ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME XXX GENOVA PRESSO LA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA PALAZZO BIANCO TIPOGRAFIA R. ISTITUTO SORDO-MUTI ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME XXX GENOVA TIPOGRAFIA R. ISTITUTO SORDO-MUTI GENO ATI E VITVRII DEL SOCIO GAETANO POGGI PREFAZIONE GENOVA! entre Genova si prepara ai grandi commerci del secolo XX, trasformando i suoi istituti, il suo porto, le sue forze motrici, non è senza interesse risalire alle origini storiche, e misurare il cammino che Genova ha già percorso. Come Roma fu detta la città eterna della Civiltà e del Cristianesimo, così Genova può con diritto chiamarsi la città eterna del mare. Le tombe scoperte a pie’ del colle di S. Andrea hanno fatto testimonianza che essa esisteva, commerciante e civile, cinque secoli avanti 1 era volgare. Sono dunque XXIV secoli autentici di storia, oltre quelli che rimangono oscuri negli incunaboli del tempo. E così Genova può competere con Roma per antichità, e può vantare su Roma una civiltà preromana. 1 utti i popoli che trafficarono nel Mediterraneo Genova conobbe. Sul cian del colle, attraverso la chetMua, ai ripidi sentieri che correvano fra il Zerzan e il porti xeu, pc Ravecca, da Moconesi, in ó Prion, dao Caste pc Canneto e nelle diverse raibe e raibette, ossia mercati, s incontravano 2500 anni fa Fenici, Focesi, Cartaginesi e Gieci ripetendo gli stessi nomi che ho riferito, e che già fin d allora erano antichi. Fenici, Focesi, Cartaginesi scomparvero. Caddero tutte, all’infuori di Marsiglia e Messina, le grandi citta commercianti sul mare, coetanee di Ge-no\a. caddero Sidone e Tiro e Cartagine, cadde Focea, O 7 Atene e Corinto, ed in Italia Siracusa e Agrigento, Sibari e Crotone, Sorrento e Cuma, Minterno e Formia, Anzio ed Ostia, Pisa e Luni. E non è a dire che contro Genova non imperversasse l’ira degli uomini e la bufera dei secoli. Mag-one Cartaginese la distrusse facendole colpa di aver favorito i Romani; ciò avveniva nell’anno 205 a. C. e può dirsi che allora finì Zenoa la ligure, e cominciarono O ' i nuovi destini di Genua romana. Poi cadde sotto il ferro di Rotari (a. 641) Genua romana e bizantina e cominciò l’lamia del medio evo. Mentre la barbarie invadeva da ogni parte e si spegneva il commercio, Genova ebbe fede. Per tre secoli vegliò dall alto del suo castelo, gli occhi fermi sul mare. I Zenoati si azzuffarono allora sulle scogliere liguri, in una lotta feroce e senza tregua, per respingere il Saraceno e difendere dalla rapina le navi e le case, le donne ed i figli. Finalmente colle Crociate si apre l’era del rinascimento — i Genovesi, Iannenses, trionfano nel mediterraneo — e Caffaro inizia gli annali della terza civiltà. Se 1 amore non ci fa velo, siamo all’alba di un nuovo e grande risorgimento. Lo spirito di Zenoa ligure, di Genua latina, d é\Y Ianua medioevale si riafferma potentemente in Genova italiana. Solo è da augurarsi che vi sia chi secondi lo svolgimento di così alti destini. Io mi propongo adunque di ricercare i primissimi tempi di Genova, quando il suo porto era segnato dal triangolo che forma in oggi la piazza della Marina, quando a mezzo la valle di Polcevera finiva il suo stato. Tanto son modeste le origini altrettanto è lusinghiero il confronto. È bello rievocare col pensiero quei primi Genoati, che sull imbrunir della sera tiravano a terra la loro flotta sulla ghiaia di Rivotorbido, e, volgendo d’ un tratto gli occhi al presente, vedere lo stesso Genoate che nello stesso luogo, alla foce di Rivotorbido, crea la Garibaldi e la Colon, veder gli stranieri affollarsi intorno ai nostri cantieri, premurosi di mettere in capo alla loro flotta la nave genovese. Il che non può a meno di farci ricordare che venti secoli fa Pompeo Magno cercava le navi dei Ge-noah per intraprendere la famosa guerra contro i pirati, e quindici secoli dopo alle galee dei Genovesi era affidata la fortuna di Francia e di Spagna. Son glorie passate, è vero, ma giova ricordarle per trarne fede e ardimento contro le difficoltà dell’ ora presente. LA TAVOLA DI BRONZO. * (Jn documento solo ci resta de’ primitivi tempi, ma di un valore immenso. È la tavola di bronzo dell’anno 117 a. 1’E. V. Ed io mi accingo a commentarla, a renderla popolare per quanto è possibile, mentre finora fu considerata come un prezioso enigma riservato alle discussioni degli eruditi. Intorno ad essa tenterò di ricomporre i due primi periodi della nostra storia — Zenoa ligure e Genua romana. La tavola ragiona dei nostri antichi nella circostanza in cui esistevano delle controversie fra i Genoati ed i loro vicini di Polcevera, i Vituri; sono questi i due popoli che fondendosi in uno crearono la grande personalità storica di Genova. Ed è per essere fedele al momento storico descritto nella tavola che io intitolo questo libro « Genoati e Vitvrii ». LE NUOVE CONQUISTE DELLA STORIA. Nel secolo decimonono la linguistica, la paletnologia, l’antropologia e l’archeologia hanno fatto dei grandi progressi verso gli orizzonti della storia. Un nuovo soffio di vita invade tutte le cose morte; si direbbe che gli scheletri sussultano come nella visione di Ezechiello e prendono a poco a poco la parvenza degli esseri viventi. In questo avvicinarsi dell’archeologia alla storia sta forse la ragione di quell’ attrattiva, che in un secolo così affaccendato come il nostro suscitano gli studi del-l’antico. Pochi si interessavano ai ruderi, ed invece son molti quelli che aspirano a conoscere la vita realmente vissuta dai popoli primitivi. Si aggiunga che 1’ umanità attraversa un periodo di trepidanza, incerta del domani, certa però che cose grandi, non definite e non definibili, si van maturando in grembo al futuro. E probabilmente è questa una delle ragioni per cui lo spi- — XI — rito umano si volge di preferenza alla storia di ciò che è molto antico, come per ricercare in essa la spiegazione del gran segreto che l’affatica, il segreto della vita. Queste riflessioni mi indussero a credere che non sarebbe opera del tutto accademica uno studio degli antichi Liguri. Le caverne della Liguria, le palafitte e le terramare della valle del Po, le necropoli di Villanova, di Chiusi, di Vetulonia, i bassi strati di Taranto rivelano ogni giorno gli avanzi di epoche preistoriche, di civiltà antichissime che ebbe l’Italia prima del dominio dei Romani^ E il tipo ligure, che è quanto dire il tipo italico primitivo, si va sempre più delineando nei monumenti archeologici del sottosuolo. La storia non può essere indifferente a tutte queste rivelazioni, specialmente la storia dei Liguri che tutti riconoscono come i legittimi rappresentanti del-1’ antichissima razza. Il sistema di spiegare coi Romani le nostre origini diventa ormai un ridicolo anacronismo. RICOMPOSIZIONE DELLANTICO DIALETTO LIGURE. Terrò conto nel mio lavoro delle nuove e importanti cognizioni che la Scienza ha acquisito alla Storia. Ma sopratutto intendo giovarmi degli studi da me compiuti sul dialetto ligure antico, perchè sono convinto che non si riuscirà mai a conoscere storicamente i Liguri se non arriviamo a conoscere la loro lingua (i). A questo riguardo io mi propongo: (i) « Dell' idioma e della letteratura genovese » scrisse l’on. Randaccio nel 1894 (Roma, tip. del Senato). È un lavoro pregevolissimo non solo per la conoscenza della grammatica genovese, ma per il confronto di questo dialetto — xir — i.° Di stabilire la natura del dialetto ligure antico, e le sue forme primitive ; 2.0 Dimostrare che il dialetto ligure è l’antico dia-letto mediterranho di cui la lingua greca fu la più splendida estrinsecazione; 3.0 Dimostrare che questo antico dialetto mediterraneo e il substrato linguistico su cui si formò il latino, e poi tutte le lingue che vanno sotto il nome di lingue neolatine. Il mio lavoro differisce essenzialmente dalla linguistica mode^pa perchè ha uno scopo diverso ; io non discuto lingue note, ma piuttosto cerco di risalire dal noto all’ignoto. Per dare un nome a questo mio studio io lo chiamerò ricomposizione del volgare antico. Il metodo che ho seguito per questa ricomposizione ha per base XAlpinismo. Una paziente analisi dei fenomeni linguistici, che si apprendono in montagna, mi aprì la via a ragionare con qualche fondamento delle manifestazioni linguistiche primitive. Studiando la fonetica dialettale, classificando una grande quantità di nomi affini, decomponendoli, analizzandoli in relazione a ciò che hanno di comune nella loro entità morfologica e nelle cose che rappresentano, ho cercato di trar fuori le forme colle altre lingue mediterranee, e specialmente colle neolatine. Il tema del Randaccio è alquanto diverso dal mio. Egli studia di proposito il genovese, il moderno più che l’antico; io studio il dialetto ligure nella sua espressione più lata di lingua italica primitiva. Le origini del dialetto ligure antico, che formano introduzione al lavoro del Randaccio, sono per me lo scopo essenziale. Io attribuisco al dialetto un origine mediterranea, mentre il Randaccio propende per le origini celtiche. Mi piace notar subito questo dissenso per richiamare su di esso 1’ attenzione dell’illustre scrittore, che ha dedicato alle cose liguri tanta parte del suo ingegno. — XIII — sostanziali, primitive del dialetto. La filologia comparata, le cognizioni storiche, le tradizioni mi aiutarono a dilucidare le forme, dialettali; la lingua greca ebbe in queste dilucidazioni un’ influenza decisiva. Ma del risultato sarà giudice il lettore. Il tema è vasto e difficile assai. Il mio lavoro può essere un fuoco fatuo, può essere un lumicino acceso in mezzo alla immensa foresta buia. Qualunque cosa sia, giova sperare che non sarà del tutto inutile a chi vorrà inoltrarsi meco, finché nuove scoperte e più forti intelletti non verranno ad illuminare queste plaghe remote della nostra storia. Genova, i.° Gennaio 1900. Gaetano Poggi della Società Ligure di Storia Patria Presidente della Sezione Ligure del Club Alpino. » I. LA TAVOLA DI BRONZO __ - —-y- U-l T O v r- - - — ùjS«,S£ìJ7i“,ì1 __,o 5-^ So g^txréiliS cìihmjm% Sr?:Q^aSìi r/s^sàssisf 325 cx-~lu w < <<* \—— 2 lìj ^ -u ^ Z ^ u- \ LJ £ ^ t= 3Ì >. ó ^-J2f:*p r 7=^ —7 — < £ 3? w/uuilidi^oo u £ * < > m Ùj$*i§z*$Z£22a ^r!3ga3£S!5Ì&8 ó2&g<=oK®3ì I I io/grj^gg-psS - ùj^d: > >2 Ì ?.S ?§ g LL-fc*2£§eS!3SSSÌ< i^/&e£3£20szs?s Cf!S$>ZE§h2 £22 '?!<&%#%?Ì2£o% b^§^§fsllt|»S75 r“5HS<25||$S5?Sr^ <;ogdgll£“- ^|§|SIÌ18Ì2| -~^5^p£p,z°?|z ''EgifMgt;s=g20 5 ~~ 2 §ru u^o3§É quella tavola il governo della repubblica; e così fu salvato da distruzione quasi certa il prezioso documento. Acquistata dal governo, fu prima affìssa nella cattedrale di S. Lorenzo, poi collocata nell’aula dei Padri del Comune nel palazzo ducale. Oggidì ha un posto d’ onore presso il municipio di Genova, nella sala a sinistra del -1’ aula consigliare. Il Giustiniani , che viveva all’ epoca in cui la tavola fu scoperta, così racconta il fatto e i giudizii di quel tempo : «.....Trovolla un paesano Genoate Agostino di » Pedemote 1 anno di mille cinqueceto sei in la valle » di Pocevera secca ne la villa di Izo secco, sotto terra » cavàdo co la zapa in una sua possessione, & por-» tola a Genoa per vendere , & il senato poi che li » fu fatto intèdere di quàta importanza era quella tavola, » riscato quella, & fu grato a cui li ne dete notitia, & la » fece riporre in luogo publico in la Giesia di S. Lorenzo » nel muro circòdata da bianchi marmi , a canto alla » capella del glorioso S. Gio. Baptista dalla parte oriè-» tale per memoria perpetua, & chi voi ben còsiderare » no si e trovata da più anni in qua una anticaglia, che » si possi aguagliare ne còparare a questa, alla quale » noi in 1 opera latina habbiam fatto un cometariolo per » più facile intelligenza di quella, perche il parlar an-» tico é differente assai della loquella di Cicerone, & de » gli altri posteriori autori, & riformatori della antichis-» sima lingua latina. » Genova era allora sotto il dominio del re di Francia; e gli archivi municipali ci conservano 1’ originale decreto con cui, il 27 Dicembre del 1507, il governatore fran- — 3 — cese Rodolfo De Lannoy e il Consiglio degli Anziani , informati « a doctissimis viris » che quella tavola superava per antichità tutti i documenti romani, ordinavano al Cancelliere Benedetto del Porto di adornare la tavola e di darle sede onorata nel tempio di S. Lorenzo « affinchè fosse manifesto dall’antichità di questo celeberrimo documento che Genova aveva ragione di annoverarsi fra le città le più antiche. » Trascriviamo integralmente questo decreto : « Illustris et ex.sus dns Radulfus de lannoy balyvus Ambia-nensis Regius Januen Gubernator: et Magnificum consilium doriòrum Antianorum comunis Janue in pleno nuo congregatum: Scientes Superiori anno in finibus nris haud procul radicibus Jugi montis: quod vallem porciferam claudit: Dum effoderet montanus qda agellum suum invenisse unam tabulam eneam que antiquissimis romanis literis fines circo-niectos longe lateq. disterminaret: et facti certiores a doctissimis viris eam tabulam a denominatione consulum : qui in ea descripti sunt : antiquitate sua superare omnia ferme monumeta romana: que usq. atq. etiam rome cernantur. Eaq. ratione p pu:o eam a montano illo emptam: et in publicum redactam fuisse : propterea cupientes : ut in admirationem venerade vetustatis posteris preservetur: et ne in privatis edibus tam inclytum monumentum delitescat rubigini et oblivioni obnoxium : palamq. fiat a vetustate huius celeberrimi inventi: inter orbis antiquissimas urbes Genuam anumerari posse: Et audissent hodie Egregium Benedictum de portu cancellarium : apud quem decreto Senatus tabula ipa hactenus stetit: Suadentem ut proferatut in publicum et aliquo loco celebri proponatur: Comisser' Sp,is patribus cois: ut ipi ex sua pecunia tabulam ipsam quantum fieri possit exornent ut q. facile et comodissime etia eminus ea scripta legi possint. Atq. inde in teplo divi laurenty parietem loco maxime conspicuo effodiant. Sedemq. tabule ornatam honoratamq. — 4 — » efficiant. In eamq. sedem tabulam reponant. Ut templo pa-» riter atq. urbi ornamento et decori sit. Et operis huius con-» ficiendi pnominato Benedicto curam ac negotium potissimu » deleg'averut (i). » Nicolaus de Brignalis cancellarius ». (i) Confrontando questo decreto colle parole del Giustiniani, panni capire che fra i doctissimi viri, che si interessarono alla conservazione della tavola, e che ne fecero conoscere al Senato la grande antichità, abbia avuto molta parte l’ottimo e dottissimo Giustiniani. Avrete notato la compiacenza con cui lo storico nostro licorda che il Senato « fu grato a cui li aveva fatto intendere ecc. ». Giova avvertire un altra coincidenza a riguardo della antichità del documento. Tanto nel decreto, come nelle parole che ho riferito del Giustiniani, essa è un po’ esagerata; e la ragione di ciò la trovate negli Annali, ove Giustiniani fa risalire 1’ età della tavola a « duecento novant’ anni prima che nascesse il Salvator del mondo ». Sono invece 117; e sono tanti che bastano per rendere il documento preziosissimo. Ma i supposti 290 anni spiegano le grandi meraviglie d’ allora, e fanno sempre meglio comprendere che le idee di quel tempo facevano capo al Giustiniani. Il quale, fra il 1506 e il 1520, ebbe frequente dimora in Genova, ove pubblicò il suo Salterio Davidico in cinque lingue, ebraica, caldea, araba, greca e latina. Era uomo eruditissimo, specialmente in materia sacra, appassionato investigatore di cose storiche. E quando, nel 1520, andò a stabilirsi in Francia, chiamato dal re Francesco I ad insegnare lingua ebraica nell’università di Parigi, noi lo vediamo occuparsi di storia e pubblicare in Parigi diverse opere di Jacopo Bracelli, e in appendice la tavola di bronco. Evidentemente il buon Giustiniani aveva per quel documento un affetto paterno; era lui che probabilmente lo avea salvato dal naufragio ed era orgoglioso di farlo conoscere, e di attestare con esso la grande antichità della sua Genoa. L’ antichità era per lui 1’ essenziale, quanto a studiare i particolari della tavola lasciava che se ne occupassero i posteri. Fu il Giustiniani che nei suoi annali mise avanti, senza darle importanza, la « conietura di alcuni » che i Viturii fossero gli abitanti di Voltaggio di là del giogo. Le idee del Giustiniani sulla topografìa dei Viturii erano molto vaghe; ma di ciò discuteremo a suo tempo. Nel 1537 compariva in Genova colla prima edizione degli annali, la prima traduzione italiana fatta dal Giustiniani della tavola di bronzo. Ma il Giustiniani non ebbe la consolazione di vedere pubblicato questo suo lavoro, perchè moriva 1’ anno prima miseramente annegato in una traversata da Genova in Corsica, ove si recava per il suo Vescovato. Nel 1535 aveva donato alla Repubblica la sua libreria composta di codici an- 2. — La tavola contiene una sentenza proferita in Roma, per delegazione del Senato, da due illustri cittadini Romani, Quinto e Marco Minucii, intorno alle controversie che esistevano nell’anno 117 avanti l’E. V., fra i Genovesi e una tribù di Viturii, che abitava 1’ alta Polce-vera ed aveva il suo centro a Langasco. La tavola chiama i primi « Genuenses e Genuateis » ed i secondi Veiturii Langenses ». Per usare i veri nomi del dialetto noi diremo « Zenoeixi e Langen » (1). La sentenza stabilisce i rapporti di territorio fra i due popoli, descrive minutamente i confini dell’ agro privato e dell agro pubblico dei Langen, stabilisce le condizioni dei possedimenti privati nell’ agro pubblico, regola il godimento dei « compascui », fissa i limiti entro i quali si potranno stabilire dei prati nei compascui , decide infine sulle questioni personali di ingiurie e vie di fatto, per cui alcuni dei Langen erano stati presi e messi in carcere dai Genovesi. ticlii preziosissimi, i quali dovrebbero trovarsi in oggi nel locale Archivio di Stato. In questo dono era compreso un suo manoscritto contenente il Nuovo Testamento in cinque lingue, ed il comenUiriolo della tavola di bronzo di cui parla nei suoi Annali. (1) Zènod, Zenocisi e Zenoc si diceva in antico, donde le forme latine Genua, Genuenses, Genitali. Ai tempi del Giustiniani si scriveva ancora Génoa, Genoesi e Genoati, forme latinizzate di Zénoa, Zenoeisi, Zenoé. Il Zen, radicale, si mantenne inalterato nella pronunzia del popolo, sul quale nè il Genua nè 1’Ianua fecero alcuna presa. Vedremo presto 1’ origine di Zenoa. Del nome di Viturii non mi è riuscito di trovar traccia. Quanto ai Langen, abbiamo ancora la voce viva sul luogo come vedremo nel capo VI. — 6 — * 3- ^ Mommsen così legge la nostra tavola: (1) i a. M. MINUCIE1S Q. F. RUFEIS DE CONTROVORSIEIS 1NTER ; GENUATEIS ET VEITURIOS IN RE PRAESENTE COGNOVERUNT, ET CORAM INTElt EOS CONTRO VOSI AS COMPOSEIVERUNT, 5 ET QUA LEGE AGRUM POSSIDERENT ET QUA F1NE1S FIERENT DIXSERUNT. EOS FINEIS FACERE TERMINOSQUE STATUI IUSERUNT; 4 UBEI EA FACTA ESSENT, ROMAM CORAM VENIRE ÌOUSERUNT. ROM A E CORAM SENTENTIAM EX SENATI CONSULTO DIXERUNT EIDIB(US) 5 DECEMB(RIBUS) L. CAECILIO Q. F. Q. MUUCIO Q. F. CO(N)S(ULIRUS). QUA ACER PRIVATUS CASTELI VITURIORIOM EST, QUEM AGRUM EOS VENDERE HEREDEMQUE 6 SEQUI LICET, IS AGER VECTIGAL NEI SIET. LANGAT1UM FINE1S AGRI PRIVATI. AB RIVO INFIMO QUI ORITUR AB FONTEI IN MANNICELO AD FLOVIUM 7 EDEM; IBI TERMINUS STAT. INDE FLOVIO SUSO VORSUM IN FLOVIUM LEMURIN. INDE FLOVIO LEMURI SUSUM USQUE AD R1VOM COMBERANE(AM). S INDE RIVO COMBERANEA SUSUM USQUE AD CONVALEM CAEPT1EMAM ; IBI TERMINA DUO STANT CIRCUM VIAM POSTUMIAM. EX EIS TERMINIS RECTA 9 REGIONE IN RIVO VENDUPALE. EX RIVO V1NDUPALE IN FLOVIUM NEV1ASCAM. INDE DORSUM FLUIO NEVIASCA IN FLOVIUM PROCOBERAM. INDE io FLOVIO PROCOBERAM DEORSUM USQUE AD RIVUM VINELASCAM INFUMUM ■ IBIil TERMINUS STAT. INDE SURSUM RIVO RECTO V1NELESCA ; i: IBEI TERMINUS STAT PROPTER VIAM POSTUMIAM. INDE ALTER TRANS VIAM POSTUMIAM TERMINUS STAT. EX EO TERMINO, QUEI STAT 12 TRANS VIAM POSTUMIAM, RECTA REGIONE IN FONTEM IN MANICELUM. INDE DEORSUM RIVO, QUEI ORITUR AB FONTE EN MANICELO, 13 AD TERMINUM, QUEI STAT AD FLUVIUM EDEM. — AGRI POPLICI QUOD LANGENSES POSIDENT, HISCE FINIS VIDENTUR ESSE. UBI COMFLUONT 14 EDUS ET PROCOBERA, IBEI TERMINUS STAT. INDE EDE FLOVIO SURSUORSUM IN MONTEM LEMURINO INFUMO ; IBEI TERMINUS 15 STAT. INDE SURSUMVORSUM IUGO RECTO MONTE LEMURINO; IBEI TERMIN(U)S STAT. INDE SUSUM IUGO RECTO LEMURINO, IBI TERMINUS 16 STAT IN MONTE PRO CAVO. INDE SURSUM IUGO RECTO IN MONTEM LEMURINUM SUMMUM ; IBI TERMINUS STAT. INDE SURSUM IUGO 17 RECTO IN CASTELUM, QUEI VOC1TATUST ALIANUS ; IBEI TERMINUS STAT. INDE SURSUM IUGO RECTO IN MONTEM IOVENTIONEM ; IBI TERMINUS 16 STAT. INDE SURSUM IUGO RECTO IN MONTEM APENINVM, QUEI VOCATUR BOPLO; IBEI TERMINUS STAT. INDE APENINVM IUGO RECTO 19 IN MONTEM TULEDONEM; IBEI TERMINUS STAT. INDE DEORSUM IUGO RECTO IN FLOVIUM VERAGLASCAM IN MONTEM BERIGIEMAM 20 INFUMO; IBI TERMINUS STAT. INDE SURSUM IUGO RECTO IN MONTEM PRENICUM ; IBI TERMINUS STAT. INDE DORSUM IUGO RECTO IN 21 FLOVIUM TULELASCAM; IBI TERMINUS STAT. INDE SURSUM IUGO RECTO BLUST1EMELO IN MONTEM CLAXELUM; IBI TERMINUS STAT. INDE (1) Ogni capoverso rappresenta una linea della tavola originale. I — 7 — 22 DEOKSUM IN FONTEM LEBRIF.MELUM ; IBI TERMINUS STAT. INDE RECTO RIVO ENISECA IN FLOVIUM PORCOBERAM ; IBI TERMINUS STAT. 25 INDE DEORSUM IN FLOVIOM PORCOBERAM. UBEI CONFLOVONT FLOVI EDUS ET PORCOBERA; IBI TERMINUS STAT. QUEM AGRUM POPLICUM j.l INDICAMUS ESSE, EUM AGRUM CASTELANOS LANGENSES VEITURIOS PO(SI)DERE FRUIQUE VIDETUR OPORTERE. PRO EO AGRO VECTIGAL LANGENSES 25 VE1TURIS IN POPLICUM GENUAM DENT IN ANOS SINGULOS VIC(TORIATOS) N(UMMOS) CCCC. SEI LANGENSES EAM PEQUNIAM NON DABUNT NEQUE SATIS 26 FACIENT ARBITRATUU GENUATIUM, QUOD PER GENUENSES MO(R)A NON FIAT, QUO SETIUS EAM PEQUNIAM AC1PIANT: TUM QUOD IN EO AGRO 27 NATVM ERIT FRUMENTI PARTEM VICENSUMAM, VINI PARTEM SEXTAM LANGENSES IN POPLICUM GENUAM DARE DEBENTO 28 IN ANNOS S1NGOLOS. QUEI INTRA EOS F1NEIS AGRUM POSEDET GENUAS AUT VITURIUS ; QUEI EORUM POSEDEIT K. SEXTIL(IBUS) L. CAICILIO 2.) Q. MUUCIO CO(N)S(ULIBUS) , EOS ITA POSIDERE COLEREQUE LICEAT. E(I)S , QUEI POS1DEBUNT, VECTIGAL LANGENSIBUS PRO PORTIONE DENT ITA UTI CETERI 50 LANGENSES, QUI EORUM IN EO AGRO AGRUM POSIDEBUNT FRUENTURQUE. PRAETER EA IN EO AGRO NI QUIS POSIDETO NISI DE MAIORE PARTE 31 LANGENSIUM VEITURIORUM SENTENTIA, DUM NE ALIUM INTRO MITAT NISI GENUATEM AUT VEITURIUM COLENDI CAUSA. QUEI EORUM 52 DE MAIORE PARTE LANGENSIUM VEITURIUM SENTENTIA ITA NON PAREBIT, IS EUM AGRUM NEI HABETO NIVE FRUIMINO. — QUEI ,3 AGER COMPASCUOS ERIT, IN EO AGRO QUO MINUS PECUS (P)ASCERE GENUATES VEITURIOSQUE LICEAT ITA UTEI IN CETERO AGRO 3-4 GENUATI COMPASCUO, NI QUIS PROHIBETO, NIVE QUIS VIM FACITO, NEI VE PROHIBETO QUO MINUS EX EO AGRO LIGNA MATERIAM QUE ii SUMANT UTANTURQUE. VECTIGAL ANNI PRIMI K. JANUAR1S SECUNDIS VETURIS LANGENSES IN POPLICUM GENUAM DARE 36 DEBENTO. QUOD ANTE K. JANUAR(IAS) PRIMAS LANGENSES FRUCTI SUNT ERUNTQUE, l VECTIGAL INVITEI DARE NEI DEBENTO. — 37 PRATA QUAE FUERUNT PROXUMA FAENISICEI L. CAECILIO Q MUUCIO CO(N)S(ULIBUS) IN AGRO POPLICO, QUEM VITURIES LANGENSES 38 POS1DENT ET QUEM ODIATES ET QUEM DEC TUNINES ET QUEM CAVATURINEIS ET QUEM MENTOVINES POSIDENT, EA PRATA , 39 INVITIS LANGENSIBUS ET ODIATIBUS ET DECTUNINEBUS ET CAVATURINES ET MENTOVINES, QUEM QUISQUE EORUM AGRUM 40 POSIDEBIT, INVITEIS EIS NIQU1S SICET NIVE PASCAT NIVE FRUATUR. SEI LANGUESES AUT ODIATES AUT DECTUNINES, AUT CAVATUR1NES 41 AUT MENTOVINES MALENT IN EO AGRO ALIA PRATA INM1TTERE DEFENDERE S1CARE, ID UTI FACERE LICEAT, DUM NE AMPLIOREM 42 MODUM PRATORUM HABEANT QUAM PROXUMA AESTATE HABUERUNT FRUCTIQUE SUNT. — VITURIES QUEI CONTROVORSIAS 4 3 GENUENSIUM OB INIOURIAS 1UDICATI AUT DAMNATI SUNT, SEI QUIS IN VINCULE1S OB EAS RES EST, EOS OMNEIS 44 SOLVEI MITTEI LIBER(ARE)IQUE GENUENSES VIDETUR OPORTERE ANTE EIDUS SEXTILIS PRIMAS. SEI QUOI DE EA RE 45 INI^UOM VIDEBITUR ESSE AD NOS ADEANT PRIMO QUOQUE DIE ET AB OMNIBUS CONTROVERSIS ET HONO. PUBL. LI. — 46 LEG(ATl) MOCO MET1CAN10 METICONI F(ILIUS), PLAUCUS PELIANI(O) PELIONI F(ILIUS). ) — S — * 4* I miei studi portano a questa traduzione : a) Preliminari. b) Formalità della sentenza. — c) L’ agro privato degli uomini di f.an-gasco. - d) Confini dell’agro privato. - e) Confini dell’ agro pubblico. - f) Condizioni giuridiche dell’agro pubblico; è soggetto a canone verso i Genuati. - g) I possessi privati nell’agro pubblico. — h) Norme per il godimento dell’ agro pubblico. — i) Decorrenza del canone. — j) Regolamento dei prati dei diversi popoli. - k) Liberazione dei prigionieri; per le questioni relative si rinvia la causa. — l) Sottoscrizione dei delegati delle due parti. a) Quinto e Marco Minucii, figli di Quinto, della famiglia dei Rufi, esaminarono le quistioni fra Genuati e Viturii in questa causale di presenza fra loro le composero. .Stabilirono le norme dei relativi possessi, ed il modo di fissarne i confini. Fecero segnare questi confini e porre i termini. b) Esauriti questi incombenti, ordinarono di comparire a Roma, ed in Roma, presenti le parti, pronunziarono sentenza, a ciò autorizzati dal decreto del Senato, nelle Idi di dicembre (il dì ij), sotto il consolato di Lucio Cecilio, figlio di Quinto, e di Quinto Muzio, figlio di Quinto (anno 6jy di Roma, ny av. I E. V.). Colla qual sentenza fu giudicato: c) A i è un agro privato spettante al Castello (Langasco) dei A iturii, che essi possono vendere e trasmettere agli eredi. Questo agro non sarà soggetto a canone. d) I confini dell’agro privato di quei di Langasco sono i seguenti : Dove finisce il rivo che nasce dalla fontana in Planicelo (Mcirsen, abbreviazione di « Ma-en-i-cen ». Per effetto di un avvallamenio la fo?itana scaturisce ora un po’ più in basso nel ripiano /detto « a-en-i-cen » ove ò- la palazzina Razeto) c dove lo stesso s’incontra coll’Ede (Verde), ivi sta un termine. — Quindi si va in su per il fiume fino ad incontrare il fiume Lé-mori (Levioin, ora Rio d’Iso). — Quindi su per il fiume Lemori fino al rivo di Cumberanea (Creusa). — Quindi su per il rivo di Cumberanea fino alla convalle Ceptiema (aru convalle di — 9 — Pietra Lavezzara) ; ivi sono due termini presso la via Postumia. — Prolungando la linea retta risultante da questi due termini, si va al rivo Vendupale (Pcu-vei). — Dal rivo Vendupale nel fiume Neviasca (Castagna). — Poi giù pel fiume Neviasca fino all’ incontro del Procobera (-Ricb). — Quindi giù per il Proco-bera fino al punto ove finisce il rivo Vinelasca (Rio de vigne ora detto « dai Langen ») ivi è un termine presso la via Postumia, e un altro al di là della via. — Dal termine che sta al di là della via Postumia, si va in linea retta alla fontana in Manicelo. — Quindi giù per il rivo che nasce dalla fontana in Manicelo sino al termine che sta presso al fiume Ede (Verde), e) Quanto all’ agro pubblico posseduto da quei di Langasco, si ritiene che i suoi confini siano questi: dove confluiscono l’ede e la Procobera (il Verde e la Polcevera) sta un termine £Ej. — Quindi si va su per il fiume Ede fino al piè del monte Lemorino (Lemoin)/ivi sta un terminej^II). — Quindi si va su pel giogo Lemorino, e s’incontra un termine (III). — Poi su per il giogo Lemorino, e si trova un altro termine nel monte Procavo (Jm~-cwi) jpj). Quindi su per il giogo si va al sommo del monte Lemorino-^ZgccfiJ ,• ivi sta un termine (V). — Quindi proseguendo per il giogo si va al Castello che chiamano Aliano (A-lià, ora monte Pcuzu) ; ivi sta un termine (VI). — Quindi camminando pel giogo sul monte Giovenzio (Au Zuvo, il luogo ove allora la Postumia valicava, ora Montatelo); ivi è un termine (VH')- Quindi seguendo il giogo nel monte Apenino, che si chiama Boplo (Ora-Capellin, probabilmente da Cao-penin) ; ivi sta un termine (Vili). -— Dall’Apenino seguendo il giogo al monte Tuledone f Carmo) ; ivi è un termine (IX). Poi giù per costa nel fiume Veraglasca (che sbocca sotto Vote) ; in fondo al monte Berigiema sta un termine (X). — Quindi per la costa si va su al monte Prenico (Pernecvo); ivi sta un termine (XI). — Quindi per costa si scende nel fiume Tutelasca (Secca, cìie nasce dal Carino o Tuledone) ; ivi sta un termine (nel luogo detto Isola) (XII). — Quindi su per la costa di Blustimelo (costa di Pedemonte) fino al monte Claxelo (oggi Croxevia) ; ivi sta un termine (XIII). — Quindi si discende al fonte Lebrimelo foggi - TO — Fontana d’asi); ivi sta un termine (XIV). — Quindi giù pel rivo d’Ensiseca nel fiume Procobera (aggi Ricb) ; ivi sta un termine (XV). — Quindi giù per il fiume Procobera (Ricò). Dove confluiscono 1’Ede e la Procobera (Verde e P^-ct.mw+ir~Ricò) ivi sta il termine (già memwtmi# al moni. I). f) Di questo ag'ro, che giudichiamo esser pubblico, i Viturii del Castel di Lang’asco si ritiene che debbano avere il possesso e il godimento. Per questo agro i Viturii Langen daranno 40# vittoriati all’anno all’erario di Genua. Se i Langen non pagheranno questa somma e nemmeno soddisferanno i Genuati in altro modo gradito a questi, beninteso che i Genuati non siano causa del ritardo a riscuòtere, saran tenuti i Langen a dare ogni anno all’ erario di Genua la ventesima parte del frumento nato in quell’ agro e la sesta parte del vino. g) Chiunque Gemiate o Viturio, possiede dell’ agro entro quei confini, sia mantenuto nel possesso e nel godimento, purché il suo possesso dati almeno dalle kalende del mese Sestile (Agosto) del Consolato di L. Cecilio Metello, e di Quinto Muzio (6jy): coloro che godranno di tali possessi pagheranno ai Langen unganone proporzionale come tutti gli altri Langen, che in quell’agro avranno possessi o godimenti. Fuori di questo caso nessuno potrà possedere in quell’ agro senza l’approvazione della maggioranza dei Viturii Langen, ed a condizione di non introdurvi altri che Genuati o Viturii come coloni. E quei di essi che non obbedisse alla maggioranza dei Viturii Langen, non potrà continuare ad avere nè godere di tal agro. li) Quanto all’agro che sarà compascuo, sarà lecito ai Genuati e Viturii pascervi il gregge come nel rimanente agro genuate destinato a pascolo pubblico : nessuno lo impedisca, nessuno ricorra a vie di fatto ; così pure non s’impedisca di prendere da quell’agro legna e materiali. i) La prima annata di canone i Viturii Langen dovran pagarla alle kalende di Gennaio del secondo anno (639), e di ciò, che godettero o godranno prima delle prossime kalende di Gennaio (638) non saran tenuti a pagare canone alcuno. — II — J) Quanto ai prati, che durante il Consolato di L. Cecilio e Q. Mucio (l’anno in corso 637) erano maturi al taglio del fieno (si parla dei prati) siti nell’ agro pubblico, sia in quello posseduto dai Viturii Langen, sia in quello posseduto dagli Odiati, e dai Dectunini e dai Cavaturini e dai iUntovini, nessuno vi potrà segare, nè condurre bestie a pascola, nè sfruttarli in altro modo senza il consenso dei Langen, degli Odiati, dei Dectunini, dei Cavaturini e dei Mentovini, per quel tratto che ciascun di essi possederà. Se i Langen, o gli Odiati, o i Dectunini, o i Cavaturini, o i Mentovini vorranno in quell’agro stabilire nuovi patti, chiuderli, segarvi il fieno, ciò potranno fare a condizione che non abbiano maggiore estensione di praterie di quel che ebbero e godettero nell’ ultima estate. k) Quanto ai Viturii, che nelle questioni coi Genovesi furono processati e condannati per ingiurie, se qualcuno è ancora in carcere per tal motivo, si ritiene dovere i Genovesi proscioglierli e rimandarli in libertà. Prima delle prossime Idi del mese Sestile (Agosto 038), se al riguardo di tal faccenda sembrasse esservi qualche cosa di ingiusto, compariscano innanzi a noi in qualunque giorno, che non sia destinato nè alle cause nè a pubblici affari. I) I DELEGATI MOCO METICANIO FIGLIO DI METICON E Plauco figlio di Pelion di Pelio. >r 5. — Questa tavoletta di bronzo è al giorno d’oggi considerata, nel mondo degli eruditi, come uno dei più preziosi documenti dell’archeologia romana; pochissimi se ne trovano così antichi, nessuno così completo (^1). 1 (i~) 11 Can. Grassi, ragionando -della grande importanza che ha la tavola di bronzo, come monumento archeologico, scrive: « L’uso di consegnare al rame » gli atti pubblici presso gli antichi 'saria tornato davvero d’infinito vantaggio; » ma il tempo edace, si in questo, si in altre qualità di memorie funne deplorabil-» mente maligno; a noi Liguri segnatamente, cui involò persino quasi tutto quanto Fu pubblicata la prima volta a Parigi, l’anno 1520, per opera del Giustiniani nell’occasione in cui dava alle stampe un libro contenente opere diverse di Jacopo e )’ eloquente Livio e l’indagatore Polibio avevano delle cose nostre consegnato nei loro volumi. Quanto all’ Aerescriplura, come 1’ appella Siculo, gli originali serbati in Roma perirono negli incendii e nei saccomanni ; i duplicati di quegli Atti, che riferivansi alle Colonie, ai Municipii federati, alle Prefetture, ai Fori, ai Concilii, alle Provincie, alle Alleanze e via discorrendo, andarono per poco tutti in dileguo con danno irreparabile della storia e della filologia. Nelle guerre Otoniane se ne squagliarono quanto aveavene in Campidoglio, che andò in fiamme, come nota Tacito, e dove erano collocate le rimanenti, salve o ripristinate, dopo i precedenti infortunii. Perirono per disastri posteriori le tre mila tavole, rifatte, giusta Svetonio, sotto 1’ Imperatore Vespasiano; riparazione , la quale, comechè di troppo incompleta , alleviava pur tuttavia non poco il dolore di si grandi iatture. Ben tornava incompleta quella ristorazione in vero per doppio titolo; imperocché se ne potè ripristinare soltanto un assai breve numero , quelle cioè che poterono riaversi comechessia da copie, o da copie di copie che ancora n’ esistevano per Roma od altrove ; e si ristorò senza dubbio con quegli scorsi non infrequenti e quelle mutazioni, cui vanno sempre soggette, anco in buona fede, e conscienziata sollecitudine, le riproduzioni di cose antiche. Infatti come riesci la copia della nostra Tavola medesima cavata d’ordine di Cosimo I di Toscana, che trovasi nella galleria di Firenze? Eppure copia ritratta dall’ originale, e con mandato del massimo di precisione. Sudò Polibio, sudarono i più dotti Quiriti, eh’ egli dovè appellare in soccorso, a cavare un costrutto dalla Tavola che conteneva 1’ atto di federazione fra Romani e Cartaginesi l’anno primo del Consolato Romano, cacciati i Re; eppur non eran poi si discosti dal tempo di quella compilazione. Donde viene che noi possiamo con miglior fondamento interpretare i frammenti delle XII Tavole, anzi quelli delle leggi regie? Ei passarono per la bocca e per lo stile di molte generazioni, ce ne avvisa Tullio, di fanciullesca elementare lettura, mandavansi a memoria, ivano perciò dirugginendosi, seguendo in alcunché il progresso della successiva coltura del linguaggio. Qjianto perciò maggiore è la rilevanza delle iscrizioni di data certa o assegnabile, coeve e ben conservate! Egli è il possederne pur una senza dubbio gran sorte, e tanto immensamente più, se corredata di si felici condizioni, fra si poco numero scampato dallo sterminio, e dall ingiuria del tempo, che 1’ abbia interamente rispettata. » Il senatusconsulto de’ baccanali, che serbasi nel museo viennese, rinvenuto nelle Calabrie, atto sancito nel 568 di Roma, è il solo digesto al nostro paragonabile, e che lo precede; questo senatusconsulto prezioso per la filologia e per le formole, non è per fermo di massima importanza storica; conciossiachè — i3 — Bracelli. Fu divulgata poi colla traduzione che ne diede il Giustiniani nei suoi Annali, che vennero alla luce in Genova nel 1537. Fu poi riferita dal Bisaro e da Foglietta; in Germania Giorgio Fabricio la riportò nelle sue « Antiquitates » sotto il titolo : « Instrumentum terminorum inter Genuenses et Veiturios; » in Francia ne scrisse il Brisson, in Fiandra 1’ Ortelio ed il Grutero, fra gli Spagnuoli Didaco Stunica. Pare ne abbia scritto il Pinelli, Genovese, ma non se ne trova più traccia. 11 Terrasson ne fa cenno nella sua « Storia della Giurisprudenza Romana », ed il conte Carli nelle sue « Antichità Italiche ». Il Granduca di Toscana Cosimo I, amante d ogni antica rarità, ne fece ritrarre un esemplare in bronzo che si conserva nella Galleria di Firenze ; e su quella copia studiarono altri eruditi come lo Zaccaria e 1 Orelli. Ma tutti costoro si contentarono di rilevare la grande importanza della tavola sotto l’aspetto della epigrafìa latina, senza che alcuno si accingesse a rilevarne il senso geografico, storico e giuridico. La traduzione del Giustiniani rimase per trecento anni » non iscopraci nulla di nuovo, sapendo noi il suo disposto altrimenti, cioè per » mezzo di Tito Livio. Ma il viennese è in minor conservazione. Gli esemplati » delle antiche leggi e Senatusconsulti conservatici sui libri di Frontino, di Cice- » rone e di Catone, dal detto sopra son fuori di comparazione, e perciò me ne » passo. I miseri brani circonrosi delle leggi agrarie, la smarginata legge Toria, » la monca iscrizione Eracleense opistografa d altre greche molto più antiche, il » lungo frammento senza capo e senza chiusa delle costituzioni per la Gallia Ci » salpina, la legge acefala de praeconibus et viatoribus, il bronzo Termense, sono »> assai lungi dal poter disputare la preminenza al nostro, che in estensione, che » in importanza, che in vetustà, che in conservazione. L’epigrafe puteolana esi- » stente in Napoli, ma in marmo, ben conservata, pur cede alla nostra dell an- » tichità d’ alcuni anni. Le due Tavole alimentarie, la Trasapenmna, e la Bebiana « portano il nome di Trajano ». — 14 — 1’ unica fonte a cui si attingeva per conoscerne approssimativamente il contenuto. E si capisce che, leggendo il Giustiniani, ogni generazione si convincesse che si trattava di « res obscura » come dicevano i padri del Comune, e così si lasciasse ad altri il compito di decifrare quel rebus. Colla lodevole intenzione che la tavola « si potesse leggere ed intendere senza fatica » i Padri del Comune, nel 1585, nell’occasione in cui trasportarono la tavoletta di bronzo dal tempio di San Lorenzo al Palazzo Ducale, fecero trascrivere la tavola in una grande iscrizione di marmo, che dopo molte vicende è ritornata ora alla luce nella collezione di lapidi esistenti nel portico del Palazzo Bianco. L’ idea era buona, osserva il Sanguineti, ma non così l’effetto; perchè l’iscrizione fatta eseguire dai Padri del Comune ribocca di errori, e prova col fatto che dopo 80 anni si capiva ancora meno di quanto ne aveva capito il Giustiniani. Nella seconda metà del secolo scorso cominciò quel nuovo indirizzo desfli studi storici ch’ebbe in Genova due <_> valorosi campioni: l’abate Oderico e poi il marchese Gerolamo Serra, l’antesignano di quel patriziato intelligente, che volle rinnovare la sua nobiltà cogli studi, che a metà del secolo xix ebbe un altro illustre campione nel Marchese Agostino Pareto, ed in oggi è degnamente rappresentato dal Marchese Cesare Imperiale, Presidente della Società Ligure di Storia Patria. Allettati dalla loro profonda erudizione, tentarono entrambi un commento della tavola di bronzo; il primo con un lavoro latino rimasto inedito, che si conserva fra i mm. della Biblioteca dell’ Università di Genova ; il secondo con una monografìa pubblicata nel 1806 nelle — ij — Memorie dell’ Istituto Accademico di Genova. Per quanto i loro studi sieno oggi passati in seconda linea, perchè basati sopra di errori ormai definitivamente constatati, essi hanno tuttavia il gran merito d’aver portata la critica storica su questo importante documento, d’avere aperto la via agli studiosi, di avere per lo meno fatto sentire il bisogno e 1’ utilità di nuove ricerche, e di aver fatto intravedere la possibilità di arrivare un giorno alla completa intelligenza della tavola di bronzo. L’errore fondamentale che vizia le interpretazioni del Serra e dell’ Oderico non è di loro invenzione, come credettero alcuni commentatori, ma risale alla traduzione del Giustiniani. Il Serra e l’Oderico, seguendo il Giustiniani, ritennero che i Langen fossero un popolo, ed i Vituri un altro, e che la contesa sostanziale fosse tra Langen e Vituri, e che i Langen ai Vituri dovessero pagare un canone ; mentre è chiarito oramai che la contesa era fra i Vituri Langen e i Genovesi, e che il canone era dovuto dai Vituri Langen ai Genovesi. L’ equivoco era nato dalla forma antiquata della parola « Veituris » che si legge al principio della 25/ linea, ove è detto che « VECTIGAL . LANGENSES . VEITURIS . INPOPLICUM . GENUAM . dent ».. Stando alle norme grammaticali aveva ragione il Giustiniani, e con lui 1’Oderico ed il Serra, di tradurre « i Langaschi paghino censo ai Vituri ». Ma la filologia latina ha dimostrato, ed il confronto con altri passi della tavola parimente dimostra, come veituris sia una forma arcaica rappresentante il nominativo veiturit, ed una volta fissato questo concetto, viene a mutare nella sua sostanza tutto il significato della tavola. Ecco la ragione per cui i commenti del Serra e — i6 — dell’Oderico, come la traduzione del Giustiniani, non sono più in oggi accettabili. Agli erronei concetti del Serra si inspirarono gli scrittori nostri fino al 1860 circa. Di ciò è bene avvertire i giovani studiosi, ai quali facilmente potrà accadere di attingere le prime cognizioni sulla tavola di bronzo dalla Guida di Genova del Banchero, o dai Cenni Archeologici del Canale, pubblicati nella Descrizione del Genovesato nel 1846 in occasione del I.° Congresso deoli Scienziati. o Lo studio della tavola di bronzo fu ripreso verso la metà del secolo XIX dagli eruditi della Germania, i quali vi portarono acutezza di critica e vastità di vedute. Mentre il Ritschl ne pubblicava il facsimile nei suoi monumenti anteriori ad Augusto, il Rudorff ne studiava il senso giuridico e sociale in una sua dissertazione pubblicata negli Atti dell’ Accademia di Berlino nell’ anno 1842. Contemporaneamente il Grassi Genovese si dedicava alla correzione del testo e rilevava quell’ errore fonda-mentale che aveva viziato ogni commento, dal Giustiniani al Serra ; avvertiva che « Viturii Langen » significava un popolo solo, che la controversia era fra Viturii Langen e Genovesi, che erano i Viturii Langen che pagavano un canone cui Genovesi, non i Langen ai Viturn. Finalmente si ebbe nel Mommsen una gran mente ordinatrice ; egli tutto vide, vagliò colla sua critica sovrana ; eliminando una quantità di errori ; spiegando, integrando le formule più astruse, ripristinando insomma nella sua verità epigrafica la tavola romana. L’ esempio del Mommsen provocò nuovi studi da parte — 17 — degli archeologici liguri di cui Genova era fiorente a quel tempo. Nel 1864 si formò in Genova un nobile consorzio di eruditi per lavorare d’ accordo allo studio della tavola di bronzo, e ne uscirono pregevoli commenti dell'Ab. San-guineti, del Canonico Grassi e del prof. Desimoni, che sono raccolti nel Voi. Ili degli Atti della Società Ligure di Storia Patria. Gli studi, che questi tre valenti archeologi fecero sull’originale della tavola, ebbero prima di tutto per risultato di correggere parecchi errori, e dare una più esatta lezione del testo. Ed il Mommsen fece tesoro dei loro studi quando, nel 1877, pubblicava per la seconda volta questo documento nelle « Inscriptiones Galliae Cisalpinae ». Abbiamo così nella traduzione del Mommsen un testo, che si può dire autentico e perfetto, in cui sono eliminate le difficoltà provenienti dalle forme antiquate, dalle abbreviazioni, nonché le altre che dipendevano dai guasti della tavola, dalla imperfetta incisione , o dall’ ignoranza del-l’incisore. Ciascuno può ora con base sicura accingersi a nuovi studi. * 6. _ Gli studiosi del diritto romano troveranno nella tavola le prime applicazioni della procedura romana, della potestà giudiziaria del Senato, e delle delegazioni che conferiva ai giudici di sentenziare in suo nome, del modo con cui si istruivano le cause, con cui le sentenze si redigevano e si pronunziavano ; troveranno coi principi dell’ ager vectigalis un’ esatta applicazione di quei Atti Soc. Lig. di Storia Patria. Voi, XXX. 3 — i8 - famosi interdetti uti possidetis, che rappresentano la parte più pratica del giure romano in tema di proprietà. Gli studiosi di cose sociali potranno rilevare l’ordinamento politico e il regime agrario di quei popoli primitivi , confrontare colla tavola di bronzo le leggi agrarie dei Romani, studiare sotto questo rapporto le affi • nità del popolo ligure cogli altri popoli dell evo antico. La linguistica avrà campo di studiare nella tavola di bronzo le prime forme latine, e riscontrare le intime relazioni che esse hanno con certe forme volgari, che ci ostiniamo a considerare come una corruzione del latino, mentre queste non sono che le generatrici di quelle. La tavola di bronzo, come il Senatus consultus dei Baccanali, come le iscrizioni delle tombe dei Scipioni, come le leggi agrarie, ci presentano il meraviglioso contrasto di una lingua parlata, alquanto rozza ma concettosa, vivace e libera, la quale si dibatte contro la ferrea disciplina di un popolo che la frena, come può , colla sintassi e colla grammatica latina. La disciplina grammaticale finirà per trionfare, allo stesso modo che l’assolutismo militare trionferà della libertà dei popoli ; ma non sarà men vero che, come i Liguri formano il substrato della popolazione italica, così il dialetto ligure, osco, sabellico, che dir si voglia, fu il primo fattore della lingua nostra (i). * 7. — Ma la tavola di bronzo ha una importanza tutta speciale per noi Liguri. Essa contiene il segreto della nostra storia di 2000 anni fa. (1) Sugli antichissimi dialetti italici, vedi p. 52. — 19 — Sotto il punto di vista della storia ligure lo studio della tavola è ancora molto indietro. Gli stranieri attendono giustamente che il paese, a cui il documento si riferisce, risponda. Sono i Genovesi, che in quel quadro di 2000 anni fa devono ritrovare sè stessi, devono intuire il loro passato in relazione col loro presente; perchè soltanto essi conoscono i luoghi, i nomi, le tradizioni, i costumi, che riannodano il presente all’ antico. Gli studi del Sanguineti, del Grassi e del Desimoni costituiscono una preziosa illustrazione della nostra tavola; ma sono ben lontani dal risolvere tutte le complicate questioni di storia ligure che vi si connettono; e lo sentiva il Grassi quando proponeva di stabilire in Genova « il commento perpetuo della tavola di bronzo ». Il Sanguineti trattò splendidamente la parte filologica ed accennò a diversi criterii storici. Il Grassi si occupò più specialmente della correzione del testo, diede un commento filologico e storico, una traduzione latina e italiana e un tentativo di ricostruzione geografica. Il Desimoni profuse i tesori della sua erudizione in tre lettere, che sono tre veri trattati sulla questione topografica — sulla questione sociale — sulla questione filologica. Trattò da pari suo delle origini dei Liguri ; ma il campo è vasto e la storia ligure preromana è sempre allo stato di nebulosa. Ed ora mi pare il momento di rispondere ad una legittima domanda : perchè dopo che questi grandi eruditi aveano parlato io osai ritornare sull’argomento? La questione topografica, dalle stesse incertezze del Grassi e del Desimoni, mi pareva tutt’ altro che risolta. — 20 — Compresi da certi indizii che tanto il Grassi quanto il Desimoni avevano lavorato molto dal tavolo, ragionando sulle carte dello Stato Maggiore, la qual cosa ho sempre riscontrato esser pericolosa in così fatti studii. In secondo luogo notai che tanto il Grassi quanto il Desimoni partivano da certi punti fissi geograficamente erronei. Tanto l’uno (Pa&- 435) quanto 1 altro (p. 537) suppongono che il Verde si estenda, e perciò si prolungasse in antico fino al Mo-rigallo, e siccome la tavola parla del punto ove confluiscono 1 Ede e la Procobera, essi concludono : Ede è il Verde, la Procobera è la Secca; il punto ubi confluunt è il Morigallo. E questo è un errore, il quale vizia tutto il loro sistema di confinazione. Il Verde non va al Morigallo , ma finisce a Pontedecimo ; e perciò il punto ubi confluunt Edus et Procobera doveva porsi a Pontedecimo e non al Morigallo. E non si doveva portar la Procobera sulla Secca con una ipotesi arbitraria non solo, ma disdetta da una tradizione costante, la quale ha sempre ritenuto la Seca un affluente, una cosa distinta dalla Polcevera. Il professor Desimoni inoltre pose a base del suo sistema questi altri due presupposti i.° che la catena del-1’Appellino abbia un monte ai Giovi (p. 537), mentre che ai Giovi non vi è che un avallamento, un passo; i monti più vicini sono il Montaldo e il Capellino. 2.0 Che sia errata la carta dello Stato Maggiore e che il monte Pesalovo debba essere segnato al posto del Capellino (Pa&- 548, nota), mentre la carta è conforme al vero. A questo punto devo richiamare ciò che il Prof. Desi-moni scrive nella sua nota a pag. 549: « La parte più diffìcile di questo confine montuoso, dal monte della Boc- chetta al Santuario della Vittoria fu verificata da un mio amico, il Sig. Wolf \ instancabile indagatore di luoghi e di documenti ». Il Wolf era un appassionato cultore della Storia Ligure, ma era forestiero, e non poteva non risentire le difficoltà dell’ ambiente, e specialmente quella di intendersi coi nostri villici. Poteva quindi facilmente ingannarsi , come avvenne. Questa è la ragione per cui fallirono i tentativi del Grassi e del Desimoni. Lo sport della montagna era pochissimo in uso ai loro tempi, oltre che le condizioni fisiche non permettevano forse nè all’uno nè all altro di percorrere tutti i gioghi descritti nella tavola di bronzo. Non fu dunque soverchia pretensione la mia se mi rifiutai di giurare in verba magistri, e, visto che 1’ errore era nato dalla poca conoscenza dei luoghi volli ritentare la prova associando alla mia impresa 1’ Alpinismo, il gran perito della montagna. Quel che è certo si è che Genova non ha fiìiora risolto il quesito relativo alla posizione geografica dei primitivi Genoati e Viturii ; e basterebbe la discordia assoluta che regna fra le ipotesi del Serra, del Grassi e del Desimoni per convincersene. Si comprende facilmente che una configurazione diversa dei popoli liguri porta ad altri orientamenti nel ragionare delle relazioni dei popoli stessi. La grave questione della dipendenza dei Vituri Langen dai Genoati, assume dalla posizione geografica caratteri nuovi, che suggeriscono, a mio avviso, conclusioni diverse da quelle generalmente adottate finora. E così sempre più si delinea la necessità di uno studio ex novo. 8* Oltre che nella questione geografica, io mi allontano dagli altri scrittori nel sistema, cioè nel modo di investigare la storia ligure preromana. A mio avviso lo studio della tavola diè scarsi frutti sinora, perche non si considerò abbastanza che la tavola di bronzo, se e documento romano per la forma — perchè due personaggi romani intervennero e scrissero in latino lo stato delle nostre questioni — è però nella sostanza un documento essenzialmente ligure. Non bisogna dimenticare che nell’ anno 117 avanti 1 E. V., in cui la sentenza è pronunciata, il Ligure è ai suoi primi contatti col popolo di Roma. Egli non chiede ai delegati del Senato una legislazione nuova: è troppo geloso della sua indipendenza per farlo. Egli chiede semplicemente un riconoscimento di diritti antichi, di possessi, di costumanze preesistenti. Genoati e Vituri contendono per i confini dei loro agri, per i loro compascui, per il diritto di trarre dai monti legna da ardere e materiali da costruzione ; essi non invocano altre ragioni che i loro usi, i loro patti antichi. Gli arbitri non fanno che constatare, sanzionare, precisare gli antichi confini e le antiche costumanze, colla scorta dei relativi possessi. Insisto su questo punto perchè mi è sempre parso di vedere che, nello studio delle cose liguri antiche, noi siamo fatalmente trascinati dal « pregiudizio latino ». Si chiese all’ erudizione romana spiegazione di tutte le cose nostre. A tutti i nostri nomi, come Cavignan, — 23 — Serzan ecc., si attribuì un’ origine latina. Ma i Liguri non esistevano mille e due mila anni prima? lo credo che « Zénoa » avesse tal nome prima che Publio Scipione vi sbarcasse colle sue navi (i), e Strabone, il segretario di Augusto, la segnasse per « Genua » nel x * * * suo taccuino. Credo che un Carino (2) non sia mai esistito a Cavignan, ma che questo nome sia antico quanto « cavi, gavi, gavigne, gavignan e gavignana » e non vi sia ragione d’inventare un Sergio romano per dar il nome a Zerzan (3) , il quale indubbiamente si chiamava così dal giorno in cui i primitivi Liguri, parlando una favella, che era comune a tutti i popoli mediterranei, dissero. — « Sèra » il monte che chiude — « Zan e Clan » il piano — « uale o vale » la valle — « Ser-zan » il monte che serra il piano — « seravaie » il monte che serra la valle. Per effetto del « pregiudizio latino » 1’ anacronismo regnò sovrano nei nostri studi. Si fece nascere dai Romani un’ infinità di cose, di fatti e di idee , che erano proprie dei Liguri e che i Romani tolsero da quelli. E così si andò fuori strada cercando nel latino Genua 1’ origine di Zenoa , in Sabatia 1 origine di Saona, in Ricina l’origine di Reco, in Hasta 1 origine di Asti, in Taurinus l’origine di Turin, in Turrilia 1 origine di Turriggia; mentre lo studio del dialetto ligure attesta all’ evidenza che Zenoa, Saona, Astu, Turin, Turia, altro non sono che antichissimi nomi nostri , che furono poi (1) Livio, Libro XXI. (2) Il Canale nella Storia dei Genovesi p. 24 fa derivar Cariniano da un Carino romano. Altri fantasticò: Cherem-jani. (}) 11 Cax'ale fa derivar Sarzano da Sergio ossia da Sergiano; altri da arx-jani. Noto che di Serian, Sar^aii e Sarianello è piena la Liguria. — 24 — mascherati romanamente da quel popolo superbo, che volle tutto il mondo foggiato ad immagine sua. Non vi sarebbe stato gran danno se questa tendenza si fosse contentata di sbizzarirsi nel campo delle etimologie. Ma siccome il criterio etimologico diventa facil-mente criterio storico, così le reminiscenze classiche invasero tutta la nostra storia, e la fisionomia del Ligure primitivo ne rimase profondamente alterata. Ecco la ragione per cui mi premunisco tanto contro il pregiudizio testé accennato. Non vorrei certo mettermi in dissenso col prof. Desi-moni per la semplice etimologia di Ede, di iso, o di Ioventio; ma quando vedo che, accettando le definizioni del Desimoni, io faccio dipendere dalla civiltà romana le origini dei Liguri, quando penso che derivando Ioventio da Iovis, il Desimoni costruisce tutta una teoria dei popoli Liguri che avrebbero avuto sull’Appenino genovese i loro convegni religiosi con Giove alla testa; allora, io dico, non è più questione etimologica. Si entra a discutere il carattere primitivo del popolo ligure, ed io chiedo la parola per oppormi a che V Iovis acquisti nella nostra storia un seggio che non gli compete. Allora io contrappongo un’ etimologia che arresta il corso a tutte queste vedute storiche e dico: badate che Ioventio è semplice-mente la traduzione di zuvu o giovo. Non il ligure dal latino, ma il latino dal ligure; questo è per me il gran vero che deve presiedere alla ricomposizione della storia primitiva. Perchè non dobbiamo dimenticare che i Liguri sono il più antico popolo d’ Italia, che a poco a poco fu ristretto fra la Magra e il Varo, che i Romani altro non sono che un tardo - 25 — germoglio di questa antichissima razza italica (i). I romani vennero in Liguria quando il nostro popolo aveva già 2000 anni di vita, quando il ciclo ligure stava per finire (2). Vennero, videro, ed ogni cosa trasformarono, romanizzarono, non abbiamo difficoltà ad ammetterlo, e a ritenere che l’influenza latina fu enorme. Tutte le forme della civiltà romana passarono fra noi, foggiammo alla latina la nostra lingua, seguimmo i romani nell’arte, nella letteratura, nell’ opulenza e nel vizio. Ma non per questo cessammo di esser Liguri ; Zénoa fu sempre Zénoa! Questa Zenoa primitiva non è ancora chiarita. Gli studi nostri sono per molti riguardi ancora al punto in cui era la storia di Roma prima che il Niebuhr, il Mommsen, il Bonghi e il Pais, seguendo un’idea già adombrata da Giambattista Vico, sceverassero dalla realtà tutto quell’artificio simbolico, che avvolge i primi secoli di Roma, colla differenza che 1’ artificio era in quel caso di creazione antica, mentre nel caso nostro è di fattura moderna. Come la civiltà miocenica si sviluppò in Liguria parecchi secoli dopo la gran fioritura di Micene e di Troia, così è molto tardivo il nostro movimento scientifico a riguardo della ricostruzione storica. La storia Genovese ha fatto dei grandi progressi in questo secolo, .specialmente per quanto riguarda il medio evo, e di molto siamo debitori al Desimoni, che fu il Muratori della Liguria, più illuminato, più moderno come voleva la differenza dei tempi. Ma la storia ligure primitiva è tuttora in balìa di criterii infantili, perchè siamo venuti sin ad oggi trastullandoci colla erudizione romana, pur essendo convinti che (1) Vedi Nicolucci, Schiapparelli, Molon, Celesia, Mariotti, Sergi. (2) Niebuhr, Storia romana. — i6 — Roma non basta a spiegare le origini del Ligure, il più antico popolo italico. Adunque è verso il Ligure primitivo che noi dobbiamo appuntare i nostri studi, se vogliamo comprendere i fenomeni sociali e politici che costituiscono il principio, il substrato di tutta la nostra storia. L’ amore del classicismo ci ha sempre fatto dimenticare che Genova esisteva ed era marinara e commerciante , ed era civile e florida cinque secoli avanti 1’ E. V., quando Roma riceveva le prime lezioni di civiltà etrusca da Tarquinio Prisco. Bisognava che il piccone demolitore portasse alla luce le tombe dei nostri avi di XXIV secoli addietro (i) per far toccar con mano ai più incre- (i) « Negli scavi fatti nel 1898 per l’apertura della nuova strada XX Settembre » furono scoperte oltre 15 tombe a pie’ del colle di S. Andrea e più particolarmente » nel luogo ove era la chiesa di N. S. del Rimedio. Le tombe erano scavate » nel tufo. Nei tagli sezionali che si praticavano per 1’ abbassamento del suolo si » avvertiva sovente la presenza di una tomba, in quanto si vedevano nel terreno >» sopra il tufo i segni di un antico scavo della larghezza di 1. 60 circa. Dove cestì sava la terra e cominciava il tufo lo scavo prendeva la forma di un pozzetto » di circa 70 cent, di larghezza. Nel pozzetto era un vaso contenente i resti della » cremazione. Le ceneri e le ossa carbonizzate erano miste alla terra colata colle » infiltrazioni. Intorno al vaso cinerario, anfore, ciottole e utensili diversi. Alcune » tombe contenevano due, tre e perfino quattro vasi cinerarii; erano probabil-» mente tombe di famiglia. Il pozzetto era coperto di una lastra di pietra comune » senza alcuna iscrizione. , » I vasi, che saranno esposti nel museo del Palazzo Bianco, sono di quelli vol-» gannente chiamati etruschi, perchè negli scavi etruschi si trovarono in gran » copia ; ma in realtà sono, secondo il prof. Gherardini, di fabbrica Ateniese del » V secolo a. 1’ E. V. Ammirabile per finezza di lavoro una anforetta in bronzo » ed altri piccoli oggetti d’ arte greca. » La maggior parte dei vasi cinerari si trovarono rotti, le pietre che servivano » di coperchio alle tomb; erano generalmente inclinate, il che è indizio che quelle » tombe erano state manomesse da chi sperava trovarvi denari od oggetti preziosi. » Se della Grecia si apprezzavano i bronzi e le ceramiche non è improbabile » che qualche monumento più 0 meno artistico sorgesse su quelle tombe a’ piedi — 27 - duli che Genova ebbe una civiltà preromana, per convincerli che fuori del mondo romano sono da ricercarsi le origini nostre. * 9- — Sotto un altro aspetto il « pregiudizio latino » intralciò lo studio delle nostre antichità preromane. Da Polibio, da Tito I Jvio, da Cicerone, da Strabone, da Plutarco, da Dionisio, dagli scrittori romani insomma, si traevano le notizie de’ nostri Liguri antichi. Gli storici romani descrissero i Liguri frugali, agili e forti, quasi belve, predoni; ce li descrissero come li conobbero nelle zuffe sanguinose ingaggiate con essi nei monti liguri ; ma in realtà poco o nulla conoscevano della storia nostra, ed erano troppo orgogliosi per crederla degna dei loro studi. Oltre a non conoscere i Liguri , gli scrittori romani confusero in un solo concetto i Liguri pugnaci dell’Ap-penino Apuano, Parmense e Piacentino coi Liguri delle due riviere, coi Liguri che abitavano in fondo al golfo. Io ritengo che la storia dovrà a poco a poco rilevare diverse tendenze e diversi gradi di civiltà fra i Liguri antichi. Fierissimi gli Apuani e quelli dell’Appenino Parmense e Piacentino, più rozzi, più montanari; più inci- » del Colle di S. Andrea. Certamente di marmi dovette arricchirsi la nostra città » 5 secoli appresso dopo che Augusto diede tanto lavoro e tanta celebrità alle » cave di Luni, ed invogliò tutta l’Italia a seguire l’esempio di Roma, a ri-» farsi di marmo, mentre era di mattoni, di rozze pietre e di paglia ». Su questa importante scoperta delle tombe genovesi riferirono il Prof. D’An-drade e il Prof. Ghirardini negli atti dei Lincei (Rendiconti Classe di scienze morali, storiche e filologiche). — 28 — viliti quelli che abitavano il littorale. Ostili a Roma quei della riviera di Ponente per 1’ indirizzo preso ai tempi dell’invasione d’Annibale (i); rivali forse quei della riviera di Ponente coi Genovesi, rivalità che si cambiò forse in odio quando Magone, alleato con quei della riviera, saccheggiò Genova, e portò il bottino nel castello di Saona (2). Genova rimase amica dei Romani o per lo meno neutrale in quel periodo fortunoso delle guerre di Annibaie, e cominciò allora quella politica tutta sua, inspirata unicamente ai suoi interessi commerciali, che non ingelosì i Romani, che li indusse a lasciar in pace i Genovesi, a trattarli non come sudditi ma coijie confederati, mentre gli altri popoli liguri furono crudamente colpiti. Riassumendo adunque dirò che, se gli storici romani possono darci notizie di fatto sui nostri popoli e sui rapporti che ebbero poi colla repubblica e coll’ impero, non possono che fornirci apprezzamenti inesatti, quando si tratta di conoscere la loro storia intima prima della conquista romana. * 10. — Quali saranno dunque le fonti a cui dovrà inspirarsi uno studio della Liguria preromana? Non saremo certamente noi che disprezzeremo quei preziosi appunti che troviamo negli scrittori latini. Ma quelli appunti non sono ancora la nostra Storia. Volendo (1) Livio, XXVIII. (2) Livio, XXVIII. 46. Ecco un fatto storico che può spiegare molto bene 1’ antichissima rivalità fra Genova e Savona. — 29 — conoscere 1’ intima natura dei Liguri primitivi e renderci conto dell’ evoluzione da essi compiuta prima di confondersi e sparire nella gran fiumana del popolo romano, noi dobbiamo chiedere 1’ ispirazione a fonti essenzialmente Liguri. Sotto questo aspetto ha un valore immenso la tavola di bronzo ; si può chiamare nell’ ordine storico la Bibbia dei Ligicri. * ii. — Il dialetto ligure antico, diligentemente studiato può aprire nuovi e grandi orizzonti alla storia. Imperocché il dialetto ligure antico esiste nei nostri monti, e sara uno dei compiti più belli dell’ Alpinismo ricercarlo e ricomporlo, allo stesso modo che 1’ alpinista botanico coglie e classifica le specie rare di una flora che sta per scomparire. Nelle alte valli del Bisagno e di Fontanabuona, dell’ Orba , della Scrivia e della Trebbia il dialetto ligure è rimasto colle sue forme primitive inspirate alla natura. È rimasto perchè le popolazioni di lassù furono esenti o quasi da commistione ; le invasioni celtiche e poi le longobardxhe, che dilagarono nella valle Padana, si fermarono a pie’ di quei monti ; appena un leggero spruzzo può aver toccato la cima. E così, mentre il dialetto lombardo è nella sua base un ligure celtico, mentre il dialetto genovese è un mosaico ligure formato con tassilli di tutte le lingue, l’alto Appennino invece ripete « nomina et voces » il cui fondo è essenzialmente ligure. Non diciamo con questo che il dialetto dei monti sia quello di 20 secoli fa, ma è certo che lassù abbon- — 30 - dano i fenomeni linguistici, che, ben vagliati e ben discussi, possono servire per una ricostruzione archeologica del dialetto ligure primitivo. Gli studii linguistici avrebbero un indirizzo più sicuro e risultati molto più positivi, se potessero fissare le ca-rattei istiche dei dialetti antichi, che furono i generatori delle lingue scritte. Se non che anche per i dialetti della montagna « il tempo va d attorno colle force ». Dopo tanti secoli di stabilita nell ordine sociale e linguistico, è cominciato un periodo che si potrebbe dire un vortice, tanto è rapida 1 azione della civiltà nell’ abbattere le caratteristiche indù iduali dei popoli. Il dialetto montanino ha subito più trasformazioni negli ultimi cinquant’anni, che non ne subì in venti secoli prima. In conseguenza la ricerca del dialetto ligure antico diverrà fra poco difficile assai. Se non ci affrettiamo a raccogliere dalla bocca dei montanari viventi gli ultimi resti , ci troveremo ben presto nelle condizioni di quelli che vanno in cerca dell’oro nelle sabbie dell Orba. L’ oro vi sarà, ma nessuno avrà più il coraggio di pescarlo. Il dialetto, tengo a dichiararlo , sarà nel mio studio della tavola di bronzo il punto di partenza di ogni spiegazione linguistica. A tutte le denominazioni di monti, di fiumi nostri io farò questa riflessione: latina è la forma, ligure la sostanza. E mi domanderò: che cosa avran detto i Liguri, perchè i Romani traducessero nel tale o tal altro modo? Troveremo che sotto nomi pomposi, d’invenzione romana, si annidano espressioni volgari, a noi Liguri ben note, e corrispondenti esattamente alla natura dei luoghi, a cui furono applicate. — 3i — Vedremo che Ioventius non è altro che il « zuvu », come Lemurinus è traduzione di « Lemuin », Procobera di « Porsei-via ». Lo studio del dialetto ci condurrà a preziosi confronti fra i nomi e i costumi liguri e quelli degli altri popoli del Mediterraneo. E da questi confronti emergerà che il dialetto nostro era nelle sue radici e nelle sue forme essenziali il dialetto comune a tutti quei popoli. Vedremo le identiche espressioni ripetersi nell’ Asia Minore e nella Libia, come nella Francia meridionale e nella Spagna. Vedremo che la lingua greca altro non è che una splendida fioritura di questo dialetto. E comprenderemo come sia avvenuto 1’ errore di coloro che ritennero il dialetto ligure derivazione del greco, e videro colonie greche in tutti i nostri centri liguri. Lo studio del dialetto non vuol essere un’ inconcludente e fantastica ricerca di etimologie, ma uno studio comparato dei fenomeni linguistici, uno studio che consiste nel mettere a confronto il volgare dei Liguri colle lingue scritte dell’antichità, cercando più che la corrispondenza dei suoni, l’identità del pensiero nelle voci, che apparentemente si corrispondono. Un’indagine giudiziosa e paziente porterà a questo risultato, che si avrà un vocabolario del ligure antico, ricco di nomi, di frasi, ignote o dimenticate nei vocabolari del dialetto genovese. E di fronte alla gran messe raccolta non si potrà più dubitare che il dialetto ligure altro non era che un volgare comune a tutti i popoli mediterranei, da cui nacque il greco ed il latino e poi tutte le lingue, che più o meno giustamente furon dette neolatine. Lo studio del dialetto e delle sue attinenze colle lingue antiche del Mediterraneo porterà un forte contri-tributo alla soluzione di un altro quesito — 1’ origine dei Liguri. Sarà allora completamente sfatato, io credo, quell’altro pregiudizio delle origini celtiche che dal P. Bardetti in poi ingombrò la mente di tanti scrittori di cose liguri. * 12. — L’ ispezione diretta dei luoghi è un altro mezzo che aiuta potentemente l’intelligenza dell’antico. È difficile da lontano afferrare il giusto concetto di relazione fra luogo e luogo; l’erudizione da sola non basta; bisogna che vi sia chi si incarica di portare 1’ erudizione al cospetto dei luoghi, che la inviti ad affiatarsi, ad intendersi con tutti gli elementi storici, che il paese conserva. Sovente sono notizie minuziose, tradizioni rozze, volgari, ma preziosissime, perchè danno più d’una volta 1 idea che conduce a nuovi orientamenti. La sintesi topografica balena spesso agli occhi del-1’ alpinista, mentre dall’ alto di un monte abbraccia con uno sguardo 1’ intera regione. Vede il giogo che corrisponde all’altro giogo, vede l’andamento dei fiumi e dei rivi, distingue i bei coltivi dai luoghi sterili per natura, indovina da un comodo e non interrotto sentiero la possibilità di un’antica strada, vede su quel sentiero allinearsi una serie di antichi edifizi, vede comparire antichi ponti... Seguendo il filo ideale che collega tutti questi fenomeni, si arriva spesse volte a quella fortunata concezione in cui tutte le cose prendono posto in ordine logico, si spiegano e si conciliano. - 33 - Lo studio del dialetto non potrà mai compiersi senza una grande famigliarità colla montagna. 