ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Volume LXXII - Fascicolo 1 VITO VITALE VITA E COMMERCIO NEI NOTAI GENOVESI DEI SECOLI XII E XIII Parte Prima: LA VITA CIVILE GENOVA - MCMXLiX NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA - PALAZZO ROSSO 0 ■■ Wmài ■ mm atti della società ligure di storia patria Volume LXXI1 • Fascicolo I VITO VITALE VITA E COMMERCIO NEI NOTAI GENOVESI DEI SECOLI XII E XIII Parte prima: LA VITA CIVILE GENOVA • mcm;xlix NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIQURE DI STOK1A PATRIA PALAZZO NOSSO % Proprietà letteraria riservata Sc»o!j Tipografici . fv>n Botco • • Oennva Sampierdarena • 1950 VITA E COMMERCIO nei NOTAI GENOVESI dei SECOLI XII E XIII Parte prima: LA VITA CIVILE r I CARTOLARI NOTARILI Tre fonti principali ha la storia di Genova per i suoi due secoli più grandi, quelli che dalle prime affermazioni nelle Crociate portano al breve ma glorioso predominio sul Mediterraneo: gli Annali, k « Libri Jurium, » gli atti notarili (1). Gli Annalisti, da Caffaro a Jacopo Doria, raccontano la storia che si può dire esteriore della Repubblica, le lotte delle famiglie e delle fazioni in contesa, le imprese militari sulle Riviere e sull’Appennino, i grandi conflitti con le città marittime rivali, i complessi rapporti con i maggiori rappresentanti della grande politica contemporanea; e la raccontano — massime al principio e alla fine — con semplicità austera ed eroica, con fede insieme religiosa e romana nella missione e nelle fortune del paese. Ma le ragioni, in gran parte economiche e commerciali, delle vicende politiche non dicono; il tipico carattere individualistico di molte imprese o non appare o si coglie soltanto di scorcio, per accenni: mancassero altri elementi d’informazione e di giudizio, la grandezza marinara, mercantile, coloniale di Genova rimarrebbe un enigma. Maggior luce recano per questo rispetto i documenti diplomatici, che, siano convenzioni politiche e commerciali o trattati di pace, sottomissioni di feudatari o accordi con i centri rivieraschi, rappresentano e illuminano i rapporti esterni, le ripercussioni del movimento commerciale sulle relazioni con altri stati ed altre genti, l’espansione che porta alla formazione dello stato territoriale. Prezioso elemento, costituente la tessitura della storia diplo- (1) V. la monografia Le fonti della storia medievale genovese nel III voi. della Storia di Genova dalle origini al tempo nostro delPomonimo Istituto, Milano, Garzanti, 1942. matica genovese, riunito in un sol corpo, come dice il titolo di « Libri Jurium » dato alla raccolta, all’intento di consacrare e mantenere i diritti acquisiti dalla Repubblica (2). A conservazione e garanzia di diritti e di possessi individuali o particolari sono invece rivolti gli atti privati. I più antichi si riferiscono agli enti ecclesiastici e ne confermano la ben nota importanza nella vita medievale. 11 loro valore, infatti, sorpassa di molto gli specifici interessi dei singoli enti in quanto essi forniscono notevoli dati per la ricostruzione specialmente degli istituti giuridici ed economico-sociali. Vescovadi, chiese, monasteri, i primi centri di vita organizzata, conser varono studiosamente nei propri archivi i documenti dei privilegi conseguiti, delle donazioni ricevute, dei contratti stipulati; e spesso, ad impedire la fa cile dispersione delle pergamene isolate, ne curarono un’ordinata trascrizio ne in appositi registri. Quelli di essi che, salvati dal naufragio del tempo, sono arrivati fino a noi presentano, nel silenzio di altre voci, un notevoe valore, così per il rispetto giuridico ed economico come per la ricostruzio ne della vita civile. Tale è il caso dei due registri compilati nel 1143, per ordine civescovo Siro, da un Alessandro, economo della Curia. Attraverso gli e e chi delle donazioni, dei diritti, dei possedimenti, delle concessioni 1 a titolo precario o di esazione di decime, essi forniscono i nomi dei tori, dei contraenti, dei concessionari e l’indicazione degli obblighi vescovo loro signore. Recano così, per un periodo in cui manca °£nl documentazione e non sono ben definiti ancora i limiti tra diritto pu ^ e privato, qualche spiraglio di luce a chiarire la funzione politica e scovo e i suoi rapporti coi vari elementi cittadini (3). Illustrandoli,' ^ grano ha ricavato le notizie e la genealogia dei discendenti del ,sc0 Ido, aprendo anche l’adito a nuove concezioni sull’origine della Compagn (2) I documenti dei secoli XII e XIII sono compresi nei due volumi dei • Historiae Patriae» di Torino pubblicati tra il 1854 e il 1857. Il Codice Diploma ^ Repubblica di Genova, in 2 voli, (si è arrestato al 1190) a cura di CESARE IMP 0fyo, Sant’Angelo, nelle * Fonti per la Storia d’Italia * dell’istituto Storico Italiano per il Me i è soltanto una nuova e più maneggevole edizione, con la discutibile aggiunta di a cun jej degli Annali, ibrida confusione tra fonti documentarie e narrative. L’intera racco « Libri Jurium », formata da sette codici, si trova nell’Archivio del Ministero degli Esteri a Parigi; una riproduzione fotografica, non sempre molto felice, eseguita a del Municipio di Genova, per iniziativa dell’imperiale, è all’Uffido municipale di Arte e ria. Esauriente descrizione dei codici e delle loro vicende ha dato PlMPERlALE ne lettino dell’istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano », n.50,Ronia’ (3) I due registri sono pubblicati da L. T. Belorano nel vol. II, par. I e [I. e x degli « Atti della Società Ligure di Storia Patria» (d’ora innanzi indicati con la sigla Ivi anche il Cartario Genovese, pure a cura del Belorano, contenente 173 atti dei secoi e del Comune, recentemente ricostruita, in parte valendosi degli stessi elementi, nella geniale teoria del Formentini (4). Simili raccolte comprendono anche documenti che trascendono i particolari interessi e diritti dell’ente ecclesiastico: così le due copie del « Liber Privilegiorum lanuensis Ecclesiae», l’una del XIII l’altra del XIV secolo, ancora in gran parte inedite nell’archivio della Cattedrale di S. Lorenzo, contengono il diploma — non dato da altra fonte, ma confermato dalla narrazione di Caffaro — col quale Boemondo di Antiochia il 14 luglio 1098 elargiva ai Genovesi le prime concessioni che un principe cristiano abbia fatto ai Crociati. Alle raccolte della Curia e della Cattedrale possono essere accostate, per analogia di carattere e di contenuto, le pergamene dei monasteri di S. Siro e di S. Stefano conservate neH’Archivio di Stato. Tutti questi documenti, però, data l’origine e la provenienza loro, sono necessariamente unilaterali e ci avvicinano alle vicende e ai rapporti di alcuni elementi soltanto, anche se di importanza prevalente nell’organismo del tempo. Più largo carattere hanno i protocolli notarili che ci immettono nel pieno della vita privata e del suo tipico aspetto economico, commerciale e marinaro. In essi vediamo in azione i singoli delle più diverse classi e provenienze; sono frammenti di vita che si compongono come in un mosaico a formare il quadro dell’attività prodigiosa e dell’incontenibile espansione in cui è il segreto della vita medievale genovese. I registri nei quali i notai hanno redatto per un certo periodo di tempo gl’istrumenti del più diverso carattere, fermando e legalizzando i più svariati rapporti fra le parti, in certo modo fotografando il mondo circostante, sono perciò preziosi per la ricostruzione della vita nei suoi diversi aspetti. Naturalmente, la possibilità e la vastità di tale ricostruzione sono proporzionali al numero e alla continuità dei cartolari arrivati fino a noi. La Liguria ha in questo campo un autentico primato in quanto possiede, nei documenti notarili genovesi (5), in quelli del notaio Cumano e di altri 1 X e XI (uno solo è, forse, dell’ottavo) tutti riferentisi a chiese e monasteri, tratti dalla « Miscellanea Poch » ora alla Civica Biblioteca Berio- (4) U. Formentini, Genova nel Basso Impero e nell'Alto Medio Evo, li voi. della Storia di Genova, Milano, Garzanti, 1941. (5) Sul contenuto e il valore degli atti notarili, V. Vitale, L'età eroica del commercio genovese, in - Realtà » Riv. Rotary Club Ital., novembre 1934, pag. 499 segg.; Q. P. Bo-onetti, conferenza al Rotary Club riassunta in « Giornale di Genova » 28 giugno 1938, e Per l'edizione dei Notai Liguri del secolo XH, Genova, Deputazione di Storia Patria, 1938, pag. 4 segg.; R. Lopez, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, Bologna, Zanichelli, 1938, pag. 122. — io- di Savona e negli atti di Giovanni di Giona di Portovenere, la raccolta più antica che sopravviva e quindi la serie di documenti di carattere privato e commerciale più vetusta e perciò più importante che si conosca. I documenti di Marsiglia, che tengono cronologicamente il secondo posto, cominciano oltre un secolo dopo i genovesi. La collezione dei protocolli notarili dell’Archivio di Stato comprende per l’età della Repubblica, cioè a tutto il secolo XVIII, oltre ventimila fra filze e registri, tanto più importanti, si comprende, quanto più antichi, perchè più tardi altre fonti d’informazione rendono meno urgente ricorrere agli atti privati. 1 registri più preziosi sono perciò i centocinquanta anteriori al 1300, tra i quali tengono il primo posto i sei che contengono, in tutto o in parte, atti del secolo XII. Per essi, Genova è la sola città d’Italia che possa presentare un pieno quadro della propria vita al tempo del Barbarossa e di Enrico VI, così negl’interni rapporti come nelle relazioni commerciali coi paesi del Nord e d’Ol-tremare; da essi ricevono nuova luce la storia del commercio e il diritto marittimo di tutto il Mediterraneo, ossia di tutto il mondo del tempo. Essi finalmente presentano la vita non in alcuni aspetti soltanto, ma nel suo complesso. « Se il lettore esperto di documenti medioevali ripenserà al quadro — quasi solo di carattere politico, chiesastico o rurale — che le pergamene del Millecento gli hanno offerto altrove, e all’impressione quasi di lineare monodia che gliene sarà rimasta nell’animo (la voce dell’araldo, il canto del guerriero, il salmo del monaco, il borbottìo del leguleio, la nenia del contadino) e confronterà queU’impressione con la ricca polifonia che qui l’umanità — compatta, varia, completa — finalmente gli ripresenta, si accorgerà che per lui, dopo il tramonto del mondo antico — così umano, in certe testimonianze miracolosamente superstiti — questi genovesi rappresentano, ad intuito, i primi «moderni» a cui riallacciare l’origine stessa della nostra civiltà » (6). Il più antico dei notai genovesi di cui rimanga un « cartolare » è Giovanni Scriba. Tutto ciò che si sa di lui, e risulta appunto da atti suoi e di altri, è che era addetto ad un ufficio pubblico, anzi addirittura incaricato di redigere gli atti dei consoli del Comune, onde il suo nome è congiunto ad alcune delfe più importanti convenzioni politiche del tempo; che non aveva moglie nè figli, che possedeva una casa propria, ma abitava presso un cognato, che era uomo di qualche coltura, e soprattutto esperto conoscitore del diritto romano e delle norme consuetudinarie vigenti allora in Genova, special-mente in materia di commercio e di navigazione, che rogò almeno fino al 1164, che nel 1215 era morto da tempo. Eppure è uno dei nomi più noti dell’età (6) Bognetti, Per l'edizione dei Notai Liguri del secolo XII, pag. 5. \ — 11 — sua, appunto perchè gli appartiene il più antico cartolare notarile arrivato a noi, non di Genova soltanto ma fra quanti se ne conoscono. I suoi atti, rogati tra il 1154 e il 1164, sono conosciuti da quasi un secolo, dacché furono pubblicati dalla R. Deputazione di Storia Patria di Torino (7). Essi hanno fornito molti elementi allo Schaube per la classica opera sul commercio del Mediterraneo (8), sono stati studiati, specialmente sotto l’aspetto organico e giuridico, dal v. Voltelini (9), mentre il Carli ne ha dato un accurato esame e Un’ottima classificazione sistematica (10). Ma l’edizione, se rispondeva ai particolari criteri scientifici del momento, presenta gravi inconvenienti, perchè incompiuta (11)— non tutti i documenti del cartolare vi sono stati compresi — e non sempre paleograficamente corretta, ma soprattutto perchè gli atti sono stati staccati e frammisti in ordine cronologico con altre carte, anche di diverse regioni, onde è venuto a mancare l’elemento più rilevante e tipico di questa fonte, che consiste appunto nella sua organicità. Di più l’edizione torinese, un ingombrante « in folio », riproduce la forma disordinata nella quale era allora il cartolare, riordinato e ricostituito nella prima composizione alcuni anni or sono dal prof. Di Tucci, dell’Archivio di Stato. S’imponeva perciò una nuova edizione, più maneggevole, che riproducesse il testo senza lacune ed errori e nell’ordine attuale, che è poi l’originario, del manoscritto; e si è avuta, corredata di un’ottima introduzione e di indici accurati, per opera di Mario Chiaudano e di Mattia Moresco (12). II caso del cartolare di Giovanni Scriba è unico, tra i più antichi, in quanto le sue imbreviature appartengono tutte al medesimo notaio; gli altri invece, anche del secolo XIII, risultano generalmente di atti di notai e di tempi, e talora di luoghi, diversi, accostati in caotico disordine, che la tradizione attribuisce a una frettolosa ricomposizione seguita all’incendio provocato dal bombardamento francese dei 17-28 maggio 1684. In realtà, gli attuali registri, derivati da elementi appartenuti a due archivi distinti, il « vecchio » (7) Nel II voi. Chartarum dei « Mon. Hist. Patr. », Torino, 1853. (8) A. Schaube, Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo sino alla fine delle Crociate, trad. in « Biblioteca dell’Economista », Torino, 1915. (9) H. v. Voltelini, Die Imbreviatur des lohannes Scriba in Staats-Archiv zu Genua, in « Mitteilungen des Oesterreichischen Institut fur Oeschichtsforschungen » LXI, Inn- sbruck, 1926. . (10) F. Carli, Storia del commercio italiano. Il mercato italiano nell età del Comune, Padova, Cedam, 1936, pag. 412 segg. (11) Cfr. lo studio citato del v. Voltelini e O. Astuti, Rendiconti mercantili mediti del Cartolare di Giovanni Scriba, Torino, 1933, in « Testi inediti o rari pubblicati dall’istituto Giuridico della R. Università di Torino» voi. III. (12) M Chiaudano e M. Moresco, // Cartolare di Giovanni Scriba, 2 voli., in * Documenti e Studi per la storia del Commercio e del Diritto Commerciale Italiano», Torino, Lattes, 1935. 4 — 12 — e il « nuovo o piccolo », furono disordinatamente costituiti, anche con inserzione di parti richiamate da privati o fuori archivio, per opera di umili funzionari incompetenti e frettolosi, appunto dopo il 1684. Le indicazioni poste sul fronte o sul dorso dei cartolari o trascritte negli indici posteriori, sono perciò assai spesso incompiute o addirittura arbitrarie ed errate. Oltre lo Scriba, cinque sono i cartolari del secolo XIII, secondo le annotazioni archivistiche tradizionali. Allorché è sorto il proposito della loro pubblicazione, è stato necessario un lavoro di analisi dei vari codici e di ri- • composizione dei documenti appartenenti a un medesimo notaio. Ne è venuta l’acuta e diligente indagine di Gian Piero Bognetti (13), che si è anche servito degli anteriori studi del Chiaudano su Guglielmo Cassinese (14) e delle accurate analisi compiute da Robert L. Reynolds sulle fotostatiche possedute daH’Università di Madison (Wisconsin, U. S. A.). Alcuni decenni or sono, infatti, il prof. Eugenio Byrne, allora in quella Università, fotografò a Genova — bianco su nero — tutti questi cartolari e alcuni anche del secolo XIII, e sulle copie fotografiche egli stesso, passato poi alla Columbia University di New York, il Reynolds, suo allievo e successore, e tutto un gruppo di 'loro colleghi e discepoli hanno compiuto un’ampia serie di lavori, costituendo una vera scuola di storia economica medievale, in gran parte fondata sul materiale genovese, eloquente riconoscimento della sua eccezionale importanza. Le indagini preparatorie del Chiaudano e del Reynolds e il magnifico lavoro ricostruttivo del Bognetti hanno permesso di ricomporre tutto quanto rimane del XII e dei primi anni del XIII secolo (15), indispensabile premessa all’auspicata pubblicazione, che la Deputazione di Storia Patria, succeduta per qualche anno alla Società Ligure, e la « Collezione di Documenti e Studi per la Storia del Commercio e del Diritto Commerciale Italiano » hanno intrapreso con l’attiva e preziosa collaborazione scientifica degli americani. Tra il 1938 e il 1940 sono stati pubblicati sette volumi comprendenti 5256 imbreviature: (13) Nel voi. Per l'edizione dei Notai Liguri del secolo XII il nome di M. Moresco è stato accompagnato a quello del Bognetti, al quale tutto lo studio appartiene, per deferenza verso il Presidente della Deputazione, instancabile propugnatore ed efficace sostenitore della pubblicazione dei Notai. (14) M. Chiaudano, Contratti Commerciali Genovesi del secolo XII, Torino, Bocca, 1925. Lo studio del Chiaudano è il primo saggio sistematico di analisi di un cartolare genovese per quanto riguarda la paternità delle singole parti, la personalità del Notaio e le caratteristiche esterne ed intriseche degli atti; Boonetti, Per l'edizione ecc, pag. 18. (15) S’intende che tale ricomposizione riguarda la pubblicazione a stampa; materialmente i registri delI’Archivio di Stato rimangono, e non potrebbe essere diversamente, nella formazione tradizionale. Se la pubblicazione potrà essere compiuta, opportune indicazioni e tabelle comparative permetteranno i riscontri, specialmente per gli atti pubblicati nel passato con le antiche annotazioni archivistiche. - 13 — due del notaio Oberto Scriba de Mercato (del quale rimangono atti tra il 1179 e il 1214; i 2 volumi, editi rispettivamente da M. Chiaudano e dal Chiaudano e R. Mo-rozzo della Rocca, comprendono gli anni 1186 e 1190); due di Guglielmo Cassinese (1191-1192); uno di Bonvillano (1198); due di Giovanni di Guiberto (1200-1211): tutti questi ad opera dei prof. Reynolds e Krueger e di loro allievi e collaboratori. Interrotta dalla guerra, l’iniziativa sta ora per riprendersi pur tra le accresciute difficoltà, derivanti non solo dalle condizioni generali, ma dalla scomparsa dell’accennata « Collezione di Documenti e Studi » che divideva con la Storia Patria l’onere finanziario. È in corso di stampa, per la collaborazione scientifica ed economica delle Università americane, la serie degli atti rimasti del not. Lanfranco (1202 -1225); altre sono pronte o in preparazione, ma occorre un grande ottimismo per credere che arriveranno alla luce. E frattanto, senza colpa di alcuno, continua inesorabile l’opera deleteria del tempo. Tanto meno si può pensare all’integrale pubblicazione del ben più ricco materiale del secolo XIII, onde è in progetto, almeno per i registri più deteriorati, una riproduzione a « microfilm » che, messa a disposizione degli studiosi (e ce ne sono ancora, ma stranieri) risparmi l’ulteriore deperimento derivante dall’uso, per quanto rispettoso e guardingo. Intanto i funzionari dell’Archivio di Stato, sotto la direzione del Sopraintendente, attendono a un inventario critico del materiale e a una ricomposizione sul tipo di quella compiuta dal Bognetti. Lunga e ardua fatica, indubbiamente, per la mole del lavoro e per il fantastico disordine dei cartolari, ma di inestimabile aiuto per orientare e agevolare le indagini dei ricercatori. Nessuno dei cartolari del secolo XIII è stato pubblicato integralmente, perchè anche del registro di Maestro Salmone edito dal Ferretto e di quelli redatti da vari notai a Bonifacio molti atti sono dati in regesto. Moltissimi documenti isolati o in sillogi relative a specifici argomenti e determinate località o imbreviature rogate a Pera, a Caffa, a Laiazzo, a Famagosta, a Bonifacio sono stati pubblicati negli Atti della Società (per qualche tempo R. Deputazione) di Storia Patria, nella Biblioteca della Società Storica Subalpina e in altre collezioni (16), mentre non c’è, si può dire, studio serio di storia ligure medievale che non abbia a fondamento e non rechi nel testo o in appendice documenti ricavati da questa fonte (17). (16) V. nell’Appendice l’elenco di tali pubblicazioni al quale rimando per le precise indicazioni bibliografiche. (17) Uno spoglio-indice dei notai è contenuto nelle Pandette Richeriane dell’Archivio di Stato (o Folatium Notariorum della Civica Biblioteca Berio), ma è lavoro farraginoso e di difficile consultazione e quindi scarsamente utile. Il Sievekino nella sua relazione sui « Libri Jurium » conservati a Parigi (Giorn. Stor. e Letter. della Liguria, 1907, pag. 43S) auspicava almeno un indice degli atti notarili del Duecento. 14 - Ma si tratta sempre di una minima parte e il più rimane, ed è probabilmente destinato a rimanere, inedito, onde gli studiosi sono costretti ogni volta a ricominciare da capo lo spoglio dei cartolari, qualunque sia l’argomento delle loro ricerche. Poco male, diranno i dispregiatori di tali studi minuti e pazienti e gli amatori delle ardite e facili sintesi filosofeggiatiti o romanzate. Eppure c’è chi pensa ancora — e molti giuristi ed economisti sono di questo parere — che tali ricerche non siano affatto inutili se si vuol tentare di por tarsi nella vita, nel costume, nelle istituzioni di quel lontano passato; c è chi si ostina a pensare che, se non si vogliono ripetere sempre le stesse vacuita generiche e inconcludenti, soltanto l’esame dei cartolari notarili possa permettere una ricostruzione meno inadeguata della vita genovese del XII e del XIII secolo negli aspetti più tipici e suggestivi del costume e dell’economia e chiarire la partecipazione delle diverse classi sociali alla vita mercantile e marinara. Da tale persuasione trae origine il presente saggio, sul quale 1 autore — che da molti anni con testarda tenacia va insistendo sulla necessita dello studio e della pubblicazione dei notai — non si fa alcuna illusione, egli sa infatti che ne sarà, o quasi, il solo .lettore (ma ci si è interessato e divertito, e gli basta). D’altra parte, data la vastità del materiale inedito, e anche soltanto di quello sinora reso noto, sarebbe stolta presunzione pretendere i dare un quadro della vita e del commercio genovese dei secoli XII e quale risulta dal complesso degli atti notarili. Poiché i cartolari sopravissuti, anche quando abbastanza numerosi, sono soltanto relitto di immenso naufragio, rimane inattuabile quello che fu il sogno del Belgrano, balenato anche a Ferretto, di ricostruire sopra una serie di cartolari e intorno alla figura di un notaio tutto il pulsante fervore e la complessa attività della vita cittadina. Ma se anche tutto il materiale rimasto fosse conosciuto e catalogato, non si potrebbe facilmente ridurre ad organica unità nè ricavarne più che un insieme di notizie frammetarie, senza la possibilità di sicure illazioni generali, massime sotto l’aspetto quantitativo dei fenomeni. Eppure qualche vivida luce può deri vare dal frequente ripetersi dei medesimi tipi di atti, quando un certo numero di casi rappresentativi dia il senso di quella vita lontana. Per quanto poi riguarda la vita economica e commerciale i dati sono così numerosi da permettere di raggiungere conclusioni importanti; e molto è stato fatto in questo campo: per necessità contingenti questa parte però deve essere rimandata ad altro momento. Qui, perciò, s’intende soltanto riassumere i risultati degli studi sinora compiuti sulle imbreviature notarili e di assaggi tentati su documenti pubblicati o inediti in riferimento alle manifestazioni della vita civile. Risultati parziali, naturalmente, e su elementi frammentari, e quindi affatto provvisori, ma che cosa non è provvisorio negli studi storici, anzi nella storia stessa, che è quanto dire nella vita? II LA FIGURA DEL NOTAIO E LA MATERIA DEGLI ATTI I documenti notarili vanno generalmente sotto la denominazione di atti privati. In realtà, sebbene si tratti della stipulazione di particolari convenzioni intercorse tra privati, sono atti pubblici che fanno piena fede in quanto redatti da persone con carattere pubblico, come .sono i notai, almeno dal secolo XII. Derivano essi il proprio riconoscimento — regia et imperiali auctoritate notarli — dall’imperatore, sempre, almeno teoricamente, considerato fonte suprema del diritto, o dalPautorità ecclesiastica — notarii apostolica auctoritate, — o direttamente dal Comune; la delega concessa in proposito da Federico II con diploma del 1220 (1) è evidentemente conferma di uso invalso da tempo. Non c’è, comunque, differenza nella validità degli atti rogati dai notai derivanti la propria funzione dalle diverse autorità, tanto più che col secolo XIII la sola designazione sembra essere la comunale, per mezzo di aggregazione compiuta dal « Collegium » notarile di quanti avevano i requisiti necessari, soprattutto una sufficiente conoscenza del diritto e del formulario, tanto meglio se appresi all’Università di Bologna. Rappresentanti della cultura, in primo luogo giuridica, i notai stendono e convalidano tutti gli atti politici e legali del Comune; essi costituiscono la cancelleria politica — alla quale è anche affidata la continuazione degli Annali, concepita come narrazione ufficiale (2) — e le varie cancellerie giudiziarie. (1) Liber Jurium Reip. Gen., vol. I, col. 655. I Fieschi, come conti di Lavagna, ottengono analogo diritto nel 1241 dall’antire Guglielmo d’Olanda (Bratianu, Actes des notaires génois de Pera et de Coffa, pag. 29). (2) Su questi notai annalisti, v. le prefazioni dell’iMPERiALE ai voli. II-V degli Annali. Tra essi Ottobono e Marchisio hanno l’appellativo di «scriba», ma poi questo titolo perde d’importanza e indica semplicemente uno scrivano, in particolare quello destinato a tenere il registro di bordo, o anche il funzionario coloniale incaricato di rappresentare il fisco della madre patria; Lopez, Studi sull'economia genovese nel Medio Evo, Torino, 1936, pag- 25. - 16 - Nessun registro di atti esclusivamente politici si conserva per i secoli XII e XIII; frammenti più o meno ampi di registri giudiziari si hanno invece per il 200 (3), sempre più numerosi a misura che l’ordinamento comunale, divenuto più complesso nell’età podestarile, richiede una maggiore divisione anche nelle funzioni notarili. 11 cartolare di Giovanni Scriba contiene mo te sentenze dei consoli di giustizia; nei sucessivi, specialmente del seco o non ci sono più sentenze giudiziarie dei magistrati cittadini, ma so ano dei consoli dei villaggi interni. Caratteristico è poi il caso degli a i roga i nel castello di Bonifacio: Tealdo de Sigestro (1238-39) redige insieme a i pri vati e sentenze emanate dai castellani, dei quali è cancelliere, Barto ome nari (1244-5) non ha che atti di carattere privato, mentre è cancelliere sue Ogerio; e di Azone di Chiavica rimane un frammento tutto di atti priva i p3 1246-47 e un altro solamente giudiziario degli anni 1257-61 (4). La «scribania» degli uffici giudiziari si dà in appalto, *1 no aio poi sui diritti di cancelleria; così avviene per le circoscrizioni ci a « castrum » e del «burgus» — Enrico de Braida nel 1264 ac(^is a 9 del « borgo » per 10 lire — così per gli uffici fuori di città (5). ‘ a ottengono talora per mezzo di intermediari; ben quaranta lire paga ^ Armando da Passano a Egidio di Voghera perchè gli faccia ottenere a Doria podestà di Corvara la nomina ascrivano dei consoli di Framura di tutti i tempi: solo che non usa più affidare certe forme di et ^ atti notarili. Qualche volta però il mediatore può rimanere deluso, con ' duto a un tal Rubaldo de Noratorio al quale Giacomo Tarabur o ^ di cui rimangono atti nel cartolare che prende il nome da Pietro (3) I fo. 1-16 del cartolare intestato a Pietro Ruffo contengono |>0tto- datte da Guglielmo Sapiente in funzione di cancelliere del podestà i 0 1237. bre 1210 e l’agosto 1211. I fo. 25-50 (febbraio 1230-marzo 1231) e 150-23 ^ ^ da luglio 1240) del volume intestato a Giovanni Enrico de Porta contengono^ Enrico di Bisagno come cancelliere di giustizia, per lo più inventari a isjjcolosio si di pupilli. Atti ecclesiastici e sentenze civili sono nei fo- 1-52 de ^ar 0 . jo72 da de Beccaira (gennaio-dicembre 1232); tutti di materia ectlesiastica que 1 Stefano Corradi nel palazzo arcivescovile. fasc ||; (4) Documenti sul castello di Bonifacio nel secolo A III, ASLi, LXV e ^ onore Vitale, La vita economica del castello di Bonifacio nel secolo XIII, in ^ . di Gino Luzzatto», Milano, Giuffrè, 1949, pag. 132. Nello stesso registro in c n> suoi atti di Bonifacio, seguono (fo. 95-152) quelli redatti da Tealdo de iges r celliere dei castellani di Gavi negli anni 1260-62. de)|a (5) Ferretto, Documenti sulle relazioni tra Alba e Genova, pag. 2~> • es- ^ q£_ « scribania » della podesteria e consolato di Levanto, avuta in appalto dal Comune nova (1274), Ferretto, Codice diplomatico, par. I, pag. 404. i»articolo (6) Gorrini, Documenti sulle relazioni tra Voghera e Genova, pag. 193. r- ^ Come si procurava un ufficio nel sec. XIII, in « Giorn. Stor. Letter. della Liguria , > pag. 170. — 17 - promesso cinque lire se gli farà avere la desiderata « scribania» entro il consolato di Manuele Doria, e il 26 dicembre 1215 fa constatare con pubblico atto che è stato nominato dai consoli entrati in carica quel giorno (il 26 dicembre, com’è noto, è il primo giorno dell’anno genovese e il Doria è quindi scaduto d’ufficio); così egli ha avuto la scribania e risparmiato la mediazione (7). La funzione politica e giudiziaria del notaio, per quanto ambita e onorifica, non è sempre la più importante nè la più redditizia; un posto più elevato tengono generalmente gli atti privati, che danno anche, per il gran numero, utile maggiore, se pure non troppo rilevante. Nella regione che si estende tra S. Lorenzo, S. Marco, S. Donato e il porto, con asse centrale la Chiavica — oggi via Giustiniani — e che costituisce il centro commerciale della vecchia Genova (8), hanno la loro sede i notai. Tolto il caso eccezionale di qualcuno, che, come Guglielmo da Sori al principio e Guglielmo da Pegli a metà del 200, non sembra avere un posto fisso, sono generalmente allogati nella « statio » di una famiglia magnatizia o del grande commercio, il luogo ove essa tratta i suoi affari, o sotto una di quelle « volte » che sono insieme ufficio e magazzino, o presso la bottega di un mercante, davanti. a una canonica, massime di S. Lorenzo, sotto l’atrio di una chiesa, talvolta anche in sacrestia. Soltanto in casi eccezionali, specialmente se le parti siano costituite da cittadini molto cospicui o quando si tratti di malati o di morenti si recano essi stessi dal cliente. C’è la minuta clientela occasionale, ci sono i rappresentanti delle grandi famiglie nobiliari e mercantili che hanno nel notaio il proprio uomo di fiducia. Il caso, salvando i cartolari di Guglielmo Cassinese e di Giovanni di Guiberto, ci ha conservato moltissimi atti dei Malocello, dei Cavarunco, dei Guercio, dei Mallone, dei Nepitella, dei Vento, dei Richeri, e così degli Embriaci e dei Doria nel registro di Guglielmo da Sori; come larga e cospicua appare più tardi la clientela di Bartolomeo Fornari, di Januino e Matteo Predone e di altri molti. Le parti espongono all’uomo di legge l’accordo conchiuso, il fatto, qualunque esso sia, del quale vogliono rimanga ricordo legale, ed egli ne indica nella « notula » gli estremi con le clausole essenziali e i nomi delle parti e (7) Not. Lafranco IV (Raimondo Medici) fo. 197, 204. (8) I notai, come i mercanti e i banchieri, hanno sede in questa zona per precisa disposizione dei consoli; Scarsella, II Comune dei Consoli, 111 voi. della Storia di Genova, dell’omonimo Istituto, pag. 241. Sulla topografia di Genova medievale, E. Podestà, Il colle di S. Andrea in Genova e le regioni circostanti, ASLi, XXX11I e molte indicazioni frammentarie nei due voli, del Codice Diplomatico del Ferretto. Cfr. anche Monleone, La Cronaca di Jacopo da Voragine, II, pag. 83 segg. 2 — 18 - dei testi, salvo a procedere alla stesura ufficiale nel cartolare e a redigerne, se richiesto e prendendone nota nel registro, le copie in pergamena da consegnare alle parti (9). Passano per quelle carte tutti i momenti e gli atti più normali della vita e insieme le cose più impensate e curiose. Si susseguono nelle fitte pagine contratti di società e di accomendazioni, prestiti e cambi marittimi, contratti nuziali e costituzioni di dote, testamenti e divisioni di eredità, inventari e diffide, cessioni di crediti e procure, acquisti e alienazioni di beni mobili e immobili, compravendite e manomissioni di schiavi, assunzioni e contratti di lavoro, dai medici e dai maestri di scuola agli apprendisti operai, alle persone di servizio domestico, fino a convenzioni per lo sfruttamento di tesori da trovare per arte magica, fino a promesse di amore imperituro o di temporanea convivenza amorosa, a pacificazioni coniugali dopo qualche strappo violento, con impegno di non ricorrere alle battiture e di tenere a freno la lingua. È tutto un mondo vario e interessante, pieno di curiosità e di fascino, un mondo senza troppi veli e pudori che mette in carta ogni impegno di qualunque genere e del quale il notaio è così testimonio e confidente e perciò personaggio di primissimo piano nella vita cittadina, con attribuzioni molto più vaste e importanti che ai tempi nostri. Certo, un numero infinito di atti della vita normale e di scambi commerciali minuti e per contanti è rimasto senza documentazione, ma in nessun luogo si è redatto un maggior numero di atti notarili. « Alors que dans les autres villes italiennes — ha detto efficacemente Renée Doehaerd — la plupart des petits accords de la vie journalière se faisaient oralement, à Gênes nous ne voyons pas seulement défiler devant le banc du notaire le propriétaire qui vend une-maison ou une terre, le tuteur scrupuleux qui désire faire établir un inventaire public de la succession qu’il devra gérer, mais aussi le riche marchand qui vient y faire concrétiser ses vastes entreprises d’outremer, et rédiger les titres probatoires qui lui permettront de récupérer ses créances sur les différents marchés de l’Europe; bien plus, ce même marchand aura recours au notaire pour enregistrer les contrats de moindre envergure qui se concluent quotidiennement dans sa boutique, comme pour coucher par écrit les conventions qu’il passe dans le privé, avec son épouse, ses amis, ses enfants, ses esclaves. Et ce célèbre armateur dont le cahier du notaire nous apprend qu il possédait des galères cinglant vers Byzance ou Saint-Jean d’Acre, nous le voyons aux folios suivants, acquérir un cheval, vendre son esclave sarde, faire (9) La più ampia e precisa trattazione sul notariato genovese dal punto di vista tecnico e giuridico è oggi in R. Doehaerd, Les relations commerciales entre Gênes la Belgique et l'Outremont d'après les Archives notariales génoises au XII et XIII siècle, Bru-xelles-Rome, 1941, par. 1. — 19 — une aumône à qualque couvent de la ville, et promettre de ne plus battre sa femme outre mesure! » (10). 1 ale è l’uso e il bisogno di stendere atto legale di tutti i rapporti, tale il fervore di vita che investe l’intera cittadinanza, da potersi dire che, se avessimo tutti gli atti rogati dai notai in un determinato momento, potremmo ricostruire pienamente la situazione anagrafica genovese del tempo, perchè non c’è forse cittadino che non lasci traccia di sè, che, specialmente, non partecipi in maggiore o minore misura alla vertiginosa attività economica e commerciale. Non conosciamo per alcun periodo il nome di tutti i notai che vi hanno rogato nè di alcuno l’intera serie degli atti; ma quel che sopravanza è tale da fornire cifre veramente considerevoli. Di Guglielmo Cassinese rimane l’intera annata 1191:1500 atti. Da documenti sparsi e da altre notizie abbiamo il nome di più che venti notai suoi contemporanei (11). Ammesso che essi siano stati tutti quelli del momento e che ciascuno di loro abbia avuto un giro di affari analogo al Cassinese (si comprende che questi computi sono sempre grossolanamente approssimativi), possiamo calcolare intorno a ventimila atti annui, che è già una bella cifra. Ma quando la vita ha assunto nel secolo successivo la massima intensità, abbiamo cifre anche più alte. Per ogni atto legale si pagava una tassa di due denari, che si dava in appalto all’incanto; nel 1265 l’appalto era acquistato per 469 lire, il che supponeva un complesso di 55680 documenti, e nel 129l per 680; l’acquirente cioè contava su 81600 istrumenti (12). È evidente che per dargli un effettivo guadagno dovevano essere molti di più, onde si arriva alla impressionante cifra di 300 (10) Les relations etc. pag. 5. E il Bratianu, Recherches sur le commerce génois dans la Mer Noire, pag. 91, aggiunge: «Sans exespérer la richesse de ce fonds, on pourrait cependant rappeler l’importance des papyrus pour l’histoire de l’Egypte romaine et byzantine ». (11) Ventotto nomi si ricavano dal registro di Maestro Salmone pubblicato dal Ferretto; ventiquattro dai soli atti sopravissuti del marzo 1253 (Lopez, L'attività economica di Genova nel marzo 1253, secondo gli atti notarili del tempo, AS Li, LXIV, pag. 174, n. 21); oltre un centinaio intorno al 1267 (Ferretto, Codice diplomatico, par. I pag. 74). Numerosi sono anche nelle colonie; si trovano diciannove nomi a Pera nel 1281, ventisette a Caf-fa nel 1289; (Bratianu, Actes des notaires génois de Pera et de Caffa, pag. 34). Non meno di quindici notai si trovano nel corso di un trentennio nel piccolo nucleo genovese di Bonifacio, attestazione di vita economica e civile tanto più notevole in quanto nelPinterno dell’isola non ci sono notai e gli atti pubblici vengono stesi da chiunque sappia scrivere. (12) Sievekino, Studio sulle finanze genovesi nel Medio Evo, ASLi, XXXV, pag. 83. Queste cifre sono forse suscettibili di qualche riserva; hanno però un indubbio valore indicativo. Con tanto lavoro, il reddito del notaio non doveva essere molto elevato, specialmente nel secolo XII; più tardi è probabile che le cose siano alquanto mutate. Secondo i computi del Chiaudano (Contratti commerciali genovesi del secolo XII, pag. 25-26), Guglielmo Cassinese nel 1191 riscuoteva in media sei denari per atto, con un reddito complessivo di 8340 denari. Non essendo possibile un’indagine economica, e non soltanto numismatica, sul valore della lira nel 1191, questa somma non è convertibile in cifre odierne; tuttavia non doveva essere eccessiva se in un documento dell’8 settembre dello stesso anno le spese per il man- — 20 - atti giornalieri per una popolazione che non arrivava ai centomila abitanti, cosicché fu detto che si redigevano più atti a Genova in una settimana che altrove in un intero anno. E si devono aggiungere gli istrumenti rogati da notai genovesi nelle varie colonie e nei lontani centri di commercio, che ci danno allo stato grezzo la riproduzione fedele e particolareggiata .di tutt' aspetti della vita in -colonia (13). Non si vuol-certo affermare che le ricerche in questi registri siano facili o sempre piacevoli. La scrittura difficile, l’afoso, monotono susseguirsi di contratti del medesimo tipo mettono a dura prova la pazienza dei malinconici studiosi, che vanno in traccia di notizie sulle prime banche e si vedono passare sotto gli occhi infinite vendite di stoffe, studiano l’armamento navale e trovano contratti agrari stipulati a Voltri, a Rapallo, a Sestri Levante, a Noli, a Savignone (14) e sentenze giudiziare dei consoli di Bogliasco, di Sori, di Nervi, di Struppa, di Molassana, di Begato, scesi dai loro villaggetti perchè fossero redatte in veste legale le loro semplici decisioni, relative per lo più a con trastato possesso di terre e di boschi; una volta il parlamento degli uomini di Gavi si convoca per l'uccisione di una cavalla e per le liti che ne sono seguite (15). E avviene spesso che una inattesa notizia, nella speranza di un nuovo filone, faccia deviare il corso delle ricerche. Ma qualche volta una copiosa serie di dati premia le pazienti ricerche (così è avvenuto per le costruzioni marittime, per la banca, per 1 arte de lana, per i commerci con la Siria o con le Fiandre) o una scoperta compensa di lunghe fatiche, come capitò al Belgrano, quando si trovò dinanzi ai d<> cumenti sui preparativi commerciali della spedizione dei fratelli Vivaldi ( ), lenimento di un commerciante che aveva bottega in Genova e del suo commesso sono colaie il 1. 11 e s. 10, pari a 2760 denari, circa un terzo del reddito professionale gìielmo Cassinese. ^ 13 Oltre i documenti già accennati di Bonifacio, si possono ricordare quelli re a ^>era- a Caffa, Laiazzo, Beyrouth e Famagosta. Nel cartolare di Gioacchino Nepitel a inseriti atti redatti a Trapani tra la fine del 1270 e il principio del 71 da Rolando di S. nato, che accompagnava le navi genovesi nella crociata tunisina di Luigi IX (‘ Giornale grusrico 190/, pag 280, n- 1), mentre altri, stipulati a Tunisi negli anni 12S5-59 da! notai Pietro Battifolio, sono nel cartolare dell’Archivio di Stato intestato al suo nome- >14) Sono redatti a Voltri gli atti contenuti ne! cartolare intestato a Lanfranco v0 ■ par. 1, fo. 1S6 segg.V, a Rapallo quelli del 1240 ibid. fo. 136 segg. e del 1259 in Bartolomeo Fomari (vol. V, par. I, fo. 133-182'; a Rapallo e Sestri quelli di Januino de Predone e 1221 (voL 1. par. 1, fo. 65-82) e del 1271 (fo. 53-64); a Sestri quelli del 1223 di Urso de Si-gestro fo. 1-64 : a Noli quelli del 1233 di Januino de Predone 1, par. 11, fo- 116-137)- Tut ti questi sono molto importanti per lo studio dell’economia agraria; non mi risulta siano mai stati ricercati a tale scopo. Altrettanto deve dirsi dei contratti agrari stipulati a Genova, i quali, riferendosi per lo più a immobili intemi o suburbani, hanno anche maggiore rarità d interesse. (15) XoL Tealdo de Sigestro, fol. 133 v® segg. 1262). (16) Belor ano, Nota sulla spedizione dei fratelli Vivaldi nel 1191, ASLi, XV, ISSI. - 21 e qualche anno più tardi a Ugo Assereto, che, frugando nei notai del 400, trovò un istrumento nel quale un testimonio, che si chiamava, nientemeno, Cristoforo Colombo « Civis lanue », dichiarava la propria età: « annorum vi-gintiseptem vel circa »; e questo documento, noto in tutto il mondo degli studiosi colombiani col nome di « documento Assereto », è servito a precisare, con una approssimazione di due o tre mesi al massimo, la data di nascita dello scopritore (17). E recentemente il francese Roberto Enrico Bautier, ricercando contratti di carattere commerciale, si è imbattuto in un fascicolo del 1343 contenente una serie di verbali del consiglio del primo doge, Simon Boccanegra, un autentico cimelio sinora affatto sconosciuto perchè i più antichi documenti noti di questo genere sono di età molto più tarda (18). È stato giustamente detto che la lettura di un registro notarile, special-mente del secolo XIII, se si vincono le difficoltà sopra accennate, offre, dopo settimane di attento studio, press’a poco la medesima impressione che si può ricavare dalla continuata lettura di un quotidiano di una grande città straniera con vasti interessi intemazionali, tante sono le persone che passano e ripassano sotto i nostri occhi e lasciano tracce dei più vari loro interessi e rapporti e prendono lentamente forma coi loro sentimenti e interessi, con le loro ambizioni personali, politiche e commerciali (19). Quella vita che la narrazione dei cronisti farebbe ritenere tutta presa dalle guerre esterne e dalle intestine discordie appare, nelle pur frammentarie e lacunose espressioni delle imbreviature sopravissute, nel suo aspetto più tipico di formidabile attività nei traffici, nei commerci, nella navigazione, in quell’attività, cioè, che poi si fonde con l’azione politica e militare nell’espansione marinara e coloniale. Sembra quasi che il tumulto della vita politica si arresti davanti al banco del notaio, non tanto però da non avere qualche eco anche nelle sue imbreviature. Così si può trovare la nomina di notai imperiali da parte di Enrico VI passato da Genova sulla fine del 1191 (20), il primo atto conosciuto della nomina di un podestà (Pecoraro di Mercatonovo di Verona, nel 1226) con le condizioni impostegli e gli obblighi da lui giurati (21). l’accettazione della « 17 U. ASSERETO, La data della nascita di Colombo accertata da un documento nuovo, « Giorn- Stor. Letter. d- Liguria», 1905, fase. 1-11, pag. 5. 1S II materiale studiato dal Bautier sarà prossimamente illustrato in <■ Mélanges d'Archéologie et d'Histoire publiés par l'Ecole Française de Rome ». 19) E- Ht Byrse, Easterners in Genoa. Journal of thè American Orientai Society», 1938; pag. 176 segg.; cfr. Fr. Poggi, Sopra alcune pubblicazioni estere riguardanti il commercio genovese nel Medio Evo, ASLi, II pag- 3S1 20 Guglielmo Cassinese, voi. Il, pag-90. n. 1338. Nel cartolare, f. 69 v6; cfr. C De-simom in « Giornale Ligustico », 1884, pag. 231 21 Not. L'rso de Sigestro nel cartolare erroneamente intestato a Federico de Sige- - 22 - podesteria di Alba da parte di Guglielmo Embriaco Negro nel 1230 (22), quella di Manuele Doria per la podesteria di Firenze nel 1252, purché il salario sia degno della città, del suo governo « ac status personae ipsius Ma-nuelis » (23) e molti altri documenti del genere. Più curioso e sconcertante è che si possa cogliere il console Bellobruno da Castello in atteggiamento d’intesa col nemico e in patente contrabbando di guerra. Gli Annali raccontano che Bellobruno, comandante di una squadra che doveva appoggiare, nel 1191, la conquista di Enrico VI in Sicilia contro il re Tancredi, non fu attaccato nel porto di Napoli perchè l’ammiraglio normanno Margarito da Brindisi, che pur si chiamava « re del mare » e aveva un numero doppio di navi, avrebbe avuto paura dei Genovesi (24). E un modesto atto notarile spiega il mistero: un salvacondotto a un agente di Bellobruno e del suo uomo di fiducia Nicola Leccanozze, per salvare la faccia un provenzale, Guglielmo de Beders, che portava in Sicilia, con lo stesso Nicola, un grosso carico di merci, per due terzi appartenenti appunto a Bellobruno (25). Si sa: gli affari prima di tutto; ma c’è probabilmente la connivenza del Comune, perchè la spedizione in favore di Enrico VI è fatta per necessità politica contingente, ma contro volontà, dai Genovesi. Nel 1200 Guglielmo Embriaco giuniore, nipote, socio e rappresentante stro). Il doc. è stato più volte pubblicato: « Hist. Patr. Mon.», Chartarum, pag. 1333; Ferretto, Documenti genovesi di Novi e Valle Scrivia, vol. I, pag. 315. (22) Januino de Predone, vol. I, par. 1, f. 97 v°; pubbl. in Ferretto, Documenti sulle relazioni fra Alba e Genova, pag. 69. Qui anche (pag. 71, da not. Pietro Ruffo, f. 62) la richiesta di liberazione dell’Embriaco fatto prigioniero dagli Astigiani. (23) Bartolomeo De Pomari, vol. 1, par. 1, fo. 187 v° (Ferretto, Codice diplomatico, /, 133). (24) Annali genovesi di Caffaro e dei continuatori, in Fonti per la Storia d’Italia dell’istituto Storico Italiano », vol. II, pag. 39-40. Che ci fosse sotto qualche maneggio politico aveva supposto il Manfroni, Storia della Marina Italiana dalle invasioni barbariche al trattato di Ninfeo, Livorno, 1889, pag. 289 segg. (25) Guglielmo Cassinese, n. 1144, 1145, 1202 (nel cart. f. 59 v° - 62 v°). A questi documenti avevo dato l’interpretazione su riportata negli studi Genova ed Enrico VI di Svevia in « Miscellanea di studi storici in onore di C. Manfroni Padova, 1925, pag. 93 segg- e Le relazioni commerciali di Genova col Regno Normanno-Svevo, in Oiorn. Stor. Letter. d. Liguria », 1927, pag. 1 segg. II prof. Lattes invece (L’assicurazione marittima e la voce « se-curare » in documenti genovesi del 1190 e 1191 in « Rivista del Diritto commerciale e del Diritto generale delle obbligazioni », a. XXV, Milano, 1927, par. I, pag. 64 segg.) li ha spiegati come assicurazione commerciale contro determinato rischio di genti, mentre il prof. Qian Piero Bognetti in un ampio lavoro di carattere generale (Note per la Storia del passaporto e del salvacondotto a proposito di documenti genovesi del secolo XII in Pubblicazioni dell’Università di Pavia », 1933) ha ritenuto trattarsi effettivamente di un salvacondotto che avrebbe favorito il commercio clandestino tra Genova e la Sicilia. Il Laites (Ancora dei documenti genovesi con la voce « securare », in « Rivista del Diritto commerciale * ecc. 12, XXXV, 1935, n. 3-4, par. 1) ha ribadito la propria interpretazione, ma con argomenti non pienamente persuasivi. - 23 — dell’omonimo seniore, — erano discendenti dal « Caput Mallei » della prima Crociata e ancora possedevano una « ruga de S.to Laurentio de Acri » — andava in Sicilia su una nave armata in comune « per parlare con uno della Curia »; detratte le spese, dovevano essere divisi a metà i beni mobili, le terre, i possedimenti che si sarebbero acquistati e avuti in dono o in feudo nell’isola (26). Evidente conseguenza di questa missione sono le ampie concessioni fatte al Comune, con diploma emesso in nome del giovane re Federico, nel dicembre 1200 (27) e la spedizione del 1201, sulla quale gli Annali hanno soltanto due fugaci e non chiari accenni, ma che si ricostruisce, purtroppo soltanto nei preparativi, appunto sugli atti del notaio. Si tratta di un groviglio di impegni reciproci tra i partecipi, di assicurazioni e controassicurazioni, di riparto degli utili futuri, con la sua brava quota per il Comune, di una spedizione privata e semiprivata, come quelle delle Crociate, ma organizzata da Guglielmo Embriaco seniore, in queU’anno priore dei consoli, con partecipazio- ' ne e garanzia dei colleglli e capitanata da Niccolò Doria, console anche lui, e da quattro comandanti in sottordine (28). Spedizione intrapresa e condotta con uno spregiudicato realismo, perchè si va in aiuto di una delle parti che si contendono la Sicilia, ma si stende la mano anche all’altra parte. Conclusione, un largo bottino nel quale il Comune ha parte cospicua; e naturalmente gli Annali, narrazione ufficiale, parlano soltanto di questa, tacendo i precedenti (29). Quando il genovese Enrico Pescatore, conte di Malta e ammiraglio di Sicilia, conquista con un colpo di mano l’isola di Creta, nominalmente per sè in realtà per la patria d’origine, dando luogo al conflitto con Venezia nel Mediterraneo, trova non soltanto nel Comune, ma nei maggiori nobili, Doria, Spinola, soprattutto Embriaci, l’aiuto finanziario, tuttavia insufficiente, a difendere e conservare l’acquisto prezioso; e i notai ne conservano, nei contratti di prestito, il ricordo, malamente camuffando sotto l’aspetto di un dono supplementare l’esoso interesse che può salire al 66°/0. E dire che il prestito ha anche carattere politico per utilità del Comune e che taluni dei mutuanti sono (26) Guglielmo da Sori, fo. 131 segg., 160 v°, atti 24-28 marzo 1200. Alcuni di questi documenti e di quelli indicati in seguito sono adoperati e riprodotti, non sempre esattamente, da G. Doneaud, Sulle origini del Comune e degli antichi partiti di Genova e della Liguria, Genova, 1878, pag. 77 segg.; altri sono pubblicati da N. Russo, Sulle origini e la costituzione della « potestatia Arbisole, Cellarum et Varaginis », Savona, 190S, pag. 199 segg. (27) Liber Jurium, 1,462; Huillard - Bréholles, Historia diplomatica Friderici li, to. I, pag. 64 segg. (28) Guglielmo da Sori, fo. 184 v°, 249 vo. (29) Annali, li, 81. — 24 - stretti in parentela col conte di Malta! Ma, si sa, gli affari sono affari (30). Egualmente i dati forniti dai notai integrano le notizie annalistiche e diplomatiche sui rapporti con le città dell’interno, strettesi in coalizione antigenovese sotto la protezione di Federico li, sulle laboriose paci con Alessandria e Tortona nel 122T (31), sugli interminabili contrasti con la irriducibile Ventimiglia (32), sui rapporti con Venezia (33) e così via. La perenne connessione tra la politica e gli affari è attestata, tra l’altro, dall’ambasceria a Federico II nel 1230, della quale si ignorano i risultati diplomatici, mentre rimangono, per opera del cancelliere che l’accompagnava, alcuni singolari contratti per acquisto di prodotti, specialmente di olio, da mandare a Tunisi ad opera , degli ambasciatori stessi; contratti stipulati proprio nel palazzo imperiale di Foggia (34). La spedizione di Ceuta del 1234 è narrata nelle sue vicende esteriori e militari dagli Annali; ma poiché, fatta bensì sotto la garanzia dello stato, fu però affidata a privati con autonoma amministrazione, è naturale che negli atti notarili se ne seguano le sorti, come le vere origini della maona — il nome compare ora per la prima volta — che ne deriva, e che è una unione di creditori contro terzi, i Saraceni di Ceuta, riconosciuta dallo stato, ma formatasi soltanto a spedizione compiuta (35). (30) Notai ignoti, reg. LX1, par. II; Lanfranco IV (Raimondo Medici,) fo. 26 vo, 28 vo, 34; Pietro Ruffo (Guglielmo Sapiente) 45 vo, 200. I debiti sono poi pagati dal figlio Nicoloso nel 1237; not- Giovanni Vegio, 25 v°, 26- Per la conquista di Creta, O- GEROLA, La dominazione genovese a Creta in « Atti dall’Accademia degli Agiati di Rovereto », Ser. III, fase. II, 1902, pag. 135 segg., (31) M. Chiaudano, Un documento inedito su Tommaso I di Savoia, c Bollettino Stor. Bibliogr. Subalp. », 1938, pag. 32S segg.; il doc. è del not. Urso de Sigestro.; G. Rosso, Documenti sulle relazioni commerciali fra Asti e Genova, pag. 117 segg.; Ferretto, Doc. Alba e Genova, pag. 22 segg., 89 segg.; Documenti genovesi di Novi e Valle Scrivia, I, 328. (32) Atto di procura del podestà a trattare la pace con Ventimiglia (maggio 1238), Enrico De Porta, I, 169. Documenti relativi al governo di Giacomo Boccanegra, fratello del capitano del popolo, a Ventimiglia nel 1257 in Angelino de Sigestro, fo. 189-190- (33) Trattato di pace rinnovato con Venezia, 26 giugno 1251; Giovanni Vegio, I, fo-92-94. Il doc. è anche in Liber lurium, I, 1090- (34) Simone de Palazzolo in Notai ignoti, busta I, doc. XXIV, n. 93-98. (35) Annali, III, 72 segg.; M. Amari, Ricodi arabici sulla storia di Genova, ASLi, V; R. Di Tucci, Documenti inediti sulla spedizione e sulla mahona dei Genovesi a Ceuta, ASLi, LXIV, 273-340; R. Lopez, / Genovesi in Affrica occidentale nel voi. Studi sull’economia genovese nel Medio Evo, pag. 11 e segg. e Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo pag. 173 segg. Negli atti del cartolare Bartolomeo de Fornari, II, fo. 215-265 (maggio-giugno 1252) c’è tutta una serie di documenti relativi a marinai ingaggiati « in hoc viatico Septe ». Nessuna notizia in altra fonte di una spedizione a Ceuta in quest’anno; si può ritenere fosse preparata per appoggiare le richieste di Innocenzo IV all’Emiro del Marocco, ma è probabile non sia stata effettuata. Non si può pensare che quei preparativi si riconnettessero alla spedizione effettivamente tentata nel 1260 (Lopez, / Genovesi, ecc., pag. 44), sarebbe inconciliabile coi metodi marinari del tempo. Il considerevole numero di marinai che, chiamati in servizio sulle galee, si fanno sostituire (36) attesta che la guerra ha ora minori attrattive di un tempo, quando i volontari accorrevano per farsi arruolare nelle imprese marinare e coloniali, o perchè una maggiore ricchezza abbia fatto mutare gusti e abitudini o perchè appaia meno promettente la possibilità di guadagno. Qualche sintomo di rilassamento si ha anche nelle classi superiori e tra i capitalisti, che sembrano preferire altre forme di investimento ai rischi delle spedizioni navali. Ma il pericolo corso nella lotta contro Federico II galvanizza le energie; nel 1248 sono catturate alcune navi del Regno (37) e quando nello stesso anno il podestà accenna in consiglio al timore di Luigi IX che Genova non possa mantenere gli impegni assunti per la crociata in Egitto, il consiglio « unanimiter una voce et corde leonino » risponde che gli impegni saranno mantenuti, che anzi Genova può fornire anche più navi di quante ha promesso. E s’intende: a parte altre considerazioni di fede e di prestigio, non bisogna perdere i lucrosi contratti. I documenti notarili mostrano infatti quanta parte, e con quale loro fruttuosa utilità, gli armatori genovesi abbiano avuto nella preparazione della crociata (38). Di particolare interesse è una serie di atti che ci fanno assistere alle vicende del trono, d’oro e tempestato di gemme, di Federico II, dato in pegno da Jacopo Del Carretto suo genero a Giulio Spinola e soci, e che, passato alla sede genovese della società fiorentina Mangiavacca, fu riscattato, nel 1253, da Giuseppe di Brindisi, rappresentante del re Corrado IV, per oncie d’oro 2208, corrispondenti a seimila lire genovesi (39). Altrettanto notevole è il documento col quale lo stesso Giuseppe di Brindisi prometteva di riscattare, entro il termine di quattro mesi, per 917 oncie d’oro, calcolate a cinque • (36) Not. Januino de Predone, I, fo.'254-5; Enrico de Porta, fo. 131 segg. Così anche per la spedizione orientale conseguenza del trattato di Ninfeo (Guido di S. Ambrogio, II, fo. 112-175^ e negli anni successivi (Giberto da Nervi, li, 920; III, 39 v°, 140 segg., 300 segg.; Ferretto, Codice diplomatico, 1,57 segg-, 354-350, 381 segg.). ' (37) Numerosi documenti relativi al riscatto dei prigionieri nel cartolare Paladino de Sexto, I, par- I, fo. 25 vo, 88-91. (38) Belorano, Documenti inediti riguardanti le due crociate di Ludovico IX, Genova, 1859; ASLi, II, pag. LXXVI; Manfroni, Storia della Marina italiana dalle invasioni barbariche al trattato di Ninfeo, pag. 420 segg.; Lopez, Storia delle colonie genovesi del Mediterraneo, pag. lS3segg. I numerosi importanti lavori su tali documenti saranno indicati nella seconda parte di questo studio. Quale interesse avesse per Genova la partecipazione alla crociata d’Egitto è attestato dal fatto che negli Annali era stato lasciato uno spazio in bianco per la narrazione, evidentemente in attesa di ulteriori notizie, spazio non più riempito, certo in seguito all’infelice successo dell’impresa. Annali, I, pag. XXV. (3Qi Bartolomeo de Fornari, II, fo. 175, 262,264 v0. Questi documenti sono ricordati, e in parte pubblicati, dal Belorano, L'interesse del denaro e le cambiali appo i Genovesi dal secolo XII al XV, « Archivio Storico Italiano » Ser. II, to. Ili, par. 1, 1866, pag. 117 segg. — 26 - soldi per oncia, un vero tesoro di anelli, gioielli, pietre preziose, sommariamente descritto, con la condizione della perdita, in caso di mancato pagamento, delle cento lire versate in suo nome da banchieri di Firenze e di Parma (40). Eloquenti testimonianze delle condizioni disastrose a cui Federico II era stato condotto dalla sua lotta col Papato e coi Comuni. La tecnica organizzativa e finanziaria della guerra di corsa, esercitata specialmente contro i Pisani e con centri di armamento a Portovenere e Bonifacio, è ampiamente illustrata dai documenti notarili del castello còrso (41). Non occorre infine ripetere che appunto i notai hanno fornito i documenti sulla preparazione della grande e infelice impresa dei Vivaldi, mostrandone finanziatore Tedisio, figlio del Lamba Doria vincitore di Curzola e nipote di quell’annalista Jacopo che ha lasciato il primo e solo attendibile cenno della spedizione, accompagnato dall’accorato richiamo e dall’affettuoso augurio agli intrepidi navigatori. (42) (40) Bartolomeo de F ornari, IH, fo. 154 v0. (41) Documenti sul castello di Bonifacio e Nuovi documenti. Cfr. A. Scialoja, Contratti tipici del castello di Bonifacio. / contratti dei corsari di Bonifacio nel voi. Saggi di storia del diritto marittimo, Roma, 1946). (42) Annali, V, 124; ASLi, XV; Belorano, Nota sulla spedizione, cit. MI LA CITTÀ E I SUOI ABITANTI Più che la storia esterna, gli atti notarili illuminano, per il loro stesso carattere, la vita nell’aspetto economico e commerciale, nella storia delle famiglie, nel costume. Un notevole saggio ha dato il Ferretto nello studio sul Branca dantesco e la sua famiglia (1), a cominciare dal Niccolò, il console del 1201, col quale i Doria assurgono ai