V ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE li STORIA PATRIA volume iv. — fascicolo i. GENOVA TIPOGRAFI A DEL n. I. DE* SORDO-MUTI MDCCCLXVI ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA ' , ' . _ ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME IV. GENOY A TIP. DEL R. I. DE’ SORDO-MUTI MDCCCLXYI. ALLA MEMORIA *• • , « DI S. A. R. IL PRINCIPE ODONE DI SAVOIA * DUCA DI MONFERRATO OMAGGIO DELLA ♦ »#* % SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Il giorno iv febbraio del mdccclxvi la Società Ligure di Storia Patria veniva straordinariamente convocala in assemblea generale, onde porgere, un giusto tributo di riconoscenza e d’affetto alla sempre cara e venerata memoria di S. A. R. il Principe ODONE Duca di Monferrato , già Socio Onorario e tanto benemerito dell’ Instituto. L’ adunanza ebbe luogo ad un’ ora pomeridiana nella consueta sala delle tornale, posta nel locale della Biblioteca Civico-Beriana ; e vi convennero, oltre ai membri della Società stessa, gli onorevoli Componenti la Casa del Defunto Principe, e buon numero d’ altri egregii personaggi. ( V. ) Poiché il Segretario Generale forni contezza di quanto V Ufficio di Presidenza aveva di già operato in nome dell’ Istituto, onde testimoniare i sensi di quella gratitudine devota e sincera con che ricorderà sempre il troppo breve pellegrinaggio in terra del Giovane Duca di Monferrato, il Presidente barone e consigliere D. Pasquale Tola, prese a leggerne con visibile commozione, cui dividevano lutti gli astanti, l’Elogio, che fu allora concordemente applaudito, ed è oggi per volo unanime licenziato alla stampa. RELAZIONE DEL SEGRETARIO GENERALE CAVALIERE LUIGI TOMMASO BELGRADO LETTA NELL' ADUNANZA niMUDUU DEL IV FEBBRAIO MD C C G L X Vl . ■ . ■ * Signori ! Il Vostro Ufficio di Presidenza appena ebbe appresa la dolorosa notizia della immatura morte di S. A. R. il Principe ODONE di Savoia Duca di Monferrato, ha creduto rendersi giusto interprete dei sentimenti del Vostro dolore, sospendendo in segno di lutto per dodici giorni il corso delle consuete nostre sedute. Ila inoltre deliberato che Ja presente straordinaria adunanza del-1’ assemblea generale fosse interamente consecrata alla commemorazione dell’ Illustre Estinto, che lasciò fra noi tanto desiderio di Sè, e fu nel breve corso di Sua mortale carriera così splendido fautore e protettore munifico del nostro Instituto. La Società quindi ha preso parte al cortèo, che nel mattino del giorno xxiv gennaio ora scorso accompagnava in mezzo al generale compianto le Spoglie del- 1’ Augusto Principe dal Reale Palazzo alla Cattedrale di 2 ( X ) San Lorenzo; e fu eletta a rappresentarla una Deputazione composta del Presidente, del Segretario Generale, e de Soeii march. Antonio Carrega, march, avv. David Invrea, avv. Pietro Canepa, sae. Giacomo Da Fieno e dott. Giovanni Ramorino. Ila poi concorso unitamente alla Società Promotrice di Belle Arti alla soscrizionc lodevolmente iniziata dall’Accademia Ligustica, per 1' innalzamento di un busto al munificentissimo Principe. Il quale sorgerà nel locale dell’ Accademia stessa; e farà fede della gratitudine onde sarà proseguita in eterno la memoria di Ciii protesse mai sempre ogni bell’ arte ed ogni studio gentile. Una lapide murata sotto quelle care Sembianze dirà appunto ai venturi come, con imitabile esempio di concordia e d’affetti, partecipassero all’erezione del picciolo monumento tre Istituti, i quali per diverse vie mirano all’unico e santo scopo d’illustrare nobilmente la Patria. Infine ha trasmesso a S. E. il Signor Ministro della Pubblica Istruzione il seguente Indirizzo, per essere presentato a Sua Maesta’ l’ Augusto Nostro Sovrano. « SIRE ! » La sventura onde è stata colpita la Maesta’ Vostra e la Reale Famiglia, ha Immerso nel lutto l’intera Nazione; perocché questa sia usa da lunga mano a far sue le Vostre gioie, suoi i Vostri dolori. ( X. ) » Questo Instituto, cui il degno c rimpianto Vostro Figliuolo aveva onorato dell’ Augusto Suo Nome, e del quale infino al chiudersi del Viver Suo (ahi quanto breve !) a^ea pur voluto essere munificentissimo Protettore, serberà imperitura la memoria di S. A. II. il Principe ODONE, e d1 ogni Sua religiosa e civile virtù. » La Società Ligure di Storia Patria ben comprende, o SIRE, le amarezze e i dolori dell’ Animo Vostro generoso e magnanimo. Essa con Voi divide le dure pene, le cocenti afflizioni, e per l’irreparabile perdita a Voi tributa i sentimenti del suo profondo cordoglio. Possano questi, o SIRE, alleviare le ambascie del Vostro Cuore Paterno; ed attestarvi insieme la devozione sincera che alla Reale Maesta’ Vostra professa questo patrio Instituto. Genova, xxvm Gennaio mdccclxvi. IL PRESIDENTE P. TOLA IL SEGRETARIO GENERALE L. T. BELGRANO ». Con questi alti, o Signori, crede l’Ufficio Vostro di essersi reso il fedele espositore dei Vostri pensieri,, e di avere insieme tributalo quell’ omaggio che meglio ( «i ) per noi si poteva alla memoria benedetta di un ottimo Principe, del quale Genova tutta or piange l’amara dipartita, e mai non fia clic dimentichi gli innumerevoli benefìzii. (1) * M Alla trasmissione dell’ Indirizzo testò riferito, così rispondeva poi 1’ Onorevole Signor Ministro della Pubblica Istruzione : Firenze, addì 5 Febbraio 1800. La Maesta’ del Re accogliendo l’officio, col quale cotesla illustre Società significava il profondo dolore da cui fu presa per la morie di S. A. R. il Principe ODONE, mi commetteva di esprimere alla S. V. e agli altri suoi degni Colleglli, coin Egli abbia sentito col più vivo del Cuore questa testimonianza di affetto. Nell’ adempiere tale incarico, ripeto a V. S. Chiarissima i sensi della mia singolare osservanza. IL MINISTRO BERTI. .4/ Presidente delta Società Ligure di Storia Patria Genova. ELOGIO DI S. A. R. IL PRINCIPE ODONE DI SAVOIA DUCA DI MONFERRATO LETTO DAL BARONE D. PASQUALE TOLA PRESIDENTE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA NELL’ ADUNANZA GENERALE DEL IV FEBBRAIO MDCCCLXVI ■ ' ■ i. . . ■ • • : > ■ ■ • . Onorevoli Colleghi e Signori ! Se nel correre dell’età, che veloce trapassa, ogni vita che manca è cagione d’individuali dolori a chi ebbe con essa nell’ umano pellegrinaggio comunanza di origine, o di affetti, allo spegnersi però di vite preziose ed illustri, che sì rare quaggiù a noi si mostrano e sì presto da noi si dipartono, generale e concorde è dei superstiti il compianto, perchè a tutti fu comune per esse 1’ amore e la riverenza, comune a tutti è l’acerbità del danno e la patita sventura. Di questo vero è insegnatrice la Storia, maestra severa e inesorabile delle umane cose ; ne avemmo noi stessi amara esperienza nel triste caso che deploriamo; lo prova la mesta solennità dell’ odierna adunanza, cui convenimmo unanimi in un solo pensiero, e con profondo cordoglio, per tributare a Colui che fu già della nostra Società primario ornamento la espressione del dolore ineffabile da cui fummo colpiti per la Sua morte immatura. Voi ben comprendete, ( XV. ) Onorevoli Colleghi, di quale intendo favellarvi; e già vedo corrervi pronto e desiderato sul labbro, prima che io lo pronunci, il nome venerato di S. A R. il Principe ODONE di Savoia Duca di Monferrato , rapito testé da lento e çrudel morbo all’ amore dell’ Augusto Suo Genitore, della Reale Famiglia, della Nazione intiera O. Universale fu il lutto di questa nobile Città all’ annunzio del caso funesto; e l’accalcarsi incessante del popolo attorno al di Lui feretro (2), le benedizioni del povero, il compianto di ogni ordine di cittadini, e il concorde lamento della grave jattura toccata alle arti belle, ai gravi studi e ai loro egregi cultori, fecero certa e commovente testimonianza, che coll’Augusto Trapassato mancò una splendida e C1) S. A. R. il Principe Odone Eugenio Maria Duca di Monferrato, figlio delle LL. MM. Vittorio Emanuele li Re d’Italia, e di Maria Adelaide Francesca di Lorena Arciduchessa d’Austria, mori in Genova nella notte del 21 gennaio I8G6, alle ore 12 e minuti 25. Fu di costituzione inferma sin dalla Sua fanciullezza, e la Sua vita brevissima di quattro lustri non ancora compiuti, poiché era nato IMI luglio 1846, fu un lungo e lento martirio di fisici dolori, alleniti soltanto dalla virtù dell’Animo Suo, e dalla religione, che fu sempre il primo de’ suoi pensieri e il più caldo de’ suoi affetti. (2) Ciò accadde nei due giorni seguenti alla morte di S. A. Tt. il Principe Odone. Ma un’altra prova di affetto e di gratitudine data all’Augusto Estinto dal popolo genovese, va qui notata, perchè assai bella e assai rara. Allorché nella notte del 24 gennaio 1866 le di Lui Spoglie mortali furono levale, verso le ore do'dici, dalla Chiesa Metropolitana di San Lorenzo, per essere trasportate a Torino, e di là alla Reale Basilica di Superga, una folla immensa di cittadini, che tramasi accalcala nella piazza esterna di detta chiesa, con moto unanime e spontaneo si scoverse il capo per riverenza, proruppe in voci di compianto e di benedizione, e poi accompagnò con mesto silenzio il funebre cortèo fino alla lontana Stazione ferroviaria, donde dovea partire la Cassa e il Convoglio mortuario. Tale manifestazione, che fu assai commovente, dimostra meglio di qualunque parola 1’ amore sincero che il giovane Principe seppe cattivarsi con la sua bella vita, e con le sue azioni generose dalla universalità dei cittadini. ( XVII ) cara Vita, la quale lasciò nel suo breve corso traccie luminose e che divisava di far imprendere sulle rovine dell’ antica Libarna, per ricercarvi avanzi e ricordi che potessero gittar luce sulle parti ancora oscure della storia antica, e porgere materia a dotte investigazioni : quindi quell’ adornare continuo di nobili sculture, pitture ed affreschi le splendide stanze del suo Reale Palagio ; e la raccolta, non meno bella che importante, di stampe, disegni, incisioni, e di ogni altra più rara e pregiata opera d’ arte e di industria : quindi la protezione generosa da Lui accordata agli artisti, non e della Società promotrice di belle arti, falla per mezzo dei rispettivi loro Presidenti, affinchè Si degnasse concedere alla Città di Genova gli oggetti d’ arte e di antichità, che il Suo Reale Figlio intendea donarle, onde formarne un Museo Artistico, ed Archeologico, da intitolarsi Museo Odone, a perpetua memoria ed onoranza del sempre compianto Donatore. E S. M. il Re Vittorio Emanuele II, non solo Si degnò accogliere favorevolmente una tale domanda, commendandone la causa e Io scopo, ma commise tosto a S. E. il Marchese di Breme, Prefetto di Palazzo, di recarsi in Genova per procedere alla scelta degli oggetti che dovranno servire per la formazione di detto Museo. Un atto così generoso di Reale Munificenza sarà di molto vantaggio agli studiosi delle arti e delle antichità, e servirà eziandio di ornamento alla Città di Genova ; la quale, se lo ricorderà sempre con gratitudine, ricorderà pure con onore e con benevolenza il nome del Marchese Orazio Di-Negro, il quale col farsi caldo mediatore della domanda dei suddetti tre Instituti Liguri, e coll’averne conseguito da S. M. benigno accoglimento, ha dato alla sua patria una bella prova di carità cittadina. (') Gli scavi ebbero luogo nel 1863 e furono diretti dal chiar. prof, senatore Giuseppe Fiorelli, con quella perspicacia per cui va sì famoso; e produssero per risultato la scopertà di una Necropoli, ove si trovarono un sigillo di bronzo, un’ agata graziosissima con suvvi inciso Amore a cavallo di un delfino (soggetto favoritissimo dagli antichi), un cratere colla rappresentazione dell’Aurora che insegue Titano, presente Mercurio, parecchie lazze, ed altre preziosità. Le quali vennero poi collocale nel Museo di S. A. R., unitamente ad una gran copia di vasi greci ed etruschi, intorno a cui già aveva dissertato con rara dottrina il eh. prof. cav. Giulio Minervini. (XX) solo ai provetti e presenti, . che per merito e fama siedono maestri, ma eziandio ai giovani e ai lontani, sol che li sapesse avviati sulle orme migliori nel tirocinio dell’ arte, e dotati di quella viva scintilla, eh’ ò il genio creatore dei sublimi concetti e delle opere egregie quindi i premii erogati agli studiosi, che nei concorsi di belle arti vincessero la prova (2): quindi gli acquisti numerosi , che con liberalissimo dispendio Ei faceva annualmente nelle pubbliche Esposizioni (3h e quindi i tanti lavori da Lui commessi con munificenza quasi regale ai più valorosi nell’arte fra i quali non fia che io scordi il gruppo in marmo, in che sarà seul ta nelle sue 0) Uno fra costoro fu il giovane scultore Emanuele Caggiano, il quale nel settembre del 1863 fece presentare in Napoli a S. A. R. il Principe Odone la fotografia di un suo modello, da eseguirsi in marmo, rappresentante Pane e Laioio. La eccellenza di un tal modello fu tosto riconosciuta dal Principe, intelligentissimo qual’ era, per molti studi, delle opere d’arte; e quindi, fatto chiamare a Sk il Caggiano, lo accolse amorevolmente, lodò il suo bel lavoro, e gliene commise la esecuzione con largo rimerito delle sne fatiche. Inoltre per mano di quattto liguri ingegni, il Molinari, il Carli, il Vignolo e il Benetti, volle che fossero scolpili i busti dell’annalista Caffaro, di Guglielmo Embriaco, Cristoforo Colombo e Andrea D Olia. (2) S. A. R. il Principe Odo>e avea instituiti quattro concorsi, per gli studiosi della pittura, scultura, architettura ed ornato; e fatta giudice e dispensatrice delle Sue larghezze I’ Accademia Ligustica. (3) Basti per tutti citare i quadri del Castagnola e del Beliucci, rappresentanti la Morte d’ Alessandro de" Medici, che levarono a gran fama i loro autori, e fe< ero bella mostra all’ Esposizione aperta nel maggio dello scorso anno in Firenze pel sesto Centenario di Dante. (4) Al comm. Santo Varni, allogò due busti delle dilette Sorelle la Principessa Clotilde Napoleone e la Regina Maria Pia, un gruppo rappresentante Amore die tormenta la Forza, una copia della medaglia della Pietà, fattura del divino Buonarroti, custodita nella chiesa dell'Albergo di Carbonara, non che varii altri lavori. Al prof. Lazzerini di Carrara diede incarico di scolpire una statua raffigurante il Genio della Marina Ligure; e volle che per mano di valente artefice fosse eziandio ( XXI ) divine sembianze, per quanto il possa mano umana e scalpello, la Immacolata Madre dei redenti, da locarsi per di Lui voto nel nuovo tempio, che a lei s’innalza. Dolce e affettuoso pensiero, col quale l’Anima generosa e pia del giovane Principe , prima di partirsi da questa terra , volle salutar Colei , che dovea fra poco accoglierla benignamente in Cielo 0). Che dirò poi del favore da Lui accordato all’ Accademia Ligustica, alla Società Promotrice di belle arti, (2) e alla nostra Società Ligure di Storia Patria ? Non la sola onoranza del Suo Augusto Nome Ei ne concesse , ma ci fu largo eziandio d’incitamenti, e sussidii, che graziosi e spontanei soccorsero alla pubblicazione dei nostri eseguito un gitto in bronzo del Fauno danzante e del Narciso di recente scoperto a Pompei : due fra i capi lavori dell’ arte antica, oggi serbati nel Museo di Napoli. Al cav. Giuseppe Isola diede a dipingere un grande affresco rappresentante Nettuno in atto di domare la tempesta, e in quattro medaglie la Pittura, la Scultura, 1’ Archeologia e la Nautica. AI cav. Giuseppe Frascheri commise di effigiare in un quadro di vaste proporzioni la storia di Papa Eugenio III quando benedisse le armi ad Amedeo III di Savoia, per l’impresa di Palestina. (') Il dono di questa statua fu fatto dal compianto Principe Odone (pochi giorni appena prima ch’Ei mancasse di vita) mentre si faceano dai genovési le prime spontanee oblazioni per recare a compimento il nuovo Tempio, già incominciato da alcuni anni in Via Assarotti, ad onore e sotto la invocazione di M. V. Immacolata ; e fu fatto da Lui, non solo con larghezza veramente principesca, ma con molto ardore, e col desiderio di poter vedere Egli stesso ultimato un tale lavoro... La statua, che avrà tredici palmi di altezza, e rappresenterà la Madonna sine labe sopra un globo, circondata da teste d’ angeli e di cherubini , nell’ atto in cui si schiaccia col piede il capo del serpente, fu commessa dal Principe Odone al valente scalpello del professore Santo Varili, il quale saprà eseguirla con quella maestria, che è da tutti generalmente ammirata ed encomiata. (2) L’Accademia Ligustica avealo acclamato Socio Onorario il dì 15 gennaio 1863) e la Società Promotrice lo elesse di poi a suo Presidente d’ Onore il 29 maggio del 1864. ( XX,. ) Atti. Nò ciò Egli lacca per sola grandezza d’animo, ma più per l’amore che portava alle arti e alle lettere, nelle quali era bellamente e variamente instrutto (1); ond’ è, che a Lui ben si addice il titolo di protettore e mecenate sapiente di questi patrii Instituti. E surgano pure, chè il puonno, a testimonianza di quanto io dico i maestri rinomati e solenni delle arti belle, dei quali Liguria e Italia tutta si onora, e stanno forse or qui ad ascoltarmi; surgano, e dicano essi quanto il deplorato Principe ODONE fosse addentro nella Storia, c negli studi teorici di pittura, scultura e architettura ; com’ Ei conoscesse le varie scuole, le vicende, e i più celebrati cultori dell’ arte italiana ; come fossero sempre aggiustati e pronti i Suoi giudizii sulle opere antiche c mo.-derne ; e come, discorrendone spesso con giovanile vaghezza, nascondesse pur sempre con bella modestia il proprio sapere. Ed io stesso, o Signori, benchò profano nell’ arte , posso farne sicura affermazione ; perchè quante volte mi toccò la ventura di favellargli; e quando, or compie il secondo anno, deposi nelle Sue mani il Diploma, che lo acclamava Principe dei nostri Soci Onorari (2) ; e quando nei suoi ultimi ozii suburbani (') Il Principe Odone attese eziandio agli studi della nautica, ed era assai versato nelle cose di mare. Capitano di vascello nella R. Marina Italiana, se il corpo debolissimo e la mal ferma salute non glielo avessero impedito, avrebbe dato nella pratica della navigazione prove sicure di sapere e di abilità. Coltivò inoltre, sotto l’insegnamento del eh. professore Michele Lessona, la storia naturale ; ed era ben’ i-struito dei sistemi principali, e delle più importanti scoperte della scienza nei tre regni della natura. (2) L’acclamazione unanime del Principe Odone a Socio Onorario della Società Ligure di Storia Patria ivi fatta dall’assemblea generale nel 13 marzo 1864. ( XXIII ) ( con dolore lo rammento ! ) Gli offersi il terzo volume dei nostri Atti^), udii di Sua bocca tale un discorrere di arti belle, di Vitruvio e Palladio, del Visconti, del Morcclli, del Vasari, del Lanzi e di altri classici scrittori , e tanta acutezza di esame e aggiustatezza di osservazioni sulle Iscrizioni romano-liguri, e sulla famosa Tavola di bronzo di Polcevera , che mi recò meraviglia, come in sì giovine età, ed in mezzo a tante fìsiche sofferenze, Egli avesse potuto di sì eletto e copioso cibo nutrire la mente. Ma è poco, non è tutto, Onorevoli Colleghi, quanto andai fin qui brevemente ragionando. Una parte ancora, più bella, più cara , più laudevole parte della Vita ahi ! troppo breve dell’ amato Principe ODONE, mi rimane a tratteggiarvi. E già intendete, che vo’ dire della Sua umanità e della Sua beneficenza. Oh com’ è ampio il sug-getto che a me si offrirebbe, se volessi narrarvi per minuto quanti dolori la Sua mano pietosa abbia alleniti, e quante lagrime rasciugate! Ma io non posso, o Signori , correrlo tutto, no veramente. E sopra ciò , se pure il potessi , non direi cose nuove, o maggiori, che Voi, Genova tutta e i suoi cittadini non sappiano , e non abbia già divulgato in ogni parte la pubblica ri-conoscenza. Lo sanno pur troppo, e ne piangono amaramente la perdita, i pubblici stabilimenti di carità , e di educazione, gli asili infantili, e i mesti ricoveri della umanità sofferente (2) ; lo sanno vedove e pupilli dere- (’) Ciò accadde nel 24 settembre del 4865. (2) Oltre agli Asili infantili di Genova, di Cornigliano, di Recco, e di Rapallo, il Principe Odone solca fare annualmente copiose largizioni in denaro allo Spedale ( XXIV ) litti, e padri e famiglie intere, decadute da onesta fortuna , e costrette a soffrire entro le domestiche mura la più crudele delle povertà , cui non basta il cuore a uscir per le vie, e a stendere la mano supplichevole di soccorso 0); e tutti il sanno quanti a Lui si rivolsero nei tristi casi della vita, e nelle incontrate sventure. Nessun infelice chiese mai invano, nessuno si partì mai da Lui, che non ricevesse pronti, amorevoli ed efficaci sussidi. Generoso per natura, e compassionevole dei mali altrui era l’Animo del giovane Duca ODONE. Sempre, e a tutti Ei volea dare e concedere; e si doleva che a ciò non Celesta di Rivarolo, ove divisava di stabilire a proprie spese parecchi letti se morte immatura non gli avesse troncato il pietoso disegno, alle Scuole e Stabilimenti^di educazione governati dalle Suore di Carità in San Pier d’ Arena e in Campomarone, ed a molte altre Opere di pubblica beneficenza. E le sue largizioni erano tali e così frequenti, che talvolta, non sopperendovi abbastanza il Suo appannaggio, ponevano in angustia i dispensatori delle Sue liberalità. (') Un fatto degno di essere specialmente ricordato, e che prova quanta fosse la Sua carità verso i poveri, impediti ad accattare pubblicamente la elemosina, è il seguente. Avea letto in uno dei Giornali di Genova, che un’onesta famiglia colpita da infortunj, si trovava nella più desolante miseria, e per malattie e per altri impedimenti al lavoro, soffriva mille crudeli privazioni, e quasi la fame. Nel Giornale era indicata la via, non però la casa, ove abitava quella infelice famiglia. 11 buon Principe Odone ne fu commosso profondamente, notò sopra una carticella (che fu poi trovata fra i suoi scritti) il caso compassionevole, e diede segretamente a persona fidatissima addetta al suo personale servizio l’incarico di trovare nella via indicata dal Giornale la casa, in cui languiva la famiglia derelitta, e di sovvenirla largamente col denaro, che perciò le diede di sua propria mano. Però le dava insieme ordine espresso ed assoluto di tacere ai sovvenuti donde e da chi provenisse il soccorso, volendo che nè essi, nè altro nessuno, il sapesse mai. Il Suo volere fu rigorosamente eseguito; la sconsolata famiglia si trovò in un tratto con generoso ed insperato soccorso sollevata dalla miseria; ma l’atto pietoso e grande del Principe Odone sarebbe ancora ignorato, se la persona, cui Egli ne affidò 1’ eseguimento, e la nota scritta di sua mano non fossero, dopo la di Ll'i morte > prova solenne e vivente di tanta Sua virtù. ( XXV ) bastasse il suo appannaggio di Principe, e di Figlio del Re d’Italia. Esempi di Sua carità e beneficenza potrei recitarne molti ; ma valga per molti quest’ uno : che negli estremi giorni, e quasi dirò nelle ore estreme del Viver Suo, ordinò si apportasse subito a modesto artista, che sapea manchevole di aiuto e stretto dal bisogno, largo e spontaneo prezzo di un suo dipinto , da cui fortuna avversa gli avea niegato ritrarre il frutto di molte sue veglie e sudori. Tanto era grande, e pietoso il Cuore di quel buon Principe, che in tali supremi momenti dimenticava Se stesso per ricordare gli sventurati !... ('). Nè di ciò vi prenda stupore, o Signori; imperocché da più alto principio, da fonte più larga e copiosa, che per se stessa non sia la sola umanità, procedeano nello Augusto Giovinetto questi atti di rara beneficenza ; vo’ dire dalla Religione nel di Lui Animo profondamente scolpita , dalla Religione, gloria antica della Reale Stirpe Sabauda, dolce e caro retaggio lasciatogli dalla pia Sua Genitrice, la di Cui Anima benedetta Lo scorse quaggiù , quasi angelo tutelare, nel cammin breve della Sua Vita. E ben mi accade recar qui sì bell’ esempio di Principe religioso e credente; perchè in mezzo ai deliramenti di una ragione superba, la quale osa con impotente conato sostituirsi alla suprema mente creatrice, che go- (') Un altro sventurato giovinetto, cui mancava il denaro per comperarsi lo strumento, col quale potesse apprendere ed esercitare 1’ arte musicale, unico mezzo, che per causa di fisica infermità egli si avesse per campare la vita , ricorse al Principe Odone. E il buon Principe, non avendo altro, quando la supplica Gli fu sporta, diede subito al medesimo il denaro, che avea già destinato per l’acquisto di varj acquerelli, dei quali si dilettava moltissimo, e che si trovavano in quel momento sotto i suoi occhi. ( XXVI ) verna 1 umanità, e poi, contraddicendo a se stessa, vaneggiare dopo la vita il nulla, ò debito solenne di chi narra pubblicamente le azioni degli uomini eccelsi, che operarono il bene inspirati dalla fede nell’avvenire, sollevare con sì splendidi documenti la dignità della intelligenza umana al principio eterno, da cui dipartissi, e a cui, dopo breve o lunga via nel tempo, dovrà ritornare per sempre , immagine, creatura, opera fra le universe la più graziosa e la più bella di Dio. Ma della religione operosa e sincera, che abbellì la mortale carriera del Principe ODONE, non dirò altro, o Signori. Ciascun di noi , e tutti , la videro se presenti, la seppero se lontani. Fu essa, che Gli rese meno acerba la vita, e gl’ infuse virtù e costanza ammirabile in mezzo a tante fìsiche sofferenze; ond’è, che mostrossi e fu sempre sereno e tranquillo , e potè attendere a studi eletti, e di buoni ed eletti studi farsi protettore, e promuovere l’incremento. Fu essa, che Gli consigliò le opere di pubblica e privata beneficenza, pei' cu‘ s‘ ebbe ed avrà perenne la gratitudiue dei superstiti. Da essa mossero, e in lei si affiserò sempre le più intime aspirazioni del Cuor Suo, temprato soavemente a dolcezza e a benevolenza. E fu essa, che nella suprema lotta mortale Lo cinse del suo forte usbergo, c ne raccolse lo Spirito eletto per ricondurlo al Creatore. Qui mi arresto , o Signori. E quali altre o più potrei dir io , che mertato non abbia , e non sorpassi con fatti degni di memoria la vita brevissima dell Illustre Estinto ? L Animo Suo grande e generoso, il Suo intei letto, il Suo sapere, le Sue virtù brillarono di l,lCC C0SI ( XXVII ) chiara c tranquilla, così evidenti e belle a noi si mostrarono , clic torrebbe forse efficacia al vero la povertà della mia parola. Principe però tra’ Principi meritevole di speciale encomio. Fu amato e riverito vivendo ; è benedetta, dopo morte, la Sua memoria. Genova e Liguria tutta , per munificenza , per affetto , per benefizii Lo ricorderanno perennemente. I cultori delle arti belle, e gli studiosi delle memorie antiche lamentano perduto con Lui un sapiente e generoso Mecenate. E la Società Ligure di Storia Patria , che Gli offrì 1’ odierno spontaneo tributo della sua gratitudine, ricorderà sempre con nobile compiacenza, che il Principe ODONE di Savoia fu fautore c protettore magnanimo dei suoi studi, e fu il primo fra i Soci clic la onorò del Suo Nome. ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME IV. FASCICOLO li. GENOVA TIPOGRAFIA DEL R. I. DEI SORDO-MUTI MDCCCLXVl DELLE OPERE di MATTEO Cl\ITA LI SCULTORE ED ARCHITETTO LUCCHESE COMMENTARIO DEL SOCIO PROF. SANTO VARNI GENOVA — TIP- SORDO-MUTI >Cuando nel 1833 feci ritorno dalla Toscana , ove per qualche tempo uvea dimorato, mi prese desiderio d’instituire confronti e ricerche riguardanti gli artisti che aveano in antico formalo il decoro di quella nobilissima parte d’Italia. Parevami allora, che non pochi fra medesimi avessero anco arricchito delle opere loro Genova e la Liguria, e i documenti che più tardi mi vennero a mani mutarono ben di frequente le mie congetture in certezza (‘). Dettai quindi parecchi appunti, piuttosto per mio studio e diletto , di quello che per voglia di farne pubblica mostra. Più specialmente inoltre intesi ad illustrare le insigni opere di scultura che adornano la Cappella del Precursore nel nostro Duomo, ed al proposito estesi una serie di Commentarii, di che appunto fanno parte quei due ai quali questo Instituto ha voluto concedere l’onore della propria ospitalità. (') Molli di questi documenti furono da me fatti cercare nel Civico Archivio ; più altri mi vennero forniti dalla gentilezza degli amici miei avv. Antonio Assarotti e cav. L. T. Belgrano. V. Varni , Eltncu di documenti artistici ; Genova , Pagano. Uno fra i più distinti artefici, che concorsero ad abbellire la Cappella del Precursore nella Cattedrale di Genova, fa Matteo Civitali figliuolo di Giovanni cittadino lucchese. Chi sia slato il maestro di lui è tuttora incerto. Il Vasari ed il Baldinucci lo dicono scolare d’Jacopo Della Quercia; ed il Cicognara, rettificando tale sbaglio, avverte come Jacopo morisse poco prima della nascita di Matteo, che è quanto a dire intorno al 1432. Né io in alcuna delle opere di costui saprei ravvisare la maniera o lo stile del Della Quercia; abbenchè il sullodato autore, parlando delle statue fatte dal Civitali per Genova, scriva che esse ricordano in qualche maniera il fare d'Jacopo Della Quercia, appunto perchè in Lucca si offrivano a lui le opere di questo Sanese come modello a preferenza d’ ogni altra scoltura (‘). (i) Cicognara , Storia della Scoltura, lib. IV, pag. 163. ( 6 ) Io non avventurerei quanto sono per esporre, se più volle non avessi vedute le opere dell’uno e dell’altro scultore, nei quali trovo due diverse ed assai lontane maniere; nè saprei con quali lavori di Jacopo si vogliano ravvicinare quelli del Civitali. Se osserviamo la pala dell’ altare che mirasi in San Frediano di Lucca, scolpita per ordine della nobile famiglia Trenta, ov egli sotto le cinque figure che la compongono appose il nome e l’epoca ('), non che le due lapidi sepolcrali con entro effigiati a bassorilievo i rittratti al naturale di Federico Trenta e della consorte già prima operate nel 1416, noi possiamo con facilità vedere la diversità di stile che passa fra lo scultore di Lucca e quel di Siena; il quale in questo lavoro specialmente vestì le figure con una ricchezza di panni soverchia (2). Oltrecchè, vi sono improntate discipline diverse da quelle che tenne il Civitali, che è più semplice in qualsivoglia lavoro. E per fare un confronto di eguale soggetto, potrà osservarsi la Vergine col putto in collo scolpita da Jacopo nella indicata pala, e quella che Matteo fece per l’altare di San Regolo in San Martino di Lucca. È ben vero che il Della Quercia nei lavori eseguiti per la Fontana di Siena (3) e pel monumento d’Ilaria Del Carretto nel Duomo di Lucca (4), ed in alcune opere condotte con ma- ( ') Hoc opus fecit Jacopus Magistri Petri de Senis MCCCCXXH. (2) Cicognara , Op. cit. V. Tav. ili. (3j Questi lavori eseguili da Jacopo nel li 19 furono più tardi da mani vandaliche deformati. Al presente il Municipio di Siena lia deliberato di far ricopiare in marmo la detta Fontana, e di collocare nelle sale dell’ Accademia i preziosi avanzi dell’antica. È notevole che dopo la costruzione della medesima il Della Quercia acquistò il sopranome di Jacopo della Fonie. (4) La figura di questo monumento può senza tema annoverarsi fra le più belle produzioni d’ Jacopo; ma io non potrò mai concorrere nella credenza che sieno opera di lui quei pultini sorreggenti festoni di fiori e di frutti, i quali decorano I’ urna. Uno di questi bassirilievi si ammira nel Corridoio della Galleria degli Uffizi in Firenze, e forse fu venduto nell' epoca in cui il monumento venne smosso ( 7 ) gistero di sommo artista ad ornamento della porla del famoso lempio di San Petronio in Bologna ('), si mostrò più largo, facile e robusto ; ma è vero pur anco che nemmeno in queste opere nulla si scorge che richiami alla memoria quelle del Civitali , nè il modo con cui egli tenne il bassorilievo. Nella condotta di questo Matteo si avvicinò sempre a quelli operati da Donatello, da Mino da Fiesole e da altri quattrocentisti; e ce ne porge un esempio il piccolo bassorilievo della Fede che ve-desi nel Corridoio della Scuola Toscana nella Galleria degli Uffizi in Firenze (2). Questo lavoro non solo ricorda lo stile di Donatello , ma la rassomiglianza ed il carattere della testa della figura sono tali, da confonderlo colle opere di costui; ed é perciò eh’ io mi vado accostando con persuasione di verità a quanto ne congettura il dottissimo P. Marchese. « Non andrebbe forse lungi dal vero, egli dice, chi opinasse (non essendo di quel tempo in Lucca artefice di gran nome) averlo il genitore inviato ad apparare 1’ arte nella vicina Firenze, ove dal luogo originario. La scoltura di esso parmi non corrispondere ad alcun’altra dell’ ardito e valente artista. li monumento in discorso fu fatto eseguire da Paolo Guinigi signore di Lucca poco dopo il 1405, in cui avvenne la morte di Maria ch’era sua consorte (V. Guida di Lucca, pe’tipi fìalestreri, 1829; Cicognara, Stor. cit.) (') Ecco quanto si legge a tale proposito nella Giuda di Bologna scritta dal Bianconi j pag. 97: n Gli ornamenti della porta maggiore furono nel 1425 commessi per fiorini d’oro 3,600 , dando la fabbrica i marmi a Giacomo di maestro Pietro della Fonte, il quale benché prevenuto dalla morte nel 1438 (e non 1418 come dicesi nelle note al Vasari) compiè totalmente il suddetto lavoro ». Ed a pagina 262 si aggiunge: « II Vasari ed il Baldìnucci lo dicono morto d’anni 64 nel 1418; ma ritrovansi nell’Archivio della Rev.da Fabbrica di San Petronio le convenzioni fatte con lui per la costruzione della porta grande sotto il 24 ottobre 4 429, l’assoluzione alli suoi eredi dell’obbligo di perfezionarla, delli 25 settembre 4 442, essendo egli morto poco prima ». (2) Sotto di questo basso rilievo, il quale nel 1830 venne per cura del Commendatore Montalvi acquistato da una famiglia patrizia di Lucca., si legge: 0. iM. C. L. , cioè: Opus Mattici Civitalis Lucensis; e l’intaglio della figura, che è piena di gentilezza , vedesi nell’ Illustrazione della Galleria degli Uffisi. (8) se più non era in vita il Bnmellesco, ben potevan vivere ed operare Lorenzo Ghiberti, Donato, i Robbia, ecc. (') ». Scrivono gli storici che nel 1450, o in quel torno, venissero dagli opehii del Duomo di Lucca commessi al Civitali quegli ornamenti che tuttora si osservano ai lati della Cappella detta del Santuario (alcuni de’ quali ei componeva entro le picciole lesene nella foggia stessa di quei pendoni di frutti onde il Ghiberti fregiò gli stipiti della porta del Battistero in Firenze), e che, per quanto viene asserito, gli furono affidati nello intendimento di ornare il Coro che sorgeva nel mezzo del Tempio, e che fu scomposto dopo il IG3I (2). E con ciò vogliono correggersi coloro, i quali scrissero che il Civitali attese all arte del barbiere fino all’anno quarantesimo dell’età (’) Marchese, Scritti varii, Firenze, Le Monnier, 1855; pag. 522. Per convincersi viemmeglio del come il Civitali potesse apprendere l’arie da Donato, oppure lo imitasse nelle sue opere, basterebbe osservarci tre bassi rilievi dell altare di San Regolo ove si scorgono le stesse discipline di quel maestro, le quali pure si vedono nella mezza figura della Vergine che allaita il Divin Figlio, esistente nella chiesa della Trinità in Lucca. A proposito di questa figura è poi a correggersi il Trenta, il quale nella sua Guida di Lucca la dice di tondo rilievo, mentre essa non è che di mezzo, od anche di siile stiaccialo. (2J ' incenzo Marchiò nel suo Forestiere infomuto nelle cose di Lucca (ivi 1721), scrive essere questi ornamenti non solo del Civitali, ma anche di altri scultori. La qual cosa è probabilissima, ed anzi certa; perche dovendo i medesimi essere in diverso modo composti ed aggiustati, niente vi ha di più facile odi non poterli tutti collocare in opera (come infatti si scorge), od altrimenti di farvi nuove aggiunte. Comunque siasi però, essi sono veramente pregevoli anche per quei pochi lavori di statuaria a cui vanno frammisti. Nello stesso Duomo si vedono pure due pile per l’acqua benedetta, le quali similmente si credono opera di Matteo. Eleganti e svelte nella forma, sono condotte con raro artificio e squisitezza di gusto ; e poco diversificano nell’ insieme della pila che Slagio Staggi scolpì in seguito per la Primazialedi Pisa, se forse non la sor-vanzano in gentilezza. Alcuni invece le dicono fattura di Vincenzo, che fu nipote di Matteo e figliuolo di Masseo Civitali, celebre intarsiatore in legnami nel secolo XVIJ ma dal confronto fattone, a me pare che le medesime sieno per avventura più vicine allo stile di Matteo, di quello clic agli ornamenti scolpiti da Vincenzo nel nuovo Battistero dj San Frediano. Nejla quale chiesa, a mano destra, vedesi poi ugual- ( 9 ) sua, in cui si diede a lavorare di scoltura. Perché Matteo nato nel 4 435 non coniava nel 1450 che 15 anni , del 1472, per tacer d’altro, scolpi il monumento di Pietro da Noceto , e del 4 482 , che fu 1’ anno 47 di sua vita, diede opera al celebre Tempietto del Volto Santo , alla cui impresa non bastavano certo i pochi anni di studio che gli si vorrebbero consentire , contro della cronologia e dei fatti indicati. Pertanto chi non riconoscesse come a Matteo nello scolpire i suoi lavori sì per Lucca che per Genova non fossero ignote le opere scolpite da’ grandi maestri, potrebbe attingere sicura testimonianza dal citato monumento di Pietro da Noceto e dalla cappella di San Regolo, di cui parlerò in appresso. Rispettando poi ogni opinione, io espongo francamente la mia qualsiasi, e dico: che fra tutti gli artefici dei secoli XIV e XV il Della Quercia, abbenchè valentissimo ed ardito nell’arte, fu però uno dei tanti che si allontanarono da quella somiglianza di stile che vedesi tra gli artefici che operarono negli indicali secoli, e che segnarono il risorgimento dell’ arte, seguendo le norme già tracciate da’ grandi maestri pisani sotto la scorta della natura. Infatti, chi non ravvisa nei lavori di Benedetto da Maiano una vicinanza di stile colle opere di Antonio e Bernardo Rossellini, le quali alla lor volta si confondono spesso con quelle di Donato , di Luca e di Andrea della Robbia ? Mino, artefice più grazioso e gentile, tenne uno stile proprio, ma non però lontano dai suddetti scultori ; mentre Jacopo mente dello stesso Vincenzo la statua di un San Pietro, figura alquanto tozza nell’ insieme e di panni trattati senza veruna scelta, statavi depositata nel 18Ì2 da Carlo Frediani. Ecco le epigrafi che si leggono la prima nel plinto e l’altra nel piedistallo : AN • D • M • D • VI • MEN • SEPT • ET OCT • PRIM ■ OPUS • VINC • CIVJTAL • carlo q • Andrea Frediani DEPOSITÒ IIDCCCXU1. ( IO ) Della Quercia, il Varrocchio, il Vecchietta (') ed il Tribolo, tendono ad un fare più sentito e lontano da quella semplicità che si ravvisa nel Civitali. Alcuni scrittori, e fra essi il Mazzarosa (2), asserirono che Matteo ebbe una maniera tutta sua nel trattare il bassorilievo in isti le stiacciato, dandovi effetto con alcuni sottosquadra. A me pare invece il contrario, avendo riscontrata codesta particolarità nelle opere di moltissimi artisti, le quali si ammirano così nelle città della Toscana, come in Verona, Mantova, Padova, Venezia, ecc., e nei lavori di molti fra quegli scultori che nel secolo XV abbellirono la monumentale Certosa presso Pavia. In Firenze ne porgerebbero esempio il fregio de’putti danzanti scolpito da Donatello a concorrenza, se si può dire, di Luca della Robbia (3), che si ammira nel già citato cor- (’) Veggansi gli angioli scolpiti da tale artista ad ornamento del tabernacolo ili San Domenico in Siena, ed altri suoi lavori. (2) « Niuno, a quello eli’io sappia, lia scritto su questi bassorilievi nè mollo nè poco; i quali però meritano, per quanto me ne pare, molla considerazione, giudicandoli di mano del Civitali. Infatti basta solo aver veduto una volta quei bassorilievi suoi all’ altare di San Regolo nella nostra Cattedrale, per rimaner convinti di questa verità. Oltracciò è questo un genere di scultura che non ho mai visto praticare da altri fuori di lui. Anche l’anno in cui furono liniti ci dà lume, leggendovisi il 1496 » (Mazzarosa, Opere, Lucca, pe’tipi Giusti; 1841, I. pagina 53 ). (3) « Questo superbo lavoro come quegli egualmente bellissimi di Luca della Robbia.....furono fatti per decorare le cantorie degli organi del Duomo, ove stettero finche nel 1688 per ismania di decorare il Coro della medesima chiesa furono (che vandalismo!) tolti da’loro posti, e poscia abbandonati nelle stanze dell’ Opera finché non furono restituiti alla pubblica vista in questo luogo ». (Fantozzi, Guida di Firenze, pag. fi8). Ho detto a concorrenza di Luca della Robbia, perchè prima di Donato egli aveva scolpito altri bassi rilievi per la cantoria dello stesso Duomo ; ed il Vasari nella Vita di Luca della Robbia scrive, che gli Operai del Tempio i quali « oltre ai meriti di Luca furono a ciò fare persuasi da M. Vieri de’Medici allora gran cittadino popolare, il quale molto amava Luca, gli diedero a fare l’anno 1403 l’ornamento di marmo dell’organo, che grandissimo faceva allora l’Opera ». (Vasari, Vite ecc., vol. Ili, pag. 61). ( 11 ) ridoio della Galleria degli Uffizi, e quelli eseguiti nel pergamo esterno della Cattedrale di Prato per opera del medesimo Donatello in compagnia di Michelozzo nel \ 428, per ordine degli Operai della Cintola' (Q. Che se talvolta Matteo si mostrò alquanto più secco nel profilare alcune figure, come sarebbe in due dei bassirilievi della Cappella di San Gio. Batta in Genova, non è a dire con ciò che in tutte le sue opere abbia egli praticata una tale maniera; giacché anzi nel basso rilievo esprimente la Fede, in quello della Vergine col putto in collo nel monumento del Noceto, ed in altri ancora, adoperò uno stile assai diverso; il quale nondimeno non é mai lungi da quello de’suoi contemporanei , e massime da Donatello (2). Ma troppo lungo sarebbe il citare quegli artefici che in somiglianti lavori usarono questa maniera non isconosciuta agli antichi; e che praticarono, appunto come il Civitali, quando più loro cadeva in acconcio gli scultori dei secoli XV e XVI, e specialmente Andrea Con-tucci da Monte Sansavino ne’suoi bassirilievi, i quali si am- 0) « Nel 1428 a dì 14 luglio gli Operai della Cintola dettano a fare il pergamo di fuori, dove si mostra la Cintola , a Donatello di Nicolò e Michele di Bartolom-meo scultori ». Diurni del Comune, e Casotti Spoglio A, nis. nella Roncio-niana, N. 58. (V. Baldanzi , Della Chiesa Cattedrale di Prato, ecc. pag. 77). (2) 11 Trenta, nelle Memorie e documenti per servire alla Storia del Ducato di Lucca (vol. Vili, pag. 59), conferma quanto venne ora da me esposto, non ostante il dubbio di Giacomo Sardini, che il Civitali abbia avuti i primi i»se-gnamenti da un Silvio Lucchese chiamato dal Lomazzo eccellente nella parte ornamentale. « Se volessimo appoggiarci (scrive il Trenta) ad una induzione anziché ad una testimonianza ben fondata, che ne dà il P. Bartolomeo Beverini ne’suoi Elogi degli illustri lucchesi, dovrebbe dirsi che Matteo nella sua giovinezza si fosse trasferito a Firenze a perfezionarsi nell’ arte sotto la disciplina di Donatello. Ma quando anche non avesse egli contato allora che l’età di 18 anni, era divenuto paralitico il maestro ottuagenario. È a notarsi inoltre che nominandone il Vasari gli allievi, non fa menzione alcuna del Civitali. Per la qual cosa si potrà più presto supporre con molta ragionevolezza , che avendo arricchito Donatello di bassorilievi e di statue non solamente la patria, ma tutta- ancora l’Italia, avesse campo perciò Matteo ne’ suoi viaggi di osservarne i lavori e di prenderli a modello ». ( «) mirano nella Cappella dei Gorbinelli a Santo Spirito di Firenze. Francesco Kugler nel suo Manuale della Storia dell’Arte (•) scrive che il Civitali eguaglia almeno Andrea Vorocchio; e, secondo il Forster non potrebbesi meglio paragonare clic col pittore Domenico Ghirlandajo. Inoltre nella descrizione elio dell’ accennato bassorilievo della Fede vien fatta nella Illustrazione della predetta Galleria degli Uffizi, è detto che i bassirilievi di Matteo sembrano tenere maggiore somiglianza con le pitture del Poliamolo, del Mantegna e d’altri dipintori, di quello che coi bassirilievi di Donato, del Ghiberti e dei Robbia (2). A dire il vero io non saprei in verun modo rin-trecciare nell’ opere di Matteo la voluta rassomiglianza; ag-giugnerò invece che tutti gli artisti sovra indicati tennero maniere affatto diverse fra loro, così pel modo di comporre come per lo stile delle pieghe, e che, per contrario, si possono benissimo istituire confronti tra Donato, il Ghiberti, il Robbia ed altri. Di tanto io mi persuasi nell’esame più volte fatto delle loro sculture sparse per le chiese di Firenze, o schierate in bell’ ordine in quella insigne Galleria. Volendo ora accennare alcune delle opere scolpite dal Civitali per la sua patria, noterò il monumento già citato di Pietro da Noceto, il Tempietto del Volto Santo e 1’ altare di San Regolo; il primo de’ quali, scolpito nel 1472, come apparisce dalla relativa iscrizione, è opera veramente degna di tanto uomo, e di tale semplicità s’impronta da farne ricordare i più bei tempi dell’ Arte italiana. Gli storici sono concordi nell’ asserire che Matteo tolse il concetto di questo dal monumento che Desiderio da Settiguano fece per Carlo Marsuppini morto nel 1453, e che tuttora si (') Ed. Venezia, !8o2, pag. G86. (2) Galleria di Firenze; ivi 1846, vol. 11. ( 15 ) ammira in Santa Croce di Firenze; io però aggiungerei che il Civitali si servì più ancora dell’urna, del basamento e del riparto che Antonio Rossellini pose nel monumento del Cardinale di Portogallo a San Miniato al Monte; che infine i monumenti scolpiti da Mino ed allogati in Badia a Firenze, più assai che quello di Desiderio, gli giovarono forse in quanto spetti alla parte architettonica , nella condotta del monumento in discorso. E ciò fa credere che Matteo, facendo suo prò’ di quanto era migliore nell’opere lasciate dai sommi maestri, ne usasse al bisogno con quello accorgimento che é proprio soltanto de’ più celebri artisti. Avendo inoltre più volte osservati i monumenti del Marsup-pini e del Noceto, ho trovato che tra l’insieme dell’ uno e quello dell’altro non corre diversità alcuna; e solo è notevole che il Settignano ornò il primo al basso del piedistallo di due angioletti, i quali tengono fra mani l’arme dei Marsuppini, e due altri ne collocò sulla cornice superiore intenti a sorreggere due festoni. L’urna poi é più ricca, mentre il Civitali ne preferì una di forma severa e senza decorazioni; perchè quei pochi dettagli che vedonsi sul coperchio appartengono alla architettura. Nel Settignano pertanto é maggior gusto ed eleganza, per ciò che spetti alla parte ornativa; e nel Civitali invece si apprezza la severità delle membrature, le quali concorrono a dare una forma più robusta all’ insieme del monumento ('). Di questo per altro inutile sarebbe il farne più lunga descrizione, potendosene avere una esatta idea dalle Tavole che arricchiscono la Storia del Cicognara; onde io mi tratterrò di preferenza a ragionare del Tempio del Volto Santo. Addì 18 gennaio 1482 il Civitali stipulava il contratto a rogito del notaro Giovanni Medici, per 1’ esecuzione di questo (>) Michele Ridolfi, negli Scritti vari circa le belle arti, ha pubblicato due documenti estratti dal protocollo del notaro Franciotti appartenenti al <1473, i quali riguardano la esecuzione del monumento in discorso. ( H ) lavoro nel Duomo della sua patria, con Domenico Berlini, clic fu ad un tempo suo protettore ed amico. Il Tempietto doveva essere di forma quadrata, ed eseguito in tutto giusta un disegno presentato dall' artista medesimo entro lo spazio di mesi trenta a datare dal febbraio allora prossimo; e si voleva che egli vi impiegasse tutto il suo isforsso et ingiegnio. Ma poco stante, per atto rogato dal notaro stesso, fu coll’accordo delle parti mutato il disegno, e convenuto invece di farlo ottagono, a compiacenza del Vescovo e degli Operai di Santa Croce di Lucca, secondo un nuovo tipo presentato da Matteo. Il Tempietto del Civitali può dirsi un vero modello di architettura ; e sempre più cresce di pregio, quando si considera che quello innalzato dal famoso Bramante a San Pietro in Molitorio a Roma gli è posteriore di 17 anni. Esso é di ordine composito , bella ed elegante ne è la proporzione, e sveltala forma ; e tanta è l’armonia delle parti e la gentilezza delle modinature, da. persuaderne doversi collocare questo architettonico lavoro fra’ più degni dell’ Arte dopo il risorgimento. Considerandolo attentamente, si scorge quale impegno ponesse Matteo nell'eseguirlo, e con quanta avvedutezza attingesse alle opere più pregiate della antichità. Le maschere, gli stemmi, i festoni che ricorrono lungo il fregio lo mostrano pure accurato nel lavoro dei più minuti dettagli : la cupoletta è tutta messa a maioliche di diversi colori, e divisa» da costoloni dorati. Le otto griglie in ferro dorato, che rinserrano i tre ingressi ed i cinque finestroni , sono pure opera ingegnosissima di Matteo. Affermasi che verso la metà del secolo XVI il Tempietto fu ornato di putti con varii emblemi della Passione, i quali dice-vansi opera di Vincenzo Civitali ; ed il Mazzarosa aggiugne, che nel 'IG23 vi si allogavano quattro grandi statue sullo imbasamento. « Ma si trovò ai tempi nostri, egli continua, chi ebbe il giudizio e il coraggio di levare via e putti e statue nel- ( IS ) 1’occasione d’indorare di nuovo la Cappella; e fu Don Pietro Pera canonico della Metropolitana, poi arcivescovo nostro (') ». Dietro all’ intercolonnio sorge la statua di un San Sebastiano legato all’ albero , che il Civitali si era obbligato di scolpire di marmo fino et bianco, di misura di braccia due e due terzi. Il nudo di tale figura è disegnato con tanta eleganza e verità da tener posto fra le più belle produzioni dell’epoca; e dalla medesima inoltre si arguisce che il Civitali dovette avere un tipo prediletto, vedendosi in genere ripetuto nell’ altra dello stesso Santo che decora l’altare di San Regolo , ed anche moltissimo ricordandosi in quella di Adamo nella Cappella del Precursore in Genova (2). Resta ora ch’io dica dell’altare di San Regolo, scolpito da Matteo nel 1484. Da questo si vede quanto egli facesse conto delle opere dei sommi maestri toscani, e come si giovasse qui del concetto stesso del monumento di Baldassarre Cossa, già papa Giovanni XXIII, eseguito da Donatello e dal discepolo suo Michelozzo. Di ciò rende non dubbia testimonianza il basamento, ove sono i tre bassi rilievi adorni da iscrizioni (3) ; (') Mazzarosa, Illustrazione della Cappella del Volto Santo, Lucca, Tip. Giusti, 1856. (2) Alcune iscrizioni si leggono sotto di tale figura, cioè: Divus Sebastiamis Martir; quindi: ut vivae m. * vera vita, motto che soleva usare il Berlini; e finalmente: Sacellum Cruci dicatum vetustum ac deforme excitari et ornari, aram quoque a tergo divo Sebastiano poni sua impensa religiose curavit Dominicus Bertinius gallicanus lucensis sanctc sedis secretarius ac comes, mortis memor. Matkeo Civitali lucensi architecto anno mcccclxxxiiii. Ed ai Iati della figura stessa, in due scomparii del Tempietto intarsiati di marino a colori, ò scritto : VALET • VI • SUA • VERITAS • M - CCCCLXXXIIII. OPUS • MATHEI • CI VIT AL • LUCEN. (3) Ecco come si esprime a tale riguardo Michelozzo nella denunzia dei beni di lui e de’fratelli falla agli ufficiali del Catasto di Firenze nel -1427: « Esercito lartc dell’ intaglio, compagno di Donato di Nicholò di Betto Bardi, detto Donatello, abbiamo fra le mani glinfrascritli lavori in due anni o incircha siamo stati chon-pagni, cioè; : ( Kì ) e ciò conferma sempre più il sospetto del eli. P. Vincenzo Marchese, che il Civitali abbia fatli i suoi studi in Toscana, ove anzi parmi che più d’ ogni altro siasi egli proposto di imitare Io stile di Donato, giacché, a mio modo di vedere, non condusse opera che non ricordi il fare di questo artefice. Le tre figure che stanno entro le nicchie, sono lavori mirabili pel concetto e per la nobiltà con cui Matteo le compose; abbenché in alcune parti non si ravvisi quella diligenza che egli praticò nei lavori per Genova. Esse rappresentano San Sebastiano (che l’artista vesti giusta il costume del tempo), San Regolo ed il Batista, la cui figura, ad onta che sia inferiore nella esecuzione, può dirsi una replica dell’Abachuc nel Duomo di Genova. Altrettanti bassirilievi sottoposti alle stesse, ed esprimenti il martirio di que’ santi, sentono tutta l'ingenua scuola dei maestri toscani ('); e la Madonna col Divin Figlio, la quale fa capo al monumento del Santo cui è dedicato l’altare, è condotta con sì raro artifizio e nobiltà, che la diresti opera di Mino, sebbene vi si scorga un fare più largo. « Una sepoltura per in Sco. Giovanni di Firenze per messer Baldassarre Coscia, Cardinale di Firenze, abbiamo avere a farla a tutte nostre spese fior. 800 ». (V. Gaye, Carteggio inedito d'artisti, Firenze, Molini, 1839, vol. I, pag. H9). E nella casa ove questi artefici tenevano il proprio Studio, nella via detta ora de’ Calzaiuoli, si legge una epigrafe modernamente appostavi, e concepita in questi termini : IN QUESTE MURA DONATELLO E MICHELOZZO COME FRATELLI LA SCULTURA ESERCITAVANO INGENTILIVANO (') Gli accennati bassi rilievi sono divisi dalle seguenti iscrizioni: (Di fronte) divo • rigulo • lucae • praesidi • nicolaus • noxetus • eques (Di fianco) opus • mathei • civitai, • lucensis (Di fronte) in • eum • parentes • Q • suos ■ pius • hoc • altare ■ posuit • ornavitq (Di fianco) a • d • m • cccclxxxiih E nella fronte dell’ Urna : sancti reguli 31 ART y RIS CORPUS hic colitur ( i7 ) Nel Commentario del P. Vincenzo Marchese si legge, che nel 1486 il Civitali « firmava il contratto con I’Operaio del Duomo di Pisa nel giorno 24 aprile, per sostituire agli ornamenti di stucco attorno alle cappelle di ventidue altari altrettanti fregi linissimi di marmo. Frattanto si davano all’ artefice in acconto fiorini 20 d’oro, cioè lire 122; e altri pagamenti si trovano fatti negli anni 1487 e 1488. Vero è che di questi altari non ne fece che due, lasciando altrui la cura di eseguire gli altri con il suo disegno. Di ciò si ha un documento nelle Memorie del Trenta; per il quale si corregge il Da Morrona, che, fidato ad una tradizione, credette quegli adornamenti disegnati da Michelangelo Buonarroti e scolpiti da Stagio Staggi di Pietrasanta. Si dee avvertire però che nell’ imbasamento e nei pilastri delle cappelle suddette si leggono gli anni 1552, 1536 e 1592 (') ». Io non saprei dire quante volte m’abbia vedute le indicate cappelle, e come specialmente scorgessi la mano dello Staggi in quella de’ Santi Martiri, ove si ammira il basso rilievo del-l’Ammannato (2) , e nel superbo altarino di San Biagio, monumenti entrambi de’ più ricchi in tal genere fra quanti se ne vedono in quel ricchissimo Duomo. Ho detto specialmente, perchè il modo di comporre dello Staggi si ravvisa pure in qualche altro lavoro, come sarebbero alcuni capitelli composti con teste di griffi, maschere, ecc.; ma se si eccettua l’altare di San Guido, il quale è finamente lavorato, gli altri sembrano piuttosto eseguiti sui disegni di quell’artefice, che lavorati da lui stesso; perchè, ad onta che vi si scorga quella foggia di ornare che si incontra (') Marchese , Op. cit. (2) V. Cicognara , Stor. cit. A proposito delle indicate cappelle il Da Morrona (Pisa illustrata, vol. I, pag 196) riferisce il seguente documento: € A dì 25 aprile 1486 al Pisano.....Antonio d’Jacopo Operaro del Duomo alluoga a M. Matteo di Giovanni Civitale da Lucclia per fare nel dicto Duomo di Pisa l’ornamento di marmo di ventidue Cappelle d’altari le quali devono esser poste dove ora sono quelle a giesso.....Matteo si obbliga di fare eseghuire tutto I’ ordine e lavori intagliati e schorniciati.....ecc. » ( 18) sovente nelle opere dello Staggi, io non saprei vedervi nò la finezza della esecuzione, nè quel tocco leggero die tanto si apprezza nei lavori di lui. E però, tornando al Civitali, io concorro nell’ opinione del Da Morrona, che cioè per qualche insorto motivo egli abbandonasse l’incarico; nè crederei che lo Staggi eseguisse i disegni lasciati dal Civitali, parendomi eh’ ei fosse troppo valente nelle arti, per acconciarsi ad eseguire progetti d’altri maestri; tanto più che e per gusto e per fecondità di comporre non era al certo inferiore a Matteo. In conferma delle quali cose è notevole, che mentre questi si ripeteva quasi sempre nelle sue opere, lo Staggi le tenne ognora variate e piene di artistiche difficoltà, di un disegno più elegante e di una maniera che vedesi attinta dall'antico. Altra opera del Civitali è quella statua di Nostra Donna col putto in braccio, sorretta da una specie di modiglione di forma rotonda, ornato di stemma, griffi, ecc., la quale si vede sull’angolo meridionale della facciata di San Michele a Lucca ('); figura che oltre all’ esservi improntato lo stile di Matteo, ricorda moltissimo nel getto de’ panni la Santa Elisabetta da lui scolpita per Genova ; ed abbenchè sia. di una maniera tonda nella lavorazione, è però più grandiosa nella forma delle pieghe. Nella Cappella del Santissimo Sacramento vedonsi inoltre di sua mano due graziosissimi angioletti, grandi quanto il vero, inginocchioni ai lati del Tabernacolo ottagono; il quale subi, non so in quale epoca, alcuni cambiamenti, ed insieme a questi putti fu da Domenico Bertini commesso al Civitali nel 1479. Il sentimento e la ingenuità impressa dallo scultore in questi mirabili angioletti è così viva, da non potersi abbastanza esprimere a parole; e tale poi è la semplicità e la giustezza della mossa, che a buon diritto siffatte sculture devono collocarsi nel (*) Qui pure nella faccia che gira all’intorno si legge il mollo del Berlini; e poscia : Salutis 'portus M. Virgo spetiosa. ( 19 ) novero dei lavori più belli usciti dall’ ingegnoso scarpello di Matteo ('). Essi richiamano alla memoria quelli che il Rossellini scolpì nel già citato monumento del Cardinale di Portogallo, e più ancora gli altri del Perugino nel celebre quadro dell’ Assunzione , che al presente si ammira nella Galleria dell’ Accademia di Belle Arti in Firenze. Circa la stessa epoca, e vivente ancora il Bertini, Matteo ne scolpì il monumento, il quale consiste in un busto di tutto rilievo (e non di basso rilievo come, per non so quale svista, lo disse il lucchese Mazzarosa) esprimente il ritratto di lui, collocato entro una nicchia rotonda, all’ intorno di cui sono scritte queste parole : Brevi in sarcophago naviter tumulandus abibo (2). Quantunque tale scultura sia piena di vita, non parmi però che possa pareggiare in merito le opere summenzionate, essendo lavorata con molta secchezza di parti, e meno morbidamente modellata. Uno fra gli ultimi lavori dal Civitali eseguiti in patria è il pergamo, che vedesi addossato ad un pilastro a destra di chi entra nel maggior tempio di Lucca. Esso è di forma ottagona, e sorretto da quattro mensolette, donde si elevano l’una sull’altra due tazze ornate di scannellature, di maschere e d’ aquilette (J) Marchese , Com. cit. (2) Seguita poscia sotto del busto la presente iscrizione: DOMINICUS BERTINUS LUCEN ■ LATERANEN • ET CF. . SAREE AULARUM COMES AC SCE APL • SEDIS SECRETA RIUS TABERNACULO SALV ATORIS INSIGNI OPERE ERE SUO PROPRIUS EXCILATO SI BI ET SUEVE RISALITE CONIUGI SUE INCOMPARABILI EORUMQ POSTERIS VIVUS DICAVIT SACRUM SALUTIS ANNO MCCCCLXXVII1I. (20) sorreggenti festoni di fiori e frutti. Alcune ben intese membrature intagliate le coronano; e le sormontano gli otto specchi del pergamo istesso, i quali sono intarsiati nel mezzo di marmi a colori, e fiancheggiati da ricche e ben intese lesene, con base e capitello finamente lavorali. Ad ogni angolo dell’ ottagono, tra una lesena e l’altra, campeggia una specie di candelabrino pure intagliato; parecchie assai ricche modinature fanno capo agli indicati specchi; e tanta infine è la giustezza delle proporzioni e degli oggetti delle sagome, che l'insieme forma una massa la quale può dirsi veramente gentile ('). Altri lavori sì di statuaria come di architettura si attribuiscono a questo valente artefice. Diconsi opera sua il Palazzo dei Lucchesini in Yignola a Massa Pisana, e quelli egualmente dei (•) Il Trenta (Guida, ecc. pag. 32) ed il Cordero di San Quintino (Osservazioni sopra alcuni antichi monumenti di belle arti nello Stato Lucchese, pag. 96), il quale parlando di questo lavoro cita i libri dell’Opera di San Martino, affermando che esso fu eseguito da Matteo nel 1498, cioè due anni avanti della sua morte, avvenuta, secondo gli storici, in Lucca nel 12 ottobre 1501, contando allora il Civitali l’anno 65 d’età. A perpetuarne la memoria i figli fecero scolpire sul suo sepolcro questa onorevole iscrizione : D IM MATTHEI ■ CJVITALIS • AR CHITECT • ET SCULPT • RARISS HOC MONUMENTUM QUI • NON • SOLUM • PATRIAM SUAM • LUCAM • SED • UNIVERSAM 1TAL • STAT • IMAG • Q • EXCEI.L ORN • QUAE • CRATIA • ET • ARTE CUM • OPERIBUS • PRAXITELIS PHYD • MYRON • SCOPEQUE CERTANT • VIXIT • AN • LXV • MENS • IUI • DIES VII AB • AN • D • MDI • XII • OCTO IOAN • ET • NICOLAUS • FILII V1RT • AMAT • POS ( 21 ) Bernarnondini e Cenami ('). Io non so se esistano documenti per attribuire con sicurezza tali opere a Matteo; nondimeno confesso di avere trovata in que’ pochi ornamenti che fregiano tali fabbriche una certa analogia di stile colle opere di lui. Alcuni invece li vogliono fattura di Vincenzo Civitali già sopra menzionalo , essendoché la maniera di questi fregi ò più vicina ancora a quelli che si ammirano nel nuovo Battistero di San Frediano di Lucca da esso Vincenzo scolpito. Il Trenta inoltre, nelle sue Memorie sulla famiglia de’Civitali, aggiunge essere certo che, durante il suo soggiorno in Lucca, Matteo vi fece alcune statue di villani in naturalissimi atteggiamenti « le quali si additano tuttora qua e là pe’ nostri giardini, come pure un bassorilievo pel refettorio nel monistero di San Pon-ziano, in cui vedesi effigiala Maria Vergine con 1’Arcangelo Gabriele ». Altri lavori fece poi per la chiesa di Segromigno ; ed una statua in terra cotta esprimente San Sebastiano donò alla chiesa parrocchiale di Monte San Quirico, per collocarsi all’aliare di San Leonardo. E finalmente tra il 1474 e il 1484, come rilevasi da un libro dell’Opera di Santa Croce, incari-cossi « di fare nel pavimento della navata di mezzo un quadro grande di marmo a più colori commessi a disegno di stella con quattro tondi intorno, e di fogliami e fregio bianco (2) ». Dei Civitali egualmente è la Madonna che vedesi nella colonna contigua al suo sepolcro in San Martino di Lucca (3), e a lui pure si ascrivono le figure di due monaci scolpite a bassorilievo su di una pietra, in ricordanza dei pietosi e caritatevoli ufficii cui i medesimi si prestarono durante la pestilenza che funestò la citlà (') Soprani, Vite de’pittori, scultori ed architetti ecc., vol. 1, pag. 374; Trenta, Guida ecc. (2) Trenta, Memorie ecc. (3) In detta colonna si legge: MATTKEUS • CI VITAL • SCULPT • NOS • GENUIT ET • MORS • DEO • PUROS • REDDIDIT • ( 22 ) di Lucca intorno al 1420. E cerio essi sono di un lavoro così squisito, da potersi non solo sostenere per opere del Civitali, ma a noverarsi fra le più belle che egli abbia eseguile ('). Alcun, dicono essere anche di Matteo la porta del tempio di N.S. a osa in Lacca, la quale vedesi tutta adorna d'intagli. In- , * ’ 'e^JGne ''cn^u,a non sia di lavorazione tanto acconta, . l)erò da ïammentare le opere di Donatello; ed in ispe- modo i putti ^colpiti nell’architrave ricordano quelli dei sepolcri dei Gattamelata nella Basilica di Sant’ Antonio in Pa- °'a , ed altri fusi in bronzo per il paliotto dell’ aitar maggiore . Sj6SSa c^'esa> opere delle più eleganti che uscissero dalle mani di Donatello medesimo. o- . i asserisce in ultimo spettare a Matteo un urna ed un Inesistenti nella chiesa di San Romano pure in Lucca; i Q 1 a'or‘> quando fossero veramente di lui, converrebbe ere-ere eh ei li eseguisse nella prima sua giovinezza, rimanendo al issotto d ogni altro. Parecchi affermano anche appartenergli statua in terra cotta e dipinta, esprimente un San Barto-ommeo, che si ammira in Vallebuia, alla distanza di un miglio mezzo da Lucca, nella chiesa intitolata a quel santo. In q nto al concetto essa direbbesi pressoché eguale a quella ‘ Ipita da Mai co d Agrate, la quale vedesi nel coro del Duomo di Milano (2). d m U?Sl° 1,3550 riliev° vedevasi Ul> tempo nella antica ed ora d/strulta cliiesa - »nna, o\e al presenle è la Piazza Reale; e poscia fu trasportato nella #»la dell, Madonnina presso la fm, di s„ Pi,,,,. n un grosso volume di fotografie, serbato nella Biblioteca Reale di Torino, opere ^ ra|)|,resenlano una statua ed un bassorilievo, die diconsi inr-inn. dtteU C‘Vltal1’ ed ora Passarono all’estero. La prima raffigura una donna iip°p- 1°IMld COlle mani siunte’ C(i una specie di lieretto o cuffia in capo. Se io r /--'Bilicarne della maniera, con cui si vede trattata, non vi troverei il 11 qu( insigne maestro. L’altro, scoperto dall’ ottimo amico mio prof. Con-i * 1 JM |,o!u 'e(lenie il gesso, lia nel mezzo una testa d’uomo in profilo; mani '',no quattro candelabr, frammisti ad emblemi consistenti in due mani annodate con palme e bindelli. ( 23 ) §• II. Dovendo ora tenere parola delle opere di Matteo Civitali eseguite in Genova, io mi limiterò ad accennarne soltanto il pregio artistico, avendo già lungamente scritto eleganti penne della estetica di esse, la quale d’altronde non entra nello scopo di questo lavoro. Non avendo potuto mai, per quanto vive istanze ne facessi, penetrare negli archivi della Consorteria di San Gio. Batta, nei quali pare probabile che possa esistere un qualche documento riguardante queste sculture, noi dobbiamo finora starci contenii alle conghietture. Frattanto abbiamo dal Negrotto (') la notizia di un decreto del 10 febbraio 1449 con cui il Senato di Genova stabilisce che, atterrata la vecchia Cappella del Precursore, già costrutta dalla famiglia dei Campanaro, una nuova se ne erigesse nel luogo islesso, e che nel 1451 si pose mano all’opera. Inoltre un documento del 2 gennaio 1461 ci fa conoscere come i Priori della Divozione o Confraternita del Battista allogassero allora, sotto certe condizioni, a maestro Vincenzo da Brescia abitante in Pavia la dipintura della Cappella medesima (-'). Ma un (•) Negrotto, Descrizione della Metropolitana di S. Lorenzo, ms. presso dime. (2) Atti del Notaro Oberto Foglietta, nell’ Archivio Notarile di Genova. In nomine Domini Amen. Nicolaus Adurnus et Lazarus de Auria Priores Devotionis almi Johannis Baptistae, ac Antonius Gentilis et Lucianus de Rocha Pnores de vetero parte una, et Magister Yincentius de Bressia pictor habitator Papiae parte altera , sponte etc. Pervenerunt ad infrascripta pacta etc. Renunciantes etc. Videlicet quia dictus Magister Vincentius promisit dictis Prioribus praesentibus et stipulantibus depingere Capellam Sancti Johannis Baptistae in Ecclesia Januensi existentem, tam in facie quam in coello ipsius Capellae, bene et de illis liguris et imaginibus et prout dicti Prioribus placuerit; in qua pictura promisit quosvis collores et alia convertere ex ipsius Vincent» pecunia, exceptis argento et auro quae dicti Priores promiserunt traddere dicto Magistro Vicentio in ea summa de qua eisdem ( 24) alto poi del 10 marzo 1478, rinvenuto nel Civico Archivio, fa chiaro che ili quell' epoca si erano, per cura dei Protettori stessi, molto avanzate le decorazioni, e che allora mancando essi di denaro, ricorsero per non lasciarle incomplete al Senato medesimo, il quale decretò che per due anni consecutivi i Padri del Comune erogassero a beneficio di tale opera la somma di 200 lire ('). Finalmente l’epigrafe che ricorre lungo il listello sot- placucrit; et pro cuius quidem picturae prelio et mercede dicti Vincenti i iiabere debeat ipse Magister tantum quantum dictis Prioribus videbitur et placuerit, et pro quo pretio dictus Magister Vincentius se remisit eorum dcscreptioni et arbitrio. Et quod quidem laborerium promisit dictus Vincentius inchoare in kalendis apriiis et ipsum perficere bene etc. Hoc acto quod casu quo dicti Domini Priores intra dictas kalendas Aprilis reperirei)! alium Magistrum Pictorem qui eis magis idoneus videretur ipso Vicentio, teneatur dictus \ icent ius traddere et restituere dictis Prioribus duratos quindecim auri eidem solutos pro arra seu caparra dicti laborerii; et pro ipsis restituendis intercessit Gaspar de Aqua, sub etc. Renuucians etc. Quae omnia etc. Sub etc. Ratis etc. Et proinde etc. Acto etc. Quod possint conveniri etc. Renunciantes dicti Vincentius et Gaspar etc, lurans dictus Vincentius etc. Millesimo quadringentesimo sexagesimo primo, die Veneris secunda Januarii m Ecclesia Januensi videlicet intra dictam Capellam. Testes Praesbiter Bartholomeus de Pareto Praepositus Ecclesiae Sancti Georgii Januensis et Baptista Carena olim Carlctus. 0) Chiesa di San Lorenzo, filza II, num. 171. 1478 die IO Martij. Illustris Dominus Prosper Adurnus Ducalis Januensis Gubernator, e M.cum Consilium Dominorum Antianorum in sudicienti et legitimo numero congregati. Auditis Antonio Justiniano et Sociis prioribus devotionis S.li Johannis Baptistae dicentibus deesse sibi pecunias ad perficiendum opus inceptum ornamenti rapelle majoris ecclesie S.t> Laurentij, quod relinquere imperfectum pudor esset, petenti-busque decerni ut D. patres Comunis ex decennio legatorum contribuant omni anno usque ad aliquot annos de libris ducentis, cum deceniuin illud non ob aliam causam impositum fuerit quam ad reparationem ipsius ecclesie vel ornamentimi. Ex adverso toposlo al bassorilievo a sinistra, se appartenesse all’epoca, dimostrerebbe che i lavori sortirono il compimento correndo l’anno 1498 (’). Ho detto se appartenesse all’ epoca, perchè avendo da vicino esaminali i lavori, ho potuto scorgere che il listello accennato è opera posteriore al bassorilievo in discorso, non solo per la conformazione dei caratteri, ma pel marmo diverso, e fu poi incastrato sotto dello stesso. Dalla attenta osservazione fatta più volte del bassorilievo che sorge di rimpetto, ho potuto convincermi che anche in quest’ultimo venne praticata la medesima cosa, onde aver campo di collocarvi l’iscrizione che allude a’restauri del I604, e che, per ricavarne maggiore spazio al listello, il marmo antico fu spianato di tal giusa che alcune figure ne vennero danneggiate. Io sono in ultimo pienamente convinto, che come il Civitali segnò sempre il proprio nome in ogni lavoro, cosi ei non l’ommise neppure in questo, tanto più che lo lasciava fuori di patria, ed era fra’suoi uno di maggiore importanza. L’ egregio mio amico il cav. Alizeri, nella sua pregiata Guida Artistica di Genova, crede poter assegnare al 1490 o in quel torno la venuta del Civitali in questa città; ma non è da tacersi che in tale anno il Civitali si trovava, per commissione del Senato di Lucca, occupato a costruire il gran ponte a due auditis ipsis patribus Comunis dicentibus non fuisse tale decennium impositum ad ornamentum sed solam reparationem , verum imminere eis ad presens fabricam molis in qua necesse ei est pecunias multis modis invenire, ita ut cessante causa reparationis ipsius in nullo opere pecunie ipse melius errogari possint quam in fabrica predicta. Demum re examinata ac considerala, statuerunt ac decreverunt quod patres Comunis solvant ex processu dicti decennii prioribus devotionis illius libras ducentas in anno usque ad duos annos, quorum primus sit presens annus, convertendas in opere ornamenti de quo supra fit menlio. In actis Gotardi Stellae Cancellarii. (') Divo Praecursori Franciscus Lomellinus et Antonius Sauli Priores et Consilium multiplicata pecunia exolvere 1496. Nel plinto si legge: Mater Divi Joannis Bapt. ( 26 ) a Moriano sul Serchio, il quale è decantato dagli scrittori come prodigio dell arte, e tale invero da recar meraviglia a chiunque si abbatte a vederlo ('). E perche inoltre io non esiterei a credere che Matteo abbia p uto atei paite come architetto nella suddetta Cappella, di i fonerò specialmente in un lavoro sulle sculture che ornano la fronte esterna della medesima (*); così a me pare che la enuta di questo aitista fra noi dovrebbe di parecchi anni an-cipaisi, e, guardando all’epoca in cui minori occupazioni lo tiattene\ano in patria, sarei quasi per istabilirla intorno al cominciare della seconda metà del secolo XV, cioè avanti che egli -co pisse il monumento del Noceto, il Tempietto del Volto Santo e l’altare di San Regolo. Sei t,ono le statue che il Civitali scolpì, alquanto più grandi e vero, per 1 indicala Cappella del Precursore. L'eruditissimo lizeii opina che Matteo non giugnesse mai per avventura a tanta peifezione, quanta ne mostrò in queste statue, nelle opere che fece in patria, se pure non vogliamo eccettuare l’altare ( ) Carlo Frediani nel suo Ragionamento storico intorno ad Alfon:o Citta-a scultore lucchese, pag. 41, mostra col seguente documento che il Civitali tro\a\asi nel 1498 a soggiornare in Carrara colla propria famiglia. « Per atti di er Pandolfo Ghirlanda, egli scrive, il 3 di aprile 1498 , Donna lsabdlha olivi icolai Coi delam de Camajoris civis lucensis, uxor magistri Mattici de Civi-habitantis ad pi esens Carrariae, sculptoris, crea in suo procuratore il venerabile prete Girolamo Calzolari a rinunziare a Paolo Baldini di Lucca, marito di Donna Agnese di lei sorella, tutto ciò che a lei si può spettare. (Archivio di Carrara) ». (2) È mio proponimento chiarire col criterio dell’arte, e per mezzo di raffronti meclio che mi sia possibile , la scuola cui appartengono tali sculture, cd altre molte eseguite in Liguria da più artefici usciti da scuole diverse; poscia indagare il modo onde sono trattati i bassi rilievi che tanto arrichiscono la fronte, dell’indicala Cappella, i caratteri delle figure, la condotta degli ornamenti; infine accertare le variazioni che l’insieme di questo monumento ebhe a subire da’ suoi primordi fino al secolo XVII. A meglio agevolare poi ed assicurare gli accennati raffronti, io ini sono già da molti anni andato procurando i getti delle opere summenzionate. ( 27 ) di San Regolo ('). Ma molti dubbi io avrei per aderire all opinione del valoroso scrittore; perchè la scultura non solo, ma ben anco la parte ornamentale del monumento al Noceto può gareggiare con qual vogliasi opera di lui, per eleganza di concetto e severità di forme, per grandiosità di stile e finezza di esecuzione; mentre nel preaccennato altare, si hanno, come ho avvertito, alcune figure nelle quali, abbenchè sempre vi si scorga lo scalpello del grande artista, non si ravvisa tutta la fina condotta che si ammira in quelle di Genova. Del che si potrà facilmente convincere chi faccia un confronto tra la testa del San Sebastiano che è nell’ altare medesimo e quella del-1’ Adamo in San Lorenzo, la quale è di una assai più accurata lavorazione, La prima statua a mano manca di chi entra nella Cappella del Precursore rappresenta un Abramo, o come altri vuole, un Isaia; ed è figura, che per la giusta movenza e pel gesto spontaneo delle pieghe, si può senza tema dire elegantissima; e con ragione il benemerito conte Cicognara la dice singolarmente osservabile per la foggia dei vestimenti e per un certo grandioso che la distingue (2). A questa fa seguito quella di Santa Elisabetta; e nello stile di essa non meno che in quello delle altre due panneggiate si ravvisa forse un fare alquanto più secco, per ciò che è lavorazione e pel modo con cui sono dettagliate le pieghe. Difficile sarebbe il descrivere quanta sia la verità che vedesi in essa, e quanta ne sia giusta la mossa: la testa e le mani sono modellate con tanta verità, che si direbbero formate sul vero (3). La stessa viene fiancheggiala da un Èva ; (•; Alizeri, Guida artistica per la città Genova, vol. 1, pag. 61. (2; L’artefice segnò nel plinto le iniziali del proprio nome: O. M. C. ; e nella opposta parte Io ripetè per intiero. (3) Tale statua è rotta nelle gambe, e fu riaggiustata con istucco : alcune pieghe sul davanti vennero rimesse in legno ; anche il bindello che tiene fra mani è rotto. Anche all’ Abramo manca il bindello che teneva colla destra ; e parte delle pieghe inferiori si vedono rifalle con legno. Nè le altre statue vanno, qual più ( 28 ) ma questa fu così malamente coperta da una pelliccia modellata in istucco, che ornai non si può abbastanza discernere l’insieme della fìguia, la quale orasi giudicherebbe essere piuttosto ii tozze proporzioni («). Io più volte ho fatto voli ed ufficii, perche a sì pregevole opera si -togliesse cotale ingombro. Seguono alla opposta parte le statue dell’ Adamo, di San Zac-caiia e del piofeta Abacuch. L’Adamo è figura modellata con emplicità, grandiosità ed eleganza di forme; e però, quantunque moto rispetti le opinioni del Mazzarosa, il quale con costante otti ina illustrò le opere di Matteo, confesso ingenuamente che non òapiei iavvisare in essa i difetti da lui accennati, tanto più che essendo stata questa statua come quella d’Èva ideata e scolpita affatto nuda, venne aneli’essa coperta di poi con una pelliccia che nuoce non poco all’insieme totale; chè anzi mi sembla di tale giustezza ed unità da stare degnamente accanto alle sovra descritte (aj. Inutile sarebbe il tessere elogi dell’altra statua esprimente San Zaccheria, celebrata da quanti ne scrissero come una delle -culture più belle non solo del Civitali, di cui tutte le vince nella esecuzione, ma de’ suoi tempi; tanta ne é l’espressione e <]ual meno, esenti ila guastii quali può credersi avvenissero intorno al 1604, in cui e statue furono rimosse per imbarrocchirne le nicchie. I pezzi mancanti io li vidi ncora allocati nelle nicchie medesime; e più volte feci istanza perchè quelle prepose scultore venissero convenientemente ristaurate. Molti anni addietro un pio •enefattore si era determinato a far pulire queste opere dell’artefice lucchese; cd <*'ea di fatto inviati alla cattedrale parecchi suoi contadini, i quali con pezzi di uota ed aiena si erano accinti al lavoro con un ardore degno invero d’impresa gliore. Iro\,indomi a caso tra via, ebbi ad avvedermi di quell’opera vandalica, aitala immantinente cessare, ne resi edotto il Sindaco della nostra Città, il juale diede allora le più energiche provvidenze atte ad impedire clic quello sfregio avesse a rinnovarsi più mai. l'ure le traccie della barbara operazione rimasero segnatamente impresse sulle guancie della statua di lìva, sul petto dell’Adamo e sulle mani dell’ Abachuc. C) Nc> Plinto è scritto: Prima Mater. (2) Ivi nel plinto: Primus Parens. ( 29 ) la semplicità. Nell’ ultima invece Matteo adoperò uno stile alquanto più secco ne’ panni ; ma nelle parti nude, è molta verità, abbenchè, se si voglia, sembri alquanto esagerata la mossa totale (*). È pure opera del Civitali il grande lunetto che sta sovrapposto alle prime tre statue, diviso per mezzo di lesene ornate di base e capitello in tre scomparti. E perchè anche di questo superbo lavoro si ha lunga ed erudita descrizione negli scritti del Mazzarosa, io mi limiterò, onde evitare le repliche, a fare qualche osservazione per ciò che riguarda 1’ arte e lo stile. In questo basso rilievo trovo che il Civitali usò due diverse maniere, così per la forma come pel modo di tenere i rilievi delle figure; di guisa che quelle dello scomparto a sinistra del riguardante, sia pel maggior rilievo e sia per una certa diversità della lavorazione, si scostano non solo da’ compagni, ma direi da quanti altri ne uscirono dallo scalpello di lui. Il primo raffigura la decollazione del Battista, ed è tale da richiamare alla mente i lavori eseguiti da Donatello per il pergamo di San Lorenzo in Firenze, non che le opere da lui condotte per la chiesa di Sant’ Antonio di Padova, in cui diede non poche prove del suo valore. Nello scomparto mezzano invece, ove è espressa la cena di Erode, il Civitali tenne uno stile alquanto più secco. Volendolo raffrontare con quello che fregia il più volte accennato altare di San Regolo, e rappresenta, sebbene in più piccole proporzioni, il soggetto medesimo, trovo che mentre nel nostro piacque a Matteo di far presentare dalla danzatrice ad Erode la testa del Batista , in quello di Lucca invece egli introdusse il carnefice sul davanti della scena inginocchiato, e nell’ atto di presentarla per comando del tiranno alla saltatrice predetta, la quale ne mostra particolare compiacimento, e sta come per (') Nel plinto: Abacuch P., e di fianco 0. M. C. ( 30) abbandonarsi alla danza. La scena inoltre in quello della Cappe a del Precursore succede in una ricca sala, decorata nella vota da cassettoni, così sfoggiando Matteo nella prospettiva che può veramente dirsi bene intesa ; e nella fronte di essa 1 io vederi un saggio della sua perezia nella parte ornamen-avendovi egli eseguilo un fregio composto di due chimere aate a foggia di sfingi, fiancheggianti un vaso, e finientisi in un izzano intreccio, alla cui estremità sono scolpili a basso ie\o in profilo i busti di una donna e di un uomo coro-aio a guisa di imperatore. In questa sala si vedono due avo e imbandite, 1 una delle quali si distingue per essere elevata sopì a un dado e messa con grande sfarzo ; ad essa si assi ono il re e la regina, serviti da un paggio il quale é vestito giusta il costume del secolo XV; all’altra stanno due commensali occupati in ragionamenti, ed essi pure sono serviti da un paggio. Nel basso rilievo dell’altare di San Regolo invece il Civitali finse al destro lato l’ingresso del carcere, e i>ul davanti di esso ritto ancora sulle ginocchia il tronco del Battista. Ivi i paggi sono anche in maggior numero; e mentre •lue di essi stanno recando le vivande, un terzo alla opposta parte va rallegrando il convito col suono di un mandorlino. Finalmente nel terzo basso rilievo sono espressi due episodi, cioè la sepoltura del Batista e quando ne abbruciano il corpo; con che il Civitali seguì 1’ usanza degli scultori e pittori dei suoi giorni, i quali in una sola tavola rappresentarono più storie. La scena è divisa da due lesene: a destra si vedono due uomini intenti a deporre in un sarcofago ornato da riparli la salma del Precursore, l’uno tenendolo per le braccia e I altro per le ginocchia sporgenti ancora fuori dell’ avello ; altri due, fra i quali forse è il tiranno, vi stanno come spettatori. A sinistra poi s’innalza un rogo e sovr’esso lo scheletro del Batista , il quale tra il divampare delle fiamme che due uomini con forche attizzano maggiormente, si converte in cenere. ( 31 ) Chiuderò questi appunti osservando come non sarei lungi dal credere che durante 1’ esecuzione dei suddescritti lavori, se pure li fece in Genova, Matteo Civitali vi avesse alcuni aiuti e vi lasciasse discepoli. Di ciò fanno fede parecchie sculture le quali si vedono sparse nella nostra città, ed altre che conservate prima nell’ ora demolita, chiesa di San Francesco di Castelletto , furono vendute e adoperate con altri pregevoli avanzi di antica slatuaria, in pavimenti alla veneziana. Fra queste una ne noterò, sfuggita alla sperpero, ed ora esistente presso di me, per grazioso dono dell’egregio cav. Ignazio Gardella; essa consiste in un basso rilievo alto circa un metro, a’cui lati stanno due lesene scanalate, e nel mezzo una nicchia adorna di riparti e di una conchiglia. Ivi siede una figura di donna colle mani giunte, la quale nella maniera de’ panni ricorda la Madonna di tale artista in Santa Trinità, abbenchè in quest’ ultima si scorga maggiore sceltezza di pieghe , ed un andamento più elegante (*). Osserverò infine che le opere del Civitali furono sempre tenute in grandissimo pregio fra noi. Di che si ha la miglior prova nelle ripetizioni che ne fecero valenti scultori nell’ e-poca più bella dell’ arti italiane (2). (’) È da avvertirsi che nella nostra la testa e le braccia furono in goffa guisa rifatte. Nella estremità superiore della nicchia si legge : Ave Gratia Plena. (2) Noteremo ad esempio la statua di Santa Elisabetta nella cappella di San Gio. Batta al Gesù, e quella della Santa stessa e di San Zaccheria a San Pietro di Banchi scolpite in sullo scorcio del secolo XVI da Taddeo Carlone. DELLE OPERE DI GIAN GIACOMO E GUGLIELMO DELLA PORTA E NICOLÒ DA CORTE IN GENOVA MEMORIA DEL SOCIO PROF. SANTO VARNI Fra gli artefici che dopo il Civitali ed il Contucci impiegarono i propri scalpelli a decorare la sontuosa Cappella di San Giovanni Battista nella Metropolitana di Genova, devesi annoverare Gian Giacomo del qm. Bartolommeo Della Porta, da Por-lezza nel Comasco, Provincia di Milano. 