1 così detti vocabolari! del dialetto non riproducono che in minima parte le voci primitive, gli arcaismi del vernacolo, e non riescono mai a riprodurre efficacemente la pronunzia. K per lo più dal suono vero dei vocaboli che nasce 1 idea per cui un nome ne richiama un altro ed una sillaba pronunziata a un dato modo fa ricordare il 0 o 1 w di un nome greco. Serve infine meravigliosamente 1 alpinismo per far un continuo confronto fra la cosa ed il nome. Questo è tante volte indecifrabile, ma i luoghi parlano per esso. * 13. — Ho seguito questo metodo storico-alpino nello studio della tavola di bronzo. Per due anni ripetei le mie escursioni sui monti della Polcevera, dai gioghi della Bocchetta e della Vittoria al Monte Carmo. Portai lassù le diverse ipotesi fatte dal Serra, dal Grassi e dal Desimoni a riguardo dei territorii descritti nella tavola di bronzo. O , Posi a confronto quelle ipotesi coi gioghi, coi fiumi, coi rivi, e trovai che la disposizione dei luoghi assolutamente si ribellava alle tre ipotesi suaccennate. Mi posi allora ad uno studio ex novo , senza vincolarmi ad alcuna idea preconcetta, senza lasciarmi sugL,e stionare da quelle omonimie, che già fecero al Seira così cattivo servizio. Le omonimie potranno essere un argomento di conferma, ma non la base per procedere alla constatazione dei confini. È la natura coi suoi mon e i suoi corsi d’ acqua che deve rivelarci quella configu- r 4 Atti Soc. Lig. di Storia Patria. Voi. XXX. — 34 — razione, che corrisponda esattamente ai dati forniti dalla tavola. E dico esattamente, perche non posso supporre che sia errato il documento e tanto meno che abbia mutato aspetto la natura. Nella tavola saranno alterati o mal espressi i nomi locali, perchè i Romani avranno avuto difficoltà ad intendere e a tradurre le espressioni dei nostri villici; sarà ed è certamente errata di fronte alla grammatica 1 espressione latina, perchè questa splendida lingua era ancora ribelle a quelle norme grammaticali che divennero legge ai tempi di Cesare. Ma la precisione dell idea, 1 esattezza nell’esposizione del fatto come nella definizione del diritto, che rese eternamente famosi i Romani, si rivela mirabilmente sotto le forme antiquate della tavola. Vi sono concetti come jugum, flovius, rivus, sursum e devorsum, che devono esattamente corrispondere ai luoghi, e vedremo che corrispondono. Vi è una convalle , e si deve trovare « un punto dove due valli si congiungono ». E così pure si devono trovare le fontane che servivano di confine, le fontane tanto care agli antichi, dove avvenivano gli abituali convegni, dove la bella Rachele di Pòseivia, col secchio alla mano, giurava fede di sposa al suo Giacobbe Zenóeise o Viturio. Se non m’illudo, 1’ « alpinismo applicato alla storia » ha dato in questo caso buona prova. La questione topografica parmi risolta per chiunque vorrà recarsi in Pol-cevera e constatare de visu i fatti che io vengo a descrivere. Si troverà una serie di manifestazioni locali che si succedono nell’ordine preciso indicato dalla tavola. Tutti i punti fissati dai fratelli Minucii appariranno come sentinelle della storia, e non una mancherà alla consegna. - 35 — * 14- — Ho raccolto in una carta i rilievi topografici da me compiuti. Ho aggiunto in essa uno studio delle vie romane che toccavano Genova e la Polcevera , ho segnato le vie presumibilmente più frequentate dai Liguri / antichi in relazione ai loro centri e ai loro scambi. Ho segnato gli antichi abitati, ed ho posto una -+- nei luoghi ove sorsero le prime Pievi cristiane, perchè coincidono generalmente colle antiche tribù Liguri e servono, per tal motivo, allo studio delle circoscrizioni primitive. E con tutti questi elementi ho cercato di delineare il meglio possibile la Polcevera di venti secoli fa. * 15. — Fatte queste constatazioni, m’accingo ora al commento della tavola di bronzo. Vorrei, se mi riesce, abbozzare un profilo storico dei nostri antenati, e per questo ho preferito il titolo « genoati e vitvri ». Il mio studio sarà diviso in tre parti, che saranno tra di loro indipendenti. I. La tavola di bronzo. II. I Liguri primitivi ; il loro dialetto Zenoa. III. I Liguri nell’ epoca romana Genua (1). (1) Se mi basterà il pochissimo tempo che ho disponibile per questi studi, aggiungerò come complemento : IV. Libarna e l’Agro libarnese. V. L’Appenino nel medio evo ; le prime vie commerciali fra Genova e la Lombardia. - 36 - A prima vista può sembrare un po’ strano questo sistema di cominciare dalla tavola di bronzo, per risalire ai tempi antichi e poi ritornare all’ epoca romana. Ma si troverà che ho ragione, quando si pensi che la tavola di bronzo è 1’ unico documento su cui si possa far base «ubi consistam», direbbe Archimede, per farsi ad investigare gli immensi spazii dell’antichità ligure. Bisogna conoscere bene la tavola per comprendere i tempi anteriori e quelli che vennero dopo. È dessa una gran vetta luminosa, dalla quale soltanto si può sperare di vedere qualche cosa nelle tenebre della storia. Tentiamo dunque da coraggiosi alpinisti di guadagnar questa vetta. Falliremo? Non importa; la nostra caduta servirà d’esempio perchè altri, più forte e più savio di noi, possa meglio e più felicemente salire. CAPO II I LIGURI. PRIMO SAGGIO DI RICOSTRUZIONE STORICA IN BASE AL DIALETTO. i. I Liguri pastori — 2. Il dialetto ligure antico. Modo di ricomporlo — 3. La terra — 4. L’acqua. I corsi d’acqua — 5. I monti — 6. La valle — 7. La selva. A Uà — 8. I vi, cioè i volghi — 9. Le strade: va, vado e odo — 10. Le posizioni dei vi — 11. Il Caste — 12. Le prime abitazioni dei Liguri: i cavi e l’erma e. il gias — 13. Eto, edo e gli esi — 14. Cape - Cabaiia -Tegi - Stagiu - Ca - Monia - Galea — 15. La capanna del pastore — 16. L’agricoltura — 17. Le piante — 18. I legumi — 19. I fiori — 20. Gli animali — 21. I termini marinareschi — 22. Le professioni — 23. L 'Astu, il proti, la raiba e i pr'e — 24. 11 popolo — 25. La divinità — 26. La famiglia — 27. Conclusione. i. — I Liguri come tutti i popoli primitivi, erano in principio pastori più che agricoltori. Pecore , agnelli e bovine, e sopratutto veri e porci costituivano la loro ricchezza privata. La fabbricazione del formaggio era la loro industria (i); il commercio consisteva nel vendere (1) I formaggi liguri erano in gran pregio anche ai tempi romani. Marziale nell’epigramma de caseo Lunense descrive la grossa forma di cacio coll’impronta della mezzaluna come è ancora in uso nel Parmigiano, e dice che poteva sfamare mille giovani caseus betruscae signatus imagine Lunae praestabit pueris prandia mille tuis. formaggi, agnelli e porcellini. Di poco abbisognavano per il loro sostentamento personale : castagne e legumi, fave, mochi, lenticchie, fornivano ad essi il cibo quotidiano. La terra era allora considerata un bene comune, come 1’ aria, come la luce. Unica proprietà apprezzata, gelosamente custodita , il gregge. A questo soltanto e ai suoi prodotti si attribuiva un valore, e quando coll’ andar del tempo si cominciò a far commercio d’altre cose la pecora ebbe per secoli e secoli la funzione commutativa del denaro ; si negoziava a pecore come oggi si negozia a lire e sterline. Ricordiamo 1’ etimologia di pecunia « Pecunia a pecore appellabatur » scrive Plinio H. N. XVIII. 9. Ancora ai tempi di Plinio si chiamavano, nelle tavole censuarie « pascila », i territorii che costituivano i redditi del popolo romano, perchè, dice Plinio, per molto tempo « hoc solum (pecus) vectigal fuerat ». Risalgono ai tempi della ricchezza pecorina due parole tutt’ ora in uso : peculio e peculato (appropriazione di pecunia pubblica). Quelli che pascolavano e tosavano il maggior numero di pecore erano i Rotschild, i Raggio del tempo. E 1’ età dell’ oro descritta dai poeti , è la vita pastorale, semplice e primitiva, ma non rozza, non priva di finezza intellettuale come altri potrebbe credere. Si leggano i capi della Genesi ove è descritta la vita di Giacobbe e si avrà il migliore commento della vita dei Liguri di 3000 anni fa. La natura è regina in quella vita pastorale. Ed io penso che sia uno dei modi più efficaci per riprodurre il colorito dei tempi primitivi quello di far conoscere le espressioni dell’antichissimo dialetto. Si ottiene a questo — 39 - modo un risultato che è simile a quello dei raggi Roentgen : attraverso certi vocaboli noi possiamo, per così dire, fotografare gli atteggiamenti morali e intellettuali dei Liguri di 3000 anni fa. * 2. — Mentre la natura non ha quasi più segreti, perchè le scienze positive penetrarono a fondo nelle ragioni delle cose, l’oscurità regna profonda sopra una parte, la più antica, delle nostre lingue ; vi è nel nostro parlar quotidiano un residuo preistorico refrattario sinora ad ogni processo analitico. Sono voci di cui non si conosce il significato, o per lo meno è ignota 1 origine. Donde viene il piemontese doira tùira, mi d co, il genovese a reo, ancheu, bulìtigu, andstu, bezùgji? Che cosa significa Zena, Reco, Moergu, Coemagu, Larvegu, Bobiu , Viuvà, Pavia, Piaxcnza, Arno, Livorno? Non si sa. Si tentò di spiegare questi vocaboli profittando di certe omonimie, ma 1’ esperienza ha dimostrato che un tal sistema non può condurre ad alcunché di serio e di concreto, tanto più quando si prendono per punto di partenza i nomi come sono scritti nei vocabolarii delle lingue moderne. Si ricorse al latino e si cadde nelle più strane fantasie. La moda portò i suoi capricci anche in questo genere di studi. Vi fu prima la tendenza celtica; cominciò nel secolo scorso il P. Bardetti, e gli eruditi lo seguirono nel facile compito di riportare tutti i suoni del dialetto ligure, di cui non si comprendeva il significato, alla supposta lingua celtica. Il Serra seguì in questo 1’ indi- — 40 — rizzo dei tempi e celti zzò nella sua storia ligure. Nel secolo nostro si divulgò lo studio del sanscrito , ed il Celesia e tanti altri si abbandonarono con voluttà alla ricerca di etimologie in questo campo. Altri si adagiarono nell’ erudizione greca, la quale aveva realmente dei tesori da profondere nello studio del nostro dialetto, ma la poca conoscenza dei nostri vocaboli, la mancanza di metodo nella ricerca, nell analisi e nella classificazione condusse non ad un lavoro sistematico, ma ad etimologie arbitrarie. E chi rimase spettatore finì per sorridere, dichiarando vana e presuntuosa 1’ impresa. L idea di ricomporre collo studio del dialetto la storia dei tempi primitivi non è nuova. Da Humbold in poi gli studiosi dell etnologia e della storia vanno ripetendo che sarebbe di suprema importanza il conoscere, regione per regione, 1 intima natura del dialetto volgare. Imperocché le grammatiche costituiscono in certo qual modo 1 artificio della lingua, ed è nella parola volgare, rozza in apparenza, vergine e bella nella sostanza, che si nascondono tanti segreti dell’ epoca antica. Il Celesia fu il primo a rilevare 1’ utilità del metodo che io chiamo storico-alpino. Egli raccomandava (i) di « studiare i volgari delle campagne e dei monti ove tena-» cernente si maìitengono gli aviti linguaggi, di cercare » quelle voci che rappresentando oggetti sensibili sono » proprii di tutte le età e di tutti i luoghi, per cui fatta » depurazione di ogni mistura forestiera, sarà aperto un » vasto campo per istituire confronti con altri dialetti e » per afferrarne le comuni radici e così levarsi alle ori- ti) Celesia. Sull’antichissimo idioma dei Liguri, 1863. — 4i — » gini delle antiche favelle e provarne le affinità coi » moderni volgari. » « Tale compito, soggiungeva il Molon (i), sarebbe » più facile certamente ai Liguri e Piemontesi, siccome » a coloro che colle prime aure di vita attingono le » nozioni delle più piccole gradazioni, differenze, nonché » delle caratteristiche dei patrii dialetti ». Cito queste parole del Molon perchè vengono in certo qual modo a giustificare il mio proposito. Entro in un tema complicato, difficile assai, dinanzi al quale tanti poderosi intelletti si arrestarono; ma ho la fortuna di ragionare di un dialetto che è il mio , e di avere famigliarità colla montagna a cui attingo i suoni primitivi e dove studio le caratteristiche di natura, che hanno inspirato un tale linguaggio. Quanto ai criterii che devono guidarci in questi studi 10 feci tesoro innanzi tutto di quelli insegnamenti che 11 Desimoni da vero e grande maestro lasciò scritti nella seconda delle sue lettere sulla tavola di bronzo, dove discorre a lungo dei grandi vantaggi che dalla conoscenza del dialetto possono derivare allo studio delle epoche primitive. « Io credo, dice il Desimoni a p. 657, che siffatto » campo sia spinoso sì, ma gravido nelle sue viscere » di preziosi veri, e vergine quasi al tutto nel giro della » Storia Patria. E se ne vantaggeranno non solo le cose » nostrali, ma ben più la Filologia generale che sui di-» versi lavori parziali appoggiandosi salirà più alto, af-» ferrerà d’ un sol colpo d’ occhio qua le lacune e gli » errori, colà l’ingegnoso modo di colmare e correg- (1) Molon. Preistorici e contemporanei, 1880. — 42 — » gere ; così, proponendo nuovi canoni e sottoponendo » nuove interrogazioni ai più umili ricercatori delle sin-» gole parti, ristabilirà anche in questo ramo quella fra-» ternità del lavoro che sola può far progredire 1’ umana » Società. In tale maniera di procedimento sono da » prendere a modello i cultori delle scienze naturali, che » ottengono sempre più meravigliosi avanzamenti me-» diante la disciplina dell’ ordinamento, con una fitta » rete di congressi, corrispondenze, osservatorii, telegrafi, » e avvincendano le monografie cogli studi di scienze » comparate, 1’ analisi colla sintesi. L’ analisi sottilissima » per misura, peso, qualità e per invenzione di nuovi » più sensibili stromenti ; nulla trascurando per quanto » paja di poco pregio, perchè ivi è talvolta il germe » d’ un intero sistema. La sintesi di vari gradi, che » comincia a raccogliere tutti i fatti simili, poi ne tenta » la spiegazione con una ipotesi o regola pratica che li » ripartisca in famiglie, specie, generi, ordini. Le regole » pratiche suggeriscono tentativi di nuove esperienze » che, più o meno felicemente riuscite, formano contro-» prova della loro bontà; e infine si tenta ascendere alla » vera teoria, alla formola pura ed astratta, che contenga » in se la ragione compiuta di tutte le regole pratiche. » Ma non basta. Le scienze naturali oltre il calcolo » ordinario ne possedono uno straordinario o superiore, » che si dirama in due membri opposti tra sè, ma che » a vicenda si completano ; voglio dire il calcolo delle » differenze, che pur si chiama degli infinitesimi o dei » limiti ; e il calcolo delle somme o delle integrazioni. » Con questi due calcoli, il primo de’ quali disfà il tutto » riducendolo all’ elemento, e il secondo ricompone 1 e- ì - 43 - » lomento nel tutto, ottengonsi quelle formole più sublimi » che col calcolo ordinario o non si otterrebbero mai, » o solo assai più lentamente e imperfettamente. Non » altrimenti la Linguistica e la Storia potrebbero gio— » varsi mirabilmente per le rispettive indagini di un » metodo simile, che va anch’esso diviso in due; da » chiamarsi 1’ uno il criterio dei limiti, 1’ altro il criterio » delle somme o delle probabilità. Col primo di essi, se » anche non si giunga a determinare ricisamente una » verità, si riesce a rinchiuderla entro un cerchio più o » meno ampio; ai limiti del quale l’errore può giun- » gere, ma varcare essi limiti non può. In tal caso l’er- » rore possibile ben si assomiglia ad un infinitesimo in » matematica, che si trascura senza che ne restino punto » intaccate le conseguenze entro i posti confini. Questo » metodo inoltre lascia guadagnar sempre maggior ter- » reno alla verità, ampliandone il cerchio, e restringen- » dosi in proporzione la portata possibile dell’ errore. » Col secondo criterio sommando 20, 30, 40 casi si- » mili, storici o linguistici, ne emerge un fascio, un » insieme i cui singoli elementi per sè nulla varrebbero » a conchiudere; ma pure riuniti e confermati da sempre » nuovi fatti finiscono collo ispirare una morale certezza. » Che se questo paja ripugnante alla logica, secondo la » quale nelle conseguenze non si dee comprendere più » di quel che sia nelle premesse, non ripugna invero » chi ben consideri ; dappoiché qui la vera premessa del » sillogismo non è l’uno 0 l’altro dei singoli fatti, ma » sì l’ordine costante di natura, voluto dal disegno » tanto più mirabile quanto più semplice della Divina » Provvidenza: ordine che ci si palesa e conferma ap- » punto in proporzione del ragguardevole numero dei » casi simili osservati. » Siffatti due criterii non sono nuovi, sebbene, troppo » spesso attuati per solo istinto di naturale acume, non » poterono rendere tutto quel frutto che avrebbe recato » la piena conoscenza della loro efficacia e la loro ridu- » zione a forinole rigorose. Ma il secondo criterio se- » gnatamente, il calcolo delle probabilità, fu anche svolto » sotto il rispetto teorico, ed ebbe acutissimi e felici » colturi in entrambe le discipline onde è qui parola. » Così in Filologia questo calcolo ne insegna dapprima » ad andar cauti, a non dedurre subito dalle apparenze » di vocaboli simili anche la somiglianza delle idee in » essi vocaboli rappresentate. Perchè il numero delle » sillabe possibili a combinarsi in una lingua essendo » molto più ristretto che non è il numero delle idee da » esprimersi con quelle sillabe, dee avvenire di necessità » che molti suoni simili si trovino rappresentare idee » disparate. E ciò tanto più dee avvenire, ponendo a » confronto vocaboli simili ma appartenenti a lingue di- » verse : giacché le più centinaia che ne esistono al » mondo e la corruzione sofferta da esse lingue pel corso » dei secoli moltiplicarono e travisarono i suoni ; rima- » nendo in proporzione molto meno svariato il fondo » delle idee dell’ Umanità. » Tuttavia continuando a raccogliere fatti simili, il » calcolo stesso che pria ci gridava cautela, ne inco- » raggia ora e ne affida a ritrarre da grande somma » di somiglianze frutti sinceri di dottrina filologica. » Perchè i casi di somiglianza accidentale prodotti dalle » cause predette devono avere un certo limite ; e se il — 45 — » numero continua ad aumentare fino ad un alto segno, » contuttoché si escluda la mistura delle lingue e dei » luoghi e si adoperino le più savie cautele, è forza » conchiuderne che la somiglianza in tale caso è reale, » non apparente nè arbitraria; e che dunque sta ivi » nascosta una famiglia o generazione d’ idee rispon— » dente alla famiglia delle parole simili raccolte. Non » altrimenti dal paragone di più dialetti a lui ben noti, » qualunque uomo di mediocre intelligenza viene a co- » noscere 1’ affinità fra gli stessi dialetti e la loro co- » mune derivazione da una lingua madre. E in simile » modo i dotti procedendo a disaminare molte lingue » madri, e vedendo chiaramente impressa nelle mede- » sime tanta affinità di forme grammaticali e di radici » fra le une e le altre, poterono dedurne con eguale » certezza 1’ esistenza d’ altra lingua più antica , che » fosse madre comune di quelle lingue ed ava di » quei dialetti. Di che 1’ inglese Yung ideò ingegnosa- » mente una specie di scala o misura di tali somiglianze, » la cui altezza, progrediente in proporzione che ne » cresce il numero, faccia salire quello che in principio » era minimo grado di probabilità fino a piena certezza. » L’ applicazione dello stesso metodo a nomi proprii, » ripetuti in più luoghi antichi e moderni, frutterebbe, » per mio avviso, più vantaggi di molto rilievo: i.° quello » di rischiarare la Geografia antica e del medio evo, e » le diverse (pur non sempre contraddittorie) lezioni » d’un medesimo nome in più scrittori e documenti ; » 2.° quello di agevolare l’intelligenza delle famiglie o » consorzi aristocratici di tutti i popoli, che successiva- » mente apparvero nella Storia e celano sotto i loro — 46 — » prenomi o cognomi gran parte delle proprie vicende ; » 3.° (ed è il cardine di tutti gli altri) il vantaggio di » potere avvicinarsi sempre più a scoprire il vero ed » unico nome tipo di sotto alle molteplici sue trasforma- » zioni scritte o pronunziate ; e con ciò scoprire anche » la lingua in cui questo nome tipo abbia il suo signi- » ficato naturale, la sua indubitabile etimologia. » Perciò quando mi si affaccia il nome di un luogo che » rinvenni già altrove vestito colla stessa o quasi identica » forma, posso crederlo dapprima effetto di caso od anche » effetto di circostanze simili, ma senza la menoma rela- » zione tra i due luoghi omonimi. Quando però mi ritorni » ripetuto lo stesso nome in quattro, sei, dieci luoghi, dimi- » nuisce in proporzione la probabilità del caso, che è caso » appunto perchè solitario ; e cresce nella stessa proporzione » la probabilità d’una regola di relazione, cioè d’una causa » generale e comune di tutti questi nomi. E se codeste ri- » petizioni si trovassero poi disposte in più luoghi diversi » in una forma regolare ed analoga, per esempio quasi » centri simili con raggi o subcentri simili, cioè con nomi » proprii secondarii agglomerati intorno ad altri principali, » e tutti rispettivamente omonimi, non sarebbe questo più » che sufficiente indizio di uno stretto nesso di consan- » guinità fra gli abitatori di tutti questi luoghi ? » Riassumendo: da una parte il calcolo delle proba- » bilita e dei limiti che costringono la materia sotto » generali classificazioni, dall’altra l’analisi che rivede » e controprova i singoli elementi di queste classifica- » zioni, infine la sintesi che di nuovo li congiunge e ne » indaga la ragion filosofica; ecco i tre mezzi che ado- » perati da una o meglio da più persone, alternata- — 47 — » mente o congiuntamente, non possono fallire ad una » gran riuscita, l'ale è la caccia che si dee fare alla » verita per iscovacciarla dai più intimi recessi, dai » luoghi più arrischiati ove ama nascondersi: si comincia » dal largo a ricingerla ; il cordone è ancor troppo » vasto e lento per chiudere tutte le scappatoie; ma le » basi strategiche poste in sodo concedono di potersi » inoltrare senza scoprire le spalle, acquistando sempre » nuovo terreno e fermando nuove parallele collegate » alle prime basi ; il cerchio stringendosi cresce la forza » nei singoli elementi pel contatto reciproco ; si adope- » rano stratagemmi, finti attacchi, falsi supposti, armi e » stromenti d’ ogni maniera e di cui fu prima sperimen- » tata la bontà, eliminando i non buoni, rafforzando i » deboli, provandone le forze congiunte in varie guise, » acciò non si consumino in urti reciprochi, ma colli— » mino tutti allo scopo prefisso. E tuttavia non si ap— » proderà gran cosa nelle più alte e più difficili battaglie » intellettuali, senza le qualità che vi dee recare 1’ ordi- » natore di tutti questi mezzi, l’animo: che vuol essere » ardente ad un tempo e calmo ; poetico per intuito, » matematico per le deduzioni ; spoglio di pregiudizi, » tenace de’ principi sani, ma docile a ricredersi e pa- » ziente a rifare la via, appena si avveda d’errore; » fidente nell’ ingegno e nell’ erudizione, e ad un tempo » diffidente per la facilità dell’abuso; onde, più che a » se stesso, creda alla natura; ascoltandone fedele la » voce, interrogandola senza posa con opportune spe- » rienze e per guisa che, a vece d’ un ritratto a mano » d’ uomo che è sempre un po’ parziale, ella stessa, la » natura, si renda pittrice e fotografa »...... - 48 - « La prima delle operazioni da intraprendere si è la » collezione compiuta de’ nomi de’ paesi, monti, rivi , » boschi, ecc., non solo per la Liguria marittima, ma » anche colà dove i Liguri per antico stanziavano ; e » non solo dei nomi ora vivi, ma e di quelli perduti » che ricordano le carte del medio evo e sfli antichi » Scrittori o Geografi. È vero che Cluverio ed altri » eruditi raccolsero quanto dagli antichi si potè ; e ten-» tarono con più o meno felice successo trovare la ri-» spondenza di que’ nomi co’ moderni: ma questo tesoro » rimane troppo scarso e infecondo, finché non sia av-» vivato dal contatto con altri nomi attuali o medievi » che hanno con quegli antichi una fisionomia di fa-» miglia; benché con variazioni di lineamenti di cui » sotto studieremo 1’ importanza. » Questo lavoro non può esser fatto che da noi Ge-» novesi i quali, oltre aver tutto agio di percorrere a » palmo a palmo il nostro paese e conoscerne tutti i » monumenti anche inediti, soli possiamo acquistare nel-» 1 intelligenza del dialetto e nella continua e reciproca » conversazione quel tatto pratico, quel discernimento » delle vere dalle false somiglianze, quella piena cogni-» zione degli usi, modi ed abbreviazioni che uno stra-» niero, quanto si voglia ingegnoso, non potrebbe mai » in tutta la sua vita. La miniera principale da coltivarsi » sarà la raccolta dei nomi di luoghi che sono posti più » in alto, più selvaggi e deserti, più strani ed ignorati ; » i nomi di certi monti, fontane e piccoli rivi di cui » specialmente il popolo di campagna e alcuni più spe-» cialmente fra lo stesso popolo custodiscono , come » sacro deposito, le secolari memorie. Gli antichi Scrit- — 49 — » tori non si occuparono naturalmente che de’ luoghi » più illustri al loro tempo, e nulla di più poteano ag-» giungere quegli eruditi che solo si proposero di com-» mentare gli antichi ; di che rimane materia quasi » vergine quella che io raccomando di preferenza. Si sa » che tanto la conquista quanto la civiltà sono essen-» zialmente innovatrici: è nella Città dove il Re o il » popolo fatto signore esercitano il maggiore influsso, » ecl ambiscono eternare coi nomi dell’ antica patria le » loro gesta e la loro memoria nelle nuove sedi. La na-» tura per contrario e la tradizi ne si ricoverano nei » più lontani e poveri ridotti : quivi il popolo indigeno » mantiene inviolata la forma del tetto natio, i suoi » costumi, il dialetto; e, mentre i sopravvenuti denomi-» nano altramente il basso fiume, esso mantiene il nome » antico alla parte più alta, alla sorgente; e colle » prische memorie conserva e scalda l’odio tenace contro » i nuovi Signori e si matura alla riscossa. » All’ uffizio ora indicato di raccogliere la materia dee » poi succedere 1’ analisi : il compito cioè di sceverare » il simile dal dissimile, il comune dal particolare, il » noto dall’ ignoto ». E qui il Desimoni prosegue dottamente accennando ai criterii che dovrebbero presiedere alla classificazione dei vocaboli antichi. Bisogna eliminare una idea falsa che è finora radicata nella mente un po’ di tutti, che il dialetto sia alterato , e non sia più possibile rintracciarne le origini. Il dialetto e specialmente quello della montagna è meno corrotto di quanto si crede ; intendo parlare del dialetto come si parla, non del dialetto come si scrive. 11 dialetto parlato sui nostri monti è fedele a leggi morfologiche Atti Soc. Lig. di Storia Patria. Voi. XXX. $ — 50 — e fonetiche primitive , e son queste leggi che bisogna studiare. Diro ora brevemente del sistema da me seguito per la ricomposizione del dialetto ligure antico. Io cominciai col far delle indagini su vasta scala, raccogliendo nomi uguali od affini, procurando di attingerli in diverse regioni, di quelle che un tempo furono abitate dai Liguri. Dal confronto tentai di conoscere quale fosse 1 intima struttura, la radice di un dato vocabolo, le sue caratteristiche di suono e di accento. Compiuta questa operazione, ridotta in certo qual modo allo stato vergine la materia prima, io cercai di farne l’assaggio, prendendo come pietra di paragone le lingue antiche. In generale la linguistica ricorre al sanscrito, ma con ciò si va troppo in alto e non si raggiunge lo scopo. Anche le lingue germaniche fan capo al sanscrito, e quando avrò stabilito le relazioni del ligure antico col sanscrito avrò dimostrato ciò che è noto, e non avrò fatto un passo verso il mio scopo finale, che è di sapere se il ligure appartiene alla famiglia dei popoli mediterranei o dei popoli nordici. Io cerco una lingua che corrisponda non solo nelle radici fondamentali, ma che riproduca esattamente gli stessi fenomeni morfologici, gli stessi atteggiamenti del pensiero, per cui si possa dire che il popolo che la parlava, avendo comune col Ligure il pensiero, il suono, l’accento, era del Ligure un popolo fratello. E la lingua che meravigliosamente corrisponde esiste ; è la lingua greca. Essa ci darà la spiegazione di tutte le più piccole sfumature del nostro dialetto. La lingua greca è perfettamente nota nelle sue leggi fonetiche e morfologiche ; è facile decomporre il vocabolo — 5i — greco in tema e desinenza, staccando le preposizioni e i suffissi. Analogamente si decompongono i nomi liguri, e se ne trova la radice, e se ne conoscono a poco a poco le desinenze finali, e i loro particolari significati. Con questo procedimento si viene a scoprire che la maggior parte dei misteriosi nomi liguri corrispondono ad altrettanti vocaboli greci. Vi fu chi rise un giorno dell’ a-bate francese Espagnolle perchè andava affermando che la lingua francese era derivata dal greco. Espagnolle aveva torto di chiamar figlia una lingua sorella, ebbe anche il torto d’affastellare etimologie sconclusionate, ma non ebbe nemmeno ragione chi lo derise. 11 fatto è che non si pensò mai a far seriamente uno studio comparato. Si sarebbe allora compreso, che, messo da parte il gioco infantile delle etimologie, v’era un orizzonte immenso da investigare, in fondo al quale chiaramente appariva l’intima parentela del greco e del ligure, e l’unità primitiva della lingua mediterranea. Altri dirà se le mie deduzioni trovano riscontro nel sanscrito. Io non mi sono disinteressato di questi elementi, ornai noti, e posso affermare che, se vi può essere disaccordo su qualche punto, le mie conclusioni collimano in tesi generale coll’ insegnamento glottologico moderno. Ma la glottologia è una scienza a parte ed ha uno scopo che non è precisamente il nostro. Io considero il dialetto come un antico tempio che ebbe a subire trasformazioni in epoche diverse di civiltà. Vi è chi cerca qual’era il tempio antico e riesce a comprenderlo dall’ esame dei particolari, messi a confronto con quelli che si desumono da altri templi della stessa epoca, dalla conoscenza degli stili che vennero dopo, dal modo usato — 52 — nell innestare uno stile ad un altro. Vi è poi chi esamina i pezzi, i frantumi dell’antico, li classifica, li studia non più nell insieme del tempio, ma come linea, come curva, come stile; spiega le origini di un capitello, di un motivo architettonico, risale all etrusco, al greco, all’ orientale. Il primo finisce come il prof. D’Andrade a ripristinare la porta Soprana o il palazzo di S. Giorgio, 1 altro finisce con una dotta lezione di archeologia. o Il compito che io mi propongo è la ricostruzione del dialetto ligure primitivo. Chi vuol raggiungere questo scopo non deve sprofondarsi troppo nelle discussioni glottologiche per non smarrirsi nelle astrazioni, e perdere il contatto colla realtà. Se il paese, a cui il dialetto si riferisce, deve interessarsi a queste ricerche, bisogna che il metodo sia a base di fatti e di logàca comune. D al-tronde il dialetto, prima di essere un fatto scientifico, è un fatto umano e un fatto storico. Bisogna dunque che le conclusioni linguistiche sieno conformi anzitutto alla coscienza del popolo, e non contraddicano alla storia. Devono anche essere conformi alla tecnica linguistica, e perciò non intendo ribellarmi alla glottologia, ma associarmi ad essa, andarle incontro con uno studio dal vero. 11 mio studio differisce pure quanto al metodo dai lavori compiuti recentemente sugli antichi dialetti italici dal Rober von Pianta « Graconn. der Osk-Unjbr Dialecte ». 2 voi. 1893-1897 — da R. S. Conway « The italic dialects » 2 voi. 1897 — dal Nazari « I dialetti italici » 1900, Milano - Napoli. Questi scienziati, penetrando a fondo nella tecnica del linguaggio, tentarono di ricostruire la grammatica umbra ed osca in base alle tavole eugubine e alle molte iscrizioni dialettali antiche che — 51 — 1’ Italia media ci ha conservato. Ma il loro metodo è tutto basato sulla tecnica glottologica ; essi ragionano sulla forma scritta, noi prendiamo per punto di partenza il dialetto vivente. A questo riguardo io faccio un voto che lo studio di quei dialetti sia ripreso da persone nate e vissute sui luoghi, che le iscrizioni umbre ed osche abbiano un commento desunto dalla voce del popolo. Quante difficoltà scompariranno ! quante cose che sembravano indecifrabili si faranno limpide e manifeste ! Basta riflettere che cosa è per un forestiero uno scritto che riproduce il vernacolo genovese. Eppure questo scritto, per quanto malamente composto, è presto chiarito se uno del luogo si prende la pena di commentarlo, sostituendo un mondo di consonanti aspirate, di vocali non pronunziate ma esistenti nel concetto dialettale. Io ritengo che quando il dialetto antico umbro ed osco fosse studiato da persona colta del luogo, e con elementi locali , finirebbe per presentarsi sotto tutt’ altro aspetto. In alcuni riscontri parziali io ho avuto occasione di convincermi della verità già adombrata dal Celesia che 1’ Umbro e specialmente 1’ Osco sono dialetti corrispondenti al Ligure , che risalgono probabilmente all’ epoca in cui erano Liguri gli abitatori di tutta Italia (i). (i) Ad esempio akrutu, arviu sembrano a tutta prima vocaboli veramente barbarici; togliete quel k delle tavole eugubine, che è uno spaventa passeri per noi, e sostituite la grafia nostra comune e avete agru. Quanto all’ arviu io vi ricordo il ligure L’arve-gu; l’aivu. Voglio dire con ciò che.il dialetto italico primitivo è semplice, piano, con caratteri unito’mi; e la difficoltà di interpretare le iscrizioni umbre ed osche è piuttosto estrinseca e dipende da due fatti, i.° dall’ essere scritto il dialetto con alcune lettere strane e da persone poco addomesticate col maneggio letterario, 2.° dal non essere aiutato lo sforzo di chi traduce dalla fonetica del dialetto vivente. — 54 — Io accennerò per ora alle voci fondamentali, più comuni, del dialetto ligure, e alla loro parentela col greco, riservandomi di provare a suo tempo come tutto il procedimento morfologico si corrisponda nel dialetto ligure e nella lingua greca ; articolo, preposizioni, avverbi, suffissi, con cui si formano i sostantivi e gli aggettivi ; con questa differenza che il ligure è lingua rozza, senza declinazione di nomi e con una coniugazione di verbi affatto embrionale, mentre il greco è lingua perfetta in ogni sua parte. Variano le forme accessorie, ma il substrato fondamentale è identico — è il dialetto mediterraneo. Per affermare che una parola del dialetto vivente appartiene al ligure antico io esigo tre condizioni: i.° Che sia parola di carattere primitivo, e con ciò intendo dire che si riferisca alle manifestazioni più semplici della natura. 2.0 Che sia parola diffusa nell’Appenino e nelle Alpi, in modo da poter ritenere che fosse d’ uso generale fra i liguri antichi. 3.0 Che abbia una chiara corrispondenza nelle lingue antiche e preferibilmente nel greco; perchè se la corrispondenza fosse solo nel latino potrebbe essere un suo derivato. 4.0 Come elemento di controprova ricorro infine all’ osservazione locale. Non mi contento di aver stabilito che un tal vocabolo è adoperato da tempi antichissimi nel Piemonte come nel Genovesato, e che i greci collo stesso significato l’usavano, ma interrogo i luoghi. Siccome i vocaboli primitivi sono inspirati dalle manifestazioni della natura, così prima di asseverare che roia, oria, doria, doira vuol dir corso d’acqua ; che Ri-cróso vuol dir rivo incavato, che Moergu e Moraneco vuol dire terra abbondante di frutta, che Guà vuol dire valle e Set-uala, sito nella valle, vado sul luogo e m’as- — )5 — sicuro che la realtà corrisponda al nome. Allora soltanto mi credo autorizzato a presentare un vocabolo come ligure antico e a dichiararne il naturale significato. Seguo in sostanza il metodo tanto raccomandato da Cesare Balbo e che egli chiama metodo connettitore, metodo il quale consiste nel metere a riscontro tutti i fenomeni che si riferiscono alla lingua, ai luoghi, alla storia, alla tradizione, ricercando in essi quel nesso che tutti li unisce e li concilia. Ma tutti gli studii dialettali riusciranno vani se non ci fissiamo bene in mente che la pronunzia è tutto; bisogna recarsi in montagna ove i suoni sono ancora vergini, studiare sulla viva voce gli accenti, le pause, i suoni diversi delle vocali e delle consonanti, e ricordarsi che le lettere dell’ alfabeto latino e italiano sono insufficienti a riprodurre quei suoni che hanno avuto origine quando nessun alfabeto esisteva. È un grande errore basarsi sull’ ortografia per conoscere una lingua che non fu scritta (i). (i) Bisogna aver ben fisso in mente che le voci antiche avevano suoni liberi, sfumature tali che difficilmente si riproducono nell’alfabeto italiano e latino. Pronunziate la lingua inglese come è scritta e non è più inglese ; e cosi provate a scriver certe voci liguri e pronunziatele come le avete scritte e troverete che non sono più quelle. Arquata non è Arquata, è piuttosto Au-coa; ma nemmeno con quest’ ultima forma voi riproducete il suono del dialetto. Rigoroso non corrisponde al nome genuino del bel paese; forse Ricrusu si avvicina di più al vero, ma il c non è un c, i due u non sono nè u nè o. Parma non è nè Parma nè Penna. Cuneo non è nè Cuni nè Coni. Intanto una cosa è certa, che il dialetto è il depositario del suono vergine primitivo, le forme scritte altro non sono che contraffazioni più o meno riuscite della forma originale modellata sulla natura. La teoria, a cui io mi inspiro, parmi indicata dal buon sènso: studiamo finché è possibile la lingua nel suo originale, non nelle sue copie che sono le lingue scritte. La glottologia fa generalmente punto di partenza sulle lingue moderne come si — s6 — Con questi criteri oftro al lettore un piccolo saggio dell antico dialetto. Sono torme semplici senza alcuna scri\ono e si parlano dalle persone colte, ed io cre^o che molte false partenze debbano necessariamente verificarsi in tal sistema. Queste riflessioni io facevo un giorno leggendo in uno studio di glottologia (Rivista di glottologia, 1895) una lunga dimostrazione per spiegare come anticamente si scrivesse Rootnani e non Romani. Ed io tranquillamente pensavo: si scriver Roomani perchè il dialetto ancora in oggi fa una lunga pausa e raddoppia il suono dell 0. Basta sentir dire: son roo ..mano de Roo... ma per capire che la forma scritta Roma è deficiente e non corrisponde alla realtà. E perchè si è cominciato a dir Rooma e dopo 2500 anni si mantiene la stessa pronunzia? Si diceva Rooma e non Roma per la stessa r.igione per cui in greco si scrive Ptófia e non Pójxa. Fermiamoci sull’ importante argomento. 11 segreto dell origine di Roma, come di quasi tutte le voci italiche, si ha studiando non superficialmente, ma nelle sue intime ragioni morfologiche la lingua greea, che dovrebbe essere il perno di ogni discussione linguistica. È infatti la lingua che meglio ripioduce i suoni primitivi del volgare mediterraneo come si \edrà a suo tempo, quando confronteremo col greco le forme del dialetto ligure. Noi abbiamo nelle pronunzie dialettali italiche, ma specialmente nel ligure, il ?, 1 rh il 0, il £, il 1’ W) ossia quei suoni misti, che i Greci, studiosi del vero, artisti della forma, cercatori d’ogni perfezione, di ogni sfumatura, seppero modellare nella loro plastica lingua, e che il Romano trascurò nella sua lingua uniforme, breve, concisa, essenzialmente tecnica. 11 Romano pretese, mi si permetta la frase, di militarizzare i dialetti italici, di costringere nelle sue (orme latine i liberi suoni della lingua parlata, in altri termini del dialetto mediterraneo antico. Ma questo sforzo non è riuscito che in parte perchè si vincono i popoli, ma più difficilmente si vince la lingua. Ai tempi dell’assolutismo romano, Gallia, Spagna, Liguria, continuarono a parlare i loro dialetti, e tanto più li parlarono quando il gran despota era caduto. Il fatto è che nella stessa capitale della lingua latina, il popolo e probabilmente lo stesso Orazio, Virgilio, Sallustio, Cicerone, pronunziavano Rooma mentre scrivevano Roma Adunque, ritornando alle origini e volendo sapere il perchè dell’ 0 allungato in Roo-ma, noi troviamo, in quella grande miniera linguistica che è la lingua greca, quanto segue. Po)[i è la radice primitiva, e possiamo dire la radice mediterranea che significa forza. Ogni suono primitivo è derivato da un fenomeno di natura. Immaginate il bambino che comincia a capire, e sente istintivamente il bisogno di esprimersi. Senza che alcuno lo ammaestri , ode il tuono e fa lun. Vede bastonare un cane e fa tun. Sente la voce dei pulcini e fa pi. 11 desiderio della madre che tutto comprende gli mette in bocca il ma, come il pa gli dà un vago senso di ciò che ègrande, potente. Lo stesso processo infantile è nella formazione delle lingue. - 57 — complicazione ideologica. Le forme derivate del pensiero, i concetti di relazione fra 1’ uomo e la natura, ciò che L’uomo cominciò a parlare imitando con monosillabi i suoni principali della natura. Cominciò coll’ esprimere i concetti semplici, poi, per associazioni d’idee, passò ad esprimere le svariate forme riflesse del suo pensiero. Cosi il rom bo del tuono, il rotti-ore del macigno che precipita, dell’ acqua che ir-row-pe misero sulle labbra deH’umanità primitiva il suono embrionale di room per significare la violenza, la potenza, la forza. Voi lo capite da tutte queste figliazioni di vocaboli greci fortifico — pw|j.atoj, forte — p<ó|i7), forza — è^p&jiévoj, robusto, forte. E comprendete da ciò, senza bisogno dei complicati teoremi linguistici, che cosa significhi romano e rèma, perchè si pronunzino in' quel tal modo, mentre si scrive diversamente. Quella tribù di Latini che fondò l’eterna città aveva o si dava probabilmente da sè la qualifica dei forti. Si cominciò a chiamare popolo Roottiano, e la sua città, la città dei Roomani. A poco a poco si formò il nome di Roma in relazione al nome del popolo; seguendo l’ordine che è costante nella storia delle lingue; quando il nome è tolto dalla qualità del popolo, il nome del luogo viene storicamente dopo; quando è tolto dalle qualità del luogo viene storicamente prima. Questa spiegazione di Roma, che io ritengo l’unica vera, è in armonia col dialetto, spiega filologicamente l’arcaismo latino roomani, risponde psicologicamente e storicamente alla fisonomia morale di quel popolo, vi dà ragione del suo orgoglio, della convinzione assoluta che egli aveva d’ esser nato a trionfare di tutto il mondo. Un’ altra cosa si spiega in modo più logico che non si è spiegato finora. I Rumeni e la Rumenia non sono più una correzione linguistica di Romani e Romania ma sono due nomi originarii. Più vicini alla Grecia quei popoli pronunziavano forse più spiccato dei Romani l’co di P alla loro sede centrale. Noto che i Nordici seguitano a dare tal nome alla capitale lombarda. La radice Xavtì apparisce in moltissimi nomi liguri: Lanzo e Laìiza, nascosto, Lant-osco, torrente nascosto (vedi più sotto asc, torrente), Lan-g-asco, langa, ossia regione sul torrente. Le Langhe costituiscono una florida regione d Italia rinchiusa fra le Alpi liguri e gli Ap-penini alle sorgenti del Tanaro e della Bormida. * 4- — Alga era l’acqua. Trovate questa forma primitiva nelle alpi marittime, la culla dei Liguri. Aiga, aigue si dice nel versante italiano come nel versante francese. Venendo da occidente a levante la parola antica subisce queste lievi sfumature: aicua nell’alto Monferrato (Aicui) — aegua intorno a Genova. Nelle composizioni dei nomi di paese, essendo la desinenza generalmente maschile, Xaegua — 63 — diventa aegu: Min-aegu, Man-aegu , Pà-va-ri-aegu , Vig-an-aegu, nelle carte Mignanego, Magnanego, Para-vanico e Viganego. Apro una parentesi per avvertire che man, min sono suffissi che funzionano continuamente nella composizione dei nomi liguri, corrispondono al greco |iav, |at]v, affatto e rimangono tuttora nel francese maint, nell’ inglese many. S’ incontra pure sovente il pa, che corrisponde al greco Ttxg, Ttàcjx, Tcàv tutto — il peà (nèon) presso — il pollò, polii (n'Jlò;, TioÀÙ), molto molti — eto est dimora, abitati (vedi p. 120) — va (BàSo;) strada (p. 102) — ron, reno, enza, fiume (p. 65) — asco, asca, torrente (pag. 69) — zan , zen, piano, piani (p. 115) — an, in alto (p 115) — car, in cima (p. 114). In Lombardia, forse per l’influenza celtica, la pronunzia dell’ aiga si muta maggiormente e diventa ago. Sono moltissimi i paesi in ago nella vallata del Po, ed io li accenno perchè credo che il loro antichissimo nome possa dar qualche norma nella ricerca delle palafitte italiche : Bar-s-ago — Bel-in-z-ago — Bi-n-ago — Bus-n-ago — Cambi-ago — Cam-’n-ago — Capo-’n-ago — Car-’n-ago — Cav-en-ago — Comig-’n-ago — Corei-ago — Cresc-en-z-ago — Cuz-z-ago — Giuss-ago — Gor-l-ago — Legn-ago — Liss-ago — Lom-’n-ago — Ma-’n-ago e Ma-ni-ago (lo stesso che Ma-n-aegu) — Mor-n-ago — Or-n-ago — Ors-ago — Para-bi-ago — Poli-’n-ago — Rezz-ago — Ron-ago — Tre-gn-ago — Vede-l’ago; tutti nomi che accennano alla vita dei popoli in mezzo o vicino alle acque. La parola lago non è altro che l’ago di origine mediterranea. Ritorneremo su questi nomi per dedurne importanti considerazioni, quando tratteremo dei — 64 — Liguri nelle terramare, quando rievocheremo questa pagina meravigliosa di storia ligure, che comincia diverse migliaia d’ anni prima dell’ E. V. e finisce con Venezia l’ultima e la più splendida riproduzione delle palafitte italiche. Passando alla filologia comparata noi troviamo nel-1’ antico greco la stessa forma fonetica aig. Ma più del suono ci deve interessare la derivazione ideologica per conoscere da quale concetto primitivo ha preso le mosse 1’ antichissima voce. Il greco usava a-yus? plurate di nel senso di acque correnti. La radice si deve cercare in aix e nel verbo ataaw irrompo, scaturisco. Adunque aig a era nel senso primitivo l’acqua che irrompe, la sorgente. La radice aix e il significato di acqua sorgiva spicca nel francese Aix les bains corrispondente all’acquese die, dicui. Coll’ andar del tempo aiga significò 1’ acqua in genere. Confrontate il latino coll’ aiga e sentirete come esso è lingua derivata. L'aig, identico nel greco e nel ligure, si veste di una nuova forma grammaticale: aqiia. Studiando queste evoluzioni si vede come sia ornai tempo di abbandonare quella tendenza linguistica, che per sistema capovolge 1’ ordine storico, tendenza che tuttodì si afferma dicendo che il genovese aegua è corruzione del latino aqua. È precisamente l’opposto: X atga ligure generò X aqua latina (i). (i) Quello spirito arguto, che fu Raffaele Rubattino, era solito scherzando dire che la genovese era la madre lingua R paradosso s’incammina a diventar verità scientifica, se noi ci limitiamo a parlare del dialetto ligure antico o per meglio dire della gran lingua parlata del Mediter, aneo, la quale fu madre alla lingua scritta, greca, latina, italiana, francese e spagnuola - 65 — Roia, Oria, D’oria, D’oira, L’oira, Rona e Reno benché in apparenza costituiscano suoni diversi, sono in sostanza una parola sola che significa il fiume, il corso d’acqua, in greco pwv). Come il greco aveva più dialetti, l’ionico, il dorico, 1’ attico, l’eolico che si differenziavano nelle combinazioni morfologiche e fonetiche, così aveva i suoi dialetti la lingua parlata dei liguri. Direi che Roia è la forma primitiva, morfologicamente più perfetta. Oria e Oira sono metatesi di Roia. D’oria e D’oira contengono un de che significa derivazione De-oria, De-oira, e così L'oira non ha che l’aggiunta di un articolo. Non occorre che io rammenti quanti fiumi portano ancora oggidì questi nomi, accennerò soltanto alla Roia di Ventimiglia, alle Dorie del Genovesato, alle Orie che si trovano sui laghi, alle Doire di Torino. Molti di questi nomi sono scomparsi , molti si trovano storpiati nelle scritture dei tempi di mezzo, come vedremo fra poco. Rona e Reno sopravvivono in A-rona (al fiume), in Ga-rona, fiume di Francia, in Ga-ron, cognome ligure, in Reno affluente del Po, in Reno di Germania. Giova notare che le due radici re e ro del dialetto ligure hanno esatta corrispondenza nel greco ; pi-w e ptt-ojxat sono i due verbi che rappresentano lo scorrere delle acque. Ma sarebbe un errore chiamarle forme derivate dal greco, perchè sono forme primitive del dialetto mediterraneo. Nell’ Europa noi le troviamo che corrispondono geograficamente ai luoghi occupati dai primitivi Liguroidi, Italia, Svizzera, Francia meridionale e Spagna. In Italia sono Roie, Orie, Dorie, in Svizzera Reno, in Francia Rhóne, Ga-ronne, L’oira, in Ispagna Doero. Atti Soc. Lio. di Storia Patria. Voi. XX.X. 6 — 66 — I Romani fecero le più strane alterazioni a questo riguardo. La Roia di Ventimiglia divenne Rutuba, la Loira di Francia divenne Liger, la Doira di Torino divenne Dìirta. Forse non era tanto l’ignoranza dei nomi liguri, che conduceva a queste alterazioni, come un concetto politico tendente a distruggere la lingua e i ricordi del-1 antica nazionalità dei popoli. I notai del medio evo, non furono da meno dei Romani; non avevano certamente vedute politiche, ma colla loro ignoranza seppero far miracoli nello storpiare i nomi antichi. Se ebbero una guida, fu la smania di adulare, di nobilitare i nomi dei potenti, così quelli della D''oria furono detti nel medio evo de A uria e de Lauria, come i Romani avevano chiamato Auriates gli abitanti della Val-ona presso Demonte, e A uria la loro città. Non ripeterò mai abbastanza che il mondo antico fu sistematicamente travisato dai Latini, e che per intendere la storia ligure preromana bisogna abituarsi a considerare questi travisamenti per quello che sono, a studiare il mondo antico per quello che realmente fu prima che avvenissero tutti quei rivolgimenti, per cui i popoli antichi perdettero la loro personalità, divennero un ombra di Roma e nulla più. Ritengo che sieno numerosissime le oire, rone e i reno, che si nascondono nella composizione dei nomi liguri. Sapendo che va, vado, bado è la via, come vedremo fra poco, io decompongo Va-ren-a, Va-ro, e Va-rè in via del fiume, Va-re-se e Va-ra-se in abitazioni, esi (vedi ì’esi più sotto) sul va del fiume, rappresentando il re e ra il suono di ps e il suono misto di pw. Novara si decompone in N-o-va-ra, nella via del fiume. La stessa — 67 - cosa sono i cognomi N'-o-va-ro e Da-n-o-va-ro. Credo che Arno sia una metatesi di A-ron e che Libarna, Li-borno, Livorno sieno espressioni che vogliono indicare la posizione di una città, di un popolo sulla riva di un fiume. Lib-órn vuol dire che liba (AeipJ che attinge al fiume. A conferma di questa mia opinione stanno due fatti : i.° L’essere tutti questi antichi paesi collocati sopra un fiume. 2.° 11 fatto che Sozomeno (lib. 9) scrive Libe-ronum per Liborno Vercellese. Sozomeno non era scrittore da pensare ad una ricomposizione filologica ; se scrisse così è perchè nel Vercellese così si pronunziava. Libe-rona (Xs^s-pwvy]) sarebbe dunque la forma primitiva di Libarna e Liborno. Quanto al cambiamento dell’# in 0 riflettete al suono misto dell* w, quanto al Liborno che diventa Livorno pensate che il (3 greco è b e v. Un Xsifì-puw] abbreviato è probabilmente Broni e cosi deve essere un’abbreviazione di Liberona, il Verona, che è scritto Bfjccov in diversi codici di Strabone. Un altro Verona è il Vi-veròn che trovo nel Novarese. Un X£$-p£'v è probabilmente il francese bibe-ron. La frase deve essere stata molto diffusa quanto è semplice l’idea del bere, dell’ attingere acqua. In Francia vi sono diversi paesi Libe-ròn. Da po viene §£0o;, da ps £eOaic, onda, parole che il nostro dialetto conserva nelle frasi fà du roso, far largo, e fa rèo, apparire abbondante, farsi valere, da non confondersi coll’ araèo, che corrisponde ad àpaiw; (da àpatów in ligure areì ) e si dice del prendere ad una ad una e con diligenza cose minute. Enza, Entella ha lo stesso significato di Roia. Mi fornisce la spiegazione il greco sv-Oito, scorro in. Ard-cnza e corso d acqua che irriga, Vìc-cnza vico sul fiume. Opino che Valenza e Faenza sieno alterazioni di Va-enza, strada del fiume (p. 102). Pot-enza è luogo sul fiume (greco tot’); Par-enzo luogo presso il fiume (greco rcx?à). Pea-enza (réSx, presso) sarebbe 1’ antica forma di Piacenza. Po. Potarne era il gran fiume ; corrisponde il greco : t:6tx[ì.oc. È radice ben più antica del greco e ce lo attesta la parola orientale Meso-potamia, che significa: terra in mezzo ai fiumi. Notate quel rneso antichissimo, che corrisponde esattamente al ligure in tncso, al greco iv tw (iìjm. Sara verissimo ciò che dice Plinio d’ aver inteso che anticamente il Po si chiamava Bodinco, ma ciò non toglie 1 o che la parola Po sia voce primitiva che significa fiume in genere. Si capisce che coll’ andar del tempo sia andato in disuso il nome particolare e, trattandosi dell’ unico gran fiume dei Liguri, si sia finito per chiamarlo senz’altro il Po, cioè il fiume per eccellenza, come avvenne di tanti altri fiumi che presero il nome generico di Roia, Doria, Enza, Entella. Bodinco. Plinio dice che Bodinco voleva sio-nificare o profondo; e noi facendo una ricerca che Plinio non ha fatto, possiamo anche darne la ragione. Infatti J3u0itt]<; e PuOivxo; sono aggettivi derivati da £400? che significa gorgo, profondità. I liguri trassero dal p-j0o; il busu e di qui Bus-alla (^u0-àXf^ buchi riuniti, tutto buchi, e Busa-letta (puO-àXr^c) errante nei buchi. Dalla radice busu derivano le espressioni buzarà, buzancà, buzaradda. Osservo che il nome di Bodinco non era interamente scomparso dal Po ai tempi di Plinio, come attesta quel nome di Bodinco—magus che troviamo vicino al Po negli itinerarii romani. Confrontando i molteplici nomi in — 6y — mago che le tavole romane pongono nella gran pianura del Po, coi moltissimi nomi in ago del dialetto, facilmente si capisce che il romano fece altrettanti mago di quei ncmi dialettali che non capiva. BocLinco-m-ago altro non è che ’n-ago, nell’ acqua del Bodinco. Asca era il torrente. In greco ay&v significa fre- nare, trattenere ; àoyBioq significa impetuoso, irrefrenabile. Ma l’etimologia sola non mi basta; è lo studio del dialetto ligure accoppiato all’osservazione locale che deve decidere. Osservo che a tutti i luoghi in asco e in asca corrisponde un torrente : Borzonasca, Borlasca , Bogliasco, A volasca, Langasco, Carasco, Vernasca o Vernazza nel Genovesato, Piossasco, Frossasco, Gambasca, Tarantasca, Venasca in Piemonte, Garlasco, Grignasco, Mor nasco, Rovellasca, Rosasco, Salasco, Soriasco, Vernasca, Zinasco nel Tortonese e in Lombardia. Interrogo la tavola di bronzo e trovo in Polcevera i torrenti Neviasca, Vera-glasca e Tutelasca. Dunque l’asca è il torrente. Ritrovo Vasca in N-’asche, nel torrente — M-’asca, affatto (ma) torrente — M-’asc-ardi, tutti irrigano col torrente (vedi ard p. 72) — M- asca-zin, affatto sulla zin-a ( tìtv, p. 108) del torrente — V-asca, luogo dove va il torrente, 1’ asca. Parlano dell’asca tutti questi cognomi: Asch-en, quei dell’asca — Ba-gn-asco, va, strada nell’asca — Ma-gn-asco, affatto nell’ asca — Pin-asco, pino sull’ asca — Res-asco, asca dirupato, Rav-asco, asca delle rape. Asco finì per diventare un suffisso che significa a valle, lungo il torrente ; così Porse-vi-asco, Berga-m- asco, Orbasco. Vedi per tanti altri derivati il prospetto della radice ose in fine del volume. — 7° — Probabilmente è un asc-fellón, in greco cpsXXecov, scosceso, quel nome di Caschifellone , che assunse la famiglia di Cafifaro, seguendo quella tendenza verso i nomi cavallereschi che era propria del tempo. In alcuni scrittori troviamo Taschifellone, torma che si identifica molto bene con 1’ espressione del dialetto T- asc-fellon, abbreviazione di in-to-ascfellon. Si distingueva nel fiume la parte alta dove esso precipita e s infrange in mezzo alle roccie e la parte piana. Ricò si chiamava la parte alta (in greco pt]yò; aggettivo verbale di pi'yv-Jii:, significa: che irrompe, che infrange). Ricò dunque era il fiume che si frange in mezzo alle o roccie. Per ben comprendere il Ricò sarà bene che il lettore consulti il mio prospetto delle radici liguri, ove troverà il Reco, il Ricchin, Varigotti, Ricci, Risso, i rasci con A rasci, Marcisci, i Regio, i Rag io, i Cana-regio, i Viaregio, i Viarigi, un’immensa famiglia di vocaboli liguri che risalgono tutti all’ antichissima radice mediterranea. Gea (greco ya-a) era la parte piana del torrente. Già vedemmo che gea significa la superficie, il suolo, ciò che giace. E si comprende molto bene come i Liguri chiamassero gea il torrente che uscito fuor dei precipizi si aduna, come direbbe Dante, nel piano. Dall’ uso di prendere i ciottoli nella géa, venne géa per ghiaia (i). (i) Il gea nel senso ora accennato si pronunziava ora già, ora gira, ora gèira, ora ghia, ora gbéiria, onde i cognomi di Géa, Gèira, Gira o Gèrra. Cosi in greco si diceva yyè%, fri. Voghera, il cui nome fu oggetto di tante e così strane ipotesi, non è altro che un Vu-gbea o Vu-ghtira, cioè un Vu [vedi sotto Vi, Vii) sulla gheira, un pio-faia. I Romani capirono benissimo il Vu e tradussero Vicus ; non capirono il gbciria e tradussero Iria e fecero Vicus Iriae Si direbbe che è — 7i — La distinzione fra Ricò e Géa si trova molto chiaramente espressa in vai Polcevera. Ed infatti la Polcevera, dalle sorgenti fino a Pontedecimo, ove il fiume cammina sulla roccia viva, si chiama Ricò, da Pontedecimo a Genova si chiama a géa, in ta géa. L’espressione Ricò è divenuta rara, ma quella di géa è d’ uso generale fra le popolazioni liguri. Giara della Pócevera, scrive il Giustiniani, descrivendo i paesi della bassa Polcevera. Screivia era un terzo epiteto che si dava al fiume dal letto incavato. Lo deduco da questi confronti. Crena era una semplice questione etimologica; eppure il non aver bene inteso il nome di Vicus Iriae ha finito per creare le più strane confusioni a riguardo di \oghera, della Scrivia e della Staffora. Gli scrittori dei tempi di mezzo chiamano Ira ed Iria la Scrivia. D’altra parte i Romani chiamavano Vicus Iriae Voghera, che non è sulla Scrivia ma sulla Staffora. Perchè dunque si chiamava Vicus Iriae? Si cominciò a lavorar di fantasia e il Durand nel Piemonte Cispadano cosi ragionava: « Iria era il nome della Staffora »; hanno sbagliato Giornande ed altri scrittori del tempo di mezzo ponendo 1 Ira presso Tortona; essi per lo meno furono inesatti nell’esprimersi e intendevano dire che Ira (Staffora'» è sul Tortonese. Il Bottazzi costruì un’altra ipotesi: « Ira era la Scrivia ». E per spiegare il testo di Giornande il Bottazzi suppose che la Scrivia girovagasse un tempo in quel di Voghera ed allora nascesse il Vicus-Iriae, che poi la Scrivia prendesse un’ altra strada e quindi Vogheia restasse un Vicus Iriae senza Iria. Colle cognizioni che ci vengono dallo studio del dialetto noi spieghiamo naturalmente ogni cosa. A Tortona chiamavano l’Olra il fiume maggiore la Scrivia, e dal dialetto il Giornande trasse più o meno fedelmente il suo Ira. La Staffora a Voghera, dove comincia il piano era detta gèiria secondo 1’ uso comune ed i Romani, poco pratici del dialetto, come il Giornande, decomposero il \ ugheira in Vugbe-ira e scrissero Vicus Iriae e poi Iria. Io accetto come nome romano, sia pure una storpiatura, quello di Iria per Voghera perchè consacrato da documenti Romani ; non accetto invece come romano Ira per Scrivia perchè la storpiatura è di origine medioevale. L’Ira di Giornande ha una importanza in quanto si fa conoscere che roia e oira e doira erano voci comunissime anche fra i Liguri della vallata del Po. L'Ira per Scrivia era molto generalizzato nel medio evo, perchè Tortona figura molto spesso nelle carte col nome di Aut-ira, e cosi pure Libarna è ricordata come Aut-ira o Aut-ina nei vaghi responsi della tradizione locale. — 72 — un increnatura, un taglio, una corrosione nella montagna; me lo insegna il greco x?r]|ivó; che vuol dire rotto, incavato, e me lo insegna l’osservazione locale fatta alla Croia presso Serra valle e in altri punti Dalla stessa radice xpatv, scavo, consumo, viene Screi-via, che rappresenta l’azione del fiume, che scava e corrode le sponde, come appunto fa la Scrivia sui massi di calcare che la costeggiano a Rigoroso, Arquata, Serravalle. Da Kpa-v Cre-vai (Crevari) strada incavata, Cre-vain-a (Creverina, Crevenna). Lacio si chiama la Scrivia alle sue origini ; è il fi^me che passa nelle fessure delle roccie, in greco Xaxfe. B) ovini Bormia (Bormida) — Bor-bea (Borbera) il torrente che freme che bromeggia, in greco ppojiéw. Gorz-t?ite, il torrente che fa gorghi da yopydcfuci. Tanao Tanaro, il fiume che aveva un corso molto lungo, in greco tàva-05, lungo, allungato; di qui Tanaro e Tanai nella Spagna. Ecco spiegato per incidenza la \ oce tana, che è il buco allungato, nascondiglio delle fiere. Arci è radice che significa irrigare; ce lo insegna il greco 3c?5-e'jci). Noi abbiamo torrenti e rivi che si chiamano Ard-a, Ard-an-a, Ardenza; vedremo prestogi-ard-in ecc. Ri, chiamavano il piccolo corso d’acqua, la radice è sempre psw, scorro; Ri è abbreviazione di por,. 11 ri diventa spesso nà nasso, ossia rìasc, rivo, torrente. Anche i rivi dalla loro forma prendono diversi nomi. Ri-cròso (Rigoroso) è il rivo, incavato (la radice è sempre xpaiv). Per analogia si dicono creùse le stradic-ciuole infossate fra i muri delle nostre ville. Di qui il cognome Crosa. Rasci, resci sono le fenditure della montagna, i fossati; corrispondono in greco due forme identiche pà;:g e pr^;- ~ 73 - Così si spiega A-rasci, al fossato, M-’a-rasci, affatto al • fossato, Ga-resci-o, terra in mezzo ai fossati, Gar-asc-in ecc. Rigi, Regio, Ragio il canale, la riga. Con meravigliosa corrispondenza il greco ripete pr/pj, prjyos, p.dcyc>e, ew;. Vi-a-rigi nell’Alessandrino, Vi-a-regio in Toscana esprimono la stessa cosa vi, volgo (p. 93) al canale. Di qui 1 molti nomi in Regio, Regis, Ragio, di cui si fece altrettanti re, regii, e raggi. Di qui i Ca-rega, Sena-rega (?%*)) Casa-regio ecc. Di qui riga, rigare, in-rigare. Sciurméa e sciumea (in greco m>?n] parola primitiva che rappresenta la pubertà e la fioritura ad un tempo. Ebro era un fiume di Grecia, Ebro si chiama ancora oggidì un fiume di Spagna, noi abbiamo i mont'Ebro in vai Borbera e in altri luoghi dell’Appenino. 1 alvolta il fiume prendeva il nome dalla regione. Ne abbiamo un esempio nel Tuntlasca che divenne Seca perche così si chiamava l’altura fra Pontedecimo e Pedemonte. Pila era la foce del fiume (greco TtóXrj). Ecco spiegato il borgo Pila alla foce del Bisagno; quando il mare più si addentrava esso era il borgo della foce ; il ponte della Pila, la porta della Pila erano il ponte e la porta che conducevano al borgo Pila. La parola Pila ci spiega 1 antichissimo nome di piloto: infatti i porti primitivi erano alla foce dei fiumi, il piloto era l’uomo pratico che sapeva condurre le navi alla pila. Per analogia si disse Pilo, Pilon (jtjXos, tojXwv) la porta di una città come a dire la fauce; di qui Pilo nome di città e cognome di famiglia. Di qui far pilo espressione genovese che vuol dire fallire, prender la porta. Pzgi, greco Ttrjyf] era la fontana. Si indovina subito come per associazione di idee, per il fatto di specchiarsi alla fontana, dalla parola pegi si fece : s-pegi-u, specchio. Elementi preziosissimi di confronto sono pegd, parola del dialetto ligure che significa l’azione del contadino che o o rende liscia la superficie dell’aia, spalmandola con una soluzione di sterco, m'y-p, in greco, che significa il — 76 — ghiaccio. In Liguria abbiamo il Fcgi primitivo in Pegli, nella riviera di Ponente. Firn-tana. Mentre il vocabolo pcgi rappresentava la nitidezza dell acqua, firn-tana invece rappresenta lo scaturire dell acqua. Futi equivale al greco » quid il mi altre si fa^et. Et ab Ludher plaid numquam prindrai, qui meon voi » cist meon fradre Karle in damno sit ». Il senso dì tali parole in italiano è questo: « Per amore di Dio, e per bene del Popolo Cristiano, e per comune salve^a; da » questo dì in avanti, in quanto Dio mi darà sapere, e potere, cosi salverò questo mio » Fratello Carlo, c gli sarò in aiuto, e in qualunque cosa, come uomo per diritto dee » salvare il suo Fratello in quello, che un altro farebbe a me. Nè con Lottario (co » mune lor fratello) farò mai accordo alcuno, che di mio volere torni in danno di » questo mio Fratello Carlo ». Che cosa è questa lingua? Un latino, un francese, un italiano? È l’antico dialetto mediterraneo, mascherato alla romana, contraffatto colla soppressione degli articoli, con preposizioni e terminazioni latine. Voi sentite nelle poche linee che ho riferito uno sforzo per dare un po’ di forma romana ad una lingua parlata che di romano non vuol saperne. Bene osserva il Raina (origini della lingua italiana) che i testi dall’ 800 al 1000 non rappresentano propriamente una lingua ma piuttosto lo sforzo di avvicinarsi a un latino che si conosce come Dio vuole. Questo non ebbero mai in mente coloro che si ostinarono a cercare la lingua parlata nelle carte del medio evo. Obbligate uno ad esprimersi in una lingna che poco conosce e verranno fuori anche in oggi dei testi come son quelli, in così detto latino, dall’ 800 al 1000. A questo latino corrisponde il francese che parla un cocchiere di Genova quando dice al forestiero: « vuli la velare? d’alle e venir me doner'e tre frane », corrisponde all’italiano che parla tante volte l’inglese e il tedesco nei nostri musei. Fate che il Genovese parli genovese, l’Inglese inglese, il 1 cdesco tedesco e ciascuno parlerà corretto sì da essere nel suo genere un testo di lingua. Non altrimenti i notai del 1000 che ci fanno inorridire coi loro spropositi, eran gente che nella vita comune, quando nulla li costringeva a usar quel linguaggio, ormai loro estraneo, e quando potevano esprimersi liberamente nel loro particolare dialetto, non commettevano la minima sgrammaticatura e non avrebbero fatto la benché menoma offesa alla più umile fra le lettere dell’alfabeto. Sicché, ben conclude il Raina, quel loro scrivere ci dice solo due cose : da un lato la loro ignoranza del latino, e in genere il difetto di ogni - 8S - Cósoa (Cosola) non è che una yfioic, una catena sporgente. Il Cósoa di Val Borbera accenna a quella procoltura, una volta che il latino ne era il solo strumento, dall’ altra la differenza ben ragguardevole, che doveva esserci fra il latino e la loro favella nativa. Ma perchè dunque non scrivevano come parlavano? Per la stessa ragione per cui al contadino Ligure che fa 1’ ortolano a Buenos-Ayres o il cavista in California non passa nemmeno per il capo di valersi del dialetto proprio quando scrite alla famiglia. Egli fa come il notaio del iooo; scrive una lingua ibrida, che se non £" italiana è tuttavia lontana dall’ essere dialettale nelle sue forme esterne. A parte la difficoltà di rappresentare con lettere i suoni del dialetto, egli non pensa nemmeno che vi sia una lingua scritta che non sia l’italiano. Quelle parole che gli insegnò a fare il maestro comunale erano italiane, ogni volta che lesse un giornale era italiano, il suo congedo militare, 1’ avviso delle tasse era in italiano, ed egli non suppone nemmeno che si possa comunicar fra lontani in altro modo. Così avvenne del latino. Nel iooo il latino, come lingua organica era un cadavere, ma si continuò a far uso delle parole latine o latinizzate perchè era la lingua scritta degli avi, perchè era la lingua in cui più o meno tutto il mondo s’intendeva, perchè era la lingua della gran maestra, la Chiesa. Concludiamo si scriveva alla latina, ma si parlava in volgare. È un grande errore il credere che come si scriveva, si parlasse. Appena Carlo il Calvo avrà finito il suo giuramento nella lingua romana, si può esser certi che il suo favellare svesti quei pochi arnesi latini che si erano tirati luori per la solennità, che depose e il Pro Deo amur, e il numquam e in damno sit. Ed è anche probabile che abbia aggiunto: « Pour amour de Dieù, lasciatemi parlare a modo mio ». Del resto la fatica del re era stata ben poca, ed io non esito a dichiarare che il suo giuramento è un volgare vero ed autentico leggermente latinizzato, come era quello delle gride che il Cintraco bandiva al popolo dal IX. al XV.