 319. Cbabod, F.: 131, 138, 139. Chàlon, Philibert, principe d’Orange: 316, 317, 323. Chièvres, Guillaume de Croy, signore di: 139. Chittolini, G.: 36, 294. Ciasca, R.: 323. Cibo, (famiglia/albergo) : 351, 353, 355, 356, 372, 373, 378-382, 390-393, 395, 396. Cibo, Alaono: 351. Cibo, Battista: 351. Cibo, David: 351. Cibo, Gerolamo: 351. Cibo, Innocenzo: 221, 222, 236, 350- 352, 398, 400-402. Cicala (famiglia/albergo): 351-353, 355, 356, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Cicala, Giovanni Battista: 31, 152, 196, 198-200, 202, 209, 270, 326, 360, 361, 364, 371. Clemente VII, Papa: 207, 208, 210, 229-231, 245, 253, 254, 259, 271, 416 277, 316, 321. Clèves, Philippe de: 53, 57, 59, 69, 98, 172, 175, 179. Colin, Jacques: 269, 275, 277, 278. Coloma, Juan: 107, 108. Colonna, Marcantonio: 75. Colonna, Prospero: 87, 88, 90, 94, 95, 98-100, 124. Contarini, Francesco: 322. Contarini, Gerolamo: 75. Cordova, Luis Fernandez de, duca di Sessa: 124, 208. Corsi, Jacopo: 227. Cortese, Gregorio: 100, 300. Costa (famiglia) : 31, 366. Costa, Paolo della: 162. Costa Cavalini (famiglia) : 366. Costantini, C.: 27, 28, 37, 48, 147, 169, 170, 174, 225, 266, 312, 405. Cresta, R.: 52. Davagna, Giovanni: 269, 325. De Ferrari, Agostino: 199, 200, 269, 270, 325, 327. De Ferrari, Paolo: 184, 185. De Franchi, v. Franchi. Del Carretto (famiglia) : 168. Del Carretto, Alfonso, marchese di Finale: 167, 168, 190. De Leyva, Antonio: 253. De Maddalena, A.: 9. Dernice, Battista: 352. De Roover, R.: 10. De Simoni, C.·. 26. Desjardins, A.: 209, 317. Di Negro (famiglia/albergo) : 353, 355, 356, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Di Negro, Antonio: 363. Di Negro di Banchi (famiglia): 358. Di Negro di San Lorenzo (famiglia): 358. Donati, C.: 51. Doria (famiglia/albergo): 28, 54, 266, 53-356, 378-382, 390-393, 395-397. Doria, Andrea: 16-18, 20, 40, 98, 115, 142, 195, 236, 247, 259-262, 265- 267, 269, 271, 274, 275, 278, 284, 293, 294, 298, 313-321, 323, 325, 329, 330, 333, 345, 402. Doria, Corrado: 54. Doria, Domenico: 54, 89, 92. Doria, Domenico di Costantino: 311. Doria, Erasmo: 317. Doria, Filippino: 261, 262, 317. Doria, Francesco: 386, 387. Doria, Franco: 368. Doria, G.: 9, 12, 27. Doria, Gerolamo: 55. Doria, Gerolamo di Agostino: 203, 269, 324, 325. Doria, Gerolamo di Nicola: 386. Doria, Giovanni: 54, 80, 84, 164. Doria, Giovanni Giacomo: 199. Doria, Pietro Battista: 55. Doria, Stefano: 55. Duprat, Antoine: 85, 275, 284, 286, 317. Ehrenberg, R.: 11, 13, 14, 86. Elliott, J.H.: 113. Enrico Vili, re d’Inghilterra: 133, 134, 271. Este, Alfonso I d’, duca di Ferrara: 188, 309, 408. Fasano Guarini, E.: 1, 36. Federici, Federico: 199, 270, 371. Felloni, G.: 386, 387. Ferdinando V, re d’Aragona: 101, 102, 112, 113, 121. Fieschi (famiglia/albergo): 28, 50, 54, 55, 78, 90, 100, 160, 168, 256, 266, 353, 355, 356, 378-382, 390, 392, 393, 395-397. Fieschi, Carlo: 58. Fieschi, Filippino: 172. — 417 — Fieschi, Franco: 203, 269, 324, 325. Fieschi, Gerolamo: 190. Fieschi, Gian Luigi: 54-58, 77, 160, 163. Fieschi, Giovanni Filippo: 148. Fieschi, Sinibaldo: 90, 256, 262, 263, 266, 267. Filonardi, Ennio: 231. Foglietta, Agostino: 207-209. Foglietta, Cipriano: 185. Foglietta, Oberto: 26, 41, 194-199, 201, 203, 204, 207, 208, 248, 265,’ 266^ 300, 320, 350, 363, 374, 405, 406, 409, 410. Foo, Antonio: 81. Forcheri, G.: 24, 48, 389, 397, 403. Fornari (famiglia/albergo): 13, 42, 186, 211, 353, 355, 356, 363, 378-382, 39θ| 392, 393, 395, 396. Fornari, Agostino: 127. Fornari, Giovanni Battista: 269, 325, 399, 400. Fornari, Nicola: 105. Fornari, Raffaele: 203. Fournier, Hugues: 76, 188, 189. Fragnito, G.: 300. Franceschi, Giovanni Battista di Sebastiano: 352, 355. Francesco I, re di Francia: 14, 16, 20, 79-82, 84-86, 88-95, 97-100, 120, 124^ 126, 143-145, 194, 201, 209, 21θ’ 215, 218, 221, 224, 227, 231, 235, 239, 240, 243, 245-248, 253, 254, 260-263, 265, 267-280, 282-295, 297, 301, 307, 309-311, 313-321, 323, 387^ Franchi (famiglia/albergo) : 42, 186, 352, 353, 355, 356, 363, 378-382, 390-393’ 395, 396. Franchi, Paolo: 95, 175. Franchi Cocarello, Giovanni Battista: 199. Franchi Cocarello, Stefano: 199. Franchi Toso, Nicola: 312. Fregoso (famiglia): 23, 25, 27-29, 44-47, 78, 79, 96, 119, 149-151, 155, 158, 159, 161-168, 182-184, 187, 190, 191, 207, 218, 220, 224, 225, 232, 236, 247, 252, 255, 257, 259, 260, 263, 264, 266, 273, 274, 279, 315, 323, 335, 336, 349, 387, 405, 408. Fregoso, Alessandro: 189. Fregoso, Battistino: 54. Fregoso, Cesare: 262, 263, 265, 267, 273. Fregoso, Federico: 106, 194, 195, 197, 199, 245-247, 272, 273, 279. Fregoso, Fregosino: 158. Fregoso, Giano: 75, 78, 98, 158, 167, 190, 192, 194, 265. Fregoso, Ottaviano: 75, 78-84, 87-94, 97, 98, 100, 101, 103-106, 113, 120, 158, 162, 164, 167, 183, 186, 190-193, 195-201, 203, 245, 265, 279, 283, 290, 320. Fregoso, Pietro: 148, 149. Fugger (famiglia): 8, 10, 11, 13, 14, 102. Furlin, R.