11 quale, per invito del conte Filippino D’ Oria, si recava tra noi in compagnia di Guglielmo suo figliuolo, e non nipote come scrissero il Baglioni, il Soprani, il Cicognara, ed altri recenti autori che si stettero alla loro asserzione, dopo di avere eseguite alcune opere in Milano non solo come statuario, ma come architetto, e lavorato in Pavia nel monumento di Gian Galeazzo Visconti conte di Virtù, e nel famosissimo tempio di quella Certosa unitamente a’ più celebrati artisti de’ suoi giorni (1). Gli storici assegnano all’anno 1531 la venuta di Gian Giacomo in Genova; ma da una nota rinvenuta nel Manuale del (*) Franchetti, Storia e descrizione del Duomo di Milano, ivi, 1821 ; pag. 444. Una visita alla Certosa presso Pavia, Milano, tip. Rivolta, 1836, pag. 16. Si noti che in questo opuscolo Gian Giacomo ò qualificalo pavese. \ J Cartolario delle spese de’ Padri del Comune pel 1516, serbato nell’ Archivio Civico, rilevo che un Gio. Giacomo detto di Pavia, ora appellato pittore ed ora scultore di marmi, fece la ricca lapide con decorazioni architettoniche, che vedesi incastrata nella parete di fianco alla chiesa di San Marco nella contrada del Molo, ed accenna alla purgazione del Porto cui si era data opera nel 1513 ('). Ora questa lapide, a giudicarne dallo stile, ad altri non può ascriversi che al Della Porta , sia per la f°rma della architettura onde è composta, e sia per la foggia degli ornamenti e delle targhe; e perciò sono d’opinione che questi anche molti anni anteriormente all’ epoca segnata dagl* scnt tori fosse venuto in Genova. . . Altri documenti poi da me pure trovati nello stesso Archivio fanno fede che sino dal 1530 vi dimorava Nicolò di Fran^ cesco da Corte , scultore ed ornatista del lago di Lugano , quale fabbricava i pilastri di una porta nuovamente aperta nella chiesa di San Lorenzo (2). Poiché Guglielmo venne in Genova, si innamorò delle ganti opere di Perino del Vaga, il quale era allora occupa nell’ abbellire il palazzo del principe Andrea D’Oria, e di tan amore lo. ricambiò, che non solo gli fu largo d’opere e consigli, ma gli profferse in isposa una sua figliuola, a chè Guglielmo, che nudriva diverse inclinazioni, non accettass la proposta. Avendo intanto Gio. Giacomo disegnata 1 e*e°a^ architettura del superbo altare del Precursore (3), volendo a^ conoscere la bravura del figlio, lo propose ai deputati (') V. Documento ]. (2) V. Documento II ^ , - ~«vuiucillO II. m*. ZZTm TJ7 im‘ '“'f 11 “ (“d" piego usalo f-, J- è da passarsi In si,enz‘° J’ingegnoso ri- le ouali r m ' n omo onde Prolungare all’altezza delle altre, due colonne nestro conTor^T al<,Uant° P'Ù C°rle’ sornionl3ndone la i>ase da una specie di ca-con fiori, che e cosa oltremodo elegante e graziosa. ( 37 ) fabbrica come scultore capace ad ornare gli specchi dei quattro piedistalli delle colonne dell’ombracolo (e non sedici piedistalli come scrisse il Vasari), e fecegli come a sperimento di sua perizia affidare 1’ esecuzione di una delle figure di que’ profeti che vi si vedono scolpiti a mezzo rilievo. Il desiderio di procacciarsi nuova gloria fece si che Guglielmo 1 si accingesse con ardore a modellare la figura ; ed aiutato nel-l’opera da’ consigli del padre e più da quelli del Vaga, fece cosa che molto piacque, e meritò che gli venissero commesse le altre quindici. Perlocchè Guglielmo sempre più animato , si accinse di proposito al lavoro, coll’intendimento di imitare la maniera del maestro, come si scorge specialmente dal modo con cui mosse alcune delle figure, e come si appalesa in quel vezzo, direi, di atteggiare le stesse colle braccia elevate al di sopra del capo, che tanto si riscontra nelle figure di Perino nel predetto palazzo, ed in singoiar modo nella medaglia della gran sala esprimente la caduta dei giganti, e nelle pareti della Galleria dove ritrasse gli eroi della illustre prosapia dei D’Oria; sicché, volendo tener dietro a quanto si rileva dagli scrittori, vi sarebbe luogo a congetturare con fondamento che il Vaga somministrasse a Guglielmo i pensieri degli indicati profeti, quantunque questi, come si vede, li interpretasse a seconda della propria maniera licenziosa e caricata. Ad ingentilire ed aggiungere eleganza all’ opera di Gio. Giacomo, concorse pure, a detta degli storici, il fecondo genio del Da Corte, il quale fregiò l’altare di così vari e nobili ornamenti, da non temere il confronto di quelli del Rovezzano e del da Maiano. Ridotta a compimento la Cappella del Precursore, i tre artefici impresero nel Duomo stesso il lavoro di quella di San Pietro , il cui giurepatronato spettava alla nobilissima famiglia de’ Cibo, e la sepoltura di quel Giuliano che fu vescovo di Agrigento. Troviamo infatti che a’ 10 febbraio del 1533 Bernardo \ ' / Donato del qm. Giovanni Sisto e Bernardo Pelliccia di Carrara , in solido, promettono a Gio. Giacomo della Porta e Nicolò da Corte di dar loro sul ponte de’ Cattanei in Genova varii pezzi di marmo di diverse misure, per colonne, fregi, cornici, fascia-menti ed altro, non che l’urna e la statua giacente del defunto prelato, ed altre sei statue per detto altare, a patto che tutte queste figure sieno di marmo bello, bianco e senza vene delle cave di Polvaccio ('); quindi rileviamo dai Cartularn dei Padri del Comune, che il 13 giugno stesso anno maestro Nicolò da Corte fece da Pantaleo Piuma, scultore aneli’ esso, pagare all’Ufficio dei medesimi il diritto di lire 2 per avere ot tenuta licenza di usare del pontone, per iscaricare diversi marmi (2). Finalmente sotto la data del 23 dicembre 1534 il si ha un atto, per cui Gio. Giacomo a nome proprio e e figlio Guglielmo, e Nicolò da Corte convengono fra loro circa la formazione di una società, la quale però da altri documenti estratti da’ Cartularii della Repubblica si vede avere esistito in fatto sino dal 1533 almeno, patteggiando che i pesi e gli emolumenti di tutti i lavori che avessero preso d allora in poi ad eseguire, sarebbero stati fra loro divisi per terzo, e che nel presente convegno dovevasi anco intendere contemplato il preaccennato lavoro della Cappella degli Apostoli, onde aveano appunto avuta commissione dal suddetto vescovo agrigentino ( )• Raffaello Soprani, che attribuisce a Guglielmo soltanto le statue riposte nelle tre nicchie della Cappella in discorso, cosi si esprime nella Vita di questo artefice: « Nella nicchia di (*) V. Documento 111. Le cave di Polvaccio sono di una data antiran^ pure da emendarsi ove dice che questi due bassirilievi raffigurano il martirio due Apostoli. (’) V. i Documenti IX a XIII. ( *3 ) demia Ligustica, una statua di santa Barbara ('), ecc., e inoltre tre Grazie con quattro putti, che furono spedite in Fiandra al gran scudiero di Carlo V (2). Abbiamo infatti un documento del 13 febbraio 1538, dal quale si rileva che Gio. Giacomo Della Porta e socii avevano preso in affitto dai Go\er natori della Gabella de’ fornai un mezzano sottostante al terrazzo della Camera dello Ufficio de’ Padri del Comune, conve nendosi che la locazione durerebbe un anno (3) ; e dal Cartu lario delle spese di quello Spettabile Ufficio rilevo che un Gio. Giacomo scultore, il quale credo non possa essere altri che il Della Porta, ricevette pagamento di lire 15 e soldi 10 per sua mercede dell’ avere accomodata una lapide marmorea, nella quale era fatta menzione della purgazione di una fontana sulla piazza del Molo. In quanto poi alla figura accennata di Cerere, che il Soprani ed altri autori dicono scolpita da Guglielmo pel palazzo di Ansaldo Grimaldi, dirò prima di ogni cosa che lo stile delle due figure le quali ivi sormontano il timpano del portico non diversificano punto nello stile fra di loro, e che perciò si vede chiaro essere entrambe opere di una sola mano. Osservò inoltre che la maniera è lontana da quella di Guglielmo, essendo che in esse si scorge maggiore fermezza ed eleganza nella forma geometrica della figura non solo , ma ben anco in quella delle pieghe ; e però se giudicar si dovesse di quale autore queste si fossero, converrebbe dire ch’elle si accostano molto al fare di Silvio Cosini da Fiesole , il quale appunto in quel tempo si trovava in Genova ed operava nel palazzo del Prin- (') Una picciola statua di Santa Barbara si vede tuttora sopra la porta di una casa nella strada del Molo; ma quantunque alcuni scrittori la dicano opera di Guglielmo, essa non può appartenergli essendo di uno stile troppo diverso. Sotto della medesima si legge: Societas exterorum anno 1722. Soprani, Vite ecc. 1. 408 Vasari, loc. cit. (3) V. Documento XIV. ( 44 ) « ^ ^na ^tTe a C1^ ® ^ U0P° r,^ettere che nello cu ore delle due figure in discorso si ravvisa un erede delle ^ ed eleganti massime tra noi diffuse dal Bnonaccorsi, e n si andrebbe lungi dal vero opinando essere le mede-, Spat6 sco^(e co* disegno di si elegante maestro. Si op-orse che Guglielmo lavorava anch’ egli sopra i disegni di o , ma se. si prendano ad esaminare quante opere uscirono I -rU? scarPe^°> S1 vedrà che niuna può pareggiare in sem-e indicate figure, anche volendole raffrontare con quelle gì scolpi più tardi col disegno del Buonarroti nel monumento d, papa Paolo III in San Pietro di Roma, e dove non-^ ieno mosti ò tutto 1 artistico suo valore. Io non esito perento a credere che il Soprani ed altri nell’indicare le dette atue, le confondessero invece con quelle che coronano il portico t'oUO di fronte alla chiesa di San Luca, la cui struttura lo mostra opera di Guglielmo unitamente alle due figure che stanno in atto d abbruciare alcune armi (?). tali ^ ^\CSl° artefice fu C0S| bizzarro c svariato nelle sue composizioni ornamen-» j ’ 6 ' Un t0CC° Sl ardlt°’ ehe per ,unSa Pczza cl)l,e molti imitatori. Ne fanno non pochi fregi intagliati sulla pietra di Promontorio, che adornano i portali * un buon «omero di edilìzi in Genova. dii hhrAI ,068 SP6tta U"a ,e,,era dl Cosimo 1 3 Nicu,° Grimaldi, la quale fu r. . Cflta da! Gau nel suo Carteggio inedito d’artisti (voi. Ili, pag. 267), e astia campo a non poche induzioni. Essa è così concepita : messer Nicolò Grimaldi a Genova. Molto magnifico messer Nicolò amico carissimo ancesco Moschino scultore, homo nostro, mi fa intendere havervidato certi egm per una fabrica di uno palazzo, che volete fare in Genova, et di più di vnlm f °r '°' (li tondur*‘ dl mia marmi bianchi et misti di Seravezza; però ho volenfiPiT 1 Sapere,clie è Pers°na virtuosa e intelligente da potervi servire, et io l .. . C°nce er° 1 marmi bianchi et misti per questa vostra fabrica, maxime corto 'T P'etrC miSl‘C non ne lroveresti a*trove che quivi, sendovi di varie vitn ; 3| .are "8ni 1 ^mC* namente, la disse opera di fra Giovanni Angiolo a o torsoli; ma io mi induco a credere che di tale asserzior sia stato causa il non avere instituiti minuti con ron i le opere dei due artisti; e siasi fatto poi fondamento quel modo diresti esagerato, che tennero tulli coloro i qu , ad onta che non potessero elevarsi all altezza del gemo Michelangelo Buonarroti, pure lo presero ad imitai e. 1 se si fossero poste ad esame le opere del Montarseli prop mente, anziché quelle che vennero eseguite dai varii aris , quali gli servirono d’aiuto nello spazio in che egli im°r noi per la munificenza di Andrea D’Oria, sarebbesi 1 gg ^ potuto avvertire quanto superiori elle sieno a que e e Corte, e quanto maggiori siano nel Montorsoli ste^o la eim ^ ed il magistero d’improntare in ogni lavoro le orme vino Michelangelo. . , • Al Corte egualmente si ascrive il Battesimo di rib o vede sopra la porta di San Giovanni il Vecchio, presso Lorenzo; e così pure si crede potergli altiibniie moti menti di portali che si ammirano in varii palazzi de a Città, fra’ quali quei bellissimi del palagio che la 1 blica donava ad Andrea D’Oria (■)• Ho già superiormente (>) Soprani, Op. cit., 1. 392. Nel Cartulario della Repubb'.ea pelila jrovo che Nicolò da Corte ebbe commissione di eseguire gli ornaI"en ‘ a<7 „iugn0 finestra della gran sala del Palazzo Ducale (\ . Documento > Pallavicino- del 1543 egli costituisse suo procuratore alle liti il notaro rane Cavarino (Doc. XIX). Da, Cartulario poi de’ Padri de. Comune pe 3 rilevo * ad un Gio. Giacomo scultore (il quale può credersi il Della I or a) u 15. ,0 per avere eseguiti alcuni lavori ad una lapide (che finora s, de de. molo e vedesi oggi nel.’ atrio de. Pa.azzo Civico) a..u,va a..a* una fonte ivi al.ogata. Itera die 1.»marcii. Pro magistro ^ sua mercede aptandi lapidem marmoreum cum commis et fu en i in eo mentionem facientibus de expedicione et evacuatione . dicti fontis, lib. 1S sol. IO. ( «0 ) accennato che, secondo gli storici, il da Corte avrebbe fregiato i vaghissimi ornamenti l’ombracolo della cappella del Battista; ma se tali lavori possano poi dirsi veramente suoi, farò di c iaiirlo in altia memoria. Per ora mi limiterò ad avvertire eie non j>apiei come questi e gli altri due qui specificati, en.i potuti ci edere opere di un solo artefice; perché tanta e pa ese ë la diversità di stile che passa fra l’uno e l’altro, tanto vaiia é la maniera degli ornati, da non lasciar dubbio 1 ie ognuno di essi appartenga ad un artefice ben diverso. Non pos.o quindi convenire col Soprani se non nell’attribuire che eg i fa al da Corte il basso rilievo enunciato e le due lesene • e a poi ta a cui sta sovrapposto. Non pochi altri lavori si potrebbero assegnare alla Società ei Poi ta e del Corte in Genova; e primo fra questi la statua Pietro Gentile nel Palazzo di San Giorgio (an. 1549), nella quale si incontra la mano e la lavorazione stessa di quella indicata pailando della statua del Pinello; e aggiungerei che emendo il Corte valente assai negli ornati, volle farne ivi speciale sfoggio, come può vedersi nello scanno su cui sta assiso il Gentile stesso; e direi per ultimo che questi non sono lontani dagli ornamenti dei due capitelli della porta di San Giovanni ora nominata. Potrebbe poi dirsi opera de’ Porta la statua di un altro Gentile, per nome Gerolamo, che vedesi collocata di fronte aI- 1 ingresso della Sala già de’ Protettori delle Compere (*) ; e specialmente a Guglielmo, stando al carattere della scultura, sarebbe da attribuirsi quella di Giano Grillo, che é la prima la quale s incontri nel ridetto Palazzo sulla sinistra della grande scala d’ ingresso. (') Nel fogliazzo d’instrumenti dal 1538 al <541, nell'Archivio di San Giorgio, sotto la data del 21 aprile 1539 si hanno registrate: expensae factae per metere imago sive statua nobilis domini Geronimi Gentilis. — 31 — „ onpnra r,0f06 USCÌti Passando ad altri lavori, accenneremo anc dalla officina dei predetti artefici, recandone tutta a imp il portico del palazzo già Saivago, sulla piazza di ^ues^ ^ sormontato dalle figure di due selvaggi ; 1 altro ne della Casana, che ha ne’ piedistalli due bassi J^ru- sentanti le forze d’Ercole ; due figure di donne ce ' ciano armi, le quali vedonsi collocate sopra 1 ingresso lazzo ora Croce in piazza De Marini; e finalmente i ^ del palazzo ora Spinola nella contrada degli ore ici, figure e telamoni. Qj0 Concludo la presente Memoria accennando che q Giacomo e Guglielmo Della Porta vennero tra no, giungeva più nuova la loro famiglia, essendo c e ^ ^ stro Gio. Antonio Della Porta, scultore di venuta memoria sotto la data del 17 giugno » neno-furono pagate per conto de’ Padri del Comune vine, per prezzo di pilastri marmorei con — , carsi alla loggetta che restava tra i pon della legna. . „ nar'n an- Di un Gio. Giacomo Porta poi, non saprà i partenente alla famiglia degli insigni aite iti, ^VII; e da documenti spettanti alla prima meta del seco o ^ gcaricare questi rilevo che del 1630 gli fu concessa somme marmi, che del 1639 e «M^gli ^"“rfri del Corame per lavori ; e cosi pure dal Car mo_ pet <644, sotto il 1- gennaio” ^raenico Casella stra che il Porta medesimo, Rocco i enot .. scull0re di pietre, sculptor lapidum, («) Faccio osservare che questo nome lrQva menzione in alcuni si dava allora anche a’ più celebii ai listi, e q Cicognara , che nella sua documenti, come p. e. piccapietra, tag «fl e ^ Gio Batla Della Porla, erudita Storia della scultura parla d, un Tomma e non (a alcuna menzione di questo Antonio. V. Documento \ — 52 — in solido conducevano a fino „n locale fra il ponle de’Calvi e la Darsena, ove in quell’epoca si trovavano radunati gli Studii ai non pochi artisti (i). Anche della famiglia dei Corte, posteriormente a Nicolò, si ton servano fi a noi copiose notizie. E, per tacere dei pittori aJei io, Cesare e Davidde, noti già per le storie, ricorderemo un Dionisio Corte, il quale sotto il 5 ottobre 1679 si obbliga ad inci ostare di marmo quattro pilastri nella chiesa della Maddalena (2). Queste brevi note bastino intanto ad emendare alcuni errori nei quali caddero gli scrittori nostri, a riguardo degli artisti Miinmenzionati. Ciò solo io tenni di mira nel dettare i predenti appunti; né volli estendermi oltre a ciò ch’eglino eseguirono fi a noi, considerando che delle opere loro lasciate altrove, già scrissero coscienziosi e valentissimi autori. C) V i Documenti XXI, XXII e XXIII. ( ) A pag. 8 di un registro ms. esistente nell’ Archivio Parocchiale di questa chiesa, si legge: « Nel 1679 si determinò di coprir di marmi li quadro pilastri cht sostengono la cupola ed alli 5 ottobre si convenne col maestro mar mora io Dionisio Corte, che li coprisse pel prezzo di lire seimila.....Il P. Gio. Balla \ igo, somasco, nel suo testamento ordinò non solo si ultimasse dello lavoro , ma die si faies>e pure il pulpito marmoreo con la sua scala ed ornalo di marmi, il tutto a sue spese ». DOCUMENTI DOCUMENTO I. Mercede pagala a Giovanni Giacomo da Pavia , per la lapide die ricorda la p gazione del Porlo di Genova. 1516, 16 Luglio (Manuale del Cartolario dei PP. del Comune, pel 1516) * 1516, die 16 lulii. Magister Johannes Jacobus de papia pictor pro Augustino de Signorio per eum solut. magistris antelami qui posuerunt lapidem ad muros Sancti Marci, et laboratoribus qui portaverunt lapides, et pro ca ce arena, ac solut. pictori qui fecit literas dicto lapidi, et aliis, ut nelur in ratione deposita per ipsum sub die 24 ianuarii de 15lo v. p L. 18- 8. dicto .................. Expense diverse pro magistro Jo. Jacobo de papia Sculptoie maimorun solidata ratione per D. Jo. Baptam De Francis GoneriUum, unum ex officialibus de 513 cui per dictum officium data fuerat cura lapidis positi a muros ecclesie Sancti Marci, in quo descripta sunt gesta per dictum officiu de 513 suorum temporum inter dictam ecclesiam et pontem Cattaneorum ... . . . L. 106. 19. v. prò dicto. ............... ( 36 ) DOCUMENTO II. * Memoria di Nicolò da Corle 1630, li Novembre (Cartulario delle spese de’ Padri del Comune, anno 1530, pag. 138) pister Nicolaus de Curte scalptor ad pontem Cattaneorum liabens cu-construendi pillastratas porle nuper fabricate in ecclexia Sancti Laurentii pro . Augustino Lomelliuo D. Baptiste scuta IO.....L. 34. 10. » DOCUMENTO III. Donato dei qm. Gio. Sisto e Bernardo Pelliccia promettono a Gio. Giacomo Della Porta e Nicolò da Corte di dar loro sul ponte dei Cananei in Genova varii pezzi di marmo di diverse misure. 1533, IO Febbraio ( Filza dei rogiti di Giacomo Villamarino nell’ Archivio Notarile ) In nomine Domini Amen. Donatus quondam Johannis Sisti et Bernardus Pelisa quondam Francisci dictus Bocho, ambo de Carraria, et quilibet ipsorum in solidum, sponte ex eorum et cuiuslibet eorum certa scientia nulloque iuris vel facti errore ducti seu modo aliquo circumventi, sed omni modo, iure, via et forma quibus melius potuerunt et possunt per se haeredes et successores suos quoscumque promisserunt et promittunt Mpgistris Jobanni Jacobo de Ia Porta et Nicolao de Curte Francisci Mediolanensibus et sculptoribus praesentibus se ipsos Donatam et Bernardum et quemlibet eorum in solidum ut supra dare, traddere et seu dari traddi et consignari facere dictis Magistris Johanni Jacobo et Nicolao praesentibus et acceptantibus pro se haeredibus et successoribus suis quibuscumque etc. hic in Janua ad pontem Cattaneorum numerum peciorum lapidum marmoreorum de qualitate et mensura ac modis et formis in appapiro hic in praesenti instrumento infilsato et alteram copiam tradditam dictis Magistris Johanni Jacobo manu eorum et seu alteri eorum scripto, et in omnibus et omnia prout in dictis appapiris continetur (quibus habeatur relacio). Et qui quidem Donatus et bernardus praesentes ut supra etc. promisserunt et promittunt in solidum ut supra dictis Magistris Johanni Jacobo et Nicolao praesentibus ut supra etc. consignare seu consi- ( 57 ) gnari facere Barehatam unam dictorum lapidum marmoreorum d i ' in dictis appapiris hic in Janua ad Fontem Cattaneorum in et pe praesentem mensem februarii; restum vero dictorum lapidum mar ^ de quibus in dictis appapiris dare, traddere el consignare, scu ari, consignari facere ut supra ad dictum Pontem Cattaneorum m ra et p tum mensem Maii proxime venturum, expensis tamen dictorum on Bernardi, exclusa tamen cabella dictorum marmoreorum consignandorum u supra ad Pontem Cattaneorum quae solvi debet per dictos Jo lannem bum et Nicolaum. Et ex precio dictorum lapidum marmoreorum solucione eorum dicti Donatus et Bernardus confessi fuerunt et con habuisse et recepisse scuta vigiliti auri solis a dictis Johanne . aco jo • colao praesentibus ut supra etc. et prout constat apodixia dictae existenle penes (lictos Johannem Jacobum et Nicolaum etc. Benunciantes etc. Et versa vice dicti Magistri Johannes Jacobus et Nicolaus sponte p serunt et promittunt dictis Donato et Bernardo praesentibus et ut sup ceptantibus ac stipulantibus etc. se ipsos Johannem Jacobum et dare et solvere precium dictorum lapidum mai moi eorum seu om totum quicquid et quantum sunt inter eos de acordio stalim facta cons g cione dictorum lapidum marmoreorum dictis Johanni Jacobo et i per dictum Pontem Cattaneorum, omni exceptione et contradictione ac etiam promisserunt et promittunt solvere cabellam dictorum lapi um moreorum, et sic conservare indemnes dictos Johannem Jacobum et Nico e dicta Cabella etc. . . Sub etc. Benunciantes etc. Quae omnia etc. Sub poena dupli etc. atis El proinde etc. , Acto pacto expresso inter dictas partes solemni stipulacione \ alato quo casu quo dicti Donatus et Bernardus infra dictum tempus non dederint, tr derint nec consignaverint, seu dari, traddi et consignari fecerint dictis Jacobo et Nicolao super dictum Pontem Cattaneorum lotam summam ictor lapidum marmoreorum de quibus in dictis appapiris, dicti Donatus et Bernar dus cadant et cecidisse intelligantur ex nunc in poenam Ducatorum vigm-tiquinque auri, et quos ex nunc dare et solvere promisserunt et promittunt dictis Johanni Jacobo et Nicolao ut supra praesentibus in casu contrafactioms el quibus liceat et licitum sit talli casu mittere unum hominem ad emen tot lapides marmoreos quot ipsi Donatus et Bernardus teneientui tonsignare dictis Johanni Jacobo et Nicolao, et mittere barchas ad onerandum talles a-pides marmoreos, et omnes expensas faciendas tam per dictum hominem mil- ( 38 ) tendum ut supra quam pro barchis mittendis ad oneraudum talles lapides marmoreos ut supra dicti Donatus et Bernardus promisserunt et promittunt solvere dictis Johanni Jacobo et Nicolao, et ultra etiam omnia eorum damna, expensas et interesse faciendas et paciendas iii casu non consignacionis praedictorum lapidum marmoreorum, et sic promisserunt et promittunt dicti Donatus et Bernardus dictis Johanni Jacobo et Nicolao praesentibus ut supra etc. Acto ut supra etc. Quod dicti Johannes Jacobus et Nicolaus teneantur et obligati sint et sic promisserunt et promittunt dictis Donato et Bernardo praesentibus et acceptantibus dare solvere precium et valutam dictorum lapidum marmoreorum inter eos conventum statini et sine aliqua mora post consignacionem dictorum lapidum, in qua consignacione elligantur et elligi debeant duae personae, unam videlicet pro parte dictorum Donati et Bernardi et alteram pro parte dictorum Johannis Jacobi et Nicolai, cui attribuerunt potestatem et bailiam re\idendi dictos lapides marmoreos si sunt longitudinis, latitudinis et grossitudinis inter eos conventae, et de quibus in dictis appapiris ut supra expressis; et casu quo dicti Johannes Jacobus et Nicolaus habita consignacione dictorum omnium lapidum marmareorum de quibus supra in dictis appapiris a dictis Donato et Bernardo, quod dicti Johannes Jacobus et Nicolaus per totum illud tempus quod steterint dicti Johannes Jacobus et Nicolaus ad faciendam solu-cionem et pagamentum dictorum lapidum marmoreorum de quibus supra, teneantur et obligati sint solvere dictis Donato et Bernardo omnes expensas faciendas per ipsos pro victu eorum in praesenti civitate, ac omnes alias si quae facere opporteret in rehabendo et recuperando precio et solucione dictorum lapidum marmoreorum per dictos Donatum et Bernardum, et ulterius eorum jornatas quas amitterent pro recuperanda talli solucione et satisfactione eorum dictorum lapidum marmoreorum ut supra etc. Acto etc. Quod omnes figurae et sic figura mortui [debent esso pulcrae albae sine vene et marmore (sic) de lo polvazo, et similiter capitelli intelligantur esse marmoris tallis sortis etc. De quibus omnibus etc. Actum Januae in Bancis, videlicet in Banco posito sub domo quondam spectabilis Domini Magistri Pauli Gentilis fixici, anno Dominicae Nativitatis millesimo quingentesimo trigesimoterlio, indictione quinta secundum Januae cursum, die lunae decima februarii hora vigesima secunda vel circa, praesentibus Johanne Baptista de Borzexio quondam Nicolai et Nicolaus de canali de Ba pallo Johannis testibus ad praemissa vocatis et rogatis etc. ( 89 ) ' Lapides marmoreos consignandos per Bernardam Donatum quondam Johan nis Sisti de Garraria et Bernardum Pelisam dictum Bocho quondam rancaci ambo de Carraria dictis Magistris Johanni Jacobo de Porta et icoao Curte sculptoribus Mediolanensibus iuxta formam instrumenti. Et primo lapides quatuor de longitudine parmorum quinque et quartoru trium de latitudine parmorum quatuor de grositudine unius pjrmeti. Item colunipnas octo de longitudine parmorum octo tercii duo et e gro situdine parmi unius et quarti unius. _ . Item basas octo in tabula de longitudine parmi unius tcrciae partis et de grositudine quartorum trium. Item capitellos octo in tabula de parmo uno et tercii duo et e i,rosi u parmi unius. . Item archetrabes duos de longitudine parmorum quatuor e parmi unius cum dimidio et de grositudine quartorum tres. Item pecium unum de longitudine parmorum quatuordtcim cum de latitudine qua'rtorum tres. . , Item pecium unum de cronica (sic) de longitudine parmorum sex latitudine parmi unius et tercio uno et de grositudine parmi unius. Item duas cronicas de longitudine parmorum sex de latitudine parmi et tercii unius et de grositudine parmi medii. Item frixium unum de longitudine parmorum tresdecim et quart trium et de latitudine parmi unius et de grositudine pai mi medii Item pecios quatuor de longitudine parmorum quatuor de latitu me p unius et de grositudine parmi medii. _ . , . . Item pecium unum de longitudine parmorum sex et tercii unius tudine parmi unius et de grositudine parmi medii. Item pecios duos de longitudine parmorum sex de latitudine parmi un cum dimidio et de grositudine parmi medii de marmori \ anati. Item pecios duos de longitudine parmorum tres de latitudine parmi de vanato. . . ,. Item schalinum unum de longitudine parmorum duodecim e atitu parmi unius de grositudine quartorum trium venati. Item pecium unum de longitudine parmorum novem et tercii duo et latitudine parmi unius et de grositudine quartorum tres \ enati. Item lapidem unam de longitudine parmorum septem et teicii unius latitudine parmorum duorum cum dimidio et de grositudine parmi uuiu. cum dimidio. Item mortuum unum de longitudine parmorum septem de latitudine par- ( 60 ) moram duorum cum dimidio et do grositudine in capite parmos duos cum dimidio et ad pedes parmam unum cun dimidio. Item figuram unam de longitudine parmorum quinque de latitudine parmorum trium cum dimidio et de grositudine parmorum duorum. Item figuras quinque de longitudine parmorum septem cum dimidio de latitudine parmorum trium et de grositudine parmi unius cum dimidio. Item istoriam unam de longitudine parmorum seplem cum dimidio et de latitudine parmorum septem et de grositudine parmi unius cum dimidio. Item pecium unum de longitudine parmorum septem cum dimidio et de latitudine parmorum quatuor et de grositudine parmi unius scarsi. liem pecios quatuor de longitudine parmorum trium de latitudine parmi unius cum dimidio et de grositudine parmi medii. Item pecios duos de longitudine parmorum trium de latitudine parmorum duorum et de grositudine parmi medii. Item pecios quatuor de longitudine parmorum sex cum dimidio de latitudine parmi unius et tercii duo et de grositudine parmi medii. Item pecios duos de longitudine parmorum sex cum dimidio de latitudine parmorum duorum et de grositudine parmi medii. Item lapides duos de longitudine parmorum sex et tereiorum duorum de latitudine parmorum quatuor et de grositudine parmi unius dei Polvazo de ma. Item lapides duos de longitudine parmorum quatuor quartorum trium de latitudine parmorum quatuor de grositudine tereiorum duorum dei Polvazo. Item pecium unum de longitudine parmorum quindecim tereiorum duorum de latitudine parmi unius cum dimidio de grositudine parmi unius scarsi digiti duo. Item pecium unum de longitudine parmorum decem de latitudine parim unius et tercii unius et de grositudine parmi unius scarsi. Item dadum unum de longitudine parmorum undecim tercii unius de latitudine parmi unius el tercii unius et de grositudine parmi unius. Item pecium unum in longitudine parmorum octo de latitudine parmi unius de grositudine parmi unius scarsi. Ilem basas duas in tabula de parmis duobus et de grositudine quartorum trium. Declarando quod figuras et mortuum et eapitellos sint et esse debeant pulcrae et albae sine venae de marmore de lo Pulvazo. ( «1 ) DOCUMENTO IV. Pagamento fallo da Nicolò da Corte , per licenza ottenuta ili usare del pontone. 1533, 13 Giugno. (Manuale del Cartolario ecc. pel 1533) Magister Pantaleo Pluma pro Magistro Nicolao de Curte sculptore pro licentia sibi data adoperandi pontonum pro exonerandis diversis marmoribus iuxta ordinem spactati ollicii, pro ollicio.....L. 2. DOCUMENTO V. Pagamenti varii falli dalla Repubblica a Gio. Giacomo Della Porta e Nicolo da Corte scultori. 1533-1541 ( Cartularii della Repubblica, negli Archivi Governativi) C. R. 1533-34, pag. 42. Millesimo quingentesimo trigesimo quarto di vigesima septima Martii. Ratio marmorum conductorum ex Carraria de ordine I). Andreae Justiniani et sociorum Deputatorum tunc temporis super fabrica salae magnae pro portale ipsius salae pro carratis triginta duabus consignatis per M. Ber- nardum de Pelisa de Carraria Petro Armerio quae fuerunt pro.....pro ipso Magistro Bernardino ad Sc. 3. pro carata, deductis tamen ex ipsis sol. 7. pro singulo carro super carris 40 nomine Comunis expeditis in Dugana V.a Sc. 96 deductis Sc. 4. sol. 4. pro ipsa Dugana, restant Sc. 92 minus sol. 1. pro dicto et dictus pro M.co D. Simone Cibo de Recho mandato MM. D. Duorum ......... L. 317. 4. Recepimus 1534 die 15 Aprilis in carratis triginta duabus marmoro-rum venditis et consignatis Magistris Johanni Jacobo de Ia Porta et sociis in eis............L. 582. 14. Item in damno habito in dictis mannis in Comune Januae . » 3i. 10. C. R. 1533-34, pag. 43. Millesimo quingentesimo trigesimo quarto die decimaquinta Aprilis. Magister Joannes Jacobus de la Porta et Nicolans di Curte Sculptores in solidum pro carratis triginta duobus marmororum eis consignatorum de acor- ( «2 ) dio cum M.ci> J). Joaimc Baptista ol Simone Sc. 80. et sol. 65, minus Sc. 10. de eo constavcrunt vigore instrumenti in actis Jeronimi, Y.'pro ratione marmororum........L. 282. 14. Dimidia iu festo Sancti Michaelis Se. II. in Nativitate Divi Johannis Baptistae ratione mandati. G. R. 1535, pag. 13. Millesimo quingentesimo trigesimo quinto die secunda Januarii. Magister Joannes Jacobus de Ia Porta et Nicolaus de Curte marmorarii pro Cartulario praecedenti pro illo de 43 pro introito . . L. 6. 14. ■10. Recepimus 1535 die 23 Augusti in quanto asseritur expen-didisse in exoneracione pecii marmoris in Comune Januae . » 6. 14. 10. 0 --—---— C. R. 1536, pag. 86. Millesimo quingentesimo trigesimo sexto dic vigesimanoua Maii. Magistri Joannes Jacobus de ia Porta et Nicolaus de Curte Sculptores in solidum pro M.c0 D. Jacobo Italiano in solutionem finestrae marmoreae flendae ut in instrumento manu Jeronimi.....L. 345. » » Item pro dicto Magistro Nicolao^pro precio habito per eum pro eo...........» 86. S. » C. R. 1538, pag. 14. Millesimo quingentesimo trigesimo octavo die secunda Januarii. Magistri Joannes Jacobus de la Porta et Nicolaus de Curte Sculptores in solidum pro Cart.0 praecedenti pro illo de 22 pro introylo praesentis L. 86. 5. C. B. 1539, pag. 11. Millesimo quingentesimo trigesimo nono die sccunda Januarii. Joannes Jacobus de Porta et Nicolaus de Curte Scidptores pro Cart/10 praecedenti in illo 14 pro introitu.....L. 86. 50. » Millesimo quingentesimo trigesimo nono die secunda Januarii. Joannes Jacobus de Porta et Nicolaus de Curte Sculptores pro Cart.ri* praecedenti in illo 14 pro introitu......L. 86. 5. » Dependit dictum debitum ab aliis totidem in solucionem fabricae cancellorum aulae magnae Palacii. ( 63 ) C. R. 1540 pag. 13. Millesimo quingentesimo quadragesimo die secunda Januarii. Joannes Jacobus de Porlo, et Nicolaus de Curte Sculptores pro Cartulario praecedenti in illo in l io pro introitu . . • • • k. ,r*‘ Pecuniae ipsae fuerunt eis traditae super consteo cancellorum aulae magnae. C. 1\. 1541, pag. 10. Millesimo quingentesimo quadragesimo primo die lerlia Janua Joannes Jacobus de Porla et Nicolaus de Curte Sculptores pro Cartulario ■ . - .i» . . . ■ L. HO. i). praecedenti m illo m 13. pro introitu praesentis DOCUMENTO VI. Confessione di società Tra Gian Giacomo e Guglielmo Della Porta e Nicolò da Corte. 1534, 25 Dicembre. ( Filza dei rogiti di Giacomo Villamarino nell’ Ardi. Noi. ) In nomine Domini Amen. Magister Johannes Jacobus de la Porta quondam Barlholomei suo nomine ac nomine Gulliermi eius filii et prò quo etc., sub etc., ex una parte et Magister Nicolaus de Curte Francisci, Mediolanenses sculptores ex altera, pervenerunt et pervenisse confessi fuerunt et confitentur ad infrascripta pacta compositionem compromissum et alia quibus infra etc. Benunciantes etc. Videlicet quia virtute et ex causa dictorum compositionis pactorum et compromissi dicti Johannes Jacobus suo et dicto nomine ex una et dictus Nicolaus ex altera promisserunt et promittunt uni alteri et alteri uni quod omne opus quod dicti Johannes Jacobus et Nicolaus de caetero accipient ad faciendum el perficiendum taui in praesenti Civitate quam extra praesentem Civitatem, quod omne lucrum et emolumentum percipiendum ex praedictis operibus inlelligalur spectare et pertinere dicto Magistro Johanni Jacobo pro una tercia parte, pro una alia tercia parte dicto Gulliermo filio dicti Johannis Jacobi, et pro reliqua tercia parte dicto Magistro Nicolao, et similiter si quod dannum sequeretur, quod Deus advertat in futurum, intelligalur spectare pro teroio cuilibet dictorum contrahentium et sic intelligatur comprehensum opus quod restat ad perficiendum Reverendi Domini Episcopi Agrigenti quod re-puni debet in Ecclesia Sancti Laurentii Januae. ( ) El quia dicti Magistri Johann 3s Jacobus et Nicolaus habuerunt et recepe-| erunt a praefacto Reverendo Domino Episcopo aequales peccunias exclusis pi imis scutis centum conternantur et volunt quod revideatur opus per eos et quemlibet eoium factum pro opere dicti Reverendi Domini Episcopi ah ho-it in antea, et quod ille qui fecerit plus opus ille tallis qui reperietur fecisse minus dictus t.illis teneatur redicere illi talli qui fecerit plus opus omne id /uo cognitum et declaratum fuerit per infrascriptos arbitros et arbitraires, et sic promisserunt et promittunt uni alteri et alteri uni sub etc. Acto etc. uo si aliquis dictorum Johannis Jacobi, Gulliermi et Nicolai intenderent L recidere a dicto acordio et convenio inter eos ut supra capto, intelli-catur quod omne opus incaeptum finiri debeat per eos et ante tallem reces-lonem a diuo comenio et accordio dictus tallis qui vellet et intenderet re-e ire teneatui et obligatus-sit, et sic promisserunt et promittunt, uni alteri leu uni notificare eorum volumtatem per tres menses ante lallem reces-• nem,_ Lt ^10C su^ P°ena scutorum centum auri solis in quam cadat et ce-i-se intelligatur qui contrafecerit praesenti convenio et accordio, et magis |uantum importaret causam fraudis sub etc. Quae omnia etc. Sub poena dupli etc. Ratlis etc. Et proinde etc. nsuper dictus Johannes Jacobus suo et dicto nomine ex una et dictus - icoluUs ex altera de et super omnibus et singulis littihus causis quaestio-U'IJU' Offerentiis el controversiis vertentibus et verti sperantibus inter dictas faite? tam de praeterito quam pro futuro et usque quo durabit suprascrip-tum comenium et acordium inter eos, se se compromisserunt ac plenum amplum largum liberum et generale compromissum fecerunt et faciunt in 1 etrum Muletum Ponsertum quondam Jacobi et Antonium de Semino pictorem tamquam in ipsarum parcium arbitros et arbitratores et amicabiles compositores et communes amicos ellectos et assumptos per et inter dictas partes. Dantes etc. De iure et de facto etc. Remittentes etc. Emologantes etc. Pi omittentes etc. Renunciantes legi etc. Quae omnia etc. Sub poena Ducatorum vigintiquinque etc. In quam etc. Parti etc. Et durare voluerunt praesens compromissum et bailiam dictorum arbitro-rum per mensem unum postquam finitum erit suprascriptum convenium et acordium inter eos ut supra factum. Acto etc. Quod dicti arbitri et arbitratores non possint iuraii nec allegari pro suspectis. Acto etc. Quod casu discordia e dictae partes ellegere debeant tercium, et casu quo dictae partes non se concordarent ellectioni dicti tercii quod Domini Sindicatores possint elligere dictum tercium etc. ( M ) Do quibus omnibus etc. Actum .Januae in platea Nobilium do Marinis in apotheca dicti Petri Pon-serti, anno Dominicae Nativitatis millesimo quingentesimo trigesimo quarto, Indictionu septima secundum Januae cursum, die Mercurii vigesimatertia Decembris, hora vigesima tertia vel circa, praesentibus Francisco de Varixio berretario quondam Johannis el Laureniio Cremorino quondam Petri civibus Januensibus testibus ad praemissa vocatis et rogatis etc. DOCUMENTO VII. Pagamenti latti a Gian Giacomo Della Porla per la statua ili Ansaldo Grimaldi 1539-1547 ( Carlularii della Repubblica sopra citali ) C. R. 1559, pag. 170 (1). 1559, 31 Marcii. Magister Joannes Jacobus Mediolanensis Scvlplor prò Magnifico Domino Jacobo de Prementorio Masario infra solucionem suae mercedis fabricae Statuae marmoreae Magnifici Domini Ansaldi de Grimaldis mandato Magnificorum Dominorum Procuratorum . • . L. 50. » ltom sexia Septembris pro M.co D. Bernardo Justiniano Masario infra solucionem ut supra........» 86. 5 C. R. 1540, pag. 51. Millesimo quingentesimo quadragesimo die vigesima Januarii. Magister Joannes Jacobus de Porta Sculptor pro Cartulario praecedenti in illo 170 super eius mercede Staluae Magnifici Domini Ansaldi Grimaldi pro mandato . L. 13G. 5. (1) In questo stesso Cartolario sotto la data del 2 gennaio si legge: M. D. Ansaldus de Grimaldis ex Collegio M. D. Procuratorum pro cartulario antecedenti etc. Può quindi arguirsi che il Grimaldi fosse ancora vivente, quando gli fu eretta la statua. Nel Cartolario B delle Colonne di S. Giorgio, an. 1795-6, foglio 29 verso, si legge : « In virtù ili decreto del Ser.m® Senato fu permesso agli eredi di detto q.m Ansaldo disporre della . . . somma di L. 1814 ss. 6 . . ., per spendersi in mettersi la statua di marmo del medesimo q.m Ansaldo, la quale prima dell’anno 1684 esisteva nella sala grande del Reai Palazzo ». ( 66 ) Item die 19.“ Februarii pro M.co D. Bernardo lustiniano Massario.........L. 72. 9. G. R. 1541, pag. 29. Millesimo quingentesimo quadragesimo primo die tertia Januarii. Magister Joannes Jacobus de Porta Sculptor pro Cartulario praecedenti in illo 51, super eius mercede statuae quondam Domini Ansaldi de Gri-maldis pro m.°........ . . L. 208. 14. Item die vigesima octava dicti pro magnifico Domino Bernardo lustiniano Massario.......» '1?6. *’■ C. R. 1546, pag. 86. Millesimo quingentesimo quadragesimo sexto die trigesima prima Maii. Joannes Jacobus de Porta Sculptor pro Magnifico Domino Antonio Cibo de Ottone Massario infra solucionem mercedis fabricae Statuae Magnifici Domini Ansaldi de Grimaldis mandato Magnificorum Dominorum Christophori et Joannis Baptistae . . L. 34. » Item die sexta Julii pro Augustino pro m.10 pro dicta causa . » 27. 4. Item die vigesima quinta Octobris pro precio minarum sex Grauorum r.ta ad L. 6 singula pro Leonardo Ricio pro Cartulario provisionis frumentorum....... » 36. » Item die decima septima Decembris pro Augustino Lomellino Porro supra Statua Magnifici Domini Ansaldi de mandato Magnificorum Dominorum Christophori et Joannis Baptistae habentium curam........... » 68. » C. R. 1547 ,pag. 34. Millesimo quingentesimo quadragesimo septimo die decima Januarii. Joannes Jacobus de Porta Sculptor pro Cartulario praecedenti in illo cart. 86 super Statua Magnifici Dornini Ansaldi pro m.1*. . . L. 165. 4. Item die 23.a Aprilis pro Augustino Lomellino Porro, et hoc de ordine M.cl D. Christopori, pro residuo mercedis laborerii ( 67 ) Statuae D. Ansaldi de Grimaldis, firmo manente debito de libris 36..........L. 40. 16. DOCUMENTO VIII. Contratto passato fra i Padri del Comune e maestro Domenico De Marchesii di Caranca, col quale questi si obbliga d’eseguire vani lavori in S. Lorenzo. 1529 ( Fogliazzo d’ Atti dei Padri del Comune dal 1528 al 1532 , num. 229, nell’ Archivio Civico) In Nomine Domini Amen etc. M.CI D. Augustinus Lomelinus D. Baptae, et Benedictus de Franchis de Viali duo ex patribus Comunis, nomine et vice reliquorum colegarum suorum, pervenerunt ad infrascripta pacla el compositioDes cum M.r0 Domino de Marchexiis de Charancha ut infra. Et primo: Chel prefato M.ro Domenico debie fare una porta dove al presente he la capella de la Trinità di quella aitesa e larghesa che li sera ordinato. ltem fare una porta per intrar in ihostra tuta a coperto contigua ala intrata dela capella de Sancto Jo. Baptista. Item de tradure o vero fare una secrestieta nela dicta capella e la porta de la quale ha da esser sotto la statua de Sancto Johanne, he ha da essere iora de la capella tanto largha e longa quanto sera capace il sitto. Item che si debie lassiar lo addito che Rev.m0 Archiepiscopo pos'sie descendere in giesia. Item che debbia desfar la sellala e la porta de la secrestia grande e tramutar la dieta porta acanto ala porta de la secrestia picola. Item che debia fare doe capelle sotto lorgano proportionate alo sitto de le porte de le secrestie, volte, altari, schalini, e altri ornamenti necesarii a suo judicio. Item chel facia nel sitto dove al presente he landito de la secrestia grande, una secrestieta per reponere la capsia de Sancto Jo. Baptista. Item che a la porta da intrare in ihostra debie fare la sua coperta, e reponere le lapide auree sopra ad essa porta. Item che lo squadrar de le petre de la secrestieta nova e vechia in epsa capella le debia fare, e meterle a loco. ( «8 ) Item chel debia fare ale dicte doe capelle, e al sitto de S.cl" Jacobo pe-destali, colone, base, capiteli, architravi, frixi, cornixoni, pilastreti, talo a uno ordine, incomensando al canto de la capella de Nostra iJona perfino al pilastro de S.c,° Jo. Baptista di marmare cioè de quelli quali sono cossi a dette capelle come sono ne la giesia majore e de Sancto Jeanne da poter lavorare. Item che li epitafii quali sono sotio lorgano li debia riponero sopra la porta nova de la secrestia grande. Che le predicie cose e lavorerj li debie fare puliti, honorali, cum quella architetura che richiede il loco. 1 quali lavorerj debieno esser forniti per luto il di ocio de decembre. Et per pagamento cossi de sua mercede e opere, e manuali, scharpelini, atrati, zeli, e altre cose contingente ad epsi lavorerj, si contenta de finirli in luto e per tuto corno si he detto di sopra per precio de lire 500 de moneta de Genova, le quali li prefati M.ci U. Augustino e Benedicto deputati corno si he detto de sopra a nome del prefato Ofiìcio prometeno pagarle in questo modo, cioè ex nunc libre 100, il resto a la rata secondo il lavorerio che lui fara, adeo che finito il lavorerio sie finito il pagamento. Se intende che il prefato M.r0 Domenico non sie obligalo de metere ne de fare il portaro de la porta dove al presente he la capella de la Trinila, anci sie e si debia fare ale speze del Comune. Presentibus D. Stephano de Oliva et D. Bernardo de Boveriis canonicis dicte ecclesie. Testata per me Andream Rebechum Notarium. DOCUMENTO IX. Contratto passato fra i PP. del Comune, ed i maeslri Gio. Giacomo e Guglielmo Della Porta e Nicolò da Corle, circa l’esecuzione della pubblica fonte di Piazza Nuova 1536-1o-i2. ( Alti de’ PP. del Comune, an. <536-42 ) I536 die lunae 6 Marcii. El spedato Officio de li Sig.ri Padri de Io excelso Comune di Genoa siaudo in pieno numero, li nomi de quali sono M.ct> Jo. Bapta di Vivaldo Sophia, M.co Hectore de Fiesco, e M.co Simone Spinola qm 1). Jo. Bapte, ( 69 ) a nome e vexenda del Prefato Comune da una banda, e Maestri Johan Jacobo de la Porta, Nicholao de Curte e Guglielmo de [la Porta del detto M. Jo. Jacopo Scultori de la presente cita, e ciascheduno de loro per il tuto da latra banda, per ogni ragione e spontaneamente perveneno a la infrascripta compositione, promissione e pacti sopra il lavorerio infrascripto. Rinun-tiando etc. Soe per cagione de la detta compositione, pacto e altre cose dette de sopra e apreso si dirano li predetti M. Jo. Jacopo, Nicolao e Guillelmo in solidum ut supra hano promesso e promettono alli p.li Sig.n Padri del Comune presenti e a me Notaro farli uno fonte chiamato brachile da metter in Piasa Nova de Sancto Ambrosio nel locho sollito per cavarne acqua ad uso publico ; quale fonte o sia brachile debia essere con octo facie de mar-maro biancho mayhato quale sie in bontà e beilesa, e de diametro per de lora palmi dece, e di altessa a la proporcione con una pilla e uno scalino con una figura sopra epsa pilla de-Jano e che tuti li intagj e lavori di detto fonte o sia brachile siano bene spichati e lavorati. Et demum in tuto e per tuto debia essere corno appar in lo dissegno havuto da epsi Maestri de epso fonte, sotnscripto per Nicolao Spinola de Signorio. Et hoc intra et per totum mensem Maj proxime venturum , remotis quibuscumque cavillationibus. Et per contra el p.'° Spectato Officio ha promesso e promette ali detti Maestri Jo. Jacopo, Nicolao e Guillelmo prezenti per il pretio e lavorerio di detto fonte o sia brachile di dare e pagar a epsi Maestri scudi 120 del sole o sie la valupta di epsi a la jornata in arbitrio del p.° Spedato Officio. Et he per paclo che detto fonte o sie lavorerio sempre debie esser e si intenda in satisfactione del pref.0 Sp.t0 Officio, e in caxo che non lo fussi a judicio di epso Officio, possi in tal caxo el pref.0 Sp.t0 Officio da la soma predetta di scudi 120 sminuir e levar tuto quello e quanto a lui paressi conveniente. Et etiam sotto pena in caxo di contrafactione a quanto si contiene nel presente contracto per parte di detti Maestri Jo. Jacopo e compagni di scudi 23 d’ oro applicandi a judicio del p.‘° Officio, a quale judicio et demum a tuto si remetteno li detti Maestri, e promettono di stare. Le quali cose etc. sotto pena etc. Testi monj Francesco Imperiale Joardo q.m Ambrosj, e Nicolao De Signorio notario. ( 70 ) DOCUMENTO X. Proclama circa la detta fonte, donde si evince la ultimazione della stessa. 1537 , 26 Febbraio ( Atti citali ) Per parte e comandamento del Spedato Officio de li Signori Padri de 1° Excelzo Comune di Genoa si ordina e comanda a ciaschaduna persona de che sorte se sie, che non ardisca o presuma di condure muli o cavali o sie altre bestie de chi si voglia sorte ad abeverare al brachile de novo fatto in la Piazza di Sando Ambrogio sotto pena etc. etc. Nicolaus Spinola De Signorio Notarius. DOCUMENTO XI. Mandato di pagamento a favore di Gio. Giacomo Della Porta e socii. 1538 , 18 Gennaio. ( Atti citati ). 1538 , die veneris 18 ianuarii in vesperis ad Cameram. Spectatum Officium D. Patrum Comunis Januae in pleno ordinavit solvi debere M." Jo. Jacobo de Porta Scultori presenti et requirenti restum quod habere restant ipse M. Jo. Jacobus et Socii pro pretio brachilis, non obstante quod virtute Cartularj ipsius Sp.li Officii appareat totum dictum restum spectare M." Nicolao de Curte uni ex dictis sociis, attento quia ipse M. Jo. Jacobus suo nomine et Guliermi filii sui quibus spectant due tertie partes pretii dicti brachilis habuerunt in diversis partitis ultra dictas duas tertias partes eis spectantes, dumodo tamen ipse M. Jo. Jacobus in receptione dictarum pecuniarum pro resto pretii dicti brachilis det fidejussionem dictum restum dare et solvere ipsi Sp.t0 Officio seu agentibus pro eo intra annos duos, salvo si intra dictum tempus dictus M. Jo. Jacobus exclarari faciet dictum restum pretii dicti brachilis spectare et pertinere ipsi M.° Jo. Jacobo suo et nomine dicti Guliermi, et non dicto M.° Nicolao, vel intra dictum tempus faciet quod dictus Nicolaus vel persona pro eo legitima contentus sit quod didae pecuniae quae sunt restum predicti brachilis ipsi M.° Jo. Jacobo solvantur. Et hoc sine aliqua excusatione. ( 71 ) DOCUMENTO XII. Allo di sottomissione passato da Stefano Fieschi a favore di Gio. Giacomo Della Porta, acciocché questi possa ricevere il saldo del prezzo dovutogli per 1’ esecuzione del Barellile. 1538, 23 Gennaio (Alti citati). 1538 , die mercurii 23 ianuarii in terciis, ad Cameram. Supradictus Jo. Jacobus de Porta habens noticiam de suprascripta ordinatione facta per Spectatum Officium , volens habere dictum restum pretii dicti brachilis, quae sunt librae quinquaginta soldi undecim Januae: sponte et cum proptestacione quod'ipse intendit dictum restum sibi in totum spectare, attento quia ut dicit ipse pe fec. opus dicti brachilis ac etiam fecit gradum unum, schalinum videlicet primum apud solum, de quo nullam solucionem habuit a Sp.to Officio, attento quia ipsum Spectatum Officium pretendebat eos esse incursos in penas contentas tam in instrumento quam in preceptis eis factis, ac aliis de causis noluit solvere, et de consteo ipsi Nicolao pretendit spectare suam partem , ac etiam dicit quod omnes peccunias habitas per ipsum M. Jo. Jacobum semper divixit inter eos ut suo tempore dicto Nicolao se ofert probare, et etiam attento quia ipse pretendit totum dictum laborerium fecisse in sua apotecha et cum suis magistris, tamen volens dictas peccunias habere, promissit et promittit dicto Sp.t0 Off.0 absenti, et mihi notario et dicto Officio seu personae pro eo legitimae restituere in omnibus prout in suprascripta ordinacione fit mentio intra dictum tempus in dicta ordinacione contentum sub ipotecha etc. Et pro eo et ejus precibus solemniter intercessit et fidejussit Stephanus Fliscus quantum pro libris 54 Januae tantum. Sub etc. Renuncians etc. Testes Baptista de Agnola q.m Marci, et Paulus de Lomellino q. Josephi. DOCUMENTO XIII. Decreto de’ PP. del Comune relativo a quanto sopra. 1542, 31 Marzo. (Atti citati) 1542, die veneris ultima martii in vesperis ad Cameram. Spectatum Olficium D. Patrum Comunis in pieno numero congregatum , audito M.° Johanne Jacobo de la Porta dicente in anno de 1538 per ante- ( n ) c essores ipsius Sp.'1 Officij fuisse solutas ipsi M." .Io. Jacobo libras 50 Januae pro resto pretii brachilis platee nove fabricati per ipsum M. Jo. Jacobum et socios, cum promissione quod casu quo M. Nicolaus de Curto ejus socius in fabricatione dicti brachilis noo contentaretur de dicta solutione quod teneretur ipse 31.r Jo. Jacobus ad restitutionem dictarum librarum 50 ipso Sp.'° Officio, el prout de dicta promissione constat in actis ipsius Sp.li Oflioii sub dicto anno die 25 Januarii, dicente etiam quod Johannes Dominicus de Curte de laco Logani tamquam procurator et procuratorio nomine dicti Nicolai ejus fratris vigore instrumenti manu Jacobi Villamarini Notarii in observatione, et attento quia per arbitros electos inter dictos M. Johannem Jacobum suo et nomine Guliermi ejus filii ex una ac dictum Jo. Dominicum de Ia Curte procuratorem dicti Nicolai ejus fratris ex altera fuit declaratum dictas libras 50 de quibus supra spectare ipsis M. Jo. Jacobo et Guiliermo, quitavit el liberavit diclum Spectatum Officium pro dictis libris 50, dixitque et declarat dictas libras 30 solutas per dictos D. Patres Comunis ipsi M. Jo. Jacobo fuisse et esse bene soluptas, el prout de dicta quitatione constat instromento manu dicti Jacobi \ illamarini Notarii die 1 i februarj quod exhibet, et propterea requirente promissionem peripsum factam et fidejussionem per ipsum presti -tam cassari et annullali; visoque dicto instromento ut supra exhibito per dictum M. Jo. Jacobum el contentis in eo: Ideo omni etc., cassavit et annullava ac cassat et annullat dictas promissionem et fidejussionem per ipsum factam et prestitam de persona Stefani de Flisco de libris 54, ac pro cassa et nulla haberi voluit et rnandavil perinde ac si facla et prestila non fuisset. Presente, instante et requirente dicto M.r“ Jo. Jacobo. DOCUMENTO XIV. Pagamento di litto dovuto da Uio. Giacomo Della Porta e'socii ai Padri del Comune. 1538. (Cartolario ecc. au. 1538, pag. 108, 270) 1558, die 16 ianuarii. Magistri Joannes Jacobus de Porta Nicolaus de Curie et Guillelmus de Porta iìlius dicti. Jo. Jacobi sculptores, pro gubernatoribus cabelle pancogolorum accipiente dicto magistro Jo. Jacobo . L. 9. 1558, die 2 ianuarii. Gubernatores cabelle pancogolorum prò cartulario antecedenti prò ilio 268, pro introitu......L. 9. » ( 75 ) 1539, die.20 ianuarii. A magistro Joanne Jacobo Porta et sociis delTerente Oherto de Silvarina per manus Pauli De Vinelli • • • . L. 9. 1538, 13 februarii. Pro pensione mediani subtus terratiam Camere Spietati Ollicii eis locati prò anno uno incepto secunda presentis mensis februarii et finituro 2 februarii de 1339 valent pro introitu pensionum locorum du-gane panis venatis . . . . . - • • . L. 9 DOCUMENTO XV. Pagamenti fatti dalla Repubblica a Gio. Giacomo Della Porla, per la statua di San Luca. 1551 — 1553. (Cartolarii delle spese della Repubblica) 0 R. 1531, pag. 24 Yeshus. Millesimo quingentesimo quinquagesimo primo die secunda .Ianuarii. Joannes Jacobus de Porla prò Cartulario praecedenti in ilio cart. 28, prò introitu . ..........L. 49. 0 C. R. 1552 , pag. 131. Y'eshus. Millesimo quingentesimo quinquagesimo secundo die vigesima tertia Decembris. Joannes Jacobus de Porla sculptor pro Augustino Lomellino Porro Capserio ei solutis mandato M.ci D. Christophori et duorum de mane super residuo pretii statuae marmoris reponendae in Ecclesia maiori. . L. 100. » » Item die 30.a Decembris pro dicto Augustino Capserio ei solutis ut supra mandato etc.......» 40. » * Item per ipso debitore in racione debitorum tirato a Cartulario de 1551 pro dicta ratione.....> .19. 6, » C. R. 1553, pag. 37. Yeshus. Millesimo quingentesimo quinquagesimo tertio die secunda Januarii. Joannes Jacobus de Porta Sculptor pro Cartulario praecedenti in illo càrt. 131, super pretio statuae ad, imaginem Sancti Lucae Euangelistae pro introitu ■ • • • • • ■ . . .L. 189. 6. » ( n ) îtem die 28.* Januarii pro Stephano Cavagnario et sociis mag.c:* pro pretio de minis duabus Granorum distribucionis pro Cartulario supra 1352.......» 18. » » ftem pro Augustino Lomelliuo Porro Capserio in complemento mercedis statuae marmoree Sancti Lucae . . . » 88. II. 0 Recepimus die 28.' Januarii in resto precii statuae ad ima-ginem Sancti Lucae Evangelistae in Cartulario Ecclesiae Sancti Laurentii........» 29o. 17. 9 DOCUMENTO XVI. Conto di Gio: Giacomo Della Porta riguardante il gruppo di Cristo e S. Tommaso. 1540-1543. ( Cartularium Tertium fabricae moenium, nell’Ardi. Gov., pag. 12, 13, 53) * MDXXXX die XX Martij. Laborerium Sancti Thome pro magistro Jolianne Jacobo Della Porla pro pretio unius Sancti marmari posili super diclam portam scuta duodecim de acordio pro magistro Johanne Jacobo.....L. 40. 1- <> * MDXXXX die XX Martij. Magister Joannes Jacobus Della Porla pro Augustino Loinelino Porro . ..........» 4. » » Item die xvm Septembris. In peliis tribus marmarorum existentium super ponten Caltaneorum pro figuris. Pro consteo ipsorum pro Carratis xvnu ad scuta 4 singula Carrata scuta lxxvi ; pro expensis sui missi in Carraria scuta WJ et prò uaulo ad rationem de solidis 4 singula Carrata . . . » 325. » » DOCUMENTO XVII. Estrailo dal testamento di Cattaneo Pinello a rogito del Notaro Alberto Lomel-lino-Veneroso. 1551, 19 Settembre. ( Atti de’PP. del Comune, anni lo57-o8, n.° 174) Declarans uc ordinans (dictus testator) etiam quod Paires Comunis qui pro tempore fuerint, sive qui de predictis (Portus et Moduli) curam habe- ( 75 ) rent teneantur el debeant statini secuta morte ipisius domini testatoris erigere seu erigi facere in sala Palacii residenliae dominorum Patrum Comunis, quod et qui prò tempore erunt, statuam unam marmoream ad ipsius domini testatoris eiligiem, insignitam ornamentis equestris ordinis, ita quod translato Palatio alibi, ibi et statua transferatur cum epitaphio marmoreo cum verbis ordinandis per ... et hoc ad finem et effectum ceterorum civium animos inducendum ad . . . opus portus et moduli cordi habendum. DOCUMENTO XVIII. Conto di Nicolò da Corte per lavori fatti nella gran sala del Palazzo Ducale. ( Cartolarli della Repubblica ) C. R. 1555, pag. 268. Millesimo quingentesimo trigesimo quinto die terlia Novembris. Magister Nicolaus de Curte Scultor pro scutis viginti quinque habitis a Magnifico D. Jacobo .Italiano in solucione unius fmestrae fabricandae cum laboreriis marmoris ad salam magnam palacii de qua obligatione constat in strumento hodie rogato per me Georgium Ambrosium et infilato. Quod la-borerium debet poni perfectum intra festa Resurrectionis Domini proxime de 556 ut in dicto instrumento continetur, v.* pro eo M.co D. Jacobo . L. 86. 5. C. R. 1556, pag. 25. Millesimo quingentesimo trigesimo sexto die secunda Januarii. Magister Nicolaus de Curte Scultor qui debet fabricare ornamenta marmoris pro fenestris sale magnae pro Cartulario praecedenti pro illo 268, pro introitu.......... . L. 86. 5. DOCUMENTO XIX. Nicolò da Corte fa procura a Francesco Pallavicino Clavarino Notaro. 1543, 7 Giugno (Atti dei Notaro Giacomo Villamarino) In nomine Domini Amen. Magister Nicolaus de Curte Sculptor quondam Prancisci omni modo iure via et forma quibus melius potuit et potest fecit, ( 76 ) constitu.il, creavit et solemniler ordinavit et ordinat suum certum verum et legitimum nuutium et procuratorem, et alias prout melius fieri dici ac esse potest, et loco sui posuit et ponit Franciscum Palavicinum Clavarinum Notarium absentem tamquam praesentem. Ad omnes el singulas littes causas quaestiones differentias et coDtroversias quae et quas dictus constituens habet ac habere sperat aut habiturus est cum quibuscumque personis et persona, comuni, corpore, collegio et universitate, et lam cum cartis, scripturis, instrumentis, apodixiis et testibus quam sine, coram quocumque Judice, Officio, Praeside et Magistratu tam ecclesiastico quam saeculari et tam civili quam criminali et tam in agendo quam in defendendo. Et ad libellum et libellos etc. Ampla etc. Ad littes etc In forma etc. Dans etc. Promittens etc. Sub eie. Et volens etc. Intercedens eie. Sub etc. Renuncians etc. De quibus omnibus et singulis suprascriptis rogaverunt me Jacobum Vila-. marinum Notarium etc. Actum Januae in prima salia Pallacii Communis vocata Fraschea, videlicet ad Banchum mei Notarii infrascripti, anno Dominicae Nativitatis millesimo quingentesimo quadragesimo tercio, Jndictione quintadecima secundum Januae cursum, die Jovis septima Junii, hora quintadecima vel circa, praesentibus Nicolao Bianco Thomae et Filipo de Roclia Jeronimi civibus Januae, testibus ad praemissa vocatis et rogalis. DOCUMENTO XX. Memoria di Giovanni Antonio Delia Porta Scultore. Io08, 17 Giugno (Cartulario delle spese de’PP. del Comune, an. I0O8, pag. 79) Pro Joanne Antonio de Porta Sculptore lapidum pro resto precii lapidis marmorei [tosili uni dictorum pillastrorum (1) cum scruptura, attento quia in Cartulario Ollicii de L‘>06 habuit libras 10, et dictus pro Joanne Petro de Bissone in Baptista Testana........L. 6. Il) Delia loggetta fra il ponte della Mercanzia e quello delle Legna. ( 77 ) DOCUMENTO XXI. Licenza di scaricare marmi concessa a Gio. Giacomo Porta Scultore. 4630, 13 Novembre (Manuale dei decreti de’PP. del Comune, 1628-30 ) Johanni Jacobo Porte concessa licentia exonerandi supra Pontem Spinulo-rum marmora ex duobus barcis, pro ipsis illinc a ufferenda intra dies quim-que, qua de causa pignus librarum centum deponat hac lege quod nisi intra dictos 5 dies illa abstulierit, sit pignus ipso jure Camere, ad calculos ipso audito, et ita ei notificatuin coram Magistratu. DOCUMENTO XXII. Conto di varii lavori eseguiti da Gio. Giacomo Porta. 1639-1640 ( Mandati de’ PP. del Comune ) Adì 17 Dicembre 1639. Voi Casiero dei Molti Illustri Signori Padri de il Comune di Genova pagherete a Maestro Giachomo Porta schopelino lipre sinchuanta/quale si paglia a bon conto de i sedile fati et quali che si a di fare sopra la piasa di S.to Siro et deli sedili sono di pietra di Finale.....L. SO. Francesco Da Nove Architeto. E vaglia con firma del Prest.mo Sig. Felice Demari Deputato. Felice De Mari Deputato. Gio. Filippo. 1640. Li molto Illustri Sigg. Padri del Comune devono per uu pezzo di marmo posto al Ponte de’ Calvi per li canoni fatto d’ ordine da M.° Francesco Da Nove capo d’ opra lungo palmi 9. 4.......L. 50. Fraucesco Da Nove Architeto. 1640 a 18 Agosto. Saldato detto conto in Lire sessantotto soldi 7 e denari otto da pagarsi a (78) Giacomo Porla con la firma delli prest."1' Sigg.' Andrea Ferrari e Felice De ilari Deputati........L. 68. 7. 8. Gio. Filippo. Andrea Ferrari. Felice De Mari Deputato. DOCUMENTO XXIII. Conto di Giacomo Porta e socii, per fitto di cui erano debitori verso de’PP. del Comune. 1644, I Gennaio (Cartulario ecc. 1644, fog. 103) Rocco Pellone, Giacomo Porta e Domenico Casella in solidum conduttori i silo n. / in Strada Nuova fra li Calvi e la Darsina, per quanto stanno d-bito ut 1 Cartulario precedente pag. 189, valuta per introito . L. 04. DELLA VITA PRIVATA DEI GENOVESI DISSERTAZIONE DEL SOCIO LUIGI TOMMASO BELGRÀNO -I aluni fra gli storici dei secoli XIII e XIV, i quali ci hanno lasciata una dipintura a larghi tratti de’ tempi cui seguitarono a breve distanza, descrivono i costumi degli italiani tutti spiranti semplicità, e quasi diremmo ancora selvatichezza. A’ giorni dell’ imperadore Federigo II, cosi diceva Ricobaldo Ferrarese, rozzi erano in Italia riti e costumi. Gli uomini portavano mitre di ferree squame ; a cena marito e moglie mangiavano a un solo piatto, nè usavan legni da tagliare ; uno o due bicchieri bastavano ad una famiglia. Di notte illuminavan le mense con lucerne o faci, cui sosteneva un donzello; ma non vedeansi candele. Gli uomini vestivano rozze lane o pelliccie; le donne stavansi paghe a tuniche di pignolato, anco allora che andavano a marito ; poco o nessun uso faceasi d’ oro o d’ argento; e si era parchissimi nel mangiare. I plebei tre di per settimana pascevano carni fresche. Allora desinavano erbaggi cotti colle carni; e fornivasi la cena co’ resti delle medesime fredde e riposte; nè tutti beveano vino all’estate. Di poca somma sti-mavansi ricchi. Picciole eran le canove, non ampli i granai. Lieve dote bastava a collocar le fanciulle; nè zitelle, nè spose 6 ( M ) costumavano fregi preziosi intorno il capo; e le donne legavan le tempia e le guancie di larghe bende, cui annodavano sotto il mento. Gli uomini faceano loro gloria di cavalli e d’armi ; i nobili poneanla nel noverare di molte torri fra i loro sterminati possessi ('). Se non che, il raccontalo da siffatti lodatori de’ tempi trascorsi trovasi contraddetto da parecchi altri scrittori, non meno de’ primi gravi ed attendibili ; e però, anzicché pigliare alla lettera l’esposizione loro, conviene ammettere con Cesare Cantù, che Ricobaldo Ferrarese e i suoi compagni voleano, esagerando il confronto, far rimprovero al fasto dei loro tempi, « come noi sentiamo tuttodì esaltare dai vecchi i costumi sobrii e schietti che correvano in loro gioventù, e che pure formavano soggetto di beffe e rimproveri ai poeti, ai comici, ai predicatori d’ allora. Se mai 1’esiglio nostro sarà prolungato, anche noi ne’ tardi anni rimpiangeremo la beata semplicità e 1 ingenua fede che correva ne’ tempi di nostra giovinezza » (2). D' altra parte , è necessario strettamente il distinguere da’ Comuni e dalle Signorie di dentro terra le città marittime, come quelle che sorsero prima delle altre a libertà, e colle conquiste e i commerci, di che ebbero anzi l’indirizzo che il maneggio, di buon ora entrarono nella via delle ricchezze e dello incivilimento. Per procedere con ordine nello svolgimento del lavoro propostomi intorno la vita privata de’ genovesi, occorrerà ch’io tocchi anzitutto di ciò che si attiene alle loro abitazioni ; dica poscia del mangiare e del vestire ; e infine mi soffermi a ritrarne il costume. Le mie ricerche si drizzano specialmente all’età di mezzo; tuttavia mi è occorso di dovere più d’ una volta varcare il confine, allo scopo di meglio completare le notizie fornite; (') Hicobaldi Ferrariensis Compilatio Clironologica, apud Muratori Script Rer-Ital. IX, 247. (2; Cantò, Storia Univ.; vol. XI. ( 83 ) non senza fiducia che 1’ importanza e novità delle stesse mi valga di scudo appo i benevoli. I. \ Lungo il secolo XII le case de’ cittadini erano per la maggior parte costrutte in legno. Ciò spiega perchè tra gli obblighi del Cintraco, o banditore del Comune, fosse quello di dovere ne’ giorni in cui spirava il vento d’aquilone andare intorno pel castello, la città ed il borgo ammonendo ciascuno che invigilasse al fuoco (*); e ne fa accorti del perchè in breve ora un incendio distruggesse la contradadi sant’Ambrogio (1122), ,e quasi tutto il quartiere di Palazzolo (1179); ed in Mercato vecchio, ne’ banchi de’ cambiatori (1213), divampassero oltre a cinquantaquattro edifizii. Anche nel secolo successivo trovansi ricordate le case di legno, ma probabilmente per la sola ragione che ne esistevano ancora di quelle innalzate negli anteriori. Il Fogliazzo de’ Notari ha memoria della casa di legname dei figliuoli di Nicola Embrone, sotto l’anno 1227 (2). Nel 1251 tre fratelli Di Negro cedono i diritti che loro competono su alcune case di legno poste in Sosìglia (3); e nel 1253 Giovanni Bisaccia dà in locazione un edificio ligneo sito sulla piazza de’ Lercari (4). Ma, quel che è più, lo stesso Comune teneva in siffatte case i proprii ufficii, come si apprende da un atto del 1.° febbraio 1251, nel quale Nicolò Conte ed Ansaldo Di Negro affermano che Bonifazio Fornari e i suoi consorti aveano locato al Comune e al Podestà domum,, sive astricum cum domibus lignaminis, per 1’ annuo censo di lire 70, ed alle condizioni con cui 1’ aveva (*) Lib. Jurium Reipub. Genuen. I. 78. (3) ld. I. 452. (J) Foliatium Notariorum, Ms. della Civico-Beriana; vol. I, car. 85. («) Id. I. 520. ( 84 ) tenuta Guido di Corrigia podestà dell’anno precedente (')• Tuttavia i nobili e gli agiati cittadini non tardarono ad edificarsi più comode e solide abitazioni; che anzi parecchi documenti se ne hanno spettanti allo stesso secolo XII. Queste si alzavano per Io più a quattro o cinque palchi, compreso il terreno; ed erano comunemente costrutte in pietre fino al secondo piano, e ([tiindi di mattoni insino al tetto; poiché le cave di pietre prima della invenzione della polvere furono troppo costose (2). Il tetto poi si copriva con ardesie di Lavagna ; e le finestre venivano decorate e spartite da agili colonnette, sulle quali non di rado giravansi archi di sesto acuto, ovvero di tutto sesto. La tradizione ci insegna poi, che quei branchi di ferro che ne più antichi edifizi veggiamo ancora al di d’oggi murati lateralmente al di fuori delle finestre medesime, non erano vani ornamenti, ma necessari ordigni per adagiarvi i lunghi remi, allorché i navili guerreschi o mercantili entravano in riposo. (') Fol. Ao£. vol. 11, par. I, car. 6. Infatti un instrumento del 18 aprile 1250 dicesi actum ianue in palatio fomarionum in quo potestas habitat. (Ibid. 37). (2) Le cave di pietra erano allora, come al presente, a Capo di Faro, nel colle di Carignano ed in Albaro. Per atto del 29 ottobre 1225 Oberto abate di san Benigno a Capo di Faro concede a maestro Alberto Strurigozzo la facoltà di far pietre nel monte ove sorge il detto monastero, cioè in quella parte che confina tra il coltivato, 1’ Ospedale ed il mare (Fol. Not. I. 171). Vedansi pure nel Liber Jurium (I. 1254 e seguenti) le concessioni di simil genere per Carignano ed Albaro fatte a frate Oliverio monaco cisterciense, architetto del nostro Molo assai prima di Marino Boccanegra, e del Palazzo che fu poi di S. Giorgio ed è ora della Dogana. Y. Belgrano, Documenti genovesi suite Crociate di Luigi IX di Francia, pag. 334 e seguenti. Giovanni d’Auton, cronista del re Luigi XII, che nel 1o02 accompagnò a Genova quel monarca, così parla delle case d’allora: « Les maisons sont toutes à quatre ou à cinq etage de hauteur, fermées et closes de grosses portes de fer et voûtées de pierre, pour obvier au danger du feu, et dessus toutes pavées, de manière que l’on peut aller et cheminer par amont, jusques au bout de la rue, aussi à l’aise comme par la nef d’une église bien carrelée de grosses pierres de faix et de cailloux; de barres de fer, de lances et de dards , et de louis harnois sont celles maisons garnies ù suffire > (V. Chroniques de Jean d'Auton publiées par Paull. Jacob, Paris 1835, vol. H. p. 209. ( 85 ) Le navi genovesi, al paro di quelle delle altre repubbliche d’Italia, e segnatamente di Venezia, Amalfi e Pisa, veleggiando del continuo verso 1’ Oriente, e mantenendo relazioni e commerci coi paesi de’ Califfi, appresero alla patria la moda e P amore delle maraviglie ammirate colà; e cosi furono cagione che gli italiani, allontanandosi poco a poco dal gusto bisantino e longobardo, che regnava dapprima nelle loro città, prediligessero quello degli arabi, e il mantenessero per lungo volgere di tempi in singolare onoranza. Incapaci per altro ad elevare di per se stessi ornate fabbriche in quella rinascenza delle arti, bene spesso guastarono gli antichi monumenti per crearne de’ nuovi; e quindi avvenne che frutto delle loro navigazioni, o trofeo di segnalate vittorie, fossero talfìata colonne di diaspro, di porfido o d’altre preziose materie, le quali, tolte a’ più venerandi od insigni edificii, seco traevano per crescere decoro, imponenza e bellezza alle porte ovvero al peristilio delle loro cattedrali. Racconta Caffaro che i genovesi, reduci dall’impresa di Cesarea (1101), aveano levate dal tempio di Giuda Maccabeo dodici colonne di marmo venato di rosso, giallo e verde, e della circonferenza di ben 13 palmi, e quelle caricate su di una nave, la quale avea diretta la prora verso la patria, quando, cedendo forse all’ enorme peso, miseramente s’infranse nel golfo di Satalia (1). Ma dalla magnificenza onde allora si fece pompa non più veduta nella casa di Dio, a quella delle abitazioni degli uomini (') Pertz, Monumenta Germaniae Historica; XVIII. In Venezia all’ingresso della porta che mette al Battisteo di S. Marco, mostransi tuttora due colonne quadrate di marmo, che diconsi trofei di una vittoria ottenuta sui genovesi. Affermasi da taluno che siffatti pilastri si trovavano nel cortile della fortezza de’ nostri in Tole-maide, e che i veneti ne li asportassero intorno il 1256; vuoisi da altri che ivi sostenessero invece una parte della entrata alla chiesa di san Saba ove i genovesi stessi eransi allora affortificati. Vi si mirano poi scolpite le armi della croce, comuni a Genova ed all’ Ordine degli Spedalieri acritani (V. Cicogna, Inscrizioni veneziane, vol. I, p. 252. 379; Giustiniani, Annali di Genova, I. 424). (86) corse breve intervallo; e bene scrisse il eh. conte Cibrario, che già nei secoli XII e XIII i privati cittadini di Venezia e di Genova, aveano sicuramente dimore più belle che non vantassero i re oltramontani ed oltramarini ('). Sontuoso edificio dovette essere per fermo quello, che Ottobono di Salario nel 1191 prometteva costrurre ad Oberto Bolletto. Doveva elevarsi 33 piedi fuori terra, aver le mura principali tutte di pietra viva, distribuzioni di volte e di piani; essere adorno di colonne e capitelli vermigli, e rischiarato, oltre le minori aperture, da tre bifore o balconate, con isporti ed archetti (2). Di colonne ad uso di private costruzioni è pur memoria in altro contratto dell’ anno medesimo. Ivi Stefano di Zartex si obbliga a consegnare nel porticello di Deiva a Lanfranco Ri-cheri dodici colonnette di pietra vermiglia delle cave di Passano, coi relativi capitelli; e si dichiara mallevadore della promessa un maestro Guglielmo Guarnerio (3). Nel '1210 Girardo da (*) Cibrario, Economia Politica; vol. II, p. 68. (*) Fol. Not. I. 34. (3) Id. I. 33. A meglio chiarire l’argomento, diamo qui le misure di alcune case, quali rilevansi da Autentici documenti. 1267. Casa di Jacopino Spinola, in Corneliano: Cubiti 32 in lunghezza ed 8 '/2 in lunghezza (Toi. Not. I. 584). 1398. Casa di Damiano Sauli, in Genova: Larga in prospetto cannelle 3, piedi 2, pollici 4; ne’ fianchi cannelle 4. 2. 0. (Id. vol. Il, parte 11, ISO). 1401. Casa d’Jacopo Pallavicino, in Genova: cannelle 5. 16. 0 in lunghezza, e 2. 5. 13 in larghezza (ld. ibid. 220). 1401. Casa di Giovanni di Frevante, in Genova: Lung. S. cannelle 3. 4. 0; larg. c. 2. 1. 2. (Id. ibid. 222). 1401. Casa di Argenta Grimaldi, vedova di Andreolo Fieschi, in Genova: Lung. c. 4. 3. 6; larg. c. 2. 6. 11. (Id. ibid. 112). 1479. Casa di Barlolommeo di Zoagli, nella contrada di Chiavica: Lung. c. 5. 6. 17; larg. c. 2. 2. 10. (Id. IV. 934). 1480. Casa di Damiano Giustiniani, in Albaro: Lung. c. 8 e palmi 16; larg. c. 8. e palmi 7. (Id. ibid. 9o7). 1480. Palazzo (domus magna) di Raffaele Vivaldi, in Marassi: Lung. c. S. 6. 17; larg. c. 3. 3. 11. (Id. ibid. 9oo). ( 87 ) Carrara e socii si convengono di provvedere in Genova ad Jacopo di Levanlo, ovvero a maestro Giordano di lui cognato, 19 colonnelli della lunghezza di palmi 6 , 29 archetti , 24 quadri, e 50 rotondi; il tutto di marmo bianco di Carrara, oppure nero di Lucca (')• E il 7 febbraio-1253, Ricupero da Portovo nere promette di consegnarne ad Oberto Spinola altre quindici colonnette, buone, sane e belle, della lunghezza di otto palmi (2). Le signorili abitazioni aveano ampii porticati al dissotto; i quali mentre davano aspetto di sveltezza alle fabbriche, venivano in aiuto delle vie ora strette ed ora tortuose della città (3). Di porticati siffatti si eressero i primi in riva al mare, dove oggi diciamo Soltoripa, e nelle adiacenze di S. Pancrazio. Nel Libro dei Giuri si legge che i Consoli del 4134, i quali esercitavano allora il potere edilizio (4), assentirono a Marcinone Della Volta ed a più altri cittadini la facoltà di occupare un tratto di suolo pubblico lungo la Ripa, e drizzare in questo parecchie colonne equidistanti, per voltarvi gli archi delle loro case. La stessa licenza diedero a Gandolfo di Ruonvicino, per- Nel 4162 per la costruzione di un muro lungo piedi 16 1/2, nella contrada di Chiavica, si pagano lire 20; e lire 1 e soldi 6 nel 1210, per ogni cannella di muro dello spessore di un mattone e mezzo. Nel 1277 tante pietre bastevoli a costrurre una cannella di muraglia costano soldi 5. Nel 1302 e 1315 un moggio di calce vale lire 0. 15. 6; e nel 1383 lire 1. 5. 0. In quest’ ultimo anno i mattoni ferrigni vendevansi lire 3. 10. 0 al migliaio; lire 2. 10 i rossi, e lire 2 i bianchi. (Foliat. Not.). (*; Notulario di Raimondo Medico, car. 13 verso (nell’Archivio notarile di Genova). (2) II prezzo si stabilisce in soldi 9 per ogni palmo (Notulario di Guidone da S. Ambrogio). (3) II precitato Giovanni d’Auton afferma che le contrade di Genova « sout longues, et étroites, à passer seulement trois hommes à pied de front on un sommier chargé des coffres » (Vol. II, p. 209). (4) Per atto del 10 luglio 1156, i consoli Lanfranco Pevere ed Enrico D’ Oria lodano, che Piccamiglio ed i suoi fratelli potestatem habeant ponendi duas co-lumpnas ligneas in anteriori parte domus sue de fossatello, et hoc sine contradictione consulatus ianue et communis populi (Chartarum II, 339;. ( 88 ) ché ponesse Ire colonne avanti il parammo della casa de’ suoi figliuoli, e tre nella contigua via di S. Pancrazio. Le dimensioni di tali colonne variavano di frequente; ma l’altezza non potea sorvanzare i dieci palmi; la forma doveva essere quadrata per quelle che riuscivano agli angoli degli edifizi, e cilindrica per le restanti. Anche al di d’ oggi, oltre gli avanzi di Sottoripa, abbiamo traccie di porticati, sebbene d’epoche meno rimote, nella via de Giustiniani, la quale é fama predicessero i nostri antichi a passeggiata d’ inverno, nell’ altra di S. Luca, e nei numerosi viottoli che da quest’ ultima scendono al mare. Quivi in buona parte degli edifizi miransi ancora gli archi presso che sempre di sesto acuto e d’ ampia voluta, sorretti da robuste colonne, con capitelli ora intagliati, ed ora di pietre semplicemente corniciate 0). Tra le vie della città alcune erano costrutte in pendio, altre affatto piane, e per la maggior parte selciate in mattoni; talché quando piovea la città restava netta, come se fosse stata lavata a posta (2). Un atto del 1314 portava, che i frati del monastero di santo Stefano dovessero fare arizorari de lateribus feriolis stratam sive viam pubblicarti ab archis qui sunt in dieta via usque ad macellum Marini (3). Inoltre fino da quei giorni erano aperti sotterranei condotti o cunicoli, per lo sfogo delle acque, le quali per mezzo delle chiaviche si scaricavano in mare ; ed una multa di cento soldi si comminava a coloro che si fossero attentati di chiuderne gli sbocchi (4). (') Da questi porticati si ricavarono poscia le botteghe e i magazzini attuali. (2) Giustiziasi, Annali di Genova; vol. I, pag. 75. E nuovamente, sotto l’anno <509 (vol. II, p. 637;: « Ripararono questi Padri (del Comune) in molti luoghi le vie della città; e fecero silciare quelle di mattoni, che fu grande ornamento della città ». (3i Miscellanee storiche, Ms. del sec. XVIII, presso il cav. Emanuele Ageno. (4; Constitutiones Patrum Communis, Codice membranaceo dellArchivio Civico, car. 8. ( 89 ) Erano le case dei nobili non qua e là disseminate; ma quasi a gruppi disposte in dati punti della città. Abitavano le alture del colle di Macagnana, e prolungavansi fino alla chiesa di S. Nazaro, ora S. Maria delle Grazie, i Castello e gli Embriaci; de’ quali aveano i primi una torre presso san Damiano ; pos-sedeano i secondi quella che tuttodì giganteggia in sulla cima di si elevata regione, ed altra presso la porta detta di san-t’ Andrea (!). Abitavano gli Zaccaria nella contrada da essi denominata, e nella contigua di Piazzalunga; ed ivi presso, in vicinanza di S. Donato, i Saivaghi, donde ancora piglia nome una piazza (2). Seguitavano i Giustiniani nella contrada di Chiavica, a cui mutarono poscia nel proprio l’appellativo; e quivi pure i marchesi di Gavi, giurato eh’ ebbero 1’ abitacolo della città; cingeano il Mercato di S. Giorgio le case de’ \enlo, e quelle de’ Volta, poi Cattaneo, colla lor chiesa edificata in onore del martire san Torpete, e consecrata nel i 180; e queste famiglie contavano ben cinque torri, di cui 1’ una vedemmo ancora testé cadere sotto improvvidi colpi (3). Erano lungo il Cannéto i Baliani (d’ onde 1’ archivolto corrottamente appellalo Bajano) e gli Scotti, appo de’ quali ebbe stanza nel 1359 santa Caterina da Siena reduce d’Avignone; e presso la stessa via sorgevano le abitazioni de’ Sauli, donde s’intitola (') Nel 4 228 Gugliemo d’Alessio promette a Guglielmo del qm. Ugone Embriaco di consegnargli, alla riva del porto di Genova, dodici mila mattoni ad ipsius turrim facicndam (Fol. Not. I. 282). Nel 1231 lo stesso Guglielmo ed Embriaco suo fratello danno a fitto a Borgo di Firenze la torre che possiedono a porla san-t’Andrea (Id. vol. II, par. I, 210). (2) Esiste tuttora su questa piazza un palazzo il cui portico è sormontato da due figure marmoree di selvaggi, per fare allusione al casato , di cui dovevano sorreggere lo stemma. Tali statue ricordano il fare tobuslo di Gian Giacomo e Guglielmo Della Porta. V. Vai.ni , Delle opere dei Della Porta, pag. 51. (3) Però 1 egregio amico mio signor Francesco Podestà ce ne ha conservalo fedele ricordo in una sua bella dipintura o studio (com’egli modestamente si piacque d intitolarla), che venne esposta nella mostra della Società Promotrice di Belle Arti il novembre del 186o. ( 90 ) tutto ) CiDRAmo, Tic. Poi. vol. II. 65. ( ‘18 ) due coperte e due lenzuoli (<); e del 1312 si citano una col-ire di boccasino bianco de bastis largis, e due lenzuola di tre e quattro tele (2). Un inventaro dell’ anno stesso fa menzione di una coperta di pelli, quattro cuscini e sedici lenzuola, straordinaria copia a que’ giorni (3); e in atto del 1389 si ricordano una foderetta di seta ricamata per guanciale, ed un lenzuolo a due tele ricamato , e adorno di tre fregi lavorati con seta ed oro (l). Nella eredità del giureconsulto Matteo de Illionibus vengono annoverati un copertoio burdo (voce araba che significa stoffa variegata), cogli orli di cendato , ed una cortina da letto col cuopricelo di seta cilestre (5). Nel 1475 si vendono in pubblica calega dieci paia di lenzuoli di seta, ed uno di pannolano bianco; parecchie coltri, e fra esse una di camocato morello e verde per bagno; un copriletto di tappezzeria color verde, ed uno di tappezzeria con figure (6). Il quale ultimo parmi in certo modo si possa rassomigliare a quelle ricchissime coperture de’ letti che usavano i romani, e le chiamavano vestes, ov’ erano rappresentate figure gigantesche, e composizioni tratte da soggetti favolosi od eroici (7). L’ egregio Villa più volte menzionato possiede poi un copriletto di damasco celeste, ricamato in oro, con intrecci vaghissimi di fogliami, delfini e mostri all’ingiro, col pellicano nel (J) Chartarum II. 310. Quantunque spellante ad epoca lontana dalle nostre indagini, ci sia permesso riferire dal Ratti continuatore del Soprani (vol II, p- 39), la memoria di un letto che il genovese Filippo Parodi (sec. XVII) avea scolpito per commissione de’ Brignole. Quel biografo l’appella un complesso, anzi un miracolo dell’ingegno e dell’arte. (2) FoL Not. vol. II, par. 11, 114. (3) Notaro Ambrogio di Rapallo, car. 10. (4) Fol. Not. vol. II, par. Il, car. 158. Nell’inventario già citato di G. Della Rocca sono : due pezzi di padiglione bianco di filo antico, eil un paro lenzuoli con pizzi antichi. (5) Notaro Oberto Foglietta seniore, car. 240. (®) Fogliazzo del notaro Qbeuto Foglietta, pel 1473, n. 640. (7) Jubinal, Recherches etc., p. 9. ( 119 ) mezzo, ed ai lati quattro aquilelte dei D’Oria, ai quali iti origine appartenne. L’ opera è indubitatamente del secolo xvi; nè male, per avventura, si apporrebbe chi si avvisasse averne fornito il disegno Perino del Vaga, ed eseguitolo quel INicolò Viniziano, che il Vasari appella raro ed unico maestro di ricami; pe’ consigli e buoni uffici del quale il Buonaccorsi era appunto venuto a Genova, e quivi entrato al servigio e nelle grazie del Principe D’ Oria (!). Ricordo fra’ mobili, a titolo di mera curiosità, gagia una de papagcilio (2); ed una banderuola dipinta, ed ornata dei seguenti esametri : Mola, meo flatu , piùsquam lupus oris hiatu Mordax pellit oves, fugo muscas, tollo calores (3). (2) Vasari, Vite, X. 157. (2) Oberto Foglietta seniore, car. 144, an. 1390. Nell’aprile del -1866, mi avvenni anche a leggere anche in parrecehi giornali la seguente notizia : « 11 signor Clapisson, morto or ora a Parigi, lasciò nella sua collezione di curiosità una spinetta del xvi secolo , la quale non varrebbe meno di 60,000 franchi. La tastiera è in lapislazzuli ed agate di mirabile bellezza : il bossolo ornalo d’avorio ed arricchito di 2500 pietre preziose incassate nell’ argento. Questa spinetta era stata trovata a Genova alcun tempo fa , ed acquistata da Clapisson a prezzo dei maggiori sacrifici , se si bada alla sua modestissima fortuna ». (3) Spotorno , Slor. Leti., I. 298. A proposito del ventaglio leggo in Enrico Stefano: « Nos dames françoises doivent aux dames italiennes ceste invention » d’esventail.... Ceste invention avet couru beaucoup de pays, et estoil bien lasse » avant qu’elle vinst à nos franceses.... Terence, Ovide et Martial appellent fla-» bellum ce que nous disons un esventail : les italiens le nomment ventolo, ou » sventolo: et aucuns d’entr’eux, d’un mot plus approchant du nostre, ventaglio, t> ou sventaglio. Et encore semble que quelques-uns prononcent ventaio, ou sven-» laio » Y. Dialogues du nouveau langage françois italianizè, et autrement desguizé, principalement entre les courtisan de ce temps. A Envers, par Guillaume Nierge, 1578. Un volumetto in-8 piccolo, rarissimo; p. 163-4. Questo libro , stampato la prima volta a Ginevra nel 1578 , valse all’ autore una severa ammonizione dal Consiglio di quella città ; dalla quale lo Stefano reputò quindi prudente 1’ assentarsi per quel tempo. V. Bruxet , Manuel da Libraire , vol. ii, col. 1076. Di que’ giorni erano pure considerali come oggetti di mobilio gli schiavi, al ( 120 ) Ma non si debbono lasciar cadere in dimenticanza i ricchi stipi o forzieri, il più delle volle lavorati con intagli e sculture, esprimenti fatti d’arme o mitologici, danze di putti ed ogni genere bizzarrie, nelle quali non isdegnavano di por mano anche gli artefici i più valenti. Ferino del Vaga fornì il disegno d’ alcuni per la principesca famiglia dei D’ Oria; e vuoisi appunto riguardare come avanzo di altro fra tali mobili quel ricco basso rilievo, rappresentante due trionfi del sommo Andrea (*), oggidì posseduto dall'esimio comm. Santo Varni; il quale nella sua privata dimora ha con rara intelligenza e con amore caldissimo adunata copia infinita d’ artistici e d’ archeologici monumenti. Né vo’ tacere di quattro altri forzieri, scolpiti già per la casa de’ Lercari ; e de’ quali al presente, due fanno di se bella mostra nelle aule del Regio Palazzo in Torino, e due trovarono liberale ospitalità sotto cielo straniero. Sono essi foggiali a guisa d’elegantissime urne, e si elevano sul dorso di quattro sfingi. Agli spigoli vi hanno figure di schiavi, a mo’ lucroso traffico de’ quali Venezia e Genova assai per tempo si dedicarono. Nell’in-ventaro de’ beni di Guglielmo Scarsaria è notata saracenam unam cum libertatis condicione (Chartarum 11J; e dei 1390 fra’ mobili di Bartolomeo d’Jacopo si ricordano sciava una nomine catarina, servus unus nonnine Georgius (Oderto Foglietta, car. 1 ii); e dei 1404 fragii oggetti spettanli ad Antonio di Serravalle quandam s clavam vocatam Melicha de progenie tartarorum, etatis annorum viginti vel circa, la quale si valuta 60 lire; e tra’ beni di Matteo de lllionibus quandam sclavam vocatam Archasiam de progenie iarchasorum, elatis annorum XXXX V vel circa, pro libris L; e sclavum unum de progenie tartarorum, etatis annorum XXXX vel circa, pro libris XXXX ("Id. car. 240. 