™ secolo. Si leggano i documenti in lingua genovese pubblicati dall’Olivieri, dal Molfino, dal Belgrano, dal Randaccio e si vedrà che si verifica sempre lo stesso fenomeno: il genovese per nobilitare il suo scritto prende l’intonazione e il periodare alla latina, e nel secolo XIV quando il volgare illustre prevale si sente il miscuglio del genovese col toscano. Il vero e genuino genovese raramente fu scritto; e per trovarlo dobbiamo venire ai sonetti del Foglietta e alle poesie del Cicala, del. Cavallo e del Chiabrera. E per ritornare all’ articolo, a cui la mia nota si riferisce, dirò che se nei documenti dall’ 8oo al iooo l’articolo non comparisce è unicamente perchè si volea dare agli scrìtti la parvenza del latino. Ma vi sono dei testi molto più latinizzati in cui 1’ articolo fa capolino sulla penna dei notai. E me ne fornisce la prova il Muratori stesso che a pag. 74 della sua dissertazione cita un diploma del re Desiderio dell’anno 772 in cui si legge: Fossatum deiavite. Volendo riassumere in paggine dell’Appenino che forma il Mont’Ebro e il Monte Giairolo. A Sampierdarena chiamano quei da Coscia coloro che abitano sotto il promontorio che finisce alla Lanterna. Notate 1 esatta corrispondenza dell o di Cósoa e Coscia con 1 co di x®aCl»- Generalmente si credono suoni determinati da pronunzie locali mentre sono suoni corrispondenti alle leggi fonetiche universali primitive. Costa e pur esso un vocabolo derivato dal gran eòo. Si chiamavano Coste i fianchi sporgenti della montagna, e digradanti verso il piano. In greco xwat°S (da x$CTt,))- 11 nome proprio dei monti ebbe origine in diversi modi. Molte volte il nome generico divenne nome proprio. Quei della valle che avevano una punta dinanzi a loro finirono per chiamarla ó Pena, ó Penin; quelli altri che erano soliti andar a pascolare sul Caermo del monte finirono per dire: vado au Caermo; altri parlando sempre della sctumaira finirono per chiamarla à Maira ; altri finirono per chiamare Po il Bodinco a forza di ripe- una forinola 1’ evoluzione storica del dialetto italico io direi che esso è nato dal gran dialetto che si parlava un tempo da tutti i popoli mediterranei, che durò per molti secoli, semplice, primitivo, uniforme, prima della dominazione romana che si latinizzò durante la stessa, che subì modificazioni ma non sostanziali colla commistione dei popoli Celti, Longobardi e Franchi, dai quali tolse nuovi vocaboli. Ritengo che dalle influenze diverse esercitate dagli invasori nacque la varietà nei nostri dialetti. Ed infine che la lingua italiana altro non è che la continuazione dell’ antico dialetto latinizzato, una fusione dialettale in cui ebbe la preponderanza il dialetto toscano, perchè seppe meglio di tutti gli altri, assecondare le esigenze di quella nuova civiltà che ebbe il suo apogeo nel trecento. Gli scrittori del trecento diedero alla lingua stabilità di forma, la perfezionarono con profondo sentimento artistico; ma la fusione nei rapporti civili e politici fu 1’effetto di quel movimento che cominciò molto prima colle crociate, che si propagò poi mediante i commerci, e il riavvicinarsi dei popoli, e le alleanze, e le guerre, e le paci, e il rifiorire della vita italiana in quell’ epoca meravigliosamente bella che fu detta il rinascimento. — 87 — tere per secoli e secoli : il po, il fiume. Questo fenomeno, naturale per se, doveva tanto più verificarsi fra i Liguri, popoli molto frazionati, e molto stabili nelle loro dimore. Ognuno di essi non si occupava che della sua regione, della sua uale, della sua séra, della sua oria o della sua sciumaira. Il loro parlar quotidiano era: vado a Séra, vado au Zuvu, vado ati Caermo, vado in to ricò, vado in ta gea. E così si spiega come, senza influenze estranee, avvenisse che' questi nomi restassero poi come nomi proprii, e certi luoghi avessero contemporaneamente due appellativi. Così la tavola di bronzo dà al Caermo il nome di Tuledon che significa: gibboso (pag. 298). Ed in realtà il monte presenta questo fenomeno nel suo gran dorso. Ma anche il monte gibboso aveva il suo colmo. Si capisce che il nome specifico era il nome più antico; ma l’uso continuo, che faceva dire vado sul Caermo, fece sì che quest’ ultimo nome, generico quanto vuoisi, la vincesse sull’ antico. I nomi particolari dati ai monti sono tolti, come quelli dei fiumi, dei paesi ecc. dalle caratteristiche di natura. Ed è questa preziosa circostanza che permette all’Alpinista, attento osservatore della montagna, di fare uno studio reale, sul vero, introducendo il positivismo ove tutto era ipotesi, per non dir fantasia. Riscontrerete per es. che tutti i monti che si chiamano: Pernecco, Prenico, in greco repévixos sono monti abbondanti di pietre. Vedremo il Prenico nella nostra tavola. Sucao, Sucaèlo (Zuccaro, Zuccarello) sono i monti fatti a zucca, aòxov. Cao il monte ove fa capo una catena. Mont-a-odè, Montàdo, monte alla strada (p. 104). — 88 — Alitela è il monte fiorito; in greco àvGuXoc;; così Car-anza è capo, cima fiorita, come vedremo fra poco. Mon-ba-russu, si spiega con Barusso ; è il terreno che va ((3a da paivco) rosso (f>ouaco£) ; equivale a tcrrarossa, e basta ricordare il colore della terra di Monbarusso e Basaruzzo per capire questa etimologia. La gran lingua primitiva dà qui una prova della sua universalità; lo slavo in Russia, il germanico in Bo-russi (buoi rossi), divenuto poi Prussi e Prussia, vi attestano che russo è voce raccolta alle prime fonti del genere umano. È a notarsi quel va che troveremo molto spesso nella composizione dei nomi liguri. Al giorno d’oggi si dice che un abito va bene e in antico si diceva che un monte va-russo, un altro Va-rignan, parole che letteralmente tradotte significano va-rosso, va-rotto (da prjYW1 rompo); a Va-rignan corrisponde Va-rigotti (va-rotto o rotti da p^yvupc). Bor è radice che si applica ai monti esposti al vento (Bopsxc; aquilone, settentrione) ; di qui Bor-l-asca, Bor-io, Bor-on, Bor-zon, Bor-zon-asca. Cun (greco /wv-yj ^wv-o;) è una espressione che si applica ai monti che sovrastano ad una conca o che fan conca. Ta-cun in Polcevera significa monte ’n ta cun, in italiano si direbbe nel cunno, dei monti Lemurini — conu Fi-a-ciìn significa monte che fa il cun (yo-a-yjuv) — come An-cón-a, significa nella conca, nel cunno — come Coni (Cuneo) significa cunno formato dalla confluenza di due fiumi. Tutto ciò m’insegna l’osservazione locale. Mon-calè corrisponde a monte bello, yylóq, yo^l- Di qui Mon-calè, Moncalieri, come Pan-calè, Pancalieri, tutto bello, Ma-calè, affatto bello. 11 cale per il solito cambiamento di c in g divenne Gale e Gaietto. - 89 - Mon-tigià è il monte acuto (da Wf(o), OrjyàXeoS ). Falte-rona significa coda cima (v coi luoghi che stavano d’ intorno. Come Mon-du-vi è il monte del Vi, così Car-a-son, nome assai frequente in Liguria e nella Francia meridionale, è la terra che si trova in capo al 0wv. L’altipiano di Vico a Mondovì costituiva il 0cov cioè la posizione del vi-, il monte all’ estremità nord costituiva il Mon-du-vi, la terra in capo al 0wv verso nord-est era il Car-a-son ( xap-a-0wv ). Passiamo in Francia e vicino ai Pirenei troviamo in alto un zon cioè Al-zon-ne, e giù in basso, vicino al fiume, troviamo l’antica terra in capo al zon un Car-ca-sonne (xao-ya-Owv). Il 0o)v deve avere avuto nel linguaggio primitivo una applicazione larghissima. Nella descrizione della Gallia, Giulio Cesare cita ad ogni passo nomi di paesi la cui finale è dunum, ad esempio: Eburo-dununi — Lugdunum. — Uxello-dunum — Sego-dunum — Noviodunum che sono Embrun, Lione, Issolun, Rodez, Nevers. Che cosa è mai quel dun, latinizzato in dunum da Giulio Cesare? Ritengo non sia altro che il 0wv, cioè la posizióne, il luogo di concentramento. Quei popoli bellicosi concentravano le loro forze in posizioni strategiche, che Giulio Cesare trasformò in altrettanti campi trincerati dopo la conquista. Prima di essere castra romana erano 0o)v, posizioni dei Galli; Embrun era Embrun-dón e Giulio Cesare tradusse Eburo-dunum. — I 12 — Credo che il nome di Sean-esi si debba riportare al 0o)v o meglio a una variante del 0J>v, 0sv, participio di 01xo[Aa:. 0;òv e 0sd>v sono la stessa cosa come 0xo|J.ai e 0Eào|iai; l’uno è dialetto attico, l’altro è ionico. L’a di Sean-esi è vocale di suono incerto e tradisce l’w. Esi è la solita parola che significa abitati, ville. Seanesi dunque significherebbe abitanti del 0wv. Vediamo ora in quali rapporti si trovò questo 0wv, colla lingua latina. Il popolo conquistatore non si curò come era suo costume di conoscere nè il significato del Zon nè le sue origini etimologiche. Giulio Cesare, come o o vedemmo, tradusse dunum. I Romani che vengono a comporre le controversie fra Genoati e Viturii danno ai Tortonesi il nome di De-c-tun-ini. Niun dubbio, ora che abbiamo famigliarità colla fraseologia ligure, che tradussero Dc-c-tìin-ini per aver sentito dire quei de tun e forse anche de-ctun, perchè si trova in greco anche la forma X0wv. Il tun primitivo di questo popolo era probabilmente l’Antola, intorno al quale sentimmo risuonare le antiche voci Tzm-no, A o-tun. Poi il popolo crebbe, si diffuse, discese al piano, e sopra uno degli ultimi contrafforti dell’Appenino formò a poco a poco Tur-tun-a che significa intorno al hm. Quando, al seguito di Augusto, venne fra noi Strabone e visitò i nostri paesi, comprese subito, con quella finezza di percezione che non poteva mancare ad un greco, che la pronunzia del Turtona nascondeva un Owv, e corresse il Dectuna in Asp-Ouv-x. La mia tesi non poteva desiderare più autorevole conferma. Resta ancora a spiegare perchè Strabone scrisse Der e non Tur\ e la spiegazione è data dalla pronunzia tortonese. Il D è il risultato dell’espres- - ii3 — sione dialettale d’Tur ton-a, Ve è l’effetto di quel suono incerto che prendono le vocali dinanzi all’ r, per cui non si può mai sapere se chi parla esprima un a, un o, un ti y oppure un e. Strabone adunque scrisse il nome di Tortona riproducendo fedelmente il suono dialettale come egli lo intese e come lo intendiamo noi dopo 19 secoli. E mi compiacio di vedere che la forma Strabo-niana è seguita in oggi dai Tortonesi come leggo nella Strenna del 1900 intitolata Derthona Sacra. E poiché sono a parlare di Strabone, rileverò una volta per sempre come egli sia forse 1’ unico degli scrittori Romani che seguì il metodo, tanto utile alla storia, dell’ispezione diretta dei luoghi. Mentre gli altri scrittori fecero dei nomi locali un gioco di fantasia, egli fu ricercatore positivo della linguistica dialettale di tutti i popoli. Dallo studio di Torton-a. di Zeno-a e di tanti altri 4 nomi che verrò esaminando ricavo un postulato che è della massima importanza: i nomi locali dei Liguri antichi subirono molte variazioni di scrittura, ma la pronunzia dialettale fu quasi sempre costante. Furono gli eruditi che trovandosi nell’imbarazzo inventarono ad ogni piè sospinto le così dette corruzioni dialettali. Parlando delle configurazioni topografiche della montagna devo ancora render conto di alcune espressioni liguri antiche che si riproducono tuttora nel linguaggio dialettale. Mu — Mu-assu — Muassan-a era il cumulo di terreno depositato dalle alluvioni o frane tanto frequenti nei nostri monti a ripida pendenza. Anche qui la spiegazione ci viene dal greco. La radice è p. Si diceva paXó; e jiueXó? ciò che in dialetto si dice meula, moula, midolla. Si capisce che il significato è di cosa molle , molla in Atti Sue. Lio. di Storia Patria. Voi. XXX. 9 — ii4 — dialetto. Confrontando il significato testé accennato coi luoghi che si chiamano Mu Mu-assu e Mu-assan-a trovai che si tratta precisamente di masse di terreno provenienti da alluvioni. Confrontai pure queste voci con la parola dialettale molassa e trovai l’identico significato. E allora conchiusi Muasso, Mulassan-a, Muassan-a è la molassa, la midolla del terreno che si è staccata dall’osso, cioè dallo scheletro della montagna. La semplicità del concetto è conforme all’ ideologia primitiva. Il terreno alluvionale presso Libarna si chiama Mu (mollo). A Rigoroso vi è il Mu-assu; in Bisagno Mu-assan-a; fra Savona ed Alba troviamo Mu , Mulo e Mu-azzan, Murazzano. Se i confronti ora esposti non bastassero aggiungerò che in dialetto di vai Polcevera e vai di Scrivia si dice mulan-a il formaggio molle desmuià, come a dir desmogliare per render molle ; móeia la terra rammollita, onde La-moglia, in francese La-molle. Siamo evidentemente agli antipodi con quelli etimologisti che ritengono Molassana da Mora-sana, dimora sana. Car è la posizione in cima in capo, in greco xap. Di qui Car-anza, capo fiorito (i). Car-osu (Carosio) in capo (i) Si diceva nel secolo XII Pieve di Caratila quella che in oggi è la pieve di Mongiardino. 11 Belgrano, nella Illustrazione del Registro a pag. 361, ricorda che « la vetusta Chiesa Pievana si elevava propriamente un miglio a sud di Mongiardino e pressoché nella cima del geigo che divide le acque della Sisola da quelle della Vobbia ». Quella Pieve in cima al monte era nei tempi antichi la Chiesa che serviva alle popolazioni di Vergagni, Cravè (Salata), Vobbia, Noxco, A-e^o, Va-en^ona, Canaie (Cerendero), tutti luoghi antichissimi che rappresentano una antica tribù ligure che io non esito a chiamare la tribù dei Caranum perchè questo è il nome che ancora in oggi si ripete per indicare le persone che vengono da quell’ antica regione. Probabilmente a quella tribù apparteneva in antico tutta la popolazione di Vobbia [Va-obbia; da Isola fino a Caranza. Mongiardino sostituì Caranza al principio del rinascimento forse a ragione del commercio che si svolse sulla linea Genova, Casella, Crocefieschi, Rocchetta, Tortona, Piacenza. — ii5 — all’ olmo — Car-enzo posto in capo. Caréa (xapstov, xapécou). Sorta. Sono i luoghi che presentano molti cumuli, in greco owpefa. Così crwpol ( il paese di Sori in riviera di levante) significa cumuli, monticelli. Dassori, dai Sori. Cheiro o chiero, pascolo (xefpfo): Chieri, pascoli B-ardi-chteri, vanno irrigare pascoli (p. 102, 140). Cher-asco, pascolo al torrente. Car-cheri, in riviera di Ponente e in Toscana significa in capo (xap) ai pascoli. Zan e Zen, Cian e Cen, £an e £en, era il piano, i piani (radice £av ^ofvto, radere, lisciare). Di qui i nomi infiniti di Cen, en-i-cen, Ma-en-i-cen o Manigen, o Marsen, di qui 0 Cian, Ser-zan, Monte-san, e Corni-zen. Fue-zan, Foreggiano, è il torrente che fora il piano. Questo zan diventò poi suffisso indicante il piano : Asti -zan, Parmi-zan. An. In moltissime voci liguri sento risuonare un an che mi riporta sempre al concetto dell’ ava greco, in su. Ed io venni in questa idea che come in oggi è comune la frase quei d’ in sciti, quei de zìi, borgo de sotto e borgo d’ato, così in antico si adoperasse molto l’an per indicare quei che stavano in alto, quei della montagna. Trovo in Liguria molti Di-an e tutti rappresentano una posizione in alto; trovo molte terminazioni in an come Sem-in-an, Cavign-an, e trovo che corrispondono sempre al concetto di posizione in alto. Trovo an nei monti Apo-an (ara-àv, lontano da, in alto). Concludo che an e n -an corrispondono all’ av ed ava greco e significano il contrapposto di cian, pianura. Montesignan deve essere uno dei tanti Sem-in-an, tradotto dai Romani in Signanus. Basu, in greco [k0u<;, rappresenta la posizione nel basso. Di qui Bassano, Bassana, Bassignana. — i r 6 — * ii. — Castè. In cima al Z071 a difesa del vi e degli esi i Liguri innalzavano generalmente un castè, parola mediterranea che fu poi latinizzata in castelo. Da certe voci antiche come Sa-on, Sa-vignon, Sa-viglian è lecito argomentare che il castclo avesse anche un altro nome che suonava a un di presso salva-gente. Infatti i nomi ora citati letteralmente tradotti si risolvono in salva, salva-gente, salva-gente-predante. Più che un edilìzio, il castelo era un gran recinto formato di sassi, alto, inaccessibile, ove in tempo di pericolo le tribù salvavano ogni cosa loro, i raccolti, i vecchi, i bambini e forse anche il gregge. Era in momenti di guerra specula e fortezza, in tempo di pace era il municipio, l’erario. Questi castelli dovevano essere molto in uso all’epoca della tavola di bronzo, perchè il secolo precedente era stato un battagliare continuo fra Liguri e Romani dall’Arno al Varo, e tutti i popoli di Liguria, anche i più pacifici avran pensato ad agguerrirsi per la circostanza. Tito Livio e gli storici romani parlano ad ogni poco di castelli presi ai Liguri, tacendo volentieri le molte volte che da quei castelli tornarono malconci. Una frase satirica, che ricordava i nostri castelli, restò per molto tempo nel linguaggio dei politicanti di Roma. Quando si voleva canzonare un console che trionfava per qualche guerra, da cui non aveva saputo riportare le belle spoglie che abbagliavano la plebe, si diceva : Son trionfi castellani. Con ciò si alludeva, dice Cicerone, ai castelli liguri, — .117 — perchè s’ era verificato tante volte di sentir annunziare che il tal console aveva preso centinaia di castelli ai Liguri, e venuto il giorno del trionfo il console non poteva presentare nemmeno un chiodo tolto al nemico. Smantellati i castelli non si trovavan che sassi; di armi ed armature non era il caso di parlare perchè i Liguri combattevano coll’arco e colla fionda, ma specialmente coi sassi. I castelli del medio evo, che ci ostiniamo a credere un’importazione dei Carolingi, sono invece, storicamente parlando, niente altro che la continuazione degli antichissimi castelli liguri. Nei secoli di tranquillità e di benessere, che seguirono alla conquista romana , i castelli antichi furono probabilmente abbandonati, e andarono rovinando come in oggi quelli del medio evo; ma distrutta la grande compagine dell’ impero, venuto il tempo delle stragi e delle rapine i nostri monti si ripopolarono di castelli. Le popolazioni che erano scese al piano tornarono a raggrupparsi dentro e all’intorno di quei recinti di sassi, che tali erano i castelli dell’ 800 e del 900, prima che vi pigliassero stanza nobili famiglie e che il rinascimento li rivestisse d’ arte e di poesia. Ecco uno dei tanti casi in cui la storia preromana serve a spiegare il medio evo. Il quale per essere bene inteso abbisogna molto di questo studio di riavvicinamento alle epoche antiche. La storia di un popolo è una concatenazione di fatti, d’ idee, di costumi. Ciò che in apparenza è rivoluzione, in sostanza è sempre evoluzione. Si modificano bensì i popoli, per i mutamenti politici e sociali, per le commistioni di altre razze che vengono a piantarsi in mezzo a loro, ma non si trasformano mai tanto da perdere il contatto col loro passato. L’ epoca — 118 — romana è la prima fioritura, il rinascimento è la seconda, il medio evo è il periodo di transizione, ma il popolo che subisce queste vicende è in fondo sempre lo stesso. Per noi è sempre popolo ligure, inteso nella sua significazione primitiva di popolo italico. La critica moderna ci avverte poi che 1 elemento straniero, che prese stanza in Italia non fu così numeroso come si fece credere dagli storici antichi, i quali dalla grandezza dei disastri subiti furono indotti ad esagerare le forze dei popoli invasori, mentre lo stato di abbandono e di letargìa in cui si tro-vavano i vinti fu la vera causa di quelle sventure. Queste riflessioni hanno molta importanza nello studio dei nostri costumi e della nostra lingua. La tendenza a vedere in tutto elementi d’importazione straniera è pericolosa, mentre e più conforme all’ordine naturale delle cose il ritenere che i vincitori essendo molto inferiori di numero, e trovandosi di fronte a una gran civiltà, benché decadente, 1 abbiano subita più di quanto possono averla modificata. Dal medio evo ritornando ai tempi primitivi dirò che il castelo era nelle costumanze di tutti gli antichissimi popoli del mediterraneo. Nel primo trattato fatto dai Romani coi Cartaginesi è scritto « I Cartaginesi non facciano casteli nel territorio latino ». Il trattato è riferito da Polibio nel libro iii, cap. 22. Da tutto quanto ho esposto viene a cadere 1’ etimo-logia, tanto accreditata finora, che il castelo fosse derivazione del gast germanico; l’etimologia si deve cercare in qualche cosa di più antico. Ed a me è parso di rin* tracciarla nel confronto del castè (Tortonese) castèl (pie-monte) col gastè greco cioè yaax^p, che significa ventre. — ii9 — Per analogia i greci chiamavano yàat?a il fondo della nave, e per la stessa analogia i popoli mediterranei avran detto gastè a quella costruzione destinata a ricevere le vettovaglie e le migliori cose loro. La finale in elo è evidentemente 1’ effetto della latinizzazione del nome ligure. Noterò ancora la pronunzia aspra del c in castè, che ricorda molto bene il g primitivo. Il gast germanico serve a dimostrare la parentela antica che anche i popoli nordici avevano coi popoli del mediterraneo. Essi furon quelli che conservarono la radicale primitiva in tutta la sua verginità. * 12. — Dove abitavano i Liguri, come chiamavano i loro abitati? Diodoro Siculo ci ricorda che abitavano in cavis o in tuguri fatti di tronchi d’ albero e di paglia. Le caverne dei Liguri furono splendidamente illustrate dall’ Issel e da una falange di studiosi, fra cui mi è caro di ricordare l’amico mio, l’Ing. Bensa del Club Alpino Genovese, che presentò una bella memoria premiata al concorso della Società geografica italiana nell anno 1898. I cavi ; ecco il nome con cui i Liguri designavano i loro primi rifugi; la parola è rimasta nel linguaggio nostro ; ad esempio 1 cavi di Lavagna. Vedremo che i Cavaturini della tavola di bronzo altro non erano che quelli di Cavi. Gava e Gavi è la forma primitiva da terra, va, via, meandro nella terra (vedi nota p. 12 7)> • Erma era pur detta la caverna ( in greco spy^* 0 fjpe|i0?) di qui il nome di L’ erma. Arma altro non è che 1’ erma. Si comprende 1 altera- — 120 — zione dell’ e per essere seguita da ?r (épyjia). Così Arma di Taggia e tante altre. Gius si chiamavano e si chiamano ancora oggidì nelle Alpi i recinti di sassi, dove i pastori raccolgono alla sera il loro gregge, dove questo giace. I nostri cacciatori ne trassero la frase: prender la lepre a giasso. La parola è primitiva ; ce lo attesta la corrispondenza greca: yfjuar, giaccio. Questi cavi, erme e gius sono i rifugi del Ligure primitivo. Ma all epoca della tavola di bronzo la civiltà mediterranea era diffusa nelle nostre valli, ed i Liguri a\ eano capanne e case solidamente costrutte, che descri-\ eremo a suo tempo. Per ora mi contento di accennare al nome generico che avevano le abitazioni, le case. * T3’ Eto, edo, per abbreviazione eo, plurale esi, era la dimora, il luogo abitato e coltivato nello stesso tempo. Quella mente sovrana che fu il prof. Desimoni, studiando la tavola di bronzo (pag, 640, 642, 643) si fermò con ragione sulla parola ho, che si riscontra ad ogni poco in Polcevera, come Isoverde, Isosecco, Isocotte. Egli intravide che la parola iso risale all’ antichissimo dialetto ligure— che è affine all’edo (Murt-edo) e all 'esi (Montan-esi') — che 1’ iso e l’edo del dialetto ligure hanno affinità coll aedes latino e coll’ insula in quanto significa isolato, caseggiato. Ma il Desimoni, attratto dalla molteplicità dei suoi * studii, non ebbe tempo di approfondire le origini e le attinenze del dialetto ligure, e così concluse: « non è — 121 — spiegato finora il valore etimologico dell’ iso, esi, come forma, unica, primitiva. Questa forma primitiva non si trova nelle lingue classiche e note ». E sfuggita all’illustre archeologo, ma la forma primitiva dell 'edo, esi si trova nel greco f/ta;, abitazione, casa, luogo dove sta qualcuno. Noto subito che in ifìoc, vi è un 6 cioè una consonante di suono misto, un suono che oscilla fra z, s, t, d. Questo confronto col greco è maravigliosamente fecondo. Capite subito che eto, edo ed esi sono la stessa cosa e che tutti riproducono la stessa voce antica che il greco riproduceva in oq, dimora, e che ben si apponeva il Desimoni quando, senza conoscere queste ragioni di parentela diceva che in edo doveva esser il concetto di aedes. Il greco attribuiva all’7)605 il significato semplice di casa, dimora; il ligure dava probabilmente a questa voce un significato più ampio, corrispondente alla sua etimologia ; eso da essere, fj0o? da èfp.t. Eto, edo per il ligure era il luogo dove una cosa è. Bisogna aver presente che i Liguri antichi vivevano in mezzo alle terre che coltivavano, e quindi nel loro concetto si confondeva il luogo coltivato e la dimora. c> Galan-eo, letteralmente tradotto è il luogo del latte (yy-Xax), Murt-edo, della murta, ma per rendere bene il « concetto ligure antico direi villa du laite, e villa da murta, perchè la villa in Liguria è appunto un luogo coltivato ed abitato ad un tempo da chi lo coltiva. Ma il concetto ligure primitivo che univa in un solo vocabolo le coltivazioni e la dimora , subì delle modificazioni coll’ introdursi di nuovi usi e nuove civiltà. Il latino s’ impadronì della finale eto e la usò generalmente — 122 — per esprimere la semplice coltivazione : frutteto significò luogo piantato a frutta, oliveto luogo piantato a olivi, noceto luogo piantato a noci. S’impadronì pure dell’ edo e gli attribuì il significato di casa trasformandolo in aedes, come vedremo più sotto. Nello studiare il dialetto noi non dobbiamo prescindere da questi fatti che ebbero certamente una influenza nelìe nostre significazioni dialettali. Io credo che volendo tener conto di ogni cosa si debba procedere con queste distinzioni. Quando ci troviamo di fronte a un eto, Rovereto, Po-bleto, Feigheto, Tiglieto, Rovereto, Carpineto, Sanguineto, Cerreto, Gorreto, Noceto, Oliveto ecc. è più logico il supporre che la parola abbia il senso generico del suffisso latino, luogo di roveri, di pioppi, di faggi ecc., mentre V edo, 1 'eo e V est, essendo voci puramente liguri, è probabile che rappresentino l’idea primitiva di luogo coltivato e abitato ad un tempo. Volendo tradurre le parole liguri antiche in liguri moderne io dunque direi: Fave-to (cpx[j-r(0og) il sito delle fave. Murt-edo (ixupt-^So;) villa del murta. Paèo lo stesso che Pareto (ttapà-f,0o;) presso la villa, la casa, dà cà. Bozan-eo lo stesso che Bolzaneto, la casa del pastore. (Bozan significa pastore da 0o bue, Giocai guardo). A-ezo si dice nei monti liguri (Vobbia) un paese che fu tradotto Arezzo. Evidentemente non è altro che un A f/Oo?. E così è spiegato anche il nome della città di Arezzo. Bo-eza, Vaca-eza sono parole che risalgono alla stessa radice e significano, abitato di buoi, abitato di vacche. Più esi formavano i pa-esi. Si capisce che Mocon-esi, Montan-esi erano più case, cioè paesi, da antico. Ecco — 123 — in qual modo il dialetto, una volta ben compreso, aiuta potentemente la storia. L’l/005, ci spiega come i primi cristiani abbian potuto chiamar Paradiso la desiata dimora accanto a Dio (rcapà-Ac-fjGoc) Spiega il perchè si chiamassero f)0éoi, Ethei, i primi popoli che colonizzarono 1’ Italia ; eTp.t significa essere ; t)0£(o significa abitare e coltivare (ricordo Iseo sul lago omonimo). La parola Eneti (Veneti) corrisponde ad Etei e significa incolae ossia coloni in; basta questa osservazione per dimostrare come fossero campate in aria tutte le discussioni degli eruditi che cercavano la identità degli Eneti nostri cogli Eneti dell’ Asia minore. Saran venuti dall’oriente i nostri primi incolae, ma il nome di Eneti per sè non ha valore perchè è nome generico, e non rappresenta specificamente nè una razza nè un popolo. Spiego pure l’antico nome di Elvetu ; sono gli 7]Xu-7)tìeoi. abitanti delle selve (vedi rjXu, p. 92). Con queste cognizioni si spiega molto facilmente 1’ origine etimologica di Venezia. Per fuggire alle persecuzioni degli invasori gli Eneti di Aquileia, di Aitino e di Padova si rifugiarono nelle isole della laguna. Quelle isole, che probabilmente erano già abitate ab antico dai volghi Eneti, divennero famose sotto il nome di Enetiae, isole degli Eneti. Il dialetto aveva la tendenza a pronunziare con una certa velatura la vocale in principio di parola e così di Enetiae si fece Venetiae, come di Elleia Velleia. Quando le isole della laguna divennero unità organica, il Venetiae si affermò in Venezia. L’ aedes latino non è che un tardo germoglio dell antico dialetto mediterraneo. 1 romani fecero acdes dell edo, — 124 — che volgarmente anch’ essi pronunciavano. L’ ae vi rappresenta la vocale lunga tj , 1’ £ finale è terminazione grammaticale, onde si vede l’identità fra la parola latina e la parola del dialetto. A questo punto mi sia lecito ribadire un mio aforisma, che nelle parole di loro natura primitive, non è il latino che diè luogo al dialetto, ma il dialetto che formò il latino. Bisogna ripetere questa verità perchè finora tutta la nostra storia ligure è viziata da questo erroneo concetto che basti risalire al latino per trovare 1’ origine d’ ogni cosa. Dobbiamo fissarci bene in mente che il ligure ha una antichità che confina colle origini della vita. È tempo di infrangere quelle colonne d’ Ercole, per cui troppo ligii alla grandezza latina, troppo dimentichi dell’antichità nostra, noi Liguri ci eravamo quasi abituati a credere che al di là dei Romani non vi fossero nè popoli, nè civiltà, nè lingua, nè vita. Ho parlato finora dell 'edo e del Veto e dell’ esi, e mi sono astenuto di proposito di ragionare àt\V iso. Iso-verde, ' Iso-secco, Iso-corte messi a confronto con altri iso latinizzati come Isola Buona, Isola del Cantone presentano ad un attento osservatore dei luoghi e della pronunzia certi caratteri che reclamano uno studio particolare. M’ invitarono a riflettere tre circostanze, la i.“ che quasi tutti gli iso e isola che conosciamo se non sono isole sono vicino ad un corso d’acqua e per lo più sopra l’angolo formato dalla confluenza di due acque; la 2." che in greco si chiama vf,ao; l’isola, e vtfioi è il verbo che significa filo, accumulo; la 3.’ che ritornando sulla fonetica dialettale ho riscontrato che i vecchi, puristi del dialetto, pronunziano un n sbiadito innanzi all’ iso. Questo — 125 — complesso di circostanze m’ induce a credere che 1’ iso debba riportarsi al niso, avvertendo però che il significato primitivo del W]0io, vipoq, vfjots non era quello moderno di terra circondata dal mare da tutte le parti, ma semplicemente di cumulo, acervo, sostanza agglomerata, come tuXy], che pur si adoperava per significar isola, voleva dire prominenza, gobba sul mare. Esaminate la conformazione di Isocorte, Isoverde, Isosecco in Polcevera, Isola del Cantone in vai di Scrivia e troverete una sporgenza, un rialzo, una specie di isolotto formato dalla confluenza di due acque. Da questa configurazione speciale derivò quella circostanza rilevata dal Belgrano nel Registrum Curiae che gli Iso di Polcevera erano i luoghi dei molini; i signori di questi luoghi si chiamarono nel medio evo quei delle Isole. Adunque deve tenersi distinto dall’ e so, eto, edo ed est, abitazione, il niso o iso che significa una protuberanza sporgente sulle acque (i). (i) Quanto alle terminazioni latine in ense come Genueiise, e alle terminazioni greche in ide come Pelide, che il Desimoni chiamava a confronto come termini affini all’ iso e all 'aedes, nulla possono aver di comune con essi. Osservo che la struttura della lingua greca è completamente nota. L i di Pelide è una vocale di congiunzione fra il nome e il suffisso patronimico 8tj;; ILsXi5r)g si scompone in HeX-t-Sr)?. Popsa, per esempio, avendo la consonante in fine, non ha bisogno della vocale di congiunzione e fa Pop£&-Sv){. Manca dunque la sillaba tonica, radicale dell’ iso. L 'ensis latino altro non è che una trasformazione della finale che in greco si scrive eu?. Da Zenoa il dialetto faceva alla greca Zeno-eusi; analogamente il latino faceva da Genua, Genuensis. L’iso non ha nemmeno relazione coll’ oixoj greco che significa casa, come suppone il Desimoni; perchè la radice è totalmente diversa. Nemmeno credo che si possa ammettere una parentela fra oìxog e il latino vicus. Vicus si riannoda ad un’altra importantissima radice del dialetto mediterraneo che è il Vi, Viu, come abbiamo dimostrato al paragrafo precedente. Vi è una affinità, diceva il Desimoni, fra il greco idts come Pelides e le nostre — 126 — Noto che vrjaaa o vrjTxa è in greco l’anitra che véet, che fila, che nuota — e rutta si usa ancora da noi Liguri pei indicare 1 acqua mista a fango, la poltiglia ove per cosi dire siamo costretti a nuotare più che a camminare. Volli richiamare queste espressioni perchè è probabile e quasi certo che i molti paesi in nissa prendono il nome 0 dall abbondanza delle anitre o meglio dall’ aspetto fangoso, paludoso, che aveva in antico il terreno. Vediamo ora quali relazioni esistono fra 1’ iso ligure e 1 insula dei Romani. I Romani chiamavano insula l’isola in mezzo al mare e chiamavano insula una casa isolata da tutte le parti, una casa quae non jungitur parietibus cum vicinis (i), Quando i Romani vennero in Liguria e si trovarono di fronte a degli iso, vollero latinizzare la parola che lor sembrava barbara e rozza e tradussero insula. 11 nome nuovo restò nei paesi in cui fu più viva l’inespressioni Rudulfus de Gavio - Opicinus de Arquata ecc. E l’affinità vi è certamente perchè amendue queste espressioni hanno un valore patronimico, rappresentano cioè il casato. E vi è anche un’ affinità morfologica che il Desimoni avrebbe certamente afferrata se avesse più intimamente ricercata la struttura greca. L ides, come dicemmo, si decompone in i-de-s. Togliete Vi e l's che sono grammaticamente due accessori, fermatevi sul de che è 1’ essenziale e troverete, come giustamente insegna il Curtius nella sua grammatica greca, che il de è la preposizione che rappresenta la derivazione. 1 Greci artisticamente fusero insieme la preposizione col nome ; noi liguri la conservammo staccata. Noi dicevamo: il tale è de Zénoa, mentre il greco lo chiamava £evoei-de. Il latino, sen\a nulla creare, continuò a dire de Gènoa. Ognun vede a quali importanti conclusioni portano queste ricerche. Non solo abbiamo separato V ides greco dall’ aedes romano, che non vi ha nulla da vedere, ma abbiamo stabilito, contro 1’ opinione prevalente, che il de latino non è che la riproduzione del de ligure, che il de ligure è il de dei greci, il de di tutti i popoli mediterranei. Ed abbiamo anche raccolto tanto che basta per capire che Zenoate o Zenoa-de è forma tipica greca per dir Genovese, (i) Festo. — 127 — fluenza romana, ma non attechì nella maggior parte della Liguria. Parrà sottile, ma non è priva di interesse questa osservazione. Isola buona, Isola del Cantone tennero il nome romano, perchè trovandosi sulla via Postumia quel nome fu tanto ripetuto che divenne ufficiale e stabile. I paesi invece che rimasero più in disparte conservarono il loro nome primitivo: Iso-verde, Iso-secco. * 14. — Abbiamo parlato fin qui delle abitazioni in genere. Veniamo ora ad esaminare più da vicino le di-more dei nostri Liguri. Lasciamo da parte i covili dei tempi primitivi, i cavi, X erma e l’arma che in alcuni luoghi furono abitati anche nei tempi storici, e parliamo delle prime costruzioni dei popoli pastori. Cape, era lo staggio in mezzo alla pastura; in greco xà7aj. Corrisponde approssimativamente a ciò che nelle Alpi con termine antico si dice : marghiera. Io traduco Cape-nardo la marghiera del nardo. La gran famiglia dei re di Francia, i gran Cap-eto dovevano la loro primitiva nobiltà a un eto, a una casa fatta a cape; in altri termini una capanna. Cape, era propriamente il tetto dello staggio, del presepio; di qui vennero i nomi di capellu, capella, capclla de fonzo, i cognomi Capellin. Di qui Capana, Catana, Cavana, che è probabilmente un composto di cape-an, cape alto. Vedi 1 an a p. 115 (0- (1) Da Cavi, gavi, dove abitavano i primi popoli Liguri, deriva un vero esercito di nomi: i Cavi, Cavetti, il popolo Cavaturino, i Cavetti, i Ciabot, i Cavateti, i Caveri, i Cavour, i Cavouretti, i Cavatur. — 128 — Tcco, Tegi. Intorno alla capanna, alla casa avean generalmente un recinto di pietre accatastate maxee (|iàxéXoc) Il C, come vedemmo a p. 119, era in origine un G. Epperciò troviamo Ca-votti e Gavotti. De Cavi e De Gavi. Noterò qui una sottile distinzione del dialetto. Cavare è verbo neutro, e rappresenta il lavoro che si fa nella terra per sfondarla ; far cava dicono in Polcevera e in Bisagno. Gavare è verbo attivo, usato specialmente oltre giogo, ed è sinonimo di estrarre, levare. Per esempio: cavando il contadino gava i sassi. La parola è sempre usata con proprietà, distinguendo sempre il gavare dal levare. Gavano l’albero, gavano le erbe cattive, gavano la secchia dal pozzo, gavano il bambino renitente dal mezzo della strada ; levano 1’ uva, levano la neve dai tetti. Come si vede gavare si usa per tutti i casi in cui c’ è bisogno di vincere una certa resistenza. Il Gavotto fu a sua volta gran capostipite di nomi liguri e provenzali. Ga-rotti erano gli antichi montanari delle Alpi Marittime, e secondo il Giustiniani si chiamavano cosi per la loro foggia grossolana nel vestire, portando delle fasciature di pelli di capra alle gambe, ossia calzari denominati appunto gavotti. Più naturalmente ancora si può ritenere che il nome sia loro venuto dall’ abitar essi in « Cavot » o « ciabot », come dice ancora il dialetto piemontese. Certo è che nel dialetto rimase un significato bernesco a questa parola gavotti, che ricordava quei montanari grossolanamente coperti di pelli di capra, che comparivano nei borghi popolosi a dar spettacolo di salti e di giuochi coll’ orso e colla marmotta. Di qui certamente ebbe origine il « far gavano e gavaTjart » cioè fare strepito, i cognomi Gavano (per abbreviazione Ga\\o) Gavanan (per abbreviazione Gasali) e 1 espressione genovese « sgava^o » la quale affibbiata alle persone, e special-mente alle donne, significa : tipo grossolano e senza garbo. In senso più gentile si dice gareggiare per corteggiare o piuttosto fare il chiasso, saltare e ballare con una persona preferita. La maschera rappresentante il pastore colla musa, che saltava e suonava e faceva rumore nei nostri carnovali d’altri tempi, era riproduzione fedele di questi gavotti e dei loro gavazzi. Ai tempi di Luigi XV vennero in mo:la i balli pastorali , e allora fu introdotta a Corte la « gavotta », il ballo caratteristico dei montanari delle Alpi Marittime. Il nome mantenne sempre il suo primitivo significato; ed a Nizza ed a Marsiglia, ancora oggidì, di una montanara si dice « la bella gavotta ». Affine al gavi, gavare è il garbo, sgarbare, ma la radice è diversa. Il garbo è un incavo, paipog, fatto nella terra, -fa; quindi y«-p-pos- Di qui i nomi di famiglie: Garbarin, Garbili, Garbolin, e di paese : Garbuglia e Garbaglieli. Questi aggruppamenti di nomi ci fan conoscere figliazioni e parentele che tante volte sfuggono al più attento osservatore. Per esempio all’illustre De Simoni parve indecifrabile 1’ origine del nome di « Gavi », sua patria, e torturò il suo acutissimo ingegno per trovare una relazione fra Gavi e il tedesco Gau, mentre — 129 — che i greci chiamavano xhyps, e i liguri teco, tecio e tegi. Nell’ Appenino si riscontrano ancora in oggi questi nomi. Nel recinto chiudevano alla sera il loro gregge ed alla mattina le pecorelle uscian dal chiuso ad una ad una, come si legge nella bella immagine di Dante. Così si usa ancora oggigiorno nei gias delle nostre Alpi, così si usava 30 e 40 secoli fa in Mesopotamia, in Grecia e in tutti i paesi intorno al mediterraneo. Lo vedremo fra poco. Stdgiu, è pure termine antico ed opinerei che sia da attribuirsi a stagiu, 1’ origine del cognome Stagen. Una buona ragione la trovo in Cicerone, il quale volendo l’identità di Cavi con Gavi si fa manifesta quando si ha dinanzi tutta quella serie di nomi che ho testé citato. Ritorneremo su questo argomento quando parleremo dei Cavaturini ricordati nella tavola di bronzo. 1 Cavaturini erano indubbiamente quei di Cavi, ossia quei della vallata del Leme. Quando nel medio evo, un feudatario si piantò nella valle, si chiamò Marchese di Cavi o Gavi. Il marchesato die luogo a un borgo e poi ad una città. Ecco 1’ origine etimologica e storica di Gavi. Voglio segnalare ancora 1’ evoluzione di tre nomi che rappresentano per così dire le tre epoche della vita pastorale dei Liguri : la Cava, caverna la Cav-an-a o cab-an-a — la Cà, casa. 1 primi Liguri, e specialmente quelli delle Alpi Marittime, abitavano in « rupibus concavif et speluncis a natura factis » (Diodoro Siculo, lib. IV, c. 29). Un primo passo verso il vivere civile fu la cavanea, un cavo artificiale, che rappresenta la seconda epoca. La cavanea o cabanna fu poi sostituita dalla « cà » 0 cas-a, abbreviazione di cast. Le prime ca, cioè i primi cdifizii in pietra altro non erano che imitazioni degli antichi cast-eli. Cava, Cavanea e Cà formano tre nuove stirpi etimologiche che si riprodussero all’ infinito come le stirpi di Giacobbe. Abbiamo già visto i discendenti di Cavi — Cavanea generò Cavagna, Cavatina, Cavagnari, Cavena, Caverià e tanti altri — quanto al cà accenno alle figliazioni meno apparenti : Casale, Casotti, Casella, Ca-bella. Della-cà, Ca-Alian 01 a Gallian, Ca-Ogero ora Gaggero, Ca-Andolfo ora Gandolfo. Noto qui la solita trasforma-zione del C in G, dovuta in gran parte ai nuovi suoni portati dai Longobardi e dai Franchi, i quali dicevano gast invece di cast la casa ed il castello. Quest origine germanica prevale in gast-aldus, uomo che sta alla custodia della casa. Ma la dolcezza primitiva del favellare italico la vinse sui barbari e i Gastaldi insensibilmente si trasformarono in CaslaUi e Cataldi. Atti Soc. Lig. di Storu Patria. Voi. XXX. 10 — i30 — pungere il ligure Eho Staieno non rifiniva mai di chiamarlo Staieno e Staieno. Lo Spotorno (Storia letteraria) è d'avviso che Elio fosse nativo di Staglieno, ma per capire il frizzo di Cicerone bisogna supporre che Staglieno suonasse come parola vile, onde lo stagiu, luogo ove stanno le bestie, si accorda molto bene con questo pettegolezzo di grandi uomini. Alp, A Ipe è parola che si usa ancora oggidì in montagna per indicare un’ abitazione di pastori, un luogo di comune rifugio, dove il pastore come il viandante si rifocilla. Si può dire il tipo primitivo del ricovero alpino. In greco antico <2X con siepe (??av)- Pisa gli orti in quanto sono verdi da raaov pisello. Di qui veniamo a comprendere l’antichissimo nome di Pisa; di qui pure veniamo a conoscere che il Pisagno , che - I4I - scorre oggi in mezzo a Genova, si acquistò questo nome per la importanza dei suoi orti ; comprendiamo meglio il nome di Besagnin-e dato a tutte le donne che vendono verdura. Quanto allo scambio del P in B abbiamo due cognomi, Pisagno e Bisagno che ci attestano l’evoluzione subita dalla prima sillaba. Quale evoluzione del resto ha la sua ragione storica nel fatto che i Romani, non comprendendo il Pisagno avean tradotto Bisamnis. Pisagno è nome ligure puro, Bisagno è neo-latino. Prd, Próu, Praclu eran detti i prati dal loro aspetto verdeggiante. dicevano i Greci per esprimere il ver- deggiare. Parmi d’ intravedere in quel Tipaaf la spiegazione tanto discussa, del nome di Brasi, paese di vai Polcevera. Osservo che Pra e Bra si alternano nel dialetto ligure. Noto pure che Brasi è uno degli altipiani più verdeggianti della Polcevera, come è luogo verdeggiante la regione detta Brasi e Brasile (si noti anche qui lo scambio di P in B) nell’America del Sud. Anche nell’ India abbiamo una regione denominata Prasia, e di nomi in Prasia abbondano le colline alle spalla di Porto Maurizio. Riteniamo adunque che Pra e Bra sono voci primitive che rappresentano il verdeggiar della terra e più specialmente dei prati, i quali finirono col prenderne il nome. Il vocabolo pra mi invita a soffermarmi alquanto sul-1’ origine di Pravexin che è il nome di una illustre famiglia Genovese. Trovo sopra Cantalupo un antichissimo villaggio denominato Pra, Prato. Vicino a Pra è un altro villaggio che si chiama Pra-vexin ; l’identica pronunzia che si riscontra nel Pravexin (Pallavicino) di Genova. Io non dico che i nostri Pallavicino traggano da quel paese — 142 — l’origine; noto soltanto che questa combinazione di Pra e Pra-vexin si ripete nell’Appellino ; quindi, senza nulla togliere alle genealogie del Litta, io ritengo che l’origine della gran famiglia italica si debba attribuire a questa formola antichissima del gergo montanino, e che sieno tutte alterazioni più o meno adulatorie, più o meno satiriche quelle che trasformarono i Pra-vexin in Pallavicino, Pelavicini, Paravicini. Da Pra vien pra-ga cioè terra ( yà ) verdeggiante. Un nome che diè luogo a molte discussioni (vedi Bottazzi « Ruderi di Libarna ») è Prae-(i-pian in vai di Scrivia, ove era anticamente una grande abbazia fondata da Liutprando. Prae-qi-pian altro non è che un prue, prati (i pian, sui piani. Bisogna conoscere bene il dialetto locale per capire la naturalezza di quel (i pian che in Genova sarebbe sci cen. E bisogna vedere i magnifici prati irrigui della tenuta Demicheli a Prae-gi-pian, per apprezzare 1’ esatta corrispondenza del nome colla realtà. Limon Xec|ì(Óv è il prato irriguo. Cortin significava pure il pascolo, il prato. Lo dice il greco xpptivo;, ^opuvou, che significa precisamente il luogo erboso. Vi sono molti luoghi denominati córta e curta. Xópxo? in greco è il recinto dove si raccoglie il fieno, la curta altro non è che 1’ odierno, corte, corti, cortile. E qui lo studio del dialetto assorge al nobile ufficio di rimettere la storia sulla buona via , ciò che avverrà ben sovente. Molti, trovando nelle carte del medio evo una Curtem • i f * * la scambiarono senz’ altro per una Corte regia d origine longobardica. Invece si tratta per lo più di semplici corti di fieno, di vacche e di buoi. Intorno al iooo, quando tro- - 143 - viamo tante donazioni di curtes la parola era sinonima di masseria. Anche in oggi in Val di Scrivia si dice la corte del tale o del tal altro per indicare il recinto ove si tiene il fieno, la paglia, il bestiame, in una parola ove sono le s-corte, ove si personifica la masseria. Io penso che le Domo-Culte, tante volte ricordate nelle carte di Genova, altro non fossero che una casa con annessa curta. Quante volte non troviamo negli atti dei secoli scorsi questa frase: « Vendita di una masseria con casa e corte! ». I notai del medio evo credettero di comporre una espressione elegante scrivendo domo-culta, come altri si compiacque di fare un via-lata di Vtu-và e via A rchimede di via degli Érchi. ir I i j. — Si noti ora questa meravigliosa corrispondenza del ligure col greco nei nomi delle piante. Mei, i meli. L’antichità di queste voci è data dalle parole greche [lei'Xeix che significa cose dolci, cose che si danno ai bambini per rabbonirli (da jisXi, miele) e [ir^ov plurale nrjXa che significa frutti, pomi, latino mala. Gli alberi di mele si chiamavano i mei; di qui i tanti nomi di paesi Ai-mei (nelle carte Aimelio) e i cognomi di Ameglio, Ameglia, Ameri, nati dalle fantastiche traduzioni di A-meo, Ai-mei. Troveremo nella tavola 1 ' aebrjc de met. Pei, — rapa, Pero. Di qui i paesi in Pei. Oia, Oie, Oliva, Olive. È un altro di quei nomi che hanno un’importanza capitale nella storia ligure primitiva. Gli eruditi , fra cui 1’ ab. Oderico e lo Spotorno hanno già dimostrato come sia erronea l’opinione che i primi — 144 ~ olivi sieno stati portati in Italia ai tempi delle crociate. Forse in quell’ epoca si introdussero specie nuove e con esse si ripopolarono le nostre valli rese incolte e deserte per 1 imperversare dei barbari e di tante altre calamità. Ma 1 olivo , 1’ albero sacro , emblema di pace , esisteva negli antichissimi tempi e ne fa buona testimonianza il nome nei suoi diversi suoni di óia e oia, corrispondenti alle voci greche ohx, db]. Il latino Oliva è traduzione del volgare oia ; ciò dimostra all’evidenza la nostra tesi essere il latino lingua derivata, essere il ligure lingua primitiva. L ' oia ci spiega un’infinità di nomi liguri; io mi limito ad accennare Val-oia, e Port-oia, porta dell’ o-livo in Genova. La mia interpretazione collima con due fatti positivi incontestabili. Ai tempi di Colombo la porta verso Portoria si chiamava dell’ Olivella; ed ancora in la stradicciuola che da piazza Raibetta mette in Canneto cioè nella vai dell’olivo si chiama Vico dell’Oliva Val-ois in Francia non è che un Val-oiia. Caru, era il noce ; carue le noci ; così in greco xawa era l’albero, xx?iov il frutto. Che la voce appartenesse effettivamente all’ antico dialetto lo deduco dal confronto di molti nomi che riferisco nella nota a p. 165. Ricorderò per ora il genovese ciatue. L’idea della noce diede l’idea della carena (xapimj) e del carugiu. Amandua - a[iuyòaXsa l’albero, apySccXr] il frutto. Sexia, x7jXy]at?, ciliegio. Di qui i cognomi £exia, Celesia. Fègu, era il nome primitivo del faggio, oggi ab- breviato in fò; e lo dimostro. Abbiamo un’ infinità di fegin, parola che corrisponde al greco cpy)yivos, che significa luogo piantato a faggi. In vai di Scrivia i luoghi dei faggi si dicono feighéi, e con - T45 — termine più moderno faghéi. Abbiamo un monte che si chiama figogna, che evidentemente corrisponde al greco cprjywv, cpY)yovoi;, che significa monte circondato di faggi. Dunque fegu è il nome primitivo del faggio. È arbitraria l’opinione che il nostro Fegino sia corruzione di Ad figulinas, nome che si trova nella tavola Peutingeriana. Abbiamo non meno di cinquanta fegin in Liguria, e la maggior parte sui monti, e sarebbe ridicolo supporre che esistessero dappertutto delle fabbriche di vasi (figulini). Si spiegherà logicamente X Ad Figulinas quando si comincerà a riflettere che il dialetto antico non si contentava di dire fegin al luogo dei faggi, che è il nome generico, ma distingueva : il monte tutto circondato di fègi si chiama figogna (cpyjycóv, ovos), i boschi cedui di faggi si chiamavano e figaè-e, e figuiè, come i boschi cedui di roveri e ruvaè-e o ruvae-iè. Supponete delle figuiè al Boschetto, cioè nel luogo ove io segno la via Aurelia presso Figino, e voi comprendete come i romani potessero trovar comodo l’ad figulinas per rappresentare quel nome in figu, al femminile, al plurale, di cui afferravano il suono ma non il significato. Da questa gran radice del fego o figo, derivano non solo il Figino, il Figogna (Monte di N. S. della Guardia), ma i cognomi Figari, Figuli, Figallo e tanti altri consimili. Figo. Si dirà che io confondo faggio e fico. A questa osservazione rispondo : figo nel senso di fico prende origine dal come narrano i poeti. Un’antichissima tradizione favoleggiava che gli uomini dalle ghiande eran nati. E la parola dialettale gi-andra parrebbe conforme alla favola perche nella sua radice suonerebbe yi-avSpos, genera -uomini. Ma non bisogna dimenticar che la parola aveva un significato generico, e che probabilmente le castagne eran comprese nelle ghiande. Non sono molto lontani i tempi in cui in molti paesi dei nostri monti si viveva a castagne per quattro quinti dell’ anno. Ma lasciamo a parte la ghianda; certo è che i Liguri furono sempre molto parchi e perciò molto vegetariani. Le fave avevano forse il primo posto fra i legumi; tanto che Fava era sinonimo di cibo. La radice è quella del greco cpxyerv; forse in antico si diceva faga, e per raddolcimento faba. Me ne convince il fatto che il dialetto conserva il g in fogassa, che il latino scrive fabacia. Da fava i cognomi Fava, Favaro, Favaie. I lenti, specie di vicia che serviva comunemente di cibo come i mochi e le lenticchie ; radice Xeji. Molte regioni presero nome dalla coltivazione dei temi ; troveremo nella tavola di bronzo il Lemo e i Lemuin. Col nome di Lemi si trova pure una località sopra Grondona. Da lento, lum-co, luogo di lemi ; di qui Lumello, Lumellina e LutndLini. I mochi, altra specie di vicia. Abbiamo in Liguria un paese detto Mocon-esi. Un vico Moco-n-esi pure esisteva in Genova prima del 1898 di fronte alla caserma di S. Ambrogio. La finale della parola ci dice che là eran le case dei Mochi. La tavola di bronzo ci ricorda che un Moco fu il rappresentante dei Genuati nella famosa questione con quei di Langasco. È dunque verosimile il - i5i — supporre che in quelli antichissimi esi ora distrutti, fosse la culla del più antico cittadino di Genova di cui la storia ci conservi il nome. Rave, pàcpug. — Agio, àyXfg. Fra le erbe noto: Erba dragon-a, in greco Spaxóvteios, fatto a biscia. I carvi, un’ erba speciale dei prati. Ortica, che fa gonfiare. OpOtxo? da opGóco. Fra i cibi ricorderò ancora il Mè, Amè, cioè il miele, greco [as&c. Ricordo il paese ligure Me italianizzato in Mele. Meli, fragole, da mè, perchè dolci come il miele. * 19. — Quanto ai fiori ricchissimo era il repertorio di quei popoli tanto amanti della natura. Fio pare fosse il nome generico che significava nato, sbocciato da «puto. Di qui il latino fios, 1’ italico fio-re. Così Fio-enza (fiume dei fiori) divenne Fiorenza, come Fi-eso-e {esi nei fio) divenne Fesulae e Fiesole. Anzo e Zalea erano altri due nomi primitivi che davano ai fiori ; <2v0os e 0aXefa in greco. Vedemmo già che Antola, ccvBuXos era il monte fiorito. Così Car-anza significa : capo, cima fiorita. La radice è primitiva e risuona in tutto il mondo antico negli Anzio, Anzo, come risuona nel mondo moderno in D'anzica nelle città Anse-atiche (greco av0r]xo$, avGe-à-Ttxog). Il fiume Durane e in Francia altro non è che una Doria-anza, fiume fiorito. Il 0aXe«c vive ancora nella specie delle A-zalée e nelle Dalie (z e d sono il suono del 0). E così non hanno più bi- — 152 — sogno di spiegazione i cognomi di Tale-vi, Tali-ce, Sali-ce, Sale, Salò, Salasco, Saluzzo, Villa Talla. Poiché ho accennato ai paesi e città che anticamente portavano il nome di Anzo, non posso a meno di ricordare che la riviera ligure, che fu sempre il paese dei fiori, aveva anticamente il suo Anzo, una cittadina che secondo lo Spo-torno dovrebbe collocarsi sulle spiaggie di Sestri Levante. Molto si discusse sul nome d’Italia; io non la pretendo a etimologista, ma faccio notare come il dialetto mediterraneo ci offre un H-9xXaa, che significa la fiorita, 1 o la bella, la fulgida. L’ anima di un popolo artista, che vedeva fiori intorno alle sue case (.Fi-eso-c), fiori intorno ai suoi fiumi (Fio-enza), chiamò probabilmente lI-0àXeia tutto 1 insieme del bel paese, mentre i forestieri lo chiamavano vagamente Enotria, Tirrenia, Ausonia. Garofu, garofano, y.apóocpuXXov (foglia di noce). Givamo, da y^petov, lanuggine, pelo bianchiccio che hanno le foglie in certe specie di fiori. Crisantemo, in greco xpt'&r), grano - àvtìéjjuov, fiore. Va-n-ilia da va-n-y^y., va al sole. Salvia da 0xX, pianta, (3£ou, della vita. Isopo, rpoizot.bc. — Tumòuy 0'j(xo^. Menta, che dura (l’odore) da [livio, jiévio;. - Nardo, vàpSos- Rósa, la rosa, pòSéa, póÒYj, póSov. Ecco l’origine di Rodi, del cognome Rodino (pootvo;, rosaceo, color di rosa). Sambuco, oaficpù^ov. Amaranto, ajju&pavxos. Clemati, xXrj|j,«. Altea, àX0oaa (che sana). - Arnica, àpvlxo? (che scaccia). * 20. — Passiamo ora in rivista gli animali. Zoa era il bestiame, gli animali in genere; in greco - i53 — C<óa, singolare £wov, da Cwów, alimento, ingrasso, Kfafh vitto. Ecco spiegato il nome di Zoa-gi, terra di bestiami. Oi, le ovine, in greco h'iq, h'Coq. Come si capisce bene il Mont-oio che per via di traduzioni divenne Montobium e Montàggio in Liguria, Montorio a Roma! Così pure si fa manifesto il senso dei popoli Mentovini descritti nella tavola di bronzo. Il ment, che equivale al maint francese, al mainy inglese, trova il suo corrispondente primitivo nel greco jxryv che significa molto, affatto. Mentovini adunque significa: affatto pecorai. Aren e ren, arne, le pecore, come àprjv, e <2pevg in greco. Queste voci appariranno ad un orecchio ben esercitato nell’ esame di molte parole liguri. Il segreto sta nell'accento che nel ren è sensibilissimo come in A-rén-gén (ai piani di pecore). In Francia Rènne, in Germania A-rén-berg. Agnè, agnello; in greco àjxvó?, àfAvV). Pécua, pégua si chiamavano poi le pecore in considerazione della lana (rax), che divenne ben presto 1’ oggetto più importante di speculazione. Chi aveva molte pecore era un uomo ricco perchè disponeva di molta lana ; di qui pecus e pecunia. Iléxo; in greco è propriamente la pelliccia lanosa della pecora. Ilexxéo) era l’azione di tondere la pecora; toxtò? significava: raso, pettinato. Ecco la spiegazione del pettiìlare italiano, del nome petuin-a dato per analogia ai terreni ben coltivati, ben pettinati, di Pecoz in Savoia. Ecco spiegato il famoso Polupice, che nella Peutingeriana si trova segnato come una stazione della strada fra Genova e Vado, e che il mio amico Paolo Accame segna vicino alla Pietra. IIoXu-tox-c: e per contrazione IMó-m^ significa: molta lana, molte pelli di — 154 — pecora. Escluderei il concetto di fabbriche ove si lavo rava la lana, perchè parmi un concetto industriale un po troppo moderno. È più verosimile, più conforme all’epoca primitiva, pastorale, l’immaginare nel Polupice un luogo di convegno, un piccolo emporio, ove i pastori convenivano a vendere le loro pelli. Mela, Mala, in greco pjXa, MaXa, onde il latino mala, aveva un significato assai generico, e si usava per dire: capretti, pomi , vergini mammelle. Rappresentava insomma 1’ idea della freschezza della giovinezza, e si applicava ai prodotti del bestiame come ai frutti dell’albero. Si sente tutta l’ingenuità, la fragranza di un termine primitivo. Salomone nel cantico dei cantici così si esprime : Ubera tua sicut hinnuli capreae gemelli, qui pascuntur m lilus. Si vede da questi preziosi confronti come il concetto fosse innato nel pensiero di tutti i popoli primitivi. Il cognome Mela vuol dire quelli dei capretti o dei pomi. Mala-spina (jxxXa-acprjv) è espressione ligure antica che significa i frutti del bianco spino. Da spino viene Spinoa e il cognome Spinola. Beco , il becco, il caprone ; Boi-xo? dalla radice Ba£-vu> (coeo, ineo). Di qui monte Beco. Crava, per metatesi di capra. In greco xanpaiva è realmente la femmina del v.m?05, cinghiale, porco selvatico. Di qui i molti nomi di Crav-asco, Cravì ecc. Eru vera, il porco selvatico, errante; greco Così si spiega Man-éru epiteto sprezzativo usato dal volgo, che significa: affatto maiale. Porséo, poi latinizzato in porsellu, il porco domestico uopBéto?. Sussu, il porco in quanto succhia, greco cms, latino sus. — r 5 5 — Gurru, si dice il porco in vai di Scrivia e gullu si diceva anticamente in tutta la Liguria in quanto fa yu?- Crin, si diceva e si dice il porco in Piemonte, in corrispondenza al greco jdpmq (xo'tp°S porco, yobpwoq porcino). Da questa ricchezza di nomi cominciamo a comprendere 1’ importanza che aveva il porco nella vita primitiva. Cinque nomi aveva il porco in Liguria, e gli stessi nomi identici si riproducono nella lingua greca. Chi potrà negare di fronte a questi fatti la comunanza d’ origine della lingua greca col dialetto ligure ? Chi potrà non ammettere l’esistenza di un antico dialetto mediterraneo? Quando si formò la lingua latina questi nomi erano da migliaia d’ anni sulla bocca dei popoli italici ; perchè 1’ immondo animale è antichissimo e compare sempre nella storia accanto a quei primissimi volghi, che Orazio chiama turpe pecus. Il latino prese dal vernacolo il veru e fece il ver, prese il porse e fece il porcellus, e così del sussu fece il sics; lasciò perdere il gullu, gurru, grullu e il crin. Ma il volgare italico conservò le sue voci primitive, il genovese tenne fino al giorno d’oggi il porse, il tortonese tenne il gurru, il piemontese il crin, il toscano il grullo. In Liguria è voce di scherno il ripetere ad uno gullu, gullit. Quei di Sestri solevano ancora trent’ anni or sono provocare quei di S. Giambattista gridando « tigulli » che vuol dire « ’n ti gulli » cioè « in ti porchi ». Eccovi spiegato il senso di Tigulli e golfo Tigulino, antico nome del popolo di Rapallo. Eccovi spiegato l’antichissimo nome di Porséi-vi-a, cioè moltitudine di porci (vedi p. 192). Si ebbe un bello scrivere Procobera, Porcifera, Polcevera, ma la parola originale fu conservata — i56 — nella sua integrità dalla voce viva del popolo. Soltanto 1 r si oscuro alquanto, ma ancor in oggi voi sentite che il suono dialettale non è nè Ponseivia nè Posèivia, ma e un suono che si spiega coll’ r scolorito dai secoli. Chi capiva prima i Ma-n-eri, i Funi-eri di Polcevera ? Ora invece che conosciamo il senso di eri facilmente comprendiamo che Ma-n-eri è ma, nei porci affatto, come Ma-ni-gen significa affatto nei piatii — Fum-en significa mucchio (cpuji.) d'eri — e così il Veri-glasca della tavola significa torrente dei veri. Così Beri-giema, nome della tavola, così Ber-sesi, Bergeggi, Ber-qeo, Ber-sezio o Berceto (p. 268 in nota), così Ber-zan, Ber-10 e I-ber-u son tutti nomi che si riferiscono ai veri o beri. Così Ber-n-in-son (nella posizione dei veri) Ber-en-ga(rio) (Berengario, Brengola), Ber-in-geo, Berlingeri {verinella gea), così Verr-eto, Verru-a. Lù-u , Xuxos. Ci ricorda Lucca. Leon , Xéo)v. Bò, beu, il bue, nome primitivo, che spiega un mondo di cose. Il greco aveva l’identica parola jfoOs, §oós, pool, che significa la specie bovina in genere, bue, vacca, toro. I luoghi dove le bovine si portavano al pascolo si chiamavano poay.05 da póaxw, pasco ; si chiamavano anche póata da jjóaic, cibo. — Ecco spiegato il Bosco e il Bosio. Comprendiamo anche i Galli Boi che abitavan la pianura del Po. Vedremo presto i diversi nomi che per derivazione si davano alle persone che avevan la cura delle bovine. Un bue grosso si diceva Bo-5taaòv in greco, cioè bue doppio. Di qui la frase ligure Bodissun, uomo grasso, inetto. Analogamente da eru si fece man-eru, magneru, che significa proprio un porco. - IS7 — Viicci, non è che il femminile di un aggettivo formato da Bous, cioè Bw-xo?, rj, bovina. Tòu, 0ópo?, il toro, di qui pou-0ópo?, bue toro (buzuru), Monte-soro, monte fatto a toro. Orni, eran gli uccelli ; greco ópvt? 5pvt0o?. La parola primitiva resta in Storni e in una categoria di nomi propri che il Randaccio erroneamente attribuisce al Germanico : Pizz-orno, Cog-orno, Gatt-orno, Spot-orno, Lici-orno. Se ci fosse possibile di fare un vocabolario completo di tutte le voci liguri antiche si vedrebbe che non son molte le voci che restano da attribuirsi alle lingue straniere. Coloro che studiarono il nostro dialetto seguirono per la maggior parte questo sistema di dichiarare celtiche, longobardiche tutte quelle parole che non sapevano come altrimenti spiegare ; una semplice omonimia bastava per mettere nella classe dei forestieri i vocaboli che in realtà erano i più antichi fra i liguri. Il Giustiniani ebbe il vezzo di riportar tutto all’ arabo, che egli prediligeva nei suoi studii, così il P. Bardetti riportava tutto al celtico, che nessuno ha mai saputo dire cosa fosse, e di etimologie celtiche , invenzioni fantastiche e nuli’ altro , son pieni gli scritti del secolo scorso e della prima metà del secolo nostro. Il Randaccio non seppe resistere a questa tendenza; di celtico e di germanico troppo si compiacque a mio avviso nelle sue derivazioni etimologiche , forse attratto dall’ autorità che esercita ancora il Littré col suo vocabolario etimologico della lingua francese. Venendo ai nomi in orno da me sopra citati, osservo che Pizz-orno è pizzo dell’orno, frase comunissima che si traduce in Pizzo dell’ oxellu. Cog-ornu è cuccu-ornu (xóxxuQ Gatt-orno è canto, allegria di uccelli, dalla radice greca yatìl-w, che - i;8 - corrisponde per suono e per significato all’ antica parola ligure gazéa. Spo-t-orno è nidiata d’uccelli, Spo-d’-omu; spo e radice di arcópco - <7rcopà, procreare, prole. Lici-orno , uccello licio. Aggiungerò che tutte le sponde ove approdarono i Mediterranei ripetono il nome di orn; alterato poi in Horn. Nei nomi degli uccelli continua sempre più maravigliosa la corrispondenza del ligure antico col greco. Pernixe, è la pernice, TcépSpicp. Vedete la corrispondenza nelle minime sfumature; ixe nel ligure, (!* nel greco. Sterne, si chiamavano e si chiamano le pernici da certe particolarità dello sterno. Il greco con fedeltà riproduce il vocabolo mediterraneo antico e scrive axepvfxYjs. Faxèn, fagiani, cpaaiàvo'. Sarebbe lungo numerare tutti i nomi di uccelli del dialetto antico. Cróo, il corvo ; greco xópacp, xópaxo?. Di qui i numerosi monte Cróo, monte Corvo. Arpe, àpmr), il falco. Grifo, Ypu? TP0tP°S. — Cuccu , xóxxuE. — Cigno, xuxvoc. Fra gli animali domestici : Pollo, tùwXos. — Pollaia, Tcàleiz. Capón, xàraov. A-nissa, 1’ anitra, in greco vipoo. e vrjxxa. Pulla, il più intimo degli animali domestici, la pulce. Pulla dice ancora oggidì il Piemontese ; ed ecco il greco col suo s si diceva in greco per dir sposo recente, e il ligure italico conserva il vocabolo none mentre il latino lo alterò in nuptiae. v75000, è 1’ anitra che nuota, e noi già vedemmo che nissa era vocabolo ligure, vsóg, vaóg, vaOj era la nave in quanto fila; il ligure fedele.alla voce primitiva dice nàe. néia dice il ligure quando vede i fiocchi di neve filare dal cielo. Come il volgare ligure dice neo il bambino ultimo arrivato (figlio del figlio), così il volgare italico usa neo per indicare un germoglio, un figliuolo della nostra pelle. Neo dice il latino per filo, nò per nuoto. E cosi a poco a poco si spiega il segreto d’ ogni parola italica ed appariscono le grandi linee della madre lingua antica, il dialetto mediterraneo. — i6o — Barca, pàpi-xo? naviculare, da popig, barca. La città di Bari altro non è che il greco. Griissu, dal gausu , greco ya.òaoq. Scafu, CTxàcpo;. Ancua, ayxupa. Ascia, Remu, p Scarmu, axàXno$. Noezzo, vauXów. Ormezzò, òp^w da Spfiog, legaccio. Brumezzu, Ppófioc. Piloto, TOjXatrrj? da tiuXy) stretto, bocca del fiume, che in antico era quanto dire bocca del porto. Cao, xàXog, fune nautica. Gàio, provenienza da xàXov legno secco ; far calo vuol dire fare come il legno secco. Scoglio, oxoXtós. Garabottin, xàpafta?. Carena, xap6tvos,7), fatta a modo di noce. Galea, deve pur essere termine antico, poiché troviamo fra i Greci la stessa voce xaXià, tugurio, casa di legno, carcere. Comprendo che quando le barche si fecero grandi ed ebbero internamente 1’ apparenza di una casa di legno finirono per chiamarsi calée con un nome che già esisteva. Gli schiavi rinchiusi nelle calee si chiamarono calioti. Vi presento ora gli antichi sovrani del mare : Balen-a , BaXeiva. Ceta , xfjxos. La voce è scomparsa dal dialetto, ma le carte antiche ci ricordano che si chiamava Ceta il monte fatto a forma di gran cetaceo, che è fra Borgo Fornari e Isola buona. La Pieve si chiamava plebs de Ceta. — 161 — 11 mare era per i Liguri il ma, tutto, &kq per i Greci; sal-e è metatesi di &\ di tutta Italia, e trova costantemente riscontro non solo nel greco ma in tutti gli antichi nomi della Svizzera, o o della Francia e della Spagna. I famosi Etruschi, per Atti Soc. Lio. di StoruJJPatri*. Voi. XXX. 12 — 162 — cui tanto si discusse, o avevano una lingua sostanzialmente uguale alla nostra, perchè avevano un’ origine mediterranea, o poco influirono sugli antichi nomi'del t—> -i* paese a cui si imposero. Infatti mettendo a riscontro gli antichi nomi del paese degli Etruschi trovo che rispondono sempre alle stesse radici dell’ antichissimo dialetto italico. A rno e A rdenza, Pisa, Luca, Fi-eso-le, Fio-enza (Fior-enza), Livorno, Arezzo son tutti nomi che appartengono all antico nostro dialetto come dimostrai a pag. 67, 69, 140, 156, 151, 67, 122. Così Pistoia (cpu-;ióx) Fucecchio (cpuxec-xo;, algoso, paludoso) e tanti altri. Vi sono vocaboli abissini che corrispondono al dialetto ligure. Per esempio: Ma-cale corrisponde al Mon-calè — Ma-saoa corrispondente a Saon-2i — mangascià corrisponde a man, affatto, ga (ya) terra, aydv frenatore, cioè governatore assoluto della regione — Adoa corrisponde alla frase mediterranea A-odo-a cioè a-odo sulla strada, come Padoa, vuol dire Pa{jia) tutto, odo, strade, come Par-odu, vuol dire sulla strada, come Ode vuol dire quei dell odo, della strada, come Peaodo o Peado, vuol dire per la strada. Si potrebbe prolungare con frutto questo riscontro fra l’abissino e l’italico. Il tema è interessante e si presenta cogli stessi caratteri che aveva il tema del-1 Humbold sull’ affinità del Ligure col Basco. Chi sa che 1 antropologia e la linguistica non abbiano un giorno a darsi la mano e a proclamare 1’ esistenza di un gruppo euro - africano ! (1). Ma come dissi non bisogna essere corrivi a concludere, perchè col progredire degli studi (1) Il Sergi {Arii e Italici. Torino, 1898) attribuisce la stirpe mediterranea ad una razza euro-africana che avrebbe popolato il Mediterraneo non solo, ma si sarebbe diffusa nelle regioni atlantiche, nel Sahara, nel Nubian, nell’ Abissinia, nel — 163 — le affinità linguistiche appariscono sempre maggiori in tutte le lingue; e con elementi isolati, non ben definiti, non si può pretendere di stabilire le parentele dei popoli nella grande famiglia umana. Buzùgu, Bou^irp^. Bou£uytoSj era 1’ uomo che teneva in mano 1’ aratro. Di qui 1’ epiteto sprezzativo bezùgu. Buzuru, è termine rimasto a Roma in senso sprezzativo e significa originariamente toro, animale non addomesticato Bou-6ópoc. Buzu , Buzzin, che dà da mangiare ai buoi, greco BouBoivr]?; di qui i cognomi Bozzo, Bozzino. Alizeri, erano i marinai, greco aXi^prjc da aXg, mare. Bursotti e Bursin, i pellai, in greco Bu?aóxo[ioi e Bo?alvot da Bopaa, pelle. Scuéu, chi lavorava in cuoio, axóxo;, eco? • scueia o oxirreia luoghi dove si lavoravano i cuoi ; argomento dalla parola greca e dalla corrispondenza col nome di scueia, antichissima località di Genova. Il cuoio tagliato in pezzi si diceva tornea, greco tonalo?. Bado, Baden, Baste o Batiste, Bava, Bavai, i pedoni, la gente solita a battere la strada. In greco Bà5o? è la strada, il cammino — Bx8r]v significa a piedi BxSh^w, vado Bx5£aT/]s, l’uomo che cammina, battistrada. Si intuisce la parentela con un’altra lingua che al Precursore di Cristo diè il nome di Batista. Ba-vai e Ba va è chi va per il ba (Vedi sopra va e ba). Ode, erano probabilmente aneli essi gente che trafficava sulla strada come già dicemmo ragionando sul-1’ odo. paese dei Galla e dei Somali. E cosi apparterebbero ad una identica famiglia Italiani ed Abissini. L’idea era stata adombrata dal Romagnosi. — 164 — Troveremo alle spalle di Genova a Ouè una tribù di Genoati chiamati Ode. Furono probabilmente una tribù di quei mulattieri di cui Plinio ricorda i muletti famosi che si chiamavano gigemi, in greco y^yévYjc;, yrjyevétos, che vuol dire indigeni. Ih! gigia, dicono ancora in oggi i mulattieri dell Appellino alla loro mula. Probabilmente è la stessa voce che attirò 1’ attenzione di Plinio e che gli fece scrivere gige-nii nel suo taccuino. Ari, dicono pure i nostri mulattieri, favellando col mulo ; a pòco si dice in greco per arare, arrancare, e da ciò argomento che ari deve essere ugualmente un termine antico. Sòj[ia dicevano i Greci per indicare il carico; dunque deve essere altrettanto antica la voce soma dei nostri mulattieri. Pa-sa-dò, chi pa, affatto, 6x, prospetta, odo, la strada. Meticón , è un termine ormai scomparso, ma che ci è dato in modo positivo dalla tavola di bronzo. Confrontando questa parola cui greco troviamo che \itxoUoi erano i manenti, i fittabili ; la parola è composta da ohi®, abito, Usta , con. Peisan , era 1’ uomo che lavorava sotto un patron. 