\ 90. Gaeta, F. : 246. Ganay, Jean de: 63, 68, 69, 76. Gattinara, Mercurino Arborio, marchese di: 14, 49, 124, 126, 131, 137-142, 209, 227, 229, 245, 259-261, 263, 267, 290, 315, 319, 324. Gentil Da Silva, }.·. 10, 12. Gentile (famiglia/albergo) : 31, 353, 355, 356, 365, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Gentile, Stefano da Noli: 238. Ghisolfi (famiglia) : 372. Giberti, Giovanni Matteo: 208, 210, 222, 230-232, 244, 253, 254. Gioffrè, D.: 10, 13, 14. Giovanna, regina di Spagna, madre di Carlo V: 102, 136. Giovo, Simone: 175. Giulio II, Papa: 53, 56, 60, 74, 75, 79, 158, 164, 168, 175, 187-190, 207. Giustiniani (famiglia/albergo): 42, 159, 167, 185, 186, 353, 355, 356, 358, — 418 — 363, 366, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Giustiniani, Agostino: 26, 86, 94-96, 102, 118, 187-190, 194, 195, 198-201, 213, 262, 265, 286, 386. Giustiniani, Bricio: 167. Giustiniani, Domenico: 167. Giustiniani, Gerolamo: 167. Giustiniani, Giuliano: 167, 194. Giustiniani, Greghetto: 167. Giustiniani, Pietro Battista: 167. Giustiniani, Stefano: 72, 159, 167, 183, 185, 191, 199, 200, 203-206, 269, 270, 298, 325, 327, 330. Giustiniani, Tommaso di Raffaele: 325. Giustiniani Banca (famiglia) : 358, 366. Gonzaga, Federico, marchese di Mantova: 100, 101. Gonzaga, Francesco: 234. Gossart, E.: 49. Grendi, E.: 17, 19, 24, 30, 32, 33, 37, 38, 41, 45, 48, 83, 206, 369, 373, 374, 383. Grillo (famiglia/albergo): 353, 355, 356, 378-382, 390, 392-396. Grillo, Agabito: 367. Grimaldi (famiglia/albergo): 13, 28, 168, 211, 353, 355, 356, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Grimaldi, Ansaldo: 203, 211, 212, 220. Grimaldi, Giacomo di Giorgio: 312. Grimaldi, Giovanni Battista: 142, 323. Grimaldi, Luciano: 153. Grimaldi, Nicola: 130, 272. Grimaldi, Paolo di Lazzaro: 325. Grimaldi, Pietro: 199. Grimaldi, Stefano: 268. Grimaldi Cebà, Domenico: 269, 325. Grimaldi Cebà, Nicola: 269. Guarco (famiglia): 151, 155, 183. Guaschi (famiglia) : 80, 81, 83, 86, 162. Gualterio (famiglia) : 373. Gualterio, Cristoforo: 363. Guicciardini, Francesco: 23, 51, 99, 100, 147, 157, 192, 208, 245-248, 271, 313-315. Headley, G.M.: 49. Heers, 12, 19, 28, 30, 32, 33, 36, 37, 39-45, 50, 55, 93, 147, 186, 363, 373, 383, 386. Imperiale (famiglia/albergo) : 353, 355, 356, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Invrea, Tommaso: 199, 200. Ioardo, Bartolomeo: 355. Iocia, Antonio: 352. Isaacs, A. Κ.: 406. Isabella, regina di Castiglia: 101, 113. Italiano (famiglia/albergo) : 353, 355, 356, 365, 378-382, 390, 392, 393, 395-397. Italiano, Tommaso: 87, 88. Kellenbenz, H9. Labande-Mailfert, Y.\ 15. Lannoy, Charles de: 125, 126, 235. Lannoy, Raoul de: 60-62, 64, 76, 77, 98, 187, 262. Lasagna, Giovanni Battista: 75-77, 102, 103, 128, 143, 241, 243, 283-289, 291, 292, 294, 295. Lautrec, Odet de Foix, visconte di: 85, 88, 262, 264, 267, 277, 289, 313. Lazzario, Oberto: 327. Leone X, Papa: 78, 88, 208. Lercaro (famiglia/albergo) : 353, 355, 356, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Lercaro, Giovanni Battista: 142. Lerici, Giovanni: 61, 62. Levanto (famiglia): 31. Levati, L.M.: 192. Lomellino (famiglia/albergo) : 353-356, 378-382, 387, 390, 392, 393, 395-397. — 419 — Lomellino, Agostino di Battista: 256, 269, 325. Lomellino, Baldassarre: 164. Lomellino, Battista: 199, 324. Lomellino, Battista di Gerolamo: 269. Lomellino, Battista di Stefano: 203. Lomellino, Cattaneo: 89, 90, 92. Lomellino, Giacomo di Filippo: 311. Lomellino, Goffredo: 198, 265-267, 350. Lopez, R.S.\ 8. Luigi XII, re di Francia: 20, 26, 51-72, 74-83, 143, 151-153, 157, 158, 16θ| 163, 166, 172, 175, 177-180, 184, 186-190, 192, 194, 196, 207, 283, 290, 410. Luiller, Guillaume: 82. Machiavelli, Niccolò: 75, 96, 97, 147 192, 194, 246. Maggiolo, Agostino: 199, 312. Maggiolo, Giovanni Battista: 312. Malaspina (famiglia) : 50, 355, 356, 373. Malaspina, Antonio: 355. Malaspina, Giulio: 401. Malaspina, Ricciarda: 401. Mandich, G.