vertici della vita locale. Sul suo collega Giordano Richeri, console e mercante a Genova, cittadino di origine feudale a Nizza, dov’è podestà nel 1203 e fonda per testamento un ospedale, e sui suoi fratelli e parenti, che offrono un singolare caso di duplice cittadinanza nizzardo-genovese, forniscono molte notizie Oberto de Mercato e gli altri notai tra la fine del 1100 e il principio del 1200 (2). L’espansione degli Spinola nell’Oltregiogo, le loro complesse relazioni fami-gliari, la stessa partecipazione alla vita economica come banchieri e finanziatori d’imprese e come interessati in società minerarie in Lunigiana, appaiono da una numerosa serie di atti (3). Così avviene per gli Embriaci che partecipano alla terza Crociata, commerciano dalla Sicilia alla Siria, possiedono vaste terre nella Riviera di Levante, a Quarto e tra la Croce di Camogli e il torrente di Lavagna, e ad occidente verso Arenzano, acquistano case presso S. Lorenzo e (1) Premesso al Codice Diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la lunigiana ai tempi di Dante, ASLi, XXXI, par. II, 1903. (2) V. Vitale, Nizza medievale, nel voi. Nizza nella storia a cura dell’istituto di Studi Liguri, Milano, Garzanti, 1943, pag. 46 segg. Il testamento con la fondazione dell’ospedale (not. Bonvillano, pag. Il, n. 148 a. 1189) era stato pubblicato, su comunicazione del Belgrano, dal CAIS de Pierlas, Testament de Jourdan Riqueri au XII'* siècle, in « Annales de la Société de Lettres, Sciences et Arts des Alpes Maritimes», Nice-Paris, 1890, to. XII, pag. 25. (3) Ferretto, Documenti genovesi di Novi e Valle Scrivia, passim; Codice diplomatico, II, pag. 194, 266, 361 ecc. — 28 - sono in rapporti di affari e di parentela coi Castello e coi De Mari (4). Anche i Della Volta, ricchi di possessi fondiari ad Arenzano e altrove, comprano e vendono terre m Genova stessa, dove hanno case e torri, altre ne danno a livello (5); sono, alla metà del secolo XII, in primo piano nella vita politica e — coi Mallone, Burone, Vento, Usodimare — tra le cinque grandi famiglie che controllano 1*80" 0 del commercio con la Siria (6). Ingo, capo allora della casa, suocero di Folco di Castello e di Alberto Spinola, è anche capo della fazione che combatte in fiera lotta gli Avvocati, provocando drammatici interventi dell’arcivescovo e dei consoli (7). Rosso, probabilmente suo nipote, è largamente impegnato in affari commerciali, più volte console e ambasciatore, partecipa alla terza Crociata, mentre i suoi hanno in città una vera guerra coi Vento (8). Nella casa dei Della Volta « ad mare » roga la maggior parte dei suoi atti Oberto Scriba de Mercato e molti anche Guglielmo Cassinese (9); che fosse un punto centrale, e probabilmente sede di organi di governo, prova il tentativo di impadronirsene compiuto nel 1227 da Guglielmo De Mari in un oscuro moto insurrezionale che sembra aver avuto sulle prime la tacita connivenza persino del Podestà e l’aperto appoggio di Ingo Della Volta (10). Nella seconda metà del XIII la famiglia, che si è schierata coi ghibellini, pur conservando notevole importanza, non è più in primo piano. (4) In numerosi atti di Oberto Scriba de Mercato, di Guglielmo Cassinese, di Gugliel mo da Sori e di molti altri notai. <5) Gli atti che li riguardano sono specialmente in Giovanni Scriba, Oberto de Mer cato e Guglielmo Cassinese. (6) SCHAUBE, Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo, pag- 191 segg.; ASTUTI, Rendiconti mercantili inediti del cartolare di Giovanni Scriba, Torino, 1933, pag. 13 segg.; e specialmente Byrne, Genoese trade with Syria in thè twelfth. century « American Historical Review », vol. XXV, n. 2, January 1920, pag. 178 (cfr. ASLi, LU, pag. 393). <7j Annali, I, pag. 226 segg.; Scarsella, Il Comune dei Consoli, pag. 171 segg. M. M° RESCO, Parentele e guerre civili in Genova nel secolo XII, in « Scritti giuridici in onore di Santi Romano, « Padova, 1940. Per la parentela con gli Spinola, // cartolare di Giovanni Scriba, pag. 65, 67. (8) Annali, II, 11, 18,29, 33, 42; Giovanni di Giliberto, I, pag. 276, n. 583-4, p- 489, n. 1554; II, p. 127, n. 1412; p. 180, n. 1508. (9) La maggior parte degli atti del Cassinese è però rogata « sub volta Furnariorum > nel portico, cioè, del palazzo dei Fornari, ove nel 1250 abitava il Podestà. Anche della ricca e potente famiglia dei Fornari, investita nel 1150 del castello di Fiaccone e che, per ' possessi in Valle Scrivia, diede il nome a Borgo Fornari, è continuo il ricordo negli atti notarili. Forse le appartennero anche i notai Bartoforr .issimi, massime il primo, intorno alla metà dei seeof© Xtth IMMM», Contratti commerciali genovesi del secolo XII, Torino, BOtta* $$2$, pag. (10) La prolissa narrazione di ' fatati, M ! l 8U",CI' enti informazioni sul carattere t ff'' (Genova e le sue relazioni con Federic» tt di , 44 W^bbe trattato di un tentativo ghibellino Afe un’azione fé 3H€&n prematura; del resto Salgono ancora invece i Vento che, inurbatisi dall’originaria Voltri, ove hanno e acquistano terre, partecipano con eguale intensità cosi alla navigazione e al commercio come alla vita politica del Comune, affermandosi, come dice Caffaro, «de melioribus civitatis» (11). Negli atti di Giovanni Scriba si possono seguire le imprese commerciali e le vicende dei fratelli Ogerio e Guglielmo, che sono stati anche consoli e hanno preso parte, Guglielmo special-mente, a importanti ambascerie (come a Guglielmo I di Sicilia e a Federico Barbarossa). Tra i successori, sempre in primo piano nella vita politica, si ripetono i nomi di Guglielmo, Ogerio, Simone, Pietro, Lanfranco; nel 1179 la famiglia è in guerra coi Grillo, alla fine del secolo coi Della Volta; nella contesa guelfo-ghibellina si divide: mentre un Guglielmo è tra i capi del gruppo imperiale, suo fratello Pietro, già Podestà di Milano, stipula a Roma, sotto gli auspici di Gregorio IX, l’alleanza con Venezia contro l’imperatore ed è poi fatto prigioniero alla battaglia del Giglio; e intanto coi commerci da un lato, coi pedaggi e le terre dall’altro, le ricchezze si accumulano e quando Guglielmo, già possessore del castello di Poipino, acquista Roccabruna e Men-tone, entra nel numero delle grandi case che hanno costituito vasti possessi a carattere territoriale e feudale (12): i Doria a Loano, verso Ventimiglia, in Sardegna; gli Spinola sull’Appennino e in valle Scrivia; i De Mari nella Corsica Settentrionale; i Malocelli a Varazze ed altri minori. Entrati stabilmente in città al principio del ’200, i Fieschi si mettono al primo posto durante l’aspra lotta con Federico II e i suoi sostenitori, mentre conservano — e conserveranno per secoli — i grandi possessi feudali sui due versanti dell’Appennino e mirano a formare, col favore del loro congiunto Innocenzo IV, nell’estrema Liguria orientale, tra Vara e Magra tra l’Appen-nino e il mare, un vasto dominio con centro nel vescovado brugnatense, e si gettano nel pieno della tipica attività economica cittadina, costituendo anche, con Tedisio, Opizone e Niccolò, nipoti di Innocenzo, una forma di società bancaria largamente documentata dagli atti notarili, dai quali risulta pure che il cardinale Ottobono (il futuro Adriano V) e suo fratello Niccolò sono in rapporti di affari con mercanti, specialmente di Lucca (13). basta osservare che i più fieri oppositori del movimento, gli Streggiaporci — più tardi Saivago — saranno alcuni anni dopo ardenti ghibellini. Più probabile, anche per l’attiva parte presa dai lanaioli, un movimento di carattere economico-sociale, sul quale avrebbero fatto leva taluni nobili che si ritenevano ingiustamente trascurati nelle cariche. (11) Annali, I, pag. 46, 65; Giovanni Scriba, II, 122. (12) Annali, I-III, passim (v. Indice, vol. V); Canale, Storia civile, commerciale e letteraria dei Genovesi, Genova, 1846, pag. 581; Vitale, Guelfi e ghibellini a Genova nel 200, ♦ Rivista Storica Italiana » 1948, pag. 553. (13) U. Formentini, Brugnato (Gli Abati, i vescovi, i « cives >) in « Memorie dell’Accademia Lunigianese di Scienze G. Capellini., 1939, pag. 27; Lopez, L'Attività economica 9 - 30 - E in gran parte sui protocolli notarili sono state ricostruite la genealogia e le imprese commerciali e industriali (una tintoria alla foce del Bisagno) di Benedetto Zaccaria, che con termini moderni potrebbe esser detto il re deH’allume e del mastice, al suo tempo: Benedetto Zaccaria, ammiraglio e mercante, pirata e diplomatico, collaboratore essenziale di Oberto Doria alla Meloria, ambasciatore a Costantinopoli e a Pietro d’Aragona alla vigilia del Vespro, maestro di arte navale e di costruzioni marinare in Francia, in Spagna, neirimpero bizantino, con una vera signoria feudale in Asia Minore, a Focea, esemplar tipo di una attività multiforme e versatile che in certo modo anticipa e preannuncia il Rinascimento (14). Gli esempi si potrebbero moltiplicare coi Da Castello, coi De Mari, coi Guercio, coi Mallone, coi Malocello e con molti altri; e indagini pazienti e minute nei cartolari darebbero sulle composizioni delle famiglie dati ben più sicuri di quelli offerti dai frettolosi e fantasiosi genealogisti del passato, sebbene le ricerche siano rese più ardue dalla frammentarietà dei cartolari conservati e dal fatto che talora due fratelli — è notorio, ma non unico, il caso di Guglielmo Embriaco e di Primo di Castello della prima Crociata — abbiano cognome diverso. Molti nomi di famiglie, tipici dell’odierna onomastica ligure, si trovano in quegli antichi documenti e un attento esame fornirebbe le prove, 0 almeno gli indizi, che molti cognomi, presenti in più recenti secoli tanto nel patriziato quanto nel popolo, indicano un ceppo comune, i cui rami furono poi differenziati dalle vicende politiche ed economiche. In quel mondo medievale fluido ed indefinito non è facile classificare 1 diversi elementi della popolazione. Ci sono, s’intende, i nobili e c’è il 4 P» pulus »; i nobili di origine viscontile o consolare; i discendenti, per i. tre rami di Carmandino, di Manesseno e delle Isole, da Ido visconte, che avevano rappresentato e sostituito l’autorità del marchese Obertengo, mai dimorante a Genova; quelli che avevano terre, uffici e cariche ereditarie dal vescovo; quelli che si erano elevati col ripetuto esercizio della funzione consolare; e tutti dediti alla tipica attività locale, mercantile e marinara. I nobili interni, derivassero dal ceppo viscontile, come i Carmandino, gli Spinola, gli Embriaci, i Da Castello, i De Mari, i Guerci, i Pevere, gli Avvocati, i Dalla Volta, i Serra, i Grimaldi, o fossero inizialmente fuori di quel parentado, come i Doria, gli Zaccaria, i Di Negro, i Vivaldi, i Vento, i Mallone, i Malocello e tanti altri, di Genova nel marzo 1253 secondo gli atti notarili del tempo, ASLi, LXIV, pag. 20; Stadi sull'economia genovese nel Medio Evo, Torino, 1936, pag. 45; not. Palodino de Sexto, vol. HI, fo. 155-157, 162-167. Molte terre vendono i Fieschi al Comune, in Lunigiana, nel 1276-1277; Liber Jurium, I, 1436-7 e Ferretto, Codice diplomatico, I, 102, 109-110; 315. (14) LOPEZ, Genova marinara nel Duecento. Benedetto Zaccaria ammiraglio e mfr-cante, Milano, 1933. ormai intrecciati fra loro da molteplici vincoli di parentela e di interessi, non solo avevano possedimenti fondiari della più varia origine, marchionale, viscontile, allodiale, neH’immediato retroterra, ma si espandevano ai danni dei feudatari esterni, ai quali erano pur frequentemente legati in parentela, sostituendosi nelle loro terre, acquistandone diritti feudali, tasse e pedaggi che poi si scambiavano continuamente tra loro con locazioni, permute e cessioni. Sulle rovine della vecchia feudalità i maggiori cittadini davano origine ai loro grandi possessi nelle Riviere e nelI’Oltregiogo, che dovevano anche assumere rinnovato aspetto feudale. Così avveniva anche per le terre appartenute alla Chiesa (gli Avvocati e i Bulgaro ne danno i maggiori esempi), così per i redditi patrimoniali, sopravvivenza di antiche regalie o diritti inerenti al potere sovrano nella stessa città di Genova (15), che si negoziavano come qualunque privata proprietà e, spesso suddividendosi in minime frazioni, passavano per vendite o cessioni temporanee, per assegni dotali o per eredità, anche a famiglie che non potevano vantare origine viscontile (16). Ai nobili interni si unirono gli esterni, i feudatari delle Riviere e dell’Ol-tregiogo, costretti alcuni soltanto a giurare la Compagna, altri venuti ad abitare in città: tipico esempio i Fieschi, stabilmente fissatisi soltanto al principio del 200, e con loro i Cavarunco, gente consolare e mercantile, i Pinelli, divenuti importanti banchieri, i Della Torre, anch’essi.baiyAieri, tutti del ceppo dei conti di Lavagna; e d’Oltregiogo i marchesi di Gavi cui imposto 1’« a-bitacolo » a secolo XIII inoltrato. Non è vero, però, come fu asserito, che gli uni dessero origine ai guelfi e gli altri ai ghibellini; basta ricorüare che i Fieschi con la loro parentela sono alla testa dei guelfi, i Doria, gli Spìaola, i De Mari dei ghibellini (17). , Se la nobiltà si distingue nettamente dal resto della popolazione, nel suo ambito i singoli non si lasciano facilmente catalogare in gruppi parti- • (15) Persino i Malaspina, ancora appollaiati sulle rocche che presidiano i passi della montagna, e che, pur avendo giurato I’ * abitacolo », non sono mai stati cittadini genovesi, dichiarano a Federico I di vivere « de voltis », cioè sul magazzinaggio delle merci (Giovanni Scriba, I, pag. 66). Molto spesso cedono o appaltano i pedaggi dei valichi, specialmente di Torriglia, a Embriaci, Da Castello, De Camilla, Doria, Della Volta, Guercio ed altri. (16) I registri notarili sono pieni di atti di questo genere; molti esempi nel cartolare di Giovanni di Guiberto (1200-1210), in Guglielmo da Sori (per es. fo. 231-232), nelle varie raccolte documentarie e in Belorano, Il secondo registro della Curia Arcivescovile, ASLi, XVIII, pag. 207. Cfr. DeSimoni, Sulle Marche d'Italia eia loro diramazione in Marchesati ASLi, XVII, pag. 246, 253; H. SiEVEKlNO, Studio sulle finanze nel Medio Evo, ASLi. XXXV, pag. 5 segg.; N. RUSSO, Sulle origini e la costituzione della « Potestatia * ecc.. pag. 76 segg., 200 segg.; FORMENTINI, Genova nel Basso Impero e nell'Alto Medio Evo, pag. 101,202. (17) VITALE, Guelfi e ghibellini a Genova nel Duecento, pag 536 segg. - 32 - colari e in ben distinte categorie. Essi, castellani, podestà nelle Riviere, ambasciatori, comandanti di galee, capi di spedizioni, inviati a ricevere sotto-missioni di ribelli o giuramenti di soggetti, presenti ai consigli e a tutti gli atti diplomatici di rilievo, riempiono della loro opera politica le pagine degli Annali e come capitalisti della navigazione e del commercio i cartolari notarili e costituiscono la classe di governo che dà l’impronta alla vita del Comune. Spesso contemporaneamente sovrani nel governo cittadino e sudditi dell’impero d’oriente o d’occidente, talora forniti di doppia cittadinanza, sono ad un tempo uomini di politica, di guerra e di commercio; sopra ogni cosa pongono e curano gl’interessi della propria famiglia e del gruppo consortile. Anche per le altre classi, i mercanti, per esempio, i banchieri, gli artigiani, non è possibile pensare a nette distinzioni proprie del mondo moderno specializzato e differenziato, in quanto un medesimo individuo può essere tutte o parecchie di queste cose, ed anche altre, ad un tempo. 1 banchieri, che pur compiono, con tecnica semplice e primitiva, tutte, o quasi, le operazioni della banca moderna, partecipano ad ogni attività economica quali armatori, mercanti, possessori di immobili, si impegnano in ogni sorta di società e di affari, mentre non tralasciano di prender parte alla vita politica nei consigli e intervengono all’occorrenza alle spedizioni marittime. A lor volta, gli artigiani costruiscono, vendono, contraggono prestiti e investono somme, affittano botteghe, serv/eno sulle galee, marciano a schiere su per le vallate, muovono verso Acrif o Bugia, intraprendono imprese commerciali, fanno la guardia ai castelli, costruiscono piantagioni £ ville fuori delle mura, partecipano ai parlamenti, vengono coinvolti in tumulti e ribellioni; e gli abitanti del contado*, gassano, spesso con turbinosa frequenza, dal campo e dal colle alla «gàlea (18). Dato questo stato di fatto, ne risulta che rimangono alquanto astratte e non precisamente aderenti alla realtà le rappresentazioni che si sono tentate del mercante, del banchiere, del navigatore, dell’artigiano in quanto tali; bisogna però riconoscere che, pur non potendosi fare classificazioni precise, non di rado, tra la varietà simultanea delle occupazioni, una prevale e serve a indicare un individuo, e da lui talora una famiglia. Spesso, davanti ai termini « bancherius » « fornarius » « ferrarius » e simili, non accompagnati da più specifica designazione, non sappiamo se sia indicata un’attività particolare o un nome da essa derivato. È caratteristico che tra queste designazioni non compaia quella di « mercante » e ciò perchè a Genova sono tutti mercanti (è la verità espressa nel (18) R. L. Reynolds, In Search of a Business Class in Thirteentli Centary Genoa, in « The Journal of Economie History » december 1945. L’acuta indagine del Reynolds è condotta sull’analisi dei cartolari di Januino de Predone. - 33 — motto « Genuensis ergo mercator »), onde si spiega anche la mancanza di una specifica corporazione, che avrebbe abbracciato tutta la cittadinanza, donne comprese. Le corporazioni riuniscono invece gli artigiani, ma, conseguenza, in gran parte, della situazione indicata, anch’esse compaiono appena in embrione quando in altre città, come Firenze o Bologna, il popolo è diviso in gruppi corrispondenti alle varie arti e ai vari mestieri, gruppi legalmente riconosciuti, che partecipano coi loro capi alla vita cittadina (19). A Genova non solo l’origine e il riconoscimento giuridico delle corpo-razioni sono tardivi, ma la loro funzione politica è temporanea e di scarso rilievo. Infatti, benché il « ministerium » dei macellai risalga ad origini antiche ed abbia carattere inizialmente feudale e demaniale, e anche altre associazioni di mestiere inerenti all’alimentazione, e specialmente quella dei panettieri, appaiano anteriori al Comune, l’ordinamento loro giuridico è evidente soltanto a secolo XIII inoltrato: il primo ricordo dei consoli dei macellai è del 1251. La più antica magistratura professionale di cui si trovi traccia è quella dei « consules mulionum », ricordata la prima volta nel 1212. Seguono dieci anni dopo i « rectores de tinctoria », che sono in realtà i più antichi artefici, perchè i mulattieri sono ausiliari e non artigiani veri e propri. L’organizzazione giuridica delle corporazioni si viene formando nell’età podestarile del Comune e si sviluppa negli anni successivi assumendo anche veste ufficiale' in atti di carattere politico. Per primo, il capitano del popolo Guglielmo Boccanegra vuole accanto a sè i « consules ministeriorum et ca-pitudinum arcium », all’intento di averne l’appoggio per sottrarsi all’influenza dei « potenciores » che hanno contribuito ad innalzarlo, ed attenuarne il predominio. Ma il tentativo ha breve durata; e anche in seguito le corporazioni artigiane, sebbene più numerose e giuridicamente riconosciute, non arrivano mai all’importanza altrove raggiunta; conseguenza anche questa del carattere essenziale della vita economica genovese, fondata sul commercio, cioè sullo scambio, anziché sulla produzione. Indice della scarsa importanza politica delle corporazioni artigiane, anche quando nçlla costituzione del 1270 alla nobiltà si oppose la loro unione detta « felix societas beatorum apostolorum Simonis et lude », è la singolare ed evanescente figura dell’» abate del popolo », del quale la più sicura notizia è che nelle occasioni solenni siede tra i due capitani del popolo Oberto Doria e Oberto Spinola (20). A questi, rappresentanti le due maggiori famiglie e (19) F. L. Mannucci, Delle società genovesi (TArti e mestieri durante il secolo XIII, « Qiorn. Stor. Letter. della Liguria », 1905, pag. 41 segg., studio tutto condotto sui documenti notarili; Lopez, Le origini dell'arte della lana nel voi. Studi sull'economia genovese nel Medio Evo, pag. 130 segg. (20) Interveniva però a dirimere le questioni tra le diverse arti; Mannucci, pag. 272 3 — 34 - destinati a sorvegliarsi e controllarsi a vicenda, appartiene di fatto il potere in quel caratteristico governo di popolo guidato dai nobili. Governo di popolo nel senso che si è legalizzato ed esteso il principio, già attuato dal Boc-canegra, della proporzionale partecipazione popolare, cioè non nobiliare soltanto, alle cariche e ai consigli; ma in questo sistema le corporazioni artigiane non hanno affatto l’ordinamento organizzato e politicamente prevalente che è tipico altrove e in particolare a Firenze; e di una loro funzione militare non c'è altra notizia che nello statuto dei « draperii » del 1280(21). Quale che ne sia stata, nel secolo XIII, la funzione politica, due elementi hanno favorito la formazione dei raggruppamenti artigiani: da un lato il raccogliersi in una determinata strada o quartiere, che ne trae il nome (22), di quanti esercitano una prevalente attività artigiana, anche se accanto ad altre svariate — i « tabernarii » sono quasi sempre anche « lanerii », — fattore topografico che provoca risse ed attriti, ma crea anche vincoli di solidarietà verso terzi e verso lo stato e determina intensi rapporti che vincono sotto certi riguardi Io stesso spirito di concorrenza. Dall’altro agisce l’esempio delle numerose colonie esterne che recano la nozione e l’esempio dei loro ordinamenti, anch’esse raggruppate in diverse zone, a seconda della provenienza. I numerosissimi mercanti fiorentini, ad esempio, che, governati da un console, abitano, finché c’è posto, un ospizio condotto dall’« hospes fiorentino-rum », hanno la loro loggia nella torre dei Vento — tuttora in parte esistente, tramutata nel campanile della chiesa di S. Giorgio — mentre la « statio Malo cellorum » o « campetus Stanconorum », esistente pure sulla piazza di S. Giorgio, accoglie i Lucchesi, che hanno il sepolcro a S. Maria degli Incrociati e fondano la chiesa di S. Zita. I Pisani alloggiano presso la chiesa di S. Torpete, in case dei Della Volta che nel 1268 dichiarano « se velle hospites esse et defensores Pisanorum ». Presso i Della Volta è anche ospitato il console dei Senesi (23). I lanaioli fiamminghi, come quelli venuti di Lom- (21) Mannucci, pag. 259 segg.; Lopez, pag. 77. (22) « Campetus Fabrorum », « contrata Scutariorum », : contrata Barilariorum », « con-trata Corrigiariorum », carrubeus Pellipariorum », « camibeus Fenariorum » ecc., MannuCO, pag. 255, n. 5. 1 lanaioli, come i tintori, abitavano di preferenza in Borgo Santo Stefano o in Rivotorbido, i * macherolii » o conciapelli a Porta dei Vacca, Lopez, Le origini d/n arte delta lana, dt-, pag. 109, 113. Anche alcune attività commerciali avevano luoghi fissi; i venditori di grano a * Raiba *, i pesatori a «Ripa»; Ferretto, Codice Diplomatico, II, 43. Anche l’Anonimo dice che «_ per le contrae — sun le boteghe ordenae - che queli che sun d’un’arte — stan quaxi inseme de tute parte»; ed Lagomaggiore pag. 311. (23) « Quell’ampia striscia di territorio, che incominciava dalla piazza di Banchi e comprendeva il dedalo dei numerosi vicoli e chiassuoli che sboccavano alla Ripa e alla Raiba del Comune, e, racchiudendo l’antica Croce di Canneto e S. Giorgio col suo mercato, si estendeva a S. Donato per rimontare poi per mezzo del Borgo Sacherio, del Predone ora Prione - 35 — bardia e come gli indigeni, abitano fuori Porta S. Andrea, tra la chiesa di S. Stefano e il Rivotorbido (24). La distribuzione topografica delle arti fa riscontro a quella delle zone che le grandi famiglie occupano coi palazzi e con le torri loro e degli aderenti: gli Spinola a S. Luca, i Doria a S. Matteo, i Castello e gli Embriaci presso S. Donato, i Vento fra Canneto e S. Giorgio, i Della Volta pure a S. Giorgio, i Fieschi a S. Lorenzo (e poi a Carignano), gli Zaccaria nella contrada che da loro prende il nome e nella contigua di Piazzalunga. Nel 200 però il moltiplicarsi delle famiglie maggiori, costrette a suddividere i diversi rami per la città, allenta la salda organizzazione dei nuclei nobiliari autonomi, propria del secolo precedente (25); ma il supporre che già da allora si formassero gli « alberghi » (26), costituiti non sulla base familiare, ma su altri elementi di vicinanza, di interessi e di varie opportunità politiche e militari, appare anacronistico e prematuro. A chi studia gli atti notarili appare subito caratteristico e impressionarle il grande numero di * foresti », italiani e stranieri, che vi figurano: fatto naturale in un ambiente di intensa attività marinara e commerciale, che qui acquista però eccezionali proporzioni, sempre maggiori a misura che la vita economica si fa più viva e turbinosa. A metà del secolo Xli, tra una folla di minori, spiccano alcune figure di mercanti, per lo più ebrei, deH’ltalia meridionale o levantini, che dominano il commercio con la Siria, si stabiliscono a Genova acquistandovi possessi immobiliari, si stringono in parentela con potenti case (come Solimano di Salerno con i Mallone, Salomone detto Blancardo coi De Ita) o fondano addirittura cospicue famiglie di armatori, come Buongiovanni Malfigliastro (27). Alla fine del secolo, con l’intensificarsi del commercio orientale per effetto della e della Contrata Sancte Tecle, a S. Andrea della Porta e a Sarzano, avvallandosi al Rivotorbido di Ponticello e a S. Stefano de Arcabus, nei tempi anteriori e posteriori a Dante Alighieri fu il soggiorno prediletto dei Toscani che in .Genova accorrevano. Lo provano la chiesa di S. Torpete protettore dei Pisani eretta fra 1133-1162, periodo di pace tra i due comuni, di S. Donato protettore degli Aretini anteriore al secolo X per costruzione , di S. Tecla degli eremitani di S. Agostino della congregazione di Toscana, della quale la prima pietra fu posta il 3 gennaio 1260 d’ordine di Gualtiero da Yezzano, arcivescovo di Genova. Quasi di rimpet-to a questa chiesa il rico Vegetti che prese nome dalla famiglia Vecchietti esuli dopo Monta-perti-: Ferretto, Codice Diplomatico, par. I, pag. VII-Vili, e v. pag. 60, 157-S, 245-9. 24 Lopez, Studi sali'economia genere se. pag. 90. 25 M. MORESCO, Note sulla fondazione della chiesa gentilizia degli Spinola nel 1168 a Genova, in « Studi di Storia e Diritto in onore di E. Besta », vol. IV, Milano, 1939, pag- 220 segg. e Parentele e guerre civili in Genera rii 26 SiEVEKiNG, Stadio salle finanze genovesi, pag. 74. 27 Byrne, Easterners in Genoa ciL; ASLi, Lil, 3S segg. I dati sono ricavati da Giovanni Scribi. — 36 - terza Crociata, si trovano in gran numero gli Oltremontani, tra i quali il primo posto è tenuto dai mercanti di Arras (28). Intermediari tra il commercio delle stoffe del loro paese e i prodotti orientali che acquistano sulla piazza di Genova, i Fiamminghi vi hanno stabile o almeno lunga dimora, partecipano attivamente alla vita economica dell’ambiente in cui vivono e sono strettamente legati ai più ricchi commercianti cittadini; altri sono artefici che esercitano — ed insegnano — l’arte della lana, sviluppatasi a Genova con lavoratori locali soltanto a metà del XIII secolo. Mercanti e finanzieri sono anche i Francesi, ma meno numerosi dei Fiamminghi; anche più scarsi Tedeschi e Svizzeri, eccettuati i cittadini di Friburgo, che esercitano quasi sempre la professione di sensali. Particolare è il caso degli Inglesi, che non commerciano colla lana o le stoffe del loro paese, ma formano un gruppo di artigiani orefici, venuti probabilmente col flusso della terza Crociata (scompaiono col terzo decennio del Duecento) e fermatisi in una città atta a fornire vasta clientela ad artigiani qualificati di un’industria di lusso (29). II grande afflusso di questi stranieri si attenua verso la metà del secolo XIII (ma naturalmente si trovano ancora Oltremontani ed anche Provenzali, Catalani, abitanti di tutte le rive del Mediterraneo) quando sono i Genovesi stessi che vanno alle fiere di Champagne, e quando divengono invece sempre più numerosi gli Italiani delle altre regioni. Sono Siciliani e, in genere, regnicoli, massime di Napoli e di Amalfi, venuti con le loro navi o stabilmente fissati in città; Sardi e, ancor più, Còrsi legati in relazioni di affari con Liguri di entrambe le Riviere, andati a presidiare il castello di Bonifacio o a esercitarvi modesti commerci e per la facilità delle comunicazioni marittime in continuo contatto con la madre patria; Piemontesi non solo di Asti e di Alba, ma di Bra, di Ceva, di Vercelli, di molte altre città e terre; Alessandrini, attivi compratori di tessuti, Astigiani, che hanno preceduto i Fiamminghi come intermediari nel commercio delle stoffe occidentali e sono in costante rapporto con la Francia, la Provenza, la Siria. Con loro, Tortonesi, pure acquirenti di stoffe, ma su meno larga scala, e Piacentini, numerosissimi, che esercitano specialmente il cambio, ma trafficano di tutto, dalle spezie ai panni alle pelli. Di Lombardia, oltre i Milanesi, che nella seconda metà del 200 gareggiano in numero e attività coi Piacentini e coi Toscani, e in parte risiedono in città, in parte vi trafficano, specialmente in rapporto con le fiere di Champagne, Como, Bergamo, Cremona, Mantova, Brescia mandano piccoli artigiani, specialmente lanaioli, o grossi mercanti affaccendati ad acquistare forti partite (28) R. L. Reynolds, Mercants of Arras and thè Overland tradc with Genoa Twelfth Century, « Revue Belge de Philologie et d’Histoire », 1930, to. IX, pag. 495-533. (29) Doehaerd, Les relations commerciales ecc. pag. 165 segg. - 37 — di panni fiamminghi, a vendere i « lombardeschi », a procurarsi la materia prima. Dopo i Piacentini, i più numerosi sono i Toscani, in primo luogo Lucchesi, forti importatori di panni fiamminghi, via Genova, e mercanti di seta; e Fiorentini, dediti particolarmente al traffico delle stoffe, ma impegnati in ogni sorta di attività e di affari, e poi Senesi, che qui, come dappertutto, si occupano di cambi e di prestiti e hanno dietro di sè la formidabile organizzazione delle loro banche; uno dei rappresentanti del famoso banco dei Bonsignori è però cittadino di Parma (30). Non mancano i venuti dal Lazio, specialmente da Orvieto, Corneto, Toscanella, che importano a Genova considerevoli quantità di grano; anche frequenti i Pisani e, in proporzione minore, i Veneziani; gli uni e gli altri rappresentati da propri consoli, soggetti tuttavia alle vicende degli alterni rapporti politici che, del resto, anche in caso di ostilità, non ostacolano eccessivamente le relazione commerciali. E non occorre dire che pullulano i Rivieraschi — più gli orientali che i ponentini — impiegati in ogni genere di occupazione e di affari, ma sopra tutto nella navigazione (31). Tanto afflusso di elementi eterogenei, in funzione del prodigioso espandersi del traffico marittimo, contribuisce a dare carattere nuovo alla vita genovese, in cui si va perdendo la rigidezza e ruralità dell’Alto Medio Evo, mentre la comunanza dell’origine, e spesso del genere di lavoro, fra gli immigrati determina il formarsi di piccole colonie strette da solidarietà di interessi e di sentimenti, finché almeno non si disperdono assorbite dal resto della popolazione. Così avviene per gli artefici della lana, in origine prevalentemente lombardi; così specialmente per i « Magistri Antelami », dapprima carpentieri, divenuti poi costruttori e scultori, provenienti dalla Valle d’Intelvi — della quale sentono nelle prime generazioni il nostalgico richiamo, tanto da recarvisi a celebrare il Natale — che acquistano in Genova una posizione quasi monopolistica, conservata anche quando, ormai assimilati coi matrimoni e la lunga dimora, tutti i costruttori si chiamano col loro nome (32). Tutta questa gente si muove, traffica, lavora in unione o in concorrenza coi nativi; ma poiché le raccolte documentarie ricavate dai cartolari tengono d’occhio particolarmente astesi, albesi, novesi, vogheresi, toscani, oltremontani, (30) Ferretto, Codice Diplomatico, I, e specialmente M. Chiaudano, Notizie sulla sede genovese della Gran Tavola di Orlando Bonsignori (1251-1263), in « La Diana >, Siena, 1933. (31) A suffragare queste notizie occorrerebbe citare tutte le raccolte notarili, anche a fermarsi soltanto agli atti già editi. (32) O. P. Boonetti, / Magistri Antelami e la Valle d'Intelvi, « Periodico Storico Co-mense » a. II, pag. 14, 20, 32 dell’estr. - 38 - risulta da essi, come è stato argutamente notato, più che una storia delle relazioni tra città e città, la storia di privati artigiani o mercanti domiciliati in Genova o in rapporto con suoi cittadini, con questa quasi paradossale conse guenza che delle migliaia di individui che sfilano negli atti pubblicati, quelli che si possono dire meglio noti, anzi offerti, con integrità di fonti, allo studio di tutti, sono proprio i non genovesi (33). La più importante eccezione è data dagli atti editi dalla Doehaerd, nei quali i Genovesi sono in prima linea come intermediari, acquirenti diretti, finanziatori dei mercanti di ogni re gione italiana in rapporto con le fiere di Champagne (34). È un altra ragione per augurare la pubblicazione o almeno lo studio dei cartolari integrali, dove naturalmente i Genovesi sono in assoluta prevalenza. Alla continua, intensa immigrazione corrisponde l’emigrazione dei Geno vesi che vanno nelle altre città e vi hanno consoli e logge, « e tanti son li Ze noesi - e per lo mundo si destexi - che unde li van e stan - una atra Zena ge fan », dice l’Anonimo; trafficano nelle colonie, toccano tutte le coste e i porti del Mediterraneo e, dalla fine del secolo XIII, anche dell’Atlantico settentrio naie e del Mare del Nord, e talora compiono anche un’azione che si direbbe colonizzatrice nel senso moderno (35). Questa loro attività, che ha lasciato scarsa traccia negli atti locali (36), è come una contropartita che sfugge in gran parte alla nostra indagine, ma della quale sentiamo tutto il valore. In tale mescolanza di genti, in tale scambio di attività e di prodotti è la ragion di vita di Genova nel XII e XIII secolo, come sempre di poi. « La città è prò spera per il suo movimento di transito, per il ricambio febbrile; da lei i nativi si staccano, operano e vivono altrove e segnano la sua impronta in paesi lontani; a lei gli stranieri accorrono e vi dimorano e danno al suo commercio il proprio lievito e il proprio indirizzo » (37). E quando contratti stipulati a Genova ci parlano, ad esempio, di debiti di mercanti novaresi verso altri di Monza con garanzia di gente di Alba e i testimoni sono di Struppa, di Asti, di Portodelfino; o di noleggi di navi da parte di uomini di Chiavari, di Pisa, di Amalfi, di Ischia, di Sorrento, di Mes- <33) Bognetti, Per l'edizione dei notai liguri, pag. 17; A. Lattes, Nuovi Documenti per la storia del commercio e del diritto genovese, * Archivio Storico Italiano », ser. V, to. XLVI, pag. 4 dell’estr. (34) Les relations commerciales ecc., vol. 11-111. (35) Vitale, Genovesi colonizzatori in Sicilia nel secolo XIII, « Giorn. Stor. Letter. della Liguria » 1928, pag. 5 segg.; Reynolds, In research of a Business Class, pag. 4. (36) Salvo, per quanto è finora noto, nei ricordati documenti redatti a Bonifacio, a Pera, a Caffa, Laiazzo, Beyrouth e Famagosta- Per Tunisi e Bugia, Ferretto, Codice Diplomatico, II, 10, 153, 305, 307. e in genere per le coste occidentali africane, Lopez, Studi sull'economia genovese, pag. 20 segg. (37) Lopez, L'attività economica genovese nel marzo 1253, pag. 178. - 39 — sina, con armatori di Genova, di Amalfi, di Barcellona per portare stoffe a Corneto o a Palermo o vino ad Oristano; o di trasporto di panni da Nizza a Pisa su nave genovese per conto di mercanti di Orvieto e di Perugia; o di commende concesse per la Provenza o la Siria da Genovesi ad Astigiani; o di denari depositati da Genovesi in una banca senese; o di un borghese di Portovenere che si obbliga con un Senese a favore di un Milanese alla presenza di testimoni di Orvieto, di Parma, di Firenze, ci domandiamo, ripensando al momento storico, se questa comunione e mescolanza di interessi tra mercanti che usano la medesima lingua non abbia già dato loro una comune coscienza e come una unità spirituale, nel campo almeno dell’economia e del commercio, sopra e oltre le lotte politiche e le rivalità e astiosità regionali (38). Su questo mondo cittadino così vario e complesso l’elemento ecclesiastico esercita l’assistenza e la tutela religiosa. 11 clero costituisce, esso sì, una classe nettamente distinta ed ha una sua rilevante attività, se non mercantile, economica e finanziaria: i relativi documenti si riferiscono quasi sempre a prestiti dati o ricevuti, a nomine a benefici, a liti tra enti religiosi per possessi contesi o rendite o profitti contrastati (la parte propriamente religiosa non può avere qui la sua documentazione), insomma a interessi materiali, non senza sospetto di quell’usura che le leggi canoniche condannano severamente(39). Ormai le funzioni politiche ed ecclesiastiche non si immedesimano più; ma l’arcivescovo, che mantiene potere feudale soltanto su un lembo della Riviera di Ponente (40), conserva antichi diritti fiscali ed è chiamato arbitro nei momenti più difficili e nelle più gravi questioni. La cattedrale è sempre il centro della vita cittadina, come le parrocchie neH’ambito rionale; nelle chiese maggiori si amministra la giustizia e i grandi monasteri di S. Siro e di S. Stefano sono anche notevoli- centri di attività economica, di carattere prevalentemente agricolo, mentre gli Umiliati, venuti nel 1228 come filiale della casa madre di Alessandria, fondano chiese e monasteri per l’industria della lana (41). Fervidi di sentimento religioso, i Genovesi non ammettono però intro- (38) Giovanni di Capriata, 1, fo. 114 (Ferretto, Documenti sulle relazioni tra Alba e Genova, pag. 276); Giberto da Nervi, III, fo. 68 v°, 164,243; Angelino de Sigestro, I, 98; Guido di S. Ambrogio, 1, 17 vo ecc; FERRETTO, Codice Diplomatico, I, 7; II, 147 ecc. (39) Molti esempi specialmente nel Liber Magistri Salmonis; per l’usura, pag. 174 e segg. (40) San Romolo (più tardi Sanremo) e Ceriana, sulle quali soltanto nel 1297 l’arcivescovo Iacopo da Varagine cedette tutti i diritti; Belgrano, Illustrazione del Registro della Curia Arcivescovile, ASLi, lì, par. 1; A Canepa, Vicende del castello di San Romolo, ASLi, LUI; N. Calvini, Relazioni medioevali tra Genova e la Liguria Occidentale (sec. X-XHI), Bordighera, 1950, passim. (41) Lopez, L'attività economica 195, n. 112; Studi sull'economia genovese, 86 sgg. - 40 - missioni delle autorità ecclesiastiche in materia civile e giuridica; ma, pur con aspri contrasti e fiere opposizioni, debbono cassare dagli statuti i capitoli che la Chiesa considera contrari alle proprie libertà (42). 11 contatto con tante genti diverse e con lontani paesi favorisce la tolleranza religiosa. Come già in passato, i rapporti coi Musulmani sono continui e Saraceni si trovano a Genova, persino in funzioni riconosciute e ufficiali. Nel 1272 c’è notizia di un ufficio di cancelleria tenuto da un tale Asmet Beranderamen di Tunisi, chiamato «scriba linguae saracenicae Comu-nis lanuae », che faceva da interprete per gli affari di Barberia (43), e questo esclude ogni idea di intolleranza religiosa. Analogo atteggiamento si nota anche verso gli eretici — specialmente provenzali e lanaioli lombardi — ignorati se non apertamente tollerati. Spirito di indipendenza e interesse pratico consigliano tale condotta; che ne sia derivato un pullulare dell’eresia e un vero fermento religioso nella citta è stato affermato (44), ma il fenomeno è rimasto certo entro modeste proporzioni. Un istrumento di Giovanni Scriba in data 6 settembre 1158 (45) ci fa assistere al pagamento del contributo dell’arcivescovo alla costruzione delle mura. Si tratta di 20 lire, somma della quale per notissime ragioni non è possibile determinare l’equivalente odierno, ma che era abbastanza rilevante se poteva servire all’acquisto di una casa, magari con giardino e bosco. Il curioso del documento sta in questo che la somma è prestata all arcivescovo dall’arciprete della cattedrale che, a garanzia, ha in pegno calici, pianete, vasellame d’argento. Reale o fittizio il pegno umiliante? Davvero 1 arcivescovo, che aveva redditi non indifferenti anche sul movimento commerciale e marittimo e signore feudale di San Romolo e Ceriana, era in tali strettezze da non avere quella somma o non trovarla a prestito da alcuno, neppure dall’arciprete, senza pegno? 0 era una finzione pér dimostrare l’impossibilità di contributo maggiore o c’era sotto qualche altro movente, magari di carattere politico? In mancanza di altri dati ogni affermazione sarebbe arbitraria. Comunque, si tratta della costruzione delle mura contro le minacce del Barbarossa, delle quali parla Caffaro, quelle nuove mura che ancora ripe- (42) Ferretto, Documenti genovesi di Novi e Valle Scrivia, I, pag 254; Lopez, Studi sull’economia genovese, pag. 84 segg. Cfr. Statuti della colonia di Pera, 1 I, cap. XII, in « Miscellanea di Storia Italiana, » vol. X; Chiaudano, Il più antico manoscritto degli Statuti di Genova, « Annali della Facoltà giuridica di Camerino,» vol. XII, II, 1938. (43) R. Caddeo, Le navigazioni atlantiche di Alvise da Ca da Mosto, di Antoniotto Usodimare e di Nicoloso da Recco, Milano, Alpes, 1928, pag. 19. (44) Boffito, Albigesi a Genova nel secolo XIII, in « Atti dell’Accademia delle Scienze » di Torino, XXXII, 1896, pag. 161; Lopez, op. cit. pag. 85. Il controllo dei documenti ivi indicati non mi ha dato l’impressione che si sia trattato di un vasto movimento. (45) II- cartolare di Giovanni Scriba, vol. I, pag. 259. - 41 - tono dalle iscrizioni di Porta Sonrana <• tentativo nemico (46). g°g '°S0 gndo suPert>o contro ogni Partendo dal mare, nressn mi c; . • dei Vacca, risalivano e^se il ivo di S slbina ^ X'" stato, dove era la porta di S A Je * ’ T. P'anUra de' ^ da un Castelletto, scendevano alle Fontane mT° Alban0' pr0,ett0 Bachernia, risalivano all’altura di Lucoli oggi VUlItta°n'"n P°rtel1." SUl nV° cuculi, oggi Villetta Di Negro, r d eeavano al basso, ove sorse po, ,| c„„ve„,0 di s. Caterina> * • F' * a"° pietra, donde la Porta Aurea dava adito alla regione esterna degli Archi, rag. giungevano il Ero ho o Borgo Sacherio, di qui ricongiungendosf a Porta So-prana con la cinta precedente, che chiudeva l’anteriore citta medievale il « castrum » o « civitas », comprendendo anche il « burgus » (47) Unificata la città entro la nuova cerchia di mura, la vetusta distinzione tra le due parti costitutive sopravvisse nell’amministrazione della giustizia- degli otto consoli .dei placiti,, separati nel 1130 dai -consules de regimine» quattro governavano le compagne « versus civitatem »: Castello San Lorenzo' Maccagnana, Piazzalunga, quattro quelle « versus burgum »: Borgo Soglia’ Porta e Porta Nuova (48). 8 ’ ouz,gua’ Una precisa ricostruzione topografica, dopo tante trasformazioni susseguitesi nei secoli, è assolutamente impossibile (49), anche se gli atti notarili di’ compravendita danno sempre i confini degli immobili negoziati. Si trattava di un dedalo inestricabile di stradicciuole, con qualche « carrubio » più ampio in cui le case erano spesso separate dalla « trexenda », vecchio nome indicante rustici sentieri, e non mancavano giardini e terre coltivate. La citta nei secoli XII e XIII si trasformava nell’espansione e nell’aspetto anche per il gran numero di inurbati e di immigrati. Un’intensa attività di costruzioni, massime verso la periferia e certamente in rapporto col costante incremento demografico, è attestata, per esempio, dai documenti di Maestro Salmone tra il 1222 e il 1226. Per lo più di legno le case nel secolo XII e numerose anche nel successivo, reliquia del viver povero e semplice dei secoli precedenti e conseguenza anche della fretta con cui si era dovuto provvedere all’alloggio, al (46) Il Comune aveva anche espropriato terre per la costruzione delle mura e delle torri relative, e ne indennizzava i proprietari; Giovanni Scriba, I, pag. 31. (47) Questa cinta rimase immutata sino al principio del secolo XIV; solamente nel 1276 fu costruito un altro braccio per comprendere il borgo di S. Marco e del Molo. (48) Formentini, Genova nel Basso Impero e nell’Alto Medio Evo, pag. 35 segg., 168. (49) Il maggiore e più felice tentativo, ma sempre necessariamente in linee generali, è quello di F. PODESTÀ, Il colle di S. Andrea in Genova e le regioni circostanti, ASLi, XXXIII. Molte e preziose indicazioni in Ferretto, Codice Diplomatico, par. I e II, passim. — 42 - fondaco, alla bottega di tanta gente venuta in cerca di fortuna. Ciò forse spiega la durevole e quasi monopolistica posizione conquistata in Genova, fin dal secolo XII, dai costruttori della Val d’Intelvi (i Magistri Antelami). Con siffatte abitazioni, frequenti erano gl’incendi, distruttori anche di intere contrade, tanto da render necessario che il cintraco, o banditore del Comune, nei giorni di forte vento dovesse andar ammonendo i cittadini di sorvegliare il fuoco (50). Unico e involontario vantaggio delle guerre civili la distruzione, insieme con gli incendi accidentali, delle case di legno, che erano rifatte di pietra, ma con alloggi piccoli in cui la gente si stipava. I nobili e gli agiati cittadini avevano però sin da allora più comode e solide abitazioni (51), costruite in pietra sino al secondo piano e in mattoni anche per altri due o tre, sino al tetto, con ampie logge e grandi cortili, che servivano da luogo di riunione della famiglia e dei suoi partigiani, con ornamenti di marmo, con bifore e polifore, con balconi e, naturalmente, con torri. Il Comune dovette intervenire per porre un limite alla gara di costruire torri sempre più alte (52). Erigere la torre era un dovere verso la famiglia; se il padre, morendo, ne lasciava interrotta la costruzione, uno dei figli aveva dai fratelli 1 incarico di terminarla. La torre presiedeva la casa di abitazione nel cuore della città come l’embolo o fondaco presso il porto e la marina (53). L’addensarsi delle torri private entro i quartieri cittadini, fenomeno comune, del resto, a tutte le città dell’Italia settentrionale e centrale, è una conseguenza del violento battagliare della vita cittadina e insieme conferma dello spirito feudale non ancora scomparso nelle grandi casate, anche se già prese dagli affari del commercio terrestre e marittimo. Come sempre, in quei due secoli, che, prevenendo il giudizio dei posteri, il Da Varagine chiamò della « perfezione » (54), è un continuo sostituirsi del nuovo al vecchio, che pur continua e lascia di sè frequenti tracce. La trasformazione delle vecchie case di legno in edifici in muratura, talora anche molto notevoli, sino ai grandi palazzi della seconda metà del 200, accompa- (50) Belorano, Della vita privata dei Genovesi, pag. 5 segg. (51) Non manca il caso che non solo gli antichi maggiorenti ma anche i nuovi ricchi possiedano e forse godano più edifici in città, e certamente una casa in città e una nel suburbio o in campagna, e persino più torri entro le mura, come risulta dagli inventari notarili in Lopez, Studi sull'economia genovese, pag. 219, 230, 241, 249, 261, 262. (52) Belorano, Vita privata, pag. 20,27; Sievekino, pag. 75; Formentini, pag. 310, n. 38. (53) Lopez, Studi sull'economia ecc. pag. 219, 221. (54) G. Monleone, La cronaca di Iacopo da Varagine, vol. I, pag. 250. Il periodo storico della perfezione è fatto cominciare dall’elevazione della città a sede arcivescovile (1133). 11 santo prelato ricorda i frequenti mutamenti nella costituzione politica e augura che se dovrà mutare ancora sia sempre in meglio, conchiudendo che non importa se governino consoli, podestà o capitani « dummodo res publica bene regatur; » ibid., pag. 254 segg. 43 gna l’evolversi della vita politica e sociale Hfln» • Compagna e del Comune, attraverso i m r -rL™6 manifestaz,oni della popolo, i Diarchi, sino a,l’apogeo de.la stori?' " CapÌtan° dd il vecchio non muore interamente sonrav • genovese- Ma> come sempre, pone e intersecandolo; così istituti e caJtT" f° "f .nU°V° ^ gH S' sovraP' possessi e in diritti fiscali della Chiesa e dei nobir' permang°no ,n taluni tere feudale trapelano anche qua e là da atti di , ' emi",sce"ze dl carat' Ottone, per esempio, ne. formulare il suo testamento,'nen^lasT^iœ « ohanni scutifero meo »; lo scudiern . M,uaiero dell arcidiacono è un’ultimà comnarsa di tutto un mondo feudale che un tempo si muoveva Intorno a queiralta canea della chiesa genovese. Ma non é il solo scudiero, e nel 1213 si trova un « Embronus scut,iter Jordan, Richerii , (55). Di sapore feudale é anche Patto col quale nel 1205 1 arciprete di Plecania promette vitto e vestito, a spese della pieve, a un suo canonico, finché andrà agli studi; ma egli deve promettere, in cambio, di essergli amico e . fidelis • e di procurargli la « fidelitas . dei propri parenti ed amici (56). Nel mondo laico, le famiglie di origine viscontile mantengono e commerciano antichi diritti fiscali; i A^alaspina posseggono importanti pedaggi Spe cialmente verso Val Trebbia, nei quali hanno compartecipi o rappresentanti nobili cittadini, ma via via vanno perdendo terreno e cedono al Comune diritti e territori (57); 1 Richeri sono mercanti a Genova e -feudatari a Nizza* gli Avvocati hanno « vilici » nella curia di Nervi e possiedono « iura soli » su quasi un intero quartiere di Castelletto, certo già appartenuto all’Arcive-scovo, sul quale sorgono quarantadue case, in parte di loro proprietà le più appartenenti ad artigiani (58). I Fieschi, anche inurbati, conservano i loro feudi montani; e Doria, Spinola, De Mari, Vento, Malocello e tanti altri mantengono o acquistano terre a titolo feudale sulle Riviere, nell’Oltre-giogo, in Sardegna, in Corsica. Costretti a venir ad abitare in città nel terzo decennio del 200, i marchesi di Gavi conservano qualche quota dei pedaggi prima posseduti sulla strada terrestre verso Genova ed ora frequentemente ceduti o affittati, e resti di terre e di redditi, sparsi tra il Tortonese e la Val d’Orba, tra Arenzano e Bavari (59). Per la limitata entità dei possessi loro rimasti e per la mancanza di tradizioni mercantili — si inseriscono, ma tardi e scarsamente, nella caratteristica attività locale — essi rappresentano (55) Giovanni di Guiberto, 11, pag. 3S1 segg.; Oberto De Mercato 1186, pag. 100. (56) Ibid pag. 43, n. 1236. (57) Oberto de Mercato 1190, pag. 103, n. 262; Ferretto, Codice Diplomatico, II, 17, 129 segg. (e v. Indice). Molti documenti anche nel Liber lurium. (58' Bonvillano, pag. 80, n. 162; Lopez Studi sull'economia ecc. pag. 210. (59) Ferretto, Documenti di Novi e Valle Scrivia, vol. 11, passim; Lopez, pag. 209. — 44 - il tipo delle famiglie feudali assimilate e disperse in grigia mediociita nella vita cittadina, netto contrapposto ai Fieschi, tipici possessori di grandi feudi che, poco dopo entrati, si mettono a capitanare le fazioni e aspireranno per secoli a primeggiare, ma insieme, pur non disdegnando il commercio e la banca, introducono un fiorire di cultura, di modi cavallereschi e di costumi nobiliari anche nelle famiglie venute dalla mercatura. Si ha così, anche per l’accrescersi generale della ricchezza, un più alto tono nella vita di tutte le classi, in modo che, come canta l’Anonimo borghese della fine del 200, signori, dame, cavalieri, uomini d’arme e di mestiere, sembrano tutti « marchesi » (60). (60) N. Laoomaggiore, Rime genovesi della fine del secolo XIII e del principio del XIV, in « Archivio Glottologico Italiano » II, lS76,pag. 216e E. 0. Parodi, ibid , X, 111 segg. IV LA CULTURA E LE SCUOLE ,I?d^^'^;eS-““edanv il trionfo della Meloria, si arresta ali • magglore Potenza di Genova e Caffaro e i continuatori ^aD1 ^ dI CurZ°la <7>- scrittori latini, rappresentata invece da' |acoDo° ri'1IavC0,;rente Ietteraria degH Balbi. Il da Varagine, che morì Arcivescovo di Ce & ^ °Ì0Vanni ascetica « Legenda Sanctorum » niiì ™ nova, notissimo per l’opera narrazione di miracoli e di vite di SantiTa'T"*' de"a " Legenda A.Urea ’ vitatis ianuensis» che, a giudizio del Montoni rlaV6"3 ' Chr°nÌCa Ci' Pur ponendosi cronologicamente come continuarne degli"An°nS*quTero naca ne diversifica profondamente nprrh* ho • « * questa ero- morale che di narrazione informativa (8) ? ^ ‘nten,i dÌ edUCaZÌ°"e Jacobo da Varagine appartiene alla scuola ecclesiastica genovese che ha avuto , suo, centri nella badia dei Cistercensi presso Sestri Ponente nel con vento de, Mortane»., d, Paverano e specialmente nel convento dei rati predicatori posto presso ,1 centro di Genova, nei quali si onoravano e coltra-vano gh stadi, s, min,avano codici, si costruivano forse carte nautiche. Il 30 aprile 225, acopo priore genovese dei Domenicani, faceva registrare da un notaio la carta costituiva generale delle scuole superiori dell’Ordine, emanata da Gregorio X nel , te,,o probabilmente, di effettuare senza indugio la nuova iniziativa. Infa , ne 12_9 la scuola esisteva già in forma di studio retto dal priore medesimo in funzione di « magister ». Quivi fu educato il Da Varaeine ed ebbe a confratello, forse più anziano, Giovanni Baldi, che poi doveva in’ segnare nello stesso studio. Chiamato anche Giovanni da Genova, il Baldi, fu lessicografo notissimo nel Medio Evo, auto,e d, un • Catholicon », glossario desunto dalla lette ratura grammaticale più autorevole, uno dei primi libri pubblicati a stam pa (9). Fuori dei chiostri, ci sono scuole religiose, ma di carattere più elementare, (6) . .... sagace, acuto, largo, preciso, superiore a lutti, anche a Cattar» . O Carduc ci. Di L. A. Muratori e della sua Raccolta dì Storici italiani in , Rer. Ita], Script. » nuo-va edizione, n. 1, par. I, Città di Castello, 1900, pag. LVI1I. (7) IMPERIALE, Prefazioni ai voli. Il - V degli Annali e Jacopo Doria e i suoi annali Venezia, 1930; Vitale, Le glorie marinare di Genova negli Annali di Caffaro e dei continuatori, « La Rassegna Itah'ana », Roma, febbraio 1930, n. CXLI; A Giusti, op cit 355 segg. (8) G. Monleone, La Cronaca di Jacopo da Varagine, « Fonti della Storia d’Italia» a cura dell’istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 3 voli., Roma 1941. (9) S.. Caramella, La Cronaca ligure nell'Alto Medio Evo, in « Il Comune di Genova » n. 7, 31 luglio 1923, pag. 9 dell’estr.; Giusti, pag. 339 - 330; Enciclopedia Italiana, XVII, 242. — 48 - presso l’arcivescovado; alla loro testa è il « magister scliolariun », più comunente abbreviato in « magiscola ». Personaggio autorevole, spesso investito anche di funzioni politiche, egli poteva delegare altri «ad regei e scholas », ma ne conservava la suprema direzione insieme col diritto di conferire la « licentia docendi », che era ad un tempo il titolo di merito e il permesso pratico dell’insegnamento. Ma presto la sua autorità decadde tanto che si trovano « magischolae » discesi alla condizione di insegnanti privati, alla paii coi laici, e il diritto di conferire il titolo e le insegne magistrali passa allo « studio » dei Domenicani. Dalle scuole religiose era anche uscito Simone De Cordo, detto comu nemente Simone da Genova, cappellano archiatra di Nicolò IV e di Bonifacio Vili, morto, tra il 1296 e il 1300, a Roma, dove aveva dimorato a lungo dopo aver insegnato in vari luoghi d’Italia accompagnato da un fido cretese pra tico di piante e di nomi greci; e a Roma pare piantasse in Vaticano il primo orto farmaceutico italiano. Col titolo « Synonima medicinae » (pubblicato poi nei primordi della stampa, a Milano, nel 1473), egli compose, se non il primo, il più importante di quei repertori o libri di sinonimia che avevano lo scopo di evitare la confusione tra le varie droghe medicinali che nell uso comune portavano nomi diversi secondo i diversi luoghi di origine (10). Alla seconda metà del secolo XIII appartiene anche Andalò Di Negro, nato nel 1260, morto nel 1334, astronomo, astrologo, geografo, viaggiatore, maestro del Boccaccio (11). E non è meraviglia che un tale Scienziato uscisse dalla città dove, già nella seconda metà del XIII, si spiegavano carte marit time in navigazione (12), « dove fioriva la scuola cartografica da cui trae vano i loro artefici le officine più riputate del tempo e dove si foggiò e si formò l’arte maestra di Pietro Vesconte, dominatore delle coste e dei mai i con la punta del suo bulino » (13). La cultura laica non specificamente marinara non ebbe a Genova scuole superiori, e la mancanza doveva essere sentita soprattutto per gli studi giuridici, (10) C. Desimoni, Intorno alla vita e ai lavori di Andalò Di Negro, in « Bollettino della Boncompagni », VII; « Bollettino Senese di Storia Patria», 1924, pag. 108 segg-; A. Pazzini, Storia della Medicina, Milano, Soc. Editr. Libr. I, 575-6; (11) Desimoni, op. cit.; Bertolotto in ASLi, XXV, pag. 51 segg.; P. Revelli, Cristoforo Colombo e la scuola cartografica genovese, Genova, 1937, pag. 263-4. (12) Il più antico esempio noto è quello della carta spiegata da Pietro Doria sotto gli occhi di Luigi IX sulla nave genovese « Paradiso » che nel 1270 lo portava a Tunisi, alla crociata. A sei giorni dalla partenza da Aigues Mortes il re e i suoi ufficiali erano preoccupati di non vedere le coste della Sardegna. Il Doria spiegò la carta e mostrò il luogo dove si trovavano, non lontano da Cagliari; De La Ronciére, La découverte de l'Afrique, li 39' R. Caddeo, Le navigazioni atlantiche di Alvise da Ca Da Mosto ecc., pag. 21. (13) Caramella, pag. 13; cfr. Revelli, op. cit., passim. - 49 — lo prova il copioso numero di Genovesi f,-™. * , tra i quali sono da porre i notai (14) e i moHks" ' "'VerSi,a di Bolo8"a. zione podestarile in città provenzali e itali, Ch'amat' a"a fun' Alba e Asti, ma I, ~ ji'Lzirszz ::c zr r—“■ * tonarsi con lo spirito della gente: la pr^it f«««nte in-A Genova spettò il compito, umile ma non infeconl.T^i'àre peTla" prima “ ,"P° M rVI °t Hame,,ti SCOlaStiCi’ des,ina,i a attraverso tutto ,, basso Medioevo. La dimostrazione data in proposito dal Caramella, a a qu le ha aggmnto qualche utile spigolatura il G„rri„i (16), è veramente sug ^a per no, tanto p,« mteressante in quanto poggiata tutta su document notarili’ Pr.ma mode ta forma dell-insegnamento estraneo alla dipendenza eccles t s„ca e 1 apprend,stato; se un .magister, insegna al proprio garzone, coi processi deli arte, anche noz.oni teoriche, molte volte essenziali all'arte stessa l’apprendistato assume carattere scolastico e didattico. Questo avviene speciali mente co, nota,, che, quasi soli a possedere una cultura fuori dei Caoitoli e dei Chiostri, hanno talvolta vere scuole con locale apposito, come quel « Ma-gister Bartholomeus notarius. che il 16 febbraio 1221 assume per cinoue anni a proprio scolaro Enrichetto, figlio del banchiere Giovanni di Coeorno per insegnargli il latino e la propria disciplina e servirsene ad un tempo di ripetitore per gli altr, alunni e di aiuto per le sue faccende. Contratto analogo stipula nel 1233 lo scriba Lanterno; il ragazzo, imparata Parte, «li verserà finché rimanga con lui, due terzi dei proventi che gliene deriveranno Ci sono maestri che insegnano la sola lettura sui testi latini senza che il discente apprenda il significato di ciò che legge; altri che danno’ le nozioni di lingua e di aritmetica necessarie alla contabilità commerciale del tempo (è la gramatica communiter edocenda secundum mercatores lanue); altri ancora (14) O. B. Spotorno, Storia letteraria delta Liguria, Qenova, 1824, vot I naffina 203-5; P. Accame, Notule e donneali per servire allo storia delle relazioni tra Oenova e Bologna ■ Atti e memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le province di Ro-magna », ser. Ili, vol. XV, fase. IV-VI, Bologna, 1898, pag. 239. (15) Guglielmo Embriaco Negro ad Alba nel 1230 e Nicola Cicala nel 1256 (Ferretto, Alba e Genova, pag. 69 e 203); Percivalle Doria ad Asti nel 1228, e Pietro Vento a Milano nel 1233 (Annali, III, 37, 80); Manuele Doria, vicario imperiale a Como nel 1248' molti (Guglielmo Vento, Manuele Doria, Alemano e Gotifredo della Torre, Luca Grimaldi ed altri) a Firenze; Lanfranco Malocello a Lucca nel 1266 e a Bologna nel 1271; Lu-chetto Gattilusio capitano del popolo a Lucca nel 1273; Ferretto, Codice Diplomatico, I, 21, 133, 311. Un elenco di ufficiali genovesi fuori di patria in appendice alle Leges Gè-nuenses; vol. XVIII dei « Mon. Hist. Patriae ». (16) G. GORRiNi, L'istruzione elementare in Genova e Liguria durante il Medio Evo, in « Giorn. Stor. Letter. della Liguria », 1931, fase. IV, pag. 266. segg. i \ — 50 - insegnano l’arte « scribendi et legendi in scientia legum » evidentemente con carattere soltanto professionale, senza indirizzi teorici. Più elevato insegnamento è quello di Guglielmo Crispino, che si incarica di insegnare a un giovane le arti « gramatice » e « loice », per prenderlo poi nella sua scuola come ripetitore stipendiato; qui l’apprendistato diventa vero e proprio tirocinio scientifico e didattico. 