11 greco con mirabile corrispondenza di vocaboli e di significati ci dà il Ttaip&v (da rcair]?) e il itsiBwv da rafOeiv, obbedire. Male traduce chi dice peisan Adi paese. Il contadino indipendente era il villan. Reboa, Reboin, Rebolin, Brea, oggi Rebora, Reborino, Rebolino e Brea, erano coloro che trafficavano nel mercato detto raiba o braia come vedremo più sotto. Gi-ardi-ne, il giardiniere, colui che irriga (apSéuw) la terra (ytj). Il genovese conserva in giardini il vocabolo nella sua purezza primitiva, mentre si sente l’influenza nordica in Gherardi, Ghirardelli, Ghirardini, Gherardelli, - iéj — Girardengo e Gerard tutti cognomi che rappresentano l’azione di irrigare Y^J-àpSeueiv. * 23. — Astu. Le tribù liguri, come tutti i popoli primitivi, si adunavano intorno a un albero, ad un’asta, astu, che poi divenne sinonimo di città (1). (r) Tutti quei nomi di Hasta che si trovano scritti negli itinerarii romani altro non sono che la traduzione dell’antichissima parola mediterranea, di cui abbiamo ancora un glorioso superstite in Asti Monferrato. Aoxo si chiamava Atene, come a dire la città per eccellenza, e col nome d’Asty la ricordano i vocaboli latini. Ricordano pure l’antico Astu i cognomi liguri Ast-oi, Ast-cngo, Ast-e. Astu è parola composta della preposizione a e della radice stu, la quale significa erigere: in greco troviamo ctùu) erigo, oxóXoc;. colonna, cosa dritta, àoxu (da avà-oxu) la pubblica colonna, la pubblica asta, e per metafora la città. Il dialetto ligure offre dei termini di confronto preziosissimi L atto del cane che leva il muso odorando suggeiì al ligure la parola ana-stu. Il gambo del grano che rimane dritto stecchito nel campo si chiama stu-gia. Antichissimo nei popoli mediterranei era l’uso di piantare un’ antenna come segnacolo delle pubbliche riunioni, E un uso che si mantenne fino al secolo nostro, infatti nei delirii della rivoluzione francese i nostri Liguri innalzarono nelle loro piazze 1’ albero della libertà, cioè un’ antenna col berretto frigio ; era 1 astu. Ancora oggidì si pianta l’astu nei piazzali di montagna, sia per annunziare il maturare del grano, sia per chiamar la gente al ballo pubblico. Sappiamo dagli scrittori latini che la frase vendere all’asta nacque dal fatto che si attaccavano all’ asta pubblica le spoglie tolte ai nemici e si assegnavano a chi più denaro offeriva. L’astu si piantava in generale in un prato (vicino a tutti i centri antichi troverete il pròu) e intorno all’astu si tenevano le assemblee, si deliberava sugli interessi della tribù, si amministrava giustizia. E da ciò si comprende come prendesse a poco a poco il significato di capoluogo, di luogo pubblico e coll’andar del tempo di città. Astu e Asti è la stessa cosa, perchè 1 0 greco corrisponde all’ u e all’ i Seguendo questi concetti storici l’Alpinista Ligure può fare utilissime scoperte sui nostri monti. Io trovai vicino a Crixia in vai Bormida il pian dell Astu (Crixia era un centro ligure ricordato nella tavola Peutingeriana), trovai 1 Astu alle Capanne di Marcarolo ove era il gran mercato degli antichi popoli liguri. Una. località detta Astu si trova, a quanto mi fu riferito, fra Voltri e Pra, che coinciderebbe col luogo dell’antica Hasta. Sono constatazioni preziose per la storia ligure, ed io prego tutti gli studiosi della montagna ad interessarsene, riflettendo — 166 — Prou era il luogo ove il popolo si radunava, ove probabilmente si piantava l’astu. Quando i popoli s’incivilirono e l’astu divenne una città o per lo meno un agglomerato di abitazioni, il prou si trasportava alla periferia. Il paese di Prà ricorda il luogo ove l’Astu dei V iturii aveva il suo prato. Genova aveva il suo prou che la presenza di questo astu rappresenta un antico luogo di riunione, che, se non era centro di tribù, era come Marcarolo luogo di convegno, dirò così, internazionale, più importante ancora. L astu è uno di quei nomi che dimostrano più di ogni altro 1’ origine medi-terranea dei popoli liguri. Asturie, in greco ccatupiov, è nome antichissimo di Spagna, che significa piccole città, castelli, gruppi di abitanti. A-stu entra nella composiz one di molte parole mediterranee antiche. Ed è con questa chiave che voi potrete facilmente spiegare quel Cary-stu degli Statielli, che tanto filo da torcere ha dato agli eruditi. Narra Livio al Lib. XLII che nell’anno 579 di Roma, 56 anni prima della tavola di bronzo, il console Popilio Lenate portò guerra ai Liguri Statielli e ne fece strage « ad oppidum Carystum ». Si capiva che il fatto doveva essere avvenuto nella valle della Bormida, si capiva che il console partito da Piacenza, ove i romani tenevano il comando del corpo d’ armata (per usare la frase moderna) dovevano aver assalito i Liguri in qualche castello dell’ alta Bormida ove si erano fortificati, ma quale? ma dove? Vi si provarono molti eruditi; vi fu chi disse Carsi, vi fu chi disse Cartosio, ma si tendeva a indovinare brancicando in mezzo alle omonimie. Se voi riflettete alla parola oppidum cominciate a comprendere che si tratta di un luogo fortificato e le fortificazioni dei Liguri non erano sistema Vauban, esse dipendevano essenzialmente dalla natura. Ricordate ora la posizione di Cairo in cima di Val Bormida. L’ adocchiò Napoleone e non a torto; Cairo vanta un antichissimo castello sopra una rupe, come Ventimiglia. Era un oppidum nel vero senso ligure; era sulla via presumibilmente battuta dal console Popilio Lenate. Nel 1832 il cav. Spotorno scopriva a Cairo diverse medaglie consolari, di cui sarebbe utilissima una illustrazione. Se a tutte queste ragioni logistiche ed archeologiche si aggiungesse la corrispondenza esatta del nome, non vi pare che sarebbe un gran passo fatto su questo tema tanto discusso di Storia Ligure? Prego il lettore a seguirmi in una breve escursione per il mondo, cioè nelle regioni intorno al Mediterraneo; imperocché codesti studii devono essere compiuti su vasta scala; non si può procedere senza grandi confronti. — Abbiamo un Cairo in Val Bormida, abbiamo un Cairo in Lomellina, abbiamo un Carà nella Valle del Tanaro. Abbiamo Cairo in Egitto, Carya, Carystus nella penisola ellenica. L’ etimologia in questo caso è semplice y.àpuov (latino caryon) è la noce, — 167 — sulla spianata del Bisagno. A S. Fruttuoso nella regione di Terralba si ricorda il prato dei Capitani. Raiba, Raibetta, Brea, Brera. In quasi tutte le città antiche si ripetono questi nomi in-a-brea (Genova) a brea (Milano) breo (Mondovì), La metatesi di raiba in braia 0 xapóx è 1’ albero di noce. Il dialetto ligure conserva ancora oggidì la parola ciaràe, cose senza valore, da bambini e basta ricordate questo significato per comprendere che il ciarùa altro non è che 1’ antico carini. Adunque Carù vuol dire « dà Noxe » (l’u greco si pronunzia nel dialetto ora i ora u); Caryo-stu, 1’ aslu dalle noci. Cario diventa Cairo per effetto di una di quelle metatesi, cioè inversione di sillabe, che sono comunissime nel dialetto ligure; roia e oria, rela e brea, ecc. La povera Caristu Ligure fu distrutta da Popilio Lenate come risulta da questo breve cenno di Livio : « arma omnibus ademit, oppidum diruit, ipsos bonaque eorum vendidit ». Senza armi, la città distrutta, venduti i beni e le persone, poteva ancora chiamarsi un astu 1 infelicissimo Cairo? Fu detto Cairo semplicemente e somma grazia che questa parte del nome sia rimasto ! A ciò si aggiunga la tradizione, che io raccolgo da un distico molto antico citato nella Tabula Corografica (Muratori Script tomo X, p. Civ). Parlando di Cairo l’antico poeta ricorda « Urbs erat autiquo, quam nomine dixerat Astum-usus ». Il poeta del medio evo non poteva inventare a caso quel nome ligure primitivo. Parmi dunque giustificata la mia opinione che Cari-slum era 1 antico Astu di Cairo. Cairo, Carù, Caristo non devono confondersi con Care, Carosio, Carsi, Cai-tosio ed altri nomi liguri antichissimi. Oxu era l’olmo, greco ògu ; xap-ó^u Carossu significa dall’ormo (frase notissima ai Genovesi); xapxa-ógo, Caitósu, significa tutto olmi; Ossu fra Casella e Montoggio, non è che ogu, olmo. Caro e Carsi, Cariati, Caranza, Caratisti, Carenio, come Cranea e Granea, Cranaieù e Granaieù derivano tutti dalla gran radice de x reggitori del popolo oejjio {demo-crazia, demo-cratico) si chiamavano i magistrati eletti a governare secondo le leggi di Solone. Il cognome Demarchi che io trovo ancora in Liguria mi fa supporre che questa fosse la voce comune a tutti i popoli mediterranei per indicare i loro reggitori. Zeno era il forestiero ; greco ijévos. L’abituale concorso dei Zeno, forestieri, nell’ Emporio dei Liguri, die’ probabilmente origine al nome antichissimo di Zenoa (i). (i) Una definizione del nome di Genova, che, resistendo alla critica, sia almeno probabile, non mi fu dato trovare in tutti gli storici nostri. Per molti secoli, favoleggiando si disse Ianua da Giano. Altri dissero Genua da gomito, ginocchio. Finalmente nel secolo XIX si affermò che nello studio — 172 — * 2 5- — Forse parrà ad alcuno che, a completare questa sintesi che ho fatto del parlare e del costume dei liguri, delle lingue orientali si era trovato l’origine di Genova, ed il Celesia scrisse che Genua veniva dal sanscritto. E nessuno contraddisse all’autorità del dotio professore ligure. Ma 1’ affermazione del Celesia cade per una questione pregiudiziale semplicissima. Il Celesia doveva prima dimostrare che Genua è il nome primitivo. I nomi locali devono studiarsi nel dialetto e non nei libri, perchè, tutte le voci primitive furono più o meno alterate nel loro passaggio alla forma scritta. Mi si risponderà che anche il dialetto si altera e per questa ragione non si può esser cerri che Zena fosse in origine Zena. Ed io non nego che il dialetto muti forme e suoni coll’andar del tempo, perchè, quando nuove civiltà si impossessano dei popoli, bisogna per necessità che ne risenta la lingua come ne risente la vita. Cambiamo lentamente le forme esterne del dialetto, le finali, i toni, cambia più diffìcilmente la sostanza. Ma in fatto di nomi locali la cosa è ben diversa. Ebbero un bel chiamare i romani Ioventio il nostro %uvu, Procobera la Posei-via, ed in tempi a noi più vicini si ebbe un bel scrivere Ianua e Ianuenses per Zena e Zeneisi, \ ultur per Vótri, Cuneo per Còni, Vallis Regia per Vuiè, Riparolium per Rutew, Rivusdolosus per Ricrusu, ma il dialetto non se ne die’ mai per inteso. Bisogna che avvengano rivolgimenti eccezionali perchè un popolo muti il proprio nome. Con queste riflessioni che mi sembrano abbastanza semplici ed altrettanto logiche io dico Zena fu sempre Zena. Una insignificante differenza può esservi fra la pronunzia odierna e 1’ antica quanto alla desinenza finale della parola. Dalla lettura dei nostri storici antichi si indovina che la pronunzia antica era Zenoa e questo mio sospetto diventa certezza leggendo nella tavola di bronzo Genua, che è la traduzione romana di Zenoa, come Ianua è la traduzione medioevale. Sono due traduzioni di cui vi date completa ragione se tenete conto delle epoche diveise in cui son nate. È naturale in chi traduce il desiderio di mettere innanzi una parola che esprima qualche cosa. Il romano trovò che il vocabolo più affine al Zenoa che non capiva era genua, ginocchia, e senz’altro tradusse Genua. Nel settimo od ottavo secolo, quando venne fuori lamia eravamo sotto l’influenza dei Carolingi; dal 1000 al 1300 la lingua provenzale 0 romanza mormorava i suoi vezzi sui nostri lidi. Ed allora il Zen si raddolciva in bocca ai nostri vicini di Francia, e i tabellioni di Carlo Magno cominciarono a scrivere Ianua nelle loro pergamene, e, una volta lanciata la parola, tutti gli annalisti e notai si credettero in dovere di conservarla. Ma era affare da archivi e da — 173 — sarebbe stato bene aggiungere un po’ di discorso sulle credenze religiose dei Liguri. pergamene; quanto al popolo non sognò mai di aver cambiato nome e quando il cintraco lo chiamava araccolta, gridava: popolo de Zenoa e Zenoeisi. Adunque errò il Celesia cercando le origini di Genova in Genua, mentre dovevano cercarsi in Zenoa. Anche su questo punto la montagna ci fornisce testimonianze importanti e decisive. Salite a Pey, il pittoresco villaggio che sta a pie’ del Mont’ Ebro. Il Giacomino, l’oste del luogo, vi presenta agli avventori che si scaldano al suo focolare come un cittadino de Zenoa. Un mulattiere che viene dal Tortonese riprende : « dunque lei è de Genova ». E la conversazione continua su questo tono, restando fermo sul Zenoa il Giacomino di Pey e sul Genova il mulattiere di Tortona. Ora io mi domando : chi introdusse il Zenoa fra gli abitanti di quel villaggio antichissimo? (Pey è antichissimo perchè ha in capo un co-de-viu). Se la gente di lassù avesse sentito l’influsso moderno avrebbe adottato il Genova, se avesse sentito l’influsso romano avrebbe adottato il Genua. Dunqne bisogna concludere che Zenoa è il termine primitivo rimasto in mezzo a quei monti, come vi rimasero chiari e limpidi tanti altri nomi primitivi, ad esempio il co-de-viu. I Tortonesi invece, profondamente romanizzati come tutti i Lombardi, adottarono il Genua, ed io ritengo che ai Lombardi e non ad altri, noi dobbiamo attribuire l’introduzione del v attraverso al Genua latino. Fu probabilmente la dominazione longobardica che, come introdusse 1 ’r nell’articolo, cosi introdusse molto di frequente un v in mezzo alle nostre parole troppo ricche di vocali ; come il lombardo pronunzia vun per un, vuomo per uomo, così prese a dire Genova per Genoa, e Savona per Saona (nome originario). Ancora nella pronunzia odierna del milanese voi sentite quel v che si affaccia molto timidamente come per rispettare il Genoa primitivo. 11 continuo commerciare fra Genovesi e Lombardi e lo scrivere abitualmente Genova nella loro corrispondenza commerciale fu probabilmente la cagione per cui il v entrò definitivamente anche nell’ uso dei Genovesi. Non ci voleva che una ragione pratica di commercio per far variare di una sillaba un nome di venti secoli. Quale sarà 1’ origine di Zenoa ? L’a è lettera finale, è la desinenza che serve per mettere la parola al femminile ; la radice è indubbiamente Zen, Zeno. Che significa questa radice nel dialetto mediterraneo antico? È radice nota; voi la trovate negli antichi nomi Zenone, Zenobia, nel veneziano Zeno, nelle voci asiatiche Zeno-dii e Zeno-doro. In Liguria avete nomi proprii come Viu-iene. Nel dialetto avete delle espressioni originali come questa: de-ien-tegd. Cominciamo a spolverare un po’ questo arnese. Quando una povera donna ha la casa invasa dai topi o dagli scarafaggi non si dà pace finché non li ha de-zen-teghé. Il contadino dice che la — 174 ~ Credo che assai poco si possa dire su questo punto. Io accetto in massima quanto scrisse il Celesia sulle gramigna è una cattiva semenza, che quando ha preso possesso molto ci vuole a de-zen-tegàìa. Per non dilungarmi vengo alla conclusione. Traducete pure tega, mettere (in greco xCSyjjjii, de-zen di fuori (6e £ev) e siate pur certo di tradurre esatto perchè avete nella lingua greca perfetta corrispondenza di suono e di concetto. Dalla radice £sv il greco forma forestiero, il che vi spiega il concetto fondamentale di Zenobia, di Zenone, di Zeno, di Zenodii, ecc. 11 concetto di £év-os, forestiero, corrisponde esattamente a quello di de-zen-tegd, metter fuori. Procediamo innanzi e troviamo un altro elemento prezioso di confronto nella parola ligure zèno-u, il genero, il forestiero che diventa parte della nostra famiglia. In tutti questi confronti bisogna che abbiate sempre presente all’ orecchio la pronuncia dialettale. II Zen di Zenoa è perfettamente identico al zen di ^«o-w e di de-zen-tegd. Mentre i Genovesi prononziano il z italiano come un s, qui si trova un z molto aspro, che coincide col £ greco. Siamo per approdare all’ origine etimologica e forse alle origini storiche di Genova. Imperocché se le mie induzioni acquisteranno saldezza, certo è che il nome, come io lo spiego, molto esprime di ciò che era Genova primitiva, di ciò che apparve dal suo primo immischiarsi nelle cose del mondo. L’avvicinarsi di questi due concetti di forestiero e Genovese non dispiacerà certo a chi ben conosce Genova e la sua storia. La lingua greca ci assiste fino all’ultimo istante, ci spiega minutamente l’ordine logico e morfologico per cui dalla radice £svo si forma £évo-a. Possedettero i Greci in sommo grado la plasticità del linguaggio, da un nome primitivo derivavano verbi ed espressioni qualificative all’ infinitivo. Di chi trattava coi barbari, di chi profanava la lingua delle muse con voci barbare dicevano che barbarizzava - pappapi£siv. Così avevano un verbo speciale per chi trattava coi forestieri e parlava il loro dialetto £svi£stv. E così davano un nome appropriato ai luoghi dove molti forestieri convenivano - £svó-sts, £evó-eoatx. Togliete le desinenze grammaticali sij eooa che sono prerogative artistiche della lingua perfetta , mettete invece la terminazione più semplice e più comune al dialetto ligure, un a invece dell’ essa ed avrete limpido e chiaro il significato di Zevo-a. La nostra Zénoa vorrebbe dire : luogo di forestieri. Zenoeisi vuol dire: gente che traffica coi forestieri. Tutta la storia di Genova si associa a questo concetto. Mi basta ricordare il più antico dei nostri storici, Strabone, il quale descrivendo Genova di 19 secoli fa tutto riassumeva in una parola: Emporio dei Liguri. A Genova convenivano da tempi remotissimi Greci, Fenici, Cartaginesi, e i Zenoeisi con tutti si intendevano, con tutti contrattavano per arricchire il loro mercato, che i romani dissero emporio, ma che i Genovesi fin d’allora chiamavano mercóu, raiba, e prè. Vedendo tutta quella foresteria rimescolarsi in Genova, si capisce come Zeno-a e Zeno-eisi da tutti si nominassero. Quanta Storia in una parola ! - i75 — credenze dei primi popoli italici in genere, ma ritengo assolutamente fantastico ciò che egli afferma di culti speciali, di divinità, di templi che avrebbe scoperto in Liguria (i). Io son poco disposto a credere che i Liguri primitivi avessero moltiplicità di dei, e abbondanza di Chi potesse conoscere quando cominciò quel nome potrebbe dire di conoscere l’epoca in cui cominciò il commercio dei Genovesi. Frattanto io ritorno col pensiero a quelle tombe scoperte sul colle di S. Andrea, ai vasi, alle anfore greche ivi raccolte e dico: se cinque secoli avanti l’E. V. eravamo in piena civiltà, in pieno commercio, ciò significa già che Genova ebbe un incivilimento anteriore di tre secoli alla venuta dei romani e mi confermo in quel criterio che è decisivo per lo studio della storia ligure; la necessità cioè di abbandonare definitivamente il sistema di far intervenire il latino a spiegare la nostra origine. Dall’ esistenza di quelle tombe si arguisce che Genova è probabilmente antica come Roma per fondazione, ancora più antica per civiltà. Roma infatti fu fondata due o tre secoli prima di quelle tombe, ma ci è noto come nei primi secoli fu poca cosa; essenzialmente agricoltore, niente affatto commerciante nè amante dei forestieri il suo popolo. Appena ai tempi delle guerre puniche, cioè quattro secoli dopo la sua fondazione, Roma costruiva le sue prime navi. Ed è noto del pari che la civiltà greca entrò in Roma quando la Grecia fu conquistata, cioè tre e più secoli dopo le nostre tombe. Graecia capta ferum victorem subegit. Per concludere io ritengo verosimile che 1’ emporio Ligure - Zenoa - rimonti al settimo o ottavo secolo a. C., all’ epoca in cui fioriva nell’ Italia media la civiltà Etrusca con Arezzo, Cortona, Chiusi, Perugia, Tarquinia, Vetulonia, Volterra, Fiesole, Pisa, Lucca e Luni e nell’Italia meridionale la civiltà Greca con Sibari, Crotone, Erade, Taranto, Brindisi, Messina, Catania, Siracusa, Girgenti. A questa civiltà di popoli artisti e gaudenti faceva riscontro allora la civiltà dei Fenici e Focesi essenzialmente commercianti. Roma incominciava, ma era una quantità impercettibile di fronte a questi popoli che avevano il dominio del mondo. Greci, Etruschi, Fenici, Focesi si disputavano in quel tempo, come in oggi Inglesi, Francesi, Italiani, Tedeschi, gli approdi del Mediterraneo. I Fenici fondarono Cartagine in quel turno di tempo, i Focesi Marsiglia e nello stesso modo deve esser nata la nostra Genova, 1’ Emporio ove i Liguri s’incontravano coi forestieri. Un primo approdo o di Fenici o di Focesi o di Greci vi portò probabilmente la scintilla della civiltà e del commercio; il resto venne da sè. Mi basta aver accennato questo per ora, e di aver dimostrato l’importanza che ha per la storia Ligure un accurato studio del dialetto. Riprenderemo a' suo tempo la storia di Zenoa (i) Celesia. Teogonie dei Liguri. — 176 — templi. Ammetto senza difficoltà che nei centri marittimi della Liguria, 1’ influenza greca abbia potuto smerciare insieme ai vasi di Atene anche i simulacri di molti dei, e che in seguito la civiltà romana abbia introdotto fra noi tutto il suo bagaglio olimpico. Ma probabilmente vi credevan ) i nostri antichi come crediamo noi al dio Giano che rappresentiamo sull’ asta dei nostri lampioni. È nota la teoria di Max Muller, che gli dei Greci e Romani non rappresentassero nella loro moltiplicità delle divinità nel senso comunemente inteso, ma fossero piuttosto nomina (numina), ovvero sia metafore per esprimere la venerazione a determinati concetti. Io credo che in questa teoria molto vi sia di vero. Ad ogni modo qualunque fosse la concezione degli Dei presso i Greci ed i Romani, io credo che presso i Liguri, come presso gli altri popoli in cui tali dei rappresentavano merce d’importazione, fossero assolutamente considerati come forinole decorative, e che entrassero nei loro costumi come le colonne ioniche e corinzie entrarono nella loro architettura, come la toga nei loro abbigliamenti. E di fatti quando i primi banditori della fede di Cristo approdarono ai nostri scogli, i Lig-uri nostri abbracciarono senza dif- o 1 o ficoltà il nuovo culto ; la Liguria, scrive il P. Semeria nei suoi Secoli Cristiani, non ha martiri. Non per questo intendo di sostenere che i Liguri primitivi non avessero un sentimento religioso loro proprio. Credo anzi che minor idolatria di forme rappresentasse una maggior profondità dell’idea religiosa. Come popoli vergini, primitivi, sentivano certo con più forza la necessità di inchinarsi all’ ignota potenza che scuoteva il loro spirito, che giganteggiava negli spazii immensi del cielo, - 177 — nel misterioso avvicendarsi della natura. Lo scetticismo rappresenta 1’ indebolimento della psiche ed è proprio delle civiltà decadenti. Ma nella coscienza dei popoli primitivi si agita fortemente il gran problema deli’ essere; e vediamo quei popoli affaticarsi di moto in moto non tanto per la conservazione della vita individuale quanto della vita collettiva. I popoli primitivi sentono 1’ immortalità dell’ anima e per questo aspirano potentemente al-1' immortalità della stirpe. Fissi in questi ideali non provano gli scoraggiamenti, le depressioni dello spirito, e camminano arditamente incontro al futuro ; così avviene che dopo 25 secoli essi rispondono all’appello della storia. Fra questi popoli, che formano l’ammirazione del mondo, io ne cito uno solo, e con orgoglio, i Zenoati. Ma non avendo una concezione esatta di Dio, essi dovevano necessariamente cercarlo nelle forze cosmiche in cui la potenza sovranaturale si manifestava. Vedevano nella fecondazione della terra, nel concepimento dell uomo, nel-l’estinguersi della fiamma vitale, quel mistero che fa pensoso ogni essere intelligente, e avranno naturalmente adorato, come tutti i popoli italici, la divinità in quanto fecondava la terra, in quanto maturava le messi, in quanto dava la luce al mondo, l’atterriva col fulmine, accendeva o spegneva negli esseri umani la vita. Ma che plasmassero, alla greca, divinità speciali, che avessero templi in mezzo ai loro monti non si può dire senza alcuna prova. Tutti gli Dei Bor, Mar, Albion, Bergion, che il Bardetti e il Serra avevano visto nelle radici di certi vocaboli , scomparvero ai miei occhi appena io rivolsi su queste parole un po’ di critica filologica. Il Bor non significa che la posizione a nord 0 la posizione esposta Atti Soc. Lio. di Storia Patria. Voi. XXX. *3 - i78 - al vento di tramontana, il Marenco, il Marassi, dove il Serra trovava il Mar, non sono che (ìà-^yxos affatto disboscato, affatto sul fossato. Al-bion si riferisce al gran volgo, come vedemmo pai landò del vi, e così Bcrg-ion accenna al berg, di cui parleremo nella nota a p. 268. Così alla luce della filologia dialettale scompare il Giove a cui il Desimoni aveva fatto un tempio sui nostri Giovi, ritenendo che il mons Joven-tius della tavola rappresentasse realmente un monte di Giove, mentre non è altro che la traduzione di zuvu. Allo stesso modo scompaiono i templi e gli Dei delle teogonie del Celesia. Se è vero che in Italia si ebbe un Giove Penino per opera dei romani, non è punto dimostrato che petnno scompagnato da Giove fosse un Dio, e non un semplice aggettivo. Quanto al Giano non bastano i nomi di Arenzano, Carignano e Vezzano a testimoniare che regnasse come dio nell’epoca preromana, perche i nomi di Renqen e Cavignan, presi per quel che sono realmente, non contengono, nemmeno per ombra, are di Giano o carine di Giano, come vuole il Celesia, ma ricordano, come vedemmo, configurazioni naturali le più semplici che si possano immaginare. Quanto a Vezzano è troppo chiara 1’ origine latina di Vehanus per farne una vetta di Giano. Dal monte Armetta il Celesia deduce che là fosse un tempio ad Ermete ; per me il monte dell’Armetta non è che il monte della piccola arma, grotta. Il Celesia trova a Lerici la dea Etrusca Eris ; io chiesi notizie della dea al dialetto, e questo in modo irrefutabile mi rispose che Lerici non è che erxu. Si chiama l’erxu per la stessa ragione per cui altri paesi si chiamano Pin, altri l’Ormo. - 179 — La Villa Matutiana vicino a S. Remo diè argomento agli eruditi di attribuire ai Liguri una dea Matutia. Essi collegarono il suono della parola ligure alle reminiscenze classiche relative a questa dea. Ma tutta codesta erudizione è basata sull’omonimia, ed io mi domando qual credito possiamo accordarle, dopo che abbiamo visto i Romani farsi giuoco di tutti i nostri nomi battezzando Ioventio il zuvu, Lemurini i Lemuin, Ricina Reco, e così di seguito. Intanto io constato che ^oliata è la collina in forma di mamellone, e poiché non si hanno notizie più precise della dea, io continuerò a credere che quel nome, come generalmente tutti i nomi liguri, rappresenti una configurazione locale e nuli’ altro. Nemmeno posso credere che vi sia un dio in quei Diano che troviamo frequentemente in Liguria , Diano sulla riviera, Diano in quel d’Alba. Noto due circostanze: i.° che in dialetto si pronuncia Di-àn coll’accento molto vivo sull’ an\ 2° che gli antichi Diano sono sempre sull’ alto. Da ciò argomento che Di-àn sia piuttosto la forma primitiva di una espressione che è molto in uso in Liguria: d’ in sciù. I Genovesi che vanno al mare dicono: vado in zìi; quando tornano a casa vanno in sciù. Chi va sui Giovi dice egualmente vado in scià; gli abitanti che sono nella valle si chiamano quelli de suttu, gli altri che sono sul monte si dicono quelli d’ iti sciù. Questi rilievi d’indole locale mi inducono a ritenere che quei di an altro non fossero che quelli che stavano in alto, dal momento che an è la preposizione che si trova in greco e in molti composti del dialetto ligure per indicare in sii (1). (r) Vedi la voce an a p. 115. — i8o — E per finirla con questa demolizione di Dei osserverò che la tradizione di Giano, dio, fondatore e re dei Liguri è aneli essa molto sospetta perchè nasce nel medio evo quando era suprema ambizione degli imperatori come dei popoli di farsi credere più latini che fosse possibile; se non si era discendenti diretti di Roma, si voleva essere collaterali in primo grado, perchè con queste parvenze si credeva di acquistar dignità, gradi e privilegi nel mondo che stava per rinascere, un mondo tutto plasmato alla romana sia in politica, sia in letteratura che in arte. Perciò io dubito assai che se non fosse per Roma Giano non esisterebbe nelle tradizioni genovesi. Ebbe probabilmente nell’epoca romana il suo tempio in Genova, ma da questo fatto al dire che Giano fu veramente il dio dei Genovesi e fu il fondatore di Genova corre la differenza che vi è fra la favola e la storia. Vi sono bensì nel dialetto alcune frasi che accennano a divinità, e sono il die, dian-a; che si riscontrano in queste frasi : per-die, pcr-di-ana-bacco, per-bac-culina, per-bac-culetta, per-din-culin-a. Ma parmi di vedere abbastanza chiaro che queste frasi più che esprimere una fede rappresentano uno scherzo alle spalle di Bacco. Bacco è noto. Ma chi era il culin-a ? Non si tratta di nuovo dio. 1 buoni Liguri dall’umor allegro brindavano col culin-a e col culetta al dio bicchiere. KuXrj è il calice , la tazza, culin-a e culetta altro non sono che un vezzeggiativo di tazza. Amavano i nostri Liguri la loro culetta quanto Petronio, X arbiter elegantiarum, la sua trulla murrina, che costava 300 talenti. E quando giuravano più che a Bacco, rendeano omaggio alla tazza del dolce licor. La frase per-bac-culina e per-bac-culetta, — 181 - vuol dire per la tazza di Bacco, o meglio per la tazza di vino. Il per-die significa per il dio (Aia) ; per di ana bacco significa per dio in Bacco. + 26. — All’ idea religiosa si connette 1’ idea della famiglia, di questo vincolo che tutti i popoli ebbero sacro, finché corrotti dalla materialità del piacere, o dall’egoismo della ricchezza, non smarrirono l'idealità, e subito dopo il concetto pratico della vita. Il sentimento di famiglia era profondo nel nostro popolo antico, così profondo che 30 secoli non valsero a sradicarlo, ed in oggi forma la più bella caratteristica, il più gran coefficiente di forza della razza ligure. L’ Issel ci ha descritto con bellissime pagine i sentimenti famigliari dei Liguri, facendo una geniale ricostruzione psichica sugli oggetti ritrovati nelle caverne. Io accenno ai vocaboli più intimi del favellare primitivo. Pà e mà. Ritengo che queste fossero le espressioni primitive mediterranee per dir padre e madre. Poi il greco fece TOx-xrjp e |io-0rp e il ligure analogamente po-è e nio-è. Ila e |j.a sono due suoni primordiali da cui si svolse un infinità di vocaboli. Dal confronto di questi si viene a conoscere che pa e ma avevano il significato di tutto, di affatto. E per fermo troviamo in greco : ~ia, niux, ~xv. tutto ; |xàv, ujjv, affatto, che in inglese è many, in francese maint, in volgar italico ma. « Qui non avea pianti ma che di sospiri ». In vai di Scrivia ancora oggi per dire: il tale non ha che ciarle, si dice: 0 ria ma che der ciarle. — 182 — In ogni ordine di idee si affaccia il ma primitivo. Nell ordine degli affetti la madre è ma, come nelle relazioni di spazio l’affatto è il mare, che il ligure seguendo 1 espressione primitiva continua a chiamare semplicemente il ma. Il pa col significato di rob, naca, icàv si trova nella composizione di un’ infinità di nomi liguri ; Pa-vei, tutto abeti, Pan-ta-sma, tutto sulla zina, Pa-vi-a, tutto gente, Pa-vi-an, tutto gente in collina. Nell’ordine degli affetti pa è il padre, nell’ordine fisiologico pan è il pane. Fio, greco 960$, il figlio. Errore dunque il credere fio abbreviazione di filius. Neo, néssa per nipote, greco v&s, vé-eaaa. 11 figlio del figlio si chiamava il nuovo, X ultimo comparso; tale appunto è il significato di véo$. Quel bambino che chiama il suo tutto il padre e la madre — quei genitori che dicono al figlio: tu sei il nostro generato — che sorridono al figlio del figlio chiamandolo il nuovo — ci rivelano un consorzio d’anime inspirate alle più pure idealità. Un affetto potente legava in una sola catena tutti i membri della famiglia e ne formava un ente pieno di energia, di vitalità, di fede. Nenia, ora la nuora; prendeva essa pure il nome dal fatto che era la nuova in casa, da veto;, t). Zenòu, genero è nome che parte dallo stesso concetto; è il il forestiero che diventa dei nostri. Zio in riviera di ponente come in Toscana per indicare il fratello del padre o della madre; greco Moq. * - 183 — 27. — Dirà il lettore: ma son proprio queste le voci del dialetto primitivo ? Ho già manifestato i criterii che mi avrebbero guidato in questo lavoro di selezione archeologica; ma è bene ritornare alquanto sull’ argomento. Il lettore deve aver presente che io ho sempre riferito vocaboli, espressioni che per loro natura sono per così dire fondamentali, statutarii in ogni linguaggio umano. I popoli possono aver tolto a prestito da altri il nome di cose e concetti, che sono accessorii della civiltà; ma vi sono invece vocaboli, che sono inerenti alle prime manifestazioni della vita, e questi si devono ritenere primitivi. Il modo di concepire la natura, il modo di esprimersi per indicare il monte, il piano, la valle, il fiume, il padre, la madre, gli esseri viventi, è sempre generazione spontanea del pensiero umano in relazione colla natura; si eredita dai padri non si copia dallo straniero. Ciò posto, mi pare di poter asserire che l’indagine testé compiuta è importante non parzialmente presa, in quanto spiega 1 uno più che 1’ altro nome (io non la pretendo ad etimologista e sarò grato a chi vorrà correggermi nelle mie parziali ricerche), ma è importante nel suo complesso. Infatti, per quanto sia stata rapida e incompleta la mia rassegna, credo che la fisionomia del dialetto antico sia per gli studiosi sufficientemente adombrata. Si sente nel complesso un tipo unico, omogeneo, caratteristico, primitivo di linguaggio, si sente la verginità dell idea che informa tutte quelle espressioni dialettali. Si capisce che è una mente semplice che svolse, filò, per così dire, tutti quei concetti attingendo sempre a una fonte, la natura. La fonetica e la morfologia di questo dialetto ci dice — 184 — chiaramente che Greci e Liguri furono un tempo una famiglia sola (i). Se poi, mettendo da parte la fonetica e la morfologia, ci limitiamo ad esaminare il dialetto nella sua parte tìlosotìca, cerchiamo il verbo che si racchiude nel nostro linguaggio , allora troveremo che il pastore ligure è nella sua psiche. primitiva, il pastore di Grecia (1) Gli scavi recenti del loro romano rivelarono un fatto che ha stretta attinenza i-olle nostre in\estigazioni. La famosa stele arcaica che si attribuisce da alcuni al ^ I ’ ^ e da altri al IV secolo avanti l’lì. V , è scritta in vetusti carat- tei i grtci a giudizio del Ceci, del Gamuzzini (Notizie degli scavi, 1899), del Gatti (Bollettino della Commissione archeologica comunale di Roma, 1899), del Franz Schutsch iLitterarisches Centralblatt, 1899), del Comparetti (Atene e Roma, 1899) e dd Pais (Nuova Antologia, 1899). Io metto a riscontro questo fatto con alcuni passi dei Commentarii di Giulio Cesare ove egli afferma che nella Gallia e nel- 1 Eh ozia trovò in uso 1 alfabeto greco, e mi domando: questa scrittura che noi <-on\ezionalmente diciamo greca non sarebbe per avventura qualche cosa di più antico e di più generico, cioè la forma di cui si rivestiva quel dialetto primitivo i-he andiamo studiando e che si chiamò greca quando rivesti la lingua più perfetta die questo dialetto ha procreato ? E i vocaboli scritti in quella stele del foro romano, quei vocaboli che non sono latino come dice il Ceci, o che per lo meno sono in confronto al latino di una arcaicità straordinaria, non rientrerebbero per avventura m quel dialetto italico primitivo, che è il dialetto ligure largamente inteso, in altri termini il dialetto mediterraneo ? \ isitando il foro romano nel gennaio 1900 io pensavo: quella stele spezzata contiene parole di senso oscuro, ma intanto vi è una parola in cui si accordano gli interpreti, la giumenta: quei bassorilievi sparsi tra i ruderi han mille significati su cui si affacendano gli eruditi ; ma da quei bassorilievi una cosa vien fuori accessibile a tutti, che il maiale aveva una gran parte nei riti romani, come ci attesta il bassorilievo che è nelle vicinanze della colonna di Foca. Ed io ritornavo col pensiero ai miei Liguri, alla loro Por sei-via, ai loro Ti-gulli, ai loro Ma-n’eri ed ai loro famosi muletti gigenii, con cui entravano in Zenoa, ed allora mi balenava alla mente questa sintesi storica: la stele arcaica, i bassorilievi del foro e tutti i riti primitivi di questi Romani, come degli altri popoli italici, altro non sono che manifestazioni di un'epoca primordiale, in cui tutti i nostri popoli vivevano una stessa vita, seguivano uno stesso costume, scrivevavano rozzamente cogli stessi caratteri una lingua, che ci riesce oscura come è scritta allo stesso modo che riuscivano oscuri già ai tempi di Polibio i primi trattati fra Romani e Cartaginesi, ma che doveva corrispondere in sostanza all’ antichissimo dialetto mediterraneo. - i8) - come il pastore dell’Asia. Omero e la Bibbia sono il miglior commento dei Genoati e Viturii di 20 secoli fa. Più ci spingiamo innanzi nello studio delle origini, più si manifesta come una gran verità scientifica l’insegnamento biblico che tutti i popoli avevano in principio un sol verbo e un solo linguaggio. L’ unità del linguaggio doveva necessariamente scomparire per ragioni geografiche e storiche, quando i popoli si dispersero sulla faccia della terra, andando incontro a fenomeni fisici e vicende storiche d’indole diversa. Ma intanto il nostro studio ci assicura, che finché i popoli restarono nello stato pastorale poco o nulla variarono degli antichissimi costumi, e delle antichissime idee che la natura avea impresso nelle loro menti, quando formavano una famiglia sola negli altipiani dell’ Asia. A base di pastorizia è la vita di Giacobbe, la storia del suo amore per Rachele — porci e veri costituiscono la parabola del figliuol prodigo— e le fontane, i fiumi, i bianchi capretti, gli olivi e le palme, e le melagrane formano gli elementi di quell’ immensa poesia che brillava nel cuore del re Salomone. Tutta questa semplicità, quest’armonia primitiva è quella che induce in me la convinzione che il paesaggio ligure da me descritto è vero, che i vocaboli che a tanti saranno parsi strani come gli A-ren-gen, i Por sei-via, i Ti-gulli, i Man-eri, sono invece quelli che corrispondono al concetto delle origini storiche dei popoli. Del resto non fu mio intendimento di far qui una trattazione linguistica, ma solo di presentare al lettore quel tanto del dialetto ligure antico che era necessario per renderci un po’ più famigliare quel mondo primitivo, in — 186 — cui stiamo per addentrarci. A suo tempo discuteremo di proposito il dialetto e ne trarremo conseguenze d’indole linguistica, etnologica e storica, di cui il lettore ha già compreso l’importanza. E dimostreremo la verità delle nostre tesi che qui abbiamo abbozzate: 1.° Essere il dialetto ligure antico un dialetto che fu comune a tutti i popoli mediterranei ; 2.° Essere questo dialetto mediterraneo il substrato • linguistico su cui si formò la lingua greca e poi la lingua latina e poi tutte le lingue che vanno sotto il nome di neolatine ; 3.0 Essere i Liguri un popolo di razza mediterranea e non di razza nordica (i); (i) La questione dell’origine dei Liguri si dibatte, più viva che mai, nel campo della scienza, dopo che la storia si è dimostrata incapace a risolverla. I nostri antichi, che non amavano torturarsi il cervello, avevano finito per rimettersi alle favole. Nel tempio di S. Lorenzo, una grande inscrizione, che cammina lungo i magnifici colonnati, dava per uso dei Genovesi questa versione: Ianus princeps Iroianus astrologia peritus navigando ad halitandum locum querens sanum dominabilem et securum Ianuam jam fundatum a Iano rege Italiae pronepote Noè venit et eam cerneus mare et montibus tutissimam ampliavit nomine et posse. Questa lapide è del 1312. Un’altra iscrizione molto più antica si legge sotto la testa di Giano, che sta in alto a sinistra della gran navata. Essa dice: Ianus rex itaiiae de progenie gigantium qui fundavit ianuam tempore dbrae. Adunque Genova era stata fondata da Giano, re d’Italia, pronipote di Noè, ai tempi d’Àbramo. Un altro Giano, principe troiano, grande astrologo e navigatore, l’aveva poi occupata e ingrandita. E per i buoni Genuati non occorreva di più per credere che Ianua (nome medioevale) venisse da Giano. Altre favole parlavano di un Ligurino, figliuolo di Fetonte, figlio di Cham, e padre di Veneto, dal quale Ligurino , come primo loro duce, avrebbero i Liguri tolto il nome. Altre leggende, che adombravano forse qualche cosa più di vero, si riferivano alla venuta di Ercole in Italia, alle sue guerre coi Liguri. Questa leggenda che ha profonde radici nella letteratura greca, rappresenta probabilmente j le prime spedizioni fenicie nel suolo dei Liguri. Fin qui siamo in balia dei poeti, gente gradevolissima, ma pericolosa, come dice il Barrili. - i87 — 4- Essere molto probabile la esistenza di un gruppo euro-africano j risultante da caratteri antropologici e lin- Dopo il rinascimento s’intromisero nell’ardua questione gli eruditi, mi si rimase con più confusione di prima. Essi trattarono la questione con idee preconcette, con criterii unilaterali, desunti ora da un testo greco o latino, ora da una etimologia, ora dalla interpretazione di oscure leggende o di miti immaginosi. Basti notare la leggerezza con cui fu edificata tutta la teoria delle origini celtiche dei Liguri. Narra Plutarco nella « Vita di Mario » che alla battaglia di Aix gli Ambroni si mossero contro i Liguri, che erano nell’ esercito di Mario, gridando : « Ambra! Ambra! » ed i Liguri risposero collo stesso grido, spiegando poi che questo era il vero nome della loro nazione. Bastò questo perchè vi si edificasse sopra una teoria che, rivestita dal P. Bardetti di una indigesta erudizione, si ripetè fino ai nostri giorni. Il senatore Randaccio nel suo pregevole lavoro sul « Dialetto ligure » risolve le origini dei Liguri col passo di Plutarco. Le teorie lasciateci dagli eruditi si possono ridurre a tre — i. Teoria dei popoli aborigeni ed autoctoni, cioè nati sul luogo, che costituisce la leggenda dei poeti latini, e che meno esattamente si attribuisce nel secolo nostro al Micali — 2. Origine celtica, basata sul testo ora menzionato, sulla lunga consuetudine che ebbero i Romani di chiamare la Liguria e la Valle del Po Gallia Cisalpina, sul nome di Celto Liguri dato ai popoli dell’ Alta Italia o di Francia, e sopra una filza di nomi che si battezzarono di origine celtica dal Bardetti e dal Serra e dai loro seguaci — 3. Origine greca basata sulla parentela del nostro dialetto col greco, parentela giustamente intuita, malamente spiegata. Nel secolo nostro si è fatta innanzi la scienza con criteri suoi proprii, ed è giusto il confessarlo la questione ha acquistato serietà e consistenza nelle sue mani. Fu il Nicolucci il primo a dare un indirizzo scientifico alle ricerche col suo lavoro « La stirpe Ligure in Italia nei tempi antichi e moderni » pubblicato nel 1863 negli Atti della R. Accademia di Scienze fisiche e matematiche di Napoli. Il suo studio, ricco di notizie storiche ed etnografiche si compendia in queste proposizioni : 1 0 Essere i Liguri odierni discendenza diretta di quei Liguri del-1’antichità, che nelle epoche preistoriche avevano popolato non pur l’Italia, ma parte ancora della Francia e della Spagna — 2° Esser eglino di stirpe affine a quelli che abitavano l’Europa innanzi l’arrivo dei popoli Ariani — 3.° Le colonie ariane venute in Italia avervi in parte sostituito i più antichi abitatori ed essersi sovrapposti alla razza indigena, il cui tipo scomparve e fu assorbito dall’ ariano che divenne il tipo generale della penisola — 4.° Ma in Piemonte ed in Liguria la vecchia razza si serbò predominante, ond’ è che quivi il tipo antico o non fu punto o fu solo lievemente modificato. Schiapparelli nelle sue « Lezioni sulla etnografia dell’ Italia antica » pubblicate — iS8 — guistici, ed essere importantissimo a questo riguardo uno studio comparato fra i dialetti italici e i dialetti africani. nel 1878 esaminava le nuove e importantissime scoperte delle terramare nella valle del Po, riconosceva in quelle antichissime stazioni umane la presenza della schiatta ligure, che riteneva «di sangue iberico, venuta probabilmente dall Africa». Questa schiatta, secondo lo Schiapparelli, avrebbe occupato le regioni occidentali del Mediterraneo, lunghi tratti delle coste orientali dell’ Iberia, e delle sponde della Celtica. I Liguri sarebbero stati poi in gran parte cacciati dagli Ariani, ossia dai Celti venuti dal Nord, e ridotti ad occupare pochi tratti delle Alpi marittime, dell’Apennino settentrionale e del territorio montuoso ai lati di queste due catene. Colà, dice lo Schiapparelli, essi appariscono ancora al principio del-1’ Era volgare con caratteri distinti , peculiari , quantunque vinti e sgominati d.11 Romani. Il Celesia, seguendo le idee del Nicolucci prese a dimostrare che il dialetto primitivo italico, osco, sabellico che dir si voglia, era il dialetto dei Liguri che sotto nomi diversi occupavano antichissimamente tutta l’Italia. Humbold aveva già trovato che vi era affinità fra i Baschi di Spagna e 1 Liguri. Molon nel suo libro « Preistorici t Contemporanei » (Milano 1880) e nella monografia « I nostri antenati » (Parma 1887) discute lungamente e un po confusamente sulle origini, rileva l’affinità fra i Baschi e i Liguri, che sarebbero gli avanzi di una antica razza, che avrebbe popolato in tempi remoti le rive del Mediterraneo; dimostra come il Ligure sia il popolo italico, di cui si possedono memorie di data più remota, e come il suo idioma abbia lasciato traccie profonde nei volgari di tutta Italia. La scienza moderna si è dedicata al problema delle origini con tutti i mezzi che erano a sua disposizione, ed in poco tempo si dichiararono tre scienze di stinte, ma convergenti allo stesso scopo - la linguistica - 1 antropologia la paletnologia. Pur troppo anche le scienze partecipano delle debolezze umane. Le tre scienze ora menzionate non si vedono di buon occhio l’una coll altra, e invece di su. s diarsi a vicenda, tendono a disputarsi il campo, e a mettere in evidenza i loro dissensi. La linguistica è in oggi in lotta aperta coll antropologia. La paletnologi diffida delle altre due e fa cammino per conto proprio. Tutte tre hanno un disprezzo troppo eccessivo per le tradizioni e i testi antichi, che se non furono capaci a dare una risoluzione definitiva, sono tutt altro che disprezzabili a mio avviso. Non è possibile qui riassumere il gran lavoro compiutosi in questi ultimi tempi. Dirò soltanto che il movimento scientifico in Italia è nell’ ultimo ventennio splendidamente rappresentato dall’A scoli per la glottologia, dal Sergi per l’antro- — 189 — Doversi i dialetti studiare sulla viva voce diffidando della grafia, quasi sempre alterata. Essere indispensabile per lo studio dei dialetti la famigliarità colla montagna. Per risolvere così gravi questioni non basta ancora quel poco che ho riferito del nostro dialetto; occorre che noi ci mettiamo in grado di presentare ai glottologi non solo gli scheletri di alcune parole, ma lo scheletro organico della lingua antica. È ciò possibile? Io credo che uno studio, come io lo intendo, può non solo giungere al punto di ricostruire morfologicamente e foneticamente e nelle sue forme sintetiche il dialetto ligure antico, ma può condurci eziandio ad un altro importante risultato, dimostrare cioè come una meravigliosa continuità esiste nelle lingue mediterranee, specialmente nella volgare italica, specialmente nei monti della Liguria, una continuità, in mezzo alla quale il latino figura non già come lingua nuova, ma come una bella rifioritura del grande albero antico. pologia, e da una schiera di valenti archeologi e naturalisti per la paletnologia, Issel, Brizio, Clerici, Pigorini, Ghirardini e tanti altri. Sono notevoli in questo momento le conclusioni della scuola antropologica del Sergi, che vengono a stabilire essere i Liguri i veri Italici, cioè i primi colonizzatori d’Italia in confronto agli Arii (i Celti) che vennero dopo ; essere i Liguri una razza euro-africana, avere essi una origine comune cogli antichi popoli medi-terranei , coi primitivi popoli dell’Africa settentrionale ; essere essi venuti dal mare, mentre gli Arii vennero dal Nord. La Paletnologia trova il Ligure nei più bassi strati della terramare. È discorde però sulla definizione dell’ elemento ario. La Glottologia non ha finora elementi sufficienti per stabilire una classificazione etnologica dei popoli. Le sue tendenze sono finora per l’accoppiamento italo-celtico. Ma se la glottologia vorrà aprirsi una nuova via nel campo degli studii dialettali, io ho fede che, come dissi, sentirà il bisogno di nuovi orientamenti e che presto verrà il giorno in cui le tre scienze sorelle si daranno la mano proclamando con Tacito l’origine mediterranea dei popoli Liguri. — 190 — Per ora ci basti l’aver dimostrato come nel nostro dialetto di montagna esistano le forme dialettali primitive. Abbiamo accennato ad alcune principali e con ciò non abbiamo svelato che la centesima parte di ciò che esiste di antico. Ma è tanto che basta per dimostrare che elementi di studio non mancano per chi abbia la volontà di rintracciarli. Ed è tanto che basta per maravigliarci come siamo venuti sino alla fine del secolo XIX pensando che i Liguri fossero una razza estinta, che il dialetto da essi parlato fosse qualche cosa di misterioso da gran tempo scomparso. Questa opinione è così radicata che il Ran-daccio, scrivendo nel 1894, diceva che nemmeno le cinque parole, già attribuite all’antico dialetto dei Liguri, esistevano, perchè tre erano galliche e due eran figlie d ignoti! Recentemente il Nazari (i) scriveva, riassumendo l’opinione generale della scienza, che la lingua parlata dai popoli Liguri è scomparsa senza lasciar traccia di sè. E un grande errore, ed io penso che non pas-sera gran tempo che la glottologia moderna studiando gli elementi primitivi dei dialetti di Spagna, della Francia meridionale, d’ Italia e di Grecia adotterà una formola nuova affermando l’esistenza, se non del gruppo euroafricano, almeno del gruppo mediterraneo o greco-ligure. Lo studio del dialetto ligure antico contiene il segreto dei grandi problemi di razza e di lingua. Se non ha dato alcun risultato finora in ordine a questi problemi, ciò avvenne perchè fummo paralizzati sempre dal pregiudizio celtico e più ancora dal pregiudizio latino. Roma aveva coperto d’un velo le origini dei popoli, avea con ogni (.1) Nazari, Dialetti italici. Hoepli, 1900. - 191 — arte, e non ultima quella del linguaggio, cercato di cancellare ogni ricordo della loro nazionalità primitiva. Il fasto, le lusinghe della civiltà nuova fecero sì che anche i popoli, i Liguri non esclusi, quando si trovarono decorati alla romana, diventassero vergognosi del loro passato. E questa debolezza, così conforme alla natura umana, si radicò talmente nei popoli italici che anche quando l’impero era caduto, anche quando i nostri comuni risorgevano dopo il iooo a nuova vita, non si ricordarono più di esser liguri, ma da Roma trassero le inspirazioni del loro risorgimento, alla romana foggiarono i loro ordinamenti politici, la loro lingua ufficiale, le loro leggi. L’illusione di far rivivere l’impero fu sempre nel cuore degli Italiani. All’epoca del rinascimento questa divenne, come dice il Sergi, un’ aspirazione morbosa ; i più grandi intelletti come Dante e Petrarca delirarono per essa. Cola di Rienzo rappresenta nella storia il primo fallimento della grandiosa utopia. Si capisce che con questi sentimenti, nessuno più rivolgesse la mente alla storia preromana. Il velo sulle origini liguri si fece sempre più denso. E così avviene che volendo in oggi ritrovare il ligure antico, noi dobbiamo rompere, più che un velo, una incrostazione latina di 20 secoli. Ma non per questo il ligure si deve dire scomparso; cercatelo in fondo al dialetto dell’Ap-penino e delle Alpi o lo ritroverete, come si trovano i suoi arnesi di pietra e i suoi fittili nelle caverne e in vai di Po negli strati delle terramare. Il ligure non è spento, come tanti hanno scritto, egli è pronto ad apparire nei suoi atteggiamenti primitivi a chi saprà rievocarlo. Proseguiamo adunque : Lazare veni foras ! CAPO III LA POLCEVERA PRIMITIVA. LA POLCEVERA ALL’EPOCA DELLA TAVOLA DI BRONZO, i. La Polcevera nell’ epoca primitiva. Porsei-vi-a. — 2. La Polcevera all’ epoca della tavola di bronzo. — 3. Storia del regime agrario dei Liguri. Divisione del territorio fra tribù. — 4. L’ ager privatus della tribù. — 5. L’ ager poplicus. — 6. I compascui. — 7. I prati nei compascui. — 8. Opinioni del Rudorff e del Desimoni. — 9. Le comunaglie; nidge. i. La Polcevera nell’epoca pastorale era una bella foresta, ricca di pini, di faggi, di roveri, di castagni, di carpi, di abeti, ove intorno alle capanne dei pastori formicolavano pecore, agnelli e sopratutto veri (porci selvatici) e porsèi (porci domestici). Queste prime nozioni ci fornisce il dialetto coi suoi antichissimi nomi. Pósei-vi-a significa vi multitudine di porsei, come Bó-viu e Bo-biu significa vi di buoi. Polcevera in italiano non è che una traduzione del Porcifera di Plinio, il quale, afferrando il significato primitivo della voce dialettale, avea tradotto : ferace di porci. Anche il termine di Procobera e Porcobera usato nella tavola di bronzo ritorna allo stesso significato. E se vi fosse bisogno di ulteriori commenti, si può richiamare la testimonianza di quel Vescovo che, di ritorno dal - 193 - concilio di Trento, scrisse della Polcevera: «Vallem inveni plenam castaneis et animalibus immundis ». L’Accinelli scrive di Genova nell’anno 1751 « Fu in » quest’anno tanta abbondanza di porci in Genova che » si risolse il Magistrato dei PP. del Comune, con suo » decreto 13 Marzo, a dar facoltà a tutti di ucciderli ». Nè era questa una particolarità dei Genovesi perchè tutte le grandi città abbondavano di simili ospiti. Se questo avveniva nel secolo scorso, si può immaginare che cosa fosse il mondo primitivo. Por sèi in Polcevera, gulli nella vallata di Rapallo, Berti, cioè pastori di beri nella riviera di ponente. I-beni per tutta la Spagna tanto da darle il nome di Iberici. Tralascio tutti i verus, verres, porcus che infiorano la storia romana. Ricordo per i Genovesi il Sus-èia (aug-eia) luogo di porci. Venendo all’ analisi della parola dialettale Pósei-vi-a è facile scoprire nel Pò sèi una sfumatura fonetica di pòrsèi. Per quella tendenza a sopprimere le consonanti, che è propria del nostro dialetto, l’r quasi non si pronunzia, ed è questa la ragione per cui 1’ 0 prende talvolta un suono nasale e facilmente si pronunziaponsei-vi-a. Il Giustiniani, che come Genovese avvertì quella sfumatura, scrisse Pocevera. Il vi è parola ornai nota; quanto all a è la solita finale del femminile Adunque Pósei-va era la valle abbondante di porci. Concorda la filologia e la tradizione storica; concordano pure altri fenomeni locali che accenneremo fra poco. La flora primitiva della Polcevera ci è data da questi nomi : Figino era un luogo piantato a faggi (cpT]Yivo$) ; il monte Figogna era il monte tutto circondato di faggi (cpriywv, óvos). Presso 1’ abbazia del Boschetto } in quella Atti Soc. Lig. di Storia Patria. Voi. XX.2C. ‘4 — 194 — piccola costiera per cui si sale dal Boschetto a Borzoli, dovevano essere delle tagliate di faggi ai tempi romani il cui nome Jiguie e Jiguaè fu probabilmente quello che diede occasione ai romani di scrivere Ad Jìgulinas nei loro itinerarii. 11 Ligure distingue ancora oggidì ruveied, da ruveiaè, tagliate di roveri, tassarciì bosco di tassi, da taxaee, tagliate di tassi ; e così distingue carpineto da carpinaèe, Pi /èo da Pinaèe. I monti intorno a Genova erano per la maggior parte boschi di pini, e si capisce come siano stati i primi ad essere sacrificati alle esigenze della navigazione. Divennero pinaèe e finirono in quello stato miserando in cui si presentano alla « Pro Montibus » del secolo XX. Sulla sinistra sponda della Polcevera abbondano i roveri , troviamo ruvaeiè, cioè tagliate di roveri (a vuié); e roveri a bosco a Rivarolo, Ruveieu. I porci che ci annunziava il nome di Porsei-vi-a li ritroviamo con stabile domicilio a Fum-eri, mucchio (jpu?ì) d eri, a Ma-n-en, affatto negli eri. Sotto le ruvaeié, ossia Vuiè, la tavola ci segna il Ben-giema, e il fossato Veri-glasca, due nomi che rappresentano egualmente i Veri (non dimentichiamo che b e v si corrispondono^. Le pecore, le ovine, oin, che avevano sì gran parte nel paesaggio primitivo, le troviamo ricordate in Polcevera in queste voci. Ment-oin, Ment-on, erano le frasi abitualmente adoperate per indicare tutto pecore (Men, Ment, tutto affatto). E noi troviamo i Mentoin, i Mentovines della tavola, a Larvegu e alle Capanne di Marcarolo, veri paesi da pecore; troviamo le pecore anche giù in basso a Pre-menton, prati tutti pecore. La vallata era chiusa in alto dai monti che si chìa- — i95 — mavano Lemuin, che la tavola di bronzo illustra col titolo di Lemurini. Era la catena che s’incurva sopra Cravasco e Pietralavezzara ; da tempi antichissimi i monti più alti di questa catena si chiamavano Ta-cun e Lecco. come vedremo a suo tempo-. Veniva poi il monte detto ora Peuzu, allora a Uà (nella tavola A/ianus), poi ó Zuvu ora Montàdo (nella tavola Joventius), poi il Cao-pennin (nella tavola Apeninus Summus) ora Ca-pellin, poi il Tuledon ora Caermo. La Póseivia aveva per suoi affluenti principali il Verde, che fu tradotto per Ede nella tavola, e il Tuntlasca ora Seca. La vallata era da tempi remoti abitata da due popoli Liguri, i Viturii e i Zenoeixi. Questi popoli si suddividevano in tribù ; a Langasco aveva il suo centro una tribù di Viturii che abbracciava nella sua periferia Sesia, Mignanego, Isoverde e Campomoron (tutti nomi dell’epoca antichissima). In seguito questa tribù si estese in quel di Sera, Pedemonte e Vuiè, come vedremo dalla tavola di bronzo. Da Seanesi e Castrofin (S. Cipriano) cominciavano le tribù dei Zenoeixi che occupavano la parte bassa della Poseivia e si estendevano da Caestro-Jin a Porto-fin, due nomi che rimangono tuttora intatti a indicare i confini storici dell’ antichissimo popolo Genuate. Di tutti questi fatti avremo la dimostrazione man mano che penetreremo nel segreto della tavola di bronzo. * 2. — All’ epoca della tavola di bronzo, che è quanto dire all’ epoca in cui i Liguri vengono a contatto coi Romani, i nostri erano tutt'altro che barbari; la Polcevera — 196 — era, come già dicemmo, fiorente per coltura. Gli esi, cioè gli abitati, le belle ville , coprivano tutta la valle. Ne fan fede gli antichi nomi di Sesin, Sean-esi, Montan-esi e il Langasco e i castelli descritti nella tavola, e i raccolti di vino e di grano chè la tavola assegna al territorio di Pedemonte e di Vuié. Il passaggio dallo stato pastorale allo stato di coltura doveva essere avvenuto molto lentamente. Non temo di essere esagerato dicendo che all epoca della tavola di bronzo Viturii e Genoati erano almeno da venti secoli stabiliti in quelle sedi. Vediamo come avvenne questo passaggio allo stato di civiltà. L indagine è importante perchè ci dà occasione di studiare nei suoi primi atteggiamenti il regime agrario descritto nella tavola, quel regime che si estrinseca sotto i moltiplici aspetti di agro privato — agro pubblico — compascui — prati nei compascui. * 3- — Nella vita pastorale primitiva non vi era motivo di stabilire a chi appartenesse la proprietà della terra ; questa, come dicemmo, si considerava un bene comune al pari dell’ aria e della luce. Ma quando l’agricoltura comincia a svilupparsi accanto alla pastorizia, la terra acquista un nuovo valore. Dapprima si considerava come patrimonio della comunità, ma il lavoro dei singoli genera necessariamente il concetto di proprietà individuale, ed è allora che comincia quella evoluzione per cui, da una comunione generale, si passa mano mano ad una comunione più ristretta, e si finisce colla proprietà privata. — 197 - I Liguri erano fin da tempi remotissimi divisi in diversi popoli. Cominciarono a ripartire i territori fra popolo e popolo. Eccovi i Zenoeixi col loro centro, astu, a Zen-a — i Viturii col loro centro, astu, presso Votri ( i ) luogo segnato Hasta nella tavola Peutingeriana — i Tigulli (2) col loro centro a Rapallo (3). Questi erano popoli che probabilmente formavano una confederazione, la quale faceva capo a Genova. Nella parte orientale vi erano gli Apuani ed altri popoli che facevano capo a Luni. Fra gli occidentali primeggiavano quei di Saona (4), di Inganno (5) (Albenga) e di Intimelio (6) (Ventimiglia) i quali si orientavano probabilmente su Ventimiglia. Di questi raggruppamenti abbiamo degli indizii nei fatti che accompagnarono l’invasione d’ Annibaie ; si sa che la riviera occidentale parteggiò per 1’ invasore, quelli che abitavano in fondo al golfo si tennero neutrali dopo essersi più volte riuniti a consulto (7). (1) Votri corrisponde al greco Bóxpuj, uva, come vedemmo a p. 148. (2) Ti-gulli, abbreviazione di ’ti-ti-gtilli, in ti porci. Vedi p. 155. (3) Rapallo si decompone in Rap-allo. Quell’ allo si trova sovente nelle voci liguri e significa (àXXoj) come Morg-allo, l’altro Morgo. Questa considerazione ci porta a credere che realmeute l’antica astu dai Tigulli fosse più dentro terra, forse dove è ora S. Maria del Campo, come riferisce la tradizione. Perchè si chiamasse Rap-allo la nuova città, bisogna che l’antica si chiamasse Rapo o Rafo, giacché la radice del nome è pacp, rapa. Propenderei per il Rafo, che coincide con un cognome molto comune nella Riviera di Levante. (4) Saona risponde al greco oaóo), salvo, e significa luogo di approdo di scampo. Vedi p. 116. (5) In-gauno significa nel ginocchio, in yóvt), e si riferisce alla sporgenza della montagna. Vedi p. 100. (6) Significa in (imèlu, termine ligure che significa punta nelle piante, vertice nei monti. Tutti sanno come l’antica Ventimiglia sia appunto in un caratteristico 5imélu. Vedi p. 79. (7) Serra. Storia di Genova, Voi. I, p. 12. — 198 — Alle spalle dei Viturii e dei Genovesi erano gli Statielli, capitale Aiqui e i Tur-tun-in, capitale Tur-tun-ci in latino Dectunini e Dectuna poi Derthona. Ogni popolo si suddivideva in tribù. La tavola parlando dei « Vituri Langen » ci fa conoscere chiaramente che diverse erano le tribù dei Vituri, ed io pongo fra queste quei di Vótn, i Langen e i Mentovin. È importante al riguardo l’avvertimento del Mommsen, il quale ci raccomanda di non moltiplicare troppo i popoli liguri, e di aver in mente che molti nomi rappresentano suddivisioni, tribù dello stesso popolo. 11 territorio adunque fu ripartito prima fra i diversi popoli, poi fra le tribù di ciascun popolo. I gioghi e i corsi d acqua segnavano generalmente le linee di confine. Si diceva agro Viturio quello che spettava al popolo dei Viturii — agro dei Viturii Langen quello che spettava alla tribù che aveva il suo centro a Langasco, e così vi era 1’ agro dei Vituri Mentovini con sede a Larvegu, 1’ agro dei Vituri marittimi con sede all 'Astu (Hasta) presso Voltri. Fra le tribù dei Genoati io pongo: i.° quei d'A-r-bd (Albaro), 2.0 i Nervin (Nervi), 3.0 quei di Sori (Sori), 4.0 i Camuin (Camogli). 5.0 gli Enin (San Pier d' ein-d), 6.° quei della Doria in Bisagno, 7.0 i Bavai (Bavari) » 8.° i Bar gai (Bargagli) » 9.0 gli Ode (Orerò), io.0 quei di Castrofin (S. Cipriano), — >99 -ri.® quei del Ruveièu (Rivarolo), i2.° quei di Seanesi (Ceranesi) (i). I Tortonesi avevano probabilmente molte tribù; importantissima diverrà col tempo quella dei Libarnesi occupanti valle Scrivia e vai Borbera con centro a Libarna. L’agro od arvo di ciascuna tribù si chiamava poplicus, abbreviazione di populicus perchè al popolo apparteneva. * 4> — Mentre queste divisioni di territorii avvenivano nei rapporti esterni, altre importantissime modificazioni avvenivano nel regime interno delle singole tribù. Ogni tribù aveva preso stabile dimora sulle alture, Odjv, e dalle alture era discesa nelle valli, scegliendo di preferenza i luoghi più soleggiati, lungo le roie o dorie presso le fun-tan-e. Ed in quelle plaghe, col consenso della maggioranza, ciascuno roncava, stabiliva le sue fasce e le sue maxée. Accanto ai legumi cresceva il grano, 1’ oia ossia 1’ ulivo, la vigna e i frutti squisiti. Le parole in mor, moro come Morgo, Morgallo, rappresentano, come già vedemmo, i bei frutteti della Polcevera di 2000 anni fa. Si formarono allora quelle belle ville che furono per così dire le prime monadi di proprietà privata, gli esi, che coll’ andar del tempo divennero pa-esi, cioè gruppi composti di molti est. Come è naturale, la tribù concedeva che chi aveva dissodato e reso fruttifero un terreno se lo godesse, pagando il concessionario un piccolo canone; poi si andò più innanzi e si disse che poteva venderlo e trasmetterlo (1) Ritorneremo a parlare di queste tribù al cap. VII. — 200 — agli eredi ; poi lo si esonerò anche dal canone ; e questa è 1 origine della proprietà privata. Tutto 1 insieme di case e ville private formò appunto 1 Ager PRrYATVs di cui parla la nostra tavola. * ^a parte meno fertile del territorio, quella che non era stata oggetto di ripartizione ai privati, restò 1 Ager poplicvs, cioè territorio di uso pubblico. Se non che lo svilupparsi della popolazione , il progredire dell agricoltura, il rapido avanzarsi della civiltà spingevano i popoli ad intaccare anno per anno 1’ agro pubb-ico con nuove coltivazioni. All’ epoca di cui parliamo s: camminava a grandi passi nella trasformazione dell agro pubblico in agro privato. La tavola ci ta conoscere che nell agro pubblico dei Langen vi era una quantità di possessi privati. che dovevano essere r.spettati come tali, pagando essi un canone all erano della tribù. * 6- — Spiegato 1 ordinamento primitiva e le evoluzioni successive, ed il rapporto che intercedeva fra agro privato ed agro pubblico, passiamo ora a vedere che cosa debba intendersi per « Compascui > secondo la tavola di bronzo. Mentre le valli si coltivavano, le alte costiere dei monti rimanevano sempre destinate alla pastura. Pare che per avere più ampiezza e libertà dì pascoli lasciassero quelle -One montuose, che erano zone di connne, ad uso prò- — 201 — miscuo di tutti i popoli confinanti. I monti che dividono la Polcevera dalla Scrivia erano bensì dell’agro dei Langen nel versante sud, e dell’agro Dectunino nel versante nord, ma Langen e Dectunini portavano lassù il loro gregge e pascolavano liberamente al di qua e al di là, almeno per una determinata zona. Lo stesso dicasi dei monti che erano fra i Genoati e i Vituri da Vuiè a Ouè. Ecco spiegato il compascvo, parola che, letteralmente tradotta, significa pascere cum, pascere insieme. «r 7. — Resta a spiegare la faccenda dei prati. Venne un giorno che anche il fieno ebbe un valore e formò oggetto di speculazione privata, al quale risultato avrà contribuito per molta parte il passaggio frequente delle legioni per la ria Postumia. Si capisce che i Langen, che si trovavano precisamente sulla gran via, che da Genova conduceva a Piacenza, tendessero più degli altri a far monopolio di fieno. Si capisce molto bene dalla tavola che essi andavano d’ anno in anno restringendo le zone destinate al compascuo, stabilendo poco per volta dei prati e chiudendoli. Si capisce che Genovesi e Dectunini fossero malcontenti e che finissero per far altrettanto da parte loro. Ecco spiegata la sentenza dei Minucii quando dice, in via di conciliazione: si mantenga lo stalu quo nei compascui. Sia libero a tutti i Langen, Genoati, Dectunini, Cavaturini e Mentovini pascervi il gregge, far legna, prender materiali- Quanto ai prati che si son fatti nei compascui restino, ma non se ne facciano dei nuovi, o — 202 — per lo meno, volendo farne, si abbandoni al compascuo altrettanto dei prati vecchi. * 8- — Riassumendo , dirò col RudorfT che nell’ agro pubblico, in causa delle continue trasformazioni, eransi formate tre categorie: r.° l’«ager cultus» cioè i coltivi dei privati che pagavano un canone alle tribù ; 2° « prata » i prati formati dalle tribù ; 3.0 « compascua » i compascui, i pascoli e boschi destinati al godimento promiscuo, che andavano sempre più restringendosi alle parti alte e montuose per il continuo avanzarsi dei prati e dei coltivi. Il prof. Desimoni, inspirandosi alle idee del Kemble sugli agri germanici, ritenne che il compascuo fosse un terzo agro che facesse corona all’ agro pubblico. Non mi sembra che a un tal concetto si presti la tavola di bronzo. Il pascolare promiscuo , caratteristica del com -pascuo, si esercitava nell’« agro pubblico» dei Langen, come degli Odiati, dei Dectunini e dei Cavaturini, e non in territorii speciali ; e la tavola lo dice quando stabilisce i rapporti fra i prati e compascui, quando proibisce di far altri prati nell’ agro pubblico, quando dice che nei prati già fatti non si potranno dai Langen, Odiati, Dectunini, Cavaturini e Mentovini condurre bestie a pascolo, che volendo far nuovi prati bisognerà lasciar libero altrettanto territorio per il pascolo comune. Adunque prati e compascui erano due elementi che tendevano ad escludersi a vicenda entro I' agro pubblico. Un altro argomento — 203 — decisivo mi par che nasca dal vedere quali sono i confini dell’ agro pubblico dei Langen. Esso arrivava fino al giogo, e si capisce che al giogo arrivava, d’ altra parte, 1’ agro pubblico dei Dectunini e dei Cavaturini. Non poteva quindi esistere una zona intermedia, e per necessità bisogna concludere che i compascui si esercitavano, dai popoli confinanti, sulle parti estreme dei monti in una zona che da una parte era agro del popolo A, dall’altra del popolo B. Non vi era territorio che non fosse agro pubblico o privato di qualche popolo, ma vi erano delle porzioni di agro che restavano soggette al pascolo promiscuo, e queste si dicevano i compascui. Del resto io mi limito qui a delinear la mia tela; e non è per ora il caso di entrare in discussioni che avranno il loro posto nei successivi capitoli. * 9. — I compascui di cui parla la tavola divennero col tempo le comunaglie di Fiaccone, Busalla, Savignone e Casella al di là del giovo; Mignanego, Serra, Ouè al di qua. Compascuum è termine latino, ma non fu mai in uso presso i liguri, i quali adoperavano piuttosto il termine di comunaglie per rappresentare le zone destinate ad uso comune. Per i liguri la parola « compascua » sarebbe stata meno propria, per la ragione che i loro beni d’uso comune erano essenzialmente boschi, che servivano al pascolo non solo, ma a provvedere legna da ardere e materiali da costruzione. Comunaglie è pur esso un termine preso dal latino, ma, — 204 — prima che i libri censuarii adottassero il latino comu-nalia, esisteva una parola dialettale di cui ho trovato i residui sui nostri monti ed è il « niàge » Kotvó? e xotvwvta dicevano i Greci per significare « comune e comunione » e xocvovixó? (che resta in canonico) per significare la persona o la cosa faciente parte della comunione. Argomento da ciò che il « niàge » che incontro sovente nelle alte zone montuose, corrispondenti senza dubbio agli antichi compascui, altro non sia che un abbreviazione di un’ antichissima forma dialettale, che io reintegrerei in como-màge (xoivovià-YTj), e per abbreviazione niàge. 