\ 10. Marabotto (famiglia): 372. Mari, Giovanni Battista de: 80, 143 237, 238. Maria di Castiglia, sposa di Alfonso V di Aragona: 113. Marin, Fernando, abate di Najera: 124, 208, 211, 212, 242-244. Marini (famiglia/albergo): 353, 355, 356, 378-382, 390, 392, 393, 395,’ 396, 408. Marini, Stefano: 368. Martignone, Battista: 185. Maruffo, Pietro: 244. Massa, P.: 167, 186. Massimiliano I, imperatore: 86. Medici (famiglia): 222, 250. Medici, Alessandro dei: 401. Medici, Cosimo I dei: 401. Molini, G.: 246, 275. Montaldo (famiglia) : 151, 155, 183. Moncada, Ugo de: 126, 211, 213, 214, 216, 228. Moneglia, Giovanni Battista di Stefano: 269, 270, 282, 292, 325, 327. Montmorency, Anne de: 85, 246, 247, 267, 275, 277, 278, 316, 317. Morone, Gerolamo: 232. Mousnier, R.: 39. Murta, Giovanni da: 25. Muto, G.: 11. Navarro, Pedro: 246, 247, 253, 259, 260. Negro: vedi Di Negro. Negrone (famiglia): 353, 355, 356, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Negrone, Gabriele: 367. Negrone, Melchion: 72. Nicora, M.: 24, 48, 350. Novi, Paolo da: 148, 164, 165, 185. Oderico, Nicola: 57, 80, 84, 85, 153, 156, 158-160, 175, 177-179. Oneto (famiglia): 31. Oreste, G.: 21, 115, 142, 224, 275, 316. Otte, E.: 13, 15, 112. Pacheco y De Leyva, E.\ 211. Pallavicino (famiglia/albergo) : 352, 353, 355, 356, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Pallavicino, Agostino di Pietro: 199, 200, 202, 206, 269, 285, 288-292, 324-326. Pallavicino, Antonio Maria: 58. Pallavicino, Galeazzo: 58. Pallavicino, Giulio: 199. Pallavicino, Vincenzo: 262, 267. Pandiani, E.·. 26, 52, 56-60, 62, 64, 79, — 420 — 153, 156-159, 161-163, 165-171, 175, 176, 179, 187, 188, 191-194, 196, 200, 203, 270. Parodi, Francesco: 352, 355. Pasqua, Andrea: 355. Pasquali, Pasquale de’: 386. Passano, Andrea da: 272. Passano, Giovanni Gioacchino da: 80, 271-273, 315, 387, 388, 408. Pélissier, L.G.: 52, 53, 60, 187, 283. Pescara, Ferrante Francesco d’Avalos, marchese di: 88, 90, 94, 95, 100, 241-243. Pestarino, Antonio: 185. Petit, E.·. 17. Petracchi, A.: 24, 27, 38, 48, 334, 389, 395, 409. Petrucci, F.: 398. Petti Balbi, G.: 24. Pico (famiglia) : 264. Piergiovanni, V.: 24-26, 28, 30, 37, 45, 46, 49, 147, 370. Pieri, P.: 45, 86, 88, 209, 245. Pike, R.: 13. Pinelli (famiglia/albergo) : 31, 351, 353, 355, 356, 365, 378-382, 390, 392-396. Pinelli, Nicola: 236. Pira, Ferro della: 168. Poncher, Etienne: 76. Ponzone, Raffaele: 194, 196, 197, 199, 200, 203, 207. Porchnev, B.F.: 39. Prato, Bartolomeo: 88. Promontorio (famiglia/albergo) : 351- 356, 378-382, 390-396, 411. Prosperi, A.: 209, 230, 231. Raggio, Vincenzo: 185. Rapallo, Gerolamo: 312. Rapallo, Vincenzo: 325. Rivarola, Ambrogio: 408. Roccabertino, Filippo: 153, 171, 176. Roccatagliata, Antonio: 199. Rochechouart, Fran?ois de: 64-69, 71-73, 75, 77, 98, 187, 189, 262. Rossetti, G.: 24. Roteili, E.: 113. Roth, C.: 318. Ruiz Martin, F.: 8-10, 12. Russo, C.\ 52. Sadoleto, Jacopo: 247. Saginati, L.: 198. Saint Poi, Fran?ois de Bourbon, conte di: 322. Saluzzo, Michele Antonio, marchese di: 215, 218. Saivago (famiglia/albergo) : 31, 352, 353, 355, 356, 365, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Saivago, Alessandro: 26. Saivago, Alessandro di Voltaggio: 363. Saivago, Giovanni: 26, 271, 283-287, 289, 291, 292, 300, 304, 308-311, 313, 315, 316, 325-327, 350, 359, 374, 386, 387, 408. Saivago, Giovanni di Voltaggio: 363. Salviati, Giovanni: 209. San Clemente, Federico di: 106-110, 123, 127-130. Sansone (famiglia): 373. Sant’Andrea, Pietro di: 60-68, 71, 187. Sanudo, Marino: 89, 90, 100, 117, 201, 234, 322, 386, 387, 402. Sauli (famiglia/albergo): 13, 42, 167, 186, 353, 355, 356, 363, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Sauli, Agostino: 269. Sauli, Antonio: 159, 199, 200. Sauli, Domenico: 167, 230. Sauli, Filippo: 201, 233. Sauli, Francesco: 167. Sauli, Francesco di Paolo: 203. Sauli, Giovanni Battista: 269, 270. Savelli, R.·. 21, 27, 41, 152, 180, 196, 197, 281, 299, 300, 332, 370, 375. Savoia, Luisa di: 284. Savoia, Renato di: 190. \g.Vw ^ \J — 421 — Savonarola, Gerolamo: 299. Sayous, A. E.: 8, 12, 13. Schiera, P.: 113. Schinner, Matthàus: 190. Schonberg, Nikolaus von: 208, 231. Seidel Menchi, S.: 300. Senarega, Ambrogio: 202, 320-322, 350, 356. Senarega, Bartolomeo: 26, 57, 77, 152, 187, 188, 190-194, 410. Sforza, Francesco: 100, 121, 245, 254, 271, 308, 309. Sforza, Lodovico: 370. Sforza, Massimiliano: 81, 192. Sieveking, H.