1 compensi sono stipulati con la solita meticolosità notarile, anche con la condizione che, se il discepolo nel termine convenuto non sarà sufficentemente istruito, l’insegnamento, gratuito, dovrà essere continuato fino a realizzare il suo compito. I maestri, per lo più del contado e della riviera orientale, o anche di fuori (17), vanno crescendo di numero (ma può essere conseguenza dell’ac-cresciuta quantità dei documenti sopravvissuti) lungo il secolo XIII; non insegnano più a un solo alunno, ma hanno una vera scuola, per quanto rudimentale e in locali non propriamente adatti, come in qualche « volta domus » dove bisogna far aprire una finestra « ut melius luceat ». Si trovano anche due o più maestri che associano l’opera propria, e il loro numero cresce tanto da trovarli costituiti, nel 1298, in Università o arte «universorum magistrorum gramatice de civitate et suburbiis Ianue ». L’atto che registra la nomina di Guglielmo d’Albaro a notaio e procuratore del collegio è firmato dai due consoli dell’arte, un tortonese e un marchigiano, e da undici « magistri gramatice ». Secondo il carattere pratico dell’ambiente, « nelle modeste scuole genovesi non s’insegnava come l’uom s’eterna, bensì come poteva ogni figlio del mare tener sotto i suoi registri, come sotto le bombarde delle galee, i potenti della terra; qui si faceva non l’eterno, ma il terreno e marino spirito di grandezza » (18); grandezza troppo lontana dalla sdegnosa anima del poeta, ma tale da non giustificare, almeno per questo rispetto, il giudizio di « pien d’ogni magagna » rivolto ai Genovesi. A chi, come il Sombart, ha rappresentato il mercante medievale come un meschino incolto artigiano, senza amore a qualunque forma di cultura e senza capacità di tenere neppure i conti, risponde la stessa massa ingente dei protocolli notarili, che fissano tutte le relazioni e le attività mercantili, risponde l’ammonimento delI’Anonimo: « Ma sempre arecordar te voi — de scrive ben li fati toi; — perzò che no te esan de mente — tu li scrivi incontinente »; e « chi è pigro faxeor — e lento in so faiti scrive, — senza danno e senza error — no po longamente vive ». In questa Genova del Duecento non si (17) Nel 1273 Batizato di Verona, scrittore, riceve da Boncario di Vernazza I. 10 contro promessa d’istruire « de arte gramaticae » suo figlio Crescimbono e altri tre giovani di Vernazza; Ferretto, Cod. Dipi. I, 216. (18) Caramella, pag. 23. - 51 mette dunque in alcun dubbio che il o • essere esatto (19). ante sapP,a scnvere e sappia cenni a librici diritto e frequenti ^ vénduto Vt’^a '“e "notai' ÏÏ. ir,—z : z “ rrL dei “ • >• i- , certo di largo consumo e ner ta politica monopolistica delle città produttrici, sedi di studi giuridici, come Bologna (20) Ma, sebbene a Genova mancasse un'arte libraria organizzata i suo, mercanti vendevano codici di ogni sorta, come libri ebraici, repertori di medicina e d, esorcismi, che spesso si confondevano, testi di grammatica e romanzi; e non mancavano i copisti, talora commentatori come i tipografi del rinascimento, a modo di quel Giovanni, di origine pistoiese, che, nel 1271 verso compenso di trenta genovine, prometteva al console di giustizia, Ugoné Altoviti di Firenze, di « scribere quaternos sex de libris Gofredi vel de alio opere vel etiam glosare » (21). Oltre che nella vita politica, giuridica e culturale, i notai, che non costituiscono un’arte, ma un « collegium » con monopolio delle cariche pubbliche (22), sono largamente presenti nell’attività economica non solo registrando i contratti altrui o come inviati dai grandi finanzieri a compiere importanti operazioni e ad esigere cospicue somme presso creditori all’estero (23) ma con ogni sorta di atti commerciali ed economici per conto proprio, naturalmente facendoli registrare da colleghi. Come Oberto di Mercato si serve di Giovanni di Guiberto (24), Bonvassallo Calligepalli, notaio di rilevante attività politica, presente a molti atti ufficiali del Comune, ricorre al collega Giovanni di Amandolesio (25): due esempi tra i tanti. Lo stesso avviene per i notai delle colonie. A Pera, Ottaviano Stabile, comproprietario di una nave, e Bertolino di Porta dei Vacca sono datori e prenditori di accomende per Caffa, dove mandano velluti ed altre merci (26); a Caffa, Oberto di Bar- (19) Anonimo, ediz. Laoomaqoiore, pag. 219; A. Sapori, Mercatores, Milano 1941 pag. 128. (20) R. Di Tucci, Prezzi di alcune copie di testi del « Corpus luris Civilis » in Genova alla metà del secolo XIII, Atti del 2° Congresso di Studi Romani, Roma, 1931; Lopez, Studi sull'economia genovese, pag. 236 doc. IX. Nel 1252 il notaio Guglielmo de Cla-vica acquista da Peregrino di Messina «librum unum legale silicet digestum vetus » per I. 10, Bonvassallo de Cassino, fo, 139 v°. (21) Ferretto, Alba e Genova, pag. 218; Cod. Diplom. I, 240. (22) Mannucci, Le corporazioni di arti e mestieri ecc. pag. 268. (23) Doehaerd, Les relations commerciales etc. pag., 24. (24) Giovanni di Guiberto, I, 577. (25) Giovanni di Amandolesio, 1, 117. (26) Actes des notaires génois de Pera et de Caffa à la fin du troisième siècle, pag. 82, 99, 143. - 52 - tolomeo dà e prende anche lui accomende (27) e Bernabò della Porta il 22 luglio compera per 300 aspri uno schiavo bianco circasso « dai capelli biondi », e lo rivende subito per 340 (28). Tealdo de Sigestro, il notaio che roga a Bonifacio nel 1238-9, per i suoi contratti personali — tra gli altri, un prestito ad Adalasia, la moglie di re Enzo, perchè possa mandare un messo a Roma per le pratiche di annullamento del matrimonio — si serve dei colleghi Bartolomeo de Fornari e Azone di Chiavica (29). Particolare ricordo merita, per 1 attività varia e complessa. Vivaldo di Calignano, proprietario di quote di navi, finanziatore di imprese di armanento in corsa, importatore di merci che poi colloca in Sardegna e in Corsica mediante mutui, prestiti e accomende. Molti contratti che* gli si riferiscono sono nel registro di Azone di Chiavica (30), forse lo stesso che. a sua volta, a Pera, nel 1281, dà cospicue somme nella consueta forrr.i dell accomendazione, per trafficare nel Mar Nero (31). Alesi notai, come Maestro Salmone, hanno il titolo di « Magister » non per nTt= i:r: funzione scolastica, ma per le conoscenze mediche confinanti spess: eoe . 2Jie magica. Un Giovanni Scarso romano, promette di consacrare un .irr: iesrlnato a scongiurare gli spiriti per la scoperta di qualche tesoro, con ben ripartizione degli utili (32). Nr: -urnerosi contratti per cure mediche il pagamento è generalmente subordina si la guarigione, spesso da conseguire con sortilegi, incantesimi e scongiuri più che con cure terapeutiche o con operazioni chirurgiche (33). Ma neanche queste mancano: tipico il caso di quel Bosso lanaiolo, al quale un medico bergamasco residente a Genova promette di levare quasi tutte le conseguenze di una paralisi. Il malato si impegna contrattualmente ad osservare la dieta, tutt’altro che insipiente: « non debes comedere — ordina il medico — de aliquo frutamine neque de carne bovina nec de sicca neque de pasta lissa nec de caulis » (34); ma sarà bastata a ridagli l’uso della mano, dei piedi, della parola? Quanto poi ci fosse da fidarsi di un medico che si diceva pronto, in mancanza di malati, a qualunque « operi seu laborerio » non si saprebbe dire. Era un Maestro Tullio « medicus cirorgie » che prometteva di esercitare 1 arte (27) Ibid., pag. 195, 216-7. (28) !bid-, pag. 247-8 (29) Documenti sul Castello di Bonifacio, pag. 230-231; Nuovi documenti ecc. pag. 39. (30; Nuovi documenti sul castello di Bonifacio (v. indice). (31) Actes des notaires de Pera et de Caffa, pag. 156. (32) Liber Magistri Salmonis, pag. IX, XVIII, XX segg. (33) Numerosi contratti relativi ai medici nel Codice Diplomatico del Ferretto, par. I> pag. 88, 91, 96; par. II, 342 (34) Lopez, Studi sull’economia genovese, pag. 117, n. 1. - 53 — sua a Focea e altrove a beneficio dei Greci e h»ì i • della legge e della coscienza, di tener pronti ali ' & Secondo ‘ dettami gratuitamente i fratelli Zaccaria, che annunfn necessari> di curare personale della loro casa e di d v dere on ,1 ? r T" * ^ " sione; e tutto questo per quaranta^ perp^ri “ abi.ï allf^ "f Pr°feS-oltre a un « victum convenabilem ». Era pagato r dell’anno, .3-11 balestriere Gigante, assunto dagl,^ Sin “h 7^'° d> 4 Zaccaria, con quaranta lire di salario, oltre il vitto (351 tT ' niiele. che anche i medici cercassero di rifarsi Inserendosi c„e (36). Rimane tuttavia i, fatto che anche allora, come “ 'n» delle professioni intellettuali era scarsamente retribuito. (35) Actes des notaires génois de Pera pi ri* r„rt Zaccaria, pag. 31-2. " * Ca//a’ H 139; Lopez, Benedetta (36) Actes des notaires génois etc. pag. 77 152- FFROFrrn / a • pag. 343, n. DCCCV; Codice Diplomatico, II, 342. ’ Magistris Salmonis, C LA FAMIGLIA E IL COSTUME 4 Negli atti dall’apparenza pesantemente uniforme per la stereotipa ripetizione delle formule legali aride e monotone, appare gente della più varia origine e provenienza e funzione. Feudatari di stirpe viscontile, venuti occasionalmente o con stabile dimora, rappresentanti dell’aristocrazia del governo e del commercio, infinite umili persone — il mercante grande e piccolo, cittadino e forestiero, il marinaio che si arruola, l’artigiano che si pone a servizio, il contadino che prende a livello la terra ove i suoi maggiori furono servi — lasciano traccia dei loro affari, della loro vita, persino delle più intime e delicate questioni personali e familiari, con vividi sprazzi di luce sulla storia del costume, su problemi che sfuggirebbero altrimenti a ogni indagine, fornendo un quadro suggestivo della vita cittadina, talvolta con note di umoristica o dolorante umanità. Il marito birbone, che, partendo a commerciare coi quattrini della moglie, le assicura «nec in mulieribus expendam nisi ad solidos quinque per annum» (1) (e richiama il motto proverbiale « passato il capo di Portofino — ogni marino si sente fantino ») fa il paio col figlio che promette alla madre, presenti tre gravi testimoni, tutti della famiglia Vento, di non perdere al gioco, per al- I meno dieci anni, oltre l’eventuale vincita, più di dieci soldi al giorno (una sommetta allora); e intanto le lascia l’amministrazione dei suoi beni, compreso il feudo di Sicilia, e giura di obbedirla in tutto e per tutto (2). Analoghe promesse di non giocare (3) sono molto frequenti da parte di (1) Oberto de Mercato (Arch. di Stato, Diversorum, 102, fo. 19): 2 settembre 1179. (2) *Ouglielmo Cassinese, vol. II, pag. 26, n. 661 (1191). (3) Lopez, Stadi sull'economia genovese ecc., pag. 116; Ferretto, Codice diplomatico, par. 11, pag. 14-15- L’interessante argomento è stato studiato, sotto l'aspetto giuridico, su do- 56 — persone di ogni ceto, dai garzoni, cittadini o inurbati, ai loro padroni, ai rappresentanti della più alta nobiltà, come Rifetto, figlio del fu Lanfranco Rosso Della Volta, che si impegna verso Nicoletta e Corrado Della Volta, evidentemente suoi consanguinei, a non giocare per due anni ai dadi, sotto pena di soldi dieci da dividersi tra chi abbia a denunciarlo e l’opera del Molo. Qualche volta l’impegno vale per tutta la vita, come nel caso di un Pietrino Gra-nara che, nel 1270, « sentiens me facta mea male gerere propter ludum taxillorum » giura sul Vangelo di non giocare mai più, sotto pena di soldi cento; ma generalmente è fatto per uno o due anni, magari con esclusione delle domeniche. Un curioso limite di tempo, del quale non s’intende il motivo, ha l’obbligo contratto nel 1267 da Guglielmo Tassarolo con Guglielmo Mallone, di non giocare « ad aliquem ludum taxillorum neque ad aliquam aliam basca-ciam » sino al ritorno delle galee, delle quali è ammiraglio Luchetto Grimaldi, armate contro i Veneziani (4). Promesse e impegni di ogni genere sono fissati con professionale indifferenza dal notaio. Nell’assunzione di persone di servizio è costante l’obbligo del padrone di fornire vitto e vestito e, per lo più, anche un tenue compenso; cui corrisponde dall’altra parte la promessa di lavorare e servire con volenterosa fedeltà e di non approfittare o rubare « me sciente » più di una piccola somma specificamente indicata, in genere da tre a dodici soldi (5). Ma qualche volta si scende a più precisi o più intimi particolari, come fa quell’apprendista che, ingaggiato per sette anni, promette al « magister », se si allontanerà da casa sua, di ritornare non oltre tre giorni. «Il notaio' aveva scritto: « si forte aliqua ira exiret domum eius » — e il « caruggio » era parso animarsi di voci pittoresche — ma poi lo scriba deve essersi ricordato o qualcuno deve avergli fatto osservare che non sempre « aliqua ira » un giovanotto può starsene tre giorni fuori di casa. E allora il notaio corresse « aliquo casu ». E, nell’impreciso, fu anche più umano » (6). Oltre a non giocare o bere (ma qualche volta era consentita l’eccezione per i giorni festivi o per particolari taverne, dove forse era più facile la sor- cumenti più tardivi, non genovesi, da L. Zdekauer, Della promessa di non giuocare a zara, in «Studi Senesi» 1893, fase. 4. (4) Sulla spedizione del Grimaldi v. Annali, IV, 103 segg; Caro, Genua und die Màchie am Miltelmeer, I, 201 segg. e Manfroni, Storia della Marina Italiana dal trattato di Ninfeo alla caduta di Costantinopoli, pag. 22 segg. La spedizione ebbe momenti difficili, ma ritornò con ricco bottino; ne fecero parte alcuni Mallone, uno dei quali vi morì, ma non si vede come tutto questo possa aver rapporto con la promessa del Tassarolo. (5) La norma è anche nel Breve della Compagna, in Leges Genuenses, « Hist. Patr. Monum. » col. 7. * (6) Bognetti, Per l'edizione dei notai liguri, pag. 9. Il documento è in Guglielmo Cassinese, vol. II, pag. 166, n. 1531, 29 gennaio 1192. - 57 — veglianza del padrone) il garzone, oltre ad apprender l’arte, deve « facere omnia servicia apotece pertinentia », obbligo tanto più gravoso quanto più indeterminato, impegnarsi a non prender moglie senza il consenso del principale, a non amoreggiare con le donne di casa. Ma forse perchè delle promesse degli uomini poco si fida, un porporaio, nel 1257, si fa promettere dalla servetta diciassettenne che lo informerà subito se qualcuno dei suoi lavoranti la chieda « de aliqua vanitate » (7). Gelosia o vera sollecitudine per la moralità e il buon ordine della bottega? E quante voci di triste o dolente o spregiudicata umanità! Quando l’arciprete di San Lorenzo decide la causa alimentare promossa dalla adultera Aimelina contro il marito Oberto Malocello, questi per la stesura dell’atto, che gli è favorevole essendo stata largamente provata la colpa della donna, ricorre al notaio Oberto de Mercato, anziché al proprio coinquilino Oberto di Piacenza, per timore di chiacchiere pettegole del vicinato, che non saranno egualmente mancate (8). Altri, meno sensibili, accomodano con losche transazioni finanziarie altrettanto losche situazioni, come quel lanaiolo di Vernazza che, avendo la moglie esplicitamente ammesso di aver mancato ai suoi doveri « etiam pro precio », ricevuti quaranta fiorini d’oro, le riconosce con atto legale piena libertà di vita (il documento ha parole anche più forti) per l’avvenire (9). Anche nel caso di gente meno spregiudicata, certi patti non sono tanto ingenui quanto potrebbe sembrare, perchè grava suU’inadempiente la minaccia di una forte penale in denaro. Nella città tutta presa dalla frenesia del guadagno, in quel mondo di navigatori, dove i comodi e l’amore e l’attaccamento alla vita sono posposti alla ricchezza costruita soldo per soldo, la minaccia pecuniaria può costituire un compenso all’onore e all’orgoglio. Cosicché quando, nel 1255, la moglie di un battilana si fa promettere dal marito che non le darà più busse e che non si troverà più con l’amante, nominalmente indicata, se non in presenza di almeno due testimoni, procurando di evitarla in ogni occasione, (10), si può giurare che, se il marito non ha mantenuto la promessa, ha certamente pagato la somma segnata nel contratto notarile. 11 senso della famiglia, appunto perchè provato dai pericoli e apparso come un raggio nelle lunghe lontananze e nelle pericolose navigazioni, è certo più vivo qui che altrove e costituisce la base del cosiddetto individualismo genovese. Ma quanti matrimoni in pericolo in questo porto a cui è tanto dubbio e lontano il ritorno! 1 matrimoni si contraggono e si sciolgono con la me- (7) Lopez, Studi sull'economia, pag. 122-3. (8) Oberto Scriba de Mercato 1190 pag. 76, n. 189. (9) Belorano, Della privata dei Genovesi, pag. 419- (10) Lopez, Studi sull'economia, pag. 123. 58 — desitna facilità; frequenti quindi gli atti di annullamento, qualche volta per colpa della moglie, qualche altra perchè c’è di mezzo una schiavetta saracena rimasta col marito anche dopo il divorzio (11). Frequenti anche i processi per bfgamia, chiusi quasi sempre con l’assoluzione degli accusati: peccato che la mancanza delle motivazioni impedisca di sapere i motivi di tanta indulgenza. Piuttosto numerosi i casi di riconoscimento di figli illeggittimi, anche con obbligo di mantenimento per il bimbo e per la madre; quel che appare più strano ed inspiegabile — quale dramma familiare o quale interesse vi si nascondeva? — è che un Pietrino di San Matteo faccia dichiarare dalla moglie, davanti a tre testimoni, « quod illa creatura quam habeo in ventre est tua et quod ipsam ex te habui et ingeneravi » (12). Qualche volta la donna, per motivi facilmente comprensibili, vanta diritti che poi i giudici (non occorre dire che sono sempre ecclesiastici) non riconoscono, come accadde a quella Maria de Pino che « petebat in virum » un inglese, di nome Eustachio, perchè diceva « eum se desponsasse » e « plu-res testes produxit set minime probavit », onde i due erano dichiarati liberi di sposare chi volessero (13). Famiglie mal riuscite ce ne sono, come sempre e in ogni luogo. Talvolta la donna chiede l’annullamento e la libertà di risposarsi provando che ne è stata coartata la volontà, ma che non ha mai riconosciuto il marito « nec ab ipso cognita fuit » o che il marito prima di sposarla aveva moglie vivente e magari anche figli (14). Qualcuno, nel fondare la nuova famiglia, dimentica le necessarie formalità — sono ancora lontane le severe norme del Tridentino e meno male se poi ripara riconoscendo i suoi obblighi davanti al notaio (15). Gli stessi appartenenti al clero devono talora ritener facile e comodo sorprendere la buona fede femminile (se pure è tale). In un curioso atto del 1213 i sacerdoti incaricati del processo annullano un matrimonio perchè lo sposo ha provato con testimoni che, già prima delle nozze, era converso dell’abbazia di S. Andrea (16). Strano davvero che se ne sia ricordato soltanto dopo. Naturalmente il freddo atto notarile non dice che cosa sia avvenuto della donna erroneamente sposata per la smemorata inavvertenza del converso; (11) Il cartolare di Giovanni Scriba, I, pag. 31, n. LVI. (12) Actes des notaires génois de Pera et de Caffa, n. XIX, pag. 130. (13) Guglielmo Cassinese, II, p. 251, n. 1754. (14) Guglielmo Cassinese, II, p. 139, n. 1467 e p. 212, n. 1641. (15) Giovanni Scriba, I, p. 296, n. DLII. (16) Pietro Ruffo, I, fo. 124 v.; Belgrano, Vita privata, pagina 414. Cfr., sebbene per età più tarda, N. Tamassia, La famiglia italiana nei secoli XV e XVI, 1910, pag. 150 segg. - 59 — se mai, avrà dovuto accontentarsi del permesso di contrarre un altro matrimonio. Quasi più scusabile quel tale che, dopo più di nove anni di legittimo matrimonio, recatosi a Piacenza e subito dimenticata la moglie, aveva sposato in fletta e furia una Adalasia piacentina, onde le due donne si disputavano, nel 1225, davanti al tribunale ecclesiastico, il medesimo marito, tanto più, e questo era il lato tragico della situazione, che tutte due attendevano la nascita di un figliolo. Come se la sia cavata l’arcidiacono della cattedrale, cui la faccenda era deferita, non dice il notaio, che ci ha conservato alcuni atti interlocutori, non la sentenza della causa. In compenso, riferisce la sentenza in un caso eccezionale, ove la donna non fa più la parte della vittima. Una Aiana di San Romolo aveva sposato un tale che, a detta dei testimoni, l’aveva tenuta come moglie legittima; poi era passata a nuove nozze con un secondo marito, rimanendo con lui dodici anni; finalmente, viventi, s’intende, gli altri due, era convolata a terze nozze con Baldizone De Mari, il quale, probabilmente stanco della matura sirena, chiese di essere liberato da quella trigama, che ebbe anche il coraggio di opporsi giudiziariamente: doveva essere una donna terribile. Il tribunale sciolse il nodo illegale, ma invano si vorrebbe sapere a quale dei precedenti mariti appioppasse la candida sposa (17). Non mancano, com’è naturale, negli atti notarili tracce di colpe femminili e notizie di mogli che fuggono da casa o non si fanno trovare dai mariti al ritorno dai loro viaggi di affari; ed essi si affrettano a far constatare il proprio infortunio, perchè ne deriva la perdita di ogni diritto alla dote da parte delle fedifraghe. Si incontrano anche madri leggere o addiritura snaturate; una tale Regina, che pur appare per parecchi anni attivissima lanaiola, il 28 giugno 1255 fa testamento — ben inteso, per lontana precauzione — lasciando alle tre figliolette la irrisoria somma di cinque soldi e nominando erede universale un tal Guglielmo Pelle che un documento posteriore mostra suo fidanzato e al quale ella versa la propria dote di 25 lire (18). Peggio, nella pieve di Bavari, una vedova, nel 1201, lascia i bambini per andare con un nuovo marito, e i consoli devono chiedere, con bando pubblico tra il popolo che si assiepa la festa avanti alla chiesa, se qualcuno voglia assumersi di nutrire i più piccini (19). Ma sarebbe assurdo trarre conclusioni da casi isolati, e a statistiche non j si può certo pensare; mentre è significativo che la donna genovese goda buona fama nella letteratura, dal famoso contrasto di Rambaldo di Vaqueiras al Boccaccio, e non è poco (20). (17) Liber Magistri Salmonis, pag. 187, 224; 527. (18) Lopez, Studi sull'economia, pag. 114, n. 2. • (19) Giovanni di Guiberto, pag. 78, n. 134. (20) Belorano, Vita privata, pag. 399 segg. — 60 — Assai più frequente è il caso di uomini che scantinano. La promessa di condursi come buon marito verso buona moglie è così frequente da farla sospettare assai poco mantenuta; è vero che dall’altra parte corrisponde analoga promessa, e forse allo stesso modo osservata, di tenere a freno la lingua « et non facere aliquam villanaim »; e spesso sono anche spiattellati gli oltraggiosi epiteti che il marito non deve rivolgere alla moglie e viceversa. L’arcidiacono di San Lorenzo è chiamato a giudicare una causa promossa da una tale che, per contrasti sulla dote, è stata malmenata e cacciata dal marito e dal suocero, col quale coabitava, ed egli sentenzia che la donna debba essere ripresa in casa, benevolmente trattata e col dovuto decoro, dal suocero, mentre il marito dovrà comportarsi amorevolmente con lei, giacendo nel medesimo letto e mangiando al desco in un solo tagliere, e senza tenere alcuna concubina, comportandosi insomma come buon marito verso buona moglie (21). A sua volta, in un atto di pacificazione dinanzi al notaio, il marito si impegna, con la solita reciprocità, a trattare la donna come moglie legittima, a tenerla in casa e a farla partecipe dei suoi beni, a non farle alcun male « nec proicere tibi in hodium aliquem hominem » (22); dove quel gettarle tra i piedi per odio un uomo, al fine evidente di farla scivolare, è espressione straordinariamente efficace. Non manca, s’intende, l’impegno di non darsi ad altri amori. Doveva essere ben conosciuto nelle sue debolezze quel Martino battifoglio che, ricevendo in accomendazione da Ido de Palio nel 1191, insieme con la moglie Ma-bilia, la somma di 15 lire « causa negociandi in botea de suo officio usque dum placuerit ipso Idoni », giura di non allontanarsi da una certa zona cittadina, di non giuocare, di non donare oltre 12 soldi, di non mangiare e bere fuori di casa, e, naturalmente, di non aver rapporti con donna alcuna (23). Ma qui siamo in classi sociali modeste: la legge e il costume non legavano i possessori di schiavette, fossero more o sarde o còrse, anche se talvolta — ma non pare di frequente, perchè larga doveva essere la tolleranza femminile — ne derivava qualche dramma familiare. Il più strano è che impegni reciproci, sanzionati dall’intervento del pubblico ufficiale, si contraevano anche nel caso di unioni libere, con la eterna promessa dell’uomo all’« amasia » di non darsi ad altri amori, di serbarle intera fede, di non abbandonarla per tutta la vita. Viceversa, con atto redatto a Laiazzo nel 1274, una Cerasia siciliana, di non troppo chiaro passato, prometteva all’amico e padrone genovese — che si impegnava però a « non red- (21) Liber Magistri Salmonis, pag. 284; Belgrano pag. 415. (22) Januino de Predone, I, par. I, fo. 125. (23) Guglielmo Cassinese, I, pag. 112, n. 277. - 61 — dere aliquod malum meritum de aliquod hinc retro fecisti » — di stare ed a-bitare con lui « sicut bona femina et facere tibi servicia tua que mihi dixeris et preceperis in domo et extra », consentendogli sulla propria persona intera balia, col diritto di caricarla di catene e di mozzarle il naso, una mano o un piede in caso di mancato adempimento. Tutto questo purché ella non intendesse farsi religiosa; e già doveva pensarci, perchè dopo pochi giorni si veniva tia i due a una liquidazione di conti, e non era passato un mese che il contratto era annullato « de partium voluntate » (24); magro acquisto per l’ordine in cui la donna entrava, certo come conversa. Più straordinario e candidamente impudente un, diremo così, contratto di locazione d’opera, per il quale una certa Giovannetta si impegnava a rimanere col padrone per sei anni « prò serviciali et amasia et facere omnia servicia domus tue et persone tue », a curarne le robe e a non derubarlo; e l’uomo, a sua volta, a tenerla « prò serviciali et amasia », a curarla sana e malata, a darle vitto e vestito, promettendole inoltre, e questo è fuori dell’uso delle normali prestazioni d’opera, di darle un compenso di dieci lire (cifra, allora, abbastanza cospicua) se alla fine dei sei anni il contratto non fosse rinnovato per volontà di una o di entrambe le parti: penale di dieci lire per ehi mancasse ai patti (25). Ecco: non è detto che rapporti di questo genere non sussistano tuttora; ma sono faccende alle quali nessuno si sognerebbe di assegnare un termine contrattuale e tanto meno di legalizzarle per mano di notaio, con tanto di testimoni e una brava minaccia di penale. Assai più che per le sue vicende coniugali o amorose, la donna compare negli atti notarili per la diretta partecipazione agli affari del marito e della famiglia e spessissimo esercitati anche per conto proprio; la sua larga attività economica, dovuta anche all’influsso ambientale, è stata ripetutamente rilevata. Per le pratiche necessità, determinate dalle prolungate assenze degli uomini, e anche per i meriti di una effettiva collaborazione, le donne genovesi hanno avuto per tempo una maggiore responsabilità di azione, una diretta partecipazione al commercio, una parificazione agli uomini che non si trovano in grado eguale nelle altre città del tempo. La vita stessa le vagliava e spesso il testamento del marito conteneva implicito un giudizio e un riconoscimento, quando lasciava la moglie a curare gli affari e a reggere sola « dona et domina » la casa degli orfani. C’è anche caso di vederla sopraintendere all’amministrazione di opere pubbliche (come un ponte sul Bisagno) e si può essere certi che saranno (24) Actes passe's en 1271, 1274 et 1279 d l’Aïas, n. XLVIII, p. 90 e LVII, p. 94; Belorano, Vita privata, pag. 418- (25) Emanuele Enrico de Porta, fo. 103 v., 8 dicembre 1287 in Documenti sul Castello 'di Bonifacio nel secolo X'HI, pag. 290, n. XC1X. — 62 — state amministrate bene. Negli atti di compravendita, di garzonato aitigiano per figli o nipoti, di prestiti, di accomendazioni, la partecipazione femminile è attiva e continua (26). La presenza dei due che l’assistono (« quos piopin-quos et consiliatores appello » o « quos per consiliatores et vicinos sibi eligit » o che addirittura dichiara suoi parenti), necessaria al valore giuridico dell atto, è una pura formalità legale, che talvolta può persino mancare. Tanta libertà di iniziativa e di azione della donna, sposa, madre, vedova, contrasta con la condizione anteriore alle nozze, quando il padie destina le figlie al matrimonio o al chiostro, senza preoccuparsi del loro consenso, spesso invece richiesto se si tratta di maschi che si vogliono avviati al monastero. La cosa è così frequente, normale e notoria, che non mette conto di recarne esempi (27). E poiché in tal modo le fanciulle erano impegnate in tenerissima età e i matrimoni potevano anche contrarsi, almeno formalmente, quando le spose non erano ancora uscite di puerizia — e talvolta avveniva anche per i maschi — si comprende la frequenza dei loro annullamenti, dai quali derivavano infinite questioni per quanto riguardava la dote e, in genere, gli interessi patrimoniali. I testamenti, che fanno entrare nelle turrite dimore dei magnati, come nelle case dei grandi e dei piccoli mercanti e nelle abitazioni più modeste non proprio degli umili, s’intende, perchè nulla avendo da lasciare non fanno testamento — e sono come il consuntivo di tutta un’esistenza, hanno un notevole interesse per la conoscenza della vita privata e familiare. Se è il marito che muore, lascia generalmente alla moglie, oltre la dote e l’estradote o antefatto, che le spettano di diritto, il letto guarnito, le vesti « de dorso suo et de persona sua », e per lo più le suppelletti di casa, anche una somma varia secondo i suoi mezzi e, si capisce, secondo quelli che sono stati i loro rapporti, ma generalmente da restituire ai figli o agli altri eredi in caso di nuovo matrimonio, sempre deprecato sino a farne per la vedova un obbligo di coscienza (28). Ma un uomo di buon senso, nel 1162, lascia alla moglie 25 lire e mantenimento « si cum filiis meis stare voluerit ut bona mulier et negociis mei providere », 50 lire, senz’altri diritti, se non (26) Una larga documentazione per quanto riguarda l’arte della lana in Lopez, Studi sull'economia, pag. 114 segg. (27) Cfr. E. Besta, La famiglia nella storia del diritto italiano, 1933, pag. 152 segg-Si può vedere in proposito Belorano, Vita privata, pag. 409 segg- dove è anche citato il caso di una vedova che, con l’assistenza di due consiglieri, prende analoga decisione secondo la volontà del defunto marito. (28) Actes des notaires génois, pag. 83. Generalmente la formula è: « volo quod si uxor mea voluerit stare cum filiis meis sine viro, quod ipsa sit dona et domina rerum mearum ». Un tale fa donazione, da vivo, alla moglie della quarta parte dei suoi beni, da godere per tutta la vita «si prior te obiero... nisi ad alia vota transieris», Pietro Ruffo, fo. 178. - 63 - manterrà Io stato vedovile (29). Oltre la parte che le spetta di diritto, la moglie ha spesso 1 usufrutto dei beni maritali; eredi sono i figli maschi, che dividono le pioprietà rimaste sino allora indivise anche se essi hanno famiglia piopria, qualcuno dei figli può avere assegnazioni particolari per cause diverse, per esempio per « emere libros vel causa eundi ad scolis » (30). Talvolta, invece, il padre, risposatosi, nomina eredi i figli di secondo letto, e a quelli del pi imo, coi quali è in dissapore, presumibilmente appunto per quel secondo matrimonio, dà una misera quota e... la propria benedizione (31). Non mancano casi in cui figlio e fratello siano eredi in parti eguali (32); è un. indizio del forte vincolo che lega i collaterali e mantiene compatti i nuclei familiari, mentre i molti legati a parenti più lontani e ad amici testimoniano di una vita socievole piena di solidarietà, com’è piena di inimicizie. Anche i figliocci hanno spesso, specialmente in mancanza di figli, il ricordo del loio padrino (33). E c’è una generosa tenerezza per i ragazzi che si sono presi in casa ed allevati, pur avendo figli propri (34); e Io spirito di famiglia si allarga all’affetto per i dipendenti, gli schiavi domestici che vengono liberati e in particolare le nutrici proprie, dei figlioli, anche del marito, verso le quali si ha una sollecitudine che non si allenta con gli anni (35). Alle femmine, se sposate, toccano soltanto legati minori, a titolo di regalo; se nubili, somme più elevate, destinate come dote « ad suum maritare ». Se non ci sono .figli maschi, subentrano nell’eredità le femmine. Caratteristico è a questo proposito il testamento di Pietro de Silo che, nel 1190, lascia eredi le due figlie « et ventrem sue uxoris si fuerit femina » ; se sarà maschio, l’eredità spetterà a lui e 150 lire a ciascuna delle figlie, destinate tuttavia a subentrare quando l’eventuale fratello venga in qualunque momento a mancare (36). Da altro testamento, posteriore di quattro anni, si rileva -che il bimbo era morto e le sorelle rimanevano a dividersi la cospicua eredità: la maggiore, Giovannetta, aveva già marito e le era stata assegnata la (29) Giovanni Scriba, 11, pag. 70. (30) Giovanni di Guiberto, II, pag. 289 (1206). Non di rado, però, la vedova è con altri curatrice dei beni per i figli minorenni; se i figli mancano, specialmente se mancano i maschi, e il marito non lascia altri parenti, ella subentra integralmente nell’eredità; Guglielmo da Sori; fo. 207; Liber Magistri Salmonis, pag. 230; Actes passés à Famagouste, pag. 98; Documenti sul castello di Bonifacio, n. 30, pag. 17. (31) Giovanni di Guiberto, 11, pag. 403, n. 915 (1206). (32) Giovanni di Guiberto, 11, pag. 505, n. 2066 (1211). (33) Oberto Scriba de Mercato 1190, pag. 21, n. 50; Giovanni di Guiberto, 11, pagina 274, n. 1669 (1206). (34) Oberto Scriba de Mercato 1190, pag. 22, n. 52; pag. 241, n. 609- (35) Oberto Scriba de Mercato 1190, pag. 56, n. 140; Giovanni di Guiberto, li, pagina 334, n. 1790. (36) Guglielmo Cassinese, I, pag. 5, n. 7. - 64 - dote di 450 lire; altrettanto doveva esser dato alla seconda, Adalasia, e tutto il resto dividersi per metà. Si ricava inoltre che la moglie era già vedova di altro marito, dal quale aveva avuto una figlia, Sibilia, ancora vivente, ed è curioso che alla suocera, nell’atto precedente nominata esecutrice testamentaria con la moglie e due amici, e ora sostituita dal genero — gli amici sono scomparsi — lascia soltanto dieci lire... ma alla morte di lei, in suffragio della sua anima (37). Ottimi debbono essere stati i rapporti di Safron de Clavica con la moglie Bonaventura, alla quale lascia, oltre dote ed antefatto, 50 lire, il loro grande Iettò che descrive minutamente, con le due coperte, le due « veliate » « et cuum omnibus ut est » e tutte le masserizie di casa. Vuole che tutti, in famiglia, le portino rispetto e riverenza, e se qualcuno dei figliuoli (erano tre maschi e una femmina) dovesse pensare di costringere la madre, per interesse — certo per queste larghezze del marito — a giuramenti o comparse in tribunale, non debba avere che la sola legittima. Ultima pennellata del quadretto familiare: la schiavetta di casa, sarda, sia resa libera se col consiglio della padrona e degli eredi si troverà un marito che possa assicurarle un’onesta vita (38). Meno fortunato, e forse meno morigerato, Giovanni di Castello, della grande famiglia viscontile, il quale, alla vigilia di partire per un viaggio d’affari in Sicilia, lascia una casa comperata di fresco alla sua servente « que est gravida ex se », e al nascituro, affidato a saggi tutori, il più della suà sostanza, destinata, in caso che egli muoia senza eredi, alla chiesa di S. Maria di Castello. Ma ad un’altra donna, in altra casa, dovrà andare la cintura d’argento della moglie morta; ed a questa, come al padre, vuol essere congiunto nelle preghiere (39). t « Dovessimo pensare a una casa patriarcale, dove la mentalità ardimentosa e fortunata del mercante di mare non ha mutato il vecchio costume medievale se non forse per addolcirlo di qualche sentimento più umano e delicato, ricorderemmo la famiglia di Simone Buferio il vecchio. Dettando, nel 1206, il suo testamento egli si preoccupa che alla moglie resti l’autorità, che era stata tutta sua, sui 12 figlioli (8 maschi e 4 femmine). Qualche maschio è già sposato, tra i piccoli ne sceglie quattro, due maschi e due bimbe, per destinarli al monastero. È questo il vecchio assoluto potere del padre nel diritto romano barbarico, ma qui lo attenua, per i due maschi, la condizione: « si eis placuerit ». Anzi, per la comprensione della maggiore difficoltà che (37) Giovanni di Guiberto, I, pag. 325, n. 685. (38) Guglielmo Cassinese, I, pag. 97, n. 239; cfr. Bognetti, Per l'edizione ecc. pag- 6 (39) Guglielmo Cassinese, I, pag. 19, n. 42. — 65 — la vita riserva a chi resta nel mondo, viene stabilito che se si monacheranno avranno 25 liie, mentre se non vorranno esser monaci siano eredi come gli altri maschi. Alle due monachine, 50 lire per ognuna; 150 di dote a ciascuna delle alti e due figlie. Dona la libertà allo schiavo di casa, Obertino, ma a patto che iesti a servizio della padrona ancora per dieci anni » (40). e il testamento è femminile, oltre i legati obbligatorii e consueti, ed altri, a titolo di ricordo, consistenti in oggetti di vestiario, a parenti e conoscenti, contiene disposizioni intorno ai beni personali della donna in favore dei figli con piecise e minute norme di successione, come nel caso di quella giovane sposa che, madre di due bambini e in attesa del terzo, facendo testamento, com’ella dice, per volere del padre (la morte di parto era piuttosto •frequente), prevede con calma e rassegnata lucidità, quando ella venga a mancare, dieci casi di premorienza tra i suoi bambini (41). Ci doveva essere sotto quella complicata casistica la mano di un giurista; ma invano vorremmo sapere che cosa sia avvenuto di quella madre e di quei bambini che, ancora dopo tanti secoli, destano in noi interesse e curiosità, con umana simpatia. Qualche volta marito e moglie fanno testamento lo stesso giorno, ciascuno per suo conto. « Nel 1206 Giosverto e la moglie Verde partono per il pellegrinaggio a S. Giacomo di Composteli e fanno i loro testamenti. Ne risulta che il figlio maggiore e una figlia nubile vengono esclusivamente beneficati dal padre, mentre questi, che probabilmente le costituì a suo tempo la dote, non nomina una figlia già sposata. Essa è invece beneficata dal testamento della moglie, che, a sua volta, ha ancora in vita la madre. C’è un legato il solo legato di oggetti personali — per la nipotina, Giulietta: il mantello di ermellino della nonna » (42). Più singolare è il caso di Milo di Piazzalunga e della moglie Matelda, che fanno testamento il medesimo giorno, lei lasciando erede la sorella e usufruttuario il marito, lui testando a favore della moglie. Ma poco dopo egli promette di entrare nella casa dei Crociferi al Bisagno, e, col consenso della donna che rinuncia ad ogni diritto, offre all’Ospizio sè stesso e tutto il mo- (40) Giovanni di Guiberto, II, pag. 334, n. 1790 (30 marzo 1206). Tolgo le parole qui sopra riportate da una monografia di Q. P. Bognetti che doveva far seguito al IV volume della Stona di Genova dell’omonimo Istituto, « Il Comune del Podestà ». Eventi bellici hanno distrutto nell’officina Garzanti a Milano la composizione già preparata del volume e delle relative monografie, di cui l’istituto, ormai inefficiente, non ha più curato la pubblicazione. Sono rimaste le bozze di stampa. Di queste mi valgo, qui e altrove, per la monografia del Bognetti, senza poter dare più esatte indicazioni. (41) Guglielmo Cassinese, I, pag. 157, n. 1790, (anche qui il nascituro è sempre indicato con la parola «venter»). Cfr. Bognetti, Per l'edizione dei notai liguri, pag. 7. (42) Dal Bognetti, monografia citata; il doc. è in Giovanni di Guiberto, II, pag. 398 segg-, n. 1909, 1910 (1206). . 5 I — 66 — desto patrimonio, mentre i frati passeranno alla donna quello che le spetta di controdote e a qualunque altro titolo. La faccenda è complicata dal fatto che frattanto Milo aveva fatto donazione dei suoi beni ad un Mazucco; ma poi tutto si accomoda con la riconferma all’Ospizio, ove Milo entra come confratello, e con la rinnovata promessa a Matelda (43). Stanchezza di vivere insieme? timore di non tirare avanti? circonvenzione dei monaci dell’Ospizio? Piccole vicende della vita di ogni giorno; ma quante volte questi atti isolati e frammentari lasciano insoddisfatta la nostra indiscreta curiosità! (43) Oberto Scriba de Mercato 1190, pag. 118, n. 299-300 (28 marzo 1190); Guglielmo Cassinese, I, n. 15-1 b (dicembre 1190); n. 743 (17 giugno 1191); n. 985, 986, 989 (12 settembre 1191). VI GLI SCHIAVI Molto frequente nelle disposizioni testamentarie il ricordo degli schiavi, parte anch’essi della famiglia. È ben noto che la schiavitù, se non aveva più la funzione economica del mondo antico, nè, salvo qualche eccezione, quella dei servi della gleba medievali, si protrasse come servitù domestica sino agli ultimi secoli del medioevo e all’età moderna, teoricamente condannata ma pur tollerata dalla Chiesa, purché non si trattasse di cristiani servi di ebrei. Non di rado, anzi, anche enti o persone ecclesiastiche avevano schiavi per i loro bisogni domestici. Gregorio Magno aveva detto meritorio il rimettere nella libertà originale, per mezzo della manumissione, gli uomini creati liberi dalla natura e assoggettati a servitù dal diritto delle genti (1); ma anch’egli doveva sentirsi impotente di fronte, per esempio, ai contadini sardi che per miseria vendevano i figli. I « condaghi » (termine, che, nell’antico volgare sardo, indica la carta che attesta un negozio giuridico e il registro che raccoglie e trascrive l’insieme di questi atti) offrono un quadro impressionante della vita servile sarda nel secolo XII (2). Molto estesa doveva essere la schiavitù anche in Corsica se nel 1239 Giovanni Sfregia, che tra i castellani di Bonifacio rappresentava l’elemento locale ed era ricco proprietario di terre e di immobili, liberava nel suo testamento undici uomini e quattro donne con la rispettiva discendenza (3). (1) L. Tria, La schiavitù in Liguria, ASLi, LXX, 1947, pag. 10. Quest’opera, di carattere prevalentemente giuridico, riguarda in modo particolare i secoli X1V-XVII. (2) E. Besta e A. Solmi, / condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonar-cado, in « Pubblicazioni della R. Deputazione di Storia Patria per la Sardegna » vol. I, Milano, Giuffrè, 1937. (3) Documenti sul castello di Bonifacio nel secolo Xl/l, pag. 144, n. 502; La vita economica del castello di Bonifacio cit., pag. 134. — 68 — Anche a Genova le schiave erano generalmente sarde, tanto da far sinonimi i due termini; più rare le còrse; numerose invece le schiave saracene, e saraceni per lo più gli uomini, tuttavia meno frequenti; per questi non c’erano difficoltà di indole religiosa; anzi poteva essere stabilito che neppure il battesimo fosse sufficiente a far loro acquistare la libertà. Schiavi si nasceva perchè di madre schiava o si diventava perchè venduti o catturati. Sull’acquisto della « merce » in Sardegna, fatto probabilmente dai mercanti che vi approdavano nei loro viaggi o forse da Sardi stessi che si recavano a vendere sulla piazza di Genova, mancano sicure indicazioni. 11 commercio degli schiavi orientali e saraceni, da lungo tempo fiorente, così a Genova come a Venezia, per i continui rapporti di guerra e di affari coi Musulmani (4) acquistò maggiore intensità dacché Genova, in conseguenza del trattato di Ninfeo del 1261, si installò nel Mar Nero, che era stato anche nel mondo antico il maggiore emporio di quella mercanzia. Questa, portata in Crimea da tutte le coste dello stesso mare, e delle regioni del Kuban e del Caspio, passava dai mercanti tartari agli italiani, che ne traevano largo profitto (5). Le donne erano generalmente giovani e belle, spesso ancora bambine, e si comprende a quali usi destinate; gli uomini, anch’essi giovani e. robusti, servivano ad accrescere gli eserciti dei sovrani dell’Egitto e di Babilonia. Non era indubbiamente un commercio molto morale (ma pensiamo, tanto più tardi, alla tratta dei negri); tuttavia se qualche volta il Comune lo proibiva, non lo faceva per motivi umanitari o religiosi, ma solo per ragioni contingenti, come conseguenza della rottura dei rapporti economici e diplomatici (deveturn) nei casi di conflitto. In genere, il commercio era eseguito su larga scala coi paesi musulmani piuttosto che coi porti italiani (6) o comunque cristiani, dove non sarebbe stato neppure molto redditizio perchè gli schiavi orientali non erano richiesti in tal numero da alimentare un traffico cospicuo, e la maggior parte, specialmente delle donne, proveniva dalla Sardegna. E per evitare inganni, e certo anche per risparmio di spazio, i mercanti non potevano recare con sè sulle navi più di uno schiavo adibito al loro servizio personale (7). (4) Nel 1246 Innocenzo IV lamentava che mercanti genovesi, pisani e veneziani avessero portato dalle parti di Costantinopoli nel regno di Gerusalemme molti greci, bulgari e ruteni cristiani, vendendoli poi come schiavi; Ferretto, Codice Diplomatico, I, 19. (5) G. I. Bratianu, Recherches sur le commerce génois dans la Mer Noire au XIIIe siècle, Paris, 1929, pag. 239. Guglielmo Adam, arcivescovo di Sultanié al principio del 1300 denunciava il genovese Segurano Saivago come uno di coloro che avevano ricavato maggiori profitti da un’autentica « tratta delle bianche ». (6) Norme e tasse speciali per il commercio genovese degli schiavi in Sicilia, secondo che vi fossero importati o acquistati, in D. Orlando, Un codice di leggi e diplomi siciliani del Medio Evo, Palermo, 1857, pag. 128. (7) Tria, pag. 12 seg. - 69 — Lo schiavo, qualche volta donato (8), si comprava, si vendeva, si barattava come una merce qualsiasi o come un animale, indicandone le qualità (bianca, nei a, olivastra, battezzata o saracena) con la clausola che si trattava di cosa « non furata nec ablata et sine magagnis » (9). La formula che si cedeva « cum omnibus suis viciis et magagnis pro talis qualis est » si trova specialmente per i provenienti dall’oriente quando divenne maggiore, verso la fine del 1200, il numero di quegli infelici, separati dai loro padroni da barrieie insormontabili di lingua, di costumi, di razza; è costante a Pera nelle numerosissime vendite di bambine, per Io più tra i cinque e i dodici anni; meno fiequenti, e forse meno pregiati e desiderati, i maschi (10). In confronto all’antichità, però, i costumi sono addolciti e la schiava madre non è separata dai figli, venduti con lei (II), neanche se appartenga a più comproprietari, come i sedici che nel 1191 vendono una sarda e sua figlia a uno dei condomini (12). Caso strano, ma non unico, perchè capita ancora di trovare che due comproprietari vendono contemporaneamente metà di una nave e di uno schiavo (13); e non si può certo affermare che questi siano i soli esempi. Se la schiava è gestante lo si accenna nel contratto. S’intende che il nascituro appartiene al nuovo padrone; il silenzio su questo particolare può essere causa di nullità della vendita. Particolarmente penosa la condizione delle giovani, esposte a tutti i pericoli e a tutte le violenze. È vero che qualche volta si vendicano intorbidando la vita dei padroni, e provocando drammi familiari l’eco dei quali si può cogliere indirettamente negli atti notarili; ma grande è la tollerenza, per gli uomini, in questo campo, e spesso i figli di schiava affrancata sono anche figli del padrone o di qualche uomo della famiglia. Quando la schiava è resa madre, se il responsabile appartiene alla casa non c’è colpa perseguibile nè civilmente nè penalmente; se il colpevole amatore è estraneo, si obbliga ad una indennità verso il proprietario, a pagare le spese del parto e generalmente a tenere con sè il nascituro, oltre a versare al padrone una somma nèl caso che la donna soccomba nel parto, eventualità tutt’altro che (8) Donazione « inter vivos » di una « ancilla » di nome Sofia; Guglielmo Cassinese, II, pag. 56, n. 1249. Ma quale contratto si sarà nascosto sotto questa apparente liberalità? (9) Per es., Guglielmo Cassinese, I, pag. 408, n. 1035; II, pag. 190, n. 1588 e pag, 263, n. 1782. Se la schiava ha qualche visibile difetto si indica, e naturalmente il prezzo ne è minore, come per quella «ranga» venduta per S lire nel 1277; Ferretto, Cod. Dipi., II, pagina 263, n. 1. (10) Actes des notaires génois de Pera et de Caffa, n. CXV, CXXV, CXXXII, CXLIII, CXLV, CXLV1II, CLXXI, CLXXVI, ecc.; maschi: CXLVIU, CLX1 ecc. (11) Ibid. n. CCXXXVIII, pag. 229: schiava di 39 anni venduta coi due figli. (12) Guglielmo Cassinese, I, pag. 293, n. 739. (13) Actes des notaires génois, n. CCL, pag. 236. - 70 — rara, evidentemente per mancanza di assistenza e di cure. Le minuziose nonne contenute in questa materia negli statuti genovesi (14), che nella prima ìedazione conservataci appartengono al principio del secolo XIV, ma la cui prima sistemazione organica risale almeno al 1229 (15), debbono esseie anche anteriori, perchè si trovano già negli statuti di Noli del pi imo 200 (16), i più antichi che la Liguria possieda, certo ricalcati sulle consuetudini della città protettrice. Non occorre dire che, a parte quelli che sono i perenni rapporti umani in questa materia, la situazione giuridica si viene attenuando per effetto del sentimento religioso, della convivenza, di un più diffuso senso di umanità e molti schiavi finiscono con l’essere liberati, anche se spesso con la condizione di rimanere in servizio salariato. Questo più elevato senso umano non sembra applicarsi agli schiavi mori, che devono inchinarsi al nuovo padrone, baciandogli i piedi (17). Le vendite continuano tuttavia lungo il secolo XIII alternate alle manumissioni. Il prezzo, molto variabile, si aggira nel secolo XII tra le 4 e le 10 o 12 lire, sale a 17, 20 e più — a Pera da 20 a 40 perperi, e da 250 a 500 o più aspri a Caffa (18) — nel XIII, naturalmente secondo l’età e la qualità, diremo così, della merce ed altri elementi che ci sfuggono. Queste cifre, però, ci dicono assai poco a cagione del mutevole potere d’acquisto del denaro, e della quasi impossibilità di arrivare ad equiparazioni con monete moderne, anche di tempi non inflazionistici (19). Al massimo, si può istituire qualche confronto notando (14) L. Tria, La schiavitù in Liguria, pag. 17, 132. (15) Annali, III, 8; Gli Statuti della colonia genovese di Pera, in « Miscellanea di Storia italiana », XI; Desimoni, Sopra un frammento di Statuto genovese, ASLi, I, 100 segg. (16) Gli Statuti di Noli per C- Russo e L- Vivaldo, « Atti della Società Savonese di Storia Patria», vol. XXVII, 1949, pag 115, cap. 20 del 1. III. (17) Giovanni Vegio, par. II, fo. 24 v° (1243). (18) Il caso di 75 aspri per un circasso di 14 anni è eccezionale; Actes des notaires génois, pag. 236, n. CCXLIX. (19) Alla fine del secolo XIII un perpero valeva press’a poco 14 aspri; quanto alla lira genovese si può trovare il perpero equivalente a 12 soldi (cioè a lire 1 1/5) ma anche il rapporto di 36 perperi a lira, se non c’è rischio marittimo e di 55 quando il rischio c e (Actes des notaires génois ecc. pag. 4, 50, n. CC, CCI). Secondo Lopez, (Benedetto Zaccaria, pag. 31) la lira genovese di quel tempo corrisponderebbe a 100 lire ilaliane. Si possono anche vedere i complessi ma non sempre persuasivi calcoli di Fr. Poggi, Lerici e il suo castello, vol. I, pag. 98 segg. (e per il secolo XIV, vol. Il, 80). Il Casaretto (La moneta genovese in confronto con le altre valute mediterranee nei sec. XII e XIII, ASLi, LV, 1928, pag. 187) calcola, la lira genovese del 1213-14 a 30 lire oro del suo tempo; secondo il Di Tucci (Prezzi di alcune copie dei testi del « Corpus Juris Civilis » ecc. cit., pag. 6-7 dell’estr.) la lira genovese della metà del XIII corrisponderebbe a poco più di 12 lire del principio del XIX; e non occorre ricordare i calcoli anteriori del Canale, del Doneaud, del Belgrano, del Desimoni, citati da questi studiosi, Mancassero altri argomenti, basterebbero tali discordanti risultati a dimostrare quanto siffatti ragguagli siano, per ovvie ragioni, - 74 - che un mulo (prezioso nel grande commercio terrestre) vale almeno 5 lire e con 18 si può avere una casa con annesso bosco; ma non sempre i prezzi sono così bassi. Verso la metà del Duecento, una casa modesta costa dalle 20 alle 50 lire, un mulo da 8 a 14; una mina (105 litri) di grano di Corneto o di Sicilia intorno a 11 soldi, cioè poco più di mezza lira, una mezzarola di vino di Rapallo 4 soldi; il passaggio marittimo da Marsiglia a Terrasanta da 25 a 60 soldi e una piccola barca si può avere anche per 6 lire. Il prezzo degli schiavi in Corsica è rimasto più basso: in media da 4 a 7 lire (20). Quale parte del patrimonio, gli schiavi sono venduti o dati in pegno e persino in accomendazione (21), come ogni altro oggetto o mercanzia, con questa grande differenza, però, che interviene spesso il loro consenso, almeno formale, al negozio e che il riconoscimento della propria condizione servile si fa sempre più frequente a misura che si avanza nel tempo, come necessaria partecipazione loro all’atto di vendita. S’intende che quando il padrone, morendo, li rende liberi, cessano di far parte dell’asse ereditario. Lo schiavo non ha personalità giuridica, non può contrarre matrimonio o « contubernium » senza consenso del padrone, al quale, comunque, i figli appartengono; non può vendere o comprare o apprendere arti. Può tuttavia costituirsi un peculio, che gli vien conservato quando acquisti la libertà. La manumissione, istituto del diritto romano non ignoto neppure al barbarico, ha negli atti dei secoli XII e XIII larghissima applicazione. Avviene per lo più per testamento, ma anche còme atto tra vivi, e, se pure conseguenza di gratitudine per affetto dimostrato o per servizi prestati, il motivo assume sempre aspetto religioso, come tutto, del resto, nella vita medievale, « prò remedio anime mee » o dei propri cari. Qualche volta il benefattore è più esplicito, come quel tale Malovrer (forse provenzale o catalano?) che nel 1159 dichiarava di liberare la schiava Algarda « tum amore Dei tum prò sol. XXV denariorum ianuensium quos a te sumpsi». Egualmente, nel 1190, i fratelli Alberico e Ottone visconti manomettono una schiava « amore Dei et remedio anime matris nostre et pro lib. V den. ian. » (22). Nessun accenno a motivo non soltanto pericolosi e fallaci, ma addirittura impossibili. È noto che lire e soldi sono monete, di conto; la moneta corrente era il danaro, 240a parte della lira e 12a del soldo. Nel 1252 fu poi coniato per la prima volta il genovino d’oro. Per il rapporto tra la valuta genovese e le altre contemporanee cfr. l’opera citata del Casaretto. (20) Leonardo Osbergero, I, par. I, fo. 100, 101 v°; Giberto da Nervi, III, 290 v°; Ferretto, Cod. Diplom. I, 18, 36; II, 246; Lopez, Stadi sull'economia, pag. 94; Vitale, La vita economica del castello di Bonifacio nel secolo XIII, pag. 137. (21) ♦ Ego Ansaldinus de Nigro confiteor me habuisse et recepisse in accomendacione a te Guillelmo Pezagno schiavam unam sarracenam ultra aliam accomendacionem quam a te habeo »; Giberto da Nervi, II, 225 v° (1267). (22) Giovanni Scriba, 1, pag. 288, n. DXXXVII; Oberto Scriba de Mercato 1190, pag. 102; n. 260; cfr. Tria, pag. 29. -12 - religioso nella liberazione, al prezzo di 5 lire, dello schiavo, figlio di un’«ancilla » e di un tale, nominato, che si deve intendere libero (23). Va da sè che il nascituro di schiava liberata sarà anch’esso libero, ma, ad ogni buon fine, lo si specifica con la formula con la quale si sogliono indicare le donne in quelle condizioni, come quando i fratelli Rubaldo e Ugolino Cavarunco manomettono « Ravennam ancillam suam et ventrem eius » (24). Non mancano tuttavia i casi nei quali la manumissione è prova di vero affetto; all’esempio già ricordato di Simone Buferio molti altri potrebbero aggiungersi, come quello della Brunetta che, testando a Laiazzo d’Armenia, affranca la schiava lasciandole una somma e masserizie per quando prenderà marito (25). Spesso è esplicitamente detto che gli schiavi liberati conservano quanto possiedono ed è loro riconosciuto il diritto di vendere, di comprare, di far 'testamento ed ogni altro atto civile, con rinuncia a qualunque diritto di patronato e anche con forte penale in caso di inadempienza (26) e con costante e caratteristico richiamo al diritto romano nello stabilire che lo schiavo manomesso, acquistando piena personalità giuridica, diviene « civis romanus » in modo che « mera puraque libertate honore et comodo floride civitatis per-fruatur » (27). E piace in modo particolare veder fatto « liberum et absolutum ab omni vinculo servitutis cum omni suo peculio vel substantia quod et quam de hinc aquirere poterit et largiendo plenissimam libertatem et puram floridamque civitatem romanam » il servo Nicoletto, figlio di una schiava saracena (28), ad opera di Folco di Castello, il personaggio che domina la scena politica genovese negli anni a cavaliere dei secoli XII e XIII. Fiero capo di parte e, col suocero Ingo Dalla Volta, in lotta aperta con Rolando Avvocato in uno dei più drammatici momenti di guerra civile che Genova abbia vissuto nel secolo XII, valoroso partecipe della terza crociata, conquistatore e difensore del castello di Bonifacio, che assicurò il dominio genovese in Corsica, unico podestà cittadino della storia genovese e organizzatore di una marina che si può dire di stato, questo massimo rappresentante della sua età (29), nell atto sti- (23) Giovanni Scriba, I, 158, n. CCXCVI1; analogamente (per 1. 