11 latino communis, communalia altro non sarebbe che una trasformazione dell’ antica radice coinu in commu. Ma lasciando le disquisizioni linguistiche, si può ritenere per certo che le comunaglie dei nostri monti sono 1’ ultimo residuo di un sistema agrario che risale a non meno di 4000 anni fa. Ed ora che conosciamo sufficientemente le persone ed i luoghi, veniamo all’ esame della sentenza. CAPO IV. LA SENTENZA DEI MINUCII. i. I rapporti dei Liguri coi Romani. — 2. I fratelli Minucii. - L’influenza dei Romani in Liguria. — 3. Epoca della sentenza. — 4. Carattere della sentenza. — 5. Preliminari e formalità. — 6. Definizione dell’agro privato dei Langen. Suoi confini. — 7. Confini dell’agro pubblico. — 8. Vectigal dovuto dai Langen ai Genovesi « prò eo agro ». Si respinge il concetto di sudditanza, finora ammesso dal Rudorff, dal Mommsen e dal Desimoni. — 9. Cosa fosse il « Vectigal » e 1’ « ager vectigalis ». — 10. Decorrenza del Vectigal dovuto dai Langen. — 11. I possessi privati nell’agro pubblico. — 12. Compascui 0 comunaglie. — 13. Norme per i compascui fra Genovesi e Vituri. — 14. I prati nei compascui. — 15. Decisione relativa alla liberazione dei prigionieri. Anche qui si elimina l’idea di sudditanza. — 16. Dissensi sul modo di leggere il testo. — 17. Discrepanze di lettura e di interpretazione a riguardo della clausola - si • oyoi • de • ea • re • iniqvom • videbitvr. — 18. Il nome dei delegati Genovesi e Viturii. i. — Perchè i Romani sentenziavano delle cose nostre ? Genoati e Viturii facevano parte in quel tempo dell’ impero del popolo romano nella condizione di confederati e per usare la parola classica di « socii >. È questa la generale opinione degli scrittori. I motivi che inducono a ritenere che i Genovesi ed i popoli in fondo al golfo fossero nelle condizioni di socii e non sudditi, sono diverse : i.° Il fatto che mai si trova menzione nei documenti di Genova colonia. — 206 — 2° Il fatto che mai si parlò in Genova di Pretori, o Questori, ossia di quei magistrati che si mandavano nei paesi conquistati (Sicilia, Africa, Spagna ecc.) per amministrare e rendere ofiustizia. o 3.0 Il fatto che, i Genovesi contestarono sempre agli imperatori di Germania il dominio di Genova appoggiandosi ai privilegi antichissimi che godevano ai tempi romani. Ricordiamo le parole di Caffaro alla dieta di Roncaglia : « Ab antiquo concessum et firmatum est per romanos » imperatores, ut ab omni angaria et perangaria habita- > tores civitatis Ianue debeant perpetuo excusari, solamque » fidelitatem imperio debeant.... Et non possunt de » reliquis appellari » (1). 4.0 Lo studio della tavola ci fornisce altri validissimi argomenti. Veniamo infatti a conoscere che i Genovesi avevan preso, e condannato i Langen esercitando giurisdizione propria, ciò che vuol dire che Magistrati romani in Genova non funzionavano. Nel parlare delle persone che potranno possedere nell’ agro pubblico dei Langen, si stabilisce che nessuno vi potrà possedere senza il permesso della maggioranza dei Langen. Ora è facile il comprendere che i Romani non avrebbero dichiarato queste cose per un territorio di loro dominio. Non solo non si sarebbe assoggettato il civis romanus ad una maggioranza di Langen, se per avventura ad un civis romanus fosse saltato il ticchio di avere una villa a Langasco, ma avrebbero piuttosto stabilito che per possedere vi doveva essere il beneplacito dei romani. Si nota infine in tutte (1) Vedi Caffaro e i suoi tempi del Marchese Cesare Imperiale di S. Angelo. — 207 — le espressioni dei fratelli Minucci una deferenza che sarebbe veramente eccessiva e inesplicabile, se non si fosse trattato di socii. Se avessero giudicato dei sudditi i fratelli Minucii non avrebbero detto « ci pare che i Langen debbano avere il godimento. . . ci pare, conveniente che i Genovesi debbano rimandare i prigionieri ». Coi popoli soggiogati non si parlava così, ma si diceva « ordinamus, statuimus ». Più che giudicare si imperava. I Romani erano inesorabili coi vinti ; se non li opprimevano, li annientavano ; viceversa i popoli che non si mostravano ostili erano trattati come amici, finché non intralciavano le viste dei conquistatori. II sistema romano di maneggiare i popoli è delineato con due parole assai crude dal Macchiavelli « o vezzeggiarli o spegnerli ». I nostri Genoati e Viturii erano a quel tempo fra i popoli vezzeggiati. A Roma conveniva per i suoi fini politici 1’ amicizia dei Genovesi ; ai Genovesi conveniva per i loro scopi commerciali l’amicizia di Roma. Erano dunque « socii » si governavano da sè, avevano magistrati proprii, amministravano le proprie rendite, non pagavano tributo a Roma, contribuivano soltanto alla difesa del-l’impero, al mantenimento delle strade, alla formazione degli eserciti; erano alleati « et in amicitia populi romani vivebant ». Quando nascevano questioni interne fra Socii e Socii, il Senato si affrettava ad intervenire per cacciare innanzi più che potesse la sua autorità. Le divergenze per gli agri erano frequentissime in Italia ; e non mancano esempi in Livio di delegazioni fatte dal Senato a questo riguardo. Nell’anno 173 a. l’E. V., essendo consoli L. Postumio — 2o8 — Albino e M. Popilio Lenate, lo sterminatore dei Liguri Statielli, « senatui placuit L. Postumium consulem ad agrum publicum a privato terminandum in Campaniam ire, cuius ingentem modum possidere privatos, paullatim profferendo fines, constabat » Livio, Lib. xlii, n. 2. Come si vede, anche nella Campania vi era lo stesso sistema di agri, là come in Polcevera si tendeva a diminuire l’agro pubblico, il compascuo, donde saran venute le solite guerre. Il console mandato dal Senato avrà, come i fratelli Minucii, piantato i termini e forse anche redatto un verbale in tavola di bronzo, di cui una copia sarà stata affissa sul luogo, ed una copia originale sarà stata portata a Roma. Queste tavolette di bronzo si conservavano nelle sale dell erario presso il Campidoglio, come ci attestano Polibio, Lib. in, c. xxvi; Livio, 111, 55; Svetonio in lui. Caes. c. 28, in Aug. c. 94. * 2. — I Minucii mandati a Genova, per giudicar le controversie fra Genovesi e Viturii, appartenevano ad una delle più illustri famiglie di Roma. La gente Minucia numerava già nei suoi fasti setti consoli, un Pontefice Massimo, un trionfatore. Ed era uno dei loro, e della famiglia dei Rufi, quel Minucio che era comandante in capo della cavalleria e morì contro Annibaie alla battaglia di Canne. Un Quinto Minucio Termo, fu console nell’anno 193 a. 1’E. V., e risulta da Livio che dimorò molto tempo in Liguria e che nel 197 partì da Genova — 209 — con un esercito per soffocare la ribellione di quei di Casteggio; morì combattendo contro i Traci. lo penso che in quel tempo in cui il console Minucio Termo fu in mezzo a noi, essendo egli consigliato dalla necessità del momento a cattivarsi la benevolenza delle nostre popolazioni, molte cose si devono essere compiute e molte incamminate nell’interesse di Genova. Genova, che per causa dei romani era stata distrutta da Magone (205 a. 1’ E. V.), che nel 203 era stata ricostrutta dai soldati del Pretore Lucrezio, deve avere fatto valere.in questa circostanza (197) i sacrifizii incontrati per Roma, ed allora devono essere nati i primi accordi coi Romani per la navigazione e la sorveglianza del mare e per 1’ autonomia del popolo Genoate. Minucio avrà proba bilmente fatto intravedere i vantaggi di una gran strada (la Postumia costrutta poco dopo) che avrebbe messo 1’ Emporio in relazione colla vallata del Po. Gli interessi politici di Roma, coincidendo molto bene cogli interessi affatto commeriali di Genova, è ovvio che una buona relazione siasi stretta a quel tempo fra Zenoati e Ro mani e che Zenoa abbia appunto in quel tempo assicurata la sua libertà entrando nel novero delle « civita » confederatae », le quali, come scrive il Merula « suis » legibus et magistratibus vivebant, diversisque foede-» ribus amicitiam cum populo romano connecteb Nel secolo sesto di Roma, che è appunto l’epoca di cui parliamo, si trovano frequentemente in gazioni dei Tribuni per accordare la cittadinanza Romana a città italiane. Cito ad esempio ciò che e scritto a capo 36 del libro xxxm. Probabilmente e in quest epoca che i Genovesi furono ascritti alla tribù Galena, come si «f Atti Soc. Lig. di Storia Patria. Voi. XXX.. evince da un marmo scoperto in Roma nel 1796. {Vedi Sanguineti /scrizioni p. 24). Trovo anche verosimile ciò che pensa il Serra che i nostri Liguri eleggessero in quell’occasione Minucio Termo loro patrono in Roma, come era costume delle città italiane , che si mettevano sotto la protezione dei Senatori più cospicui e più benemeriti per avere maggior favore alla capitale. L onorevole patrocinio era continuato generalmente dai successori , e questa, come dice il Serra, potrebbe essere benissimo la ragione per cui il Senato di Roma nella sua saviezza mandò i due fratelli Minucii, probabili nepoti del Minucio Fermo testé accennato. I nostri due Minucii erano allora al principio della loro carriera politica, ed i fasti consolari ci fanno conoscere che non furono degeneri dai padri. Uno di loro portò in famiglia 1 ottavo consolato, l’altro, il secondo trionfo, avendo debellato i Triballi e gli Scordisci, popoli Traci, che erano scesi in Dalmazia, dopo aver sconfitto il console Porcio Catone. E poiché ho fatto ai lettori la presentazione dei Minucii, mi piace ricordare qui i principali personaggi romani che capitarono fra di noi nei primi cent’ anni. — Nell anno 218 il Console Publio Emilio Scipione, che sbarcava alla foce di Rivotorbido in tutta fretta per andare a fronteggiare Annibaie sul Ticino (1). — Nel-1 anno 203 il pretore Lucrezio che venne colle sue legioni a rifabbricar Genova (2) distrutta da Magone fratello (1) Livio, XXI. 32. (2) Livio, XXX. 1. di Annibaie (i).— Nel 197 Quinto Minucio 'l'ermo (2). Fra il 186 e il 175 un console Postumio, che costrusse da Genova a Piacenza la via Postumia (3). — Nel 1 17 gli arbitri fratelli Minucii. — Nel 109 Emilio Scauro, che compieva la via littoranea Pisa, Luni, Genova, Vado e il valico Vado, Acqui, Tortona, Piacenza. Vennero certamente in seguito Mario, Pompeo, Cesare ed Augusto, ma di lor venuta non ci restano precise memorie (4). Qui richiamo 1’ attenzione del lettore sopra un punto molto trascurato di storia ligure, voglio dire la grande trasformazione che subì la Liguria per opera di Giulio Cesare e di Augusto. Ciò servirà a giustificare i miei criteri storici, per quanto concerne i rapporti dei Liguri coi Romani. L’ epoca di Giulio Cesare e quella di Cesare Augusto è certamente la più importante per la completa fusione che avvenne in quel tempo del Ligure col Romano. Strana coincidenza ! L’ epoca in cui Genova e la Liguria diventa romana è 1’ epoca in cui nasce Gesù Cristo, banditore del gran verbo che doveva rovesciare 1’ Impero. Giulio Cesare ed Augusto sono due figure talmente grandi che la storia non è mai riuscita a disegnarle per intero. La Liguria e 1’ alta Italia furono dal loro genio, che diè nuova forma a tutto il mondo, radicalmente rinnovate. Questa parte di storia che è la più importante e (1) Livio, XXVIII. 46. (2) Livio, XXXII. (3) Ne tratteremo a suo tempo nella parte III. I Liguri nell epoca romana. (4) Su questo tema dei Romani in Liguria è interessante il libro di W. H. Hall, The Romans 011 thè Riviera and thè Rhóne, London 1898. tuttora mal nota. La storia si comportò a riguardo di Giulio Cesare e di Augusto come ha fatto con Napoleone; descrisse, magnifico le imprese militari come se in queste consistesse tutta la loro grandezza. Ma, come bene osserva Luigi Arnaldo Vassallo (i), spirito geniale e protondo ad un tempo, « Napoleone non è soltanto un generale ; è sopratutto un uomo di stato che coordina una legislazione informe, o piuttosto la crea, che congegna con grandezza mirabile l’amministrazione pubblica mettendola in relazione diretta con i generali interessi .... Queste sono le vere, durevoli, grandi vittorie del genio strategico di Bonaparte ». Così è di Giulio Cesare e di Augusto. Gli storici narrano diffusamente del valore personale, delle rivalità, degli odii, delle stragi di cui furono causa, come se la loro grandezza consistesse essenzialmente nelle battaglie vinte, nel sangue sparso. Ma uno studio obbiettivo della grande opera politica da essi compiuta, e per cui furono benemeriti del mondo e della civiltà, raramente venne fatto. L opera militare di Giulio Cesare e di Augusto ebbe relativamente breve durata, l’opera politica e amministrativa fu così stabile che il mondo attuale non ha ancora scosse del tutto le basi su cui lo posero quei grandi uomini di Stato. Ritornando al nostro tema dirò che Giulio Cesare durante le guerre galliche svernò molte volte nella Cisalpina, che vuol dire o a Piacenza o a Vado, ed in quelle circostanze visitò tutte le regioni di qua e di là dell’Ap- (i) Secolo XIX, Gennaio 1900. — 21^ — penino, riordinò le colonie e i municipii accordando favori d’ogni genere, costruendo strade, innalzando templi e basiliche, introducendo dappertutto la grandezza romana (i). Cominciò allora il rapido latinizzarsi delle città dell’ alta Italia e della Liguria, le quali andarono poi a gara nel chiamarsi Julia, sia per gratitudine dei benefizii ricevuti, sia per l’ambizione di far conoscere che erano state le città predilette dal gran Giulio. L’opera più importante e meno conosciuta di Giulio Cesare fu la famosa Lex Julia municipalis (2), che fu lo statuto fonda-mentale dei municipii italiani non solo per tutto il tempo che durò l’impero, ma fu la base delle nostre costituzioni comunali nel medio evo e all’ epoca del rinascimento, ed inspira ancora molte parti della legislazione comunale moderna. La riferiremo a suo tempo, parlando dell’Epoca romana, perchè essa è il punto di partenza della nostra storia comunale da Giulio Cesare in poi. Augusto fu il continuatore del pensiero di Giulio Cesare ; più fortunato di lui potè completare e lasciare il suo nome a quella grande organizzazione politica che è la cosa più meravigliosa dell’ impero romano. Ho voluto accennare brevemente a questi fatti perchè il lettore possa convincersi che io non intendo di esagerare quel certo programma di ribellione all’ erudizione latina, ma intendo contenerlo nei suoi giusti confini, facendo una distinzione che raramente fu fatta e che è (1) Svetonio scrive, Iulius, § 28 « Provincias alliciebat .... Italiae . . . . potentissimas urbes, praecipuis operibus exornans ». (2) La Lex iulia ci è conservata in parte da una tavola scoperta nel 1772 ad Hraclea, che si trova oggidì nel Museo Nazionale di Napoli Fu illustrata dal Mazzocchi e dal Mommsen nel Corpus Inscriptionum. — 214 — capitale. I Liguri primitivi si devono studiare in sè stessi, eliminando ogni concetto latino. Solo dal ©-{orno in cui o viene a Genova Lucrezio e poi Minucio Termo e si costruisce la prima via romana in Liguria comincia il contatto con Roma. I patti federativi, la concessione della cittadinanza preparano il terreno alla imminente trasformazione. Ma un’influenza romana decisiva, assorbente, non si verifica che ai tempi di Giulio Cesare e di Augusto, i quali furono certamente in Genova, e la carezzarono e la favorirono in ragione dell’ interesse che presentava la sua posizione marittima, il suo popolo procacciante, attivo, intelligente, atto a comprendere le utilità e i vantaggi del nuovo ordine di cose. La difficoltà maggiore di questo studio dell’ antichità ligure sta precisamente nell’ apprezzare al loro giusto valore gli effetti di questi primi incontri fra l’elemento indigeno e 1 elemento invasore, per non vestire anzi tempo il Ligure da Romano, e per dare a suo tempo tutta 1’ importanza che merita all’ influenza latina. * 3- — È interessante fermarsi alquanto sull’epoca in cui la Sentenza fu pronunziata. Erano allora consoli, dice la tavola, L. Cecilio figlio di Quinto, e Q. Muzio figlio di Quinto. I romani numeravano gli anni dalla fondazione della città — ab urbe condita — ma la data negli atti pubblici si segnava generalmente col nome dei Consoli, che avean governato in quel dato anno, potendo ciascuno ri- - 215 — scontrare nei pubblici registri, ossia nelle tavole esposte in Campidoglio, gli anni corrispondenti ai nomi dei Consoli. Il Giustiniani era caduto in un grave errore nel far questo riscontro. 11 Muucio (forma antiquata) invece di Mudo lo mise in imbarazzo, ed egli finì coll’attribuire alla tavola una data erronea, cioè 290 anni a. 1’ E. V. — 477 di Roma. Altra ipotesi errata fu quella del Conte Carli che assegnò una data posteriore di 50 anni. La data vera — 637 di Roma — fu ristabilita dal Brisson e dal Bizarro, e poi con molta erudizione giustificata dall’ Oderico e dal Serra. Nell’ anno 637 di Roma — 117 a. l’E. V. — secondo i fasti consolari (vedi Mommsen) erano appunto Consoli L. Cecilio, figlio di Quinto Metello e Quinto Muzio figlio di Quinto. Sarà utile chiarire alquanto questa data per mettere in armonia la nostra storia con quella di Roma. Siamo nell’ epoca più bella della repubblica romana, al momento delle grandi conquiste, delle grandi e feconde lotte fra il patriziato e la plebe. Questa si agita inspirandosi alla memoria dei Gracchi, i coraggiosi tribuni uccisi dal prepotente patriziato. Siamo in un momento di reazione patrizia, tanto è vero che nel 643 viene approvata la legge thoria diretta a convalidare le usurpazioni degli agri pubblici per parte dei grandi. A Roma fioriscono in questo periodo uomini eminenti, fra i quali primeggia 0. Muzio Scevola, che secondo il Serra e il P. Cantova, è il console ricordato nella tavola. Muzio Scevola era il grande giureconsulto, che disputava nel foro con L. Crasso e con Antonio, che fu maestro di diritto e di eloquenza a Cicerone, che dettò molti responsi di diritto civile che noi conosciamo indirettamente, — 2 16 — solo perchè li troviamo citati con grande venerazione nei frammenti del Digesto Giustinianeo (i). Cecilio Metello, 1 altro console, nominato nella tavola, apparteneva all illustre famiglia dei Metelli che già contava sette consoli. Per distinguerlo da tanti altri illustri Me- II) « A conoscere le virtù ed il sapere di questo grand’uomo, basta leggere ciò ..he in di\erse occasioni ne dice Tullio. Non voleva egli tenere icuola nè pubblica nè privata di giurisprudenza; ma molti, ciò non ostante, accorrevano ad udire le saggie risposte ch’egli dava a coloro che a lui venivano per consiglio, e questo stesso era un utilissimo magistero, di cui Cicerone confessa di essersi giova o assai (De CI. Orai., n. Sp). A un profondo saper delle' leggi conDiungeva egli uni robusta eloquenza. Quindi Crasso, presso Cicerone, di lui parlando così dice: (De Orat., 1. i, n. jq): Q. Scaevola aequalis et collega meus, homo omnium, et disciplina juris civilis eruditissimus, et ingenio prudenliaque acutissimus, et oratione maxime limatus atque subtilis; atque, ut ego soleo dicere, juris- * Per*l°rum tloquentissimus, eloquentium jurisperitissimus. Quintiliano ancora gli dà luo°o quelli che nella giurisprudenza insieme e nell’eloquenza eransi acqui-» stati gr.tn nome (/. io, c. _j). Uomo al medesimo tempo di probità insigne, era a tutta la repubblica esempio e modello d’ogni più bella virtù. Memorabile è il fatto che di lui narra Tullio (De Offic., I. 3, n. 75), cioè che volendo egli » fare acquisto di un campo, e, fattane già la stima, avendo cercato al venditor di vederlo, poiché ebbelo esaminato, disse spontaneamente che il prezzo a cui » età stato stimato, non ne eguagliava il valore, e una somma assai maggiore gliene fece contare. Per questa sua integrità fu in odio a quelli a cui essa era » ed uno spiace voi rimprovero ed un rigido freno (Cic. pro Plancio, n. 13); e » questa, per avventura, fu la cagione dell’infelice sua morte; perciocché egli ne’ » funerali di C. Mario fu per mano di uno scellerato crudelmente ucciso (id., prò » Roscio Amer., n. 12). Intorno a questo e agli altri Scevola che furon celebri in Roma singolarmente pel loro sapere nella giurisprudenza, veggansi le annota-» zioni del P. Giuseppantonio Cantova della Compagnia di Gesù, poste al fine del » primo libro dell Oratore di Cicerone, da lui di fresco tradotto e dato alle stampe; » nelle quali, con diligenza assai maggiore che non abbian fatto comunemente gli » altri spositori, ha accuratamente distinte ed esaminate le cose che a ciaschedun » di essi appartengono. Quegli di cui qui favelliamo, fu certamente uno dei più illustri giureconsulti che vivessero in Roma, e secondo il parere del Terrasson ■> (Hist. de la Jurisprud. Rom.,p. 229) e di molti altri scrittori, fu egli il primo » che a qualche ordine e divisione riducesse il Diritto civile, intorno a cui egli » scrisse diciotto libri, i quali dagli antichi giureconsulti sono spesso allegati ». Così il TiraboscliL - 217 — telli.la storia lo designa col nome di Dalmatico (vincitori dei Dalmati). Questo C. Metello ci richiama alla memoria un’ altra grande figura della Storia' di Roma , C. Mario. Nell’anno 635 di Roma, due anni prima della nostra tavola, Caio Mario, scrive Plutarco, ottenne il consolato per broglio di Cecilio Metello. Arrivato con questo mezzo, Caio Mario proponeva subito una riforma elettorale, come si direbbe in oggi, per frenare le corruzioni (1), e al Console Cotta che si opponeva minacciò di farlo arrestare, e la minaccia fece eseguire contro il Senatore Metello suo protettore, che aveva parlato contro la legge. E così dice Plutarco , la legge fu approvata, '« e Mario passò per uomo che non si lasciava piegar per timore, nè smuovere per verecondia e che forte era e terribile in contrastare al Senato in grazia del popolo. » Cito questi fatti per dimostrare come certi fenomeni politici non sono novità dei tempi nostri. Brogli elettorali e corruzioni degli uomini pubblici per denaro (2) furono sempre le piaghe che afflissero Roma nei tempi della repubblica, come nei tempi dell’ Impero. 11 colorito del- (1) Mario propose, per impedire ai nobili il traffico dei voti, che i ponti o ingressi conducenti nel recinto dell’assemblea fossero fatti più angusti, affinchè vi entrasse uno solo alla volta, e non potesse stare alcuno sul passaggio a mercanteggiare i suffragi. Leggi vane, finché il popolo non comprende il valore e la dignità del voto. (2) Appunto nell’ epoca di cui stiamo parlando si ordivano le prime fila di quella matassa di scandali che fu la guerra Giugurtina, e che finì poi nel clamoroso processo dell’anno no a 1’E. V. in cui furono implicati in gran numero consoli, proconsoli, questori e pontefici, tutti accusati di aver tradito la repubblica e essere stati corrotti dall’ oro giugutino. In quel processo dell’ anno 110 apparisce anche il nome di quel famoso Emilio Scauro, che un anno dopo (109) tro vererno occupato, come censore, ad asciugar le paludi piacentine ed a costrurre la strada Pisa, Luni, Genova, Vado, e Vado Acqui, Piacenza. — 2l8 — 1 epoca ci è dato molto bene dai due consoli testé accennati : Metello, carattere di guerriero, di patrizio, di politico appassionato, intrigante, senza scrupoli. Muzio Scevola, carattere di uomo di Stato, di giureconsulto retto, inflessibile, uguale a se stesso tanto nella vita pubblica che nella vita privata. Fu un’epoca disordinata, ma esuberante di forze creatrici. Fu una delle più grandi primavere della umanità, se si pensa a quel meraviglioso svolgimento di cui fu allora capace il popolo Romano, nell ordine politico, sociale e giuridico. * 4- — Veniamo ora all’ esame della sentenza dettata dai fratelli Minucii, la quale più che una sentenza si potrebbe dire un verbale di conciliazione. Infatti la tavola dice che esaminata la questione — coram inter eos composeivervnt — In Roma non si fece che dare sanzione e autorità di cosa giudicata al componimento. Le controversie che si erano presentate ai giudizio dei Minucii erano di diversa natura. Non sarebbe esatto chi dicesse che si trattava di un semplice regolamento di confini. Bene esaminando la sentenza, e ponendola in relazione colle formole del diritto romano, si scorge che, -per un giureconsulto venivano in campo tre actiones : i.° L’ « actio finium regundorum », cioè di regolamento di confini. 2° L’ « actio vindicatoria », perchè non solo si volevano segnati i confini, ma si proponevano questioni attinenti alla proprietà, al possesso, ai patti enfiteutici. 3.0 L’ « actio de damno iniuria dato » nascente dalle — 219 — ingiurie e vie di fatto. Questa azione era regolata dalla famosa « lege Aquilia » che fu pubblicata nell’anno 286 a. C., legge che è un vero monumento di sapienza civile e di equità naturale. Trasfusa nei nostri codici , essa impera tuttodì nella soluzione delle più svariate questioni di responsabilità civile. * 5. — Per maggiore chiarezza noi abbiamo diviso la sentenza in 12 parti. a) I preliminari. Si narra quanto i fratelli Minucii fecero sul luogo — esaminarono le questioni, cognove rvnt — le composero, composeivervnt — fecero segnare i confini, fjneis ■ facere — e stabilire i termini, termi- NOSQVE • STATVI. b) Si fa menzione delle formalità con cui fu pronunziata in Roma la sentenza. La pronunziarono in nome del Senato, ex • senati • consvlto — in presenza delle parti, coram, circostanza che nell’uso procedurale equivale a notificazione. Segue la data della pronunzia: idi di Dicembre dell’anno in cui eran Consoli L. Cecilio fiodio o di Quinto e q. Muzio figlio di Quinto — il che è quanto dire: addì 13 Dicembre dell’anno 637 di Roma, 117 avanti 1’E. V. (1). (i) Non sarà inopportuno ricordare in questa nota come fosse ordinato il calendario romano. « Il primitivo anno romano non aveva che 304 giorni, ripartiti in dieci mesi, » a cominciare dal marzo; le vestigia di questo antichissimo uso sono rimaste nei » nomi degli ultimi mesi dell’ anno, da settembre a dicembre. In tal guisa esso » non corrispondeva nè all’ anno solare ne al lunare, ma corrispose con questo, » dopo che Numa Pompilio lo portò a 355 giorni aggiungendo i due mesi di — 220 — * 6. — Entrando nel merito, si comincia col definire la condizione giuridica dell’ agro privato del Castelo dei Viturii Langen. « Vettigale non sia, e possa ciascuno vendere la sua parte di quest’ agro e trasmetterlo agli eredi. » Abbiamo a questo riguardo un prezioso riscontro nei frammenti di leggi agrarie pubblicate dal Mommsen. In quella dell’ anno 643 di Roma, detta comunemente legge thona, volendo i patrizii sanzionare le usurpazioni da » gennaio e febbraio. AI tempo dei Decemviri si dettero 31 giorni ai mesi di » marzo, maggio, luglio e ottobre, 28 a febbraio, e 29 a tutti gli altri ; e per » compensare il ritardo sull’ anno solare , ogni due anni s’intercalava un mese » supplementare (mensis intercalaris) di 22 0 23 giorni, che veniva a cadere pro-» prio dopo gl’ Idi di febbraio. Ma questa compensazione era troppo forte di un » giorno, e perciò il calendario si trovò ben presto in contraddizione con le sta-» gioni naturali, richiedendo una nuova riforma, che il Senato e i sacerdoti ave-» vano interesse a ritardare, ma che Giulio Cesare, quando fu pontefice massimo, » affidò a Sosigene di Alessandria nell’ anno 46 av. C. e che da lui prese il nome » di Giuliana. Secondo il calendario giuliano ai dodici mesi furono aggiunti tanti » giorni da ridurli alla lunghezza che hanno oggi, facendo i mesi alternativamente » di 31 giorni e di 30, salvo febbraio, che ne aveva 29, quindi i mesi di 31 giorni » erano Gennaio, Marzo, Maggio, Luglio, Settembre e Novembre. Inoltre ogni » quattro anni si aggiunse a Febbraio un giorno (dopo il 24 del mese, nel calen-» dario romano ante diem sextum Calendas Martias), ed allora l’anno fu detto » bissextus. » I nomi dei mesi erano Ianuarius, Februarius, Marlius, Aprilis, Maius, Iunius, » Quintilis (detto poi Julius dopo la morte di Giulio Cesare, e in onore di lui), » Sextilis (detto poi Augustus dopo la morte di Augusto), September, October, » November, December. La distribuzione dei giorni nei mesi dell’ anno rimase re-» golare, finché, essendosi dedicato ad Augusto il mese di Sestile, non si volle » per bassa adulazione che questo mese, che aveva fin allora avuto 30 giorni, » non fosse da meno del Luglio, dedicato a Giulio Cesare ; e quindi per portarlo » a 31 si tolse un giorno da Febbraio, che fu ridotto a 28, e perchè non fossero » di seguito tre mesi di 31 giorni, si dettero 30 giorni a Settembre e Novembre, — 221 — essi fatte a danno dell’ agro pubblico, facevano appunto decretare che ciascun possessore poteva vendere la sua parte e trasmetterla agli eredi, e chi non 1’ aveva chiederne l’immissione in possesso ecc. È la famosa legge censurata da Cicerone ove dice : « Agrum publicum vitiosa et inutili lege vectigali levavit. » Leggendo i frammenti di quella legge sempre più manifesta il concetto che l’agro pubblico era la regola, il privato l’eccezione. L’ agro pubblico è quello che resta di dominio del popolo e di pubblico reddito; agro privato è quello che si mette » 31 a Ottobre e Dicembre: e cosi fu alterata la semplice e comoda combinazione » escogitata ila Cesare. Ogni mese era diviso in tre parti disuguali dalle calende » {Kalendae), dalle none (Nonae), e dagli idi (Idus), e i giorni intermedi si nume-» ravano contando all’ inverso a partire dal più prossimo (in avanti) di uno di » questi giorni, sempre includendo nel conto il giorno da cui si cominciava la » numerazione e quello di cui si parlava. Le Calende cadevano sempre il primo » giorno del mese, e pare che traessero il nome loro dall’ antico uso che uno » dei pontefici al cominciar della nuova luna 1’ annunziasse pubblicamente (y.a/.éojì » al popolo. Gli Idi, che sarebbero il giorno nel quale la luna è nel suo mas » simo splendore, cadevano per quei mesi che fin da principio erano più lunghi » degli altri (marzo, maggio, luglio e ottobre, come si è detto), al 15 , per gli « altri al 13. Le None poi, così dette perchè venivano nove giorni innanzi degli » idi, contando alla Romana, cioè includendo nel computo il primo giorno delle » none e quello degli idi, ma soltanto otto giorni avanti, secondo il nostro modo » di contare, cadevano per quei quattro mesi indicati di sopra al 7 del mese, » per gli altri otto al 5. Del modo di enumerare gli altri giorni si è già parlato; » solo si ricordi: i.° che il giorno precedente o alle calende o alle none o agli » idi si diceva pridie kakndas, pridie nonas ecc., ma l’antiprecedente era per la » ragione detta di sopra il terzo giorno prima delle calende, delle none ecc.; » 2.° che i giorni di ciascun mese posteriori agli idi si numeravano in relazione « alle calende del mese successivo; 3.° che il nome del mese diventava un ag- ii gettivo concordante con le parole femminili Kalendae, Nonae, Idus; 4.0 che la » data si metteva sempre all’ablativo; 5.° che per un caso di attrazione, curioso » ma non nuovo nella sintassi delle lingue classiche, invece di dire per esempio » duodecimo die ante Kalemlas maias (20 aprile) si diceva più spesso ante dieta )> duodecimum Kakndas maias e così di seguito. — 222 — in commercio, dichiarando che si può vendere e trasmettere agli eredi. Onesti riscontri di diritto romano mi sembrano utilissimi finché si tratta di spiegare le forinole adoperate nella tavola di bronzo e per intendere il sistema agrario che era quasi sempre lo stesso nei popoli primitivi. Ma bisogna esser ben cauti e fermarsi a tempo in questi confronti, per non introdurre nel nostro studio concetti politici e storici che nulla han di comune coi Liguri. A Roma la ripartizione degli agri fu per lunghi anni la base dei partiti politici. A furia di leggi agrarie si davano battaglia patrizi e plebei. Ad ogni poco si nominavano commissioni di cittadini « agris dividundis > per dividere gli agri. Le assegnazioni avevano una fonte inesauribile nella conquista. Ciò non avviene per i Liguri, gli agri dei quali provengono da antichissime e primitive ripartizioni. E non vi è solo questa differenza di origine; le cose diversificano anche per quanto riguarda le vicende amministrative degli agri. Gli agri conquistati dai Romani eran lasciati molte volte ai popoli vinti, i quali continuavano a goderli mediante un vectigal. In questo caso il vectigal era un vero tributo. I pubblicani erano incaricati di riscuotere le « pensiones » ossia i « vectigalia » dovuti all’ « erarium poplicum ». Chi volesse applicare indistintamente al caso nostro tutte queste forme storiche degli agri provenienti da conquista finirebbe per dare alla proprietà ligure e ai Liguri un carattere che assolutamente non hanno. Ed infatti, se il popolo Romano fu invadente, altrettanto pacifica ed amante dei suoi confini primitivi fu la razza Ligure. Non v' è indizio alcuno che permetta di credere che — 223 — questo o quel popolo ligure abbia avuto velleità di conquista territoriale. Eran gelosi della loro terra, come mezzo di godimento e di produzione, non come estrinsecazione di dominio. Per i Genovesi 1’ unico campo di ambizione fu il mare, e sappiamo da Caffaro che appena nell’anno 1121 passarono il giogo per prendere Fiac-cone, Mondasco, Chiappino, Pietrabisciara e Voltaggio, non per ambizioni di conquista, ma per provvedere ad un bisogno commerciale, 1’ impianto e la sicurezza delle strade. Ma ritorniamo alla tavola. c) Si stabiliscono con esattezza i confini dell’agro privato dei Langen. * 7. — d) Si stabiliscono i confini dell’agro pubblico dei Langen. L’agro pubblico era quello, che rimaneva destinato al godimento comune, mentre l’agro privato era quello che era stato ripartito fra i privati. Ripeto queste definizioni per abituare il lettore alle idee di quel tempo; ciò che è necessario per mantenere un giusto orientamento, per non cadere nell’errore di giudicare l’antico colle idee dei tempi nostri. Al giorno d’oggi, quando si parla di cose appartenenti allo Stato, s’intende generalmente i fiumi, i laghi, le grandi strade, le fortezze, i porti e tutto ciò che serve al funzionamento del grande organismo nazionale. Si capisce che tutto questo organismo deve essere indipendente, e non soggetto allo straniero ; se fosse diversamente si avrebbe uno Stato dipendente da un altro Stato. Nel linguaggio amministrativo moderno tutto ciò si chiama Demanio dello Stato. I beni invece che, pur essendo proprietà dello Stato, non servono alle sue funzioni, ma sono semplicemente destinati ad usi normali di natura privata, si chiamano Beni patrimoniali dello Stato (art. 425, 426, 427, 428, 429, c. c.). L'agro pubblico dei Langen, definito alla stregua dei concetti moderni, sarebbe niente altro che un bene patrimoniale della tribù, cioè una utilità di indole privata goduta in comune. Ritengo che il concetto moderno della demanialità abbia influito nell’ opinione di coloro che lecero i Langen dipendenti dai Genovesi, in quanto pagavano un vectigal ai Genovesi per l’agro pubblico. Al concetto di agro pubblico fu data un’importanza che non aveva ; perchè si trattava di un territorio qualsiasi, detto pubblico solo perchè tutti ne godevano in comune. / e) Si stabilisce il « vectigfal > che i Langen devono o o pagare ai Genovesi, < prò eo agro >. Il vectigal è così stabilito dalla sentenza: o 400 vittoriati all'anno, oppure una parte dei Irutti, la ventesima parte del grano, e la sesta parte del vino. Ricordiamo che l’agro pubblico era in molte parti coltivo. Io non mi dilungherò nel calcolo che tecero il Serra e il Desimoni per stabilire la popolazione dei Langen. Rileverò solo che la Polcevera doveva essere allora in un periodo di splendida coltivazione , e popolata quanto può essere in oggi, se \ oiè, Pedemonte e Sèra davano grano e vino nelle proporzioni suaccennate. La floridezza della Polcevera traspare del resto da tutto 1 insieme della tavola, e dalle vive questioni che si facevano per i confini di quelle terre. — 225 — * 8. — Ho già detto che, a mio avviso, questo < vectigal » non è indizio di sudditanza, ma rappresenta piuttosto un’ enfiteusi, una di quelle locazioni perpetue, che sono antichissime in Italia, e specialmente in Liguria. Nel medio evo vediamo ricomparire ad ogni poco di queste locazioni tra i vescovi di Genova da una parte e gli uomini del Bisagno e di Polcevera dall’altra. L’ attività dei Genovesi era assorbita fin da quei tempi dai commerci e dalla navigazione, mentre i Langen mantenevano il carattere di popolazione agricola. Nulla di più naturale che i Genovesi, non avendo nè tempo nè voglia di lavorare in quei terreni montuosi, che formano attualmente i territori di Pedemonte, di Voiè e di Sèra, che probabilmente spettavano ad essi in origine, li dessero a godere ai Langen, a condizione che questi corrispondessero un canone prò eo agro. Sottolineo le parole prò eo agro per richiamare su di esse 1’ attenzione di chi propende per un rapporto di sudditanza fra i Langen e i Genoati. Non è la tribù dei Langen, come popolo, che paga un tributo ai Genovesi, ma si tratta invece di un vectigal che grava sopra una parte di territorio, mentre l'agro privato e il castello dei Langen è assolutamente indipendente per esplicita dichiarazione « vectigal ne siet », dice la tavola. Parmi che se i Langen fossero stati sudditi avrebbero dovuto pagare un tributo sul territorio ove abitavano, sul castello, su ciò che costituiva la loro essenza politica, non sopra una parte secondaria del territorio. Ani Soc. Lsg. di Storia Patria. Voi. XXX. p — 226 — La mia opinione che respinge il concetto di sudditanza, è dunque appoggiata al testo della tavola ed ha la sua spiegazione nelle tradizioni e nelle costumanze dei Liguri. Parmi eziandio che abbia una conferma nella disposizione dei luoghi. Parmi di vedere che l’originario confine fra i Genovesi ed i Vituri fosse la Polcevera ed il Ricò, e ciò per il riflesso che i corsi d’acqua più importanti formavano generalmente la linea principale dei confini. Probabilmente i Genovesi avevano sconfinato dalla linea primitiva, occupando, con o senza l’altrui consenso, le colline di Murta, di San Biagio e quelle di Cornigliano — ed i Langen avevano sconfinato occupando, probabilmente col consenso dei Genovesi, Sèra, Pedemonte e Voiè. Questo avvicendarsi di usurpazioni, di occupazioni fece sì che un bel giorno i Langen non volessero più riconoscere i diritti dei Genovesi sull’ agro da questi concesso a titolo precario. Di qui le discordie e le vie di fatto, di qui la transazione proposta dai Romani in base all’ « uti possidetis >: restassero i Langen a Sèra, Pedemonte e Voiè; limitassero la loro espansione verso il territorio genovese ad Isola (punto B ove fu trovata la tavola) e al Pernecco, e per questo agro pagassero un canone annuo ai Genovesi. La tavola non dice che quest’agro sarà loro proprietà, come l’agro privato; dice soltanto che i Langen ne avranno il possesso e il godimento. Usando una forinola giuridica diremo che i Langen erano gli « utilisti » e i Genovesi i « direttari > in questa locazione perpetua, che aveva il suo titolo autentico nella tavola di bronzo. In altri termini i Polce-veraschi cominciavano a diventare i manenti dei Geno- v — 227 — vesi. Manente è termine introdotto dai latini; chi volesse adoperare la parola ligure antica dovrebbe dire « i meti-coni » (i) dei Genovesi. Quanto alla sponda destra della Polcevera, forse l’occupazione dei Genovesi era più antica, forse era stata sanzionata da accordi presi con altre tribù. Il fatto è che i Genovesi possedevano da quella parte e rimasero al possesso. Solamente un piccolo triangolo fu concesso in via di transazione ai Langen, ed è quel bellissimo lembo di terra che prospetta la collina di Campomorone e che in oggi porta ancora lo storico nome «. dai Langen ». Ad alcuni parve poco naturale questa configurazione, che i fratelli Minucii avrebbero dato all’ agro privato dei Langen ; parve strano quel brandello di terra, dato per giunta. Io penso invece che trattandosi di una transazione, basata su fatti accidentali, cioè sugli atti di possesso compiuti negli ultimi anni, doveva per necessita venir fuori una configurazione non più naturale ma posticcia, come avviene di tutte le cose che furono oggetto di lunga contesa, e che restano un pezzo all uno e un pezzo all’altro. Si trattava di contentar un po’ tutti, e quel triangoletto (il punto A) rappresenta appunto 1’ « aliquid datum vel retentum » che è la caratteristica d’ ogni transazione. * 9. — Ho detto che il vectigal nasceva probabilmente da un’enfiteusi. Che cos’era Xenfiteusi? Che cos era il (1) Vedi p. 164. — 228 — vccligal e 1 ager vectigalis? Come intendevano i Romani, come intendevano i Liguri queste parole? Che cosa intendessero i Romani per « ager vectigalis » e « ager non vectigalis » si ricava molto bene dai frammenti raccolti nel Digesto. Nel Lib. vi, Tit. in, troviamo questa definizione del giureconsulto Paolo: «. Agri civi-» tatum alii vectigales vocantur, alii non. Vectigales vo-» cantur, qui in perpetuum locantur, id est hac lege, ut tandui pro illis vectigal pendatur, quandiu neque ipsis, » qui conduxerint, neque his qui in locum eorum suc-» cesserunt, auferri eos liceat. Non vectigales sunt, qui » ita colendi dantur, ut privatim agros nostros colendos > dare solemus ». Nelle Istituzioni di Giustiniani al Lib. ih, Tit. xxv, 3, si spiega la natura giuridica del contratto di enfiteusi, e si dice che non è nè vendita, nè locazione, ma è retto da pattuizioni speciali, e queste sono: 1,° la concessione in perpetuo del godimento dei terreni *. perpetuo quibusdam fruenda traduntur»; 2.0 l’obbligo di pagare un canone « pensio praestetur »; 3.0 l’irrevocabilità della concessione « ut quando pensio sive reditus domino » praestetur, neque ipsi conduttori, neque heredes eius, » cuive conductor heresva ejus praedium vendiderit, aut » donaverit, aut dotis nomine dederit, aliove quocumque » modo alienaverit, auferre liceat ». Il concessionario può trasmettere il fondo agli eredi, venderlo, donarlo, darlo in dote, subaffittarlo, disporne insomma come di cosa sua, purché il fondo resti sempre vincolato al canone, e questo sia soddisfatto. Il vectigal dunque era una prestazione, originata da un < contratto bilaterale » in cui una parte dava a godere la terra, — 229 — 1 altra corrispondeva una porzione di frutti o 1’ equivalente in denaro. Più tardi il vectigal divenne sinonimo di tributo come abbiamo di sopra spiegato ; e questa significazione divenne abituale sotto i barbari conquista-tori , che imposero ai vinti di dare una porzione dei frutti delle loro terre; il nome era lo stesso, ma la ragione della cosa era totalmente cambiata. Coloro che videro nel vectigal pagato dai Langen un vero tributo, un indizio di dipendenza verso i Genovesi partirono dalla supposizione affatto gratuita ed anche poco naturale, come abbiamo dimostrato, di una precedente conquista. Ma dal momento che le costumanze antiche dei contratti enfiteutici spiegano così bene e nel suo vero senso il vectigal dei Langen, non vedo più ragioni di andare fantasticando conquiste e vincitori e vinti fra le nostre pacifiche tribù. Fra i commentatori della tavola di bronzo, parmi che solo il Can. Grassi (p. 418) abbia avuto un concetto storicamente esatto del vectigal , pagato dai Langen. Il Desimoni (p. 599), seguendo il presupposto che i Genovesi fossero di fronte ai Langen il popolo conquistatore e dominante, attribuì al vectigal il carattere di tributo, ritenne cioè che i Genovesi avessero confiscato a loro favore il vectigal che i Langen come privati pagavano prima alla loro comunità per i possessi privati che avevano nell’agro pubblico. Il concetto del Desimoni non è ben chiaro su questo punto. Ed io osservo che secondo la tavola era la tribù dei Langen - prò indiviso -non il privato, che pagava un vectigal ai Genovesi prò eo agro. La tribù concessionaria concedeva a sua volta — 230 — ai privati di aver dei possessi nell’agro pubblico, ed incassava dei vectigal dai singoli. Vi era dunque enfiteusi dal popolo di Genova al popolo di Langasco, e parziali sub-enfiteusi dal popolo di Langasco ai singoli. Queste forme di regime agrario erano comuni, negli antichissimi tempi, a tutti i popoli italici. Il Diritto romano non fece che raccogliere i principii di diritto consuetudinario nelle sue disposizioni relative all’ « ager vectigalis » (Dig. vi, 3). Questo regime doveva pur essere comune a tutti i paesi del mediterraneo. Infatti è nata in Grecia la parola < enfiteusi » che divenne in seguito la parola tipica dell affitto a perpetuità, sia in diritto romano, sia nel diritto moderno (art. 1546 e seg. cod. civ.) (1). ^i) La comunanza d origine, di lingua, di costume degli antichi popoli mediterranei si potrebbe anche luminosamente dimostrare col confronto delle leggi II diritto romano non è, nella sua sostanza, una creazione del popolo latino, come molti sembrano credere. I Romani nel loro genio pratico diedero una costruzione scientifica alle costumanze antiche, le svilupparono, le fecondarono, crearono le azioni, cioè il funzionamento del diritto, fecero di questo una forza potentissima di coesione sociale. Ma i germi del diritto esistevano nelle costumanze mediterranee. Ciò che si verifica dell’enfiteusi, si può dire della maggior parte delle leggi attinenti alla proprietà e alle servitù prediali. Per citare un altro esempio, riferisco un frammento di Gaio sulla legge delle XI( tavole (Dig. X, 1. 13)- « Sciendum est, in actione finium regundorum illud obseruandum esse, quod » ad exemplum quodammodo, eius legis scriptum est, quam Athenis Solonem di-» citur tulisse: nam illic ita est: E'xv 115 àt|iao£av tùap’ àXXozplw y^toplw òpòyri-» xòvòpov fxir] iòxpaSaJveiv. èàv zt'.yj.O'/, nó Ja àtòcXlibeiv èàv 8& o(xr)|i*. » òióSag. èàv Sé xàqpov, rj ^69-pov ópózXrj, dsov xr) pàfl-oj rj, xoaoOxov àùoXCmetv. » èàv ?è qjpéxp, opyrnàv. èXa£xv 8è. y.al auxòv, èvvéa SoSa; afflò xoO àXXoxatoo » tf'jxssóeiv. xà ìé iXXa ?év8pa, àmvxe fflóSxj. i. Si quis sepem ad alienum praeit dium fixerit, infoderitque: terminum ne excedito. Si maceriam: pedem relinquito. » Si vero domu: pedes duos. Si sepulcrum, aut serobem foderit: quantum profunditatis o habuerint, tantum spatij relinquito. Si puteum: passus latitudinem. At veri oleam, » aut sicum, ab alieno ad nouem pedes planiti to: ceteras arbores ad pedes quinque ». V - 231 — Si dava generalmente ad enfiteusi il terreno incolto ; si dava a dei coltivatori perchè lo dissodassero e lo piantassero. Anche in oggi i Liguri esprimono molto bene il concetto col: « dare a fare una terra » «Duiéuto vuol dire pianto una terra — cpu-tetto]? è il piantatore — evcpuiéuTr)? è chi pianta in un terreno altrui l’er la maxéa, la distanza è di un piede, per la casa di due, per lo scavo tanta la distanza quanta la profondità; per 1’ oliva e il fico nove piedi, per gli altri alberi cinque piedi. Dal che si vede come le disposizioni scritte nel nostro codice civile al libro II, titolo III, capo II, sezione III, che generalmente si dicono di creazione romana, altro non sono che antichissime costumanze mediterranee, che Solone codificava in Grecia nell’anno 591 a. 1’E. V. ed i Romani nel 451 colla legge delle XII tavole. La misura del piede fu comune a tutti i popoli mediterranei. Solo colla venuta dei popoli nordici in mezzo a noi incomincia la moltiplicità delle misure. Liutprando re dei Longobardi volle conciliare l’unità di misura lineare, ed allungò il piede che era in antico di 0, 2957, e la misura nuova fece scolpire nella basilica di S. Pietro in celo d’ oro in Pavia. La novità fece si che il nuovo piede si chiamò « pii di prando » ossia di Liutprando. Non mancarono gli eruditi i quali si fecero a dimostrare che Liutprando era un gigante, e che calzava realmente un piede, come lo aveva elargito ai suoi popoli. È un fatto che ha molta importanza per il nostro studio questo della omogeneità di costumi, di leggi, di lingua, degli antichi popoli mediterranei. Vi ritorneremo a suo tempo facendo un confronto delle leggi greche e romane colle leggi mosaiche e le leggi di Manu e vedremo come tutte si corrispondessero. Gli uomini di mente elevata, che aspiravano al primato nel loro paese intraprendevano lunghi viaggi, i Feniciie gli Ebrei nell’oriente, i Greci nella Fenicia e nell’Egitto, i Romani in Grecia, e così si formavano quelle tavole legislative, che diventavano le costituzioni dei popoli. L’uomo di genio aveva cura di mettere in armonia le leggi col carattere nazionale; quando avevano questa impronta il popolo le consacrava coll’ uso, e il legislatore passava fra gli Dei e semidei, senza pericolo di essere accusato di plagio. Se è lecito paragonare giganti e pigmei, noterò che gli scrittori del medio evo fabbricavano statuti che parevano novità, mentre letti ora e confrontati, appariscono quasi tutti di uno stampo. Cosi in antico, a grande distanza di tempo e di spazio, si pubblicavano tavole di leggi, che parevano originali, mentre erano la riproduzione di un diritto consuetudinario antichissimo. Ciò sia detto in linea generale e con tutta la riserva dovuta alla gran- I diosità dell’ argomento. J — 2 32 — svcpotévais è il contratto di cui parliamo. Fitto, affitto è evidentemente figliazione della stessa radice. Abbiamo voluto riservare a questo punto un interessante rilievo etimologico. Viturii, a mio avviso, è traduzione latina di ^uxwpot; e cioè un popolo che si dedicava ai puntamenti. Aveva cominciato a riempiere di vigneti le belle colline degradanti al mare, S. Giambattista, Sestri, Pra e Voltri ; di qui il nome di Votri - póipu? -che significa « uva ». Ma quei colli erano troppo limitati e cercarono sfogo alla loro attività passando i monti. Passarono probabilmente per il canale di Sestri, per Cese e Torbi occuparono Larvego (centro della tribù dei Men-tovini), poi si gettarono al di là del Verde ed occuparono Langasco. Non bastando poi alla tribù di Langasco il terreno, questa chiese ed ottenne ai Genovesi la concessione del territorio fra il Ricò e la Secca. Questa è per me 1 ipotesi più naturale che spiega come i Viturii Langen pagassero sull’ agro pubblico un vectigal. Sono poco propenso alla etimologia di vectigal accennata dal Can. Grassi. Osservo che nel dialetto mediterraneo « ecttn •» vuol dire: pagare, persolvere (greco exit'v-w); e siccome il vectigal doveva pagarsi al domicilio del concedente, opinerei che la radice di vectigal altro non sia che « (ìx-éxtlv » — va a pagare - e per contrazione ,jiXiiv — e col suffisso qualificativo (jsxtixós, che corrisponde precisamente all arcaico latino « vecticum » del Can. Grassi, trasformato poi in vectigal. Quanto al poplicus a cui accenna per analogia il Sanguineti, parmi di averne dato una spiegazione soddisfacente nel rc&s-roXó (po-polu) che tradotto letteralmente significa il « gregge grande ». E caratteristica e veramente consona alle idee semplici — 233 — e primitive questa figura del popolo, desunta da una moltitudine di pecore ! * io. — Tolgo dalla tavola ciò che è riferito alla lettera i) perchè l’ordine logico vuole che, dopo aver parlato del vectigal dovuto ai Genovesi, si riferiscano le clausole stabilite per il pagamento. Dice la tavola: i) La prima annata di canone i Viturii Langen dovran pagarla alla calenda di Gennaio del secondo anno (639), e di ciò che godettero o godranno prima della prossima calenda di Gennaio (638) non saran tenuti a pagare canone alcuno. Opina il Grassi che il vectigal abbia le sue origini nella sentenza. Trovo più naturale il supporre che la concessione fosse antica, e che i Langen si rifiutassero a corrispondere le prestazioni d’uso, probabilmente col pretesto delle altre questioni in corso. Chi ha pratica di liti sa che questi sono i termini in cui generalmente si presentano cosifatte contestazioni. 1 Genovesi avran chiesto la riconsegna del terreno, sostenendo che i Langen eran decaduti da ogni diritto. E siccome nell’ ultimo anno pare che questi si fossero fatta giustizia colla forza, così ne venne l’equo temperamento dei fratelli Minucii, che fissano il canone da decorrere un anno dopo. E siccome i Genovesi, popolo commerciante, preferivano ad ogni altra cosa il denaro, così il canone, forse per loro suggerimento, fu stabilito in 400 vittoriati. Ai Langen conveniva egualmente questo — 234 — patto perchè pagando una somma fìssa restavano a loro esclusivo vantaggio i futuri miglioramenti. * ri* — Senonchè in quell’agro, che colla sentenza era dato a godere ai Langen, i Genovesi avevano già fatto lavori di dissodamento, così pure se ne erano fatti da parte dei Langen. Erano probabilmente i primi coltivi, le prime ville di Isola, di Pedemonte e di Voiè! La tavola stabilisce che tanto il Genovese che il Viturio debba essere rispettato nei possessi privati che avesse acquistati da un anno in quell’ agro. Per la storia del Diritto Romano osserveremo che fin da 2000 anni fa era nettamente stabilita la teoria del possesso annuale, che consiste essenzialmente nel tutelare lo stato di fatto, in presenza alle divergenze di diritto. Si vede che la teoria possessoria come il contratto enfi-teutico erano antiche costumanze italiche elevate a sistema , trasformate in maravigliosa costruzione giuridica da quei potenti fecondatori del diritto che furono i giure-consulti romani. Dopo aver provvisto alla manutenzione dei possessi privati nell’agro pubblico, la tavola stabilisce alcuni oneri ed alcuni vincoli a carico degli stessi. i.° I possessi privati nell’« agro pubblico» pagheranno un canone alla tribù. E la ragione è facile a comprendersi, giacché in quel dato momento storico l’agro pubblico era ancora considerato come patrimonio comune, ed i possessi privati venivano ad essere una sottrazione fatta a questo patrimonio. Era la tribù che aveva preso — 235 — a godere quel territorio dai Genovesi, era la tribù che ne pagava il vectigal, dunque dovevano intendersi colla tribù quelli che volevano conservare od introdurre nuove coltivazioni private in quell’agro. 2.° Spetterà alla maggioranza della tribù il concedere nuovi possessi privati, in altri termini nuovi dissodamenti e nuove ville. 3.0 Finalmente i coltivatori di questi possessi privati nell’agro pubblico dovranno essere o Genovesi o Vituri, appartenenti cioè o al popolo che aveva il dominio diretto, o al popolo che aveva il dominio utile su quel territorio, esclusi gli estranei. Questa condizione era intesa ad impedire che lo straniero prevalesse per mezzo della proprietà. Mille anni dopo vedremo risorgere queste idee negli statuti del Medio Evo, colla esclusione dello straniero dal diritto di possedere e di ereditare. Negli atti di enfiteusi che si sono conservati nel Registrum Curiae troviamo sempre questa formola «. Et non habeamus potestatem venundam nec alienam nisi in famulis Sancti Syri indomnicatis ». È sempre lo stesso concetto attinto alle antichissime fonti delle costumanze liguri. * 12. — Abbiamo già osservato che compascua è parola latina e più esattamente questi boschi si chiamavano dai Liguri « comuniage » perchè servivano non solo al pascere ma al legnare , e al taglio dei legnami da costruzione. Osserveremo ancora che qui si parla delle comuniage in cui avevano diritto Langen e Genovesi, le quali, — 236 — stando alla mia carta, non potevano essere altro che i boschi di Monte Carmo, del Pernecco, di Ouè, i quali, benché fossero in territorio Viturio per una parte, e in territorio Genovese per l’altra, pure costituivano, in quanto erano comuniage, un godimento promiscuo. Dobbiamo ora un po’ più distesamente intrattenerci del carattere di questi compascui, e delle vicende dagli stessi subite. Un prezioso commento del diritto di compascuo, presso 1 Romani, lo ricavo dalla legge 20, tit. V, libro Vili del Digesto. Strana coincidenza, è Muzio Scevola che parla, il grande giureconsulto che era console quando i Minucii pronunciavano la loro sentenza. « Plures ex municipibus, qui diversa praedia possidebant, » saltum communem, ut jus compascendi haberent, mer-» cati sunt; idque etiam a successoribus eorum est ob-» servatum: sed nonnulli ex his qui hoc jus habebant, > praedia sua illa propria venundederunt. Quaero an in > venditione etiam jus illud secutum sit praedia, cum » ejus voluntatis venditores fuerint, ut et hoc alienarent? > Respondit: id observandum quod actum inter con-» traentes esset: sed si voluntas contraentium manifesta > non sit, et hoc jus ad emptores transire ». Il che vuol dire che, se un Genovese vendeva il suo fondo privato per esempio a un Tigulino, il l'igulino, salvo patto in contrario, acquistava il diritto di compascuo che spettava prima al fondo venduto. Abbiamo un esempio nella famosa tavola alimentaria di Velleia. Trajano aveva instituito un collegio di fanciulli a Velleia da alimentarsi con rendite tratte dai fondi, che i Velleiati ed altri benefattori avevano assegnato in - 237 * dote. Fra questi benefattori troviamo ricordato Gn. Antonio Prisco, il quale legava un fondo « cum jure Apenini Arie-lasci et Caudaiasci et comunionibus, qui est in Veleiate et in Libarnensi pago Domitio Eboreo ». Antonio dunque donava all’opera Pia di Velleia una proprietà coi diritti inerenti sull’agro pubblico; ami jure Apenini, che era probabilmente il diritto sui prati pubblici; et comunionibus, che era probabilmente il diritto sulle comunaglie, sui pascoli promiscui di Mont’ Ebro. Ma io debbo subito soggiungere che i responsi del diritto romano furono seguiti sì e no dai Liguri. 11 principio che tendeva a far del compascuo un diritto reale, non attecchì gran fatto in Liguria; prevalse piuttosto nel compascuo il carattere di diritto personale del popolo, che era più conforme a quel principio di stabilità, per cui il popolo si identificava colla sua terra. La formola che racchiude il concetto ligure, si perpetuò in questa frase: comunaglie degli uomini di Busalla, di Langasco, di Ouè, di Casella, di Montoggio. Si ebbe sempre una gran difficoltà ad ammettere che chi comprava dei fondi in paese divenisse compartecipe nelle comunaglie. Anche in Piemonte vi era questa tendenza ad escludere gli estranei, e ne fa fede la decisione titolo XXIV, libro III in Fabro. Contribuì a questo risultato la tenacia dei Liguri nel conservare le proprie ca-ratterische locali di popolo, ed anche il principio di carità cristiana, che fece in certo qual modo delle comunaglie il patrimonio dei poveri. Nella legislazione italiana del 1865 si trovano ancora le ultime traccie del compascuo. L’art. 432 del cod. civ. parla dei beni patrimoniali delle provincie e dei comuni • 238 - e dice che son retti da leggi speciali. La legge comunale dispone all’art. 141 che i beni comunali devono di regola essere dati in affitto e solo in via di eccezione si potrà continuare a goderli in natura, ma dovrà farsi un regolamento, per determinare le condizioni d’ uso, e alligarlo al pagamento di un correspettivo. Rigoroso, ad esempio è uno dei pochi paesi Liguri che conserva 1’ uso antichissimo del godimento in comune. Nell’ ultimo trentennio vi tu una tendenza a sopprimere queste proprietà comunali, che nei luoghi suscettivi di miglioramento, erano un inciampo al progredire dell’ agricoltura. L’ articolo 142 della legge citata stabilì che 1’alienazione dei beni incolti poteva essere fatta obbligatoria dalla Deputazione Provinciale. Nel 1874, si rese obbligatoria la vendita dei beni incolti, se entro cinque anni non eran ridotti a coltura. Nel 1886 si accordava al ministero di Agricoltura di consentire nuovi termini. Per effetto di queste leggi le comunaglie sono in quest’ ultimo trentennio quasi interamente scomparse e questi miei cenni, che si riferiscono a fatti contemporanei, diverranno ben presto cenni storici sul modo con cui finirono in Italia le comunaglie, i compascua della tavola di bronzo. Non è senza utilità questo raffronto dell’ antico col presente, ossia del principio col fine. La storia fu detta una grande catena, e tante volte è 1’ ultimo anello quello che dà la spiegazione del resto, come si verifica in parte in questo caso. Io avevo accennato fin da principio all’ idea che i compascui erano una parte degli agri pubblici che restava soggetta all’ onere del pascolo promiscuo a favore delle comunità confinanti. Studiando le leggi odierne, tendenti all’ abolizione di questi oneri reciproci, io ho 239 ~r potuto impossessarmi di un fatto che è la conferma di quanto ho asserito. Dice l’art. 682 del codice civile « nei territori ove è stabilita la reciprocità dei pascoli, il proprietario che vuol recedere in tutto o in parte dalla comunione del pascolo, deve farne la denunzia ecc..... Il Tribunale decide sul recesso..... ». La Cassazione di Torino, con sentenza 12 Marzo 1856 applicava questa disposizione di legge ai comuni di Pietra Bruna e Dol-cedo, ed è appunto dalla lettura di quella sentenza che io venni a conoscere che ancora nel 1856 esisteva di fatto in Liguria quello intreccio di compascui da me descritto : Quei di Pietra Bruna andavano a pascolare nell’ agro di quei di Dolcedo, e viceversa, quei di Dolcedo andavano nell' agro di Pietrabruna. E la ragione è che i pascoli, come già osservai, avevano bisogno di alternarsi su vasta scala; era necessario pascolare un po’ in questo paese un po’ in quell’altro per dar tempo all’ erba di riprodursi. La Cassazione di Torino pronunziò che il recesso dalla promiscuità era una riforma introdotta nell’ interesse dell’ agricoltura in genere, e poteva invocarsi tanto dai privati che dai comuni, che come enti morali, capaci di diritti rientravano nella e-spressione generica di proprietario usata dall’ art. 682 del codice. Altro esempio di pascoli promiscui fra comuni ci fornisce una decisione piemontese del 1774 riferita al voi. in, parte II, p. 614 della Pratica legale. Abbiamo visto le origini, abbiamo visto la fine del compascuo e vedemmo che comincia coi primissimi popoli e finisce con noi, destinati a vedere la fine di tante cose e un vago principio di tante altre. Abbiamo visto i concetti giuridici che regolano il compascuo. — 240 — Facciamo ora 1111 breve riassunto della storia del compascuo dall’epoca romana in sino a noi. Nuovi fatti e nuove idee verranno in luce, utilissime al nostro commento. I romani, come vedemmo, avevano questo concetto giuridico del compascuo: alle popolazioni il possesso e il godimento, allo stato la proprietà; questo principio bene definito presso i romani, era appena adombrato presso i Liguri, i quali si contentavano di stabilire chi doveva possidere fruique; quanto all’ astrazione dell’ Ente Stato e ai suoi diritti era una metafisica che non conoscevano e non volevano conoscere. I fratelli Minucci, con molta finezza, sorvolarono, pensando probabilmente che il silenzio tenuto a riguardo dell’ alto dominio poteva giovare per mettere innanzi quando piacesse, il diritto del popolo di Roma. II sottinteso dei Minucii venne fuori ai tempi degli imperatori in cui il Priticeps a nome del popolo romano si considerò il padrone di tutte le terre che non erano proprietà privata. Le rapine, le confische, anche di grandi proprietà private, resero sterminato il patrimonio del popolo romano ai tempi dei Cesari. Nel IV secolo cominciarono le donazioni dell’ imperatore Costantino e di altri imperatori cristiani alla Chiesa. E di qui ebbe origine, osserva il Desimoni, quel famoso patrimonio delle Alpi Cozie, cioè degli Appennini Liguri secondo il linguaggio di quei tempi, patrimonio dato alla Chiesa dagli imperatori, tolto dai barbari , restituito, ritolto e ridonato dai Re Lomgobardi. Da questo patrimonio probabilmente scaturirono quei molti dominii che intorno al 1000 vantano i Vescovi di Genova, in Creto da Molassana a Vico Molasso, ed in — 241 — quel di Langasco, di Mignanego, di Voltaggio, di Caro sio, di Cavi. Parimente da questo patrimonio io credo che avessero origine i dominii, che 1’ Abbazia di Percepiano aveva in valle Scrivia ed in Val Borbera ed altrove, come risulta dalla Bolla del 1196 di Papa Celestino pubblicata dal Bottazzi. Intorno al 1000 i papi erano per così dire onusti di queste donazioni ingombranti, alle quali si erano aggiunte altre donazioni da parte di privati, decisi di disfarsi dei loro beni sia per la profezia del finimondo, sia perchè i '^eni stabili eran giunti a tal punto di rovina, avevano sofferto e soffrivano tali e tanti abusi, soprusi e rapine che era impossibile goderli. Fin dal secolo VII si adottò dai Papi il sistema di ripartir fra vescovati ed Abbazie i grandi patrimonii della Chiesa, nei quali erano compresi molti degli antichi compascui. E fu gran bene perchè, specialmente per opera dei frati si ripigliò'la coltura agricola, si ravvivò la produzione che era quasi spenta in mezzo ai tanti cataclismi subiti. I barbari conquistatori avevano confiscato più che avevano potuto dei patrimoni dei vinti, ed avevano preteso di subingredire nei diritti patrimoniali dell’ impero, e molti territorii a tale titolo occuparono ; di qui quel-l’immensa quantità di Corti Regie comprendenti talora anche intere città coll’unito territorio, amministrate da Gastaldi dei Re Longobardi. Venne poi Carlomagno, e dopo di lui gli imperatori di Germania, i quali si fissero in capo di ristabilire il grande romano impero, e si arrogarono nominalmente il dominio su tutto e su tutti A loro bastava che si riconoscesse che ogni po- Atti Soc, Lia. di Stoma I’àthu. Voi. XXX. ■7 — 242 — testa e proprietà derivava da loro, e dopo ciò di poco si contentavano. Nacquero allora le infinite investiture feudali a marchesi, conti e baroni, e tutte le infinite concessioni subalterne. Vi fu un grande frazionamento dei godimenti pubblici ; una grande moltiplicita di usi ; una grande moltiplicità di utenti; chi pasceva, chi legnava, chi pescava, chi spigolava, cni prendeva la ghianda, chi prendeva 1’ acqua, chi le sabbie aurifere. I feudatarii avevano aperto bottega all ingrosso e al minuto degli antichi diritti dei popoli, vendevano per poco e nulla, perchè il supposto compratore tanto e tanto avrebbe goduto lo stesso. Ma ripetiamo tutti gli atti, le investiture, le dispute al riguardo, toccavano più la forma che la sostanza. Le popolazioni, ferme negli usi antichi, godevano la terra come credevano di doverla godere per un diritto che risaliva all’ immemorabile. I popoli Liguri continuarono ad esercitare, come prima, i loro diritti di pascolo, secondo gli usi antichi, e le antiche delimitazioni ; riconoscendo qualche rara volta, quando non ne potevano a meno, di aver questi godimenti per graziosa concessione di qualche principe ; più facilmente riconoscendo 1’ alto dominio del Vescovo. II Deluca, il Cepolla nei loro trattati della Servitù, 1 Otero De pascuis, il Rendell De pascuis, il Cocceio, 1 Hertio, lo Struvio e molti altri autori scrissero i tempi di mezzo sui diritti relativi ai compascui. In sostanza questi rimangono quello che erano ai tempi della tavola di bronzo. Sono per lo più zone incolte e selvatiche che attesa la loro natura appartengono prò indiviso a tutti i comunisti di un medesimo luogo, considerato — 243 — ciascun individuo come coutente. La forinola era questa: pertinent ad omnes uti singulos non uti universos ; perchè quantunque tutti sieno a godere di questi fondi e ne percepiscano i frutti, questo si fa da ciascuno in particolare e immediatamente da sè, differentemente dai beni appartenenti all’ universitas, dei quali i comunisti godono non direttamente ma come membri dell università medesima. Non è il diritto di pascolo (così si chiamava nei secoli scorsi) un diritto di servitu in re aliena, ma è un diritto, dicono i dottori, di uso promiscuo in rem propriam, spettante a ciascuno del popolo, uti singuli. In Sardegna aveva un carattere speciale 1 adempnvo, che rappresentava il diritto di far legna, seminare e pascolare ad un tempo. Altra forma di compascuo era quella del Tavogliere delle Puglie, dove Alfonso I d’ Aragona stabiliva quel vectigal che si chiamava la dogana della mena delle pecore. Il vectigal del Tavoliere assunse in seguito forme e nomi diversi secondo il capriccio dei re e dei loro ministri, che mungevano il bel compascuo (diritti stato-nicali, autunnali, vernotici e di bagliva ecc.). La Sila in Calabria era pure un grande compascuo ove si pagava la fida, il giogatico, la granettena. Il feudalismo imbastardì i compascui meridionali e influì anche sui compascui piemontesi, ma nulla mutò nei nostri compascui intorno a Genova. Il popolo vi si mantenne nel suo primitivo atteggiamento senza complicazioni nè di forma nè di sostanza. I territorii destinati a comuniage, gli usi con cui si governavano erano, trenta anni fa, indiscutibilmente gli stessi dei tempi della tavola di bronzo. — 244 — * 13- Si stabiliscono le norme per i compascui che erano fra i Genovesi e i Vituri (a Monte Carmo, a Ouè). f) Genovesi e Viturii Langen promiscuamente potranno pascervi il gregge, prendervi legna da ardere e materiali. Per i Genovesi sempre intenti a fabbricar navi, il materiale da costruzione costituiva forse l’interesse più torte al libero godimento dei boschi compascui. * !4* — Segue la questione dei prati. g) I prati già stabiliti nel compascuo sieno rispettati. Impera sempre, come si vede, il principio « uti possidetis >. Chi ha questi prati se li goda, e nessuno possa segarvi nè condurvi bestie a pascolo senza il consenso delle tribù che formarono questi prati. Imperocché i prati erano fatti dalla tribù nel compascuo già destinato a pascolo comune di tutti i popoli finitimi. Così, fino a pochi anni addietro, quei della Doria avevano i loro prati comuni in Creto in luoghi che anticamente erano comunaglie d’uso promiscuo fra Creto e Montoggio. Si capisce dalla tavola che questa tendenza, di restringere i compascui di uso comune per farne dei prati, era invalsa presso i Langen, come presso gli altri popoli. Quindi la tavola stabilisce una norma generale per tutti e conchiude: Nessuna tribù potrà avere maggiore estensione di prateria di quella che ha attualmente. Se i Langen, - 245 — gli Odiati, i Dectunini, i Cavaturini, i Mentovini, che erano le quattro tribù che possedevano i gioghi, vorranno stabilire nuovi prati, chiuderli, segarvi il fieno potranno farlo, ma a condizione che lascino libero altrettanto compascuo da un’altra parte. Alternino la coltura, ma non la ingrandiscano. Un amplissimo commento si potrebbe fare a questo punto, ricordando tutte le usurpazioni che furono tentate, nel corso dei secoli, a danno del compascuo. Per 2000 anni seguitarono le contese, e l’atteggiamento dei contendenti fu sempre lo stesto ; i privati tentavano di estendere i loro diritti a danno dei diritti del pubblico, il pubblico si opponeva. Nello stesso modo che fra i Liguri primitivi si piativa perchè i Langen facevano dei prati e li chiudevano a danno dei compascui; così molti secoli dopo troveremo che in Sardegna si piativa per gli ademprivi, cioè per il diritto di far legna e pascolare in certi agri pubblici. Anche in Sardegna si faceva guerra all’ ademprivo col cussorgio e la difesa, cioè col chiudere i prati e defendere. Vedete qui gli stessi fatti e perfino le stesse parole della tavola, conservate nel dialetto sardo; gli usurpatori chiudevano i coltivi da essi fatti nell’ agro pubblico e defendebant (francese: défense - sardo: difesa), cioè impedivano alla popolazione di entrarvi. Altro mezzo escogitato per avvantaggiarsi a danno della comunità fu il seguente. Per trarre il miglior van-taggio dai compascui, le comunità o i feudatarii solevano dare questi beni a locazione perpetua, riservando il diritto di pascolo per il pubblico. 