ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA . :'S VOLUME X L 11 GENOVA NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ PALAZZO BIANCO MCMVIII ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA — - p « .0 * « a . • JB * 1>- ' - àJR - ■ ,r. ; ■* f4 . 9. ■%r* ■' ( - rr-^, , - *- * s ■ _ _ ATTI della SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE ni STORIA PATRIA VOLUME X L I I GENOVA NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ PALAZZO BIANCO IQOS GENOVA TIP. DELLA GIOVENTÙ LA VITA E LE OPERE DI AGOSTINO MASCARDI CON APPENDICI DI LETTERE E ALTRI SCRITTI INEDITI E UN SAGGIO BIBLIOGRAFICO PER FRANCESCO LUIGI MANNTTCCI ALLA CITTÀ DI SARZANA dedico QUESTE INDAGINI _ _ l PREFAZIONE Sebbene il nome di Agostino Mascardi ricorra frequentemente nelle opere critiche, storiche, poetiche ed erudite del secolo XVII, ben pochi, credo, dei cultori delle nostre lettere avrebbero saputo di lui e delle sue opere, prima che Adolfo Bartoli curasse, or è quasi messo secolo, l'edizione Le Monnier delVArte Istorica; e certo nessuna delle moderne storie letterarie si sarebbe mai arrischiata a ospitare in luogo conveniente questo autore fioco per lungo silenzio, prima che comparissero, nell’ ottimo manuale di Alessandro D'Ancona e Orazio Bacci, le brevi notizie biobibliografi che che lo riguardano. Tuttavia, con sì onorevoli patroni, egli divenne ben presto oggetto di ricerche e di studj per alcuni critici: per il Fojfano„ il Rua e il Della Giovanna; il quale ultimo anche accennava all’ opportunità di un lavoro che chiarisse i punti oscuri dell’ avventurosa sua vita e rilevasse i rapporti che, coni’ era facile intravedere, doveano esser corsi tra lui e i più cospicui letterati del tempo. f Sicuro dunque di compier cosa utile e desiderata, io ìio provveduto a un lavoro siffatto: se bene o se ;naie, questo poi non ho il coraggio di definire, per non peccar di vanagloria nell'un caso, di falsa modestia nell' altro: e perciò mi rimetto in tutto al giudizio degli equanimi lettori. Mi preme piuttosto avvertire che ho frugato attivamente in ogni dove per raccoglierne i materiali nella maggior parte inediti e che vi ho poi studiato serenamente il mio uomp come cittadino e come letterato, senza indugiarmi a scorrazzare per il seicento e a rifrigger le notizie biografiche di scrittori già noti — che avrei potuto fare agevolmente in più luoghi, se avessi voluto accrescer la mole del volume e mescolare con l'oro di zecca quello già in corso — ma cercando di offrir soltanto una monografia, che risultasse , fin che mi fosse possibile, da documenti e testimonianze particolari. E credo di aver così tratteggiato , con chiarezza e con frutto, uno dei più caratteristici personaggi di quel benedetto secolo X VII, che, pur dando qualche saggio d’ingegnosa e civil letteratura, spesso si compiacque di stranezze e di frivolezze e di pettegolumi inauditi. La prima idea di questo lavoro non fu proprio mia: bensì del comm. Giovanni Sforza e del prof. cav. Achille Neri, alla cui erudita bontà tanto io debbo ormai e tanto debbono altri studiosi quanto purtroppo non valgono la mia e I’ altrui riconoscenza a degnamente compensare. E, oltreché di consigli e suggerimenti preziosissimi, mi furon essi poi larghi, quando seppero ch’io deliberatamente v' attendevo, di numerose notizie, che negli anni precedenti già aveano scovato e raccolto intorno al Mascardi. Per la qual cosa rinnovo qui ad entrambi, pubblicamente, prima di entrar nell’ argomento, l’espressione della mia sempre viva gratitu- « ! — ii — dine; e con loro ringrazio pure l'avv. Raimondo Lari di Sarzana, che mise a mia disposizione, con signorile liberalità, la ricca sua biblioteca privata, e il cav. Teodoro Navarrini, soprainlendente dell’Archivio distrettuale notarile della medesima città, che mi facilitò in mille guise le ricerche locali, e il cav. Ognibene, direttore dell'Archivio di Stato di Modena, che soddisfece a ogni mia preghiera con ammirabile pazienza, e il cav. Emilio Neri, dalla cui cortese e abile matita fu disegnata V arma della famiglia Mascardi. A coloro poi che scorreranno queste pagine, auguro ogni felicità, anche se malevoli. Sarsana, 15 Ottobre 1907. Francesco Luigi Mannucci. PARTE PRIMA LA VITA CAPITOLO I. BREVI CENNI SULLA FAMIGLIA MASCARDI Pretesa antichità della famiglia Mascardi. — L’ origine , secondo i documenti. — La vendita di Trebiano alla Repubblica di Genova. — La consegna del Castello. — Passaggio a Sarzana. — Niccolò giureconsulto. — Rivendicazione delle immunità pattuite. — Francesco auditore di Rota presso il Cardinal Cibo. — Sua intrinsechezza con Agostino Bernucci. — Sua nomina al-l’Auditorato di Massa. — Sua attività nella vita pubblica di Sarzana. — Vita e opere dei figli Niccolò e Giuseppe. — Notizie intorno ad Alderano. — Suo matrimonio con Faustina De Nobili. — Sue cariche pubbliche a Sarzana, a Massa e a Bologna. — Sue opere legali. — I figli. — I giuspatronati ecclesiastici. — Giovanni, vescovo di Nebbio. — Gerolamo giureconsulto — Alberico intenta causa al Comune per il ristabilimento delle immunità. — Esito della causa — Le figliuole di Alderano — Il testamento — Agostino diseredato. stesso Agostino Mascardi, di cui prenderemo a tracciare la biografia e a illustrare le ^pere , faceva risalire 1’ antichità della sua famiglia a più di seicento anni innanzi, al tempo cioè di Ottone III, che l’avrebbe investita del dominio di Trebiano in quel di Luni (1). La testimonianza però prova soltanto che questa doveva essere 1’ opinione comune, ancor nel secolo XVII: nè potrà suffragarsi con il consenso del tai do e favoloso Gerini, che, appoggiandosi a (i) Ved. VAppendice I al presente lavoro ; lett. del 14 di novembre 1617, n. 38. Alti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. 4 — iS — un ignoto Fannusio Campano, specificava esser proprio avvenuta la donazione dell’imperatore « intorno agli anni 996 di nostra salute », in persona di « certo capitan Mascardo di nazion tedesca », onde sarebbe derivata « la famiglia Mascardi che fu dei Vicedomini della Chiesa Lunense e cognominossi dei Nobili di Trebiano » (1). Nello stesso secolo in cui visse il nostro Agostino, correva voce che gli stessi Genovesi avessero, non si sa per qual ragione, donato il castello di Trebiano ai Mascardi. Il De Rossi nella sua Collectanea, rifiutava come (i) Emanuele Gerini, Memorie storiche d’illustri scrittori e dì uoviini insigni dell'antica e moderna Lunigiana, vol. I, Massa, 1829, p. 45. Le parole qui riportate servono a illustrare un Urbano Mascardi fiorito, pur secondo il Gerini, verso il 1193 e autore di alcune opere di contenuto ascetico. Lo Spotorno , nell’ introduzione alla sua Storia letteraria della Liguria, vol. I, Genova, Ponthenier, 1824, p. 9, ritiene come semplicemente « supposto » lo storico Fanusio Campano, onde sarebbe tolta di seconda o di terza mano la notizia del Gerini (ved. infatti Raffaele Soprani, Li scrittori della Liguria e particolarmente della marittima. In Genova, MDCLXVII, p. 278); e il Melzi, nel suo Dizionario d’opere a-nonhne e pseudonime , vol, I, Milano, Pirola, 1848, p. 395, sostiene esser solenni imposture tutte le attribuzioni fattegli di antichi scritti. Del resto, prima ancora dello Spotorno, il De Rossi, nella Collectanea, riferendosi all’ argomento che c’interessa, conchiude : « Ma della donazione 0 sia investitura di questo [Trebiano], fatta, come si dice, ai Mascardi, per Ottone, non ho veduto alcuna scrittura pubblica nè atto autentico, parendo ripugnare grandemente l’asserzione di questo Fannusio Campano all’antiche e sicure memorie del Vescovado lunense, registrate nel codice Pelavicino, dalle quali si prova aver li vescovi di Luni avuto il possesso di Trebiano e altre castella anco ne’ tempi di Ottone suddetto...... nè si legge che da Ottone ne fossero spogliati i Vescovi e investiti i Mascardi, oltredichè si prova questo fermo possesso ne’ Vescovi in tempo ancora dell’antedetto Federico I.....; onde pare chela ragione di Fanusio Campano non possa in questo fatto sussistere » : e a tutto ciò reca saldo fondamento con indicazioni e riporti degli attendibilissimi documenti del codice nominato (Collectanea copiosissima di memorie e notizie storiche con gran tempo e fatica autenticamente desunte.......per descrivere l istoria e 1 successi tanto della città di Luni quanto di Sarzana, ms. della Bibl. Comunale di Sarzana, c. 448 e sgg.). — ig — infondata siffatta notizia, non trovandola presso il Foglietta e il Giustiniani; e, poiché gli eran capitate tra mano alcune antichissime carte della famiglia, dava invece per certo , con la scorta delle nuove fonti, che « un antico Aldovino maritasse una sua figliuola, chiamata Vitta, ad un certo Guido dei signori di Valecchia, terra già vicina a Pietra Santa....... e che da essa Vitta e da Guido per consorte nascesse un figlio detto Parente, dal quale derivasse un certo Alberto e, da Alberto, Guglielmo, detto Mascardo , dal quale avesse o-rigine il nome dei Mascardi » (1). Senza fermarci qui su tali e su altre prische genealogie , che si perdono nelle tenebre del medioevo e malfide ricompaiono nelle memorie di famiglie interessate o sulle pagine di storici non sempre attendibili, noi potremo con sicurezza ritenere come uno dei più antichi della famiglia Mascardi, e forse come primo propagatore del cognome, questo Guglielmo, detto Mascardo, del fu Alberto Visdomino ; il quale Guglielmo troviamo già, con tali determinazioni nominali e genealogiche, in una carta del 1271 (2), e, insieme con Gualtierotto di Aldo- (1) Op. e 1. citt. Di questa donazione dei Genovesi parla il Landi-nelli, Dell’origine dell'antica Limi, della città di Sarzana, delle notizie più interessanti appartenenti a Sarzana e a tutta la provincia di Limi ecc., ms. della Bibl. Com. di Sarzana, vol. II, p. 171: « Questo castello di Trebiano fu posseduto un tempo da Guglielmo detto per soprannome Mascardo, figlio di Alberto Vicedomini e poi eredi, concessogli in feudo da’ Genovesi per intercessione del Doria e dello Spinola ». Ma la notizia fu originata dalla falsa interpretazione di un documento di vendita cui subito accenneremo. (2) Il 12 di agosto, « Giliolus filius quondam Alberti Vicedomini de Trebiano » ; vende al fratello « Guillelmo dicto Manscardo » 1’ ottava parte della giurisdizione , distretto , castello e territorio di Trebiano (codice Pelavicino, ms. dell’Archivio Capitolare di Sarzana, c. 3i4r, n. 398). Per altri atti posteriori e di minore importanza, nei quali compare questo Guglielmo, ved. ib. c. 27r., 2Sr. e 315V. vino, Saladino di Opizzino, Corrado di Bonaccorso, Cardinale d’Ildebrando e altri di quei condomini, in un famosissimo atto di vendita, con cui, 1’ anno 1285, ai 31 di gennaio, veniva ceduto il feudo di Trebiano con quello di Lerici alla Repubblica di Genova, per lire 2500. Quest’ atto, importantissimo, redatto dal notaio Ugolino Scarpa , fu pur registrato, nel 1301 e nel 1311, entro i cartolari dei suoi venerabili colleghi Rolando di Ricciardo e Giovanni Stupio, e parecchie volte, nei secoli seguenti, rimesso in luce, per rivendicare alcuni diritti che, nella vendita, s’erano accaparrati i signori del luogo, essendo rimasta la Repubblica debitrice di buona parte del prezzo (1). Perciò la famiglia Mascardi sarebbe da ritenersi come una diramazione di quella antichissima dei Vicedomini della Chiesa lunense (2), e l’esistenza del (1) Trovasi, ricopiato per mano di Domenico Maria Bernucci, insieme con altri documenti ed estratti riguardanti la famiglia Mascardi, nella busta M. delle Famiglie lunigianesi, ms. della R. Biblioteca Universitaria di Genova. Cfr. pure Rappresentazione in fatto et in iure | del magnifico | Carlo Mascardi | agli III.mi Signori | Protettori della Compera | di San Giorgio sopra le franchigie della soa casa. — In Genova, MDCLXXXXI, nella stamperia di Antonio Casanova, in piazza Cicala: opuscolo rarissimo , conservato nella busta medesima. Più ancora del documento di vendita è per noi interessante la conferma della Repubblica, che suona, nella sua parte sostanziale : « Nos Obertus Spinula Capitaneus Communis, gerens vices nostras et Domini Oberti Auriae Capitanei eiusdem Communis...... confitemur vobis Guilielmo Manscardo quondam Alberti et Saladino quondam Opicini, Gualtieroto q. Andovini et Conrado Bonaccursi Dominis de Trebiano...... facere et attendere et promittere infrascripta.....: vos omnes.... et haeredes et ipsorum descendentes.... recipimus in cives Ianuae et promittimus vobis, vos et haeredes vestros et praedictos a vobis, et praedictis descendentibus habere et tenere et tractare tamquam cives et pro civibus Ianuae ac vobis et haeredibus vestris et praedictorum damus et concedimus omnem immunitatem personalem in perpetuum ». (Busta cit.). (2) Il Landinelli , op. e 1. cit., concluse subito in questo senso. II De Rossi se ne mostrò un po’ schivo dapprima « attesa la diversità e differenze dell’Arme o sia stemmi gentilizi di queste antiche famiglie, er- 21 - capitan Mascardo , di nascita tedesca e privilegiato da Ottone III dell’investitura di Trebiano, come una delle solite fantasticherie divulgate dalle famiglie italiane durante il basso medioevo, per conferir maggior lustro alla propria origine. Senonchè, pochi anni dopo la vendita accennata , i Visdomini passarono in buon numero ad occupare Areola, sotto la guida di quel Palmerio, nipote d’Azzolino, e di quell'Ildebrando, che compaiono, rappresentati per procura, nell’ atto relativo (1) ; e diedero origine ad un ramo sempre cognominato dei Visdomini e onorato poi da personaggi insigni nelle leggi e nella poesia (2) : laddove i Visdomini discendenti da Gualtierotto, mutato il -ï. cognome in quello di Mascardi, continuarono, con permesso della Serenissima Repubblica di Genova, ad abitare il feudo di Trebiano fino all’anno 1415, nel quale Aldovino, figlio di Giovanni e pronipote di Guglielmo, lo consegnò gendo li Mascardi per arma un leon rosso coronato con sopra alcuni scacchi bianchi e rossi in una divisa traversa...... e i Visdomini...... per scudo tre onde », ma vi si rimise poi, considerando che la parola vicedomini, ancor nel sec. XIII, fosse distintivo non di famiglia, ma di ufficio o dignità, e che l’Armi potevano essersi differenziate per altre cause, più recentemente. Ved. per i visdomini ecclesiastici, Muratori, Antiqu. it., diss. LXIII. (1) Ved. Landinelli, op. e 1. citt. (2) Uno di questi, Anton Maria Visdomini, umanista e poeta, rievocava in versi, sulla fine del quattrocento, gli antichi possessi : Arcula sed magno memoratur ab Hercule dicta, debeo cui vitae prima alimenta meae; Jiaec mihi non humili tribuit de stirpe parentes sed quibus in patria sunt loca prima sua, qui domini quondam Trebiano jura dedere, illustres atavis quique fuere suis. Carmen Antonij Mariae de Vicedominis Poetae Arculan. Bononiae Laureati, in cod. delfavv. Carlo Bernucci, intitolato Poemata D. Augustini Brennutij Jurisconsulti Clarissimi Civis Lunensis Sarsanensis (c. 51 v.) e già descritto da A. Neri in Giorn. Stor. e Lett. della Liguria, V, p. 366. costrettovi, al Deputato genovese, non prima però di aver fatto riconfermare in regolare istrumento notarile, per mano del notaio Giovanni Angelo Griffi, tutte le franchige promesse nel 1281 alla famiglia (1). Scesero allora i Mascardi nella vicina Sarzana, ridentissima cittadina presso le rive del fiume Magra, ove poco più di cent’anni innanzi il divino Alighieri aveva composto le discordie dei due cospicui feudatari del territorio; e il loro ceppo si propagò direttamente fino a Niccolò, avo del nostro Agostino (2). È questo Niccolò l’insigne giureconsulto, 1’ «eximius ac nobilis Doctor legum sarzaniensis », che verso il 1511, corresse ed emendò, coadiuvato dal magnifico ser Benedetto dei conti di Celsi, dottore e cavaliere della milizia dorata, e dal magnifico ser Benedetto de’ Benetti, dottore e cavaliere, le riformagioni agli Statuti di Sarzana, fatte dai Protettori delle Compere di S. Giorgio della Serenissima e da altri ragguardevoli funzionari, fra cui Francesco Bonaventura di Pontremoli, dottore anch’egli in entrambe le leggi (3). Di lui resta pure memoria in una supplica inviata nel 1512, a nome della famiglia Mascardi, alla Repubblica, per rivocare e far valere gli antichi suoi diritti, consistenti in esenzioni di balzelli, pedaggi e va dicendo, massime « quia (vi si diceva) tot bellis iactata et paene exhausta est Mascarda familia, quae contra Florentinos per decennium vel amplius ab hac Republica gesta sunt, ut, censo direpto ab hostibus, fuit necesse patrimonium partim venumdare, partim, ut sepivole cogit necessitas, (1) Ved. documenti e prove in Rappresentazione cit. (2) Ibidem. (3) Il Magistrato sarzanese li fe’ stampare in Parma, appresso Antonio Viotti, l’anno 1529. Furono anche tradotti liberamente in italiano (cfr. Sforza, Saggio d'una bibliografia storica della Lunigiana, Modena, Vincenzi, 1874, p. 50). — 23 — permutare....... ». Rispondeva, il 12 di dicembre 1522, il doge Giovan Maria di Campofregoso e con lui il collegio degli Anziani, accordando quanto la supplica invocava (1); ma non per questo l’esausto patrimonio accennava negli anni seguenti a ristorarsi. Ecco quindi il figliuolo di Nicolò, Francesco, studiar leggi e proporsi di professarle attivamente. Le più sicure testimonianze ce lo indicano agente e auditore di Rota presso il cardinal Cibo e con questo poi a Milano, verso il 1547, nel-l’occasione del notissimo processo di Giulio (2). Non molto appresso lo troviamo nella città natale, strettissimo amico e collega nelle cariche pubbliche di un illustre suo concittadino, Agostino Bernucci, il quale gli diresse parecchi dei suoi epigrammi or faceti or dotti i-nali e in versi procurò di consolarlo per la morte della egregia sua consorte, Chiara Manecchia (3). Francesco (1) Archivio Comunale di Sarzana, Registrimi novum, n. 757, c. 7ir. e v. Vi sono nominati tutti i componenti la famiglia in quell’anno. (2) Cfr. Achille Neri, Agostino Bernucci, in Giorn. Stor. e lett. della Liguria, anno cit., p. 446, n. 1 ; e L. Staffetti, Giulio Cibo-Mala-spina marchese di Massa, Modena, tip. G. T. Vincenzi e Nip., 1892, p. 94. (3) Poemata D. Augustini Brenutij, cod. cit. Riporto qui gli epigrammi scritti in morte della nonna del nostro Agostino : AD FRANCISCUM MASCARDUM De obitu suae uxoris. Cum pater omnipotens summo spectasset Olympo, Mascarde, uxoris tam pia facta tuae, Quae propriis victum manibus praebebat egenis Illorumque humiles flebat ad Inferias : Non erit immunis pietas haec amplius, inquit, Iam satis humanis commiserata malis. Duxit eam exultans sic fatus ad aethera secum Cum quo nunc fruitur nectare et ambrosia. De eodem obitu. Velabant coelum tenebrae, dum Clara tenebat Terras praeclare lumine ubique nitens. Sed, postquam nobis spolium haec morte reliquit, Expulsis tenebris emicuere Poli. (c. 52r.). fu col Bernucci fra i giudici sarzanesi deputati a coadiuvare due gentiluomini della Repubblica, inviati espressamente dalPUfficio di S. Giorgio, e cioè Iacopo Lercari e quel G. Batt. Gentile che poi salì al seggio dogale, in una controversia sorta per la pretesa degli uomini di Nicola , Ortonovo e Castelnuovo di passare, contro i privilegi antichi concessi dagli Imperatori ai Sarzanesi, sotto la strada romana con la loro giurisdizione (1) ; e tu pure con lui fra i consiglieri aggiunti della Comunità quando, il 22 di agosto 1562, si congregò solennemente tutto il Consiglio per deliberare sul passaggio di Sarzana dal Protettorato di S. Giorgio alla dipendenza diretta della Serenissima (2). Nel 1563 era già riuscito ad allogarsi, in qualità di auditore, a Massa, come si ricava da una sua lettera scritta il 1 di giugno di quel- 1 anno al Capitolo dei canonici della Cattedrale di Sarzana, per raccomandare il conferimento di un posto ecclesiastico a un suo protetto (3); e da un’altra con la quale, il 7 di ottobre, annunciava di riscuotere delle somme di denaro sui beni posseduti dal Capitolo presso il Ducato e di trattenerne una parte a conto del fìgliuol suo, canonico Nicolò, domiciliato in Sarzana (4): ufficio e incombenze che gli restarono per parecchi anni e che gli permisero di trovarsi ancora, nel 1566, col Bernucci, il 30 di novembre, nel Consiglio della Comunità sarzanese (5); di redigere in volgare, nel 1571, col magnifico collega Domenico Parentucelli, ser G. Batt. (1) Landinelli, ms. cit., tratt. II, p. 270. (2) Archivio Comunale di Sarzana, Registrimi novurn cit., c. 23 v. (3) Archivio Capitolare di Sarzana, De Massa Carraria, Fontia etc. litterae, Filza unica, ad an. (4) Ibidem, ad an. Da altre lettere, del 29 di sett. '64, e 18 di sett. '65, risulta ch’egli veniva spesso a Sarzana per amministrare i suoi beni privati. (5) Archivio Com. di Sarzana, Registrimi uovum, cit., c. 94r. Landini e Piero Martinetti, una tariffa sul « salario mercede o in sportula del Sp. Vicario del Mag.co S. Capitano et Commissario della città di Sarzana » (1); e di prender parte, il 30 dicembre 1573, all’elezione degli ufficiali del Comune (2). Poneva intanto mano alla compilazione dello Statuto di Carrara, sanzionato da Alberico I il 14 di agosto 1574 e a quello di Massa approvato dallo stesso principe il 17 di luglio 1592 (3). La consorte Chiara, che da parecchio tempo era passata a miglior vita, gli aveva regalato, con parecchie figliuole, quattro figli maschi, ch’egli consacrò o lasciò si consacrassero quasi tutti alla Chiesa (4). Niccolò, il primo, salì a cariche cospicue: fu vescovo di Brugnato nel 1579, vescovo di Mariana e Accia in Corsica e visitatore apostolico di tutto lo Stato di Genova nel 1581; nunzio nell’ '86 in Francia. Morì nel 1599, mentre era destinato nunzio in Polonia (5) e lasciò un’opera sul catechismo romano e un’altra sui SS. Sacramenti, le quali (1) Ved. foglio volante a stampa, senza indicazione di sorta, allegato alla copia degli Statuti antichissimi, che fu donata dal Bertoloni alla Biblioteca Comunale di Sarzana. (2) Archivio Comunale di Sarzana, Liber deliberationum (1572-83)1 •cumero 344, c. 49r. (3) Cfr. Giovanni Sforza , Alderano Mascardi, giureconsulto sarza-nese, estr. dagli Atti e Memorie delle Deputazioni di St. Pat. dell'Emilia, N. S., vol. Ili, Modena, Vincenzi, p. 1. (4) 11 De Rossi in un suo foglio, che conservasi nella citata Busta M e porta il titolo di Genealogia Mascardi, nota dodici figli, senza darne le prove. Io mi sono attenuto ai documenti pubblici e specialmente al testamento di Francesco, rintracciati nell’arch. notarile di Sarzana. (5) Recano notizie biografiche di questo eminente prelato il Giustiniani , Gli scrittori liguri descritti, in Roma, app. Nicolò Angelo Ti-nassi, MDCLXXII ; e il Gerini, op. cit., to. I, p. 107. Tengo conto soltanto di quelle più sicure date dal Landinelli, contemporaneo e amico della famiglia; Ved. op. cit., tratt. II, p. 274. Certi decreti, emanati da lui nel 1586, e riguardanti il Seminario e alcune cappelle religiose di Sarzana, si potranno rinvenire fra gli atti del not. Giov. Battista De’ Medici, filza I, Archivio Notarile di Sarzana. - 26 — sono , com’ egli stesso avverte nella dedica e nei titoli, raccolte dei discorsi in volgare da lui rivolti al clero e al popolo , e intesi a ricondurre, con la più scrupolosa confutazione delle varie eresie, 1’ esercizio delle o-pere di pietà alle prescrizioni del Concilio tridentino (1). Anche Giuseppe salì ad alti gradi nella carriera ecclesiastica. Laureatosi in leggi, si recò, verso il 1571, a Roma, ove s’adoprò per risolvere in vantaggio del Capitolo di S. Maria, certe quistioni riguardanti le decime imposte dalla Curia romana (2), e per far confermare dal Papa alcune bolle contro le pretensioni che i cavalieri dell’ Ordine di S. Maurizio di Savoia sostenevano sull’Ospedale di S. Lazzaro (3). Nominato dapprima pro- (i) Cathechismo \ romano \ ridotto in Discorsi | dall'III.ino et Reverendissimo j Monsignor Nicolao Mascardo, Vescovo di | Mariana et Accia. \ Diviso in quattro parti, delle quali | la prima contiene il Simbolo Apostolico | la seconda il Decalogo \ la terza i Santi Sacramenti 1 la quarta I'0-ratione Domenicale | [dedicato] | alla Sacra Congregazione Sopra Vescovi | In Genova, appresso Girolamo Bartoli, 1589, in 4.0. Lo Spotorno, in una nota manoscritta, apposta in margine a una copia del Soprani posseduta dalla Bibl. Univ. di Genova (ved. ms. G, II, 8), a p. 220, avverte che di quest’opera esiste un’altra edizione, di Venezia, del 1595- L’ Ol-DOiNi, Athenaeum Ligusticum seu Syllabus scriptorum ligurum necnon Sarzaniensium, Perusiae, ap. H. H. Laurentii Ciani et F. Desiderium, 16S0, p. 431, la dà come una semplice versione. — Discorsi I di Mons. Reverend.mo Nicolao Mascardo | Vescovo di Mariana | et Accia \ Sopra i Santissimi Sacramenti \ di Santa Chiesa I Ne’ quali sì mostra da chi jussero instituìti ì riti et uso di quelli \ 0-pera utile, et giovevole non solo a' Sacerdoti, et a chi ha cura di | anime, via anco ad ogni altra qualità di persona \ Con tre Tavole, una di discorsi l’altra de gli Autori citati, et la terza \ delle cose più notabili | [dedicato] All’Illustrissimo et Reverendissimo \ Signor Cardinale D’Ascoli \ In vendita I Appresso Damiano Zenaro , MDXCV, in 8.°. Il Gerini, op. cit., vol. I, p. 109, ricorda, come sua, un’altra operetta, intitolata : Il Sinodo Diocesano di Brugnato, stampata nel 1581, e che non ho potuto vedere. (2) Gran parte del carteggio intorno a questa causa si conserva autografo nell'Archivio Capit. di Sarzana, in una filza unica , che porta 1 indicazione Collectae pro S. Sede et pro Seminario Episcopali. (3) Da una raccolta di notizie su fogli volanti, di mano del De Rossi, che si trova in Sarzana, nella bibl. privata dell’avv. R. Lari. tonotario apostolico, visse alla corte d Uibino, poi, come vicario del card. S. Carlo Borromeo, a Milano, dalla qual città scriveva al padre Francesco, il 1576, assicu^ randolo sulle condizioni della sua salute ancora un po scossa per un attacco di peste, che lo avea tempo innanzi colpito (1). Più tardi fu inviato, con ugual dignità, a Padova, indi a Napoli, presso il cardinal Paolo d A-rezzo, e ivi mostrò tali attitudini alle cure più gravi da esser poi chiamato a reggere la Chiesa di Piacenza, al posto del vescovo Filippo di Saya , partito per la nunziatura di Spagna. Sisto V gli conferiva infine, nel 1585, la dignità di vescovo di Corsica e quella di nunzio nella Lorena (2). Morì nel 1586, passando per la sua diletta Sarzana. Sebbene così dedito alle occupazioni della Chiesa, trovò il tempo per coltivare gli studi legali e compose un’ opera voluminosissima, in tre fitti tomi in quarto, che è un immenso commentario al giuie praticato in quel secolo, con esempi specifici d’ogm sorta di controversie e di risoluzioni (3). Così brillante riuscita (1) Archivio Capitol, di Sarzana, Lilterae officiales, Z. (2) I ragguagli biografici dati intorno a lui dal Gerini , op. cit. , I, p. 107, sono poco sicuri e farraginosi, come sempre. La fonte di quelli eh’ io qui raccolgo , è la prefazione che lo stesso Giuseppe ha premesso alla stampa delle sue opere e che non hanno diligentemente interrogato gli altri. Noto ancora che Giuseppe fu in intimità col Bernucci. Un carme da questo indirizzatogli nel 1572 , fu in parte pubblicato dal Neri in Giorn. Stor. e Lett. della Lig., vol. cit. p. 35^. (3) IOSEPHO Mascardi | I. C. Sarzanensis | Prothonotarii | Apostolici Conclusiones Probationum omnium, quae in utroque Foro versantur continens Indicibus | Advocatis, Causidicis , omnibus denique luris Pontifici, Caesareique \ professoribus utiles, practicabiles, ac necessarias | Quibus Canonicae, Civiles, Feudales, Criminales, caeteraeque materiae contentae per Ampliationes | (ut dicitur) Limitationes Intelligentiusqne , alphabetico o> -dine ob digeruntur; \ Magis receptis Doctorum opinionibus ubique hoc a-sterisco * notatis \ Omnia summo studio postrema hac editione recognita. I Cum summariis ac Indice rerum, sententiarumque magis selecta; wn locupletissimis. I Venetiis, MDCIX, Apud Haeredem Damiani Zenaiij . — 28 — non fece Alberico, altro dei figliuoli di Francesco, d’indole più fiacca e di salute più cagionevole. Forse riguarda lui una lettera che Francesco faceva scrivere dal principe di Massa ai canonici della Cattedrale, per pregarli di ricevere nel loro Capitolo un suo figliuolo (1). Però da un atto del Capitolo stesso, che a-veva accolto favorevolmente la commendatizia, esaudendo in breve termine il desiderio espressovi, appare eh’ egli era già morto nel 3 di aprile 1591 (2). Solo ad Alderano quindi, forse il più giovane dei figli, era oramai raccomandata la propagazione del ramo famigliare. Di questo illustre gentiluomo, che fu padre del nostro Agostino, possiamo dare più larghe notizie. Egli nacque in Sarzana nel 1557 e, come i fratelli Nicolò e Giuseppe, lu mandato, ancor fanciullo, nel Seminario Romano, per compiervi gli studi, essendo questa 1’ usanza dei nobili del tempo. Apprese poi giurisprudenza nell’ Università di Pavia e v’ ottenne la laurea dottorale il 7 di marzo 1580 (3). L’anno appresso giurava fede di sposo a Faustina de’ Nobili, egregia gentildonna, figlia del fu Giovanni de’ Nobili di Vezzano; e il matrimoniosi celebrò con gran pompa il 15 di marzo, in Caniparola, nell'aula magna del palazzo del marchese Malaspina di Fosdi-novo, che, amicissimo della famiglia, volle sottoscrivere all’atto relativo come teste, presenti lo stesso Francesco, carico ormai d’anni e di pubblica stima, e la dama Ip- tomi 3 , in quarto. Precedono il trattato due carmi in distici, dedicati a i Giuseppe Mascardi da Pietro da Porta Piacentino, Dottore delle Arti et 1 Rota Laureato. (1) Archivio Capitolare di Sarzana, Litterae officiales, Z (1569, 5 di settembre), (2) Archivio c. s., Diversorum pro Episcopis et Canonicis (1585-1699), filza unica. (3) Ved. G. Sforza, op. cit. , p. 1 e segg., ove sono corretti alcuni errori del Giustiniani, op. cit., I, 39. — 29 — polita de’ Nobili, madre della sposa (1). Tutte le speranze del vecchio Francesco erano , naturalmente, riposte nella ben auspicata coppia e certo fu per lui un assai grave dolore il dover morire nel 1583, senza veder allietata la sua casa da un giocondo nipotino. In ogni modo, nel suo testamento , nominava Alderano e-rede generale dei numerosi suoi possedimenti in Sarzana e in Trebiano, con l’obbligo però di albergare nel palazzo avito, posto in piazza di Santa Maria, ove ora sorge la Cattedrale, i fratelli Alberico , Nicolò e Giuseppe, cui legava soltanto quella parte del patrimonio che per legge doveva esser loro rimessa : s’ augurava infine che l’amato suo figliuolo potesse provvedere « ne extingueretur familia » (2). E Alderano, per quanto risulta dai documenti, pare abbia fatto del suo meglio per soddisfare al desiderio paterno, chè ebbe poi, coadiuvante la buona Faustina, molti figliuoli, otto dei quali maschi, Giovanni, Nicolò, Giuseppe, Agostino, Francesco, Alberico e due col nome di Gerolamo. Morto adunque Francesco, Alderano , che si era dedicato , come si è detto, agli studi legali, ne prese quasi il posto nella vita pubblica della città. Già nello stesso anno ’83, addì 25 di maggio, era anziano e veniva solennemente chiamato (1) Archivio Notarile di Sarzana, not. Zacaria de Medici seniore, filza io. (2) Archivio c. s., not. Zacaria de Medici seniore, filza n. L’atto porta la data del 18 gennaio. Vi si nominano tutti i figli. I possedimenti ereditati da Alderano erano, oltre la casa e il giardino in città, dei terreni presso Amelia in loco ubi dicitur alla casa del Sole, in loco dicto in Cesari, in /. d. alla Giara , in l. d. alla Maccarona, in d. fuori della Porta, in /. d. di Groppolo, in /. d. alla Cava, in l. d. alla Badia, in l. d. al Cavaghino ; e, in Trebiano, una casa presso la porta, un’altra presso la via pubblica, una vigna in l. d. la Chiavica, e degli appezzamenti in l. d. alla Mura, in l. d. alla Cavesana, in l. d. alla Machietta e in l. d. all'Isoloto. Si trattava dunque d’un patrimonio ancor rilevante , sebbene diminuito assai da peripezie pubbliche e domestiche. v — 30 — dal Comune a giudicare, nella sua qualità di dottore, delle persone più idonee a rivestire i pubblici uffici (1). Ma egli tendeva anche a procacciarsi la carica certo più lucrosa che il padre aveva goduto per molti anni presso il principe di Massa e Carrara ; e l’ottenne senza molta fatica, giacché trascorso appena un anno, egli firma dei documenti come auditore generale e giudice d’appello nelle cause civili e criminali di quello Stato (2). L’ abbandonò dopo qualche tempo, non si sa per qual motivo. Il 21 di agosto 1595 è a Sarzana e compare fra i consiglieri del Comune; il 16 di ottobre è nominato advocatus pauperum; l’anno seguente, con splendida votazione, prende luogo fra i protettori dell’Ospedale di San Lazzaro, e compila in volgare, con Pietro Pecino, uno dei personaggi più colti della città e giurisperito di vaglia, i capitoli che dovevano regolare gli appalti dei macelli (3). Dopo l’agosto del 1597, mese in cui egli fa procura in Sarzana e regge ancor l’ufficio dell’ o-spedale (4), lascia la natìa dimora, trovandosi menzione, il 16 novembre, della nomina di un tal Ludovico Do-stasio a occupare la carica di Protettore « in locum Magnifici Domini Alderani Mascardi absentis » (5). Ove si fosse portato, non possiamo stabilire. Lo ritroviamo tuttavia a Sarzana nel ’98 e nel ’99, come da numerosi atti di compre e vendite di beni immobili e di deliberazioni pubbliche (6). Nel 1599 il Comune lo elegge con (1) Archivio Comunale di Sarzana, Liber deliberationum, n. 344 (1572_ 83), p. 366. (2) La nomina avvenne nel 16 di luglio. Cfr. Sforza , op. e 1. cit. (3) Archivio Com. di Sarzana, Liber delib., n. 732 (1595-1608), c. 2r. i2r., i4r., i6r., 23r., 24r. ; Liber decretorum, n. 109, p. \2. (4) Arch. Notar, di Sarzana, not. G. B. Medici, filza 5; Arch. Com. di Sarzana, Liber delib., n. 723, c. 4or. (5) Arch. Com. di Sarzana, Liber delib., n. 732, d. s8r. (6) Arch. Notar, di Sarzana, not. G. B. Medici, fil. cit.; Arch. Com. di Sarzana, Liber delib., n. 732, c, 143V. — 3i — tre altri deputati, Giov. Andrea Bernardini, Tomaso Spinola e Alberto Furlana, per la revisione degli Statuti di Sarzana ; revisione che durò parecchio tempo e che non fu approvata dalla Repubblica di Genova se non dopo molti contrasti (1). Perdiamo le sue traccie nei documenti sarzanesi dall’ agosto del 1600 (2). Le sue continue assenze stanno certo a indicare ch’egli sariabat-tava a destra e a manca per ottenere presso altre città l’ufficio di auditore. Il 17 di giugno 1602, Agostino Dona, Doge della Serenissima, scriveva alla Signoria lucchese affinchè volesse prenderlo al proprio servizio « in alcuno degli uffici che sogliono conferire a’ dottori fora- stieri » e lo raccomandava vivamente « conoscendo...... benissimo le onorate qualità che concorreno in questo dottore , non meno per li meriti propri, come della famiglia da ch’egli è nato ». La lettera sortì l’effetto desiderato e la Repubblica di Lucca , il 29 di luglio , lo eleggeva « in uno degli Auditori di Rota » per il « futuro biennio, a cominciare dal prossimo mese di settembre » (3). Compiuto questo tempo, egli ritornò a Sarzana (4), che gli affidava parecchie incombenze: fra le altre, il 12 di settembre, quella di deliberare, con altri giureconsulti, sull’ incanto delle terre di Marinella e di redigerne i capitoli in volgare (5). Dalla fine del 1605 a tutto il ’6, egli è ancora lontano, certo per coprire la carica di auditore della Rota di Bologna, che sappiamo (1) Ved. i numerosi atti relativi in Liber delib., n. 732, c. 142V., 15SV, i6ir., i6gr., ìSjr. (2) Però il 22 di questo mese funge ancora da procuratore in patria; Arch. Not., not. G. B. Medici, fil. cit. (3) Sforza, op. e 1. cit. (4) Il 23 di febbraio 1604 non v’era ancora, perchè comperava in quel giorno la terra di Groppolo con procura ; Arch. Not. di Sarzana, notaro Gir, Ivani, fil. 17. (5) Arch. Com. di Sarzana, Liber delib., n. 732, p. 329^, 332r., 333V. — 32 — essergli stata conferita dopo quella di Lucca (1). Gli anni seguenti li trascorse in patria (2), dedicandosi tutto ag'li studi legali, fra i quali lo colse la morte il 20 di novembre .1608, sopravvivendogli la consorte che l’amò sempre di tenerissimo affetto (3). Della tradizionale ospitalità di casa Mascardi e in modo speciale dell'indole libei ale di Alderano testimoniò in versi Ventura Pec-cini da Panicale, nella sua descrizione della Lunigiana: Tu nunc Alderani doctos scande Penates Mascardi: prandebis mullos, ostrea, rhombos ; Post ubi sol fuerit, mensa quoque pocula mota Ipse recensebis quot claros nobilis iste Protulerit locus.......(4). A dimostrare l’operosità scientifica di questo valentuomo, resta il trattato ch’egli compose sull’interpretazione degli Statuti, del quale uscirono per le stampe, nello stesso anno della sua morte, tre edizioni in città diverse , a Ferrara, a Francoforte e a Venezia, e più tardi, nel 1723, un’ ultima a Colonia. È una specie di (1) Sforza, op. cit., p. 3. Il 28 di ottobre 1605 è però nominato ancora Protettore dell’Ospedale di S. Lazzaro; Liber delib., c. 4oSr. S’allontanò poco dopo. (2) Ricompare, il 17 di settembre 1607, in un atto di vendita; Arch. Not. di Sarzana, not. Girolamo Ivani, filz. 21. (3) Riguardo all’anno e al luogo della morte errarono tanto il Soprani (p. 11), quanto l’Oldoini (p. S) ; ben s’appose invece il Giustiniani. Noi abbiam potuto rintracciare l’atto testamentario, che è del 18 novembre 160S; Arch. Not. di Sarzana, not. Girolamo Ivani, filza 22; e stabilire il giorno preciso della sua morte, mediante un’altra scrittura, ove si ricorda ch’egli morì due giorni dopo la redazione dell’istrumento; Arch. c. s., not. G. Batt. Medici, filza 7 (12 sett. 1610). (4) Son purtroppo obbligato a riportare questi versi, in una lezione che non credo corretta, dalla Collectanea del De Rossi, ms. cit., p. 1099. Il libro del Panicarola , ancor reperibile nella prima metà del secolo scorso, venne ricercato invano da me e da altri prima di me nelle biblioteche pubbliche e private d’Italia. prontuario pratico ov’egli espone tutti quei casi e quelle applicazioni del giure che l’esperienza personale gli suggerisce. Frequentemente ha perciò occasione di citare i numerosi capitolari da lui composti durante gli anni del suo esercizio legale e i vari criteri ai quali ha sottoposto le riformagioni degli statuti sarzanesi. Dedicò 1’ opera al Cardinale Benedetto Giustiniani, Legato di Bologna, ricordando l’affetto vivissimo che quel prelato nutriva per la sua famiglia e particolarmente per i suoi illustri fratelli, Nicolò e Giuseppe, già scesi nella tomba (1). Prima di chiudere questi cenni sulla famiglia del nostro Agostino, non vogliamo trascurare qualche notizia raccolta intorno ai suoi fratelli, pur riserbandoci di trattarne ancora, ove il caso lo richiegga, nel corso della biografia. Parecchi di essi si erano dati senz’ altro a vita religiosa e usufruivano del cospicuo patrimonio della cappellania di S. Tommaso della Cattedrale di Sarzana , che a loro spettava « si ad dictam (i) La prima edizione porta il seguente titolo: Communes IV \ Conclusiones | ad Generalem \ quorumcumque statutorum interpretationem accomodata | ac omnibus tam in indicando, quam in consulendo | et aliis in foro versantibus perutiles, ac necessariae Cum suis Ampliationibus et Limitationibus magis a Doctoribus receptis | Auctore Alderano Mascardo lur. Consul. Sarzanen. ac Aequite, | et Lucanae prius postmodum vero Bononien. Rotae Auditore | Summariis unicuique conclusioni adiectis, et Indice rerum ac sententiarum locupletissimo | Illustriss. et Reverendiss. D. D. Benedicto | 6". R. E. Presbytero Cardinali Iustiniano Bononiae Legato, etc. | Ferrariae, MDCVIII, Apud Victorium Baldinum Typogra-phum Cameralem, Sumptibus Simonis Parlaschae Bibliopolae Bononiensis. L’opera è preceduta da due epigrammi latini di G. B. Mascardi , auditore della Rota di Ferrara. — Essendo divenuta assai rara, il tipografo G. B. Caffarelli di Genova, ancor nel 1787, pensava di ristamparla, perchè « proficua a chi lo studio del diritto ama ampiamente distendere sui generali principii, che variamente modificati dalle nazioni e dai tempi sono però in fondo i medesimi » ; ma pare ch’egli non abbia tradotto in atto il suo divisamento (ved. Sforza, op. cit., p. 4). Atti Soc. Lig. Storia Pattia. Vol. XLII. 3 — 34 — capellaniam acceptandam fuerint idonei ». La cappella era stata fondata, il 12 di settembre 1456, dal Cardinal Calandrini, fratello del papa Niccolò V, e lasciata in eredità ai discendenti della famiglia. Era passata poi, per donazione, consenziente papa Pio III, a Francesco Mascardi e ai suoi successori, in virtù del matrimonio contratto con Chiara Manecchia , parente dei Calandrini per parte di madre. Narra il già ricordato Giuseppe, nel suo trattato De Probationibus, che il vescovo di Sarzana tentò al suo tempo d’impossessarsi del gius-patronato della Cappella, dichiarandola un bene della Chiesa, come quello che da persona ecclesiastica si sapeva costituito ; ma che la famiglia, dietro ostensione di documenti notarili e di lettere apostoliche, era riuscita, sebben con fatica, a ritenerlo per sè (1). Ne avean cosi goduto i parenti prossimi di Francesco, il quale, alla sua morte, aveva disposto per testamento che il beneficio passasse ai figli di Alderano, e, nel caso che questi restasse senza prole, ai figli della sorella sua Ortensia, allora ancor viva e moglie di Giov. Batt. de’ Cavalieri (2). Entrarono dunque nel possesso di essa i figliuoli Giovanni e Gerolamo, il primo dei quali fu presto nominato canonico della cattedrale (3) ; e (1) Vol. II, conci. 959, n. io, p. 38S dell’ed. cit. (2) Ved. testamento cit. (3) Già nel 30 maggio 1601 Alderano scriveva una lettera ai canonici di Sarzana, per far conferire quel titolo al figlio Giovanni, prima eh egli avesse raggiunto i limiti d’età: « Essendo piaciuto alle SS. VV. R-"1 promettere al Mag.co Alderano Mascardo il canonicato vacante per la morte del già Rev.mo Contardo , per il Rev.° Giovanni suo figlio....... e dargli parola di non disponere di detto canonicato in altri sin che non havesse detto Mascardi risolutione da Roma se N. S. voleva concedere dispensa dall’età che mancava a detto suo figlio per il detto canonicato, li prega, confida che come religiosi di verità e persone di honore non li debbano mancare nonostante la pretisa eccetione da Mons. Rev.m0 Vescovo et non ostante la pretisa nominatione fatta all’ aperta peniten- non molto dopo il fratello Niccolò, la cui parte, alla sua morte, avvenuta nel 1609, fu devoluta, previo accordo coi fratelli Gerolamo e Alberico, a Trancesco Mascardi (1), Che morì due anni appresso (2). Questa cappellata rendeva parecchio, giacché portava seco i frutti di parecchie terre poste lungo la Calcandola, vicino all’odierna Chiesa di S. Francesco, e di altre in luogo volgarmente detto « alla Bonicella » : e forse non era essa l’unico beneficio ecclesiastico goduto dalla famiglia, dovendosi argomentare da un atto notarile che Alderano pur possedesse il giuspatronato sopra la cappella di S. Nicola da Tolentino, nella chiesa di Santa Maria in Vezzano (3). Ben presto Giovanni lasciò sperare di sè. Prontissimo d’ingegno, dotto e studioso quant’ altri mai, vien più volte scelto dal Capitolo come suo rappresentante al sèguito del vicario episcopale, insieme con l’amico suo intimo, il canonico Ippolito Landinelli, cui si deve uno zibaldone storico, tuttora inedito, su Luni e Sarzana (4). tiaria da Sua Sig. Rev.ma...... ». La lettera verte poi tutta su minute distinzioni legali, riguardo allo jus conferendi canonicatum. Rispondono a tergo i canonici ch’egli stia « cum libente animo ». Arch. Not. di Sarzana, not. G. B. Medici, fil. 6. — Il nome di Giovanni compare , negli atti del Capitolo, soltanto verso il 1604. Valgano queste testimonianze a dimostrare quanti sfarfalloni siano seminati nelle più antiche biografie. Lo stesso Giustiniani, che scriveva nel sec. XVII, lo fa nascere (p. 392) nel 1590: sicché Giovanni avrebbe dovuto già ambire al canonicato nell’età di anni undici ! Calza invece, per la nascita, la data del 9 febbraio 1581, conservata nelle carte della famiglia. (Busta cit. della Bibl. Univ. di Genova). (1) Arch. Not. di Sarzana; not. G. B. Medici, fil. 7 (atto del 30 luglio 1609). (2) Il testamento è del 9 novembre 1611 e costituisce eredi universali i fratelli Giovanni e Alberico: Arch. c. s., not. cit., fil. 8. (3) Arch. c. s. ; not. Gir. Ivani, fil. 22. (4) Arch. c. s.; not. G. B. Medici, fil. 8 (Atti del Capitolo). Alla fil. 6 dello stesso notaro , trovasi 1’ atto di nomina del Landinelli a canonico 1 (30 marzo 1601). — 36 — Recatosi a Roma in cerca di miglior fortuna, inizia arditamente, in favore del Capitolo di Santa Maria di Sarzana, una causa contro lo stesso vescovo, circa l’amministrazione delle ossa del SS. Sepolcro (1). In una delle sue lettei e, datata del 16 di aprile 1621, partecipa ai compagni di essere stato eletto vescovo di Nebbio dal pontefice Gregorio XV, sebbene « ormai procurassi » egli aggiunge, « di ritirarmi una volta a godere qualche poco di quella quiete privata che non so d’aver provata mai in tutta la vita mia, piuttosto che a raddoppiarmi le cure con gì ado di questa fatta » (2). Divenne poco appresso famigliare di Urbano Vili e protrasse senza molte difficoltà la sua esistenza sino al 1646. Un contemporaneo dice d averlo conosciuto « per un esemplarissimo prelato, di presenza alta, diritta e maestevole: se non che il volto, per 1’ assiduità degli studi, non rappresentava il color suo naturale » (3); e un altro contemporaneo, mons. Gaspare Cecchinelli, molto intrinseco della famiglia Mascardi, lo ricordava come « vir spectata virtute, vitae innocentia, ac doctrina conspicuus » (4). Non intrapresero la carriera ecclesiastica Gerolamo, secondo di questo nome, laureatosi in leggi nel 1608, più volte consigliere ed anziano in comune ed elettovi, (1) Arch. Capitolare di Sarzana, Divers, pro Ep. et Can. cit. Il vescovo non era troppo ben visto dai Mascardi, forse per gli ostacoli opposti alla nomina di Giovanni. Questi rivela infatti, nella lettera onde tolgo notizia della controversia, un sordo rancore contro di lui e parla invece con molta stima della dottrina paterna, alla quale attinge per la sua discussione. Ippolito Landinelli invece raccomandava questa volta al Capitolo , in lettere conservate nella stessa filza, di non disgustarsi con monsignor Saivago. (2) Arch. c. s., Litterae off., 2. (3) PiRANi, Dodici capitoli pertinenti all’Arte Historica del Mascardi, Venezia, 1646, app. S. Giacomo Hertz, p. 2. (4) Notizie trasmesse al Giustiniani, Gli Scrittori liguri, p. 392. — 37 — il 30 di dicembre 1630, ufficiale di Sanità (1); nè Alberico , che vediamo assumere ancor più viva parte alle vicende della vita pubblica sarzanese ; riformare, come il padre e il bisavolo, gli statuti patrii (2); e trasmettere il nome della famiglia, sposando, il 26 di maggio 1617, Maria Federici di Lorenzo da Sestri Levante, la quale gli generò quel Carlo Mascardi che compare dottore in leggi e valente scrittore nella seconda metà del secolo XVII (3). Quest’ultimo fratello d’Agostino s’adoprò attivamente per far valere ancora gli antichi diritti della famiglia, che la Serenissima, dopo tante promesse legalizzate e registrate , e il Comune stesso parevano disconoscere. Bisognava ogni volta far pratiche, citare documenti, invocare articoli di statuti, supplicare, minacciare. Non solo il bisavolo Niccolò e il nonno Francesco avean dovuto ricorrere alle leggi per lo stesso intento, ma anche altri molti: così le immunità erano state confermate, talora per qualcuno della famiglia, talora per la famiglia tutta, nel 1403, nel 1486, nel 1512, nel 1541 e nel 1561 (4). Con tutto ciò , Alberico fu costretto, nel 1620, a rinvocare gli antichi patti e potè ottenere per regolare sentenza di essere esentato « ab omnibus oneribus, impositionibus et avariis » (5). Ma il privilegio era per lui più effimero che reale, dacché conti- (1) Archivio Com. di Sarzana, Lib. delib. , (1608-25), n. 733, c. 3V. ; (1625-42), n. 734, c. i66r. e v. (2) È degli Anziani il 30 maggio 1623 (Arch. Com. di Sarzana, Liber decretorum, B , n. 107 , c. gv.). L’incarico riguardante gli Statuti , cade l’anno appresso, il 28 di gennaio (Arch. c. s., Liber delib., n. 733, c. 457V.): l’approvazione della riforma da parte del Comune, nel 10 ottobre, del Senato nel 13 novembre (ib., 470V.). Sono gli Statuti stampati poi in Genova dal Casamara nel 1705 e intitolati : Reformationes ad nonnullas Rubricas Statuti Civilis Sarzanensis. (3) Ved. doc. e prove in Busta cit. della Bibl. Univ. di Genova. (4) Carlo Mascardi, Rappresentazione cit. (5) Ibidem. nuassero ad aggravarlo i balzelli comuni. Intentò allora causa alla città e spedì, nel 1631, una vibratissima scrittura alle SS. Ser.me ì protestando che, « se detti Mascardi fossero costretti a pagare, si verrebbe senza cognizione di causa a derogare al contratto che i loro antenati passarono con la Rep. Ser.nia il che non deve farsi, massime da chi osserva tanta religione e fede come fa la Rep. Ser.ma nei suoi contratti » (1)- La città di Sarzana, scandolezzata da questa insistenza, ro-moi eggiò tutta e votò per una strenua difesa. Si stanziai ono in bilancio degii assegni per inviare alcuni avvocati valenti presso il Senato, i quali impedissero « un infrazione agii Statuti di pericolo generale » e, considerando specialmente « il poco affetto che porta la detta famiglia Mascardi, a questo pubblico, poiché, in tempi di calamità e ne’ maggiori bisogni della città e di grave sua spesa e danno, si è mossa a pretendere quello che ciascheduno sa ». si stabilì di espellerei Mascardi inscritti fra gli Anziani, come quelli che, essendo caso mai estratti dal bossolo. « potrebbero causare disordini et inconvenienti » (2). Nè per questo desistettero dal loro proposito i Mascardi, chè anzi miser fuori un nuovo scritto contro la città, per dimostrare che questa era regolata, nei suoi rapporti con Genova, da semplici franchige e non da legali e plebiscitarie convenzioni (3). Dopo un anno di lunghe e dibattute controversie , la Repubblica sentenziava in modo assai strano: riconoscendo cioè pienamente tutti i diritti della (1) Arch. Com. di Sarzana, Liber decretorum, II, n. 107, c. 54V. La causa era stata provocata da una nuova tassa sulle muraglie. (2) Arch. c. s., Liber delib., ri. 734, c. i94r. e v., 222V., 223r., 224r., 225r., 23or. (3) Arch. c. s., Registrimi novum, c. ioor. e v. Le carte riguardanti questa controversia si trovan pur negli Atti del Senato del R. Archivio di Stato di Genova, ai nn. 681, 684, 686 e 734. — 39 — famiglia, ma........ obbligandola ciò non ostante a pagai e senz’ altro quanto doveva secondo gli Statuti in vigore (1). E questa fu la conclusione, che lasciò ancora degli strascichi, ostinandosi in ogni occasione i Mascardi a non pagare e costringendoveli i magistrati pubblici con ogni mezzo (2), fino a che s’ebbe una nuova causa, della quale sarà bene non più occuparci, perché tarda. Delle sorelle di Agostino forse alcune morirono giovinette, Chiara si monacò , Caterina visse nubile , Barbara, seconda di tal nome, tolse marito, il 23 di agosto 1611 , nella persona del nobile Domenico Parentucelli, come da atto relativo, ove, chi ne fosse vago, potrebbe trovare elencate tutte le bellissime vestimenta del suo corredo, scufiole e calsete de seda comprese (3). Alderano Mascardi morendo lasciò tutori dei figli minorenni la consorte Faustina e il primogenito Giovanni; usufruttuaria di tutti i suoi beni mobili ed immobili la sunnominata Faustina; legatarie di cospicue doti le figlie Barbara e Caterina; eredi i figli Giovanni, Giuseppe, Geronimo, Francesco e Alberico; « excepto Reverendo Domino Augustino, altero eius filio , qui ingressus est Religionem Societatis Iesu et qui modo degit in Urbe Romae, quem instituit heredem in eisdem bonis pro sua legitima tantum eidem debita Iure naturale (4). Fu questa la prima, e purtroppo non ultima, sventura lamentata dal nostro Agostino! (1) La risposta ha la data del 35 gennaio 1633; Arch. Com. di Sarzana, Liber decret., n. 107, c. 54.V. (2) Alberico e Michelangelo Mascardi si erano persino rifiutati di pagare la tassa per il medico comunale. Il Comune allora proibì che si prestassero più cure ai ribelli, se questi non versassero un onorario gravissimo per ogni visita: Arch. c. s., Liber delib., p. 734, c. 33SV. (3) Arch. Notar, di Sarzana, not. G. B. Medici, fil. 8. (4) Arch. c. s., not. G. B. Medici, fil. 7. --:> CAPITOLO II. L’INFANZIA E LA GIOVINEZZA DI AGOSTINO Nascita di Agostino. — Primi studi. — II maestro Tarquinio Galluzzi. — Agostino entra nella Compagnia di Gesù. — Studi legali e filosofici. — Agostino a Parma e a Piacenza. — Sue relazioni coi Cesarini, con Gian Vincenzo Imperiale e con Angelo Grillo. — I primi componimenti poetici in latino e in volgare. — La censura dell’ Inquisizione a un suo carme. — Sue vendette — La causa alla Sacra Congregazione di Roma. — Agostino è inviato a Modena. — Il carattere d’Agostino si rivela — L’accademia in casa d’Este. — L'epipompcuticoìi per la vittoria del principe Luigi. — Agostino a Corte. — Altri componimenti per la famiglia principesca. — Incontro col Testi. — Scambio di cortesie. — Agostino panegirista di Madama Virginia. — Le lodi del Testi. — Inviti per altre orazioni. — Corrispondenze poetiche. — La satira contro i poeti osceni. — Forzate peregrinazioni. — Agostino insegna a Milano. — Agostino prefetto nel Collegio dei Nobili di Parma. — Il divieto dei Gesuiti circa le pubblicazioni volgari. — Agostino delude la legge. — Sua notorietà. — L’ orazione per la monacazione di Margherita D’Oria a Genova. — Speranze d’Agostino sulla Corte d’Este. — Sua espulsione dall’ Ordine. — Ragioni del colpo. — Agostino a Roma. — Suoi armeggi per allogarsi presso il Cardinale Alessandro d’Este. — I tentativi dei Gesuiti per ostacolarli. — Agostino ottiene il bramato ufficio. — Le pene del Purgatorio. — Finalmente l’ordine arriva. — La laurea. — Alla volta della corte. |gostino nacque nel 1590, a Sarzana, ove il padre era ritornato, non appena scaduto il termine dell’Auditorato a Massa. L’atto di battesimo fu vergato 1’ 8 di settembre (1): si può quindi accettare, per data precisa della nascita, il 2 dello stesso mese, (i) Archivio Parrocchiale di S. Maria di Sarzana, Liber secundus bap-tizatorum ab anno 1587 usque ad annum 1609. L’atto suona testualmente: « Il dì 8 settembre 1590, Agostino, figlio del S[igno]r Alderano Mascardo, che troviamo in una delle carte riguardanti la famiglia ri). Sull’ infanzia sua non abbiamo notizie sicure. Cresciuto in un ambiente domestico tutto scienza e religione, egli dovè prestissimo vagheggiare anche per sè lo stato ecclesiastico, al quale s’ eran pur dedicati, e tanto onorevolmente, zii e fratelli. È probabile poi che, ancor giovinetto, si recasse a Roma, per compiere, secondo l’uso tradizionale dei nobili liguri, la sua istruzione nel Seminario o nell’annesso Collegio dei Gesuiti, massime dovendo il padre, per i doveri del pubblico ufficio , trasferirsi con la famiglia e prender dimora in luoghi diversi, pochi anni dopo la sua nascita. L’Eritreo, che visse sempre in quella città, lascia credere, dove ne parla, d’ averlo conosciuto a puero. In Roma o altrove, egli ebbe dapprima a maesti i i padri gesuiti, benemeriti allora per le cure attivissime prodigate all’ insegnamento letterario, ma più intesi a infarcire le tenere menti di una farraginosa dottrina che a coltivarle razionalmente. Insegnavano essi molto latino, e con frequenti esercitazioni poetiche; di greco quel poco che bastasse a far comprendere e citare 1 testi più accreditati ; di storia solo i fatti aneddotici e moraleggianti. L’italiano era una materia di secondaria importanza , studiandosi, più che altro, il meccanismo della prosa volgare e cercandosi nei maggiori nostri poeti soltanto qualche colore o qualche gradazione ret-torica. Agostino, per quel forte amore allo studio che lo nato di ma[dam]a Faustina sua leg[itti]raa moglie fu batezato per me Gir[ola]m0 Cont[ar]do ; fu compare m[esser]. Odoardo Cataneo, comara la S[igno]ra Bianca moglie del S[igno]r Gasparo Spinola Comiss[ariJ° al pre-\- sente in Sarzana ». (i) Famiglie lutiigianesi, busta citata. — 43 — animava, e certa particolare inclinazione della sua naturale intelligenza, fece subito rapidi progressi e si compiacque oltremodo di un indirizzo siffatto, onde poi ebbero a risentirsi tutte le opere uscite dalla sua penna. Afferma l’Eritreo ch’egli « fu singolarmente disposto e quasi fatto da natura per le belle lettere, alle quali, fin dall’età infantile, dedicò ogni sua attività » (1); ed altri, poco dopo la sua morte, ricordava che « i primi suoi anni diedero segno di qual riuscita far doveva nelle lettere, poiché, venendo in quelle esercitato, con tenacissima memoria il tutto imparava » (2). Cominciò dunque nella scuola a comporre in latino e specialmente dei versi: non s’occupò molto del greco, avendo sempre, come poi dichiarò, « più desiderio che opportunità d’apprender quell’idioma con isquisitezza »: nel maneggio della prosa italica, cui attese dalla prima giovinezza, si proclamò innovatore. Dei suoi maestri Agostino non ricorda che il gesuita Tarquinio Galluzzi, ma per criticarne acerbamente il carattere e le opere (3). Era questi entrato nel novi- (1) Jani Nicii Erithraei [Gian Vittorio Rossi] Pinacotheca Imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum qui auctore superstite diem suum obierunt, Colon. Agrippinae , Apud Iodocum Kalcovium et Socios, 1645, p. 112, n. 62. (2) Lorenzo Crasso, Elogiid’huomini letterati, In Venetia, MDCLXVII, Per Cumbi e La Noù, p. 252, e sgg. (3) Discorsi morali sulla Tavola dì Cebete Tebatio, ed. veneta del 16S2, app. Stefano Curti, dise. Vili, Parte III, p. 433 ; Dell’arte istorica, per cura di A. Bartoli , Firenze , Le Monnier, 1859 , trattato V, cap. IV, particella II, p. 338. — Agostino indica il Galluzzi come suo vero maestro, quello « della prima giovinezza ». Fu però anche erudito nelle lettere umane, ma certo più tardi, da Famiano Strada (cfr. Sfortiae Pal-lavicini Vindicationes Societatis Jesu , Quibus multorum accusationes iti eius institutum leges gymnasia mores refelluntur, Romae, Typis Dominicis Manelphi, MDCXXXXIX, p. 131), professore per quindici anni nel Collegio romano e autore di celebratissime prolusioni rettoriche e di una storia della guerra di Fiandra. Lo cita spesso nelle sue opere e sempre con ammirazione profonda. — 44 - ziato a sedici anni, quando il Nostro veniva alla luce ; professò dapprima l’insegnamento della rettorica in Roma, nel Collegio dei Gesuiti ; più tardi, salito ih auge, occupò la cattedra di filosofia morale; resse infine il Collegio dei Greci e il Seminario Romano. Morì nel 1649. Le opere sue più notevoli sono una traduzione dei primi cinque libri morali di Aristotele con relativo commento e una difesa di Virgilio contro i suoi denigratori, seguita da larghe trattazioni sulla tragedia, la commedia e 1’ elegia. Diè poi saggi pratici delle teorie esposte in questi lavori, pubblicando due tomi di orazioni e tre libri di carmi, tutti in latino, per i quali il Tiraboschi giudicò di doverlo collocare nel numero degli scrittori che meno indulgevano ai depravati gusti del secolo (1). DeH’uomo Agostino stesso lasciò il seguente ritratto: « Nacque il padre Tarquinio di madre vile e di padre plebeo, in un piccolo castello della Sabina, ma l'innalzava a somma grazia delle scuole non meno 1 e-leganza delle sue prose che la facilità dei suoi versi. Ebbe la fortuna di esser maestro dei nipoti di Urbano 8.°, sommo Pontefice, onde la sua fama che pargoleggiava infante fra gli angusti termini del Collegio, fatta grande, volava 1’ ampio cielo delle corti. Era già noto ai Principi, caro a’ Cardinali, stimato dai Gesuiti', riverito da altri, ond’ egli, ascrivendo a suo merito quel che fu semplice dono della sua fortuna, insuperbito, cominciò a pretendere i primi onori, che si solevano concedere a quelli della sua professione. Rapì a mezzo di favori, più (i) Leonis Alatii Apes urbanae, sive de viris illustribus qui o.b anno MDCXXX per totum MDCXXXII Romae adfuerunt ac typis aliquid e-viilgarunt, Hamburgi, MDCCXI, apud Christianum Liebezeit, p. 338, nu" meri 237-8; Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, ed. ‘ milanese del 1814, vol. Vili, P. II, p. 753. Per gli scritti, ved. De Bâcher , Bibliothèque des écrivains de la Compagnie de Jésus, Liège, L. Grandmont-Donders, 1853, p. 325. — *5 — che ottenne per mezzo di libera elezione, d’esser Rettore de’ Greci e poco dopo del Seminario Romano, dove sogliono educarsi i più virtuosi e nobili giovani d’Italia. Si portò egli in quest’ ufficio non degenerando punto dalla sua nascita, assai rozzamente, essendo nelle altrui colpe miserabile e nelle penitenze inclemente, o, se pure alcune volte piegava il suo rigore a pietade, con condonare altrui qualche difetto , ciò faceva con modi sì rigidi, con parole sì altere che il benefizio partoriva più tosto odio che obbligo, e alcuni stimavano più la negativa che la grazia e molti volevano più tosto morirsi di fame che mangiar di quel pane di pietà, chè così ingegnosamente chiamò Fabio Vittore il piacere fatto da un uomo duro con asprezza. Voleva esser più temuto che amato perchè si dava ad intender che il timore fosse più sicuro procedendo dalle proprie azioni, 1 a-more fosse più incerto procedendo dall’ altrui volontà. Aveva sempre nel cuore e spesso nella lingua quell’ e-secrabil verso nato nel miserabil tempo di Siila : Oderint sed idem metuant; quale egli più presto come religioso dovea sì formare: Non metuant sed ament. Il mo- o derato timore tiene a segno ne’ sudditi l’animo di quelli, 10 smoderato lo risveglia dal letargo dell’ obbedienza e 11 fa desti a tentar qualsivoglia impresa per liberarsi da quel timore che deve più temersi della cosa temuta; oltreché sempre ridonda negli stessi suoi autori. È più presto oracolo di Nume politico che verso di Mimo ingegnoso quel detto di Laberio: Necesse est ille multos timeat quem multi timent. Era anche aggiunto fatale Superbo al nome di Tarquinio. Ambiva che gli altri fossero non meno pronti che prodighi nell’ onorarlo, mentre egli era con gli altri assai lento ne’ saluti e scarso negli accompagnamenti, accompagnando ad un ferraiolo eh’ egli portò di Spagna, una gravità spagnola. — 46 — Per la qual cosa, non conoscendo che la coitesia è un breve compendio di tutte le scienze, che con i loro lunghi precetti c’ insegnano a provocare 1’ altrui benevolenza, si era con il suo scortese modo di piocedeie acquistato l’odio universale » (1). Come si vede, Agostino non prodigava troppe lodi al carattere e alle a-zioni del Galluzzi; ma convien subito avvertile che questa trista pittura psicologica non era e non poteva essere del tutto serena, perchè divulgata quando fi a maestro e scolaro eran già sorte fiere gelosie pei sonali-Uscito dunque dalle scuole di grammatica, che duravano tre anni, Agostino frequentò, in Roma, quelle di filosofia e di teologia, « solcando », per usai e 1 espressione dei suoi panegiristi, « l’oceano delle scienze % e, prima d’aver compiuto l’anno diciottesimo, entrò nella Compagnia di Gesù, indottovi forse dai suoi stessi maestri, che non tanto facilmente si lasciavano sfuggile l’occasione di fregiare con giovani di provato valore le file del loro Ordine. Il grave passo fu quasi certamente compiuto contro la volontà del padre, che nel testamento gli tolse poi la parte del patrimonio spettantegli, pei timore eh’ egli avesse a donarla tutta ai Gesuiti « con pregiudizio della famiglia ». Giovanni, il fratello mag giore, divenuto allora suo tutore, lo consigliò di dedi carsi agli studi legali, sia per non interrompere la tra dizione domestica, sia per potere, occorrendo, riuscii utile alla famiglia, continuamente obbligata a brighe pubbliche e private: dal canto suo si prometteva pionto ad alleviargli in ogni modo la povertà. Ma lo studio della giurisprudenza non attraeva il Nostro quanto quello delle lettere, sicché, pur piegando al desiderio del fratello (i) Ved. la Storia della rivoluzione del Seminario romano, che puf blichiamo nell’Appendice II al presente lavoro. — 47 — e ai consigli di amorevoli « suoi confidenti », egli « non ritrasse il piede però dall’ incominciate vestigia dell’ e-rudizione » e si approfondì sempre più nella « lettura dei filosofanti » (1). Naturalmente la filosofia ch’egli studiava presso i Gesuiti, era , come 1’ Ordine imponeva, tutta aristotelica. « In omnibus disciplinis », vi si predicava , « Aristoteles pacificum ferme obtinet principatum » (2). Senonchè da parecchio tempo eran sorte le famose controversie fra i più chiari ingegni circa il primato da concedersi allo Stagirita o a Platone: e gli attacchi e le difese avean lasciato strascichi nelle scuole e nelle accademie, ove nemmeno i platonici mostravano di aver penetrato soddisfacentemente il senso delle dottrine ammirate. Agostino, quando volle studiai le « per lascivia d'ingegno », non ne restò, a quanto paie, molto persuaso. Ecco com’ egli narra quest importante episodio dei suoi studj, sul quale dovremo, in altro luogo, ritornare : « Negli studj più fioriti della mia gioventù......, udiva, nelle raunanze accademiche e ne’ privati congressi de’ giovani studianti, dirsi gran cose di quell’amor di Platone, che dalle bellezze visibili rapisce ffli animi all’ amor delle invisibili. Niuna sorte d’ argo- o mento correva allora più famigliare per le bocche di tutti, niuna dava a’ verseggiatori materia più favorevole, niuna suggeriva a’ dicitori più benigno soggetto. Ond’io, per non trovarmi sempre in guisa di pellegrino, fra tanti cittadini della Repubblica di Platone, mi diedi con grande ardore a misurar con 1’ occhio e molto più col pensiero , le riverite memorie di quel valente filosofo; dentro le quali quello ch’io mi trovassi, non è (1) L. Crasso, op. e 1. citt. (2) Sfortiae Pallavicini Vindicationes etc., ed. cit. , cap. XXIV : De studiis sublimiorum disciplinarum et primum an Societas reprehendenda sit quod nimis Aristotelem colat in philosophia, p. 179 e sgg. - 48 - bello in questa occasione il ridire. So ben certo che la dottrina platonica non aveva col favellar de’ miei amici legittima consonanza: interrogai dunque fra di loro quei che meglio guerniti mi parevano di dottrina: a’ quali (quando finalmente ristretti da’ miei quesiti, dopo molto ondeggiamento, s’ingegnavano di rispondermi) non venne mai latto di assegnarmi la vera definizione dell’ amore che platonico addimandavano, secondo i veri principj del lor maestro » (1). Prima d’addottorarsi nelle leggi, dovè lasciar Roma, perchè travagliato da forti febbri e ostinati dolori viscerali: sintomi di un male che, poco o molto, lo afflisse per tutta la vita, anticipandogli il giorno estremo. Cosi lo descriveva in una delle più eleganti elegie, diretta ai compagni di studio: (2) Nox oculis quoties segnem nictantibus orbem cerneret et tacitos duceret umbra choros, mille trucem toties agitabant spectra quietem fingebatque brevis somnia mille sopor. Quae modo candebant rapido labefacta calore viscera, concepto diriguere gelu. Saepe salutantum media inter verba iacebam, plenus morte sinum, lumina, labra, genas. Irrita quid vitae facerent alimenta labanti ? Invita horrebat iussa alimenta fames. (1) Arte istorica, introd. al tratt. IV, p. 234 dell’ed. cit. (2) Augustini Mascardi Sylvarum lib. IV, Antverpiae, ex c-Plantiniana, MDCXXII, lib. IV, p. 179 , Ad beatissimam Virginem Eucharisticon Parthenium. Tradurrei : Quante volte la notte con gli occhi ammiccando scorgeva inerte il mondo e l’ombra muti cori adduceva, tante agitavan mille fantasmi la truce quiete ed il breve sopore mille sogni fingea. Le viscere che floscie ardevan di rapida vampa, s’irrigidiron tutte per il diffuso gelo. Spesso fra i discorsi d’amici festanti io giaceva, pieno di morte il seno, gli occhi, le guance, il labbro. Eran vani alla vita fugace gli stessi alimenti. Nauseata li odiava, s’anco imposti, la fame. — 49 — Quid memorem egesti metuenda fluenta cruoris mixta quibus toties nescia vita fugit? Tu tamen ante alios discerpens viscera morsu, bella moves utero sanguinolenta, dolor. Tu gelidos sudore artus, praecordia flammis, rore oculos, vitam morte tyrannus alis. L’ Ordine lo inviò a Parma, poi a Piacenza, affidandogli l’incarico di leggervi rettorica. Il forzato abbandono della capitale latina, ove tutti convenivano sitibondi di gloria, fu per lui cagione di grave dolore. Contava allora circa vent’anni: proprio l’età in cui la copia dell’ accumulata erudizione e 1’ agilità dell’ ingegno alimentavano le sue più belle speranze. Dalla nuova dimora scriveva perciò con evidente rimpianto al gesuita Bernardino Stefonio, poeta e filosofo di grido, assai più grave d’ età e d’ esperienza, ricordando i tempi beati, ma troppo brevi, con lui trascorsi sui colli della città eterna, e i personaggi che l’illustre amico aveva, negli ozi vespertini, ideato per il suo Crispus (1): Saepe lacessitus, cur non rescribis amico ? Cur trahit invisas muta Camoena moras? Scribam, ais, ignoto? novit me Flavia, novit Crispus, inhumani culpa gemenda patris ! Tu quoque, Stefoni, tantum ne finge, beata dum me Roma tulit, noscere fassus eras. A che dirò del sangue sospinto i terribili flussi, mista ai quali si spesso fugge la vita ignara? Ma tu, azzannando più grave le viscere, muovi all’utero, o dolore, le tue cruente guerre. Di sudore i freddi arti, di fiamme le vene mi pasci, d’umor gli occhi, di morte — tiranno ornai — la vita. (i) Silvae, ed. cit., lib. II, p. 114 e sgg., Ad Bernardinum Stepho-nium e Societate Iesu expostulatio : Perchè all’amico, che spesso ten prega, non scrivi? Perchè penosi indugi muta protrae la Musa ? A un ignoto? tu chiedi; ma Flavia conobbemi e Crispo, deploranda cagione che un padre incrudelisse ! Ah non negarlo! Tu pure, o Stefonio, dicesti ch’io t'era noto quando Roma beata m’ebbe. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Voi. XLII. 4 I — 50 — Nunc quoniam versor fatis avulsus ab Urbe, nec superest sine me nomen in Urbe meum. At tuus in nostro vivit semperque vigebit nescius avelli pectore fixus amor. Me tenet antiquis celebrata Placentia chartis, quae Romae quondam casibus ingemuit. Mentre al clima settentrionale chiedeva « salute e tranquillità d’animo », il Nostro potè ben presto stringere amicizia con alcuni fra i più chiari ingegni del tempo. Nel 1612, a Parma, ove frequentava l’accademia aperta di tanto in tanto presso il Collegio dei Nobili, dava fuori un carme lunghissimo per la laurea di Virginio e Alessandro Cesarmi, due gentiluomini dell’aristocrazia romana, ch’erano entrati in quel collegio per compiere gli studj universitarj di filosofia e giurisprudenza ; special-mente inspirò vivissimo affetto a Virginio, che gli fu poi sempre largo di soccorsi d’ogni sorta, anche più tardi, nel turbine della vita romana, e non cessò d’amarlo se non quando gli spirò fra le braccia (1). Così pure con un altro carme, in quell’anno stesso, si cattivava 1 a-nimo di un cospicuo nobile genovese, Gian Vincenzo Imperiale, autore di un lodatissimo poema volgare inora, poiché divelto dall’ Urbe travolgonmi i Fati, nemmeno il nome resta di me nell’Urbe. Ma l’amor tuo ben saldo mi vive nel petto e per sempre inconscio della morte vivrà nel petto mio. Piacenza, celebrata in prische scritture, or m’accoglie, che per le sorti già lagrimò di Roma. (i) Silvae, ed. cit., lib. I, p. 25, Laurea prò illustrisi, fratribus Alexandro et Virginio Caesarinis. Cfr. per l’amicizia con Virginio a Parma, la biografia di questo, composta da Agostino Favoriti e pubbl. in Septem illustrium virorum poemata, Amstelodami, ap. Danielem Elsevirum, MDCLXXII, p. 438 e sgg. — 5i — titolato La vita rustica (1). Ma il personaggio più illustre con cui ebbe occasione di corrispondere da Piacenza, fu Angelo Grillo , poeta il cui nome è ricordato nelle nostre storie letterarie per molti componimenti d’argomento religioso o morale e per la lode tributatagli in rima dal Tasso. Il Grillo aveva avuto relazioni affabili anche con Alderano, padre d’Agostino, allorché s’era recato a Sarzana, a ossequiarvi monsignor Innocenzo Ghisi: accolse quindi molto benevolmente gli o-maggi del figliuolo e lo spronò subito con vivo interessamento a continuare per l’intrapreso cammino : « La vera filosofia (gli scriveva) è fatti e non ciancie; a’ fatti dunque, Padre Mascardi! » Agostino andava allora componendo, fra i continui travagli del suo male ribelle ad ogni cura, quelle poesie sacre in lingua latina che poi raccolse nel quarto libro delle sue Selve e dedicò al fratello Giovanni. Le mandava al Grillo di volta in volta, come a sommo maestro, richiedendone l’illuminato parere, scusandosi di tanta audacia, protestandosi di scarsissimo ingegno ; e quegli rispondeva elogiando sì nobile modestia e affermando che per la lettura dei suoi scritti gli pareva « d’ aver gustato un poetico nettare tutto ripieno di spirito apollineo e di acume simbolico, dove a punto negli emblemi simboleggia l’arte e signoreggia la natura, e però poemi degni non solamente di replicata lezione, ma di ansiosa imitazione, potendo essi, per così dire, sieder maestri e lume a’ componimenti di questo genere ». Spesso poi agli epigrammi latini ag-giungeva il Nostro qualche sonetto toscano, che il dotto (i) Silvae, ed. cit., lib. II, p. 119, Ad Ioannem Vincentium Imperialem, de eius Vita rustica, integro poemate descripta. Il componimento non compare nella nota raccolta degli, elogi tributati dai letterati del tempo al poema : Lodi per lo Stato rustico del Sig. Giov. Vincenzo Imperiale, Evangelista Deuchino, 1613, Venezia. — 52 — benedettino trovava sempre « di pellegrina invenzione e di mirabil vivezza » (1). Senonchè alcuno di tali scritti, pubblicato con soverchia baldanza, gli attirò ben presto delle noie gravissime. Già, lo scrivere per sè stesso riusciva cosa pericolosa ai Gesuiti; e tanto più poi, se si trattava di componimenti sacri, essendo facile allora incappare nelle prescrizioni del Santo Uffizio, rigorosissimo con i religiosi già legati dai voti. Manco male si foss’egli accontentato di cantar le stagioni ai compagni o d’ esaltare la valentia d’ un predicatore o d’inneggiare ai nobili laureati di fresco! Invece voleva, frequentando i ritrovi degli studiosi, rendersi noto al gran pubblico, far parlare di sè, primeggiare. Avendo dunque finito una serie di epigrammi sull Incarnazione del Verbo, se li vide bellamente respinti dalla Sezione di Piacenza, perchè uno dei versi conteneva la frase sedesqae beatas deserit. Bisognava toglierla, rabberciare il verso alla meglio, e star zitto: ma il Nostro, giudicando mal fondato 1’ appunto, cominciò a mostrai l’unghie, a far del chiasso in cento luoghi, a parlar di vendette, rappresaglie e va dicendo. Mosso da qualche cattivo genio, recitò infatti, dopo qualche giorno, in piena accademia piacentina, una composizione col nome di Sogno, ove, a quanto pare, usò parole e frasi obbrobriose, designando il Vicario dell’inquisizione di quella città e suo fratello. Tutto ciò era più che sufficiente per attirargli sulle spalle un regolare processo di ribellione e obbligare i suoi superiori a sbalzarlo senz’ altro lontano. La causa, portata innanzi alla Sacra Congregazione Romana, veniva questa volta definita, mercè i (i) Lettere edite dal Petracci, Venezia, 1516, vol. Ili, P- 102 > II2’ 140, 176. — 53 — buoni uffici dei parenti e degli amici, nel senso più mite, che cioè « detto Padre sia ripreso acremente per aver recitato detta composizione, e si ammonisca che per l’avvenire si astenga da simili cose e che però cassi detta composizione in tal parte e che non stampi detti versi con la suddetta clausola Sedesque beatas deserit ». E, poiché il Nostro era stato spedito di punto in bianco a Modena, si scriveva al Vicario di questa città, imponendogli di chiamare innanzi a sè il colpevole, ripetergli le conclusioni del Tribunale Supremo di Roma e rimandarlo con una solenne ramanzina. Il che fu regolarmente compiuto (1). Sostiamo un istante. S’incontrano spesso, nella giovinezza degli uomini, certi casi che li caratterizzano ; e questo è uno del genere. Eccoci innanzi un padre gesuita che si ribella, un uomo che, in pieno seicento, dopo d’aver solennemente giurato l’asservimento di tutto sè stesso al vantaggio e al decoro di un Ordine rigorosissimo, pretende a un tratto, per un irresistibile furor di gloria, di mettersi in vista, e la voce del dovere pospone precipitoso a quella del personale risentimento. Noi non vogliamo subito giudicarlo; bensì studiarlo, per trarre poi dalla nostra osservazione le debite conseguenze e valutare serenamente la sua figura morale e la sua opera. Ognun prevede già fin d’ora ch’egli, per siffatta via, sarà destinato ad aggrovigliarsi in rancori, in contese, in fatali imprudenze; e dovrà cozzare contro mille ostacoli e più volte cader sul cammino e scendere anche ad azioni sconvenienti, e ruggir poi e imprecare a tutti e a tutto, e morire, come spesso avrà vissuto, nella miseria e nel dolore, pur sognando i più alti fastigi della fama idola- (i) R. Archivio di Stato di Modena, Inquisizione, to. Ili, ab anno 1615 usque ad annum i6r8. — Gli epigrammi De Divini Verbi Incarnatione trovansi nel lib. IV delle Silvae, ed. cit., p. 165 e sgg. — 54 — trata. Nè, prescindendo anche dalla forma vituperevole con che osò ribellarsi in quell’occasione, cioè dalla vendetta diffamatoria, si potrà vedere nella semplice sua ribellione un segno di forte e ammirabile tempra d’animo. Sarebbe davvero assurdo supporla in quella plumbea aurora di secolo, in cui prìncipi e popoli ignavamente rinnegano persin la patria e la scienza. Noi lo troveremo bensì sconsigliato e impulsivo spesso, e non meno nell’età matura che nella giovanile, ma giammai tale da resistere, soddisfatto nell’intimo della propria coscienza, al più piccolo crollo di fortuna, facile anzi allora a una pieghevolezza di carattere, che, nell’ accoglimento del-1 altrui volontà e nelle invocazioni e nelle adulazioni ai grandi di Corte, ci apparirà, pur sotto il magistero della sua penna, desolantemente nauseabonda. E torniamo, per ora, al documento. Era il nostro Mascardi d’indole troppo irrequieta pei raccogliersi e vivere come i suoi superiori avrebbeio desiderato, insegnando le pedanterie grammaticali nelle scuole e rabberciando gli esametri zoppi degli allievi. Del resto neppure più tardi, quando ebbe a fate con la gioventù colta e matura dell’ Università Romana, seppe adattarsi ai doveri dell’insegnante. Il suo sguai do mirava già, in quei primi anni, ben più alto. Egli so gnava di entrare nella casa dei d’Este e di tornai caro al potentissimo Cardinale Alessandro, che godea nome di mecenate splendido con i letterati. E ne sciiveva anche al Grillo, ricevendone auguri e rallegramenti pei la nuova dimora, « perchè (aggiungeva l’esperto mae stro) sotto l’ombra, non che sopra l’ali dell’aquila estense, sempre poggiano i maggiori cigni » (1). Infatti proprio in casa del marchese Bentivoglio, il quale stava al ser- (i) Lettere, ed. cit., vol. cit., p. 183. — 55 — vizio della Corte, s’era instituita, fin dal 1610, un’ accademia, ove mons. Querenghi leggeva la Politica d’Aristotile e Scipione Chiaramonti da Cesena , celebre per le dispute col Galilei, pronunziava discorsi scientifici, alla presenza del conte Fabio Scotti, dei marchesi Ercole e Ippolito Tassoni, del conte Guido Coccapani, del cronista Giacomo Spazzini, degli stessi principi Alfonso e Luigi d’Este, e d’ altri molti che troviamo spesso ricordati nell’ epistolario del Nostro, fra i convenevoli di chiusa. L’occasione non tardò a presentarsi. Nell’anno stesso in cui Agostino capitava, per imposizione dell’ Ordine, a Modena, i Lucchesi, approfittando di certe brighe che il Duca Cesare, fratello del porporato, aveva avuto per la successione del ducato di Mantova, si erano messi in armi e avevano invaso con discreta fortuna le terre della Garfagnana. Fu spedito contro di loro un buon nerbo di gente, al comando del marchese Ippolito Ben-tivoglio, al quale seguirono gli stessi figliuoli del Duca, Alfonso e Luigi. Quest’ultimo diè prove continue di valore e avrebbe davvero ridotto a mal partito i nemici nell’assedio di Castiglione, se non si fosse intromesso l’inviato del Governatore di Milano , intimando all’ animoso di desistere in nome del Re Cattolico. Il ritorno del Principe fu, ciò non ostante, salutato come quello di un trionfatore. Allora Agostino compose subito, per solennizzare il fatto, un carme di cinquanta versi, ove trovava pur modo di esaltare tutti i personaggi della famiglia e di paragonare il Duca e il Cardinale ai due maggiori astri del firmamento (1). Sebbene l’immagine fosse barbogia quanto mai, non per questo i versi suo. (i) Silvae, ed. cit., lib. I, p. 18 e sgg., In reditum Aloysi Eslensis Principis ab hostibus devictis Epipompeuticon. narono meno graditi a tanti orecchi aperti alla lode. Vero è che la pubblicazione era stata fatta « a nome e col nome di cotesta gioventù Modenese », ma « l’autore (scriveva il Grillo) non può tanto nascondersi sotto l’umiltà dell’altrui titolo che molto più non si manifesti nella sublimità del suo proprio stile » (1). Fosse questa o altra la ragione, certo è che l’autore fu ben presto conosciuto e chiamato a Corte, complimentato, ringraziato. Così il primo passo era mosso. A farla breve, Agostino diventò il poeta della famiglia ducale: e in versi consolava la principessa Isabella della perdita del piccolo Cesare ; esaltava, poco dopo, le nuove vittorie di Alfonso ; scriveva epitaffi, commemorazioni, augurj. Più che altri, teneva d’occhio il Cardinale, e, quando questi passava in Ispagna per trattare col Re gli affari del fratello e i suoi propri, egli in un’alcaica invocava pei lui, come già Orazio per Virgilio, la mitezza di Boiea durante il viaggio (2). La Corte modenese era in quel tempo frequentata da altri eletti ingegni che aspiravano quanto e forse più di lui alla benevolenza dei potenti : e fra questi è da ricordarsi il Testi, allogatovi con un umile ufficio, ma già chiaro per alcuni componimenti dedicati al Serenis simo Principe, e anima dell’ accademia che tenevasi in Castello. Le relazioni fra i due letterati, quasi coetanei, non furono per allora oscurate da nube di sorta : anzi il Testi, in condizione più favorita sotto certi rispetti, dovè guardare con occhio di protezione il giovane a-mico. Certo ne ammirò i primi saggi poetici in latino (1) Lettere, ed. cit., vol. cit., p. 183. (2) Silvae, ed. cit., lib. I, p. 52, Pro Alexandro Cardinali Estensi vi Hispanias per hiemem solvente Ad Boream. Riguardo a questo viagg*° del Cardinale, ved. Muratori, Antichità estensi, P, II, Modena, I74°> p. 527. I componimenti per gli altri prìncipi di Modena stanno nel libro II delle Silvae. — 57 — e, tentando a sua volta la cetra in questa lingua, gli dedicava il seguente epigramma, col quale lo pregava di reggere i suoi passi sul fallace cammino del Pindo: (1) FULVIUS TESTIUS AD AUGUSTINUM MASCARDUM. Mascarde, eloquio et vatum virtute priorum perdita qui nobis saecula restituis, cui licet Aonidum sacros penetrare recessus, oraque Castaliis fontibus abluere: ardua dum summi conor fastigia Pindi scandere et insuetus devia saxa peto; porrige mi dextram, trepidos et dirige gressus, ne nova dem salsis nomina lapsus aquis. Quod si Aganippaeos mihi fas haurire liquores per te et Pieriam sollicitare chelym ; te mea per cunctas resonabunt carmina silvas, et fies nostrae gloria prima lyrae. Rispose il Mascardi ricambiando 1’ elogio , da buon cortigiano : (2) AUGUSTINI MASCARDI RESPONSIO. O utinam silvam mulceres carmine, silva dignior Ausonio Consule nulla foret : (1) Silvae, ed. cit., lib. II, p, 112: FULVIO TESTI AD AGOSTINO MASCARDI. Mascardi, o tu che rendi con l'arte e l’eloquio dei prischi poeti a noi la gloria dei secoli perduti, o tu, che penetrare puoi già degli Aonidi i sacri recessi e abbeverarti nelle castalie fonti, mentre ascendere io tento gli eccelsi fastigi del Pindo e, non solito a tanto, sassi traversi incontro; porgimi la destra, dirigi i miei trepidi passi, perch’io, cadendo, al mare non dia novello nome. Che se col tuo soccorso m’è dato lambir d’Aganippe 1’ onde e sulla pieria chèli vibrar le dita, di te ogni selva faranno i miei carmi echeggiare e sarai della mia lira la prima gloria. (2) Ibidem: RISPOSTA DI AGOSTINO MASCARDI. Beassi tu la selva coi carmi ! Nessuna sarebbe più degna per la fronte d’un console d’Italia! rustica tam cultos edisceret aura susurros, docta quibus socias luderet inter aves: prona melos biberet vocalis Virgo, nec illud redderet abruptis facta diserta sonis : remigium libraret avis captiva canentis, spargeret argutos inde per arva modos: gloria prima lyrae fierem, nam victa canorae ultro subijcerem barbita nostra lyrae. Ergo cane : est aliquid numeris vicisse ; subibo sponte iugum, ingenii praeda decora tui. Ahimè! li ritroveremo presto a Roma, non più cosi amici, non più così complimentosi! Quanto Agostino salisse nel favore della famiglia regnante , lo dimostra l’incarico che, pochi giorni dopo la partenza del Cardinale, gli affidava il Duca di recitare 1 orazione funebre per la morte della Duchessa, "V ii ginia de’ Medici. Se ne seppellì il cadavere nel monastero del Corpo di Cristo e il giorno 27 di febbiaio il Nostro, innanzi a un sontuoso catafalco rizzato nel Duomo, lesse la più immaginosa ed elaborata oi azione che mai gli uscisse dalla penna. Ebbe così modo, ol- ti echè di sfoggiare le sue attitudini a quel genere lette rario, di magnificare la gloria di un altro casato, quello ond’ era originaria l’illustre defunta, e di far anche notare che a sì onorevole ufficio era stato scelto, «fiatanti e sì famosi oratori », lui, proprio lui, « sconosciuto e straniero » (1). Solo chi conosce i gusti del secolo Apprenderebbe l’aura dei campi si dolci sussurri e fra gli alati amici dotta gareggerebbe ; berrebbe la vocale fanciulla, prostrata, il concento, nè poi, canora, in tronchi suoni risponderebbe. Sì librerebbe al sole l’augello rapito al tuo canto e spargerebbe argute note pei pingui piani. Prima gloria davvero sarei della lira, chè vinta alla canora lira posporrei la mia cetra. Or canta dunque ! È molto coi ritmi aver vinto. Io stesso mi farò sotto al giogo, preda del genio tuo. (i) Prose vulgari, In Venetia, Presso il Tommasini, MDCXLVI, Pa" — 59 — potrà comprendere quale ammirazione suscitasse, nell a-nimo di tutto il popolo modenese , di tanti cortigiani e degli stessi ambasciatori inviati dai Principi deir alta Italia, quel grandinare d’ingegnose metafore e di sonori incalzanti epifonemi. L’orazione, insolitamente e ai dita-mente svolta in volgare, parve a tutti opera di forte ingegno ; e tale pare anche a noi, dacché tanto 1’ eccellere nella perfezione del bene quanto in quella del vizio, non possati ritenersi, in casi siffatti, frutto di menti mediocri. Del resto il Testi stesso, che più di tutti dovea poi in quel secolo mantenersi incorrotto, fu abbagliato da tanto splendore di forma e improvvisò il seguente sonetto : NELL’ORAZIONE E POESIE FATTE DAL P. AGOSTINO MASCARDI DI GESÙ SOPRA LA MORTE DI MADAMA VIRGINIA MEDICI D’ESTE DUCHESSA DI MODENA. Ben del fecondo Egitto i re driz/àro a le ceneri loro urne fastose e in cima a le piramidi famose non lontane dal ciel Fossa locàro. Ma che non può l’invido tempo avaro? Giaccion fra l’erbe or le gran moli ascose; nè d’opre sì superbe e faticose altro che il grido a noi riman di chiaro. Tomba più degna a te dà, come parmi, questi, o Virginia, e gloriar ti dèi de’ fogli suoi più che di bronzi o marmi. Nè puoi già tu, mentre lodata sei da sì degno scrittor con sì bei carmi, invidiar di Caria i mausolei (i). gina 113 e sgg., Nell’ esequie di Madama Serenissima Donna Virginia De’ Medici d’Este Duchessa di Modena. Per i particolari dell’ esequie ved. Muratori, Antichità estensi, P. II (Modena, 1740), p. 527. (1) Opere di Fulvio Testi, P. I, Venezia, 1652, p. 86. — Le poesie composte per questa circostanza e lodate dal Testi, non furono pubbli cate nelle Sitvae. — 6o — Per la stessa circostanza gli furon dedicati un altro sonetto volgare composto dal conte Fabrizio Mariani, e tre epigrammi latini di Gian Jacopo Sartorio, di Jacopo Spazzini e di Giambattista Guerra (1)- Piacque dunque quel primo tentativo e gli procurò inviti consimili dalla casa consanguinea dei Gonzaga, per la quale egli recitò l’orazione in morte della Eccellentissima Signora Bibiana Pernestana, principessa di Castiglione, nel 1616, e, alla distanza di pochi mesi, il panegirico dello stesso principe Don Francesco, suo consorte. Quasi tutto il secondo libro delle Selve, stampate più tardi, nel 1622, comprende versi composti durante la sua dimora a Modena ; ed è anzi dedicato ad uno dei più cospicui personaggi della Corte, il conte Camillo Molza , eh’ egli chiama amicorum optimus. Questi non se ne mostrò poi ingrato; ebbe sempre con lui un affet tuoso carteggio, incorandolo anche da lungi, negli anni seguenti, consigliandolo, proteggendolo in ogni modo. Oltre i personaggi già ricordati, troviamo ancora tra i suoi amici, in quel tempo, Ottavio Menino, giureconsulto di vaglia e poeta a tempo perso, il canonico Costantino Scala , il celebre gesuita Melchiorre Inchoffer, il padre Rivola, Bernardino Stefonio, trasferitosi a Modena da Roma, il reverendo Roberto Fontana, segretario del Car dinaie Alessandro e preposto di S. Luca, il padre An tonio Querenghi; la maggior parte dei quali scambiò con lui versi latini. Continuavano intanto più vive che mai le relazioni epistolari col Grillo. Agostino lo chiamava « poeta primi nominis » e in un epigramma latino, pur raccolto nelle Selve, e in un sonetto toscano aggiunto^ b gli rinnovava i sensi di tutta la sua riverente ammira- (i) Ved. Appendice III, Bibliografìa, Stampe singole, p. 5^5- — 6i — zione, riscuotendone nuove lodi e nuovi segni di gratitudine. Dall’austero vegliardo veniva poi entusiasticamente complimentato per uno scritto satirico violentissimo , sullo stampo di quelli del Boccalini, scagliato contro la poesia lasciva di Claudio Achillini e malauguratamente perduto. « L’ingegno di Vostra Paternità (gli diceva in una lettera) tutto satireggia e citareggia, fra il dolce piccante della prosa e il nobile sonoro del verso, quel cominciare col prorompere , quel repentino dare all’armi con generoso sdegno. E come bene introducono le giuste querele contro gli obliqui interpreti lì i guerci imitatori de’ poeti antichi, contro gli sfacciati depredatori e i preposteri trasformatori delle loro nobilissime poesie, e, per dirla in una parola , contro i pubblici e infami assassini delle muse di Parnaso!....... L’istesso dico dell’abito d’introdur poscia Apollo, sotto spoglia negletta e pastorale e con umil verga , a sentenziare in una fetida stalla le fetenti poesie de’ Poeti delle Veneri ignude e delle metafore sordide e meccaniche! E come viene altrettanto espresso con gran leggiadria quanto pensato con singoiar giudicio ! » (1). Tutto bene: ma certo non era questo il modo per ingraziarsi i superiori, che, già mal prevenuti, non perdevano d’occhio ogni sua più piccola iniziativa. Troppo, troppo mondano era il rumore ch’egli levava! Così fu nuovamente obbligato a mutar residenza, e proprio quando il Cardinal d’Este, compreso ormai del suo merito, vagheggiava di prenderlo con sè e affidargli qualche spe- (i) Lettere , ed. cit. , vol. cit. , p. 186. Che questa satira del Nostro fosse specialmente rivolta contro Claudio Achillini, lo testimonia anche, sebbene indirettamente, Francesco Fulvio Frugoni, in quel luogo del suo colossale poema satirico ancora inedito , in cui appunto introduce il Mascardi a giudicare e ad infamare la musa oscena e bizzarra del poeta bolognese. Cfr. Umberto Cosmo , Le opinioni letterarie dì un frate del seicento, in Nuova Rassegna, Anno II, p. 686, n. 31. — 6 2 — ciale ufficio durante l’estate. Dovè recarsi a Piacenza, nei primi del marzo 1615, indi a Parma, nel termine di poche ore. Che strazio! « Ma pazienza! (esclamava); riconosco in questo ancora 1’ ostinato tenore della mia poca fortuna, che, avendomi tronche l’ali in mezzo al più bel volo e rotta la strada nel più bramato corso, m ha fatto rivolgere i passi a tedioso viaggio e lasciare interrotte le mie speranze di servire una volta ultimamente i signori Modenesi, ai quali vivo tanto obbligato » (!)• E non passò a Parma che poco più d’un mese. Nell’aprile eia a Milano, « di nuovo ridotto ad insegnare », senza libri, senza amici, senza speranze. Diceva allora di vivere in gran « ritiratezza », sorvegliato sempre, e, poiché gli s’intercettava la corrispondenza, d’esser costretto a spe^ dir le sue lettere di nascosto e a ricevere quelle degli altri per via di sotterfugi (2). Ma questa sua protestata riservatezza era in fatto molto relativa; chè tem pestava di richieste, in prosa e in versi, i signori Mode nesi « sempre più vivi nel suo cuore » e componeva un poemetto in esametri, intitolato Irene\ per celebiare ai quattro venti le convenzioni che l’infelice Cai lo Ema nuele, abbandonato dai Principi italiani nell’ardita sua lotta con la Spagna, avea dovuto, in quell’anno, stipu lare a malincuore (3). Solo nel settembre potè fare una breve scappata a Modena e rivedervi i suoi protettori, non ottenne però di fermarvisi. Da Parma gli veniva im provviso l’ordine di portarsi in quella città, con l’incai ico di leggere rettorica nel Collegio dei giovani nobili (4). (1) App. I, lett. 6 marzo 1615, n. 2. (2) App. I, lett. 29 aprile. 26 maggio, 17 giugno, 1 e 10 luglio 1615» nn- 3, 4, 5> 6, 7. (3) Silvae, ed. cit., lib. 1, p. 3, Irene, sive de pace Italiae constituta. Ved. pure App. I, lett. 10 luglio, n. 7. (4) App. I, lett. 17 giugno e 7 novembre 1615, 12 gennaio 1616, e 14 e 18 agosto 1617 ; nn. 5, 8, 9, 33, 34. Questo collegio era stato fondato da Ranuccio I Farnese, nel 1501 , e affidato indi a poco ai Gesuiti, molto stimati presso la Corte parmense. Accoglieva soltanto convittori di famiglie nobili, i quali, sebbene frequentassero le scuole pubbliche come tutti, dovevano poi continuare e compiere nelle camerate la loro educazione, obbligandosi a parlare esclusivamente latino , partecipando a gare letterarie, sottoponendosi a pratiche di pietà ed esercitandosi di quando in quando nelle arti cavalleresche. All’ ufficio di ripetitore , reso indispensabile in ogni classe, s’ erano adibiti nei primi anni gli stessi prefetti, e, più tardi, per ragioni didattiche e fors’ anche disciplinari, gli studenti di teologia del Collegio gesuitico di S. Rocco (1). Il nostro Agostino v’ ebbe appunto l’incarico di ripetitore , essendo rettore del Collegio l’affabilissimo padre Girolamo Furiani ; e nel tempo stesso frequentava i corsi filosofico-legali nell’ Università , istituita non molto prima dalla munificenza del Principe e onorata dai più chiari maestri. Dovea quindi accompagnare i giovinetti alla scuola, aiutarli nelle ore di studio , costringerli all’ osservanza dei regolamenti interni e sorvegliarli durante la villeggiatura, dopo la chiusura dei corsi, cioè dopo la festa di San Bartolomeo. Tutto ciò egli adempì non troppo volentieri, almeno per quanto si può intravedere qua e là nelle lettere indirizzate all’amico suo più caro , il Molza ; ma certo è che quella dimora gli profittò assai, dandogli modo di conoscere quei cospicui giovinetti, che dovevano poi tanto ammirarlo e proteggerlo nelle varie vicende della turbolenta sua vita. (i) Ved. per queste ed altre notizie, Gaetano Capasso , II Collegio dei nobili di Parma , in Arch. stor. per le province parmensi, N. S., Parma, vol. I, 1904, p. 18 e sgg. — 64 — Avea fatto stampare le orazioni composte per la famiglia Gonzaga; e queste erano corse di mano in mano come nuovo portento di toscana eloquenza, sebbene lo stampatore Cassiani di Modena, cui si era rivolto, perchè il Viotti di Parma gli sembrava troppo indiscreto nei prezzi, avesse rovinato i suoi periodi, sostituendo alcune parole, intercalando dei puntini, rabberciando le frasi (1). Il conte Paolo Rossi lo esaltava in un epigramma latino, con una delle antitesi che tanto s amavano in quel secolo: contrapponendo la nascita e il cie^ scere della sua fama alla morte degli er°i celebrati nelle orazioni (2). I Principi di Modena, per i Quah avea fatto riccamente legare alcune copie, gli mandarono let tere piene di congratulazioni. Questa buona accoglienza fatta a saggi schizzati in tempo brevissimo — alcuno persino in un sol giorno —, lo invogliò a ripubblicar i tutti in un volume, rimpinguati di opportune aggiunte e accuratamente depurati dai precedenti arbitri del tipo grafo ; ma egli trovava un impedimento gravissimo ne prescrizioni dell’ Ordine, le quali non permettevano Gesuiti di scrivere orazioni in italiano, « se ^autor't^jn^l Principi che ’l comandano non dispensa la 1 egge *• ^ pubblicazione come quella, sarebbe stata un nuovo a^ di ribellione. Consigliato quindi da « persone di g dizio », abbandonò l’idea e cercò di provvedere in Q che modo per l’avvenire. Pensò allora di pregare il dinaie Alessandro, perchè gli « comandasse » di s ^ vere orazioni per suo conto. Ne fece motto all am Molza e si raccomandava che l’argomento « fosse mo rale e confacente con la professione », temendo che (1) App. I, lett. dal 7 luglio 1816 al 27 [gennaio?] i6i7> nn' 12 ^ (2) Silvae, ed. cit., lib. Ili, p. 153. Ad A. Masc. Paulus Rubeus comes, de eius orationibus in Principimi funeribus. — 65 — Fontanella, burlone nato, ne suggerisse alcuno più conforme al proprio genio che alla condizione in cui egli si trovava (1). E il cardinale, che ben poteva dispensare la legge, accondiscese volentieri a favorirlo , sebbene i soggetti indicatigli non lo soddisfacessero poi pienamente. Come si vede, ad Agostino l’abito gravava assai sulle spalle ed egli cercava di alleggerirselo quanto più poteva, di nascosto, contro i divieti superiori, contro i voti, contro il destino, contro tutto. Del resto non avea perduto inoltre la speranza di raccostarsi, e definitivamente, al Cardinale, con qualche ufficio. Questi teneva bensì al suo fianco un gesuita fidato e volonteroso, un tal padre Ravizza, il quale certo non aveva nessuna intenzione di ritirarsi dalle sue grazie per compiacere all’ambizioso Agostino; ma con un po’ di buona volontà, il Molza avrebbe potuto « far colpo » sul padre Filippo, superiore diretto del Mascardi, dalla cui condiscendenza dipendeva ogni probabilità di riuscita, e, in caso di ostinata resistenza, rivolgersi allo stesso Cardinale e pregarlo di far valere la sua autorità e di parlarne magari al padre Provinciale, « negoziare e concludere » (2). Mentr’ egli andava così brigando in suo vantaggio, con delicatezza davvero non eccessiva verso altri, cercava tutte le occasioni possibili per accrescere la propria fama di letterato. Fremeva tutto di « ambiziosa lascivia ». Basti leggere con quanto palese soddisfazione avvisava il Molza d’aver saputo che forse lo si sarebbe scelto come oratore per celebrare l’esaltazione al trono del nuovo duce della Repubblica di Genova, Giovan Giacomo Imperiale, padre di Giovan Vincenzo, autore (1) App. I, lett. 14 marzo 1617, n. 25. (2) App. I, 14 agosto 1617, n. 33. Si tratta forse del p. Pier Antonio Ravizza, rettore del Collegio Gesuitico di Roma e professore di filosofia a Parma in quegli anni. Cfr. Capasso, op. cit., p. 32. Atti Società Ligure Storia Patria. Vol. XLII, 5 dello Sta/o Rustico e suo « strettissimo amico » (1), e con quanta doppiezza s’interessava di un alti o suo a-mico strettissimo, del Testi: « Del signor Fulvio che n’ è? Intendo cosa che non vorrei. È forse un apparenza solita o pur veramente le sue rime gli recan danno »? (2). Il Testi infatti, come ognun sa, avea da poco composto e pubblicato alla macchia alcune stanze dedicate a Carlo Emanuele, rappresentandolo come liberatore d Italia, e nell’impeto lirico s’era lasciato scorrere parole pungenti all’ indirizzo degli Spagnuoli. L’ orazione per 1 incoro^ nazione del Doge genovese restò un pi° ^esl en0 venne bensì l’invito per esaltare la monacazione di un soave fanciulla a nome Margherita, ^1 ^arc ^ tonio D’Oria, illustre gentiluomo genovese, che poi toio * al Nostro, non solo a parole, quando « in momen travaglio » dovè riparare a Genova. In quest oc egli tessè l’elogio della verginità, cominciando sin ^ Vestali antiche e dimostrando, con la filosofia alla m ^ tante cose e sottili ed erudite che probabilmente, p^ la loro lunghezza, dovettero persuadere la mo <• io\ più spiccio di trovarsi già in condizione di penitenza [oi- j- ^ fu il Cebà, che compose un acrostico sul nome c i t ^ gherita, Mirra grata a Dio, offertogli da un sace presente alla solenne funzione. j Quanto più i superiori si davano a ostacolare & passo del Nostro, tanto più questi invocava prò ez ^ dal Cardinale. Ora gli chiedeva una commendatizia P rimuovere le opposizioni fatte in Roma alla Pu zione delle sue poesie latine, già fornite dell}lmpYl1ìlcl 11 ’ (1) App. I, lett. 2 maggio 1617, n. 28. (2) App. I, lett. 28 luglio 1617, n, 32. n'Oria (3) Prose vulgari, ed. cit., p. 151, Alla signora D. Margherita ^ ^ quando si monacò nel Monistero della SS. Annunziata in Genova, 1 nerdi Santo dell’anno MDCXVII. — 67 — ora supplicava affinchè i signori di Modena ben accogliessero i servigi, del fratei suo, canonico Giovanni, che intendeva recarsi a Roma « a tentar fortuna » e, mancando di solido appoggio , avrebbe potuto benissimo entrar nella corte del D’Este, come semplice « gentiluomo di questo principe, attendendo le occasioni »: sopratutto scongiurava che si chiamasse lui stesso a Modena e l’111.™0 Cardinale s’imponesse, occorrendo, al suo Generale (1). Quella vita a Parma gli era divenuta ormai insopportabile. Egli presentiva che di momento in momento dovea piombargli qualche colpo fra capo e collo, e preparava il suo terreno là dove gli pareva avessero più facilmente a realizzarsi le sue aspirazioni. Entrasse pur prima il fratello, era già qualcosa. Del resto ogni mezzo sarebbe stato buono : oramai si trattava di riuscire. E al Molza scriveva: « È certo, signor mio , che le circostanze in che sono e tutto dì mi s’ accrescono, mi necessitano ad allontanarmi da Parma, in maniera che, quando non avessi speranza di venire a Modena, pur m’aiuterei di andare altrove » (2). Il colpo venne, nell’ottobre di quell’anno istesso 1617; e fu l’ordine d’espulsione dai Gesuiti. Tutti i biografi (3) hanno detto eh’ egli n’ era tranquillamente uscito per acquistar maggior libertà: qualcuno anzi volle che mo- li) App. I, lett. 16 giugno, 3 luglio, 18 agosto, 10 settembre 1617, nn. 29, 31, 34, 36. (2) App. I, lett. 31 agosto 1617, n. 35. (3) Oltre i già citati Eritreo e Crasso, ved. la Vita del Mascardi tratta dal Libro delle Glorie dei Signori Accademici'Incogniti di Venezia e preposta all’ed. veneta delle Prose vulgari, per il Baba, 1653; Oldoini, Athenaeum ligusticum seri Syllabus scriptorum li g urum nec non Sarza-nensium, Perusiae, ap. HH. Laurentii Ciani et Franc. Desiderium , MDCLXXX , p. 70; Gerini, op. cit., to, I, p. 127; Bixio , in Elogi di liguri illustri, pubblicati dal Grillo, to. II, ed. 1846, p. 136. Taccio degli altri che a questo fatto allusero, perchè tutti riferirono di seconda mano. — 68 — vente immediato ne fosse l’impossibilità in ch’ei si trovava di pubblicare, restando ai voti religiosi, quelle orazioni toscane, onde traeva già universale riputazione (1). Ma la verità vera si è ch’egli ne venisse espulso e soffr isse lì per lì parecchio di questo, secondo lui, immeritato affronto. Riguardo alle cause, così scriveva ancora al Molza: « La settimana passata scrissi a vostra signoria con molto dubbio delle sciagure mie: ora posso accertarla. L’ostinazione della mia fortuna m’ha costi etto a deporre quell’abito che per undici anni ho portato con tanto mio gusto, e in ciò non trovo motivo che mi con soli fuorché d’averlo onoratamente deposto, come ono (i) Il primo a metter fuori la notizia fu Richard Simon , nell tc delle sue Lettres choisies. Lo Zeno, nelle sue annotazioni alla hi dell'eloquenza del Fontanini, to. II, Parma , Gozzi, 1S63 , P- I23> ^ mento: « Ma non è meno strano ciò che al medesimo padie ve".^e pensiero di dire , che del Mascardi, al quale non avea trovato da essere paragonato, voce correa che fosse stato Gesuita e c e dalla Compagnia, perchè non se gli voleva permettere Io scrivere ^ gua volgare : la qual cosa, e’ riflette, se fosse vera, i su0' suPen0 ^ bero un gran torto a non comportare un uomo di così rari tale . j: rjesu non-' poteva esser loro utile in più occasioni. Nella Compagnia ^ rono in ogni tempo bravi scrittori che in questa lingua si segna ciò basta a smentire la falsa voce alla quale pare che abbia dato ^g„re. il Simone ». Il Parisi, Istruzione per la gioventù impiegò ne^ ^ ^ laria, ed. Ili, Roma, De Romanis, 1804, vol. IV, p. 188, ribatte vesi restituire il buon credito a Riccardo Simone, consecrato da 0 ^ per aver quegli asserito che il Mascardi intanto uscì dalla rellgI°"^ioni professava in quanto che gli era ivi vietato di stampare le sue italiane, come s’era proposto, mentre lo stesso Mascardi in una lett scrive di questa sua risoluzione : ma perchè fra di noi non s usa . .... vv Principe vere orazioni italiane massime per le stampe, se l’autorita ne ^ . che ’l comandano, non dispensa la legge, è necessario che io tff incaniti per qualche altra via che mi conduca, al mio proponimento. Questa vi£ il ritiro dalla Religione da lui eseguito con vicendevole soddisfazione Certo, se il Parisi avesse letto il seguito della lettera, avrebbe visto c 1’ « altra via » era invece quella « di far penetrare al Sig.r Cardinale 1in tento suo acciò che S. S. Ili,ma gli comandasse con sua lettera partico lare, eh’ei componesse un’orazione...... ecc. »; ved. App. I, lett‘ 14 marzo 1617, n. 27, — 6g — ratamente il portava. La più principale cagione di tanta calamità è stata la servitù con la Serenissima Casa d’Este; cosi sentono i periti di queste parti. Altri intorno a ciò s’è posto a filosofare con presupposti troppo onorati, tenendomi per tanto padrone degli animi di co-testi serenissimi Principi che col tempo o io appoggiato all’autorità loro dovessi divenire intrattabile con i superiori eh’ avessero voluto rimuovermi di Modona o la Religione corresse pericolo per mia cagione di dar disgusto a quei Signori della cui benignissima protezione ambiziosamente si godono. Eppure V. S. sa che la miglior parte ch’avessi, era sincerissima devozione d’animo, con ordinaria corrispondenza di Principe generoso , e può essermi testimonio del risparmio eh’ usava in valermi della benignità loro, non dirò in utile e gusto mio proprio, con pregiudizio degli ordini regolari, ma ancora nell’ interesse dei miei, che non dipendevano dalla Religione. Pure i Padri hanno degli esempi d’ altri, assai freschi, che della maschera della servitù dei Principi si sono valuti per acquisto di libertà; e indarno han preteso di governargli. Non posso fare ch’io non gli scusi, dolendomi intanto solo della mia sorte calamitosa, che anche il mele mi converte in veleno. Raccomando efficacemente a V. S. la mia riputazione in cotesta Corte pericolante, perchè, sebbene il Sig. Cardinale Padrone è informatissimo, e cotesti Padri di Modona faran sempre fede ch’in me non era sconvenevolezza di costumi e di vita, non potrà con tutto ciò la malignità di qualcuno trattenersi che non favelli secondo i suoi torti sentimenti. Ma , giustificato eh’ io sia presso cotesti Signori che mi conoscono, poco a me cale di sinistri discorsi di chicchessia » (1). (i) App. I, lett. 2 novembre 1617, n. 37. — 70 — Certo i « periti » non erravano di molto in questo « filosofare ». La supposizione che il Mascardi, una volta diventato intimo del Cardinale Alessandio, potesse ri^ bellarsi ai suoi superiori e farli amaramente pentire di essersi nutriti una vipera in seno, trova, anche per noi, buon fondamento nel carattere che di lui ci rivela 1 e same di documenti nuovi e irrefragabili: caiatteie iroso, vendicativo, insofferente d’ogni freno. Ma non fu certo questa la ragione unica o, per meglio espiimeimi, im mediata. Dovè pure entrarvi l’opera segreta e potente di qualche suo superiore o fratello personalmente o feso. Ben si sa che la sua corrispondenza veniva quas sempre intercettata, letta, consegnata a lui dopo pa recchi giorni e spesso anche non consegnata e 1 scardi anzi se ne lagnava di continuo e si faceva sped le lettere « sotto coperta », all’ indirizzo di qualche a mico fidato. Ora, come potevano non indignai si q ^ suoi superiori, trovando ogni volta nel suo cartegg accenni a malversazioni subite, propositi di tesistenz decisa e persino invettive esplicite verso alcuno loro (1)? E com’è ammissibile che l’indelicato maneggio per entrare a Corte, e soppiantare, se fosse sta necessario, il Ravizza, non trapelasse e non suscita^^ un’improvvisa indignazione in lui, o anche negli a r Il peggio era che il Cardinale dava ragione al suo g vane protetto e lo assecondava in ogni richiesta e sapprovava tacitamente l’operato dei suoi persecuto > senza forse appurar nulla dall’ altra parte. I Gesuiti si trovaron dunque fra l’incudine e il martello. Punire i Mascardi, chiudergli definitivamente la bocca, mandai (i) Dice, ad esempio, il 31 agosto 1617, n. 35: « Se vi si pone parte del Provinciale difficoltà, s’insista pure, perché in realta non cagione che giustifichi la negativa e il mostrare il desiderio del mio nire, farà forse arrossire chi contradice ». E cosi, su per giù, sempre. — 7i — magari in Cina a predicare, com’era consuetudine degli affigliati alla Compagnia, eran cose impossibili a pensarsi, nonché a ottenersi, perchè egli avrebbe strillato e strillato forte e certo trovato ancor più valido appoggio sotto la porpora cardinalizia, d altra parte a disgustare il Cardinale , a imporglisi, anche avveduta-mente, in nome delle leggi dell’ Ordine , nessuno si sarebbe mai cimentato, tanto più che la Casa D Este s eia sempre mostrata favorevolissima ai Gesuiti e tornava sempre più necessario averla favorevole in un momento in cui le loro scuole , in certi Stati, incontravano difficoltà. Non restava perciò che sbarazzarsene, come fecero, estirpando il male alla radice, a mal grado anche, questa volta, del Cardinale, che avea bensì interceduto, ma troppo in ritardo. E — siamo giusti tutti i toi ti non li ebbero. Passato il primo stordimento , Agostino fini per essere ben lieto di potersi muovere a suo agio. Le ragioni che abbiamo esposte , egli non doveva ignorarle, ma si guardava dal metterle in chiaro: insisteva invece per far ricadere la sua disavventura sulla devozione che protestava per la famiglia D’Este, obbligando così il Cardinale a interessarsi dei suoi casi. Ed era questo proprio il suo sogno , come lasciò subito intravedere nel resto della lettera citata: « Me n’andarò alla Patria fra un mese o due e ivi farò quella vita che può promettermi la solitudine nel seno delle scienze; poiché la Corte non è per me se non forse quella dell’ Ill.m0 d'Este a cui ho interamente dedicato l’animo obbligatissimo per tanti titoli, e dove ho Signori che mi sarebbono padroni molto amorevoli, ma ciò non ardirei di proporre perchè misuro la gravezza di quel Signore che contrapesa la magnanimità di quell’animo: ha egli dovizia di servitori oziosi e a me non rimane luogo che si possa occupare; ma per tutto e in qualunque condizione m’ha-verà S. S. Ill.n,a servitore della medesima divozione e obbligo di sempre e io goderò d'essere, si può dire, con questo titolo uscito dalla Religione ». Lì per lì il Molza parve non comprendere; forse non volle. Il Mascardi andò a Roma e di là l’incalzò con un’ altra lettera, ove non osava spiegarsi più chiaro, ma tradiva facilmente, con certe incoerenze, il pensiero dominante. Ne riportiamo quelle parti che meglio riflettono il suo stato d a-nimo e le condizioni attuali, lasciando arbitro il lettole di attenuare o no certe tinte che, tutto considerato, ci sembrerebbero davvero troppo cariche : « La vita finora da me per undici anni menata, benché sia stata bersaglio di mille oltraggi e schiava dell’altrui volontà, m’è però stata invidiata dal mio destino, la cuifieiezza, nè da caldezza de’ prieghi miei propri, nè dall efficacia dell’intercessione altrui, nè dalla potenza de giandis simi Prencipi, ha potuto esser resa meno ostinata o men dura. L’intraprender nuova sorta di vita sotto 1 altrui governo porta seco malagevolezza per tutti i versi. I luoghi che sarebbono di mia riputazione e genio, han nomi chiusa la strada con decreti saldissimi, conti o dei quali valendo solo l’autorità Papale, io che mi tiovo poco propizio quel Tribunale, ho deposta la speianza d’ ottener cosa eh’ io mi desideri. Altre religioni non si confanno co’ miei costumi, che al viver poco civile, nonché altro, non sono punto arrendevoli. Il rimaneimi nel secolo in abito ecclesiastico mi vien consigliato da molti, ma, nella dovizia di chi consiglia, sento penuria d’aiuto. Pochi anni sono, riseppi che, morendo, mio Padre, nel testamento, privò me dell’eredità paterna, temendo che ai Gesuiti non la donassi con pregiudizio della famiglia ; onde dovrò pur mendicare il vitto e, mio malgrado, da’ fratelli miei propri andar limosinando il — 73 -- sostentamento d’una infelicissima vita; e, sebbene da essi debbo sperare una certa continuazione di amorevolezza sperimentata finora, tuttavia 1’avère a dipendere in ogni semplice spesa dall’altrui borsa, oltre che è gravissimo a chi richiede, può, a lungo andare, riuscir anco rincrescevole ai richiesti e in occorrenza di poca soddisfazione;....... Sicché V. S. può comprendere con quai pensieri io mi scriva e in che tempesta di cuore ondeggi 1’ animo mio. S’io fossi nato un po’ più bassamente, avrei forse spiriti conformi al nascimento, e, senza riguardi del convenevole, mi studierei di procacciarmi la spesa , ma per me non è guadagno quel che s’ acquista con tanta perdita. Son nato in famiglia che per più di seicento anni s’è mantenuta in Italia con diverse fortune , ma però sempre nobile e onorata, e, se da un tempo in qua si trova senza il Dominio, che già le fu dato in ricompensa di valore e di fede da Ottone terzo imperatore, nello stato privato però non ha finora imposta macula alcuna al suo primo candore; nè per me voglio che i discendenti dei miei abbiano a vergognarsi....... Farò sforzo di passare ad altro Ordine che disegno , perchè veramente, potendo, vorrei continuar nel servigio di Dio. Conosco la mia natura poco abile con gli affari del mondo, desidero quiete d’animo, nè provo pizzicore d’ambizione che mi solletichi; ma questo stesso vorrei ottenere in luogo onorato e appresso gli uomini saggi non dispregevole. In ogni caso, in Patria non è per mancarmi il vitto e vestito, che i miei fratelli dispensano a’ servitori....... » (1). Egli dunque voleva e non voleva: servire si, ma presso illustre persona: egli non essere ambizioso, ma non poter nemmeno restar così, senza impiego , sulle spalle (i) App. I, lett. 14 novembre 1617, n. 38. ■ « — 74 — altrui : e avvertir eh’ era nobile, che i fratelli avevano servitore e via dicendo. La conclusione insomma era che il Cardinale lo avesse a prender seco. Il Molza mostrò finalmente d’aver capito e lo consigliò ad offiirsi direttamente; egli avrebbe interceduto coi suoi buoni uffici presso l’illustre prelato ; la cosa, in fin de conti, poteva riuscire, se ben condotta. Nè più nè meno di quello che Agostino bramava. Scriveva infatti precipitosamente, il 20 di dicembre: « Poiché V. S. è stata interprete sì fedele dei miei pensieri, manchei ei a me stesso se non la facessi arbitro della mia volontà. Il servigio del Sig. Cardinale d’Este non mi sai à se non di gusto incredibile, giacché la padronanza di quel Si gnore mi è di straordinaria gloria » (1); e> P'^1 taic^’1 3 di gennaio dell’anno seguente, cioè del 18. « 1° sono lontanissimo da’ pensieri d’avarizia e ogni alti a opi nione vorrei che si avesse di me, fuorché di venal ser^ vitù. Dal Sig. Cardinale tanto pigliarò quanto S. S. M.“ giudicarà che basti per sostenere il grado che mi darà, perchè protesto di non voler far mercanzia sulla m vita, ma tanto spendere quanto avrò, e questo sia detto affermativamente e per sempre » (2); e ancoia, il 13 febbraio : « La prego con tutto l’affetto e caldezza c e posso, a supplicare umilissimamente in mio nome il Si gnor Cardinale d’Este, acciocché si degni dai mi luoso fra’ suoi servitori in quella maniera che piacerà a S. S. Ill.ma, poiché intorno alla provvisione m’ assicuro che la magnanimità del Padrone supplirà di vantaggio al bisogno del servitore » (3). E numerava nel tempo stesso i danni che gli sarebbero venuti, se si fosse osti nato in quel suo proposito di servire il Cardinale: ma (1) App. I, lett. 2o dicembre 1617 , n. 39. (2) App. I, lett. 4 gennaio i6t8, n. 40. (3) App. I, lett. 13 febbraio 1618, n. 46. — 75 — appunto per ciò avrebbero dovuto gli altri comprendere quanto sviscerato era il suo affetto, quanto profonda la sua devozione per la casa d’Este. E che poi solo per questi nobili motivi desiderasse allogarvisi, lo provavano i continui rifiuti da lui opposti a chi in Roma tentava di spingerlo ad accettare altra e non meno o-norevole servitù. Facessero però presto, presto ; egli aver bisogno di scudo contro innumerevoli e invisibili nemici. E, sotto quest’ultimo riguardo, non si sbagliava. Infatti il Ravizza, che, memore dei passati maneggi del Nostro, non doveva.gradir troppo l’intromissione sua in una corte ov’ egli se ne stava tranquillo , manifestò il proprio « disgusto » al Querenghi, per lettera, e questi pose il Mascardi stesso al corrente delle sue querele. Immaginiamoci! Il Nostro s’ affrettava a professarsi amico del degno padre e si meravigliava e s’addolorava del suo disgusto, e dimostrava, chiaro come il sole, di aver agito verso di lui con « nettezza d’animo » e d’aver, quasi quasi, messo in forse, al principio del negoziare, la sua deliberazione, per non recargli danno. Ma v’era un altro pericolo. I Gesuiti, dopo l’espulsione, non potevano certo godere dei suoi « accrescimenti » e, saputo o immaginato eh’ egli avrebbe messo sossopra mari e monti per insediarsi presso il Cardinale, cercarono a tutt’uomo d’impedirglielo. E il Mascardi era venuto a saperlo: « Or ora intendo che i Gesuiti costi fanno ogni opera acciocché io non venga. Confido nella prudenza del Sig. Cardinale che conoscerà per buon tiro politico il tener basso in qualunque maniera chi si reputa offeso » (1). Finalmente, dopo qualche mese d’impaziente aspettativa , rotta a quando a quando da impulsive lettere del Nostro al Molza e dopo presentazione (i) App. I, lett. 31 gennaio 161S, n. 44. — 76 — di una sua lettera supplichevole al Cardinale, veniva assunto al tanto sospirato servizio. Era davvero tempo. I denari che 1’ ottimo fratello Giovanni gli aveva largito, eran finiti da un pezzo e quelle lungaggini lo a-vevan « posto in alcune strettezze di riputazione », lo avevano cioè obbligato a far dei debiti; e bisognava estinguerli. Che cosa facessero poi e quanto e come 1 Gesuiti, ignorasi; ma il Mascardi riuscì a preveniili e, poco dopo la confortante notizia, riceveva da Parma una lettera con cui lo si avvisava in modo molto enigmatico che il lavorio per nuocergli era già stato con dotto ben bene avanti e che non era mancato molto alla sua certa rovina (1). Saputa la decisione del Cardinale, scrisse subito a tutti gli amici di Modena, presso i quali l’espulsione dai Gesuiti avea fatto cattivo effetto: supplicava poi dii et tamente il Duca « a credere che persona riputata degna della servitù del Sig. Cardinale d’Este, Principe di tanto giudizio, non ha commesso indegnità per cui meritasse l’affronto patito » (2). Il Duca rispose rallegrandosi (3); e così fecero gli amici. Era una vera e propria riabili tazione, una vittoria morale contro i suoi avversati. Ma il Cardinale per sue ragioni particolari, e forse pei non licenziare di punto in bianco qualche devoto suo dipen (1) App. I, lett. primo giorno di Quaresima 1618, n. 47- Risulterebbe dal carteggio ch’ei ricevesse la notizia verso la metà del febbraio. (2) App. I, lett. 28 febbraio 1618, n. 49. (3) R. Archivio di Stato di Modena, Carteggio letterati, 9 maizo 1618 : « Ho ricevuto la lettera di V. S. e inteso con molto mio gusto che dal Sig. Cardinale mio fratello sia stata accettata al suo servizio ne quale avrà largo campo di mostrare il suo valore e conseguentemente c meritar sempre più presso di lui...... La ringrazio per tanto della parte che me n’ha dato e dell’ ufficio che con tale occasione fa meco, assicu randola che corrisponderò sempre alla sua amorevolezza con effetto di un’ottima volontà ». — 77 — dente , lo avea pregato di starsene tranquillo in Roma per un po’ di tempo e di non venirgli accanto se non quando egli stesso l’avesse chiamato. Ciò costituiva per Agostino un supplizio. Chissà? I Gesuiti avrebbero potuto lavorare di soppiatto e, spuntarla quando già egli si sentiva sicuro. E poi v’ erano quei benedetti debiti che , appena estinti con altri denari del fratello, si sarebbero dovuti rinnovare, perchè nessuno poteva viver d’aria nei « tempi penuriosissimi che corrono in Roma » e tanto meno un uomo del suo stampo. Eppure bisognava adattarsi: « Tirerò innanzi (diceva) e a somiglianza di coloro che penano in Purgatorio, andrò, con la sicura speranza della beatitudine che s’aspetta, racconsolando l’acerbità della pena che tormenta », e scongiurava il Molza ad essere il suo « Angelo consolatore » e chiedeva consigli ; ad esempio, se non fosse stato opportuno entrare in casa del tale o del tal altro, per dichiararsi già « in fatto non meno che in parole servitore di S. S. Ill.ma » ; e ogni giorno più, incalzava con 1’ animo eccitato, sospettoso, in preda a una trepidazione mortale (1). L’ ordine di portarsi a Modena capitò il 18 marzo. Trasse un respiro di supremo conforto. Non poteva però partir subito , come avrebbe desiderato, perchè stava proprio in quei giorni per coronare con la laurea gli studi di legge, che in quel periodo d’ozio avea compiuto. Ringraziava e domandava, senza tante cerimonie ormai, quale fosse « la provvisione solita dei gentiluomini del Sig. Cardinale », avendone bisogno per poter regolare definitivamente i suoi interessi con il fratello (2). S’addottorò il 24 di marzo. La laurea, per verità, non (1) App. I , lett. 20 febbraio, primo giorno di Quaresima 1618 , nu-neri 47-48. (2) App. I, lett. 18 marzo 161S, n. 50. - 78 - gli costò molta fatica. Anzitutto, altri cimenti e glorie si proponeva che quelle legali non fossero: riuscisse anche mediocremente, tanto per non dirsi del tutto inetto a quegli studi, e si sarebbe dichiarato conten-tone. Si era nel frattempo sparsa la voce, fors’anche per opera sua, che il Cardinal d’Este lo proteggeva e presto lo avrebbe chiamato al suo fianco. I professori della commissione esaminatrice, per deferenza o pei paura, desideravano quindi mostrarsi più che benevoli, ma non potevano celare la loro maraviglia pei la noncuranza con la quale il laureando si disponeva a quel passo. In fin de’ conti, venivan pur tratti a sorte dei temi e, anche avendo un buon corredo di cultura generale, bi sognava svolgerli: epperò studiarli prima, piepaiarvisi sopra, con buona volontà. Agostino invece non se ne cu rava gran fatto; il giorno fissatoci presentò a fi onte alta, parlò, discusse, sottilizzò; e tutto finì bene. « Piglia* quei benedetti punti (egli narra), datimi con tanta maestà e decoro romano, ch’io credeva di cacciarmi in coi po 1 An^ timonio che m’avesse tutto a scommuovere. Ma pur mi accorsi ch’era un leggerissimo sciroppo, con cui me ne andai attorno al solito. Si turbò forse 1’ assemblea dei Rabbini giuristi, parendo loro ch’io m'esponessi a pen colo di vergogna nel gran cimento. Con tuttociò non ristetti e studiando semplicemente sui testi i punti as^ segnati, senza stenderli in penna, ebbi che disputar i nuovo, e vi fu chi mi tenea escluso. Compai vi, dissi, partii, se non Dottore, almen Dottorato ». U° a**-10 punto di questa interessantissima lettera, nel quale egli si ride un mondo col Molza della sua laurea, ci dispensa da ogni ulteriore commento: « Io son Dottore! In vii tu del Sig. Cardinale d’Este si fanno di queste mostruose metamorfosi. Pochi giorni ha che non era pure scolate, ora mi trovo saltato a piè pari nel Dottoresmo ; e non — 79 — so come. Porterò il privilegio meco, perchè pretendo con V. S. giostrar del pari e poter chiosar que’ testi che nel proprio sentimento mi riuscissero oscuri. In verità eh’ io mi scoppio dalle risa quando considero la bufifolaggine de’ legulei che tant’all’insù s’allacciano la giornèa. Povere cause patrocinate da cosi dotti avvocati ! Infelici tribunali tiranneggiati da così letterati giudici! Giuro a V. S. per lo Caduceo di Mercurio che non ho veduto mai messeraggine più sciapita »! (1). Partì, facendo la via di Sarzana per provvedere ad alcune « cosette » e visitar sua madre. Vi si trattenne durante le feste pasquali; indi mosse verso la Corte di Modena con la mente piena di mille fantasie e il cuore riboccante di speranza. (i) App. I, lett. 24 marzo 161S, n. 51. CAPITOLO III. ALLA CORTE DEL CARDINAL D’ ESTE Vita tranquilla. — Incontentabilità d’Agostino. — Prima rottura col Testi. — Partenza per Roma. — L’ accademia degli Umoristi. — Le accademie in casa del conte Gonzaga e del Cesarini. — Trattenimenti invernali ed estivi presso il Cardinal d’Este. — Agostino prende a scrivere un’opera ad esaltazione del suo signore. — La interrompe e perchè. — Prodromi di burrasca. — Un avvenimento terribile. — Il Testi tenta invano di «scavalcare » Agostino. — Agostino cede al fratello Giovanni un vescovado offertogli. — Morte di Paolo V. — Agostino legge l’orazione de subrogando pontifice innanzi ai Cardinali. — In Conclave — L’elezione del Ludovisi. — Agostino perde una bella occasione di far fortuna. — Non se ne dà pace. — Il libello sul Conclave. — L’ Anticonclave. — Il velen dell’argomento. — Conseguenze. — Agostino accusato. — Colloquio col Cardinal D’ Este. — Il nembo s’addensa. —: Allontanamento d’Agostino dalla Corte. — Carteggio tra il Cardinal D' Este e il duca di Modena sulle presenti circostanze. — Gli offesi insoddisfatti. — Licenziamento d’Agostino. — Le ultime nuvole all’ orizzonte. — Il « disordine » è finito. |sp||||NTRò dunque al servizio del Cardinale nell’aprile 1618 e presso di lui trasse per qualche tempo vita riposata e onorevole, alternando le occupazioni burocratiche con gli esercizi delle lettere belle. È appunto di quest’anno l’interessantissimo componimento critico sopra un poemetto intitolato La Cometa, ov’ egli, rivolgendosi all’ amatissimo Molza, stigmatizza con acute e assennatissime osservazioni Io stile gonfio dei contemporanei (1). (i) Arte, ed. cit., pag. 467. — Il discorso è pubblicato a p. 62 e sgg. dell’ ed. cit. delle Prose vulgari. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Voi. XLII. 6 — 82 — Continuava intanto a vestire l’abito ecclesiastico, che conveniva assai alla sua servitù presso un principe della Chiesa ; ma restò d’ allora al secolo, nè mai tentò, più tardi, di ritornare a far parte di qualche ordine religioso , sebbene gli riuscisse facile per nuove potentissime protezioni. Ch’egli fosse proprio contento del suo stato, non si può dire. Le nature come la sua sono e dovran sempre essere insoddisfatte, giacché, con la mente popolata da mille sogni, oltrepassano, senz av vedersene, i giusti limiti del desiderabile. Una lettera scritta a Niccolò Strozzi, canonico fiorentino, il 18 di giugno dell’ anno appresso, nella quale egli domanda « una minuta informazione delle qualità del Segretario del Sig. cardinale de’ Medici, della provvisione che ha da S. S. 111.”“, del trattamento esterno, se sia uguale a’ Camerieri e altri Gentiluomini che assistono alla Per sona del Padrone; se ha libero l’ingresso nella camera del Cardinale senza eh’ altri faccia ambasciata, se va mai in compagnia del Padrone in cocchio, e cose si mili........ », indurrebbe a sospettare ch’egli mirasse i lasciar forse il suo posto per altro più rimunerativo o in ogni modo brigasse per ottenere un miglioramento dal padron suo (1). Le sue relazioni con gli altri cortigiani erano discretamente buone. A qualcuno foise di spiaceva solo quel tono di alterigia che sempre più egli aveva assunto, trovandosi ora in condizione da sfidar nemici grandi e piccoli. Più di tutti dovè aversela a male il Testi, che ardeva dal desiderio di primeggiare in ogni occasione. Non crederei già che Agostino gli (i) App. I, lett. 18 giugno 1619, n. 56. Il canonico Niccolo Strozzi, fratello di Carlo, che fu il genealogista della famiglia Barberini, compo neva versi toscani (Allacci, Apes urbanae, ed. cit., p. 288), e si era ri volto al Mascardi pregandolo di presentare ai principi di Modena i saggi poetici di G. Batt, Strozzi e i suoi stessi. — 83 — facesse qualche sgarbo nè che quegli temesse di trovar serio ostacolo al libero svolgersi dei suoi ambiziosi disegni, nel segretario di una Corte perfettamente separata. Insignito com’era della Croce di S. Maurizio, fregiato del titolo di Virtuoso di Camera del Duca stesso, onorato di parecchie aggiunte allo stemma gentilizio, Fulvio Testi poteva dirsi il più fortunato e invidiabile cortigiano che respirasse sulla terra. L’ amicizia fra i due s’era raffredata così, senza ragioni particolari, come spesso avveniva nei mutabili e difficilissimi ambienti di corte, ove la menoma gloria o fortuna d’alcuno infiammava d’improvvisa invidia l’animo di altri, anche se questi altri dovessero riconoscersi più favoriti di chi cominciava a salire. Giustamente il Boccalini avea da poco scritto che tutte le corti italiane « erano bruttamente empite di quelli spiriti maligni che studio peggiore pongono nello sconcertare i fatti altrui che in bene i propri » (1). Perciò il Mascardi doveva esser sincero quando, il 14 di ottobre, rispondeva con queste parole alla preghiera dello Strozzi d’intercedere presso il poeta per ottenerne qualche componimento: « Ben le fo sapere che, sebbene io sono al Testi amico di buona volontà, non ho però seco molta fortuna, siasene la cagione ciò che si voglia » (2). Nel marzo dell’anno appresso il Cardinale Alessandro passava a Roma e naturalmente lo seguiva il Mascardi, salutato, al suo allontanarsi da Modena, con questo poetico augurio , che, a nome di tutti gli amici, avea composto Ottavio Menino : (1) Ved. il passo dei Ragguagli e alcune considerazioni in proposito, nello scritto di Leopoldo Galeotti , Traiano Boccalini e il suo tempo, in Arch. stor. italiano, N. S., to. I, 1855, p. 140. (2) App. I, lett. 14 ottobre 1619, n. 60. - 84 - Cultor o Heliconij recessus, et umbra nemorum sacratiorum, Mascarde,....... .......Deos rogabo ut hoc eximio tuo lepftre rari dotibus ingenique captus, te Tibris pater et beata dignis Roma tollat honoribus merentem (i). La prima intenzione del Cardinale era quella di ri tornare, appena sbrigate alcune faccende, in Lombar ìa, ma presto ei s’ accorse di doversi fermare più a lungo nella nuova dimora; e poi decise di stabilir visi definiti vamente (2). Così il Nostro si trovava ancora in mezzo al « fumum strepitumque Romae », non più scolaro, povero , reietto dai superiori, ma con un’ occupazione onorevole e un padrone per allora amoroso e potente. Il posto di segretario, specialmente a Roma, piess0 Cardinale di così illustre origine, non era certo ritenuto piccola cosa; e « vi concorrono (scriveva un contem poraneo), allettati dai premi e dalla fortuna........ uomu di lettere e di qualità, che stanno osservando 1 occasioni d’esser adoperati e tutti aspirano di crescere » (3)- Roma in quel tempo non era così dedita alle letter come fu poco appresso sotto Urbano Vili, un pontefice poeta e mecenate liberalissimo : Paolo V non teneva in niun conto gli studi; e, se pure, in conto di vanità. Ciò non ostante, si credeva esser quella città un luogo prova per i letterati, giacché spesso tanti di essi, che (1) Sylvae, lib. II, p. 107. Traduco alla buona : O Mascardi, cultore dell’ Eliconio recesso , ombra dei sacri laureti....... invocherò gli Del ’ affinchè il padre Tevere, conquiso da questa tua poetica venustà e dalle virtù del raro ingegno, e la beata Roma te levino a degni meritati onori. (2) App. I, lett. 1 maggio 1620, n. 65. (3) Panfilo Persico, Del Segretario , in Roma, per Michele (Tortellini, 1655, p. 9. avevano raccolto altrove il maggior plauso, vi cadevan presto nel più desolante oblio (1). Furoreggiava allora l’accademia notissima degli Umoristi, eh’ era stata fondata al principio del secolo e si teneva in una sala del palazzo Mancini, intervenendovi il fiore della cittadinanza intellettuale , non escluse le dame, per le quali s’ era costrutta una loggia speciale. Il primo a parlare era stato il fiorentino Zarattino Castellini : il primo argomento svoltovi un’ orazione........ sulle barbe. La futilità vi s’ era fatta consuetudinaria. Il Tassoni, che non difettava certo di buon umore , v’ avea poi sostenuto i suoi più giocosi paradossi, col darsi a riprendere Amore, a censurare Aristotile, a indagar l’utile e il danno degli studj. Basti dire che poi fu presidente il Marini e che tutti i soci, chi più chi meno, furono, attorno a lui vivo, e anche dopo la sua morte, marinisti. Era insomma un agone per chi le diceva più grosse e più sciocche, salvi sempre gli adornamenti e gli orpelli formali, che costituivano la maggior gloria degli oratori e dei poeti, nonché il più gradito diletto degli uditori. Tutti in ogni modo afferma 1’ Eritreo, vi si riunivano con grande concordia, senza invidie, senza maldicenze, anzi prestandosi vicendevole aiuto e ammirazione (2). Il Mascardi vi fu aggregato , ma non subito dovea farvi udir la sua voce. (1) Agostino Favoriti, Virgini Caesarini vita, in Septem illustrium virorum poemata, ed. cit., p. 424. (2) Erithraeus, Epistolae ad diversos, to. I, Coloniae Urbiorum, apud Iodocum Kalcovium et socios , MDCXLV , lib. IV , ep. 2 , p. 123. Su questa accademia ha dati ragguagli diffusi il Tiraboschi, Storia della lett. it., VIII, P. I, p. 68 e segg. dell’ed. cit. — Ved. pure Mario Men-ghini, Tomaso Stigliarti, in Giorn. Lig., XIX, p. 108; Ciampi, Un periodo di cultura in Roma, in Arch. della Soc. Rom. di St. Pat., I, p. 419, e sgg. ; e Luigi Gerboni , Un umanista nel seicento , Città di Castello, 1899. Il Tassoni raccolse la materia dei discorsi tenutivi, nei dieci libri dei suoi Pefisieri diversi. — 86 — Uno dei suoi più eruditi discorsi, sopra un testo del libro V della Politica d’Aristotile, fu invece da lui letto in casa del conte Alfonso Gonzaga, che poi di venne arcivescovo di Rodi, nell’occasione dell apei tura di un’ accademia privata, e per enumerare i vantaggi che vengono alla vita aristocratica da consimili tratte nimenti (1). Chiusasi quest’ adunanza per la partenza del Conte, si diè a frequentare quella instituitasi in casa dell’ amico suo carissimo Virginio Cesarini, alla quale accorrevano il Ciampoli, il Testi, il Barclay, Giulio Strozzi; personaggi che incontreremo nel corso di questa biografia (2). In casa del Cardinale si teneva spessissimo ti attera mento scenico. Vi conveniva — narra un cronista e visu — il « tuono » di Roma: i colleghi porporati, le dame più illustri, i cavalieri più nobili; e il Principe vi offriva « scena superbissima et una colatione di confet teria di Genova e Napoli » sontuosissima, « comeccht talvolta la spesa eccedesse di 2000 scudi » (3)> D estate poi il potente signore si ritirava nella sua villa di i voli, fatta costruire dal card. Ippolito , figlio d Alfonso d’Este, Duca di Ferrara: e ciò tornava molto gì adito al Nostro che già da molti mesi cominciava a soffrir l’aria di Roma ed era di tanto in tanto costretto a te (1) Prose vulgari, ed. cit., p. 54. Che il discorso fosse pronunciato m Roma verso questo tempo , non è da dubitarsi, poiché trovasi già ne prima stampa delle orazioni del Nostro, fatta durante il suo soggiorno a Genova, per Giuseppe Pavoni, nel 1622. Così più innanzi citerò , ove occorran le prove della cronologia assegnata ai vari componimenti e ai casi della vita, anche le edizioni anteriori a quella completa delle Prose vulgari, a cui di solito, per maggior comodità mia e del lettore, mi ri ferisco. (2) Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, to. V, Parma, Stamp. Reale , 1797 , p. 95 ; e Vita di Sforza Pallavicino , preposta al-l’ediz. delle sue opere, Roma, 1845, I, p. 21. (3) Ciampi, op. cit., p. 423. — 87 - nere il letto per febbre. Nemmeno in villa del resto si passavano troppe ore in ascetica meditazione. Ecco in qual modo descrive quel soggiorno il Testi: « Il numero delle meraviglie confonde l’intelletto e l’abbondanza dei soggetti fa sterile la mente di concetti e di parole...... I boschi che forman spalliera sono immensi, ma gli scherzi dell’ acqua sono infiniti: una fontana suona un organo ed a voglia di chi il comanda varia il concento. Gli antichi non arrivarono a questa squisitezza di delizie nè seppero far mai 1’ acque armoniose nè dar lo spirito alle cose insensibili......La mattina, udita la messa, chi se ne va a passeggiare per gli oliveti, chi giuoca a palla corda, chi alla pilotta, chi al maglio, e chi studia e chi discorre ». E poi pranzo; poi dadi, carte, libri, conversazioni. « La città, benché non molto popolata, serba le vestigia di una venerabile antichità; è coronata di collinette fertili di vigneti e di oliveti ; si vedono i ruderi delle ville di Mecenate, Quintilio Varo, A-driano » (1). Negli ozi di quella villeggiatura, il Nostro, prestamente rimessosi dai suoi disturbi, andava elaborando « un’ istoria , nell’ accozzamento delle parti favolosa , ma verace nelle parti distinte ; ed era intitolata Tiburno e cantar dovea la fondazione di Tivoli, con le conseguenze degli avvenimenti e dei tempi, in grazia principalmente del Cardinale Alessandro D’Este ». Condusse il lavoro a buon punto; e tutti coloro che ne lessero le parti scritte, ebbero parole di viva ammirazione: il Molza, il Fontana, il Cesarini. L’opera tuttavia rimase interrotta e solo egli ne serbò e ne divulgò quei brani che si trovano nella raccolta delle sue prose volgari, col titolo di Declamazioni di Zenobia e delle sue figliuole. (i) App. De Castro, Fulvio Testi e le corti italiane nella prima metà det XVII secolo, Milano, Battezzati, 1875, p. 32. — 88 — Più tardi egli stesso, in un luogo deWArte istorica, spiegava il latto dell’ interruzione col dire che , capitatagli in mano, in una delle sue visite alla casa del Cardinale di Santa Susanna, YArgenide di Giovanni Barclay, non si senti più il coraggio d’ « incontrare, ancorché in Hnguaggio diverso, un paragone...... sì formidabile » (1). Potrà darsi che l'immenso successo ottenuto da questo loi tunato romanzo, tradotto due volte alla distanza di pochissimi anni (2), vi contribuisse in gran parte: ma una lettera, con la quale Agostino inviava il primo libro linito del suo Tiburno al Molza, spiegherebbe ben altrimenti la cosa: « Il primo libro è finito, degli altri v’è 1 orditura; s’anderà tramando la tela, se la lucerna al cui lume si tesse, per difetto d’olio non minaccia d’estinguersi. Ma temo forte; ed ho cagion di temere- Io non posso viver di lodi d’uomo ingegnoso, mentre provo gli incomodi di povero cortigiano. Certi uomini, che soverchiamente s’allungano, divengon gracili e poco vivono. Le speranze in questo hanno proporzione con la vita degli uomini; oltreché potrei dirle tal cosa che forse la muoverebbe a pietà, se non procurassi col tacere di vincere in qualche modo la malignità della mia fortuna. D ottimo vino si fa perfetto aceto; e non lo dico in latino per non parere pedante. La simpatia cangiata in antipatia non si può tollerare. Ma il luogo è sdrucciolo assai e la penna facilmente trascorre. Mandimi V. S. una cifra, che le scriverò cose belle » (3). Qualche cosa di grave si delineava sull’orizzonte: forse il Mascardi avea cominciato a disgustare il Cardinale e andava accorgendosi di un mutamento ben chiaro nel suo con- (1) Arte, ed. cit., p. 467. (2) Albertazzi, Romanzi e romanzieri del cinquecento e del seicento, Zanichelli, 1891, p. 161. (3) App. I, lett. 12 agosto 1620. n. 70. - 89 - tegno. Certo quell’opera, palesemente adulatoria, poteva riuscire inutile o intempestiva, se si fossero inaspriti i rapporti Ira padrone e servitore. Era meglio lasciarla a mezzo e occuparsi d’altro. Ma s’andava sempre di male in peggio, giacché rincalzava, il 16 di gennaio del 1621: « La fortuna non fu mai più vogliosa di schernir questa Corte: chi vola con incognito favore e si ritrova nel termine senza sentire i disagi della strada, chi dopo lungo incespare e insanguinare il sentiero pur giunge alla mòta e chi rompe dopo esser si può dire arrivato al suo line. Non si può lasciar libero il corso alla penna, perchè le carte sono depositarie troppo infedeli di segreti che posson nuocere » (1). Il torbido, più che dalla parte del Cardinale, gli pareva dovesse esser da quella dei principi di Modena. E s’arrovellava per venirne a capo, ma invano. Vera forse lo zampino dei padri Gesuiti, che bazzicavano continuamente nelle aule del Duca? Che ragione d’ altronde poteva avere il Cardinale per tacere con lui, servitore così devoto e zelante? Mentre il nostro volgeva in mente pensieri di tal sorta e li esponeva nelle sue lettere all' amico fidatissimo, gli capitò improvvisamente un fatto che tolse ogni dubbio. Il Duca, rispondendo alla lettera d’augurio che egli aveagli spedito per Capodanno, s’esprimeva in una maniera « contegnosa », non più dandogli il solito titolo d'Illustre, ma discendendo a quello di « molto magnifico, con le conseguenze ». Nientemeno! La cosa gli parve gravissima. Si comprenda quanto avesse a riuscir triste la condizione di cortigiano in questo secolo, se una semplice mutazione di titolo potea credersi segno di sciagura ! E poi v’ erano oramai per Agostino dei nemici dichiarati in certi personaggi che prima erano (i) App. I, lett. 16 [gennaio?] 1621, n. 76. — go — solo nemici sospetti: fra costoro, Fulvio Testi- Questi, trovando troppo angusta la Corte di Modena pei i suoi sogni, s’era portato a Roma, come altri moltissimi, con la speranza di trovar posto presso qualche cospicuo cardinale e aver luogo e fuoco e carrozza per sè e per la famiglia, e una provvigione annua di trenta o quaranta scudi il mese. In particolar modo avrebbe gradito l’ufficio di segretario occupato dal Mascardi ; chè, sebbene non ne fosse poi così lauta, com’ egli desidei ava, la mercede, v’era pur modo, ottenendolo, di cavar seia de gnamente. Brigò quindi presso parecchi a quello scopo, ma, disgraziatamente per lui, « vomitò il suo pensici o » in orecchie molto amorevoli verso chi avrebbe voluto soppiantare. Il Mascardi riseppe ogni cosa, dissimulò in apparenza il proprio giustificabile risentimento e riuscì a stornare di soppiatto il tentativo. Ne sogghignava poi fra i denti col Molza : « Venne con grande applauso, si fermò con molta mortificazione ; è partito con vani disgusti. Credette di scavalcar altri, e su gli occhi di lui si mutò sufficientemente la scena. Gran veleno 111 animai così piccolo; ma intollerabile ingratitudine in uomo tanto onorato da me!....... Ma raffreno la penna, e mi prorisce la lingua; chè, se fossi vicino, quanto direi ! Mostri, o mostri grandi » ! Quell’azione sleale contribuì a « infiammare » in lui « il desiderio della ser vitù che per mille disgusti era poco meno che raffreddato » (1). Egli era in fin dei conti attaccatissimo al Cardinale, alle corti, a Roma. Lo dimostra anche il fatto che, proprio in quel torno, rifiutò il vescovado di Neb-bio, offertogli dal padrone. La proposta avrebbe reso contenti chissà quanti altri, che, senza mezzi di sorta, e pur forniti di largo ingegno e di sincera vocazione re- (i) App. I, lett. 20 [gennaio?] 1621, n. 77. — gì — ligiosa, miseramente vedevano abortire ogni speranza sotto i colpi della capricciosa fortuna. Ma il Nostro non se ne compiacque, forse perchè pensò che vi fosse sotto un maneggio per toglierlo tranquillamente di mezzo. Del resto egli ben capiva che, per indole e anche ormai per abitudini contratte, non si sarebbe sentito nè degno nè capace di adempiere ad un ufficio di quel genere. L’occasione po.teva invece tornar propizia al fratello, canonico Giovanni, che era venuto in Roma il 24 di ottobre dell’anno precedente e vi dimorava tuttora in attesa di buona ventura; e Agostino, condotte a buon fine le pratiche necessarie, gli « caricava » il vescovado senz’ altro , ben persuaso eh’ egli avesse « spalle più proporzionate al peso e natura più sofferente » (1). Per tutte queste ragioni il cruccio di quel « molto magnifico » si faceva molto più acuto. Ne scrisse al Molza: « Io sono servitore vero alla Serenissima Casa e ricevo in bene qualunque cosa mi venga da cotesti Principi, nondimeno, perchè scrivendo pochi dì prima il Sig. Cardinale allo Scappinelli dichiarato segretaiio, lo trattò di molto magnifico, è caduto in pensiero a S. S. Ill.ma e a me che il Principe, per andar del pari, abbia meco introdotto questa foggia dimessa; o che forse lo Scappinelli, per uguagliarsi, si sia ingegnato di deprimermi. Prego intanto V. S. ad intender destramente d’onde proceda la mutazione e a motteggiarne in mio nome nel modo che le detterà la piudenza, avvisandomi puntualmente di quanto ìipoiteià pei risposta » (2). Ma il Molza, che probabilmente già sapeva qualcosa delle idee del Duca, taceva, o pei pietà o pei prudenza, e solo s’occupava, nelle sue risposte, ditiat (1) App. I, lett. 16 e 20 [gennaio?] 1621, nn. 76 e 77, (2) App. I, lett. 20 [gennaio?] 1621, n, 78. tare le quistioni giuridiche pendenti dal suo patrocinio in Roma, resistendo imperterrito a nuovi impulsivi attacchi epistolari (1). Era intanto morto Paolo V, senza largo rammarico della Corte. Il notissimo Gaspare Palloni, canonico di S. Pietro, avea recitato il discorso per le esequie; Lelio Guidiccioni, poeta di grido e facondo oratore, quello per il trasporto (2). Bisognava ora trovare in Roma un valentuomo che degnamente pronunciasse, innanzi ai Cardinali, l’orazione De subrogando Pontifice. Dietro suggerimento di Maffeo Barberini e del Borghese, due Cardinali fra i più in vista, fu proposto, con altri, il Mascardi. Venuti ai voti, questi risultò in ballottaggio con monsignor Ginetti, proposto da Farnesi: in seconda votazione prevalse. Questa volta il Nostro aveva la soddisfazione di poter dire che il Card, d’Este non entrava con « manifattura alcuna » in quel negozio, giacché non avea saputo della scelta che assai tardi e forse con suo poco gusto (3). Si trattava, è vero, di compiere una formalità, ma intanto un intero consesso di Cardinali avrebbe doluto ascoltare raccomandazioni, norme, consigli dalla bocca di lui, d’Agostino, d’un prete trentenne e al secolo. V’era di che andarne glorioso. Inoltre, fra questi principi della Chiesa, si trovava pur uno che avrebbe dovuto riuscir Papa in Conclave: e non danneggiava certo 1’ essergli innanzi in siffatta occasione. Radunatosi il Conclave, il Mascardi, nella sua qualità di segretario, potè poi prendervi parte e « spiar curiosamente ogni cosa ». Riuscì eletto il Cardinal Ludovisio, e la solenne elezione dipendeva dalle seguenti vicende. ^i) App. I, lett. 23 [gennaio?] 1621, n. 78. (2) Moroni, Dizionario d’erudizione ecclesiastica, to XLIX, p. 51. (3) App. I, lett. 3 febbraio 1621, n. 79. Il discorso fu pubblicato nele Prose vulgari e porta la data dell’ 8 di febbraio. — 93 — Subito era stato escluso il Card. Aquino, impegnandosi senz’altro « la battaglia » sopra il Campora, ch’era ammalato e si trovava in una cella, presso l’Aula Magna. Sosteneva questo « soggetto » un gruppo di porporati, a capo dei quali si trovava il Borghese; lo combatteva a tutto potere l’Orsino coi suoi. Accaloratasi la discussione, il Borghese stesso cominciò a cedere e a rivolgere i suoi pensieri sul Ludovisio, nè amato nè perseguitato prima dagli altri , bensì subito acclamato senza contrasto , perchè gli escludenti del Campora ebbero per gran ventura che si lasciasse loro libero il campo. Ma 1’ elezione del Pontefice, se riusciva interessante e importante per gli interessi della Chiesa, non era poi tutto: occorreva badare anche al nipote, che potea dirsene il braccio destro. E il Mascardi scriveva frettolosamente all’ amico, ragguagliandolo dell’ esito e avvertendo che « il Nipote è in concetto a tutta la Corte di uomo di molto spirito , integrità e sapere, benché sia giovane » (1). Buon per lui se altro giudizio non avesse divulgato poco dopo, imprudentemente, circa quell’astro spuntante nel cielo della vita romana! Ben presto gli capitava una nuova disavventura, a cagione di quella stessa notorietà eh’ avea saputo acquistarsi nella città eterna. Appena eletto il Pontefice, il Cardinale Ludovisio, suo nipote, s’introdusse nottetempo in Conclave e cominciò a negoziar con alcuni Cardinali suoi stretti confidenti, per trovar le persone più idonee (i) App. I, lett. io febbraio 1621, n. 80. Era il nipote Ludovisio Lu-dovisi nato in Bologna ai 22 di ottobre 1595 e dal grado di semplice referendario salito a quello di Cardinale per volontà di Gregorio XV, nella prima creazione da lui fatta il 15 febbraio dell’anno istesso della sua elezione. Il Muratori (Annali d'Italia, vol. XV, Milano, Società Tip. Classici It., 1820, p. 283) scrive di lui: « giovane di gran talento che sollevò di lì innanzi il quasi settuagenario zio dalle fatiche e regolò gli affari non meno con lode che con arbitrio supremo ». — 94 — a formar la sua Corte. Si stabilisce di prendere il Mascardi, che viene avvertito della decisione la mattina appresso, mentre conduce il Pontefice all’adorazione in S. Pietro. Gli si raccomanda però che lo stesso Cardinal d’Este abbia a proporlo. Come fare? 11 posto che in questa guisa gli procurava il destino, presso uno dei più potenti personaggi della Chiesa, era davvero quanto si potesse desiderare dal più ambizioso degli ambiziosi: ma era quasi certo che il Cardinal padrone, per ripicchio o per altro, avrebbe acconsentito malvolentieri, quando non rifiutato del tutto. E così purtroppo avvenne. O licenziarsi definitivamente dal suo servizio o restar con lui — rispose il Cardinale. E il Mascardi non ebbe il coraggio di abbandonare l'ufficio attuale, un po’ perchè non sapeva fare affronto a chi sempre lo avea beneficato — e ciò sia detto a suo onore — e un po’ anche perchè temeva di commettere un nuovo errore, posto che potesse di momento in momento morire il Pontefice eletto, già grave di quindici lustri, e con lui scomparire la potenza del Cardinal nipote. In ogni modo egli dovè, anche questa volta, inveire contro la sorte che pareva schernirlo ogni giorno più; e scriveva al Molza: « V. S. sa le tragedie, direi, passate, se la continuazione loro non le facesse sempre presenti con la tolleranza e sempre future con la temenza. Confesso nondimeno che quest’ ultimo colpo m’ ha istupidito in maniera che non ho senso neanche di dolermi. S’io conoscessi in questo negozio un solo e semplice motivo fondato su la ragione, me lo porterei in pace francamente, ma rompere il corso d’una buona sorte nascente, senza sapere il perchè, Sig. Conte mio, è calice troppo pieno di fiele schietto, senza correttivo che l’addolcisca! » (1). Ahimè, tutto questo era ancor nulla in con- (i) App. I, i di Quaresima 1621, n. 82. — 95 — fronto d’altro che doveva indi a poco spezzare davvero il corso delle sue ben nutrite speranze ! Quando il nuovo Papa saliva al trono, era consuetudine in Roma che non solo gli Avvisi, ossia i giornali del tempo , narrassero come s’ era svolto il Conclave, ma uscissero anche su questo dei resoconti raggua-gliatissimi, che molte volte servivano a compier le private vendette di qualche escluso (1). In quella circostanza uscì infatti col nome di Conclave, un libretto diffamatorio , che il Mascardi non mandò neppure agli amici, tanto lo ritenne « vituperoso » e contrario alla verità (2). Vi si voleva — egli afferma — nientemeno che « contaminare la più importante, sincera e sacrosanta azione di cui è capo lo Spirito Santo, con mescolanza di trattati infedeli, di pratiche venali, di risse, di mancamenti di parola, di sedizione, di minacce, di calunnie, di contratti simoniaci e in una sola parola ......ridurre l’elezione del capo della S. Chiesa a una apertissima scuola di tradimenti e di perfidie con irrimediabile offesa di tutta la Repubblica Cristiana; » in particolare poi infamare il Campori e instillare nel Ludovisio un grande odio contro Borghese e il Campori e i loro fautori. Avvisava pertanto che presto sarebbe uscito alla luce un altro Conclave «migliore». Questo secondo Conclave, opposto al primo che si seppe essere opera dell’Ubaldino, lo scrisse — il lettore lo avrà già supposto — egli stesso, il nostro Agostino, serbando tuttavia l’incognito ; e cercò di « raccontar schiettamente , senza commenti, riflessioni e discorsi, quel che di notabile passò nell’elezione di Gregorio XV, e dimo- (r) Ved. in proposito un’interessantissima lettera di Vincenzo Ar-manni a Costantino Ranieri, Lettere, II, Roma, Iacomo Dragontelli, 1663, p. 206. (2) App. I, lett. 6 marzo 1621, n. 83. — 96 — strare, per via di esclusioni, che nessuno dei Cardinali viventi poteva aver perpetrato tante empietà quante s’annoveravano nella scrittura divulgata. Senonchè qui stava in gran parte il velai dell’ argomento, poiché quelle stesse ragioni ch’egli esponeva per liberare ciascun Cardinale dall’accusa, erano tali da metterli tutti, per altri riguardi, in foschissima luce. Così escludeva che potesse esserne autore il Card. Borghese, perchè giudicava « troppo vituperevole l’ingratitudine », in tal caso , di chi era stato « innalzato a dignità così eminente nel mondo e tolto forse dallo stato miserabile di una poverissima condizione, in tempo che la fortuna, intesa alla grandezza d’altri, gli aveva voltato le spalle »: non poteva essere — continuava — l’Ubaldino, perchè il libello era scritto da uno stolido ed egli invece « prolessava di saper molto non solo delle cose del mondo, ma eziandio di lettere e specialmente umane »; non il Borgia, che aveva dimostrato ben poco carattere nel .Conclave « come nel governo di Napoli s’ era mostrato più capace all’ obbedienza che all' impero, dandosi in preda ai liberti che l’aggiravano col fargli commettere mille mancamenti eh’ hanno disgustato i più principali signori di questa corte ». Riguardo poi al Cardinal Ludovisio, potentissimo nipote del nuovo Pontefice, giudichi l’accorto lettore quale difesa impostava il Nostro : « Che poi si possano per questa strada render odiosi al Cardinal Ludovisio, Campori e suoi amorevoli, è vanissima vanità. Primo perchè non troverebbe fede nell’ animo del nuovo nipote che 1’ ha rotta a Borghese suo benefattore principalissimo.......Ma questo non si de’ vedere del Card. Ludovisio, il quale, come intende benissimo di esser entrato al maneggio del mondo con grandissimo applauso e al comando assoluto, non vorrà corrompere le speranze della corte, la quale aspetta dalla sua mano ————————— — 97 — un governo santissimo e generosissimo, e si persuade di goderne gli effetti, se quel Signore non si lascerà contaminar 1’ animo suo dai fiati pestilenziali di consiglieri sordidi e pieni di rabbia....... Ludovisio (poi Papa Gregorio XV) passava per abile ma si temeva la natura del nipote e il parentado con gli Aldobrandini e Colon-nesi....... ». Insomma ce n’era per tutti; con meno acredine forse verso il Bevilacqua, lo Sforza, il Capponi e gli altri meno cospicui (1). L’effetto di quella pubblicazione che corse, non pur Roma, ma infinito numero di città, inviandosene subito copia ai vari principi, fu addirittura vulcanico. Ne uscirono mortalmente offesi il Ludovisi, il Borghese, il Borgia e per contraccolpo anche gli altri, che temettero fossero ironiche persin le lodi. Il Ludovisi specialmente mise sottosopra tutta Roma per iscoprirne l’autore, finché qualcuno ebbe a mormorargli all’ orecchio il nome del Mascardi. Si recò allora direttamente dal Cardinal d’Este e il colloquio eh’ ebbe secolui non dovè certo suonare encomio all’ indirizzo dell’ incauto segretario. Il D’ Este in fin de’ conti 1’ amava sempre e sopratutto 1’ ammirava, ma nel tempo istesso non poteva disgustare il nipote del nuovo Pontefice in quest’occasione, massime essendo chiarissimo 1’ oltraggio e vano ogni tentativo di difesa. Prese intanto tempo e interrogò vagamente il Mascardi. Questi negò recisamente innanzi al Cardinale, ma, comprendendo che l’uragano era inevitabile, si rivolse subito al Molza per sapere di che proprio lo si accusasse. E veramente egli ignorava quale fosse il punto incriminato della scrittura. L’amico, che, pur riconoscendo le doti del suo intelletto, avea ormai una giusta opinione del suo carattere, più che adatto a stuzzicare, per am- (i) Ved. Appendice II. Atti Società Ligure Storta Patria. Vol. XLII, 7 - 98 - bizione od oltracotanza o solo anche per inavvedutezza, vespai di quel genere, rispose che non sapeva trovar nulla a sua discolpa, che l’affare era questa volta gravissimo, irreparabile: e ci voleva pazienza. E il Mascardi a farsi sempre sotto, senza ricavarne un ette di più: « Ma che opposizioni son coteste, alle quali V. S. sì francamente s’oppone per mia difesa? Si trova chi m’invidia per avventura lo stato in cui mi ritrovo? Dio gli faccia provare, non tanto per mia vendetta quanto per sua istruzione, le amaritudini che de’ apportare ad un uomo di senso il vedersi ristretto come son io, e V. S. per favorirmi si degni d’ accennarmi in che son stimato mancante, perchè qui il Padrone non ha saputo apportare altro pretesto che Tesser io troppo buon servitore per lui. Non manchi, Padron mio, di parlarmi più chiaramente! » (1). Il Duca di Modena, interpellato a sua volta, non avea per lui che parole misteriose, di questo sconfortante tenore: « Intorno al particolare di che V. S. mi tiene con la sua lettera delli otto, mi occorre dirle in risposta che mi spiace grandemente d esser in stato tale che anche volendo non potrei consolarne V. S. » (2). Ma certo il Duca non sapeva per allora più di quello che ne sapesse il Molza : si teneva sull’ avvisato e intanto domandava esplicite notizie al fratello Cardinale. È facile immaginare che cosa avvenisse intorno alla persona del nostro Agostino, L’incidente, essendosi risaputo, si propagò velocemente per tutti i corridoi, per tutte le sale di quel mondo sfaccendato e intrigante che fermentava in Roma; sicché le file dei suoi nemici andarono sempre più ingrossando per l’affluirvi di coloro (1) App. I, lett. 9 marzo 1621, n. 85. (2) R. Arch. di Stato di Modena; Carteggio ducale — Letterati: lettera 20 marzo 1621. — 99 — che gli avean fatto buon viso fino a quel giorno, solo perchè tenea le chiavi del cuore di tanto padrone. A questi infine s’aggiungevano i veri colpevoli di tutto quel negozio: coloro cioè che in casa Ubaldini avevano elaborato il primo Conclave ed erano stati sferzati a sangue dalla scrittura del Mascardi, fino a riceverne il titolo di « vigliacchi ». Il Nostro si sentiva esaurito a forza di sospettare, pensare, temere; e non vedeva oramai altro scampo che in un esiglio. « Veggo (scriveva) un cielo assai minaccioso. La nostra sicurezza è fuor del giro dei sette colli » (1). Ma non gli occorse molta fatica per riuscirvi. Il Cardinal d'Este, pressato sempre più dal Ludovisio, si decise finalmente a toglierselo di mezzo e inviarlo a Genova il 12 di giugno del 1621, sempre ai suoi servigi, facendogli però intendere che tale allontanamento sarebbe stato la panacèa di tanti mali e che, non appena passata la burrasca, lo avrebbe richiamato 'a Roma. E ne avvisava intanto il Duca con questa lettera cifrata: Ser.mo Sig.r mio e Fratello Oss.mo Poco dopo la creazion del Papa, si vide un Conclave uscito , per quanto s’ è detto comunemente , di casa d’ Ubal-dino. Si tocca in esso con termini poco decenti la fama e riputazioni di Campori, e si motteggiano con varie false imputazioni molti Cardinali suoi aderenti. Si è scoperto all’ incontro un’ altra scrittura, che, biasimando il detto Conclave, ripruova con diversi argomenti tutte le sue bugie. Di questa s’è fatto autore il Mascardi, ma egli assolutamente lo niega. Parlandosi accidentalmente del Cardinale ora Papa, mostra ch’ei non avesse altra opposizione per arrivare al Pontificato che la natura del Nipote e il timore che si aveva del parentado degli Aldobrandini o Colonnesi. La trascuraggine è mali) App. I, lett. 2i aprile 1621, n. 86. — IOO - nifesta, si come è giustissimo il senso che n’ha mostrato Ludovisi. Egli stesso ne parlò con me ed io dopo aver tentato ogni strada e usata ogni diligenza per trovare pur se fosse fattura del Mascardi, non è stato possibile a venirne sul vero. Ludovisi nondimeno si è lasciato intendere di saperlo certo e io, accettando senza prove il suo testimonio, ho voluto dargli questa soddisfazione di mandar via da Roma il Mascardi, il quale e partito quasta mattina con le Galere degli Ambasciatori Genovesi. Questo effetto del mio buon animo dovrebbe essere molto più gradito, in quanto che, senza certezza sicura della verità, ha voluto mostrarsi anche sul semplice sospetto, e spero che così sarà. Ho poi fatto chiamare il Ran-gone, segretario del Ludovisi, de’ memoriali, e servitore assai suo confidente, e ho mandato a dirgli quanto è passato, con pensiero d’ andarvi anch’ io medesimo per testificazione maggiore dell’ affetto mio e per certo passaggio che ho stimato ben di far seco, come V. A. sarà a suo tempo pienamente ragguagliata. Intanto ella conoscerà dal presente avviso eh io non tralascio l’occasioni d’andarmi tuttavia preparando la benevolenza a Palazzo e le bacio le mani con augurarla per sempre felicissima. Di Roma, li xn di Giugno 1621. Obbedient.mo fratello e ser.re hum.“ Il Card.le Deste (i). La partenza del Mascardi non soddisfece pienamente gli offesi e meno di tutti soddisfece il Ludovisi, che, conoscendola, non si degnò di rispondere subito con qualche ringraziamento al D’Este. Allora il Cardinale stimò necessario, per ovviare a tanto male, il sacrificio del suo protetto. E il Nostro fu così, il 26 di giugno, definitivamente (1) R. Arch. di Stato di Modena; Archivio Ducale segreto — Casa — Carteggio. licenziato dal servizio del Cardinale, che notificava il provvedimento al fratello con la lettera seguente: Ser.mo siG.R mio e fratello oss.mo V. A. avrà già inteso quel che è seguito sin’ora nel particolare del Mascardi ; è necessario che sappia ancora quel che di vantaggio s’è fatto. Dopo la sua partenza di Roma, o per parole eh’ egli dicesse prima inconsideratamente o per nuova malignità di qualche suo nemico, s’è confirmata in maniera 1 opinione che sia sua quella scrittura, che, essendosi sentite varie querele e doglianze di molti che si tengono gravemente offesi, ed in particolar di Borgia, il qual meco stesso m ha mostrato grandissima alterazione , io, considerando la qualità di diversi sospetti, ho stimato conveniente licenziarlo in tutto dal mio servizio. Così ho fatto, e tanto più prontamente quanto che a Palazzo parea che non fossero intieramente soddisfatti della sua semplice andata fuor di Roma : ho mandato subito a darne parte a Ludovisio e manderò anche da Borgia, e son sicuro che, se vorrà aversi il debito risguardo alla sincerità del mio animo, non potrà se non esser gradita questa dimostrazione........ Di Roma, li 16 di Giugno 1621. Di V. A. Obidient.m0 fratello ed um.m0 Ser.™ Il Card.l D’Este (i). Il Duca approvava pienamente questa decisione, rispondendo: « Oltre a quello che io son tenuto a presupporre della prudenza di V. S. Ill.ma in ogni azione, mi par anche di concorrere nel suo medesimo senso circa la necessità in eh’Ella s’è trovata di licenziare il Mascardi, poiché non solo una ferma opinione di persone di qualità ha forza d’indurre in molte occasioni a quello che indurrebbe una verità provata, ma è anche (1) Arch. cit. — Carteggio cit. — 102 - lodato l’appigliarsi sempre al manco male e qui non ha dubbio che '1 riguardo del disgusto di cotesti signoii deve essere preferito a quello dell’interesse del Mascaidi a cui però non si fa se non quel danno che non può per rispetti maggiori schivarsi » (1). La condotta del Cardinale in tutto quest affate fu acerbamente giudicata dal Nostro; e gliene ìimase sem pre un sordo rancore in petto, sicché, più tardi, nel 1624, quando quegli venne a morte, affermava di C0I^° scere « per evidenza di prova che sotto 1 ombia e signor Card. d’Este.......... si nascondevano molte cose ch’ora sono in palese » (2). Ma, ad esser giusti e sereni, il torto ci sembra più del Mascardi che non del suo pa drone, il quale, alla fine, era stato seriamente compro messo dalle sue insensatezze e dovea riconoscere vere per segretario una persona altrettanto mg gnosa » quanto inetta a soddisfare debitamente ai su uffici. Insomma il Cardinale era stato tirato per i ca pelli a comportarsi in quel modo e non avea preso decisione ultima se non dopo essersi lungamente co gliato col Duca, che non apriva del tutto 1 animo^ per non assumersi personali responsabilità, ma lascia con mille accorte espressioni intendere a lui ciò c rebbe stato il meglio in certi casi (3). Che poi 1 acc fatta al Nostro d’esser stato realmente 1 autore de ticonclave, fosse solidamente fondata, non è più il ca di dubitarne, dacché altri ebbe, tempo dopo, a nc0^ fermarlo recisamente, e il Mascardi stesso, in una (1) Arch. cit., ibidem, lett. del 3 di luglio. (2) App. I, lett. 30 ottobre 1624, n. 121. (3) Il Cardinale scriveva al Duca il 10 di luglio 1621: « Sono con^ derazioni proprie della solita prudenza di V. Altezza quelle con che scorre sopra la licenza data al Mascardi ed io godo d’ aver soddisfat alla necessità d’ altri rispetti per questo particolare e d’ aver anche incon trato il suo gusto ». R. Arch. c. s., Archivio ducale segreto Gasa Carteggio. — 103 — tera scritta durante il viaggio alla volta di Genova, parlava, senza più smentita alcuna, dell’ « amaritudine cresciutagli in queste parti con la nuova del bando obbrobrioso dato a quell’ infelice scrittura » (1). Partito il Nostro, il Ludovisi, che pur avea saputo dal suo segretario del provvedimento preso, non rispose, come s’è detto, al Cardinale D’Este. Questi allora perse la pazienza e si recò a Palazzo il 17 dello stesso mese di giugno, per conferire col Papa e col nipote circa le accuse eh’ erano state fatte a lui in persona nel primo Conclave, quello famigerato dell’ Ubal-dino; e tempestò e disse che aveva altrettanto diritto di chieder soddisfazione per l’offesa fatta a lui quanto gli altri per le loro proprie. Il Ludovisio gli diede tutte le ragioni e promise di provvedere anche a questo: riguardo poi al licenziamento del Mascardi, lo « ringraziò in persona (cosi scriveva il Cardinale al Duca) con grande affetto e si dichiarò totalmente pago di questa dimostrazione; anzi replicò più d’una volta che non aveva mai desiderato il danno di quel giovane, « ma assicurava da ogni dubbio ch’egli (il D’Este) potesse avere di suo disgusto, se gli fosse piaciuto di ripigliarlo: Borgia anch’egli esser restato soddisfattissimo ». E così l’illustre porporato poteva ormai sperare di aver provveduto convenientemente al disordine » (2). (1) App. I, lett. 17 giugno 1621, n. 87. (2) Da lettere dell’archivio ducale segreto, del 16, 19 e 30 giugno. Lo screzio del Cardinal d’ Kste col Ludovisi era trapelato e il Mascardi stesso ne accennava all’antico suo signore il 3 settembre 1621 (App. I, n. 93). « Qui s’è sparso, per lettere di particolari venuti di costà, che \. S. Ill.na abbia gravi disgusti a Palazzo e che fra lei e il Card. Ludovitio sieno passate parole d’ acerbità e in ciò parimenti s’ odono contrari discorsi ». In una lettera del 19 giugno’, il Cardinale accludeva il famoso Conclave dell’ Ubaldino che lo « toccava....... molto sul vivo ». CAPITOLO IV. DUE ANNI A GENOVA Viaggio triste e malagevole. — Arrivo a Genova. — Accoglienze — La notizia del licenziamento. — Monsignor Giovanni teme assai per il suo vescovado. — Gli amici di Agostino. — Un servigio ad Ansaldo Cebà. — Agostino scrive e parla pubblicamente dei suoi casi. Cortigiani antichi e moderni. Una rivincita di Agostino. — Malanni fisici e conforti poetici. — Agostino non vuol più scriver poesie. — Esercita l’avvocatura. — L’orazione per l’incoronazione del Doge. — Curiosa supplica d’Agostino — Il plauso pubblico per l’orazione. — Fino alle stelle. — Agostino rifiuta d’esser Maestro delle Cerimonie. — Accetta l’incarico di pubblico lettore nell’accademia degli Addormentati. — Reclama nella prima conferenza la cittadinanza genovese. Agostino è « la Sibilla » di un « Apollo ». — Spera sempre nel Cardinal D’Este. — Infruttuosa dedica delle Silvae. — Il volume delle orazioni. Amici e nemici nell’Accademia. — Anche il Chiabrera esalta Agostino. Rapporti continui col Cardinal D’Este. — Agostino commediografo. Sua difesa contro i critici. — Supplica dei Mascardi per esser compresi nel Libro d’oro della Repubblica. — Passaggio del Cardinal Maurizio di Savoia. Il papa è malato. — Partenza d’Agostino per Roma. — Elezione del Barberini. — La buona stella d’Agostino pare cominci a spuntare. — Agostino esalta Urbano VIII e diventa suo cameriere d’onore. — All’accademia degli Umoristi. — La morte di Virginio Cesarini. — Agostino lo commemora. Alla corte del Cardinal Maurizio. galera dell’ ambasciator genovese Ago-si fe’ calare il 17 di giugno 1621, a Le-», perchè, « travagliatissimo dal patimento di mare », aveva deliberato di compiere per terra il resto del viaggio (1). Giunto così a Genova, vi fu accolto con segni di riverenza e di ammirazione dagli amici che vi contava (i) App. I, lett. 17 giugno 1621, n. 87. — io6 — numerosi e che la sua carica di segretario del Cardinale, non ancor tolta, gli moltiplicava d’attorno. Il marchese Giannettino Spinola dava subito avviso del suo arrivo al Cardinale : « Qui abbiamo il signor Mascardi, benissimo visto; io me gli sono offerto pronto in suo servigio, perchè lo merita e perchè è servitore di V. S. Ill.ma » (1). Forse non si sarebbero mostrati così premurosi e lui e gli altri se avessero saputo la verità. Ma il Nostro si guardava bene dal parlare di nulla : egli appariva là in missione particolare: anzi, la sua presenza, non palesemente motivata, riusciva piena di un certo qual mistero, che piuttosto accresceva , anziché scemare, la sua autorità. In ogni modo egli, tutt’ altro che previdente nei fatti suoi, non si sarebbe mai aspettato una decisione così spiccia, come quella che stava proprio allora per prendere il suo padrone. Ricevuta in lettera privata la notizia del licenziamento, scrisse tra l’adirato e l’umile una risposta, ove non tanto pensava a scolpar se stesso quanto a rimproverare chi non avea saputo salvar la sua riputazione in quel frangente : Ill.mo e Rev.mo Sig. Padron mio Col.mo. Le dimostrazioni di singolare benignità con le quali si degnò V. S. Ill.ma d’ accompagnar la mia partenza da Roma, m’avevano composto l’animo in modo che la licenza ultimamente datami da lei m’ è stata di dolore tanto più eccessivo quanto minor occasione avevo di prevederla. Lodato Dio benedetto d’ogni cosa ! A me non poteva accadere disgrazia più dolorosa di questa, poiché col titolo solo di servitore Suo racconsolavo tutte le altre perdite, che son venute in conseguenza della mia prima calamità ; e ora, veggendomi privo di (i) R. Archivio di Stato di Modena — Cancelleria ducale — Arcliivj vari; Letterati; lett. 26 giugno 1621. — 107 — questo unico ristoro in tempo di bisogno maggiore, conosco lo stato mio per infelicissimo e da meritar pietà fino a’ nemici , i quali si possono ben dar vanto di aver fatto gran cosa, poiché ad istigazione loro V. S. IU.ma, che per altro era solita d’ abbracciare e sollevare le persone miserabili e oppresse, ha questa volta scacciato da sè un servitore di tanta devozione e 1’ ha gettato nell’ arbitrio della fortuna. Ricevo nondimeno in buona parte la sua risoluzione e insieme la rendo certa che son tanto lontano da procurarmi altrove miglior ventura secondo che V. S. Ill.ma benignamente m’insinua, che, passati i caldi, mi porrò in viaggio per paesi lontani, portando meco, in luogo di viatico, la sicurezza che mi dà la coscienza di non aver commesso errore indegno della sua servitù e delle mie qualità. E umilissimamente me le inchino. Di Genova, 2 di luglio 1621. Di V. S. Ill.ma e R.ma Um.m0 Dev.mo Obb.m0 Serv.re in Eterno Agostino Mascardi (i). Il Cardinale riscrisse poi evasivamente, gradendo assai l’intenzione di quella servitù « in eterno », ma dichiarando di non poter altro che compatire (2). Il proposito accennato nella lettera d'Agostino, di recarsi in paesi lontani, lungi al romor degli uomini, era, come ognun può immaginare, senza fondamento; e presto infatti dileguò. Allontanarsi del tutto dal Cardinale, ad Agostino certo non conveniva. Anche da Genova avrebbe potuto favorirlo in qualcosa e....... chissà?......, in grazia di buoni servigi, passata l’ultima nube, esser da lui richiamato: opinione e speranza, queste, che gli si radicarono vieppiù nella mente, quando, poco appresso, (1) App. 1, n. 89. (2) R. Arch. di Stato di Modena, Canee!!, due. c. s. ; lettera 10 luglio 1621. \ Giovan Maria Spinola, arrivando da Roma, lo fece cercare e gli riferì alcune frasi di memore affezione da parte del Cardinale stesso (1). Subito allora egli prese in mano la penna per ringraziarlo e si professava sempre pronto a servirlo, anche di lontano, mentre era in attesa « del compimento delle sue cortesissime esibizioni con la redintegrazione della sua servitù interrotta con infinito dispiacere » (2). Chi rimase però assai più dispiaciuto per tutto quel trambusto, fu il fratello, monsignor Giovanni. Appena questi si vide giungere Agostino, sui primi dell’agosto, a Sarzana, ebbe il sospetto immediato di qualche sinistro, e, non pago delle ragioni ch’egli adduceva per spiegare la sua inopinata venuta, investigando in mille guise, potè finalmente scoprire la verità. Temè allora fortemente per il suo vescovado, il quale, già s’è detto, avea ottenuto dal Cardinale Alessandro, per intercessione del fratello, cui era destinato, e non fu tranquillo se non quando ebbe scritto al Cardinale in persona, supplicandolo « devotissimamente...... a non permettere che in tale occasione rimanga abbandonato dalla sua benigna protezione » (3). Non ostante tutto questo tramestìo, la dimora in Genova parve ben presto « deliziosa » al Nostro (4). Fra gli amici annoverava Giovan Giacomo Lomellini, Silvestro e Tommaso Grimaldi, Bartolomeo della Torre, ()) R. Arch. di Stato di Modena, Cancell. due. c. s. ; lett. del 16 luglio: « Appena arrivato, feci cercare il Mascardi, il quale, sebbene non ha mai dubitato della somma cortesia di V. S. III.ma, è restato nondimeno confuso per vedere la grande affezione che le porta, la quale spera che potrà più facilmente scorgere quando lo ripiglierà al suo servizio ». (2) Lettera 7 luglio 1621, pubbl. da A. Neri in Giorn. Lig. , vol. I, p. 114. (3) R. Archivio di Stato di Modena, Cancell. due., c. s. ; lett. del 27 giugno 1621. (4) App. I, lett. 27 giugno 1621, n. 88. — iog — Leonardo Spinola , Pier Giuseppe Giustiniani e, più fidato fra tutti, il già ricordato Marcantonio D’Oria, in prò del quale riuscì a ottener favori dal duca stesso di Modena , al riguardo di certa causa che avea pendente. Strinse anche relazione con uno dei più chiari poeti del tempo : Ansaldo Cebà. Aveva questi finito il poema La regina Ester, ripromettendosene dai posteri un plauso maggiore di quello che il Tasso avea riscosso con la Gerusalemme, ma senza curarsi troppo delle possibili censure dell’indice. Il poema fu interdetto ed egli se ne trovò, diceva il Nostro, « così mortificato....... che più volentieri tollererebbe....... la morte che questa infamia ». Il Cardinal d’Este, vivamente ufficiato dal suo antico segretario, riuscì a fare annullar l’ordine di sospensione; e il Cebà, che parve « risuscitato », prese, ma non per lungo tempo purtroppo, a nutrir sincera gratitudine per lui (1). (i) App. I, lett. 17 e 30 luglio 1621, nn. 90 e 91. Il poema era stato censurato « irrimediabilmente » dal « padre fra Eliseo Masini», Inquisitore di Genova. In Roma le cose erano andate peggio ed egli s’ era perciò rivolto al Mascardi e a Marc’Antonio Centurione, perchè pregassero il Cardinal d’Este d’intercedere a suo favore. Il Cardinale , che aveva già conosciuto il Cebà a Padova, nel 1590, quando era agli studj, si meravigliò ch’egli stesso non gli avesse scritto personalmente, esponendogli il suo caso : e allora il Cebà rinnovava la preghiera con la sua penna, e si scusava urbanamente della propria timidezza: « Per quel che tocca al-l’aver io taciuto quand’ Ella mostrò desiderio ch’io parlassi, non ha Vo stra Signoria Ill.ma cagione di riprendermi , perchè posso essere stato ritenuto da riverenza di servitore...... Giustizia molto rigorosa intendo che m’è latta dai baccellieri della Poetica; nè delle cose giuste pare a me ragionevole di dolermi; ma, se tra esse venisse anche talvolta mescolata qualche parte d’ ingiuria, gran fortuna sarebbe la mia se contro di lei si armasse la valorosa mano di Don Alessandro d’Este ; alla quale io non mi raccomando, perchè non so d’aver buona causa; ma ben dico, che, se Sapessi d’averla, io le ricorderei francamente che la sua Casa è fatale per guardare dai morsi dell’invidia le scritture degli uomini grandi ». Lettere di Ansaldo Cebà, in Genova, per Giuseppe Pavoni, 1623, p. 173. — I IO Ogni componimento eh’ usciva in quest’ anno dalla sua penna, rifletteva sempre in qualche punto il profondo rammarico del triste accidente occorsogli nella sua vita di cortigiano. Invitato a tenere un discorso, pronunciò uri Invettiva contro la fortuna, che, « con le sue stravaganti vicende, con le persecuzioni dei buoni, con la felicità dei rei, arma le lingue e più i cuori degli uomini contro la Provvidenza » (1). Più acremente si scagliava, in un brano d’un’opera rimasta incompiuta e intitolata 11 genio di Socrate, contro i padroni ingrati e crudeli (2); e senza dubbio accennava al Cardinale già nella lettera Intorno al Furor Poetico , indirizzata in quell’anno a Tommaso Grimaldi, là dove diceva che « sì come ad un Signore metteva meglio il non aver mai avuto un servitore, che, dopo d’aver avventurata la vita, non ch’altro, in servigio di lui, non ha ottenuto ricompensa, solo perchè ha superato la gratitudine del Padrone con l’eminenza del proprio merito; così poteva un secolo desiderare che in ogni altro tempo nascesser gli uomini grandi, per non rimaner infamato, per la in gratitudine, con che a loro nega il premio » (3). E un bel giorno, in un discorso ancora, il nome del Cardi naie, che teneva lì sulla punta della lingua, gli scappò fuori del tutto; e con amaro scherzo egli concluse col 1’ affermare che, nella grammatica delle corti, il verbo non si coniuga che al futuro ; e di tutti i verbi prefe rirsi si™, che significa darò.......: utilissimo verbo il cui passato (aggiungeva) io non seppi mai, il presente non veggo e il futuro non aspetto, se la liberalità del (1) Prose, ed. cit., p. 205: trovasi però già nell’ediz. delle Orazioni del 1622, a p. 245 e sgg. (2) Delle speranze della corte, in Discorsi accademici editi dal P. CARLO Mascardi, Genova, 1705, dise. II, particella II. p. 97 e sgg. (3) Prose, ed. cit., p. 84; Orazioni (1622), p. 379. — Ili — Principe Cardinale non fa un lodevole solecismo, non curando la grammatica delle Corti vulgari........ » (1). Ecco la grande virtù che tutti i cortigiani di questo secolo invocano dal Signore: la liberalità! Senta ancora, di grazia, il lettore quest’ altro punto del discorso or ora accennato : « La tardanza importuna ha faccia di una continuata ripulsa e più agevolmente si tollera dagli animi ingenui un aperto negare che un fallace promettere » (2). Par di sentire un trovatore provenzale in pieno dugento. Tanto il mondo si volge lento e gli uomini s’illudono di progredire anche col sentimento della propria dignità! Le amicizie devote e ragguardevoli contratte in Genova, gli permisero in breve di considerare con animo più sereno le sue non immeritate sventure e di sperare in un avvenire più profìcuo in quella stessa città. Soccorsi non gli mancarono d’ogni parte; qualcuno, anzi, si diede attorno per trovargli occupazione sufficiente a non mendicare più 1’ ospitalità altrui. Nell’ agosto dell’anno stesso, era così fiducioso d’ assestarsi convenientemente, da rifiutare con palese sdegno un’offerta di uffici particolari che il Cardinale gli faceva, forse a condizioni non troppo onorevoli: e si trattava probabilmente di qualche opera di spionaggio da esercitare sulla Repubblica di Genova. Potendo ora chiamar quegli uffici « poco decenti all’onor del Padrone » e protestando di volersi restringere « dentro ai termini prescrittigli dal decoro », veniva a prendersi una rivincita bella e buona per l’affronto patito. E l’animo suo dovè uscirne per quella volta più soddisfatto che s’egli avesse senz’altro riottenuto il suo segretariato nella Corte (3). Con (1) Delle speranze, in Discorsi accad., dise. II, partie. Ili, p. 117. (2) Pag. 123. (3) APP- I; lett- agosto 1621, n. 92. - 112 - tutto ciò non mancava di tener sempre avvisato il suo antico signore dei movimenti più importanti della diplomazia genovese ; di agevolargli, il 3 di settembre, un prestito notevole sulla piazza; di ragguagliarlo minutamente del passaggio per la Liguria degli altri Cardinali , specie di quello di Maurizio di Savoia (1). Il cruccio del licenziamento aveva intanto minato la sua fibra non molto robusta. Infermò e per due mesi stette a letto, combattendo fra la vita e la morte. Compose in quest’ occasione una lunghissima elegia, descrivendo all’antico maestro, Tarquinio Galluzzi, il miserevole suo stato fisico e morale. Fu quella una delle ultime carezze date alla Musa, ma fra le lagrime : (2) Languida, si poteris, latìos, elegia, per agros ibis, in amplexus non reditura meos : sacra ubi septeno se tollit vertice tellus, quae fuit heu nostrae causa dolenda viae : Tybris ubi Ausonias mordet fugitivus arenas, volvit et iratas imperiosus aquas. Mox sacros venerata lares regnataque Paulo limina, Gregorii culmina nota petes: culmina marmorea in caelum minitantia fronte, culmina Palladiis aedificata choris. Excubat in foribus tranquillo lumine custos, ceu colat Hesperidum poma cupita, Draco. (1) App. I, lett. 30 luglio, 3 e 24 settembre i62r; nn. 91, 93i 94- (2) Silvae, ed. cit., p. 139: Ad Tarquinium Gallutium Societatis Iesu. Languida, se potrai, pei campi del Lazio, senza più ritornarmi al seno, elegia, te n’ andrai, ove la sacra terra coi suoi sette vertici s’erge, che fu ahi! dolorosa causa del mio partire; ove il Tebro fuggente le sponde d’Ausoni'a morde e imperioso volge i flutti adirati. Venerabonda i sacri lari e le soglie regali di Paolo cerca e i noti fastigi di Gregorio : fastigi che con fronte marmorea sfidano il cielo, fastigi edificati per i Palladii cori. Vigila un drago con occhio pacato la porta, co me guardasse i cari dell’ Esperidi pomi Gregorius Tyrio spirat spectandus in ostro, laxa ubi se spatiis explicat aula suis: occurrent iuvenes, tenui quos Pallas in arte educat, et primum flectere verba docet; inde quibus latices aperit silvasque comantes, et iuga Castalio nobilitata choro Hos fuge, sic iubeo, vultus demissa trementes ; non facit ad tempus laeta Iuventa tuum. 1ARQUINIUM pete iussa meum : si forte tonantes torqueat altiloquo fervidus ore faces, muta sile ; vel si recubans Heliconis in umbra facundum Orpheo pectine pulset ebur, tum quoque muta sile, numerosque bibacior hauri, queis solet immanes ille movere feras : forsan olorino dedisces carmine luctus, forsan olorino in carmine funus ages. Post ubi se thalamo vacuus concluserit, adsis, et mea cum gemitu tradita verba refer : Tarquinio iucunda precor ; quem diligis, aeger Ingemit, et lenta tabe peresus abit. Mirabile Gregorio nell’ostro di Tiro respira, ove più vasta l’immensa corte s’apre. Accorron giovinetti, che Palla nell’arte gentile educa, e a cui dapprima fletter parole insegna, poscia darà gli umori stillanti e le selve chiomate e le vette famose per la castalia schiera. Ah! tu fuggi costoro, chinata la trepida faccia! Non s’addice al tuo caso la giovinezza lieta! Deli ! muovi al mio Tarquinio. E s’egli le faci tonanti fervidamente torce con altisona voce, t’arresta e taci: e s’egli, nell’ombra eliconia steso, tenta il facondo avorio col pettine d’Orfeo, silenziosa ancora t’arresta e i bei numeri ascolta ond’ei commuover suole le terribili fiere. Apprenderai tu forse dolori dal vago suo canto: lutti celebrerai col vago canto suo. Poi, quand’egli sereno si chiuda nel talamo, il segui ; e i miei commessi detti gemebonda gli reca: _ Tarquinio sia felice! quei ch’ami, colpito dal morbo, geme e di peste lentamente si strugge. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. — ii4 — Morbida vis faciles sensim populata medullas, intentat properam, viribus aucta,'necem. Albida tabentes macies corrumpere malas coepit et incestat luridus ora color. Fessa labat cervix, tussis quatit aspera pectus, crura tremunt, caecum viscera vulnus alunt. Con questo componimento, onde risulterebbero aneor buone allora le relazioni con 1’ antico maestro, si chiude la sua produzione poetica. Al genovese Tommaso Grimaldi, che gli chiedeva qualche saggio del genere, per pubblicarlo in una raccolta d’ occasione, il Nostro rispondeva scherzosamente: « Già dissi a Vostra Signoria ch’io non sapeva il mestiere del poetare; e, come che negli anni più sereni io mi sia lasciato uscir dalla penna qualche componimento latino, ora però mi sento così disadatto alla lusinghe poetiche che il ricercar da me canzone o sonetto, è un voler trar dalla pomice una sorgente. L’arte del verseggiare non si fa bene se non da giovani, perchè vuole il primo fiore degli spiriti e del capriccio, onde 1’ età medesima eh’ è proporzionata agli amori, è per avventura più capace della poesia: e come Vostra Signoria si prenderebbe giuoco di me, se, dopo d’aver passati i trent’ anni, io mi ridu- Un malefico influsso, le tenui midolla suggendo, con crescente vigore rapida morte intenta. Già le marcenti gote corrompe una tabe biancastra; un lurido colore già gli deturpa il volto. Stanco vacilla il capo; sconquassagli il petto la tosse; treman le gambe ; il ventre chiude una cieca piaga. Gli rispondeva il Galluzzi con un altro carme in distici (Silvae, lib. Ili, p. 143, Tarquinii Gallutii e Soc. Jesu ad August. MascarJum responsio), nel quale lodava 1’ antico discepolo per la fluida sua vena poetica e gli prediceva una pronta guarigione, non parendogli possibile che una mente ammalata avesse a dare un così bel saggio di sapere e di buon gusto. — 115 — cessi ad amoreggiare......? Le Muse sono vergini fanciulle: ch’ho da far io con loro, che corro, avvegnaché nel cominciamento, il settimo lustro?.... Aggiunga Vostra Signoria di più ch’io sono in Corte, cioè a dire in luogo, ove poeticamente si vive, ma non poeticamente si scrive. Le vergini canore fùr parturite nell’ozio, e son composte di scherzi, di piaceri e di vezzi. In occupazioni così continue, nello spinaio de’ miei acuti pensieri, nelle molestie del negozio, le poverelle si morrebbero di puro stento. Nè cesserebbe d’ esser cagione di sospetto, nell’animo del Padrone, la compagnia di donne per natura loquaci, per professione ciarliere. La mia carica è di segretario : ad un mio pari si conviene la protezione di Arpocrate, adorato da quei d’Egitto, col dito alla bocca, dinotante il silenzio! » (1). Ritornare alla Corte, illudersi d’esservi, non credersi buono che alle funzioni di segretario: queste erano le sue idee fisse. Guai a chi gli avesse detto eh’ egli si perdeva in vane speranze! Ma bisognava pur vivere, e si ricordò allora di aver studiato leggi e si diè a patrocinar per i tribunali le cause degli amici di Genova. Rimessosi alquanto dalla malattia, si recava, verso la metà dell’ottobre, a Sarzana, e poi subito a Modena, per un processo a carico di Giovanni Ambrogio Fieschi, ch’era stato rimesso al tribunale di quella città (2). Vi si fermò parecchi giorni, ospitato sempre cortesemente dal conte Camillo Molza (3), e mantenendosi in discreti rapporti col Duca Alfonso, che non aveva ragioni speciali per mostrargli il viso torto. Agostino parlò anzi (x) Prose, ed. cit., p. 68 e sgg.: Orazioni, ed. 1622, p. 338. (2) App. I, lett. 23 ottobre 1621, n. 96. (3) R. Arch. di Stato di Modena. — Cancelleria ducale — Particolari: lett. del 16 ottobre, scritta da Geminiano Zuccoli al Cardinale d’Este. — 116 — con lui del desiderio vivissimo di ritornare presso il suo « Principe naturale » e raccomandò lo si compatisse se, stretto dalla necessità, avesse dovuto accettare qualche ufficio in Genova (1). Al suo ritorno fu infatti incaricato di comporre l’orazione che dovevasi pronunciare per la coronazione del nuovo doge Giorgio Centurione. Il Nostro, che frequentava, come del resto avea sempre fatto, i ritrovi della società mondana, scrisse al Senato una curiosissima lettera, invocando, quale ambitissima grazia, di potersi presentar sulla tribuna in abito civile anziché in cotta ecclesiastica, stantechè l’argomento non avesse nulla che fare con la religione (2). E qui ancora ritroviamo il nostro uomo. L’antico gesuita voleva comparire in pubblico, libero da ogni legame ; parlare come cittadino, non come predicatore ; piacere soltanto per il suo gusto, per la sua cultura, per la sua voce sapientemente modulata. Il Senato appagò il suo desiderio; e 1’ orazione, pronunciata il 26 d’ottobre tra una « folta corona dì uditori », riscosse l'entusiasmo generale e la gratitudine particolare del Doge, le cui imprese erano state magnificate con sì dotta parola e con sì insolito calore oratorio (3). Il Morandi scrisse allora che l’invidia provata da Alessandro presso il sepolcro d’ Achille, « per certo non potè avere il Serenissimo Duce...... verso alcun altro de’ predecessori, mentre sentì celebrar le sue lodi dalla tromba di quel gran Dicitore, eh’ è gemma dei Prelati, Fenice dell'eloquenza, splendore delle Accademie, delizia delle Muse, miracolo delle lettere, chiaro ornamento della Nazion Genovese e verace ritratto della (1) App. I, lett. 17 dicembre 1621, n. 100. (2) App. I, lett. 24 settembre 1621, n. 95. (3) Prose, ed. cit., p. 163 e sgg. Nella coronazione del Ser.mo Signor Giorgio Centurione, Duce della Repubblica di Genova. virtù romana. Io dico allora che la Catedrale di Genova restò piena di ascoltanti, gli ascoltanti di meraviglia ». Gli dedicava intanto, come se non bastassero ancora quelle lodi sperticate, il seguente sonetto, pedestre anzi che no : PER L’ ORAZIONE DI MONS. AGOSTINO MASCARDI NELLA CORONAZIONE DEL SERENISSIMO GIORGIO CENTURIONE. Or che, vestito più d’onor che d’ostro, Giorgio sostien di Giano il regio pondo, mostra che il senno suo non è secondo, o gran Solone o gran Licurgo, al vostro. Tu, d’eloquenza incomparabil mostro, Mascardi, or che i suoi pregi esponi al mondo, mostri, nuovo Demostene facondo, che non invidia al prisco il secol nostro. Sta seco Astrea di cui le spade ei regge ; fan Minerva e Cillenio in te soggiorno. Egli all’oprar, tu al favellar dai legge. E se Genova lui fe’ d’ostro adorno, tu merti che te Roma un dì vaghegge con la porpora sacra al ciine intorno (i). L’ orazione, per sommo onore, fu posta poi a capo di un volume ove si raccolsero, com’era uso, le composizioni sì latine che italiane dei letterati liguri, riguardanti quella coronazione: cioè di Pier Giuseppe Giustiniani, Pier Francesco Guano, Giov. Giacomo Rossano, Giacomo Belloni, Valentino Borzone, G. Batt. Marchetti, Gabriello Chiabrera, Angelo Grossi, Giulio Guastavino, Fortunio Liceti, Bernardo Morandi, Mario Colonna, Francesco Pallavicino, Annibaie Campeggi, Domenico (i) Fantasie poetiche , in Opere del Co. Bernardo Morandi , to. I, Piacenza, nella Stamp. Reale di Gio. Bazagli, 1762, p. 149. Vedasi su di lui Giustiniani, Gli scrittori, p. 14S. Carrega, Tobia Negrone, Pietro Antonio Pallavicino, Sinibaldo De Ferrari, Mario Sauli, e di molti altri che, durante la dimora del Mascardi a Genova, si trovaron con lui concordi a rinnovare il « secolo d’Augusto » (1). Quello di recitare 1’ orazione accennata, fu incarico vantaggiosissimo, non tanto pe se stesso , quanto per la benevolenza che gli procacciò da parte dei rettori della città. Venne infatti eletto, il 13 di dicembre, dal Senato, Maestro delle Cerimonie : ma quest’ umile ufficio non gli garbò troppo; ed ei lo rifiutò (2). Accettò invece con vera soddisfazione quello di lettore pubblico, offertogli, sempre per conto e a spese della Repubblica, pochi giorni appresso, intercedendo il fedelissimo Marc’Antonio D' Oria. Il luogo ove dovevano svolgersi gli argomenti, era l’accademia degli Addormentati : tempo per ordire e tessere le lezioni, tre giorni soltanto. Il Mascardi imprendeva il suo compito quando da buon pezzo, nonché le Muse, Minerva stessa v’era « sbandeg-deggiata e raminga » ; egli doveva essere l’oratore a periodi fissi. E cominciò il primo discorso , sulla cultura dell’animo in paragone di quella del corpo, ricordando che « la Cittadinanza di questa Patria dai suoi maggiori prima di quattrocento anni acquisita non poteva negarglisi per la dimora eh’ egli avea fatta in altra parte ». Seguitò poi illustrando e commentando in stranissimi discorsi la Tavola del platonico Cebete di Tebe, innanzi alla parte più eletta della popolazione genovese e ai più noti ingegni della riviera ligure accorsi a sentirlo. Parleremo di quest’opera a suo luogo. Per quel (1) Pubblicato dal Pavoni, nel 1622, col titolo / trionfali honori della Repubblica genovese nella coronatione del Serenissimo duce Giorgio Centurione. (2) R. Archivio di Stato di Genova, Manuali Settato, n. 1869: l’elezione è datata del 13 di dicembre 1621, la rinunzia del 28. — 11 g — che riguarda l’animo e il carattere del Nostro, non tralasceremo di riportar qui una sua scusa ben significativa: « In molti (scriveva egli più tardi, nella prefazione) non ho potuto seguire la natura e l’impeto, perchè m’è abbisognato compiacere a qualche amico, che intendeva di palesare i suoi misterii per mezzo della mia lingua, ond’io era per avventura un poco la Sibilla di quell’Apollo ». Come si vede ancora, egli non credeva di compiere opera meno utile alla verità della scienza, asservendo arte, cuore e pensiero agli amici e alle circostanze. È giuocoforza convenirne. Quanto più procediamo a studiarlo, tanto più egli, sia pure fra un trionfo e l’altro, ci appare, in questo sfasciato mondo letterario, quale un avventuriero, pronto, ove gli paia necessario, a togliersi la veste sacerdotale, a denigrar chiunque, ad adattarsi al verbo altrui. E ben altre pecche dovremo imputargli più innanzi! Temendo che il Cardinal d’Este, sul quale teneva ancor poggiata qualche speranza, dovesse rinunciare a lui definitivamente, gli scriveva avvertendolo che la sua servitù poteva sempre esser redintegrata ogniqualvolta egli lo comandasse, giacché, fra le condizioni richieste e ottenute, una era stata principalissima, di non restringersi a tempo, per aver comodità di tornare al suo fianco; e lo supplicava « a ricevere in bene una risoluzione che nasceva dalla mera necessità », la quale lo aveva reso « impotente a reggere alla spesa più lungamente » (1). Che, non ostanti i favori degli amici e l’ufficio pubblico di lettore, egli navigasse in cattive acque, è facile supporlo. Il Cardinale non contribuiva certo a fargli far buona figura. Intanto, a quella lettera non rispose neppure. Quando il suo segretario a-veva dovuto partir da Roma, per soddisfazione dell’of- (r) App. I, lett. 17 dicembre 1621, n. 100. — 120 — feso Ludovisi, non aveva mancato il d’Este di promettergli mari e monti: una pensione regolare e una provvigione che gli sarebbe stata mantenuta per i servizi futuri. Ma poi « il gran parto dei monti si risolvette in un picciolo topolino di quaranta scudi d’ entrata, che mosse le risa a chi lo seppe ». Questa « miserabile » pensione fu estinta subito, per pagare i debiti contratti in Genova nei primi mesi: la provvigione tardò ben bene a venire e fu scarsissima e scomparve naturalmente dopo la comunicazione del licenziamento. Per so-prappiù il Cardinale gli fece sequestrare i lenzuoli ch’ei non aveva potuto pagare in Roma. Quanto se ne rammaricasse il Nostro, si può vedere dalle lettere al Molza, ch’era intermediario nell’affare (1), e da una al Cardinale stesso, nella quale ironicamente lo assicurava che avrebbe trovato « alcuni pochi soldi per non lasciarlo disgustato » (2). Allora pensò di dedicargli l’intero volume delle sue poesie latine, che dovevan pubblicarsi sotto gli auspicj dell’ amico Silvestro Grimaldi. Questi stesso s’incaricò di redigere in latino la dedica e vi aggiunse un indirizzo intitolato Felicitatis Alumnis, Philosophiae Citharoedis, suo merito beatis, alieno mendicis, nel quale non si faticherà a scoprire una qualche allusione ai casi del poeta (3). Il Cardinale fe’ orecchie di mercante al tiro e rispose soltanto con una lettera di compiacimento. La misura era colma. « Entrai in Corte carico di speranze (diceva il Nostro), le quali a (1) App. I, lett. 6 novembre, n e 16 dicembre 1621; 22 [gennaio?] 3 marzo, 8 giugno, 14 e 25 luglio, 6 agosto, 2 settembre, 21 ottobre, 11 novembre 1622; nn. 97, 98, 99, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 10S, no e in. (2) App. 1, lett. 11 dicembre 1621, n. 98. (3) Il Grimaldi gli era amico da lunga data. In quel discorso proemiale, dice di lui: « Augustini Mascardi...... familiarissimi mei vix tum e gramaticis egressi ». Forse, come la maggior parte dei patrizi genovesi, aveva studiato a Roma. - 12 1 - guisa di sale nell’ acque si liquefecero, e io mi rimasi come quell’ asino col sacco vuoto sulle spalle....... Credevo almeno che nelle mie Selve dovesse germogliare qualche pianta di rami d’oro, ma finalmente ho provato che gli allori e le ellere di Poeti sono alberi pieni di eterne frondi, che mai dànno frutti giovevoli » (1). Non voleva quindi più saperne dei principi di Modena: pensava di rivolgersi ad altri, per esempio al cardinal Campori, « Padron benignissimo », che avrebbe presto potuto vedere a Cremona : intanto dedicava un altro libro ad un gentiluomo suo famigliare, « il quale con la sua munificenza farà sempre vergognare il cardinal d’Este, principe di tale nascita » (2). Quest’ultima opera era il volume delle orazioni e dei discorsi tenuti nelle varie città abitate : il gentiluomo cui li dedicava, Giovan Giacomo Lomellino , il quale li aveva giudicati « degni di stampa ", Compariva esso in un’edizione delle più belle del secolo, con un suo ritratto sull’antiporta, disegnato dall’accademico Lucian Borzone, poeta e pittore stimatissimo, e suo carissimo amico (3). Al sommo dell’ anti- (1) App. I, lett. [i ottobre?] 1622, n. 109. (2) App. I, lett. 6 agosto e 2 settembre 162.?; nn. 107, 108. (3) Il ritratto che abbiam posto a capo del presente lavoro, fu tolto dall’edizione veneta delle Prose vulgari (per il Baba, 1653) e riproduce probabilmente quello collocato, alla morte di Agostino, nell’accademia degli Umoristi. Dell’ altro , dipinto dal pennello di Lucian Borzone durante la dimora a Genova, e collocato sull’ antiporta dell’ edizione delle Silvae, così parla il Mascardi stesso nella prefazione alle Orazioni stampate a Genova nel 1622 : « Uscirono al principio di quest’ anno quattro libri delle mie Selve latine dalle stampe d’Anversa: mi parve una bella cosa vedere il mio nome intagliato in un vaghissimo frontispicio disegnato dal Rubens ; e. sollecitato da prurito sì lusinghiero, ho voluto più d'una volta comparire, e prima per mezzo del pennello di Lucian Borzone, il quale, tuttoché sia pittore assai stimato nella sua patria, non s’è però contentato de la gloria minor dell’arti mute, nia-sa garrir con le Muse, quando gli salta il capriccio ». _ 122 — porta il Nostro aveva voluto che fosse posta un’insegna ricordante le sue sciagure: cioè un elefante con delle frecce a fior di pelle, tirate da un braccio che a destra tende un arco ; e il motto Citra cruorem, tolto a un verso di Lucano. Nella dedicatoria, scritta questa volta da lui, accennava al suo trascorso, esclamando: « La varietà delle mie fortune, l’ostinazione delle mie disgrazie han tenuto l’ingegno in altri cimenti che di lettere e di discorsi! » Ma ritorniamo all’accademia degli Addormentati, l’origine e gl’intenti della quale son già noti per parecchi studj precedenti (1). Il Mascardi vi divenne il personaggio più cospicuo e più attivo: egli non aveva allora « altro trastullo che lo studiare » e voleva dimostrare di non temere « il brutto ceffo della fortuna, tuttoché frema e digrigni le zanne ». Gli sorsero naturalmente contro dei nemici invidiosi ed egli dovè presto appuntare i suoi strali per difendersi. La penna non gli si addormentava certo in mano. Nella stessa prefazione al volume testé ricordato delle orazioni, composta dopo che già parecchie lezioni aveva tenute su Cebete nelle adunanze e quasi finita la prima parte del Genio di Socrate, si raccomandava all’equanime lettore con queste frasi: « Se vi sarà chi malignamente mi laceri, non ti prender briga di rispondere alle parole d’alcuni che a-prono la bocca e lasciano gracidare alla disgrazia, perchè ti giuro che non è uomo al mondo il quale meno stimi i cicaleggi di costoro e che più se ne rida di me: il sanno gli amici miei, co’ quali ho avuto occasione quest’ anno di favellar, più di una volta, in questa materia, ma non senza scherzo ». Non abbiam modo di precisare il nome di chi mosse ad osteggiarlo in questo (i) Ved. A. Neri, Torquato Tasso e i Genovesi, in Giorn. Lig., Vili, p. i6S e sgg.; e Giuliani, Ansaldo Cebà, in Giorn. Lig., IX, p. 403 e sgg. — 123 — tempo. È certo però che fra questi dovè trovarsi anche il Cebà, non meno avido di gloria e disgustato assai dalla lama che circondava quel forestiero capitato di punto in bianco a guastar le cose sue. Il libro contenente i suoi Esercizi Accademici, uscì proprio per rivaleggiare con le pubblicazioni delle orazioni dedicate al Lomellino. Era il Cebà di carattere quanto mai a-dombrabile e fin da giovane avea scritto di sentirsi trascinato all’ « umor melanconico », perchè i suoi concittadini non lo stimavano com’egli si meritava e solevano invece riscaldarsi in seno un’ « abbondanza d’ alcuni altri che non son molto a proposito per la moderazione ». Immaginiamoci che cosa doveva pensar ora! Il Mascardi lo incluse fra quei « cuori angusti e plebei » dei quali è proprio « mendicar materia di maldicenza d’onde non si dovrebbe ». E, più tardi, nel ’27, pubblicando in Roma i discorsi tenuti nell’ accademia genovese, ricordava appunto la gran maldicenza che v’avea subito: « Le scritture già pubblicate sono in lode di molti, in biasimo di niuno, d’ argomenti eruditi o virtuosi. Da che debbono ritrarre certi Aristarchi che la mia penna non è punto melodica; e se lor piace d’ attribuirle quanto di sciocco e di maligno vomitano alcuni ingegni sempre eccessivi o nel lusingare o nel mordere , guardino per grazia di non mendicar pretesto alla lor mala volontà verso di me e di non incorrere nel vizio che senza ragione detestano in altri » (1). Vi fu però anche chi seppe e volle esaltarlo apertamente , specialmente Pier Giuseppe Giustiniani, che (i) Discorsi morali sopra la Tavola di Cebete, prefazione..... Mentre attendevo a questo mio lavoro, uscì uno scritto sul Cebà, di Piero R.O-stagno, Di un letterato genovese del secolo /7.0 e sue opere, Sampierda-rena, Tip. Salesiana, 1906. Nulla però v’ ho trovato che non fosse preso da quel poco che già ne aveva scritto il Giuliani; e assai malamente. Basti dire che il Nostro, anziché Agostino, v’ è detto Urbano! (p. 10). — 124 — gli dedicò un lungo componimento ove deplorava le ignominie della vita cortigiana, paragonando la Corte a un mare in burrasca: Mare immenso è la Corte, che quando par più in calma, allor più affonda. Questa carta che abbonda di segni, oltraggi a sì fatai tempesta, ai cortigiani marinari io scrivo. Uom non si appelli vivo se vive in mare. È da la Corte absorto chi non si trae da le procelle al porto (i). L’ argomento era ben d’ occasione per il Nostro ; e torse egli stesso aveva inspirato 1’ autore con la sua Aulicae vitae deploratio, indirizzata all’amico Fontana, pochi mesi innanzi: (2) Ecquis erit nostro modus, o Roberte, fuiori; quae dabitur miserae meta secunda viae? Abripimur caeci, scopulisque allidimur Aulae et tamen in portu credimus esse ratem. Semper ab incerto curarum impellimur aestu, attamen ignaros occupat alta quies. Blandimur ventis, decimas amplectimur undas; oscula convulso figimus usque mari. Naufragio instamus; iuvat occursare procellis. (1) La Corte, a Mons. Agostino Mascardi, XVII delle Odi Encomiastiche di Pier Giuseppe Giustiniani, in Genova, per Giuseppe Pavoni, 1635, p. 113. (2) Silvae, lib. Ili, p. 150. E quando mai la nostra insania, Roberto, avrà fine ? Qual si darà propizia mèta al triste viaggio ? Ciechi noi siam rapiti, frangiam della Corte agli scogli ; ma crediamo che in porto sia tranquilla la nave. Sempre dal flutto incerto siam spinti de’ torbidi affanni ; ma nell’ animo ignaro sta la quiete immensa. Scherziam coi venti; abbracciamo le ondate più grosse; scocchiamo baci sopra il convulso mare. È imminente il naufragio: ma piace affrontar le procelle — 125 — Ma le lodi più ambite dovevan esser per lui quelle tributategli sempre dal Chiabrera. E persino nei suoi discorsi, più tardi, il cigno savonese ricordava « un Mascardi, il quale alla sembianza di Demostene, ha, favellando , più d’ una volta scosso Genova e Roma ed altre famose città (1) ». La lettura nell’Accademia, per conto della Repubblica , era stata, come s’ è detto, accettata sub condicione. Il Nostro non s’era ancor del tutto liberato dall’idea di ritornare a Roma, presso il Cardinale, sebbene nelle lettere alternasse complimenti e proteste di devozione con frizzi pungentissimi. Al Molza, il 6 dicembre, s’esprimeva in tal guisa: « Io poi sono e non sono al servigio della Repubblica. Ho trattenimento il quale posso lasciare senza commetter mancamento; e lo lascerò se da altra parte verrà corrisposto al mio devotissimo affetto ». In verità avevan sempre bisogno l’uno dell’altro: il Cardinale per sapere ciò che capitava in Genova; il Mascardi per implorare favori in prò di amici strettissimi, per ottener dalla Congregazione dell’ Indice 1’ autorizzazione di leggere i libri proibiti che gli occorrevano a compilar le tracce delle lezioni, per raccomandare al terzo o al quarto illustri personaggi in viaggio alla volta di Roma, e va dicendo. E finiva quasi sempre con espressioni di questo genere: « Si ricordi V. S. Ill-m* ch’io le son sempre servitore........ » ; « Aspetterò 1’ av- (x) Ed. 1835, Venezia, Stamp. Baglioni, to. V, p. 194. Il 26 agosto *629, il Chiabrera, in una sua lettera a Pier Gius. Giustiniani, ricordava il Nostro come « grande ingegno ». Lettere, Genova, Pellas, 1829, pagina 8. E così chiudeva una canzone morale dedicatagli (Che il peccatore non ha schermo salvo il pentimento; in Opere, ed. cit., to. I, p. 292, n.o XXXI): Io cosi canto. Or chi farà mia scusa? Ah che tal cetra piglierassi a scherno ! Mascardi, io ben mel so, Pindo moderno, Che di ciò parli, non alberga Musa. - 120 - viso........ per liberarmi da quella sospension d’animo che non è più in mio potere prolungare » Ma questa sospirata servitù non doveva più rinnovarsi, e per le ragioni che andremo fra non molto esponendo e documentando. Morto il poeta Ansaldo Cebà nel '23, una brigata di gentiluomini, nell’intento di onorarne la memoria, decise di recitare una sua tragedia: probabilmente 1 ’Alcippo Spartano, uscito in quell’anno per le stampe. Il Nostro fu pregato di comporre gl’intermezzi; ma era questa un’ incombenza dalla quale capiva di non potere uscir con onore, perchè mai aveva avuto occasione d’ attendervi altre volte. Si rivolse allora allo Strozzi di Firenze, per « indirizzo e consiglio », e finì poi per invocare addirittura la « pratica », ossia copia « di quegli intermezzi che in diverse occasioni si saran fatti in co-testa Serenissima Corte » (1). Non sappiamo 1’ esito di questo lavoro: ma è probabile che fosse lusinghiero, perchè indi a poco, in quella stessa accademia degli Addormentati, da gentiluomini dilettanti fu egli incaricato di comporne uno del genere, originale. Manco a dirsi, il Nostro ci si mise d’ attorno con lena, e la commedia portò il titolo di Metamorfosi e doveva esser ìe-citata anche col concorso dell’ autore. Una cosa tira l’altra; e la commedia tirò un discorso preliminare dello stesso Agostino , ov’ era tracciata la storia della commedia, a cominciare dalle sue origini. Finiva poi il No stro scherzosamente, presagendo che le sue Metamorfosi sarebbero poi andate nelle mani « agli speziali pei involger l’incenso », come quelle mal riuscite di Ana-xandride (2). (1) Lett. 28 gennaio, 3 marzo 1623, pubbl. da A. Neri , in Giornale Lig. , XV, p. 211. Ved. pure le notizie del Neri (ibidem , pp. 212-13)) circa i trattenimenti drammatici in Genova a quel tempo. (2) Prose, ed. cit., p. 40. In principio chiedeva scusa di « frastornar — 127 - La commedia non piacque a tutti, perchè non pareva modellata sulle norme fissate da Aristotile, il quale purtroppo doveva far capolino in tutti gli scritti del tempo; e precisamente perchè v’era stata introdotta « doppia azione, 1’ una delle quali contenente gli amori cittadineschi ha luogo di principale, cadendo sopra di lei il titolo di Metamorfosi, l’altra che si compone d'amori, almeno per l’oggetto, servili, chiameremo accessoria ». Allora il Mascardi preparò la sua difesa, di cui daremo qui soltanto l’esordio, come quello che può contribuire a far conoscere il carattere e 1’ animo suo, riservandoci di riprendere, per discutervi su, le sue speciose argomentazioni, quando ne sarà il caso: « Ho io per comandamento vostro, Signori, schiccherati in poche ed interrotte sere certi fogliacci, a’ quali l’occasione ha posto il nome di Comedia. Io che sapeva di non aver mai per l’addietro tentato, come suol dirsi, il teatro, e che fra mille angustie di tempo e assai più d’animo, avea mandato fuori un parto per ogni modo abortivo, credetti d’aver soddisfatto al mio debito, servendo alla vostra intenzione; non pretesi d’aver adempiute le parti di buon dramatico, scrivendo quello eh’ io non sapeva. Ond’io, che prima d’ogni altro destinai alla dimenticanza quell’ opra che non conteneva cosa degna della vostra memoria, se non se forse l’affetto dell’animo, pieno d’ossequio, che la produsse, le feci l’esequie prima che fosse estinta. Imperciocché non era anche col favor vostro giunta alla vita della scena ch’io la pubblicai per de- il corso delle lezioni » sulla Tavola di Cebete per intrattenere il solito suo uditorio sopra un argomento diverso. Nella lettera scritta da Genova al Molza, il 28 gennaio 1623, n. 112, App. I., annunciava: « Qui si mette all’ordine una commedia, la quale è stata da me composta a richiesta di questi Signori ». Nessun dubbio perciò che il discorso sia stato letto e la commedia rappresentata nell’accademia degli Addormentati. — 128 - stinata alla morte della fama. Ma perchè alcuni, desiderosi di favorirmi troppo più ch'io non merito, accompagnando la loro opinione con la mia, si sono degnati d’acconsentire al mio giudizio e han con eccesso di cortesia condannata la mia Comedia, altri all’incontro, sedotti dalla lor propria bontà, 1’ hanno assoluta ; fra tanta contrarietà di pareri è nato il terzo termine dell’antico foro romano, che, dicendo Non liqnet, fa che si torni da capo a dichiarare i termini della causa....... Coloro che alla mia Comedia oppongono, o sono del mestiere o non sono. Se non sono, questo è un abbaiar de’ cani alla luna, che tanto più gagliardamente latrano verso il cielo quanto più son lontani dal morderlo; e ad essi fu detto da quel pittore ne sutor nitra crepidam, senza eh’ io mi prenda briga di frastornare i loro rincresce-voli cicalecci. Ma, se nell’arte poetica del buon maestro addottrinati si sono........, gli supplico a corregger con la penna gli errori eh’ hanno finora con la lingua accennato, medicando le piaghe della mia favola col loro salutifero inchiostro. Che se pure da persone pratiche in compor con frutto della borsa Comedie, nascessero le difficoltà per qualche occulta sospicione che possa esser nata loro nel capo, io le libero volentieri dalla paura, dicendo in note intelleggibili e chiare che lascio loro aperto l’arringo, per cui con la penna felicemente si spazino; e le rimetto ai prologhi dell’Andria, dell’Eunuco , dell’Affliggente se stesso, e delle altre favole di Terenzio, ne’ quali il famoso componitore a cotal sorte di gente in mia vece risponde » (1). Ai critici in buona fede rispondeva col sarcasmo, ai malevoli mostrando l’ugne; e così nella maggior parte dei casi. A questa pubblica fama, ch’egli, non ostanti le grandi (i) Prose, ed. cit., p. 46 e sgg., Deli unità della favola drammatica. - 129 - e piccole inimicizie, andava creandosi attorno, pensò allora di « dar maggior fondamento » con la redintegrazione nei diritti della nobiltà genovese, alla quale avea sempre preteso per l’antica vendita del feudo di Trebiano, fatta alla Repubblica dai suoi antenati. E quanto vi potesse aspirare, non è mestieri accennare a chi conosca quest'epoca in cui, per dirla col Caporali, furoreggiavano l’eccellenze e quei divini e magnifici titoli che dare si sogliono oggidì fino a’ facchini. Unitosi dunque coi due fratelli Alberico e Giovanni, inviava per quello scopo al Senato, il 21 giugno del 1623, una supplica minuziosamente documentata. Ma la cosa andò per le lunghe: e a riuscire sarebbe stata necessaria la sua presenza (1). Un avvenimento inaspettato lo indusse invece a lasciar Genova e a recarsi novamente a Roma, lasciando in asso anche gli uditori dell’ accademia. Cosi di nobiltà per allora non se ne parlò più. Altro v’ era da fare e di più importante assai. Negli ultimi giorni del maggio 1623, il Cardinal Maurizio di Savoia si recava a Roma, volendo attendere ai negozi della comprotezione di Francia e trovarsi anche pronto a brigare vantaggiosamente nel caso della morte di Gregorio XV, che già si prevedeva prossima. Mentre a Savona si stavano allestendo le galere per la traversata , fece una corsa, « sotto pretesto di una pesca », fino a Genova, ove, per sottrarsi a festeggiamenti inopportuni, prese dimora nel convento di S. Francesco. Visitò intanto il Palazzo, l’Armeria della Signoria e le (i) R. Archivio di Stato di Genova, Collegi, n. 58. La supplica comincia ricordando la famosa vendita di Trebiano alla Repubblica e cita gli atti autenticati della discendenza diretta dei figli dAlderano Mascardi da Gualtierotto e Guglielmo Mascardo. Atti Soc. lig. Storia Patria. Voi. XL1I 9 — 130 — chiese maggiori; e venne poi ad aspettare le sue galere ad Albaro, ospitatovi per poche ore dal Mag.0 Giacomo Saluzzo, che gli presentò soltanto due nobili della città, Stefano Spinola e Marcantonio Giustiniani (1). È da supporsi che sin d' allora il Nostro vagheggiasse di collocarsi al suo servizio ; tanto più che il Cardinal d'Este, cui aveva ancora una volta scritto , invocando una risposta definitiva, non si curava per null’affatto di lui (2) ; ma lo strettissimo incognito ostinatamente mantenuto dal Principe Sabaudo , gl’ impedì ogni tentativo in proposito. L'S di luglio moriva il Pontefice e il Conclave si preconizzava laboriosissimo. Era il momento di recarsi sul luogo e tentar fortuna, come facevano in. quell’occasione mille altri. Partì perciò improvvisamente Agostino verso la fine del mese e, appena arrivato , il 4 dell’agosto, scriveva a Filippo Casoni, pregandolo di ritirare il libro delle sue scritture, che , per la fretta della partenza, avea lasciato nelle mani del cancelliere di Palazzo ; accennava anche alle condizioni della città: « Le cose qui sono piene di tumulti e di ruberie, di violenze e di omicidj: in conclave le operazioni vanno con molta lentezza, senza concludere cosa veruna e senza speranza di finirla fra tre mesi, se con qualche accidente inopinato Dio benedetto non rimedia al bisogno comune » (3). Infatti i soldati del Cardinal Maurizio non la cedevano in furfanterie ai briganti della campagna (1) I particolari di questo viaggio coi documenti relativi sono in G. B. Adriani, Della vita e dei tempi di Mons. Referendario Giansecondo Ferrero-Ponsiglione, memorie storiche, Torino, Ribotta, 1S56 , pag. 177 e sgg. (2) App. I, lett. 3 marzo 1623, n. 114: « Il Sig. Cardinale nè pur risponde alle lettere; le promesse svanirono; insomma m’ interviene quel che appunto ho creduto »; ibidem, 4 maggio 1623; « Da Reggio non mi si scrive nulla, sicché dubito force che il negozio sia andato in nulla e-pur vorrei sapere in quanti palmi d'acqua io mi trovo ». (3) App. lett- 4 agosto 1623, n. 117. — 131 — romana, che, assoldati dai capifazione, solevan mettere a serio ìepentaglio la vita dei cittadini. Contrariamente peiò alle pi evisioni fatte, il nuova Papa fu eletto solo due giorni dopo, nella persona del cardinale Maffeo Barberini, e assunto col nome di Urbano Vili; e 1’ « inopi-pinato accidente » che doveva determinare la soluzione della lotta, terribilmente impegnata fra i partigiani del Ludovisio e del Borghese, fu appunto l’accordo stipulato con quest’ultimo dal cardinal Maurizio. Tant’è che il Barberini ne ringraziò sentitamente il re Luigi XIII, per la Protettoria che il Principe Sabaudo esercitava in Roma (1). Venuto il giorno della coronazione, al Pontefice, appena risanato da una malattia capitatagli per essersi mostrato in pubblico più volte sotto l’eccessivo ardore del sole, si celebrarono pompe inaudite. Togliamo la descrizione dalle prose dello stesso Mascardi: « Arrivò il giorno della Coronazione, il quale, tuttoché riguardevole per 1’ allegrezza del popolo , fu però men solenne per la convalescenza del Papa; ad ogni modo si rasserenò Roma con la vista del Principe. Aspettavasi con desiderio il dì della Cavalcata con cui doveva Urbano andare a prendere il possesso del principato, perchè sperava il popolo di rinnovar nel Campidoglio, donde passava, le sembianze degli antichi trionfi.......A Papa Urbano, scelto fra tanti valorosissimi personaggi, con uniformità di pareri si diede la Corona, come mercede della virtù precedente, non come insegna della presente eredità ; gli si preparava il trionfo per giusto riconoscimento di merito , non per lusinghiera dimostrazione d’ ossequio. Stabilito pertanto il giorno, vennero i Baroni dai luoghi loro e trassero senza saperlo i popoli (i) Adriani, op. cit., 1. cit.; Moroni, op. cit., LXI, p. 310 e sgg.; LXIII, p. 176, allo spettacolo. 11 cielo, lunga stagione torbido e minaccioso, si tranquillò, ed acciocché si vedesse che ad Urbano Pontefice, non meno che a Teodosio Imperatore, intendeva militare, finita la solennità, ragunò di nuovo le nuvole opportunamente disperse. Mosse la Cavalcata dal Vaticano, nobile altrettanto per la qualità, quanto doviziosa di numero. Tutte le vie erano pomposamente addobbate. La Nazion Fiorentina con particolari segni d’amore e di riverenza verso il Principe suo Patriotto, magnificamente si segnalò. Il Popolo Romano vesti molto riccamente di tela d’argento, guarnita con trina d’ oro, quaranta paggi presi dalle famiglie più nobili, che accompagnavano la lettiga del Papa, innanzi alla quale cavalcavano quaranta gentiluomini pur romani, con gli abiti loro che sono toghe lunghe di velluto nero col pelo. I Caporioni anch’ essi con vestito bianco e con giubba rossa precedevano in ordinanza. Vicino al Papa erano i tre Conservatori, con la toga di broccato d’oro, e il Duca Cesarino loro perpetuo Confaloniere. Alle radici del Campidoglio erano alcuni cori di musici che nel concerto delle voci e degli strumenti rappresentavano l’armonia delle virtù e degli affetti nell’animo ben disciplinato d'Urbano. I due leoni di marmo, che dan principio alla balaustrata della salita, versavano per la bocca grande abbondanza di vino. Seguivano poscia con ordine dieci statue, finte di marmo, di misura assai maggiore dell’umana, rappresentanti in parte alcune qualità del Pontefice. Si vedeva in faccia la Poesia Sacra, e dietro di lei era locata la Facondia Greca;...... la Disciplina Legale......, la Teologia......, l’Umanità....... la Abbondanza......, la Pubblica Felicità......, la Fama....... la Gloria......» (1). (i) Le pompe del Campidoglio per la Santità di Nostro Signore Urbano Vili quando pigliò il possesso, in Prose vulg., ed. cit., p. 90. * — 133 — Dov era intanto Agostino? Si pensò dai più ch’egli enti asse subito al servizio del Cardinale di Savoia; ma ciò non avvenne che in seguito. Dimorò invece, durante il trambusto , in casa di un amico carissimo, di Virginio Cesarino , che restò poi famoso per la sua liberalità verso i letterati. Di ciò fa fede un contemporaneo, sarzanese egli pure, il Favoriti, nella vita da lui scritta del Cesarino, a capo dell’edizione dei suoi componimenti latini (1). L’ elezione del nuovo Pontefice faceva sorgere mille speranze sopite nel cuore d’Agostino. Quegli infatti, quand’era Cardinale, avea scambiato delle odi d’argomento religioso con lui e ne riconosceva e ne stimava l’ingegno (2). Del resto il Nostro si trovava in ottimi rapporti anche con gli altri potenti della Corte : anzi, certe testimonianze epistolari di terzi provano che egli « a tutt’ore per le sue virtù veniva chiamato a Palazzo dai Nipoti » e interpellato, come persona d’alto giudizio, su gravi questioni diplomatiche (3). Era il momento buono per cattivarsi definitivamente, con qualche trovata, l’animo dei potenti. Dopo lungo meditare, si diè allora a comporre le Pompe del Campidoglio, descrivendovi tutto l’apparato delle feste per l’assunzione del Barberini al trono Pontificale. Non trascurava intanto di raccomandargli che « le buone lettere, che finalmente escono squallide dal sepolcro, non sieno così tosto condannate alle solite tenebre », e che « i desiderii di tanti letterati, eh’ ora risorgono, non siano infruttuosi a conservar lungamente la gloriosa vita d’Ur- (1) Ed. cit. , p. 4g6. Dice il Favoriti che in questi anni il Cesarmi « aliquos etiam apud se retinuit, in his Augustinum Mascardum, quem Parmae cognitum hospitis et contubernalis loco habebat, et Franciscum Balduccium ». (2) Ved. a p. 53, 104, 183, 186 delPed. cit. delle Silvae. (3) Adriani, op. cit., p. 558. — i-34 - bano, se le lor penne sono sì giovevoli a mantenere in eterno l’onorata ricordanza del Principe ». Esaltava infine la sua valentia letteraria, ricordando che « Maffeo Barberino trasse la maniera del poetar dalla Grecia, 1’ elocuzione dal Lazio, 1’ argomento dal Cielo ; intessè l’aureola del Paradiso con palme Tebane e con allori Latini ; chiamò Pindaro dagli arringhi Tebei alle vittorie celesti; e, invece di Hierone, d’Arcesilao, o di Cromio; gli fe’ lodar Ludovico, Lorenzo e Maddalena ; e con quest’arte imparata non nel profano Parnaso, ma nel religioso Oratorio, insegnò con l’esempio che le materie sacre eran capaci d’ornamento poetico ». Infatti Urbano VIII, come narrava un ambasciatore veneto , di-lettavasi, anche Ira le cure del suo pontificato, di poesia, e non finiva giorno senz’ aver composto qualche verso, e ne parlava con tutti, in ogni circostanza (1). Avremo occasione di ritornare su quest’argomento in altra parte, dacché i suoi versi rappresentino, anche oggi, all’occhio dei critici della nostra letteratura, uno speciale indirizzo della poesia nel seicento. Agostino dunque aveva saputo toccare uno dei tasti più graditi. La pubblicazione , d’intonazione solenne, piacque più che non il freddo poema del Bracciolini, inteso a celebrar lo stesso avvenimento, mettendo a contrasto i vizi e le virtù fra di loro, con la vittoria finale, naturalmente, di quest’ul-time (2). Esauritasi la prima edizione in breve tempo, se ne fece una seconda; e il Papa stesso ordinò che la (1) Sulla sua smania di compor versi, ved. specialmente D’Ancona, La corte di Roma nel secolo XVII, in Varietà storiche e letterarie, i.a serie, Treves, 1883, ove son riportati interessantissimi passi d’ambascerie; e Beltrami , Felice Contolori e i suoi studi nell'Archivio Vaticano, in Archivio della Soc. Romana di St. Pat., II, p. 259-260. (2) Ved. per questo poema M. Barbi, Notizia della vita e delle opere di Francesco Bracciolini, Firenze, Sansoni, 1897, nn. 19-20 della Bibl, critica della letteratura italiana, diretta da F. Torraca, p. 104 e sgg. — 135 — somma necessaria alla stampa venisse sborsata al Mascardi sulla gabella della carne, non essendovi un fondo apposito per una spesa di tal genere (1). E gli fruttò parecchio. Intanto venne subito chiamato a far parte dei camerieri d’onore di S. Santità, che appartenevano tutti alla più fiorita nobiltà italiana. Così guadagnatasi la benevolenza del Pontefice, sicuro ormai d’aver riconquistato nella vita romana quel posto che un colpo di fortuna gli aveva malauguratamente tolto anni innanzi, non più oberato dai debiti, ma sostenuto dalla cassa del Palazzo e da quella particolare del Cardinal Nipote, potè allora scrivere agli amici di Modena e di Genova che godeva finalmente d una vera « tranquillità» e si trovava in condizioni di « coltivar con frutto gli studi prediletti ». Era ritornato a fiequentar l’accademia degli Umoristi, retta in quel tempo da Virginio Cesarmi, e moriva dalla brama di parlarvi. Essendosi ciò saputo, fu egli accontentato ed esordì, dimostrando (Hei mihi....... quantum mutatus ab illo !) che........ « la Corte è vera scuola non solamente della prudenza, ma delle virtù morali » e che bisognava (i) R. Archivio di Stato in Roma, Registro di chirografi dall’ anno 1624 al 1626, p. 196: « Conservatori di Roma e Priori de’ Caporioni. Dovendosi rimborsare Agostino Mascardi di scudi settantacinque di moneta che ha spesi in far ristampare il libro intitolato le Pompe del Campidoglio, nel quale egli ha descritto gli apparati fatti dal Popolo Romano per il nostro possesso et non havendo noi assegnamento alcuno per tale pagamento, vi ordiniamo che dobbiate valervi delli denari che sopravanzano della Gabella della Carne del Popolo Romano applicati all’estrattioni del Monte della Sanità , le quali in quanto bisogna per questo effetto commandiamo che si debbano soprassedere, ordinando a Giulio Magalotto et Giov. Rotoli moderni appaltatori di detta Gabella che con mandato solito del Popolo Romano paghino senza dilatione alcuna i sopradetti scudi settantacinque di moneta al detto Agostino Mascardi etc....... — Dato dal nostro Palazzo in Vaticano li 26 marzo 1625. — Urbanus papa Vili ». -— 136 — difendere una buona volta........1’ « innocenza della Corte e dei Cortigiani » (1). E incominciava, alla presenza dei Barberini stessi, con queste strane parole, che non nascondono la sua stizza per il prolungato silenzio: « Lodato Dio che potrò pur una volta parlare! Io cominciava dentro de’ miei pensieri a dolermi forte di voi, o Signori, che, avendomi onorato del titolo, non mi favorite dell’ufficio di Accademico; perchè a scoprirvi la mia natura, taccio malvolentieri, quando il bisogno a viva forza richiede e le parole e le strida. Dove la moderazione non è giovevole, si fa necessario l’ardire; e la medesima necessità, che toglie la vergogna dal volto dell’operante, consente all’operazione e la discolpa e la loda ». Quando, poco appresso, il 1 aprile del 1624, morì il Duca Cesarini, fu, come intimo dell’ illustre defunto, invitato a commemorarlo nell’ accademia stessa ; e ricordava gli anni trascorsi insieme, i beneficj ricevuti, i dolci ragionari amichevoli con lui tenuti e gli ultimi istanti al capezzale; mentre alla sua voce facevan eco, con sinceri e pietosi lamenti, i poeti continuamente soccorsi e protetti da quella ideal figura di mecenate e di dotto: lo Stigliani, il Balducci, il Giustiniani, il Chiabrera, e molti altri (2). Una singolare e insperata fortuta capitava intanto ad Agostino. Egli, per consiglio di Ludovico d’Agliè, gentiluomo della corte di Carlo Emanuele I, aveva preposto all’edizione delle Pompe una dedica al Cardinale Maurizio di Savoia, affermando « che non si può parlar di virtù degna di un Principe Eroico, senza che il mondo corra a riverire nell’ altrui carte l’immagine del Duca (1) Prose vulg., ed. cit., p. 19. (2) Ibidem, p. 144: ved. pure Vita del Cesarini per il Favoriti, ed. cit., P- 438. — 137 — di Savoia » (1). n D’Agliè presentò il lavoro al Cardinal Maurizio con solennità, come d’ «uno dei più peregrini ingegni » di Roma, il 23 di marzo (2). Non sappiamo se corressero speciali trattative tra il Cardinale ed il Nostro. Fatto si è che questi entrava in quell’anno stesso al suo servizio, pur continuando a godere dell’ ambitissimo titolo di cameriere d’ onore del Pontefice. E mandava, definitivamente, le sue dimissioni dall’ufficio di lettore della Repubblica di Genova. (1) Ibidem, p. 85. (2) Adriani, op. cit., p. 558. CAPITOLO V. PRESSO IL CARDINAL MAURIZIO DI SAVOIA Carattere del Cardinal Maurizio. — Sua vita prodiga in Roma. — Suoi debiti. L’Accademia nel suo palazzo. — I giudizi del Testi. — Freddissimo incontro del Testi con Agostino. — Il Testi torna a Modena. — Gli statuti dell’Accademia. — Agostino sopraintendente. — Recita la prima orazione. — Gli altri accademici e i loro saggi. — Un accademico ardito. — Agostino tenta un affare. — L’ingratitudine dei d’Este. — 1 discorsi sulla Tavola di Cebete. — Agostino attende al suo epistolario. — Vuol dedicarsi agli studi storici. — Medita il piano della Storia d’Italia in continuazione a quella del Guicciardini. — Fa pratiche presso i Principi e le Repubbliche per avere il materiale occorrente. — I signori d’Este rifiutano. — Intromissione del Testi nelle trattative. — Partenza del Cardinal Maurizio. — Lamenti di Agostino. — Il Papa provvede. — Sulla cattedra universitaria. |J|5§j|RESS0 il nuovo signore ebbe il Nostro un inca-| rico ben diverso da quelli sostenuti fino a quel tempo presso altri. Il Cardinal di Savoia, purtroppo frivolo e ambizioso al punto da non voler trattare con chi avesse dimenticato di chiamarlo col titolo di Altezza, faceva, come suol dirsi, vita. Dalla sua villa di Torino, ove solevan tenersi per 1’addietro dotte riunioni e svariate rappresentazioni sceniche, avea condotto seco in Roma, nello splendidissimo palazzo di Montegiordano , letterati, musici, cantanti e persino buffoni (1). Il padre, fin dalla sua prima venuta nella città (i) Ved. le notizie sul fasto di queste abitazioni, in Rua, Poeti alla Corte di Carlo Emanuele / di Savoia , Reggio Emilia, 1899 , Loescher, p. 8 e 103. — 140 — eterna, gli aveva scritto « che in cotesta Corte particolarmente non si devono tralasciare tutte quelle cose che toccano le apparenze e che possono far qualche distinzione » : in quanto alle spese avrebbe provveduto egli stesso, come si conveniva (1). E davvero il Cardinal figliuolo non era uomo da trasgredire raccomandazioni siffatte. Si narra ch’egli uscisse sempre con un seguito di dugento carrozze, scortato da innumerevoli gentiluomini, cavalcanti destrieri riccamente bardati; che, per 1’ elezione dell’ imperatore Ferdinando III, facesse uscir vino da un fonte a beneplacito del popolo; che arricchisse, con pitture d’autore e con sceltissime suppellettili, non pure il suo principesco palazzo , ma anche le diaconie affidategli di Sant’Eustacchio e di Santa Maria in Via Lata (2). E le spese per tutto ciò erano così forti che, non bastando l’appannaggio paterno, già sui primi dell’anno 1624 il segretario Vibò scriveva al Duca, chiedendo ulteriori soccorsi per il « Sig. Cardinale....... ridotto in estrema necessità, importunato dal numero dei creditori che esclamano, e più dubitando di qualche affronto »; ed egli stesso, il Cardinale, avvertiva, pochi mesi dopo, il fratello di aver dovuto impegnare gli anelli e persino il mensile paterno (3). Specialmente egli teneva a raccogliere in casa sua, com’era costume dei più cospicui personaggi ecclesiastici, il fiore della romana sapienza, per discutere d’arte e di letteratura: ora, il Mascardi, reputato uomo « singolare e non degno di essere lasciato nella turba degli ordinari », s’ebbe appunto l’incarico di organizzare e dirigere questi «virtuosi trattenimenti», che furono in- (1) Adriani, op. cit., p. 184. (2) Moroni, op. cit., vol. X, p. 118; vol. XXV, p. 156; XLVI, pagina 277 ; LXI, p. 310. (3) Adriani, op. cit., p. 232. — hi — detti per la stagione primaverile del 1625, nel palazzo del Quirinale. Che cosa avvenisse là dentro, lasciamolo raccontare da Fulvio Testi: « Domenica si fece la Canonizzazione di Santa Elisabetta, Reina del Portogallo, con apparato bellissimo. Il Cardinal di Savoia, come parente della Santa, fece fuochi la sera e illuminò le finestre del Palazzo con bellissimo artificio. Farà anche allegrezze private in casa e il Signor Mascardi farà l’orazione in lingua toscana. Si vedranno diversi componimenti e ne manderò copia a V. S., se averò fortuna di metterli insieme. Giovedì prossimo passato, andai al-l’Accademia ; si fecero orazioni e discorsi e si recitarono alcune poesie. Non udii cosa che meritasse titolo di eccellente, e, per dirla a V. S. sinceramente, io restai scandalizzato di tanta mediocrità. Le cose migliori furono quelle dell’Arcidosso, il quale è quel contadino dello Stato di Firenze che fece la Fiesole distrutta » (1). In un’ altra lettera , pur come questa diretta al Molza, poco dopo, il 7 di giugno 1625, continuava : « Fu cantato un poemetto preziosissimo di Monsignor Ciampoli dalle più eccellenti voci di Roma, cioè a dire di tutta Europa. Quindi si mutò stanza. Questa era una sala tutta dipinta di nuovo, a colonnati; e ciascheduna base era scritta di qualche composizione latina o toscana in lode della Santa. Il Signor Mascardi fece l’orazione, e, sebbene fu lunghissima, fu però bellissima, a imitazione delle verghe d’oro, che, quanto più sono lunghe, tanto più sono preziose. Si recitarono poi varie composizioni. Le latine furono migliori delle toscane: ma tutte, a mio giudizio, restarono inferiori alla mediocrità » (2). Così il Testi, il quale indubbiamente riesce un po’ sospetto (1) Lettere, in Opere scelte del conte D. Fulvio Testi , to. II, Modena, Soc. Tipog., 1817, p. 18; lettera 28 maggio 1625. (2) Ibidem, p. 20; lett. 7 giugno 1625. — 142 — nei suoi giudizi. Egli era venuto a Roma con la speranza anche questa volta di fermarsi presso qualche Cardinale, che avrebbe potuto benissimo essere il Maurizio: s’accontentava sempre, per quanto scriveva al Molza, di una quarantina di scudi al mese, oltre la casa, la carrozza e qualche altro beneficio ; dichiarandosi pronto del resto a ricambiare con l’immortalità un onere sì tenue per sì illustre padrone. È chiaro insomma che egli mirasse ancora a « scavalcare » il Mascardi ; e, infatti, in un’altra lettera al Molza, s’occupava sempre di lui e mostrava di invidiarlo, più che per altro, per la concessione eh’ egli aveva ottenuta di andare in carrozza (1). Si era anzi recato a visitarlo in casa. L’incontro era stato freddissimo, naturalmente: e, a dire la verità, il Nostro ne aveva d’ onde, conscio com’ era dei tiri lattigli nel passato. « Vidi il Signor Mascardi (raccontava il Testi) a Palazzo e gli feci i complimenti alla sfuggita. Oggi sono stato a casa sua, per riverirlo nella forma conveniente. M’ha fatto aspettare nell’anticamera una mezz’ora; e, mentre io m’era incamminato alla scala per partire, egli è sopraggiunto scusandosi con bel modo. L’ho trattato sempre da V. S. Ill.ma e non gli ha fatto gran dispiacere. M’ha tenuto in piedi passeggiando; ed egli ha serbato gran sussiego, ed io grandissima u-miltà » (2). Anche questa volta, com’ è noto, il poeta dovè tornarsene a Modena senz’ aver approdato a nulla (3). Nell’anno seguente l’Accademia, nel palazzo di Montegiordano, venne meglio sistemata con statuti; e prese il nome di Accademia dei Desiosi e il motto Non uni consistam. Il Mascardi fu nominato sopraintendente e (1) Rua, op. cit., p. 106. (2) Lettere, ed. cit„ p, 11; lett. 30 aprile 1625. (3) De Castro, op. cit., p. 42. — 143 — forse compilò egli stesso gli statuti (1). È credibile cher se pure avesse, prima del ’25, esercitato anche l’ufficio di segretario, che tutti i biografi, nei loro generici cennit gli attribuiscono presso il Cardinale, ma che nulla prova egli aver davvero tenuto; è credibile, dico, che ora lo lasciasse, troppe essendo le cure che questa carica richiedeva. Avvertono gli statuti che nell'Accademia dei Desiosi « principal fine è l’impiegar chiunque in essa verrà ascritto, in vari esercizi, sì d’armi che di lettere, onde egli possa rendersi al cospetto dei suoi Principi e per l’uno e per l’altro più amabile ». Si variava quindi il genere del trattenimento, secondo i giorni: il mercoledì si discorreva « intorno alli costumi delle accademie antiche, come, per esempio, dell’accademia peri-patetica, della stoica e delle altre, approvando o biasimando quelle cose che si stimeranno degne di lode o di biasimo ». Tali discussioni furono aperte dal Mascardi stesso, il quale fu obbligato a « ubbidire, ragionando, poco meno che all’improvviso », intorno alla necessità degli esercizi letterari nella Corte, e dimostrando,, in conclusione, che « il Cortigiano men dotto dee rallegrarsi di ricever, sedendo, dall’altrui bocca, in due parole, quella dottrina che altri, per gl’infiniti volumi dei filosofanti, con incredibile fatica han raccolto »; e che il Principe, meno di tutti atto a erudirsi su quei volumi, doveva rifarsi con lo stesso mezzo, senza perdita alcuna di tempo e di fatica. Giustificava insomma il Nostro l’Accademia nelle sue origini e nelle sue ragioni. I discorsi da tenersi dovevan poi riguardare, egli specificava , la filosofia civile e comprendere argomenti speciali svolti per via di dottrine astratte (2). A lui segui- (1) Una copia fu scoperta dall’Adriani nelle biblioteche torinesi e pubblicata in appendice all’op. cit. (2) Che gli esercizi di lettere sono in Corte non pur dicevoli niu ne- — 144 — rono nell’arringo diversi « nobilissimi ingegni »; e i loro « saggi » furono più tardi raccolti in un volume dal solerte sopraintendente e dedicati dall’ editore a Don Valeriano Zanucca Scaglia, abate di San Francesco in Brescia (1). Apriamo il volume, scorriamolo, armati della pazienza di Giobbe; e non potremo che uniformarci al giudizio del Testi. Girolamo Aleandri, che troveremo fra i più strenui difensori del Marini, insegnava il modo con che devono comportarsi i saggi letterati cortigiani, per non esser dalla Corte, quasi da novella Circe, in sembianza di brutti animali trasformati; e concludendo, sulla base delle dottrine stoiche, che il cortigiano « deve rintuzzare gl’ immoderati appetiti e non lasciarsi ingolfare quasi rapido torrente nella cupidigia degli onori », perchè suo fine supremo è « l’adoprarsi di non conseguir le dignità, ma di meritarle ». Il conte Virgilio Malvezzi, un romanziere mancato, cercava di provare, per mille ragioni debitamente enumerate, e attraverso ad uno spaventoso afìastellamento di esempi e di citazioni erudite, « esser vanità creder che i letterati non siano proporzionati per ricever premi nelle Corti »; e trovava modo d'inneggiare « ai tempi migliori » del presente, « essendosi in colui che siede nel Vaticano, congiunte le prerogative d’Orazio, di Mecenate e d’Augusto ». Il bali Galeotto degli Oddi, per dimostrare vera la sentenza Unusquisque est suae sibi fortunae faber, architettava un ingegnoso ma vano sistema di attribuzioni concesse cessari: nell’aprirsì dell'Accademia in casa del Serenissimo Principe Car-dinale dì Savoia, in Prose vulg., ed. cit., p. 2 ; ved. Rua , op. cit., pagina 9, n. 3. (0 Saggi accademici dati in Roma nell’Accademia del Ser.ino Principe Card, di Savoia da diversi nobilissimi ingegni, raccolti e pubblicati da Mons. Mascardi, Cameriere ecc., Prose, ed. cit., p. 219 e sgg. — 145 — da Dio alle lorze della natura, suddivideva scolasticamente in casi diversi gli accidenti fortuiti e ciascuno di questi sosteneva con esempi tratti dagli antichi. Il marchese Sforza Pallavicino, nipote del sunnominato Malvezzi, scopriva in ogni scienza la prova che la volontà sia da stimarsi di gran lunga più nobile e più sublime dell’intelletto. Pier Francesco Paoli dimostrava per giunta — come se ve ne fosse bisogno — la sentenza che vexatio dat intellectum ; il canonico Alfonso Pandolfi chiariva che nella Divina Scrittura si contengono tutte le scienze; Matteo Pellegrini paradossava che il dir male non è del tutto male; il Cardinal Giulio Rospigliosi trattava dello scorruccio ; Agazio Somma dell’ origine dell’Anno Santo ; Girolamo Rocco del nosce te ipsum, Marcello Giovannetti....... degli specchi attraverso i secoli; Francesco Buoninsegni dell’odio di Saul; Angelo Cardi della calamità delle Corti; Giuliano Fabrizi del-1’ ambizione del letterato. È proprio il caso di domandarci se questa fosse la « filosofia civile » da trattarsi nell’ aristocratica adunanza e se potessero davvero i Principi, con questo sistema, erudirsi agevolmente. In verità eran semplici esercitazioni rettoriche, ove ognuno cercava di superar gli altri nella stranezza delle immagini , nella sottigliezza delle distinzioni e nella copia di un’erudizione raccogliticcia e sazievole. Uno di quei discorsi soltanto, quello di Giuliano Fabrizi, richiamò giustamente 1’ attenzione della critica moderna (1). Il Fabrizi procedette contro corrente: laddove gli altri aspettavano l’invito per parlare, egli si profiferse spontaneamente e fece anzi « preghiere per essere sentito »: poiché gli altri condivano i loro detti con scuse « di riverente obbedienza », volle dimostrare che chi parlava in pub- (i) Rua, op. cit., p. 8 e sgg. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. io — 146 — blico, ciò faceva, lui non escluso, per mera ambizione; e, benché tutti fossero soliti a richiamare l’autorità del-Ylpse dixit, egli sdegnò di autorizzare i suoi pensieri « con la maestà di alcuno scrittore ». E il discorso riuscì davvero attraente, pieno di buon senso , di libertà , di umorismo. Immaginiamoci però quale effetto dovesse fare sull’animo di quel letterato pecorume un viluppo di arditezze siffatte : « Che schiavitudine di mente è quella di non profferir parola se non scritta dagli antichi ? non approvar concetto se non autorizzato dai filosofi? Compariscono molti in su le stampe e nel primo ingresso dei lor libri registrano in ordinanza di alfabeto una lunga serie di autori citati, mettendo quasi nel portico del loro edificio una temuta guardia di svizzeri provvisionati, che a primo aspetto spaventino tutti coloro che con la spada della maldicenza potessero ferir la riputazione dello scrittor moderno. Ma io volentieri intenderei da costoro che gloria finalmente pretendano da sì prolissa ostentazione di citazioni. Se gli scrittori allegati non dicono veramente quel che i moderni proferiscono, chi non vede che questo è proprio un condur davanti al tribunal del pubblico giudicio tanti testimoni che li redarguiscono di falsità? E se dicono veramente il medesimo, che altra corona possono mai essi pretendere che quella alla quale è lecito aspirare ad ingegni mendicanti di parole e copisti di concetti? Sarebbono comportabili questi tali che, non possedendo del proprio, vivono di roba accattata, se l’ambizione che hanno di vedersi depositari delle guardarobe altrui, non facesse loro odiar quelli che sono possessori delle proprie. Ma talvolta questa idolatria dell’anticaglia incanta e imperversa sì fattamente gli studiosi che non possono senza nausea e abborrimento assaporar le meraviglie delle novelle invenzioni. Lo scoprire una falsità in un libro — 147 — riverito da loro, non par minor sacrilegio che 1’ abbruciare un tempio. L’esperienze, che son caratteri della natura e parole di Dio, son talmente odiate da essi che, chiudendo gli occhi per non vedere, aprono subito le labbra per avvilirle. E io so, quando il novello occhiale scoprì nella luna le apparenze incognite all’ antichità, essersi trovato filosofo famoso, che, negando l’avvicinar lo sguardo al cristallo, ricorreva ad un discorso di Plutarco , amando piuttosto di vagheggiar le stelle nei libri che nei cieli » (1). Io credo che il discorso, poiché s’era negli ultimi giorni del carnovale, passasse per burlesco e solo come tale si adattasse il Mascardi a raccoglierlo con gli altri nel volume dei Saggi, consigliatosi anche col Cardinale, cui non dispiacque coprire, con 1’ egida del suo nome, il bel gesto di un suo accademico. Non mancò tuttavia di preporvi la scritta: Recitato il Giovedì prima delle Ceneri; e di ribattere poi ben chiaramente il concetto, nella prefazione al trattato dell’arte istorica, affermando ivi di pensare « molto diversamente da coloro che di trarsi tutto dalla nuca stolidamente si vantano, senza sentirne obbligo agli autori eccellenti ». E tanto sia detto — avrebbe potuto egli aggiungere, se fosse stato sincero — per il Sant’Uffizio. Ben altro cercava allora il Mascardi, fra lo sfavillar di candelabri e il cicalar di tanti illustri, che delle beghe! Trascorse tranquillamente la villeggiatura. Al cominciar della stagione rigida, « era ben ragione che, dopo i trionfi di Bacco , accompagnati da’ vendemmiatori, si ritrovassero, nel mese appunto di novembre, da’ letterati, conforme all’ uso antico, le solennità di Mercurio ; era dicevole che a Pomona succedesse opportunamente (i) Saggi, ed. cit., p. 257. — 143 — Minerva e che la licenza delle oltraggiatoci vendemmie con la severità della filosofia si castigasse »; e il Nostio apriva il nuovo ciclo delle adunanze, ripigliando, come il solito, a dimostrare con nuovi argomenti la necessità di cotali trattenimenti, « perchè l’introdur nella Corte trattenimenti di lettere è paruto ad alcuno tanto fuor di proposito quanto il seminar nell’arena, l’arar 1 oceano e lo stringer in una rete il vento » (1). Mentre così attendeva al suo ufficio di sovraintendente dell’Accademia, s’ arrabattava in ogni modo per trovare altri cespiti di guadagno. Essendogli giunta notizia che l’abate Urbani di Garfagnana, intendeva cedere il titolo della sua ab-badia per un vitalizio, il Nostro scrisse subito ai Signori di Modena, affinchè intercedessero per quell affare: ma i d’Este non risposero (2). Per ottenere quel beneficio, egli aveva promesso e già ottenuto, brigando a dritta e a manca, la croce di Santo Stefano dall Arciduca Leopoldo di Firenze, che doveva, in cambio, esser conferita al nipote dell’ abate. Tutto andò in fumo (3). Già, il Nostro capiva eh’ era proprio inutile ormai ri volgersi più ai Signori Modenesi, i quali non si cui a-vano di lui. Il Cardinale Alessandro, per colpa del quale egli lamentava sempre tante sventure passate, eia poi morto senza nemmeno lasciargli un ricordo nel testamento. Non avrebbe desiderato denaro, ma semplice mente « a titolo di gratitudine qualche notevole riconoscimento , il quale era........ desiderato leggerissimo e di niun prezzo, ma solamente di riputazione, nel cospetto (1) Discorsi accademici, dise. I, Della giudiziosa congiunzione dell Ac cademia e della Corte, p. 13-16. (2) App. I, lett. 24 agosto, 7 settembre, 30 ottobre 1624; 10 ottobre, 20 e 31 dicembre 1625; 15 maggio 1626; nn. 119, 120, 121 , 124, 126, 127, 132. (3) App. I, lett. 26 giugno 1626, n. 133. — 149 — della Corte, che restò maravigliata di tanta ingratitudine » (1). Andassero però guardinghi tutti questi mal-riconoscenti! Stuzzicare, disconoscere, dimenticare un letterato, e un letterato come lui, poteva riuscir pericoloso assai ! Visto dunque che per quella via la fortuna continuava a schernirlo, s’attaccò vieppiù al Cardinal Maurizio e avrebbe voluto dargli un segno pubblico di o-maggio , di riconoscenza. Perciò decise di pubblicare, senz’aspettare, com’era suo desiderio, il secondo volume, quei discorsi sulla Tavola di Cebete Tebano che avea pronunciato a Genova, e di dedicarglieli. Nella dedicatoria infatti diceva: «Non posso io giustamente donargli ad altro Principe, perchè, essendo questo l’unico avanzo delle mie dissipate fortune, debbo dichiarare al mondo, col mezzo loro, 1’ unico porto del mio mal conosciuto naufragio. Dico molto nel poco e assai più sento di quel ch’io dico: a Vostra Altezza, che sa con magnanimità senza esempio sollevar calamità senza colpa, appartiene l'intendere, nella considerazione dei suoi infiniti favori, la qualità della mia perpetua divozione ». Al lettore avvisava poi di pubblicarla, per dar indice della sua attività, ben diversa da quella che le male lingue gli accusavano rivolta a cure d’ altro genere : « Ho più caro che si sappia in che io consumi il mio tempo e dov’inchini il mio genio, testimone l’uno e l’altro del mio costume ». Ricordiamo questa dichiarazione per quando queste accuse verranno in chiaro e dovremo prenderle ad esaminare allo scopo di riuscire a un giudizio più sereno e storicamente esatto sul nostro uomo. Divisava questi di raccogliere anche le lettere che via via aveva dovuto tirar giù, e si raccomandava agli amici di Mo- ti) App. I, lett. 24 ottobre 1626, n. 134. — 150 — dena, di Genova e di Ferrara che gliene mandassero di quelle private, dolendogli oltremodo di averne disponibili solo alcune ch’egli avea composto per conto dei vari padroni. E dovevan essere, secondo un suo calcolo approssimativo, più di trecento. Ma questo proposito restò frustrato dalla difficoltà di raccoglierle presso i destinatari: solo il Molza rispondeva diligentemente alla domanda, promettendo di esaudirla, e le lettere da lui salvate — più di un centinaio — e debitamente ricopiate, ma senza indicazione di fatti e di nomi compromettenti, sono appunto quelle da noi rintracciate in un codice magliabechiano, e riportate con altre, in ordine cronologico, nell’epistolario. Rivolse allora ogni sua industria agli studj storici. Già avea tentato la poesia, già s’era reso illustre nell’eloquenza: voleva cimentarsi intorno a monumenti, per il loro carattere, più durevoli. Pensò quindi di continuare la Storia d’Italia dal punto ove l’aveva interrotta il Guicciardini e di toccare « anche le materie da lui trattate negli ultimi quattro libri, per esser quelli più tosto abbozzatura che perfetta composizione d’ autore sì rinomato » (1). Certo non fu egli mosso soltanto da così onesti intendimenti : riteneva anche che non gli sarebbero mancati favori materiali da parte dei Principi, in massima desiderosi di trovar esaltate in un’istoria le imprese dei maggiori e le loro proprie; e che gli sarebbe stato facile impartire con la penna qualche giusta punizione per certe male azioni subite. Purtroppo abbiamo ragione di affermare, sebbene di mala voglia, che ciò gli mulinasse nell’ardente cervello: e vedremo perchè. Naturale tuttavia ch’egli, esponendo più volte il suo disegno nei vari scritti, anche privati, si protestasse sempre animato dai sentimenti n) App. I, lett. 12 novembre 1627, n. 135. — i,5i — più retti e da una perfetta coscienza della missione spettante allo storico. « Quando alcuni anni sono », scriveva in una sua lettera autoapologetica, « elessi di formar VIstoria d'Italia, proposi per bersaglio in cui mirasse ogni mio studio e fatica, la verità.......Posta in disparte ogni animosità e dichiaratomi........ cittadino del mondo , senza riguardo di nazione o di patria, debbo, come fedel ministro della verità, dispensar le lodi e i biasimi a chi dell’une o degli altri meritevole con le sue operazioni si sarà reso. Nè lascerò d’onorar nel Franzese o nello Spagnuolo le vestigia della virtù e di riprendere nell’italiano le sembianze del vizio, comechè italiano io mi sia........ Nè mi si dica che dell’ eccellente oratore è proprio scrivere l’istoria; io non mi studio in questa fatica d’acquistar nome d’oratore eccellente, ma di storico tollerabile » (1). Si rivolgeva dunque a tutti i Principi e le Repubbliche d’Italia, per aver documenti. Di molti non abbiamo potuto rintracciare la risposta. La Repubblica di Genova, cui egli s’era indirizzato subito, invocando che gli s’inviassero le notizie opportune e aggiungendo « con sicurezza di dover essere da me servite [le S. V. Ill.me, ossia i senatori] con la fede e al-fetto eh’ io debbo loro per ogni titolo, salva la verità prescrittami dalla coscienza, dalla riputazione e dal fine che debbo avere del pubblico beneficio » (2); rispondeva in buona fede che nulla, per il tempo passato, aveva da offrirgli di più di quello eh’ egli stesso avrebbe potuto agevolmente « cavare dalle storie e dai manoscritti »; che però , arrivato ai tempi moderni eh’ ei fosse, « si procurerà raccordargli qualche cosa delle più sostanziali » (3). La Repubblica di Lucca non mancò di tener (1) Ved. lett. sulla Congiura, pubbl. da A. Neri, in Giorn. Lig., VI, p. 107. (2) App. I, lett. 12 novembre 1627, n. 135. (3) R. Archivio di Stato di Genova, Alti del Senato, n. 626. — 152 — conto delle sue richieste (1); e così devono aver fatto molte altre. Nello stesso tempo egli cercava di ottener ragguagli storici dai Signori di Modena ; forse, con questo mezzo avrebbe potuto solleticarne l’ambizione e riavvicinarseli. A Roma era da poco ritornato Fulvio Testi per la quarta volta e s’ era ancora ritrovato col Mascardi, tanto potente e rinomato ormai da costringere l’irrequieto servitore della famiglia ducale a prestargli più umile omaggio che per l’addietro. Ottima pareva l’occasione per preparare il Duca a mezzo altrui, prima di scrivergli direttamente, col pericolo di averne un rifiuto. Il Testi, che forse avea bisogno del Mascardi per conto suo, non negò di farsi intermediario in quel negozio, e con una sua lettera raccomandava caldamente a Francesco d’Este, perchè intercedesse presso il Duca, l’antico servitore del Cardinale Alessandro, come persona d’ingegno eminente e devota assai per animo alla Casa. Ma quegli, nella risposta, fra molte frasi complimentose, lasciava ben capire che la cosa non poteva tornar gradita al Duca e che egli, per ciò che dipendeva da lui, non poteva approvarla, perchè credeva difficile che il Mascardi, dovendo di necessità venire alla quistione di Ferrara, s’inducesse a scriver più a favor della Corte che non della Chiesa; e « il dare (conchiudeva) molte (i) R. Archivio di Stato di Lucca, Magistrato dei Segretari, reg. 8, c. 24V. « A di 9 Maggio 1634, Martedì...... Il Magistrato etc...... in nu- mero pieno...... ha deliberato l’infrascritto Memoriale per 1’ Ecc."10 Con- siglio. — Ecc.mi SS.ri, Ha il Magistrato nostro presentito che il Mascardi, assai famoso nelle scienze, habbia risoluto di mandare alla stampa un libro di Istorie ; e perchè noi stimeremmo gran servizio pubblico che non solo vi comprendesse qualche cosa della Repubblica , ma anche si trat- tasse di essa conforme alla verità e con honorevolezza , ci siamo risoluti di significarlo all’Ecc.m<> Consiglio, affinchè possa far considerare e quello si possa mettere alla stampa et il modo col quale si deva procurare da chi più si piacerà. E li facciamo reverenza. 11 Gonf.0 e Sig.ri ». — 153 — scritture in materia di tanta importanza in mano di chi ha la sua dipendenza dalla parte, sarebbe risoluzione pericolosa » (1). Appena capito qual vento spirasse, il lesti si buttò tutto ad approvare il Principe, cercando peiò di mostrare la buona fede del Mascardi e più ancora la sua propria. Al Ser.mo Principe Francesco d’Este, Col solito prudentissimo giudicio V. A. discorre intorno al supplemento che Mons. Mascardi disegna di fare all’Istorie del Guicciardino; e, quando egli avesse la dipendenza eh’ Ella suppone, potrebbe ragionevolmente dubitarsi ch’egli non fosse per iscrivere con qualche interessata parzialità. Non siamo, per quanto io credo, in questo caso, e dai ragionamenti avuti con esso lui, mi è paruto di scorgere eh’ egli sia anzi male affetto che ben disposto a quella parte. Da loro non ha finora conseguita cosa alcuna; tutto il bene ch’egli ha presentemente, il riconosce dal Sig. Cardinale di Savoia ; e, se non fosse stata la benignità di quel principe, l’avrebbe fatta molto male. Per mezzo dell’autorevole patrocinio di V. A. disegna di provecciarsi in certo negozio che , piacendo a Dio , spero di dirle a bocca fra pochissimi giorni. V’aggiungo che il suo pensiero non e di scrivere in Roma, ma di ritirarsi a Padova, citta molto sicura per quelli che senza passione e riguardo vogliono correre il campo di una veridica istoria. Questi motivi, oltre le istanze d’esso Sig. Mascardi, mi fecero scrivere alla maniera che V. A. ha veduto, e per la mia parte l’assicuro che non ci ho altra premura che quella che porta seco il fedele e devotissimo zelo' che ho ed avrò sempre in tutti gl interessi di cotesta Serenissima Casa. Guardi Dio.... l’A. V., alla quale riverentemente m’inchino. Di Roma, 30 Novembre, 1627. Fulvio Testi (2). (1) R. Archivio di Stato di Modena , Cancelleria ducale; Letterati; lett. 27 novembre 1627. (2) Lettere, ed. cit., p. 27. II « certo negozio » era senza dubbio quello dell’ abbadia. — 154 — Tuttavia il Nostro, che avea scritto direttamente, sperando nella commendatizia del Testi, due lettere, una al Duca Cesare e 1’ altra al giovane Francesco, ricevette dal Duca una risposta molto complimentosa, il 26 di dicembre 1627, ma contenente un esplicito rifiuto (1). Quanto ciò gli cocesse, è facile supporlo da queste parole, onde, più tardi, nel Y Arte istorica , trattava della difficoltà di ottenere documenti dai Principi : « Incamminano inoltre i Principi i loro affari con segretezza sì grande, che il penetrargli fino al midollo è assai più malagevole che non fu la dichiarazione dell’enimma proposto dalla Sfinge. Nè monta il dire ch’agli scrittori si comunicano le segreterie, in cui si custodiscono registrate non pur le lettere degli ambasciatori, l’istruzioni date a’ ministri, le relazioni riportate da loro, i pareri de’ consiglieri di Stato, e cose tali; perchè bene spesso si lasciano solamente vedere quelle memorie che giovano agl’interessi e secondano l’intenzione di quel signore che le partecipa....... Senza che certe importanti notizie che possono col tempo recar pregiudizio o nella riputazione o negli stati, volontariamente si seppelliscono.......; l’istruzioni segrete che non si vogliono comunicare....... a quant’ inganni lasciano esposto il povero componitor dell’istoria! » (2). E non vorrei ch’egli cagio- (1) R. Arch. di Stato di Modena, Cancelleria due., Letterati; lett. 26 dicembre 1627: « Al Sig.r Agostino Mascardi, Io non so come compia nelle presenti congiunture a gl’ interessi di questa Casa , il dar fuori informationi sopra le materie di che V. S. mi scrive , et in conseguenza dubito che non si potrà sodisfare al suo desiderio. Gradisco però l’amorevolezza della sua intentione, la quale potrà in ogni modo far apparire col seguitare 1’ historié di quelli che hanno scritto più favorevolmente e com’io credo più veramente di questa Casa. Intanto la ringratio quanto si conviene de’ sentimenti che mostra verso di essa e »arò disposto a renderlene buon cambio nelle sue occorrenze. Il Signor le dia ogni prosperità ». (2) Arte istorica, ed. cit., p. 93. Sono notevoli anche, a questo prò- — 155 — nasse il Testi di tal nuova disavventura, sebbene, questa volta, a torto (1). Ma davvero poteva sempre dirsi più fortunato di lui, giacché, mentre al povero poeta l'invidia stava già tramando le note sciagure nella Corte modenese, egli, senza quasi aspettarselo, veniva maggiormente beneficato dallo stesso Urbano Vili, costante ammiratore del suo ingegno e della sua attività letteraria. Il Cardinal Maurizio era, sin dal principio dell’anno, ritornato improvvisamente a Torino, per provvedere alle piaghe del suo appannaggio e per sottrarsi alle pressioni dei cre-ditoii, che d’ogni parte gli si affollavano intorno (2). Al Mascardi, così, non restava più che la carica onorifica, ma infruttuosa di Cameriere del Pontefice e cominciava naturalmente a lagnarsi, come il solito, a implorare soc-corsi, a cercare nuove occupazioni; tanto più che le cause, per le quali il Cardinal padrone avea dovuto as- posito, alcuni aforismi ch’egli rivolgeva al principe, p. 135 e sgg. : « Si persuadano i principi che ’l mondo non può star senza istoria e che tutti secoli produrranno uomini ambiziosi di scrivere , perchè non sono mai per mancar persone curiose di leggere....... Sappiano che il vietare agli sciittori lo scrivere non è rimedio che saldi le piaghe loro....... Considerino che i grandi ingegni, ingiustamente irritati, crescono di valore e di forza ecc...... ». (0 Così racconta il caso, falsamente, il De Castro, op. cit., p. 48: « Gli Estensi questa volta...... continuarono ad adoperarlo [cioè il Testi] ln R°ma, segnatamente per guadagnare l’animo di monsignor Mascardi, che divisava di scrivere la continuazione delle istorie del Guicciardini e di ritirarsi a Padova, luogo sicuro. Ambivano gli Estensi la lode di quello scrittore, che godeva allora molta estimazione, e il Testi informa di a-vergli parlato, e che lo storico renderà giustizia al merito ed omaggio alla verità »! (2) Adriani, op. cit., p. 228. Sulla condotta politica del Maurizio, durante la sua dimora in Roma, non ho ragione d'intrattenermi, considerate le attribuzioni meramente letterarie del Mascardi presso di lui. Ved. in ogni modo Claretta, Storia della reggenza di Cristina di Francia, Torino, Civelli, 1868, P. I, p. 44 ; e Curti , Carlo Emanuele I secondo i più recenti studi, Milano, Bernardoni e Rebeschini, 1894, p. 175. — 156 — sentarsi, non erano, per lui molto bene informato della verità, troppo rassicuranti. Essendosi reso vacante un posto di professore d’ eloquenza nell’ Università di Bologna, il Pontefice pensò subito di collocarvi il Nostro. Temendo però di recar disgusto al Cardinal Maurizio, mandò monsignor Ciampoli, il suo cameriere segreto, dal D’Agliè, a esporgli il proprio divisamento e ad ufficiarlo per sentire quali fossero gli umori del padrone. Questi, che forse ne avea abbastanza del suo protetto, e che in ogni modo non avrebbe potuto valersene subito, perchè prevedeva di doversi trattenere a lungo lontano da Roma, rispose che non avrebbe desiderato affatto di fargli perdere « una così buona provvigione » (1). Ciò non ostante il Mascardi non accettò d’ allontanarsi dalla città « maliarda »; pregò, scongiurò nuovamente il Pontefice: e questi, anche mosso dai suggerimenti del nipote, Cardinal Francesco Barberino, sopraintendente alla Commissione di vigilanza sull’ istruzione superiore in Roma, decise alla fine di accontentarlo, creando per lui una nuova cattedra nella Sapienza e destinandovelo professore di eloquenza, a cominciare dall’anno 1628(2). (1) Ved. lett. del 24 e 31 dicembre 1627, citate dal Rua, p. 106. (2) All’intercessione del Cardinal nipote, che avea la tutela dell’ Università romana (cfr. Carrafa, De Gymnasio romano et de eius professoribus, Romae, Typ. A. Fulgonii, 1751, p, 215), accenna il Mascardi con viva riconoscenza nella prefazione ai volumi ove raccolse il succo delle sue lezioni. Il Breve di nomina reca queste parole: « dilecti fili Augustini Mascardi clerici Lunensis Sarzanensis ac familiaris continuo comen-salis nostri eximiae doctrinae et spectatae multarum litterarum scientiae atque eruditionis aliarumque insignium virtutum »; Giustiniani, Gli scrittori, p. 24. -e) »-«4^ (s- CAPITOLO VI. SULLA CATTEDRA DELLA SAPIENZA Stipendio e insegnamento di Agostino. — I! collega dell’ora mattutina. — Attriti col Gaudenzi. — Ammirazione riscossa da Agostino. — Le Iodi dell’A-chillini. — L’uditorio. — Agostino trova faticoso l’incarico. — Gli studenti universitari nel seicento. — Agostino continua ad occuparsi della storia d’Italia. — Scrive la Congiura. — Lodi e critiche. — Agostino si difende dal-1’ accusa d’ « interesse e venalità ». — Il Cardinal Francesco Barberini presta orecchio ai nemici di Agostino. — Gli screzi col Cardinale Ubaldini e con il Galluzzi. — Agostino va in carrozza. — Spende troppo. — Cambia casa e finisce in una topaia. — Ha occasione di nominare la « botte di Diogene » in piena scuola: e perchè. — L’eloquenza di Agostino serve a qualche cosa. — Il Cardinal Francesco si commuove. — Agostino ottien licenza di allogarsi presso un padrone. — Rifiuta la nomina di professore all’ Università di Pisa. — Le cariche e gli uffici fortunatamente crescono. — Agostino segretario del Cardinal Carlo de’ Medici. a cattedra serotina di rettorica, alla quale il Nostro saliva il 3 di aprile, era stata da Urbano Vili restituita alla Sapienza Romana, dopo che, per tutto il pontificato di Paolo V, avea dovuto, ora per una ragione ora per l’altra, restar vacante. Egli otteneva così tutti i privilegi concessi a coloro che vi professavano l’insegnamento, e uno stipendio annuo di cinquecento scudi d’ oro, superiore a quello che per consuetudine avevano percepito i suoi predecessori, e suscettibile, secondo i regolamenti, di un aumento in proporzione del tempo di servizio e del merito perso- $ I naie (1). Avrebbe parlato là dove avevano prima di lui, fra innumerevoli controversie, divulgato i segreti dell’eloquenza Giano Parrasio, Romolo Amaseo , Silvio Antoniano , Aldo Manuzio, Marc’Antonio Mureto : ingegni troppo noti agli studiosi perchè s’abbia a spendervi intorno qualche parola di lode. Intanto la cattedra di rettorica dell’ ora mattutina continuava ad essere retta dall’ onorevole suo collega Enrico Chiffelio, d’Anversa, successo a Bernardo Guglielmo di Monte Sansovino nel 1624, e beneficato, dopo la nomina di Agostino, dello stesso onorario in scudi cinquecento, di dugento che prima ne riscuoteva. Era questi uomo di varia letteratura: alla poesia epica aveva dato il Granateios seu de Bello Granatensi per Fer-dinandum Regem Catholicum gesto (1615), lodatissimo in un carme di Giovan Battista Coccino ; alla drammatica, un ampliamento della Thebais di L. A. Seneca; all’eloquenza, parecchie orazioni, fra le quali si ricordavano , come insuperabili, quelle in esaltazione di Paolo V e del Cardinal Ludovisio Ludovisi (2). Col Mascardi, che si sappia, non ebbe mai ad altercare ; e ciò basti per inferirne che le relazioni fra i due colleghi dovevan correr fredde ma tranquille. Insegnavano anche, in quegli anni, alla Sapienza, Domenico Campanella di Putignano, professore di filosofia e già ben visto per il suo celebre libro contro Giansenio; Pietro Castello, istruttore delle due logiche; Zaccaria Zaccaria, di etica ; e Paganino Gaudenzio , famosissimo oratore, passato all’ Università di Pisa poco appresso, a dar nozioni di lingua e letteratura greca. Specialmente con (1) Carrafa, op. cit., to. I, p. 247; II, p. 321; ved., anche Renazzi, Storia della Università degli Studj di Roma con saggio storico della letteratura romana, to. III, Roma, 1805, Paglierini, p. 96, g V. (2) Carrafa, II, 320; Allacci, Apes, ed. cit., p. 177. — 159 — quest’ ultimo ebbe il Nostro qualche dissapore, venendo a sapere eh’ egli criticava in pubblico le sue private abitudini e la sua ambizione (1). Sebbene salisse Agostino a dar prova di sè ov’eran maestri che ricordavano e citavano per intero « totum Platonem, Aristotilem, Hippocratem, Galenum, Chemi-stium, D. Ihomam aliosque », tuttavia riscosse dopo breve tempo un’ insolita ammirazione. L’Achillini, che pure era stato morso dalle sue satire giovanili, gli scriveva ora , ricordando 1’ amicizia saldatasi poi negl’ incontri di Ferrara, Roma, Venezia, Milano e Bologna: « Voi...... con la vostra penna mantenete le stampe nel possesso di quegli onori che tutto il giorno ricevono dalle cose vostre, e con la vostra lingua tenete in vita le glorie di cotesta nobilissima cattedra........ Se ben io dicessi che la vostra vena e tosca e latina corre perle orientali, che fanno tramontar la gloria d’ogni altro scrittore, e, se bene aggiungessi che il vostro ingegno è maggiore delle maraviglie che se ne fanno, direi cose note e cose volgari, dalle quali resterebbe defraudato del suo diritto lo splendore del vostro nome » (2). Un contemporaneo d’Agostino, poco dopo la sua morte, (1) Cfr. Chiabrera, Lettere, ed. cit., p. 202, in nota. Trovo nel Giustiniani, op. cit., a p. 25, riguardo alle relazioni del Mascardi col Gau-denzi, queste parole, il cui senso mi riesce incomprensibile: « non essendosi egli [il Mascardi] nel rimanente dimostrato uniforme con Oberto Foglietta, come ha fatto con altri scrittori che impugna, e venendo pari-menti tacciato da Paganino Gaudenzio, mi si darà motivo di far qualche riflessione nel libro degli Accademici Umoristi, per vedere quale di loro sostenga meglio le sue accuse ». Forse il Giustiniani, appoggiandosi alla testimonianza del Ghilini, il quale scriveva quando ancora il Mascardi era in vita, credeva che quest’ ultimo avesse già compiuto la vagheggiata 0-pera Imprese degli Accademici Umoristi. (2) Due lettere, l’una del Mascardi all' Achillini, i altra dell' Achillini al Mascardi sopra le presenti calamità, In Roma, per Lodovico Grignani, 1631, p. 24. 1 scriveva che « la memoria e copia incredibile d’ ogni dottrina che mostrava leggendo nella Sapienza di Roma, tirava ad udirlo ogni ordine di persone, con ciò sia che il nome solo facesse sì che niuno si vergognasse di far corona alla sua cattedra » (1). Egli stesso poi si compiaceva di notare, nel suo uditorio, dei «viri et eruditione et nobilitate clarissimi ». Aveva infatti tutte le doti che più attraggono nell’oratore : un porgere gentile ed espressivo, un aspetto bellissimo, una modulazione perfetta di voce : sembrava — narra il pur tanto maledico Eritreo — che cantasse, piuttosto che leggesse (2). Ciò non toglie però ch’egli fosse, come gli altri insegnanti, trascurato e quasi schernito dalla scolaresca romana, e che ben presto lamentasse « la soggezione di cimentar ogni dì la tolleranza fra gli strepiti di gioventù libera e mal disciplinata e molto più la fatica inutilmente dispersa in leggere agli scanni della Sapienza » (3). E (1) PlRANl, Op. Cit., p. 2. (2) Erithraei Pinacotheca, ed cit., p. 113. Di solito il Mascardi leggeva, anche nelle accademie. Ciò gli fu rimproverato a proposito dei discorsi morali sulla Tavola di Cebete; ed egli se ne scusò dicendo: « Nel rimanente ho parlato oggi, secondo il costume delle Accademie, con la scrittura innanzi a gli occhi, per sicurezza. Alcuni si dolgono di tale usanza; e pure a me non dà l’animo di fare altrimenti in angustie sì grandi. Si concedono a chi dee discorrere tre non interi giorni di tempo ! Io che sono assai tardo d’ingegno, tutto l’impiego in leggere e in comporre, e non basta: quando volessi applicarmi ad imparar alla mente la mia diceria, sarebbe di mestiere che il giorno ne divenisse maggiore, come fece per la vittoria di Gedeone, o s’allungasse la notte, come già per lo concepimento d’Alcide ». (3) Ved lett. I?] 1630, pubbl. dal Bartoli innanzi nWArte istorica. Il Tassoni a Paganino Gaudenzio, che andava a Pisa per insegnar lettere greche nell’ Università , raccomandava di mantenere la « gravità magistrale » coi giovani notoriamente indisciplinati, e aggiungeva: « Qui il Nostro [Lodovico Scapinelli] si porta egregiamente. Non so come a Roma riesca il Mascardi ». Ved. Vita del Tassoni, in Bibl. modenese del Tira-boschi, to. V, p. 181. — 161 — certo, se non riesce mai troppo onorevole per lui il disprezzo che sempre mostrò per i maestri, non aveva torto in questo caso di rimpiangere le fatiche dell’insegnamento, giacché innumerevoli sono le testimonianze del poco conto in che la gioventù teneva il lavoro dei professori universitari al suo tempo. Un francese, il Du Perron, dichiarava che meglio conveniva, per queste ragioni, esser professore in Francia con trenta scudi d’onorario che in Italia con trecento: ed è tutto dire (1). Mentre svolgeva il suo corso di disciplina oratoria, che più innanzi ci faremo ad esaminare, s’occupava di condurre sempre più avanti la narrazione storica in continuazione di quella del Guicciardini. Intanto, verso il ’29, componeva e finiva la Congiura di G. Luigi Fieschi; e pensava di darla fuori, per sentire il parere dei contemporanei e farne tesoro poi nell’ opera maggiore, non volendo « cadere in qualche inconvenienza di stile o d’altro », che gli rendesse inutile la fatica. Della sua Storia d'Italia egli diceva di far gran conto. « Le poche debolezze » già pubblicate, erano « nate a caso, frettolosamente, per servire all’occasione, senza fine di stamparle »; e le avea prese « per trastullo ». Questa della storia d’Italia doveva invece esser l’opera sua capitale, destinata a pubblica universale utilità; epperò « esser maneggiata con elezione e con prudenza ». Dava dunque con la Congiura un semplice saggio « una'compita azione con le sue parti, per aver occasione di tentar in essa tutti quei luoghi che in una lunga storia possono appresentarsi ». Aggiungeva poi, in fondo alla preti) Charle Dejob, De l'influence du Concile de Trente sur la littérature et les beaux-arts chez les peuples catholiques, Paris, 1884, p. 83-4. Ved. pure i curiosi aneddoti raccolti da A. Neri, Scandali degli scolari, in Passatempi letterari, Genova, Sordomuti, p. 1SS2, p. 15 e sgg.; e Gerboni, op. cit., p. 97. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Voi. XLII. 11 - 102 - — fazione, per i Principi cui s’era rivolto, un avviso molto significativo: « A fine di riceverne giovamento, ti priego di somministrarmi insieme quelle notizie che possono agevolarmi il cammino. Nel che ti bramo diligente ed esatto, acciocché tu non abbia poscia occasione di dolerti di me, se non troverai nelle mie istorie tutto quello che vorresti e nel modo che vorresti. To parlo chiaro! ». Il che voleva dire, in altre parole, e più chiare : nascondi, caro mio, quello che vuoi; mandami ciò che ti preme; giacché la mia storia mira sopratutto a compiacerti. Questa scrittura fu, prima della sua pubblicazione, portata al Cardinal Francesco Barberini, che non mancò di farvi alcune censure, di trattenerla alcuni mesi, d’indicare i punti da togliere; e finalmente, col consenso del potente mecenate, licenziata alle stampe (1). Innumerevoli lodi si levarono da ogni letterato consesso. La Congiura andò a ruba, sicché se ne divulgarono ben presto altre edizioni, alcune anche contraffatte, e la si tradusse persino in francese, in inglese e in spagnuolo. Ma non mancarono la critiche e gli attacchi, acri quanto mai; dei quali si fe’ portavoce, immediatamente, Brunoio Taverna, abate per allora alla Corte del Principe di Savoia , e ambasciatore poi nelle Corti di Germania. Gli scriveva il Taverna una lettera, privatamente, professandosi anzitutto sviscerato amico suo , e riportando soltanto, senz’assumere responsabilità di sorta, « quanto hanno procurato di opporre certi detrattori, seminando per le librarie, le adunanze dei letterati, opinioni e sensi, o equivoci in parte o falsi assolutamente ». Fra i molti appunti che si movevano alla testura dell’ opera e ai suoi intendimenti, era quello di aver scritto « interessato » il periodo rivolto specialmente ai Principi; e qui ii) Lett. [?] 1630, pubbl. dal Bartoli innanzi all’Arte istorica. — 16,3 — i contempoi anei « detrattori » si mostravano certo giudici ben sagaci, dacché la giustizia li portasse, questa volta, ad offuscare, con loro compiacimento, la gloria di un uomo fra i più invidiati o temuti. Naturalmente il Mascardi, in una sua difesa, nella quale prendeva a liberare dalle varie censure, pubblicamente, l’opera sua e la sua personale dignità, respinse nel modo più reciso un’accusa di tal genere, avendo, da quell’uomo acuto ch’egli era, badato, nella prefazione, a scrivere frasi che si prestassero a un doppio senso: « 0 egli [l’oppositore] s’è dimenticato (ribatteva) le parole che, vanno innanzi, o non ebbe in cuore altro che malignità o veleno. Io prendo scusa con quelli ch’hanno interesse nella mia storia, e protesto che, se non mi somministrano, non le monete che l’oppositore desidera,ma le notizie opportune di che gli prego , averanno poscia a dolersi di loro medesimi e non di me, che non ho spirito di profezia » (1). Pazienza se tutto fosse finito lì ! Il male fu che il Cardinal Francesco Barberini prestò facile orecchio a queste dicerie , tanto che il Mascardi dovè, anche presso di lui, (i) Oppositioni e difesa alla Congiura del Conte Gio. Luigi De’ Fie-schi descritti da Agostino Mascardi, In Venezia, 1630, app. Domenico Ventura. Qualcuno dubitò che sotto il nome del Taverna si nascondesse il Mascardi (cfr. Gamba, Serie dei testi di lingua, Venezia, Gondoliere, 1839, p. 552; e App. Ili, s. Congiura). Dopo avere inviata la propria difesa al Taverna, egli ritornava sulla questione nella lett. circa la censura fatta al suo libro : La Congiura: « ma io...... abborrisco in me stesso la venalità dell’ingegno, che detesto in altrui. Troppo a vile tengono l’anima ragionevole que’ sordidi letterati, che le più nobili riparationi di lei sottor dinano all’interesse. Il vero nutrimento dell’ingegno è la gloria, la quale essendo primogenito insieme e postumo parto della virtù, col ricco e intero patrimonio del merito, consola la mendicità de’ favori della fortuna. Nè già riprendo que’ virtuosi, che dalle dotte vigilie si studiano di trar profitto, perchè 1’ oro che agli altri è idolo, serve lor di sostegno ; e ciò che 1’ anime vili si propongono per fine de’ loro avari et ambiziosi pensieri, l’uomo composto elegge per mezzo de’ suo: savi et onorati disegni ». [Giorn. Lig., Vol. VI, pp. 104-5). — 104 — rialzare la sua « straziata riputazione », scrivendogli: « Se dopo la pubblicazione della Congiura dei Fieschi è rimasto nell’ animo di V. S. Illustrissima qualche vestigio d’amaritudine (come mi presuppongono alcuni amici) non mi dorrò mai a bastanza della mia sorte, che mi fa parer mancante al mio debito, dove io mi studiai di sovrabbondare in termini di riverenza e cautela....... Se poi alcuni ciurmadori, abusando la facilità della sua natura, son venuti coi loro infelici cartocci a lacerare un’ opera con tanto applauso ricevuta dal mondo, ho creduto che V. S. Illustrissima debba recare ad occasione di trastullo la lettura di quelle ridicolose, benché maligne, sciocchezze ; com’io, quantunque ingiuriato, me ne son già fatto beffe, senza degnarle pur di risposta ; e tutto dì per le botteghe dei librari pubblicate con nausea de’ lor autori, han dato occasione a molti e a componimenti troppo per avventura sensitivi e mordaci contro quei miserabili, i quali, a dire il vero, più tosto di pietà che di castigo son meritevoli, già che la intemperanza della lingua e della penna è in loro passata in difetto sì naturale, che la severità de’ Principi offesi ha ben potuto punirgli ma non correggergli, e noi abbiamo in essi veduto anzi la pena degli errori che ’l pentimento d’aver errato. Sì che riverentemente supplico V. S. Illustrissima a compatire all’ ostinato costume di coloro che mordono i miei componimenti ma non gli offendono, e, prendendo in apparenza la non necessaria difesa dei Principi', che si sdegnano del fìnto e temerario zelo d’uomini abietti, vorrebbono accomunar a me i lor propri delitti » (1). Fra i nemici che soffiavano contro di lui, furono l’U-baldini, quello del famoso Conclave, con cui del resto, (i) Lett. [?] 1630, pubbl. dal Bartoli innanzi aWArle istorica. — i&5 — al dire di qualcuno, mantenne il Nostro relazioni apparentemente buone (1); e il Galluzzi, l’antico suo maestro di rettorica , che la pretendeva assai nel ceto letterario di Roma e veniva verso quel tempo incaricato dal Pontefice di riformare, con Famiano Strada e Girolamo Petrucci, il Breviario Romano. Forse gli attriti fra il Nostro e il Galluzzi, non si manifestarono da persona a persona, ma si rifletterono dapprima nell’animo dei rispettivi scolari, i quali vennero un brutto giorno a conflitto innanzi allo stesso palazzo della Sapienza, avendone i seminaristi aggressori la peggio. Contro il Galluzzi, odiatissimo, scagliò il Nostro, sotto lo pseudonimo di Nardini, la Storia della rivoluzione del Seminario Romano (2), ove si trovano quelle velenose notizie sulla vita del Gesuita, che abbiam già riportato in principio di questo lavoro. Certo il Galluzzi non vi faceva la più bella figura. Giudichi il lettore da quanto riassumiamo. Avendo saputo gli alunni che il prefetto della camerata dei più grandi, per punire la loro riluttanza a perdere alcuni piccoli privilegi goduti da lungo tempo, imponeva la privazione del vino e delle frutta a tavola , s’irritarono a tal segno che deliberarono di prender vendetta. La sera infatti due di loro finsero di venire alle mani, un terzo spense improvvisamente il lume e tutti finirono per caricar di busse il povero prefetto, perfettamente ignaro della trista congiura e subito accorso per rimetter l’ordine. Al chiasso salirono nella camerata alcuni convittori e lo stesso rettore Galluzzi, il quale, fatto portare il lume, invece di ricorrere a quei mezzi saggi e prudenti che son sempre da adottarsi in simili casi, inveì con dure (1) Moroni, op. cit., vol. LXXXI, p. 492> Gerini, op. cit., vol. I, pag. 127. (2) Ved. App. II, Scritti inediti di A. Mascardi. — 166 — e inurbane parole contro i tumultuosi ; e ne prese da parte uno eh’ egli credeva il caporione, e, dopo un breve dibattito, lo licenziò, persuaso di aver così quietato il trambusto e assodato « il fondamento al suo dominio ». Chessì! Ne nacque un baccano peggiore : i giovani disertarono in massa l’edificio e, non avendo poi ottenuto, come speravano, la giusta soddisfazione presso il Cardinal Barberino e il Vicario di Roma , soprainten-dente alle scuole, ritornarono così minacciosi nell’ Istituto, che rettore e prefetti, illividiti dalla paura, dovettero barricarsi tra fischi e improperii in una stanza, per non venirne malmenati; e non videro ristabilita la calma se non dopo le parole eloquenti e benevole di un amato sacerdote che arringò da un finestrino. Ma continuò a lungo il malumore e già si preparavano nuove vendette, quando queste furono interrotte per 1' allontanamento dell’ incauto e odiato P. Tarquinio. Raccontando tal fatto, il nostro Agostino si sbizzarrì a dipingere con mille particolari la superbia plebea dell’antico suo maestro nei momenti di buona fortuna e la sua ripugnante vigliaccheria nelle circostanze difficili. Ma non solo siffatti attriti gli recavano in quel tempo travaglio. Sia per indole propria, sia per abitudini contratte presso la splendidissima Corte del Cardinal Maurizio , egli non aveva più potuto adattarsi a misurare le spese in ragione di quei cinquecento scudi d’entrata procuratigli dalla benevolenza del Pontefice, e di poche altre rendite che gli venivano da un piccolo patrimonio ereditato. Vestiva sempre sfarzosamente, e frequentava feste e banchetti. Appena ottenuto il posto alla Sapienza, cercò di riavere per conto suo la carrozza, della quale avea dovuto restar privo durante parecchi mesi, dopo la partenza del suo padrone. Fece passi per acquistar quella di Tommaso Luiggi, nipote del noto Referen- — 167 — dario mons. Ferrero-Ponsiglioni, che studiava allora nel Seminario Romano. Egli non voleva dare che ottanta scudi sulle mesate dello stipendio, l’altro ne voleva novanta. Si ricorse infine a Bartolomeo Asinari, agente del Monsignore, il quale avrebbe senz’altro consigliato a cederla, perchè 1’ offerta gli pareva per se stessa vantaggiosa , se però non avesse ritenuto malsicuro quel « fondamento di dette mesate »; e ne scrìveva allo zio, per riceverne a sua volta discarico. Finalmente la carrozza fu rilasciata per ottantacinque scudi; e il Nostro potè recarsi a far lezione percorrendo Roma da gran signore (1). Ma il Caporali aveva cantato: Roma miracolosa; Roma, bella felice stanza a chi ha denari assai; ed egli purtroppo non ne teneva in tal quantità da poter vedere in Roma miracoli, bellezze e felicità! Con la carrozza occorreva un cocchiere, e col cocchiere il resto; cioè casa aperta, servitori e va dicendo. E così, di spesa in spesa, si trovò di nuovo al verde, coperto per so-prappiù di debiti forti, obbligato a vivere in un riposto angolo della città, fra gli schiamazzi della Suburra. Proprio da un eccesso all’ altro ! Di questa triste sua condizione, egli parla in una delle dissertazioni scolastiche e io qui traduco il suo artificioso latino: « Mentirei, 0 signori, se dicessi che questa mia orazione intorno al clamore, non è stata scritta in mezzo a degli sfaccendati! Mi spiego in due parole. La sorte mi ha cacciato purtroppo in un oscurissimo angolo di Roma, credo pet render cinico chi avea trovato quasi stoico. Da quella mia cameretta più che angusta — immaginatevi la botte di Diogene! — si guarda in una sottostante taverna, (1) Adriani, op. cit., p. 558. — 168 — ove radunasi ogni accozzaglia di bricconi. Lo diresti un concilio di Coribanti, un senato di Sileni: tante contese ivi nascono , tanto facchinesco v’ è il vociferare ! Mancavi l’orologio : in compenso v’abbondano i bicchieri; e, badate, i declamatori non vanno perorando all’acqua, bensì al vino. Si preludia con quelle incomposte voci all’ ubbriachezza e si decide col giuoco a chi tocchi il pagarla....... Or che cosa dovrei fare io, continuamente distratto dai miei studi letterari, se non vendicarmi di quelle petulanti voci d’ubbriachi? Mi vendico come posso, come posso, o signori....... » (1). Ch’egli così palesemente mostrasse le sue miserevoli piaghe, nell’ aula universitaria , egli, 1’ elegantissimo conferenziere delle private adunanze , 1’ applaudito e laborioso accademico Umorista, il cameriere d’onore di S. Santità, parrà forse al lettore cosa strana davvero, quando addirittura non indecorosa. Ma questo sistema era, possiam dire, abituale al Nostro, in casi di sfortuna, come del resto è abituale a tutti gli avventurieri antichi, a tutti i bohémiens moderni, nella cui categoria mi pare ch’egli possa trovar posto. Parlare di miseria quando s’alzava intorno il plauso delle moltitudini ammirate, egli doveva ritenerlo un artificio ad effetto, o, come oggi si direbbe, à sensation, dacché s’accrescesse vieppiù quel plauso con la compassione universale e venisse così a cognizione di tutti non tanto l’ingratitudine del destino quanto quella dei padroni o dei protettori, dimentichi del suo genio. Sennonché rivolgersi in questo modo al pubblico, riusciva poi un’arma a doppio taglio: talvolta era bensì valsa a migliorarne le condizioni, ora doveva invece disgustare ancor più i suoi protettori, che vedevano coti) Romanae dissertationes de affectibus, Parisiis, ap. Sebastianum Cra-moisy, 1639, p. 97. — 169 — m’egli si comportava e credevano di aver fatto fin troppo per onorarlo, soccorrerlo, collocarlo in luogo tranquillo. Nè meno si prestava quel procedimento ad aguzzare le lingue dei malevoli, i quali con buon giuoco potevano far rilevare anche ai benevoli la sregolatezza della sua vita e l’indelicatezza dell’animo suo. Infatti il Cardinal Francesco s’indispettì assai, prestò fede più di prima alle accuse e decise di abbandonarlo. Per il che, non trascorsi due anni dalla nomina a professore d’ e-loquenza, il Nostro dovè privarsi persino del necessario, cambiar più volte abitazione per non essere assalito continuamente dai creditori, subire un affronto dietro l’altro, anche dai suoi più affezionati amici, e ritirarsi finalmente in un convento di frati. Non v’ era che un mezzo per rimettersi a galla: trovar subito un posto presso qualche altro potente signore e con la nuova provvigione arrotondare di tanto 10 stipendio da riuscire a tirare innanzi. Ma egli non poteva farlo, se il Cardinal Francesco, cui doveva tutto, non glielo avesse, di buona 0 cattiva voglia, concesso. Infine si decise e scrisse in quella circostanza la più lunga, la più straziante, la più eloquente lettera che mai gli uscisse dal cuore. Non possiamo a meno di riportarne buona parte, la quale servirà, meglio d’ogni altro documento o d’ogni altra argomentazione, a farci comprendere la presente sua condizione: « Corre felicemente 11 settimo anno del pontificato di Papa Urbano da me così ben preveduto nell’altrui merito, come giustamente preoccupato col mio desiderio. In questo corso di tempo l’autorità di V. S. Illustrissima ha gettato un magnifico fondamento alle mie limitate pretensioni con l’assegnamento della Lettura: ma, come questa mercede è stata maggiore del merito, così rimane inferiore al bisogno; ond’io, sempre occupato in sollecitudini indegne d’uomo — 170 — che studia, vado miseramente invecchiando, senza servire alle glorie di Papa Urbano e alla pubblica utilità, secondo la debolezza del mio talento. Credetti che sopra il fondamento sorgesse al fine il compito edificio della mia pendente fortuna e che in fronte alla fabrica non si ponesse altra insegna che quella della sua casa; perchè sapeva che i primi beneficj si vogliono fomentar coi secondi, acciò che l’animo dell’uomo grato, di buona voglia inteso alla contemplazione de’ passati favori, mal suo grado non si distragga, per deplorare le presenti calamità. E pure d’improvviso piango da V. S. Illustrissima abbandonata l’impresa della mia mal fabbricata fortuna, con rammarico tanto più giusto , quanto che gli edifici immaturamente interrotti nè servono alla comodità degli abitanti, e sono esposti alle imminenti ruine. Lo stipendio della Lettura è ragionevole per sè stesso, ma viene accompagnato da circostanze sì miserabili, che può stimarsi non sollevamento ma peso. Lascio che non assicura punto il mio stato; perchè, se per malattia io mi rendessi inabile alla fatica, o se, per impensati avvenimenti, dovessi ritirarmi alla patria, mi troverei presso al fin della vita, senz’altro avanzamento che d’aver dopo tanti anni di Corte dissipato il povero patrimonio, consumati in estremo patimento gli anni migliori, perduta pazzamente senz’ alcun premio, la libertà, in un modo di vivere pieno di amaritudine e di vergogna.......; ricordo a V. S. Illustrissima che la carica di Lettore mi obbliga a vivere in Roma, e non supplisco alla metà delle spese che da me necessariamente richiede Roma. E d’onde ho io da procacciarmi l’altra metà senza l’aiuto suo, mentre non posso far capitale del patrimonio in tant’anni di servitù dispendiosi ridotto a mal termine, e non ho beni di Chiesa che mi sollevino? Aggiungasi a ciò che la benignità di V. S. Illustrissima, tanto prodiga — i7i — verso degli altri in dimostrazioni d’ affetto e di stima, s’è da tempo in qua verso di me meravigliosamente ristretta. Onde , sì come la buona opinione di esserle in grazia agevola ad ogni altro il corso delle prosperità, gareggiando tutti in promuover coloro che stimano cari al padrone , così certe apparenze d’animo alienato e aborrente abbattono gli animi degli amorevoli, atterriscono gli animi più risoluti, invigoriscono gli sforzi degli emuli, avvalorano la temerità de’ nemici: di modo che, abbandonato dall’ aiuto di chi potrebbe giovarmi, rimango in preda delle furie di chi vuol nuocermi. Quindi s’instilla negli orecchi di V. S. illustrissima il veleno delle calunnie, il quale, non incontrandosi nel preservativo che lo rintuzzi, se ne passa ad infettarle il cuore, ed Ella si trova senza avvedersene cangiata da quel di prima con mio irreparabile nocumento.......Io non entro in paragoni, nè voglio che l’innocenza dei miei costumi risplenda per le tenebre degli altrui vizi; ma so ben certo che, quando V. S. Illustrissima avesse notizia delle azioni di qualcun di coloro ch’hanno sparlato contro di me, in paragon delle mie io non sarei quel mal’ uomo che 1’ altrui sagace malignità, valendosi della congiuntura, ha saputo dipingermi. Anzi, se la fortuna parziale de’ miei nemici sotto l’ombra dell’eccessivo favore una volta mi raccogliesse, non avrei macchia anch’io che non fosse puro e incontaminato splendore........ Quando dunque V. S. Illustrissima non si compiaccia d’imbracciare a mia difesa lo scudo, dichiarandosi mio protettore, nè l’utile della Lettura nè le lusinghe della Corte nè le speranze dei Cortigiani saranno bastevoli a trattenermi sì eh’ io non fugga la fortuna, già eh’ io superarla non posso. Tutto quello che posseggo in questa Corte d’onore e d’utile, è mero frutto della benignità di V. S. Illustrissima; quel che pretendo da Lei, solamente 10 bramo come parte che manca alla perfezione dell’opera sua. Con qualunque occhio Ella mi guardi, vede una sua creatura, che chiede il parco sostentamento della sua vita. Non mi lusinga prurito d’ambizione cortigianesca, Signore Illustrissimo; non mi tormenta sete d’ oro e d’argento; pur ch’io viva alla tranquillità dei miei studj, senza penare in procacciarmene il modo, ho posto il confine alle voglie che non s’estendono oltre il bisogno. Io non ho merito, ma ho necessità; l’uno e l’altro è notorio; però non imploro la sua giustizia che comparta la dovuta mercede, ma invoco la sua eie menza che le grazie volontarie dispensi. Agevolissimo a Lei sarà il trarmi d’ una vita angosciosa e stentata ; impossibile a me il tollerarla più lungamente. Sono finora rimirato da questa Corte come spettacolo di miseria: abbia una volta fine nella mediocrità del bisognevole aiuto la maraviglia degli altri e la mia propria vergogna. Il carattere e 1’ abito che mi distingue per servitore della sua eccellentissima Casa, non senta più gli oltraggi della calamità che m’assedia. Non ambisco porpore, non pretendo dignità, non aspiro a magistrati: chieggo il sostegno dei miei infelicissimi studii ; chieggo 11 moderato mantenimento della mia vita ; chieggo un angolo in cui mi ricovri ; chieggo il riposo della mente dissipata ed errante. E tutto questo io lo chieggo, non per abbandonarmi nell’ozio, ma per incontrar le occupazioni; non per darmi in preda ai piaceri, ma per abbracciar le fatiche; non per adagiarmi al sonno, ma per istancarmi nelle vigilie, per soddisfare con quiete al carico di Lettore, per servire al ben pubblico, per consecrar l’avanzo della mia penosissima vita alla virtù, alla gloria, all’immortalità di chi l’avrà meritato, per quanto può consentirmi la debolezza del mio tardissimo ingegno. E s’è pur mio destino che a me s’inaridisca il — 173 — fonte delle liberalità di V. S. Illustrissima, che agli altri corre tanto abbondante ; se fra gli antichi servitori della sua Casa non posso io solo godere delle felicità del pontificato d’Urbano; se sono ad ogni carico tanto mal abile eh’ ogni più vii mestiere la mia capacità sopravanza ; se per mio conto la Dataria è fin dalle radici spiantata; se nella mente di V. S. Illustrissima sono indelebili le impressioni che me le presentano per indegno ; mi sia lecito almeno con buona grazia di Nostro Signore e Sua — senza pregiudizio di quel che debbo alla Lettura — cercare altrove la dispensa del mio demerito, ricevendone il pegno nella sovvenzione del mio bisogno. Ho servito in questa Corte a due Principi di serenissimo sangue: la lor grandezza velava in me quei difetti ch’ella discuopre ignudi, o se ’l crede, perchè son privo di protettore che gli nasconda; quindi me ne viveva tanto ricco d’ onori e d’ utile, quanto la mia modesta pretensione non ardisce in questi tempi bramare. E pure anche quei Principi avevano lo sguardo acuto di discerner fin dentro ai cuori gli altrui celati pensieri. V. S. Illustrissima all’ incontro col solo testimonio de’ miei malevoli mi dichiara per poco caro ed inutile, i suoi domestici mi abboniscono come mal veduto da Lei, i ministri mi vilipendono come dispregiato dal loro Signore , gli adulatori mi sfuggono come fulminato dal cielo , gli amici mi piangono come sopraffatto dagli e-muli, i conoscenti mi compatiscono come abbattuto dalle calunnie, gii stranieri m’ammirano come un prodigio di Corte; e che posso far io se non ricorrere di nuovo a Lei stessa e invocare il suo pietosissimo patrocinio?..... Se sono indegno per V. S. Illustrissima, mi abbandoni, tal Principe troverò per ventura, che formerà di me concetto più favorevole. Se sono inabile, mi condanni Sua Santità per inabile; m’avverrò forse in Signore sì cor- — 174 — tese che riceverà per buon servigio lo sforzo del ben servire........ Dunque, per esser servitore di Nostro Signore e suo, ho da menar fra perpetue necessità una vita sollecita e ansiosa? Dunque un titolo specioso che mi porta conseguenza di mille spese, dovrà impedire la liberalità di chi si degna di sollevarmi? A prezzo dunque sì vile d’ una semplice parte ho io venduta, senza trovar compratore, la libertà? passeggio dunque per Roma con abito di servitore di palazzo, ma con carattere di mal gradito.......? E, quando altri camerieri del Papa, altri lettori dello Studio, seguono presso i suoi Principi la fortuna che li conduce, io solo, con esempio fino a quest’ora inaudito, per propria elezione da Lei rifiutato, per suo divieto non ricevuto dagli altri, dovrò mirare e piangere i miei mali senza rimedio, la mia povertà senza soccorso, i miei travagli senza conforto, le mie fatiche senza ristoro, il mio servizio senza premio?..... E soffrirà il cuore a V. S. Illustrissima di vedermi in termine sì lagrimoso senza soccorrermi? Potrà incontrarmi per Roma tutto squallido e tristo , come un simulacro della disgrazia? vorrà che resti alla memoria de’ posteri questo esempio d’infelicità cortigiana, senza intenerirsi e compiangermi? Io non lo credo; e quando pure l’esperienza manifestasse il contrario, io farò forza ai miei violenti pensieri, e dirò loro che mentono o che s’ingannano. Così mi è nota la bontà, la piacevolezza, la retta intenzione del Cardinal Barberini. Di nuovo dunque riverentemente la supplico a darmi licenza di appoggiar la mia cadente fortuna al sostegno che Dio mi ha preparato. Perchè, se fra tanti eminenti soggetti, de’ quali è pieno il Palazzo apostolico, la mediocrità del mio talento non trova luogo, gli avanzi almeno e i rifiuti di V. S. Illustrissima non si veggano nel fango delle piazze abbandonati e raminghi, non si consumino — 175 — con tanta indegnità più lungamente ne’ conventi de’ fiati, ma, raccolti in abitazione nobile e onorata faccian fede al mondo deH'immensa ricchezza di V. S. Illustrissima, che può donare altrui, senza tema d'impoverire » (1). Il Cardinal Francesco, ch’era furbo quanto mai, dovè riconoscere da questo saggio d’aver convenientemente affidata a siffatto uomo la cattedra d’eloquenza. In ogni modo si lasciò in quest’occasione intenerire e concesse all’irrequieto e desolato supplicante la richiesta facoltà di collocarsi con chi meglio credesse, pur serbando sempre la Lettura alla Sapienza. Allora il Nostro si diè anima e corpo alla ricerca, senz’ aver una meta fìssa, e rivolse, dopo lungo meditare, il suo pensiero alla Corte di Ferdinando de’ Medici di Toscana, ove tro-vavansi parecchi suoi amici, fra gli altri i fratelli Strozzi e il marchese Capponi, di cui aveva esaltato in versi, negli anni giovanili, il fratello, Cardinale Luigi (2). Riuscendogli vani i tentativi di terzi, scrisse al Granduca parecchie lettere, offrendosi direttamente e protestando, come al solito , che, in qualunque modo lo avesse accontentato, egli avrebbe serbato « l’animo ossequentissimo e colmo di fede, con proponimento saldissimo di vivere e morire buon servitore de’ Serenissimi di Toscana » (3). Il Granduca non rispose subito, volendo assumere ragguagliate informazioni sul suo conto. Ma le informazioni vennero certo ottime, anche dal Cardinal Barberini, giacché il Nostro fu chiamato in casa del Cardinal de’ Medici e per soprappiù nominato professore d’eloquenza nello Studio di Pisa. Egli accettò esultante il servigio nella nuova Corte: in quanto all’incaci) Lett. [?} 1630, pubbl. dal Bartoli innanzi all 'Arte istorica. (2) Silvae, lib. I, p. 55. (3) App. I, lett. 9 marzo 1630, nn. 139, 140. — 176 — rico della Lettura in Pisa, sebbene in una lettera ringraziasse con sensi di viva gratitudine (1), lo declinò. Forse si sentiva sempre troppo amante del fasto di Roma per potersene allontanare; fors’ anche non gli conveniva il farlo, avendogli il Cardinal Francesco affidato qualche speciale ufficio a Palazzo, attinente alla sua professione. Infatti egli, nella dedica indirizzatagli delle Dissertazioni sugli affetti 0 perturbazioni dell'animo, accennava a qualcosa di simile in alcuni periodi, che, tradotti, suonano: « Avrei creduto sufficiente per la mia ambizione che potesse un uomo ramingo come me fra le belle lettere, occupare la cattedra di un letterato tanto illustre quanto il Mureto; ma ciò era troppo poco per soddisfare la benevolenza di che tu mi onoravi. Tu vincesti con la tua cortesia i desiderj dei miei amici...... Con ben nuovo esempio, io fui incaricato, appresso un diploma quanto mai onorifico del santissimo Zio tuo, mediante il tuo intercedente favore, non tanto a ritirarmi dalla Corte nel Liceo, quanto a richiamare gli studi delle varie dottrine nella Corte stessa ». Questi nuovi uffici lo rialzarono finanziariamente e moralmente, sicché potè riprendere le antiche abitudini e far tacere gl’intimoriti nemici. Sull’orizzonte della sua vita, nuovamente brillava un raggio di gloria e di fortuna. Si sarebbe subito eclissato ancor questo? (1) Lett. 26 luglio 1631, pubbl. dal Bartoli innanzi all 'Arie istorica. CAPITOLO VII. DI PADRONE IN PADRONE I segretari < elefanti » in Roma. — Agostino non vede il suo padrone. — Nuove ricerche per la Storia d'Italia. — Un ultimo infruttuoso tentativo presso i d Este per aver documenti. — Il vero scopo delle richieste d’Agostino, secondo i contemporanei. — I contemporanei non hanno torto. — Agostino è nominato Principe degli Umoristi. — I principali personaggi del-1 accademia. — Un pandemonio provocato in piena adunanza da Belmonte Cagnoli. Agostino marinista. — Una prefazione contro lo Stigliani. — Lo Stigliani si vendica. — Agostino accademico Materiale, Asciutto, Incognito. La solita febbre. — Conversazioni in casa del vezzanese Cardinal Zacchia. Un viaggio per cura. — Accoglienze a Napoli. — Breve dimora a Genova. Agostino nella politica. — Uno scacco all’ ambasciatore di Malta. Il Cardinal Maurizio ritorna. — Imprudenti maneggi di Agostino per passare nuovamente al suo servizio senza perdere la provvigione del C ardinal de’ Medici. — Tutto scoperto. — I cortigiani romani non san più se Agostino « sia pesce o carne ». — Agostino si licenzia dal Cardinal de’ Medici. — Non ha incarico ben definito presso il Cardinal Maurizio. — Diventa cortigiano di due Corti. — Briga per essere « primo segretario » del Card. Maurizio e vi riesce. — Pubblicazione dell’Arte istorica. — Una dedica messa a frutto. — Gli Spagnuoli si offendono di alcuni periodi dell 'Arte. — I nemici d’Agostino soffiano nel fuoco. — Tutto appianato. — L’accademia dei Desiosi in casa del Cardinal Maurizio. — Orazioni politiche. — Maurizio di Savoia ritorna a Torino e Agostino lo segue. — Fermata a Genova. — Il libello di Giov. Batt. Manzini. — Il Cardinale difende a spada tratta il suo primo segretario. ANFiLO Persico, che compose sui primi del seicento un manuale pratico per i segretari, diceva che « si trovano veramente quivi [in Roma], conforme alla condizione dei Signori che frequentano da ogni parte quella Corte e quella città, vari ordini di segretari, oltre quelli che servono al Principe su- Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. 12 - i7S - premo ; conciossiachè siano in questo numero Cardinali, prelati, ambasciatori de’ Principi, e Signori ch’hanno giurisdizione e vassalli, i quali hanno bisogno tutti di simil servizio; e molti, che se ne potriano scusare, lo vogliono, o per riputazione o perchè n’ hanno la comodità » (1). Il Mascardi prendeva posto appunto fra-questi ultimi ; diventava una specie di segretario corrispondente : doveva soltanto tener ragguagliato il padrone di tutto, rappresentarlo in qualche visita ufficiale, minutargli qualche lettera. La sua persona poteva considerarsi nuli’ altro che un accessorio decorativo della porpora; uno di quegli « scienziati famosi » che « nel corteggio di qualche Principe (son parole sue)....... rappresentano alla memoria de’ riguardanti quegli illustri trionfi nei quali furon condutti, per aggiungere splendore alla pompa, gli elefanti.......» (2); tanto è vero che per più anni egli non ebbe mai la soddisfazione di vedere in faccia il Cardinale e solo nel 1634 si recava e-spressamente a Firenze per venire ai suoi piedi e dargli « maggior notizia personalmente della siici umilissima servitù », senza però riuscire a vederlo nemmeno allora. Si contentava quindi di scrivergli lettere, per rinnovargli la memoria della « inutile sì, ma sincerissima devozione » (3). Perciò aveva tutto il tempo di preparare le sue lezioni alla Sapienza e di continuare, com’ egli affermava, (1) Op. cit., p. 9. (2) Discorsi accademici, ed. cit., dise. II, p. io-ii. (3) App. I, lett. 28 ottobre 1634, n. 140. Non so dove nè come abbia potuto trovare il Giustiniani la notizia , op. cit. , p. 24 , che il Mascardi « ebbe ancora » dal Granduca Ferdinando II, nipote del Cardinale Carlo de Medici, «condecente abitazione nel di lui Palazzo in Piazza Madama». Le fonti cui pare egli abbia attinto per la breve biografia che riguarda il Nostro, sarebbero le opere del Pirani e dell’ Eritreo, ma ivi non s’ accenna a una tale dimora. — r79 — 10 studio dei materiali per comporre la Stona d’Italia. Forte della protezione che ora godeva presso i Medici, i quali non dimenticavano gli elogi da lui elevati tanti anni innanzi sul catafalco della Duchessa Virginia loro consanguinea, si rivolse al Molza, che trovavasi in questi mesi ambasciatore a Roma, sperando di piegare una buona volta, per mezzo suo, il Signore di Modena a concedergli i già richiesti documenti, «massime nel successo di Ferrara, di cui non ha (diceva poi il Molza al Duca) altra relazione che quella che 1’ è stata data dai preti, ma non stima bene il prestarle fede e il valersene » (1). 11 Duca Francesco, seccato, rispondeva, con molta ipocrisia, che, s’ egli avesse voluto scrivere i successi di quella città secondo le informazioni della sua Casa, « pregiudicherebbe grandemente ai propri interessi »; e non esser conveniente da parte sua metterlo « in cotesti labirinti »: il consiglio che gli dava, una volta per sempre ormai, era quello di « passar la cosa asciuttamente e con una semplice narrazione del fatto, senza diffondersi ne’ meriti della causa » (2). Come si vede, il Duca si fidava pochissimo del suo uomo e temeva qualche tranello; e il Testi, che gli era al fianco (firmò anzi, nella sua qualità di segretario, col Duca, la risposta), rinfocolava i malumori antichi e i timori presenti. E purtroppo dobbiamo anche noi riconoscere che il diniego non era inopportuno. Può darsi che il Mascardi dapprima designasse veramente di compiere quell’opera, e onestamente, secondo quegli scrupoli che deve avere uno storico spassionato: ma pare che poi alla gloria incerta che poteva venirgliene, sostituisse un frutto tanto (1) R. Archivio di Stato di Modena — Carteggio ducale; Letterati; lett. 7 novembre 1630. (2) R. Archivio di Stato di Modena — Carteggio ducale; Letterati; lett. 14 novembre 1630. — i8o — più pronto quanto meno onorevole. Infatti, appena u-scita la Congiura, parecchi Principi, tócchi dal grande applauso riscosso da questo scritto, mandarono, con memorie e fogli importanti, anche doni in denaro all’in-dustrioso letterato, per invogliarlo a ricambiarli in chi sa qual modo nella narrazione dei fatti che li riguardavano. Racconta Francesco Fulvio Frugoni, non molto tempo dopo la morte del Mascardi stesso , che questi « accumulò......... nel giro di pochi mesi una somma di scudi assai rilevante, ma, non curandosi più d’intraprendere con quel fervore che promesso avea , la storica tessitura, richiesto del perchè da un suo intimo confidente, gli rispose che oramai avea conseguito il suo fine, poiché, trovandosi egli male assistito da casa sua, con quel mezzo termine si trovava la sua necessità rimediata » (1). Ammettiamo pure che questa sia la voce di un nemico del Nostro (2): noi abbiamo purtroppo modo di documentare la sua slealtà e i suoi interessati maneggi. Mentre infatti egli scriveva ai Signori di Modena, per chieder notizie dalla parte loro della ben nota obbrobriosa cessione di Ferrara, dichiarando di non prestar fede alle relazioni romane, nel tempo istesso, implorando umilmente pietà e soccorso dal Cardinal Francesco Barberini, lasciava intendere d’aver occasione di ricompensarlo dei futuri favori nella Storia d’Italia che andava componendo : « Io poi, invigorendo con la quiete l’ingegno, raddoppierò gli sforzi miei in servizio della Lettura, e, applicato senza distrazion d’ animo alla testura delle Historié d’Italia, farò nelle mie scritture ap- (1) Ritratti critici, Venezia, 1669, I, 422. (2) Il Frugoni chiamava « bizzarrissimo umore » il Nostro, ma, nella prefazione alle proprie opere e nell’ autobiografia, si mostrava ben contento eh’ egli avesse giudicato i suoi primi componimenti « scintille foriere di gran fuoco >; ved. Cosmo, op. cit., p. 689. — 181 — parire che V. S. Illustrissima seppe come gran signore usai la liberalità, io profittai come buon servitore di far palese la gratitudine » (1). È possibile dunque eh’ egli potesse, in una quistione tanto intricata com’era quella di Ferrara, favorire piuttosto i Duchi che Roma? La promessa fatta al Cardinale di « far palese la gratitudine » dovutagli, non contraddice forse alla dichiarazione al Duca di non credere vera la relazione dei preti? In-somma, le continue richieste di documenti mosse ai Principi, i quali finivano, com’egli diceva, per abbracciare * non meno la veracità dell’ istoria che la candidezza dell istorico », non erano che pretesti per sfruttarli. Altro che offendersi per i sospetti dei « maligni detrattori » e fare il virtuoso e l’onesto col Cardinale, e piangere l’iniquità della sorte! Ma di ciò basti. Le cure davvero non gravi del segretariato gli permisero di occuparsi attivamente dell’ accademia degli Umoristi, già da noi ricordata. Poco appresso ne fu creato Principe. Fra gli accademici più in vista a quel tempo, oltre il Papa stesso e i Cardinali, erano il poeta Gabriel De Marini, patrizio genovese, il giureconsulto Flavio Fie-schi, che avea steso la relazione delle pompe funerali latte nell’accademia per la morte del Marino, i professori della Sapienza Pompeo Garigliano e Paganino Gau-denzi, l’Eritreo, che tagliò poi i panni addosso a tutti tacciandone la biografia, Gasparo de Simeonibus, che commemorava, nel 1631, la morte di un altro accademico, Girolamo Aleandri, in un’orazione dedicata, con un’assai lunga lettera del nostro Mascardi, a Francesco Augusto de 1 hon, primogenito del famoso istorico; e Vincenzo Ar-manni, il Torcigliani, Andrea Barbazza, Giovanni Ciam-P°li, Arrigo Falconio, Fabio Leonida, Pier Francesco (i) Lett. [?] 1630, pubbl. da A. Bartoli. — 182 — Paoli, Giorgio Porzio. Ciascuno d’ essi era persuaso di valer più degli altri e tutti convenivano alle adunanze tronfi e pettoruti, incensandosi a vicenda coi titoli più ossequiosi e magniloquenti. S’è già detto, sulla testimonianza dell’ Eritreo, che le sedute trascorrevano relativamente pacifiche. Solo di tanto in tanto qualche tipo originale suscitava questioncelle di precedenza, che finivano per alimentare i pettegolezzi del mondo aristocratico della città. Essendo appunto Principe il Mascardi, un fatto di tal genere fu provocato da Belmonte Cagnoli ; e qui lo rammento per dar segno della frivolezza di tutti quei grandi uomini. Si credeva il Cagnoli superiore al Tasso nella poesia eroica, per aver composto un poema intitolato YAquilcia conquistata (1), e, quando entrava nell’accademia, se qualcuno non si fosse subito alzato per ossequio, egli era solito investirlo con le parole: « Come? non conosci tu l’abate Cagnoli, autore dell’Aquileia conquistata »? Un giorno egli lesse all’ accademia delle poesie d’ amore, affermandole composte da altri. Gli accademici scoppiarono in una risata incredula, e in frizzi mordaci e irriverenti per i suoi capelli bianchissimi. Non l’avessero mai fatto! L’abate si alzò col volto pavonazzo dall’ira e: « Perchè ridete, sciocchi ? io sono, io, l’abate Cagnoli, il più vecchio del vostro numero, e ho raccolto col poema XAquileia tanta fama e gloria su di me che nessun vivente sulla terra potrà lasciar nome più illustre e chiaro del mio! » Tutti, a quelle parole, s’alzarono in piedi, urlando, percotendo le mani, fischiando: un vero finimondo, che neppur l’autorità e il cenno e la voce del Mascardi valsero lì per lì a quietare (2). (1) Ved., per questo poema, D’Ancona, Poemetti popolari italiani, Bologna, Zanichelli, 1890, p. 297 e sgg. (2) Erythraei Pinacotheca, ed. cit., p. 19 e sgg. — 183 — Là dentro Agostino era 1’ anima di ogni iniziativa. Antonio Sforza, letterato mon-opolitano, scriveva ch’egli, a guisa di corifeo, guidava la caterva dei sapienti (1). Dell’accademia Agostino si rendeva specialmente benemerito per la parte che prendeva nel difendere la scuola marinista contro quella dello Stigliani, il quale, è noto, aveva pubblicato, nel 1627, l'Occhiale, ove criticava con palese animosità l’Adone e difendeva ed esaltava con non meno palese compiacenza se stesso. Parecchi furono allora i difensori del Marini in Italia, ma in numero maggiore gli accademici Umoristi, che per due volte lo avevano acclamato lor Principe. Il Barbazza, con lo pseudonimo di Robusto Pogommega, pubblicava le Strigliate a Tommaso Stigliani (Spira, 1629, coi tipi di Enrico Storkio), dedicandole al Cardinal Pier Marino Borghese. Ivi il primo sonetto della quarta strigliata è appunto per il Mascardi e suona: A MONSIGNOR MASCARDI Prendo a cantar, Mascardi, in stil sì terso Per salir della gloria al monte suso, Ma non vorrei già poi, di piombo ad uso Cader precipitato al terren verso. Quest’ è un modo di dire in prosa e in verso Ch’ ogni pedante ne riman confuso; Anzi in nostro parlar 1’ ha preso in uso, Co' Zingari e Schiavoni, il Turco e ’l Perso. Il trovator di sì bella parlata Dicon eh’ è stato Fra Stigliati Tomaso O da esso rubala ad altri stata. (i) Allacci , Apes, ed. cit., p. 67. Il Mascardi vi lesse pure un discorso religioso sulla passione del Cristo, pubbl. in Discorsi accademici, discorso IV, p. 182. Ciò valga a dimostrare non del tutto esatta 1 asserzione del Dejob che lo spirito cristiano non entrasse nelle accademie italiane del sec. XYII (ved. op. cit., p. 298). — 184 '— E ben di lui eh’ è di scienza un vaso, Altri invano agguagliar può la pedata, Chi stampa come Bue inver Parnaso (1). L’Aleandri, bibliotecario della Barberiniana, avea scritto, prima di morire, una difesa deli’Adone; e il Mascardi la pubblicò, facendola precedere da una prefazione sua, col motto « un amico della verità a chi legge » (2) ; e intanto, dall’anno cioè 1630, si dava a cor- (1) Non ho potuto aver sott’ occhio la prima edizione. Cito da Le strigliate a Tomaso Stigliani del Sig. Robusto Pogommega , pubbl. in fine alla Murtoleide, fischiate del Cav. Marino, con la Marineide, risate del Murtola...... et altre curiosità piacevoli. Norimbergh. Per Joseph. Stamphier, 1650, s. n. d. p. Ved. per quest’opera Cornelio Aspasio Antivigilium , La Biblioteca aprosiana , Passatempo autunnale , In Bologna, per il Manolessi, 1673, p. 329. Così ne scriveva all’Aprosio Agostino Lampugnano, il 1 ottobre 1641 (R. Biblioteca Univers, di Genova, cod. E, IV, 16 , Lettere all’Aprosio) : « C’ è il conte Andrea Barbazza, Cavaliere vertuoso, che fece già sino a una settantina di sonetti contro lo Stigliani, recando la frase del Mondo nuovo. O che ridicola composizione ! Vedrò d’ averne una copia ». I marinisti , ai quali il Barbazza dedica i vari sonetti, sono il cavalier Guido Casoni, monsignor Annibaie Bentivoglio, Claudio Achillini, il conte Ludovico D’Agliè, Gasparo de Simeonibus, Domenico Benigni, Antonio Bruni, Girolamo Brunio (sic), Gasparo Salviani, Francesco Bracciolini, il principe di Gallicano, mons. Ciampoli, Girolamo Aleandri, il cav. Francesco Paoli, Brunoro Taverna, Giuseppe Persico, Paolo Guidotti Borghesi, Berlinghiero Gessi, Pietro della Valle. (2) Ved. l’edizione del 1630 (ne esiste un’altra, pure veneziana, del 1629, che non ho potuto vedere) per lo Scaglia. Diceva il Mascardi nella prefazione di rendere con quella pubblicazione un tributo d’affetto alla memoria dell’Aleandri, alla cui esaltazione « l’Accademia supplirà...... per mezzo di un dicitore eloquentissimo nell’ orazione funebre che gli prepara ». Questo dicitore eloquentissimo fu , come abbiam già ricordato, Gasparo de Simeonibus; e la sua orazione comparve poi stampata, con una lettera dedicatoria del Nostro a Francesco Augusto de Thon (In morte di Girolamo Aleandro, orazione di Gaspare de Simeonibus, detta in Roma nell'Accademia degli Umoristi ai XXI di dicembre 1631, In Parigi, per Sebastiano Cramoisi, Stampatore del Re, 1636, in 4.0); il quale Francesco avea fatto assai bella accoglienza all’Aleandri, in Parigi, quando questi vi si era recato col Card, legato apostolico Francesco Barberini. Ciò - i85 - reggere diligentemente il poema e a prepararlo per una ristampa « con tutto ciò che contra e prò gli è stato scritto », non escluso VAntiocchiale del Lampu-gnano, che correva manoscritto di città in città e che neppur l’autore sapeva più dove fosse andato a finire (1). Sebbene il Nostro protestasse di ciò fare senz’ alcuna « mala volontà », ebbe a pagar cara quell’iniziativa, giacché lo Stigliani, vendicativo quanto mai, lo sferzò con una calunnia , divulgando che l’Aleandri « ridusse r da morte a vita un suo libretto chiamato Pompe del Campidoglio » (2). Nessuno però, neppure il Mascardi, prese sul serio l’ingiuria. Anzi quella sua attività lo rese così grato agli accademici eh’ essi gli concessero tutti, unanimemente, la proroga dell’ onorifica carica di loro Principe. La sua fama del resto correva sempre èricordato nell’orazione: ved. pure Zeno, Annoi., I, p. 147. H Mascardi, legato all’Aleandro da viva amicizia, non mancò di commemorarlo anche alla Sapienza, ove, la prima volta che dovè far lezione dopo la sua morte, lesse un carme intitolato In Hieronymi Aleandri funere extemporalis eiu-lalio, stampato con la sesta delle dissertazioni romane De affectibus, ed. cit., p. 71. — Nella prefazione alla Difesa il Nostro usava buone parole anche riguardo allo Stigliani, persuadendo il lettore che l’edizione del- 1 opera dell’Aleandri non gli era punto suggerita da malanimo verso questo poeta, che stimava assai (« ora soggiungerò di più a benefìzio dello Stigliani, a cui io non porto mala volontà, come che non approvi le scritture che manda fuori ecc....... »). E lo Stigliani ne restò soddisfatto, scrivendo in una lettera che le sue rime erano commendate da tutti « ma spetialmente da colui che fe’ la prefazione alla seconda parte della Difesa dell’ Adone, il qual dicono sia il Mascardi »: Lettere, Roma. 1651, P- 167. Del resto anche il Barbazza, nella prefazione alle Strigliate, avvertiva, urbanamente : « Il fine dell’ Autore delle Strigliate è solo di scherzare sulla qualità e goffaggine del poetare dello Stigliani, non già di recare offesa alla sua fama, stimandolo per altro uomo assai onorevole ». — Quel Gaspare de Simeonibus che commemorò l’Aleandri, era grande amico del Mascardi e compose per la sua Congiura una poesia latina. (1) R. Bibl. Univers, di Genova, cod. E, IV, 16; lett. del 2 settembre 1632, all’Aprosio. (2) Menghini, Tomaso Stigliani, in Giorn. lie;., XIX, p. 105, n. 1. / — i86 — più. di città in città e parecchie altre accademie andavano a gara per accoglierlo nel loro seno. Troviamo il suo nome nel catalogo degli Accademici Ansiosi di Gubbio, col titolo di cameriere d’onore del Pontefice (1); da certi suoi scritti risulta pure ch’ei fosse eletto Principe dell'adunanza degli Oscuri e accademico Materiale (2). Recatosi a Venezia, per curare, presso il Fontana, certe ristampe, che, lui lontano, riuscivano sempre o manomesse o straziate, ebbe occasione di farsi conoscere dagli accademici Incogniti, e di recitare fra loro un’orazione, non sappiam quale, che gli valse subito l’ascrizione al loro gruppo e 1’ onore, dopo morto, di una biografia, preposta poi dagli stampatori veneziani , per richiamo e utilità degli studiosi, alle edizioni postume (3). (1) Armanni, Lettere, ed. cit., to. Ili, p. 401. (2) Discorsi accademici, ed. cit., dise. VII, p. 321: « La nobile e o-norata servitù che m’imponete , Signori, eleggendomi capo della vostra adunanza....... Persuaso dunque 1’ Asciutto così dell’ insegnamento della natura come dall’esempio di quegli uomini valorosi, che, per ricever nell’animo i caratteri della Sapienza e delle Virtù, faceva di mestiere prepararlo prima, e disporlo in modo che riuscisse di così nobile impressione capace, levò per impresa il foglio bianco, che , dallo stampatore adattandosi al torchio, prima s’asperge, acciocché, ben disposto da questo umore, riceva sicuramente l’impronta dei caratteri che senza umidità o non s’imprimono o confusamente s’imprimono, e v’aggiunse opportunamente il motto: Imprimor uda; quasi che dovesse la carta dell’animo suo riuscir ben disposta ad esprimere il carattere della Virtù e della Sapienza, se fosse rammorbidita prima dall’umore accademico, cioè a dire con gli esercizii delle buone lettere , che tuttodì si adoprano dagli Accademici....... »; Disc. Vili, p. 351: « Il sentimento dell’accademico Materiale è sì chiaro che non si richiede in questa parte prolissità di discorso. Intend’ egli mostrare che sì come la creta in tanto è capace della figura che con essa vuol formare il vassellaio in quanto resa trattabile dall’ u-mido , ubbidisce alla man dell’ artefice , così egli in virtù dell’ umore accademico, cioè a dire dell’ aiuto che ritrae dagli esercizi dell’Acca-demia, rimane abilitato a ricever l’impronta delle Scienze e della Virtù ». (3) Da siffatta sua notorietà e autorità veniva qualche vantaggio anche - i87 - Mentre scriveva 1’ opera sua maggiore, il trattato dell 'Arte istorica , intorno alla quale s’ era messo non appena eletto Principe degli Umoristi, « per autenticare al possibile il giudizio della loro elezione con qualche effetto della sua diligenza », lo colse in Tusculo una gravissima infermità, che gli fece « vedere più da vicino il termine della.....vita che la fine.....del componimento » (1). Ritornò a Roma e si rimise alquanto. Frequentava allora, più spesso che altri, alcuni corregionali, special-mente Giacinto Massa e mons. Antonio Cicalotti e Paolo Pirani, famigliari di Laudivio Zacchia, vezzanese, nominato Cardinale nel 1626; e, « conversando frequentemente in quella casa il Sig. Agostino (scrive il Pirani stesso) con la domestichezza della patria e caro per le sue virtù, quei dotti commentari sulla Tavola di Cebete, al fratello Giovanni. Avendolo questi pregato d’intercedere per fargli ottenere il vescovado di Sarzana restato vacante, egli ne scriveva al Duca di Modena, che s’affrettava a incaricare di quella pratica Alfonso Caran-dini, allora ambasciarore in Roma. E così il Carandini rispondeva : Ser.mo Principe. Mi è stata resa oggi la lettera di V. A. delli ii, che mi comanda il far ogni opportuno officio in occasione della vacanza del Vescovado di Sarzana, acciò che Mons. Mascardi sia avanzato a detta Chiesa, la quale sebbene è ora vacante, tuttavia, mentre si aspetta di sapere se il Signor Card. S. Cecilia n’abbia quel desiderio che ne mostrò altra volta, è parso bene al fratello di Mons. che si sospenda il parlarne; onde starò prontissimo per obbedire quando bisognerà all’A. V. e per usare a suo tempo ogni diligenza affinchè il suddetto prelato abbia da riportar frutto della protezione di cui V. A. lo favorisce. E con questo reverentemente me le inchino. Di Roma, li 28 febbraio 1631. Di V. A. Ser.ma fed.mo e dev.mo suddito e servo Alfonso Carandini. R. Arch. di St. di Modena, Cancelleria ducale — Dispacci degli ambasciatori estensi a Roma. (•) Ved. la dedica dell 'Arte istorica agli accademici Umoristi. — 188 — quella Congiura del Fieschi, queste e molt’altre che forse verranno in luce, di passo in passo che uscivano dalla sua penna, egli liberalmente con gli amici le conferiva, e da tutti desiderava d’ udire il giudizio, non ricusando pur quello dei meno intelligenti ». Quel Giacinto Massa che abbiam nominato testé, era spezzino, dottore in leggi stimatissimo in Roma, poeta della scuola marinista e abate di S. Giovan Battista di Gerace ; saliva poi, dopo la morte del Nostro, al grado di ambasciatore ordinario dell’Arciduchessa d’Innsbruck e di cameriere segreto del Cardinal Pamfili, nipote d’Innocenzo X. Meno fortuna ebbero invece il Cicalotti, beneficato , soltanto negli ultimi anni di vita, dal Card. Barberino col governo della giurisdizione di Farfa; e il Pirani, pesarese, che continuò 1’ opera del Mascardi sull 'Arte Istorica e lasciò che si stampassero, sebbene a malincuore, le sue aggiunte, quando si trovò in Roma, impiegato alla Corte dello stesso Pontefice (1). Ma a Roma la malattia, pure accennando a diminuire in intensità, minacciava di farsi cronica. Peregrinò allora per nove mesi e si recò a Napoli, ove fu ricevuto con segni di profonda stima dagli accademici Oziosi, (i) Ved. per queste notizie, oltreché il Giustiniani , Gli Scrittori, p. 271, anche il Pirani stesso, op. cit., p. 9-10, e il Gerini, op. cit., I, p. 112. Del Cardinal Laudivio Zacchia esistono lettere nell’Archivio Capitolare di Sarzana, Litterae offic., Z. Altri ragguagli sul Pirani dà lo stampatore dei Dodici capi ecc., in fondo al rarissimo volumetto, accidentalmente; e dice che, giovane ancora, fu trasferito « dalla Religione di parroco ad occuparsi in Roma nella Segreteria latina del Sommo Pont. Innocentio Decimo », e poi mandato in Pesaro col titolo di Canonico, sostituendolo nell’ incarico di Corte il già ricordato Gasparo de Simeonibus. — Oltreché i Dodici capscrisse un carme in memoria del Marchese Ambrogio Spinola, la storia della guerra degli Spagnuoli nel Belgio, la vita del Duca Francesco Maria d’Urbino, delle annotazioni ai primi tre libri di Lattanzio Firmiano e una declamazione per Maria di Scozia alla regina Elisabetta d’Inghilterra. — 189 — a capo dei quali era l’amico suo G. B. Manso. Ivi compì la sua convalescenza, alternando le visite ai dintorni incantevoli della « Sirena » con nuove esercitazioni letterarie. Passò poi a Genova, dove riebbe definitivamente la salute (1). Non vedeva il momento di ritornare a Roma ; e si affrettò a farlo e rientrò trionfante nell’ accademia e riprese la penna per finire il suo trattato, onde si riprometteva, a ragione, « la miglior gloria ». Era nella gran città divenuto una persona quasi indispensabile. Sebbene il Papa e i Cardinali sapessero quanto poco potevano fare assegnamento sul suo carattere , tuttavia spessissimo dovevano ricorrere a lui, perchè, in circostanze critiche, egli, esperto nelle leggi, abilissimo nel maneggio della penna e della parola, non avea pari per condurre a buon porto le pratiche politiche più complicate. Una volta, essendo sorta una controversia fra 1’ ambasciatore di Malta e il Priore Nori, nell’ occasione che questi dovevan congregarsi alla presenza del Cardinale Antonio per i sospetti che s’avevano circa Tarmata del Gran Turco, il Nostro riuscì a pro- (1) Questi particolari dà egli stesso in una lezione alla Sapienza, E-thicae prolusiones, Parisiis, ap. Sebastianum Cramoisy, MDCXXXIX, prol. V, p. 68: « in urbem profugi [da Tusculo]: hic enimvero in morbum incidi, specie quidem blandum, sed si fateri libet, longe morosiorem quam quem in Tusculano recens a tergo reliqueram...... »; p. 71 « Neapolim tenui, urbem multis nominibus plane regiam : sed civium potissimum humanitate suspiciendam, qui nobili morum elegantia, admirabilem illius coeli solique temperiem ita aemulantur ut vincant. Mox Genuam appuli, ubi quoniam cum libero coeli haustu simul etiam valetudinem imbibi, apud me ratum ac fixum exinde fuit, ad corporis aegritudines edomandas, efficacissimi!m ab animo propinari mihi pharmacum, libertatem. Hic enimvero totus ad otium in urbanissimo suburbano compositus etc....... ». Per l’accademia degli Oziosi, alla quale fu aggregato anche il Nostro, ved. le pagine di un contemporaneo, Giulio Cesare Capaccio, Il Forastiero, Napoli, per Gio. Domenico Roncagliolo, 1634, p. 8, e per il Manso in particolare, le notizie del Crasso, op. cit., I, 310. — IÇ)0 - vare in modo inconfutabile esser superiore 1’ ambasciatore della Religione a tutti i Priori; e il Magalotti, che volle dimostrare il contrario in una sua scrittura, s’ebbe da Malta, con piena soddisfazione della Corte romana e del Nostro, 1’ ordine — davvero terrificante per un povero ambasciatore — « che impiegasse la sua penna sopra altra materia » (1). Sui primi del ’35 , il Mascardi venne a sapere, per mezzo di comunicazioni private, che il Cardinal Maurizio intendeva di ritornare in Roma, essendo nate alcune forti dissensioni fra lui e i parenti della Corte piemontese. Sentì allora vivissimo il desiderio di ricondursi ai servigi di quel Principe, a dire il vero ben più splendido e liberale che non fosse il Cardinal de' Medici, che si lasciava freddamente circondare di servitori, senza nemmeno conoscerli di presenza. Ritornando il Maurizio, — egli pensava — si sarebbe riaperta 1’ accademia dei Desiosi con quegl’ingegni « veramente eroici » che v’avevano furoreggiato anni innanzi: si sarebbero ripristinati gli antichi trattenimenti col solito concorso di dame, coi soliti concerti, con la ben nota pompa. Inoltre, poiché il Cardinale ritornava con la borsa ben rifornita, egli sarebbe riuscito a farsi pagare « alcuni avanzi delle provvisioni passate », sui quali, dal tempo della precipitosa fuga del 1627, non faceva più assegnamento. V’era di che sperar bene sul serio: però bisognava prima di tutto trovare il modo di persuadere il Cardinal de’ Medici, che certo non avrebbe potuto prendere in buona parte un licenziamento improvviso e ingiustificato, dopo di aver lasciato al suo servitore la libertà più ampia e fattogli sempre versare al momento opportuno l’onorario (i) R. Archivio di Stato di Modena — Cancelleria ducale — Avvisi e notizie dall’estero; lettera di Francesco Mantovani da Roma, li 22 dicembre 1635, al Duca di Modena. — igi — convenuto. Commise allora l’imprudenza di parlarne a un amico linguacciuto, palesandogli che, per ottenere l’intento, dopo maturo consiglio era venuto nel divisamente di ricorrere ai buoni uffici di un tal Gaetano, molto famigliare col Cardinale. L’amico ne parlò a sua volta ad altri, sicché, dopo breve tempo, ne fu informato il dottor Clemente Merlino, auditore della Rota Romana, il quale, sebbene si professasse amico sincero del Nostro, scandalizzato di quel procedere e pensando fors’anche di trarre qualche frutto per sè da una intromissione in quell’ affare, riferì la cosa a Pietro Poggi, agente in Roma per conto dei Medici. Il Poggi si recò subito da Gaetano, scongiurandolo di non ascoltare le preghiere del Mascardi, che avrebbero potuto condurlo a conseguenze molto dannose per lui e molto sgradite al Granduca Ferdinando; e tanto fece e tanto disse, esagerando i pericoli e le responsabilità, che quegli chiamò segretamente il Nostro e gli dichiarò senza tanti preamboli che non avrebbe mosso un dito per esaudire il trapelato suo desiderio. Narrava un testimonio oculare, Francesco Mantovani, ambasciatore del Duca Francesco I d Este a Roma, che « a questo avviso cadde morto il Mascardi, perchè vide scoperti i suoi disegni quando li credeva più occulti ». Immaginiamoci poi quale stizza dovè questi sentire dentro di sè, venendo a sapere che autore dello spionaggio era stato quel Merlino stesso, del quale avea scritto parole di lode nella prefazione della sua Arte istorica, purtroppo già sotto i torchi! Intanto, ragguagliava sempre il Mantovani, l’incolpato Merlino « spergiura di non aver commesso l’errore, perchè cerca occasione di far qualche altra burla al Mascardi e a chi si fida di lui e delle sue parole. Il Mascardi però col pensare solamente a questo negozio, ha scandalizzato la Corte, che non lo vorrebbe così volubile, non — 192 — sapendosi oramai, con tante mutazioni di servitù, se sia pesce o carne, e quali siano le sue vere dipendenze » (1). In questo nuovo frangente, ricorse il Nostro al Cardinale Aldobrandini ; e sperava che per mezzo suo a-vrebbe potuto, anche contro gl’ intrighi e le burle dei malevoli, raggiungere il suo scopo, il quale era veramente quello di ottenere il titolo di « servitore formato » del Cardinal de’ Medici, servendolo « in materia di lettere e in soggetto di accademie » col compenso di un regalo annuo, « nel tempo istesso che sbrigasse le regolari funzioni di segretario » presso il Cardinal Maurizio. Il Granduca e il Cardinal de’ Medici risposero all’Aldobrandini, dicendo di cedere il Mascardi molto volentieri, senza però accettare quelle offerte speciali di uffici letterari, dacché la Corte Romana non a-vrebbe certo permesso « che possa servirsi con fede candida a due padroni ». E ancora il Mantovani, informando di tutto ciò il Duca di Modena, che pare facesse continuamente sorvegliare il pericoloso Mascardi, riferiva un’ altra delle pubbliche voci, importante per comprendere sempre più in quali torbide acque ormai il Nostro navigasse: « Molti sono di parere che i Fiorentini gli abbiano conceduto licenza con gusto singolare, perchè il concetto che tenevano del Mascardi non era buono e perchè da certo tempo in qua desideravano di liberarsene senza strepito e romore; onde, quando egli si affannasse per restare attaccato con loro (i) Ibidem : lett. del Mantovani, li 14 luglio 1635. — Arte, p. 5 dell’ed. cit. : « Tra questi fu monsignor Clemente Merlino......, il quale, benché per l’occupazione di quel sovrano tribunale paia tutto inteso alla dottrina legale, per gli studi nondimeno già fatti in diverse sorte di letteratura e per la straordinaria capacità che lo rende abile a giudicar bene di qualunque materia, è da me stimato e riverito quanto conviene ». — 193 — in qualche maniera, verisimilmente perderebbe l’opera e la fatica » (1). Appena avuta licenza dal Cardinal de’ Medici di passare al servizio del Principe Maurizio, egli, che già aveva stretto accordi con questo, s’intitolò subito servitore di Sua Altezza e prese ad occuparsi dell’accademia dei Desiosi, che si sarebbe riaperta a nuove adunanze (2). Che però dovesse trovarsi soddisfatto del cambio , non si potrebbe asserir con certezza. Il Principe Maurizio non volle costituirgli provvigione di sorta, non prendendolo come suo impiegato nella segreteria particolare : promise soltanto di soccorrerlo « secondo i bisogni e le occorrenze » : e, per il Natale di quell’anno, gli faceva intanto sdrucciolare nella borsa cento scudi. Nuovi lamenti allora del Nostro, che si trovava a fremere ancora, pensando al domani. Il Cardinal Maurizio impietositosi, cercò di fargli avere un canonicato rimasto vacante per la morte dell’abate Costaguti, nella chiesa di Santa Maria in Via Lata, della quale egli era Diacono. Ma purtroppo il Pontefice avea già dato parola di affidarlo al fratello del Cardinal Campegna, che gh era oltremodo caro, perchè « conclavista » al tempo della sua assunzione (3). Pareva proprio che il destino congiurasse e il Nostro non sapeva darsene pace. Visto che il posto presso il Maurizio non era così rimunerativo come avea creduto a tutta prima, cercò ancora di tar breccia nell’animo dei Signori di Toscana, tanto più che il Cardinal de’ Medici, datosi alla ricerca d’ altra (1) R. Archivio di Stato di Modena, Cancelleria, c. s. ; lett. 22 dicembre 1635. (2) Rua, op. cit., p. 106. (3) R. Archivio di Stato di Modena, Cancelleria , c. s. ; lett, 29 dicembre 1635. Per Francesco Maria Costaguti, morto a Ferrara il 1635, ved. Giustiniani, Scrittori, p. 240. Atti Soc. Lig9 Storia Patria. Vol. XLII. *3 — 194 — persona, non trovava chi lo soddisfacesse come, in fin de’ conti, e per la notorietà goduta e per la pratica acquistata, aveva saputo soddisfarlo il Mascardi. Sicché, forse a malincuore e certo col beneplacito del Pontefice, o per meglio dire del Cardinal nipote, cui s’era insinuato il convincimento che non fosse poi dannoso agli interessi della diplomazia il servire a due Cardinali, quando il servizio si riduceva per uno di essi a incombenze di carattere meramente letterario, anche il Cardinal de’ Medici, pregato e ripregato , fini per riaccoglierlo, lasciando pure che servisse in altre cose il Cardinal Maurizio (1). Ma l’incontentabile trovava ben presto che anche gl’incarichi del Cardinal de’ Medici « non hanno.......fondamento che non vacilli » : e si vedeva legato così a mille padroni, senza trarne quel compenso sicuro che uno solo avrebbe potuto dargli con sua soddisfazione , chiamandolo al maneggio della burocrazia di Corte, regolarmente. Proprio allora il Cardinal Maurizio era rimasto senza segretario e andava chiedendo a destra e a manca quale persona avrebbe potuto meglio convenirgli. Il Nostro, per timore forse di una ripulsa, non ebbe il coraggio di offrirsi direttamente, e pur tuttavia prese a desiderare ardentemente quella carica, che oramai gli pareva rispondesse pienamente alle sue non appagate aspirazioni, maravigliandosi anzi che il Principe, da se stesso , avveduto com’ era , non scoprisse bello e pronto il ricercato segretario nella sua persona, e continuasse invece a « riandare ogni cantone » per quello scopo. Scrisse allora a Francesco I, Duca di Modena, facendosi precedere dal marchese Massimiliano Montecuccoli, cui aveva dedicato da giovane un libro delle sue Selve, e invocando di aprire (i) Ved. lett. ii gennaio 1636, citata dal Rua, op, cit., p. 106. — 195 — una buona volta gii occhi al Cardinal Padrone e indurlo a lare ciò eh’ egli per delicatezza non poteva chiedere (1). E, poiché il Duca, grazie alla intercessione del riconoscente Montecuccoli, si decise ad accontentarlo, egli ebbe finalmente il desideratissimo ufficio, con una provvigione più che sufficiente per i suoi bisogni, e potè così, bene o male, raddrizzare le sue travagliate fortune (2). Usciva nell’ aprile del 1636 Y Arte istorica, ansiosamente aspettata dagli accademici toscani e specialmente da quelli genovesi, sapendosi ch’egli l’avrebbe dedicata al Serenissimo Duce Giovan Francesco Brignole ed agli Eccellentissimi Governatori della Repubblica di Genova. Nella lettera prepostavi, portava il Mascardi due ragioni di quell’omaggio : la prima era che « in questi ul- (1) App. I, lett. 5 novembre 1636, 7 febbraio 1637; nn. 142, 143. (2) App. I , lett. n aprile 1637 , n. 144. La buona notizia dovè riceverla sul principio dell’anno, perchè il Mantovani scriveva da Roma il 19 gennaio : « 11 Mascardi rimane al servizio di ambedue li cardinali ». R. Archivio di St. di Modena — Cancelleria c. s. - Probabilmente il Duca trovava indispensabile accontentare il Mascardi , sapendolo nuovamente in auge: non mancava però di fargli notare tutta l’importanza del favore. Ecco la sua lettera: Al Sig. Agostino Mascardi V. S. ha merito per conseguire ogn’onore, nè a me manca desiderio di mostrarle l’affetto mio, e la stima in che tengo la sua persona. L’ ufficio però di cui mi ricerca col Sig.1' Principe Cardinale, è passato da me quest’ ordinario, ma in quella forma che mi permetteva la qualità della materia. Per altri certo ero risoluto di non parlare , rappresentandomisi per tutti eventi non male lo stare lontano dall’ istanza di cotesta carica, come quella che più d’ ogn’ altra deve essere conferita dal Principe, non per intercessione , ma secondo il genio , la confidenza, e gli interessi di lui. Dall’uscire per V. S. dallo stabilito, argomenti 1’ animo mio verso di lei e promettaselo sempre affettuosissimo in tutto ciò che auerà dipendenza da me, e la saluto. Di Modena i.° marzo 1637. (R. Arch. di Stato di Modena — Cancelleria ducale — Letterati). — i g6 — timi tempi, cimentati da stranissimi travagli, la generosità della Repubblica ha saputo meritar gli applausi di tutto il mondo, in maniera sì singolare che il non accompagnarli con voci di gratulazione e di giubilo , sarebbe eccesso d’animo o mal conoscente o poco divoto » ; 1’ altra egli riponeva in « quell’ antico vincolo poi di nobile cittadinanza, che sopra di quattrocento anni fa, per la vendita di terre libere in Lunigiana, congiunse la casa sua con la Repubblica ». Così il Mascardi; ma noi abbiamo il diritto di sospettare ormai, dopo tante furberie, che qualche altro fine lo movesse e che in ogni modo non a caso fosse ivi ricordata, dopo che da tanti anni il Nostro non dimorava più in Genova , quell’ antica vendita di Trebiano. Or chi badasse bene, troverebbe che proprio in quei mesi era stata presentata alla Serenissima la famosa supplica contro il Comune di Sarzana, per ottenere la legittima esenzione dalle tasse, in virtù di quell’antico patto; e che di momento in momento il Senato doveva portare ai voti la questione, già discussa dagli avvocati dell’ una e dell’altra parte e già raccolta nei suoi minuti particolari in numerosi protocolli. Ciò sia detto qui, per dar la giusta ragione di quella stranissima dedica, senza più ripeterci riguardo alle fasi e alla soluzione della causa (1). Il libro, uscito coi sommari diligentissimi di Girolamo Marcucci e un’ antiporta raffigurante San Giorgio in mezzo alla Superba, suscitò un vero entusiasmo. Urbano Vili lo elogiò grandemente, trovandolo « pieno di mille erudizioni » e scritto con uno stile che « si confà con li gusti più delicati di que' che adesso portano il vanto di scrivere isquisitamente ». Il Mantovani riferì (t) Ved. a p. 37 e sgg. del presente lavoro. La relazione e il voto intorno alla causa fra i Mascardi e il Comune di Sarzana, recano la data del 2i agosto 1636. — R. Arch. di Stato di Genova, Senato, Atti, n. 734. — 197 — siffatto giudizio al Duca di Modena (1); e forse anche per questo fu il Serenissimo indotto a occuparsi del Nostro , rispetto al collocamento testé ricordato presso il Maurizio. Invece vi fu qualcuno che scrisse da Roma a Firenze in modo ben diverso. Si giudichi da queste frasi tanto velenose quanto ineleganti, eh’ io tolgo a una letteia indirizzata al segretario dello stesso Cardinal de Medici, Alessandro Bocchineri: « Sento oggi che il Mascardi fa di sopra un gran romore che mi fa dubitare che gli sia venuto un umore bestiale di farci stampare un suo libraccio svAYArte istorica che vuol dar fuori adesso. Farò diligenza per chiarirmene ed in tal caso l’impedirò, perchè so che questo mestiere è la distruzione delle cose buone; pensate poi delle cattive e vecchie, come questa! Oltreché simili cose non si devono fare senza espressa licenza » (2). Questo purtroppo era il frutto che il Nostro doveva raccogliere dalla cattiva seminagione: trovarsi imputato a colpa anche ciò che per se stesso sarebbe apparso innocuo! Un libro di storia fatto dal Mascardi? Ma non v’era dubbio! Si trattava di un mezzo per far denari, vendicarsi di qualche sfavorevole Principe, mettere mille persone nell’imbarazzo! Foituna volle che quel tale scrittore, di cui non conosciamo altro che lo pseudonimo di Beneficiato maggiore, (iì R. Archivio di Stato di Modena — Cancelleria ducale — Dispacci degli oi atori estensi a Roma; lett. del 23 agosto 1636. Il Gamba, op, e 1. cit., dice che per quell’ opera il papa Urbano Vili lo proclamò in pieno concistoro il « Demostene della toscana eloquenza ». Ecco poi quello che diceva uno stampatore , il Fontana (lett. a capo delle Prose, Venezia, 1635), della sua fama: « Il Sig. Agostino Mascardi è asceso a sì alto grado di toscana eloquenza che niuno in questo secolo io gli antepongo e pochi gli pareggio. Egli, avendo oggimai conseguito 1’ eternità del nome , non cessa però di dar nuovi lampi del suo divino ingegno, chè non ha prima prodotto un bel frutto ch’egli ne riproduce un altro ». (2) R. Archivio di Stato di Firenze — Carteggio del Cardinal De Medici, filza 23 ; lett. 6 aprile 1636. — 198 —• apposto alla lettera cifrata, non potesse impedire la pubblicazione, come minacciava : e tutto andò per il meglio. A dire il vero, proprio tutto no, giacché qualche fastidio quello scritto pur glielo procurò, per certi giudizi e notizie intercalati qua e là nei primi capitoli. Egli era andato davvero poco cauto in ciò, dimenticando che Ahraham Bzovio, nel continuar gli Annali del Ba-ronio, avea dovuto proprio allora subire pressioni e minacce dall’ Elettore di Baviera per quanto avea scritto su Ludovico il Bavaro, e accomodarsi alla bell’e meglio con la Casa Medici adombratasi per ciò ch’egli voleva riferire intorno ai Pontefici e Cardinali della sua famiglia. Non appena uscito il volume, gli Spagnuoli, verso i quali non soffriva il Nostro troppa tenerezza, pubblicarono « tre doglianze gravissime » ; rimproverandogli 1’ aver scritto che Carlo V avrebbe condotto Clemente VII in Spagna, se non fosse stato trattenuto dalla pietà dei suoi sudditi e massime dei prelati; che Filippo II aveva avuto giusta occasione di gelosia per parte di una delle sue mogli; e che infine essi Spagnuoli aborriscono il valore dei soggetti Italiani, sì da tentar di privare il marchese Spinola della gloria che avea meritato sul campo: concludevano poi col dire che, se questi punti non fossero stati falsissimi, egli avrebbe dovuto in ogni modo tacerli, perchè « manifestavansi introdotti solo come esempio », quindi non necessari ad un trattato ove non si tesse la storia di quei tempi cui si riferiscono (1). (1) L’accusa a Carlo V non è fatta espressamente, ma in certo modo attribuita ad alcuni recenti critici : « dai più moderni (egli dice) è notato di cupidigia il Giovio, che, per non perder le sue pensioni, lasciò di scrivere il disegno di Carlo V, risoluto di condur suo prigioniero in Ispagna Clemente sommo Pontefice, se la pietà dei suoi popoli e specialmente de’ prelati non l’atterriva » (ed. cit., p. 124). Di Filippo II tesse invece — 199 — L’accusa, scriveva il Mantovani, era ch’egli « sia stato mosso da livorç e che abbia voluto vituperare la memoria di Carlo V e di Filippo II; e caricar la nazione di un’ impostura e di un vizio che non ha in modo alcuno ». E il Mantovani stesso, nelle preziose sue relazioni al Duca, continuava: « Il Mascardi, che s’è accorto che la materia è aromatica e che questi non son tempi da stuzzicar gli Spagnuoli, apporta varie discolpe, ma tutte sono vane e senza sussistenza alcuna; ondegli per salvarsi ha bisogno di qualche rimedio straordinario, perchè gli Spagnuoli non digeriranno cosi facilmente bocconi tanto amari e pungenti » (1). Intanto il nuovo errore si riseppe in ogni luogo e il Chiabrera, che sinceramente ammirava il Nostro e già avea potuto dare all 'Arte istorica uno sguardo sufficiente per comprenderne il valore, rivolgeva un pensiero pietoso al bersagliato scrittore: « Emmi dispiaciuto (scriveva il 31 di agosto 1636) il detto del Mascardi: non si può più. in ogni cosa ha parte l’orba fortuna » (2). Quale sarà mai stato il « rimedio straordinario » per guarire quel male? Non abbiamo notizie in proposito, però è lecito supporre che il Pontefice, come sempre, in due lunghe pagine un eloquente ritratto, riportando come certo il caso delle mogli infedeli (p. 166). Non trovo invece eh’ egli ricordi l’ingiuria fatta dagli Spagnuoli agli Italiani, e tanto meno nei due luoghi ove nomina il Marchese Spinola, dicendo eh’ egli « altro non fece che cinger dopo molto tempo la piazza di Casale d’impenetrabile assedio » contro i francesi che vi stavan serrati (p. 63) e che « soleva ogni sera, benché in campagna, riveder ciò che avea notato il segretario in quel giorno per aggiustarlo, se deviava dal vero » (p. 144)- Ma forse gli Spagnuoli non si riferivano per questa accusa ad alcun luogo speciale, giacché soggiungevano , come rilevo dalla lettera che cito nella nota qui appresso , esser tutto esposto « in termini generali ». (1) R. Archivio di Stato di Modena, Cancelleria c. s., lett. 20 settembre 1636. (2) Lettere, ed. cit., p. Sr. — ioo —- venisse in suo soccorso anche in questa circostanza, e più ancora perorasse la sua causa il Cardinal Maurizio , il quale, nella sua nuova venuta a Roma, aveva abbandonato la protezione degli interessi della Francia per assumere proprio quella dell’Austria e della Spagna. E cosi Y Arte istorica circolò impunemente, coi suoi paragrafi incriminati. Non sappiamo nemmeno se 1’ accademia dei Desiosi si tenesse ancora con la regolarità di prima. Nel palazzo del Maurizio, il Mascardi non recitò che un discorso in lode della Casa d’Austria e del Re dei Romani, il 14 di febbraio 1637, aprendosi per l’occasione un’ accademia apposita « la quale riuscì eccellentemente come porta il costume e il solito dell’Altezza Sua » (1). Si sa pure di letture e orazioni politiche, pronunciate pubblicamente: più notevole fra tutte un’esaltazione dello stesso Imperatore Ferdinando III, innanzi a un’ambasceria d’obbedienza da lui inviata ad Urbano Vili, nel tempio di proprietà della nazione germanica (2). Moriva intanto in quell’anno Vittorio Amedeo I; e il Cardinal Maurizio, che, se proprio non aveva intenzione d'impadronirsi del Piemonte, intendeva certo partecipare alla Reggenza di Madama Cristina, tutta ligia alla Francia ond’era stata tolta, mosse improvvisamente alla volta di Torino, avvisando del suo viaggio, in una lettera latina, che sappiamo composta dal Nostro, 1’ Elettore di Magonza. Si fermò dapprima a Savona, ove (1) R. Archivio di Stato di Modena, Cancelleria c. s. ; lett. del Mantovani al Duca, del 16 di gennaio del 1637, ove l’accademia è annunziata; e lett. del 14 di febbraio, ove se ne dà il resoconto. Trovasi pubblicato per la prima volta in Roma, nel 1637, da Iacopo Facciotti; e, appresso, nell’ edizione delle Prose vulgari del Baba (1653). (2) Laudatio Ferdinandi III Caesaris Augustissimi dictae Romae in B. V. inditae Nationis Germanicae tempto, Romae, ex typ. Iacobi Fac-cioti, 1637. giunse verso la metà di dicembre, indi a Genova, il 18, prendendo alloggio negli appartamenti dell’abate Andrea bossa, a S. Teodoro (1). Aveva seco i suoi gentiluomini della Corte Romana, fra i quali era anche il Mascardi, in qualità di suo segretario (2); e in quella permanenza Sua Altezza poteva dirsi « ben corteggiata » davvero, giacché parecchi nobili e letterati genovesi si recarono a visitarlo ripetutamente (3). Luca Assarino anzi, ch’era divenuto poeta e storico di grido, dopo aver mercanteggiato vino e commestibili, e assassinato un suo ne-mico, gli dedicò una poesia (4). Pare che da Savona venisse anche il Chiabrera, desideroso di cogliere tutte le possibili occasioni per riverire un Principe d’una famiglia che lo aveva tanto beneficato. Mentre qui s’indugiava il corteo, giunse notizia al Mascardi di un libello diffamatorio scagliatogli contro da un tal Giovan Battista Manzini di Bologna, letterato pieno di boria, onorato dal Duca di Modena col titolo di Marchese di Bussana e insignito dal Cardinal Maurizio della commenda di S. Maurizio e Lazzaro. La ragione che avea spinto il Manzini a scrivere quelle pagine virulente, stava in una scrittura, secondo lui del Mascardi, e ch’egli riteneva denigrativa a suo riguardo. E veramente il Manzini non aveva tutti i torti a prendersela, essendosi l’autore (1) Chiabrera, Lettere, ed. cit., p. 210, in nota. La lett. all’ Elettore di Magonza fu pubblicata in fondo ai cit. Discorsi accademici, p. 487 e sgg. (2) R. Archivio di St. di Genova, Salutationes et Ceremoniales, filza i, n. 461: nota nominativa di tutti i personaggi del seguito del Cardinal Maurizio, 18 dicembre 1637. (3) Chiabrera, Lettere, ed. cit., p. 11S. (4) Su questo componimento, che gli attirò tante noie da parte della Repubblica genovese, ved. l’interessantissimo scritto di A. Neri, Curiose avventure di Luca Assarino genovese, storico, romanziere e giornalista del sec. XVII, in Giani. Lig., I, 471 e sgg. — 202 — della prima scrittura divertito assai lungamente alle sue spalle e, che è più, con tanto garbo da suscitare le risa del Principe Cardinale, il quale provava un gusto matto quando vedeva ben sbertucciati i palloni gonfiati. Errava invece incolpandone il Nostro. Riferiremo dunque la cosa testualmente, documentando, come sempre. Il Manzini aveva scritto al Principe Cardinale la seguente lettera, che, per quanto si può intravvedere, doveva contenere un ringraziamento per la conferita onorificenza : Ser.mo Principe. I benefizii che V. R. A. mi ha fatti, l’hanno resa tale appresso di me, che i titoli regii incominciano ad essere i più vili eh’ io possa riverire in lei. E da Dio, non da uomo, il meritar le devozioni e il comprar l’anime e i cuori con le frasi. Se la grandezza di V. A. non oprasse in virtù di Dio, sarebbe per me non solo un Dio, ma maggior di Dio. Da Dio sono stato creato fango , da lei sono stato creato cavaliere. Se la predico, come la provo, per mio Creatore, il tiro è di una gratitudine, che, superata, ancor non sa cedere. Ma il termine è improprio, come dovuto solo a Dio, la colpa non è nuova , non è mia ; me 1’ hanno imparata gli eserciti della Francia, i quali (Testimonio il Ficino) quasi affatto perduti predicano V. A. per loro Redentore. E fra questi evidentissimi trofei delle divine prerogative di sì benefica grandezza, io sarò stimato adulatore, perchè a piè d’una Croce predico la devozione che professo a chi sa creare anco su le Croci, a chi redime anco fra le stragi ? Io accuso il mio debito, acciocché non si creda che noi conosca. Incomincio a ringraziarla, perchè non si giudichi eh’ io creda che si possa finire. Se V. A. non mi avrà per servitore il più obbligato che se le professi tale, sentirà o troppo altamente della mia debolezza o troppo bassamente delle grazie ch’ella mi ha fatto. N. S. la paghi. Vittoria. — 203 — figurarsi come dovesse rimanere il Cardinale quando ricevette questo monumento di barocchismo secentistico! Lesse e rilesse il foglio; poi, temendo d’avere a fare con un uomo impazzito, lo mandò a un suo amico di Ferrara perchè lo esaminasse e gliene riferisse il proprio parere. L’amico di Ferrara s’ affrettò a rispondere che « i concetti di esso, ancorché empii, dànno per lo più in sciocchezza ridicola » : proponeva quindi di « esaminarli da beffe » e di « risponderli giocondamente » ; e per ciò mandava, insieme con una sua « diligente investigazione », addirittura le minute delle risposte. Sce-gliesse pure il Cardinale quella che gli fosse parsa più conveniente: [Risposta). Ingegnosissimo Signore Per ben guernire il Campanile del vostro merito e per consecrare degnamente il Cimiterio delle vostre virtù, era necessaria la Croce, e io ve ne ho fatto grazia volentieri: non accetto con tutto ciò quelle sante divinità che voi mi attribuite , perchè il tiro mi pare da Inquisizione , e non vorrei eh urtasse in qualche croce del Santo Uffizio. Confessarei solo la proporzione di Creatore perchè, non essendo in voi altro che il nulla, cioè la negazione d’ ogni qualità necessaria per essere fatto Cavaliere, io nondimeno ho fatto nascere la Croce e il Cavaliere ex nihilo, che tanto vuol dire creare. Nel resto poi, quando Cristo meritò le devozioni e comprò gli animi e i cuori con la Croce, era la Croce instrumento di vituperio, e da lui fu nobilitata, dove all’ incontro io 1’ adoro come instrumento della mia salute, e nel darla a voi diranno i maligni che 1’ ho vituperata e ridotta al suo antico segno, sì che questo concetto non fa per voi. Godetela dunque senza tante riflessioni e perchè D. Luigi vostro fratello aveva disegno di lasciar quella che Dio con 1’ abito religioso gli ha posto su le spalle e che egli finora non porta, ma strassina, per pigliar quella che ho data a voi, scongiurate lo spirito di lui in virtù della vostra Croce ; e, già che voi avete presa quella di Christo , che merita le devozioni e compra 1’ anime e i cuori, dite a lui che s’attacchi a quella del Ladrone. Dio vi conservi. [Risposta). La gratitudine ch’è manifestata per una delle vostre croci di grazia, vi rende tale appresso di noi che potete attenderne anche un’altra del gran Maestro della Giustizia. Godiamo d'a-vervi posto in croce, acciochè da luogo più elevato consideriate i tiri della mia beneficenza, che, non provocata dal convenevole, corre volentieri per crucifiggervi. Vi rassomiglio a a Dio che fu inchiodato su la Croce senza demerito ; la Croce è stata inchiodata in voi senz’alcun merito : ma Ella servì per mezzo alla Redentione dell’anime altrui; questa serve per instrumento alla dannatione della vostra. S’io credessi di redimere l’anime dannate, come gli eserciti già disfatti, vi beneficarci prontamente con 1’ opra di qualche sacro tormento, ma quei miracoli che fece la Croce di Christo, quando fu cavata dal pozzo, ove stette lungo tempo nascosta, farà anco la nostra, quando sarà sollevata dal fango, in cui al presente è caduta. N. S. sborsi misericordia. (Risposta). Quella medema Croce per cui ci siamo resi tali appresso di voi che i nostri regii titoli sono i più vili, dichiara ancor voi per cotale appresso di noi che i vostri abiti cavallereschi sono i più nobili. E da frenetico, non da uomo di mente libera, lo sconvolgersi tanto stranamente, ricevendo sopra il petto la Croce. Se la vostra condizione per manifesta dichiarazione non fosse di fango, sareste per me non solo fango, ma peggior del fango. Il fango imbratta altrui gli stivali, voi macchiate il decoro a tutta la cavalleria. Drizzi su questo fango i suoi raggi il sole della divina giustizia , acciò, divenuto terra da boccali, possa formarsi un cantaro. Conserverassi, in virtù della nuova Croce, sempre incontaminato e intiero. Oppure si versino sul medesimo fango le piogge dell’ira celeste, acciocché si trasformi in corrente e liquida mota; potranno più agiata- — 205 — mente sollazzarvisi i maiali de’ vostri grassi costumi, c la Croce di S. Maurizio sarà presa per quella di S. Antonio, mentre sarà veduto al suo piede il porco, che predica le devozioni. Chi sa comprar con la Croce , sappia riscuotere col manico. A queste « risposte » segue, come ho detto, un giudizio, ossia un commento particolareggiato delle frasi e talvolta delle singole parole adoperate dal Manzini, nel quale si prova, con un linguaggio ancor più acre, che certi termini « il Manzini poteva scrivere allo scarpi-nello che gli racconcia le scarpe », non al Serenissimo Principe; che questo avea fatto il « miracolo di trasformare un asino non pure in cavallo, ma in cavaliere »; che il Manzini meritava « non che l’abito e la Croce di Savoia, 1’abitello e crocetta del Sant’Uffizio ». In certi punti poi colpiva a sangue la sua « grammaticale valentìa » : ad esempio, dopo le parole Da Dio sono stato creato fango, da lei son creato Cavaliere, notava: « Che Dio creasse 1’ uomo fango, è eresia ; che lo creasse di fango, è verità cattolica; ma il non riconoscere altro benefizio che questo, è empietà troppo profana e sacrilega. E vero che l’organizzamento del Manzini è manchevole in molte cose, particolarmente nel giudizio, ma non conosce d’aver avuti tutti li sentimenti e un’anima poco meno che ragionevole »: e ancora, in calce a que-st’altre: Me l’hanno imparata gli eserciti della Francia: « I pappagalli dell’ Isole Mammalucche è necessario che vi facciano imparare il parlare cristiano, poiché cotesto è barbarico ; dovevate dire insegnata, in una mal’ora! » E così per pagine e pagine (1). (i) Questi scritti trovansi nel ms. E, Vili, 17, dolia R. Biblioteca Universitaria di Genova, e furono opportunamente indicati dal Neri, in Giornale storico e lett. della Lig., II, p. 357. - 2o6 - Certo il Cardinale non pensò nemmeno di rispondere in quel modo, ma ricevette con le più grasse risa quel frutto del « libero genio » dell’ amico ferrarese e lo fe’ leggere ai più intimi, come cosa prelibata. Di bocca in bocca, il Manzini venne a conoscere per filo e per segno il contenuto di quello scritto, e da qualcuno, forse della Corte di Toscana, ove sappiamo qual conto si facesse del Nostro, senti sussurrarsi all’orecchio il nome del segretario del Cardinale. Mal frenando allora la bile che lo divorava, si vendicò appunto con il libello cui s’è accennato; e si disse ch’egli avesse poi a rincarar la dose delle ingiurie con un’operetta intitolata Le Grazie rivali, « similissima in tutto al libello » e dedicata al suo protettore, Ferdinando II, Granduca di Toscana, col quale, per le ben note vicende, non doveva essere il Mascardi in ottima consuetudine. Però, come fu recentemente osservato (1), 1’ offesa a questo non si trovava nel contesto delle Grazie rivali, ma sì in una lettera accodatavi, per ribattere le critiche di alcuni « rabbiosi e maligni censori » a quell’ opera, e dove egli lasciava ben intendere, pur non nominando nessuno, di alludere al Mascardi, giacché ricordava anche certe critiche al suo stile, fattegli in tempo trascorso dal presunto suo detrattore, che vedremo più innanzi essere uscite veramente dalla penna di lui. Dal brano che qui ne riferiamo, appar chiaro che a questo presunto detrattore, cioè al Mascardi, il Manzini attribuiva anche gli abbozzi di risposta e il commento alla lettera di ringraziamento scritti per il Cardinale: « Queste sono le mie ragioni, signor Abbate caro, onde si può vedere che ciò eh’è (i) Ildebrando della Giovanna , Agostino Mascardi c il Cardinal Maurizio di Savoia, in Raccolta di studj critici dedicati ad Alessandro DAncona, festeggiandosi il XL anniversario del suo insegnamento, Barbera, Firenze, 1901, p. 121. — 207 — stato detto contro questa mia composizione, non è quello che mi dà briga; mi dà briga l’obbligo eterno di precipitare, in che costoro mi vanno mettendo. Mo’, che, Domine, ha da esser questo? Io non ho mai da sentir altro che malignità, che detrazioni e libelli? In che cosa offesi giammai costoro? In che gli ho provocati? Quanti amici e quanti letterati partitisi di lì [Genova] passano pei Bologna , tutti han sempre da avvisare che il tal dice contro di voi ; il tale scrive contro di voi........ Bisogna disprezzarli costoro........ Io 1’ ho fatto fin’ ora e con volto anche più sereno di quello che si può credete. Il sanno tutti gli amici miei e più di tutti V. S. Ill.ma che si può ricordar ciò che le scrivessi, quando, a fine di cavarne la risposta, mi mandò quella scrittura amorosa, il cui autore, modesto e discreto, dannando in particolare una mia lettera scritta al Serenissimo di Savoia ed in universale il mio stile, passa poi a quegli encomi della mia persona, che furono giudicati così onorati fin dall’istesso lor padre, ch’egli ebbe per bene, col non mettervi il proprio nome, di confessare ch’eran figliuoli degni eh’ egli se ne vergognasse. Me ne risi. Il sa Ella. E che bisogno aveva io di difender quel che è pubblico e di attestarmi quale son conosciuto da tutti? Perchè dicano male o bene de’ miei scritti, gli faranno eglino diventar migliori o peggiori di quel che sono? Perchè lacerino il mio nome e la mia sì nota condizione, mi faranno eglino crescere o diminuir di bontà o di fortuna? Non è nuovo che un Palemone, infame a quanti ne sanno la vita, ardisca di dar del porco e del-Vasino per la testa a un Varrone che sarà sempre stimato finché meriteranno lode appresso il mondo l’azioni onorate de’ virtuosi sudori ». Il Mascardi se ne ritenne profondamente e giustamente offeso; e il Cardinale che sapeva com’erano prò- - 2oS - priamente andate le cose, fece scrivere dal marchese Massimiliano, a nome suo, prima direttamente al Manzini, e poi, questi tacendo, al conte Zambeccari, membro del Senato di Bologna, il 6 di febbraio 1638, per chiedere la dovuta soddisfazione delle ingiurie contenute in quel « libello famoso, pieno di termini fuor di modo ingiuriosi » ch’era uscito « dal fegato » del cavalier Manzini , assicurandolo che « non il Sig. Mascardi, ma un altro molto differente da lui fu l’autore della scrittura ». Nè quest’assicurazione può sospettarsi una pietosa menzogna, giacché da due anni ormai il Nostro stava sempre al suo servizio; e di suoi viaggi a Ferrara non s’ha poi veruna notizia. Ciò non ostante il Manzini nicchiava sempre, persuaso che il Mascardi fosse il vero autore delle beffe, e in ogni modo doveva preferire il rimorso di un’erronea accusa contro qualche determinata persona allo scorno pubblico senza mezzo di difesa contro l’ignoto dileggiatore. Il Cardinal Maurizio volle allora andare a fondo e scrisse con nuove e più forti lagnanze allo stesso Granduca di Toscana e a fra’ Giambattista d’Este, già Duca col nome di Alfonso III e padre dell’attuale Duca Francesco I, il quale aveva conosciuto e preso a benvolere il Mascardi a Modena, quando coglieva i primi allori nell’ accademia di quella città. Finalmente il Manzini rispose, costrettovi dai padroni, e « con un vano strepito di congetture che tutte insieme non rilevano punto, pretese di scusare la sua malfondata risoluzione e dimostrare d’ aver avuto giusta occasione di credere che monsignor Mascardi fosse stato l’autore d’una tal censura contro di lui »: si rimetteva perciò, per la desiderata soddisfazione, all’ arbitrio del Cardinal Maurizio. Questi restò per conto suo abbastanza soddisfatto di quella mossa e scriveva subito al Mascardi, ragguagliandolo della risposta ed esortandolo — 2 OÇ) — a non curarsi più oramai di accuse « tanto ripugnanti alle notissime condizioni della sua nascita e dei suoi costumi »; ma, in un’ altra lettera al Padre Giambattista d'Este, aggiungeva: « S’io non potei mai tollerare che alcun Principe maltrattasse o minacciasse i miei servitori , Ella può considerare s’io devo sopportar che lo faccia il Manzini. Tuttavia, per rispetto alla sua intercessione, mi contento di condonargli quest’errore. La prego di ammonirlo ad andar più cauto per l’avvenire nelle cose altrui » (1). E così si chiuse quell’ incresciosa contesa, la quale sta a dimostrarci che, quando v’era qualche accusa da appuntare in fatto di propalate maldicenze, prima che ad altri, si correva col pensiero alla persona del nostro Agostino. (r) Ho tolto questi particolari dallo scritto testé citato d’Ildebrando della Giovanna. Le lettere ch’egli ha trovato nella Biblioteca di Bologna, Stanno pur ricopiate nel cit. ms. E, Vili, 17, della Università di Genova. CAPITOLO VIII. ULTIMI ANNI Agostino ritorna a Roma. - Diventa agente corrispondente del Cardinale. — Al colmo della fama. — Una stoccata contro il Mascardi nell 'Eudemia del-1’ Eritreo. — Le lodi dei contemporanei in Italia e all’estero. — Il solito male s’acuisce. — In punto di morte. — La generosità di un nemico. — Viaggi e consulti medici. — Un discorso all’ accademia degli Addormentati di Genova. — Agostino si rifugia a Sarzana. — Meditazioni ascetiche. —Triste reminiscenze poetiche. — Il Cardinal Maurizio manda a chiamare Agostino da Nizza. — Viaggio disastroso. — Morte di Agostino. — Il testamento. — I funerali. — Il ricordo marmoreo. — Le esequie celebrate nel-I’ accademia degli Umoristi e in quella degl’incogniti. — Panegiristi e biografi. — La figura morale di Agostino. - Lodi postume — L’accusa di libertinaggio sfatata. — Si prova che dipende da una cattiva interpretazione della biografia dell’Eritreo. — Attenuanti che Agostino potrebbe produrre innanzi al tribunale della posterità, circa i suoi debiti e il suo sregolato tenor di vita. |l Nostro non si fermò a lungo in Torino, presso il Cardinale. Trascorso qualche mese dell’anno seguente, lo ritroviamo in Roma, sempre al suo servizio, protetto, beneficato di nuovi incarichi, temuto. Essendo morto monsignor Montanari, auditore di Rota e agente di parecchie nazioni, il Cardinale, che prima aveva gran carteggio con quel prelato, doveva ora andar « mendicando le notizie degli affari correnti da persone che per loro fine le avevano occulte, con qualche discapito del rispetto che per ogni ragione si deve a Principe tanto grande e di tanto ben regolata intenzione ». Per giovare al Mascardi e contemporaneamente -_ 2 i 2 —- a se stesso, massime riguardo all’ « esito che si desidera nei negozi di Alemagna che gli vengono raccomandati », pensò di farlo collocare a quell’ ufficio e scrisse al cavalier Bolognesi, pregandolo di adoprarsi con gran calore a quello scopo. Il Mascardi, per conto suo, avvisato delle intenzioni del suo signore, si raccomandava al Duca Francesco I di Modena, che anche in quell’occasione non mancò di venirgli in aiuto (1). Ottenuto quell’incarico meramente politico, vi si dedicò tutto, trascurando anzi un poco gli studj prediletti e solo occupandosi di far stampare in Parigi le sue dissertazioni di eloquenza e di filosofia morale, che offerse , in memoria dei ricevuti benefizi, ai due Cardinali Francesco e Antonio Barberini. Fors’anche attendeva alla compilazione delle Imprese degli Umoristi, che son ricordate fra le sue opere promesse e lasciate poi incompiute, ma delle quali non è dato trovar traccia. Fu questo, certo, il momento più bello della travagliata sua vita, giacché in lui s’accentrava, si può dire, tutta l’attività letteraria della capitale del Lazio. E titoli certo non gliene mancavano: cameriere d’onore di S. Santità, professore alla Sapienza, agente diplomatico con la Spagna e la Germania, auditore della Rota Romana, segretario del Cardinale Maurizio, principe dell'Accademia degli Umoristi. Che poteva desiderare di più? Certo le male lingue non lo lasciavano in pace, bersagliandolo sempre per quella sua smania di notorietà, malamente celata sotto le frasi piene di retorica modestia delle prefazioni alle sue opere e alle ristampe. Anche gli si dava addosso per la sua venalità. Io non dubito di trovare una punta satirica in questo senso nella parte che 1’ Eritreo gli fa compiere ntW Eudemia, libro che di maldicenze ne contien per tutti. Narra il (i) App, I, lett. 12 maggio 1638, n. 145. — 21,3 — tardo umanista che nella famosa adunanza tenuta nel-1 isola ove approdano i suoi immaginari viaggiatori, cioè, come ognun sa, nell’accademia degli Umoristi eh’essa vuol rappresentare, due poeti leggessero alcuni distici in esaltazione della primavera: « Tutti lodavano (egli continua) quella maniera di scrivere faceta e briosa: e tutti noi, ascoltando, ci sentivamo trascinati all’ilarità. Ma Sestilio Ligure, che, per ingegno, erudizione e dottrina, era quotato fra i primi, e che, come si diceva, oltre i libri di ottimi epigrammi e le splendide orazioni, avea pubblicato anche dei dottissimi commentari alla Tavola di Cebete Tebano, disse: I due chiari ingegni che mi precedettero, esposero in versi i ricchi doni della primavera : ma io che credo esser 1’ autunno di tanto superiore alla primavera quanto più valgono i frutti rispetto ai fiori e alle fronde, io credo di farmela più volentieri con lui; senzachè l’età mia è più vicina all’autunno. Per la qual cosa ho tentato di esaltare nei versi seguenti i frutti punici dei quali quella stagione è ferace: Impiger extremos currit mercator ad Indos, et mare gemmiferum findere classe parat, ut, quos dant lapides Indi Tyriique colores, evehat in pompas, o nova nupta, tuas;, haec si purpureos imitantia grana pyropos murice vel gemmis splendidiora nitent ; quin foliis illinc oculis alimenta petuntur, insuper hinc roseum nectar et ora trahunt ». Il Mascardi che preferisce i frutti ai fiori ? Via : bisognerebbe non conoscer proprio il Mascardi e non conoscere 1’ Eritreo , per non vedervi sotto un’ allusione sarcastica! (1). (i) Iani Nicii Eryti-iraei Endemiae libri decem, Coloniae Urbium, ap. Iodocum Kalcovium et socios. 1645 , III, p. 45 e sgg. Dubiterei altresì che i versi fossero del Mascardi. Nell’elegia Autumnus, dedicata al conte Marc’Antonio di Canossa e pubblicata frammentariamente a p. 91 — 214 — Ma ben più numerose ed esplicite sono le lodi. L’Allacci non può toccare di lui, in questo o quel capitolo, senza chiamarlo « maraviglioso prodigio d’eloquenza e d’ingegno ». Giovanni Imperiale, filosofo e medico vicentino che stava proprio allora componendo una galleria di letterati contemporanei, scriveva : « Risplende nel Vaticano il cameriere del Santissimo Padre Urbano, Agostino Mascardi, genovese, emulo dei più alti ingegni, da cui, per Ercole ! prende norma la dolce favella d’I- talia......., avendo egli prima di tutti adattato i precetti dell’arte alla vigoria dell’intelletto. Questi dà in luce ogni giorno opere, come da una specula, le quali vengono accolte con singoiar plauso dagli eruditi: per il che profetiamo che per i suoi continui sforzi sia rinnovata la vetusta forza dell’eloquenza dell’età dell’oro » (1). Del resto anche all’estero la sua fama andava vieppiù estendendosi; e l’Armanni, già segretario dell’accademia e ora impiegato in ambascerie politiche, lo chiamava « un letterato, il quale fra tutti gli altri dal comune co-senso degli uomini viene riconosciuto per lo più raro del nostro secolo ». Narrava poi, in una sua lettera, d’aver visto a Londra il cav. Giovan Francesco Biondi che onorava il Mascardi col titolo di « Padre dell’ Eloquenza toscana e non può saziarsi di far encomio alla sua Arte istorica, stimandola una delle più belle scuole eh’ abbiano e che mai possano avere gli scrittori per arricchirsi d’insegnamenti », e avervi trovato pure il cav. Chenelmy Digby e il cav. Tobia Mattei e altri dotti ancora, che, nelle accademie straniere, nelle pubbliche scuole, nelle sale di privata conversazione, lo esalta- dell’ed. cit. delle Silvae, non avrebbero potuto trovarsi, perchè quest’ e-legia è tutta in esametri, non in distici. (i) Ioh. Imperialis Museum historicum quae illustrium litteris virorum elogia vitas et mores eorundem notantia continentur, Hamburgi , 1711, ap. Christiani Liebezeit (opera compiuta a Vicenza nel 1639), p. 212. — 215 — vano « per l’eccellenza delle sue opere ch’eglino appellano elegantissime e singolari » (1). Ebbene, la malignità della sorte doveva proprio ora, quand’egli si trovava all’apogeo della gloria, e aveva già tanto penato, lottato, tremato, colpirlo irrimediabilmente. Sin dai primi mesi del 1638 quel terribile male di visceri che « sempre lo accompagnava e si faceva sentire non dissimile che dalla giovinezza », aveva ricominciato a travagliarlo più forte e in maniera eh’ egli quasi temeva di dover spirare da un momento all’altro. Ora poi quel male s’acuiva terribilmente dopo un breve periodo di sosta e diveniva ribelle ad ogni cura. Egli non potè più studiare, scrivere, far lezione. Perse in breve lo stipendio della Sapienza; e gli amici, che prima contava numerosissimi, lo abbandonarono del tutto; e successe, come spesso suole, che soltanto qualche avversario, impietositosi, si recasse a confortarlo. Un giorno egli vide aprirsi la porta della misera cameretta ove s’ era ritirato, ed entrare il Cardinale Ubaldini. Si commosse e non potè quasi ringraziarlo dai singhiozzi. L’ antico avversario si trattenne qualche minuto a fargli coraggio, poi uscì e lasciò, senza larsi lì per lì scorgere, cento scudi sullo scrittoio (2). Stabilì il Nostro, alla fine, di ritornarsene nell’ Italia superiore, per salvare il resto della minata salute, e, nella prefazione alle sue orazioni sui movimenti dell’ a-nimo, avvisava il benigno lettore di questo proponimento, chiedendo venia di non aver potuto affinare lo stile del suo latino com’ era suo desiderio. Lasciati dunque ormai tutti gli uffici che teneva, raccolse le cai te dei suoi interrotti lavori e mosse verso la patria, chiamando a consulto in varie città i medici più valenti, ma purtroppo senza ricavarne sensibile vantaggio. Giunse a (1) Lettere, ed. cit., to. I, p. 516; lett. 10 settembre 1639. (2) Moroni, op. cit., vol. LXXXI, p. 492- Genova e da questa città il dottor Niccolò Schiattini scriveva, il 9 di luglio 1639, all’Aprosio, che da Venti-miglia ripetutamente domandava notizie dell’ amico, lasciandogli intendere che le cose erano ormai disperate: « Monsignor Mascardi è, tre giorni sono, in Sant’Ago-stino, malamente disposto. Ha fatto radunare consulti in Roma, in Firenze, in Siena; in somma da per tutto che è passato ha dato da fare ai medici. E per anco noi va tormentando. Ci diamo assai buone speranze. La verità però è che molto non passerà che ricorrerà per sempre ad Hippocrate e là si starà » (1). Non era ancor giunta la sua ora. Parve egli rimettersi alquanto fra le balsamiche aure della Liguria e anzi accettò l’invito di parlare ancora in quell’ accademia degli Addormentati, ove ormai « non solamente versi ci si sentivano, ma suoni e musiche alla cui dolcezza bellezze peregrine di dame venivano liete e con loro sembianti rallegravano gli animi dell’onorevole radunanza ». Scelse un tema morale: volle dimostrare, innanzi a tanto profumo e fulgore di mondanità, che « agevole e dilettevole è la strada della virtù »: ma s’in-troduceva a parlare con un preambolo che ci echeggia nel cuore come uno scoppio di mal frenati singhiozzi: « Non son io forse quello che, mal guernito dalla natura d’intendimento, abbandonato dall’arte, abbattuto dalla fortuna, consumato dall’ infermità e rifiutato fin dalla morte, eh’ avendomi quasi nelle sue braccia, mi risospinse; recare in questo luogo non posso se non rintuzzato l’ingegno, arrugginita la memoria, inselvatichito lo stilo, 1’ eloquenza snervata, e lo sforzo istesso di ben servirvi fievole e in ogni parte mancante » ? (2). (1) Lettere all’Aprosio, ms. cit. della R. Bibl. Univ. di Genova. (2) Discorsi accademici, ed. cit., dise. V, p. 207. Sui trattenimenti dell’accademia ved. Giuliani, op. cit., to. X del Giornale lig., p. 8. In Sarzana, ove si era ritirato nella casa avita, allietata dai nipotini, figliuoli del fratello Alberico, visse parecchi mesi fra 1’ alternarsi delle crisi del corpo indebolito e delle speranze dell’ animo. Quanto più egli sentiva di cedere all’irrefrenabile violenza del male, tanto più andava aecumolando pagine religiose, quasi per riconciliarsi con Dio, che, nei suoi anni di vita secolare, avea troppo dimenticato per occuparsi di glorie terrene. Quegli scritti spirituali, ove domina quasi un delirio ascetico, furono il suo atto di contrizione; e gli uscivano caldi ed eloquenti dal cuore più che non le artificiose orazioni, pronunciate sulle tribune accademiche o sulla cattedra universitaria. Parlava con se stesso, da solo a solo, piangendo, gemendo, senz’aver più cagione di coprirsi il volto con quella maschera tragica che proprio per forza di fato avea dovuto le mille volte fabbricarsi nel turbine della vita cortigiana! E diceva: « Oh duro rimordimento!...... Così dunque, senz’avvedermene, perduti ho gli anni? Così sempre ondeggiando in inquieta tempesta di noiosi pensieri ho menata l’età più verde tra fortunosi naufragi? Così quel fiore della mia giovinezza, dal soverchio caldo delle sfrenate passioni adusto, perdè la bellezza dei suoi colori, smarrì l’onorate sembianze delle virtù, e rimase dai venti impetuosi dell’u-mane vicende divelto? Così gli anni più vigorosi e abili a rendere frutto centuplicato in vita eterna, ho lasciato in braccio de’ miei stolti pensieri rammorbidire?...... Oh quante volte......, fatto grave a me stesso, schivo di compagnia, tutto romito e solitario, se non quanto indivisa famiglinola di noiosi pensieri mi circonda, me n’ esco alla campagna e con interrotti sospiri narro alle piante i miei gravi tormenti, ma subito, al sussurro del vento, al volo degli augelli, al mormorio dell’ acque, al movimento dei rami, qual nuovo Caino impallidito e tre- mante, aspetto sopra di me l’alto colpo dell’ultrice spada di Dio ! Oh quante volte imprigionato in tenebre volontarie di cieca cameretta, mi dibatto e lamento indarno; indi atterrito dall’ ombre vane nel più segreto cantone, nel più rimoto angolo, nella più chiusa parte, raccolto Ira mille crucci d’ animo agonizzante, veggo aprirmisi sotto i piedi una vasta voragine che m’ingoia!...... Deh, datemi pace ormai, o miei noiosi pensieri! O tu almeno, Morte pietosa, a tanti affanni interrompi questi rei e sconsolati giorni con la tua falce, chè, dato in preda a quelle continue sollicitudini, che nel mio petto contro di me s’arman d’errori, troppo gran noia è vivere, troppo cruda sciagura è non poter morire »! (1). Anche certi versi del Petrarca, da lui ricopiati sulla guardia di un Giovenale, che gli appartenne e ora conservasi presso la Biblioteca comunale della sua città, odoran di morte. Sono di questo tempo e vergati con mano tremante: 11 tempo passa e l'ore son sì pronte a fornire il viaggio ch’ornai spazio non aggio pure a pensar com’io sono alla morte. Le vite son sì corte, sì gravi i corpi e frali de’ miseri mortali ! Rade volte addivien ch’aH’alte imprese fortuna ingiuriosa non contrasti. Che bel fin fa chi ben amando muore. Ben vedi ornai sì come a morte corre ogni cosa creata e in quanto all’alma bisogna ir lieve al periglioso varcp (2). (1) Componimenti spirituali, in Discorsi accademici, ed. cit., p. 427 e 433. (2) È un’edizione di Giovenale fatta nel 1594 a Lione (ap. Ioannem Pilleohote) e porta nella Bibl. Com. di Sarzana la segnatura 3-A-228. Lo scritto è autografo. I versi appartengono alle canzoni Si è debile il filo — 2 ig — Al principio dell’anno seguente fu costretto ad affacciarsi di nuovo alla vita pubblica. Il Cardinal Maurizio s’era ritirato nella città di Nizza, unica rimastagli nell’accanita contesa con la Francia; e, mentre Madama Reale si recava presso il fratello Luigi XIII, per ricevere, anziché la desiderata « sospensione delle pretese » francesi, un ultimo insulto dal Cardinale di Richelieu, Maurizio, d’intesa col fratello Tommaso, che aveva occupato Torino , tentava di opporsi allo sfacelo del regno del Piemonte e andava cercando persona a-bile e colta che lo assistesse in tanta calamità. Corse col pensiero al Mascardi, che aveva conosciuto utilissimo in certi frangenti politici, e mandò un suo gentiluomo a Sarzana con l’incarico di « snidarlo » e di condurlo a Nizza. Sebbene il Nostro si trovasse molto mal ridotto in salute, non volle lasciarsi sfuggir l’occasione di servire al Principe in quella circostanza, sperando anche che il male gli avesse, con un po’ di attività, a scemare, com’ altre volte gli era capitato. Invece quel viaggio fu causa che gli si accelerasse la morte. Il Cardinale, vistolo arrivare così macilento e indisposto, ne prese somma compassione e lo affidò immediatamente alle cure dei suoi stessi medici, i quali furon però d’accordo nel consigliare il suo ritorno in patria, essendo evidentissimo il suo stato di debolezza e impossibile per lui qualunque occupazione intellettuale. Ritornò a Sarzana che non poteva più reggersi. Tenne il letto quaranta giorni e spirò, circondato dai suoi, sul principio dell’anno 1640 (1). a cui s'attene e Spirto gentil che quelle membra reggi; e al sonetto La bella donna che cotanto amavi. (i) Tolgo questi particolari dalle pagine che sul Nostro lasciò un contemporaneo in Memorie notabili di cose accadute in Sarzana e suo distretto et anche in altre parti d'Italia, ms. presso l'avv. Raimondo Lari. Però la data della morte, ch’ivi si dà, cioè il 17 di giugno 1640, non può — 220 - Varie sono le notizie che si danno intorno alla malattia: vogliono alcuni ch’ei fosse in quegli ultimi mesi affetto da idropisia; altri, consumato dal contagio della peste, che in quel tempo ancora infieriva nell’Italia tutta; e infine non mancano di quelli che lo vogliono morto per etisia. Quest’ultima ipotesi ci sembra la più accettabile, giacché gli accenni ai suoi continui disturbi, che troviamo di tanto in tanto nelle lettere e negli scritti a stampa, indicherebbero eh’ egli portasse in sè appunto il germe di cotal male. Lasciò eredi i fratelli Giovanni e Alberico, che, nell’aprile dello stesso anno, vediamo sporger domanda in Roma, per esigere alcuni resti di una pensione annuale di centosettantacinque scudi di moneta còrsa, da lui goduta sopra, i frutti della chiesa di S. Pietro nella Diocesi di Nebbio (1). Gli si celebrarono nella città nativa esequie forse più modeste di quelle ch’egli non si meritasse , stante 1’ esasperazione dei concittadini contro la sua famiglia per le lotte che questa aveva sostenuto a proposito della già ricordata esenzione dalle tasse; e 10 si seppellì nella cappella di S. Tomaso della Chiesa di Santa Maria, giuspatronato famigliare, accanto ai parenti, senza che gli venisse apposto alcun ricordo ritenersi esatta , dacché nel documento di Urbano sull’ eredità da lui lasciata, che noi riferiamo nella nota qui appresso, vi è la data del 29 di aprile. (1) R. Archivio di Stato di Roma. Registro di chirografi dell’anno 1640, p. 317 : « Monsignor Cesi nostro Tesoriere generale. Essendo morto 11 mesi passati Agostino Mascardi et restando per la sua morte inesatti alcuni termini di una pensione di scudi settantanove di moneta di Corsica che esso haveva sopra li frutti della chiesa di S. Pietro , diocesi di Nebbio, che ascendeva a scudi centosettantacinque di moneta, che spettano alla nostra Camera, sono ricorsi da noi mons. Giovanni Vescovo di Nebbio et Alberico Mascardi, fratelli et heredi del detto Agostino, et ci hanno supplicato che gli vogliamo far gratia d’ ammetterlo a compar-titione sopra li dett; termini inesatti, offrendosi di pagare qualche somma di denaro alla nostra Camera. Noi volendo etc. 29 aprile 1640, Urbano Vili », scritto o scolpito. Solo più tardi il nipote omonimo, arcidiacono della cattedrale, per eternare la memoria dell'illustre zio, faceva incidere e collocare sulla tomba, a nome suo e dei suoi fratelli, la seguente iscrizione, che poi lu tolta e ora trovasi murata nell’atrio del Palazzo del Comune: AVGVSTINO MASCARDO PATRITIO SARZAN. VRBANI Vili P. M. CVBICVLARIO HONORIS IN VATICANO PANEGYRISTAE IN CAPITOLIO VRBIS ET ORBIS ACADEMI A RVM CORYPHAEO LYCEORVM ATHLETAE INGENIORVM PHAENICI DE CHRISTIANA AC L1TERARIA REPVBLICA OPTIME MERITO ORATORI POETAE HISTORICO TER MAXIMO QVI OB EXIMIAS ANIMI DOTES EDITOSQYE IN LVCEM VBERES ELOQVENTIAE FONTES ERVDITIONIS THESAVROS AETERNITATI NOMEN SACRAVIT INTER AVLAE CVRAS ET AVGVRIA PVRPYRAE LITTERIS IMPALLESCENS DVM AEGER PATRIAE REDDITVR SVSPIRIIS NONDVM QVINQVAGENARIVS PRINCIPVM AC GENTIVM VOTIS ERIPITYR ANNO MDCXL XV KAL. IVL. IN HOC MAIORVM SVORVM SACELLO AC SEPVLCRO TVMVLATVS EIVS-EX FRATRE NEPOTES MONVMENTVM POSVERE AD EIVSDEM TVMVLVM FACVNDI CINERES OLIM OSSA DISERTA VALETE SAT VOBIS PROMET FAMA CANORA SONVM (i). (i) Ricopiata pure, ma con errori e sviste, dal De Rossi, op. e 1. cit. p. 286; e dal Gerini, op. cit., t. I, p. 127. Per economia di spazio , fu scolpita di seguito, e con molte abbreviature. La pubblico, separando le linee secondo le norme epigrafiche e sciogliendo i nessi meno ovvi. Solenni e pompose esequie gli furono invece celebrate in Roma, non appena giunta notizia della morte. Ne tesseron ivi le lodi Carlo Casini (1), Giacomo Leoni (2), Tiberio Ceuli (3). Nell’Accademia degli Umoristi si collocò il suo ritratto, accanto a quello del Marini e del Cesarini. Fu anche commemorato largamente nell’accademia degl’incogniti di Venezia. Indi a poco ne scrissero brevi, ma non sempre esatte, biografìe Gian Vittorio Rossi e Lorenzo Crasso. In Francia poi lo Chapelain, che gli era stato amico sincero e aveva più volte richiamato sulle sue opere, e specialmente sulla Congiura e XArte istorica, 1’ attenzione dei propri connazionali, procurò che gli venissero tributati larghi onori. Ne scriveva subito a Gianluigi Balzac, perchè se ne interessasse: « c’estoit l’o-rateur d’Italie, et le soin de ses honneurs funèbres vous regarde comme à son collègue et son héritier »; e, a-vendogli risposto il Balzac schernevolmente e senza mostrarsi molto persuaso della valentìa del defunto, replicava egli indignato, invitandolo a leggere la Congiura non già nella versione del Bouchard, ove « n’est pas reconnoissable », ma nel testo ; e dicendogli mirabilia delle altre sue opere; e lamentando infine che la sua (x) Casini, In morte di Monsignore Agostino Mascardi; al Serenissimo Principe Maurizio Card, di Savoia, In Fiorenza, nella Stamperia di Domenico Giraffi , 1640, in 4.0. — Al dire del Cinelli (Biblioteca volante, II, Venezia, Albrizzi, 1734, p. 98), sono quattro composizioni poetiche, parte scritte in lingua latina e parte in lingua italiana. (2) Coìicetto rettorico del dott. Giacomo Leoni per la morte di Mon-sig. Agostino Mascardi, Cameriere d'honore della Santità di N. S. Papa Urbano Vili; dedicato all’ Illustrissimo e Reverendissimo Monsig. Prospero Spinola Vescovo di Luni-Sarzana e Conte, In Bologna, per gli heredi Cochi, 1641, in 4.0, di pp, 16. (3) Tiberio Ceuli, Oratione hi morte di Agostino Mascardi, In Roma, 1641, in 4.“. Fu recitata nell’accademia degli Umoristi. Per me irreperibile. — 223 — perdita, « funeste à l’Italie et aux bonnes lettres », lasciasse incompiuta un’ importantissima storia della sua patria. E soltanto si consolò lo Chapelain quando il Bouchard ebbe provveduto a onoranze tali per l’insigne scrittore che gl’italiani avrebbero dovuto provar « grande honte d’havoir été prévenus par un estran-ger » (1). Cosi moriva quest’uomo tanto ammirato e tanto malvoluto. Benissimo lasciò scritto il Crasso che « la sua vita fu un Proteo delle umane azioni, ricevendo mutazione or dall’incostanza della fortuna or dalla propria volontà ». Noi, seguendone le vicende spassionatamente, senza mai scostarci dalle più sicure testimonianze, ab-biam potuto vedere quali fossero i suoi difetti capitali: constatare cioè in lui una continua volubilità in tutte le sue aspirazioni e una eccessiva sregolata precipitazione nei suoi non sempre giudiziosi propositi. A dire il vero egli potrebbe rappresentare assai bene il tipo del letterato frivolo, incontentabile, linguacciuto e talvolta anche disonesto del secolo decimosettimo: d’un avventuriero in veste talare che sarebbe finito sulla forca o nella segreta di un castello principesco, come il Testi, e mil-l’altri, se non avesse avuto la buona ventura di servire, anziché a Principi laici, a Cardinali della Corte Romana , e a Cardinali un po’ frivoli e irrequieti, come notoriamente furono Maurizio di Savoia, che doveva indi a poco buttar via la porpora, e Francesco e An- (i) Ved., per questi ragguagli, Francesco Picco, Appunti intorno alta cultura italiana in Francia nel sec. XVII, in Miscellanea di studi critici pubblicata in onore di Guido Mazzoni, vol. II, Succ. B. Seeber, Firenze, 1907, p. t47* Giangiacomo Bouchard (nato a Parigi, morto a Roma nel 1642) fu segretario delle lettere latine presso la Corte del Card. Barberini. Alcune sue opere vennero pubbiicate, ma postume. La traduzione della Congiura non vide, eh’ io sappia, la luce per le stampe. tonio Barberino; quando non si voglia mettere a paro con questi anche Alessandro d’Este. In mezzo a mille intrighi, a mille avventure, noi lo vediamo farsi ripudiare, ancor giovane, e per ribellione, da un ordine religioso; licenziare da un padrone che lo avea raccolto dal nulla; disprezzare dagli stessi Granduchi di Toscana; spiare dai Duchi di Modena: lo vediamo scrivere secondo il volere e l’idea di chi meglio lo paga; tentare di spillar denaro da ogni parte; promettere di adattar la storia in vantaggio dei Principi più liberali ; rifiutare, quasi come umiliante, l’onesto guadagno della cattedra per correre in mille guise dietro alla cornucopia delle più pronte fortune cortigiane, indebitarsi per mantenere nella vita romana una pompa poco adatta al suo stato ecclesiastico, calcare superbamente i deboli e piegare vilmente la fronte innanzi ai potenti. E, seguendo più dappresso le sue tracce, in quest’ ignavo secolo decimosettimo, senza speranze e senza ideali, sentiamo, com’era inevitabile, rintronarci continuamente all’orecchio la sua voce sconsolantemente levata a imprecare contro innumerevoli sventure, delle quali egli stesso era stato il più delle volte l’artefice conscio od inconscio. Egli riuscì ad imporsi con la prontezza dell’ingegno e, diciamolo pure, con il genere delle sue opere, doppiamente popolarizzate: prima cioè dalla sua voce stessa, poi dalla stampa. Alla sua fama giovaron forse più le orazioni ora funebri, ora politiche, ora critiche, che non il trattato dell’Art e istorica, che uscì negli ultimi anni e che davvero gli valse un posto ragguardevole nella storia delle nostre lettere. Vi contribuirono poi anche il favore ond’ era onorato dal Pontefice Urbano, l’insegnamento alla Sapienza, le relazioni con i Principi. Sicché per tutto quel secolo si continuò a chiamarlo « uno dei primi letterati del mondo, un letterato che — 22 5 — c slato valevole a dar leggi all'isloria, il Demostene moderno, il Cicerone toscano, il Livio novello, il Socrate del nostro tempo, il divino Mascardi, la grande anima, 1 Achille , il prodigio dell’ eloquenza toscana; » e chi più ne vuole, apra i libri di quell’epoca, e ne troverà senza durar molta fatica. Le sue opere poi, lui morto, andarono a ruba. Niun letterato del seicento il lettore potrà persuadersene, sogguardando la bibliografia che pubblichiamo in appendice — ebbe l’onore di tante ristampe postume, come lui. E tutti gli stampatori, narra un contemporaneo, « con avidità e con ogni studio s’ingegnavano di raccorre checché si fosse, fosse pur uscito dalla penna del Mascardi ; il nome del quale era anco appresso i pochi intelligenti in tanta opinione, che, volendo mettere in credito le cose proprie, avreb-bono detto : è opera del Mascardi » (1). Vi fu infine chi pei sino diè fuori, come opere proprie, dei rabberciamenti o rimpasti di quelle mascardiane (2). E ora, prima di metter il punto a queste notizie bio-giafiche sul Nostro, m’è grato dovere il liberarlo invece da un accusa che troviamo trasportata costantemente di libro in libro. Ha detto il Crasso, e han ripetuto gli altri, eh’ egli, non riuscendo a por freno « alle proprie passioni e al senso », menò una « vita licenziosa » e per nulla adatta alla sua condizione. Recentemente, un critico, che ha trattato del seicento, cominciò a dubitate della verità di tale accusa, sebben mossa da un bio-giafo scrivente un quarto di secolo soltanto dopo la moi te del Mascardi, parendogli quasi strano che un (1) Pirani, op. cit., p. 2. (2) La Grillaia, curiosità erudite di Scipio Glareano, Napoli, 1668, P. 66. Questo centonatore è Guglielmo Piati e l’Aprosio Io dice « auda cissimo fra gli audaci ». (3) Morsolin, Il seicento, Vallardi, 18S0, p. 159. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. ,c I - 2.2 6 - uomo dedito a passioni di quel genere , potesse occuparsi così attivamente degli studi e produr tanto (3). Per mio conto, confesso che, sebbene abbia a lungo cercato e frugato nelle memorie che lo riguardavano, manoscritte e a stampa, pubbliche e private, non mi riuscì di trovare un benché minimo fatto che giustificasse la cosa. Ben è vero che accuse siffatte non si possono verificare con quella facilità e sicurezza con cui si può una data, mediante un atto d’archivio o un documento epistolare; ma è vero altresì che spesso sono amplificazioni e conseguenze di colpe ben differenti e che solleticano facilmente, anche se false, la lingua dei contemporanei e la penna dei biografi. Ricorderemo anzitutto che una volta il Mascardi stesso pare abbia voluto pubblicamente smentire i suoi accusatori, nella prefazione ai commentari della Tavola di Cebete, dicendo: « Oltreché pur troppo, al parer d’alcuni, ho schiccherato le stampe, e il mondo letterato poteva ben mantenersi senza i miei fogli. Ho però caro che si sappia in che cosa io consumi il mio tempo e dov’ inchini il mio genio: testimonio l’uno e l’altro del mio costume ». D’onde ha tolto il Crasso quella notizia? Quasi certamente dall’Eritreo, che, senza risparmiare, con le lodi, il biasimo rispetto a chicchessia, lasciò scritto del Nostro il giudizio eh’ io do qui tradotto : « Ma avesse voluto il cielo eh’ egli fosse stato più fornito di prudenza e di virtù, nè avesse mai, a questo proposito, come invece è notorio, zoppicato! Certo alle sue qualità egregie si sarebbe aggiunta ancor questa lode, che è da considerarsi per migliore. Ma egli, trascurato com’ era nel patrimonio ed eccessivamente prodigo, non poteva provvedere con alcun provento di denaro alle spese che riteneva necessarie; non disponeva mai del suo, ma dell’altrui, sempre; e, che è più strano, non ebbe mai ahi- - 227 — fazioni fisse e sicure, ma incerte e precarie ». Ora qui, mi sembra, si specifica molto bene quale sia l’accusa di poca virtù e nulla si trova che riconduca alle affermazioni del Crasso e dei biografi posteriori. Insomma quella famosa notizia si ridurrebbe ad una esagerazione o ad una cattiva interpretazione del passo riferito della Pinacotheca. L’ unico forse che s’attenne fedelmente al giusto suo senso, e non lavorando di fantasia, fu il Tiraboschi, presso il quale leggiamo che « l’Eritreo quanto ne loda l’ingegno, altrettanto ne biasima la poco saggia condotta, per cui visse sempre oppresso dai debiti » (1). E ora cerchiamo di stabilire in breve un’ altra verità. Io ho già conchiuso che la figura morale del nostro Agostino è tutt’ altro che limpida, e in ogni modo ben diversa da quella che ne tratteggia velocemente il Pirani, amico e critico suo, là dove scrive: « lo m’induco a dire che al Mascardi sia non poco obbligata la virtù, la quale nel mezzo di molte invidie e combattuta da varie emulazioni, fu da lui sostenuta in modo che altri la celebravano , 1’ accarezzavano e stimavano per eminente » (2) ; ho già detto, in base a documenti, eh’ egli s’ era ingolfato più volte in debiti facilmente evitabili con un più economo tenor di vita; ma non consentirei con coloro che, senza prove di sorta, affermano esser morto il Nostro lasciando in Roma delle obbligazioni insoddisfatte. Costoro certo devono esser stati fuorviati da altri documenti, che pur riguardano un Agostino Mascardi, coetaneo del Nostro, ma vescovo di Noli, e forse suo cugino lontano. Questi morì cinque anni dopo, cioè nel 1645, lasciando davvero dei debiti, per colmare i quali vennero dagli eredi sacrificate parecchie somme di de- (1) Storia, to. Vili dell’ed. cit., p. 625. (2) Op. cit., p. 2. naro (1). Colgo anzi 1’ occasione per avvertire che , nel corso delle mie ricerche biografiche, ho dovuto levarmi sempre faticosamente d’attorno questo omonimo che m’intralciava il passo ; e che, quasi certamente, va a lui attribuito quel voluminosissimo scritto sopra i Conclavi, che, fino ad oggi, dai bibliografi è stato sempre creduto opera del Nostro (2). Questi invece, se morì senza lasciar fortune notevoli ai suoi fratelli, lasciò in ogni modo non dei debiti, ma, come si può vedere nel relativo chirografo, quelle attività finanziarie cui s’è accennato più sopra. E poi, anche riguardo a quegl’innegabili debiti, mi pare che il Nostro possa godere, innanzi al tribunale (i) Anche il Beltrami , op. cit. , p. 273, citando il seguente documento, cadde in errore e lo attribuì al Nostro: « Mons. Raggi nostro Tesoriere generale. Essendo morto li mesi passati Agostino Mascardi, mentre visse Vescovo di Noli, et essendovi stati per parte della nostra Camera d’ordine nostro da Marino Vassalli nostro Commissario e succollettore inventariati tutti li effetti e beni ritrovati nell’ heridità e spoglio di detto mons. Mascardi, sono ultimamente comparsi Margherita Mascardi sorella di detto mons. come anco Francesco et il capitano Agostino Mascardi suoi figliuoli et Agostino Mascardi del quondam Michelangelo nepoti del suddetto mons. per non litigare colla nostra Camera sono venuti con quella a compositione havendo promesso di pagare alla detta nostra Camera lire 4000 correnti di Genova, oltre la rinnntia fatta a suo favore di tutti li denari che sono nelli cartolari di S. Giorgio di detta città in credito del detto mons. Mascardi e sopra di ciò ne è stato stipulato istromento in Genova sotto li 28 del mese di aprile per gli atti di G. B. Badaracco no-taro. Roma, 5 maggio 1646. Innocenzo X ». R. Archivio di Stato di Roma, Registro di chirografi dall’anno 1645, p. 87. Altri Mascardi ancora, come ognun vede, portavano il nome d’Agostino, nella prima metà del sec. XVII. (2) È uno scritto voluminoso, di circa novecento pagine , che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Parigi e fu creduto del Nostro sulle informazioni e l’attribuzione datene dal Marsand , / manoscritti italiani della R. Bibl. Parigina, to. II, Parigi, 1838, p. 153. A dimostrare la falsità di tale attribuzione , basti ricordare che lo scrittore , scrivendo in età di vent’anni, afferma di non esser mai stato a Roma. 529 —* dei posteri, qualche attenuante. Invaso da un vero delirio di gloria, fecondissimo nella sua produzione letteraria, ambizioso quanto mai di veder subito stampate le cose sue, egli dovè profondere, nonché lo scarsissimo patrimonio, anche le sue tenui provvigioni nelle mani dei tipografi, che a quel tempo erano carissimi. A sue spese comparvero quasi tutte le orazioni giovanili, a sue spese le Silvae, la Congiura, i Discorsi su Cebete, l'Arte Istorica; e continuamente, nell’ epistolario, ce ne occorrono le prove. Certo i grandi guadagni, come spesso accade, se li fecero gli editori, più tardi; il Fac-ciotti, il Fontana, il Baba. V’era così da dar fondo a ben altri mezzi che il Nostro non avesse! Abbiam dunque visto il prò e il contro. Abbiamo seguito il Nostro nella sua vita avventurosa, ne abbiamo studiato e rilevato il carattere, ne abbiamo indicata l’attività letteraria : e tutto ciò abbiam fatto come più scrupolosamente potevamo. Dopo di che dagli scaffali delle biblioteche prendiamo tutti i suoi numerosi e ponderosi volumi, scuotiamone la indisturbata polvere e vediamo s’ egli ha veramente compiuto qualcosa di tanto utile da meritarsi quel plauso che universalmente i contemporanei gli tributarono. PARTE SECONDA LE OPERE CAPITOLO I. LA CRITICA E LE CONTESE LETTERARIE DI AGOSTINO Varietà dell opera letteraria di Agostino. — Ragioni per le quali scrisse la digressione sullo stile. — Stile ed elocuzione. — Le regole dell’elocuzione. — Un primo avvertimento ai contemporanei. — I caratteri del dire. — Critiche all Aresi e al Panigarola. — La difesa dell'Aresi. — Le forme dei caratteri. La definizione dello stile. — Similitudini che la spiegano. — Valore della definizione. I pretesi emendamenti del Pirani. — Lo stile spezzato invalso nella prima metà del secolo XVII. — La lettera dell’Assarino. — Le risposte d’Agostino. — Censure allo stile spezzato. — Le furie di G. Batt. Manzini, campione dello stile spezzato. — Efficacia dell'ammaestramento di Agostino sui contemporanei. — Suoi giudizi giovanili sullo stile secentistico. — Agostino marinista nell’età matura. — Le sue idee sulla poesia. — Furor poetico e umor melanconico. — Genio e pazzia — Contro Aristotele. — L’oratoria nel seicento e le norme di Agostino. — Duplice aspetto della critica letteraria di Agostino. |sàminAndo l’opera molteplice del nostro letterato, cercheremo di non iscostarci dall’ ordine col quale essa fu da lui ideata ed elaborata, per dare, fin che ne sia possibile, dopo la biografia della sua persona, quella, direi quasi, del suo pensiero, che talora è spontaneo, innovatore, rigoglioso, e talora pedissequo, decrepito, esangue : considereremo perciò anzitutto la sua produzione poetica , parto giovanile e presso che scolastico; indi la prosa accademico-filosofica, nella quale egli assunse l’importanza e l’ufficio di corifeo ; e da ultimo l’opera storica. Tuttavia, poiché il secolo XVII è il secolo della critica letteraria nelle sue più svariate forme di allegorico-satirica , accademica, estetica, scientifica e pseudoscientifica, tutte subordinate a due grandi correnti, 1’ una delle quali può chiamarsi conservatrice e aristocratica, 1’ altra innovatrice o ribelle ; e poiché a questa critica egli reca, nei numerosi suoi scritti, un notevole contributo ; riassumeremo qui, in un capitolo preliminare, le sue idee in proposito, toccando pure delle contese, or gravi or lievi, che gliene derivarono. Così, mentre metteremo in luce episodi ignorati e non trascurabili della vita letteraria di quell’ e-poca, ci troveremo anche sottomano i mezzi più sicuri per giudicare partitamente 1’ opera sua , la quale purtroppo, come si vedrà, non risponde sempre alle norme da lui divulgate e gagliardamente propugnate. Ma il presente capitolo, ripetiamo, è preliminare; e può essere anche saltato a piè pari da chi non sia proclive a seguire discussioni, che, senza mia colpa davvero, offrono spesso, per la loro astruseria, poco interesse ai non specialisti. E cominciamo dalle sùe idee intorno ai primi elementi del bello scrivere. Quand’ egli prese a stendere quel suo trattato per fissar leggi alle composizioni storiche, che non è ancor tutto invecchiato dopo quasi tre secoli, stimò pregio deir opera, dedicare, per via di digressioni , parecchi capitoli alla dottrina di quell’ arte. Si diede quindi « con sollecitudine di molte notti vegliate, a rintracciar nelle opere degli autori greci o latini se potesse stabilir nella mente con qualche chiarezza che cosa sia stile, in che sia riposto, di quali parti si componga o più tosto dall’ accoppiamento di quali parti risulti ». Gli autori con tanta diligenza interrogati, non riuscirono a soddisfarlo; per il che si rivolse il — 235 — Nostro « ad uomini de’ più dotti che fioriscono in Roma ». Ma neppur questi ebbero risposte persuasive: alcuni restaron lì perplessi a quella domanda, altri confusero lo stile con l’elocuzione e i più gli ripeterono le definizioni degli autori antichi. Fu allora invogliato a esporre in una trattazione sua particolare le idee che intanto gli si eran radicate in mente, non accontentandosi di « prescriver le regole dello scriver istorico e porre i dovuti confini fra lui e 1’ oratorio e il poetico, suoi compagni », ma ripigliando la materia « dai suoi più lontani e più alti principii » (1). La quale trattazione, a dire il vero, se in alcuni punti pur risente dei pregiudizi del tempo, in parecchi luoghi, e specialmente nella definizione ultima, può dirsi esatta e quasi divinata. Nell’ esposizione egli attinge ancora, per certo mal vezzo contratto nelle scuole dei Gesuiti, agli antichi, aH’Alicarnasseo, a Quintiliano, a Cornificio, ad Aristotile, ad Ermogene, a Macobrio, a Plutarco, a Proclo , ad Aulio Gellio, a Curzio Fortunazzano, e a mille altri, riportando, traducendo, commentando: ma sostien subito, contro il parere dei dotti contemporanei, che lo stile non consiste nell’elocuzione e che questa è soltanto il fondamento primo del dire e non basta alla costituzione dello stile: come non basterebbero le basi e i materiali alla costituzione di un edificio. Per questo concetto più giusto e logico dell’ elocuzione, prende a considerarla separatamente e ad assegnarle regole e virtù ben definite. Le qualità che Cicerone avea dato ad essa, e che tutti ripetevano alla lettera, erano V elegantia, la compositio e la dignitas; egli le accetta in genere, ma poi le sviluppa nei loro molteplici significati e, gradatamente subordinandole a quelle deriva- (i) Trattato IV, ed cit., p. 234 e sgg. — 236 — tene, anzi quasi dimenticandole del tutto , si ferma in particolar modo sulla « chiarezza, dovuta, pet mezzo delle parole ricevute dall’uso e proprie della materia di cui si tratta »; alla « buona collocazione delle parole fra di loro, poscia degl’ incisi, dei membri e finalmente dei periodi interi », alla purezza « che nella via della grammatica non incespi »: le quali doti son tutte accettate ed esposte, sebben talvolta sotto nome diverso, con poche altre, come a dire 1’ efficacia, la vivacità e così via, dai moderni trattatisti. In grazia di che dovremo perdonargli la considerazione minuta di alcune sottospecie, che a noi oggi sembrerebbero poco necessarie nello studio e nella composizione di una scrittura : e cioè la dignità, risultante « dal maneggiare opportunamente le figure 0 sieno di parole o di sentenze »; il numero cui annette, dietro i dettami d’Aristotile e dei retori greci, un’importanza notevole; l’energia, « lodata da Demetrio e dopo di lui da tutti i nobili insegnatori dell’arte », e altre parecchie. Del resto egli insiste special-mente sulla chiarezza e leva con tutta forza la voce contro chi non l’osserva. La chiarezza, dice, ha da occupare il primo luogo nell’elocuzione, ha da essere l’intento principale di chi vuole scrivere con profitto; e comprende anche la purezza, la proprietà, la naturalezza e l’ordine: « Intendano una volta questa indubitata verità quei componitori che, rifiutando le maniere di parlare usate da’ buoni autori, vanno farneticando nella fabbrica di forme disusate e straniere, e ingombrano in modo l’elocuzione che il povero leggente trova intralciato il sentiero nè può svilupparsi dagli enimmi che lo ritardano. Errore comune a’ tempi nostri a certi componitori, che stimano allora d’esser tenuti ingegnosi sì ad eos intelligendos opus sit ingenio » (1). (1) Ibidem, p. 249 e sgg.; e particolarmente a p. 254. — 237 — Cosi discorso dell’ elocuzione, egli ammette una distinzione del dire in tre caratteri : maggiore, minore e mezzano: la quale afferma non dipender punto dalla materia che debba adattarsi al maggior carattere, se elevata o magnifica, al minore, se umile e tenue, al mezzano, se d’argomento comune. In questo senso, cioè di un rapporto strettissimo fra carattere e materia , gli pareva avessero invece proceduto, a proposito della distinzione tradizionale, il Vossio e due suoi contemporanei , monsignor Paolo Aresi e monsignor Francesco Panigarola, vescovo l’uno di Tortona e d’Asti l’altro, e i cui nomi suonano ancor oggi con una certa lode nella storia dell’eloquenza italiana; ed egli rifiutava l’opinione di costoro, dimostrandola causata dalla falsa interpretazione che delle parole greche di Demetrio e di Er-mogene davano i volgarizzatori consultati, forse Pier Vettori e Bernardo Segni, e sosteneva per conto suo doversi seguire « nei componimenti, non meno che in tutte le azioni civili, la scorta del giudizio e del decoro », e permettere « all’autorità loro, in qualunque materia, o grande o umile che sia, 1’ arbitrio dei caratteri » (1). Naturalmente un appunto fatto a letterati viventi, nel secolo XVII, era come una pagliucola introdotta in un vespaio. Monsignor Aresi, pur contraccambiando molto secentisticamente le lodi tributategli dal Mascardi nell 'Arte istorica, consacrava indi a poco una parte delle Imprese Sacre, nel settimo dei suoi grossi e pesanti volumi, a ribatter l’accusa che si era mossa contro di lui e del suo venerabile complice. Noi, senza esporre qui punto per punto la non breve risposta, tutta irta di mille argomentazioni e distinzioni filosofiche, riferiremo solo la conclusione. Sosteneva alla fine (i) Ibidem, p. 271. monsignor Aresi che, se propriamente di materia e sol di questa avea parlato il Vossio, stabilendo le basi della scrittura magnifica, non altrettanto si poteva imputare a lui e al Panigarola, perchè essi, trattando del carattere maggiore, con la materia grande avean voluto grandi anche le parole e la loro composizione: e non dalla materia essi distinguere la forma magnifica dalla tenue, ma piuttosto la vera dalla gonfia o manierata o falsa che dir si voglia. Il giudizio dell’oppositore appariva una « lalsa conseguenza » per cattivo intendimento degli scritti loro; anzi l’oppositore avrebbe colto giusto, se avesse inteso gli scritti confutati in quel senso secondo il quale, neWArte istorica, egli stesso definisce la questione intorno ai caratteri, che cioè tra materia e forma corra non un rapporto di necessità, ma sì di semplice convenienza. Riguardo doi all’ interpretazione dei vocaboli greci, ricorreva il degno prelato ad altri cavilli e riportava molti dei suoi stessi luoghi, per provare che non era precisamente materia la parola con la quale egli aveva interpretato il suévoia del testo, ma cosa ; essere poi identici cosa e concetto, perchè tanto fa il dire che i concetti significati per le parole siano grandi quanto che grandi siano le cose. Così l’Aresi. Ora è lecito supporre che il Nostro, a causa di certi frizzi accortamente appuntatigli contro dal vescovo di Tortona, fosse spinto a ribattere, come sempre avea fatto in casi consimili, e per quistioni di minor conto. Ma il volume, uscito nel '40, lo trovò estenuato, sull’orlo della tomba (1). (i ) La retroguardia, Libro settimo Delle Sacre Imprese Di Monsignor Paolo Aresi, chierico regolare e Vescovo di Tortona, in cui Se stesso difendendo l’Autore, non pochi luoghi delle divine lettere si espongono, non volgari punti di Filosofia e dì altre scienze si discutono; non dispiacevoli Episodi s’inseriscono e di tutta l’Arte e Scienza Impresistica esattissima- Tornando alla digressione sullo stile, noi vediamo dunque il Nostro insistere su quella vana distinzione dei caratteri e ridursi a dimostrare acutamente che la diversa materia non può condurre alle varie specie dei caratteri, dacché non vi abbia soggetto di sorte alcuna che con diversità di carattere non possa maneggiarsi lodevolmente. Fa poi notare che certi autori sono in tal guisa dotati da natura che qualunque materia trattano con carattere uniforme, non essendo capaci di darle in alcun modo varietà, e che d’altra parte una stessa materia, sotto la penna di scrittori, d’indole, di costumi e di condizioni diverse, può presentarsi varia. Ma qui probabilmente confondeva subito il carattere con ciò che noi chiamiamo forma o genere letterario, esemplificando le sue affermazioni teoriche, pur giuste sotto tanti rispetti, col dire che « d’un fatto d’armi glorioso si può formare una lettera che per modo d’ avviso lo racconti, un dialogo che l’esamini, un’istoria che alla posterità lo conservi, un’orazione che l’esalti e un poema che il canti » (1). Nè più opportuna riesce poi una suddivisione di ciascuno dei caratteri in altri, che sarebbero da chiamarsi sublime, temperato e tenue, e che avrebbero tra di loro speciali corrispondenze in ordine sistematico: suddivisione che fu già disapprovata dal Quadrio (2). Certo, ciò ch’egli avea esposto per l'e- mente si tratta. Colte risposte particolarmente al Padre Silvestro Pietra Santa et al Signor Agostino Mascardi, In Genova, Per Pier Giovanni Ca-lenzani, MDCXL. (1) Arte, p. 269. (2) Storia e Ragione, ed. di Bologna, 1739, I, p. 557 : « Da ciò si sa manifesto essere un vano pensamento del Varchi e dopo di lui del Mascardi che ogni Idea abbia la suddivisione di se stessa in sublime, mezzana ed infima , onde la sublime per cagion d’ esempio si suddivide in Sublime somma , in Sublime minore e in Sublime infima ». Il Mascardi non accenna al Varchi e dà il suo * pensamento » come del tutto nuovo. — 240 locuzione, era più che sufficiente a dare le norme fondamentali del dire: tuttavia volle trovare, sulla scorta dello Scaligero, gli elementi o, per usare proprio il suo termine, le forme che concorrono a darci i caratteri e le indicò coi nomi di chiarezza, grandezza, bellezza, celerità, costume, verità, forza, alle quali — non bastasse! — ne aggiunse subordinate altre tredici. E gli pareva ancor ciò doveroso, in quanto che esse forme si differenziavano dall’elocuzione, e non più si riferivano alle parole, al loro buon uso e alla loro collocazione, ma te-nean conto invece dei concetti e del loro ordine: sicché il carattere, che appunto riguardava i concetti, veniva infine a distinguersi, ossia ad essere maggiore o minore o mezzano, a seconda dei vari artificiosi accozzamenti di quelle forme che a lui propriamente convengono. E col carattere non è da confondersi, conchiudeva, menomamente lo stile, poiché in una stessa maniera di favellare così risultante, potevano, a suo parere, convenire molti scrittori eccellenti, « che però fra di loro paragonati sono di stile differentissimo » (1). Come ognun vede, egli ha proceduto molto chiaramente per via di eliminazione, dicendo in che non consista lo stile e che cosa non sia. Affronta poi la definizione e la spiegazione di esso, senza nascondere le grandi difficoltà incontrate per arrivare a questo scopo. Dello stile, egli avverte, è più facile avere un concetto filosofico che una nozione pratica determinata. Ogni uomo ha uno stile suo proprio, risultante di caratteri che sono di tutti, a quel modo che un uomo ha un’impronta, un aspetto proprio, risultante dalle stesse membra o parti che sono di tutti e in tutti similmente disposte, e anche a quel modo che ogni quadro ha una (i) Arte, p. 2S2. propria maniera , sebbene tutti i quadri possano aver comuni il disegno, il colorito, la composizione e il costume. Ma è meglio riportare il suo concetto e i suoi esempi con le stesse sue parole: « Comuni sono gl’insegnamenti, comune è l’arte dell’elocuzione, delle forme del dire, dei caratteri, ma la natura che gli uomini guernisce d’ingegno, ed a tutti vario anche nel genere degli eccellenti lo dona, fa che ciascuno nell'uso di quegl’ insegnamenti abbia certa particolarità nascente dal proprio ingegno, in virtù di cui quella elocuzione, quelle forme e quel carattere, per loro stessi comuni ad ogni componitore, divengano di ciascuno sì fattamente che il componimento dell’uno dal componimento dell’altro per quella particolarità si distingua; e questo appellerei, se non temessi d’ errare, col nome ricercato di stile........ Aggiugnerò, per chiarezza anche maggiore, una mia considerazione, la quale, s’io non erro, vale efficacemente ad ispiegare 1' opinione eh’ intendo stabilire. Nel brevissimo spazio del volto umano, per miracolo non inteso della natura, concorrono le parti medesime in ciascuno ed in tutti, disposte con l’ordine istesso, collocate con distanze corrispondenti ed uniformi; e pure in tanta somiglianza delle parti, una intera dissomiglianza di tutto il volto si vede. Ma questo, come che sia fondamento della maraviglia con che l’opere di Dio grandissimo riverisco ed adoro, non è però quello che ora considero, a dichiarazione della nostra materia. Diensi pur mille volti, se dar si possono, e per la proporzione, e vogliam dir simmetria delle parti, e per la vaghezza dei colori ben temperati, ugualmente bellissimi: non per tanto avrà ciascuno un’aria sua propria che, da qualunque altro sarà sufficiente a distinguerlo; onde suol dirsi: questi ha un’aria gentile, quello l’ha nobile. Certo è che 1’ aria non consiste nelle parti in Atti Società Ligure Storia Patria. Vol. XLII, 16 — 2 42 — cotai guisa ordinate e disposte; non ne’ colori con certe misure temperati e composti, perchè comuni a tutti i volti sono l’une e gli altri; anzi non di rado suol accadere che una faccia, secondo le proprietà ad una perfetta bellezza appartenenti, non bella, sia nondimeno d’ aria migliore e più amabile d’ un volto interamente bellissimo. Dunque quella cosa che vulgarmente nominiamo aria del volto, è una qualità propria ed individuale di ciascuno, nascente dalla particolare complessione, per cui si rende differenti dagli altri, co’ quali ha le parti con le misure e con 1’ ordine, i colori con la lor temperatura comuni: e questa da noi per avventura, anzi dal vulgo intesa con l’intelletto, non sappiamo con tutto ciò definirla ed esprimerla. Corrisponde l’aria allo stile, come le parti e i colori del volto al carattere corrispondono.......Alla maniera de dipintori, può , corn’io credo, paragonarsi negli scrittori lo stile: al disegno, al colorito, alla composizione ed al costume, si rassomiglian 1’ elocuzione , le forme e ’l carattere della favella ; onde non men propriamente si dice, questo è stile di Sallustio, della congiura di Catilina parlando, che questa maniera è di Raffaello, intendendo d’un quadro ». E il primo di questi paragoni, col volto u-mano, lo ripete anche in altre opere, specie nelle lezioni alla Sapienza, rivendicandone sempre la paternità. Intanto la definizione ch’egli dava, dopo tutto ciò, dello stile, in rapporto alla trattazione dei caratteri anteriormente svolta, era che lo stile s’abbia a considerare « una maniera particolare ed individua di ragionare o di scrivere, nascente dal particolare ingegno di ciascun componitore , nell’ applicazione e nell’ uso dei caratteri del favellare » (1). (i) Arte, p. 2S4 e sgg. I — 243 — Questa definizione s’avvicina già molto a quella data da Ruggero Bonghi e accettata ormai per migliore nelle nostre scuole; epperò la critica moderna, riconoscendone il valore, ha voluto tributare anche una parola di lode allo scrittore del seicento (1). Certo il Mascardi non stabiliva dei rapporti ben definiti fra lo stile e gli elementi primi che lo costituiscono, ma neppur oggi ciò si è potuto fare, nè mai, crediamo , si potrà. V’ ha di mezzo una lacuna, ove liberamente spazia l’intelletto del compositore , e che ogni compositore può a suo modo colmare , per riuscire ai vari effetti dello stile, con quegli elementi intermedi che sfuggono alla nostra indagine , forse per la loro smisurata molteplicità. Riguardo ai contemporanei del Mascardi, le cose procedettero con vario parere. Qualcuno ritenne giusta e persuasiva la dimostrazione: anzi non mancò chi evidentemente si appropriò la similitudine del volto umano e l’esame particolareggiato delle tre forme del dire, conchiudendo: « degna cosa da considerare come, in tanta copia di quelli che scrivono lettere, si trovi tanta diversità di stile che quegli ancora che si propongono alcuno ad imitare, non possono ad ogni modo rassomigliarsi tanto che in ciascuno non si veda qualche no-tabil differenza e proprietà. Il che par verisimile che proceda dalla natura, la quale, come in tanta somiglianza de’ corpi umani ha dato ad ognuno i suoi lineamenti propri ed una differente effigie e figura, così ha posto la medesima differenza nel suono della voce, nel carattere dello scrivere e in tutte 1’ opre della mano e dell’ingegno » (2). Il Cardinal Pallavicino trovava poi così saggia la trattazione sullo stile del Nostro, che non (1) Foffano, Ricerche letterarie, Giusti, Livorno, 1897, p. 242. (2) Panfilo Persico, op. cit., p. 238. — 244 — si sentiva il coraggio di toccarla menomamente, e solo s’indugiava a considerazioni sfuggite a lui o da lui tralasciate per economia (3). Pochi anni dopo la morte del Mascardi, cercava di ribattere la sua dottrina il Pirani, in que’ dodici capi co’ quali pretese di continuare ed emendare Y Arte isloriea nei punti deficienti, riuscendo invece il più delle volte a ricollocare soltanto le idee preconcette del tempo in certe parti notevoli per la loro originalità. Escluse egli nientemeno che dell' elocuzione si potessero dar norme e sostenne doversi la lingua mutare sotto la penna dello scrittore di mano in mano che essa veniva evolvendosi sulla bocca del popolo: cosicché, aggiungeva, essa dovrebbe senz’altro « accomodarsi alla comunale intelligenza ». Povera lingua d’Italia , se tal conto si fosse sempre fatto del suo tradizionale tesoro istorico! Anche il Pallavicino, nel noto Trattato dello stile, ebbe presso a poco lo stesso pensiero , ma voleva che s* imitasse la lingua parlata con una certa discrezione. Per lo stile, il Pirani, partendo dalla solita distinzione dei caratteri in grande, mezzano e piccolo, sosteneva, più ostinatamente dell’Aresi, che s’ avessero questi ad adoperare corrispondentemente a materie grandi, mezzane e piccole. In altre parole il carattere per lui andava intimamente connesso con la materia e non era da lasciarsi al giudizio del compositore l’assegnamento dell’ uno all’ altra. L’ arte del Mascardi, che rimetteva molto a questo giudizio, gli pareva per ciò poco « sicura »: i precetti invece son precetti e « sempre rimangon veri, quantunque 1’ artefice, per difetto di natura o d’arte, da essi divarii ». Egli anzitutto non sapeva ben precisare « se una o diversa cosa sieno (3) Sforza Pallavicino, Arte detto stile, Bologna , Giacomo Monti, 1647, p. 129. — 245 — il carattere e lo stile con tutto che per buona e per diligente aver si debba la considerazione di chi dice che dall’ arte 1’ uno dipende, che alla natura 1’ altro si riferisce »: affermava solo « esser....... nell’anima un abito o facilità di spiegare, scrivendo, il concetto della mente »; e quest’abito esser ciò ch’egli chiamava stile. Ahimè! Ecco una nuova facoltà acquisita dell’animo umano, che gli psicologi non eran mai riusciti a scoprire prima del Pirani! Anzi, a malgrado del Mascardi, il quale s’era affannato a dimostrare, in modo sì chiaro da farsi intendere sin dalle lucciole, che lo stile è individuale, senza regole , dipendente dall’ ingegno di ciascun scrittore, egli non solo amò riporlo fra gli abiti virtuosi del-1’ « animo », ma non si peritò di dirlo, confondendo gli elementi interiori dello stile con quelli formali onde il pensiero si vale per estrinsecarsi, « non già naturalmente proprio, poiché trattandosi di cose spettanti al-larte, la natura si presuppone »: esso, aggiungeva, « e dall’arte dipende e alla natura si riferisce ». Senonchè, non potendo neppure il Pirani negare che gli stili siano tutti l’uno all’altro differenti, tale differenza faceva consistere nella maggiore o minore « capacità » della natura umana a raggiungere l’arte perfetta ; e tale « capacità » potersi benissimo migliorare, affinare, polire con 1’ arte. Sicché lo stile, che pur dipenderebbe, secondo lui, indirettamente dalla natura, in quanto essa sia o no capace di perfezione, verrebbe ad essere « una qualità o disposizione acquistata ». Arrivato a questo punto del suo strampalato ragionamento, credeva di poter distinguere dallo stile il carattere, e dire che « in questo s’ hanno da riconoscere e considerare le virtù e le naturali proprietà di chi scrive »: proprio il contrario di quello che avea conchiuso il Mascardi, e, chi ben vegga, il contrario anche di quello eh’ egli stesso — 24Ò — aveva quasi accettato nell’ accenno preliminare alla « buona e diligente....... considerazione » che dall’ arte « l’uno [il carattere] dipende, che alla natura l’altro [lo stile] si riferisce ». Dopo di che faremo grazia al lettore di tutte le conseguenze più 0 meno legittimamente derivate, nel seguito della trattazione, la quale, per maggior colpa, non presenta mai troppa chiarezza (1). È importantissima, per il proposito nostro, una contesa che il Mascardi ebbe a sostenere circa lo stile del suo tempo. S’era introdotta in Italia, per influsso degli scrittori francesi, una nuova maniera di scrivere eminentemente analitica, con periodi spezzati, brevi, incalzanti. Tutti 0 quasi tutti la ricevevano e la seguivano con grande compiacimento, sia perchè soddisfaceva al desiderio del nuovo, acuitosi sempre più dopo il lavorìo umanistico sui modelli classici, sia perchè offriva modo di sfoggiare una dietro all’altra quelle sentenze e quelle immagini gonfie e strane, onde va famoso e quasi direi infamato tutto il seicento. Si fece il Nostro propugnatore della maniera classica, e in tutte le sue opere, con l’esempio e con l’ammonimento. Pochi mesi prima ch’ei pubblicasse il suo trattato sull’ arte, riceveva una lunghissima lettera dell’Assarino, ove questo letterato raccontava una disputa svoltasi in una villa d’Albaro, presso Genova, circa lo stile migliore da usarsi. Uno dei più « cari amici » del Nostro, un tal Giovanni Antonio, il quale altri non è che il noto G. Antonio BrignoleSale, poeta e accademico Addormentato, avea riferito a un certo Agostino d’aver udito biasimare fortemente da lui, (1) Op. cit., p. 27 e sgg. Si noti che il Pirani, senz’ aver letto la di fesa dell’Aresi, che consentiva pienamente alla fine col Mascardi e faceva question più di forma che di sostanza, si schiera a difendere, come ferma opinione dell’Aresi, quella dipendenza del carattere dalla materia che il Mascardi gli aveva rimproverato e che neppur lui ammetteva possibile (ved. a p. 30). dal Mascardi, « lo stile conciso che modernamente pare che s’intraprenda nello scrivere », allegando « molte ragioni e molte autorità in favore della sua dottrina ». Allora avea preso la parola Agostino, sostenendo che « il sig. Mascardi, il quale ha oggimai autorizzato la fama d’ eccellente letterato con la canutezza del pelo, non che con gli scritti e con la dottrina », non poteva condannare tal maniera di scrivere moderna; esser questa fornita di tutte le qualità che ad uno stile perfetto si richiedono, cioè brevità, gravità e documento; ritrovarsi poi la prima di esse in molte lettere antiche, delle quali recava numerosi esempi; la seconda, che « in buon senso non è altro che il parlar sentenzioso », manifestarsi « più ammirabile non solo al volgo, ma agli uomini intendenti », e più che mai persuasiva, essendo l’ammirazione fonte del diletto e il diletto della persuasione; la terza infine, il documento, ossia l’insegnamento di cose sparse per le scritture, doversi ritenere per « principale oggetto dello scrivere ». Aggiungeva, per venire a casi pratici: « Supposte dunque ed accettate per vere queste tre condizioni, chi negherà che la brevità, la gravità e il documento, non si trovino nello stile di Pietro Mattei, di Virgilio Malvezzi, di Giovan Battista Manzini e d’ altri moderni, da’ quali molte accademie d’Italia ed in particolare quella di Genova, pare che abbiano appreso l’uso dello scrivere? » e conchiudeva, rispondendo all’Assarino che gli aveva chiesto per qual cagione il Mascardi avrebbe potuto biasimare quello stile: « Perchè è costume degli uomini saggi il mutar di rado parere per non mostrare al mondo di vivere errati. Onde, avendo lui scritto in quella maniera di Cicerone, che pure non si può negar che sia bellissima ed eminente, bisogna non solo eh egli tenga in riputazione il suo stile, ma eziandio che biasimi tutti quelli — 24§ — che al suo non si somigliano ». Perciò l’Assarino si rivolgeva, alla line di quella lettera-dialogo, direttamente al Mascardi, per interpellarlo di proposito sull’ argomento e sapere a chi dar ragione. Il Mascardi trovò nella lettera, naturalmente, un savor di forte agrume e rispose pepatamente e non meno lungamente, sebbene « per modo più tosto di postilla che di discorso »: gli esempi, diceva, di brevità altro non erano, secondo lui, che « le più ristrette lettere trovate »; il Mattei appariva per certo, « il più verboso scrittore che abbia scritto ai giorni nostri »; la gravità, intesa come voleva intenderla l’Assarino , avrebbe senz’ altro indotto Cicerone a chiamar « rotto e senza legatura....... puerile ed inetto » lo scrivere osservandola; il documento poi lo si confondeva malamente o capsiosamente con la sentenza. Ribatteva quindi le accuse alla sua opinione, con quell’irruente risentimento che ormai gli riconosciamo. Il giudizio sul Mattei era da lasciarsi « a chi sa leggere »: pensare come il Manzini e gli altri letterati citati da quel tale, sarebbe stato « sciocchezza »; egli, l’Assarino, confondere « Tacito con Seneca, li scrittori di lettere co’ declamatori » e aver toccato questioni senza prima « studiare, perchè sarebbe stato necessario correggere molte cose che non sussistono nè in filosofia nè in buon discorso »: la lettera inviatagli mostrar soltanto « quante cure si richieggono per scriver bene e sicuro e di quanto pochi sia il dar dottrina e insegnare ». Così il Mascardi ribatteva il suo interlocutore epistolare, sempre però considerandolo non d’ altro responsabile che dell’aver riferito e non « corrette » enormità siffatte. Ma, poiché non poteva in fin de’ conti ammettere che pur nella colpa non entrasse l’Assarino, a-vendo questi raccolta e bellamente spiattellata, verso la fine della lettera, certo notissima al pubblico letterato — 249 — della città, l’accusa di malafede contro di lui; e poiché d’altra parte temeva che l’Assarino stesso, da quel briccone che tutti sapevano, non gli giuocasse qualche tiro inaspettato, fieramente rincalzava: « Nel rimanente s'assicuri il signor Luca che sono lontanissimo dall’ ostentazione del proprio parere, anche a titolo d’ambizione, perchè io so che la docilità è assegnata al filosofo per un contrassegno di buon ingegno e che non sostento paradossi per non parere d’ aver errato, come vanamente sognò quel tale signor Agostino, introdotto da lei; ma cerco la realtà così nell’operare come nello scrivere, e non essendo innamorato di me medesimo, sono conosciuto per amorevole verso gli altri...... Quando mi si apportino ragioni buone, io cedo di buona voglia alla verità, ma che le fantasie d’uomini sfacciati, i quali con una lettera della Polianthea si fan lecito di far il satrapo addosso a chi si consuma studiando sondatamente le cose, m’ abbiano ad aggirare, non lo creda il signor Agostino vostro ». Era questa, come a dire, la parte polemica della risposta , la critica negativa della quistione. Per allora alle sue idee sullo stile non accennava che con tali parole: « E poi che sciocchezza sarebbe il voler far comune a tutta la sorte dei componimenti una sola guisa di stile? È pur notorio a chi sa i primi elementi dell’arte che presso i retori ha gran divario in questa materia, poiché altro è stile sublime, altro il mezzano, altro l’infimo e umile ». Ma non v’ insiste più e sen-z’altro rimanda gli avversari ad un suo volume « che fra pochi dì sarà sotto le stampe », ossia all 'Arte istoriaz, ove scriveva a lungo e non « per ostentazione » di quell’ argomento (1). Infatti egli ne trattò nel capitolo (i) La lettera fu pubblicata in fondo ai Discorsi accademici più volte citati. — 250 — ottavo del trattato quinto, eh’ ei dovè comporre allora, dietro la lettera accennata. Dopo d’aver stabilito la dicitura più conveniente alla storia, prendeva a dire : « chieggo grazia a chi legge, di poter fare come un passaggio intorno alla maniera di scrivere nuovamente introdotta; la quale, abbagliando gli occhi dei giovani, col lampo fuggitivo di certe vivacità che son bollori, o fumi d’ingegno, impone alla vera eloquenza una macola che non merita, con offesa agli uomini gravi e di sentito giudicio. Si leggono da qualche tempo in qua certi libri e s’odono certe dicerie, nelle quali si veggono impresse le sembianze dell’ ingegno, che gli ha prodotti, tutto sottile e pieno di bizzarria: ma per vero dire, hanno dicitura sì saltellante e minuta che non può mai l’orecchio assicurarsi di non esser da loro nel più bello del suo viaggio, abbandonato e tradito. Ad ogni terza o quarta parola, s’urta incautamente in un punto, e in vece d’un periodo, o d’uno spirito, altri s’avviene in un corto motto d’impresa, od in una interrotta minaccia ; chè minacciante è veramente cotal modo di favellare, per sentimento dei retori.......; chi spezzatamente e a minuto favellando, con brevissime parole e replicate respira, si può reputar asmatico, il quale singhiozzi, non parli; aneli, non ragioni; con pena intollerabile di chi legge od ascolta........E poiché abbiamo dal corpo umano presa la somiglianza. io considero la sistole e la diastole , movimenti contrari, ma ordinati e naturali del cuore e dell’arteria, per refrigerio del soverchio calore e per cacciarne gli aliti fuligginosi e nocivi: hanno questi col polso di cui son parte, il movimento e ’l riposo misurato e conforme; se non se quanto qualche accidente o bisogno altera per un poco 1’ ordinato lor corso. La palpitazione del cuore è movimento anch’essa, ma rotto, violento, senza respiro, perchè troppo frequentemente respira ; ed è fra le malattie una delle più gravi. Il corpo della dicitura....... sana, si compone col movimento del favellare nomato da Cicerone diffuso e corrente....... e col riposo che dalle clausole e da’ periodi opportunamente riceve; i quali, ben ordinati per altro, secondo le occasioni, più o meno s’accorciano........; ma se, tolta da questo uniforme tenore, composto di movimento, di riposo , si sminuzza la locuzione in guisa che non s’ a-spetta, per terminarsi, i mesurati respiri, è una mera palpitazione di scrittura irregolare e mal sana. Lucidi sono gl’ ingegni, io noi niego, che in cotal maniera di favella s’esercitano; ma, come pianeti inferiori scintillano , e non lampeggiano come il sole ; e l’orbe loro altro moto non sente che quello della trepidazione. Veg-gonsi talora i bambini che, non reggendo a lungo movimento per difetto di forze, non s’arrestano a lunga quiete per instabilità di natura: onde a pena hanno camminato tre passi, che seggono; a pena han seduto un momento, che novamente camminano : questo è l’uso della scrittura che vorrei nomare inquieta, se fosse lecito ; la quale, non avendo forse lena bastante per seguire il periodo del suo viaggio, tostamente si getta in terra e risorge, per tornare a cadere. Ma questo è camminare come le cavallette; anzi pur come gli Dei della stolta gentilità, che sempre si movevano a salti. Alcuni ascrivono cotal mostruosità di scrittura a Pier Mattei, compilator francese, da cui pretendono che come per contagio si sia poscia trasfusa negli altri. Se questo è vero, compatisco di cuore alla nostra disavventura, veg-gendo ingegni, senza paragone più generosi e più dotti, farsi volontariamente seguaci di uno scrittore, dalla sua medesima nazione per più titoli vilipeso ». Raccomandava infine, dopo ciò, caldamente ai giovani studenti che « non si lasciti dalle lusinghe di Pier Mattei — 252 — contaminare e non tradiscano i doni di natura con un’arte contraria a tutti i bravi insegnamenti dell’ arte » (1). E, perchè ciò non avvenisse, passava in numerosissime pagine ad esaminare le « male qualità » di quella sorte di favellare. Diceva dunque che ne nasceva inevitabilmente il vizio dell’ oscurità. Più volte egli stesso s’ era provato « in compagnia di tre persone prudenti ed e-ruditissime », in Roma, a comprender certa scrittura di cotal genere, ma senza mai venirne a capo : e aveva anche discusso con alcuni degli scrittori che l’adoperavano, ma questi non volevano in verun modo riconoscer di riuscire « caliginosi » e giuravano anzi d’ esser più chiari del sole, « forse perchè, avendo tenacemente impresso nell’ idea non quel che dicono, ma quel che intendono dire, lo rileggono poscia espresso in carta, non secondo la giacitura delle parole, ma secondo l’apprensione deH’animo preoccupato del fallace concetto ». Altro vizio derivante dalla maniera spezzata, era « la sconca-tenatura delle parti, che non s’accozzano fra di loro, ma, senza nodo alcuno disciolte, formano un aggregato di parole, che nelle scuole si dice per accidente ». Ora, come per elevare una fabbrica occorre che sian ben disposti e legati i materiali secondo le regole dell’arte, è necessario che « le parti che concorrono alla fabbrica della favella,...... si congiungano insieme e che le parti unite regolarmente formino i membri, i quali, accozzati come conviene, compongano giudiziosamente le clausole e dalle clausole ben disposte ne risulti il periodo e così tutto l’edificio del componimento si termini ». In terzo luogo s’aveva il difetto del « mancamento del numero », ossia la « durezza ». Egli dava molta importanza all’ar-monia del periodo e avrebbe voluto specialmente in (i) Arte, p. 430 e sgg. — 2,5.3 — questa parte più rispettosi « alcuni autori moderni all’orecchio degli uomini ben intendenti ». Gli avversari si discolpavano da tutte queste accuse, dicendo che, se pure non riuscivano essi ad uno stile armonioso, ottenevano però la « brevità », la quale s’ha da considerare uno dei pregi più onorevoli per uno scrittore. Ottimamente il Mascardi rispondeva che è sì da osservarsi la brevità, ma in modo decente e regolato: prendeva perciò un brano di Pier Mattei « scrittore vilissimo e dozzinale »; mostrava esser breve di una brevità inutile e dannosa, che lungi dal fine propostosi traviava lo scrittore in materia non sua; e, rabberciandolo e restringendolo secondo il proprio suesposto insegnamento, lo riconduceva al vero e sano procedere. Era insomma, quella di moda, una brevità simile al « musaico ». Invece, conchiudeva, « la brevità non si misura con l’ar-chipenzolo delle sillabe » e convenientemente breve riesce il « favellare che non ha cosa sovrabbondante, la quale altri togliendo, la regolata dicitura non alteri e non oscuri ». Che se pure quella maniera era poi fonte, come ancora si voleva, di efficacia , di maestà, di magnificenza , in quanto che vi si passava di sentenza in sentenza, si doveva usarne secondo l’opportunità richiede, per la stucchevolezza che risulterebbe da uno scritto di qualsivoglia genere, così prodotto. Passando poi ad indagare le cagioni dei vizi dichiarati, sosteneva che dovevan trovarsi nella smania dei suoi contemporanei di farla da maestri agli altri con uno stile che assai aveva del sentenzioso, e fors’ anche in un’ intuitiva imitazione del nuovo, che porta sempre l’uomo ad accogliere anche il male, pur di liberarsi dalla noia del giusto e dell’ onesto (1). (i) Arie, p. 432 e sgg. Delle accuse rivolte allo stile conciso, tanto nella lettera all’Assarino quanto nell 'Arte, non si dimenticò chi s’era fatto in Italia diffonditore e difensore di esso, e cioè Gian Battista Manzini, che prese a confutare a sua volta gli argomenti dell’avversario, nello scritto a-pologetico aggiunto alle Grazie rivali, sostenendo che la prova più chiara della bontà del suo scrivere era il grande plauso concessogli dai contemporanei e la ragione degli appunti mossi stava nell’invidia di chi li moveva. Sentiamo dunque l’altra campana, anche se dà un suono più acre e fesso: « Dicono che il mio stile non corre, che le mie sono fanciullaggini, che son fumi d’ingegno o che so io : ma rispondo che non posso credere che siano fanciullaggini, perchè non dispiacerebbero loro quanto dispiacciono. Le compatirebbero. Credo ben che sieno fumi d’ingegno, perchè m’avvedo che fan lor male agli occhi. Chi grida, si sollecita, e appassionatamente, al fumo, ha qualche occasione di temerne la fiamma, e d’abborrire la luce. Non vorrebbero che si trovasse chi scoprisse, con lo stile contrario al loro, la vanità de’ loro scartafazzi gonfi, ampollosi, redondanti, che stancano e t’invecchiano prima che lasciarti trovar un pensiero, che, finalmente trovato, ti genera più di compassione che di diletto, sì slombato, esangue e senza spirito lo scopri, mercè che suffocato dalle parole, se ne muore strangolato come un Renovad dai suoi medesimi servi. Egli è vero, io noi niego, che ’l mio stile talora non corre; ma non corre non già perchè gli manchi la lena, ma perchè va carico. Non l’ho avvezzato a camminare a vuoto, com’essi han fatto il loro...... Dicono che la compassione eh’ hanno alla povera eloquenza tradita, assassinata, prostituta da questi nuovi modi, gli muove a far tanti rumori e tante proclame. Siasi....... Lodo lo zelo e concedo che la mia debolezza — 255 — e imperizia possa cagionar quest’effetto. Ma, se vogliono a queste deboli mie fievolezze, perchè maledire alla persona? Che se è di così deboli qualità come dicono , gli dovrebbe anzi muover a compassione che a furore!...... Perchè dunque tanta rabbia con meco? Cosa ho io fatto loro? Ve lo dirò ben io, Signor Abbate. Gli ho fatto male. Non è ella un gran male l’Invidia ? Certo che sì. Costoro che sua tantum mirantur e che condannan sempre quel che non sanno fare, vedendo le nostre cose correr per tutta Europa stampate e ristampate in pochissimi anni, non due volte, come le loro, ma, più di due volte, dieci, con applauso tale ch’ha tirato quasi affatto questo secolo a mutar maniera di scrivere, non possono non risentirsene e non dolersene. È un gran tormento il vedersi destituiti e infelici restar preda della polvere nelle botteghe, malveduti da tutti, fuorché da quelli qui sunt eis persimiles....... E quale dei due stili che si controvertono, piace più al mondo ? quale ha più spaccio, più lodi, più imitatori e seguaci?...... Chi vuol crescer nella fama, s’attiene allo stile che nasce ; e chi vuol sminuire, aderisce a quello che muore ». Dopo di che il Manzini, scendendo alle contumelie d’ occasione, chiamava i suoi avversari sempliciotti, malignassi, scimuniti e così via ; tra i quali epiteti il lasceremo, chè non v’ ha bisogno di esser letterato nè di appartenere al seicento per saperli mettere in carta (1). Per conto nostro crediamo di dovere affermare che il Mascardi, propugnando la maestà romana della dicitura prosastica, combattesse, convinto, per una idea radicatissima, e giudicasse di compiere in tal guisa opera buona, nobile, direi quasi, se la parola non avesse ora un significato ristretto, patriottica. (i) Lett. apoi., app. le Grazie rivali (Bologna, 1638, p. 154). — 256 — Siffatte idee sullo stile egli aveva già propugnato nell’accademia degli Umoristi, prima ancora che ne divenisse Principe. E quando pubblicò il voluminoso suo trattato, dedicandolo ai colleglli accademici, non mancava di congratularsi vivamente perchè con la gravità del giudizio si fossero essi, in quelle loro adunanze, per tanti anni, « opposti alla leggerezza dell’ abuso altrui, mantenendo incontaminata.......la candidezza e la maestà dell’antica eloquenza » ; e con calda parola li incuorava a battere la strada per la quale ei li aveva avviati. « Proseguite generosamente, o signori, e mantenete intero il patrimonio della vera facondia, che a voi tramandarono l’anime grandi de’ Latini e de’ Greci, e lasciate che certi fumi d’ingegno lusinghino per un poco le menti giovanili e vulgari, della cui approvazione se si pregiasse il vostro sapere, non sareste quegli uomini singolari che siete ». Nè la sua fu voce clamans in deserto. Se noi apriamo qualche raccolta di discorsi tenuti nell’ accademia romana verso quegli anni o poco dopo, troviamo un’ eco del suo insegnamento. L’Abati tocca poi direttamente della questione e a sua volta rincalza: « Si vede ora che gl’ingegni hanno anch’essi le loro mode, nelle quali la nuova fa odiar la vecchia...... Lo stile conciso de’ moderni è un abito succinto co’ trinci, migliore per pigliar aria che per accostarsi al busto....... Sapete com’io chiamerei i loro stili concisi? Udite: panni d’arazzi piegati, perchè non vi si scerne estensione di figure: ma direbbe un altro che è meglio chiamarli stili a musaico, perchè le parti non sono connesse e le congiunzioni non vi hanno legatura. Potrebbero dirsi ancora vestiti coperti di trine, perchè il fondo non vi apparisce nè vi si scerne altro che punti. Ma, per concludere con la miglior definizione, dirò che lo stile sì fattamente conciso è una carne rotta di picca- — 257 — tiglio, comoda a masticare, ma non già per distinguervi buona qualità di carne, se pur non dicessi che, per esser trita, è buona per chi non ha denti da masticare, o che più tosto fa stomaco, mentre la sua polpa è sì minuta che par più evacuata che da assaggiarsi ». E pure in versi satireggiava i romanzier moderni ch’ogni quattro parole han punto fermo (i). L’Eritreo, assiduo dell’accademia degli Umoristi, scriveva, nel 1646, a Fabio Ghigi, poi Papa Alessandro VII, rallegrandosi che si fosse ritornati ad imitare nelle orazioni Cesare e Cicerone, dopo che alcuni oratori avean farneticato , contro 1’ antico costume, « con una certa foggia di stile spezzata, concisa ed oscura », la quale a lui « d'ingegno tardo ed ebete », riusciva « avvolta di tenebrosa caligine » (2). E lo Sforza Pallavicino, gloriandosi nelle sue Vindicationes dell’aver vissuto il Mascardi alcuni anni nella Compagnia di Gesù e rivendicandolo con Giov. Batt. Rinuccini, « ex aere nostro », diceva, allo stesso proposito: « Il Mascardi poi, anche nello stile che chiamano isocrateo, avanzò tutti per una certa facilità e bellezza di favella e nell 'Arte istorica seguì magistralmente lo stile didascalico ; sicché si può dire il più eloquente degli eruditi e il più erudito degli eloquenti. Non mai esorbitante, spezzato, triste, non mai irretito , non mai povero; sicché sembra che abbia intessuto la forza della prisca eloquenza e abbia decorato poi la tessitura di ricamo frigio » (3). Interessante è pure il giudizio che il Mascardi pronuncia su quello che noi siam soliti chiamare stile seti) Antonio Abati, Frascherie, Venezia, 1651, p. 154 e 206. (2) App. Tiraboschi, Storia, to. Vili, p. II, ed. cit., p. 77. (3) Ed. cit., p. 131. Alti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. 17 - 258 - centistico. Ne parla più volte qua e là, e spesso contraddicendosi. Egli distingue nettamente lo stile della poesia da quello dell'oratoria e della storia, dedicando a questo argomento buona parte del quinto suo trattato. Nella prima, cioè nella poesia, vorrebbe i concetti « sparsi con elezione, non seminati a caso », e raccomanda di sfuggire più che altro 1’ «affettazione », che è « detestabile........ perchè toglie il verosimile , che è l’anima della poesia ». Criticando il componimento del-l’Achillini, nel 1618, quand’era giovane ancora, insisteva nel riprovare lo stile troppo peregrino e artificioso : « È vizio comune (diceva) più del secolo che degli uomini, l’andarsi lambiccando il cervello, per trovar nuovi modi e tutti alteri di favellare e di scrivere......; è gran- d’ error d’intelletto il non discernere il sublime dal tumido, 1’ eccessivo dall’ ardito . il soverchio dal piano, lo smoderato dal grande, 1’ alto dall’enorme ». In altro luogo dava quindi le norme per 1’ uso della metafora, la quale, in poesia, è « figliuola della necessità ». « Basti al poeta valersene per ornamento, non per vestito ; per condimento, non per cibo ; per delizia, non per necessaria costanza.......; le metafore e le altre figure di parole fanno l’effetto del sale nelle scritture; adoperate con la regola della mediocrità, dàn sapore, versate con man prodiga, offendono ». Dei tanti luoghi ove tocca poi dei contemporanei in colpa di troppo figurato linguaggio , tengasi presente questo, per credere eh’ egli, in teoria almeno, come pure l’Abati e tanti altri dell’accademia, non indulgevano alla moda: « Veggonsi i canzonieri di alcuni cerretani moderni, che, col volo d’intollerabili iperboli, aspirano alla sfera del fuoco; e v’arriveranno senza fallo, perchè da’ più gravi scienziati dispregiate le lor fatiche, saranno un dì gettate alle fiamme e a quel meritato splendore illustreranno la — 259 — fama de propri autori....... Sono alcuni poeti toscani sì temei ari che su l’ali del lor capriccio tanto intrepidamente trascorrono l’aria d’una presuntuosa licenza che tutto il rimanente del mondo dispregiano e non curano punto il maturo giudicio de’ savi; e poi si leggono ne’ caitocci infelici di que’ barbari ciurmadori figure ed iperboli così gelate che appunto iperboree posson nomarsi e nate sotto il fiero clima dell’Orse....... Purtroppo è vero, io noi niego, che questo secolo è divenuto fanciullo e il mondo rimbambisce nella vecchiaia: già fu l’ultima mèta dell’ ingegno poetico, nella savia età de’ nostri padri, uno scriver sincero e puro. Lo stile acquistava il valore della schiettezza e della forza delle voci ; le voci erano lodate di proprietà, d’efficacia, di suono; i concetti erano lampi che, dalla ruota del sol divelti, discendevano ad illustrar gl’intelletti: ora son lucciole che in un sol dibattimento d’ali, partoriscono e seppelliscono il lumicino innocente, ora son baleni che prima si dileguano che sien veduti, son faville che svaniscono ad un tratto, senza sodezza, senza maturità. Non è mio pensiero di vituperare i concetti, perchè avrei per nemici tutti i componitori moderni, e io non compro risse e litigi: la gravità però delle sentenze è ’l vero lustro d’ogni considerata scrittura » (1). Nè diversamente doveva esprimersi, per quanto risulta dalla lettera del Grillo, nel componimento satirico contro l’Achillini, che è, su per giù, dello stesso tempo. Con tutto questo egli ci appare pur sempre un secentista, in quell’ ambiente romano, ove, più tardi, gran parte de’ letterati d’Italia inneggia e plaude all’ opera del Marini. Nel giro di diciotto anni egli muta del tutto parere. Eccolo neWArte istorica sentenziare che il fa- ti) Prose vulg., ed. cit., p. 64 e sgg. — 2 6o — vellar poetico comprende « arditezze alcuna volta felici......., pellegrinità di traslati, lampeggiar di ornamenti e di lumi, pompa di dovizioso apparato, sonorità di numero armonioso ». Nulla di strano per lui che un poeta, d’un vascello solcante il mare, scriva che corre Vumide vie, chiami la primavera aurora dell'anno , indichi il mare come tomba del sol cadente: tutte espressioni che in poesia, secondo lui, riuscirebbero « vaghe ». Un verso metaforicamente bellissimo , per definire la Corte , sarebbe: il pubblico ospedal delle speranze (1). Fuori del campo poetico, vuole che si vada più cauti. Lo stile peregrino può usarsi con lode anche dall’ oratore, che deve elevarsi con 1’ « amplificazione » e valersi altresì, come il poeta, degli epifonemi, composti in maniera «che sentano forte del veemente e dell’ardito », nonché delle « figure più risentite, specialmente per smuover gli animi secondo il bisogno » (2); ma giammai dallo storico, che le presenterebbe fredde, vane, intempestive. Che se mai lo storico volesse pure usarne, dovrebbe spargerle come « fiori....... discretamente di luogo in luogo », laddove il poeta li porrebbe come « un continuato ricamo » (3). Non molto di nuovo espone il Nostro intorno alla poesia, nei numerosissimi luoghi ove ne tratta. Essa sarebbe parte della moral filosofia, avrebbe cioè 1’ utile per fine, il diletto per mezzo. Virgilio ed Omero infatti egli li chiama filosofi ; Lucrezio , manco a dirsi, lo dichiara « latinissimo fra i filosofi che poeticamente hanno scritto » (4): e cita Dante quale « scienziato dottissimo », (1) Arie, p. 391-5; Discorsi accademici, p. 21. Il verso è del Caporali. (2) Arte, p. 454 e 471. (3) Arte, p. 395. (4) Discorsi morali sulla Tavola di Cebele, ed. cit., p. 226. - 2 61 - quasi sempre in que’ punti ove riesce più freddo e allegorico (1). Dei recenti non ricorda che l’Ariosto e il Tasso, tacciando alcuna volta il primo di poca naturalezza perchè non s’è attenuto a certe norme tradizionali dei componimenti poetici. Una delle pecche anzi del Furioso starebbe nel riacquisto che vi fa Orlando del senno, bevendolo pel naso dall’ampolla che Astolfo gli avea recato, laddove le dottrine antiche platoniche, alle quali, secondo il Mascardi, pare quell’episodio riferirsi, insegnerebbero che col bere piuttosto si perde l’intelletto. In ogni modo egli finisce per ammirare tanto l’A-riosto quanto il Tasso e non può non darsi a riprovare la « vulgare sciocchezza di coloro che litigano, con nausea dei letterati, la precedenza » (2). Per quel fine d’ utilità e di moralità che deve contenere la poesia, essa non può essere che casta; invece talvolta l’arte predomina nell’opera poetica, anche a scapito del regolato costume. Purtroppo, egli dice, « in questo secolo di ferro, al solo nome di poesia....... si palesano avversi gli uomini di senno......., avvegnaché si leggono in questa nostra lingua tante lordure di gazzabuglioni, tante laidezze e sudiciumi amorosi di persone che sono intravenute per imbrattar carte ed infrascare il mondo con lascivie brutali, che non maraviglia se al solo nome di ciurma tanto sfacciata, invischiatrice degli animi e naufragio della virtù, s’inorridiscano gli uomini, e, per sfuggire l'incantata bevanda di Circe propostali da’ poeti in vasi d’oro di stil leggiadro e fiorito, abbandonano un esercizio tanto utile e profittevole » (3). Due sono poi gli elementi essenziali della poesia: l’imitazione della natura e il furor poetico. È l’opinione comune a tutti i letterati di (1) Ibidem, p. 107, 108, 153 e passim. (2) Ibidem, dise. II, P. II, p. 161 ; Prose vulg., ed cit., p. 14. (3) Discorsi accademici, ed. cit., dise. VI, p. 243. - 2Ò2-- quel tempo: ma il Nostro, più degli altri, la viene ampliando e spiegando. L’imitazione del vero, ossia il verosimile , che in poesia si attiene agli universali, distingue appunto questo genere dalla storia, la quale invece ha per fondamento la verità e si attiene al particolare. In altre parole la storia narra gli accidenti proprio come accaddero e la poesia rappresenta le cose nel modo che secondo la verisimiglianza potevano accadere (1). Solo l’imitazione potrebbe salvare la poesia dai vizi del secolo, specialmente dall’ abuso di ingegnosità metaforiche ; e può esser condotta o sulla natura e sul-1’ « azione umana », o sopra i migliori modelli latini, greci e italiani. L’imitazione è per la poesia una necessità; « così ebbe Omero per seguace Virgilio, Virgilio ed Omero furono espressi con l’imitazione dall’Ariosto e dal Tasso. Non si arriva al porto della gloria, nel mare della poesia, se non si mira la tramontana dei poeti migliori » (2). Riguardo al furor poetico, che molti accettavano sulla base della dottrina platonica (3), egli non nasconde dei dubbi e anzi in un componimento si affanna a dimostrare « che quanto da Platone e da altri è stato scritto dell’istinto agitante le menti poetiche, tutto è menzogna » e che al furor poetico va invece sostituito, come « unico principio dei componimenti migliori », l’umor malinconico, in cui si possono tutti ravvisare gli effetti e le condizioni di quello. È una novità dunque eh’ egli introduce per conto suo , contro 1’ opinione divulgata nei trattati e nelle scuole, e che forse (1) Arte, p. 348. (2) Sopra un componimento poetico intorno atta cometa, in Prose vulg., ed. cit., p. 67. (3) È notissimo il discorso di Francesco Patrizi sulla Diversità dei furori poetici, Venezia, per Giovanni Griffio, 1553, ove spiegasi cogli influssi delle stelle la classificazione dei furori data da Platone. — 263 — gli era suggerita dalla dottrina di Aristotile intorno alla Kdtharsis della tragedia. Laddove il furor poetico dei platonici s’ha da considerare come « un’ astrazione della mente cagionata dalle Muse e agitante 1’ anima a line di sollevarla per mezzo del canto e dei versi al suo primiero godimento », l’umor melanconico sarebbe in sostanza una condizione fisiologica che predispone gli scrittori al buon esito dei cimenti poetici. Le argomentazioni alle quali egli ricorre per la sua dimostrazione, sono tutte appoggiate alle autorità mediche per lui più attendibili, a cominciare da Galeno. La melanconia, bravamente suddivisa nelle sue varie specie, ritrae 1’ animo dagli oggetti esteriori, lo concentra tutto e rende anche gli uomini spiritosissimi, perchè, se il sangue loro è caldo , la malinconia è già assottigliata dalla bile, se freddo e secco, « non hanno escrementi che loro sconvolgano e intorbidano gli spiriti; anzi, quantunque la malinconia s’assottiglia e s’ accende, limpidissimi ne divengono gli spiriti e perciò all’operazioni dell’ingegno maravigliosamente giovevoli ». L’umor malinconico poi « tanto alla pazzia rassomiglia che ben spesso pazzi son chiamati i poeti » (1) Così dunque conchiudeva il Mascardi; nè diversamente da lui, in quello stesso secolo , anzi dopo appena dieci anni, un medico dei più valenti sosteneva che « l’ingegno grande riconosceva per madre la pazzia » (2). Ora io non voi rei certo invogliare qualche propugnatore delle moderne teorie sulle cause e le condizioni del genio, a trovai e nel Nostro un precursore in piena buona fede. Può dai si ch’egli credesse d’ aver scoperto gran cosa e di avei dimostrato esaurientemente in lunghissime pagine il suo (1) Intorno al furor poetico, in Prose vulg., p. 69 e sgg. (2) Ved. G. Sforza,, F. M. Fiorentini ed i suoi contemporanei lucchesi, Firenze, Franchi e Menozzi, 1S79, p. 374. ; — 264 — concetto. In ogni modo è pur vero che tutto il componimento in questione è d’intonazione burlesca, la quale rivelerebbe se non altro che il Mascardi , scrivendolo, si sentiva di....... umore più allegro che mai : e che esso componimento si chiude indicando due antidoti d’effetto sicuro per guarire ai poeti quel male; e cioè il vino e l’oro, che dovrebbero i Principi largire ai « poveracci » perchè abbiano a soffrir meno. Riporterei qui i passi, per metter il mio lettore in buon umore dopo tanta gravità di materia: ma non posso che consigliarlo a leggerli per conto suo nelle Prose vulgari del Nostro , chè la via lunga mi sospinge. Del resto, per non peccar d’ingiustizia , dirò che il Mascardi ha osato talvolta, nell’esposizione di teorie invalse, levare una voce davvero insolita per ribellarsi a opinioni particolari, cristallizzate da una consuetudine di scrupoli. Fu giustamente osservato che difetto capitale di quasi tutti i critici del seicento era quello di voler dare alla storia, alla poesia, all’ eloquenza, delle regole fisse imprescindibili. Egli va spesso invece, quando si tratti di teoria più che di pratica, contro corrente, e lascia all’arbitrio dei compositori molto di ciò che altri non consentirebbe. Già s’è visto qualcosa di simile nelle digressioni stilistiche. Nel trattato quinto dell’Arte istorica, impiega poi pagine e pagine per sostenere che non è punto vera la distinzione fra poesia e storia, basata sull’ordine dei fatti, secondo i più cronologicamente esposti nella prima (ordine naturale), artificiosamente nella seconda (ordine perturbato). Persuaso che i suoi contemporanei, e tra questi il suo antico maestro Tarquinio Galluzzi, fossero nel falso, egli riprende la questione in esame, e, giacché s’appoggiavano tutti gli altri all’autorità d’Aristotile e d'Orazio, all’esempio d’Omero e di Virgilio, alle ragioni di Dione Grisostomo e di Eu- — 265 — stazio, si dicervella per far trionfare la sua idea, salvando , fin che gli è possibile, gli antichi, e dimostra, con un lavorio minutissimo ermeneutico, che son false le interpretazioni date dai contemporanei stessi o dai traduttori consultati, dei luoghi che lo interessano. La sua sentenza è infine che poeta, storico e oratore, possono , occorrendo , valersi di qualunque dei due ordini, a seconda che il caso richiegga. Più arditamente ancora, sia pure in sua difesa, egli prende a provare, con una nuova intelligenza del senso di certi passi aristotelici, che in uno stesso componimento drammatico non è necessario rispettare l’unità d’azione, potendosi stabilire che la poetica, come la natura, tende ad un fine principale e ad uno accessorio, e deve perciò, nel suo procedimento indiscutibilmente imitativo, presentare un’ azione principale ed una accessoria (1). Quanto invece s’insistesse nel parere contrario, può saperlo chi lia presenti le censure mosse al Furioso dagli ammiratori del Tasso (2) e a\\Adone dallo Stigliani e dagli antimarinisti. Ciò eh’ egli pensa dell’ oratoria, non è molto edificante. Ahimè! Ecco la piaga di quella prima metà del • seicento. Tutti delirano nelle accademie e i discorsi vi (1) Dell'unità della favola drammatica, in Prose vulg., ed. cit., p. 46 e sgg. L’ unità d’ azione è per Aristotile (Vili, 1-4) più importante di quella di tempo, per la quale non fissa molte regole (ved. Arie, p. 359). (2) Dell'unità ecc., p. 49 : « Condizione principalissima della favola è che abbia unità cioè che rimiri una sola azione d’una sola persona: cosi chiaramente comanda Aristotile nella poetica, secondo la divisione del Castelvetro alla particella sesta della terza parte principale; e giusta la divisione di Vincenzo Maggio e di Bartolomeo Lombardo alla particella cinquantesima. Questo è il punto sul quale muovono le moderne Accademie tanti litigi ; questa è l’arme pungente con cui da’ parziali del Tasso vien combattuto Ludovico Ariosto ; con questa legge lo bandiscono, insieme con gli altri Scrittori di Romanzi, dal Senato degli Epici componimenti ». - 206 - si succedono futilissimi, spesso senza capo nè coda, per mero esercizio rettorico. Davvero non si comprende come possano gli uditori pascersi di tanto vento e gli oratori sprecare tanto tempo e tanto ingegno , se non imputando a quelli una concessione di moda, a questi una smoderata ambizione. I dotti s’ accordan tutti nel-l’affermare che la diceria accademica è il miglior mezzo per diffondere la cultura: in verità, è il mezzo invece per rendersi presto noti al gran pubblico. E le conseguenze per la letteratura sono inevitabilmente dannose, giacché 1’ oratore deve naturalmente escogitare allora mille artificj per rendere attraente il suo discorso, per farsi capire, applaudire, ammirare da persone che non hanno tempo a meditare, deve arrestarsi sopra un punto arduo, girarvi attorno, colorirlo, ripeterlo in altra forma. Anche oggi, uno scrittore, che sia serio, grave, concettoso nella composizione di un’ opera scientifica, sceglie, quando è obbligato a divulgare la stessa materia in una conferenza, i punti più salienti e li rende accessibili con paragoni e metafore, e li introduce o li riepiloga con quei razzi rettorici che fanno effetto. Or dunque le norme che il Nostro prefigge all’ oratoria , sono proprio quelle che guidano alla maniera comune. Una volta soltanto trovo eh’ egli chiama eloquente un artefice di discorsi, quando riconosca « nella sua dicitura una perfetta uguaglianza con le cose di cui ragiona » (1). In generale però, non solo si contenta di trovare la maggior gloria dell’oratore nel commovimento degli animi, ma sostiene che la verità debba esser da lui trascurata a bella posta, che suo fine precipuo sia anzi quello d’ « ingombrarla, per ottenere con la forza quello che la ragione non gli consente....... sì che negli animi di chi (i) Arte, p. 422. — 267 — ascolta nasca il commovimento non per le cose che si dicono dall’ oratore, ma piuttosto per le parole e pel modo con che si dicono » (1). E, appunto perchè tutta alla forma è rivolta la cura dell’ oratore, eccovi mille precetti per renderla più gradita, polita, magnifica : eccovi l’uso degli « spiriti », delle sentenze, delle apostrofi, degli epifonemi, dei traslati. I principali e più efficaci « strumenti » di quest’ arte sono « l’amplificazione e la commozione: l’una, ingannando l’intelletto degli uditori, accresce e scema a suo talento le cose, onde le piccole son reputate grandi e le grandi nell’ altrui bocca perdono di grandezza; l’altra, insignoritasi dell’umana volontà, la sconvolge a suo piacere e, quasi domato giumento, con la briglia della favella, in qualunque parte l’aggira » (2). Quand’ egli rimpiange i difetti dell’ eloquenza contemporanea, non si occupa della povertà degli argomenti, ma del suo stile conciso, della sua imperfezione esteriore: « Quanto da costoro (gli antichi) si dice in detestazione dell’ingiuria fatta dagli scrittori men degni all’eloquenza, tutto per nostra disavventura in questi tempi miseramente ricade; poiché, 0 in latino 0 in italiano si scriva, lasciate le bellezze eh’ adornavano virilmente una sensata favella, oggi si rivolgon le penne degli ingegnosi alle acutezze; e con minuzzoli di sentenze e di sensi s’impoverisce la maestà dell’ antica eloquenza ; ond’ ella tutta la forza, tutto il vigore, anzi tutto il succo e ’l sangue dal suo bellissimo corpo geme infruttuosamente sottratto. Esce alla pubblica luce l’infelice signora non più con clamide maestosa riccamente addobbata, ma con un centone di pezzuole diverse, più tosto mal cucito che ben tessuto, indegnamente coperta. (1) Arte, p. 295. (2) Arte, p. 292. — 268 — Non più con passo magnifico e fermo passeggia per le carte degli scrittori, ma tutta mobile e ondeggiante a capriole saltella. Non ha respiro nei suoi viaggi entro a camere agiate di ben disposto periodo, ma vien cacciata nell’angustie di quattro parole malamente intrecciate; discinta per difetto di legatura, sconcertata per mancamento di numero, fosca per la spezzatura della favella, rotta, anelante, strepitosa, nemica delforecchio erudito e più dell’animo disciplinato » (1). La vera eloquenza era per lui quella che nella compostezza e nella maestà più s’avvicinava alla latina: « generalmente parlando, io veramente odio in estremo la malinconia della dicitura languente, nè posso tollerare nell’ eloquenza i cadaveri. Vorrei vivace e spirante il favellare; ma gran divario è che la favella respiri od esclami; che si muova o che salti; che sia viva o baccante; che spiritosa o spiritata nomar si debba. Generosa la bramo , non eccessiva; sublime, non precipitosa; robusta, non temeraria; allegra, non pazza. E, per non partire dalle acutezze, a che mirano certe acutezze di concetti nel sentimento leggeri, lascivi nell’ ornamento , sproporzionati nell’ applicazione, licenziosi nella maniera, che, a guisa d’infiammata esalazione, nel momentaneo balenar si consumano? Non ad altro che a ferir con l’apparenza del-l’ingegno le menti semplici de’ giovani o degli uomini d’intendimento volgare, mentre naturalmente considerati da chi ha giudicio, provocano necessariamente le risa » (2). Certo, nessuno meglio di così avrebbe potuto esprimere il concetto del Nostro, ma è appunto questo concetto che ci sembra manchevole. Egli dimentica o non vede che tra forma e contenuto v’ ha da essere (t) Arte, p. 426. (2) Arte, p. 464. — 269 — sempre, inevitabilmente, un rapporto diretto, e quasi a dire un vicendevole scambio di soccorsi. Quando la materia trattata è povera, floscia e vile, la forma non può riuscire robusta e generosa coi mezzi consueti, ma ha bisogno di acutezze, di ornamenti, di ingegnosità d’ogni sorta, perchè ne sia mascherata l’inanità. Una veste piana e composta riuscirà sufficiente ed efficace ed anche gradita, ove prevalga l’interesse dell’argomento, il quale verrebbe piuttosto soffocato dagli spiriti e dalla virtuosità formale. Nel seicento , o meglio nella prima metà di questo secolo, gli argomenti sono, come ognun sa, sciocchissimi ; inevitabili quindi gli orpelli esteriori. Tant’ è che il Mascardi stesso, in pratica, non può e-vitare di esser concettoso, ingegnoso , acuto , slegato, indisciplinato, nè più nè meno degli altri suoi colleghi d’arte, quando prende a trattare argomenti che, per non riuscire efficaci nella loro contenenza, sfigurerebbero assai o si rivelerebbero in tutta la loro pochezza, se svolti con una dicitura tranquilla e normale. Da tutto ciò che siam venuti esponendo e allegando, si comprende che, se nella pratica doveva il Mascardi incappar facilmente nei vizi del suo secolo, le teorie da lui sostenute eran quelle di una mente sana e avveduta. Due sono, a mio parere, le caratteristiche per le quali egli, agli occhi nostri, diventa, in quella babilonia letteraria, una figura interessante. Anzitutto in lui appare vivissima la tendenza umanistica, derivatagli dall’ insegnamento dei Gesuiti e specialmente dall’ esempio del Galluzzi, che in poderose opere avea preso a difendere pubblicamente la poesia antica e più di tutto la virgiliana. I poeti antichi, per il Nostro, fan sempre testo e sempre riescono imitabili, dacché racchiudano nei loro versi gran copia di dottrina, rispondendo agli scopi ultimi dell’arte poetica. Come modelli eterni, prepone anzi — 270 — Omero e Virgilio, « deità sovrane », e ha invettive roventi contro i contemporanei che non leggono degli antichi se non Ovidio « e per avventura vulgarizzato dal- 1 Anguillara ». I difetti che sono a rimproverarsi a gran parte dei poeti recenti, dipenderebbero tutti, come già s è riferito, dalla poca « imitazione dei perfettissimi classici ». Naturalmente, questa sviscerata ammirazione pei gli antichi , anziché affinare il suo buon gusto e suggerirgli una norma ben chiara e netta dell’arte, la vediamo alimentare la sua smania erudita. È suo concetto radicato che, per eccellere, bisogna essere eruditi, riuscire cioè a propinare la più abbondante quantità di citazioni latine e greche al pubblico edificato. Ed è concetto che hanno tutti nel seicento. Già ho accennato alle ragioni per le quali qualche professore andava famoso sulle cattedre della Sapienza: ricorderò qui che un amico intimo di lui, Virginio Cesarini, uno dei piomotori, e non si direbbe, di quell’Accademia dei Lincei, onde doveva raggiare il verbo scientifico col più rigoroso suo metodo, recitava una volta, nell’adunanza di casa sua, all’improvviso, seicento luoghi d’Aristotile nell’originale, ripetendoli poi nelle varie traduzioni latine e volgari, si da meritare poi una medaglia con 1 effigie di Pico dalla Mirandola (1). Per fortuna, questa stessa ammirazione lo portava d’altra parte a riprovare con tutte le sue forze la ricercatezza, la maraviglia, l’artificio dei contemporanei: e considerando l’enorme diffusione goduta dalle sue opere, non abbiamo che a rallegrarcene. Dunque nella reazione, largamente svoltasi nel secolo X\ II per desiderio del nuovo, non più contro gl imitatori dei classici, ma contro i classici stessi, e manifestatasi con innumerevoli disordinate os- (i) Favoriti, Vita del Cesarini, ed. cit., p. 426. — 271 — seivazioni critiche ai luoghi degli antichi scrittori, ora per emendare ora per biasimare addirittura, egli assume una parte decisamente tutrice, o meglio conservatrice. In un suo discorso, appunto intitolato La critica, dopo d’aver chiarito che cosa per critica intenda, definendola « il fìor della grammatica, che tralasciando, o per dir meglio , presupponendo in altri i primi fondamenti dell’ arte, in atto di giudicante postasi sul tribunale, chiama ad esamina rigorosa le scritture ed i libri, e fondando il suo processo su due importantissimi punti, riconosce primamente quali siano gli autori che veramente gli hanno composti, cancellandone i nomi adulterati e supposti, poscia all’ emendazione dell’ opera con sopraciglio gravissimo si reca, correggendo ciò che gli viene in grado »; egli con « dolore » trova che « si propagò nel nostro secolo questa peste », dacché « veg-giamo gl’infiniti volumi d’osservazioni de’ critici, che a spremerle con ogni industria non daranno un’ oncia di umor buono e salutevole alle piaghe degli autori che pretendono di sanare » (1). Altrove poi si scaglia contro i denigratori di Virgilio e d’Omero e degli altri antichi maestri, contro i critici « tanto insolenti per la smoderata opinione che portano del proprio sapere, che s’allacciano in su la giornea e quello che a lor non piace è mera vanità e ridicolosa sciocchezza e ignoranza intollerabile ». Per conto suo, conchiude, non vuol essere « d’ingegno sì sfrenato e d’animo tanto insolente ch’ardisca, come alcuni fanno, di vilipendere gli autori antichi e dal comun consentimento di tanti secoli canonizzati per grandi » (2). È anzi curioso vedere come in questa sua difesa dell’ antichità non trascurasse di sal- (x) Discorsi morali sulla Tavola di Cebete, P. Ili, dise. Vili, p. 433 e sgg. (2) Arie, p. 317. vare anche la mitologia, che quasi gli appariva come la sostanza della poesia greca o latina. Questa sua simpatia per gli dei falsi e bugiardi, che venivano sbanditi risolutamente dalle odi di Urbano Vili, del Ciampoli e di altri molti, riprovati in parecchie poetiche come dannósi alla Fede, derisi nei poemi del Tassoni e del Bracciolini, poteva riuscirgli tutt’altro che vantaggiosa. Nelle opere ove ne parla, se la cava tuttavia con la solita disinvoltura. Egli anzitutto, da buon aristotelico, sostiene che le favole antiche siano state foggiate per accrescere lo studio della religione con la maestà dei sensi allegorici e misteriosi, e far che le leggi della virtù venissero abbracciate ed eseguite con altrettanta agevolezza quanto era il diletto da esse generato (1). Riguardo poi alla questione della diversità delle religioni, si poteva, secondo lui, venire a un compromesso, specie sul terreno delle allegorie. E se il Cesarini dimostrava che dal mito di Fetonte s’ha da ricavare una virtù morale, come quella che la ragione non vada sommessa al talento, egli, procedendo ben oltre col fantasticare, riconosceva l’allusione dell’ oracolo di Isaia nel nascimento di Perseo da una vergine e nientemeno che le predizioni profetiche del Verbo nei miti di Ercole peregrinante, di Bellerofonte asceso al Cielo, di Minerva nata dal capo di Giove, di Esculapio curante gli infermi (2). La favola era insomma un elemento considerevole di persuasione: era — e se ne riportava al Tasso — il vero condito in molli versi. Nulla di strano perciò che i poeti condissero « la severità degl’ insegnamenti con la dolcezza del lusinghiero Parnaso » (3). fi) Dell’uso e dell'utilità delle favole ne Ite cose spettanti alla Religione e al costume, in Disc, morali sulla Tavola ecc., P. I, elise. Ili, ed. cit., p. 69. (2) Delle contese degli Angeli, in Prose vutg., ed. di’, p. 36. (3) Dell'uso e deliulilità delle favole ecc., p. 77. — 273 — L’altra caratteristica generale della sua critica è quella di sapersi elevare, nella considerazione degli elementi costitutivi dell’arte, a idee relativamente larghe e comprensive e originali: ond’è che, mentre molti altri stanno grettamente al fenomeno ' rettorico e lo impongono, alla norma aristotelica per una data sorta di componimento e la dichiarano imprescindibile, egli vorrebbe nell’ artefice una libertà sottoposta a dettami quasi inconsapevolmente acquistati per lo studio dei sommi autori dell’ antichità. Anche quando muove da certi pic-cioletti canoni consuetudinari, li rabbercia poi a modo suo, salvando l’autorità àeWlpse dixit, e non sacrificando la sua opinione, che se ne allontana: spesso anche si cimenta a dimostrare falsa l’interpretazione data da commentatori e volgarizzatori. È allora il più ingegnoso e timido innovatore, ma il più ostinato nello stesso tempo. Scrive il Pirani: « Conoscendosi in prova quanto difficultoso per ognuno sia il moderare il convincimento, non che la stima del proprio merito, pareva che nel Mascardi con la dottrina si fusse accresciuta l’umanità e quasi il disprezzo proprio. Io così dico, per aver più volte osservato che delle sue eccellenti composizioni subito che le avea poste in scrittura faceva parte agli amici....... di passo in passo che uscivano dalla penna, egli liberalmente con gli amici le conferiva; da tutti desiderava d’udir il giudicio, non ricusando pur quello dei meno intelligenti: cosa che qualche altro suo pari avria dubitato di fare, dubitando di porre il suo nome in basso grado » (1). Ma io credo che ciò non facesse per umanità o dispregio di se stesso, bensì per sentire gli umori di coloro che avrebbero poi dovuto giudicarlo o anche criticarlo, per prepararsi terreno favore- (i) Op. cit., p. 3, Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. iS — 274 — vole, per prevenire ogni obbiezione, per accaparrarsi dei difensori contro probabili attacchi di nemici giurati. I consigli che alcuni gli davano, lo sospingevano sulla via peggiore, 1’ obbligavano a sacrificare ciò che sgorgava originale e nuovo dal suo cervello. Ed egli capiva che opporsi voleva dire tirarsi dei fastidi addosso. Era meglio lasciar andare e salvare ciò che si poteva. E nemmeno in questo egli ha gran colpa. La letteratura del seicento è troppo chiassosa, pettegola , litigiosa, perchè chi vi partecipa abbia a fare sempre di suo capo. Del resto come ci si potrebbe sottrarre agl’inveterati preconcetti letterari di un popolo, quando non si può neppure persuaderlo tutto di un fatto fisico sperimentale? » <& & ;&&>& ,&& & $■„ û &&&&$.&, .* #, .^o à§jj ! ‘i.tïVf 1/ï£ï 5>sXÎ P ^ /€ 5 ^STp ^ /!f/c»r)%es>?c. rïvTà *> « <«rxT> rîvu * « «"a .> er^;i rïVïk r « ^££5 (T^i f CAPITOLO II. LA POESIA Componimenti poetici in volgare. — Una paternità rifiutata. — L’edizione delle Silvae. — La poesia latina nel seicento secondo il Tiraboschi. — I più notevoli poeti latini della prima metà del secolo. — Le elegie del Cesarini.— La riforma di Maffeo Barberini. — Accenni di Agostino ad essa. — Le poesie latine di Agostino. — Ostacoli alla loro pubblicazione. — Il valore della raccolta. — Gli epigrammi. — I poemetti. — ~W epipompeuticon per Luigi D’ Este, il carme per la laurea del Cesarini e il poemetto sulla pace: peculiarità, pregi, difetti. — Le elegie. — Anacronismi artistici. — Le epistole. I componimenti religiosi. — Caratteri della poesia latina di Agostino. — L'addio alla Musa. fu il nostro Agostino appassionato cultore la poesia volgare. Vero è che spesso tro-mo nei suoi scritti degli accenni a sonetti e canzoni eh’ egli avrebbe composto e inviato a illustri personaggi con preghiera di esprimervi su il loro giudizio o di accettarli in segno di riverenza, ma nulla rimane di tali componimenti. Egli stesso poi dichiara più volte di non essersi mai « sentito poeta e massime vulgare » (1); e pubblicamente anzi denunzia, verso il ’23, in uno dei discorsi sulla Tavola di Cebete, come falsamente attribuitigli, certi versi — un distico e un sonetto, — che (1) App. I, lett. 1 luglio 1615, n. 6; disc. Intorno al furor poetico, in Prose, ed. cit., p. 69. correvano col suo nome in principio di un’ opera poetica, forse per artificio commerciale dell’ « ingegnoso » editore (1). Non rifiutò in ogni modo i componimenti latini scritti nella giovinezza « ad quotidianae propemodum aegritudinis levamentum ». Li raccolse bensì tutti in un volume intitolato Silvae e pubblicato nel ’22, auspice l’amico Silvestro Grimaldi, e con a capo, oltreché la prefazione del compiacente editore e l’infruttuosa dedica al Cardinal d’Este, anche una poesia di Giovanni (i) Della critica, dise. Vili, P. IH dei Discorsi morali ecc. ed. cit., p. 315. Il volume di poesie era certamente quello di Marcello Giovan-netti, stampato a Venezia nel 1622 , per la prima volta. Ho potuto vedere soltanto la seconda edizione fatta a Roma nel 1626 , per Francesco Corbelletti, ad istanza di Gio. Maria Manelfi, in 12.0: e anche in questa si legge, sotto il ritratto dell’autore, il seguente distico: ad Pictorem, Pinxisti sine fraude comam? sine lumine solem pingere tu poteras, vel sine sole diem. con le parole Augustinus Mascardus S. D. N. Urbanus Vili. Cubie, ad honorem; ed alia pagina 257 un sonetto pure attribuito al Mascardi che incomincia : Là dove il Tago in pretiosi errori ecc. L’Aprosio, nella Pentecoste, seguito alla Visiera alzata, Parma, Vigna, 16S9, p. 120, riportò il passo dei discorsi morali sulla Tavola di Cebete, ove il Mascardi rifiutava quell’attribuzione, ma se ne stupiva assai, perchè « l’uno e l’altro (diceva) vivevano in Roma »: e finiva per non credervi; supponeva piuttosto « che qualche sdegno contro del Giovannetto conce-puto gli havesse fatto scriver tal cosa ». Il Melzi , nel suo Dizionario d'opere anonime e pseudonime, ed. cit., to. I, p. 457, riportando il libro del Giovannetti, che, forse per errore tipografico egli dice stampato nel 1616, erra poi annotando che tutte le poesie vennero attribuite ad Agostino Mascardi. — Finalmente Mons. Crescimbeni riproduce il sovracitato sonetto nel vol. IV, p. 175 dei suoi Commentari intorno all'istoria della Vulgar Poesia (Venezia, Baseggio, 1731), e lo fa precedere da alcune notizie biografiche , ripetendo l'errore del Ghilini e degli Accademici Incogniti di Venezia, col dirlo nativo della Spezia, sebbene incominci la biografia con queste parole: « Agostino Mascardi, sarzanese....... ». L’autore delle Poesie, Marcello Giovanetti, è quello stesso che nell’Acca-demia del Cardinal Maurizio lesse il discorso sull’ odio di Saulle contro di Davide; ved. Saggi in Prose, ed. cit., p. 302 e sgg. — 277 — Andrea Eontanella, inneggiante al poeta e al mecenate. Cosi essi comparivano, dopo mille contrasti, nel momento più travagliato della sua vita , a dargli quella fama di poeta, onde parve ai contemporanei esser risorto Maro e rinnovato addirittura il secolo d’Augusto (1). E ben si comprende, al postutto, ch’egli abbia prediletto i colloqui con le Muse del Lazio, ove si pensi alla sua qualità di religioso, che non gli permetteva di pubblicare cosa alcuna in volgare se non dopo una sospettosa revisione o una speciale dispensa da parte dei superiori ecclesiastici. La poesia latina del seicento è quasi tutta trascurata dagli storici della nostra letteratura, a cominciare dal Tiraboschi, il quale pronunciò su di essa un giudizio sommario (2). Certo s’era fatta ben più scarsa che nel cinquecento, sia perchè oramai non più gustata dai contemporanei come quella toscana fiorentissima e attraentissima, sia perchè meno proficua agli stessi compositori , riuscendo difficile acquistare universal fama con essa. Restava quindi esercizio e amore delle persone colte, compariva quasi solo per le stampe, si propagava in componimenti epistolari, si sminuzzava in e-pigrammi d’occasione e si volgeva di preferenza ad argomenti sacri: raramente veniva declamata nelle adunanze accademiche. Tuttavia non ci sembra ponderato e sicuro il giudizio del Tiraboschi che la volle tutta penetrata del mal gusto della novità e intesa a rifarsi su Marziale, Lucano, Claudiano, sui decadenti insomma, del languore onde si credeva 1’ avessero profusa i cinquecentisti, imitando Virgilio, Catullo, Tibullo e Orazio. Il fecondo critico modenese non ricordava, come degni di (t) Allacci, op. cit., p. 68. (2) Storia, to. VII, P. II, p. 747, ed. 1824. — 278 — qualche encomio, che il Galluzzi e lo Stefonio, i quali, effettivamente, avean conferito un certo vigore alle affrante muse del Lazio, senza trascinarle al delirio del nuovo. Altri però non mancarono che la coltivassero con gusto sano e lodevole moderazione. Lo Sforza Pallavicino giustamente ne cita parecchi ; specialmente Alessandro Donato, che compose poesia epica, il Bidermann, autore di liriche pregiatissime al suo tempo,Xeone Sanzio e Giov. Battista Giattino, compositori di opere drammatiche : tutti gesuiti (1). Per conoscere poi quanti si dedicassero in quest’ epoca, con maggiore o minor merito, a esercizio siffatto, basta spogliare la Pinacotheca e l’Eudemia dell’Eritreo 0 scorrere le Api del-l’Allacci: vi troviamo ricordati, come poeti latini, Fabio Leonida, Arrigo Falconio, Gianfrancesco Paoli, Giorgio Porzio, Vincenzo Guinigi, Mario Bettini, Andrea Baiano, Bartolomeo Tortoletti, Gaspare De Simeonibus, Gherardo Saraceno, Gregorio Porzio, Giuseppe Maria Sva-resio, Clemente Merlino, Ferdinando Carlo, Fabio Fiaschi, G. Batt. Doni, Giovanni Ciampoli: tutti insomma gli Umoristi con altri mille. Paganino Gaudenzio fu persino laureato. Poco dopo la metà del secolo uscivano poi, con gli splendidi tipi dell’ Elzeviro, i componimenti poetici di sette fra i più chiari personaggi dell’ epoca, fra i quali alcuni italiani: il fiorentino Alessandro Pollini, il lunigianese Agostino Favoriti, il romano Natale Rondanini, Stefano Gradio e il già nominato Virginio Cesarini (2). Ora nei componimenti di questi ultimi non (1). Ved. Vindicationes Societatis lesu, ed. cit., p. 165 e sgg.; e p. 172. (2; Ed. cit. — Nella prefazione interessantissima racconta l’editore Daniele Elzeviro che, standosene addolorato per il continuo prevalere del volgare sulla lingua antica latina, ebbe un giorno la visita di un eruditissimo italiano, che portava con sè, in uno scartafaccio, le poesie latine dei migliori suoi contemporanei. Egli pensò subito di pubblicarle; e cosi ebbe origine la raccolta. — 279 — scopriamo che ben di raro quei diletti che il Ï iraboschi tanto rimprovera ai poeti latini del seicento : e cioè gli sforzi ingegnosi, le punte argute, i concettuzzi, gli equivoci freddi e ridicoli, le insulsaggini epigrammatiche. Sono certo componimenti leggeri: mottetti, epistole, e-gloghe, elegie, poemetti encomiastici, gnomici, panegirici, politici, giocosi: ma, accanto ai frivoli compianti per le cagnoline morte, stanno elegantissime descrizioni della vita rustica, ispirate quasi sempre da Virgilio, che continua ad essere, checché sentenzi il Tiraboschi, il modello più seguito e apprezzato: accanto a qualche fredda e rettorica invocazione della forza antica dell’Urbe, v’è lo scoramento per le lotte che travagliano l’Europa, per la peste che miete inesorabilmente, per l’abbiezione dell’ora presente. Particolarmente notevoli riescono le elegie nelle quali il Cesarini, stremato dalle studiose vigilie, minato da incurabili mali, descrive con accento straziante al Chiabrera, al Testi, al Ciampoli, la tristezza del suo stato. Egli solo forse osò, in un’ elegantissima satira, deridere la stoltezza di coloro che volevan riporre la stima del nome nella ostentazione della nobiltà del sangue piuttosto che nel personale valore. Ma una vera riforma negli spiriti della poesia latina tentava, proprio in quel torno, lo stesso Pontefice Urbano Vili, che pure indulgeva con vanità di mortale al desiderio della poetica gloria. Egli voleva dimostrar con la pratica doversi sbandire i vani ricordi del gentilesimo e rivolger 1’ arte dei carmi a virtuoso e religioso intento, mentre più veniva trascinata nel fango da impudichi contemporanei. Chi poteva ancor prestar fede alle tavole antiche? Chi si sarebbe sentito onesto , riferendo gli amori lascivi di Venere e di Marte? Questo, questo è il tarlo, cantava, che rode mente e cuore dei giovani più animosi! Oh! seguissero essi i nuovi dettami — 28o - e con nobili carmi combattessero le mostruose allet-tazioni! (1) Quisnam tartareis revocatam credat ab umbris Threicii precibus coniugis Euridicem? Quis ferat impuros Venerem Martemque referri Vulcani captos implicitosque dolis? Hinc Iuvenes proni in pravum , mala semina morum hauserunt animo, pestiferamque luem. Proh scelus! hanc turpi diffundunt carmine priscis deterius, fictos qui coluere Deos, nomine posthabito Christi rituque piorum dum foedis modulis flagitiosa canunt ; cultores addunt Veneri, pubemque pudicam dedecorem satagunt commaculare notis. Dirige iam dociles digitos, Iessea Propago, dum mea dextra tuo pectine pulsat ebur. Itala tu mecum Pubes cape nobile plectrum et monstrum Isacia perge fugare lyra. Per conto suo l’illustre mecenate si dava a parafrasare i luoghi più interessanti della S. Scrittura e a I (i) Maphaei 5. P. E. Card. Barberini mine Urbani PP. Vili poemata, Romae, ex typographia R. Camerae Apostolicae, 1631 : ved. il carme proemiale, senza num. di pagine, intitolato Poesis probis et piis ornata documentis primaevo decori restituenda: Chi mai per le preci del tracio consorte potrebbe creder dall’ombre inferne rivocata Euridice? Chi soffrirebbe che ancor si cantassero i sozzi Venere e Marte involti ne’ lacci di Vulcano? Indi i giovani, al male proclivi, pestifera lue contrassero col germe delle nefande usanze. Infamia! spargon questa lor tabe ben peggio che i prischi poeti veneranti gli dei bugiardi, mentre, dimenticando il nome di Cristo e l’esempio de’ pii , levano esiziali carmi con turpi vezzi, e aumentano i cultori di Venere e spingon l’onesta. gioventude a bruttarsi di vergognose macchie. O propago di lesse, mentr’io col tuo pettine tacco la cetra, guida docili ornai le dita! Con nobil plettro meco or tu dalla lira isacia, itala gioventude, cerca fugare il mostro 1 tesser vite di Santi: ma in eleganti epistole, dirette a Laurenzio Magalotti, al Cesarini, al Ciampoli, dimostrava pure come si potesse descriver egregiamente la felicità e le occupazioni della vita agreste, e anche tralasciando tutto il ciarpame mitologico. Inneggiava intanto ai virtuosi argomenti del Grillo e del Chiabrera, e si riprometteva dai poeti una poesia di gusto , non di figurazione classica. A questa sua riforma accennava appunto il Nostro, quando, nelle Pompe del Campidoglio, diceva ch’egli avea tratto « la maniera del poetare dalla Grecia, l'elocuzione dal Lazio, l’argomento dal Cielo, e con quel-1’ arte, imparata non nel Parnaso ma nel religioso oratorio, insegnò con 1’ esempio che le materie sacre eran capaci d’argomento poetico »: l’esaltava poi per aver egli « con allegorie nuove....... e premendo le vestigia d’Orazio nelle sorti del metro » formato « l’ode che non oraziana, ma barberiniana de’ dirsi »; e, facendo eco all’ intendimento e all’ insegnamento suo , aggiungeva : « Se la poesia ha perduto di riputazione e di credito, rapportisi la cagione del danno alla viltà di chi 1’ esercitò: rimanga ella intanto con l’onor suo.......; se la lordura di chi ha contaminato le carte più con la disonestà che con l’inchiostro, ha parimenti macchiata la faccia della poesia , castighisi l’iniquo poeta...... Intendano i testori delle favole oscene che debolissima è la scusa da loro addotta, in discolpa delle profanità che compongono....... Il Cardinal Barberino, se mai partì dalle lodi dei Santi, trascorse negl’insegnamenti dei costumi con tal gravità di sentenze e di concetti che la favella dei filosofi è meno significante e meno utile...... L’eleganza d’Orazio e degli altri scrittori di poesia che fiorirono nel secol d’ oro della lingua latina, restringe Maffeo Barberino nei suoi poemi. Ben parve un’ape che dai fiori più scelti cogliesse il miele ». Così pure la pen- _ 282 - savano « due, tenuti per uomini lontanissimi dall’ intendimento del vulgo in sapere », confessando « d’ aversi formato l’idea del compor nobile e sollevato nello specchio dell’ode barberiniana » (1): probabilmente il Ciam-poli e il Testi. E veniamo ora alle Silvae del Nostro, giacché quanto s’ è detto qui, sebbene fuggevolmente, sulla poesia latina del seicento, basterà a far comprendere certi speciali atteggiamenti ch’esse manifestano. Il Mascardi le aveva pronte nel 1617 ; e già dal 6 di giugno di quest’ anno venivan esse approvate per la stampa dalla Curia romana. Ma i Gesuiti, che mulinavano allora di sfrattarlo dalfOrdine, come ribelle e pernicioso , impedirono con segreti maneggi la pubblicazione, forse per timore che la fama ond’egli poteva essere onorato, avesse a lenirgli l’asprezza dell’ imminente castigo 0 a render questo, per altri rispetti, intempestivo: i censori addussero quindi il « pretesto » che le poesie erano in numero così scarso da poter malamente costituire un giusto volume. Il giovane poeta scriveva desolato all’amicissimo Molza: « Io non misuro l’opere di lettere dalla quantità e mole del volume, ma dalla qualità 0 sceltezza dei componimenti; e vorrei che, se hanno a comparire, fosse ciò presto eseguito ed in tempo che la mia giovinezza aggiunge pregio o almeno concede scusa al mio debolissimo parto » (2). Quanta ingenuità! Il volume non uscì che cinque anni appresso, come s’è detto. È in un’ edizione splendidissima, d’Anversa, col ritratto del poeta incoronato d’alloro sull’antiporta; e ci si presenta diviso in quattro parti, rispettivamente dedicate a Giuseppe Fontanella, cavaliere di S. Giacomo, al conte Camillo Molza, al conte Massimiliano Monte- (1) Pompe del Campidoglio, in Prose, ed. cit., p. 91. (2) App. I, lett. 16 giugno 1617, n. 29. — 283 — cuccoli e all’amato fratello Giovanni Mascardi. Le prime due comprendono componimenti di soggetto vario, encomiastici, narrativi, descrittivi, eroici, storico-politici; la terza di soggetto triste, in occasione di lutti altrui o di sventure sia morali che fisiche del Poeta ; la quarta di soggetto sacro. Come vari gli argomenti, vari sono i metri e i generi, incontrandovisi epigrammi in distici, poemetti in esametri, epistole, elegie, epodi, odi saffiche, alcaiche ed asclepiadee. Qual’è il valore di questa raccolta? Noi non confermeremo tutte le lodi che i contemporanei le tributarono senza restrizione (1). L’opera poetica del Nostro è da meno di quella di certi poeti ricordati più sopra, da meno anche d’ altre che in genere diverso gli usciron dalla mente fervidissima. Egli non è poeta; e ha il coraggio di dirlo. La sua poesia ha tutto l’aspetto di cosa rimorta: deriva da fonti scarse e superficiali; s’allontana dalle fresche e vitali aspirazioni della natura; non ha rapporti con la vita, il costume, la civiltà del suo tempo; dà guizzi di fantasia fiacca e frivola; dice e non intuisce; prorompe e non esalta. Ma per lui la poesia sta tutta nell’imitazione, nella forma elegante e sonora che i classici tramandano ; per lui il poeta — ripetiamo le sue stesse parole — può « arricchire coi tesori dell’arte la mendicità del soggetto che prende a descrivere » (2). Una buona metà del volume è costituita di epigrammi. Amerei crederli in gran parte, come si rivelano, eser- (1) Oltre quello che ne dicono in proposito i panegiristi e i biografi, mi sembra non trascurabile il giudizio dato nella Censura, in fondo all’edizione d’Anversa, dal famosissimo Lorenzo Beyerlinck, canonico e arciprete della cattedrale di quella città: « Poemata haec Augustini Mascardi, continentia Silvarum libros quattuor, vario cum metri tum argumentorum genere adornatos , uti a lepore et elegantia commendantur, ita etiam digna sunt quae typis concepta ad posteros transmittantur. Datum Antverp. in Seminario Episcopal., die X Octob. Anni M. DC. XXI >. (2) Arte, p. 99. N -, 284 - citazioni scolastiche di una mente aperta e precoce, ma facile ai traviamenti di moda : composizioncelle affrettate e imperfette, riesumate e sparse qua e là nel volume più tardi, per togliere quel pretesto che la censura avea da principio opposto. Attraverso l’adolescente sua fantasia prendono un simulacro di vita gli eroi e le eroine della storia biblica, greca e romana : Romolo che uccide il fratello, Fabio che temporeggia, Annibaie orbato dell’occhio, Virginio che scanna la figliuola, Veturia che parla a Coriolano, Clelia che trapassa il Tevere a nuoto, Muzio Scevola che risponde a Porsenna, Orazio che fredda la sorella durante il trionfo, Catilina che arringa i congiurati, e Porcia e Cleopatra e Semiramide. Spesso l’autore non fa che verseggiare le concioni 0 evocare le figure di Tito Livio, Dione Cassio, Maffeio, Plutarco: ma egli mira sopratutto a ottenere un effetto. Non bada tanto all’eleganza dell’espressione, alla robustezza e sonorità del ritmo, alla freschezza del pensiero, quanto al concettuzzo finale, ai contrapposti che stuzzichino la maraviglia, alle frequenti allitterazioni interne od estreme. Vi comporrà quindi sullo stesso argomento due, tre, quattro, dieci epigrammi, in ciascuno dei quali impazza, verso il fondo, uno spiritello diverso; vi foggerà, come semplice esercizio, degli epitaffi funebri per eroi che non si sa nemmeno se siano esistiti ; vi getterà scintille intorno a un nome, a un’iscrizione, a una data. Eccovi Annibaie cieco d’ un occhio, meditante sull’Alpi. Il Nostro crederà di rappresentarvi tutto un momento storico-psicologico con questi versi che fan l’effetto di spari a contraccolpo: (1) Annibai Italiae dum spectat ab Alpibus oras, mortem imperfectam, lumine cassus, obit. (1) Annibai orbatus lumine, Silvae, lib. I, ed. cit., p. 32. Mentre Annibaie guarda dall’Alpi le terre d’Italia, scemo d’un occhio, trova imperfetta morte. o di lasciarvi divinamente edificati con questi due altri soli, che contengono una freddura: (1) Ardet in Italiam , Italiam vorat Annibai hostis. Quanti emet Italiam ? carior est oculo. Così vi tratteggia 1’ ardimento di Clelia con un paradosso: (2) Thermodon taceat, vincuntur Amazones : illae multum pugnando, haec plus fugiendo potest; vi descrive la morte di Appio in mezzo alla tempesta, con uno spaventevole tropo: (3) Hinc quae praecipiti tempestas horrida nimbo increpat Ausonium Patre tonante forum, exonerat iam iam furias, frangitque minantem Appium et in Tiberim sanguinolenta ruit. Quid facies, Appi ? tonat aether, fulgurat ensis ; naufragus a proprii sanguinis imbre cades; Venne; di tal venuta dovrà però un giorno pentirsi: vinse; ma, vinto, darà le terga alfine. E vide, ma ben caro costò l’aver visto: se visto ei non avesse, forse assai più vedrebbe. (1) Ibidem. Annibai diro brama l’Italia; per essa tutt’arde. Quanto gli costa? Certo assai più d’un occhio! (2) Cloelia, Silvae, lib. I, p. 33. Taccia pur Termodonte: son vinte le Amazzoni: quelle molto posson lottando, questa ben più fuggendo. (3) Virginius Virginiam filiam interempturus, Praelegendi Livius et Dion., Silvae, lib. I, p. 35. Indi l’atra tempesta, che vien con precipite nembo fra i fulmini di Giove sopra l’ausonie plaghe, già le rabide furie disferra e sovr’Appio si frange che minaccia, e nel Tebro corre sanguinolenta. Appio che fai? Già il cielo tuona, già sfolgora il brando! Naufrago nella pioggia del sangue tuo cadrai. — 286 — vi presenta Lucrezia moritura, stiracchiandovi un contrapposto: (1) Sic pudor aequus vitae, sic vita pudori; dum cadit hic iuvenis, non cadet illa senex. E chi più ne vuole, si volga al testo, eh’ io me ne passo volentieri. Dei poemetti, parecchi sono elogistici, con intonazione epica. Marziale, saccheggiato e imitato negli epigrammi , cede ora il posto a Lucano e Stazio. Questi al loro tempo non meritano più il titolo di poeti: immaginiamoci dunque se possono riuscir poeti gl’ imitatori! Qui non manca soltanto l’ispirazione, ma persino quell’abile uso della metafora, che, nei componimenti, può talvolta darne l’apparenza. L’espressione diventa sempre più multiforme e più elevata con altri mezzi: il pensiero si diluisce intramezzato da sentenze, similitudini, epifonemi. Non s’ha poesia, s’ha dell’oratoria costretta nel numero e nel metro. Non s’ arriva ancora al barocchismo, ma si avverte una continua tensione di spirito, inteso alle onomatopeie e all’armonia riproduttiva. Il lettore è trascinato in un’ onda vorticosa di rombi e di toni elevati, si perde in ripetizioni ostinate, s’annoia in descrizioni interminabili: e giunge alla fine intronato, ma vuoto , insoddisfatto, spesso disgustato. S’ ascolti che strepito fa il Nostro per il trionfo di Luigi d’Este: (2) Audin’? Alovsium Phoebeo baccare pubes cincta canit, gladiosque rotat, vexillaque ad auras (1) Lucretia moritura, Silvae, lib. I, p. 39. Cosi uguagliò il pudore la vita e la vita il pudore: giovane cade questo, non cadrà vecchia quella. (2) Iti reditum Aloysi Estensis principis ab hostibus devictis epipom-peuticum, lib. I, p. 20: Odi? Luigi esalta, ricinta di fronda febea, la gioventude e ruota le spade e i vessilli per l’aura - 287 - explicat, irritans ad ludicra bella phalanges. Ille fugam simulat dubieque per arva recurrens nunc cadit, inde furet validus Antaeus in ausus; iamque hostes oblongo certum designat ad ictum aere (quod aequali diductum tramite, multa arte faber fudit, nitrato pulvere miles farsit) et ab tergo iam subdolus applicat ignem : fit fragor, elisas veluti cum fulgura nubes increpitant mugitque aether furibundus in orbem: hic declinata venientes eminus hasta tardat equos gressusque vetat glomerare superbos, innixus pedibus ; resonantia tympana bombos ingeminant, strepituque gemit tuba rauca sonante. Hos inter pugnae lusus lunatur in arcum mista acies, iuvenemque sinu complexa iocoso, sedula victoris vestigia Principis ambit: ast ubi lunatae tenuantur cornua pubis, incinctus lauro miles divisus utrimque prominet; adversum prospectat uterque vicissim; alternisque ferit rutilantia cantibus astra ; carmina Aloysii celebrant alterna triumphos. spiega, a finte battaglie sollecitando le schiere. Simula quei la fuga: incerto pe’ campi scorrendo, or cade ed ora infuria, qual valido Anteo, nelle imprese; già designa a colpo sicuro i nemici con lungo ferro (cui, sovra un piano cammino sospinto, con molta arte un fabbro foggiava, di nitro un guerriero farciva) ed applica furtivo da tergo la fiamma. Uno scoppio s’ode, siccome allora che il fulmine incendia le scisse nuvole e sulla terra poi l’etere mugge furente. Altri con l’abbassata labarda i giungenti trattiene dì lontano e ai superbi cavalli, sul suolo puntando, vieta il passo: dàn lunghi rimbombi i sonori timballi e rauca geme là tromba con strepito immane. Ad arco, tra quei ludi guerreschi, s’incurva la mista caterva e, rinserrando gioconda nel centro i fanciulli, del Prence vincitore le tracce sollecita attornia. Ma dove l’ali stanno più rare del campo lunato, quinci e quindi gl’invitti soldati ricinti di lauro appaiono e di fronte prospettansi gli uni con gli altri. Salgono alle stelle lucenti le alterne canzoni e con alterno metro esaltan del Prence i trionfi. — 28S — La stessa intonazione vibra nel poemetto per la laurea del Cesarini ; ma la si sente trasfusa all’argomento inadeguato dall’erudito artifizio del poeta. Una volta Virginio, cavalcando nel maneggio dell’ Istituto parmense, cadde in malo modo e si fratturò una gamba. Quest’episodio, richiamato ad elevare il carme, s’inquadra in una figurazione d’imitazione classica. La dea infernale, immagina il cantore , è sempre più invidiosa dei progressi scientifici e filosofici del giovane gentiluomo: studia, prepara i mezzi per danneggiarlo : essa stessa quella volta provoca la malaugurata caduta. Inorridisce il cielo; geme la terra; piangono le Camene. Il cavallo versa amare lagrime per l’involontaria colpa e si ritira a vita ingloriosa. Virginio, come pianta che flettendosi sotto il peso dei frutti lambe coi rami il terreno e poi risorge all’alto, si risolleva e ritorna a perlustrare col perspicace ingegno le stellate vie del firmamento: (1) Virginium sua fata trahunt, per et invia coeli aequora, per dubias nutantis marmoris undas, per ventos gelidosque imbres, lapidosaque Cauris nubila, dum rerum causas novisse latentes quaerit et ingenio rimatur iura Lycei. Haec Dea, quae Stigiis miscet liventia felle pocula, non propriis laetari nescia lucris, sensit et ingemuit laniataque brachia morsu (i) Laurea pro illuslriss. fratribus Alexandro et lirginio Caesari no, lib. I, p. 29. Segue Virginio gli alti destini, pe’ campi infrequenti del cielo, per le infide del mare agitato contrade, per l’iperboree plaghe, del Cauri sui nubili gioghi, mentre le cause cerca riposte indagar delle cose e del Liceo gli astrusi Diritti col fervido ingegno. La Dea che sullo Stige fa pompa di lividi nappi e a cui non giova de’ propri guadagni esser paga, ciò comprese e gemendo squarciò le sue braccia e coi denti — 2 8g — vipereo infecit tabo, digitumque momordit. Mox, ubi Virginius duro exercere lupato discit equum , gressusque docet glomerare superbos, adstitit et tumidi sinuosa volumina crurum fregit equi, iuvenemque ferox extendit arenâ; scilicet ausa nefas, quo purus inhorruit aether, ingemuit tellus, lacrymas fudere Camenae. Ipse etiam fletu fertur maduisse silenti maestus equus veterumque suas oblitus honorum demisisse iubas reliquumque inglorius aevum egisse. Invidiae tantum potuere sagittae! Quantum animis erroris inest! ut pondere palma flectitur et ramis felicibus oscula libat fessa solo et rursum patrias assurgit in auras ; Virginius sic pressus humi stratoque recumbens, attamen astriferos spectare propinquius orbes, et potuit dubios luris lustrare recessus, ingenio monstrante viam, quod nulla laborum exhausit facies, nulli domuere dolores, lividaque erubuit Virgo...... le infuse di vipereo veleno e le dita si morse. Non appena Virginio apprese a frenar con l’acerbo inorso il destriero e innanzi con passo superbo a guidarlo, si feimò ella e a un tratto solcò del focoso cavallo i pingui lombi e il fiero sbalzò sull’arena Virginio; scellerato ardimento, pel quale ebbe orrore la luce, gemè la terra, dièr lagrime l’alte Camene! E fama che pel duolo di tacito pianto il cavallo s irrorasse e, oblìando l’antiche sue glorie, spogliasse ogni pompa e ignorato traesse i restanti suoi giorni. Tant’ebber della cupa invidia poter le saette! Ma il giudicio spesso erra. Qual palma che stanca si piega per eccessivo pondo, baciando coi fertili rami il suolo e poi di nuovo s’aderge nell’aure native; \ irginio al suolo costretto, di nuovo sorgendo, potè scrutar più appresso del cielo le astrifere moli e perlustrar dell’alto Diritto gl’incerti recessi, col suo fervido ingegno, che alcuna fatica giammai potè franger ne alcuno domar de’ più gravi dolori. E ne arrossi la bieca fanciulla......... 1 ei 1 accidente occorso al Cesarini, ved. la cit. vita del Favoriti, pagina 423. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. IQ ■ — 2 go — L’ argomento storico , che avrebbe opportunamente trovato luogo in questo genere di componimenti, non è mai neppure sfiorato : soltanto quello politico del momento inspira o meglio invoglia a compor versi. Si osservi. La pace firmata nel giugno del 1615, dopo che Carlo Emanuele vedea frustrate le più gagliarde speranze della sua vita di monarca, quella pace che è un’ onta incancellabile per gli altri prìncipi italiani, gelosi fra loro e vili tutti innanzi alla Spagna, vien dal Nostro esaltata in centinaia d’esametri. Solo il carattere della sua poesia lo salva dall’ ignominia dell’ occasione. Egli non canta quella pace, ma la pace in genere. Il poemetto non offre accenni cronologici, non ricorda personaggi, non descrive fatti d’armi. Il poeta rappresenta l’Italia in lotta come una donna straziata dal dolore, coi capelli sciolti, le gote infiammate, i fianchi ignudi. La misera invoca gemebonda il soccorso degli Dei (1): Saevior ut bello Insubres Discordia turmas explicuit, rectaeque acies, atque agmen aperto effusum stetit in campo dumque aere renident arva repercusso et ferali luce coruscant, Italia ancipiti dudum vexata tumultu, exitio propior, iam iamque futura suorum praeda fremit votisque Deum gemebunda fatigat, ventilat errantem per eburnea colla capillum, nativum qui sponte fluens temerarius aurum dissipat et vittas sine lege in terga refundit (i) Irene sive ds pace Italiae constituta, lib. I, p. 4* Poi che l’insubri torme chiamò la Discordia a battaglia e in campo aperto stette l’esercito immenso e de’ bronzi percossi e di bagliori mortiferi splendon le zolle, l’Italia esacerbata da doppio recente tumulto, già prossima all’esizio, già preda agli stessi suoi figli, freme e con mesti voti gli Dei gemebonda scongiura. Sull'eburneo collo volteggian gli erranti capelli che liberi fluendo disperdono l’oro nativo - 2Ç1 - sertaque vix patitur vario bacchata pyropo : gemma oculis iam prona tremit, iamque innatat altus in vultu dolor et faciem demittit honestam ; ignescunt sine luce genae, vix attrahit auras pectus, in exhausto vix et suspiria corde invenit, exitium deploratura supremum: longum syrma trahit, tragici monumenta doloris, sed niveum violata sinum, nudata lacertos : qualis ubi Caesar parvi Rubiconis ad undas, cognati ductor sceleris bella, impia bella, et consanguineos praevertit mente triumphos, ingens visa Duci patriae trepidantis imago fertur et arcano gemitu permista locuta. Eccoci dunque subito in piena rettorica. II.passo è, riguardo alla forma, pieno di barbagli e di toni robusti. La similitudine è ripetuta quasi alla lettera da quella notissima di Lucano nella Farsaglia (1). Si capisce che colpevolmente e a tergo senz’ordine lascian le bende e sorreggono a pena la pompa del fulgido serto. Già treman le recline gemmate pupille, già un alto dolor s’effonde in volto piegando le oneste sembianze; s’infiammali senza luce le gote; a fatica respira >1 petto; e nell’esausto suo cuore a fatica ella trova sospiri, lagrimando l’estremo imminente flagello. Quale a Cesare è fama che sul Rubicone apparisse, mentre al fraterno scempio le schiere guidava e nel cuore empie guerre e 1 trionfi volgea consanguinei, grande della trepida Patria l’imago e gemendo parlasse. comedi nn'1’ VV' \&5 6 SgS’ Agost,no ha tolto senza troppi scrupoli, sni bra,,°« Iam gelidas Caesar cursu superaverat Alpes; mgentesque animo motus, bellumque futurum ceperat: ut ventum et parvi Rubiconis ad undas, ' ingens visa duci patriae trepidantis imago, clara per obscuram vultu maestissima noctem, turrigeros canos effundens vertice crines caesarie lacera, nudisque adstare lacertis’ et gemitu permixta loqui. il cantore, non avendo cosa da potere o voler dire intorno al suo soggetto particolare, dovendo lavorar di concetto e di fantasia anziché di sentimento e d’intuizione , si consacri tutto, non appena plasmata idealmente la trama d’ una rappresentazione epica tradizionale, alla espressione artistica di questa; e nel lavorio esteriore si compiaccia seco stesso, si elevi, s’infiammi. Quanto può darvi di bello sotto questo rispetto , tanto vi dà. Egli entra così nello stato particolare in cui pure ha da trovarsi per metà o per tre quarti, cioè per quel che spetta alla forma, il vero poeta, rappresentatore invece di fatti che hanno attinenza alla vita, interprete del sentimento universale, artefice di figurazioni che sono opera di una fantasia capace di penetrare nelle cose e non contenta di trascorrervi sopra genericamente. Ed egli, il Nostro, ha l’illusione quasi piena della poesia: illusione che non possiamo aver noi, perchè siam privi del piacere riflesso dell’ elaborazione artistica, perchè scorriamo i suoi versi aspettando un alito di vita intimo e fecondo che non vien mai. Segue un lungo discorso, col quale l’Italia mostra le sue piaghe alla Pace e la scongiura d’aiuto. La Dea interrompe i suoi ozi tranquilli, volge lo sguardo all’afflitta , si commuove e incarica un’ ancella, la Pietà, di rappacificare i combattenti e di respingere Marte verso le rive della Tracia, ove gli è concesso perenne potere. Il viaggio della celeste messaggera attraverso la costellazione è descritto coi più smaglianti colori e ricorda quello di Fetonte nel secondo delle Metamorfosi. Appena giunge, il teatro della mischia è liberato in un baleno da mille deità turbolente che lo sconvolgono: il Furore, la Rabbia, l’ira. Le armi stesse cadono di mano ai bellicosi: i cavalli frenano il corso: le trombe mandano suoni pacati: i tamburi taccion del tutto. E il poeta — 293 — a questo punto leva una similitudine che ci avvia sen-z altro alla fonte diretta di tutto l’episodio: alla Tebaide di Stazio : (1) Haud aliter, septemgeminas cum proelia Thebas fraternis pressere odiis et moenia dulci structa lyrâ, fremitu quatefecit miles amaro. Marte, arditamente affrontato dalla fanciulla, si ritira imprecando e giurando di portar lo scompiglio fra le torme gotiche e augurandosi che l’Italia abbia a languire nel più imbelle torpore. Le rappresentazioni episodiche sono dunque prive d’ ogni pregio d’inventiva, perchè architettate su altre della classicità decadente, di cui si sente l’eCo o si ri-conoscon tratti ad ogni istante. Lo stile, la lingua, i colori rettorici, rivelano nell’artefice la buona preparazione scolastica nell’esercizio di compor versi latini, un certo gusto, una buona volontà a tutta prova: ma non bastano naturalmente a render 1’ opera vitale. Essa ci lascia indifferenti. Il nome d’Italia, continuamente ripetuto, non suona nulla nel cuor nostro: sembra una deità anch’ esso, come la Pace e la Pietà, un fronzolo mitologico. Solo i versi di chiusa, ove il cantore inneggia all’esito felice e incuora i popoli a più salutari occupazioni, paion degni ed efficaci (2) : Ite ergo Insubres, facilis sub sideris auro felices agitate dies: iam falce colonus securos per agros flaventem demetat annum et responsurae committat semina terrae. (1) Come quando le guerre fraterne sconvolsero l’alta settigeniina Tebe o scosser le mura costrutte per la soave lira, con fremito orrendo i guerrieri. (2) Insubri, dunque andate; al raggio di stella benigna traete di felici ; ornai con la falce il colono mieta per i tranquilli suoi campi le spighe dorate e commetta alla zolla feconda le nuove sementi. — 294 — Italiae gemitus, lacrymaeque per ora caducae iam sileant; trepidae quondam ad certamina Musae, et latebris taciturnae altis, in carmina plectrum sollicitent priscumque melos. Pax candida terras iam ferruginea caecas caligine inaurat, et Pacem inclamant mortalia pectora, pacem. E così finisce il poemetto più lungo della raccolta. Gli stessi concetti, le stesse figurazioni, la stessa retto-rica ricompaiono nell’ode sulla Pace, indirizzata al Cardinale Luigi Capponi nell’occasione della sua ambasceria per conto del Papa. Nelle elegie, che occupano quasi tutto il terzo libro, scopriamo subito gran parte dei vizi peculiari agli epigrammi. Non voglio ripetermi: mi basti rilevare in quella composta per la morte di Bernardino Semprevivo , un gesuita poeta e amicissimo del Nostro, 1 seguenti versi, nei quali il nome del defunto è palleggiato, poco rispettosamente davvero, con varie torme e funzioni: Hoc etiam sibi sic voluit Mors saeva licere ut sempervivas rumperet atra dies? Quis neget aethereis laurus succumbere flammis dum ferus irato Iuppiter igne tonat, quando etiam hoc crines viduarunt fulmina lauru et sempervivus igne flagravit honor? Scilicet ut nobis, tibi Sempervive, peristi, de sempervivo vertice vita fugit. Sic sempervivis ? proh nomina vana, peristi ! Sed sempervivi causa doloris eris (i). Taccian lamenti ormai e pianti pe’ lidi d’Italia, e per la Musa un tempo sì trepida a belliche gare e taciturna in alti recessi, consacrino il plettro ne’ carmi e nell’antica melòde. La candida Pace, ecco, inaura le terre per cupa caligine cieche; e i petti dei mortali inneggiano tutti alla Pace. (i) In obitu Bernardini Sempervivi e Societate le su , Poetae et amici — 295 —- Degne di considerazione, per uno speciale intendimento che le ha suggerite, riescono piuttosto le tre poste a capo del secondo libro e nelle quali il poeta fa lamentare l’abbandonata Didone della sua disavventura amorosa (1). Dedicandole all’ ottimo fra gli amici, al Molza, egli avverte: « Intelligent, opinor, qui obstinate negabant, in argumento lubrico illo quidem ac periculoso, poetam moribus non improbum modeste posse versari : ac nihil esse tam turpe quod, ut ait ille, boni viri prudentia non santescat ». Ha voluto dunque santificare un argomento per se stesso lubrico: e in qual modo? Rievocato l’inganno di Teseo e le dolci promesse di Enea, Didone, che ha deciso il suicidio, s’indugia a rimpiangere con numerosi versi il fallo compiuto e implora da Giove il castigo sulle fuggenti navi troiane. La seconda elegia è tutta una glorificazione della pudicizia , santa, trionfante. Nel preambolo al Molza egli accenna alle opposizioni mossegli probabilmente da coloro che non ritenevano gli argomenti antichi suscettibili d’esser trattati con vantaggio per i costumi: egli vuole salvare, come suol dirsi, capra e cavoli; conciliare la tendenza umanistica e lo spirito riformatore degli argomenti poetici nel senso religioso. Ci dà quindi una Didone falsissima sia rispetto all’ età antica che alla suavissimi, extemporalis eiulalio, Silvae, lib. Ili , p. 154. Non mi basta 1’ animo di tentare una versione metrica di tal merce. Eccone il significato : « E tanto ebbe ardimento la crudele Morte da infrangere il corso di una vita sempreviva? Chi dirà che l’alloro non soccomba alla folgore, quando il fiero Giove con ira la scaglia, dacché la folgore ha vedovato dell’alloro questa chioma e un semprevivo onore s’è incenerito? Certo: come tu a noi, a te stesso, o Semprevivo, peristi; cosi fugge la vita da una sommità sempreviva...... Così dunque semprevivi? oh vano nome! Sei morto I Ma sarai sempre causa di dolore semprevivo ». (1) Erinnos sive Didonis proditae ab Aenea conquestio, lib. II, p. 61 e sgg. — 296 — sua: una Didone che non può stare nel tempio pagano nè in quello cristiano; una Didone che si suicida, e ciò fa per 1’ oltraggiato pudore, anziché per il dolore dell'abbandono; una Didone che somiglia ad una Lucrezia, ma che non è Lucrezia, perchè ha ceduto cosciente e facile ad Enea; una Didone-di nuova specie: contrita, non affranta ; romantica, non furibonda. Se il cantore avesse chiamato la sua eroina con un nome qualunque, l’avesse fatta abbandonare da un altro personaggio qualunque e 1’ avesse collocata in piena era volgare, tutto sarebbe stato accettabile. Ma la regina di Cartagine, quella che, secondo la leggenda e il poema virgiliano, fu abbandonata da Enea, ci appare, cosi declamante, un vero mostro, una stonatura artistica, qualcosa che ripugna. Nel poema di Virgilio essa rappresenta quanto v’è di più pagano: è ivi la riproduzione in arte di ciò che in realtà è forse stata Saffo. Se la si ricorda e la si evoca, bisogna rispettarne il carattere. Meglio ancora è lasciarla stare. Una conciliazione di tal genere è impossibile; perchè riesce un anacronismo morale e letterario. Preferisco mille volte la poesia del Cardinale Maffeo Barberini, franca, netta, decisa. Quand’ egli nei componimenti elegiaci dimentica affatto il suo tempo e vive e s’esprime come un romano di sedici secoli innanzi, allora può davvero mettere in mostra con frutto il suo ingegno. Di forma pura e classica, sono quelli sulle stagioni, che contengono invocazioni a deità agresti, descrizioni di messi e di vendemmie , inni alla fecondità della terra, esposizioni di miti, rappresentazioni di episodi pagani. E qui egli ripete dai poeti dell’età aurea: anzi vi si sente fin troppo il Virgilio delle Georgiche; troppo spesso vi s’incontrano brani con versi interi 0 emistichi di Ovidio e Tibullo. Manco male in questi casi ! Ma il poeta crede che — 297 — la maestà del pensiero latino possa ancora imporsi, a-limentare i cuori e le menti, servire quasi di eterna allegoria a tutto. Come nelle elegie per Didone egli avea cercato di dare vita e spirito moderno, senza battere una via giusta, a un intangibile simulacro della fantasia pagana, lo vediamo altrove, con forme e modi dell’antichità, rappresentare avvenimenti contemporanei. Il procedimento è inverso, ma le ragioni che lo suggeriscono non mutano. Quando muore Margherita d’Austria, regina di Spagna, egli medita e scrive un’ egloga (1) sullo stampo delle Bucoliche di Virgilio: una vera e propria egloga, che avrebbe potuto benissimo esser stata scritta per la moglie di Ottaviano. Licida vede Coridone in lagrime e gli chiede la causa di un dolore tanto palese. Quegli risponde esser morta Margherita « non frigidus ardor Amyntae ». Allora Licida invita il compagno a riferire il desolato canto di Aminta; egli ripeterà quello di Menalca; e intanto le greggi staran raccolte in una tepida spelonca. Aminta , com’ è facile intravedere, sarebbe lo sposo, il re di Spagna ; Menalca, il duca di Modena. I versi, per se stessi, sono bene imitati e risentono di quella tranquillità ritmica che pur Virgilio, prendendo a modello Teocrito, avea trasfuso nei suoi carmi: le immagini sono semplici e a un tempo espressive: il linguaggio forbitissimo, sempre. Ma il genere del componimento stuona piti che mai. Ognun sa che le stesse egloghe virgiliane appaiono artificiose per l’irrealismo che vi si rileva, dell’ambiente e delle persone; per il difetto continuo di quella spontaneità la quale trovasi invece negl’idilli di Teocrito, perchè perfettamente corrispondenti alle loro condizioni d’origine. Che dire dunque d’un’egloga rifatta sulla virgiliana, dopo trascorsi tanti (i) In obitu Mariae Austriacae Hispaniarum etc. reginae. Egloga, lib. Ili, p. 122. secoli, mutati tanti costumi ; trasformati i gusti, dimenticata quasi, in poesia, la materna favella? Che altro può essere se non un esercizio rettorico? Non è ridicola la rappresentazione che il Nostro vi fa dei due sovrani, come di pastori conducenti al pascolo le greggi e modulanti la zampogna arcadica? Vera e sentita poesia contengono solo le elegie in forma d’ epistola. Si capisce : il poeta vi narra i suoi casi sventurati, vi riflette le sue tristezze, vi descrive i suoi mali fisici; e non può riuscir che sincero. Anche in esse però la formula rettorica gli prende talvolta la mano. Nell’ epistola al Galluzzi (1), il poeta, accennando allo squassarsi del petto per i frequenti colpi di tosse, ricorre a comparazioni vane e gonfie, togliendo i concetti alla descrizione della tempesta che fa Virgilio nel primo dell 'Eneide: impiega due distici per darvi uno scoppio di tuono, altri due per raffigurare la lotta di opposti venti che voglion prorompere da uno strettissimo varco; e poi, non contento, prende a rappresentarvi il dolore trionfante, seduto come un tiranno sul trono, con lo scettro in pugno, la rabbia nel volto, inteso a dar ordini feroci, a governar tutta la sua misera vita. Bella anche parmi quella indirizzata allo Stefonio, ove ricorda l’opera drammatica del venerando maestro e ne rievoca i personaggi, finché, obliando se stesso e l’ora presente, rivive tutto con loro, fra le loro imprese amorose e i loro discorsi. La poesia sacra raccolta nel quarto libro, non ha voce o tòno particolare. Le declamazioni della fanciulla di Iefte, che rimpiange la perduta giovinezza, ci rintronano all’orecchio non dissimili da quelle di Didone: il carme alla Beatissima Vergine, col quale il Nostro de- fi) Ved. a p. 48 del presente lavoro. — 2Q9 — scrive la sua malattia ai compagni di religione, ha dei tratti interi che ritornano , modificati sol nella forma, nell’elegia al Galluzzi. Manca qui il fervore religioso, e la prolissità dell’ elemento comparativo , l’interminabile ritornello di versi uguali parafrasati su passi biblici, le immagini viete e fiacche che vi ricorrono, rendono questi componimenti ancor più freddi e pesanti. Nè la mitologia v’è del tutto proscritta; chè accanto ai nomi di Gesù e della Vergine, suonano quelli di Giove, Febo, Marte, Cupido ; e il cielo è quasi sempre chiamato O-limpo e l’inferno Tartaro. Per non fermarci più a lungo su questo lavoro giovanile del Nostro, conchiuderemo che i difetti rilevativi in parte dipendono dall’idea generale ch’egli avea della poesia, in parte dalle condizioni in cui venne a trovai si. La poesia, secondo lui, dovea essere tutta imitata. Ora l’imitazione che praticò, è davvero delle più false e vane, giacché non rivolta a togliere, per dirla con Dante, il bello siile degli antichi, ma a riprodurre pedissequamente il concetto e la veste dell’opera loro. Il Mascardi poeta, a noi e a chiunque altro, non può fare che 1 impressione di un uomo il quale sia stato mosso a scriver versi dalla lettura recente o dalle reminiscenze dei classici. E in verità egli non riesce mai a vedere nulla, attraverso il modello: vi si ferma su e se ne soddisla. Un’imitazione siffatta può esser utile nella scuola, portata al di fuori, stanca e disgusta. Quando poi egli vien meno alla tradizione, non lo fa con decisione. Ne risultano quindi quelle miscele, quegl’ibridismi, quegli anaci o-nismi ridicoli e abortivi, che abbiam notato: pei sino della poesia a tesi, quanto cioè vi può essere di più contradditorio nei termini. Ma il giudice più severo e più giusto delle Silva e fu il Mascardi stesso, che dichiarò di non essersi mai — 300 — sentito poeta. E un bel giorno, poiché le Muse eran restie a favorirlo, egli le allontanò da sè: decise allora di dedicarsi tutto alla teologia e alla scienza. Compose un carme ancora, per dichiarare il suo proposito. Diceva fra l’altro (1): Abscede, Clio : iam Sapientia severiori flammea cyclade castigat aures, et morantem sancto animum stimulo fatigat. Satis dolosi naufragium bibi perenne fontis, lustraque flumine iam quinque lamentor loquaci obruta, delicias Iuventae. Absurgo, sanctum mutor in alitem : tu Virgo caecum si expedias iter, regasque per nubem volatum, plectra, lyrae, citharae, valete. Proprio 1’ultimo non fu, perchè l’epistola al Galluzzi la si deve ritenere del 1621 o posteriore. In ogni modo pochi altri ne compose. Meglio, meglio assai così! (i) Relidis Musarum studiis theologiam vovet, to. IV, p. 200. Clio, t’allontana! Già con sua flammea veste più austera l’orecchio pungemi la scienza e l’animo tardo già con stimolo santo fatica. Bevvi abbastanza dell’ingannevole fonte il perenne naufragio : or dolgomi dei cinque miei lustri trascorsi, giovenile diletto, in quisquilie. Assurgo e in santo spiro già volgomi; se tu la cieca via m’apri, o Vergine, e reggi il mio volo nell’alto, cetra, plettro, lira, io vi saluto! CAPITOLO III. L’ ELOQUENZA LATINA E VOLGARE Lodi dei contemporanei per la prosa oratoria di Agostino. — Vanto eh’ egli s’attribuisce d’aver pubblicato per primo delle dicerie accademiche in volgare. — Efficacia del suo esempio. — Generi delle dicerie. La questione della lingua nel seicento e la lingua nelle prose d’Agostino. Lo stile dimostrativo delle prime orazioni. — L’ elemento erudito in esse. Cause del loro secentizzare. — Giudizi d’Agostino sulle prime sue prose. — Stile spezzato e stile classicheggiante. — Gli argomenti delle orazioni. I discorsi morali sulla Tavola di Cebete Tebano. — Ossequenza d’Agostino ad Aristotele: suoi giudizi su Platone. — Le dottrine scientifiche. La lettera a Claudio Achillini intorno all’essenza della peste. — Contro il Galilei. — Le dissertazioni scolastiche sulle perturbazioni psichiche. — Le prolusioni di etica. — Caratteristiche generali della prosa oratoria di Agostino. ERiTo indistintamente riconosciutogli dai biografi e dai critici antichi, è quello di aver rinnovato l’eloquenza italiana. Nell’ « esercizio di quest’arte » egli vien sempre chiamato primo, insuperabile, principe, massimo: la sua prosa passa per unica e dà il nome a tutto un novum genus mascardio nomine. Un trattatista, poco dopo la sua morte, invita i contemporanei ad imitarlo, se sono « ad mirabilia audiendi....... ardentes » (1). Ma non solo i biografi e i critici, con a capo 1’ Eritreo e l’Allacci, convengono nel lodargli la « novità dell’etrusco sermone »: egli stesso, negli ultimi (i) Antonio Rondoni, app. Allacci, Apes, ed. cit., p. 6S. V — 302 — anni della vita, si rivendicava questo primato rispetto ai discorsi accademici, scrivendo: « il primo fui io a ridurre in lingua nastra le forme delle accademiche dicerie , perchè nel 1622 furono raccolte in libro e pubblicate le mie scritture, che già molti anni innanzi andavano in penna; onde non ho forse avuto chi m’abbia segnato col suo esempio la via se non Plutarco e Massimo Tirio, all’ idea dei quali studiato mi sono di formare i miei discorsi accademici; come che nelle orazioni la maestà dell’ antica eloquenza mi sia proposto per unico e non errante esemplare » (1). E 1’ efficacia esercitata poi dal suo esempio fu tale da invogliare altri parecchi, che appartenevano alle accademie degli Addormentati e degli Umoristi, a far gemere i torchi di tutte le loro accademiche quisquilie. Se il Nostro dunque non contribuì proprio ad uno speciale indirizzo delle lettere italiane — come hanno detto talvolta i suoi ammiratori — nella prima metà del seicento, certo promosse, divulgò, fece piacere e tentare e imitare da altri innumeri un genere letterario insolito a figurar per le stampe. Egli è da considerarsi come uno di quegli uomini che, sopraggiunti in terreno già preparato ad accogliere una moda, quasi inconsciamente la iniziano e si trovano in breve tempo sopra un piedestallo di notorietà, il quale pare vada ogni giorno più innalzandosi. Le circostanze, le occasioni, le ragioni perchè ciò accadesse e perchè lui piuttosto che altri potesse farlo accadere, ho già cercato di rilevarle ed esporle nel corso della biografia. Abbia poi giovato o nociuto , è un’ altra questione , che anche vedremo di definire. In ogni modo, comunque abbia egli a sembrarci, sia degno di lode sia di biasimo, merita d’esser (i) Arte, p. 466. — 303 — conosciuto e studiato, non meno per tale rispetto che per altri , in quel tanto indagato e discusso seicento, nella cui vita letteraria assume una parte così attiva e feconda. Non siano perciò discare queste pagine riassuntive ch’io qui vergo intorno alla sua operosità oratoria e didattica , dopo una lettura davvero poco attraente di polverosi dimenticati volumi. Le sue orazioni volgari sono, in ordine di tempo, funebri , critiche, panegiriche, accademiche. Considereremo questa produzione prosastica riguardo alla lingua, allo stile, alla testura, agli argomenti: e per questi ultimi poi non trascureremo le prolusioni alla Sapienza. Non mancano, nel secolo XVII, scrittori che si affannino a dare delle norme per la lingua. Il campo è diviso in due schiere: alcuni ne sostengono 1 italianità , altri la fiorentinità (1). Il Mascardi non pronuncia in proposito giudizi recisi: egli scrive in italiano e non esclude che si possa pur usare con onore e profitto la lingua fiorentina : per conto suo si scusa dicendo: « Ho scritto in italiano perchè la lingua puramente toscana io non sono obbligato a saperla. I miei natali, la mia educazione per ragione d’idioma tutt’ altra cosa m insegnano che i quinci e i quindi. Onde, se qualcuno desiderasse maggior pulitezza di dire, ho fatto lasciar margine assai capace, dove, con l’aiuto del vocabolario della Crusca e delle regole del Bembo, ognuno potrà notar ciò che gli verrà in grado, e se m’ arriveranno poscia alle mani le postille di qualche valent’uomo, me ne profitterò, perchè imparo di buona voglia da tutti » (2). In verità egli dovea però sentirsi nemico dichiarato del purismo. Quando uscirono pubblicate alcune delle prime (1) Foffano, op. cit., p. 289. (2) Prefazioni alle Orazioni del 1622 e alle Prose vulgari. Ved. Atte, P. 252. — 304 — orazioni, si stizzì assai di trovarvi dentro, in luogo delle sue, certe parole « soverchiamente toscane » , e finiva per confessare che le sfuggiva « a bello studio » (1). Anche in tal caso, si mostrava di spiriti men gretti che non la maggior parte dei suoi contemporanei. La ricerca minuta, paziente, schifiltosa delle parole più scelte avrebbe danneggiato, egli pensava, la chiarezza del suo dire, si sarebbe male adattata alla sua fecondità: la lingua dovea comparire a un tempo col pensiero, di getto, non per elaborazione posteriore: fiorentina per i fiorentini; italiana per gli altri. Rispetto allo stile delle orazioni, inteso in senso lato, il Nostro, diciamolo subito, è un secentista: abbonda cioè di tutte quelle peculiarità che caratterizzano gli scritti viziosi del secolo. Il fatto appar naturale, dacché in questo genere, più che negli altri, più che nella poesia stessa, si cercano argomenti futilissimi, si vuol maravigliare , si tende all’ applauso : e già ne tenemmo parola. Sarei anzi tentato a riporre la frequenza dei trattenimenti accademici fra le cause che direttamente favorirono e propagarono il mal gusto. Certe malattie si hanno per contagio. Nelle adunanze del tempo convenivano tutti gli uomini che si occupavano di lettere: ciò che inevitabilmente fermentava là entro, veniva poi poi tato al di fuori: il male di endemico diventava epidemico. Per guarire, non v’era che un mezzo: cambiar aria. Il giorno in cui non si parlava più dalla cattedra innanzi alle dame e ai gentiluomini di Corte, ma dalle pagine di un libro che non fosse una raccolta di saggi (i) App. I, lett. 9 luglio 1616, n. 12. Questa italianità della lingua sua diede occasione al Salvini di postillare un esemplare delle Prose vulgari, che conservasi tra i mss. della Riccardiana. Non crediamo opportuno di esaminar qui tali postille, ben essendo chiaro il concetto del nostro autore. — 305 — accademici; il giorno in cui s’abbandonavano le materie stupende e stupide, destinate a far effetto, ma si sceglievano argomenti per se stessi utili e fecondi, destinati ad ammaestrare; allora dalla penna di quegli stessi scrittori, che più s’eran bruttati del vezzo accademico, uscivano opere con stile sensato e misurato, rimaste vitali, ancor oggi ricercate e studiate. Un esempio dei più chiari l’offre il Nostro. Egli che secentizzò a tutto potere nelle orazioni, riprovò invece, nei discorsi riguardanti lo scrivere prosastico e poetico del suo tempo e composti negli anni stessi, tutte le ampollosità, le ricercatezze, le prolissità del tempo ; e le riprovò, in quell’occasione, senza cadervi molto, come vedremo, perchè tali discorsi erano originariamente delle lunghe epistole indirizzate a letterati suoi amici. Chi scorre infine il trattato deWArte istorica, opera didattica e grave, raramente incontra qualcuno dei difetti accennati. Avverte il Nostro ancora, nella prefazione alle sue prose : « Lo stile sarà vario, ma ti ricordo che le orazioni sono del genere dimostrativo, nel quale così Aristotile come l’Alicarnasseo ama la verità » (1). Tre generi infatti comprendeva la rettorica del maestro infallibile : il giudiziale, il deliberativo e il dimostrativo, u-sabili secondo le occasioni. Ma che altro poteva esaltare il Nostro, quando avesse dovuto, per un incarico improvviso , fare il panegirico di una principessa mai conosciuta , se non dei concetti vaghi e generali sulla bontà, l’onestà, la magnanimità, e così via? E che mai dimostrare o mostrare nello sviluppo di una tesi paradossale, o nelle declamazioni poste in bocca a Zenobia, regina dei Palmireni, e alle sue figliuole? (2). In difetto (1) Ved. quanto dice in proposito anche in Arte, p. 315. (2) Prose vulg. , ed. cit. , p. 211 e sgg. Questo soggetto inspirato e Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. 