18) pag. 163, n. CCCVII1. Questi atti sono del 1157, ma così è anche in seguito: Pietro Ruffo, fo. 261, 1211, Actes des notaires génois, pag. 147, n. CXIV (1281). (24) Guglielmo Cassinese, II, pag. 285, n. 1846, pag. 290, n. 1858. (25) Ferretto, Cod. Diplom. Il, pag. 167, n. 1. Con la schiava s’intendono liberati anche i figli, Actes passés à Famagouste, pag. 54, 86. (26) Molti altri documenti si potrebbero aggiungere a quelli citati dal Tria, pag. 28 segg., ma senza arrecare elementi nuovi. (27) Bonvillano, pag. 96, n. 158. (28) Giovanni di Guiberto, I, pag. 102, n. 188 (1201); Tria, pag. 30 e 32. (29) Scarsella, Comune dei Consoli, pag. 236-7. La sua opera nei primi anni del secolo - 73 - pulato « pro anima sua» — atto al quale, certo per riguardo al personaggio, il notaio ha data insotita forma magniloquente e solenne — appare sotto un aspetto umano che illumina e integra la poliedrica figura (30). Tolta la forma pomposa, si tratta in fondo di espressioni rituali adoperate, pur con minore solennità, anche per schiave « baptizare » cioè non originariamente cristiane, cui viene riconosciuto il diritto di fare «omnia que liber homo sive femina floride civitatis Romane facere seu perfrui potest », e persino per uno schiavo arabo di Alessandria, al quale (non « ad remedium anime mee » questa volta, ma verso compenso di 17 perperi) si concede « multifariam libertatem ut deinceps mera puraque libertate comodo et utili-tate f ruaris ac beneficio floride civitatis romane » (31). La schiava può acquistare la libertà sposando, col permesso del padrone, un uomo libero e purché, se non è cristiana, riceva il battesimo (32). Altre volte la manumissione è subordinata ad altre condizioni: una schiava sarà manomessa se presterà servizio retribuito per quindici anni ai figli del testatare; nel frattempo dovrà essere battezzata (33). Questa del rimanere a servizio della famiglia dopo la manumissione è una delle condizioni più frequenti; l’obbligo può variare da un tempo relativamente breve, come i quattro anni cui si impegna Giovanni affrancato da Filippo Aradello (34) a dieci, quindici e più, o anche a tempo indeterminato o per tutta la vita. Il ricco mercante genovese, Armano di Bonifacio, mentre manomette una schiava negra col figlio, fa obbligo ad altri due, egualmente liberati, di rimanere con la vedova finché viva, e il castellano Giovanni Sfregia esclude dalla libertà accordata ai numerosi schiavi uria donna, con l’obbligo alla moglie di manometterla a sua volta (35). Misura precauzionale destinata a non privare la vedova dell’assistenza di persone note e fidate; perchè non Xlll è stata illustrata nel mio volume 11 Comune del Podestà che non è stato pubblicato per I’in-efficenza dell’istituto per la Storia di Genova. (30) Invece il suo cansanguineo Bellobruno di Castello, lo stesso che l’anno seguente sembra implicato in contrabbando di guerra, (v. cap. II), nel 1190 compera per 9 lire una schiava saracena ed è teste quel Nicola Lecanuptias che appare in molti atti di commercio suo uomo d’affari (Oberto Scriba de Mercato 1190, pag 229, n. 582). Nelle compravendite di schiavi, che si susseguono accanto alle manumissioni, si incontrano nobili, mercanti, notai, anche artigiani, come i lanaioli (Lopez, Studi sull'economia, pag. 124, n. 1). (31) Actes passés à l'Aïas, pag. 60, n. LXXXVI-LXXXVII; Actes des notaires génois pag. 147, n. CXIV. (32) Giovanni di Guiberto, pag 473, n. 1020. (33) Giovanni Scriba, II, pag. 71, n. CML. (34) Giovanni Scriba, II, pag. 31 n. MCCCLVII-MCCCLVIII; Giovanni di Guiberto, II, pag. 334, n. 1760 (1206). Il periodo è di cinqne anni negli atti di Famagosta, Actes passes d Famagouste pag. 54, 86. (35) Documenti sul castello di Bonifacio, n. 30 e 502. Singolare di caso di quel’Jacopo di Varese Ligure che lascia alla figlia «ancillam meam que vocatur Preciosa » e, una setti- — 74 — par da pensare, anche allora, a una crisi nel personale di servizio domestico. Tale rapporto, molto comune per le donne, si verifica anche per gli uomini, che, nella nuova condizione, assumuno oltre quello di servire, anche obblighi particolari, specialmente di non giocare (36). 1 manomessi passano cosi, anche se con limitazioni di tempo, nella condizione di domestici; tale è indubbiamente il significato della parola « servitrix » che si trova in un documento del 1226 (37) e delle più frequenti « serviens », « servicialis » e « pe-disseca ». I loro rapporti coi padroni rientrano nelle locazioni d opeia. Avviene pure che una schiava affrancata da un padrone si metta al sei vizio di un altro (38). Non è chiaro se le donne siano pagate o abbiano soltanto vitto e vestito; si può sospettare però che la somma avuta « in accomendaitone a te Imelda serviente mea » da Lanfranco Malfigliastro corrisponda al salario o a un peculio faticosamente racimolato dalla donna (39). Il salario degli uomini, contrattualmente stipulato, ha il nome di feudo (40), come il compenso di tanti altri servizi, residuo verbale di istituzioni economiche e sociali anteriori e superate. mana dopo, rifacendo il testamento, la vuole libera da ogni vincolo di servitù, e fa di tale manumissione apposito istrumento; ibid. nn. 91, 105, 151. (36) Actes passés à l’Aïas, pag. 48, n. LXVIII U274). (37) Il cartolare di Giovanni Scriba, 11, append., pag. 295, n. 15. (38) Come Giovannina, schiava emancipata da Manuele Amoroso, che promette di servire per dieci anni Giovanni Jarlono di Sorrento, accompagnandolo colà, Ferretto, Codice plomatico, li, pag. 167, n. 1. (39) Oberto Scriba de Mercato 1190, pag. 269, n. 679- Imelda però non era manomessa; con atto precedente del medesimo giorno si era posta a servizio del Malfigliastro e de la moglie Anna, impegnandosi * quod dum vobiscum vel in domo vestra stetero quod sa va o et custodiam res vestras bona fide sine omni fraude ». Una Giacomina di Nervi proine e al padrone « venire tecum in Puliam et tecum stare toto tempore vite mee ad omini a et uxoris tue servicia faciendo in domo et extra », verso compenso di due augustali a anno, Giberto da Nervi, II, fo. 192, v°. (40) Oberto Scriba de Mercato 1190, pag. 231, n. 585. Analoghi atti, per le donne come per gli uomini, anche tra i Genovesi di Bonifacio; Documenti sul castello di Bonifacio, not. Tealdo de Sigestro, n. 112, 114, 170, 287. VII RAPPORTI PATRIMONIALI: DOTI E TESTAMENTI Non si può dire con sicurezza, sulla base degli atti notarili, se anche a Genova «... il tempo e la dote - fuggian quinci e quindi la misura ». Per il tempo si è visto che i matrimoni si facevano, massime riguardo alle spose, in età molto giovanile, ma quanto all’entità della dote, pur tenendo conto che la moneta fiorentina aveva un valore più basso della genovese, non pare si giungesse alle doti « isfolgorate » delle quali parla il Lana, commentatore di Dante (l)- Il confronto fra le 300 lire recate nel 1227 dalla figlia di Marcoaldo Pevere a Giacomino Leccavella — si trattava di famiglie cospicue — e le 475 portate lo stesso anno da una genovese di non illustre prosapia a un Giovanni della celebre famiglia fiorentina dei Donati (2), potrebbe confermare le lamentele di Dante e del Villani sull’entità delle doti pretese a Firenze; ma ogni illazione tratta da così scarsi elementi sarebbe avventata ed arbitraria; e anche un esame statistico di tutti i documenti noti difficilmente porterebbe a sicure conclusioni. L’ammontare della dote era naturalmente in rapporto con la condizione economica e sociale delle famiglie; bisogna però anche tener conto del diverso potere d’acquisto della moneta, non facilmente determinabile, ma andato via via diminuendo. In media, le doti elevate variavano da cento a duecento lire alla metà del XII secolo, arrivavano anche a quattro o cinquecento nel 1191 e nel çecolo successivo (3). Mille miliaresi erano promessi a Pietro Doria dai (1) Cfr. su questa materia, L. ZDEKAUER, nella Miscellanea fiorentina di erudizione e di storia, a. 1866, vol. 1, pag. 35 e 97-106. (2) Ferretto, Codice Diplomatico, 11, pag. 167, doc. CCCLXI1 e n. 2. A sua volta, un altro Donati di Firenze, nel 1281, dava 600 lire alla figlia di Baldassare Bulgaro; ibid. pag. 438. (3) Giovanni Scriba, I, 315, 316, 318; Guglielmo Cassinese, I, pag. 158, 509; II, 95 ecc.; Ferretto Cod. Dipi., II, pag. 423. - 76 - tutori della moglie nel 1213; cinquecento lire, oltre una casa, recava nel 1255 a Ugolino Grimaldi la dodicenne Alasina Usodimare (4); seicentocinquanta Giovannina Basso a Vincigente Gualterio nel 1253 e ottocento Giacomina Bar-galio a Niccolò Embriaco nel 1264 (5). La dote massima registi ata da Maestro Salmone tra il 1222 e il 1226 era di trecento lire, portata da Giovanna Doria a Nubilone de Camilla (6), variando le altre da dieci a cinquanta lire, tra i lanaioli nella prima metà del XIII oscillavano tra le undici e le trentatrè e settanta lire potevano apparire eccezionali (7). Anche tra i Genovesi trapiantati a Bonifacio la media si aggirava su venti-quaranta lire, con un minimo di sei e massimi di 50, 70, 100, due volte eccezionalmente superati a 185 e 450 (8). Il contratto nuziale era circondato da speciali cautele se gli sposi o almeno uno di essi — non appartenevano al Comune. Con atto stipulato il 1° settembre 1222 « sub portico domus domini Archiepiscopi in qua placitatur consul foritanorum », il notaio Giovanni da Tortona riceveva quaranta lire come dote della sposa Verde dal fratello di lei, Alamano, di Cogorno come appare dai testimoni, da realizzare sui suoi beni, senza obbligo di altre formalità legali « si condicio predicte dotis restituende advenerit ». In realtà, egli aveva soltanto dieci lire; col resto si dovevano acquistare immobili, a scelta dello stesso Giovanni, tra Nervi, Bolzaneto, Struppa e Genova; frattanto la somma doveva essere depositata presso un banchiere sicuro (9). La dote consisteva generalmente in denaro liquido, talvolta in denaro e in merci o immobili, di rado in soli immobili. Le somme liquide erano quasi sempre pagate ratealmente; soltanto a pagamento compiuto il marito rilasciava quietanza (ma il relativo atto era spesso fittizio perchè con dichiarazione posteriore il padre o fratello o tutore si obbligava a compiere la somma) e assegnava alla sposa un tanto sui propri beni « meo dono » o « donatione propter nuptias » o « nomine antefacti ad habendun, tenendum et quidquid voluerit faciendum pro more et consuetudine civitatis Ianue ». (4) Lanfranco IV (Raimondo Medici), fo. 242 v ; Belgrano, Della vita privata dei Genovesi, pag. 411. È assai difficile, o addirittura impossibile, dire a quante lire corrispondessero i mille miliaresi, perchè non sappiamo se si tratti della moneta araba conosciuta con questo nome o di quella coniata a Genova, della quale però non si hanno sicure notizie anteriori al 1253; e così delPuna come dell’altra è assai dubbio il rapporto con le consuete monete di Genova; P. F. Casaretto, La moneta genovese in confronto con le altre valute mediterranee dei secoli XII e XIII, ASLi, LV, pag. 204 segg. (5) Januino de Predone, I, fo. 24 v°; Matteo de Predone, III, fo. 141 v°. (6) Liber Magistri Salmonis pag. 507, n. MCCCXXXII. (7) Z.OPEZ, Studi sull'economia genovese nel Medio Evo, pag. 117. (8) Vitale, La vita economica del castello di Bonifacio cit., pag. 139. (9) Liber Magistri Salmonis, pag. 184, n. CDLXXVIII-CDLXXIX. - 77 — L antefatto o controdote, equivalente all’entità della dote o, più spesso, inferiore (in proporzioni che si sottraggono a ogni tentativo di classificazione) non consisteva in un effettivo pagamento, ma nello stabilire quale somma, oltre la dote, dovesse spettare alla moglie nel caso di scioglimento del matrimonio non per colpa di lei (10). I relativi atti venivano stipulati prima delle nozze e, anche se talvolta potevano essere simulati, rappresentavano una tutela patrimoniale della donna, la quale, in caso di vedovanza, si assicurava, in confronto agli eredi e ai terzi, un certo capitale, di cui poteva sempre disporre, anche a favore dei propri eredi (11). Questi diritti costituivano un credito privilegiato anche in confronto degli eventuali figli di prime noz;ze del marito. Perciò i figli di Simone Bottaro si impegnavano a restituire alla matrigna lacoba, figlia di Ogerio Vento — si trattava di famiglie tra le più cospicue le lire 165 della dote sull’eredità accettata con beneficio d’inventario, e mantenerla, finché non l’avessero immessa in possesso della casa e della torre ove abitavano (12). Nel caso che la donna morisse senza figli, l’intera dote, detratte le spese per i funerali, spettava ai parenti di lei. La vedova che passava a nuove nozze computava nella dote i beni avuti dal defunto marito, come quella Adalasia cui il coniuge costituiva una dote di lire cento contro eguale somma rappresentata da tre case avute dai due antecedenti mariti (13). Si comprende come, nella molteplicità dei casi che potevano offrirsi, dovessero esser facili le liti tra gli eredi. Una giovane donna, morendo senza eredi, aveva lasciato una grossa somma a scopo di bene. Non avendo che la dote, occorreva il consenso di coloro cui la dote spettava, e l’aveva dato il padre. Ma la madre, non associatasi a quel consenso, voleva che l’onere (10) Questa materia è regolata dai cap. CXXV e CXXVI1 dei cosiddetti Statuti della colonia genovese di Pera (« Miscellanea di Storia Italiana », tomo XI, Torino, 1871). (11) Quantunque non tra Genovesi (ma la consuetudine di Cipro cui si accenna è identica a quella di Genova) merita d’essere riferito, come compiuto ed esplicito, un atto stipulato a Famagosta il 13 giugno 1300- Un « Macetus, filius Dentis de Beruto, burgensis Fama-guste » dichiara a Maria del fu Bonfiglio di Messina, stipulante « nomine Isabelle filie tue, sponse et uxoris mee future, me habuisse et recepisse a te, nomine diete filie tue, prò dote et nomine dotis eius, bisantios albos trescentos bonos et iusti ponderis, computatis in ipsis rauba, argento et denariis. Renuncians etc. Unde facio dicte filie donacionem nomine ante-facti sive donacionis propter nuptias in bonis meis habitis et habendis de bissantiis albis trescen-tis, et sic sunt in summa inter dotem et antefactum bissantii sexcenti, ad ipsos habendum et recuperandum secundum morem et consuetudinem Cipri, quas vero dotes et antefactum dicte filie tue volo amodo esse salvas in dictis bonis meis liabitis et habendis. Quas promitto tibi, dicto nomine, dare et restituere dicte filie tue, vel cui de iure dari et restitui debebunt adveniente condicione ipsarum docium et antefacti restituendarum >, Actes passés à Famagouste, pag. 70. (12) Liber Magistri Salmonis, pag. 155, n. CDXXI e pag. 163, n. DXXVIII. (13) Liber Magistri Salmonis, pag. 161, n. CDXXV-CDXXVI. — — 78 - gravasse soltanto sulla parte che spettava a lui, esclusa la somma del pio-prio antefatto, che era stata incorporata nella dote della figlia. La causa, tra scinatasi a lungo, fu conchiusa con un arbitrato favorevole alla madie, sentenza con ogni probabilità non imparziale, perchè in un atto immediatamente successivo si vede la donna trafficare in proprio appunto con 1 arbitro (14). È un esempio del frequente ricorso, nelle contestazioni in materia di in teressi patrimoniali, al giudizio degli « arbitratores et amicabiles composito res », nominati d’accordo fra le parti. Gli arbitri dovevano essere individui di specchiata fama, onde ricorrono spesso i medesimi nomi, specialmente di ecclesiastici, ma anche di personaggi di primo piano nella vita politica, osi Guglielmo Embriaco decideva una contesa per crediti non esatti tra nsa do Mallone e Niccolò Doria e dava torto al Doria, più volte console con lui ( ). Allorché era necessario il giudizio di persone direttamente a conoscenza fatti, si ricorreva a parenti o vicini e non era infrequente la nomina di un super arbitro, eletto dai magistrati comunali in mancanza di accordo tra i due primi, autorizzato a decidere inappellabilmente (16). Di solito, gli arbitrati, oltre la materia dotale, riguardavano questioni economiche per inadempienza di contratti commerciali, per ripartizioni di , per cause di eredità, massime di possessi terrieri. Ma qualunque materia po teva essere oggetto di arbitrato, come quando si doveva decidere se la p testatia » di Ventimiglia (il governo podestarile della città a nome del o spettasse a Luchetto Grimaldi o a Simone Zaccaria e gli arbiti ragione al Grimaldi (17) - o quando si trattava di questioni affatto personali, come nella vertenza tra il notaio Oberto de Cerreto e una Vindeta la quale lamentava « quod dictus Obertus fecerat dedecus in persona sua » (1S). 1 testamenti danno, in materia patrimoniale, minori informazioni di quanto ci si attenderebbe, perchè non specificano mai l’entità e la composizione dell’asse ereditario, indicato sempre, detratti i legati, con l’espressione. « re ìquum bonorum meorum ». Tuttavia, anche indirettamente, forniscono dati interessar! i. Com’è naturale, essi sono, dopo le convenzioni commerciali, tra i più frequenti atti notarili; e se ne trovano di ogni sorta di persone, osi, ai due successivi testamenti di Ogerio della potente famiglia mercan i e e (14) Guglielmo Cassinese, I, pag. 34, n. 81-82; Bognetti. Monografia cit. (15) Giovanni di Amandolesio, vol. I, fo. 199 (1210). (16) L’elezione degli arbitri e la loro funzione sono disciplinate da. cap. 17 e li libro degli Statuti di Noli; « Atti della Società Savonese di Stona Patna », vol. XXVII, 1949’ (nf Not. ^Filippo de Sauro, ed. in O. Doneaud, Sulle origini del Comune e dei partiti in Genova, pag, 84. (18) Liber Magistri Salmonis, pag. 207, n. CDXX1I. - 79 — politica dei Vento (19), si hanno quelli di Guglielmo Embriaco alla vigilia della partenza per la Sicilia (20), di Giordano Richeri, feudatario a Nizza e console e mercante a Genova (21), del famoso arcivescovo Jacopo da Varagine (22) e di altri personaggi ben noti e di storica importanza, oltre alla moltitudine delle disposizioni testamentarie di ignoti, che, in previsione di fine non lontana o alla partenza per lunghi viaggi, dettano le loro ultime volontà. È significativo, peiò, che gli uomini, troppo assuefatti alle partenze, non testano quando si allontanano per normali ragioni di commercio, ma nel caso di pellegrinaggi, specialmente a S. Jacopo di Compostella. Se poi la redazione del testamento è compiuta in ora avanzata, in confronto agli altri atti, e in casa del testatore, il documento è compilato « in extremis ». I testamenti, aperti spesso con la formula: « cum nihil certius sit morte, nihil incertius hora mortis », cominciano coi lasciti di carattere religioso, per i funerali e per elemosine a chiese, a monasteri, a opere pie. Il « decenum », cioè il 10°/0 della somma destinata a questo scopo, va alP « opera di S. Lorenzo », in applicazione di una disposizione del 1174 (23), cui si sottraggono soltanto gli stranieri e forse i non nati a Genova (24) e, s’intende, i Genovesi che muoiono fuori di patria e vogliono essere sepolti nella loro chiesa della colonia: S. Michele a Pera, S. Francesco a Caffa, S. Lorenzo a Laiazzo, S. Maria a Bonifacio (25). Più tardi, verso la fine del secolo XIII, al tempo della grande Diarchia, si impone il « decenum » sui lasciti in favore dell’* opera portus et moduli » (26), (19) Giovanni Scriba, n. MVi (1162) e MXLV11 (1163). (20) Guglielmo da Sori, fo. 250 v° (14 agosto 1202); v. pag. 23. (21) BonvUlano, pag. 11, n. 148 (1198); v. pag. 27. (22) Monleone, La Cronaca di acopo da Varagine, vol. 1, pag. 72. (23) Liber urium, vol. I, col. 286. Negli atti di Oberto Scriba de Mercato 1186 il lascito alla cattedrale è sempre eguale al decimo della somma destinata alla beneficenza (per es. pag. 42, n. 112; pag. 101, n. 271), ma soltanto qualche volta c’è il termine « decenum » (pag. 84, n. 228), costante invece in Oberto 1190 e nei notai posteriori. LJna volta però S. Lorenzo non è neppure nominato, nè, del resto, altre chiese; e il testatore vuol essere seppellito in S. Maria di Castello. Si tratta di modestissima eredità a una donna, con lascito di tre lire al marito; Oberto 1190, pag. 123, n. 309. (24) Nel testamento in data 10 settembre 1191 Pietro da Torano di Liegi nomina soltanto chiese fiamminghe (Guglielmo Cassinese, 1, pag. 385, n. 870). Cavarunco di Millo Ca-varunco, che ha i suoi possessi nel Chiavarese, non ricorda S. Lorenzo e benefica altre chiese, ospizi e ponti di Genova e specialmente di Chiavari e Lavagna (Liber Magistri Salmonis, pag. 446, n. MLI). (25) Actes des notaires génois de Pera et de Caffa, pag. 82, 85, 95, 15S; Actes passés à L'A'ias, pag. 499,504, 531; Documenti sul castello di Bonifacio, pag. 14, 36, 39; a Fama-gosta in varie chiese perchè non ce n’è una dei Genovesi, Actes passés à Famagouste, pagina 99, 101, 104. (26) Leges Municipales in « Hist. Patr. Monum. », to. I, XV11I, col. 31. Anche i cosiddetti Statuti di Pera hanno disposizioni in materia, cap. IV, pag. 567. — 80 — come dire dell’amministrazione portuale. La tassa è obbligato! ia anche pei deceduti fuori di Genova; infatti nel testamento redatto a Pera nel 1289 dal ricco mercante Baldovino di Varazze si dice espressamente « quorum legatorum omnium lego decenum operi portus et moduli de Ianua secundum formam statuti » (27). Se si tien conto che l’espressione « opera portus et moduli » è costantemente adoperata anche in seguito e che « opus » ed « opera » pei le chiese ha valore di « fabbriceria » (non si possono immaginare tutte le chiese in costruzione per più secoli) ne deriva che anche il famoso frate Oliverio « operarius portus et moduli », ed anche del palazzo fatto cominciare da Guglielmo Boccanegra e detto poi di San Giorgio, è l’amministratore, non 1 architetto, purtroppo ignoto (28). I legati sono molte volte destinati al riscatto di prigionieri, a sovvenzionare chi voglia andare in pellegrinaggio in Terrasanta, a beneficare ospedali, cioè ricoveri per infermi e pellegrini, in Genova (dove è particolarmente ricordato quello di S. Giovanni di Prè dei Cavalieri di Gerusalemme, del quale rimangono ancora avanzi) o nella terra d’origine del testatore; i ponti sulle grandi strade, considerati anch’essi opere pie in quanto servono così ai mercanti come ai pellegrini. Sono i ponti sulla Polcevera e sul Bisagno, spesso in dicati col nome del costruttore o amministratore, e presso i quali esistono anche ospizi, ed altri a Gavi, a Lavagna, a Celasco e in tutto il territo rio (29). C’è chi di questi enti ecclesiastici ed opere pie fa un lungo elenco; tipico il caso del già ricordato Baldovino di Varazze che tra Pera, Genova e tutta la Liguria ne enumera ben ventidue (30). Quando, per effetto di disposizioni testamentarie, i beni immobili cambiano proprietario, i beneficiari devono far registrare il trasferimento di proprietà nel cartulario o catasto del Comune; analogo obbligo spetta per i beni mobili devoluti a non cittadini, perchè non abbiano a sfuggire alle imposizioni comunali (31). I testamenti degli uomini che hanno largamente esercitato il commercio (27) Actes des notaires génois de Pera et de Caffa, pag. 173, n. CLII. Altre volte però è precisamente indicata la somma in lire, che non rappresenta certo la dec.ma parte de. lasciti, Actes passés d Famagouste, pag. 96, 98. (28) Corne è stalo esaurientemente dimostrato dal P. OUOLIELMO Salvi, L’. operarms. del Porto di Genova architetto o amministatore?, Genova, 1934. (Ma la targa della strada intitolata al suo nome continua a chiamarlo architetto). Su frate Oliverio, Liber Janum, I, col. 1254, 1316-17, 1320, 1342. (29) Oberto Scriba de Mercato 1186, pag. 130, n. 341; Bonvillano, pag. 72, n. 148, Giovanni di Guiberto, n. 645, 1161; Liber Magistri Salmonis, pag. 445, n. ML. (30) Actes des notaires génois de Pera et de Caffa, pag. 170, n. CLI e Liber Magis ri Salmonis, pag. 445, n. ML. (31) Guido di S. Ambrogio, vol. I, fo. 50; Lopez, Studi sull'economia genovese, pag. 196 doc. XXI-XXII; Actes des notaires etc., pag. 173. - 81 — contengono talvolta somme destinate a risarcimento di eventuali usure, scrupolo tardivo d aver violato il principio del giusto prezzo (32); anche più frequente 1 indicazione dei debiti e dei crediti, costituenti non di rado un tale groviglio da rendere molto laboriosa la liquidazione dell’eredità. Si comprende che l’entità dei lasciti di carattere religioso, per beneficenza, per legati a parenti ed amici, le somme destinate come dote alle figlie, l’enu-merazione stessa dei debiti e dei crediti possono fornire qualche elemento sul- 1 entità dei patrimoni, valutazione però sempre molto generica e grossolanamente approssimativa, che non può dare il valore complessivo dell’asse ereditario. Degli immobili non è dato quasi mai il valore e quanto ai beni mobili, in denaro e in mercanzie, il computo, in quel vertiginoso giro di affari, non doveva esser facile neppure agli interessati. Ci sono testamenti, specialmente femminili, con eredità limitate a qualche veste o a qualche masserizia; altri per modeste sostanze, come quello di Maria, vedova di Isembardo di Fontanegli, che dispone non soltanto delle cose sue personali e domestiche, ma di piccole quote nel possesso di immobili. Ella lascia cento soldi, cioè cinque lire, di elemosine, dei quali venti per la sepoltura, e venticinque alla chiesa di S. Stefano « pro centum missis ibi canendis »; interessante dato su quella che poteva essere allora l’elemosina della messa (33). Gli ecclesiastici, nel beneficare enti e persone religiose, non fanno cenno del « decenum » per S. Lorenzo, perchè le tasse imposte dal Comune non li riguardano. Non se ne parla, per esempio, nel caratterisco testamento dell’arciprete Ottone, che, ricordata la malinconica verità: « video naturam humanam velut umbram transire », stende, nel 1206, le sue ultime volontà. « Le sue disposizioni, in cui si equilibrano i ricordi della vita passata e il pensiero di quella futura, rispecchiano appunto il desiderio di onorare chi è al sommo della gerarchia della sua chiesa, e il bisogno di far del bene a chi, più umile, è forse più vicino a Dio: la predilezione per i luoghi donde « velut umbra » siamo passati; l’affetto pei collaboratori e quello pei parenti; la indulgente valutazione che si fa dei gusti, delle attitudini e delle esigenze di ciascuno; il desiderio, tutto religioso, di avere i suffragi che più valgono, e quello, tutto umano, di essere a lungo e più favorevolmente ricordati. La prima disposizione è per l’arcivescovo. A lui vada « galletam meam argenteam »; un po’ di soldi, invece, ai cappellani e servitori della sua mensa (non fa differenza di trattamento tra le due categorie). Lascia pure un po’ di denaro a ciascun canonico di S. Lorenzo e ai custodi della Cattedrale. Ma, nel tempo stesso, desi- (32) Giovanni di Guiberto, li, pag. 170, n. 1790; Actes des notaires etc. pag. 96, n. XXXVI. Sulla teoria del giusto prezzo v. A. Sapori, Studi di Storia economica medievale Firenze, 1941. (33) Liber Magistri Salmonis, pag. 64, n. CLXXIV. 6 — 82 — gna cinque canonici di S. Lorenzo e tre di S. Maria delle Vigne per un legato di carattere strettamente personale: due suoi cucchiai d argento a ciascuno dei canonici di S. Lorenzo, e un cucchiaio, pure d’argento, agli altri. (In linea puramente umana, è il modo più efficace per essere ricordato ogni giorno, e in un momento euforico). Due cucchiai d’argento, per uno, anche all abate di S. Siro, a quello di S. Stefano e alla Badessa di S. Andrea. Ma poi, alla stessa badia di Sesto, cui ha già dato il proprio Pentateuco, lascia anche il Salterio continuo; così come a S. Lorenzo la migliore delle sue dalmatiche d oro, al Monastero di S. Fruttuoso altro paramento argenteo e al Monastero di Rapallo tanto denaro per farne un calice che non dovrà mai essere alienato. Tra i parenti distribuisce il suo vasellame dorato e d’argento; un anello con pietra preziosa a una Di Negro, sua consanguinea; un altro lascia a Baldizzone Usodi-mare. Al nipote Nicola « omnes meos libros »; destina la sua cassapanca alla sacristia della Chiesa delle Vigne, dove c’è cappellano un altro nipote e dove è probabile abbia cominciato egli stesso il ministero; e lascia quattro suoi lenzuoli (tutti i suoi lenzuoli?) ai letti degli ospedali di S. Giovanni e di S. Lorenzo » (34). . In tutt’altro ambiente trasporta il testamento di Ogerio Vento, col fratello Guglielmo dei maggiori mercanti del tempo, il quale mostra, anche sotto 1 a-spetto patrimoniale, quel saldo legame tra le famiglie che si andrà poi via via allentando. Nelle mani del testatore si trova tutto il capitale dei figli, anche quello ricevuto in dote dalle loro mogli; egli stabilisce infatti che ne dispongano liberamente e lo impieghino in imprese commerciali. Ma quattro mesi dopo, già morto il padre, la divisione non era ancora venuta, perchè associandosi col fratello minore Simonetto e con altri in una impresa commerciale, essi mettono per conto loro cento lire « de communi domus sue » (35). Ogerio lascia cento lire per le esequie e in beneficenza, cinque delle quali alla chiesa di S. Giorgio (non c’è ancora il « decenum » per S. Lorenzo). Soddisfatti i legati e le spese per le cerimonie religiose, il resto deve essere impiegato in acquisto di terre per la chiesa di S. Giorgio. Se i figli non vorranno privarsi del denaro, compreso quello impiegato in commercio, diano in cambio tanta terra dei suoi possessi di Voltri e di Arenzano da corrispondere alla somma fissata, secondo la stima che ne faranno gli esperti. Dalla prima moglie, madre dei figli Ogerio e Pietro, ha avuto duecento lire in terre; ne ha spese 77 in occasione della morte di lei; le rimanenti dovranno essere loro versate dal fratello Simonetto, nato dalla seconda moglie Alda, che gli ha recato 130 lire (34) Dalla citata monografia di Q. P. Boonetti. Il testamento in Giovanni di Guiberto, I, 381. (35) Giovanni Scriba, li, Pag. 129, n. MLVII: 14 maggio 1163; pag. 150, n. MCCII: 17 settembre. - 83 - di dote, oltre a 37 impiegate in terre nella regione di Albaro. Alda ha promesso di passare ai tre fratelli le cento lire assegnatele come antefatto: qualora questo non avvenga, i due maggiori dovranno avere dal fratello minorenne la quota loro spettante. Se la moglie vorrà stare « absque viro » col figlio Simonetto, continui ad abitare nella loro casa e goda di quanto le^spetta di diritto, oltre all’usufrutto della terra di Albaro e a una rendita di venti lire annue. Alla figlia Maria lascia quanto ebbe ad assegnarle in dote, più 25 lire che i fratelli dovranno versarle in denaro o in terre. Di tutto quanto rimanga dopo questa complessa sistemazione, eredi, in parti eguali, i tre fratelli, destinati a succedersi in caso di morte senza eredi. La quota di beni mobili spettante al minorenne deve essere amministrata dallo zio Guglielmo, e impiegata in commercio (« laboratum portetur mari et terra ») col consiglio dei fratelli e del cognato. Ultima disposizione: la casa dove abita deve sempre rimanere ai suoi eredi maschi, calcolandone il valore, nelle eventuali ripartizioni ereditarie e nelle assegnazioni dotali, in lire duecento. Indicazione rarissima questa, e perciò preziosa, del valore assegnato a un immobile. Risulta dal documento la salda e compatta organizzazione di una famiglia tutta dedita ai commerci ma non estraniata dalla terra e ben attaccata ancora ai suoi possessi fondiari. Anche più legato alla terra, per la sua stessa origine feudale, Giordano Richeri, il collega di Guglielmo Embriaco e di Niccolò Doria nel consolato del 1201 e podestà di Nizza nel 1203. Nel 1198, a cinque giorni di distanza, egli fa due testamenti, o meglio riprende e compie il 17 ottobre quello che era rimasto interrotto il giorno 12, aggiungendovi quanto si riferisce all’ospedale di Nizza, fondato con fedecommesso dal fratello Lanfranco (36). Il documento è redatto in casa di Guglielmo di Palio, consanguineo di Giordano e, col fratello Ogerio, esecutore testamentario ed erede universale di quanto rimanga detratti i lasciti cospicui (37). L’eccezionale somma di duemila lire da distribuire tra chiese, monasteri ed opere pie (un decimo di ogni legato, naturalmente, a S. Lorenzo) si spiega col fatto che non c’è discendenza diretta; di più i lasciti, tratti dai suoi beni mobili, devono essere investiti in terre. Arricchitosi in fortunate imprese commerciali — della molteplice attività economica e marinara sua e dei fratelli esiste un’ampia documentazione (38) — ma attaccato insieme alla propria (36) Bonvillano, pag. 57. n. 121; pag. 71, n. 148. (37) Figli di Ido, i fratelli Guglielmo e Ogerio Vento sonc, come il padre, armatori e commercianti, stretti in parentela con gli Avvocati, i Porcello, i Lecavella de altre cospicue famiglie e in rapporti di affari anche coi Richieri (v. Guglielmo Cassinese e Giovanni di Guiberto, indici). Gli Annali (11, 30, 37) ricordano Ogerio come console di giustizia nel 1189 e 1191. (38) V. lo studio Nizza medievale nel voi. Nizza nella storia, pag. 46-7. — 84 - origine feudale, egli vuole assegnare agli enti beneficati, non adatti per natura e funzione ai rischi commerciali, una forma di possesso più duraturo, dai redditi meno lucrosi ma più sicuri. Altri legati per 600 lire sono in favore di singole persone, per lo più della famiglia de Palio, oltre 400 lire alla nipote Alda, figlia di una sorella defunta, e cento « ultra suas rationes » — e non pare, in proporzione, troppo generoso ricordo — alla moglie Richelda; ma tutti non in denaro liquido, bensì in beni mobili o immobili, come appare dall’espressione: « lego... tantum quod valeat per iustum apretiatum lib... ». Invece a Pietro, signore del castello di Esa e a Richerio Richeri, probabilmente cugini* sono lasciati i beni immobili di Nizza, a condizione di costruirvi, in esecuzione del fedecommesso istituito dal fratello Lanfranco, un ospedale — meglio si direbbe un ospizio — dotato di reddito sufficiente a raccogliere e mantenere dodici poveri. Abbiamo in questo testamento e in tutta la vicenda dei Richeri, con la prima notizia di una istituzione del genere a Nizza, un tipico esempio di feudatari inurbati, conservanti tracce del loro mondo originario (39), col quale mantengono i contatti, e pur inseritisi con singolare fortuna economica ed anche politica nella caratteristica vita cittadina. Caso fortunato, rimane il testamento anche di Guglielmo Embriaco, priore dei consoli nel 1201, l’anno nel quale Giordano Richeri ebbe il consolato. Discendente e omonimo del « Caput Mallei » della prima Crociata e figlio del Nicola illustratosi all’assedio di Acri nella terza, Guglielmo, di famiglia viscontile, è figura di primo piano nella aristocrazia di governo e di commercio che domina la vita cittadina del suo tempo. Dell’attività economica di lui, come possessore di immobili e partecipe di imprese commerciali, soprattutto in Oriente e in Sicilia, è frequente il ricordo negli atti notarili sinora pubblicati e negli inediti (40). Dei suoi molti consolati sono stati particolarmente importanti quelli del 1201 e del 1212. Nel primo egli ha organizzato la spedizione in Sicilia, della quale si seguono negli atti di Guglielmo da Sori i preparativi e che, guidata da Nicolò Doria, portò in patria un ricco bottino (41). Quando nel 1212 il giovane Federico, avviato dalla Sicilia in Germania, passò da Genova, i consoli — (39) C’è ricordo anche di un « Enbronus scutifer Iordani Richerii »; Oberto Scriba de Mercato 1186, pag. 100, n. 269. (40) Dei pubblicati, Guglielmo Cassinese e Giovanni di Guiberto (v. indici); degli inediti, Lanfranco I (ma sono atti di Oberto Scriba de Mercato) fo. 147, 154-156, Notai Ignoti, B. I. doc. XXX, n. II, e specialmente Guglielmo da Sori, fo. 131 segg. 160-165, 189,246-251. Cfr. G. Doneaud, Sulle origini del Comune e degli antichi partiti di Genova e della Liguria, pag. 77 segg.; N. Russo, Su le origini e la costituzione della * potestatia Arbisole, Cellarum et Varaginis », pag. 199 segg. (41) Guglielmo da Sori, fo. 184 v., 189-193; Doneaud, pag. 78; Annali, II, pag. 81. ! - 85 — con 1 Embriaco, un altra volta priore, era ancora Niccolò Doria, ospite del re giovinetto gli strapparono la più ampia serie di privilegi e di esenzioni che Genova abbia goduto nell isola (42). Gli Annali, ancora al 1201, hanno un brevissimo accenno a un inutile viaggio di Guglielmo in Sicilia, per ottenere la liberazione del genovese Guglielmo Grasso fatto prigioniero dal Siniscalco Marcoaldo, inutile — questo gli Annali non dicono — perchè, all’arrivo di lui in Sicilia, Marcoaldo era già morto. In realtà il viaggio, come appare dal contratto di noleggio della galea, ebbe luogo nel 1202, e appunto in quell’occasione, e per misura precauzionale, l’Embriaco stese il suo testamento (43). Che questo sia molto più sobrio di quello del Richeri si capisce, perchè qui i figli ci sono, e numerosi. La sepoltura dev’essere, s’intende, in S. Maria di Castello e propriamente presso l’altare di S. Sisto; precise norme regolano 1 elezione del sacerdote, un canonico della stessa chiesa, destinato a curare 1 altare e a officiarvi. Per le spese del patronato, da esercitarsi via via dal capo della famiglia, lascia una terra vendutagli da Enrico Doria. Non appaiono altri lasciti a persone o enti ecclesiastici o ad opere pie, fuorché venti lire anche queste in terre — al monastero di S. Stefano per' una funzione annuale in suffragio del testatore, e del fratello e del padre di lui. La mancanza di lasciti in denaro spiega l’attribuzione di 19 lire « prò deceno » (un decimo calcolato con molta larghezza) all’opera di S. Lorenzo, oltre a 25 lire al Comune, certo per l’opera del porto e del molo. Cento lire, da potersi elevare sino a 150, sono lasciate alla figlia Erme-lineta destinata al monastero; la dote di trecento ciascuna ad Audeta ed Em-briacheta, a questa anche 1 anello di rubini (o il valore corrispondente) avuto da Marcoaldo e dato in accomendazione a Guglielmo Straleira: e in questa disposizione fa capolino 1 uomo d’affari. Detratte le somme sopra indicate e quanto è stato promesso in dote all’altra figlia, Anna, moglie di Oberto Della Volta, tutta l’eredità deve andare divisa per metà tra i figli e i nipoti, suoi pupilli, con la clausola che se questi muoveranno contestazioni o liti per la sua amministrazione pupillare perderanno ogni diritto all’eredità. Tutrici e curatrici testamentarie la madre e la moglie, cui si aggiungeranno i figli via via che compiano vent anni, col consiglio di cinque sapienti (delle famiglie più cospicue: Della Volta, Barbavaira, Mallone, Embriaci, Doria). Dieci lire annue sono assegnate in dono alla madre, che appare designata come capo della famiglia; se ella muoia, le subentri la moglie, la quale se vorrà passare a (42) Annali, II, 122; Liber Jurium, I, 561. (43) Guglielmo da Sori, fo. 245 v., 28 giugno; fo. 250 v., 14 agosto 1202. Nei giorni 18-21 agosto erano stipulati molti contratti per trasporto di merci sulla galea deH’Embriaco e su quella di Bellobruno da Sori che doveva navigare di conserva; Giovanni di Guiberto I, n. 424 e 447 segg. nuove nozze avrà quanto le spetta di diritto, oltre le proprie vesti e gioie e cinquanta lire. La salda e ferrea compagine familiare è anche attestata dalla disposizione finale per cui, dichiarando d’aver ricevuto trecento lire come dote di Giovanetta Stregiaporci moglie del figlio Nicoletto, aggiunge che se questo arriverà al divorzio — sembra dunque profilarsi una tale eventualità — non potrà avere che la « falcidia », cioè, se il termine va preso nel significato del diritto romano, la quarta parte dell’asse ereditario depurato da ogni vincolo e spesa. L’accenno alla falcidia si trova altre volte, ma non sempre nel preciso significato giuridico, perchè se tale significato è da vedere nella disposizione per cui il nascituro del testatore è istituito erede « de falcidia » e deve accontentarsene — erede generale è la moglie (44) -, diverso valore ha l’espressione quando Baldovino di Varazze lascia alla figlia Alvisia 500 lire « prò falcidia et nomine falcidie ». Qui il termine non è preso nel senso di « legittima », perchè tale somma è ben lontana dal costituire la quarta parte della cospicua eredità, ma la figlia non ha diritto di protestare, non tanto per le 200 lire già avute in dote, quanto perchè si è sposata senza il consenso, anzi contro la volontà del padre (45). a- Mentre il testamento dell’Embriaco presenta l’immagine del cittadino i grande casata, preoccupato soprattutto di conservare 1 integrità e la compagin dell’organismo familiare — e tale appare anche nella proposta di transazion nelle liti con gli eredi del consanguineo Guglielmo Godo — quello i a-dovino di Varazze, rogato a Pera il 20 febbraio 1284, offre il tipo del grosso mercante con largo giro di affari in un grande centro del commercio internazionale che si rivela anche nella diversità delle monete, perche nelle varie disposizioni si incrociano cifre in lire genovesi, in aspri di Crimea e in p peri bizantini, che rendono assai malagevole qualunque calcolo compless Anche qui il grande numero di lasciti a enti ecclesiastici e a persone diverse è spiegato dalla mancanza di figli maschi, mentre 1 unica femmin deve accontentarsi di una somma relativamente esigua e alla moglie sono assegnate, con quanto le spetta di diritto come dote ed estradote, 250 « ultra lectum suum et meum et totum asnixium domus mee ». Tra le chiese e i monasteri di frati e di monache beneficati, soprattutto a Genova, ma anche a Varazze e a Pera, dove sarà sepolto nella chiesa di S. Michele, alla quale lascia cinque perperi, non si accenna al « decenum » per S. Lorenzo, mentre al suo ospedale spettano due lire. Di tutti i legati però è stabilito il « decenum operi portus et moduli de Ianua secundum for- (44) Giovanni Scriba, I, pag. 24. (45) Actes des notaires génois de Pera et de Caffa, pag. 67 e pag. 171 n. CLI- - 87 — mam statuti ». Ventidue sono i lasciti a chiese, a monasteri e ospizi; e poi assegni dotali, legati a parenti e conoscenti, al medico, a servi, per un totale di 1100 lire genovesi, 1500 aspri, 1520 perperi bizantini. Sono indicati anche i debiti e i crediti; ma, sebbene siano numerosi i ricordi di accomendazioni, tolti due accenni a vino e a seta, non si vede quali fossero gli articoli del suo commercio; ma si può ritenere che, come sempre nell indifferenziato commercio medievale, egli trafficasse in ogni genere di mercanzia. Poiché la liquidazione della vistosa eredità si prevede laboriosa, l’esecutore testamentario, il notaio Giovanni di Oberto Tintore, mentre provvederà a pagare direttamente i legati ai residenti in Pera e a far pervenire gli altri a Genova e Varazze, è autorizzato a continuare l’azienda, trattenendo per sé gli utili delle accomendazioni in merci e denaro, finché non potrà far pervenire il capitale residuo, depurato da spese e da impegni, all’erede universale, Bulgarino de Curia, fratello del testatore, dimorante « in Mari Maiori » cioè sul Mar Nero, in località non meglio specificata. A contatto di un centro di molto minore importanza economica e di recente formazione porta invece il testamento già ricordato di Armano di Bonifacio (46), mercante di notevole ricchezza e attività in rapporto alla eseguità dell’ambiente di importanza più militare e strategica che economica, non privo però di valore perchè posto sulla via obbligata dei traffici del Mediterraneo occidentale. L’operosità di Armano si è svolta sulle merci più disparate, anche se con singole operazioni di entità non rilevante. Le disposizioni per i funerali e le elemosine sono indice di larga agiatezza, lontana tuttavia dalle possibilità del Richeri e di Baldovino di Varazze. Dieci lire sono destinate ai funerali e in elemosine; di più la moglie e il genero dovranno vestire tutti i poveri che verranno a Bonifacio nel giro di tre anni; dieci vanno alla chiesa di S. Marta per farvi un pilastro e 170 soldi (pari a lire 8‘/2) devono distribuirsi tra le altre chiese e rispettivamente quaranta e venti soldi all’ospedale di S. Giovanni a Genova e a quello locale di S. Lazzaro; cento soldi a un pellegrino, possibilmente di Bonifacio, che vada oltremare « in primo pasagio in servigio Dei et veri sepulcri ». A sessanta lire ammontano dieci legati a persone varie; caratteristico quello di quaranta soldi « Benvenute de qua habui quendam filium », col quale contrasta l’altro di dieci lire « Iohannette quam duxi de Ianua pedisseche mee ». Una schiava negra è manomessa, col figlio; a due altri, egualmente liberati, è fatto obbligo di rimanere con la moglie Orenga finché viva. Detratte 250 lire di legati ai figli maschi e a parenti — i legati salgono così in cifra tonda a 350 lire — (46) Documenti sul castello di Bonifacio, pag. 14, 40, 57. 88 — sono nominate eredi la moglie Orenga e la figlia Ricafina, sposata a Gregorio di Bargono, anche lui tra i maggiori commercianti del castello. È un non frequente esempio di moglie compartecipe dell’eredità reso eccezionale dall e-sclusione dei figli maschi; e poiché la vedova è anche curatrice, col genero, del complesso groviglio di debiti e crediti da sistemare, si comprende come la liquidazione sia stata molto laboriosa. 1 debiti, varianti da 12 soldi a 34 lire, sommano a oltre 80 lire; i crediti, anch’essi per partite fra 10 soldi e 20 lire, superano le 200; vi sono comprese sette lire per affitto di una casa. Spesso ai crediti per mutui corrisponde un pegno: una corazza, una pancera, una coppa d’argento. Il testamento di Armano, diversamente da quello di Baldovino di Varazze, apre qualche spiraglio sui suoi traffici (grano, sale, pelli, panni), ma più interessanti sono a questo proposito i due inventari della sua eredità, che danno l’immagine farraginosa di un tipico fondaco del commercio non specializzato medievale, nel quale si trova di tutto, dalle centinaia di pelli gregge, comuni o pregiate, che costituiscono la base dell’azienda — Armano, infatti, è sempre detto « pellipario » cioè pellaio — ai cuoi lavorati, ai panni, alle spezie, dal vino ai cereali, dalle armi alle masserizie di ogni sorta e agli oggetti d argento. Vili GLI INVENTARI E IL TENORE DI VITA Testamenti ed inventari sono generalmente separati perchè gli inventari si redigono dopo la morte del testatore per verificare la consistenza dell’eredità. Guglielmo Scarsaria al testamento del 16 giugno 1162 (sepoltura in S. Andrea, diversi lasciti, tra cui quattro lire a S. Lorenzo — non esiste ancora l’obbligo della decima — solite condizioni per la moglie a seconda che voglia passare a nuove nozze o rimanere in casa coi figli e provvedere agli affari, assegno di cento lire alla figlia, eredi i due maschi ancora minorenni) ha aggiunto una nota dei debiti e dei crediti, conseguenza delle sue operazioni commerciali, nota che è presa come base dagli esecutori testamentari quando, morto lui, il 17 giugno 1164 procedono all’inventario nell’interesse dei minori (1). Curioso documento, nel quale sono indicate alla rinfusa le # somme liquide rinvenute, quelle dovutegli da soci o debitori, i documenti e titoli di credito, le merci esistenti (tessuti, cotone di Malta, allume di Casti-glia) per le quali liquidano i conti col suo socio Gargano, le masserizie di casa, le vesti della moglie e dei figli e persino la schiava, perchè anch’essa parte del patrimonio, ma già destinata alla libertà. Qui, come nel caso di Armano di Bonifacio, l’inventario si riferisce a eredità di un certo rilievo e a importanti interessi da salvaguardare. Altre volte però è compreso nel testamento stesso, come quando un mercante salernitano, proveniente da Messina, testando a Genova, enumera la mercanzia (grano in Raiba), le armi, le vesti che ha con sè e, mentre lascia eredi i fratelli, dispone che sia pagato quanto ancora deve « prò cibo et potu » alla donna che lo ha ospitato (2). (1) Giovanni Scriba, vol. Il, 70 segg., 203. (2) Guido di S. Ambrogio, vol. 1, fo. 50 (1254). 7 — 90 — Sebbene di scarsa entità patrimoniale, presenta un vivo interesse umano il breve inventario annesso al testamento di Raimondo Pictenado, un oste esercente a Genova che talune parole del documento e i nomi dei testimoni presenti all’atto fanno ritenere straniero, con ogni probabilità catalano o provenzale. Una singolare passione per tutto quanto riguarda le Crociate traspare dal testamento; le sole beneficenze che vi figurano sono per l’Ospedale di Gerusalemme e per l’Ordine dei Templari, mentre la sepoltura deve avvenire nella chiesa del Santo Sepolcro. Forse tale passione gli deriva dall’aver preso parte dieci anni prima — l’atto è del 1156 — all’impresa di Almeria? Lavorando di immaginazione si può supporre vi abbia preso quella « scutellam pictam de Almeria » (ma forse recatagli da altri) che deve avere per lui un valore speciale se, dettando l’inventario del modesto arredamento di casa, ne indica l’origine. La suppellettile dell’osteria (« butega » la chiama al modo iberico; « ho-spicium » scrive in fondo al documento il notaio) dev’essere liquidata, anche per pagare i legati. Così pure sarà ceduta la sua quota di proprietà su due schiavi, saran venduti due suoi capi di vestiario (un mantello di stoffa scarlatta con fodera di coniglio e un mantello di volpe) e due Ietti, verosimilmente quelli degli schiavi. Invece sarà della moglie il resto della suppellettile di casa con quant’altro egli possieda. Non ci sono figli, ma la moglie è incinta; al nascituro, maschio o femmina, non dovrà spettare più che la legittima. C’è in quell’inventario qualche cosa di raro e raffinato, oltre la scodella di Almeria: una lettiera dipinta — certo il Ietto nuziale — due nappi, uno con coppa di vetro, l’altro di legno; un cucchiaio d’argento, rotto; un’ampolla di acqua odorosa; due anelli d’oro. E anche altre cose molto più modeste e banali; assieme alla completa fornitura di coperte, cuscini ecc., l’inventario ricorda « unum orinale » (3). Se si tratta di mercanti che navigano, gl’inventari, compresi nel testamento o ad esso aggiunti, enumerano le armi di cui i navigatori devono essere sempre provvisti perchè la nave commerciale — la seconda e più vera casa dell’uomo ligure — si trasforma all’occorrenza in nave da guerra (4). Cosi nell’inventario redatto da Maria « relieta domna et domina » dell’eredità del marito, Rolando Fondegario di Messina, da tempo stabilitosi e accasatosi a Ge- (3) Giovanni Scriba, vol. I, pag. 23 segg. Più tardi sono sempre nominate le « selle ». (4) Gio. Enrico de Porta, I, fo. 184 v°; Lopez, Studi sull'economia genovese, pag. 232; Guido di S. Ambrogio I, 50: « Habeo in hac domo corellum et barberiam et guantos ferri, spatam, cultellum, scutum, capellinam, balistram unam de ligno cum croco et quadrellis et cordis, et cultelletum de latere. Item habeo tunicam virgati cum duobus paribus manicarum,tunicam veterem, par unum de caligis biavi ». Le armi sono quelle ordinate dagli Statuti di Gazarla « Hist. Patr. Monum. », 1838, col. 357, 414. - 91 — nova e qui morto, accanto agl’immobili, alle vesti, alle merci — pepe special-mente è compresa un’intera armatura, come se invece di un pacifico mercante si trattasse di un balestriere o di altro soldato professionale (5). Non ci sono armi invece nell’inventario di Giacomino de Mari, non navigante, ma stabilito a Pera. Giovane, appena emancipato dal padre, era andato nel grande centro commerciale a trafficarvi in proprio o per l’azienda paterna, avendo con sè appena il necessario per uso personale. Nella sua eredità non figurano mobili (se c’erano nell’abitazione non saranno stati suoi) ma, con una discreta somma di denaro (319 perperi), molte balle di merci (di seta e di lana) « stramacius unus, strapunta una, coxino uno, copertorio uno buridi, culcitra una alba » e poi « linteamina duo, toaliole decem prò capite... par unum de bragis et camixiis, toagia una prò mensa, toalioli duo manutergerii, par unum caligarum », alcune vesti, un mantello e « cappellus unus prò aqua » (6); dove si vede che un giovane mercante di ricca famiglia non aveva poi un corredo eccessivo. Si comprende che anche meno ricchi sono gli inventari degli artigiani, come quello del Matteo lanaiolo che enumera molti strumenti e notevoli quantità di materie prime necessarie al suo mestiere, alcune masserizie di cucina, un saccone, due trapunte, due cuscini, tre lenzuoli, due camicie, un mantel- lo e, tra poche altre robe, quattro galline! (7). È questo uno dei più modesti; come e più di lui altri artigiani hanno una parte, spesso cospicua, del proprio capitale investita nelle merci che fabbricano e vendono; inoltre un « mercerius » possiede case e poco denaro liquido e ha molti crediti; un correggiaio terre e bestiame; un cuoiaio una casa col « jus soli », molti mutui, del denaro; un astaio, oltre gli arnesi del mestiere, un guardaroba abbastanza fornito; tutti press’a poco le stesse masserizie (8). Particolare interesse offrono gli inventari degli speziali, per la conoscenza della farmacopea deltempo. Tali quello della minuscola farmacia del chia-varese Enrico della Torre, compilato allorché il proprietario abbracciò la vita monacale e l’altro, assai più particolareggiato, in data 30 aprile 1250, del genovese Dondidio, notevole anche perchè attesta un’assai florida condizione economica (9). Esso si apre infatti con un lungo elenco di oltre 500 lire di crediti per accomendazioni, mutui concessi e merci vendute. Lo speziale ave- (5) Guglielmo da Sori, fol. 207-8. Poche armi, ma di valore per pregio intrinseco o per impugnature d’argento, nelPinventario di Salveto Pessagno di cui sarà detto più oltre. (6) Actes des notaires génois de Pera et de Caffa, pag. 167. (7) Gio. Enrico de Porta, vol. I, fo. 164 v° in Lopez, Studi ecc. pag. 188, n. IX. (8) Lopez, pag. 214 e docc. XVI, XVII, XV. (9) Liber Magistri Salmonis, pag. XXIV segg.; Lopez, pag. 214 e 281 segg., doc. XVIII. - 92 - va anche impiegato 200 lire nella « compera del sale » del Comune e doveva essere risarcito da un tal Guglielmo, confesso di aver sottratto « de domo sua furtive et malo modo solidos decem et restam unam paternostris valentem denarios decem et octo cum garofalo. » La seconda parte del documento è un elenco minuzioso di spezie e di farmachi, dai più noti e comuni ai più rari e preziosi, come la tuzia e lo spadio, minerali di zinco, e 1 « ipochistidion » succo astringente del « cytinus hypocistis », una pianta dell Asia Minore. Lasciando da parte l’aspetto propriamente economico degli inventari già illustrato, del resto, dal Lopez in una nota perspicua ed acuta (10) basta rilevarne lo spiraglio che possono aprire sul costume e sul tenoie di vita. L’inventario comincia sempre con l’indicazione dei beni immobili, e nella loro entità e nella diversa proporzione coi dati della ricchezza mobiliare è un elemento importante a determinare la classe sociale e la funzione economica delle famiglie. L’eredità del marchese Giovanni di Gavi, comprendente, con possessi fondiari, residui di diritti feudali su pedaggi e castelli, ma nessun credito commerciale, ci mette dinanzi a una famiglia di feudatari assorbita senza particolare rilievo nella vita cittadina perchè rimasta estranea alla sua tipica attività economica e perciò condannata a una funzione secondaria e modesta ,(11). Guglielmo De Castro, invece, ha il suo patrimonio quasi tutto in commercio. Certo è singolare che in questa e in altre eredità il possesso terriero e le operazioni commerciali sembrino escludersi a vicenda; ma gli elementi inventariali sono ancora troppo scarsi perchè se ne possa ricavare la conclusione di una netta separazione tra la proprietà fondiaria e 1 esercizio del commercio, sia pure in forma indiretta (12), quando invece dati anteriori e posteriori, a non dir d’altri, degli Embriaci, dei Doria, dei Fieschi, degli Spinola attestano la contemporaneità delle due forme di ricchezza. Molte delle case enumerate negli inventari intorno alla metà del secolo XIII sono ancora di legno; non mancano però case di pietra o in via di trasformazione; e c’è anche ricordo di torri, come quella che gli Embrone sta- (10) R. Lopez, Nota sulla composizione dei patrimoni privati nella prima metà del Duecento nel voi. Studi sull'economia genovese nel Medio Evo, pag. 207 segg. Il breve studio ha una preziosa appendice di venti inventari tratti dai cartolari intestati a Pietro Ruffo (in • realtà di Giacomo Taraburlo), a Gio. Enrico de Porta (ma di Enrico Bisagno), a Nicolò de Porta (ma di Manuele de Loco). (11) Lopez, pag. 209, 238. L’impressione è confermata da un cospicuo gruppo di documenti (Ferretto, Documenti genovesi di Novi e Valle Scrivia, vol. II, passim) dai quali ap-. pare che, sebbene stretti in parentela coi Doria e coi Di Negro e non del tutto estranei al movimento commerciale, i marchesi di Oavi hanno avuto funzione e importanza affatto secondaria. (12) È conclusione del Lopez (pag. 215), presentata tuttavia con qualche riserva. - 93 — vano costi uendo presso il mare. C’è anche chi, pur non appartenendo alle grandi famiglie, possiede più edifici in città o almeno una casa qui e una nel suburbio o in campagna (13). Ma, a parte le grandi dimore nobiliari, cominciate a costruire appunto nel 200, le case, fossero urbane o rurali, avevano pochi locali e soprattutto poco arredati, a giudicare dallo scarso numero di mobili che compare negli inventari anche di gente ricca e di famiglie abbastanza numerose. La famiglia del Guglielmo Scarsaria poco sopra ricordato comprendeva la moglie, tre figli (due maschi e una femmina), uno schiavo, una schiavetta saracena; la mobilia, secondo 1 inventario, consta di due letti (compreso quello nuziale), un armadio, due casse, un cassone dipinto, una panca, un desco: o l’inventario è incompiuto o quella gente aveva una straordinaria forza di adattamento. Un saccone, un letto, un armadio, due « selle », due madie, una cassetta, un desco rotondo, due casse per armi, due scranne, tre lucerne, alcuni recipienti per 1 acqua, alcuni arnesi di cucina, tra cui « grataroliam et ruscaroliam » costituiscono tutto 1 arredamento e le masserizie inventariate nell’eredità di Ru-baldo Mallone, appartenente a famiglia di ricchi armatori e mercanti, specializzati nel commercio della lana (14), possessore di case in città e di stabili nel suburbio. L inventario è redatto dalla moglie, curatrice per il figlio minorenne, e non è da supporre ella abbia posto minor cura nell’enumerare mobili, masserizie e la scarsa biancheria che nell’indicare le vesti, i mantelli, le numerose pellicce, i tre anelli, uno dei quali con smeraldo, le 395 lire di credito, provenienti da varie accomendazioni, oltre a lire 51 e bisanti sarace-nali 242 per i quali non esistevano strumenti originali, ma lòdi arbitrali (15). Riassumendo per brevità l’analisi di altri inventari, risultano questi dati. Enrico Malocello (di potente famiglia di marinai, che acquistò anche in feudo una parte di Varazze e alla quale appartennero il Carbone che fu a Ceuta nel 1234 e l’Jacopo sconfitto all’isola del Giglio nel 1241) con moglie, più figli, verosimilmente dei servi e nel patrimonio una casa “ in hora Malcello-rum”, due altre case pure in città e più di 300 lire di crediti, lascia tre sacconi (con dodici trapunte e diciotto lenzuoli), due casse, due armadi, una cassapanca; Nicoloso Nepitella — anche qui siamo in una cospicua casa mercantile — con moglie, due figli, probabilmente dei servi, ha un patrimonio di molti immobili in città, 500 lire liquide, crediti per alcune centinaia, oltre ad uno, incerto, di quattromila bisanti, e poi vesti ricchissime, pellicce, due cinture d’argento, e pure d’argento un bicchiere e quindici cucchiai; tra i mo- (13) Lopez, pag. 219, 230, 242, 249, 261. (14) Ferretto, Cod. Diplom. I, 161-2. (15) Lopez, pag. 212, 224-6. — 94 - bili non viene inventariato alcun letto, ina un saccone lasciato alla vedova, tre cuscini, dieci trapunte di lana, quattro casse, due armadi, una cassapanca, tre tavole da desco, quattro tripodi. Nicoletto de Palio — altra famiglia del grande commercio — ha moglie e tre figli, un maschio e due femmine, un patrimonio di due case contigue in città “ in contrata de volta ”, terra e casa in Quarto, terra a Murta, molti crediti, 29 fili di perle, da dieci carati fino a mezzo bisante per filo, pellicce, anche di ermellino, specialmente nel vestiario, spettante alla moglie, quattro trapunte, tra grandi e piccole, un cuscino, due sacconi, sette lenzuoli ” operati ”, una coperta bianca, due copriletti tinti, “ septem toagias et duas ad manus ”, e poi un discreto numero di arnesi da cucina, ma due bicchieri, quattro scodelle, quattro cucchiai di legno e quattro coltelli: oltre ad alcune armi, a sette canne di tela e due sacelli di lino ancora da tessere; un mulo, un cavallo e sei commende per oltre 210 lire. Ma quanto a mobili si trovano: “ tripodes et tabulas de lecto ” ( in numero imprecisato ), due “ saccones de lecto ” , due arche, due cassapanche, due deschi con un paio di tripodi, una madia. 