246). In un documento dei 1390 vengono pure nominati ferramenta pro ferrandis sclavis (Fol. Not., vol It. par. II. 161); e lo Statuto dei 1336 punisce con pubbliche battiture e col taglio del naso quel fabbro, che, senza il comando del proprietario, avrà sferrato alcuno di quegli infelici (Miscellanee Agefio, n. Vili, p. 42). Finalmente un atto del 1392 fa menzione della bottega di Giorgio da Feggino, rivenditore di schiavi, sita nella contrada de’ Marini (Fol. Not., voi. e par. Il, car. 253) (') Il ritratto del Principe e della di lui moglie Peretta Usodimare, vedonsi pure scolpiti in questo importante franunenlo. ( 121 ) dei daci prigionieri, che vedonsi in Roma nell’ arco di Costantino. La fronte è ornata da uno stemma (') fiancheggiato da putti ; e negli specchi di faccia e dai lati sono ad alto rilievo scolpite le fatiche e forze d’ Ercole, sì vantale ne’ fasti della Mitologia; ovvero le più celebrate divinità marine. Composizioni ricchissime di figure, e di uno stile così robusto da rivelarci un valoroso imitatore delle opere del Montarsoli. Forse anche se ne potrebbe direttamente ascrivere a tale artista il modello, ma sopra tulio al genio fecondissimo del Buonaccorsi il concetlo (2). Il coperchio è decorato aneli’ esso da membrature bellissime, ed intagliato con baccelli e vaghi intrecci ornamentali. Voglionsi poi allogare fra’ mobili le sacre imagini auree o gemmate (3), e più comunemente dipinte, le quali venivano designate col nome generico di maestà. Nel novero degli oggetti confiscali a’ ribelli (1390-1396), non poche sono le maestà (li (') L’ egregio prof. Varni, cui debbo queste notizie, aggiunge aver veduto nella Galleria degli Uffizi in Firenze uno schizzo del Vaga, ben poco dissimile dagli accennati forzieri. L’uso di questi mobili durò assai vivo sino alla metà circa del secolo xvii; ma allora non pochi e mediocri artefici ne fecero un semplice oggetto di speculazione, ora copiando malamente i lavori migliori, ed ora decorandoli semplicemente di figure allegoriche, ecc. (2) Rappresentava le insegne dei Lercari ; ma oggi vi furono sostituite quelle della R. Casa Sabauda. (3) Di queste erano anche assai largamente provvedute le chiese. Nel J 250 quella di santa Maria di Castello possedeva un foglio d’ argento per l'altare della Beata Vergine, ed un secondo coll’effigie di san Pietro, oltre un mosaico rappresentante lo Spirito Santo; e nel 1442 aveva un foglio per l’aitar maggiore, con perle e smeraldi. (Viìna, L’antica Collegiata di Castello, I. p. 85 e 244). Nel 1272 la pieve di Volt ri serbava tra’ suoi arredi un foglio d’argento, ornalo di perle e d’ imagini (Muzio, Origine di S. Maria di Voltri, ms. nella Civica Biblioteca). Nel 1274 la chiesa di sant’Ambrogio di Genova contava, tra gli oggetti preziosi, tre fogli d’ argento, de’ quali uno guarnito con perle, un secondo coll’ imagine della Beata Vergine c cinque angioletti, ed un altro con quella dell’apostolo Giacomo c d’altri sette santi (Notulario di Stefano di Corrado da Lavagna, car. 23-4). E nel 1467 il monastero delle domenicane de’ santi Giacomo e Filippo all’Acquasola possedeva: tre tavole d’ argento con varii sant: e cogli stemmi della famiglia Di Négro; ( 122 ) santi; e notasi che Antonio Guarco ne possedeva una sopra modo bellissima. Ne’ trittici poi e ne’ dittici, ovvero nelle croci di pregiati metalli, ed istoriate con figure talora colorate o fuse, talora impresse o cesellate, oppure di legno, alcuna volta dorato, con finissimi lavori di stile bisantino ad intagli e trafori ('), si di-sponeano in bell’ordine le reliquie; ma per lo più chiudevansi entro teche d’ oro o d’argento contorniate di perle, ovvero anche di rame con ornamenti a graffiti e smalti, o in cofanetti di cristallo e d’ avorio leggiadramente scolpiti. Jacopo di Piazzalunga, notaio, possedeva (1275) una bussola d’elefante munita d' argento (2) ; fra gli oggetti spettanti a Pietro diacono della chiesa d’Egita in Portogallo (1277) nove-ravansi una bella Bibbia (biblia una pulchra), ed una pisside d’avorio con entro molte reliquie (3); e la chiesa di santa cinque altre tavole, una delle quali con l’effigie dei titolari del monastero medesimo; una maestà argentea, con reliquie e la figura della Vergine, ornata di gemme; una tavola di san Giovanni Battista ricca d'argento, e due piccole maestà, con isportelli de duabus arvetis (V. Mczio, Apparato dell’ istoria dei monasteri del-V Ordine di san Domenico in Genova, ms. della Civico-Beriana). (*) Il prelodato pittore Villa possédé due croci assai beile de’ secoli XIII e XIV. La più antica è di rame dorato, e si adornava di dieci figure in bronzo di tutto rilievo. Ora non ve ne restano che otto, e sono: il Crocifisso, la B. V., la Maddalena, san Giovanni evangelista, ed altro sanlo con un libro aperto nella destra (forse san Girolamo); Dio Padre, la cui imagine ricorda quella che vedesi scolpita nel lunetto sovra la porta maggiore del nostro san Lorenzo, il Precursore coll'agnello, ed un santo pontefice (forse san Gregorio) L’ altra è di legno, e vi sono dipinti in alcuni tondi da un lato il Padre Eterno, Gesù Crocifisso, la B. V. e san Giovanni; e dalla opposta parte Cristo ed i qualtro evangelisti. Assai pregiata doveva poi essere una croce lignea, in qua est crucifixus levatus de ligno (ossia la storia della Deposizione), che del 1311 Bernardo coltellinaio e spadaio di Xarbona vendette alla precitata chiesa di santa Maria di Castello. Il prezzo di 15 lire onde fu pagata bastava allora, e bastò a tutto il secolo XA, per la limosina di mille messe (Notulario di Damiano da Casioglj, car. 105). (2) Notulario di Vivaldo Della Porta. (3) loi. Not., vol. Il, par. I, 180. ( 125 ) Maria di Castello (1442) vantavasi di una bussola d'avorio, va qua est de lacte beate virginis (’)! Di cristallo di rocca è la croce papale, con un bel pezzo del santo legno, che Adriano V legò alla chiesa del Salvatore in Lavagna, dove tuttora si custodisce; e di cristallo fu eziandio ne’ secoli innanzi al XVI il tabernacolo, nel quale solea recarsi 1’ ostia consecrata per la città nel dì solenne del Corpus Domini (2). Un tabernacolo di cristallo si cita pure nell’ inventaro degli arredi spettanti al monastero de’ sanii Giacomo e Filippo, redatto il 14 luglio 1497 (3). Ma celebri sopra le altre reliquie e meritevoli di essere in ispecial modo ricordate, due sono segnatamente : 1’ Imagine Edessena, più nota sotto il nome di Santo Sudario e la croce delta in antico di sant’ Eiena e quindi de’ Zaccaria. Ebbe la prima Leonardo Montaldo, che fu poi doge, da Giovanni Paleo-logo imperatore d’ Oriente, e per volontà di lui tuttogiorno si venera a san Bartolommeo degli Armeni. La tela che rappresenta il sacro volto è stesa sur una lastra di oro purissimo; e si abbellisce con ricchi fregi della stessa materia. La seconda è un bel monumento artistico de’ bassi tempi, e le è degna stanza il Tesoro della nostra Cattedrale. La croce è d’oro e d’ argento, ma sopra il metallo brillano in buon numero fulgidissime gemme. Le stanno in capo la figura di Cristo, nel centro la Vergine, al fondo san Giovanni Crisostomo, ed ai lati gli arcangioli Gabriele e Michele (4). (*) Vigna, op. cit. I. 244. (2) Pandecta antiquorum foliatiorum et librorum. Ms. dell’ Archivio Governativo. (3) Muzio, Apparalo ecc. Ms. ('i) Intorno a questa croce vedasi la nota 34 dell’ avv. Ansaldo alla Cronichetla dei He di. Gerusalemme (Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol. I, p. 73). Per atto del 29 aprile 1466 nobilis Jofredus Lomellinus et socii conveniunt cum magistro Johanne de Valerio fabro quod ipse magister Joannes faciet pedem ( 124 ) Siffatte reliquie ed imagini aveansi in conto di carissime gioie', e riponevansi tra queste unitamente ai rosarii talvolta d’oro o di pietre dure, di cristallo di rocca, d'ambra, di corallo, e tal altra di semplice legno, cui però derivavano singolarissimo pregio le opere portentose o bizzarre degli ingegni, che intorno vi si erano travagliati. È celebre Damiano Lercari, che fiori verso il 1480, e sopra un osso di cerasa scolpì l’effigie dell’arcangelo Michele, e de’ santi Cristoforo e Giorgio; e sopra un nocciuolo di pesca lavorò di basso rilievo la Passione del Redentore ('). Filippo Santacroce, detto il Pippo, da Urbino, protetto dal conte Filippino D’Oria, di povero pastore divenne aneli’esso ottimo intagliatore sì in legno, che in avorio ed in pietra; di guisa tale, che sovra un osso di ciliegio ritentò le prove del Lercari, e con bravura lo superò, ripetendovi la storia della Passione, e sovra dodici ossa di susine scolpì i ritratti dei primi Cesari, i quali passarono poscia al Granduca di Toscana, per dono fattogliene da Nicolò Promontorio (2). Yoglionsi inoltre ascrivere con ogni probabilità al medesimo artefice altri sette nocciuoli posseduti dall’ erudito don Angelo Remondini, rettore di sant’ Antonino di Casamavari, i quali, senza fallo, compongono una coroncina ad onore dell’Addolorata; ed essendo da ambe le parti scolpiti su fondi levigati e lucidi, rappresentano quattordici storie di Cristo, ricche d’assai figure, e dichiarate da versetti per lo più scritturali (3). unum cruci veraci, vulgariter nuncupate de Zachariis, de argento steriino deaurato et exmaldato, et cum imaginibus, et ut continetur in designo; et dominus Venturinus Bonromeus se obligare debet pro dicto magistro Joanne occasione argenti eidem consignandi (Fot. Noi. vol. IV. 732). C) Soprani, Vite ecc., 1. 24. (2) Soprani, Vite ecc., I. 425. (3) La dimcRsione di cinque fra questi nocciuoli è di millimetri 16 per 12; uno (cioè il quarto) ne lia lo per 11, e l’altro (cioè il sesto) 20 per 17. I motti sono scritti assai scorrettamente sugli orli della circonferenza; e le lettere hanno l’altezza di un millimetro. / ( 12S ) Ma il Lercari ed il Pippo hanno dopo più secoli trovato un emulo valoroso, nel nostro vivente concittadino Gustavo Parodi; il quale, abbenchè privo del lume degli occhi, sa trattare il marmo con perizia non comune, e in fatto di pazienti lavori sullo stile dei già ricordati meravigliare ciascuno ('). Soggiungo la descrizione di ciascuna storia , e me ne dichiaro tenuto alla cortesia dell’ egregio possessore. I- 11 Redentore colla croce sugli omeri , seguito dalla Veronica , ed il motto : EGO • SOM • LVX • MVNDI. Cristo risorgente, colla bandiera, edue angioli ai lati del sepolcro: resvretio • iesvs. II. Vocazione di san Pietro, cogli accessorii del mare e della nave, e la figura di quel pescatore che, pur chiamato da Gesù, non volle seguirlo: seqver • me. Gesù a mensa, con quattro discepoli: simon aamas -me-ego-te-pa -ovas-meas. III. Cristo sul lido, e un uomo seminudo che ve lo ha seguito; in alto mare una barchetta con cinque discepoli. Questa storia 6 forse allusiva a quanto si narra da san Matteo (cap. xiv, verso 27), allorché Gesù apparso agli apostoli disse loro: Ego sum nolite timere. Il Salvatore con cinque discepoli a mensa, giusta il raccontato da san Giovanni (cap. x. xi. xn). Questo nocciuolo non ha scritta di sorta, benché vi si vegga il bindello per incidervi i caratteri. IV. Il Crocifìsso in mezzo ai ladroni, la Vergine a’ pie’ del tronco salutare, e parecchi soldati con aste e lande, tra i quali Abcnadar in atto di porgere al Salvatore la spugna intinta nell’aceto: siti - o. La Crocifissione, e due soldati a cavallo. Uno di essi, Longino, apre colla lancia il costato a Gesù ; ed al basso vedesi la Vergine sorretta dalle due Marie : mors • MEA • VITA • TVA. V. Gesù ed i ladroni , ai quali due soldati con bastoni percuotono le gambe. Vi è pure la Vergine in piedi. Anche questo nocciuolo manca di leggenda, ma vi è i! listino su cui inciderla. VI. Gesù crocifisso coi due ladroni: chosvma • tom • est. La Deposizione di croce, con Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea ed altro pietoso: * • qvi • passvs • es • prò • nobis. Questa scultura vuoisi anteporre alle altre cosi per la bella composizione, come per un rilievo maggiore. VII. La discesa di Cristo al limbo, colle figure di due patriarchi e del demonio: DESSEND1T • AD • INFEROS. Replica della Risurrezione, di cui al N. I: surexit. (1) Moltissime sono le opere che il signor Parodi, cieco e sordo fino dalla puerizia, ha condotte su pezzi d’ avorio e di corno, ossa di pesche, ecc; come scatoline, ( 126 ) Grandie sfoggio facevasi allora di orerie, coralli e gioie; e perù i genovesi, atteso di buon ora al commercio delle medesime, ne aveano fino dal secolo XII costituito un ramo importante di lucro, siccome ce ne é prova il Notulario di Giovanni Scriba. Nel 1121 l’annalista CafTaro inviato a Roma per guadagnare il favore del Concilio di Laterano alla causa del suo Comune contro i pisani, per riguardo alla giurisdizione di Corsica, prometteva che avrebbe dato fra le altre cose uno smeraldo alla moglie di Pietro Leone, ed un niello a quest’ultimo ('). Ed erano al certo que’ donativi rara cosa e di gran pregio; con-ciossiachè Teofdo, il quale visse nel secolo XI, e ne’ suoi scritti insegnò pel primo come si facessero le niellature , dà vanto particolare di questo trovato alla Russia (:). Del \ 157 Alda Burone lega le proprie gemme alle sue figliuole; e nell’anno antecedente fra i beni di Raimondo Pi-' cenado citansi anella d’ oro (3). Ma un documento di particolare interesse a questo riguardo, egli è senza dubbio la lettera di papa Innocenzo III all’ Arcivescovo di Genova, del 4 novembre 1204. Di quell’anno Baldovino imperadore di Costantinopoli avea spediti al Pontefice parecchi presenti, fra’ quali un carbonchio del valore di mille marchi d’ argento, un anello, un’ imagine d’ oro ed una d’ ar- canestri, annetta, teste d’animati e simili. Col solo sussidio del tatto, egli lia scolpita su legno di pero la propria effigie, tanto conforme all’originale che non saprebbe desiderarsi maggiore; ed ha eseguito pure in legno un busto del re Carlo Alberto , il quale rimase siffattamente ammirato dello stupendo lavoro, che volle gratificarne 1’ autore coll’ assegnargli un’ annua pensione. Del Parodi si hanno anche a stampa varie lodate poesie. (') Pertz, xviii. 330. (2) Theophili presbiteri diversarum artium schedula. Quest’opera fu voltata in lingua francese dai signori Escalopier e Guichard, e pubblicata nel 1S44 in Parigi, sotto il titolo di Essai sur les divers arts etc. (3) Chartarum, ii. 309. 378. ( '127 ) gento, con ornamenti di pietre preziose, due croci d'oro, un ampolla ili cristallo ed una d’ argento, una scodella dorata, due cofanetti e due scili [iure d’ argento, e circa dugerito fra topazi, smeraldi e rubini. Ma volle sfortuna che la nave, su cui il Maestro de’ templari di Lombardia recava tante preziosità, riparasse nel porto di Modone; perocché ivi alcune galere de’ genovesi, nemici allora di quell’ augusto, s’impadronirono facilmente della ricca preda, e la recarono, come in trionfo, alla patria (*). Né vuole passarsi in silenzio la rara copia d’ ogni specie d oggetti preziosi, che s’ acquistò una eletta di balestrieri genovesi alla espugnazione della città di Vittoria (124-8), sorta per opera di Federigo II in quel di Parma; imperocché, al dire del cronista, que’ valorosi non solamente arricchirono se stessi, ma diedero materia di inricchire a più persone ; perché i balestrieri e gli altri non conoscendo bene le perle, le gioie e V altre cose, le vendevano per molto mino)' prezzo di quanto valevano (2). Il simile avvenne più tardi (1435) alla squadra che, duce Biagio Assereto, ruppe nelle acque di Ponza la flotta aragonese ; ma allora le prede furono poste in comune, e ciascuno ne ebbe di poi una parte (3). Del 1253 Giuseppe da Brindisi, nunzio del Re di Sicilia, compra in Genova da Jacopo Bozzoli e socii, al prezzo di 917 0) Balutius, Epistolae Innocenta III, lib. VII, ep. 174; Raynaldus, Annales Eccles., vol. I. 181. (2) Giustiniani, 1. 407. (3) Tra le moltissime orerie registrate per questo fatto nel volume Introitus et exitus galearum, an. 143o (Archivio di S. Giorgio), noto a solo titolo eli curiosità: maiestates quatuor in parte argenti; crux una argenti cum pede argenti; tabula una argentata quam habuit magnificus dominus capilaneus (1’ Assereto); labuie quatuor argentate cum diversis figuris ; anuli 1res argenti cum petris; anulus parcus cum turchexia; anulus unus argenti cum corniola; anulus unus auri; sarcirolus (sic) unus argenti supra deaurati cum annis regis aragonum et cicilie. ( («8 ) oncie di tareni, quattro vasi d'onice e calcedonio, de’ quali uno ha fregi d’oro, con reliquie del santo legno; cinquantanove perle orientali, venti topazii, centoquarantasette zaffiri e due corna di zaffiro orientale (forse contro la iettatura); 348 pietre dure, parte incise e parte da intagliare; 132 cammei, tra’quali uno guernito di perle, con entro un pezzo della vera croce; e centoundici anelli d’ oro, con diamanti, rubini, zaffiri, topazi, crisopazi, smeraldi, ed altre pietre di non meno pregiata natura (,). In un inventaro del 1312 si enumerano dodici anella d’oro e tre di argento (2); e nel 1348 settantotto perle del complessivo peso di 271 caratti si vendono lire 625 (3); ma nell’anno appresso due sole si stimano lire 1300 (4). Il che vale a farci comprendere la bellezza e rarità di quest' ultime. Nello stesso anno 1348 si cita un sigillo d’argento coll’ arme D o de’ Lercari (5); e del 1390 un sigillo di oro colle insegne de’ Lomellini (6); inoltre parecchi zaffiri, diamanti e corniole, un monile adorno di 149 perle del peso di 54 carati, ed un sigillo d’argento (7); molti anelli con pietre; un agnusdei d’argento , ed una resta di ambre (8). Nel 1388 il Comune presentò di un balascio (9) del valore di 250 lire Pietro di Candia vescovo di Vicenza; il quale, a nome di Gian Galeazzo Visconti, aveva assoluti i genovesi dal (’) Notulario di B. Fornari, car. 154 verso. (2) Protocollo del notaio Ambrogio di Rapallo , car. IO. (3) Fol. Not., voi. III. par. II. 110. (4) Fol. Not., voi. III. par. II. 63. (5) Fol. Not., voi. III. par. T. 123. (6) Registri di confische a’ ribelli, nell’Archivio di san Giorgio. (7) Notulario éTOberto Foglietta, car. 144. (8) Fol, Noi., vol. II. par. II. 161. (9) Balascio , sorte di pietra preziosa, o meglio varietà di colore del rubino spinello. Si appella così da Balachan, nome persiano del Pegù, donde vengono originariamente quelle pietre. « Qual fia balascio in che lo sol percuota ». Dame, Parad. IX. 69. ( 129 ) pagamento di trecentomila fiorini, loro imposto col trattato di pace del 3 luglio 1367 (')• Con atto del 4 433 vengono sequestrate 72 perle poste al-1’ intorno di una veste di clamellotto acamocato, un vezzo guarnito di 758 perle, una ghirlanda per donna, con 180 perle, ed altre 377 non impiegate in opera alcuna (2). Nel 1474 Ludovico marchese di Mantova compera da alcuni membri della famiglia Giustiniani una margarita grossa in forma di mandorla, del peso di 28 carati e 2/3> e ne paga il prezzo nella somma di 1500 ducati d’oro di Venezia (3). Finalmente nel 1480 Percivalle Vistarino procuratore di Guglielmo marchese di Monferrato , vende a Luca Pinello e Francesco Spinola un collare d’oro, in quattro pezzi, del peso di oncie 6 e denari 22 Va, adorno di sedici perle, otto rubini, ed otto grossi diamanti, de’ quali uno in forma di cuore e 1’ altro a mo’ di scudetto; una croce d’ oro tempestata di venti diamanti, e da cui pende una perla; un fermaglio d’oro, con due perle e cinque diamanti; un secondo con tre perle, un balascio ed uno scudetto in diamanti ; un terzo con uno smeraldo, un rubino, una perla, una rosa composta di cinque diamanti ; ed un quarto adorno di nove diamanti ; due corone, nell’ una delle quali Yedonsi incassati cinque diamanti, e nel-1’ altra un egual numero di siffatte pietre, onde componesi un giglio, oltre a due smeraldi e ad un rubino (4). (') Cosi 1’ atto di remissione come il trattato di pace leggonsi nel Liber Jurium, II, 745. 1127. Stefano di Garbadua cancelliere del Vescovo, ed estensore dell’atto, ebbe in dono lire 62 f/2 (Cartolario della Masseria del Comune pel 1388, nel-1’ Archivio di san Giorgio). (2) Fol. Not. vol. II, par. II. 113. (3) Fol. Not. vol. II, par. IV. 810. (■*) Fogliazzo del notaio Oberto Foglietta giuniore, pel 1480, n.° 293. Sotto questa vendita però nascondesi un prestito. Infatti, il dì 27 giugno dell’anno appresso, Luca Pinello dichiara avere ricevute dal Vistarino lire 10,400 mutuate al Marchese di Monferrato, e gli restituisce le gioie sopra descritte (Fol. Not. IV. 982). Nel fogliazzo poi del cancelliere Francesco Borlasca (Archivio di san Giorgio) si ( 130 ) E qui poi il luogo di rammentare come fosse allora in gran voga e pregio 1’ arte dello intagliare le pietre dure; imperocché tra nomi del Marmita da Parma, di Giovanni dalle Corniole, Domenico de’ Cammei, e più altri meritamente famosi, vuol essere annoverato quello del genovese Giacomo Tagliacarne. Intagliava costui le gemme, ed effigiavate a meraviglia; e l'opere di lui ricercatissime erano in tutta Italia. Onde il suo contemporaneo Camillo Leonardo, bene a diritto il ricorda fra coloro che maggiormente si distinguevano in cotal magistero (*). Quanto a’ coralli, vetusto del pari che attivo ne fu eziandio appo noi il commercio. Esercitavan la pesca di quel prezioso prodotto gli abitatori delle borgate di Nervi, Recco, Sori e Rapallo ; i quali esploravano i pelagi nativi ed in ispecie i golferelli di Portofìno; e conducevansi di poi a farne traffico in ogni parte del mondo. Al corallo de’ nostri mari Fazio degli Uberti, gentil poeta del secolo di Dante, consacra queste terzine : Lo mar liguro ingenera corallo Nel fondo suo, a modo d’arboscello, Pallido di color Ira bianco e giallo. Si spezza come velro il ramicello Quando si pesca, e quando più è grosso E con più rami, tanlo più è bello. trova quesla ricevuta: * 1494 adì ultimo de decembre in la XV. No>J anfreone usodemure et Jeronimo Gustiniano da la banca, doy de lo magnifico officio de sancto georgio, habiamo ricevuto da lo illustre signor Francesco cibo le infrascritte. gioe, per certi bisogni che al presente ne achade■ Zoé uno gioelo chiamato el robino core curn una punta de diamante. Una perla tonda pendente circondata da doy dragii de diamante cum le teste de smerardi. Una croceta de diamanti cum tre perle pendente ligata in uno vezo de perle quarantusey tonde de karati IV in circa. Uno gioelelo cum una spineta in mezo cum doy diamanti da li canti in tavola e uno smeraldo in mezo cum una perla pendente in mezo. (’) Camilli Leonardi Pisaurensis Speculum lapidum, etc. Lib. III, cap. II. ( 131 ) Siccome il cielo vede, divien rosso, E non più si trasforma di colore, Ma fassi forte e duro al par d’ un osso. Conforta al riguardar la vista e il cuore Averne seco quando il fulgor cade, Pietra non è più util, nè migliore ('). Con instrumento del 1.° ottobre 1222, Oberto Ismaele costituisce procuratori a riscuotere trecentocinquanta bisanti accomodali a Guglielmo Guercio e Marchisio di Rodoano, per l’acquisto d'una partita d’oro e di corallo (2); ed in atto del 20 luglio 1356 si fa menzione di una somma di 28 fiorini o genovini impiegati in coralli, anella ed agnusdei (3). Più tardi (1479-1480) si hanno provvidenze riguardanti l’introduzione dei coralli stessi in città (4); e finalmente (2 marzo 1492, 20 dicembre 4 498) i capitoli degli artefici dai quali venivano lavorati (5). Nel 1493 i Proiettori delle Compere di san Giorgio appaltarono per un quinquennio a Francesco Oliva e Girolamo Ilione la facoltà di pescare il corallo nelle acque di Calvi; e stipularono riceverne il prezzo di lire 2000 dal primo e lire 3000 dal secondo, oltre 1’ adempimento d’ alcuni obblighi particolari a ciascheduno degli appaltatori (6). (’) Dittamondo, lib. Ili, c. XI. Vedi anche Celesia, Dante in Liguria, p. 40. (2) Notulario di maestro Salomone, car. 101 verso. (3) Fol. Not., vol III, par. Il, car. 204. (4) Archivi Generali del Regno in Torino (Carle di Genova), Registri 1049 e <053. (5) Pandecta citata. (6) La concessione per Girolamo Ilione riguardava 1’ allo mare e due miglia di costa a partire dal monte delia Sagra; giacché più oltre estendendosi (dice l’atto) sarebhesi entrati nello spazio di mare conceduto a Melchiorre Negrone, il quale abbracciava venti miglia di costa a capite gulfi adiaciiprocedendo versus calvum. Obbligo particolare dell’ Ilione era quello di erigere in qualche punto del littorale a lui conceduto una torre, per tutela e rifugio dei pescatori. All’Oliva invece, che doveva esercitare la pesca dalla banda di Capo Corso, correva il carico di far ricerca di miniere in tutta l’isola di Corsica. I Protettori però aveano anche ( 152 ) Le gioie poi solevano riporsi in piccoli scrigni, i quali appellavansi arche ; ed erano costrutti di noce o d’ebano, a sparlimenti architettonici, con pietre, bassi rilievi e statue d’ avorio, di bronzo, d’ argento, ovvero adorni da quadri di commesso raffiguranti uccelletti e mostri, delfini e tritoni, mascherette e larve, sirene e sfingi, oppure fatti mitologici e battaglie d antichi eroi. Nelle quali opere s’impiegarono eccellentissimi artefici ; e tra gli altri quel genovese Nicolò Roccatagliata, che fu discepolo a Cesare Groppi riputato argentiere di Milano, e levò di se tanta fama in pairia ed a Venezia, quando la memoria di Renvenuto Cellini era sì fresca, e viva durava ancora appo tutti ('). Ma quelle gioie non erano destinate a solo contentamento e sfogo di pompe e vanità : perchè coloro che se ne ornavano ben sapeano deporre a tempo que’ vezzi, e farne omaggio alla patria, con nobile emulazione ed ardore. Cosi avvenne del 1147, quando il Comune indisse guerra ai mori delle Baleari; e così accadde il 1301 , allorquando le dame genovesi, commosse all’ eloquenza di frate Filippo da Savona, vendettero le dorerie e gli argenti, per sussidiare l’allestimento d’una squadra in aiuto del Ivan di Persia contro de’ turchi, e preparare le lan-cie e gli usberghi che esse medesime divisavano di vestire per crescere il numero dei combattenti (2). promesso di ricompensamelo in qualche modo, conferendogli in seguilo la luogotenenza di Algaiola (V. Fogliazzo della Podesteria di Calvi, nell’Archivio di S. Giorgio). O) Soprani, Vite ecc., Genova, 1674; p. 88. Nell’ inventario de’ mobili di G. B. Della Torre 'luglio 1723), ms. presso il pittore Villa, si nota : Un scagnetto d'ebano e pietre di vari colori, guarnito con sei figure d’argento, e quattro lionetti e due pometti pure d’argento, con il suo piede con figura d'liuomo, e una bestia. (2) Furono promotrici della impresa, che poscia non ebbe effetto per mutalo divisamento del Governo, le pie e nobili donne Anna di Carmandino, Giovanna de’ Ghizolfi, Caterina De Franchi, Anna D’Oria, Sabina Spinola, Maria Grimaldi, Paola De Carli, Sabina e Paola Cibo (Serra, Storia dell’antica Liguria e di Genova; Lib. V, cap. 1.). ( 135 ) Anche di Luciano D’Oria si narra, che, navigando i mari della Schiavonia, e trovandosi 1’ armata in grandissima penuria di vittovaglie , il buon capitano con rara liberalità partisse tra’ più bisognosi soldati tutta la sua argenteria, che non era di poco valore ; nè più altro restandogli, ad un rematore che si moriva di farne, donasse la fìbbia della propria cintura ('). Vogliono eziandio annoverarsi tra le gioie i libri di devozione, uffìciuoli, salteri e simili, bellamente scritti su pergamene, di cui erano le più stimabili per candore e finezza quelle d’agnello nato morto, adorni bene spesso di ornamenti e di storie alluminate, e coperti d’ argento, di ricche pelli, o panni d’ oro e di velluto, con fermagli e borchie guernite di gemme. Nel 1157 Alda Burone già nominata lasciava alla chiesa di Bisagno un saltero (:); legato doppiamente notevole, perché fa supporre nella testatrice 1’ uso dell' ufficio e la scienza di lettere; ciò eh’ era certamente rarissimo a quell’ epoca fuori delle città marittime italiane, anche appo dame di paraggio o principesse. Ma senza cercarne minuti esempi, valga all’ uopo il Manuale di Bartolomeo de’ Lupotli da Novara, pittore ignoto agli storici; il quale dimorato essendo a Genova intorno un decennio assiduamente operando, ricorda avere scritti, indorati e coloriti più salteri ed oflìcii, de’ quali quattro per la sola famiglia de’ Campofregoso (3). Neppure al di d’ oggi, dopo tanto correre di secoli e rimutare di fortune, può dirsi lieve il numero di sì preziosi orazio-narii appo noi ; ma lutti cedon la palma a que’ due che in antico appartennero a’ marchesi Spinola (4), ed ora sono (J) Giustiniani, Annali, II. 121. (2) Chartarum II, 378. (3) Manuale Barlholomci de Lupo ti s de Novaria, nell’Archivio di san Giorgio. (*) Da ambe le fuccie della coperta di ciascun volume, la quale è di inarrocchino rosso con meandri dorali, è impressa in oro l’insegna di quel casato. La pergamena è candida e sottilissima; il carattere -gotico, ed alternato di rosso e di nero ( 154 ) proprii di quel ramo de’ Serra che dei preclari nomi di Giancarlo e Girolamo segnatamente si onora; perocché a libri siffatti nè 1 Inghilterra nè il Portogallo, benché ricchi di tanti tesori, potrebbono forse contrapporre rivali. Giusta l’usanza de’ tempi, hanno essi cominciamento da un Calendario, cui decora un bel fregio dove si rappresentano i segni dello Zodiaco ed i lavori contadineschi particolari de’ varii mesi, ovvero le consuetudini relative alle diverse stagioni, sommamente pregevoli per la ricercatezza e verità del costume con che é vestita ogni figura ; statue di santi a chiaroscuro alluminate d’oro e di bronzo, collocate entro tempietti; e svariatissime composizioni ornamentali del più puro stile teutonico, frammezzate a medaglie con istorie a colori delle precipue festività della Chiesa (>). Gli ufficii poi e le orazioni si abbellano di larghi ed aurei fregi, con ricchi partiti d’architettura, e sempre nuove decorazioni di medaglie e di figure sopra modo ammirabili ed eccellenti: fiori e perle, farfalle, pavoni ed ogni generazione d’uccelli, tanto vivi e naturali quanto farli possa ingegno umano; scherzi di scimmie, di cervi, di cani, torneamenti e feste d’ amore, o pugne di demoni, ed altre mille fantasie onde fa miglior prova 1’imaginosa mente di un artista, cui Dio abbia impressa maggiore orma di se. Mi passo delle capitali che vi sono profuse, e dipinte su fondo d’ oro , e così pure d’ ogni altro accessorio ; ma come esprimere O) La Biblioteca dell’ illustre sig. march. Marcello Durazzo, a cui rendiamo grazie di avercene gentilmente consentito 1’ accesso, vanta fra le sue preziosità diversi libri di preghiere e salteri, preceduti pur essi dal Calendario. Uno ve ne ha fra gli altri del secolo XIV assai ricco di miniature a colori ed oro; un secondo, non meno pregevole, del successivo, colle rubriche scritte in francese; ed un terzo con arabeschi e fregi superbamente lavorali da un Carlo Maineri, sacerdote cremonese, nel 4 472. Questi due ultimi volumi furono già di spettanza del Duca de la Valiere, dalla cui Libreria non poche rarità passarono al march. Giacomo Filippo Durazzo, verso il cadere del secolo che ci ha precorsi. I ( 135 ) la meraviglia di che ci colma la rara copia de' quadri, i quali in entrambi i volumi sono di proporzioni e di numero maggiori assai dell’ usato? 0 Rappresentano storie comparate del vecchio (’) Primo Ohazionahio I. Santa Veronica. 2- La Trinità. Il concetto è identico a quella stampa d’ Alberto Duro, di cui la Civico-Beriana custodisce il disegno originale. 3. Interno di una stupenda basilica di stile gotico, dove alcuni sacerdoti riccamente parati cantano la messa in onore della SS. Triade. 4. Risurrezione di Lazzaro. 5. La messa de’ morti. 6. Discesa dello Spirito Santo sopra gli apostoli adunati nel Cenacolo. 7. La messa della Pentecoste. 8. La gloria di tutti i santi. 9. La messa della loro festività. -10. La messa del Corpus Domini. II. La Crocifissione di Gesù; e nel fregio le storie della Passione. 12. La messa della santa Croce. 13. La Beata Vergine col putto, seduta in irono, fiancheggiata da due angioli i quali suonano I’ arpa ed il cimbalo. 14. La messa della Madonna. 15. San Giovanni che scrive nell’isola di Patmos. 16. San Luca, mentre scrive il Vangelo. Raccomandato ad un cavalletto vedesi il ritratto della B. V., che la leggenda vuole dipinto da quel santo. 17. San Matteo scrivente. 18. San Marco nella stessa attitudine. 19. L’ Annunciata. 20. Visita di Maria a santa Elisabetta. 21. Arrivo di san Giuseppe e della Madonna a Betlemme. Natività di Gesù Cristo. Danza di contadini. 22. L’ angiolo clic annunzia ai pastori il Natale. 23. L’adorazione dei Magi. 24. La Circoncisione. 25. La fuga in Egitto. 26. La morte della B. V. 27. Incoronazione della Madonna. 28. Gesù deposto di Croce. 29. David che prega; colla veduta di Gerusalemme, ad imitazione di una città del medio evo. ( 156 ) e nuovo Testamento, della vita di Cristo e della Vergine; figure d’ arcangioli, d’ apostoli, d’ evangelisti, di martiri, di vergini, di 30. La sepoltura di un monaco. 34. La B. V. col bambino, incoronata da due angioli (Luca d’Olanda). 32. Quadro simbolico, rappresentante i patimenti di Gesù bambino (Lo stesso). 33. La messa di san Gregorio. 34. L’angelo custode. 35. L’ arcangelo san Michele, vestito di armatura. 36. San Giambattista nel deserto. 37. L’evangelista san Giovanni. 38. San Pietro. 39. San Paolo. 40. San Giacomo, vestito da pellegrini, col bordone in mano. 41. Sant’Andrea. 42. San Tommaso. 43. San Mattia. 44. San Filippo. 45. San Bartolommeo. 46. San Cornelio papa. 47. San Marco. 48. San Barnaba. 49. Santo Stefano protomartire. 50. San Lorenzo. 51. San Giorgio a cavallo, in atto di ferire il drago. Ha lo scudo colla croce di Genova, cioè rossa in campo bianca. 52. San Girolamo nel deserto. È vestito degli abiti cardinalizii. 53. Sant’Antonio abate, nella foresta. 54. San Martino vescovo. oo. Sant’Oberto, vestito delle insegne episcopali, col corno in mano ed un cervo a lato, per denotare essere egli il protettore della caccia. 56. San Francesco d’ Assisi ‘in atto di ricevere le stimmate, 57. Sant’Anna, la B. V. ed il bambino (Alberto Duro). 58. Santa Maria Maddalena. 59. Santa Caterina vergine e martire. 60. Santa Barbara. 61. Santa Chiara. 62. Santa Margherita, che schiaccia un mostro. 63. Santa Elisabetta regina d’ Ungheria. 64. Sant’ Elena colla croce (Alberto Duro). 65. Santa Susanna. Il pittore confondendo questa santa colla casta donna di cui ( '137 ) dottori, di monaci ; e ve ne hanno parecchie di tanta eccellenza, che a buon diritto piglian nome da que’ sommi che parlano i sacri libri, la ha rappresentata in atto di entrare nel bagno, mentre vedonsi nascosti fra gli alberi i due vecchioni. 66. Santa Apollonia. 67. La gloria di tutti i santi confessori (Alberto Duro). 68. San Vincenzo; e da lontano il martirio del medesimo. 69. Sant'Antonio di Padova, il quale, alla presenza degli increduli, costringe 1’ asina ad adorare il Sacramento. 70. San Benedetto nella caverna, tentato dal demonio (Alberto Duro). 71. La B. V. che allatta il putto, ed è venerata da san Bernardo (Lo stesso). 72. Sant’ Atanasio. Secondo Orazionario 1. Incontro di Cristo colla Veronica (Alberto Duro). 2. Il Salvatore, che tiene in mano il globo sormontato dalla croce. 3. La Trinità. 4. La Cena in Emaus. 5. La Parabola del ricco Epulone. 6. 11 ricco Epulone cacciato all’ Inferno. (Composizione dantesca). 7. La discesa dello Spirilo Santo. 8. Edificazione della torre di Babele; e adorazione del vitello d’oro. La prima di queste composizioni ricorda la pittura del Gozzoli nel Camposanto di Pisa. 9. La gloria dei santi. 10. La gloria delle sante. 11. La processione del Sacramento, il quale è recato sovra un bianco destriere. Vi assiste il pontefice in sedia gestatoria (Alberto Duro). 12. La manna nel Deserto. 13. La Crocifissione. 44. 11 serpente di bronzo adoralo dagli ebrei. 15. La Madonna col putto assisa in trono, e circondata da varii angioli e sanie. 16. Il Libro della generazione, giusta il vangelo di san Matleo. Vi ha un albero il quale mettendo radice nei visceri di Giuda, si diparte in tant' rami quante sono le figure che rappresentano i varii ascendenti della B. Vergine. 17. San Giovanni nell’isola di Patmos, in alto di scrivere (Alberto Duro). 18. Le visioni di detto santo, ovvero 1’Apocalisse. 19. San Luca intento a scrivere il Vangelo. 20. San Matteo nel medesimo atteggiamento. 21. San Marco nell’altitudine stessa. ( 138 ) furono Alberto Duro e Luca di Leida, rara coppia d’ artefici e d’ amici. Vana cosa però è tentare la descrizione di tante e 22. L’Annunciazione della B. V. 23. Mosè nel roveto ardente : ed una turba di suonatori, coi relativi strumenti. 24. Visita della B. V. a santa Elisabetta (Alberto Duro). 23. Parecchie storie della Passione di Cristo (Lo stesso). 26. Natività di Gesù (Lo stesso). 27. Seguono la storia della Passione (Id.) 28. 11 Presepe. 29. Continuazione della storia predetta (Luca d’ Olanda). 30. L’ adorazione dei Magi. 31. Seguito della Passione (Lo stesso). 32. La Circoncisione. 33. Continuazione della Passione (Lo stesso). 34. Strage degli innocenti, e fuga in Egitto (Alberto Duro). 35. Segue come sopra (Lo stesso). 36. Sepoltura ed assunzione della B. V. 37. Fine della storia relativa alla Passione (Lo stesso). 38. Incoronazione di Maria (Lo stesso). 39. 11 giudizio finale (Luca d’ Olanda). 40. David penitente (Alberto Duro,). 41. La mor'e del giusto. 42. La messa dei defunti. 43. San Girolamo, come al num. 52 del primo Orazionario. 44. La Madonna col putto. 43. La risurrezione di Cristo. 46. Morte ed assunzione al Cielo della B. V. (Alberto Duro). 47. L’ arcangelo Michele, pressoché identico nel tipo c nell’ armatura al num 33 dell’ anzidetto volume. 48. 11 Precursore. 49. Gli apostoli Pietro e Paoio. 50. San Giacomo maggiore. 51. Santo Stefano. 52. San Sebastiano vestito alla foggia olandese, coll’ arco ed una freccia. 53. San Cristoforo. 54. San Giuliano. 55. La gloria de’ santi martiri. 56. Le stimmate di san Francesco d’ Assisi (Alberto Duro). 57. Sant’Antonio di Padova. 58. San Domenico di Guzman. ( 139 ) sì disformi bellezze, di lanli nuovi e peregrini concetti; onci’ io ne segno in calce 1’ elenco, lasciando che ognuno ne porti giudizio da se medesimo. ^ * Dopo gli orazionarii accennati vuole a ragione aver [tosto ono- 59. Sun Nicolò vescovo ili Bari. 60. La gloria de’ santi confessori. 61. Sant’Anna e la Madonna col putto. 62. Santa Maria Maddalena. 63. Santa Caterina vergine e martire. 64. Santa Barbara. 65. Santa Chiara. 66. Santa Elisabetta. 67. La gloria delle sante vergini. 68. La gloria di tutti i santi. 69. La messa della Croce. 70. Gesù adorato da parecchi divoti. 71. San Leone papa. Noto ancora che gli stessi marchesi Serra possedono altri due orazionarii miniati sul gusto dei precedenti. Il loro merito però è di gran lunga inferiore a questi; appartengono al cominciamento del secolo XVI, e si direbbero 1 ivoro di scuola tedesca. Un quinto, membranaceo pur esso e ricco di miniature e di fregi, spelta ai primi anni della stampa, ed è sconosciuto al Brunet. Nell’ultima pagina si legge: Finit officium beate Marie Verginis..... Parisius noviter impressum. Opera Germani Hardouyni commorantis ante palatium ad intersignium dive Margarete. Nella Collezione Villa, si hanno quattro miniature, di altro codice di preghiere, le quali, per lo stile e pel formato, assai rammentano quelle dei suddescritti orazionarii. 1 soggetti sono i seguenti : 1. Un devoto genuflesso, con un libro aperto dinanzi, in atto di pregare, nello interno di una chiesa. Questa era probabilmente la prima delle miniature onde si arrichiva il volume, é volea rappresentare il personaggio che I’ avea commesso. Nel fregio, sotto il ritratto, vi ha una tavoletta, e dentro ad una ghirlanda due mani insieme congiunte, e le lettere a m sormontate da una corona. 2. Il martirio di santo Stefano. 3. Un santo pontefice (forse Gregorio Magno). 4. L’associazione di un cadavere al sepolcro. Il corteggio esce dal tèmpio, per recarsi al cimitero. La composizione è quasi identica al num. 50 del primo orazionario de’ marchesi Serra. ( 140 ) revolissimo quell’ ufficiuolo che in oggi custodisce la Civico-Be-riana, per legato del benemerito march. Marchello Luigi Durazzo. È scritto in lettera d’oro della più perfetta forma romana, su pergamena tinta di porpora ; colle iniziali miniate a leggiadri e sempre variati intrecci d’ ornamenti e di figure, tra le quali è un Mercurio della più rara beltà e squisita finitezza. Contiene anch’esso il Calendario, cui rinserrano fregi alluminati con putti , medaglie, aquile , sfingi e mascherate , e con ai lati ugualmente i segni zodiacali e le campestri occupazioni. Le grandi composizioni ascendono a diciannove ; e special-mente raffìguranno istorie di Cristo e della Vergine. Argomento alla prima si è la preghiera di Maria; e le succede una tavola tripartita, e fiancheggiata da quattro colonne, d’ordine composito, non che dalle figure di una sibilla e d’Isaia profeta, con un gruppo di vaghi angioletti nella base, i quali intendono a sostenere uno scudo. Nello scomparto di mezzo è 1’ Annunciata , negli altri si legge il litoio dell’ officio. Alle Lodi vi ha santa Elisabetta visitata dalla Madonna, con un fregio di arabeschi intrecciati a medaglie, ed alcune figure le quali compongono un trofeo militare romano. A Prima si rappresenta il Presepe; a Terza la Circoncisione; a Sesta l’Adorazione dei Magi: a Nona san Giuseppe col putto in braccio, la Madonna e san Gioachino, con due vezzosi angioletti in alto ; a Vespro la fuga in Egitto; e al Completorio Gesù in mezzo a’ dottori, colla veduta del tempio mirabilmente condotta. Alla Messa, e dentro a leggiadra cornice intorniata da un fregio con putti sur un terreno smaltato di fiori, è la Vergine in trono col divin Pargolo, e con ai lati i santi Girolamo ed Antonio di Padova; indi un sacerdote riccamente parato, il quale celebra 1’ augusto sagrifìeio alla presenza di più devoti. Gli ornati sono messi a sfingi e mascherette ; ed hanno al centro un medaglione con san Giovanni evangelista. ( 141 ) Allo preghiere de’ morti due figure d’ uomo e di donna vestite a bruno e piangenti ai lati di un sepolcro, col motto Miseremini mei, alcune croci funeree e due teschii, ricercano 1’ animo di profonda mestizia, e vivamente richiamano 1’ uomo alla polve. All’ ufficio della Pentecoste vedesi espresso il Battesimo di Cristo; e gli è posta a rincontro la discesa dello Spirito Santo sovra gli apostoli. Ai salmi é Davidde, il quale verga su tavoletta i sensi del suo dolore; poi lo stesso Re penitente, e in una medaglia il giovine pastore che seco mena in trionfo la testa di Golia. Alle litanie della Vergine vi hanno tre figure in atto di cantare ; e sono di una vivezza e verità, che senza prò’ si tenterebbe ridire. Finalmente all’ ufficio della Croce evvi da un lato la sepoltura del Redentore, con fondo di paese e la veduta del Golgota; e dall’ altro una delle Marie genuflessa ai pie’ del tronco di salvazione. Circonda il primo quadro una cornice alluminata in oro, con leggiadri ornamenti, sormontata da una cimasa composta di arabeschi e teste d’angioli ; e s’imbasa sur una specie di paliotto a chiaroscuro , con ai lati due sfingi e nel centro un medaglione ('). Corona il secondo un fregietto dilicatissimo ; ed é sorretto da mensole fiancheggiate da putti (2). Intorno all’ autore di si ammirabile e dilicato lavoro è questione , o meglio, assoluta oscurità. Il eh. conte Cibrario lo direbbe fattura del beato Angelico, se l’indole degli ornati non lo chiarisse d’ epoca alquanto più tarda. E per vero questa è si nettamente spiccata, che senza ambagi avvisa lo stile con cui si decorava in sul cadere del quattrocento ; ma quanto (*) Vi è scritto: xpo • crvcif ■ hvmani • generis - lib. (2) Entro un disco si legge: ecce • crvcem • domini • nostri . jesv • christi • FVG1TE • PARTES • ADVERSE. ( 1*2 ) al merito delle miniature, così il prelodato Cibrario come l'egregio cav. Alizeri inchinano a ravvisarvi gradazioni diverso, e quindi più d’una mano operatrice; perocché, a senso di quest’ultimo, si intravvederebbe in alcune l’impronta della scuola toscana, ed in altre il fare della romana, con espressioni ed atti perugineschi ('). A me sia lecito il dipartirmi dal giudizio di que’ dottissimi; e colla autorità dell’ esimio pittore cav. Giuseppe Isola, il quale acconsentì gentilmente d’ essermi guida nell’ esame del prezioso volume, attribuirlo piuttosto a pennello di veneto artista. È a notarsi che fra tutte le figure dei devoti i quali ascoltan la messa, precipuamente si distingue quella togata di un senatore veneziano , decorato di stola come usavano per l’appunto que’ magistrati; e ciò, per avventura, non poteva ragionevolmente cadere in pensiero ad altri fuorché ad un suddito della Regina dell’ Adria. Per quello poi che è della sospettata pluralità d’ artefici e della diversità di modi, ella è eziandio di gran peso 1’ opinione dell’ Isola, il quale ritiene che della composizione delle storie si debba concedere vanto ad un solo; ed ammette che l’artista, chiunque egli sia, abbia potuto venirsi aiutando nella condotta del proprio lavoro di studi e d’opere preesistenti, donde la disparità delle maniere, e fatto eseguire alcuno de’ quadri minori a’ suoi discepoli, donde la gradazione dei meriti (2). Ma basti oramai degli officii e libri di devozione ; imperocché non lievi cose ci rimangono a dire degli altri codici sacri o profani. (') Cibrario, Econ. Polit., /. 476; Alizeri, Guida artistica di Genova, 11. 125. (2) In origine il volume era fasciato di velluto; ma a questo, di già consunto e lacero, venne di recente sostituita una copertura di marrocchino rosso. Gli corre intorno un lungo e spesso fregio d’argento cesellato ne’ più bei giorni del secolo XVI, con putti, maschere e candelabri, ed è fermato da otto grosse borchie dorate in sugli angoli. ( 145 ) Soleano questi riporsi in armarii di noce ; nè poteano essere gran che numerosi, ove si voglia considerare il dispendio gravissimo della pergamena, lo stipendio degli ammanuensi e degli alluminalori, e la difficoltà somma di trovare gli esemplari delle opere, che s’ avea desiderio di possedere trascritte. Quindi è che le persone agiate, e gli stessi principi, duravano grandi fatiche a raccogliere venti o trenta volumi, e nella ricerca di questi consumavan la vita. I‘er dare un saggio del valore de' libri a’ tempi di cui discorro, noto che del 1158 un messale per la chiesa di San Pier d’A-rena fu pagato 3 lire (410 franchi), per bene intendere il qual prezzo non è inutile 1’ osservare come dell’ anno medesimo lire '181. 4 8. 6 di Genova si cambino con once 81 d’oro in Palermo ('). Nel 1248 un esemplare dell’ Instituta costò lire 4 5 (fr. 426. 24). Nel 1252 il Digesto vecchio si vende per lire 40 (fr. 249. 52); nel 4266 il libro d’Avicenna si acquista per 30 lire e 2 soldi (fr. 772. 54); nel 4307 un Breviario si paga lire 7 (fr. 201. 44); e nel 1310 i genovesi, eh’erano a studio in Bologna, fanno collettivamente la compera di un Inforziate) membranaceo al prezzo di lire 4 5 '/2 (fr- 446. 04): Nel 4 433 un messale scritto in pergamena e legato in cuoio si paga 48 ducati d’ oro (fr. 1032. 76); un altro é venduto dieci anni dopo al monastero del Boschetto per lire 77 (franchi 799. 4 0); ed un terzo si acquista il 1444 per lire 80 (fr. 819. 53) dalla Commenda di Prè. Un volume della Bibbia pel convento della Misericordia di Taggia si paga ancora ducati 20 (fr. 430. 32) nel 1469 (2). (') Fol. Not. 1. 9. (2) Fol. Not-, Manuale Barth. de Lupotis, ed altri mss. Nella Statistica delle Biblioteche del Hegno d’Italia (Firenze, 1865, pag. xxi), si legge a proposito del valore de’codici innanzi l’invenzione della stampa, questa riflessione, la quale parmi che dalle cifre suaddotte riceva ampia conferma: i Si computa che il prezzo medio di un volume fosse di 580 lire; onde una collezione di 500 volumi dovea ( IU ) Correndo il 1235 Ugo Fieschi dà in pegno del bando, o come oggi diremmo, a titolo di deposito, in una causa vertente tra i Fieschi ed il comune d’Albenga, le Decretali, un volume del Codice, l’Inforziato, con tre libri del Codice, e 1’ Instituta ('). Nell’ inventaro de’ beni di Giacomo di Langasco giureconsulto (14 maggio 4239), si notano i libri seguenti: 1’ Instituta, 1’ Autentico , tre libri del Codice, il Digesto nuovo e il Digesto vecchio, V Infor ziato, il Decreto, la Brocarda, ossia Brocardica d’ Azone de’ Ramenghi (2), i Casi legali di Guglielmo da Cavriano, la Somma del Piacentino, quella d Azone predetto ed il Codice (3). Ma questa piccola biblioteca legale, osserva il eli. P. Spotorno, sarà tenuta come un tesoro, quando si consideri che l’anno stesso (12 luglio 4239) Giovanni economo del Palazzo Arcivescovile costituisce Simone de’ Bandoni da Vercelli suo procuratore, al solo scopo di ricevere un libro dei Decreti da Mainardo primicerio della nostra Cattedrale (*) Nel 4253 la chiesa di santa Maria di Castello possedeva un libro del vecchio Testamento ed uno di profezie, un terzo per la Quaresima ed un altro appellato di Cananea; due omeliarii, un passionale, sei antifonarii, quatlro messali, un evangeliario, due epistolarii, due libri dell’ Ordine ed uno intitolato Sum-mum Bonum, un commento a Giobbe e tre volumi di glosse alla Bibbia, tre pastorali, un saltero scompleto, due quaderni d evangelii, un orazionario, il libro della Genesi e la leggenda di san Leonardo. Ai quali più tardi (sec. xv) s’ aggiunsero un messale votivo, due graduali per tutto l’anno, un libro di costare circa trecento mila lire ; e fa meraviglia come semplici privati abbiano potuto mettere insieme sì numerose raccolte ». (') Fol. Not., i. 330. (2) Trattato di questioni in materia difficile e dubbia. (3) Fol. Not., i. 114. (4) Id. i. 231. Spotorno, Storia Letteraria della Liguria, i. 310. ( i4a ) canto colle segrete ed i prefazii, un martirologio, le glosse al saltero, le opere di san Bernardo, le Morali di san Gregorio, ed altri parecchi ('). Ma non tutte le collegiate, i conventi e le pievi, benché dovessero , secondo i canoni e le antichissime consuetudini, mantenere una scuola ad uso de’cherici, poteano vantare tanta dovizia di libri. Nel 1272 la pieve di Voltri annoverava due antifonarii, due messali, due passionali, un breviario, un saltero e il libro dell’ Ordine (2). Nel 1365 maestro Manuele da Lagneto, fìsico, dichiara avere a prestanza dal convento di san Domenico di Genova cinque volumi coperti di cuoio e fermati a catena nell’ armario de’ libri di quel convento, a cui promette restituirli tosto che gliene sarà fatta richiesta. Conteneva il primo tutti i Problemi d’ Aristotile ; racchiudeva il secondo i Commenti di Pietro d’ Abano sovra quel-1’ opera; leggeasi nel terzo il Commento sul libro degli Animali pure dello Stagirita; eran nel quarto quelli d’Alberto Magno sui libri delle piante, de minerali, della natura del luogo, del moto processivo, de’ moti degli animali ; e serba-vansi uniti nel quinto i Commenti dello stesso Alberto sui trattati dell’ anima, del senso e sensato, della memoria e remi- ' 0) Vigna, L’ ant'ca Collegiata di Castello, i. 184, 233, 243, 263, 270. (2) Muzio, Pieve di Santa Maria di Voltri, ms. della Civico-Beriana. Nel 1274 la chiesa di santo Ambrogio di Genova possedeva i codici seguenti: il vecchio e nuovo Testamento, partiti in due volumi ; passionarium, salmonarium, umiliarium, salmonarium unum de quadragesima, antifonarium nocturnum , breviarium unum nocturnum, duo antifonaria diurna, avangelistarium, epistolarium, duo psaltei'ia, missarium unum magnum, duo missaria parva, manuarium unum, quemdam librum florum evangelorum de littera antiqua, quaternos octo, tres videlicet pro officio sancti Ambrosii, unum a sequendis et alium a mortuis, et alium de passionibus, et duos annuarios, cartinam unam a quadragesima, quamdam scripturam statutorum sive ordinamento rum dicte ecclesie scriptam manu Jacobi ysembardi m • cc • nono decimo, die nono iulii, item regist rum instrumentorum terrarum et possessionum dicte ecclesie (Notulario di Stefano di Corrado da Lavagna, car. 23). io ( 14(5 ) nìscenza, dell’ intelletto ed intelligibile, della morte e della vita, dello sonno e della veglia, della spir azione e respirazione , dell' origine dell’ anima, delle età, del ciclo e del mondo (')• Nel 1480 infine, e così buon tratto ancora dopo l’invenzione della stampa, la cattedrale di Ventimiglia possedeva non più che due volumi del vecchio e nuovo Testamento, un Pontificale e quattro messali, un graduale, un evangeliario ed un epistolario, tre salteri,'un breviario ed un antifonario, un libro di sermoni ed un codice delle vite de’santi, nel quale vuole forse riconoscersi il celebre Martirologio del secolo x, che di presente possédé la Civico-Beriana (2). E nel 1497 il monastero dei santi Giacomo e Filippo dell’ Acquasola, enumerava: una Bibbia, un saltero miniato, un processionale, un breviario, sette antifonarii, un evangelistario, un epistolario, tre lezionarii, due leggendarii delle vite de’santi, un terzo di quelle dei Santi Padri, ed un quarto contenente la storia degli apostoli titolari del monastero medesimo, sei graduali, due messali membranacei ed uno cartaceo, un omeliario, due libri di rubriche , uno de’ quali specialmente notevole perchè scritto in volgare, un libro di sequenze ed uno di canto, un calendario, e finalmente cinque altri codici designali colla semplice o troppo generica indicazione di libro di carta, libro legato di cuoio, libro piccolo, celestario e liber unus apapiri plurium nationum (3) Nell’inventaro dei beni d’Jacopo di Piazzalunga notaio, redatto il 1275, si notano cinque volumi di romanzi, de’quali tre sono scritti de littera minuta (4). E s’ intenda romanzi di (’) Muzio, L’ ordine dei Predicatori, ms. della Civico-Beriana. (2j Rossi, Storia di Dolceacqua, p. 101. (3) Muzio, Apparato dell’ istoria dei monasteri dell’ ordine di san Domenico, ms. della Civico-Beriana. (■*; Protocollo del notaio Vivaldo Della Purta. ( 147 ) cavalleria; de’quali vuoisi considerare come prototipo la Cronaca di Turpino. Fra quelli che aveano maggior fama in tale eia, si contavano il romanzo del re Artù od Arturo, che nel sesto secolo valorosamente pugnò contro i sassoni; la storia di Giuseppe d’Arimatea (sec. xn) e quella di Merlino l’incantatore scritta avanti il 1150; il Bruto d’ Inghilterra, che fu il primo romanzo in versi francesi e venne compiuto da Eustazio Wislaccio nel 1151; il San Grani o La Tavola ri tonda, che ha per autore Filippo conte di Fiandra, morto nel 1191, e fu recato in poesia francese da Cristiano di Troyes; il quale voltò eziandio in que’ metri la storia delle imprese di Lancilotto del Lago, nudrito dalla fata Viviana e innamorato della regina Giovanna ('). Nello stesso anno 1275 il cardinale Ottobuono Fieschi disponeva nel suo testamento de’ proprii codici: legava alla chiesa del Salvatore in Lavagna una Bibbia postillata, e 1’ Ordinario dei vescovi e delle altre gerarchie; al monastero di sant’Eustachio di Chiavari breviarium magnum notatum ad imaginem beale * virginis cum tiburio argenteo; a Percivalle Fiesco suo fratello una Bibbia chiosata in un volume, che aveva appartenuto a maestro Alberto notaio, e che dovea sempre rimanere in possesso de’ Conti di Lavagna, secondo lo stesso Alberto aveva disposto ; ad Albertino suo nipote una Bibbia con brevi noie ( cum glossis parvulis), che già era stata di papa Innocenzo IV, e le Decretali coll’ Apparato di esso Pontefice, cui ne era pure appartenuto il volume, il quale pertanto può credersi fosse 1’ originale dell’ opera; ai canonici di santo Adriano di Trigoso, infine, lasciava 1’ uso, ed ai Fieschi patroni la proprietà, dello (') Nella Biblioteca del march. Marcello Durazzo si custodiscono in codici miniati del secolo xiv due copie dell’opera di frale Guglielmo Dequilleville : Le roman des trois pelerinages, savoir : le premier de V homme durant qu'il est en vie, le second de l’âme séparée du corps, et le troisième de Notre Seigneur J C. en foriiie de monatesseron. ( 148 ) iniero Corpo del gius civile, la Somma di Azone, il Decreto coll’ Apparato di Giovanni, le Decretali coll’ Apparato di Bernardo, la Somma d’ Uguccione sopra il Decreto, quella di Gottofredo e tutti gli altri libri che possedeva di teologia, dialettica, fisica e grammatica ('). « Poteva il cardinale Fieschi come ricchissimo, giustamente soggiunge lo Spotorno, raccogliere i libri accennati; ad ogni altro sarebbe slato troppo difficile (2) ». I.a cura poi che il testatore metteva a disporne è una prova novella della grande stima in cui siffatti codici doveano essere tenuti. Ma per ciò appunto farà sempre meravigliare anche ogni più mezzano conoscitore, la rara biblioteca che possedeva a’ suoi giorni Bartolommeo di Jacopo genovese (3). Eccone la nota, quale io la desumo dall’ inventaro de’ beni ad esso appartenenti, sotto la data del 12 gennaio 1390. 11 Timeo di Platone, i libri dell’Etica, della Retorica e della Politica d’Aristotile,, e della prima inoltre due esemplari (*); Macrobio, Policrate, tre Deche di Tito Livio, le opere di Plinio , e in separato codice gli elogii de viris illustribus ; quindi 1’ Eneide di Virgilio, e in altro volume raccolti (*) Federici, Famiglia Fiesca, p. 129. (2) Spotubno, Stor. Lett. i. 312. (3) Un documento riguardante questo leggista si trova nel Cartolario della Masseria del Comune di Genova (fol. 27), sotto la data del 2ii gennaio 1364. Ivi si legge: Bartolomeus de Jacopo... prò integra solucione et satisfacione expensarum per euvi factarum in itinere per eum facto ad partes Provincie in avi-nione in ncmausii et montepessulano, ad instandam quorumdam mercatoi um civitatis ianue, pro tractando concordiam cum provincialibus occasione marcha-rum sru reprehensat iarimi concessai'um contra ianuenses quibusdam provincialibus montispesulani per dominum regem franclwrum. Librae cclxii. sol. x. (*) Torna opportuno il notare clic nella età di mezzo la filosofia fu specialmente studiata sulle opere d’ Aristotile, il cui Organum tradotto da Boezio non ripugnava alla cattolica fede. Nel secolo xiv però cominciossi a studiare colla aristotelica la filosofìa platonica ; e nel successivo, per opera di Marsilio Ficino c degli altri letterati protetti dai Medici, Platone riportò sullo Stagirita un trionfo quasi compiuto. ( 149 ) lutti gli scritti dello insigne mantovano; i versi d' Orazio, e di questi un secondo esemplare commentalo ; le opere d’ Ovidio, e in altro codice le sole lettere; Lucano, poi Cicerone de officiis, de amicitia, la Retorica e le Filippiche; Apuleio, Esopo, Donato, le opere di Quintiliano, ed in apposito codice le Declamazioni allo stesso attribuite; novella prova che se il codice del monastero di san Gallo, rinvenuto nel 1414 dal lamoso Poggio Bracciolino, ha potuto valere a produrre in piena luce gli scritti di quel retore romano, questi non erano però sconosciuti a’ letterati de' secoli precedenti. Leonardo Aretino, infatti, mentre levava a cielo la scoperta di Poggio, dichiarava eh’ egli aveva da lungo ammirata e letta la metà delle Instituzioni Oratorie. Vengono poi nel catalogo le scritture di Solino, di Seneca, e di quest’ultimo separatamente le Tragedie-, due esemplari di Valerio Massimo; Servio, Svetonio, Vegezio, Anneo Floro e Plauto; sant’Isidoro delle etimologie e delle differenze ; Prospero d’ Aquitania, e la Retorica d’ E-gidio ; lo stesso del regime de principi e del governo dei re ; un volume di Cronache mantovane ; Dante la Monarchia e le opere; indi la Commedia e le glosse alla stessa; poscia il Decreto di Graziano, le Decretali, il Sesto ed il Trattato dell’ Arcidiacono (Guidone de Baysio) sovra quel libro ; le opere di papa Innocenzo IV, cioè gli Apparati sulle Decretali ed il Trattato delle eccezioni; il Digesto vecchio, il Digesto nuovo e 1’ Infor ziato; tre esemplari del Codice, la Lettura di Cino da. Pistoia e quella di Butrigario ; il Volume, i Casi delle Decretali, 1’ Instituta ; Dino delle regole del diritto, ed un Vocabolario giuridico (Vocabulislarium iuris); la Somma delle Decretali, quella d’Azone de’ Ramenghi, due copie del-1 altra d’ Egidio , o meglio il Trattato di costui su quella d’ Azone predetto; la Lettura dell’ Abate, ossian note alla Somma del medesimo Azone, e le opere di Pietro Caprario; un grosso volume della Bibbia, e la stessa in piccolo codice ( »so ) Irascritta; le Concordanze di questa, e quelle degli Evangelii : le Epìstole di san Paolo e due esemplari di quelle di san Girolamo; Giuseppe Flavio le antichità giudaiche (*); Boezio, de Consolatione Philosophiae ; sani’Agostino le Confessioni, la Città di Dio, e tre volumi di trattati sopra la Genesi ed allri sacri libri; quindi varie opere del santo Vescovo d’Ippona e del massimo dottore san Girolamo in un solo codice unite; Orosio, le Morali di san Gregorio, una Storia ecclesiastica ed una Storia scolastica, il Maestro delle sentenze e gli scritti di san Tommaso d’Aquino sulla filosofia morale; il libro de ignorantia, un salterò, ed un saltero con glosse. In tulio novantasei volumi : divizia tale onde avrebbe superbito non un privato , sibbene un principe ! Ma l’inventaro prosegue ancora, e registra una carta da navigare, ossia un atlante idrografico, ed un martilogio (2). Di una carta marittima con certe scritture, cssiano dichiarazioni e leggende a mo’ di quelle che veg-gonsi nella Carta catalana del 1375 e nell’ altra di Andrea Benincasa del 1476, è pur memoria fra gli oggetti sequestrati al ribelle Gaspare Coccalosso nel 1395; e dicesi poi venduta ad un Pietro di Egidio, pel prezzo di una lira (fr. 13. 32) (3) ; e sotto il 1456 trovo notata eziandio papam (uiapam) mundi unam, e carfani unam longobardie (l). Ma quanto al martilogio è opportuno osservare col eh. cav. Desimoni, che questo inventaro è forse 1’ allo più antico nel quale si faccia parola di tale strumento importantissimo alla navigazione (5). Noto in ultimo, che del 1393 si registrano come spellanti a Francesco arcivescovo scismatico di Torres, morto a Genova C') Un codice del secolo xiv, membranaceo in foglio, colle iniziali colorate, se ne custodisce al presente nella Biblioteca del march. Marcello Durazzo. (2) Notulario di Ouerto Foglietta seniore, car. 144. (3) Foglietta, car. 238. (*) Manuale di note per l’indulgenza di Caffa (Archivio di san Giorgio). (5) Belgiiano, Rendiconto dei lavori fatti dalla Società Ligure di Storia Puli ta pel triennio 1862-1864 ; p, 108, 118. ( m ) nell ospedale di san Benedetto a Fassolo, un libro appellato Fios sanciorum, un Pontificale, un codice cartaceo di sermoni scritti in lingua saracena, ed un libro intitolato Giovannina, esteso in idioma parigino (') ; e ricordo che del 1405 si danno a Franca, vedova del già mentovato giurisperito Matteo de lllionibus , come parte dovutale della pingue eredità del marito, il Digesto vecchio, il nuovo e 1’ Inforziate) ; il Codice, due esemplari delle Decretali, il Sesto e 1’ Apparato sul Sesto, Bartolo sopra il Digesto nuovo e sull’ Infor ziato, la Somma di Gottofredo , Jacopo , Dino e Butrigario. Questi quattordici volumi si valutano a giudizio di periti lire 166 di genovini ; ciò che torna in lire 2120. 36 della odierna moneta. E qui mi arresto per non-entrare a dire delle vere librerie, onde Genova non ebbe mai difetto ; giacché queste vogliono trovare acconcio luogo in apposita Memoria, per cui di già raccolsi elementi in buon dato, e che avrà per titolo Scienze e Lettere (2). A Genova i copisti de’ manoscritti sì antichi come moderni, i venditori di libri ed i cariai, costituivano una classe o corporazione assai numerosa ; e tra gli atti del cancelliere Giorgio » de Via (3) leggevansi gli statuti particolari a quell’ arti. Per (') Fol. Not., vol. c par. ii, car 144. (2) Non posso però difendermi dal produrre la noia dei libri, die i genovesi trovarono nel -1435 sulla flotta aragonese. Eccoli, come veggonsi accennati nel Registro Galearum introitus et exitus per tale anno, serbato nell’ Archivio di san Giorgio : Liber unus innorum, liber unus gradualis in cantu, liber alter gradualis in cantu, liber unus oracionalium, codegus (codex) unus talis qualis, liber adi-cionum decretalium, liber unus medicinalium in apapiro medium in vulgari (mezzo in volgare), liber decretalium, liber alter decretalium, liber sexti honi-facii, liber clementine, liber unus lecture supra decretalibus, liber lecture domini innocenta supra decretalibus, liber lecture in apapiro, liber lecture sequentis prodictum in apapiro, liberculus unus parvus in apapiro, biblia una completa, missale unum, liber moralium in lingua catalana, graduale unum , missale unum, missale unum in cantu. (3) Cioè fra il 1451 e il 1455. V. Pandecta antiquorum foliatiorum ecc., nel -1’ Archivio di Governo. Ai num. 3 del fogliazzo d’ Atti de’ Padri del Connine dal 1181 al 1489, si legge % ( 152 ) Ja qual cosa, quando Matteo Moravo e Michele da Monaco (1474) introdussero la prima volta fra noi l'arte della Tipografìa, ed il Moravo prese a stamparvi il Supplemento di Nicolò da Osimo alla Somma Pisanella ('), quella consorteria supplicò il Senato affinchè discacciasse i novatori ; ed ottenuto ancora un breve trionfo sul trovato di Gutlemberg, affrettossi a rivedere i proprii capitoli, e quelli riordinati su basi più consentanee ai nuovi tempi, ne riportò dalla Repubblica 1’ approvazione correndo il 1481 (2). Da un codice della nostra Biblioteca Universitaria ho notizia di uno scrittore, miniatore e legatore cognominato de Varisio, il quale viveva nel secolo xm e tenea bottega nel vico del Filo ; e da un registro della gabella delle succesioni ricavo che del 1420 morì a Genova maestro Donato da Cuma, scrittore aneli’ esso di libri (3). Lo storico Gerolamo Serra cita come esistente nella privata sua Biblioteca una traduzione latina delle lettere attribuite a Falari tiranno d’ Agrigento, ricopiata da Antonio di Bozzolo (*), sotto-cancelliere della Repubblica nel 1465; e nella ricchissima e sceltissima libreria del marchese Marcello Durazzo si custodiscono la Cronaca Eusebiana il nome di Francesco de’ Monaldi, consul scriptorum librorum pel I iSG (Archivio Civico). (') Un esemplare di quest’ opera colle iniziali colorale esiste nella Biblioteca Durazzo. È in foglio e porla la data di Genova 1475. Mattia Moravo riparò in Napoli, e vi stampava ancora nel -1490 un’opera del Poniano, di cui si conserva pure un esemplare nella citata Biblioteca. (2) Pandecta citala. È questa la più recente memoria eh’ io m’abbia trovala dell’arte degli ammanuensi. Nel 1480 Giovanni Cavallo, ricalcate le orme del Moravo e del Monaco, avea stampato in Genova la Glossa d’ Annio da Viterbo sull’ Apocalissi ; poi vennero altri, e contro 1’ utilità dell’ invenzione mal resse lo spirilo di casta e fecero cattiva prova i decreti ufficiali. (3) Gabella defunctorum restantium, an. 14o0, nell’Archivio di san Giorgio. (4) Erroneamente il Serra (Discorso iv) l’appella Bugollo. Vidi io nella stessa Biblioteca una Bibbia membranacea in foglio del secolo xm, e probabilmente del 1262, assai ben conservala e ricca di moltissime miniature alluminate d’oro. ( 153 ) falla scrivere nel 1399 in Firenze da Pileo De Marini, poscia arcivescovo di Genova ('); un codice di Giuslino appartenuto in origine a Luca Interiano e quindi passato al Duca de la Valicre; le Commedie di Terenzio scritte nel 1441 da Barto-lommeo Della Torre; un Quinto Curzio compilo nel 4445 dal notaro Nicolò di Loggia a spese d’ Antonio Grillo, uomo assai benemerito delle lettere, ma sconosciuto allo Spotorno; la Divina Commedia illustrata coi commenti di Benedetto nel 1408 e scritta da Bonifazio degli Avvocati nel 1454 (2); e 1’ opera di Giambattista Perignano, inedita finora, ma assai pregiata , la quale è indirizzata a Domenico D’ Oria (3) primo signore d’Oneglia e capitano del Sacro Palazzo in Roma sotto papa Innocenzo Vili, ed ha per argomento le guerre de’ genovesi contro Venezia, e i D’ Oria che nelle medesime si resero illustri. I codici sovra citali hanno tutti le iniziali messe a colori ed oro; alcuni sono adorni eziandio con leggiadri arabeschi, ed altri abbondano di pregevoli miniature (4). Bartolommeo da Novara, il cui Manuale già mi occorse di ricordare parlando de’ libri di devozione, era non solo miniatore, ma legatore, preparatore ed ammanuense. Ramenta egli infatti di avere fra gli altri libri replicatamente scritte le opere di Virgilio e d’ Ovidio, le favole esopiane e la Grammatica di Donato, con frontispizi bene spesso alluminati, non che un volume di Tragedie col fregio dorato e più lettere colorite per Nicolò da Campofregoso ; di aver miniata per lo stesso una (') Nel primo foglio vedesi colorilo lo stemma di quel prelato. (2) Un codice della Commedia scritto nel 1336 ad istanza del pavese Beccario de’ Beccaria podestà di Genova , vedevasi all’ Esposizione Dantesca in Firenze nel maggio del 1865 (V. Cantò, Relazione all’ Istituto Lombardo di scienze e lettere sul sesto centenario di Dante). (3) Cliiamavasi comunemente il Capilano Domenicaccio. (4) Vedasi per queste e per le altre infinite preziosità custodite nella Libreria Dm azzo il Catalogo della Biblioteca dt un amatore bibliofilo, impresso sènza data e colla indicazione d’Italia. ( lo* ) scrittura di cui tace il titolo, e por altri un volume pur di Tragedie ; eseguite tre copie del Dottrinale, tre degli scritti di Prospero d’ Aquitania, e averne adorni parecchi esemplari ; alluminate oltre dugento .capitali in un Plauto, trascritto un Calendario e coloritovi in fronte lo stemma dei D’ Oria; legali due libri per ordine di Stangalino camerlingo di Tommaso da Campofregoso; Squadernati breviarii, messali ed una copia delle rubriche del Battesimo. Nelle quali svariate operazioni dell’ arte sua, ma specialmente al miniare, aveva egli aiutatori Pietro da Bergamo, Antonio di Maddalena, frate Giovanni Antonio Riccio, Antonio di Rimazorio e Giovanni da Montenero ('). Ma valentissimo nell’ arte dello alluminare fu sopra ogni altro a’ suoi tempi un genovese di casa Cibo, conosciuto sotto il nome di Monge o Monaco dell’ isole d’ oro, ossia d’ Jeres. Fiorì costui fra il cadere del secolo xiv e i primi albori del successivo (2) ; e fu ad un tempo eccellente nella pittura e in ogni sorta di lettere, non escluso il trovare de’ provenzali, nella cui lingua compose un volume di rime, che intitolò ad Elisa del Balzo contessa di Avellino. Resosi monaco a sant’ Onorato Lerinense, e fatto bibliotecario di quel convento, il quale, per 1’ egregia liberalità de' Conti di Provenza e d’ altri personaggi cospicui, vantava una libreria eh’ era in fama di non aver pari in Europa, egli ne fu il più solerte ristauratore. Soleva il Cibo ritirarsi ogni anno al romitaggio che il suo monistero teneva ad Jeres ; ed ivi col trascorrere della mite stagione applicava l’ingegno versatile a ricercare e studiare gli animaletti e gli uccelli, che vi erano di tante specie si differenti da quelli dk qua dal mare. Traducea poi siffatti studi e quelli di marine e di paesi, ond’ era pure vaghissimo, in diligenti pitture; e di queste lasciò in morte una raccolta infinita ; 0) manuale Baitholomei de Lupotis de Novaria. MS. (2j Morì a sant’Onorato di Lcrino, volgendo il U08. ( 1S5 ) dove era tutto si bene espresso, e contraffatto al vivo, che 1 occhio dell’ uomo giudicato avrebbe (jucir artificio non altro essere con la realtà che una medesima cosa. Avendo poi scoperto nell’ anzidetta Bibliotoca un singolare manoscritto, nel quale si contenevano le insegne e le notizie delle precipue famiglie d’ Aragona, di Provenza e d’Italia, cui Alfonso II avea fatte adunare da un monaco nominato Ermen-tere, insieme alle poesie de’ migliori fra’ menestrieri della Provenza , con un compendio della lor vita, il Cibo si mise all’ opera di purgarne il testo ; e quello ricopiato su pergamena bellissima , con perfetto magistero e varietà di caratteri e di colori e disegni ornatolo, con ricchezza e leggiadria non prima vedute, mandò a presentare il volume a Luigi II re di Sicilia. Di clic la sua Corte rimase grandemente ammirata ; e più gentiluomini ottennero dal loro signore la grazia-di far copiare quel libro nella stessa sua forma, e coi medesimi fregi. Forse del volume originale oggi si pregia la Biblioteca del Vaticano; ma è probabile che le copie eleganti diffuse in Napoli, nella Sicilia e in tutto il resto d’ Italia, siano le medesime che vennero sopra quello esemplate. Compose inoltre il Cibo un nuovo libro , nel quale narrò i fatti e le vittorie degli Aragonesi conti di Provenza, scrisse ugualmente un ufficinolo della Madonna; e di entrambi i codici arricchiti di miniature fe’ presente a Giolanda, clic fu poi madre del re Renato ('). Infine la Cronaca del Convento della Misericordia di Taggia ha memoria di frate Marco da Briga (1508), clic fu ottimo « (') Nostradamus, Vite de’ poeti provenzali, p. 2-48 ; Ferrario, Storia ed analisi degli antichi romanzi di cavalleria, i. 233; Spotorno, Stor. Lctt. n. 214. Due secoli appresso fu grande imitatore degli studi del Cibo Giambattista Castello, detto il Bergamasco, dalla città dove nacque, ma venuto a Genova sino da’più teneri anni. I possessori delle opere di lui custodivate come gioielli; e tanta fu la sua fama, clic Filippo II chiamatolo in Ispagna, gli commise di miniare i sacri libri dell’ Escuriale, e gliene diede larghissima ricompensa. ( isti ) sacerdote ed insigne scrittore dei libri corali di quella chiesa; i quali rubati poscia dai turchi (1564), vennero ricuperali dai padri predicatori di Tolone ('). Ma io non potrei augurarmi più degna chiusa all’ argomento, di quella che ho in pronto, colla notizia di un Commento di Nicolò de Lira sulla Bibbia, il quale si custodisce all’ Ambrosiana in Milano, e vuole annoverarsi fra’ migliori ornamenti di quello Instituto. Appartenne al cardinale Federigo da Campo-fregoso, che giovanissimo ancora fu arcivescovo di Salerno, ed ebbe meritata fama di liberalità principesca; che indefesso raccoglitore di codici, molti ne adunò di gran prezzo, e dello studio de’ santi libri assai si piacque, specialmente nella solitudine di san Benigno a Dijon, di che Francesco I conferta aveagli 1’ abbadia. È un volume in pergamena del più gran formato, scritto a due colonne, in caratteri semigotici; lutto asperso di minii nelle capitali, ed improntato di figure e simboli nelle intestazioni poste al principio de' Commenti, di mano in mano che succedonsi i varii libri delle Sante Scritture (2). Tre carte poi sono di una bellezza più singolare che rara. La prima, contenente il Prologo, è tutta circondata da vasi di fiori e frutti, cornucopie e ghirlande, e reca fra le iniziali del possessore (3) lo stemma de Campofregoso cui soverchia la corona ducale, ed un compasso a cui s’intreccia il motto Per non fallir. A piè delle insegne, ed in atto di camminare, è un quadrupede il quale arieggia il volpe, col capo ritto e l’orecchio teso, come chi nutre presentimento di cosa che ancor non vegga. Nè vi ha dubbio che 1 allegoria si riferisœ allo accorgimento della famiglia, non disgiunto (') Calvus, Chronica Conventus S. M. Misericordiarum Tabiae, ms. della Civico-Beriana; (2) AI Genesi, per es., vedonsi dipinti gli arredi sacerdotali dell ebraica re i gione. (3) Cioè : F dal lato sinistro, e C. F. dal destro. ( 157 ) invero da quello particolare di chi commise tant’ opera; concios-siachò Federigo seppe all’ uopo valentemente combattere in prò del fratello Ottaviano contro a’ Fieschi e gli Adorni. Il secondo foglio è ugualmente fregiato di festoni e di fiori; e vi si raffigura in sei compartimenti la Creazione del mondo, con a’ pie’ dell’ Eterno alcune macchiette esprimenti 1’ Asia e l’Europa; quindi una pleiade d’adoratori, papi, patriarchi, vescovi e oberici , nei quali forse sì adombrano gl’ innumerevoli commentatori delle sagre carte; ed ai lati centauri, sirene, duroni e simili, anch’ essi inchinati, come a dimostrare l'incivilimento che dalla Bibbia proviene. 11 terzo nondimeno è ancora più notevole; e rappresenta il passaggio dell’Eritreo; a sinistra gli ebrei in salvo, a destragli egizii che entrano con tripudio nelle acque, e vi si affogano. Ma col volume l’opera non si termina; anzi nemmeno questo codice può dirsi compiuto, se si gunrda agli ultimi fogli in cui si vedono schizzi e disegni alluminati in parte soltanto ; onde è mestieri supporla interrotta. A quale poi fra tanti eccellenti artisti del secolo XVI si abbia a dar lode di sì squisito lavoro, non apparisce dal monumento. A me basti l’averlo descritto, e soggiungere che papa Giulio II fatta miniare in sette volumi una Bibbia colle esposizioni di Nicolò de Lira da un maestro Vincenzo, che forse fu Vincenzo da San Gimignano più compagno che discepolo a Raffaello d’ Urbino, mandolla in dono ad Emanuele di Portogallo, in ricompensa del primo oro dell’ Indie offertogli da quel Re ('). Vorrano ora gli intelligenti riconoscere la mano dello stesso artista nella Bibbia del Fregoso, amico e parente di quel Pontefice? (2). 0) Cibrario, Econ. Polit, i. 435. (2) Materia a proseguire I’ impreso ragionamento offrirebbero i libri miniati ad uso de* monasteri e delle chiese; ma questi non fanno parte del proposito nostro. Siaci nondimento permesso il far memoria d’alcuni, e primamente di quegli antifonarii che ora possiede la Civica Biblioteca. Spettarono agli Olivetani di Final Pia, e furono ( I SS ) II. Diciamo ora di ciò che meglio o più comunemente si piacessero i palati de’ nostri vecchi. Due pasti facevano essi, il pranzo e la cena. Carni di bue, di cinghiali, caprioli, montoni, agnelli e castrati di Corsica e di miniati da Bartolommeo Neroni, detto il Riccio, architetto insieme e dipintore, il più che si acquistasse fama di valoroso tra gli scolari del Sodoma. Gli eruditi commentatori del Vasari ( Vite, XI. ) non conoscono del Riccio opera piti antica delle pitture da lui condotte, volgendo il IÜ34, nella Collegiata d’Asciano, nò saprebbono decidere s’egli abbia a dirsi fiorentino o sanese. Ma l’epigrafe che si legge in fronte al primo de’ nostri antifonarii, ci dii a conoscere che il lavoro dei medesimi precede di due anni le pitture anzidette, anzi di tre se si guardi alla miniatura della gloria de’ santi ove è scritto il 1531 ; e che il Neroni è fuor di contrasto sanese. L’epigrafe dice: f. adeodatvs de mocoetia scripsit, n. pater ANGELVS ALBINGANENSIS GENERALIS ABDAS FACERE FECIT ANNO DOMINI MDXXXIJ. MAGISTER BARTHOLOMEVS DICTVS RIXVS SENENSIS MINIAVIT. k Dei dodici volumi però onde consta la collezione, quattro soltanto hanno opere del Neroni, nè tutte sono finite. Eccone un breve cenno. \ ol. i. 1 ritratti dell’Abate, dello scrittore Àngiolo d’Albenga e del Riccio, in più che mezza figura. Quest’ ultimo è rappresentato assai giovane, con lunga e bionda capigliatura. Seguono cinque storie, cioè : La gloria della B. Vergine, l’Annunciazione, la Visita a Santa Elisabetta, la nascita della Madonna, e alcuni santi in atto di venerarla. Vol. h. L’ Annunciata, il Presepio e l’Adorazione dei Magi. \ol. ni. La Risurrezione di Cristo, l’Ascensione, la discesa dello Spirito Santo, c Gesù che tiene colla sinistra la croce , mentre dal costato gli spiccia il sangue. 'ol. IV- Il martirio dell’apostolo sant’Andrea, san Benedetto tentalo dal Demonio, e lo stesso patriarca nella solitudine; l’Annunciazione della Beata Vergine, 1 Arcangelo Michele, la nascita del Precursore, gli Apostoli Pietro e Paolo, la ^ i-sitazioue; la Madonna della Neve, la Trasfigurazione, il Martirio di San Lorenzo, la natività di Maria, la gloria de’ santi, ed una mezza figura di santa Cecilia. Le capitali sono pure in ciascun volume alluminate, e qua e là vi hanno fregi svariati, composti al solito di fogliami, candelabri, putti, maschere, tavolette, ecc. Altri e non meno importanti codici sono quelli clic di presente possiede l’egregio signor marchese Manfredo Da Passano, dalla cui squisita cortesia ripeto l’averli potuti a mio bell’agio esaminare. Tali volumi sono in numero di dieci, compreso uno a stampa; e diconsi appartenuti a quel Gian Gioachino Da Passano che, ( 159 ) Piemonte (Statuto genovese del 1383 Ms. della Biblioteca Universitaria) , pollame, pesca e cacciagione, erano le sostanze nelle prime decadi del secolo XVI, salì a gran rinomanza, ed in più occasioni tiene meritò della patria. Costui spedilo da Ottaviano Fregoso a re Francesco I di Francia, vi perorò con calore la causa della sua Repubblica ; e trovala presso quel principe cavalleresco lieta ed onorevole accoglienza , prese stanza nella Corte di lui, e fu in seguito dal medesimo adoperato in rilevanti uOficii ed ambascerie. Pi racconta che egli andasse pure in missione presso Enrico Vili re d’Inghilterra, e che appunto da questo monarca ricevesse in dono i volumi in discorso. Si aggiunge .incoia, clic i medesimi aveano per lo innanzi fatta bella mostra nella Reale Cappella di W estminstc r. Quanto v’abbia di vero in siffatte tradizioni, ignoro; ma non credo privo d’utilità il fornire una ordinata indicazione deile storie, clic oltre alle capitali per lo più riccamente alluminale, e ad una sterminata copia di fregi bizzarramente e svariatamente composti di tazze, candelabrini e inaschereltc, di figui e, d animali, di chimere e simili, su fondo d’ oro e d’ azzurro, arricchiscono tanto ciascuno di codesti volumi. I. Missale ad sacrosancte romane ecclesie usum, nunc cum varus additamentis et in fine devotis prosis vel sequent iis ante hac nusquam visis. In alma Parisiorum accademia anno domini virtutum conditmsque mundi millesimo quingentesimo decimo septimo. Segue lo stemma d’Inghilterra, e finalmente . 1 'enalia habentur sub signo gratinile et in vico novo nostre domine sub signo sancti Joannis evangeliste. 1. 11 sacrificio della Messa. 2. Gesù nell’orto, tradito da Giuda. 3. Gesù, seguito da armigeri, s’incammina al Calvario. 4. Flagellazione di Cristo. o. La Crocifissione. 6. Le Marie ai pie’ della croce. 7. La Risurrezione di Cristo. 7. Discesa dello Spirito Santo. 9. Infanzia della Beala Vergine. 10. Presentazione della D. V. al tempio. 11. L’ Annunciazione. 12. La B. V. incontra S. Elisabetta. 13. Natività della Madonna. 4 4. La SS. Trinità, coi simboli dei quattro evangelisti. 15. Gesù Crocifisso. 16. L’ Annunciata. 17. La morte che ferisce un uomo. 18. Cristo abbracciato alla Croce, con intorno gli strumenti della Passione. ( 160 ) che s’imbandivano alle loi' mense; e servivansi parte schiette, arrostite o lesse, e parte inorpellate con torte e galantine, o rotte II. Evangeliario coperto da due alti rilievi d’argento dorato, rappresentanti l’uno la B. V. con san Giovanni ai piedi della croce, e l’altro la Risurrezione del Salvatore. ■1. L’apostolo san Matteo in alto di scrivere. 2. La Madonna e S. Giuseppe, entro una loggia sorretta da colonnine. 3. Adorazione dei Magi. 4. Strage degli innocenti. 5. Fuga in Egitto. 6. Tentazione di Cristo nel deserto, col demonio in abito da monaco. 7. I santi martiri. 8. I santi confessori. 9-10. Gesù che istruisce gli apostoli. 11. Un contadino in atto di recidere un albero ( ornili s arbor qui non facit fructum excidetur). 12. La guarigione del lebbroso. 13. San Pietro sulle acque (Quid timetis modicae fidei?) 14. Il paralitico risanato. 15. Vocazione di S. Malteo. 16. Gesù pregato dal Principe di risuscitargli la figliuola (S. Math. cap. IX). 17- Vocazione degli apostoli. 18-19. Gesù ed i santi martiri. 20. 11 Precursore. 21. I santi martiri. 22. Gesù circondato dagli scribi e farisei. 25. Un contadino in alto di spargere delle sementi (Similis est regnum coelorum homini qui seminavit bonum semen in agro suo). 24. Gesù spiega la parabola : Simile est regnum coelorum thesauro ali-scondito etc. 25. Gesù in mezzo agli scribi e farisei. 26. Gesù risana l’ossesso. 27. Gli apostoli Pietro e Paolo. 28. I santi martiri, recandosi la croce sugli omeri, seguono il Redentore. 29. La Trasfigurazione sul Tabor. 30. L’ arcangelo Michele. 31. Gesù predica la riconciliazione: Si peccaverit in te frater tuus vade et corripe eum. 32. Un principe con un servo ai piedi, per riscontro alla parabola: Simile est regnum coelorum homini regi qui voluit rationem ponere cum servis suis. 33. Gesù in mezzo ai farisei. ( ‘Gl ) in salse, nelle quali spiegavano tulio 1' ardore il pepe e il pepe lungo, il garofano, la noce moscata, la cannella, il gengevero, la 34. Gesù circondato dagli apostoli. 35. Gli operai della vigna, ed il padre di famiglia (Simile est regnum coelorum homini patri famitias qui exiit primo mane conducere operarios in vineum). 36. I figli jj Zebedeo e la loro madre dinanzi a Gesù. 37. Gesù in mezzo agli apostoli. 38. Gli apostoli Giacomo e Giovanni. 30. Solenne ingresso di Gesù in Gerusalemme. 40. Gesù caccia dal tempio i mercanti. 41. Il padre di famiglia manda i servi a ricevere il frutto della vigna (S. Math. cap. xxi ). 42. 11 convito del Re per le nozze del suo figliuolo (S. Malli, cap. xxn). 43. Gesù interrogalo dai farisei circa il tributo da pagarsi a Cesare (S. Math., cap. xxii). 44. Gesù in mezzo ai farisei. 45. Gesù predica alle turbe. 46. Martirio di santo Stefano. 47. 1 santi martiri. 48. Gesù piange sull’eccidio di Gerusalemme. 49. I santi confessori. 50. Le sante vergini. 51. Allusione della parabola dei talenti consegnali dal padrone ai proprii servi. 52. Il giudizio universale. 53. Giuda riceve l’infame prezzo del tradimento. 54. Le Marie alla tomba di Cristo. 55. Gesù mostra a S. Tommaso le piaghe. 56. S. Marco che scrive il Vangelo. 57. Decollazione di san Gio. Battista. 58. La navicella sbattuta dalla tempesta, mentre Gesù passeggia sulle onde. 59. La guarigione del sordo-muto. 60. La moltiplicazione dei pani e dei pesci. 61. Guarigione di un ossesso. 62. Gesù in mezzo ai fanciulli. , 63. Gesù fra i discepoli. 64. Ecce Homo. 65. Giuseppe d’ Arimatea. 66. Le Marie al sepolcro. 67. Apparizione di Gesù ai discepoli. il ( 162 ) galanga, il macis, il cubebbe, e simili altre delizie. L uso di queste era cresciuto a dismisura dopo le prime crociate; e d’alcune fra III. Volume secondo dell’Evangeliario, coperlo con alti rilievi, esprimenti l’Annun-ciazione della B. V. ed il Giudizio Universale, ricco di molte figure. Le miniature di questo codice sono assai più delicate di quelle del precedente. 1. S. Luca in atto di scrivere il Vangelo. 2. S. Zaccaria all’ altare, mentre l’angelo gli predice la nascita del Precursore. 3. L’ Annunciata. 4. Visitazione di S. Elisabetta. 5. Natività di S. Gio. Battista. 6. Il Presepe. 7. Gesù bambino adorato dai pastori. 8. La Circoncisione. 9. Purificazione del/a B. Vergine. 10. Gesù disputa coi dottori nel tempio. 11. Predicazione del Battista. 12. Tentazione di Cristo nel deserto. 13. Gesù in mezzo ai farisei. 14. Gesù guarisce la suocera di Simone. 15. Gesù presso al lago di Genezarelh. 16. Gesù risana il paralitico. ■17. Vocazione di san Matteo. 18. Gesù guarisce gli storpii. 19. Gesù predica ai discepoli. 20. Gesù richiama alla vita il figliuolo della vedova di Naim. 21. La Maddalena che lava i piedi a Gesù. 22. La parabola del seminatore (identica al mini. 23 del codice precedente ). 23. Il Padre Eterno circondato dai simboli degli evangelisti. 24. I santi Lorenzo, Sebastiano ed altri martiri. 23. Il samaritano che medica le ferite al viandante aggredito dai ladroni. 26. Annunciazione della B. Vergine. 27. Gesù in mezzo ai discepoli. 28. Gesù risana il muto. 29. La Concezione della B. V. L’artista volendo rappresentare questo mistero, ha qui raffigurati i santi Gioachino ed Anna in atto di abbracciarsi. 30-33. Gesù in mezzo ai discepoli. 34. Gesù predica alle turbe. 35. Gesù guarisce un infermo. 36. Il convito dei poveri (S. Luca, cap. XIII). 37. Gesù predica alle turbe. ( 163 ) esse, come del pepe, può ben dirsi che faceasi allora quel consumo che oggi si fa dello zucchero e del caffè. 38. Gesù fra i pubblicani. 39. Il figliuolo prodigo. 40. Il padrone chiede ragione al filtavolo della condotta della vigna ( S. Luca, cap. xvi ). 41- Il ricco epulone. 42. La guarigione dei lebbrosi. 43. La preghiera del fariseo e del pubblicano. 44. La guarigione del cieco. 45j. La conversione di Zaccheo. 46. Gesù erudisce i discepoli. 47. Gesù piange sopra Gerusalemme. 48. Gesù predice ai discepoli l’eccidio della stessa città. 49. Gesù annuncia il Giudizio universale. 50. Giuda riceve il prezzo del suo misfatto. 51. Apparizione di Gesù in Emaus. 52. Gesù mostra le piaghe a san Tommaso. 53. San Giovanni nell’isola di Patmos. 54. II Precursore addila Gesù alle turbe. 55. Le nozze di Cana. 56. Gesù caccia i profanatori del tempio. 57. Nicodemo davanti a Gesù. 58. Gesù in mezzo ai discepoli. 59. La Samaritana al pozzo. 60. Il principe prega Gesù che gli torni in vita la figliuola. 61. La piscina probatica. 62. Gesù in mezzo ai discepoli. 63. La moltiplicazione dei pani. 64-67. Gesù in mezzo ai discepoli. 68. Gesù in Galilea. 69. Gesù nel tempio. 70. Gesù sorpreso nell’orto. 71. La donna adultera. 72-74. Predicazione di Gesù. 75 La guarigione del cicco. 76-77. Predicazione di Gesù. 78. Cristo circondalo da’giudei. 79. Risurrezione di Lazzaro. 80. II Consiglio dei pontefici (S. Johann., cap. xn). I ( 104 ) I genovesi le esportavano in grandissima copia dall’ Armenia, colla quale aveano antiche relazioni di traffico e di politica; e 81. La Maddalena ai piedi di Gesù. 82. Ingresso del Salvatore in Gerusalemme. 83. Gesù in mezzo ai discepoli. 84. Gesù lava i piedi agli apostoli. 75-94. Gesù in mezzo ai discepoli. 95. Orazione di Gesù nell’orto. 96. Gesù nell’orto, e i discepoli immersi nel sonno. 97. La Maddalena al sepolcro-di Cristo. 98. Apparizione di Gesù, in abito da ortolano. 99. Gesù si palesa ai discepoli. 100. Cristo e san Tommaso. 101. Gesù presso al lago di Tiberiade. 102. Gesù conferma san Pietro principe degli apostoli. 103. Gesù con ai lati sari Pietro e san Giovanni. ^ • Antifonario. 1. Discesa dello Spirito Santo. 2. La SS. Triade. 3. Il ricco epulone. S. La processione del Corpus Domini. 5. Il convito del padre di famiglia ai poverelli (S. Luca, cap. xm). 6. Gesù ammaestra le turbe. 7. Gli apostoli che hanno gettate le reti. 8. Predicazione di Gesù. 9-10. La moltiplicazione dei pani. 11. Allusione all’introito: Suscepimus Deus misericordiam tuam in medio ttmpli lui, etc. (Dominica Vili post Penlhecost). 12. Gesù piange sovra Gerusalemme. 13. Cacciata dei profanatori del tempio. 14. La guarigione del muto. 15. Risanamento del sordo. 16. Il samaritano che medica le piaghe dell’aggredito. 17. La guarigione dei lebbrosi ( S. Lue., cap. xvm). 18. Gesù spiega ai discepoli il gran precetto: Nemo potest duobus dominis servire (S. Math., cap. vi). 19. Il convito nuziale (S. Lue., cap. xm). 20. Gesù in mezzo ai discepoli. ( 16b ) ne fornivano direttamente le altre nazioni per via di mare o di terra. Da Milano, eh’ era uno dei più importanti centri di con- 21. La guarigione del paralitico. 22. Le nozze reali. 23. il regolo ai piedi di Gesù (S. Johann., cap. ix ). 24. Il Re dimette al proprio vassallo il debito che lia verso di lui ( ò'. Malli , cap. xvm). 25. Gesù interrogato sulla prestazione del tributo a Cesare. 26. Gesù guarisce la donna dal flusso del sangue (S. Math., cap. ìx). V- Secondo Antifonario. 1. Molti santi pontefici, vescovi, re, principi, ecc. Uno dei re indossa un manto azzurro, seminato di gigli d’ oro. Il che potrebbe per avventura far nascere il sospetto che questi codici sieno stati lavorati in Francia, piuttosto che in Inghilterra, donde la tradizione vorrebbe derivarli. I tipi delle figure sono ben lontani da quella gentilezza e sveltezza, onde solevano allora improntarle gli artisti italiani. 