20 di pensiero e di sentimento, doveva ricorrere ai mezzi oratorii, « a quei bollori di cervello che suggeriscono massime curiose e orazioni sottili », alle amplificazioni d’ogni genere e d’ogni grado. La metafora è il principale di questi mezzi: non la metafora parca, interessante, opportuna ; ma quella sbardellata, vana, intempestiva. Non si usa di questo mezzo , se ne abusa ; e l’abuso sì manifesta in qualità e in quantità. Colgo a caso qualche esempio. Ecco che cosa faceva la virtuosa Virginia Duchessa di Modena: « geometrico compasso, fermava 1’ una punta sempre immobile nel centro delle divine consolazioni, movendo l’altra nella circonferenza degli umani come che molto onesti diporti » (1). Doveva il Nostro toccar della Corte? L’immagine della nave sbattuta dal mare in tempesta fra scogli irti e con approdo irraggiungibile, era oramai stantìa. Nel numero grandissimo delle peregrine che ve ne dà, trovasi questa: « È la Corte in guisa d’un bellissimo libro legato in oro e affibbiato d’argento: lo splendore di quei metalli sì lusinghieri alletta, per mezzo dell’occhio, il cuore, ma, nell’aprirsi del libro, si leggono mille tragici avvenimenti: gl’incesti d’Edipo, le crudeltà dei fratelli Pelo- pidi, le furie d’Oreste.......» (2). L’Accademia poi è « una ben guarnita armeria: in essa trova ciascuno armi al suo stato dicevoli e per difendersi da’ colpi dell’avversa fortuna e per combatter contro la ribellione degli affetti. E una drogheria doviziosa delle più fine merci dell’ O- alimentato dalla vita che di Zenobia avea scritto Trebellone, compare più volte nei discorsi delle accademie (ved. Aprosio, Grillaia, ed. cit., pagina 185). Anche il Testi vi ricorse nella tragedia intitolata Arsinda e lasciata incompiuta. Il Mascardi parla delle virtù di Zenobia anche in Arte, a p. 191. (1) Prose vulgari, p. 118. (2) Della giudiziosa congiunzione dell’Accademia e della Corte , Discorsi accademici, dise. I, p. 78. — 307 — riente, di cui altre servono a dilettare, altre a mantenere la salute, altre a risanar le parti offese dell’animo. È un convito più lauto di quanti ne fosser apprestati nel-l’Apolline di Lucullo, poiché, venendo ciascuno, secondo l’uso antico, col proprio simbolo, s’empie di varii e tutti delicati cibi le tavole.......; è un dovizioso mercato di virtù, dove 1’ uno permuta con 1' altro le merci dell’ intelletto e sì come da tutti riceve, di tutti diventa più ricco » (1). E basti. Immaginiamoci che due, tre, quattro, dieci, di queste metafore s’incalzino ad ogni tratto dell’orazione, che si compenetrino 1’ una nell’ altra , che si sviluppino e s’espandano multiple, gonfie, iridescenti, e comprenderemo subito quanta soffocazione ne derivi sul concetto dominante; come spesso, non solo il lettore, ma l’autore stesso possa perdere il filo del discorso con attribuzione a figure o a membri secondari di ciò che dovrebbe essere il nocciolo della questione, o viceversa con attribuzione a interi gruppi metaforici di osservazioncelle subordinate; a quali illazioni infine si arrivi, discordi, insulse, inopinate, per siffatte vie. D’ altra parte la povertà degli argomenti, il loro genere, la loro occasione, spiegano le contraddizioni esistenti fra la teoria e 1’ o-pera dell’oratore. È impossibile supporre che questi non riconoscesse la falsità e 1’ eccesso di siffatte metafore, che in cuor suo non se le rimproverasse a quel modo che ne rimproverava di consimili, e verso gli stessi anni, ai contemporanei, nei suoi scritti critici. Ma tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare, dice il proverbio. E succedeva delle metafore come succede di tante altre cose nella vita, che si vorrebbero evitare e per necessità invece si praticano. L’argomento era povero, freddo, (i) Che gli esercizi di lettere sono in Corte non pur dicevoli, ma necessari; Prose, p. 6. — 3o8 — infecondo, nuovo, paradossale? Appunto per questo bisognava riempirlo , e magari di stoppa : riscaldarlo , e magari a bagnomaria. E le metafore uscivan così fuori: sovrabbondanti, perchè dovevano dare la necessaria lunghezza al discorso ; ingegnose, perchè dovevano interessare; strabocchevoli, perchè dovevano abbagliare. E il procedimento piaceva; veniva lodato, esaltato, imitato. E si giuocava a chi le sballava più grosse. E si finì per acquistare la convinzione che quella era la via più giusta e opportuna ; e, quando si arrivò alla trattatistica dell’ oratoria, si prescrissero o si compatirono o si giustificarono i « bollori d’ingegno »; e si raccolsero esempi, e se ne sistemarono delle norme. Tutto ciò naturalmente avveniva, perchè l’ambiente era più che favorevole, perchè il cosidetto secentismo, sui primi del secolo, lo si respirava quasi nell’aria. Altro elemento ben cospicuo nell’opera del Nostro è l’erudizione; l’erudizione che serve a convalidare una sentenza iniziale e si manifesta con citazioni testuali del passo o con riassunti di aneddoti antichi, di massime, di argomentazioni. Anche in questo elemento troviamo dismisura, dislegazione, scompostezza. È curioso notare che 1’ erudizione così densa generasse interesse e diletto, fosse gustata, apprezzata, invidiata. Ritornare alla citazione erudita, all’aneddoto classico, dopo essersi indugiati sopra i membri di un sillogismo o di un sorite, era « un rifarsi da capo con discorso più dilettevole » (1). Pubblicando i discorsi sulla Tavola di Ce-bete Tebano, che esamineremo fra poco , avvertiva il Mascardi: « Alcuni (discorsi) sono intessuti d’erudizione non così piana ed aperta, ma se ciò fu a me faticoso in comporli, non sarà forse altrui dispiacevole in leg- (i) Dell’unità della favola dramatica; Prose, p. 51-. — 309 — gerii ». Insisto su questo carattere, perchè dall’erudizione venivano altre falsità all’ orazione. Intanto non serviva a nulla. Tutti quei nomi e tutte quelle sentenze di poeti, retori, storici, filosofanti, dovevano riddare confusamente nella memoria degli uditori, senza costrutto, a meno che tutti fossero come Pico della Mirandola. Quando poi le orazioni venivan stampate, non portavano indicazione di sorta degli autori spogliati, o, se pure, la portavano errata. Era del resto erudizione diretta; almeno quella del Nostro. Avveniva inoltre, e questo era il malanno principale, che il passo malamente interpretato, o l’aneddoto, per lo più d’argomento mitologico, non studiato nè conosciuto, per ragion de’ tempi, nei suoi significati intimi e sociali, lo si destinasse a puntellare definitivamente qualunque opinione, buona o falsa che fosse, con quanto amore e decoro della verità ognun si pensi. Stoppa dunque ancor questa ; nien-t’altro che stoppa. Oltre l’erudizione e il parlar metaforico, altri vizi deturpano , e per lo stesso motivo, le orazioni volgari del Nostro : lo spesseggiare degli epifonemi e delle interrogazioni, il frequente ritorno sott’altra forma di pensieri svolti, l’abuso di verbi e di epiteti per caricare le tinte. E di rincontro a tutto ciò, che contribuisce alla ricercata amplificazione, stanno, ma in minor dose, le leziosaggini minute, le sofisticazioni, le lambiccature dei concetti, i bisensi, i giuochetti d’incrocio. Si tratta, in quest’ ultimi casi, di anemia, laddove prima si trattava d’idropisia : due malanni entrambi fatali, che si complicano e finiscono per attutire ogni spirito vitale a un organismo senza salde ossa e robusti muscoli. Citerò , per dare un esempio di tutti o quasi tutti questi vizi, un solo brano del Nostro, composto di due clausule, com’egli le chiama, ossia di due parti che se- — 3io — gnano ciascuna una parabola di voce (1). Nella prima s’ha un seguito affrettato d’interrogazioni che poi si smorzano lentamente in frasi di carattere narrativo: la seconda prende le mosse da una sentenza , 1’ appoggia all’autorità di Teocrito, di Platone, di Aristotile , e dilaga alla fine in un saltellante brulicar di parole che dànno le più barocche combinazioni di significati: Ma che cosa finalmente avrei detto che nuova fosse a voi che m’ udite, o Signori, che non si leggesse lungamente narrata in tutte le lingue e in tutte le storie de’ nostri tempi? Potrei forse io con 1’ oscura facella del mio malacconcio parlare recare splendore a’ Soli sì luminosi di queste Serenissime Case? Potrei forse con la rammemoranza dell’altrui nobiltà aggiugner merito di lode a Madama ? E chi non sa eh ella di queste grandezze estrinseche magnanima dispregia-trice, si studiò sempre d’accrescer la nobiltà dell' animo , che negli abiti virtuosi e negli affetti ben disciplinati consiste ? E se di quella apparenza dalla natura concessale e degli ornamenti alla sua fortuna dicevoli non curante riputava perduto quel tempo che in tali benché necessari abbigliamenti si consumava, avrebbe fors’ella a’ fatti de’ suoi maggiori, par acquistarne lode, avuto ricorso? Non fu, non fu, o Signori, d’animo tanto basso nè di sì corto accorgimento Virginia che, secondo la consuetudine delle donne vulgari, non discernesse in che la vera lode di saggia Principessa si fondi. Filosofò ella altamente conforme al vero, e, il suo senno adoprando, seppe porre in non cale tutto ciò che, empiendo gli animi ristretti e angusti delle persone plebee o stolte, i brevi confini d’un vilissimo cuore non oltrepassa. S appaga, come ognun sa, il naturai desiderio delle donne, benché grandi e illustri, di quella appariscenza della persona che da Teocrito danno d avolio (sic), da Platone privilegio de’ mortali, dal gran maestro di color che sanno, lettera che senza spiegatura di caratteri raccomanda , vien domandata ; e quel (i) Arte, p. 430, — 3ii — dubbioso bene e dono di picciol tempo , che quasi fiore in piacevol prato , ad un lieve soffiar di vento si guasta , agli ardenti raggi del Sole scolorito vien meno , ad una pioggia violenta languisce, ad un succhiar d’ ape si smarrisce, ad un toccar di piè si muove , tanto apprezza e onora chi lo fa u-nico oggetto dei suoi pensieri, riposo delle sue cure, cura de’ suoi riposi, fine de’ suoi desideri, termine delle sue glorie, ar gomento delle sue lodi , occupazion ne’ suoi ozi, ristoro ne’ suoi travagli, premio de’ suoi sudori, pompa dei suoi artifici, teatro delle sue pompe (i). Un tal genere di comporre avrebbe dovuto, come tutte le cose accumolate e non scelte, artificiose e non schiette, generar fastidio nell’uditore e tanto più nel lettore. Lo credereste? Gli fu anzi rimproverato che non avesse detto « assai più » nei suoi vari discorsi; ed egli se ne scusava dicendo che « si dee pur serbar qualcosa per riparlarne, se venisse il bisogno »! (2). Ora, per farci più dappresso a ciò che proprio intendiamo per stile, converrà richiamare quella contesa sullo stile spezzato o conciso, la quale abbiam già narrato in uno dei precedenti capitoli. Parecchi accusarono il Nostro d’aver egli stesso introdotto la maniera spezzata , sentenziosa ed acuta, pubblicando nel primo .volume delle sue prose, il discorso critico sulla Cometa, le declamazioni di Zenobia e delle figliuole e poco dopo le Pompe del Campidoglio. Egli si difese nel-YArte istorica, riconoscendo d’essere in colpa solo per il discorso sulla Cometa : « Per dir vero (scriveva) calunnioso stimo il giudicio che mi dichiara per capo de’ dicitori spezzati. È vero che il Discorso della Cometa (1) Nell' esequie di Madama Serenissima Donna Virginia De' Medici d’Este ecc.; Prose, p. 117. (2) Prefazione alle Orazioni. scritto al conte Cammillo Molza nel 161S, si ritrà forte alla maniera disciolta d’oggidì; ma è da considerarsi che a quelle angustie di favellare fui condotto dalla necessità, non dall’elezione; e fino da quel tempo io conobbi 1 errore e ne diedi con poche righe innanzi al discoi so medesimo le mie discolpe (1); perchè, dovendosi dal meicoledì al sabato aggiustar la scrittura, per mandai la do\e era destinata, le mie notissime occupazioni della Corte non mi consentirono ozio da digerir la materia, onde ebbi a lasciarla rozzamente ammassata. I nolti e, divisandosi sopra un lungo componimento con diversità di considerazioni, non si poteva formar un ordinato discorso con le sue parti; ma faceva di mestieri adattare il modo della censura alla varietà dell’ opera censurata (2), e saltare con chi saltava: e finalmente, sériai giovanilmente già diciotto anni sono, io ne chiesi perdono allora e lo chieggo di nuovo, specialmente a coloro che dall esempio mio contaminati si fossero ». Nelle declamazioni di Zenobia egli ammetteva di non a\ ere ancora raggiunto lo stile perfetto, quantunque esse non risentissero nulla dello stile spezzato, giacché s’era studiato d imitarvi Quintiliano: perfette invece, ineccepibili, e quindi imitabilissime, le sue Pompe (3). Ora, in (1) \ i premetteva infatti quest’avvertimento: < Leggi...... la presente scrittura più tosto come dogmatica che come critica; e se ti paresse troppo densa nella pratica contro la teorica che contiene , sappi che dalla spetezza del tempo è nata l’angustia del luogo, non essendosi potuto stender e merci, come che vi fosse campo assai largo e capace. In ogni caso, autore stima d’aver ottenuto, scrivendo, il suo fine, con dichiarar, servendo all'amico, il suo senso; onde, se ti piacerà la fatica, egli rimarrà tenuto al tuo cortese giudicio ecc. ». Prose, p. 62. (2) Si trattava di un componimento in ottave, pieno di « superbisse, traslat, » e d. « figure violente », difettoso per la « durezza del verso » e il « mancamento di numero », che il Molza aveva mandato al ostro, pregandolo di esprimere il suo giudizio. (3) Arte, p. 466. — 313 — che proprio consiste questa perfezione stilistica vantata da lui ? Per quanto egli porta a sua scusa qui e per certe osservazioni rilevabili in altri passi delle sue o-pere, si comprende che le condizioni per le quali ei credeva di assurgere a tal gloria, erano presso a poco le seguenti: periodi non brevi come quelli del discorso sulla cometa, ma non così lunghi da incalzarsi l’un l’altro e da affaticare il lettore; bensì ampii e maestosi, come si trovano in Cicerone e in Quintiliano, nei buoni scrittori latini insomma: divisioni del discorso in parti, con transizioni logiche e dichiarative, in modo cioè che le cose diffusamente dette fino a un dato punto si riassumessero « in un piccolo fascetto », e si prendesse, subito al cominciar di un’altra parte, a proporre sufficientemente la materia che doveva seguire; un regolare substrato di sillogismi, che si chiudesse con una dimostrazione definitiva e lampante; esclusione di « spiriti, sentenze, vivacità ». Chi invece procedeva con periodetti, scrivendo di mano in mano quello che la mente gli suggeriva, senza parti distinte e legami di parti, senza conclusioni parziali e totali, e alla maestà persuasiva della dimostrazione generale sostituiva le acutezze del pensiero peregrino e il singhiozzo d’una sentenziuccia fra punto e punto , quegli era uno « scrittor dozzinale », era il « novello barbaro » (1). Non è però necessario chiarire e indicare esplicitamente i nessi, quando le parti risultano per se stesse condotte con questa sistematica regolarità. Il Mascardi lo fa spesso, massime sviluppando le proposizioni maggiori o minori del sillogismo « per soddisfare a coloro che, non conoscendo l’ordine dei discorsi, se non veggono ben rilevate le connettiture che uniscono una parte con 1’ altra, vengono tacitamente (i) Arte, P, 377, 430 e sgg. — 314 — a biasimare » (1). Una certa larghezza però concedeva nella collocazione delle parti, potendosi 1’ una all’ altra, quando ben collegate, posporre e anteporre : e ciò specialmente se 1’ ordine e la divisione riuscissero ovvii e chiari a chiunque. Ond ’è che a tutti i censori rispondeva, nella prefazione alle orazioni: « A coloro poscia che biasimano i miei componimenti per lo poco ordine, non vo’ prendermi briga di far risposta. Leggano il trattato del metodo composto dallo Zabarella (2) e lì vedranno se è facile far la divisione delle parti della diceria in modo che anche gli orbi conoscano al tocca-mento la seconda dopo la prima ». Ora, se noi veniamo a casi pratici, ossia a considerare gli scritti che il Nostro chiamava perfetti, mediocri, o viziozi, vediamo facilmente ch’egli, dimenticando esser lo stile la vita del pensiero dello scrittore, tutta la qui-stione riduce alla forma, tutto il suo ideale alla riproduzione del ritmo e dell’ ampiezza che si riscontrano nelle scritture classiche. Dell’ esempio eh’ ei stima perfetto così s’esprime: « Le Pompe del Campidoglio hanno sì stretta legatura e le materie di lor natura dissipate tanto rigorosamente raccolgono che, se meritano lode alcuna, per questo capo la meritano ». E infatti tutti i vari membri di questo scritto sviluppano rispettivamente un solo concetto e la fine dell’ uno sempre al principio dell’altro si attacca e tutti in fondo son ripresi e collegati in una sola magniloquente apoteosi. Inoltre 1’ armonia e l’ordine dell’intero componimento si riflette in ogni membro, o grande o piccolo, fino al periodo , che (1) Prose vulg., p. 4. (2) Lo Zabarella, professore di filosofia e rettorica dal 1564 all’ ’8g a Padova, pubblicò molte opere a illustrazione d’Aristotile e attese principalmente a commentarne la logica e la dialettica. Tiraboschi , to. VII, P. II, p. 633; Affò, Memorie, I, p. LX. — 315 — contiene un pensiero compiuto, sintetico, propagato in tutte le varie idee sì principali che accessorie, senza sbalzi o sottintesi o lacune logiche, quasi a darti l’impressione di una veduta che ti s’apra davanti piena di aria e di luce. Ma, se questo stile, che noi potremo chiamar sintetico , è da preferirsi per la sua robustezza e per la sua origine latina, sarà pure da biasimarsi del tutto quello analitico del discorso sulla cometa? Vediamo un esempio : Non sarei stato presuntuoso compitamente, se lasciassi d’insegnar dopo d’aver ripreso. La cagione più principale che fa cader col nostro poeta molti altri, è il tenersi lontano dall’ i-mitazione o l’imitar più per èmpito d’ingegno che per maturità d’ elezione. Niuna cosa è nel mondo che sia perfetta nel suo principio: cresce e s’avanza con l’imitazione. Tutte le arti imitan la natura. Gli uccelli dall’ esempio de’ padri apprendono il volare. Le storie sono il ritrovamento dell’umana prudenza, per dar argumento a’ posteri d’imitare. Le sette dei più savi filosofanti furono scuole d’imitazione. La poesia porta seco necessità d’imitare. Così ebbe Omero per seguace Virgilio; Virgilio ed Omero furono espressi, con l’imitazione, dall’Ariosto e dal Tasso. La poesia è un cieco e ravvilupato labirinto; se non s’ha il filo di Teseo, dietro cui si cammini, non si trova l’uscita. Non s’arriva al porto della gloria, nel mar della poesia, se non si mira la tramontana de’ poeti migliori. La vite senza l’appoggio, va serpendo per terra e diviene sterile, Edippo senza il braccio d’Antigone, inciampa e cade ne’ precipizi. L’istessa increata sapienza imita nelle sue creature i suoi eterni esemplari. Lo spirito di ben regolata poesia si bee delle ceneri de’ più famosi poeti. La Sibilla non rendeva gli oracoli, se prima nell’ antro non imbeveva lo spirito d’Apollo. I rossignoli, che fanno il nido intorno al sepolcro d’Orteo, per testimonio di Pausania, cantano più soavemente degli altri. Di Seneca, dice Quintiliano, eh’ avrebbe scritto benissimo adoprando il suo ingegno , ma il giudizio d’ un altro. Vuoisi però aver g'ran riguardo in scegliere , e nel formarsi una perfetta idea dall’ esempio de’ buoni. Non tutto quel che si legge , si de’ imitare. Alcune cose sono così proprie de’ loro autori ch’altri imitandole le trasforma...... (i). Certo qui si vede la materia non digerita, giacché i periodi brevi brevi, saltellanti, incalzantisi l’un l’altro, avvolgono nel complesso un ragionamento, la cui trama può bensì essere intuita dal lettore, ma non trovasi chiaramente sviluppata nello scritto. Troppe cose qui s’accumulano, o meglio s’infilzano, che non sono le principali: e le principali troppo stanno soffocate e smembrate! Ora, ciò è male; male, intendo, qui, nel caso nostro, per il modo con cui si è proceduto. Le metafore non solo sovrabbondano , ma sovrabbondano per dinotare lo stesso fatto; e sovrabbondano, non meno inutili, le sentenziucce, che, fra quelle metafore appariscenti, sembran spilloni messi a fermar le ali di variopinte farfalle. Ma ciò non è sempre male. Non uno solo è lo stile e non un solo stile può riuscire efficace e generar diletto a un tempo. Uno stile spezzato, quando usato con saggezza e misura, può dare alacrità, agilità, fluidezza alle nostre pagine; può renderle, come suol dirsi, liriche , e appunto con gli stessi artifizi, specie con la metafora, inquantochè la metafora sincera, cogliendo le analogie, tra le cose, aiuta e soddisfa il nostro lavorio d’intuizione; lo aiuta, lasciando nella mente tracce più profonde che non un freddo, compassato ragionamento ; lo soddisfa, offrendo quasi la gioia di scoprire ciò che lo scrittore, senza dire, lascia intravedere. (r) Discorso intorno alla Cometa; Prose vulg., p. 67. — 3*7 — Ecco ora quest’altro luogo: Leggonsi in faccia della nostra Cometa , quasi gran macchie di sangue, alcuni superbissimi traslati. E vizio comune più del secolo che degli uomini, l’andarsi lambiccando il cervello per trovar nuovi modi e tutti alteri di favellare e di scrivere. Alle altezze maggiori sono congiunti più notabili precipizi ; perchè l’erta cima delle montagne è, per lo più, intorniata da dirupi e di balze. La natura nostra sempre ci tira all’insù e, formandoci nell’ idea un certo simulacro di pretesa grandezza, schernita dall’apparenza, degenera e divien gonfia. È grand’error d’intelletto il non discernere il sublime dal tumido, 1’ eccessivo dall’ ardito, il soverchio dal pieno, lo smoderato dal grande, l’alto dall’enorme. Non ogni grassezza è sana all’ occhio ben intendente del Fisico ; altra è cagionata da sovrabbondanza d’umor vizioso e peccante, altra da buona sostanza e buon succo (i). Anche qui v’è un troppo che stroppia. Tra periodo e periodo bisogna fare un saltino con la mente, e a forza di saltare ci si stanca: ma i salti non son difficili, perchè i nessi, sottintesi tra l’uno e l’altro dei periodi, ognuno li può scorgere, come anche può da sè ognuno trovare il ragionamento normale velato dalle metafore, puntellato dalle sentenze. Questo brano potrebbe esser scritto anche oggidì e forse non disgusterebbe molti. Il Mascardi lo riprova; e noi stiamo con lui; ci sembra tuttavia ch’egli dovrebbe riprovare questo componimento e tutti gli altri che, come questo, esagerano nello stile conciso o lo usano male : non lo stile conciso in genere, che, per quanto s’ è detto, pur qualcosa di buono può dare. Egli in sostanza ci riconduce allo stile latineggiante, che finisce poi, con vizio opposto, per affaticare la mente, obbligandola ad aggirarsi in periodi (i) Ibidem, p. 64. — 318 — troppo artificiosi e legati, per togliere ogni brio e ogni limpidezza al discorso, come avviene nelle Pompe e ancor più nella declamazione di Zenobia, chiamata da lui stesso « una sorte d’esercizio rettorico, messo in u-sanza dagli antichi sofisti e dai declamatori, quali sono Libanio iVntonio Seneca e Quintiliano » (1). Naturale perciò che l’Eritreo, un povero umanista in ritardo, come lo chiama il Graf, trovasse l’eloquenza del Nostro « maiestate sublimis, sine arrogantia gravis, sine vanitatis suspicione, elata, sine concinnis fucoque puerili ornata atque composita » (2). Ci siamo intrattenuti a lungo sullo stile delle orazioni, giacché solo per questo riguardo presentavano qualche interesse. Non crediamo di doverci fermare sugli argomenti, che in verità son vuoti, insulsi, inutili, nonostante che più volte 1’ autore gabelli tutto il suo ciarpame metaforico ed erudito per « filosofia civile » svolta « per via di dottrine astratte » (3), e altri abbia (1) Ved. l’Avvertimento a p. 275 delPedizione del 1622 delle Orazioni. (2) Pinacotheca, ed. cit., p. 112. (3) Arte, p. 174 : « La filosofia civile — e sotto questo nome comprendo non men l’etica che la politica e 1’ economica — apporta le sue dottrine, tratte, per lo più, dalle diffinizioni e dai principii generali che sono astratti, nè fuor dell’intelletto per cui s’aggirano, si riducono all’atto. Dichiara colui, per cagion d’ esempio , che cosa sia la giustizia, o vogliam la particolare o l’universale : indi alle divisioni fa passaggio e distingue la distributiva dalla commutativa ; considera le proporzioni aritmetiche e geometriche , e che so io. Un altro , prendendo a trattar le materie di Stato, bilancia le varie forme di reggimento , e con molta sottilità pone la differenza fra 1’ aristocrazia e la democrazia mistica : ragiona dell'eccellenza della monarchia sopra dell’altre : rintraccia i modi con cui o si mantengono, o si distruggono le tirannidi. Un altro, ristrettosi dentro gli angusti confini della sua casa, distingue il governo despotico o signorile dal famigliare o paterno ; nelle parti della famiglia cerca partitamente della signoria del marito sopra la moglie, del padre sopra del figlio, dello stato de’ servi antichi e de' servitori moderni. Insomma si somministra bella e curiosa materia a’ disputanti ne’ circoli o a coloro che discorron nelPaccademie ». — 319 — voluto trovarvi dentro profonde argomentazioni a sostegno delle scienze teologiche e persino larga profusione di sapienza giuridica (1). Sono, ripetiamo, mere esercitazioni rettoriche: sono il risultato di pazienti spogli di autori antichi ; sono la conseguenza dei metodi d’istruzione fatti seguire in gioventù; sono il portato diretto dei tempi, delle condizioni del Nostro, della sua personale ambizione. Gli unici argomenti che abbiano un po’ di polpa, son quelli svolti nei discorsi critici riguardanti le ottave sulla cometa, le forme della commedia e il furor poetico, dei quali s’è già trattato. Per comprenderne il valore tutt’ altro che insignificante, basti che il lettore ricordi ciò che da quegli scritti abbiam tolto per riferire il suo pensiero sul fine della poesia, quale cioè abbia ad essere, se l’utile o il diletto. Ecco invece come miseramente se ne discuteva in quelle accademie che avrebbero voluto essere quasi fari irrag-giatori della più acuta e fondata sapienza. È il Mascardi stesso che parla: « Ingegnosa è la lite che fra gli accademici italiani agitata, ha partorito alla nostra lingua molti eruditi discorsi, quasi tanti consulti di valenti avvocati. Chiedesi se la poesia come suo bersaglio rimiri il gusto o l’utilità del leggente. Coloro che ne dipingono il poeta per artefice del diletto, lo rassomigliano al cuoco, di cui non è pensiero d’ esaminar 1’ occulte qualità, ma di regolare il sapore sensibile de’ cibi, onde ne rimanga, non tanto ben provveduto lo stomaco, quanto ben lusingata la gola, Gli altri all’incontro, desiderosi dell’ u-tile, lo paragonano al medico , il quale ogni delizia di condimento posta in non cale, ancorché amareggiata si risenta la bocca, la sola sanità de’ cibi, non la soavità si procaccia. Per l’una e per l’altra parte autori grandi (i) Zeno, Annotazioni, to. II, p. 123. si citano nè sanno finora i giudici di Parnaso alla sentenza risolversi » (1). Se riuscirono così insipide e vuote, per quanto ammirate, le orazioni giovanili e quelle lette qua e là nelle accademie, un certo interesse pur destano, non foss’altro che per la loro stranezza , quei discorsi coi quali, nell’accademia genovese degli Addormentati, egli andava di volta in volta commentando la Tavola di Cebete Te-bano, un’ operetta inspirata alla dottrina socratica e molto in stima presso i platonici. L’avean già commentata parecchi: Giusto Velsio , in un libro ch’era stato condannato, perchè poneva la dottrina di Cebete a londamento dei dogmi della Fede cristiana: indi fra Giovanni Camerte , dell’ Ordine dei Minori, con lunghe divagazioni dall’argomento principale; poi Giovanni Ca-selio, parzialmente. Un parente di Tertulliano 1’ avea dichiarata con un centone virgiliano: l’avevan tradotta in verso latino il Grosio olandese (2) ; in verso italiano Mario Fiorentini (3); in prosa volgare, con maggiore o minor fedeltà, nel cinquecento, gli eruditi Francesco Coccio e Francesco Marcolini (4). Il Mascardi ne diede a sua volta una versione, non letterale, come avea divisato e incominciato a fare dapprima, bensì libera, (1) Arte, p. 72. Aveva però preso parte egli stesso alla discussione nell’accademia degli Addormentati: ved. Discorsi morali sulla Tavola, ed. cit., P. Ili, dise. I, p. 340. (2) Ved. il ragionamento dello stesso Mascardi, intitolato Dell' autor della Tavola e della dottrina ch'ei professò, e posto a capo dei Discorsi morali. Si disse poi che il Mascardi avea oscurato la gloria del Velsio e si scrissero sotto il suo ritratto i versi seguenti : Velsius egregie explicuit pinaca Cebetis at post hunc coepit Velsius esse nihil. (3) Sforza, F. M. Fiorentini, ed. cit., p. 28. (4) Argelati, Biblioteca dei volgarizzatori, I, Milano , Federico A-gnelli, 1767, p. 103. — 321 — cercando di seguire piuttosto 1’ « intenzione » del filosofo, giacché « trovandosi in ogni lingua non pur gl’idiotismi, ma certe forme di favellare così proprie che non hanno in altra lingua proporzionato riscontro, è pazzia il darsi a credere d’esprimerle senza violenza ». L’ argomento dell’ operetta si prestava assai a filosofare con larghi discorsi accademici. Raccontava l’autore greco che un sapiente avea preso a spiegare un quadro allegorico posto innanzi al tempio di Saturno e dove trovavansi raffigurati tre ricinti assiepati d’uomini e di donne. La tavola era una rappresentazione della vita umana ; e vi si mostravano , partitamente e con forma allegorica, le sue varie età: il principio, i progressi, il fine. L’uomo, nascendo, veniva dapprima assopito in virtù d’una bevanda propinatagli dalla Fraude, poi risvegliato dagl’insegnamenti del Genio tutelare, che si faceva a seguirlo per tutto il viaggio. Allettato dal senso e aiutato dalla Fortuna propizia, cade allora l’uomo nei vizi e comincia a provar la sventura ; ma, fatto ben presto accorto , batte miglior via e si dedica alla scienza- In questa non trova il desiderato conforto; l’abbandona allora per avvicinarsi alla virtù, ed esercitandosi nella sua pratica, raggiunge la vera felicità, spettatore tranquillo delle miserie altrui. Il commento del Nostro si divide in quattro parti. La prima è come introduttiva e serve a chiarire alcuni punti della tavola, che precedono la narrazione del viaggio. Vi dimostra 1 oratore il prevalere continuo della cultura spirituale su quella deH’intelletto e del corpo, 1’ opportunità di una rappresentazione pittorica per simboleggiare la vita umana, le analogie tra l’ignoranza e la Sfinge antica, la difficoltà di sceverare le cose buone dalle cattive, 1 esistenza del Genio. Nella seconda parte, spiegato il mito della bevanda della Fraude, espone in dodici discorsi le Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. LXII. 21 ragioni dell’ esistenza delle passioni perniciose , i tristi loro effetti sull’uomo, la vendetta celeste, la malinconia del colpevole, le sue lagrime, la sua disperazione, il suo pentimento. Difende nella terza le scienze, che da Cebete son dichiarate vane. Nella quarta finalmente tratta della purgazione dell’ animo per 1’ acquisto della virtù, delle gioie dei Campi Elisi, del conseguimento ultimo della sapienza e della verità. E qui finisce il primo volume, ove già son svolti tutti i soggetti della tavola: il secondo, eh’ egli prometteva, per fortuna non venne mai. In questi discorsi, meno acutezze, meno concettini, meno leziosaggini : in compenso v’è più imbottitura erudita. Tutto lo studio dell’ autore sta nel radunare farraginosamente sotto un enunciato o una sentenza quanto più ha raccolto dai libri antichi: ed è un vero irrompere di citazioni, di richiami, di nomi. S’egli volesse, vi dimostrerebbe il contrario di quello che sostiene, e con altrettanti esempi, altrettante figurazioni, altrettanti passi classici ; proprio come un sofista antico , con 1’ aggravante che non solo lui vuole e disvuole, ma trascina, nel suo favellare, tutti gli altri a consentire cecamente con lui. Non v' è insomma nell’ opera sua un criterio > un sistema, una teoria fissa : spesso un simbolo è spiegato con un altro simbolo, un verso d Omero è dichiarato con uno del Tasso, un precetto di Sant Agostino è sostenuto da uno di Marc’Aurelio, senza riguardo ai tempi e alle scuole. Tra la cosa e la citazione che la comproverebbe, corrono le analogie irrilevanti o intempestive o faticose o false, che, in altri casi, tra la cosa e la metafora. E tanta e tale era 1’ erudizione di questi discorsi morali che, non appena uscirono per le stampe, alcuni si recarono dai librai a cercare i libri degli autori citati « e perchè (narra il Mascardi) — 323 — non solo non trovarono i libri, ma videro non aver di loro il libraro notizia alcuna, si diero a credere eh’ egli, per servire alla materia si fabbricasse e le dottrine e i nomi degli scrittori a capriccio; e più d’uno vi fu che sopra di ciò qualche lettera di doglienza gli scrisse » (1). L’erudizione è dunque fine a se stessa e tiene il posto della dimostrazione raziocinativa. Ma degli antichi egli non riporta dottrine , bensì sentenze a spizzico e figurazioni e anche metafore. Trovo subito nel secondo discorso un esempio tipico. Vuole l’oratore dimostrarvi perchè meglio sotto il simbolo d’ una tavola di pittura che di alcun altro oggetto la vita umana s’intenda. Comincerà a dirvi che, per apprezzar questa somiglianza, bisogna ricordarne altre « nobilissime ». Bione la paragona a un teatro: ed eccovi il Nostro a indagare per più pagine se il paragone risponde. È un teatro grande o piccolo? È una favola drammatica di genere comico o tragico quella che vi si rappresenta? Agiscono bene o male i personaggi? Platone e Terenzio (quale connubio !) la paragonano invece a un tavoliere da giuoco. Ma, qual’è il giuoco cui vi si attende? Quello delle carte 0 quello della palla? E, se il giuoco delle carte, sarà esso primiera o qualche altro? Importantissime quistioni che van risolte con tutta la sapienza dei Sette Savi. Finalmente s’arriva alla pittura; e questa, egli dice, è la più opportuna. E perchè? Anzitutto perchè nel quadro vi sono le ombre, e gli uomini da mille e più filosofi sono appunto chiamati ombre, e le ombre stanno a simboleggiare anche la brevità della vita, perchè quelle prodotte dal sole, quanto più lunghe si profilano dietro 1 corpi, più vicine annunziano le ore notturne; in secondo luogo il quadro ha solo apparenze, proprio come (i) Arte, Avvertimento al lettore, p. 4. — 324 — avvien nella vita ove s’hanno continui sfuggevoli allettamenti allo sguardo. E così è dimostrato il concetto di Cebete. Ma chi volesse deliziarsi di cose siffatte, troverebbe ben altro nel discorso sulla Sfinge, che da Cebete è richiamata a rappresentar l’ignoranza. La ragione dei simboli è nei simboli delle varie parti della Sfinge stessa. Questa, secondo alcuni, è vergine al volto, uccello alle piume, leone ai piedi. Tutto è chiarissimo. La vergine significa lascivia, 1’ uccello l’incostanza , il leone 1’ alterigia. Ora alla scienza quale cosa è più contraria della lascivia, che rovina l’intelligenza, dell’incostanza, che impedisce i fermi pensamenti, dell’alterigia, che dà smoderata opinione di sè? Le citazioni a proposito e a sproposito sono più di trecento nelle poche pagine della lezione accademica; trovo fra l’altro, anche il leone, la lonza e la lupa di Dante. E tutto ciò non esclude che in altro luogo, e sull’autorità di altri « famosissimi autori », la Sfinge sia riconosciuta dal Nostro come riuscitissima immagine della scienza! E così sempre procede, riguardo agli altri simboli: alla bevanda della Fraude, alla Fortuna seduta sulla sfera, ai Campi Elisi e specialmente alla Sapienza collocata da Cebete sopra un cubo di pietra. E alle volte non si preoccupa nemmeno di dare una soluzione al problema , come nel discorso quarto della parte prima, ove, dovendo dire perchè sono in minor numero gli uomini buoni che i rei, dimostra invece che dovrebbe avvenire il contrario per mille ragioni trovate in centomila scrittori e conclude essere una vera pazzia ciò che nella vita si avvera. Or vediamo se attraverso a tutte queste scipitaggini allegoriche non si possa scoprire qualcosa d’interessante per i tempi, o almeno qualche idea ben chiara e decisa del Nostro oratore. Nella grande controversia — 325 — fra Platone e Aristotile, egli segue, naturalmente, quest’ultimo. Non che ignori le opere del discepolo di Socrate ; anzi nelle lettere continuamente le domanda agli amici e negli altri suoi scritti talvolta le cita per lusso di sentenze, specie quando abbia a trattare della famosa bevanda della Fraude o del cosidetto amor platonico o delle distinzioni della virtù, giacché alla fine era pur platonico il senso della dottrina di Cebete; ma più volte dichiara false le sue dottrine e in ogni modo ha quasi sempre paura di lasciarsi trasportare dalla « soavità degl’ insegnamenti platonici » (1). Il suo maestro è e sarà in ogni tempo Aristotile. Si vedano il discorso terzo della parte prima, ove s’intrattiene a ragionare « del-1’ uso e dell’ utilità delle favole nelle cose spettanti alla religione e al costume » e il settimo, ove tocca dei Genì. L’ ossatura di tali discorsi, sebben rachitica e cariata (i) È notevole, per il concetto eh’ egli avea di Platone e per i meriti che pur gli consentiva, il seguente passo delle Prose, p. 74. (Intorno al furor poetico) : « Fin qui arrivano le speculazioni Accademiche , intorno al furor poetico; le quali se vere siano o favolose, non ardisco decidere. So che Platone è quel mostro, nella cui bocca fecero le api il loro nido, cantarono i rosignoli, si pose 1’ eloquenza a sedere ; nè d’ altra lingua si sarebbe valuto Giove, volendo favellar greco , che della platonica ; onde io con ogni riverenza il ricordo e sottoscrivo il mio nome (se pure anche nel bene non s’erra, per soverchio ardimento) a gli encomi fattigli dai più scelti ingegni di tutti i secoli ; ma è in lui forse più l’eloquenza che la filosofia; o pure sotto il velo di mistici sentimenti, cose tali nasconde che da un intendimento vulgare com’ è il mio, capite non sono ; certo è ch’egli abbonda d’allegorie e tira gagliardamente al poetico ; onde molto propria fu quella lode che gli diè M. Tullio, nominandolo Omero de Filosofi. Sì che , dovendo io dipartire dall’ opinione d’ uomo sì grande, chieggo in grazia alle persone di sentito giudizio che non mi si ascriva a temerità perchè o io non arrivo al midollo della dottrina di Platone e perciò rimango ingannato dalla corteccia e così merito pietà ; o se 1 intendo ed in questa parte falsa la stimo, mi dee esser perdonata la colpa che nasce dal voler che il vero prevaglia alla animosità et alla affezione singolarissima che mi rapisce dietro la soavità degli insegnamenti platonici ». — 326 — per le ragioni suesposte, è data dalla dottrina dello Stagirita: e il Nostro se ne allontana solo per riportare gli argomenti o meglio gli elementi della conciliazione alla quale avea proceduto la Chiesa, abbracciandola; sicché le favole greco-latine, ingegnosamente interpretate, trova-van riscontro nelle parabole delle SS. Scritture; e i genii, buoni o cattivi, negli angeli e nei demonii (1). Con Aristotile alla mano, egli arriva persino, indulgendo ad altri scrittori, a confutare i tomisti (2). Ciò rilevo senza del resto fermarmici su, giacché gli accenni scarsissimi e non sempre chiari che a quest’ ultima quistione si riferiscono , non mi consentono di trarre conclusioni fondate. Certo egli si oppone decisamente alla dottrina di Cebete, quando questi afferma che vane del tutto sono le scienze alla vita umana. Ed è davvero curioso vedere ciò ch’egli ne dice. Secondo lui ogni scienza ha il suo lato dannoso; ma ha pure il profittevole, il quale meno assai si può scorgere. L’aritmetica e la geometria avrebbero molta affinità con la magìa: i segni geometrici specialmente assomigliano a geroglifici d’incantatori; la prima è però fonte di guadagno ai mercanti e alle città, la seconda è il fondamento dell’architettura e della civiltà. Più volte ha quindi occasione di domandarsi se la magìa esiste o no. Non ha il coraggio di negare risolutamente. Troppi, egli dice, sono i fenomeni senza spiegazione, troppi i fatti che sfuggono all’ esperienza dei sensi! Se dunque il popolo credeva in quel (1) Però non li identifica; anzi nel discorso VI della P. I , Della famosa divisione delle cose in buone e in ree ed in indifferenti e quanto sta malagevole il conoscere il male dal bene, dicea p. 118, ed. cit.: « Da ciò nacque l’opinione di coloro che posero nel mondo due Demoni, cioè a dire due primi principii delle cose , uno buono e uno reo , la quale dal Gentilesimo s’ ê poi trasfusa in qualche setta d’eretici ». (2) Della disperazione, dise. XI della P. II, p. 291. — 327 — tempo alle più grossolane stregonerie in ogni possibile occasione, non meno superstiziosamente andavano i dotti ricercando l’essenza e il fondamento degl’incanti, sicché la differenza non stava che nella parvenza scientifica che questi conferivano ai loro dubbi. Sono notissime a questo proposito le lettere scambiate tra il Mascardi e l’Achillini, nel tempo in cui più infieriva la peste. Domandava il Nostro al dotto collega dell’ Università di Bologna che cosa egli pensasse dei fatti di Milano, non « della peste che per via d’ ordinario contagio si propaga, ma di quell’altra che si dice esser seminata dagli uomini con misure d’incanti ». Per conto suo, « nè eia troppo arrendevole a creder tutto quello che s attribuisce al diavolo » nè lodava « l’ostinata inci edulità di certi filosofanti che per far troppo del saccente dànno nell’infedele », tanto più che non mancavano, egli aggiungeva , notizie storiche di trasmissioni magiche, in Seneca, Tito Livio, Paolo Diacono, Procopio, Pomponio Leto. L’Achillini rispondeva con un’altra lunga lettera, nella quale cominciava col far professione di fede 01 to-dossa. Egli allora non leggeva anzi che S. Tommaso, S. Girolamo , le SS. Scritture e le concordanze della Bibbia. Postosi così al sicuro, affrontava la quistione e la risolveva attraverso a un moltiplicarsi di filosofiche distinzioni, dicendo che in potenza era ammissibile ciò avvenisse, in fatto egli era indotto a credei lo, ma sceverando le « inverosimilitudini » delle circostanze concomitanti. Si chiedeva poi che fosse questo fomite: « accidente o substanzia»? Nè 1’una nè l’altra cosa, lispon-deva, è tale da appagare; e v’era da perdersi proprio in una « confusion di pensieri ». E finiva: « io insomma mi risolvo nel dire che la peste è un flagello ineffabile agitato dalla mano di Dio e che allora cessa il castigo quando Dio leva la mano per flagellarci ». E l’epilogo, — 328 — come ognun vede, avea lo stesso carattere del prologo. E queste discussioni epistolari parvero al Manzoni così acconce a caratterizzare la pseudo scienza del seicento, che le attribuì al suo Don Ferrante. Non credeva poi il Mascardi all’ astrologia e all’ alchimia; chè anzi scriveva pagine d’invettiva per coloro che in quell’ arti consumavano tempo e ingegno, pur ammettendo un certo influsso maligno o benigno delle stelle sul nascimento degli uomini (1). Glorificava l’a-stronomia, che credeva scala a conoscere le bellezze del cielo e guida nell’arte della guerra e norma per la coltivazione de’ campi. Ma in generale il progresso scientifico egli l’osteggiava. Le poche volte che accenna alle recenti scoperte astronomiche, tien bordone agli aristotelici. Ecco un passo ben chiaro in questo senso: « Tanto siamo di propria condizione avvezzi al difetto che nè anche il cielo riguardiamo se non allora eh’ è difettoso e forse la malignità dei mortali stanca di trovar mende fra noi, si scaltrisce in infamare i pianeti più nobili e con tale arte si studia di far men chiare le proprie tenebre, accomunandole alla luce del Sole : ben sapete che il nostro secolo più degli altri in questa parte ingegnoso, ha ritrovate alcune macchie o impresse o almeno apposte alla faccia del Sole; e chi potrà dolersi ch’alia candidezza dei suoi onorati costumi sia dall’ altrui lividore imposta macula, mentre non è sicuro il Sole nella sua ruota? Intendano però costoro che donde attendono premio di gran gloria, merito di molto biasimo ritraggono , perchè non vagliono ad affissarsi in guisa d’ a-quile al lume quando più sereno lampeggia , ma nella (i) Anche nel discorso Intorno al furor poetico, Prose, p, 75 , parla delle « stelle presidenti al nascimento di ciascuno » e ne riporta testimonianze. — 329 — notte, augelli appunto notturni, fan prova del saper loro » (1). Questi discorsi, che avrebbero ad esser morali, presentano poi un difetto capitale, quello di non riferirsi mai a consuetudini e a vicende moderne. Pare che tutta la vita intellettuale e sociale si sia fermata al principio del medioevo: la scienza, la morale, l’arte, la letteratura, tutto, tutto è dei tempi antichi. E ne conseguono, inevitabilmente, sforzi continui d’adattamento, uso di cavilli e di sofismi, incongruenze mascherate o palesi. È una specie di umanesimo in ritardo, al quale si vuole ancora infonder vita; ma questa vita rassomiglia a quella dei vermi brulicanti su materie putrefatte. Il male è che tutto ciò si portava nella scuola. Le lezioni alla Sapienza romana non sono più interessanti davvero e più fruttifere delle quisquilie accademiche. Per fortuna il pubblico non era di scolari, ma di semplici dilettanti, di gentiluomini cortigiani e talvolta anche di dame: e gli scolari, per maggior fortuna, si ridevano dell’erudizione del maestro e ne lacean caricatura. Tutte le prolusioni scolastiche del Nostro erano tenute in latino, secondo l’uso e forse i regolamenti. Egli si piegò di mala voglia a trattare 1’ antica favella, dopo che il suo nome correa famoso per l’ingegnoso maneggio del volgare; e, quando mise fuori i suoi due volumi, le Dissertationes de affectibus sive perturbationibus animi earumque characteribus e le Ethicae prolusiones, chiese d’esser compatito della trascuratezza della forma, adducendo a sua scusa, oltreché le cure cortigiane e le infermità fisiche, anche la poca famigliarità rimastagli col latino, che fin dalla giovinezza aveva abbandonato per darsi al toscano. Certo, fra le sue prolusioni e quelle (i) Dell’astrologia, dise. VI, P. Ili, Discorsi morali, ed. cit., p. 395* — 330 — del Mureto o di Famiano Strada ci corre assai: lo stile per se stesso è meno florido, meno agile. Tutta la gloria questa volta, egli se l’aspettava dagli argomenti svolti: vediamo dunque che mai insegnava e incominciamo dalle dissertazioni sugli affetti. La materia non deve certo essere stata esposta così come c’è giunta nel volume: evidentemente il Mascardi ha raccolto per le stampe il succo soltanto delle sue lezioni, ordinandole, correggendole, subordinandole a una trama unica. Ha così cercato di dare un « libellum......argumenti fortasse varietate iucundum ». Nell’insieme vorrebbe esser questo un corso di psicologia; e lo è infatti, ma, si noti bene, applicato, come suol dirsi, ad altre discipline, che sono qui la letteratura e la filosofia morale. Si tratta però sempre di fatti e argomentazioni ovvii o futili, gonfiati: delle solite esercitazioni rettoriche, chiare e ordinate, questa volta, nella loro struttura, più che i discorsi sulla Tavola, ma non meno di essi flosce e fastidiose. S’ ha erudizione, non scienza; orpello, non oro; vernice, non sostanza. Il Nostro non può essere nemmeno qui filosofo : è retore soltanto. Un nonnulla gli basta per parlare durante lungo tempo, per architettare tutto un edificio e fregiarlo di versi o citazioni erudite, colorirlo con frizzi, incorniciarlo di paradossi. Quando avea detto tutto quello che intorno a quel nonnulla si poteva dire, egli trovava dell’ altro ancora da dire. Ammesso che l’anima è pura e semplice, che è suscettibile di perturbazioni, e che queste perturbazioni si manifestano per certi atti o segni esteriori del corpo umano, il quale ha con l’anima relazioni strettissime, prende a studiare le più appariscenti di tali manifestazioni e mostra in qual modo esse avvengano e vadano interpretate. La congettura dalla forma delle mani, ossia la chiromanzia, non ha per lui valore: la definisce « doctum foemi- — 331 — narum deliramentum » e non ricorda che per ignominia i nomi dei più famosi suoi sostenitori, da Coclite e Tri-casso al Taisner e al Cardano (1). La dottrina di questi vaneggiatori o ciarlatani mette capo alle stelle ed è condannata dalla chiesa (Chiromantis ad occultam siderum vim tamquam ad deliberantium comune perfugium prodigia refert sua......religiosis legibus execrata). Meglio è considerare « cum doctissimis aetatis nostrae philosophis » la chiromanzia fisica, suffragabile con 1 approvazione aristotelica ; quella cioè che scopre dalla lunghezza e dalla profondità delle linee della mano la maggiore o minor vigoria organica dell’uomo. Per conto suo s’indugia a descriverne un’altra specie, che chiama oratoria « non pervulgatam atque protritram, eloquentiae tamen ancillantem ». È, a farla breve, l’arte dei gesti, cui ricorre l’oratore per rappresentare, rilevare, colorire le interne commozioni dell’ animo suo, nel tempo stesso che la parola le esprime: e una sottospecie di questa sarebbe la mimica, il linguaggio della mano sola, quando 1’ oratore tace. Più nota, più praticabile, quasi innata è poi l’indagine dalle apparenze del volto: noi scopriamo subito un animo buono o uno cattivo dalla fisonomia: palesiamo col riso, il pianto, l’immobilità dei muscoli facciali, il rossore, il pallore e mille altri segni, i fatti interni, spesso senza volerlo e spesso anche contro volontà. La voce ha poi una grande importanza nell e-strinsecazione degli affetti, perchè col suo tòno particolare predice già il concetto (vox quae sermonem antecedit, sermonis exprimit characterem). Riprova quindi, come d’animi volgari e arroganti, la voce troppo alta, (i) Antonio Taisner aveva insegnato nel sec. XVI, alla Sapienza romana ; Caraka, I, 209. Girolamo Cardano , filosofo , medico e matematico pavese, e gli altri qui nominati son troppo noti perchè s’ abbia a discorrerne. — 332 — schernisce la voce molle e tremula, indizio di effeminatezza; e infine raccomanda di non sputare mentre si parla, atto indecoroso per chi lo fa, ripugnante poi per chi lo presenzia. La voce articolata e fornita di un dato significato, ossia la parola, è non meno segno delle tendenze e dello stato psichico : rispecchia 1’ animo e lo serve. Onta a coloro ch’esprimono cose che nell’animo non hanno : onta ai calunniatori, agli ipocriti, ai poeti lascivi! Anche lo stile può far comprendere la qualità dell’affetto interno; e e questo proposito egli svolge su per giù le stesse idee che abbiam già desunto dall 'Arte istorica, composta circa quegli anni; ma la conclusione cui giunge alla fine, attraverso una premessa erronea, è davvero curiosa. Lo stile, dice, dipende dall’ingegno, riflettendolo fedelmente; l’ingegno non può (perchè poi non si sa) aver colore, ossia fisonomia e inclinazioni diverse da quelle dell’animo; e così la proposizione è dimostrata. Dopo di che il campo di ricerca s’allarga. Egli considera l’acconciatura del capo e la vuole infallibile mezzo per arguire il carattere: ed eccovi mille esempi mitologici e storici che dànno come superbi o violenti o effeminati gli uomini che scompigliano o inanellano o ungono le chiome. Tocca ancora della veste e della barba. Qui gli viene uno scrupolo (meglio tardi che mai!): quello cioè che abbia a parer sciocco l’argomento ; e se ne scusa dicendo che egli parla « serio et prorsus philosophice » di quella « praeclara virilis elegantiae appendix ». Le congetture sul vestire occupano due dissertazioni. Nega infine (manco male!), attraverso a un pomposissimo apparato erudito che lo sternuto possa esser indice dei moti interni, chè sarebbe piuttosto segno di salute per il convalescente, in quanto fa presupporre già valide le sue forze; e altrettanto con-chiude per la tosse e lo sbadiglio. — 333 — E veniamo all’ altro volume, che tratta d’ etica. La materia s’innalza; e, per facilitarla, il Nostro procede per 10 più con metodo dialogico, fingendo di rispondere alle obiezioni di un ipotetico avversario: base d’ogni argomentazione , la dottrina aristotelica. Non voglio riportare minutamente tutte le sciocchezze e i rancidumi che son costipati in queste interminabili pagine, giacché sento vivissimo il dovere di contraccambiare con atti pietosi la pazienza del lettore che m’avrà accompagnato in questo esame faticoso delle meraviglie didattiche dei nostri venerandi avi del seicento. La questione più interessante svolta qui, è pur sempre quella del conflitto fra la mitologia, che v’ è chiamata idolatria, e la religione cristiana. Gli dei antichi son certo falsi e bugiardi; ma lo studio della religione antica non può essere di danno, se condotto con avvedutezza, attribuendo 11 vero significato alle sue fantasticherie. Le varie divinità non sarebbero, a farla breve, che modi diversi di rappresentare le nostre interne passioni, le quali sono numerose e molteplici, non trovandosene scevro che Gesù Cristo soltanto: anzi, con la pratica della virtù e con la saggia interpretazione dei miti, ci si può agguerrire contro le superstizioni idolatre. Egli pone per base il mito di Fetonte; Fetonte stesso sarebbe l’anima; i quattro cavalli, le quattro principali passioni dell’uomo; l’elittica, la via dell’onestà. Oltre la virtù poi, anche lo studio rende l’animo perfetto ; e ciò è manifesto nelle favole di Orfeo e di Anfìone, e nei canti di Davide. Dimostrato come si può combattere l’ignoranza e la superstizione idolatra, insegna a contemperare la salute del corpo con quella dell’anima: contro il vizio non s’ha scusa; al timore s’opponga la costanza. Le ultime prolusioni trattano della rettorica e della memoria, in rapporto alla morale ; e ribadiscono il concetto generale. — 334 — Il Mascardi è dunque il rappresentante più in vista della letteratura accademica incancrenita nella prima metà del secolo XVII: è il personaggio più responsabile della dissoluzione, per non dire della dissolutezza, del pensiero letterario di quell’ epoca. Fabbro artificiosissimo dello stile, attivo frugatoi' de’ libri antichi, non ha lasciato che parole vuote ed erudizione racimolata: l’uomo e la natura non gli hanno dato inspirazione alcuna; l’han soltanto mosso a metter fuori il suo copioso frasario e le sue reminiscenze classiche. Il carattere più notevole e men riprovevole della sua prosa è quello d’avvicinarsi per la lingua all’ideale di una lingua classica italiana, indipendentemente dalla pura fiorentinità vagheggiata da molti: altro carattere, meno opportuno e benefico, quello di ricondursi per la forma alla maestà direi quasi ciceroniana, del resto già comparsa, ed esageratamente, nelle opere del Boccaccio, già fruttuosamente e saggiamente presa a modello dai cinquecentisti: meno opportuno e benefico, dico, perchè si dimentica, seguendolo con troppo rigore, esser la lingua volgare qualcosa di autonomo, indipendente, atto a vivere da sè, con iniziativa propria, senza materna tutela. Il primo di questi caratteri si manifesta quasi inconsciamente , senza gran vanto, per comodità ; il secondo è voluto, propugnato, imposto agli altri, con una tenace polemica, nella quale il Nostro combatte teoricamente e praticamente. Perciò nella fattura esterna e grammaticale egli arriva a un certo grado di perfezione: i vocaboli sono in lui copiosi ed espressivi; i vari membri d’ un discorso ben ripartiti e ordinati, le connettiture chiare e spedite, i periodi armoniosi e larghi come respiri di un petto robusto. Ma tutto questo è poco, pochissimo; perchè non è che parola. E la parola non è sufficiente, anche se u- — 335 — sata valentemente, a dare letteratura viva. Essa è mezzo, non fine: piace, edifica lì per lì, massime se pronunciata anziché scritta, e se, come nel caso presente, accompagnata dal gesto dell’ oratore ; ma non nutre, ov’ essa stessa non tragga origine e nutrimento dall’ anima del compositore. Solo quando il Mascardi con la sua forma eletta e maestosa ci dirà delle cose utili e vere, l’opera sua riuscirà vitale. E questo egli farà n di’Arie istorica: libro che abbiamo già aperto e analizzato in qualche punto, e che ora, nel seguente capitolo, esamineremo distesa-mente , per tributare al Nostro, dopo tanto biasimo, qualche debita lode. CAPITOLO IV. LA TRATTATISTICA E L’OPERA STORICA. Prima idea dell 'Arte istorica. — I consigli dei contemporanei. — II contenuto, lo stile, l’erudizione, la pratica del trattato. — I fini della storia. — Differenze fra la storia e la filosofia civile. — Il fine morale. — La forma nell’esposizione delle materie: le concioni, le digressioni e gli altri artificj. — La verità nell’opera storica. — La distinzione tra il fine immediato dello storico e quello mediato dell’opera. — Un’accusa ingiusta al nostro trattatista. — Un interessante colloquio in casa del Cardinal Zacchia. — I giudizi di Agostino sugli storici italiani. — Lodi e critiche dei contemporanei al trattato. — Sue fonti. — Un preteso plagio aWArs historica del Ducci. — E-same e confronti. — La Congiura di G. L. Fiesclii: suo valore. — L’idea della Storia d'Italia. erso il 1630 Agostino non pensava più davvero a compor versi. L’eloquenza, nelle sue varie forme e coi suoi particolari motivi immediati, gli avea fruttato, oltreché fama universale, anche l’incarico proficuo d’insegnar rettorica neH’Università romana. Egli capiva però che il suo nome, per sopravvivergli, avrebbe dovuto raccomandarsi a qualcosa di più solido e durevole che non fossero le quisquilie poetiche della prima giovinezza o le ciance accademiche dell’ età matura. Si era bensì dato a tessere istorie e avea già messo fuori un piccolo saggio; ma le difficoltà incontrate, la poca disposizione a quel genere, la venalità e l’incostanza del suo carattere, e, diciamolo pure a sua discolpa, Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. 22 — 338 — la condizione di letterato eternamente sottoposto a padroni diversi e sospettosi, gl’ impedivano di mettere in pratica l’arduo disegno. Si decise allora a raccogliere invece in un trattato tutte le « private osservazioni » che di mano in mano gli erano occorse , preparandosi all’inadeguato cimento; e così ebbe origine Y Arte istorica. La qual opera , ben più adatta al suo ingegno e proporzionata alle sue forze, assunse un carattere e un’importanza più considerevoli di quelli ch’egli stesso non supponesse. Egli avrebbe voluto da principio tener solo conto della pratica, cioè indirizzare lo scrittore delle storie nella selva della materia, indicargli le varie forme onde presentarla decorosamente, e suggerirgli, come fine supremo, la verità. Gli amici, cui s’era, come il solito, rivolto per consiglio, lo persuasero invece a non trascurare le materie universali ; sicché, indulgendo al loro « gusto », svolse il tema in modo generale e definitivo (1). E, non ostanti i numerosi difetti, che pur cercheremo d’additare, questo fu il frutto più bello della sua mente vigorosa, ma tanto traviata; fu un lavoro d’idee, maturato attraverso l’esperienza e guidato dalla sapienza antica; fu un tentativo ardito, che dominò e s’elevò fra tanta rilassatezza e puerilità accademica, che affrontò, s’impose, vinse e visse. Non solo i contemporanei ne restarono ammirati, ma, più tardi assai, un retore valente e giudice severissimo , il Giordani, volle disseppellirlo dall’oblio in che giaceva, e indicarlo agli studiosi come « libro utile e ben scritto ». Per esso insomma Agostino entra trionfalmente a occupare un buon posto nella storia delle nostre lettere. Prima di trattare delle sue fonti, vediamo che cosa mai quest’arte contenga e come si presenti. (x) Arte, ed. cit., p. 7-8. — 339 — Il nostro trattatista muove proprio dalla definizione della storia e, dopo aver largamente criticato tutte le opinioni degli antichi, dice d’intendere per istoria, così alla buona (« popolarmente e senza metafisica »), « quel i acconto che far si suole degli accidenti che occorrono, e si conserva ne’ libri ». Quindi, tralasciando di considerare le pitture, le inscrizioni, gli archi, le colonne e somiglianti memorie pubbliche, che sarebbero i fonti primissimi e « mutoli », passa senz’altro a catalogare e ad esaminare le più antiche scritture di carattere storico, le effemeridi, gli annali, le cronache, i commentari, le biografie; e a segnare i rapporti che la storia ha con parecchie altre discipline, come la geografia, la cronologia, la cosmografia, la topografia, l’etnografia. La materia della storia, egli avverte, abbia ad esser nobile: il suo fine duplice, cioè l’utile e il diletto. [Tratt. I], La prima « condizione » della storia deve essere la verità, che può spesso mancare per la malafede degli scrittori o per la difficoltà delle indagini o per la tirannia della pubblica opinione o per l’ignoranza e la poca liberalità dei prìncipi, gelosi custodi dei loro archivi. Tal condizione sia sottoposta alle regole che già furono divisate da Cicerone: anzitutto lo storico non dica il falso e perciò non muti nulla, nemmeno i nomi delle persone, e non ricorra mai al maraviglioso per abbellire i fatti; in secondo luogo, non tralasci il vero, anche se questo denudi il vizio; se mai, trascuri quelle notizie che reputa dannose al pubblico e nel medesimo tempo di semplice curiosità; in terzo luogo, non si lasci traviare dal desiderio dell’ adulazione, dal timore di particolari vendette, da un eccessivo amor di patria; infine compartisca la lode e il biasimo secondo il giusto, senza mai cadere in sospetto [Tratt. II]. A questo punto — 340 — il Nostro si domanda quale sarà la persona più acconcia a scrivere storie: non certo i prìncipi, che a tutt’altre occupazioni hanno a rivolger la loro attività, non gli uomini di Stato, le cui attribuzioni sono incompatibili con l’obbligo della verità. Costoro piuttosto possono preparare e procurare allo storico le effemeridi. Può anche darsi che qualcuno di essi vi riesca, ma lo storico ideale dev’essere un « uomo privato », indipendente , con ingegno più maturo che acuto, accompagnato sempre da un pesato giudizio e dal buon abito della prudenza ». Indagati appresso i rapporti fra la storia e la filosofia civile [Tratt. Ili], ed esposta in un intero trattato, a mo’ di digressione, tutta la sua teoria sullo stile, della quale s’è già tenuto parola [Tratt. IV], egli prende nell’ultimo a dar norme sempre più pratiche intorno alla forma della scrittura storica, perchè l’artefice sia guidato quasi per mano nella composizione delle concioni, nell’uso della lode e del biasimo, nell oidine dei fatti e nella scelta delle transizioni, dell' elocuzione, delle descrizioni e dello stile che alla storia sia peculiare [Tratt. V]. Questo lo schema generale dell’opera, la quale però avrebbe dovuto, secondo l’intenzion dell’autore, ìecaie un sesto trattato, ov’egli aveva pensato di ritrovale in una storia moderna « gl’insegnamenti dell’arte, esaminandola con le regole che a se medesimo prescrisse Plutarco nella censura d’Erodoto e con qualch altra considerazione dell’Alicarnasso ». Il sesto trattato non fu aggiunto ; « perchè (egli avverte nell’ ultima pagina) non ho fin’ora avuto certe notizie, qual se ne sia la cagione, che non pur bisognevoli stimo, ma necessarie, non ho voluto che quest'opera m’invecchi in mano, e mi logori inutilmente gli anni dietro le lusinghe della speranza », dal che io ricaverei senza molta titubanza che l’opera — 341 — iti questione fosse precisamente la sua Storia d’Italia in continuazione di quella del Guicciardini (1). Ora, a chi prenda in mano questo trattato, dopo aver scorso tutta la produzione accademica del Nostro, non può nascondersi la differenza grandissima dello stile, che qui appar spoglio quasi sempre delle continue peregrinità e delle volute ampollosità. In generale, il periodo corre riposato e giudizioso, e le idee non si trovan soverchiate dalle parole. E cosi del resto doveva accadere , perchè 1’ opera, più lunga assai di tutte le altre fino allora composte, meno permetteva di tender l’arco dell’ intelletto nell’ inseguimento di vaghezze formali ; perchè poi 1’ autore stesso voleva questa volta compierla non a edificazione dei lettori, ma a loro vantaggio, o, per dirla con lui, « non come ornamento , ma come arnese di mestiere »; infine perchè ebbe il tempo di meditarne il contenuto, di apprezzarne il valore e di prepor questo alla forma , con quel naturale criterio che non gli difettava , specie negli ultimi anni della sua avventurosa esistenza. Non è già che vi manchi erudizione a tutto spiano. Narra anzi egli stesso che, indeciso se attenersi, come alcuni pochi gli suggerivano, a puri concetti, o corroborarli con la fonte, si era recato per consiglio presso alcuni dei più autorevoli suoi amici; e « tutti concordemente conchiusero esser insoffribile la seccaggine di coloro che volevano astrignerlo a pubblicare le nude regole deH’istoria, senza arricchirle di ornamenti eruditi », sicché egli non si era sentito il coraggio di parere « poco pratico del genio di questi tempi » (2). (1) Arte, Avvertimento, p. 475. Anche a p. 81, dice: « Mi conduce in questo pensiero 1’ esame eh’ egli medesimo [Plutarco] fece dell’ istoria d’Erodoto, in cui sparge sì belle regole ch’io già l’ho destinato per far, quando che sia, uno scandaglio di certo istorico italiano, con speranza di buon successo ». (2) Arte, p. 5- — 34^ — Ma questa erudizione non riesce così indigesta come quella dei discorsi, chè la citazione, invece d’essere fine a se stessa o servire d’imbottitura, puntella qui di volta in volta il ragionamento e offre materia di critica geniale e sottile allo scrittore. Ed è qui più che mai diretta, condotta cioè, per istudio fatto dallo scrittore, con meravigliosa costanza (1), sopra autori latini, specie su Cicerone, « che a guisa di gran maestro in picciol fascio tutti i migliori insegnamenti restringe » o sopra greci, non riportati dall’ originale, ma dalle traduzioni di Leone Allacci, di Pier Vettori e di Marcantonio Majo-ragio, con preferenza accordata ad Aristotile, di cui egli segue sempre le divisioni e tenta nuove interpretazioni là dove scoppia il conflitto fra 1’ opinione sua e la tradizione. Peccato eh’ egli manchi anche qui spesso del senso della misura, chè, nell’esposizione teorica, obbedendo alla naturale sua inclinazione, sdoppia, allarga, diluisce 1’ altrui pensiero, analizzandolo , perseguendolo in tutte le sue minute articolazioni, in tutte le sue pieghe più riposte, in tutti i suoi molteplici aspetti. S’ha quindi un’inevitabile prolissità sotto la foga di periodi interrogativi balzanti e rimbalzanti, fra un incalzare inesauribile di argomenti che, visti dappresso, non differiscon fra di loro se non per gradazioni insignificanti. Eccovi dunque anche qui, un po’ corretto e trattenuto, il retore. (i) Anche quando tratta argomenti, a sostegno dei quali altri ha citato e allegato testimonianze e opinioni, egli vuole aggiunger qualcosa da lui personalmente trovato. Valga , per esempio , questo avvertimento con cui comincia il cap. V del trattato V, p. 365 dell’ed. cit.: « Ancorché l’eruditissimo Vossio nel soggetto intorno a cui s’ aggira per ora la nostra penna [Dell’ordine da tenersi dal componitore dell’istoria, e delle transizionii], abbia con diligenza raccolti in uno i luoghi degli autori famosi, onde a noi in conseguenza la messe assai povera ne rimane, ande-remo tuttavia ristoppiando, non senza sicurezza di frutto ». — 34.3 — I uttavia in questa trattazione l’ammaestramento per via universale si mescola sempre con quello pratico, dacché s’ esemplifichino il più delle volte le teorie con brani improvvisati dallo stesso scrittore o luoghi d’autore che tornino acconci alla dimostrazione. Il Mascardi ha quindi spessissimo occasione di rivolgersi ai contemporanei , non solo per rimproverarne le scritture, bensì anche per biasimarne gl’intendimenti e gli atti politici, le istituzioni e gli ordinamenti militari, e le consuetudini civili ; e già s’ è visto come tale arbitrio avesse a stuzzicare la suscettibilità di alcuni stranieri e a procurargli delle noie (1). In ogni modo i suoi dettami, specie quelli teorici sull’ arte, non son sempre così recisi ch’egli non consenta mai qualcosa dell’opinione contraria, restando quasi in una via di mezzo, che obbliga il lettore a dargli sempre, o poco o tanto, ragione ; il qual fatto è, a parer mio, conseguenza inevitabile della necessità di conciliare certi suoi concetti sintetici aprioristici con altri che 1’ analisi dei vari elementi rendeva o mostrava inattuabili nella pratica. E principale tra gli errori suoi era quello di credere che si possa e anche si debba subordinare ogni prodotto dell’ umana intelligenza a determinate regole, anziché a quel giusto criterio che una mente matura e uno spirito ben disciplinato hanno sempre in pronto per ogni singolo caso. La composizione dell’opera rivela perciò subito un difetto di metodo. Il Nostro ha della storia un concetto largo e maestoso; e insegna a mantenerne con ogni mezzo il decoro : col fuggire le narrazioni frivole, col renderla maestra di virtù e di buona politica, col vestirne di grave (i) Oltre i brani già citati, che suscitarono le proteste politiche, ved. Arte, p. 138, 147 e 195. — 344 — stile la materia. La lettura dei fatti trascorsi doveva, come appunto la pensava Cicerone, non solo dilettare, ma anche, e forse ancor più , ammaestrare. E in qual modo? Non già per sè stessa, ma per l’arte e gl’intendimenti di chi esponeva quei fatti. La storia va di pari passo con la filosofia civile e ha di comune con questa 1’ utilità pubblica: perciò è còmpito dello scrittore notare di mano in mano l’insegnamento che si può ricavare dai vari avvenimenti, « acciocché i casi degni d’esser notati non sieno per avventura inavvedutamente trascorsi ed abbia il lettore qualche ritegno che dalla frettolosa lettura alla seria considerazione degli accidenti umani lo richiami » (1). La differenza tra gli ammaestramenti dei filosofi e quelli degli storici, sta nel modo di presentarli: chè quelli li svelano per via di precetti, questi invece in maniera indiretta ed obbliqua, facendo quasi scaturire i precetti dai fatti. Quando poi lo scrittore di storie si troverà a descrivere i vizi de’ grandi, il che pur non è da tralasciarsi per viemmeglio collocare in luce la virtù, lo faccia solo per dare necessaria notizia della loro vita, accennando piuttosto agli abiti che agli atti e riportando la pena ricevutane. Che se poi questa manchi, egli stesso abbia a punire « con parole convenienti i misfatti che narra, non già con fabbricare intempestivamente un’invettiva, ma descrivendo 1' eccesso altrui, in guisa che dichiari la buona mente sua e l’animo intero nemico del mal oprare ». Siccome poi le storie sono specialmente da darsi in lettura ai giovinetti, esse devono alla fine essere una « filosofia composta di esempi » e anzi assai più proficua della filosofia morale, giacché non recan le verità morali in (i) Arie, p. 198. Ved. per 1’ argomento tutto il cap. II del tratt. Ili, p. 173 e sgg. — 345 — astratto, poggiandosi all’universale, ma quasi in « concreto », cioè direttamente sul fatto, senza perdersi nell’avviluppato discorso al quale soggiace inevitabilmente il filosofo. Così, mentr’ egli in certi luoghi raccomanda ostinatamente di non trattare cose che all’ argomento non paiono attinenti, quando invece discorre di questo fine, trova opportunissimo che lo storico intercali alle vicende politiche il racconto di quel toscano Sperina che, avvedutosi di sollecitar con la propria bellezza gli occhi di molte « nobili e onorate matrone, confuse con volontarie ferite la gentilezza della sua faccia e volle piuttosto nella deformità richiedere il testimone della propria innocenza che nella bellezza lasciar un’esca alla libidine altrui » (1). Ecco del resto che avrebbe fatto egli stesso, dovendo tracciar l’istoria d’Italia: « E s’io dovessi descriver l’istorie degli anni addietro, fra le materie importantissime di stato e di guerra, darei luogo nobile e onorato, quanto per me si potesse, alla generosità di una giovinetta di villa, la quale, non lontana dagli amorazzi dei suoi paesi, da lei stimati piuttosto costume che affetto, fu con preghiere caldamente sollecitata più volte, ma sempre indarno, onde, vinto alla fine l’amante dalla violenta passione che ’l tormentava, seguendola un giorno in campagna, prima con le supplicazioni e con le lagrime tentò d’intenerir quel cuore, che reso impenetrabile dalla costante onestà, risolse poscia furiosamente di trafigger col ferro; ed ella, non meno intrepida alle minacce di quel che fosse stata incorrotta alle lusinghe, aspettò il ferro indegno, e cadde morta a’ piedi dell’infelice amatore. Valorosa più di Lucrezia, perchè la vita volle offerir come vittima alla pudicizia incontaminata ed intera ; dove Lucrezia tentò col (i) Arte, p. 176. — 346 — sangue di lavar la macchia della fama infamata e della disonorata onestà. Sì che quando in casi tanto memorabili, benché privati, la penna dell’istorico s’incontrasse, stimerei che, tacendogli, oltraggiasse in gran maniera il merito della virtù, e privasse i posteri degli esempi più nobili e valorosi; e questo per quel che ad un’istoria grande appartiene » (1). Tal concetto, che anima tutto il volume, non era suo soltanto. Nel Mureto, Fa-miano Strada, uno degli autori più studiati e stimati da lui, « uomo », egli dice in altro luogo (2), « da me stimato come si conviene », ve lo troviamo identico: « E davvero, mentre appaio la parte della filosofia che tratta e mostra i vari costumi con la storia che testimonia i tempi e ci riporta i fatti antichi, scorgo pure che hanno entrambe per fine ultimo e per comune proposito il vivere con saggezza e costanza in mezzo al consorzio umano ; ma vedo che esse giungono per diversa via a questo fine: la filosofia ciò ottiene con salde argomentazioni intorno alla natura delle virtù e dei vizi, la storia ciò mostra compendiosamente con esempi......; laonde permettiamo che lo storico nella sua narrazione introduca come documenti di virtù i fatti degli avi » (3). Però più che da autori recenti come lo Strada, il Nostro traeva la sua convinzione direttamente dai modelli antichi greci e romani; chè, se al documento antico da lui interrogato non avesse corrisposto l’opinione dei dotti del suo tempo, egli sarebbe stato prontissimo a confutarla, secondo il suo costume. Già s’è visto quale fanatismo egli sentisse per la sapienza antica. Ora gli storici perfetti erano appunto Polibio e Sallustio, i quali (1) Arte, p. 64. (2) Arte, p. 292, (3) Mureti P. I, lib. II, prol. II, p. 203, in Famiani Stradae Prolusiones, Lugduni, Cardon, 1617. — 347 — usavano sentenziare austeramente sui fatti, anzi non si introducevano nell’argomento se non dopo alcuni preamboli filosofici. Guai a chi avesse osato disconoscere la loro perfezione! Egli ebbe parole roventi per bollare il Macci, che volle nella sua Arte avvilir quei sommi; e lo chiamò « insolente declamatore », pedante, ignorante e « vilissimo insegnator di grammatica » (1). Oltreché moralista, lo storico doveva essere abile nel maneggio della lingua e nell’ uso di quegli artificj che servono ad animare la materia: « ond’ è da piangere (esclama il Mascardi) l’infelicità dei tempi correnti dove ognuno alla rinfusa, purché sappia scriver soltanto quanto basterebbe a notar nel libro di bottega il debito e il credito, affronta temerariamente l’istoria, senza guer-nirsi prima almeno di letteratura » (2). Egli sostiene che 10 storico con questi artificj può meglio arrivare a quel duplice fine di utilità e diletto che deve prefiggersi, perchè con essi vivifica le cose trascorse, le commenta, le drammatizza. E, sotto certi rispetti, la massima è giusta. Anche oggi allo storico si richiede non soltanto 11 procedimento positivo, ma anche la forma espressiva, e più ancora la geniale intuizione dei fatti e dell’indole dei personaggi, affinchè gli uni si rivelino in tutte le loro riposte ragioni e gli altri si presentino alla fantasia con la maggior vivezza possibile. Però gli artificj, ai quali il nostro trattatista ricorre, son sempre quelli che trova in Sallustio, in Livio e in altri antichi, unicamente (1) Arte, p. 207. L’invettiva contro il Macci è la più violenta, ma innumerevoli sono i luoghi ove combatte i denigratori degli storici antichi. (2) Arte, p. 35. Anche a p. 422 dice che « degna di castigo è la temerità di que’ ciabattieri, che mal guerniti d’ eloquenza e d’ingegno, affrontano un mestiere, per testimonio di Catulo e d’Antonio presso Cicerone, riserbato agli oratori di conosciuta e di sovrana facondia »; ved. pure, a p. 160, uno sfogo del genere. — 34« — formali e meccanici, come a dir le concioni e le digressioni. Egli riprende la dibattuta questione se le concioni siano o no da comporsi, e finisce per ritenerle opportune, anzi indispensabili, se regolate dai precetti dell’arte. « Se dunque l’istorico bene informato dell’avvenimento che scrive, e della natura, del genio, dell’inclinazione, degli affetti, degl’interessi e dei costumi degli operanti, sapendo di più che nel condur quel maneggio si camminò con diversità di parere, in un consiglio di Stato, o in un senato, va con 1’ applicazione della sua congettura figurandosi nella mente la diceria di coloro; io per me stimo che niente meno s’ apponga, nel ritrovamento delle parole in sostanza, di quel ch’altri farebbe nel penetrare, per quelle vie medesime, l’intima verità del negozio ». A convalidare quest’opinione, egli porta dei paragoni molto calzanti : l’ambasciatore, che può benissimo compiere il suo ufficio con iscrupolo , pure interpretando con parole sue il pensiero del suo signore e adattandosi al luogo e alle circostanze eh’ egli co nosce; il segretario, che non s’allontana punto dalla verità, stemperando in lunghe lettere gli ordini che ha ricevuto dal padrone con due semplici parole; e va dicendo (1). Questa dell’ opportunità delle concioni era idea condivisa dai più dotti ; e ricorderò solo un uomo di perfetto criterio , il cardinal Bentivoglio , che in un capitolo interessantissimo delle sue Memorie, prese ad esaminare le opere storiche dei suoi contemporanei (2). Riguardo alle digressioni, pur si diceva propenso ad usarle contro il parere di molti, giacché « l’istorico non solamente contro l’arte non pecca, spargendo di digressioni l’istoria, ma tradirebbe la giusta curiosità del let- (1) Arte, p. 115 e sgg. (2) Memorie, Venezia, per Giunti e Baba , 1648, lib. I, cap. IX, pagina 125 e sgg. — 349 — tore tralasciando le necessarie e priverebbe dei più stimati lumi dell’ arte 1’ opera sua non formando le lodevoli, come che possa astenersi da quelle che gli si tollerano e debba fuggire l’ultime che gli si rifiutano » (1). Non manca quindi di dare poi i precetti delle concioni e delle digressioni così difese, ricavandoli specialmente dall’esempio degli antichi e alcune esemplificandole col suo naturale giudizio (2). In sostanza egli conchiude che le concioni istoriali non differiscono gran fatto da quelle dei retori, se non forse in un numero più scarso di spiriti che raggentiliscano la materia o di ornamenti pomposi che la sollevino: le digressioni hanno ad essere richieste dalla necessità e comprendono « descrizioni...... de' siti, de’ tempi, degli strumenti, de’ costumi delle genti , delle forme del lor governo, delle consuetudini de’ popoli, delle cerimonie delle cose sacre e d’altre particolarità », ma devono usarsi con parsimonia e aver moderata lunghezza (3). Nè le concioni e le digressioni sono gli unici artificj cui si ricorre con frutto. Nell’ ultimo trattato il Nostro vi parlerà delle transizioni, dell’ordine dei fatti, di certi caratteri attinenti allo stile ; e vorrà persino amplificazioni, sentenze, entimemi, epifo-nemi (4). Per raggiungere il suo fine di utilità e diletto, deve dunque la storia, secondo il Nostro, avere un contenuto di filosofia civile, che il genere stesso vuole aneddotico (1) Arte, p. 209. (2) Arte , p. 218: « Or facciam passaggio alle regole, le quali da niuno degli antichi, per quel ch’io sappia, formate, ci pongono in necessità d’accomunar con la dovuta proporzione, alla digressione istorica que’ precetti, che dell’ episodio poetico e dello svagamento poetico si trovan dati ». (3) Arte , cap. IV del tratt. II ; cap. IV del tratt. Ili ; cap. II e VII del tratt. V. (4) Cap. IX, — 350 — e indiretto, e una data forma che può intendersi tra la filosofica e 1’ oratoria. Ma queste condizioni vanno subordinate ad un’ altra, che sarebbe la più scrupolosa osservanza della verità: il procedimento scientifico nella storia sta quindi al contenuto gnomico e all’elaborazione artistica come il fondamento di un edificio alla consistenza e agli ornamenti dei suoi muri. E, per osservare la verità , onde 1’ ammaestramento sgorga poi solido e proficuo , non ha la storia capitale più certo « che la sicurezza delle notizie, le quali come in un sacrario do-vrebbono negli archivi delle repubbliche e dei principi serrarsi ». E qui il Nostro, attenendosi sempre, corn’ egli dice, agli universali, si fa a descrivere un tipo perfetto di storico, scevro d’ogni umana passione, d’ogni tradizionale preconcetto, d’ogni servitù morale e materiale. Ha creduto perciò di dover procedere ad una distinzione tra il fine tutto personale dello storico e quello ultimo della storia, ottenuto esclusivamente mediante il vero. « Suppongo in primo luogo che la questione cada sopra il fine non dell’ istorico , ma dell’ istoria. Perchè non è l’istesso quello che nel suo lavoro si propone l’artefice e quello ch’è stabilito in riguardo dell’arte. Fabbrica il frenaio un freno per la mercede che ne spera dal cavaliere; e questo è l’unico fine de’ suoi sudori; ma l’arte fabbricatrice lo forma a fine che con esso acconciamente il cavallo si governi e si regga. Qual sia il fine di chi scrive l’istoria, Iddio sei sa; non è senza dubbio in ciascuno l’istesso ; perchè altri può rivolgersi all’utile che ne pretende; altri, sollecitato dal desiderio della gloria, vuol lasciar nel racconto degli altrui fatti il suo proprio nome vivente ed eterno ; altri s’ apre un bel campo per far pompa d’eloquenza e d’ingegno; altri disegna di conservare a’ posteri le gloriose memorie della sua nazione; altri s’ingegna di servire a tutto suo — 35i — potere all’utile della repubblica: insomma, quanti sono i componitori dell’istoria, tanti possono essere i fini che alle lor fatiche propongono. Nel secondo luogo io dichiaro che non del fine che si nomina immediato, il quale sotto diversa considerazione può dirsi anzi mezzo che fine, argomento di ragionare; perchè di questo non si quistiona fra valent’uomini; ma dell’ultimo, che però nell’intenzione è primo » (1). Un valente critico, or non è molto, ha voluto veder qui come una concessione a questi privati scopi dello storico e, ripetendo parte di questo luogo, concluse che « si viene ad ammettere (e qui sta, per dirla con Dante, il velen dell’ argomento) che uno storico possa proporsi un fine tutto personale, senza perciò derogare al fine supremo cui deve mirare l’opera sua » ; e aggiunse : « E cosi purtroppo l’avranno intesa tutti quegli storici, e il seicento n’ebbe più d’uno, che fecero turpe mercato della lor penna » (2). Ma, se ben veggo , il Mascardi non ammette affatto che i due fini, il personale e l’ideale, possano coesistere senza danno e ripugnanza: bensì che essi pur troppo coesistano. Egli li constata nello storico in quanto questi è uomo e non può facilmente sottrarsi a certi suoi propri motivi ; e li constata per dichiarare a quale dei due, dacché entrambi nella pratica si vedono esistere, voglia lui stesso restringere la sua trattazione; chè anzi, rispetto alla molteplicità dei fini personali, non può trattenere quell’ « Iddio sei sa », che è quasi un sospiro di combattuta rassegnazione. Ed egli esclude subito il primo fine, il personale e immediato, dalla cerchia delle sue considerazioni [il che non ha reso evidente il critico cui ho accennato], proprio come dovea fare e come (1) Arte, p. 73 e sgg. (2) Antonio Belloni, II seicento, Vallardi, 1899, p. 541. — 352 — facevano i « valent’uomini », che s’occupavano di storiche discipline. La distinzione ha dunque soltanto un valore esplicativo, e, poiché essa è tanto vera nei suoi elementi quanto nobile nell’ intenzione del trattatista, in verità non saprei tacciare qui il Nostro di malafede. Nè siamo indotti — il lettore se ne sarà più che convinto ormai —, a proposito di tale indulgenza verso il Nostro, ad impugnare, per difenderlo, qualunque lancia, anche se spuntata o arrugginita. E tanto più ci sembra d’esser nel giusto giudicandolo siffattamente, quanto più lo vediamo, e con elevato intendimento, raccomandare al suo storico, per circa novanta pagine fitte, di subordinare qualunque suo interesse particolare all’ ideale condizione dell’opera, ossia alla verità. Basti questa conclusione: « Per conclusione di questo trattato intenda l’istorico che la coscienza e la riputazion sua vanno indivisamente accompagnate con la verità, e che non deve, mentre procura altrui l’immortalità co’ suoi scritti, procacciare a sè medesimo l’infamia. Riguardi con necessaria provvidenza la posterità, il giudicio della quale, come lontano dalla passione, sarà incorrotto e sincero; e vegga se gli mette bene al prezzo degli onori e degli utili, lorse indarno pretesi da personaggi viventi, comperar 1’ odio de’ posteri ed un’ eterna macchia al suo nome. Consideri che all’opere dell’intelletto, parte così principale dell’anima, troppo vile è la mercede dell’ argento e dell’oro, che può essergli somministrato da chi vorrebbe farlo mentire; e con generosità degna d’un animo ben disciplinato e composto, non chiegga fuor di se stesso il guiderdone delle sue letterate fatiche. Anzi, rinvolto nella sua propria virtù e ricco di quell’ onoratissimo patrimonio che si distende oltre l’imperio della fortuna e non soggiace alle voglie stemperate de’ prìncipi, accetti gli onori e i comodi se gli vengono offerti, — 353 — non gli richiegga se negati; ma con un tenore invariabile di mente salda e costante, rimiri tutte queste bassezze umane come inferiori alla grandezza dei suoi pensieri » (1). Del resto vedremo subito ond’egli abbia tolto quella benedetta distinzione del fine che costituirebbe il principale capo d’accusa contro di lui. A proposito poi della verità storica e delle difficoltà che lo scrittore inevitabilmente incontra cimentandosi all’ arduo e doveroso còmpito di osservarla con iscru-polo , ebbe il Nostro, pochi giorni prima di mandare XArte allo stampatore , un colloquio , in Roma , nella Chiesa di S. Pietro in vincoli, con parecchi illustri personaggi suoi amici, fra i quali il conterraneo Cardinale Laudivio Zacchia e i suoi famigliarissimi Giacinto Massa e Antonio Cicalotti. Un testimonio oculare, il Pirani, racconta che in quell’ occasione fu letto tutto il volume e che piacque ai presenti, specialmente « per il buon ordine e distribuzione delle materie », ma che quasi tutti restarono poco persuasi dell’opportunità di quelle raccomandazioni da lui fatte allo storico di seguire in tutto e per tutto la verità. Si sapeva che il Mascardi stava allora lavorando intorno alla sua Stona d'Italia, e gli si opposero, con casi specifici, le difficoltà eh’ egli stesso avrebbe dovuto superare per uniformarsi agli stabiliti precetti. Come avrebbe egli potuto sfuggire la vendetta de’ prìncipi disgustati, quando fosse stato necessario toccare dei lor propri errori politici e amministrativi o di quelli dei loro antenati? Come riuscire al vero se i documenti fossero tenuti gelosamente nascosti? Il Mascardi rispose ad entrambe le quistioni sostenendo che la verità stessa , una volta documentata, gli sai ebbe stata d’ usbergo presso la maggior parte dei popoli, e (i) Arte, p. 157. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Voi. XLII. 23 — 354 — che, se non gli fosse riuscito d’ ottenere i dati necessari per giungere sempre alla verità e scoprire l’intendimento del prìncipe, il suo còmpito, trattandosi allora di un caso di forza maggiore, era già finito, e con lode, riferendo l’opinione pubblica o la sua, improntata al naturale buon senso. Il colloquio ci sembra interessantissimo e non possiamo tralasciare di riportarlo, per la penna del Pirani, che lo fissò in appunti nel tempo stesso in cui si svolgeva: Diceva il Signor Cicalotti: Fuss’ella a’ nostri dì in uso tal legge che i padroni deputassero uomini a posta di comporre l’istorie : ma che la fatica non fusse infruttuosa ! Ma chi sa poi (quasi rivocando il suo detto soggiungeva) : se lasciassero scrivere ogni cosa? — Questa è buona dubitazione (disse il signor Giacinto) avvenga che contra l’istessa Repubblica Romana corre certa opinione d’ aver tenuto mano che l’istorie loro si pubblicassero e si componessero in quel modo che sono. Vero è che qualch’alterazione può esser accaduta negli accidenti o, come volgarmente si dice, nelle circostanze, non avendo mai alcuno posto in dubbio che di tante provincie e nazioni, come si racconta, i Romani non siano stati vincitori. — Vostra Signoria ha mossa e sciolta la difficoltà, disse il Signor Agostino , al quale replicò il Signor Cica-lotti : Vostra Signoria, che ha talento di far l’istoria, avra poi l’animo di farla come va fatta ? — Io, rispose quello, non mi tengo in tanto nè maggiore di Tito Livio e d’ altri che tutti o sono incorsi o ripresi d’alcun mancamento. — Voglio dire, soggiunse Monsignore, che Vostra Signoria sara tenuta d’osservare le regole da lei medesima in cotesto libro approvate per buone, e tener dritta la penna senza piegarla in favor d’alcuna parte; avendo io solamente viste dell’opere sue l’orazioni in soggetto laudatorio e quell’altre delle Pompe del Campidoglio. Forse farà violenza al suo genio parlare in suono contrario, come sovente nell’istorie si vede: le quali rare volte contengono cose tutte buone. — Monsignor mio , rispose il Signor Agostino, in quest’ opera che mi vede in mano , non 355 — ho voluto mettere i precetti intorno alla verità che nell’ istorico si richiede ; nè questo conveniva, come nè anco i vostri Dottori di legge insegnano la giustizia, ma il modo e ’l lume dànno d amministrarla. Quando verrò da me stesso a metter mano alla composizione (il che spero di fare), m’ingegnerò che sia, quanto mi sarà concesso, lontana da ogni adulazione, nonché dalle falsitadi. Che siccome a voi altri che amministrate la giustizia è lecito di sentenziare conforme al diritto, perchè non potrò ancor io e qualsivoglia scrittore conoscere e pubblicare la verità ? — Noi altri, rispose il Cicalotti , abbiamo 1 appoggio dei Dottori, i quali hanno scritto prima : per lo più ancora le nostre sentenze vanno contra persone di bassa mano, come si dice. L’istorie feriscono le azioni dei gran Signori, i quali molto più stimano la riputazione che può loro nascere o diminuirsi con le parole dell’ istorico, che forse un privato non stimarà la robba che perde in vigor delle nostre sentenze. — Vostra Signoria, disse il Mascardi, parla così franco come se nei tribunali non si ventilassero cause d’onore e della vita. — A questo rispondo , ripigliò il Cicalotti : le nostre sentenze e le pronunzie giuridiche sono di tanto peso che nel medesimo tempo seco portano l’esecuzione contro chi volesse contra di noi procedere ad vindictam. — Ed io replico a lei, soggiunse il Signor Agostino, esser non solo di Vostra Signoria, ma d’ogni altro che faccia il medesimo discorso, gravissimo errore il credere che uno storico valoroso, ancorché a guisa d’un Commissario della Vicaria di Napoli non abbia seco i ministri del terrore, non spaventi e non punisca rigorosamente quelli dei quali l’opere iniquamente fatte si raccontano. Chi così crede , non ha talento di giungere a considerare quanto vivamente ognuno, massimamente i Grandi, si persuada d’esser savio e di merito e degno di gloriosa fama. Se poi, mettiamo per esempio , con una guerra ingiusta ed importuna nei suoi Stati, anzi universalmente nel mondo, introduce scandali e perturbazioni, quando di lì seguono desolazioni di città, effusione di tesori e di sangue umano, e quando per ultima delle disgrazie conviene quasi cedere e fare a proprio dispetto una pace : com’ esser può che l’istorico, tutto — 35^ — questo narrando, con la verità palese faccia ingiuria ? Ovvero, come può stare che l’autore di quei mali non si senta trafiggere la coscienza d’amarezza e di pentimento ? — Circa questo — disse Monsignore — sarei di parere che dovesse l’istorico molto ben considerare prima di mettere in carta, potendo essere nella mente d’un Principe cause urgentissime d’aver guerreggiato. — Quando cotesto sia vero, Monsignor mio , disse il Mascardi, sarà vero in negozio privato, che in un colpo della podestà assoluta si può muovere e terminare. Ma dove si chiamano, anzi si sforzano ad entrar nei pericoli tante migliaia di uomini, che pur son liberi, e aggiunga lei cristiani, tanto della vita, quanto delle facoltà e dell’onore, senza far apparire in pubblica notizia le ragioni di quello che si sa, almeno per accendere gli animi, per segno di stima, per eccitare l’acerbità delle detrazioni ed esecrabili imprecazioni ; negozio pare poco raen d’ empio e senza fallo imprudente ed infelice. Però dico a Vostra Signoria che all’istorico, non essendogli possibile di penetrare nel recondito dei cervelli, non si deve negare, almeno che non seguiti e non si tenga con l’opinione dei Savi ; quei Savi, dico, che non dall’evento, ma dalle ragioni più probabili formano il giudizio; già che l’istesso Principe non ha voluto fars’intendere pienamente. In fatti ve-desi che i padroni vogliono fare a lor modo. — Il Signor Giacinto avea così detto, quando il Signor Agostino: Vostra Signoria s’inganna, disse : vogliono sì, ma non sortisce, che, se al volere corrispondesse il fine, il mondo sarebbe d’altra maniera un pezzo fa, o tutto di Francia o tutto di Spagna o del Turco, niuno dei quali ha cara la divisione che dalla Provvidenza divina è così mantenuta. Tornando al proposito , le dico che da questa incomunicabile natura nascono i fini infelici dei loro disegni. Concedo bene ancor io che in molti casi basti la volontà di chi comanda per eccitare quella di chi ha da ubbidire. Un esempio le ne darò: Al Francese basterà di sapere che vogli il suo re guerreggiar con la Spagna : eccolo tutto armato pronto in campagna, perchè l’odio naturale vale più che 1’ esortazione. Ma quando ha voluto il re sdegnarsi contro un grande del suo regno , le circospezioni d’infinite — 357 — maniere gli è convenuto d’osservare prima di rompersi, non ad altro fine che perchè i popoli intendessero la buona mente del re esser violentata dalla necessità di castigare un contumace. Discorra Vostra Signoria nell’ istesso argomento: se ad un Papa desse mai il cuore o si presentasse il commodo d’una santa guerra contra gl’ infedeli, contra gli eretici nemici veri e indubitabili della Santa Sede i sudditi, pieni d’ obbedienza e di zelo, concorrerebbero al primo suono di tamburo e invito di tromba; e come che il contrario d’altre necessità, di che pure avvenir possono gran difficoltà, si trovarebbe a persuaderli la giustizia, non che 1’ onestà della guerra Ecclesiastica, s’ empirebbe ogni cosa di querele e disordini, non essendo i popoli sufficienti a veder quello a che devono esser illuminati dalla provvidenza che li governa. — Parlando qui, il Signor Antonio diceva: Cotesto sarebbe atto di prudenza e modestia, ma, Signor Agostino mio , da pochi o niuno sarà messo in pratica, avendosi la prerogativa del dominare per articolo indisputabile. — A che replicò il Mascardi : Così l’intendo ancor io. Ma, senza disperarmi, nel comporre l’istorie che vado divisando con l’animo, dommi a credere che, tenendomi alla più comune sentenza del mondo, averò soddisfatto alla fede e alla diligenza. Guardinsi i Principi quanto lor piace il segreto dei loro sentimenti (i). Ecco come la pensavano i contemporanei, e come invece il nostro Agostino ; e che questi avesse ragione sotto tutti i riguardi, non sapremmo affermare. Nulla di più giusto che il compatimento per le involontarie falsità degli storici in buona fede; nulla di più raro, per que’ tempi, che l’immunità di uno scrittore, il quale o-sasse biasimare le colpe dei principi. Ciò era lecito soltanto desiderare e sostenere in una trattazione teorica. Tant’è che alla pratica egli non venne e trovò molto più comodo godersi i vantaggi del chiasso fattosi (i) Pirani, op. cit., preambolo. Questi suoi concetti ritornano, e son forse stati aggiunti più tardi, neU’/lr/e; ved. il cap. II del tratt. II. - 358 - attorno che non cimentarsi subito ad un’ opera pericolosa quanto mai. Dopo tutto ciò, capiremo facilmente la ragione di certi giudizi ch’ei pronuncia sugli antichi e recenti scrittori di storia. Quasi tutti gli storici gli paiono menzogneri , perchè non s’ attengono rigorosamente alla verità; e « forse Cornelio Tacito (egli aggiunge), ch’oggi per lo studio della politica tiene nell’ opinione di molti il principato, sarebbe riconosciuto per più bugiardo degli altri » (1). Nè meno gli riesce difficile trovare chi nella composizione della sua scrittura, abbia lodevolmente obbedito all’ intento gnomico. L’ autore più esecrabile, perchè ha ridotto la storia a una scuola di turpitudini , è il Macchiavelli (2) : quello più ammirevole e utile il Guicciardini, il quale, ad ammaestramento della gioventù, non ha trascurato di intercalare, tra le materie politiche, il racconto, ad esempio, del figliuolo morto di dolore sulla tomba paterna (3). Perciò egli di proposito si fa a difender quest’ ultimo dalle accuse di Giovan Battista Leoni, di Sebastiano Macci e di molti altri, che di lui « dolgonsi........ con parole indegnissime » (4). Altri autori suoi prediletti sono Paolo Giovio e il Cardinal Bentivoglio, di cui spesse volte riporta (1) Arte, p. 88. (2) Nel discorso Delle speranze della Corte ecc., dis. II, particella III, in Discorsi accademici, ed. cit., p. 102 e sgg.: « Uno scrittore del secolo passato si studia di persuadere che 1’ osservanza della parola non è necessaria nel principe. Stima egli questa puntualità dicevole ad un mercante per mantenimento del traffico, ma lascia il principe padrone di se medesimo : ora lo vuol volpe, or leone ed or centauro, che col valore e con la fraude e , quando fa di mestiere , col miscuglio di qualità umane e bestiali, regoli i propri affari...... L’insegnamento è pieno di scorno nè può tollerarsi in questo secolo in cui la bontà de’ signori non è capace di tali accuse ». (3) Arte, p. 64 : su questo scrittore ved. quanto dice a p. 120 e sgg. (4) Arte, p. 96, 120, 207. — 359 — - esempi e massime : futile gli pare poi il Corio (1), fazioso il Foglietta (2), falso il Sarpi (3). Quando il volume fu licenziato al giudizio degl’ intendenti, tutti lo trovarono un capolavoro, e special-mente per quelle caratteristiche conferitegli dal Nostro dopo di essersi consultato con tutta Roma. Il Benti-voglio , nelle sue notissime e, come avrebbe detto un secentista, memorabili Memorie, scrisse ben presto: « Con mirabile erudizione e insieme con singolare eloquenza fra i più moderni compose un pieno volume sopra l’arte istorica ultimamente in particolare Agostino Mascardi, uno dei primi letterati d’Italia e mio strettissimo amico ; e certo gli deve restare grandemente obbligata la istoria perchè egli nell’ accennato componimento non poteva più al vivo effigiarne la vera e perfetta istoria » (4). Il Papa Urbano Vili la considerava opera perfetta ; ed è fuor di dubbio che il Mazzarino, in Francia, si adoprasse a tutt’ uomo per spacciarne il maggior numero di copie e giovare in tal modo all’au- (1) Arte, p. 59. (2) Arte, p. 120. (3) Arte, p. 122. Lo pone nel numero di quegli storici « che nel rad-conto alcune circostanze lasciano di riferire, che cangiano la sostanza del fatto che si racconta », e , specificando , afferma che attinse certe notizie du Pietro Paolo Vergerio da Giovanni Sleidano, senza riportare le colpe che questo istorico tedesco imputa al vescovo di Capo d’Istria. « Dovunque nell’istoria del Concilio » aggiunge « si riferiscono i canoni che s’andavano pubblicando, con affettata diligenza l’istorico va rintracciando quel che loro poteva opporsi e con le più espressive ed efficaci parole che per lui s’è potuto, rappresenta al lettore i sentimenti di Calvino e di Chemnitio nell’antidoto, e nell’esame del concilio di Trento, di Chitreo e d’altri eretici (ma tacendone il nome): ed alcuna cosa v’aggiunge del suo senza far menzione alcuna delle risposte dottissime degli autori cattolici: onde rimane ivi il veleno senza l’antidoto ». Ecco qui un’eco delle censure mosse in Roma alla storia di fra Paolo e che dovevano condurre alla rivendicazione del Pallavicino. (4) Op. cit., P. I, p. 137- — 360 — tore che avea dovuto sopperire del suo alle spese. E taccio dei personaggi meno cospicui che in quella circostanza la levarono alle stelle (1). Ma non tardò molto la critica a fargli sentire i suoi morsi. Si trovò che difficilmente avrebbe potuto uno scrittore di storie ricercare una data norma in quella spessissima selva di considerazioni il più delle volte indecise e, non ostanti gli sforzi dell’autore, troppo teoriche. La si era creduta a tutta prima un prontuario, col quale alla mano non s’ avesse a sbagliar più nella composizione; e si scopriva invece ch’era in più luoghi un seguito di filosofiche disquisizioni. Ne conseguiva la necessità, che si sperava evitare, di rifarsi agli stessi scrittori antichi e sopra di essi studiare il modo per meglio riuscire a opera efficace. Pochi anni appresso, dopo la sua morte, questa critica, originata, come ognun vede, dal solito ingenuo sistema del tempo di riportar tutto a regole fisse, assunse forma artistica o satirica che dir si voglia, per mano di un epigono del Boccalini, di Antonio Santacroce, che dedicò al Mascardi le seguenti due lettere nella sua Segretaria d'Apollo: AD AGOSTINO MASCARDI È comandato da S. M. di regolare la diffìnizìone dell’ istoria. La stima che noi facciamo del vostro singoiar merito, vi è stata da noi significata con altre nostre lettere. Poiché le vostre composizioni erudite tutte sono state collocate nella nostra famosa libreria e la vostra statua è stata innalzata in molti luoghi in Parnaso con applauso di tutti li nostri lette- > rati, Noi desideravamo veramente di vedervi applicato alla composizione di una storia: la più bella, la più utile e la più (i) Cfr. Zeno, op. cit., to. II, p, 123. — 36i — dilettevole applicazione che aver possa uno scrittore della professione vostra ; imperocché, avendo voi la cognizione bastevole e lo stile purgato, vi averessi fatta una mirabile riuscita con sommo nostro contento et utilità del Mondo , il quale, dopo i nostri amati Enrico Catterino Davila e Famiano Strada, non ha avuto chi formi una storia con le dovute proporzioni. Ma , giacché non avete tanto di tempo come di genio e di sufficienza , vi comandiamo di regolare la diffini-zione della storia, portata da voi e da molti altri scrittori intelligenti di tal arte , i quali hanno insegnato come deggia scriversi ; e vi concediamo licenza di poter aggiungere nella diffinizione nuova, che essa sia una narrazione delle cose vere mescolata con un poco di adulazione, essendo di necessità il concederne, altrimenti non si troverebbe scrittore, il quale potesse impiegarsi in tale materia, senza pericolo ; e sarebbe necessario conchiudere che fino a questo tempo non sieno mai state scritte istorie. AD AGOSTINO MASCARDI S. M. non vuole obbligare gli scrittori delle storie a leggere l’Arte istorica da lui composta. Capitato in Parnaso il vostro libro dell’Arte istorica e da’ revisori nostri ammesso nella nostra famosa Biblioteca, dove sono eziandio tutte le opere vostre, da noi molto stimate per la erudizione, ci fu presentata una supplica di Enrico Catterino Davila per nome de’ scrittori d’Istorie, il di cui contenuto è di non essere obbligati da noi a leggere la vostra suddetta arte istorica, in cui, avendo voi avuto riguardo di apparire più dotto che buon Maestro, con lunghissime e tediosissime dicerie avete empito un grosso volume , a segno che, per attestato de’ nostri letterati, egli è impossibile imparare in esso in tanta varietà di cose senza consumarvi la metà della vita. E perciò noi, informati distintamente, abbiamo volentieri condisceso alla giusta istanza, mentre le regole di scrivere una storia possono impararsi nella lezione de’ buoni storici con brevità e minor confusione, e tanti scrittori hanno — 362 — saputo scrivere sommamente bene prima, e senza la vostra arte (1). Anche in Francia, ove il libro ebbe larga diffusione, si giudicò troppo farraginoso e poco interessante tutto quel congegno di note e norme (2). Si pensò quindi di compilarne dei compendi; e ben presto vi attese, con discreta accuratezza, Uberto Benvoglienti di Siena (3). Ma una critica particolareggiata di quasi tutta quest’opera non s’ebbe che dal Pirani già nominato, in un volumetto eh’ ei pubblicò in continuazione o per meglio dire in emendamento ad essa: volumetto che merita d esser sogguardato, non foss’ altro che per le buone raccomandazioni che ne fa il Fontanini. Tra il Mascardi e il Pirani corre una differenza capitale: quegli ha della storia un concetto vasto e filosofico, questi uno gretto e pratico. Nel primo capo il critico non si contenta di elevare, come già il Mascardi avea fatto, la storia a dottrina civile, ma rafferma più che mai il suo intento didattico moraleggiante e vorrebbe perciò che lo storico non si occupasse che delle cose 0 dei fatti contemporanei e riguardanti la nazione e i costumi dello scrittore , affinchè questi non abbia a correre dei rischi 0 ad aver scrupoli, accettando come buone certe consuetudini di altri popoli che possono essere invece « ab-bominevoli », e « movendosi ad odio ovvero affezione, senza merito e senza causa, di varie nazioni ». La definizione, eh’ egli vorrebbe sostituire a quella del Mascardi , sarebbe la seguente : « memoria pubblica di cose vere conservate in scrittura per utile della Re- (1) La segretaria d’Apollo di Antonio Santacroce, Venezia, Storti, i653. p. 313 e 383. (2) Cfr. Zeno, op. e 1. citt. (3) Si conserva ms. in un cod. della città di Siena, indicato dal Bar-toli, pref. all’ed. cit. dell 'Arte, p. VI. — 363 — pubblica », la quale presupporrebbe dunque il bando a tutte quelle notizie che, pur essendo vere, tornassero in qualche modo di danno allo Stato. Rispetto agli artificj, ai quali lo storico può ricorrere per la sua esposizione, egli vorrebbe che si tralasciassero le concioni, perchè la verità, specialmente quella utile e morale, basta per sè stessa a essere intesa, senza che i personaggi abbiano a parlare, sia pure interpretandola, come sopra un palcoscenico. E certo qui non ha torto: torto piuttosto ha, quando, movendo da questo concetto, tende a togliere ogni iniziativa, ogni intromissione dello storico nella materia. Questo compositore deve esporre soltanto i fatti e nuli’altro: ogni volta che volesse dir la sua, anche per chiarire, per avviare il lettore a comprendere le ragioni di un avvenimento, non potrebbe egli farlo senza passione: « non mai ricercherassi (dice) dal-l’istorico eh’ interponga il suo giudizio, che quasi non mai senza passione s’interpone ». Ognun comprende che da siffatto procedere deriverebbe un’ inevitabile monotonia nelle narrazioni, chè s’avrebbe un cumulo di fatti senza nesso tra cause e risultanze : s’otterrebbe materia storica, non storia. Senonchè il Pirani questo appunto desidera e insegna senza tante circonlocuzioni o sottintesi che « molta non sia la differenza fra la storia e la narrazione per via d’Annali ». Dopo il lungo sproloquio sullo stile, del quale abbiam già dato un cenno in altro capitolo, passa a studiare qual carattere più convenga alla storia, e ha in tal caso buone osservazioni. Egli non vuol più sentir parlare di stile elevato, mezzano e umile: lo stile sia temperato, chiaro, tranquillo e posato: si badi a narrare i fatti, in modo che tutti abbiano a conoscerli, e non si cerchi di riuscire gonfi 0 magniloquenti. Approva la critica del Mascardi alla maniera spezzata, che sarebbe, secondo lui, un tentativo — 364 — per allontanare gli scrittori dal buon uso ciceroniano. Si scosta infine da lui per 1’ ordine da dare alla narrazione storica, non potendo questa ammettere che l’ordine diretto cronologico (1). A parte i difetti giustamente rilevati dalla critica antica e moderna, l’opera trattatistica del Mascardi è dunque, come abbiam detto fin da principio, di non trascuraci valore, perchè ragiona filosoficamente dei cri-terj che debbono informar la storia, dei suoi intenti, del posto che questa disciplina tiene fra le varie scienze; e specialmente perchè ne ragiona anche con molta originalità d’idee e di considerazioni, fra l’ingombro continuo delle accumolate erudizioni, sebbene si diffonda a sviluppare il concetto ciceroniano dell’ utilità sua morale e didattica, anziché a insegnare ciò che per noi sarebbe cura precipua e costante, cioè lo sceveramelo, nella narrazione dei fatti, del vero dal favoloso, delle testimonianze attendibili dalle malfide. E ben a proposito il Bartoli, ritenendola per quella più compiuta e importante ancora ai giorni nostri, la volle tratta dal-l’oblio in che stava. Ma questo suo valore apparirà assai più notevole, se, ponendo mente ai tempi in cui fu composta, si sogguardino alcune delle più riputate Arti eh’ erano uscite in Italia prima della sua. Narra (1) Racconta il Pirani, a p. 8, che, avendo dovuto allontanarsi il Cicaloni e il Massa subito dopo il colloquio col Mascardi e non volendo questi ritornare in pieno meriggio nelle basse contrade di Roma, continuasse fra i « disoccupati » la conversazione sull 'Arte e eh’ egli stesso esponesse all’autore di quel libro certe osservazioni che gli avevano suggerito i capitoli sullo stile. Il Mascardi le trovò, se non giuste del tutto, in gran parte notevoli e pregò l’interlocutore di stendergliele per iscritto, intendendo di meditarle e soprassedere alla stampa di quei suoi luoghi che con le opposizioni del Pirani potessero onorevolmente emendarsi. Così nacquero i dodici capi, che il Pirani pubblicò più tardi, dopo la morte del Mascardi. — 365 — egli stesso che, per procedere coscienziosamente nel suo lavoro, s’era dato a ricercare con alacrità tutte le opere sull’ argomento che avessero potuto venirgli tra mano. Purtroppo degli antichi, i quali meglio dei recenti e contemporanei davano affidamento di acutezza e profondità di vedute, non poteva che invidiare le o-pere perdute di Luciano , di Dionigi Alessandrino e di altri citati negli elenchi di Suida e del Lampria: consultò quindi, oltreché gli scritti che lo potevano interessare pur non trattando di proposito il fatto suo, quelli recenti scovati presso gli amici e le biblioteche, e largamente usò di un’ antologia intitolata Penus artis historicae , la quale conteneva parecchi discorsi di scrittori del cinquecento, quasi tutti latini. E nel corso del-1’opera ha occasione di citarli tutti come sue fonti; e sono il Robortello, il Patrizi, il Viperano, il Foglietta, il Soardo, lo Speroni, il Beni, il Vossio e il Macci. Pochissimo avrà potuto giovarsi del dialogo di Sperone Speroni, che fa disputare tre dotti maestri del tempo, Silvio Antoniano, Paolo Manuzio e il già ricordato Girolamo Zabarella, intorno al carattere della storia, se sia arte o no (1), alle sue divisioni e ai migliori modelli greci e romani; e meno ancora, della lunga dissertazione di Uberto Foglietta, che ha intonazione e scopo polemico, presentandosi come un’autodifesa contro gli appunti mossi allo scrittor genovese dai contemporanei , per aver egli dettato la sua storia in latino e narrato vicende non da lui direttamente conosciute, e introdotto parti fittizie, come a dire le concioni (2). Talvolta si valse invece del discorso di Francesco Patrizi; (1) Dialogo dell'istoria, Venezia, per Roberto Mejetti, 1596, pubblicato con altri. (2) De ratio?ie scribendae historiae, in Uberti Folietae Opera subcisiva, opuscula varia, Roma, per Francesco Zanetti, 1579. - 366 - ma spesso ne confutò le opinioni e se ne scostò anzi fin da principio, intendendo trattare soltanto delle memorie scritte e attenendosi strettamente a Cicerone rispetto al duplice fine d’utilità e diletto, laddove il Patrizi, poiché s’era fatto argomento la storia in genere, s’indugiava a considerarne tutti i monumenti, non esclusi quelli muti, e poneva come suprema condizione la notizia esatta del passato, senza nasconder seri dubbi circa l’autenticità degli antichi (1). Certo il Nostro non avrebbe fuorviato o ecceduto in alcuni luoghi del suo trattato, se avesse seguito l’indirizzo tutto positivo di questo acuto e interessante scrittore. Alcuna delle sue idee troviamo poi nell’opuscolo di Alessandro Sardo, il quale dovea naturalmente cattivarsi subito la sua simpatia per l’ossequenza continua a Cicerone e a Polibio: anch’ivi infatti, come nell 'Arte del Nostro, s’insegna a evitare il racconto di azioni inutili, impertinenti, incerte, futili, brutte ; si raccomanda, specie nel punto ove trovano ospitalità le tre famose massime ciceroniane per il conseguimento della verità storica, di non mutare nemmeno i nomi propri delle persone e dei luoghi — norma, questa, che il Nostro poi conforta di osservazioni e casi capitati a se stesso — : e si dà molto più importanza che non presso gli altri, all’elocuzione e allo stile che meglio possa alle composizioni storiche confarsi. Ma 1’ opuscolo è di assai scarsa mole e non può essere ricordato se non di sfuggita (2); e altrettanto sia detto per lo smilzo libretto di Francesco Robortello, il quale tratta le stesse quistioni e allo stesso modo, met- (1) Della istoria dialoghi dieci...... ne’ quali si ragiona di tutte le cose appartenenti all’istoria e allo scriverla e all’osservarla , In Venezia, per Andrea Arrivabene, 1560. (2) L’anlimaco dei precetti istorici pubblicato con altri discorsi in Venezia, Giolito, 1586. — 367 — tendo capo, pur come quello del Sardo, alle imprescindibili norme aristoteliche (1). Il Mascardi cita più volte 1’ « eruditissimo » Vossio e trova nel suo libro ampia trattazione degli artificj dello stile istorico, delle concioni, delle digressioni, delle sentenze, dell’elocuzione e delle divisioni della storia; e forse da lui è stato indotto a scrivere il trattato ove indaga qual sia la persona più adatta a scrivere istorie, giacché in altri non si trova accennato quest’ argomento se non accidentalmente (2). L’ opera del Beni, uscita sul cominciare del sec. XVII, ha forse suggerito in parte lo schema della sua trattazione, vedendosi concordare ordinatamente gli argomenti del primo e secondo libro dell’una con quelli del primo e secondo trattato dell’altra; non tralascia però il Nostro di riprovare fortemente la nota avversione di quello scrittore per Tito Livio, giudicato da lui futile e ozioso in gran parte delle concioni, sebbene poi nel corso del lavoro, insegnando ad essere eloquenti nella composizione delle istorie, anche il Beni indichi come opportuni moltissimi dei mezzi rettorici riprovati nell’ opera del grande scrittore delle Deche (3). Si direbbe tuttavia che l’intelaiatura ùeWArte la modellasse il Nostro sul contenuto del piccolo libro dovuto a Gian-nantonio Viperano, il quale mostra le stesse partizioni della materia trattatistica e la stessa disposizione dei vari argomenti: indaga cioè la vera definizione della storia, si ferma a discutere del fine, tratta della retto-rica storica, tocca dell’ ordine delle materie, sviluppa i tre precetti di Cicerone sulla verità e si occupa degli ornamenti esteriori, con accenni all’ uso delle digres- (1) De historica facultate, pubblicata con altri scritti a Firenze, presso Lorenzo Fiorentino, 1548. (2) De historicis tatinis e Ars historica, Lugduni, Bat. Maire, 1653. (3) De historia scribenda libri IV, Venetia, ap. Guerilio, 1622. — 368 — sioni, delle descrizioni e delle concioni: e me ne persuade ognor più la gran lode che spesse volte nel trattato il Nostro va tributando a quest’ « uomo eruditissimo e d’elegante dottrina », pur scostandosi da lui quand’ egli non ammette che torni acconcia alle menti giovinette la lettura delle storie (1). In generale però anche le materie tolte, e con esplicita dichiarazione, a questi autori, sono ben digerite e assimilate, e paiono rinnovellarsi di novella fronda sotto l’aurea penna del Nostro, che le assiepa sempre di considerazioni tutte sue e profondamente meditate: sono in ogni modo non abbondanti e si può dire che costituiscano soltanto un sesto di tutta la materia ùeWArte. ( i ) De scribenda historia liber, Antverpiae, Ex off. Cristophori Plantini, 1569. Cosi ne parla il Tiraboschi, ed. cit. della Storia, to. VII, p. 1541 : « Picciol di mole, ma utilissimo ed elegantissimo è il libro de historia scribenda di G. V., che fu poi vescovo di Giovenazzo e morì nel 1610 Nè io saprei quale altra opera più brevemente insieme e più giustamente ci dia le avvertenze e i precetti a quest’arte opportuni ». Non manca di dare il Tiraboschi notizia anche degli altri scrittori che abbiam considerato, ma lo fa brevemente , senza entrar molto e talvolta senza entrare affatto nelle materie. Più utile non è davvero l’esame che ne fa, spesso ripetendo il Tiraboschi , Ferdinando Ranalli, nelle sue lezioni di storia. Avverto ancora che il Nostro, là dove nomina gli autori che riputarono suscettibile di norme la storia (p. 81), accenna a Ermolao Barbaro e Ventura Ceco, e nè mai più altrove li ricorda. Non ho potuto vederli, ma certamente sono trascurabili anche per il caso nostro. Dall 'Ars historica di Bastiano Macci egli ha tolto passi e citato opinioni soltanto per coprire di vituperi questo scrittore : sicché ha creduto di doverlo difendere il Pirani, amico suo, nei dieci capi, non tanto per le denigrazioni a Polibio e a Sallustio , quanto per l’ingiuria scagliatagli contro dal Mascardi di « vilissimo insegnator di grammatica ». Così ne parla il Pirani: « Uomo ornato di buone lettere ufficioso nell’amicizia, pronto nell’ insegnare, pratico e usato nei buoni autori. Dalla nobil città di Pesaro ebbe per molti anni la carica di maestro , anzi di pubblico lettore di umanità...... Certamente...... il conculcar quelli i quali si mettono a indirizzar la gioventù (impresa per loro tanto laboriosa e tanto per gli altri utile e necessaria) pare troppo disdicevole ad un che sia dotto e grave scrittore de’ precetti dell’istoria » (p. 71 e sgg.). — 3Ò9 — Cei to il Mascardi ha preventivamente una grande simpatia per gli autori che si professano seguaci dei precetti degli antichi, come il Viperano e il Vossio ; più che per quelli che vi contrastano, come il Patrizio , il Beni e il Macci: tutti poi li sorpassa per queU’indirizzo piatico che abbiamo notato in lui, laddove gli altri, e anche i più moderni, si attengono a norme generali e ad autori antichi, con qualche concessione soltanto per il Guicciardini. Egli riporta brani e pareri di storici contemporanei, del Bentivoglio, del Buonamico, di Pier Mattei, di Giovanni Mariana, di Ludovico Vives, del Possevino , e intorno ad essi si diffonde e fa della critica con fondamento ed eleganza: e quando tratta dello stile, rabbercia persino dei capitoli di opere secondo lui mal scritte, per più chiara dimostrazione del suo ammaestramento. Il Cantù, nella sua Storia della letteratura italiana (1), accusò il Mascardi di aver saccheggiato un trattato latino sullo stesso soggetto, composto sui primi del secolo da Lorenzo Ducci (2); e il Morsolin, dopo di lui, aggravò (1) Edizione Le Monnier, p. 388. (2) Ars historica Laurentii Ducci in qua non modo laudabiliter historiae conscribendae praecepta traduntur, verum etiam nobiliores historici antiqui recentioresque examinantur, Ferrariae, apud Victorium Baldinum Typographum Cameralem, MDCIV. — Questo scrittore, di famiglia oriunda di Crespole ed estinta nel 1669, fu figlio di Gaspero. Tenne la segreteria alla corte di Ercole III, Duca di Ferrara, dove morì il 3 di ottobre del 1605 e venne sepolto nella chiesa di Santa Maria della Consolazione (Necrologio Faustini , Cod. ms. della Bibl. Com. di Ferrara). Oltre che della Ars historica, egli è autore di una Arte Aulica | di Lorenzo Ducci I Nella quale s’insegna \ il modo che deve | tenere il cortigiano per divenir possessore \ della gratia del suo Principe | Ferrara, appresso Vittorio Baldini Stanip. Cam. MDCI, in S.° di pp. 201 n. n. "j- cc. n. n. çonte-nenti l’indice dei capitoli. Questo libretto ha una dedicatoria Ai nobili Cortigiani, datata dal Castello di Ferrara, li 2g di Genaro 1601. Così la tratteggia il Bovio, Il pensiero italiano nel secolo XVII, in La vita italiana nel seicento, Milano, Treves, 1895, p. 213: « Incontriamo qui [in Atti Soc. Lis. Storia Patria. Vol. XLII. 24 — 37° — 1’ accusa, sentenziando che la « somiglianza tra le due [opere] è anzi cosi grande da far pensare che l’italiana sia poco piti che una versione della latina » (1), sebbene già il Ranalli lasciasse intravedere qualche dubitazione sul plagio, nella quarantesimaseconda delle sue Lesioni di storia, e riportasse in ogni modo al Mascardi « la gloria di averla esposta nella propria lingua con una chiarezza ed eleganza che può farlo ragguagliare ai più gravi e nobili scrittori del cinquecento » (2). Ed era naturale assai questa benevolenza del Ranalli verso uno scrittore che imponeva , com’ egli appunto desiderava, una grande osservanza alla forma (3). Recentemente il Foffano, nel suo importantissimo e geniale lavoro sulla critica letteraria nel secolo XVII, accennando con lode all’Arte del Mascardi, conchiudeva che, se pur questi avea potuto tener presente quell’opera del Ducei, avea saputo usarne nondimeno con onestà e avvedutezza, aumentando di tre volte tanto la mole della sua e scostandosene più volte anche nella trattazione di argomenti comuni (4). Questo giudizio è sostanzialmente Firenze] un Lorenzo Ducei, che c’insegna l’arte di farci cortigiani, indicandoci — modello inaspettato — Sejano. Tutta la scienza della viltà vi è messa innanzi, perchè questo cortigiano del Ducci non si propone a suo fine lo Stato o il Principe, ma V io; e questo non è l'io del Guicciardini — un ultimo rifugio d’indipendenza — ma è l’estratto del servilismo utilitario , secondo il quale si può essere cittadino disonorato purché si resti avveduto cortigiano...... Ducci ha da Firenze capovolto 1 acito per presentarci un Sejano rifatto ». Altre opere, che non ho veduto : De elocutione, Ferrara, Vitt. Baldino, in 8.