·. 29. Sobreques, S. : 112. Sofia, Bartolomeo: 203. Sofia, Corrado: 81, 162, 311. Soprani, Raffaele: 198. Sopranis (famiglia): 351-353. Sopranis, Agostino: 351. Sopranis Antonio di Bartolomeo: 351. Sopranis, Gerolamo: 351. Sopranis, Giacomo di Antonio: 351. Soria, Lope de: 98, 130, 142, 210-221, 223, 224, 226, 229, 232, 233, 236, 238, 241-244, 246, 248-257, 259, 261- 264, 267, 268, 273-275, 293, 294, 387. Spinola (famiglia/albergo) : 28, 59, 66, 83, 256, 353-356, 378-382, 390-397 411. Spinola, Agostino: 261-263, 268. Spinola, Antonio: 54, 83. Spinola, Battista: 199. Spinola, Battista di Antonio: 269, 324 325. Spinola, Battista di Tommaso: 202. Spinola, Francesco: 244. Spinola, Giovanni: 54, 59. Spinola, M.·. 278, 293, 315. Spinola, Oberto: 61. Spinola, Stefano: 268, 274. Spinola di Luccoli (famiglia): 358. Spinola di San Luca (famiglia) : 358. Spooner, F.C.: 7, 8, 10, 11, 13. Squarciafico, Oberto: 368. Tabacco, G.: 40. Tagliacarne, Benedetto: 387. Trivulzio, Teodoro: 98, 248, 261-270, 273-282, 285, 288-293, 301, 307-311, 314, 315, 386, 408. Trotti (famiglia) : 80-83, 86, 162. Trotti, Francesco: 54, 81. Usodimare (famiglia/albergo) : 353-356, 378-382, 390, 392-396. Usodimare, Anfreone: 72, 199. Valois (famiglia) : 50, 126, 145. Vento (famiglia): 372. Ventura, A.: 251. Vettori, Francesco: 246. Vicens Vives, 112, 113. Virgili, A.: 231. Vitale, V.·. 17, 28, 30, 45. Vivaldi (famiglia/albergo) : 13, 353-356, 378-382, 390, 392, 393, 395, 396. Vivaldi, Agostino: 105. Vivaldi, Benedetto: 94-96, 282, 283. Vivaldi, Stefano: 64-70, 178. Wallerstein, I.: 7, 8. Wee, H. van der: 10, 12. Zerbi, Bernardo: 269, 270, 325, 327. Zino, Giovanni Battista: 282, 285, 287, 288, 291, 296, 307, 308, 350, 356, 394. — 422 — INDICE GENERALE INTRODUZIONE 1. Il secolo dei genovesi P· 7 2. Il problema generale dei presupposti » 12 3. I presupposti politici » 15 4. Le linee di ricerca » 19 5. Le divisioni interne » 22 6. Nobili e popolari » 23 7. « Adorni » e « fregosi » » 27 8. Bianchi e neri » 29 9. Gli alberghi » 32 10. Alcune questioni di metodo » 35 11. Il primato politico degli alberghi: un assunto ideologico o una realtà storica? » 39 12. Un’alternativa al concetto di arcaismo » 43 CAPITOLO I TRA FRANCIA E SPAGNA: DUE MODELLI DI DOMINIO 1. Genova sotto il dominio di Luigi XII » 51 2. Il periodo di Ottaviano Fregoso (1515-1522) » 78 3. Verso il sacco del 1522: un «vivere alieno da le altre città » » 86 4. I rapporti diplomatici con la Spagna. La prima amba¬ sceria di Martino Centurione (1519-1520) » 101 5. Genova dal 1522 al 1527. La sperimentazione dell’al¬ leanza imperiale » 115 6. A proposito dei due modelli » 143 CAPITOLO II LA RIFORMA E I SUOI PRECEDENTI CINQUECENTESCHI 1. Un insospettata origine popolare. Il giuramento del 1506 P· 146 2. Ottaviano Fregoso, padre dell’« unione » » 186 3. Il tentativo fallito del 1525 » 201 4. Il tentativo di « unione » del 1527 e l’emergere del pro¬ blema di Savona » 237 5. L’atteggiamento francese verso la riforma durante il go¬ vernatorato di Teodoro Trivulzio » 261 6. La fase preparatoria della prima versione della riforma (aprile 1528) » 280 7. Il testo dell’aprile 1528 » 295 8. I fatti dell’estate 1528 » 312 9. Il testo dell’ottobre 1528 » 324 CAPITOLO III L’ANALISI DEI DUE « LIBRI » DEL 1528: L’UNICUS ORDO E I SISTEMI ELETTORALI 1. Il significato della parola « unione » » 347 2. I « libri delle descrizioni » » 348 3. Le fonti per l’identificazione politica individuale » 357 4. I criteri per l’utilizzo dei dati sulle fazioni e sui colori » 366 5. Popolari e nobili: un primo approccio ai « libri delle descrizioni » in base ai gruppi familiari » 368 6. I dati complessivi riguardanti gli ascritti del 1528 » 376 7. L'unicus ordo e le norme elettorali del 1528 » 388 8. Una proposta di reinterpretazione della riforma » 403 Indice dei nomi » 415 A » Pagina ERRATA CORRIGE Riga Errata Corrige 100 18 ... Massimiliano Sforza 161 30 ... Prandini 176 29 ... Comune Francesco Sforza Pandiani comune ®jv> Associazione all’USPI v Unione Stampa Periodica italiana Direttore responsabile: Dino Puncub, Presidente della Società Autorizzazione del Tribunale di Genova N. 610 in data 19 Luglio 1963 Linotipia-Stamperia Brigati-Carucci - Genova-Pontedecimo ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA NUOVA SERIE I - P. Lisciandrelli, Trattati e negoziazioni politiche della Repubblica di Genova: 958-1797, 1960 ................L. 50.000 II, 1 - G. Pistarino, Libri e cultura nella Cattedrale di Genova tra Medioevo e Rinascimento, 1961...............» 