2. Il giudizio universale. 3-4. La predicazione del Battista. 5. Purificazione della B. V. Da questa sino al n.° 1 I le miniature si mostrano più finite, e senza fallo condotte da inano più dilicata 6. Gesù nel tempio, in mezzo ai dottori. 7. Le nozze di Cana, con bella veduta di un loggiato, e fondo di paese in disianza. 8. Gesù dona la vista al cieco. 9. Gli operai della vigna. •IO. Predicazione di Gesù. 11. Un poverello chiede la limosina presso le soglie d' una chiesa ; Gesù lo benedico. 12. Tentazione di Gesù nel deserto. 1 3. La regina Ester davanti ad Assuero. VI. Terzo Antifonario. 1. Gesù guarisce l’ossesso. 2. La moltiplicazione dei pani. 3. Gesù lapidato nel tempio da’giudei (S. Johann., cap. vm). i. Trionfale ingresso del Salvatore in Gerusalemme. o. La couscciazione di una chiesa* L1 architettura di questa è uguale a quella del tempio, che si vede rappresentalo nella miniatura n." 3. ( 166 ) sumo, recavansi i nostri a Verona; e quivi, rimontando la vallata dell’Adige, frequentavano la famosa fiera di Bolzano, donde i VII. Quarto Antifonario. 1. L’Annunciala. 2. La sepoltura di un cadavere. 3. Gesù rizzato in croce sovra una gran piscina. Dalle ferite del suo corpo sgorga copiosamente il sangue ; e clero e popolo sc ne abbeverano. Con ciò si indica il mistero di nostra Redenzione. 4. 11 trionfo della fede. Vili. Qui.nto Antifonario. 1. La Cena Donimi. 2. La Risurrezione di Cristo. 3. S. Tommaso appressa la mano al costalo di Gesù. 4-0. 11 Redentore in mezzo agli apostoli. 6. Gesù annunzia agli apostoli la discesa del Paraclito. 7. Gesù circondato dagli Apostoli. 8. L’ Ascensione. 9. La messa. IX. Sesto Antifonario. 1. Gesù e gli apostoli. 2. Gli apostoli. 3. Il martirio di santo Stefano. i. Parecchi santi martiri. o. Il canto del Vangelo, nella messa. 6. Una processione. 7. 1 santi confessori. 8. Le sante martiri. 9. San Gioachino offre a Dio un sacrificio. 10. Sant’Anna e la B. V. fanciulla. X. Settimo Antifonario. 1. Cristo sulle acque. 2. Martirio di sani’Andrea. 3. Concezione della Madonna. Il concetto di questa miniatura è identico a quella citata al n.° 29 del codice hi. ( 167 ) prodotti da essi importati pigliavano a diffondersi nella Germania. Oppure passavano pel lago di Como e Chiavenna, e di quivi per la Mal Maloja, piegando a manca, traversavano il monte Settimio , e discendevano a Coira per al lago di Costanza , o mare di Svevia, come veniva pure appellato. Fra le città dell’alta Lamagna, Norimberga, Ulma, Augusta, Basilea e Strasburgo, facevano con Genova gran commercio di drogherie; e Norimberga spediva poi quelle derrate sul Reno e sul Meno. L’ imperatore Sigismondo consentì a’ veneti dei privilegi considerevoli in quelle parti, a scapito dei negozianti genovesi ; ma i veneziani, più abili degli emuli a sostenere i loro mercantili interessi per le vie diplomatiche, lasciaronsi da questi vincere nella pratica; e così Norimberga continuò a ricevere da’genovesi una parte delle merci importale d’Oriente (')■ 4. 11 Presepe. 5. I Magi. 0. La Purificazione della B. V. 7. La cattedra di san Pietro, circondato da molti cardinali vestili di porpora. 8. La messa di san Gregorio, celebrata da questo pontefice. 9. San Benedetto dà le regole a’ suoi monaci. 10. L’Annunciata. 11. I santi Giacomo e Filippo apostoli. 12. Crocifissione di san Pietro. 13. Decollazione di san Paolo. 14. La Trasfigurazione. 13. Il transito della B. V. 16. La morte di sant’Agostino vescovo e dottore della Chiesa. 17. Decollazione del Precursore. •18. La genealogia del Salvatore; e la natività della Madonna. 19. San Nicolò da Tolentino. 20. Esaltazione della Croce. 21. L’arcangelo Michele schiaccia il demonio. 22. Le stimmate di san Francesco. 23. La gloria d’ Ognissanti. (') Torelli, Avvenire del commercio europeo, voi. ii, p. 162. Scherrer, Storia del commercio di tutte le nazioni; Detong, op. cit., vol. i, p. 212. ( 16« ) Del 1227, in una bottega di Enrico Della Torre esistevano, fra le altre cose, quattro cenlinara di pepe, otto centfnara ed un terzo di zucchero, 170 libbre di cannella, due libbre ed otto onde di galanga, dieciottó libbre di pepe lungo, e dieci rubbi di gingibrata di Genova (<). Aè meno curioso al nostro proposito è l’inventaro di una bottega di spezieria, seguito il 1312. Dove si contano otto doszine di pentole dorate di Bugea, con entro sciroppi, confetti, galanga e genge\ero, mandorle e noci moscate, sì intere che in polvere, zafferano e miele, gengevero minuto e garofani, libbre cento di acqua di rosa, e due vasi di rame per contenerla (2). E il gen-ge\ero a Genova avea tanta e così universale riputazione, die del 1366 il Comune mandò a presentarne d’ alcuni vasi, come di cosa prelibata, due cardinali che risedevano col Papa in Avignone (3). Tra le varie generazioni di pesci, il codice del Pedaggctto di Gavi (i)} e lo Statuto del 1383 specificano i tonni, le acciughe e le sardelle fresche, oppure salale e conservate in barili (5). L’inventaro precitato del 1312 rammenta clapas pro fieri faciendo fug.icias ex pisces confectos, cioè i pasticci di pesce. Il mercato della caccia e della polleria tenevasi allora nella conti ada di Susilia, onde il nome della Via dei poliamoli ha oiigine più recente; e lo Statuto del 1403 comandava che niuno da Capodimonte ad Arenzano, e da Cavassolo a Pont'decimo, ar- 0) Fol. Not. i. 83. Gli zuccheri s’importavano a Genova di Sicilia, Maiorca, Cipri, Damasco, ecc. ecc. (2) Not. Ambrogio di Rapallo, car. 10. (3) Massaria Comunis Januae, car. Si. ( j M>. nell Archivio di san Giorgio. È curiosa la disposizione che si legge nel capo 82 degli statuti e decreti del Comune, editi in Bologna nel 1491. Ivi (fol. 74 verso ) è detto, che il Podestà di Rapallo non possa astringere gli uomini di Portofino a vendere pesci in Rapallo, ma lasci invece che li rechino a Genova, sotto pena di essere multato di lire 10 per ogni contravvenzione. ( ) Lo Statuto, che è assai minuzioso, determinava i prezzi delle carni e dei pesci, secondo le stagioni ed i giorni di grasso, di magro o di digiuno. ( Ki'J ) disse comperarne, all’ oggetto di rivenderla, tranne su quel mercato ('). Alle seconde mense recavansi le giuncate (2), i formaggi e le frutta: dattili d’ Alessandria e di Catalogna, mandorle di Puglia, Cologna, Provenza e Malaga, mele, nocciuolo ed avellane, racemi, ossia uva passa, noci e fichi ; indi miele, confetti e zuccherini di varie sorta, chiamati clragiaie (3). Nel Registro dell’ Arcivescovado di Genova è memoria delle prestazioni di giuncate, onde correva obbligo verso la Curia agli uomini d’ Aggio, i quali sono pure gli stessi che tuttodì si recano a farne smercio in città; e fra gli atti del notaio Guglielmo Cassinense è un instrumento del 23 maggio 1191, con cui Ottone de’ conti di Ventimiglia dona alla nostra chiesa di santa Maria di Castello quattro sestari di fichi secchi di Bussana, e conviene che quella donazione debba ogni anno rinnovarsi in perpetuo (4). Oberto Cancelliere ricorda come, al ricorrere della solennità di Pasqua, (') Miscellanee Ageno, n.° vi. Lo stesso Stallilo prescriveva, che i poliamoli non potessero comperare le cose pertinenti al loro commercio avanti l’ora di lerza; nè tenere nelle loro botteghe polli morii da più di due giorni l’inverno, e da più d’ uno la state. Le premesse particolarità fanno poi contro all’ asserzione di Paolo Foglietta , il quale in un suo sonetto vorrebbe mostrare che l’uso di mangiar polli ci era venuto di Francia, non molto prima de’ giorni in cui egli viveva. (V. Rime diverse in lingua genovese, ecc., Pavia, Bartoli, 1583; p. 46). (2) Latte rappreso, e posto fra’ giunchi. (3) Fol. Not. i, 83; Uzzano, Pratica della mercantia; Cibrario, Ec. I’ol. Riporto qui, a titolo di curiosità, l’elenco di alcune vivande le quali furono servite agli ambasciatori spedili nel 1378 dal Comune di Genova al Signore di Padova, e eli’ io desumo dal Registro delle spese di quella legazione serbato nell’ Archivio delle Compere di san Giorgio. Semola — vitelli, capretti, castrali, salciccia e carni salate — Polli, piccioni, — Gamberi — Pastinache, rapo, ed altre erbe per insalala, cavoli e poponi — Latte, ricotta, giuncate, burro, cacio e lardo — Ciliegie, avellane, mandorle, fichi noci, zibibbo — Cialde, zuccherata, miele, zucchero e confetti — Gengevero. mostarda, garofani, spezie, tappani ed agreste. f4) Vigna , L’ antica Collegiata di S. M. di Castello, ì. 90. ( 170 ) i popoli della Sardegna offerissero ogni anno al nostro Comune, in testimonio della loro soramessione, una gran quantità di cacio, la quale veniva per maggiore onoranza locata sovra di un carro e tirata da una bella coppia di buoi ('). I vini erano crudi o cotti, nazionali o forestieri. I cartolarli della Masseria del Comune fanno spesso memoria del vernaccia, e quei di Calìa del vino di uva treglia, che i nostri Consoli, residenti nelle colonie del Mar Nero mandavano sovente in regalo a’ principi e signori circonvicini, ovvero prestavano loro a titolo di alafa, ossia tributo. Fra' nostrali godevano estimazione grandissima quei della \alle di Coronala e della Costa di Rivarolo in Polcevera, e que’ di Noli (2). Nè doveva essere senza pregio il vino di Quarto al mare; poiché del -1190 gli ambasciatori di Filippo Augusto di Francia ne provvidero le galere, con le quali veleggiava il Re loro alla volta di Terra Santa (3). Ma sopra tutti si teneano in onore i vini delle Cinque Terre, che il Petrarca anteponeva al Falerno, e che i principi e monarchi si ambivano di far mescere ne’ più lauti banchetti (4); e i moscatelli di Taggia, i quali erano di tanta preziosità e dolcezza, che nulla invidiavano alle malvasie di Candia, oppure a’ vini di Cipro ed a quelli spremuti dalle uve greche di Napoli ; sicché venivano ricercati da Roma e da Firenze, di Francia e d’Inghilterra, per essere serviti alle più ricche tavole (5). Narra il Giustiniani, che mentre l’esercito di Carlo V percorreva la riviera occidentale, « una banda di alamani, che ri- 0) Pertz, xviii ; ad ann. 1166. (2) Giustiniani, Annali. (*) Fol. Not. i. 129. Lo Stallilo del 1336 prescriveva, che niuno potesse vendemmiare innanzi la metà del settembre (Miscellanee Ageno, n.u vu, p. 42). (4) Vogliono alcuni che la voce vernaccia non sia d’altronde venuta che dalla nostra Vernazza, una delle cinque terre predette. (5) Narra il Calvo, nella sua Cronaca del Convento di Misericordia in Taggia, che eodern anno (ioOTJ Conventus noster misit nonnulla vasa vini in Angliam; quod placuit scribere quia rarum. Sed quia multi tabienses in ilio regno exercitantur cum navibus mercaturam facile credi potest. ( '171 ) tornava di Marsiglia, si detenne in Tabia per la dolcezza e bontà del vino uno a duo giorni più clic non era conveniente; e lu il buon trattamento fatto a questo campo principio e cagione, che il Signor di Monaco acquistò la grazia e la benevolenza di Cesare » (f). Nel 1278 essendo venuto a Genova Carlo principe di Taranto, i Capitani alloggiarono nel Palazzo del mare; e fattogli imbandire uno splendido convito, il presentarono di ricche stoffe; mentre all’ equipaggio delle galere che aveanlo scortato si distribuivano carni di polli, di buoi, d'arieti, vino, uova, cacio e frutta (')• Simili accoglimenti fe’ pure (1357) il Comune al Cardinale Egidio Albornozio vescovo di Sabina, il quale come legato del Pontefice Innocenzo VI percorse allora quasi tutta 1’ Italia, ritornando all’ autorità della Chiesa i contrastati dominii (3); e adoperò ugualmente colla Marchesana di Monferrato (1362), pel cui banchetto si spesero meglio di dugento lire, pro pullis, gallinis, carnibus, confectionibus, ovis, prezinsollis, vino, pane, caseo, fructibus et aliis diversis (4). Nel 1484, volendosi dal Comune impor fine al gozzovigliare de’ cittadini, uscì decreto, col quale si stabiliva che nei conviti da celebrarsi per qualsivogliasi avvenimento, eccettuato il caso di nozze, fra parenti od amici, non dovessero imbandirsi altre vivande, all’ infuori di quelle che i delegati del cardinale Paolo Fre-goso Arcivescovo e Doge erano venuti prescrivendo. Si servissero pertanto ne’ pranzi ordinarii i vini moscatelli ed i biscotti, indi peverada, ossia brodo con infusione di pepe, oppure salsa ma- (<) Giustiniani, li, 689. (2) PtnTz xviii. (3) Massaria Comunis Januae. (*} Id. Nel 1366 il Doge Gabriele Adorno diede un convito, pel quale si spesero circa 60 lire (Massaria citata,) ; e nel 1385 il Console di Caffa imbandì un pasto a Sailo commerchiario (appaltatore dei diritti di Dogana), cui servironsi riso, galline, carni di castrato c di manzo, oche, vino di treglia, malvasia-, vino greco, e più specie di fruiti. ISel clic si spesero 1042 asperi. (Mass. Caffae, neH’Archivio di san Giorgio). ( 172 ) nipolata senza mistura di zuccheri, con carni di vitello, castrato, capretto od agnello, riso, e pasticci con galline e polli in bianco; poscia gli zuccherini e le frutta, esclusi i confetti e l'ippocrasse. Si portasse nelle cene una gelatina preparata colle carni d’ alcuno fra' predetti animali, poi salsa verde, e galline, capponi o polli arrostiti ; infine torte senza zucchero, dragiate c fruita. Ma nei conviti e nelle cene nuziali si recassero invece i gengeveri e le zuccherate, i pasticci di pollame, la salsa bianca fatta di zucchero, mandorle e tappani, e denlrovi rotti capponi e galline, un arrosto di porcelletti, torte bianche confezionate more antiquo, ip-pocrasse , fruiti e confetterie, que more antiquo dari solebant. Non si potessero però in alcuna vivanda usare le dorature; si punissero i contravventori colla multa di venti in cinquanta ducati; e ne pagassero da cinque a dieci i cuochi ed i famigli, che si fossero prestati a preparare e a servire manicaretti proibiti ('). Materia a più considerazioni offrirebbe invero codesto decreto; ma l’entrare in quel campo ne dilungherebbe troppo dal nostro proposito. Due tuttavolta ci si consenta di farne ; e di queste la prima sul miserando stato del nostro Governo, il quale posto in condizioni gravissime, non si dà pensiero quanto basti dei supremi interessi della patria, o si stima avervi provveduto coll’ ammannire a suoi amministrali la lista del pranzo e della cena. Le colonie perdute e i commerci illanguiditi; la Corsica fremente, e tutta in fiamme di ribellione; la Lunigiana e la Versilia desolate da aspre guerre, la stessa Genova oppressa da mali multiformi, e prossima a pei -dere le sue libertà per mano degli Adorni, che ne daranno il dominio agli Sforza, e quindi per mano de’ Fieschi, i quali di già ne spianano a Francia la signoria! Ma forse ancora al Cat-dinale Doge i conviti destavano sensi di rimorsi e di paure. Pochi mesi innanzi a quell’editto, aveva egli adunati ad un lauto fe- (') Regulae PP. Çomunis, car. 44. Nel ! 325 si fe’ decreto in Savona, clic nei conviti non potessero spendersi oltre 50 lire ( Verzellino, Memorie di Savona, ms. della Civico-Beriana). ( 175 ) stino nell’ Episcopio (25 novembre 1483), Battista Fregoso suo nipote, colla moglie ed i figliuoli di lui; c quando l’ilarità già cominciava a colorare più vivacemente i volti di ciascheduno , I’ astuto Arcivescovo fatti circondare da scherani i convitati, e spiegare in mostra ordigni di torture e di supplizi, senza che preci o rimproveri ne piegassero 1’ animo, costringeva il nipote a consegnargli i segnali delle fortezze; poi calunniatolo e fattolo deporre, usurpava il dogato, e ne faceva ministro Fregosino suo figliuolo bastardo, il quale con enormi lascivie, soprusi, bagordi, coltelli e risse , non compassionava alla plebe nè rispettava la nobiltà. Secondariamente poi il citato decreto, ancorché fatto per contenere la sontuosità delle mense, lascia trasparire un certo spirito di sobrietà e parsimonia, a cui forse noi figli di secoli ben più civili non sapremmo così di leggieri informarci. Ed oso asserire, se quello strano divieto ancor durasse, che in certi di dell'anno Genova in massa fallirebbe all’osservanza del medesimo, e volentieri pagherebbe la multa, per soddisfare a’ proprii desiderii. Le vivande si portavano sulle tavole intiere e ammonticchiate in grosse pile, tanto maggiori quanto più rilevata era la dignità de’ personaggi cui doveano servirsi, ed erano tagliate sopra pani rotondi e schiacciati sovrapposti a un disco, o ad un quadro di legno o d’ argento, chiamato propriamente tagliere-, i quali per la loro elasticità agevolavano quell’ ufficio , che essendo tenuto uno de’ più gelosi, onorali ed importanti, si apprendeva colle arti cavalleresche, e veniva nelle corti governato da certe regole variabili secondo la moda, e quasi a scienza ridotlo ('). Nè allora slimavasi da poco il servire alle mense de’ grandi, massime in occasione di speciali solennità. Nel banchetto offerto dalla Signoria al Re di Cipri, il 6 febbraio 14-16, sedeano ad una stessa tavola quel Principe e il Doge Tommaso da Campo- (') C.urario, Econ. Polit, u. 73. fregoso, ad altra il Podestà, gli anziani, e con essi le minori magistrature della Repubblica; molti giovani, scelti per metà fra le più considerevoli famiglie nobili e popolari, di preziosi panni vestiti, precedeano al suono delle trombe e di altri musicali istru-menli le imbandigioni; e queste ventano poscia intorno recate da’ più prestanti famigliali del Doge. Compiuto il banchettare, si apriron le sale ad uno splendido festino; e circa ottocento dame vi convennero coperte di drappi d’oro, e di perle e d’altre gioie adornale ('). Usavano in alcuni luoghi disporsi le tavole a ferro di cavallo, in altri a foggia di T; nel quale caso i personaggi di maggior grado sedeano alla tavola traversa. Molte volle ancora, massime ne’ grandi banchetti, i convitati assidevansi da un Iato solamente, lasciando l’altro libero a chi serviva. Coprivansi poi di una tovaglia, i cui lembi pendeano sino a. terra, perocché a quelli si asciugavan le mani; e i tovagliuoli, eh’erano qualche volta di seta o ricamati, servivano invece a coprire le confettiere e gli altri piatti (2). Sulle tavole brillavano candelabri d’argento o d'oro, con doppieri per lo p!ù quadrali ed a colori; coppe e bicchieri d’oro o d’argento dorato, smallali e contrassegnati da stemmi; la-lora con piede e coperchio, talora senza; e qualche coppa di madreperla o di cristallo di rocca, gioielli di carissima stima. (*) Stella , Annales Genuenses, apud Muratori S. lì. I. xvn. (2) Cibrario, ii. 73-4. In un inventaro del 1164 si citano duo togagias ; in altri del 1312, 1390 e 1405: marsupia duo de seda rccamata, manutergium unum site toajoletta recamata, toagias xm inter bonas et malas (Chartarum ii; Not. Ambrogio di Rapallo, car. 10; Oberto Foglietta seniore, car. 240). Inoltre di siffatti oggetti è assai frequente memoria nei registri le tante volte citati di confische a’ ribelli. Nei secoli decorsi l’arte dei tòvagliari fioriva in Genova grandemente. Nel 1584 quella corporazione esponeva al Senato che i suoi statuti erano antichissimi, nò mai stali riveduti o corretti dopo la Riforma della cosa pubblica avvenuta il 1528 ( Capitoli de" tovagliati, ms. nell’Archivio Civico). ( 175 ) Fu pure usanza , nel ricorrere di qualche gran festa , di porre sulle mense fontane argentee che gittassero vino; e statue di zucchero rappresentanti eroi e divinità del Paganesimo , schiavi moreschi, figure allegoriche, e simili ('). I convitali erano posti di coppia, e si aveva 1’ accorgimento d’ associare, per quanto si rendesse possibile, cadun gentiluomo a dama o fanciulla che non gli tornasse increscevole; perocché 1’ uso portava di mangiar due ad un medesimo piatto, e dissellarsi nello stesso bicchiere. Beato era quindi colui, che sedeva ad un tagliere colla dama de’ suoi affetti! Davanti a ciascuno era un pane (2), ed un piccolo coltello con manico di argento, che serviva a tagliarlo e tenea luogo di forchetta (3). (’) Vedi Cristoforo di Messisbuco, Libro movo nel quale s’insegna il modo d’ ordinar banchetti, ecc. (2) Nell’ inventaro dei beni di Simone puncogolo (fornaio) sotto l’anno 1392 , si notano : pala una magna pro fugaciis, signum unum pro signandis fugaciis, signum unum Ugni prò canestrellis (Fol. Not. voi. ii, par. n. 16). I capitoli del 1383 (car. 118-19) prescrivcano a’ fornai la tariffa seguente, per cuocere gli infradescritti manicaretti: De altroclea magna, den 1. 6; de altroelea parva, den. 1 ; de tortelo magno, den. \. 6; de rosto parvo, den. \; de tiana (cioè di un ripieno, accomodato entro una tegghia di rame o di terra), den. 1 de turta magna, per conviti nuziali, da sei danari ad un soldo, secondochè il prezzo della legna variava da 1 a 2 soldi il cantaro. Inoltre nelle solennità della Pasqua e del Natale ogni prezzo come sopra stabilito, poteva aumentarsi lino al doppio; ed in quella del capo d’ anno (26 dicembre) era lecito esigere la mercede di due soldi per ogni cottura de altrocleis, placentis et fugatiis. Lo Statuto del 1403 determinava poi che i fornai, per cuocere il pane agli avventori (casanis), potessero avere fino a denari 4 I in estate, e denari 6 all’inverno per ogni quarto di mina, ma per la intera mina, dovessero in qualunque stagione ricevere soldi 2 V2 (Mise. Ageno, n.o vi). I.e tariffe sovra indicate veggionsi anche confermate con decreto del 1447 ; ma ivi è per giunta fatta menzione della scribilita (Furnarii quod pretium exigere debeant in coquendo scribilitas et similia, etc. V. Leges, constitutiones, etc. ad Magistratum Censorum attinentia, Cod. ms. dell’Archivio Civico, p. 74). Dunque è permesso il concludere, che la scribilita, come oggidì ancora si appella volgarmente la farinata ( farina di ceci stemperata nell’acqua, e colta al forno entro una tegghia con olio) ebbe origine, secondo ogni probabilità nella prima metà del secolo xv. (3) La strada di Coltelleria, incorporata a dì nostri colla 17a Vittorio Emanuele, Inoltre nella sala dov erano preparale le mense, aveavi pure un buffetto disposto con vario numero di gradini, e coperto di ricchi panni ; e sovr’ esso bellamente ordinavansi il vasellame e la piatteria, che servivano così all’ uso della tavola come a semplice scopo di mostra e grandigia. Vi si posavano eziandio i barili, i fiaschi, gli orciuoli, le idrie e le guastade. E tale sfoggio d’ argenteria non si faceva solamente in occasione di festini e conviti ; ma solea rinnovarsi allora quando alcuna dama giaceva in puerperio ('). Nel mettersi a tavola davano 1’ acqua alle mani, stillata con odori di rose o di mammole, e servita in anfore e catini d’argento cesellato di gran valore ; indi sedeano. 11 pranzo era distribuito in due o tre servizi, ed ultimo veniva 1’ arrosto ; poscia si sparecchiavan le mense, ridavasi 1’ acqua alle mani, e facevansi venire trovatori e menestrelli a rallegrare la brigata. ci indica il luogo dove i coltellinai esercitavano ne’ tempi trascorsi la loro industria. Un alto del 1432 la ricorda con queste parole: Contrata cititelierie in loco dicto raibeto vetus (Fol. Not. voi. 11. par. 11. 238). Ma fino dal 1262 i coltellinai formavano una corporazione; conciossiacchè il 24 febbraio di tale anno si trovano in numero di trentasei promettere ai loro Consoli di osservare tutti gli ordinamenti, che questi emaneranno in prò dell’ arte (Notar» Matteo di Predone, an. 1259 e seg.). Angelino coltellinaio è poi notato in carta del 1255 (Giornale Ligustico, voi v. pag. 390). Una consorteria di fabbricanti di lamine per coltelli era eziandio stabilita in Val di Polcevera, ove ne esiste tuttora un’ officina, con ispeciali capitoli, i quali vennero approvati il 9 marzo 1441 (Pandecta antiquorum foliatiorum etc.). Sotto F 11 dicembre 1344 ho memoria di un decreto prò culteleriis laborantibus argentum ; e sotto il 28 gennaio dell' anno appresso, di una sentenza pronunciala inter cutleterios laborantes de argento et fabros (Ibid). In un inventaro del 1214 si citano cultellos duos barbarinos (Notulario di Enrico Porta, i. 29 recto); in altro del 1390 si nota un coltello con manico d argento, chiuso in astuccio dello stesso metallo; ed in altro del 1433 si registrano gladios tres pro mensa cum sua vagina (Fol. Not. voi. ii, par. ii. 114- 146). Nel Museo Correr a Venezia esiste un manico di coltellino, rivestito di quattro piastrelle d’argento niellato, con pome fuso in bronzo, rappresentante il busto di un santo; ed è opera fiorentina del secolo xv (Lazari, Notizie delle opere d arte e d’ antichità della Raccolta Correi-, p. 408 ). (') Cibrario, ii. 61, 73-75. C 177 ) Dopo quelle piacevolezze recavansi le frutta ('); e finalmente si gustavano i confetti ed i vini aromatici, come ippocrassi, nettari e pigmenti. Nella cena imbandita da Ercole d’Este duca di Chartres al Duca di Ferrara suo padre, alla Marchesana di Mantova e ad altri principi e personaggi illustri, il 24 gennaio del 1529, furono, tra le molte specie di confezioni, serviti piatti venticinque eli cotognata , et persiche alla genovese (2); il che dinota senza dubbio come l’ arte del candire fosse già sin d’ allora salita in eccellenza fra noi (3). Fra’ precetti indirizzali da Amanieu des Escas ad una donzella , che amava ben governarsi, rendersi stimabile , e fuggire quanto potesse darle sinistra fama , era dello: « Quando siedi al desco , fa che ti venga dell’ acqua con cui mescerai il vino, perchè non t’ induca nocumento...... Non sollecitare i vicini a mangiare, perchè è villania importunare un uomo che attende al suo meglio , mentre deve essere a sua volontà cibarsi il bisognevole ; se però desidera qualche vivanda, sii sollecita d’offrirgliela con garbo. Trincierai quanto ti sarà imbandito, e i convitali saranno poco cortesi se non ne divideranno teco la fatica. P’inito il banchettare, levati, chè il moto è assai conveniente alla salute, e prendi 1’ acqua alle mani; e se a questo fine vai al buffetto , procura d’ addurre teco una compagna, perchè non si levino sinistri giudizi. Se alcuno ti si accosta e vuol teco galanteggiare , non fare la ritrosa , ma studia schermirti con (•) Nel secolo xiv però cominciarono a servirsi prima di sparecchiare. (J) Messisbugo , opera citata, p. 19. (3) In carta del 1330 vedesi notato Nicolò da Recco speciarius, figlio del q.m Domenico da Recco confettiere. Michele da Recco, figliuolo di Nicolò, ò testimone ad un atto del 13Î52. Simone Gioardo notaro, figlio del fu Gioardo da Recco confettiere, ò citalo in un documento del 1384 (Giornale Ligustico, vol. V, p. 391). Il 2 dicembre 1487 , per alto del notaro Nicolò Raggio, i confettieri di Genova, in numero di G7 , fanno alcuni ordinamenti relativi all’ amministrazione della già costituita loro Consorteria, cd alla ammessione degli allievi nell’arte (Fogliazzo d’instrumenti del citato notaio, nell’ Ardi. Not., pel 1487, num. 919). tì ( 178 ) belli e piacevoli motti, ponilo in disputa, e quindi dimanda alcuno della brigata perchè vi ponga d’ accordo , e dia sentenza de vostri dispareri. Non rispondere con modi aspri e scortesi a c ii ti ceica d amore; vuoisi gentilezza con tutti, nè rendersi alcuno nemico, e senza essere indiscreta, e venire meno nei con-a ene\oli, hai mille modi a torli d’intorno gl’importuni » ('). Poiché abbiamo sopra genericamente accennalo alla ricchezza de vasellami onde soleasi far pompa, non sarà per avventura discaro il lio\arne qui soggiunta alcuna specificata notizia. Aell imentaro dell’ eredità lasciata da Guglielmo Scarsaria (H64), ollie una tazza ed un cucchiaio d’ argento, si nota cuppam capitis galli (i) ; tra’beni d'Jacopo di Piazzalimga (l~7o) è uno scifo d’argento con piede dorato, del peso di once IO e denari 5; ed un paio di boccette d’ oro, con due zaffiri ed otto perle ciascuna (3). IMO aprile 1277 Dolce da Pistoia e socii confessano avere in custodia dal già ricordato Pietro diacono Egittanese venti cucchiai, tre salsiere, sei nappi o lazze e quattro taglieri d' argento, del peso complessivo di nove libbre e cinque once (*). In atto del 1312 è menzione di quattro vasi per acqua di rose, dieciotto cucchiai, due bicchieri d’argento, e quattro paia di coltelletli guarniti con lamine dello stesso metallo (5). Nell’eredità lasciata da Alerame Lercari (1348) si annoverano ventidue cucchiai d argento (6) ; un invenlaro del 1390 ha memoria di una coltelliera, venticinque cucchiai, una guantiera e quattro catini d argento (7); e Francesco Sacchetti ricorda che a’suoi tempi una guantiera del peso di più che tre libbre, e del (!) Sacchi , Sulle feste ecc., p. 149. (2) Chartarum ». (3) Notaro Vivaldo della Porta. (4) Fol. Not., voi. ii, par. i. 180. (5) Not. Ambrogio di Rapallo, car. 10. (6) Fol. Not., voi. hi, par. h. 123. (7) Not. Oberto Foglietta seniore, car. 144. ( '79 ) valore ili ironia fiorini, fa con sottile artificio involata a llario D’ Oria , mentre stavasene in Firenze ambasciadore della Corte di Costantinopoli a quel Comune ('). Più rilevante si è un inventaro del 1389, poiché vi si fa memoria di una lazza d’ argento coll’ arme de’ Mosca, e di otto candelabri d’ ottone lavorati ad opera damaschina (2), ovvero alla gemina ed alla tausia, come si disse a’tempi del Vasari; cioè intarsiati con fili e sottilissime laminelle d’ argento e d’ oro, mercè solchi ottenuti col bulino. Della damaschina si hanno antichissime traccie in Italia; tuttavia i primi lavori eseguiti in siffatto genere dopo il risorgimento dell’ arte, non sono altro che imitazione di quelli che ci venivano di Levante. Dei candellieri poi, non solamente gli ornali , ma le forme della larga base cilindrica, si modellarono su quelle degli arabi e dei persiani. Oggi questi oggetti sono difficilissimi a rinvenirsi (3). Finalmente in una carta del 1400 si ricordano tre tazze e sei cucchiai d’ argento (4); in una calega poi del 1475, si vendono tre piccole anfore (stagnarie) d’ argento , coll' armi de’ Lomellini e Leccavelli ; due altre cogli stemmi Lomellini e Vivaldo, del peso di libbre 3 ed oneie 7 '/t ciascuna ; un grosso piatto d’argento per servire alle mense, ed altri diversi di minori proporzioni ; una guantiera d’ argento dorata, del peso di una libbra e nove oncie , colle insegne degli stessi Lomellini e Leccavelli (5). Ma tale era in Genova 1’ abbondanza di simili ricchezze, che il Giustiniani già sotto 1’ anno 1331 notava come i vasi d’ argento , le domestiche masserizie e 1’ ornamento delle gioie supe- P) Sacchetti , Cento novelle-, Verona, 1821. Nov. xcvi. (2) Fol. Not. , voi. ii, par. ii, 158. (3) Lazari , Notizia delle opere d’arte e d' antichità della Raccolta Correr di Venezia, p. 214. (4) Giornale Ligustico, voi. v, p. 392. (5) Fogliazzo di Odeuto Foglietta, an. 1475, n. 640. ( 180 ) rassero ivi ogni prezzo ('). Il cardinale Gregorio Cortese, descrivendo il sacco toccato a Genova dalle soldatesche di Cesare il 1522, soggiunge che la pace e il commercio aveano qui radunate tante dovizie, e fatto nascere un lusso si smodato nelle vesti, nelle abitazioni, nelle suppellettili, die non era sì vii cittadino il quale non avesse gran copia d’ utensili d’ argento (0- E la Nuova, Gazzetta della cittì di Genova, pubblicatasi pur allora, e contenente una lettera scritta da un Antonio Ravenna al Tesoriere di Carlo V, addì 3 giugno di quell’ anno, conferma il narrato dal predetto Cardinale, osservando che il sacco aveva siffattamente arricchita la soldatesca, da indurre gravi timori che la medesima non volesse ormai più sapere di guerra. « Si dice anco ( in tal guisa proseguiva lo scritto ) che si è trovata tanta inesprimibile quantità di robba, che anche quelli del treno e gli altri soldati del più basso rango hanno per loro parte del bottino sortiti duemila fiorini ciascuno (3). » UsaroDsi ancora in antico vasi di terra e di vetro ; e un atto del I ISG ricorda vaxellum de vreo, unum cnuper cum uno enapero de vreo (4). Rammenta pure quel documento una scodella dipinta d’ Almeria, lavoro moresco, e molto probabilmente di quel genere che in Italia nominossi maiolica , dalla precipua fra le isole Raleari, Maiorca, dov’ erano allora famose vaserie. Il quale appellativo, usato fin oltre la metà del secolo xvi a dinotare, non la materia onde si componevano que fittili, (’) Giustiniani, II. 49. (2) Cortese , De direptione Genuae, p. 206. Le stesse cose scriveva più tardi il Goaldo (Relationi ecc., p. 92 ) : « Non si parla dell’ argenterie, perdio incredibile la loro quantità, non essendovi nobili, nè mcrcanli, anche di classe inferiore, che non mangino in piatti d’ argento ; et in somma è così comune questo metallo, che fin le persone più basse hanno qualche argenti nelle loro casi. » (3) Possédé questa curiosità bibliografica, impressa in lingua tedesca, I egregio sig. avv. Gaetano Avignone. (4) Chartarum li, 303. Il 1393 si pagano a Bartolommeo di Moneglia vetraio lire 7 >/2, per vasellame prestalo alla Signoria, quando onorò di un convito lAffl miraglio di Francia (Massaria, Comunis Januae, car. i>0). ( 181 ) ma il colore che attraverso la vernice flava riverberi di metallo brunito , si estese in seguito a dinotare ogni stoviglia che non fosse di porcellana ('). Ma gli antichi lavoratori non essendo pervenuti a rendere que’ vasi impenetrabili ai liquidi, in ispecie bollenti, nè atti ad essere perfettamente purgati dagli unti ; ne seguitò che, come i principi ed i nobili usavano il vasellame d’argento, il popolo adoperava il peltro, lo stagno, 1’ ottone, il rame, il ferro, il bronzo, la pietra, il legno, ch’era per lo più d’acero o d'ulivo. Nell’instrumento precitato è appunto parola di due candellieri, un mortaio, una scodella, due catini ed una lucerna di rame, uua coppa di legno, un cucchiaio di ferro, ecc. Fu solamente verso il 1300, che s’ imparò a rivestire i vasi ancora crudi di una (ina camicia della candidissima terra di Vicenza diluita nel-I’ acqua, e a dare ai medesimi un bagno di piombo bruciato col tartaro e coll’ arena o col quarzo (2). In un inventerò del 1392 si accennano conchas duas terre deauratis (•■) ; fra gli oggetti sequestrali a’ ribelli verso 1’ epoca slessa si enunciano certa vaseUamina terre, e concita una terre cum certis scudellis ; e in allo del 1405 tagerios xxi terre deauratos (*). Alquanto più tardi (1446) Luca della Robbia orafo, statuario e fonditore fiorentino, scoperse il modo d’invetriare la superficie delle opere di plastica, e colorirle con seguenza e vivezza di (') Anonimo. Dell'industria delle terre cotte in Italia. Vedi Politecnico, vnl. xxiv , p. 285-97. Forse la coppa di cui si (ralla (nè sarà stata la sala) fu portata d’AImerla nell’anno 114-7, in cui se ne impadronirono i genovesi. Molle spoglie trassero seco i vincitori ; ed erano pure fra queste le porte di bronzo, che per più secoli decorarono l’in resso della chiesa di San Giorgio, la quale contava allora Ira le più ragguardevoli della città. (2) Raffaelli , Memorie isteriche delle maioliche lavorale in Castel Durante, osici Urbunia, p. 10. (3) Fol. Not., vol. Il, par. Il, 145. (i) Notaro Obeuto Foglietta seniore, car. 240. ( 182 ) tin le mirabili, od egli il primo insegnò altresì il modo di dipingere le figure e le storie sul piano; di che la ceramica fu grandemente giovata (')• Ma la maiolica divenne allora un oggetto di lusso così raro, e ristretto nella sola classe de' grandi, che i principi s’ impadronirono di questa fabbricazione, per renderla oggetto di loro grazie e favori , e segno di loro generosità. Onde l'arte di Luca potè produrre quelle stoviglie, le quali vengono tuttavia si ricerche per 1’ invenzione , la foggia e la cottura perfetta. Da quel tempo si applicarono gli invetriati a decorare di terraglie eleganti le mense ; e apparvero la prima volta que’ vasi e que’ piatti, ove non saprebbesi qual più ammirare se il disegnare o il comporre, o se il compartimento delle tinte semplici e poche , ma così soavemente digradanti. A mezzo il secolo xvi fiorì 1’ arte del vasaio in Genova ; la quale, al pari di Casteldurante, Pesaro e Corfù, avea per ciò cave d’ ottima creta. Una delle sue fabbriche sita a Capo di Faro si distingueva per l’insegna della Lanterna; un’ altra, posta in Carignano, colorava nelle sue opere il sole. Nel secolo successivo sorse ad emularle Savona; e 1’ officina di un Giacomo Bo-selli (2) vi produsse lavori bellissimi. Così poi nelle terre del Geno- (') inferisce il Vasari (ediz. prima), che Luca fu col tempo onorato sulla sua tomba a San Pier Maggiore, in Firenze, de' versi seguenti : Terra vivi per me cara e gradita , Che all’ acqua, ai ghiacci come il marmo induri, Perchè quanto più cedi o ti maturi, Tanto più la mia fama in terra ha vita. (2) Costui francizzava il suo nome, e scriveva nelle maioliche Jacques Bosell'J. Molti ed interessantissimi capi di maioliche genovesi conserva, tra gli altri bei monumenti d' arte , il sig. marchese Carlo Donghi, alla cui esimia cortesia mi professo grandemente obbligato. Ecco la nota d’ alcuni fra quegli oggetti, al dì d’oggi assai ricercati e studiati. I.° Sottocoppa celeste, collo stemma Lercari, e la marca della Lanterna con un segnale. ( 18"> ) vesato come in quelle della Venezia smallivansi in gran copia le maioliche adorne di rabeschi, e però col solo nome di ra- 2.° Piallo ceiosie , con in mezzo l’arme dell’ Ordine di S. Domenico circondala dalle lellere i . f . t . p., e la marca sovra citala. 3.° AIira sottocoppa, colla marca della Lanterna con casetta sottoposta, ed un segnale. 4.° Tazza bianca, con fiori celesti e gialli, od in piccole proporzioni la marca stessa della Lanterna. 5.° Allra , con figure ed alberi : Lanterna con un segnale. 6.» Altra , colla lettera S sormontata da una stella. 7.° Piatto grande celeste: Un’aquila rivolta ad una stella. 8." Sottocoppa con fiori : La stessa inarca , e più la lettera E. 9.° Tazza celeste con figure ed alberatura, dello stile del Guidobono : Le lettere N. G sormontate da una corona, e quindi da una stella. /10." Allra con rose, margherite e fiori diversi: Iacques Boselly. A Brussa dì Bitinia vi lia una moschea di Maometto 1 rivestita di mattonelle policrome smaltate, cui la tradizione popolare afferma della fabbrica dei genovesi. (V. Merli, Influenza delle Delle Arti sulla prosperità delle arti industriali, p. 23). Cogliamo 1’ opportunità per notare col eh. Ileyd, come i turchi dell’Asia minore amino di attribuire a’genovesi lutti gli avanzi del medio evo, perocché ciò è una novella prova della singolare importanza che di que’giorni ebbero i nostri nelle accennale contrade. Gli odierni abitatori della Cilicia raccontano anche, a proposito dei boschi d’ulivi ora insei vaticli ti per trascurata coltivazione, come gli stessi in origine sieno colà stali piantati da’genovesi (V. IIeyd, Le colonie degli italiani in Oriente nel medio evo, ecc.; voi. i, p. 313). Negli Atti dell’ ottava riunione degli scienziati italiani (Genova, Ferrando, 1847 ; p. 722) si trova questa comunicazione , la cui importanza non isfuggirà certo al lettore : « Il signor Michele Calvi, sacerdote della congregazione delle missioni..., avendo dimoralo molti anni nel Libano..., fece l’interessante scoperta degli avanzi di una città e di un castello colà fabbricati dai genovesi , che tuttora conservano il nome di Genova. Sapendo egli che la ligure repubblica ebbe possesso di una parte di quelle marine di Siria, e che aveavi pure innalzato una fortezza, ne fece ricerca, interrogò le tradizioni tanto conservate in Oriente, finché alcuni vecchi Io accertarono che presso il capo di Giuni già esisteva una città chiamata Genova, e pronunciarono chiaramente anche la consonante v che manca nella lingua araba. Altri la dissero Caisariè, ossia fortezza, e vedonsi ancora gli avanzi della città e del forte, che pare fossero innalzate sopra antiche fabbriche fenicie. Ed altri molti preziosi avanzi di genovese memoria rimangono per que’ lidi; varie famiglie che si credono d’origine ligure nelle città d’Acri, Seida, Giebel, Trabalos; altre di nome Benedetti cd un’antica chiesa di S. Giorgio nell’ indicata Genova, ed armi della Repubblica nella chiesa di Giebel e nelle porte di Buad ». ( 18/t ) besche domandate; va!e a dire dipinte per via di cifre con fio-iellini, intiecci e nodi sottilissimi, fino a parere colorati merletti ('). Ma a Genova , forse prima che altrove , usaronsi le porcellane; le quali, stando a ciò che fu scritto generalmente, sarebbonsi re^e note soltanto dopo il principio del secolo xvr, cioè quando ìncominciossi a facilitare la navigazione alle Indie orientali (2). Ti e in\entarii del 13S9 e '1390 fanno parola degli oggetti seguenti. conchetta una nigra purzelelte, conchelte due de por-c:llela, conchete quatuor porcellete (3). Nè sembri la mia con-ghietlura fuor di ragione, o ardita soverchiamente. Le porcellane, dì cui Marco Polo descrisse la fabbricazione (*), lavora-vansi a Tingili, 1’ attuale città di Tingtcheu ; e sappiamo che dopo le accoglienze ricevute da quello intraprendente viaggiatore al Cataio , i genovesi si spinsero fino a Peckino , che i tartari nominavano Gambali), ed a Zaitun, il cui porto era singolarmente famoso pel vasto commercio che vi si ficea dagli indiani (5). I genovesi inoltre, de’ quali sarebbesi allora potuto dire, anche con maggiore sembianza di verità, ciò che papa Bonifacio \ ili ebbe a sciamare de'fiorentini, esser eglino il quinto /p' I intura di tali rabesche, pagavasi un fiorino ducale per ogni cento lunnh ■ ■ ,"5,BATTlsTA ’ Storia delle pitture in m nolica fatte in Pesaro e nei luoghi circonvicini ). C2) Passeri , Op. cil. * ^ut'’ '0,‘ y* Par‘ ’b L58, 161; Not. Oberto Foglietta sen., car. Hi. . "R"’ -nnj (i cinesi) una certa terra come di una miniera, e ne fanno inni 1 T'" 1 ’ e ,ascian!l al v"nto, fila pioggia e al sole, per trenta e quaranta , ce non li muo\ono. E in questo spazia di tempo la de:ia terra si affina, . '"I0 fjr (lelle sc1) Scherrek, Storia del commercio di tutte le nazioni; §. Degli italiani. ( 192 ) Corte papale, stava per rimandarli. Quando, essendo il monarca entrato a favellare di quella industria, gli venne vaghezza richiederli d’ alcuna mostra de' loro lavori ; e volle fortuna che i genovesi avessero seco appunto recalo un drappo di seta ed oro, sopra ogni dire bellissimo. Perocché il Re, alla visla di quello splendido tessuto, non solo mutò divisamento ; ma, propostosi dotare la Francia di quelle meraviglie, inaugurò solennemente una fabbrica di sete a Tours, ed una seconda in Lione; e con dispendio gravissimo fe5 venire di Persia i gelsi ed i bachi. All impianto della fabbrica di Tours avea Luigi XI chiamati parecchi genovesi : Ilario Fazio, Andrea Stella, Francesco Gari-baldo, Genesio Riccio, Raffaele da Peretto, Giovanni da Camogli e più altri; e conferto ad essi, alle loro donne e figliuoli, a’ lavoranti ed apprendisti, privilegi amplissimi confermati poscia da Carlo Vili ('). A malgrado però di tante cure, l’industria della seta non si rese sì presto famigliare ai francesi, in guisa da escludere, o menomare l’importanza dei prodotti italiani. Per lo che i nobili continuarono lunga pezza ancora a provvedersi di questi ultimi ; e Francesco I offerse aneli’ esso vantaggi considerevoli a setaiuoli genovesi , che avessero voluto recarsi nel suo Reame. Le fabbriche di Genova infatti erano quelle , che faceano la maggior concorrenza alle officine di Lione. E se, a porvi un argine; i fabbricanti francesi non ebbero miglior consiglio che quello di chiedere si vietasse l’importazione de’ nostri drappi, le donne italiane che si succedettero sul trono di Francia, fecero sempre a loro volta respingere quella domanda; talché non ebbe effetto se non a’ tempi di Enrico IV. Il quale cinti di gelsi i viali e i giardini delle Tuilerie, e ordinatene piantagioni ne’ parchi di Madrid e Fontainebleau, incaricati spe- (') Ordonnances des Rois de France, XX. £91. ( 193 ) ciali commissarii di propagare la coltura del gelso in tutta la Francia, proscritto in ogni diocesi lo stabilimento di una piantonaia, incoraggiato Oliviero di Serres a pubblicare il trattato sulla l'accolta della seta, fece stabilire de’ fdatoi nelle Tuileries e nel castello di Madrid, costruirvi edificii per allevare i filugelli, molinetti ed opifizi per dipannare e organzinare le sete. Tuttavia, se volle provare che i prodotti del suo Reame non erano inferiori a quelli d’Italia, dovette anch’ esso chiamare da questa Penisola gli operai, conferire ad un italiano, cioè al Bal-bani, l’incarico di dirigere i lavori; dare ad un altro italiano, cioè al milanese Turati, i mezzi di stabilire in Parigi una fabbrica d’oro filato; ed ordinare (1603 ) l’erezione di una manifattura di tele d’ oro e d’ argento, di drappi e stoffe di seta all’uso italiano (■). Nel 1442 il Duca di Milano aveva conceduti stipendi e privilegi a un fiorentino, per 1’ opera del quale si erano introdotti in quello Stato alcuni particolari lavorìi di seta. Ma quel fiorentino trovò ben presto emulatori in una compagnia di milanesi e genovesi, i quali con la medesima industria e maestria si sparsero nel Ducato , e finirono per ottenere uguali agevolezze (2). Scorrevano pochi anni appena , ed Urbano Trincherio con altri genovesi, portavano 1’ arte del tingere e tessere la seta, e lavorare di broccati fino in Catalogna. Ma la corporazione cui essi appartenevano, avvisandosi che quel fatto recar potesse nocumento (*) Levasseur , Storia delle classi lavoratrici in Francia; libro VI, cap. I. Enrico Stefano, nei suoi Dialogues du nouveau langage français italianisé (pag. 191), cita ancora come assai usitali in Francia i seguenti drappi : Velours renforcé, velours à poil et demi, a deux poils el à trois poils, velours à ramage, velours à fondo de satin pourfillè de Gennes; velours de tout couleurs de Gennes renforcé; velours cramoisi violet, poil et demi de Gennes ; velours cramoisi brun de Gennes. (2) Pavesi , Memoria per servire alla storia del commercio dello Stato di Milano, p. 30. 13 ( 194 ) a suoi interessi, ne mosse vive lagnanze a! Doge Pietro da Campofregoso. fi quale pertanto, addì 13 aprile 1452, proibito a filatoli e tessitori di cinture e di drappi serici il partirsi da eno\a, dicliiaia\a ribelli i contravventori, e minacciavali come tali della confisca de’ proprii beni. Consentiva soltanto l’editto eie gli operai mancanti di lavoro potessero trasferirsi a Lucca, iienze, Venezia o Caffa; ma li obbligava ad ottenerne prima licenza dalla Signoria ('). La fierezza del bando non valse però ad ismuovere il genio intiaprendente d Lrbano Trincherio. Del 1462 noi lo troviamo in compagnia di tre suoi concittadini, e principale fra essi, portait in Fenara la tessitura dei drappi di seta a più colori, de hrocccati d oro e d’argento, ed insieme stabilirvi una tintoria, e quel Comune, antiveggendone l’utilità, provvedere quegli aitefici di locali e di danaro, e farli esenti dalle pubbliche gravezze (2). Poi Borso d’Este chiamare maestro Marco Cal'i (1465), per introdurvi la filatura dell’oro e dell’argento (3); v ) Capitoli ecc. , car. 29. Anche a Firenze era vietato ai manifattori di seta I uscire dallo Stato, senza il permesso della Signoria (Bagnini, Mercatura, voi. u, P- * In decreto dell’ H luglio 14i0, prò textoribuîpannorum sete, avea già stabilito. Quod non possint trahi de civitate f Januae) telaria et alia exercitia dicte ai t/s , nec ea vendere nec mutuare alicui laboratori diete urtis ( Pan-decta eie.). ( ) La domanda del Trincherio e de’ compagni « era di una provvisione a tutti quattro, un luogo per esercitarvi l’arte, un’abitazione per le loro famiglie, l’introduzione delle sete, oro ed argento necessarii, senza dazii o gabelle, la esenzione de pesi reali e personali, e il divieto d’introdurre dall’ estero tali sorta i ceneri, se quelli della fabbrica sieno sufficienti per la città e sue dipendenze. Offrono di attivare venti telaj, con che si dia formento per mesi quattro alle cinquanta persone che condurranno seco loro per 1’ impianto; e chiedono trecento fiorini d oro a titolo di prestito, per acquistare e condurre a Ferrara istromenti, ordi0ni, ccc......j] Magistrato, dappresso a raccomandazioni ducali, accetta per un quinquennio » (Cittadella, Notizie relative a Ferrara; p. 502). ( ) Merli, Origine ed uso delle trine a filo di refe, pag. 24; Cittadella, Op. cit., p. 300. Pare nondimeno che il Calvi a breve distanza di tempo sia morto, ov\ero anche non sia riuscito nell’impresa. Chiese pure di attivare la fabbricazione ( 105 ) mentre , a. breve distanza , vediamo chiedere di proseguirne 1 impresa un maestro Agostino da Bargagli (!). Uguale fortuna non arrise a Bernardo da San Pietro. Era-sene costui fuggito (1501) coi propri fratelli in Mantova, portatore del serico magisterio ; ma dubito forte clic al divisamento di lui seguitasse l’effetto; perchè il Governatore di Genova, ad istanza de’ Consoli dell’ arte, ordinava la cattura delle famiglie de’ fuggiaschi, senza rispetto a’ vecchi, alle donne , a’ fanciulli (2). Ma altri intanto recavalo a Vicenza, di dove il patrio Governo si confessava impotente a farne svellare le radici (3). Più lunga via tentala aveano Tommaso Vernassano setaiuolo, Antonio Dal-Pozzo tessitore, e Stelino da Novi tintore (1483). Chè, abbandonata la patria, riparavano in Levante; e già aveano aperti in Scio i loro opifizii, quando arrestati e condotti a Genova, pagavano in fondo alla cupa torre di Palazzo la pena del loro ardimento (/f). Puro da tanta persecuzione altri pigliava coraggio. Una lettera del doge Anloniotto Adorno alla Maona di Scio (31 luglio 1523), fa noto che in quell’ isola eransi novellamente trasferiti degli artefici genovesi; ed ordina che, assicurate le persone e gli strumenti del loro mestiere, vengano sotto buona custodia rinviati a Genova, dove li attendeva tale un castigo, di cui fino a’ posteri sarebbe ita la ricordanza (5). dei panni di seta ed oro , con provvigione di 40 ducati d’oro ed un assegno per la casa; ma la sua domanda non ottenne il consentimento del Magistrato ferrarese, per la privativa conceduta al Trincherio ( Id. p. 503 ). (') Costui nel 1470 fece offerta ai Duca di trasferirsi con la propria famiglia in Ferrara, per esercitarvi artem auri et argenti filati ad honorem et gloriam huius civitatis, chiedendo 1’ annua provvisione di trecento ducati per otto anni, un prestito d’ altri 1200 ducati, e la casa d’abitazione per venticinque persone. Ma il Magistrato rifiuta l’offerta, a cagione delle gravi spese in cui versa l’erario (Cittadella, op. cit. p. 500). (2) Capitoli, ecc. , fol. 89. (3) Id. car. 216. (4) ld. fol. 215. (5) Id. car. 21 G. ( 196 ) Tuf ta\ ia quegli artigiani non ebbero si matrigna la sorte come i loro predecessori. Una replica del Doge (17 marzo '1524) lamenta a^ai, che mentre le risposte de'maonesi addimostratoli pionti all obbedienza, i fatti chiarito avessero il confi ai io, in guit.a tale che l arte aveva ornai comincialo a stendo l ah m quell isola, con tanta pernicie della patria ('). E con ciò sia dato fine al nostro digredire , perocché ogni a00iunta il underebbe soverchio. Le cose brevemente discorse invoglino altri a cercarne i particolari; chè l’arte della seta ci addita ne suoi documenti una importanza degna di storia; e 1 ele\azione di Paolo da Novi alla suprema dignità dogale (IO aprile 1507), meglio che un avvenimento isolato, od un mero finito d incomposti tumulti di popolo, vuol essere considerata ionie la esplicazione della potenza cui era giunta quell’ industria fia noi. Ricordiamo che fatti simili potevano anco riprodursi; e che Gian Luigi Fieschi, appoggiato alle arti del setificio e del lanificio, metteva poco dopo (1547) a repentaglio la sicurezza della Repubblica. Nell’ ultima delle citate lettere Antoniotto Adorno scriveva: L' arte della seta, non che l'occhio destro, è l anima della nostra città. I panni di che face vasi maggior uso a’ tempi de’ quali ho pies.0 a dire parola, erano bigii, verdi, gialli, vermigli, scarlatti; e il più comunemente d’Inghilterra, di Genova (2), di Lombardia, donde traevansi pure i fustagni, e di Firenze, dove gli stessi panni cosi celebrati di Fiandra e della Picardia si miglioravano, ritingevano, cimavano, e cosi ammigliorati e cresciuti di prezzo per le gabelle, le maletolte, i viaggi e 1’ o-pera, in Italia e fuori si rivendevano a stima più cara (3). (1) Capitoli, ecc., car. 216. ( ) Nel 12G4 Enrichelto Spinola promette di consegnare 150 pezze di panni operali di Genova, ad Enrico Fiorentino di Castello ( Canale, Nuova Istoria, ecc., 11. 623). Nel 1398 dieci pezze di panni di Firenze, di diversi colori, a canne 12 ,/2 per ciascuna, si valutano lire 500 (Fol. Not., vol. e par. h, car. 149). (■ ) Cibrario, Econ. Polit, ii. 77. 23). I genovesi che dimoravano numerosi ed ( I»? ) Le lane traevansi a Genova segnatamente dalla Provenza, dalle Baleari, e di Cartagine, Barberia, Bugea, Sardegna; e lavoravarde in ispecie i frati umiliati, i quali venuti d’Alessandria, si edificarono sovra un terreno dell’ abbadia di san Siro nella nostra città il munistero e la chiesa di san Germano, ora santa Marta del- 1 Acquasola (1228). Più documenti abbiamo di loro ne’ rogiti notarili ; i quali ci mostrano che vaste operazioni solevano imprendere que’ monaci, ed al buon esito delle medesime interessavano con sottile avvedimento i cittadini, od associandoli direttamente a’ negozi, o ricevendone in accomenda il denaro ('). Narra il Giustiniani che 1’armata genovese spedita nel 1283 contro a’ pisani, « era piena del fiore della gioventù, cosi aveano grandi fattorie a Briga, Anversa, ed in genere nelle principali piazze di commercio delle Fiandre, godendovi singolari privilegi, vi trafficavano eziandio le lane e i panni d’Inghilterra (Trattato stipulato fra il doge Antoniotto Adorno, e il duca Filippo di Borgogna conte di Fiandra. MS. presso la Società Ligure di Storia Patria, ), cioè 1’ attuale Pellicceria, al di là de’ cui limiti lo Statuto del 1403 prescriveva non si potessero le pelliccie inzolforare o battere (7) ; e Antonio da Uzzano loda assai le pelli concie sì a Genova, e sì nelle altre parli del distretto ligustico (8). (1) Boccaccio, Giornata i, nov. vili. (2) Fol. Not. i, 242. (3) Id. i, 463. (4) Id. voi. ii, par. i, 164. (5) Notulario di Angiolino da Sestri , car. 185. (6) Stella , Annales Gcnucnses, apud Muratori , Script. Iter. ltal. xvn. (7) Miscellanee Ageno, n. vi. (8) Per quello poi che è de’ cuoi, soggiungiamo che i medesimi derivavansi di Barberia e di Spagna (Uzzano, p. 191). Nel 1163, a Genova, 650 pelli di mon- ( 200 ) Il Breve della Compagna del 1157 ha una singolare disposizione, ommessa nel successivo del 1161, colla quale si proibisce 1’ ornarsi de’ zibellini di valore , salvo il caso di legazioni o visite a pontefici, imperatori e re ('). E il Registro del Pedaggetto di Gavi (sec. xm) rammenta le pelli di volpe, di gatto, di coniglio , di faina , di lepre ; che erano nostrali, oppure si traevano di Puglia, Lamagna , Norvegia , e Schia-vonia (2). Ma verso il 1300 presero eziandio ad usarsi, o per vaghezza o per sollazzo , abiti di lontane nazioni, come le sa-racine e le schiavine, ossiano vesti di lana fabbricate ne’ paesi de’ saracini, nell’ Arabia , nella Soria , nell’ Armenia , ovvero nella Schiavonia (3). Altri portava il farsettino all’ ungherese, oppure indossava le foggie spagnuole, faceasi tosare il capo a mo’ de’ francesi, e nodriva la barba alla guisa de’ tartari (4). tone , ad uso di calzoleria , si vendono al prezzo di lire SO (Chartarum vol. ii). Un inventaro del 1388 nota: par unum calligarum serratarum pro homine (Fol. Noi. voi. e p. ii, 153). (’) Atti delta Società Ligure di Storia Patria, voi. i, p. 192. Tale proibizione s’incontra eziandio nella Prammatica del 17 marzo 1705 , edita dallo Scionico. Ivi (pag. 2-3) è detto, che gli ermellini ed i zibellini non possano adoperarsi, neanche per foderatura. A Firenze del pari gli ermellini erano da tempo antico vietati (Sacchetti, nov. 137). (2) Pegolotti , Pratica della mercatura, p. 299. (3) Cartolarii della Masseria di Caffa e delle confische a’ribelli, nell’Archivio di san Giorgio. (4) Che prima del secolo xiv ciascun paese avesse un vestire particolare, ce ne assicura anche Dante , il quale nel suo pellegrinaggio all’ Inferno , viene riconosciuto per fiorentino alla favella dal conte Ugolino, ed all’ abito da’ suoi illustri concittadini Guido Guerra , Tegghiaio Aldobrandi ed Jacopo Ruslicucci : Io non so chi tu sie, nè per che modo Venuto se’ quaggiù ; ma fiorentino Mi sembri quando i’ t’ odo. (Inf. xxxm) .........e ciascuno gridava Sostati tu che all’ abito mi sembri Essere alcun di nostra terra prava. (Inf. xvi) ( 201 ) Scrive 1’ anonimo autore di una Storia Romana e della Vita di Cola da Rienzo , onde fu contemporaneo e partigiano : « In questo tiempo comenzao la iente esmesuratamente mutare aviti sì de vestimenta, sì de la perzona. Comenzao a fare li pizzi de li cappucci longhi. Comenzao a portare panni stretti a la catelana , e collari, portare scarzelle a le correie (corregge), e in capo portare cappelletti sopra lo cappuccio. Po' portavano varve granni e foite (barbe grandi e folte), come bene janetti spagnuoli vuoco seguitare. Denanti questo tiempo, queste cose non erano anco. Se radevano le persone la varva, e portavano vestimenta larghe e oneste ; e se ciascuna persona avessi portata varva , fora stato avuto in sospietto de essere homo de pessima rascione, salvo non fussi spagnuolo, o vero homo de penitentia. Hora ene mutata connitione (conditione), idea, deletto. Portano cappelletto in capo per grande autoritate, foila varva a modo de eremitano, scarzella a muodo de pellegrino. Vedi nova devisanza! E che più ene , chi più non portassi cappelletto in capo, varva foita, scarzella in centa, non ene tenuto cobelle, overo poco, overo cosa nulla. Granne capi-tagna è la varva. Chi porta varva ene temuto (*) ». L’ uso del cappuccio , antichissimo nondimeno , durò più a lungo d’ ogni altro abbigliamento, il quale siasi venuto nella età di mezzo introducendo ; e la maggiore o minor quantità di pelliccie ond’ era ornato, serviva a dar ragione del grado di chi lo portava. 1 cappucci della gente di bassa condizione erano infatti ampii , appuntati e sprovveduti di pelli ; ed il portarlo abbassato senza di queste , era segno di lutto. Comodo abbigliamento in inverno , abbandonavasi tuttavolta al sopraggiungere della calda stagione ; e allora invece si faceva gran Anche nel 1435 , fra le vesti prese da’genovesi alla (lotta d’Aragona si nota: gona panni miscti foderata camocati nigri, more siculo ( Galearum introitus et exitus anni 1435; Archivio di S. Giorgio). (!) Muhatobi , Antiquitates Italicae, vol. in, col. 308. ( 202 ) mostra di cappelli, i quali erano di cuoio, di bevero o caslorc, di panni d’ oro, di lana , ovvero anche di paglia foderata di seta. L uso di questi si dice recato di Spagna ; ma in sul principio del secolo xv ebbero molta rinomanza quelli di Fiandra. Nel I33G Amedeo VI, duca di Savoia, comperava da Raffaele Di Negro, genovese, un cappello guernito di grosse perle e rubini, per farne dono al Re di Francia, e lo pagava ben mille ducati d oro, cioè franchi 22,295 dell’ odierna moneta (*). Lo che prova la straordinaria ricchezza di siffatto oggetto; il quale forse non ha riscontro neppure in quello, che 1’ anno stesso appariva tra gli splendidi presenti fatti a Lionello d’Inghilterra, nel solenne banchetto datogli da Galeazzo Visconti in Milano, e celebrati da’ contemporanei in prosa ed in verso. Carlo il Temerario aveva pure un cappello coperto di pietre preziose e di perle, alla battaglia di Granson, dove morì nel 1476 (2). L’inventaro del monastero de’santi Giacomo e Filippo all’Acqua-sola, redatto il 14 luglio 1497, ricorda anche esso un piccolo cappello, ricco di perle e di cristalli (3). Ruonapace cappellaio è notato in carta del 1245 (4). In un inventaro del 1389 , si registrano quattro cappelli di paglia ; de’ quali uno colle insegne de’ Mosca e degli Albaro, uno vermiglio, e due bianchi, nuovi e belli (novi et pulchri) (5). Francesco arcivescovo Turritano (1397) avea un cappello (*) CiBR.vmo, ii , 336. (2) Sacciii , op. cit. p. 55; Guenebault, Dici, iconographique, vol. i, p. 239. (3) Muzio, Apparato dell’istoria dei monasteri di san Domenico, ms. della Civico-B rianu. Una grida del 1488, eh1 manoscritta conservasi presso il già ricordato sig. avv. Gaetano Avignone, proibisce alle donne i cappelli di seta e le berrette ; ma loro consente quelli di feltro, di paglia e di piuma, foderati di taffetà, alla condizione però che non possano adornarli con medaglie d’oro e d’argento, o con altro qualvogliasi oggetto. (4j Giornale Ligustico, v. 391. (5) Fol. Not., voi. e par. ii, 158. ( 205 ) nero (') ; e Francesco vescovo di Mariana possedeva (1387) un cappello di cuoio , una cappa di colore pavonazzo col cappuccio di candide pelli ; un mantello di biavo , con foderatura di panni bianchi , ed un cappuccio foderato di nere pelliccie (2). Del 1390 si nota un cappuccio vermiglio (3), e del 4 392 si fa memoria di una tunica di scarlatto con pelli bianche (*); d una pelle di martora , una. giubba di clamellotto nero con pelli di lupo cerviere, due cappucci neri e tre di biavo (5); e del 1 433 si registra un cappuccio di panno nero, con maniche (6). A difendere dalla pioggia avanti che si adoperassero generalmente le ombrelle, servivano in ispecie i cappelli di lana, i cubani o gabbani, le gausape (7). Nel 1271 Filippo Della Volta lega a Giovanni suo parente gascapum foratum, ed a Burone Della Volta gascapum ab acqua (8). Nel 1467 si vendono ai pubblici incanti cappas, cabanos, caligas et alia huiusmodì (9). Finalmente , soleano gli uomini ornarsi ai colori delle altrui (') Fol. Noi., voi. c par. u, 144. (2) Id. ibid., 143. Il Simidei non registra questo vescovo, ma pone in sua vece frate Nicolò genovese dell’Ordine dei Predicatori, che eletto nel 1366, mori nel •I390. Probabilmente Francesco era vescovo scismatico, al paro del metropolita di Torres. (3) Fol. Not., voi. e par. il, 161. (■*) Id. ibid. 146. (5) Id. ibid. 147. (6) Id. ibid. 114. (7) Le ombrelle, così per difendere dalla pioggia come dal sole, cominciarono ad usarsi segnatamente nel secolo xvi, benché tuttavia rozze e pesanti, a Et a propos de » pavillon (scrive Enrico Stefano, Dialogues etc., p. 167), aves-vous jamais veu » ce que portent ou font porter par les champs quelques seigneures en Hespagne » et en Italie, pour se defendre non pas tant des mouches que du soleil? Cela » est soustenu d’ un baston , et tellement faict qu’estant ployé et tenant bien peu » de place, quand ce vient qu’on en a besoin, on l’a incontinent ouvert et eslendu » en rond , iusques à pouvoir couvrir trois ou quatre personnes t. (8) Belgrado, Documenti sulle Crociate di Luigi IX, p. 335. (9) Fol. Not. iv , 086. ( 204 ) divise , lorché volevano rendere a qualche principe o signore omaggio ed onoranza. Nel 1403, essendo venute a Genova la moglie e la sorella del regio governatore Giovanni Lemeingre, molti cittadini vestirono di panni bianchi e verdi, che tale era appunto I insegna del Bucicaldo , e il Comune fece loro un presente che valeva due mila lire (•). Trovo pure, circa un secolo appresso (1506), che Filippo di Cleves signore di Raven-stein , recandosi ad assumere il governo della Repubblica in nome di Luigi Xll , fa assai onorevolmente ricevuto da una compagnia di cento giovani popolari ; i quali tutti indossavano una veste di seta ad una foggia (2). Nè in mezzo a tanta pompa di pelliccie e di drappi, mancavano forse i genovesi d’ alcune cose necessarie a condurre soavemente la vita , e che pure difettavano appo la maggior parte dei popoli di que’ giorni. 1 quali è fama che dormissero ignudi , e raramente anche di giorno vestissero le camicie. Di queste, come già vedemmo de’ lenzuoli, è memoria frequentissima nei registri delle confische a’ ribelli ; e trovo che i genovesi, quando erano signori di Calìa, donarono di più camicie e clamellotti il Signore di Surcato ed altri parecchi, il barone ed il medico del Kan de’ tartari, e i loro ambasciadori (3). (') Giustiniani, voi. n, pag. 227. 11 somigliante aveano fallo a Perugia le donne, quando Biordo de’ Miclielolli (4397), signore di quella e delle circostanli città, condusse in moglie Giovanna Orsini ; perocché moltissime fra loro vestirono alla divisa di Biordo (Cantù , Storia degli italiani; voi. ni, pag. 276). (2) Giustiniani, n , 618. (3j Fra le molte partite che si leggono a questo riguardo nel solo Cartolario della Masseria di Cada pel 1381, scelgo le seguenti, notate sotto i giorni 30 marzo, 26 giugno e 3 settembre : Pro guirardo fodralo, et sunt prò predo unius clameloti et unius camicicie (sic) datis uni nuntio domini imperatoris tane........Asp. 68. Pro Jolianne liicio, et sunt prò predo de clamelotis duobus et tellis duabus datis duobus nunciis domini imperatoris tane........^sp. 299. Pro precio de camiciciis duabus dutis .... domino Elisabeo (il Signore di Sur-calo)......................Asp- 72. ( 205 ) La tela poi di che facevasi a Genova il maggiore commercio , olire quella che fornivano le fabbriche nazionali, deriva-vasi di Lombardia e di Lamagna ; ma quella di Costanza godeva su tutte la preminenza ('). Riassumendo ora le promesse notizie , si riesce a dedurne la conclusione : che i genovesi, generalmente parlando , non abbandonarono, nè per lunga stagione in modo notevole riformarono il vestire, che già era appo loro introdotto nel secolo xii. Il correre dietro alle foggio straniere, qui come altrove, fu per molto tempo privilegio dei damerini, i quali con ciò miravano a cattivarsi 1’ attenzione delle dame ; e la toga non venne difatti abbandonata innanzi che il secolo xvi pervenisse al suo mezzo ; allora quando cioè, non che il vestire, i pensieri si acconciavano e torturavano nella imitazione degli stranieri ; e 1’ Italia, con troppo lunga e dolorosa vicenda, si palleggiava tra la servitù della Francia e della Spagna. Del quale mutamento, Paolo Foglietta, germano allo storico Uberto, che gli diè posto meritato negli elogi dei liguri illustri, acremente biasimava i proprii concittadini in quindici sonetti genovesi pieni di brio e di verità; 1’ uno de’ quali comincia: Quando re toglie uxava esta citlò , Che aspetto ai hommi fan de citten lioin , Pareimo tutti Tullij e Salamoin , E ogni citten mostrava gravité. (') Nel -I216, canne 152 '/2 ('> tela Costanza si vendono lire 32 (Fol. Not., vol. 1, car. 191); e nel 1398 balle 13 di tela di Valenza di Lombardia (a pezze 20 per balla , e così in total : pezze 260, misurando ogni pezza 9 canne) si valutano lire 2'e soldi 16 genovesi per ogni pezza; ed ascendono perciò a lire 728 (Fot. Not., voi. e par. ii, 149). Ricciardino Becario liniaiuolo è citato in carta del 1345 (Giornale Ligustico, V, 391). Due camicie antiche di tela, si enunciano nell’ inventaro dei beni del già citalo G. B. Rocca (1725). Costui aveva un tempo ospitalo in una sua villeggiatura il Re di Spagna ; e tra gli oggetti di vestiario quell’ atto ricorda : « Un vestilo di panno argentino , cioè marsina guarnita d’ oro, con sua sottomarsina di veluto cremesi pure guarnita d’ oro, che si fece in tempo che ebbe a ricevere Filippo V in sua casa a Voltaggio ». ( 20(1 ) Ma con questi vestì desbardellè, Aura paremo tutti scarlafoin E soavizzi, e sodò tagiaeantoin E no citten de tanta gravitò ('). Tiene dietro al Foglietta quel robustissimo ingegno d’Ansaldo Gebà ; il quale, avendo in giovinezza tradotti ed annotati i Caratteri di Treofrasto (2), non raramente pigliò occasione dalle parole del greco filosofo , per mordere i costumi dell’ età sua. E però così ragiona di quegli spiriti gretti e meschini, che del vestire si pavoneggiano : Colui che indosso ha calze alla spagnuola, o il farsetto lavorato « si va con tanta sollecitudine avvolgendo per la città, che tu non puoi abbatterti a chiesa , a piazza od a cantonata dove tu noi vegga. Né bisogna mica che tu pensi di spacciartene, senza venirlo tutto considerando da capo a piede ; imperocch’ egli, hor con 1’ a-prirti il mantello , hor col piantartisi davanti a modo di bastione, e bene spesso stringendoti con le guatature e con gli schiarimenti , tei vien richiedendo con tanta efficacia, che ti parrebbe gran villania a negargliele. E trovansi anche di quelli, che , volendo trarviti per bella necessità, come che non hab-biano teco molta dimestichezza, o forse non t’abbiano parlato altra volta, ti si fanno incontro , senza che pure gli guati, e fin che tu non habbi annoverato questi trapunti, o forse anche quanti punti s’ abbia il fregio della loro cappa, o 1’ orlo della sua manica, ti vengono picchiando si bene col corpo dell’ Impresa, o col favor della Dama, che non fai poco guadagno , se tu ti parti da loro col capo intero (•’) ». L’ instabile moda per altro esercitava specialmente, cosi a (') Rime diverse in lingua genovese; Pavia 1583, p. 21; Torino, 1612, p. ii. (2) Li pubblicò più tardi, cioè nel 1620, dedicandoli al cardinale Federigo Borromeo. (3) Ceba’, Caratteri di Teofraslo, p. I7I. , ( 207 ) que’ tempi come al dì d’ oggi, il suo tirannico impero sul sesso gentile ; il quale mutava pertanto rapidamente acconciature, abiti e fogge, secondo che valgono a dimostrarcelo i documenti , le storie e le opere d’ arte (’). Una tela del secolo xiv, che si ammira all’ingresso dell’Archivio di san Giorgio , raffigura la Fortezza e la Giustizia ai lati dello scudo di Genova ; le quali indossano una veste di broccato assai ricca di opera , aggiustala alla vita , impomellata e guarnita di perle ; e, benché lunga, stretta e senza pieghe, per obbedire all’ usanza. Del 1303 notavasi infatti come di singolarità la cotta della Signora di Chiaramonte , per la ragione che era tota frontiata (-). Ma quella moda non andò innanzi gran pezza, e venne posta da banda , per risorgere , s’intende, coll’ andare degli anni, e con perpetua vicenda , secondo che in tal genere di cose dettano 1’ instabilità ed il capriccio. Si presero invece ad usare larghe e lunghe vestimenta di velluto , ovvero di panni serici dorati o broccati , con ampie maniche pendenti fino a terra, aguzze a mo' di scudi ; ed è appunto con tale abbigliamento, che vedesi ritratta quella statua di donna , la quale decora la facciata del già ricordato palazzo Spinola, in piazza Fontane Morose. Un diadema inoltre le cinge la fronte , e s’incrocia sui capegli all’ orientale ; un sottil velo le scende dagli omeri, e le è affibbiato da un bottoncino sul petto ; un manto le cade sfarzosamente insino ai piedi. Nel secolo xm , ogni donna ben costumata aveva , ad esortazione de’ frati predicatori, impreso a coprire il capo d’ un (*) Per coloro che fossero vaghi di apprenderne alcuna cosa fino dal secolo xii, torneremo a citare il prezioso testamento di Alda Burone [(1156). La quale fa legato di due palludelli o manti, di un busto, di una giubba di cendato, e di una veste di dimito con maniche (cum braciale). Il dimito era un drappo fine a due licci , o teleria di bambagia ; e specialmente usavasi per soppannare gli abiti. (2) Cibrario , ii, 78. ( 208 ) velo o tovagliolo; nè l’uso venne a mancare, che intorno la metà del successivo. Me ne forniscono ancora notizie un instrumento del 1312 , ove s'inventarizzano capitergia octo alba, capitergia recamata duo (*) ; un atto del 1317, ove si fa memoria di tre tovagliuole pel capo (2), e due documenti infine del 1350 (3). Antichissimo pure è 1’ uso del mezzaro ; talché due inventari 1274 e 1321 registrano mesarum unum listatimi (*), e mesarum unum prò domina (5). Ma coll’ avanzarsi del già detto secolo xiv , lasciate in disparte le tovagliuole e abbandonatane al volgo 1’ usanza, le dame portarono invece sul nudo capo ricche trecciere, o terzuole, così appellate perchè composte di 300 perle ordinate in tre file, e corone d’ oro, o d’ argento dorato, con gemme e perle carissime ; finché nel quattrocento sostituirono alle medesime le cuffie o reticelle a filo di refe o d’oro filato, le lodi delle quali cantò di poi sì bene il Firenzuola, nel Madrigale indirizzato a Camillo Tonti. Deh come oltre all’ usalo divien bella Madonna , allor che le sue chiome bionde Una cuffia di lin semplice asconde. Vidi 1’ altr’ ier scherzar ben mille Amori In quel bell' occhio, che dinanzi pianse Con bianco refe un ago dammaschino ; Vidi seder le Grazie in quei lavori, Co’ quai vaghezza dintorno la cinse, E con bei modo dipingerle il crino ; La cordella sotlil, che ’l fronte strinse Con quel nodo gentil, parca dicesse : (') Not. A.mbhogio di Rapallo, car. 10. (2) Fol. Not. , voi. in , par. ii, li. (3) Id. ibid. car. 129, 188. (4) Notulario di Stefano di Corrado da Lavagna , car. 23. (5) Fol. Not., voi. in , par. ii , 9. ( 209 ) Quinci m’ lia poslo Amore Aecioccir io leghi a mille ainnnti il core. fi se ben drilto di veder procacci, Tra quei merluzzi e quella reticella Vi scorgerai mille amorosi lacci, TMille punte d’Amor , mille quadrella ('). Riferisce Giovanni Masso nella Cronaca Piacentina, che le terzuole valeano dai 100 ai 125 fiorini d’oro; e le corone ne costavano dai 70 ai 100 (2) ; e tanto era vivo il desiderio d’ornarsene , che la gente mezzana, comecché patisse disagio di moneta, pur si sforzava di imitare quelle grandezze ; e non potendo avere corone d’oro e di perle , portavaie di seta, di vetro o di carta colorala (3). Un inventaro del 1497 ricorda due trecciere, di cui una con quattro (ila di perle ; e due corone imperlate e gemmate (5). Nè è da tacersi che le figure del quadro sovra citato , al paro della statua della Spinola , portano anch’ esse corona ; e (') Firenzuola, Opere. Lemonnier ; voi. n, pag. 251. Nel secolo xvi 1’uso delle reticelle erasi talmente propagato, che già in Francia le dame di quella Corte ne erano disgustate , e proponevansi di abbandonarle alle fanciulle di villaggio (Dialogues da nouveau langage françois etc. p. 152). Allora poi come al presente, in cui ne è risorta la moda, meseolavansi bene spesso entro le reticelle a’capegli naturali delle treccie tolte a prestanza. Ma di ciò niuna maraviglia, perocché il vizio ha troppo lontana radice. 11 satirico Marziale diceva già di una dama : ìurat capillos esse , quos emit, suos — Fabulla : numquid, Paulle peierat ? Nego (Epigramata; lib. vi, ep. 12, de Fabulla). Ed Ovidio scriveva: Femina pi ocedit densissima crinibus emptis, — Proque suis alios efficit aere vos (Artis Amatoriae lib. m, ver. 165, 168). Inoltre, e che è più, lo stesso Marziale fa pure menzione dei denti posticci, cd ha questi versi: Dentibus atque comis, nec te pudet, uteris emptis. — Quid facies oculo, Laelia ? Non emitur ( Epigramata ; lib. xii , ep. 25 in Laeliam). (2) Johann, de Mussis, Chronicon Placentinum ; apud Muratori, S. R. l.xvi. 580. (3) La cura che hanno i nolari di specificare nei loro atti le perle veraci, mostra quanto grande fosse l’usanza delle false. (4 ) Muzio, Apparato dell’istoria dei monasteri dell'Ordine di san Domenico in Genova, Ms. Inventaro dei beni di quello dei santi Giacomo e Filippo all’ Acquasola. 14 ( 210 ) I ha pure quella della vergine libica espressa nella tela di san Giorgio, dipinta da Luchino di Milano per l’Uffizio del 1444('), e nel maggior numero di que’ bassi rilievi che rappresentano il trionfo del santo cavaliere sul dragone di Libia. Inollre, un estimo del 1433 fa menzione di un pettine d’ elefante, ossia d avorio (2). Ma rara cosa al certo doveva essere una ghirlanda intrecciata di perle e vaghe penne di pavone, della quale si fa cenno il 1348, nell’ elenco dei beni lasciati da Alerame Lercaro ; ed è la più antica memoria dell’usanza di penne, che m abbia io rinvenuta (3). Nel medio evo il pavone , vestito delle pompose sue piume, e portato d’ ordinario sur un bacino d’ oro o d’ argento da vezzose damigelle ne’ più splendidi banchetti, era una imbandigione misteriosa e di grande solennità. Sovr’ esso i cavalieri e scudieri stendeano le mani, per far voti cavallereschi ; e quando le dame aveano a designare il vincitore nelle tenzoni de’ trovatori, o nelle gare dei poeti, che nelle corti bandite trovavano facili argomenti a cantare il valore e la galanteria, gl' incoronavano il capo con le penne di questo maestoso augello (l). Nel 1388 la legge suntuaria di Firenze proibiva alle donne l’usar le piume del medesimo ad ornamento delle vesti, ma consentiva che potessero inghirlandarsene (5). Più lunga e particolareggiata descrizione del costume onde ho testé fatta parola , si legge nell’ opera di Cesare Vecellio. « L’ abito antico di Genova, delle donne (dice egli), era che portavano due vesti , una delle quali era corta fino alle ginocchia , aperta dav fianchi, cinta sotto al petto; 1’ altra era più* (*; Anche questo quadro, dipinto a tempera, si conserva nell’Archivio di san Giorgio. Al basso della tela è scritto in caratteri gotici : hoc opus fecit fieri spectabile OFFICIUM SANCTI GEORGII MCCCCXLIIII. LL'CIIINUS DE MEDIOLANO PINSIT (SIC). (2) Fot. Not., voi. e par. ii , 114. (3) Id. voi. ni, par. 11, 125. (4j Cibrario, Ec. Poi. n, 70; Saccui, op. cit. 88, 94. (5) Salvi, Hegota della famiglia del B. Giovanni Dominici, pag. 226. ( 2H ) lunga , senza busto , di seta tutta listata di velluto di diversi colori. Usavano ancora alcune nn grembiale davanti del medesimo , o di tela sottile con altre liste simili. Le maniche delle vesti erano mollo larghe et crespe fino al gomito , ma da quello in giù fino alla mano erano strette et aperte, dove pendevano le bianche maniche della camicia , che per essere tanto larghe facevano alcune crespe. Portavano i capelli sparsi giù per le spalle , ma pure alquanto involti et legati, che del tutto non cascavano alla distesa, et in mano un cappello per difendersi così alle volte dal sole come anco dalla pioggia (') ». Ma al sopraggiungere dell’ inverno, portavano anch’ esse il cappuccio , che era comunemente di velluto o di seta. Raccomandavano ad una assai larga cintura di seta , di marroc-chino , ovvero di preziosi metalli e di gemme , un coltellino guarnito d’ argento appeso ad un nastro (2), ed una borsa della stoffa anzidetta, di velluto o di cuoio, ricamata, e chiusa da annelli d’ oro, in cui solevano custodire il denaro, le forbici d’ argento , l’astuccio ricamato con entro le spille, ed altri oggetti necessari ed appropriati a’ domestici lavori (3). Una sentenza colla quale i vice-dogi di Simone Boccanegra compongono nel 1359 una lite vertente fra le arti de’ mereiai, bor-sieri, guantai ecorreggiai, stabilisce che questi ultimi possano vendere scarselle, borse e borsellini, coltelli con astucci e senza, berretti e guanti, i quali erano di cuoio lavorati di seta (4). (') Vi: gel lio , il abiti antichi e moderni, n.o 183. (2) Due inventari del 4312 c 13G1 ricordano: Cultellum unum de latere fur-nitum de argento (Not. Ambrogio di Rapallo, car. 10); gladii duo parvi cum manie s de argento prò domina (Fol. Not. , voi. m, par. ii, 255). Ed altro del 1433 : par unum gladietonnn argenti prò domina, par unum forficetarum pio domina. Queste ultime pesavano once 9 e denari 6; valevano lire 12 e soldi lo (ld., voi. e par. n , 114). 1.3) Il 1395 si sequestrano in casa di Franca da San Martino : bursia una septe prò domina talis qualis, cum amilo uno aurì rotondo ; alia bursia pana re-luti (Registro di confische a’ ribelli). (4) Fol. Not., voi. ni, par. ii , 256. ( 5H2 ) Dante Alighieri, volendo encomiare 1’ aulico e dimesso vestir sobrio de’ fiorentini, ci mostra aneli’ esso in quanto pregio fossero appunto a’ suoi dì tenute le cinture, quando fa dire al suo trisavolo Cacciaguida : Fiorenza1, dentro dalla cerchia antica Ond’ ella toglie ancora sesta e nona , Si stava in pace sobria e pudica. Non avea catenella , non corona , Non donne contigiate, non cintura Che fosse a veder più che la persona (’)• E le cinture di Genova eransi acquistate meriti e fama si da lungi, che del 1455 il Governo inglese avendo proibite le seterie forastiere, eccettuò queste nostre manifatture: favore, conclude il Serra, probabilmente dovuto alle rimostranze di un sesso , che non ignora quanto un bel cinto ha grazia (2). Del 1348 si nota una cintura d’argento, fregiata degli stemmi Lercaro ed Alpane (3) : e del 1433 un’altra d’argento dorato , del peso di una libbra e nove denari (*). Antica è l’industria appo noi de’fregi o merletti d’oro, d argento, di seta ; ma ne’ primordi 1’ uso di questi fu quasi ri- tO Dante, Paradiso, xv, 97 e seguenti. (2) Serra , Storia dell’antica Liguria e di Genova; Discorso IV. A Genova ì tessitori di cinture (cendaderii, dal verbo latino cingereJ erano ripartili in varie corporazioni, secondo le foggie diverse del tessere. Cosi del 1443 si ha memoria di alcuni capitoli particolari, emanati dalla Signoria, prò arte textorum cintorum ad tcrelos, prò arte cintorum ad tabulas (Pandecta etc. J ; e si ha notizia di Nicolò Assereto e Gio. Battista di Padova, consules textorum cintorum a torellis, non che di Bartolonimco Parodi e Francesco Basso , consules textorum cintorum a liciis (Fogliazzo d’atti dei PP. del Comune, dal 1481 al 1489, num. 3, nel-I' Archivio Civicoj. Per deliberazione del 22 giugno 146-4, i Proiettori delle Compere di san Giorgio , assegnano una provvigione mensile a Giorgio Galletto tessitore di cinture, ed a Leonardo Galletto maestro cinturalo, dimoranti in Caffa (Litterarum Officii S. G e orgii, an. 1463-73). (3) Fol. Not. , voi. in, par. ii, 125. (4) Id. voi. e par. il, 114. C 21.3 ) stretto al guarnimcnto de’ letti , come ne abbiamo a suo luogo recati esempi. In atto del 1313 Guglielmo di Steneri accorda sua figlia con Imelda Gali lizzi di Genova, causa adiscendi artem faciendi frixios et incidere folia auri ('). Nel secolo xv però , presero anche ad usarsi come adornamento delle vesti ; e poco stante con que’ lavori, che vantavano ricchezza di materia , gareggiarono le trine o larnete di candido refe , per invenzione e per arte sommamente pregevoli e ricercate. 1 paesi di Albissola e Santa Margherita ne fornirono in gran copia , e di sì eccellenti, che la mignonetle , la campane e la guipure uscite dalle nostre fabbriche, ed alle quali davano ancora risalto 1’ oro e 1’ argento , figurarono di buon ora alla Corte di Francia (2). 11 Gualdo loda i ricchissimi collari di punto in aria sopraffini, che in Genova si lavorano ottimamente bene ed in quantità (3). Giova pure ascrivere al quattrocento la invenzione delle più strane acconciature del capo , e la profusione che allora vi si fece degli unguenti e delle essenze. San Bernardino da Siena- rimprovera, in una sua predica, alle donne genovesi, (') Not. Ambrogio di Rapallo, an. 1312 in 1314, car. 87. (2) Merli, Origine ed uso delle trine a /ilo di refe, p. 8. In Francia, nel-1’ anno 4675, c per op ra del gran ministro Colberl, si stabili cen regie lettere patenti una gran fabbrica di merletti ; ma altre lettor,', volendon • assicurare la durata, - proibirono (1684) i merletti di Venezia, G nova e Fiandra. (V. Nuovo Dizionario Universale Tecnologico, voi. vm. p. 268 ). Una Prammatica deliberata della Repubblica di Genova il 17 marzo 1705, e pubblicata colle slampe dello Seionico (pag. 3) , proibisce « nelle vesti delle donne . . . tuiti i pizzi , o sia merletti di seta, a riserva de’ pizzi di scia nera semplicemente fabricati, e come si dice a caviglie, purché non siano crespati e non eccedano nel numero due ordini, c nell’ altezza , compreso il contrapizzo, un palmo. Nella proibizione suddetta si comprendono gli habili degli huomiiii, e solamente si permette in quelli un ordine di pizzi, il quale, compreso il conlrapizzo, non ecceda in altezza un palmo c mezzo , che però sia senza crespalure o altri intrecciamomi, et i pizzj siano semplicemente lavorali , come si è detto a caviglie ». (3) Gualdo, op. cit., p. 162. ( 214 ) I’ uso soverchio del muschio ne’ capelli (') ; ma il biasimo del sacro oratore si rattempera in un sermone di frate Girolamo Savonarola, il quale trovavasi bene al fatto delle usanze di Genova, avendovi predicata la Quaresima del 1490 (2). Peroc-ch'egli nella predica X detta a’ fiorentini sopra Michea, esce in queste parole: « lo ho bene inteso una cosa, non so se ella sia vera, che voi avete fatto che le vesti delle donne vadino dua dila più giù che la sontanella. A che proposito questo? Io non resterò, anzi canterò sempre su questo pergamo, e griderò se questo è vero. Andate a Genova, e vedete come vanno quelle donne tutte chiuse; sì che s’egli è vero racconciatela ( l). Torna qui utile radunare la nota di parecchie vesti, ond è sparsa memoria in più documenti. Tali sono: un sospitale lungo, un bxrracame sottile, due giubbe di cendato giallo e vermiglio, un palludello di bambagio, una tunica verde, una guarnacca di ciambellotlo ed una di pelli d’agnello, non che una pelliccia di conigli (1214); quattro cappucci foderati di cendato (131/); una gonna vermiglia, e un epitogio, o soprabito, di biavo con foderatura di pelli volpine (1350); un mantello di cammellotto \ii-galo, una tunica bianca, un’epitogio ed un cappuccio di scarlatto, con diciasette bottoni moscariati (1384); un cappuccio di velluto nero, con fregio di damasco e tredici bottoni, un epitogio lotondo di scarlatto/guarnito di perle e soppannato di morbide pelli, con fui b'ilì (rota) d’ermellini, un epitogio di grana collo strascico ossia coda, cum cauda (1388); un mantello di ciambellotlo vermiglio, con frappe gialle di cendato, ed uno di camocato bianco foderalo di \aio, una gonna di velluto chermisino soppannata di tela rossa, una di broccato d’oro foderata di vaio, ed una cappa dipinta (1392) ( )> I1) Anche Paolo Partenopeo, nell’orazione detta il 20 febbraio 1336, parleremo più innanzi, accenna con biasimo agli esotici unguenti ed alle ess adoperale dalle donne genovesi (p. 478). (2) Marchese, Scritti vari; Firenze 1860, voi. i, pag. 436. (3) Savonarola , Prediche ; Venezia 1340 , p. 132. (4) Nolulario di Lnwco Porta, vol. i, car. 20 recto; Fol. Not., voi. u, Par' tl> ( 215 ) ossia, molto probabilmente, con figure d’animali chimerici, di scudi, ovvero anche storie a colori, come usarono pure gli antichi, ai quali l’ante piumaria, cioè del tessere sui drappi le penne variopinte degli uccelli, era assai nota. Nell’evo medio le stoffe destinate a questo genere di vesti, appellate allora oc-cellatae e scultatae, portaronsi in ispecie dall’Oriente ('). Nel celebre trionfo seguito a Lucca il 1326, Caslruccio Castracani appariva arredato ad insegne d’ostro e d’oro, e indossava ricche vestimenta sulle quali erano dipinti alcuni molli di grandigia, ed i fatti della sua casata (2). Giovanni Villani riferisce che nel 1330 essendosi provveduto in Firenze al lusso delle donne, venne fra le altre cose ordinalo che non potessero elleno portare nullo vestimento intagliato, nè dipinto con niuna, figura, se non fosse tessuto’, e dal Vasari sappiamo, che tra’ lavori eseguiti da Perino del Vaga pel Principe D’Oria, aveanvi pure i disegni cV alcune sopravvesti (3). Diverse minute prescrizioni intorno agli oggetti di vestiario leggonsi nello Statuto del 1403, e gioverà riferirle. Pel taglio e la cucitura d’ogni gonna di velluto di lungo pelo, per dama, saranno pagate due lire, e la mercede s’accrescerà di due soldi ove si tratti di sposa; per una gonna di velluto pisano, oppure di camocato cremisino, una lira e 15 soldi, ovvero lire due secondo la distinzione preaccennata; per ogni gonna di qual-vogliasi camocato o drappo di seta, e per ogni tunica o mantello di ciambellotto, sia d’uomo o di donna, lire una e soldi 5, ovvero 15; d’ogni gonna o mantello di grana soldi 10 a 18, oppure 20 a 24; e d’ogni mantello o tunica d’altro tessuto qualsiasi car. 134, 146, 147, 153; vol. ni, par. ii , car. 14, 188. Nelle Pandette Ri-cheriane dei Regii Archivi di Torino ( Carte di Genova ), si trova citato sotto il 1430: Baldus de Luca pictor 'pannorum sericorum. (‘j Jubinal, Recherches, etc. (2) Sacciii , op. cit., p. 104. (3) Vasaiu , vol. x, p. 172. ( 21<3 ) dagli 8 ai 12 soldi. Pel lavoro d’un mantellelto di panno, da uomo, computatis omnibus avarii s excepta seta, si spenderanno sei soldi, ma il prezzo verrà duplicato quando si tratti di un lungo mantello; d'ogni tunica con gheroni, 8 soldi; per un piccolo giaco, sive iacheta, G soldi, e 14 per ogni giaco di ciambellotlo o di seta; per ogni gonna di panno cucita di cotone, e per ogni giubbone rotondo e finamente trapunto, 16 soldi ('). Già nel tratiare de’ mobili mi è avvenuto d’ entrare in lunghi ragionamenti, per ciò che s’aspetta alle orerie ed alle gioie. Onde eviterò di ripetermi; e basterà l’accennare che nello adornamento delle vesti s’impiegavano talfì ita da tre a cinque once di perle, e portavansi anella in tutte le dila, non escluso il pollice. Del 1325 fu fatto decreto in Savona, che le donne non potessero avere più d’ una tunica di broccato con frangie o trine d’oro, nè portar monili e pietre preziose il cui valore superasse le lire trecento (2). Gli stessi calzari ornavansi allora di fìbbie d’oro od argento, ed erano confezionati di stoffe ricamate, ovvero anche di tela d’argento. Benvenuto da Imola attesta, che a Genova le fornaie portavano scarpe di seta, guarnite di perle; e perfino la gente di vii condizione imitava quello sfoggio. È curioso un atto del 1336, col quale Lucia femina vagabunda, que habitat in bordello Castelieti, citata fuit ut solvat pretium unius pans caligarum viridum in solidis vigiliti ianuinorum; item unius patelle rami et unius lebetis petre in solidis duodecim (3). Per la qual cosa il Comune facea proclama (1461), con cui vietatasi alle femmine di perduto onore, che sempre dovevano essere forasiiere, l'indossare abiti e fogge all’usanza delle donne genovesi (4). (’) Miscellanee Ageno ) n. xi. Somiglianti disposizioni leggonsi negli staluli ferraresi del 1279, e ne’ lucchesi del 1484. (2) Verzellino, Memorie di Savona, ms. della Civico-Beriana, p. 159. (3) Fol. Not., voi. hi, par. ii, 37. (4) Pandecta eie., ms.; Miscellanee Ageno, vii, 61. ( 217 ) Antonio Astigiano, primo segretario ducale nella sua patria, capitato a Genova nel 1431 , rimase ammirato della frequenza e ricchezza del pubblico passeggio nei dì festivi. Le persone di qualità gli parvero tanti senatori romani vestiti di porpora, le donne tante divinità dell’ Olimpo. Anche i paltonieri ed i mendichi voleano allora scialare; accattavano da’ rigattieri un abito vecchio di seta, e, sparpagliandosi per le colline dei dintorni, attendevano a darsi tempone, sbevazzando le mercedi o le limosine con diligenza e costanza carpite all’altrui commiserazione lungo la settimana. Addc quod in festis gratum est et didcc diebus Cernere, quas pompas sexus uterque facit. Ditibus et longis ornatum vestibus omnes Cives: quique solent hic habitare viri. Et st forte aliquis tantum sit pauper, ut ipsi Non sit judicio vestis honora suo , Commodat huic praetio vestem usararius amplam, Qua tantum festa fungitur ille die. Si videas cives, ut fit plerumque, coactos, Et teneat multos una platea viros : Esse senatores romanae dixeris urbis, Quos apud antiquos fama fuisse refert. Quid de matronis dicam, tenerisque puellis? Sit modo fas omnes dixeris esse Deas. Tantum formosas , tam pulchris vestibus illas , Talibus et comtas moribus esse puta ('). Ad infrenare il generale trasmodamento, più volte il Comune mandò fuori austere leggi e divieti. Nel 1402, impose una tassa, o, come allora dicevasi, gabella, su quanti adornavansi di perle ne’ guarnimenti delle vesti e del capo, ad eccezione dei giudici, de’ medici e dei chirurghi, non che delle fanciulle e delle spose, per le gioie onde si fossero provvedute nelle prime tre settimane del matrimonio (*). Nel 1443 fe’ proclama contro le pompe ec- (*) Automi Astesani Carmen, cap. vm. V. Muratori, S. /(, I. xiv, 1016. (2) Giustiniani , voi. n , p. 225. La forinola dell’ appalto di questa gravezza, leggesi a car. 170 del codice membranaceo Institutiones Cabellanm dell’ Archi- ( 218 ) cessive delle donne ; un biennio appresso ripubblicò quella grida ('), ed altre molte le vennero dietro, sino a due per ogni anno(). Nel 1452 proibì le ricche cinture (3), e nel successivo le collane e catenelle di metalli preziosi. Più lardi però (1488; si accontentò di temperare lo sfoggio soverchio così di queste come dell’altre gioie (*); e nel tempo stesso dettò minutissime prescrizioni, per vio di San Giorgio ; e ne apprende che chiunque usava perle dovea dichiararne il valore nel primo mese dell’ appallo medesimo. La precezione dell’ imposta era così regolata : Lire 0. 