11 già ricordato Guglielmo De Castro, ammogliato senza figli, e comproprietario di una casa ha crediti per oltre mille lire derivanti da vaste operazioni commerciali, possiede buon corredo di vesti, biancheria, armi, e i mobili sono: « tabulas et tripodes », di cui non è indicato il numero, quattro tavole, quattro tripodi, un saccone, un « pavilionum », una madia, un armadio, un armadietto, una cassa. (16). In aspro contrasto coi De Castro sono stati più volte gli Avvocati, già rappresentanti del vescovo e a lui sostituitisi in diritti e possessi. Di tale provenienza sono gli « iura soli » nominati nell’inventario di Antonio Avvocato, compilato in due tempi tra il 1259 e il 61 (17). Si tratta di un intero quartiere in Castelletto, con quarantadue case, dieci delle quali di sua proprietà, scrupolosamente elencate nel documento. Questi diritti feudali costituiscono la parte maggiore del patrimonio, destinato tutto ai quattro maschi; alla figlia soltanto le 400 lire assegnatele in dote. C’è poi la casa di abitazione in città e un’altra, con relativa torre, a Coronata, oltre a qualche credito; evidentemente la famiglia, ancora radicata nell’economia feudale e terriera, è fuori della grande attività commerciale, e può essere una causa del suo progressivo scadere d’importanza. Nella sua maggiore varietà di oggetti, di armi, di masserizie, l’inventario denota una considerevole agiatezza; è curioso, però, che non vi sono indicate vesti o biancheria personale, mentre ci sono otto lenzuoli grandi, tre piccoli, nove « de familia » (per i servi?) e « toaliorias (16) Ibid., pag. 227, 230, 233, 247. (17) Ibid., pag. 261. - 95 — duas de capite » e una « de visu » e parecchie coperte di vario tipo. L’arredamento della casa di città comprende due sacconi, indeterminate tavole e tripodi, due panche « de lecto », tre « de domo », quattro deschi, quattro tripodi « de disco », quattro armadi, due bancali, due casse « prò mercatori-bus », una cassa piccola; e nella casa di Coronata: « lectum », « saconum », due armadi, due sedie, una scranna, una panca, un pancale. Contrasta con tanto spartana nudità l’arredamento della casa di Ambrogio Caudalupi, che fu per parecchi anni scriba ufficiale del Comune. Per passione innata del fasto o perchè il contatto coi magnati del governo gli abbia dato il desiderio di eguagliarli e magari sorpassarli, egli sfoggia un lusso di arredi e di ornamenti eccezionale per il tempo, e certo superiore alle sue possibilità: non per nulla è morto indebitato (18). Alla sua morte, nel 1240, lascia tre figli, di cui uno ancor piccolo; il curatore e tutore trova bensì, al Carrubio dei Calderai, due case di legno e una di pietra, con orto, e un fondicello con casa suburbana a Carignano e a Recco, oltre a qualche po’ di terra a Serrino e a Pegli; e nella casa di Genova vesti costose e pellicce di gran pregio, molti mobili, oggetti preziosi, tra cui un filo di 76 perle, e argenterie, cassette di avorio e altre cose di valore, oltre alle vesti e ai gioiel- li dati alla moglie (19); ma niente denaro, niente crediti, e invece la notizia di molti altri preziosi dati in pegno e una serqua di debiti per cui è necessario convocare i creditori a mezzo di banditore per la città. La maggiore ricchezza nell’inventario è data dalle pellicce e dalle vesti (mantelli, tuniche, sopravesti) di tessuti e di colori diversi; numerose le coperte, scarsa la biancheria ( « linteamina septem, camisiam unam, toagias de disco quatuor, toaiolam unam ad manus » ). Quanto ai mobili, nella casa di città: « tabulas et tripodes de lecto » — al solito, in numero imprecisato, — un saccone, due panche, una delle quali « ante lectum », un desco rotondo, «tabuleria de nuce duo», due armadi, quattro cassapanche, sei « cattedre », un armadietto dipinto, un desco, un bancale lungo al modo delle cassapanche, tre banchette da porre «ante bancaria», due specchi, due madie, una scranna, due « bancaria », due « armaria », una panca, due arche. Meno ar- (18) Ibid., 214, 242 segg. (19) A titolo di saggio dell’interessante documento, che ragioni di spazio impediscono di riportare per intero, ecco l’elenco delle cose lasciate alla moglie: « tunicam et supracotum stanfortis albi et mantellum cum cendato, mantellum camelotti foratum cendati virmilii, supracotum cameloti foratum de penna varia, supracotum vermilium foratum de penna varia et tunicam scarleti, et pelles vermilii cum penna varia, supracota duo de musaigio et iupas de musaigio, iupam unam purpuream et camixias tres et peliciam et iupam vermiliam, paludel-lum unum, anulum diamantis, et alium stopacium auri et alium eunucum argenti et alium robini et alium smeraudi ». - 96 — redata la casa di Carignano, meno ancora quella di Recco; scarsissima, per un uomo di legge, la suppellettile libraria, che si riduce a « salterium unum, librum unum de Summis ». All’uomo piaceva più la vita elegante che lo studio (20). Quasi esclusivamente da libri di giurisprudenza è costituita invece 1 eredità del giudice Giacomo di Langasco (21). Nel suo patrimonio figuiano so- lo un edificio a Castelletto, sul suolo degli Avvocati, un’entrata di cinque lire annue per certo feudo del marchese di Massa goduto dal Comune, nonché crediti per una quarantina di lire (otto gliene deve il maggiore dei trovatori di Genova, Lanfranco Cicala). È vissuto però sempre come figlio di famiglia, presso il padre, forse commerciante di panni. L’inventario ricorda solo due abiti con mantello, guarniti o foderati di scoiattolo e di agnello, un « mantellum blavetum aquabilem » (impermeabile?), la sella e il freno del cavallo, nessuna arma, qualche attrezzo rurale, come una zappa e una roncola, nessun mobile nè biancheria da letto o da desco, appunto perchè vissuto coi figli nella casa paterna, ma soprattutto libri di diritto, allora molto costosi, a cominciare dal « Corpus iuris civilis » nella consueta divisione in volumi. Sono stati i suoi strumenti di lavoro, ma in proporzione superiore a quella degli altri uomini di legge. Come Ambrogio quella del lusso nell’arredamento, nelle vesti e nei gioielli, egli ha avuto la passione dei libri; e al nonno è toccato il compito di pensare ai nipotini. In conclusione, e tranne casi eccezionali, l’arredamento è modesto, anche nelle case dei ricchi; i Ietti, quando non si tratta del semplice saccone sul pavimento, sono costituiti da tavole su cavalletti (22); ed è caratteristico che l’unico « lectum impictum » indicato dagli inventari appartenga allo straniero Pictenado, venuto probabilmente con lui dalla Provenza o dalla Catalogna. Si trovano qualche volta armadietti dipinti, come quello di Ambrogio Scriba, 0 anche casse dipinte (23). Piuttosto abbondante invece la fornitura delle coperte o copriletti di vario tipo e colore che, con cuscini e lenzuoli, formavano il « Ietto guarnito » spesso (20) Nell’inventario di Ambrogio nè in alcun altro sono indicati oggetti di toletta, come 1 pettini di bosso dei quali pure si faceva commercio (Guido di S. Ambrogio, fo. 35 v°), forse considerati troppo poca cosa per essere inventariati. Mancano negli inventari, e in genere negli atti notarili, notizie sul vitto: ben poco dice in proposito la dieta imposta da un medico al paziente colpito da paralisi (v. pag. 52). Di fornai che devono cuocere pane, torte, arrosti, tegami ai monaci di S. Donato e a quelli della Cattedrale, dai quali hanno in fitto i forni, è cenno in contratti del 1270; Ferretto, Cod. Dipi. I, 270. (21) Lopez, pag. 213, 236. (22) Oltre gli esempi riportati, Oberto Scriba de Mercato 1190, pag. 110: «tabulas super quas iaceo cum tripodibus ». (23) Giovanni Scriba, II, pag. 204. - 97 — ricordato nei testamenti perchè rimane alla vedova (24). Diciotto lenzuoli in una famiglia pur di parecchie persone costituiscono un caso isolato. Come la biancheria da camera, è scarsa quella personale; occorre l’inventario del sibarita Ambrogio Scriba per trovar indicate tre camicie, in contrasto con le vesti numerose e lussuose, con le pellicce. C’è molto coniglio (pregiato quello di Spagna), molto agnello, ma anche vaio, cervo, faina, volpe, ermellino. La casa fredda, il clima ventoso dell’inverno fanno sì che ne debbano essere provviste, più o meno largamente, anche le persone di media fortuna (25). Dei panni di tipi e provenienze svariatissime importati dal commercio una parte restava pure nelle case dei Genovesi, e talora si trattava di stoffe di lusso, mentre ai bisogni correnti e della clientela meno esigente provvedeva la produzione di Albenga e, intorno alla metà del Duecento, anche quella locale (26). E non mancavano, massime nel secolo XII, i tessuti di provenienza araba, come armusali e barracani (27). Abbastanza frequente nelle case signorili la posateria e il vasellame d’argento; più ricchi indubbiamente, anche oltre il caso di Ambrogio Scriba, i gioielli, che spesso erano dati in pegno o addirittura messi in circolazione quali capitali da impiegare o merce da vendere, come aveva fatto Guglielmo Embriaco con l’anello di rubino regalatogli da Marcoaldo (28). È evidente che la preferenza andava a quei beni mobili che si potevano facilmente realizzare. Qui è la vera ricchezza dei Genovesi, nelle somme liquide, grandi o piccole, grossi capitali o sudati risparmi, che tutti, uomini e donne, impiegano in commercio, nelle mercanzie che per terra o per mare vengono dai luoghi di produzione e vanne) ai paesi di consumo, avendo nel porto di Genova il centro di smistamento e di scambio. Tra le varie forme di questo commercio più frequente, massime nel traffico marittimo, il contratto di accomendazione o commenda per il quale un socio accomandante affida all’accomandatario somme o mercanzie da impiegare o vendere con stabilita ripartizione degli utili (29). Non sempre nei con- (24) « Lectum garnitum — spiega un documento del 1222 — videlicet strapunctas duas et unum copertorium et unum cosinum et linteamina duo >; Liber Magistri Salmonis, pag 149, n. CCCXCV1I. (25) Oltre agli inventari del Duecento in Lopez, pag. 220 segg.; Giovanni Scriba, I, 24; II, pag. 204 (faina), pag. 92 (volpe); Giovanni di Guiberto, II, pag. 3S9, n. 1895 (cuniculorum de Spania); l’inventario già ricordato del pellaio Armano e moltissimi altri esempi. (26) Molti panni « albinganenses » figurano nell’inventario del negozio di Armano. Sulla produzione locale, Lopez, Le origini dell'arte della lana nel vol. Studi sull'economia ecc. (27) Cfr. i citati documenti di Giovanni Scriba, I, 25 e II, 204. (28) V. anche Giovanni Scriba, I, 91 e Bonvillano, pag. 131. (29) Sarebbe fuor di luogo accennare qui a tutte le discussioni teoriche sull’origine e la natura economica e giuridica della commenda. Basterà rimandare agli studi. La com- 98 - tratti si distingue se si tratti di merci o di denaro; ciò che importa è il valore per la futura ripartizione. Complessa, flessibile, adattabile ad ogni tipo di negozio, questa forma commerciale, insieme alla commenda terrestre, al prestito ed al cambio marittimo, arriva nei casi più fortunati a raddoppiare in poche operazioni le somme iniziali. Perciò si vengono accumulando i grandi capitali che permettono nella seconda metà del 200, mentre si costruiscono i grandi edifizi pubblici e privati, di realizzare un autentico monopolio finanziario neH’acquisto delle stoffe di Champagne. Anche se mercanti di Lucca, di Siena, di Firenze, di Asti, di Piacenza, gli acquirenti fanno di Genova la prima tappa per recarsi in Francia e a Genova trovano per lo più i capitali necessari alle loro imprese. Di questo momento della massima ricchezza e potenza commerciale si può dire eloquente testimonianza l’inventario dell’eredità lasciata sulla sua nave da Salveto Pessagno (curatore, con Albasio Doria, dell’arriiatore Nicolò Spinola) morto improvvisamente a Famagosta sulla fine del Gennaio 1300. Redatto sotto la sorveglianza delle autorità locali, l’inventario enumera dappii-ma le merci, non ancora pagate, di fornitori italiani: frumento per 15600 da remi di Armenia, panni lombardi e francesi per un totale di 10347 bisanti, oltre ad una partita di 34 cantari di zucchero della quale non è precisato il valore. Ma il maggiore interesse del documento sta nell’enumerazione delle cose appartenente personalmente al Pessagno. Non sono indicati mobili, certo perchè àppartenenti al corpo della nave, ma il corredo e gli oggetti d uso denotano un lusso inusitato anche nelle case, almeno per quanto si ricava dai documenti della metà del secolo. Accanto a discrete somme di denaro (79 ducati d’argento veneziani, 7 perperi d’oro) contenute in borse dorate, ci sono cinque casse d’argento con l’arma del propretario, ben venticinque cucchiai d’argento, « pomelli tres argenti grossi » e « pomelli grossi quinque de ambra », un anello d’oro da sigillo con l’impronta di un leone, anfore, cofani ed altri oggetti, tutti, o almeno còl piede, d’argento; biancheria personale e da camera abbondante e ricamata in oro, tela e panni di Fiandra e di Lombardia, coperte e tappeti, vesti numerose di vario tipo e colore, mantelli foderati e pellicce e infine quattro schiavi, due dei quali destinati alla manumissione (30). I grandi mercanti e marinai non vivono più con la sobria austerità di un tempo, conseguenza degli enormi e rapidi guadagni procurati dalla fervida e fruttuosa attività commerciale, favorita, massime nella seconda metà del menda nel diritto comune del Mediterraneo dei secoli XI - XIII e Prestiti ed accornmende all’uso di Bonifacio di Antonio Scialoja (nel voi. Saggi di Storia del diritto marittimo, Roma, 1946) in cui è richiamata e discussa la letteratura anteriore. (30) Actes passés à Famagouste, n. XLH, pag. 25 segg. 99 - secolo, da una serie di fortunate circostanze. Se al principio del 200 Giacomo di Vitry, imbarcatosi a Genova nel 1218 per raggiungere il suo vescovado di S. Giovanni d’Acri, era rimasto meravigliato delle ricchezze genovesi e del numero delle navi attraccate nel porto, un grande cammino è stato compiuto nel corso del secolo, verso la fine del quale «Gênes a-atteint une prospérité économique telle que l’on peut la considérer l’une des cités les plus riches si pas la plus riche de l’Italie (31) ». Di questo momento, che Jacopo da Varagine ha chiamato della perfezione, i notai rimangono, col Varagine stesso, con l’Anonimo, con Jacopo Doria, la maggiore e più eloquente testimonianza. Veramente splendido momento nel quale le fortune commerciali e coloniali si accompagnano alle vittorie della Meloria e di Curzola che danno il breve, ma glorioso dominio del mare; splendido momento di cui i Genovesi hanno chiara la coscienza e l’orgoglio, come il Varagine appunto e PAnonimo dimostrano (32). Soltanto qualche spirito più sensibile e illuminato può intravvedere le nuvole che si addensano all’orizzonte e indicare nelle sanguinose lotte civili, nella eccessiva superba ricchezza un minaccioso pericolo, e tentare di scongiurarlo con l’accorata invocazione alla concordia, all’umiltà, alla semplicità del costume, al riconoscimento che tanta grandezza è soltanto dovuta all’aiuto e alla benevolenza divina (33). (31) Doehaerd, Les relations commerciales entre Gcnes, la Belgique ecc-, pag. 76,170. (32) Monleone, La cronaca di Jacopo da Varagine, I, pag. 249 segg. Tutta la poesia dell’Anonimo esprime la coscienza che Genova ha di sè alla fine del 200. (33) Jacopo Doria, Annali, vói. V, pag. 174-5. APPENDICE FONTI DOCUMENTARIE NOTARILI CARTOLARI DELL’ARCHIVIO DI STATO Lanfranco ed altri notai, registri I-IV; ii II in due parti. I reg. I e III appartengono interamente a Oberto Scriba de Mercato (cfr. G- P. Bo-onetti, Per l'edizione dei notai liguri del secolo XI/, pag. 69, 84), del quale è stata pubblicata (v. oltre) la parte relativa agli anni 1186 e 1190- Tutti gli atti veramente attribuibili al notaio Lanfranco (reg. Il, 1-2) sono in corso di pubblicazione nella serie « Notai liguri del secolo XII » a cura di H. C. Krueger e L. R. Reynolds. Il reg. IV è in gran parte da attribuire a Raimondo Medici. Diversorum 102. Contiene per la maggior parte (fo. 122-263) atti di Guglielmo da Sori; per il resto, di Oberto Scriba de Mercato (1179), di Obertp di Piacenza e frammenti minori (Bognetti, Per l'edizione ecc. pag. 64-5). Tutto quanto appartiene a Guglielmo da Sori (compreso l’ampio frammento in Lanfranco 11,2, fo. 121-134) è stato trascritto dal prof. Giuseppe Oreste e sarà pubblicato appena possibile; pronti per la stampa, ad opera della Sopraintendenza dell’Archivio di Stato, sono tutti gli atti, di questo e di altri registri, redatti da Oberto di Piacenza. Pietro Ruffo ed altri notai. Di questo registro, e di tutti gli altri del secolo XIII, è in corso, a cura dell’Archivio di Stato (v. sopra, cap. I), l’analisi e la ricomposizione cronologica. Qui di seguito sono indicati soltanto i cartolari nei quali sono stati fatti assaggi per il presente studio. Giberto da Nervi Leonardo Osbergerò Angelino de Sigestro Giovanni de Amandolesio Guido di S. Ambrogio Nicoloso de Becaira Simone de Palazzolo (in Notai Ignoti, busta I, doc. XXIV) Gio. Enrico de Porto Januino de Predone Bonvassallo de Cassina Urso de Sigestro Palodino de Sexto Bartolomeo de Fornari Matteo de Predone Giovanni Vegio 102 — RACCOLTE DI ATTI NOTARILI A STAMPA L. T. Belorano, Documenti inediti riguardanti■ le due Crociate di S. Luigi IX Re di Francia, Genova, 1859. ARCHIVES DE L’ORIENT LATIN. Actes passés en 1277, 1274 et 1279 à L’Aïas (Petite Arménie) et à Beyrouth par-devant des notaires génois publiés par le chev. Cornelio Desimoni, to. I, 1881, pp. 434-534. Actes passés à Famagouste de 1299 à 1301 par devant le notaire génois Lamberto de Sambuceto, publiés par le chev. Cornelio Desimoni, to. 11,2, 1882, Documents, pp. 1-130 ÉTUDES ET RECHERCHES DE L’ACADÉMIE ROUMAINE. Actes des notaires génois de Péra et de Caffa de la fin du treizième siècle (1281-1299), publiés par G- J. Bratianu, Bucarest, 1927. DOCUMENTI E STUDI PER LA STORIA DEL COMMERCIO E DEL DIRITTO COMMERCIALE ITALIANO. Il cartolare di Giovanni Scriba a cura di Mario Chiaudano e Mattia Moresco 2 voli-, 1938. NOTAI LIGURI DEL SECOLO XII. (Questa collezione è stata pubblicata in comune dalla Deputazione di Storia Patria per la Liguria e dai Documenti e Studi per la Storia del commercio ecc.). I Oberto Scriba de Mercato (1190) a cura di M. Chiaudano e R. Morozzo Della Rocca, 1938. II Guglielmo Cassinese (1190-1192) a cura di Margaret W. Hall, Hilmar C. Krueger, Robert L. Reynolds del Dipartimento di Storia dell’Università di Wisconsin, 2 voli., 1938. Ili Bonvillano (1198) a cura di J. E. Eierman, H. C Krueger, R. L. Reynolds, 1939. IV Oberto Scriba de Mercato (1186) a cura di M. Chiaudano, 1940. (La trascrizione dei documenti è opera della dott. Clelia Jona, il cui nome, per ragioni contingenti di carat tero razziale, non potè allora esser fatto; al prof. Chiaudano sono dovuti prefazione, regesti e indici). V Giovanni di Guiberto (1200-1211) a cura di M. W- Hall-Cole, H. C. Krueger, R. 0. Reinert, R. L. Reynolds, 2 voli., 1940. BIBLIOTECA DELLA SOCIETÀ’ STORICA SUBALPINA. Documenti sulle relazioni tra Alba e Genova, a cura di Arturo Ferretto, voli. XXIII e L, par. I. Documenti genovesi di Novi e Valle Scrivia, a cura di A. Ferretto, voli- XLI, LII. Documenti sulle relazioni tra Voghera e Genova (960-1325) a cura di G. GoRRiNi, vol. XLVIII. Documenti sulle relazioni commerciali fra Asti e Genova (1/82-1310), a cura di G. Rosso, vol. LXXII. » - 103 - ATT! DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA. Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante, a cura di A. Ferretto, vol. XXXI, par. I e H. Liber Magistri Salmonis sacri palatii noiarii (1222-1226), a cura di A. Ferretto, vol. XXXVI. ATTI DELLA R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA. Documenti sul castello di Bonifacio nel secolo XIII, a cura di V. Vitale, vol. I (LXV degli Atti della Soc. Lig. di Stor. Patria). Nuovi documenti sul castello di Bonifacio nel secolo X'III, a cura di V- Vitale, vol. IV (LXVIII degli Atti della Soc. Lig.), fase. II. INSTITUT HISTORIQUE BELGE DE ROME - ÉTUDES D’HISTOIRE ÉCONOMIQUE ET SOCIALE. Les relations commerciales entre Gênes, la Belgique et l'Outremont d'après les Archives notariales génoises au XIIIe et XIV’e siècles par R. Doehaerd, 3 voli., Bru-xelles-Rome, 1941. (I voli. II e III comprendono 1877 documenti)- ALTRE OPERE CON DOCUMENTI NOTARILI G. J. Bratianu, Recherches sur le commerce génois dans la Mer Noire au XIII siècle. Paris, 1929 (22 documenti in appendice). M. Chiaudano, Contratti commerciali genovesi del secolo XII. Contributo alla storia del-Vaccomandatio e della societas. « Nuova collezione di opere giuridiche », n. 230, Torino, Bocca, 1925. (In appendice 69 documenti del notaio Guglielmo Cassinese, poi ristampati nella collezione « Notai liguri del secolo XII »). E. H. Byrne, Geuoese Shipping in thè twelfth and thirteenth centuries, «The Mediaeval Academy of America », Cambridge Massachusettes, 1930 (55 docc. in appendice). R. Di TUCCI. Studi sull'economia genovese del secolo decimosecondo - La nave e i contratti marittimi - La banca privata, Torino, Bocca, 1933 (155 documenti intercalati nel testo). R. Lopez, Studi sull'economia genovese nel Medioevo (* Documenti e Studi per la Storia del Commercio e del Diritto commerciale italiano », Torino, 1936). Sono tre studi: / Genovesi in Affrica occidentale; Le origini dell'arte della lana; Nota sulla composizione dei patrimoni privati nella prima metà del Duecento, dei quali il secondo e il terzo tutti fondati sugli atti notarili e rispettivamente con 32 e 20 documenti in appendice. R. Lopez, L'attività economica di Genova nel marzo 1253 secondo gli atti notarili del tempo, « Atti Soc. Lig. St. Patr. » LXIV- (In appendice il regesto di 427 documenti). R. Di Tucci, Documenti inediti sulla spedizione e sulla mahona dei Genovesi a Ceuta, « Atti Soc. Lig. St. Patr. », LXIV (con 94 documenti). P. Revelli, Cristoforo Colombo e la scuola cartografica genovese (a cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche), Genova, stabilimenti italiani Arti grafiche, 1937 (nell’Appen-dice sono riportati 11 documenti notarili del sec. XIII). INDICE I - I Cartolari notarili . II - La figura del notaio e la materia degli atti III - La città e i suoi abitanti IV - La cultura e le scuole . V - La famiglia e il costume VI - Gli schiavi...... VII - Rapporti matrimoniali: doti e testamenti VIII - Gli inventari e il tenore di vita Appendice....... pag- 7 15 27 45 55 67 75 «9 101 ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Vol. LXXII - Fascicolo 2° GIORGIO COSTAMAGNA LA DATA CRONICA NEI PIÙ’ ANTICHI DOCUMENTI PRIVATI GENOVESI (Sec. X. - Sec. XII.) UN RARO MONOGRAMMA IN NOTE TACHIGRAFICHE SILLABICHE (A. S. G. - Monastero di Santo Stefano, mazzo in busta 1A508) GENOVA MCML NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA - PALAZZO ROSSO - . « . . - I . ■ -. « -> I ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Vol. LXXII - Fascicolo 2° GIORGIO COSTAMAGNA LA DATA CRONICA NEI PIÙ’ ANTICHI DOCUMENTI PRIVATI GENOVESI (Sec. X. - Sec. XII.) UN RARO MONOGRAMMA IN NOTE TACHIGRAFICHE SILLABICHE (A. S. Q. - Monastero di Santo Stefano, mazzo in busta 1A508) a c__>1: J /& \ BIBLIOTFHA ) JN GENOVA MCML NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIOURE DI STORIA PATRIA - PALAZZO ROSSO SOPRANZI * COGOLETO - 1950 LA DATA CRONICA NEI PIÙ’ ANTICHI DOCUMENTI PRIVATI GENOVESI (Sec. X. - Sec. XII.) E’ universalmente noto come il computo del tempo sia uno degli elementi più importanti per la determinazione del valore e dedla autenticità degli avanzi documentari medioevali; non si crede perciò inutile questa modesta fatica intesa a chiarire alcune difficoltà nelle quali si imbatte chi intraprende lo studio dei più antichi documenti privati. Ciò soprattutto in considerazione sia della grande importanza che oggi gli studiosa attribuiscono ai famosi cartulari notarili genovesi, i primi djei quali appartengono proprio alla fine del periodo di tempo preso in esame, sia anche del latto che la questione della data e della indizione in uso nella Superba non venne mai direttamente affrontata, tanto che nelle tavole cronologiche pubblicate dal Cappelli (1) e più recentemente dal Modica (2) solo si dice che a Genova prima del 1476 era in uso per il computo dell’anno dell’era Cristiana lo siile della natività, mientre, in realtà, prima di arrivare a quello, ebbero applicazione almeno tre altri sistemi. Senza considerare, poi, come l’incompleta conoscenza dei metodi usati per calcolare il /tempo abbia finito per causare gravi errori anche in importanti pubblicazioni, quali, ad esempio, i Monumenta Historiae Patriae (3). Al fine di ben delimitare il campo dell'indagine, è necessario premettere alcune preoisazioni. Innanzi tutto la ricerca ha avuto pier oggetto i cosidetti documenti privati, vale a dire quelli che sono stati redatti, in (1) A. Cappelli, Cronologia, Hoepli, Milano, 1908. (2) M. Modica, Diplomatica, Hoepli, Milano, 1942, pag. 385. (3) Cïr. Monumenta Hi&toriae Patriae, Torino, ex Officina Regia, 1854. Liber Jurium I, col. 1011 e 1012 ecc. - 8 — forme determinate e comuni atte a dar loro fede pubblica e forza di prova, da privati scrittori, notai od anche pubblici uffici e autorità, per regolare rapporti e negozi di diritto privato. In secondo luogo l’analisi è stata nel tempo limitata alla metà del secolo XII perchè appunto in questo periodo, a Genova, ha fine quello che i moderni diplomatisti (4) chiamano periodo arcaico dedla storia del documento privato, caratterizzato dalla distinzione tra carta e notizia, ed ha inizio il periodo di transizione, durante il quale gli atti, in conseguenza del rinnovato studio del diritto romano, assumono nuova forma per dar vita all’ « instrumenlum ». Infine, data la complessità della materia, si è ritenuto opportuno restringere 1 indagine alla sola data cronica. La novella emanata nel 537, con cui l’imperatore Giustiniano stabiliva che negli atti pubblici e privati accanto all’indicazione del post-consolato s’introducesse anche quella dell’impero, sostanzialmente era stata un richiamo all’antico sistema di datare facendo menzione dei consoli in carica. Tuttavia un nuovo metodo, del resto ben presto anch’esso caduto in disuso, detto del post consolatum Basilii, doveva sostituirlo. Dopo l’imperatore Giustino, infatti, in luogo dell’indicazione del consolato di Basilio appare quella del consolato dell’imperatore. Andava cosi affermandosi l’era imperiale, la quale, peraltro, finiva per provocare non po che incertezze e imprecisioni perchè, in pratica, si potevano seguire vari criteri per il computo degli anni dell’impero in dipendenza della data scelta come punto di partenza, la quale poteva essere sia quella della fine del regno precedente, sia dell’elezione, sia ancora dell incoi onazione. E’ proprio l’era dell’impero che noi troviamo usata nei più antichi documenti privati genovesi del sec. X. Tuttavia alcune carte rogate in torno all’anno 990 (5} possono fondatamente ingenerale 1 opinione che, come in altre città e soprattutto a Verona (6), in Genova sul finire del secolo X sia stailo usato normalmente anche lo stile dell Incarnazione.. Ad ogni modo col principio del secolo XI l’uso di gran lunga dominante è quello di datare in base al computo degli anni dell impero. Quanto poi al punto iniziale di riferimento, non sembra dubbio che sia il giorno (4) M. Modica, Diplomatica, op. cit., papr. 276 e seg. (5) Cfr. L. T. Belgrano, Cartario Genovese, in Atti della Società di Storia Pa a, vol. II, p. I; documenti n. XVI e XX. (6) V. Fainelli, La data nei documenti e nelle Cronache di Verona, in Nuovo Archivio Veneto, vol. XXI, parte II, 1911. — 9 — dell incoronazione imperiale, non si trova infatti nessun caso in cui venga applicato l’uso ricordato dal Momsen (7) di calcolare come inizio del primo anno dell’impero id primo giorno dell’anno civile successivo all’avvento al trono. Nieppure si contempla ili caso che venga considerato come anno completo il tempo trascorso dopo l’avvento al trono del sovrano sino alla fine delfl’anno, facendo quindi iniziare il secondo anno dell’impero con l’anno novello. Basterà per convincersene considlerare alcune carte. Ecco, ad esempio, la data di un documento (8) conservato nell’ar-ohivio del Monastero di Sanito Stefano : « imperante domno nostro tercio Otto in Italia anno IV, mense december, indicione terciadecima ». Ora poiché Ottone III fu incoronato imperatore nel maggio dell’anno 996, è evidente che il notaio ha iniziato il computo appunto da questo chè se l’avesse incominciato coll’avvento del 25 marzo successivo il mese di dicembre del quarto anno dell’impero cadrebbe nella XIV indizione e non nella XIII. Di converso se si esamina invece la seguente data (9) : « tertius Octcto (sic) gratia Dei Imperator agustus (sic) anno imperii eius Deo propicio hic in Ictalia (sic) quarto mense aprelis indicione terciadecima », sa vedrà che non è stato considerato come anno completo il tempo trascorso dopo l’avvento del sovrano al trono sino al 25 marzo successivo, perchè in 'tal caso l’aprile compreso nel quarto anno dell’impero cadrebbe nella XII indizione e non nella XIII come invece segna la carta considerata. A quesito punto occorre però precisare che accan&o all’era imperiale troviamo usata, in questo periodo, anche quella del regno e ciò accade all’epoca di Arduino e di Enrico II e fino all’anno dell’incoronazione di quest’ultimo ad imperatore. Si è detto poco innanzi che l’uso dell’era imperiale fu quello dominante, ma, si può ora aggiungere, non esclusivo, chè, talora, benché in pochi casi intorno al 1025, si trova usata l’era Cristiana nello stile dell’incarnazione (10). Ciò sta a dimostrare come quest’ultimo non sia mai (7) Momsen, Der Roemisch - germanische Herscherjahr, ia Neues Archiv, XVI, 1890, pagg. 49-65. (8) L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., documento n. XXXII. (9) Li. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., documento n. XXXIII. (10) L. T. Belgrado, Cartario Genovese, op. cit., documenti n. LXXXVIII, LXXXIX, XC, XCJ. scomparso interamente dall’uso (11) e come il suo graduale affermarsi e finale predominio in Genova nella seconda metà d^el sec. XI non sia dovuto all’introdursi di un costume totalmente nuovo, ma, piuttosto, alla ripresa di una abitudine gii à prevalsa nel secolo precedente. E’ ben Mero che talluno poti'ebbe osservare che questo riaffiorare dello sitile dell’incarnazione corrisponde all’epoca dd vacanza del trono imperiale succeduta alia morte di Enrico II, tuttavia è facile ribattere che in tale caso si applicava, normalmente, la formula « regno vacante » oppure quella ancora più indeterminata « Regnante Christo ». E se quest’ultima fu di uso non troppo frequente in Italia, pure fu molto usato, anche nel vicino Piemonte, il metodo di specilicare solamente l’anno dopo la morte dell’ultimo imperatore (12). Nelle primie decadi della seconda mieta del secolo XI 1 uso dell era imperiale venne sostituito totalmente da quello dell’era Cristiana secondo lo stile dell’incarnazione. Come si è accennato, secondo quest ultimo sistema, che ebbe larghissima diffusione e che fu detto anche della annunciazione di Maria, l’anno aveva inizio ail 25 del mese di marzo. Bisogna ricordare, però, che nel Medioevo lo stile dell’incarnazione venne computato in due modi diversi, secondo il calcolo fiorentino, cioè, oppure secondo quello pisano. Fra i due computi esisteva la differenza di un anno, infatti, mentre il calcolo fiorentino fissava l’inizio dell anno, iispetto à quello moderno, con un ritardo di due mesi e 25 giorni, concordando quindi con esso per il periodo dal 25 marzo al 31 dicembre e seenando una unità in meno dal 1 gennaio al 24 marzo, il calcolo pisano, invece, anticipava di nove mesi e sette giorni in rapporto al computo nostro, concordando con questo soltanto dal 1 gennaio al 24 di marzo. A questo punto può legittimiamenïte sorgere il dubbio che, come del riesto si verificò a Verona (13), a dispetto della formuïa « ab incarnatio ne », in Genova si desse inizio all’anno il 25 del mese di dicembre, vale a dire secondo il computo usato dallo stile della natività che in seguito doveva affermarsi come predominante. In questo caso, fortunatamente, alcuni documenti possono fornirci utili indicazioni. Valga, ad esempio, (11) Gli ecclesiastici non l’abbandonarono mai. (12) Datta, Lezioni di paleografìa sui documenti della Monarchia di Savoia, G. Pomba, Torino, 1833, pag. 369. (13) V. Fainelli, La data nei documenti e nelle cronache di Verona, op. cit. i;l confronto .Ira le seguenti date: « anno ab Incarnacene Domini nostri Jhesu Ohristi millesimo sexagesimo quarto, pridiie kalendas octobris, indicione secunda » (14) e « anno ab incarnacene Domini nostri Jhesu Christi milleximo sexageximo quinto, mense ianoarius, indicione lercia » (15). Ora se l’anno avesse avuto inizio il 25 dicembre o, poniamo pure, il 1 gennaio secondo il computo della circoncisione oggi in uso, il gennaio dell’anno 1065 avrebbe dovuto cadere nella stessa indizione del 30 settembre 1064, vale a dire nella seconda, ìnViece, come appare chiaramente, corrisponde all’indizione terza. Il fallo si può spiegare soltanto considerando che l’anno aveva inizio il 25 marzo e che quindi il gennaio 1065 distava in effetti dal settembre 1064 quindici mesi e andava per ciò stesso a cadere nell’indizione seguente. Superata questa prima difficoltà resta da chiarire e precisare se a Genova venisse usato per il calcolo dell’era cristiana secondo lo siile dell’incarnazione, il computo pisano oppure quello fiorentino. Il compito sarebbe molto facilitato se ci fossero rimaste carte datate contemporaneamente secondo l’era dell’impero e secondo quella Cristiana, purtroppo, invece, queste sono rarissime tra i documenti pubblici, anzi, il più delle volte, non possono dare indicazioni precise a causa della mancanza delj’indicaz'ione del meste, e mancano totalmente tra i privati. D’altra paTte il problema troverebbe una pronta soluzione qualora si conoscesse, con precisione, quale indizione venisse usaita in quell’epoca a Genova, sfortunaltamente è proprio questo il periodo in cui si verifica il passaggio dall’uso dell’indizione imperiale a quello della cosidetta genovese senza, però, che se ne conosca con precisione il momento. Tutt’al più ciò che si può d'ire è che il passaggio non avvenne ad un tratto, ma che per un certo periodo i due sistema indizionali coesistettero. Mentre, peraltro, ancora non era invalso l’uso, da parìe dei notai, di specificare quale fosse l’indizione usala. In pratica, quindi, tenuto presente che tra il calcolo fiorentino e quello pisano corre la differenza di un anno esatto, lo studioso si trova di fronte alla difficoltà di dover collocare una data in un periodo di tempo che comprende ventiquattro mesi, da un 25 marzo, cioè, ad un (14) L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., Documento n. CXXXIII. (15) L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., Documento n. CXXXIV. — 12 — 25 dallo stesso mese di due anni dopo. L’indizione imperiale cade nel settore centrale del detto lasso dd temipo, comprendendo il periodo ohe va da un seilem'bre all’altro (in ventiquattro mesi, a partire da un mese di marzo, ve ne sono infatti solo due) e concordando per i mesi dal gennaio al settembre con il computo odierno, mentre ne restano esolusi, da un lato, i giorni compresi tra il 25 marzo ed il 24 settemibre e, dall’altro, quelli tra il 24 settembre successivo ed il 25 marzo. Nei confronti del differente calcolo usato, essa si riferisce, rispe.Uo all’anno calcolato secondo l’uso moderno, per i mesi dal settembre al marzo al calcolo pisano segnante lo stesso numero progressivo ed a quello fiorentino segnante una unità in mieno, mentre per i mesi dal marzo al settembre corrisponde al computo fiorentino di pari numerazione ed a quello pisano segnante una unità in più. La corrispondente indizione genovese, pur presentando le stesse caratteristiche, enumera invece una unità in meno. Ma come distinguerla da quella imperiale di pari unità? Mancando 1 indicazione certa sia del computo particolare usato per l’anno, sia dell indizione, risulta chiaro come non sia possibile stabilire con esattezza nè 1 uno nè l’altra. Infatti, se la cifra indizionale corrispondente al calcolo fiorentino segnasse una unità in meno della normale dell anno non sarebbe perciò da considerarsi senz’altro genovese in (pianto potrebbe e^^oie la prece dente imperiale corrispondente al calcolo pisano. Si consideri, esempio, la seguente data : « hanno ab Incamacione Domini nostr Christi milleximo septuageximo quarto, mense november, indicione decima » (16), risulta evidente che se si considera l’indizione come imperiale, poiché il mese di novembre compresovi rientrerebbe, rispetto a nostro computo, nell’anno 1073, essa corrisponderebbe al computo pisano, ma con altrettanta verosimiglianza la si potrebbe considerare come geno vese ed allora corrisponderebbe all’anno dell’incarnazione computa o sescondo il calcolo fiorentino. . . Tuttavia, se ben si studia la questione, si vedrà che vi sono dei c limite in cui l'indizione deve essere necessariamente genovese e ciò quando essa, per i mesi da settembre a marzo, segni una unita in meno e imperiale corrispondente all’anno indicato, oppure segni due u meno per i mesi dal marzo al settembre. In entrambe le circostanze, (16) L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., Documento n. CXLIII. 13 — infatti, l’indizione imperiale di pari unità andrebbe a cadere in un anno precedente a quello indicato, qualunque sia stato il calcolo dell’anno dell’incarnazione usato. Un esempio del primo tipo lo troviamo in un documento conservalo nell’Archivio del Monastero di S. Siro (17) la cui data recita : « In anno ab incamacione Domini nostri Jhesu Christi milleximo octuageximo sesto, mense februarius, indicione Vili », in questo caso è evidente che ci troviamo di fronte all’indizione genovese perchè l’ottava imperiale cadrebbe nell’anno 1085 secondo il calcolo pisano o 1084 secondo il fiorentino^, mai però nel 1086 (18). Così la seguènte data : « anno ab incamacione Domini nostri Jhesu Christi mille cenltum, mense septembris, indicione VI » (19) ci dà un esempio di indizione sicuramente genovese quando essa segni due unità in meno di quella imperiale corrispondente all’anno indicato nella carta, infatti, la sesta indizione imperiale cadrebbe nell’anno 1099, se calcolato secondo il computo pisano, e nel 1098 se computato secondo quello fiorentino. Di converso e per la stessa ragione accennata, avremo l’indizione imperiale quando per i mesi da marzo a settembre sarà esattamente corrispondente all’anno, e così pure quando essa segnerà una unità in più della normale per i mesi da settembre a marzo. Per avere la conferma di quanto si è detto si esamini la data che si trascrive : « anno ab incarnacene domini nostri Jhesu Christi millesimo octuagesimo octavo mense madii indicione XI » (20); anche qui risulta chiaro come l’indizione XI, esattamente corrispondente all’anno, sia quella imperiale chè se fosse genovese cadrebbe necessariamente in anno posteriore al 1088. Analogo ragionamento si può ripetere per quelle date in cui l’indizione segni una unità in più della normale per i mesi da settembre a marzo. Restano invece dubbi i casi in cui l’indizione segni una unità in meno di quella corrispondente all’anno indicato per i giorni intercorrenti tra il 25 marzo ed il 24 settembre (21), oppure corrisponda esattamente all’anno per il periodo che va dal 24 settembre al 25 marzo successivo (22) Ad ogni modo stabilito il metodo per fissare con sicurezza, almeno (17) L. T. Belgrano, Cartario Genovese, ap. cit., Documento n. GLIV. (18) Cfr. anche L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., Documento n. din. (19) Cfr. L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., Documento n. CLXXI. (20) L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., Documento n. CLVI. (21) Cfr. L. T. Belgrano. Cartario Genovese, op. cit., Documenti n. CXLIH, CLV, GL VII, CLVIII. (22) Gfr. L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit.. Documenti n. CXXIX, CXXXIII, CXXXIII, CXXXIV, CXXXVI, cxxxix. 14 — ili determinate circostanze, la qualità dell’indizione, si può con una certa facilità constatare come in Genova il calcolo pisano non sia stato il solo ad essere usato. E’ facile, infatiti, trovare carte nella cui data l’indizione, certamente imperiale perchè la genovese cadrebbe in anno diverso da quello segnalo, corrisponde al computo fiorentino. Basterà a questo proposito considerare la seguente data : « hani ab incarnatione Domini nostri Jhesu Ghristi milleximo quadrageximo quinto sesto die mense marcius indicione quartadecima » (23). L’indizione nel caso in esame è sicuramente l’imperiale perchè segna, per un mese compreso tra settembre e marzo, una unità in più della normale corrispondente all anno, ora quest’ultimo è certamente calcolato secondo il computo fiorentino perchè se fosse stato usato quello pisano Ja carta dovrebbe indicare il 1046 (24). Il Belgrano ha creduto di poter considerare senz’altro come calcolate secondo il computo comune tutte quelle date phe non risultassero corrispondenti all’anno indicato dal calcolo pisano. Per Risolvere la divergenza bisogna considerare i documenti nei quali l’anno non sìa stato computato, con certezza, secondo il calcolo pisano e che, inoltre, siano stati rogati in gennaio, febbraio o nei primi venticinque giorni di marzo, mesi appunto per i quali il computo fiorentino non concorda con il comu ne e dove quindi sia possibile notare la discordanza. Purtroppo le carte rispondenti a queste condizioni sono rarissime, tuttavia il tempo ce ne ha conservato alcune che possono tornare utili al nostro assunto, consideri la data che si trascrive « mense ianuarii indicione XIV, anno ab incamacione Domini nostri Jhesu Christi millesimo LX indicione suprascripta » (25). Per il caso in questione l’indizione usata, la XIV, e sicuramente l’imperiale, perchè la genovese cadrebbe nell anno 1061, secondo il calcolo fiorentino, e nel 1062, secondo quello pisano. Ora gennaio dell’anno 1060 comune cade nella XIII indizione imperiale, il notaio ha segnato invece la XIV gli è perchè ha usato lo stile dell incar nazione secondo il computo fiorentino, il gennaio del quale rientra appunto nella indizione indicata. Così pure risulta calcolata mediante 1 uso del (23) L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., Documento n. CXVII. (24) L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit. Cfr. anche Documenti n. CXXX ■ CXLII, CXLIV, GLVI, CLX, ecc. (25) L. T. Belgrano, Il registro della Curia Arcivescovile di Genova, in Atti dei Società Ligure di Storia Patria, vol. II, parte II, pag. 274. - 15 — detto computo la già citata data ohe iper comodità si riproduce ancora: « hani ab incamacione Domini nostri Jhesu Christi milleximo quadra-geximo quinto sesto die mense marcius indicione quartadecim/a » (26); infatti, trattandosi di indizione imperiale, se il notaio avesse usato l’anno comune avrebbe segnato la XIII e non la XIV, che è quella in cui rientra bensì il 6 marzo 1045 ma computato secondo il calcolo fiorentino. La cosa non è di poco rilievo perchè, in sostanza, si viene a spostare esattamente di un annoda data di un documento. Il Belgrano per non voler tener conto della possibilità dell’uso contemporaneo dei due calcoli per lo stile dell’incarnazione, finisce per non rendersi più ragione di alcune date in cui egli giudica senz’altro errata l’indizione; così a proposito della seguente : « hanno ab incamacione Domini nostri Jhesu Christi millexàmo octuageximo primo mense aprili indicione III » (27), egli osserva, sempre riferendosi all’anno comune, che invece correva la quarta indizione. E’ questo uno dei casi in cui, come si è precisato, non è possibile stabilire con esattezza nè il computo usato per l’anno nè l’indizione, ad ogni modo nulla vieta di pensare che il notaio abbia giustamente segnato la terza indizione genovese in relazione all’anno dell’incarnazione 1081 calcolalo secondo il computo fiorentino. Del resto, una conferma a quanto si è detto ce la fornisce lo stesso famoso Giovanni Scriba, il quale roga proprio negli anni che stanno all’estremo limite del periodo da noi considerato. Si esamini la data che si riproduce: « anno ab incamacione MC-LVII, V idus iulii, indicione quarta » (28). Nell’epoca indicata è ormai norma comune dei genovesi di datare gli atti in semplici millesimi, tuttavia, talora, il detto notaio usa anche lo stile dell’incarnazione unito, come del resto risulta uso costante in questo periodo, all’indizione genovese. Ora, .ritornando alla data indicata, il mese di luglio che cade nella quarta indizione genovese non può essere che quello appartenente all’anno dell’incarnazione 1157 calcolato secondo il computo fiorentino, calcolandolo, infatti, secondo quello pisano esso andrebbe a cadere nella quarta indizione imperiale o addirittura nella terza genovese. (26) L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., Documento n. CXVII. (27) L. T. Belgrano, Cartario Genovese, op. cit., Documento n. CXLVUI. (28) M. Chiaudano - M. Moresco, Il cartolare di Giovanni Scriba, atto n. CCVI. — 10 — » Concludendo, si può dire che in Genova, verso la metà del secolo XI, l’uso dell’era imperiale Vienne sostituito da quello delilo stile dell’incarnazione computato, in un primo tempo, prevalentemente secondo il calcolo pisano e, più tardi, anche secondo il calcolo fiorentino. Si giunge così alla metà del secolo XII. A quest’epoca si assiste ad un altro cambiamento nelil’uso dell’era Cristiana. Comincia a farsi frequente l’indicazione dell’anno in semplici millesimi. Già in qualche rarissimo caso troviamo usato quest’ultimo sistema sul finire del sec. XI (29) poi più frequentemente nella prima metà del secolo seguente, mentre ancora prevale lo stile delPincamazione, inline diventa assolutamente predominante nedla seconda metà del secolo XII. bisogna, però, a questo punto, osservare un particolare molto importante: l’inizio dell’anno non è posto al primo gennaio bensì al 25 dicembre come per lo stile della natività. Di quest’uso l’esame dell’amplissimo materiale fornitoci dal cartolare di Giovanni Scriba ci dà la più ampia conferma. Il secolo XII doveva però vedere ancora un mutamento. Infatti proprio negli ultimi suoi anni compaiono le prime carte con data calcolata secondo lo stile della natività il cui uso doveva poi durare a lungo nei decenni seguenti (30). Delineata così la successione dei vari sistemi usati a Genova per il computo degli anni occorre riepilogare e completare quanto si è già avuto occasione di dire a proposito dell’indizione. Per quanto riguarda l’epoca in cui venne usata l’era dell impero non vi possono essere dubbi : troviamo costantemente usata 1 indizione imperiale secondo le consuete modalità. Il Lupi, a questo proposito, nel suo « Codex Bergonensis » (31), osserva che nella Superba il ciclo indizio-naie aveva inizio il 25 settemibre. Non si sa su quali elementi abbia fon dato la sua asserzione l’illustre studioso, tuttavia, dato che egli non n£ porta le prove, non pare possibile l’accettarla, concordando tutti gli elementi nel fissare l’inizio del periodo dell’indizione normalmente al 24 settembre. L’indizione imperiale continuò certamente ad ess-ere usata in tutto il (29) A. S. G., Archivio del Monastero di S. Siro, mazzo in busta n. 1/1525. (30) A. ,S. G., Archivio del Monastero di S. Siro, mazzo in busta n. 1/1525. (31) Citato in Serie dei consoli del comune di Genova, di A. Olivieri, in Atti della Società di Storia Patria, vol. I, pag. 230. secolo XI ed anche nei primi decenni del XII, finendo poi per essere definitivamente spodestata da quella genovese. Di questa ci dà la prima notizia Giovanni da Genova che visse dopo da metà del sec. XIII, nel suo libro « De opere Paschali » (32). Ma, come avevano notato l’Olivieri ed il Belgrano (33), essa era già in uso miolto prima; la difficoltà sta nel cercare di precisare con qualche approssimazione l’epoca nella quale se ne dettero i primi esempi. Per i documenti pubblici, il breve del giuramento prestato da Alberto Marchese la cui data recita : « anno Dominice incamacionis miilleximo quinquagesimo &exto, imperante Domano Hen-rico in Italia anno X, mensis madii, indicione Vili », ci riporta con precisione all’anno 1056 ed è già un’utille indicazione (34). Per i documenti privati, invece, mancando carte con la contemporanea indicazione dell’era imperiale e di quella Cristiana, il problema si fa più complicato. Il Bei-grano cita, come il più antico esempio, l’indizione di una locazione risalente aliPanno 1078 (35), seguita da quella di una carta del 1083 (36). Consta tuttavia allo scrivente, in base ad un documento riportato dal Begistro Arcivescovile, che l’indizione genovese era già in uso nel 1074, secondo il computo comune. Dice infatti la data della citata carta : « anno ab Incamacione Domini nostri Jhesu Christi millesimo septuagesimo quinto indicione ista (XI) » (37). Ora il marzo dell’anno 1075, secondo il calcolo pisano, cade proprio nell’indizione undicesima genovese, quello compreso nell’imperiale corrisponderebbe al 1074, secondo il computo di Pisa, oppure al 1073 secondo il fiorentino. Ad ogni modo la differenza è minima e> non si sarà di tanto lontani dal vero affermando che l’uso dell’indizione genovese ha inizio nella seconda metà del secolo XI per diventare poi predominante nella terza e quarta decade del seguente. L’aggiunta esplicativa « secundum cursum Janue » appare soltanto dopo il 1250. Non resta, infine, che dare qualche notizia sugli elementi minori della datazione. (32) Citato in Datta, Lezioni di Paleografia, op. cit., pag. 351. (33) L. T. Belgrano, Il registro della Curia Arcivescovile di Genova, op. cit., pagg. 492 e 494. (34) L. T. Belgrano, Il registro della Curia Arcivescovile, op. cit., pag. 314. (35) L. T. Belgrano, Il registro della Curia Arcivescovile, op. cit., pag. 494. (36) L. T. Belgrano, Il registro della Curia Arcivescovile, op. cit., pag. 496. (37) L. T. Belgrano, Il registro della Curia Arcivescovile, op. cit., pag. 230. — 18 — Nei documenti di tutto il periodo considerato è costante I indicazione del mese; non frequente, invece, specie nei secoli X e XI, quella del giorno (38). Quest’ultimo veniva computato sia secondo il sistema Romano, per calende, cioè, none e idi, sia secondo il sistema progressivo in uso ancora oggi. Solo ned secolo XII comincia a comparire, qualche volta, il computo così detto Bolognese, a mese entrante ed uscente. Così pure non si trova menzionato il giorno della settimana prima del 1100, ed anzi anche molto raramente nella prima metà del secolo avente inizio da quell anno. Soltanto, poi, dopo il 1200 appare l’indicazione dell ora. (38) Le carte che riportano l’indicazione del giorno non raggiungono, fino al 1150, Il quarto del totale. UN RARO MONOGRAMMA IN NOTE TACHIGRAFICHE SILLABICHE (A. S. G. - Monastero di Santo Stefano, mazzo in busta 1/1508) Come giustamente ricordava A. Mentz (1), i problemi ancora insoluti riguardanti la tachigrafia sillabica, che tanta importanza rivestono per lo studio della Paleografìa Latina, richiedono la più vasta raccolta di dall al fine di poter portare a compimento quell’opera riepilogativa rimasta purtroppo, dopo la morte di Luigi Schìaparelli, solo nei desideri degli studiosi e di cui gli « Appunti » (2) del compianto maestro costituivano soltanto il preludio. Non si crede fuor di luogo, perciò, questa breve nota diretta a portare a conoscenza degli studiosi un inedito, interessante monogramma. ★ ★ ★ E’ noto come la tachigrafìa sillabica sia stala usata nelle carte italiane già nella seconda metà del secolo Vili e come il suo uso sia perdurato fino al sec. XI. Sn può quindi seguirne lo sviluppo fino ai notai medioevali. Tuttavia l’uso che ne fecero questi ultimi, come è ormai opinione generale, costituisce, pur essendo abbastanza esteso, una eccezione, giacché lo stesso notaio talora se ne servì talaltra no ed anche nei luoghi in cui fu adoperata la maggior parte delle notizie, sia dorsali sia marginali, è in scrittura comune. Si possono trovare note tachigrafìche tanto sul diritto che sul dorso della pergamena. Nel primo caso, in genere, hanno posto in fine alile sottoscrizioni, e, per lo più, ripetono il (1) A. MENTZ, Die Frforschung der antiken Kurzschrift Ergebnissen und Auf g ab cu. In Der Deutsche Stenografentag, 1935. Cfr. Rendiconto, pag. 165. 2) L. Schìaparelli, Tachigrafia sillabica latina in Italia - Appunti, in Bollettino dedl’Accademia Italiana di Stenografìa, Padova, 1928. — 22 — nome del sottoscrittore ed il suo titolo di notaio o di giudice, nel secondo, invece, costituiscono le « notitiae ». Non interessa in questa sede l'indagine delle caratteristiche di questie ultime, ci si deve, invece, soffermare sulle note usale nelle sottoscrizioni. Come si è detto, esse generalmente ricordavano i titoli del notaio ed il suo nome, specialmente quest’ultimo veniva ridotto a forma mono grammatica sia intrecciando tulle 'le singole sillabe, sia, più frequentemente, abbreviando e tralasciandone qualcuna. Non si ritiene, però, di poter annoverare*, con lo Schiaparelli (3), tra i monogrammi anche quelle sottoscrizioni in cui le sillabe appaiono Pune dalle altre staccate. Se monogrammi, infatti, sono quegli intrecci di lettiere o sillabe ailacciate in modo tale da formare quasi un simbolo, non si vede come si possa ricomprendere tra di essi anche queUe parole o quei nomi in cui le sillabe componenti appaiano in semplice successione. Certo, data la corsività del tratteggiamento, ben raramente è dato osservare forme mono grammatiche belle e regolari e, considerale le caratteristiche delle note male adattantesi a combaciamenti ed a nessi, bisogna riconoscere che non doveva essere faoile dare ad esse un collegamento e trovare una base all’intreccio. Ciò spiega come il numero dei monogrammi veri e propri ritrovati rimanga veramente esiguo, tanto da superare appena la ventina per quelli ricordanti il solo nome del notaio o del giudice. Rarissimi essi diventano dopo il mille, anzi, finora, sempre se si considerino solamente i monogrammi del nome del notaio, solo si accennava ad un intreccio di sillabe esistente in una carta risalente all anno 1109, ma, come potè appurare lo Schiaparelli (4), si traila di semplici pseudonote. A tult’oggi, poi, solo in documenti lombardi e piemontesi era stato possibile rintracciare qualchle esemplare di monogramma, nessuno, in vece, in carte rogate a Genova che putr fu un centro dove la tachigrafia godette di particolare favore. Appunto per questa ragione assum© speciale interesse il monogramma che si presenta in fotocopia. Si tratta di un gruppo di note rappresentanli il nome Johannes che troviamo ripetuto, dopo la « completio », in tre documenti rogata da un no,taio omonimo e risalenti agli anni 1022, 1032 e 1033. (3) L. Schiapabelli, Tachigrafia Sillabica nelle carte italiane, in Bulìettino dell’istituto Storico Italiano, n. 31, Roma, 1910, pag. 11. (4) L. Schiaparelli, Tachigrafia Sillabica nelle carte italiane, op. cit., parte II, pag. 12 nota n. 5. V >»*►* C'ujmz. * J» ^ If^i* *-•<’- vu*-+~Çt( ; v/ >../' .'’ | / . . T) 1022 aprile Originale, A. S. O. Arch. Seg., Monastero di S Stefano n. gen. 1508 ; carta n. 32. Edizione: L. T. Belgrano, Cartario Genovese, doc. LXXXIV, in 11 Atti della Società Ligure di Storia Patria ,,, vol. II, parte I. wm& 1032 aprile Originale, A. S. O. Arch. Segr., Monastero di S. Stefano n. gen. 1508; carta n. 47. Edizione: L. T. Belgrano, Cartario Genovese, doc. CV, in “ Atti della Società Ligure di Storia Patria „, vol. II, parte I. 1033 gennaio Originale, A. S. 0. Arch. Seg., Monastero di S. Stefano n. gen. 1508 ; carta n. 48. Edizione: L. T. Belgrano, Cartario Genovese, doc. CVl, in " Atti della Società Ligure di Storia Patria ,,, vol. II, parte I. 23 - t ontrariamente al solito le note si prestavano, nel caso in esame, ad essere collegate insieme. Le tre sillabe in cu/i viene scomposto il nome Johannes appaiono intrecciale in modo che la terza si presenta unita alla seconda e tratteggiata sul suo prolungamento verso il basso, mentre la prima le taglia entrambe con la sua ampia curva. Non si crede invece che abbiano un particolare significato i puntini che in ognuno degli esemplari è dato vedere a fianco del monogramma, tanto più che sono in numero diverso e variano anche di posizione. Del resto anche lo Schiaparelli ne registra altri casi considerandoli sempre un vezzo del notaio (5). Per quanto riguarda le singole note, si osserva come la seconda cui sia tracciata in modo normale e venga cioè rappresentata da un’asta che all’apice piega decisamente a sinistra. La maggiore o minore ottusità dell’angolo che ne deriva varia, in genere, da centro a centro scrittorio; a Genova s’avvicina per lo più all’angolo relto, tuttavia in altri luoghi la lineetta orizzontale è talmente limitata da essere appena percettibile. Come si è detto, all’estremità bassa dell’a/i si allaccia la sillaba nes, il segno che la rappresenta non rivela particolari caratteristiche e corrisponde a quello che troviamo costantemente usato nella scrittura tachi-grafica sillabica. Soltanto si può osservare come ili più alto tratto trasversale sia, di solito, meno lungo di quanto appaia nell’esemplare in esame, non mancano però casi in cui presenti un forte sviluppo, specie si© determinato da necessità dell’intreccio (6). Così pure l’angolo medio si presenta più o meno acuto secondo le circostanze. Più lontana dalla forma comune appare la nota per la sillaba io, la quale, normalmente, è formata da un trattino orizzontale terminante, a destra, in un cerchio più o meno ampio. In questo caso è evidente come il notaio abbia ampliato fortemente la curva al fine di dare un aspetto esteticamente migliore al monogramma. (5) L. Schiaparelli, Tachigrafia Sillabica nelle carte italiane, op. cit., parte II, pag. 11, nota n. 4 e pag. 14, nota n. 2. • . . (6) L. Schiaparelli, Tachigrafìa Sillabica nelle carte italiane, op. cit., parte I, tav. II, n. 64. ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Volume LXXII - Fascicolo III GIUSEPPE ORESTE GENOVA E ANDREA DORIA nella fase critica del con flitto f ranco - asburgico \ • -y ft ' / ■ ìj*"& ■ ■ ■, jf * **“■ * • H B i B LI o T E 01 "W? £ ìsTo^ f -------- GENOVA - MCML NELLA SED£ DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA - PALAZZO ROSSO A mio padre w» tfiZL : i' rH - , ?v *7 h* X- 't~A~ Lxf^i^rh ^ ,frrt* pfrM f’M>' fac~Afrmj ✓ ' /"* V»rA ->»i/VH ■ 220v. (l’im- (perdendo Genova, i nemici «sariano persi et privi d ogni speranza ai soc ni’rvàsa com e da un presa è «importantissima»; tutta la lettera otTre un interesse assai n0 comDromette tutto); appassionato calore, con espressioni quasi disperate per la inerzia fra mese quella città c. 228: vol. II c. 13, 17v. (scrivono da Genova che per la penuria di - neri in un mese que^ ^ cadrebbe, « et se questo è, chi dubita che al sicuro in due mesi et Milano c ■ • .. j lo t0(j0 Murane p. 594. Giudizi della parte imperiale: «se deve proveerGenova^po^es la^e de^KH10« de aca. y en la dicha Genova se podran juntar todas las galeras de V. M. p enemigos » (l’go de dad. y hazer espaldas a este campo de Lombardia hasta veer el nrogr _ ^ anche le Moncada a Cario V, relazione sulfa situazione, 9 giugno me f]2 aauella cividad preoccupazioni dello stesso Moncada sulla sicurezza interna in Genova.■ ® , , f]e ojos » ; a e la enemistad de la tierra es tan grande, que no se puede dezir y yo tem iettera di Fr. Vettori Carlo V da Pavia 3 giugno 1526 in Molisi, Docc. Ili p. 566. - Interessantissima una lette ,)0ssi- al Machiavelli, 24 agosto 152(5 (in Molisi, App. p. 417) nella ..Lì^di Genova f« nella rivo- bili in quel momento, insistendo più volte sulla importanza della conqu lutione di Genova consiste assai la %’ictoria »). (4) Clemente VII. lamentava la inerzia francese che faceva trascorrere^nuiament^la buona Jita- gione, mentre «il ne s’y devroit perdre temps»: Alb. I io a Francesco , J^Jltnrio Sanea partito I)occ. I 203. - Alla line eli luglio il papa decideva di mandare in Francia 1 secretanog , P il 20 luglio ; prima lettera dalla residenza della corte, Amboise 3 agosto, in Lett. Fri P ^ Qrdi. Ma anche la missione del Sanga rimase infruttuosa : la I-rancia ne *^^ava denaGenova movesse da nava che secondo i patti la tlotta con Federico F regoso, designato gover . Ved’ più avanti Marsiglia, nè poi, dato l'ordine di partenza, curava che fosse prontamente esegu to. • P pran nel testo. Sul disappunto dei collegati per il comportamento Mancese cfr. Giberti al ciaIuoIi 19 eia 5 e 13 giugno («che le galere venghino volando che importa la meta di tutto ), ^ nunzio giugno (vivace confutazione dei propositi francesi di cercar altri obiet F . nient’altro che Gambara 20 giugno e all’Acciafuoli 23 giugno; a Gambara 30 W ,'d‘ FÆ ? 