25.000 II, 2 - Miscellaneo (G. Pistarino, Questioni di toponomastica·. La Spezia - D. Puncuh, I più antichi statuti del Capitolo di San Lorenzo di Genova -A. M. Boldorini, Santa Croce di Sarzano e i mercanti lucchesi a Genova (secc. XIII-XIV) - G. Balbi, Uomini d’arme e di cultura nel Quattrocento genovese: Biagio Assereto - G. Oreste, Una narrazione inedita della battaglia di Lepanto), 1962 ...............Esaurite III, 1 - Miscellaneo (Atti sociali - Albo sociale - G. Costamagna, La scomparsa della tachigrafia notarile nell’avvento della imbreviatura - G. Pezzi, Codici dei secoli XII-XIV nelle biblioteche genovesi - A. M. Boldorini, Guglielmo Boc-canegra, Carlo d’Angiò e i Conti di Ventimiglia, 1257-1262), 1963 . . . Esaurito III, 2 - Miscellaneo (Atti sociali - L. Balestreri, Federico Ricci - F. Borlandi, La formazione culturale del mercante genovese nel Medioevo - A. Zaccaro, I Balbi a Genova nel secolo XIII - G. Pezzi, Tre codici genovesi del secolo XIV - S. Mangiarne, Un consiglio di guerra dei genovesi a Cipro nel 1383 -G. G. Musso, Per la storia del declino dell’impero genovese nel Levante nel secolo XV - D. Presotto, Aspetti dell’economia ligure nell’età napoleonica: le manifatture tessili - N. Nada, L’esperienza genovese di Cesare Balbo; Lettere inedite a Santone di Santarosa - Notiziario bibliografico), 1963 . . . Esaurito IV, 1 - Mostra storica del notariato medievale ligure (G. Cencetti, Il notaio medievale italiano - F. Borlandi, La Mostra storica - Catalogo della Mostra a cura di G. Costamagna e D. Puncuh), 1964 .........» 50.000 IV, 2 - Miscellaneo (Atti sociali - Albo sociale - G. G. Musso, Note d’archivio sul Banco di San Giorgio - G. Felloni, Popolazione e case a Genova nel 1531-35 -E. Grendi, Un mestiere di città alle soglie dell’età industriale. Il facchinaggio genovese tra il 1815 e il 1850 - Congressi - Notiziario bibliografico - Necrologi), 1964 .................Esaurito V, 1 - Miscellaneo (D. Puncuh, Note di diplomatica giudiziaria savonese - G. Fiaschini, Le pergamene dell'Archivio comunale di Sarzana - P. Villa, Documenti sugli ebrei a Cbio nel 1394 - E. A. Zachariadou, Ertogrul Bey il sovrano di Teologo (Efeso) - D. Presotto, Aspetti dell'economia ligure nell’età napoleonica: cartiere e concerie), 1965 ......... V, 2 - Miscellaneo (Atti sociali - Albo sociale - D. Puncuh, Un codice borgognone del secolo XV: il «Curzio Rufo» della Biblioteca Universitaria di Genova -E. Grendi, Morfologia e dinamismo della vita associativa urbana: le confraternite a Genova fra i secoli XVI e XVII - D. Presotto, Genova 1656-57. Cronache di una pestilenza - Congressi - Indice dei periodici della biblioteca della Società Ligure di Storia Patria - Notiziario bibliografico), 1965 . VI - Albo sociale - D. Gioffré, Il debito pubblico genovese. Inventario delle compere anteriori a San Giorgio o non consolidate nel Banco (secc. XIV-XIX) Notiziario bibliografico, 1966 ............. VII, 1 - Miscellaneo (Albo sociale - In memoria di Ernesto Curotto - Ricordo ligure di Giorgio Falco - G. Pistarino, Ipotesi sui toponimi di Sarezzano - Sarzana -Sarzano - V. Slessarev, I cosiddetti orientali nella Genova del Medioevo -A. Ivaldi, La signoria dei Campofregoso a Sarzana (1421-1484) - D. Presotto, Aspetti dell’economia ligure nell’età napoleonica: i lavori pubblici), 1967 VII, 2 - F. Surdich, Genova e Venezia fra Tre e Quattrocento - Necrologio - Notiziario bibliografico, 1968 ............ VIII, 1 - Miscellaneo (Albo sociale - Per l’inaugurazione della nuova sede della Società Ligure di Storia Patria: Lettera del Sindaco di Genova; Elenco dei Presidenti e dei Segretari dall’anno di fondazione; Parole del Presidente; Parole dell’Assessore alle Belle Arti, dott. F. M. Boero - D. Puncuh, I centodieci anni della Società Ligure di Storia Patria - E. P., Note sul Palazzo Saluzzo Carrega in Albaro - R. Menduni, L’attività scientifica della Società Ligure di Storia Patria nel primo cinquantennio di vita (1858-1908) - G. Pesce, Contributo inedito al Corpus Nummorum della Zecca di Genova - L. Katuskina, Il libro dei contratti del notaio Antonio Bonizi da Verrucola Bosi (1417-1425) - Necra-logi), 1968 ................. VIII, 2 - La ceramica ligure nella storia e nell’arte, 1968 ....... IX, 1 - Miscellaneo (Atti sociali - Albo sociale - G. Petracco Sicardi, Note linguisti- che sui documenti genovesi altomedioevali - D. Gioffré, Note sull’assicurazione e sugli assicuratori genovesi tra Medioevo ed Età Moderna - G. Forcheri, Il ritorno allo stato di polizia dopo la Costituzione del 1576 - D. Presotto, Da Genova alle Indie alla metà del Seicento. Un singolare contratto di arruolamento marittimo - A. Brocca, Il procedimento criminale ordinario a Genova nel XVIII secolo - G. Costamagna, Un progetto di riordinamento del-l’Archivio Segreto negli ultimi decenni di indipendenza della Repubblica. Una priorità genovese? - Necrologi), 1969 .......... L. 25.000 » 35.000 » 80.000 » 25.000 Esaurito » 35.000 Esaurito » 25.000 IX, 2 - Miscellaneo (C. Trasselli, Genovesi in Sicilia - Secondo convegno del Centro Ligure per la storia della ceramica: Albisola 31 maggio-2 giugno 1969; G. Farris, Discorso inaugurale - G. Farris-V. A. Ferrarese, Contributo alla conoscenza della tipologia e della stilistica della maiolica ligure del XVI secolo -G. Pesce, I vasi da farmacia del secolo XVI nei reperti di scavo di Genova e Savona - L. Panelli, Piastrelle del secolo XVI di fabbricazione genovese - A. Cameirana, Contributo per una topografia delle antiche fornaci ceramiche savonesi - T. Mannoni, Gli scarti di fornace e la cava del XVI secolo in via S. Vincenzo a Genova. Dati geologici ed archeologici. Analisi di materiali -G. Farris-V. A. Ferrarese, Metodi di produzione della ceramica in Liguria nel XVI secolo - F. Aguzzi, Bacini architettonici a Pavia - Note d’archivio - Rassegne - Congressi - Notiziario bibliografico), 1969 ......L. 30.000 X, 1 - P. Massa, L’arte genovese della seta nella normativa del XV e del XVI secolo, 1970 ..................» 50.000 X, 2 - Indici decennali della Nuova Serie, 1960-1970, 1970 ......» 25.000 XI, 1 - Carteggio di Pileo de Marini, arcivescovo di Genova (1400-1429), a cura di Dino Puncuh, 1971..............» 50.000 XI, 2 - Miscellaneo (T. O. De Negri, Umanità di Alfredo Schiaffiti! «Genovese » -P. Massa, Alcune lettere mercantili toscane da colonie genovesi alla fine del ’300 - P. Massa, Studi in memoria di R. L. Reynolds - Il premio internazionale Galileo Galilei a Charles Verlinden - Necrologio - Notiziario bibliografico), 1971 ..................» 25.000 XII,1 - Miscellaneo (Albo sociale - D. Cambiaso, I vicari generali degli arcivescovi di Genova - M. C. Lamberti, Mercanti tedeschi a Genova nel XVII secolo: l’attività della compagnia Raynolt negli anni 1619-20 - R. Piattoli, Un documento lucchese concernente Lamba Doria - L. Alfonso, La fondazione della «Casa della Missione» di Fassolo in Genova - G. Pesce, Schede numismatiche Desimoni - G. Pesce, IV Congresso internazionale della ceramica. Albisola - L. Balestreri, Il XLVI Congresso nazionale dell’istituto per la storia del Risorgimento - F. B., A cinquantanni dalla Conferenza di Genova. Il Convegno italo-sovietico), 1972 .............Esaurito XII, 2 - Miscellaneo (M. Quaini, Per la storia del paesaggio agrario in Liguria - G. Forcheri, Aspetti della giustizia genovese alla fine del '500. La questione del braccio regio - G. Moore, La spedizione dei fratelli Vivaldi e nuovi documenti d’archivio - A. Agosto, Gli elenchi originari dei prigionieri della battaglia di Ponza - M. C. Lamberti, Mercanti tedeschi a Genova nel XVII secolo. Nota aggiuntiva - L. Alfonso, Aspetti della personalità del Card. Stefano Durazzo, arcivescovo di Genova (1635-1664) - G. Pesce, Schede numismatiche Desi-moni - Necrologi - Notiziario bibliografico), 1972 .......» 80.000 XIII - Suppliche di Martino V relative alla Liguria. I. Diocesi di Genova, a cura di B. Nogara-D. Puncuh-A. Roncallo, 1973 ..........» 35.000 XIV-XV - G. Caro, Genova e la supremazia sul Mediterraneo (1257-1311), 1974-1975 » 50.000 XVI - Fontes Liguriam et Liguriae antiquae, 1976 .........Esaurito XVII,1 - V. Polonio, L’Amministrazione della res publica genovese fra Tre e Quattrocento. L’Archivio « Antico Comune », 1977 ........ XVII, 2 - Miscellaneo (Albo sociale - Atti sociali - Statuto della Società Ligure di Storia Patria - L. Santi Amantini, Sulla demografia di alcune città della IX regio (Liguria) - B. Z. Kedar, Chi era Andrea Franco? - Suppliche di Martino V relative alla Liguria, II. Diocesi del Ponente, a cura di D. Puncuh-A. Agosto, Due lettere inedite sugli eventi di Cembalo e di Sorcati in Crimea nel 1434 -A. R. Natale, Un recupero archivistico (1782-94) proveniente dalla cancelleria del conte Carlo di Firmian - I manoscritti della Società Ligure di Storia Patria, a cura di V. De Angelis - M. S. Jacopino Carbone, Gli inventari degli archivi degli enti pubblici - L. Saginati, L’Archivio storico del Comune di Genova: fondi archivistici e manoscritti - Necrologi - Notiziario bibliografico), 1977 ................. XVIII, 1 e 2 - M. Balard, La Romanie génoise, 1978 ........ XIX, 1 - Miscellaneo (M. G. Angeli Bertinelli, Soldati lunensi nell’esercito romano -M. Giaccherò, Gli antichi Liguri accusati di uccidere i vecchi: un’errata testimonianza - E. Salomone Gaggero, I Liguri nei frammenti di Artemidoro di Efeso - C. Molina, Corti, curie e gastaldi nel dominio del vescovo di Luni - E. Grendi, Andrea Doria, uomo del Rinascimento - O. Baffico, Contributo allo studio dei costi di trasporto: i noli della seta dal Mezzogiorno a Genova nel secolo XVI -P. Massa, La liquidazione della « volta da seta » di Bartolomeo di San Michele: aspetti tecnici ed economici - G.B. Varnier, Sinodi diocesani bobbiesi del XVII secolo - L. Saginati, Aspetti di vita religiosa nelle campagne liguri: le relazioni al magistrato delle chiese rurali - A. Agosto, La questione del Balilla alla luce di nuovi documenti - A. F. Ivaldi, Divagazioni sui Durazzo mecenati di « prestigio » - D. Puncuh, L’archivio Durazzo-Giustiniani di Genova - Convegni -Necrologi - Notiziario bibliografico), 1979 ......... XIX, 2 - Documenti della Maona di Chio (secc. XIV-XVI), a cura di A. Rovere, 1979 XX, 1 - G. Lunardi, Le monete delle colonie genovesi, 1980 (ristampa 1981) . XX, 2 - Miscellaneo: Albo Sociale - Atti sociali - Libri e cultura nella civiltà occi- dentale (testi o sunti di un ciclo di conferenze di F. Sisinni, G. Cavallo, A. Petrucci, G. Petti Balbi, G. Puccioni, Mirella Ferrari, A. Derolez, L. Marchini, D. Puncuh, J. Ruysschaert, G. Croll, R. Savelli, G. Tarditi, A. Hobson) - C. Di Fabio, Per la datazione della chiesa di S. Agostino della Cella a Sam-pierdarena - G. Petti Balbi, Apprendisti e artigiani in Liguria nel 1257 - L. Magnani, Mostre di carattere storico artistico in Liguria: un bilancio degli ultimi anni - Necrologi, 1980 ............ XXI, 1 - C. Marchesani-G. Sperati, Ospedali genovesi nel Medioevo, 1981 . XXI, 2 - L’archivio dei Durazzo marchesi di Gabiano, 1981...... Esaurito L. 40.000 Esaurito » 50.000 » 50.000 » 35.000 Esaurito » 25.000 » 50.000 XXII - Miscellaneo (Albo sociale; Atti sociali; XV centenario della nascita di S. Benedetto; IX centenario della nascita di Caffaro; Vili centenario della na- scita di S. Francesco; L. Santi Amantini, Per una revisione delle iscrizioni greche della Liguria-, G. Petti Balbi, Per la biografia di Giacomo Curio-, O. Raggio, Produzione olivicola, prelievo fiscale e circuiti di scambio in una comunità ligure del XVII secolo; C. M. Cipolla-G. Doria, Tifo esantematico e politica sanitaria a Genova nel Seicento-, P. Schiappacasse, Genova e Marsiglia nella seconda metà del XVII secolo; A. F. Ivaldi, Una « macchina » funebre nella chiesa dei Padri Somaschi. Annotazioni sugli apparati effimeri genovesi di fine Seicento; P. Massa, La repubblica di Genova e la crisi dell’ordinamento corporativo: due redazioni settecentesche degli statuti dell’arte della seta; A. M. Salone, La figura e l’opera di G. L. Oderico; Necrologi -Notiziario bibliografico - Indice dei nomi di persona e di luogo), 1962 . . L. 35.000 XXIII, 1 - Le carte del monastero di San Benigno di Capodifaro (secc. XII-XV), a cura di A. Rovere, 1983 .............» 30.000 XXIII, 2 - Miscellaneo (Albo sociale; Atti sociali; G. Mennella, Un’ignota dedica lunense a Iside in una scheda autografa di Santo Varni; L. Santi Amantini, Per una revisione delle iscrizioni greche della Liguria. 