12. 6 quando le perle non eccedevano il valore di 100 lire; L. 1. 17. 6 da lire 100 a 400; L. 3. 15. 0 oltre le 400. I fanciulli e le fanciulle al di sotto del primo lustro pagavano poi un diritto fisso di soldi 4 2 V2. Puelle autem etatis annorum' sex, et ab inde supra ad earum maritare, non teneantur ad solutionem presentis introitus pro perlis quas portaverint tam in capite quam in dolso peu supra vestibus, nec etiam domine portantes in collariis vestium suwum mandillos sive pomos perlarum quicumque cuiusvis valoris fuerint. Dal codice Cubellarum omnium Introitus annor. 1408 in 1445 (Archivio citato) rilevo che 1’ annuo ricavo della vendita di questa gabella non fu mai inferiore alle lire 500. 11 prodotto massimo si verificò nel 1414 in lire 1510; il minimo dal 1427 al 1430 in lire 515. Nel Rymer (Foedera, conventiones, etc. vol. v, par. iv, p. 36) leggesi un privilegio, in data di Westminster 14 ottobre 1491, col quale il re Enrico vii concede a Cipriano De Fornari e Paolo De lllionibus, mercanti genovesi, la facolta di poter condurre e smerciare nel suo Regno ogni sorta di diamanti, perle e pietre preziose , collari et jocalia cuiusvis factionis. (') Pandecta etc. ms. (2) Ibid. I registri genovesi Diversorum, negli Archivi di Corte in Torino, mi forniscono notizia di leggi suntuarie emanate negli anni 1449, 1430, 44 >2, 1453, 1474, 1487 (due), 1488 (due), 1506, 1508, 1512 (due), 1316 ,'due). 4520. (3) Pandecta citala. (4) Grida ossia Prammatica del 1488, ms. presso l’egregio avv. Gaetano Avignone. Ivi si permette alle donne ed alle fanciulle superiori agli undici anni di « portare catenelle et uno denteriolo d’oro fino alla valuta de ducati 60;.... et le altre fantine di anni undeci infra non possano portare catenelle di valuta di più di ducati 30. Item possano dette donne, così maritale come no, portare una perla al collo, ovvero un gioello il quale non passi la valuta de ducali 100; et le spose possano portare un filo di perle al collo tantum, per fino al tempo che saranno menale ; e si di- ( 219 ) tulto quanto aveva tratto al vestiario ('). Ma quelle leggi e quelle proibizioni durando dall’ottobre al novembre nulla provavano, se cliiara e statuisce , -clic non si possa portare perle ad allra maniera , nè eziandio a librelli e borse. Item si è ordinato che detle donne possano portare sin a tre anclla , compreso la perla ; quali tulle tre insieme non passino la valuta di ducati 200 ; le fantine vero da undici anni sopra abbiano il grado delle spose, e possano portare ogni perla così in tesla come al collo , escluse le annella. « Più innanzi, nelle Addizioni, la Grida stessa « dichiara che alle donne alle quali per virtù delle sopra dette ordinazioni è lecito di poter portare annelle tre, esse donne possano portare tutto quello numero d’annelle vogliono, purché tutte insieme non passino la valuta de ducati 200 ». Grida del 1488 sovra citata. « Primo hanno ordinato.... che tutte le donne — debbano da qui avanti andare col petto coperto, e similmente le spalle, in maniera che vengano a coprire le due ossa davanti della gola; e la copertura del detto petto e spalle, sia del rebusto di giachette , o veste, o d’ uno colletto di seta , purché non sia cremesile, o di drappo , saia, o di seta d’ Olanda, e non d' allra qualsivoglia cosa ; perché così conviene all’ onestà muliebre. » ltem hanno decretalo, che il vestire delle donne non possa essere più lungo a due dite da terra , così la robba di sotto come quella di sopra, e così davanti come di dietro , perchè Gno a tal segno è conveniente et onesto. » ltem hanno ordinato', che dette donne non possano portare maniche di che natura se sia aperte ; ma dette maniche debbano essere chiuse da ogni banda, eccetto la parte dove esce la mano , in modo alcuno che non possano mostrare la cainiscia o maniche di quella. » ltem hanno deliberato, che le camiscie di dette donne , similmentè le maniche d1 esse camiscie , non possano essere di seta di Camblè, nè di novella , nè d’ altra cosa più sottile di seta d’ Olanda ; e dette maniche non avanzino fuora d Ile maniche della giachetta; et in quali maniche, così collaretti e manecelletti, a modo alcuno non possa essere lavoro di alcuna maniera d’ oro nè d’ argento. » ltem hanno per legge fatto, che dette donne non possano portare in testa rete nè scoflie d’ oro nò d’argento, nè tampoco in le vesti loro;.... compresi li bottoni così d’ oro come d’ argento , esclusi li cordonetti che si mettono alle vesti di seta; nò eziandio le dette donne possano portare vestimenti, nè maniche o allra cosa che sia di horcato d’oro nò d'argento.... Declarato fameliche le fantine fino a tanto che si mariteranno , e posciachè saranno maritate fino a tanto che si meneranno, possano portare una rete o cuffia d’ oro di valuta de scuti due e non più... » ltem.... che dette donne non possano portare nè usare salvo robbe tre di seta, cioè due giachette, et una di sopra, et una d’esse robbe tantum possa essere de cremesi ; e le dette giachette si intendano de palmi 38 l’ una, e quella di sopra de palmi 65 lino in 70; e si dichiara che quella persona che si eleggerà prima vice di portar detta robba de cremesi , ossia di sopra ossia di sotto, quella mede- ( 220 ) non che l’inutilità del rimedio. Non poche sono infatti le gride che vedonsi ripubblicate, a motivo della loro inosser- sima debba portare appresso e non cambiarla ; ma sc sarà robba di sopra debba portare, per ogni tempo robba di sopra , el se sarà giaclietta debba sempre portare giachetta ; el ultra le sia lecito l’estate avere et usare una giaclietta di taffetà , purché non sia di cremesi.... » ltem .... die dette donne possano solamente portare et usare fino al numero di robbe tre di drappo tra robbe e giornie, c che non possano essere di colore di paonazzo nè di scarlatta ; et in dette gone si possa mettere tantum canne 5 '/2 > computato le maniche, largo fino in palmi sei, et in le giornie canne due e palmi sei alla rata soprascritta delli drappi. » ltem .... che dette donne non possano portare maniche, brioni, nè manicclletti in che modo si sia, salvo d’ un medesimo colore et specie, et non di due colori et qualità, come pare s’ introduceva. » ltem .... che le dette donne non possano portare giachette di drappi di F10-renza , nelle quali sia più de palmi venti, clic non sia largo più di palmi sei, et nell’altre d’ altri drappi alla rata. » ltem .... non possano portare robbe di saia quali sicno più di canne / /2 j computate le maniche..... » In le robe di farfacan , computato le maniche, non si possa metter se non alla rata di quelle di sopra di seta de palmi Co in 70..... » ltem si è deliberato che le faldiglie ntìn si possano portare più larghe nel fondo , 0 da basso di palmi 9..... » ltem si ordina e manda, che decelero non si possa più fare foggia alcuna nè garibo nuovo de vestimenti, di che qualità e nome si sia 0 si potesse comprendere..... » ltem si ordina e statuisce, che li figliuoli piccolini fino all’età d anni otto compiuti, non possano portare borcato nè d’oro nè d’argento, nè tampoco me daglie, nè altre cose sopra le berrette, nè in altra parte della persona, nè cale nette, nè anelle, nè ferzo alcuno di seta; ma solamente possano portare una ber retta tanto di seta, et una robbetta di seta, cioè taffetà, et un giupponetlo di seta, et uno cento di veluto, con la sua scarzeletta di veluto, con li suoi feliciti d’argento. Ma'le figlie piccoline.... fino all’età d’anni 8, non possano portar seta , nè robbe di seta , nè borcalo d’ oro, nè d’ argento, nè cappelli, nè bei ette, nè tampoco medaglie , ne’ cos’ alcuna d’ oro nè d’argento, ma solamente il suo chiavacuore con una catenella d’oro, et un paro manegheltc di seta .... » ltem si è ordinato, che le schiave e fantesche, che stanno con aliti, non possano portare faldiglia ...., nè etiarn seta riè rete in testa, nò possano mostrare le maniche della camiscia da banda alcuna, nè possano andar scollate, ma si debbano coprire il petto e le spalle sino al collo...., nè eliam possano portare collaretti arrugati...., nè colletti in li cavelli fnora delle voette, nè capelli morti, nè possano portare salvo maniche stante.... ( 22 1 ) vanza■('). D’altra parte, come poteano i magistrati avere autorità bastevole a farle osservare, quando la corruzione era penetrala fra loro(-), e chi volea vedere la quintessenza della sontuosità, non avea che a recarsi in occasione di qualche festino al Palazzo della Signoria, per trovarvela tutta adunata? Conciossiacchè allora sarebbonsi in quella superba residenza osservate meglio che settecento dame, le quali, avvolte in drappi d’oro, mal poteano danzare per lo eccessivo peso dei brillanti e d’ogni altra generazione di gioielli. Infine qualunque arme si spunta di fronte alla ambizione della donna. Narra Francesco Sacchetti come, essendo egli del Magistrato de’ Priori in Firenze, venisse dal medesimo redarguito il pesarese Amerigo degli Amerighi, per avere lasciata passare inosservata una legge di fresco emanata circa gli adornamenti delle donne. Ma quel giudice, che, a detta dell'arguto novelliere, assai era valente nella propria scienza, così prese a discolparsi. « Signori miei, io ho lutto il tempo della vita mia studiato per apparar ragione, e ora, quando io credea saper qualche cosa, io trovo che io so nulla, perocché cercando degli adornamenti divietati alle vostre donne per gli ordini che m’avete dati, sì fatti argomenti non trovai in alcuna legge, come sono quelli ch’elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni. E’ si truova una donna col becchetto frastagliato avvolto sopra il cappuccio; il notaio dice: ditemi il nome vostro, perocché avete Ancora si è ordinato, .clic li (amigli non possano andare tantum in casa come fuori di casa .... in giuppone, ma abbino una robba, ossia scosale (grembiale) sempre davanti; e detti famigli non possano portar seta in alcun modo, nè medaglie, nè altre cose nelle beretle ; e se alle predette cose.... contrafaranno, debba esser messo (sic) alla cattena con una mitra di papperò (carta) in testa ; e se dette fantesche e schiave in alcuna delle predette cose conlrafaranno, debbano avere patte 2Ü in mezzo di Banchi ». (') Regulae Patrum Communis, nell’Archivio Civico, car. 26. 31. t2) Il 29 aprile 1483, si fa proclama contro coloro i quali con denaro corrompono i magistrati, o si adoperano a farli corrompere (Pandecta citata). ( m ) il bocchello intaglialo. La buona donna piglia questo becchetto, che è appiccalo al cappuccio con uno spillo, e recaselo in mano, e dice che è una ghirlanda. Ora va più oltre, truovo molli bottoni portare dinanzi; dicesi a quella che è trovata: questi bottoni voi non potete portare; e quella risponde: messer si, posso, che questi non sono bottoni, ma sono coppelle; e se non mi credete, guardate, e’ non hanno il picciuolo, e ancora non c’è ninno occhiello. Va il notaio all’altra che porla gli ermellini, e dice: che potrà opporre costei? voi portale gli ermellini, e la vuole scrivere; la donna dice: non iscrivete, no, che questi non sono ermellini, anzi sono laltizzi. Dice il notaio: che cosa è questo lattizzo? E la donna risponde: è una bestia. ..... Dice uno de signori : noi abbiamo tolto a contender col muro. Dice un altro : me’ faremo altendere a’ fatli che portano più. Dice l’altro: chi vuole il malanno, sì se l’abbia » (*). Ma, per tornare alle cose nostre, diremo che il grave storico Paolo Partenopeo, levando aneli’esso la voce contro l’immoderato lusso delle donne, in una sua elegante orazione pronunciata il 20 febbraio del 1536, quando Giambattista Sauli entrò in magistrato, esortava i moderatori della cosa pubblica a raffrenare una voltagli abusi, annunciando come da quegli eccessi sarebbe per derivare la rovina della patria. « Et vos, amplissimi Patres, quibus Reipublicae moderandae communi consensu habendae, traditae ac commissae sunt, vigilate, quaeso, vigilate, ne dum debiliori sexu nimis compar sit, ul mos geritur, per nimios insanos et luxuriosos sumptus tota Respublica funditus evertatur. Quorsum enim (si Diis placet) spectant tot scaenicae mitrae, tot reticula, tot histrionicae vestes, tam longa syrmata; quorsum tot monilia, tot torques; quorsum tot mimicae laciniae; quid sibi vult tanti auri et argenti indiscriminata profusio1 (') Sacchetti, Novella 137. Mei 1470 eransi vielate a Cerna le scarpe a punla allungata, e 11 robe collo strascico onde la nobiltà si divisava; ma i nobili piuttosto che obb< dire aveano abbadonala la riuà. (Cimurio, Econ. Poi. li, 81;. ( 223 ) Quul arguunt tot liubituum prodigiosae dissimilitudines? Quid, inquam, haec arguunt, nisi ut fortunae vestrae maximis laboribus et saepe capitis periculo partae, per luxum (en miserum) cum vestro dedecore turpissime absorbeantur ? . At nunc tantus luxus, tantae deliliae, tot mollieies et intemperantiae Genuae vigent, ut hic sedes, hic domicilium, hic regnum voluptatum esse videatur. Quid plura dicam? Quum per universum fere orbem de voluptate et luxu agitur, protinus in medium proferunt delitiae et luxus genuensium, 'utpole eorum quibus in voluptatum palestra primae deferrun-tur.....Jam, nisi mulierem superbiam retenderitis, temeritatem compresseritis, impudentiam atque luxum coercueritis, fore video ut brevi Respublica nostra sit peritura (') ». Gravi ed acerbe sonarono per vero in Senato le parole dello isterico della Repubblica; e forse dee riferirsi a que' giorni appunto la istituzione di un Magistrato particolare contro le pompe. Il quale però condusse una vita stentata e senza fruiti ; e fini per essere soppresso il 4 giugno del 1635 (2) ». (*) Pauli Franchi Parthenopei Annales et Orationes , Ms. della Civico-Beriana; p. 477-79. I2) L’ unico atlo che ci sia nolo di questo Magistrato, è la proposta falla al Minor Consiglio di vietare le lattughe di camicia, o, come dicevansi, sciorete. fila la proposta non venne accolta ; e, come correttivo s’ introdusse invece l’ u-san/.u di mandare i servitori vestiti di seta (V. Leggi del 4576, cap. xxxvi; Genova, Pavoni, 1617; Dizionario storico-politico, ms. della Biblioteca Universitaria di Genova, car. 65). La Prammatica del 1675 stabiliva pertanto a siffatto riguardo : « La livrea de’ paggi, stafieri e letighieri debba esser di panni di lana senza altra guarnizione che di nastri piani, sciolti però, et semplici gazze, e di moderata grandezza, non inserti nè inlrecciati nel vestilo, e senza veruna fodra di seta al mantello , escluso il bavaro, che possa foderarsi di piano di seta piana. Possano però il giuppone e le maniche essere ancora o di panno di lana come sopra guarnito di qualche trina di seta semplice, o di panno di seta piano di colore , senza però guarnizione , lavoro , bordatura , finimento nè intaglio alcuno. » La stessa Prammatica ordinava ancora: « Si osservino negli habiti delle donne le fog-gie c mode, che si usano al presente ; ed a tal effetto i Consoli dell’ arte de’sarti ne dovranno portare i modelli a Palazzo, per essere approvati dai Serenissimi Collegi ». ( m ) Anche il vestire delle donne andò-soggetto a notevoli mutazioni coll inoltrarsi del secolo XVI. Portavano un busto, o giubbone, di seia bianca o di broccato finissimo, listato a trine di seta ed oro intessute, con maniche aperte lungo il braccio, e legate da cordicelle seriche od auree. Le vesti non molto lunghe e di seta a varii colori, con ricami pur d’oro, stringevano alla vita col- 1 usata cintura, donde continuava a pendere l’elegante scarsella; e sovr’esse annodavano con brocche di gran valore un serico manto, o sbernia, il quale ricadeva in bei parliti di pieghe. Sulla fronte arricciavano i capegli, rinchiudeano le treccie nella reticella, oppure in veli trasparen!i di seia, vergati d’oro e di giallo; e farneticando come ringrandire la persona, si veniano con questi formando sul cucuzzolo una punta, lasciando che il resto bellamente aleggiasse sulle candide spalle. Ornavano inóltre il capo di qualche bel mazzo di fiori, e portavano zoccoli ricchi d oro e di perle e d’un’ altezza mediocre (’). Ciò quanto alle dame. Le popolane coprivano la testa d’un sottil panno d’ormesino o taffetà di più colori; indossavano un giubbone chiuso sul davanti da una fila di bottoni di seta, alto di collo e serrato solto la gola, cui ornavano d’alcune lattughelle di camicia; le maniche erano aperte, ma da serici cordoncini allacciate; la gonna virgata, e corta cosi da lasciar vedere le pianelle, alte ben quattro dita. Portavano anch’esse al fianco la borsa, ma v’aggiugneano l’acoraiolo; e in mano teneano continuamente de’ fiori (2). Un curioso Iiugionamenlo, che si finge tenuto da sei nobili fanciulle mentre una domenica uscivano dalle funzioni celebratesi nella chiesa di Nostra Donna delle Vigne, e stampato nel (') Veceuio, op. cit. i, n.° 184: Lasor, Tolius orbis terrarum descriptio, i. 433; Feriurio, Costume antico e moderno, xiv, 9i8. Una figura di gentil donna,, come viene da noi descrilta, vedesi pure dipinta da G. B. Castello nella facciata del Palazzo Imperiale in Campetto. (2; Vecei.lio , i, n.u 185; Ferrario, xiv. 919. ( 225 ) 1583, riferisce clic poco innanzi a quell’ epoca « si costumavano li busti tanto larghi, che cadevano sino a mezza braccia, per mostrare maggior ampiezza nelle spalle ; il che non solo era cosa mostruosa et brutta a vedere, . . . ma grandissimo impedimento . . . apportava alla persona, senza grazia nè vaghezza alcuna » ('). Tuttavia, l’usanza per la quale si vogliono meglio distinguere i tempi di cui parliamo, ella è quella del guardinfante, così detto da che venne in principio adottato per difendere dalle percosse la creatura, od infante, delle donne pregnanti. Siffatto strumento fu dapprima composto a cerchi di fdo di ferro, tutti d’un egual diametro, talché posto sotto le vestimenta, faceale rigonfiare alla foggia di una tesa di cappello ; in seguitò i circoli si strinsero alla cintura, e vennero allargandosi mano mano che s’appressavano a’ piedi, in modo che l’abito pigliava forma di campana. Forse non vi ha moda che possa vantare una durata più lunga del guardinfante. Il sesso gentile gli ha spesso mutato nome, ma serbato un affetto che sa di costanza, e se talfiata parve lasciarlo in abbandono, quell'abbandono altro non fu in realtà che un corruccio d’amante, e come tale valevole anzi che no a rafforzare gli antichi amori. Il guardifante prese ad usarsi primamente in Ispagna, allorquando : Già moli’ anni correan, che Carlo Quinto Sì grand’ imperator, guerrier sì prode, Lascialo il peso del mortai suo cinto, Splendea nel Cicl di non caduca lode (*) Ed essendone appunto dalla Spagna passato l’uso all’Italia, quel mordace ingegno d’Alessandro Tassoni ebbe a dire, che niuna flotta avea mai sciolte le vele dall’iberica penisola, più ricca di quella che sì gran moda recata aveva agli italiani. (') Ragionamento di sei nobili fanciulle genovesi ecc., pag. So. Flamin.o Filauuo (Fluvio Frugoni), La Guardifantp.de, pag. 3. ( 226 ) I poeti infatti non tardarono a renderlo argomento degli epigrammi i più arguti e delle satire le più pungenti; e a meglio coprirlo di ridicolo Fulvio Frugoni, sotto l’anagramma di Flaminio Filauro, dettò un intero poema. Dell’ uso del guardinfante appo le donne genovesi, ci rende amplissima testimonianza il precitato Ragionamento ; e in pari tempo ne fa conoscere come siffatto arnese venisse appo noi distinto col nome di verdogale (I). Intorno a cui l’una delle graziose interlocutrici, Fiammetta, così prende a discorrere : « Et i verdogali ancora non mi quadrano, massime certi grandi, che paiono la campana grossa di san Lorenzo ; et se ben dicono che sono di gran comodità nel caminare, perchè si hanno le gambe più sciolte, che non urtano ne’ vestimenti, con tutto questo a me non piacciono, né tampoco gli ho mai voluti portare, tanto gli abborisco nell’altre; molte de’ quali ho già vedute che duravano fatica ad entrare in una porta, tanto eh esse l’aveano grande; et forsi che non è scommodissimo a chi vuol sedere, poiché bisogna primieramente farli una gran manifattura attorno in assettarlo, se tu non vuoi far la mostra generale? » Al che rispondendo Clelia, diceva: « Per questo effetto credo appunto che piacciono assai a’ giovani, perché molte volte li sogliono far vedere qualche bella vista ». Ma Fiammetta prontamente replicava: « Et delle brutte ancora . . .; perchè molte che hanno buona vita et una ciera piuttosto grassetta... et il petto colmo, con una vista che i maladetti verdogali le fanno dai e delle gambe, che per avventura hanno sottili, sono cagione di farle perdere tutto il credilo et reputazione insieme. Et forse che non ci sono de’ giovani in questa città, che altro studio pare non facciano che di mirare le gambe, chi le ha grosse et pic-ciole ; et per poterlo fare più commodamente, pongono mente (') Con eguale appellativo si trova pure indicalo dai francesi, presso i quali nc era di già in gran voga I’ usanza a’ tempi di Enrico Stefano (Dialogues du nou veau langage françois etc., p. 159). ( 227 ) quando scendiamo qualche scala, o da uno scalino un poco alto, o quando entriamo in qualche porta?.....Si che vi prometto, che chi non è più che accorta a coprirsele con la veste, o tardi o tosto, in un modo o nell’altro, non la può fuggire; et forse che non sanno dire se sono grosse o sottili, diritte o torte, se il piede è picciolo o grande, et se la calzetta è ben legata o se la corre su i calcagni? Et poi, quando sono insieme fra loro, chi ne dice d’una chi d’un altra; che se non dicessero salvo la verità, sarebbe men male » (!). L’ Acinelli nota che dopo il tremendo flagello della peste , che a mezzo il secolo XVII ebbe à desolar Genova in modo così spaventevole, le dame (1658) « cominciarono a privarsi del guardinfante, e si vestirono con gala alla francese». Nè molto tardarono le altre d’ ogni ceto a seguitare quelle nobili donne ; che anzi non solamente vestirono alle foggie di Francia, ma alla polacca ed alla turca, « chi con diadema alla capigliera, chi colla mitra di pizzi alzati con forchette a guisa di quella di Aronne..., altre con turbante e piume » (2). Altrove il precitato Ragionamento ci attesta come si andasse introducendo il vezzo di portar nei piedi ima pianella alla un palmo; la qual cosa rendeva le donne così inabili al camminare, ch’elle aveano del continuo mestieri d’essere sostenute da’servidori (3). Pur nondimeno l’incomoda foggia andò innanzi buon tratto ; in guisa tale che Goltivannio Salliebregno (Antonio Giulio (>) Pag. 58-60. (2) Acinelli, Artificio con cui il governo democratico di Genova passò nell'aristocratico. Ms. autografo presso 1’avv. Avignone, p. 139 e 154. (3) Pag. 57. Tenerissime dell’ uso degli zoccoli erano le dame veneziane, come ce lo attesta Enrico Stefano. Il quale così scrive : « Ceste invention n'est pas >> venue des italiennes, mais estait desia en la Grece ancienne : comme on voit » par un coinqtie qui estoit de la nation. Or je croy qu’il n’y a femmes en toute » l’Italie , qui s’aident plus de cette invention que les vénitiennes. Elles seules » devroyent payer ù l’inventeur pour tout le reste des femmes d’Italie » (Dialogues etc. , p. 176). \ ( 228 ) Brignole-Sale) nel 1639 dicea recente quella usanza, che togliendo di mezzo gli zoccoli aveva rimpicciolita la statura delle donne ('). Le vesti colla coda, o strascico, rare.assai ne’secoli precedenti, ebbero esse pure a generalizzarsi nel XVI; e però il Giovenale di quella età, vo’ dire Paolo Foglietta, non manca d’averle in mira, laddove finge una Risposta dre donne ad un Sonetto col quale appunto ne rimbrottava il vestire : Portà derrò ra eoa ancon vogìemo, Pcrch’ usanza questa è de gran personne, Benché portare à i atre ancon veghemo, Che ù sta sì ben derrè re robe bonne Ni per chioggia manchemo de portara Che per re strè no usemo d’imbratara (2) Appariamo inoltre dalla Risposta medesima, come l’uso d’a-dornarsi di ricchi pendenti, di monili e d’altre consimili gioie ed orerie, non fosse menomamente scemato; perché le donne cosi fan note al poeta le loro risoluzioni sovra tale proposito: Porta voggiemo ancora ri pendin E nue se vorrei può resteremo, Pu che ne reste questi battaggin, Che ri pertuxi a posta feti ghemo Per farseri infirà seira e matlin; Ni stà senza pendin noi donne poemo; Manca voggiemo dri galletti avanti E belle scioi, che dri pendin gallanti. Tanto gustemo noi zovene e foenle De porta de pendin sì belli un pà, Che siete sode semo e patiente A lasciarne garsonne perlusà (') Saluebregno , Il Carnovale, ecc., pag. 28. (2) Rime ecc., pag. 39. Nella Prammatica del 1675 leggo ricisamente proibito ogni strascino o coda ; ma trovo eziandio che il divieto non sortì per avventura 1’ effetto desiderato, giacché in quella del 1705 i Serenissimi Collegi si limitano a proibire alle donne « I’ uso, o sia il servirsi, del strascino o coda delle loro vesti per terra nelle chiese ». ( 229 ) I or>ggie tenerctte tutte queul', Per poi questi pendin sempre poità; E ora eli > donne fette semo noi Leva questi pendin no ne dei voi. Mancà voggiemo inanli dre fe bonne Cbe in dio noi portemo d’ oro bon, Mancà voggiemo inanli noi garsonne Dri cuoè ferii, che donò ne son, Mancà voggiemo noi dre cheinettonne E verghe d’ oro, e brassaletti ancon, E dre perle, barasci e dri rebin, Cba mancà de porla questi pendin (*). Ma quelle buone donne si trovano poi tutte confuse, nè hanno argomento alcuno da opporre al poeta, allora quando egli si fa a rampognarle della strana usanza di imbellettarsi il viso, in un sonetto che così principia: Che zova ogn’anno de mandà ra cria Che no se possan donne mascarà, Se ro visaggio sempre usan portà De gianclietto ben grosso quattro dia; E a so posta crià lascian chi cria, Perchè d’ogni saxon fan Carlevà ? (2) Usanza invero assai più antica dei tempi de’ quali siamo ora discesi a parlare ; tanto clìe Fazio degli Uberti già la rammemora con questi versi nel suo Dittamondo: E vidi un altra novitade in quella Città, clic dura dalla state al verno, Che strana per quando ciò si novella, lo dico che i demoni dell’inferno Non son sì neri, come slan dipinte Le donne quivi, che più non ne scemo Che gli occhi e i denti, sì son forte tinte (3). (') liime, ecc., pag. 37. (2) Rime, ecc., p. 30. (3) Lib. m, capitolo v. Taddeo Gaddi soleva dire delle donne fiorentine, di’ elle erano i migliori dipintori, maestri d’intaglio e correttori che mai si avesse veduti, « perocché assai chiaro si vede, eh’ elle restituiscono dove la natura ha mancato » (Sacchetti, Novella 136). Ed Enrico Stefano più tardi scriveva: « Les dames ita- ( 250 ) Anche il Salliebregno tocca di questa ridicolezza del belletto, e scrive di una dama: « Che monta.....se il minio e la ce- rusa impiastricciata sulla sua gota si sfacciatamente non san mentire, che il gialliccio naturale trasparendo a lor dispetto, non gli pubblichi per testimoni falsi e spergiuri? » (') A complemento di questo capitolo riuscirebbe forse opportuno 1’ accennare alcuna cosa intorno a’ mezzi di trasporto, che più erano in voga nei giorni di che ci siamo finora venuti occupando. Su ciò per altro abbiamo vanamente cercate memorie degne di nota speciale ; e solo in epoche non molto lontane incontriamo notizia delle carrozze, cui invero allora doveva acconciarsi meno assai che oggidì l’ineguaglianza del suolo, il serpeggiamento delle vie e la loro così frequente angustezza. Paolo Foglietta, che dettava le sue pungenti e graziose rime verso il -1570, ha un sonetto di cui fia prezzo dell opera il riferire la miglior parte. Quando ra toga antiga usàmo anchòn Chinee tanto care no accatàmo, Ni con famigli e paggi cavarcàmo Ch’ aura se vestan niegio dro patron. Ma con una seposta de garzon Su ra nostra muretla in villa andàmo; Ni brille de veluo anchon glie famo, E in villa e in cà serviva ro figon (2). E, corno vegio, m’arregordo mie Che à Zena no era ancora atro cavallo, Che quello che depento hemo in san Zorzo (3). » lienr.es usent fort de mettre à leur visage del rosso et del bianco■ ■ • I''0 » dames de la Cour (peu s’en est falu que ie ne aye dit... nos courtisanes). » si non toutes, au moins la plus grand part, s’accomodent aussi volontiers, et » aussi bien del rosso et del bianco, qu’aucunes italiennes » (Dialogues ttc., * p. -173). (*) Saluf.dheono, Carnovale, p. 28. (2) Garzone di villa. (3) Rime diverse ecc., Pavia, 1583; p. 25. Il poeta allude al cavallo di san Giorgio, dipinto dal Mantegna, circa il I5|3, nella facciata del Palazzo delle Compere. ( 231 ) Malo si apporrebbe però chi volesse pigliare alla lettera codesta , che lo Spotorno chiama a buon diritto amplificazione poetica ('). Imperocché di cavalli e del loro commercio a Genova ho io più riscontri, a partire anche da tempi remoti (') ; e sono per lo più destrieri di pelo bruno, baio rosso, baio stellato , cavalli leardi, ecc. È singolare un atto del 2 gennaio \ 229, col quale Ricco uomo causidico vende a Lanfranco Vento, pel prezzo di lire 24, un destriere bruno, con una stella in fronte , et balzanum de duobos pedibus superioribus; e, come in segno di trapasso della proprietà, accipiens eum pro auricula tradidit ipsum dicto Lanfranco (3). Narra Bartolomeo Scriba, che nell’anno 4231 , essendosi stipulato un trattato fra il Comune Genovese e l’Emiro di Sibilia, costui per gratificarsi la Signoria, le mandò a far presente d’ un bel cavallo ferrato d’ argento e coperto di drappo d’ oro ; il quale venne portato in giro per tutta la città (4). Leggo pure in documenti, che nel 1389 essendo venuto a Genova il Marchese di Monferrato, il Comune deputò a riceverlo Benedetto Vivaldi ed Annibaldo Lomellini; e lo presentò di vino, di confetti, e di due cavalli superbamente bardati (à). Finalmente trovo, che nel 1402 il Comune stesso impose una tassa su tutti coloro che teneano mule e cavalli (6) ; la (*) Note al Giustiniani, vol. II, p. 74 4. (2) Del 4139 una mula si paga lire 45 (Chartarum 11), e del 1198 un cavallo costa lire 25 (Fol. Not. I. ii). Ma nel secolo successivo il valore di questi animali sminuisce grandemente; di guisa che, nel 1281 una mula si vende per lire 4 appena, e del 4210 un cavallo è venduto per lire 12 (Fol. Not. I. 165, 200j. Poco dopo il prezzo rialza invece d’ assai; e così del 1214 un cavallo costa lire 40 (Fol. Not. I. 9Ij. Nel 4 249, quando il Podestà di Genova si recò ad oste contro Savona, il fitto della sua cavalcatura fu pagalo in lire 3 e soldi 6 (Fol. Not.) (3) Fol. Not. I. 278. (4) Pertz, XVIII; Giustiniani, I, 350. (5) Massaria Comunis Januae. (6) Giustiniani, II. 225. ( 252 ) quale fruttò in principio (1410-1418) meglio di 800 lire all'anno C). Bartolormneo Paschetti ricorda poi, che, a’ suoi tempi, le donne genovesi erano vaghissime di farsi portare in carega, pet ogni bieve camino c/te facciano; e prosegue accennando come le lettighe e le seggiole sieno da principio state intro-otte in città a vece dei cavalli e delle chinee, che usavansi addieti o, per andarne con minore disagio alle villeggiature discoste un qualche miglio dalla capitale. « Ma hora si adoperano etiandio per andare per la città, nelle chiese et in visita di parenti o amici; et l’usa hoggidf per certa vana grandezza ogni giovane donna, benché disposta et sana sia della persona » (2). IV. Gran fama di beltà e gentilezza ebbero mai sempre le donne seno\esi, e i lor vezzi e pregi comandando insieme all’ammirazione il lispetto, meritarono essere celebrati da prosatori e da poeti. Rambaldo di Vacqueira (3), precipuo fra’ trovatori dell’ Occi-tania, ^nuto a Genova dopo il 1190, aveva ardito di vagheg- C) Gabellarum omnium introitus anni 1408 in 1443, nell’Archivio di san lorgio. Il ricavo massimo dell’appalto di questa gabella fu di lire 943 nel 1418, i mimmo di lire 416.13.4 negli anni 4421, 1422 e 1423. ^^£>ASC,,ETTI’ ^ conservare la sanità et del vivere dei genovesi; 1602; se ^ u' p10 Signore di Vacqueira in Provenza, fu lungamente ai di ° r'nci*)e ^ Orange. Verso il 1218 ritiratosi presso Bonifazio marchese lui er’’‘lt0> che il tenne in grande onoranza, s’innamorò di Beatrice sorella di oprò i’. * ° f'nriC0 Dcl Ca™to. Scrisse in lode di essa più canzoni, ma ebbe l i ' corgimem° chiamarla in queste non altrimenti che col titolo di mio noeta- ‘Bre’ c,le in Principio Beatrice si addimostrasse inchinevole al josua muto divisamente. Di che Rambaldo tolse a vendicarsi, scrivendo ( 235 ) giarvi una gentildonna, e profferirsele ardente amadore. Ma la pudica italiana, non usa alle convenute lusingherie dell’ Occitania, lo discacciò, il vilipese, il derise. Il che parve al trovatore, nuovo Ira noi, tanto strano e tanto degno di stima da risolverlo a render nolo e durevole la memoria del rifiuto patito, con una canzone per dialogo e bilingue, nella quale a vicenda esso prega in provenzale, e la saggia donna rifiuta nel genovese illustre di quel tempo ('). contro di lei una canzone in cinque lingue , volendo con ciò significare che come Beatrice avea cangiato avviso, così egli mutava favella. Enrico Del Carretto passato poscia in Levante a combattervi i saraceni, menò seco Rambaldo; il quale trovò favore appo tutti i principi crociati, e specialmente presso di Federigo II, il quale lo creò governatore di Salonico ; dove egli morì nel 1228 (Nostradamus, Vite de’ poeti provenzali, pag. 80). (') Questa canzone, che è uno dei primi saggi conosciuti di scrittura volgare, fu pubblicata dal Reynouard , poi ristampata e ridotta a lezione migliore dal Galvani nella Strenna filologica modenese per l’anno 1863 (pag. 84-94); ove è accompagnata da un volgarizzamento letterale, che io ommetto per brevità. Rambaldo. Donila , tan vos ai pregada Si us platz, quf amar me volhatz, Que sui vostr’ endomeniatz, Quar etz pros et enseignada, Et tolz bos pretz autreiatz, Per que m piai vostr’ amistatz : Quar etz en totz faitz corteza S’ es mos cors en vos fermatz Plus qu’ en nulha genoesa. Per que’ er merces si m’ amatz; E pois serai meilhs pagatz Que s’ era mia la ciutatz Ab V aver qu’ y es ajostatz Dels genocs- La donna genovese. Jujar, voi no se1 corteso Che me cardaiai de cô, ( 234 ) Lanfranco Cicala, cavaliere di grande autorità e prudenza, dettò in onore della sua concittadina Betienda Cibo, diverse Che neente non farò: Anzi fossi voi appeso; Vostr’amia non serò, Certo già v' escarnirò, Provenzal mal’ agurado Tal enojo ve dirò : Sozo, mozo, cscalvado, Nè già voi non arflarò , Ch’ eo chiù bello mari ho, Che voi non seben lo so, Andai via , fràre ; en tempo Meli iorado. Rambaldo. Donna genta et eissernida, Guja e pros e conoissens, Vailla m vostre cauzimens Quar jois e jovens vos guida Cortesia e pretz e sens, E lotz bos ensenliamens, Per qu’ ie us soi fiselz amaire Senes totz retenemens, Francs, humils e mercejaire, Tant fort me destreinh e m veiis Vosti'’ amors, que in’ es plazens, Per que sera jauzimens £T eu sui vostre benvolens, E vostr’ amics. La donna genovese. Jujar, voi semellai mato Che cotal razon tegnei, Mal vignai e mal andei, Non avè sen per un gato, Pei• che trop me descliazei Che mala cossa parei. ( 235 ) canzoni; e fu assai più avventurato del suo contemporaneo Luca Grimaldo, il quale dimorando lungamente in Francia, v’ era stato Nè non faria tal cossa; Se sias fillo de Bei, Credi vù che e’ sia mossa ? Per mia fe’ non ni’ averei. Se per m’ amor vo’ restei, Ogano morre’ de frei, Tropo son de mala lei Li provenzal. Rambaldo. Donna no siatz tan fera Que no s cove ni s’ eschai ; Ains tang ben, si a vos piai, Que de bon sen vos enquera, E que vos ama ab cor verai, E vos que m gitetz d' esmai. Qu’ eu vos sui hom e servire, Quar vei e conosc e sai, Quan vostra beutat remire Fresca com rosa de mai, Qu’ êl mon plus bella no sai. Pei' qu’ ie' us ams e us amarai , E si bona fes me trai, Sera peccatz. La donna genovese. Jujar, to provenzalesco , Si ben s’ engauza de mi, Non lo prezo un genoi, Né V intend chiù d’un toesco, O sardesco , o barbari, Ni ho cura de ti: Vo’ ti cavillar con mego ? Se lo sa lo meo mari, Malo piato avrai con sego-Bel messer, vero ve di’ ( 236 ) preso di forte amore per una damigella dei Villanova. Perocché mentre Berlenda serbò fede coslante al proprio cantore, il quale ne pianse di poi amaramente la perdita (') ; la provenzale, con una bevanda amatoria, trasse a morte il Grimaldo (1308) nella verde età di appena 35 anni (2). Non volito questo lati: Frare, zo aia una fi' : Provenzal, va , mal vestì, Lagame star. Rambaldo. Donna, cn estraing cossire M’avetz mes, et en esiliai: Mas enquera us prejerai Que voliatz qu1 eu vos essai Si cum proenzals o fai Quant es poiatz. La donna genovese. Jujar, no serò con tego Poi cossi te cal de mi: Mèi valrà, per san Marti, Se andai a ser Opetì, Che v’ darà fors’ un roncì, Car si iujar. Nella stanza seconda di questa canzone la pudica donna rispondendo al liovalore, cui per disprezzo più volle appella giullare (juiar), dice volergli dare tale noia ( tal enojo), ossia dire tale insulto clic gli sarà amarissimo. E glielo dice difatti, cogli epiteti di sozo, mozo, escalvado. Forse, avverte il Galvani, il trovatore a\ea corti i capelli, o forse li portava alla guisa de1 mozzi di nave, o fors anco eia calvo, benché giovane tuttavia. La donna conclude consigliando l’ardente amadoie di andarne a ser Opetì, che gli darà forse un ronzino; ed il prefato eh. scrittore erede ravvisare in questo personaggio Opizzino III Malaspina, autore de marchesi dello spino fiorito, protettore dei poeti e giullari. (') Nosthadamus, op. cit., p. 435. (2) Spotorno, Si. Lett. i, 274. Olire a varie canzoni per la sua dama, il Cìri-maldo avea scritte parecchie fierissime satire contro il pontefice Ronifazio vii, per accattarsi il favore di Filippo il Bello. ( 237 ) Ma quello che riesce a gran pezza notevole, e torna a singolare encomio delle donne genovesi, egli è senza fallo il ritratto lasciatocene da Giovanni Boccaccio; il quale, comecché pronto a volgere in derisione ogni più santa cosa, parla di esse col maggiore rispetto in una delle sue men castigate novelle; laddove narra di alcuni mercatanti italiani, i quali, convenuti essendo in Parigi, proponevano darsi bel tempo e tradire la fedeltà coniugale. Solo Bernabò Lomellini di Genova « disse il contrario, affermando se, di special grazia da Dio, avere una donna per moglie (') , la più compiuta di tutte quelle virtù che donna o ancora cavaliere in gran parte, o donzello, dee avere, che forse in Italia ne fosse un’altra: perciò eh’era bella del corpo, e giovine ancora assai, e destra et alante della persona, nè alcuna cosa era che a donna appartenesse, sì come lavorar di lavori di seta e simili cose, ch’ella non facesse meglio che alcun altra. Oltre a questo niuno scudiere, o famigliar che dir vogliamo, diceva trovarsi, il quale meglio nè più accortamente servisse ad una tavola d’ un signore, che serviva ella, sì come colei che era costumatissima, savia e discreta molto. Appresso questo, la commendò meglio sapere cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e scrivere e fare una ragione, che se un mercatante fosse ; e da questo, dopo molte altre lode, pervenne a quello di che quivi si ragionava; affermando con saramento, niun altra più onesta nè più casta potersene trovar di lei » (2). Questi degni encomii non deggiono però fuorviare i nostri giudizi, fino a lasciarci credere nulla o ben poco doversi rimproverare a’ secoli XIII e XIV, per ciò che s’ attiene al costume. Non mancavano allora le ferite, le uccisioni, le violenze, i tumulti, e con questi gli altri vizi che procedono da rozzo’impeto o da selvatichezza. Nè 1’ onestà o la fede coniugale trionfavano sempre; frequenti erano anzi i frutti d’unioni dlegiltime, nè i (‘) Appellavasi Ginevra. (2) Boccaccio, Decamerone, Giornata ii, nov. ix. ( 258 ) padri aveano alcun pudore nel riconoscerli, nè i figli alcun ritegno a intitolarsi bastardi, o, come per vezzo dicevansi, figliuoli d' amore ('). Gran copia di documenti offrono a questo proposito i rogiti notarili ; dove per lo più i figliuoli naturali hanno a genitori uomini coniugati e schiave. Assai frequenti sono i legati fatti ne testamenti a’ bastardi, ovvero le dotazioni costituite a prò’ di fanciulle nate fuora di matrimonio; frequenti eziandio gii atti di legittimazione, e non rari i privilegi pontifizi od imperiali conceduti a quest uopo. Aveanli ottenuti da Carlo IV (2) i conti Fieschi di Lavagna, da Sigismondo re dei romani i Giustiniani (3); da papa Innocenzo Vili e da Federigo III imperadore i Cibo ('*). Nè i privilegi emanati riguardavano esclusivamente quei nobili signori; perocché, come conti palatini, e perciò vicarii dell’impero 0 del Pontefice, essi aveano anche il diritto di dichiarare legittimi 1 figliuoli spurii appartenenti ad altre casate (5). Ma le legittimazioni, che di sovente pronunciavansi e pubblicavansi in favore de' maschi, ben di rado accadevano in prò delle femmine- Due soli esempi ne ho raccolti, spettanti agii anni 1454 e 1476 (6). (*) Cibiuhio, Econ. Polit., i, 310. Sulla condizione generale dei tempi onde favelliamo in questa Memoria, e sulle tante contraddizioni nei costumi di quelle età, riesce utile consultare un bel lavoro del ehiar. prof. Alfonso Corradi, intitolato La vita intima dei primi secoli del medio evo, e la medicina (V. Politecnico, voi. xxvii, p. 318-46). (2) Diploma dato in Lucca, addì 27 maggio 1369 (Fol. Not. voi. e par. ii , 206, 290 ). (3) Nel 1496 Lucchesio Giustiniano legittima Ballista e Galeazzo figliuoli del famoso capitano Brizio Giustiniano, detto il Gobbo; i quali, nell’anno dopo, vengono dal padre emancipali (Fol. Not. iv, 213, 226). (4) Olivieri, Carte e cronache mss. della R. Università ecc., pag. 205. (5) 11 2 marzo 1531 Lorenzo Cibo legittima Bernardo figliuolo di Peliegro de’ Gradi e di una monaca domenicana (Olivieri, loc. cit.) (6) Il 27 maggio 1454 Cattaneo Fieschi legittima Andreola bastarda di Luca Costa, de illicito et damnato coitu procreata; e Io stesso, addì 24 febbraio 1476, dichiara legitlima Benedettina figlia di Pietro da Castiglione e di Elena della progenie degli ungheri, già schiava di esso Pietro (Fol. Not. iv, 425, 870). ( 259 ) Nel protocollo del notaio Giorgio ria Camogli si trova registrala la formola dell’atto, secondo cui la madre facea dichiarazione del nascimento della prole illegittima, nominandone il padre. Per tal guisa con instrumento del 14 luglio 1322, Caracosa da Molassana confessa, che Bartolommeo infante di cinque mesi è figliuolo di lei e di Manfredo Testa di Rocca, al quale perciò promette di non domandarlo, nè contrastarlo; e si obbliga a non consegnarlo ad altra persona qualsiasi ('). Ora 1’ argomento mi ha stretto a tale, che è mestieri anche più intimamente discendere alla ragione delle cose, e fornire circostanziati ragguagli intorno la situazione morale di quei secoli onde ho preso a discorrere. L’ animo mio ne dolora, e vorrebbe pietosamente disteso un velo su questa parte di storia, ma l’interezza dell’ ufficio propostomi vuol bene che io non debba a mezzo il cammino arrestarmi (2). Gli esempi dedotti da fonti sicure varranno dunque allo scopo; innanzi a questi ogni dubbio vien meno e si dissipa ogni sospetto di parzialità. Del resto, s’io dirò cose gravi, sarà utile il rammentare che gravi cose infatti accadevano di que’ g'orni, in Genova non solamente , ma dovunque. Ognuno seguiva da facile china. Allora le più sfacciate avventuriere trovarono singolari onoranze e principeschi favori, perocché si videro donne di famigerata libidine assunte a nozze principesche; re e principi potenti onorare in pubblico la ( ') Ego cara cosa fi li a qm. Guillelmi de Molasana confiteor tibi Manfredo Testa de Roclia tabernario quod cum de meo consensu et voluntate me carna-liter cognovisti: et ex ipsa cognicione ex te concepi habui et substuli filium unum masculum qui vocatur Bartholomeus qui est mensium quinque vel circa; quem filium tibi do et attribuo pro filio et tanquam filius tuus, promittens tibi de cetero dictum filium non petere nec impedire nec aliqui persone dare (Not. Giorgio da Gamogli, an. 1323-30, car. 22). (2) Ottimamente il Gioja, nella Filosofia della Statistica (ediz. del 18o2, voi. iv, p. 5) scrive « Se il volgo, per esempio, dall’ affluenza delle persone ai centri reli-» giosi argomenta castigatezza nel costume, lo statista non s’ arresta li, e vuole » riconoscere il numero de’figli illegittimi, degli sposi divorziati, delle donne man-» tenute,delle persone celibi, delle violazioni ed attentati al pudore, ecc. » .( 240 ) qualità di concubina, circondarle d’ elette corti e alzarle quasi al grado di mogli. Allora Giovanni Boccaccio potè colle oscenità del suo Decamerone sollazzare i cavalieri e le dame fiorentine, nel modo stesso in cui più tardi il vescovo Bandello mandava dedicando le sue infami novelle alle donne più insigni, e a' più gran principi del secolo e della Chiesa. Il Duca Alfonso d’Este e i giovani della sua comitiva passeggiavano ignudi per la città di Ferrara in pieno meriggio (il che gli storici contemporanei si appagano dir cosa assai leggera); l’Aretino, baciato in fronte da Giulio III, intitolava al Cardinale di Trento la più oscena delle sue tragedie, il Bibbiena aspirava alla tiara e scrivea la Calandra; il Sadoleto, il Campari e il Colocci amoreggiavano senza fine con Imperia; e sulla tomba di lei in san Gregorio in Roma scriveasi: Imperia cortisana, quae digna tanto nomine, rare inter homines formae specimen dedit (f). Le leggi del medio evo quanto sono minute e positive nel prevenire o punire, bene spesso terribilmente, i delitti che importino turbamento dell’ ordine pubblico, altrettanto si mostrano incerte, vaghe ed insufficienti per ciò che spetta alla tutela ed all’ordine della famiglia. Donde nasce, che in quella mistura di barbariche disposizioni e in quella riviviscenza del romano diritto, i genitori sieno arbitri del destino de’ proprii figliuoli, e il manto della patria podestà giovi a coprire ogni violenza ed eccesso. Degno é quindi di nota il testamento di Siinone Bufferio, padre di dodici figli (30 marzo 1206), il quale dispone che fra costoro Ottolino ed Anselmino si rendano monaci, il primo a santo Stefano ed il secondo a santa Maria d’ Albaro ; Isabella e Giacomina piglino il velo ; ed abbiano lire cinquanta per ciascheduno. Riguardo ai maschi peiù T ordine è temperato, dalla clausola se loro piacerà, ed anzi vuoisi in caso contrario ch’eglino entrino coi fratelli a parte C) Cantù, Storia degli italiani, m, 708. ( 241 ) della eredità ; ma per le fanciulle il comando è assoluto, ed il volere del padre tiene luogo di vocazione (1). Cosi ugualmente Lanfranco d’Antiochia, nel suo testamento del 1252, dispone che le proprie figliuole Inguinetta, Leonetta, Giacobina e Manetta, abbiano all’ epoca del loro matrimonio o della loro monacazione quella parte de’ suoi beni, che agli esecutori della sua volontà piacerà di assegnare alle medesime ; ed a questi eziandio concede piena e libera facoltà di maritarle o monacarle; benché, esternando intorno a ciò anche i proprii divisamenti, soggiunga essere sua intenzione che Leonetta si mariti, Giacobina si sposi o tolga il velo, e le altre due si rendano claustrali (2). Da siffatti arbitrii hanno poi origine altri e non meno lagri-mevoli abusi. Per atto del 1.° settembre 1216, Simone di Galearia e Simone Misrigio confessano avere da Sofia, vedova di Baldissone, il mandato di sposare Galiana figlia di costei a quel cittadino di Genova che loro meglio paresse e piacesse, costituendole una dote di mille bisanti oltre il corredo ; e perciò promettono di consentirla in matrimonio a Pietro del qm. Jacopo D’ Oria (3). Nè molto dissimile da questo è un istrumento del 4 6 luglio 4 255. Pasqualino Usodimare promette a Luca (T) Testamentum Simonis Bufferii.... Otilinum et Anselminum filios suos ordinat esse debere monacos, scilicet Octilinus in sancto Stephano et Anselminus in sancta Maria de Albario, si eis placuerit; et vult quod quisque eorum habeat in suis bonis libras quinquaginta; et si nollent esse monachi eos heredes instituit cum aliis fratribus. Isabellam et Jacominam filias suas vult esse monacas, et uniquique earum legat libras i (Fol. Not. i, 59). (2) Ego Lanfrancus de Antiochia.... talem facio dispositionem.... filias meas Aiguinetam, Leonetam, Jacobinam et Marinetam... volo habere tantum de bonis meis ad earum maritare seu dedicare quantum placuerit et videbitur matri mee, et fratri Nicoloso fratri meo..... et do et concedo predictis liberam baliam et potestatem maritandi et dedicandi illam vel illas ex filiabus meis predictis. .. et maxime dictum Leonetam volo maritari... et Jacobinam specialiter maritari seu dedicari in arbitrio et voluntate predictorum... et alias duas... volo dedicari et reddi ad voluntatem predictorum (Pergamena dell’ Archivio Parrocchiale di S. Maria di Castello). (3) Protocollo del notaio Raimondo Medico, car. 242 verso. 16 ( 242 ) Grimaldo che egli ne sposerà la figlia Alasina, tosto che la medesima abbia raggiunta l’età d’anni dodici; e il futuro suocero, dichiarando a sua volta che la fanciulla sarà moglie di Pasqualino, gli concede quale arra degli sponsali una casa, e promette costituirle una dote di lire cinquecento (')• Che frutti recassero poi maritaggi siffatti, alla conclusione de’ quali si tenevano estranee la mutua affezione e la volontà degli sposi, l’argomenti ciascuno. I protocolli de’ notai fanno testimonianza, che le querele mosse da’ coniugi dinanzi alla Curia Arcivescovile per ragione di divorzio, erano frequentissime; ma sopra tutti curioso ci sembra un atto del 28 aprile 4 213, col quale Ottone arcidiacono e maestro Ugo canonico, delegati a pronunciare nella causa vertente fra Gandolfo di Trojola e Giovanna da Sestri, sentenziano che debba procedersi al divorzio chiesto dalla sposo, pel motivo dal medesimo esposto, ed accertato da testimoni, eh’ egli era cioè converso del monastero di santo Andrea di Sestri, prima che il suo matrimonio si fosse compiuto (2). Non mancano però sentenze, nelle quali 1’ autorità della Chiesa intervenga ad opporsi alle domande dei dissidenti ; ma le pronunce della Curia sono allora si gravi, che a nulla giovano meglio che a dimostrare quanto fossero tollerati gli scandali e radicati gli abusi. Il 17 dicembre 1222 Giovanni arcidiacono sentenzia che Pietro di Ortexeto riconduca Druda sua moglie in casa del proprio genitore, e debba con maritale affetto trattarla, con lei giacendo in un medesimo letto e mangiando al (') Ego PaschaHnus Usasmaris promitto tibi Luclio de Grimaldo recipienti nomine Alaxine filie tue, quod ego ipsam accipiam in uxorem et cum ipsa matrimonium consumabo adveniente tempore quo ipsa fuerit nubilis etatis, videlicet annorum duodecim, el ego predictus Lucas pater dicte puelle promitto tibi quod ipsa sit sponsa tua et do tibi pro anis sponsaliciis domum unam. . . que fuit heredum quondam Jacobi filii quondam Lanfranci de Mari, et promitto tibi dare ego Luchas pro dotibus filie m.ee libras quingentas {Fol. Not. i, S09.) (2) Notulario di Pietro Ruffo, car. 124 verso. ( Uô ) desco in un solo tagliere ; gli impone di non tenere pubblicamente veruna concubina nel luogo di sua dimora, gli vieta di condurne in quella del padre suo ; e gli comanda insomma di usare con essa Druda que’ modi tutti, coi quali un buon marito ha l’obbligo di trattare una buona consorte ('). Ma i giusti dettami e il sentimento religioso, comecché eccitato negli animi, non bastavano a trionfare de’ rancori domestici , tanto è difficile ottenerne vittoria ! Con instrumento dell’8 ottobre 4 225, Ugo Fornari afferma che tornando da Tunisi, non ha più rinvenuta Alda sua moglie , e vanamente ne ha fatta ricerca in Genova e fuori ; protesta che 1’ assenza o fuga di lei è avvenuta contrariamente ad ogni volere di esso Ugone ; e fa istanza che delle proprie dichiarazioni consti per atto di notaio , corroborato da testimoni (2). Così rende pubblici ad un tempo i proprii affanni e le vergogne altrui. In forza di convenzione stipulata il 21 giugno '4 274, Guglielmo d’ Asti promette a Richetta da Toirano sua amasia (amasiae suae), eh’ ei non l'abbandonerà giammai per irne ad altri amori (*j Precepit dicio Petro quod reducat predictam Drudam in domo patris sui, et tractet eam maritali affectu, scilicet iacendo cum ea in eodem lecto et re-dendo sibi debitum coniugii, et cum ea comedendo ad discum in una para- side.....ltem precepit eidem quod aliquam concubinam non teneat publice in loco ubi moratur, nec ducat aliquam concubinam in loco patris sui, et quod tractet dictam Drudam uxorem suam modis omnibus quibus bonus homo tractare debet bonam uxorem suam (Notaio Salomone, car. 125 verso). Gli Statuti criminali di Genova, pubblicati in Bologna dal Visdomini il 1498, determinavano (cap. xv) die se un coniuge vivente l’altro passerà a seconde nozze, sia il reo multato di cinquanta lire oppure sopporti la pena della pubblica fustigazione; ovvero anche, secondo la gravezza dei casi (si ad carnalem copulam transiverit), venga punito coll’ estremo supplizio. (2) Ego Ugo Fornarids . . .protestor et dico quod in adventu quem nuper feci de viagio de tunexi non inveni uxorem meam Àldam, nec invenire potui cum eam quesiverim in Janua et extra; unde protestor et dico quod contra meam voluntatem stetit hinc el stat ubicumque fuit vel sit, et non est de mea voluntate nec fuit ut sic moraretur vel moretur (Notaio Salomone, car. 69 verso). ( 244 ) con qualsiasi donna; ma le serberà fede intera finché gli basti la vita (<). Finalmente tra gli atti del notaio Oberto Foglietta giuniore, uno se ne legge sotto la data del 28 giugno 1474, la cui somma è questa. Ettore Spinola del ramo di Lucoli comanda a sua moglie Oriettina, figliuola di Girolamo Negrone e giacente inferma nella casa del proprio padre, di ridursi ad abitare con lui ; e pel caso di rifiuto la minaccia della perdita della dote. Risponde il suocero che Oriettina per la gravezza del male onde é vittima, non può senza pericolo della vita abbandonare il tetto paterno, e che d’altra parte il marito di lei non ha ferma stanza in verun luogo di Genova. Al che lo Spinola fa prova di replicare ; ma 1’ offeso padre non gliel consente, dichiarando riciso eh’ ei ricevette sua figlia non solo inferma , sibbene avvelenata. Risponde allora il marito, asseverando che le parole del suocero lo feriscono nell’onore, e chiede mille ducati a titolo di risarcimento. Oriettina per altro fa chiara la reità dello sposo ; giacché nel codicillo annesso al proprio testamento, diseredando il marito, chiama a parte de' suoi averi la propria figliuola Isabetta, e vuole che alla medesima subentri il genitore di essa testatrice ,'qualora la fanciulla venisse a morire innanzi di andare a nozze (2). (*) Fol. Noi., voi. in. par. 4. 88. (2) Fol. Not., iv. 820. Come per antidoto siaci però consentito di riferire quanto leggiamo nel Giustiniani, sotto l’anno 1454 (voi. n, p. 384). « E accadette per questi tempi un memorabil segno di benevolenza fra due consorti. Paris Giustiniano era dei primi signori, ossia, come si dice, dei primi maonesi di Scio, dotato di grandezza d’animo e di molte ricchezze; e maritò Maria, una delle sue figliuole, al signore dell' isola di Metelino, Domenico Gatilusio, genovese; e la mandò al marito, con una galera che fece fabbricare e armare di nuovo. E la venusta matrona, in processo di tempo, contrasse il morbo lazzareno, ossia il morbo leproso. E nondimeno il marito continuò sempre la mensa e il letto con la diletta moglie; la quale essendo reciproca nell’amore, non l’abbandonò quando fu con le arme crudelmente assaltato dai suoi inimici, i quali con suprema violenza gliel levarono ' ( 245 ) Non è a questo luogo privo di utilità un raffronto tra le istituzioni dei nostri giorni ed una consuetudine, la quale sembra che fosse in vigore al principio del secolo XIV, e ci trarrebbe a sciamare veramente : Nil sub sole novi. Perocché un alto del 30 dicembre \ 304 ci porterebbe a credere, che di que’ tempi la celebrazione degli sponsali fosse regolata da una legge civile, ed i medesimi acquistassero validità quando venivano celebrati dinanzi ad un pubblico ufficiale. Difatti nel citalo istru-mento, rogato dal notaio Guglielmo Osbergero, si trova che Pietro di Embrone dopo avere costituite le doti di Beatrice sua futura sposa nella somma non ispregevole di lire 300 (fr. 6400 circa), gli stessi Pietro e Beatrice per verba de presenti ad invicem matrimonium contraxerunt; videlicet interrogatus dictus Petrus per me notarium infrascriptum si volebat dictam Beatricem in uxorem suam, et ipsam conservare tanquam in uxorem suam legitimam, respondit quod sic et subscripsit; interrogata dicta Bcatrix si volebat dictum Petrum in virum et in ipsum consentire tanquam in maritum legitimum, respondit quod sic (’). Frattanto, allentati i legami della famiglia e soffogata la benevolenza dalla riflessione, si trascorreva d’eccesso in eccesso. Allora si rapiva, e s’irrompea con natura (2). Due gentiluomini, del cadane brazza , e menonlo via e gli dettero la morte. Esempio certo, raro e degno di commemorazione ». (*) Notulario di Guglielmo Osbergero, per gli anni 1304 in 1311 , car. 43 verso. (2) Lo statuto del secolo xm punisce colla tortura e la morte il peccalo di sodomia ; e nel I486 e 1499 si pubblicano decreti contra sodomilas. Il Giustiniani, sotto l’anno 1479 (voi. ii, p. S33), riferisce « che nella villa di Albaro, nel fossato di S. Nazaro, fu violato da un maestro che lavorava coralli un fanciullo del parentato dei Bogiardi, e poi la violazione fu morto ; e dell’ omicidiale e violatore fu fatta severa giustizia, e fu attenagliato con tenaglie di fuoco, e fatto morire ». Nel 1449 e 1466 si fanno leggi ad reformationem morum ; e del 1482, si insti-tuisce un Magistrato contra pravos mores civitatis (Pandecta citata; Registri Diversorum Communis Januae, negli Archivi Generali dei Regno in TorrnoJ. Nell’ atto di giuramento prestato dai rettori c gonfalonieri, sotto il dogato di Bat- ( 246 ) salo degli Spinoli (1460), pervenivano col favore delle tenebre ad impossessarsi delle figliuole d’Antonio Lomellino (') ; e Paolo Dona (1484), in pieno dì festivo e sulla pubblica stiada, s impadroniva d’ una bella e costumata fanciulla tedesca (-). Ciò tutto in onta agli Statuti criminali i quali danna\ano i rapitori di femmine alla pena del capo, salvo lista I regoso (14/S-1483), si logge: « Se voi saverei . . . ejie in le Conestagie .can zo\eni discoli e mal acostumè, o altre persone ie quai fessen mangiaressi, o altre cose excessive e dezoneste, voi le manifesterei a io spectabile Meser lo Vi-( ario Duc,i e a lo Officio Deputao » (Miscellanee Ageno, num. vi). ( ) 1460, 4 decembris. Cum ad conspectum Gubernatoris et antianorum, officii momti it sancti Georgti supervenissent plerique ex familia Lomelina, que- i entes nocte pi denta per vim ruptus fuisse duas filias nobilis qm. Antonii Lo-melliiu a Johanne Jacobo Spinula et filio Badi Spinule, perductasque ad oppidum Caæaiegii etc.. (Reg. Diversorum Communis Januae, negli Archivi di Torino). Giovanni d’Aulon riferisce sotto l’anno 1506 (voi. ih, p. 202), che un figliuolo di Domenico Negrone « fut à la maison d’un notaire nommé Bernard Ragius; el là ii lui gentilhomme pria la femme dudit Ragius de déshonneur, le quelle ne voulul par amour à son désordonné vouloir obéir: dont se voulut celui pnendre à elle par force. Si se pril à crier, et à défendre sa pièce, tant qu’elle échappa de ses mains, et lors que son mari fui venu de quelque lieu, où il étoit ce jour allé, elle lui dit, en plorant, comment ledit gentilhomme s’etoit pris à elle et I’ avoit voulu foner. Dont celui notaire s’en alla plaindre à messire Philippe de Clèves, gouverneur de Gènes pour le Roi, lequel s’enquit de l'affaire; et sachant la vérité du fait, 'oulut faire prendre et punir ledit de Nigrono ; mais il s’ôta du chemin et s’absenta de la Mlle pour un temps, et demeura hors, jusque son père et aucuns autres ses amis eussent adouci le forfait et apaisé partie: ce qu’ils firent. Ce fait, ledit gentilhomme s en revint à la ville, lequel n’eût là été guere de jours qu’il ne se trou\ùt à un autre bruit, tel qu’il eut paroles injeurieuses avec un du peuple, nommé reregrum de Leonardis; et tellement que de paroles à patacs vint la chose, en maniere que le dit gentilhomme qui avoit un poignard au côté, occit ledit Peregrum : dont il s en alla, et avec le secours d’aucuns autres gentilshommes ses amis fut mis hors la ville. Ce fait, voyant le peuple que à toutu heure éloient les nobles de Gênes en querelle contre eux, s’assemblèrent à grosses troupes le (ong des rues, et là où ils rencontroient les gentilshommes, ils leur couraient sus; el de là en a\ant, furent délibérer que la première fois qu’iceux gentilshommes feroient bruit, pie tout le peuple s élèveroit, et avec grand tumulte occiroient tous les gentilshommes de Gcnes ». (2) Giustiniani, h. 541. ( 247 ) il caso in cui il padre od i parenti della donzella non assentissero al rapitore di diventarne il marito, ed ei non le costituisse allora una dote secondo l’arbitrio del Magistrato dei malefizi (') Giacomo Fregoso diseredando il proprio figlio Leonardo, l’accusava di sregolata e pessima vita , dicealo ribelle ad ogni volere de’ genitori, e tale da aver commesso nefanda et inhonesta, que pudor declarare prohibet (2). 1 Protettori dello Spedale di Misericordia, o Pammatone, ricorreano a quei di san Giorgio chiedendo sussidii pecuniarii ; e ne davano per ragione il continuo crescere degli esposti (3). Nel tempo stesso la Signoria organizzava le prostitute, e dettava regolamenti a governo severissimo del Bordello di Castelleto o Montalbano (4). Le leggi a questo riguardo emanate (1375-1498) disponeano che si avessero come pubbliche meretrici , quelle che la voce comune, ovvero l’attestazione di probi cittadini, avvalorata dal giuramento e dalla sentenza del Magistrato de’ ma- (.') Statuta criminalia etc., cap. xiv il quale comincia : ne in consuetudinem vertatur pestiferam raptus feminarum. Questa disposizione si riproduce anche integralmente negli Statuti del 1669 , al capo xxix del libro ii. (2) Fol. Not. , voi. in. par. li. 216. 11 testamento ha la data del 27 febbraio 1410. Il padre fu uomo di belle lettere, e di mansueta natura; e tenne la suprema dignità del Dogalo, correndo il 1390. Al contrario il nomedi Leonardo s’accoppia a tutti i tumulti che insanguinarono Genova all’ esordire del quattrocento. (3) V. il documento nel fogliazzo primo dell’ Ufficio di san Giorgio (Archivio delle Compere) sotto la data del 20 febbraio 1484. (4) Così chiamavasi il colle su cui sorsero da tempi antichissimi la torre, e poscia la fortezza, del Castelletto. 1 lupanari, onde già trovo memoria del 1336 (Miscellanee Ageno), erano situati alle falde del monte; e distendendosi dalla chiesa di san Francesco alle Fontane Morose, giunsero in seguito lìn presso al tempio della Maddalena. Ma nel 1551 si circoscrissero alle sole allure del Castelletto ; e sulle rovine di que’ sordidi tugurii Galeazzo Al ssi spianò la via che fu per buona pezza chiamata Aurea ed oggi si dice Nuova. « Molli affermano, scrivea Giorgio Vasari contemporaneo dell’ insigne architetto, in niun altra città di Italia trovarsi una strada più di questa magnifica e grande, nè più ripiena di ricchissimi palazzi ». È tradizione che, per istrana mutazione di fortuna, le pietre de’ lupanari si adoperassero nella cupola del Duomo, costrutta alquanto dopo dal-1’Alessi medesimo (Alizeri, Guida artistica ecc., n. 506). ( 248 ) Icfizi, indicassero per tali; e voleano che s’intendessero come femmine perdute il le mulieres que passim et sine differentia sui corporis questum faciunt, se publice exhibendo cuicumque persone pro pecunia ('); ma eccettuavano da sì obbrobriosa qualifica la donna maritata, quousque maritus tolleravcrit eam, seu cum ea tamquam cum uxore steterit (2). Presiedesse al postribolo un Podestà, e dipendessero dal medesimo due servi e il collettore, cioè colui che riscuoteva i proventi del luogo infame, avendone ottenuta dai Padri del Comune la concessione per un tempo ed una somma determinata (3). Ninna donna potesse, tranne il sabato, varcarne le soglie, nè ardisse profferire bestemmie, contumelie od ingiurie, e molto meno attaccar brighe o risse (pel che saggiamente si vietavano 1 armi); e pagasse Io scotto giornaliero di soldi cinque, salvo il caso di comprovata infermità. Nè meretrici, nè mezzani potessero abitare altrove che a Montalbano ; ed anzi ricevessero lo sfratto dalla città quanti nello spazio di quindici giorni, dopo ricevutane l’intimazione, ricusassero d’obbedire alle leggi (4). Niuno poi (') Gli statuti di Savigliano del 1305 erano più spedili, e dicevano . InleUigatui publica (meretrix) que rem seu collitum fecerit cum quatuor seu plut ibus homi nibus! (Cibhario, n. 32). (2j V. Regulae Patrum Communis, cod. membr. dell’ArchivioCivico, folto 13. Nella più volte ricordata Pandecta ms. dell’ Archivio Governativo , sotto la data dell’ ‘II marzo 1491, si legge: Proclama quod ianuenses non possint tenete fe minas in loco publico, nec in ipso loco esse feminas genuenses. (3) La gabella sopra le meretrici fu imposta nel 1418; e il collettore dovevi esigerla, stando alla porta del bordello. L’appalto si rinnovava ordinariamente ogni quinquennio; e possono trovarsene più esempi ne’ fogliazzi d alti e a del Comune (Archivio Civico). Ma col volgere del tempo sc ne ingenerarono ta i scandali e disordini, che alfine quel diritto venne abolito, sostituendovi^ invece pagamento di un onere fisso mensuale. Le meretrici ebbero allora eziandio libera facoltà d’abitare ove meglio fosse loro piaciuto; e cosi irasferironsi nella rccione del Molo (V. Giscardi, Discorsi ; nel vol. i delle Famiglie nobili, n|S- della Civico-Beriana, p. 424). (4) La relegazione in un sito determinato trovasi prescritta alle merelriii nigli statuti di quasi tuiti i paesi. A Savona (1313) abitavano in parte al Molo, cd in ( 249 ) si attentasse di trarle fuora di quel recinto , o transitarle su navi o barchette , se prima non ne avesse ottenuta la permissione dal collettore ovvero dal Podestà. Non avessero infine adito a cimiteri, nè potessero fermarsi nelle chiese dopo 1’ ora della messa solenne ('). Le pene comminate ai contravventori di questi ordinamenti sono il carcere, la pubblica fustigazione, e le multe in denaro, che s’applicavano all’ opera del Porto e del Molo (2). Nè alcuno vorrà far carico al nostro Comune della compilazione di queste leggi, nè a me dare la mala voce dello averne porti rapidi cenni, ove pensi che lo invigilare sulle femmine perdute costituì fino da’ tempi antichissimi un ramo di polizia importante assai alla quiete ed all’ ordine pubblico. Loderà meco piuttosto la saviezza de’ nostri padri, quando sappia che mentre Genova si adoperava con severi statuti a circoscrivere il meretricio, sicché la lurida pianta non crescesse di soverchio ed ammorbasse la terra, Lucca mostrava per le prostitute il più grande interessamento ; e dolendosi che per gli strapazzi fattine per l’addietro, la città non ne fosse provvista quanto era conveniente, le favoriva di privilegi non pochi, e loro concedeva perfino quello tanto ambito di cittadine originarie. A Venezia poi se ne contavano ben undicimila seicento cinquanta; senza dire che il lenocinio de’ servi e la facilità della gondola si prestavano largamente alle tresche (3). Pur nullameno, di mezzo a tanta corruzione, sopravviveano parie dalla porta Bellaria a quella del Giardino (Verzellino, Memorie storiche di Savona, ms. della Civico-Beriana, car. 134). (') La legge ateniese era anche più rigorosa: chiudeva le porte dei tempii alle prostitute ed alle spose adultere (V. Gioja, Filosofia della Statistica , voi. ni, p. 401). (2) Regulae Patrum Communis, loc. cil. (3) Cantu, Stoiia degli italiani, vol. ni, p. 708. Delle gentildonne di Venezia riferisce inoltre Enrico Stefano « qu’ elles vonl espoitrinees, c’est a dire..... ayens la poitrine toule descouvcrtc » ( Dialogues eie., p. 204). ( 250 ) rimembranze cavalleresche. Delle quali sarà opportuno il loccare, a conforto dell’animo stanco ed oppresso dalle già enumerate tristizie. Saiagro Di-Negro impadronitosi di quattro navi che portavano in Sardegna il fiore dei cavalieri e delle gentildonne aragonesi ('), neppure vuole vederle; ma dividendo ogni sua cura fra queste ed i feriti, provvede che loro si usino i doveri più rispettosi. Non pertanto uno dei prigionieri, vinto da incontentabile gelosia, dà di piglio ad un ferro e 1 immerge nel seno della troppo amata sposa; poi, tradotto dinanzi al Capitano, e confessatogli come la vita gli fosse stata inen cara dell’ onore di lei, così acremente Saiagro il riprende: Ho usato pietà verso gli armati, ho trattato i ferili come fratelli, ma tu che sospettar potesti l’onestà genovese, morrai! Giunge indi a Cagliari, e quivi lascia libere ed onorate quelle dame graziose (2). Nell’anno 1373, fervendo la guerra contro Cipri, la squadra genovese comandata dal virtuoso Damiano Cattaneo, posti a sacco i borghi di Nicosia e di Pafo, si impadronisce di settanta persone, e fra queste di non poche donne e fanciulle, al cui pudore i soldati vorrebbono recare ingiuria. Ma il capitano lo vieta altamente, ed allegando non essere legittimo soldo dei valorosi il disonore altrui, fa tosto rimettere in libertà quelle infelici (3). Luchino Vivaldo, che, giovane e ricchissimo, vive oltre ogni dire splendidamente, arde lunghi anni d’amore per 1 avvenente e gentile Bianchinetta; la quale, comecché sorta di basso lignaggio, pur si mostra costante nel respingere i doni, i prieghi e le profferte del suo amadore; a cui per altro le ripulse gagliarde crescon la fiamma. Ma ecco che il marito di lei cade in potere dei corsari, ed ella perde ogni più picciolo avere; sicché ridotta allo stremo d’ogni cosa, e mossa a irresistibile pietà de’ figliuoletti che non può sfamare, corre a casa il Vivaldo, e gittataglisi (') Ciò avvenne i! <334, nella guerra ronlrn gli aragonesi. (2) Foglietta, Claror, ligumm aelogia; Serra, Storia di Genova. (3) GlUSTlNlAN , II. 110. ( 251 ) a’ piedi tra’ singhiozzi e le lagrime gli palesa essere il di venuto in che ella più non avrebbe serbato di casto che l’anima. Quando Luchino rialzata la misera, e risposto come non sarebbe mai detto che tanta fermezza avrebbero un di superata le ingiurie della fortuna, senz’altro indugio, alla custodia della propria moglie ne affida l’onore, e generosamente provvede al sostegno de’ figliuoli e di lei. Onde i contemporanei esaltano il trionfo del Vivaldo con ogni guisa di vantamenti, e pongono la di lui continenza sovra quella dell’Affricano Scipione (')• (*) Bandello, voi. v, p. 92; Foglietta, op. cit. 279. Lo stesso Bandello trae poi argomento ad una sua novella (ix. 91) dal fatto seguente, il quale si riferisce alla venuta in Genova dell’infante don Filippo di Spagna (1348); ma ne varia più circostanze e ne anticipa di alquanti anni la data. Nel sacco dato alla nostra città dagli spagnuoli cui Prospero Colonna supremamente comandava, Annina Calvi, leggiadra e sopra modo avvenevole fanciulletta , era caduta in potere della soldatesca e tratta schiava in Ispagna. Dove in una cogli anni crescendo di grazie e di bel lezza, inspirava di sc violentissimo amore ad un figliuolo del Duca d’Alba, il quale per denaro tenea modo d’ averla. Ora dovendo egli appunto far passaggio in Italia al cortèo dell’ Infante Cesareo, nè bastandogli 1’ animo d’ abbandonare la sua diletta, ebbe presto fermato di trarla in nave con seco. Del che quanto segretamente gioisse in cuor suo la fanciulla , ciascuno 1’ immagini , pensando come a lei non fossero usciti mai d’animo o di mente nè i cari genitori, nè i luoghi nativi. Pertanto messo appena il piede in Genova, ella induce i paggi , onde aveala circondata l’amante, a trovarle presso le case de’ Calvi in piazza dei Maruffi 1’ alloggiamento ; e qui fortuna arride al suo disegno in modo, da ricondurla felicemente sotto il tetto paterno. Colto allora il destro*, Annina allontana i satelliti, e si apre a’ genitori; poscia, rompendone a mezzo gli abbracciamenti e le lagrime, disvela ad un tempo la misera sua condizione d’ancella, e il fermo proposito di fare ammenda colle preci, all’ombra d’ un chiostro, dell’inonesto sebbene sforzato suo vivere. A’ parenti commossi e tuttavia maravigliati, pare assennata la sentenza della figliuola; e poco stante Annina, all’insaputa de’paggi, è tratta ad un monastero. In quella riede il cavaliere spagnuolo, e dal turbamento de’ volti più che da’ tronchi detti de’ suoi fidi, indovina meglio che non apprenda 1’ accaduto. Il caso strano desta gran rumore nel parentado e negli amici de’Calvi ; in breve ne corre la nuova per la città, e da poca scintilla divampano fiamme di mal repressi rancori. Genovesi e spagnuoli vengono allora alle mani ; e nella mischia il d’ Alba riceve da Giovanni Lavagna tale una stoccata, che ne ha il corpo da banda a banda passato. (Vedi Celesia, La congiura del conte Fieschi, p. 242). ( 252 ) Ma, all’ infuora di questi esempi, egli è ben naturale clic 1’ eccessivo fasto e le pompe onde ci si presentano circondati i secoli XIV e XV , cagionassero ogni di più il rapido scadimento cosi della integrità del costume come dell’ austerezza del vivere cittadino; talché le dovizie un tempo acquistate a prezzo di sangue, si profondevano ora ne’ piaceri e negli agi. In ogni stagione que’ festevoli cittadini ballavano e convitavano lautamente ('); era per ogni dove allegrezza di suoni e di canti, e il giorno si facea corto a’ piaceri. Più giocondo e grasso vivere non sariasi potuto immaginare altrove che a Genova. Nella state poi non era chi volesse dimorare in città: manomettevano le faccende, disertavano "li ufficii, davan commiato alla mei- 7 O calura; e trasportavano nelle adiacenti campagne tutte le coi nazioni del lusso e della mollezza C2). Da Sestri a Nervi, lungo il lido marino, e nelle valli di Bisagno e della Polcevera, sino a Ponte-decimo, sorgeano altissime torri, egregi palazzi, edificii mirabili, giardini suntuosi, e ville che porgeano grandissima dilettazione ( ). Francesco Petrarca esortando i genovesi a fermare co vene ziani la pace, scriveva loro (1352): « Ricordivi quel tempo, eh’ eravate il popolo più felice della terra. 11 vostro paese pa reva un soggiorno celeste; cosi son dipinti gli Elisii. Quale spettacolo dalla parte del mare! Torri che sembravano minacciare il firmamento, poggi coperti di ulivi e melaranci, case marmo (') Nella grida del 1188 (ms. dell’avv. Avigone) si confermano certi antichi ordini e decreti, in forza de’ quali alle schiave, alle fantesche ed ai fami0li era terdetto ballare e far festa in la città e nelle ville. ^ (2) Nella grida del 1488 (ms. presso l’avv. Avignone) « si proibisce che nc-1’avvenire nell’andare e ritornare che si fa da Genova in villa, e per Mila città, non si possa mandar presenti nè doni alcuni, nè fare convivii* perché ques è cresciuto in grande abuso ». Ma il divieto cadde ben presto in dimenticanza, fu d’uopo rinnovarlo. In una Pandetta di libri de’ privileggi et all,c diverse scritture(Cod. n.° 106 ms. dell’Archivio di San Giorgio, car 14a), si nota infatti sotto la data del 30 dicembre 1306: Decretum quod non millantili piandia ve cenae, quando cives accedunt in villam vel redeunt. (2) Giustiniani, ii. 49. c 255 ) ree in sulle rupi, e deliziosi recessi infra gli scogli, ove l’arte vincea la natura , e alla cui vista i naviganti sospendeano il movimento de’ remi, tutti intenti a riguardare. Ma chi veniva per terra, meravigliando, vedeva uomini e donne regalmente vestiti, e fino tra boschi e montagne delizie incognite nelle corti reali. All’ ingresso della città vostra, pareva di metter piede nel tempio della Felicità ; e di lei si proferiva ciò che fu detto anticamente di Roma: Questa è la città dei re (‘) ». Anche Antonio Astigiano, encomia nel suo già ricordato Carme le ville de’ genovesi (2) ; ed il Foglietta scrive: Gren ville hemo daltorno à ra Ciltò He que vensan con 1’ arie ra nalura, Chi han sempre lie!lc seioi , frule e verdura , E pareixi terestri son ciamè; (') Petrarca, Variarum. E nell’ Itinerario, parlando sempre di Genova, scrive: Videbis ergo imperiosam urbem lapidosi collis in latere , virisque et moenibus superbam.....Valles amenissimas interlabentes rivulos, colles asperitate gratissima et mira fertilitate conspicuos, atque aureatas domos quocumque te verteris videbis sparsas in littore. Et stupebis urbem talem decori suorum ru-rium delitiisque succumbere. (2) Muratori, S. R. I. xiv. 1016: In quibus aegregias aedes, Iwrtosque decoros Et paene omne genus fertilitatis habent. Non desunt uvae, non deest viridantis olivae, Citrullique arbor tempus in omne ferens; Non desunt lauri, non apta papavera somno , Non desunt hortis cerea pruna suis; Non deest praestantis cucumer, nec melo saporis, Non deest ullum oleris suave bonumque genus : Non pulchrae violae , non candida lilia desunt, Non deest narcisus, flosque hyacintus ibi; Ne vager ulterius, non ulli denique flores , ’Ullaque non desunt poma, nucesque sibi. Non deest aspectus Pelagi jocundus aperti, Omne voluptatis hic reor esse genus. 11 cronista Giovanni d’Auton (vol. ii , p. 210) loda poi in modo particolare le ville di Albaro, ed encomia « les beaux jardin de plaisance, pleins d’orangers et de grenadiers, et autres fruitiers de toutes espèces; somme, c’est un terrien paradis ». ( 254 ) E in queste ville hemo paraxi asse' Grondi, e ben feti per architettura, Con de. fontanile belle otra mozura De marinaro scorpie, e nature (2). Per quello che s’ aspetta alla richezza e nobiltà del vestire, gli elogi del Cantore di Laura trovano ampio riscontro nelle cose da noi rammentate più innanzi. Qui per altro è mestieri soggiungere, come da quelle matrone che passeggiavano le vie della città quasi altrettante Veneri e Giunoni, gravissimo scapito risentisse il pudore. Poi dietro 1’ esempio delle donne correano le fanciulle; e mutato stile nel contegno degli occhi, della bocca, della fronte, delle vestimenta, faceano mostra di sc ai balconi, con ostentazione delle loro bellezze, maggiore assai di quella che saria convenuta; e galanteggiando alla presenza delle madri, gittavano a’ passanti e fruita, e fiori, e detti ora dolcemente mordaci, ora carezzevoli. 11 poeta astigiano, descrivendo questa riprovevole costumanza, indirizza parole severe di biasimo a’ genitori, cui sembta calere ben poco 1’ onore delle proprie figliuole; ricorda come la libertà non infrenata da oneste leggi rompa in licenza; e narra tali avventure, che ben dimostra quanto giungessero opportuni i suoi consigli. A noi bastino di quel prolisso verseggiare i i stici seguenti : Ornatas omnes in festa luce fenestras Nubilibus nymphis cernere quisque potest; Quae stant ut spectent; quae stant spectentui ut ipsae Airidet juveni queque puella suo. C2) Rime ecc., p. 62. A’ tempi del Foglietta, Galeazzo Alc^si aveva ff' ^ nalzati i palazzi de’ Giustiniani, de’ Grimaldi, degl’ Imperiali, ecc. , la ^ capitano Lercaro fuori la porta di san Tommaso, il lago e I isola d A turione a Pegli (V. VasAri, xm ; nella vita di Leone Leoni). Lo stesso poeta ha pure un sonetto, il cui principio è questo. Da Zena parto quaxi despcraù Perchè da puro me no posso sta, Che paraxi da Re sc gli’ usa fà. (Rime, p- ‘ )• ( 255 ) Et jacit ex allo /lores, aul pomo, nucesve, Aut aliud, quod sit pignus amoris ei. Milleque blandicius, et verba jocantia dicit, Et ludos tantos efficit atque jocos Ul quicumque senex incendi possel amore, Ut Priamus valeat, Nestor et ipse capi. Non est hic Pallas, non est Sapientia. Verum Est Venus in dictis, atque Cupido jocis. Netc natam inculpat quamvis Pater ipse jocantem Inveniat, quamvis astet amator ei. Credit enim solum verba intercedere posse, Quum sedeat thalamo clausa puella suo. Nec possit juveni concedere corpus amato, Quamvis concedat dulcia verba sibi. Non est vestra tamen haec consuetudo probanda Quae de non parva simplicitate venit, Ut vestras natas grandes aetate sinatis Cum quocumque velint mutua verba loqui, Lascivascque preces cupidorum audire procorum, Pro libitoque suis reddere dicta jocis (*). La Grida del 1488, determina « che quando le giovani vanno a solazzo, così a piedi come a cavallo, debbano andare accompagnate da una donna di età senile o sua parente ; e questo si fa, perchè dette donne molte volte andavano a spasso da esse sole , senza alcuna compagnia di donne di età o dei suoi parenti; il che non si conveniva all’onestà delle donne »: Parimente stabilisce « che le donne non possano andare alle taverne in Bisagno , nè in li orti a fare mangessi e bevere, come pare avevano introdotto d’andare «; e Paolo Foglietta, muovendo anch’esso a’ rilassati costumi dell’età sua aspra censura, mentre richiama col desiderio la semplicità, senza fallo studiosamente esagerata, de’ tempi ormai troppo lontani, ha questo sonetto: (.') Muratori, xiv. 1016-1017. ( 280 ) A quelli antighi tempi sì laudò Cliiolonue de vini’agni eran re foente, Che ancon favan bugatle tutte quelite; Aura fan dri fantin, ma non da ottò. E ai homi se fan fa dre mattinò, E chi ro dose son sotta se sente, Ho barcon gli’ arve e piggia i ere a mente, l'uo spuan forte dosemenli in stre. E pertusà se fan re banderette (') Per sta coverte, e vei da reguiton, Si che ghe fa gran prò quello pertuzo. E in bocca aura ghe sta ben ra lenguetla, E natura han capace de raxon, Ni chiù parlando han zarbatanne in uso (2). Ma i generosi rimprocci non ottennero che si smettessero i mali vezzi; né i genitori divennero più cauti, o si mostrarono d occhio più vigile guardando alle proprie fanciulle. Che anzi non solo dalle private abitazioni, ma ben anco da’ templi del Signore, coglievano esse l’occasione di farsi ammirare, e d’offerire di sè poco onesto spettacolo. Francesco Bosio vescovo di Novara, inviato a Genova, quale visitatore apostolico (4 582), da papa Gregorio XIII, operava pertanto da quello addottrinato e specchiatissimo pastore ch’egli era, ordinando si atterrassero le logge, dove le fanciulle raccoglievansi a udir la messa, nelle chiese specialmente de’ santi Pancrazio, Matteo, Sabina e Caterina dell’Acquasola; soggiungendo, per rispetto a quest’ultima, aver trovate d’osceni motti coperte le pareti della cappella, che (') Enrico Stefano fa menzione di una moda che in Francia a’suoi giorni era di già caduta in disuso, cioè di certe gabbie d’uccelli (specie di persiane) le quali si allogavano sul davanti delle finestre, e venivano comunemente appellale ì tdrre et non videri. « Ces cages estoyent aussi nommées des jalousies.....; et crois que c estoit pource que les maris ialoux s’en servaient contre leurs femmes » (Dialogues etc., p. 438). (2) Rime diverse, ecc., pag. 45. Vedasi anche il sonetto (p. 23): Quando ra toga antiga ancliora uzamo E I’ altro (p. 49) : Za i borni de iront’agni cran figiuoè. \ ( 237 ) alla loggia medesima sottostava. Specula seu lolla ( sono le parole del decreto) quae est a dextris ingressus ecclesiae , ubi filiae nubiles missam audiunt, et sub qua capella constructa est, removeatur , et interim interdicitur ingressus in illam, cum in pariete repertae fuerint inscriptae litterae, quae turpia et obscoena amantium dicta continent (*). Ma in mezzo a tutto ciò , nel secolo XVI la nostra storia domestica ci presenta uno spettacolo veramente grande e nuovo; e benché già da altri accennato, non ancora a sufficienza apprezzato. Uscirei dal campo delle mie ricerche, se mi dilungassi a mostrare come Genova fosse a quell’epoca divenuta ritrovo di molti fra’ più chiari intelletti onde maggiormente s’onorava l’Italia ; ma dirò in breve di quella pleiade di gentildonne, che pur vi aveano sede, e ci appariscono insieme informate alle più elette virtù e ad ogni squisito gusto di lettere. Stanno per l’uno e l’altro rispetto a capo di tutte Battistina Vernazza, Caterina Fieschi-Adorno e Tommasina Fieschi, triade veramente gloriosa, per la santità della vita e l’altezza delle dottrine manifestate in più scritture in prosa ed in verso, cosi nell’una come nell’altra lingua d’Italia (2). Girolamo Ruscelli da Viterbo, che in Venezia acquistò fama di buon grammatico e letterato instancabile, in un Discorso a Lodovico Dolce, encomia la bellezza, la gentilezza ed il vero splendore delle nobili donne di Genova, le quali tutte si danno agli studi, e principalmente a quelli della bellissima lingua nostra volgare (3). Ed invero Io stesso autore, in una Lettura impressa dal Griffio, riferisce tra le più rare gentildonne d’Italia il nome di ventitré genovesi, e si protesta di (') Synodi diocesanae etc.; Gcnuac, 1833. p. 157. (2) Intorno alle infinite bellezze di queste opere ci promette una Memoria l’egregio cav. Cornelio Dcsimoni; e noi ci auguriamo di udirla ben presto, conoscendo assai bene come i suoi dotti lavori tornino sempre cari e graditi. (sj Ruscelli, Tre discorsi a messer Lodovico Dolce; Venezia , 1554 : p. 239. 