6 I voUfino «bone parole.); ad Andrea Doria 5 sett. e al Gambara 11 seti.; nelle 1 V01' ' ■ al luglio 1526) e vol. II (per le altre). Cfr. anche Pastor p. 207, 210 e La Ro>ciere III. (5) Pastor p 210- De Leva II p. 369. Anche agli ambasciatori genovesi era nota la usanza francese di difTerire la risoluzione degli affari quando il re si assentava dalla corte per andare a caccia altri divertimenti; cfr. lett. 26-30 giugno 1528 riportata dal I etit, pag. 307. (6) Storia d'Italia libro XVII cap. I e II ; cfr. anche lett. G. B. Sanga al Giberti 3 agosto 152G cit. (in Lett. de Prencipi II c. 7). - 19 - atteggiamento della politica francese va anche, secondo me, ricercata altrove: sia nella energica e pronta controffensiva diplomatica mossa da Carlo V, che inviava d urgenza a Roma Ugo de Moncada e che, riuscendo nell’obiet-tivo di staccare il papa dalla lega, comprometteva posizioni francesi troppo avanzate in Italia, sia in un altro fatto, sfuggito all’osservazione degli studiosi, cioè la preoccupazione riguardo ad Andrea Doria, staccatosi proprio allora dal servizio francese e passalo con Clemente VII: i timori, infatti, di un voltafaccia del papa si risolvevano anche nel corrispondente timore di perdere con ciò stesso l’opera dell’ammiraglio genovese, senza tener conto del pericolo che il Doria si accordasse direttamente con Carlo V. Di qui la richiesta che il Doria tornasse con Francesco I. Ma il Giberti, amico affezionato del Doria, ne aveva bene sposato la causa, quando cercava di convincere il governo francese che non perdeva nulla con l’allontanamento delle galere di lui, anzi ci guadagnava, perchè il re poteva armarne delle altre e «queste haver ad ogni servitio» senza spesa. Su questo tema, ripetendo analoghe considerazioni, egli scriveva all’Acciaiuoli perchè collaborasse anche lui a persuadere il re (7). La «querela» era giunta fino in Inghilterra, e il Sanga ne scriveva al nunzio Gam-bara lamentando che il genovese Gian Gioacchino da Passano, amico dei Fregoso, se ne dolesse; motivo per cui il nunzio doveva rettificare le false opinioni di lui, assicurandolo che il Doria «si tien qui con disegno della impresa di Genua, dove si pensa di rimettere il sig. arcivescovo di Salerno» (Federico Fregoso, fratello di Ottaviano); chè anzi, se il re francese avesse mandato le sue galere, la spedizione si sarebbe già fatta e, « levato agli inimici l’aiuto di Genua, sariano persi et privi d’ogni speranza di soccorso ». Anche Gian Gioacchino, che godeva di molto credito in Francia, poteva contribuire a convincere la corte francese (8). La questione si trascinò per parecchi giorni, con una insistenza dietro la quale è facile vedere più che una presa di posizione di Clemente VII, il carattere del Doria, irremovibile nel suo proposito di non tornare coi francesi (9). Scarso impegno, leggerezza e improvvisazione si rilevarono poi nella condotta delle operazioni. Mancò un piano chiaro e decisamente perseguito, nè vi fu un comando unico di tutte le forze (10). Dopo molte insistenze (7) Giberti al Capino nunzio in Francia 5 giugno in Lettere de Preneipi I cc. 184v : «in questa cosa de messer Andrea Doria io non vedo perchè Sua maestà debba far tanta istanza di rivolerlo, potendo far conto d haverlo senza spesa pure a suo servitio servendo sua Santità, che è per esser sempre una medesima cosa con la Maestà sua»; quindi il re può bene lasciarlo andare e «non mostrar che in tanta congiuntion d’animi et di fortuna quanta è per essere la di S. Sant, con la Maestà sua. si habbi a ricercare chi sia il servitor de l’uno, chi de l’altro, ma reputar che così ii servitori come il resto sia comune»; e poi più sotto, dopo alcune considerazioni sulla situazione personale del papa; «haver qui m. Andrea è un haver il doppio de le galere », ma suggeriva al nunzio di trattar sempre la questione come «spogliandosi in giubbone, come è il vero, mostrandovi esservi tanto l’interesse loro quanto il nostro»; Giberti all’Acciaiuoli, 19 giugno, in Lettere de Preneipi I c. 208; «per dire il vero, non è in mano di N. S. far che m. Andrea torni, sendo S. Signoria risolutissima di non volerci tornare et liavendo di questo chiarito l’animo suo a N. S. », ma questo resti segreto affinchè il Doria non cada in disgrazia del re; che se questi insistesse a voler il genovese a Marsiglia allo scopo di dare al progettato attacco a Genova l’aspetto di impresa «francese», bastava per questo 1'« animo dei confederati». (8) Cfr. anche Sanga al Gambara 19 giugno e al vescovo di Pola st. data (in Lettere de Preneipi, I c. 211v e 212v). (9) Cfr. lett. Giberti all’Acciainoli 19 giugno cit. Circa il carattere dei francesi, cfr. il tagliente giudizio che ne dava il Giberti: essi «mettono la cosa per fatta, subito che l’han pensata», in Lettere di Preneipi li 33v. Tutta questa lettera è una interessante, vivace ed energica reazione alle accuse di voler fare la pace con Carlo V alle spalle della Francia. Saranno queste amare delusioni che lo allontaneranno definitivamente dalla politica e lo restituiranno agli ideali di riforma religiosa. Cfr. Pastor p. 570 e sgg. e Jedin, Storia Cane. Trento cit. 1 p. 205 e 344. (10) Fed. Fregoso al Montmorency 20 agosto 1526 (Molini, Docc. 1 216) ; ma doveva trattarsi di promesse generiche, se il 10 ott. si metteva a disposizione per quella carica «per quattro o sci mesi... in sino a tanto che le cose fussero quietate et ordinate », ma ne esigeva, nel caso, una esplicita e formale investitura (in Molini, Docc. I 221). - 20 - pontifìcie, finalmente a metà di agosto la flotta francese di Pedro Navarro si muoveva ed il 16 occupava Savona, che si consegnava personalmente a Federico Fregoso. Questi, partito il 31 luglio da Lione diretto a Marsiglia, sperava di essere impiegato dai francesi con qualche autorità « ne le cose di Genova», come aveva chiesto al Montmorency. Ma giunto a Marsiglia dovette disilludersi, perchè il Navarro, anche se aveva ordine di procedere d’accordo col Fregoso, conservava per sè il comando e la responsabilità della spedizione. Il Fregoso se ne lamentò col Montmorency l’8 agosto, ma scrivendogli poi da Vado si giustificava dicendo di non aver mai chiesto il comando della flotta, tanto più che era «uomo di chiesa», ma che « per haver molta esperientia de le cose di Genova più eh alcun altro et qualche authorità», desiderava solo che il Navarro «se volesse governare secondo li racordi suoi ». Ma altre delusioni lo aspettavano: la mancata restituzione di navi catturate dai francesi e il poco riguardo che il Navarro ebbe per lui nel prender possesso di Savona, che pure si era consegnata personalmente a lui. Disilluso e amareggiato e forse con qualche oscuro dubbio sulla «bontà» di un dominio francese in Genova, esprimeva a Montmorency il desiderio di essere messo a riposo, stanco « non solo dì travagliare ma an-chora de vivere» (11). Anche questi aspetti episodici mettono in luce quella sconsideratezza francese, quella mancanza di riguardi, e quell’orgoglioso modo di fare che a lungo andare alienarono dalla Francia ogni simpatia di amici e di alleati. La perdita del Doria nel 1528 non ne fu che l’esempio più clamoroso e più grave di conseguenze. Ma anche i collegati italiani mostravano incertezze nella condotta militare (12). Eppure il Guicciardini aveva intuito nella celerità e decisione dell’azione il segreto di un successo non difficile a raggiungere, se si diligevano i colpi nel punto più importante dello schieramento nemico, cioè su Genova (13). Ma il duca d’Urbino sotto Cremona perdeva tempo pre- di) Lett. Fregoso 20 agosto cit. - Cfr. anche lett. da Savona (dalla galera) al Montmorency 18 sett. : «io non servo niente qua»; «da l'inferno in fora io desidero trovarmi in ogni altro loco I sto*, ma pronto sempre a tornare quando la sua presenza fosse « più necessaria eli q • „ ‘ (in Molixi IJocc. I 219). E il 10 ott. ripeteva di non chieder altro premio se non di potersi riposar^ nelle terre del He «perchè in questa impresa... io ho ricevuto tanti dispiaceri et tantii trava_ ( p. 221). - L'ordine al I'regoso di raggiungere Marsiglia era stato dato già fin dal 4 glll~ ° ( ' Francesco 1 24 giugno, in Molisi Docc. I 203), ma il 25 luglio egli era ancora a Lione, di„£°ve pregava il Montmorency di ordinare a Pietro Navarro che « in le cose di Genova faccia quello c ••• perchè nè esso nè altro ne intende tanto quanto me» (in Molini Docc. I 213). Cfr. ano • .. fmnor_ Montmorency 31 luglio : «s'io non.haverò l’ubidientia de 1 armata in le cose di Genova, p m„nciPerA tara la mia persona sanza authorità et oltre che mi mancara il modo da poter ser\ ire, , etiam l’animo, perchè havendomi lassato li miei predecessori tanta authorita, io non . . .. n le cose di Genova mi debba essere alcun altro superiore salvo il Re. Et s io trovar salvo credo che il Re debia esser molto servito... Io non cerco nisuna authonta per k®P® , . per el servitio del Re » (in Molisi Docc. I 214). - Egualmente da Marsiglia, 8 agosto (ibidem 215). navi catturate erano di amici genovesi del Fregoso, che_ si interpose invano, edera p p pato di sembrar «di poca authorità», «il che li farà più freddi ne li bisogni nostr ,, p .. [iej tazione governa assai le cose nostre di Genova », e se non si poteva contare sulla « J hpnchè nè genovesi stessi, «non creda il re che sia possibile prenderla di forza con questa a . > vadano ancho di quella benevolentia mi fido, tanto che non sia di bisogno che le cose di Lombardia vadano favorevoli alla liga », perchè i genovesi temerebbero sempre un nuovo saccheggio ®Pa8 , ' es'ni{-agosto cit.). - Quanto a Savona, il Fregoso non volle accoglierne la « ubbidienza » non ajendj°n® ® 1 . cito incarico del re, tanto più che non aveva ancora una regolare investitura per Ge , quale Savona è sugetta» (lett. 20 ag. cit.). Cfr. La Roncière III 203. (12) Giberti al Gambara 11 sett. 1526 («qui non si è mai fatto cosa buona nè si farà, come credo siamo in una estremità mirabile; l'armata che havemo.e venuta in tempo da non adoperarla..., co non si essendo fatto niente a Genova per essere occupati a Cremona, si levaranno di i f_„nIPci non far niente a Genova: et questo è stato il gioco nostro di tutto quest anno, et le lancie lrancesi mai capitarono et non ce n'è novella» (in Lettere de Preneipi II c. 11). (13) Guicciardini XVII 4. Cfr. anche Pastob p. 211. - 21 - zioso, e quando la città cadde (il 23 settembre), ancora si tardò a far muovere il marchese di Saluzzo per attaccar per terra Genova alle spalle. L’assedio navale così si protraeva in modo inconcludente, nonostante qualche fortunato successo del Doria tra Portofìno e Sestri Levante e il blocco delle coste che faceva temere qualche rivolta interna per fame. 11 retroterra, per quanto controllato poi dal marchese di Saluzzo, non poteva dirsi incontrastalo dominio francese, perchè le forze imperiali del marchese del Vasto e di Fabrizio Maramaldo, pur non avendo potuto rioccupare Asti, restavano in quella zona rendendo meno malsicure le vie tra Genova e la valle padana (14). « A questo modo noi non possemo haver Genova », scriveva Antonio Doria; Genova è stremata. Eppure basterebbe un poco di truppe e in breve «si leveria quella terra da la devotione de nemici che assai li accomoda in molte cosse»; e invece egli doveva lamentare soperchierie e malversazioni francesi e inadempienze nei pagamenti (15). La situazione generale si faceva sempre più confusa: Carlo V vedeva Clemente VII rifiutare le sue proposte di composizione pacifica, riprender lena l’opposizione di Lutero e dei principi in Germania, sconfitti gli eserciti asburgici dal turco a Mohàcs e la flotta del Lannoy dal Doria e dal Navarro a Sestri, anche se non completamente. Ma anche tra i collegati, per responsabilità di tutti, la situazione era tutt’altro che. rosea. Visto l’inconcludente assedio di Genova per mare, si spostò l’attacco su Napoli. Scoperta a Roma la congiura spagnola di Napoleone Orsini, la reazione dell’oscillante Clemente VII sembrò risollevare le speranze dei collegati; ma la incuria di Francesco I, l’insufficiente impegno dei Veneziani, l'avanzata dei lanzichenecchi del Frundsberg, la mancanza di denaro, che aveva fatto rallentare gli iniziali successi nel regno di Napoli, indussero Clemente VII a firmare con gli imperiali l’armistizio del 15 marzo 1527. Questo però fu presto sorpassato da una nuova sua riconferma alla lega antimperiale, cui seguiva il tristemente famoso sacco di Roma. Clemente VII, l’irresolutezza fatta persona, capitolava (16). Andrea Doria, dopo un vano tentativo di liberare il papa, si ritirava a Civitavecchia, e non volendo forse assistere impotente al disastro che pareva far crollare ogni speranza di poter resistere al predominio di Carlo V in Italia, partiva per la Francia, dove il 13 luglio tornava al servizio di Francesco I (17). (14) 11 blocco navale metteva Genova in una situazione assai critica per i rifornimenti. Cfr. lett. cil. del Moncada, 9 giugno, e soprattutto lett. Teodoro Trivulzio a Francesco 1 da Lione, 1 nov. In Molini, Docc. I 248. Cfr. anche lett. Giberti al Card. Trivulzio 11 dic. 1526 e dello stesso a Filippino Doria st. data (in Lettere de Preneipi li c. 22 e 23); Trivulzio a Francesco I da Lione 15 genn. 1526 (cioè 1527), in Molini Docc. 1 202. - A prender Genova, per giudizio unanime di tutti gli attori di questa triste tragedia italiana, sarebbe bastata un poco di gente a bloccarla da terra alle spalle ; ma la Francia o i generali dei collegati in Italia, nonostante le insistenze del Guicciardini e del Giberti. non ne fecero nulla. E intanto arrivavano in Genova rinforzi spagnoli col Viceré Lanoy (Cfr. De Leva, II 380-383). -Sull’attacco ad Asti cfr. i due studi di C. Vassallo, « F. Maramaldo e gli Agostiniani in Asti», e « M. Prandone difensore di Asti », che però son da integrare con la importante recensione di Giorgetti, in Arch. st. it. 1890 p. 407. Cfr. le lettere citate del Fregoso, 18 sett. e del Trivulzio, 15 genn. 1527. (15) Antonio Doria al Montmorency 30 genn. 1527, in Molisi, Docc. I 264. (16) Sulla situazione politica italiana ed europea tra la fine del 1526 e il maggio 1527, cfr. naturalmente Db Leva II cap. VI ; Pastor IV parte II libro III capp. 3 e 4 ; Fueter pp. 440-442 ; Brandi pagina 246 sgg. (17) La Ronclère III, 211 ; Bornate, p. 59. Il Doria fu insistentemente richiesto in questo momento dal partito imperiale. Perché non accettò? Secondo il Capelloni, Vita di Andrea Doria, p. 42, il Doria ne fu dissuaso dallo stesso papa perchè «sarebbe stato cagione di farlo condurre prigione», cioè non volle mettersi nel rischio di dover eseguire un trasporto del papa prigioniero. Devozione per il pontefice e fedeltà religiosa? Dirci di sì; anche l’anno successivo, come si vedrà, egli si mostrò assai rispettoso verso Clemente VII nel momento critico e decisivo dei suoi rapporti con la Francia. Ma aggiungerei un’altra spiegazione: nel 1527 il cambiamento di bandiera avrebbe avuto un significato ed una giustificazione esclusivamente personali e private. Bastavano i soli interessi privati per indurlo ad un cosi radicale mutamento ? - ' - ' • lì Cap. II. LA PARENTESI DI OCCUPAZIONE FRANCESE § 1. — L’occupazione militare. Nel periodo finora considerato le fonti d’archivio non rivelano l’esistenza di una « politica » genovese, cioè una partecipazione autonoma al grande conflitto italiano ed europeo. Pare che la vita politica in Genova, eccettuati i traffici e tolti quei lavori per la « riforma » di cui parlerò in seguito, sia come ristagnata: assai scarsa la corrispondenza diplomatica; mantenuta solo l’ambasciata in Spagna con il Centurione e solo fino all’agosto 1526; quasi nessuna traccia di attività pubblica di qualche rilievo; abbondantemente documentate solo le materie di ordinaria amministrazione. Vera dominatrice della vita politica appare l’ambasciata di Spagna con Lope de Soria. L’ultimo documento di Carlo V (che è diretto agli anziani del Comune, non al doge) fu, il 21 aprile 1527, l’ammonimento a non acconsentire a lusinghe del nemico, il quale ben sapeva di non poter risollevare le proprie sorti se non con il « revolver nostros servitores ». Come tutto compenso, una promessa molto generica: «vereys presto por obra el amor que os tenemos » (1). La reazione antimperiale dopo il sacco di Roma, manifestatasi subito con i primi accordi provvisori franco-inglesi del 29 maggio 1527, seguiti poi dai colloqui di Amiens e dal patto del 18 agosto (2), ebbe ancora una volta come perno della situazione la città di Genova. Francesco I parve svegliarsi da un lungo sonno. Preso al suo servizio Andrea Doria, spediva la flotta contro Genova, attaccata alle spalle da Cesare Fregoso. Sono noti in linea generale gli avvenimenti che portarono alla occupazione della città dopo alterne vicende (agosto 1527). L’energico attacco di Andrea Doria il 15 agosto avviò la situazione definitivamente a favore della Francia (3). Il governo genovese già sin dal 6 agosto aveva preso contatti col Lau-trec per proporre una resa a condizione che Genova fosse «reintegrata... di ogni sua giurisdizione in tutto e per tutto» e proponeva come futuro governatore il maresciallo Teodoro Trivulzio, che appariva «signore quali- fi) Carlo V agli anziani di Genova 21 aprile 1527 in A.S.G. m. 2798B. (2) Cfr. Pastoii cit. pp. 283-285. (3) Cfr. La Roncière cit. Ili 211-213. ficato ed attissimo a tale reggimento», escludendo comunque un genovese(4). L’esito, nel silenzio delle fonti, è da pensare negativo. Fu per questo forse che il 16 agosto, dopo la sconfitta subita il giorno precedente, il doge stesso si recò da Lautrec (5). Non risulta nulla su questo colloquio. Ma Genova il 19 agosto era completamente circondata e attaccata per terra e per mare. Il 22 era di nuovo sotto il dominio francese. Come unica consolazione, il governatore non solo non era genovese, ma era proprio quel Trivulzio che era stato proposto (6). L’occupazione di Genova era stata seguita con attenzione in tutta Europa. Il 19 agosto (il giorno successivo alla conclusione dell’alleanza tra Francia e Inghilterra) il card. Wolsey riteneva imminente la caduta della città dalla cui occupazione dipendeva la totale rovina dell’imperatore in Italia (7). In realtà la reazione dell’opinione pubblica e degli ambienti politici al sacco di Roma aveva messo in una situazione difficile Carlo V, detentore di quella' corona imperiale che pur doveva difendere la cristianità. Lo riconosceva lo stesso suo viceré Lannoy: «alla lunga l’attuale situazione è insostenibile. Quanto più Dio vi concede vittorie, tanto più vi crescono gli imbarazzi, diminuiscono i demani dei vostri regni e cresce il malvolere dei vostri nemici, presso gli uni perchè invidiano la vostra grandezza e presso gli altri per il cattivo trattamento avuto dai vostri soldati, che hanno saccheggiato Genova e Milano, rovinato il paese ed ora hanno distrutto Roma » (8). Anche in Germania la situazione religiosa era preoccupante e lo stesso Carlo V, sia pure per i suoi fini politici, si faceva eco della voce universale che esigeva un concilio per la riforma della Chiesa (9). Ma l’esercito della lega antimperiale non sfruttava il momento favorevole, mentre i lanzichenecchi avversari si distraevano a Roma. Il Lautrec, presa Genova e Alessandria e direttosi verso Milano, si fermò invece a saccheggiare Pavia, deviando poi verso Piacenza, Ferrara e spingendosi attraverso gli stati della Chiesa, nel regno di Napoli (10). Situazione militare sempre confusa e incerta: le truppe imperiali, finalmente uscite da Roma, opponevano qualche resistenza all’avanzata francese ma senza poterla del tutto fermare. Francesco I non trovava nei suoi capitani e negli alleati la necessaria prontezza e d’altra parte egli faceva mancare, con il denaro, anche direttive precise e una chiara delimitazione di competenze fra i vari comandanti, Lautrec, Renzo da Ceri, Andrea Doria (11). (4) Le altre condizioni riguardavano aspetti collaterali o interessi privati : ostaggi, libera partenza del doge con tutti i beni, dell’ambasciatore cesareo, garantite salve le truppe esistenti in Genova, salvi i beni dei cittadini, ampio perdono a tutti, libertà di movimento (cioè di traffico), risarcimento di danni. Non era poco, come si vede. Istruz. a Vinc. Pallavicino e Gasp. Bracelli 6 ag. 1527 in A.S.G. m. 2752 A e Ms. 652 II c. 1643. (5) Salvacondotto di Odetto conte di Foix... per Ant. Adorno, dal Campo presso Bosco 16 ag. 1527, A.S.G. ms. 653 II c. 1647. (6) Cfr. La Roxcière III 213. Per colmo d’ironia il nuovo governatore ordinava lo stesso giorno che «essendo novamente venuti a lobedienza et sotto protetione del Christ. Re signore nostro, mediante cui si può sperare e aver certo di tranquillare», si facessero «fuochi et altri segni d’alegrezza, sotto pena della indignatione nostra et di altre a nostro arbitrio» (proclama in A.S.G. f. 3123). (7) Card. Wolsey a Enrico Vili da Amiens 19 agosto 1527 in Siate Papers vol. I parte I p. 202. Il 24 agosto poi riteneva già avvenuta la presa della città che si trovava « in extreme penurye and skarcite of vitailes by reason svhere of many of thè citizens be dede by famyn » ed esclamava : « ex quo bono principio deo iuvante sequetur ruina rerum cesarianarum in Italia» (ibidem p. 265). (8) Riportata dal Pastor p. 293. (9) Cfr. lett. di Carlo V al papa 3 ag. 1522 cit. dal Pastor p. 295. Ved. anche Jedin, Storia del Concilio di Trento, Brescia 1950 vol. I p. 215. (10) Cfr. Cronaca di Antonio Grcmello, p. 456 (ediz. Milano 1856). (11) Cfr. Pastor p. 314 sgg. ; La Roncière III 213-220. - 25 - Quest’ultimo anzi, che si era sempre mostrato il più obiettivo ed anche il più leale, venne tutt’altro che apprezzato. Nella nota impresa navale progettata contro la Sicilia e andata a finir male in Sardegna pur con qualche successo tattico di Filippino Doria, l’ammiraglio genovese, disgustato dalla incompetenza e leggerezza degli altri capitani, piantò in asso la flotta tornandosene a Genova (febbraio 1528), disingannato dalle possibilità di vittoria di una politica che appariva così poco concreta e seria nel suo svolgimento. E fu il capro espiatorio della situazione, vittima delle calunnie e della invidiosa gelosia di Renzo da Cerile dei confidenti di questo (12). Eppure l’unico che procurava concreti successi al re di Francia era proprio il Doria con la sua flotta. Filippino, passava di successo in successo seminando il terrore nel mar Tirreno. Proprio pochi giorni dopo che Andrea, lamentandosi col Re di non avere avuto ancora risposta a ben sette lettere e disgustato del comportamento della corte, comunicava la sua volontà di congedarsi dal servizio francese, si ebbe l’episodio culminante con la battaglia navale di Capo d’Orso presso Salerno, il 28 aprile. La battaglia fu genialmente guidata da Filippino, che si dimostrò degno scolaro del suo grande cugino, idealmente presente fra i suoi uomini (13), e si chiuse con una splendida vittoria in cui rimasero, come è noto, uccisi il viceré Ugo de Moncada e il capitano Cesare Fieramosca, e prigionieri il capitano Ascanio Colonna e il Marchese del Vasto. La superiorità navale dell’avversario metteva Carlo V in una posizione critica, che minacciava di divenire disastrosa se, dopo perduta Genova, fosse caduta anche Napoli. Il problema marittimo esigeva una immediata soluzione (14). Ma, nonostante questi successi, sembrava che la corte francese si compiacesse di trattare sprezzantemente i suoi più utili alleati: il papa, il governatore Trivulzio, i genovesi, Andrea Doria. Clemente VII infatti, pur invitato ad una più precisa intesa antiasbur-gica, vedeva disconosciute dalla Francia le sue richieste per Ravenna e Cervia e sempre più stretti i rapporti tra Francesco I e gli Estensi di Ferrara, ostili al papa (15). Anche il maresciallo Trivulzio esponeva senza frutto le difficili condizioni finanziarie del governo genovese e sue personali (anche a lui il governo francese faceva mancare il regolare pagamento di ciò che spettava), ma doveva lamentare le calunnie che il Colino spargeva su di lui nella Corte perchè il Trivulzio si era opposto a proposte troppo interessate (16). Si trattava probabilmente di progetti riguardanti Savona, ventilati proprio in quei giorni sia per motivi militari e politici (organizzare e contrapporre la base navale di Savona alla infida Genova che troppo spesso cambiava padrone), sia, più ancora, per assicurarsi le (12) Il Doria conosceva bene l’animo di questi malevoli e li bollava sdegnosamente in una lettera al Montmorency 24 marzo 1528, pubblio, da Spinola nel vol. IV A.S.L.S.P. con espressioni che almeno per Jacopo Colino coincidono col giudizio che ne dava anche il Trivulzio : * un coquin escervelé » diceva il Doria; «ogni bono oflìzio che facesse in mia laude lo reputerei fusse in mio dishonore» scriveva il Trivulzio nel maggio 1528 (in Molini, App. p. 433). Cfr. anche La Roncikre cit. 218. (13) La Roncièrb cit. 220-228 con ampia bibliografia in nota a p. 222. (14) Il Morone da Napoli supplicava l'imperatore che provvedesse una flotta, unico mezzo per un « line glorioso alla guerra». (ì. Morone a Carlo V, maggio 1528 in I)occ. Morone 077. Cfr. anche 1 ampia esposizione dello stesso Morone a Carlo V (ibidem p. 083-686) giugno 1528, sulla situazione assai critica, e l’invito ad accettare le condizioni poste dal Doria; siamo già nel pieno della crisi doriana, di cui parlerò fra poco. Anche: Lope de Soria a Carlo V, 17 giugno 1528; « la experiencia demuestra cuanta necesitad tiene V. M. de armar galeras, excusado sera acordarlo, siendo la cosa que mas importa » (Colección de docunienlos ineditos cit. p. 500). (15) Cfr. Pastoii p. 317-318. (16) Trivulzio a Francesco I 28 febbr. 1528 (in Molini II Docc. 16 ; ved. anche a p. 10 e 15). - 26 - cospicue entrate di quel porto. Era il Montmorency che aspirava a queste e la sua avidità privata finì con avere la meglio sugli interessi della Francia (17). o §2. — Le questioni di Savona e dell' « unione » dei genovesi. La rivalità di Genova e Savona era antica, ed era quindi naturale che su questa città dovesse puntare la Francia quando Genova si trovava sotto il controllo asburgico. La flotta del Doria infatti, al servizio francese, se ne era già impadronita il 10 dicembre 1524, approfittando della crisi seguita all’insuccesso della spedizione di Provenza e così Savona aveva costituito per un poco una spina nel fianco di Genova. Poi era tornata sotto i genovesi dopo la giornata di Pavia (1). E più tardi, nell’agosto 1527, la speranza appunto di conservare la città rivale aveva facilitata la resa di Genova ai francesi. Ma presto ogni speranza svanì, quando i genovesi si accorsero che la Francia mirava a far di Savona una base francese, più sicura di Genova. L’allarme fu immediato ed unanime e accelerò quella volontà di pacificazione interna in cui si incontravano ora le più diverse fazioni della città per la difesa di un interesse antico e vitale. Nel marzo 1528, accanto al Senato e all’Ufficio di Balìa, si muoveva anche l’ufficio di S. Giorgio per aggiungere la sua motivata richiesta di « reintegrare tutte le sue membre et spetialmente Saona», se la Francia voleva conservare Genova (2). Fu chiesto infine l’intervento dello stesso Andrea Doria, il quale si rivolse personalmente al re, facendosi interprete delle aspirazioni di tutti i cittadini (3). Ma la corte non acconsentì: gli introiti di Savona promettevano troppo bene per le scarse finanze francesi, o piuttosto per le tasche del Montmorency; e fu la rovina della Francia. Ma la questione di Savona, giunta a questo punto, si intreccia ormai in modo indissolubile con altre che, convergendo insieme, porteranno alla rivoluzione interna di Genova e al suo definitivo inserirsi nel sistema asburgico: cioè la reazione del Doria al cattivo trattamento francese, gli inviti degli imperiali, l’aspirazione di lui a «liberare» Genova, la stanchezza dei cittadini per le lotte faziose, la ricerca di una pacifica «unione» interna per una più libera vita economica della aristocrazia mercantile. Mi fermo un momento sull’argomento della «unione» che sarà la base su cui si svolgerà la riforma costituzionale. Elemento importante della vita interna di Genova negli ultimi anni era stata l’aspirazione, tutt’altro che recente, a metter fine una buona volta alle sanguinose lotte cittadine che avevano segnato, si può dire, tutto quanto il lungo periodo dei dogi perpetui, cioè dal lontano 1339. Questo desiderio di pace più volte aveva tentato di attuarsi. Per esempio, il 19 luglio 1506 troviamo eletti 12 «pacificatori» (4); 1’ 11 agosto 1511 una commissione di cinque cittadini si era recata ufficialmente dal re francese (17) Cfr. La Roscièrf. cit. Ili p. 229-230; cfr. anche lett. Grimaldi e Vivaldi, amb. genov. in Francia, 22 ott. 1528 (lett. riservata), A.S.G. m. 2178. (1) Cfr. Scovazzi-Noberasco, Storia ili Savona. Savona, 1926-28. Per lo stato d’animo dei genovesi è interessante la Istruz. al Commissario per Savona, 3 marzo 152o (A.S.G. o(F. Balie 712). I Savonesi tentarono subito di ottenere da Carlo V diritti e privilegi contro la metropoli, e l'oratore genovese potè a stento neutralizzarne l'opera : cfr. passim nelle lettere di M. Centurione, in A.S.G. m. Ü410 e consulto di giuristi 7 ott. 1525 in B.U.G. ms. cont. var. c. 270. - Tutto questo paragrafo meriterebbe uno studio più approfondito. (2) Ricordi dei Protettori di S. Giorgio, in A.S.G. olT. Balìe 712. (3) Andrea Doria a Francesco I 4 e 21 marzo e spec. 13 apr. 1528, A.S.L.S.P. IV. (4) Cfr. Pandiaxi p. 36. - 27 - signore di Genova per supplicare la concessione di un buon governo, e vennero esauditi, tranne la sostituzione del regio governatore (5). Negli anni immediatamente successivi questo desiderio prende corpo, pur senza raggiungere una soluzione del problema, assai complesso, politicamente ed anche psicologicamente: forse del 1520 è una riunione di «riformatori delle leggi», riuniti nel chiostro di S. Matteo (6). Nel 1522, un «magistrato dei 12» (non meglio identificato nelle sue funzioni) insieme con gli altri uffici ordina provvedimenti straordinari per far fronte alle estreme difficoltà finanziarie dello stato, richiedendo anche prestiti forzosi ai ricchi banchieri cittadini ; e trovo di pochi giorni dopo (12, 14, 15 maggio) elenchi di cittadini e, in corrispondenza dei singoli nomi, somme per un importo complessivo di 4.800 lire; ed erano state chieste 25.000 lire(7)! Ma siamo alla vigilia della occupazione spagnola della città. Passata la bufera del saccheggio e instauratosi il nuovo regime di «libertà» spagnola, alla fine del 1523 il doge e gli Anziani, constatando che l’ordinamento dello stato aveva bisogno di profonde riforme di struttura (di «revisione et moderatione»), deliberavano l’elezione di cittadini «omni probitate et experientia preditos... ad revidenda, corrigenda et mode-randa capitula, regulas, decreta et ordinamenta eaque anullanda et alia de novo facienda», per concludere i lavori entro il termine massimo di un anno (8). Ma non ho trovato traccia di attività di quella commissione. Solo nei primi del 1525 la questione venne impostata su una base più concreta. Il 3 febbraio infatti risultano regolarmente insediati dodici cittadini «ad reformandum regimen, statum ac leges civitatis Janue cum amplissima potestate et balia»; gli eletti erano delle più ricche e autorevoli famiglie genovesi (De Fornari, Giustiniani, Fieschi, Grimaldi, Pallavicino, Spinola, Lo-mellino, Sauli, Doria), quegli stessi nomi che con altri ancora si alterneranno, dopo il 1528, nei posti di responsabilità dello Stato. Con un atto solenne quegli eletti si obbligarono con giuramento ad osservare essi per primi le nuove leggi che sarebbero state formate, fissando già severe punizioni per i trasgressori, «ad necem inclusum» (9). Che questa volta le prospettive fossero più favorevoli parrebbe dimostrato dalla risonanza che la nuova elezione ebbe fuori di Genova. Da Roma giungevano le congratulazioni del Cardinale Innocenzo Cibo. Un avviso anonimo del 25 febbraio collegava quei propositi di riforma con lo spavento provocato dalla sconfìtta navale del 28 gennaio 1525 e dalle successive minacce e intimazioni dei comandanti imperiali (10). Ma il governo volle sottoporli (o vi fu obbligato ?) alla autorità imperiale, invitando Carlo V a provvedere ciò che gli sembrasse utile al suo servizio e al bene della repubblica, «della cui restaurazione si confida che egli terrà cura» (11). (5) In A.S.G. filza 3140 (con firma originale di Luigi XII) ; cfr. anche Pandiani p. 83-84. (0) Cfr. Casoni, Annali di Genova, I p. 177. (7) A.S.G. Diversorum, filza 95-3115. (8) Decreto di Balia a Tomm. Centurione, G. B. de Nigro, Rafaele (?) de furnariis e Pietro Giov. de clavica (?). 30 die. 1523 in A.S.G. Diversorum reg. 697 (scrittura poco leggibile). (9) Atto notarile del 3 febbr. 1525 in A.S.G. filza 1204. (10) Lett. del Card. Innoc. Cibo, Roma 20 febbr. 1525 A.S.G. m. 2804. L’avviso anonimo è nelle Lettere di Principi I c. 149v. - Cfr. anche Sanuto, üiarii XXXVIII, 112 (19 marzo 1525) e 155. (11) Memoriale Mart. Centurione a Carlo V s. d. (ma 13 luglio 1525, come risulta da una copia inserita nel Libro di M. Centurione cit.) A.S.G. m. 2734. La risposta di Carlo V riportata in calce allo stesso memoriale prudentemente differiva la discussione della importante questione alla sua venuta in Italia per potersi informare di tutto e specialmente se in Genova, «camera imperiai», si aveva I lavori intanto continuarono, se dopo il gennaio 1526 si hanno numerosi progetti che riformano questa o quella parte della pubblica amministrazione. Il 10 maggio 1527 il giuramento dei dodici riformatori, nella stessa forma di due anni prima, veniva rinnovato e ai Dodici lo prestavano a loro volta solennemente i Padri del Comune. Neppure la occupazione francese costituì una remora notevole, e il 2 aprile 1528 la riforma costituzionale, condotta quasi a termine, era approvata con grande concorso di popolo (un migliaio di cittadini presenti) e completata con disposizioni particolari nei giorni seguenti (12). Tutto questo mentre si definivano a Parigi le sorti di Savona e si irrigidiva l’opinione pubblica genovese, unanime nella questione della città rivale. E’ evidente però che un punto non poteva essere contemplato in queste riforme, cioè il genere di regime o il carattere del vertice della piramide statale: in altre parole, la «libertà». Genova nella sua storia aveva conosciuto e consoli e podestà e dogi perpetui e governatori stranieri, in un ordinamento politico rimasto fondamentalmente comunale. Ora i genovesi avevano un governatore in nome di un re straniero, che essi non potevano certamente ignorare nei loro lavori di riforma. Il Trivulzio personalmente si era dimostrato sempre piuttosto contrario ad una modifica dell’attuale regime, ma i fautori della riforma spargevano la voce contraria. Egli teneva informata la corte, ma anche i genovesi avevano a Parigi i loro rappresentanti, che speravano di «ottenere che se riduca questa città a uso de repubblica». E le speranze diventavano facilmente certezza in bocca ai più ferventi patrocinatori della «unione». Anche il senato si era riunito, ma si era dichiarato incompetente al riguardo e rimandava al Maggior Consiglio. Il Trivulzio diffidava di tutta la faccenda e anche della proposta genovese (ritenuta da lui di difficile attuazione) di raccogliere denaro per poter ottenere l’assenso di Parigi (13). E Andrea Doria? Nonostante affermazioni di storiografi, poco o molto posteriori, io non credo che si possa sostenere un intervento di lui nella preparazione dei progetti di riforma costituzionale. Per quelli del 1525 lo escluderei senz’altro, perchè egli era ben lontano da Genova, e la cosa veniva ventilata tra un Adorno e la corte imperiale, ambedue avversari suoi. Quanto ai lavori del 1527-28, è probabile che fossero chiesti consigli alla sua prudenza ed esperienza, ma il silenzio dei documenti indurrebbe a pensare che il rude uomo di mare si tenesse estraneo a tutte quelle discussioni, poco fiducioso forse nelle possibilità di una qualsiasi soluzione specialmente sul punto conclusivo, almeno finché durava l’occupazione francese. La cosa invece, naturalmente, dovette presentarsi diversa ai suoi occhi quando potè intravvedere quella soluzione che avrebbe dato un volto nuovo alla sua patria. «quel respecto qual conviene a l'authoridad et preheminencia de su majestad». - In realta imperiale non si aveva alcun interesse ad .una restaurazione della libertà (cfr. Saxuto, Piarti t. aa. 155, (28 marzo 1525). • (12) Decreto sul commercio degli olii 30 genn. 1526; riforma della gabella dei grani st. data e feb • 1526; riforma delle tariffe dei pedaggi 13 febb. 1526; altro decreto sul grano e obi,:t» dic. : altre disposizioni 1526 in A.S.G. f. 1204. Capitula nova conservatorum navium, 1526 (tondo • uctrcu inversi nei L/Otlici. lu diiriie ijìo, jnui/idiud ougu “r <-/.»> i 1*1 ,iP| decreto sul numero dei membri delle varie magistrature 29 aprile 1528 (A.S.G. reg. 70-) ; deliber. Dodici di riunirsi tre volte la settimana, 11 maggio 1528, e decreto per la conservaz. dei nomi nei -o alberghi nella sacrestia di S. Lorenzo. 13 maggio 1528 (A.S.G. reg. 701). Pare che i lavori di rito subissero una pausa dopo il maggio 1528, forse a causa della peste, per riprendere nell ottoore • S. G. Litt. reg. 1837). (13) Due lettere del Trivulzio, maggio 1528, in Molini, App. p. 413 e 433). - 29 - §3. — La crisi doriana. L edificio della sospirata riforma costituzionale e della pacificazione interna, dunque, era un fatto ormai quasi compiuto: non mancava che il tetto che implicava, secondo i desideri genovesi, il ritorno alla indipendenza politica. Forse qualcuno sperava in una sistemazione analoga a quella del dogato di Antoniotto Adorno e si rivolse ingenuamente alla corte francese. Ma la risposta di Parigi, poco incoraggiante, vi intrecciava la questione di Savona, risolta a sfavore di Genova. Molte illusioni crollarono. In questa situazione cosi fluida potè inserirsi l’intervento di Andrea Doria. Tornato a Genova assai sdegnalo della ingratitudine francese (si rileggano le lettere del 7 e 24 marzo e 13 aprile 1528, così vivi documenti umani) aveva informato la corte di volersi congedare (1). E nel maggio, quando la questione della «unione» e della «libertà», giunta al suo punto culminante, si arenava nella ostilità francese, il Doria, parlando a lungo col Trivulzio di tutti quei progetti, si mostrava assai scettico, «parendoli di troppo importantia al re et allo interesse de lo stalo» (2). Era sincero? o mascherava con l’apparente scetticismo un interesse assai vivo alla cosa? o addirittura, sia pur indirettamente (non dimentichiamo che un Doria, più spesso Gerolamo, era stato sempre presente nelle varie commissioni di riformatori), guidava quei movimento? Certo ad uno spirito pratico come il suo, ma anche profondamente affezionato alla sua Genova, non poteva sfuggire che la «libertà» si presentava in quella situazione, come altre volte nella storia di Genova, con un chiaro contenuto politico antifrancese, e quindi appariva fatalmente condizionala ad una conquista spagnola della città. E valeva ora la pena ripetere la mortificante esperienza dell’ultimo dogato ed esporre forse la città ad un saccheggio in edizione riveduta e corretta (dopo il tirocinio di Roma nel 1527)? Questi erano, mi pare, i termini del dilemma, mentre anche il suo orgoglio di nobile genovese, insieme con tutti gli altri cittadini, reagiva alle mire francesi su Savona. C’era forse una terza via: imporre ad un potente sovrano il rispetto della indipendenza di una città che accettasse di inserirsi nel sistema politico di lui, ma che conservasse una sua effettiva autonomia. Gioco pericoloso, forse, ed audace; se ne sentiva egli la capacità e la forza, o, piuttosto, ne intravvedeva la possibilità attuale? Alla line di maggio parve che il governo francese, per le insistenze del Trivulzio e dello stesso Doria, nonché di altri agenti suoi in Italia, fosse disposto a rinunziare a Savona. Ma chiedeva all’ammiraglio genovese la consegna dei due capitani spagnoli fatti prigionieri da Filippino. Andrea Doria rispose che «vedendo succedere l’effetto della restituzione di Saona, gli pareva che il Re gli faccia maggior gracia che se gli donasse qualunche altra recompensa et restarà tanto contento de Sua Maestà, che più gli sarà cara questa restituzione, che se gli donasse uno stato, et farà ciò che per il Re gli è stato richiesto ... il che io lo credo (aggiungeva il Trivulzio) perchè molte volte nel parlare che mi ha fatto ho compreso che ama mollo il demonstrarsi che tanto estima il benefìcio de la patria sua quanto ciascun’altra cosa» (3). (1) La richiesta del congedo i del 13 aprile 1528, che con le altre lettere cit. ù in A.S.L.S.P. IV. (2) Lettera Trivulzio maggio 1528 dn Molini App. p. 341). (3) Lettera Trivulzio 4 giugno 1528 (Molini Docc. 11 33). - 30 - Ma il tempo passava e Parigi taceva. A questo punto si interpose l’offerta spagnola di passare al servizio di Carlo V. Il 3 giugno il Perez, segretario cesareo a Roma, avvertiva l’imperatore delle prime offerte fatte a Filippino Doria. Il 12 Filippino si allontanava da Napoli diretto a Genova. Due giorni dopo al Perez già risultava che Ascanio Colonna e il marchese del Vasto si erano accordati con il Doria per il proprio riscatto, e lo stesso giorno il principe d’Orange supplicava l’imperatore di accettare tutte le condizioni poste dal Doria: restituzione di Savona, libertà di Genova, regolarità nei pagamenti, una investitura nel regno di Napoli. Le «Mémoires» di Guglielmo du Bellay, amico dell’ammiraglio genovese, inviato urgentemente da Lautrec a Parigi per avvertire della gravita del pericolo di perdere il Doria con le sue galere, confermano questi particolari e specialmente la connessione che ormai chiaramente si delinea tra le varie richieste. Ma a Parigi queste non furono giudicate « raizonnables », nonostante le rimostranze del Du Bellay. Per tutta risposta venne ordinato al Barbezieux, nuovo comandante della flotta (dal 1° giugno), di impadronirsi delle galere del genovese e, se possibile, della stessa persona di lui. Il nuovo ammiraglio, giunto a Genova a metà giugno, ebbe col Dona un drammatico colloquio, al quale furono presenti i due prigionieri e foise anche Filippino, arrivato appena da Napoli (5). La sua decisione allora venne chiaramente delineata. Solo un ignorato intervento di Clemente VII sul quale mi fermerò tra poco, ne ritardò di qualche giorno l’esecuzione. Il 12 luglio (6) il Doria si impegnava a passare al servizio di Carlo V, salva l’approvazione di questo. Il 19 o 20 egli spediva in Spagna Erasmo Doria, suo parente, con la procura di sottoscrivere in suo nome il contratto di « asiento », che il 10 e 11 agosto venne perfezionato con la accettazione integrale di tutte le condizioni poste dal Doria e con postille dell’imperatore assai lusinghiere per il vecchio ammiraglio. Il 1 settembre il Doria con le sue galere entrava nel porto di Genova e si impadroniva della città. Il Trivulzio si chiudeva nel Castelletto, dove per quasi due mesi rimaneva assediato. Genova ricuperava la sua «liberta» e applicava integralmente la riforma costituzionale, ponendo un doge biennale a capo dello Stato (7). Nel febbrile incalzare degli avvenimenti, tra proposte, controproposte, mediazioni e sondaggi, vi fu anche un intervento papale provocato dallo (4) Lo studio di C. Borsate sui negoziati per attirare il Doria al servizio di Carlo \ rende: ] flua ogni altra citazione su questo dibattutissimo argomento di storia genovese ed europea 1 - j Io vi aggiungo qualche considerazione e qualche informazione particolare, specialmente sugli e tentativi facenti capo al papa, ignorati del tutto fin ora. (5) «Memoires» di Guglielmo di Bellay, ediz. 1569. (6) Il Borsate cit. giunge a circoscrivere la data dell’accordo tra il 9 e il 12 luglio /non quindi il 10 agosto, come sosteneva la storiografia della tesi « francese», che su questa data cosi tarda iton_ uno dei motivi più seducenti della presunta slealtà e dei bassi motivi del Doria). Fosso pero_ >■ la data con precisione al 12 luglio (cfr. lettera del Marchese del Vasto a Carlo V, 12 luglio loia, Gayanoos, p. 739. (7) Sugli avvenimenti dell'estate 1528, culminanti nella occupazione di Genova, tutti gli autori della storiografia « doriana » si diffondono più o meno. Sarebbe molto interessante uno studio appr -fondito di questa storiografia per vederla non solo come un capitolo notevole dell’umanesimo tigur , ma anche come riflesso del progressivo consolidarsi della potenza del Doria nella rinnovata repubblica. Comunque, in genere, tutta la storiografia genovese del Binascimento (anche di quello più tar oj meriterebbe uno studio particolare. Punto di partenza, più che la vastissima, ma ormai antiquata «Bibliografia di Genova», di Antonio Masso, che è del 1898, dovrà sempre essere la preziosa rassegna critica (che è ben più che una bibliografia ragionata) di V. Vitale nell’ Arch. Storico Italiano 1938, ai cui si preannuncia una edizione a parte, notevolmente accresciuta ed aggiornata. stesso Doria e sopratutto dall’agente francese Gregorio Casale, ma non sostenuto da Parigi con sufficiente convinzione. Non si può dire che il Doria si fosse deciso senza qualche esitazione: inlatti dopo aver ascoltato, senza però impegnarsi, le proposte del marchese del Vasto, volle sondare la possibilità di tornare al servizio del papa, chiedendo però risposta impegnativa prima che scadesse il contratto con Francesco I, cioè entro quello stesso mese di giugno. La lettera capitò in mano del Casale, il quale la mise in rapporto con certe voci venutegli direttamente dall’« entourage » del Doria, circa contatti fra l’ammiraglio e gli imperiali, mentre contemporaneamente Antonio De Leva, comandante cesareo in Italia, stranamente si teneva passivo sotto Lodi, anziché spingere a fondo le operazioni. Qui non era da dormire, ma da pigliarvi pronto rimedio», e recatosi dal papa il 23 giugno col segretario francese Raince, ebbe conferma delle voci ma anche della volontà del papa di non farne nulla per mancanza di fondi. Alle proposte del Casale, Clemente VII resistette, tinendo col dire che ci avrebbe pensato la notte. L’agente francese intuiva che per salvare il salvabile (cioè evitare che il Doria passasse al nemico) occorreva persuadere il papa a prendere con sè l’ammiraglio genovese. Riuscì infatti a strappargli una promessa, col patto di dividere la spesa delle galere (due sole a carico del papa): ma Clemente esigeva un impegno preciso da parte della Francia o anche del Lautrec, mentre spediva un corriere al Doria per informarlo della intenzione di assumerlo e per pregarlo di attendere qualche giorno prima di impegnarsi con altri, «tanto che trovi il modo a suo pagamento» (8). Negli stessi giorni, dopo la relazione del Barbezieux, la Corte francese finalmente acconsentiva per Savona, disponendo l’invio del conte di Pon-tremoli a Genova (9). Gli ultimi giorni di giugno videro dunque un movimento febbrile che da più parti convergeva su Parigi perchè fosse evitato un errore gravissimo. Ma ormai era tardi. La fatale scadenza del 30 giugno passava senza che alcuna soluzione venisse impostata concretamente: il decreto francese per Savona era soltanto promesso e la risposta del papa, per di più interlocutoria e non sostenuta poi dal richiesto impegno francese, giungeva tardi e appariva nient’altro che una manovra per trattenere anche indirettamente il Doria nel campo francese. Ma questi differiva ancora la sua decisione all’arrivo del conte di Pon-tremoli, che, partito il 1° luglio (o il 30 giugno), entro una settimana dovette già essere a Genova. Ma il Doria, visto che non portava altro che «parole», preso da sdegno, comunicava il 12 luglio al marchese del Vasto l’accettazione della offerta spagnola. E ad alcune rimostranze che gli vennero fatte dai Dodici di Genova, egli ribatteva poche parole : « quanto a quello dite della proposta datta al conte de Pontremoli, sapiate io non esserghe processo se non con maturo pensamento et non alla improv- (8) G. Casale ad A. Talenti, 24 giugno 1528 e al Montmorency, 26 giugno in Molini li p. 30 e 43. Clemente VII, che non aveva intenzione di accettare quelle proposte del Doria, non aveva neppure ritenuto di parlarne coi francesi per non urtare la loro suscettibilità, «come fecero l’altra volta clic era un caso simile», cioè nel 1526 (v. qui sopra a p. 19), tanto più, aggiungeva, che «è gran cosa a fare con gente che piglia il bene per male». Il segretario Sanga per incarico del papa nel maggio precedente aveva scritto al Doria per raccomandargli i due illustri prigionieri spagnoli ed aveva avuto una risposta più che favorevole, come era del resto da aspettarsi essendo essi «in mano di persona si valorosa» (lett. Sanga all’arciv. di Siponto, 3 giugno 1528,/in Leti. Princ. 11 c. 101). Anche d Giberti si era interessato (Sanga al March, del Vasto, ibidem c. 102). (9) Lett. d. oratori genovesi a Parigi Grimaldi e Vivaldi, 26-30 giugno 1528 che il Petit riporta nell Appendice a p. 306, come esìstente nell'A.S.G. : ma non l'ho trovata. visa». Comunque, per dissipare le preoccupazioni del Trivulzio («il eie me par suto stranio, cognoscendo Soa Signoria l’animo mio verso quel a patria») impegnava il suo onore a non far nulla contro Genova « ino a tanto che non habbi superiore al quale sia astretto obedire»; e il o agosto rinnovava lo stesso impegno in forma di atto pubblico e solenne, estendendolo a tutti i territori francesi, e anzi, per quanto nguai-dava Genova, si obbligava a non prendere iniziative ostili ancora pei ven 1 giorni dopo il suo passaggio al servizio di altri (10). Anche questa distinzione è significativa. Quanto alle proposte del papa portate da Bartolomeo da Urbino, esse erano un voler impegnare senza impegnarsi (11). Tuttavia il Doria attese ancoia qualche giorno prima di spedire Erasmo in Spagna. La buona volontà i lui indusse allora il papa a spedirgli il segretario Sanga (12), ma poic e Clemente VII non intendeva intraprendere nulla senza una precisa garanzia francese che facesse da controassicurazione all’impegno col Doria, e Pangi invece taceva, passò qualche giorno. Il Sanga, sempre sperando di «tiovar la cosa integra», solo il 23 (o 24) luglio raggiungeva il Doria a Lerici, quando già da quattro giorni Erasmo era partito. Egli tentò ancora i persuadere l'ammiraglio a richiamare Erasmo (un brigantino veloce a vrebbe facilmente raggiunto), ma la risposta naturalmente fu negativa, i Doria aveva già data la sua parola e « non haria possuto per tut o i mondo revocarla» (13). Il fallimento della missione del Sanga, causato dalla cattiva vo on a francese, dovette provocare un vivo risentimento nella curia ponti ìcia e nello stesso papa, e ci spiega così quello sfogo amarissimo che è la e era del 3 agosto, che lamenta la miopia e la sospettosità e la leggerezza i an cese, e respinge sdegnosamente l’accusa mossa al pontefice negli am ien i di quella corte, cioè che Clemente, dopo il riuscito colpo di staccare am miraglio dal re, andasse anche preparando una alleanza con 1 impera ore, e tutto per denaro. Ce n’era abbastanza perchè lo scrivente, probabilmen e lo stesso Sanga, esplodesse (14). (10) Andrea Doria ad Ag. Lomellino e G. B. Moneglia, da Lerici. 17 luglio la-8 in .1 -l’impegno solenne del 6 agosto, stato richiesto dallo stesso governatore, dall’Officio ili dici, ibidem a p. 50. Cfr. anche A. Doria al Trivulzio 19 luglio (ibidem p. 46). (11) Su questa prima fase dell’intervento papale cfr. la importante lettera a Giovanni della ^itre (senza mittente, ma credo del Sanga) s. d. (ma quasi certamente 12 luglio, da controm ,. ro. lettere) in Leti. Principi II c. HOv : e ibidem c. 106v lett. 15 luglio a Fantoni, anche questa babilmente del Sanga. (12) Lett. al Doria feertamente del Sanga» 18 luglio 1528, in Lett. Principi II c. 108. (13. Lett. (certamente del Sanga) a Giov. della Stufa s. d. ma tra il 24 e il 31 luglio. A" Lett. Principi li b. 110, molto importante: «io (scriveva il Sanga) ho trovato Sua Signori ^ sdegnata per più cause, ma sopratutto per non haver mai potuto ottenere dal Lhrisuamsi restituzione di Savona a Genovesi, et tanto più se ne duole quanto dopo che esso se partito ^ vizio di Sua Maestà, facilmente è stata concessa agli Ambasciatori di Genova senza farne an e g minimo grado»; si doleva ancora di non essere stato pagato delle sue spettanze e che anzi !si tentato di strappargli con la forza i prigionieri; e che «d una tal vittoria come fu quella cn e conte Filippino, non gli sia mai stato reso gratie... Mi ha giurato che sino alla venuta del co Pontremoli non ha mai voluto dar la parola sua, aspettando pure di Francia qualche ris°i n(^ar circa Savona; ma visto che ’l detto conte non portò se non parole, si risolse in quei saegno a ma in Ispagna, come ha fatto». - li decreto francese che restituisce Savona ai genovesi, in data l i t. 1528, (in A.S.G. m. 2737.B). non fu mai eseguito : cfr. lett. Trivulzio al Be, 27 ag. 1528, in Molini, Docc. (14) «Vorrei pur sapere dove fondano la Imperialità di X. S. se non forse nel mal trattamento che gli fanno francesi et Vinitiani, che in coscienza loro conoscono esser tale che S. Sant, uov darsi in preda non solo all’imperatore, ma quasi, che non dissi, al Diavolo, per non comporla d’esser uccellata et stracciata come è. Alla fe. che son dure cose et da far perdere la pazienza a Jod... Hormai dirò il vero, comincio a fare il medesimo giudicio di questa impresa che delle altre de Francesi... Nostro Signore ha desiderato la vittoria loro, non gli ha negato alcuno aiuto di quelli cne honestamente ha potuto darli et finalmente ogni buon’opera è perduta et per il fructo che se ne aspettaria non vedemo nascere se non lappe et tribuli, cioè suspitione et diffidenze. Ma Dio et 1 inno- - 33 — E forse per la preoccupazione di una vittoria imperiale così schiacciante, che metteva «a discretione» tutta l’Italia «senza speranza di uscire mai eli servitù» (15), il papa si indusse, nonostante delusioni e incomprensioni, a fare ancora un ultimo tentativo: inviò un suo uomo di fiducia che stesse «del continuo» presso l’ammiraglio genovese fino al ritorno di Erasmo, per spiare il modo di inserire un nuovo «attacco di rivocarlo al servitio di Sua Santità, come esso (Doria) dà 1’intentione », nel caso che Carlo V facesse qualche difficoltà alla accettazione integrale delle condizioni del Doria; ma era sempre necessario che il nunzio esigesse dalla corte quell’ « assignamento », tante volte chiesto ma mai dato, senza del quale il papa non poteva affrontare una spesa rilevante (16). L’ultimo tentativo dunque fu fatto dal papa, non da Francesco I; ma fu vano. Carlo V aveva troppa stima dell’ammiraglio genovese e troppo riconosceva l’enorme vantaggio che glie ne sarebbe venuto, perchè pensasse di discutere l’una o l’altra condizione: «quoy qui me dove couster, je n’y veulx riens espargner», aveva scritto al Principe d’Orange (17), e aveva raccomandato ai suoi agenti di impegnare il Doria «por todos los medios posibles», perchè «esta es la cosa que mas deseo» (18). E l’accettazione fu integrale, anzi con tali annotazioni ai singoli articoli che il Doria doveva sentirsene lusingato: «buena confianca» (all’art. 3), « buena estima-cion y confìanca» (all’art. 6), erano i sentimenti con i quali accoglieva l’ammiraglio genovese al suo servizio (19). E scrivendo al Principe d’Orange così lo giudicava: «Para mi, es liombre probo y de buen servicio, y no tengo duda que él no solamente harà menos sino mas en mi servicio, que el hecho por él a los senores a quienes antes ha servido » (20). centia di N. S. alla fine l’aiuterà... Vi ho scritto queste poche parole in gran colera, per lo sdegno che ho della perdita di m. Andrea, che conosco dell'importanza cli’è la cognition (? forse « congiun-tion»' sua con gli Imperiali a far ruinar l’impresa». Lett. (molto probabilmente del Sanga i ad Alb. Fantone in Francia, 3 ag., in Lett. Principi II c. 109v. (15) Lett. al Card. Salviati, Viterbo 21 ag. 1528 ibidem 118. (lfi) Lett. al Card. Salviati 28 ag. 1528 ibidem 124. (17) Riportato dal La Roncière p. 231. E del resto, in giugno - luglio era stato tutto nn coro di suppliche degli agenti imperiali affinchè Carlo V accettasse senza discutere le condizioni del Doria, perchè la situazione appariva disperata: cfr. per es. Caracciolo all'imperatore, Milano. 20 luglio 15Ì8, in Gayangos, pag. 479. (18) Riportato dal Bornatb cit. p. 67. (19) Copia del contratto definitivo, con le dichiarazioni di accettazione, 10-11 agosto 15Ü8, pubbl. dal Laiglesia, « Estudios historicos», Madrid, 1918, I 148. Questo atto è incorporato nella lett. patente di Carlo V, Bologna, 18 marzo 1530, che lo proroga per altri due anni, con alcune precisazioni sulla condotta (copia in A.S.G. m. 2747 AI!): un chiarimento all'art. 1 conferma ancora più esplicitamente la libertà di Genova. 11 Rornate, p. 14, ha pubblicato il primo atto impegnativo stipulato in Italia, integralmente riprodotto in quello di Madrid. Al ritorno di Erasmo dalla Spagna, tutti intorno al Doria erano contenti, perchè egli aveva ottenuto molto di più di quanto domandava (era riferito al Card. Salviati, forse da parte di colui che il papa aveva inviato presso l'ammiraglio genovese); cfr. lett. s. d. in Lett. Prine. II c. 128. Mi riservo di ritornare ancora, nella conclusione, su questo fondamentale doc. della storia politica, economica e militare della repubblica genovese. (20) Riport. dal Bornate, p. 69. 