°, 1600; della quale fa cenno talvolta neWArs ìlistorica', e Trattato della nobiltà, ivi, in fol., 1603. (1) Morsolin, op. cit., p. 160. (?) Lesioni di storia, Firenze, Barbera, to. II, 1867, p. 33-4- (3) Basti dire eh’ egli (ved. to. I, a p. 156) ammetteva nella storia una parte drammatica formata dalle arringhe e dalle digressioni, e voleva la narrazione, non solo rinvigorita dalla scienza, ma anche mossa dall’eloquenza. (4) Op. cit., p. 242. — 37i — giusto e fondato. Il Cantù — non dico il Morsolin, che probabilmente ripetè il Cantu, senza nulla appurare direttamente — errò forse per aver notato frettolosamente che alcuni capitoli, una decina al più (1), contenevano gli stessi argomenti svolti dal Nostro. Ma un confronto minuto dimostra chiaramente che le trattazioni differiscono per il contenuto delle materie trattate nell’universale, come differiscono anche gli autori e le citazioni riportati dal Mascardi nel corso della sua e-sposizione teorica e dal Ducci accodati invece ad ogni singolo capitolo. Senza tener conto degli argomenti tralasciati dall’ uno o dall’ altro scrittore o di tutte le opinioni decisamente contrarie, alcune delle quali furono già molto opportunamente rilevate dal FofTano, ce ne convince sempre più l’esame di certe parti dell 'Arte, che sembrerebbero a tutta prima, per la loro affinità con alcune dellMrs latina, stare nella indipendenza indicata dal Cantù: quelle cioè ove il Nostro tratta dei rapporti fra la storia, l’oratoria e la poesia; ove parla delle prime opere di carattere storico; e ove approva e propugna 1’ uso delle concioni, digressioni e via dicendo. Nei due capitoli che riguardano la corrispondenza del-1’ orazione e della poesia con l’istoria, il Ducci si ferma a ricordare i vari fini dei generi poetici, il comico, il tragico , 1’ epico e il lirico, e finisce per dire che il fine della poesia è quello di persuadere; ossia di muovere le genti a seguire le cose buone e a fuggir le malvage; quello della storia essere invece il suggerimento della (i) Sarebbero quelli intitolati De necessitate historiae et comparatione illius cuni adiva philosophia (p. 24), De comparatione historiae cum oratoria (p. 27) , De cronicis, annalibus, ephemeridis (p. 3S), De commentariis et vitis (p. 42), De fine (p. 94) , An orationes sint inserendae in historia (p. 157), De digressionibus (p. 169), De indiciis (p. 179), De praeceptis (p. 1S7), De stylo sive elocutione historiae (p. 190). — 372 — prudenza,la quale guida agli stessi risultati; ma, poiché la prudenza è il fine immediato della filosofia civile e la persuasione quello indiretto, la storia aver forte prevalenza sulla poesia. Ugualmente dicasi dell’ oratoria, chè questa, più ancor della poesia, mira alla persuasione. Or tutto ciò non compar nel Mascardi, che invece distingue la storia dalla poesia e dall’eloquenza, avendo essa per condizione la verità, e le altre due, rispettivamente, il verosimile e il commovimento degli animi. Tanto meno poi v’ è corrispondenza tra i capitoli del-1’una e dell’altra Arte, che riguardano le prime forme istoriche; come a dire le cronache, gli annali, le effemeridi, i commentari, le biografie; e delle quali il Ducci brevemente si passa con alcuni periodi generici, spiegando alla bell’ e meglio che cosa siano, mentre il Nostro ne indaga i vari aspetti e le trasformazioni secondo i tempi. Nei capitoli del Ducci intorno all’uso delle concioni, non troviamo che una sola argomentazione identica; ed è che, seie concioni stanno ne’ libri divini, dove non si può sospettar ombra di falso senza puzzar d’ e-resia, a maggior ragione hanno da stare ne’ libri umani, ove 1’ attenersi al verosimile meglio che si può, anche non riproducendo il vero esattissimamente, non è poi malanno sì grave come alcuni pretenderebbero; ma nessuno vorrà tacciar nullameno che di plagio l’opera del Nostro, per un’argomento i cui elementi venivano divulgati dal pulpito, dalle cattedre e dalle tribune accademiche. Nemmeno il punto dell’Arte volgare, che dimostra come si generi prudenza nell’animo delle genti per virtù delle storie, ha da considerarsi particolare al Ducci, dacché già in Aristotile tal pensiero trovasi espresso e sostenuto. Vero è che si scopre nel Ducci l’accenno a quel fine immediato dello storico, per il quale abbiam — 373 — visto accusato il Nostro di poca imparzialità, e originalmente suona: « Finis ab historico explicandus est......; paucis autem ut plurimum explicari posse videtur; nam in bellicis finis est, vel ultio propriarum iniuriarum, vel sociorum , vel amplificatio Imperii, vel sui iuris vindicatio , vel aviditas gloriae et huiusmodi ; in civilibus autem vel pax publica, vel morum melior institutio, vel scelerum supplicia, vel Annonae vilitas et similia : quae omnia haud multis verbis indigent. Illud autem in hac re plurimam habet difficultatem, quod agnoscere oportet verum finem ; nam plerumque speciosa nomina obtenduntur , ut veri finis turpitudo hominum cognitionem effugiat ; ob eamque rem fines, qui vulgo iactantur, saepius efficti sunt; difficultas est praeterea in distinctione recta finis, principii, occasionis; nam in re hac fere omnes historici decepti sunt » (1). Ma la distinzione netta fra i due fini qui non compare e le argomentazioni che seguon poi sulle varie condizioni della storia, la causa, il principio, il fine e l’occasione, non possono davvero pretendere il vanto d’ aver suggerito le considerazioni del Mascardi sopra i mezzi e il fine della storia, che nella sua Arte corredano la distinzione accennata. Apriamo invece il succoso scritto del Viperano e vi troveremo tal distinzione così chiaramente esposta da non potersi più sostenere, senza offesa alla verità dei fatti, che il Nostro l’abbia attinta da altri: « Unum igitur historiae finis est, utilitas; non dico historici, quem interdum ad scribendum aut alicuius gratiae aut gloriae aut pecuniae cupiditas impellit. At cuipiam fortasse delectatio videtur etiam esse finis historiae, quod ex historiarum cognitione magna voluptas percipiatur. Sed iste peculiaris est cuiusque cognitionis et scientiae lru-ctus; quae per se ipsa plurimum delectat, cuiusque tanta (i) Cap. XXIII, p. 94. — 374 — est in hominum animis generata cupiditas , ut semper aliquid audire, videre, discere velimus » (1)- Tutto ciò considerato, non saprei quindi comprendere perchè il Mascardi, che par si faccia un merito di conoscer tutte le opere sull’arte della storia, che non tralascia mai di citarle tutte e che avverte esser sua intenzione di voler ciò fare secondo onestà, con la dichiarazione al lettore: « conosco la mia debolezza e la confesso: onde mi terrò sempre a gloria, specialmente nelle cose dogmatiche , di premer le vestigie dei grandi, ed onorarle; che però il nome loro ingenuamente rapporto, ancorché sieno moderni e viventi, e ciò che da loro io abbia appreso, a tutto il mondo dichiaro » (2); non saprei comprender, dico, perchè, essendogli impossibile qualunque timore di esser tacciato di plagiario per il modo come si comporta, abbia taciuto in tutta la sua Arte il nome del presunto modello, se non mi si affacciasse alla mente la conclusione ch’egli non conoscesse punto l’opera del Ducci o gli fosse stata indicata con tali cattive informazioni da non voler egli perdere nemmeno tempo in leggerla. Giustamente alcuni critici ricordati dallo Zeno , ebbero a sentenziare che il Mascardi si fosse mostrato più abile assai a insegnare la storia che a praticarla. Infatti la Congiura del Fiesco, con la quale egli intese dare, non un saggio pratico delle teorie del suo trattato, come fu sempre detto (3), giacché al trattato non pensava ancora nel ’29 (e anzi fra 1’ una e l’altra opera è facile trovare discordanze), bensì del modo che avrebbe tenuto nella composizione della storia generale d’Italia; la Congiura, dico, pare piuttosto presentare tutti i di- (1) Op. cit., p. 15. (2) Arte, ed. cit., Avvertimento al Lettore, p. 3. (3) Anche recentemente, dal valentissimo Bklloni, op. cit., p. 345. — 375 — fetti di uno storico vano, ampolloso e parziale che non i pregi di uno verace, acuto e incorrotto. È un’ opera falsa, sia per la forma troppo rettorica, sia per il contenuto intrinseco sottoposto a un preconcetto particolare dell’ autore. Questi stesso avverte esser stata sua intenzione lo « scrivere una compiuta azione con le sue parti per aver occasione di tentar in essa tutti quei luoghi che in una lunga istoria possono appresentarsi », e perciò aver dovuto « incontrar anche le occasioni, che per altro si potevano lasciar correre ». Or si comprende che gran parte delle numerose concioni e digressioni morali e descrizioni pomposissime vi si trovino forzatamente incluse, per non trascurare nessuno degli artificj concessi allo storico. Avvisati, imputei emo alle sue convinzioni generali sull’opera storica ciò che qui si presenterebbe pur come errore particolare del lavoro : nell’uso poi dello stile, nella lunghezza delle concioni e delle digressioni, insomma nella composizione « di tutti quei luoghi che in una lunga istoria possono appie-sentarsi », egli segue ad occhi chiusi il Bentivoglio, sol di tanto allontanandosi dalla perfezione delle sue scritture « di quanto rimane inferiore all’originale un ritratto » (1). Tuttavia non possiamo davvero perdonai gli la ridicola teatralità in cui spesso sotto la sua penna degenera la vivacità continua e artificiosa del modello. I personaggi per il Nostro sono tutti eioi. certi sei vi tori parlano come i Sapienti della Grecia: Gian Luigi, prima di pronunciar l’ultima concione, con la quale rivela agli amici ancora ignari il suo ardimentoso proposito, si pone ritto in mezzo alla sala, « tutto cangiato in volto », e percote con un pugno la tavola presso la quale si trova : la sposa, quando viene anch’essa a sapere tutto, gli si getta lagrimando ai piedi, gli abbraccia (i) Ved. la prefaz. alla Congiura. — 376 — le ginocchia e cerca di trattenerlo con un’orazione che la supporre in lei profondi studi di rettorica. Nè per gl’intendimenti egli ha proceduto positivamente: più che le tonti sogguardate, per sua espressa dichiarazione i parzialissimi Bonfadio, Campanacci, Ligonio, Foglietta e Capelloni, influì su di lui 1’ antica opera sallustiana : e perciò egli vi presenta in Giannettino una vittima illustre, un giovane animoso, intelligente, forte, di « conosciuta virtù »; vi tratteggia la figura di Gian Luigi come di un nuovo Catilina, astutissimo, rifatto sui « micidiali » libri del Adacchiavelli : vuole istigatore immediato della congiura, dopo l’accordo di Gian Luigi con la Francia , 1’ ambiziosissimo Verina , e invece saggio, pietoso, fedele consigliere il vecchio servitore di casa, Calcagno. Alla Congiura i contemporanei mossero subito a-cerbe critiche, che furono compendiate, come già s’è detto, dal Taverna, e da questo stesso notificate al Nostro mediante una lettera. Oltreché dell’intenzione venale, lo si rimproverava d’aver fatto cadere tutta 1’ « infamia » dell’avvenimento sul Cardinal Trivulzio, scagionandone i Farnesi in ogni guisa ; d’aver introdotto « a recitare una parte tanto politica e grave un così vii personaggio qual’era il Calcagno cameriere »; e d’aver concluso con un lungo tratto declamatorio. Nella risposta, Agostino, mescolando alle più forti contumelie le più deboli difese, oppose alla prima accusa la solita ragione che le notizie storiche, delle quali del resto non allegava alcuna, fondavano solidamente la sua coloritura d’ambiente: il Cardinal Trivulzio, diceva, avea potuto benissimo trovarsi con Gian Luigi e dirgli quello che la sua penna gli faceva dire, giacché quel prelato « era protettor di Francia e maneggiava gl’interessi allora gagliardissimi di quella corona » e doveva « ex of- — 377 — flcl°...... promuover gl’ interessi del Principe cui serviva »; e d’altra parte « la Repubblica di Genova s’era di fresco sottratta al dominio francese, e vana era riuscita l’impresa di ricuperarla con l’armi ». Per la stessa ragione accettare, come verosimile, l’intromissione del Calcagno e la sua concione, essendo questi « stimato sensatissimo e di molto giudizio », e constando « infallibilmente » che il padrone lo avesse chiamato alla consulta. Non teneva conto infine della taccia di declamatore che gli scagliava chi non doveva conoscere altra storia « che quella d’ Eliano degli animali ». Insomma le accuse contenevano molto di vero e picchiavan così di sodo che il Nostro finiva per restar senza argomenti di difesa. Ma per allora, come spesso avviene, ognuno rimase con la propria opinione; e il libro andò a ruba; e non tardò a esaurirsi 1’ edizione d’Anversa. Allora lo Scaglia .di Venezia pensò di farne una seconda per conto suo, e, senza nemmeno avvisarne, come pare, l’autore, si fe’ consegnare il manoscritto di sua mano, che trovavasi presso amici. Tuttavia, forse consigliato da interessati o costretto dalla Repubblica veneta, volle mostrarsi più benigno che l’autore non avesse voluto, verso il re di Francia, e perciò tolse tutte le parole che in alcun modo credeva lo potessero offendere. Quando il Mascardi ebbe conoscenza della « mostruosità », scrisse ad un amico, di cui è ignoto il nome, sfogandosi contro lo stampatore, contro la Repubblica di Venezia, contro i prìncipi, per pagine e pagine; ma dimostrando chiaramente che non tanto lo aveva inviperito il timore che, per quelle insignificanti omissioni, avesse a cambiare il suo intendimento, che sarebbe stato impossibile, quanto piuttosto l’omissione per se stessa, dacché riteneva sacra e inviolabile la sua prosa: e del resto già altra volta era uscito fuor di sè, quando il Bidelli di Milano avea - 37« - mutato o tralasciato alcune parole delle sue orazioni, pei quali arbitrj egli lo avea fatto querelar criminalmente come falsario (1). L'operetta dunque ha più valore didattico che scientifico : e l’ammaestramento storico intrinseco (quello formale l’abbiam visto e spiegato con le stesse parole del Nostro) parrebbe fosse che le congiure non van fatte e che, se alcuno le organizza, quegli altro non può essere che un Catilina in diciottesimo. Essa, tre anni dopo ch’era uscita per le stampe, capitò nelle mani dèi giovanissimo abate di Gondy, poi Cardinale di Retz, il quale, non trovandovi quello spirito anarchico che per lui allora costituiva l’elemento essenziale dell’eroismo, e d’altra parte riconoscendo nello stile e nell’orditura una bontà insuperata da qualunque altro moderno, deliberò di rifarla, naturalmente secondo le sue idee, ma senza cambiar quasi nulla allo svolgersi della narrazione. E il rifacimento riuscì, a differenza deH’originale, così sovversivo che il Cardinale di Richelieu, come narrò poi lo stesso abate nelle sue memorie, non appena lettolo, ebbe a dire, innanzi ai generali dell’ esercito francese : « Ecco un essere pericoloso» (2). Quest’opera del Cardinale di Retz fu a sua volta ritradotta in italiano e in qualche manoscritto passa ancor oggi come del Mascardi. Il vero saggio di questo fu pur voltato in lingua spagnuola, perchè sfavorevole alla Repubblica francese, e recentemente ristampato dal Gamba fra i testi di lingua, per la sua dicitura sublimemente « nobile e numerosa » (3). Quantunque questo saggio non corrisponda del tutto a certe ottime norme esposte nell 'Arte, perchè ha più (1) Ved. la cit. lett. sulla Congiura. (2) Notice sur le Card, de Retz et sur ses mémoires, in Collection des mémoires relatifs à l’histoire de France etc., par M. Petitot, tome XLIV, Foucault, 1825, I, 5-6. (3) Op. e 1. citt. — 379 — valore rettorico e dichiarativo che storico e narrativo, noi crediamo che, s’egli avesse scritto la Storia d’Italia, indubbiamente per lunghi anni vagheggiata, avremmo potuto annoverar nella storia delle nostre lettere un’opera davvero notevole e per il rispetto storico e per quello letterario. Proponendosi a modello il Guicciardini, ch’egli esalta per la veracità, doveva certamente uniformarsi al suo metodo consistente nell’uso e nello studio accuratissimo delle più larghe e sicure fonti, come a dire sunti di lettere, di accordi, di discorsi, di legazioni e va dicendo (1). Già nel ’30 infatti, egli scriveva: » I prìn- (t) Pur nell 'Arte egli veniva a riprovare i soliti « sfoghi » rettorici delle descrizioni e a raccomandare lo studio delle relazioni diplomatiche, sebbene ciò facesse più per la convinzione di poter così ammaestrare gli statisti che per la preoccupazione di conseguire il vero. Torna qui acconcio riferire ciò che si proponeva di fare nelle storie d’Italia, quando fosse giunto agli ultimi anni : « Coloro che scrivono istoria , per lo più nel racconto delle guerre si stancano, e, con tutto lo sforzo dell’ingegno e dell’eloquenza, in descriver le battaglie, gli assedi, gli assalti e gli apparati militari, consumano ; ma del negozio parte alcuna non toccano ; ed io stimo che molto impropria sia cotale industria a chi scrive, e poco profittevole a chi legge. Venne, per cagion d’esempio, in Italia il Marchese Spinola gli anni passati : in due anni circa che sopravisse, altro non fece che cinger dopo molto tempo la piazza di Casale d’impenetrabile assedio ; ed altro di notabile i Francesi non operarono che sostener la piazza con quell’arti di guerra che il Marescial di Toràs mostrò d’avere apprese in buona scuola, esercitandole con gran valore. Intanto i ministri del Papa andavano, quasi angioli di pace, rapportando varie maniere di pacificazione e d’ accordo, ed il negoziato passava per le maggiori e più salde teste eh’ avesse allora l’Europa. Or s’io dovessi gli avvenimenti di que’ due anni descrivere, certo è che in poche pagine io raccorrei le faccende militari degne d’ esser sapute ; ma volendo per insegnamento dei lettori, lasciar a’ posteri 1’ arte del negozio, che bella scuola di dottrina politica s’ aprirebbe nelle mie carte, in cui potessero i principi, i generali degli eserciti o qualunque uomo di Stato guernirsi d’ una perizia singolare del lor mestiere? » (p. 62). Ma chiaramente viene ad ammettere il procedimento positivo, quando dimostra che la falsità delle storie greche dipende dalla mancanza in Atene e in altre città di quegli « archivi che fino al dì d’oggi si costumano fra di noi e furono in ogn’antica nazione venera- — 3§o — cipi interessati nella Congiura da me descritta , hanno cortesemente abbracciato non meno la veracità dell’ i-storia che la candidezza dell’istorico, e, in testimonio di volontà ben inclinata all’impresa ch’ho per le mani, alcuno m’ha favorito di notizie opportune, altri me l’ha benignamente promesse » (1): e non eran bugie, queste, essendosi trovata alla sua morte un’ immensa congerie di materiali raccolti a quello scopo, che poi andò malauguratamente dispersa (2). Anche avrebbe potuto trar profitto delle più giudiziose critiche mosse al grande scrittor fiorentino, ad esempio di quelle riguardanti l’esuberanza dei particolari minuti ond’egli s’affaticava a scoprire le più riposte cause dei grandi rivolgimenti cittadini. Quando , nell’Arte, dava il Nostro la norma utilissima che « il buon giudizio....... è bastevole a fare accorto l’istorico quanto sia migliore il vedere ciò che ridire e ciò che tralasciare nella narrazione si debba, quali cose in passando toccar si vogliono e quali diligentemente spiegare », la qual norma è appunto utilissima perchè non è una norma, ma sostanzialmente una ribellione alle norme, aggiungeva : « nel che piacesse a Dio che sempre ugualmente felice fosse stato nella sua Istoria d’Jtalia il Guicciardini! Non si sarebbe tanto trattenuto con 1’ esercito de’ Fiorentini in pian di Pisa, abbruciando capanne » (3). Ora ciò gli era suggerito bili e sagrosanti per conservar le scritture specialmente del pubblico » (p. 89) e che « l’opinione volgare cosi tenacemente talora difende gli errori della fama che lo studiarsi di corregger le persuasioni popolari è un nuotare a ritroso per lasciarsi finalmente portare dalla corrente ». (p. 91)* (1) Lett. al Card. Francesco Barberini, preposta dal Bartoli all’ed. del-l’Arte istorica. (2) Scriveva il Giustiniani, non molto dopo la sua morte: « in ordine alla quale [Historia d’ Italia] si conservano moltissime scritture in casa degli nipoti , che gli sono state mandate da diversi prencipi conforme m’ha riferito l’erudito giureconsulto Carlo Sarteschi di Fivizzano », (3) Arte, p. 57. - 38i - dalla satira del Boccalini, il quale, nei suoi Ragguagli (I, 6), fingeva fosse stato condannato uno Spartano loquace a leggere per ammenda la descrizione guicciar-diniana della guerra di Pisa e avesse preferito a tal supplizio la morte. E ch’egli alla verità storica volesse subordinare le sue fatiche, lo prova anche la speranza, già manifestata sin dal colloquio col Cicalotti, che repubbliche e principi, appunto per l’irrefragabilità della sua narrazione, avessero ad accettare di buon animo anche 1’ amaro. « Quando verranno in luce (diceva poi neWAvte) le istorie eh’ oggi preparo, non dovrà però tornare in vita Giovan Battista Leoni, per palesare la malignità della mia penna contro la Repubblica di Venezia e contro il Duca di Urbino, come già fece nell’ i-storia del Guicciardino » (1). Non vogliamo con ciò dire ch’egli potesse raggiungere quel grado di « candidezza », cui anche la critica moderna vuole sia assurto il Guicciardini. Il Masçardi stesso capiva che ciò gli sarebbe stato difficile, ai suoi tempi; e nel trattato, subito dopo il colloquio in casa Zacchia, aveva introdotto qualche periodo che avvalora i nostri dubbi. Irattando dell’ « animo avverso dei prìncipi, i quali, avvezzi al lusinghiero prurito delle lodi, odono come voce d incanto la verità e con nome di maldicenza la disonorano », conchiudeva, tanto per non metterli in troppa tiepida-zione prima del tempo: « ma spero nella bontà loro [cioè nelle loro buone azioni] di addolcir la materia in modo che potranno soffrirla » e « vedranno i pi incipi quanto disdice alla loro grandezza 1’ aver tanto mala opinione di se medesimi che volontariamente si facciano formidabile la penna d’uno scrittore » (2): insomma, pure attenendosi scrupolosamente alla verità, egli a- (1) Arte, p. no. (2) Arte, p. 126. - 382 - vrebbe messo in maggior rilievo il buono e sarebbe sorvolato sul cattivo: lasciassero pur fare alla sua penna, che in tali cose era esperta quanto mai. E questa promessa , è inutile negarlo, genera troppo sospetto in uno storico che vorrebbe adorata la verità come nume supremo. E quanto poi alla forma, avremmo avuto purtroppo le concioni, le declamazioni e tutto il resto che abbiam visto e riprovato nella sua dottrina e nel saggio della Congiura, ma non sarebbero mancate quella purezza e chiarezza ed efficacia di stile, ch’egli aveva già dimostrato di saper ottenere, nel trattato del-l’Arte, passati i primi giovanili bollori d’ingegno. Questa sua storia restò lì per lì interrotta, e per le ragioni belle e brutte che il lettore già conosce : ma forse più tardi, raccolte tutte le materie, avanzato negli anni e nell’ autorità del nome, edotto dei procedimenti nuovi seguiti dagli scrittori delle scienze in quel secolo, egli l’avrebbe, crediamo, ripresa e compiuta; e forse con meno titubanze e meno indulgenze al favore dei prìncipi che non avesse avuto quando gli occorreva ingraziarseli per raccogliere le fonti. Tenuto conto poi di certo lato del suo carattere, ci par probabile ammettere che un giorno si sarebbe senz’ altro risolto a dir chiara e tonda la sua a tutti quanti, prìncipi e non prìncipi, senza raddolcir nulla, a costo di qualunque conseguenza. Scatti di tal sorta non gli eran mancati, talvolta. Ma la morte immatura lo colse. Egli non potè riuscir quel grande istorico che forse sarebbe riuscito: restò soltanto retore e trattatista. CAPITOLO V. CONCLUSIONE Iccoci giunti alla fine delle indagini psicologiche, i storiche e letterarie intorno al nostro scrittore: I è ora di riassumerci brevemente e di conchiu- Nell’uomo abbiam trovato un contrasto continuo fra il carattere, o meglio l’indole naturale, e la condizione sociale : l’indole si pronuncia e si mantiene, poco o tanto, come di un ribelle: la condizione, nella vita del tempo, come di un servo. Egli non può reggere sotto un Ordine religioso, che richiede risoluta professione di umiltà, non può trattenersi dallo scagliare accuse contro prìncipi ecclesiastici e secolari, non può resistere alla smania di contendere con amici e nemici; ma il destino gl’impone di vivere nelle Corti e quindi di piegare il capo ad ogni momento, di reprimere ogni iniziativa, di asservire, oltreché la volontà, anche il pensiero. Questo stesso contrasto è nell’ opera. Gli scritti da lui composti subito dopo lo sfratto dalla Religione o il licenziamento dal servizio del Cardinal d’Este, cioè quand’egli non ha da render conto a chicchessia, presentano un’impronta tutta personale e in ogni modo contraria a quella degli altri, dere. — 3« 4 — composti per desiderio d’un padrone o d’un protettore. In quest’ ultimo caso egli confessa che ha dovuto far così e così, perchè altri glielo ha comandato, perchè purtroppo egli non è che la Sibilla d’un Oracolo: e allora finisce per abituarsi a mille contraddizioni, per scendere a mille transazioni con la propria coscienza, per essere — come lo caratterizzavano i malevoli — nè carne nè pesce. Ed eccolo marinista ed antimarinista; eccolo aristotelico e, con la debita prudenza, antiaristotelico; eccolo dichiararsi innovatore e difendere una tradizione particolare, delirare nello stile e ragionar pacatamente , perdersi in verbosità stucchevoli e restringersi in pagine acute e succose. Nè il contrasto è solo fra la pratica e la teoria, ma spesso nell’una e nell’altra, secondo 1’ occasione. I motivi immediati li abbiam già esposti nel corso del nostro lavoro. Ma tutto questo, se proprio altro non si manifestasse nel Nostro o se almeno non prevalesse in lui alcuno dei disparati indirizzi per assurger quasi ad elemento fondamentale dell’opera sua, tutto questo, dico, ci darebbe soltanto una delle mille figure poco interessanti che vediamo aggirarsi in quell'incerto e fenomenico ambiente letterario della prima metà del secolo, e che pur manifestano, con maggiore o minore evidenza, il contrasto notato in lui, e per le stesse cause, trovandosi esse, per le consuetudini del tempo, quasi tutte nella condizione sua di salariato presso case illustri. Il fenomeno del secentismo risulta bensì, come ha recentemente provato la critica (1), di un complesso di reazioni e di ribellioni alla tradizione e all’ acquiescenza degli spiriti, ma la maggior parte di queste reazioni e ribellioni, quando (i). Ved. il succoso scritto di Arturo Grak, Il fenomeno del secentismo in Nuova Antologia, fase, i ottobre 1905. - 385 - non proprio tutte , appaiono contradditorie e nelle medesime persone e nei medesimi ambienti, perchè il fenomeno, sebbene antichissimo per le origini, non irrompe violentemente che da pochi anni, e non può ancora imporsi pienamente o senza lotta. Ora, nel Nostro, tutto ciò che è leziosaggine e preziosità, ridondanza e dissolutezza, s’ha da considerare come momentaneo, suggerito, imposto, cercato. In tali casi egli, consciamente o inconsciamente, piega al comun gusto e vi s’adatta con l’ingegno duttilissimo e trionfando procede. Il secolo lo vuole artificioso? Nessuno sarà più artificioso di lui; e gli altri poi lo diverranno ancor più, dacché egli lo sia divenuto più di loro per 1’ addietro. Le sue innovazioni, specialmente in fatto di critica e di stilistica, a-vrebbero bensì potuto avvalorare l’opera sua e per più riguardi, ma restarono soffocate, interdette, strozzate dal poco suo ardimento; sicché, quando sian faticosamente rilevabili qua e là nell’immensa congerie della sua produzione, non ci fan che 1’ effetto di poche pagliuzze d’oro in mezzo a una fiumana torbida e melmosa. I fatti specifici che hanno attinenza al fenomeno del secentismo , non son dunque tali da poter caratterizzare l’opera sua. V’è invece qualcosa per entro, che vediam essere sangue e vita del Mascardi e ch’egli celatamente o palesemente vi stempra ad ogni passo: qualcosa che fondamentalmente sarebbe proprio il contrario del secentismo in tutte le sue varie forme di opposizione alla tradizione: qualcosa che potremmo chiamare appunto la tradizione e che più strettamente indicheremo con l’espressione di tradizione classica. Il secentismo è , per certi rispetti, una reazione all’umanesimo: nessuno invece più del Nostro, qualora se ne tolga 1’ Eritreo, può dirsene propugnatore. Mentre i più vogliono essere moderni, egli grida che convien ri- Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol, XLII. 25 — 3§6 — tornare all’ antichità, ove trovansi i migliori filosofi, 1 migliori poeti, i migliori statisti. Così fa egli stesso, in generale: e il suo stile, non della prima giovinezza, ma dell’età matura, è appunto modellato su quello dei greci, e dei romani; la sua dottrina è tutta ricalcata sulla loro o a loro senz’altro ritolta: le sue poesie ne ripetono le forme e i metri. Mentre i suoi contemporanei riprovano l’imitazione, egli la impone come canone precipuo dell’arte poetica. La critica, specialmente tedesca, vuol ritoccare e denigrare (già d’allora !) i poeti antichi, ed egli inveisce contro il sacrilegio. Moltissimi scribacchiano storie senza uniformarsi a dettami di sorta, ed egli dà fuori un 'Arte istorica con tutte le regole degli antichi, dichiarate , ordinate , discusse. Insomma , venir meno alla tradizione classica è come mancare a un dovere, commettere un parricidio. Questo ci sembra il concetto che anima sempre l’opera sua. Egli è un secentista per opportunismo; ma in fatto è anch’esso un umanista in ritardo. Durante la sua dimora a Roma, solea spesso, verso il tramonto, recarsi su quella parte del Gianicolo onde potea veder tutta la città stendersi sotto gli ultimi bagliori del sole. Una volta restò lungamente a medital e in quel luogo, con 1’ animo pieno di meraviglia e di riverenza per mille ricordi. Quanta sapienza, quanto valore, quanta virtù avean racchiuso quelle mura! Ben a ragione sentenziava un dotto scrittore che la lettura delle storie romane insegnava non i fatti di un sol popolo, ma quelli di tutto il genere umano, giacché l’Urbe, in un’età sola, avea dato uomini illustri in ogni genere d’arti e di scienze, laddove altre città appena potean vantarne, in età diverse, qualcuno valente nell’uno o nell’altro genere. Roma nell’antichità ammaestrava tutto il mondo e tutto lo dominava. « Ora invece (egli pensava) — 387 — come sono mutate le cose! Invano si cercherebbe ove sia stata quella gran metropoli. Dove sono infatti i teatri, i templi, i circhi, le terme, le piazze? e principalmente dove i templi degli Dei, di Giove sul Campidoglio, di Apollo sul Palatino, di Venere presso Porta Collina? e dov’ è mai la via sacra, e quella della Pace presso il Foro e infine quella della Città stessa, presso le radici del Palatino, nel Comizio? Dove son più quelle splendide statue dei numi, d’oro, d’argento, d’avorio? ». Tutto, tutto era crollato, infranto, sepolto, dimenticato! E mentre così pensava, egli sentiva quasi in sè la missione sublime di far conoscere quell’ antico splendore, di richiamare ad esso uomini e istituzioni, di rinnovellare il secolo d’Augusto. Il culto della bellezza antica non era punto il culto degli antichi dei. Studiare, amare, imitare quella civiltà non poteva saper d’ eresia. Io la studio, l’amo, la imito come meglio so, conchiudeva, e tuttavia son cristiano ed esecro quant’altri mai le religioni false e bugiarde (1). E quanti non avranno pensato così in questo secolo! Nello svolgimento della nostra letteratura v’è sempre, parmi, questo influsso del pensiero antico che agisce e serpe nascostamente, anche quando i fenomeni più appariscenti e tumultuosi, come quelli del secentismo, attraggono tutta la nostra attenzione e caratterizzano e dànno il nome ad un’epoca. V’è; e non ci si bada più, perchè ci appar cosa vecchia e rimorta; ma è cosa che pur lascia conseguenze e spiega altri fatti e altri ne provoca. Nel quattrocento quell’influsso si manifesta in tutta la sua forza, nel cinquecento dà i migliori frutti, nel seicento si profila solitario nell’ombra e s’assopisce. Invano tentano di richiamarlo alla luce e all’azione uo- (1) Ved. il primo capitolo delle Ethicae prolusiones. — 388 — mini come il Nostro, incerti, ambiziosi, talvolta anche ad esso infedeli. Ma esso si scuote e vibra di nuovo, vei so la fine del secolo, per opporsi nientemeno che a tutto il parossismo settecentistico. È però sonnacchioso, decrepito, esausto: è un fantasma, un nome, un ricordo. E finisce per diventar ridicolo, come i vecchi che s imbellettano e si tingono, per fare all’ amore come i giovanotti. E allora s’ebbe l’Arcadia. Chissà! Forse il Mascardi stesso avrebbe preferito le aberrazioni e il baroccume secentistico a tutte le scipitaggini e gli sdilinquimenti, dei quali dovean poi e-cheggiare i boschi Parrasii, in nome di quella tradizione eh’ egli avea strenuamente e, diciamolo pure, sinceramente propugnata ! APPENDICE I LETTERE INEDITE DI AGOSTINO MASCARDI Fin dal 1626 il Mascardi pregava alcuni amici, tra cui Roberto Fontana, il conte Massimiliano Montecuc-coli e il conte Camillo Molza, di raccogliere tutte le sue lettere private, avendo « ordine di ridurle in volume »; non intendeva però di pubblicarle tutte, ma di darne fuori soltanto « tre o quattrocento delle meno difettose ». L’ edizione di tale epistolario non fu mai fatta, forse perchè pochi degli amici soddisfecero alla sua richiesta. Il conte Molza gliene aveva intanto mandato buon numero, più di cento, che restarono poi Ira i manoscritti del Mascardi senza veder la luce (ved. Giustiniani, Gli scrittori liguri, ed. cit., p. 27). Questa raccol-tina, privata d’ogni indicazione compromettente — quasi sempre dei nomi propri — venne poi nelle mani del Padre Parisi, il quale pubblicò poco più di una dozzina di lettere (1) e colse nelle altre qualche ragguaglio biografico intorno al Nostro, ma così frettolosamente e trascuratamente da svisare assai il concetto dello scrittore. (i) Francesco Parisi, Istruzioni per la gioventù impiegata nella segretaria, ed. cit., to. IV, pp. 187 e sgg. — 392 — Per fortuna abbiam potuto rintracciarla — dopo un paziente spoglio dei cataloghi che, mercè le cure di bibliografi diligentissimi, agevolano oggidì le ricerche degli studiosi — in uno zibaldone della Biblioteca Nazionale di Firenze, segnato II, VII, 129, dal f. 71 al 276. Le lettere contenutevi vanno dal 5 marzo del 1615 all’8 marzo del 1628; e con certezza si riterranno indirizzate al conte Camillo Molza, perchè ivi il Nostro chiama spesso suo strettissimo amico il destinatario come chiama il Molza « amicorum optimus » nelle Silvae ; perchè a lui si rivolge per avere i denari della pensione fissatagli dal Cardinale, i quali, in un’altra lettera, non compresa tra queste (1), dice d’aver avuto proprio per mezzo suo; perchè lo chiama talvolta Signor Conte ; e perchè infine quel destinatario sembra, come appunto era il Molza, un cortigiano di casa d’Este. A queste lettere, che pubblico qui appresso in ordine cronologico (2), non escludendo le pochissime già pubblicate dal Parisi nella sua opera, la quale non è altrettanto facile aver tra mano quanto le altre che pui contengono lettere del Mascardi (ved. App- IH) Lettere sparse), parecchie ne ho aggiunte, trovate negli archivj di Modena, di Firenze e di Genova. Avverto ancora che ho creduto bene di rabberciare, o meglio rimodernare in alcuni punti la grafia, trattandosi di copie e non di lettere autografe, come ha fatto il Bartoli per la pubblicazione deWArte istorica ; e che indico, per economia tipografica, quelle dello zibaldone della Nazionale di Firenze con le iniziali B. N (1) Ved. Giorn. Lig., vol. I, p. 116. (2) Naturalmente ho provveduto col contesto, quando il dato di tempo mancava o figurava inesatto. — 393 — I 1. Al conte Camillo Molza. Da Parma scrissi a V. S. per sincerarmi e rappresentarle la mia improvvisa pazienza come effetto di poca comodità, non figlia di molta negligenza o d’osservanza tiepida ed obliviosa; e, perchè sapevo che la sua gentilezza avrebbe per sè medesima anticipate le mie difese nell’ animo suo , non volli moltiplicar parole indarno, per non parere di restare obbligato della discolpa alle mie vive ragioni piuttosto che all’ infinita cortesia di V. S., presso di cui non sarò mai fatto reo della debolezza delle mie forze, che non venghi assoluto dalla soprabbondanza dell’ amor che mi porta. In virtù di questo, ardisco importunarla, pregandola mandarmi il nome, cognome e patria di quel poeta siciliano che io vidi una volta in casa sua, ed insieme la materia di che ragiona, essendo ciò per essere di molta soddisfazione a persona che mi può comandare. Quelle scritture del Boccalino (i), se mai arriva a Bologna, potrà consegnarle al P. Gaspare Rossano, che n’è padrone. Nel rimanente Ella sa gli obblighi c’ ho di servirla ; quegli stessi le riduco a memoria senza cerimonie, perchè senza cerimonie le son servo di vera osservanza. N. Signore la conservi. Di Piacenza, 5 Marzo 1615. (B. N.; Parisi, IV, 187). 2. Allo stesso. Ogn’altra disavventura dovevo temere all’osservanza e desiderio mio di servirla, che una frettolosa partenza, per ingiuria di cui non avessi a riveder l’ultima volta con gli occhi chi sempre porto fisso nel cuore. Ma pazienza! riconosco in questo ancora 1’ ostinato tenore della mia poca fortuna, che, (1) Probabilmente i Ragguagli di Parnaso, che il Nostro imitò indi a poco nella satira contro l’Achillini. — 394 — avendomi tronche 1’ ali in mezzo al più bel volo e rotta la strada nel più bramato corso, m’ha fatto rivolgere i passi a tedioso viaggio, e lasciare interrotte le mie speranze di servire una volta ultimamente i signori Modenesi, a’ quali vivo tanto obbligato. Ala V. S. che da gl’ infiniti favori ricevuti dalla sua cortesia può argomentare con saldo fondamento gli obblighi miei, debbe parimenti imaginarsi il disgusto eh’ io provo in non aver soddisfatto con l’opera al mio desiderio di visitarla, benché ne facessi sforzo in ora forse importuna ; e con questi presupposti acqueto io, o più tosto lusingo, me medesimo, sperando d aver supplito a bastanza col conosciuto affetto ed osservanza mia ad ogni mancamento di dimostrazione esteriore , e riserbandomi a darle più disteso raguaglio di me e delle cose mie , al mio arrivo a Piacenza, che sera fra due giorni. Finisco per ora , non offerendole tutta la forza d’ un animo ossequioso e divoto, ch’è di già sua, ma pregandola a non tenerla oziosa e disutile con 1’ avarizia de’ suoi comandamenti. A Signori dell’Accademia (i) mi tenghi in grazia e in memoria, e al signor Spazzino dica che la prima posta lo servirò. Nostro Signore Dio conservi, e feliciti la sua degna persona. Di Parma, 6 Marzo 1615. (B. N.; Parisi, IV, 190). 3. Allo stesso. Le cagioni producono gli effetti a sè simili per quanto si può, e i parti portano sempre qualche simiglianza de’ padri loro ; per ciò non mi maraviglio che la cortesissima lettera di V. S. sia stata peregrina per qualche tempo, poiché viene dettata da peregrino e contiene avviso di peregrinaggio ; è (1) L’accademia modenese presso il Bentivoglio, di cui faceva parte Giacomo Spazzini qui nominato. — 395 — però giunta a salvamento a Milano, dopo d’avermi cercato indarno in Piacenza, e da me è stata ricevuta non solo caramente, come figlia d’amico e signore tanto qualificato, ma ambiziosamente , come pe^no di benevolenza e onore sì singolare. Ma buon prò le faccia del suo viaggio alla Santa Casa di Loreto; e direi d’avergliene invidia, se non che la tediosa compagnia delle Donne eh’ ella ha condotte , poteva far trapassare l’animo dalla penitenza all’ impazienza ; che nel rimanente le pioggie e altri sinistri reputo io circostanze sì necessarie, ne’ viaggi, che sempre nel far di conti le presuppongo, come condizioni senza contradizione sottointese nel solo nome di viaggio ; nè gran fatto mi attristano. Ma, che dirà eh’ io sono in Milano, e vi sono di nuovo ridotto ad insegnare ? Spectatum satis et donatum iam rude quaeris Maecenas, iterum antiquo me includere ludo. Così va il mondo. Il Signor Cardinale d’Este per lettera particolare mi richiamava a Modena per l’estate, dicendo d’aver bisogno di me per suo particolar servizio, ma giunse in Piacenza la lettera eh’ io ero di già partito , benché scritta in tempo, che dovevo con buona ragione riceverla due dì prima della partenza. Forse non fu spedita a tempo. Pazienza ! Dovunque io mi sia, sono quel desso che sempre fui, cioè povero, ma da bene, e tutto tutto del S. N. N., senza divisione alcuna. Mi comandi che lo vedrà senza cerimonie, che non ho tempo. Nostro Signore la conservi. Di Milano, 29 Aprile 1615. (B. N.; Parisi, IV, 193). 4. Allo stesso. Disse il vero V. S. eh’ era sicuro del mio ritorno costà, perchè sarebbe senza dubbio avvenuto, se la lettera del Signor Cardinale d’Este, con la quale mi richiamava per suo particolare servigio, non avesse tardato troppo ad arrivare. Ma la mia poca ventura volse che una lettera inviata per staffetta — -696 — a Piacenza, giungesse otto dì dopo 1’ altre che venivano per la posta ordinaria ; onde, venend’io a Milano, ed essendo subito impiegato in leggere, fui reso inabile a servire il Signor Cardinale e V. S. insieme, poiché anche il rispetto suo mi faceva ritornare più volentieri. Ma pazienza ! non mancaranno occasioni di servirla anco di lontano, s’ella vorrà comandarmi con quella autorità che deve e che può essere corrispondente all’osservanza ed obligazion mia; di che ne la prego instan-temente , e senza venire a termine di cerimonie, poiché son troppo lontane dalla natura mia, com’ella sa, e molto più dalla professione. V. S. aspetterebbe forse novelle da me di questi rumori, ed io volentieri gliele darei, se le sapessi, ma credami, signor mio, che ne sono affatto innocente, come dicono a Venezia; colpa è di ciò la mia ritiratezza con questa gente, eh’ io non conosco, e gli umori della quale sono molto differenti da’ Signori Modenesi , dalla bontà e cortesia de’ quali mi promisi sempre gran cose, e n’ ottenni più di ciò che me n’ero promesso. La pregherò io all’ incontro mandarmi copia dell’ elogio o inscrizione fatta pel Signor Co : N. N. suo suocero, che sia in gloria, poiché, avendo lasciate le mie scritture costì, non so donde cavarmela, se non con infastidire V. S. ; e se nella venuta del P. Camillo nostro a Milano , che serà di corto per quel ch’intendo, potesse favorirmi d’uno di que’ libretti dell’Historia di Francia, che tradusse il Signor Cardinale d’Este e fece dedicare al Sig. Principe P. Luigi, gliene resterei con obbligo particolare, supplicandola fra tanto a ricevere quest’ atto di forse sovverchia confidenza, per un sicuro pegno della prontezza che troverà sempre in me nelle occorrenze di suo servigio, e del gusto speciale che sentirò in obbedirle intieramente, in considerazione di tanta sua cortesia e mia obbligazione. Con che, rallegrandomi della sua ricuperata sanità, me le ricordo suo vero e cordialissimo sempre obligato per molti titoli, e le prego dal Sig. Dio ogni compita felicità. Milano, 26 Maggio 1615. Sig. Conte , desidero rivederla e servirla in Modena : son preso e servo della sua cortesia, virtù e valore. F. D. N. (C. N.; Parisi, IV. 195). Allo stesso. Ho scritto a V. S. più volte, ed ultimamente le domandavo una copia di quell’elogio, ch’io feci costì a suo compiacimento in lode del Signor Co : N. N. che sia in gloria, ma, perche non ricevo risposta, e per altri riscontri, mi dubito forte che o per oblivione o per altro mi sieno trattenute le lettere , così quelle che mando ad altri, come quelle che mi son scritte ; però mi risolvo di portare oggi questa io medesimo alla posta , senza che nissuno ne sappia altro ; e pari-menti prego V. S. ad inviarmi la sua risposta per mezzo di persona che me la consegni in mano ; e , quando non abbia a chi, potrà farle una coperta diretta al Sig. Co: N. N. Qui si è udito nuova de’ rumori fra il Duca di Parma e voialtri Modenesi. Mi favorisca di grazia di farmene saper l’intero, perchè vivo con qualche gelosia, e non vorrei che questi accidenti impedissero la scorsa che sono per dare in coteste parti al settembre prossimo. Mandole questo mio povero sonetto , perchè io ancora voglio entrare in tenzone fra tanti compositori; V. S. lo scusi come mio. Di nuovo la prego d’una copia di quell’elogio per mio par-ticolar rispetto e disegno. E per fretta rinnovandole la memoria del desiderio c’ho di servirla, e degli oblighi infiniti che m’ha imposti, me le raccomando in grazia. Di Milano, 17 Giugno 1615. (B. N.). 6. Allo stesso. V. S. non può participare gli accidenti di casa sua con persona che più intimamente e con maggior senso gli riceva; così m’impone la divota osservanza mia verso di lei, e gli obblighi che m’ha imposti con l’infinita sua cortesia; perciò deve V. S. farsi a credere, senza eccezione alcuna, che della peri- — 398 — colosa infermità della Signora Anna sua ho sentito, e sono per sentire fino ad avviso migliore, quel più acerbo disgusto che in tante e sì spesse morti de’ miei propri di casa non ho in verità provato sinora. Piaccia a N. S. Dio di conservare a V. S. ed alla sua casa, così onorata e divota Signora, come io di continuo ne prego S. D. M. Ebbi 1’ elogio ; ne la ringrazio cordialmente ; ed averò anco il libro , quando che sia, sebbene i caldi, già si può dire eccessivi, mi tolgano la speranza di veder per quest’ anno il P. Camillo fuor di Modena; ed in tal caso averei obbligo doppio alla sua molta umanità, se, ricuperatolo, per altra via me l’inviasse prima ch’io venghi a ritrovarla costì, che doverà pur essere, come le scrissi, a Settembre prossimo , o per ritornar poi a Parma , o per seguitar il viaggio alla volta di Roma, come di là mi viene significato ; tuttavia il tempo è lungo, spessi e gravi gl’intoppi, nè posso sicuramente promettere quel che sarà. In ogni luogo però serberò la mia osservanza verso di lei, perchè per tufto porterò gli obblighi ed il desiderio di servirla. Quel sonetto che le mandai, non cercava lode, ma richiedeva perdono. Non fu mai poeta, e massime vulgare, l’autore che lo compose; onde, sì come rimango obbligato a chi s’ è compiaciuto di lodarlo fuor del dovere, così non posso non ricevere in bene ch’altri l’abbia biasimato conforme al giusto. V. S. però il difenda e protegga come cosa sua, che nel resto non debbo temer molto. Qui abbiamo la pace, Dio lodato, e si respira, poiché s’è fatta fuor di speranza. Le capitolazioni non si son viste; e, se bene ne vanno attorno alcune , quei che ritornano dal campo , le dànno per false, dicendo che ivi non si son viste. Non ho più tempo ; però finisco con salutar tutti cotesti Signori olirti amici miei, ed a V. S. bacio riverentemente le mani. Di Milano, p.° di Luglio 1615. (B. N.). — 399 — 7. Allo stesso. Brevemente , chè m’incalza il tempo. Dal P. Camillo ho avuto il libro e la gentilissima lettera di V. S., doppio anello dell antica catena di tanti obblighi che me le stringono ; serberò 1 uno e l’altra ambiziosamente, in contrassegno e memoria eterna de’ suoi favori. Stetti con ansietà per la salute della Signora Anna sua, fino a tanto che dal P. Camillo, a cui ne domandai nel bel primo congresso , mi fu reso il desiderato avviso della recuperata sanità. Ne rendo grazie alla Maestà Divina, c’ha voluto adempire i giusti desideri di V. S„ riserbandole sì qualificata Signora e con essa lei me ne allegro con quell’ affetto che deve un servitore suo di così vera ed affettuosa ed obbligata osservanza. Nè sarà, come credo, diffìcile a crederlo. Con miglior opportunità, ed in tempo meno occupato, mandarò a V. S. un nuovo poema della pace seguita; ora non posso. Saluto cordialmente cotesti miei Signori dell’Accademia partitamente : mi favorisca ella di pigliarsi la carica a nome mio, e mi comandi dove son buono. Che N. S. le conceda quanto desidera, mentr’io le bacio riverentemente le mani. Di Milano, io Luglio 1615. (B. N.). 8. Allo stesso. La ricuperata sanità di V. S., non pur desiderata, ma prevista da me, mentre ero in Modena, e per avviso del Signor N. Cervarvollo (?) avvisatami, di sicuro mi porgerebbe materia di lunghissima congratulazione, ma non debbo io lasciarmi reggere sì fattamente dall’ allegrezza, che ne abbia il suo luogo anco il discorso , e la discrezione non moderi per ora l’affetto, trattenendolo dentro ai confini dell’animo. Perciò mi parrà di dir molto, se dirò semplicemente a V. S. che la — 4°° — sua riacquistata salute ho riputata mia propria per molti rispetti e titoli ch’ella sa. E di ciò basti. Rimando gli stivali (i), direi pieni di grazie, se guardassi [non] solo alla rozzezza dell’espressione esterna, che l’appresenta, ma alla finezza dell interna affezione , che non si può vedere , e però non si può neanche mettere in altro stivalo che in me medesimo. Se in questa maniera la vuole, accettila per quel che vale, e si ricordi degli obblighi che m’ha imposti, per non mi far penare eternamente sotto sì grave fascio. Il P. Ravizza la servirà in tutto ciò che sarà di suo gusto e soddisfazione. Che N. S. la conservi ed accresca ogni dì più, secondo i suoi molti meriti. Di Parma, 7 Novembre 1615. (B. N.). 9. Allo stesso. Ch’io la visitassi in Modena mentre fu inferma , fu parte di pagamento del debito che m’ha imposto d’ onorarla e servirla quanto potrò. Che nella mia lontananza, col ragionar di me, V. S. stimi d’aver sentita allegrezza, è tutto eccesso della sua cortesia, che m’attribuisce più che non deve, con l’amarmi più che non merito. Ond’ io , non tanto debbo compiacermi d’ averla servita nel miglior modo che sapevo, quanto doti) Erano componimenti poetici? Così pare satireggiarli l'Abbati (Frascherie, ed. cit., p. 163; Satira: Il Pegasino): Bagnar dentro il Ruscelli ognuno vuole le sue rime Stivali, e nel viaggio l’Elucidario sol serve di sole; e anche (ibidem, p. 403; Satira: Il viaggio): Poi, qual Corrier de’ miei finiti mali, mi stivalai, per aver sorte in selle, già che han sorte oggidì sol gli Stivali. Se lo stellato spron regge la pelle d’uno Stivai, non sarai) cose strane che d’ un Stivai sian provvide le stelle, — 401 — lermi di non averla potuta servire quanto volevo ed ero tenuto. Nè V. S. per altro può allegrarsi nella memoria che conserva di me, se non considerandomi come fattura del suo cortese giudizio ed oggetto volontario della sua prodiga at-fezione. Io so benissimo che proprium humani ingenii est o-disse quem laeseris, al parer di Cornelio Tacito ; onde, argomentando a contrario, potrò inferire che è proprio dell’umano ingegno l’amare il beneficato da sè. Così vuol Seneca. Sì che V. S., mostrandomi tanto amore , opera conforme alla benignità di sua natura, ed adempiendo i miei demeriti di tanta sua umanita, ama in me le proprie grazie e favori che m’ha già fatti. Resta eh io gliene testifichi la doppia obbligazione che gliene sento , e col ridurle a memoria 1’ autorità eh’ ella tiene di comandarmi. Esibisca quel poco capitale che mi trovo in tutto a suoi servigi, chè serà solo un rinnovarle 1’ antica offerta. Il P. N. è cortesissimo di per se stesso, ma, quando poi trova soggetto meritevole dell’ amor suo, cioè a dire un pari di V. S., si lascia trascorrere affatto, sì che le dimostrazioni del P. N. deve ella accettare come premio del proprio merito, o, se ciò non le consente la modestia, come effetti dell umanità di quel Padre, poiché a me parte alcuna non ne perviene. Godo bene infinitamente che chi non è stato buon maestro nell’arte del ben sapere, mi sia fedel compagno nell’arte del ben amare e autentichi con la sua autorità l’elezione eh’ io già feci della persona di V. S., a cui dedicassi la mia sincera osservanza. Come pure parimenti godo della ricuperata salute sua, la quale, fluttuando sì gran tempo, ha tenuto l’animo mio fra la speranza e ’l timore, in maniera eh’ ha parimenti sospesa la penna nel dovuto testimonio dell’ obbligo mio, per non le divenire importuno con le mie lettere, mentre i medici l’affliggevano con i loro Recipe. E piacesse a Dio che fosse stato in mia mano il trasferirmi costà le feste del Santissimo Natale! sarei volato senza aspettar l’invito solo per servire a V. S.; e lo farò in ogni tempo che mi sarà concesso. In tanto seguiti ella in amarmi e s’ assicuri d’ aver collocato 1’ affetto suo in parte non punto volgare in gratitudine e corrispon- Alh Soc. Lis. Storia Patria. Vol. XLII. 26 — 4°2 — denza, benché per altro bassa ed abbietta , che sarà il fine col pregar Dio N. S. che le conceda compita sanità e felicissimi avvenimenti. Di Parma, 12 Gennaio 1616. (B. N.). 10. Allo stesso. Poiché veggo che la mia orazione tarda assai più del dovere a comparir dalle stampe, nè ho nuova che mi dia speranza di fortuna migliore , invio a Y. S. una copia d’ essa, giuntami alle mani pochi di sono. Chi 1’ abbia scritta io noi so ; ben m’ avveggo a mio costo che 1’ andar di penna in penna vuol dire precipitare d’errore in errore, e però di biasimo in biasimo. V. S. vedrà molte cassature. Sono fatte da me, perchè ho trovate alcune parole sparse per dentro all o-razione, che o mie non sono, o, se pur sono, non posso approvarle come ben collocate. In quello poi ch’alia scorrezione s’appartiene , mi rapporto al suo prudente giudizio. V. S. la partecipi con gli amici , ma non ne lasci penetrar nuova al Signor Cardinale, perche non ho comodità di chi ne trascriva una copia , e questa mi par tollerabile per andare in mano d’amico e signore tanto domestico com’ ella è, ma non d avvicinarsi alle porpore. Darò al Sig. Fontana la sua scrittura e per mezzo di V, S. aspetterò risposta dal Sig. Roberto del negozio raccomandatole a bocca costì. E senza più prego a V. S. da N. S. Dio ogni più prospero avvenimento. Di Parma, 14 Giugno 1616. (B. N.). — 403 — 11. Allo stesso. Per la persona che mi portò que’ due Conclavi, rimandai a V. S. le prime scritture della fuga del Marchese di Caluso (i) e dell’impresa delle galere del Granduca(2), poi per un giovine fratello d’ un tal dottore modenese, che studiava qui in Parma , rimandai i Conclavi medesimi. Nè dell' uno nè dell’altro piego ho nuova alcuna, ma forse V. S. non è in Modena, poiché mi scrisse di dover partire a’ 3 del corrente ; se così fosse, mi dorrebbe in estremo che le scritture si fossero smarrite. Ma mi giova sperar cose migliori. Sto con grandissimo desiderio della mia orazione, perchè sono importunato da tanti lati che non posso resistere. Almeno vorrei sapere se Ms. Giuliani ha dato principio alla stampa, quando la posso aspettare, che cosa si sia la spesa ; ma sopra tutto mi dà pena la tardanza per rispetti considerabili, che non debbo porre in iscritto. Di grazia, Signor mio, si contenti d’ essere a nome mio sollecitatore importuno , e compisca il favore ch’ella mi fa coll’aggiungere alla sostanza del fatto la circostanza del tempo, che per dire il vero il desiderio mio trapassa in impazienza. Rispondendo, V. S. invii la lettera sotto coperta del R. D. N. N. per buon rispetto, e nel resto mi comandi con 1’ autorità che conviene , poiché le sono servitore al solito di vera osservanza, e le bacio le mani. Di Parma, 7 Luglio 1616. (B. N.). (1) Dalle carceri di Milano. Assunse poco appresso il comando della piazza di Vercelli, per conto dì Carlo Emanuele. (2) Affidate ai cavalieri di Santo Stefano per guerreggiare contro i Barbareschi. — 404 — 12. Allo stesso. Questa mattina ho scritto un’ altra a V. S., perchè non a-vevo ricevute le orazioni : ma vedrò di ricuperarla. Ora le rendo grazie infinite , e delle scritture mandate e della diligenza nel fare stampare 1’ orazione , e dello studio in mandarle. Son giunte a salvamento; e adesso le ricevo. Ho dato una trascorsa, e mi è parso di trovarvi delle parole soverchiamente toscane. Dico ciò perchè il rimanente dell’orazione non corrisponde alla sceltezza di quelle poche, ed io a bello studio le fuggo nelle scritture mie. V. S. non parla della spesa, ed io desidero di sapere l’intero per soddisfare lo stampatore. Non ho tempo. Le resto obbligatissimo, e me le confermo servitore al solito, baciandole le mani. Parma, 6 Luglio 1616. (B. N.). 13. Allo stesso. Subito giunto a Parma, senza fermarmi punto partii alla volta di Castiglione, per seppellire quel Principe, come avevo già sepolta la Principessa, onde non potei baciare a V. S. la mano, conforme al debito e desiderio mio; e, perchè non ebbi altro tempo che un giorno solo per formare 1’ orazion funerale, ho pensiero di riformarla con nuove aggiunte, acciò che possa comparire con l’altre scritte alla luce di questo mondo men contaminata che sia possibile ; onde , essendo le principali azioni di quel signore tutte fondate in ambascerie, supplico V. S. a farmi grazia del Legato di Carlo Paschalio per qualche giorno, chè , subito adoperatolo, lo rimanderò fedelmente, se pure avrà gusto di leggerlo (i). Vorrei però, che fosse (i) Carlo Pasquali, più conosciuto sotto il nome di Paschal, fu diplomatico e antiquario espertissimo. Nacque a Cuneo nel 1547 e morì presso — 405 — quanto prima , perchè m’incalzano molti, e vorrei uscirne, e costi non mancherà comodità di carrozzieri, quando non d’ altri , e V. S. mi perdoni se le disturbo forse lo studio di quel libro, eh’ in verità n’ ho cercato un altro per comprarlo, ma indarno. Nel resto son suo al solito, che vuol dire senza cerimonie, e senza cerimonie le bacio riverentemente la mano. Di Parma, n di Novembre 1616. (B. N.). 14. Allo stesso. Da P. N. N. ho ricevuto il libro che V. S. con tanta diligenza s’è compiaciuta di farmi avere, di che rendole quelle maggiori grazie che posso; e, poiché dovrò essermene servito in breve , se V. S. avesse gusto di riaverlo , me ne dia un cenno, che la servirò subito con la prontezza che devo. L’ orazion mia sarebbe ora giunta nelle sue mani, ma le mancano penne per fare questo volo, poiché la mia è sola e molto stanca ; in somma, non ho più d’una copia e non veggo comodità di moltiplicarle. Ma, subito stampata, ella comparirà, se bene intendo il motto eh’ ella mi dà ; con tutto ciò V. S. mi confuse tanto l’altra volta che adesso mi rivolgerò ad altra parte. Rimando le scritture ch’ella mi diede costì, con tante grazie quanti sono i caratteri con cui sono scritte ; se le arriva altra cosa o di bello o di nuovo, si contenti con buona comodità di favorirmene, che gliene conserverò quell’obbligo che si conviene. De reliquo sono, al solito, servo obbligato alla sua cortesia, e desidero occasione di servirla efficacemente. Ed intanto, baciando le mani a V. S., le prego da N. S. ogni contento. Di Parma, 16 Novembre 1616. (N. B.). Abbeville nel 1625. L’ opera sua maggiore, intitolata Legatus, comparve la prima volta a Rouen nel 1598 ed ebbe poi l’onore di parecchie ristampe. Allo stesso. Stavo in qualche gelosia della sua buona grazia per un cosi lungo silenzio e per non avere avviso delle scritture, che rimandai a V. S. buon pezzo fa, quando questa mattina arrivò la sua lettera del 2 del corrente, trattenuta scortese-mente non so da chi, e mi liberò da quel travaglio. Pio scritto al Cassiani per la stampa dell’orazion mia, ed egli non risponde; prego V. S. a fargli far motto in mio nome, acciò che non s’invecchi in mia mano questo componimento : e della spesa mi perdoni ella se non ho voluto che la sua cortesia v entri di mezzo, perchè in ciò , riguardo non alla sua magnanimità, ma al debito mio, non so ancora quello che si vorrà lo stampatore. Due altre opere mi sono capitate alle mani del P. Carlo Scribanis autore dsKCAnfiteatro , più facili in quanto allo stile, ma niente meno belle e concettose. L’una s intitola Philosophus christianus, l’altra Amor divinus; ma la prima è singolare (1). Se V. S. vorrà vederla, me l’accenni, che la manderò subito , come la servirò sempre di cuore in ogn’altra occasione, in conformità degli obblighi che le devo. Che N. S. la conservi e le dia il buon Capodanno, e le bacio le mani. Di Parma, 27 Dicembre 1616. (B. N.). 16. Allo stesso. La cortesia di V. S. mi comanda che l’importuni, e ’l mio bisogno mi necessita a farlo ; onde in ubbidirla vien mitigato il dispiacere che sentirei per lo disturbo ch’ella da me riceve, (1) Carlo Scribani, gesuita belga, era nato a Bruxelles nel 1561. Mori ad Anversa nel 1629. L 'Amphitheatrum honoris (Namur, 1605), in cui egli difendeva i Gesuiti dalle accuse degli avversari, comparve sotto l’a-nagramma di Clarius Bouarcius. Il Philosophus christianus, detto qui o-pera « singolare » dal Mascardi, fu pubblicato in Anversa, nel 1614. — 407 — dal sapere che da lei mi viene ciò imposto, a cui, come son tenuto di servire ancora con molto incomodo mio, molto più devo farlo con utile. Il Cassiani m’ha risposto ; ma coll’ altezza del prezzo non ha corrisposto alla scarsezza del danaro. Vorrebbe 12 lire di cotesta moneta per foglio, stampandone cinquecento. Imparo con l’esperienza altrui che il Viotti di Parma non è tanto irragionevole , quanto altri dice. Il Cassiani professa d' essermi amico , ed io lo credo, perchè sono amico a lui ; tuttavia mi riesce amico sì caro che da cotanta strettezza resto annoiato. Prego V. S. a veder se si può tirare più al basso, perchè non ho ali che mi portino tanto alto , o almeno vorrei che, pagandosegli quanto mi dimanda, mi servisse di carta e di carattere conforme all’ altra, e mi sbrigasse presto. Di più vorrei che ne legasse quaranta in cartoncino semplice e dieci in pergamena per donare ad amici ; credo che a ciò basterà l’autorità di V. S., senza ch’io mi pigli a contendere con esso lui per mezzo di lettera particolare. Nè d’altro ha da pigliarsi lei briga , perchè ’l denaro sarà dato al Cassiani per altra mano. Scriverò a suo tempo al P. che insegna costì la retto-rica , e farò eh’ egli sborsi il dovere. Intanto dal medesimo Padre averà V. S. o ’l Cassiani l’impresa intagliata in rame, che va posta in fronte all’ orazione, che già 1’ ho inviata ier l’altro per un Padre che passava a Bologna. Raccomando quanto più posso la correzione, e parlo propriamente intendendo che ’l revisore corregga 1’ ortografia, non alteri le parole. V. S. m’intende : io non professo tanta sceltezza ch’altri nelle mie scritture, abbia da frappor parole ch’io non intendo, per renderle non so s’io dica eleganti o viete. E così V. S. s’accorge d’aver comandato ad un vero ubbidiente, poiché pur l’attedio senza risparmio. Vedrà per l’avvenire se de’ stimarsi poco confidente o troppo importuno, mutando i termini in meglio e chiamando ogn’uno per lo suo nome, se bene può all’incontro farsi a credere che la mia libertà in pregarla è sola espressione del desiderio eh’ ho di servirla, bramando pure almeno col mio esempio farle palese come si debba esercitare l’osservanza di chi molto ama e sin- — 4°8 — ceramente desidera d’ essere comandato , per adempire parte degli obblighi, come son io. N. S. conservi 1’ onoratissima persona di V. S., a cui per fine bacio affettuosamente le mani. Parma (al posto della data c è qticsto segno : &). (B. N.). 17. Allo stesso. Mandai a V. S. la mia orazione, ma non ho avuta altra nuova; onde potrei avere qualche sollecitudine, se la cortesia sua non m affidasse. Tuttavia, per non mancare a me stesso, la prego con questa mia a contentarsi di darmi un semplice avviso, che a me non sarà semplice obbligazione. Vorrei sapere, che cosa faccia lo stampatore , che via si sia presa, che prezzo stabilito, per poterlo rimettere, e quando si possa aspettare l’orazione stampata. V. S. vede per quanti capi 1 infastidisco ; intenda pure per quanti titoli accresca la mia gratitudine. Prima che si pubblicasse, vorrei che ne fosse fatta parte a cotesti Padroni, da chi ella giudicherà. Manderò io le lettere fatte e sigillate , che dovranno presentarsi insieme con 1 orazione ; però di quelle che volevo legate dal Cassiani, mi farà grazia farne scegliere alcune. E non posso più , perchè sono aspettato. V. S. mi perdoni, e mi comandi. Parma, 6 del 1617. (B. N.). 18. Allo stesso. Dalla lettera di V. S. comprendo ch’ella non ha ricevute due mie, nelle quali dicevo d’avere avuta risposta dal Cassiani circa la stampa e prezzo, e la pregavo a passar certo ufficio in mio nome. Le dicevo di più d’aver mandata al Padre della Rettorica una impresa in rame, per mettere in fronte — 409 — all orazione ; tuttavia, perchè spero che a quest’ ora saranno giunte, avendole inviate per la posta ordinaria, che non suole errare, non replicherò a V. S. quel che dicono. Da Castiglione quelli che dovevano , a nome del Principino , fare la spesa della stampa, si ritirano come sdegnati, perchè, avendo voluto eh io rimandassi l’orazione per rivederla, io l’ho negata loro, si perchè non mi pareva bene rimettere alla censura de’ servitori quel componimento, come perchè ero scottato dell’ affronto passato; però prego V. S. a dire al Cassiani che quanto prima metti mano all’opera, ma vegga di lasciar luogo dove si possano mettere queste parole « a spesa di Giuliano Cassiani ». Perchè, se costoro stanno ostinati e venerdì non ho risposta migliore , mi risolverò di chiarirli, e mi basterà 1’ a-nimo di trovare sei ducatoni; come pure la loro poca discrezione m’ha costretto a mendicare il denaro che spesi nell’andare e tornare da Castiglione, dove ero chiamato da loro e per servigio loro. Insomma così va: compro l’incomodo e fatica ancora con spesa ; ma la colpa è pur mia, chè, avendo l’esperienza passata, quando toccò alla sua cortesia l’adempire il difetto della mia indiscreta sicurtà, dovevo rifiutar l’invito e lasciar che trovassero altro beccamorto ; nè in ciò mi pesa altro che l’andar stancando gli amici, ai quali dovrei piuttosto servire; e V. S. sa bene che in materia d’interesse pochi se ne trovano. Di grazia il Cassiani la sbrighi, che costoro non scrivessero qualche cosa al Provinciale ed io fossi costretto a mio malgrado a mandarli 1’ orazione ; ma, come dico, lasci il luogo nella facciata, il quale però, restando vuoto, non disdica. Al Sig. Dottor N. resto molto obbligato della sua cortesia, e prego strettamente V. S. a baciargli le mani in mio nome del favor che mi fa, assicurandolo che in me troverà sempre tanta prontezza in servirlo in tutte le occasioni, quanta confidenza ho mostrato in dargli questo disturbo. Non mando il Filosofo cristiano, perchè mi trovo d’averlo imprestato ad uno scolaro lucchese. Lo ricupererò quanto prima ; e V. S. ne sarà padrone assoluto. Avrei rimandatole il legato del Paschalio, s’ella m’avesse fatto un cenno d’averne voglia. Iio mandato a Milano a pigliare un’ altra opera pure dello — 410 — Scribanis, lodatami assai dal P. Ghelfucci, il cui titolo è An-tuer pia (i). Subito che sarà giunta, V. S. lo saprà e vedrà. Rimetto le scritture mandate e rendo alla sua gentilezza molte grazie del favor che m’ha fatto. S’altro le viene alle mani, si compiaccia di parteciparmelo, che fedelmente le sarà rimesso. Scrivendo per l’avvenire intorno ai particolari di questa lettera, V. S. faccia la coperta al Sig. N. N. nobile Genovese, che l’avrò subito, e non vorrei che i P. P. penetrassero le mie doglianze contro i Ministri del Principino di Castiglione, poiché alcuno di loro s’ esibirebbe a scrivere, e farmi dar soddisfazione , ed io non la voglio , parendomi pur troppo gran sordidezza l’avere a far conti de’ denari, dopo d’aver servito con tanta prontezza a mie spese; e farlo con servitori. Il Padre Alberici porta Modena scolpita nel cuore e ne predica ogni cortesia; così va : le S. S. V. V. affascinano le persone, ed ella in particolare, che v’ha tanta parte. Sappia che la gratitudine del Padre è singolare, come singolare è l’osservanza mia, con cui a Y. S. bacio le mani. Parma, io Gennaio 1617. (B. N.). 19. Allo stesso. Se ’l Dottore voleva servirmi nella maniera c’ ha fatto, poteva non accettar l’impresa, che mi sarei tenuto per favorito molto maggiormente che non son ora. Ho fatto ridere lo stampatore di Parma con tanti e sì palpabili errori : quindici ve ne sono sì grossi che nè si possono dissimulare, nè ricoprire; tralascio molte mutazioni di parole intiere, essendone state tolte alcune che sul mio calendario passano per ottime, e sostituite in lor vece altre plebee e basse. Ma che, Domine, signifìcan que’ punti ? Io , a prima vista, credetti che fosse censura dell’ Inquisitore, ma poi, leggendo e trovandovi tutte le mie parole, sono rimasto trasecolato. Orsù , pazienza ! la (1) Pubblicata in Anversa, nel i6ro. — 4ii — faro ristampare; e queste copie serviranno a’ pizzicaiuoli. Mi duole che cotesti Principi l’abbian veduta con tanti sgorbi senza mia colpa; ma non si può fare altro. Non uscì mai dalla stamperia di Giulian Cassiani scrittura più assassinata, ed io, che non so di chi dolermi, accuso me stesso e la mia poca fortuna. A V. S. però rimango tanto maggiormente obbligato, quanto la sua diligenza e caldezza in favorirmi ha ricevuto più sproporzionata corrispondenza. Ella non poteva far più, per far uscire con ogni ornamento questo mio parto mal fortunato , ma non poteva altri peggio adoperare, per farla rimaner defraudata del suo cortesissimo desiderio. Io non mi dolgo del Dottore N., perchè ha trattato il componimento conforme a’ meriti, ma volentieri accetto 1’ antidoto dell’ ambizione , portomi da lui in così storpiata scrittura. Ma, di grazia, non più; a V. S. sono quel suo di sempre, e con infinito accrescimento d’obbligo. Parma, 27, & (non sono indicati il mese e Hanno). Mando a V. S. una copia con gli errori notati, acciò che, se il Cassiani ha più le forme in essere, se ne possano ristampare cento almeno corrette, quando anche non intenda lo stampatore come sono stato trattato. (B. N.). 20. Allo stesso. Scrissi a V. S. con animo sì poco sereno che, sì come mi dimenticai d’ accusarle la ricevuta lettera del Sig. Cardinale d’Este, così forse avrò trascurati quei termini, che dee in ogni tempo dettarmi l’osservanza ed obbligazione mia verso di lui. Signor mio , si compiaccia di scusarmi, condonando al mio giusto dolore la negligenza usata, considerando che d’ogn’al-tra cosa è capace l’amaritudine fuori che d’accuratezza. V. S. mi fa poi gran torto in discolparsi in cosa in cui sommamente m’ ha favorito ; ed io non solo discerno la sua grazia dall’ altrui torto, ma professo d’esserle doppiamente tenuto per quel rammarico che dimostra della mia poco meritata sciagura. Il Dottor N. non fu da me conosciuto già mai, ma 1’ averlo il Sig. Duca eletto alla revisione della mia prima orazione, mi fece entrare in opinione eh’ egli non fosse uno stivale; se mi sono ingannato, pazienza ! E men male che ’l peccato vien pagato con pena uguale, quantunque sia, come disse colui, « il peccato d’ altrui, la pena mia ». Si ristamperanno tutte tre insieme; e già se n’ è dato 1’ ordine in Toscana. Intanto mortificherò l’ambizione col tenere nelle tenebre questa lacera figlia d’ignoranza; e gli amici che la richieggono, manterranno il digiuno, per riceverla con più gusto quando che sia. Vorrei ben sapere schiettamente se costì è stimata uguale ° Peggior delle prime, per accordare una varietà d’ opinione fantastica assai; V. S. mi favorisca, ma da amico, che non lusinga. Che ne dice l’Ambasciatore di Firenze? Ed altri de’ più intendenti e critici? Come anche del nuovo Predicatore del Duomo intenderei volentieri novella. Per il Padre Ghel-fucci mandai a V. S. certa radice marina, che mi fu data per corallo; non perchè fosse cosa meritevole d’ esser da lei veduta, ma per la stranezza e novità, massime èssendo nata su quella pietra medesima ed a caso pescata da persona che pretendeva di fare altra presa. V. S. mi scusi s’ho preso tanta sicurtà; e non mi reputo privo di senno, ma abbondante d’affetto, se ben mendico di forze. Aspetto le risposte per le medesime vie del Sig. N., e con esse qualche comandamento di V. S., a cui per fine bacio affettuosamente le mani. Di Parma, & 1617 (mancano il giorno e il mese). (B. N.). 21. Allo stesso. V. S. mi tiene troppo lungamente digiuno delle sue lettere, ed il mio desiderio, che non può soffrire tanto indugio, ha ormai degenerato presso che in impazienza. Già sono più settimane che ella mi promesse la risposta di S. A. e dal Sig. N. N. sono avvisato che V. S. doveva buon pezzo fa avermi inviata una sua lettera; ma io nè l’una, nè l’altra ho veduta. Eppure il Sig. N. ogni posta ha usate le sue diligenze. S’ ella ritarda per farmi crescere il desiderio, scriva per quanto prima, perchè è in colmo, e mi faccia grazia d’av-visarmi se ’l Cassiani s’è acquetato alla risposta che gli diedi nella lettera inviata sotto coperta di V. S., a cui, ricordandomi per servitore vero e divoto, bacio affettuosamente le mani. Di Parma, 27 di Febbraio 1617. (B. N.). 22. Allo stesso. Oggi ricevo la lettera di V. S. de’ 12, che accusa due mie ; e, perchè in una terza ho soggiunto non so che , e quella parimente sarà giunta a quest’ora, non replico altro. Mando le lettere; V. S. le faccia presentare, come e da chi e quando le pare, insieme con le orazioni; a me basta che le risposte non mi s’inviino dirittamente ; ma, in tutti i modi, vorrei che venissero nelle sue mani ed ella me le facesse avere sotto coperta 0 del Fontana solito 0 pure del Sig. N. N.; e mi creda che così è necessario, perchè ci sono misteri da conferire a bocca ; come anche quella del Co: N., il quale vorrei che penetrasse, ma destramente, eh’ io non ho mandato orazione ad altri che a Principi Padroni, e per buoni rispetti, eh’ una volta saprà. Nel resto V. S. abbia pazienza se l’importuno ; così ella comanda. Coloro di Castiglione fanno ora il muso; non so se vergognati per una lettera eh’ io loro scrissi risentita e piccante. Non c’ è altro male che ritrovare il danaro ; si troverà ; non vi ponga però il Cassiani quelle parole eh’ io scrissi, « a spesa etc. », perchè, bastonando i servitori, non vorrei che il Co: N. tutore, a cui toccava pigliarsi questo pensiero, si reputasse offeso, perchè quel servitore è gentilissimo e non farebbe tal sordidezza, ma è assente, e non lo sa. V. S. solleciti per grazia, e m’invii le altre orazioni, stampate che sa- — 414 — ranno, pregando il Cassiani a tardare un tantino, fino a tanto eh’ io scrivo non so dove per avere il prezzo debito ; e, se pure si rendesse difficile, mi faccia V. S. grazia d’ avvisarmene subito, che di qua lo farò rimettere per via del Padre Procuratore di cotesto Collegio nostro. Signor Co:, avrei da fare una infinità di scuse di tanta sicurtà, ma non ho tempo, ne lo comporta la sua cortesia. Le sono però servo di tanta osservanza che non desidererà mai in me gratitudine. Le ricordo il mandar per via sicura ed indiretta le risposte, che importa. Parma, & (manca la data). (B. N.). 23. Allo stesso. Sempre mi perseguita la mia disgrazia. Il Sig. Cardinale m ha scritto, ma l’argomento della pace non è per me, oltre che in qualunque materia temo d’ affaticare indarno , poiché veggo poca inclinazione in chi puole, a lasciarmi dare alle stampe; e forse le mie poesie latine non avranno, come speravo, la grazia di comparire. Tuttavia aspetterò nuovo soggetto, ma non vorrei esser posto in angustie di tempo, come son ora, che però V. S. m’ avrà per iscusato , se non passo più oltre. Ben la prego a non mi fare arrossire con le sue lettere. Signor mio , poco posso fare in ricognizione degli obblighi che le devo, ma molto desidero. Da Castiglione ho avuto il denaro della stampa quattro dì sono. V. S. m’accenni come potrò fare a farglielo capitar nelle mani, e se vuole ch’io lo sborsi qui a qualcuno, oppure che lo mandi a Modena, che sarò prontissimo, come in ogni altra cosa di suo servigio , per dimostrarle la gratitudine e divozion mia; e le bacio di cuore le mani. Parma, 7 Marzo 1617. (B. N.). — 4i5 — 24. Allo stesso. Ricevo da V. S. un piego, con le lettere de’ Serenissimi Duca e Principe, del Sig. Fontana. Ne rendo le grazie che devo alla sua cortesia. Dellà risposta del Co. N. non si dia noia; se vorrà, la vedrò ; ed ella a suo tempo saprà quant’ io desidero dirle una volta. Non so perchè le mie lettere camminino tanto a rilento. Scrivo a’ suoi tempi e mandole alla posta quando conviene; ma in ogni caso ella sia pur liberale meco d’inchiostro, poiché son io seco prodigo d’osservanza e d’amore. Del Predicatore del Duomo V. S. non mi dice cosa nuova; l’avevo inteso per altra parte, ma non prestavo fede a chi non la meritava. Ora mi duole che la verità stia pur così. Nel resto io non intendo, e ne godo, dove vadano a finire le sue discolpe. Signor mio, io la tenni sempre per Cavaliere che con la cortesia sua sopravanzasse ogni mio merito, anzi coprisse ogni mio demerito , e però ha ella tanta autorità meco, e così assoluta, che non può darsi caso d’ errore dalla sua parte. Mi comandi come vuole e quando vuole, che tutto sarà preso da me come dovuto. Così Dio mi faccia abile a servirla ed a Y. S. dia ogni felicità, e le bacio le mani. Di Parma, 8 Marzo, 1617. (B. N.) 25. Allo stesso. Sono consigliato da alcuni amici di buon giudizio a non ristampare le mie orazioni senza moltiplicarne il numero. Io mi lascio persuadere volentieri ed entro in ballo a suon di lode; ma, perchè fra di noi non s’usa di scrivere orazioni italiane, massime per le stampe, se l’autorità de’ principi che ’l comandano, non dispensa la legge, è necessario eh’ io m’incammini per qualche via che mi conduca al fine del mio proponimento; perchè il comporle, senza averle a stampare, oltre che noi potrei fare, quando anche il facessi, sarebbe un — 416 — gettar l’opera al vento. Per tanto desidererei che V. S. mi favorisse in questa parte , com’ è solita di fare cortesissimamente; ed il mio disegno sarebbe di far penetrare al Sig. Cardinale l’intento mio , acciò che S. S. Ill.ma mi comandasse , con sua lettera particolare, eh’ io componessi un’orazione del-1’ argomento che vorrà poi mandare o proporre , se bene , a dire il vero, vorrei che fosse morale e confacente con la professione mia; dico ciò a V. S., perchè potrebbe essere che ’l tontanella ne suggerisce alcuno più conforme al suo genio che allo stato mio. Fatto che avrò quella, penseremo a bell’agio come si possa tirare innanzi. Y. S. mi scusi e pigli in buona parte la scusabile ambizion mia, fomentata più da’ consigli altrui che dal buon conoscimento ch’in me non sia della insufficienza mia. Ma che s’ ha da fare? Lascerò correre ed imbratterò le stampe. Il Co: A. N. prepara anch’ egli un volume d’orazioni toscane e vorrebbe eh’ io l’aiutassi ; se Y. S. fa che l’ordine del Cardinale venga quanto prima, mi leverò questa noia d’ attorno. Già la mia orazione del Principe sarebbe ristampata, se non avessi fatto soprassedere a questo fine. Se ’l Sig. Cardinale scrive , V. S. lasci pur correre la lettera per la posta ordinaria, ma la sua risposta la mandi a me sotto coperta o del Sig. N. o del Sig. Can.co N. N. Non so se ’l mezzo del Sig. Co. Ma.ss['imi/m]no M[ontecuccolì] fosse buono col Sig. Cardinale; me ne rimetto a lei, purché s’elegga tale che abbia più fatti che parole, e sappia riuscire con garbo. V. S. mi comandi, che le sono servitore della solita osservanza, ed ogni dì più d’insolita obbligazione, e le bacio le mani. Parma, i4 Marzo 1617. (B. N.). 26. Allo stesso. Per G. S. mandai ieri a V. S. un libro che m’è capitato alle mani, composto dall’autor medesimo di cui è VAnfiteatro. La supplico a ricevere, nella piccolezza del dono, la grandezza dell’ animo del donatore, riconoscendo in questa mia dimo- — 417 — strazione di gratitudine, qualunque essa sia, la viva memoria che conservo degli obblighi che le devo, e ’l desiderio di servirla dovunque potrò, in conformità e corrispondenza del- 1 amor che mi porta, e del favore che mi fa tuttavia. Conservi Dio N. S. la persona di V. S., a cui per fine bacio affettuosamente le mani. Di Parma, 17 di Marzo 1617. (B. N.). 27. Allo stesso. Con una mia lettera della settimana passata diedi avviso a V. S. che da Castiglione m’erano stati rimessi i denari per la stampa dell’orazione, e la pregavo a dirmi in qual maniera voleva che glie li rimettessi, o pagandoli qui ad alcuno o mandandoli a Modena; ma non ho risposta veruna, perciò replico al presente e le rinnovo l’instanza. Quel Cavaliere che fa 1 orazione della pace, per quanto m’ accorgo, non coglie la luna; me n’ha letto più della metà ; sono discorsi remotissimi e che non stanno sul caso, sì che a me rimarrà campo da poter dire ; e forse lo farò, sebbene il Sig. Cardinale mi ha dato nuovo soggetto. Manderò l’orazione di quel Signore, compiuta che sia, se non m’inganna o manca di parola l’autore, il che non credo ; e V. S. col Sig. Roberto vedranno come sieno strappazzati quei capi di sua natura buoni e che a me potevano servire assai. Pazienza ! V. S. non mi comanda cosa alcuna e sa pure gli obblighi e divozione mia, ma forse non mi reputa sufficiente a servirla. Chi sa? Forse, col comandarmi, m’abiliterebbe ad ubbidirla. In ogni maniera non mi dimenticherò di quanto devo, perch’ ella non si dimentichi di conservarmi in grazia sua; e le bacio le mani. Di Parma, 6 d’Aprile 1617. (B. N.). Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. LXII. 27 — 418 — 28. Allo stesso. Ebbi due lettere di V. S. alle quali non ho risposto, perchè non contenevano altro che nuove significazioni della sua cortesia, a cui, come son certo di corrispondere con vero affetto di cuore devoto ed osservante , così non mi par convenevole di far risposta di cerimonie , aliene in tutto e dagli obblighi che le devo, e dalla sincerità che professo. Ora dico a V. S. che l’orazione impostami dal Signor Cardinale è fatta più di tre settimane sono, ma gli scrittori, che sono dozzinali di qualità come rari di numero , m’ hanno fatta pagar la copiatura otto lire ; ed in capo di quindici dì me 1’ hanno data tanto malconcia e contraffatta che m’ è stato necessario ricopiarla di mia mano, con uno stento maggiore senza comparazione che non era stato il comporla. La invierò quando abbia occasione opportuna. Intanto quel gentiluomo che ha composta l’orazione della pace, m’ha tornato a promettermene la copia, se bene, a dire il vero, egli aspetterà di vedere qual sia il giudizio del Signor Cardinale; e, se il Signor Roberto non m’aiuta con controlettera , dubito eh’ io mi svergognerò , perchè non è possibile che S. S. 111.ma ne scriva, o senta talmente che l’autore possa legger la lettera senza rossore; ma di ciò un’altra volta. Oggi s’ è avuta la nuova della elezione del nuovo duce della Repubblica di Genova, che è Gio. Giacomo Imperiale , padre di Gio. Vincenzo, autore dello Stato Rustico e mio strettissimo amico; tocca a S. Serenità 1’ eleggere oratore, che nel pubblico senato l’onori d’orazione; e poi questo senatore, secondo l’uso di quella Repubblica, con altra orazione esorti alla unione e concordia que’ cittadini. Mi viene avvisato che si pensa di me, sebbene noi posso credere, avendo in Genova il P. Alberici e il P. Gessi, anzi essendo questa cura ordinaria de’ gentiluomini di Repubblica, non di religiosi ; tuttavia staremo a vedere. Prego però V. S. a tener in sè quanto le scrivo confidentemente , fino a tanto che ’l tempo chiarisca le partite , che in tal caso ne darò subito avviso. Frattanto bacio le mani al Sig Roberto, e per mezzo suo lo prego a farmi avere una copia della Prefazione che fa Mons. Querengo alla Storia del Pontificato di Paolo V, che ne serberò all’ uno ed all’ altro obbligo particolare ; e le bacio le mani. Parma, 2 Maggio 1617. (B. N.). 29. Allo stesso. Da Genova mi viene scritto che l’orazione mia della Castità dovrà ivi darsi alle stampe; io non ne ho copia, e n’avrei necessità. Prego V. S. a vedere col Sig. Roberto se fosse mai possibile d’esserne favorito. Le mie poesie latine sono in Roma state approvate per la stampa; solo si pone indugio con pretesto che sieno poche e mal atte a formar giusto volume. Io non misuro le opere di lettere dalla quantità e mole del volume, ma dalla qualità o sceltezza de’ componimenti, e vorrei che, se hanno a comparire, fosse ciò presto eseguito, ed in tempo che la mia giovinezza aggiunge pregio o almeno concede scusa al mio debolissimo parto. Però vorrei che V. S. consultasse col Sig. Fontana la lettera che mando inclusa, per vedere se ne potesse richiedere una di simile tenore al Sig. Cardinale Ill.mo per lo Generale nostro, che a me basterà la sostanza, quando si muti ogni altra cosa; perchè è necessario che 1’ ufficio non solo si faccia in maniera che non v’ apparisca per dentro motivo di mia preghiera, ma che s’affetti segretezza e si scorga un mero moto proprio ; che, in quanto poi alla maggiore o minor caldezza ed al termine, me ne rimetto al Sig. Roberto , che dovrà essere artefice; ed a me non conviene prescrivergli quel che di me debba dire. Se le S.S. V.V. stimeranno bene il supplicare il Sig. Cardinale per non andare in lungo, potrà il Sig. Roberto farmene grazia, quando non giudicassero eh’ io dovessi adoprarvi lettera particolare , che in tal caso potranno accennarmelo e prescri- — 420 - vermi la maniera, parendomi cosa poco decente in bocca mia propria. Sto tuttavia importunando l’autore dell’orazione della pace, ma non ne cavo costrutto. Forse la ripulisce ed adorna. Subito eh’ io l’abbia, l’invierò; così inviasse V. S. a me qualche suo comandamento, per darmi segno almeno che mi conserva quella cortese volontà di sempre, com' io le mantengo l’obbligata devozione ed osservanza. E le bacio le mani. Di Parma, 16 Giugno 1617. (B. N.). 30. Allo stesso. Già sono più settimane ch’io scrissi a V. S., supplicandola d’un favore, il quale, come che avesse alquanto del malagevole, le fu da me proposto condizionatamente. Ora, perchè non ho risposta alcuna, argomento che V. S. stimi poco ben pensato il mio disegno, e me n’ acqueto, perchè non voglio cosa che comodamente far non si possa, ma nè pure che non sia di piena soddisfazione di V. S., a cui son tenuto di servire m tutti i tempi ed in tutti i modi. Quando però il tacer suo altronde proceda, mi recherò a grazia particolare l’intender quello ch’ella col Signor Roberto abbiano stabilito a favor mio; senza più a V. S. bacio affettuosamente le mani. Di Parma, primo di Luglio 1617. (B. N.). 31. Allo stesso. Un’ora dopo d’ aver scritto a V. S., ricevei dal Fontana una sua cortesissima lettera, contenente la soluzione del dubbio eh’ io richiedevo, ed accompagnata dalla copia della mia orazione e dagli elogi dell’ infelice Concino (1). Rendo di (1) Trattasi del famoso ministro di Luigi XIII, trucidato nell’aprile. — 421 — tutto alla sua benignità singolarissime grazie, e perchè in questo genere di componimenti nella tragedia del Concino ho forse da renderle il contraccambio , mi riserbo ad altra occasione più opportuna, affrettandomi per ora la subita partenza del 1H ontana, che forse non troverà questa mia. Intanto a V. S. aggiungo, per avviso, ed al Sig. Roberto, che le mie lettere potranno per ora essere inviate al Sig. Can. N. N. Aspetterò ansiosamente di sapere ciò che si sarà fatto a mio favore a Roma, e senza più a V. S. bacio affettuosamente le mani insieme col Signor Roberto. Di Parma, 3 Luglio 1627. (B. N.). 32. Allo stesso. Non ho prima d’ ora potuto rimettere a V. S. la lettera del Sig. Cardinale, che si degnò di mandarmi, perchè, il dì dopo d’averla ricevuta, ammalai di febbre, la quale, benché leggierissima, m’ha pur tuttavia tenuto una settimana ozioso e mi sforza ad esser breve in questa mia. M’allegro del nuovo carico suo, se è con sua soddisfazione. Dello N. desidero sapere nuove più certe e più distinte, sentendo con gran gusto quanto di buono mi si dice di lui. La nuova che qui s’ era sparsa della morte dell’infanta Serenissima, m’avea messo pensiero. Ringrazio Dio che non sia succeduta. Del Sig. Fulvio (1) che n’è ? Intendo cosa che non vorrei. È forse una apparenza solita o pure veramente le sue rime gli recan danno ? Qui non ho che dire a V. S. se non ricordarmele servitore al solito di molta osservanza. Che N. S. Dio la prosperi. Di Parma, 28 luglio 1617. (B. N.) (1) « Il Cav. Fulvio Testi, gentiluomo del Card. d’Este »: postilla segnata in margine nel manoscritto. - 422 - 33. Allo stesso. Non ho mai da scrivere a V. S. senza annoiarla, ma non l’annoierò mai senza moltiplicare gli obblighi che le devo. Il dì di S. Bartolomeo finiscono gli studi ed io rimango disoccupato. Vorrei arrivare a Modena, e quivi passar le vacanze, e dar quell’accrescimento alle mie poesie , che ricercano in Roma e non potrei in Parma ; perchè , se ben cessano le lezioni, a me però , che vivo in Collegio de’ Nobili al servizio di questa gioventù, non mancherebbero perdimenti di tempo, massime dovendo andar con essi in villa. Posto tutto ciò, non veggo però con che titolo io possa venire a Modena, perche il Signor Cardinale ha presso di sè il Padre Ravizza, ed in conseguenza apparisce eh’ io non posso essere a S. S. Ill.ma bisognevole ; oltre che , avendolo richiesto del suo favore in altre occorrenze, mi pare oggimai soverchia dimestichezza l’importunarlo sì spesso , e non mi so risolvere a farlo. Sicché, quando V. S. come da sè potesse col Padre Filippo far colpo, a me sarebbe più caro, e , per stringerlo , potrebbe dirgli che, quando non si muova a sua richiesta, oprerà che 1 Signor Cardinale usi l’autorità. Forse il Padre rimetterà tutto al P. Provinciale, ma egli è sì poco lontano , che in otto di si può negoziare e concludere. Insomma prego V. S. affettuosamente a consigliarsi con sè medesima ed adoprar quei mezzi che più le parranno opportuni ; e, s’io le paressi troppo cupido, incolpine la sua singolare gentilezza e de’ Signori Modenesi, che m’ha fortemente allacciato. Più cose alla mia ve nuta conferiremo insieme; intanto le bacio affettuosamente le mani. Parma, 14 Agosto 1617. (B. N.). — 423 — 34. Allo stesso. La posta passata pregai V. S. d’un favore, ma sotto condizione; ora, perchè una nuova circostanza scopertasi mi pone quasi in necessità di venire a Modena, sono costretto a supplicarla, ch’ella si degni d’adoprar per ciò quel mezzo ch’ella stimerà più efficace, ancorché fosse l’autorità del Sig. Cardinale Ill.mo, a cui non può essere discara la mia venuta , se mi tiene per quel vero e divoto servitore che gli sono; e, perchè l’ultimo di degli studi sarà la vigilia di S. Bartolomeo , se si potrà ottenere subito la licenza, subito verrò ; ma , di grazia, l’ufficio si passi con la solita prudenza e circonspezione, per non nuocere a chi desidera giovamento. Con che per fine a V. S. ed al Sig. Roberto bacio affettuosamente le mani. Di Parma, 18 d’Agosto 1617. B. N.). 35. Allo stesso. Non aver lettere di V. S. buon pezzo fa e 1 non sentire avviso alcuno della mia venuta a Modena, mi fa stare tanto sospeso quanto è il desiderio che ho di rivederla, e servirla. È certo, Signor mio, che le circostanze in che sono e tutto dì mi s’ accrescono , mi necessitano ad allontanarmi da Parma, in maniera che, quando non avessi speranza di venire a Modena , pur m’aiuterei d’andar altrove ; oltre che mi s è aggiunto un bisogno assai grave, per il quale avrò di mestiere dell’autorità del Sig. Cardinale Ill.mo. Ristringo, com’ ella vede, in un gruppo molti argomenti, ma, quando che sia, sciorrò il nodo; e vedrà il contenuto. Se vi si pone, dalla parte del Provinciale, difficolta, s insista pure, perchè in realtà non v’ è cagione che giustifichi la negativa; e il mostrare il desiderio del mio venire, farà forse arrossire — 424 — chi contraddice. Tanto ho voluto in fretta significarle, per doppiamente stimolarla co’ preghi, dove V. S. corre per la sua cortesia , a cui , raccomandandomi quanto posso , bacio affettuosamente le mani. Di Parma, l’ultimo d’agosto 1617. (B N.). 36. Allo stesso. Sperava di ritornar subito a Modena e servire V. S. e godere de’ suoi favori, ma, perchè un negozio assai grave mi trattiene qui lungamente, ho io tanto bisogno del suo consiglio, il quale da parte nè più savia nè più fedele posso a-spettare. Il Canonico mio fratello vorrebbe andarsene a Roma, a tentar sua fortuna, e, perchè egli non è persona da vivere in Corte senza occupazione o di negozio o di studio, ha ricusato d entrare a’ servigi di più Cardinali, massime della nazione , che gli offerivano titolo di semplice Gentiluomo. Io avrei pensato d’appoggiarlo all’ autorità del Signor Cardinale Ill.mo d’Este. in questa maniera; che se ne andasse a Roma col titolo pur di Gentiluomo di cotesto Principe, e, abitando in casa, stesse attendendo le occasioni opportune. Nè ciò per tirare stipendio da S. S. Ill.ma, chè questo non lo richiede, ma per avere quella onorevolezza che può migliorarlo di condizione e di partito, veggendolo in Roma non senza recapito, ma appoggiato alla servitù di così gran Cardinale ; e questo è l’unico fine eh’ io ho. M’ accorgo bene che questo non è entrare al servigio di cotesto Signore se non in apparenza , ma, avendo S. S. Ill.ma in tutta la casa nostra sì vera e reale padronanza, può supporre d’averlo sempre parzialissimo e interessatissimo, perchè, se non ci tiene per ingrati, le grazie fatteci e l’esser nati in famiglia devotissima al serenissimo sangue Estense, autentica l’esibizion mia e di mio fratello ; oltre che, non avendo il Signor Cardinale alla sua servitù se non Cavalieri principali , a mio fratello , togato e sacerdote, — 4^5 — non può rimaner luogo che sia o ad esso di reputazione o al Signor Cardinale di gusto, quando non fosse l’Agenzia o l’Au-ditorato in Roma, i quali uffici, come che siano provveduti, e destinati a servitori benemeriti, sarebbe temerità la mia il pensar d’ottenerli per soggetto più desideroso che abilitato al servigio da alcuna estrinseca dimostrazione d’attual servitù. Standosene dunque in Roma ed avendo semplicemente stanza in Palazzo , senza salario alcuno, ed al più la parte, sarebbe accomodato abbastanza, ed ogni occasione che gli venisse alle mani, riconoscerebbe dalla grazia del Signor Cardinale Padrone, il quale avrà in ogni tempo ed in ogni luogo mio fratello per quella obbligatissima creatura che richieggono i debiti nostri. Ora non so se questa domanda sia lecita , ed io , che anteporrò sempre la buona grazia di S. S. Ill.ma ad ogni mio particolare interesse, non ardisco tentarla, s’ella medesima non m’ assicura che ’l possa fare senza pericolo di dar disgusto e senza nota di temerario ; che però la supplico vivamente ad informarsi e dirmene il suo parere, conforme al quale mi reggerò, ma di grazia quanto prima, perchè così porta un mio importantissimo negozio, che V. S. saprà a suo tempo. Ella intanto di questa mia confidenza ritragga l’autorità che tiene di comandarmi, e, conservandomi il luogo della sua grazia, mi consoli di qualche suo comandamento. E le bacio le mani affettuosamente. Di Bologna, io Settembre 1617. (B. N.). 37. Allo stesso. La settimana passata scrissi a V. S. con molto dubbio delle sciagure mie : ora posso accertarla. L’ ostinazione della fortuna m’ ha costretto a deporre quell’ abito che per undici anni ho portato con tanto mio gusto, ed in ciò non trovo motivo che mi consoli, fuor che d’averlo onoratamente deposto, come onoratamente il portava. La più principale cagione di tanta calamità è stata la servitù con la Serenissima — 42^ — Casa d’Este; così sentono i periti di queste parti. Altri intorno a ciò s' è posto a filosofare con presupposti troppo onorati, tenendomi per tanto padrone degli animi di cotesti serenissimi Principi, che col tempo o io , appoggiato all’ autorità loro, dovessi divenire intrattabile con i superiori eh’ avessero voluto rimuovermi di Modena ; o la Religione corresse pericolo per mia cagione di dar disgusto a quei Signori, della cui benignissima protezione ambiziosamente si godono. E pure V. S. sa che la miglior parte ch’avessi, era sincerissima devozione d’animo , con ordinaria corrispondenza di Principe generoso, e può essermi testimonio del risparmio ch’usava in valermi della benignità loro , non dirò in utile e gusto mio proprio con pregiudizio degli ordini regolari, ma ancora nel-l’interesse dei miei, che non dipendevano dalla Religione. Pure i Padri hanno degli esempi d’altri, assai freschi, che della maschera della servitù de’ Principi si sono valuti per acquisto di libertà; ed indarno han preteso di governargli. Non posso fare che non gli scusi, dolendomi in tanto solo della mia sorte calamitosa, che anche il miele mi converte in veleno. Raccomando efficacemente a V. S. la mia riputazione in cotesta Corte pericolante, perchè, se bene il Signor Cardinale Padrone è informatissimo , e cotesti Padri di Modena faran sempre fede eh’ in me non era sconvenevolezza di costumi o di vita, non potrà con tutto ciò la malignità di qualcuno trattenersi che non favelli conforme a suoi torti sentimenti ; ma, giustificato ch’io sia presso cotesti Signori, che mi conoscono, poco a me cale de’ sinistri discorsi di chi che sia. Me n’ an-derò alla Patria , fra un mese o due , ed ivi farò quella vita che può promettermi la solitudine nel seno delle scienze ; poiché la Corte non è per me, se non forse quella dell’ Illustrissimo d’Este , a cui ho interamente dedicato 1’ animo obbligatissimo per tanti titoli, e dove ho Signori che mi sareb-bono Padroni molto amorevoli. Ma ciò non ardirei di proporre , perchè misuro la gravezza di quel Signore che contrappesa la magnanimità di quell’ animo. Ha egli dovizia di servitori oziosi; ed a me non rimane luogo che si possa oc- — 427 — cupare ; ma per tutto ed in qualunque condizione , m’ averà S. S. Ill.ma servitore della medesima divozione ed obbligo di sempre ed io goderò d’ essere, si può dire, con questo titolo uscito della Religione. Con V. S. poi stimo soverchio il rinnovar offerta di sorte alcuna, perchè sa quanto ben fondata sia nel suo merito e ne’ suoi favori l’osservanza mia; pure, se fa di bisogno, la supplico a mantenermi quel luogo della sua grazia, che mi donò , non lasciando che colpo di fortuna atterri quel buon concetto che si degnò d’avere della divozion mia, comandandomi ora tanto più liberamente quanto più atto mi renderà a servirla l’essere indipendente dall’altrui volere ed imperio ; e senza più a V. S. bacio affettuosamente le mani. Di Roma, 2 Novembre 1617. (B. N.). 38. Allo stesso. Partii da Modena tanto dubbioso dell’ esser mio, che non mi diè l’animo di darne parte a V. S., per non contaminarla con l’incerta temenza di certissima sciagura. Ora, poiché son giunto a tal segno che non ritrovo porto di sicurezza, guidato dal mio disperato talento , disperatamente le scrivo. La vita finora da me per undici anni menata, benché sia stata bersaglio di mille oltraggi e schiava dell’altrui volontà, m’e però stata invidiata dal mio destino , la cui fierezza, nè da caldezza de’ preghi miei propri nè dall’ efficacia dell’intercessione altrui nè dalla potenza de’ grandissimi Principi, ha potuto esser resa meno ostinata o men dura. L’intraprender nuova sorte di vita sotto 1’ altrui governo porta seco malagevolezza per tutti i versi. I luoghi che sa-rebbono di mia riputazione e genio, hannomi chiusa la strada con decreti saldissimi, contro de’ quali valendo solo 1 autorità Papale , io , che mi trovo poco propizio quel Tribunale, ho deposta la speranza d’ ottener cosa eh’ io mi desidererei. Altre religioni non si confanno co’ miei costumi, che al viver poco civile, non che altro, non sono punto arrendevoli. Il rimanermi nel secolo in abito ecclesiastico mi vien consigliato da molti, ma, nella dovizia di chi consiglia, sento penuria d aiuto. Pochi anni sono, riseppi che, morendo, mio padre, nel testamento, privò me dell’eredità paterna, temendo che a’ Gesuiti non la donassi con pregiudizio della famiglia, onde dovrò pur mendicare il vitto e, mio malgrado, da’ fratelli miei propri andar limosinando il sostentamento d’una infelicissima vita, e, se bene da essi debbo sperare una certa continuazione d’amorevolezza sperimentata finora, tuttavia l’avere a dipendere in ogni semplice spesa dall’altrui borsa, oltre che è gravissimo a chi richiede , può , a lungo andare, riuscire anco rin-crescevole a richiesti, ed in occorrenza di poca soddisfazione; chi sa che la vendetta non fosse in pronto ? Sì che V. S. può comprendere con quai pensieri io mi viva ed in che tempesta di cuore ondeggi 1’ animo mio. S’io fossi nato un poco più bassamente, avrei forse spiriti conformi al nascimento, e, senza riguardi del convenevole, mi studierei di procacciarmi la spesa; ma per me non è guadagno quel che s’ acquista con tanta perdita. Son nato in famiglia , che per più di seicento anni s e mantenuta in Italia con diverse fortune, ma però sempre nobile ed onorata ; e, se da un tempo in qua si ritrova senza il dominio , che già le fu dato in ricompensa di valore e di fede da Ottone terzo Imperatore, nello stato privato però non ha finora imposta macula alcuna al suo primo candore ; nè per me voglio che i descendenti de’ miei abbiano a vergognarsi. Tutto questo confidentemente ho voluto dire a V. S. come a Signore molto amorevole, e che sempre ha dimostrato verso di me affezione particolare. Dovunque e comunque vivrò, il solito debito dell’osservanza e divozion mia verso di lei ne verrà meco ed ella m’ avrà servitore di poco potere, ma di moltissimo affetto e di sincerissima volontà. Farò sforzo di passare ad altro Ordine che disegno, perchè veramente, potendo , vorrei continuar nel servigio di Dio ; conosco la mia natura poco abile con gli affari del mondo ; desidero quiete d’animo; nè provo pizzicore d’ambizione che mi solletichi ; ma questo stesso vorrei ottenere in luogo onorato, ed appresso — 429 — gli uomini savi non dispregevole. In ogni caso, in patria non è per mancarmi il vitto e vestito che i miei fratelli dispensano a’ servitori. Supplico V. S. a tener quanto le ho detto in sè, fino a tanto che de’ fatti miei sia risoluzione più certa. Intanto al Signor Cardinale Padrone faccio per mezzo suo umilissima riverenza ed a Y. S. bacio affettuosamente le mani. - Di Roma, 14 Novembre 1617. (B. N.). 39. Allo stesso. Poiché V. S. è stata interprete sì fedele de’ miei pensieri, mancherei a me stesso, se non la facessi arbitro della mia volontà. Il servigio del Signor Cardinale d’Este non mi sarà se non di gusto incredibile , già che la padronanza di quel Signore m’è di straordinaria gloria; ed in me non s’avrà per compimento di questo contratto a bramar altro che la servitù personale in pagamento di debito, avendo la divozione dell’animo che si richiede alla corrispondenza dell’ obbligo. A suo tempo non ricorrerò ad altro mezzo che della cortesia di V. S., per conseguire il fine de’ miei desideij. Per ora son legato aspettando mio fratello in Roma, con cui ho da stabilire alcuni domestici negozi, ed a primavera, insieme con l’aprirsi del tempo, aprirò il core, per ricevere gl’influssi di co-testo benignissimo cielo. Intanto mi conservi in grazia sua e de’ SS. N. ed N. e tutti insieme mi tengano vivo nella memoria del Signor Cardinale Padrone. Bacio a V. S. cordialmente le mani a nome del Signor N. N. e finisco perchè scrivo mentre altri ciarla. Di Roma, 20 Dicembre 1617. (B. N.). — 430 — 40. Allo stesso. Mentre non seppi che piega dovessero pigliare i miei negozi domestici, non fu in mia potestà il rispondere a quel motivo che V. S. mi fece della servitù del Signor Cardinale d Este ; ora che mio fratello m’ha posto cortesemente a parte dell aver suo , e mi lascia libero in deliberare , dirò brevemente , ma con la confidenza che si conviene , tutto 1’ animo mio, pregandola strettamente per 1’ amor suo verso di me, a ricevere in buona parte quanto sinceramente dirò, senza farvi quelle considerazioni che sarebbono forse necessarie con persona meno schietta e lontana dagli infingimenti di quel che son io. Ho finora discorso con molti della vita che menar devo nell’avvenire, e trovo molta diversità di pareri in coloro che mi consigliano. Non manca chi mi propone speranze grandi ; v’ è chi mi ricerca o mi trattiene ; e qualcuno de’ Porporati Padrone di casa mia vorrebbe fermarmi alla Corte. Io non ho tempo di far discorsi lunghi, nè lo richiede la scrittura. Dico a V. S. sommariamente , che a me non sarà mai proposto partito di servitù che reputi utile, in paragone del servigio di cotesto Ill.'no Principe ; sì perchè così conviene al- 1 obbligo mio, a cui non potrò corrisponder già mai, se, servendo personalmente, non procuro almeno di mostrare la gratitudine dell’ animo mio divotissimo ; sì ancora perchè la benignissima inclinazione verso di me di S. S. Ill.ma m’è così gran vantaggio nel cominciamento della mia servitù che ad altri basterebbe forse per ultimo premio. Tuttavia non veggo a che ufficio io possa essere applicato ; perchè quello della Segreteria è così bene impiegato ed in persona a me tanto congiunta d’amore, che non ardirei di pensarvi ; ed in effetto lascerei d’accettar quella carica quando il Signor Roberto, a cui professo tanta obbligazione, avesse a sentir dispiacere ch’io l’accettassi ; ed altro officio io non veggo o che sia buono per me o ch’io sia buono per esso; però V. S. mi consigli — 43i — ed accenni a qual parte potrei piegare. In quanto alla provvisione, io ho più grand’animo ch’ella non crede, e, se fossi in condizione di fortuna che potessi liberamente spender del mio, assicuro V. S. ch’io farei tanto onore al Padrone quanto alcun altro. Io sono lontanissimo da pensieri d’avarizia ed ogni altra opinione vorrei che si avesse di me , fuor che di venal servitù. Dal Signor Cardinale tanto piglierò, quanto S. Signoria Ill.ma giudicherà che basti per sostenere il grado che mi darà, perchè protesto di non volere far mercanzia su la mia vita, ma tanto spendere quanto avrò, e questo sia detto affermativamente e per sempre. Ora V. S. ha inteso il mio pensiero, mi favorisca di scrivermi il parer suo, e del Signor Co. Font[ana\ e Co. M.\ontecuccoli\, ma prima d’ottenere il negozio, perchè, se vedrò che S. S. Ill.ma possa impiegarmi fruttuosamente, riputerò mia principalissima ventura l’aver ricorso sotto la benignissima protezione di quel Principe, da cui tanti e sì grandi favori ho ricevuto. Quando anche per mia disgrazia io non fossi soggetto capace di tanta felicità, il Signor Cardinale potrebbe presupporre d’avermi servitore obbligatissimo appresso d’altri, e nelle occorrenze esercitar 1’ assoluta autorità che tiene e terrà sempre sopra di me in ogni fortuna. So che il dichiararmi una volta servitore di S. S. Ill.raa mi tronca tutte le speranze, che posso avere alla Corte Romana, la quale, avvezza a far miracoli, esclude solamente coloro, dal giro della sua ruota, eh’ hanno con troppo saldo appoggio stabiliti gli accrescimenti suoi. So ancora che mi bisogna pigliar bando da Roma e non sperare mai più d’ accertare (?) in cosa di levatura, perchè le dipendenze da Principi troppo curiosamente considerate in questa misteriosa Corte , inchiodano i piedi a chi cammina, ed il Signor Cardinale pare che poco si compiaccia di Roma ; con tutto ciò non possono questi avvertimenti, con molto senso rappresentatimi da persone grandi, rimuovermi dal mio pensiero, perchè, quando si possa comodamente fare, io voglio più tosto essere servitore perpetuo di Principe che mi tien caro, che correre gli strani e prodigiosi arringhi di molti. Più direi, ma sono stanco, e la scrittura solo i cenni sof- — 432 — frisce. V. S. mi conservi al solito servitore suo , mentre io, nella persona del Sig. Conte suo cognato , la vado servendo ed onorando fino a tanto che mi si porga occasione di servir lei medesima, a cui bacio riverentemente le mani. Di Roma, 4 gennaio 1618. \ (B. N.). 41. Allo stesso. Padron mio , non si può aspettar con flemma quello che con ansietà si desidera. E già un pezzo che supplicai V. S. a procurarmi luogo in Corte dell’ Ill.mo d’Este; e, per la benignissima inclinazione di quel Signore verso di me, credetti quasi fermamente di dover conseguir l’intento. Non dia pensiero a V. S. la penuria degli uffici, perchè S. S. Ill.ma è già tanto informata dell’ esser mio eh’ al solo prudentissimo giudizio suo debbo rapportarmi sempre ; ed a me più giova Tesser servitore di così magnanimo Principe, che Padrone in casa d’ altri. Dico ciò perchè non manca chi m’importuna, e giuro a Y. S. su l’onor mio che non è passata un’ora che da persona Ill.ma e reputata letteratissima in questa Corte, m’è stato dato un assalto. A suo tempo ella saprà ogni cosa; aggiungasi che si va buccinando di promozione ed in tal caso io sarei stretto gagliardamente, però la supplico a conchiuder presto ed assicurarmi se potrò esser preso al servizio o no, perchè, sapendolo, potrò valermi di questo scudo , e pubblicarmi per servitore del Sig. Cardinale d’Este , o veramente accettar altra servitù personale, e riserbar nel cuore 1’ obbligatissima divozione verso il Sig. Cardinale. Mi perdoni se sono importuno , perchè il desiderio è in eccesso e le congiunture stanno nell’ indivisibile. Bacio a V. S. riverentemente le mani, e me le raccomando in grazia. Di Roma, 17 Gennaio 1617. (B. N.). — 433 — 42. Allo stesso. 1 rattando V. S. il mio negozio col Sig. Cardinale, ho stimato debito di convenienza il darne parte al Sig. Co. M. ed al Sig. N. Ho però scritto a tutt’e due, supplicandogli ad essermi favorevoli ed aiutar la causa, che da V. S. si tratta ; e le loro lettere hanno più tosto forma di credenziali per lei che d’altro; però supplico V. S. a significar loro, in mio nome, quel che le pare, e poi proseguire e concludere quanto meglio e prima si può. Son breve, perchè mi ricordo del Carnovale. Bacio a V. S. riverentemente le mani, ed alla sua buona grazia mi raccomando. Di Roma, 20 Gennaio 1618. (B. N.). 43. Allo stesso. Dalla prima lettera di V. S. in cui mi preveniva con a-morevolissime offerte, presupposi ch’ella dovesse in mio nome supplicare il Sig. Cardinale Ill.mo per la servitù eh’ io bramava, senza lasciare a me altro carico che di render grazie a lei dell’ intercessione, ed al Padrone del favore ottenuto. Ma, poiché V. S. mi scrive che domandi la servitù , mi riduco, ancorché contro al sentimento mio , a formarne lettera particolare per S. S. Ill.ma ed obbedire al parer suo. Avrei però stimato che il negozio camminasse con più decoro e libertà del Padrone, se, senza affrontarlo personalmente, si fosse proceduto per via di terzo; tuttavia obbedisco e lascio a V. S. il pensiero di presentare o non presentare la mia lettera, secondo che si risolverà di trattare 0 a bocca o a mio nome o in altra maniera; solo la supplico efficacemente a conchiudere conforme a quanto scrissi la posta passata; e, ricordandomele servitore umilissimo, bacio a V. S. reverentemente le mani. Di Roma, 27 del 1618. (B. N.). Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. 28 — 434 — 44. Allo stesso. L’ allegrezza, eh’ io sentiva di venire al servigio del Sig. Cardinale Ill.mo non poteva essermi resa men dolce da altro che dal disgusto del Sig. N. N., perchè, professando io d’es-sergli amico di molto affetto e servitore di molta obbligazione, avrei più tosto bramata occasione di servirlo cordialmente che materia d’annoiarlo senza mia colpa. V. S. sa con quanto riguardo io procedessi quando si cominciò a negoziare, e come, nominatamente per rispetto di lui, messi in forse la deliberazione mia, benché per altro di somma soddisfazione e gusto mio proprio , e però potrà sempre far fede della nettezza dell’animo ed intenzione con cui cammino, non potendo in ciò far altro che rimettermi alla libera volontà del Padrone, il quale, degnandosi d’ammettermi alla sua servitù, come che sia molto bene informato della debolezza delle mie forze, dovrà senza dubbio impiegarmi in ciò che gli sia di gusto ed a me riesca meno sproporzionato che sia possibile. S’assicuri pertanto il Sig. R[avizza] (i) che, nelle cose dipendenti da me, gli saro servitore vero e mostrerò sempre in fatti la gratitudine che debbo alla sua cortesia; tutto ciò m’è stato necessario dire ancora a Mons. Q[uerengo] con cui il Sig. R. ha fatte lunghe ed amare doglianze e, sì come ho soddisfatto pienamente al debito dell’amicizia a giudizio di questo prelato, così mi sarà carissimo che il P\_adre] riceva in bene quanto dal Sig. Cardinale Padrone sarà determinato, e seguiti a favorirmi al solito ; e di ciò basti per lettere. Aspetto poi da V. S. l’ultimo avviso della risoluzione, che si sarà presa circa la mia persona, così nella sostanza , come negli accidenti, per poter regolare i miei pensieri conforme alle forze, perchè, essendo io risoluto, come già scrissi a V. S., di spendere quanto avrò, senza pensiero d’avanzare pure un soldo, riceverei per favore particolare della sua be- (i) Ved. lett. n. 33. — 435 — nignita, se si compiacesse d’avvisarmi puntualmente, quanto, e come posso sperare, così circa le parti per servitore come intorno alla provvigione, ma faccialo senza dar ombra, e come mio signor particolare, affinchè io disponga le cose mie, e non arrivi improvviso. E perchè' può essere che bisogni qualche fattura per soddisfare al Padrone, la supplico a suggerirmi quegli avvertimenti che stimerà bisognevoli a servitore nuovo, e mal pratico delle Corti; e , se in ciò l’esperienza del Sig. Co. M. e Cav. N. è necessaria, me l’accenni, che con lettera particolare ne supplicherò quei Signori. Io poi mi vado ingegnando di venir a Modena con la maggiore onorevolezza che potrò, e, se la miseria de’ tempi, nei quali non pur si dà, ma si vieta ch’altri dia, non m’avesse rotti i disegni, a quest’ora sarei in possesso d’un titolo d’Abbazia, che qualche mio congiunto m’avrebbe rassegnato, per abilitarmi ogni dì più al servigio di Principe che vuole anche nobiltà nei servitori ; tuttavia non dispero ed il negozio pur cammina. Ma tengalo di grazia in sè, perchè il fine non si può sapere. Il Sig. Co. N. e questi altri SS.ri della Camerata se la passano alleg'rissimamente ; io li vado servendo in quel che posso, ma nulla posso. Ma troppo trattengo V. S. che, forse con l’abito di mascara in dosso, legge questa mia bibbia; mi perdoni,, e, baciando in mio nome le mani a SS.ri Co. M. e N. N., mi conservi nella sua buona grazia. Di Roma, l’ultimo di Gennaio 1618. (B. N.; Parisi, IV, 197). 45. Allo stesso. In verità Signor Conte mio, che V. S. mi persuade che ’l mio linguaggio sia barbaro. Credeva d’essermi dichiarato siffattamente eh’ ogni commento e chiosa dovesse riuscir più oscura del testo ; tuttavia, poiché volete la professione della fede articolatamente, o una patente in forma camerae, mi risolvo di darvi gusto, e così dico ora ch’io N. N. supplico con ogni affetto e caldezza il Sig. Conte N. N. mio Padrone, — 436 — ad essermi mezzano col Sig. Cardinale d’Este, acciò si degni di ricevermi al suo servigio con quella maggiore provvigione che sarà possibile, omnibus in contrarium non obstantibus. Fuor di burla, V. S. m’è Padrone di tanto affetto che solo debbo supplicarla, come infatti la supplico , ad ottenermi la servitù del Sig. Cardinale , parlando in mio nome con chi le parrà, nella maniera che stimerà, rimettendo tntto in sua mano. Che in quanto all’ obbligo V. S. può persuadersi che sarà grandissimo, e le bacio affettuosamente le mani. Di Roma, 3 Febbraio 1618. 46. Allo stesso. Se nel negozio che passa fra noi avessi a fare con semplice cortigiano e non con cavaliere sì ingenuo e mio Signore sì principale, crederei d’essere tenuto a bada con arte, e forse anche schernito;, ma, poiché la vera divozione mia verso V. S. non consente eh’ io formi alcun sinistro giudizio, voglio persuadermi che le traveggole oppostemi sieno inganni degli occhi, non della volontà ; e , se bene il differirmisi tanto le risposte, mentre più incalzo e premo, e, quando mi si mandano, il vederle più irresolute che mai, non lascia di darmi noia grandissima, il tutto ascrivo anzi all’eccessivo desiderio c’ ho del servigio del Sig. Cardinale Ill.mo che a cortigianeschi avvolgimenti, che tali sieno in verità. Padron mio, Cor sincero e libera lingua disse una volta un grand’uomo. Mi pare d a-vere scritto finora a V. S. con tanta chiarezza e supplicatala sì vivamente con lettere triplicate, che si compiacesse di domandare in mio nome al Sig. Cardinale Padrone la servitù ambita e desiderata, anzi bramata da me, che il suo modo di rispondere e rimettere il negozio sempre da capo, mi fa dubitare o che la richiesta non piaccia o non sia possibile, e che però V. S. cerchi di stancarmi con la lunghezza, acciocché io almeno arrivi con la discrezione ad intendere ciò che la sua modestia non vuole esprimere. Se è così, gran torto ricevo io da lei, perchè, avendo tanta autorità sopra di ine, - 437 — dovrebbe presupporre di poter parlar meco come vero Padrone ; nè stimo senza mistero quella così spesso reiterata protesta che ella fa, di trattar meco senza participazione del Sig. Cardinale , benché la reputi non necessaria, nè scemi punto 1’ obbligazione che devo all’ infinita benignità di S. S. Ill.ma, perchè, sì come, quando i motivi fossero dal Padrone, si vederebbe in essi un eccesso di buona volontà espressa , cosi, venendo da V. S. con riguardo alla benignissima inclinazione del Padrone verso la mia persona, pure apparisce la medesima buona volontà presunta, che tutto è mia grazia e mia gloria. Ma, perchè non presi in mano la penna per far doglianza o garrire con esso lei, ma semplicemente per aprirle l’animo mio , interrompo il corso della mano e della mente, che pur troppo trascorrerebbe in questa materia; e, come rincominciando il negozio da suoi principii, le dico : Che la gratitudine dovuta a favori e grazie singolarissime ricevute in ogni tempo e fortuna dal Sig. Cardinale d’Este, necessita l’animo mio ad anteporre la servitù di quel Signore a quella di qualunque Principe o Cardinale, per far conoscere, almeno con l’ossequio della persona, che, se non rimerito come dovrei, riconosco come posso il debito c’ ho contratto ; e, se da principio io non supplicai di ciò S.S. Ill.ma, fu solo perchè mi pareva di non meritare quel che desiderava. Ora, perchè V. S. mi dà sicura speranza e cortesemente mi s’offerisce per intercessore, dopo avergliene rese le grazie dovute, la prego, con tutto l’affetto e caldezza che posso, a supplicare umilissimamente in mio nome il Sig. Cardinale d’Este, acciò che si degni dì darmi luogo fra’ suoi servitori in quella maniera che piacerà a S.S. Ill.ma, poiché intorno alla prò visione m’ assicuro che la magnanimità del Padrone supplirà di vantaggio al bisogno del servitore. E, circa all’ufficio, la prudenza sua m’impiegherà dove io possa servire con suo gusto e mia riputazione, e questi due punti ho toccati più tosto per ubbidire a V. S. che li propose, che per mìa elezione, avendo per ultro risoluto di rapportarmi in tutto alla benignità sperimentata del Principe. Se poi V. S. stima che, per agevolare il negozio, sia necessario di presentare la mia lettera al — 43« — Sig. Cardinale, la faccio , o , per dir meglio , la dichiaro Padrone. Ma, perchè la lunghezza del tempo, che s’è frapposto in questo negozio, m’ha posto in alcune strettezze di reputazione, nelle quali non posso lungamente durare per l’onor mio , riceverò dalla cortesia di V. S. per compimento ultimo del favore, se, quanto prima e senza interporvi alcun misterio, m’avviserà il sì o ’l no. E di ciò straordinariamente la supplico , perchè a me così conviene. Non intendo però mettere in angustie V. S., ma solo desidero di sapere se , con la certezza di dover essere servitore del Sig. Cardinale d’Este, io possa camminare in maniera che , e in fatti e in parole, me ne dichiari, quantunque si dovesse differire l’esecuzione a beneplacito di S. S. Ill.ma; e tanto stimo io necessario assolutamente per onor mio. Non so se mi sono dichiarato abbastanza ; almeno così vorrei, per non dare a V. S. occasione di replicar di nuovo e dirmi che aspetterà impaziente , poiché questo e pur segno che non ordinariamente io desidero. Bacio a V. S. riverentemente le mani e me le raccomando in grazia. Roma, 13 Febbraio 1618. P.S. — Or ora intendo che i Gesuiti costì fanno ogni o-pera, acciò eh’ io non venga. Confido nella prudenza del Sig. Cardinale, che conoscerà per buon tiro politico il tener basso, in qualunque maniera, chi si reputa offeso. V. S. di grazia m’avvisi di quanto passa , assicurando al-1’ occasione quei Padroni eh’ io le sono servitore vero , come vedranno in effetto. (B. N.). 47. Allo stesso. La grazia singolarissima, che ricevo dal Sig. Cardinale Padrone con Tesser dichiarato servitore di S. S. Ill.ma, porta seco quell’accrescimento d’obbligo e gratitudine, di che è capace l’animo mio. Ben mi duole in estremo di vedermi diffe- — 439 — rito il compimento di sì alto favore, perchè, non avendo io altro desiderio che di servire e meritar servendo quel grado di grazia che finora m’è piuttosto toccato in sorte che in premio, quanto a me più si ritarda la servitù, tanto rimango io più lungamente col rossore del debito ; e forse con 1’ opinione di pagatore d’incerta fede. Pure a me tocca l’ubbidire con prontezza, dove non posso contraddire con riputazione, lirerò innanzi, ed a somiglianza di coloro che penano in Purgatorio, anderò con la sicura speranza della beatitudine che s’aspetta, racconsolando 1’ acerbità della pena che tormenta ; supplicando intanto V. S. ad esser l’Angelo mio consolatore, che quanto prima mi chiami a luoghi più tranquilli ed a vita più riposata. Ma, perchè 1’ anime del Purgatorio anco nel tempo de’ loro tormenti, ricevono le visite e ristori, che loro dà Dio, sarà opera della cortesia sua l’insinuare al Sig. Cardinale Padrone , se fosse bene eh’ io fossi in tanto accettato in casa del Cav. Bent\ivoglio] , per dichiararmi in fatti non meno che in parole per servitore di S. S. Ill.ma. Questa richiesta. come che porti seco conseguenza di parte, viene da me proposta timidamente, perchè non vorrei esser tenuto servitore più d’interesse che di divozione : tuttavia n’ ho fatto motto a Mons. Querenghi, al Sig. Paolucci ed al Sig. Cardinale medesimo, e non m’han dato segno che sia importuna : solo il Cav. ha soggiunto che, in quanto all’ abitazione , solo vi sono libere le stanze che già si diedero al Sig. Flavio Querenghi, delle quali però non disporrebbe senza l’espresso ordine del Padrone, l’intenzione del quale può essere che si votino quelle che già servivano al Mastro di casa ed ora sono tenute dal Raimondi. Supplico V. S. a regolar le mie domande con la volontà del Padrone, perchè, se bene i tempi penuriosissimi che corrono in Roma, mi sforzano a procurare ogni aiuto, protesto però di voler tanto conformarmi col mero e puro gusto di S. S. Ill.ma che fin d’ ora la scongiuro per l’amor che mi porta a non aver tanto riguardo a ciò eh io scrivo, quanto a quello che dovrei scrivere per soddisfare al genio del Principe; e così servisi del nome mio in quella maniera che stimerà di maggiore soddisfazione costì. Onde in - 44° — materia della stanza e parte, potrà conferir volendo con co-testi Signori e poi proporre o non proporre allTll.mo Padrone; che tutto riceverò a grazia ugualmente. Scrissi molte settimane sono ai S. S. Co. N. N. e N., ma non ebbi mai risposta. Mi favorisca d’un affettuosissimo baciamano. Mandai i cartelli ; V. S. m’ avvisi se sono stati accettati. Mi scordavo per la fretta con che scrivo, di dirle che, non a-vendo finora dato parte a cotesti Principi dell’ accidente occorso, lo faccio ora con l’occasione del Segretario del Sig. N., ma cosi brevemente che le mie lettere avranno bisogno del suo patrocinio. Mando a V. S. una lettera scrittami da Parma dal Co. Alfonso P., acciò che sappia quanto sinceramente io parlassi, quando dava fretta a lei della risposta. La lettera è misteriosa, ma con la chiosa di persona intendente degli enimmi di quella Corte, è più significante che esprimente. La raccomando alla sua fede strettissimamente per quel che potrebbe succedere; io risposi in maniera che avrò posto in necessità quel Cavaliere di dichiararsi. Avuta l’esposizione più letterale, 1 invierò; ma, per grazia, la cautela necessaria. Non ho più tempo. Mi scusi, e scusi lo schiccheramento di questo foglio. Bacio a V. S. affettuosamente le mani. Roma, il primo Quaresima 1618. (B. N.). 48. Allo stesso. Purché io sia sicuro della grazia del Signor Cardinale Padrone, non mi sarà malagevole l’eseguire il consiglio di V. S., accomodandomi a quel benedetto « Durate » ; e , se le fosse piaciuto di dire anche quell’altro « O passi, groviera », avrei anco meglio riconosciuta la mia fortuna nell’altrui vita (?). Aspetterò, se bene con impazienza, l’ultimo avviso. V. S. m’ ha posto in tanta angustia , col comandarmi la risposta alla disfida della giostra, che in un parto , per soverchia fretta, mi son venuti tre aborti; gli mando, acciò che — 441 — il numero gli serva per peso. Non feci mai professione di cotali gentilezze, e questi son frutti primaticci. Se V. S. non può goderli col gusto, e scusili con la cortesia ; ed un’ altra volta mi dia più tempo, chè in verità un’ ora sola ho avuta per servirla. Presuppongo che le risposte sue del Sig. G. e degli altri serviranno per fare l’opposto alle mie. Raccomando a V. S. la mia riputazione, la quale ha da consistere nell obbedienza e non più. Ma non ho tempo. La supplico a baciar le mani in mio nome al Sig. N. N. e mi conservi in sua grazia. Di Roma, 20 Febbraio 1618. (B. N.). 49. A S. A. Serenissima il Duca di Parai a. Sereniss.0 Sig. Padron mio colendissimo. L’afflizione ch’io presi nell’accidente occorsomi a mesi passati, mi tolse di maniera a me stesso che non ardiva di comparire, non che di dar parte a V. A. di così inaspettata sciagura. Ora che dal Sig. Cardinale Illustrissimo vengo onorato del titolo di servitore, stimo d’essere in maniera gratificato che senza rossore, ma con l’umilta che conviene, posso rappresen tare a V. A. 1’ animo mio sincero e pia che mai devoto e consecrato al suo serenissimo sangue. La supplico pertanto a credere che persona riputata degna della servitù del Signor Cardinal d’Este, Principe di tanto giudizio, non ha commesso indegnità per cui meritasse l’affronto patito, ma che più tosto la Divina Provvidenza ha voluto eh’ io , rattenendo 1’ affetto verso l’abito che vestiva, aggiunga agli obblighi dell Ordine i miei particolari e con doppio titolo impieghi la vita mia in ossequio di V. A., a cui con tutto l’affetto d’umilissimo cuore schiettamente mi dedico ed offerisco. Di Roma, 28 Febbraio 1618. Di V. A. Serenissima Umiliss.0 e divot.m0 servitore Agostino Mascardi. (R. Archivio di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Archivj varj, Letterali'). - 442 — 50. Al conte Camillo Molza. Ricevo lordine del Sig. Cardinale Padrone; e subito l’adempirò venendo a Modena. Anzi, domani mi sarei posto in viaggio, se non fossi in procinto di dottorarmi fra pochissimi giorni. Farò la strada di Sarzana, per provvedere alcune co-sette mie e visitar mia madre. Mando a V. S. con la solita confidenza una lettera venuta da Parma e la supplico a conservarla insieme con l’altra che le mandai. Desidererei sapere quale è la provisione solita de’ Gentiluomini del Sig. Cardinale IH. , e che a me sarà data ; non per contraddire , ma per aggiustarmi con mio fratello , perchè, quando ben fosse esilissima, a me basta il saperlo, per provvedere il denaro bisognevole altronde. Ho fretta estrema ; e mi perdoni, se così rozzamente le bacio le mani. Di Roma, 18 Marzo 1618. (B. N.). 51. Allo stesso. Io son Dottore. In virtù del Sig. Cardinale d’Este si fanno queste mostruose metamorfosi. Pochi giorni ha che non era pure scolare; ora mi trovo saltato a piè pari nel Dottoresmo, non so come. Porterò il privilegio meco, perchè pretendo con V. S. giostrar del pari e poter chiosar que’ testi che nel proprio sentimento mi riuscissero oscuri. In verità eh io mi scoppio dalle risa, quando considero la buffalaggine de’ legulei, che tant’ all’ in sù s’allacciano la giornea. Povere cause potrocinate da così dotti avvocati ! Infelici tribunali tiranneggiati da così letterati giudici ! Giuro a • •. per lo caduceo di Mercurio , che non ho veduto mai messeraggine più sciapita. Pigliai quei benedetti punti, dami con tanta maestà e decoro romano ch’io credeva di cac- — 443 — ciarmi in corpo l’antimonio, che m’avesse tutto a scommuovere. Ma pur m’ accorsi eh’ era un leggerissimo sciroppo, con cui me n’ andai attorno al solito. Si turbò forse l’Assemblea dei Rabbini Juristi, parendo loro ch’io m’esponessi a pericolo di vergogna nel gran cimento. Con tutto ciò non ristetti ; e, studiando semplicemente su i testi i punti assegnati, senza stenderli in penna, ebbi che disputar di nuovo , e vi fu chi mi tenne escluso. Comparvi, dissi, partii, se non dottore, almen dottorato. Ora V. S. se n’ allegri in mio nome con tutti co-testi miei Signori, i quali avranno un procuratore, che nelle liti potrà servirli, purché siano da togato. Partirò al fine della settimana che entra ; me n’ anderò a Sarzana ; e, subito fatte le feste, sarò a Modena. Intanto a V. S. bacio affettuosamente le mani e, così dottore come sono, me le ricordo servitore. Anzi — soggiungo — potendo ora in virtù del mio Privilegio andarmi dimenando per le anticamere degli Auditori di Ruota, replicherò con Mons. Rambaldo 1’ officio a favore del Sig. N. N. Di Roma, 24 Marzo 1618. (B. NParisi, IV, 200). 52. Allo stesso. Che V. S. nel colmo delle sue afflizioni si ricordi degli interessi miei, è segno di straordinaria benignità. Ne la rin grazio, e, lasciando a se medesima la parte di consolarsi della perdita della Signora Anna, che sia in gloria, le significo che finalmente il Sig. Cardinale di potenza assoluta ha determinato di riserbare in sua mano le lettere di raccomandazione per dispensarle a suo gusto. Io non ho potuto non ubbidire, perchè venne 1’ ordine troppo preciso. Pazienza ! e dico pa zienza, perchè so che V. S. ancora n ha di bisogno. Mi conservi suo servitore e quanto prima torni a rivederne, perchè la solitudine nodrisce pensieri d’afflizione. Bacio a V. S. affettuosamente le mani e me le raccomando in grazia. Di Modena, 11 Maggio 1618. (B. N.). — 444 — 53. Al can. Niccolò Strozzi. Molto Illustre Signor Padron mio Osser.mo Fu conoscimento di debito, non motivo di cortesia, che mi spinse a pregare il Sig. Gio. Batta Strozzi (i) che a V. S. ed al Sig. Alessandro suo fratello facesse un baciamano in mio nome : onde sarò io molto tenuto, non alla mia fortuna, ma alla sua gentilezza , eh’ ha corrisposto ad un debolissimo segno dell osservanza mia con usura sì grande. Così va, quando si semina in buon terreno. Prego V. S. con istantissimo affetto a porgermi occasione d esercitare la mia gratitudine , acciocché i suoi favori, che son mia gloria, non divenghin mio peso ed io abbia da vergognarmi d esser vinto d’ umanità da chi non m’ avanza in affezione ; e sia pur certa eh’ io non riceverò dalla bontà di V. S. più sicuro segnale dell’ amor che dice portarmi, di quello che verrà congiunto con l’onore de’ suoi comanda-menti. E qui di nuovo a lei, al Sig. Alessandro suo ed al Agnolo Rucellai bacio affettuosamente le mani. Di Modena, 22 Giugno 1618. Di V. S. Molto Illustre Cordialiss.0 Servitore Agostino Mascardi. (R. Archivio di Stato di Firenze, Filza Stròzziana-Uguccioni, n. 240). 54. Allo stesso. Molto Illustre Sig. Padron mio Osser.1110 Non poteva V. S. darmi segno più convincente dell’affezione che si compiace portarmi fuor del mio merito , che favorendomi del bellissimo componimento del Sig. Gio. Batta Strozzi, di cui avendo io sempre ammirato l’ingegno, benché (1) L’eruditissimo Console dell'Accademia Fiorentina. — 445 — non conoscessi il sembiante, stimerò di fare acquisto ben grande ogni volta che potrò imparare da’ nobilissimi componimenti di lui. Rendo pertanto alla bontà di V. S. grazie infinite, che, incontrando i miei più cupidi desideri, con la volontaria sua liberalità forse ha voluto rimediare al rossore con cui avrei richiesto tesori, de’ quali non mi riconoscessi meritevole. Ma poiché una volta ella m’ha dato occasione d’esser ardito senza sua offesa, degnisi di continuare in onorarmi, assicurandole di non poter destare in me obbligazione più viva , se non se forse accompagnando colle composizioni del Signor Gio. Batta i suoi comandamenti. E qui per fine bacio a V. S. ed al Signor Carlo suo fratello e Sig. Rucellai affettuosamente le mani. Di Modena, 6 Luglio 1618. Servitore Cordialissimo Agostino Mascardi. (R. Archivio di Stato di Firenze, c. s.). 55. Allo stesso. Molto Illustre Sig. Padron mio Osser.m0 Il S.r Principe è a Sassuolo ( 1 ) con la Serenissima Infante già sono più settimane, onde non posso godere dell’onore che V. S. mi procura col presentare il suo bellissimo componimento ; lo farò nondimeno con una mia lettera e spero d’ a-vanzarmi assai nella buona opinione di S. A. con questo mezzo. Intanto, riserbandomi a scriverle più diffusamente quando s’abbia la risposta del S.r Principe, bacio a V. S. le mani del favor grandissimo che m’ ha fatto, eleggendomi mezzano de’ suoi onori , e me le raccomando servitore di vera e cordiale osservanza. Di Modena, 3 Agosto 1618. Di V. S. Molto Illustre Servitore Cordialiss.0 Agostino Mascardi. (R. Archivio di Stato di Firenze, c. s.) (1) Territorio ch’era passato, nel 1609, in proprietà del Duca Cesare. — 446 — 56. Allo stesso. Molto Illustre Sig. Padrone mio Osser.mo Con la confidenza che mi concede la cortesia di V. S. ho da supplicarla d’un favore, il qual però vorrebbe esser tenuto nascosto più che sarà possibile. Vorrei una minuta informazione delle qualità del Segretario del Sig. Cardinale de’ Medici; della provvisione che ha da S. S. Ill.raa; del trattamento esterno, se sia uguale a’ Camerieri ed altri Gentiluomini che assistono alla persona del Padrone ; se ha libero l’ingresso nella camera del Cardinale senza ch’altri faccia ambasciata, se va mai in compagnia del Padrone in cocchio ; e cose simili, assicurando V. S. che, quanto più minuta ed esatta sarà la relazione, tanto maggiore parimenti sarà l’obbligo mio ; e, perchè ella non ha mai da dubitare della mia pronta volontà di servirla, senza replicarle ora le offerte bacio a V. S. ed a’ Signori Alessandro, Gio. Batta vecchio e giovane Strozzi con tutto l’animo le mani. Di Modena, 18 Giugno 1619. Di V. S. Molto Illustre Cordialiss.0 Servitore Agostino Mascardi. (R. Arch. di St. di Firenze, c. s.). 57. Allo stesso. Molto Illustre Sig. mio Padron Osser."10 Non m’hanno le mie occupazioni concesso finora spazio di rispondere a V. S. Accusole ora la ricevuta di due umanissime sue, insieme con gli avvisi, i quali, come che sono stati molto a proposito per il mio fine , sono stati veduti da me con sommo mio gusto. Ne ringrazio V. S. con ogni affetto e la prego a credere, che, vivendole io quel vero servitore che — 447 — le fui sempre, riceverò per grazie i suoi comandamenti ogni volta che me ne favorirà, di che pregandola quanto posso le bacio affettuosamente le mani. Di Modena, 16 Luglio 1619. Di V. S. Molto Illustre Cordialiss.o Servitore Agostino Mascardi. (R. Arch. di St. di Firenze, c. s.). 58. Al conte Camillo Molza. Mando il presente messo a pigliar in mio nome la nun-ciatura. È stata gran fortuna che il facchino sia giunto in tempo, perchè il Padrone montava in carrozza. V. S. si goda allegramente del fresco di S. Cesareo e mi faccia un brindisi subito lette le lettere del Sig. Silvestro, e le bacio affettuosamente le mani. Modena, 18 Luglio 1619. L’ aspettiamo subito domattina, perchè è giorno che si scrive a Ferrara e pur ci vuol tempo da consultare. Il Signor Cap. N. N. dice che V. S. non prometta la carrozza ad al- • cuno, perchè egli disegna di valersene. (B. N.). 59. Allo stesso. Or ora giungo a Sarzana; e subito corro con la penna, seguendo il volo dell’animo, con cui riverisco al solito V. S. Qual si sia stato il viaggio non posso dirle, perchè la varietà degli accidenti merita lunga scrittura e la stanchezza del corpo richiede brevissime parole. Ma non sarò sempre nè tanto occupato nè così stracco. Intanto ricordo a V. S. ed al Sig. Gius. (1) che per i boschi (1) Giuseppe Fontanella, Cavaliere di S. Giacomo, al quale il Nostro dedicò il primo libro delle Silvae. — 44§ — dell’Alpi mi s’ aggirano vari pensieri nel capo , fondati tutti su l’ultimo discorso che si fece nell’anticamera della Signora Principessa. Abbiam qui nuova che la Capitana di Malta sia stata condotta in Barberia da remiganti turchi, che si valsero dell occasione di vedersi al remo senza compagnia di cristiani. Perdita grave , e che presuppone poco consiglio di chi permise alla fede degli infedeli vascello sì principale (i)- Supplico V. S. a baciar le mani in mio nome a cotesti miei Signori F. Co. M. e Co. Fr. Padre Font., e, ricordandomi a tutti servitore di tanta fede, con quanto affetto nella sua buona grazia mi raccomando. Sarzana, 7 Settembre 1619. (B. N.). 60. Al can. Nicolò Strozzi. Molto Illustre Sig. Padron mio Osser.mo Al mio ritorno da Genova, dove sono stato alcune settimane, ho trovato una lettera di V. S. già molto vecchia, in cui mi richiede qualche componimento del Sig. Testi. Primissimamente supplico V. S. a scusarmi della tardanza, e poi le soggiungo che vedrò d’aver per mezzo d’amici quel che potrò, non sapendo se ’l Sig. Fulvio sia tornato da Torino , poiché giunsi a Modena solo iersera. Ben le fo sapere che, se bene io sono al Testi amico di molta volontà, non ho però seco molta fortuna, siasene la cagione ciò che si voglia ; ma per servire a Y. S., a cui tanto devo , mi scorderò de’ miei privati rispetti. Baciole intanto le mani con ogni affetto , e me le ricordo servitore. Modena, 14 Ottobre 1619. Di V. S. Molto Illustre Servitore Cordialiss.0 Agostino Mascardi. (R. Arch. di St. di Firenze, Filza Strozziana-Uguccioni, 11. 240). (1) Ved. lett, n. 11, nota 2, * — 449 — 61. Allo stesso. F inalmente questa sera m’ è stata consegnata la risposta del S.r Principe mio signore , la quale mando a V. S. con un altra del Cav. Testi, da cui ho ritratto ciò eh’ ella vedrà. Scusimi per grazia della tardanza, ch’è senza mia colpa, e mi favorisca di baciar in mio nome le mani al S.r Alessandro suo fratello e a S.r Gio. Batta Strozzi, ricordandomi lor servitore vero di molta e sincera osservanza. Se poi V. S. e ’l S.r Bamberino vorranno onorarmi di qualche componimento loro, mi terrò felice. E Nostro Signore Dio conceda a V. S. ciò che desidera. Di Modena, 4 del 1620. Di V. S. Molto Illustre Cordialiss.0 Servitore Agostino Mascardi. (R. Arch. di St. di Firenze, c. s.). 62. Al conte Camillo Molza. La S. V. m’ha dato parte dell’onor fattole da cotesta Altezza, io le significo un poco di male che m’ha preso da ier sera in qua ; dell’ uno ne ho sentito quel gusto che da suo singoiar servitore può venire, godendo delle sue prospere e meritevoli consolazioni, come delle mie proprie ; dell’ altro la leggerezza del male me ne promette una presta sanità. Ringrazio intanto V. S. dell’avviso e, coll’aspettar suoi comandi, finisco baciandole con ogni affetto le mani. Roma, 18 Luglio 1620. Padron mio , scrivo di letto e faccio da segretario , mi scusi in omnibus et per omnia. Bacio le mani al Sig. N. N. (B. N.). Atti Soc. Lìg. Storia Patria. Vol. XLII. 29 — 450 — 63. Allo stesso. Accuso a V. S. la ricevuta della sua gratissima lettera e dell’inclusa scrittura, della quale per ora non posso servirmi, ritrovandomi in letto ; e, perchè m’è parsa molto difficile, credo che la ridurrò ad una certa chiarezza , che ci dovrà servire e di brevità e di minor fatica , perchè veramente saressimo sottoposti a troppo dura legge; e, raccordandomi a V. S. al solito servitore particolare, le bacio per fine affettuosamente le mani. Di Roma, ........ 1620. P. S. — Padron mio, se la contumacia del male non vince la costanza dell’animo, sono un Catone. Ho una lettera del Sig. Co. G. B. R. nè posso risponderle. Prego V. S. a far ufficio con quel signore che condoni alla malattia la sicurtà: supplirò subito che sarà possibile. (B. N.). 64. Allo stesso. V. S. non ha tempo ed io non ho voglia di scrivere, non perchè io non sappia l’obbligo mio, ma perchè conosco il desiderio suo, che sarebbe d’ aver di me buone nuove, e degli altri quello che somministra l’opportunità ed il tempo. Ma si come per mio conto non posso a V. S, dare avviso che non sia per esserle di travaglio , così degli altri non vo parlare per non offendere. Il Sig. Marzio è venuto. Il Padrone l’ha ricevuto con eccessiva tenerezza d’ affetto; la Corte ha mostrato dell arrivo suo straordinario contento. Visitò subito il vicinato , ed ier sera reiterò la visita con lasciarvene il segno, e, s’è vero quel che si dice , domani a sera riceverà la visita alle sue stanze per sè e per un compagno maggiore. — 45i - In tanta riputazione è salita la mercanzia , non senza dar materia a discorsi ; ma non più , chè la materia è lubrica. Il Sig. Co. N. N. bacia a V. S. le mani e se le raccorda servitore, come fo io ancora con ogni caldezza d’affetto. Roma, & (manca la data). (B. N.). 65. Allo stesso. V. S. mi dice d’ aver quasi in ordine tutti i miei libri , e con un « quasi » mi mette mille pensieri in capo, perchè dubito che non ve ne manchi. La supplico a dirmi chiaramente l’intero e ad avvisarmi insieme, quanto si spenderà mandandoli per condotta, perchè forse risolverò di farli inviare a Sarzana, e di là poi per mare a Roma ; ma sopra tutto si ricordi V. S. d’aggiungervene qualcuno de’ suoi in prestito, già che la Corte 1’ occupa tanto che non ha tempo di studiare. Del nostro ritorno in Lombardia è vanissimo il rumore , come 1’ evento mostrerà meglio ; e qui col mio solito svisceratissimo affetto le bacio le mani e me le raccomando in grazia. Di Roma, il primo Maggio 1620. Manderò una scrittura curiosissima in estrema confidenza. (B. N.). 66. Al Duca di Modena Cesare d’Este. Ser.mo Signore e Padron mio Col.mo Mi concede la benignità di V. A. ch’io la supplichi d’una grazia conforme all’inchiuso memoriale: e presuppongo d’ot-tenerne l’intento, perchè, dove in me manca il merito, soprabbonda la divozione verso la Sua Ser.ma Casa, a cui ho consecrate le primizie della mia servitù. Umilmente m’inchino a — 452 — V. A. e dal Signor Dio le prego tutti quei beni eh ella desidera. Di Roma, 25 Luglio 1620. Di V. A. Ser.ma Um.m0 e Divot.™» Ser/0 Agostino Mascardi. [Fuori). — Raccomanda il Sig. Marco Centurione per una lettera al Sig. Griffon Ruggieri. Si scriva e si risponda. (R. Arch. di St. di Modena, Cancelleria ducale, Archivj varj, Letterati). 67. Allo stesso. Ser.mo Signore Essendo in mano del dottor Griffon Ruggieri, che abita in Genova, una causa del Sig. Marco Centurione di molta importanza, si supplica V. A. Ser.ma d’una efficace lettera a quel dottore per il buon fine della causa. Che della grazia si resterà perpetuamente tenuto alla benignità di V. A. Ser.raa. Quant Deus etc. (Fuori). — Al Ser.rao Sig. il Sig. Duca di Modena per il Sig. Marco Centurione. (R. Arch. di Stato di Modena, c. s. (1) 68. Al conte Camillo Molza. Consumeremo una pochissima carta, se camminiamo con tanto silenzio. Di chi sia la colpa , io noi so ; certo che sarebbe superstizione l’andar fra di noi alla tedesca, che non si replicasse la botta senza prima avere la risposta. Scriviamoci alla rinfusa, Sig. Conte mio, e lasciamo queste puntualità cortigianesche a chi se ne compiace. Scrivo al Signor Duca (1) È la supplica ufficiale del favore richiesto nella lettera precedente. - 453 — e lo supplico d’una sua lettera al Ruggieri, Auditor di Rota in Genova, a favor del Sig. Mar[cantonio] Cex\[turioné\. Sono cosi richiesto , e non posso disdire. Prego V. S. ad essermi intercessore e sollecitatore, acciò che io non perda con le altre cose questa poca di buona opinione, che mi rimane presso la gente, di poter esser favorito da cotesti Serenissimi Principi. Il Sig. Conte N. N.(i) ha ottenuto licenza dal Padrone di venirsene a Modena; dicono ad tempus, ma io noi credo. V. S. il saprà meglio di me. Intanto io me le conservo l’istesso servidor di sempre , e le bacio cordialissimamente le mani. Roma, 25 Luglio 1620. (B. N. Parisi, IV, 201). 69. Allo stesso. Mando a V. S. l’inclusa scrittura per Cesare, decano de’ palafrenieri del Sig. Cardinale, acciò goda parte d’un poco di fatica fatta in questo tempo estivo, la quale reputerò per grande, quando sarà stimata per tale dalla sua prudenza, dalla quale aspettandone il parere, bacio a V. S. per fine con ogni affetto le mani. Di Roma, 29 luglio 1620. Non credevo d’aver tempo di scriverle perchè il Sig. Cavaliere fa nascere le occupazioni in quello stesso punto ch’io mi riserbo di scrivere a’ Padroni. Ho un’operetta per le mani (2); e questo ne sarà un poco di saggio ; ma mi risolvo di mandargliela per la posta, poiché Cesare, venendo con una soma di vino d’ Orvieto , non può se non giunger tardi. Comincio aver necessità di libri, e massime di Seneca e di Platone, e (1) Si tratta forse di Ferrante Boschetti, al quale in quest’ anno successe, nell’ufficio d’ambasciatore estense a Roma, il conte Massimiliano Montecuccoli. (2) Tiburno; ved. lett. seguente. — 454 — posso dir di tutti. Con buona occasione supplico V. S. a mandarmeli, e fra gli altri il Giraldi (i), che sarà forse presso il.... e di nuovo baciandole le mani me le raccomando. (B. N.). 