2: tre epigrafi di Genova e Provincia; A. Rovere, Un procedimento di rappresaglia contro Rodi (1388-1390); G. B. Cavasola Pinea, Ambigua presenza francese nei conflitti tra Genova e Finale: Rinaldo Dresnay ed i patti del 9 aprile 1449 e del 15 settembre 1458; A. Boscolo, Gli Esbarroya amici a Cordova di Cristoforo Colombo; E. Belgiovine-A. Campanella, La fabbrica dell’Albergo dei Poveri. Genova 1656-1696; A. Ginella, Le confraternite della Valbisagno tra Rivoluzione e Impero (1797-1811); M. Merega, Il servizio militare nella Repubblica Ligure e nei dipartimenti liguri dell’impero francese, 1797-1814), 1983 » 35.000 XXIV, 1 - Miscellaneo (Albo sociale - Atti sociali - G. Mennella, Un’epigrafe di Taggia da riabilitare: CIL V 7809 - L. Santi Amantini, Materiali inediti per lo studio di un’epigrafe greca di Rapallo (I. G., XIV, 2275) - A. Rovere, Libri « iurium-privilegiorum, contractuum-instrumentorum » e livellari della Chiesa genovese (secc. XII-XV). Ricerche sulla documentazione ecclesiastica - R. Savelli, Dalle confraternite allo Stato; il sistema assistenziale genovese nel Cinquecento - M. Quaini, Per la storia della cartografia a Genova e in Liguria. Formazione e ruolo degli ingegneri-geografi nella vita della Repubblica (1656-1711) - M. Bologna, 1684 maggio 17 - Le perdite dell’archivio del collegio dei notai di Genova - A. Petrucciani, Bibliofili e librai nel Settecento: la formazione della biblioteca Durazzo (1776-1783) - A. M. Salone-F. Amalberti, Nuovi documenti paganiniani - G. Felloni, L’Archivio della Casa di San Giorgio di Genova (1407-1805) ed il suo ordinamento - Necrologi - Notiziario bibliografico - Indice dei nomi di persona e di luogo), 1984 .....» 40.000 XXIV, 2 - Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento. Per il VII centenario della battaglia della Meloria. Genova 24-27 Ottobre 1984, Atti del Convegno, 1984 ................» 60.000 XXV, 1 - H. C. Krueger, Navi e proprietà navale a Genova. Seconda metà del sec. XII, 1985 .................» 20.000 XXV, 2 - Indice dei volumi XI-XXI della nuova serie (1971-1981), 1985 ...» 30.000 XXVI, 1, 2 e 3 ■ I Registri della Catena del Comune di Savona, a cura di M. No- cera - F. Perasso - D. Puncuh - A. Rovere, 1986 .......» 90.000 XXVII, 1 e 2 - Cartografia e istituzioni in età moderna, Genova, Imperia, Albenga, Savona, La Spezia, 3-8 novembre 1986, Atti del convegno, 1987 . L. 90.000 XXVIII/l - Il sistema portuale della Repubblica di Genova (Introduzione - Vito riergiovanru, Dottrina e prassi nella formazione del diritto portuale: il mo-elio genovese - Paola Massa Piergiovanni, Fattori tecnici ed economici dello sviluppo del porto di Genova tra medioevo ed età moderna (1340-1548) -vjiorgio Dona, La gestione del porto di Genova dal 1550 al 1797 - Giovanni Kebora, i lavori di espurgazione della Darsena del porto di Genova nel 'Jl°vannl Assereto, Porti e scali minori della Repubblica di Genova €i f m° ina- " ■^ccar4° Stilli, Un porto per Sanremo: difficoltà tecniche e problemi politico - finanziari - Maria Pia Rota, L’apparato portuale della Corsica genovese : una struttura in movimento - Michel Balard, Il sistema portuale genovese d Oltremare (secc. XIII-XV), 1988 .......» 40.000 XXVIII/2 - A. Petrucciani, Gli incunaboli della Biblioteca Durazzo, 1988 ...» 80.000 XXIX/1 - Miscellaneo (Albo sociale - Atti sociali - Edilio Boccaleri, L’Agro dei angensi Viturii secondo la Tavola di Polcevera - Luigi Santi Amantini, Epi-p1, funeraria greca conservata a Genova nel Castello Mackenzie - Valeria 0 omo - Josepha Costa Restagno, Chiesa e città nel basso medioevo: Vescovi e Lapitoli Cattedrali in Liguria; Profilo generale; Albenga; Genova; Luni - arzana - Giovanna Petti Balbi, Il Mito nella Memoria genovese (secoli XII-V) - Magda Tassinari, Le origini della cartografia savonese del Cinquecento. 1 contributo di Domenico Revello, Battista Sormano e Paolo Gerolamo Marchiano- Aldo Gorini, Gli « Acta Ecclesiae Mediolanensis» nei Sinodi Pos tridentini della Provincia Ecclesiastica di Genova (1564-1699) - Rossana Ur-bam - Mimma Figari, Considerazioni sull’insediamento ebraico genovese (1600-1750) - Gabriella Sivori Porro, Costi di costruzioni e salari edili a Genova nel secolo XVII - Fausta Franchini Guelfi, Documenti per la scultura genovese del settecento), 1989 .............» 40.000 Disponibile anche in estratto............» 25.000 XXIX/2 - Civiltà comunale: libro, scrittura e documento, Genova 8-11 novembre 1988, Atti del Convegno, 1989 ............» 80.000 XXX/1 - A. Pacini, I presupposti politici del «secolo dei Genovesi»: la riforma del 1528, 1990 ..............in preparazione XXX/2 - D. Veneruso, Vita religiosa del laicato genovese durante l’episcopato del card. Minoretti (1925-1938), 1990 .........in ’ preparazione FUORI COLLEZIONE V. Vitale, Breviario della storia di Genova, 2 voli., Genova 1955 (ristampa 1989) » 70.000