8 _ Cap. III. LA POLITICA DELLA “RESTAURATA LIBERTA’,, § 1. — I primi rapporti con la Francia. Lo stesso giorno dell’occupazione del Doria, le istruzioni inviate agli oratori presso Francesco I, segnavano i punti che resteranno fondamentali nella diplomazia genovese per i rapporti con la Francia. Si doveva infatti prevenire l’accusa di «ribellione» affermando che: 1) i fatti di settembre miravano solo a ricuperare la «libertà», senza alcuna intenzione ostile contro la Francia, alla quale si voleva restare affezionati; 2) Genova, desiderando restare amica di tutti, intendeva essere «neutrale» nei dissidi tra le grandi potenze; 3) essa avrebbe difeso in ogni modo questa libertà interna e questa neutralità contro qualunque attacco da qualunque parte venisse (1). Gli oratori genovesi speravano di inserire le proprie ragioni nelle divergenze esistenti alla corte francese, e insinuavano in colloqui privati, che «saria molto a proposito di Sua Maestà avere quella città amica che costringerla contro sua voglia ad aderirsi ad altri ». Il 16 settembre ebbero i primi contatti col Montmorency, sottolineandogli il fatto della «libertà» più che quello della conquista da parte del Doria. Ma il re negò udienza sostenendo che non avrebbe mai riconosciuto quella «ribellione», tanto più che questa cosiddetta «libertà» era stata conseguita «per mano di un suo inimico, maxime militando sotto l’imperatore» e si augurava che Genova ritornasse alla «primitiva fedeltà». Tuttavia, mentre il re mostrava di togliere agli avvenimenti ogni significato «pa- (1) Lett. a Grimaldi e Vivaldi, 12 sett. 1528 in A.S.G. f. 398. Questa lettera, che è in pessimo stato di conservazione perchè rosa dall'umidità, appare scritta per essere mostrata al Governo francese, giacché nell’esposizione dei fatti di quei giorni fatali 10-12 sett. vuol persuadere che l'impresa del Doria, resa possibile solo dall’abbandono in cui era la città a causa della peste e della passività (leggi vigliaccheria) del presidio francese di terra e di mare, fosse avvenuta «contro il volere e opinione universale de tutti » ; non manca una punta di aristocratico disdegno per il popolo eccitato dalle grida di «libertà»: «moltitudine che altro che il vocabulo non intendevano»; i Dodici avevano dovuto subire l atto di forza del Doria «benché altro havessimo in animo...» costrettivi «cum tutta nostra mala contentesa et escentiale displicentia senza simulatione alchuna». Ma poi il seguito della lettera fa chiaramente comprendere che Genova, avuta ormai la libertà, intende mantenerla «con tutte le forze... considerato che... a S. M. poco interesse ne resulta», perchè non dovrà «produrre favore alchuno a li inimici di S. M. ». Sui fatti di quella giornata cfr. l’interessante relaz. in Samjto, Diarii, XL Vili 502. - 36 - triottico», che invece gli oratori genovesi volevano mettere in rilievo, il Montmorency tentava di attirare Andrea Doria in cambio di garanzie su Savona incitandolo a mostrarsi «buon patriotto». Alla risposta degli oratori genovesi, che il Doria era ormai impegnato, propose allora un compromesso, ferma restando la restituzione di Savona: se il Doria non volesse tornare al servizio della Francia, ma acconsentisse a staccarsi dall'imperatore, «si troveria modo che il re contribuirla ad una gran parte della spesa delle sue galere, e la città potria pagarne una parte et in tal caso la libertà resteria cum maggior auctorità». Era un voler prendere in parola la profferta di neutralità. Era evidente che la Francia misurava ora finalmente tutto l’enorme danno politico e militare che derivava dalla perdita dello stato genovese e del più abile ammiraglio che l’Europa avesse. Ma la risposta genovese fu quale la dignità e la rinnovata consapevolezza di una importanza politico-militare potevano suggerire: «con destrezza» sì, ma senza possibilità di equivoci si invitava il re francese a cercar altrove altre imprese, contento di avere «il cuore dei cittadini ben disposto»; che se volesse «experimentar l’impresa contro di loro, li induceria a tentare ogni modo di difendersi, con ricercar ogni auxilio externo» (2). Questo atteggiamento degli ambasciatori venne confermato dal governo genovese nelle istruzioni del 27 settembre, nelle quali si respingeva l’accusa di «ribellione» e si insisteva sulla volontà di mantenere la libertà «senza iniuria alchuna d’altri » e «con tutta la neutralità effettuale che usar si possi»: anzi si rinnovavano le assicurazioni di «bona mente e affettione» verso il re di Francia, fiduciosi che quella libertà, «a la quale tanto tempo fa si aspirava», sarebbe stata rispettata dagli eserciti dei collegati. E ancora il 13 ottobre, dopo il fallito attacco del Saint Paul, si ripeteva che solo per «reverentia» e «divotione» verso il re la reazione concorde dei cittadini era stata frenata, sia pure a stento, non facendo strage dei francesi in ritirata: veramente Genova prendeva le armi «solo per la difesa della libertà» (3). Gli oratori genovesi avevano avuto l’esatta percezione delle difficolta in cui si trovava il governo francese e da un lato ne seguivano le mosse nei numerosi colloqui con gli oratori di Milano, Venezia, Firenze, mentre dall’altro tenevano a bada, nei giorni successivi, le insistenze del Grande Ammiraglio per una risposta definitiva (4). Giunta da Genova una prima risposta, gli oratori ritornarono in coite e con parole «dolci» sottolinearono Ia «innocentia» di Genova affermando che quella «libertà» non era contro gli interessi francesi, aggiungendo pero che per la conservazione di quella «ognuno era tanto disposto che volevano experimentare ogni modo di difendersi se turbarla si voleva». E poi, alternando affermazioni più remissive, non tacquero «lo obbligo immenso che riconosceria la città dalla clemenza de Soa Maestà». In conclusione, fermezza e decisione sulla sostanza (difesa ad ogni costo della libertà ricuperata), attenuazione della forma con le proteste di buona amicizia per la Francia, invitata a considerare realisticamente il suo vero interesse, viste le circostanze attuali. (2) Grimaldi e Vivaldi da Parigi 19 sett. e 8 ott. A.S.G. ra. 2178 (in questo fondo, salvo diversa indicazione, sono le lettere dei due oratori genovesi cit. in questo capitolo). (3) 1 Dodici agli oratori in Francia 27 sett. e 13 ott. 1528, A.S.G. f. 398. (4) Lett. 19 sett. cit. - 37 - «Non portandoli altro che simili parole» rispose il Grand’Ammiraglio, non gli pareva il caso di riferirne al re, che intendeva invece «fare ogni f 1/0 Per recuperare detta città». Il Du Prat con un certo tono ironico e il Montmorency con parole minacciose, constatavano che ormai la cosa era latta, ma «Ira tre giorni se ne sentirà novella»; il re era «alieno» da una simile «libertà» e dalla concessione di Savona a Genova. E alle insistenze «dolci» dei diplomatici genovesi venne ripetuta la oscura minaccia (5). Le cose rimasero stazionarie per una quindicina di giorni, durante i quali le truppe francesi del Saint Paul (ed era questa forse la minaccia del Montmorency) tentarono un decisivo attacco contro Genova, mentre il presidio di Savona resisteva ad oltranza (6): Una ripresa dei contatti era evidentemente subordinata all’esito di queste operazioni per poter aver qualche carta in mano da giocare. Ma il fallimento dell’attacco del Saint Paul e la insostenibilità di Savona dovevano indurre a più miti consigli. Verso la line di ottobre vi furono nuovi colloqui con la Corte, ma le obiezioni francesi rimanevano le stesse: la neutralità era inconciliabile con la presenza del Doria in Genova. Ed anche gli sforzi per occupare Savona, per quanto giustificati formalmente dal decreto francese che la restituiva a Genova, non potevano non apparire un atto ostile alla Francia che vi teneva le sue truppe. D altra parte Genova, pur offrendosi «neutrale», non intendeva rinunciare alla «libertà», anche se questa aveva inevitabilmente in quel mo-moinento un significato antifrancese, e Parigi appunto non solo non poteva credervi, ma, anche riconosciutala possibile, non se ne sentiva affatto garantita, e piuttosto esigeva il ritorno puro e semplice alla situazione precedente. Ma questa pretesa bruscamente espressa non fu voluta rilevare dai genovesi, pensando che era «meglio schuzire che strazar» con loro (7). Direi che questa frase così espressiva può riassumere bene il carattere della diplomazia genovese, paziente, incassatrice all’occorrenza, ma tenacemente attaccata ad ogni vitale interesse acquisito, e tale che pure sapeva rispondere con fermezza e dignità (8). II governo francese tentò allora di nuovo il metodo delle lusinghe, offrendo la possibilità di una alleanza prima che fosse ripresa l’offensiva militare. Ma la risposta degli oratori genovesi fu dignitosa: solo per un riguardo verso il re francese le operazioni contro il Saint Paul non erano state spinte fino al completo sfruttamento del successo; «la città al presente era talmente unita et di sorte riparata in mare et in terra che con mille uomini di guerra la si difenderà; ma quando pur la si vedrà opprimere senza voler aver sì puoco riguardo alla sua neutralità, la invocarà ogni adiuto externo per la conservatione di se stessa et de la sua libertà» (9). La risposta se non uno «strazare», era certamente uno «schuzire». (5) « Poco fructo et grande danno che seguir poteva alla prefata Maestà in tentare tale turbatione ► dello stato genovese. Lett. 8 ott. cit. (G) Cfr. Casoni, Annali di Genova p. 29. (7) Lett. Grimaldi e Vivaldi 22 ott. (due lettere). Il comportamento dei due oratori venne pienamente approvato ed elogiato dal governo genovese : cfr. lett. agli oratori in Francia 31 ott. in A.S.G. f. 398. (8) Cfr. anche Ciasca, Affermazioni di sovranità della liep. di Gen. nel secolo XVII, in G.S.L.L. 1938. L’osservazione del Fueter, p. 51, che quanto alle fonti «Genova oflre molto poco poiché la sua eredità diplomatica di fronte a quella di Venezia è appena degna di considerazione», dev'essere considerata ormai superata. Cfr. l’introduzioue di V. Vitale al suo voi. La Diplomazia genovese (Milano 1911) e alla raccolta Diplomatici e consoli della Repubbl. Genovese in Atti S.L.S.P. 193Ì (unica nel suo genere in Italia e preziosa per ogni indagine di storia politica genovese dal sec. XVI in poi). Lo dimostrerà ampiamente la imminente pubblicazione delle istruzioni diplomatiche genovesi curata da R. Ciasca, dopo quel primo saggio che ne diede C. Morandi (Relazioni di ambasciatori sabaudi, genovesi e veneti, 1693-1713, Bologna 1935). (9) Lett. 22 ott. cit. - 38 - Eppure la tenace insistenza dei due oratori non venne delusa. Se a parole alla fine di ottobre la Francia si mostrava irriducibile, in realtà aveva tutto l’interesse a non rompere definitivamente con Genova, sia perché la situazione militare si presentava a lei tutt’altro che favorevole, sia perché contemporaneamente alle conversazioni di Parigi essa faceva ancor qualche tentativo di ricuperare, sia pure indirettamente, Andrea Doria, mentre cercava di prendere tempo per organizzare forze militari, mezzi finanziali e vie diplomatiche nella stasi invernale delle operazioni. Si ricorse infatti a Clemente VII, rimasto in buoni rapporti personali con l’ammiraglio, incaricando Gregorio Casale di sondare il parere di lui. Il papa, che da parte della religiosissima repubblica genovese aveva sempre avuto dimostrazioni di devozione, poteva intervenire con tanto maggiori probabilità in quanto aveva stimato inopportune o disperate le operazioni militari per il riacquisto di Genova, ritenendo invece cosa prudente accettare l’offerta di neutralità genovese. D'altro canto, quando erano \enuti da lui il cardinal Grimaldi e Ansaldo Grimaldi, egli aveva liberamente espresso il suo parere circa il contrasto politico con la Francia, incoraggiando Genova a riallacciare rapporti amichevoli con Parigi e col Saint Pau'- ^ al Casale ora ripeteva di «torre i genuesi con questi partiti de messer Andiea Doria» (10). Non mi risulta che questo tentativo di mediazione abbia avuto un seguito. Probabilmente per la necessità di uscir fuori di un penco oso isolamento (non si poteva considerare con affidamento 1 alleanza inglese, ne era molto efficace quella di alcuni stati italiani e specialmente ( e osci lante pontefice) la Francia, puntando sul riacquisto di Genova con o senza ricuperare il Doria, si indusse a consentire ai genovesi un parziale 1 0,0 13 fico con alcune regioni. Il 17 novembre, infatti, quel «sal\aion o o» an o atteso da Genova venne concesso, sia pure non in forma geneia e. " ra un passo importante per uscire dal vicolo cieco (11). Già la settimana prece dente si erano avuti contatti alquanto meno aspri: alle piotese iancesi per la occupazione di Savona e per l’invio di forze militali \eiso 1 con 1^11 genovesi, si era risposto che si inviava solamente a «la recupeia ione e le membre» della repubblica, «non passando mai li limiti» del tenitorio P^P1 Un gesto di correttezza diplomatica compiuto (incredibi e.) a i on morency aveva forse contribuito a schiarire 1 atmosfera, quan o, capi a e& 1 in mano lettere del governo genovese indirizzate agli oratori, egli le aveva consegnate intatte (12). ... aP_ Il mutamento di tono durò parecchi giorni, nei quali parve ai due g novesi di aver «più grata udienza del solito», giacché i Irances. impostavano la questione non più sulla pura e semplice ripulsa delle spiegazioni genovesi, ma più concretamente sul piano del «do ut des», lamentando che allora Genova non avesse portato se non parole non corrispondenti ai ta i, primo tra i quali la presenza del Doria in Genova al servizio dell imperatore. E il gran cancelliere consigliava di comportarsi «prudentemente et cum ogni dolcezza» (13). (10) Gregorio Casale al Montmorency, 23 ott., 2 nov. 1528, in Molini Docc. II 58. (Ili I eU Grimaldi e Vivaldi 18 nov. 1528. 11 La Roncière III 237, che aveva trovato questa ordinanza di Francesco I ai «Très chers et bien amez les citoyens de sa bonne ville de Gennes» (liber traffico con Lione), la suppose solo progettata. (12) Lett. Grimaldi e Vivaldi 12 nov. 1528. (13) Lett. Grimaldi e Vivaldi 28 nov. 1528. Questi cauti sondaggi si svilupparono nei giorni successivi e con una esplicita domanda di «qualche contributione» per «schanzelar ogni cosa» : la richiesta era accompagnata da significative ammissioni, evidentemente per faci 1 itare la cosa. La risposta dei genovesi sul punto principale fu negativa: Genova aveva avuto fortissime spese recentemente e d’altra parte (o sottile ironia!) non si poteva concepire che «un re liberalissimo et ricchissimo dovesse riguardare ad una miseria che per adesso le nostre puoche forze posson fare». Quanto al resto, gli oratori ribadivano le osservazioni già latte, non senza qualche velata minaccia: l’urto tra Genova e la Francia era impari; perciò se questa non modificava il suo atteggiamento ostile, la repubblica genovese sarebbe stata costretta «cum grande sua displicentia ad accettar de li partiti che li sono offerti, de quale è pregata da externe». E il governo confermava da Genova che «la impossibilità..... non supporta sborzatione alchuna » (14). La situazione tornava così in alto mare. Ma che il vero scopo della Francia fosse di non rompere del tutto e di prender tempo sino alla buona stagione evitando che in Genova si concentrassero troppe forze nemiche, mentre si acceleravano i vari preparativi finanziari, diplomatici e militari, appare dal fatto singolare che gli oratori genovesi non poterono ottenere il richiesto congedo, pur insistendo per tutto il mese di gennaio. Ancora il 1° febbraio il re non intendeva congedarli, mentre tuttavia persisteva l’atteggiamento provocatorio ed ostile, ma senza mai spingere le cose ad una definitiva rottura. E non valse che Genova mostrasse la sua sorpresa ancora il 16 febbraio (15). Svanite le speranze nell’intervento di Clemente VII, Parigi attendeva forse 1’ esito di progettate operazioni militari, sia quelle, piuttosto utopistiche, contro il territorio spagnolo, sia quelle, più realizzabili, contro Milano, per le quali la Signoria veneta insisteva energicamente, ritenendole per il momento più urgenti della stessa riconquista di Genova (16). Ma la resistenza del De Leva e le scarse forze dei collegati, non sorrette da sufficiente e regolare invio di denaro e uomini, fecero ristagnare ogni attività : si aspettava da tutti la primavera. E intanto in aprile avevano inizio ufficialmente quei colloqui tra le due Regine, che portarono poi alla pace di Cambrai, mentre per sostenere quelle trattative diplomatiche e non perdere l’alleanza pontifìcia si tentava di persuadere Venezia a restituire Ravenna e Cervia. Ma mentre i tentativi diplomatici si intensificavano in vista di un regolamento dell’ormai lungo conflitto, Parigi faceva un ultimo tentativo (e il modo stesso, come si vedrà, ne indicava tutta la natura disperata) per rompere in Genova il cerchio che le si chiudeva intorno diplomaticamente più ancora che militarmente, e chiedeva o meglio imponeva a Venezia una mediazione che mirasse a neutralizzare quella posizione strategica asburgica. Ma di questo sconosciuto episodio, che si inserisce in un altro ordine di rapporti della nuova repubblica genovese, occorrerà parlare nel paragrafo seguente. (14) Lett. Grimaldi e Vivaldi 10 die. 1528, riportata in App. dal Petit p. 370. Lett. agli oratori in Francia 22 die. 1528, in A.S.G. 398. (15) Lett. Grimaldi e Vivaldi 17 genn. e 1» febbr. 1529. Lett. agli oratori in Francia 16 febbr. 1529 in A.S.G. f. 398. (16) Lett. della llep. Ven. all’oratore presso lo Sforza 13 genn. 1528 (cioè 1529) in A.S.Ve. Cons. X f. 2. §2. — I rapporti con Venezia e con Francesco Sforza. Fin dai primi giorni dopo il 12 settembre, Genova non trascurò nessuno dei principali stati nonché eminenti uomini per informare della libertà recuperata «con le proprie forze» senza bisogno di altri interventi salvo l’aiuto divino, mentre confermava a tutti la volontà di «perseverare» in un atteggiamento di neutralità per poter meglio consolidare il nuovo regime. Piovvero da ogni parte felicitazioni, anche di privati cittadini, vicini e lontani. Dalla Corsica, ove Genova reclutava i suoi soldati migliori, l’entusiasmo lu particolarmente vivo (1). Fra tutti però l'interesse della repubblica si rivolse in particolare alla Lombardia e a Venezia, oltre che alla Francia e a Carlo V. Nella pianura padana, alle spalle di Genova, erano quegli eserciti francesi, sforzeschi e veneziani che potevano disturbare i propositi di riprendere la propria autentica vita. Se la prima comunicazione ufficiale, lo stesso 12 settembre, fu per gli oratori a Parigi, subito il giorno successivo si scrisse a Milano e Venezia. L'azione diplomatica verso Venezia e verso lo Sforza si svolse, sempre parallelamente, in tre momenti: il 13, il 21 settembre, fine dicembre 1528. Il secondo e il terzo momento vennero senza dubbio determinati da particolari circostanze : quello, dalla presa di Pavia e successiva prevedibile mossa contro Genova, questo dall'attacco del 19 dicembre. I concetti ribaditi a tutti nelle brevi lettere che informavano (Iella «riavuta libertà» erano sempre gli stessi: libertà, neutralità, volontà di conservare ambedue, insieme con Andrea Doria (2). A Milano la lettera fu portata da Ottaviano Sauli, che poi doveva proseguire per Venezia. La scelta di proposito forse era caduta su di lui, fratello di quel Domenico Sauli che era stato già implicato nella congiura del Morone e che si interessava molto delle cose di Genova. Senza dubbio presso il duca Sforza le prospettive potevano essere favorevoli. Non fu cosi invece con l'oratore veneto, sicché Ottaviano deviò al campo del Sain Paul, dove consegnò all’altro oratore veneto la lettera destinata a ^Venezia, che venne quindi illustrata solo da quei mercanti genovesi lì residenti, ai quali pure si erano rivolti i 12 Riformatori (3). Ma l’accoglienza nel sena o Genova (1) A. Dona al Duca di Mantova, 12 die. 1528 in .\ebi «a. uoria e ia ç ,, .“óò. sPnesi 15 1899 p. 24): i Dodici al He d’Inghilterra, s. d. ma probabilmente intorno al lo sett. la . ■ dono sett." ai Fiorentini 15 sett.; a G. M. Giberti 10 ott.; al Duca di Savoia s. d e “altra 16 "°enovesi ; aver ricevuto risposta (la seconda è una garbata protesta contro abusi subiti da me « rftmmercio : e due giorni dopo un diploma del Duca concedeva ai genovesi liberta^ di ^passa^ ^ #2iM)4ì : \ c r_ r.......... r < \ / •___i i_______— < • : u. on. (i. iyoy): \ esc. Ue brassis. Monaco il seti, e ou. uumnu/. • < n-nv dòt-niüri ranoorti (Fondo Gavazzo f. 4). Da Bastia (Corsica), Andrea Grimaldi, 2 ott. 1528(filza (varie vennero riallacciati col papa tramite i cardinali Spinola e Grimaldi, tra il sen. e u • arte), lettere e risposte in A.S.G. f. 398). - Persino un poeta, 1’Ariosto (ma non fa ui m «ce .aeni ar^ immortalò 1 avvenimento in tre ottave del suo poema (Ori. Fur. X\ 30-30 . - (Ho molti altri docc. dell’A.S.G. per brevità). (2) Cito per es. corso delle forze rie opinioni de . dalla lettera al duca Sforza: la «desiata libertà» è stata ragg .... ,ie i'e contramilitari di Andrea Doria; i genovesi restano «inclinati a la ne *. . . ,j bene-rincipi, li quali de questa città facevano al continuo designo per . ruina' nostra et d'altri.: essi sono decisi ora a usare capHan stessi et de la patria nostra senza imuria del terzo, in rompagli . Duca Andrea Doria le galere dei quale a questo effecto qui sono et non per altra ca • ' dj' DoMENiCo Sforza 13 sett. 1528 A.S.G. f. 398. Su questa missione presso il duca ved. liautobiografia . 22 Sauli, in Mise. st. ital. tomo XVII p. 27 sgg. e lett. del Senato Veneto al suo oratore in I rancia sett. 1528 in A.S.Ve. Senato Secr. reg. 53. (3) Non ho trovato la minuta della lett. per Venezia nè l’originale ne1! A.S.Ve., in vi è quella (st. data) per i mercanti genovesi li residenti. - A Venezia già • vi vili 491 Ancora zie dal campo sotto Pavia sulla volontà genovese di neutralità; cfr. Sanuto, Diar . - 41 - veneziano fu tutt’altro che incoraggiante, pur non mancando di una certa abilila il modo in cui quei genovesi avevano voluto ricollegarsi a vicende del passato per introdurre la nuova pratica. Ma la signoria veneta rispose esplicitamente che non poteva «se non molestamente udirli». L udienza si era fatta appositamente coincidere con quella dell’oratore francese, il quale fu presente a tutto il colloquio perchè egli fosse confermato «nella fedeltà e desiderio che Genova ritorni a lui» (al re) (4). Nel complesso, dunque, risultato praticamente negativo, con qualche prospettiva più favorevole presso Francesco Sforza, per opera soprattutto di Domenico Sauli. E in questa direzione appunto Genova insistette, allo scopo anche di essere informata sempre in tempo «de li effetti et de li pensamenti de li agenti del campo della lega» (5). Era questo appunto il pericolo più grave che Genova doveva temere in questo inizio di nuova e «neutrale» libertà. Il Doria e il governo genovese non dubitavano punto dell’intervento spagnolo per ricostituire una situazione di vantaggio eventualmente perduta, ma è evidente che dovevano preferire di non essere occupati, piuttosto che liberati. Il Saint Paul costituiva sempre una minaccia con le sue truppe unite a quelle dei veneziani e degli sforzeschi, e non aveva certo bisogno degli incitamenti della signoria veneta per correre in soccorso al Trivulzio, sempre assediato nel Castelletto di Genova. Vi aveva anzi già destinato 3000 uomini dei suoi, e, occupata Pavia il 19 settembre e più libero così nei movimenti, rivolse subito i suoi piani su Genova (6). Ma per singolare fortuna, Venezia con le sue preoccupazioni di prudenza, si incaricò di togliere efficacia alla progettata impresa, perchè vietò al capitano delle sue truppe di distogliersi dagli obiettivi della Lombardia per non compromettere l’occupazione di Milano, ritenuta di non minore importanza (7). Il Saint Paul decideva allora di muovere anche da solo, con quell’infelice risultato che è noto (8). Forse anche difficoltà finanziarie o insofferenza di truppe mal pagate contribuirono a rendere esitante l’azione francese, che non tentò neppure di deviare verso Savona, a soccorso di quel presidio che pure attendeva disperata-mente un aiuto da lui. il 15 sett., ma prima che si avessero le notizie di Genova, il Senato insisteva con la Francia sulla necessità di conservare quella posizione «de summa importantia alle cose della Christ. Maestà e alla comune impresa » (A.S.Ve. Sen. Secr. reg. 53). Ved. anche lett. della signoria veneta al Vitturio nel regno di Napoli, 15 sett. (ibidem). (4) Lett. all’orat. ven. in Francia 22sett. cit.-Negli anni precedenti (forse nel 1526) Genova aveva chiesto a Venezia che non intralciasse i rifornimenti marittimi, ma essa, alleata della Francia, acconsentiva solo a patto che i genovesi « volesseuo eximersi et redursi in libertà cum expellere esso guberno et altri cesarei » ; orbene (dicevano i mercanti genovesi) ora Genova, recuperata la libertà, spera mantenga il promesso atteggiamento benevolo. Ma i veneziani risposero senza veli che a quel tempo la libertà significava «trarsi dal servitio de l’imperatore», mentre ora essa aveva un contenuto politico esattamente opposto. Analogo proposito veneto di non dare ascolto alle insinuazioni genovesi, ma di procedere fermamente nella già delineata condotta, nelle altre lettere del Senato, 22 sett.: agli orat. in Francia, Firenze, Roma, al Saint Paul, in A.S.Ve. Sen. Secr. reg. 53, e al Duca di Sforza, in Sanuto XLVI11 514. (5) Qualche lettera è conservala in A.S.G. filza 398, 15 ott., 20 ott. 1528, e copia s. d. (ma di poco posteriore al 28 ott.); la citaz. del testo è da quella del 20 ott. (6) Cfr. lett. Sen. Veneto al Saint Paul cit. 22 seti, (occorre ricuperare Genova prima che si accresca il presidio militare, «essendo la ditta città la chiave de Lombardia per le cose da mar» e per altri motivi). (7) Lett. al capit, gener. veneto presso il Saint Paul 29 sett. 1528 in A.S.Ve. Sen. Secr. reg. 53). 11 10 nov. poi il Senato ordinava al suo oratore di confutare le lamentele del Saint Paul, il quale attribuiva l’insuccesso deH'attacco contro Genova al mancato concorso delle truppe venete (Ibidem). (8) Rimando alle narrazioni dei cronisti e storici di Genova. Per conferma o lievi variazioni di «articolari ó utile e interessante ascoltare la voce viva delle lettere contemporanee nell’A.S.G. filza 398 e in Lettere di Principi vol. II. - 42 - Come mai a distanza di pochi giorni dalle energiche affermazioni sulla importanza e necessità di ricuperare Genova, fatte non solo all’oratore francese il 22 settembre, ma anche a tutti gli altri agenti, una così notevole correzione della posizione politica veneziana? E’ del 29 settembre il già citato divieto al capitano generale veneto. Che cosa era avvenuto in Quei sette giorni? Non mi pare che abbia potuto influire il progressivo chiari fìcarsi della situazione militare a favore degli imperiali; non vi lu in quei giorni alcun avvenimento decisivo. Penserei piuttosto a motivi di ordine squisitamente politico, nei quali si inserì abilmente una nuova mossa diplomatica genovese, condotta anche questa volta parallelamente a Venezia e presso lo Sforza. Infatti il 21 settembre Genova spediva ancora Ottaviano Sauli al Duca di Milano, al Provveditore dell’esercito veneto e a Domenico Sauli, mentre inviava una seconda lettera al Doge di Venezia incaricando gli stessi Grimaldi, Vento e De Marini di consegnarla. E le importanti istruzioni date al Sauli sviluppano ampiamente, con una insistenza appassionata, il motivo della libertà e neutralità, e della volontà di difesa ad oltranza dell’una e dell'altra (9). Il governo genovese, dicono queste istruzioni, avendo inteso « quanto gratamenti et volunteri» il duca aveva appreso gli avvenimenti genovesi, «perchè havevan da sortire senza iniuria d’altri », intendeva ora ribadire e precisare quei propositi di «libertà cum tuta la neutralità possibile» e pregare i collegati di credervi, «quando ben per altri li fosse fatto contrario officio», «de sorte che ciascheduni di loro et ogni altro tertio potrà senza alchuna geloxia de caxi nostri quietamente riposarsi, non essendo pervenuti a questa disiata forma di viver libera se non per una volta alienarsi da le voglie de Principi che prima segnoregiavansi et tenevansi qu^si in cattività, et non esser cossa ragionevole ne credibile che più a simile appetito de servitù si rinoviamo». E Genova era fermamente decisa a difender la sua libertà con tutte le sue forze («ci havemo non che la ro a lassar ma la vita») e sa di averne la possibilità, «essendo la citta de aiuto externo assai abondevole et per esserne più sopralorniti Ira pochi giorni ». Accenno discreto, quest’ultimo, ma subito seguito da una riaffermazione della neutralità: «noi esser talmente stabiliti in questa nostra forma e vivere neutrale, che poco se li potrà agiongere, nè mai esser per declinale da questo retto pensiero, il quale solo si può dare qualche ristoro a jatture patite, et perciò doversi da ognun facilmente credere questo». Dopo tanta insistenza su queste premesse il documento espone il com pito specifico della missione: eliminare ogni sospetto, anche presso lo stesso Saint Paul, e «obviare ogni cossa che in quel campo si tentasse di aie a danni nostri o imprese per qua». Non facendosi illusioni sul capitano francese, il Sauli doveva chiedere allo Sforza e ai Veneziani di non are il loro appoggio ad azioni ostili dei francesi «o di altri», ben pensan o (9) Attribuisco a questa missione del 21 sett. le Istruz. (senza data) conservate in :1 'invjat0 questo doc. infatti è da notare che: 1) nell’occhiello esso risulta destinato a Otta la . > un al Duca di Milano e Proveditori veneti («per causa importantissima»), mali jes,°.. . ' norja di Simone Doria Bozollo, e cita una precedente missione di Ottaviano presso il duca, i) ' I . ir^os? mano molto recente l’indicazione 1525, assolutamente inaccettabile; ma fiua'e giorno e Domenico Nella lilza 398 vi sono tre minute di lettere (al duca di Milano, al Proveditore veneto e a Domeni^ Sauli) datate 21 sett., brevi presentazioni dell’inviato Simone Dona Bozollo, pero la p^ l , un celiato questo nome, sostituito da quello di Ottaviano Sauli. Chi fu dunque jnv* yi vili 500 primo disegno di spedire il Doria Bozollo perché non ancora rientrato il Sauli (dal Sani; ena risulta che questi riparti da Pavia diretto a Genova solo il 20 sett.), fosse abbandonato rnnnorti ritornato Ottaviano, che venne quindi fatto ripartire immediatamente, non solo a causa del pi di parentela con Dom. Sauli, sul quale Genova intendeva poggiare lo sviluppo dell azione tip ma anche perchè Ottaviano, che aveva avviato la pratica, poteva meglio continuarla. che «senza il loro consenso simili effetti mal ordire nè deliberare si possono». A persuadere delle «oneste» intenzioni genovesi si riaffermava che per venire ad opporsi a minacce di «potentie externe», piuttosto che «ritornare alla pristina forma de vivere, non che l’aiuto de l’imperiali ma de li infedeli impetraria et cum tutto il studio procuraria». Alquanto più breve ma di analoga sostanza, la lettera per la signoria veneta (10). Non ho trovato alcun indizio esplicito sul seguito di questa pratica; l’unica indicazione, del tutto reticente, è nel Sanuto (XLVIII-525) che sotto la data del 24 settembre, scrive che Federico Grimaldi e due altri genovesi si erano recati quel giorno nella Camera del Doge a parlargli segreta-mente, alla presenza di due membri del Collegio, e aggiunge soltanto : «credo zerca le cose di Genova». Che cosa dissero di tanto segreto che non solo non venne messo al corrente l’informatissimo Sanuto, ma neppure venne portata la cosa nelle riunioni, anche segrete, del Senato o del Consiglio dei Dieci ? In mancanza di spiegazioni sincrone, mi sembra che parlino i fatti. Riterrei appunto dovuto alla energia e al calore di questo atteggiamento genovese, il mutamento verificatosi tra il 22 e il 29 settembre, nelle direttive date dalla Signoria veneta al suo Provveditore al campo. Che questa linea di affermata neutralità genovese potesse avere delle favorevoli ripercussioni e sviluppi importanti negli stati italiani, e in special modo a Venezia e in Lombardia (11), e che potesse anzi far ricostituire, questa volta intorno alla indiscussa personalità del Doria, quella coalizione «italiana» che era fallita al Giberti quando aveva puntato sul tentativo del Morone o sull’appoggio francese, allo scopo di costituire una «terza forza» tra le due grandi parti in conflitto, mi parrebbe dimostrabile non solo dalla risonanza e dal fervore di consensi che la impresa doriana riscosse in tutta Italia, di natura tuttavia prevalentemente sentimentale più che politicamente ragionata, ma anche dalla riesaminata politica veneziana e dalla condotta che Domenico Sauli suggeriva allo stesso Doria, come si vedrà subito. Ma se l’animo generoso del Sauli potè per un momento accarezzare questa speranza, il realismo politico del Doria mirava solo a più concrete finalità per la sua Genova. Trovo infatti fra le fonti genovesi un gruppo di due interessanti documenti che gettano una luce singolare su questa fluida situazione. Sono senza data ma della fine di ottobre 1528. Il primo è una copia di lettera «scritta a un genovese», senza dubbio di Domenico Sauli a suo fratello Ottaviano; l’altro è una « particula » cioè una traccia di lettera data ad Ottaviano perchè rispondesse punto per punto alla lettera precedente; essa appare, per il tono e per la sostanza, dettata direttamente dallo stesso Andrea Doria ; anzi mi sembrerebbe tutta scritta di suo pugno, e costituirebbe così fra l’altro un interessante ed importante autografo. Per chiarezza di esposizione indico i punti della prima lettera con la relativa risposta. (10) In A.S.G. filza 398. (11) Ma indipendentemente tra queste due, perché, come si vedrà, Venezia conservava una certa diffidenza per lo Sforza e il Sauli. Nei docc. interni della Signoria veneta (cfr. non solo le filze e i registri dell’A.S.Ve., ma anche il Sanuto, Diarii) lo Sforza veniva indicato semplicemente il « duchetto», e non di rado con l’aggiunta di «pusillanime». - 44 - 1) I francesi sospettano non solo di lui (Dom. Sauli) ma dello stesso duca e perciò è consigliabile sospendere il carteggio del governo Genovese, continuando solo con lettere personali fra i due fratelli. Risposta: si approva quanto è proposto. 2) Ora cbe è occupata Savona, occorre perseverare « in mostrar desiderio de la neutralità», offrendola a Venezia nel modo che egli ne scrive personalmente al Doria, ma tale che sia effettiva, mentre si sentono ben fondate voci di offensiva genovese contro terre dello Sforza: «gravissimo errore, perchè questa non seria via di guadagnare gli animi del resto de la Italia, ma di voler aiutar a subiugar la Italia a la maestà Cesarea » : suo parere è che convenga «servar la neutralità ancora per qualche dì» e non spingere il Duca e Venezia a passi estremi; tanto più che secondo altre voci che contraddicono alla neutralità, Genova avrebbe concesso il passaggio a truppe Cesaree dirette in Lombardia: «questo sarà vostra disperation de far diventar li vostri amici nemici», oltre al pericolo di «far grande tanto lo Imperatore che restate poi ancor voi a la discrétion sua»; Gavi e Novi e Serra vai le e Pontremoli li riavrete col tempo e con mezzi pacifici che vi costeranno meno che con espugnarli. Risposta: Quanto alla neutralità verso Venezia «se li harà bona consideratione cum risguardare le cose antecesse cum quella Signoria de che havete piena noticia»; quanto ai movimenti di truppe genovesi, si riafferma che non sono per «offendere» il Duca, e d’altra parte essi sono di lieve entità e limitati strettamente al territorio genovese, il che non viola la neutralità; quanto alle truppe cesaree non se ne ha notizia; e comunque «non sapemo corno potessimo denegare ad alcuno il transito de nostri paesi cum voler servare questa neutralità la quale pare che comporti non oponersi ad alcuno». 3) Dopo alcune questioni minori, il Sauli ripeteva infine le sue preoccupazioni per le non chiare intenzioni del governo genovese verso lo Sforza, per cui chiedeva di essere informato di «ogni disegno che si facci» per poter prendere gli opportuni provvedimenti contro i sospetti veneziani e francesi. Risposta: si rimanda a quanto è precisato più sopra (12). Vien fatto ora di osservare: 1) che cosa vuol dire nelle parole del Sauli «servar la neutralità ancora per qualche dì et non disperare questo Duca e Venezia che desiderano il bene vostro?»; 2) la risposta del Doria sul punto della neutralità verso Venezia non dice nulla di concreto e gira il discorso; le altre risposte, pur in buona forma, respingono in sostanza i timori del Sauli senza smentirne il fondamento. Comunque, da tutto il contesto della risposta appare innegabile che il Doria, non volendo rinunciare ad una politica «genovese», si sottraeva al punto essenziale, cioè all’implicito invito del Sauli a collaborare per porre un argine allo strapotere di Carlo V, dopo la prevedibile sconfìtta di Francesco I a breve sca- (12) In A.S.G. f. 398. - In una lett. da Lodi, 28 oli. 1528, diretta al Doge e Procuratori di Genova, (pubbl. nel G.S.L.L. 1881 p. 2G7, dove però la posizione d'archivio è errata: si trova nella filza 1959, non nella f. 5 dell'A.S.G.). Dora. Sauli li prega di sospendere la corrispondenza con lui, secondo quanto scrive a Ottaviano, «perchè cosi facendo sera con più dignità de le Exc. Vostre et con cautione mia». Senza dubbio il primo dei due docc. indicali da me nel lesto è la leltera cui qui il Sauli si riferisce. - Quanto alla mano che ha scritto il secondo doc., il solo confronto con le firme del Doria dello stesso periodo non è sufficiente per una sicura attribuzione, pur non escludendola esplicitamente. Attendo di poter confrontare un testo di qualche riga almeno per poter dimostrare ciò che mi pare più intuito che provato. - Non è conservata la lettera al Doria cui fa cenno quella di Domenico a Ottaviano. - 45 - enza. Evidentemente il Sauli mostrava di interpretare l’atteggiamento genovese come un elemento decisivo per inserire ora nel conflitto franco h lvr^'C° -Un I‘nnova*° tentativo di politica «italiana» con maggiore probabilità di successo. Ma Genova era veramente sincera nei suoi propositi di neutralità? o meglio, era sincero il Doria, che ispirava quella politica? Mi riservo di riprendere questo interrogativo nella conclusione di questo studio, perchè è qui, io credo, il punto centrale di una interpretazione della figura politica ed umana di Andrea Doria. Per il momento intanto le cose restarono ferme fino al 19 dicembre. In quel giorno verso sera, di sorpresa, il Saint Paul, partito da Alessandria dove si era ritirato (13), si portò sotto Genova con marcia rapida attaccandola « con la solita furia francese». Datosi subito l’allarme, i suoi 3000 uomini vennero respinti, dopo aver rovinato i sobborghi e in particolare il palazzo stesso del Doria (14). E pochi giorni dopo troviamo una terza mossa della diplomazia genovese, ancora contemporaneamente a Venezia e presso lo Sforza. Non ho trovato documenti genovesi, ma da quelli veneziani non è difficile ricostruire il breve colloquio diplomatico. Il 28 dicembre il Consiglio dei Dieci a Venezia (non più il Senato questa volta) venne informato di un messaggio del Doria per il doge Gritti che dichiarava la «bona voluntà» genovese verso Venezia e invitava a valutare nella sua realtà la natura universale e pacifica della dignità cesarea nella persona di Carlo V contro il quale Venezia, come alleata della Francia, si trovava in lotta. La risposta veneta fu mollo diplomatica restando nello stesso schema alquanto equivoco della questione proposta; il tono era certamente diverso da quello di tre mesi prima. Il doge infatti, nel ringraziare il Doria della «bona voluntà» egualmente ricambiata dai veneziani, doveva assicurarlo che essi già erano «observantissimi de la imperiai Maestà et desiderosissimi de una bona pace universale» (15). Una analoga proposta doveva essere contenuta nel messaggio allo Sforza, che possiamo ricostruire dalla comunicazione che la signoria veneta ne fece al suo oratore presso il duca manifestando la sua soddisfazione per la prudente risposta data dallo Sforza (16), mentre lo ammoniva di non cadere nei lacci di un abile politico qual era il Doria, «cognoscendo che tutti sono artifìci per dissolver la union de Sua Excell. cum el re Chri-stianiss. et confederati a fine de redurla a quelli termeni che convengono portar la ruina sua et de tuta Italia»; e gli si confermava il desiderio di vederlo reintegrato nei suoi stati (ma tre mesi dopo, in forma segretis- (13) Il 13 ott. 1528 in un consiglio di guerra il comandante francese informava i colleglli del malcontento dei suoi soldati desiderosi di lornare in Francia perché privi di un punto di appoco in quella terra straniera, e chiedeva perciò al duca Sforza la concessione di Alessandria. Il Co'nsMio dei Dieci appoggiò questa richiesta (A.S.Ve. Cons. X secr. reg. 2). ° (14) Cfr. lett. A. Doria a Carlo V, 20 die. 1528 nel Gayanqos III, II 8G7; lett. gov. senov die a»li oratori in Francia (A.S.G. f. 398). D 8 ' D (15) «Et speramo chel nostro Segnore Idio indurà la prefata Ces. Maestà, et lev per la sin*nilar bontà sua devenirà a tal salutar effetto per beneficio de la Christianità », al quale scopo anche Venezia avrebbe fatto tutto il possibile. Il messaggio era stato portato da Stefano Cattaneo. A.S.Ve. Cons. X secr. fdza 2. (1G) 11 duca aveva risposto «cum prudente forma, che la die liaver respecto de non contravenir el honor suo, cum el quale la non doveva cercar la gratia del Imperator senza consentimento — 46 - sima, Venezia si diceva disposta a lasciar mano libera alla Francia nello stato milanese in cambio dell’impegno francese di liberare 1 Italia dalla servitù dell’imperatore; inutilmente, perchè la Francia aveva già avviato allora i negoziati delle due principesse!) (17). Ancora, per valutare giustamente questa diffidenza veneziana per le proposte del Doria, si deve considerare che: 1) proprio nei medesimi giorni in cui Domenico Sauli esortava il Doria a non insistere nei propositi di ricuperare tutti i luoghi di confine, e il Doria lo assicurava che la cosa non doveva suscitare preoccupazione, 1 ammiraglio genovese esprimeva a Carlo V la sua fiducia nella «totale expulsione dei nemici da queste parti », mentre le istruzioni che il governo dava ai suoi capitani erano tutte per portare a termine la campagna di ricupeio integrale dell’antico territorio genovese (18). 2) Con la stessa lettera e quindi negli stessi giorni in cui il Doria assicurava il Sauli di non saper nulla di truppe cesaree per Genova, egli suggeriva a Carlo V una proposta audace che avrebbe cacciato i francesi da a Lombardia e li avrebbe posti «in grande confusione», cioè l’invasione de a Provenza con un esercito integrato di truppe genovesi, napoletane e spagno e (queste ultime di imminente arrivo a Genova). E su questo progetto insi steva il 2 e il 20 dicembre (il giorno dopo l’attacco del Saint Paul!). 3) Il 2 dicembre il Doria informava Carlo V di aver avuto grandi offerte dalla Francia perchè aderisse alla lega antimperiale o almeno res asse neutrale in cambio del riconoscimento della attuale libertà e integuta er ritoriale. La risposta era stata quale esigeva il suo «onore e riputazione», cioè un netto rifiuto (19). 4) In altra lettera a Carlo V informava che a riprova della protezione divina sulla causa dell’imperatore, in quello stesso giorno in cui Genova veniva attaccata, sbarcavano fanterie spagnole, insieme con le quali (aggiun geva in cifra) egli aveva fiducia di cacciar via i francesi da Alessan ria ancor prima della primavera, d’intesa col De Leva (20). 5) nella stessa lettera informava di aver «incaminato la pratica de Venetia» con tatto e moderazione, e appena avuta risposta si consulteie e col Principe di Orange (21). Il Doria aveva dunque scoperto troppo il suo gioco con i veneziani. Rimando anche questo interrogativo alla conclusione del mio lavoro. E intanto Genova andava ricuperando, lentamente ma inesorabilmente, tutte le sue antiche posizioni confinanti, con una campagna che duro per (17) Venezia agli oratori in Francia 22 apr. 1529 (non senza qualche «oblatione alla Signoria no stra» !). A.S.Ve. Cons. X secr. filza 3. (18) Andrea Doria a Carlo V 28 ott. 1528 nel Gayangos p. 824. (19) Inoltre augurava completa vittoria, tanto più die Dio mostrava di proteggere la «giustizia della nostra causa ». A. Doria a Carlo V 2 die. 1528 nel Gayangos p. 859. (20) A. Doria a Carlo V 20 die. (nel Gayanoos p. 867). (21) Anche ai primi di marzo 1529 il Doria si adoperava in favore di una pace « imperiale » : slava trattando con la duchessa di Urbino e progettava sondaggi anche presso i fiorentini. Lett. a Lario , 3 marzo 1529 nel Gayangos p. 913. - 47 - buona pai le del 1529, condotta da Agostino Spinola (22). E di pari passo andava la i ioiganizzazione amministrativa, con l’invio di commissari civili o col darne i poteri agli stessi comandanti militari. Degno di nota è che le truppe appaiono di solito non straniere, ma assoldate nello stesso territorio genovese. Particolarmente entusiasti si erano offerti i Còrsi. Le popolazioni stesse d’altra parte, stanche di tanti anni di disorganizzazione amministrativa (poiché in queste regioni si ripercuotevano moltiplicati i disordini delle fazioni cittadine) venivano accettando non malvolentieri la nuova situazione che prometteva e già assicurava ordine, tranquillità e giustizia soprattutto. I documenti di questa ripresa di attività giurisdizionale nel campo privato sono numerosissimi, attività che veniva sapientemente orientata dal Magistrato dei Supremi Sindicatori (23). I risultati furono in realtà durevoli, non solo perchè i criteri della pubblica amministrazione risultano aperti ad una notevole comprensione delle esigenze anche del popolo minuto, ma anche per la contemporanea riorganizzazione amministrativa della capitale: non si avranno più in queste zone confinanti, riottose insofferenze di feudatari semianarchici, ma la presenza vigile e pacificatrice di uno stato centralizzato. Il Saint Paul frattanto, dopo aver messo ancora in allarme la città nei primi di gennaio 1529 suscitando un po’ di panico ma senza gravi conseguenze (24), abbandonava le mire su Genova per puntare su Milano, ma qui fu ben contenuto dal De Leva e dovette attendere che passasse l’inverno. In primavera, oltrepassato il Po, occupava Mortara e puntava ancora su Milano, ma per la forte resistenza incontrata si contentò di assediarla, mentre le voci della venuta in Italia di ambedue i sovrani incoraggiavano a vicenda 1’ una e 1’ altra parte (25). Verso la metà di giugno però il comandante francese, improvvisamente e senza consultarsi con gli alleati decideva di muovere contro Genova, forse per approfittare della lontananza di Andrea Doria, partito l’8 giugno per andare a rilevare Carlo V a Barcellona. Ma presso Landriano, a 20 miglia da Milano, il 21 giugno, la sua avanguardia venne sorpresa al passaggio del fiume Lambro da reparti leggeri del De Leva, il quale sopraggiunse con tutte le forze sull’esercito francese in marcia e lo sconfisse, prendendo prigioniero lo stesso Saint Paul (26). Questa sfortunata giornata spense definitivamente ogni speranza francese di risolvere il conflitto sul piano militare. I veneziani, lo Sforza, i fiorentini da soli non potevano nulla; nell’Italia meridionale i francesi, pur con qualche parziale successo in Puglia, non potevano sostenersi senza soccorso di denari e di truppa: due mezzi dei quali proprio ora Francesco I scarseggiava. Con le armi e la diplomazia Carlo V, più deciso e fermo nei (22) Cfr. varie istruzioni e deliberazioni su questa azione volta a ricostruire l'antico territorio, durata circa un anno in A.S.G. vari fondi: p. es. Ms. 653, litterarum reg. 1835,1836; litterarum filze 1959,1960. (23) La filza 1 del Fondo Supremi Sindicatori, in A.S.G., contiene numerosissimi documenti sull’attività di questa magistratura, della quale il Doria era membro a vita ; ved. in particolare la totale amnistia del 19 marzo 1529, rinnovala il 17 marzo 1530 (A.S.G., Litt. reg. 1837). (24) Cfr. sospensione delle curie, 8 genn. 1529, per l'allarme del giorno precedente (A.S.G., Divers, reg. 702). (05) cfr. lett. A. Doria a Carlo V 7 febbr. 1529 (in Gayanqos p. 892); J. Salviati al Castiglione, 22 die. 1528 in Lettere Castiglione cit. Il 157 (ved. anche ivi p. 165); Brandi 270. (26) Cfr. Lett. della Signoria Veneta al suo orat. presso il duca 21 giugno 1529 in A.S.Ve. Cons. X se<*r. ad arimmi. - llelazioni sullo scontro di Landriano; lett. del gov. genov. al Doria e a Sinibaldo Fieschi 26 giugno A.S G. lilza 398, e lett. del Doge Grilli al figlio Alvise a Costantinopoli 28 giugno A.S.Ve. ibidem. - 48 - propositi e nell’azione, favorito da migliori comandanti e da più sicure posizioni strategiche, a soli nove mesi dall’acquisto del Doria aveva rovesciato la situazione critica dell’estate 1528. La politica francese, che rivelava già una certa stanchezza, non impegnatasi a fondo nella soluzione del dilemma Genova o Milano come obiettivo dell’azione militare, faceva mancare truppe e denari: questi troppo lesinati dalla leggera o corrotta amministrazione centrale e troppo mal usati dalla prodigalità del Saint Paul, quelle ormai troppo inferiori alle forze imperiali, che potevano essere rifornite grazie al dominio del mare e alla sicurezza dello sbarco a Genova. La parola, se qualcosa si voleva salvare, doveva essere alla diplomazia, tanto più che anche il papa usciva dal suo atteggiamento eternamente oscillante e perplesso per accettare il fatto compiuto: la ragione del più forte e del più abile. Siamo alla vigilia degli accordi di Barcellona e di Cambrai. Ma prima che gli avvenimenti militari rivelassero la superiorità di Carlo V e la diplomazia la confermasse, e mentre nei negoziati già in coi so con l’impero la Francia si preparava ad abbandonare al loro destino Venezia e gli altri stati italiani (27), essa faceva un ultimo tentativo pei cercare di scardinare nel suo punto più delicato, cioè in Genova, tutto il sistema politico e strategico di Carlo V. E’ un episodio del tutto sconosciuto, svoltosi con tale carattere di improvvisazione, da indicare che la situazione ormai sfuggiva al controllo del governo francese. Infatti, mentre i tempi stringevano e Francesco I poteva vedersi messo di fronte ad una intesa tra il papa e l’imperatore, prossimo a veniie in Italia vittorioso e perciò centro irresistibile di attrazione per i vari stati italiani, egli progettò, facendo perno su Venezia, un’azione diplomatica complessa: 1) stimolare un contributo veneziano più efficace per un attacco diretto contro il territorio spagnolo; 2) premere su quella Signoria percie restituisse Cervia e Ravenna al papa per diminuire i motivi che potevano allontanarlo (28); 3) ottenere o piuttosto imporre una mediazione veneziana per ricuperare o almeno neutralizzare Genova. Infatti il 22 maggio 1529 i due residenti francesi a Venezia, 1 Ayranches e il genovese Gian Gioachino da Passano, presentavano improvvisamen e al Consiglio dei Dieci una minuta di lettera che la Signoria doveva ricopiare e inviare a Genova; il latore doveva essere Federico Grimaldi, non solo perché «senza rumore» egli riferisse a voce «molte cose», ma ancie per poter avere immediatamente con lo stesso mezzo una risposta. Di honte a questa pressione, che si aggiungeva a quella per Ravenna e Cervia, e forse per rendere più accettabile un rifiuto su questa, il Consiglio dei Dieci, pur senza molto entusiasmo, dovette acconsentire, ma pose una precisa e significativa condizione: cioè che quella minuta fosse sottoscritta dai due ambasciatori francesi. Venezia intendeva scaricarsi cosi di ogni responsabilità e farla assumere intera da parte della Francia. E il documento, nel- (27) 11 2 giugno 1529 la signoria veneta esprimeva la sua apprensione per le voci di un accordo che la escludeva dalle trattative. A.S.Ve. Cons. X segr. reg. 3. (28) Per questo scopo venne inviato Teod. Trivulzio (cfr. lett. di questi al Montmorency 11 marzo 1529 in Molisi, Docc. Il 146), che, dopo qualche esitazione, iniziò i negoziati il 27 apr., dando cosi non poca « molestia» alla Sign. Veneta (cfr. Delib. Cons. dei Dieci 4 maggio A.S.Ve. Secr. reg. a. 1529); ved. ie ampie relazz. al re Francesco I 6,10 e 11 maggio (in Molini, Docc. 11 177-189) e le interessanti lettere da Roma in Lett. Principi II (spec. 14 magg. a c. 164v). - 49 - C^' (ll.lc*’a repubblica, pur tanto gelosa della sua indipendenza, porta le fu mé dei due diplomatici stranieri (29). contenuto di questa lettera, dopo ampie premesse sulla «gran pos-s nza i mancia» gravemente offesa da Genova e quindi da «placare» e «paci icaie» prima che si aumentasse lo sdegno, il che avrebbe reso disperata ogni «composizione», insinuava che tuttavia non mancavano possibilità lavorevoli di «remover molte difficoltà» se Genova volesse fare appello a a «bontà et clementia» del re francese congiuntamente alla «intercession» dei \ encziani, offerta «con ogni charità», essendo essi «amorevoli et stu-!Osi» eli Italia, la quale già ebbe dai genovesi «grande ornamento et commodità», cui si contrapponeva ora il «periculo» della loro situazione. «Mossi adunque et dal publico interesse et da quella amicitia che per ben di questa nostra afflicta Italia tra nuj voressemo veder continuare», si invitala il governo genovese a intraprendere una «strada de securezza», «usando qualche bona opera». Eia una mossa non preceduta da alcuna preparazione diplomatica, ed eia in sostanza nient’altro che una confessione di debolezza della Francia, che pei di più rivelava incomprensione del carattere genovese ed in particolare del Doria: pretendere, in condizioni di aver bisogno, di avere il i iconoscimento del torto da parte di chi doveva dare, era, mi pare, per Io meno cieca presunzione. Il Grimaldi, giunto a Genova il 17 giugno, ebbe a voce dal governo genovese la conveniente risposta che coglieva la contraddizione : l’amicizia offerta ora era stata negata invece pochi mesi prima: «si accettava il bono animo di quello Excelso Dominio, il quale però saria stato più in tempo et meglio acomodato che avessero acettato farlo quando li fu scripto al tempo de sopra, e che al presente non accade nè si è in tempo procedere in simil pratiche». La lettera al doge Gritti, in forma più attenuata, ripeteva gli stessi concetti (30). Il Doria, che era assente perchè già partito per Barcellona, non avrebbe certamente risposto in modo diverso. § 3. — L’incidente diplomatico per Lope de Soria. Un significativo episodio, proprio agli inizi della nuova situazione, rivela il mutamento profondo che si sta operando nella vita politica della repubblica genovese. (29) «Minuta di lettera per coperta de m. Federico qual sa le pratiche de Genova» 22 ma»«io 15*>9 in A.S.Ve. Cons. \ secr. filza 3. - L’originale, su pergamena, lievemente diverso nella grafìa (più italiano) in A.S.G. m. 2797. La questione fu tenuta segretissima : il Sanuto, che pure non ignora le discussioni per Ravenna, annota al 22 maggio l’udienza agli oratori di Francia e, « da poi” disnar » il Consiglio dei Dieci «fin bore 24, in materia secreta, che nulla volseno dir* (LI, 348). (30) Lett. ad Andrea Doria 17 giugno 1528: una delle minuziose e assai frequenti relazioni (d'ordine esplicito del Doria) che il gov. genov. faceva aU’ammiraglio sulla situazione politica interna ed estera, quando egli era assente. Anche la situazione interna dava qualche pensiero: poco prima era stata scoperta una congiura di un certo Montano in rapporto con Cesare (Fregoso?), ma gente di bassa condizione. Nessuna grave preoccupazione, in fondo, ma la lettera lascia trapelare una certa apprensione e termina con queste parole: «voressimo che Vostra Eccell. fusse di qua per poter dormire quieti». - La minuta della risposta al Doge Gritti s. d. ma non posteriore al 19 giugno in A.S.G. f. 398. Cfr. anche l’unica notizia finora edita (assai vaga), in un avviso anonimo da Genova del 19 giugno 1528, in Momni Ap/i. p. 155. - Nel ritorno il Grimaldi, costretto a fermarsi a Mantova (forse per la insicurezza delle comunicazioni), spediva di fi a Venezia la risposta genovese (cfr. Saxoto, Diarii, 1.1. 11). Nell'agosto, poi, il Doria, rientrato in Italia con Carlo V, riprendeva contatti con Venezia tràmite lo stesso Grimaldi (cfr. Sanuto, ibid. 412, 413, 580), non so con quali proposte: non crederei per sconfessare l'atteggiamento assunto dal gov. genov. in sua assenza; penserei piuttosto ad una sua personale politica filo-asburgica (anche per questo punto rimando alla conclusione). Le fonti genovesi tacciono, almeno da prime ricerche, che non ho potuto estendere perchè ora mi preme soprattutto, nel fissare le linee fondamentali della nuova politica genovese, rilevare il mutato tono di essa di fronte alle altre potenze. 4 - 50 - L’ambasciatore cesareo a Genova Lope de Soria in lutto il peno o e dogato di Adorno era stato una spina fastidiosa per i genovesi, stiumen o attivo della influenza spagnola: carattere superbo e inframmettente o ave vano giudicato i genovesi. Una lettera del novembre 1523 fa *raPe sospetto e scarsa delicatezza verso Genova, pur formalmente indipenden e ( > E non erano mancate neppure espressioni di diffidenza; certamente o s ess imperatore era più accorto e prudente nel trattare i genovesi. . n pa®e de Moncada si mostrava più comprensivo che non l’ambasciatole, appunto che il Moncada si riferisca a quest’ultimo quando vuol gius i i certe difficoltà del governo genovese (2). . Questi vari indizi fanno appunto pensare ad un compoitamen o^ ^ i genovesi dovettero subire perché non potevano opporvisi ; ma se n cordarono al momento opportuno. sotto Ritornata ora Genova nella sfera d’influenza asburgica, e Savona il dominio di Genova, Lope de Soria si rifà vivo il 12 novembre Per^ ^ dere il gradimento genovese al suo ritorno secondo l ordine avu ^ Principe d'Orange. E in un’altra lettera, diretta personalmente ao forma assai riguardosa, quasi presentisse un rifiuto, lo pregava i P nQ giare la sua richiesta, lasciando a lui di giudicare l’opportuni a vers0 della cosa, non dimenticando di assicurare le sue buone disposizion la « libertà » di Genova (3). . . n era La risposta dovette essere una doccia fredda: il ritorno di ui avjcjn0 gradito. Il rifiuto gli venne comunicato, a voce, da Vincenzo a era’ inviato dal governo incontro a lui a Montoggio, dove lo spagno 0 & ^ arrivato, troppo speranzoso forse che non si sarebbe osato ^esP,n° jetio veniva in nome dell’imperatore. Nelle istruzioni al Pallavicino e j semplicemente che la venuta di Lope non era «a proposito», °.‘vere tempi erano ben diversi e ora Genova era tornata «al m°'c*° 1 . repubblica di novo istituita» (si noti la discrezione di quel « A conteneva un implicito severo giudizio del dogato di Antoniotto < oso» a Lope de Soria era «indesiderato» perché «stato longamente as frena{0 causa di favoreggiamenti e parzialità, coperto o non abbas anz «da chi governava allora» (5). . , virerà spagnolo A Napoli il rifiuto genovese venne comunicato al (1) Lope de Soria a Carlo V 13 nov. 1523, in Colección de documenlos ineditos, vol. 2i p-Levati, Dogi perpetui di Genova, p. 535. se ver£ el (2) « Asi que otros escriben a V. M. otra cosa, yo para mi alcanzo esto, j 8 rì^odo in cui questo quel acertó ». Non escluderei una scarsa intesa tra il Moncada e il Soria; cir. n»e ; ora che lui comunica la morte del viceré nella battaglia navale di Capo d’Orso (dice espi nulla che non è morto, le cose andranno meglio!) Ma finché era vivo, nelle lettere del sona certo sprezzante sia riguardoso verso il Moncada, mentre questi non lo nomina mai, quasi con silenzio. Cfr. lettere nella Colección cit. vol. 24, spec. 17 giugno 1528. rjen- (3) Lope de Soria al Doge e Govern. di Genova, da Borgo Valditaro 12 nov. 1528 .1 or ^ Capitano trare a Genova («come io stavo de prima») veniva dal Principe d'Orange, vicere t della lettera generale delle forze imperiali in Italia. - Lope de Soria al Doria, st. data: invia l . suoj miniprecedente perchè giudichi sulla opportunità o meno della cosa: «la cesarea mae honore stri non hanno a pensare di alterare niente eccetto di aiutarli in tutto quello cne si ^£arja di questa Ecc. Republica et etiam io, come afìettionato di tutti, sempre mi adoprer i un altro in tutto al bene et servitio suo». Ambedue le lett. in A.S.G. filza 19dJ. f 2757-A » (4) Lett. a Lope de Soria 17 nov. 1528 in A.S.G. f. 2707.C ; istruz. a V. Pallavicino 17 nov. in • n^va lett. a Filiberto d’Orange s. d. ma probabilmente 17 nov. ibidem (« in questo pr;tncij> ^ con. instituta republica si bisogna haver di molta consideratione a ciò che gli animi de cn* venjre come servin in questo bon proposito; non è parso permettere chel venghi», giacche vorreDDe nei passali tempi, « in li quali la città nostra non ben si governava »). (5) Istruz. a M." Centurione e G. B. Grimaldi ambasciatori a Carlo V ; essi dovevano ®|!*!?|Ie^igO' revoca di Lope « per non dare alterazione alcuna in la città, massime in questi principj ni gnosi della satisfattone universale ». 