70. Allo stesso. Aspettavo con questa posta la lettera del Sig. Duca Ser.mo, ma la mia speranza s’ è rotta, perchè, secondo 1’ usato, era di fragil vetro , come disse colui. Se neanche a questi favori posso arrivare, infelice mia servitù ! Se verrà a tempo , stimerò gran ristoro della tardanza il potere far fede, con essa, che non sono servitore del tutto straniero. Stimo il favorevol giudizio del Sig. Marchese F[ontanelld\ al pari d‘ un pubblico applauso, e non ho in questo mondo persona che meglio di lui allontani dal fuoco i miei infelici componimenti, perchè al fuoco io gli debbo destinar mentre nascono , non vedendo come dar loro altra luce in tante tenebre in cui m’ha posto la mia fortuna. Al motivo di S. S. IH. rispondo, che la scrittura mandata è uno squarcio d’un opera intiera divisa in cinque libri, che si va fabbricando. E perche in essa la Serenissima Casa d’Este ha luogo principalissimo, sarebbe forse stata affettazione il nominarla nella Concion di Zenobia. Il primo libro è finito ; degli altri v’ è 1’ orditura e s’ andrà tramando la tela, se la lucerna, al cui lume si tesse, per difetto d’olio non minaccia d’estinguersi. Ma temo forte, ed ho cagion di temere. Io non posso viver di lodi d’ uomo ingegnoso , mentre provo gl’ incomodi di povero cortigiano. Certi uomini, che soverchiamente s’allungano, divengon gracili e poco vivono. Le speranze in questo hanno proporzione con la vita degli uomini ; oltre che potrei dirle tal cosa che forse la moverebbe a pietà, se non procurassi col tacere di vincere in qualche maniera la malignità della mia fortuna. D’ottimo vino si fa perfetto aceto, e non lo dico in latino (i) Probabilmente qualche scritto di Lilio Gregorio Giraldi. — 455 * per non parer pedante. La simpatia cangiata in antipatia non si può tollerare. Ma il luogo è sdrucciolo assai, e la penna facilmente trascorre. Mandimi V. S. una Cifra , che le scriverò cose belle. Intanto mi conservi in sua grazia , e sappia che la mia obbligazione sarà costantissima in ogni varietà d’accidenti, e le bacio di tutto cuore le mani. Di Roma, 12 Agosto 1620. (B. N.; Parisi, IV, 203). 71. Al Cardinal D’ Este. Ill.mo e Rev.mo Sig. Padron Col.mo Dopo la partita del Palafreniere, mi è stato reso il piego, che mando a V. S. Ill.ma come l’ho ricevuto. Il Sig. D. Virginio Cesarino aveva risoluto di venirsene a Tivoli fra pochi giorni : e , parlandone meco , io col presupposto della particolare affezione di V. S. Ill.ma verso questo signore, l’assicurai del gusto singolare ch’ella avrebbe ritratto dalla sua andata. Oggi però in carrozza il Sig. Card. Barberini l’ha dissuaso con rappresentargli l’aria di Tivoli forse per non giovevole alla buona salute di lui. Tuttavia, perchè 1 ho veduto più tosto vacillare che mutarsi d’ opinione, supplico V. S. Ill.ma a prescrivermi il modo che dovrò tenere, caso che di nuovo me ne parlasse ; ed in particolare in materia della carrozza, di cui ha motteggiato non so che. È giunta in Roma un’ opera del Card, di Perona buona memoria , in lingua francese, toccante gli interessi del Re d’Inghilterra con la Sede Apostolica (1) e con tale occasione (1) Parla qui del famoso Jacque Davy, Cardinal Du Perron, che, dalla Svizzera sua patria passato in Francia ed abbracciato il cattolicesimo entrando nel clero, fu dapprima lettore di Enrico III, poi grandemente favorito da Enrico IV, in ispecie per la sua dimestichezza con Gabriella D’Estrées. Brigò molto negli intrighi di Corte e nelle faccende di Stato; eletto vescovo, si procacciò la benevolenza del Papa combattendo i cal- — 456 — molte altre materie correnti nel secolo presente. Il libro e lodatissimo, non solo per 1’ autorità e nome di chi 1’ ha scritto, ma molto più per la propria eccellenza. Ve ne sono pochissime copie, e queste in mano dell’Ambasciator di Francia e d altri particolari, a’ quali, e non a’ librari, sono state mandate. Intendo, per via d’ amici, che lo Spondano , autor del compendio del Baronio, n’ha due, e, s’avessi creduto d’incontrar il gusto di V. S. Ill.ma, potevo forse pigliarne una per suo servizio. In questo anche la supplico a dichiararmi 1’ animo suo, perchè, se sarò più a tempo, procurerò d’ averlo. E qui per fine a V. S. IU.ma umilmente m’inchino. Roma, p.° Ottobre 1620. Di V. S. Ill.ma e Rev.ma Um.mo e Devot.m0 Servitore A. M. (R. Arch. di St. di Modena, Cancelleria ducale, Archivj varj, Letterali). 72. Al conte Camillo Molza. Scrivo al Sig. cav. N. quel che m’occorre nella causa Car. e scrivo in fretta perchè or ora è giunto mio fratello. Padron mio, V. S. comandi, perchè io ho obbligo e volontà di servirla. Ella sa con che cuore io parlo, e però non moltiplico. Il medico N. vorrebbe procurare un officio benche debole ad un certo dottore di Pontremoli suo amico e parente di cotesto giudice. Non si vuol valere del Padrone, ma di me. Io non vaglio ad altro che a supplicar, come fo, V. S., per veder se vi fosse qualche ripiego ; ed in ogni caso , mi vinisti e schierandosi tra i fautori della bolla In coena Domini, pel che ebbe il cappello cardinalizio nel 1604. Fu eziandio arcivescovo di Sens. Morì nel 1618. Le opere ch’egli scrisse, furono più volte stampate; qui accenna il Nostro alla seguente: Réplique du Cardinal Du Perron à la réponse du rov de la Grande-Bretagne, Paris, 1620. — 457 — farà grazia a scriver lettera eh’ io possa mostrare ; e le resto servitore verissimo. Di Roma, 24 Ottobre 1620. (B. N.). 73. V. S., che sa la qualità degli obblighi che mi ha imposti, fa gran torto a se stessa ed a me , ringraziandomi di quel poco eh’ ho desiderato di fare in servigio del Sig. C. S. Z. ; e V. S. si può render certa, una volta per sempre, che, in tutte le cose sue o dipendenti da lei, io procurerò sempre, e per me stesso e col mezzo de’ Padroni e degli amici, di mostrarmi a V. S. servidor vero; e le bacio per fine di tutto cuore le mani. Di Roma, 1620 (1mancano il giorno e il mese). (B. N.). 74. Allo stesso. Ho conosciuto il Padre Rivola per amico molto sincero e discreto, mentre son stato nel Convento di S. Agostino di cotesta città , e senza dubbio non v’ era in tutti quei Padri altrettanto di buono. Ad instanza del Sig. Cardinale, è stato confermato di famiglia costì, e nominatamente nell’ uffizio di sacrestano. Ora si teme di qualche imbroglio fratesco per discacciamelo , come V. S. intenderà da lui medesimo. La supplico a favorirlo e proteggerlo come la persona mia propria, perchè l’assicuro che lo può fare, essendo egli soggetto onorato e che opererà sempre conforme alla professione ed alla nascita. Bacio a V. S. affettuosamente le mani e me le raccomando in grazia. Di Roma, 26....... 1620. (B. N.) — 45« — 75. Al Duca di Modena. Ser.mo Signore e Padron mio Col."10 Con umilissimo ossequio comparisco fra la turba de’ servitori di V. A. ad augurarle felici le sante feste , con ferma fede che, quanto mi confonde con i più volgari la debolezza delle mie forze, tanto mi distingua da tutti gli altri 1’ affetto della mia devotissima servitù, e la singoiar benignità di V. A., a cui riverentemente m’inchino. Roma, 23 Dicembre 1620. Di V. A. Ser.ma Uni.m0 e Devot.m0 Servitore A. M. Ser.mo Principe. (R. Arch. di St. di Modena, Cancelleria ducale, Archivj varj, Letterali). 76. Al conte Camillo Molza. Il Marchese lìent[ivoglio] (1) ha un sollecitatore a’ fianchi, ma quest’allegrezza del Cardinalato di Monsignor suo fratello (2) lo rende scusabile in parte, se per ora non s’adopera come ha promesso. Subito che sarà svaporato il fumo, sarò diligente a muoverlo a dar l’ultima mano al negozio. Non so come la fortuna m’ aveva portato un Vescovato addosso, ma io , se ben con qualche difficoltà, me ne sono sgravato , caricandone mio fratello , eh’ ha spalle più proporzionate al peso e natura più sofferente. Ne do parte a V. S. come a Padrone amorevole e mio e di mio fratello, a cui rimangono i quattrocento scudi netti di questa moneta. Mando a V. S. la lista, la quale fu fatta da Gio. Francesco mio, che, senza saper altro, vi pose anche i libri pre- (1) Ippolito Bentivoglio, Generale dell’Armi del Duca. (2) II celebre Guido. — 459 st;ili da lei, ed io gli ho scancellati ; ma, perchè degli altri non si sa precisamente quali restassero in mano del Padre Stefonio (i), quali appresso di lei, prego instantemente per suo mezzo il Sig. Luca M. o D. P[aolo] Ferr[aroni] (2), che serve il Signor Co. N. N. a riscontrar quelli che sono in casa di V. S., perchè a perticon (?) e numera (?) : e gli altri saranno in S. Bartolomeo. Il Ferraroni sarà ottimo e lo farà volentieri. Qui siamo in allegrezze e novità per l’insperata promozione. Varii varia. La fortuna non fu mai più vogliosa di schernir questa Corte : chi vola con incognito favore e si ritrova nel termine senza sentir i disagi della strada, chi, dopo lungo incespare ed insanguinare il sentiero, pur giunge alla meta, e chi rompe, dopo esser si può dir arrivato al suo fine. Non si può lasciar libero il corso alla penna, perchè le carte sono depositarie troppo infedeli di segreti che posson nuocere. Arrivi il discorso di V. S. dove non lascio che si conduca lo scrivere ; e, se la poca cognizione eh ha de soggetti promossi, le ritarda l’operazion dell’ingegno, da questa medesima difficoltà si avvalori e dica che non conosce. In questo senso parlò un gran Cardinale nel dar il voto in Concistoro, e tanto basti per ora. Bacio a V. S. con tutto l’affetto del cuore le mani, e mi ricordo servitore vero. Di Roma, 16 del 1621. (B. N.). 77. Allo stesso. Nella causa del sig. Cap. N. mi rimetto a quanto scriverà il Sig. Fabio, di consiglio di cui si è tentata una strada eh egli stima opportuna ed io v’ ho impiegata 1 autorità del Padrone Ill.mo. Ho date le buone feste al Sig. Prine. N. S. Alt.; m ha risposto con una lettera, che nel trattamento non solo è più notabilmente contegnosa che quella del Sig. Duca , ma d«. (1) Bernardino Stefonio, gesuita. (2) Ved. lett. n. 78. — 460 — titolo à.'Illustre ch’altre volte m’ha dato egli stesso, è disceso al molto magnifico con le conseguenze. Io sono servitore vero alla Serenissima Casa e ricevo in bene qualunque cosa mi venga da cotesti Principi, nondimeno, perchè, scrivendo pochi dì prima il Sig\ Cardinale allo Scappinelli (1), dichiarato segretario, lo trattò di molto magnifico, è caduto in pensiero a S. S. Ill.ma ed a me eh’ il Principe, per andar del pari, abbia meco introdotto questa foggia dimessa; o che forse lo Scappinelli, per uguagliarsi, si sia ingegnato di deprimermi. Prego per tanto V. S. ad intender destramente d’onde proceda la mutazione ed a motteggiarne in mio nome nel modo che le detterà la prudenza, avvisandomi puntualmente di quanto riporterà per risposta. Scrivo al Padre Buondinari che consegni i miei libri a V. S., e, subito ch’avrò nuova del recapito, la pregherò poi a rimetterli a Sarzana, dando avviso là di quanto dovranno fare. Intendo però ch’alcuni Modenesi son per venire a Roma; in tal caso ella potrebbe favorirmi di mandarne due per uno, tre per un altro e scegliendo quelli che stimerà più a proposito. Nominatamente intendo che sia per venire un Signor V. Cod. (?) o Prer. (?) che si chiami, e con 1’ occasione della Quaresima ne verranno degli altri ; insomma sono in necessità e troppo scomodo sento a non aver vicini i miei libri ; e se de’ suoi vorrà prestarmene alcuno , ella medesima può meglio di me sapere quali sieno proporzionati al bisogno. Mio fratello si esaminerà forse per lo suo vescovato venerdì. Dio gliela mandi buona. De Fulvio Testio quid? Venne con grande applauso, si fermò con molta mortificazione , è partito con varii disgusti. Credette di scavalcar altri e su gli occhi di lui si mutò sufficientemente la scena. Gran veleno in animai così piccolo, ma intollerabile ingratitudine in uomo tanto onorato da me ! Fu penetrato il disegno, ed egli ne rimase schernito; egli credeva di trovar mio nemico chi m’era fedelissimo amico, ed in (1) Antonio Scappinelli, segretario del Principe Alfonso. Per i suoi modi non godeva troppe simpatie. — 461 — orecchie a me molto amorevoli vomitò il suo pensiero. Riseppi e dissimulai ogni cosa, procurai di riscaldar quel capo con accesi carboni che sopra vi gettai, ma fu di mero ghiaccio; e con questo (quasi per via d’ antiperistasi) si tornò ad infiammar in me il desiderio della servitù, che per mille disgusti era poco meno che raffreddato. Così Dio benedetto dall’altrui leggerezza fe’ nascere la mia costanza; ed io divenni maturo per l’inconsiderazione di chi m’incalzava e premeva. Ma raffreno la penna e mi prorisce la lingua. Che se fossi vicino, quanto direi! Mostri, o mostri grandi dopo la partenza di V. S.! E pur non siamo in Africa. Le bacio affettuosissimamente le mani e me le raccomando in grazia. Roma, 20 del 1621. (B. N.; Parisi, IV, 207). 78. Allo stesso. Parlerò con V. S. confidentemente, perche così richiede la sincera osservanza che le professo, ma la supplico a ritenere in sè quello che scriverò. Il Sig. Marchese Bentivoglio accettò d’interporsi con Borghese e con Levi per agevolare l’intento nostro. Il Sig. Fabio (1) ed io l’abbiamo informato più volte, e se gli è posto a fianchi un sollecitatore. Questo signore è trattenuto dalla moltitudine de’ negozi ch’egli stima più rilevanti; o, impedito da qualche rispetto a noi incognito, non è mai venuto ad un fine; anzi, con darci parole di vicina speranza, ci ha vietato 1 incamminar per noi stessi il negozio ed ha dato tempo alla parte di proseguire giuridicamente i fatti suoi. Considerando io perciò la mala piega che pigliava il negozio e vedendomi impegnato col Marchese in modo che non potevo senza di lui far altro tentativo a Palazzo, abboccatomi col Sig. Fabio, venimmo in (1) Fabio Carandini-Ferrari, ambasciatore estense a Roma, verso questo tempo. Ved. lettera seguente. — 462 —• risoluzione di fare eh’ il Sig. Cardinal Padrone procurasse dalle parti l’arbitrio e s’interponesse come mezzano. S. S. Ill.ma si contentò e, fatto chiamare lo Scan.co (?), lo richiese del suo consenso , il quale egli negò di poter dare, senza espressa facoltà de’ suoi principali. S’è nondimeno portato benissimo, ed ha fatto col Sig. Cardinale l’uffizio d’uomo da bene. Or questa sera si scrive d’ordine del padrone al Co. Ercole Coccapani, che in nome di S. S. Ill.ma ricerchi dalle parti che compromettano in lui il negozio, e ne sarà richiesto tanto il Sig. Cap. quanto gli avversari, il quale in tal caso dovrà mostrarsene nuovo, perchè il motivo del Padrone vien nella lettera rappresentato come spontaneo. V. S. procuri ora che il Co. Ercole sia riscaldato con buone informazioni e s’ aiuti nel modo che si potrà. Il Padre Buondenari mi scrive d’averle consegnati alcuni miei libri, e me ne manda la nota. To stimo che ve ne manchi una gran quantità de’ migliori, come rispondo a lui medesimo, tuttavia, perchè non me n’assicuro, la supplico instan-temente a far cavare una lista di quelli che V. S. averà in mano , perchè , confrontando 1’ una con 1’ altra , m’ accorgerò dell’errore, e mi perdoni dell’incomodo, aggravando di questa diligenza in mio nome D. Paolo Ferraroni (\i), che la farà, credo, volentieri. Desidero anche di sapere quanto prima ciò che V. S. avrà sottratto del modo ch'usa meco il Principe nello scrivere, conforme a quanto le ho significato la posta passata , perchè, a-vendo pensiero di dar parte a S. A. della grazia impetratami dal Sig. Cardinale in persona di mio fratello , vorrei governarmi bene. Il Sig. Co. Giulio Cesare Isolani bacia le mani a V. S. come fo io parimenti con tutto l’affetto raccomandandomi alla sua buona grazia. Roma, 23 del 1621. (B. N.; Parisi, IV, 209). (1) Ved. lett. N. 76. — 463 — 79. Allo stesso. Subito ricevuta la lettera di V. S. con l’inviatami per il Sig: Carandini, gliele feci capitare in man propria tutt’e due, acciò vedesse ciò che è costì successo, e si pigliasse qualche rimedio, come subitamente s’è fatto. Ma, ritrovandosi in questo tempo ogni tribunale sottosopra, non si può operare quel che si conviene in benefizio della causa. V. S. compatisca alla necessità, che così porta, mentre che da me non viene il mancamento, sapend’ella quant’io sia obbligato a servirla, e come non ho mai mancato di prontezza e diligenza nelle sue cose, come farò anche nell’ avvenire. Mi dispiace sommamente il successo accaduto costì delle zitelle, ma a suo tempo si procurerà di rimediare a tanto danno, già che ora è impedita la via de’ tribunali. E, raccordandomele quel servitore obbligatissimo di sempre , le bacio per fine le mani con tutto 1 affetto e prego V. S. a continuarmi i suoi comandamenti. Roma, 3 Febbraio 1621. Di V. S. Ill.ma (1), alla quale do nuova come la Congregazione de’ Cardinali l’altra mattina mi ballottò in concorrenza di Monsignor Ginetti, proposto da Farnesi, per fare 1’ orazione a’ Cardinali de subrogando Pontifice, ed io prevalsi senza sapere neanche d’ esser nominato , e senza manifattura alcuna del Sig. Cardinale nostro , che non lo seppe se non sul fatto. Lunedì mattina dunque farò il mio cica-lamento, e V. S. ha da riconoscere in questa elezione (salva la proporzione) la stravaganza di questa Corte, che cava dal fango chi meno se lo pensava. I promotori del negozio, per quel eh’ intendo, furono Barberino e Borghese e poi tutti con voti conformi. Servitore umilissimo. (B. N.; Parisi, IV, 216, senza P.S.). (1) La lettera doveva finire: Agosl. Masc. Serv. umil.mo ecc., e continuare : di V. S. Ill.ma, alla quale...... — 464 — 80. Allo stesso. E morto il Pontefice, è vero , ma la lettera di V. S. non è giunta in tempo che non fosse già rinnovato il successore. Così presto trovano eredi i gran Principi. Lo spazio di tredici ore ha posto il regno in capo al Cardinale Ludovisio, che sessantasette anni d’innocentissima vita avevangli preparato. Aquino fuor di Conclave fu pubblicato Papa, e di Conclave è uscito cadavere; non ha potuto sopravvivere alle sue speranze, che furon sempre piuttosto moribonde che mortali. Si levò quel rumore per far rivolger gli occhi alla parte tumultuosa , e poi pacificamente esaltar Campora, soggetto favoritissimo da Borghese, odiatissimo da Orsino ; ma quanto 1 uno fu cieco in amare, tanto fu oculato 1’ altro in perseguitare. Vi è stato di quelli che han desiderato più flemma nel negoziar di Borghese, e minor ostentazion di potenza , perchè, con andar maturando alcune crudezze e mitigando gli umori alterati, avrebbe per avventura condotto il suo negozio a buon fine , che precipitò per la violenza. Gli escludenti non avevano forze bastevoli e fino alle sei ore di notte, ch’io dimorai la prima sera in Conclave, spiando curiosamente ogni cosa, si vedevano andar più cupidi che consigliati, e non potevano reggere alla piena, se 1’ ultima disperazione non gli avesse resi valorosi e costanti. Orsino ha mostrato gran cuore e molta sincerità. Qualch’ altro è reputato più maligno che savio. Durò lungo spazio la battaglia dubbiosa, e Campora era il prezzo de’ vincitori. Con qual animo egli se la passasse, V. S. lo consideri per se medesima. Io lo trovai nella sua cella verso le quattro ore, compostissimo e senza turbazione. Borghese lasciò morir pian piano la pratica, per non ruinar del tutto questo soggetto, e rivolse i pensieri a Ludovisio, il quale riuscì subito senza contrasto, perchè gli escludenti di Campora ebbero per gran ventura che si cedesse loro libero il campo. Questo posso dire a V. S. frettolosamente. La Gazzetta supplirà nella descrizione degli applausi e concorsi pub- — 465 — blici, e due Conclavi nel racconto degli accidenti ed interessi privati. Qui s’ aspetta tutta Bologna. Il Nipote è in concetto a tutta la Corte d’ uomo di molto spirito, integrità e sapere, benché sia giovane. V. S. vada contrapponendo e discorra e mi conservi in grazia sua, mentre con ogni possibile affetto le bacio le mani. Roma, 10 Febbraio 1621. (B. N.). 81. Allo stesso. Ecco a V. S. un piego di scritture ; leggale con diligenza, ma le scusi con pietà, perchè la meritano ; essendo state prodotte ne’ più acerbi dolori che possa tollerare un animo partoriente. La materia della lettera italiana e lontanissima dalla profession mia ; la forma dell’orazion latina sarebbe stata proporzionata agli studi che furon miei, se le sollecitudini della mente sempre travagliata potessero lasciar me stesso a me stesso. Non ho più tempo , e pur avrei voglia di scrivere. Bacio a V. S. con ogni affetto le mani, e me le raccomando in grazia. Di Roma, 27 Febbraio 1621. (B. N.). 82. Allo stesso. Tacito vo ; chè le parole morte Farian pianger le fiere ; ed i’ desio Che le lagrime mie si spargan sole (1). E tanto basti per necessaria discolpa all’ errore che commisi per non errare. La mia divozione verso il Sig. Cardinale (1) Petrarca; sonetto Quand’io son tutto vólto in quella parte (In vita, XIV). Nell’ ed. comune, la variante : Farian pianger la genie. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. 30 — 466 — d’ Este sopravanzerà sempre ogni ragion d’ interesse, benché non sia per superar mai la malignità della mia fortuna. V. S. sa le tragedie, direi , passate , se la continuazion loro non le facesse sempre presenti con la tolleranza e sempre future con la temenza. Confesso nondimeno che quest’ultimo colpo m ha istupidito in maniera che non ho senso neanche al dolermi. S’io conoscessi in questo negozio un solo e semplice motivo fondato su la ragione , me lo porterei in pace francamente , ma, rompere il corso d’una buona sorte nascente senza saper il perchè, Sig. Conte mio, è calice troppopieno di fiele schietto, senza correttivo che l’addolcisca. La notte della creazione del Papa, introdotto il Nipote in Conclave, negozia con alcuni Cardinali suoi confidenti intorno alla famiglia che vuol formare , e stabilisce di pigliar me m casa sua; la mattina sono avvisato nel portare il Papa all a-dorazione in S. Pietro, e chi m’avvisa, consiglia insieme che il Sig. Cardinale medesimo mi proponga , per prevenire ed obbligarsi Mons. Ludovisio. Io subito ne do parte al Padrone, il quale non consente di favorirmi con officio particolare, ma promette di concedermi, se sarò domandato. Tiro innanzi la pratica col presupposto della soddisfazione di S. S. 111. • Mons. Ludovisio mi fa intimar la mattina, per vedermi dopo desinare ; il Sig. Cardinale nostro il risà e fattomi chiamare espressamente , mi dice di non volermi concedere ad altro padrone, e che però io rompa il negozio o mi licenzi da lui. Tanto sappia V. S. , e non più. Consideri ella per se medesima le circostanze del maneggio, l’aggravio mio e la necessità in che fui posto. Non andai all’ora datami, il qual difetto fu stimata mutazione di volontà. Borghese pigliò la congiuntura, propose il Bacci suo segretario e fu accettato. Il Sig. Giuseppe (1) se la fa benissimo ; siamo restati a parlare insieme circa il negozio del Sig. C. L. Io servirò sempre con ogni prontezza come sono obbligato. Dei libri desidero che V. S. mi favorisca di far fare il riscontro, per veder ciò che (1) Il già ricordato Giuseppe Fontanelli , ambasciatore anch’ esso , in quest’ anno, per conto degli Estensi, a Roma. - 467 — manca ed esser sicuro se i PP, hanno restituito tutto, perchè poi la supplicherò del modo che dovrà tenere in inviarmeli, non essendo se non molto dispendioso quello della condotta. La prego poi ad abbruciar questa mia, perchè non voglio che mai il Cardinale risappia le mie giuste doglianze ; e, se V. S. vorrà pur far sapere a qualche amico il successo, mostri d’averlo inteso da ogn’altro che da me, tanto più che l’accidente in questa Corte è notissimo. Con che, baciandole con tutto il cuor le mani, me le raccomando in grazia. Roma, il primo di Quaresima 1621. (B. N.; Parisi, IV, p. 212). 83. Allo stesso. Siamo ormai a mezza Quaresima, e V. S. pur tace, non si ricordando del debito eh’ ella s’ ha imposto con dir sempre : « a Quaresima supplirò ». Servanle queste due righe per correzione fraterna, la quale è piena d’ amorevolezza, senza 1’ a-culeo delle doglianze ; ma, se non giova in questa maniera, si porrà mano alle accuse ed alle satire. State malissimo di Predicatore, per quanto s’intende. Vostro danno, ma neanche noi siamo del tutto ben provveduti. Il Padre Narni, Predicatore del Papa, è degno veramente di quel luogo e di quella udienza. Gravissimo, dotto e giudizioso, tesse i discorsi con la regola della buona prudenza e fa che sieno proprie le sue prediche della Sala Apostolica; dico proprie, logicamente, perchè non calzerebbero altrove. Le cose qui camminano al solito. Il Conclave che si legge, è vituperoso , però non mi son curato di mandarlo ; se n’ aspetta un migliore, se sarà tale. V. S. lo leggerà. Intanto mi conservi la grazia, e mi comandi che le vivo al solito servitore obbligatissimo. Di Roma, 6 Marzo 1621. (B. N.). — 468 — 84. Al Duca di Modena. Ser.mo Sig. e Padron mio Col.1110 Quando il Sig. Ruggieri partì da Ferrara, supplicai V. A. ad onorar del carico eh’ egli aveva , per quanto s’ appartiene alle cause della Sua Ser.ma Casa, il Sig. Gio. Battista Mascardi , Auditore di Rota in Ferrara (i). Mi rispose l’A. V. che di ciò aveva data la cura al Sig. Conte Giustiniano di buona memoria. Ora, intendendo che quel luogo non è dato se non per modo di provvisione , torno a supplicarla umilissimamente di nuovo a favorir il Sig. Mascardi suddetto, dandomi in tal maniera un notabilissimo contrassegno di conoscere la mia devotissima servitù , che non può essere nè più ossequiosa nè più sincera ; e qui, per fine alla buona grazia di V. A., quanto più posso riverente mi raccomando (2). Roma, 8 Marzo 1621. Di V. A. Ser.ma Uni.1"0 e Devot.1110 Servitore A. M. (R. Arch. di St. di Modena. Cancelleria ducale, Archivj varj, Letterali). 85. Al conte Camillo Molza. Che V. S. mi compatisca, io lo credo, perchè conosco la sua cortese natura e ’l merito della mia vera osservanza, oltre che il caso è per se stesso degno di tanta pietà ch’ogni nemico, per acerbo che fosse, si sentirebbe commovere ; e forse (1) Giovan Batt. Mascardi, parente del nostro Agostino , avea composto quei versi latini ad esaltazione della dottrina legale di Alderano, che vediamo tuttora premessi alle sue Communes IV. Conclusiones, nell’edizione di Ferrara. (2) Il Duca Cesare rispose alla commendatizia cortesemente, ma negativamente. — ,09 — che a quest’ora si duole della mia mala fortuna chi m’ha impedita la buona; se bene è questa una compassione di coccodrillo, sterile più della selce. Ma che opposizioni son codeste, alle quali V. S. sì francamente si oppone per mia difesa .J Si trova chi m’invidia per avventura lo stato in cui mi ritrovo? Dio gli faccia provare, non tanto per mia vendetta, quanto per sua istruzione , le amaritudini che de’ apportare ad un uomo di senso il vedersi ristretto come son io; e V. S., per favorirmi , si degni d' accennarmi in che sono stimato mancante , perchè qui il Padrone non ha saputo apportare altro pretesto che Tesser io troppo buon servitore di lui. Non manchi Padron mio, di parlarmi più chiaramente. Il Sig. Giuseppe (i) risponderà intorno alla causa ; io poi le resto al solito devotissimo e le bacio con tutto il cuore le mani. Di Roma, 9 Marzo 1621. (B. N.; Parisi, IV. 214). 86. Allo stesso. Nelle materie spiacevoli, adopro volentieri il silenzio per medicina , e più di buon cuore mi valerei dell’ oblivione , se fosse così riposto in nostra mano lo scordarsi, com e il tacere. Le riflessioni fatte sopra materia di poco gusto, vagliono a mantenere la piaga sempre fresca e stillante. Dal Sig. Co. Cam[z7/ Dev.lu0 ed Obb.mo Serv. in eterno Agostino Mascardi. (R. Arch. di St. di Modena, c. s.). 90. Allo stesso. Ill.mo e R.in" Sig. Padron mio Col.mo Il Sig. Ansaldo Cebà si trova tanto mortificato per la sospensione del suo poema dell’ Ester che più volentieri tollererebbe, come egli dice, la morte che questa infamia. Si duole acerbamente della sua disgrazia, e, dove in ogni altra materia io l’ho riverito come uno stoico della Religion nostra, in questo solo ho occasione di compatirgli come ad ingegno a-mantissimo de’ suoi parti e 'tenero della sua riputazione. Per — 473 — mezzo del Sig. Marc’Antonio D’ Oria, egli ricorre fuor del suo solito alla benigna protezione di V. S. Ill.ma ed ha voluto eh’ io parimente le testifichi il suo sentimento per muovere, com’egli stima, tanto più l’animo suo a favorirlo. Io 1 ho assicurato che in V. S. Ill.ma sarà sempre una prontezza uguale al merito di lei e che senza molti scongiuri ella farà il possibile per consolarlo , ponendogli frattanto in considerazione che ’l negozio è di qualche difficoltà , perchè passa per voti d’una Congregazione intiera, che è quella dell’indice. Questa sera la Signora Benedetta Pinella (i) m’ ha dato il piego che mando a V. S. Ill.ma, in conformità di quello eh io scrissi l’ordinario passato ; e con tanto maggior affetto la supplica della sua protezione quanto maggiore stima il proprio bisogno. Scriverà il Sig. Silvestro per certo suo bisogno, a cui V. S. Ill.ma potrà rispondere alla spagnuola, perchè è già ridotto a quanto si desiderava, e per fine umilissimamente me le inchino. Genova, n Luglio 1621. Di V. S. Ill.ma e R.ma Umiliss."10 Devot.m0 ed Obblig.m0 Servitore Agostino Mascardi. (R. Arch. di St. di Modena, c. s.; parzialmente riportata dal Neri, in Giornale Lig., vol. XIV, p. 212). 91. Allo stesso. Ill.m0 e Rev.mo Sig. Padron Col.1"0, Debbo rendere a V. S. 111.”8 umilissimamente grazie in nome della Signora Benedetta Pinella e del Sig. Ansaldo Cebà, il quale si può dir risuscitato in virtù della benignissima lettera, ch’ella s’ è degnata di scrivere al Sig. Marc Antonio D’Oria nel negozio che corre; e, perchè egli medesimo con sua lettera particolare esprimerà meglio il suo senso (2), io (1) Sorella del Marchese Paris e Principessa di Gerace. Ved. Giorn. Lig, I (1874), p. 115. (2) Di questa lettera del Cebà abbiamo riportato un brano a p. 109 n. 1 del nostro lavoro. — 474 — solo assicuro V. S. Ill.ma che in questa città non può ella desiderare gli animi de’ Gentiluomini più affezionati o devoti di quel che sono, il che partecipo con lei di buona voglia, perchè, nell’ infelicità dello stato in cui vivo , non ho refrigerio maggiore di quello che ne risalta nell’ animo di veder riconosciuta e stimata e riverita come conviene 1’ Ill.ma sua persona. Passò di qua, Domenica mattina, alle dodici ore (i), il Card, di Savoia, ma non entrò nel porto, calando a sentir messa a Cornigliano, villa confinante con S. Pier d’Arena, e di là se n’andò a Savona, dove l’aspettava il Principe lHiliberto (2), il quale con le immoderate pretensioni s’ ha provocati notabilissimi disgusti di questa Rep.ca; ed è miracolo che non se ne sia udito lo strepito fin costì. Trovandosi alcune Galee della Rep.ca nel porto di Savona , ha S. A. preteso che 1 ubbidiscano in modo che nè pur potessero ritornarsene a Genova senza sua licenza , ma i Capitani , che sono Gentiluomini di questa città, generosamente hanno risposto ed eseguito quello che era di dovere ; e , perchè il Principe si lasciò intendere che l’avrebbe gettate a fondo, non mancò il Castellano di Savona d’allestir l’artiglieria per investir la Reale e l’altre Galee Spagnuole, se facevano alcun motivo, come non fecero, forse per non attaccar baruffa in casa d’altri e contro ogni ragione. Alla partenza poi del Sig. Card, di Savoia, mandò il Principe a dar ordine , con parole di comando, alle Galee Genovesi, che dovessero salutarlo con quattro tiri d’artiglieria per ciascuna, ma quei Capitani, che per altro avrebbero usato ogni dimostrazione di cortesia, tenendo il comandamento risposero che sapevano quello che era conveniente, e non ne fecero altro; anzi dall’ora in qua le Galee della Rep.ca, che vanno e vengono da Savona, non salutano più la Reale conforme al solito, ma con le sole trombette. Sopra questi disordini s’ è spedito corrieri in Spagna e frattanto questi Sig.ri hanno (1) Il 25 del mese. (2) Ved. in lett. n. 88 1’ annuncio della sua venuta. Il Principe Fili— bérto di Savoia militava come Ammiraglio Generale del Re Cattolico, — 475 — mandato buon numero di soldati a Savona, che in faccia della Reale sono sbarcati, senza dar segno alcuno o di pausa o di rispetto al Principe. Ben è vero che tutte le novità s a-scrivono a’ ministri Spagnuoli, che vorrebbero acquistar ius alla Reale. Il giorno di San Giacomo si fece un solennissimo e vaghissimo barcheggio , al quale V. S. Ill.ma fu desiderata dalla Signora Brigida; ed io le scrivo perchè m’ha ella cosi ordinato, e qui per fine umilissimamente me le inchino. Genova, 30 Luglio 1621. Di V. S. Ill.ma e R.'na Um.m° D.m0 Ob.m° Ser.re in eterno A. M. (R. Arch. di St. di Modena. Cancelleria ducale, c. s. ; parzialmente ripor tata dal Neri in Giorn. Lig., vol. XV, p. 212). 92. Allo stesso. Ill.mo e Rev.m0 Sig. Padron mio Colend."10, Dal Sig. Co. Mass[imilianó] intendo quel che sarebbe necessario fare acciò ch’io ritornassi alla servitù di V. S. IH. Dal medesimo ella saprà quanto m’ occorre in contrario. La supplico umilissimamente a ricevere in bene eh io mi astenga da procurar quegli uffici che stimo poco decorosi all onor del Padrone e al merito del servitore, compatendo benignamente alla mia natura, la quale, se ben mi rende ambizioso della Padronanza di V. S. 111."*, mi fa nondimeno restio ad impetrarla con mezzi indegni. So che la mediocrità della mia fortuna dovrebbe persuadermi diversa risoluzione; ma, già che Dio m’ha dato tanto che posso vivere agiatamente nella mia patria, ristringo volentieri la vastità delle pretensioni dentro a’ termini prescrittimi dal decoro, e confido che A. S. abbia un giorno a riputarmi servitore tanto più merite\ ^ della sua grazia, con quanto maggior violenza vinco la mia propria inclinazione per non offender lei e me in un^ te p ^ medesimo. Parlo candidamente, perchè conosco la sincerità — 476 — dell’animo di V. S. Ill.ma , a cui farei torto non dichiarando i miei sensi con libertà uguale alla riverenza con la quale me le inchino. Di Genova, 13 agosto 1621. Di V. S. Ill.ma e Rev.ma Um."10 Dev.i'io ed Obbl.,no in eterno A. M. (R. Arch. di St, di Modena, Cancelleria ducale, c. s.) 93. Allo stesso. 111.™0 e Rev.mo Sig. Padron mio Col.1110, Ho fatto qualche motivo del desiderio di V. S. Ill.ma circa i danari col Sig. Mari Antonio ed altri, e trovo che il pigliarli a cambio corrente sarebbe di spesa molto eccessiva, perchè, essendovi ora in questa piazza gran penuria d’effetti, per i partiti fatti col Re ne’ potenti bisogni della Fiandra, le corrispondenze sono di tre e più, per cento, per fiera ; e più tosto si teme accrescimento che si speri diminuzione ; sicché o dovendosi pigliare a cambio sarà necessario firmarlo in somma determinata, o bisogna pensare a formar censo. In ogni caso non si può tirar innanzi pratica alcuna, se V. S. Ill.ma non manda le cautele o sicurezze sopra le quali disegna d’assicurare i creditori ; perchè, quando queste sono di soddisfazione, mi persuado di trovar, per via d’amici, ch’ella resti servita con vantaggio, e già ne ho qualche intestazione di più d’un luogo. E qui un Gentiluomo del Sig. Duca di Parma per questo effetto medesimo. Mi spero d’operar tanto che V. S. Ill.ma non resterà peggio trattata di S. A., e qui per fine, ricordandomi che le pene del Purgatorio non sono differenti da quelle dell’ Inferno se non per la speranza del fine, umilmente me le inchino. Di Genova, 3 Sett.re 1621. Di V. S. Ill.ma e Rev.ma Um.mo Devot.mo et Obbl.mo Ser.rc A. M. (R. Arch. di St. di Modena. Cancelleria ducale, c. s.) — 477 — 94. Allo stesso. Ill.mo e Rev.m0 Sig. Padron mio Col.m°, Abbiamo in Genova il Sig. D. Vincenzo Gonzaga, alloggiato dal Marchese Luigi Centurione. La sua venuta ha rinnovata la memoria delle sue leggerezze , e se ne discorre su le veglie da queste Dame con molte risa, notando ciascuna quello che più le pare in questo soggetto (i). Ha domandato alla Repubblica una Galera fino a Civitavecchia e 1 ha ottenuta; credesi che debba arrivar fino a Roma, e di là passarsene a Napoli. Qui s’ è detto che egli sia per trovar danari, ma si teme che non abbia gran credito, e finora non si vede segno alcuno di novità. I rumori di Modena fanno che qui si discorra al solito degli accidenti notabili con varietà di pareri e d affetti (2). Io non posso far altro che con risposte generali testificare l’ottima mente de’ Ser.mi Principi Estensi; se V. S. 111. ha che ordinarmi in tal proposito, attenderò volontieri 1 occa sione d’ubbidirla; e non è forse cosa da trascurarli, poiché la mala opinione facilmente s’ avanza, e non sarà gran cosa eh’ altri metta in paragone le azioni de’ confinanti. Qui s’è sparso, per lettere di particolari venuti di costa, che V. S. Ill.ma abbia gravi disgusti a Palazzo, e che fra lei e ’l Card. Ludovisio sieno passate parole d acerbità, ed in ciò parimente si odono contrari discorsi. In ogni caso 1 avidità ri (1) Vincenzo Gonzaga fu assunto al cardinalato da Paolo \ , ma po dopo, innamoratosi della vedova Isabella Gonzaga, spogliò la porpora condusse in moglie l’oggetto delle sue brame. Senonchè infastidito di tale vincolo a cagione d’altre avventure, bramava in oBni modo vorzio. La Rota di Roma, alla quale ricorse, non ne volle sapere, il P p poi tenne duro e non concessegli mai la grazia. Le storie speciali p lano delle « sue leggerezze » (ved. Litta). (2) Erano in questo tempo insorte liti fra Cesare d Este, duca ^ 1 dena, spogliato poc’ anzi dal Papa della signoria di Ferrara , ed 1 Lucchesi, per alcune terre di Garfagnana. I ministri di Spagna, interpostisi, riuscirono a ristabilire la pace. — 478 — putata insaziabile d’alcuni fa che i più ed i migliori assolvano altri da ogni sospetto di colpa; ed io, che in questo caso non posso dir tutto quello che sento , parlo nondimeno in modo ch’ognuno riconosce che la mia fede è viva, benché per mia disgrazia non sia più viva la servitù. Posdomani mattina io reciterò la mia orazione per la Coronazione del Duce e subito ne manderò la copia a V. S. Ill.ma, in segno della mia impermutabile divozione che non soggiace alla tirannia della fortuna; e qui per fine umilissimamente me le inchino. Di Genova, 24 Settembre 1621. Di V. S. Ill.ma e Rev.ma Ill.mo Devot.1110 et Obbl.mo Ser.>'e eterno A. M. (R. Arch. di St. di Modena, Cancelleria ducale, s. c.). 95. Al Senato della Repubblica di Genova. Ser.mi SS.ri, Agostino Mascardi, essendo stato comandato a far 1’ orazione nella Coronazione di S. Serenità in S. Lorenzo , supplica le SS. VV. Ser.m0 a contentarsi ch’egli comparisca nell’abito solito della sua professione, senza astringerlo a vestir la Cotta; stando ch’egli non ha ordini sacri e l’orazione è meramente politica, e conseguentemente non corrispondente all’abito ecclesiastico ; e 1’ esempio di chi ha portato la Cotta è di Sacerdoti Regolari, che predicavano , onde non de’ militare in questo caso. Che della grazia resterà infinitamente tenuto alle SS. VV. Ser.me. Delle SS. VV. Ser.™ Detto Supplicante. f 1621, die 24 sept. Lecta coram Ser.m0 Senatu. Collectis calculis de dicendo de D. Augustino ut utatur qui eidem placet. Approbat. (R. Arch. di St. di Genova, Atii del Settato, n. 578; autografa). — 479 — 96. Al conte Camillo Molza. Arrivai a Genova tutto pieno di polvere e subito fui assediato da mille persone, che mi domandavano della prigionia del Sig. Gio. Ambrogio Fiesco. Io risposi quello che dovevo rispondere, cioè di non sapere cosa alcuna , se non che co-testi Serenissimi Principi sono alienissimi da ogni violenza e crudeltà, onde 1’ innocenza poteva, sotto la loro protezione, aspettare ogni favore , come all’ incontro la colpa dal Tribunal della Giustizia dovea meritamente temer la pena. Aspetto che V. S. m’invii que’ pochi libri e scritture; e, se a quest’ora non ha conchiuso per 1’ estinzione della pensione, potrà soprassedere fino a mio nuovo avviso; e, perchè mi scordai di pigliar costì dal Cassiani una copia della mia orazione sul funerale di Madama, supplico V. S. a favorirmene, perchè presso di me non si ritrova. E tanto le serva per semplice avviso dell’arrivo mio e della continuata osservanza che le professo, poiché 1’ ora già tarda m impedisce l’andar più oltre; e le bacio le mani. Di Genova, 23 Ottobre 1621. (B. N.). 97. Allo stesso. Non so chi sarà più ostinato , o V. S. in tacere o io in provocarla a parlare. Questa è la terza lettera che le ho scritto dopo la mia partenza da Modena, ma non sara però 1 ultima, benché rimanga senza risposte. Forse con l’importunità otterrò quello che V. S. non mi vuole concedere per cortesia, la quale è pure dote sua sì principale che il rinnegarla in questa occasione non sarà senza termine di violenza. Bacio a V. S. le mani con ogni affetto, e me le raccordo obbligatissimo servitore. Di Genova, 6 Novembre 1621. (B. N ). — 480 — 98. Al Cardinal D’ Este. Ill.m0 e Rev.mo Sig. Padron mio Col.1110, Da un mio servitore, ch’ho mandato a pigliar le mie robe, mi viene scritto che V. S. Ill.ma ha dato ordine che mi sieno sequestrate, per non so che lenzuoli de’ quali il Guardarobba pretende ch’io sia debitore. La verità del fatto come si stia, io non lo so. Intendo bene che , dopo la mia infelice partenza, m’è stata tolta costì tanta roba che, per compimento de’ miei disastri, altro pareva che non mi potesse mancare. In ogni caso , supplico V. S. Ill.ma a contentarsi che siano rilassate le mie robbe, ed insieme a dar ordine ch’io sia chiaramente avvisato di quello eh’ ella pretende da me , perche, s’io dovessi impegnarmi, procurerò subito che V. S. Ill.ma resti soddisfatta. Confido che dalla sua benignità non sara negata la fede a’ miei detti, eh’è pur dovuta alla mia divozione, la quale, se ha fatto eh’ io ponga a pericolo la riputazione e la vita, e eh’ io sostenga un dispendiosissimo esilio per servire bene a V: S. Ill.ma, farà ben anche eh’ io trovi alcuni pochi soldi per non lasciarla disgustata di me, ond io non abbia miseramente a perdere la buona grazia sua, dopo la servitù senza mia colpa perduta; e le faccio umilissimamente riverenza. Di Genova, xi Decembre 1621. Di Y. S. Ill.ma e R.ma Um.mo ed Obbl.mo Ser.mo in eterno A. M. (R. Arch. di St. di Modena, Cancelleria ducale, Archivj varj, Letterati)- 99. Al conte Camillo Molza. M’ è venuto capriccio di ridurre in volume le mie lettere, ma, perchè una parte se ne trova presso il Sig. Fontana, in un libraccio che gli lasciai, prego V. S. come da sè a farle — 4-81 — copiare, senza ch’-egli sappia il perchè, ed insieme a vedere di ricuperar quelle che in diverse volte ho scritte agli amici e signori miei e Principi costì ; perchè, non avend’ io alcuna che sia scritta in'mio nome, troppo mi peserebbe il dover dare finora un libro, senza che ve ne fosse pur una dentro scritta per me. E se V. S. n’ ha presso di sè qualcuna che sia tollerabile, mi faccia grazia di porla in disparte, ch’io avviserò poscia a chi si dovranno consegnare. Aspetto que’ pochi danari con molto desiderio, perchè mi regolo col bisogno. Per grazia V. S. me ne favorisca subito che potrà, e solleciti le mie robe, che sono in mano dell’ebreo (i), ricordandosi di comandarmi mentre le prego felicissime le S. S. feste. Di Genova, 16 Dicembre 1621. (B. N.; Parisi, IV, 205). 100. Al Cardinal d’Este. Ill.m0 e R.m0 Sig. Padron Col.m0, Oggi e non prima ho finalmente accettato il carico offertomi dalla Ser.ma Rep.ca. Ne do parte a V. S. Ill.ma per soddisfare all’obbligo della mia devotissima servitù , la quale, sì come fu interrotta dalla mia sola disgrazia , così sarà reintegrata ogni volta che V. S. Ill.ma comandi, perchè, fra le condizioni richieste e ottenute, una è stata principalissima, di non restringermi a tempo , per aver comodità di tornare a servirla quando ella così volesse. In questo senso parlai in Modena col Ser.ra0 Principe Alfonso e con Mons. Vescovo, e di parer loro anteposi questa servitù temporaria del mio Principe naturale ad altra assai più lunga di Signor grande, per mantenermi abile a ritornar nel mio grado presso V. S. Ill.ma, la qual supplico a ricevere in bene una risoluzione che nasce dalla mera necessità, che mi rende impotente a reggere alla spesa più lungamente, e a significarmi la sua volontà, la quale, (1) Moisè di Sera; ved. più avanti, lett. n. no. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. 31 I - 4^2 — se sarà pure eh’ io da capo ripigli la servitù di V. S. Ill."'\ troncherò ogni trattato d’altro appoggio e mi servirò di questo come per trattenimento e quando che non mi valerò della licenza datami già da lei con termini assoluti e col benigno augurio eh’Ella mi fece di fortuna migliore, m’incamminerò per qualche strada e qui per fine a V. S. Ill.ma fu umilissima riverenza. Di Genova, 17 Dicembre 1621. Di V. S. Ill.ma e Rev.ma Um.™ e Dev.mo S.rc in eterno A. M. (R. Arch. di St. di Modena, Cancelleria ducale, Archivj varj, Letterati). 101. Al conte Camillo Molza. V. S. è padrone tanto assoluto di me che non può mai commetter mancamenti che la levin dal possesso della mia divozione. M’allegro del suo ritorno ed aspetterò almeno le maschere dentro al termine del Carnevale , perchè per altro V. S. potrebbe lasciarle ad un altro anno. Io poi sono e non sono al servigio della Repubblica. Ho trattenimento il quale posso lasciare senza commetter mancamento, e lo lascierò, se da altra parte verrà corrisposto al mio divotissimo affetto. Della mia orazione la ringrazio , ma non est tanti. Dopo eh’ io partii da lei, ho messe in carta ormai cinque lunghe scritture, al mio palato d’ altro sapore che non è 1’ orazione. Non ho più tempo, mi ricordo a V. S. il solito servitore e le bacio riverentemente le mani. Di Genova, 6 del 1622. (B. N.). — 483 — 102. Al Cardinal D’Esxe. Ill.m0 e Rev.mo Sig. Padron Col.mo, In fatto non è stato possibile ridurre il Sig. Giannettino Spinola (1) ad altro che a termini generali di cortesia, con rimettersi in tutto a V. S. Ill.ma, in modo però ch’io gli leggevo in fronte il disgusto che della mutazione avrebbe sentito ; sì che ho stimato meglio dargli la lettera col solito titolo , ma con metterli in pregio, in riguardo del vivo desiderio che V. S. Ill.ma tiene di dargli ogni sorte di gusto ancora in quelle cose che, per la semplicità e per l’esempio, possono a lei in qualche tempo esser moleste. Il Sig. Silvestro Grimaldo (2) voleva supplicar V. S. Ill.ma d’una grazia, ma poi se n’è astenuto, nè so perchè. Tuttavia, premendogli assai il negozio di che si tratta, ne ha mandata la memoria, che di sua mano invio, per dar calore all’uffizio, sapendo che Y. S. Ill.ma porta a questo Cav. affetto molto particolare; e se v’è necessità ch’io supplichi dove il Sig. Silvestro intercede, io metterò a conto di grazia propria la soddisfazione di questo ed a V. S. Ill.ma umilmente m’inchino. Di Genova, 22 del 1622. Di V. S. Ill.ma e Rev.1?13 Urn.mo Dev.m° Ser.re obblig.m0 A. M. (R. Arch. di St. di Modena, Cancelleria ducale, Archivj varj, Letterati). 103. Allo stesso. 111."10 e Rev.mo Sig. Padron Col.m0, La necessità di pagare parte dei debiti che ho fatti in questa città, m’ astringe ad estinguere quella poca pensione di che V. S. Ill.ma mi fece grazia 1’ anno passato. La supplico (1) Ved. la nostra Vita del Mascardi, a p. 106. (2) Ibidem, p. 120. — 484 — umilissimamente a ricevere in bene questa mia risoluzione , contentandosi eh’ io mi privi dell’ uso de’ suoi favori, per non perdere il capitale della mia riputazione. Ho pregato il Sig. Fontana (i) ad impetrarmene costì la facoltà necessaria, con presupporre che V. S. Ill.ma sia per agevolarmela con la sua autorità, se ve ne sarà di bisogno. E qui, ricordandole 1 ossequio della mia divotissima servitù, umilissimamente me le inchino. Di Genova, 3 di Marzo 1622. Di V. S. Ill.ma e Rev.ma Um.mo e Devot.m0 Ser.r» Obbl.mo A. M. (R. Arch. di St. di Modena, Cancelleria ducale, c. s. 104. Al conte Camillo Molza. Supplicai V. S. per 1’ estinzione di quella mia miserabile pensione e secondo l’Ordinario suo scrissi a Roma, per ottener la necessaria licenza , con procura in persona del Sig. Preposto Fontana. Di settimana in settimana sono stato attendendo l’esecuzione di questo negozio; e finalmente il Sig. Fontina] è partito da Roma, senza accusarmi pure la ricevuta della procura. Ho poi fatto un viaggio sino a Sarzana, dove, avendo ritrovato in casa un ospitale per la malignità dell influenze che corrono, ho avuto poco agio ad altro che a consolare e servire infermi. Tornato a Genova, anch’ io ho sentita la mia parte del male , ed ieri solo finii d’ applicarmi 1 medicamenti ; e tanto serva per discolpa del silenzio. Le mie poesie latine uscirono alcuni mesi sono alle stampe, ma non ho finora avuta altra copia che una sola per via del corriere, la quale mandai subito al Sig. Cardinale, come quello a cui son dedicate. Intendo però che siano arrivate le altre per via della Condotta solita, che suole essere lentissima. Se, prima di serrar questa mia, le potrò levar di Dogana, ne manderò subito una copia. Come che mi paia poca cortesia il far- (1) Roberto Fontana, Preposto di S. Luca, al quale il Nostro dedicò un’ elegia delle Silvae (lib. Ili, p. 150). Ved. lettera seguente. — 485 — gliele pagare, come farà venendo con l’Ordinario , tuttavia V. S. scuserà l’impossibilità di fare altrimenti. Nel resto ella fa torto a sè stessa ed a me parimenti, credendo eh’ io possa mai dimenticare gli obblighi che le debbo. Sono suo servitore di vera e non punto affettata osservanza ; chè bramo in ogni miglior modo di testificarle il mio divoto affetto ; e di ciò V. S. non dubiti mai, perchè io ricevo dalle sole perplessità notabilissima offesa; e di grazia sia detto per sempre. Il Sig. Cardinale, al mio partire di Roma, promise al Sig. Co. Massimiliano di continuarmi la solita , benché tenuissima e più volte diminuita provvigione; ciò non solo non ha S. S. Ill.ma adempito, ma, avendo pure occasione poco meno che necessaria di riconoscere le mie gravissime spese e gl’ incomodi e i pericoli patiti per ubbidirlo , con farmi qualche donativo per la dedicazione del libro, come fa ogni uomo ordinario, nonché ogni Principe, ha pagato la mia spesa con una lettera. Sia ringraziato Dio che m’apre gli occhi ogni dì più. Scrissi al Sig. Co. Massimiliano e al Sig. Giuseppe sopra di ciò, ma non n’ebbi risposta. Pazienza ! Dico questo per disfogarmi con V. S. e non ad altro fine. Scusi ella la confidenza e mi ricordi servitore a tutti cotesti Signori, omnibus non obstantibus; specie al N. N. e da cui vorrei sapere almeno se ricevette la procura o no, per dare gli ordini che stimerò necessari. Ed a V. S. bacio per mille volte cordialissimamente le mani. Di Genova, 8 Giugno 1622. (B. N.; Parisi, IV, 220). 105. Allo stesso. La cortesia di V. S. adempie tutti i numeri per compire in me tutti i titoli dell’ obbligo, ed io, che son solito a non servir se non in materia di ringraziamento , son costretto a lasciarla ora, per non far parer volgare la mia gratitudine con la volgarità dell’ ufficio. Di me faccia il Sig. Cardinale quello che gli è in grado, perchè io sono soddisfattissimo di me me- — 486 — desimo, e godo d’aver obbligato personaggi sì grandi in maniera sì nobile che, invece della ricompensa, me ne venga, se non l’odio, almeno la dimenticanza. Della pensione V. S. conchiuda come le pare , che nelle sue mani i miei interessi saranno condotti prosperamente. Dal Sig. Preposto Fontana ho solo una lettera con questa posta, a cui rispondo per 1 e-secuzione del nostro negozio. Al Sig. Mass[zV#z'/z®]no vivo particolarissimo servitore al solito, omnibus non obstantibus; ed a V. S. mi raccomando in grazia. Di Genova, 14 Luglio 1622. (B. N.). 106. Al Cardinal D’Este. 111.™0 e Rev.mo Sig. Padron Col.m° Il Sig. conte Mass[zV»z7z#« 6l- APPENDICE li DUE OPUSCOLI INEDITI Di AGOSTINO MASCARDI La presente scrittura conservasi, con esplicita attribuzione al Mascardi, nell’Archivio di Stato di Modena ('Cancelleria ducale, Documenti di Stati esteri, busta 132, Roma, Conclavi: un esemplare di mano del tempo) e nella Biblioteca Arcivescovile di Udine (Mss. italiani, N. 39). SCRITTURA INTORNO ALLA ELEZIONE IN SOMMO PONTEFICE DEL CARD. LUDOVISIO Sono finalmente comparse alla luce del mondo le favole Milesie del passato Conclave, scritte con tanta contrarietà, che, a guisa degli Efimeri di Cadamo, a pena nate si distruggono fra di loro. In una è degna di compassione la semplicità dell’autore, perchè tanto mal informato si mostra di quel grandissimo affare che, nelle cose sapute fin dalla plebe, apparisce per menzognero. L’ altra dà largo campo alla loquacità d’ un sofista, che, con liscio di parole variamente inculcate, va vestendo alcuni contraffatti viaggi di concetti da lui per avventura stimati politici, con tanta proprietà con quanta sodezza egli forma 1’ eroe del suo poema, a cui s’ attribuisca — 524 — ogni onorata azione; oltre che con la ricorsa de’ tempi passati non pure devia l’origine della sua g'uerra Troiana più di là che dall’uovo gemello, ma, postosi ambiziosamente in scranna, da sentenzia definitiva delle qualità del morto Pontefice, non s avvedendo, lo sventurato, di rendersi per importuno e temerario censore, mentre professa sincera fede di buono storico e costume d’onorato cristiano. Ma queste due dicerie, come tanto leggere di peso quanto povere di sostanza, hanno ricevuto 1 applauso proporzionato alle passioni di chi le ha lette, senza meritar gran lode o gran biasimo. Vi rimane la terza, composta, per quel ch’io credo, da uno che ha saputo valersi dell impunità de’ Pasquini o de’ libelli famosi, mascherando una sfacciatissima Satira con titolo specioso di Conclave. In essa si dichiara l’autore tant’oltraggioso a tutto il Sacro Collegio , che, quando non contraddicessero i tempi, potrebbe senza dubbio stimarsi infame aborto di qualche mostro dell’ infetta Germania. Ora, questo discorso, comunque si chiami, ha infinitamente scandalizzati i buoni e stomacati i perversi, perchè finalmente gli eccessi nel vizio neanco sono approvati da’ viziosi, i quali, quando non altro, affettano quella moderazione nell’opere che può mantenergli in concetto d’uomini e non di bestie. Ma, perche 1 infelice compositor s’ accorge che agevolmente vacillano e per questo cadono le macchine fabbricate sul falso, s è dato a credere d’ingagliardire l’edifizio con aggiunger menzogna a menzogna ; come che 1’ accrescer peso ad una mole cadente non affretti la rovina che soprastava. Ha dunque sparso furtivamente un esecrabile rumore che sia quel Conclave componimento di un Cardinale creatura di Borghese, escludente del Campori, per autenticare coll’ambizione d’un titolo degno di riverenza, le sue irriverenti invenzioni, prendendosi intanto giuoco e ponendo in dispregio 1’ ordine più vicino al sovrano della Gerarchia Ecclesiastica. Con arte simile pullularono l’eresie del regno di Francia nell’età de’ nostri maggiori e crebbero pian piano come ortiche pungenti, ond è poi stato necessario che stillino sangue le mani di coloro che per istinto di Religione si sono studiati di svellerle. — 525 — Mosso io pertanto da giustissimo zelo di non veder infamato indebitamente un Cardinale come compositore di scrittura totalmente maledica e scandalosa, ed oppressa in un tempo la verita sotto il peso dell’ autorità che si procura ad un’ opera degna di legittima oblivione, ho risoluto di provar prima che non può esser nata nel campo del Collegio Apostolico semenza così maligna , e poi di raccontar schiettamente, senza riflessione o discorsi , quel che di notabile passò nell’ elezione di Gregorio XV, Pontefice veramente ottimo e grandissimo. Dal tenore della scrittura evidentemente si prova eh’ ella non è opera d’ un Cardinale. Perchè non si può credere che in quel Senato augustissimo, inferiore solo all’ordine de’ Beati, regni tanta empietà che voglia contaminare la più importante, sincera e sacrosanta azione, di cui è capo lo Spirito Santo, con mescolanza di trattati infedeli, di pratiche venali, di risse, di mancamenti di parola, di sedizioni, di minacce, di calunnie, di contratti simoniaci, ed in una sola parola voglia ridurre l’elezione del capo di S. Chiesa ad una apertissima scuola di tradimenti e di perfidia, con irrimediabile offesa di tutta la Repubblica cristiana. Eppure chi legge il Conclave di cui si parla, troverà che s’aggira sempre intorno a questi capi che accenno e non inserisco per non confondere l’antidoto col veleno. Di più non è simile al vero che un Cardinale, benché guidato meramente dall’ interesse, metta mano ad azion tale da cui sia posto in necessità di menar gli anni suoi in perpetua ed implacabile inimicizia, con tanti offesi in parte delicatissima , e procuri di acquistarsi con mala arte il nome di formidabile , mentre dal lume risoluto dall’ incendio del tempio ritrasse colui più tosto oscurità che splendore, massimamente essendo noi in Città che ben intende ogni cosa e nulla per temenza tace o dissimula e dove 1’ animo de’ colleghi si vuol da un prudente Cardinale tener ben disposto col merito e coll’ amicizia, non alienato con la paura e mala opinione ; lasciando per ora alle decisioni d’un giudice non animoso il discernere se sia gran gloria d’ un Cardinale prudente lo studiarsi d’ esser per terzo fra l’Aretino ed il Franchi, 1’ uno e — 5^6 — l’altro de’ quali non fu mai tanto temuto per l’intemperanza delle scritture che non avesse maggiore occasione di temer altri, sentendosi o i pugnali sulla faccia o il laccio del giustiziere alla gola. Non può esser creatura di Borghese: perchè sarebbe troppo vituperevole l’ingratitudine che egli, inalzato a dignità così e-minente nel mondo e tolto forse dallo stato miserabile d’ una poverissima condizione, in tempo che la fortuna intesa alle grandezze d’altri gli aveva voltato le spalle, non pure abbandonasse le parti delle quali era debitore della vita, ma con vigliacca slealtà, seguendo 1’ esempio del discepolo apostata, si facesse capo degli avversari e mandasse fuora per eterna memoria del suo misfatto , il pubblico instrumento della sua perfidia. Ne mi si dica che il desiderio di vendicare qualche offesa è talora così veemente ed acuto che fa porre o in dimenticanza o in non cale ogni benefizio per grande che sia, poiché per doppio rispetto non può cadere questo motivo sciocchissimo in un animo ch’abbia punto di sangue ingenuo. Primieramente perchè sarebbe segno di debolezza e viltà di persona ben nata 1’ avventarsi come rabbioso mastino alla pietra, non guardando chi la gittò e non ritraendone per avventura altro frutto che un inaspettato rintrizzamento de’ denti ; nè passerebbe senza riso d’ ogni uomo da bene il vedere un Cardinale, ridotto per astio o per impotenza di far peggio, a duellar con 1’ armi che adopera in guerra il furor letterato, usurpandosi abiettamente quel luogo che fino a’ dì nostri e occupato da pedanti, mentre piatiscono e cercano Nutricem Anchisen. Secondariamente, la vendetta, acciocché sia ragionevole (parlo per ora come pagano, senza il riguardo che si dee alla pazienza e carità prescritta dal Vangelo), ha da ricever giusta la sua misura, in modo che, sì come nell’ esercizio della distributiva la proporzione aritmetica adegua compitamente le parti, così nell’uso delle cose umane la pena del taglione regoli la maniera di vendicarsi ; ed in questo caso desidero la maturità del lettore, che, divisando fra sè i disgusti che pos-son nascere tra un benefattore insigne ed uno singolarmente — 527 — beneficiato , gli contrapponga all’ ingiuria che nel libello del nostro conclavista si fa non pure a Campori ma puramente a Borghese ed a ciascun de’ suoi aderenti, caricandoli tutti di solennissime calunnie. La vendetta che passa il termine del-1’ onorato risentimento , si de’ chiamar villania, e può essere tal cavaliere a cui convenga quel detto : Anima vile Ch’ ancor nelle vittorie infame sei. Riman da esaminare se da un escludente di Campori possa esser nato il maggior libello. Il Cardinale Orsino è signore di tal nascita e di bontà così nota che l’accrescergli un eccesso sì enorme non pure sarebbe manifesta ingiuria di quell’animo nobile, ma violenza apertissima dal verosimile. E egli proceduto nell’esclusione di Campori con ingenuità da signore, non con arte da meccanico. Nel negoziare, se gli vedeva in faccia un magnanimo sentimento dell’ offese che credeva d’a-vere in altri tempi ricevute da Campori, qual si sia la verità del fatto, ch’io non entro a discorrerne. Professò sempre d’ esser mosso all’ esclusione dalla conscienza, e, sebbene due innocentissimi Cardinali fra gli altri, Santa Susanna e Bellarmino (riverito per altro come maestro nello spirito da Orsino), fecero di Campori giudizio molto migliore, guidati anch’ eglino dalla coscienza, non è però da riprendersi la risoluzione d’Orsino, perchè il formarsi la coscienza più ad un modo che ad un altro dipende dalla tenace apprensione di diversi principii. Onde, s’egli incorse in errore come alcuni si dànno a credere, de’ aversi compassione all’intelletto che non è libero nell’ operare com’ è la volontà, ma segue quel soggetto che se gli rappresenta per vero. Insomma le maniere tenute da Orsino, sì come sono lontanissime da ogni doppiezza servile e peccanti per avventura più nell’ eccesso dell’ardimento che del timore, mentre si dichiarò capo degli escludenti, prima d’avere assicurata la pratica della sufficiente esclusione, così non meritano che a quel signore s’attribuisca una scrittura nata in un cantone della Corte da qualche spirito torbido ed inquieto. E si può consolare Campori, chè, se - 5-’8 - Orsino 1’ escluse mosso dalla coscienza, non lo riprovarono Bellarmino, Santa Susanna e molti altri ottimi Cardinali, mossi dalla coscienza ; onde può dirsi, riguardando 1’ esito del negozio , quello che delle discordie civili fra Cesare e Pompeo disse colui Magno se iudice quisque ovetur: Victrix causa Dijs placuit sed victa Catoni. In Ubaldino militano per la sua parte le ragioni addotte in discolpa di Orsino e poi si aggiunge eh’ egli come uomo che professa di saper molto, non solo delle cose del mondo, ma eziandio di lettere e specialmente umane , non avrebbe con tanta rozzezza espressi alcuni punti del tutto repugnanti ad una buona regola di prudenza civile, che solo possono cadere in pensiero ad un pazzissimo cervello , come che Campori avesse pattuito di reintegrare la famiglia Bentivoglio nelle ragioni di Bologna ed i Principi Estensi nell’antico dominio di Ferrara e molt’ altri somiglianti concetti empiamente ridicolosi. Di più , sapendo egli in sua coscienza che tutti i suoi disegni tendevano all’esaltazione d’Aquino, senza pensar pure a Ludovisio, come consta manifestamente dal discorso, con che persuase il buon vecchio a ritrovarsi a’ conventicoli che 1’ anno passato si facevano in casa di Capponi (da’ quali contrasse l’infermità che gli tolse il Pontificato e la vita) e da quell’altra cosa più segreta che senza necessità non m’ u-scirà dalla penna, non si sarebbe- più spacciato per lancia spezzata di Ludovisio con vilipendio di tutti gli altri che concorsero all’ottima elezione di quel signore ; ed in queste poche parole comprendo moltissimi particolari falsamente ascritti ad Lbaldino, ne’ quali ebbe egli quella parte che suole avere nelle ultime resoluzioni un animo disperato , appigliandosi a ciò che il caso gli presenta alla mano, sebbene, com’uomo pratico in mutar la vela secondo i venti, ha poi saputo valersi del benefizio dell’ evento ed ha fatto apparire , per effetto di volontaria resoluzione sua, la necessaria elezione del Cardinale Ludovisio. Bevilacqua , essendo in un’ altra scrittura dipinto per un Orlando, in questa riesce un povero fantaccino a piede, il che non solo condanna di falsità tutti e due i compositori di favola tanto repugnante, ma prova che egli non può aver pensato mai di pigliar la penna per adoprarla in questo proposito, oltre che mostrò sempre più voglia d’opporsi a Campori per invidia della fortuna crescente del marchese Bentivoglio suo patriota e per disgustar gli Estensi, che per buona volontà che avesse d’inalzar Ludovisio, al quale così poco pensava che il suo conclavista si raccomandò al segretario di Pigna-tello, per sapere in tempo la risoluzione di Borghese intorno al Papato di Ludovisio e concorrervi non fra gli ultimi. Borgia è signore di regolatissima intenzione, e, sì come nel governo di Napoli s’ era mostrato più capace dell’ obbedienza che dell’ impero, dandosi in preda ai liberti che 1’ aggiravano con fargli commettere mille mancamenti eh’ hanno disgustato ì più principali signori di questa Corte , così, nel-1’ esclusione di Campori, mostrò le dolcezze della sua natura attissima a lasciarsi reggere; e, se fra i fautori di Campori non tosse stato Zappata, emulo antico e nuovo, pur ch’egli avesse seguitati gli altrui dettami, tanto avrebbe favorito la parte avversa. A caso dunque s’aggiunse agli escludenti ed in conseguenza non avrà mai sentito bollirsi in corpo questo capriccio di scriver frottole conclavistiche. Sforza non ebbe mai in tanto cattiva considerazione il Cardinale Campori che non restasse almeno buon pezzo irresoluto se doveva favorirlo del suo voto o no. E tanto basta, oltre la natura sincerissima di quel signore, a provare che non ha potuto scrivere cose così indegne. Anzi dicono alcuni, molto intendenti degli interessi di Sforza, che, quando gli fosse stata posta in mano l’esaltazione o di Campori o di Ludovisio, egli più volentieri sarebbe andato in Campori, perchè la memoria di qualche amaritudine passata, per occasione di liti eh’ erano in Rota, gli rendeva formidabile Ludovisio. di che diede manifesto indizio quando procurò di ritornare indirettamente la fazione di Borghese dal Pontificato di Ludovisio , con minacciar, per via di promesse, il parentado con gli Aldobrandini. Capponi da me non sarà mai annoverato fra gli escludenti Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol, XLII. 34 — 530 — perchè dava il suo voto; ed io, che riverisco e non giudico le azioni de’ grandi e savi uomini , non posso consentire a coloro che lo dipingano per profondissimo simulatore in modo che si dichiarasse doppiamente in apparenza favorevole a Campori, per ispiare il negoziato della fazione di Borghese e rivelarlo perfidamente agli avversari, soggiungendo di più quegli avvertimenti che stimava opportuni. E, per non andar vagando più lungamente, non può questo maledetto Conclave esser composto da un escludente, perche lo scrittore ugualmente, se ben con arte diversa, maltratta gli amici ed i nemici di Campori : questi con manifeste calunnie, quelli con lodi oblique. Introduce Orsino in scena con alcune sgherrate alla Transonica in commendazione della sua casa, esponendolo a ciò che gli può esser risposto da chi ha letto la storia massima-mente del Pontificato di Alessandro VI ed offendendo la modestia singolarissima di quel signore. Rappresenta Pio studiosamente maligno in fargli portare 1 processi fabbricati fino in Lombardia contro la persona da lui, per lo avanti nè pur conosciuta, si può dir, di presenza. Descrive Tonti per ignorante , credulo e mal considerato, facendo ch’egli, ultimo ad arrivare in Conclave, prima d ogni altro vomiti le più atroci calunnie contro Campori, che niuno senza mezzo di lui aveva osato di riferire, e poi soggiunge di non sapere se siano vere. Propone l’Ambasciata Soranzo ributtato generosamente da Priuli e da Valesio, benché nella narrativa del fatto o menta per artifizio o per ignoranza s’inganni. Fa che Madruzzo, sonnacchioso nel più arduo negozio della Cristianità, confessi di mancar di parola e con pretesto frivolissimo se ne scusi. Nota Crescenzio d’incostante e mutabile, come che da gli escludenti se ne passasse a Borghese ed indi se ne rifuggisse al suo campo. Fa che l’Ambasciatore di Francia, dato in preda dalla privata passione che l’agitava contro Borghese, non solo trascuri 1 occasione di vendicar l’offesa fatta poco prima al suo Re dal — 53i — Card. Orsino con abbandonar la comprotezione, ma più ardentemente 1’ aiuti con interporre la parola di S. M. col fondamento che se ne è veduto dappoi. Scopre la debolezza dgli escludenti, mentre egli fa per ultimo appoggiare non al voto di Cardinale, ma solamente alla veemenza dell’Ambasciatore Cristianissimo, agli uffici del Duca Gio. Antonio e Ferdinando Orsini, alla diligenza del Principe Peretti e di D. Francesco suo figliuolo, alle accuse di Mons. Vulpio e Dunnozetche e d’altri mezzi del tutto e-strinseci e improporzionati all’azione, i quali intanto sortirono al fine desiderato , in quanto non 1’ umana prudenza, ma la Provvidenza Divina volle, conforme al solito &uo non inteso costume, condurre a fine una grandissima impresa, con istru-menti deboli e male acconci. Solo il nostro conclavista perdona ad Ubaldino e perciò potrebbe lasciarne in forse. Ma, essendosi già provato, con altre sodissime ragioni, che di lui non si può aver sospetto ragionevole, credo di poter scoprire anche in ciò la malattia dello scrittore che a bello studio ha fatto arbitro del Conclave Ubaldino e non lo mette a parte d’errore alcuno, per insinuar forse eh’ egli ha composta 1’ obbrobriosa scrittura. Ma siamu in Roma , cioè a dire in luogo che seppe schernir la fraude d’Annibale Cartaginese, quando, per render sospetto al Senato Fabio valorosissimo e savissimo capitano nella strage comune delle campagne, solo dai poderi del dittatore allontanò il furore de’ soldati. Potrei qui por fine alla prima parte del mio discorso ; ma per cautela maggiore soggiungerò un’ altra considerazione, dalla quale apparirà dimostrativamente che non ha composto questo Conclave un Cardinale, ma che uno scrittor plebeo, di quella razza a cui ne’ Saturnali è permesso l’oltraggiare i maggiori senza temer per allora del marchio o delle verghe, s’è valuto del privilegio conceduto agli stigmatici suoi pari. Due motivi possono aver suggerite all’autore del Conclave le mostruose bugie delle quali è ripieno: l’uno e l’altro verosimile in un Cardinale. Il primo sia un mal regolato desiderio d’infamar Campori e torgli dopo il Papato la riputazione, per — 532 — renderlo incapace d’ogni favore che lo potesse portar di nuovo alle speranze mortificate. L’altro il disegno d’instillare nell a-nimo del nuovo Pontefice e del Cardinale Ludovisio, insensibilmente, un grand’ odio contro Borghese, Campori e loro a-mici. Al che si vede che molti s’incamminano con dissipar rumori di pratiche continuate. Or questi due motivi nascono da padre vigliacco, cioè a dire da un sollecito ma irragionevole timore di vedere una volta risorto Campori dalle rovine di quel pensiero. Se possa cader nell’ animo d’ un Cardinale che non sia un marmo od un bronzo , lo dirà chi e pratico nelle materie dei Conclavi. Or qui è necessario che io mi fermi un tantino, nella più utile ponderazione che possa occorrermi nel presente discorso, e per la quale principalmente applicar l’animo per altro alienissimo allo scriver di questa materia. A che fierezza d ec cesso arrivi e qual obbligo insopportabile imponga il macchiar la reputazione d’un Cardinale con imposture esecrande di simonia , di omicidi ecc., l’intenderà chi conosce la delicatezza della buona fama, facile ad esser denigrata di qualunque leggerissima accusa, e la difficoltà di ristorare il danno quasi ir rimediabile dell’ infamia. La detrazione è gran male ; può nondimeno esser medicata dalla bocca medesima che lo fece, ma la ferita che imprime una scrittura maledica, o sempre stilla sangue o mai depone la cicatrice, passa di mano in mano, di penna in penna, di luogo in luogo, d’ età in età, si propaga fra gli stranieri, si trasfonde nei posteri, contamina i secoli d’ avvenire , vitupera le discendenze, corrompe la fede delle storie, trapassa ad infettar le provincie poco amorevoli alla grandezza ecclesiastica, mette in bilancia la riverenza dovuta a quell’ordine sacrosanto, e per la sua parte impone una perpetua ed indelebile macula al Senato Apostolico. E sa pure con suo gravissimo dolore l’Europa nostra con quanta sollecitudine i seguaci dell empie sette si vagliano della vita di alcuni pochi disciolti, per rendere dispregievole ed odiosa tutta la professione sacerdotale ; sa pur quanto volentieri mendicano le occasioni di calunniare il Sacerdozio cattolico. — 533 — Perchè dunque porger l’armi a’ nemici con le quali si invigoriscono gli sforzi che fanno contro la fede? perchè spargere alle dicacità degli eretici il nome de’ Cardinali? perchè mettere in vilipendio della Cristianità quel grado tanto sublime? perchè lasciar che le penne de’ menanti riempiano tutta Italia dell’infamia d’uomini sacri? qual legge lo permette? qual civiltà lo tollera? qual ragion di governo lo consente? anzi pur qual pietà non lo vieta? qual zelo non lo riprende? qual giustizia non lo corregge? Dunque da Roma, Città Santa, aspettano i popoli più lontani i libelli famosi contro de’ Cardinali? dunque in quel teatro, che solo è riputato capace di rappresentare azioni di santità , si vedranno i Mimi che servilmente si trasformano in Cardinali? dunque dov’è adorata la sovrana sede del primo Apostolo, saranno con tanto scorno maltrattati i Senatori Apostolici? dunque sarà lecito agli sfron tati calunniatori trionfar nelle ingiurie da personaggi che sostengono con suoi consigli la Chiesa? E dissimula tutto il Sacro Collegio e non s’ avvede che in persona di pochi oppressi pericola 1’ onor di tutti, e non conosce che non quel particolare ma la dignità del Cardinalato vien calpestata? Io, per me, temo di veder fra pochi anni tanto avvilito lo stato de’ Cardinali che sarà spettacolo ridicoloso a’ nemici, compassionevole a’ figliuoli di Santa Chiesa, se con estirpar questi mostri maledichi, che, rotto il freno della vergogna e del rispetto per le anticamere, non pur toccano e riferiscono Christus Dei, non si trattiene l’impeto che sovrasta. Quei pochi che avranno la prerogativa d’ esser nati principi, se non saranno onorati per eminenza, saranno riveriti per timore : degli altri si farà un fascio. L’impunità d’ un delitto ne partorisce cento altri, perchè non v’ è fecondità eguale a quella delle scelleratezze. I capi dell’ Idra sempre germogliano più velenosi, se non s’adopra il fuoco. Sfortunato colui che per l’interregno di Clemente VIII scrisse il Conclave seguente! Se fosse stato in questa età, non si vedeva così rigorosamente punito per la licenzia di lunga mano inferiore alla moderna. Da tutto ciò si raccolga se un Cardinale può esser tanto fuori de’ sentimenti che voglia veder infamato se stesso nella persona del suo collega. — 534 — Che poi si possano per questa strada render odiosi al Cardinale Ludovisio Campori e suoi amorevoli , è vanissima vanità. Prima perchè non troverebbe fede nell’animo del nuovo nepote, che l’ha rotta a Borghese, suo benefattore principalissimo. Nè si persuada qualunque Cardinale ribelle al suo capo d’ingannar Ludovisio con mendicati pretesti di coscienza e di ben pubblico , perchè egli è signore sopra 1’ età savissimo e ben discerne che chi per ragion d’interesse o desiderio di vendetta privata ha saputo aver fronte di mancare all onore e dover suo , non può aver senso d’ uomo onorato, di cui una persona prudente si possa fidare senza ragionevole sospetto di tradimenti, massime che molto apparenti possono esser le ragioni d’abbandonar Ludovisio quando 1’ utile e 1 ambizione non persuada il contrario, avvenga che costoro da Borghese hanno pure finalmente ricevuto mercede singolarissima. Ma nel nostro caso pretendono d’ averle fatte a Ludovisio ed in conseguenza stimano che il Papa ed il nepote siano di maniera obbligati a secondar le loro voglie che qualunque grazia sarà da loro sempre accettata per pagamento di debito e per avventura ineguale. O bisognerà dunque che il Cardinale Lu dovisio abbia sempre a’ fianchi importunamente costoro , a loro discrezione distribuisca gli onori e gli utili, si governi col loro consiglio, gli ammetta alla partecipazione de segreti maggiori, insomma divida con essi 1’ autorità e 1 imperio , o ben tosto sentirà con suo danno che le nature ingrate ed am^ biziose sono insaziabili ed incostanti. Ma questo non si de credere del Cardinale Ludovisio , il quale , come intende be nissimo d’esser entrato al maneggio del mondo con grandis dissimo applauso e col comando assoluto, non vorrà corrompere le speranze della Corte, la quale aspetta dalla sua mano un governo santissimo e generosissimo, e si persuade di goderne gli effetti, se quel signore non si lascerà contaminar l’animo suo dai fiati pestilenziali di consiglieri sordidi e pieni di rabbia, i quali, se bene per le maniere astutissime che tengono e per la pelle d’agnello in cui ricoprono l’ingordigia di lupo potrebbono ingannare un semplice e buon Cardinale, non faran frode all’ occhio acutissimo di Ludovisio , che sa porre — 535 - le differenze fra l’interesse e lo zelo, e non è cosi debole che alcuno debba presumere d’agitarlo come gli aggrada. Di più, avendo letto il Cardinale Ludovisio che proprium humani ingenij est odisse quevi laeseris, saprà molto bene che quanto si macchina contro Campori e suoi fautori, è una continuazione della prima irragionevole ingiuria, la quale, essendo trapassata dalla natura dell’ odio, necessariamente produce frutti di maledicenza e di calunnia. La scelleratezza abbarbaglia di maniera l’intelletto del maligno che, per sostentare un errore talora mediocre, ne commette cinquanta gravissimi, massimamente quando ad un animo agitato s’aggiunga lo stimolo del timore, che a poco a poco denigra indisperatamente. Un uomo; oppresso innocentemente, è sterco negli occhi del-l’oppressore, onde non cessa di perseguitarlo, finché non 1 e-stermina per liberar se stesso dall’odiato rimprovero. Inoltre ha Borghese nel tempo del suo dominio sempre favorito Mons. Ludovisio con dimostrazioni di stima e d affetto grandissimo, onorandolo ad istanza di Campori con ammetterlo nelle Congregazioni più principali, onde, se egli ha da pretendere la dovuta gratitudine da’ suoi dipendenti, non è credibile che egli ora la nieghi a coloro che da lui con tanto fondamento l’aspettavano, perchè, ricambiando i benefizi fattigli da Borghese e da Campori con odio, correrebbe pericolo d’esser ne’ suoi bisogni lasciato all’ asciutto da suoi beneficati, senza poter dolersi d’ altrui che di se stesso, col-1’ esempio di cui avrebbono gli altri appresa 1 arte del tradimento. Concludasi dunque sicuramente che niun Cardinale creatura di Borghese ed escludente di Campori, ha mai pensato a così vituperosa scrittura, con fine di macchiare la riputazione di Campori e di render lui con gli amici suoi poco amorevole a Ludovisio ; e di qui me ne passo alla nuda e schietta narrativa del Conclave, senza trattenermi negli episodi e ne’ pareri lontanissimi dalla santa intenzione di chi introdusse 1’ uso lodevole di registrar, per documento de posteri, le circostanze di così seria ed importante azione. — 536 — CONCLAVE. Ammalò Paolo V il giorno di S. Agnese, ma si sostenne con l’inesausto vigore che gli somministrava il desiderio di vivere più lungamente; e, perchè un accidente sopravvenutogli diè materia di timore e di speranza a diversa sorte di gente, procurò egli di togliere dall’ animo di tutti ogni perplessità, con mostrarsi robusto, quasi che si possa schivar l’ultima necessità del morire coll’apparenze. Cedette finalmente alla violenza del male e la domenica, che fu ai 24 , si pose in letto. Le gran moli o non vacillano o vacillanti minano. Non fu così tosto infermo che Roma lo tenne per morto ; gli amorevoli avevano antiveduto il colpo col discorso, i malcontenti 1’ avevano antiveduto e preoccupato col desiderio , sì che a niuno fu nuovo. Il Cardinale Borghese ammise tutti coloro che vollero vedere il Papa in quei giorni, senza discorrere s’ alcuni venivano per mera curiosità, altri per contemplar le proprie allegrezze negli altrui dolori, altri per fin di bene. Parve straordinaria la cortesia di questo atto e fu stimata meritevole di lode tanto maggiore quanto più lontana era dall’esempio di Pontefici passati. Morì finalmente il giovedì sulle 23 ore, armato di tutti 1 Sacramenti, nelle mani d’un buon numero di Cardinali; e subito fu consegnato il Palazzo al Cardinale Deti, Vice Camerlengo. Il dì seguente si fece la Congregazione de’ Cardinali nella stanza pel Concistoro in Vaticano , per dar gli ordini necessari, e si portò il cadavere in S. Pietro, accompagnato dal Sacro Collegio. Per nove mattine si celebrarono l’esequie con la messa cantata da un de’ Cardinali, dopo le quali si tenne sempre 1’ ordinaria Congregazione in sagrestia. La domenica, finite l’esequie, Mons. Palloni recitò 1’ orazione funerale. Il lunedì fu cantata la messa dello Spirito Santo dal Sig. Cardinale Giustiniano, e per ordine del Collegio orò il S’g- Agostino Mascardi, segretario del Cardinal d’Este, de subrogando Pontifice. In questo tempo ognun ebbe in che occuparsi. Borghese, — 537 — che andava disponendo le cose in modo che gli riuscisse di tirare al Pontificato una sua creatura, era seguitato prudentemente da Montalto, il quale, vedendo di non potere agevolmente impedirgli il disegno, voleva tenerlo obbligato alla sua fazione, per cavarne utile in caso di turbolenza. Col fin medesimo s’ unì Medici con Borghese e trasse Farnese in sua compagnia, ma questi due avevano il lor pensiero rivolto in Monti; ed espressamente Medici convenne con Borghese seguitarlo, purché, dovendosi uscire dalle creature di Paolo V, tutti i Borghesiani favorissero Monti. In questo negozio nacque un equivoco, perchè Medici s’intese di obbligarsi a Campori e non più, ma Borghese accettò l’obbligo per qualunque sua creatura. Gli Spagnuoli aderivano in tutto a Borghese, il quale si valse d’Este per tentarne e disporre alcune creature dubbiose. I soggetti del Collegio nuovo , ne’ quali più si pensava, erano Aquino, Campori, Ludovisio, Mellino, Santa Susanna. Cominciò gagliardamente la pratica di Campori subito morto il Papa, si sopì poscia per quattro giorni, o perche veramente vi si trovassero difficoltà notabili o perchè prevalesse Aquino, portato ardentemente da Ubaldino, o per addormentar gli avversari comunque si fosse. La venuta di Serra e di Savello tornò a prenderne vigore e promettere felice successo. Araceli aveva 1' esclusione in capite da Borghese e dagli Spagnuoli per l’antiche sue dipendenze da Lancellotto e Cae-tano, e per aver disgustato qualche Ministro Regio , mentre era generale dell’Ordine de’ Predicatori. Mellino era troppo fresco d’età e non aveva l aura del Collegio : Aquino era, si può dir, moribondo. In Santa Susanna soprabbondava il merito e mancavano gli anni da lui confessati con ingenuità generosa. Ludovisio passava per abile, ma si temeva la natura del nipote e 1 Parentado con gli Aldobrandini o Colonnesi. Campori non era amato. Alcuni non volevano vedere la continuazione del dominio in casa di Borghese. Altri lo tenevan troppo inchinato all’ accrescimento delle facoltà private, altri asserivano a lui solo tutti i disgusti avuti a palazzo sotto Paolo V. - 538 - Nel Collegio vecchio era desideratissimo Sacchi , ma Bevilacqua (non si comprende con quanta prudenza) si mosse subito a far l’esclusione a questo soggetto e si crede , per quello che poi seguì nel Conclave , che Borghese se gli sarebbe opposto con i suoi voti. Giustiniano veniva giudicato bonissimo per bontà, valore ed esperienza, nè aveva contraddizione apparente, ma gli Spagnuoli, benché amicissimi e beneficati da lui , avevano dato parola al Contestabile Colonna * » di non lasciarlo riuscire, il che però non si penetro cosi subito. A Monti s’ opponevano gli Spagnuoli e le creature di Aldobrandino. Erano dunque due fazioni principali : Borghese, Montalto, gli Spagnoli, Farnese, Esti e Medici formarono con i loro seguaci la prima e più potente; Aldobrandino, i Francesi, Orsino , Ubaldino , le creature di Clemente , costituivano la seconda e più debole. Con le cose nel termine che s’è descritto, entrarono i Cardinali in Conclave la mattina del lunedi. Ubaldino ed Orsino si vestirono subito la zimarra da Camera e cominciarono a camminare , perchè temevano che in un tutto s’andasse all’adorazione di Campori e volevano, col pretesto di mettersi il rocchetto , esser gli ultimi. E Capponi, non volendo apertamente mancare alla parola data di concorrere all’esaltazione di Campori, si pose in letto per non esser il primo all’esclusione, e per dar agio agl’escludenti, suoi amicissimi, di trattar con lui senza rispetto e sotto nome di visita; e dalla cella di questo infermo , vogliono i conclavisti che avessero il moto i più regolati partiti all’ esclusione. S’ andò tutto quel giorno negoziando da una parte e dal-1’ altra e pareva inevitabile il Papato di Campori; onde gli e-scludenti stavano con timore eccessivo, aspettando il cimento della Congregazione da farsi sul tardo per giurare 1 osservanza delle Bolle. Intanto non mancarono a lor medesimi e dopo diversi assalti guadagnarono Sforza e Borgia, e ridussero Madruzzo in stato dubbioso. Arrivò dal suo Vescovato Tonti ed imbevè così bene 1’ opposizioni fatte a Campori ed includente a lui dall'Ambasciatore di Francia, da Bevilacqua, da Pio e da Ubaldino che servì loro , come si suol dire , di — 539 — bolzone, dichiarando leggermente la materia dell’ accuse che gli altri avevano taciuta per non esser giustificata ; sparsero poi artificiosamente una voce che avevano l’esclusion sicura, perchè alcune determinate creature di Borghese, le quali dicevano di volere andare in Campori, l’avrebbero abbandonato sul fatto; e tanto seppero ben colorire che Borghese entrò in qualche ambiguità; nondimeno era risoluto di tentare 1 adorazione. E, perchè gli escludenti non avessero modo d impedirla facendosi la Congregazione come si fece, operarono che i Cardinali non si trovassero tutti uniti in Cappella, ma se ne andassero alla sfilata a giurar l’osservanza delle Bolle, e subito partissero ; e per queste arti nella Congregazione della prima sera non potè aver fine il disegno di Borghese. Si negoziò poi variamente. Ubaldino ed Orsino assalirono 1 animo de’ Medici con la commiserazione, per moverlo contro Campori, ma non l’espugnarono. All’incontro Esti tentò per Campori Bevilacqua e Pio, ma non fece profitto. Delfino, con qualche acerbità e con l’interporre il nome della Repubblica, procurò d’acquistare agli escludenti Valesio e Priuli, ma sempre indarno; e da questi ultimi ebbe risposta d’ onorato risentimento. Il Principe Peretti, D. Francesco suo figlio , D. Ferdinando e il Duca Gio. Antonio Orsino procurarono di rimuovere Montalto dalla fede che aveva dato a Borghese, ma ebbero una savia repulsa. Vi fu chi pretese con industria maligna di divider la fazione di Borghese e stringere il Principe di Sulmona a dichiararsi contro Campori, per dar adito a molte creature tenute per poco stabili d abbandonar onorevolmente Borghese per seguire il Principe suo cugino ; ma questo signore comprese l’arte e la schernì francamente. Prevalendo dunque tuttavia le speranze di Campori, Borghese voleva quella notte medesima venir all’adorazione, ma gli avversari , stimando che il dar tempo al tempo agevolasse 1 e-sclusione, trattenevano in Conclave l’Ambasciatore di Francia, che con ardore incredibile la maneggiava, e sopra di ciò si tennero diverse assemblee in Camera di Cesi e di Bevilacqua, alle quali furono ammessi non solo semplici prelati, ma eziandio laici, con pochissimo decoro della elezione di un Papa e della — 540 — dignità Cardinalizia, chè in questo fatto si comunicava in certo modo la facoltà del suffragio a gente straniera. Dall’altra parte fu Madruzzo più volte stretto dagli Spagnuoli a servire il Re , concorrendo nell’ esaltazione di Campori , ma sempre si rimesse al giorno seguente. Esti finalmente andò a trovarlo e dolcemente gli pose in considerazione che cosa volesse dire mancar di parola.in uno che fosse cavaliere com’era egli, e ricordò che il Cardinale di Trento fu stimatissimo nella Corte per la puntuale osservanza della parola e concetti di questa sorte, ai quali rispose indirettamente con querele acerbissime contro gli Spagnuoli e non volle levarsi dal letto. Bellarmino protestò parimente di non riprovar la persona di Campori, ma parvegli fretta degna di biasimo il volere eleggere il Papa con tanto precipizio senza aspettar la mattina seguente, in cui, detta la Messa e comunicati i Cardinali, si procedesse col termine ragionevole. Borghese nondimeno stava saldissimo nel suo pensiero dell’ adorazione, e perciò fece instanza che si dischiudesse il Conclave. Mons. Varese, che n’era il governatore, fece le sue diligenze, ma, non giovando, ebbe ricorso ai capi d’ ordine e nominatamente da Esti, acciocché, succedendo in luogo di Peretti, primo diacono, che se n’era andato a riposare, facesse uffizio coll’Ambasciatore di Francia che se ne andasse. Rispose apertamente Esti che non voleva ingerirsi in cosa tanto odiosa. Pur finalmente si chiuse, passata la mezzanotte ; ed in camera di Priuli s’attese da’ Borghesiani a maturare il negozio di Campori. Ivi si sente qualche diversità di pareri. Savello ed altri consigliava che risolutamente si procedesse all’adorazione , senza lasciarsi impaurire da coloro che minacciavano 1 infedeltà di certe creature. Borghese all’ incontro, a persuasione di Esti, non si curò di passar più oltre, o per riserbarsi alla prova dell’ adorazione, quando avessero evacuato ogni dubbio, o per qualche più occulto misterio; e con risoluzione si fermò il negozio di quella notte, andando ciascuno a riposare quelle poche ore che rimanevano. La mattina del martedì seguitarono le pratiche senza cose notabili ; si disse la Messa e si fece lo scrutinio secondo il — 541 — solito, in cui Bellarmino fu onorato del maggior numero de* voti; e, per non dar tempo ad altra novità, subito gli escludenti cominciarono ad uscire di Cappella. Il dopo pranzo fu intimata 1’ altra Congregazione per il giuramento de’ Conclavisti. Or qui, vedendosi gli escludenti male abili ad impedire l’adorazione di Campori, ricorsero per mezzo di Sforza e Pio al Cardinale Sauli, pregandolo a revocarsi l’ordine della Congregazione. Il buon vecchio, che vedeva esser di profitto alle sue speranze la dilazione e miscuglio , volontieri lo fece e disse tali parole che gli escludenti credettero e pubblicarono d’averlo guadagnato, ma vanamente, perchè quel savissimo signore, intendendo la neutralità essere necessaria a’ suoi interessi, parlò da prudente ed altri intesero diversamente; il difetto fu loro, che, per soverchio desiderio di far seguaci, si persuasero ciò che bramavano. Non è vero che Borghese stette dubbioso intorno alla persona di Sauli ed ebbe per bene di non trattar con lui. S’era frattanto raunato nella Sala Regia buon numero di Cardinali, fra quali cominciò a nascere la pratica di tornar Monti al Pontificato; e diede occasione a questo motivo Borghese medesimo con alcune parole dette in passando al Conclavista de’ Medici. Avvisato seriamente Borghese che il negozio camminava di buon passo, andò in camera di Capponi per deliberar intorno a questo nuovo emergente, e ben tosto fu sopraggiunto da Zappata, il qual gravemente l’avvisò che rimediasse tosto al disordine che poteva nascere, essendo Monti escluso dal Re Cattolico. In questo dire di Zappata entrò Esti per terzo in cella di Capponi ed ivi fra questi quattro in brevissimo tempo fu risoluto d’ eleggere Pontefice il Cardinale Ludovisio, mentre una parte degli escludenti, non consapevoli di tal fatto, stava in Sala Regia maneggiando il negozio di Monti per divertire e l’altra si trovava in camera di Priuli per fare ogni sforzo d’ acquistarlo alla parte loro. Da chi fosse nominato prima Ludovisio in camera di Capponi, io non lo so ; Esti s’onora di questa prerogativa, e Borghese la vuol per sè. Dell’uno e dell’altro è credibile, avendo avuti ambedue motivi efficacissimi di cotal nominazione. Di lì par- - 542 — tirono tutti d’ accordo. Zappata andò a dar parte del seguito agli Spagnuoli; Capponi, vestitosi, agli escludenti; Borghese a Ludovisio ; Esti, nell’uscir di là abbattutosi in Pio, 1 avvisò del consiglio preso poco dinanzi in camera di Capponi. Non si sa qual cagione movesse quei signori ad abbandonar tanto improvvisamente Campori ; alcuni ascrivono cosi gran fretta a Zappata, che non vedeva 1’ ora di ritornare al suo governo di Napoli ; altri a Borghese, che temeva di Monti ed a cui era noiosissima la tardanza, per dubbio che non arrivassero i Cardinali Borromeo e Savoia, e dessero il tracollo alle speranze delle sue creature; altri ad Esti che per sua parte vedeva le difficoltà insuperabili nel trattato di Campori ed era per allora amicissimo di Ludovisio. In ogni caso Capponi, eh’ aveva il senso degli escludenti e la opportunità di promuoverlo , avrà probabilmente aiutata la nominazione di Ludovisio, per liberar gli amici suoi dall’estrema paura di Campori. Se a me fosse lecito , contro la promessa che ho fatta, d’interporre il parere mio, direi che di questa mutazione non si può render ragione umana che sia bastevole , ma che bisogna ricorrere alla sapienza eterna, la quale conduce al suo fine ciò che è prescritto lassù, quando e come le pare. Sparsa per il Conclave la voce della esaltazione di Ludovisio, si vede nella faccia di tutti tralucere una singolare allegrezza, perche le qualità del soggetto, nobile di nascita, eminente di lettere e venerabile per l’esempio di vita religiosa, davano speranza ai Cardinali d’ un ottimo Pontificato ; e la piacevolezza della natura, con esser lui passato per le faticose vie de’ Curiali, facevano credere che i Cortigiani avrebbero trovato andito libero per tirare innanzi le ragionevoli pretensioni loro. Subito pertanto corsero i Cardinali a trovar Ludovisio ed unitamente lo condussero alla prima adorazione nella Cappella, dove fu poi vestito degli abiti Papali e ricondotto alla camera di Borghese , che gli servì d’ ospizio per quella notte. La mattina seguente, celebrato ch’egli ebbe, fu portato in S. Pietro nella solita seggia; ed ivi, posto a sedere sull’altare degli Apostoli, di nuovo alla presenza di grandissimo popolo fu da tutto il Collegio de Cardinali adorato. Questa Storia della Rivoluzione del Seminano correva in Roma con lo pseudonimo di Nardini, ma si sapeva che autore n’era il Mascardi; tant’è che 1 Allacci, senza esitare, la indicò poi, come « operetta di lui autentica », al Tommasini di Venezia, il quale, per mezzo del P. Angelico Aprosio, gli aveva fatto chiedere se conoscesse qualche scrittura inedita di Agostino, da poter aggiungere a quelle già divulgate, in una nuova ristampa. Quando però l’Allacci, pregato nuovamente dallo stampator veneto, si diè attorno per averne copia, non riuscì a nulla, e il 26 maggio 1646 scriveva in questi termini: « Anchor che m’habbia fatta diligenza grandissima et havute promesse sicurissime dell’ historia manuscritta del Seminario Romano, niente di meno in-sino hora non m’è capitata nelle mani. Però il stampatore può fare quello che li compie, nè occorre trattenere la stampa delle altre con l’aspettativa di questa ». (.Lettere all’Aprosio, Ms. della R. Biblioteca Univ. di Genova). Io ebbi notizia dal prof. Achille Neri del manoscritto autografo di questa operetta, che doveva trovarsi nella — 544 — Biblioteca Comunale di Sarzana fra i libri clonati dal prof. Bertoloni col titolo di Relatione intorno alla ri-volutione del Seminario Romano avvenuta il 5 Gennaio 1631; ma il manoscritto era già stato trafugato da molto tempo, nè mi fu possibile, per ricerche che facessi, rintracciarlo. Per buona sorte ne rinvenni una copia, anonima, in un cod. cartaceo in 4.° del sec. XVII, esistente nella Bibl. Nazionale di Firenze con la segnatura I, II, 38. RIVOLUZIONE DEL SEMINARIO ROMANO Nacque il Padre Tarquinio di madre vile e di padre plebeo in un piccolo castello della Sabina; ma l’innalzava a somma grazia delle scuole non meno 1’ eleganza delle sue prose che 1 eleganza de suoi versi. Ebbe la fortuna d’esser maestro de’ nepoti di Urbano 8° Sommo Pontefice, onde la sua fama , che pargoleggiava infante fra gli angusti termini del Collegio, fatta grande , volava 1’ ampio cielo delle Corti. Era già noto ai Irincipi, caro ai Cardinali, stimato dai Gesuiti, riverito da altri, ond egli, ascrivendo a suo merito quel che fu semplice dono della sua fortuna, insuperbito, cominciò a pretendere i primi onori, che si solevano concedere a quelli della sua professione. Rapì a mezzo di favori, più che ottenne per mezzo di libera elezione, d’esser Rettore de’ Greci e poco dopo del Seminario Romano , dove sogliono educarsi i più virtuosi e nobili giovani d’Italia. Si portò egli in quest’ ufficio non degenerando punto dalla sua nascita, assai rozzamente, essendo nelle altrui colpe miserabile e nelle penitenze inclemente, e, se pure alcune volte piegava il suo rigore a pietade, con condonare altrui qualche difetto , ciò faceva con modi sì rigidi, con parole sì altere, che il benefizio partoriva più tosto odio che obbligo, e alcuni stimavano più la negativa che la grazia e molti volevano piuttosto morirsi di fame che mangiar di — 545 ~ quel pane di pietra, che così ingegnosamente chiamò Fabio Vittore il piacere fatto da un uomo duro con asprezza. Vo leva esser più temuto che amato, perchè si dava ad intendere che il timore fosse più sicuro, procedendo dalle proprie azioni, l’amore fosse più incerto procedendo dall’altrui volontà. Aveva sempre nel cuore e spesso sulla lingua quell’ esecrabil verso nato nel miserabil tempo di Silia: Oderint est idem metuant, quale egli più presto come religioso doveva sì formare : Non metuant sed ament. Il moderato timore tiene a segno ne’ sudditi 1’ animo di quelli, lo smoderato lo risveglia dal letargo dell’obbedienza, e li fa desti a tentar qualsivoglia impresa per liberarsi da quel timore che deve più temersi della cosa temuta, oltreché sempre ridonda negl’ istessi suoi autori. È più presto oracolo di Nume politico che verso di Mimo ingegnoso quel detto di Laberio: Necesse est ille multos timeat quem multi timent. Era anco aggiunto fatale Superbo al nome di Tarquinio. Ambiva che gli altri fossero non meno pronti che prodighi nell’onorario, mentre egli era con gli altri assai lento ne’ saluti e scarso negli accompagnamenti, accompagnando ad un ferraiolo eh’ egli portò di Spagna, una gravità spa-gnuola. Per la qual cosa, non conoscendo che la cortesia è un breve compendio di tutte le scienze, che con i loro lunghi precetti c’ insegnano a provocar 1’ altrui benevolenza, si era con il suo scortese modo di procedere acquistato 1 odio universale. Avvenne che nella Camera di S. Gio. Battista , dove dimorano i più grandi, i quali per privilegio dell’età sono esenti da alcune regolette che poco importano alla buona educazione, si dormiva un poco più del solito ; lo che negava il rigore delle loro costituzioni, ma il permetteva la stagione della Primavera. Il Padre Prefetto della detta Camera, che già in Seminario era stato prete, non considerando che differenza fosse tra preti e convittori, con quell’istessa regola che egli aveva obbedita, voleva comandare, facendo di ciò schiamazzo grandissimo ; ma, vedendo che le sue ammonizioni non erano sentite , nonché obbedite, ne diede conto al Padre Rettore , il quale gastigò il troppo dormire con il poco mangiare. Fu Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. 35 — 546 — pubblicato in Refettorio che tutta la Camera di S. Gio. Batta dovesse stare la mattina senza antipasto e vino. Trafisse l’animo de’ gastigati più la verg'ogna della penitenza che il patimento privato della gola, mangiandosi in quel luog’o più per necessario sostentamento della vita che per delizie del gusto, onde partirono dalla mensa con lo stomaco vuoto di cibi, ma con il cuore pieno di maltalento. Arrivati in Camera, concertarono di farne verso il Prefetto una vendetta memorabile, la quale seguì in questo modo. La sera due di loro finsero di venire a parole e dalle parole a’ fatti. Mentre corse tutta la turba, uno di loro ebbe agio di smorzare la lampada e in un batter d’occhio tutti, raccoltisi contro il Prefetto, gli diedero molte busse. Il povero Padre, credendosi esser preso per uno di quelli che avevano attaccata la zuffa, gridava : « Sono il Prefetto, sono il Prefetto! »; ma quelli, fingendo di non intendere, li menavano le mani addosso, e, quanto più gridava, tanto maggiori venivano le percosse. Egli, credendo che ciò venisse più tosto da difetto d’ udito che di volontà, s’affannava ad esclamare ch’egli era il Prefetto, ma non perciò dalle nubi del loro sdegno cessava di venir giù una gragnola di pugni sul viso e una tempesta di bastonate su le spalle ; e finalmente uno di quei giovani, il cui nome restò sepolto fra quelle tenebre, così fu sentito dire: « Padre, non vogliate affannarvi in darci ad intender chi voi siate, chè ben lo sappiamo. Voi ci pigliate in scambio , se credete che noi cadiamo in scambio ; se voi siete il Prefetto, questo noi cerchiamo ». A queste parole l’infelice si accorse che il dichiararsi chi egli era, che credeva essere a suo prò , era a suo danno. Intanto erano concorsi al rumore alcuni giovani delle Camere vicine , molti Gesuiti e l’istesso Rettore , il quale, visto il mancamento del lume, con voce severa comandò che ne fosse portato ; e subito portato ne fu. Allora una parte de’ giovani al suo luogo si era ritirata; gli altri, che fra quella oscurità non avevano potuto ritrovarlo, al comparir del lume di lontano , s’inviarono verso la porta unitamente come uno spirito fosse in tutti, quasi che , avendolo riconosciuto alla voce, gli andassero incontro per onorarlo, Ma egli con faccia — 547 — torva, con occhi accesi, con viso infocato, con breve parlare ed interrotto , negandogli la collera quell’ eloquenza che gli concedeva la natura , battendo mano a mano e la terra col piede, così disse: « Che termini son questi? Che modo di trattare? Chi ama le tenebre, non fa cosa degna di lui. E perche dunque smorzar la lampada »? Allora il Prefetto, parte pallido per la paura, parte livido per le percosse, se gli fece innanzi, dicendo ; « Padre, qual fia il delitto di questi giovani, non lo chiedete a loro, riconoscetelo nel mio viso ; questa faccia ammaccata è effetto della loro insolenza, questi occhi pesti sono opra delle loro mani ». Allora il Rettore: « Così dunque — disse — son io da voi stimato, che sotto il mio governo abbiate avuto ardire di metter le sacrileghe mani nel vostro Prefetto? Non è questa colpa da lasciar impunita. Io farò che........ ». Voleva più dire, ma l’impeto dell’ira gli strozzò le parole nella gola, finendo il suo periodo con un dito in bocca, atto di minaccia, e con un basta, basta!, parole di sdegno. Negarono i Seminaristi d’aver commesso un tale delitto del quale venivano incolpati, onde il Padre Rettore, maggiormente infuriato: « Voi — replicò — negate cose tanto chiare che neghereste, cred’ io , il sole di mezzogiorno » ! e, chiamato un di quei putti delle Camere piccole, che anco egli era corso al rumore e si stava per udire il successo , e, credendosi egli di convincere i grandi con il suo desiderio : « Voi — disse — in questo volto che riconoscete »? Quello, che era fiorentinello spiritoso e che suppliva al difetto dell’età con un avvantaggiato giudizio , dopo averlo fissamente risguardato, rivolto al Rettore in modo grazioso, rispose: « In questo volto mezzo bianco e mezzo negro non so riconoscere altro che l’arma de’ Capponi ». E così seppe con non minor prontezza che sagacia rispondere, deludendo l’impertinente domanda di Tarquinio e meno offendendo li compagni. Qui da tutti furono inalzate le risa e i fischi: quelle e questi per l’applauso della risposta, gli ultimi per burla del Rettore, il quale, vedendo la cosa male parata, stimò di fare assai se allora otteneva che ognuno quetamente andasse a dormire, il che , se ben con qualche difficoltà, alla fine pur l’ottenne. — 548 — Fu passato il resto della notte senza rompere le leggi e i riposi di quello, ma la mattina a buon’ ora dal Padre Rettore fu chiamato il Padre Prefetto, con il quale negoziò molto a lungo e con segreto , e poco dopo fu chiamato il Castracani , gentiluomo di Fano e nipote di Monsignor di questo nome. Obbedì questi con l’andare. Tarquinio, visto che l’ebbe, come uomo non curante tirandosi la berretta su la fronte, così cominciò a dire : « Castracani, io vidi iersera spettacolo " grande , che per non vederlo , volentieri mi sarei contentato d’ esser cieco. Vidi il Prefetto malconcio per le mani vostre e de’ vostri compagni, vidi il mio imperio sprezzato, vidi calpestate le vostre costituzioni , vidi l’eccesso della vostra insolenza, vidi 1’esterminio della mia autorità; non so se mi resta altro d’abbominevole a vedere. Le fiere hanno difeso da 1’ altre fiere i loro maestri, 1’ avete forse letto in Seneca, che ne parla come cosa da lui vista: « Leonem in amphitheatro spectavimus, unum ex Bestiariis agnitum, quod quondam ei fuisset Magister, protexisse ah impetu aliarum bestiarum; ma voi, disarmandovi e facendovi più fieri dell’istesse fiere, avete il vostro Prefetto maltrattato ed offeso. Però conviene che il risentimento che io sono per fare sia uguale alla colpa; ma qual risentimento far ne posso io che sia uguale? Farò almeno quello che mi è permesso. Voglio che pigliate una mula con l’istessa intrepidezza che commetteste la colpa sì enorme, nè vi maravigliate che il delitto sia commesso da più e solo sopra di voi cada il fulmine della mia ira. Chè nei delitti della moltitudine non si gastigano tutti i delinquenti, ma 1’ autore e il capo di questi, ed a me consta che voi siete il Percennio di queste legioni ». Francamente rispose allora il Castracani : « Padre , se i miei compagni avessero peccato, volentieri offerirei il mio corpo al pubblico fato e sopra di me solo raccorrei tutta la pena, ma, essendo questi ed io parimenti innocenti, non 1’ abbiamo da pianger questo fatto che non abbiamo commesso. Ditemi un poco, se noi non lo confessiamo, nè altri ci convince, perchè ci castigate? Direte che convinti noi siamo nella faccia del Prefetto , ma non credo che questo vostro argomento sul quale tanto vi fondate sia — 549 — irrefragabile, e credo che voi stesso lo conosciate per debile, se non siete altrettanto cattivo logico quanto buono oratore. E non può esser ch’egli, correndo con gli altri per divider la rissa, urtasse in un letto, in un tavolino e in un muro ? Non può anco essere che uno de’ rissanti, mentre si credeva dare al suo nemico, il Prefetto percotesse ? Finché arse la tenzone, non si riconobbe l’uno da l’altro; l’ira ci tolse il vedere, e, nel non conoscere, l’ira veniva aiutata dalle tenebre. Perchè dunque il castigare è certo, se il delitto è dubbio? Vogliono le leggi, cui sono soggetti anco quelli che comandano, che, quando il fatto non è chiaro, il preteso delinquente si abbia più tosto d’assolver come innocente che condannar come reo. Però, padre mio, questa mula riserbatela pur per altri o per me stesso, ma per un’altra volta ed in altra occasione ». « U-scite dunque di Seminario — replicò Tarquinio; io qua non voglio gente inquieta, andate e portate risse altrove! » Rise Castracani un amaro sorriso, nel quale apertamente lampeggiò lo sdegno : « Anderò — disse —, Padre, e le risse resteranno in Seminario, chè non comporteranno i miei compagni, che io sia così vilmente strapazzato da uomo sì vile ; e , se non potranno ottenere il mio ritorno , cercheranno la vostra partenza. Vedo nella mia caduta anco voi atterrato; sarete simile alle ruine che si rompono sopra quelli che opprimono, nè di questa mia caduta vi vanterete gran tempo, chè da mano più potente per cagione più grande ne sarete anco voi cacciato. Le vostre maniere, il vostro modo di procedere, so che non mi faranno mentire ». E voltate le spalle alla camera, se ne tornò. Si credeva Tarquinio col cacciar Castracani quietare affatto il Seminario, si immaginava su le sue ruine assodare il fondamento del suo dominio, ma s ingannò ; perchè, sì come gli alberi, se non son tagliati dalla radice ma solo ne rami , più sveltamente vengono a pullulare, ed i seminati non si schiantano, ma, se solamente sulla cima sono recisi, risorgono più densi, così si viene ad accrescere il numero de’ nemici, se non si tolgono tutti, ma se ne stirpano alcuni. Portava il Castracani il dispiacere ricevuto scritto nella fronte ed il desiderio della vendetta espresso nel cuore, onde — 550 — dai compagni fu riconosciuto per disgustato ed a lui insistentemente la cagion ne chiedevano. Egli, con gli occhi se non piangenti almeno pregni di lagrime, gonfi e rubicondi, li disse: « Compagni, io vo via; considerate che va via il Castracani , che lo manda il Padre Rettore per cagion vostra. Non mi dispiace 1’ esser dichiarato indegno di questo luogo ; mi pesa il lasciarvi e il lasciarvi sotto la tirannide di questo cane , che si fa lecito tutto quel che vuole ». E, pigliato il ferraiolo , senza altro corredo si partì. Fecero l’istesso i suoi compagni seguitandolo fino alla casa del Sig. Gregorio A-miani, agente in Roma di Monsignor suo zio, dove egli volse ritirarsi. Quivi, fatti alcuni complimenti ed inteso minutamente il tutto, fu tra loro risoluto che il Castracani ritornasse ; lar-quinio partisse ; per il quale effetto abbandonando per allora il Castracani per non averlo ad abbandonar per sempre, verso Palazzo s’inviorno, ed ivi arrivati, con non minor meraviglia che gusto, appena chiesero udienza dal Sig. Cardinal Barberino che l’ottennero, ed alcuni di loro, per questo atto di cortesia di quel gran principe , vennero in cognizione del fasto d’un piccol Rettore. Soleva Tarquinio , quando alcuno ricorreva alla sua udienza , trattenerlo con diverse scuse e stancheggiarlo con una lunga dimora, volendo che altri stimasse per favore non solo il poterli parlare, ma il poter trattenersi nella sua anticamera ed accostarsi alla sua portiera, essendo proprio della natura de’ superbi magni extimare introitum ac tactum sui liminis pro honore dare. Gli introdusse lTll.mo Filomanni alla presenza dell’ Eminentissimo non meno suo che comune padrone. Atterriti quei giovani dalla maestà di quel Cardinale, muti oratori con atti di reverenza spiegavano i loro bisogni, quando il Cardinale, con voce serena, con faccia ridente , gli affidò e disse che si coprissero ed esponessero quello che gli occorreva. Allora subito sollevarono gli occhi, che per modestia tenevano bassi; ed il Sig. N., tinto in volto di modesto rossore , cominciò a parlare, e, dopo aver narrato tutto il seguito, allora soggiunse : « Se noi peccammo, peccammo tutti, la pena ha da esser comune ; ma io l’intendo: il ritenerci in Seminario non è effetto ~ 551 - della sua buona voglia, ma della sua ambizione, volendo egli avere a chi comandare; non parte da clemenza, ma da crudeltà, non volendo far fine di gastigare col mancamento de’ sudditi ; però stimiamo che sia meglio supplicar V. E. a voler restar servita di comandar che sia mutato superiore con mutar Tarquinio. Non ricusiamo d’obbedire, solo ricusiamo d’obbedir lui ; la cacciata di Castracani ci ha offeso tutti ; non possiamo amarlo ; non può cagione sì rea produrre effetto sì buono ; chi ci ha offeso non ci amerà. Humani ingenii est odisse quem laeseris. Offese ed amore son cose assai disparate, nè possono mai abitar sotto l’istesso tetto ; da qui innanzi egli non ci mirerà con buon occhio; noi non l’obbediremo con buono stomaco ; ci farà più presti al non obbedire. Questa cacciata è stata per noi come il fulmine, che ammazza uno solo ma mette paura a molti ; perchè non consideri solo quel che ha fatto, ina anco quello che è per fare. Il dirò pure liberamente ; lasciare il comando in sua mano è un lasciar Tarmi in mano al furioso ». Il Cardinale, dopo aver inteso il tutto, con parole assai cortesi gli licenziò, dicendo che avessero ricorso dall’ E.mo Ginnetti, al quale, come Vicario di Roma, spettava la cura del Seminario Romano, che al tutto con la sua somma prudenza avrebbe rimediato con ogni lor gusto e soddisfazione. Fecero quanto fu loro detto da Barberino, ma da Ginnetti altro non riportorno se non che tornassero in Seminario, obbedissero al Superiore , stessero quieti, attendessero alle scuole e non si facessero vedere per le Corti. Onde se ne tornarono a casa non troppo lieti per questa risposta. La mattina seguente a buon’ora, li fu portato un viglietto del Castracani, quale essendo ardito di linguaggio e fecondo d’ingegno, non potendo ritenere il concepito sdegno nell’angusto vaso del suo petto, venne a versarlo per mezzo della penna su la carta in questo modo : « Ancora state in Seminario, cari compagni? E chi vi affida dal fiero Tarquinio e dalla sua tirannide? Non vi accorgete a cento e mille segni che il falcone, dopo aver scacciato me innocente, altro non sta macchinando se non come voi non colpevoli non gastighi ed opprima? Egli riuscirà, se — 552 — non vi risolvete di prevenir i suoi tradimenti o con una memorabile vendetta o con uno notabilissimo fatto , o lavando egli con il suo sangue la macchia di sue colpe , o almeno negandoli il tributo della vostra obbedienza. Ed alberghi egli solo Rettore ed i vili pretacci in un regno vuoto di nobili convittori; sopra di questi eserciti la sua giurisdizione, adopri le posse ; non sopra di voi. Voi, con quella generosità che si conviene al fior de’ nobili giovani d’Italia , scotete il giogo dal collo ed il freno dalla bocca. Ciò che sofferto abbiamo d’asprezze e d’ingiurie tanti anni ornai sopportando 1 iniqua soma, è tal che arder di scorno, arder di sdegno potrà di qui a mille anni Italia e Roma. Ma finalmente, per sigillar tutte 1’ azioni che contro di voi ha fatto, ha cacciato il Castracani, quello che a voi fu caro, a cui voi foste sì cari. Quel Castracani rintuzzator delle Gesuitiche perfidie l’ha cacciato. E perchè? Non già per sua colpa, ma per vostro dispregio ha voluto strapazzar quello del quale facevate tanta stima, ha voluto per vostro scorno privarvi del più caro compagno , del più fido amico che avevate, ha voluto per vostro danno che voi restiate facile e libera preda alle sue tiranniche passioni, senza vi sia chi si possa opporre. Se vostra dunque è 1 ingiuria , a voi tocca il vendicarla e facilmente lo farete , se n vostro alto valore avrà tanto volere quanto ha potere. Su, su dunque; risolvetevi alla vendetta, chè qualche spezie di vil-tade è il vendicarsi tardi ». Questa lettera, scritta dal Castracani agitato dalle furie quasi novello Oreste, trasportò nell’istesse furie ciascuno de suoi compagni, i quali, pubblicandola poi per 1’ altre camere convicine , fece sì che quella peste, serpendo a poco a poco, si diffondesse per tutto il Seminario, e pigliandosi l’ira nuova alle menti già disposte e preparate da cagioni antiche , andava rinnovando i già sopiti ma non già estinti sdegni contro il Rettore ; onde la superba gioventù , prima in voce bassa, con sommessi sussurri, poi in alte ed altiere minacce , discopriva il grande odio che ornai non poteva star più chiuso nell’angusto lor petto, e gridando: « Torni il Castracani! esca il Rettore »! e dispregiando i divieti de’ Prefetti, tumultuando — 553 — quasi una piazza d’ armi, sortirono nel cortile. Il Padre Tarquinio all’incontro co’ suoi Gesuiti si ritirò nella sala ed ivi, chiudendo le porte, cercò di fortificarsi contro quel primo impeto, che egli come giovanile stimò con un suo pensier vano presto dovesse svanire, non tralasciando però il suo uffizio, e chiamando a consiglio i suoi, depose l’altera superbia e con occhi bassi da loco basso, con voce bassa cosi parlò: « Fidi compagni miei, che così megliore la sorte ugualmente per il passato esaltò al dominio, così ora ne deprime col presente infortunio, voi vedete come la colonna del nostro imperio già crolli ed è in breve per cascare, non avendo più sostegno dalla base della nostra autorità e dell’ altrui rispetto ; quella non abbiamo noi più sopra gli altri, questo non hanno più gli altri verso di noi. Già fummo superiori, ora semo uguali, ed in breve saremo soggetti, perchè i nostri nemici sono maggiori di numero e di forze, nè potemo sperar soccorso da persona veruna, poiché l’aiuto de’ nostri è alquanto lontano e il pericolo troppo vicino. Dunque ognuno che ama la comune salute , si sforzi di dire qualche espediente da tare in tanta confusione di cose ». Qui tacque, aspettando che alcuno par lasse, quando, dopo un piccolo bisbiglio, levossi in piedi il Padre Ministro : « Io per me stimo che la medicina di questo male sia che il Rettore esca fuori con intrepidezza e tenti, con la dolcezza delle sue parole, d’ ammollire la durezza de’ loro cuori, nè ciò vi parrà strano , chè è aforismo della medicina politica che affi estremi mali si abbino d’ applicare e-stremi rimedi. Uscite pure allegramente che io vi ammonisco che feralia bella fulmine compescunt linguae, e forse ancor questa non bisognerà, che farà il desiderato effetto solo la maestà del vostro volto, e, sì come generoso leone, che avanza scotendo l’orribil chioma con superbo muggito, veduto il maestro da cui fu domata la sua ferità natia, lasciando 1 alterigia sottopone se stesso al duro imperio di questo, teme le sue minacce e soffre l’ignobil soma del giogo, così questi giovani, che ora in atti crudi ed in volto fiero vibrano contro di voi il ferro delle minacce e scoccano gli strali dell’ ingiurie , vedendo solamente voi, dal quale più volte con aspre penitenze « — 554 — è stata mortificata la loro superbia, deponeranno 1’ armi, seguendo in ciò voi la fortuna di Cesare, che sedò il tumulto di molte legioni con una sola parola, e la felicità d’Augusto, che ciò fece col solo aspetto ; nè vi spaventino le loro strepitose voci) chè ille magnus est qui, more magnae ferae, latratus minutorum canum securus exaudit ». Sentì di mala voglia il Padre Tarquinio il resoluto parlar del Padre Ministro e con lo storcer del viso e con il crollar del capo dimostrò chiaramente che non troppo lo aggradiva ; perciò replicò il P. N. in questa forma: « Il partito dato dal Padre Ministro è poco cauto e molto pericoloso, poiché, nell’uscita del Padre Tarquinio, che avventura non meno la sua vita che la comune reputazione di tutti, ditemi un poco se egli quieta queste turbolenze, che gloria grande ne acquista ? ma, se per sorte ciò non fa e ne riporta qualche offesa, che scorno sarà di tutta la religione offesa nella sua persona? Dunque, se sulla stadera del nostro interesse, si pesa l’utile ed il danno che ne può venire , questo è poco e quello è molto. È ben pazzo quel pescatore , che , per pigliar un pesciolino, avventura fra 1’ onde un amo d’oro. Oro è la nostra reputazione cavato dalla miniera delle nostre arti, che si ha da tenere in buona custodia nel banco della nostra Compagnia e si ha da spendere se non in congiunture non meno gravi che sicure, ne si ha d’avventurar con speranza di picciol guadagno. Però io stimo che sia migliore e più sicuro partito il dar tempo al tempo , perchè i giovani alla fine son giovani, che vuol dir furiosi e di primo impeto, quale con la dimora in loro a poco divien languido e facilmente si deprime, ed a guisa di fuoco di paglia, con quell’istessa facilità che si accende, si estingue; e il tempo è un vento che dissolve le nuvole degli affetti giovanili. Però, nella presente occasione, abbiamo da imitar Fabio e non esser Marcelli ; uno de’ grandi politici così ci consiglia, il cui consiglio non ci debbe essere sospetto, essendo de nostri: Concitata ìnultitudo (dice egli) potius mora ac levi decimatione flectenda, quam subito atque enixe frangenda ». Piaceva al Padre Rettore il parere dato dal Padre N. se egli queste ultime parole non soggiungeva, quali egli ri- - 555 - conoscendo esser del Padre Famiano Strada, nemico suo antico, non volse approvarlo nè con la voce nè col gesto. Ostò a queste ultime parole il Padre N., dicendo questo esser un dare animo a’ nemici; esser la natura de’ giovani simile a quella della plebe, della quale disse il mastro de’ politici : terrore impaveant ubi pertimuerint impune contemni; però esser bene di far penetrare con qualche maniera questo effetto di timore ne’ loro cuori, fare i giovani sentire la paura a’ Gesuiti , perchè non la sentivano in loro ; esser proprio della paura rappresentare ardite quell’ imprese nel proseguire, che inconsideratamente parvero facili nel cominciarle ; essere il timore quell’ occhiale inventato da moderni Archimedi, che fa maggiori all’ occhio le cose di quello che sono ; però la sua sentenza esser di spalancar le porte e tentar d’ atterrire i nemici con l’arme dell’autorità, che altre volte avevano esercitato sopra di loro, stimando lui restar molto di sotto il nome gesuitico all’ opinione che di quello si ha, non solo se loro stiano rinchiusi e non escano per paura di pochi e di pochi ragazzi altre volte a loro soggetti, ma ancora si mostrino di deliberare se abbino da star rinchiusi o uscire. Mi sia lecito di dire a voi quello che diceva Porzio Lacone a Sparta : Ut omnia fortiter fiant, feliciter cedant, multum enim nomini nostro detractum est Laconis, quod an fugeremus deliberavimus. Nè mi si dica che, volendo i giovani tentar la forza, non siano tanti a resistere che la battaglia sarà svantaggiosa, che eglino molti, noi pochi; che non ci vinceranno con la virtù, ma ci soffocheranno col numero ; e, se fosse qui presente il Padre Papinio, con un solo emistichio del suo Tasso direbbe : Che puote un contro cento ì ma questo io replicarei con l’istesso poeta : Io mi confido — sol coll' ombra fugarli e sol col grido ; ed a voi rispondo che noi siamo uomini, quelli sono ragazzi; noi siamo trenta o poco più, è vero, ma i Gesuiti non si numerano, valendo ciascun di noi per cento. Io mi sento rintronar 1’ orecchie dalle voci d’ alcuni di voi che dicono che è temerità; ed io vi dico che la temerità, accompagnata da felice ventura, muta natura e si fa virtù, ne della ventura devesi da noi dubitare, chè trecento soli nel largo - 556 - campo delle anguste Termopili combatterono e non furono vinti dal numeroso esercito di Serse, che aveva vinto l’istessa natura, sforzando gli ordini suoi a cavalcare il mare e a navigar la terra. Usciamo dunque tutti unitamente e vediamo almeno la faccia de’ nemici, acciò sappiamo chi ci spaventa, intendiamo le loro dimande , acciò possiamo far sapere al nostro Generale , se non le nostre prodezze , almeno le loro pretensioni ». Intanto il Padre Tarquinio , non meno atterrito dalle minacciose voci di quelli di fuori , che dalli discordi pareri di quelli di dentro, voltossi al Padre Ludovico e disse : « Padre, a voi tocca di placar lo sdegno di questi giovani, poiché e-glino sono devoti al vostro nome, non meno che alle vostre virtù. Voi, che in età matura per lungo uso la loro non matura età siete avvezzo a reggere, cercate di saldar queste piaghe, che oggi sono state fatte nella nostra reputazione, che ne acquisterete merito appresso il nostro Patriarca San-t’Ignazio, lode appresso la religione, grazia appresso il nostro Generale. O quanto volentieri piglierei quel carico sopra di me ! Io son capo e non è dovere che nel capo s’ arrischi il corpo tutto ! ». In questa maniera cercava il buon Padre coprire la sua viltade con il titolo d’accusar prudenza. Il Padre Ludovico, non aspettando altro, senza premeditar quello che si avesse a dire , prontamente si fece ad una finestra della scala; e, mentre quelli al suo apparire con un riverente silenzio mostravano la stima che facevano d’un tal personaggio , egli espresse il suo concetto in questi accenti : « Figli non dico già, poiché i vostri Padri tenete stretti in forma d’ assedio ; Seminaristi non devo chiamarvi, poiché ricusate i vostri superiori ; volevo dirvi nostri discepoli , ma neppure ciò posso , poiché contro a’ vostri maestri vi rivoltate. Vi chiamerò dunque nostri nemici, ma neppure ciò mi è permesso, poiché vedo ornato il vostro corpo di quelle zimarre che sono contrassegno de’ nostri alunni ed il vostro volto di quella modestia che è indizio della vostra disciplina; ed in quella maniera, credetemi, che non so che nome darvi, così non so che dirvi ; l’esortarvi a tornar alle vostre Camere, — 557 — lo stimo vano, poiché so che lo farete senz’altro stimolo, se ben considerate. Quello che avete fatto fin qui, si può ascrivere a primo impeto ; quel che farete da adesso innanzi, ad ostinazione. Il portare il debito rispetto a quei superiori , a’ quali volentieri vi siete sottoposti, è vostro obbligo, se non volete dannare il vostro proprio giudizio con riprovare ora quello che già giudicaste buono. Che poi vogliate che ritorni il Castracani come ingiustamente scacciato , non mi par che sia dovere da pari vostri, volendovi usurpare di far quel giudizio che si aspetta a’ nostri superiori. Ma abbiate pur ragione ; siano legittime le vostre dimande; non è già ragionevole il modo di chiederle. È lecito a’ sudditi richiamarsi delli aggravi, ma il tentar di farlo con violenza, è delitto; e voi a-vete in ciò gravemente errato. Se vi aggrava Tarquinio, se è aggravato il Castracani, lamentatevi di ciò con il Padre Generale ; se erraste, confessatevi per rei, chè in quello non vi mancherà giustizia, e nel vostro delitto non vi mancherà grazia ; e nell’uno e nell’altro io vi do la mia fede che sarò vostro protettore ». I Seminaristi, che per il passato ebbero la volontà si pronta all’ingiurie, la lingua sì spedita alle minaccie, ora ascoltavano e tacevano ed irresoluti non rispondevano a’ detti del Padre Ludovico, vinti non già da timore, ma da riverenza; quando, dopo un pezzo di silenzio, disse il Sig. N. con la sua solita modestia e grazia. « Amici, ritorniamo alle nostre camere, nè come sediziosi rompiamo le nostre regole ; non facciamo con la nostra ostinata contumacia la causa degli avversari migliore ; la notte è madre de’ consigli; le tenebre ci daranno luce di quanto dobbiam fare; ognuno pensi a’ casi suoi; noi domani prenderemo quella risoluzione che ci detterà la nostra coscienza ». A queste parole s’oppose il Sig. N., che, quantunque giovanetto, vecchio era nondimeno di giudizio , che sotto quel giovanil sembiante nascondeva un invincibile sapienza, con dire l’imprese gravi non cominciarsi mai per tralasciarle, esser proprio dell’uomo sapiente il valersi a suo prò dell’ occasioni che il nemico gli da : « Hanno i Gesuiti, con la loro ritirata in sala, mostrata la debolezza delle loro forze - 558 - e del loro animo; dobbiamo ora noi maggiormente farli penetrar nell’ ossa il timore che hanno, e così avvantaggiar la nostra condizione. Non-si vede chiaro che il loro ardore non è ancora abbattuto? Se noi ci ritiriamo, che animo piglieranno contro di noi per l’avvenire? L’occasione di fare i fatti suoi raramente viene ; e , se si lascia passare , o tardi o non mai ritorna. È giusta, e non si può dubitare, la cagione che ci ha spinti a questo fare; il cangiare opinione ci dichiarerà per leggeri. È costume deg'li uomini imprudenti il torcere ogni cosa alla peggio. Ci sarà ascritto non a maturo consiglio , ma ad instabile volontà. Ne’ casi di sollevazione da’ buoni politici non si ammettono i consigli di mezzo, ed in tale occasione e più sicuro patrati quam incepti facinoris reus esse ». Ciò detto da questo figliolo, con la sua energia commosse molto gli animi degli ascoltanti ; nondimeno il primo parere, come più mite, fu ricevuto da tutti quanti, riconoscendosi il secondo per più sicuro. Mosse assai questa risoluzione la preghiera di Padre Ludovico , ma molto più la commozione in vederlo in atto di raccomandarsi a quelli a’ quali aveva per prima comandato, ma sopratutto l’innocente sua vita non macchiata da un minimo neo d’ una picciola ombra di qualche vizio. Ritirati che quelli furono a’ loro soliti uffizi, fu dal Padre Tarquinio inviato un messo al Padre Provinciale, poiché il Generale in Frascati si trovava. Ebbe di ciò il Padre Provinciale quasi allegrezza, poiché , credendo che non fosse per serper più innanzi quella cancrena, giudicava per bene che quella tempesta si fosse mossa per causa del Padre Tarquinio elevato a questo uffizio a viva forza di favori, credendo che in questa maniera dovesse confermarsi nel petto degli uomini una certa superstizione da loro stessi con loro arti impressavi, cioè non potere aver nella loro religione felice successo se non quelle elezioni che dipendevano dalla loro libera volontà. Stimava di più in questa maniera di far noto al mondo 1’ effetto della visita de’ Gesuiti non meno abborrita che rifiutata ed a loro dispetto fatta in Seminario: aver essa operato questo fatto nuovo e non mai inteso effetto di sollevazione. Poiché i Visitatori, sendosi portati con straordinaria dolcezza — 559 — verso li giovani, tanto d’animo avevano dato a quelli, il quale non avrebbero avuto ardire di pigliar da loro stessi. Questo e proprio effetto dell’umana natura considerar sottilmente tutte quelle cose che fanno a nostro profitto, per minute che siano, e non mai pensare a quelle che da’ nostri mancamenti vengono. Poteva il Padre Provinciale più ragionevolmente darsi a credere che 1’ origine di questo male venisse da’ loro Gesuiti , i quali avevano imprudentemente pochi giorni innanzi messe 1’ armi in mano a’ loro Seminaristi contro gli scolari della Sapienza, le quali per giusto giudizio di Dio avevano rivolto contro di loro. La fama intanto , apportatrice non meno delle vere che delle false notizie, accrescendo come è suo costume con qualche giusta cagione la derrata di questi rumori, aveva con le sue cento lingue sparsa la voce per tutta Roma, quale pervenne all orecchie dell’E.mo Ginnetti. Stimò questi fosse bene mandare Mons. Vice Gerente per quietar quel tumulto ; tu presentito ciò dai Seminaristi, onde , correndo no, ma precipitandosi abbasso , s’impadronirono della porta e fortificandola di dentro, proibirono l’entrata a Monsignore, il quale in quel l’istesso punto era arrivato con gli sbirri del suo Tribunale. Vi fu chi parlò di dentro e disse essere il Seminario sottoposto al Vicario per quello che toccava a’ preti, non per quello che s’aspettava a’ convittori ; riverir questi l’Eminentissimo Ginnetti come Cardinale, ma non riconoscerlo come superiore. Intanto il Vice Gerente, escluso dalla porta, ondeggiava in gran tempesta di pensiero, non sapendo a qual partito appigliarsi ; 1’ usar la forza 1’ aveva per pericoloso, pigliarli con la dolcezza l’aveva per disperato ; pur tanto fece e tanto disse che alla fine fu ammesso , con patto però che entrasse solo. Entrò solo il Vice Gerente e, giudicando que’ nobili cuori si avessero d’ obbligar più con la cortesia che governar con a-sprezza, a guisa di generosi destrieri che si lascian più vincer da un dolce freno che da acuti sproni, stimò bene di darli qualche intenzione che resterebbero soddisfatti, con che i Seminaristi con gran gusto del Vice Gerente si quietarono : de- — 560 — bolezza dell’ingegno umano che con la semplice ombra d’una vana e immaginata speranza d’avere ad ottener quel che troppo avidamente desia, sì crede già d’averla ottenuta. Ma, si come nelle tempeste, benché cessino i venti agitatori dell’onde, non cessa però il movimento di quelle, restando per un pezzo tumido il mare, così in quegli animi, benché fosse sedato il tumulto, pure apparivano alcuni segni d’animo non affatto sedato, imperocché la sera, dopo cena, ruppero alcuni vasi che servivano al ministerio della mensa. Sarebbe ciò altra volta stimato sommo delitto , ma per allora non ne fu fatto conto, cambiando in tempo di somma licenza la natura de delitti, e, come de’ lumi il maggiore offusca il minore, così fra quelli il grande non fa apparire il piccolo. Forse dopo l’aurora di quel dì (che sarà sempre memorabile negli Annali del Seminario , nel quale dopo aver aspettato i Seminaristi il ritorno del loro amato compagno, impazienti di tanta dimora, ed accorgendosi che erano delusi, volevano rinnovar la vendetta presa del Padre Prefetto con esempio più atroce nella persona del Rettore e congiurati insieme aspettavano per far l’effetto il luogo ed il tempo) non si trovò mai congiura che sia stata sigillata con una stabile segretezza, sì che non è stato affatto possibile non sia stata in qualche maniera penetrata ; o che il sommo Dio non voglia permettere che altri ottenga il suo fine per mezzo sì scellerato, o che, passando per bocca di più, sia impossibile tenere occulto quel che da molti si sa. Questa ebbe 1’ esito che sogliono avere tutte l’altre. Venne a notizia de’ Gesuiti, i quali ne diedero conto a Mons. Vice Gerente, che si conferì subito al Seminario. Si credevano i Seminaristi ch’egli fosse venuto a restituire il Castracani , ma dagli effetti si accorsero che Tarquinio via ne menava, quale condusse seco nella sua carrozza alla casa professa. Onde quelli, vedendosi tolta 1 occasione della vendetta, altrettanto dolce e gustosa al palato dell’animo umano quanto è amara e spiacevole l’offesa, si risolvettero unitamente tutti d’ abbandonare il Seminario. Solo il Sig. N., che tutto applicato agli studi gli pareva dura cosa il lasciarli imperfetti ed accompagnando ad alta statura un — 56i — alto sapere, s’oppose a questa resoluzione parlando in questo modo: « Compagni, non ci lasciamo trasportar dal colpo della collera : sappiamo essere infermi quei membri che da se stessi si muovono senza nostra volontà; dà segno di debolezza chi, volendo camminare, corre. Quei moti dell’animo io stimo vigorosi e sapienti, quando sono governati dall’ arbitrio e non rapiti dal furore. Vorrei che considerassimo che molti di noi siamo forestieri e non abbiamo dove ricoverarci; saremo forzati a mendicar stanza con rossore o a ritornare in Seminario con vergogna. Io mi protesto che non mi oppongo alla vostra partenza, ma solo vorrei che si facesse con minore disordine e più maturità. Chè il tempo che si spende in deliberare una grave resoluzione, è sempre bene impiegato e la dimora che si fa ad appigliarsi ad un partito di cose irretrattabili, non fu mai lunga ». Ma non fu possibile tenere a freno quegli animi risoluti d’ abbandonare il Seminario ; onde , mettendo in esecuzione quanto avevano deliberato, si ritirorno chi in casa d’ amici, chi di parenti. Vi fu però de’ grandi chi, pentitosi d’ essere uscito e vedendo li suoi compagni dispersi, gli persuase il ritorno dicendo : « Che abbiamo fatto , o compagni ! Il furor giovanile, che accampa ne’ nostri petti, ci ha accecati e non ci ha dato tempo da considerar ciò che facevamo. La nostra resoluzione, sì come è stata guidata dall’impeto della collera, così anco è stata precipitosa; abbiamo lasciato il campo al nemico e vi par d’essere vittoriosi, quel campo che abbiamo lasciato, che ieri fu sì glorioso al nostro nome e sopra del quale calpestammo l’ardir loro. Che faranno or essi sopra di questo, se non alzar trofei della nostra imprudenza? Ieri sapemmo con tanto valore mantenerlo ed oggi per niente lo abbiamo abbandonato ; non facciamo con la pertinacia più abbominevole la nostra resoluzione ; e, non dubitate, per quel coraggio che mostreremo nel ritornare e nel recuperar questo luogo, ricopriremo ogni nota di leggerezza che potessimo tenere ; torniamo e non mettiamo più tempo in mezzo. Io , e me ne dolgo, vi ho fatto la strada all’uscita e voi mi avete seguito ; seguitatemi che ve la fo al ritorno ». E, senza dirli Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII. 3$ altro, al Seminario più che di furia se ne tornò. Lo sentirono i compagni , attentamente stupiti di vederlo in sì fatta guisa mutato, ma non lo seguitorno altrimenti, o perche si trovassero già piacevolmente invischiati dalle dolcezze d una amabile libertà. Sì che restò di tal partita affatto desolata quella casa che fu sì celebre per la frequenza di sì virtuosi e nobili giovani ; onde quei che passavano e rimiravano 1’ EST LOCANDA, che stava appeso e sapevano il seguito, mentre per 1 addietro glorificabant eam, spreverunt illam quia viderunt ignominiam eius. APPENDICE III SAGGIO BIBLIOGRAFICO DELLE OPERE A STAMPA DI AGOSTINO MASCARDI ORAZIONI SINGOLE Ovazione funevaie falla nell’ esequie della Signova D. Virginia Medici D’Este Duchessa di Modona dal P. Agostino Mascardi della Compagnia di Gesù. In Modona, per Giuliano Cassani, 1615, in 4.