17 ( 258 ) tralasciarne altre mollissime (')• Ora si noli, clic io scrittore medesimo non ne novera clic diciasctte in Roma e ventuna a Milano; ma fra quest’ultime, due sono eziandio genovesi, cioè Livia Ricci e Lucia Sauli; e tre non ispettano propriamente alla metropoli lombarda, benché vi avessero residenza. Di quest ultime è Ippolita Gonzaga, figliuola giovanissima del celeberrimo don Ferrante; ed il Ruscelli narrando come di lei molti scrivessero le lodi, cita fra gli altri i genovesi Francesco Sauli, Stefano Spinola, Branca D’Oria, Bernardo Gentile e Giambattista Ciceri (2). Fra le donne genovesi citate dal Ruscelli si trova la bella Tu>- (') Sono esse: le nobilissime, et deipari bellissime et honoratissime signore. Nicoletta Bava, Luebina e Peretta Cattaneo, Battina, Lavinia, Maria e Selvaggina Centurione, Tedina Cicala, Isabella e Pellina De Marini , Mariettina Grimaldi, Franccschctta Imperiale, Claudia, Margheritina, Pellegrina c Pellina Lercari , Hai tina Lomellini, Permetta Rocchi-Spinola, Nicoletta e Ture-betta Spinola, Maria Spinola-Porrata , Maria Spinola-Riccardina e Maria Squarciafico. 'V dû Ruscelli, Lettura sopra un Sonetto dell' Illustriss. Signor Marchese Della Tei ~a alla duina Signora Marchesa Del f asto, ecc.; Venezia, 1552; p. 65. (2) Ruscelli, Lettura ecc., p. G9. E gli uomini invero non la cedevano allora per isquisitezza di lettere alle gentildonne; che anzi ne promossero il culto ed il gusto in Italia e fuori, cooperando all’incremento delle più illustri Accademie fondandone altre. È celebre quella instiluita da Stefano Sauli in una sua \illa amenissima, nei suburbani di Genova, ove egli stesso condusse da Padova a ar parte Marcantonio Flaminio, Giulio Camillo, Sebastiano Delio, ed altri letterali sommo grido. Il Tiraboschi afferma bene a ragione , che questa Accademia aver luogo tra le più illustri. In quella degli Addormentati, stabilita pure in Genova, Gabriello Chiabrera rccilò più discorsi che si leggono a stampa. A Roma il genovese datario Gian Matteo Giberti, ne aveva molto tempo innanzi fon ^ una in cerli suoi orli deliziosi; a Milano, per opera di \inccnz.o Citala, scuole di Brera, sorse quella degli Arisoft, detta anche Partenia maggiore, a p muovere gli studii filosofici ; ed alla fondazione di una seconda destinai.! alle amen lettere concorsero grandemente i già citali Branca D’Oria e Bernardo Gentile. Venezia, tra’ più distinti membri dell’Accademia degli Incogniti levarono gran fama Anton Giulio Brignole-Sale, Ansaldo Cebà, Andrea Fossa, Agostino Fusconi, il P. Angelo Grillo, Gian Vincenzo Imperiale, Agostino Mascardi, Ber nardo Morandi, Tommaso Spinola. Finalmente, circa il 1578, alcuni nobili genovesi aveano stabilita quella dei Confusi in Anversa (V. Spotorno, Slor. Lett., iv, 2.>2 256, Dolce, Tre discorsi ecc., p. 238 ; Le glorie degli Incogniti, Venezia, 1647). ( 259 ) chèlta Spinola; e di lei scrisse pure il Bonfadio, nel dar rontezza della propria dimora in Genova al conte Fortunato Marlinengo : « La terra è bella, l’aria è buona, la conversazione grata...... Dello madonne, la Turca solo può far fede a Vostra Signoria che qui regna Amore » ('). Bartolommeo Paschetli afferma a sua volta che uomini e donne, massime nobili, erano generalmente d’avvenenza dotati; e segue partitamele indicando quali dame brillassero sulle altre in fatto di pregi e di vezzi. Io sarò pago di venirle in calce enumerando (2); nè temerò aver taccia di ribelle a’ precetti cavallereschi, conciossiachè quelle bellezze da troppo lunga stagione passate, ohimè! nell’assoluto ed esclusivo campo archeologico, non ponno al certo vantare in oggi alcuno che sia di me più tenero, e più sollecito di loro fama. Paolo Foglietta ha versi in lode di Placidia Pallavicino, a cui s’intitolano le sue Rime; e della quale affermasi che, Venere novella, ogni altra donna precedeva in bellezza, grazia e cortesia, e del poetare genovese e toscano grandemente si dilettai a (:t). Di Maddalena Pallavicini molti poetici componimenti stam-paronsi a Lucca, nel 1559; d’Eleonora Cibo moglie al conte Gian Luigi Fieschi e d’Ortensia Lomellini de’ Fieschi abbiamo alcune rime, impresse tra quelle di Faustino Tasso in Torino (') Bonfadio, Lettere-, Parma, 1783; p. 117. (2) Tali sono: Giovanna moglie di G. B. D’Oria marchese di Santo Stefano e di Ginnosa ; Geronima loro figlia, e moglie a Cesare Pallavicino ; Geronima D’Oria; Battistina, Camilla, Maddalena ed Ottavia Pallavicino; Aurclia, Paola, Placidia, Porzia e Violante Spinola, Caletta Negrone; Faustina Vivaldi ; Pomellina Terrile ; Maddalena Moneglia ; Ginelta Gentile; Marielta Lercari; Cecilia Rivarola; Porzia Vaccari ; Livia Cananeo; Bianca Imperiale; Giulia Grimaldi; Cecilia De Marini; Cecilia Di Negro; Geronima Lomellini; Marietta Raggi; Cornelia Ccnlurione (V. Paschetti, Bellezze .di Genova, p. 49). (3) Vedasi il sonetto a Placidia Pallavicino nelle Rime diverse in lingua genovese, stampale in Torino il 1GI2 (pag. 10). Golilvannio Salliebregno (// Carnovale, p. 27 e seg.), parla con molto favore di Erncgilda Gridalma (Nicoletta Grimaldi) Aurelia Raggi e Francesca De Marini. ( 2(50 ) nel 1573; ed allre ne possediamo di Livia Spinola nella raccolta pubblicala in Genova dal Barloli correndo il I59i ('). Angela Veronica Airoli, canonichessa. regolare a san Barto-lommeo dell'OIivelia, e discepola del Sarzana, diè mano a parecchi dipinti non destituiti di pregio; ma Sofonisba Anguissola, dotta nelle lettere e nella musica, che visse in Genova mol-t’anni e vi fu sposa ad Orazio Lomellini, garreggiò coi più famosi pennelli, ne superò buona parte nel difficile magisterio del colorire, ed in quello del ritrarre uguagliò lo stesso Tiziano (2). Intanto fra l’esercizio delle più gentili discipline e dell arti leggiadre, si rinvigorivano i sentimenti di religione e carità cittadina; allora Virginia Ccnturione-Bracelli, donna di vaste cognizioni e di profondi studi in più lingue, apriva (1630) il Conservatorio di S. Maria del Rifugio, a tutela dell onore di tante derelitte fanciulle; ed Emanuele Brignole fonda\a (1655) l’Albergo dei Poveri di Carbonara. Ma quel vivere informato a si eletti e squisiti sensi non durò lunga stagione. Paolo Giovio ricordava di già che l andai e molto intorno burlando e trattenendosi con vane dame, eia vezzo famigliare a’ suoi di tra i cavalieri genovesi (3). Ed il citato Ragionamento riferisce, che « le moderne giovanette.....subito che a casa del novello sposo si ritrovano, vogliono 1 Adone che gli (sic) dica nelle veglie la parolelta all orecchio , et le corteggi nelle chiese, e per le ville li tenga gioco, talché la maggior parte de’ giovani da queste tali caparrati . . • sono, et molte di loro non contente di un solo, procurano haverne quanti più possono, per parere di essere Ira l’altre più stimate (') Spotorno, Stor. Lett., iv, 109, 1H. Celesia , La congiura det l'tosco, l>. 87. (2) Soprani, Vite, ecc. p. 2S3, 306. (3) Giovio , Delle imprese militari ccc. ( 201 ) et le più piaciute ; cl tarili sono li favori clic gli fanno , clic tutti a gara 1’ un dell’ altro ci concorrono » ('). Allora inoltre venne fuori quella galanteria clic è amore senza passione, e si contrasse il morbo nuovo del cicisbeismo: « legame insulso, che non avea tampoco l’energia del vizio, logorava la gioventù in corteggiamenti, baciamani e fatue smancerie, con una dama scelta per convenienza e non per cuore, coltivata con ostentazione e con faticose premure del vestire, del comparire, dello smascliiarsi. Quest’ affetto di mera vanità pro-duceva alla donna i difetti della lubricità, senza che ne avesse le scuse ; le dava un altro confidente che il padre de’ suoi figli, riconosciuto pubblicamente, talora stipulato nei contratti: svogliava dalle dolcezze domestiche, dall’attenzione ai figli, dalia-riverenza al marito, che ridotto al secondo grado nella propria famiglia , ed occhieggiato nell’ intimo delle proprie abitudini, non trovava in casa quell’ onorevole e soave riposo che disacerba tante amarezze della vita » (-). A Genova i cicisbei pigliavan nome di braccieri o patiti; e l’uso ne invalse tanto, e fu così generalmente ammesso, che perfino la Repubblica, nel determinare le spese ed il corteggio de’ suoi ambasciatori, stabiliva per legge (-12 gennaio 1063), che ove il nunzio avesse recata seco la moglie, il bracciere entrasse a far numero tra’ suoi famigliar), mantenuti e servili col denaro del pubblico erario ! L’ abbigliatolo era per tutto ciò venuto usurpando lunghe ore anche agli uomini. Quelli di età matura vestivano di nero alla spagnuola, e con ogni ricercatezza; nè riteneano di sodi propositi chiunque si permetteva indossare fogge diverse; ed aveano coi giovani quelle relazioni che appena comandavano civiltà o parentela. Ripartivano il giorno fra l’amministrazione (') Ragionamento, ecc., p. 12. (-2j Cantù, Storia degli italiani, voi. in, p. 531. ( 262 ) della cosa pubblica, i negozi privati, le cure domestiche, gli uflìcii di religione; e nella pratica di questi ultimi cadeano in affettazioni cosi smodate, clic facilmente muovevano chiunque alle risa. Bello è il vederli, scrive Cesare Salbrigio (autore partigiano, ma di severe massime), far ressa intorno al sacerdote quando muove agli altari, e accompagnarne ad alta voce le preci; sicché il tempio di Dio sèmbrati convertilo in sinagoga o moschea. Non vanno per la città senza stringere fra le mani il rosario, né rispondono al saluto senza qualche giaculatoria; ma nelle private loro congregazioni, ove adunansi a scopo d’infinta pietà, trattano e decretano di tutto ciò che s appartiene al governo ed allo Stato ('). I giovani al contrario mostravano leggerezza in ogni cosa; poltrivano negli ozi, abbandonavansi al giuoco, s’addormenta-tavano tra gli amori. Architettavano il capo con istrane e svariatissime fogge d’acconciature (2) ; e vi spargeano a larga mano le essenze più preziose d’Arabia. Per lo che Ansaldo Cebà, riprovando altamente l’imbelle vita e il lascivire de suoi contemporanei, con santo sdegno esclama: Ahi quanto meglio in cavo acciar rinchiuso L’ottomaniche squadre, e l’empia ernie Spaventerebbe il crin, che sì vilmente Di femminili odor ti veggio infuso ! (3) Vestivano essi in varie guise: portavano abito e giubbone a ricami assestato e con picciole falde, calzoni alla vallona(i), (') Salbrigio, Politiche malattie detta Repubblica di Genova. Francòfone, 1655 ; ed Amberga, 1676. Capo ix. (2) L’uso della parrucca divenne comune dopo la metà del secolo xwi. (V. Tiers, Storia delle parrucche; Venezia, 1724; p. 25). Colla Prammatica, del 1675 proibiscono a gl’ huomini le parucchc, o sia capeglicre dette biondini ». (3) Ceca’, Rime. Roma, 1611; pag. 36. Il poeta allude alle frequenti ed impunite correrie de’ barbareschi nel mare ligustico. Sul che vedutisi pure i versi di I I oglictU (4j L’Acinelli nota che i calzoni « giravano palmi 38, cioè 19 per ganibèra, non arrivavano fino al ginocchio ». Di naslro facevasi uno spreco indicibile, ialine J ( 2G3 ) calzclti a colori c manichini costosi alla spagnuola, cappello e scarpettini alla francese, corno da ballo c di gran valore, e guarnivano il cappello, non che di piume, con fiori leggiadramente indorati. Tutto parea inventato per moltiplicare legami, e costringere a non muoversi che in passi di minuetto (')• La spada che cingeano al fianco era una parodia delle imbelli e corrotte abitudini, non altrimenti che i voti di castità e povertà che facevano i cadetti, entrando cavalieri di Malta; per cui l'unico merito richiesto era la provata nobiltà (2). Ascondeano inoltre nelle maniche una picciola daga, o qualche bocca da fuoco; e taluni eziandio più timorosi, vestivano il corsaletto, per meglio assicurarsi da eventi e lotte imprevedute (3). Delle quali cose tutte pur si doleva forte il Cebà; e in questi sensi sfogava l’amaritudine del generoso animo suo: A far preda del cor de le donzelle Veggo trapunger sete, increspar lini E l’acqua distillar dai gelsomini, Onde lusinga Amor Palme ribelle. Sento raddolcir lingue, armar favelle, Perdi’a far l’altrui voglia un cor s’inchini; li per entro i suoi ghiacci adamantini Fulminar coi sospir dardi e fiammelle. Questi son gli stendardi ! Ond’uom si vanta Ad altri acquisti (oimè) crociarsi il petto, Che della terra avventurosa e santa. E di' sfrondi Ottoman col ferro stretto I rami ancor de la sua propria pianta, Non turba a la mia patria il suo diletto (4). per ogni vestito se ne consumavano più di mille palmi (V. Artifizio concilili Governo democratico di Genova sia passato nell’aristocratico; MS. autografo presso l’avv. Avignone, p. 140) (>) Si vedano i sonetti sulla toga, del precitato Foglietta. (2) Cantò, Storia degli italiani, voi. ìv. o32. (3) Salurigio, capo ix. (4) Ceda’, Rime ecc., p. 36. ( 264 ) Pochi uscivano dal suolo natale, per acquistare, viaggiando, utili cognizioni, od anco per apprendere gli esercizi cavallereschi. « Se amassero le scienze o le muse, prosegue il citalo Sal-brigio, sarebbero per la vivacità del loro ingegno da esse riamali; ma pochi le curano. Se donano qualche piccolo tempo alla lettura, nella Cassandra o nel Colloandro si trattengono; ma le buone istorie hanno in fastidio » ('). Raccolgonsi a liete brigate nelle logge; ed ivi disegnano strani e indegni sollazzi. Ne’ portici che s’appellano di Solto-npa tengono buona provvista di bucce d’agrumi, e ne percuotono il capo a’ mercanti che per di là si recano a’ loro ufficii; altrove con ritorte funicelle tendono lacci a’ passanti, che v incespicano e cadono, riportandone talfiata danni e sconciature alla persona; ovvero li stordiscono col subitaneo esplodere di più razzi, che vanno al proposito disponendo su qualche crocicchio. Ma un bel giorno al ricorrere della mezza Quaresima, trovano che I’ occasione è propizia a nuove imprese, e lietamente l’afferrano. Per Io che, invasa la piazza de’ Banchi, e stesevi soffici coperte, giuocano sovra di queste alla palla di quanti vi trovano, e di quanti altri la mala ventura ha fatti sopravvenire. Nè erano soltanto gente dappoco; pia qualcheduno, che per parentela e titoli illustri non mediocremente rispondeva, fu visto volare e fari torni per l’aria a gara con le nottole. Chi tentava fuggire veniva respinto da gente d’armi appostata al bisogno; ed era perciò costretto ad offerire di se triste zimbello (2). (’j Capo IX. (2; Salbrigio, capo x. Quest’ullimo fatto avvenne pochi anni avanti il J655. Indi l'autore così prosegue: « L’onore delle donne (se loro vicn fattoj con arti-fi. ii rapiscono ; e, quando loro non giovano, vi sono molli che non mancano di por fine con violenza a’ loro desiderii. Un giovane delle migliori famiglie degli ascritti (alla nobiltà) ardeva per un’onesta e ben nata donzella. Essendogli inutili le altre vie......., mentre in seggia da una sua parente ella si faceva portare, accompagnato da molli, la rapì, e condusse in luogo remoto. Saziala la ( 26S ) lutto volgeva dunque alla peggio; e, sbandita perfino ogni tradizione e costumanza antica, crasi acconciato alla imitazione la più servile ed abbietta, e costipato entro l’augusta cerchia del più ridicolo cerimoniale ('). Paulo Foglietta di già si lagna, che: Ri costumi e re lengue homo cangiò l’uoe die re toglie chiù if usemo chic, Che galere dighemo a re garie, E fradelli dighemo à nostri Ire. li scarpe ancon digheino a ri cazè, E insalatimi a l’insisamme assïe, Si che un vegio zeneize come mie Questi tuschcn no intende azeineisò. E pà che lengue d’ atri haora gustemo In bocca chiù dre nostre tutti (pienti, Ch’ ognun re lengue d’ atri in bocca vuoè (2) sua libidine.....la sottopose alle voglie di tutti gli altri anche più vili , e pui nella pubblica strada spietatamente la rimise. Con tutto ciò, sostenuto da’ suoi, invano reclamando gli offesi, con breve esiglio fu piuttosto invitato a nuovi eccessi, che punito ». (*) L’Acinelli (Supplemento all' Artifizio, ms. autografo, p. 154) ricorda che i patrizi e le loro mogli « serbano la distinzione dall’altro genere di cittadini in le carrozze ; portano il loro cocchiere assiso in cascietta, portantini con livrea alle bussole, e le dame col strascino, col lachiere o paggio dietro che lo regge in l’estremità, di modo che non lo strascinino p. r terra ■> mentre gli altri cittadini portano « il cocchiere all’ uso de’ postiglioni a cavallo, e li portantini di piazza. Li nobili poi, se vanno in compagnia de’ sacerdoti, si prendono la parte dritta . . . Sendo in ultimo luogo insorto nuovo cerimoniale, il Duce e senatori, quando fa-ceano la comunione in S. Lorenzo, andavano a’piedi de’gradini dell’aitar maggiore ; ora il sacerdote clic celebra è obbligato scendere i gradini tutti, et ad andarli a comunicare al loro stallo, ossia dove siedono secondo il loro rango. Avendo un nobile contratto un debito di non poca conseguenza con un patiere (mercante di panni), per quanti viaggi et istanze lui facte, mai compiva ; onde disseti il pal-tiere : io sono pronto a rimetterli il debito, purché per sei mesi mi impresti la sua carrozza quando ne averò di bisogno assieme il cocchiere con la livrea. Gliela accordò ; onde con questo mezzo il paniere fece tanti sfrodi, che si ricompensò comodissimaniente. Sì facta industria dà a divedere il vantaggio che hanno con le loro carrozze li signori patritii,"e le livree de’loro serventi, tutte venerate dai birri ». (2j Rime, ecc., p. 49. ( 266 ) Ma che avrebbe dello il poeta nell’impeto dell’ira sua, se fosse vivalo tanto da vedere la Signoria mandar fuori, senza tema d’avvilire la propria maestà, un decreto in idioma spaglinolo, e consentire che altri di frequente l’usasse nelle predicazioni dall’alto de’ pergami? (*)• Di queste ci assicura un autore contemporaneo esservi stato gran prurito; e chi vi andava non si parea volgare (2). Io credo che pur ne fremesse la grande anima del Giustiniani, quando penso che nello scrivere gli Annali della patria egli si professa apertamente poco scrupoloso per ciò che spetta alla lingua, in quanto che nell’eccessivo amore del luogo natio non si cura di venire riputato toscano, ma vuole da ognuno essere conosciuto per genovese (1). iVa quello che è più grave e di maggior dolore ci affligge, egli é il vedere come l’immonda scabbie del vizio neppure avesse risparmiati i santi asili, nè rispettati i cenobii ed i chiostri. Pel che ci è d’uopo rifarci bnon tratto indietro, e rimontare il corso dei secoli. Un frammento di costituzione emanata dall’arcivescovo Jacopo da Varazze, e confermata il 1299 dal celebre ghibellino Porchelto Spinola, ci fa conoscere come vi avessero sacerdoti, che nè A proposito dei predicatori, la grida del 4488 (ms. presso I’avv. Avignone) lia questa curiosa disposizione: « Perchè s’è visto e vede per e (Te Iti, clic a 11 i predicatori al tempo della Quaresima si fa e manda desinari di grande spesa e soperchio, volendo provvedere a ciò per tutto il bene universale, si statuisce che de cetero alli detti predicatori non si possa mandare, nè per desinari nè per altro, salvo una cosa onesta e di poca spesa, e con una dimissa di pesci tanto ». (2) V. Olivieri, Carte e cronache ecc., p. 56. (3j Giustiniani, Proemio arjti Annali, p. 12. Mentre l’Italia si asserviva così perfino in ciò che niuna tirannide varrebbe a spegnere, è singolare il vedere come in Francia si ospitasse la lingua nostra, comecché in modo assai strano e bizzarro. Allora in quel Reame, e segnatamente alla Corte, s’introdusse l’usanza di parlare l’italiano in francese, precisamente come ora molti allettano di parlare il francese in italiano. Questa usanza riprovata senza fine da Enrico Stefano, gli suggerì appunto i due preziosi Dialoghi sul français ilalianizè, di che ci occorse più volle di fare menzione. ( 267 ) viveano secondo lo stato loro, nè portavano la tonsura e l'a-bilo degli ecclesiastici: nec clericciter vivunt, nec obitum clericalem deferunt ('). Nel 1302 Guglielmo ministro della chiesa •li santa Maria di Noceto promette al Vicario Arcivescovile, ch’ei non si terrà più oltre pubblicamente veruna concubina in casa, ovvero nel distretto della Parrocchia, od anche altrove, sotto pena di lire 50 (v); del 1456 Tommaso da Noceto, dell’ordine di san Domenico, è coinvolto in un processo turpissimo, ed accusalo d’infami tresche con una schiava(3); e del 4465 Corrado delle Isole, priore degli Umiliati di santa Marta, reo di nefandezze con Despina monaca, viene da suoi correligiosi imprigionato a Milano (4). Un atto infine del 1460 ci mostra come la Signoria si andasse allora pigliando cura di trovare onesto collocamento alla figliuola di un frate Mauro Marchigiano, la quale abbandonata dal padre nella miseria correva pericolo dell’onore (5). Contro i frati e le monache, e intorno alla necessità di riformarne la disciplina e lo stalo, molti sono i decreti ('’•) pronunciati dalla Signoria (1446-1490). Un lettera poi di frate Zannetto o Giovanni da Udine, maestro generale dell’Ordine de’ minori di san Francesco (1472), viene a conferma amplissima di quegli alti, asserendo che i frati e le monache della provincia di Genova se ne vivono incontinentemente, senza (*) Miscellanee Ageno, num. vii. (2) Fol. Not., vol. in, par. h, car. 359. (3) Id. ìv, 468. (4 j Tiradoschi , Vetera humiliatorum monumenta, voi. m, p. 62. (5j 1480, 18 ianuarii. Cum audivissent fratrem Maurum Marcliexanum reliquisse unam eius filiam naturalem nunc nubilem, vagantemque per varias domos non sine periculo honoris, inventumque esse virum qui eam in uxorem accipere velit,.... modo dos honesta illi constituatur ( Diversorum Communis Januae etc.) (c) Diversorum citati. Anche l’arcivescovo Pileo Dc Marini fu, a detta del Giustiniani (vol. ii, p. 230) « severo correttore dei clicrici e delle monache alla sua cura commesse ». ( 208 ) freno e religione: incontinenter, sine freno et irreligiose vivunt (')• E sappiamo d'altra parte, clic le domenicane do’ san li Giacomo e Filippo fuori gli archi dell’Acquasola, si arbitravano di lasciare la clausura a loro posta; e, quando tornavano al chiostro, dicevano alla priorissa: Madre, con vostra licenza, siam ite a diporto (■). Ma a tanto scandalo si commossero infine gli animi onesti; ed il Senato, dietro le istanze reiterate de’ cittadini, fattone consapevole il pontefice Eugenio IV (1444), il venne caldamente pregando di porvi un riparo, e lo richiese di spedire a dare assetto alle cose quella esemplar femmina che la patria riconosceva nella sua Filippa D’Oria, monaca allora in san Domenico a Pisa. Del clic tutto il Papa sollecitamente compiacque alla Signoria; nè mollo andò che l’autorità dell’egregia donna e l’esempio delle sue virtù, parvero ritornare nel munistero dell’ Acquasola la sommessione alle regole dell’ istituto e la claustrale disciplina. Uopo è confessare però, che Filippa resasi poco dopo, insieme a Tommasa Gambacurti, fondatrice del convento di san Silvestro che fu poi detto di Pisa, non lasciò al buon seme giltato il tempo che si rendea necessario al germogliare ed al produrre i frutti desiderati. Sicché tornando più facile il ricadere nell'ampia via del male di quello che perdurare nell’arduo sentiero del bene, a niuno recherà meraviglia l’udire come le religiose de’ santi Giacomo e Filippo riabbracciassero assai prestamente l’antico tenore di vita. Un breve di papa Alessandro VI (1497) lamenta, che: moniales ipsae, abiecta i eligionis honestate, extra dictum monasterium pro libito 0) Tot. Not., iv. 788. (2) Bandello, Novelle. Nei registri. Diversorum Communis Januae (Archivi Generali del Regno in Torino) si leggono i seguenti decreti della Signoria: 1443, 19 ianuarii: Decretum contra vitam monialium sancti Plülippi et Jacobi. 1466, 14 martii: De monacabus cohibendis. 1407,10 ianuarii: Contra monia'es. 1572, 30 aprilis. De reformatione status monialium. ( 2G9 ) el desiderio suo per lolam urbem vagantur, et inhonestam vitam ducunt in' ipsius religionis oprobrium, animarum earum dem periculum, et totius populi ianuehsis scandalum non modicum; c però comanda al maestro generale dell’Ordine di san Domenico, clic si spenda ogni cura e si adoperi ogni mezzo ad infrenare gli scandali e sradicare i disordini. Al che vennero poi specialmente commessi i frati di santa Maria di Castello, con facoltà eziandio di valersi, del braccio secolare. Allora fu fatto precetto alle suore d’acconciarsi a nuove leggi o di sfrattare; e trovatosi come dieci solamente fossero quelle che alla libertà preferivano il chiostro, ne passarono quivi dalla novella casa di san Silvestro quante altre parvero necessarie a ritornarlo in fiore ('). Ma le savie costituzioni ricevono tanto maggior forza, quanto meglio si corroborano colla virtù dell’esempio. Quindi a noi sarà lecito il domandare se le monache di Genova poteano di buon grado assoggettarsi a rigorose discipline, o se piuttosto non aveano giuoco assai facile di schermirsene, allora che queste si andavano altrove smettendo, e Roderigo Lenzoli-Borgia contaminava la purezza della sedia pontificale (2). Anche a Venezia i chiostri versavano di que’ giorni in condizioni tristissime, ed erano in pessima rinomanza come campo ad intrighi e convegni. Le leggi di quella Repubblica escludendo dai civili (') Muzio, Apparato dell'istoria dei monasteri dell’ Ordine di san Domenico in Genova. MS. d Ila Civico-Beriana. (2) Un breve di papa Clemente VII ( 21 gennaio 4529 ), prova la veritiì (lolla nostra asserzione ; giacché il pontefice, comcttendo all'Arcivescovo di Genova cd al Priore di san Teodoro d’attendere alla riforma de’ munisteri, insieme a quei cittadini che a ciò avesse delegati il Senato, dice chiaramente clic le monache continuavano nella rilassatezza del costume, ex maiori frequentia et familiarilate cum clericis, religiosis et secularibus personis (Olivieri, Carte e cronache ecc. , p. C2i). Una bolla di papa Giulio III, in data del 4 settembre 15'il replica le cose conlemite in questo breve; il quale pertanto deve ritenersi come il principio di quel Magistrato che si disse delle monache, e che il Senato ( 270 ) diritti i mancipii, nè ammettendoli a prestare in giudizio testimonianza o giuramento di sorta, accoglievano però le deposizioni e le prove delle schiave delle monache, nel caso di fornicazione delle padrone loro con qual, uomo si fosse; ed il panegirista d Andrea Contarmi gli facea pubblico merito a quel doge d avere resistito alle tentazioni delle monache (J). Di si detestabile andazzo risentivansi intanto anche gli altri luoghi pii, e i sagri templi; dove alla floridezza ed opulenza dei secoli andati faceano contrapposto lo squallore e la povertà del presente. 11 visitatore apostolico Francesco Bosio, già per 1 innanzi da noi mentovato, nella sua lettera pastorale a’ ge-noAesi (1585) scriveva: « In cotesta vostra città ho veduto gli edificii privati assai belli et magnifici, eli’in un certo modo par che passino Ja cristiana modestia, et in qualche parte anco il buono stato d’una ben moderata Repubblica; ma al contrario ho trovato le chiese per il più tanto povere.....che offendono l’illustre riputation di così pia et ornata Repubblica » (2). Pochi erano i sacerdoti, e per giunta rarissimi quelli che potessero chiamarsi per vita e dottrina specchiati; comecché la maggior parte inchinassero al vivere spensierato e mondano. Portavano lunga barba, annella, guanti, dilicate e seriche vestimenta, cosparse di profumi e d’essenze; frequentavano le taverne, assistevano a conviti e festini, e mescolavansi alle rappresentazioni sceniche, onde ben di frequente li rallegravano ordinò stabilmente con decreto del li genniio 1355. Constava dell’Arcivescovo, e di tre cittadini da rinnovarsi ogni triennio; dovea correggere c riformare la disciplina de’ munisteri ; punire di pene corporali e pecuniarie cosi i laici come i religiosi che commettessero delitti contro le monache e le case loro; ed invigilare alla reità amministrazione de’ chiostri (V. Magistrati di Genova, MS. della Civico-Beriana). (J) Cantù, Storia degli italiani, in, 708, iv, 555; La/.am, Del traffico e delle condizioni degli schiavi in Venezia, Dissertazione inserita nella Miscellanea di Storia Italiana, voi. i, p. 484. (2) Synodi dioccsanae et provinciales, etc. pag. 506. * ( 271 ) i commedianti e gli istrioni ('). Por la qual cosa il Bosio, nel-1 esercizio oltre modo difficile dell'alto suo ministero, qualificandoli indegni ed inetti, ne sospendeva ben molli dalla celebrazione degli uffizi divini e dalla cura delle anime; e fra questi Barlolòmmeo Micone, rettore di san Silvestro, qui la-tinam linguam non callet, et fidei rudimenta ignorat (2). Do-leasi che il rettore di san Giovanni di Borbonino tenesse in chiesa i vasi vinarii, ed i nidi delle colombe; multava di dieci scudi 1 arciprete di san Martino d’Albaro, qui in examine valde ignarus repertus est, quique etiam male audit quoad mores el vitae continentiam (3); ed ai parroci delle chiese di santa Sabina, sant'Agnese, san Sisto e più altre della città, imponeva l’obbligo d'imparare, non che altro, la dottrina cristiana; acciocché, entro un dato spazio di tempo, si trovassero in grado di predicare in ogni domenica al popolo il Catechismo ed il Vangelo. Ma qui facciamo punto al nostro dire, onde non oltrepassare di soverchio il confine, che ci siamo venuti per più ragioni imponendo. Nè è senza provare un intimo senso di viva compiacenza, clic oramai ce ne veggiamo segnato l’ultimo termine. Vasto ed importante argomento invero, ci ha somministrato la vita privata de’ genovesi; il cui ritratto non venne prima che da noi trattato, neppure da altri adombrato. Oggetto di profonde osservazioni allo studioso, a tutti fecondo di utili o piacevoli insegnamenti! Storici e cronisti, novellieri e poeti vennero a gara somministrando i materiali all’edificio; intorno (’) Synodi etc., p. 318 e seguenti. Anche il cardinale Antonio Sauli, nel si-nodo diocesano celebrato il 1588, lamenta forte la vita sregolata de’ cherici ; e stabilisce che coloro i quali ardiranno indossare vesti non dicevoli ' al proprio stato, le perderanno, c pagheranno due lire di multa. I frequentatori di taverne saranno puniti con pene pecuniarie e col carcere (ld. p. 547). (2) Op. cit., p. 150. (3) Op. cit, p. 481. 182. ( 272 ) a cui durammo diligenze e fatiche, per quanto era da noi; ma sopra tutti ci furono di scorta r documenti officiali e i protocolli de notari, i cui atti molteplici ponno bene considerarsi come la statistica dello incivilimento nell’evo medio. 11 nostro amore di pallia ha potuto per un istante crearci una dolce illusione ; e quasi lasciarne credere di avere a nostro benefizio squarciato il '«-lo, onde il passato si divide da questo presente, il quale fuggt senza posa e ci inabbissa nelle ansie e nella oscurità del futuro. Noi abbiamo, per cosi dire, sorpresi i nostri padri nelle loro più care abitudini, nelle loro particolari costumanze; e quasi parve anche a noi di seguirle, e vivere in mezzo ad essi. Le storie passate, non che presso di noi appo d’ogni altro popolo, sono, a così esprimerci, aristocratiche; e sdegnano tutto ciò che non conduce a grandi imprese, a fatti sublimi. 1 òssiamo dunque rallegrarci di avere con questa Memoria colmato un vuoto, che altri aveva di già avvertito e riempiuto per la loscana, la Lombardia, la Venezia, il Piemonte. Dell’esito non é da noi il toccare; si concluderemo con Cesare Cantù, che le lungagne che altri spenderebbe per avventura intorno a battaglie, noi le occupammo volentieri intorno alla pittura delle cose domestiche, non solamente per la predilezione che portiamo a tali studi, ma perché meglio ci rappresentano ciò che noi cerchiamo: gli uomini di ciascuna età. Avvertenza. — Alla p;ig. 96, lin. 9, ove si parla degli sondi con entro lettere iniziali, occorre questa nota, la quale fu per mera inavvertenza tralasciata n Ila compaginazione. Nel palazzo già ricordalo di piazza Fontane Morose, entro scudi cimati : J. S. (Jacobus Spinola). Nel fregio del portico di quello donalo dalla Repubblica a Pa- ( 273 ) gano D’ Oria, ove in oggi sono stabilite le Scuole Tecniche della Camera di Commercio : P. A. (Paganus Auria). Ai lati di uno scudo in fronte all’edificio di cui il Comune fece presente ad Andrea D’Oria : C. A. (Conradus Auria, che nel secolo xv il fece innalzare). Le lettere P. S. stanno ai lati di un basso rilievo di san Giorgio ( secolo xv ), che sormonta l’ingresso di un palazzo Spinola in piazza Pelliccieria ; in due scudi del fregio interno di altro palazzo già Spinola cd ora Romanengo, in via della Posta vecchia, si legge I. S. ; le lettere A. S. veggonsi in due tavolette degli stipiti di un palazzo che fu de’ Sauli, ed è situato nella omonima piazzetta; A. C., nel fregio del portico di uno de’palazzi Cattaneo, di fianco alla chiesa di san Torpete; ecc. ecc. \ 18 if - —- ■Ì7 ì ì , ' . ■» ' : ! ‘ • '• . ... . • • * . [* i.,;, ■ t . -, . i • *4 I....._ • • DI INA TAVOLA DEL SECOLO XV RAPPRESENTANTE B. VERGINE ANNUNZIATA LETTERA AL P. AMEDEO RAIMONDO VIGNA DEL SOCIO LUIGI TOMMASO BELGRANO . , . ' . * . ■ . « ’ . n ' I 1 I m ■ •' ' 4 . » Mio Ottimo Amico , Nelle scorse ferie autunnali trovandomi a ragionare coll’egregio professore Giovanni Pennacchi dei lavori della nostra Società di Storia Patria, ed in particolare di quelli che riflettono il compito della Sezione di Belle Arti, sapendolo bene addentro nella conoscenza delle medesime , mi prese vaghezza di chiedergli se contava dar opera ad una qualche Memoria, che potesse venir letta nelle adunanze della Sezione stessa. Nè quel mio amato maestro si chiarì alieno da tale proposito ; anzi volle per mio mezzo interrogare sulla scelta dell’argomento il eh. nostro P. Marchese ; il quale vennegli perciò suggerendo gli piacesse di illustrare quella tavola della Nunziata, che decorava in origine l’omonima cappella nella chiesa di santa Maria di Castello, ed ora si custodisce presso l’altare d’Ognissanti. 11 professore Pennacchi accettò di lieto animo siffatto consiglio, e mi lasciò colla speranza che all’aprirsi del nuovo anno accademico avremmo udito un lavoro, degno per fermo di quel prezioso dipinto ; ma varie occupazioni lo distolsero poi 16’ ( 278 ) dal suo divisamente. Allora io stesso, non oso dire invero con qual fortuna ed ardire, determinai colorire il disegno; e svolsi così le poche idee che invio alla antica e sperimentata di Lei amicizia. La tavola di cui è caso si eleva su di un gradino, parlito in quattro divisioni da ornamenti in legno intagliati e dorati. La sormontano altrettante svelte lesene ; e ne serrano il campo in tre grandi scomparti, coronati da baldacchini sporgenti al-l’infuori. Le composizioni del gradino indicato rappresentano le spon-salizie della Madonna ed il suo incontro con santa Elisabetta, la nascita di Gesù, l’adorazione dei Magi, la Fuga in Egitto e la Purificazione della B. Vergine. Sono ideate con semplicità veramente ammirabile, e condotte con tanta squisitezza di disegno, che, sebbene ristrette a piccolissime proporzioni, mostrano assai chiaro come 1’ artista siasi dato gran cura anche dei più minuti dettagli. Nel quadro propriamente, e nello scomparto mezzano, si raffigura il mistero della Annunciazione, onde 1 ancona s intitola; e l’arricchisce una bella gloria d’angioli, i quali c*r' condano in atto di adorazione l'Eterno. Ivi l’arcangelo Gabriele, che piegando le ginocchia dinanzi alla Vergine pronuncia il misterioso saluto, è coperto di una lunga tunica di bioc cato d’oro , messa ad ornamenti rossastri, con un cappuccio che gli ricade leggiadramente in sulle spalle; la Madonna in dossa una veste di consimile opera, ed ha fermato sul petto un ricco manto azzurro contorniato da un largo fregio d oro, che con naturale semplicità e bei partiti di pieghe le scende dagli omeri infino a terra. Finitissimi e studiati sono poi gli accessorii; come sarebbero il grazioso inginocchiatoio su cui posa la Vergine, che è finito di varii legni commessi ad intarsio, ed i cui sportelli a riquadri, semiaperti, lasciano scorgervi dentro libri, pergamene ed utensili per donneschi la- ( 279 ) veri ; la fontana elegantissima che sorge da un Iato a qualche distanza, e tutta insomma la scena disposta a guisa di maestoso loggiato sorretto da pilastri decorati d’intagli e figure panneggiate, mentre da lunge appariscono le mura di Nazaret e le circostanti colline ammantate già di verzura primaverile. Gli scomparti laterali, ove pure si continua il loggiato, vanno adorni ciascuno di due figure : a destra i santi Pietro martire e Sebastiano; a sinistra il Battista e l’apostolo Giacomo maggiore. Sovra tali scomparti veggonsi poi dipinti in riquadri minori il Crocifisso con a’ piedi la Madonna e l’evangelista Giovanni, l’apostolo Paolo e san Rocco. Le opinioni degli eruditi circa l’autore di questo dipinto sono assai varie ; e subiscono tante gradazioni, che mentre alcuno vorrebbe attribuirlo a pennello genovese, altri si avvisa di riconoscervi l’impronta della scuola tedesca. Il eh. cav. Federigo Alizeri, il più recente degli scrittori che toccarono la questione , dopo avere, nella sua dotta Guida Artistica di Genova, dichiarato una discussione difficile a sciogliersi quella se il pittore sia genovese o straniero, pronunzia il nome di quel Nicolò da Voltri, che, al dire del Soprani, dipingeva nel 1401 per la chiesa di santa Maria delle Vigne una Nunziata, di che oggi non si ha più notizia. L’ Alizeri, ho detto, mette innanzi il nome di Nicolò da Voltri ; e poscia si studia per più argomenti di ascrivere alla scuola di costui la bella tavola di Castello ; ben vedendo di non poterla assegnare al voltrese istesso ; giacché la figura del santo Domenicano che vi si ammira é indizio non lieve, che il quadro venne eseguito per questa chiesa dopo l’ingresso nella medesima dei frati predicatori, accaduto l’anno 1442; epoca nella quale Nicolò da Voltri, di cui non si ha più alcuna memoria dopo il 4 401, doveva senza fallo essere morto. A meglio confortare l’asserto, il prelodato scrittore insli-tuisce un paragone fra la nostra Nunziata ed una tavola che ( 280 ) tuttodì si conserva nella chiesa di san Teodoro a Fassolo, ove sono raffigurati i santi Agostino, Ambrogio e Chiara. Ma un tale raffronto, a parer nostro , é invalidato da ciò : che il quadro il quale dee servire di paragone, non è il più adatto all ufficio, riconoscendovisi, per testimonianza dell’Alizeri medesimo, parecchie aggiunte fatte per ogni verso all’ antico dipinto, e una contraddizione di pittore e d’epoca nel campo ìstesso della vecchia tavola, ove le figure hanno la secchezza dei primi tempi, e i panneggiamenti son messi ad oro giusta il costume dei secoli XIV e XV ; mentre la cattedra su cui siede quel primo santo (sant’ Agostino) , e i partiti di pi'o-spettiva che servono di fondo, sono condotti col gusto e colle forme della rinnovata architettura. « Dal che, egli soggiunge, mi viene spontaneo e necessario il supporre che il fondo antico, lavorato per certo a dorature come il rimanente della tavola, fosse ridipinto in età posteriore , quando cominciavano a dispiacere quelle sembianze d’anticaglia; ed avendo a giudicare come che sia dell’ opera originale, mi limito alle tre figure che campeggiano con si diverso stile in quel fondo. E opportunamente mi corre a memoria quel ch’io lessi nel Soprani, d’una tavola eseguita nel 400 per la chiesa di san Teodoro da Nicolò da Voltri, il quale, al dir del biografo, fu primo a panneggiare con ragionevolezza le figure, e ad atteggiarle con dignità. Egli è un gran danno che il suddetto scrittore facendo menzione del dipinto, non ne indicasse (cosa insolita in lui) l’argomento, che, conosciuto , varrebbe a dileguare ogni dubbio ». Conchiude poscia che « malgrado di tanta oscurità ci sarà caro l’attribuire al pittor da Voltri questi tre santi ; e contra coloro che du-bitan sempre ci farà scudo il carattere della pittura, paragonato alle lodi che dà lo storico a quel progenitore della scuola genovese ». Ma qui il eh. illustratore de’ patrii monumenti ci consenta ( 281 ) di dubitare ancora ; perocché i nostri dubbi ci paiono fondati non sovra congetture, ma bene su circostanze di fatto. E in primo luogo vuoisi notare, che mentre il Soprani ci avvisa come nella tavola dipinta pel tempio di san Teodoro Nicolò da Voltri scrivesse il proprio nome, in questa accennata dal chiaro autore quel nome tanto desiderato vanamente si cerca. Gli storici dejl’ arte si accordano inoltre nel dire, che il Voltri potè venire ammaestrato nella pittura da quel Francesco di Oberto che operava in Genova nel 4 368, e del quale ci é rimasta, e conservasi nella Accademia Ligustica, una tavola rappresentante la Vergine col putto in braccio, e con ai lati i santi Domenico e Giovanni evangelista (1). Ora Francesco di Oberto, per quanto se ne vede, tenne uno stile e seguitò una maniera tutta diversa da quella che si riscontra nel quadro della Nunziata. L’ uno sente assai da vicino la scuola fiorentina, tenia un fare largo, e molto ritrae del giottesco; l’altro ha una impronta affatto opposta, e si avvicina grandemeute allo stile della scuola alemanna. Ond’ io ne deduco i seguenti giudizi : Se Nicolò da Voltri fu veramente discepolo di Francesco di Oberto, egli dovette come tale (ammesse pure tutte le modificazioni che il progresso del-l’arte ed i proprii talenti potevano suggerirgli) seguirne, almeno in massima, la maniera, ingrandendola fors’anco e perfezionandola sugli esempi del sanese Taddeo Bartoli, che in sul cadere del secolo XIV troviamo in Genova occupato a dipingere a Cattaneo Spinola due tavole per la chiesa di san Luca (2); e in questo caso nè gli scolari di lui (dato, ma non provato, che ne abbia avuti), per le ragioni addotte più sopra, possono essere gli autori della Nunziata a Castello. 2.° Oppure bisogna dire che il Voltri non fu discepolo di Francesco di Oberto, e (') Può anche vedersene una incisione falla sovra disegno del eh. prof. Sunto Varni, ed allogala a pag. 228 del vol. II della Storia Pittorica del Rosini. (2) Foliatiu m Notariorum, Ms. della Civico-Beriana; voi. li, par. ii , car. 86. ( 282 ) così far contro ad una sentenza nella quale si accordano an-tic i e moderni scrittori : loche, come ognun vede, non può comcnientemente farsi senza l’appoggio d’autentici documenti, i qua i noi in\ano oggi desideriamo. Il primo caso adunque , è più naturale, prudente ed ovvio ad abbracciarsi; ed io lo raccio difatti, come quello che si risolve in sostanza nel rettificare una semplice opinione. Però se j| quadro della Nunziata a Castello, per quello che eia ne abbiamo detto, non può tenersi per opera dell’ unico artista *&iue, del quale è fatta memoria nell’ epoca di cui discorriamo; m p°it° opinione che mimo il quale, scevro pregiudizi, ne a )ia instituito 1 esame, vorrà seriamente contrastargli il pregio i essere un monumento dell’ arte nazionale italiana. Facendomi pertanto ad investigare di proposito quale fra gli artisti d Italia riunisca maggiore probabilità di esserne stalo autor e, io non posso a meno di riconoscerlo nella famiglia dei i'arini da Murano, e precisamente in quell’Antonio che fu solito a dipingere in compagnia di un Giovanni tedesco (Joannes de Alemama) fino al 1447, e poscia eseguì altre opere ora solo ed ora in compagnia del minore fratello Bartolommco, quel desso che, dopo recato in Venezia il segreto della pittura ad olio, fu de’ primi a profittarne, e sali quindi in fama di grandissimo artefice. E questa opinione mi arride tanto più 'oleotieri, in quanto che, mentre di Nicolò da Voltri ogni opeia certa si stima perduta, come asserisce Io stesso cav. Ali-zen , di Antonio summenzionato se ne conoscono parecchie, e riesce cosi possibile che un novello confronto sia per tornare più proficuo e più rispondente al vero. Apiasi ora l’albo delle incisioni, che va annesso alla Sto-i ia Pittorica del Rosini. Ivi al numero LVI si troverà in sufficienti proporzioni delineata una bella tavola (già della Certosa di Bologna, ed ora esistente nella Galleria della città medesima), che principiala da Antonio Vivarini nel 1450 fu ( 283 ) poi compiuta nell’ inferiore parie del fratello Bartolommeo , quando morte nell’ anno appresso incolse il primo. Essa è divisa a più scomparii : il mezzano raffigura la Vergine seduta in cattedra, in atto di giungere le mani per adorare il Bambino che tiene sulla ginocchia; gli altri rappresentano le imagini di Cristo e del suo Precursore, quelle degli apòstoli Pietro e Paolo , e d’ altri santi. Osservisi quindi la prospettiva lineare, che il pittore tratta e conduce con grande sforzo per 1’ età sua, Patteggiare ed aggruppare dei personaggi, la gravità e devozione che spira dai loro volti, la sfilatura dei capelli e delle barbe, il disegno infine, che, se può dirsi alquanto secco, è tuttavia puro e corretto; si consideri poscia attentamente la grande rassomiglianza che corre fra le teste delle figure di questo quadro e quelle della nostra Nunziata, si ponga mente a quel loro carattere che bene spesso s’incontra nelle tavole dei Vivarini , se ne mettano a scrupolosa disamina tutti i parziali , e dicasi poi se la tavola di Castello non somiglia in ogni sua parte al dipinto della Galleria Bolognese. E se infine si vogliano riconoscervi le impronte della scuola veneta, si guardi alla forza ed armonia del colorito, ed alla foggia di vestire del san Sebastiano, il quale molto sente di parecchie fra quelle figure d’armigeri, che vedonsi scolpite in diversi monumenti sepolcrali nella chiesa dei santi Giovanni e Paolo in Venezia ; che si ripete in non pochi di quei bassi rilievi di san Giorgio che ornano l’ingresso della miglior parte dei nostri vetusti palazzi, che si ritrae in quella graziosa statua del glorioso cavaliere de’ genovesi, che è sovrapposta ad una delle porte laterali della nostra chiesa di santa Maria delle Vigne, e si riconosce in quella bellissima pala di san Sebastiano che è serbata dall’ esimio cav. Varni nella ricca sua collezione d’antiche sculture, ed in più altre opere che si appalesano indubbiamente d’artista o di scuola veneziana. Si aggiungano in ultimo i padiglioni, gli archi e tutti gli altri ( 284 ) ornamenti, i quali, anzi di sentire il gusto germanico, se ne discostano affatto, e confortano il sin qui detto, in quanto sono aneli’ essi una prerogativa quasi speciale de’ veneti ; e si concluda se, congettura per congettura, si debba continuare ad attribuire la nostra Annunciata ad un supposto discepolo di Nicolò da Voltri, oppure ad Antonio Vivarini, il quale secondo i più giusti calcoli avrebbe dovuto dipingerla fra il 1442 ed il 1451 in cui venne a morire. E dell’ attribuirla eh’ io faccio ad un muranese, piuttosto che ad un ligure o genovese, non deve alcuno farne le meraviglie; perchè artisti d’ altre provincie d’Italia trovavansi di que giorni riuniti in gran numero ad operare nella patria nostra, e di loro ci rimasero non iscarse notizie in molteplici documenti, de’ quali mi tornerebbe assai facile il recare lunghissime citazioni. Ma se non m’inganno, l’assunto è ormai chiarito abbastanza , e non ha d’uopo del soccorso delle prove indirette ('). Ond’ io senza più faccio punto, e mi raffermo quale di vero cuore Le sarò sempre Genova, 21 luglio 1860. A ffezionatissimo Amico L. T. Belgrano. / (') A queste mie argomentazioni vado lietissimo di aggiungere 1 «lUtoritu i quel profondo scrittore in materia di belle arti, che tutti onorano nel eh. marchese Pietro Estense-Selvatico. Il quale nel 1862 trovandosi in Genova, e i datosi a visitar^ la chiesa di S. M. di Castello, appena ebbe scorta la nostra tavola, la riconobbe e lodò appunto come opera d’Antonio da Murano (V. Vigna, H u strazione dell’ antichissima chiesa di S. M. di Castello, p. 200). DELLE MATEnb CONTENUTE IN QUESTO FASCICOLO V I, . . , Vabni, Delle opere di Matteo Civilali, scultore ed architetto lucchese.......Pag. 1. Id. Delle opere di Gian Giacomo e Guglielmo Della Porta, e Nicolò da Corte in Genova . . » 53. Beï.grako, Della vita privata dei genovesi . . »> 79. Id. Di una tavola del secolo xv, rappresentante la B. V. Annunziala.....» 275. SOTTO 1 TORCHI Voi. iv, fascicolo hi, contenente il Rendiconto dei lavori falli dalla Società nel biennio 18G5-1866, del Segretario Generale Cav. L. T. Belgrano. DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Ul- "» fKir*'c ■> contenente l’Illustrazione del Registro della Curia Ai<_i\esco\:!e di Genova, del Socio Cav. L. T. Belgrano (uscirà entro il 1867). ol. v, fascicolo i: Carte idrografiche liguri del medio evo, raccolte ed illustrate dal Socio Cav. Cornelio Desimoni. Illustrazione Storico-Artistica del Palazzo di Andrea D’Oria a 1 assolo in Genova. Pubblicazione in foglio grande, per la quale si ha già in pronto la maggior parte delle incisioni. ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE pi STORIA PATRIA VOLUME IV. — FASCICOLO 111. GENOVA TIPOGRAFIA DEL R. 1. DEI SORDO-MUTI MDCCCLXVII DEGLI UFFICIALI CHE RESSERO LA SOCIETÀ lì LE SEZIONI DI ESSA NEGLI ANNI MDCCCLXV E MDCCCLXVI. ANNO MDCCCLXV UFFICIO DI PRESIDENZA PRESIDENTE Tola Barone Pasquale, Consigliere dell’Eccellentissima Corte d’Appello di Genova, Membro delle RR. Deputazioni sovra gli studi di Storia Patria per le antiche Provincie e per quelle della Toscana, delle Marche e del-P Umbria, Corrispondente della R. Accademia delle Scienze e della R. Società Agraria di Torino, Socio Onorario dell’istituto Storico di Francia, della R. Società Agraria ed Economica di Cagliari, e della Nuova Società per la Storia di Sicilia, Commendatore dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. VICE PRESIDENTE Merli Antonio, Accademico Promotore e Segretario dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, Ufficiale dell’ Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, e di quello del Sole e del Leone di Persia. ( XXXIV ) SEGRETARIO GENERALE Belgrano Luigi Tommaso, Membro della Commissione Consultiva di Belle Arti per la Città e Provincia di Genova, e delle BR. Deputazioni sovra gli studi di Storia Patria per le antiche Provincie e por quelle della To-scana, dell’Umbria e delle Marche, Socio Onorario dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Fano, della Nuova Società per la Stona di Sicilia, e della Società Italiana d’Archeologia o Belle Arti di Milano, Corrispondente dell’Accademia degli Euteleti di San Miniato e della Società di Storia e Antichità d’Odessa, Cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. VICE SEGRETARIO GENERALE Luxoro Professore Tammar, Pittore Paesista, Accademico di Merito della Classe di Pittura nell’Accademia Ligustica, Membro della Società Piomotrice di Belle Arti, Cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. tesoriere Staglieno Marchese Avvocato Marcello , Accademico Promotore dell Ac cademia Ligustica, Membro della Società Promotrice di Belle Arti. * CONSIGLIERI D’Ori a Marchese Jacopo, Vice-Bibliotecario della Civico-Beriana di Genova, Socio Onorario dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, della Societ.i Ita liana d'Archeologia e Belle Arti di Milano, e della Nuova Società pirla Storia di Sicilia, Corrispondente della Società Letteraria di Lione, e de 1’ Accademia Dafnica d’Aci Reale. Spinola Marchese Massimiliano q. Massimiliano. Carrega Marchese Antonio Benedetto. Sanguineti Angelo, Canonico della Basilica do SS. Fabiano e Sebastiano e Santa Maria in Carignano, Dottore Collegiato in Filosofia e Belle Letteli-nella R. Università di Genova, Corrispondente della R. Deputazione sovra gli studi di Storia Patria per le antiche Provincie, e della R. Accademia delle Scienze di Torino. ( XXXV ) Alizeiu Avvocato Federigo , Professore di Lettere italiane nel R. Liceo Colombo, Dottore Collegiato per la Facoltà di Filosofia e Belle Lettere nella R. Università di Genova, Segretario della Commissione Consultiva di Belle Arti, Accademico di merito dell’Accademia Ligustica, Socio corrispondente dell’Accademia Romana dei Quiriti, Cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Chiossone Professore Edoardo , Incisore, Socio della R. Accademia delle Belle Arti di Milano, Accademico di merito della Ligustica, Membro della Società Promotrice di Belle Arti. UFFICIALI DELLE SEZIONI SEZIONE di storia preside Vigna Padre Amedeo Raimondo dell’Ordine dei Predicatori, Membro della R. Deputazione sovra gli studi di Storia Patria per le antiche Provincie, Corrispondente della Società Economica di Chiavari e dell’Ateneo di Milano. vice preside Da Fieno Sacerdote Giacomo, Socio corrispondente della R. Deputazione sovra gli studi di Storia Patria per le antiche Provincie. SEGRETARIO Cosso Notaro Francesco. VICE SEGRETARIO Peirano Avvocato Enrico Lorenzo. ( XXXVI ) sezione d’archeologia PRESIDE ÌVeg Rotto-Cambi aso Marchese Avvocato Lazzaro, Accademico Promotore dell Accademia Ligustica, Membro della Società Promotrice di Belle Arti e della Società Economica di Chiavari. VICE PRESIDE Belgrano Cavaliere Luigi Tommaso, predetto. SEGRETARIO Invrea Marchese Avvocato David Luigi. VICE SEGRETARIO Cattaneo Sacerdote Filippo, Bibliotecario della Congregazione dei Missionari Urbani, Cerimoniere di S. E. R. Monsignore Arcivescovo di Genova. SEZIONE DI BELLE ARTI PRESIDE Alizeri Cavaliere Federigo, predetto. I VICE PRESIDE Biale Carlo Architetto Ingegnere. ( XXXVII ) SEGRETARIO Staglieno Marchese Marcello, predetto. VICE SEGRETARIO Dufouk Avvocalo Maurizio, Accademico di merito c Presidente dell’Accademia Ligustica, Membro della Società Promotrice e della Commissione Consultiva di Belio Arti per la Città e Provincia di Genova. ANNO MDCCCLXVI UFFICIO DI PRESIDENZA PRESIDENTE Caveri Avvocato Antonio, Senatore del Regno, Professore di Introduzione generale alle scienze giuridiche politico-amministrative, e Storia del Diritto nella R. Università di Genova, Membro della Società Economica di Chiavari, della Società Promotrice di Belle Arti e della Giunta di Statistica, Presidente della Deputazione Provinciale, Consigliere Municipale, Commendatore dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. VICE PRESIDENTE Negrotto-Cambiaso Marchese Lazzaro, predetto. SEGRETARIO GENERALE Belgrano Cavaliere Luigi Tommaso, predetto. ( XXXVIII ) VICE SEGUITAMI) GENERALE Luxoro Cavaliere Tammar , predetto. TESORIERE Staglieno Marchese Marcello, predetto. CONSIGLIERI Carrega Marchese Antonio Benedetto, predetto. Sanguineti Canonico Angelo, predetto. \Alizeri Cavaliere Federigo, predetto. \Cuiossone Professore.Edoardo , predetto. Tola Barone D. Pasquale, predetto. Spinola Marchese Giovanni Battista, Accademico Promotore dell Acca demia Ligustica di Belle Arti. UFFICIALI DELLE SEZIONI SEZIONE DI STORIA PRESIDE Vigna Padre Amedeo Raimondo, predetto. VICE PRESIDE Da Fieno Sacerdote Giacomo, predetto. 1 ( XXXIX ) SEGRETARIO Cosso Nolaro Francesco, predetto. VIGE SEGRETARIO Pjìirano Avvocato Eniuco Lorenzo , predetto. i SEZIONE D'ARCHEOLOGIA PRESIDE Belgrano Cavaliere Luigi Tommaso, predetto. VIGE PRESIDE Invrea Marchese David Luigi, predetto. segretario Peirano Avvocato Enrico Lorenzo, predetto. vice segretario Podestà Francesco, Membro della Società Promotrice di Belle Arti. SEZIONE DI BELLE ARTI PRESIDE Alizeri Cavaliere Federigo , predetto. ( XL ) VICK PRESIDE Biale Ingegnere Carlo, predetto. SEGRETARIO Staglieno Marchese Marcello, predetto. VICE SEGRETARIO Du four Avvocato Maurizio, predetto. ( 'M ) SOCII ELETTI NEOLI ANNI MDCCCLXV E MDCCCLXVI SOCII EFFETTIVI Balbi-Senarega Marchese Francesco, Senalore del Regno, Accademico Promotore dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, Commendatore dell’Or-dine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Barberis Giovanni Domenico (1), Canonico Prefetto dell’Archivio Capitolare del Duomo di Vercelli, Socio corrispondente della R. Deputazione sovra gli studi di Storia Patria per le antiche Provincie, Cavaliere dell’ Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Biancui Cavaliere Rocco. Boselli Abate Luigi Gaetano , Direttore del R. Istituto de’ Sordo-muti di Genova , Commendatore dell’ Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Brassetti Francesco. Brignardello sacerdote Giambattista, Cappellano nel -il.0 Reggimento di Fanteria, Pro-Dottore in ambe leggi, Membro della Società Economica di Chiavari. Bruno Ingegnere Nicolò. Cambiaso Marchese Avvocato Giovanni Maria. Canepa Avvocato Pietro. Carosio-Rocca Avvocato Girolamo , Vice. Presidente del Tribunale Civile e Correzionale di Genova. Casaretto Dottore Giovanni, Membro della Società Economica di Chiavari, Cavaliere dell’ Ordino dei SS. Maurizio e Lazzaro. (I ) Già socio corrispondente. ( XLII ) Castagnola Avvocato Stefano , Deputato al Parlamento Nazionale. Castello Carlo. Cataldi Avvocalo Bartolomeo Alessandro. Cavagna Sangiuliani Conte Antonio, Sottotenente onorario dei Lancieri d’Aosta, Segretario dell’Accademia Storico-Archeologica, Membro Effettivo della Società Lombarda di Economia Politica, della Società Italiana d’Ar-cheologiav e Belle Arti, dell’Accademia Fisico-Medico-Statistica, della Società Italiana di scienze naturali, della Associazione Pedagogica Italiana di Milano, Membro Eflettivo non residente dell’Accademia Scientifica del Ducato d’Aosta, e della Commissione Consultiva di Belle Arti per la Provincia di Pavia, Onorario dell’ Accademia Cingolana degli Incolli, Corrispondente della Società Filotecnica di Torino, Ufficiale dell’ Ordine di San Marino, Cavaliere di quello di San Giovanni Gerosolimitano, e decorato della medaglia per le guerre dell’ Indipendenza ed Unità d’Italia. Caviglia Vincenzo, Cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Centurione Marchese Sacerdote Giovanni Battista. Cogorno Francesco, Pittore di Storia, Vice Segretario della Società Promotrice di Belle Arti di Genova. Croziglia Notaro Giuseppe. De-Andreis Luigi , Architetto Ingegnere. Della Torre Marchese Sacerdote Francesco Disma. De Marini Marchese Giambattista Cesare , Intendente Generale, Cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. De Negri Girolamo , Prete dell’ Oratorio. De Negri-Carpani Cavaliere Avvocato Cesare. D’Oria-Pampuili-Landi 'Eccellentissimo Don Filippo Andrea V, Principe di Vaimontana e San Martino, Marchese di Torriglia, ecc. D’Oria-Pamphim-Landi Marchese D. Domenico. Dufour Lorenzo , Architetto Ingegnere, Cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Du Jardin Dottore Giovanni , Professore di Geologia c Mineralogia nel B. Istituto Tecnico della Provincia di Genova, Membro della Giunta di Statistica e Segretario del Comitato Medico. Falconcini Avvocato Enrico, Patrizio di Firenze e Volterra, Cavaliere dell’ Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Gattorno Stanislao , Architetto Ingegnere. Gazzo Sacerdote David Anselmo. Giustiniani Marchese Domenico Ottone. ( XLIII ) Giiiglini Avvocato Paolo. Ghaffagni Avvocato Angelo. Grillo Sacerdote Luigi , Cavaliere dell’ Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Lomellini Marchese Clemente , Cavaliere dell’ Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Massa Padre Giorgio, delle Scuole Pie. Montagu Yetas Brown , Console di S. M. Britannica in Genova. Monteverde Giulio , Statuario. Oberti Giuseppe , Maestro di Computisteria e Lingua Francese. Orengo Lorenzo , .Statuario. Pallavicino Marchese Avvocato Bodolfo. Patrone Girolamo , Architetto Ingegnere. Peragallo Sacerdote Prospero. Piuma Marchese Carlo, Dottore Collegiato per la Classe di Scienze Matematiche nella R. Università di Genova. Profumo Sacerdote Luigi, Direttore delle Scuole Civiche. Ramorino Dottore Giovanni, Professore di Geologia alla Scuola Superiore degli Iogegneri nella Università di Buenos-Ayres. Basteri Sacerdote Giovanni Battista, Professore di Filosofia nel Seminario Vescovile di Acqui. Remondini Professore Sacerdote Marcello. Sauli Marchese Francesco Maria , Senatore del Regno. Savignone Dottore Francesco. Segni Nobile Luigi, Luogotenente Colonnello in ritiro. Storace Sacerdote Giovanni. Testa Luigi, Membro della Società Promotrice di Belle Arti. Verdona Professore Sacerdote Giovanni. Villa Giovanni Battista, Statuario. Vinelli Fortunato, Canonico della Basilica dei SS. Fabiano e Sebastiano e S. Maria Assunta in Carignano. Weiieler Professore David, Console degli Stati Uniti d’America in Genova. ( XLIV ) SOCII ONORARI! S. A. I. il Principe LUIGI LUCIANO BONAPARTE (Parigi). SOCII CORRISPONDENTI Berciiet Dottore Guglielmo, Socio degli Atenei di Venezia e di Milano, e di altre Accademie scientifico-letterarie, Cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro (Venezia). Campori Marchese Giuseppe, Membro della R. Deputazione sovra gli studi ^ di Storia Patria e della R. Accademia delle Scienze di Modena (Modena). Fabroni Dottore Lorenzo, Socio corrispondente delle BB. Accademie dei Georgofili di Firenze, di Soienze, Lettere ed Arti di Arezzo, di Medicina, e di Scienze e Lettere di Palermo, ecc. (Modiyliana). Franchi^ erney della Valetta Conte Alessandro, Consigliere d’Appello, Segretario della R. Deputazione sovra gli studi di Storia Patria per le antiche Provincie, Uffiziale dell’ Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro (Torino). IIopf Dottore Professore Carlo, Bibliotecario della R. Università di Koenig-sberg (hüeuiijÿbenj). ( XLV ) Micliavacca Dottoro Achille , Direttore della Società Italiana d’Archeologia o Belle Arti (Milano). Muoni Damiano , Membro Effettivo dell’Accademia Fisico-Medico-Statistica , dell Accademia Storico-Archeoloorica e della Società Lombarda di Economia a Politica di Milano, Socio Onorario dell’ Ateneo di Bergamo e dell Accademia Cingolana degli Incolti, Corrispondente della R. Accademia \ al-darnese , della R. Deputazione sovra gli studi di Storia Patria per le antiche Provincie e dell’ Istituto Storico di Francia , Cavaliere degli Ordini dei SS. Maurizio e Lazzaro e d’Isabella la Cattolica (Milano). Musettini Canonico Francesco, Vice Presidente della R. Deputazione sovra gli studi di Storia Patria, per la Sotto-Sezione di Massa e Carrara (Massa di Carrara). Genova 51 dicembre 18GG. Il Segretario Generale L. T. BELGRANO. NECROLOGIA i\el biennio I8G5-I86G sono mancati ai vivi i socii seguenti SOCII EFFETTIVI. I- Il Marchese Lorenzo Nicolò Pareto, della cui vita per la • peciale natura di questo scritto, non ci è consentito, che toccare di volo. Appena i] re Carlo Alberto promulgò lo Statuto, Genova lmi° '* ^areto a suo rappresentante nel Parlamento, di cui tenne puie due volte in memorabili giorni, e con singolare fama e perizia, la Presidenza; ed egli vi sedette per ben quattro e^islaturc, piopugnando sempre gli interessi de' suoi concilia ini e della intera Nazione, finché nel 18G J venne elevato alla dignità di Senatore. Nel 1848 fece parte dei Ministeri Balbo c asati, assumendo la direzione degli affari esteri. Con de- ( XLVII ) croio del 12 ottobre stesso anno fu ancbe nominato Generale della Guardia Nazionale di Genova; il cui comando avea già avuto per popolare acclamazione, benché giovanissimo, nel 1821; e venne poscia, dietro sua domanda, dispensato da quell’ufficio il 10 marzo del successivo 1840. La Provincia ed il Comune 1' ebbero sempre nei loro Consigli ; ed egli ne curò ognora il vantaggio e i diritti. Promosse con peculiare alletto l’istituzione degli Asili d’infanzia, e volle, morendo, beneficarli. Onde 1’ Amministrazione di que’ ricoveri, che 1’ ebbe per tanto tempo a suo Presidente , intitolava gratissima dal venerando nome di Lorenzo Pareto l’Asilo testé aperto nel popoloso Sestiere di san Vincenzo. Ma ciò che più specialmente procacciò fama bellissima al Pareto, non solo in patria ma all’ estero, furono gli studi geologici dei quali si mostrò sempre assiduo e felice cultore. Le più illustri Accademie nazionali e straniere si onorarono di annoverarlo tra’ loro socii, gli scienziati adunati ne’ Congressi lo vollero ben di frequente avere a Preside; la Facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali del patrio Ateneo, del cui lustro egli fu costantemente e in mille guise tenerissimo, 1’ acclamò dottore aggregato; ed il R. Governo lo nominò fra’dotti incaricati della formazione di una Carta geologica d’Italia. Numerosissime sono le scritture dal Pareto mandate in luce; ma noi ricorderemo frale altre: Cenni geologici sulla Liguria marittima; Sulla costituzione geologica delle isole Pianosa, Giglio, Giannutri, Montecristo e Formiche di Grosseto ; Geognosia della parte meridionale del Dipartimento del \aro; Cenni geognostici sulla Corsica ; Gita sulle montagne del golfo della Spezia, e per le Alpi Apuane; Sopra alcune alternative di strati marini e fluviali nei terreni di sedimento superiore dei colli subapefinini ; Della posizione delle roccie pirogene ad eruttive in Italia; Memorie geologiche riguardanti il Veneto ed altre parti d Italia; Mémoire sur les terrains du pied des Alpes dans les environs ( XLVIII ) du Lac Majeur et du Lac de Lugano; Coupes a travers l'Apennin depuis Livourne jusque a Nice ; Coupes a travers l Apennin , des bords de la Mediterranée a la vallée du Po; Relazione sui metodi e norme stabilite dalla Giunta Consultiva per la formazione della Carta geologica del Regno d'Italia; JSotes sur les subdivisions que l’on pourrait établir dans les terrains tertiaires de l’Apennin septentrional (postuma). La morte di Lorenzo Pareto fu un lutto ed una sventura profondamente semita da tutta Genova; e quale immensa eredità di memorie e d’affetti egli lasciasse fra’suoi concittadini, ben lo chiarirono le straordinarie dimostrazioni d’ onoranza con che la salma di lui venne accompagnata all’ estrema dimora. Il Prefetto della Provincia, non pochi Senatori e Deputati, e le numerose Amministrazioni ov’ egli aveva sempre portato il concorso de suoi lumi e la temperanza de’suoi consigli, presero parte alla funebre cerimonia ; la Società Ligure di Storia Patria volle esservi rappresentata dal suo Presidente e da una speciale Deputazione. Come ultimo pegno e ricordo della sua devozione alla patria, Lorenzo Pareto aveva nel proprio testamento espresso il desiderio , che la scelta Biblioteca di Storia Naturale e la doviziosa Collezione di mineralogia, che egli con dotte e perseveranti fatiche si era venute formando, fossero offerte al Municipio di Genova; e i degni figli ed eredi di lui, marchesi Agostino e Gaetano, si affretlarono a compiere il voto del Genitore tanto caramente diletto. Il Comune, riconoscente, decise poi che le spoglie di Lorenzo Pareto avessero riposo nel Civico Cimitero fra quelle de’più eminenti e benemeriti cittadini. M. 19 giugno 186o. IL II Sacerdote Girolamo Buzzi, da Castellazzo-Bormida, in quel d’Alessandria. Si addottorò in leggi nel 1823, coltivò la sacra eloquenza, e dettò molte orazioni panegiiiche, delle quali alcune si hanno a stampa. Fra le varie altre opere da lui eziandio pubblicate, citeremo la Storia di Gamondio, uscita in luce ( XLIX ) co’ tipi di G. B. Panizza , e ripartita in quattro volumi. M. G gennaio 18GG. III. Il Marchese Agostino Adorno. Cultore assai diligente delle patrie memorie, pose mano, coll^ illustre suo concittadino march. Massimiliano Spinola, alla compilazione della Genealogia delle famiglie nobili di Genova, che si pubblicò in tre tomi dal sacer. Natale Battilana, colle stampe dei fratelli Pagano, correndo gli anni 1825/1826 e 1833. La Prefazione all’opera, gli alberi genealogici che abbracciano l’intero primo volume (*), e quello de’ Fieschi nel terzo , non che i sunti storici onde vanno preceduti e la serie cronologica dei dogi biennali, sono più specialmente lavoro dell’ Adorno. Il quale stretto in bella corrispondenza col conte Litta, lo venne di poi non lievemente giovando nell’ardua impresa delle Famiglie celebri d’Italia; fra le quali, per istudio e diligenza dello stesso marchese Agostino, quella degli Adorno ebbe pure degno luogo. E di vero, gran copia di notizie e documenti relativi alla Prosapia onde che in lui si estinse la linea mascolina aveva egli adunati; ed erasi venuto con assidue cure formando un medagliere assai pregiato così rispetto alla migliore intelligenza dei fasti della famiglia medesima, come alle cognizioni che possono derivarne alla Numismatica patria. Amatore delle arti belle, fu ascritto fra i Promotori del-1’Accademia Ligustica; e con isquisito gusto arricchì le stanze del proprio Palazzo di marmi e tele eccellenti. Nel 1826 da re Carlo Felice fu nominato membro della Commissione di Liquidazione della Banca di san Giorgio; indi fece parte delle Amministrazioni degli Spedali Civili, dell’ Orfanotrofio e del Monte di Pietà, di cui zelò assai cogli interessi il decoro ; e promosse 1’ istituzione di una Cassa di risparmio a profitto delle classi operaie. (1) Spettano essi alle famiglie Adorno, Adorno olim Campanaro, Balbi» Bianchi , Brignole, Campofregoso , Centurione olim Scotto, D’Oria e Vivaldi. (O Più volte eziandio, a partire dal 1835, entrò nel Corpo De- curionale e nel Consiglio Municipale della sua patria. M. 17 gennaio 1866. IV. Il Marchese Jacopo D' Oria, Vice Bibliotecario della Civico-Beriana. Fu tra’ primi che aderirono alla formazione di questo Istituto, che più volte gli conferì onorevoli uffici, ed a cui egli si piacque dar prova d’affetto sincero, intitolandogli la sua erudita Illustrazione della chiesa di san Matteo. Coltivò indefessamente gli studi classici e la poesia; mandò in luce parecchie versioni di greci e di latini autori; e vòlte dal dialetto siciliano nella lingua d’Italia le liriche del Meli, ne rese meglio note le grazie e le bellezze. Ma desideroso in ispecie di illustrare i memorandi fasti della nobile famiglia cui si onorava di appartenere, ideò ed anche per buona parte distese un Dizionario biografico dei D' Oria, e adunò tutte le epigrafi attinenti ai medesimi, distribuendole saviamente in più classi e corredandole di assai importanti note dettate nella lingua latina. Una gran serie d’ iscrizioni compose eziandio egli stesso; e molte se ne leggono a stampa, ovvero incise in lapidi su monumenti. Quando morte lo colse, egli divisava pure una Collezione di epigrafi relative alla Corsica, a cui gli avrebbe dato mano l’amico suo Filippo di Mola; ed una storia della terra di Bonifazio, ove appunto avea sortiti i natali, e per la quale già aveva nei nostri Archivi attinti preziosi documenti. Dei pregi onde si adorna la sua Biografia di Pasquale de’ Paoli, sarà al certo vivo tuttora il ricordo ne’ suoi colleghi della Sezione di Storia, cui ne faceva lettura ; e però accetta riuscirà a ciascuno la notizia che siffatta opera vedrà fra breve la luce. M. 30 luglio 1866. V. 11 Cav. Prof. Ippolito D’ Aste. Nei primi anni .della sua gioventù si diede a coltivare con affetto grandissimo I’ arte calligrafica, nella quale riuscì sopra modo eccellente. Come filo- ( ü ) drammatico percorse lo spinoso aringo del Teatro, ed ebbe ognora la palma; poeta predilesse l'Alfieri, e scrisse quindici tragedie rappresentate in tutta Italia, e sempre calorosamente ap plaudite: Luchino Visconti; Gianluigi Fieschi; Bianca di Borbone ; Marzia degli Ubaldini; Lucrezia dei Mazzanti; Bo-bolina ; Spartaco ; Codro ; Collenuccio da Pesaro ; Abimelech; Sansone; I Martiri; Epicari; Adele di Warth; Mosè. Nel 1 855 Ippolito D’ Aste, il quale erasi dapprima volto al pubblico insegnamento in più Istituti, fondò in patria un Collegio Convitto-Commerciale, che porta il suo nome, e che apertosi con lode universale, e da lui fino alle ore estreme abilmente diretto', crebbe ogni giorno più in bellissima rinomanza. M. 13 settembre 1866. SOCII ONORAMI VI. S. A. R. il Principe ODONE EUGENIO MARIA DI SAVOIA, Duca di Monferrato. L’ elogio che di Lui già si legge in capo a questo volume, ci dispensa ora dal rinnovare la memoria delle elette virtù, che tanto adornavano 1’ animo dell’ Augusto Giovinetto. Bensì ricorderemo come il nostro Municipio volesse, con gentile pensiero, direttamente associato questo nostro Istituto alla manifestazione del pubblico dolore, nei solenni funerali che pel Reale Principe si celebrarono nel nostro maggior tempio, richiedendolo delle quattro iscrizioni pel Mausoleo, che furono all’ uopo dettate dai socii cavalieri Crocco e Gando ('). (’) V. CiunvAz, Oraison funebre etc., p. xcn - xcv. (L” ) SOCII CORRISPONDENTI VII II Commendatore Pietro Martini, Presidente della Biblio-niversitaria di Cagliari. Consecralosi tutto allo studio delle saidt, le \enne ognora illustrando con molteplici scritti, a i quali noteremo segnatamente la Biografia Sarda e la ta Ecclesiastica della Sardegna. Delle Pergamene, codici ^ °gli caitacci d Arborea, di recente venute a luce in due 1° Um*’ Don ® ^el nostro ufficio il tenere discorso. Opposti sono mora intorno a quei documenti i giudizi dei dotti. M. 17 febbraio 1866. Genova, 31 dicembre 1866. Il Segretario Generale L T. BELGRANO. i DONI FATTI ALLA SOCIETÀ negli anni mdcoclxv e iidccclxvi Atti della Accademia Ligustica di Belle Arti. Accademia Ligustica MDCCCLXV. Genova, Sordo-muti. Un fascicolo. di Belle Arti. Atti della Accademia Ligustica di Belle Arti. MDCCCLXVL Genova, Sordo-muti. Un fascicolo. Rivista periodica dei lavori della I. R. Accademia R. Accad. di Scienze, di Scienze, Lettere ed Arti di Padova. 1865-1864. Lettere, ecc. di Padova. Volume XIII. Padova, Randi, 1864 e 186S. Notizie biografiche su Gian Francesco Porporato Alliaudi Camillo. da Pinerolo, gran cancelliere di Savoia, con alcuni cenni storico-genealogici dei suoi discendenti, raccolti dal prof. Alliaudi Camillo. Pinerolo, Chiantore, 1866. Un volume. Prime imprese degl’italiani nel Mediterraneo. Fi- Amaiu Michele. renze, Successori Le Monnier, 1866. Un fascicolo. Del commercio e della navigazione‘dell’isola di Amat Pietro. Sardegna nei secoli XIV e XV, per Pietro Amat di Saa Filippo. Cagliari, Timon, 1865. Unfascic. Le armi di pietra donate da S. M. il Re Vittorio Angelucci Angelo. Emanuele lì al Museo Nazionale d’Artiglieria. Parole d’illustrazione del capitano Angelo Angelucci. Torino, Cassone e Comp., 1865. Un fascicolo, con tavole. Assemblea di Storia Patria di Palermo. ( uv ) Atti e documenti inediti o rari, raccolti e pubblicati dall’ Assemblea di Storia Patria residente in Palermo. Palermo, Barcellona, 1864. Un fascicolo. Disegno di una Storia dei Liguri, scritta da Carlo A-Valle Cablo. A-Valle. Alessandria, Gazzotti e C., 18C3. Un fascicolo. Frammento di un codice membranaceo, del secolo Avignone Gaetano. XV, contenente parecchi atti relativi al monastero di santa Chiara d’Albaro. Instrumento originale, alla data del 22 marzo 1621, con cui l’imperatore di Germania vendo alla Repubblica di Genova tre quarti del feudo di Zuccarello. Medaglie dei Liguri e della Liguria, raccolte dall’avvocato Gaetano Avignone, 1863. Un fascicolo ms. Report of thè Superintendent of thè coast survey, Bake A. D. showing thè progress of te survey during thè year 1862. Washington, Government Printing Office, 1864. Un volume, con tavole. Degli Annali Genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori, editi da Giorgio Enrico Pertz, e della discendenza di quel Cronista, Memoria di L. T. Belgrano, estratta all’Archivio Storico Italiano, Terza Serie, vol. II, par. II. Firenze, Cellini e C., 1865. Un fascicolo. L’interesse del denaro e le cambiali appo i genovesi, dal secolo XII al XV, Memoria di L. T. Bei-grano, estratta dall’Archivio Storico Italiano, Terza Serie, vol. III. par. I. Firenze, Cellini e C., 1866. Un fascicolo. Elenco di Portolani, compilato dal cornm. Cristoforo Negri. Un fascicolo. Sulla grandezza italiana, del comra. Cristoforo Negri, Relazione letta all’Ateneo Veneto 1*11 agosto 1864, dal socio ordinario dott. Guglielmo Berchet. Venezia, Tip. del Commercio, 1864. Un fascicolo. La Repubblica di Venezia e la Persia, per Gu- Belgrano Luigi Tommaso. Berchet Guglielmo. ( LV ) glieliuo Berchet. Torino, Paravia e Comp., 1865. Un volume, con tavole fotografiche. La Repubblica di Venezia e la Persia, per Guglielmo Berchet. Nuovi documenti, e regesti. Venezia, Antonelli, 1866. Un fascicolo. Omelie e sermoni di san Bernardo abate, sopra le lodi di Maria, Prima versione italiana del teologo prof. Giannantonio Bessone. Mondovì, Tssoglio e C., 1866. Un volumetto. Opuscoli di G. F. Bohmer circa all’ordinare gli Archivi, e specialmente gli Archivi di Firenze. Firenze, Cellini e C., 1865. Un fascicolo. Notizie biografiche, e iscrizioni latine e italiane del sacerdote prof. Jacopo Rocca, raccolte e pub-cate da G. B. Brignardello. Bologna, Fava e Ga-ragnani, 1866. Un volumetto. Delle condizioni statistiche e commerciali di Chioggia, ecc., Memoria di Carlo Ballo. Padova, Prosperini, 1866. Un fascicolo, con tavola. Storia di Gamondio antico, or Castellazzo di Alessandria, opera del sacerdote Girolamo Buzzi. Alessandria, Panizza, 1863. Volume I. In morte di S. A. R. Oddone Eugenio Maria di Savoia, Duca del Monferrato, Epigrafi di Francesco Calandri. Casal-Monferrato, Corrado, 1866. Un fascicolo. Relazione dei Delegali della Camera di Commercio di Genova, sui lavori del taglio dell'istmo M'âyœyt-npoçmïefMimç tcòv Atyvonvv ■npofy.i pèv bXoayipîi n, xaì fxsyakeiov ov% olot r » 0 2. 12. Iulia . • • * » 9. 13. Carisia.... , a » 71.< 14. — JVBÀ REX. ( V. Cavee oni, Ragguaglio, ecc. Pag- 149). 15. Famiglia Marcia. . V. Cohen, num. 8. 16. Norbana ■ • o a 3. 17. , Livineia . * 9 2. 18. lulia Sepullia • u 9 6. 19. Iulia ... • • "> abella delle carni, esprimente quel santo a cavallo, in atto .. , ° ^ucs,a medaglia richiamerà forse alla memoria del lettore ? , . 10 "*esso Presentava alla Sezione d’ Archeologia nella seduta voi HI CCm^rC 1861 > e di che è parola nel precedente Rapporto (Atti, ’ A tale riguardo mi stimo ora indebito di riferire ciò che j nostro socio corrispondente, e mio carissimo amico, P. Alberto Guglielmotti, - eami di Roma poco dopo quella pubblicazione. « Alla pag. LXXI trovo ne di una medaglia presentata da Voi alla seduta del dicembre 48G1. in ^,UeSf0 momi'nto taglio da’ miei mss. un esemplare di medaglia che ho fatto eie nel 1855, in legno, sull’ originale in bronzo, e ne ho ancora il ma- - 0. La medaglia di che Voi parlate, con tredici galere, e questa medesima izione (noe . \ovi . deo . vt . fidei . tostes . perderm . elexit . me. ), mi sospettare. Aspetto la vostra risposta, e con ansietà , perchè ho vedute tutte le medaglie di san Pio, e non mai questa, che è di Calisto IH, anno *37, commemorativa di un’ altra battaglia, vinta dai papalini nelle acque di Metellino alli 9 d’agosto del detto anno, con totale disfatta dell’armata turca, molte navi sommerse e venticinque galeie acquistate. Di che parlo, e ho documenti, nella mia Storia della Marina Pontificia.....Io 1’ I10 fatta incidere diligentemente sull’ originale , che è tuttavia nella Zecca papale. Vedete se ribatte colla vostra; e, nel caso affermativo, Vi dirò come può essere (he porti il nome di Pio in vece di Calisto» (Lettera del 7 dicembre 4865). Ora \ i dirò che la medaglia votiva, di che Vi mandai la copia del ro-'escio, appartiene a papa Calisto III ed all’anno 1457. Esso fece il celebre '°t°, c^e squadernò al momento della sua elezione in conclave, esso conquisto le isole dell’ Arcipelago e le tenne tre anni, esso sconfisse l’armata turca di ses>anta vele a Metellino, e fece battere quella medaglia, con quelle frasi spaAalde alla spagnuola , e quello sproposito alla latina, elexit in vece di elegit. Non è roba di Pio V, che fu beatificato da Clemente X nel 1672, cioè cento anni dopo la sua morte. Quindi I’ unione del diritto d . pius . v. con quel rovescio elexit . me ., significano un’ impostura di qualche ma-riuolo, che ha fatto un dritto nuovo ed ha preso un rovescio vecchio, per fare una medaglia ibrida, a fine di faticar poco e guadagnar molto » (Lettera del 2 gennaio 1866;. ( xts ) d’uccidere il drago, con all’intorno : piius : et • gvb : cab : car :, non che due anella d’ oro, di squisito lavoro e singolare importanza. L’uno, che è del peso di gr. 17. 250, fu trovato nel marzo del 1861 in un terreno del piccolo villaggio della Soriva in quel di Montobbio, alle falde dell’antico castello dei Fieschi; e nel sigillo, foggiato a guisa di larga, rappresenta lo stemma di que’ Conti sormontato dal cimiero col dragone, proprio del ramo di Torriglia (1). Le tre sbarre poi onde lo stemma medesimo si compone, vedonsi ripetute entro uno scudo ai due capi del cerchio annulare, ove lo stesso si congiunge al sigillo, a’ cui lati si legge: s • petri • % ■ rusco • Un gentile ornamento a graffito, ricorre inoltre all’intorno del cerchio, e partisce in due righe la seguente leggenda, scritta nitidamente in un bel gotico della seconda metà del secolo xv: «;♦ IESVS : AVTEM Î TRANSIENS \ PER : MEDIV m : illorum : ibat : z : pacem : dedit : eis : sl. (2). La quale leggenda, abbenchè non sia infrequente nelle anella di que’ giorni, è non pertanto in questo specialmente notevole, comecché trovisi anche impressa, almeno nel suo principio, (iesvs • avtem • transiens •), in una delle molte monete battute da’ Fieschi medesimi. Finalmente nella parte posteriore è graffito il monogramma Pj1 con sopra, ed in nesso, le lettere ab ; cui il socio Avignone interpretava. : petrvs fliscvs (’) V. Federici , Famiglia Fiesca, p. 20. (!) Veramente la sbarra trasversale della lettera L non apparisce nell’ anello abbastanza chiaramente ; per cui invece di SL potrebbe leggervisi invece SI. Due considerazioni però mi farebbero opinare per 1’ adottata lezione : l.a che in vicinanza all’ asta diritta della supposta L cominciano gli ornamenti dello scudo, onde il cerchio si congiunge al sigillo ; 2.a che le prime sette parole della riferita leggenda essendo tratte dal capo IV, verso 30, dell’ Evangelio di san Luca , le lettere SL accennerebbero appunto a questa fonte, mentre le altre, SI, parrebbero qui poste senza significato di sorta. ( XCII ) abbas, ovvero petri rusci abbatis; opinando che l’anello in j se orso sia per avventura appartenuto a quel Pietro Fiesco, fi-^ ii ° rv * ^UCa ( ]’ C^6 PreP0S'l° di san Giovanni di Albera, ,. r t ^ ^0rl0na (2)> poscia eletto vescovo dì Cervia ( o , e presente al Consiglio di Laterano sotto Leone X (») ; o.senandò ancora come le picciole sbarre orizzontali del Dramma sieno state appositamente prolungate, per accen-una col cognome del Fieschi la dignità ecclesiastica onde trovavasi rivestito. Il secondo anello poi è di lavoro assai più semplice e meno Dente, e del peso di gr. \\. 200. Il sigillo rappresenta lo mma Pattinanti cimato da un angelo, come vedesi nelle insegne dell Albergo Centurione, a cui tale famiglia venne aggregata nel Ió28 ed ha ai lati le iniziali P. C. Lo stemma e pur replicato ai due capi del cerchio, nella guisa che abbiamo etto pel precedente, j^d all’ intorno si leggono in caratteri gotici le parole : -ti* ms : avtem : transiens : per : medivm. nde il socio Avignone osservando come un Paride Fattinanti rifabbricasse a proprie spese la chiesa di santa Chiara d’Albaro, nella cui località venne trovato appunto l’anello, non senza buon fondamento argomentava essere lo stesso appartenuto al detto Paride Centurione, olim Fattinanti. Continuando poi i suoi studi numismatici, il socio Avignone ha presentato il saggio di una Descrizione generale delle monete , m qualunque metallo, coniale in Genova dal 1139 al -1814, anche sotto le dominazioni straniere-, descrizione da lui impresa e nelle parti più importanti già condotta a ( ) V. Battilana , Genealogia delle famiglie nobili di Genova, vol. Ili, p. -12. (*) Montaldo, Sacra Ligustici Coeli Sidera, p. 104. (3) Ughelli, Italia Sacra, II, 476; Concilior, etc., voi. XXXIV, p. 418, Parisiis, 4644. (*) F punzoni , Nobiltà di Genova, tav. XXIII. ( xeni ) buon termine. A quest’ uopo egli ha assunta per base la sua ragguardevole Collezione, ina si è pure largamente giovato di quella della nostra Università, e degli svariati disegni raccolti così da lui stesso, come da’ suoi numerosi amici e distinti numismatici italiani e stranieri. 11 lavoro è disposto per tavole sulla foggia di quanto adoperò il Ginagli per la moneta pontificia, ma corroborate di maggiori elementi; per guisa che, a colpo d’occhio ed in ordine cronologico, si possono riscontrare: i.° l’epoca dei Governi e delle loro monete ; 2.° la specie e la nomenclatura tecnica di queste, per ciò che riguarda il metallo e la lega; 3.° il diametro ; 4.° il peso effettivo in milligrammi ; 5.° il titolo solamente legale in millesimi; 6.