1528 (intorno al 12 die.) in A.S.G. f. 27o7.A. - 51 — dall inviato genovese che stava negoziando un permesso d’importazione di grano, secondo le assicurazioni poste nel contratto di «asiento» del Doria. La prima impressione del Viceré fu di «sdegno»: evidentemente l’Orange non poteva incassare il colpo senza alcuna reazione. Ma nei giorni successivi, in seguito alle ragioni del Lercaro, si calmò, affermando che se avesse immaginato «altération o ombreza di sua libertà» da parte di Genova, non avrebbe destinato il Soria per quella missione diplomatica, il cui principale motivo era solo quello di rendere più agevoli le riscossioni di denaro per conto dell’impero, giacché Genova era appunto una delle piazze più importanti. Visto il contrario parere del governo genovese, vi si conformava, assicurando che stimava tanto «la conservatione et libertà» di Genova, «quanto quella del li regni propri di Sua Maestà et non altramenti». Non meno vivo dovette essere il disappunto del Soria. La sua risposta, per quanto in termini molto diplomatici, non riesce a nascondere quel risentimento che trapela fra le righe e nel tono stesso della lettera, che risulta anche psicologicamente interessante. Egli volle, comunque, sostenere che la sua venuta era solo provvisoria (ma la lettera precedente parlava ben diversamenteI) e non per i suoi «commodi particulari», né tanto meno «mendicata» (ne era stato sollecitato «con molta istanza», aveva già scritto al Doria), ma era solo nell’interesse dell’imperatore, perché solo in Genova si potevano più facilmente « negociare alchune cose che in altro luogo d’Italia non se poleno fare, cosi per la commodità del luogo come per la generale affettione che più in questa cità che in altra si porta alla prefata Sua Maestà»; onde non gli sembravano sussistere le ragioni addotte « maxime eh’ io mi persuado che Vostre Signorie debbono conoscere la bona voluntà et affetione che la Cesarea Maestà tiene a questa cità et che li suoi ministri non hanno ardire a fare nè praticare cose che siano contro la voluntà et intentione di quella»; e quanto a sè, non si doveva avere «gelosia», perché egli non intendeva mai «preterire l’ordine et voluntà di Sua Maestà, nè eliandio per mia voluntà faria nè pensaria cosa che fosse contra questa eccelsa republica, per l’affettione ch’io in verità le porto, et di questo ne poleno essere ben certi e sicuri tutti » ; pregava quindi che per riguardo «al servitio» dell’imperatore si riesaminasse la questione. Non mancava, ad un certo punto, un discreto accenno alla necessità di parlare col successore per informarlo bene di tutto (6). Ma Genova non ritornò sulle sue decisioni. Nel febbraio successivo Carlo V firmava le credenziali del suo nuovo ambasciatore, don Gomez Suarez de Figueroa. Nelle istruzioni segrete l’imperatore, pur rilevando che le ragioni addotte dal governo genovese gli erano apparse «insufficienti », tuttavia le accettava, affidando al Figueroa il principale compito della «preservazione e difesa» della repubblica genovese (7). Fu questo il primo gesto che delicatamente ma fermamente richiamava la politica imperiale al rispetto di quella «libertà» che era stata riconosciuta da Carlo V nel contratto col Doria. Ed era un atteggiamento che aveva impegnato tutto il prestigio della rinnovata repubblica. (fi) Fil. di Chalons al Gov. genov. 6 die. 1528 in A.S.G. ras. 653 c. 1665. - Lope de Soria al Gov. genov. da Montoggio 18 nov. in Alza 1959. (7) Credenziali per il Figueroa, Toledo 21 febb. 1529, in A.S.G. mazzo 2777. - Istruz. segrete, 1529, nel Gayanqos p. 917. - 52 - Ma i rapporti tra Genova e il Soria ebbero ancora un seguito non privo di interesse. Nel marzo 1529, saputa la missione del Fieschi in Spagna, egli scrisse di dover venire a conferire con lui. Quella lettera lascia vedere in qualche punto un singolare accento tra ironico e dolce-amaro: non meravigliatevi, egli scrive, della mia venuta, della quale son sicuro vi rallegrerete, «massime» perché io non vengo per risiedere costì né per altro scopo se non per parlare al conte Fieschi e poi tornarmene «subito» qui (si notino quel «massime» e quel «subito»!); potete anche esseie coiti che il mio colloquio gioverà a voi in generale e in particolare, per I amore e affezione che a tutti porto (8). La repubblica genovese, tuttavia, affermato un principio che restera fermo nella sua politica (la tutela della dignità sovrana), volle mostrare, con un gesto di cortesia diplomatica, che per essa il passato era morto. Infatti, tornato Lope a Piacenza, essa lo pregava di volersi consideiaie sempre amico di Genova col tenerla informata delle notizie che gli pervenissero in queirimportante centro d’affari, nel cuore della pianura padana (9). E lo stesso Lope, del resto, fu obiettivo quando riferiva al suo sovrano il 21 marzo (aveva constatato di persona gli umori dei genovesi) che la maggioranza della cittadinanza sembrava soddisfatta del nuovo governo, nonostante qualche segreta intelligenza con i francesi da parte di alcuni che non potevano soffrire l’autorità del Doria; ma finché questi conservasse! supremo potere, non vi era pericolo; solo la morte o il ritiro di lui pote\a far risorgere la discordia fra i cittadini (10). , ,. Ma le preoccupazioni dello spagnolo furono rese vane dalla realta i quella solida costruzione che, fondata su una totale e generale amnistia ci tutto un passato, e parzialmente mutata solo nel 1547 e 1576, durerà o tie due secoli e mezzo e che per i primi trent’anni avrà lo stesso Doiia presidio vivente della dignità e di quel tanto di indipendenza che uno stato italiano poteva conservare nel sistema politico della Europa asburgica. § 4. — Genova e Carlo V subito dopo il 1528. Prima del settembre 1528, se pure Genova tentò qualche volta un atteggiamento indipendente verso la Spagna, si trattava di resistere a eccessive pressioni che potevano compromettere interessi vitali, cioè quelli economici, ma nel loro complesso i rapporti con l’impero erano dominati dalla prepotente influenza di questo, che non aveva del resto bisogno di impone una sottomissione giuridicamente dichiarata: nè Genova trovò mai in sè la foiza di ricordare al potente sovrano la propria dignità di indipendente repubblica. Ma dopo il 1528 la politica genovese, anche nei confronti dell Impero e della Spagna, cambia radicalmente di tono e di sostanza. Non vengono meno, certamente, le affermazioni di fedeltà e di «affettione» alla causa di Carlo V, di «devotione» anzi di identificazione delle sorti di Genova con quelle dell’Imperatore (1), ma sempre contemporaneamente si insiste sulla (8) Lope de Soria al gov. genov. Piacenza 2 marzo 1529, A.S.G. f. 1959. (9) Lelt. a Lope de Soria, 27 marzo 1529 in A.S.G. f. 398. (10) Per questo motivo consigliava di fissare un governatore che tenesse in ordine la città, il che era, del resto, il desiderio degli stessi genovesi; Lope de Soria a Carlo V 21 marzo 1529, nel (iAYAimjos, III, II p. 936. - Quanto al Doria, si tenga presente però che il suo era un potere di fatto, non di diritto, giacche, rifiutata la carica di Doge, accettò solo quella di membro a vita del Magistrato dei Supremi Sindicatori. (1) « La nostra, anzi la vostra republica », scriverà Genova a Carlo V il 15 die. 1528 nel ringraziarlo delle congratulazioni per la ricuperata libertà (A.S.G. f. 398). - 53 - « ricuperata libertà », sul nuovo regime e soprattutto fin dall’inizio si ricorda che Genova deve, sì, molto alla buona volontà e alla protezione dcl- 1 impeiatore, ma la restaurazione della libertà era stata onera dei soli genovesi. Elìettivamente si avverte nei documenti posteriori al 1528 un accento nuovo, quasi direi più vivo e sentito, specialmente là dove la fiducia nella bontà e giustizia della propria causa dà vigore alla parola. I genovesi ora credono nella loro liberta, in quanto liberamente aderiscono alla politica asbuigica, perché riconoscono in questa adesione la garanzia della loro vita e della loio stessa libertà. Si precisa, sempre con una insistenza significativa, che Genova è sì «suddita» ma dell’« impero », cioè di quell’ organismo feudale e cristiano che costituiva ancora, nella prima metà del secolo XVI, una riconosciuta autorità supernazionale che non distruggeva la indi-pendenza e I autonomia dei singoli stati facenti parte della comunità cristiana. Le affermazioni ufficiali del governo e le espressioni della sua diplomazia sono ben convinte di questa realtà, non soltanto a parole ma anche nelle direttive e nella concreta condotta degli affari politici. E Carlo V, se pur ebbe qualche dubbio nel momento di assumere al suo servizio il Doria, venne presto disingannato : nei suoi rapporti con Genova finì col rispettare I autonomia della repubblica pur riaffermando sempre per sé quella sovranità del Sacro Romano Impero, «protettore» di Genova. Ma questa protezione, come è noto, non contraddiceva alla libertà comunale (2). Tre giorni dopo l’occupazione di Genova una breve lettera all’imperatore segnava le linee fondamentali di questi rapporti ed è ben lontana nello spirito da quell’altro primo documento del 1522 (la lettera di Carlo V del giugno), che anch’esso aveva fissato la situazione politica di Genova nell’ambito della influenza spagnola. Ora Genova è lieta di comunicare di essersi « ridutta al suo antico modo di vivere, iecuperata la pristina liberta, scioltasi da ogni servitù », grazie alla Divina Provvidenza e «alti mediatori della recuperata libertà»’ cioè il « M.co nostio Andrea Doria, capitano di soa galere, nostro bon citadino ». A nessun altro, e tanto meno a stranieri (su questo concetto Genova ritornerà spesso) essa deve la libertà. E Carlo V, protettore, in quanto imperatore, « de tute le cità che desiderano manchare delle sugget-tioni aliene, essendo propria e peculiare virtù di Cesare reddure et mantenere le cità in la libertà loro », vorrà essere in tal senso protettore di Genova, che gli olire tutto quello che ha; poco, ma che spera si debba aumentare «col beneficio de la recuperata libertà » (3). E il successivo atteggiamento genovese non tardò a confermare la nuova situazione: nella questione di Lope de Soria e nelle istruzioni date agli ambasciatori inviati nel dicembre alla corte imperiale. L’atteggiamento nuovo, rivelato dal primo di questi due fatti, si sviluppa appunto nelle direttive della politica genovese, che vengono man mano approfondite e precisate nelle istruzioni del dicembre 1528 e del marzo 1529. Nelle prime non manca l’insistenza sulla immensa gratitudine per l’ef- (2) Cfr. Ercole, Dal comune al principato, Firenze, 1929 p. 306 sgg. - Carlo V finiva con l'accettare interamente questa posizione di Genova, distinguendo la «dipendenza» dal Sacro Rom. Impero dalla « alleanza » politica (nelle istruz. al suo amb. in Francia, 8 genn. 1532 in Papiers de Granvelle, 1 p. 569). (3) Leti, a Carlo V 15 sett. 1528 in A.S.G. f. 398. Nella risposta l’imperatore si congratulava caldamente con Genova « liberata dalla tirannide dei francesi », onde egli può oru sicuramente contare sulla «fede e devozione» genovese verso di lui (10 ottobre, A.S.G. m. 2777). - La libertà era sempre per Carlo V, soprattutto «liberazione dai francesi». ’ - 54 - ficace intervento del Doria e, quanto all’Imperatore, per la sua «bona voluntà» verso Genova; ma sempre collegato con questi sentimenti è il riferimento alla «ricoverata libertà tanto tempo desiata». Si ringrazia della offerta di soccorsi militari, ma si aggiunge immediatamente che non eran serviti, essendosi la repubblica da sè stessa, con il solo aiuto divino, onorevolmente difesa. E solo dopo queste precisazioni Genova protesta la sua adesione alla politica asburgica, non senza una significativa riserva: «offerirete la città nostra e questa repubblica a S. M. in generale ». La principale conseguenza che per Genova derivava dalla sua « liberta » e che si imporrà come il problema politico più importante negli anni successivi, era che «in ogni e qualunque pratica d’accordo, pace o tregua... si facci mentione e chiarezza che la città habbi da restare in sua liberta... senza che la possi essere molestata», e a tale scopo si accludeva agli oratori copia del primo articolo del contratto concluso tra il Doria e Cai lo V, cioè quello sulla libertà genovese (4). A questa prima impostazione, sommaria ma già sicura nelle sue linee fondamentali, seguì nel marzo 1529 la missione straordinaria di Siniba o Fieschi, il quale doveva seguire l’imperatore nei suoi movimenti entio i vasto impero. Le istruzioni rivelano con quanta consapevole chiarezza andasse orientandosi la nuova politica genovese sotto l’energico impu so del Doria, gelosissimo come della sua « reputatione », così di quel a e a repubblica. . E’ in questo documento che si trova esplicito il terzo fondamen a e principio che integra le affermazioni precedenti sulla libertà e ejG, a all’impero intimamente connesse. E’ l’interpretazione genovese de a evo zione alla causa imperiale, che sottolinea ripetutamente e nettamen e a reciprocità dei vantaggi. Nel tema generale, che è quello della aspirazione comune alla pace, da tutti profondamente desiderata (5), ha sì, 11 ie'° convinzione che essa non potrà e non deve avere se non il sigi 0 e 1 « imperialità », giacché, come già era stato detto nella prima lettela e settembre, « è virtù di Cesare mantenere le città in la libertà loro », m questa libertà, che resta il cardine della politica genovese, viene ora ra forzata dalla consapevolezza che Carlo V deve appunto a Genova a orm intravista vittoria definitiva (6). (4) Islr. per M. Centurione e G. B. Grimaldi oratori a S. M. Ces. ivi'il ^suo antico Mercurino di Gattinara 12 die. 1528 (ibidem). - Significativa la scelta : (IueJ}° JL, ,■ H-inchiere anche posto (e non era da temere alcun rifiuto'.), accompagnato dal ricchissimo Orim , ,rerebbe dovuto, esso e come lui fortemente interessato in Spagna. Il ritardo della missione m soprattutto sì, alle necessità della prima sistemazione (occupazione di Savona, resa aei i > altre (lue- questione di Lope de Soria), ma non mancava forse una intenzione di in , ne » creden- Lope de Soria (lett. Centurione e Grimaldi 8-10 febb. 1529 in A.S.G. m. 4410), ma la firma delle creaen ziali è di pochi giorni dopo questo colloquio. (5) Venga l’imperatore a «raddrizzare la distrutta Italia, che non Utruzz. rata dal suo Capo e benefattore ». Istruz. a Sinib. Fiesco, 3 marzo lo29 (A.S.G. m. ü/o/ A). -supplementari st. data (nel m. Î712). (6) Fra l’altro è detto assai chiaramente: «havendo esnerimentato e sperimentando sta città sola esser quella che impedisce e rompe tutti i disegni» nemici, la difesa militare e la sua conservazione alla «devotione» dell'imperatore deve essere considerata «abenetic u. modo» di quest’ultimo. Istruz. a Sin. Fieschi cit. Da questo momento in poi non si contano l cite affermazioni della reciprocità dei vantaggi. Ved. anche i «ricordi» dati al Balançon aa ue • rone sulla situazione politica e militare-strategica creatasi dopo l'acquisto del Dona e di uei Docc. Morone p. 703-709). - 55 - La politica di adesione alla causa imperiale trovava dunque il suo londamento e la sua giustificazione nella coscienza di contribuire di fatto (non soltanto di poter contribuire) in maniera decisiva a quella superiorità politica di Carlo V in Italia che si risolveva in predominio asburgico in Europa : di qui anche la concreta sostanza politica affermata e sostenuta nella esigenza della libertà e della relativa neutralità. E sarà questo un motivo costante della diplomazia genovese, affermalo ripetutamente nelle istruzioni e nella corrispondenza. Vi era dunque una ragione di reciproca gratitudine ed una affermazione di reciproco vantaggio: nella adesione (liberamente offerta) alla politica asburgica si esprimeva una vera e propria convergenza di interessi, non certo una succube sottomissione. Non è detto con questo tuttavia, che nel 1528 abbia inizio un idillico colloquio politico tra Genova e l’impero: tutt’altro. In fondo (ma fu la fortuna di Genova) tra i due organismi non vi era una vera uniformità di natura: se la monarchia spagnola rappresentava come gli altri stati europei una realtà « politica » cui si aggiungeva la dignità imperiale superstatale, la repubblica genovese solo apparentemente costituiva uno « Stato » nel senso moderno della parola. Essa infatti piuttosto che potenza politica va considerata ancora in questo momento come un organismo economico, cioè un gruppo di interessi privati che, esprimendo da sé una rappresentanza, si era data una figura giuridica giungendo fino alle forme esterne di «stato» e, così, riconosciuto dagli altri stati, si inseriva nella comunità internazionale. Ma in realtà non si tratta che di una specie di gigantesca «società per azioni» con amministrazione ed amministratore delegato: non esistono altri interessi che quelli stessi, sommati insieme, dei singoli privati cittadini che compongono quella società economicamente attiva (7). Su questo piano, se potevano essere frequenti i contrasti anche gravi con la monarchia asburgica ed in particolare con la Spagna, era anche impossibile che essi assumessero una configurazione schiettamente politica come contrapposizione di forze in vista di una finalità di «potenza» o di «predominio» politico (o di lutale «indipendenza»), e portassero quindi ad una tale contrapposizione da esigere l’eliminazione di uno dei due: mancava appunto il piano comune su cui potesse nascere e svilupparsi un duello mortale. Ecco perchè, riconosciuta da ambo le parti la situazione nel senso esaminato più sopra (libertà, fedeltà, comune vantaggio), l’intesa non poteva non essere solidamente fondata e durevole, nonostante dissidi e incomprensioni e talvolta anche, dolorosi sacrifici per Genova. Ma nel complesso, Genova trovò una efficace protezione nella sua « libera » espansione economica, la sua vera vita. II problema politico che Genova ritenne più importante fu quello, già accennato, della sua inclusione nel trattato di pace a parità di dignità con gli altri stati e in particolare nei confronti della Spagna e della Francia ; e richiedendo questo riconoscimento internazionale di « stato nuovamente libero » essa perseguiva uno scopo molto concreto, come si vedrà. Per il momento, cioè nel maggio, quando il Fieschi potè parlarne con Carlo V, la questione venne accantonata perchè l’imperatore riteneva prematuro parlare di pace con la Francia; comunque, egli ne avrebbe tenuto conto al momento opportuno (8). (7) Per questa intima fusione di interessi privati e interessi pubblici cfr. la interessante lett. di Mari. Centurione a suo figlio da liurgos, 16-17 gennaio 1928 ,in Molisi, Ducc., II 3-10). (8) Lett. di S. I'iesclii 8 maggio 1529 in A.S.G. m. 2410. - 56 - Quando poi, conclusi gli accordi di Cambiai con un implicito riferimento a Genova e con un articolo che contemplava un allargamento del numero dei contraenti, l’imperatore inviò in Francia il conte di Nassau per perfezionare quei patti, Genova gli aflìancò un suo rappresentante, con la esclusiva incombenza di chiedere che la repubblica restasse « inclusa et nominata specifice... como adherente et confederata di soa Maestà over che la republica nostra osia genovexi siano inclusi in detta pace»; che se però sia pure con l’intenzione di facilitare quella inclusione, « si usassero vocabuli che in conto alcuno importassero sogetto overo sotomissione alcuna », si doveva sospendere ogni premura di inclusione e riferire al governo per ulteriori istruzioni. In questo atteggiamento non è da vedere soltanto il puntiglio, sia pur comprensibile, di tutelare la propria dignità sovrana, ma soprattutto (ciò non meraviglierà chi conosca il carattere pratico dei genovesi) la cura di precisare e consolidare il fondamento stesso della propria attività economica: «per questa inclusione et demostratione in spetie possiamo tratar liberamenti et securamenti in el dominio del Christianissi-mo » (9). In altre parole, il libero esercizio della propria attività economica non doveva essere subordinato alle pacifiche relazioni fra terzi stati (in particolare, Ira gli Asburgo e la Francia), ma dipendere soltanto da un rapporto diretto fra Genova e gli altri, come applicazione concreta del riconoscimento di stato pienamente sovrano, a parità giuridica. Ma il risultato su questo punto venne impedito dal preciso diniego francese. Il risentimento della Francia appariva più profondo di quanto Genova non sospettasse. Quando poi con la venuta dell’ imperatore in Italia vennero a conclusione i negoziati per una lega difensiva in funzione antifrancese come controassicurazione per i patti di Cambrai, vi venne pure invitata Genova, ma le condizioni poste da questa erano sempre le stesse : esservi compresa come «adherente e confederata e amica deS.M.». E Genova non mancava di buone ragioni giuridiche nonché politiche (10). Questo punto di vista venne integralmente accettato dall’imperatore nelle istruzioni che egli dava al Praet • « fauldra persister qu’ ils (i genovesi) soient comprins et nommez pntre les confederez », e se saranno presenti dei genovesi, egli dovrà «les tenir assures que l’on aura regard en leur endroit comme il l’appartiendra, et favorisera... et baillera (agli ambasciatori genovesi) l’adresse qu’il pour- ra stesso rilievo ha questo problema nelle istruzioni a Troilo de Ne- urone inviato ad Augusta presso Carlo V nel settembre 1530: e vivo ÌL-ìHpYìo della repubblica esser nominata nella pace tra Cesare e la Francia neeli stessi termini già a suo tempo indicati al Fieschi, perché solo in tal modo essa ritiene di avere «stabilito» i suoi rapporti con la Francia, la nslp invece nelle discussioni già intercorse, si era opposta recisamente, ^ in ammettendo la formola: «come sudditi imperiali»; ma 1 ambasciatore Lercaro aveva potuto destramente farla cadere, lasciando soddisfatto lo stesso imperatore ( 12). a Fr Spinola de Campis presso il Conte di Nassau destinato in Francia, 10 sett. 1529 in A S G. m. 2707.C. inclusa a Bologna il 23 die. 1529: plenipotenza per Sinibaldo Fieschi, 11 die. e (10) La lega tu co a.S.G. m. 2757.A; «Allegazioni di ragioni... per le quali si convince Istruz. speciali 1- gre'jnciusi nella pace», 1530 (m. 1649.). Hovpr 11 2CI10 • Coi c i „!cri di Fiandra signore di Praet 1« febb. 1530 in Papiers de Granuelle I 506. (11) Istruz. <ì ^ ° ,,, -ln ,ie Negrono oratore presso l'imperatore 13 sett. 1530 in A.S.G. ms. 653 II c. l/3o. (12) Istruz. a i ronu o - 57 - Ma le difficoltà si complicavano, sempre per la ostilità della Francia, e si ti aducevano praticamente in rappresaglie, danneggiamenti vari a beni genovesi, impacci nell’esercizio della mercatura e nel traffico bancario, tanto da incidere gravemente sugli interessi economici dei privati, onde le insistenze perchè un riconoscimento giuridico internazionale esplicito venisse a ristabilire una situazione di normalità. Genova non trascurò i contatti diretti con l’irriducibile avversaria e per sbloccare con un atto di cortesia la situazione giunta ad un punto morto inviò in missione speciale due eminenti cittadini genovesi: Gerolamo De Fornari e Gerolamo Grimaldi, un noto e sperimentato giurista ed un ricco banchiere in occasione della incoronazione della regina consorte. Giunti a Parigi il 31 gennaio 1531 non furono ricevuti dal Re, che rifiutò l’udienza, rimandandoli al consiglio di stato. I due genovesi chiesero con insistenza di essere ammessi alla presenza del re per esporgli direttamente tutta la buona volontà e devozione genovese verso di lui. A nulla valse la tenacia genovese e la sottigliezza delle osservazioni portate a sostegno della propria tesi ; da un lato il re rifiutò sempre di riceverli, dall’altro essi sostenevano di aver un messaggio per il re e di non poterlo quindi comunicare prima1" ad altri. Anche gli ambienti diplomatici di Parigi, specialmente gli italiani, erano loro ostili. Impuntatisi cosi in una questione formale di procedura, non poterono sviluppare il tentativo di disincagliare i rapporti politici e quindi economici fra i due paesi. E il 22 maggio 1531 quello stesso Giacomo Colino, che il Doria e il Trivulzio avevano ben imparato a conoscere, ebbe l’incarico di comunicare loro la sorpresa del re perché non erano ancora partiti e trasmetteva l’ordine di lasciare Parigi entro due giorni (13). Per superare l’ostacolo della ostilità francese Genova ritornò alla intercessione diretta di Carlo V, che rinnovò opportune istruzioni al suo ambasciatore in Francia, sostenendo che « actendu que... les dicts de Gennes sont comprins ès traictez de paix de Cambrai et Madrid» riteneva giuridicamente inammissibile quell’atteggiamento francese e invocava il comune desiderio di conservare «bonne affection et volunté... à la commune paix, quiétude, tranquillité et union de la Chrétienté et bien d’icelle » (14). Ancora nel gennaio 1532 Carlo V tentava di persuadere il re francese che veramente i genovesi dovevano intendersi compresi nei trattati di Cambrai e di Madrid e quindi «doivent jouyr du benefice de la paix... tant comme dependant du Sainct Empire que comme alliez » e precisava ampiamente l’azione che l’inviato doveva svolgere a favore dei genovesi, in reciproco contatto e accordo con l’ambasciatore imperiale già residente in Francia: « nous vuillons embrasser leurs affaires». Egli ormai pienamente condivideva la tesi genovese (15). (13) Istruz. a Ger. de Fornari e Ger. Grimaldi amb. al re di Francia 29 die. 1530 (A.S.G. filza 2707.CV lett. del Gov. genov. al Monlmorency (in Molini Docc. II 356) ; molte lettere dei due ambasciatori febbraio-maggio 1531, da Parigi (nel mazzo 2178) ; lettera di richiamo, da Genova, 18 maggio (nella filza 2707 C) Per aver un' idea della cautela con la quale è necessario accogliere i dati forniti dalla tradizione storiografica genovese, anche molto lontana, nel tempo, dal Doria, cfr. come il Casoni, considerato di solilo ben informato, riferisce questa ambasceria: ner certo gesto poco amichevole di Francesco I, «la Republica rimase in dubbio delle intenzioni del Re Francesco, quantunque trasparisse qualche congettura, che questo generoso Principe non dovesse continuare le ostilità contro di lei. per aver poi nel fine di quest’anno ricevuti con umanissime dimostrazioni di gradimento Girolamo de Fornari e Girolamo Grimaldo Cebi inviati alla sua corte... per assistere alla coronazione di Eleonora» (Annali di Genova II p. 71). (14) Carlo V al suo amb. in Francia, Bruxelles, agosto 1531, in Papiers de Granuelle I 566. (15) Istruz. di Carlo V a Simone Tisnacci, 6 genn. 1531 (cioè 1532) in Papiers de Granuelle I p. 596. Un diploma, poi, del 1° nov. 153G dichiara libera e indipendente da ogni soggezione imperiale la città e gli stati della Repubbl. Genov. (copia in A.S.G. mazzo 2734). 6 - 58 - Un momento critico fu, sì, l’anno dopo, quando in Bologna Carlo V poneva a Genova, per includerla nel trattato concluso con gli stati italiani il 27 febbraio, condizioni che essa non volle accettare nè firmare, facendo anzi vive rimostranze perché la lega nominava anche lei senza il suo consenso. Il contrasto fu presto risolto onorevolmente per Genova, che vide riconosciuta la sua particolare posizione con due diplomi, del 7 e dell 8 aprile, firmati a Genova: col primo le si confermavano i suoi diritti e la libertà sovrana, con l’altro l’imperatore assumeva su di sè gli oneri finanziari che il trattato imponeva in caso di guerra. Con queste piecisaziom essa « ratificava volontariamente » il suo inserimento in quella lega, c ìe coronava diplomaticamente la egemonia asburgica nella politica italiana ed europea (16). Ho fatto questi rapidi cenni non per esaurire un argomento che è oia fuori dei miei propositi, ma solo per mostrare che in realtà 1 alleanza i fatto instauratasi fra Genova e Carlo V era funzionante per 1 uno e per l’altra : quanto al contributo positivo portato in essa da Genova, mi as a per ora rimandare al lucido saggio che ne ha dato il Lopez per gli aspe i economici. Gli sviluppi politici e diplomatici sono storia ancoia da aie. In conclusione, se pure Carlo V ebbe qualche intenzione di riassoi ire la repubblica di Genova nel sistema politico dei suoi stati, come a\e\a fatto ai tempi di Antoniotto Adorno, ben presto dovette disi 11udeisi ; tioppo diversa era la figura politica che aveva assunto su di sé il compito e a tutela e della guida della repubblica genovese (17). In effetti dopo i Peis° naie incontro del Doria con Carlo V a Barcellona, si ha 1 impressione c e quei due uomini eccezionali si siano guardati negli occhi lealmente e presi : da quel momento ha inizio fra i due uomini una amicizia c e an ra man mano sempre più approfondendosi, fatta di rispetto profondo e i>c0 noscimento dell’altezza sovrana da una parte, e di rispetto filiale pieno (i stima dall’altra. E del resto l’imperatore si persuadeva bene di potei raggiun gere egualmente, anzi meglio, i fini della sua politica in Italia e in U,°P^ rispettando in Genova la indipendenza di uno stato sovrano, ne am i di quel sistema politico nel quale del resto Genova più liberamente iespirava. (16) L’episodio è ignorato dalla storiografia genovese. Cfr. in A.S.G. I}'en'P0,enz® Per. ? Si Fornari (diploma originale con sigillo), 11 febbr. 1533 (in filza 1960); copia del trattato del 2/ 1533 (in mazzo 2734), nella forma lievemente differente dal testo pubblicato nei Papiers de >,r.aì* n II pp. 1-7: diplomi di Carlo V, Genova, 7 e 8 aprile 1533, (in m. 2734). - Nell'atteggiamento assai te dell inviato genovese, insigne giurista, non furono forse estranee certe preoccupazioni religio giurisdizionali (il trattato prevedeva reciproco appoggio nella repressione della eresia luterana). > non è questo il luogo di ulteriori considerazioni ; mi limito soltanto a indicare una direzione credo del tutto nuova negli studi della storia genovese per il periodo qui esaminato. (17) Cfr. la resistenza vittoriosa nel 1547-49 alla pretesa spagnola di costruire in Genova una fortezza e munirla di un presidio spagnolo (ved. p. es. Cakale, La repubblica di Genova dal 1528 al low, Genova). CONCLUSIONE Ho parlato (inora prevalentemente di politica «genovese»; ma è tempo ormai di analizzare più a fondo la situazione. Dopo il settembre 152 fra l’altre cosse quando V. 111. Sig. si parti si resto in apontamento che la si avisarebe quottidianamente de progressi de qui chôme cossa più che necessaria, et cossi in execution de io apontato... » (seguono le informazioni sulla situazione politica). (2) Decreto 7 olt. 1528, che ordina le annuali celebrazioni e stabilisce onori e privilegi al Doria in ASG Divers, f. 3124. - 60 - Già nell’ottobre del 1528, dei due fronti nei quali Genova era militarmente impegnata, l’assedio del Castelletto e l’attacco a Savona, il Dona scelse per sè quest’ultimo, guidato certamente dai suoi sentimenti ^P1^" mente «genovesi» verso la città rivale, lasciando l’altro alla iniziativa del governo ; e rileviamo dai documenti che anche in quei primi delicati momenti era già in pieno vigore la pratica dei sorteggi e delle libere elezioni, solo comunicate al Doria (3). E pochi giorni dopo la caduta di Savona, quando ci fu quella mossa di Domenico Sauli illustrata nel capitolo piecedente con l’interrogativo da me lasciato sospeso, il reticente atteggiamento del Doria mi sembra appunto volto a coprire un suo particolare piogiamma politico-diplomatico, svelato dalla corrispondenza personale di lui con Cai o V dell’ ottobre-dicembre 1528 e gennaio-febbraio 1529. Entriamo cosi ne punto più delicato e discusso della personalità del Doria, tacciato di ca colata egoistica sottomissione ad una potenza straniera per bassi mo i\i personali (4); anzi accusato di essersi «fatto strumento alla grandezza i Carlo V», al quale -«dette la vittoria d’Italia » (5). Orbene, mentre l’espressione ufficiale della politica genovese dopo i 1528 insiste con costanza sui motivi sopra individuati, che resteranno an o saldi nelle età successive da costituire una vera e propria tradizione po i-tica, e tanto radicati da esser ripetuti quasi con le stesse parole ancora ne 1621 (6); mentre, dicevo, la politica della Repubblica genovese vuol e mirsi « inclinata a la neutralità de le contrarie opinioni de principi », azione personale e contemporanea di Andrea Doria va tessendo una trama ìversa. Non occorreva un eccezionale intuito politico per compren ere rea i sticamente, senza farsi la minima illusione, che una politica di neu ra i a era semplicemente irrealizzabile in una Europa così divisa in due occ 1 irreconciliabili, impegnati in un duello mortale che non P°^e'a ,!.nlire non con la totale esclusione di uno dei due dall Itafia, pomo del a iscoi i perchè sgabello per un dominio mondiale (7). Ed uno degli sa i e a penisola, incapaci tutti di una comprensione unitaria e «italiana» ei propri interessi politici (vuol essere questo un giudizio «stonco», non morale o sentimentale), non aveva alcuna possibilità di sopra\vivere se non accettando tempestivamente, cioè fin da quando era possibi e nego ziarla, la protezione del probabile vincitore, imponendogli anzi i rl(jp7° scimento ed il rispetto della sua indipendenza. Tale concezione po i ica veniva lucidamente esposta nel 1535 dal Doria stesso al segre ano e (3) Cfr. in ASG f. 398 le lettere al Doria e a Sin. Fieschi (quasi pari all’ ammiraglio politica), e le complesse trattative che portarono alla resa del Irivulzio, la q dev’essere di come si ripete, male interpretando il doc. st. data pubbl. dal Molisi, Docc., p. , otto giorni più tardi. (4) «... par ambition et par cupidité. 11 ne songea qu'à lui-même et qua sa fam ille.... F° n (1 *u. la ruine des libertés publiques un gouvernement aristocratique dont il tenea t ressé"iusqu’a-tation usurpée.... Comédien consommé, a-t-il donc su jouer son rôle de patriotie s Vinnurd hui, près sa mort?.... Soldat, marin, politique, il ne fut jamais qu un condottiere. H es*j bibliografia il est moral, de condamner sa mémoire». (Petit, pp. 358-61). Fu 1 radicato giudizio della blbl ograna antidoriana anche in Italia (cfr. Canale); con la dillerenza che al posto del nsentiinen P .. dei dimento» del 1528, si ha 1’« animus» appassionato e «attuale » del patriota unitario e (lem ..... Q periodo eroico del nostro Risorgimento. Oggi il giudizio può essere (spero, almeno) pm sere (5) Segni, riportato dal De Leva li 490. (6) Istruzioni a C. Pinello e G. Della Torre inviati al nuovo re di Spagna Filippo IV, 11 ag. 1621, in ASG. mazzo 2712. (7) «Les duchés de Milan et de Gennes sont les clefs et la porte pour pouvoir garder et lo mute l’Italie, et l’Italie establie et bien reducte en vostre subjection est le vrai siege et scej>tre P pouvoir dominer tout le monde» (Parere di Mercurino di Gattinara, riportato da Bornatk, L ap g della Casa d’Asburgo e l’opera politica di un Gran Cancelliere, in Nuova Kivista Storica 1919, p. /1 Ci 1 I ’ oc) r i - 61 - Duca di Mantova, ma credo si possa senz’altro riferire anche al 1528: tutta la Cristianità, diceva il Doria, era divisa « in due affetti, l’uno de Io Imperatore, l’altro di Franza», e quasi era «necessario passare per uno di questi camini ad ogni persona di momento»; che il partito dell’Imperatore apparisse « il migliore..... per quanto se ne possa vedere e coniettu- rare per ragione », non gli pareva dubbio, « perchè le cose sue sono fundate sopra fundamenti stabili et di tal certezza, che per ragione se possa poco dubitare che non habbino bono exito, et per contrario quelle dei Francesi siano tutte cose incerte et vane, et de le quali chi non vole in tutto exponersi al beneficio di fortuna, non se deve presto confidare » (8). Sicché tutta l’impostazione di una politica di affermata neutralità fatta assumere dal governo genovese apparirebbe corne un puro e semplice espediente tattico contingente di fronte agli altri stati italiani, giacché, quanto all’imperatore, il Doria gli svelava quel programma e gli prospettava anzi i successivi sviluppi dei tentativi di sgretolamento del campo avversario (Duca Sforza, Venezia, Urbino, Firenze e forse anche altri obiettivi). Perfida doppiezza, si direbbe, se essa non fosse stata contemporaneamente usata proprio verso lo stesso imperatore! (cfr. il silenzio tenuto con lui sui contatti diplomatici col papa e soprattutto l’incredibile diplomatico travisamento dei negoziati con la Francia). Si intuisce insomma nel suo giuoco diplomatico una complessità di metodi e di tattica nella inalterata unicità del fine (la « salute » di Genova), che lo farebbe aggiudicare tra i più arditi e geniali uomini politici del suo tempo. Mostrandosi lui stesso come l’artefice principale delle fortune imperiali e facendone così derivare un sottinteso diritto alla particolare gratitudine dell’imperatore (ed è questo anche il più profondo significato delle analoghe e contemporanee affermazioni della politica ufficiale; gratitudine che dalla persona di lui Andrea Doria si doveva riversare sullo Stato genovese), egli veniva a porre a Carlo V un implicito ma fermo avvertimento a rispettare la «libertà» di quello stato che costituiva il fondamento del successo imperiale in Italia. La neutralità, così, presentata come un mezzo tattico, riprendeva di colpo tutto un suo preciso e concreto valore, giacché in fondo il Doria aveva avuto cura di far apparire libertà e neutralità come le due facce inscindibili di un’ unica realtà politica, e puntando sulla inequivocabilità della prima, egli pensava di realizzare, in sostanza, anche la seconda, e nell’unico modo possibile, anche se con un gioco sottile e rischioso. Orbene, se tutto questo complicatissimo gioco è vero, quale ne era il motivo più profondo? La sola ambizione personale, il gusto del potere politico, la cupidigia? Ma tutto questo poteva forse ancor meglio venire soddislatto nel 1527, quando la sua abilità manovriera poteva egualmente (8) Seguivano i motivi della inferiorità politica della Francia : « perchè non se ne può sperar bene nè ne lo excesso né nel meglio (= mezzo) nè ne lo exito, perchè ne ragione nè forza ne industria tale è in loro che se ne possi promettere bon fine ; nel meggio perchè la complession loro è di esser larghissimi promettitori ma scarsi osservatori de le loro promesse, le quali sono tanto grandi quando pensano di tirare alcuno alla soa via, che malamente possono adempirle et spesso, anche che possono, non vogliono, perchè se gli disegni gli riescono, se insuperbiscono de sorte che non stimano persona, et per consequente non curano de mancargli ; et se non gli riescono, vogliono che sia per colpa di chi sono obbligati a riconoscere, sì che in ogni caso non si può aspettare da loro elTetto alcuno de le promissioni, perché v’è sempre la impossibilità o la ingratitudine, unde è da concludere che '1 dare orecchie a sue pratiche non possi portare salvo che detrimento». (Sigismondo Fauzlno della Torre al Duca di Mantova, 14 febbraio 1535, in Nf.hi, Andrea Doria e la Corte di Mantova, Genova p. 54). Anche se il severo giudizio appare accentuato per la necessità politica di distogliere il Duca di Mantova da progetti filofrancesi, si sente dietro queste parole molta esperienza personale ! Si noti, poi, quell'inslstere sulla « ragione », il che rivela la natura «calcolata» aell’atteggiamento del Doria; ma calcolo, come chiarirò più avanti, in funzione di un sentimento. — 62 - inserirsi nel complesso di una situazione politica generale che aveva visto un trionfo del partito imperiale col sacco di Roma. Ma si deve riconoscere che le intenzioni di lui erano ben altre : in quella situazione poteva egli ottenere da Carlo V qualcosa di più che vantaggi personali e privati, poteva chiedere cioè una volontaria e pacifica rinunzia al « possesso » di Genova ? e d’altra parte un’azione di forza poteva affrontarsi con speranza di successo, senza danni gravissimi alla città ? Il Doria aveva posto condizioni analoghe a quelle che porrà l'anno dopo, ma il Gattinara, accettando le altre, si mostrava esitante verso quella della «libertà», che giustamente gli appariva ben strana ed inconsueta da parte di un « condottiero » (9). L’anno successivo invece Genova risultava già perduta per Carlo V e l’accettazione delle condizioni del Doria era l’unico modo per ricuperarla, sia pure con limitazione dei vantaggi spagnoli. Questa volta, con lo stabile inserimento di Genova nel sistema asburgico, con la pacificazione interna, con la riorganizzazione territoriale dello Stato, il Doria faceva assumere alla posizione strategica genovese una importanza tale da distinguerla anzi contrapporla alle altre posizioni nell’interno stesso del sistema. In forma paradossale si può dire allora che Andrea Doria, innestando la repubblica genovese nel sistema ispano-asburgico, di fatto la sganciava dal già sperimentato asservimento alla Spagna e le restituiva una « sua » indi-pendenza, stabilmente garantita dalla stessa suprema autorità imperiale: l’uomo « politico » si rivelava così anche superiore all’uomo di mare rotto a tutte le tempeste e insuperabile manovratore di flotte. Infatti, di fronte al potente imperatore sulle cui terre non tramontava il sole, si erse, nell’estate del 1528, un pari grado, il detentore di un « potere », quel potere marittimo che costituiva anch’esso una «sovrani a» di fatto, capace di stare alla pari con Carlo V. Mi pare infatti che non solo non sia stato sottolineato il carattere schiettamente pubblicistico, «politico», di quel contratto di «asiento» col quale l’ammiraglio geno\ese poneva la sua flotta e la sua esperienza marinara a disposizione di Car o V, ma non si è data sufficiente importanza al contenuto di quei primi articoli che precedono il vero e proprio impegno di « asiento » o << condotta marittima », formandone il fondamento giustificatorio e la condizione di garanzia. In altre parole, quel contratto non può essere consideia o come un atto privato quando col primo articolo si esige da Carlo V che, quando si fosse potuta realizzare la liberazione di Genova dalla soggezione del nemico (francese), la città « sia posta in libertà soa et remessa a vivere in forma de republica et reintegrata de tutto il suo dominio et specia -mente della terra de Saona, della quale conservatione senza altro pagamento ne graveza di quella che la Cita vorrà cortesemente dare, ne prometta a protettione, et ordini et comandi a tutti li soi Capifanei in Italia che la conserveno et deffendano da ogni forzo et violentia de chi la volesse perturbare»; il 2° chiede che «ad ogni genovese sia licito praticare liberamente in ogni regno, cita et loci soggieti a Sua Ces. M. et come proprn sudditi goldere de quelle gratie et privilegii che a li subditi di quella son concessi » ; e solo dopo il 3° e 4° articolo, di natura ambigua tra privata e pubblica (perdono di ogni azione che in tempo di guerra e per causa di guerra fosse stata compiuta contro la parte imperiale; non liberazione dei (9) Cfr. Borsate, S'egoz., p. 58. • Nel 1547 il Doria proponeva il riconoscimento dell'alta sovranità imperiale, ma l'anno dopo, nel testo definitivo, essa e solo sottintesa. - 63 - prigionieri in mano del Doria, ma scambio sulla base della parità nume-iica con condannati comuni); il 5° finalmente ed i seguenti indicano le condizioni vere e proprie della « condotta » per quanto concerne gli interessi privati deH’Ammiraglio e della famiglia di lui. Il contratto quindi getta le basi di una nuova fase di rapporti «politici» tra Genova e l’impero asburgico, ancorandone la esecuzione alla liberazione di Genova «da lo soggieto de soi jnimici». In sostanza, occupazione di una città con un porto di importanza strategica, sottrazione di quella alla signoria straniera, ricostituzione e rispetto della indipendenza politica e della integrità territoriale dello Stato, consolidamento dell’ordinamento interno con garanzia esterna di carattere internazionale, concessione di libera attività economica dei cittadini con diritti pari a quelli di ogni altro suddito dell’impero (cioè ben più che «clausola della nazione più favorita»), e dall’altra parte, impegno di libera adesione ad un determinato sistema politico europeo : questo il ricco contenuto politico dei primi due articoli, fondamento di tutto il complesso del documento, che fa di Andrea Doria un « sovrano » che liberamente contrae un vero e proprio trattato, portando con la sua firma tutto il peso attuale di una potenza marittima e tutto il peso immediatamente futuro di una potenza economica, finanziaria e strategica, ambedue di importanza decisiva (10). Che Carlo V fosse ben consapevole della situazione come è stata da me delineata, appare inconfutabilmente non solo dalla integrale accettazione di tutti gli articoli, ma anche dalle postille con le quali egli esprimeva questa accettazione: solo cinque dei dodici articoli portano un semplice «sì», gli altri invece li accettano ricordando la stima e fiducia che l’imperatore ripone nell’ammiraglio genovese (ved. testo in Appendice); sentimenti che andranno sempre più approfondendosi, dal noto episodio del 1529 a Barcellona (di fronte alle calunniose insinuazioni dei cortigiani contro il Doria, questo nuovo arrivato nel corteggio imperiale, Carlo V volle tagliare corto, affidandosi una mattina improvvisamente e senza scorta alla nave del genovese e uscendo al largo) (11) fino alla vigilia stessa del suo ritiro. L’ambasciatore veneto Navagero così riassumeva nel 1546 questi rapporti personali tra i due grandi uomini: «non è uomo di nazione alcuna che sia a cui l’imperatore abbia più respecto e più osservanza che a lui; perchè da esso riconosce il contenersi Genova in officio d’aver potuto egli passare tante volte di Spagna in Italia e d’Italia in Spagna, unde gli è venuto d’aver avuto modo di conservar molti suoi stati, che forse sare-beno andati perduti; finalmente riconosce da lui tutta la riputatione che egli ha nelle cose marittime, e lo suol sempre chiamare e trattare da padre» (12). E nel 1555, nel comunicare al Doria il proposito di abdicare, Carlo V scriveva, tra altre affettuose parole : « io ho causa profonda di essere soddisfatto della devozione vostra, vigilanza e zelo coi quali vi adoperaste a servirmi», e lo pregava di continuare così con suo figlio Filippo; «per questo modo si conserverà in ambedue la memoria vivente di quello che meritate e non cessate di meritare da noi per tanti rispetti » (13). Il (10) È significativo il fatto che il contratto sia conservato fra gli atti del governo, nell'Arch. segreto della Rep., e che già nel die. 1528 esso venisse citato come un doc. « politico » nelle istruzioni diplomatiche (ved. testo pag. 54). (11) Casoni, Annali li pp. 62-63. (12) Ediz. Alberi, 1841 vol. I serie I p. 305. (13) Riportate dal Luzzatti, Andrea Doria, p. 270. - 64 - Doria aveva degnamente preso il posto di Mercurino di Gattinara, il quale, singolare coincidenza, proprio nel 1529 si ritirava dalla politica, stanco e malato, dopo aver intravisto il consolidamento del suo programma politico imperiale e italiano (14). Ma in questa devozione, che non era soltanto di natura personale ma anche politica, si esprimeva quella convergenza profonda di interessi che costituisce la sostanza dell’adesione genovese alla politica asburgica, e si ricongiungono, anzi si identificano con un significato più profondo ed essenziale quelle due linee di condotta politica che mi è sembrato di poter distinguere, una, ufficiale, del governo genovese e l’altra, personale, del Capitano Generale delle flotte di Carlo V. Andrea Doria inseriva in modo libero la repubblica genovese in quel sistema nel quale soltanto, essa poteva realizzare una « sua » politica, cioè lo sviluppo delle attività economiche dei suoi cittadini, giacché Genova, e ciò non è stato finora abbastanza sottolineato, aveva conservato sempre sostanzialmente l’antica natura comunale, cioè eia rimasta un complesso di interessi privati collegati in un organismo giun-dico-politico che si esprimeva integralmente nella rappresentanza di queg i interessi economici, marittimi e bancari, unica meta di una politica genovese (15), coincidendo l’ambiente economico con lo Stato come sistema giuridico-politico. Le tormentate vicende interne che duravano ormai a due secoli, trovavano finalmente nel 1528 la loro composizione: quella data segnava un «ritorno alle origini» (non senza qualche istintivo neor o delle tradizioni ghibelline -della famiglia Doria), quasi una ripresa e e tradizioni, quelle appunto che avevano rappresentato il periodo più g onoso della storia genovese, seguito dalla agitata parentesi dei dogi perpe ui. doge biennale e i « procuratori » che collegialmente rappresentano ora a suprema autorità statale, difficilmente possono apparire all occhio e o studioso moderno diversamente che un rinnovarsi dell antico conso lato comunale. E se si pensa che questo «ritorno» (che a suo mo o si rivela schiettamente rinascimentale persino nella formula machiave ica venutami naturalmente alla penna) veniva a maturazione dopo la scoper a del nuovo mondo, e proprio con l’affiancarsi a quella nazione euiopea c e aveva assunto su di sè la grandiosa impresa colonizzatrice, e dopo c e proprio a quella dinastia si era congiunta la corona imperiale in una revivi scenza dell’antica istituzione medievale che aveva presieduto appun o a formazione e allo sviluppo del Comune genovese; si avrà un complesso i coincidenze e di convergenze oltremodo significative, che fanno indivi uare nella - rivoluzione» del 1528 una delle più intelligenti e acute e «politiche» costruzioni che la storia ricordi. Certo, gli elementi principali della nuova struttura statale erano anteriori all’intervento del Doria, e nel 1525 i ri or matori si erano pur impegnati con giuramento a rispettarla e farla rispe -tare; ma poteva bastare quell’impegno ad assicurare la tranquillità a a travagliata repubblica? Andrea Doria si presentava appunto col suo prestigio e con la sua forza come interprete sensibilissimo di questa complessa situazione genovese, europea e mondiale. Ora, alla base di questa intuizione politica è necessario riconoscere 1 esistenza di un fortissimo sentimento «patriottico». Non bastano ambizione, (14) Cfr. Borsate, Historia vite rt gestorum per Doni. Mannum Cancellarium, con note, aggiunte e docc., in Misceli, di Storia Italiana, serie III, tom. XVI, pp. 373 sgg. (15) Cfr. Fueter pag. 342. - 65 - c ii pi c igia puntiglioso e vendicativo risentimento a spiegare un impegno così eciso ed energico, così coerente ed organico, e così durevole. Bisogna ciedeie alla sincerità delle paiole del Doria a Luigi Alamanni: «se il mondo sapesse quanto è grande l’amore che io ho avuto alla patria, mi scuserebbe se, non potendo salvarla e farla grande altrimenti, io avessi tenuto un mezzo che mi avesse in qualche parte potuto incolpare. Non vo’ già raccontare che il re Francesco mi riteneva i servizi e non mi attendeva la promessa di restituire Savona alla patria, perchè non possono queste occasioni aver forza di lai rimutare uno all’antica fede. Ma ben puote aver forza la certezza che io aveva che il re non mai avrebbe voluto liberar Genova dalla sua signoria, nè che ella mancasse d’un suo governatore nè della fortezza » (16). Se dunque è da riconoscere un «segreto» del Doria per darsi sufficiente spiegazione della condotta di lui tra il 1525 e il 1528, gli anni cioè nei quali si svilupparono in tempi successivi i negoziati per attirarlo nel campo di Carlo V, così come della lunga durata della costruzione politica che porta non a torto il suo nome, bisognerà, io credo, rintracciarlo proprio nel vivissimo e profondamente radicato sentimento «genovese», per cui egli si inserisce inconfondibilmente nell’anima stessa della storia della sua città. Io credo che a buon diritto gli si possa riconoscere il titolo di « padre della patria» sua. y spagnola parecchi si lamentano di non essere pagati, mentre il Doria trova sempre « pncamento prontissimo» (p. 41 dell ediz. Alberi, serie I vol. I). Del resto, questo punto era esplicitamente contemplato nell’art. 5 del contratto del Doria, 4» APPENDICE Pi eroga del contratto di asiento di Carlo V con Andrea Doria Bologna, 18 marzo i53o (Copia di mano del lardo sec. XVI o primi del sec. XVII, in A.S.G. Negoziazioni e Trattati, mazzo n. Î/47/AB; il trascrittore pare non fosse molto esperto di lingua spagnola)! Le annotazioni del 1528, pubblie. dal Laiglesia (ved. qui sopra, testo nan 3SÌ sono poco note perche quell’opera si trova difficilmente in Italia. Per questo e per il oro notevole interesse le ripubblico, aggiungendo le parti politicamente più notevoli della proroga del 1530, che credo inedita. All’art. 1« (libertà e integrità dello Stato genovese con la garanzia dell’imperatore senza alcuna obbligatoria contropartita) ' * Sobre este primera capitulo pinze a su Mayestad quo assi se aya eri tmena ampia y segura fornici con la rcscrvaçion de lei cnitoridcid imperiai >. AlPart. 2° (libertà di traffico nei paesi dell’impero) 4 A este secundo capitulo plaze a su Mayestad declarando que esta qracia u privilegiose enitenda lai como los suditos naturales de su M. platinando u Smerciando de uno de sus Reynos u prooinçias en otras suyas qozan u suelen ao-rr y en buena, ampla y segura forma y assi lo mandara observar su Maucstad en todas las tierras y diciones a el subietos ». w AU’art. 3° (perdono delle precedenti azioni antimperiali) >r la singolar confiança que del lenemos, por el aficion que por experienda se ha vistn tener a nueslra honra y servicio, avemos concertado con el que el dicho nssiento se prorogue por olros dos anos, que se cnenlen desde ser cumplidos y pas-sndos los dos primeros afios del dicho assiento con las declaraciones y limilaciones seguientes. ( ..omissis: chiarimento sul pagamento delle tre galere non previste dal contratto del 1528). Item que al primero capitalo del dicho assienlo que abla sobre la restilucion de Genova en su liberlad, por quanto ya esta restituida en ella, y se entiende que aquella repuhlica y los ciudadenos della y su jurisdicion sean conservados y manlenidos por nos en la liberlad que al presente tienen, guardandose y conservando nueslra auto-ritlad ij preeminencia imperiai y que manderemos por nueslra patente a todos nueslros Capitaniti* ij ministros assi de mar como de tierra de qualquier grado y condicion que sean. que adendo necessidad la defendan de loda perturbaceli que contra dicha republica y jurisdicion y ciudadenos della se lentare. (Seguono altre precisazioni sul rifornimento di grano, sulla truppa in soprannumero, sulla durata della proroga, che è per altri due anni, sulla conferma di tutte le altre disposizioni del contratto del 1528. Il documento termina con le formule della promessa di osservare tutte le disposizioni, e con la data: « Datum in Bolotla IH de março 1530. A nos Carlos eie. Por mandado de su May. Covos Com.or Mayor »). NOTA SULLE FONTI E BIBLIOGRAFIA Ho condotto questo studio quasi esclusivamente sulle fonti documentarie, specialmente degli archivi di Genova e di Venezia, e delle raccolte già edite in collezioni o singolarmente. Le abbreviazioni usate per queste citazioni sono : A.S.G. = Archivio di Stato, Genova A.S.Ve. = Archivio di Stato, Venezia B.U.G. = Biblioteca dell* Università, Genova m. = mazzo ; f. = filza ; reg. = registro. Altre abbreviazioni (dei vari fondi d’archivio) si intuiscono facilmente. È inteso, naturalmente, che le lettere del governo genovese si trovano nell’Archivio come minute. Le fonti edite, citate brevemente, sono le seguenti : — Sanuto, Diarii, ediz. Venezia 1877-1905, tomi dal XXXI11 al LI. — Lettere di Principi, le quali si scrivono o da Principi o a Principi o ragionano di Principi, di nuovo ricorrette et secondo l’ordine de’ tempi accommodati* tomi 3, in Venetia, Ziletti, 1581. — Colección de documentos ineditos para la historia de Espafta, tomo XXIV, Madrid 1854. — G. Molini, Documenti di storia italiana, con note del march G Capponi 2 voli Firenze 1836-37. — G. Molini, (Altri documenti di storia italiana), pubblicali nella Appendice IX dell’Archivio Storico Italiano. — Papiers d’étal du card.de Granuelle, a cura di Weiss, nella «Collection de documents inédits pour servir à l’histoire de France», Parigi 1841 -18. — State Papers published under thè authorities of H. M. Commission Kinc Henry VIII, vol. I part I II, Londra 1830. — Bergenroth, Calendar of Lellers, despatches and State Papers relating to the negotiations between England and Spain, London 1862 (fino al 1525). — Gayangos, Calendar etc. c. s., vol. III part II 1527-29, London 1877. — Documenti che concernono la vita pubblica di Girol. Morone, raccolti ed editi da Giuseppe Mueller, in Misceli, di storia italiana, tomo III, Torino 1865. Ho citato inoltre: G.S.L.L. = Giornale storico e letterario della Liguria ; Atti S.L.S.P. = Alti della Società ligure di Storia patria. Per la biografia del Doria e per il quadro storico della prima metà del sec. XVI in Italia ed Europa ho tenuto presenti in modo particolare le opere seguenti, citate col solo nome d’autore: — E. Petit, André Doria. Un amiral condottiere an XVI siècle, Paris 1887. — Giuseppe DeLeva, Storia documentata di Carlo V in relazione all'Italia, tomo II, Venezia 1863. — L. von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, trad. ital. voi. IN parte II (Adriano VI e Clemente VII», Homa 1929. — Ch. De La Roncière, Histoire de la Marine française, vol. Ili, Paris. — Eocaro Fletkr, Storia del sistema degli Stati europei dal H92 al 1559, trad. ital., Firenze 1932. — C Brandi, Charles-Quint, trad. frane., Parigi 1939. — C. Borsate. I negoziati per attirare Andrea Doria al servizio di Carlo V, in G.S.L.L. 1942 pp. 51-75. — E Panmani, Genova e Andrea Doria nel primo quarto del Cinquecento, Genova, 1949. Della storiografìa genovese, dal sec. XVI al XIX, ho citato qualche volta gli Annali della Repubblica di Genova del secolo decimosesto descritti da Filippo Casoni, tomi III, Genova 1799. Ma meriterebbero di essere ricordati, tra gli antichi annalisti, Paolo Partenopeo. Giustiniani, Foglietta, Bonfadio, per i quali tutti, pero, come ho accennato in una nota a pag. 57, occorrerebbe un esame particolare e minuzioso per accertarne la credibilità; nè d’altra parte hanno potuto offrire nulla di più dei documenti originali d’archivio. Degli studi critici non recenti, e bene ricordare l’appassionata esposizione di M. Canale, Storia della Repubblica di Genova dal 1528 al 155%), Genova 1874. Brevi ma succosi i seguenti altri due saggi : R. Il predominio economico dei Genovesi nella monarchia spagnola, G.S.L.L. lyoo e B. Ciasca. Affermazioni di sovranità della Repubblica di Genova, ibidem 1938. — Mru-mento sempre prezioso, anzi indispensabile, V. Vitale, Diplomatici e Consoli ilei a Repubblica Genovese, in Atti S.L.S.P. vol. LXIII 1934. ito. Con ciò non ho inteso minimamente dare una bibliografia neppure Ion an mente approssimata sull’argomento studiato, visto il carattere alquanto somma e circoscritto di questo studio, che vuol essere revisione della interpretazione un problema storico più che analisi approfondita della storia genovese nel pe riodo esaminato. . . . a\P Aggiungo un sincero nonché doveroso cenno di gratitudine per il Perso" degli Archivi di Stato di Genova e di Venezia, che mi sono venuti incontro .* i modi possibili, e, direi quasi, impossibili (a Genova il ricco materiale are ìv ci è giunto disperso spesso nei fondi più impensati, e parecchi dei documen P interessanti sono stati trovati con disperate ricerche entro filze anche (li o rissima amministrazione, numerosissime); e per l’ufficio di Presidenza e 1 siglio direttivo della Società Ligure di Storia Patria, che mi hanno latto di inserire questo studio negli Alti della Società. INDICE CAP. I CAP. II CAP. III — Genova nel sistema, politico asburgico . pag. 3 § 1. La conquista militare spagnola (p. 5) § 2. La situazione politica di Genova dopo l’occupazione (p. 8) § 3. Alcuni momenti critici della politica asburgica (P- 13) § 4. Dalla lega di Cognac alla conquista francese: l’accentuarsi della pressione militare su Genova (p. 18) — La parentesi di occupazione francese . . . * 23 § 1. L’occupazione militare (p. 23) § 2. Le questioni di Savona e dell’unione dei genovesi (p. 26) § 3. La crisi doriana (p. 29) — La politica della « restaurata libertà » * 35 § 1. I primi rapporti con la Francia (p. 35) § 2. I rapporti con Venezia e con Francesco Sforza (p. 40) § 3. L’incidente diplomatico per Lope de Soria (p. 49) § 4. Genova e Carlo V subito dopo il 1528 (p. 52) Conclusione..... Appendice..... Nota sulle fonti e bibliografia » 59 » 67 » 69 Finito di stampare nelle officine dell'Istituto Grafico Berte/lo - Borgo S. Dalmazio il 31 agosto 1951.