11 locatore coltivava il fondo e faceva suoi i frutti industriali, e il pubblico continuava - 246 — a godere i frutti naturali. Era, come si vede, un svolgimento del sistema già adottato nella tavola di concedere dei godimenti privati nell' agro pubblico. E siccome il concessionario aveva il diritto di usare dei pascoli per il suo bestiame, nasceva facilmente in lui il proposito di profittare più largamente che fosse possibile del benefizio che gli competeva. Le pecore e le bovine aumentavano, fuor di misura, nelle stalle del concessionario, e se non bastava il proprio bestiame faceva venire dei margari a pascolare sotto il suo nome. Di qui leggi sopra leggi, ordinanze feudali, sentenze di giudici, che limitavano ai concessionarii la quantità del bestiame. Riferisco in nota diverse decisioni del Senato piemontese in cui sono giustamente contemperati i diritti dell’uso pubblico coi diritti dell uso privato (i). Sono decisioni interessantissime perchè (i) « Avendo la Comunità di None sporta rappresentanza all’ Ufficio del signor » Avvocato Generale per ottenere 1’ assenso di opporsi al pascolamento del margaro » introdotto dal signor Avvocato Bor letti, sono emanate le seguenti conclusioni. » V. Si osserva risultare dal contraddittorio, ed ordinanza del signor Podestà di » detto luogo delli 16 caduto marzo, che le vacche introdotte dal Margaro Lo-» renzo Castellano nella cassina del signor Avvocato Borletti sono in numero di » otto, e che dalli due massari d’esso signor Avvocato se ne ritenghino altre » quattro, avendo il medesimo signor Avvocato allegato, che tanto le une, che » le altre sieno necessarie, e proporzionate al conveniente bisogno dell’ingrasso » delli beni e consumo de’ fieni. » Quindi si riflette, che avendo li registranti del luogo la ragione di mantenere, » e far pascolare nel territorio quel numero di bestie bovine, che possano essere » proporzionate al fine della coltura, ed ingrasso de’ beni, non possa essere di » molta considerazione la circostanza esposta, che le bestie non sieno proprie delli » stessi particolari registranti, purché servano ad un tal fine, e non si ecceda nella » quantità delle bestie il numero conveniente alli beni. » E tanto più poi, che la Comunità non avrebbe alcun titolo, da cui ciò resti » proibito, anzi che dagli accennati Bandi campestri resterebbe implicitamente » permesso, stantechè in essi viene solamente proibita l’introduzione delle capre, » e pecore. - 247 - riflettono al vivo gli atteggiamenti di quella lotta fra godimento pubblico e godimento privato che noi abbiamo visto nascere per la prima volta a cagione dei prati nei compascui. Una terza maniera di usurpazioni agrarie, fatte dai privati a danno del compascuo, è configurata in una sentenza del Senato di Genova in data 23 Dicembre 1831 » Inoltre dal sommario della causa vertita con il signor conte di Rivalba si « raccoglie che diversi registranti, e particolari, tanto abitanti in detto luogo, che » forastieri fossero soliti lino da tale tempo di tener li margari nelle loro cassine. » Nè si crede, che possa essere utile alla rappresentante l’insistere in tale punto, » poiché non può essere se non vantaggioso, che dalli Particolari si procuri in qual-» che modo di avere il numero conveniente di bestiami per mezzo de loro mas-» sari, o margari, giacché non tutti li padroni de’ fondi stimano di provvederli » del proprio. » Da ciò ne verrebbe in conseguenza, che la rappresentante avrebbe ragione di » opporsi alla introduzione delle suddette bestie, quando eccedano quella quantità, » che resta proporzionata e conveniente per i beni del signor Avvocato Borletti, » avuto riguardo alle bestie solite mantenersi dagli altri Particolari, del che non » si sarebbe fatto constare. » Epperò r Ufficio crede di non poter permettere alla rappresentante di fare una n lite per il suddetto fatto, salvo, che si diano gli opportuni schiarimenti in ordine » alli detti riflessi, e circostanze. » Torino, li 6 aprile 17 j6. » Cavalli Sost. Aw. Gen. 1. » Tenore di altre conclusioni dell’ Ufficio del signor Avvocalo Generale sovra altra » rappresentanza data dalla Comunità di None per 1 assenso di poter litigare contro » il signor Avvocato Borletti all’effetto d inibirlo di tener margaro. » V. cogli alti, e documenti enunciati. » Essendosi considerati li detti atti seguiti nel Tribunale di None, ed avanti il » Reale Senato sullo stesso punto, di cui si tratta, cioè se fosse lecito alli Partico-» lari di tenere le margarie di bovine, 1’ Ufficio persiste nello stesso sentimento, » di cui nelle conclusioni delli 6 aprile andante anno per li motivi in esse addotti, » ritraendosi dalli detti atti, che, non ostante la lite fatta dalla Comunità dall’anno » 1721 all’anno 1728 contro li signori Garis, Alberi, Commessaro di Guerra » Mathesius, e Controllore Garrone, non ha però ottenuto alcun provvedimento » definitivo, ed avrebbero sempre continuato a tenersi le margarie, risultando anzi — 248 — riferita nella raccolta del Gervasoni a p. 430 di detto anno. Nel 1596 i l) Oria, quali feudatarii di Torriglia, avevano disposto di un territorio che, era evidentemente di uso pubblico, nel seguente modo. A dodici individui di Donnetta, quartiere di Pentema, concedevano in enfiteusi la tenuta di Donnetta, alborata di faggi e cerri, composta di più terreni di diverse denominazioni per l'annuo ca none di stara otto grano. Pattuivano: i.° che dentro da medesimi atti, che in tale tempo di già ve ne fossero altre in detto terri-» torio. » Nè si crede, che possa far caso in contrario 1’ esempio, che si è addotto della » Comunità di Donasso, a cui colle conclusioni dell’Ufficio de’ 2? luglio 1838 si è permesso di opporsi all’ introduzione de’ margari, mentre ciò sarebbe stato per >> le singolari circostanze del caso ivi additate, cioè che li Particolari, che volevano » tenere le margarie, già fossero provvisti sufficientemeute d’altri bestiami propri per la coltura, ed ingrasso de’ beni, e che le margarie si tenessero da’ l’arti-» colari solamente per profittare in pregiudizio degli altri, e del pubblico, del che » non si avrebbero riscontri nel caso presente. » Nemmeno sembra, che possa essere bastante da sè solo il riflesso, che ciò » possa dar luogo a disciogliere la società, e reciprocità del pascolo, che vi sarebbe tra li Particolari, mentre questo dipenderebbe da’ stessi Particolari, ove stimino » di proporlo, e le circostanze, e situaz.one de’ beni lo permettano, ma si crede, » thè non debba proporsi dalla Comunità, per non riconoscersi un motivo di pub-» blica necessità, ed utilità, subito che dalli Particolari nel numero delle bestie delle margarie non si eccede quella quantità di bestie, che possa essere propor-» zionata alli beni, ed al registro, avuto riguardo al numero delle bestie solite » tenersi dagli altri Particolari, onde la differenza consista solamente nell’ essere » bestie proprie de’ padroni, e massari, oppure delli margari. » Quindi ad effetto di evitare le spese, ed ogni pregiudicio al pubblico si suggerisce alla Comunità rappresentante quanto già sarebbe stato eccitato dall’Uf-» ficio nelle conclusioni de’ 12 maggio 1726 sul ricorso uni'.o al rescritto Sena-» torio de 13 medesimo mese, di cui in detti atti, cioè di fissare, e stabilire una <> regola pel numero de’ bestiami, che ognuno de’ Particolari, e registranti potrà » tenere a proporzione de’ beni, e considerate tutte le circostanze, affine di to-» gliere gli abusi che potessero esservi nell’uso de’ pascoli; e questo potrà farsi » col mezzo d un bando da approvarsi dal Reale Senato, e con partecipazione del r. signor Feudatario del luogo, ad esempio d’altri luoghi, ne’ quali si è stabilita » una tal regola ne Bandi campestri, venendo cosi tolte le quistioni, che possono - 249 - l’anno dovesse seguir la divisione di quella tenuta fra i conduttori; 2° che questi non potessero in certi posti tagliar cerri e faggi, e potessero nel rimanente tagliare, boscheggiare e seminare a loro piacere; 3.0 che se vi conducessero a pascolare bestie di forestieri dovessero pagar la tassa per ciò stabilita (si prevedeva 1’abuso di cui abbiamo parlato di sopra); 4.0 che gli uomini di » esservi circa la maggior, o minor quantità de’ bestiami, che si tengono da » Particolari. » Torino, li if giugno ij)6. « Cavalli. » Nella causa della Comunità di Bussoleno contro Francesco, Giuseppe, Seba-» stiano, Giacomo e Lorenzo Combctti, Bartolomeo Richetto, Gioanni, e Giacomo n Barutelli, e Giacomo, e Gioanni Orscha, tutti del luogo di Mathie Borgata delle » Combe. » 11 Senato .„ ... ha pronunciato e pronuncia doversi dichiarare, come dichiara » spettare alli suddetti Particolari delle Combe di Mathie la partecipazione del » pascolo del territorio di Bussoleno, di cui si tratta, per quella quantità di bestie » proporzionata al loro registro, ed all’ esigenza della coltura de’ beni che ivi » possedono, la quale verrà in altro giudicio tassata, compensate le spese. » Torino , li 14 febbraio 187). » Laurenti Relatore. 5 » Nella causa delli.....del luogo di Viù contro Gioanni Antonio Benedetto. » 11 Senato, sentita la relazione degli atti, e le Parti in pubblica udienza, ha » dichiaralo, e dichiara......non essere stato, nè essere lecito al prefato Beli nedetto d’introdurre, o far pascolare ne’ beni comuni una maggior quantità di » bestie, oltre ciò, che possa esser proporzionato alla quantità del registro di esso » Benedetto, e alla qualità, e quantità de’ pascoli del detto territorio, conforme » verrà in altro giudicio (issato..... » Torino, li ;j mur^o 1779. » Galli Relatore ». — 250 — Pcntema potessero condurvi le loro bestie a pascolare « absque aliqua solutione ». Nel 1680 sorsero questioni fra i conduttori e gli uomini di Pcntema per il diritto, che questi intendevano di avere, di pascolare e boschcggiare in detti beni. Nel 1751 la lite veniva portata per la seconda volta dinanzi al Giudice di Torriglia. Il Giudice con sentenza del 2 Giugno 1751 dichiarava « competere hominibus villae Pentemae jus pascendi et lignandi ». 1 755 il principe Doria faceva pubblicare un’ordinanza in cui, per ovviare a sconcerti, provvisoriamente e senza pregiudizio delle ragioni rispettive delle parti, proibiva ai suoi conduttori di coltivare e addimesticare più di quello che avevano sino allora fatto; quanto alle terre già coltivate a semineno e prato, restassero; ma fosse lecito ai Pentemini pascolarvi, quando non ne poteva aver danno il raccolto. Chi non vede in questa ordinanza la riproduzione fedele dei criterii primitivi della tavola di bronzo ? I Langen avevano abusato col far prati? cessassero dal farne, dicevano i Minucii ; quanto ai prati già fatti, se li tenessero, ma... ecc. Nel 1822 altri proprietari erano subentrati in Donnetta e fra questi i Bevilacqua, che tendevano a liberarsi dal pubblico pascolo, sostenendo 1 abolizione di questi diritti in base alle leggi francesi, invocando la prescrizione estintiva, ed altre ragioni di tal fatta. Ma il Senato di Genova, colla sentenza testé indicata, ritenne che il diritto di pascolare era un antico diritto dei Pentemini, preesistente all’atto del 159^» una servitù vera e legittima, non una semplice concessione di favore signorile e feudale. Il Senato poteva dire senza tema di errare : Donnetta era un antico compascuo, dal quale per effetto del feudalismo si era deferito al — 251 — Principe il dominio diretto. I conduttori di Donnetta avevano le stesse tendenze, che avevano da venti e trenta secoli tutti i nostri privati di fronte a tutte le comunità. Eran felici se riuscivano ad allargare il prato ed il seminerio e restringere il compascuo. Questa dimostrazione storica parmi non sia riuscita del tutto inutile. Infatti essa è venuta a confermare che il compascuo non era un terzo agro, come credette il Desimoni, ma era un diritto che si esercitava sopra determinate zone dell’antico agro pubblico, in quell 'agro pubblico, ove, secondo la tavola, si verificava l’eterna lotta del prato col compascuo. Avevo contro di me 1’ autorità grandissima del Desimoni, e non potevo esimermi da una copiosa dimostrazione per convincere il lettore che i concetti da me esposti sono consacrati dalla pratica dei popoli italici dall’epoca della tavola di bronzo in poi. Non si crederebbe; eppure, la tavola di bronzo, una volta chiarita può essere un documento utile ancora oggidì nella risoluzione di certe controversie che sembrano insolubili tanto sono confuse. Accade ancora oggigiorno che si disputa per i confini di due paesi in tema di beni comunali. Vi è chi pretende che un comune abbia diritto su parte del territorio che è al di là del giogo. Si invoca il possesso sempre avuto di far legna e di pascolar al di là. A questa pretesa un giudice ben informato sulle origini e sulle vicende storiche dei compascui facilmente risponderebbe : Il possesso che voi vantate al di là del giogo è un possesso non a titolo di proprietà esclusiva, ma un possesso a titolo di proprietà promiscua. Per le antiche costumanze Liguri, sanzionate nella tavola di bronzo e nelle tradizioni, voi pascolavate e facevate legna — 2 5 2 _ al di là, come i vostri vicini pascolavano e facevano legna al di qua. Quindi non potete essere accolti nella vostra domanda a meno che proviate di aver trasformato quel possesso promiscuo in possesso esclusivo da più di trent anni. Se questo non provate, le costumanze antiche devono dar norma nell'interpretare il possesso. Se volete venire ad una soluzione di questa promiscuità non vi è altra via che quella segnata dall’ art. 682 cod. civ. In mancanza di prova si deve ritenere che tanto era il terreno lasciato al compascuo dalla comunità che era di là dal giogo, quanto era il territorio lasciato da quella che era al di qua. In conclusione deve restare alla popolazione che è di là completamente libero il territorio fino al gl0g°> e libero fi,7io al giogo deve restare il territorio alla popolazione che è al di qua. Il giogo in mancanza di altra prova deve segnare il contine, perchè la tradizione storica, consacrata nella tavola di bronzo ci insegna che il giogo era il confine normale delle popolazioni stanziate sui due versanti della montagna. Così decidendo, o il giudice farebbe una sentenza in perfetta armonia con quella dei Minucci di 2000 anni fa e quel che più importa darebbe ai possessi ab immemorabili il loro giusto carattere. * 15. — Viene infine la decisione relativa alle ingiurie e vie di fatto. Là fra quelle ville, che sono in oggi le proprietà Dasso, Stronello e Bacigalupo in Isocorte (punto A) si picchiavano con più o meno di santa ragione i nostri - 253 “ padri antichi. E lo stesso probabilmente avveniva dal- 1 altra parte fra Isola e Pedemonte (punto B). La tavola ricorda che i Genovesi avevano preso i Langen e li avevano chiusi in carcere. In questa circostanza si volle trovare un altro argomento della supremazia dei Genovesi sui Vituri. Ma l’argomento è soltanto apparente, ed il lettore ne sarà facilmente convinto da questo confronto. Nel XVI secolo, cioè diciasette secoli dopo la tavola di bronzo, quei di Busalla litigavano coi Polceveraschi per gli stessi motivi di confine. Riferisce il Roccatagliata all’anno 1589 che in quel tempo Nicolò Baliano, Pier Marco Deferrari e Stefano Lasagna essendo giudici per incarico del Senato fra quei di Polcevera da una parte e quei di Busalla dall'altra, per questione di confini andarono sul luogo ed ivi profferirono sentenza____ Come si risente la tradizione romana ! Queste liti, se per disgrazia cominciavano, erano eterne. Ed il Roccatagliata è costretto a ritornare sull'argomento 17 anni dopo ed a scrivere che nell’anno 1606 vi fu nuovamente questione fra quei di Polcevera e quei di Busalla « Ritrovandosi ' quei di Polcevera in un bosco, che ognuna delle parti riteneva esser suo, fecero quelli del luogo di Busalla prigionieri quei di Polcevera ecc..... ». Si dirà che i Busallini avevano la supremazia su vai Polcevera ? Nessuno vorrà sostenerlo. L’ uso di prendere e legare e sequestrare le persone colte in flagranza di furto 0 di usurpazioni campestri è sempre esistito in mezzo alle popolazioni dell’Appenino. Ed è naturale che così si facesse; non essendovi nè carabinieri, nè campari, nè guardie forestali, nè proce- — 254 - dure di contravvenzione, chi era colto a segare o mietere o coltivare dove non doveva essere, o non si voleva che fosse, era preso da coloro che si credevano danneggiati, legato ad un albero, e poi condotto prigione. Nei tempi in cui ogni potere si concentrava nella tribù, era la maggioranza che decretava di agire in tal senso, ed ogni uomo della tribù era senz’altro investito del potere esecutivo, era questore e questurino ad un tempo. La tribù processava e condannava i colpevoli, per il principio che ogni popolo aveva il diritto di punire i reati che si commettevano nel suo territorio. Bisogna penetrare in fondo a questi nostri costumi liguri, che costituiscono ancora oggigiorno un sistema completo di polizia rurale. Nè il Mommsen, nè il Rudorff potevano attingere a queste fonti locali. Essi fecero fin troppo divinando molte cose col loro spirito d’induzione. Ma sarebbe troppo poco da parte nostra se ci limitassimo a ripetere le loro induzioni e non tentassimo, cogli elementi positivi che noi soli possediamo, di chiarire, di rettificare le cose, di rifare, occorrendo, su certi punti lo studio della nostra tavola. I Langen adunque erano stati fatti prigioni e condotti a Genova - il castello di Serzan era probabilmente il loro carcere. La sentenza ordina la liberazione. * 16. — Notate la frase: bisogna che i Genovesi li sciolgano e li rimandino liberi — Solvei, mittei liberique — La grammatica è difettosa, ma il concetto è di una pre- - 255 — cisione matematica. Il Mommsen sostituisce « liberarique » a « liberique » ritenendo che vi sia un errore di incisione. 10 noi crederei, sembrandomi che il liberique risponde meglio all’ esplicazione del concetto. Si voleva stabilire 11 modo da tenersi nella liberazione dei prigionieri. Scioglierli e rimandarli era una cosa, ma si poteva anche rimandarli sotto scorta al confine, e perciò si volle che al rimandare fosse aggiunto « et liberi ». Parmi di sentire il Polceverasco sottile e diffidente sollevare il quesito : come ce li rimanderanno? come tanti malfattori? No, avran risposto i Minucii, verranno da sè, liberi. E gli altri ad insistere perchè fosse scritto anche questo. Ed i Minucii conchiudere: « solvei mittei et liberi ». Chi ha pratica di liti e di transazioni sa che queste aggiunte, che poi sembrano superfluità, sono appunto il risultato del contendere sopra una parola, che si teme non dica mai abbastanza. Sostituendo « liberarique » mancherebbe quella successione logica di idee, che hanno le tre parole, una dopo l’altra considerate; il liberari sarebbe una espressione generica che ripeterebbe inutilmente il concetto già compreso nelle altre due - solvei et mittei. * 17. — Dissento poi dall'opinione del Serra, ed anche del Sanguineti (pag. 388) e del Grassi (pag. 485) nell’interpretazione delle ultime parole della tavola: ante • IDVS • SEXTILIS • PRIMAS • SI • QVOI • DE • EA • RE ■ INIQVOM • VIDEBITVR • adeant • ad • nos... Non è una clausola che riserva alle parti il diritto di reclamare contro la sentenza, come il Serra ritiene, o contro una parte della stessa come ritiene il Sanguineti. Se un reclamo contro il giudicato fosse stato possibile doveva deferirsi ad un altro magistrato, non a quello che aveva già pronunziato. Questa è regola elementare di ogni procedura e se nella tavola fosse scritto davvero che i giudici rivedranno la sentenza, quando in tutto o anche in parte non piacesse ai litiganti, bisognerebbe dire senz’altro che non è romano il documento. Ma non è solo la logica del diritto che si oppone all’ interpretazione testé accennata ; vi è pure la logica dei fatti. Abbiamo già avvertito in principio che i Romani composero sul luogo tutte le controversie. Adunque, se le controversie erano state transatte d’accordo, se un quasi contratto giudiziale era intervenuto ad eliminarle, e le parti avevano sottoscritto, sarebbe stato assurdo il prevedere un giudizio d’appello. Vide giusto, a mio avviso, il Sanguineti quando avvertiva che la frase de • ea • re si riferiva al fatto delle ingiurie e della prigionia non a tutta la sentenza, come il Grassi riteneva. Vide giusto il Grassi quando fece la distinzione fra interessi pubblici e interessi privati. La sentenza aveva risolto le questioni fra i due popoli, aveva ordinato la restituzione dei prigiomieri. Ma la faccenda delle ingiurie, dei sequestri di persone e di cose doveva avere necessariamente un tratto consecutivo -la liquidazione dei danni - a favore dei singoli danneggiati. È facile immaginare come le famiglie, che avevano dovuto sottostare a vie di fatto, sollevassero un mondo di reclami e pretendessero « individualmente » dei risarcimenti. I Romani, da persone pratiche, si tolsero momentaneamente da quel ginepraio, dicendo: « Se qualcheduno - 257 - credesse vi sieno delle ingiustizie da riparare a riguardo di tal faccenda - de ea re - cioè a riguardo delle ingiurie e vie di fatto, venga a Roma e ne parleremo ». Ma dove mi separo assolutamente dal Grassi è nella interpretazione delle ultime parole: adeant • ad • nos • PRIMO • QVOQVE • DIE • ET • AB • OMNIBVS • CONTROVERSIS • it • hono. • pvbl, • li. La frase ha la sua spiegazione molto semplice nei formularii della procedura. Quando il giudice fa come si dice « un rinvio della causa » o fissa il giorno o lascia la scelta alle parti, escludendo certi giorni. I nostri pretori, per esempio, adoperano abitualmente questa formola « compariranno le parti nel primo giorno non feriato ». Altre vojte dicono « compariranno le parti alla prima udienza, ^caduti i termini dell’appello ». I fratelli Minucii non fecero un rinvio vero e proprio della causa, ma dissero: Se qualcuno avrà delle ragioni da far valere per le ingiurie patite comparirà prima delle calende di Agosto — quoque die et ab omnibus controversiis et honore pubblico libero — nel primo giorno che gli piaccia purché sia libero da cause e da pubblici uffizii - in altri termini: in un giorno che non vi sieno cause nè altro pubblico ufficio da sbrigare. La delegazione del Senato è esaurita, la sentenza è pronunciata, la causa fra i due popoli e definita ; se qualcheduno personalmente ha delle ragioni da far valere verrà da noi, Minucii, amichevolmente, « vedremo il da farsi ; se potremo conciliare la cosa, la concilieremo, altrimenti si provvederà colle formalità che saranno del caso ». Si ricordi che queste parole sono scritte in una sentenza, che è in sostanza un verbale di conciliazione. Evidentemente le ragioni dei singoli avrebbero costi- Atti Soc. Lia. di Stoma Pat«u. Voi. XXX. ,8 — 258 — tuita una causa nuova, non più fra due popoli, ma fra privati, e forse era necessaria una nuova delegazione e un nuovo giudizio per risolverla. Il rinvio è una cosa tutta affatto amichevole ; più che un rinvio è una riserva di parlare del resto a suo tempo. La mia interpretazione segue la lezione adottata dal Mommsen. Noto che anche volendo mantenere la lezione it • mono . pvbl. • li che il Mommsen corregge et • mono • pvbl. • li la mia interpretazione non cambia, perchè 1 it suonerebbe un item « primo quoque die libero ab omnibus controversiis item honore publico ». Farmi che la mia interpretazione abbia questi vantaggi: 1. risponde alle consuetudini procedurali, nel fissare i termini di comparizione; 2° risponde meglio alla lettera della tavola; 3.0 dà alla parola honore • pvblico • il suo vero e naturale significato che è di ufficio pubblico. « Honoribus operam dare » dice Cornelio nella vita di Catone — « Honores non petiit » dice Cicerone in Verrem. Parmi invece non abbastanza provato che i Romani usassero la frase « honore • pvblico » per indicare la formalità del giudizio, come il Grassi suppone. * *8. — Segue la sottoscrizione della sentenza per parte dei delegati dei due popoli. Moco Meticanio figlio di Meticon per i Genovesi - Plauco Peian figlio di Peion per i Viturii. Già vedemmo che il moco è una specie di vecia molto in uso presso gli antichi liguri, i quali si cibavano essenzialmente di fave, di mochi, di lemi e di lenticchie. - 259 — Moco era sopranominato il delegato di Genova, come a Roma, nello stesso secolo, si chiamava Cicero un uomo insigne, che fu sommo filosofo, sommo oratore, console e dittatore. Quanto al « Meticanio figlio di Meticon » non sono d’accordo col Grassi che vuole ad ogni costo, per certi suoi ragionamenti, leggere « Ometicanio figlio di Ome-ticone ». Io spiego molto più facilmente il Meticanio e il Meticone, quando penso che i nostri antichi fratelli di Grecia chiamavano fieiotxoi i coloni, e jiexoixsìv stare appo uno come colono. La parola si decompone in [leià-axico, abito con, presso uno. Dal che deduco che nell’antichissimo dialetto mediterraneo « meticón » era quello che poi si disse il « manente ». I Meticanii erano probabilmente una stirpe, che veniva da un’ antica famiglia di « metichi ». I cognomi liguri derivano generalmente o dai luoghi abitati o dalla professione abituale. Certi epiteti, dopo essere ripetuti per centinaia d’ anni, si cristallizzano e diventano nomi proprii. Già vedemmo i Botero, Bottaro, Boero, Vottero provenire da antichi bovari, gli Alizeri da antichi marinai, i Gherardi genovesi, i Gerard provenzali, i Gilardini piemontesi, i Ghirardini e Gherardelli in Toscana, i Girardengo nel Tortonese da antichi « irrigatori di terre », i Reboa, Reboin, Rebolin, i Brea dagli antichi mercanti della « reba » o « brea », i Burzin, Bursotto da antichi pellai. Nel medio evo, dopo tante inondazioni di barbari 'succede una nuova cristallizzazione di nomi comuni in nomi propri. Allora appaiono gli Aldi, i Gastaldi, i Scabini, gli Armanin che ricordano 1’ epoca Longobardica, come altri nomi comuni trasformati in — 26o — nomi proprii ricorderanno il feudalismo, le crociate, le dominazioni francesi e spagnuole in Italia. Adunque Moco Meticanio si chiamava il nostro concittadino che per il primo rappresentò Genova dinanzi al mondo civile. Meticon Meticanio si chiamava suo padre. Vedremo più sotto che Pejon Pejan si chiamava il padre di Plauco Pejan. I Romani facilmente ripetevano nel figlio il prenome del padre. I Liguri avevano il vezzo di ripetere nel nome il casato : quest’ usanza fu sempre viva in Italia, e ancora in oggi troviamo Landò - Landi, Gabardo - Gabardi, e simili. Quanto al Plauco Peliano figlio di Pelione rappresentante dei Langen, io traduco: Plauco Pejan figlio di Pejon. Ritengo che il Plauco sia il solito sopranome, il cui significato può anche essere di « uomo sordido » trovandosi in greco un - TnjXà-i;, 7n)Xà-xo; - che il dialetto può aver contratto in plà-o-co — notando che co (*os) è la solita finale comune al ligure e al greco. I Romani scrissero Plaucus Peliani Pelioni filius, il che mi ricorda come nelle carte antiche Pelio sia il paese di Pegi (Pegli). Parmi una supposizione abbastanza naturale che i Romani abbiano battezzato col nome di Pelio quello che i Liguri dicevano e dicono ancora in oggi P^gl> che abbiano tradotto in Peliano la parola Pejan, abitante di Pegi, in Pelion Pelionis il nome di Peion, padre di Plauco. Una volta intesi che il Pelio è Pegli, e in ciò mi assistono il Grassi e il Desimoni, io ripiglio il mio sistema di scrivere il nome ligure come veramente è. Pelio è latino, Pegli è italiano, Pegi è l’antichissimo, il — 261 — vero nome ligure (i). Giunti a questo punto è facile indovinare che Peliano è traduzione di Pejan, che vuol dire Pegian, de Pegi. E così il paese di Pegli e la famiglia Peirano hanno l’onore di trovare nella tavola di bronzo il documento autentico di una nobiltà che va oltre i 2000 anni. L’ essere di Pegli il rappresentante dei Viturii è una delle tante circostanze che concorsero a farmi ritenere che Voltri fosse territorio dei Viturii. Sestri, Pegi, Pai-maro e Voltri sarebbero gli antichi paesi dei Viturii marittimi. I Vituri Langen dovendo mandare un rappresentante a Roma, ne scelsero uno che non fosse come loro un semplice agricoltore, uno che potesse competere coi « Zenoeixi ». Questi, come spiega il nome, sapevano trattare e intendersi coi forestieri; bisognava contrapporre un uomo che conoscesse il mondo e sapesse parlare e farsi valere alla presenza dei Romani ; e si scelse il Plauco di Pegi. Ne deduco che quei di Pegi dovevan esser Viturii, perchè non è verosimile che i Langen scegliessero un rappresentante fuori della loro nazione. I nomi dei delegati sono apposti a modo di firma in fine della Sentenza. Firmarono effettivamente? o il loro nome fu posto soltanto a ricordo del fatto ? A suo tempo dimostreremo che la scrittura non doveva essere ignota ai nostri Liguri come ai tempi di Giulio Cesare non era ignota ai Galli e agli Elvetici. Per finire, faccio un voto: che Genova si ricordi un giorno del suo Moco, e poiché fu distrutto nel passato anno 1899 il vico Moconesi, che poteva anche essere la (i) Vedi a p. 75, Pegi, nrjyr), fontana. — 2Ó2 — dimora, 1’ edo del nostro grande antenato, intitoli almeno una via a moco meticanio. Pegli non vorrà essere da meno, e scriverà il nome di Plauco Peiano. * Ed ora che siamo informati di ogni cosa, facciamo come i fratelli Minucii — andiamo sul luogo. Risulta che i Minucii con molta diligenza segnarono dei confini, e misero dei termini; noi dobbiamo rintracciarli. Traversarono due volte la Via Postumia, e noi dobbiamo traversarla. Trovarono due castelli, e noi dobbiamo ritrovarli. CAPO V. L’ AGRO PRIVATO DEI LANGEN, i. Il « castelo » e il suo agro. — 2. L\< ede ». — 5. Il « manicelo ». 4- Il « LEMORI ». — 5. Il « COMBERANEA ». — 6. La « CONVALIS CAEPTIEMA ». — 7. La « VIA POSTVMIA ■> — 8. Il VINDVPALIS » e il « NEVIASCA ». — g. La « PROCOBERA ». — IO. VINELASCA • POSTVMIA e MANICELO. II. Si ritorna al primo termine. i. Venendo a parlare dell’ « agro privato » dei Veturii di Langasco, rilevo per la seconda volta l’importanza di questa espressione, « ager • privatus • casteli • vituriorum. » Il castello , ben si comprende , doveva trovarsi presso l’abitato, e, siccome i Liguri abitavano in mezzo alle terre che coltivavano, parmi logico il concludere che se il castello era a Langasco , nel qual punto tutti i commentatori sono d’ accordo, doveva pure trovarsi intorno a Langasco 1 agro privato del Castelo. Ouesta riflessione consiglia di indirizzarci, prima di tutto, da quella parte, per vedere se corrisponde alla regione descritta, come agro privato, nella tavola di bronzo. Avverto subito che camminiamo in direzione opposta a quella che segui 1 illustre Desimoni, il quale configurò un agro privato su quel di S. Cipriano, un — 264 - agro disgiunto dal suo castello; ipotesi che mi parve sempre alquanto anormale e poco verosimile. Incamminiamoci dunque per la strada della Bocchetta, e giunti al principio del paese di Langasco prendiamo posizione su quel colle che è a sinistra della strada, detto Caltela, che potrebbe anche essere il sito dell’ antico castello (i). È il punto migliore per chi vuol fare un esame diretto dei luoghi, o, come dicono gli artisti, uno studio dal vero. Un altro punto di osservazione veramente splendido è il monte di N. S. della Guardia, che diverrà, grazie all’on. Pizzorno, che ne promosse la ferrovia elettrica, una comodissima specula del grande paesaggio dei Genoati e Viturii. Cominceremo col notare i caratteri più spiccati della regione. La prima cosa che colpisce l’attenzione è 1’ aspetto verdeggiante del paese, e ciò dipende dall’esservi dovizia d acqua. Sui colli è raccolta in vasche e « tombei, » ed al basso è guidata di qua e di là da « bei » antichissimi , che prima alimentavano molini, ed ora servono a molteplici industrie. Contribuisce al verde del paesaggio la serpentina, per cui assume un colorito caratteristico il fondo del torrente o perfino le strade, costituite di un massiccio di verde di Polcevera. Si comincia a riflettere che deve essere antichissimo il nome di « Verde », come è di tutti i nomi che son nati dall’ osservazione della natura. ( i ) Per sè la parola Castelà non ha valore in ordine alla nostra questione. Castelà è nome che si trova ad ogni passo nei nostri paesi e significa un luogo in rialzo che torreggia in forma di castello: la parola si decompone in casté-Ià, Yesimoni si arrestano a questa difficoltà e parlano della convalle Caeptiema come di una incognita, di una configurazione di monti che deve essere scomparsa in seguito a cataclismi subiti dalla montagna. È un’ipotesi a cui non posso acquetarmi, perchè è molto grave 1 attribuire alle montagne di questi scherzi in un periodo in cui i grandi Atti Soc. Lio. di Storia Patri*. Voi. XXX. *9 — 274 ~ movimenti tellurici erano cessati. Posso ammettere uno scoscendimento come a Margen, ma non posso ammettere che scompaia un complesso di montagne in atteggiamento di formare una con valle. Che cosa vuol dire Caeptiema? Vi possono essere diverse interpretazioni plausibili. Senza annettervi soverchia importanza : Caepa è la cipolla, Caeptum il luogo piantato a cipolle ; ed io non ripeterò mai abbastanza questa verità, che le dominazioni Liguri si devono cercare nell’ indole montanina ed agricola del popolo, nelle manifestazioni della natura, nella qualità delle coltivazioni ; e credo che il lettore se ne sarà convinto dalle dimostrazioni che ho dato al Capitolo II. Valle caeptiema sarebbe traduzione latina di « Val de ziule » nome comunissimo nei nostri monti come « próu de ziule ». * 7. — La via Postumia. Ma torniamo alla tavola di bronzo. Essa prosegue. IBI • TERMINA • DVO • STANT • CIRCVM • VIAM • POSTVMIAM. Siamo al punto più interessante delle nostre ricerche. Se la nostra confinazione è esatta, avremo la chiave per risolvere questo problema che fu oggetto di tante discrepanze : dove passava la via Postumia ? Parleremo della strada in un capitolo a parte (1). Per (1) Io credo di avere, colla guida della tavola di bronzo e le constatazioni locali, stabilito il tracciato della via Postumia da Genova a Libarna. Se potrò raccogliere in un volume i miei studi su Libarna riferirò in una pianta il percorso — 275 — ora mi contento di osservare come, trattandosi di aprire una strada militare attraverso il giogo, era naturale che i Romani preferissero il passo della Bocchetta, che era certamente il migliore sotto l’aspetto strategico, come ebbimo a constatare con dolorosa esperienza ai tempi delle guerre austro-sarde e napoleoniche. Ai tempi romani la base delle operazioni militari era a Piacenza, gli eserciti venivano per Tortona a Libarna e, superato il giogo, si affacciavano al grande o?2^ della Polcevera (Vedi oamà, p. 90). 11 monte Poggio col suo Castelo Aliano difendeva magnificamente la strada al convergere di tre valli : Polcevera, Lemo e Scrivia. Il valico della Bocchetta è più alto di quello dei Giovi, ma presenta il vantaggio di una salita comoda, naturalmente tracciata dai declivi della montagna. Nei tempi antichi era inoltre preferibile perchè il Ricò era perfettamente deserto, oltreché esposto al vento e con poco sole , mentre passando per Langasco , si traversava un bell’abitato e un bel coltivo; circostanze tutte che avevano la loro importanza sia per la comodità del cammino, sia per 1’ approvvigionamento delle legioni. Due termini dice la tavola, stanno nella convalle ai lati della via Postumia per segnare il limite dell’ agro privato. Se è vero il tracciato da me finora descritto, della Postumia al di là dell’ Appenino. Frattanto m’ interessa di fare una riserva a riguardo di quel tratto di strada che è fra Pontedecimo e Langasco. La strada poteva passar per Cesino come per Campomorone Ho dato la preferenza al tracciato per Campomorone perchè mi sembrava un po’ forte, per una via militare 1’ erta di Cesino, ed anche perchè la costiera del Castelà mi presentava più spiccati i caratteri di un abitato antico. Ma l’incertezza non è tolta da queste deboli presunzioni. — 276 — si può mostrare a dito il luogo ove dovevano essere quei termini. La via attuale, che passa dinanzi alla palazzina del dott. Pittaluga, e poi dinanzi alla Chiesa, deve essere esattamente l’antica Postumia; e dico esattamente, perchè la costiera è talmente ristretta a quel punto che non lascia margine per un tracciato diverso. Il rivo creusu, o meglio la « Creusa » finisce poco prima della palazzina Pittaluga; adunque in quei 100 metri di strada che precedono la palazzina dovevano essere 1' due termini ricordati dalla tavola. Come si vede, Pietra Lavezzara era fuori dell’agro privato, e son certo che non avrà difficoltà ad ammetterlo chi è conoscitore del luogo, pittoresco quanto altro mai, selvaggio ad un tempo. L abitato di Pietra Lavezzara ebbe origine dalla costru-zione delia strada e dalla scoperta delle cave, non dalla coltura del terreno. Forse fin di 2000 anni fa erano in Val de Ziule dei rifugi di osteria, ove sostavano i soldati di Postumio, di Scauro e di Mario per confortare lo stomaco e le gambe col bianco vinello di Polcevera. Ma regione coltiva non fu mai la convalle, e posso citare un testimonio autorevole nel March. Gianvincenzo Impe-periale, il quale, nelle sue note di viaggio (1), volendo magnificare Pietra Lavezzara, altro non potè dire che era « di rape e di castagne e di perfette ricotte oltre ogni dire ripiena ». (1) Atti delia Società Ligure di Storia Patria, voi. XXIX. * - 277 — 8. 11 ViNDVPALE e il Neviasca. EX • HIS • TERMINIS • RECTA • REGIONE • IN • RIVO • VINDUPALE. Dalla costiera di Pietra Lavezzara si scende sul versante opposto seguendo la linea formata dai due termini che sono al di qua e al di là della Postumia. Affacciatevi verso Pavèi e trovate un rivo che comincia precisamente là dove abbiamo segnato i due termini. È il « ria de Pavèi ». Sempre ligio a spiegazioni d’indole locale e dialettale, io confronto il Vìndu-pà col Pà-vei, che è l’antico paese di questa vallata. Pa-vèi ha origine comune con Avèi (Aveto); Pa-vei, come già vedemmo nel Capitolo II, significa tutto-abeti. Confrontando il Vindu-pà col Pà-vei si sente che il primo non è che una traduzione mal riuscita del secondo. Quel vei deve aver dato da studiare assai ; forse ai Romani, che erano poco etimologisti, parve di trovare in quel vei un senso di minaccia o di vendetta, e tradussero « vindu » del pa con terminazione latina fecero « palis ». Il lettore avrà notato come quasi tutti i nomi venuti fuori dalla tavola trovano riscontro nei luoghi. Manicelo trovò Mar^en, il fiume Lemor trovò il Lemo, la convalle trovò la convalle, il Vindupale trovò il Pavèi. Saremmo dunque sul confine storico tante volte sognato tante volte svanito? Non illudiamoci, perchè le omonimie hanno fatto dei cattivi scherzi finora. Io mi limiterò a segnalare al lettore queste coincidenze man mano che si paleseranno, ma senza lasciarmi deviare dal mio in- — 278 — tento, che è di ricomporre la tavola di bronzo a base di fatti positivi risultanti dalla configurazione dei luoghi. EX • Rivo • VINDUPALE • IN • FLOVIUM • NEVIASCAM. Viene un corso d’acqua più importante e la tavola lo chiama flovius. È il rio di Costagiutta o meglio Co-stagua (1). Qui viene a proposito di rilevare una circostanza locale, che m’ interessa più della corrispondenza dei nomi. Neviasca è l’asca cioè il torrente della neve. La gola — gua — del Costa-gùa è un posto ove si agglomera la neve, se neve cade in Polcevera; è il luogo ove la neve stanzia più a lungo, essendo quella gola sottratta ai raggi insistenti del sole e alle correnti calde del mezzogiorno. Confrontando la mia carta con quella del compianto prof. Desimoni, si vedrà che egli fu costretto a porre il Neviasca nel torrente di Séra, fra Voiè e Pedemonte, in luogo aprico e tutt’altro che destinato a conservare le nevi. Il Costagùa mette nel Ricò , che è la parte più alta della Polcevera. Ed ecco, la tavola che dice; andate giù per il Neviasca fino a incontrar la Procobera. * 9- — La « Procobera ». INDE • DEORSUM • FLOVIUM • NEVIASCA • IN • FLOVIO ' PROCOBERAM. Siamo al famoso Po-sei-vi-a, che i Romani tradussero prima in Procobera e poi in Porcifera, e che i moderni, (1) Vedi al Capitolo II gùa, gualon. — 279 — alterando il Porcifera di Plinio, chiamarono con una parola priva di senso Polcevera (Vedi p. 192). Il nome di Ricò che i Polceveraschi danno alla Polcevera alta non è altro, come vedemmo, che un aggettivo che significa roccioso: esso è antico quanto la parola Po-sei-vi-a. Probabilmente ai tempi della tavola di bronzo si usava ancora nel senso di aggettivo, e il nome di Pòseivia si dava a tutto il fiume sino ai Giovi. In oggi 1’ aggettivo ha usurpato il posto del nome per tutto il tratto della Polcevera rocciosa da Pontedecimo in su. ¥ IO. - VlNELASCA-POSTUMIA — MaNICELO. INDE • FLOVIO • PROCOBERA • DEORSUM • USQUE • AD • RIVOM • VINELASCAM ■ INFUMUM — INDE • SURSUM • RIVO • RECTO • VlNELASCA • IBI • TERMINUS • STAT ■ PROPTER -"\flAM • POSTUMIAM ■ INDE ■ ALTER • TRANS • VIAM ■ POSTUMIAM — EX • EO • TERMINE • QUI • STAT • TRANS • VIAM • POSTUMIAM • RECTA • REGIONE • IN • FONTEM • IN • MANICELO. Il problema sembra, a prima vista, assai complicato, ma si risolve felicemente, quando si tengano presenti i dati di fatto che già possediamo. Dobbiamo scendere per la Procobera fino ad incontrare un rivo, attraverso il quale passa la via Postumia. La via Postumia 1’ abbiamo incontrata in direzione da Pietra Lavezzara a Langasco; dunque non è possibile che, scendendo per il Rico, si trovi la via Postumia prima di Pontedecimo. Ma, dopo Ponte- — 28o — decimo, stiamo attenti: il primo rivo sulla destra sponda può essere il nostro. Il primo rivo che s’ incontra di qualche importanza è il « ria di Langen »; sottolineo, perchè qui la parola è veramente un tesoro. Si capisce da questa antichissima parola, che su quel rivo stavano accantonati i nostri Langen-ses. Spingete uno sguardo sulla collina e \edrete delle case rustiche a sinistra della palazzina Ba-cigalupo: sono « le case dei Langen ». Se arriverete lassù vi si faranno incontro dei contadini affabili e cortesi, che vi offriranno del buon latte, e vi ripeteranno, quanto vi piacerà, 1’ antico nome, lasciando anche intendere che siete ben strani a far le meraviglie di una parola, che è per essi la cosa più semplice e più naturale del mondo. I bei declivi soprastanti a quel rivo dovevano essere abitati da antico. E vi spiegate così il nome di Vi-ri-l’asca (gente sul rivo). Trovato il rivo , vi raffigurate tutto il resto. Capite allora come da Isocorte sbucava la Postumia, che, vanendo da Genova, risaliva la Polcevera sulla destra sponda ; capite che essa traversava sopra un ponticello il « rià di Langen » e si gettava probabilmente sull’ altra sponda del Póseivia con un ponte, che andava a metter capo sotto il bel poggio di Pontedecimo. 11 castello ivi fabbricato nel medio evo è indizio che in quel punto vi era una strada da taglieggiare. I castelli del mille fanno in generale alla storia questo servizio, di segnare le traccie degli itinerarii antichi. Ponte-decimo ebbe probabilmente il nome da quel ponte che doveva essere il « Pons decimus a Genua. » Mi piace ricordarlo per dimostrare che accetto a suo tempo anche le origini romane. — 281 — Sulla via Postumia, nel punto ove questa traversava il Vinelasca, eran due termini; uno al di qua, l’altro al di là .della via. Dal termine che stava al di là i Minucii tracciarono una linea retta fino al fonte di Manicelo. E 1’ unica linea artificiale, che si trovi nella confinazione stabilita dai fratelli Minucii. Ho già spiegato che questo era il punto dove ferveva la lotta. I Langen si avanzavano verso Isocorte. I Genovesi avranno voluto respingerli al Verde come confine naturale. I Minuci, tenuto conto dei rispettivi possessi, accordarono ai Langen un bel triangolo del terreno contrastato, quello che prospettava direttamente la villa di Campomorone; attribuirono il resto ai Genovesi. D’allora in poi chi andava oltre il Vinelasca, andava « dai Langen ». La frase tipica è scolpita da duemil’anni nel linguaggio dei villici che abitano all’ intorno. Per la esatta intelligenza delle cose ricorderò che i Romani, tracciando la linea dal Vinelasca al Manicelo, miravano a Margen che è perfettamente visibile dal fondo del Vinelasca, non alla fontana attuale, che è scesa a valle, come abitiamo dimostrato. La linea retta, stabilita dai fratelli Minucii, è indizio che essi o non trovarono il confine primitivo, o lo trovarono modificato dai successivi possessi. Dovendo tracciare un confine si servirono dei poteri loro concessi dall’« actio finium regundorum », e fecero, come dicono i testi 1’ « adiudicatio » in altri termini un arbitramento. Si consulti al riguardo il Digesto, libro II, Iit. i, lege 2. L’ arbitramento fu accettato dalle parti senza contestazione, come si evince dalle prime parole della tavola, ove è detto che tutte le controversie « inter eos composverunt », — 282 — * 11 ■ Si ritorna al primo termine. INDE • DE0RSVM • AB • RIVO • QVI ■ ORITVR • AB • FONTE • IN • MANICELO • AD • TERM1NVM • QVI • STAT • AD * FLOVIVM • EDEN. Dal Manicelo si scende per il rivo, ed arriviamo così la donde eravamo partiti, e cioè al termine che sta sul fiume Ede. Abbiamo completato il giro senza che la menoma difficolta sia insorta. Ogni flovius, ogni rivus ha risposto alla chiamata — la convalle Caeptiema, che si era creduta vittima di un cataclisma, si è ritrovata più viva che mai, tranquillamente adagiata fra il monte Bastia e il monte Cao. Nessuna violenza alla lettera della tavola — esattamente rispettati i « sursum » e i « devorsum » — 1 interpretazione grammaticale in armonia coll’interpretazione logica — le ragioni d’ordine fisico, perfettamente convergenti con quelle di ordine* storico e linguistico. Parmi di aver così presentato una serie di prove positive e dirette, tutte concatenate, le quali confermano le mie induzioni primitive quando, facendo i primi assaggi, dicevo : 1’ agro privato del castello deve trovarsi intorno al castello e non altrove. Allora cercavo il verosimile : ora se non m’ inganno siamo al cospetto della verità. Ma di ciò lascio giudice il lettore. CAPO VI L’AGRO PUBBLICO DEI LANGEN. i. Idea generale. — 2. « Ede e Procobera ». — 3. I monti « Lemvrini ». — 4. Il « Procavo ». — 5. Il Lemvrinus svmmvs ». — 6. il Castelvs alia-nvs ». — 7. « Ioventivs ». — 8. « Apeninvs svmmvs ». — 9. « Tvledon. Veraglasca. Berigiema. Prenico ». — 10 « Tvntlasca. Blustiemelo. Claxelo. Lebriemelo. Eniseca».-- 11. « EdvserProcobera ». — 12. Pontedecimo. — Sintesi storica. i. — L’agro pubblico « ager poplicus » faceva corona all’agro privato e consisteva essenzialmente nella parte montuosa. Vi era tuttavia anche in esso una parte bella e buona, che fin d’ allora era ridotta a coltivo, perchè la tavola ragiona del vino e del grano che nell’ agro pubblico raccoglievano i Viturii. Questa parte era 1’ attuale territorio di Sera, Vuiè e Pedemonte, come si vedrà quando avremo completamente stabilita la configurazione dell’ agro pubblico. L’ agro pubblico è segnato molto bene dal corso dei fiumi, che in parte già conosciamo, e dalle costiere dei monti. Sono XV i termini che dobbiamo riscontrare ; noi li discuteremo ad uno ad uno, pregando il lettore di aver presente la nostra carta, e di confrontarla diretta-mente coi luoghi. — 284 — * 2- — Dice la tavola: vbi • conflvont • edvs • et • . PROCOBERA • IBEI • TERMINVS • STAT. Poniamo dunque il primo termine in Pontedecimo, nell estrema punta del « borgo d’ àto » ossia borgo superiore, ove confluiscono il Verde e il Ricò, edvs et PROCOBERA. Il Prof. Desimoni e il Canonico Grassi pongono il primo termine al Morigallo, al confluente della Secca colla Polcevera. Alla Seca attribuiscono l’antico nome di Procobera, alla Polcevera attribuiscono il nome di Ede. E il punto debole, non giustificabile delle loro ipotesi. Il Desimoni premette che « non si può dubitare, e non » si è mai dubitato, che la Polcevera non risponda al-» 1 antica Procobera ». Ed in ciò siamo d’accordo. Prosegue : « Se non che la tavola ne accerta che il nome » di Procobera di quei tempi si dovea estendere anche » alla parte del fiume che sta al disopra del suo con-» fluente coll’ Edo, laddove oggi per Polcevera intendiamo » soltanto il fiume che sta al di sotto del confluente al » ponte e luogo denominato di Morigallo ; e chiamatisi » Vzrde e Secca i due fiumi che confluiscono per formare » la Procobera ». Conclude dicendo che senza tema di errare si può ritenere che quello fosse in antico, come è 111 oggi, il punto di confluenza dell’Ede colla Procobera. E così al prof. Desimoni parve provato che al Morigallo era il primo termine, che è il perno di tutta la questione. Senza venir meno alla venerazione, che conservo per - 28* - la memoria dell’illustre archeologo, onore e vanto di Genova, io debbo combattere nella radice codesto ra-* gionamento. Non è esatto anzi tutto che la Polcevera moderna cominci dopo la confluenza della Seca, perchè la Polcevera comincia dopo la confluenza del Verde col Ricò. Di questo m’è testimonio tutto il paese di Pontedecimo che distingue ben chiaro Ricò, Verde e Polcevera, e chiama i suoi tre ponti: ponte sul Verde, ponte sul Ricò, ponte sul Polcevera. E posso anche invocare l’autorità del Giustiniani il quale ci attesta che 360 anni fa si chiamava Pocevera il corso d’acqua formato dal congiongersi a Pontedecimo del Ricò coll’altro brazzo che viene da Cravasco. È verissimo poi che, secondo la tavola, la Procobera conservava tal nome anche per il tratto che stava al disopra del suo confluente col Verde, ma questo tratto era il Ricò, la Procobera rocciosa, che finì per farsi un nome proprio dell’epiteto sanzionato dall’uso. E così cadono le premesse del prof. Desimoni, e resta senza giustificazione, ciò che egli credette di aver dimostrato, che cioè fosse necessario portare al Morigallo il punto VBI • CONFLVONT ■ EDVS • ET • PROCOBERA. Si vedrà meglio in appresso se la mia ipotesi è giustificata. Intanto rilevo che essa presenta una perfetta concordanza fra il presente e l’antico ; per essa : — il Verde finisce a Pontedecimo — la Polcevera comincia a Pontedecimo e finisce al mare — il Ricò forma la Procobera alta, come nel concetto d’oggigiorno forma l’alta Polcevera. Invece l’ipotesi contraria è costretta a spogliare del suo nome un tratto di fiume che è, e fu — 286 - sempre chiamato Polcevera, a dare il nome di Polcevera alla Seca, mentre Seca e Polcevera furono sempre considerati come cose diverse e ben distinte. Non bisogna lasciarsi confondere dall’ espressione Polcevera usata in senso lato. So benissimo che Polcevera si chiama molte volte tutta la valle da Ouè a Isoverde e Galaneto, nello stesso modo che si dice essere Tortona, Pavia, Milano, Bologna nella valle del Po. Dirò di più che in senso lato si dice Polcevera Verde e Polcevera Seca, ma ciò non toglie che, venendo a parlare del fiume, sian tutti d accordo i Polceveraschi nel dirvi che la Seca non è la Polcevera, ma un suo affluente. * 3- — Prosegue la tavola: inde • ede • flovio • svrvor- SUM • IN • MONTEM • LEMVRINO • INFVMO • IBEI • TERMINVS • • STAT. Si va su per il Verde, e si oltrepassa Galaneto, si sale .alle origini del fiume. Là principia una catena di monti, che finisce al Monte Lecco. È la catena dei « Lemvrini ». Il secondo termine sta alle falde di questa catena, cioè al « Lemvrino infvmo ». Bisogna essere sul colle di Langasco, o meglio ancora sul monte di N. Signora della Guardia, prospettare quella grandiosa corona di monti, che sta sopra Isoverde, Cravasco e Pietra Lavezzara, per avere la prova diretta intuitiva, che quelli sono i monti Lemurini, e non ve ne possono essere altri. Il Desimoni fu vincolato dal suo sistema a porre i monti Lemurini nei colli di Langasco. Ma non è possi- - 287 — bile che i Romani, così esatti nel distinguere i flovii dai rivi, abbiano confuso i veri montes colle colline, ed abbiano messo in una sola categoria i poggi di Langasco colle cime del Montaldo, del Capellino e del Carmo. * 4. — Leggiamo il testo : inde • svrsvm • ivgo • recto • • MONTE • LEMVRINO • IBEI • TERMINVS • STAT • IN • MONTE • • PROCAVO. Si va su per il monte Lemurino e si trova un terzo termine nel monte Procavo, che corrisponde al monte « Ta-con ». Tacòn non è quel che a prima vista apparisce. E un residuo archeologico della più alta importanza, in tema di dialetto ligure. Con era nel dialetto ligure antico la curva, l’insenatura, l’angolo, il golfo, come già vedemmo al capo II, p. 188. Questo significato si ricava: i.° Dal confronto colle lingue antiche, x&v significava in greco, curva, seno, 2.° Dal confronto di certe parole italiane: an-con-a, termine d’archittetura, che significa nicchia, arco. - An-con-a, città. 3.0 Dai caratteri dei luoghi e delle cose in cui si riscontra tal nome. Ancona, nicchia, rappresenta un’insenatura, una curva; Ancona, città, rappresenta la stessa idea, e lo stesso dicasi del monte Ta-cón, che s’incurva ad arco sopra Cravasco. La parola è composta di in ta-cón, e basta conoscere le tendenze nostre dialettali per comprendere l’abbreviazione ’n-ta-con e poi tacon. Così Ancona è composto di en-còn, cioè nel seno, nell’arco. La stessa origine a mio avviso ha cun-a, — 288 — culla, con-ca e con-cavo e probabilmente anche la preposizione con, che i latini tradussero cum. Il fondersi dei liquidi si chiamava in greco yavdcL, e X«vr) il recipiente dove si fondevano. I Liguri chiamavano o coni il punto dove le acque di due fiumi si confondevano. Lo attesta il nome di Còni, che nei tempi di mezzo fu tradotto molto approssimativamente in Cuneo. I Latini invece di dire « al coni » dissero al « con-fluente » ma il dialetto nostro vi si adattò malamente, come attestano quelle storpiature che trovate spesso nelle nostre valli di c011 ficnte e consciente. Ritornando al nostro Tacón parmi di aver dimostrato come esso contenga 1’ esatto significato di Procavo., ed in conseguenza doversi ritenere che quest’ ultimo non sia che la traduzione dell’ antichissimo nome che esisteva 2000 anni fa. A questo punto si può già cominciar a dar valore alle omonimie. Tutti i nomi han corrisposto finora al confronto, ed il ripetersi di questa corrispondenza è indizio che la nostra configurazione s’identifica colla configurazione della tavola di bronzo. * 5- — Continua la tavola: inde • svrsvm • ivgo • recto • IN • MONTEM • LEMVRINVM • SVMMVM • IBI • TERMINVS • STAT. Sempre camminando per il giogo si arriva a questo termine che è posto nel punto più alto il « summus » dei Lemurini. Evidentemente siamo al monte Lécco, che è la cima più alta. — 289 — Lecco è con molta probabilità, una parola antica che io, riannodando circostanze già note, ricomporrei in Lem-co ossia Lemi-co. Per l’assimilazione delle consonanti, che è regola fissa tanto nella lingua greca come nel nostro dialetto, il Lem-co sarebbe diventato Lecco. Direi anche che tale e non altra è l’origine di Lecco sul lago omonimo. I monti, i fiumi in Lemo e lem-co dovevano essere molto frequenti in antico, quanto era comune la coltivazione dei lenii. Noto che il Polceverasco pronunzia Le...co, facendo sentire una pausa in luogo della consonante. Il suffisso co (xó?) è proprio del greco e di tutte le lingue antiche; noto Gerico, Levico, Moranico e nei nomi comuni grafico, fisico, pratico ecc.; tale suffisso rappresenta 1’ attitudine a qualche cosa. Il monte dava origine ai due Lemo e perciò fu detto Lemico e poi Lecco. Adunque anche per il « Lemurinus summus » continuerebbe la corrispondenza fra il nome attuale e il nome latinamente riprodotto nella tavola di bronzo. Notate ancora quel monte Cao che sta al di sopra di Pietra Lavèzzara e che forma un avanzamento del Lecco. Cao in dialetto corrisponde a capo, estremità ; non sarebbe per avventura la parola corrispondente al summus latino? (Vedi p. 87). Ho segnato in corsivo le parole « camminando per il giogo » per far osservare a questo punto che 1 ipotesi del prof. Desimoni, che fa passare il confine attraverso i colli di Langasco, non corrisponde a questa continuità di giogo, che la tavola seguì dal « Lemurinus infimus » al << Lemurinus summus ». * Atti Soc. Lig. di Storia Pàtria. Voi. XXX. 20 — 290 — 6. - INDE • SVRSVM ■ IVGO • RECTO • IN * CASTELVM • • QVEI • VOCITATVS • ALIANVS • IBEI • TERMINVS • STAT. Sempre camminando per giogo si va dal monte Lecco al Castelo Aliano. Dobbiamo dunque trovare una sommità dopo il monte Lecco, ove era questo castello. Non abbiamo che a scendere dal Lecco al passo della Bocchetta e risalire immediatamente al monte « Peuzu » nelle carte « monte Poggio ». Ivi era in antico il Castelo Aliano. Fermiamoci, e discorriamo un tantino delle origini, del significato di questo castello. Richiamo anzi tutto il lettore alle nozioni dialettali riferite a p. 92, e, proseguendo i miei studi sull importante argomento, osservo: Agliano, Aglié, Aliana son nomi frequenti in Piemonte. Ma non mancano termini di confronto in Liguria. Vi è un valico che porta a monte Creto che si chiama A-leia. In tutti i monti liguri voi sentite ripetere questa parola « a lià ». A Busalla si chiama « a lià » quella regione dove sono, al giorno d’oggi, le case del Cav. Villavecchia. Qual’è il misterioso significato di questa voce antichissima mediterranea ? Il greco ci assiste sempre come buon interprete. Aefa è la preda, XerjXixeii i predoni. Confrontiamo il greco col nostro dialetto vivente e sentiamo balzar fuori la voce antica in tutta la sua freschezza primitiva. Giocare « a leìa » significa in dialetto, giocare ad acchiapparsi. Passo ad un altro raffronto da cui si vedrà l’importanza dello studio dei luoghi. Siamo sulla Bocchetta ove 1’ uso del predare aveva per i nostri vecchi una tradizione secolare. Invece di secolare — 291 — la tradizione è probabilmente millenaria. Dalla Bocchetta si passava 2000 anni fa per andare in vai di Lemo e per andare in vai di Scrivia. La via Postumia, che probabilmente seguiva il tracciato dell’ antichissimo sentiero ligure, passava sotto il castello Alianus, che io comincio a tradurre « à lià », e scendeva nel luogo di Busalla, precisamente dalle case Villavecchia, ove ancora oggidì si conserva il nome di « lià » (vedi carta). Probabilmente questo antichissimo sport del predare i viandanti, si esercitava di preferenza là sulla Bocchetta e al passo di Busalla. Del predare dei Liguri parlano ripetutamente gli scrittori romani Cicerone, Livio ed altri. Seneca regala senz’altro ai Liguri il titolo di « praedones ». Così pure Aristotile (de mirabilibus), parlando della strada littoranea, che « ex Italia protenditur ad usque Celtas et celto Ligures » e che si chiamava la strada di Ercole, dice che era sicura perchè i Romani avevan decretato che, se qualche cosa accadeva di male ai viandanti, si sarebbe fatto giustizia su coloro nel cui territorio era avvenuta 1’ aggressione. A buon intenditor poche parole ! Aggiungerò ancora che « Ce-lelates » (Cev-Xe^Xàxeis, predoni dei piani) si chiamavano i popoli che avevano il loro centro a Casteggio, quelli che alla vigilia della battaglia della Trebbia, aiutarono Annibaie a saccheggiare i depositi di grano che i Romani avevano a Clastidium (Casteggio) e che furono poi debellati da un e-sercito che Minucio Termo condusse per la via Postumia movendo da Genova (Livio XXXII). Pare effettivamente che del predare non si facessero scrupolo i Liguri 0 meglio i popoli antichi. Mario trovò — 292 — che « gli Iberi credeano bellissima cosa il predare ». Predavano Cartaginesi e Greci e Fenicii e Genovesi sul mare. E da grandi maestri predavano in tutto il mondo i Romani, che non a torto furon chiamati « raptores orbis ». E così si predava « si liàva » al Monte Pèuzu, al valico della strada per valle Scrivia. E così si spiega 1 esistenza del castello, che i nostri Liguri o forse i Romani avran labbricato lassù appunto per vigilare e mantenere la sicurezza della strada, e si spiega il suo nome di castelo à lià. Adunque l’interpretazione è sorretta da ragioni etimologiche non solo, ma da ragioni logistiche, da ragioni storiche e dalle tradizioni locali. Sul monte Pèuzu si trovan tracce di antichi muri; se questi sieno residui dell’antico castello, o sieno opera dei tempi di mezzo, lascio ad altri il risolvere. + 7- - INDE - SVRSVM • IVGO • RECTO ■ IN ’ MONTEM • IOVEN- TIONEM • IBI • TERMINVS • STAT. Il sesto termine sta sul monte Giovenzio. Anche qui il mio sistema di cercare il nome ligure sotto la forma latina mi conduce ad interpretazione diversa da quelle finora adottate. Si disse : Giovenzio vuol dire che quello era per i Liguri il monte di Giove. Ed io rispondo : questo andrebbe bene se fossimo in terra romana; ma, trattandosi di un monte dei Liguri, dobbiamo cercare se non vi sia qualche cos’ altro sotto quel nome. Continua la mia lotta contro il « pregiudizio latino ». Io ritengo che Ioventio sia traduzione romana e molto libera dell’antichissima parola « zuvu ». — 293 - La parola zuvu o zùgu è probabilmente tanto antica quanto i Liguri, come son quasi tutte le parole che esprimono le manifestazioni più semplici della natura. E la lingua greca col suo « £6yog » è pronta ad attestarci che « Zug » è la forma primitiva della parola che i latini tradussero in « jugum ». Come si vede il latino è sempre lingua derivata ; il ligure è originario primitivo nelle sue forme. Il prof. Desimoni ritiene che Ioventio significhi monte di Giove, che il moderno Giovo rappresenti l’antico monte di Giove. Egli osserva che Giovo non può essere il solito zuvu perchè tutti i monti sono zuvi. Pone il Giovenzio nel monte Giovo dicendo che questo monte è « a tutti noto, passandovi poco al disotto la via Nazionale e la Ferrata, che mettono da Genova alla gran valle del Po » (Pag. 537). Fa del Giovenzio (sul Giovo) uno dei punti fissi, uno dei tre postulati del suo sistema. Mi spiace dover contraddire 1’ illustre maestro anche su questo punto. Anzi tutto l’attuale Giovo, se nella carta è scritto Giovo, nel dialetto è puramente « b ztivu », ed è unicamente il dialetto che ci deve dar norma in questo caso. Zuvu è termine troppo noto per dargli significato diverso da quello che ha sertipre avuto di « giogo ». In secondo luogo osservo che il monte del Giovo o dei Giovi, che il prof. Desimoni dice a tutti noto, geograficamente non esiste, e nessuna carta lo segna come monte. Penetrando a fondo nel dialetto ligure, noi trovammo (p. 76) che la parola « zuvu » salta fuori, non ad ogni monte, ma solo quando si accenna ad un passo. Si diceva « passare il giogo » quando si passava la Bocchetta. — 294 — Si dice in oggi « passare il giogo » quando si va da Mignanego a Busalla! Il giogo è il crinale della catena montuosa; tante volte un monte si trova vicino al punto ove si passa il giogo, ma tante volte non si trova, come al passo di Busalla, ove i monti più vicini sono Capellino e Montaldo. Ciò premesso ecco la mia interpretazione. La Postumia, come si vede dalla mia carta, passava il giogo presso la cima di Montaldo (i), dove ancora in oggi si trova una strada mulattiera che conduce a Busalla. Il passo, secondo 1’ uso testé accennato, avrà preso il nome di « zuvu » e il monte, che era a quel passo, avrà portato lo stesso nome « au zuvu ». Basta essere genovesi per comprendere che questo modo di parlare e perfettamente conforme all’ uso e alle tradizioni locali. I Romani avran detto : come tradurremo noi questo zuvu, zovu? La prima voce più affine che loro si presentò fu quella di Jovis, e dissero Joventio. Ne regalavano a tutti, anche a quelli che non ne volevano, del loro Giove! Ho rivestito di cipolle la valle Ceptiema, ho tolto ogni leggenda poetica ai Lemori, sopprimendo le larve vaganti di notte nella valle di Cravasco (Il Can. Grassi, seguendo il vezzo dell’ erudizione romana accolse 1’ idea dei Lemures). Ora tolgo il tempio di Giove dal monte Ioventio; idea accarezzata dal Prof. Desimoni. E così se ne va quel po’ di poetico e di grandioso che i Romani, vezzeggiando, avevano dato ai nostri monti. Ma ne guadagna la verità storica. Anche la storia di Roma per diventare (i) Montaldo, come vedemmo a p. 87 e 103, corrisponde a Mont-a-odè, monte sulla strada. Ecco dunque l’idea primitiva di passo che si perpetua anche nel nome attuale. — 295 — vera storia dovette ridurre alle proporzioni di fatti volgari molte delle sue epopee. Ciò tanto più deve avvenire per chi si fa ad investigare la storia di un popolo semplice primitivo, che per nulla pretese all’epopea come il popolo Ligure. In questo caso sarà sempre un sano criterio 1’ ispirarsi alle idee semplici della natura. Nè mi si dica che, io mi fermo troppo sull’ analisi delle parole. Siamo dinanzi a un quadro antico, annerito dal tempo, e vogliamo, fin dove è possibile, ricomporne le linee, e farne uscir fuori il colorito. Nulla dobbiamo trascurare ; una parola di cui si riesce ad afferrare 1 intimo significato, un « leme, un moco, una lià, un zuvu » tutto è prezioso. Imperocché la ricostruzione storica, deve mirare noh soltanto a identificare il terreno, ma a delineare il costume, la fisionomia del ligure primitivo. * 8. — Prosegue la tavola: inde • svrsvm ■ ivgo • recto ■ O IN • MONTEM • APENINVM • QVEI • VOCATVR • POBLO • IBEI • TERMINVS • STAT. Da Montaldo la costiera discende e forma il passo attuale dei Giovi; poi risale al monte Capellino, che è sopra la Madonna della Vittoria. È la configurazione geografica che necessariamente ci porta a quel monte. Capellino e Appenino si corrispondono più di quanto a prima vista non sembri. Infatti, secondo la tavola siamo all’ « apeninvs svmmvs » e volendo ridurre questa forinola in dialetto Ligure si viene naturalmente a dire « Cào Penin », che può essere benissimo la forma primitiva di « Capellin ». — 296 — Il nome di Pen, Penna, Penili si ripete in tutti i monti liguri, anzi ne è piena l’Italia « che l'Appettili Parte...... Il Capellin o « Cao-Penin » è l’estremo capo, il « summus mons » della gran catena che finisce al capo Sparavento. E qui è bene aver presente la teoiia dei geografi antichi « Apenninus a Genua incipit, Alpes a Sabbatis » Strab. lib. V. E ciò basti per 1’ « apenino ». Se non che la tavola dice che quel monte si chiamava anche « poblo ». Che diremo di questo nome? Non ne trovai notizia sulla cima, ma scendendo nel versante di Busalla, trovai presso al Capellino il « Pesalovo » che il Prof. Desimoni (supponendo che vi fosse un errore nelle carte dell’ Istituto geografico) pose al posto del Capellino,’ sembrandogli di trovar nella parola « Pesalovo » l’incognita « Poblo ». Il « Pesalovo » ci può servire lasciandolo a suo posto ; ed ecco in qual modo. Diciamo pure che il 7.0 termine era al Capo Penino (Capellino), sopranominato Poblo; e poi osserviamo che Pesalovo, senza essere il Poblo, poteva esser il suo vicino il « Peà-l’oblo » cioè il monte « presso il Poblo » (1). Noto che in Liguria si dice sempre « oblò, obbio per poblo ». L’« oblo » dei Giovi fu da un cattivo traduttore cambiato in « ovo », e così si formò la voce imbastardita « Pesalovo ». Come si vede, i monti non sono del tutto muti; sono anzi come fonografi che velatamente riferiscono la voce di 2000 anni fa. Il monte Capellino aveva dimenticato (1) L espressione ligure peà non è precisamente apie, ad pedes ; peà è una preposizione conservata nel greco nèia, che ha lo stesso significato di iiszà, e significa contro, oltre, fra, presso. — 297 — il suo sopranome antico, ma il « Pèa-l'oblo », che gli sta dappresso ra5a, l’ha raccolto, e ci ha trasmesso quanto basta per avvertirci che il Cao-Penino si chiamava anche Poh lo. E qui mi sia lecito una volta tanto rilevare 1’ utilità pratica deH’Alpinismo applicato alla storia. Senza quella escursione sul castelà di Langasco non avremmo intuite le caratteristiche di natura che ci diedero il primo concetto dell’ agro privato dei Langen. Senza percorrere le alte costiere, senza l’osservazione diretta di quell’jugo continuato spiccatissimo, non avremmo ricostrutto il paesaggio Lemurino con tutto quell’insieme di fiumi, di monti che perfettamente si corrispondono — non sarebbe mai sorta l’idea primitiva del Ta-cón, senza vedere quella curva grandiosa che fa il monte sopra Cravasco. Non avremmo spiegato l’Ioventio senza l’idea del valico; non ci sarebbe mai venuto in pensiero di rintracciare l’Oblò nelle spoglie del Pesalovo, perchè probabilmente senza la verifica locale avremmo continuato a credere, sull’autorità del Desimoni, che Pesalovo dovesse nelle carte avere il posto del Capellino. Senza una perfetta conoscenza dei luoghi non avremmo contestato al Desimoni l’esistenza del monte dei Giovi. E così pure, senza aver avuto una generale conferma dagli abitanti del paese, non avremo forse osato contraddire l’illustre Desimoni sul punto importantissimo e decisivo: « ubi confluunt Edus et Procobera ». Credo aver dimostrato così quanto ebbi a dire al Capo 1 sul grande vantaggio che arreca l’ispezione diretta dei luoghi. * — 298 — 9- Prosegue la tavola: inde • apeninvm ■ ivgo ■ recto • • IN • MONTEM • TVLEDONEM • IBEI • TERMINVS ■ STAT. INDE • DEORSVM • IVGO • RECTO • IN • FL0V1VM • VERAGLA-SCAM • IN • MONTEM • BERIGIEMAM • INFIMO IBEI • TERMINVS • • STAT. INDE • SVRSVM • IVGO • RECTO • IN • MONTEM • PRENICVM • • IBEI • TERMINVS • STAT. Si va dal Capellino, sempre per giogo, al monte Tu-ledone, ov e un termine — si scende in un fiume, il Veraglasca, ove si trova un termine alle falde del Beri-giema — si risale al monte Prenico, ove è un altro termine. Il Prenico è il Pernecco. Tutti i commentatori hanno afferrato questa corrispondenza di nome ; il Desimoni ha fatto del Pernecco il terzo presupposto del suo sistema, sistema pericoloso assai, perchè il Prenico, come il Tulon, sono nomi che esprimono qualità generiche comuni a molti monti, e fu un caso se per il Pernecco non si verifico 1’ equivoco del Manicelo, che mandò a rotoli tutte le ipotesi del Marchese Serra. Prenico è veramente il Pernecco, perchè non solo 1 omonimia, ma ben altre prove ce lo confermano. Ho dimostrato al capo II, pag. 87, che Prenico e Pernecco vuol dire monte petroso. L’osservazione locale conferma questo dato di fatto e ci assicura che il Pernecco su cui andiamo a porre il termine XI è un monte sassoso per eccellenza. Un’ altra controprova sorge dallo studio delle circo-scrizioni. Se qualcuno avrà avuto l’idea di esaminare sulla mia - 299 — carta le punteggiature che riguardano le attuali circoscrizioni, avrà notato un fatto della più alta importanza — che i confini moderni con Fiaccone, Busalla e Casella corrispondono esattamente ai confini di 2000 anni fa. Dal Capellino, camminando jugo recto, come dice la tavola, si viene al monte Carmo, e la Carta dello Stato Maggiore, che traspare sotto la nostra carta antica, segna il confine di Casella nell’ identico modo. Seguite la punteggiatura moderna e troverete che dal Carmo, che è il Tuledone della tavola, si scende nel torrente di Voie, detto Veraglasca nella tavola; si scende prima per giogo, poi si prende una costiera di fianco che si vede benissimo da Voiè, la costiera delle Cassine, detta Berigiema nella tavola. Vedete poi la stessa punteggiatura che dal torrente risale per un’altra costiera sul Pernecco, il Prenico. La tavola di bronzo riproduce la stessa identica disposizione di confini. È una coincidenza meravigliosa, un fatto storico della più alta importanza, perchè dà un’idea della stabilità dei popoli Liguri, della tenacia con cui essi conservarono i loro confini primitivi. Questo fatto si connette ad altri non meno importanti, stabilità di carattere, di costumi e di lingua, tanto che noi potemmo tranquillamente affermare al capo II, che una gran parte di nomi liguri sono esattamente quelli di 40 secoli fa, per quanto disprezzati finora col facile ritornello di corruzioni del latino. I preziosi riscontri fatti sul Pernecco, gettano molta luce sul nostro cammino e fan nascere il desiderio di aver la spiegazione anche delle cose piccole e d’importanza secondaria. Tuledon è il nome che la tavola dà al monte Carmo. Tulon è segnato oggidì un monte sopra — jOO — S. Olcese. Tuledo, Tulosa, Tulentino sono tutti nomi che risalgono alla radice « Tul ». I Greci chiamavano 1 estrema isola dell’Oceano, da loro conosciuta, l’ultima Tuie ! Che cosa voleva dire fra i popoli mediterranei questo vocabolo ? La lingua greca ci spiega che xóX-oq è il tubero, la gibbosità, la sporgenza. L’ultima Tuie era 1 ultima gibbosità che appariva nell’immenso piano dell Oceano. TuXto-tó; significa gibboso, gropposo. E così si spiega il Tulon, Tuledon ed anche il Tuledo, Tulosa e Tulentino ; son tutti nomi derivati dalla forma gibbosa della montagna (vedi p. 89). Il monte Carmo corrisponde esattamente a questi connotati. Osservo che il nome Carmo è certamente antico quanto il Tulon. Carmo che si pronunzia caermu (x“?), significa colmo, compimento, cupola ; donde nel dialetto la frase : « fà cormadda, fa i cormaieu », quando si finisce una fabbrica facendo il colmo. Monti Caermu si trovano in tutte le sponde del Mediterraneo, come i monti Soria, come i monti Moria, ecc. Il Carmelo non è che un Caermu latinizzato. Chi credesse che i tanti « Caermu » che sono in Liguria siano sorti dopo la divozione della Madonna del Carmelo, sarebbe in grave errore. Anzi il Ligure volgarizzò molto bene, in « madonna du caermu » ciò che i latini avevano alterato in Carmelo e gli italiani in Carmine (vedi p. 78). Ritornando al nostro monte « Càermu » io dico che è probabile che fin di 2000 anni fa Càermu si chiamasse la cima, — Tuloton o Tulon, 1’ insieme della montagna gibbosa — e che i romani abbiano tradotto il primo nome che loro si dichiarava. Il doppio nome non è raro anche al giorno d’ oggi. — 30i — Non si confondano i monti « Càermu » coi monti Curma, perchè questo nome deriva da xupau, incurro, cado in; si avvicina al significato di Mz, aggressione, preda, di cui parlammo a proposito del Castelo Aliano. Quanto al Veraglasca e al Berigiema, sono due nomi che si combinano nella radice: veri, porci selvatici. Ricordiamo che V e B si corrispondono. « Veri-lasca » è il torrente dei veri. « Beri-giema » è giaciglio di veri. 11 giema corrisponde al yr^at greco, al gias delle Alpi. È bene ricordare che yr) vuol dir terra, in greco come in ligure, yf^oa vuol dir giacere come in piemontese cu-^-se. * io. — Avvertiamo che siamo prossimi alla fine e presto dovremo ricongiungerci al primo termine scendendo giù per la Procobera. 