° le leggende, coi varii segni, e le iniziali accessorie. Intorno alle quali iniziali importa il soggiungere, come lo stesso avv. Avignone, col sussidio di parecchi atti inediti da lui posseduti, e mercè un elenco dei sovrastanti della Zecca innanzi il 1500 dal cav. Desimoni compilato sulla scorta dei registri monetarii custoditi nell’Archivio di San Giorgio, riuscisse a convertire in certezza quanto erasi fino al presente non più che sospettato; cioè che esse accennano appunto al nome dei sovrastanti medesimi. Il che è tanto meglio importante quanto più si tratta di monete antiche, per riguardo alle quali è a lamentarsi una grande scarsezza di documenti ; imperocché se ne potranno cavare assai rilevanti criteri così intorno alla loro cronologia, come alla loro distinzione. Così per esempio risulta ora evidente che le monete di Carlo VI re di Francia, il quale dominò Genova dal 1396 al 1409, e quelle di Carlo VII, che ne ebbe la signoria dal 1458 al 1461 , e intorno alla cui classificazione non erano finora d’ accordo i numismatici, possono al presente distinguersi colla massima esattezza, comecché le prime rechino le lettere V e B, ovvero L ed A, rispondenti ai nomi di Urbano Marchesano e Bernardo di Palazzo, i quali tennero la carica di sovrastanti della Zecca nel 1404, ( XCIV ) e di Lucio da Rapallo e Andreolo Di Negro, che ebbero uguale ufficio nell’anno successivo; e le altre mostrino le lettere P, E ed A, che vogliono appunto accennare ai sovrastanti Pietro oniiglio ( 1 1-58), Enrico Della Porta (1460) ed Agostino Fazio (1461). Uliu che, da questi criteri altri ne scaturiscono poi di rimbalzo, e conducono ad ulteriori osservazioni pur nuove e rilevanti. Imperocché nelle monete che hanno le anzidette lettere V e B, L ed A, il nome del le vedesi scritto con K, e nelle altre che portano le lettere P, E ed A, è invece adoperata costantemente la C W. Anche il socio signor Luigi Franchini, pur èsóo possessore di un ragguarde\ole e ben distribuito Medagliere, offeriva la comunicazione e descrizione , nel senso delle tavole suaccennate cosi di alcune monete rarissime come di tutte quelle alti e che potessero per avventura mancare in esse tavole; e pei ogni classe di moneta proponevasi inoltre di somministrare all Instituto una serie di calchi in gesso, i quali e servissero come principio ad una Collezione, e sussidiassero l’opera del disegno, quando la Società stabilisse di corredare la descrizione delle relative tavole incise. A meglio completare poi siffatti studi, veniva statuito : il cav. Desimoni ragionerebbe intorno al valore delle monete genovesi, considerato si per l’epoca della loro battitura e sì pel tempo presente, in ragione di metallo fino; e collegando cronologicamente lutti i valori, per guisa che ne abbia a riescire un saggio di storia del loro scadimento, del variare di proporzione fra i metalli preziosi, e delle crisi vuoi finanziarie o politiche di perturbazione. Ma poiché tali deduzioni, per ciò che é de' secoli più remoti, non (1) Medagliere Avignone. Ivi patachina, o satino, di Carlo VI colla lettera dalla parte della croce, e B : V dal castello; altra con A dalla croce, e A dal castello. Genovino e grossone di Carlo VI con P; Minuti con E, ed altri con A. ( xcv ) si potrebbero ottenere senza il riscontro dei valori contemporanei di altre monete, il cav. Desimoni proponevasi di stabilire siffatti rapporti, fino a lutto il secolo XIV, Colle principali zecche d’Italia e col tornese di Francia. Finalmente il socio Belgrano illustrerebbe la sfragistica; e coll’adunare intorno a’ sigilli del Governo, delle Magistrature, degli Istituii e de’ cittadini genovesi, la maggior parte sinora ignoti, buona mano di documenti e notizie, accompagnate dai relativi disegni, porrebbe in sodo, intorno a cotesta materia, quei criteri generali e sicuri che vano é il chiedere all’ esame de’ monumenti finché restano disgregati, ma che scaturiscono quasi di per se, ove sieno tutti convenientemente classificati, e distribuiti giusta l’epoche, la qualità delle persone, famiglie o Corpi a cui in origine appartennero, fatto conto delle leggende onde sono improntati, e delle artistiche tradizioni che si disvelano nella condotta del lavoro. ( XCVI ) PARTE II. Argomento a pia ampio discorso ci offrono gli svariati lavori che debbono in questa seconda parte venir compresi. A migliore intelligenza riuscirà quindi opportuno il farne acconcia istn uzione; e così accennare primamente di quanto spetti alla Storia ecclesiastica, poscia alla politica e civile; toccare appresso di ciò che si ragguarda allo studio delle leggi, o iiilelte materie specialmente bibliografiche e soggetti biografici; riservando in ultimo le notizie di vario genere ed i molteplici documenti di che più socii diedero comunicazione, o presenta-iono anche gli originali, senza però corredarli di memorie particolari. § I. Cosi partito il campo, ci corre debito anzitutto di esporre sunto di una Dissertazione intorno i primi e santi vescovi-4 di Genova, di cui diede lettura alla Sezione Archeologica il socio canonico Grassi. Il quale, avendo riconosciuta di moitié sra\i eirori intinta la Storia della Chiesa Genovese, in ispecie 06 Sl101 Peri°di primordiali, si accinse all’opera di tentarne la lettificazione, appunto colla Dissertazione preaccennata, e pubblicata oggidì appiè dell'edizione del Foglietta Clarorum Li-guìum Elogia da lui procurala (1). I santi Valentino, Felice, Siro e Romolo, in accezione oramai di cosa giudicata, figurano ne nostri scrittori, anco i più autorevoli, in tempi ed ordine non veri ; colpa d' un primo passo che un apocrifo () Genuae, 1864. Un voi. in — 8.° Ivi, p. 278-96, Aloisii Jacobi Giussii, e pi loribvs sanctisque genuensium episcopis, etc. Disceptatio. ( XCVII ) documento, verso il cominciare del secolo XVII, suggeriva agli storici genovesi. Fin là erasi tenuto che, in serie, primo di essi fosse stato Valentino, seguito da Felice, Siro e Romolo; e, riguardo al tempo, o lasciavasi in dubbio, o se-guivasi la cronologia del beato Jacopo da Varazze nostro arci-civescovo. La quale cronologia non era però che un acconciamento in via d’un suo calcolo, fondato in supposizioni per nulla giustificale. L’ accennato documento, apocrifo per intrinseche ed estrinseche ragioni, e per comune sentenza de’ critici più rispettabili, è un Concilio Romano supposto del 324; il quale reca nella lista de’Padri intervenutivi un Syrus, senz’altro aggiunto. Quinci partì la spinta a guastare l’antico ordinamento, ed a costituire una nuova cronologia: alterazione a cui diè pur mano l’illustre P. Spotorno, ed â cui, sopra false relazioni avute da Genova, avea pure aggiunto il suo calcolo 1’ eruditissimo P. Pape-brochio negli Atti Bollandiani. Al quale, poich’ ebbe assegnato Siro al 324, e messogli innanzi Felice indubbio predecessore di lui, non parve credibile che di san Valentino, se vissuto a’ medesimi anteriore (il che vorrebbe dire nel forte della decima persecuzione), non fosse rimasta alcuna traccia monumentale o tradizionale sulle terribili condizioni del suo episcopato; e perciò, senz’altro fondamento, Valentino fu di tempo e d’ordine ribassato. Tanto può un falso dato in istoria! Rimosso adunque l’intruso e fallace elemento, il canonico Grassi da que’ pochi ma antichi cenni che si hanno intorno la vita di san Siro apertasi una via nuova, mostrò conclusivamente che questi fu nostro vescovo circa il 500; cui precessero san Felice immediato, e innanzi di lui, con o senza intermezzo, Valentino. Il quale così non tocca affatto le tribolazioni della persecuzione, ma conserva ragionevolmente il suo luogo in serie, che gli assegnano gli antichi cataloghi o memorie ond’ ebbe già a derivare il beato Giacomo precitato ; e conse- . ( XCYI1I ) gue a Diogene, scoperto in autentico documento , eh era nostro vescovo, primo o de’primi; e si trovò nel 381 con santo Ambrogio ad un Concilio in Aquileia. Negli atti summenzionati di Siro, noi troviamo questo santo coevo nella villa Matuziana (San Remo) ad un Gallione, chiamato ne’ medesimi Exactor Fisci e ad un corepiscopo di nome Ormisda. Ora il vocabolo Exactor Fisci, in luogo di Quaestor, entrò nell’uso dopo la compilazione della JSotitia dignitatum utriusque Imperii, sossopra ai tempi del Codice Teodosiano, e così dopo il 430. Di corepiscopi nella Chiesa Occidentale non si fe’ motto innanzi al 444 ; ed il nome di Ormisda (appella zione di una divinità persiana) non potè aver luogo in Occi dente, e fra’cristiani, prima che sant’Ormisda, satrapo sotto Yararane V re dei persiani, noi consecrasse col suo celebre mar tirio circa il 450. Dati dunque gli anni che 1’ Ormisda di san Siro sia potuto giungere all’età conveniente al corepiscopato, siamo ragionevolmente costretti a collocare il vescovo Siro, che gli fu coevo, all’anno 500 almeno, od in quel torno. Non però di molto più tardi, essendoché si ha buon fondamento a ere dere che Siro già fosse passato di vita allorché, fugoen l'invasione longobardica nel 568, si ricovrarono in Genova g i arcivescovi di Milano. E da un documento, a tal uopo la prima volta avvertito si viene in cognizione eh egli era in que tempo di già venerato come santo in Genova; conciossiachè ^an Giovanni Bono, nostro ligure, l’ultimo de citati archesco eletto in Genova e dei qui residenti, restituendosi alla propria sede portò seco reliquie di Siro. Anche, per incidenza, di san Salomone vesono ugualmen di Genova, discorse il canonico Grassi; e intorno al medej rettificò diversi errori. Dichiarò insussistente 1 opinione del ganetti e di altri che ne seguirono le pedate, per cui Mei / C) V. Oltrocchi , Ecclesiae mediolanensis historia ligustica; Mediolani} 1 ( XCIX ) posto all’ anno 250, coll’ appoggio di un documento onninamente apocrifo, ed anche, ove tale non fosse, al bisogno non conclusivo. E questo infatti una lettera attribuita a san Marcellino papa, e diretta a Salomoni episcopo senza più. Inoltre , san Salomone registrato nei Martirologii detti Geronimiani colla forinola Depositio (in luogo di Natalis) sancti Salomonis ecc., mostra assai chiaro di appartenere al periodo in cui si cominciò ad iscrivere in quegli atti i non martiri; il che vuol dire non molto prima della metà del secolo quinto, e forse anche dopo. Infine la notizia ed il culto del medesimo in Genova non ebbe cominciamento se non dal 1588, due anni più tardi da che il Baronio, per incarico pontificio, l'aggiunse, estratto da autorevoli fonti, nel romano Martirologio. E tanto basti pel sunto di una Dissertazione assai stringata di stile, e più copiosa d’idee che di parole. Sarà non ostante pregio dell’opera distenderne qui, a mo’ di conclusione, in uno specchio gli ultimi risultamenti, così ampliati dallo stesso canonico Grassi. Il nostro vescovo più antico per sicura notizia fu Diogene succitato all’ anno 381 ; a lui successe, con o senza intermedio, san Valentino, che in un libro corale manoscritto della nostra Metropolitana è qualificato Dottore della Chiesa ; poi san Salomone, che non abbiamo ragione di far precedere o susseguire a quel Pascasio, che convenne in Milano ad una. riunione di vescovi nel 451; quindi, sul finire del VI secolo, Felice seguito da Siro immediatamente. S’ altri subito succedesse a quest’ultimo come semplice vescovo di Genova non sappiamo; poiché dal 568, cioè da sant’Onorato, primo giuntovi, fino a san Giovanni Bono, avendo gli arcivescovi dì Milano risieduto in Genova per circa settant’ anni, ressero eglino, come pare affatto incontestabile, la propria Diocesi, per quanto veniva loro dato, e quella di Genova che appunto aveano suffragala. La più probabile assegnazione del vescovado del nostro san Bomolo sarebbe quindi, a un dipresso, tra la fine del (O secolo A II ed il principio del susseguente, parendo che gli si debba assegnare come predecessore Giovanni I, che fu nel 680 uno de Padri del Concilio di papa sani’ Agatone (1). Ad un altra scrittura de! medesimo canonico Grassi, intorno a materie di storia ecclesiastica, dobbiamo eziandio qui brevemente accennare. È questa un Ragionamento sovra quel Martirologio della Chiesa di Ventimiglia, che oggidì meritamente si custodisce fra’ codici più estimati nella Biblioteca della nostra Città. L autore mostrava come il ch. P. Spotorno nella dotta Illustrazione di quel codice, testé edita dal socio corrispondente ( ) Notiamo con piacere come lo stesso canonico Grassi già prima d’ora (V. Catalogo generale di tutti i sommi pontefici ecc., nella Liguria ; Genova, 1858) segnalò puie l’esistenza di tre altri antichi vescovi di Chiese Liguri, non prima avvertita. Sono essi Pietro di Genova, Ègidulfo d’Albenga e Adell'erto di Vado; i quali soscrivono ad un Sinodo della Provincia Milanese celebrato nell’ 863 da Tadone arcivescovo della lombarda Metropoli. Gli atti di tale Sinodo ci vennero conservati in un codice dell’Archivio Capitolare del Duomo di Novara, e furono pubblicati nel 1781 fra gli Opuscoli eruditi del P. Giuseppe Allegranza (Cremona, Manini; p. 63), e nel 1865 da Federigo Maassen a Vienna, in un fascicoletto in—8.T0 di pag. 8. Inoltre il prelodato signor canonico ci comunica oia, se non come certa almeno come probabile, la scoperta eziandio di un nuovo vescovo del secolo quinto. Sarebbe costui un Eusebio, attribuito invero dall’Ughelli (Italia Sacra, voi. Ili, col. 528) alla Chiesa Sanese. Costui assistè al Concilio Calcedonico celebiato sotto papa llario nel 465, a cui intervennero fra gli altri parecchi suffraganei della Provincia Milanese, corno risulta dagli atti che se ne hanno più o meno malconci dagli amanuensi. Ivi l’Eusebio precitato, secondo fu appunto corretto o scoretto probabilmente nella stampa, è detto Senensi (sic); mentre un codice lucchese consultato dal Mansi ha invece Seniensi (sic). « Si sa (prosegue il Grassi) che nello scritto a inano dei tempi andati, per un copista non abbastanza intelligente, Io scambio della G in S non è poi impossibile. Quindi, in una cattiva mano di scritto, la voce Genuensi, quando all’I non ancora sovrapponeasi il punto, può rilevarsi di leggieri Jenuensi o Seniensi, se altri avesse avuta la presunzione di correggere un ignoto vocabolo. Questa congettura, che non sembra tanto conclusiva diventa una quasi dimostrazione, allorché consultando l’opera sui Concilii del P. Cristiano Lupo, si vede che appunto Eusebio Geniensi trovò egli in Codice Vaticano ». ( CI ) cav. Girolamo Rossi (1), fosse cadu'o in errore, attribuendolo ad Adone piuttosto che ad Usuardo. Errore facile a rilevarsi, qualora si raffrontino col nostro codice e l’edizione adoniana del Giorgi e 1’ usuardina del Sollier. Accennava come 1’ essere anzi usuardino che adoniano crescesse importanza e pregio al medesimo ; e della età di questo trattando, tenea per più dati storici e liturgici che si dovesse attribuire agli ultimi anni del secolo X, cioè a quelli che corsero dopo il 994, in cui avvenne la morte di san Majolo, il più recente fra’ santi che nel Martirologio trovansi nominali ; e cosi avesse a riguardarsi come il più antico fra tutti i conosciuti, giacché de’ molti che giovarono al P. Sollier niuno antecede al secolo XI. Detto inoltre come il Codice Ventimigliese giovi a sempre meglio raffermarci nella certezza, che le Chiese della Liguria non adoperavano altro testo di Martirologio all’ infuori dell’ U-suardino; l’autore accennava anche ad una questione istorica, e provava infondata 1’ opinione di coloro che vorrebbero riconoscere nella città di Ventimiglia il luogo del martirio di san Secondo, cui il codice in discorso riferisce accaduto apud Victimilium castrum Italiae, e che dovrebbe piuttosto ricercarsi in una località del Vercellese. Dobbiamo ora farci a dire d’ alcune monografie di chiese e monasteri, cui taluno fra’ soci e studiosi ebbe cura d’illustrare; ed anzitutto di due che si ragguardano a’ templi villerecci di san Luca e san Vito d’Albaro, onde prese a trattare il P. Amedeo Vigna nella Sezione di Storia. Fondarono il primo nel quartiere tuttodì appellato di Panigaie parecchi cittadini genovesi, ai quali, mentre nella estiva sta- (’) Illustrazione di un antico Martirologio Ventimigliese del P. G. B. Spo-torno, coll’ aggiunta di un Necrologio e di note storiche del prof. cav. Girolamo Rossi. Torino, -1864. Estratto dal vol. V della Miscellanea di storia italiana. Vcggasi inoltre nel periodico La Civiltà Cattolica (serie VI, vol. 1, p. 581) una Rivista di tale Illustrazione. (Cl' ) gione era gradito l’ameno soggiorno di que’ dintorni, riusciva di non lieve incomodo il trasferirsi alla discosta chiesa parrocchiale de’ santi Nazaro e Celso, per assistere alla celebrazione degli uffici divini. Indirizzate pertanto suppliche a papa Bonifazio VIII, ed ottenuta ogni più opportuna facoltà con bolla del 22 giugno 1296, ebbero in breve e mercé specialmente le generose largizioni di Giovanni Spinola qm. Guidone, mandato ad eiFetto il pio disegno; talché, per atto del 17 agosto 1302, 1 Arcivescovo di Genova, intitolata solennemente la chiesuola all’evangelista san Luca, e riconosciuto ne’ villeggianti di Panigaie il diritto di patronato sulla medesima, ne sottopose il cappellano ad un’ annua ricognizione in favore dell’ abbazia di santo Stefano entro le mura della città. Cosi amministrata da un sacerdote secolare, durò la picciola chiesa fino alla metà del secolo XV, quando i patroni, avuta 1 approvazione dal papa Nicolò V, ne chiamarono al possesso i religiosi dei servi di Maria (1451); il cui Ordine, meritamente era allora in bella fama nella Liguria; comecché nella casa dal medesimo aperta in Genova dimorassero di quei giorni ben dodici insigni dottori teologi, primo fra i quali Deodato Boccone da Portomaurizio, che fu poi vescovo d’A-» iaccio, vicario apostolico e governatore di Todi (J). Non andò molto però, che i serviti spogliatisi di quel dominio, a loro volta ne fecero cessione ai padri domenicani di santa Maria di Castello (-1457). I quali effettivamente presero stanza nel convento di san Luca verso il 1460, e ridotta poscia a più ampie proporzioni la modesta cappella, la riapersero al culto nel 1513. Intorno al monastero di san Vito riferiva l’autore come innanzi al secolo XV i benedettini di santo Stefano avessero ( ) Di costui serbansi nell’ Archivio di san Giorgio parecchio lettere e documenti. (cm ) sul colle d’ Albaro un podere, con casa e cappella dedicata a san Vito; e come del tutto, volgendo l’anno 1433, si rendesse acquisitore frate Andrea di sant’ Ambrogio priore della chiesa gentilizia di san Matteo. Disegno di costui era quello di erigere nell’ accennata proprietà un monastero sotto il titolo di santo Uarione, ed allogarvi alcuni monaci della regola di san Benedetto, giusta le facoltà concedutegli dal pontefice Eugenio IV in vigore di una bolla del 28 novembre 1431. Nel che egli ebbe zelante aiutatore e compagno un Benedetto Car-letti, passato appunto a quest’uopo dagli agostiniani di santa Tecla nei benedettini. Entrambi adunque nel 1436 diedero opera solerte a costrurre la chiesa; e già nella primavera dell’anno appresso vedeansene recate quasi a compimento le mura, quando il buon priore passò di vita, e con lui poco mancò non isvanissero i durati proponimenti, giacché il Carlelti per le pretese e le liti che i benedettini di san Matteo gli mossero contro (come quelli che delle proprietà acquistate da Andrea si teneano legittimi eredi), fu costretto a smettere dagli sforzi che fatti avea per continuarli. Quindi è che solo ventidue anni più tardi, il lavoro della bene avviata fabbrica potè ripigliarsi ; non senza però che il Carletti rinunciasse prima formalmente ad ogni diritto, e poscia i Governatori della famiglia D’ Oria, patrona di san Matteo, coi monaci anzidetti, immettessero nel possesso del luogo i frati predicatori di Castello (1475). I quali ed aggrandirono il convento e ridussero la chiesa prestamente al suo termine, serbando però alla medesima la primitiva denominazione di san Vito (1). (’) Questo monastero non meno die il precitato di san Luca erano special-mente considerati com:1 villeggiature; alle quali i monaci, non astretti a cura d’ anime, soleano più particolarmente ritirarsi nell’ occasioni, a’ que’ giorni tanto frequenti, di pestilenze. Quello di san Vito ebbe a patire gravi danni nel troppo noto bombardamento del 1684; ma l’arcivescovo Giulio Vincenzo Gentile, che assai eompiacevasi di quel ridente soggiorno, volle poco stante che fosse ristaurato a sue spese. ( civ ) Ma dalla Memoria di questo convento l’autore pigliava indire occasione ad un rilievo di meno circoscritta importanza; comecché si rigguardi alla persona di un nostro Arcivescovo, e si rannodi alla storia del celeberrimo Concilio di Basilea. Osservava egli adunque, come in allo del 17 agosto 1433, mercè cui i monaci di santo Stefano consentono procura in capo del loro confratello Girolamo Pendola, per la vendita delle summenzionate proprietà al priore Andrea di sant Ambrogio, si trovi ricordato fra gli altri l’abate Giacomo Imperiale, e notato essere il medesimo in sulle mosse per avviarsi al Concilio suddetto (necessario accessurus ad sacrosanctum Basileense Concilium); e come difatti, in instrumento del 26 stesso mese, confermativo della indicata procura, di già s annunci avverata l’accennata partenza. Studiandosi quindi a ricercare le ragioni in forza delle quali l’abate Imperiale poteva essere così sollecitamente spinto ad assistere al Concilio, il I. Vigna inclinava a credere che egli vi si recasse a propugnare la causa del legittimo pontefice Eugenio IV, allora appunto da quei Padri discussa; e adduceva a conferma, 1 innalzamento dello stesso abate, per parte del medesimo Papa, all Aicive scovado di Genova non appena questo, per la rinunzia di Giorgio Fieschi, si rese vacante (1439). Già è poi notissimo per le storie come Amedeo Vili duca di Savoia, il quale dapprima erasi mostrato tiepido difensore d’Eugenio, dopo che questi venne dal mentovato Concilio deposto, accettasse la tiara offertagli (1439),-ed uscito dal 1’ eremo di Bipaglia si provasse a governare, col nome di Felice V, la Chiesa. A tale uopo, acquistossi in principio, e specialmente ne’propri Stati del Piemonte, aderenti e fautori, ma non pochi fra questi lo abbandonarono in seguito, per tornare nella devozione del legittimo papa. Eugenio IV pertanto delegava ai frati Antonio Della Chiesa e Nicolò da Osimo la facoltà di assolverli dalle incorse censure, con bolla del 17 novembre ( cv ) 1446 (1); la quale giunta infino a noi inedita e sconosciuta, e serbata presso del P. Vigna nella pergamena originale, stimo utile in più appropriato luogo di riferire (2). Nella seduta del 4 febbraio 1865 il sacerdote Giacomo Da Fieno leggeva alla Sezione Storica una Memoria sul monastero __di santa Maria di Rivalta, una delle diciannove abbazie soggette un tempo alla Diocesi di Tortona. La chiesa di questo cenobio vuoisi senza contrasto far risalire al secolo X ; è costrutta in mattoni corniciati e sagomati di pietra viva; la sua foggia è di croce latina; le decorazioni rivelano l’impronta dello stile longobardo. Nelle pareti d’alcune cappelle, e nella volta del Presbitero e della Sagrestia, distinguonsi tuttavia al dissotto di un leggiero strato d’intonaco non ispregevoli affreschi del secolo XV <3) ; il pavimento di tutto il tempio era fatto a mosaico d’assai bello artifizio, e per maggiore saldezza di com-messione interrotto da striscie e lastre di marmo Del chiostro dura intatta la sala capitolare, illuminata da finestre di gotica architettura, sorrette e spartite da colonne con basi (’) Il padre Antonio Della Chiesa, nativo di nobile famiglia di San Germano presso Vercelli, fu il primo superiore dei domenicani entrati nel 1442 al possesso della chiesa di santa Maria di Castello in Genova. Morì a Como nel 4459; e la Chiesa lo ascrisse di poi nel novero de’ beati. Nicolò da Osimo è il notissimo autore del Supplemento alla Summa Pisanella, impresso in Genova dal Moravo nel 1475. (3) V. Allegato C. (') Sotto una di queste dipintine si legge la seguente iscrizione: MCCCCLXXXXV11. DIE V 1VN11 HOC OPUS FECERUNT FIERI OMNES MASSARiI ISTIUS MONASTERII. F RANCI SCHINUS PINXIT. {*) Di siffatto mosaico trovaronsi ancora parecchi avanzi in epoca non molto discosta, quando cioè il suolo della chiesa venne considerevolmente alzato, e vi si praticò il pavimento che tuttodì lo ricopre. ( evi ) e capitelli riccamente intagliati, e adorne nei davanzali da trofei armaturt, scolpiti in pietra e frammisti agli emblemi del monachi. moi e dii sacerdozio. Da questa sala ascendevasi poi al monaci o, j1 quale consta di due parti assai distinte per 1’ epoca della oro costruzione, nè è molto vasto o grandioso ; laddove la casa a azialt, che s innalza a destra della piazza sul davanti della c iesa, m abbellisce di portici e di terrazzi. A manca della diesa stesïa vedesi tuttora l’antico cimitero del paese, |Poalio d ogni ornamento; ed è appunto da questo che si a 1 accesso al tempio, i cui ingressi veniano decorati da stipili di marmo, e chiusi da imposte bellamente lavorate a commesso di noce e d’ulivo. In prospetto alla abitazione dei-abate sorgeva la casa rustica dell’ agente o procuratore, del monastero, con ampie stalle, cantine e fenili, e colla foresteria pei pellegrini e gli ospiti secolari. La piazza era spaziosa, ma irregolare; e vi si riusciva per un grande arco o poitone a cui metteano più strade, lungo le quali, non che ^11 intorno della piazza medesima, erano disposte le case dei coloni, campai e fittavoli dei monaci, i mulini, i forni e quel po di botteghe che era richiesto da’ bisogni assai ristretti della popolazione. L abbazia di Rivalta ripete la propria origine da un Giovanni Aschieri, pio e dovizioso signore di Castelnuovo-Scrivia; che ne gittò le fondamenta correndo il secolo XII, e la volle aggi egata a quella si famosa di Lucedio. De’ vastissimi teni-menti ond’essa venne dotata, e di cui si accrebbe ogni di maggiormente, furono chiamati al possesso i monaci benedettini, e ne godettero pacificamente più che tre secoli. L’ ebbe inoltre in commenda il celebre datario pontifizio Giovanni Matteo Giberti, vescovo di Verona; il quale, nel 1538, col consentimento di papa Paolo III, ne fe’ cessione ai monaci di san Nicolò del Boschetto in Polcevera. E finalmente da questi ultimi ne fece acquisto il ricchissimo Adamo Centurione, per atto I ( CVI1 ) del 30 gennaio 1546 rogato dal notaro Bernardo Usodimare (i), mediante il prezzo di 1200 luoghi delle Compere di san Giorgio, da iscriversi a favore del monastero medesimo del Boschetto (nel quale allora i frati di Rivalta si ritirarono), e la corresponsione di 400 ducati d’oro a titolo d’indennità agli af-fittuarii ed agenti, e di una pensione vitalizia di 1000 lire all’abate, con altri oneri diversi. Dai Centurione passò quindi la proprietà di Rivalta in alcune famiglie nobili di Milano, e finalmente nel cav. Castel-lani-Varzi d’Arache, che attualmente ancora ne ha la signoria. Nell’adunanza poi del 26 febbraio 1866, il dottore Raffaele Ravano, abbenchè estraneo al nostro Instituto, si compiacque dar lettura alla Sezione Archeologica di un suo scritto intitolato: Memorie dei liguri in Sicilia, ricavate dalla chiesa di — san Giorgio dei genovesi in Palermo. È questa un’ampia fabbrica, d’architettura assai bene intesa ed ardita, sicché primeggia tra quante furono nel secolo del risorgimento erette in Palermo ; e come viene di frequente disegnata dagli artisti, così è del continuo ammirata da’ fora-stieri. Divisata a croce latina, e ripartila in tre navi di cui sorreggon le arcate parecchi fasci di marmoree colonne composite , ha nel mezzo una cupola ottagona girata su quattro archi , i quali a loro volta s’imbasano sovra un doppio ordine d’altre colonne pure composite nel primo e corintie nel secondo. La sua fronte è di pietra d’intaglio della roccia geologica locale, cioè calcareo-terziario-conchil iare ; e l’occhio praticatovi al di sopra dell’ ingresso principale raffigura lo stemma genovese, con ai fianchi i tradizionali griffoni, di che però al dì d’oggi appena è se nelle scarpellature della pietra si riconoscono le traccie. Mette bene avvertire che 1’ anno MDIXC , il quale si legge (') Archivio Notarile di Genova, ed Archivio Comunale di Tortona. ( CVI1I ) al di sopra dell’occhio medesimo, piuttosto che al comincia-mento della fabbrica vuole accennare al compimento della facciata stessa; imperocché, secondo il Canizzaro (1), la chiesa ebbe in origine il titolo di san Luca, e già nel 1424 fu confraternita; « ma la nazione dei genovesi avendo una cappella sotto il titolo di san Giorgio nel chiostro del convento di san Francesco (2)£ nel 1576 ottenne per se questa chiesa » (3). La quale nondimeno è a dirsi che solo verso i principii del secolo XVII fosse recata in ogni parte al suo termine, perocché appena a tempi del citato Canizzaro, che scriveva nel 1638, si erano costrutte le due ultime cappelle in capo alla stessa. Il che tutto anche meglio si chiarisce dalle parole del Mongilore, là ove scrive che « essendo li genovesi in pensiero di fabbricarsi una chiesa in onore di san Giorgio loro protettore, detta Confraternita (di san Luca) aggregò accetta la nazione dei genovesi abitatori di Palermo, tanto che tutti i genovesi si inscrivessero confratelli », as giugnendo poi che questi ebbero facoltà « di poter riedificare a chiesa in onore di san Giorgio la chiesa di san Luca, col suo cortile e case contigue, e chiamarsi di san Gioigìo, con con che abbiano da fabbricare nella nuova chiesa cappella di san Luca e far la sua festa; che non potesse esser ricevuto in della confraternita alcuno che non fosse genovese, con altri patti che si leggono nell’atto di aggregazione rogato dal notaro Barnaba di Boscone a’ 9 luglio 1576 » (4). Alle quali cose in (’) De eccles. Panor. MS. della Biblioteca Comunale di Palermo. ^ (*) Questa cappella esiste tuttora, benché lasciata nel più squallid > dono. Sovra l’ingresso della medesima si legge: CAPELA MERCATOHVM CENVENSIVM (5) Canizzaro , De eccles- Panor. MS. della Biblioteca Comunale di Palei (*) V. Mongitore, Chiese e case dei regolari in Palermo; MS. della citat Biblioteca. (c,x ) vero i genovesi tennero piena fede; comecché al lato destro del Presbitero costruissero appunto il pattuito sacrario, e vi allo* gasserò una storia del santo evangelista, in atto di ritrarre la Vergine, già alcun tempo innanzi dipinta dal valoroso Filippo Paladini, che poscia chiuse i suoi giorni in Palermo nel -1614 <*>. Oltre al Presbitero, fra le cui decorazioni marmoree campeggia pure lo stemma della Repubblica, la chiesa novera al presente quattro cappelle per ognuna delle navi minori; ed alcune fra esse vanno adorne da tele di pennelli assai riputati <2>. Così nel quadro onde ora si abbella il maggiore altare, Giacomo Palma, il giovane, ritrasse con raro magistero il martirio del titolare, ed arricchì la composizione di ben molte figure espresse al naturale ^3). Si additano pure come eseguite dallo stesso artista, nella seconda cappella della nave diritta e nella prima della sinistra, una Annunciata ed il Battesimo di Cristo ; ma l’autore non potrebbe consentire in questa opinione, e piuttosto che a quell’ egregio vorrebbe a’ suoi discepoli ascritti i due quadri, perocché raffrontati col san Giorgio mal reggano al paragone di tanta eccellenza. Nella seconda cappella della manca nave é poi di mano del nostro Bernando Castello effi- (') Al posto occupalo da questa cappella sorse di poi, e tuttora esiste, una picciola orchestra, nel cui parapetto fu dipinta l’arme di Genova. La tela del Paladini va fra le migliori da lui colorite in Palermo ; ed oggi pende nell’ interno del tempio, al di sopra della porta maggiore. (*) Cinque fra le cappelle in discorso, giusta quanto rilevasi dalle epigrafi che si leggono sugli architravi delle medesime, vennero innalzate da Leonardo Dei-Bene (1581), Andrea MalocellOjMo81), Tommaso Lomellino (1584), Vincenzo Giustiniani (1612) ed Agostino Segni (1621). (’) In origine questa tela era stata allogata nella cappella dedicata al santo cavaliere, posta a ricontro di quella testé citata di san Luca, e tutta incrostata di scelti marmi ; ma venne pur essa distrutta, lasciando campo ad altra piccola orchestra. (ex) giato il martirio di santo Stefano; e nell'ultima Luca Giordano da Napoli figurò la Vergine del Rosario, pregevole assai per la bella invenzione ed il brioso impasto delle tinte w. Il dott. Ravano chiudeva poscia il proprio lavoro, riferendo con diligenza trascritte e corredate dei rispettivi stemmi, le numerose epigrafi sepolcrali, che veggonsi in questa chiesa scolpite sovra alcuni tumuli e nelle lapidi del pavimento. Di che stimo utile offerire in calce una cronologica notizia al lettore W. (1) Gli enunciati quadri vennero tutti restaurati nel 1837, per mano dell’egregio artista sig. Pezzillo , ad istanza del distinto archeologo sig. cav. Agostino Gallo, oriundo genovese, a cui il dott. Ravano rende un ben meritato tributo d( lode, e per cura della Deputazione amministratrice della chiesa stessa , presieduta allora dal nostro concittadino sig. Giuseppe Raffi. (*) Elenco degli individui alla cui memoria sono apposte le epigrafi. 1370. Giustiniani G. B. » Mabrilia Caterina. 1579. Bozzolo Stefano. 1381. Del Bene Leonardo. 1383. Lavagna Bartolomeo 1584. Maggiolo Carlo. 1583. Baliani Isabella. Ponzone Ottavio. 1586. Lomellino Giambattista. 1387. Bozzolo Giovanni. 1588. Sepoltura comune pei genovesi. Scribanis Gian Francesco ed Orazio. 1589. Negro Pasquale. • Cocchiglia Matteo. 1591. Rivarola Agostino. D’Oria Camilla. Ponerano Gio. Batta. 1392. De Franchi Giacomo. 1393. N. N. marito di Teodora Navone. 1394. Spinola Luigi. » Cavanna Nicolò. 1596. Riario Paolo. 4399. Marcello Leonardo. , ( CXl ) S- v. Già venne altrove accennato (V. Atti, Vol. I, pag. 632.) come la Società, fino da’suoi primordi, si proponesse 4îi. . N. N. mercante savonese. 1600. Spinola Battista. Colomba Nicolò. Oliva Giannantonio. 1601. Scmeria Antonio. 1602. Zerbi Ginetta. » Groppo Francesca e Caterina. 1603. Sori Lazzaro. » Grasso Tommaso. >1604. Montesisto Camilla. 1605. Sori Bartolomeo. 1607. Due fanciulli della famiglia Pernice. 1608. Massa Gian Domenico. » Giuffrina Angelo. 1610. Rossini Francesco. 1611. D’Oria-Fregoso Gian Vincenzo. 1612. Cavanna Giannantonio. 1614. Scorza Giovanni, dei Conti di Lavagna. 1617. Marengo Giovanni Andrea. 1618. Vignolo Vincenzo. 1619. Pernice Marcantonio. 1623. Merello Marco. 1634. Federici Nicolò. 1638. Anguissola-Lomellini Sofonisba, pittrice notissima. » Giudice Gregorio 1647. Valazone Francesco. 1648. Durazzo Gregorio. 1652. Molinelli Paolo. 1673. Viale Maria. 1749. Anfossi Nicolò Maria. 1750. Spinotto Giovanni Maria, Console generale dei genovesi in Sicilia. 1765. Spinotto Antonio Maria. .... Castiglione Beatrice. .... Pallavicino Camilla .... Cocchiglia Girolamo. Più sette lapidi sulle quali, per la logorata scrittura, più non si leggono nè lo date, nè i nomi dei personaggi sepolti.Totale delle iscrizioni mortuarie: N.° 65. Per solo debito d’esattezza, mi occorre di riparare ad una ommissione ve- _J ( CXM ) mandare in luce alcuni documenti di convenzioni commerciali e politiche, stipulale fra Genova e l’impero d’Oriente. Non rlu- rificatasi nella compilazione del precedente Rendiconto; e far cenno di una Memoria su alcuni monasteri esistenti nelle vicinanze di Sestri-Pònente, di che io stesso feci lettura alla Sezione d’Archeologia il 43 giugno 4863. Tali monasteri sono i seguenti : 4.° Santa Maria e san Lorenzo di Priano, edificato nel 1183 dai canonici regolari della Congregazione di Mortara, restaurato ed ampliato dopo il 1706 ; nella qual epoca Giacomo Squarciafico, capitano perla Repubblica in Sestri, \i fece allogare la statua marmorea che tuttora vi si venera col titolo di lugo Potens, prevalso oggimai sull’antico appellativo del monastero. Oggetti d’arte: un crocifisso in tela, a fondo dorato, ed applicato su tavola, con ai lati, in mezza figura, le tre Marie, lavoro non ispregevole del secolo xiv (nella retrosagrestia); un lunetto in legno, del secolo xv, a\anzo di qualche quadro a scomparti, rappresentante la B. Vergine col putto, e due angioli che suonano il mandorlino e il violino (nella sagrestia); un bell affresco dell’epoca stessa, esprimente la Madonna seduta, col bambino sulle ginocchia, ed ai lati due angioli e più figure •di devoti, ormai quasi peidute (nel chiostro); una tavola della Crocifissione -, attribuita al Wandyk (nella chiesa). 2. Santa Maria della Consolazione, monastero costrutto dagli eremitani di san Girolamo, sovra la Costa di Sesiri, nel 1351. La facciata della chiesa, come al pi esente si vede, è tutta dipinta con figure ed ornati dei principii del secolo xvi; e sovra l’ingresso è ritratta l’Annunciazione della Beata Vergine. Nell interno dell’edifìcio, partito in tre navi da colonne ottagone, il pavimento era tutto formato di maioliche da’ vivaci colori, di che si vedono ancora parecchi avanzi. I vetri delle finestre sono dipinti con fregi e medaglie. Nel centro della volta stanno scolpite a basso rilievo e colorite le figure di Cristo, della Madonna col putto, e de’ quattro dottori della Chiesa latina. Il grande arco del Presbitero è decorato da un affresco rappresentante la Vergine circondata dagli angioli, e venerata da una moltitudine di santi; F'ù sotto il mare, e varie galere sovr’esso. Da quest’arco medesimo pende poi un Crocifisso in legno, che si appalesa di antichissima data. Finalmente nella parete sinistra del Presbitero stesso è incastrato un tempietto marmoreo, decorato da tre bassi rilievi rappresentanti la Risurrezione di Cristo, ed i santi Gio. Batta e Girolamo, colla seguente iscrizione : venerabilis presriter illarius de addano fecit fieri ad honorem domini nostri jesu XPI DIE XV MAI MDXIIli. All’altare della Annunciazione vedesi ritratto questo mistero con pregevoli sculture in legno del secolo xvu; gli altri hanno tele di buoni pennelli, e in una che raffigura l’immacolata, e fu eseguita a Puebla nel Messico, si legge. ( CXllI ) scirà pertanto fuori di proposito il toccare delle ragioni del ritardo frapposto a quella pubblicazione, la quale oggidì parrebbe tanto più acconcia ed opportuna, in quanto la collezione de’ nostri diplomi manchi, si può dire essa sola, a far completa la serie delle importanti relazioni corse nel medio evo fra la Grecia e l’Italia. Ma egli è appunto per meglio rispondere, nella misura almeno delle sue forze, all’indirizzo verso cui alcuni ingegni elettissimi hanno rivolti con indicibile vantaggio siffatti studi, che 1'Instituto, pur soprassedendo alquanto dalla divisata pubblicazione, ha disegnato mandar fuora colla medesima una illustrazione di quanto spetti alle colonie ed alle molteplici signorie genovesi in Levante. E però nei successivi volumi degli Atti usciranno a stampa due monografie intorno i Giustiniani e gli Zaccaria, dettate in idioma tedesco dal eh. CAUSA DEVOTIONIS D. CAYETAN1 MARIE PAREDE3 NATIJNIS GENOVENSIS FACTA FUIT IIEC IMAGO SCULPTORE (SÌC) SUO CELEBERRIMO RODR1GUEZ IN INDIARUM URBE ANGELOPOL1TANA ANNO DOMINI 1728. 3.° Il convento dei carmelitani di Montoliveto in Meltedo, oggidì canonica e chiesa parrocchiale del luogo; edificato nel 1516 dal Padre Ugone Marengo da Novi-Ligure, e stanza di parecchi dotti e benemeriti personaggi, come lo Schiaffino, autore degli Annali ecclesiastici della Liguria, e di più altri importanti lavori di patrio argomento ; fra i quali debbo qui più specialmente ricordare parecchie notizie storiche, ed una serie de’ vescovi, arcivescovi e dogi di Genova, de’capitani, luogotenenti e notari di Sestri, scritte in parte di mano del medesimo in uno de’ libri parrocchiali. Nella chiesa si custodiscono diverge opere di molto pregio ; e prima è una tavola colla Deposizione di croce, eseguita dal Sacchi, che in un fìnto cartellino appose il proprio nome: petri francisci sacri de papia opus. 1527. Un'altra tavola, dell’ altezza di circa tre palmi, esistente nella Sagrestia, e rappresentante in varii scomparti la stessa storia e più quella della sepoltura , vorrebbe pure attribuirsi al medesimo artista. All’altare d’Ognissanti è una tela ricchissima di figure, sul fare di quella che Ludovico Brea dipinse per l’omonima cappella a santa Maria di Castello in Genova. Altri pregevoli quadri del secolo xvi sono quelli della Crocifissione e de’ santi Nazaro e Celso. 8‘ ( cm ) dottore Carlo Hopf, e fatte italiane dal socio prof. Alessandro Wolf(l). Nel tempo stesso il P. Amedeo Vigna aduna un codice diplomatico degli stabilimenti ligustici della Tauride, ristretto per ora all'ultimo, sebbene importantissimo, periodo della loro esistenza, ma a cui non è improbabile che siano per aggregarsi in avvenire le membra più antiche e sparse di un medesimo corpo. I documenti per tal guisa fino al presente posti ad ordine già superano l’egregia cifra di quattrocento; e alla serie degli atti di ciascun anno il raccoglitore manda innanzi, con opportuno consiglio, l’esposizione storica degli avvenimenti compiutisi in quello spazio. D’altra parte il socio Belgrano dispone in una speciale Collezione gli atti tutti di un progetto di lega ideato dalla Repubblica Genovese, pel riacquisto delle colonie cristiane in Levante, e la cacciata de’ turchi dal suolo d’Europa, già per forza di numerose ambascerie e di messaggi segreti bene inoltrato nelle trattative fra gli anni 14-81 e 1482, convenendovi con Genova la Signoria di Venezia, il Pontefice, i re di Sicilia, d’Ungheria e di Polonia, l’Imperatore dei tartari ed altri principi. Il quale disegno, comecché poscia mancato di esecuzione, passò fino ad oggi appena adombrato dagli storici e quasi inavvertito ai raccoglitori di diplomatica , (*) La Memoria sui Giustiniani fu già stampata nell 'Enciclopedia di e Grüber ( Lipsia ) ; ma ricomparirà corredata dall* autore di importanti n ed aggiunte. Quella poi sugli Zaccaria, venne dettata appositamente per q ^ Atti; e la Società’che si onora di annoverare il chiaro nome del dott. P^ tra quelli de’ suoi corrispondenti, rende allo stesso per sì gentile pensier grazie più vive e sentito. . (*) Il De Sacy (Notices et extraits des mss. de la Bibl. du Roi, vol. XI, P-ha pubblicata una deliberazione in data del 22 giugno 1481, con cui i Piotetto ed i partecipi della Compere di san Giorgio avvisano ai modi di ìicuperare colonie, e provvedere al necessirio armamento di una flotta. Di che p<>fo' contezza il eh. Canale, con altri particolari, nella sua riputata Stona dela Crimea (vol. II, p. 151 e seg.). Il Dumont (Corps Diplomatique du droit des gens, vol. Ili, par. II, p. 76) riproduce ugualmente sotto 1 anno 1>8l , ( cxv ) ed è pur nondimeno meritevole di singolare attenzione, e degno quant’altro mai di essere posto in bella luce, tante sono le particolarità che racchiude ne’ suoi documenti sulle vedute e lo spirilo ond’erano allora animati i Governi d’Europa, e le rivelazioni intorno i più reconditi loro proponimenti, per riguardo alla questione orientale onde si erano di fresco giltati i germi, e della quale la Provvidenza sembra farci in oggi sperare prossimo il tanto invocato scioglimento. Prima però di entrare a discorrere delle vicende di Caffa, delle quali il socio P. Vigna, a norma del suo divisamento , ci offerse nel passato anno accademico un primo saggio, mi corre debilo d’ accennare a un Discorso pronunciato dal medesimo intorno alcune iscrizioni di Galata, nella tornata della Sezione di Storia il 1.° giugno 1865, e poco stante uscito in luce. A tale ragionamento die’ motivo in ispecie un opuscolo del signor De Launay, archivista dell’ Ufficio tecnico della Municipalità di Pera, Galata e Pancaldi, pubblicatosi l’anno avanti in Costantipoli, col titolo di Notices sur les fortifications de Galata; e nel quale, con gravissime inesattazze e scorrezioni, trovansi riferite diverse epigrafi genovesi de’ secoli XIV e XV, incastrate già nelle fortificazioni, oggidì smantellate, di quel sobborgo. 11 P. Vigna adunque, che più volte dimorò in Levante, e per la miglior parte vide e copiò le sopra mentovate iscrizioni, volle restituire siffatti monumenti alla genuina loro lezione, notarne eziandio alcuni altri ommessi nel libretto di quel bene intenzionato, ma poco felice investigatore delle cose nostre, e tutte brevemente illustrarle con appropriate notizie. Frattanto il De Launay, divisando una impresa vastissima, offeriva al nostro Municipio l’opera sua per la compilazione di Leibnitz e dagli Annali del Rainaldo, l’atto di riparto del concorso che i principi cristiani avrebbero dovuto prestare alla guerra contro de’ turchi, giusta le disposizioni emanate da papa Sisto IV. ( CX VI ) una Storia Generale delle colonie genovesi in Oriente. Di che P esentava un apposito Progetto, e chiedeva poscia il con-coiso del Municipio stesso per agevolargliene l’attuazione. eDie0io Signor Sindaco avendo quindi, con gentile pensiero, Storno a siffatta materia l’avviso dell’lnsti-uo , il medesimo delegava l’onorevole incarico ad una mmissione di cui fecero parte il Presidente, il Segretario, 6 i socii Alizeri, Desimoni Cornelio, Grassi, Negrotto-Cambiaso azzaro, Ricci, Sanguineti Angelo, Scaniglia e Vigna. 1 ^uest ultimo poi torna acconcio il riferire eziandio di pi esente il sunto di una Memoria, letta alla Sezione Storica I agosto 1865, intorno le relazioni politiche fra il Comune ^1 enova alcuni potentati d’ Oriente nella prima metà del " desunte da due codici di provvedimenti dell’Ufficio i Romania serbati nell’Archivio di san Giorgio. Fra documenti che si leggono in questi volumi, e sui quali autore ha di preferenza chiamata l’attenzione dei colleghi, é anzitutto una lettera diretta dall’ Ufficio suddetto al Console ed ai Massari di Caffa, cui si partecipa l’elezione di Battista Airolo al consolato di Simisso, per due anni e con promessa di proroga (il che é affatto contro 1’ usato), e si felicita assai il medesimo, per esser egli riuscito ad ottenere dal potentissimo sultano Amurat II la facoltà di riedificare il luogo (oppidum) preaccennato. Inoltre si encomia lo zelo di Andrea Lsodimaie console di Sinope, che del suo proprio peculio avea ricostratta la casa consolare, e si comanda che lo stesso venga a carico del pubblico erario rifatto di un donativo (exenium) meicè cui si era acquistate le buone grazie del Signore di quella terra W. ^ olendo poscia il Governo di Genova salvare i suoi possessi alle irruenti orde de’ turchi, ed ammansare quel fiero condolei Lettera dell’Illustrissimo Signor Sindaco, in data del 22 luglio 1863. V ) Lettera del 1° febbraio 1424. ( CXVII ) tiere, con lettera spedita al Podestà ed ai quattro Provvisori di Pera, faceva loro conoscere l’incarico affidato ad Jacopo Adorno, castellano e podestà di Focea, il quale aveva ordine di trasferirsi presso Amurad, con istruzione di persuaderlo a dar pace allo Imperatore dei Romani, Giovanni Paleologo ; e s’invitavano i saddetti magistrati a coadiuvarlo nella spinosa missione, ponendogli al fianco uomini destri ed assennati (iK Ma, a giudicarne da quanto tenne dietro a siffatta ambasceria, così prosegue il P. Vigna, sembra che i genovesi di Pera, od almeno i loro legati, sieno entrati allora col Sultano in relazioni anche troppo amichevoli; talmente che questi simulando cordialità e benevolenza, nello accomiatarli li regalò di una abbondevole copia di materiali e di 300 perperi da impiegarsi nell’opera e nelle spese della costruzione di una torre, .con questo però che i reggitori della Colonia avessero a dipingere su quella fortezza medesima le insegne ottomane. Del che per altro non sì tosto si ebbe lingua in Genova, che il Governo fa sollecito a redarguire, con severe parole la viltà d’ animo di quei subordinati ; e respingendo con generosi sensi 1’ offerta del Turco, affermava ben minor danno apparire la morte anziché 1’ acconciarsi a ricevere 1’ obolo da un eterno nemico del nome e dei possessi cristiani (2). Ma se da una parte cotesla legazione ci mostra i genovesi teneri assai e premurosi delle cose del Paleologo, non vuole perciò inferirsene che egli in simile guisa adoperasse verso de’ nostri; conciossiachè anzi ei fosse de’ loro interessi oltre ogni credere trascurante, e lasciasse che i suoi officiali ne inceppassero a loro talento i commerci, con infinite estorsioni ed angherie. Di che ci è testimone la lettera onde, addì \ 6 novembre 1423, il Duca di Milano, allora Signore di Genova, (’] Lettera del 28 febbraio 1424. (5) Lettera del 20 aprile 4424. ( CXVIIl ) moveva per lutto ciò al Paleologo stesso le più acerbe lagnanze; e 1 altra mercé cui 1’ anno dopo si ripeteano ancora le rimostranze medesime, col mezzo del cardinale Jacopo Isolani del titolo di S. Eustachio, Governatore in Genova pel Visconti. Il quale indirizzava eziandio lettere ad Alessio IV, imperatore di frebisonda, sotto il cui regime i veneti aveano ereditata la preponderanza grandissima esercitata prima da’ genovesi; invitandolo a rieostrurre un castello che questi ultimi aveano in quella città posseduto, e che era stato poc’anzi, in una lotta fra liguri e trapezuntini, per parte di costoro mandato in rovina (,). Su che gitta viva luce un documento indicato dal eh. prof. Teodoro Wùslenfeld di Gottinga al cav. Desimoni, e da questi rinvenuto negli Archivi di Venezia <2). È desso in fatti una convenzione stipulata nel luglio del 1319 da Alessio predetto colia Repubblica di San Marco, e ad evidenza imitata da altra anteriormente avvenuta col Comune di Genova ; e reca appunto che i veneti debbano pagare in quello Stato rectum commercium, come i genovesi, e non più; che per ogni soma di mercanzie corrispondano un diritto di venti aspri; e possano importare ed esportare, e vendere nel Regno i loro broccati, le sete, l’oro, l'argento, le perle, e somiglianti preziosità; usino dei pesi e delle misure loro particolari; abbiano in Tre-bisonda un terreno per edificarvi una chiesa ( con facoltà di costituire nella medesima quel numero di preti e frati che meglio ravviseranno), e per costrurvi una loggia e la casa di residenza del Baiulo ; il quale eserciterebbe quella giurisdizione stessa onde usavano simili magistrati in tutte le altre provincie di Romania, e avrebbe l’usata compagnia di nobili, banditori e domicelli. Se non che (prosegue il P. Vigna) le accennate lamentazioni non avendo recato allora alcun frutto, ben molto (’) Lettera del 28 gennaio U2o. C) Pactorum, vol. IV. ( CX1X ) appresso lo ripeteva il Doge Giano Fregoso, rimproverando a Caloianni , successo ad Alessio (l), che nel suo Impero , e nella stessa capitale sotto a’ suoi occhi, si offendessero impunemente i genovesi nella persona e negli averi. La Corte di Trebisonda essersi per avventura lasciata andare a cosi ingiusti procedimenti, facendo troppo a fidanza sulle scosso che, per le guerre dianzi sostenute, avea dovute risentire il Comune di Genova; badasse non pertanto ch’egli si tenea forte ancora per rispingere con vantaggio gli insulti, e ove d’uopo severamente punire la mala fede proverbiale de’ greci (2\ Ma Caloianni studiava sgravarsi delle appostegli accuse, e d’ ogni male a sua volta far cadere la colpa sui genovesi stessi, allegando un qualche caso di resistenza individuale opposta da taluni all’ osservanza delle leggi vigenti nell’ Impero. Onde il Fregoso lo invitava di poi a mandare in Calìa, e successivamente in Genova, un legato a sporre le esorbitanze che da’ sudditi della Repubblica si dicevano commesse ; ivi sarebbonsi con pacato animo ventilate le ragioni delle parti, e composte in ultimo le vertenze colla stipulazione di un trattato d’ amicizia e di pace (3). L’ ambasciatore spedito a Genova da Caloianni fu Giorgio Armiruzio ; ma in breve ne ripartì senza aver punto concluso lo sperato convegno. Di che il Doge amaramente dolendosi in una lettera a Giovanni Giu-s'iniano console di Caffa, accusa delle fallite trattative la slealtà dell’inviato medesimo, che a bello studio si mostrò di sover- (’) Caloianni, ribellatosi al padre Alessio IV, che se lo avea associato nell’impero, era stato dal medesimo cacciato, e sostituito dal fratello Alessandro, il quale sposò una Gattilusio (Maria, secondo il prof. Hopf ) figlia di Dorino signore di Metellino. Caloianni a sua volta, riparato in Caffa, cambiò due navi mercantili in vascelli da guerra, li empì d’avventurieri genovesi, e con essi sbarcato a Trebisonda riebbe il trono verso il 1445 (V. Pfaffenhoffen , Essai sur les aspres comnenats; Paris, Firmin Didot freres, 1847;. C) Lettera del 2 maggio 1447. (5j Lettere del 14 febbraio e 29 marzo 1448. ( cxx ) chio esigente, e volle imporre a genovesi condizioni sì gravemente lesive dei loro interessi, da evitare ogni possibile componimento. E però scrivendo a Domenico di Quarto, console in Trebisonda, destramente gl’insinua di spiare quali mai fos-seio le mire segrete di quello Imperatore (i). Ma qui, e forse nel periodo per noi più importante, si interrompono le notizie; giacché il meno antico de’ codici men-to\ati non procede ulteriormente ne’ suoi alti; e la corrispondenza dell Ufficio di Romania non ha seguito in altri volumi speciali. Facendoci ora a dire delle cose di Caffa, superiormente accennate, noteremo come nella Introduzione alla storia del 1453 (no-\émbre-dicembre), la sola parte dell’ampio lavoro di che venne fino al presente data lettura, il P. Vigna, dopo avere esposti a questo riguardo i proprii intendimenti, tratteggiava la costituzione gerarchica delle varie magistrature , che presiedevano all amministrazione delle colonie, od aveano parte nell’indirizzo di qualche ramo della medesima. Sovrastava a tutte il Console di Caffa; ed alla sua giurisdizione avea soggetti quelli di Soldaia, Cembalo, Samastri, Tana, Trebisonda, ecc; un Vicario Consolare specialmente deputalo sovra le cose della giustizia; quindi i Massari, i Provvisori, gli Ufficiali della moneta, e i quattro scrivani, che doveano essere genovesi, e sotto la dipendenza del Console, ovvero anche coll’ intervento del medesimo, provvedevano al generale disbrigo degli affari interni ed esterni della Colonia. Aveanvi inoltre parecchie minori cariche, come quelle di Sovrintendenti all’annona (iaghataria grani), al peso e alla vendita delle erbe, del carbone, della seta, alla ripartizione delle acque nei varii quartieri e nelle pubbliche cisterne; e finalmente un magistrato che oggi direbbesi municipale, e nominavasi allora 1’ Ufficio de’borghesi di Caffa; ed era composto di quattro ('; Lettera de) 9 luglio 1M8. ( CXXI ) cittadini scelti dal Console fra gli indigeni o residenti genovesi. La parte militare contava poi ben molti capitani detti della città, de’ borghi, degli avatnborghi, delle torri di san Costantino e di santa Maria, non che delle varie porte per le quali dalla banda di terra o dal mare aveasi accesso alla Colonia; e a tutti sovrastava il comandante degli orgusii, o soldati direttamente condotti agli stipendi del Governo. Dell’ampiezza del territorio occupato dalla Colonia, o soggetto alla stessa, non consta esattamente all’autore. Ma la popolazione di Caffa fu al certo grandemente numerosa, perocché venne dichiarata maggiore di quella di Costantinopoli, dopo che questa cadde in potere de’ turchi. Ivi d’ altronde soggiornavano in copia ebrei, greci, armeni, tartari, tauri, giorgiani, ecc. ; rimpetto ai quali i genovesi, secondo rilevasi da documenti, erano in considerevole minoranza W. Le notizie che si hanno della Colonia pel 1453, dopo il suo passaggio dalla signoria della Repubblica a quella della Compere (15 novembre), sono specialmente contenute in uno de’ codici Diversorum negotiorum Officii sancti Georgii; e fra le altre vi si incontrano tre atti (19, 20 e 21 novembre) in forza di cui viene da’ Protettori deliberato l’assodamento di una eletta di militi, e la raccolta di copiose munizioni guerresche, per farne a Caffa sollecita spedizione; statuito poscia d’inviare nel luogo stesso, con titolo di commissari straordinarii, alcuni cittadini sperimentati e probi, i quali visitati i luoghi, e bene avvisati i (') Nel volume V delle Memorie della Società di Storia e Antichità di Odessa, vedonsi pubblicati gli Statuti di Caffa del 144!), desunti dall’ Archivio di san Giorgio, e tradotti ed annotati dal sig. Jurgewicz. Di quest’ ultimo si legge pure nello stesso volume un importante articolo sulle iscrizioni genovesi in Crimea. Con molto profitto potrebbero eziandio consultarsi, nelle Mémoires de l’Académie Imperiale de Saint Pétersbourg (Serie VII, vol. X, fascic. 9, anno 1866j, le Notices historiques et topographiques concernants les colonies italiennes en Gazarie, del prof. Filippo Brunn. ( CXX1I ) i pencoli che per la vicinanza ed i trionfi de’ turchi si correano dalla fin a, vigorosamente provvedessero alle difese della medesima. A tale ufficio infatti erano tosto deputati Simone Grillo e Marco Cassina; ma sembra che l’onorevole quanto spinoso incarico non lievemente angustiasse gli animi di costoro, e in specie temessero che la missione loro conferla sotto I appetto di temporanea avesse a mutarsi in perpetuo; giacché non si indussero a lasciar Genova, senza avere prima riportala da Protettori stessi una dichiarazione (23 novembre) con cui s,enz altro erano licenziati a ripatriare, appena avessero satisfatto agli ordini ricevuti. Né i pericoli a cui si accennava mancavano per vero di fondamento. Imperocché Maometto II. non si tosto si vide fermo ï'Ul liono di Costantinopoli, che raccolta una flotta numerosissima, con es^a irruppe su ambo i lati del Pontico ; e preceduto dal teirore, accompagnato dalla vittoria, batté i greci di Trebisonda, poscia i tartari del Kaptchiac, e finalmente si volse conlro i possedimenti genovesi della Crimea. Precipuo suo intento era poi quello di ferire subitamele nel cuore siffatii stabilimenti, e perciò correre senza più sovra la capitale; ma conoscendo a prova il valore de’ nostri, dubitò di sé stesso, e chiesto d’aiuto 1 Imperatore de’ tartari, gli promise che avrebbe consentito a ripartire con lui la signoria de’ genovesi. Il che facilmente ottenuto, fu con una poderosa squadra di ben cinquantatré triremi dinanzi alla città; ma trovatala fortemente munita, e gli abitanti risoluti a respingere vigorosamente gli assalti, sciolto d’un tratto l’assedio, piombò furente sulla vicina Sebastopoli, e sforzatone il porto, mandò in fiamme i legni genovesi che vi ancoravano, e seco trasse prigioni quanti non eransi potuti sottrarre con la fuga. Quivi poi rinforzatosi col navile de’ tartari, il cui arrivo erasi più del bisogno procrastinato, si ridusse di bel nuovo minaccioso e formidabile nelle acque di Caffa. I cittadini, conoscendosi allora incapaci a resistere con successo, ( cxxm ) spedirongli alcuni messaggi per domandare Maometto della pace; e, per averla, sebbene con grave dolore, acconciaronsi a pagargli un annuo tributo di seicento sommi (1:. Così, almeno per qualche tempo, fu sciolta la lega e rimosso il pericolo. (') Ripeto dalla cortesia del socio cav. Desimoni la seguente Nota sui valori del sommo dalla fine del secolo XIV alla metà del XV. « Nei conti della Masseria di CafTd (Archivio di san Giorgio) il sommo si ragiona a saggi 45 di carati 24 a saggio: e dal Pcgnlotti si sa che a Gaffa saggi 72 formavano in peso una libbra di Genova. Donde un saggio verrebbe in peso metrico granimi 4. 399 ; e un sommo a gr. 4''fi. 966, ossia once di Genova 7 ì/ì. » Nel 1381 un sommo in verghe‘d’argento di buonissimo titolo (forse come alla Tana di once 11, 17 — mill. 976) si ragguagliava ad aspri di Caffa 138; e un aspro per più documenti, equivaleva a un soldo di Genova, come un sommo a lire di Genova 6, 18. Nel 1390 un soldo di Genova era rappresentato da un mezzo grosso d’aigento del piso legale di gr. 1. 494, e del titolo di once 11 1/j fmill. 938), e così del fino di gr. 1. 430. Difatli aspri 138 a gr. 1. 430 rendono per un sommo gr. 197. 340 quas' esattamente come sopra. \i è bensi la piccola differenza della lega, e la spesa di monetazione , come anche si trova in altri anni il prezzo del sommo a lire di Genova 7. 7 ; ma si capisce che i cambi e particolari circostanze possono produrre variazioni ancor più rilevanti, e che al nostro scopo basta una tal quale approssimazione. • Un’ altra difficoltà sembra venire dal ragguaglio che fa il Pegolotti del sommo di Caffa in once 8 ì/ì invece delle 7 1/a che si sono sopra ottenute ; ma ycto-similmente è incorso nella copia o nella stampa di quel prezioso libro un errore di cifra, come ve n' hanno altri parecchi esempi. Perchè l’analisi da noi fatta del sommo di Cafla in 45 saggi e ad oncie 7 ’/2 è tratta dai nostri documenti e concorda con quella che egli fa del sommo alla Tana, sebbene vi sia di nuovo differenza nel numero degli aspri. » Passando ora al ragguaglio coll’ oro, siccome aspri 27 valevano un fiorino, o genovino, o ducato di Venezia, così un sommo siragiona\a ducati 5 ’/o'- c ponendo il ducato o fiorino a lire italiane d’oggi 12. 1G (V. Alti, Voi. 111. p. LXXX), il sommo tornerebbe a L. it. 62, 15. » Ma alla metà del secolo XV, a cui si riferisce la presente Nota, i valori monetarii erano di molto cambiati a Caffa, come più o meno per tutto altrove. Un sommo valeva aspri 202. Di che, supposto immutato il peso del medesimo, un aspro deve essere stato ridotto a gr. 1, o poco meno; ma in tal caso il titolo dell’argento è senza dubbio molto peggiorato, perchè in realtà un aspro non doveva contenere di fino che gr. 0. 50 al più. Et! invero, nel 1455 un ( CXMV ) Or qui fra le cose orientali, torna utile eziandio l’offrire contezza di un lavoro del socio Da Fieno; il quale, in più sommo dì 202 aspri vale lire 6 (soldi 120) di Genova; e un soldo allora non (iene di (ino che gr. 0. 739; ossia un aspro equivale a denari di Genova 7 • D’altra parte in Caffa, lo stesso anno 1435 si ragguaglia un ducato ad aspri 77, ossia a soldi 43 7/10 di Genova; mentre in quest’ultima città valeva soldi 44 legalmente, ed in commercio correva a soldi 47 e più. Così dalle due parti si giunge al medesimo risultato; e si può affermare che dopo la meta del secolo XV un sommo si ragguagliava a ducali 2 e quasi */s> c*0^ a ^ Onde i sommi di tributo convenuti dai Caffesi col Turco sono rappresentati da ducati 1574, che al predetto ragguaglio di L. it. 12. 16 rendono 1 odieina somma di L. it. 19,139. 84. » I ragguagli qui ottenuti s’intendono di valore intrinseco, cioè della quantità d’ oro fino che corrisponde ai sommi di Caffa secondo i diversi tempi, il loro valore estrinseco, o commerciale, sarebbe invece molto maggiore, pei le note cause di sproporzione avvenuta fra i prezzi delle merci e della moneta. Di ciò acutamente discorre il eh. conte Cibrario nella sua lodatissima opeia Dell’ economia politica del medio evo (ediz. V, lib. Ili, cap. VUI,)> e tenendo con lui, come rapporto medio generale nei secoli XIV e XV, la proporzione di 1, 000: 1,769 tra il valore intrinseco e l’estrinseco, ne verri bbe un sommo della fine del secolo XIV pari a L. it. 109. 94, e dopo la metà del se colo XV pari a L. it. 36. 43; e così sommi 600, a quest’ultima epoca, risponderebbero in valore commerciale a L. it. 33,838. 38. » Se questi r.sultati sono giusti, non si capisce però come Bened< tto Di ', nella sua Cronica , calcolasse il tributo summentovato a ducati 5300 , in\ece 1374 come è venuto fatto a noi. Certo questo Fiorentino era contemporane , e perito dei luoghi e dei commerci; ma la passione contro i rivali Comur» ^ Genova e di Venezia trapela in ogni sua parola; onde egli eia disposto esagerare tutto che ridondava in umiliazione dei medesimi; di gu.sa elici stessi moderni concittadini non gli prestano grande autorità. Si potrebbe an rammentare che egli scriveva nel 1479, quando cioè la moneta < ra sempre f , peggiorata; ma pel 1453 il suo ragguaglio si può assicurare a gran pezza ei rone » Degli aspri di Caffa toccò eziandio il eh. comm. Canale nella di Crimea (vol. II. Documenti in fine); ma più particolarmente ne ragionaro gli illustri numismatici Soret (Lettre a M. Castiglioni sur deux médailles gues genoises; Géneve, 1841) e Koehne (Memories de la Société d Ai dico oj et de Numismatique de S. Pétersbourg, vol. I. p- 357. ann. 1847;, ove e^1 C altra sua opera in due volumi, che non è in commercio, intitolata, storia numismatica delle Colonie Greche in, Russia...... colla storia dei pos sedimenti genovesi in Crimea e la descrizione delle monete genovesi di Caffa. ( cxxv ) tornate della Sezione di Storia, leggeva una sua Rivista sul-l’opera venuta in luce nel !865 in Torino, col titolo Za Repubblica di Venezia e la Persia, per Guglielmo Berchet ; facendosene scala a porgere insieme adunati que’ cenni che pure delle relazioni di Genova colla Persia fino al presente ci è dato conoscere. I fatti esposti nella dotta scrittura del Berchet abbracciano all’ incirca un periodo di oltre secoli (dalla metà del xv ai principii del xviii) ; e di essi toccò in prima il riferente; poscia discorse del metodo adoperato dall’ autore, infine dei documenti sui quali poggiano la narrazione, le deduzioni, i giudizi. Tutto il segreto delle relazioni diplomatiche di Venezia colla Persia, come nota lo stesso Berchet , consiste in ciò che fu martello costante delle potenze cattoliche del medio evo : fiaccare se non distruggere la prevalente potenza del Turco in Europa, mediante l’accordo de’ principi cristiani con quel Reame, sito alle spalle della Turchia, ed a questa, per sentimento religioso e per gelosia di dominio nell’ Asia, nemico. Infatti, dal 1460 in cui la Persia cominciò a risorgere » Secondo le indicazioni di questi due autori, fri i pochi aspri genovesi conosciuti, due sono meglio conservati, e per la singolare loro finezza di titolo sono giustamente assegnati non più tardi del finire del secolo XIV. Essi hanno da una parte lo stemma tataro (tamgha) della Crimea, con in giro una leggenda in lingua pure tartara; dall’altra il noto castello delle monete genovesi, con in giro la leggenda c : a : f : f : a , cui seguono due iniziali che paiono doversi in-, terpretare per quelle dei Consoli di questa città nell’anno della coniazione. Uno dei due aspri ha le lettere B. G., che, prese in tal guisa, accennerebbero al nome di Benedetto Grimaldi, che fu console nel 1386. L’altro ha le iniziali Y. S., ma queste non furono sinora da alcuno interpretate, e nemmeno possono esserlo da noi, abbencliè la serie de’ Consoli del Canale e nostra sia più ampia di quella dell’ Oderico di cui si giovò il medesimo lvoehne ». N. B. Sul valore del sommo verso la fine del secolo XIV, può anche vedersi un" altra Nota compilata ugualmente dal cav. Desimoni, ed inserta nella mia Memoria sull’interesse del denaro, ecc. (Archivio Storico Italiano, serie III, voi. Ili, par. 1). ( CXXVI ) e a ricomporsi io istato per l’opera di Hasanbei, detto poscia Uzunhasan, col qnnlc i veneti vantavano rapporti di famiglia, la Signoria di san Marco imprese ad annodare colla Persia quegli accordi, che doveano poco stante condurre appunto ad una lega delle due potenze contro il nemico comune, assai bene iniziala colla sconfitta patita da’ turchi, per opera dei persiani, in sul-1 Eufrate. Ma poscia le cose sinistrarono a un tratto, colla rotta di Terdshan; onde i veneti si ebbero a gran ventura di segnare essi stessi la pace colla Turchia nel 1479. Inoltre, dopo la morte di Hasanbei, avvenuta l’anno prima, il Regno Persiano andò soggetto a’ più gravi sconvolgimenti ; ma né in questo periodo, né quando Abbas il Grande rialzò una volta ancora il credito e l’importanza di quello Stato, si rallentarono mai le simpatie veneto-persiane, nudrite com’erano di lettere officiose e di splendide ambascierie. Bensi Venezia distratta dapprima per la famosa Lega di Cambray, poi bersagliata dal Turco in Cipro, in Candia e nella Morea, fini per soscrivere alla pace di Passarovitz, imponendo termine con ciò alle sue speranze in Oriente. Alle relazioni politiche il Berchet fa poscia seguire le commerciali. Discorre anzitutto del traffico di transito , e della sua antichità e singolare floridezza; poi di quello ricchissimo che per più secoli vi esercitarono i veneziani, protetto e regolato da magistrali e legai particolari, e alimentato special-mente delle svariate loro industrie in fatto d’ argenterie, di sete, di broccati, di vetri e cristalli, ecc. . Anche il metodo tenuto nella condotta del lavoro, e dall’autore indicato in una lettera al comm. Cristoforo Negri, non vuoisi lasciare senza nota d’encomio; imperocché nulla vi abbia nel libro del Berchet che non trovi ampio e fedele riscontro nei documenti che in bella copia succedono al testo, o non riceva nuova conferma da quel Regesto che in breve tenne dietro alla primitiva pubblicazione, ( CXXVII ) Venendo poi a dire delle relazioni di Genova colla Persia, il socio Da Fieno osserva essere gravemente a dolere, che queste né per importanza ne per ordinata concatenazione, possano sostenere il confronto delle veneziane. Tuttavia le notizie adunate in proposito ce ne provano 1' antichità, e mostrano in pari tempo la somma considerazione in cui i genovesi erano pur tenuti in quelle remote contrade. E qui, prime in ordine di data , ci soccorrono due ambascierie di Buscarello dc'Guizolfi, spedilo dal re Argoun , nel 1289, e dal re Cazan verso il 1303, alle Corti del Pontefice, d’Inghilterra e di Francia; e della prima fra le quali produssero i documenti il Remusat ed il Rymer (i); (’) V. Atti, voi. in, p. xcix. L’importanza di questi documenti mi consiglia a pubblicarli uniti nell’Allegato D; e spero che gli studiosi delle cose nostre vorranno sapermene grado, considerando come tali atti sicno fino al presente rimasti sepolti e passati quasi inosservati in Collezioni che non è tanto facile di avere fra mani. Nell’ articolo dell’ Jurgewicz sulle iscrizioni genovesi di Gazaria, poc’ anzi citalo e che però non abbiamo, ma ricordato dal Brunn (Notices ctc.), si riferisce una epigrafe del 1467 tuttora esistente in Crimea, e relativa ad un Calocio de’ Guizolfi console di Caffa in quell’ anno ; e si espone il dubbio che il medesimo sia un armeno, per la derivazione di tal nome da una parola di questo idioma, che significa adventus. Ma i registri della nostra Zecca ( Archivio di S. Giorgio), notandolo fra i sovrastanti pel 1462, ci provano chiaramente che egli è genovese. 11 eli. Canale poi (Storia della Crimea, vol. II, p. 333) aveva di già notato questo console, e chiamatolo Calocero, che è nome del santo protettore della Diocesi d’Albenga nella Liguria occidentale; tuttavia nei Cartolarli della Masseria di Caffa è proprio scritto Callocius; il quale appellativo, per quanto sia divenuto fuori d’uso oggidì, si tro\a non infrequentemente adoperato presso le nostre famiglie del medio evo. I prelodati signori Jurgewicz e Brunii accennano anche alla esistenza di un Zaccaria Guigoursis, principe della pmisola di Taman sul Mar Nero; il quale da Copario (sul Kuban) e da Caffa, nel 1487, scrive al Gran Duca di Kussia per ottenere di stabilirsi negli Stati di quest’ultimo; ed ingegnosamente rilevano la probabilità che il medesimo non debba essere altri che un Guizolfi , e che il suo nome sia stato errato nel trascriverlo ; tanto più che, come osservò prima d’ora il Canale ( Storia citata ) già un Simone de’ Guizolfi era stato signore di Matrega nella stessa penisola Taman. Ma, per una strana fata- / ( CXXVIil ) senza dire del Pauthier (l^, riguardo a cui ci corre debito far luogo ad una intramessa del cav. Desimoni. Il quale aver-tiva come il citalo autore nel riferire la lettera originale di Argoun nell’ idioma oïguro, e la trascrizione e traduzione della stessa in lrancese, converta senza più Buscarello da genovese in giorgiano. Il Remusat avea già confessato che, prendendo alla lettera l’originale di Argoun , parea veramente dovervisi leggere Mouskaril Giorgiano, ma soggiunto eziandio che silïalta lettura sarebbe in aperta contraddizione colle lettere pontifìcie ove 1 ambasciatore è nettamente chiamalo Buscarellus de Gisulfo civis ianuensis ; benché osservando di poi che il vero nome del- 1 inviato è proprio quello di Buscarello, come quesli appunto da sé medesimo si appella nella nota diplomatica al Re di Francia, non sapesse come conciliare il contrasto, privo qual era d’ogni altro dato per giudicare quanto alla nazionalità se aveasi a dar torto al Re Mongollo od al Papa. Ora però, giacché si sono scoperti più documenti genovesi (2), ne’ quali é fatta menzione di un Buscarello de’ Guizolfi, cui si dà titolo di dominus (che nel linguaggio di allora non si usava se non rispetto a personaggi di gran riguardo e aventi feudi), che navigava nel 1281 e figura come morto solo al 1317 (onde il suo fiorire concorda benissimo colle sostenute legazioni), e di un suo figlio che ha nome Argoun come il Re Persiano di cui egli era confidente, ogni dubbio verrebbe sciolto ; tanto più che il Re d’Inghilterra , in una sua lettera del 1303 , Io chiama an-ch’ esso Buscarellus de Guisurfo ; e si sa che questo cognome, scritto nell’un modo e nell’altro, é di famiglia pretlamente genovese. Ma , indipendentemente da ciò, pare che il Remusat lità clic sembra pesare sulla famiglia Guizolfi, questo Zaccaria sarebbe ora un ebreo. Intorno a che, non avendo noi sott’occhi i documenti su cui la deduzione si fonda , ci vediamo astretti a non emettere parere di sorta. (’) Le Livre de Marco Polo; Paris, Didot, 1365; voi. u. (!) V. Atti, voi. ih, p. c. ( CXXIX ) siasi mostrato troppo timido a decidersi sulla difficoltà, ed il Pauthier troppo ardito a sorvanzarla di pie’ pari. Ed invero non potea rimanere oscitanza a decidersi fra un Papa che scrive in latino di un cognome genovese, e lo ripete, e un documento oïguro, che già travisa Buscarello in Mouskaril, e che, per quanto si creda capirlo, lascia qualche dubbio nella interpretazione, ed ha naturalmente una sintassi sua propria, e formole a noi non consuete (1). Difatti il Remusat ci porge egli stesso il fdo a togliere la contraddizione apparente. Egli dice come la parola che pare significhi Giorgiano potrebbe invece denotare Giorgio, ed essere sottintesa fra Mouskaril e Giorgio la congiunzione; per cui due sarebbero, invece di uno, gli ambasciatori, e in cambio di leggere: c est Mouskaril Georgien ( Kourtchi ) que je t' envoie, avrebbe a leggersi allora : c’est Mouskaril et George (et Kourtchi) que je t’envoie. Intesa così, la frase viene benissimo al caso nostro; perocché dalla lettera di Nicolò IV, in data del 2 dicembre 1290, si vede appunto che a Buscarello erano dati colleghi nell’ ambasciata, e fra gli altri aveavi Andreas dudum dictus Zaganus, qui una cum nepote suo Dominico, pridem vocato Gorgi (ecco il Giorgio). apud Sedem Apostolicam... gratiam lavacri baptismalis accepit. (’) A proposito di documenti scritti in cotesto idioma, mette bene ricordare il trattato concluso da Giannone del Bosco, console di Caffa, nel 4380, col Signore di Solcati, accennato dall’Oderico (Lettere Ligustiche, p. '180), pubblicato dal Sacy (Notices et extraits etc., vol. xi, p. 53) e riprodotto dall’ Olivieri (Carle, e cronache, ecc., p. 72) oon assai notevoli variazioni ed aggiunte. 11 documento è tradotto dalla lingua ugaresca nel volgare genovese dal notaio Giuliano Panizzaro, col ministero di Luebino Calligepalli interprete del Comune e della Curia di Caffa. Inoltre nel Cartolario della Masseria di Caffa pel 1446 (Archivio di san Giorgio) trovo notata sotto il 20 marzo la seguente partita : Pro quadam muliere grecca (sic) que legit litteras ogamcha (sic) et pro ipsis legendis in palatio coram spectabili domino consule et consilio pro quando recepit litteras pactorum Imperatoris tartarorum et Comune (sic) Januae in Caffa occasione naufragii navium que de cetero franguntur in tartaria sive in |territorio cius in mari maiori... Asp. lx (car. 30 verso). ( oxxx ) Alla esposizione delle ambasceria del Guizolfi, lenea dietro nella recensione del Da Fieno la Crociata divisata dalle gentil-onne genovesi nel 1301 in sussidio di Casan, e la memo-landa giustizia resa in Calla da Girolamo Giustiniani ad un mercante di Persia (1357). e con altre notizie, il ricordo eziandio di que liguri che in buon numero pellegrinarono quelle regioni ; da ultimo il tenore di due documenti, tratti al nostro Archivio Governativo, ne’quali é descritto il cerimoniale con cui furono ricevuti in Genova due inviati persiani il 12 giugno 1601 e il -10 aprile 1611, abbenché non recassero lettele credenziali per la Repubblica, ma soltanto si trovassero di passaggio ne’ suoi dominii § ^ f. Nell adunanza generale del 9 aprile 1865, il Presidente barone Tola leggeva un Discorso intorno alla necessità di mantenere incorrotte le storiche verità, e sul dovere che ci corre di difenderle specialmente da certe dottrine fantastiche, le quali vorrebbero a’ dì nostri porre in dubbio i fatti più solenni del passato. Al quale ufficio, nobilissimo invero, avendo applicato 1 animo il socio march. Massimiliano Spinola, veniva Jn più adunanze intrattenendo i colleghi con un lavoro, di cui fu in seguito proposta la stampa negli Atti, e che s’intitola : Considerazioni su varii giudizi d’alcuni recenti scrittori > iguardanti la Storia di Genova. autore, notato come non pochi sieno i fatti che lasciano tuttavia desiderare maggior corredo di chiarimenti e sode prove, e nondimeno pigliato animo a bene sperare dalle prospere ( ) V. Allegato E. Posteriormente alla lettura del sacerdote Da Fieno, il eli. comm. Canale, nella sua dotta Storia del Commercio ecc. degl’ italiani (Genova, 1866; p. 233, 237) forniva contezza di una Compagnia di commercio colle Indie orientali, instituita nel 1623 da un eletta di mercanti genovesi, persiani od armeni, durata parecchi anni, ed onorata ancora nel 1647 di pri-'ilegi singolarissimi dalla nostra Repubblica. ( CXXXI ) sorli cui ora la Storia nostra si attende, restringevasi per parte sua a riguardare que’ due veramente importantissimi punti, i quali hanno tratto alle condizioni del Comune di Genova sotto i Dogi popolari o perpetui, ed al severo quanto ingiusto sindacato cui si videro non prima d’ ora sottoposte le azioni e gli intendimenti di Andrea D’ Oria. Per ciò che spetta al primo punto, il socio Spinola si avvisa come gli odierni scrittori non valutassero abbastanza i costumi e le idee de’ tempi onde essi presero a portare giudizio ; e però cadessero nell’ errore gravissimo di confondere i principii della moderna democrazia con quelli tanto diversi a cui s’informarono i Governi anarchici della fazione guelfa in Italia, specialmente de’ Ciompi in Firenze e del basso popolo in Genova sotto il dogato di Paolo da Novi. Mentre che, se eglino avessero bene addentro considerato quanto il sistema di reggimento che a que' giorni fu inauguralo dal doge Simone Boc-canegra, e si chiamò Governo popolare, « differiva dai principii d’eguaglianza civile e politica oggidi proclamati ed accettati da tutti quelli che non rifiutano venire a patti ed a conciliazione col progresso e colla moderna civiltà, . . . non vi ha dubbio che, in luogo di lodare, avrebbero disapprovala la disuguaglianza stabilita nei diritti politici tra i cittadini supposti appartenere a fazione diversa, come pure 1’ esclusione delle famiglie nobili dalla suprema dignità del Dogato e dai pubblici magistrali; ed altresi avrebbero biasimato l’esilio dalla patria inflitto alla maggior parte dei nobili .... Mi fo quindi a credere (così proseguiva 1’ autore) che se eglino si fossero curati d’ esaminare gli statuti da cui era retta la Repubblica, come pure la condizione civile ed economica dei genovesi durante 1’ epoca dei Dogi a vita di fazione popolare, le conseguenze da loro inferite sarebbero state più giuste e meno appassionate ». Perocché l’epoca dei dogi popolari a vita non segnò alcun progresso nelle politiche istituzioni della Repubblica, e non apportò ( cxxxu ) miglioramento alcuno alla condizione civile ed economica dei cittadini; ed anzi Io scadimento di Genova, non solo ebbe origine, ma ben anco raggiunse il colmo durante 1 amministrazione di tali Dogi, a motivo delle intestine discordie continua-mente eccitate dalla pessimità del Governo, per guisa, che in breve spazio di tempo la Repubblica perdeva le sue già fiorenti colonie, e lo splendore di quel nome reso tanto grande e temuto nei giorni de' Consoli, dei Podestà e dei Capitani. Apertosi quindi 1’ adito alla trattazione del secondo punto, l’autore osservava come le Leggi dell’Unione e gli altn av' venimenti onde è per noi sì famoso il 1528, nonché sospingere Genova ancora per la china della decadenza, facessero prova di arrestamela, tentando estinguere le fazioni, e gittando le fondamenta di un solido Governo. 