°. Citata dal Cinelli, Biblioteca volante, ed. 2.a, In Venetia, MDCCXXXIV, Presso G. Alberizzi, III, 291. Non mi è stato possibile rintracciarla. Il Moreni la dice rarissima (Serie di autori di opere riguardanti la celebre famiglia Medici, Firenze, 1826, p. 206). Delle lodi | di Madama Serenissima | D. Vivginia De Medici D’Esle \ Duchessa di Modona &c. | Ovatione I del M. R. P. Agostino Mascardi della Compagnia di Giesù. I Recitata da lui nelle solenni esequie ce-lebvate in Modona | a’ 27 di Febbraio. 1615 | Terza edizione | (Impresa) | In Milano | Appresso gl’ her. di Pacifico Pontio, & Gio. Battista Piccamiglio, MDCXV. In 4.0, di pp. 28. A tergo del frontespizio stanno i versi di Lucano, che si riferiscono all’impresa del Mascardi ; e, sotto, l’Imprimatur. Segue la dedica dello stampatore Piccamiglio al Card. Alessandro D’Este. Vengono poi alcune poesie in lode dell’autore, e sono un epigramma latino di Gian Iacopo — 566 — Sartorio, due sonetti, uno del conte Fabrizio Mariani e l’altro di Fulvio Testi , finalmente due brevi epigrammi latini composti da Iacopo Spazzini e Giambattista Guerra , modenesi. Il tipografo, nella dedica, accenna al grido che ottenne questa orazione, con le parole: « onde non è maraviglia se passa di stampa in stampa a richiesta poco meno che importuna de letterati » ; e prega il Cardinale di accoglierla benignamente, « acciò che anco la sua cortesissima protettione, che con tanto eccesso d’ humanità favorisce l’autore, trapassi ai parti dell ingegno ». E questa indicata come terza edizione ; il che ci testimonia esservene una seconda fra la presente e quella del Cassiam originale, a noi rimasta ignorata. Delle lodi della Illustrissima, \ Et \ Eccellentis.ma Sig.va Bibiana Pernestana Gonzaga | Principessa di Castiglione. | Oratione del P. Agostino Mascardi della Compagnia di Giesù \ Recitata sopra ’l corpo nell’e-sequie celebrate \ il mese di Marzo 1616. | In Modona, | Nella stamperia di Giulian Cassiani. MDCXVI | Con licenza de’ Superiori. Opuscolo in 4.0 di 26 pp. num. Così ne discorre in lett. 9 luglio 1616, n. 12, App. I: «Ho dato una trascorsa, e mi è parso di trovarvi delle parole soverchiamente toscane. Dico ciò perchè il rimanente dell’orazione non corrisponde alla sceltezza di quelle poche, ed io a bello studio le fuggo nelle mie scritture ». Delle lodi dell’lllustriss, & Eccellentissimo Sig. Don Francesco Gonzaga Principe del S. Romano Impero e di Castiglione, Orazione del P. Agostino Mascardi della Compagnia di Gesù recitata da lui nell’esequie celebrate in Castiglione del mese di Novembre 1616. In Modona, nella Stamperia di Giulian Cassiani, 1617, in 4.o. (CiNELTi, III, 291). Irreperibile. - 567 — Il 27 dicembre 1616, lett. n. 15, al Molza, App. I: « Ho scritto al Cassiani per la stampa dell’orazion mia, ed egli non risponde ; prego V. S. a fargli far motto in mio nome, acciò che non s’invecchi in mia mano questo componimento ». Sui primi del 1617, ^ett- n- 16 > ibidem: « Il Cassiani m’ha risposto ; ma coll’ altezza del prezzo non ha corrisposto alla scarsezza del denaro. Vorrebbe dodici lire di cotesta moneta per foglio, stampandone cinquecento. Imparo con l’esperienza altrui che il Viotti di Parma non è tanto irragionevole quanto altri dice. Il Cassiani professa d’essermi amico, ed io lo credo, perchè sono amico a lui; tuttavia mi riesce amico si caro che da cotanta strettezza resto annoiato. Prego V. S. a veder se può tirar più al basso...... Averà V. S. 0 il Cassiani l’impresa intagliata in rame, che va posta in fronte all’orazione......Raccomando quanto più posso la correzione, e parlo propriamente intendendo che il revisore corregga l’ortografia, non alteri le parole. V. S. m’intende : io non professo tanta sceltezza che altri, nelle mie scritture, abbia da frappor parole ch’io non intendo, per renderle non so s’io dica eleganti 0 viete »...... Il 10 gennaio 1617, lett. n. 18: « Da Castiglione quelli che dovevano, a nome del Principino, fare le spese della stampa si ritirano come sdegnati, perchè, avendo voluto eh’ io rimandassi 1’ orazione per rivederla, io l’ho negata loro, sì perchè non mi pareva bene rimettere alla censura de’ servitori quel componimento, come perchè ero scottato dall’affronto passato; però prego V. S. a dire al Cassiani che quanto prima metta mano all’ opera, ma vegga di lasciar luogo dove si possano mettere queste parole : a spesa di Giuliano Cassiani...... » Il 27 [gennaio?] 1617, lett. 19; « Ho fatto ridere lo stampator di Parma con tanti e sì palpabili errori: quindici ve ne sono sì grossi che nè si possono dissimulare nè ricoprire ; tralascio molte mutazioni di parole intiere , essendone state tolte alcune che nel mio calendario passano per ottime e sostituite in lor vece altre plebee e basse. Ma che, Domine, significan questi punti ? Io, a prima vista, credetti che fosse censura del-l’Inquisitore, ma poi, leggendo e trovandovi tutte le mie parole, sono rimasto trasecolato. Orsù, pazienza! la farò ristam- — 568 — pare ; e queste copie serviranno ai pizzicaiuoli....... Non uscì mai dalla stamperia di Giulian Cassiani scrittura più assassinata e io, che non so di chi dolermi, accuso me stesso e la mia poca fortuna...... Mando a V. S. una copia con gli errori notati, acciò che, se il Cassiani ha più le forme in essere, se ne possano ristampare cento almeno corrette, quando anche non intenda lo stampatore come sono stato trattato ». Augustini Mascardi | Oratio | habita ad lllustr. ac Rover end. | 5. R. E. Cardinales | de subrogando Pontifice | Sept. Id. Februar. M.DC.XX1 | [Stemma Ludovisi] | Romae, | Ex typographia Alexandri Zannetti M.DC.XXI | DD. Superiorum permissu. In 8.0, di pp. n. io, più una pagina in fine n. n. con l'Imprimatur al recto e bianca al verso. Dopo il frontispizio si legge la dedica al Card. Ludovisio Ludovisi. Oltre che nelle raccolte degli scritti del Mascardi che più innanzi citeremo , sta anche , a parte , a pp. 558 e sgg. del-1 opera: Vanaruvi | lucubrationum | Tomus Primus | Romae, I Ex typogr., et sumptibus Francisci Corbelletti. MDCXXVIII I Superiorum permissu. (Cfr. Scritti del Mascardi in opere altrui. App. IH). Erra 1 Oldoini nelle sue Additiones ad vitas Summ. Pont, et Soc. Rom. Eccles. Cardinalium del Ciacconio , to. IV, col. 465, dicendo che il Mascardi recitò, l’8 di febbraio del 1621, al Collegio de’ Cardinali, prima che entrassero in Conclave , 1’ orazione funebre di Papa Paolo V: evidentemente trattasi di questa de subrogando. Oratione \ del Sig. Agostino | Mascardi, | nella canoniz-zatione \ di Santa Teresa, | recitata nella Chiesa di Sant’Anna in Genova. Sta in fondo al libro : La Santa Teresa, j Componimento | del Sig.re Gio. Vincenzo | Imperiale. [In fine] In Venetia, MDCXXII I Appresso Evangelista Deuchino, | Con licenza — 5&9 — de Superiori, et Privilegio. In 4.0 picc. — L’orazione del Mascardi, di pp. 21 con numerazione Speciale, vien dopo Vindice e non ha frontispizio. In una carta che lo precede, n. n., si legge: All’Illustrissimo \ Sig.? Mio Osservantissimo \ il Sig. Gio. Vincenzo \ Imperiale \ Agostino Mascardi; e l’oratore narra che, avendo veduto, mentr’ era a Venezia per diporto, il libro dell’ Imperiale nell’ officina del Deuchino, avea reputato opportuno porvi, a miglior compimento, l’orazione sulla Santa più innanzi esaltata in versi. A tergo della p. 21 si trovano le note tipografiche. L’opusculo ha il registro La carta dov’è la lettera all’Imperiale, appartiene al foglio Q del volume. Per Velettione \ del Re \ de’ Romani | Ferdinando [ d'Austria I Re d'Ungheria, e di Boemia, | Oratione | D’Agostino Mascardi | Recitata nell’Accademia del Se-reniss. Prencipe | Cardinale di Savoia. | In Roma, Appresso Giacomo Facciotti. 1637. | Con licenza de’ Superiori. In 4.0, di pp. i-i 9, oltre tre n. n., delle quali due in principio contenenti il frontispizio, e una in fine bianca. Laudatio | Ferdinandi 111 \ Caesaris augustissimi | dieta Romae \ ab Augustino Mascardo | Ad S. R. E. Cardinales & Caesaris | Regisque Hispanianun | Oratores \ in B. V. inclitae Nationis Germanicae Templo. I Romae, | Ex Typographia Iacobi Facciotti. MDCXXXVII, I Superiorum permissu. In 4.0, di pp. 16. A pp. 3-4 sta la lettera dedicatoria Ferdinando III | Caesarum Augustissimo \ Augustinus Ma-scardus | Felicitatem ac Victoriam. Le Pompe | del Campidoglio \ per la S.tà di N. S. \ Urbano Vili | Quando pigliò il possesso | descritte I da I Agostino Mascardi. | In Roma. Appresso 1’ he- — 570 — rede di Bartolomeo Zannetti. 1624 | Con licenza de’ Superiori. In 4.0, di pp. i-96 , oltre c. 2 in principio n. n. , con il irontispizio inciso e istoriato , al quale segue la dedica dXY Invittissimo Principe | il | Duca di Savoia. A piè dell’ ultima pagina stanno le approvazioni. Le pompe del Campidoglio ecc. In Milano, per il Bindelli, 1625, in 8.°. Citata dal Moreni [Bibl. storico-ragionata della Toscana, Tirenze, Ciardetti, 1805, H. 5-i)> che probabilmente ne tolse la notizia dal Giustiniani, Scrittori, p. 26. Irreperibile. Le Pompe del Campidoglio ecc. In Venezia, per il Fontana, 1625; in 4.0. (Moreni, ibidem, c. s.). Irreperibile. Le Pompe del Campidoglio ecc. In Venezia, per il Fontana, 1630; in 4.0. (Moreni, ibidem, c. s.). Irreperibile. Le Pompe del Campidoglio ecc. In Roma, appresso l'he-rede di Bartolomeo Zannetti, 1640. Identica alla precedente dello stesso Zannetti pubblicata nel 1624. SILVAE Avgvstini I Mascardi | Silvarum | libri IV. | ad | Ale-xandrvm | Principem Estensem | S. R. E. Cardinalem. I Antiverpiae | ex officina Plantiniana | M.DC.XXII. In 4.0, di pp. 1-202, oltre 16 in principio e ^ in fine n. n. Il frontispizio in rame istoriato porta scritto da un lato, in calce : Pet. Paul Rubenius pinxit; e dall’ altro : Th. Galleus mcidit. Segue : Alexandro \ Principi Estensi \ S. R. E. | Cardinali I Silvester Grimaldus | fdicitatevi, che abbraccia le pagine n. n. 3-5; quindi: Felicitatis \ alumnis | philosophiae | citharoedis , I suo merito beatis \ alieno mendicis, | Salillum et Landum | ad Aridum Panem ] Silvester Grimaldus genuensis I ipsam poetarum felicitatem (pp. 6-13 n. n.); e finalmente: Ad I Silvestrum Grimaldum \ de \ libris Silvarum Augustini Mascardi | ab ipso editis | Ioannis Andreae Fontanellae muti-nensis | ode (pp. 14-16 n. n.). In fine si trova la Censurae, la Summa privilegij; poi: Antiverpiae \ ex officina Plantiniana | Balthasaris Moreti | M.DC.XXII, e da ultimo la sua impresa. Così discorre di quest’ edizione VA. nella pref. alle orazioni (Genova, Pavoni, 1622): « Uscirono al principio di quest’anno quattro libri delle mie Selve latine dalle stampe d’An-versa ; mi parve una bella cosa vedere il mio nome intagliato in un vaghissimo frontispizio disegnato dal Rubens ; e, sollecitato da prurito sì lusinghiero , ho voluto più d’ una volta comparire , e prima per mezzo del pennello di Lucian Borzone ». Il « vaghissimo frontispizio » raffigura una lapide con la dicitura del libro : ai lati, i geni della poesia ; sotto , un — 572 — masso, a cui s’appoggiano, ai lati, due maschere, una tragica, 1’ altra comica ; in questo masso, le note tipografiche e uno scudo con il cavallo alato Pegaseo....... — Le poesie, quando furono mandate per la prima volta a Roma, nel 1617, per l’approvazione, parvero « poche e male atte a formar giusto volume ». — 573 — OPERE RACCOLTE. ORAZIONI, DISCORSI, PROSE VULGARI Orahom \ di Agostino | Mascardi | Al Sig.r | Gio Giacomo | Lomellino | Superiorum permissu. | In Genova I Per | Giuseppe Pavoni | 1622. In 4-°> di pp. 12 n. n. -379. Frontispizio istoriato con disegno di Luciano Borzone. Dopo il frontispizio , che reca a tergo 1 Impriviatur dell’ Inquisizione, vi è la dedica All’Illustrissimo ; Signore, \ Il Sig. Gio- Giacomo \ Lomellino, | Agostino Mascardi. | Segue la pref. al Lettore ; a tergo dell’ ultima carta la sua impresa [di Accademico Umorista?], rappresentante un elefante saettato dall’ alto col motto : Citra cruorem, e, sotto, il fuoco cui danno alimento due satiri, con questo distico: Ut pene extinctum cinerem si sulphure tangas Vivet et ex minimo maximus ignis erit. Ad illustrazione sono recati i versi di Lucano, De Bello civili, lib. VI, 208-13. Le orazioni sono dieci e finiscono a P- 273: nella successiva è ripetuta la impresa. A p. 275 s’ha un breve avvertimento al Lettore, e seguono i Discorsi, che sono cinque, fino alla p. 379, a tergo della quale si vede l’impresa dello stampatore e sotto, ripetute, le note tipografiche. Manca l’indice. A proposito della correttezza è notevole quanto ha lasciato scritto l’autore nella pref.: « L’ortografia è incostante ; io potrei dire che, facendosi in questo secolo ogni scrittore la ragione a suo modo, io ho voluto dar soddisfazione a tutti ; ma certo il disordine è nato dall’ aver più d’uno copiate le mie scritture e poi corretta la stampa. Degli errori commessi dagli stampatori, che debbo dirti? Il Padrone è Bresciano; il componitore è Tedesco; quei che maneggiano il torchio son Bolognesi ; parti gente al bisogno per la lingua, se fosse arcitoscana? Il tutto però dipende da colui che compone ; ma il poveraccio , tra per 1’ età e per quell’ altra cosa che dà tanto da fare a quella nazione, ha ben spesso le traveggole ; e, se furono da’ nostri antichi veduti due soli, due Thebe e cose somiglianti, perchè non si vedranno da’ moderni, con l’aiuto del vino, due b o due c, dove n’è uno? Io per me non so che vi sia occhiale che multiplichi e sconvolga le imagini visive, meglio del vino, e ’l sa Sileno ». Afferma l’A. che « buona parte delle orationi, era già pubblicata »; infatti delle dieci qui raccolte (Nelle esequie di Mad. Ser. D. Virginia.....; Nelle esequie della Ecc. Sig. Bibiana.....; Nelle es. deir Ecc. Sig. D. Francesco Gonzaga.....; Alla Signora Alargherita D’Oria..,..; Nella coronatione del Ser. Sig. Giorgio Centurione.....; Nella canonizzazione di Santa Teresa.....; Delle lodi di S. Ignatio.....; Delle lodi di S. Francesco Xaveno.....; Discorso o invettiva fatta...... intorno alla iniquità della fortuna; Oratio habita ad III. ac Rev. Cardinales de subrogando Pontifice.....) soltanto la quarta, la settima, l’ottava e la nona, non avevano ancora , per quanto sappiamo , veduto la luce. (Ved. pure Arte, ed. cit., p. 466). I discorsi Zenobia, rema de’ Palmireni.....; Le figliuole di Zenobia Reina de’ Palmireni alla Madre.....,• Lettione sopra un testo del Quinto libro della Politica d’Aristotile.....; Sopra un comp. poetico intorno alla Cometa.....; Intorno al furor poetico), de’ quali « andavano attorno le copie fra gli amici », uscivano qui per la prima volta. Il 6 agosto 1622, lett. n. 107, Appi, v’accenna dicendo: « Ho dedicato un libro ad un Gentiluomo amico mio, il quale con la sua magnificenza farà sempre vergognare il Cardinal d’Este, Principe di tal nascita ». Orationi, \ et Discorsi | di Agostino | Mascardi, | Al Signor I Gio. Giacomo | Lomellino. | Con licenza de’ Superiori e Privilegio. | In Venetia, MDCXXIV | Per Bartolomeo Fontana- - 575 - In 8.°, di cc. 8 n. n., e pp. 568. Le prime, oltre una bianca e il frontispizio, contengono la dedicatoria e la pref. A tergo dell ultima e l’impresa del Mascardi, ripetuta poi a p. 402, dove finiscono le orazioni, che sono dieci, come nell’edizione precedente del Pavoni. Seguitano poi gli stessi cinque discorsi. Non v’ha indice. Orationi I et | discorsi \ del | Sig.r Agostino | Mascardi I in Milano | Per Gio. Battista Bidelli. | 1624. In 12.0, di cc. 12, n. n., contenenti, oltre il frontispizio inciso, la dedica dello stampatore Al M. III. et Eccellente Dottore I dell una, e l altra legge \ il Sig. Giulio | Ponginibio | nobile piacentino ; quindi la dedica del Mascardi a Giacomo Lomellino, la prefazione al Lettore, e la Tavola \ delle cose piii notabili. Seguono le orazioni da p. 1 a p. 236 , e i discorsi da p. 237 a p. 335; l’ultima pagina è bianca. Due anni dopo uscì la seconda parte, come si vedrà a suo luogo. Lo stampatore, nella dedica, dice questa « mia nuova impressione », il che farebbe supporre che ne avesse pubblicata già un altra prima ; se pur non si ha da intendere nuova, rispetto a qnella genovese del 1622, della quale è copia materiale. Oratiom | et discorsi | di Monsignor j Agostino J Mascardi I Cameriere d’honore di N. S. Urba- | no Ottavo I Parte seconda. | In Milano, | Appresso Gio. Battista Bidelli. 1626. | Con licenza de’ Superiori. In i2.° di pp. 198 ed una carta n. n. con la Tavola. Non ho potuto aver cognizione di altre edizioni 0 meglio ristampe delle orazioni, fatte dal Bidelli. Ma certo ve ne furono almeno quattro, giacche il Mascardi stesso nomina la quarta, lamentandone la scorrettezza : « Questo, e forse anche più grave eccesso [alterare cioè i luoghi delle orazioni col cambiarne a capriccio le parole] fu dal Bidelli, stampator milanese, commesso gli anni passati, nella quarta publicazione delle mie orazioni e discorsi: poiché lasciò uscire dalle sue stampe — 576 — tanto notabilmente contaminato quel libro che fui astretto a farlo querelar criminalmente come falsario ; tuttoché ad i-stanza di grandissimi personaggi io desistessi allora dal proseguire il giudizio ». Lettera sulla Congiura , pubblicata da A. Neri, in Giorn. Lig., VI, p. 102. Prose vulgari \ di Monsignor \ Agostino Mascardi | Cameriere d’honore \ di N. Sig. Urbano | Ottavo, | In Venetia. Per Bartolomeo Fontana. MDCXXV. In 8.°. Dopo il frontispizio inciso seguono 13 cc. n. n. con la dedica del Tipografo al Lomellino, la pref. Lettore, la Tavola dei discorsi e delle orazioni, e finalmente quella delle cose notabili. La prima parte ha pp. 1-183; l’ultima pagina è bianca. Segue la seconda parte con un frontispizio a sè : Delle prose vulgari \ Di Monsignor \ Agostino Mascardi \ Cameriere d’honore di N. Sig. \ Urbano Vili. | Parte seconda | Continente le orazioni | aU’Illustrissimo Sig. il Sig. Gio. Giacomo Lomellino | Con Privilegi | In Venetia, MDCXXV. Ha pp. 3-234, più una carta al cui recto sta l’impresa del Mascardi. Il tipografo, nella dedica al Lomellini, afferma che « le sublimissime prose » del Mascardi « ritornano non raddoppiate solamente , ma in alcune parti dalla sua mano rimbellite ». Prose vulgari | Di Monsignor | Agostino Mascardi | Cameriere d’honore | di N. Sig. Urbano \ Ottavo, \ In Venetia. Per Bartolomeo Fontana. MDCXXVI. In 8.°. E l’edizione precedente, dello stesso Fontana, con il frontispizio ristampato e aggiuntevi le Pompe \ del Campidoglio I Per la Santità di Nostro Signore | Urbano Ottavo \ quando pigliò il possesso | Descritte da | Agostino Mascardi. Questa scritta trovasi nella parte superiore della pagina 1 della parte nuova aggiunta, ossia di quella comprendente le Pompe; subito dopo vien la dedica, e a p. 3 seguita la descrizione. Qui si tratta evidentemente d’uno dei soliti imbrogli degli stampatori. Il Fontana aveva ristampato, nel 1625 , Le — 577 — Pompe (edizione a me rimasta ignota, sebbene n’abbia trovato 1 indicazione nel Moreni). L’anno successivo, in cui mise fuori la presente ediz. delle Prose vulgari, con frontispizio modificato nella data soltanto , vi aggiunse la citata scrittura già stampata, sopprimendo il frontispizio e riportando il titolo nella pagina prima. Infatti di questa giunta, certamente deliberata nell’ ultim’ ora, nulla è avvertito ne’ frontispizi o nelle favole ; e, mentre le due parti delle Prose recano la segnatura continuata, 1’ ultimo opuscolo ha segnatura sua propria. F orse questa giunta non fu unita a tutti i volumi, perchè, secondo ci manifestano le stampe notate più innanzi, ve ne hanno alcuni senza le Pompe. Prose vulgavi \ Di Monsignor I Agostino Mascardi | Camevieve d’ho nove | di N. Sig. Uvbano | Ottavo. \ In Venetia. Per Bartolomeo Fontana. MDCXXVII. In 8.°. Ristampa della precedente, senza 1’ aggiunta delle Pompe. Pvose vulgavi \ di Monsignov | Agostino Mascardi | Camevieve d' honove | di N. Sig. Uvbano | Ottavo. | In Venetia. Per Bartolomeo Fontana. MCCXXX-V. [Parte I e II], In 4.0, di pp. 24 n. n., contenenti il frontis, inciso; la lettera dedicatoria di B. Fontana all’lllicstrissimo | Signor, il Signor I Gio. Giacomo | Lomellino, in data Di Venetia 25 Septembre 1625 (PP- 2-4); l’avvertimento del Mascardi al Lettore, (PP- 5'6) ; la Tavola \ de’ Discorsi | contermti j nella prima parte (p. 7); la Tavola dell’ Orationi \ contenute | nella secoìida parte (p. 8); e la Tavola delle cose j notabili (pp. 9-22); quindi ì impresa e una pagina bianca. La prima parte occupa pp. 140. Segue la seconda parte con frontispizio a sè: Delle \ prose vulgari I di Monsignor | Agostino Mascardi | Cameriere d’ honore di N. Sig. \ Urbano Vili \ Parte seconda \ contenente I'orationi, \ All’Illustrissimo Sig. il Sig. \ Gio: Giacomo Lomellino I Con privilegio. | In Venetia, MDCXXXV. Presso Bartolomeo Fontana. In 4.0, di pp. 182. Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. LXII. 37 - 578 - Prose vulgari \ di Monsignor \ Agostino Mascardi | Cameriere d'honore di N. Sig■ | Urbano Vili. | Parte prima. | Contiene i Discorsi. | Airillustrissimo Signor, il Signor | Gio: Giacomo Lomellino. | In Venetia, MDCXXXV. Per Bartolomeo Fontana. | Con licenza de’ Superiori, & Privilegio. In 4.0; di pp. 1-140, oltre ventiquattro in principio n. n., nelle quali si leggono, come nella precedente ediz., la lettera del Fontana, l’avvertimento del Mascardi e le tre Tavole. Segue la parte seconda con lo stesso frontispizio che nella prec. ediz., pure in 4.0, di pp. 243, oltre una in fine, bianca; contenenti le tredici Orationi e anche le Pompe del Campidoglio. Come ognun vede , il Fontana non ha dato con questa ediz. che una ristampa della precedente, ampliando la seconda parte con le Pompe. Prose vulgari | Di Monsignor | Agostino Mascardi, | Cameriere d’ honore di N. Sig.re \ Urbano Vili. \ Prima Parte. | Dedicate | AH’Illustris.mo & Eccell.mo Sig.re 1 Signor mio, e Patrone Colendissimo, | Il Sig. Aloisio Vallaresso, | Cavalliere (sic), e Procuratore digniss.mo di S. Marco. | [impresa] In Venetia. Presso Bartolomeo Fontana, MDC.XLI. | Con Licenza de’ Superiori, e Privilegi. In 8.° di pp. 1-282, con cc. 14 n. n. in principio e una in fine. Nelle prime 14 cc., oltre il frontispizio, è la dedica del tipografo Fontana in data 23 febbraio 1641, quindi la pref., le Tavole de’ soliti discorsi, delle orazioni e delle cose notabili ; segue una carta al cui recto sta la solita impresa, ripetuta al recto dell’ultima carta in fine. La parte prima finisce alla p. 141. Succede l’altro frontispizio, che serve alla parte seconda, con la dicitura: Delle | Prose vulgari | di Monsignor I Agostino Mascardi \ Cameriere d’ honore di N. Sig. Urbano Vili. I Parte seconda | Contenente l’ Orationi. | Con Privilegi I In Venetia , MDCXLI. | Presso Bartolomeo Fontana. — 579 — Finisce alla p. 282. Vanno uniti a questa edizione i Saggi Accademici (cfr. Saggi accad. in questa bibliografia). Prose vulgari \ di Monsignor | Agostino Mascardi , | Cameriere d’ honore di N. Signore | Urbano Vili \ Prima parte | Dedicate | AH’Illustriss.mo et Eccell.mo Sig-re I Signor mio, e Padrone Colendissimo, | il Sig. Aloisio Vallaresso. | Cavalliere (sic), e Procuratore dignissimo di S. Marco. | In Venetia, Presso il Tomasini, MDCXLV. | Con licenza de’ Superiori, e Privilegio. In 8.0. Pp. so liminari n. num., contenenti il frontispizio, la dedica del tipografo Fontana, in data di Venezia 23 febbraio 1641, la pref., la Tavola dei discorsi e delle orazioni, e quella delle cose notabili; quindi pp. 1-224, con i discorsi, ai quali seguono le Pompe del Campidoglio, poi un occhietto non compreso nella numerazione e premesso alla Parte seconda contenente I’Orationi. Vengono appresso, pur distinti con occhietto speciale fuori numerazione, i Saggi accademici, e in fine due pp. n. n. con la Tavola dei Saggi. Prose vulg ari \ di Monsignor ] Agostino Mascardi | Cameriere d' honore di N Signore \ Urbano Vili | Prima Parte | Dedicate | Airillustriss.mo et Eccel.mo Sig.re I Signor mio e Padrone Colendissimo, | il Sig. Aloisio Vallaresso. | Cavalliere, e Procuratore dignissimo di S. Marco. | In Venetia, Presso il Tomasini, M.DC.XLVI. I Con licenza de’ Superiori, e Privilegio. In 8.°, di pp. 1-224. È materiale ristampa della precedente. Quando il Tommasini pensava di ristampare queste prose, si rivolse al P. Angelico Aprosio di Ventimiglia, amico del Mascardi morto poco innanzi, affinchè gli procacciasse qualche scrittura inedita. L’Aprosio fece capo a Leone Allacci, che così gli rispondeva da Roma il 15 luglio de’ 1645 : * Vedrò — 58° — con ogni diligenza di servirla intorno al negozio del Mascardi, ma bisogna che mi dia tempo. Sebbene mi pare che non sia troppo facile, perchè esso, innanzi che morisse, trasporto tutti li suoi scritti fuori di Roma, puoi essere che sia rimasto qualche cosa, non mancherò di fare ogni opera per servirla »; e li 20 gennaio 1646: « Non ho avuto mai risposta a chi s’ ha da consegnare quell’ Oratione di Mascardi, che io le scrissi d’avere non più stampata. Aspetto l’ordine, che s’invierà subico v. La lettera, alla quale qui s’accenna, dev’essere andata perduta, perchè non esiste nella raccolta autografa delle Lettere alì Aprosio, che si conserva nella Biblioteca Universitaria di Genova. Ai 30 di marzo dello stesso anno scriveva l’Al-lacci direttamente al libraio Cristoforo Tommasini: « Sono alcuni mesi che il P. Ventimiglia, mio singolarissimo padrone ed al quale devo servire in ogni cenno, mi scrisse che io facessi la diligenza per le opere del Mascardi. Già V. S. ha ricevuto quello che m’era capitato in mano e di certo. Mi era stata data intenzione dell’Istorietta, ch’esso scrisse quando costì in Roma si sollevò il Seminario, ma insino adesso non posso venire a capo ; al fine mi hanno detto che l’averebbono fatta venir di fuori. Se verrà, io subito la consegnerò a quello che ho consegnata 1’ Orazione, acciò li sia recapitata, nè mancherò di diligenza per altre ». All’Aprosio poi troviamo in fine indirizzate le parole seguenti, li 26 maggio: « Ancor che m’ abbia fatta diligenza grandissima ed avute promesse sicurissime dell’ istoria manoscritta del Seminario Romano, niente di meno insino ora non m’è capitata nelle mani. Però il stampatore può fare quello che li compie, nè occorre trattenere la stampa delle altre con 1’ aspettazione di questa ». L’edizione del Tommasini, datata del 1646, non ha nulla d’inedito : nulla neppure la seguente. Prose I vulgari \ di Monsignor | Agostino Mascardi | Cameriere d'honore di N. Signore | Urbano Vili. | Prima parte. | Con Licenza de’ Superiori, e Privi-vilegio. I In Venetia, Presso il Tomasini, M.DC.LII. In 81°, di cc. 10 n. n. e pp. 1-360. Sono precedute da un antiporta, che dice : Prose vulgari | di Monsignor j Agostino Mascardi. Al frontispizio tengono dietro 7 carte, contenenti un avviso al Lettore e le Tavole dei discorsi, delle orazioni e cose notabili. Viene poi la Privia parte delle prose, che abbraccia pp. 1-122. La Parte seconda ha il titolo, nella p. n. 123: Delle j prose vulgari | di Monsignor | Agostino Mascardi I Cameriere d’honore di N. Sign. Urbano Vili. | Parte seconda contenente l’ Orationi. Arriva alla p. n. 240; ed alla P- n. 241 s’ha il titolo dell’opera che segue : Saggi accademici I Dati in Roma ecc. (cfr. Saggi), con indice speciale. Finisce alla p. n. 360. Prose I vulgari | Di Monsignor Agostino Mascardi | Cameriere d’ honore di N. S. \ Urbano Vili. | divise in due parti. | Aggiuntovi li Saggi Accademici, e di più I in quest’ultima stampa l’Oratione | per l’Elettion in Re de’ Romani di | Ferdinando dAustria, non | più stampata. | In Venetia, M.DC.LIII. | — | Per Francesco Baba j Con licenza de’ Superiori e Privilegio. In 12.0, di pp. 1-552 e 1-264, oltre 16 in principio, 4 in mezzo e 24 in fine n. n. In principio, dopo il frontispizio, vien l’avvertimento dell’A. al Lettore; la Vita dellauttore \ Tratta dal libro delle Glorie \ de’ Signori Accademici \ Incogniti di Ve netta; la Tavola | de’ Discorsi | Contenuti nella Prima | Parte; e la Tavola delle | Orationi \ Contenute nella Seconda Parte. In mezzo si ha questo frontispizio : Saggi Accademici \ dati in Roma I Nell’Accademia del Ser.mo Prencipe \ Cardinal di Savoia 1 Da diversi nobilissimi Ingegni: | raccolti, e publicati \ Da Monsignor Agostino Mascardi \ Cameriere d honore di N. S. I Urbano Vili. \ In Venetia, M.DC.LIII. | — | Per Francesco Baba | Con licenza de’ Superiori e Privilegio ; poi la Tavola | de' Discorsi \ de Saggi Accademici | Dati in Roma nell! Accademia | del Serenissimo Cardi- | nal di Savoia. In fine si legge la Tavola j delle cose notabili, che si contai - | gono in questa opera. Così discorre di queste edizioni del Baba il P. Angelico Aprosio nella sua Biblioteca abrosiana, ed. cit., p.22: « In questo nostro secolo ebbe Venetia Trancesco Baba, figliuolo d’Andrea, degno di lode per l’accuratezza ch’egli usava nello stampare; ma non meno di biasimo per lo vizio di cui si parla [ossia dolose soppressioni del millesimo, per far parere i libri più freschi, o soppressioni delle lettere dedicatorie per sostituirvi le proprie]. Stampò fra gli altri libri — non parlo delle opere di Seneca — l’Argenide di Gio. Barclajo, le Opere del Cav. Gio. Battista Marini, e di Mons. Agostino Mascardi. Osservisi come siano trattati i Soggetti a’ quali da prima furono indirizzate. Per la stampa fanno invidia a quelli d’ Hol-landa ; io però, quantunque faccia grandissima stima di opere bene stampate e le anteponga alle altre inferiori di prezzo, nè meno le raccoglierei ritrovandole nelle pubbliche strade ». Prose I vulgari | di Monsignor | Agostino Mascardi | Cameriere d'honore di N. S. | Urbano Vili. | Divise in due parti. | Aggiuntovi li Saggi Accademici, e di più I in questa ultima stampa l’Oratione | per l’Elet-tione in Re de’ Romani di | Ferdinando d’Austria, non I più stampata. | In Venetia, M.DC.LX. | Per il Baba | Con licenza de' Superiori, e Privilegio. In 12.0, di pp. 1-552, più 20 in principio n. n. Precede il frontispizio l’antiporta incisa; e, innanzi alla Vita del Mascardi, sta il ritratto, tolto, come la Vita, dalle Glorie degli Aec. Incogniti. Sull’ antiporta Ercole con la clava, che trascina una moltitudine di persone con tante catene raccomandate alla sua bocca : sotto ad Ercole, in una lapide effigiata, le parole: Prose vulgari | di Monsignor \ Agostino Mascardi. A piè del ritratto, i versi : Velsius egregie explicuit pinaca Cebetis, — At post hunc coepit Velsius esse nihil. Ved. in questo lavoro P. II, Opere di A. M., cap. Ili, L’Eloquenza, p. 320. Prose I vulgari | di Monsignor | Agostino Mascardi | Cameriere d’honore di A7. Sign. | Urbano Vili. | Divise in due parti | Aggiuntovi li Saggi Accademici, - 583 - e di più 1 l’Oratione per l’Elettione in Re de’ | Rom. di Ferdinando d’Austria. | In Venetia, M.DCLXIII | Presso Gio: Pietro Brigonci. | Con licenza de’ Superiori. In 12.0, di pp. 1-552, oltre sedici in principio e venti-quattro in fine n. n. Nelle prime, dopo l’antiporta inciso (simile a quello dell’ediz. Baba 1660), e il frontispizio, vi è la prefazione del Mascardi, la sua Vita tratta dalla Glorie degli Incogniti, e gli Indici dai Discorsi e delle Orazioni ; nelle ultime la Tavola delle cose notabili. Dovrebbero seguire i Saggi, ma nel volume che ho innanzi — ed è completo — non esistono. Vi si legge bensì 1’ Oratione per Ferdinando d’Austria. I Saggi però avrebbero a formare un altro volumetto da u-nirsi al presente come nella edizione pur del Brigonci del 1666, di cui qui appresso diamo notizia. Prose I valgavi \ di Monsignor | Agostino Mascardi | Camevieve d’honore di N. S. \ Urbano Vili. | Divise in due parti | Aggiuntovi li Saggi Accademici e di più I 1’ Oratione per 1’ Elettione in Re de’ | Rom. di Ferdinando d’Austria | In Venetia, M.DC.LX.VI 1 Per Gio. Pietro Brigonci | Con licenza de’ Superiori. Vol. 2 in 16.0, di pp. 1-551, sedici in principio e ventotto in fine n. n. ; e pp. 1-264, più quattro in principio n. n. Il secondo volume comprende i Saggi Accademici. Innanzi alle Prose sta la Vita del M. tratta dalle Glorie degli Incogniti. I due volumi vanno sempre uniti. Prose I vulgari | di Monsignor | Agostino Mascardi | Cameriere d’ honore di N. S. | Urbano Vili j Divise in due parti | Aggiuntovi li Saggi Accademici e di più I in quest’ultima Impressione l’Oratione | per l’E-lettione in Re de’ Romani di | Ferdinando d’Austria, non I più stampata. | In Venetia, M.DC.LXXIV. | Per Nicolò Pezzana. | Con licenza de’ Superiori, e Privilegio. — 584 — In 12.0, di cc. 9 non n. in principio, 12 non n. in fine, e pp. 1-678. Dopo l’antiporta istoriata (Ercole che trascina le genti con la bocca, come nell’ ed. del Baba) e il frontispizio, sta la pref. al Lettore, quindi la Vita del Mascardi tolta alle Glorie degli Incogniti, e la Tavola dei Discorsi e delle Orazioni. In fine la Tavola delle cose notabili. Rispetto all’ avvertimento che 1’ orazione per Ferdinando d’Austria non sia stata per l’innanzi pubblicata a mezzo delle stampe, penso trattarsi di una frode tipografica. Del resto tutta l’ediz. sembra una ristampa di quella del Baba. Manca il ritratto del M. Prose j valgavi \ di Monsignor | Agostino Mascardi | Cameriere d’honore di N. Sig. | Urbano Vili. | Divise in due parti | Aggiuntovi li Saggi Accademici e di più I l’Oratione per l’Elettione in Re de’ | Rom. di Ferdinando dAustria. ] In Venetia, M.DC.LXXVI | Appresso Steffano Curti | Con lie. de’ sup. e privilegio. In 12.0, di pp. 3-742 e una c. bianca in fine. I Saggi accademici hanno speciale frontispizio , ma seguita la numerazione dei discorsi e delle orazioni. Discorsi I accademici \ di Monsignor \ Agostino Mascardi I Con 1’ aggiunta di alcuni componimenti spirituali I di varie Lettere | Volgari, e Latine | Opera postuma I Novamente raccolta da manoscritti del me-demo I Dal Padre | D. Carlo M. Mascardi | Chierico Regolare di S. Paolo | Barnabita | Pronipote dell’Au-tore I — I Dedicata | All’ Illustriss., e Reverendiss. Monsignor | Lorenzo Casoni | Arcivescovo di Cesarea I e Assessore del S. Officio di Roma. | In Genova, MDCCV. I Per Gio. Battista Franchelli. Nel vico del Filo. I Con licenza de’ Superiori. In i2.°, di pp. 564. Precede (pp. 3-9) la lettera dedicatoria - 585 - di C. M. Mascardi a Monsig. Casoni, L’Imprimatur sta a pagina io, che non è numerata. Segue un avvertimento Al Lettore (pp. 11-12); quindi i Discorsi (pp. 13-4.54) che son dieci; un discorso in latino (pp. 455-473), intitolato De damnis peccati religiosorum; poi l’Epistolae latinae ab eodem Auctore a-lieno nomme compositae (pp. 474-502); e le Lettere dell'Autore (PP- 5°3'56i) , che comprendono la nota lettera all’Achillini più volte stampata, quindi una lettera di Luca Alessandrino (sic, 1 Assarino, che nell 'Indice è poi detto Azanno), con la risposta del Mascardi. Il volume si chiude (pp. 562-563) col-1 Indice de' Discorsi e delle Materie che si trattano, e finalmente (p. 564) cogli Errori osservati. Nella lettera dedicatoria al Casoni è notevole questo brano : « Nell’ esaminare certe scritture rimaste nella Libraria del fu mio Padre, mi vennero alle mani alcuni Discorsi accademici di Monsignor Agostino Mascardi, mio Prozio; e, necessitato dalle persuasioni di molti, mi son lasciato indurre di porli sotto il torchio ». Credo opportuno indicare anche le lettere alieno nomine compositae. Sono dirette: Capitulo acclesae (sic) Bisuntinae (p. 474); Archiepiscopo Bisuntino (p. 476); Cesareae Majestati (p. 47B) ; Gubernatoribus liberae Civitatis Bisuntinae (p. 483) ; Imperatori (p. 485) ; Electori Muguntino (p. 487) ; Archiepiscopo Bisuntino (p. 4go) ; Episcopo ac Principi Extensi (p. 492) ; Coadiutori (p. 494); Principi Augustano (p. 495); Principi Electori Muguntino (p. 497); Imperatori (p. 499) ; Imperatori (p. 500); Archiduci Leopoldo (p. 501). 586 -- DISCORSI MORALI SULLA TAVOLA DI CEBETE TEBANO Discorsi morali | di | Agostino Mascardi | su la Tavola | di Cebete Tebano \ In Venetia, | Ad Instanza di Girolamo Pelagallo, [1627] Con licenza de’ Superiori. In 4.0, di pp. 403, oltre cinquantasei in principio e una in fine n. num. Dopo il frontispizio inciso in rame e istoriato, vien la lettera dedicatoria dell’A. Al Serenissimo \ Principe I Mauritio \ Cardinal di Savoia (pp. 3-4) ; quindi un avvertimento del Mascardi al Lettore (pp. 5-b); poi Dell’Autor della Tavola | e della dottrina eh’ei professò (pp. 9-11); l'errata-cor-rige (p. 12); la Tavola dé Discorsi pp. 13-14) ; la Tavola di tutta l’opera (pp. 15-37; e finalmente La | Tavola di Cebete | filosofo tebano | Discepolo di Socrate | Volgarizzata da Agostino Mascardi (pp. 37-55); e una pagina bianca. Nell’ultima pagina, in fine, sta scritto : Agnolo Cantini Correttore, poi In Venetia MDCXXVII. | Appresso Antonio Pinelli. — L’A. dava questo come primo volume, promettendone un secondo. Corregge nella pref. due errori di fatto, e si duole dello stampatore per la « incertezza dell’ortografia », per 1’ « interpun-tione vitiosissima », e per la « mutatione delle voci, che cangiano sentimento », rimandando perciò all’ errata. Nel frontispizio la dicitura Discorsi morali ecc. è dentro una lapide circondata da una corona d’alloro , sormontata dallo scudo coll’elefante e il motto citra cruorem e dal busto di Minerva, e sostenuta da un piedestallo raffigurante il Giudice supremo che giudica le anime costrette a salire tre gironi prima di giungere al padiglione eterno. — 58? — t . aitoni, nel suo catalogo degli autori greci e latini vol-^ . 1 ’ re&istrando quest’ edizione dice : « essere questa la 10 mostrano le Prime parole che e’ fa al Lettore : Ec-nalniente i Discorsi su la Tavola di Celete promessi da nque anni sono; qualora si premetta che tal promissione g aveva fatta nella prefazione al Lettore premessa alla bella 10ne sue Orazioni uscite per la prima volta in Ge-nova, per Giuseppe Pavoni, 1622, in 4.0 ». Discorsi morali \ di | Agostino Mascardi | su la Tavola I di Cebete Tebano. \ In Torino, | Per li HH. di Gio. orn- 1 arino, 1629. | Con licenza de’ Superiori. In 8. , di cc. 28 n. n. e pp. 448. Nella prima, oltre il fron-pizio con un’ impresa raffigurante un leone che regge uno . U(^° Su cu* ® l’arma pontificia, stanno la dedica al Card. Mau-zi° di Savoia, la prefazione, la notizia sull’ autore della Ta- 0 a, 1 errata, la favola dei Discorsi, la Tavola di tutta 1’ o-pera, e la Tavola di Cebete, volgarizzata dal Mascardi stesso. Discorsi morali \ di | Agostino Mascardi, | su la Tavola I di Cebete Tebano | In Venetia. Appresso Gio: Pie-tr0 Pinelli. | M.DC.XXXVIII | Con licenza de’ Superiori, et Privilegio. In 4-°i di pp. 358, oltre quaranta n. n. in principio. È copia della precedente di Antonio Pinelli. Ha lo stesso frontispizio inciso e istoriato, dove, nel listello, furono aggiunte le note tipografiche, ripetute in fine alla p. 358. Gli errori vennero corretti. Discorsi morali \ di | Agostino Mascardi | su la Tavola I di Cebete Tebano. \ In Venetia. Appresso Gio. Pietro Pinelli. | M.DC.XXXXÏÏ. In 8.°, di pp. 1-303, oltre cc. venti n. n. in principio, dove, dopo il frontispizio, sta la dedica del Mascardi, la pref. , le notizie sull’ autore della Tavola, la Tavola dei Discorsi, e quella di tutta l’opera; in fine la Tavola di Cebete tradotta. — 588 — In calce alla p. 303 si legge : In Venetia , MDCXLII. | Appresso Gio. Pietro Pinelli, Stampatore Ducale. | Con licenza de’ Superiori, et Privilegio. Discorsi I morali | di Agostino Mascardi | su la Tavola I di Cebete Tebano. \ All’ Illustriss.mo Sig'. Padron Colendiss. | Il Signor | Conte Odoardo | Bargellini. | In Venetia, et in Bologna, presso Gio. Batt. Ferroni I Con licenza de’ Superiori. 1643. In 8.°, di pp. 329 , oltre trenta n. n. in principio e ven-tuna n. n. in fine. Dopo il frontispizio sta la dedica del tipografo, in forma di lettera, con la data di Bologna......Marzo 1643. Edizione pessima, con la Tavola di tutta l’ opera nel fine (ved. anche Paitoni , Biblioteca degli autori greci 0 latini volgarizzati, s. M.). Discorsi I Morali \ di | Agostino Mascardi | sm la Tavola I di Cebete Tebano | All’Illustriss.mo Signor Padron Colendiss.mo | il Signor | Conte Odoardo | Bargellini I In Venetia, & in Bologna, | presso Gio. Batt. Ferroni. | Con licenza de’ Superiori. 1648. In 8.°, di pp. 1-329, più cc. sessantaquattro n. n. in principio e quarantuno n. n. in fine : le prime contengono il frontispizio non istoriato , la dedica dello stampatore , 1' avvertimento dell’A. al Lettore, il ragionamento Dell’Autor della Tavola; la l'avola de’ Discorsi e il volgarizzamento della Tavola di Cebete. Le ultime la Tavola di tutta l’opera e VImprimatur. Edizione nitidissima. Discorsi I morali \ di Agostino | Mascardi | Sù la Tavola di Cebete Tebano. | In questa nostra impressione corretti, | e migliorati. | In Venetia, M.DC.LIII (1653) I — I Per Francesco Baba. In 16.0, di pp. 21 n. n., 1-542 n., più trentadue n. num. in fine. Le prime contengono la dedica, l’avvertimento, il ragionamento, la Tavola e il volgarizzamento c. s. : 1’ antiporta — 589 — reca un’incis. in rame di F. P., rappresentante Minerva con lo scudo, su cui: Discorsi | del Mascardi \ Su la Tavola j di Cebete. \ Appiè; Per il Baba. \ Discorsi ] morali | di Agostino | Mascardi | su la Tavola I di Cebete | Tebano. | In questa ultima impressione corretti, | e migliorati. | In Venetia, M.DC.LX. I Per Cristoforo Tomasini. | Con licenza de’ Superiori. In 12.0, di pp. 1-520, più cc. sedici in principio e diciassette m fine n. n. Dopo l’antiporta incisa e il frontispizio segue la Tavola di Cebete, la pref., la notizia dell’ autore, e la Tavola dei Discorsi. In fine sta la Tavola di tutta l’opera. Discorsi I morali \ di Agostino Mascardi | Su la Tavola I di Cebete Tebano | In questa nostra impressione cor-1 etti, I e migliorati. | [Impresa] In Venetia, per il Baba, MDCLX. Con licenza de’ Superiori, e Privilegio. In 12.0 di pp. 1-542 , più cc. trentasei in principio , n. n. e trentadue n. n. in fine : le prime contengono 1’ antiporta istoriata (Minerva che imbraccia uno scudo con sopra inciso Discorsi I del Mascardi \ su la Tavola di Cebete; e una maschera tragica ai piedi), il frontispizio, la Tavola volg., 1’ av-vert. al Lettore, il ragionamento dell’Autore ecc. e la Tavola dei Discorsi ; le ultime, la Tavola di tutta F opera. L' ultima carta è bianca. Discorsi I morali \ di Agostino | Mascardi | su la Tavola I di Cebete Tebano. | Con licenza de’ Superiori. I In Venetia, | MDLXII (sic) ( Presso Gio: Pietro Brigonci. In 12.0, di pp. 1-542, più cc. diciotto in principio e diciassette in fine n. n. Dopo l’antiporta incisa e il frontispizio sta la Tavola di Cebete, alla quale tien dietro la pref., la notizia dell’autore e la Tavola dei discorsi. Si chiude il volume con la Tavola di tutta l’opera. L’ultima carta è bianca. — 590 — Discorsi | morali \ di | Agostino | Mascardi | su la Tavola | di Cebete Tebano. | In Venetia , M.DC.LXVI. I Per Gio. Pietro Brigonci. | Con licenza de’ Superiori. In i2.°, di pp. 1-542, più trentasei in principio e trenta-quattro in fine n. n. Dopo l’occhietto e il frontispizio, segue La Tavola di Cebete, poi il proemio del Mascardi e la notizia intorno all’autore ed alla sua dottrina, quindi l’indice dei Discorsi. Si chiude il volume con la Tavola di tutta l'opera. Discorsi I morali | di Agostino | Mascardi | su la Tavola I di Cebete Tebano | In Venetia, M.DC.LXVI. | Appresso Valentino Mortali, | Con licenza de’ Superiori. In 12.0. Edizione assai brutta, di pp. 542, più trentasei in principio e trentaquattro in fine n. n. ; identica alla precedente. Forse qui non fu mutato che il nome dell’editore. Discorsi I morali | di Agostino | Mascardi | su la Tavola I di Cebete | Tebano. | In questa nuova impressione corretti, | e migliorati. | Venetia, MDCLXXIV I Per Paolo Baglioni. | Con licenza, e privilegio. In 12.0, di pp. 1-491, e dodici cc. in fine n. n. Nelle prime trentadue pp., dopo l’antiporta incisa e il frontispizio, stanno la Tavola di Cebete, la pref., il discorso sull’autore greco, e la Tavola; in fine la Tavola di tutta l’opera. Discorsi I morali | di Agostino | Mascardi | su la Tavola I di Cebete | Tebano. | In questa ultima impressione corretti, I e migliorati. | Venetia, MDCLXXXÏI, I Appresso Stefifano Curti | Con licenza de’ Superiori. In 12.0, di pp. 33-537 oltre le prime trentadue prive di numerazione, nelle quali, dopo il frontispizio, si contiene la — 591 — Tavola di Cebete, la pref., il discorso sull’ autore greco e la lavola, in fine 37 pp, n> n> con ia Tavola di tutta l’opera, dove i numeri delle pagine non rispondono, avendoli lo stampatore riprodotti supinamente da altre stampe. Discorsi I morali | di Agostino | Mascardi | su la Tavola I di Cebete | Tebano (?). 8.°, di pp_ 2$o, oltre sedici n. n. in principio e diciotto n' n' fine. Manca di note tipografiche. Il frontispizio è in forma di occhietto. Segue il proemio dell’autore, poi l’avvertimento del traduttore, e la notizia soli’ autore della Tavola e la dottrina che professò. In fine la Tavola dei discorsi e poi la Tavola di tutta l’opera. CONGIURA DEL FIESCHI La | congiura del | Conte | Gio. Luigi De Fieschi \ descritta | da | Agostino ! Mascardi.| L’anno MDCXXIX. In Anversa. In 4.0, di pp. 1-107 oltre otto in principio e una in fine n. n. Al frontispizio , inciso in rame e istoriato , tien dietro (PP- 3‘4 n- n.) la lettera dedicatoria del Mascardi All'Ill.mo et Ecc.mo Principe | D. Ercole \ Trivultio, e quindi 1’ avvertimento al Lettore (pp. 5-8 n. n.). L’ ultima pagina è bianca. Il frontispizio reca in alto uno scudo con l’effigie di Giano, circondata da un nastro in cui leggesi il motto : Futura praetentis: in basso, un santo profuso di luce e con un sole in petto , al quale s’ appoggia un angelo recante una tromba e un ceppo che trattiene un mostro mezzo uomo e mezzo drago. Manca l’indicazione del tipografo. La I congiura del \ Conte \ Gio. Luigi De Fieschi \ descritta I da Agostino | Mascardi | L’anno MDCXXIX. In Milano [In fine:] In Milano | Appresso Carlo Lan-toni I M.DC.XXIX. | Ad instanza di Gio. Battista Cerri. In 8.°, di pp. 1-137, nelle prime nove delle quali, oltre il frontispizio inciso, sono gli stessi preliminari che nella precedente. A tergo dell’ ultima sta l’Iviprìmatur, e quindi una carta n. n. con un avvertimento per gli errori e a tergo le note tipografiche. — 593 — La | congiura | del Conte | Gio. Luigi | de’ Fieschi | descritta | da Agostino Mascardi. | Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio. | In Venetia, M.DC.XXIX-Appresso Giacomo Scaglia. In 4.0, di pp. 1-110, oltre otto in principio n. n., contenenti: pp. 3-4 Con la dedica All’ Ill.mo et ecc.vio Principe | D. Ercole \ Trivultio. \ Agostino Mascardi; e pp. 5-8 con la prefaz. al Lettore. Riguardo a questa pubblicazione esiste una interessantissima lettera del Mascardi stesso, pubbl. in Giorn. Lig., "V I> p. 1O1 sgg. Vi dice: « Ho veduto quell’infelice componimento ristampato in Venetia da Giacomo Scaglia ; il quale, uscendo dai confini di mercenario e meccanico stampatore, s ha usur pato l’ufficio di temerario, ed arrogante censore, e, do\e tenuto a sodisfare al debito del suo mestiere correggendo 1 or tografia vergognosa e storpiata, s è fatto ad alterare menti della mia istoria, tralasciando in più luoghi c can giando a suo capriccio le mie parole...... Costui dunque, com circospetto politico e partigiano della nazion francese, mato che la grand’anima del re Francesco rice\a una seS’ lata ingiuria da me, mentre sostengo che il Doria, offeso poca fede del re nell’adempimento delle sue ìeplicate p messe, passò al servizio di Cesare ; e perciò con danr >. festo del sentimento ha soppresso quelle parole, in non si può vedere mostruosità più defforme. L’istessa falsificazione si trova quattro versi più sopra, dove, dicendo 10 che il re chiedeva al Doria con instanza importuna e con superbe minacce il marchese del Vasto ed Ascanio Colonna . questo modestissimo e scrupoloso satrapo della Scuola po 1 ic tolte di mezzo le due parole importuna e superbe^ Ne ha p -tuto quella verginal verecondia soffrire che 1 animo e , per l’ignominia della repulsa datagli dal Dona, rie iam darne \ con larghissime conditioni a. servigio s. d'amaritudine e di vergogna; e però ha tolto la vergogna dal volto, cancellando svergognatamente le due paro ô 38 Atti Soc. Liff. Storia Patria. Vol. XLII. — 594 — e vergogna. Tralascio di ricordare la simplicità del signor Teodoro irivulzio (che con tal vocabolo di nuovo lo Scaglia adultera la mia scrittura), perchè può essere che i successori di quel grandissimo capitano si prendano pensiero di gastigar 1 insolenza di chi tratta indecentemente le cose loro. Che se, avendo costui havuto un mio originale in penna dalla perfidia d un amico (e avendomi in altre occasioni tradito, hora ha vendute le mie fatiche), dicesse, non dalla Congiura stampata , ma dall’ originale essersi transfusi nelle sue bugiarde stampe gli errori, io lo potrei così bene in tutte l’altre parti convincere per mentitore , come consentirei che la voce simplici tà, parlandosi del Irivulzio, fu da principio mia, ma per giustissimi rispetti rifiutata e cangiata in quell’altre che nella prima stampa e ristampa di Milano si veggono......... A tutti questi inconvenienti poteva io farmi incontro, chiudendo, con 1 impetrazione de privilegi, la strada all’avarizia d’alcuni stampatori plebei (chè degli onorati io non parlo), i quali, purché smaltiscano, com essi dicono, la mercanzia, poco monta presso di loro che la riputatione dagli autori si trascuri e peri- c°fi........ ma 1° non ho mai applicato il pensiero a’ privilegi, perchè abborrisco in me stesso la venalità dell’ ingegno, che detesto in altrui. 1 roppo a vile tengono 1’ anima ragionevole que sordidi letterati che le più nobili riparazioni di lei sottordinano all interesse......... Ho dunque con una stampa libera gittati in mano della fortuna i miei parti , lasciando che il giudizio del mondo, o gli condannasse come rei all’ oscurità d una perpetua dimenticanza, o gli assolvesse come abili ad affissarsi al lume degli intelletti chiarissimi di questo secolo. Ha voluto la mia sventura che anche i benefizii mi si convertano in pena ; perchè la cortese inclinazione mostrata verso 1 opere mie da letterati italiani, ha risvegliata la cupidigia degli stampatori che per due volte l’han concie nel modo che vede V. S. ». La prima volta il Bidelli aveva infatti storpiato la « quarta pubblicazione delle sue orazioni e discorsi ». — 595 — La congiura del Conte Gio. Luigi de' Fieschi descritta da Agostino Mascardi. In Milano, appresso Gio. Battista Bidelli, 1629. In 8.°. Indicata dal Giustiniani, Scrittori, p. 26. Per me irreperibile. Trattasi forse dell’ediz. milanese del Lantoni, descritta qui appresso. La I congiura del \ Conte | Gio. Luigi de’ Fieschi | descritta I da I Agostino Mascardi. | L’anno MDCXXIX, In Milano. In 8.° picc., di pp. 137 n., 138-40 n. n. Frontispizio figurato con firma: Bianchi f. — In fine (p. i4°): Milano, | Appresso Carlo Lantoni. | M.DC.XXIX. | Ad instanzia di Gio. Battista Cerri. Oppositioni I e | difesa | alla congiura | del Conte Gio. Luigi I De’ Fieschi. | Descritta | da Agostino Mascardi. I Dedicata a’ Meriti | Del Sig. Santo Arrigoni. I Con licenza de’ Superiori, e Privilegio. | In Venetia, MDCXXX. I Appresso Domenico Ventura. In 8.°, di pp. 14 n. n. Il verso della carta 14 e bianco. Le Oppositioni vanno sotto il nome del Taverna, e la Difesa porta quello del Mascardi. Vi è però chi crede (Cfr. Gamba, Serie dei lesti di lingua, ed. cit., p. 552, che toglierebbe dal Catalogo delle storie particotari civili ed- ecclesiastiche delle città e luoghi d’Italia le quali si trovano nella domestica Libreria dei Fratelli Coleti in Vinegia, p. 83) che sotto il nome del Taverna si nasconda quello del Mascardi e che 1 una e 1 altra scrittura siano opera sua; ma è opinione evidentemente erronea. Alla Difesa il M. accenna nella lettera sulle censure alla Congiura (Ved., in questa Bibliografia , Lettere sparst ). « Havrà V. S. qui congiunta una lettera che scrissi ad un amico pure in proposito della Congiura »; Giorn. Lig., VI, p. 112. Il Giustiniani, Gli Scrittori, p. 27, accenna a quest’opera come non pubblicata. — 596 — La | congiura | Del Conte | Gio. Luigi | De’ Fieschi | Descritta | da Agostino Mascardi | Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio. | In Venetia, MDCXXXVII. I Appresso le Scaglie (sic). In 4.0. Carte quattro, in principio, n. n., contenenti i soliti preliminari; indi La Congiura, la quale ha pp. 1-107. Seguono otto carte n. n., contenenti: Oppositioni \ e \ difesa j alla congiura I del Conte Gio. Luigi \ de’ Fieschi. \ Descritta | da Agostino Mascardi. La I congiura \ del Conte | Gio. Luigi | De Fieschi j de-sci itta I da Agostino Mascardi. | Con aggiunta d'alcune Oppositioni, I é? Difesa alla detta congiura. | Al Molto Illustre Sig. il Sig. | Marc’Antonio Bendo, I In Bologna, MDCXXXIX. | Per Giacomo Monti, e Carlo Zenero. | Con licenza de’ Superiori. In 4. picc., di pp. 1-110, oltre otto in principio e diciotto in fine n. n. Dopo il frontispizio vi è la dedica dello Zenero al Bencio, alla quale segue la prefazione del M. al Lettore. Finisce la Congiura alla p. no, e succede una carta bianca; poi 1’ occhietto : Oppositioni | * | Difesa | alla Congiura | del Conte^ Gio. Luigi | De’ Fieschi. | Descritta | da Agostino Mascardi. In tre pp. successive stanno le Oppositioni firmate: Il Taverna , e nelle nove seguenti la Difesa firmata : Il Mascardi. Al recto dell’ultima carta l’Imprimatur. La I congiura | del Conte | Gio. Luigi | de’ Fieschi \ Descritta I da Agostino Mascardi. | Con Aggiunta d’alcune Oppositioni 1 * Difesa alla detta congiura. | Ad istanza di Giacomo Maringo. | In Palermo, Per Decio Cirillo. | M.DC.XLVI. | — | Impr. Salernus V. G. Impr. de Denti P. In 4.0, di pp. 1-110, oltre sedici in principio e dieci in ne n. n. Le prime sedici contengono un antiporto inciso in - 597 — rame e il frontispizio ; poi (pp. 5-8) una lettera del Maringo scritta da Palermo li 3. di Gennaio. 1646., diretta AllIllustr. I D. Lancillotto | Castelli [ Marchese di Capizzi | e Maestro Rationale dignissimo del Reai | Patrimonio; (pp. 9-10) Di Giuseppe Gareano | All Autore | elogio; e finalmente (pp. 11 -16) l’avvertimento al Lettore. Nelle dieci pagine in fine si leggono le Oppositioni \ e | difesa | alla congiura \ del Conte Gio. Luigi I de’ Fieschi \ Descritta | da Agostino Mascardi. I-e Oppositioni portano in calce : Il Taverna, e la Difesa è sotto-scritta: Il Mascardi. La I congiura | del Conte | Gio. Luigi de’ Fieschi | descritta I da I Agostino Mascardi. | Venezia | I ipografìa di Alvisopoli ed. | MDCCCXX. In 8.°. In principio vi sono quattro carte, numerate soltanto nelle pp. VI e VII. Esse contengono , oltre il frontispizio, una lettera dedicatoria di Bartolomeo Gamba al Conte Alvise I Francesco Mocenigo, e l’avviso del Mascardi Al Lettore. Segue La congiura a pp. 2-97. L’ ultima pagina e bianca. La congiura | di Gian Luigi de’ Fieschi | descritta | da Agostino Mascardi. Sta nel vol. XV della Biblioteca \ Enciclopedica | Italiana. Milano I Per Nicolò Bettoni e Comp. | MDCCCXXXI ; in S.°, da p. 289 a p. 308. La congiura | di Gian Luigi de’ Fieschi | descritta | da Agostino Mascardi | Milano, per Nicolò Bettoni. M.DCCC.XXXI. In 16.0. — La Congiura è pubblicata con Lo \ scisma \ d’Inghilterra | ristretto | da Bernardo Davanzali e va da pagina 105 a p. 184. È la stessa edizione della precedente grande, ma compaginata in più piccolo formato. — 598 — La congiura j del Conte | Gio. Luigi de’ Fieschi | descritta | da Agostino Mascardi | aggiuntovi \ tre discorsi | intorno la fortuna | tratti | dalla Tavola di Cebete \ dello stesso autore. Napoli | presso Carlo Bompard | 1836. In i2.°, di pp. 192. La Congiura occupa le pp. 3-129. A pp. 131-192 si hanno i Tre discorsi. Forma parte della Scelta I enciclopedica \ di \ opere italiane | e tradotte in pretto toscano I 111 prosa ed m verso | atte ad instruire e dilettare ogni classe di persone. La congiura del Conte Gio. Luigi de' Fieschi descritta da Agostino Mascardi. Sta in Brevi storie | di | vani autori | Volume unico | Venezia, I coi tipi del Gondoliere | M.DCCC.XL. In 16.0, da pagina 281 a p. 355. Nella prefazione il Carrer discorre brevemente dei pregi e dei difetti dell’operetta. È questo il vol. IX, Cl- Vili della Biblioteca classica italiana. TRADUZIONI TRADUZIONE DELLA CONGIURA IN LINGUA FRANCESE. La I coniuration \ du Comte de Fiesque, \ Traduite de l Italien du S.gr Mascardi | Par le S.r De Fontenai S-fE Genevieve et dediee | a Monseigneur Veminentissime I cardinal duc \ de Richelieu | Avec un recueil de vers à la louange de | son Eminence Ducale I A Paris. I Chez Jean Camusat rue S. Jacques à la Toison d’or | M.DC.XXXIX | Avec Privilege du Roy. Segue la dedica al Card, di Richelieu , in prosa ; poi il Recueil de vers hebreux, grecs, latins, italiens et espagnols des plus doctes et plus polis escrivains de Rome et d'Italie à —, 599 — la louange de Monsigneur teminentissime cardinal due de Ai chelieu, cioè — i.o una poesia in distici latini ; 2.0 una poesia ebraica; 3.0 una poesia greca; 4.0 e 5.0 due altri epigrammi greci ; 6.0 un’ ode latina sulla Congiura, fatta da Gaspare de Simeoni Aquilano ; 7.0 un epigramma latino di Nicola A il lani; 8.0 un sonetto italiano di Iacomo Guglielmi, fiorentino, 10.0 altro sonetto di Claudio Achillini, bolognese, 11.0 altro sonetto italiano pel cav. Pier Francesco Paoli da Pesaro, 12.0 sonetto castigliano di Don Juan Lope, castellano. Segue una breve pref.: L’ imprimeur au lecteur; e quindi Pi eface dt l’historien au lecteur. Finalmente comincia La coniuration e con questa principia pure la num. delle pagine, da 1 a 206, in 8.° piccolo. In fine, stampato, il Privilège du Roy. La traduz. comincia: « La republique de Genes par une grâce particulière du Ciel commençoit à reprendre haleine de ses calamitez passées,....... ». — Finisce: « si ce n est que le Peuple Genevois eust esté aveuglé, et privé de-son bon sens qu’il eust voulu se servir d’un remede plus fascheux et plus violent que son mal mesme ». Il traduttore s’è attenuto al testo, senza farvi né aggiunte nè mutazioni, e molto meno alterarne lo spirito. La stessa benevolenza al Doria, che è nel Mascardi, trovasi nella traduzione francese. IN LINGUA SPAGNUOLA. Conjuration | del Conde \ Juan Luis Fiesco \ Esenta en lengua Toscana | por Augustin Mascardi | /1 a-ducida I en castellano | por Don Antonio V elasquez I dedicada | al muy noble, y muy ilustre senor \ don loseph Strata \ Cavalier 0 de la Or deli de Sant- Jago I Comendador de las Casas de | Toledo, | y seuor de la Villa de | Robledo de \ Chavela y sus al deas | Con Privilegio I En Madrid por Juan Sanches | Ano 1640 I Marten B sculpsit. In 8.°, di cc. 12 in principio n. n„ e cc. 1-52; a tergo dell’ultima: Con licencia. | En Madrid. Por Juan Sanciti.z. Ano — 6oo — CI3.I3C.XL. Dopo il frontispizio inciso sono le licenze, le approvazioni, il sunto del privilegio ecc. ; segue la dedica, quindi 1’ avvertimento al lettore del traduttore e in fine 1’ e-logio di Andrea D’Oria, tratto dai Ragguagli di Parnaso del Boccalini e voltato in spagnuolo. Tanto i revisori come il traduttore fanno gran lodi dell’ opera e del Mascardi. IN LINGUA INGLESE. Mascardi Augustini Relation of thè Conspiracy of J. L. Count de Fieschi against Genoa; out of thè Italian, by Hugh Hare Lond.. 1693, 8.v0, 43. V ed. The Bibliographe^ s Manual of Englisch literahcre..... by IV. Th. Lowndes, London, 1861 , P. VI. La trad. trovasi già indicata in Librorum impressorum qui in Museo Britannico adservantur Catalogus, Londini, MDCCCXV. Non ho potuto esaminarla. » IL RIMANEGGIAMENTO FRANCESE. Il Barbier nel suo Dictionn. des ouvrages anony. et pseu-do7i. (Paris, 1822, to I, p. 210) reca l’indicazione del seguente libro . La conjuration du comte fean Louis de Fiesque, traduite de l'italien de Mascardi (par le cardinal de Retz), Cologne, 1665. Dal confronto dell’opera italiana con la francese, appare invece in modo manifesto che il card, di Retz, pur a-vendo sicuramente dinanzi il testo del Mascardi e seguendolo fino a un certo segno, rispetto all’ordine dei fatti, rifece in gran parte di suo, mutandone in ispecie lo spirito e il concetto politico. Di questo libro si ha poi una traduzione col seguente titolo : La congiura | del Conte | Giovanni Luigi | de Fieschi | contro I la Repubblica | di Genova | nell' anno MDXLVII | In Colonia, | Appo Pietro del Martello | MDCLXXXI ; traduzione che si trova qualche volta unita con La congiura degli Spagnuoli contro Venezia, resa italiana dal testo del Saint Reai, alle quali è stato preposto un frontispizio comune: Le congiure famose contro le Repubbliche di Venezia e di Genova. — 6oi I LETTERA ALL’ACHILLINI Due lettere \ V una | del Mascardi all’Achillini, | l’altra I ^//'Achillini al Mascardi | sopra le presenti calamità. | Dedicate | all’ Illustriss. Signora | D. Maria Pepoli | contessa di Castiglione, Sparvi, | e Barro-gazza. | In Bologna, per Francesco Catanio. 1630. Con licenza de’ Superiori. | Ad instanza di Bartolomeo Cavalieri, et Cesare Ingegneri. Iu 4.0, di pp. 1-24, oltre quattro n. n. in principio, nelle quali, dopo il frontispizio, è la dedica del Cavalieri, datata di Bologna, li 22 di Dicembre 1630, con questo principio: «Le due lettere uscite dalla penna di duo così famosi scrittori non han bisogno di mia lode, come quelli che per se stessi sono lodevoli ». La lettera del M. va da p. 1 a p. 12 ed e datata Di Rovia, dì......1630; quella dell’Achillini va da p. 13 a pagina 24 e porta in calce: Dal Sasso Villa del Bolognese...... 1630. Due I lettere \ l’una | del Mascardi «//'Achillini , | l’altra I Dell’ Achillini al Mascardi | sopra le presentì calamità. | Dedicate | All’Illustriss. E Reveren-diss. Sig. I II Sig. Abbate | D. Francesco | Peretti | Stemma de’ Peretti | In Roma, Per Lodovico Gri-gnani. MDCXXXI. | Con licenza de’ Superiori. In 4.0, di pp. 20. Frontispizio e ogni pagina inquadrata. Nelle pp. 3-4 sta la dedica dello stampatore al Peretti , in data di Roma, 15 febbraio 1631. - 6o2 — La lettera del Mascardi (p. 5 e sgg.) ha la data di Roma del 1630, quella dell’Achillini (p. 13 e sgg.) è data dal Sasso Villa del Bolognese 1630. Due I Lettere \ l’una | del Mascardi «//Achillini | V altra I dell' Achillini al Mascardi | sopra le presenti calamità | dedicate | al Molt’illustre et eccellentissimo | Sig. e padrone collendiss. | Il Sig. Iacopo Federighi (Impresa xilografata colla figura d’una morsa e il motto: Durum et utile). In Firenze, MDCXXXI | Nella Stamperia di Pietro Nesti al Sole j Con licenza de’ Superiori. E in 4.0, caratt. tondo, di pp. 16, con 11. 35. Precede breve lettera dedicatoria dello stampatore a Iacopo Federighi, quindi quella del Mascardi (p. 4 e sgg.) e infine la risposta dell’A-chillini. (Ved. anche Cinelli; III, 290). Due I Lettere \ Vuna | del Mascardi «//Achillini, | l’altra dell Achillini al Mascardi | sopra le presenti calamità I Dedicate | all’ Illustriss. & Reverendiss. Signore , I il Signor Abbate | D. Francesco | Peretti. | In Roma, & in Milano | Ad instanza di Gio. Batt. Bidelli I MDCXXXI. In 18.0, di pp. 1-32 e due cc. n. n. in fine. Dopo il frontispizio dovrebbe esservi la dedica; cosa che non posso accertare, perchè manca la carta che, secondo la paginazione, doveva portare i numeri 3-4. In fine, nella prima c. n. n., è l'Imprimatur, e sotto : In Milano \ Per Gio. Pietro Ramel-lati, cr Filippo \ Grisol/i Comp. L’ altra carta è bianca. ^ Ved. per questa lettera anche Scritti del Mascardi in Opere altrui e -poligrafie, in questa stessa bibliografia; e Opere raccolte, orazioni, discorsi ecc. (v. Discorsi accademici). ARTE ISTORICA Dell’ arte | historica \ D’Agostino | Mascardi | Trattati Cinque. | Coi sommari di tutta 1’ opera | Estratti dal Sig. Girolamo Marcucci. | E coi Privilegi di S. Santità, e d’altri Principi. | In Roma, ! Appresso Giacomo Facciotti. M.DC.XXXVI. | - | Con licenza de’ Superiori. In 4.°, di pp. 1-676 , oltre dodici in principio e trentadue in fine n. n. In principio si ha un’ antiporto inciso in rame, istoriato, raffigurante un piedestallo che sostiene la statua di San Giorgio, con Genova in fondo, disposta ad anfiteatro. \ i si legge: Dell’arte \ historica | di | Agostino | Mascardi j trattati cinque | In Roma, per Giacomo Facciotti, 1636. Con licenza de’ Superiori e privilegi di Principi. Oltre 1 antiporto, s’ha il frontispizio con a tergo l’imprimatur ; la lettera dedicatoria dell’A. Al Serenissimo Duce | Gio. Francesco Brignolc I Et agli Eccellentissimi | Governatori | della Repubblica di Genova; una lettera parimenti dell’A. All'Illustrissima Accademia I de’ Signori I Humoris ti \ in Roma; e l’avvertenza pure dell’A. al Lettore. In fine si trova Vindice \ delle materie ; \ l’Imprimatur; il Registro de’fogli, con l’impresa del facciotti, sotto alla quale son ripetute le note tipografiche. — Di questa bella edizione parve contento l’A., perchè soltanto rispetto alcune citazioni marginali rileva « qualche infelicità di tanto in tanto, per poca cura del componitore ». Dieci anni più tardi uscirono: Dodici capi pertinenti | all’arte j historica | del I Mascardi, | con nuove dichiarationi | di \ Paolo Pirani | da Pesaro. | All’Illustriss. Sig. mio, il Sig. | Girolamo Giordani — 6o4 — | In Venetia, MDCXLVI, Appresso Gio. Giacomo Hertz; Con licenza de’ Superiori, e Privilegio. Dell'Arte istorica ecc., In Roma, app. Francesco Cavalli, 1626 (sic), in 4.o. Citata dal Giustiniani, Scrittori, p. 27. È probabile però che il biografo abbia errato, oltreché nell’ indicare 1’ anno, il quale sarà da cambiarsi in 1636, anche il nome dello stampatore. Non pare possibile che il Mascardi facesse in quel- 1 anno stesso ristampare la sua opera dal Cavalli, essendo notorio eh egli ricorse, anche più tardi, alla compiacenza di autorevoli amici stranieri, per ismaltire le numerose copie del-l’ediz. Facciotti. Dell arte | historica | D’Agostino Mascardi | trattati cinque. I Venetia, 1655. | Per il Baba. In 12.0 di pp. 1-744, oltre otto, in principio, n. n., contenenti il frontispizio inciso, la dedicatoria e l’avviso al lettore; e quaranta, in fine, n. n., che hanno l'Indice delle materie. Dell arte | historica [ D’Agostino Mascardi | Trattati cinque I Venetia, 1662. | Per il Baba. In 12.0, di pp. 1-744, più otto in principio e venti in fine n. n. Nelle prime, oltre il frontispizio istoriato , è la dedica dell autore e la pref. ; nelle altre, l’Indice delle materie. Bell’Arte | historica | di | Agostino | Mascardi | Trattati cinque, | in questa idtima Impressione, con ogni \ diligenza rivisti, e corretti. | Venetia, MDCLXXIV. | Presso Paolo Baglioni. | Con licenza de' Superiori, e Privilegio. In 12.0, di pp. num. 640, oltre quaranta in fine, con Vindice delle materie. Il frontispizio è preceduto dal solito antiporto inciso e istoriato con San Giorgio sopra un piedestallo e Genova nello sfondo. — 6o5 — Dell’arte | historica | di | Agostino | Mascardi. | Tvattati cinque, | in questa ultima impressione, con ogni | diligenza rivisti, e corretti. | Venetia, MDCLXXIV. Per Nicolò Pezzana. In i2.°, di pp. 650 num., più cc. venti in fine n. n., con l'Indice delle materie. L’antiporto è istoriato (S. Giorgio e Genova nello sfondo). Ed. simile alla precedente. Dell’arte istorica \ di | Agostino Mascardi | trattati c /11 que I pubblicati per cura di Adolfo Bartoli. | Firenze I Felice Le Monnier | 1859. In 16.0, di pp. XVI-480, oltre l’antiporto e il frontispizio. A pp. I-VII si legge un avvertimento Al Lettore di Adolfo Bartoli. La p. Vili è bianca. A pp. IX-XV si legge una lettera di Agostino Mascardi al Cardinale Francesco Barberini ed un’ altra a Ferdinando II de’ Medici (V edi Lettere nella presente bibliografia). Seguono i cinque trattati dell arte istorica colle lettere dedicatorie alla Repubblica di Genova e al-l’Accademia degli Umoristi e coll’avvertenza del Mascardi al Lettore. L’ultima pagina è bianca. L’editore dichiara (p. 4, in nota): « A noi è parso inutile di empire ogni pagina di molte note ; tanto più che, sia per colpa dell’ autore o del compositore, non ve n’è una che bene stia, e la fatica di riscontrarle tutte sulle opere rispettive, sarebbe stato un perditempo senza frutto ». L’editore A. B. va errato nell’affermare (Prefazione, p. VII, in n.) che due sole erano le edizioni fatte di quest o-pera, quella cioè del 1636 e quella del 1674. Anche il P. Xi-ceron cadeva in errore citando un’edizione deW^lrtc istorica fatta in Venezia, coll’aggiunta di dodici capi del Pirani. Questi furono, come già s’è detto, pubblicati a parte. ROMANAE DISSERTATIONES - ETHICAE PROLUSIONES A\ ca stini | Mascardi | Romanae | dissertationes | de affectibus | sive | perturbationibus animi | earumque characteribus. | Parisiis, | Apud Sebastianum Cra-moisy, Tj^pographum | Regis ordinarium, viâ Jaco-baeâ, sub Ciconijs. | — | M.DC.XXXIX. | Cum privilegio Regis. In 4. , di pp. 1-234 » oltre dodici in principio e dieci in fine n. n. Nell antiporto sta scritto: Augustini | Mascardi | Romanae j dissertationes | de affectibus | sive perturbationibus animi, | earumque characteribus ; viene un frontispizio inciso in rame e istoriato con le parole : Augustini \ Mascardi | Romanae I dissertationes; poi la lettera dedicatoria dell’A. Francisco I Barberino | Cardinali | eminentissimo, \ S. R. E. | Vice-cancellano; quindi il frontispizio a stampa ; a cui segue : Lector ab I Augustino Mascardo \ salve, e VIndex | Dissertationum. In fine si trova VIndex reruvi \ memorabilium quae hac prima \ far te continentur,- \'Approbatio huius 0fer is, e la Summa privilegii Christianissimi Regis. - Quest’ opera trovasi quasi sempre rilegata insieme con la seguente, che ne forma la seconda parte. Avgvstini I Mascardi | Ethicae prolusiones. \ Parisiis, | Apud Sebastianum Cramoisy, Typographum | Regis ordinarium, viâ Jacobeâ, sub Ciconijs | MDCXXXIX I Cum privilegio Regis. In 4.0, di pp. 1-232, oltre quattro cc. in principio e quattro m fine n. n. Dopo il frontispizio a stampa, ne segue un altro — 6o7 — incìso in rame e istoriato, che reca le parole: Prolusiones Pythicae ; quindi la dedica Antonio | Barberino | Cardinali \ Emi nentissimo | S. R. E. | Camerario. In fine sta 1 Index rerum memorabilium, XApprobatio, e la Summa privilegii. Il Gii su NIANI, Gli scrittori, p. 27, ricorda, tra le opere da lui non lette, una Dissertationum Romanarum pars secunda. Ia quale altro non è che la presente con diverso titolo. Avgvstini I Mascardi | Romanae disse 1 tal ione s \ di af fectibus I sive | perturbationibus animi | et | Ethicae prolusiones. | Nunc denuo Typis editae. | Mediolani, MDCLXVII. I Ex Typographia Francisci \ igoni. | Superiorum permissu. In ia.», di pp. 1-490, oltre cc. quattro in principio e nove in fine n. n. In principio, dopo il frontispizio, s, ha nna lettera: Reverendissimo Patri | D. Romulo | Marchilo \ congre der. regni, s. Pauli \ generali | praeposito. \ et conciatori ce- ii ■ fi h t B V ■ segue la prefazione Augustinus leberrimo, firmata I. B. v., seg f , n- I Mascardus \ leelori sai: quindi l’Imprimatur; sertationum; e VIndex Prolusionum. In fine \ Index\ rerum memorabilium \ quae in Romanù dissertationibus \ contmen e l’Index rerum memorabilium quae m Pro itswm us continentur. Augustini | Mascardi | Romanae \ disser talione s \ J fectibus \ sive \ perturbationibus animi, \ et \ EMcat | prolusiones. | Nunc denuo typis editae. | e 10 an , MDCCIX. | Ex typographia Francisci \ igoni, | fratrum. . In 12.0 di pp. 1-523 più sei in principio e diciotto in fine n n Dopo il frontispizio, 1’ avvertenza del Mascardi, quin i imprimatur, e poi l'index. In fine 1 ’Index rerum memora- Ulium. — 6o8 — SCRITTI IN OPERE ALTRUI E POLIGRAFE Augustini Mascardi. Ovatio habita ad Illustriss. et Reverendiss. S. R. E. Cavdinalcs, de subvogando Pontifice. Sta a pp. 558-559 dell’opera seguente: Variarum \ lucubrationum I Tomus Primus \ quatuor complectens titulos \ I. De Concilijs profanis antiquis, et Ecclesiasticis recentioribus in Novendiali parenta- | tione Romanorum Pontificum, praesertim Pauli V. De anno, et eiùs \ partibus. Auspici]s , et Au-gunbus. j II. De prisco, et recenti funerandi more; Sepulturis, earum elogijs, iure sepulchrorum; | Quarta Parochiali, et Canonica portione. | III. De Conclavi, Conclavistis, et eorum pri-vilegijs, et de his, quae fiunt Sede Vacante. \ IV. De Electione Canonica, formis m ea servatis ab initio nascentis Ecclesiae ad haec [ usque tempora , Confirmatione, et Consecratione. | Opus sane varia eruditione refertum, \ Historicis, furis Consultis, et Iudicibus m utroque foro versantibus, | utile, ac per-mcundum. \ Cum sumariis ac indice \ capitum, et rerum locupletissimo , et Privilegio. | Anctore Iulio Lavorio de La-vrixo caputaquen. dioec. I. U. D. | Prothonotario Apost. ac Illustriss. et Reverendiss. D. Card. Muti Auditore. | Romae , I Ex typographia , et sumptibus Francisci Corbelletti. MDCXXVIII. I Superiorum permissu. Difesa I dell’Adone \ poema del cav. Mavini \ di \ Girolamo Aleandri | pev visposta all’Occhiale \ dei Cav. Stigliani. I Parte seconda. | Al molto Illustr. Sig. | Giuseppe Persico. | Con licenza de’ Superiori, e Privilegi. I In Venetia, M.DC.XXX. | Appresso Giacomo Scaglia. — 6og — In i2.f», Nelle cc. n. n. 4-12, in principio, sta: V11 amico | della verità \ a chi legge. Tomaso Stigliani, in una lettera a Domenico Molini del 15 settembre 1630, accennando all’autore della prefazione messa innanzi alla seconda parte del libro sopra indicato, soggiunge: « il quale dicono sia il Mascardi » (Lettere, Roma, Manelfi , 1651 , p. 167. Cfr. Melzi, Dizion. Anon. e Pseud., Milano, Pirola, 1848, I, 299). Ritratti I Et Elogi | Di Capitani Illustri \ Che ne' secoli moderni hanno gio- \ riosamente guerreggiato, j Descritti i da I Giulio Roscio, Mons. Agostino Mascardi I Fabio Leonida | Ottavio Tronsarelli, e altri. | In Roma, ad Instanza di Filippo de’ Rossi. MDCXLVI. I Con Licenza de’ Superiori. | Nella Stamperia del Mascardi. In 4.0, di pp. 404 numerate; la dedicatoria e l’indice però non hanno numerazione. La dedicatoria è in data Di Roma 7 aprile 1646. Due altre edizioni anteriori di quest’opera sono a nostra cognizione. La prima reca questo titolo: Ritratti di Cento Capitani illustri con li loro fatti in guerra brevemente scritti intagliati da Aliprandi Capriolo et dati in luce da Filippo Thomassino et Giovan Turpino. (In fine) In Roifia per Domenico Gigliotto MDXCVII. Con licenza de’ Superiori. L altra è la seguente : Ritratti et Elogii di Capitani illustri. Dedicati all’Altezza Sereniss.ma di Francesco D’Este Duca di Modena. Con licenza de' Superiori e Privilegio. In Roma, alle spese dì Pompilio Totti libraro, MDCXXXV. (In fine) In Roma, Appresso Andrea Fei MDCXXXV. Con licenza de’ Superiori, E privilegio. A spese di Pompilio Totti. — Per questa seconda stampa servirono i rami della prima con qualche leggera correzione al frontispizio pure intagliato , e la giunta degli stemmi a quelle figure che ne mancavano ; i ritratti poi furono accresciuti di ventotto. Il testo però ha qui subito, per molti elogi, notevoli correzioni e cambiamenti. L’edizione del 1646, alla quale si aggiunsero sette ritratti ed elogi, venne condotta sull’ antecedente. Il Mascardi deve aver cooperato alla stampa del 1635, della quale scriveva il Testi (Opere Atti Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLII* 39 — 6io — scelte, Modena, 1817, II, 55 e sgg.): « gii elogi sono fatti dai primi soggetti che siano a questa corte ». La terza edizione uscì quando il Nostro era già morto. Quale sia poi l’elogio, o quali gli elogi scritti dal Mascardi, non è detto. Lettera di Agostino Mascardi all’Achillini sulle presenti calamità. Sta in Rime | c Prose | di Claudio Achillini | In questa nuova impressione \ accresciute di molti sonetti, | et altre compositioni I non più stampate: | con aggiunta di diverse \ bellissime Lettere di Proposta, e \ Risposta del Medesimo Autore. I In Venetia, M.DC.LVI | Per Giacomo Bortoli, | con licenza de Superiori. In 12°. La lettera è a pp, 249-260. Lettera, c. s. Sta in Rime e Prose di Claudio Achillini ecc., In Venetia, MDCLXVI , Appresso Abondio Menafoglio ; a pagine 236-247. Lettera, c. s. Sta in Rime e Prose di Claudio Achillini ecc., In Venetia, M.DC.LXXX, Appresso Benedetto Milocho ; a pagine 195-205. Lettera di Agostino Mascardi a Francesco Augusto Tuano. Sta a capo dell’ orazione seguente : In morte \ dì \ Girolamo Aleandro \ orazione | di Gaspare de Simeonibus | detta m Roma | nell’Accademia degli Uvioristi | ai XXI di dicembre 1631, I In Parigi, per Sebastiano Cramoisi, Stampatore del Re, 1636, in 4.0. Oratione nella Coronatione del Serenissimo Signor Giorgio Centurione Duce della Repubblica di Genova. Sta a pp. 49-74 dei Trionfali Ilonori della Repubblica Genovese nella Coronazione ecc., c. s., In Genova, per Giuseppe Pavoni, 1622, in 4.0. — 611 — LETTERE SPARSE Lettera apologetica di Agostino Mascardi a Luca Assarino. Sta in fondo ai Discorsi accademici, pubbl. dal P. Carlo Mascardi (ved., in questa Bibliografia, Opere raccolte). Lettere di Agostino Mascardi Stanno a pp. 187-222 delle Istruzioni per la gioventù impiegata nella segreteria, opera di Francesco Parisi , Edizione terza romana, corretta ed accresciuta. Tomo IV, Roma, MDCCCIV. A spese di Mariano de Romanis a S. Pantaleo. Sono tratte da una « Raccolta delle sue proprie lettere » e-sistente presso l’autore, il quale aggiunge che parla « più diffusamente di questo Prelato » nella sua Epistolografia. Le lettere qui pubblicate sommano a diciotto e vanno dal 1615 al 1622, ma non è detta la persona a cui sono scritte. Come abbiam già notato nell’ avvertimento preposto alle lettere inedite da noi pubblicate nell 'App. I, la raccolta cui accenna il Parisi è quella stessa che noi abbiamo trovato nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Una lettera del Mascardi. Sta in F anfani, Mescolanze letterarie, Firenze, Tip. della Gazzetta d'Italia, 1879, p. 74, già edita in Letture di Famiglia. L’editore dice d’averla tratta dall’autografo che si con-serva nella Biblioteca Marucelliana di Firenze, Cod. B. 65. È datata di Sarzana 6 giugno 1629, e preceduta da altra di Brunoro Taverna. Come facilmente s’intende, sono quelle due lettere che più volte uscirono a stampa con il titolo: Oppositione e difesa alla Congiura del Conte Gio. Luigi de’ Fieschi. Lettera di Monsignor Agostino Mascardi al Cardinale Francesco Barberini. Sta a pp. IX-XV Dell’arte istorica del Mascardi pubblicata per cura di Adolfo Bartoli (Firenze, Le Monnier, 1859); il quale avverte che l’autografo si conserva nella biblioteca del marchese Gino Capponi, donde egli la trascrisse, e che ne è una copia nella Biblioteca Nazionale, Fondo Ma-gliabechiano, in un Cod. segnato XXXVII Var. — Un’altra copia ms. di questa lett. trovasi anche nel MS. (misceli, storico) Vitt. Emanuele, 538, a cc. 406-420. Lettera di Agostino Mascardi a Ferdinando II de’ Medici. Sta a p. XVI Dell’Arte istorica cit., reca la data di Roma 26 luglio 1631 , ed è tratta dal R. Archivio di Stato di Firenze, Carteggio di Ferdinando de’ Medici dall’ anno 162J al i633- Alcune lettere di Agostino Mascardi al Cardinale Alessandro d’Este. Stanno a pp. 114-117 del Giornale Ligitstico di archeologia, storia e belle arti, vol. I, 1874. Sono tratte dall’Archivio di Stato in Modena e recano la data di Genova 7 luglio 162.1, 21 ottobre 1622 e 7 gennaio 1623. Lettera di Monsig.re Agostino Mascardi circa la censura fatta al suo libro : La Congiura di Genova del Conte Fieschi. Sta a pp. 101-102 del Giornale Ligustico cit., A. VI, 1879. Manca di data e di indirizzo, ed e tratta da copia che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Due lettere di Agostino Mascardi. Stanno nella Scuola romana, foglio di letteratura e d’arte, A. II, 1884, pp. 49 sgg. Sono pubblicate di su un Cod. Chi-giano I, IV, 1x5, da Giuseppe Cugnoni. La prima è quella stessa comparsa nel Giornale Ligustico cit., A. VI, p. 101, come fu avvertito nello stesso giornale a p. 157. Lettera di Agostino Mascardi a Giambattista Strozzi. Sta a p. 211 del Giornale Ligustico cit., A. XV, 1888, donde poi passò in De Minimis di Achille Neri, Genova, Sordo Muti, 1890, p. 174. È tratta dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, Cl. VIII, cod. 1399, e reca la data di Genova 3 marzo 1623. 614 — SCRITTI INCOMPIUTI, IRREPERIBILI E ATTRIBUITI Orazione sulla castità. Così scrive il M. addì 16 giugno 16171 v- App. I, lettera n. 29: « Da Genova mi vien scritto che l’orazione mia della Castità dovrà ivi darsi alle stampe ». Può darsi sia il Discorso III pubbl. in Discorsi Accademici per Carlo Alascardi, intitolato : Invettiva contro il diletto dei sensi ed esaltazione dei diletti spirituali ed intellettuali. Satira contro Claudio Achillini. Ved. quanto se ne è detto in questo nostro lavoro (Vita, p. 61). Le Metamorfosi, commedia. È la commedia data in Genova nell’Accademia degli Addormentati. Ved. in Prose vulgari (ed. Venezia, Tomasini, 1646, p. 46) il disc. VII, Dell’unità della favola drammatica con occasione di rispondere a certe difficoltà intorno ad una Comedia. Discorsi sulla Tavola di Cebete. Parte II. Nell’avvert. al Lettore, premesso ai Discorsi morali a stampa, dice: « Eccoti finalmente i Discorsi su la Tavola di Cebete..... 10 andava trattenendogli a bello studio, per non pubblicare 11 primo volume senza il secondo ; ma, perchè quanto vo più innanzi con gli anni, tanto più torno a dietro con la speranza, lascio correre il dado, e faccia quel punto che può ». — 6i5 — Probabilmente comprendevano molti di quelli pubblicati dal P. Carlo Mascardi. (Ved. Discorsi accademici)', Giustiniani, Gli scrittori, p. 27; Oldoini, Athenaeum, p. 72. Il genio di Socrate, opera di Corte. Nella pref. al Lettore, preposta alle Orazioni: « ho poco meno che all’ ordine un buon numero di Discorsi su la Tavola di Cebete Tcbano ed un’ altra opera di Corte , intitolata Il Genio di Socratc ». Ne trasse il discorso delle Prose intitolato Che un cortigiano non dee dolersi per clic vegga più favorito in Corte l’ignorante che il dotto, il plebeo che l Nobile, e quello int. Delle Speranze della Corte e pubbl. in Discorsi accademici per il P. Carlo Mascardi (ved. p. 53 e sgg.;. Probabilmente si trattava di una serqua di insegnamenti morali messi in bocca al Genio di Socrate. Le due orazioni che, secondo le dichiarazioni del M. stesso, sarebbero state com poste per quell’ opera 0 con la materia di essa un po rima neggiata, non accennano a questo Genio che raramente. L o-pera è anche ricordata dal Ghiglini, op. cit., p. 3, tra quelle che il M. andava « apparecchiando di pubblicare alla luce » ; dal Giustiniani, p. 27; dal Soprani, p. 7; dall Oldoini , pagina 72. Imprese degli Accademici Umoristici. Ghilini, p. 3; Giustiniani, p. 27; Soprani, p. 7 ; Oldoini, p. 72. Historié d’Italia. Ghilini , op. e 1. citt. : « Con questa operetta [la Congiura] potranno i Lettori e Letterati fare co ’l giudizio loro diligentissimo saggio della celebre Istoria che delle cose d I-talia da un secolo in qua accadute, va preparando a fine di parteciparle al mondo, con la quale farà a tutta questa famosa provincia una preziosissima catena d’honore et a se stesso una perpetua e gloriosa corona di lode ». \ ed. Ghi-glini, p. 3; Giustiniani, p. 28; Soprani, p. 7; Oldoini, p. 72. — 616 — Discorso intorno la precedenza dovuta all’Ambasciatore della Religione di S. Gio. Gierosolimitano detta di Malta sopra li Gran Croci fatto circa l’anno 1635. Il Giustiniani v’ accenna nel suo Catalogo, aggiungendo di averla letta e vista in Roma nella biblioteca privata « del già Card. Bernardino Spada, Voi. 173 »; ved. op. cit., pagina 27. Relatione amplissima dell’Ambasceria d'obbedienza del Principe d’Echemberg mandato nel 1640 dall'Imperatore Ferdinando III a Papa Urbano VIII. Letta dal Giustiniani, op. cit., p. 27; e da lui vista nella biblioteca Spada, al n. 131. Conclave per l’elettione del Card. Ludovisio in Sommo Pontefice co ’l nome di Gregorio XV. Il Giustiniani, op. cit., p. 27, ne dà notizia come di opera da lui letta, e aggiunge : Va attorno. La pubblichiamo nel-VApp. II. Ved. ivi per i manoscritti, dei quali non vogliam parlare in questa bibliografia. Storia della Rivoluzione nel Seminario Romano. Non è nominata in alcuna delle opere bio-bibliografiche del sec. XVII, perchè non fu stampata e il manoscritto portava il pseudonimo di Nardini. La pubblichiamo nell 'App. II con ragguagli sui manoscritti. Il Tebro festante nella Coronazione del Papa Urbano VIII. L’ operetta è attribuita al Mascardi dal Gitilini , Teatro, 1. cit., p. 3. Certamente dal Ghilini ne tolsero l’indicazione l’anonimo autore dalle Glorie degli Accademici Incogniti di Venezia, che scrisse la Vita del Nostro, riportata poi dal Baba a capo dell’ed. veneta del 1653 delle Prose vidgari; il GlU- A — 617 — STiNiANi, op. cit., p. 27: 1’Oldoini , Athenaeum (ed. 1680), P- I2- — Talvolta è data come del Nostro l’operetta Festa fatta in Roma alti 25 Febbraio 1634, Roma, Mascardi , 1635, in 4.0. Discorso di Agostino Mascardi intorno a’ Romani Conclavi, MS. cartaceo, in 4.0 grande; caratteri corsivi, sec. XVII; pp. 945; ben conservato. Esiste a Parigi, nella Biblioteca già del Re ed è il n. 1468 di quelli illustrati e descritti dal Dott. Ant. Marsand, I manoscritti italiani della Regia Parigina ecc., vol. II , pp. 113-115). Già dicemmo perchè quest’opera non può considerarsi del Mascardi nostro. — 61S — SAGGI ACCADEMICI RACCOLTI DAL MASCARDI Saggi | Accademici | Dati In Roma | Nell'Accademia del Sereniss. Prencipe \ Cardinal di Savoia. \ Da diversi Nobilissimi Ingegni Raccolti \ E Pubblicati \ Da Monsig. AcxOSTiNO Mascardi | Cameriere d’honore di N. S. Urbano Vili. | Dedicati al Molto Illustre, e Reverendiss. Sig. | Don Valeriano Zanucca Scaglia, | Abate di S. Francesca in Brescia. | Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio. | In Venetia, per Bartolomeo Fontana. MDCXXX. In 4.0, di pp. 1-196, oltre quattro n. n. Precede la dedicatoria del Fontana allo Zanucca-Scaglia ; a questa segue la La Tavola de’ discorsi de’ Saggi Accademici dati in Roma nell’Accademia del Ser.mo Card, di Savoia. I Discorsi sono quattordici, cioè: i.° Del Signor Girolamo Aleandro; 2.0 Del Signor Conte Vergilio Malvezzi; 3.0 Del Signor Bali Galeotto degli Oddi; 4.0 Del Signor Marchese Sforza Palavicino; 5.0 Del Signor Giuliano Fabrici ; 6.° Del Signor Giulio Rospigliosi ; 7.0 Del Signor Agatio Somma ; 8.° Del Signor Pier Francesco Paoli; 9.0 Del Signor Girolamo Rocco; io.0 Del Signor Canonico Alfonso Pandolfi ; 11.° Del Signor Matteo Peregrini; 12.0 Del Signor Marcello Giovannetti; 13.0 Del Signor Francesco Buoninsegni; 14.0 Del Signor Agnolo Cardi, sanese. Saggi I accademici | dati in Roma \ nell Accademia del Sereniss. Prencipe | Cardinal di Savoia, | Da diversi Nobilissimi Ingegni. \ Raccolti, e pubblicati da Monsignor | Agostino Mascardi , | Cameriere d'ho- — 619 — nove di N. S. Urbano VITI. | In Venetia, Per Bartolomeo Fontana, M.DC.XLI | Con licenza de' Superiori, e Privilegio. In 8.°, di pp. 1-136, oltre due cc. in principio n. n. con il frontispizio e la tavola. Si trova unita questa edizione a quella di pari data delle Prose vulgari. Saggi I Accademici \ dati in Roma | nell’Accademia del Ser. mo \ Prencipe \ Cardinal di Savoia, | da diversi nobilissimi ingegni | raccolti) e pubblicati j da Monsignor \ Agostino Mascardi | Cameriere d’honore di N. Sig. I Urbano Vili. | In Venetia, M.DC.LII. | Per Francesco Baba. | Con licenza de' Superiori, e Privilegio. In ii.°, di pp. 1-264, oltre cc. due in principio col frontispizio e la Tavola. Saggi I accademici \ dati in Roma j nell'Accademia del Ser.mo \ Prencipe | Cardinal di Savoia [ da diversi nobilissimi ingegni | raccolti, e pubblicati | da Monsignor I Agostino Mascardi | Cameriere d’honore di N. S. \ Urbano Vili. | In Venetia, M.DC.LX. | Per Francesco Baba. | Con licenza de’ Superiori, e Privilegio. In 12.0. Trovansi unite a Prose vulgan ed. del Baba nello stesso anno. Saggi I accademici \ dati in Roma | nell'Accademia del Serenissimo \ Principe \ Cardinal di Savoia | da diversi nobilissimi ingegni \ raccolti, e pubblicati | da Monsignor | Agostino Mascardi | Cameriere d’honore di N. Sig. \ Urbano Vili. | In Venetia, M.DC.LX.VI. I Appresso Valentino Mortali, | con licenza de’ Superiori. In 12.0, di pp. 1-264, °ltre due cc- principi0 n- n- con il frontispizio e la Tavola. - 620 — GIUNTE AI CENNI SULLA FAMIGLIA MASCARDI Origini della Famiglia Mascardi. (p. i e sgg.). Quando già era impaginato il primo capitolo della Vita di Agostino, contenente i brevi cenni sulla famiglia Mascardi, uscì il volume del prof. Francesco Poggi, Lenci e il suo castello , Sarzana , Costa , 1907 , ove trovansi confermate le conclusioni sull’origine di essa famiglia, che io, per economia del lavoro, avevo fissate con minor numero di testimonianze e ricchezza di particolari. Colgo l’occasione per compiacermi con 1’ egregio studioso della sua pregevole fatica , contenente notizie, se pur talvolta farraginosamente esposte, sempre utilissime ; e ad essa rimando senz’altro tutti coloro che , circa 1’ origine dei Mascardi e dei consanguinei Visdomini, desiderassero maggiori schiarimenti. — Rispetto all’opinione espressa su tale origine dallo stesso Agostino in una sua lettera (ved. il presente lavoro a p. 17 e 428), con-vien notare ch’egli riferiva in buona fede di su un memoriale compilato dal nonno Francesco e citato anche dal De Rossi in una nota marginale alla sua Collectanea. Notizie biografiche su Francesco Mascardi. (p. 23). Il Cardinal Cibo, con una sua lettera, datata da Carrara, alii XXIII di settembre del 1549, raccomanda Francesco Mascardi, suo Auditore, ai Senatori della Repubblica di Genova, perchè vogliano conferirgli 1’ ufficio del Vicariato del Ser.mo Podestà, e dice tra l’altro : « noi non havemo potuto mancare/, possendolo massime sicuramente fare, per ha-verne esso, mentre ch’è stato alli stipendij nostri, servito sin- — 62 I — ceramente et come si conviene a qualsivoglia huomo da bene, di pregarle che le piaccia farli questo favore di conferirli il ditto offitio, perchè certo lo collocheranno in persona benemerita di questa et molto maggior cosa, come alla giornata le buone qualità sue ne le faran sì certe che conosceranno haver fatta ottima elettione, et noi di quanto si risolveranno fare a beneficio di questo negotio le ne terremo obbligo non piccolo » (R. Archivio di Stato di Genova, Senato, filza 28, n- 339)- Nel 1551, con date del 13, del 17 e del 19 febbraio, Francesco spediva da Lucca al cancelliere Lorenzo Sorba dei vistosi plichi, che contenevano lettere, manuali di spese legali, relazioni, procure e altre carte, pertinenti tutte una causa commessagli per la vendita di certi feudi lasciati in eredita da Teodoro Malaspina (R. Archivio di Stato di Genova, Cancelleria di San Giorgio, Lorenzo Sorba, Litteraruvi dal 1557 [1551]; e Instrumentorum del 1551). Il 16 di aprile di quell’anno istesso, egli è chiamato al desiderato ufficio del Vicariato, il quale « inchoare debet die lune proxime , que erit dies XX aprilis » (ibidem, Manuali Senato, n. 35-777)* (p. 24). Egli era già Auditore a Massa nel 1554 e con una sua lettera di quest’anno chiedeva al Senato genovese la concessione ai Gesuiti di alcune stanze di S. Siro spettanti al marchese di Massa (R. Arch. di St. di Genova, Lettere al Senato, filza 51). Il 6 di gennaio 1569, insieme con Elena Malaspina, a nome del Cardinal d’Este [Luigi] e di madama Lucrezia, tiene a battesimo Franceschetto Stefano Ferrante, figlio di Alberico Cibo (Cronachetta di Massa, in Giorn. stor. e letterario della Liguria, anno III, p. 55); e il 13 di agosto dell’anno istesso ragguaglia da Massa il Senato su quistioni di carattere legale (R. Arch. di Stato di Genova, Lettere al Senato, filza 89, n. 126). Il 21 di maggio 1572 manda al Senato genovese, da Sarzana, alcuni avvisi intorno a una galera francese incrociante nelle acque del golfo (ibidem, Lett., fil. 97, n. 145). Nel 1575, ancora da Sarzana, ove pare si fosse definitivamente stabilito, spedisce al Senato certe scritture istoriche che gli eran state richieste (ibidem, Lett., filza 105, n. 90). Nel 1577 sottopone al Consiglio della città di Sarzana - Ó22 - un suo « parere », circa il « governo da tenersi per l’amministrazione dei beni di S. Maria e dell’Ospedale di San Lazzaro » (Archivio Comunale di Sarzana, filza II, n. 25, senza data) ; e il Consiglio, prendendone atto, delibera, 1’ 11 di maggio, di provvedere anche alla fabbrica del convento e della chiesa dei Cappuccini, già fondata dallo stesso Francesco (ibidem , filza I, n. 26 ; e Reg. deliberazioni 1572-1583, n. 344, p. 149). Notizie su Nicolò , Giuseppe e Alberico Mascardi di Francesco. (p. 25 e sgg.). Su Niccolò qualche ragguaglio bibliografico potrà anche trovarsi in G. Battista Semeria , Secoli cristiani della Liguria, to. II, Torino, 1843, p. 176; e su Giuseppe, in Giustiniani, Gli scrittori, ed. cit., p. 485. Nicolò s’era già interessato in prò del Capitolo dei Canonici Sarza-nesi prima che il fratei suo Giuseppe. I Canonici infatti lo deputarono, il 27 di agosto 1570, ad assumere il loro patrocinio innanzi al Senato genovese , a proposito di alcune decime nuovamente imposte dal Pontefice e dalle quali essi si ritenevano esenti (R. Arch. di St. di Genova, Lett. al Senato, filza 91, n. 230). La sua nomina al vescovado di Brugnato, avvenuta, come dissi, nel 1570, fu suggerita e propugnata dal Card. Benedetto Giustiniani, al quale scrissero poi , il 24 di gennaio , una lettera di viva gratitudine gli Anziani del Comune (Archivio Comun. di Sarzana , filza I, n. 32). Il 15 di gennaio 1581 egli consacra in Genova la chiesa di S. Sebastiano, detta di Pavia, ora distrutta, e il 19 di ottobre la chiesa di S. Silvestro, detta di Pisa, ora sconsacrata. (Giornale degli Studiosi, 1870, P. I, p. 64, 326, 327). (p. 27). Da atti e procure risulta che Mons. Giuseppe Mascardi era nel 1584 Vicario Generale per la Santa Sede nella diocesi di Ajaccio , Visitatore e Commissario delegato amministratore della cattedrale erigenda di quella città; che il canonico Alberico Mascardi era suo procuratore ; e che le ragioni presso il Banco di S. Giorgio venivan presentate e sostenute dal padre loro, Francesco Mascardi, magnifico giure- — 623 — consulto, eletto a siffatto incarico con breve del 30 di marzo 1583 (R. Arch. di St. di Genova, Cancelleria di S. Giorgio, Gregorio Ferri. Actorum 1584-85). Notizie su Alderano Mascardi. (p. 28 e sgg.). Alderano Mascardi avea preso parte con Genesio Todeschini e altri, a una congiura della quale ignoro i particolari, ed era quindi stato condannato, come reo di lesa maestà, all’ esilio. Per rivocare questa pena, scrisse egli stesso, nel 1584, una supplica al Senato di Genova (R. Archivio di Stato di Genova, Lettere, Levante, 1584, filza I, c> 475» 476, 478 e 494) e fece poi scrivere dal Commissario di Sarzana, il 3 di gennaio, un’ invocazione di perdono (ibidem, filza 130); ma probabilmente non ottenne subito l’effetto desiderato , giacché per un po’ di tempo, dopo queir anno, non sappiam nulla di lui. Contro di lui, per parte forse di avversari politici 0 di colleghi invidiosi, arrivarono anche al Senato, nel giugno e dicembre del 1599, numerose lettere anonime, piene di accuse e di pettegolezzi locali (ibidem, filze 179 e 180), le quali non valsero tuttavia a scalzare il prestigio e l’affetto ond’ egli era circondato in Sarzana negli ultimi anni di vita, così essendosi poi espresso , in una lettera d’ annuncio al Senato, il Commissario della Repubblica , non appena trascorsi quattro giorni dalla sua morte : « La morte del Magnifico Alderano Mascardi......non già gioverà a questa città, poiché il suo valore e la sua molta autorità non mancava di causarli molti buoni affetti, perchè, e degnamente certo, li era havuto molto rispetto » (ibidem, n. 206, 25 novembre 1608). • s ■ INDICE ONOMASTICO (,) A Abati Antonio 256, 258, 400. Achillini Claudio 61, 159, 184, 258, 259> 327. 393-Agliè (D’) Lodovico 136 , 137 , 156, 184, 322. Alberici [Albrici] Luigi 410, 418. Aldobrandini Ippolito, card., 192; Pietro, card., 538. Aleandri Girolamo 144, 181, 184, 185. Alessandro VI, pontefice, 530. Alicarnasseo [Dionigi d’ Alicarnasso] 235, 340. Alighieri Dante 22, 260, 324, 351. Allacci Leone 214, 301, 342, 543. Amaseo Romolo 158. Amiani Gregorio 550. Ancona (D’) Alessandro 9. Anguillara (Dall’) Giovanni Andrea 270. Antoniano Silvio 158, 365. Antonio Marco 318. Aprosio Angelico 1S4, 276, 543. Aquino (D’) Ladislao, card., 93, 464, 528, 537. Aresi Paolo 237. Arezzo Paolo 27. Ariosto Lodovico 261, 262, 265, 315. Aristotile 235, 263-265, 270, 310, 325. Armanni Vincenzi 95, 181, 214. Asinari Bartolomeo 167. Aspasio Cornelio Antivigillo (ved. s. Aprosio Angelico). Assarino Luca 201, 246, 247. lì Baba Francesco 229. Bacci, segretario del card. Borghese, 466. Bacci Orazio 9. Baiano Andrea 278. Balducci Francesco 133, 136. Balzac (De) Luigi 222. Bamberino (?) 449. Barbaro Ermolao 368. Barbazza Andrea 181-183. Barberini Antonio 189, 212, 223, Francesco 156, 162, 163, 169, 180, 181, 184, 188, 2:2, 223-224, 380, 455. 493, 55°- Maffeo (poi Urbano Vili) 92, 131, 281. Barclay Giovanni 86, 88. Baronio Cesare 198, 456. Bartoli Adolfo 9, 364, 392. Bellarmino Roberto, card., 528. Belloni Antonio 351; Giacomo 117. Bembo Pietro 303. Benetti (De’) Benedetto 22. Beni Gerolamo 365, 367, 369. Benigni Domenico 1S4. (1) Per maggior utile degli studiosi, ho sempre cercato d’identificare, aggiungendo il nome, quei personaggi che ni’ erano comparsi innanzi, durante il corso del lavoro, col solo cognome ; nei casi disperati ho messo un punto interrogativo. Ho escluso dallo spoglio tutti i nomi dell’ Appendice III e quelli dei personaggi ai quali sono indirizzate le lettere (ved. per questi ultimi a pag. 519). A ili Soc. Lig. Storia Patria. Vol. XLI1. 40 1 - — Ô2Ô Bentivoglio Annibaie 1S4; Ferrante 55 ; Guido 348, 353, 359. 369. 458. 496, 529 ; Ippolito 45S, 461. Benvoglienti Uberto 362. Bernardi [Alessandro?] 507. Bernardini Giovanni Andrea 31. Bernucci Agostino 23, 24, 27. Bertoloni Antonio 544. Bettini Mario 278. Bevilacqua Bonifacio 97, 528,538, 539: Camillo 469. Beyerlinck Lorenzo 2S3. Bidermann Giacomo 278. Biondi Giovan Francesco 214. Boccalini Traiano 61, S3, 360, 381, 393. Bòcchineri Alessandro 197. Bolognesi [?], cavaliere, 516-517. Bonaventura Francesco 22. Bonfadio Jacopo 376. Bonghi Ruggero 243. Borghese-Caffarelli Scipione , card., 92, 93, 95-97. 461. 463. 464, 466, 524, 526, 529, 530, 532, 534. 542; Pier Maria (ved. avv. e corr.), cardinale, 1S3. Borghesi Guidotti Paolo 184. Borgia Gaspare, card., 96, 97. 5295 538 (ved. s. Susanna). Borromeo (San) Carlo 27 ; Federico 542. Borzone Luciano 121; Valentino 117-Boschetti Ferrante 453* Bouchard Giangiacomo 222, 223. Bovio Giovanni 369. Bracciolini Francesco 184. Brignole Giovan Francesco 195-Brignole-Sale Giovanni Antonio 246. Bruni Antonio 184; Girolamo 184. Buonamico Lazzaro 369. Buondinari [Girolamo?] 46°-Buoninsegni Francesco 145. Bzovio Abraham 198. c Cagnoli Belmonte 182. Calcagno, servo di Gian Luigi Fieschi 376, 377-Cai uso (Marchese di) 403. Calvino Giovanni 359. Camerte Giovanni 320. Campanacci Maria 376. Campanella Domenico 158. Campeggi Annibaie 117-Campegna [Carpegna?], card., 193. Campofregoso (di) Giovan Maria 22. Campori (0 Campora) Pietro, card., 93 , 95, 464, 4S7, 496. 497. 524. 527, 529-532, 534. 535, 537-542. Canossa (di) Marc’Antonio 213. Cantù Cesare 369, 371. Cappelloni Lorenzo 376. Capponi, [?], marchese, 175, 511, 513 ; Luigi, card., 97, J75 , 294, 528, 529. 538, 541, 542. Carandini Alfonso 1S7. Carandini-Ferrari Fabio 459, 46ii 463. Cardano Girolamo 331. Cardi Angelo 145. Carlo Ferdinando 278. Carlo V, imperatore, 198, 199. Carrega Domenico 118. Casini Carlo 222. Casoni Filippo 494, 495* Guido 1S4. Cassiani Giuliano 64, 403, 406, 407, 411, 413, 414, 479-Cassio Dione 284. Castellini Zarattino 85. Castello Pietro 158. Castelvetro Lodovico 265. Castiglione (di) Francesco 60; Perne-stana Bibiana 60. Castracani, alunno del Seminario Romano, 548, 549, 551, 552. 5^0. Cataneo Odoardo 32. Catullo 277. Cavalieri (de’) Giov. Batt. 34. Cebà Ansaldo 66, 109, 126,472,473. Cebete da Tebe nS, 122, 149, 275, 308, 320, 324, 326, 505. Cecchinelli Gaspare 36. Ceco Ventura 368. Celsi (di) Benedetto 22. Centurione Giorgio 116; Luigi 477; Marc’Antonio 109; Marco 452, 453. Cesarini Alessandro 50; Virginio 5°, 86, 87, 133, 135. 222, 270, 272 , 278, 279, 281, 288, 455. Cesi, tesoriere della Curia, 220; Bartolomeo, card., 539. Ceuli Tiberio 222. Chapelain Giovanni 222. Chemnitz Martino 359. Chiabrera Gabriello 117, 199, 201, 279. Chiaramonte Scipione 55. Chiffelio Enrico 158. Chitreo, eretico, 359. Ciampoli Giovanni 86, 156, 181, 184, 278, 279, 281, 282. Cybo Alberico, duca di Massa, 25 , 621, 471; Franceschetto 621; Giulio 23; Innocenzo, card., 23, 60. Cicalotti Antonio 187, 253, 364, 366, 367, 381. Cicerone 235, 313, 339, 342, 344, 347. Claudiano 277. Clemente VII, pontefice, 198. Clemente Vili, pontefice, 533. Coccapani Ercole 462 ; Guido 55. Coccino Giov. Batt. 158. Coccio Francesco 320. Coclite [Barthélémy de la Rocca] 33 t. Colonna Mario 117. Contardo Girolamo 34, 42. Corio Bernardino 359. Cornificio 235. Costaguti Francesco Maria 193. Crasso Lorenzo 222, 223, 226, 227. Crescenzio Pierpaolo, card., 530. Curzio Fortunaziano 235. 1) Davy laeque (card. Du Perron) i6r, 455. Delfino Giovanni, card., 539. Deti Gio. Batt. 536. Diacono Paolo 327. Digby Chenelmy 214. Dionigi d’Alessandria 365. Donato Alessandro 278. Doni Giov. Batt. 278. Doria Agostino 31; Giov. Stefano 495; Marc’Antonio 66, 109, 118, 471, 473, 491; Margherita 66; Niccolò 495. Dostasio Lodovico 30. Ducci Lorenzo 369, 371, 372, 374- Dunnozetche [?] 531. E Eliano 377. Elisabetta d’Inghilterra 188. Elzeviro Daniele 278. Enrico III di Francia 455 ; IV di Francia 455- Ermogene 235. Erodoto 340, 341. Estrées (D’) Gabriella 455. Este (D’) Alessandro, cardinale , 54, 61, 64-67, 69-71, 74-78, 87, 88, 90, 92, 94, 97, 99, 100-103, 106, logliX, 119-121, 125, 130, 152, 224, 276, 383, 392, 395- 396, 402, 411» 414, 416-419, 423-426, 429-434, 436-442, 453, 457, 459, 462, 463, 465 467, 484, 485, 487-490, 493, 538, 540 , 542 ; Alfonso (di Cesare) 55 , 459, 460, 481, 501, 506; Alfonso I, duca di Ferrara, 86, 510; Cesare, duca di Modena, 55, 98 , 99, 115, 154, 412, 459, 477 ; Cesare (di Alfonso) 56; Francesco 152-154, 179, 181, 191, 192, 194, 195, 197, 208, 212; Giov. Batt. 208; Ippolito 86, 510; Isabella 56; Luigi, card., 621; Luigi, principe, 55, 286, 493, 497, 501; Virginia (ved. s. Medici). Eustazio 265. F Fabio Vittore 545. Fabrizi Giuliano 145. Facciotti Giacomo 229. Falconio Arrigo 181. Fannusio (0 Fanusio) Campano 1S. Farnesi Odoardo, card., 92, 463, 537, 538; Ranuccio I, duca di Parma, 63. Favoriti Agostino 50, 133, 278. Federici Maria Lorenzo 37. Ferdinando II, granduca di Toscana 403. Ferdinando III, imperatore di Germania, 140, 200. Ferrari (De) Sinibaldo 118. — 628 — Ferraroni Paolo 459, 462. Ferrero-Ponsiglioni Giansecondo 167. Fieschi Ambrogio 479 ; Fabio 278 ; Flavio 181; Gian Luigi 375, 376; ( Giov. Ambrogio 115. Filippo li di Spagna 198, 199. Filomanni [?], segretario del card. Francesco Barberini, 550. Fiorentini Francesco Maria 263, 320. I Foffano Francesco 9, 370. Foglietta Umberto 359, 365, 376- Fontana Bartolomeo 229; Roberto 60, S7, 391, 402, 413, 415, 4i7-4i9> 421, 423, 430, 431, 480,484,486, 504- Fontanella Giovanni Andrea 277, 506; Giuseppe 282, 447, 466, 469, 470, 485. Fontanini Giusto 362. Fossa Andrea 201. Frugoni Francesco Fulvio 61, 1S0. Furlana Alberto 31. Furlani Girolamo 63. G Galeno 263. Gallicano (principe di) 184. Galluzzi Tarquinio 43, 112, 113, 165, 166, 264, 269, 278, 298, 299, 544-560. Gamba Bartolomeo 378. Gaudenzio Paganino 158, 160, 181 , 278. Gellio Aulio 235. Gentile Giov. Batt. 24. Gerini Emanuele 17. Gessi Berlinghiero 184. Gessi Girolamo 418. Ghelfucci [?], gesuita, 412. Ghigi Fabio 257. Ghisi Innocenzo 51. Giattino Giov. Batt. 278. Ginetti (o Ginnetti) [?], mons., Vicario di Roma, 92, 463, 551, 559. Giovanna (Della) Ildebrando 9. Giovannetti Marcello 145, 276. Giovio Paolo 198, 358. Giraldi Lilio Gregorio 454. Girolamo (San) 327. Giustiniani Benedetto, card., 33, 536, 538, 622; Marc’Antonio 130; Pier Giuseppe 109, 117. Gondy (Abate di) Francesco Paolo, poi card, di Retz, 378. Gonzaga Alfonso 86, 506, 507 ; Isabella 477 ; Vincenzo 477. Gradio Stefano 278. Gregorio XV, pontefice, 36, 129. Griffi Giovanni Angelo 22. Grillo Angelo 51 , 54, 56, 60 , 259, 281. Grimaldi Silvestro 10S, 120, 276, 483, 506; Tommaso 108, no, 494. Grisostomo Dione 264. Grosio (Ugo de Groot) 320. Grossi Angelo 117. Guano Pier Francesco 117. Guastavino Giulio 117. Guerra Giov. Batt. 60. Guicciardini Francesco 341, 358, 369> 370, 379-381, 5°9-Guidiccioni Lelio 92. Guinigi Vincenzo 278. I Imperiale Gian Giacomo 65, 418; Gian Vincenzo 50, 65, 418; Giovanni 214. Inchofler Melchiorre 60. Innocenzo X, pontefice, 1S8. Isolani Giulio Cesare 462. Li Laberio 545. Lampria 365. Lampugnani Agostino 185. Landinelli Ippolito 35. Landini Giov. Batt. 24, 25. Lanzi Francesco 499, 500. Leoni Giacomo 222; Giov. Batt. 358, 381. Leonida Fabio 181, 278. Leopoldo , Arciduca d’Austria , 148, 503, 506. Lercari Iacopo 24. Leto Pomponio 377. Levi [?] 461. Libanio 318. Liceti Fortunio 117. Livio Tito 284, 327, 347, 367. Lodovico il Bavaro 198. Lombardo Bartolomeo 265. Lomellino Giov. Giacomo 108, 121, 493- Lucano 277, 286, 291. Luciano 365. Lucrezio 260. Ludovisi Alessandro (Gregorio XV, pontefice) 92-97, 528 , 529 , 532 , 534, 537, 541, 542; Ludovisio 93-97, 158, 466, 477, 532, 534, 535-Luigi XIII, re di Francia, 219. Luiggi Tommaso 166. M Macchiavelli Niccolò 358, 376. Macci Sebastiano 347, 358, 365, 368, 369. Macrobio 235. Madruzzo Carlo Gaudenzio , card., 530, 538, 540. Maffeio Giampietro 284. Magalotti [?], ambasciatore di Malta, 190. Magalotti Lorenzo 281. Maggi Vincenzo 265. Majoragio Marc’ Antonio 342. Malaspina Elena 621; Teodoro 621. Malvezzi Virgilio 144, 247, 248. Manecehia Chiara 23, 24. Manso Giov. Batt. 189. Mantovani Francesco 190-192, 195, 199. Manuzio Aldo 158; Paolo 365. Manzini Giov. Batt. 201-209, 247, 248, 254. Manzoni Alessandro 328. Marc’ Aurelio 322. Marchetti Giov. Batt. 117. Marcolini Francesco 320. Marcucci Girolamo 196. Margherita d’Austria 297. Mari Antonio 476. Mariana Giovanni 369. Mariani Fabrizio 60. Marini (De) Gabriele 181. Marini Giov. Batt. 85, 181, 222, 259. Martinetti Piero 25. Marziale 277, 286. Masini Eliseo 109. Massa Giacinto 187, 364. Mattei Pietro 247, 248, 251, 253, 369; Tobia 214. Mazzarino Giulio, card., 359. Mascardi Agostino 227, 228; Alberico (di Alderano) 29, 35, 37, 129, 217, 220; Alberico (di Francesco) 28, 29, 622; Alderano 28-39, 41, 51, 468, 623; Barbara 39; Carlo 20, 37; Caterina 39; Chiara 39; Francesco [?] 228; Francesco (di Alderano) 35 ; Francesco (di Nicolò) 23-25, 29, 37, 620; Gerolamo 29, 34-36; Giov. Batt. 468 ; Giovanni 29, 34, 35, 46, 51, 67, 76 , roS , 129, 187, 220, 283 ; Giuseppe 26, 28, 29, 33 ; Margherita 228 ; Michelangelo 39 , 228 ; Niccolò (di Alderano) 29, 35; Niccolò (di Francesco) 24-26, 28, 29, 622; Niccolò (di Giovanni) 22, 37. Medici (De’) Carlo, card., 82 , 175, 17S, 190, 192-194, 197, 537-539, 541; Ferdinando 175, 178, 191, 192, 206, 208; Virginia (D’Este) 58, 179, 306, 310. Mellino Giangarzia, card., 537. Menino Ottavio 60, S3. Merlino Clemente 191, 278. Mirandola (Della) Pico 270. Molza Camillo 60, 63-6S, 72, 74, 75, 87, 94, 97, 115, 120, 179, 282, 295, 312, 391, 392; Niccolò 508. Montanari [?], auditore della Rota Romana, 211, 516. Montecuccoli Massimiliano 194, 195, 282, 391, 416, 431, 453, 475»485-490, 49S, 499, 501, 502, 504,513, 514, 516. Monti Cesare, card., 537, 538, 541, 542. Morandi Bernardo 117. Mureto Marc’Antonio 15S, 330. — 630 — N Narni [?], gesuita, 467. Negrone Tobia 11S. Neri Achille 10, 543. Nero (Del) Alessandro 471. Niccolò V, pontefice, 34. Nobili (De’) Ippolito 2S; Faustina 28; Giovanni 28. Nori, priore, 189. O Oddi (Degli) Galeotto 144. Omero 260, 262, 264, 270, 271, 315, 322. Orazio 56, 264, 277, 281. Orsini Alessandro 464, 527, 530, 531, 538, 539; Ferdinando 531, 539 Giovanni Antonio 531-539-Orso [?], conte, 513-Ovidio 296. r* Pallavicino Francesco 117; Pietro Antonio 118; Sforza, card., 97, i45? 257, 278, 359-Palloni Gaspare 92, 536. Pamphili Camillo, card., 188. Pandolfi Antonio 145. Panigarola Francesco 237. Paoli Francesco 184; Gian Francesco 278; Pier Francesco 145, 181. Paolo V, pontefice, 84, 92, 157, 158, 477. 536, 537-Paolucci Baldassarre (ved. corr. e aw.) 439. Parentucelli Domenico 24. Parisi Francesco 391, 392. Parrasio Giano 158. Pasquali Carlo 404. Patrizi Francesco 365, 366, 369. Pausania 315. Peccini Pietro 30; Ventura 32. Pellegrini Matteo 145. Peretti-Montalto Alessandro , card. 537-540; Francesco 531, 539-Persico Giuseppe 184; Pamfilo 177. Petrarca 465. Petrucci Girolamo 165. Pinella Benedetta 473. Pio Carlo Emanuele, card., 538, 539, 541, 542. , Pirani Paolo 1S7, 1S8, 244-246, 353, 354, 3fi2, 363-Piati Guglielmo 225. Platone 47, 262, 310, 323, 325-Plutarco 235, 284, 341. Poggi Geminiano 518; Francesco 620; Pietro 191. Polibio 366, 368. Pollini Alessandro 278. Porzio Giorgio 182, 278; Gregorio 278. Porta (Da) Pietro 27. Possevino Antonio 369. Priuli Matteo, card., 530, 539-521. ■ Proclo 235. Procopio 327. Q Quadrio Maurizio 239. I Querenghi (o Querengo) Antonio 60, 75, 419, 434, 439-Quintiliano 235, 312, 313, 315, 318. lì Raggi, tesoriere della Curia Romana, 228. Raimondi Giacomo 439. Ranalli Ferruccio 370. Ranieri Costantino 95. Ravizza [Pier Antonio?] 65, 70, 400, 422, 434-Richelieu (Di) card. 219, 378. Rinuccini Giov. Batt. 257. Rivola [?], gesuita, 60, 457. Robortello Francesco 365, 366. Rocco Gerolamo 145. Rolando di Ricciardo 20. Rondanini Natale 278. Rospigliosi Giulio 145. Rossano Gaspare 393. , Rossi (De) Bonaventura 18. Rossi Gian Vittorio (Eritreo) 43, 181, 212, 213, 222, 226, 227, 257,301, 318. 385- — 631 — Rua Giuseppe 9. Rucellai Agnolo 444, 445. Ruggieri Griffone 452, 468. Ruscelli Girolamo 400. S Saga (Di) Filippo (ved. corr.) 27. Sallustio 130, 346, 347, 368. Saivago Giov. Batt. 36. Salviani Gasparo 184. Santacroce Antonio 360. Sanzio Leone 278. Saraceno Gherardo 278. Sarpi Paolo 359. Sarteschi Carlo 380. Sartorio Gian Giacomo 60. Sauli Antonmaria, card., (ved. aw.) 538, 541 ; Mario 118. Savello [?], card., 540. Savoia (Di) Carlo Emanuele 62, 290, 403; Cristina 200, 219; Filiberto 471, 474; Maurizio, cardinale, 112, 130, I36, 139. ^o, '93, 194, r97, 200-208, 212, 219, 223, 276, 474, 514, 508, 542 ; Tommaso 219. Scaglia Giacomo 377. Scala Costantino 60. Scapinelli (0 Scappinelli) Antonio 460; Lodovico 160. Scarpa Ugolino 20. Schiattini Niccolò 216. Scotti Fabio 55. Scribani Carlo 406. Semprevivo Bernardino 294. Seneca 315, 318, 327, 4°i. Sera (Di) Moisè 490, 499. Sforza Antonio 183; Francesco, card., 529, 538, 541 ; Giovanni 10. Sigonio Giov. Batt. 376. Simeonibus (De) Gaspare 181, 184, 185, 1S8, 278. Sleidano Giovanni 359. Soardo Alessandro 365-367. Somma Agazio 145. Soranzo-Fillonardi Filippo, card., 530. Sorba Lorenzo 621. Spazzini Giacomo 55, 60, 394. Speroni Sperone 365. Spinola Ambrogio 188, 198, 199,379! Gaspare 42; Giannettino 106, 483; Giov. Maria 108; Leonardo 109; Stefano 130; Tomaso 31. Spondano [?] 456. ; Stazio 286. Stefonio Bernardino 49, 60, 278, 298. Stigliani Tomaso 136, 183, 185, 265. Strada Famiano 43, 330 , 346 , 361 , 555- Strozzi Alessandro 444 , 44^ ; Carlo 445; Giov. Batt. 82, 444-446, 449; Giov. Batt. (Junior) 446 ; Giulio 86; Niccolò 82, 83, 175. Stupio Giovanni 20. Suida 365. Sulmona (di) Principe 539. Susanna (Santa), card., [Borgia Gaspare?] 527, 528, 537. Svaresio Giuseppe Maria 278. T Tacito 358, 401. Taissner Antonio (ved. con-.) 331. Tasso Torquato 51, 261, 262, 265, 272, 315, 322. Tassoni Alessandro 85, 160. Taverna Brunoro 162, 184, 376. Teocrito 297, 310. Terenzio 323. Tertulliano 320. Testi Fulvio 57, 59. 66> S2> s3, s6> 90, 141, 152-154, 179 , 223 , 279 . 282, 306, 421, 448, 449, 460, 509. Thon (De) Francesco Augusto 181 , 184. Tibullo 277, 296. Tiraboschi 277, 279. Todeschini Genesio 623. Tomasini Cristoforo 543. Tomaso (San) 327. Tonti Michelangelo, card., 530, 53S. Toràs (di) Maresciallo 379. Torcigliani Michelangelo 181. Torre (Della) Bartolomeo 108. Tortoletti Bartolomeo 27S. Toschi Gian Francesco (ved. coi r, e 1 avv.) 499. — Ó32 - Tricasso (Cera Sariensis Mantuanus) 33 r- Trivulzio Agostino, card., 376. TJ Ubaldini Roberto 95, 96, [64 , 215 , 52S, 531, 537, 539. Urbani [?], abate, 148, 496, 501, 503, 506; Giovanni 506, 507. Urbano Vili 44, S4, 155, 200, 220, 279, 359. 495. 544-Urbino (d’) Francesco Maria 188. V Valesio [?], card., 530, 539. Valle (Della) Pietro 1S4. Varchi Benedetto 239. Varese Diomede 540. Vassalli Marino 228. Velsio Giusto 320. Vergerio Pietro Paolo 359. Verina Giambattista 376. Vettori Pietro 342. Viotti Erasmo 64, 407. Viperano Giannantonio 365, 367-369, 373- Virgilio 56, 260, 262, 264, 270, 271, 277, 279, 296-298, 315. Visdomini Alberto 19; Aldovino 2r ; Anton Maria 21; Corrado 20; Gual-tierotto 19 ; Guglielmo 19 ; Ildebrando 21; Palmerio 21; Saladino 20. Vives Lodovico 369. Vossio Giovanni Gherardo 342, 365, 367, 369- Vulpio [?], mons., 531. z Zabarella Girolamo 314, 365. Zaccaria Zaccaria 15S. Zacchia Laudivio, card., 187, 353,381. Zambeccari, senatore di Bologna, 208. Zeno Apostolo 374» Zenobia, regina dei Palmireni, 305. Zappata-Cirneros Antonio 529 , 541 , 542. INDICE ANALITICO Dedica. . Prefazione Pag. 7 • ■ 9 PARTE PRIMA LA VITA Ritratto e facsimile della firma di Agostino Mascardi Albero genealogico e Arma......... 15 16 CAPITOLO I. Brevi comi sulla famiglia Mascardi. Pretesa antichità della famiglia Mascardi. — L’origine, secondo i documenti. — La vendita di Trebiano alla Repubblica di Genova. — La consegna del Castello. — Passaggio a Sarzana. — Niccolò giureconsulto. — Rivendicazione delle immunità pattuite. — Francesco auditore di Rota presso il Cardinal Cibo. — Sua intrinsechezza con Agostino Bernucci. — Sua nomina al-l’Auditorato di Massa. — Sua attività nella vita pubblica di Sarzana. — Vita e opere dei figli Niccolò e Giuseppe. — Notizie intorno ad Alderano. — Suo matrimonio con Faustina De Nobili. — Sue cariche pubbliche a Sarzana, a Massa e a Bologna. — Sue opere legali. — I figli. — I giuspatronati ecclesiastici. — Giovanni, vescovo di Nebbio. — Gerolamo giureconsulto — Alberico intenta causa al Comune per il ristabilimento delle immunità. — Esito della causa — Le figliuole di Alderano — Il testamento — Agostino diseredato....................... 17 Nascita di Agostino. — Primi studi. — Il maestro Tarquinio Galluzzi. — Agostino entra nella Compagnia di Gesù. — Studi legali e filosofici. — Agostino a Parma e a Piacenza. — Sue relazioni coi Cesarini, con Gian Vincenzo Imperiale e con Angelo Grillo. — I primi componimenti poetici in latino e in volgare. — La censura dell’ Inquisizione a un suo carme. — Sue vendette. — La causa alla Sacra Congregazione di Roma. — Agostino è inviato a Modena. — 11 carattere d’Agostino si rivela — L’accademia in casa d’Este. CAPITOLO II. L'infanzia e la giovinezza di Agostino. — 634 — — L’epipompeuticon per la vittoria del principe Luigi. — Agostino a Coite. — Altri componimenti per la famiglia principesca. — Incontro col Testi. — Scambio di cortesie. — Agostino panegirista di Madama Virginia. — Le lodi del Testi. — Inviti per altre orazioni. — Corrispondenze poetiche. La satira contro i poeti osceni. — Forzate peregrinazioni. — Agostino insegna a Milano. — Agostino prefetto nel Collegio dei Nobili di Parma. Il divieto dei Gesuiti circa le pubblicazioni volgari. — Agostino delude la legge. — Sua notorietà. — L’ orazione per la monacazione di Margherita D’Oria a Genova. — Speranze d’Agostino sulla Corte d’Este —Sua espulsione dall' Ordine. — Ragioni del colpo — Agostino a Roma. Suoi armeggi per allogarsi presso il Cardinale Alessandro d’Este — I tentativi dei Gesuiti per ostacolarli. — Agostino ottiene il bramato ufficio. — Le pene del Purgatorio. — Finalmente l’ordine arriva. — La laurea. — Alla volta della Corte....................... CAPITOLO III. Alla Corte del Cardinal d’Este. Vita tranquilla. — Incontentabilità d’Agostino. - Prima rottura col Testi. — Partenza per Roma. — L’ accademia degli Umoristi. Le accademie in casa del conte Gonzaga e del Cesarini. - Trattenimenti invernali ed estivi presso il Cardinal d’Este. — Agostino prende a scrivere un’opera ad esaltazione del suo signore. — La interrompe e perchè. — Prodromi di burrasca. — Un avvenimento terribile. — 11 Testi tenta invano di « scavalcare » Agostino. — Agostino cede al fratello Giovanni un vescovado offertogli. — Morte di Paolo V. — Agostino legge l’orazione de subrogando pontifice innanzi ai Cardinali. - In Conclave - L'elezione del Ludovisi. - Agostino perde una bella occasione di far fortuna. - Non se ne dà pace^ - Il libello sul Conclave. — L’Anticonclave. — Il velen dell’argomento. Conseguenze. _ Agostino accusato. — Colloquio col Cardinal D’ Este. Il nembo s addensa. — Allontanamento d’Agostino dalla Corte. — Carteggio tra il Cardinal D’Este e il duca di Modena sulle presenti circostanze. — Gli offesi insoddisfatti. - Licenziamento d’Agostino. - Le ultime nuvole all’ orizzonte. — 11 « disordine » è finito.............. 81 CAPITOLO IV. Due anni a Genova. Viaggio triste e malagevole. — Arrivo a Genova. — Accoglienze — La notizia del licenziamento. — Monsignor Giovanni teme assai per il suo vescovado. _ Gli amici di Agostino. — Un servigio ad Ansaldo Cebà. — Agostino scrive e parla pubblicamente dei suoi casi. Cortigiani antichi e moderni. Una rivincita di Agostino. — Malanni fisici e conforti poetici. — Agostino non vuol più scriver poesie. — Esercita l’avvocatura. L orazione per 1 incoronazione del Doge. — Curiosa supplica d’Agostino. — Il plauso pubblico per l’orazione. - Fino alle stelle. - Agostino rifiuta d’esser Maestro delle Cerimonie. — Accetta l’incarico di pubblico lettore nell’accademia degli Addormentati. — Reclama nella prima conferenza la cittadinanza genovese. — Agostino è « la Sibilla » di un « Apollo ». - Spera sempre nel Cardinal D’Este. _ Infruttuosa dedica delle Silvae. — Il volume delle orazioni. Amici e nemici nell’Accademia. — Anche il Chiabrera esalta Agostino. — Rapporti continui col Cardinal D’ Este. — Agostino commediografo. Sua difesa contro i critici. — Supplica dei Mascardi per esser compresi nel Libro d’oro della Repubblica. — Passaggio del Cardinal Maurizio di Savoia. — Il — 635 — papa è malato. — Partenza d’Agostino per Roma. — Elezione del Barberini. — La buona stella d’Agostino pare cominci a spuntare. — Agostino esalta Urbano Vili e diventa suo cameriere d’onore. — All’accademia degli Umoristi. — La morte di Virginio Cesarini. — Agostino lo commemora. — Alla corte del Cardinal Maurizio............... io5 li CAPITOLO V. Presso il Cardinale Maurizio di Savoia. Carattere del Cardinal Maurizio. — Sua vita prodiga in Roma. — Suoi debiti. — L’Accademia nel suo palazzo. — I giudizi del Testi. — Freddissimo incontro del Testi con Agostino. — Il Testi torna a Modena. — Gli statuti dell’Accademia. — Agostino sopraintendente. — Recita la prima orazione. — Gli altri accademici e i loro saggi. — Un accademico ardito. —Agostino tenta un affare. — L’ingratitudine dei d’Este. — I discorsi sulla Tavola di Cebete. — Agostino attende al suo epistolario. — Vuol dedicarsi agli studi storici. — Medita il piano della Storia d’Italia in continuazione a quella del Guicciardini. — Fa pratiche presso i Principi e le Repubbliche per avere il materiale occorrente. — I signori d’Este rifiutano. — Intromissione del Testi nelle trattative. — Partenza del Cardinal Maurizio. — Lamenti di Agostino. — Il Papa provvede. — Sulla cattedra universitaria. .... 139 CAPITOLO VI. Sulla cattedra della Sapienza. Stipendio e insegnamento di Agostino. — Il collega dell’ora mattutina. Attriti col Gaudenzi. — Ammirazione riscossa da Agostino. — Le lodi dell’A-chillini. — L’uditorio. — Agostino trova faticoso l’incarico. — Gli studenti universitari nel seicento. — Agostino continua ad occuparsi della storia d’Italia. — Scrive la Congiura. — Lodi e critiche. — Agostino si difende dal-1’ accusa d’ « interesse e venalità ». — Il Cardinal Francesco Barberini presta orecchio ai nemici di Agostino. — Gli screzi col Cardinale Ubaldini e con il Galluzzi. — Agostino va in carrozza. — Spende troppo. — Cambia casa e finisce in una topaia. — Ha occasione di nominare la « botte di Diogene » in piena scuola: e perchè. — L’eloquenza di Agostino serve a qualche cosa. — 11 Cardinal Francesco si commuove. — Agostino ottien licenza di allogarsi presso un padrone. — Rifiuta la nomina di professore all’ Università di Pisa. — Le cariche e gli uffici fortunatamente crescono. — Agostino segretario del Cardinal Carlo de’ Medici.........I57 CAPITOLO VII. Di padrone in padrone. I segretari « elefanti » in Roma. — Agostino non vede il suo padrone. Nuove ricerche per la Storia d'Italia. — Un ultimo infruttuoso tentativo presso i d’Este per aver documenti. — Il vero scopo delle richieste d’Agostino, secondo i contemporanei. — I contemporanei non hanno torto. Agostino è nominato Principe degli Umoristi. — I principali personaggi dell’accademia. — Un pandemonio provocato in piena adunanza da Belmonte Cagnoli. — Agostino marinista. — Una prefazione contro lo Stigliarli. Lo Stigliani si vendica. — Agostino accademico Materiale , Asciutto, Incognito. — La solita febbre. — Conversazioni in casa del vezzanese Cardinal Zacchia. — Un viaggio per cura. — Accoglienze a Napoli. — Breve dimora — 636 — a Genova. — Agostino nella politica. — Uno scacco all’ ambasciatore di Malta. — Il Cardinal Maurizio ritorna. — Imprudenti maneggi di Agostino per passare nuovamente al suo servizio senza perdere la provvigione del Cardinal de’ Medici. — Tutto scoperto. — I cortigiani romani non san più se Agostino « sia pesce o carne ». — Agostino si licenzia dal Cardinal de’ Medici. — Non ha incarico ben definito presso il Cardinal Maurizio. — Diventa cortigiano di due Corti. — Briga per essere « primo segretario » del Card. Maurizio e vi riesce. — Pubblicazione dell 'Arte istorica. — Una dedica messa a frutto. — Gli Spagnuoli si offendono di alcuni periodi dell 'Arte. I nemici d’Agostino soffiano nel fuoco. — Tutto appianato. — L’accademia dei Desiosi in casa del Cardinal Maurizio. — Orazioni politiche. — Maurizio di Savoia ritorna a Torino e Agostino lo segue. — Fermata a Genova. — Il libello di Giov. Batt. Manzini. — Il Cardinale difende a spada tratta il suo primo segretario...............177 CAPITOLO VIII. Ultimi anni. Agostino ritorna a Roma. - Diventa agente corrispondente del Cardinale. — Al colmo della fama. — Una stoccata contro il Mascardi ne\V Eudemia del-1’ Eritreo. — Le lodi dei contemporanei in Italia e all’estero. — Il solito male s’acuisce. — In punto di morte. — La generosità di un nemico. — Viaggi e consulti medici. — Un discorso all’ accademia degli Addormentati di Genova. — Agostino si rifugia a Sarzana. — Meditazioni ascetiche. —Triste reminiscenze poetiche. — Il Cardinal Maurizio manda a chiamare Agostino da Nizza. — Viaggio disastroso. — Morte di Agostino. — Il testamento. — I funerali. — Il ricordo marmoreo. — Le esequie celebrate nel-1’accademia degli Umoristi e in quella degl’incogniti. — Panegiristi e biografi. — La figura morale di Agostino. — Lodi postume. — L’accusa di libertinaggio sfatata. — Si prova che dipende da una cattiva interpretazione della biografia dell’Eritreo. — Attenuanti che Agostino potrebbe produrre innanzi al tribunale della posterità, circa i suoi debiti e il suo sregolato tenor di vita................. . 2II PARTE SECONDA LE OPERE CAPITOLO I. La critica e le contese letterarie di Agostino. Varietà dell’opera letteraria di Agostino. - Ragioni per le quali scrisse la digressione sullo stile. — Stile ed elocuzione. — Le regole dell’elocuzione. _ Un primo avvertimento ai contemporanei. — I caratteri del dire. — Critiche all Aresi e al Panigarola. — La difesa dell’Aresi. — Le forme dei caratteri. — La definizione dello stile. — Similitudini che la spiegano. — Valore della definizione. I pretesi emendamenti del Pirani. — Lo stile spezzato invalso nella prima metà del secolo XVII. — La lettera dell’Assarino. — Le risposte d’Agostino. — Censure allo stile spezzato. — Le furie di G. Batt. Manzini, campione dello stile spezzato. — Efficacia dell’ammaestramento di i — 637 — Agostino sui contemporanei. — Suoi giudizi giovanili sullo stile secentistico. — Agostino marinista nell’età matura. — Le sue idee sulla poesia. — Furor poetico e umor melanconico — Genio e pazzia — Contro Aristotele. — L’oratoria nel seicento e le norme di Agostino. — Duplice aspetto della critica letteraria di Agostino................233 CAPITOLO II. La poesia. Componimenti poetici in volgare. — Una paternità rifiutata. — L’edizione delle Silvae. — La poesia latina nel seicento secondo il Tiraboschi. — I più notevoli poeti latini della prima metà del secolo. — Le elegie del Cesarini. — La riforma di Maffeo Barberini. — Accenni di Agostino ad essa. — Le poesie latine di Agostino. — Ostacoli alla loro pubblicazione. — Il valore della raccolta. — Gli epigrammi. — I poemetti. — L' epipompeiUicon per Luigi D’ Este, il carme per la laurea del Cesarini e il poemetto sulla pace: peculiarità, pregi, difetti. — Le elegie. — Anacronismi artistici. — Le epistole. — I componimenti religiosi. — Caratteri della poesia latina di Agostino. — L’addio alla Musa.................... 275 CAPITOLO III. L’eloquenza latina e volgare. Lodi dei contemporanei per la prosa oratoria di Agostino. — Vanto eh’ egli s’attribuisce d’aver pubblicato per primo delle dicerie accademiche in volgare. — Efficacia del suo esempio. — Generi delle dicerie. —■" La questione della lingua nel seicento e la lingua nelle prose d’Agostino. — Lo stile dimostrativo delle prime orazioni. — L’ elemento erudito in esse. — Cause del loro secentizzare. — Giudizi d’Agostino sulle prime sue prose. — Stile spezzato e stile classicheggiante. — Gli argomenti delle orazioni. — I discorsi morali sulla Tavola di Cebete Tebano. — Ossequenza d'Agostano ad Aristotele: suoi giudizi su Platone. — Le dottrine scientifiche. — La lettera a Claudio Achillini intorno all’essenza della peste. — Contro il Galilei. — Le dissertazioni scolastiche sulle perturbazioni psichiche. — Le prolusioni di etica. — Caratteristiche generali della prosa oratoria di Agostino. 301 CAPITOLO IV. La trattatistica e l'opera storica. Prima idea dell 'Arte istorica. — I consigli dei contemporanei. — Il contenuto, lo stile, l’erudizione, la pratica del trattato. — I fini della storia. — Differenze fra la storia e la filosofia civile. — Il fine morale. — La forma nell’esposizione delle materie: le concioni, le digressioni e gli altri artificj. — La verità nell’opera storica. — La distinzione tra il fine immediato dello storico e quello mediato deU’opera. — Un’accusa ingiusta al nostro trattatista. — Un interessante colloquio in casa del Cardinal Zacchia. — I giudizi di Agostino sugli storici italiani. — Lodi e crìtiche dei contemporanei al trattato. — Sue fonti. — Un preteso plagio all’.-lrj historica del Ducci. — E-same e confronti. — La Congiura di G. L. Fieschi: suo valore. — L’idea della Storia d’Italia................... 337 CAPITOLO V. Conclusione 333 — 63S - APPENDICE I. Lettere inedite di Agostino Mascardi.....389 Tavola dei personaggi ai quali sono indirizzate le lettere .... 519 APPENDICE II. Dite opuscoli inediti di Agostino Mascardi. Scrittura intorno alla elezioné in Sommo Pontefice del card. Ludovisio......................523 Revoluzione del Seminario Romano............543 APPENDICE III. Saggio bibliografico delle opere a stampa di Agostino Mascardi. Orazioni singole...................565 Silvae......................571 Opere raccolte: Orazioni, discorsi, prose vulgari.......573 Discorsi morali sulla Tavola di Cebete Tebano........586 Congiura de’ Fieschi.................592 Traduzioni della Congiura (in lingua francese, spagnuola e inglese). 598 11 rimaneggiamento francese della Congiura.........600 Lettera all’ Achillini.................601 Arte istorica....................603 Romanae dissertationes. Ethicae prolusiones.........606 Scritti in opere altrui o poligrafe.............608 Lettere sparse..................611 Scritti incompiuti, irreperibili e attribuiti..........614 Saggi accademici raccolti da Agostino Mascardi.......618 Giunte ai cenni sulla famiglia Mascardi..........620 Indice onomastico..................625 ( Vedansi più avanti le correzioni). CORREZIONI E AVVERTENZE. Pag. 2i, riga 17: pronipote di Guglielmo; leggi -.forse pronipote di G. p. 22, r. 4: 1281 ; 1.: 1285. — p. 22, r. 27 ; cetuo ; 1.: ccnsu. — p. 27, r. 7 : d’Arezzo ; 1.: Arezzo. p. 27, r. 10 : Saya; 1.: Saga. - p. 86, r. 21 : figlio d’Alfonso; 1 .-.fratello d’Alfonso. — p. 89, r. 23 : Il Duca ; 1.: Il Principe Alfonso. — p. 93, 1. cosi le prime tre righe : Subito era stato escluso il Card. D'Aquino, eh’era ammalalo e si trovava in una cella presso l'Aula Magna , impegnandosi senz' altro la battaglia sopra il Campori. — p. 115, r. 28 : Duca Alfonso ; 1.: Duca Cesare._p. 126, r. 21 : e la commedia; aggiungi: ch’egli allora compose. p. 134. r- 7- Tebei; 1.: Febei. — p. 143, r. 17 : calamità; 1.: calamita. — p. 148, r. 18: di Firenze; 1.: da Firenze. — p. 175, r. 18 : il fratello, Cardinale Luigi; 1.: un illustre parente, il Cardinale Luigi. — p. 176, r. 16: incaricalo; 1.: invitato. — p. 183, r. 15: Pier Manno Borghese, 1.: Pier Maria. — p. 225: la nota 3 va trasportata in calce alla p. 226. — p. 278, r. 31 : Il fecondo critico modenese non ricordava; interponi: Il fecondo critico modenese, oltre il Querenghi, il Cesarini e Urbano Vili, non ricordava. — p. 280, r. 38: lacco; 1.: tocco. — p. 297, r. 20: Menalca, il duca di Modena; 1.: Menalca, il duca di Parma. p. 331, n. 1: probabilmente è da credere che il Mascardi alludesse', non ad Antonio Tais-sner, ma a Giovanni, che copiò il Coclite nel suo Anastasis. — p. 3761 r- 5 • Ligonio, 1.: Sigonio. — p. 403, lett. n.» 11, r. 12 : Giuliani; 1.: Giuliano. — p. 439. r- 22 '■ identifica il Paolucci, aggiungendo : [Baldassarre] ; (questi era allora ambasciatore a Roma per gli Estensi : cfr. I. Malaguzzi, L’Archivio di Stato in Modena nell'annata 1891, Modena, 1S93, Periodo estense — Cancelleria ducale, p. 37'j. — p. 441. a capo della lett. n.° 49. Duca di Parma; 1.: Duca di Modena. — p. 494: Il Filippo Casoni ivi destinatario d’ una lettera (n.° 117), non è, coin’ io dico in nota (n. 2), l’illustre istorico sarzanese, bensi il nonno suo. — p. 499, r 22: identifica il Toschi, aggiungendo: [Gian Francesco]-, (era anch egli ambasciatore a Roma per gli Estensi in quell’anno; cfr. Malaguzzi, op. cit., p. 3^-p. 538, r. 1: Sacelli; probabilmente si tratta del Saul1. Per un malinteso del tipografo le parole Duca, Principe, Cardinale uscirono sempre o quasi sempre, qualunque si fosse la loro funzione grammaticale, con la lettera iniziale maiuscola. Altri errori palesi 0 di pochissimo conto voglia il lettore correggere da sè, r Mi si conceda tiferir qui vivissime grazie al nostro illustre Presidente Marchese Cesare Imperiale di Sant’Angelo e al-l’on.le Consiglio Direttivo della Società Ligure di Storia Patria, che deliberarono fosse questo mio lavoro inserito negli Atti della Società; nonché al prof. Giuseppe Colombo, che m’aiutò con affettuosa sollecitudine a correggerne le bozze, e al sig. P. Muttini, impiegato presso la Società stessa, da cui ebbi ogni sorta di gentili cooperazioni per la buona riuscita della pubblicazione. INDICE DELLE MATERIE CONTENUTE IN QUESTO VOLUME * ;«t' ■ La vita e le opere di Agostino Mascardi con appendici di lettere e altri ■ scritti inediti e un saggio bibliografico del Sodo Francesco Luigi Mannucci.