11 primo termine 1’ abbiam lasciato a Pon-tedecimo, e per conseguenza dobbiamo andar ad incontrare la Procobera al di sopra di quella località. Bisogna quindi affrettarsi a traversar la Seca e salire al di sopra di S. Cipriano. INDE • DORSVM • IVGO • RECTO • IN • FLOVIVM ■ TVTELA-SCAM • IBEI • TERMINVS • STAT. Dal Prenico, dice la tavola si scende giù per il giogo nel Tutelasca, che è la Seca moderna; ivi sta un termine. Noto che vi è un giogo spiccatissimo : mentre questa caratteristica vien meno per chi prende, come il Prof. Desimoni, un’ altra via. — 3°2 — Tutelasca è nome ligure antico che si applica al « fiume « che porta limo », in greco tuvtXós, xuvxXdcCto. Asca è la solita voce che rappresenta il torrente ( i). Le caratteristiche locali corrispondono benissimo al nome; infatti son note inondazioni della Seca, e basta percorrere le sponde del fiume per avere sott occhio in qualsiasi tempo le traccie del limo. Seca era una volta il nome della regione che fu applicato poi al torrente, come Bisagno era il nome degli orti passato poi al fiume. Di ciò che affermo si vedrà la prova fra poco nell’ « En-i-seca ». Ed ora traversiamo il fiume, e prendiamo la costa di edemonte. 11 confine moderno non ci può servire in questo punto, perchè la circoscrizione fu modificata in tempi recenti secondo le nuove esigenze comunali.. INDE SVRSVM • IVGO • RECTO • BLVSTIEMELQ • IN • MONTEM ■ CLAXELVM. Dalla Seca si sale per la costa di Pedemonte « jugo Blustiemelo », e si va al Croxevia « mons Claxelus ». Poco sotto, nel versante del Ricò, si trova l’antichissima « fontana d'Axi» che è il « fons Lebriemelus ». Dalla fontana comincia una vailetta, col rivo « Eniseca » che va nel Rico. Procedo con una certa sicurezza, perchè ho di nuovo con me una buona guida, il confine moderno. Tro\ erete nella mia carta la punteggiatura dei confini moderni, che prendendo la stessa salita di Pedemonte, un tantino più a sinistra, si dirige come noi al Crocevia, e (i) \edi al Capo II asca p. 69 e tuul p. 75. - 303 — scende per lo stesso rivo nel Ricò. Ma il rivo è fatto a delta e il confine attuale segue il braccio più a nord. Blusti-melo è parola oscura nella prima parte, ma nella seconda parte tradisce abbastanza chiaro il mei, melo. L’ osservazione locale vi dirà che i meli sono ed erano ancor più in antico la ricchezza di quella regione. BXwox in greco significherebbe il sentiero, il cammino. Da questi confronti risulta una spiegazione abbastanza semplice, e conforme al dialetto e alla natura dei luoghi - Blus-ti-mei - sentiero nei meli. Claxelus riproduce benissimo il concetto di Croxevia ; è il monte che classifica, che divide quattro strade, una per Serra, una per S. Cipriano, una per Pedemonte, una per il Ricò. 11 monte si chiama anche Bocchettin, quale denominazione corrisponde al concetto di valico, di apertura, di strada. Il fonte Lebri-e-melo richiama il Blusti-melo. Parmi intravedere che come vi erano degli alberi di melo in basso, così la fontana era la fontana da « 1 ebn de wiei ». Bisogna avere acquistato molta famigliarità colla pronunzia dialettale, e avere conoscenza dei* luoghi per comprendere la naturalezza di questo linguaggio : dau jìgu — dall erbu o dall’ èbru de inei — dall erxu dall' ormo. Eniseca è il piccolo rivo « della Madonna » che dalla « fontana d'axi » scende nel Rico, anticamente Procobera. Questo nome « Eniseca > esercito sempre una pericolosa suggestione sugli .interpreti della tavola di bronzo. La prima idea, che viene alla mente, vedendo comparire questo nome, è che si tratti del fiume Seca. Ma il fiume non può essere perchè non si può supporre che i Ro- — 304 — mani dessero il nome di rivo a questo fiume importante , mentre chiamavano flovii il ria d’Iso, il ria di Costagua e tanti altri affluenti minori. Il Prof. Desi-moni fece dell’ « Eniseca » un affluente della Seca, spiegando il nome attuale del fiume col nome del- 1 antico affluente. Ma io non vedo il bisogfno di ricorrere ne all una, nè all’ altra ipotesi. Ho già manifestato la mia opinione al riguardo. Seca era il nome della regione, come Bisagno era il nome degli orti, a levante di Genova. E come il Bisagno die’ nome al fiume, così avvenne che la Seca lo die’ al Tutelasca. Oltre 1' esempio testé citato del Bisagno, ho tre altre ragioni, che mi sembrano convincenti. Una la tolgo dalla tavola di bronzo, cioè dallo stesso nome di Eniseca. Evidentemente «En-i-Seca» vuol dire « nella Seca »; dunque si tratta di un rivo esistente « nella Seca » e Seca è la regione. L’altra la desumo dallo studio dei luoghi. In oggi chi va da Pontedecimo a S. Cipriano dice: vado in sulla Seca. Uscendo dalla stazione di Pontedecimo e camminando verso tramontana si trova a destra un viadotto che porta scritto « via- alla Secca ». Il che prova che nel concetto antico, come nel concetto moderno, Seca è la regione, ed il fiume non ha dato, ma ne ha preso il nome. Metto per ultima la ragione etimologica. Seca trova il suo corrispondente nell’aggettivo verbale del verbo £éw, scaturisco , emergo. Ssxog • Séxa è lo scoglio che viene fuori dall’acqua, è la terra emersa. Andar nelle secche si dice ancora in italiano alludendo alle navi che urtano negli scogli. Non ogni scoglio è seca; e basterà interrogare un bambino delle spiagge liguri perchè vi mostri quali sono le vere seche; sono gli scogli disseminati nello — 305 ~ specchio del mare, circondati dalle acque. E forse così chiamarono i nostri padri le prime terre emerse. Basta guardare da Bolzaneto, da Murta, o meglio dal monte della Guardia, la forma di quella prominenza, ove è Morgo e S. Cipriano, e veder come emerge sull’ ampia distesa dei due fiumi, per comprendere come quella regione si sia potuta chiamar Seca ab origine. * II. — INDE • DEORSVM • IN • FL0VIVM • PROCOBERAM • VBEI • • C0NFL0V0NT • EDVS • ET • PROCOBERA • IBI TERMINVS • • STAT. Rientrati nel Procobera si va giù — deorsvm — e ci ritroviamo al primo termine, onde siamo partiti, là ove confluiscono 1’ Ede e la Procobera, ossia il Verde e il Ricò. Vi pare che avessi ragione di mettere il primo termine a Pontedecimo, e non al Morigallo, al confluente della Secca colla Polcevera? Se qualcuno avesse ancora un dubbio, spero, che sara convinto da questa ultima prova che mi fornisce la storia locale, e che mi par decisiva. Se Pontedecimo era in antico un punto di confine, se il « borgo d’ àto » apparteneva ai Langen, e il « borgo de suttu » apparteneva ai Genovesi, come noi veniamo a stabilire colla nostra carta, qualche traccia doveva rimanere nella storia. E la traccia rimase. 11 « borgo d’ àto » fu sempre unito alla Parrocchia di Cesino, agro privato dei Langen. Il borgo di sotto fu Atti Soc. Lig. di Storia Patria. Voi. XXX. 21 — 306 — sempre unito alla Parrocchia di S. Cipriano, territorio genovese. La Parrocchia di Pontedecimo è di creazione moderna, e si può consultare nell’archivio della Curia Arcivescovile il decreto 7 Agosto 1857, con cui Monsignor Charvaz erigeva Pontedecimo in Parrocchia, smembrando il territorio di Cesino e di S. Cipriano. Adunque fino a Mons. Charvaz esistevano in Pontedecimo le circoscrizioni di 2000 anni fa ; il termine « ubi confluunt Edus et Procobera » il termine piantato dai fratelli Minucii aveva segnato fino a quel giorno il confine fra i Langen di Cesino e i Genovesi di S. Cipriano ! Ho così dimostrato come la confinazione da me descritta sia in perfetta corrispondenza cogli elementi storici locali. Per contro il lettore potrà avvertire che le ipotesi configurate pria d’ ora dal Serra, dal Grassi e dal Desi-moni segnavano arbitrariamente degli agri nel mezzo della Polcevera, in assoluta discordia con tutte le circo-scrizioni storiche successive. L’ipotesi del Prof. Desi-moni fa l’antichissimo territorio di S. Cipriano metà Genovese e metà Viturio, taglia per metà il paese di Langasco, e non ha alcuna corrispondenza colle antiche pievi, che non bisogna dimenticarlo, rappresentano una unità cristiana foggiata sull’ unità politica che preesisteva. Vedremo a suo tempo come nel mio sistema Pievi e tribù Liguri si corrispondano. Osserveremo per ultimo che secondo il Desimoni resterebbe nell’ agro Viturio quel Castrofino, culla di Caffaro, il quale rappresenta nei primordi del comune il purissimo sangue genoate. Comprendo benissimo come Genoati e Viturii formassero a quell’ epoca un popolo solo, ma non posso convincermi che le differenze antiche fossero scomparse al — 307 — punto da far dei Langen i primi cittadini di Genova appena appena risorta. In queste faccende si andava altrettanto lenti allora, quanto si va rapidamente in oggi. Nella configurazione da me tracciata i luoghi di Castrofino, di Mani^en, di Cremen, di Fregoso, di Brasi, di Murta, che figurano nella storia come il primo nido delle famiglie che poi costituirono il comune, sono tutti in territorio Genoate. Anche questa circostanza parmi avere il suo peso. Si credette finora che nessun documento esistesse da potere dar norma per l’interpretazione della tavola di bronzo. Ma i documenti non mancano, come abbiamo veduto al capitolo IV, ove dimostrammo che il sistema agrario della tavola ha il suo riscontro in tutti gli atti che si riferiscono a possessi, confini, godimenti promiscui sui nostri monti. Abbiamo visto come le contese del XVI e XVII secolo fra Busallini e Polceveraschi rispecchino fedelmente le costumanze primitive consacrate nella tavola di bronzo. Vedemmo infine come tutti i documenti che riflettono le successive circoscrizioni concordano mirabilmente coi nostri confini. Debbo ora mettere in luce un documento che ha una importanza capitale per formarci una convinzione definitiva sui confini da me descritti. Consultando gli archivi locali trovai presso il Comune di Busalla una carta topografica del XVII secolo che descrive le questioni allora esistenti fra Busallini e Polceveraschi. La carta accenna come i Busallini intendessero il loro confine; essi richiamavano come loro antico confine il g-iocro, nello stesso identico modo in cut è o o ; segnato dalla tavola di bronzo. I Polceveraschi invece pretendevano di oltrepassare il giogo ed occupare una — 3°8 — zona sul versante busallino. Evidentemente si trattava di quella solita zona che i Busallini in omaggio all’antichissima costumanza avevan lasciata al compascuo, ossia al godimento promiscuo. Niun dubbio che i Polceveraschi pascolavano e boscheggiavano da tempo antico su quella zona, come i Busallini avran pascolato e boscheggiato in tempo antico sopra una zona corrispondente sul versante opposto. Così voleva la costituzione primitiva del compascuo. Gli arbitri non ebbero un concetto esatto del sistema che governava il compascuo; e forse anche le parti contribuivano ad alterare questo concetto parlando entrambe di possesso esclusivo. Il fatto è che orli arbitri, o 1 nominati dal Senato di Genova, onde por fine al litigio entrarono nel concetto moderno dell’art. 682 c. c., abolirono la promiscuità e fecero, come dicevano i Romani, una « adiudicatio », crearono cioè in via equitativa una nuova linea di confine, col facile sistema di dare un colpo in mezzo alle reciproche pretese. Ai Polceveraschi fu accordata una zona al di là del giovo, che forma tuttora °ggetto di discussione. La carta del comune di Busalla ha per noi il gran pregio di confermare in modo autentico la tradizione che * il confine jugo recto era il confine primitivo di tutti gli agri, e di farci assistere alle inevitabili conseguenze a cui doveva dar luogo col tempo la promiscuità dei pascoli. Il litigio di Busalla l’ho riscontrato identico in molte altre cause di confine. Sul Mont’ Ebro fra quei del versante di Cosola e quei del versante di Pey esistono approssimativamente le stesse discussioni al giorno d’oggi. Quei di Cosola accennano alla loro padronanza sui pascoli di Mont Ebro, quei di Pey contestano. Avviene poi — 309 - in pratica che in certi luoghi una popolazione ha finito per acquistare il possesso esclusiv o della zona promiscua perchè l’altra popolazione, essendo fornita di altri più comodi pascoli, ha trascurato da sua parte il possesso. Così al Mont’ Ebro i possessi propendono ormai per quelli di Cosola, e così avveniva probabilmente nel XVII secolo a riguardo dei Polceveraschi, i quali essendo meno ricchi di pascoli, tennero il possesso al di là del giogo, mentre quei di Busalla che avevano pascoli di sopravanzo trascurarono forse il possesso nel versante di vai Polcevera (i). Noto che in codeste-contestazioni di confine venne fuori sovente quest’argomento. Tanto è vero, dicevano quei di qua, che il nostro territorio si estende nella zona al di là, che diversi di noi possedono dei coltivi e dei prati in quella zona. È il fatto dei possedimenti privati nel compascuo, che non può essere apprezzato nel suo giusto valore, se non si fa capo alla tavola di bronzo, e alle clausole da noi commentate nel capitolo IV. * 12. — Non voglio lasciare il famoso confluente del Verde e del Ricò, senza fare un cenno di Pontedecimo. Le cognizioni che abbiamo raccolte ci bastano per ricomporre sinteticamente la sua antica storia. Finora ben poco sapevamo all’ infuori di quelle vaghe parole che lasciò scritte il Giustiniani, cioè, che nel 1535 ( 1 ) Per la questione di Busalla, che ci fornisce tanti preziosi confronti, vedi quanto ho già scritto a p. 251, 253. Vedi inoltre p. 319, 336. Pontedecimo « era cosa molto deserta e molto disabitata », ma in antico « fu già buon borgo, sia per numero di case, sia per la fortezza ». - La nostra carta ci fa conoscere che a Pontedecimo passava 2000 anni fa la gran via romana, la Postumia. Ecco la spiegazione del « buon borgfo ». Le legioni, con o O molta probabilità si fermavano « ad Pontem Decimum » prima di accingersi alla salita della Bocchetta. Si capisce facilmente come a « Isocorte » e a « Borgo d ato » dovessero esistere nell’epoca romana due gruppi importanti di abitati, e come il Pontedecimo dovesse essere fiorente all epoca dell’ impero, essendo un luogo di transito fra Genova e Libarna, Tortona, Milano (r). Probabilmente fu nel 641 quando Rotari piombò su Genova e la distrusse, che Pontedecimo ebbe a subire la sua prima rovina. Venne 1 epoca feudale e facilmente si comprende come quel bellissimo poggio, formato dalla confluenza del Verde col Rico dovesse diventar la sede di un Castello. Qual era la famiglia che dominava sul poggio di Pontedecimo ? Lo dice questo documento che fa parte del Registrimi Curiae pubblicato dal Belgrano (Vedi p. 297). « f In curia archiepiscopi. Arbitri Philippus lamberti. » Boamuns odonis, inter Archiepiscopum Syrum et Ca-» pharum concorditer electi, laudauerunt quod capharus » amodo habeat et nomine proprietatis possideat, sine ( i ) Adottando 1’ opinione del Desimoni che la via Postumia passasse per Moergo e S. Cipriano, il Pontedecimo, che accenna al Pons decimus a Genita, resterebbe senza significato. Anche questa è una ragione molto stringente in favore della nostra carta. - 311 — » contradicione eiusdem domni archiepiscopi et succes-» sorum suorum et omnium personarum per eos. Nomi-» natiu e totum podium quod est ad pontem decimum, supra » molendinum dompnicum. Hoc est ab uia subtana que est » ucrsus Januam et uadit ad molendinum usque ad domum » quam ibi habet Capharus. Hoc totum illi laudauerunt » In Integrum. Domno uero Archiepiscopo laudauerunt » tabulas terre quinquaginta nouem. que sunt a uia in » iusum uersus Januam, quas ipse Capharus tenebat ». Ho voluto trascrivere questo documento perchè è veramente importante per la storia di Pontedecimo, per la storia di Caffaro e perchè ci parla della famosa strada che, passando al poggio di Pontedecimo, si dirigeva versus Januam. Tale strada è evidentemente la via Postumia segnata in quel punto dalla mia carta. Son tutti fatti che si collegano. Il Ponte-decimo ricorda la strada, la strada spiega il castello, il castello richiama Caffaro e la proprietà che egli aveva di tutto il podium di Pon-decimo nel ilj8. L’acquisto fatto molto prima del 1158 dai Caffaro del poggio di Pontedecimo rappresenta forse uno dei primi passi verso la confusione dell’agro viturio coll agro ge-nuate. Quel poggio, come vedemmo, era 1 estrema punta dell’ agro privato dei Vituri Langen. Caffaro, il feudatario genoate, che aveva le sije radici lassù in alto presso Castro-fin, sul torrente Fellon, in T-asca-felloti (\ edi sopra p. 70), Caffaro dico, signor di Caschifellone, scende al basso e prende posizione sulla via antica che si andava ripopolando. E così va perdendo la sua importanza l’antico termine vbi . conflvont . edvs . et . . procobera, e così si dilegua il Viturio e ingigantisce — 312 — il nome genoate. Ma le circoscrizioni ecclesiastiche, che sopravivono sempre alle vicende politiche, fanno omaggio per secoli e secoli al famoso termine. Il parroco di Cesino, dell agro Viturio, continuerà per settecento anni ancora a chiamare quel poggio di sua giurisdizione, mentre il territorio al di qua di quel termine rimarrà unito alla pieve genoate di S. Cipriano. Ma ritorniamo a Pontedecimo. Chi vuole rifar la storia di T ontedecimo deve tener conto fino al 1300 dell’accennata distinzione. Il borgo d’ ato comincia la sua storia col ponte romano (186-180 a. C.). Vanta nel medio evo il Castello di CafTaro (1150-1200) e l’ospitalità ivi accordata, probabilmente dalla famiglia Caffaro, all’ imperatore Arrigo VI figlio di Barbarossa, quando venne a Genova nel 1191. Il Pontedecimo di sotto comincia la sua storia non già nell anno 1196, colla costruzione della Chiesa di S. Giacomo per opera delle monache di S. Tomaso, come dice il P. Spotorno nel Casalis, ma diversi secoli prima. Infatti il Registrum Curiae a p. 237 ricorda che ivi esisteva una Chiesa fin dall’ anno 996. Nel 1300 Pontedecimo era nel suo complesso un borgo molto fioiente. Ma questa epoca di floridezza finisce in modo violento nel 1316. Narra molto laconicamente il Giustiniani: «■ Et 1 anno di mille trecento sedici, del mese di Novembre » i Spinoli che erano al dillà dal giogo discesero in la valle » di Pocevera con gran numero di gente, e destrus-» sero infino ai fondamenti la terra nominata Pontede-» cimo, in tanto che non li rimase pietra sopra pietra ». Gli Spinola si vendicavano così di ciò che avevan perpetrato 1’ anno prima i loro nemici, che « dopo aver - 313 - saccomanato Buzalla la destrussero dai fondamenti ». In queste lotte fratricide, barbare, spietate che dura1 ono dal 1300 al 1500 sta rinchiusa la storia, o per meglio dire la distruzione di tanti paesi della nostra Liguria. Per finire questa mia digressione sulla storia di Pontedecimo dirò che nel 1435 Filippo Visconti fece restaurare la fortezza, cioè il Castello di Pontedecimo. Nel 1452 era rettore di S. Giacomo quel Paolo Fregoso, che fu poi Arcivescovo, Cardinale e Doge di Genova. Ma il paese rimase deserto e disabitato, come dice il Giustiniani, e questo stato durò fino all’ apertura della stradal della Bocchetta (1580). Cominciò allora una nuova era di prosperità, che non fu interrotta che dalle guerre e dal saccheggio del 1746 per parte degli Austriaci. Nel 1773 Pontedecimo ebbe nuovo incremento per l’apertura della via Camblasia da Pontedecimo a Genova per Bolzdneto e Rivarolo. Nel 1821 crebbe il commercio di transito per l’apertura della strada Genova-Torino, e nel 1853 per l’apertura della ferrovia. Nel 1859 Pontedecimo fu creata Parrocchia e la sua chiesa fu ricostrutta a nuovo nel 1870. Fra il 1870 e il 1900 Pontedecimo subì una completa trasformazione edilizia, si arrichì di scuole, di ponti, di strade, di tramvie e di stabilmenti industriali, elevandosi al grado di città ligure, operosa e intraprendente. ■¥ 13. — La maggior parte dei nostri paesi di montagna ha più di 3000 anni di storia — epoca ligure, circa 1000 anni — epoca romana, circa 500 anni — epoca barbara e medioevale 1000 anni — epoca moderna 500 — 3i4 — anni. Generalmente non si ricorda che 1’ ultimo periodo, perchè iooo anni di barbari e di feudalismo, che furono anni di abbiezione, han quasi cancellato ogni memoria dei tempi antichi, floridi e lieti. Ma la tavola di bronzo è il gran faro che getta sprazzi di luce nella notte buia. Lo studio della tavola non ha ancora dato tutto ciò che può dare. Bisogna collegare 1 epoca romana, coll’epoca ligure che precede, coll’epoca medioevale che segue, e non ci mancano i mezzi per farlo. Da questa sintesi deve venir fuori tutta intera la nostra storia, una storia, che non si arresterà più, come si arrestava finora, alle colonne d’Èrcole, che parevan segnate dal iooo. Ciò che abbiamo detto di Pontedecimo, non è che un saggio, in piccole proporzioni, di quella ricostruzione storica che noi vagheggiamo. Lo storico più informato non ci presentava Pontedecimo che come luogo molto deserto e molto disabitato. Intendeva che Pontedecimo doveva aver avuto un periodo di floridezza anteriore ; capiva che in Pontedecimo vi era stato in antico un commercio di transito, che le carovane, le quali nel 1500 passavano per Fiaccone, Busalla, Vittoria, Serra e di qui per S. Cipriano e Morgallo, o per Voiè e Pedemonte, dovevano in antico passar per Pontedecimo; ma non aveva elementi storici per ricomporre 1’ ordine di cose primitive. Invece colla tavola di bronzo noi potemmo stabilire l’antichità di Pontedecimo, guardare a 1000 anni prima e a 1000 anni dopo, e concludere che Pontedecimo ebbe due civiltà, una romana, 1’ altra medioevale, prima della civiltà moderna, che data dal 1580, cioè dall’epoca dell’apertura della strada della Bocchetta. - 3i5 — La storia dei nostri piccoli paesi è ancora bambina ; essa è generalmente formata di episodi più o meno interessanti, ma sconnessi fra loro. Perchè la storia sia veramente tale, bisogna riannodare gli sparsi elementi, presentare, sia pure a grandi linee, l’evoluzione completa che ha subito il paese nell’ordine storico, chiarire bene la successione dei tempi, le relazioni dei paesi fra loro, le relazioni coi grandi centri, dai quali presero sovente leggi, commercio e costume. Così a mio avviso, dovrà rifarsi a poco a poco la storia della montagna, meno ricca di particolari, ma ben delineata nei suoi contorni, bene scolpita nelle sue caratteristiche cl’ indole politica e sociale. Una storia della montagna fatta a questo modo non avrà solo un interesse locale, ma diventerà il substrato della storia generale del popolo ligure. Imperocché tutti sanno che esiste uno stretto legame, nell’ordine storico, fra la città e la montagna. Basta ricordare che il risorgimento si svolse con una grande emigrazione dai monti alla città, allorché l’individualismo, rappresentato dal feudo, s’inchinò, per amore o per forza, al principio della collettività, rappresentato dalla « compagna ». Dirò di più che tutti i grandi periodi della storia ligure sono rappresentati dalla trasmigrazione dei popoli dal monte al piano e viceversa. Il Ligure primitivo, vivente prima nelle caverne lun^o il lido del mare, attacca la foresta, e tende al giogo — il Ligure dell’ epoca eneolitica dal monte scende al piano e copre la vallata del Po delle sue abitazioni a palafitte (le terramare). — Viene l’epoca delle invasioni celtiche e il Ligure nostro si restringe ai monti. — Viene la civiltà romana e scende di nuovo nelle valli, e pianta i suoi paesi lungo le magnifiche strade - 316 — costrutte dal popolo conquistatore. Dalle alture di Cesino e S. Cipriano scende a Pontedecimo, da Fiaccone, Tegi e Camarza scende a Busalla, dalla Banchetta e dalla Castagnola scende alle falde del monte Ceta (Borgo For-nari), dal Porale, dal Mingei e da Pietrafraccia scende a Ronco, da monte Cagne, Montessoro e Marmassana scende a Isola, da Villa e Pingei a Pietrabissara, da Borlasca, Sottovalle e Montaldo a Rigoroso. Valle Scrivia e Val Borbera, fanno centro a Libarna. — Vengono poi gli invasori dell’ impero e la popolazione ligure per salvarsi da Goti, Ostrogoti, Unni, Longobardi e Saraceni riprende i noti sentieri dei monti, ripopola i suoi paesi antichi, altri ne crea in gran numero nelle gole dei monti. Nel- 1 epoca del rinascimento, che si diffonde per i nostri monti colle vie mulattiere d’oltre giogo, la popolazione montanina nuovamente scende e si allinea sulle nuove strade. Ecco la sintesi della nostra storia montanara. Ecco segnato un altro vastissimo campo di studio all’ alpinista ligure, il quale potrà, col rilievo delle antiche strade romane e delle mulattiere del Medio Evo, stabilire la ragione storica della maggior parte dei nostri paesi di montagna. CAPO VII GLI ALTRI POPOLI DELLA TAVOLA. i. Criterii da seguirsi. — 2. I Dectunini — 3. Gli Odiates. — 4. I Cavaturini. 5. I Mentovini. — 6. A qual popolo appartenevano i Cavaturini. — 7. Le capanne di Mercuieù; antichissimo mercato — 8. Le antiche strade dei Ge-nuati e Viturii. — 9. 1 confini fra Genuati e Viturii. — IO. Le tribù dei Viturii; le tribìi dei Genuati. — n. Si discutono i confini dei Genovesi. — 12. Come e perchè scomparve la memoria del popolo Viturio. — 13. I popoli Liguri attraverso i secoli fino .illa rivoluzione francese. 14- Conclusione. i. — Dobbiamo ora identificare gli altri popoli ricordati nella tavola. Qui si tratta veramente di toccar punte vergini, come si direbbe nel linguaggio alpinistico. Il Grassi e il Desimoni dopo qualche tentativo finirono per abbandonare l’impresa, ma io credo che vi sieno buoni punti d’ attacco e buone funi, eppercio invito il lettore a salire. Quanto a punti di attacco ne abbiamo due abbastanza saldi, poiché sappiamo dove erano i Viturii Langen e dove erano i Genovesi, Dalla tavola si vien pure a conoscere che gli altri popoli in essa menzionati erano confinanti coi Viturii Langen, perche si accenna ad una reciprocità di condizioni, che tutti questi popoli dovevano - 3i8 - osservare coi Langen per riguardo ai cnmpasqui. Dobbiamo dunque distribuire gli altri popoli menzionati dalla tavola in modo che tutti sieno a contatto coll’agro pubblico dei Langen. Ed ora le funi, mi si permetta la figura rettorica un po troppo prolungata; io parlo dei criterii a cui dobbiamo affidare le nostre investigazioni : I-° — Si presenta per il primo il prezioso avvertimento del Mommsen. I popoli liguri erano frazionati in molte tribù. Ma i Romani non cercavano le origini e le parentele delle diverse tribù e si contentavano di riferire i nomi delle genti liguri come loro si presentavano. E così è avvenuto certamente nella tavola, ove sono nominati senza distinzione dei popoli stipite, e dei popoli tribù. I Genovesi erano senza dubbio un popolo stipite al quale corrispondevano diverse tribù. I Viturii erano anch’ essi un popolo stipite perchè la tavola ci fa conoscere che i Langen erano una delle tribù dei Viturii. Ne deduco che vicino ai Langen dovevano esservi altri Viturii, perchè le tribù dovevano essere contigue se il popolo era uno solo. 2.° criterio. — La precisione dei Romani nel descrivere fatti e cose, fa legittimamente ritenere che Odiates, Dectunini, Cavaturini, Mentovini sieno scritti uno dopo 1’ altro nell’ ordine in cui esistevano. 3.0 criterio. — Le diocesi; esse corrispondono generalmente alle circoscrizioni degli antichi popoli. I confini delle diocesi furono con molta tenacia conservati, e dove ebbero luogo delle variazioni queste sono generalmente note * — 319 — 2. — Mi giovo dei tre criterii ora accennati per cominciare a mettere al loro posto i Dectunini. L’illustre prof. Desimoni dubitò e finì per non credere che i Tor-tonesi potessero arrivare fino al giogo. Ma quando noi troviamo che il Comitato tortonese arrivava fino a Fia-cone (i), quando leggiamo negli Ada Sanctorum che le ceneri di S. Agostino furono depositate a Savignone, luogo ad fines agri dertonensis, quando vediamo Casella e Torriglia diocesi di Tortona, quando pensiamo che vi fu lite fra Genova e Tortona per la parrocchia di Busalla (2), che Fiacone fu la prima conquista dei Genovesi (1) Durand, Piemonte Cispadano. (2) Scrive il Pollini nelle Memorie storiche della Chiesa tortonese (1889): « In amico il popolo di Busalla riconosceva per sua parrocchia la chiesa di Sarizzola. Sul finire del secolo XVI (anno 1582) si eresse la chiesa parrocchiale in quella borgata coll’ intervento del Vescovo tortonese. La Curia di Genova pretese che la Scrivia segnasse il confine delle due diocesi e perciò la dichiarò sua; portata la causa a Roma e deferta in ultimo ad un Cardinale, questo morì senza pronunciarsi ». Busalla fu chiamata per questo Busalla rebellis. Nel 1600 coll’intervento dell’Arciprete del Bosco, delegato dal Vescovo di Tortona, fu posta la prima pietra della chiesa attuale, che sostituiva probabilmente la cappella eretta in parrocchia nel 1582. Nel 1610 si riaprirono le lotte fra Sarizzola e Tortona per i beni spettanti alla parrocchia e fu allora che i Busallini chiesero di essere aggregati alla diocesi di Genova, ciò che il Papa acconsenti previo assenso del Vescovo di Tortona (1612). Tutto ciò rilevava il Remondini compulsando gli archivi di Busalla e della Curia genovese. Adunque Busalla fu tortonese fino al 1614. Gli altri paesi d’ oltre giogo che fecero poi parte dello Stato genovese erano passati alla Curia di Genova diversi secoli prima. Nel 1121 i Genovesi passano perla prima volta il giogo. Gli annali di Caffaro ci ricordano che in quell’anno i Genovesi coeperunt praeliando (ed anche un po’ negoziando) Flaconem, Mondascum, Clapinwn et Petrambissaram e comperarono Voltaggio dal marchese di Gavi. Subito dopo fanno un’ altra punta verso il Tortonese, comperando il Castello di Montaldo, come risulta da molteplici documenti. Questo Castello, lo riconobbero il Desimoni e il Belgrano, era posto su quel monte che sovrasta alla frazione detta Ca bianca a Rigoroso. Chi scrisse ne fece — 3 20 — quando passarono il giogo (Caffaro, Annali, anno 1121 ), allora si fa evidente che i Dectunini di cui parla la tavola l’acquisto nel 1899 per sottrarre ad una totale distruzione quei pochi ruderi che formano un prezioso ricordo di storia ligure. Montaldo è il famoso castello onde trasse le sue origini la famiglia dei dogi Montaldo (vedi Federici, Famiglie nobili)-, è il castello tante volte licordato nei brevi dei Consoli genovesi, nei quali per secoli e secoli si ripete questa forinola : « Giuro di difendere il territorio dei Genovesi a Portus Monoeci usqtie ad Montem-altum » oppure « di operare in laude torum a Vultabio et a Monte allo et a Savignone (Atti Storia Patria, voi. 1, p• 199)* Voltaggio, Montaldo di Rigoroso, e Savignone furono dal 1121 al 1198 i confini settentrionali dei Genovesi. Nel 1198 il confine divenne Gavi, Montaldo e Savignone. Fra il 1121 e il 1240 i Genovesi si agitarono per far estendere la giurisdizione ecclesiastica ai popoli d’oltre giogo da essi occupati. Le controversie durarono a lungo finché nel 1240 un papa genovese, Innocenzo IV, fece la bolla per cui stabilì che la Curia di Genova dovesse esercitare la sua giurisdizione su tutti i castelli e le terre che erano soggette al dominio del Comune di Genova, h questa bolla, citata dal Belgrano e dal Desimoni, che spiega quello strano intreccio che si riscontra nei confini delle due diocesi di Genova e Tortona. La sinistra sponda della Scrivia rimase quasi tutta alla diocesi Genovese, la quale comincia a nord col paese di Rigoroso, presso Arquata. Ma subilo dopo Rigoroso viene Borlasca e Pietrabissara che appartengono alla diocesi di Tortona. Appartengono invece a Genova i vicariati di Mongiardino e Montobbio al di là della Scrivia. Ma ritornando al nostro tema, sta il fatto, e tutte le bolle e i documenti ora accennati lo confermano, che i paesi d’oltre giogo spettavano un tempo alla diocesi tortonese. Chi desidera maggiori giustificazioni al riguardo può consultare l’Illustrazione al Registro Arcivescovile del Belgr-.no negli Atti di Storia Patria ed anche le Parrocchie dell’ arcbidiocesi di Genova del Remondini. Da speciali documenti riferiti dal Bei-grano e dal Remondini ricavo: Montobbio è dichiarato diocesis tortonensis in un documento del 26 Maggio 1236 (Belgrano, p. 366). Busalla risulta tortonese fino al 1610 dai documenti succitati. La Pieve di Borgo Fornari, che nel medio evo si chiamò Plebs de Cela dal nome che aveva allora il monte Rivà, deve essere stata costituita dalla Curia gtnovese fra il 1240 e il 1250 Infatti si trova nei rogiti del notaio Parodino di S^s ri un atto del 1250 in cui « prete Guglielmo, ministro della chiesa di S. Martino di Ronco, januensis diocesis, rinunzia alla rettoria in manibus Iohannis Arcbipresb. S. Mariae de Ceta. Dunque S. Maria de Ceta era già Pieve genovese nel 1250. Nel lodo del 1389 ove son noverate tutte le P.evi e relative Parrocchie appariscono — 321 — erano quelle tribù di Tortonesi che abitavano nei monti di Busalla, Casella e Fiacone. Queste tribù si orizzonteranno a poco a poco sopra Libarna ed allora 1’ agro di Casella, Busalla e Fiacone non si chiamerà più agro Dectunino ma agro Libarnese. Senonchè all'epoca di cui parliamo Libarna non esisteva od era appena in gestazione. Ed è perciò che la tavola di bronzo usa il nome generico di Dectunini. Abbiamo già tre punti fissi: Genovesi, Tortonesi e Viturii, e ciò che è importante tre popoli stipite. E subito vi accorgete, dando uno sguardo alla carta, che non vi è più posto per grandi popoli, e che probabilmente le genti che restano da collocare sono tribù. * 3. — Vediamo ora se ci riesce di collocare a loro posto gli Odiates. Qui mi valgo di un 4.0 criterio, il criterio linguistico. Esso ci fa intendere che vi è parentela fra Oè, paese alle spalle di Genova, patria degli Ode, e Odiates; ricordiamo ciò che abbiamo scritto a p. 103. Odo era la strada; in greco 006;. Par-odi in greco, come in dialetto ligure, sono gli abitanti lungo la strada; come suffraganee della Pieve genovese di Ceta: Fiacone, Ronco e Campolungo cioè Isola del Cantone, non Rigoroso perchè dipendeva allora da Voltaggio. Del 1127 abbiamo un documento nel liber jurium, che ci narra delle contese fra Genovesi e Tortonesi per le decime riguardanti la montagna di Ceta e il tcnimento di Ronco; erano le prime avvisaglie che dovevano portare alla occupazione definitiva e stabile per'parte dei Genovesi. Quanto ad Isola, che in antico era Campolungo, di là dalla Scrivia, è detto apertamente nella bolla 13 Aprile 1219 di papa Innocenzo III che era in Episcopale Dctlonensi, dipendente dal Monastero di S. Michele della Chiusa a Torino. Atti Soc. Lig. di Storia Patria. Voi. XXX. 22 — 322 — icopà-oStoi. Resta ancora questo nome a Parodi sopra Gavi ove era l’antica strada che metteva in comunicazione Statielli (Acqui) e Tortonesi (Libarna-Tortona). E la strada che vi spiega quella linea di castelli: Tagliolo, Lerma, Mornese, Mont-a-odè, Par-odi e Gavi. Ode ha lo stesso significato di Parodii; gli Ode erano quelli che abitavano sull’ antichissima via ligure che metteva in comunicazione Genova con valle Scrivia dalla parte di Casella. Dico Ode perchè così si pronunzia al presente, ma la forma primitiva doveva essere Odiò, corrispodente al greco 68t-ie?, all’ odiè di V’-odiè (Valdieri odiè sul va). Ecco spiegato 1’ Odiates della tavola. L’ipotesi nostra che gli Ode fossero una tribù è pure confermata dal complesso di questi fatti: i.° Tesservi a Oè un’antichissima Pieve; 2° Tesservi a Oè un Vico Vicus, indizio del primitivo concentramento ligure, del viu stanziato ab antico su quell’altura; 3.0 Tesservi più in basso un Coema-gu, che col suo nome ci attesta che era la comarca a valle di una popolazione che stava in alto (Coema-gu, ossia Kw^a-yu). Guardando alla posizione di Oè, alla sua vicinanza con Genova, alla tradizione storica, per cui Oè fu sempre unito alla città, facilmente verrete nella mia convinzione che gli Odiates, ossia gli Ode, fossero una tribù del popolo genovese come quei della Doria, come gli Enin, come quei di Castrofin. * 4. — Abbiamo dunque il popolo Genoate, capo stipite, a Genova — gli Ode, tribù, a Oè — i Dectunini, capo - 323 — stipite, a Casella, Savignone, Busalla e Fiacone. Ne viene per necessità (criterio 2.0) di collocare i Cavaturini verso Cavi, cioè nella regione dei Cavi. Notate come si addensano le omonimie: Gavi e Cavi si corrispondono (p. 119), vicino al giogo si trovano i Cavetti. Sono montagne in cui le caverne abbondano, e probabilmente i primi Liguri di quella valle presero nome dal loro abitare in cavis. Se dovessi indovinare il nome ligure che si cela in Cavaturini, direi : quei di Cavi, o meglio quei di Cavi-to-rì (cavi nel torrente). * 5. — Restano i Mentovini. Men, come vedemmo più volte, è parola antica, che conservasi nel greco [j.y)v e nel francese maint ed ha lo stesso significato di molto, affatto. Men-t-ovin significa: affatto in ti ovin, affatto in mezzo alle pecore, come Ma-ri-eri significa affatto negli eri. Il Grassi fermandosi all’omonimia disse: Mentovili corrisponde a Monteuggin. Credo anch’io che Monteuggin sia un vocabolo neolatino che rappresenta un antico Mentoin; ma tutti i pecorai erano Mentoin come tutti i ripiani si chiamavano en i-cen, ma-ni-cen. Dunque l'omonimia non basta ; bisogna cercare fra i tanti Mentoin, quali sono i Mentovines della tavola. Per noi la posizione dei Mentovini è ormai determinata ; Genoati, Dectunini, Cavaturini accerchiano i Langen da mezzodì, da levante e da tramontana; i Mentovini adunque non potevano trovarsi che a ponente. Il loro arvo privato era probabilmente a L’-arve-gu, il loro arvo pubblico intorno alle capanne di Mercuieit. L’ ispe- — 324 — zione di questo territorio fornisce elementi che vengono a conferma del nostro assunto. Noto prima di tutto il carattere della regione che è acconcia a nuli’ altro che alla pastorizia, essendo quasi tutta montuosa ; solo a valle esiste un po’ di coltivo. Noto in secondo luogo quel prezioso vocabolo di L’-arve-gu, che come già vedemmo, significa arvo a valle (pag. 90). La posizione che io vengo a dare ai Mentovini è pure giustificata da un 5.0 criterio. — Parlando delle origini dei Liguri dimostrerò, come ho già dimostrato in parte collo studio del dialetto, che i primi luoghi abitati furono le coste del mare, come era l’antica opinione di Tacito. Stando a questo criterio i Viturii avrebbero preso le mosse dalle spiaggie di Voltri, di Prà e di Sestri, ed in conseguenza sui monti che stanno alle spalle di questi paesi dovevano trovarsi le loro tribù, che secondo la tavola eran più d' una. Nè a Masone nè a Campo Ligure posso collocare i Mentovini perchè ivi eran le sedi degli Statielli, e la diocesi d’ Acqui colla sua circoscrizione ancora in oggi ce lo ricorda. Bisogna dunque per necessità ritenere che 1’ altipiano che sta fra i monti Geremia, Penello, Lecco e Figne fosse la sede della prima tribù dei Viturii Mentovini, e Larvego il centro del loro agro privato. L’ altra tribù era, come vedemmo, a Langasco. * 6. Resta a risolvere un quesito: era dei Viturii o dei Tortonesi la tribù dei Cavaturini? - 325 - Se Viturii erano i Mentovini e Viturii i Langen, potevano essere Viturii anche i Cavaturini. Io ho fatto luogo a questa ipotesi nella mia carta in omaggio a una certa tradizione che coincide e forse nasce dall’ opinione del Giustiniani, il quale dice Viturii i Voltaggini ; ma più ancora perchè mi faceva impressione il fatto che, nei primi albori del rinascimento, i Genovesi si stabiliscono con pochissime difficoltà a Voltaggio e a Parodi e trattano sempre con un tal quale atteggiamento di padronanza il Marchese di Gavi, di cui finiscono per assorbire 1’ intero Marchesato (i). Io riflettevo: Genovesi e Viturii avevano intorno al iooo costituito un sol popolo ; scendendo in vai Lemme non procedevano per avventura ad una rivendicazione dei possedimenti antichi ? Avevo pure presente un altro fatto, che la circoscrizione del feudo di Gavi arrivava, come arriva ancora oggidì la pretura di Gavi, fino sopra Voltri ; vedevo insomma un intreccio fra Voltri e Gavi, come vedevo una famigliarità fra Cavaturini e Langen in quel Leino, che dava il nome alla valle di qua e di là del giogo. Osservavo infine che se quei di vai di Leme non erano Viturii, erano certamente Dectunini, ma i Dectunini erano già stati nominati nella tavola di bronzo. Se i Dectunini continuavano anche intorno al monte Tuggiu, perchè la tavola li avrebbe nominati col titolo di Cavaturini ? perchè non li avrebbe compresi nella espressione generica di Dectunini ? Ma la cosa resta molto incerta perchè vi sono argomenti in contrario d’ altrettanta importanza. All’ ultimo (i) Vedi Desimoni, Annali di Gavi. — 326 — degli argomenti ora accennati si può giustamente opporre ciò che dissi pur io, ragionando sul i.° criterio: i Romani non si curavano di classificare i popoli secondo le loro nazionalità, riferivano promiscuamente nomi di tribù e nomi di popoli. I Polceveraschi avranno avuto frequenti rapporti con quei di vai Leme, che certamente fin di allora si orizzontavano per i loro scambi su Genova più che Tortona, e quindi, mentre chiamavano Dectunini tutti gli altri abitanti di là del giogo, avranno dato a quei de Gavi, con cui erano abitualmente a contatto, il loro nome particolare. In secondo luogo si può osservare che il giogo era il naturale confine dei popoli, e Caffaro ricorda, come un fatto straordinario, che i Genovesi passarono il giogo nell’anno 1121 per occupare Fiaccone, Clapino, Petrabisciara e Voltaggio (1). Un terzo argomento in contrario si ricava dalle giurisdizioni ecclesiastiche. Risulta dai documenti riferiti dal BeWano nella sua Illustrazione al Registro Arcivescovile, che nel 1130 Vol-taggio era ancora sotto la diocesi di Tortona, e che fu solo nel 1240 che interviene la Bolla di Innocenzo IV, la quale stabilì che in tutti i castelli e in tutte le terre della diocesi di Tortona, ove il comune di Genova godeva dominio, la sua Chiesa dovesse esercitar senz’altro la propria giurisdizione. F'u per effetto di questa bolla che Fiaccone e Voltaggio, Aimei, e Montaldo (di Rigoroso) e Gavi e tutto il Parodese divennero Diocesi di Genova. Risulta d’ altra parte dai documenti di Tortona che il Comitato Tortonese e la Diocesi di Tortona (1) Voltaggio, in dialetto Olagio è nome di origine medioevale. Significa a-o-tagio, luogo dove dal Marchese di Gavi si percepiva il lagium, la taia, ossia il pedaggio. — 327 - avevano anticamente per confine la Piota e 1’ Orba dal lato di Ponente. Che un contratto di enfiteusi, come quello dei Viturii Langen coi Genovesi, abbia condotto i Viturii in vai di Leme ? Anche questa è un’ ipotesi possibile. Certo è che il fatto da me accennato di rapporti intimi antichissimi fra quei di vai di Lemme e i nostri traspare da tutti gli elementi storici antichi. Lascio dunque incerto questo punto pur confessando che nel bilanciare le due ipotesi contrarie propenderei in oggi per mettere i Cavaturini fra i Tortonesi. Il fatto che i popoli marittimi finivano al giogo quasi sempre, e il fatto che i paesi di vai Leme e valle Scrivia appartenevano in principio del medio evo al Comitato e alla Diocesi di Tortona, la vincono sugli altri per la loro importanza. * y. _ Le capanne di Mercuieu ricordano un antichissimo mercato che là si faceva fra gli abitanti del versante nord e quelli del versante sud dell Appenino. Scrive il Giustiniani, quando accenna alle Capanne di Mercuieu « Alle capane si fa quasi ogni giorno mercato tra Genoesi e Lóbardi». Chi riflette alla posizione delle Capanne, che per la loro distanza sono ormai dimenticate, non può a meno di maravigliarsi come i Genovesi andassero proprio a metter banco in mezzo a quei monti. È un fenomeno che non si spiegherebbe senza la tavola di bronzo. Per comprendere 1’ origine di Memaeiì bisogna risalire molto in alto, alle costumanze primitive dei popoli. — 328 — Le diverse tribù che abitavano nelle valli, s’incontravano in determinate occasioni sui monti che servivano di confine. Il Giustiniani parlando delle Capanne di Marcarolo dice: questo giogo è un dei termini di confine della valle di Polcevera. Faccio inoltre osservare che era un luogo centrale fra Viturii, Zenoexi, Dectunin e Sasselin (i), quattro popoli che da questo e da tanti altri indizii argomento fossero uniti in un vincolo di confederazione (2). Probabilmente su quel giogo, in mezzo ai boschi delle Capanne, i quattro popoli tenevano le loro assemblee, compievano i loro negozii, celebravano in comune i loro riti. Le tradizioni dei popoli italici, come dei popoli greci, come di tutti i popoli mediterranei parlano di questi convegni religiosi e civili che avean luogo nei boschi sacri posti sul confine di diversi popoli (lucus in confinio). Come le tribù dei Latini si radunavano nel famoso bosco Fcì entino, così i Liguri orientali avevano la Selva Feronia (notisi la corrispondenza di Ferentino e Feronia) e i Liguri occidentali il bosco Bor-man detto dai Romani lucus Bormani. E così il Mercuieu doveva essere nei tempi primitivi il Ferentino dei Liguri centrali. Insisto su questo nome perchè mi richiama alla mente una grande armonia di vocaboli e di cose. Il Ferentino era il luogo ove ferebant i loro prodotti, che appunto per questo chiamavano pferma (cpepjxa), onde ferma -giù , Pcr- (1) Ritengo che Statielli, nome dato dai Romani, sia traduzione di Sass-el-tn, che significa gente che sta (0aao) nella foresta, eia ( pag. 92 ). La mia spiegazione concorda col nome di Sass-élu c Sass-el-in che conservasi al Sasseto, antichissimo Zon degli Statielli. Questo rilievo dialettale panni decisivo. (2) Non si unirono ad Annibaie, non fecero guerra contro i Romani, tanto che fu disapprovata anche in Roma la persecuzione di Popilio Lenate contro i pacifici Statielli nell’ anno 56 a. C. - 329 — ma, Parmea. Per la stessa ragione chiamavano fera, fea, fiera il mercato a cui portavano questi loro prodotti. Non volendo far dell’ archeologia soltanto ma della storia, noi dobbiamo ora trovare il filo che riannoda attraverso i secoli il Mercuieù primitivo col Mercuieù di cui parla il Giustiniani. Sul finire dell’ XI secolo i Genovesi eran tornati di Terra Santa con nuovi campioni di droghe, di stoffe, di profumi, di oggetti preziosi, e sentivano vivamente il bisogno di presentare all’Europa, e per il momento ai Lombardi, quei nuovi prodotti. A Mercuieù era un mercato avviato da tempi antichissimi, caricarono i loro muli, i gigi, e portarono a Mercuieù le primizie dell’ Oriente. È là che si iniziarono i primi rapporti di Genova medioevale coi paesi d’ oltre giogo, e la che si annodarono le prime fila di quel commercio che doveva un giorno attraversare il Moncenisio, il Gottardo, il Sempione. Si comprende che i Genovesi, assicurato il commercio dovessero subito pensare a dargli più comode vie di transito attraverso valle di Scrivia e vai Leme, ma da buoni mercanti, che non' abbandonarono mai il fondaco vecchio, finché non han condotto tutta la clientela al fondaco nuovo, coltivavano ancora, all’ epoca del Giustiniani, il loro antichissimo Mercuieù. Marcarolo ha perduta in oggi ogni e qualsiasi importanza. Ma le traccie di qualche cosa di molto antico si trovano prima di tutto in quell’ Astu che segna ancora il luogo ove intorno all’antenna i popoli si radunavano 40 secoli fa. Testimonio del Mercuieù medioevale è la badia, che esisteva a Mercuieù, e che nel XVI secolo era. passata nel patronato dei Doria. Nel 1582 quando — 330 - Mons. Bosio visitava le parrocchie della Curia di Genova Mercuieù avea cessato di avere una Chiesa. Ma le diligenti ricerche del Ferretto ci hanno pur fatto conoscere che un 'ecclesia de Mercariolo risulta nel 1221 da un atto di pari data del Notaio Salomone. Tutti questi fatti ci confermano che Mercuieù ha realmente diritto a quel posto che io gli assegno nella Storia. * 8. — Nella mia carta ho segnato le antiche vie liguri e le vie romane. E una distinzione di suprema importanza per chi vuole farsi un concetto esatto di quella evoluzione storica per cui il mondo ligure divenne mondo romano. Per coloro i quali fan cominciare la storia nostra da Roma e dai Romani, tutte le strade liguri sono opera del popolo conquistatore. Io credo invece che i Romani altro non fecero che sistemare gli antichi va e gli odo dei Liguri e trasformare le modeste vie mulattiere che esistevano da 2000 anni in magnifiche vie strate. Le vie liguri avevano uno scopo molto ristretto ; i Romani le utilizzarono a scopi più grandiosi di comunicazione mondiale. Attraverso la Liguria essi dovean passare per entrare nella Gallia Cisalpina e nella Transalpina. Costrus-sero prima (186-180) la via Postumia che doveva mettere in comunicazione Piacenza, la sede del comando militare della Cisalpina, col mare. Subito dopo pensarono a completare la via littoranea. La gran via Aurelia conduceva da Roma a Pisa ma non oltre ; prolungarono dunque questa strada attraverso le balze della riviera ligure e la condussero fino a Vado (Vada Sabatia) ; ed allac— -- - — 33i - ciaiono Vado con Piacenza, sede del comando della Cisalpina, mediante il braccio Vado, Acqui, Tortona, Piacenza (109). Di queste due strade romane, Postumia e Aurelia e di tutto il nostro sistema stradale, perfezionato da Augusto, ci occuperemo nella parte III quando tratteremo dei Liguri nell’ epoca romana. Per ora mi interessa di ribadire il concetto che il Romano costrusse, stravit, le strade, il che vuol dire spianò, lastricò, fece argini e ponti, diede insomma la forma classica di via romana agli antichi va dei Liguri, ma questi va esistevano. Tanto è vero che pur tendendo alla Gallia transalpina si contentarono di far la strata alla romana da Pisa a Vado e da Piacenza a Vado, lasciando come era il tratto da Vado in Francia, ciò che vuol dire che la via ligure era abbastanza praticabile e poteva servire alla necessità del momento. Sappiamo infatti che è opera di Augusto la via Iulia lungo la riviera da Vado al Varo. Le vie liguri primitive, i va, avevano, come dicemmo, uno scopo limitato ai bisogni di quei popoli, molto stabili nelle loro dimore, molto ossequenti alle loro divisioni primitive. Essi non nutrivano idee di conquista alla romana ; quindi i loro va avevano unicamente per iscopo di comunicare fra l’una e l’altra valle, e l’uno e l’altro versante, fra un popolo e 1’ altro ; servivano per gli scambi locali di porcellini, di pelli, di bovine e di formaggi. Io ricomporrei così gli antichissimi va dei Genuati ; i.° Il va ossia l’odo che da Genova conduceva direttamente in vai di Scrivia (Casella) passando per Ode (Oè), si chiamava la strada per eccellenza cioè il Peado, come vedemmo a pag. 105. — 332 — 2.° Il va che dalla valle di Polcevera conduceva alla stessa meta, cioè il va che dalla Polcevera saliva a Manigen e per il Pernecco andava a Ode, per scendere poi in Valle Scrivia. 3.0 Il va che per la Polcevera e la Seca saliva a Vine e al giovo. 4.0 Il va che per Morgo, S. Cipriano e Sera andava egualmente al giovo. Questi due va facevano capo al valico di N. S. della Vittoria e scendevano a Savignone per la via, detta del Conte (Fieschi) nel medio evo. Dalla circostanza molto dubbia che Liutprando, nel trasportare in solenne pellegrinaggio le ceneri di S. Agostino avrebbe fatto la strada di Vuiè e Savignone alcuni vollero dedurre che questa fosse l’antica via Postumia. Altri come il Desimoni collocarono la Postumia per Morgo, kS. Cipriano e Sera. Ma io dimostrerò a suo tempo che la via Postumia era impraticabile all’ epoca di Liutprando ; e quindi non vi è molto di strano che Liutprando abbia scelto per suo itinerario quel va che gli presentava maggiori comodità di viaggio. Si aggiunga che a Savignone era allora una cella di Benedettini favoriti dai Longobardi , ed è naturale che Liutprando scegliesse la via di Savignone, per aver un luogo sicuro ove pernottare. Il Desimoni, e tanti altri scrittori rilevano che le vie di Vuiè e di Sera sono antichissime, ed io sono d’ accordo con essi, perchè le segno come vie liguri, preesistenti alle vie romane. Ma il diverso modo di pensare nasce da ciò, che gli scrittori testé accennati ritengono che sia romano tutto ciò che è molto antico, mentre io son fermo nel mio concetto che le cose molte antiche sorpassano 1’ epoca - 333 — romana , e non si devono attribuire ad essa senza una speciale ragione. 5-° Probabilmente è valico antico preromano quello che da S. Cipriano e Sera e la Vittoria scendeva a Busalla, valico molto in uso nel medio evo, prima che i Genovesi ristabilissero la strada della Bocchetta. Per esso da Busalla si andava a Borgo Fornari, Fiacone, Voi— taggio e Gavi e di qui in Lombardia. Restò famosa questa via per il passaggio di Carlo V che pernottò a Borgo Fornari nell’anno 1533; è famosa per la vittoria riportata dai Genovesi sui Gallo-Sardi presso il monte poi detto della Vittoria nell’ anno 1625. Busalla e Borgo Fornari acquistarono importanza per il commercio che ebbe per più secoli questa strada, che si chiama ancora attualmente in quei paesi la strada della Vittoria. 6.° Va importantissimo nell’epoca preromana doveva essere quello che dalla gea della Polcevera conduceva al valico della Bocchetta, e che metteva in comunicazione vai di Polcevera con valle Scrivia e vai Leme ; questo è il va che divenne poi la via Postumia. 7.0 Nelle alture delle Capanne di Marcarolo la mia carta segna una serie di va tutti convergenti all* antico mercato. Sono sentieri tuttora praticati, lungo i quali si riscontrano ad ogni passo di questi nomi : bosco di ladri\ ed espressioni consimili, che ricordano molto bene le avventure cui dava luogo quell’ antico mercato, che è uno dei fatti più caratteristici della storia ligure primitiva. 8.° Vi è un altro gruppo di va convergenti e sono i sentieri che conducevano i Viturii montanini al loro Astu sul mare. Tali sono i sentieri liguri da Masone a Voltri, dalle Capanne per il monte Vesolina a Voltri, — 334 — dalle Capanne per il monte Orditan e il Pennello a Pra, da Larvego, Incisa, S. Carlo di Cese a Sestri. 9.0 Vengono finalmente gli antichi va littoranei che si confusero poi colla via Aurelia — Zenoa, Arbà, Quarto, Quinto (nomi romani indicanti le miglia), Nervi, Sori, Reco, Rua, da una parte, — Zenoa, Corni-zen, Sestri, Pegi, Pra dall altra. Noto che la via romana abbandonò il va ligure di Cornizen ; e la ragione esiste benché molto nascosta nelle pieghe del tempo. La via Postumia e la via Aurelia avevano uno scopo strategico ed il loro obbiettivo era la Gallia ; si voleva che il corpo d’ esercito stanziato a Piacenza avesse una via comoda per piombar sulla Gallia e sorvegliare i Liofuri occidentali ; o o di cui Roma diffidava fin dai tempi d’Annibaie. Per tal motivo la via romana, appéna giunta al Boschetto voltava a ponente profittando del comodo valico di Borzoli. Generalmente si scrive che la via Aurelia aveva per iscopo di unir Pisa con Genova e Genova con Vado; ma questo programma d’ interesse locale è una supposizione che non regge alla critica storica. I punti strategici che interessava riunire erano Pisa, Piacenza, Vado. Si andava da Pisa per Genova a Piacenza; da Piacenza a Vado per valle Scrivia; da Piacenza a Vado per vai Bormida. Il congiungere Sampierdarena coll’ altra sponda di Cornigliano era un’ opera inutile per i romani. Non bisogna poi dimenticare che la Polcevera era larghissima alla sua foce e questa era probabilmente molto più indietro, precisamente come avveniva in Bisagno, dove il fiume occupava tutta la spianata ove sbocca la via XX Settembre e la Pila (p. 75) era la foce. Quando i nobili genovesi vollero avere una comoda via per le - 335 — loro ville di Cornigliano, di Coronata e di Sestri, fecero in consorzio il ponte sulla Polcevera, che vien ricordato da tutti come il primo che unì le due sponde della Polce/era, alla sua foce. Per contro è tradizione costante quella del ponte romano che esisteva fra la Certosa di Rivarolo e il Boschetto. Ho accennato più volte alla necessità di collegare i fatti storici del medio evo con quelli dell’ epoca primitiva. Uno degli studi più fecondi di buoni risultati è quello di paragonare le strade antiche coi castelli e i conventi del medio evo. Nell’ epoca primitiva erano i Casteli che difendevano le strade dagli eterni praedatores ; p. e. il Castelus Alianus al valico della Bocchetta — nell’epoca romana erano le Mutationes, grandi stazioni di rifornimento ad uso degli eserciti. Nel medio evo quando ogni ordine costituito si disciolse, i feudatari pretesero difendere le strade, ma l’amore del prossimo era così scarso che invece di difendere si opprimeva il viandante coi pedaggi e le robarie. La carità cristiana ebbe allora una splendida estrinsecazione nei conventi, che piantati sulle vie principali di transito avevano fra i loro scopi principali il dare alloggio ai pellegrini. Questi conventi si piantarono sulle vie esistenti nell’ epoca romana, perchè il medio evo non fece strade e piuttosto ne distrusse. Dati questi fatti io ne rilevai un criterio che mi giovò sempre nelle mie ricerche : un convento sui monti si collega generalmente ad una antica strada. Savignone e Precipian erano le due Abbazie che nel medio evo ebbero per così dire la tutela della strada Vallis Scripiae (Postumia). — 336 — Dalla Bocchetta si scendeva in vai di Leme e voi trovate i ruderi di un antichissimo convento di .S". Grigheù nella costiera che dalla Bocchetta conduce a Fiaccone. Dal Giovo si scendeva pure a Busalla e voi trovate sul versante di Busalla 1’ antichissimo Convento che fu per molto tempo il campo di battaglia fra quei di Busalla e i Polceveraschi per la eterna questione dei confini (vedi nota a p. 307). Questi sono i conventi anteriori al 1000. Ma venendo al 1100, 1200, 1300, 1400 i conventi si rinnovano sulle antiche strade ed io credo importante far notare un fatto che convaliderà a suo tempo il tracciato che io dò della antica Postumia. Da Pontedecimo a Genova prima che si facesse la via Camblasia (1773) sulla sinistra sponda, la strada fu sempre là sulla destra, in mezzo a quelli abitati antichissimi che sono sotto S. Biagio, Murta e Fegin. Ed è appunto su questo tracciato che si trovano allineati molti conventi, che vantano nella loro storia ospitalità famose accordate ai più illustri personaggi della terra. Chi, nel medio evo, scendeva in Polcevera per la via Postumia trovava un primo luogo di sosta nell’ antichissimo Isocorte. Richiamo 1’ attenzione degli studiosi su questa località sulla quale equivocò il Belgrano (vedi indice locorum) ragionando a p. 24 e 220 del Registro. Ed invito pure a studiare le origini di quelli antichi edificii che formano in oggi la fabbrica Dasso e che dovevano essere 1’ antica Curte, che diè il nome a Iso-corte. Quella Curte poteva essere benissimo un’ antica badia. Veniva poco dopo il convento di S. Francesco della Chiappetta, che per il deviamento dell’ alveo della - 337 ~ Polcevera fatto nel 1853 resta in oggi sulla sinistra sponda, mentre era in antico sulla destra. Veniva poi sotto Fegino la Commenda dei Cavalieri Gerosolimitani. Al Boschetto, dove si biforcava la via, dove si incontravano i pellegrini che andavano a Genova con quelli che andavano in Lomdardia e quelli che andavano in Francia, era la famosa badia dei Benedettini. Varcato il ponte altro convento rinomato per 1’ importanza storica ed artistica, la Certosa di Rivarolo. Al Colle di S. Benigno si presentava al viandante un ultimo rifugio nella celebre Abbazia di S. Benigno che occupa il luogo delle caserme militari. La badia dominava la via Postumia, che allora passava più in alto, e precisamente dove in oggi è la via S. Benigno. Da questi fatti emerge chiaro abbastanza l’intimo legame che esisteva fra la strada e O i conventi; colla via Postumia si spiegano i conventi da me descritti, e viceversa si ricompone il tracciato della via Postumia seguendo il loro allineamento. A suo tempo confronterò il sistema stradale ligure primitivo col romano, col medioevale e col moderno. Per ora mi contento di accennare i mutamenti subiti dalla nostra via maestra, quella fra Genova e la Lombardia. 11 va primitivo più semplice, più breve, era probabilmente quello che per Oè scendeva in valle Scrivia. Ma, venuti i Romani, diedero la preferenza al valico della Bocchetta, e la Postumia divenne la gran via. Ma nel medio evo era la gran via di nome, perchè nel fatto divenne ben presto impraticabile. Lo si arguisce senza bisogno di documenti da quelle costiere sempre in frana per cui passava da Ronco a Pietrabissara. Si dice anche sia stata rotta dai Genovesi nel VII secolo per arrestare Atti Soc. Lig. di Storia Patria. Voi. XXX. — 338 — l’invasione longobardica. Il fatto è che al di là del Giovo la via Postumia fu abbandonata, e le carovane del medio evo s’incamminavano dalla Lombardia per Gavi e Vol-taggio, da Voltaggio venivano a Fiaccone, Borgo For-nari e Busalla per scendere per Sera e S. Cipriano, oppure salivano alla Bocchetta per scendere a Langasco e Pontedecimo. Durarono così le cose fino al XVI secolo cioè fino alla costruzione della strada nuova della Boc ■ chetta ; allora si stabilì definitivamente la linea Genova, Pontedecimo, Campomorone, Langasco, Voltaggio, Gavi, la quale però da Pontedecimo a Genova continuava ad essere la Postumia romana. Nel secolo scorso la famiglia Cambiaso volle rendersi benemerita della sinistra sponda e costrusse la via da Sampierdarena a Pontedecimo, la quale fece sì che il tracciato della Postumia da Ponte decimo al Boschetto cadesse in abbandono. La via nazionale costrutta nel 1821 riprese la vecchia Postumia da Busalla a Serravalle, ma restò definitivamente abbandonata la Postumia vecchia da Busalla a Genova. * 9- — Devo ora dar ragione di quel frastagliamento di confini che si vede nella mia carta fra Genoati e Vituri. 6.° criterio. Qui mi gioverò di un altro criterio che mi fu suggerito da quel profondo investigatore di cose Liguri che è il Cav. Cervetto. Egli fu sempre caldo sostenitore dell’ opinione che ai Vituri appartenesse il territorio di Voltri e mi accennò sovente alle ragioni storiche desunte dalle antiche circoscrizioni. Voltri, Pegli, Sestri, Borzoli fecero sempre gruppo a sè ; la giurisdizione del- - 339 — 1 'Abboìi, come del Capitanato finiva al Traste (Apaa-xe?, luogo infranto, dirupo). Si intuisce da questo e da tutte le tradizioni storiche di Voltri-Sestri-Borzoli che là vi era anticamente un popolo che si orientava su Voltri. j.° criterio. — 11 fatto ora accennato trova la sua conferma in un documento storico che è sempre di altissima importanza per quanto appaia alterato e scorretto in qualche parte. Intendo parlare della tavola Peutinge-riana, di cui fu fatta nel 1888 una splendida illustrazione dal Konrad Miller. Questa segna appunto un Hasta là dove noi poniamo XAstu dei Vituri Marittimi. E ciò parmi che dovrebbe bastare per dire che là vi era un popolo, una tribù, le cui attinenze dovevano essere colle tribù che stavano alle spalle. 8.° Le Pievi. — Le Pievi sono come le diocesi, un altro prezioso criterio relativamente alle nostre ricerche, perchè il Cristianesimo si innestò sulle antiche circoscrizioni dei popoli. Si direbbe, ripetendo il concetto filosofico di Dante, che i popoli si ordinavano a gruppi sulla terra per ricevere il germe della nuova vita. 11 fatto che le prime pievi corrispondevano alle divisioni dei popoli liguri ci è confermato da questi importanti riflessi. Mentre le pievi erano molto scarse e distanti l’una dall’altra in principio, tanto che Voltaggio, Capanne di Marcarolo, Larvego, Langasco, Mignanego formarono in un dato tempo, una sola pieve a S. Stefano di Larvego, si trova questo strano fenomeno che a poca distanza da Larvego esisteva un'altra pieve, quella di Seanesi che esercitava giurisdizione sul territorio che s adagia a pie del monte della Guardia. Se le pievi fossero state impiantate col criterio di una regolare distribuzione del — 340 — servizio religioso in ragione delle distanze, non vi sarebbero state certamente due pievi così vicine. Ma se pensiamo che in quel punto si trovavano due nazionalità diverse, Genoati e Vituri, che se gli uni avevano una pieve anche gli altri 1’avran voluta, perchè si credeva di pregiudicare la propria sovranità e la propria indi-pendenza sottoponendosi alla giurisdizione ecclesiastica di un altro popolo, facilmente si spiega la coesistenza di due pievi in quel punto, la pieve Vituria a Larvego, la pieve Genovese a Seanesi. La mia carta adunque giustifica il fatto delle due pievi, e questo dà storicamente ragione della mia carta, che pone Genoati accanto a Viturii sulla destra sponda della Polcevera. Noi non siamo più abituati a vedere, come esisteva in antico, un’ intima connessione fra giurisdizione civile e giurisdizione ecclesiastica, ma non è men vero che tutta la storia di Genova sia piena di questioni insorte per cagione delle giurisdizioni ecclesiastiche. Mi basti ricordare che per la consacrazione del Vescovo di Corsica è nata la fiera contesa che portò alla rovina di Pisa, che per le pievi di vai Leme e valle Scrivia durò per più secoli il contrasto fra le Curie di Genova e Tortona, mentre nell’ordine politico si disputava e si guerreggiava per il possesso di Gavi da una parte e di Arquata dall’altra. Riportando questo criterio ai tempi primitivi del Cristianesimo io comincio a fare un gruppo di Sestri, Borzoli e Fegino perchè così m’insegna la circoscrizione dell antichissima pieve di Borzoli. La pieve arrivava fino al Traste, come fino al Traste arrivava VAbbott di Voltri e poi il Capitanato. Dunque al Traste è a ritenere che fosse 1’ antico confine fra Genoati e Viturii. — 34^ — Metto invece in territorio genoate Cornigliano perchè storicamente risulta che fu sempre unito alla giurisdizione ora di Sampierdarena ora di Rivarolo. * io. — Riferendomi alle antiche giurisdizioni delle pievi, io dunque ricomporrei cosi i due popoli: I Vituri col loro centro all 'Astu fra Voltri e Pra con quattro tribù: i. Viturii di Votri col loro centro zM'Astu, Hasta, con due portixeù (i) uno a Votri l’altro a Pegi — Pieve a Prà (2). {1) A Pegli si conserva ancora lo storico nome di portixeù che si dava ai piccoli porti dei liguri antichi, consistenti in una piccola insenatura alla foce dei torrenti. 1 genovesi, come più volte dicemmo, avevano il loro portixeù alla foce di Rivotorbido. (2) Il moderno paese di Prà segna approssimativamente il luogo dell’ antico astu, l'Hasta della tavola Peutingeriana. Me ne convince la storia di questa Pieve che vantò sempre, ed in più contingenze dimostrò la sua antichità sul Voltri odierno, come si legge nel Remondini. La Pieve si chiamò nei primi tempi Plebs de Vulturo, in seguito Palniaro, ed oggidì Prà. Questi tre nomi appartengono tutti, a mio avviso all’ epoca primitiva, e servono molto bene a chiarire l’esistenza dell’ antica città. Vétri, póxpoj, che significa uva, vigneti, era il nome generico della regione; Parmea 0 Parma, come dice il Giustiniani, era il luogo ove si faceva mercato di formaggi, capretti e porcellini ed ha lo stesso significato di Parma (cp?jp[].a) ; Prà era il solito prato ove il popolo si radunava. Si riuniscono in queste tre parole tutti i caratteri di un astu ligure antico. Probabilmente le contese fra Voltri e Prà, quando si disputavano la precedenza c l’antichità, dipendeva da ciò: Prà aveva per sè la ragione storica, perchè il suo abitato era sul posto dell’antica Hasta, Vótri aveva conservato il nome antico che apparteneva un tempo a tutta la regione. Plebs de Vulturo, avran detto i Voltresi, vuol dire Pieve di Voltri, la qual cosa era vera e non vera a seconda del modo con cui il Voltri si intendeva. Quei di Prà avranno risposto, 0 potevano rispondere con ragione, che l’espressione Plebs de Vulturo non si riferiva a Voltri paese, ma a tutta la regione che un tempo si chiamava de Vótri, dell’uva. — 342 — 2. Vituri Sestrin con sede a Sestri e S. Giambattista col loro portixeu nel luogo che si chiama in oggi Virgo Potens (i). — Pieve a Borzoi (2). 3. Vituri Mentoviti (Mentovini) con centro a Lar-vego. — Pieve a S. Stefano di Larvego. 4. Vituri Langen (Langenses) con centro a Langasco. — Pieve a Larvego e Sera. I Zenoixi col loro centro a Zenoa e con 12 tribù: 1. Quei d'A-r-bà, che nei tempi cristiani formarono la Pieve di S. Martino o plebs de hirchis, traduzione grossolana della parola erchi, con cui si accennava ai molti archi dell’epoca romana sul greto del Bisagno (3). (1) I vecchi di Sestri e di S. Giovannibattista ricordano ancora di aver visto sotto Virgo Potens gli anelli in ferro ove legavano gli antichi Sestrin le loro navi. (2) Pop-^wrj. Il £0)1] ha lo stesso significato di vi, nucleo di viventi, gente. Borzoi è la gente a tramontana (pop). (3) Il Giustiniani ci fa conoscere che ai suoi tempi il ponte di S. Agata aveva 28 archi, che si trovano ancora da chi li cerca attraverso gli orti verso S. Fruttuoso. Nel 1898 scavandosi un fognone in via Paolo Giacometti in vicinanza di piazza Giusti io vidi un’altra linea di archi, completamente sepolti, in direzione del Mondo nuovo e constatai che erano in relazione con quelli che si trovano negli orti di piazza Tomaseo. Questo rilievo ha molta importanza, perchè giova a chiarire la configurazione che aveva il Bisagno all’epoca romana. L’avviarsi di tutte le strade, anche di quelle di S. Francesco d’ Albaro al ponte di S. Agà, significa che il letto del Bisagno era allora molto largo, e si estendeva probabilmente da piazza Tomaseo al Manicomio. La foce del fiume era probabilmente molto più indietro e corrispondeva al borgo Pila (Vedi p. 75), come avveniva in Polcevera, ove il mare si spingeva fin sotto Coronata occupando in parte i piani di Campi. Fra la Pila e il ponte di S. Agà erano gli orti, nioa., onde il fiume ha tolto il nome. Questi orti erano probabilmente piccole oasi nel greto, riparate alla meglio da muri a secco (maxée), come si usa in Liguria. Poi lentamente questi orti si alzarono, per effetto del deposito lasciato dal fiume, le piccole oasi si unirono e diedero luogo a un’ ampia distesa di qua e di là del fiume, la quale acquistò carattere di suolo stabile in grazia degli argini costrutti dai Genovesi. Allora soltanto fu possibile il ponte Pila, che congiunse direttamente S. Francesco d’Albaro e il borgo Pila alla città, mentre nell’ epoca antica questa comunicazione non - 343 — 2. I Nervin cioè abitanti di Nervi (vsupr,, per metatesi nervi ; ritengo che questo termine si usasse in antico per indicare le nervature della montagna) pieve a Nervi. 3. Quei di Sori (awpot, cumuli, monticelli) ; pieve a Sori. 4. Quei di Camogli. Lo studio della montagna mi suggerisce che i Camuin fossero gli abitanti del monte fatto a forma di cammello, y.a|i.rjXoj ; la terminazione di Camuin rivela la terminazione comunissima di oin (ovino), ed io credo conforme al dialetto il ricomporre il nome in Ca-meluìn e per contrazione Camum ; in latino Camulio e per corruzione dell’ ulto in ugi, Camugi. Ebbero antichissima pieve a Camogli. Adunque quattro sarebbero state le tribù sul mare a levante, una era a ponente, cioè : 5. La pieve degli Enm (1), oggi Sampierdarena. A monte erano probabilmente sette tribù. 6. Quei della Doria che ebbero poi la loro pieve a S. Siro. Probabilmente il Bisagno non aveva altro nome in principio che Oria 0 Dona (vedi p. 65) ; poi dagli orti (rasa) tu detto Pisagno, alterato in Bisamnis. Dal forare i piani pare sia stato detto anche Fue-zan, onde l’altro nome di Fentor. Nel medio evo la pieve si chiamava di Murazana, perchè a Molassana era un castello poteva essere altro che un va che passava a guado il Bisagno, ed aveva gli orti da una parte e il mare dall’altra. Gli orti si alzarono di circa tre metri dall’epoca romana al giorno d’ oggi ; ed è questa la ragione per cui il mare dovette ritirarsi e i ponti romani rimasero in gran parte sepolti, cosa che si verifica in molte altre parti della nostra Liguria. Cosi a Bobbio il ponte romano è sotto il fiume, in Albenga vediamo ancora gli archi romani sul Centa, ma le pile sono affondate. (1) Vedi pag. 149. — 344 — del Vescovo ed una curia, ma la chiesa pievana era sempre a S. Siro di Struppa. Vedi Registrimi curiae. 7. I bavai (1), con pieve a Bavari. 8. I Barga-i (2), con pieve a Bargagli. 9. Gli Ode — Odiates — con pieve a Oè, S. Olcese. 10. Quei di Castro/in, pieve a S. Cipriano. 11- Quei di Seanesi, pieve a Ceranesi. 12. Quei di Ruveieu, pieve a Rivarolo. Noto che i nomi delle quattro tribù viturie come quelli delle dodici tribù genovesi rispondono tutti a radici liguri primitive, circostanza che ha molto valore per la classificazione da me proposta. * 11 • Si dirà che io assegno al popolo genovese dei confini arbitrarii ; si domanderà quali prove ho di questa configurazione da me ideata. Rispondo : quanto alla ripartizione delle tribù ho il criterio delle pievi ; quanto ai confini estremi del popolo genoate ho diversi altri fatti che giustificano le mie induzioni. La parola fin, per dire confine, era d’uso generale in Italia ai tempi romani. Gli itinerarii romani scrivono ad (1) Ba-vai, chi va per il ba, pedone vedi p. 163. In vai di Trebbia troviamo altri Ba-va-i che hanno il loro aslu a Bav’-aslu ossia Bavastru, che figlierà col tempo Bavastrello. (2) Ritengo che Bargagli si debba riportare a Berga, terra verde (p. 267, nota) Berga-i son quei di Berga. Me ne convince il cognome di Bergagli, che è manifestamente la traduzione di Berga-i. - 345 — ogni poco fra i nomi locali ad fines, ciò che significa che i luoghi che dividevano una regione dall’ altra portavano il nome di fin, ao firn. Cito un esempio che mi fornisce la Liguria. Quando Liutprando fece il viaggio da Genova a Pavia recando in solenne processione le ceneri di S. Agostino, pernottò a Savignone, il qual luogo, dicono gli Acta Sanct., è ad fines agri Dertonensis. Cito un altro esempio di questa denominazione antica, il Finale, luogo di confine fra gli Ingauni e i Sabazii. Ciò premesso non si vorrà negare che abbia un’ importanza il fatto che vengo ad accennare. I genovesi, secondo la mia carta, si estendevano da Portofin a Castrofin. Decompongo queste due parole e trovo porto-fin e castro-fin. Il Castro-fin parla eloquentemente da sè ed è -testimonio ineccepibile in favore della mia tesi. Quanto al Porto-fin mi attendo un’obbiezione dai fautori delle origini romane: si dirà che Porto-fin è corruzione di Portus delphini ; ed infatti tutti gli eruditi 1’ han detto fino al giorno d’ oggi. Ma ormai io mi sento troppo forte del-l’esperienza fatta sulla onomatopeia dei Romani, e conosco troppo il modo con cui trattavano i nostri nomi per non dubitare che il delfin non sia una delle solite fantastiche traduzioni. Essi prendevano il suono apparente di una parola, e vi applicavano un vocabolo latino che ad orecchio le corrispondesse; così di Lemuin fanno Lemurini, di zuvu Ioventio, di Reco Ricina, di Vado Vada, di Pi-sagno Bisamnis e via di seguito. Ho quindi ragione di credere che i Romani sentendo chiamare l’estrema punta di quel bel promontorio che si stacca da Camogli Ao-Jin ovvero da-o-fin, abbiano allegramente scritto delphinus. Ma il dialetto non volle saperne; con tenacia ammirabile — 346 — continuò a dire Porto—fin, il piccolo porto che stava ao fin, e monte di Porto-fin il monte soprastante. Vi è poi un altro argomento, che ho già accennato di passaggio, il quale ha pure la sua importanza in questa faccenda dei confini dell’agro genoate. Riflettendo all’ipotesi del Desimoni che pone S. Michele di Castrofino nel territorio dei Viturii, sentivo sempre una difficoltà ad ammettere che fosse di nazionalità vituria Caffaro di Caschifellone (località presso S. Michele di Castrofino, vedi p. 70) che rappresenta una delle storiche famiglie che posero le basi del nostro comune. Adottando invece i confini da me segnati, Caffaro di Caschifellone è un germoglio dell’antichissima razza genoate , come tutti gli altri Visconti che escono da Ma-nesseno, da Carmandino, dalle Isole (Iso). Notiamolo bene, nessuna di queste primitive famiglie che fondano il comune, viene da Langasco, nè da Sera, nè da Vuiè, tanto meno da Sestri o da Voltri. Anche questo parmi un argomento validissimo, perchè non sarebbe naturale che al loro primo costituirsi i Genovesi non conservassero una certa distinzione, una certa prerogativa sui popoli deditizii, come probabilmente erano i Viturii, se pure ancora lo erano all’ epoca di cui ragioniamo, cioè intorno al 1000. Volli tentare tutti i mezzi per vedere se mi riusciva di convalidare con altri documenti storici questa circostanza dei confini, che dovrebbe essere il punto di partenza della storia genovese, quando fosse definitivamente accertata. E le mie ulteriori ricerche non furono senza frutto, perchè nel Registrum Curiae illustrato dal Belgrano, trovo (P- 45) che il Vescovo di Genova aveva nel medio evo - 347 “ molte proprietà in Polcevera che formavano la Curia di Medolico (Moergu), e che possedeva in quel di S. Cipriano un castello gii spettante all’arciprete di S. Cipriano, e nello stesso luogo un manso de configno, che vuol dir sul confine. Adunque nel 1143 esisteva ancora a S. Cipriano la memoria di un castelo passato al Vescovo, dopo essere stato dell’arciprete. Eravamo allora nel cuore del feudalismo e se il castello fosse stato d’origine feudale, non sarebbe stato d’ antico in mano dell’ arciprete. È verosimile quindi che si trattasse dell’antico castello ligure, spettante alla tribù che stava ao fin, di quel castello che nei tempi romani avrebbe dato il nome di Castrum-finis alla regione (1). Quando la pieve nelle costumanze del popolo, sostituì il primitivo castelo come luogo di con— centramento popolare, Castrofin divenne S. Cipriano. Quel manso de configno è un’ altra splendida conferma della nostra tesi, che cioè a metà della Polcevera su quel di S. Cipriano, era il confine dell’agro Genoate. Quanto al Porto-fin è utile raccogliere anche questa circostanza, che il Registro scrive portus dalfini, che tradisce molto chiaramente il dialettale d’au fin. (1) Nell’anno 1143 quel castello non era a mio avviso che un rudere, una memoria. Il Belgrano a p. 519 del suo commento al Registro, ritiene che il Castello di cui si parla nel libro della Curia fosse stato costrutto dall’Arcivescovo ed esistesse realmente nel 1143 e ne indica ipoteticamenie il luogo. Egli non aveva il pensiero sugli antichi castelli liguri, ma io osservo che il Registro a p. 47 parla di un castello qui futi de Archipresbitero, e ne parla fra le terre date in enfiteusi, ed a p. 118 dice chiaramente che il luogo detto Castello era quaedam terra quae est in valle porcifera loco ubi dicitur Medolkus et vocatur castellum. Un castello che nell’ epoca del feudalismo non era più che una terra J’ affitto, era evidentemente un residuo di castello d’altri tempi. Quanto al luogo ove il castello era situato poteva essere benissimo il poggio fra S. Cipriano e Morgo. — 348 — * I2- — Come e perckè scomparve il popolo Viturio? Non e difficile immaginarlo collegando fatti storici ben noti. Colle devastazioni di Rotari, dei Saraceni e dei Normanni certamente cadde 1’ Hasta, il centro dei Viturii, allo stesso modo che fu distrutta Genova da Rotari e ridotta alle condizioni di un vicus. Così cadde probabilmente l’antica Rapallo, centro dei Tigulli, così l’antica Saona, Albenga, Vintimiglia. Le popolazioni tribolate si dispersero su pei monti, ma ben presto Genova iniziò il suo grande rinascimento, e molte di quelle famiglie che, per così dire, non avevano più patria, si raccolsero, come narra la tradizione riferita dall’Accinelli, intorno al grande albero genoate, che gettava rigoglioso le sue nuove fronde. I Genovesi non domandarono a quale antica nazionalità appartenessero. Genova imitò in quel tempo 1’ esempio di Roma, e diede la cittadinanza a tutti coloro che si presentavano come amici e che eran pronti a giurare per essa. Come Roma ascriveva i Genovesi alla tribù Galeria, così Genova ascriveva i Viturii nelle sue compagne. E così Genoati e Viturii divennero a poco a poco un popolo solo. Dico a poco a poco, perchè penso che 1’ antichissimo Genoate avrà conservato per qualche tempo una certa superiorità sui popoli divenuti cives genuates per dedizione, come in Roma si fece per molto tempo distinzione tra 1’ ius civitatis dei Quiriti e 1’ ius civitatis degli Italici. E difatti i primi Visconti che — 349 — governano il comune nel primo secolo appartengono tutti, come vedemmo, all’ antichissimo agro genoate. Ciò che avvenne del popolo Viturio, avvenne probabilmente di molti altri popoli liguri. Anche il Libarnese scompare e il Tortonese, forse evocando la comune origine primitiva, incorpora l’agro libarnese nel suo comitato e nella sua diocesi, mentre le famiglie cercano di preferenza asilo in Genova. Così scompare il popolo Velleiate, e il suo agro s’incorpora in parte nel Tortonese, in parte nel Piacentino (i). Un giorno parlando di Libarna e dell’assetto che prese vai di Scrivia dopo la sua caduta, dovrò ritornare sull’ argomento per meglio studiare come si divisero quelle spoglie. Per ora mi contento di accennare alla tradizione riferita dal Muratori ( Annali toni. X. e dall’ Accinelli p. 9 ) che Genova molto s accrebbe, specialmente dopo la venuta dei Longobardi, per il fatto che molte famiglie d’Italia vi cercarono scampo. Erano i Viturii da una parte, i Tigulli dall’ altra, i Libarnesi da tramontana. E più da lontano ancora vennero i fuggiaschi nell’ epoche turbolente delle invasioni. La storia ci ricorda che i Milanesi per sottrarsi alle sevizie dei Longobardi emigrarono in Genova nel VII secolo dell’ Era volgare e presero stanza a piè del Colle negli orti di S. Andrea, ove per molti anni soggiornarono i Vescovi di Milano e fondarono la primitiva Chiesa di S. Ambrogio. Milanesi, Tortonesi, Acquesi, Libarnesi, Velleiati, Viturii e Tigulli formarono il gran contingente degli avventizii che costituirono insieme ai Genoati quel nucleo di resistenza (i) Vedi nota a p. 350. — 3 SO — contro la barbarie, che è uno dei fenomeni più rari e più belli in mezzo alle oscure vicende del medioevo (i). A Genova esiste un vico Libarna sul fianco destro della Chiesa della Maddalena. Quel nome fu dato con deliberazione della Giunta Comunale nel 1865 circa, come attinsi dalla gentilezza del Cav. Buscazzi direttore dell Archivio Municipale di Genova, ma il nome è felicemente applicato perchè segue appunto il tracciato dell antica via romana che veniva da Libarna. Dal promontorio di S. Benigno questa strada veniva a Fassolo ( presso 1 antica Chiesa di S. Teodoro), passava a Prè (presso la commenda e 1’ abbazia di S. Antonio), saliva per In-o-campo, scendeva a Fossattello, costeggiava a destra 1 antica cattedrale di S. Siro, passava a destra della Chiesa della Maddalena e per la via David Chiossone entrava in citta alla porta di Serravalle che era in fondo alla salita S. Matteo. Per quella via passarono i profughi di Milano , di Tortona e di Libarna (2). (1) I Lumellin, che costituirono poi in Genova una grande famiglia, facevano parte di questi emigrati. Vennero da Lumello, città di Lombardia, ricordata negli itinerari romani, che era al di là del Po, rimpetto a Tortona. (2) Libarna fu una splendida meteora della Liguria, che brillò per 300 anni circa e cadde sotto i colpi dei legionarii nel IV secolo e dei barbari nel V. Ma i suoi ruderi a cui mi legano ricordi d’infanzia esistono ancora ed io spero che riuscirò un giorno a farli rivivere almeno in parte. Dagli scavi da me praticati si può ormai stabilire la pianta dell’ antica città. Abbiamo la decumana maior, ab biamo delle decumane minores, abbiamo delle vie trasversali (cardi), conosciamo il teatro e l’anfiteatro e il sito delle terme. Gli scavi da me fatti nel 1899 hanno messo alla luce il foro di Libarna che si argomenta fosse circondato da tre parti da gran colonnati, rivestiti di finissimi marmi, di cui son pieni i ruderi. Libarna non è nominata da Strabone, ma comparisce in cinque documenti romani e cioè in Plinio, nell’itinerario di Antonino Pio, in Tolomeo, nella tavola Velleiate e nella tavola Peutingeriana. Dalla tavola di Velleia si può argomentare che ai tempi di Trajano Libarna * - 351 - Sarebbe importante conoscere la Storia di questi primi emigrati italiani che nelle grandi catastrofi del V, VI, VII, VIII, IX e X, secolo si rifugiarono in Genova, soccombenti al destino, allo stesso modo che dal 1847 al 1861 altri emigrati vi si diedero convegno, ma più fortunati dei primi, perchè ad essi brillava in cuore il prossimo risorgimento della gran patria italiana. * 13. — Non ostante questi rivolgimenti i popoli liguri conservarono la loro personalità nel medio evo e fino alla rivoluzione francese. Intorno alla pieve si mantenne l’unità della tribù : il campanile sostituì nella coscienza popolare il Castelo, quando questo cessò di essere 1’ asilo del popolo e divenne strumento di tirannia. Le tribù crescendo di numero si divisero, e la parrocchia fu quella che diè forma organica ai nuovi gruppi. L’antico concetto di popolo permane in questi piccoli vi che germogliano come virgulti sulle grandi ceppaie antiche. Gli agri si suddividono, ma ogni popolazione ha sempre il suo agro privato e all’ intorno il suo agro pubblico, voglio dire le co-munaglie, e i prati regolati dalle costumanze antiche. era capoluogo di un agro che era chiuso da questi monti: Lécco, Capellino, Carmo, Creto, Candelozzo, Antola, Carmo, Chiappo, Boglielio. Comprendeva Val Leme, valle Scrivia, e vai Borbera, e la parte alta di vai Curone. Le cabanne di Casola ove è attualmente un rifugio del Club Alpino, erano un luogo di passaggio e di confine fra l’Agro Libarnese e l’Agro Velleiate. Nel medio Evo quello fu il confine fra il Comitato Tortonese e il Velleiate, in tempi meno lontani era il confine fra il ducato di Parma e la repubblica Genovese 0 come si diceva, fra il Genovesato e il Piacentino — 352 — Volete vederli ancora una volta questi popoli liguri che vantano 40 secoli? Illusi da una bandiera, che non era ancora la nostra, pei che nascondeva nelle sue pieghe le ambizioni napoleoniche, questi popoli insorsero un giorno gridando libertà. Piantarono sulle loro piazze 1’ astu tradizionale, e intorno ad esso cantarono l’inno della redenzione, e votarono applausi a Faipoult e a Vandries, gli incaricati del Direttorio, che maturavano la repubblica ligure per farne subito provincia francese. Nell estate del 1797 si muovono in persona dei loro deputati i popoli liguri per far adesione al governo provvisorio insediato in Genova nel palazzo ducale. Là, nella grande aula, da poco restaurata, sfilano per l’ultima volta a far sacrifizio della loro individualità storica, nella lusinga di formare una nuova patria, grande e libera. L usciere li annunzia ed io ne prendo nota nell’ ordine in cui si presentano dal Giugno al Settembre dell’anno 1797 (0- L usciere annunzia la deputazione del popolo di : Savona Novi Chiavari Recco Finale Rapallo Fontanabuona Voltri Ventimiglia Prà, Sapello, Pai-maro Voltaggio Parodi Lavagna Zoagli Sampierdarena Ovada Fiacone Spezia Pegli Sarzana Sori Sestri P. Porto Maurizio Albenga Pieve Multedo Sassello Nervi Stella Varese Mele Cornigliano Spezia Calissano Arcola Celle Rossiglione Albissola Camogli Cervo Busalla Bogliasco Gari baldo Colla Fortofino Pietra S. Pietro di Vara (1) \ edi Atti dei Governo provvisorio, Genova 1798. - 353 - Ortonova S. G. B. di Sestri Triora Castagna Valle di Levanto Rigoroso Brugnato Godano Vernazza Vernazza Riva P. Bergeggi Alassio Masone Albaro Apparizione Albissola Marina Framura Velva Osiglia Crevari Coronata Carega S. Biagio Cavi di Lavagna Gavenola Andora Capreno Varazze Diano Bonassola Badalucco Pieve di Sori Lerici Bussana Bracelli Taggia Deva Giustenice Noli Moneglia Anzo Riomaggiore Carpera Bargagli Roccatagliata Castelfranco Ameglia Castello S. Ilario Uscio Carcare Caro Zuccarello Vado Tribogna Monterosso Vezzano Foce Montaldo Laigueglia Fegino Lagorara Cervara Carnoli Ruta Trebbiano Caprara Borghetto Mendatica Salto Bargone Ceriale Sarzanello Pogliasca Spotorno Quigliano Porto Venere Nel mese di agosto vengono le deputazioni dei paesi dei così detti feudi dei monti liguri : Borgo Fornari, Ronco, Garbagna, Ottone, Arquata ecc. Per comprendere l’idea che guidava allora il movimento dei popoli liguri afferriamo qualche periodo dei tanti discorsi ampollosi che si pronunziarono in quella circostanza: 11 cittadino Luigi Aluigini Arciprete d’ Ottone a nome di questa Municipalità apostrofa così: « La gioja più pura, un trasporto di giubilo innonda » i nostri cuori in questo brillante giorno, che forma » 1’ Epoca avventurosa della nostra rigenerazione. Questa » gioja e questo giubbilo diffondesi di cuore in cuore, » e penetra nei centri, e ne’ deserti delle nostre mon-» tagne, e scuote, ed anima gli abitatori di quelle un » tempo infelici, e rustiche contrade. Quivi la feudal ti-» rannia congiurata con la natura condannati ci avea Atti Soc. Lio. di Stomi Pithu. Voi. XXX. 24 — 354 — » ad esser negletti, avviliti, annientati, prevalendosi del- » 1 orrida situazione il barbaro dispotismo. Quivi appena » sapevamo di esistere ; ma abbastanza per sentire la » schiavitù , che ci opprimeva. Quivi senza Patria, il » sacro Patriotico fuoco era un sentimento ignoto a noi, » Ora acquistiamo la Patria, e questa tenera Madre » stende le amorose braccia verso di noi per accoglierci » in questo giorno nel suo seno. Viva dunque la Patria, » viva la Repubblica Ligure, viva il Popolo Sovrano ! » Debbo anche a nome di questi, a nome di tutti i » Popoli de nostri rispettivi Distretti rappresentarvi che » noi riguardiamo il bravo Cittadino Vendries, Agente » Militare della Repubblica Francese, come Autore e » Padre della nostra rigenerazione: la dolce, ed efficace » maniera, con cui nell’aspro giro de’ nostri Monti ha » felicemente compiuta la nostra organizzazione : i piani » eh egli ha formati per la compiuta nostra felicità: il » cuore sensibile , e democratico , che nello spargere i » semi della virtù, e della libertà ha sempre dimostrato, » gli ha guadagnato il cuore di tutti, e fa a tutti desi- » derare che egli continui il benefico suo influsso sopra » di noi, e che egli compia i disegni di beneficenza per » la più felice nostra situazione. Secondate, Cittadini, i » nostri voti, e compite la felicità degli avventurosi » auspicj di questo memorabil giorno. Sia questo im- » presso nei nostri cuori, e i sacri diritti di libertà, e » di eguaglianza, che oggi acquistiamo, ci facciano con » Repubblicano entusiamo gridare; Viva la Repubblica » Francese: Viva il Prode Bonaparte: Viva il bravo » Ministro Faipoult: Viva il bravo Agente Vendries: » Viva il Popolo sovrano ! » - 355 — I deputati di Borgo Fornari esclamano: « Sfavillò finalmente in mezzo a noi l’aureo splendore » della libertà generosamente inviataci in dono dall’ eroe » immortale dell’ Armata Francese per 1’ organo del » saggio suo, ed instancabile Commissario, il Cittadino » Vendries. Al primo balenare di quell’ astro benefico » spezzaronsi i ceppi, che aggravavano i piedi degli » Abitanti de’ Feudi, caddero dalle loro braccia le pe-» santi catene, e in un istante dileguossi dai loro occhi » 1’ orribile mostro della barbara Feudalità, Così si vi-» dero essi rientrati al possesso dei diritti dell’ uomo, » così si sentirono cangiati in tutti altri da quelli, che » erano: videro, sentirono, e appena credettero a se » medesimi ». II cittadino Ambrogio Aluigini Arciprete di Garbagna a nome di quella popolazione : « Evviva all’inclita Repubblica Ligure, all’ invitta Re-» pubblica Francese, al grand’ eroe del secolo Bonaparte, » al saggio Ministro Faipoult, all’attivissimo, ed uma-» nissimo Commissario Vendries, o Autori, o Coopera-» tori della felice nostra rigenerazione. Evviva ». Il cittadino Giuseppe Maria Laviosa Arciprete di Borgo Fornari Deputato per il popolo di Ronco, rievoca l’antica fratellanza dei popoli liguri. « Cittadini, sono Ligure, sono Democratico d’origine: » Devo, e non posso negare alla verità, alla gratitudine, » alla giustizia il primo omaggio. » E il savio Vendries, che mi ha creato organo della » sua parola nella gloriosa impresa de’ Feudi : io non » vi ho concorso, che colla nuda materialità d’ istrumento » insufficiente: la sua prudenza, la sua attività, il suo — 356 - » valore, il suo attaccamento alla nostra Repubblica sono » le sole forze, che ricondotto hanno al vostro seno, e » riunito al nostro Corpo sociale quella porzione della » Liguria, che ha gemuto sinora sotto il duro ceppo » feudale. Questi Popoli pria che la mano ladra de’ » Tiranni invadesse i Cantoni da essi abitati, formavano » con noi un solo Popolo, una sola nazione, una sola » società: tutti i Liguri dalla Cauria all’ Oriente sino alle » Alpi per 1 occidente, e dal mezzo giorno dal mare » Ligustico sino al fiume Po per il Settentrione sono » nostri fratelli per origine : la tirannìa degli ex-nobili » gli ha potuti dividere da noi, e tenerli come schiavi » in catene; ma la generosità della Francese Repubblica, > di Buonaparte il valore, la giustezza di Faipoult, 1’at- » tivita di Vendries rendono in oggi alla nostra tenerezza » i nostri cari fratelli, a tutta la Liguria 1’ integrità, » 1 unione, la forza antica, rendono a noi ed a tutta la » Liguria la Libertà, 1’ Eguaglianza, la Fraternità, il po- » tere sovrano. » Viva la Repubblica Francese, viva Buonaparte, viva » Faipoult, viva Vendries! » 11 cittadino Giambattista Lombardi a nome del popolo di Arquata: « Gemeano da più secoli legati di doppie catene gli » abitanti de’ Feudi; i perfidi Feudatarj si studiavano » ogni giorno di aggravarne il peso, oppressi noi miseri » dalle più impotenti ingiustizie, spogliati, e disprezzati » dall’arbitrario, sempre ingiusto diritto Feudale, privi » di qualunque esistenza Civile e Politica, eravamo de-» gradati dei diritti inalienabili dell’ uomo, e condannati, » quai giumenti, a seguire il capriccio, l’avarizia, e l’in- - 357 — » giustizia di un uomo snaturato che si faceva chiamare » Padrone. » Per mera generosità della Repubblica Francese » rotti sono a quei Popoli i ferri, e sono liberi ; essi » con vero trasporto anelano a far parte della Liguria, » da cui erano stati staccati per prepotenza. » Cittadini Rappresentanti, d’ oggi in avvenire non » ci chiameremo più abitanti de’ Feudi, nome orribile » coniato nell’ officina dell’ inferno, ma Popoli della » Montagna. » Con sì bel nome in fronte v’ invito, o Cittadini, a » mettere alle voci 1’ unione alla Repubblica Ligure, e » giuro in nome di tutti i nostri Commettenti odio eterno » ai Tiranni del primo e secondo ordine, al rivoltante » diritto feudale, che ci ha oppressi fin’ ora, all’ Oligar-* chia e all’ Aristocrazia. » Giuriamo tutti d’ accordo eterna riconoscenza alla » Repubblica Francese, giuriamo di mantenere la Costi-» tuzione, che sarà sanzionata dal Popolo Sovrano, giu-» riamo 1’ osservanza delle Leggi, il rispetto alle Autorità » constituite, giuriamo la Democrazia o la morte ». E così l’individualità dei popoli liguri ha dato 1’ ultima scintilla. Si erano costituiti quaranta secoli prima in base al principio naturale di libertà, e in un delirio di libertà finisce la loro vita di popoli liguri. Non tardarono a maturare i nuovi destini. Svincolati dalle prepotenze di casta, e dalle misere gare di castelli e di campanili, i piccoli popoli si fusero in grandi unità, che sono le nazioni dell’oggi, tendenti a lor volta a quella fratellanza più vasta, che forma l’ideale del cristianesimo e della civiltà. y - 358 - * l4- Abbiamo collo studio della tavola di bronzo accennate le grandi linee della storia ligure, o meglio di quella parte di storia ligure che riguarda Genoati e Viturii. In un secondo volume cercheremo di precisare con nuovi elementi i caratteri dell’ epoca primitiva. In un terzo volume descriveremo l’epoca romana. E cosi, se non ci verranno meno le forze, avremo completato quel quadro storico, nel quale dovrebbe campeggiare la gran figura di Genova nei suoi due primi periodi Zenoa ligure e Genua romana. PROSPETTO DI RADICI DEL DIALETTO LIGURE PRIMITIVO A-ig - a A.ig - u.e (Vedi testo, p. 62). Aig-a Aig-ue . . per acqua, acque, in Provincia di Porto Maurizio e in Francia.....In greco aixog-alyeg. Aix.....in Francia Aic-uì .... in Acqui Aeg-ua . . . nel Genovesato }Aa-n-aegu. » (Mignanego) affatto sull’ acqua (torrente) Pà-va-n '-aegu » (Paravanico) via tutta sull’ acqua. Min-aegu . » (Mignanego) affatto sull’ acqua. Mes-an-aegu W (Mezzanegol in mezzo alle acque. Mor-an -aegu )> (Moranico) luogo di frutta sul torrente. Vig-an-aegu )) (Viganego) vi, vicus sull’acqua. Zin -aegu . )> (Zignago) Sponda dell’ acqua. Ago ... . in Lombardia Bar-s-a^o . » barche (Pape?) sulle (i’) acque. Bel- in-s-flgo » Selva (?|X\>) nelle (in si) acque. Bi-n-a^o . » Vi, gente nelle acque. Bus-n-fljo. » Buco, apertura nelle acque. Can-bi-«£o (1 )) al (xav) vi sull’ acqua. Cambiago Can-n-rtffo. )) all’ (xàv) acqua. Camnago. Cap-n’-rtg'o )) Capanna (y.ànv)) nell’acqua. Cor-n-ago . » terra (‘/top) nell’acqua. Cave-n '-ago » caverne nell’ acqua. Comi-gn-flfo )) comarca nell’ acqua. Coi-à-ago. » terra (xwp) sulle (si) acque. (1) Cam-bi-ò, altro non è che un Cam -bio-n'-ago abbreviato. Infatti i romani avean tradotto Carni-lo-tu’-ago. — 360 — bardia dove è maggior l’acqua (xpsloowv). cima, cunno (xóaGog) dell’ acqua, l’ago dei porci (yup). luogo ove finisce 1’ acqua (Xifr). » » » (Irfcz) che lava (Xou) nell’ acqua. » » » » affatto nell’ acqua, acqua, rivo dei frutti, guarda nell’ acqua (op). prospetta sull’acqua (op). presso il vi nell’ acqua, molto nell’ acqua, canale, uscita (pijgi dell’acqua, corso, canale dell’ acqua, sito nell’ ago (Bpvjvog). vede - 1’ acqua. p ^ > di composti che sfuggono a un osservatore superficiale. ,, . . ae*° > c‘°è il va la strada nell’aegu, nel torrente, dà luogo a questa redazione, vagna. Para-va-n’-aego diventa in alcuni luoghi Para - vagno e ara-vagna come Pta-va-ri-aego diventa Pe-ve-agno e Peveragno. E così si spiegano tutti i Vagno, Vagna, D à-vagna, La -vagna (si accenna a Lavagna antica sulla s.n,s„ dell’ Entella) ; son tetti „ sul,' acqua. sul torrente, n’a,su ara-magna e per contrazione Ca-magna rientra in questa famiglia etimologica. U SÌ°nÌfica a^att0 Glav) in capo (y.apa), Cara-magna affatto in capo all aegu, al torrente, cioè cara - man-aevu. Crescenz-ago . in Cuzz -ago . Gor- ■1’-ago. . Leg- n-ago . . Liss- ago . . Lom - n - ago Lo-n-a^o . . Ma-n-a^o . Mor- n-ago. . Or-n-ago . . Or-s -ago . . Para- bi-a^o . Poli- u-ago. . Rezz -ago . . Ron- ago . . Tre- gn-ago . Vede -1 '-ago . Vi è poi un’ infinità di 2. An ... Pa-vi-a» . Can - bi - an Cavi-gn-an Semi-gn’-an Di-an . . Apo-an . Ber-g-an . An (Vedi testo, p. iif). àv-àvà. . in su, in alto, moto a. ... . . tutto gente in collina. Paverano. • al (xav) vi in collina. Cambiano. ■ cavi nell'ara, nel monte. Carignano. . posizione nel monte. Zemignano. Vedi Se. ■ d’in su, a monte. Diano. . lontano in alto. Apoano. . pascolo in alto. Bergamo. Vedi Er. L an è il contrapposto di ian piano, e funziona generalmente come suffisso per indicare monte, a monte. — 361 — 3- Anzo (Vedi testo, p. 151). Anio . . , àv0og. A111-10 . . . luogo dei fiori; di qui i nomi di tante città antiche, Anzio, Bis-anzio, ecc. Car - ania . . cima fiorita.......... %ap-&v0og. *5 1 * r> O . luogo fiorito.......... àvGuxog. Anse-aàco » .......... àvBoa-ctxóg Dur-anfe . . fiume (doria) dei fiori. Anto-la. . . . fiorito............ àv0i)Xog. Ani-ulla . . . fioritura della pelle in seguito a morsicatura 0 riscaldamento. 4- Ard (Vedi Usto, p. 139). \ Ard..... . irrigare............ àpòéuco. Ard-a . . \ Ard-tnza. '> nomi di torrenti e canali. Ard-an-a ì Pie-arili . . . lavo lana, (tcew), cognome genovese. Pis- ardu . . . irrigo orti, (rcioa), cognome genovese. Gi-ard-in . . . terra irrigata, giardino. Vedi gea, gi. Gher-ardi. . . irrigatori di terra. » Gher-ard-in . » » Gi-V-ard-in . » » Ger-ard . . » d B-ardi . . . . irrigatori, cognome lombardo-piemontese. Lm-go-b-ardi . Longobardi, irrigatori di terre. Vedi ìan. B-arde-Ym . diminutivo di Bardi. B-ardi-chini . irrigatori di pascoli. Vedi chieri. Gai-b -ardi . . irrigatori di tetra. Garibaldi. Vedi gea, gai. Gai-ardi . . » Gagliardi. » 362 — At en-ren . . A - reti - qen Aren- berg. Ren- nes 5- Aren - rem ( Vedi testo, p. 153). pecore ..... ai piani delle pecore, monte delle pecore, pecore. 6. A se - a (Vedi testo, p. 69). Asc-a.....il torrente. Bor-1 '-asca. . torrente del vento (Pop). Bor-zon -asca . Borzon al torrente. Bor-n -asco.. . nel torrente del vento. Bugi -asco . . torrente a busi. A-vo-1 '-asca . alla gente sul torrente. Vedi vi, vo. Lan-g-asco . Langa sul torrente. Vedi lan e ga. Cam-bi-. al (xav) vi sul torrente. Cher-asco . . pascoli al torrente. Vedi cher. Car-asco . . in capo al torrente. Vedi car. Pios-asco . . gente (Piog) al torrente. Vedi vi. Tunt-l’-asea . torrente del limo (-cuvx). Veri-g-1’-asca. torrente della terra dei veri. N-a.sc/je. . . abitazioni nel torrente. T-ase-fellon . nel torrente fellon, scosceso Ba-gn-as«>. . strada nel torrente. Ma-gn-asco . affatto nel torrente. Pin-aflro . . torrente dei pini. Rav-asco . . torrente delle rape. Res-asco . . torrente scosceso. Vedi rig, reg. V - asca . . . dove va 1’ asca. Asch-tri . . quelli del torrente. Pòsè-vi-ascili. quelli che abitano in Pòseivia sul torrente. Berg-am-ascili quelli che abitano sul torrente del Berg-an. Ulb - aschi . . quelli che abitano sul torrente Ulba. t àp>5v, £yjv. iax, impetuoso irrefrenabile. Gor-1’- asco - 363 — . il torrente dei guri (porci). Gri-gn-asco . . nel torrente dei crin (porci). Mor-n'-asco . . nel torrente dei frutti. Vedi mor. Rove-l’-aicn . . il torrente delle roveri. Ros-asco . . . il torrente delle rose. Sal-flwo . . . il torrente delle piante. Vedi Sai. Sori-ajco . . . il torrente dei cumuli (owpoc). Tarant - asca . . torrente turbolento. Ver-n -asca . . nel torrente dei veri (Vernazza) Ve-n-asca. . . strada nel torrente. Vedi va. Zin - asco . . . sponda del torrente. Bo-bei.-bòi . . 7- Bo - beri - bòi (Vedi testo, p. i$6). . bue, buoi.......... . po5g, Po-ós Bo- sio . . . pascolo......• . . . . Bo-sco . • . »........... Bo-disson . . . bue doppio......- . . . Ik -viu. . . . vi, moltitudine di buoi. So-biu. . . » » » Va-ca . . . . bovina........... Bo-tè . . . . pastore ........... . po-xr)p. Bo-k . . . » Bo-tà . . . . armento.......... Bo-zan. . . . guarda buoi........ Bu- zugu . . . che tiene l’aratro....... . potKÙYVjg. Bu-zuru . . . bue toro .......... Bu-zu, bu-zin . chi dà da mangiare ai buoi . . . . POO-0O[VY)£. 8. Bor (Vedi testo, pag. 88). Bor..... Bor-Y- asca . Bor-zon . . Por- zon -asca . vento, tramontana........(3ap-éaf. . il torrente del vento. . posizione al vento o a tramontana. . Borzon sul torrente. — 36 4 — Bor-zoi . . . gente a tramontana (di Sestri). Bor-ea. . . . cognome ligure. Born-rì-asco. . in Prov. di Pavia. . . j5op-£(Ò7]. Bum • • • Bu^- alla . Bii^-aleu . •Bw^-arà . Bui-ancà . Z?u£-aradda Bui- arona Bu^- inco . Bui'n"ago Buii- asco . Buza (Vedi testo, p. 68). buco.............potìó£. luogo di buchi, tutto buchi, fossati . . puB-aXVjg. errante nei buchi........puG-àXfJxyjc- far buchi, rovinare. » termine genovese per dire : alla malora. » » » Bodinco, antico nome del Po . . . . • Pu0-ivxo£. apertura, uscita nell’acqua, o Bugiasco, torrente a buchi. io. Calè (Vedi testo, p. 88 e 162). Calè.....bello.............xaXóg, xaXii. Mon-calè . . monte bello Pan-calè . . tutto bello. Vedi pan. Ma -calè. . . affatto bello. Vedi ma. Monte galè. . monte bello. Monte gale -to. diminutivo. Can (Vedi testo, p. 140) Can .... Can - bi - an Caw-bi-ago . Can-bi-ò. . Can-n-ago . presso, vicino, al........xccv-Ttata. . al vi a monte. Cambiano. . al vi sull’ acqua. Cambiago. » » . all’ acqua. Camnago. Catt- naie . . - 365 - . ai nuovi campi. Vedi neo. Can - néa . . . al nuovo campo. Vedi neo. Cflx-rega . . . al canale. Vedi rig, reg. CoH-regio. . . al canale. Canaregio a Venezia. Vedi rig, reg. Can- regi . . . al canale. Carregi in Toscana. » Ca/(-eIu-na . . alla selva (Vedi elu). Cape .... 1.2. Cape (Vedi testo, p. 127). . tetto ............ XCtTtT). Cap-an. . . . cape in alto (av) capanna. Cap - ellu . . . che copre a mò di cape. Cap - ellin . . . diminutivo di Capellu. Cap-t to . . . abitazione, cape, capanna. Car . ... - *3- Car (Vedi testo, p. 114 e 167 nota). . capo............ . xdp. Car-asco . . . in capo al torrente. Car-anza . . . cima fiorita. Vedi An\o. Car-osu . . . in capo all’olmo. Car -enzo . . . posto in cima......... SV-0STO£. Car-éa . . . . sulla cima........... xapeia. Cara - man. . . affatto in cima Cara-magna . . affatto in cima del torrente (cara-man- Car-zan . . aegu). . in cima al piano........ xap-£àv. Car-si . . . . tonsura del capo, luogo raso . . . . xap-ai£. Cran- eia . . . cornioli. Granea......... xpav-eta. Craw-aieù . . . luogo sterile, tutto cervice. Granarolo . xpKV-aùs. Car-ico. . . . ciò che si portava in capo. — 366 14- Cast o gast (Vedi lesto, p. 116). Cast Gast^.... significa propriamente stomaco, per analogia castello, luogo ove si depositano gli averi...........y Enza (Vedi testo, p. 67). En%a .... . fiume. Va - V-en^a . va, strada sull’ enza (Valenza, Faenza). Pea -tn\a . . . presso l’enza (Piaxenza, 0 Piacenza). Vic-en\a . . . vico sull’ enza. Par - enxp . . . presso 1’ enza. Pot-«;;^a . . . presso 1’ enza. Ard - en^a . . enza che irriga. Fiu -en\a . . . fiori (fiù) sull’ enza, Firenze. 19. Er - Air (Vedi testo, p. 267). Er, Air . . . . ciò che si ' eleva, che si erge .... aìp, capto .Er-ba . . . . er che va........ . . aip-pa. Er-bo . . . . er che grandeggia come bue ; albero . . atp-poog. .EV-ica . . . . er serpeggiante......... aìp-ixog. V-er-de . . . color de er, cioè color d’ erba .... atp-SyjG- V-er-ga . . . terra verdeggiante. Vedi gi, ga. V-er-g-ato . . terra verdeggiante in alto. V- «r-gi-ate .’ )) V-er-gagni . » Ri-v-er-ga-ro . rivo della terra verdeggiante. b-«r-ga. . . . terra verdeggiante come V-er-ga. b-er-gai . . . quei del berga. Bargagli. b-er-g-an . berga in alto (av). Bergamo. b-cr-g-an-asco. . b-er-g-an a valle nel torrente, Bergamasco. O-er-gì-n'-zsco » » Organasco. b-er-g . . . . per b-er-ga, si usa in Germania per significar monte, luogo di pascolo. b-er-g-èr. . . in Francia è il pastore. Aren - berg. . . in Germania monte delle pecore. Wuntm-berg. Barn - berg . . . b-^r-ardi . . - 3^9 — . irrigatori della terra verdeggiante. b-w-aldi . . » » v-«--ardi . . » » Eru, Veru, Berti 20 Eru - veru - foeru (Vedi testo, p. 154). . vero, porco selvatico, errante .... Ver ... . . latino. Ver-re . . . » Ver-rina . . . genovese. Man-erw . . . affatto un veru, un porco. Man - eri. , . . tutto veri. Funi-en' . . . mucchio di veri (epufx). Veri-g-l’-asca . il torrente dei veri. 5eri-giema . . il giaciglio dei veri. Ber-sesi . . . la posizione (Géaig) dei veri (Bergeggi). Ber-seo . . . sito (Gétoj) dei veri (Berceto e Bersezio). Ber-zan . . . piano (£av) dei veri (Berzano e Persano) Ber-io . . pastore di veri. I-berti . . . . gli Spagnuoli. l-beria . . . . paese di veri; la Spagna. Ver-ato . . . luogo di veri. Veru-ì. . . » Ber-nin-zon . . nella posizione dei veri, vedi ion. Ber-in-geo . . nella terra dei veri, vedi geo. Ber-in-ge-rii . quelli della terra dei veri (Berlingeri). Bv). Pan -ta-zina . . tutto sulla zina. 378 — 37- JPeou - ii . la pecora in quanto produce lana. . . Tiéxoj, lana. . (in latino) il gregge. . (in latino) pecunia, ricchezza. . (in Savoia) lana. . che taglia molta lana.......noXó-Ttecxoj. . scardassare, pettinare la lana .... ^éx-céco . pettine. . la terra ben lavorata; nome frequente in Liguria. 38. JPen - Pena - Penin (Vedi testo, p. 6} e 181). . punta. . Alpi. . Appenin. Di qui tanti nomi di monti, Penna, Pen-elo, Penin, Pen-tema, Pen-ice. 39- Pila (Vedi testo, p. 7$). Fila......foce del fiume . . . P il -oto .... piloto...... Pilo, piloti. . . porta, pilastro . . . far pilo.... fallire, prender la porta 40. Pisi (Vedi testo, p. 140). piselli, e per analogia orti.....nioov-nlacc. Pisa, che significa orti, orti nel fiume (pisa-n-aego). Bisagno. Pisi..... Pisa . . . . Pisa-gno . . TtÓX»). 7tuX0-T£/g. TtÙXoj. Pecu- a . Pecus . Pecu- nia Pecò-z . Polu -pice Péte- nà. Péte-ne. Pètu- ina Peti-pena-penin. Al -peti . . . Ai-penin. Pesa- gno Besa- gno Besa-gnin - 379 — corrisponde a Pisagno. » » quelli del Bisagno, degli orti. 41. Polù, Pollò (Vedi testo, p. 63). Polù, Pollò . . . molto grande.........rcoXó, uoXXój. Polu-pice . . .che taglia molta lana.......TtoXó-jtéxoj. Po-polù . . . gran gregge..........tòg-TtoXù. Poli-e nzo . . . molta corrente (en^a). Polla-n-esi . . molti abitati (esi). 42. Prà - Próxi - Prélu (Vedi testo p. 141). Pra-prou-praelu(i). prato, praticello upaaia. Prasia . . Prà e Bra. Frasi-Brasi Pra-ga . . Pra-vexin . Pre-q i-pian . è il termine primitivo di prato. Si trova in Provincia di Porto Maurizio. . prato, luogo verdeggiante. » » Brasi, Brasile. . terra a prato. Praga. . vicino al prato. Pallavicino. . prati sui (fi) piani. Precipiano. 43- liaib - Reb - Bre (Vedi testo, p. 167). Raib . . Raibà . A-r-bà incurvo............£aipó(tì. . . . paipóg patpij. Albaro. la curva, la cerchia del monte (1) Come gli orti presero il nome dal verdeggiare dei piselli (7uaa), così il prato per il colore verde intenso, somigliante a quello dei porri, si chiamò prasia, in greco Ttpaaux da npaot^w, che vuol dire, appunto verdeggiare come un porro rcpaoov. — 38° — A-r-bissata . . la piccola curva. rdiba .... lo spazio nella raibà, per analogia mercato. raib-etta . . . diminutivo di raiba. ta-raiba . . . nella raiba, tradotto teralba a Genova. bréa-brero ... lo stesso che raiba. reb - igo.... uncino, gancio. a-r«Z>-ecchio . . fatto a gancio. 44. Sao ( Vedi testo, p. 116). Sao......pare si applicasse ai castelli, ai porti, ai luoghi che servivano per mettersi in salvo............aaóco. Saòn .... Savona. Ma-5ao-a . . . che salva affatto. Sao-gio . . . Saorgio, che salva. .Sa-vi-glian . . castello del vi predante. 5a-vignon. . . castello del vi grande (Savignone). 45- Se-Ze ( Vedi testo, p. 106). Se-Ze.....radice che significa mettere, collocare . 0é-xì07}{j.c. Seto, setóu, séo . sito situato..........0éxog. 5«/-uala . . . sito nella valle. Sottovalle. Ber -séo.... sito dei veri (Berceto, Bersezio). Sése.....la buona posizione (S. Carlo di £ése). Pi-sése .... tutto in buona posizione. Sesin .... ben situato..........Osoivos. Sema . . . .la posizione (Sema-foro, 0 Sema ossia Vocemola). Qima .... lo stesso che sèma, la posizione, la cima. Sem-in-an . . Zemignano, posizione in alto (av). - 38i - 46. Ser (Vedi testo, p. 77J. Ser-a . . . . la catena montuosa che serra . . . . osi pd, aeipAio. Ser-zan . . . che serra il piano. Sera-vale . . . che serra la valle. Sierr - a. . . in Ispagna. 47- Rig - Reg - Rag (Vedi lesto, p. 73). Si riferisce alle fenditure della montagna e del suolo formate dai torrenti, ossati, canali. Rig-reg-rag. . rompo, infrango........ pyjY (pTjYvufxi) e pay (pccoato). Ricò.... il torrente che scava la roccia. . . PWS- Rigoti . . . . scosceso, infranto....... prjxwSyjs. Va-rigoti . . . Varigoiti, va scosceso. Rignan . . . scosceso, infranto, si dice dei monti. py)Y-av. Va - rignan Varignano, va scosceso. Reco .... luogo infranto, specialmente sul mare (Recco).......... PW°S- Rasci . . . P<*S‘S- Resci . . . . » >) ......... P^S- A- rasci . . al fossato. Ma-a -rasci . affatto sul fossato. Ga-rescio . . terra infossata. Res- asco . . torrente infossato. Re{-ie . . . . Alpi rotte, frastagliate. Ricci..... quei che abitano sui reco 0 rasci, 0 resci. Riccbin. . . . » » » Risso . . . » » » Rigi o Regi . propriamente il fossato diritto, fatto a riga. p^Y^. Regio . . . la stessa cosa di rigi ....... piÌT°S> E(1)S. Ragio . . . . è la stessa cosa di rigi e regio. Eccone le prove .......... fàYaS, Vi-a-rigi . . . gente al canale, nell’Alessandrino. Vi-a-regio. Can - regio . Can - regi . Can - rega . Rig-a. . . In -rig- are. fogo-lare . Regi-strare Rege, rex . Regi-mentare Car-r«ff-iata Raggio . . Radi- aare . — 382 — gente al canale, in Toscana. Cannaregio (sul canale) a Venezia . . xav-p^Y607- o Carregi, al fossato,'in Toscana . . . xap-prjYrj. o Carrega, al fossato, nel Genovesato . xap-prjY11]- in italiano, un solco diritto.....P^Y*!- condurre l’acqua a solco in un luogo. tener in riga. mettere in riga. chi tiene in riga. mettere in riga. o carreggiata solco fatto dal carro. , la linea diretta che va dal centro alla circonferenza. . tirare una riga Da rigi, regio, e ragio gli infiniti cognomi Raggio, Reggio, Regi, De-Regis, De regibus, Casa-regis. Benché mascherati dall’adulazione e dall’ambizione umana, questi nomi finiscono per tradire la loro origine quando si confrontano coi luoghi ove son nati. Andate sull’ Antola e troverete poco lontano dei casolari che si chiamano Casa - regio ; essi non ebbero mai nulla di comune coi re. 48. Roia - oria - cl’ oria - d’ oira - 1’ oira rona-reno Roia - oria - d’ oria - d’ oira - V oira - ron-a. - ren-o - il fiume. . péto, (5ó)0|iat, por/. k°m.....fiume a Ventimiglia. Rhon-t. ... in Francia. Ga-ron«-e . . » A-ron-a ... in Lombardia. A -ron, A-rito . in Toscana. Infatti il monte da cui nasce l’Arno si chiama Falte-roH-a . . coda del fiume.........9^X7]?, ycog. Lib-ama . . . città romana fra Arquata e Serravalle . Xstp-puv. l-Vo-ornoo\Àv-orno in Lombardia e in Toscana .... » Libe-ro» ... in Francia........... » bibe-rora . . . vocabolo francese........ » Ve -ron- a ... e Vi-ve-ron nel Bresciano..... » B-row-i . . . nel Vogherese. Oria.....sui laghi Lombardi. Doria .... nel Genovesato. Doira .... a Torino. - 383 — Doero . . . . in Spagna. Loira . . . . in Francia. Ira • . . . . (Scrivia). Va-ro . . . (via del fiume) in Francia. N-o-va-ra . . (nella via del fiume). N-o-va-ro . » Da-no-va-ro » Ren-0 . . . . nell’ Appenino, in Svizzera e altrove. Va-rè . . . (via del fiume). Va-ren-a . . » Va-r-ese . . . (abitazioni esi sulla via del fiume). Va-r-ase . . » » Ró-so . . . . far roso in genovese, far largo. . . Ré-0, far reo . . in genovese significa apparire abbondante farsi valere . -.......peùoig, onda. Un ron ligure si cela anche in queste parole antichissime di Lombardia Mandrogne, M.endrona alterato in Modrone. Men-du-ron . . affatto del fiume, del canale, è probabilmente il nome primitivo degli abitanti di Mendrona 0 Modrone, ed il nome primitivo dei Mandrogni, come si chiamano ancora oggigiorno gli abitanti della sponda sinistra della Scrivia fra Novi e Tortona. Ritrovate nel men 1’ espressione primitiva che ci dà i Men-t-ovin, affatto nelle pecore; i Ma-n-eri, affatto nei porci; i Magnasco, affatto nel torrente. * 49- Tal - sai (Vedi testo, p. 147-i$i). Tal-sai . . . . la fioritura, la viridescenza .... ev da Gxofiai, prospetto. . il ion, Tonno presso il monte Antola. . al zon, Ottone » . al zon, in Francia. . intorno al zon, Tortona. . ai z°'h >n Italia. . al zon in Francia. . strada per il zon in vai di Vobbia per Antola. . selva nel zon, in Italia. . Bricco al zon, in Francia. . strada (paia) al zon, in Italia. t» in Francia. . terra al z°n, nell’ Appenino presso l’An-tola, e in Francia. . monte, strada al don (Monbaldone). . al capo del don (Ricaldone). . in giro (yopov) al don. Grondona. 5i- Tur - sur - stur (Vedi testo, p. 7} nota). Tur-sur -stur tur-ha . . tur -bare . de-star-bà. tur - bo . . fur-bidus . stur-bìo turbo, rimescolo, volvo latino e ligure, latino, ligure. , latino. . latino. . ligure. -top, aup. * fwr-bolin . . . ligure. fw-bolentus . . latino. tur-geo . . . latino. tur-mentum . . latino. tur-ris . . . . latino. tur-si . . . . ligure corrispondente a turris . . . ■tópoic- tar-annus . . , 0 tirannus latino........ xópavvog tur-òn . . . . ligure, il formaggio indurito . . . . xupóo). Tur-in. . . ligure, luogo ove si vendevano i formaggi. Topol. Tur-in. . . . ligure, luogo ove si fabbricavano i formaggi. xupeia. tur-ta . . . . ligure, torta. tur . . . ligure, in giro (Tur-ton-aj. tour..... francese, tour a tour, tour de force, tourbillon. tour..... inglese, touring, tourist (r). Tur-bi. . . J Tur-bi-a . . nomi di fossati (beo, beio, beia). Tur-bella . \ Stur-a . . . ligure, nome di torrente. A-stur-n . . latino, nome di torrente nel Lazio. Sciur-mea e Sciar maira . . ligure, nome generico dei torrenti che fan la sciuma. Di qui Maira nome di torrente 52. Ul - Ula (Vedi testo, p. 92). . . selva......... . . . 5Xt), ronda. . . alla selva. , . via, ba della selva. . . tutto selva. . il fremito della selva, delle fronde. . . scrive Apollinare Sidonio (Epis. V, lib. I.) per silvosus. (1) Nuove armonie che ci richiamano all’unità del linguaggio primitivo. Ul - Ula . . A- ula . . Ul-ba . . Ul - ma . . Ul-ul-ar . U/-VOSUS . Atti Soc. Lio. 01 Storia Patria. Voi. X\X. — 386 — 53- Va- Vado-Bado- Vais Va-ro . . Fa-rè . . Va - rena . Va-r-ese . Fa-r-ase . N’-o-wi-ra N’-va-ro . Da-n’-o-va-ro Viù- va . . Ba -gn- asco Fa-erzi Fa-an-erzi Bad-èn . . Ba-stè . . Bai-istè Bat- ista Baino o Vaigno Bai--x.ina . Vais-oin -a Fai-sima . . Vais - o. . . . Bes - an - zon . Bel-o-wso Cià-x'ai (i) Cià-ua/w-a. Vagna e Vagno Va - "Vdo - Bado - Vain - Va is (Vedi testo, p. 102). ...........SotSog, BaCvu), pàaeOjioa. via del fiume. abitazioni sulla via del fiume. nel va del fiume. strada del viu, del borgo, va nel torrente. Varzi o Verzi, via sull’ er\i, argine. Vanderzi, via sull’ erzi. quelli che battono la strada. vengo. A-vegno, alla strada. venire adagio, adagio (dicesi dell’acqua). monte sulla via di Marcarolo; significa via degli oin, delle pecore Ricordo che ivi risiedevano i Ment-oin. si dice dei monti facili a salire. Veso, si dice del luogo dove salgono i polli per dormire, il veso del %on. la selva (vel) al veso, in bella posizione. Chiavari, significa strada sul piano. Chiavenna » » Forme composte di va-vi-aegu sono la strada sull’ acqua, sul torrente (vedi p. 360). (i) Il way inglese corrisponde esattamente al vai di Chia-wn. Ura-guay e Para-guay sono alterazioni di Ora-vai (via mt, dei monti opog) e Para-va/(lungo la strada). Para-vai corrisponde al ligure Para-va-n’-aego. Mi piace rilevare di tanto in tanto 1’ eco lontana di tutte queste voci, che attestano mirabilmente 1’ unità del linguaggio e 1’ unità del genere umano. - 387 - La-vagna ... la strada sul torrente. Lavagna. Dà - vagna . . . dalla strada sul torrente. Davagna. CiH-vagna. . . la strada sul torrente, al piano; Chiaravagna a Sestri Ponente. Para -vagna . . presso la strada sul torrente, lo stesso che Paravanego. Pea-vagno . . . Peveragno (Péa corrisponde a itéìa). Funziona pure il va e ba in queste espressioni : Fa-rigotti. . . va rotto (vedi p, 381). Fa-rignan ...» » Ba-russo. ... va rosso » Mom-barusso. Ba-stia. . . . . va a modo di gabbia, di recinto. Bastia. Ba-stimento . . derivato neolatino di bastia. 54- Viu - Vi - Vu - Vo - Viòn Viu-Vi-Vu-Vo-Viòn. insieme di viventi, gente, borgo . . . . f>£-os-Abbiamo la forma più perfetta viu in Viu-va. . . . (strada del vi) a Genova. Frà-zene . . . (vi forestiero) nelle Alpi marittime. Bo-Hk. . . . (vi di buoi) nell’Appenino. Bo-viu .... (vi di buoi) nel Napoletano. Co-de-viu . . (in capo al vi) a Novi, e nell’Appenino Viù.....in Piemonte. Abbiamo la forma abbreviata in vi: nel Genovesato. Pa-w'-an . . . affatto vi in alto. Fi'-an . . . . vi in alto, Viani. Fi-t-erboi . . vi negli alberi. F/'-g-an-aegu . vi della terra nell’aegua. Porsei-vi-a . . vi di porséi: nel Monferrato. Fi'-son . . . . vi al zon, alla posizione. Vedi \on: nell’Alessandrino. Fj - a - rigi . . .vi al canale. Vedi rig Vi-glian . . .vi dedito alla preda. — 388 — nel Tortonese. Vig - ieù . . .vi di bestiame. Viguzzolo Fi-g-neù . . .vi nuovo, mal tradotto in Vignole : Sa-t>i-g-lian . A-w-g-lian . Vi - al - frè . . Fi-dracco. Fi-novo . Vi - n-adio Mon-du-w Vi-co . . nel Piemonte, castello, sa, del vi predante, al vi predante. vi al frè. vi predante ...... vi nuovo. cioè n’ a odo, sulla strada monte del vi il vi. Pa-vi-a . . Fi-mercate . Fi-men - d-ron Vi-g’-an-ò . Vi-ge-va . . Fi-zolo . . Fi-zola . . Fi -ve-rón Fi-g-anella nel Milanese. . tutto vi, tutta gente. . mercato del vi . Vico Modrone. Vedi ron. . vi della terra sull’ ^cqua, come Viganego. vi sul va della terra, Vigevano. . corrisponde a Vig - \eù. » » . vi che attinge al fiume (Verón corrisponde a Veron-a, Beròn, Libe-rón, Liborno, Libarna ecc. vedi ron). . diminutivo di Vigano. nel Bergamasco. Fi-g-an . . .vi in alto (come Vi-an). nel Cremonese. Fi-du-1’-asco . vi del torrente. Fi-glian . . .vi dedito alla preda: Fi-san . nel Bresciano. vi al piano (gav). Vi-c-enza Fi-va-ro . Fi-ghi-zole Ro-vi-go . nel Veneto. vi sull’ enza. vi sulla via del fiume (vedi Roma), lo stesso che Vig-z&ù. alterazione di Ro-vicus, vi sul fiume. 5pccaa-to. - 3o. Modrone, 383. Molazzana, 113. M Mombaldone, no. Mombarusso, 88. Moncalieri, 89 Mondovì, 76, 93, 94-Mondovì-Breo, 15. Monelia, 131. Monesi, 120. Montaldero, 87, 103, 322. Montaldo, 87, 103, 294, 315> 3'9 n-Montanesi, 120, 196. Monte Galè, 364. Monte Galeto, 364. Montemoro, 89. Montesano, 11$. Monterotondo, 89. Montesignano, 115. Montesoro, 156, 315 Montobbio, 153, 319 n., 325. Montorio, 153. Mora, 148. Morando, 148. Moranico, 148. Morassi, 148. Morasca, 148. Moraschi 148. Morasso (muasso), 114. Morello, 148. Morego, 148, 332. Moreno, 148. Morero, 148. Moreta, 148. Moretti, 148. Morgallo, 148, 284. Morino, 148. Mornago, 63. Mornasco, 69. Mornese, 322. Morone, 148. Morosini, 148. Mortara, 146. Mortola, 146. Mignanego, 63, 195. Milano, 62. Minceto, 315. 400 — Mulo, 114. Murta, 146, 198. Multedo, 120. Murazzano, 114. N Nasche, Pag. 69. Nervi, 198, 342. Neviasca, 69, 278. Nizza, 126. Noceto, 120 Novara, 67. No varo, 67. o Odiates, Pag. 321, 343. Oliveto, 120. Oramà, 90. Orbasco, 69. Oregina, 91. Orerò, Oderò, 103, 105, 163, 198, 321 343-Oria, 65. Oneglia, 131. Orba, 91. Organasco, 268 n. Ornago, 63. Orsago, 63. Ottone, 108, 113. Ovada, 91, 373. Padova, Pag. 163. Pai maro, 328, 341 n. Pallavicini, 141. Pamattone, 100. Pantasina, 108. Paravanico, 63. Paravagna, 360. Parabiago, 63. Parenzo, 67. Parma, 131. Pasadore, 164. Pàseise, 107. Paveto, 122, 277 Pavia, 93, 102 Pavian, 93, 102, 115. Peado, 102, 103, 106, 33 t, Pecoz, 378. Pedemonte, 106, 195. Pegli, 75, 260, 338, 341. Pei, 143, 308. Peirano, 260. Pena, 378. Penello, 378. Penin, 378. Penice, 378. Pentema, 378. Pernecco, 87, 298. Pesalovo, 296 Peveragno, 360. I Precipiano, 141, 335. — 4<->i — Prenicus, 87, 298. Piacenza, 67. Piccardo, 139, 140. Pietrabissara, 78, 315, 319 n. Pietrafraccia, 315. Pietralavezzara, 273. Pila, 75. Pinasco, 69. Piosasco, 69. Pisa, 140. Pisagno e Pessagno, 140. Pizzardo, 139, 140. Pizzorno, 158. Plauco Peian, 258. Po, 68. Plobo, 295. Polcevera, 93, 97, 102, 155, 192, 284. Polceverasco, 63, 253, 307. Poggio, Poggi, 107. Polinago, 63. Pollanesi, 63. Pollenzo, 63. Pobleto, 120. Pollupice, 63, 153. Pcn, Penna, Penon, 77, 295. Pontedecimo, 305, 309, 339. Porale, 147, 315. Poretta, 147. Portofino, 195, 344. Portoria, 143. Postumia (via), 274, 333, 337. Prà, 141, 167, 341 n. Prè, 169. Praga, 142. Prasia, 141. Precipiano, 141, 335. Prenicus, 87, 298. Pretto, 169. Prione, 78. Procobera e Porcobera, 278, 284, 305. Procavo m., 287. Promontorio, 110, 153, 194. Quarto, Pag. 334. Quezzi, 366, 370. Q Quinto, 334. R Rafo, Pag. 197 n. Rafetto, 197 n. Raggio, 381. Rapallo, 197 n. Ravasco, 69. Ravaschio, 69. Rebolino, 164. Rebora, 164. Reco, 70. Regio, 381. Regis, 381. Atti Soc. Lio. di Stori* Patria. Voi XXX. Rembado, 67. Renne, 153. Reno, 65. Resasco, 69. Rezie (Alpi), 381. Ricaldone, no. Ricò, 70, 279, 285. Ricchin, 70. Rigoroso, 72, 108, 315, 319 n. Risso, 381. Ricci, 381. =7 Rivalta, 103. Rivarolo, 146, 194, 19S, 343. Rivergaro, 268. Robion, 99. Roccavione, 99. Roia, 65. Roma, 5 5 n. Salasco, Pag. 69, 140. Sale, 140. Salice, 140. Salico, 383. Salio, 383. Salò, 140, 383. Salso, 384. Saluzzo, 140. Sampierdarena, 149, 198, 342. S. Benigno, 337. S. Cipriano, 198, 301, 305, 3x5, 322 S. Francesco della Chiappetta, 336. S. Gregorio, 336. Sanguineto, 122. Sarissola, 319 n. Sassello, 198, 328. Sassellin, 198, 328. Savona, 99 n., 197, 267. Savigliano, 93. Savignone, 99, 319 n., 335, 345. Scuderia, 163. Tacon, m. Pag. 195, 287. Tagliolo, 322. Talevi, 140. Talice, 140. Talla, 140. Tanaro, 72. Tarantasca, 69. Rona, 65. Ronco, 139, 319 n. Rovelasca, 69. Rosasco, 69. Rua, 65. Rovereto, 122. Rovigo, 101. Scrivia, 71. Seca, 78, 195, 303. Sella, 90. Semino, 107. Serra, 77, 106, 195, 332, Serravalle, 77, 90. Sestri, 135, 338, 342. Sierra, 77. Silvano, 367. Sottovalle, 90, 106, 215. Sori, 115, 198, 342. Sorìa, 115. Soriasco, 69. Spinola, 154. Spotorno, 158. Staglieno, 129. Statielli, 198, 328. Struppa, 343. Stura, 74. Sturla, 73 n. Susèia 0 Sosiglia, 193. T Tassara, 45. Tasso, 145. Tassarolo, 145. Teco, 129. Tegli, 128, 315. Tiglieto, 122. Tigulli, 155, 197. Torino, 93 n. Torbella, 93 n. Torbi, 93 n. Torbia, 93 n. Torriglia, 93 n., 319. Tortona, 109, 112, 198, 319 n, 403 — Tuledo, 89. Tuledon, 89, 298. Tulon, 89. Tulosa, 89. Tutelasca, 69, 301. Vacarezza, Pag. 122. Vado, 103, 330. Vagna, 359. Vagno, 359. Valdieri, 322. Valenza, 103. Valenzona, 108. Valleregia, ;46, 331. Valori, 144. Valoia, 144. Vaioria, 66. Vanderzi, 105. Vara, 74. Varase, 67, 102. Vardi, 140. Vallardi, 140. Varena, 67, 102. Varese, 67, 102. Varigotti, 381, 387. Varignan, 381, 387. Varo, 67, 102. Varzi, 103. Velleia, 92, 123. Velleiati, 349. Velva, 367. Venasca, 69. Venezia, 123, 267. Ventimiglia, 79. Verardo, 140. Verde, f., 195, 267, 282, Verga, 268 n. Vergagni, 268. V Vergare, 268. Vergano, 268. Vergiate, 268. Verilasca, 154, 194, 298, 541. Vernazza, 363. Verona, 67. Ver re, 154. Verreto, 156. Verrina, 154. Verrua, 156. Vhò, 95. Via Iulia, 331. Vianzon, 101. Viarigi, 381, 387. Viareggio, 381, 389. Vicenza, 68, 101. Vico, 97. Vienna, 101. Vienne, 101. Viganego, 99. Viganò, 99. Vigasio. 97. Vigevano, 102. Vigato, 97. Vignole, 99. Vignolo, 99. Vigo, 97. Vigoderzere, 97. Vigone, 97. Vigonovo, 97, 99. Viguzzolo, 97. Vinadio, 101. Vindupalis, 277. Vinelasca, 280. Viuzene, 93. Viveron, 67. Virgo Potens, 342. Vison, 101. Viturii, 195, 232, 348 Vittoria m. , 333 Viù, 93. 404 — Vobbia, 389. Voceniola, 106. Voghera, 70 n. Voltaggio, 326 n. , 319 n. , 338. Voltri, 148, 197, 338. Vuiè, vedi Valleregia. Vulturo, 341. Vòtri, 197. Zemignano, 115. Zenoa, 172 n. , 197. Zenoeixi, 172 n., 195. Zignago, 108. z Zignon, 108. Zinasco, 69. Zoagli, 60, 153. Zuccaro, Zuccarello, 87 } INDICE Prefazione....................Pag. vii CAPO I. LA TAVOLA DI BRONZO E LA STORIA LIGURE PREROMANA i. Scoperta della tavola. — 2. Suo contenuto. — 3. Lezione del Mommsen. — 4. Traduzione. — 5. Gli studi compiuti fino al presente. — 6. Importanza della tavola sotto l’aspetto giuridico, sociale, linguistico. — 7. Sua importanza come primo documento di Storia Ligure. Le interpretazioni del Serra, del Grassi, del Desimoni — 8. Criterii da seguirsi nello studio della tavola. 11 pregiudizio latino. — 9. Gli storici latini. — 10. Fonti per lo studio della Storia ligure preromana. — 11. Il dialetto. — 12. L’ispezione diretta dei luoghi. — 13. Il metodo storico-alpino applicato allo studio della tavola di bronzo.— 14. La mia carta. — 15. Il commento.....Pag. 1 * CAPO II. I LIGURI. PRIMO SAGGIO DI RICOSTRUZIONE STORICA IN BASE AL DIALETTO. i. 1 Liguri pastori — 2. Il dialetto ligure antico. Modo di ricomporlo — 3. La terra — 4. L’acqua. I corsi d’acqua— 5. I monti— 6. La valle — 7. La selva. A lià — 8. I vi, cioè i volghi — 9. Le strade: va, vado e odo — 10. Le posizioni dei vi — n. Il Castè — 12. Le prime abitazioni dei Liguri: i cavi e l'erma e il gias — 13. Eto, edo e gli esi — 14. Cape - Cabaiia -Tegi - Slagiu - Ca - Monia - Galea — 15. La capanna del pastore — 16. L’agricoltura — 17. Le piante — 18.1 legumi — 19. I fiori — 20. Gli animali — 21. I termini marinareschi — 22. Le professioni — 23. L’ Astu, *^ il prou, la raiba e i prè — 24. 11 popolo — 25. La divinità — 26. La famiglia — 27. Conclusione.............Pag. 57 fi CAPO III. LA POLCEVERA PRIMITIVA. LA POLCEVERA ALL’ EPOCA DELLA TAVOLA DI BRONZO. . La Polcevera nell’epoca primitiva. Porsei-vi-a. — 2. La Polcevera all’epoca della tavola di bronzo. — 3. Storia del regime agrario dei Liguri. Divisione del territorio fra tribù. — 4. L’aver privatus della tribù. — 5- L’ager poplicus. — 6. I compascui. — 7. I prati nei compascui. — 8. Opinioni del Rudorff e del Desimoni. — 9. Le comunaglie; nidge.....Pag- 192 CAPO IV. LA SENTENZA DEI MINUCII. . I rapporti dei Liguri coi Romani. — 2. I fratelli Minucii. - L’influenza dei Romani in Liguria. — 3. Epoca della sentenza. — 4. Carattere della sentenza. — 5. Preliminari e formalità. — 6. Definizione dell’agro privato dei Langen. Suoi confini. — 7. Confini dell’agro pubblico. — 8. Vectigal dovuto dai Langen ai Genovesi « prò eo agro ». Si respinge il concetto di sudditanza, finora ammesso dal Rudorff, dal Mommsen e dal Desimoni. — 9. Cosa fosse il «Vectigal» e 1’ « ager vectigalis». — 10. Decorrenza del V ectigal dovuto dai Langen. — 11. I possessi privati nell’agro pubblico. — 12. Compascui o comunaglie. — 13. Norme per i compascui fra Genovesi e Vituri. — 14. I prati nei compascui. — 15. Decisione relativa alla liberazione dei prigionieri. Anche qui si elimina l’idea di sudditanza. — 16. Dissensi sul modo di leggere il testo. — 17. Discrepanze di lettura e di interpretazione a riguardo della clausola - si • qvoi • de • ea • re • iniqvom • videbitvr. 18. Il nome dei delegati Genovesi e Viturii.......Pog• 205 CAPO V. l’agro PRIVATO DEI LANGEN. i. Il « castelo » e il suo agro. — 2. L’« ede ». — 3. Il « manicelo ». — 4- ^ « LEMORI ». — 5. Il « COMBERANEA ». — 6. La « CONVALIS CAEPTIEMA ». — 7. La « VIA POSTVMIA 0 — 8. Il VINDVPALIS » e il « NEVIASCA ». — 9. La « PROCOBERA ». — IO. VINELASCA • POSTVMIA t MANICELO. — II. Si ritorna al primo termine..............Po.g. 263 — 4°7 — CAPO VI. l’ agro pubblico dei langen. i. Idea generale. — 2. « Ede e Pkocobera ». — 3. I monti « Lemvrini ». — 4. Il « Procavo ». — 5. Il Lemvrinus svmmvs ». — 6. Il Castelvs alia-NVS ». — 7. « IOVENTIVS ». — 8. « ApENINVS SVMMVS ». — 9. « TvLEDON. Veraglasca. Berigiema. Prenico ». — io. « Tvntlasca. Blustiemelo. Claxelo. Lebriemelo. Eniseca». — ii. « Edvs et Procobera ». — 12. Pontedecimo. — Sintesi storica.............Pag. 283 CAPO VII. gli altri popoli della tavola. 1. Criterii da seguirsi. — 2. 1 Dectunini. — 3. Gli Odiates. — 4. I Cavaturini. — 5. 1 Mentovini. — 6. A qual popolo appartenevano i Cavaturini. — 7. Le capanne di Mercuieu; antichissimo mercato — 8. Le antiche strade dei Genuati e Viturii. — 9. I confini fra Genoati e Viturii. — 10. Le tribù dei Viturii; le tribù dei Genoati. — 11. Si discutono i confini dei Genovesi. — 12. Come e perchè scomparve la memoria del popolo Viturio. — 13. I popoli Liguri attraverso i secoli fino alla rivoluzione francese. — 14. Conclusione ........ ...........Pag- 317 Prospetto di radici del dialetto ligure primitivo........» 358 Nomi di paesi e di famiglie illustrati in questo volume.....» 393 INDICE GENOATI E VITVRII SAGGIO STORICO SUGLI ANTICHI LIGURI. Prefazione..............................VII Capo I. La tavola di bronzo e la Storia Ligure preromana .... » i Capo II. I liguri. Primo saggio di ricostruzione storica in base al dialetto » 37 Capo III. La Polcevera primitiva, la Polcevera all’ epoca della tavola di bronzo......................l92 Capo IV. La sentenza dei Minucii.............» 205 Capo V. L’ agro privato dei Langèn............» 263 Capo VI. L'agro pubblico dei Langèn.......,....» 283 Capo VII. Gli altri popoli della tavola..........» 317 Prospetto di radici del dialetto ligure primitivo.......» 358 Nomi di paesi e di famiglie illustrati in questo volume......» ^