11 quale, col titolo di Nobiltà, stabiliva un ordine di cittadini formato da nobili, mercadanti ed artefici; ed iscriveva i loro nomi nel Liber Ci vilitatis, non già chiudendolo poi come a Venezia, ma ordinando che ogni anno si notassero in quello dieci nuovi individui. sufficiente guarentigia che il Governo non avrebbe potuto mai tramutarsi in una ristretta aristocrazia, ovvero frangere allo scoglio della oligarchia. Trattando poscia partitamele di quanto più da vicino riferisce al D’Oria, il socio march. Spinola esponeva le censuie onde quel Grande è oggi fatto bersaglio; mostrava però come, e prima e dopo il 1528, in casa e fuori, ponesse in cima d ogni pensiero la patria, valendosi a favore di essa dell amicizia de Re di Francia, di Carlo V e Filippo II di Spagna; e provava quanto si dilunghino dal vero coloro, i quali, rimpiangendo a signoria francese, senza più accagionarono il D Oria della spa gnuola prevalenza, e della caduta delle repubbliche italiane. Ma un episodio assai rilevante per la Storia di Genova, nel periodo abbracciato dall’autore, egli é per fermo quello della Congiura del conte Gian Luigi Fieschi (1547); specialmente ( CXWIIl ) dacché a più d’ uno sembrò doversi riconoscere nel fallito riu-scimento dell’ audace impresa una sciagura sopra modo gravissima ed irreparabile. Conciossiaché, a dirla cogli apologisti di quel tentativo, mercè i divisamenti orditi dal Conte, Genova sareb-besi francata dal giogo di Spagna, e tutta Italia avrebbe per sempre stornato dal suo capo quell’ obbrobrioso servaggio che poco stante le fu sopra, e sì lungamente e duramente 1’ oppresse. Al che per altro opponeva lo Spinola: noti potersi nella persona di Gian Luigi Fieschi riconoscere il liberatore vanamente cercato dal Machiavelli in Cesare Borgia, nè aver egli incarnato mai i disegni del celebre statista Donato Gianotti; comecché lo spingessero ad operare solamente 1’ ambizione e il livore, la sete del comando e la speranza d’imporre a Genova la signoria dei Conti di Lavagna. Inoltre, nè Gian Luigi godeva in patria autorità bastevole per mandare ad effetto le trame, nè queste aveano fondamento nella generale opinione de’ cittadini, né infine le mutazioni da lui disegnate venivano da costoro richieste. Onde, se per un lato è innegabile che la morte del Fieschi scompigliasse le sue macchinazioni, per l’altro più argomenti ci recano a concludere che, quand’ anche Gian Luigi fosse pervenuto ad insignorirsi di Genova, e a discacciarne il D’Oria co’ suoi aderenti, a farsi eleggere Doge a vita e a sottoporla alla protezione di Francia, non per questo, ben considerate le condizioni d’ Europa all’ aprirsi del -1547, potrebbe affermarsi che un tale ordinamento avrebbe avuto stabile assetto e lunga durata. Allora appunto la Francia, conclusa la pace di Crespy, avea d’uopo di restaurare il pubblico erario esausto dalle passate guerre, e il suo cavalleresco monarca, travagliato da crudel morbo, era prossimo a scendere nella tomba. Carlo V invece, riuscito colle arti della più astuta politica a sciogliere la Lega di Smalkauden, contro lui formata da’ principi protestanti della Germania, trovavasi libero di sguinzagliare le sue schiere là ove meglio ne avesse scorto il bisogno. ( CXXXIV ) ^ Si potrà dite che il D’Oria, dopo la repressione de’ moti iscam, avrebbe potuto usare moderatamente del trionfo e rari P'ù generoso. Non a lui però, sibbene all’ambascia-cesareo Gomez de Figueroa ed al Governatore di Milano ^ eiiantc Gonzaga, si dovrà imputare la disdetta de’ patti ati dalla Repubblica, dopo la morte di Gian Luigi, con amo suo fratello; nè vorrà porsi in dimenticanza come Q ea ultimo prestasse anche valido argomento alla loro rivo-^azione, quando, ridottosi alle alture di Montoggio, non si di licenziare, come gliene correva obbligo, i numerosi aimati che avea seco a stipendio. L autoie in ultimo esaminava per ogni lato la condotta I o Mica seguita dal D’ Oria ; e concludeva come il Principe rea si debba tuttavia ritenere, qual fu sinora vantato, grande e benemerito cittadino. Ed alle conclusioni medesime, comecché per altra via, giungeva eziandio il socio Belgrano. Il quale, per onorevole incarico ice\utone dalla Direzione dello Archivio Storico Italiano, pi-olia^a in una rassegna letta in più sedute dell’Instituto, e uscita poscia a stampa in quel celebrato periodico (l), a trattare Della vita di Andrea D’ Oria di F. D. Guerrazzi & e di altri recenti sm itti intorno quel grande Ammiraglio. Di che, per le norme prefisseci, appena toccheremo qui brevemente, notando come delle colpe apposte al D’Oria negli anni più giovanili, l’autore in parte lo scagioni, ma in parte ancora con nuovi documenti iibadis,ca le accuse; de’ suoi diportamenti in Corsica contro Ranuccio della Rocca presenti le prove in una relazione dallo stesso Andrea spedita a’ Protettori di san Giorgio; e deli' abbandono da lui fatto delle parti di Francia per volgersi a quelle di Spagna pienamente, col Guerrazzi medesimo, Io giustifichi. (’j Surie III, vol III , par. II. (-) Milano, Guigoni, 1864. Volumi 2 in-8.vo ( cxxxv ) Qual parle inoltre avesse veramente il D’Oria nella liberazione di Genova e nella restaurazione del suo Governo (1528) è fatto chiaro per più raffronti; e però Andrea vuole andare assoluto dalle accuse gravissime di cui il Guerrazzi, e più col Bernabò-Brea il Celesia (,), lo fecero segno. Quali le tradizioni di casa Fieschi, e quali in particolare i divisa-menti del Conte Gian Luigi, lungamente si esamina dall’ autore ; e si moslra avere il Celesia, nelle sue Memorie sulla Congiura del 1547, non isviscerato cosi abbastanza le idee generali, come i mezzi e lo scopo della medesima. Delle trame contro Pier Luigi Farnese, e di quelle di Giulio Cibo in prosecuzione de’moli iliscani, l’autore dice ugualmente con diffusione; e della vita domestica d’Andrea tocca in ultimo alcune cose , a rettificare specialmente parecchie inesattezze nelle quali si è abbattuto il Guerrazzi. Conclude: « Meglio di una semplice rivista bibliografica, abbiamo avuto intendimento, per quanto le deboli forze cel consentissero, di fornire notizia degli studi recenti sulla vita del D’Oria e la congiura del Fiesco ; pigliandone argomento a ripurgare la storia di quest’ ultima dai non pochi nè lievi errori in cui si vide travolta. Ci studiammo a dire imparzialmente il bene ed il male; e non discutemmo giammai d’opinioni, ma di fatti, confortando le nostre asserzioni di documenti irrecusabili. Agli egregi che posero mano alle opere onde tenemmo discorso, augurammo lunga pezza critici d’ingegno non da meno del loro; ma ci apparvero inopportuni gl’ indugi da poi che fu scritto : « I nostri critici che al primo comparire della Vita di Andrea D’Oria levarono alto schiamazzo contro il Guerrazzi, incolpandolo di (’) Bern.uìò-Biiea, Sulla Congiura del conte Gio. Luigi Fieschi; Documenti inediti raccolti e pubblicati; Genova, Sambolino, 1863. Celesia, La Congiura del conte Gian Luigi Fieschi, Memorie Storiche del secolo XV], cavate da documenti originali cd inediti; Genova, Sordo-muti, 1865. ( CXXXVI ) volere, per delirio di distruzione, anche la fama di un morto assalire, non osando muovere le medesime accuse al Celesia, perchè di forme, se non di opinioni, più temperato e manco attaccabile, dopo la pubblicazione del suo libro si contentano di chiedere ad ambedue gli scrittori i documenti da cui furono condotti a un medesimo giudizio » (lj. Domanda inveìo, a senso nostro, discreta ed onesta; chè le prove sono appunto il fondamento su cui s’appoggia l’istoria. Senza di queste la si tramuterebbe di leggieri in romanzo, e correrebbe ad ogni tratto pericolo di essere scalzata per lo tumulto incessante delle umane passioni ». Qui dovremmo pure accennare alla Dissertazione Della vita privatu dei genovesi, letta dal medesimo socio Belgrano in pa recchie tornate della Classe Archeologica. Ma poiché quel lavoio fu poco appresso, per voto della Società mandato in luce, ed anzi la parte di cotesto volume istesso, noi ci asterremo dal tentarne un sunto ; e crederemo invece avere più u i mente adoperato soggiugnendo in altro degli Allegati uniti a presente Rendiconto, e a guisa di complemento, diverse no tizie venute in seguito a cognizione dell’autore, ovvero^a comunicate dalla gentilezza ed amicizia di alcuni colleghi § VII. Nell’adunanza del 3 marzo 1866 , il socio avv. Enrico Lorenzo Peirano veniva esponendo all’ Instituto Alcuni pe sieri a guisa d’introduzione alla Storia della Legislazio Genovese, cui egli si proporrebbe di scrivere. Detto in gen rale dei vantaggi che derivano da tal fatta di studi, e co si chiariscano per essi i varii gradi di civiltà attraverso sono passate le nazioni, accennava a più criterii secon C) Bosio, F. D. Guerrazzi, e le sue opere, Studio storico-ci'dico, Li Zecchini, 1865; p. 329. (*) V. Allegato F. ( CXXXVII ) quali si vorrebbe attendere a cosiffatto subbietto, particolarmente in quanto spetti al diritto costituzionale o politico. Riguardo poi a ciò che più direttamente formava 1’ argomento del suo Discorso, il socio Peirano accennava come il diritto romano non iscomparisse giammai intieramente dall’Italia; e come farebbe #opera sommamente profittevole chi togliesse ad esaminare quanto ileU’elemento romano, e quanto delle leggi longobarde, franche e saliche siasi mano mano introdotto nei Brcui, negli Statuti e nei Codici onde consta l’intero corpo della nostra Legislazione. E qui, a chi voglia por mano al lavoro, due sono i metodi che si presentano: esporre cronologicamente le vicende di ciascuna legge, ovvero partire la materia secondo le varie specie del diritto a cui si appartiene, e poscia esaminare le modificazioni che furonvi successivamente introdotte. L’autore per altro inchinerebbe a credere come, anziché stabilire da principio le partizioni e riferire poscia alle medesime le singole leggi, almeno fino alla compilazione di quelle del 1414, riuscirebbe più conveniente il trattare distintamente di ogni legge in ordine cronologico, distribuendone, s’intende, il disposto a seconda delle materie, e salvo a diffondersi intorno a qualche punto di speciale rilevanza, come, per esempio, il livello enfiteutico e Yaccomenda. Dal 1414 in poi la divisione si rende più agevole e piana, comecché, più o meno esattamente, si trovi osservata dagli stessi legislatori, e quasi richieggasi poi dalla maggior copia de’ codici. Frattanto, un punto assai importante, e che è più della primitiva nostra legislazione, comparala con quella di Venezia, si veniva trattando dal socio cav. Desimoni. Il quale in una Nota letta alla Sezione Archeologica toccava della identità o meglio analogia di certe formole che si riscontra negli atti e documenti veneti, pisani e genovesi ; osservando che se ciò riesce ovvio a comprendersi quanto alle formole del diritto romano, per la tradizione che nc è rimasta appunto ne’ giudici ( CXXXYltl ) e nei notari, non è a considerarsi altrettanto facile e naturale per rispetto alle forinole politiche, le quali vengono dalla nuova costituzione del Comune. Pertanto, come mai queste formole potrebbero essere identiche se non sono imitate le une dalle alti*e, o almeno se non nascono da fatti e bisogni simili ? « Intendo alludere (proseguiva 1’ autore) ai Brevi giurali dai nuovi uffiziali prima di assumere la carica, e specialmente dai Consoli e Dogi, ossia dalla prima autorità politica. Dei quali Brevi già discorsi prima d’ora (1), notando come e poiché si distinguessero dalle leggi e statuti posteriori ; lo qaa*‘ e statuti essendo il portato di una autorità suprema, e da esse non vincolata, sono perciò dettate in forma imperativa (Sta tuimus, ecc.), laddove il Breve Consolare é una promessa giù rata , un obbligo che s’impone il Capo dello Stato di far ossei vare le leggi dettategli dalla Compagna, ossia dalla associazione politica intera e dal Comune, che é a lui superiore. Ora questa stessa formola si trova in Genova, a Pisa, a Venezia n. H D°§e a Venezia, come in Pisa e Genova il Console, giurano la ^eo»e impostagli; la carta che qui si chiamava Breve, forse dalla brev ità o sostanza dell’atto, colà si chiamava con vocabolo assai lo0ico Promissione; i Sapienti incaricati dalla Compagna e dalla s sociazione ad ogni volta di rivedere la carta da giuiarsi, recarla alla possibile perfezione, da noi si chiamavano gì Emendatori e in Pisa i Correttori dei Brevi, a V enezia Correttori della Promissione. La stessa minutezza poi ne esposizione, le stesse condizioni e quasi direi le stesse paio e. La sola differenza sta nella durata dell’ ufficio del Capo dell (’) V. Atti, vol. 1, p. 98-102, 128. u-.tnriar (*) V. il Breve dei Consoli del Comune del 1143, nei Montimeli a i Patriae di Torino (Leges Municipales), e i due Brevi della Compagna de e M61 , nel citato volume degli Atti, p. 176—194; gli Statuii pisani 1164 e 1275, in Donai ni , Statuti inediti di Pisa, Firenze, 1854, voi. ni. ( CXXXIX ) Stato, che a Genova e a Pisa é un Console eletto a tempo ed Venezia un Doge eletto a vita. « Utile studio sarebbe dunque cercare la origine, o la maggiore possibile antichità di queste formole , e presso quale popolo. Frattanto, allo stato delie nostre cognizioni, non vi ha dubbio che i Brevi genovesi sono anteriori a quelli di Pisa ed alle Promissioni venete, avendone noi tre del 1143, I l 57 e 1161, mentre il più antico di Pisa è del 1162; e di Venezia la prima Promissione fino a questi tempi conosciuta era quella di Enrico Dandolo del 1192, pubblicata dal compianto Lazari ; cui viene appresso 1’ altra di Pietro Ziani, del 1205, stampata dal benemerito Cicogna (2). « Io so bene che il eh. Teza mandò recentemente in luce una Promissione di Orio Maslropiero antecessore del Dandolo l3); ma, lasciamo andare che ad ogni modo, appartenendo al 1181 , è sempre meno antica de’nostri Brevi; il più che importa si è che, a mio giudizio, la pergamena onde fu estratta non può essere né originale , nè legittima ; di che desumo appunto il motivo dall’esame delle formole che vi sono contenute, secondo il criterio sovra recato. Perchè, mentre i due documenti del Dandolo e dello Ziani hanno vera natura di promissione, conforme al carattere legale politico che assegnammo a tali atti, la pretesa Promissione del Mastropiero ha un carattere di assoluto comando, simile agli statuti più recenti. Se ne giudichi dalle seguenti parole. La Promissione del 1205 ha: Nos Petrus Ziani ...juramus ad sancta Dei evangelici ... quod homines nostros venetos portabimus {') Appendice all'Archivio Storico Italiano ,* vol. IX; pag. 327; Firenze, 1853. Ç-) Iscrizioni Veneziane, vol. V, pag. 553; Venezia. (5) Carta di promissione del Doge Orio Màstropiero del 1181 , per cura di Emilio Teza; Bologna, 18(33. ( CXL ) in ratione ... et studiosi erimus , etc. ; il che lutto COITe conforme a quei tempi; e così ha pure la Promissione del 1191. Ma quella del Teza all’incontro pone in bocca al Doge nel '1181: Cum rebus publicis presideamus ■ ■ • Per 'ianc promissionem statuimus ... ; e così in continuazione sempre statuimus. « Ora ciascun vede in questa mutazione di parole tutta una rivoluzione d’idee e di governo ; e però, se mai la forinola del Mastropiero potesse essere autentica, io credo che dovrebbe aver l’effetto di fare da capo studiare la Storia di \enezia, perbene intendere l’immenso salto che avrebbe dovuto veiifi-carsi nelle istituzioni politiche di quella Repubblica dal 1181 al 1192. Ma, senza porre in dubbio menomamento 1 esistenza della pergamena negli Archivi di Venezia, ripeto che non la credo genuina; e basterebbe anche a giudicarla tale la con traddizione che esiste nelle parole che vi si leggono: pkr hanc promissionem statuimus. Chi promette obbliga sé, ma non gli altri ». Inoltre lo stesso cav. Desimoni, a nome del socio corrispon dente prof. Girolamo Rossi, forniva contezza di un codico membranaceo di Statuti della Consorteria dei Forastieri di Ge nova, instituita nella chiesa di santa Maria de’ servi, sotto I in vocazione di Nostra Donna di Misericordia e santa Barbara, o0 gidi posseduto dal sig. avv. Carlo Viale di Ventimiglia, i quali Statuti recano la data del 10 agosto I393, e veggonsi appro vati, o meglio confermali, dal doge Paolo di Campofregoso i 19 aprile del 1485. Quella Consorteria, la quale sembra appunto che nel prc detto anno 1393 avesse cominciamento (I), o più veramente (’) Infatti nella cappella della Consorteria tuttora esistente a santa Malia de servi, e di cui possono vedersi alcuni cenni nell’Alizcri (Guida aitistica di nova, voi. i, p. 233), si legge sotto il 10 agosto 1393 (la data stessa degli Sta ( CXLI ) pigliasse stabile assetto, e di cui si ha certa memoria fina al secolo XVII componevasi di operai lombardi, romani, francesi, greci e tedeschi; era governala da un Priore e da consiglieri, ed aveva a scopo l’assistenza ed il mutuo soccorso degli aggregati. Gli ammalati trovavano pertanto ricovero in alcune case dalla Società medesima possedute (2) ; i defunti venivano accompagnati con ceri al sepolcro. Negli Statuti sono specialmente a notarsi le disposizioni che vietano agli schiavi di essere ricevuti nella Consorzia, ove non appartengano a’ membri della stessa ; e prescrivono agli associati privi d’eredi legittimi l’obbligo di devolvere a questa ogni loro avere. Nè pochi furono quelli che ottemperarono invero a siffatto precetto, e di cui perciò vengono in appositi capitoli raccomandati i nomi alla riconoscenza de’ posteri. § VII. Di memorie d’argomento bibliografico, quattro ci occorre notarne. E prima quella del socio Belgrano, intitolata Degli Annali Genovesi di Caffaì'o e de suoi continuatori, editi da Giorgio Emico Pertz, e della discendenza di quel Cronista. Di che però non diremo specificatamente, potendo in oggi siffatta rivista leggersi a stampa nello Archivio Storico Italiano (3) ; bensi vogliamo notare che 1’ edizione delle crona-' che stesse già da più anni deliberata dal nostro Municipio, si tuli) il seguente ricordo: * Questa capella e sepolture con li altri adornamenti si è detta Consorzia de Madonna de Misericordia de’ forestieri. (’) Nel 1607 la Consorteria faceva aprire lateralmente alla prementovata chiesa una porta che mette alla già detta cappella deila B. V. e santa Barbara; e collocava su quel nuovo ingresso una picciola statua di questa santa, con una epigrafe commemorativa. (!) Fra siffatte case è specialmente a notarsi quella che sorge quasi di fronte alla chiesa in Borgo Lanieri. Il marmo colla data del 1396 che ne sormonta l’ingresso, e fa memoria della Società proprietaria, è la più antica iscrizione dettata in volgare che sia da noi conosciuta. (5) Serie III, vol. II, par. II. ( CXLII ) ‘ °ool> per le solerti cure del benemerito comm. Canale, alacremente compiendo. socio P. Amedeo Vigna, con due Dissertazioni, tenea ©o o ìata la Sezione di Storia, di alcune opere di Marco ^ tneo Arcivescovo di Colossi (l>, e della venerabile Tomma-sma leschi, pittrice lodatissima del secolo XVI. Ma più di P opo.sito interteneva i colleglli intorno un’ operetta del beato copo da ^aiazze, creduta sinora smarrita, o fors’anche non ai compilata. Ë questa la storia, o più veramante leggenda, a traslazione dalla città di Mirrea a quella di Genova delle ceneri di san Giovanni Battista, nel '1098. Lo Spotorno, il quale, nelle JSotizie del beato arcivescovo, ebbe già ad instituire assai minute ricerche cosi intorno alle opere del Varagine come alle epoche nelle quali furono dettate, e con quell’acume di critica che gli era sì famigliare attese a sceverare le certe dalle spurie, dubbie o falsamente attribuite, ricorda si/Tatta sciitlura, cui appella Trattato, e soggiunge: « Ne abbiamo la promessa nella Cronaca (di Genova) del Beato; ma prima le molestie e le guerre dei genovesi, poi la morte del santo arcivescovo, ci persuadono che non fu mai composto (2) ». E 1 asserzione del chiaro istorico fu invero lunga pezza avvalorata dal fatto, comecché niuno fra gli scrittori delle cose nostre ci avesse del medesimo rivelata mai 1’ esistenza. Ma di presente quella breve storia é venuta a mani del riferente in un codicetto cartaceo in-4.° del secolo XV, ove altre ezian- (’) Questo opere, di cui il Foglietta (Clarorum Ligurum Elogia) reca inesattamente il titolo, pur lamentando I’ oblio in cui erano tenute dai parenti del— 1 autore, sono due trattati Della vera perfezione e Dell' amore di Dio. Entrambi però vennero editi nel 1863 dal medesimo P. Vigna, nel vol. II della Biblioteca Ascetica Domenicana, sulla scorta di un codice della Libreria dei Missionari Urbani, e di altri due del monastero de’ santi Giacomo e Filippo- (2) Si’OTortNo, Notizie storico-critiche del beato Giacomo da Varazze ; Savona, 1823. ( CXLIll ) dio, e finora ugualmente sconosciute, se ne veggiono ragunate dello stesso autore, e per giunta parecchi documenti del secolo XIII. Il trattateli comincia con queste parole: Incipit istoria (sic) sive legenda translationis beatissimi Johannis Baptiste, qualiter eius sanctissime reliquie apud Genuam Ligurie metropolim translate sunt ex Mirrea civitate Licie, et in ecclesia maiori sancti Laurentii honorifice collocata anno domini mlxxxxviii. Il P. Vigna osservava che il nome dell’autore, come vanamente si desidera nel titolo riferito, così invano si cercherebbe nel testo; non potersi tuttavia dubitare che quello scritto sia opera del Varagine, sia perchè fa parte di un codice il quale per più rispetti si ragguarda alla vita del beato , e sia ancora perchè alla Legenda translationis viene dietro quest’ altra: Historia reliquiarum que •sunt in monasterio sanctorum Philippi et Jacobi, compilata per fratrem Jacobum de Varagine condam (sic) priorem provincialem fratrum pre-dicatorum in Lombardia. Vero è che in questa seconda scrittura 1’ autore, accennando alla traslazione delle sante ceneri, non fa punto memoria di averne composta la Leggenda; ma questa circostanza, piuttosto che infirmare, avvalora a gran pezza l’asserto del P. Vigna. Imperocché, egli osserva, 1’ Historia reliquiarum fu da Jacopo dettata quando era ancora semplice frate, mentre la Legenda ei la compose di già arcivescovo non solo, ma dopo l’opera maggiore del Chronicon Genuense, e così negli ultimi anni del viver suo. Né può recare difficoltà il trovare nel codice premessa alla Storia delle reliquie codesta della traslazione, comecché 1’ amanuense abbia con savio' consiglio seguito l’ordine delle materie anzi che quello del tempo in cui furono trattate. Nel primo di quegli scritti il Varagine racconta infatti come e perché venissero le pregiate reliquie dal lontano Oriente recate in Genova; e nel secondo riferisce invece alcuni miracoli operatisi in questa città dopo 1’ enunciato trasferimento. ( CXLiVI ) Né pure valgono a far contro a sifatli argomenti alcune parole del Calcagnino, là ove sembra accennare a tale operetta facendone autore un fra’ Giordano da Vercelli (t'; essendo che questo personaggio, come veniva dal riferente dimostrato, e affatto immaginario, e deriva probabilmente non da altro che da una arbitraria interpretazione d’iniziali a cui si lascio andare il Calcagnino medesimo (2). Bensì è da toccarsi di quella assai nota scrittura che intorno al medesimo soggetto comparve nel 1410, col titolo di Historia translationis reliquiarum beati Joannis Baptistae ad civitatem Januae, compilata per Nicolaum q. Mathei de Porta notarium, quartum clericum ianuensem (3\ Conciossiachè il Della Porta, come pi oui il socio Vigna, con arditissimo plagio fece sua tut ta intera la Leggenda del Varagine, £ià lin d’allora al certo ignoratae Ow 0 5 0 1 • sepolta forse tra la polvere di qualche Archivio, introducen ovi solamente qua e là osservazioni ed aggiunte il più delle volte (’) Calcagnino, Storia del glorioso Precursore di N. S., P- (2) Nel secolo XIII viveano nell’ Ordine dei Predicatori Giovanni c Giacorn^ Vercelli, ma niuno di nome Giordano; del quale ultimo vanamente si c rebbero notizie anche nella diligente Storia della Letteratui a I ei ceI ese_ De Gregori. Poi l’opuscolo essendo scritto in forma d’omelia pastoialc, ie od almeno diretta al popolo, occorrerebbe provare coll’esistenza del su^ Giordano ch’egli era costituito in dignità episcopale. Per avventili a il ms. cit , e fors’ anche veduto dal Calcagnino, non recava per esteso il nome dell aut bensì le iniziali (Fr. J. a V.) ; ed egli potè così scambiare il Fi atei Jac° a Varagine nel suo Jordanus a Vercellis. (z) V. Olivieri, Carte e cronache mss. per la Storia Genovese, ccc., P- - ^ L’ esemplare del Della Porta citato in questo Catalogo, e serbato nella s'. della nostra Università, è sopra modo scorretto; nò molto miglioie può quello che se ne ha negli Archivi Generali del Regno in Torino. Una copia è posseduta dal sig. Luigi Carrara Vice Segretario del nostio 5 ^ ^ pio; e da questa appunto il cav. Banchero desunse quel brano clic più SPL mente riguarda il trasporto delle ceneri, e che si legge a stampa nel Duo di Genova dal medesimo illustrato e descritto. È a credersi che 1 oiioi»'1 ’ debba esistere nell’ Archivio della Compagnia per lo cui uso il Della Porta ( CXLV ) erronee, scipite o straniere all’argomento. Poi, dove il Varazze conduce la narrazione con semplice ma non ispregevole stile, e va appena errato in qualche accenno di storia generale, il Della Porta ogni qualvolta gli accada di non trascriverne alla lettera il lesto, esce l'uora in un latino zeppo di barbarismi e delle più gravi offese alla Grammatica; e come ciò non gli basti, scompiglia siffattamente la cronologia, da intricare i meno cauli in un laberinto di dubbiezze e d’ errori. Per ultimo il P. Vigna toccava anche di un altro punto abbastanza rilevante per la vita del beato Arcivescovo, cioè del suo gentilizio; e riferiva come il P. Giambattista Acinelli nella sua Storia cronologica del Convento di san Domenico di Varazze (1), specialmente appoggiandosi alla tradizione che correva in paese e ad una vita del beato medesimo contenuta in un codice del secolo XVI, inchinasse a crederlo del casato dei Cerruti; mentre il P. Gio. Maria Borzino, nel suo Laconismo delle historie liguri e genovesi (2), lo appella invece senza punto esitare: « Fra’ Giacomo Facio da Varagine, per soprannome antonomastico detto Giacomo teologo, domenicano, ecc. » Ma il P. Vigna, ben ponderato il valore.dei due cronisti, più volentieri si accostava alla sentenza dell’ultimo, che, pei tempi in cui visse, fu critico abbastanza avveduto e sagace. Finalmente il socio canonico Grassi, appiè’ del suo Bagio-namento sul Martirologio di Ventimiglia onde ci avvenne di fare più innanzi parola (3), toccava di una rettificazione riguardante il vero autore della Sloria delle Discordie e guerre civili dei genovesi nell'anno 1575, pubblicata nel l857 dall’Olivieri, col nome in fronte del doge Giambattista Lercari. Ma il testo datoci dall’editore (scrive il canonico Grassi) non è punto quello (’) MS. presso il socio P. Vigna. (*) MS. della Civico-Beriana. (5) V. a pag. C. • io* ( CXLVI ) del Lei edi i, abbenchè il nome di questi veramente si trovi notato in qualche manoscritto, per lo più d’altra mano, e con facile equivoco. Il tema stesso trattarono ben quattro di-\eisi , onde colui che avuto a mani un esemplare del testo oliuiiano, privo d autore, sapendo del Lercari come scrittore di somigliante argomento, senza entrare in più minute consi-deiazioni, vene appose il nome. 11 Sopì ani e lo Spotorno fan noto però, che il Lercari scinse diciassette libri, e il testo dell’Olivieri ne ha invece tre .soli, comprendendo tuttavia all’incirca la compilazione che in qualche manoscritto é divisa in quattro. Meglio nota è l’opera corrispondente di Gioffredo Lomellino ;' ed anche più divulgata quella dei Commentari di G. B. Spinola, dopo in ispecie l’edizione fattane, il 1838, da Vincenzo Alizeri. Ma il Lomellino ed il Lercari sono tuttora inediti; sicché il volume pubblicato dall’ Olivieri dovrebbe portare a titolo: Delle disco) die et ultime guerre civili dei genovesi seguite l’anno 1575, sci itte da Scipione Spinola qm. Gian Francesco , nobile genovese , il cui nome era fin qui passato ignoto agli storici della nostra Letteratura. Tutti e quattro poi cotesti scrittori si trovano infatti riuniti, ed originariamente indicati, in un codice abbastanza vicino ai loro tempi, oggidì serbato nella ricca Biblioteca Brignole-Sale ; ed ivi appunto il Lercari è ripartito in diciassette libri, come notano il Soprani e lo Spotorno succitati. § IX. Nella tornata della Sezione di Storia del 7 gennaio "1865, il socio barone Carlo Nota discorreva le origini ed i fasti della famiglia Della Rovere ; (occando in ispecie di quel Giovanni, prefetto di Roma, donde uscirono i Duchi d’Urbino, e di Lucrezia sorella al pontefice Sisto IV e moglie a Girolamo Basso Della Rovere, da cui derivarono i Marchesi di Bistagno, Cisterna e Monastero. ( CXLVIl ) L;*. Società inoltre ripete dalla cortesia dell’ ingegnere Luigi Nascimbene un suo Cenno Biografico di Alessandro de marchesi Malaspina (l). Il quale entralo a’ servigi di Spagna nei primi anni del regno di Carlo III (1775), percorse una gloriosa carriera nella marineria di quella nazione, imprese lunghissimi viaggi, e fe’ tesoro di cognizioni sopra modo importanti; finché, venuto in ombra alla tenebrosa politica della Corte, perduta la grazia del Re, privato delle sue scritture, e sostenuto in carcere, non riacquistò la libertà se non per l’interposizione della Francia. Condotto allora a’ confini del suolo iberico, il Malaspina rientrava in Italia ; e poco appresso moriva in Pontremoli il 9 aprile del 1809. L’autore osservava quindi come il Governo Spagnuolo ponesse in opera ogni artifizio per coprire d’ingiusta oblivione quell’illustre Italiano; come perciò buona parte delle scientifiche relazioni da lui dettate andasse sottratta, per opera del troppo noto Principe della Pace, e come nelle carte marittime pubblicate in Madrid dopo il 1799, ed in gran parte fondate sulle osservazioni del Malaspina, non si trovi punto ricordato il suo nome, ma quello solamente delle corvette da lui comandate (2). All’invito poi del Preside della medesima Sezione Storica, che taluno de’ socii volesse dar mano ad una biografia di Felice Romani, rispondeva sollecito il sacerdote Da Fieno; e nelle adunanze del 29 aprile e 1° giugno 1865 pronunciava un Elogio, nel quale, sulla fede d’autentici documenti, rettificate parecchie inesattezze corse in più effemeridi così riguardo a quell’egregio Lirico genovese come allo stato di sua famiglia, ac- (') Nacque in Lunigiana nel castello di Mulazzo, il 5 novembre 17o4. (!) Intorno a questo medesimo argomento può vedersi una Memoria del marchese Giuseppe Campori, nel voi. iv delle Memorie della IL Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena. ( CXLVIII ) cçnnava alla educazione letteraria attinta dal Romani alla scuola del Solari e del Gagliulfi; e narrava quali circostanze lo determinassero quindi a battere la via delle scene anzi che quella del foro, a cui il padre avrebbe pur voluto indirizzarlo. Diceva delle splendi Je prove ognora offerte dal Romani nell arringo presceltosi, de’ viaggi impresi co’ più valenti maestri, delle onoranze onde si vide segno, e del vivo amor patrio che facealo rinunziare all’ ufficio allora sì ambito di poeta cesareo. Notava coni’ egli adoperasse da savio critico e letterato, ne lunghi anni in che, per volere del re Carlo Alberto, ebbe a dirigere la Gazzetta Piemontese e l’Ufficiale ; e passava in rassegna le prose, le liriche , i melodrammi che gli valsero il nome di Metastasio novello, e andarono sempre sposati alle armonie de’ migliori. Di nobili fattezze, di portamento dignitoso, d’umore gioviale e piacevole, e tutto dedito agli amici ed alle oneste allegrezze della vita, Felice Romani moriva, grave d’età, in sull apiiisi del 1865. La patria gli appresta nella civica Necropoli un monumento; e alle ossa di lui concede riposo fra’ quelle de più benemeriti e degni suoi figli. § X. Delle comunicazioni pervenute alla Società in fatto di storia, sarà utile stringere in questo luogo le varie notizie. E prima ci riesce grato il far parola della copia di un Carme dettalo in memoria de’ trionfi riportati nel 1087 da’ genovesi, amalfitani e pisani sovra de’saraceni, trasmessa di Roma all Instituto dal P. Alberto Guglielmotti nostro corrispondente. Quel poema ha il raro pregio di essere proprio contemporaneo al fatto che ha preso a celebrare, e intorno a cui di recente il eh. Amali scrisse alcune pagine di profondissima critica (1); serbasi in un Cj Prime imprese degl’italiani nel Mediterraneo. Vedi Nuova Antologia di Firenze; maggio 1866. ( CXLIX ) codice del 1119 di Guidone Pisano, nella sceltissima Biblioteca dei Duchi di Borgogna (1) ; é ricordato con onore da parecchi insigni eruditi, come il Pertz ed il Lelewel (2), fu pubblicato la prima volta in Bruxelles dal barone di Reif-fenbcrg, nel Ballettino di quella B. Accademia di Scienze e Lettere il 1845, e l’anno appresso in Parigi dal Du-Meril fra le Poésies populaires du moyen âge. In Italia ne offerì un sunto e mandò in luce alcuni brani lo stesso Guglielmotti, nella Storia della Marina Pontificia (3); ed io, riguardando così alla speciale importanza del documento rispetto alla più antica storia dei Comuni di Genova e di Pisa, e alia rivendicazione del primato italiano nelle Crociate, come alla rarità delle Collezioni in mezzo a cui sinora apparve in luce, credo utile riprodurlo estesamente fra gli Allegati w. Il socio cav. Desimoni presentava poscia il compendio di parecchi documenti spigolati nell’ Archivio di Venezia dal eh. Wùstenfeld già ricordato, e dallo slesso cortesemente comunicatigli. Questi documenti esistono nel quarto volume Pactorum; e riguardano la tregua conclusa fra Venezia e Genova dopo la guerra d’ Acri (5), nel convento de’ frati predica- (’) Catalogue îles manuscrits de la Bibliothèque Royale des Ducs de Bourgogne; Bruxelles et Leipzig, 4842; vol. n, p. 85, num. 3901-3909 , p 408, num. 3898, p. 416, num. 3912. V. anche Schayes, Notice sur le ms. de 1119 conservé dans la Bibl. du Duc de Bourgogne a Bruxelles, nel vol. xu del Bullettino dell’ Accademia. (’) Pertz, Arcliiv. der Gesellschaft zïir aeltere deutsche Geschichtkunde, vol. vu, p. 539; Amari, Diplomi Arabi, p. xix; Lelewel, Geographie du moyen âge. (5) Vol. i, edito nel 1856. (*) V. Allegato G. (s) Anno 1270, 12 agosto, indizione 10. Viene esposto che per opera del Leviathan fu tra’ veneti e genovesi, nelle parti trasmarine , da tenue cagione suscitato un grave dissenso, rinfocolato così dalle arti diaboliche, che nè il Pontefice, nè il Re di Francia valsero prima d’ora a condurre que’ popoli ad sufferentiam vel ad treguam. Dio finalmente, mosso a pietà di tanti mali, averne ispirato il rimedio; c però le parti, addivenute alla nomina de’ rìspct— ( CL ) tori di Cremona, volgendo l’anno 1270, ad istanza de’ Principi Cristiani; e la rinnovazione della tregua medesima avvenuta nel luogo stesso il 1283 e 1286, ed in Brescia nel '1291, per durare fino al I29G. Ma due anni prima che questo termine venisse a spirare, la guerra si riaccese più fiera che mai per l’assalto di Calata; e però soltanto nel 1299 si potè concludere una pace, di non lunga vita aneli’essa, ma assai thi procuratori (i quali furono, per Genova, Simone Grillo, Guglielmo da Sawgnone e Giovanni di Ugolino), essersi alfine concordate in questi patti: f. 1 veneziani non offenderanno alcun genovese; in caso d’offesa, la questione sarà entro quaranta giorni sommariamente composta, e risarcito l’offeso co beni mobili ed immobili, ed anche colla tradizione della persona del— 1 offensore, entro quindici giorni dal pronunciamento della sentenza, malgrado qualunque statuto o consuetudine veneta in contrario- Inoltre all’ offeso verrà conceduto un salvocondotto da Venezia a Ferrara, od a Piacenza, a sua scelta, ed a spese del Comune di san Marco. Nel modo stesso il Comune di Genova si conviene per riguardo a’ suoi sudditi ; e promette inviare l’off nsore fino a Piacenza o Ferrara, a scelta dell’offeso. 2.° I patroni delle navi che usciranno di Venezia, dovranno per sè e pei loro uomini giuiare di non offendere i genovesi. Intorno il che la Repubblica di Genova promette reciprocità. 3.° Entrambi i Comuni procureranno che il presente trattato venga ratificato dal Papa, cui spediranno ambasciatori verso la fine di luglio al più tardi; e si adopreranno a che fra sei mesi ie città di Firenze, Lucca e Siena entrino mallevadrici in solido della sua osservanza. Il Doge di Venezia , nel Consiglio Generale, e il Podestà e Capitano di Genova, dovranno poi a loro volta ratificarlo, ed apporvi il sigillo con bolla di piombo entro sei giorni da che ne saranno richiesti, sotto pena di iOOO marchi d’argento. Che se le dette città di Toscana non volessero prestare la suaccennata malleveria, allora si pregheranno della cauzione nelle pai ti di Siria le Mansioni del Tempio, di S. Giovanni e dell’Ordine Teutonico, entro un anno a partire dal 4.° maggio venturo; ed ove anche queste si rifiutassero, si cercheranno in Italia societates, o singulares personas, ovvero anche altri Comuni, a guarentigia di lire 23,000 da fornirsi dalle parti, pel caso di rottura della tregua. i.° Venezia eccettua dalla cauzione i suoi possessi di Accon , Tiro, Cipro e Bonifazio. S.° Genova a sua volta stabilisce che tutti i suoi cittadini dimoranti in Tiro e nelle sue pertinenze, saranno obbligati con giuramento a difendere il Signore ( CU ) gloriosa pei genovesi. E qui il riferente insisteva sulla immensa utilità che presenterebbe allo studioso una completa raccolta di relazioni veneto-genovesi. « Allora, egli dice, si vedrebbe in certo modo nascere la questione fra le due Repubbliche, in quell’atto del 1207 onde Pisa e Venezia si assicuravano reciprocamente contro Genova. Cosi si intravvederebbe una non nota lega fra’ genovesi e Vatace imperadore di Nicea, in quel cenno che danno gli storici veneti di una guerra impresa nel * di quella terra, la città e il castello ; ma come siffatta difesa non potrà fornire occasione alla rottura della tregua , così non potrà allegarsi che i v< ne-ziani abbiano lesa l’osservanza della medesima invadendo Dominum Tyri vel gentem suam. Così ugualmente la stessa Genova eccettua i patti onde è vincolata col re Carlo di Sicilia , nel mare di Provenza e da Monaco ad Acque-morte , all’ acquisto e difesa del Regno di Sicilia , del Ducato di Puglia e del Comitato di Provenza, alle cui imprese deve prestargli aiuto con venti galere Lene armate, per una metà a spese del Comune e per 1’ altra a quelle del Re, ed impadronirsi de’ banditi e nemici di Carlo transeuntes, stantes, redeuntes nel territorio di Genova e del distretto, consegnandoli al He o tenendoli prigioni sino a guerra finita ; impedire, potendolo, clic questi venga assalito ; non ricettare alcuna preda fatta dai ladroni nel Regno od in Provenza; anzi ricuperare bona fide le cose sottratte o per avventura nascoste nello Stato genovese. Anno 1283 giovedì..., indizione 10.a Instrumento dato in Cremona, secondo il quale viene prolungata sino al giugno 1286 la tregua, già confermata nella stessa città, con due atti del 2o giugno 1280, rispettivamente scritti da’ notari Leonardo Deodato canonico di san Marco e Leone da Sestri, e per l’opera dei procuratori Nicolò Querini ed Jacopo Tiepolo dalla parte di Venezia , Egidio Lercaro giurisperito ed Oberto da fPadova da quella di Genova. Le condizioni sono letteralmente quelle della convenzione del 1270, eccetto che Genova non più riserva i patti col Re di Sicilia. Anno 1286, 13 febbraio, indizione 1i.a Altro instrumento seguito pure in Cremona, per mano del notaio genovese Enrico Della Porta , con cui Marco Bembo e Nicolò Querini, ambasciatori di Venezia, Marino De Marini giurisperito e Giovanni di Rovegno, ambasciatori di Genova, protraggono la tregua ad altri venticinque anni. 11 patto è trascritto da quello del 1286. Anno 1291, ...... indizione i.a Ultima proroga stabilita in Brescia, nel Capitolo de’ frati predicatori, tra Martino Bembo ed Enrico Dauro procuratori di Venezia, Marino De Marini e Ansaldo Mazucco di Genova, fino al giugno del 1206. 1222 da’loro concitladini contro i nostri e contro quello Imperatore; e se il eh. Salili ha trovato nell’Archivio di Torino, fra le carte di Genova, un importantissimo documento del Legato Apostolico, fra’ Tommaso vescovo di Betlemme (1 I gennaio 1261), che schiarisce da qual parte sia il torto nella summenovata guerra di Acri, io credo che lo stesso Archivio debba pur contenere un altra carta, non meno importante, di altro Legato Pontificio, il cardinale Pelagio vescovo di Albano, anteriore di data, ma relativa sempre alle questioni di Acri fra’ pisani, veneti e genovesi; e che oltre all’esserci favorevole come la precitata, ci fornisce notizia di uno Statuto colà giurato dalle colonie di que popoli stessi, per prevenire le discordie fra loro. E se, per isventura, la pergamena fosse smarrita, io ne ho un sunto abbastanza esteso , ricavato dai sempre lodati manoscritti dell'a-nonimo Ageno <2) ». Riempiuta per tal guisa la serie dei documenti, ed intrecciali gli uni cogli altri, giusta l’ordine di data, ne avviene f1) Della colonia dei genovesi in Galata; vol. II, p. 499. (■) Miscellanee storiche mss., già possedute dall’ esimio cav. avv. Emanuele Ageno, e da! medesimo recentemente donate alla Biblioteca Civico-Beriana. Ivi, Registro Vili, p. i: Sunto di pergamena autentica, senzadata (1222?), serbata nella Cantera XI dell’ Archivio Segreto della Repubblica di Genova, col titolo sul dorso: Pisani. — Pelagius... albanensis episcopus apostolice sedis legatus... Dum inter ianuenses... et pisanos... controversia verteretur et prelium... metuens ne... in totius acconensis civitatis excidium susciperet incrementum... inspecto quodam statuto inter tres comunitates. venetorum videlicet ianuensium et pisanorum iuramento firmalo, in quo continetur expresse quod si discordia evenerit inter duas de comunitatibus istis tercia discordiam ipsam concordia vel sententia infra octo dies bona fide determinet. et partes que discordiam habent teneantur eidem parere, cum iüramen-tum fuerit licitum... balio venetorum iniunxi ut... ad concordiam partes suas interponeret... tandem vero cum pars pisanorum recusaret litigare sub balio memorato allegans dissolutam societatem tum propter bellum... Ium etiam quia idem balius iuris canonici vel civilis notitiam non habebat... ego habito conscilio cum reverendis patribus patriarca ierosolimitano. archiepiscopo tir ense. beellemuît. et vale fi. episcopis, montis syon sancte marie de ( CLIII ) che si correggano , suppliscano ed illustrino a vicenda ; poi il filo della storia procede logico e non interrotto ; le cause e gli effetti si corrispondono. Che cosa significherebbe difatti un atto del 1290, che si legge nel nostro Libro de’ Giuri, e riguarda la nomina de’ sindaci per la tregua da rinnovarsi coi veneti, se non avessimo nei Pactorum questa medesima rinnovazione di tregua nel 1291 , già sopra menzionata? E mentre gli storici veneti confondono in un solo due documenti simili del 1218 e 1228, chi avrebbe potuto distinguerli, restituirli alla vera loro cronologia, se non appunto il nostro Liber Jurium ^, e la serie ordinata dei nostri Podestà? Infine 1’Archivio di Venezia ci otfre ancora, nel primo codice de’ Commemoriali, altri due documenti inediti che si rannodano a’ mentovati, e quasi ne sono il complemento. Uno è del luglio 1299, e contiene il rapporto di un Segretario Ducale spedito a Monaco, per estendere agli estrinseci genovesi quivi valle iosaphat et de lama (Ialina?) abbatibus... pronunciavi... balium me-moratum debere cognoscere... Datum apud tirum IIII idus iunii. Ego oliverivs sacri imperii notarius.et index ordinarius prcdicta esemplavi ab autentica sigillata sigillo dicti domini pelagii in quo est sculptu episcopus indutus sacris vestibus pianeta et manto cum pastorali in manu sinistra, et in quo sunt littere relegentia taliter, sigillum pelagii aldanens’s episcopi. (’) Capitolazioni di pace soscritte in Parma fra’ veneti e genovesi, alla data dell’11 marzo 1218, per l’interposizione del Papa, con che si assicura a questi ultimi il godimento de’ privilegi loro conceduti dagli imperatori Alessio e Manuele Ccmmeno, si restituiscono agli eredi di Balduino Guercio i beni che possedeano fuori di Costantinopoli al tempo di detto Manuele, e si liberano i prigioni, tra i quali Alamanno conte di Siracusa. Legati del Comune di Venezia e del Doge Pietro Ziani, Domenico Querini e Marco Zeno; di Genova e del suo podestà Rambertino Guidone dì Bovarello, Amico monaco cisterciense, Lamberto Pomari, Sorleonc Pevere ed Ugo cancelliere. (Jurium, I. 609). Altri capitoli di pace e concordia stabiliti il 24 maggio 1228 in Venezia fra questa Repubblica e quella di Genova, dallo stesso Doge Ziani con frate Guglielmo da Voltaggio legalo del Comune e del podestà genovese Guidone di Pìrovano (Id. I, 813). è ( cuv ) rifii0iali la pace dianzi conclusa cogli intrinseci; J’allro riguarda cei le piraterie da alcuni veneti commesse a danno dei nostii nelle acque di Negroponte; e l’ordine del Doge di Ve-ezia, il quale, dietro lagnanza del Vicario di Genova in Romania, manda al Bailo di quella terra di renderlo informato Circa la verità di siffatti richiami. la ^ S0Ci0 Pr°f- Alessandro Wolf presentava quindi all'Instituto copia di una Carta di privilegi, esenzioni e franchigie concedute, addì 22 novembre 1416, dal card. Ludovico Fieschi e da o delIa stessa ^miglia agli abitanti delle ville di Propala, Caf-arena e Carpeneto, desunta dall’ esemplare autentico serbato nel- - rclmio Parrocchiale di quest’ultima. Il socio Avignone offeriva a cuni frammenti di un codicetto membranaceo del secolo XV, contenente il testamento di Tedisio De Camilla, signore di Tag-giolo, cappellano pontifìcio, lautamente provveduto di benefizi in più Diocesi dell Inghilterra, e fondatore del monastero di san Nicolò degli Archi, oggi santa Chiara d'Albaro (1), nonche * 'arii atti relativi ad una vertenza insorta nel 1430 fra i discendenti di Tedisio e le monache del luogo indicato, circa l’elezione dell abbadessa Eliana Di Negro, fatta da queste ultime senza 1 assentimento de’ primi, deposta l’anno appresso per mandato del Papa, e surrogata da Selvaggia De Camilla. Per ultimo, donava l’instrumento originale, con cui alla data del 22 marzo 1624 l’imperatore di Germania vendeva alla Repub- () H testamento ha la data del 11 giugno 1293; e vuole che il monastero sia edificato in una villa e palazzo già da Tedisio posseduti. Nel Foliatìum Notariorum (MS. della Civico-Beriana ; vol. II, par. I, car. 486 recto) si ha poi un instrumento del L» febbraio 1301, in forza di cui gli eredi del De Camilla si convengono colle monache cisterciensi, che doveano recarsi ad abitare quel luogo. 11 a le disposizioni del testamento suddetto ci parve in ispccie notevole quella, 1 tr cui Tedisio lega m subsidium Terre Sancte, quando fieret passagium geneiale, libi as quingentas ianuinorum, videlicet si fiet passagium vsque ad peni annos. In caso di\erso vadano a benefizio del monastero suindicato. ( CLV ) blica di Genova, per la somma di trentamila talleri, tre quarte parti del feudo di Zuccarello : instrumento corroborato dal sigillo cesareo e da quelli di varii altri personaggi i quali intervennero all’atto come procuratori delle parti, e vi apposero in calce le loro firme. §. XI. Fu già notato nel precedente Rapporto come 1’ Instituto propugnasse il collocamento di parecchie iscrizioni storiche nella nostra Città (1); di che più tardi venne eziandio ragionato nelle adunanze del Consiglio Municipale, avvisandone la massima convenienza. Soltanto, il rapido incalzarsi de’ grandi fatti, e le vicissitudini in mezzo a cui trascorse ora lieto ed ora mesto l’anno testé compiuto, hanno fino a qui ritardata l’effettuazione di così nobile proponimento. Tuttavia l’esempio è già offerto, e ne stanno in prova due epigrafi del socio prof. Scaniglia ; cioè quella murata a porta sant’ Andrea, e buon tratto innanzi da noi mentovata, e l’altra collocata nella parte esteriore del monastero dì san Silvestro. Il quale monastero, come è noto, sorse nel luogo ove fu per più secoli il palazzo dell’Arcivescovo, che, da’ ghibellini mandato in fiamme nel 4394, veniva dieci anni appresso da Pileo De Marini liberalmente ristaurato ; come viene indicato in una lapide sincrona, ricordata dal Giustiniani, ma fino a’ dì nostri serbata nello interno del sacro recinto, e solo venuta in luce dacché il medesimo si andò raffazzonando per necessità di mutata destinazione (2). Ora egli é appunto da questo marmo, che il socio Scaniglia trasse argomento alla seconda delle accennate sue iscrizioni; nella quale toccato della significazione dell’antica epigrafe, ora collegata alla sua, brevemente ricorda i mutaci V. Atti, voi. HI, p. CUI. (5) li destinato in parto ad abitazioni private, cd in parte accomodato agli usi del Civico Ginnasio. La chiesa è però tuttavia aperta al culto. ( CLYI ) menti della località ove ella è posta, e dove prima torreggiò minaccioso il castello, a propugnacolo della incipiente grandezza e libertà genovese (1). (') V. Allegato 11. ( Civil ) PARTE III. Anche della Cartografia Genovese, e delle illustrazioni che se ne andarono primamente compilando, già ne avvenne di tenere parola nel precedente Rapporto; ma ora siamo lieti di constatare che a studi siffatti non vennero meno nè i preziosi conforti, nè il sincero apprezzamento de’ più autorevoli fra gli eruditi in cosiffatte materie. La Società ha divisato pertanto che le varie monografie delle carte nautiche ligustiche, od attinenti alla Liguria, debbano comparire a stampa ne’ suoi Atti insieme unite ; e sieno corredate da’ fac-simili diligentemente eseguiti de’ più antichi, o meglio riputati e finora inediti Portolani. Fra i quali vogliono aver posto precipuo quello del cav. Luxoro (1), onde forni all’ uopo una bella fotografia il socio sac. Luigi Profumo, da lui, come abils-simo dilettante, condotta colla massima nitidezza e precisione; e l’altro costrutto da prete Giovanni rettore di san Marco del Porto, serbato nei Regi Archivi di Firenze (2), e di cui 1’Instituto medesimo ha commessa una copia di proporzioni presso che naturali (3) al sì riputato Stabilimento fotografico degli Almari. Da parte sua il cav. Desimoni ha intorno codesto argomento proseguite nel biennio decorso le bene avviate^ ricerche; e ce ne ha presentati i risultati ulteriori in due Relazioni, delle quali ci proveremo ad offrire il compendio. E qui l’ordine (') V. Atti, voi. in, p. civ. (s) Id., p. C1X. (3) La pergamena lia la lunghezza di ccntrimetri 86 ’/i per 62 '/* ; la loto-grafìa 82 per 55. ( CI-VIII ) cronologico ci trae innanzi tutto ad aggiungere alcune notizie nuovamente scoperte, ed esposte dal socio medesimo, in riguardo al prete Giovanni summenzionato. La Cronaca di Filippo da Bergamo citata dagli storici della nostra Letteratura, fa menzione all’anno 80 ili Cristo di un anonimo genovese, proposito della chiesa di san Marco; il quale nel 1306 ebbe a conversare con alcuni ambasciatori dell’Imperatore di Etiopia, che, reduci da Avignone e da Roma, stavano in Genova attendendo il tempo propizio per navigare alla loro patria. Frutto di queste conversazioni fu poscia un diffuso Trattato, che il buon prete pigliò a distendere sugli etiopi ed i loro costumi, non che un Mappamondo. Ora che l’autore di questi lavori e quello della Carta dell’Archivio fiorentino sieno identici, è fatto chiaro dalla qualità di rettore o preposito della nostra chiesa di san Marco attribuita costantemente a Giovanni, e dalla coincidenza del tempo; giacché il principio del secolo XIV, o il fine del precedente, era già stalo assegnato alla Carta in discorso dal cav. Desimoni, e fu confermato dal dotto prof. Teodoro Wüstenfeld, che, a preghiera dello stesso, la esaminò di poi e ne rilevò acute osservazioni. Si aggiunga, che come l’anonimo del Bergomense mostrassi avido di notizie cogli etiopi, cosi adperò eziandio prete Gio\anni co’ suoi concittadini allorché tornavano da lontane regioni. Il che si chiarisce dalle leggende in essa Carta contenute, e ha le quali una dice: Hoc audivi a mercatore ianuense fide digno qui aliquantum morabatur in Sigelmesa, etc. Nel Catalogo della Biblioteca Colbertina W ricordansi inoltre ; due opere di un Giovanni da Genova, intitolate Canon ecly-psiurn editu-s anno ^1331, ed Investigatio ecclypsis solis anni 4 838, entrambe attribuite nel Catalogo stesso al celebre autore C) Cod. ms. num. 1827, citato dall’Eciiahd , Scriptores Ordinis Praedicatorum, ediz. di Parigi 1719; vol. 1, p. 4(i2. ( eux ) tlel Catholicon, Giovanni Balbi domenicano. Ma il P. Echard giustamente osserva, che il Balbi più non poteva essere tra’ vivi in quegli anni; e cosi pare probabilissimo, e quasi potremmo, senza esitanza, dire certo, che i mentovati lavori si abbiano invece ad assegnare al nostro Reltore di san Marco; il quale nelle epoche indicate poteva benissimo scrivere e trattare di eclissi, appunto come di cosa in qualche modo attinente ai più usati suoi studi. Pel tal guisa le sovra esposte notizie a vicenda rischiarandosi e compiendosi, mostrano ancora che Filippo da Bergamo nel riferire l’importante cenno di una ambasciata etiopica a papa Clemente V, attinse a fonti ignote, ma vere, abbenché gli Annali Ecclesiastici del Rainaldo si passino affatto in silenzio della legazione medesima. Nè infine si vuol lasciare senza nota d’ osservazione la leggenda apposta da Giovanni alla sua Carta: Presbite)' Joannes rector sancti Marci de por tu Janue me fecit (I). Imperocché tale denominazione accenna al porticello cavato in sul cadere del secolo XIII da Marino Boccanegra su quel seno di mare, che oggi denominiamo il Mandraccio. Fra le altre carte onde il cav. Desimoni ebbe nelle enunciate Memorie, a tenere ragionamento , è quella testé scoperta in Yen-timiglia, sotto la fascia d’un codice manoscritto, dal già lodato socio corrispondente cav. Girolamo Bossi, che gliene porse cortese notizia. Che se sventuratamente la mutilazione della membrana, la quale presenta lo stemma della famiglia Usodimare, i guasti e gli sbiaditi caratteri lasciano poco a sperare per la nostra illustrazione; il prof. Bossi, non si ristarà tuttavia dal tentare ogni mezzo, onde ridurre nelle migliori condizioni possibili la Carta stessa; la quale frattanto, per la qualità della scrittura, (’) V. De Luca, Carte nautiche del medio evo disegnate in Italia; Napoli, 186G (negli Atti dell’ Accademia Pontaniana). ( CLX ) di un bel rotondo, la mancanza do’ gradi e più) altri particolari, ci si appalesa come una delle più antiche forse del medio evo. Nella Biblioteca del rimpianto collega avv. Francesco Ansaldo serbasi poi un codice cartaceo della metà del secolo XV, in foglio piccolo, contenente, oltre un componimento poetico, forse inedito, sul santo Sudario custodito a san Bartolomeo degli Armeni, la Belazione del viaggio del beato Oderico da Pordenone pubblicata dal Ramusio (1), e la descrizione delle isole dell’Arcipelago del fiorentino Cristoforo Buondelmonti, stampata in Berlino dal De Simer nel 1824 Ma non perciò il manoscritto Ansaldo vuoisi avere in poco pregio; conciossiaché ivi si abbiano raccolte le figure delle isole stesse, delineate un pò grossolanamente nelle prospettive, ma di minuta esattezza nei contorni, golfi, scogli, ecc., ed ommesse nella edizione del De Sinner, ad eccezione di due (la Provincia d’Epiro e l’isola di Creta; postevi a guisa di saggio. Più, il codice in discorso parrebbe di assai corretta lezione ; mentre i parecchi venuti a mano dell’editore di Berlino, per testimonianza del medesimo, sono in gran parte scorretti. ^Di tre Portolani spettanti all’oramai notissimo Visconte Mag-giolo, fé pur cenno il riferente. L’uno, che si compone di sette carte, fu già del monastero di Metten, ed ora esiste nella Biblioteca Reale di Monaco di Baviera; porta la scritta: ) esconte de Majollo civis Janue composuy hanc carlam in Jcinua de anno domimi 1519; e per quella porzione che abbraccia le Antille ed il continente da Honduras fino al Capo Sanla Maria nell’Uraguay, fu pubblicato al quinto foglio di un Atlante idrografico di fac-simili relativi alla scoperta dell’America, mandato (1) Delle navigationi et viaggi, ccc; Venezia, Giunti, 4606; volume II. (*j Christopliori Bondelmontii fiorentini, Librum insularum Archipelagi, e codicibus parisinis regiis nunc primum totum edidit, praefatione et annotatione instruxit Gabr. Rud. Ludovicus De Sinner; Lipsiae et Berolirn, Reimei, 1824. Un vol. in-8.vo. ( CLXI ) in luce colle illustrazioni di Federigo Kunstmann per cura di quella R. Accademia di Scienze e Lettere (1). L’altro, diligentemente minialo nel \ 535, comprende gran parte del Mediterraneo, colle coste di Barberìa e dell’ Europa occidentale ; non fu ignoto allo Spotorno (2), ed è ora custodito negli Archivi Generali del Regno in Torino. Il terzo finalmente reca la stessa data del 1535, conservasi nella Biblioteca della Cattedrale a Toledo di Spagna, si estende al Mediterraneo ed all’ Oceano, dall Inghilterra alle Canarie; e di esso ci fornisce contezza il Catalogo di Hanel (3), riferito dal Kunstmann nelle illustrazioni precitate. Lo stesso Kunstmann ci offre eziandio un’altra importante notizia, relativa ad un manoscritto italiano esistente nell’anzi-detta Biblioteca di Monaco w , e corredato da una Carta in cui si legge : Jacobus de Majollo condam Vesconti composuit hanc cartam in Janua anno Domini 1551 die 19 mar si (sic). Donde è chiaro che nella famiglia del nostro Visconte l’arte della Cartografia esercitossi di padre in figlio ; e viene posto in sodo che lo stesso Visconte era già morto nell’anno suddetto. Con che, a sua volta, acquista piena certezza il sospetto prima d’ora emesso dal socio marchese Staglieno, nella sua lettera al cav. Desimoni, che cioè la Carta del \ 587 col nome di Vesconte de Majollo, serbata all’Ambrosiana di Milano, non dovesse attribuirsi a quello stesso il quale già troviamo impiegato nell’opera del costrurre portolani fino dal 1512 t5). (’) V. Kunstmann, Die entdeckung Americas nacli (leu altesten quellen geschi-chtlich mit einen Atlas aller bislier ungedruckter lcarten ; Miincken, Aschcr et Comp., 1S59; p. 13o. (5) Storia Letteraria della Liguria, vol. IV, p. 282. (5) Hanel, Catalogus librorum mss. qui in Bibliothecis Galliae, Helvetiae, Hispaniae, etc. asservantur ; col 997. (') V. Thomas , Catalogo dei mss. della Biblioteca, Reale di Monaco , voi. vii, p. 271. (s) V. Atti, voi. m, p. cxi-xii. u* ( CLX1I ) E queste notizie accordansi poscia con altre cavale da’ nostri atti notarili e dalle Colonne üi san Tftòrgìo, ove a partire dal 1319 il primo fra i citati Visconti è detto figlio del qm. Giacomo; e c’insegnano con ciò ch’egli ebbe a rinnovare (giusta 1 usanza tanto comune a que’ giorni e neppure a’ nostri affatto dismessa) nel nipote il nome dell’avo (lK L avv. Desimoni toccava quindi di un Portolano già posseduto dal socio cav. Girolamo Da Passano, tanto benemerito fra noi della popolare istruzione, e dal medesimo liberalmente donato al nostro Instituto. È in pergamena, ornato all’intorno da un bel fregio messo ad oro e a colori, diligentemente scritto e ben conservato, salvo da una parte, ove manca di un pezzo non ampio, che dovea contenere l’isola d’Irlanda ; perdita non grave se non fosse la speciale circostanza, che ivi appunto l’autore avea dovuto segnare l’epoca del suo lavoro, come apparisce dalla leggenda, perciò rimasta interrotta, e che dice: Geronimo Costo (’) A migliore intelligenza, poniamo qui un alberetto della famiglia de’nostri cartografi. Maggiolo Giacomo q. Giorgio, q. Giacomo. A. 1465. Nominato nel Cartolario S. L. delle Colonne (car. 479 verso), come erede per una sesta parte del detto qm. Giacomo. Morto innanzi il 1549, come, dal Cart. L. (car 452 recto). I Visconte 45)2, 40 dicembre. Sua prima carta conosciuta. 4519. Sua seconda carta. » Possessore di un mezzo luogo di san Giorgio j(Cart. L., loc. cit., ove e indicato qm. Jacobi). » 12 maggio. Per decreto del Comune di Genova gli è assegnato Tannuo stipendio di lire 400 (V. Canale, Storia del commercio, ecc., p. 477 e seg.). 4520 , 4 4 luglio. Conferma del suddetto decreto (Ivi). 4524, 7 maggio. Nuova e pii ampia conferma dello stesso. — 43 maggio. Mandato-di pagamento per l’anticipazione di una annata (Ivi). 4522, 40 agosto. Sua terza carta. 4525. Quarta carta, fatta da Visconte in compagnia di Gio. Antonio suo figlio. 4535. Altre due carte costrutte dallo stesso Visconte. ( CLXIII ) genovese mi fece in Bar....... cioè in Barcellona, giusta quanto potè cliscernervi ancora negli anni addietro il sullodato prof. Segue: Visconte 1542, 10 maggio. Nominato in atto del notaro Jacopo Villamarino. 1547. Ultima carta finora nota di Visconte, già morto nel 1551. Giovanni Antonio 1525. Costruisce insieme col proprio padre una carta. 1588, 21 gennaio. 11 detto Gio. Antonio qm. Visconte, sapendo che Chiara Bacigalupo, moglie di Baldassare suo figlio, possédé iscritta nel Cartolario di Numerato di san Giorgio la somma di lire 1250, delle quali è patto che non possa disporre senza il di lui assentimento, le concede per ciò l’opportuna facoltà I Baldassarre detto di Visconte. 1583. Sua prima carta conosciuta. 1580. Sua seconda carta, di recente scoperta in Ventimiglia dal cav. Girolamo Bossi. 1588. Nominato nell’atto sopra allegato, donde si conosce essere proprio figlio di Gio. Antonio. Jacopo 1551, 19 marzo. Sua carta, nella B. Biblioteca di Monaco. N. B. Del Visconte giuniore, autore della Carta del 20 dicembre 1587, non si hanno fin qui notizie per precisare se egli sia veramente figliuolo d’ Jacopo, o di Giovanni Antonio summenzionati , ovvero anche di qualche altro figlio di Visconte seniore fino al presente ignorato. Tuttavia, se è lecita una congettura, ameremmo attribuirlo piuttosto ad Jacopo, osservando che questi il quale , portando il nome dell’avo, era forse il primogenito del più antico Visconte, ci si mostrerebbe fedele all’ uso ed alle tradizioni di famiglia sovra allegate, col trasmettere al suo primo od unico nato il nome del proprio genitore. Ancora nel 1736 troviamo notizia di un Visconte Maggiolo, il quale assai probabilmente dovrebbe collegarsi alla famiglia dei nostri cartografi. Costui, addì 14 marzo detto anno, faceva un deposito di denaro, per ottenere la facoltà di esercitare il notariato nella Riviera di Ponente (V. Manuale di Numerate primo pel 1736, nell’ Archivio di san Giorgio). ( CLXIV ) Da Passano. Del resto, anche la data, da più rimola stagione affatto scomparsa nella membrana, non tarda a palesarsi, ad un bel circa, per più criterii a chiunque non giunga nuovo nello esame de’ portolani, talché si può senza fallo attribuire questo nostro al primo quarto, o, tutto al più, alla mela del secolo XVI. Perocché, se la bandiera dei cavalieri di san Giovanni che ivi troviamo ancora sventolare sull’isola di Rodi, non sarebbe per una parte un dato sufficiente per farci ritenere l’atlante del Costo come anteriore all’anno 1526, in cui siffatta gloriosa insegna fu cacciata dagli ottomani (essendo noto che i cartografi in genere troppo di frequente accolsero e ripeterono nelle opere loro tradizioni di popoli, leggende di re, bandiere e dominii già trapassati); dall’ altra assai chiaramente accenna all’epoca summentovata la timida introduzione dei gradi di latitudine e la mancanza delle longitudini : prima applicazione delle dottrine sorte pur di que’ giorni sulle opere scoperte, tradotte e commentate di Tolomeo ; senza che però la pratica nautica se ne valga ancora, e tuttavia prosegua invece a giovarsi della antica rosa de’ venti (1) Due altri portolani, di cui pure cò il Desimoni, sono quelli d’Jacopo Scotto serbati alla Marciana di Venezia e nella Biblioteca dell’Archiginnasio in Bologna. Nella pergamena veneta l’autore così scrisse: Jacobus Scotus januen-sis, oppidi Levanti , in Civitate veteri fatiebat \ 589 ; e nella bolognese: Jacobus Scotlus genuensis, 4 593. Questo cartografo rimase finora sconosciuto alla Storia ; ma non è improbabile che per famiglia, od almanco per parentela, si possa collegare a quel suo contemporaneo Benedetto Scotto, di cui già vennero prima d’ora citate in cotesti (’) Parecchi tra’ biografi di Carlo V narrano che a questo monarca, nella sua solitudine di san Giusto, Andrea D’Oria inviasse una carta marina, dise-gneta con assai diligenza, e della quale l’imperatore pigliava diletto gì alidissimo. ( CLXV ) volumi due relazioni di viaggi marittimi oggidì fatte rarissime ; ed autore aneli’esso di alcune carte, appena ricordate in un opuscolo di Marco De Franchi pubblicato a Genova nel 164-1 Ma avendo oramai compiuta, o quasi, la rassegna degli atlanti fino al secolo XVII, parve al Desimoni opportuno consiglio il sorvanzare quel termine dapprima segnato alle sue ricerche, e condurle invece più dappresso ai nostri tempi , sebbene più in breve, e quasi per semplici note bibliografiche, come richiede il soggetto, fallo meno importante per sé colla nostra marina ridotta a misero slato, e per riguardo alle dotte pubblicazioni straniere dalle quali d’ ora in poi molto ci resta da apprendere. E qui ci è grato sdebitarci dapprima verso 1’ egregio rettore di sant’Antonino di Casamavari, sacerdote Angelo Remondini, il cui amore alle patrie antichità é a tutti nolo, ma al quale la Società nostra più particolarmente professa riconoscenza, pel cortese dono da lui pur fattole di un bel l’atlante pergameno del Mediterraneo. Il quale atlante reca in margine la scritta: Iovan Batta Cavallini in Livorno Ano 1639. Ma questa data, posta a raffronto colla Carta, ci reca invero non lieve sorpresa; imperocché, senza di essa, quel lavoro sarebbesi giudicato anteriore di un secolo, tanta e sì spiccata è la somiglianza che ritiene co’ portolani del Cinquecento , vuoi nella nomenclatura, nella forma de’ caratteri, nel colorito, nella distribuzione dello insieme, nella diligenza onde sono rappresentale le figure delle città e de’porti, ed in più altri accessorii. Circostanze tutte di gran peso, le quali non saprebbonsi spiegare se non nell’ uno di questi due modi. 0 qui più che altrove trionfa la servile imitazione che le scuole (’) V. Atti, voi. in, p. exiv. (!) Discorso di Marco De Franchi, gentiluomo genovese, sopra la mutazione dell’alveo del fiume Magra deliberata dal Senato nel 1610; Genova», Faioni,. 1641; p. 19. Presso il socio avv. Avignone. ( CLXVl ) ponevano nella formazione delle carte, come si è detto di sopra; ovvero (e parrebbe anche meglio probabile) l’atlante in discorso è veramente fattura di un Cartografo degli inizi del secolo XVI, ed il Cavallini clic vi appose il proprio nome, senza la tanto usitata aggiunta del fece, altro non dee ritenersi che il possessore del medesimo all’epoca eziandio notata del 1639. Il che tanto più assume apparenza di vero, se si consideri che la scrittura di costui, non è punto conforme a quella del Portolano. Ma atlanti certi del secolo XVII esistono al contrario nelle ricche Biblioteche del Duca di Genova in Torino, e del march. Marcello Durazzo nella nostra Città. Nella prima uno ve ne ha senza nome d’autore, col titolo: Flambeau de mer, contenant tons les ports et rades de la coste d’Espagne, Catalogne, Provence, Italie, Barbarie et de l’Archipel, e si ritiene cosa ligure, dacché reca lo stemma Pallavicino. Nell’altra è una membrana a colori ed oro, del 1622, rappresentante tutti gli scali del Mediterraneo: opera di un Giovanni Francesco Moni, accompagnala da una illustrazione manoscritta; e quivi pure, sotto la denominazione di Recueil des ports et rades, esiste un codice cartaceo, miniato, del successivo secolo XVIII, contenente in centonove fogli atlantici altrettante carte nautiche, precedute da un indice de’ porti nelle medesime disegnati. Parecchi portolani, costrutti a Londra nel 1620 da un Giovanni Damele, che al cognome, non senza fondamento, si presume genovese, custodisconsi ugualmente nella Palatina di Firenze. Inoltre, negli stessi secoli X\II e XVIII cominciano ad apparire uniti agli atlanti i trattati di navigazione; e tali appunto sono quelli di Sebastiano Gorgoglione, stampato a Napoli nel 1705, e più altre volte, col titolo di Portolano del Mare Mediterraneo, e del capitano Francesco Maria Levanto stampato a Genova nel 1664, colla denominazione di Prima Parte ( CLXVII ) dello Specchio del Mare ^. La parte seconda del medesimo, il cav. Desimoni crederebbe poterla additare in un autografo membranaceo del Levanto, in foglio atlantico, con otto tavole miniate a colori ed oro, serbato nella più volte citata Biblioteca Durazzo. Dopo avere cosi enumerati i lavori idrografici che più particolarmente ci riguardano, il socio cav. Desimoni toccava ancora, come per incidente, di alcuni portolani a noi estranei,_ come di un Grazioso Benincasa del 1469, assai bene conservato e custodito.all’Ambrosiana di Milano, e di una carta dei principii del secolo XVI, costrutta a Fez da uno spagnuolo di nome Lopez, venuta a luce presso di un antiquario in Genova, e poco stante scomparsa senza lasciare traccia di sè. Diceva di un atlante eseguito nel 1558 dal portoghese Diego Homen , custodito nell’ Arsenale di Venezia, sfuggito alle ricerche del Matkovich, del Negri e del Berchet &, e da non confondersi con altro dello stesso autore, esistente nel Museo Britannico e per fac-simile in quello del veneto Palazzo Ducale, e pub- (’) Dell’ opera del Gorgoglione si ha un esemplare alla Civico-Beriana ; quella del Levanto fu comunicata al cav. Desimoni dal socio cav. Domenico Guarco. Nella Biblioteca de’ Missionari Urbani si custodisce poi manoscritto ed autografo un trattato sulla navigazione del Mediterraneo, privo però di mappe, col titolo: Portolano di me Giorgio Berlingiero qm. Gio. Batta, di Spotorno, piloto della galera capitana dell’ 111.™ Sig. Gio. Maria Doria della squadra di S. M. Cattolica, che risiede in Genova, I’ anno di nostra salute 1687 , 1° de settembre. E nella Civico-Beriana è un codice cartaceo in—4.°, ms. del secolo xvm, intilolato Carta di navigare, in fine del quale si legge: Hieroni-mfts Azurius Vicomcrcatensis scripsit hunc libellum. Infine non vuol essere taciuto, benché più recente, il Periplo del Mediterraneo del capitano Saettane, ms. in foglio atlantico, ricordato dallo Spotorno nelle annotazioni al Giustiniani (vol. i, p. 515). (*)‘Matkovick , Alte handscriftliche Scili [fen - Karten in der Bibliotcken zu Venedig; nel voi. vi delle Mittheihirgcn der K. IL Geographischen Geselle-cliafl, p. 79. Neghi e Berchet , Elenco di Portolani che si trovano nelle principali Biblioteche di Venezia ( CLXVIII ) blicato dal Conte di Lavradios ambasciatore del Portogallo presso la Corte d’Inghilterra; e finalmente di un portolano membranaceo in cinque tavole, a colori ed oro, costrutto in Messina nel 1586 da Giovanni Martinez (di già noto per un Periplo del Mar Nero delineato nel 1570), e di recente acquistato dalla Reale Biblioteca di Torino. Per ultimo, presentava un Catalogo, nel quale, ad imitazione degli elenchi compilati da Federigo Madden pel ricordato Museo Britannico , e dai lodati Matkovich e Negri pei Venezia ed il Veneto, si trova cronologicamente disposta la memoria degli atlanti e delle carte d'autori genovesi, ovvero fatte od anche solo esistenti in Genova, fino al presente conosciute ; e che già rilevano ad oltre cinquanta, abbracciando un periodo di circa quattro secoli(1). ( ) V. Allegato 1. ( CLXIX ) PARTE IV. In parecchie sedute della Sezione di Belle Arti, il Preside cav. Federigo Alizeri, leggeva la Vita dello insigne nostro architetto Carlo Francesco Barabino ; la quale ora appunto viene in luce col terzo volume delle Notizie de’ professori del Disegno dal eh. autore con diligenza e gravi studi insieme adunate. Di che tanto più ora pigliamo a rallegrarci, in quanto sentiamo che male avremmo potuto stringere in queste pagine le memorie cotanto svariate di un artista, che stampava a Genova sì grandi orme di sé, che ci donava la ridente passeggiata del-l’Acquasola, e traduceva splendidamente in atto il nobile concetto de’ Padri nostri : ne vrbi tot insignibvs monvmentis in- STRVCTAE THEATRVM SPECTABILIVS DEESSET (1). Ma questa nostra Classe Artistica, alla quale più specialmente si compete il vegliare alla tutela de’ patrii monumenti, preoc-cupavasi non poco delle sorti a cui sugli inizi del '1865 pareva andare incontro la celebrata Madonna del Piola (2), da oltre due secoli esposta in Via degli Orefici nella nostra Città; e però levava la voce, e facea pratiche officiose perchè, come allora ne correvano già bene inoltrate le trattative, quel prezioso dipinto non si avesse, per mera soddisfazione di privati interessi, a vedere esposto in vendita, con pericolo quasi inevitabile di andare ad arricchire maggiormente ancora dell’ artistico patrimonio italiano le gallerie forastiere. Oggi nondimeno quel (’) Parole della iscrizione di Faustino Gagliuffi, nel timpano del Carlo Felice. (’) È qui da emendarsi l’errore tipografico passatoci innavvertìto, là ove (Atti, voi. Ili, p. CXXXV) si riferisce la morte di Peliegro Piola all’ anno IGiG, invece del 1640. ( CLXX ) pericolo è affatto scomparso; e ne ha merito una grave sentenza giudichile, estesa da un onorevole Magistrato che pure annoveriamo tra’ socii; e nella quale, in virtù di massime sancite dalla romana legislazione, affermato un principio di molto giovamento alla conservazione delle opere insigni onde tanto si abbellisce la patria, e dichiarato il quadro del Piola non doversi altrimenti riguardare che come 'pubblico monumento, perchè dalla cessata Consorteria degli orafi apposto a perpetuità nel luogo ove tuttora si ammira, stabili vasi non potersi da questo luogo stesso distrarre vuoi da' successori di quegli antichi maestri, o da altri qualunque Lamentava inoltre la Sezione la deliberata, e di presente effettuata, demolizione della antica Torre de’ Cattaneo, in prossimità dell’ antico porlicello denominato dalla stessa famiglia, per lo allineamento della nuova e grandiosa Strada Vittorio Emanuele-, e pregava il socio cav. Giuseppe Isola, perchè volesse con un disegno serbarne il ricordo. Facea caldi voti acciò i nuovi progetti volti allo ingrandimento ed al maggior decoro della Città, avessero a conciliarsi, più di quello che non accadde in passato, coll’onore che ben si compete agli avanzi delle età che ci precorsero; e per converso rallegra vasi de’ restauri che si vanno da oltre un biennio, con rara solerzia e diligenza, praticando a benefizio della chiesa di san Barto-lommeo alla Certosa di Bivarolo, colla direzione del socio avv. Maurizio Dufour, oggidì Presidente dell’Accademia Ligustica (2L (*) V. Delle opere d’arte d’autori insigni, apposte da privati in luogo pubblico, per rimanervi perpetuamente, se divengano nei secoli monumento pubblico ; Sentenza pronunciata dall' Ecc.ma Corte d’Appello di Genova, il 40 luglio 1865, ed estesa dal barone Carlo Nota. Genova, Tip. della Gazzetta dei Tribunali. (2) « Per uniformarsi ai veri caratteri clic presenta quella chiesa ( la quale si compone di una sola ma spaziosa nave), la vòlta del primo tratto, che serba l’impronta del 1300, fu seminata di stello d’oro su fondo d’azzurro; e ne’ ( CLXXI ) Nolle adunanze poi del 7 aprile e 19 dicembre I8G5 , il socio cav. Desimoni leggeva un suo lavoro intitolato : Saggio storico sulla musiqa in Genova, distribuito in due parti. L’au- quattro scomparti formati da costoloni convogenti nel centro ad una patera, ove è ad alto rilievo scolpita l’imagine del titolare, oggi dorata e dipinta giusta il costume dell’ epoca, mise mano il valoroso pittore sig. Francesco Semino; e vi ritrasse, oltre san Brunone, i principali fondatori degli ordini monastici in Italia, come san Benedetto, san Romualdo e san Giovanni Gualberto, circondati da raggi. « La cupola, che arieggia lo stile del Cinquecento, imponeva a’ restauratori leggi diverse e meno severe. Ondo vi fu saggiamente praticata una decorazione di cassettoni, e cordoni di fiori e frutti a colori ed oro. Nei peducci lo stesso Semino ha poi dipinti i quattro evangelisti, con una franchezza e maestria che sono degne di provetto artista. « Più ardua impresa pareva richiedere il Presbitero, sia perchè il partito architettonico e le decorazioni del medesimo si accostano al Seicento, e sia perchè i novelli dipinti volevano armonizzarsi con una medaglia di Dio Padre, che Giovanni Cartone vi avea condotta con quel sugoso impasto di tinte e quella vivacità di colorito, onde vanno largamente encomiate le opere di quel sommo affrescante. 11 Semino ha qui restaurati alcuni putti che intorniano la medaglia stessa nelle attitudini lo più svai iato, e s cansi fra mani gli strumenti della Passione di Cristo ; e nei lunotti sottoposti al primo ordine di finestre ha rappresentate sei figure d’ angeloni, lodevolissime per l’eleganza dei tipi e la grandiosità del disegno. « Quanto altro rimane di spazio nelle volte del tempio, è tutto nusso ad ornamenti di buono stile: vasi e candelabri, tavolette e nastri svolazzanti, cornucopia di fiori e frutta, e simili leggiadrie condotte con diligenza e perizia dall’egregio sig. Antonio Bruno, e fìnte di basso rilievo su fondo celeste, ad imitazione degli invetriati che piglian nome dai Robhia. « Dopo il discorso (benché troppo brevemente) fin qui, niuno è che non vegga l’importanza e la bontà de’ restauri impresi alla Certosa. Pure dobbiam notare che molte opere si resero indispensabili come preludio agli stessi. L’umidore , che tutto avea guasto l’edificio, chiedeva un efficace riparo sìa col rinnovamento delle armature e dei tetti, e sia col rifornire di nuovo intonaco ogni parete; il redintegrare la chiesa ne’ suoi originarii caratteri traeva seco lo spostamento di buona parte delle finestre; due delle quali, di forma oblunga, vennero riaperte ai lati dell’ancona nel Coro; e a tutte poi saranno (e furono infatti) applicati i vetri a colori o dipinti, pe’ quali venne richiesta 1’ opera del chiarissimo Berlini di Milano < (V. il Ragguaglio da me pubblicato per la Società nella Gazzetta di Genova del 13 giugno 1865). ( CLXXII ) tore, accennato nella prima all’occasione per cui gli venne fatto di raccogliere le scarse notizie patrie che si hanno intorno a questo argomento, si fa a trattare anzitutto della musica sacra, come quella che nacque avanti d’ogni altra nel medio evo, in cui soli cantori erano i cherici e solo canto 1’ ecclesiastico , ed anzi alle altre diè quindi vita e porse in seguito nutrimento. Di che, oltre i documenti storici, si ha la prova filologica nelle parole, oggi ancor vive, di maestro di cappella, per significare un compositore o direttore, e di corista, per indicare il noto strumento che dà tòno e norma ad una orchestra anche secolare. Genova dunque non poteva in questo differire dalle altre città; ma nello introdurre una scuola pubblica di musica non fu seconda ad alcuna fra le più illustri della Penisola, così rispetto al tempo (1478 circa) come alla fama del maestro; avendo per ciò chiamato nelle sue mura il lodigiano Franchino Gaffurio, celebre non meno pel valore spiegato nell’ arte che per dotte scritture tuttavia onorale. Poi la vicina Chiavari seguiva l’esempio della Metropoli, ed invitava con pubblico stipendio il maestro Giacomo Scherlino nel 1555. E qui il Desimoni toccava eziandio da’ più antichi nostri scrittori di musica ecclesiastica; come di Sisto Illuminali, domenicano, che ne espose le regole, di Siinone Molinari, celebre suonatore di liuto e maestro di cappella nella nostra Cattedrale, i cui alunni viaggiarono a Roma prima del 1618 W. Ai quali poi, come cultori appunto della musica ecclesiastica, vogliono associarsi la monaca Antonia Scarampi, ed il carmelitano Gian Pietro Grimaldi, di molte lettere ornato. Ma un fatto più pronto, e durevole sino a’ dì nostri, fu appunto l’istituzione della Cappella musicale nel nostro Duomo, per opera di Lorenzo Fieschi, vescovo d’Ascoli e poi di Mon-dovì, in sui principii del secolo XVI (avanti il 1519); quello (’) De Boni, Biografia degli artisti §. Molinari. V. Sauu-Caruega, Epistola)'■ Libri tr's posteriores; Genova, Pavoni, 1619; p. 134. ( CI.XX11I ) stesso che poco prima (1499) aveva arricchita la chiesa di santo Stefano della bellissima cantoria scolpita in marmo ed istoriata da Donato Bcnci e Benedetto fiorentini (1). Altri imitò poscia il liberale prelato, come Andrea D’Oria perla chiesa di san Matteo, e il cardinale Bartolomeo Della Bovere pel Duomo di Savona; benché fra tutti primeggino i Pallavicini, i quali costruendo, all’esordire del secolo XVII, la superba chiesa di sant’Ambrogio o del Gesù, vi aggiunsero una ragguardevole dote per la cantoria, che oggidì maggiormente fiorisce per le cure dello egregio patrono (2), e pel numero e la bravura de’ più eletti professori. L’Oratorio aperto verso il 1732 nel gentile tempietto annesso alla chiesa di san Filippo, è poi il meno antico Instituto sacro-musicale di cui abbiamo memoria; ma quivi i nostri maggiori ebbero agio di gustare le note severe del P. Buonfichi, la ricca e facile vena del Paisiello, e le sublimi creazioni di Glück, Haydn e Beethoven. L’avvocato Desimoni estendevasi poscia a parlare degli organi; e mostrava come già nella seconda metà del secolo XV ne fossero dotate fra noi le chiese precipue, e non pochi vi avessero capaci a maneggiarli. Diceva del veneto Giovanni Torriano, ignoto nella sua città natale, e che pare avesse fermata stanza, od almeno residenza non breve, tra noi verso il 1489. Ma gli organi da lui costrutti in santa Maria di Castello ed in san Lorenzo non raggiungevano forse una notevole perfezione, sebbene egli avesse di già introdotta l’invenzione, a que’ dì recente, della pedaliera (3) ; giacché vediamo, a mezzo il se- (’) La contessa Negri di Sonfront, come erede e discendente dei Fieschi, governa ancora oggidì la Cappella di san Lorenzo. Intorno poi alle sculture "della cantoria di santo Stefano, è a vedersi un articolo del eh. Varni, nel giornale artistico II Michelangelo Cj 11 march. Ignazio Alessandro Pallavicini, Senatore del Regno. (3) V. Vigna, Illustrazione dell’antichissima chiesa di santa Maria di Castello, p. 488-490; ove già si accennano organa.... antiqua dissonantia... ( CLXXIV ) colo WI, l’organo di san Lorenzo cedere il posto ad un nuovo, che fu eseguito a spese de’ Padri del Comune da Giambattista Facheto bresciano, e che dal progetto del medesimo esistente nello Archivio Civico si chiarisce di buona scuola; talché può credersi con grande probabilità eh’ egli sia allievo de’ celebri Antegnati, i quali appunto in Brescia, per oltre un secolo, lavorarono organi lodatissimi, e diedero opera ugualmente a quelli dello cattedrali di Milano, Bergamo, Cremona e Mantova. L’organo costrutto dal Facheto, pel prezzo di 350 ducati d’oro larghi, oltre il cambio del vecchio, che deve essere stato quello del Torriano, eseguito nel 1491, è per avventura quello stesso che tuttora esiste nella cantoria sovra l’altare de’ santi Apostoli; e sebbene alquanto accresciuto nel numero dei registri, conserva in gran parte l’antica forma, e quella bontà che può conciliarsi coll’ età inoltrata e le vicende a cui andò soggetto. L’ organo poi che nel Duomo stesso vedesi allogato di contro all’ ora detto, appellavasi dei Fabbricieri, perché costrutto a spese di costoro ; ma oggidì non si potrebbe riconoscerne lo stato primiero, tanto fu guasto ed alterato da mano imperita. Seguiva intrattenendosi alquanto a mostrare i gradi successivi di perfezionamento, fino da quando gli organi aveano un solo registro di trenta canne ad anima, e tasti durissimi; e soggiungeva come nell’organo del Facheto sia da lodare una buona proporzione nel ripieno, e la proprietà della nomenclatura dei registri che i moderni mantennero (1); e come manchi però dei et quantum ad usum nullius bonitatis, ed ove figurano ben cinque professori (pulsatores), cioè: prete Galeotto di....., frate Bassano da Lodi, frate Leonardo di Alemagna, fra’ Tommasino da Finale e maestro Pietro di Como. C] Pel guasto dell’atto in cui si contengono questi particolari, non si può conoscere il numero preciso dei tasti, i quali vanno però oltre i quaranta. lrn documento pubblicato dal eh. Guasti (V. Archivio Storico Italiano, serie III, voi. II, p. 52 e 71) ci apprende, che nel secolo XV la canna maggiore dì un organo per la Cattedrale di Lucca dovea avere, dalla bocca in su, sei ( CLXXV ) registri a lingua, clic trovansi invece introdotti negli organi di sant'Ambrogio e della Basilica di Carignano, costrutti aliamela del secolo XVII dal gesuita Guglielmo Hermann fiammingo (l), coadivuato da alcuni suoi connazionali (2), autore di altru lodato organo per la Cattedrale di Como, e di quello lodatissimo'pel Duomo di Trento. Ne’ quali organi chiaramente si rivela l’impronta dello ingegno germanico, sempre studioso di nuovi effetti, in que’ registri a voce di toro, d’angiolo, di fanciullo, ecc.,- alcuni de’ quali pare rispondano nella fattura a quello a lingua, del'o voce umana, di recente introdotto dai valenti Lingiardi di Pavia. Anche il nostro di Carignano fu costrutto con tutta la perfezione e magnificenza possibile di que’ tempi, a tre tastiere e a più di cinquanta registri, e durò celebre in Italia; finché di recente così esso come quello di sant’Ambrogio vennero sostituiti da due organi del Bianchi, allievo dei Serassi, pur conservando gran parte delle canne del ripieno. 11 cav. Desimoni accennava quindi agli organi moderni dei braccia fiorentine d’altezza. Dunque il primo tasto avrebbe dovuto essere il fa più profondo del violoncello; ossia, giusta la moderna nomenclatura, quell’organo doveva essere sull’ordini- di 12 pied: reali, pari a metri 3. 52 circa. Questa misura è poi confermata anche da altra notizia contemporanea di un organo a Ferrara, somministrataci dal Cittadella, a pag. 66 delle Notizie relative a Ferrara. (’) Le ricerche instituite dal cav. Dusimoni, gli consentono di rettificare il nome di questo costruttore, il quale dal eh. Alizcri (Guida ecc., vol. i, p. 124 e 275) trovasi invece appellato Jacopo Helmann. (2) Sono essi: maestro Giovanni Heid, primo aiuto dello stesso Hermann,ed un Hanz Dieterich. Fu anche tedesco l’artista che fece la cassa, e chiamavasi Giorgio Ilaigenmann; ma gli intagli così di questa come delle imposte furono eseguiti da’ nostri Giulio Pippi, Giambattista Isola e Santino Giuntino. La pittura e doratura fu raccomandata agli abili penne Ili di Paolo Brozzi e Domenico Piola; e la Cantoria fu lavorata dallo scultore e quadratista Carlo Solaro, padre del più valente e nrglio noto Daniele. Tutta 1’ opera venne poi condotta fra il 1657 e il 1660, e costò più di l.re 23,000 d" allora. ( CLXXVI ) prefati Sprassi, Bianchi e Lingiardi, non ohe agli altri del Bossi e degli Agati : certamente superiori agli antichi nella semplicità e perfezione del meccanismo, nello asseguimento di effetti grandiosi con lievi mezzi, nella vivacità e solidità dei registri a lingua, e nella piena loro imitazione degli strumenti da fiato o da corda ; ma tuttavia notava come, per ciò che ha tratto a voce generale, essi vengano accagionati di minore dolcezza ed armonia nel ripieno. Onde, senza voler entrare però come giudice nella questione, iva cercando se i moderni abbiano adoperato saviamente, lorquando cacciarono dal ripieno e terze e lasciarono collegate alla tonica le sole quinte; mentre gli antichi poneanvi per ogni nota l’intero accordo, e le leggi sperimentali dalla Fisica trovate nel suono paiono dar ragione a quest ultimi. Esprimeva perciò il desiderio che i moderni colessero, appunto come gli antichi, domandare di consiglio la scienza; e recava ad esempio le profonde meditazioni di Giambattista Doni e le savie ricerche del P. Bedos, vòlte a trovare la più delicata, ovvero la più efficace espressione degli affetti, per mezzo del temperamento nell’accordatura in un solo organo o tastiera, e poi per mezzo dei temperamenti su due o più tastiere. Detto inoltre come nel 1737 gli organi di san Lorenzo venissero ribassati di mezza voce, e indagatane la ragione probabile nello sviluppo della musica e nella sostituzione del corista lombardo al romano, toccava di volo de’ pochi e non molto noti costruttori genovesi, e specialmente del Pittaluga, lamentando che a’ più di essi, forniti di non comune capacità, mancasse ben di frequente l’occasione di grandiosi lavori; e che in altri il fervido ingegno non fosse aiutato da buone tradizioni scolastiche. Sponeva eziandio alcune osservazioni sull’ armonia anche esterna dell’organo, in relazione colle altre belle arti, oggi, a vero dire, un po’ trasandata e prosaica, e circa lo influsso che i suonatori, come lo Squarcialupi ed il Merula, esercitarono ( CLXXVI I ) sul popolo con istrumenti assai meno perfetti de’ nostri, ricercandone profondamente l’effetto musicale, non iscompagnalo dal decoro e dalla verità dell’ arte. Rifacendosi poscia più strettamente alla storia della musica ecclesiastica, l’autore osservava potersi a questa eziandio rannodare il canto delle processioni ; ed accennava che come in Firenze di già nel secolo XIV si cantavano laudi sacre, che ci vennero tramandate nell’Enciclopedie Methodique, cosi in Genova abbiamo versi e canto per le Casaccie; le quali è Doto che fino dal secolo XVI possedeano codici manoscritti su pergamena , poscia stampati neh 1580 in Torino, e che già di que’ giorni si dicevano antichissimi. Siffatti canti sono in tono minore, all’uso delle città marinaresche; e meritarono l’attenzione del Brack, da cui vennero inseriti nella traduzione francese del Viaggio musicale dello inglese Burney. Che se per una parte delle processioni instituite dalle Casaccie (di che a brevi tocchi descriveva il procedere coi ponderosi Crocifissi, e le macchine del Maragliano e d’altri valenti artefici nostrani, e le armonie onde si chiude l’imponente corteggio), comecché ' degenerate in gravissimi inconvenienti, il cav. Desimoni non desiderava punto ripristinata l’usanza; dall’altra non poteva ristarsi dal lamentare in genere che vadano sempre più scomparendo alcuni costumi caratteristici delle diverse nostre città, come sarebbe il battere dell’antica e nazionale Moresca, con musica al tutto appropriata. Nella seconda parte del suo lavoro, destinata specialmente al Teatro, l’autore accennava come la più antica musica non ec-clesiastica, nota fra noi, sia quella de’ madrigali, onde sulla fine del Cinquecento ci forniscono esempi Antonio Dueto canonico di san Lorenzo, Giambattista Lagostena discepolo di Filippo Del Monte, anch’esso forse genovese, Giulio Fiesco, e il già lodato Simone Molinari; le composizioni de’ quali vennero stampate dal Cardano in Venezia nel 1605, ed altre a cinque voci 12* ( CLXXVIII ) del Molinari stesso a Genova nel 4 G13 , sollo gli auspizi del Principe di Venosa. Allora vagiva tuttavia l’opera teatrale, colla Dafne del Peri e 1’ Orfeo del Monteverde ; chè assai più tardi ebbe perfezione colla distinzione dell’ano. dal recitativo, col più sapiente uso del coro e dell’orchestra, e col formarsi del genere detto impropriamente accentuato. Di tutto questo sviluppo non si ha per vero notizia fra noi ; ma ben puossi affermare che Genova non fu restia ad accogliere ogni progresso. A prova del che 1 autore digrediva alquanto sulla storia domestica di que’ tempi (secoli XVI e XVII), nei qualité bello sopratutto Io svolgersi delle arti e delle lettere; talché, passandoci anche della celebre nostra scuola pittorica, giova notare come allora dame belle di forme, d’animo e d'ingegno, maestrevolmente poetassero; a Genova, a Roma, ad Anversa, ovunque insomma fossero più genovesi riuniti, sorgessero illustri Accademie; e un genovese, il Tagliacarne, venisse eletto educatore e maestro dei figli di Francesco I di Francia ; il Baliani emulasse Galileo, a Padova Marcantonio Paxéro, detto l’Enciclopedico, professasse in quella si riputata Università, e Gian Vincenzo Pinelli raccogliesse una Biblioteca elettissima; mentre il Flaminio, il Partenopéo, il Bonfadio, il Maffei convenivano a Genova, il Tasso vi era invitato, ed il Cortese, il Bembo, il Ruscelli, ed il Paschetti non rifinivano di ripetere che a Genova tutte cose erano perfette In tanto splendore e squisitezza di gusto, è chiaro che la musica non poteva essere trascurata (2). Il P. Angelo Grillo veniva richiesto di poesia da’ più valenti compositori del suo (*) Può anche vedersi intorno a ciò la mia Dissertazione Della vita privata dei genovesi, p. 250-260. (’) Di già sullo scorcio del secolo XV il cavaliere Antoniotto Campo Fregoso , figlio di Spinetta che fu Signore di Gavi, letterato e poeta lodato dal-l’Ariosto, aveva scritto in versi un Dialogo sulla musica. ( CLXXIX ) tempo , come Giacomo De Vuert e Giulio Caccini. Al quale ultimo, che tentava la trasformazione de’ madrigali in Pastorale e della Pastorale in Opera, lo stesso Grillo indirizzava una lettera d’incoraggiamento e consiglio ; ove si mostra buongustaio e critico non inutile, neppure pei tempi nostri, definisce il carattere del recitativo, e indovina l’ufficio del coro nelle greche tragedie, e il suo nesso col genere musicale che allora s’introduceva (1). Peretta Scarpa-Negrone fu detta il miracolo del secolo XVI, per la virtù del suo canto; e Marzia Centurione-Imperiale domandava al Fortiguerri la poesia d’una favola pastorale, che inedita conservasi, col titolo di Dorinda, nella citata Biblioteca Durazzo. Nè vogliono passare senza lode il diplomatico Luca Giustiniani, che della musica fu grandissimo Mecenate, e Vincenzo Costaguti, poi cardinale, che a’ versi in lode della celebre cantante Eleonora Baroni, mandò innanzi un Discorso su quell’arte divina; nè il Fu-sconi che in servigio di questa poetava in Venezia, il Chia-brera che scrivea per la Corte di Firenze, ed il Frugoni per quella di Parma. Più tardi (sec. XVII) il doge Agostino Lo-mellini, filosofo e matematico, fu anche splendido protettore delle arti e del canto ; e fondò in Pegli una bellissima villa, con vago teatro campestre, che tuttodì vi si ammira. Ed ai principii del nostro secolo furono chiari, come dilettanti, Ersilia Damiani-Spinola, Amhrogio D’ Oria profondo compositore, e Giambattista Vissey egregio come cantante ed anche come critico, per un breve saggio che ne stampò il Gervasoni Allora ugualmente il chiaro fisiologo Benedetto Mojon scriveva degli effetti della musica sull’ animo dei maniaci. Nè va taciuto il ricorrere annuo e gratissimo della nostra Città ad una serenata, che, non ha molti anni ancora, l’eletta dei I.1) V. Lettere del P. Angelo Grillo; Venezia, 1616; voi. i, p. 384. C) V. Geuvasom, Nuova teoria di musica; Parma, 1812. ( CLXXX ) dilettanti festeggiava sotto gli auspizi di Argentina Spinola e la direzione d’Antonio Costa benemerito fondatore del Ligure Instituto, a cui più tardi si volsero le sollecitudini e diligenze del nostro Municipio. Ala, ommeltendo di parlare de’ viventi, e di questo stesso Instituto e del Teatro Carlo Felice, che potrebbero fornire argomento ad una Memoria tutta speciale, il cav. Desimoni restringeva il suo ragionamento ai teatri antecedenti; e rammentava come fino dal principio del secolo XVII la famiglia patrizia dei Balbi, facendo costrurre il superbo Palazzo (in oggi Reale) nella via chiamata dal loro nome, vi volesse unito il Teatro che ancora vi si ammira, e dal cognome del suo architetto prese il titolo del Falcone. Toccava quindi come questo stesso Teatro e gli altri due del sant’Agostino e delle Vigne divenissero proprietà dei patrizi Durazzo, emuli dei Grimani di Venezia; e fosse allora chiamato uno de’ fratelli Bibbiena ad introdurvi le celebri loro invenzioni sulle scene mobili. Gli stessi patrizi componevano, e talora rappresentavano i drammi musicali o d’altro genere; e fra essi, chiari anche per altri rispetti, primeggiavano Giannandrea Spinola e Anton Giulio Brignole-Sale. Vi è anche memoria di celebri cantori, come Carlo Descalzi, Gian Francesco Guidobono, e quel Giuseppe Paita che nudrì un’ ottima scuola, e, perfetto ugualmente nel canto che nella danza, fu chiamato l’Orfeo e il Batillo Ligure. Né certo passò senza influsso il soggiorno in Genova di Alessandro Stradella, per virtù musicale ugualmente che per tragiche avventure famoso ; e che appunto nella nostra città scrisse l’ultima sua composizione melodrammatica, II Barcheggio, per le nozze Spinola-Brignole nel 1681 (,)- C) Esiste ms. nell’Archivio Musicale della R. Biblioteca Palatina di Modena. V. Catelam, Delle opere di. Alessandro Stradella, fra gli Atti e Memorie delle Rii. Deputazioni di Storia Patria, per le Provincie Modenesi e Parmensi; voi. in, p. 348. ( CLXXXl ) 11 passaggio degli spettacoli scenici da! Falcone al Sant’Agostino, si può dire che implichi il trapasso dell’arte arislocra-rica alla democratica, e dalle feste patrizie alla partecipazione del popolo. Nè siffatta mutazione va al certo biasimata, benché, sotto il rispetto della squisitezza, l’arte possa perdere alquanto. Ma il Sant’Agostino, diretto dal valente Granara, ebbe un periodo assai glorioso; e dura vivo tuttora nella tradizione l’effetto stupendo delle prime rappresentazioni, ivi accadute (febbraio 1813), dell’opera del Mayer, La Uosa rossa e la rosa bianca, col libretto raffazzonato da Felice Romani, il quale iniziò appunto con questo la sua splendida carriera lirica. Qui poi furono ammirati i più sublimi artisti e maestri ; e fra essi piace ricordare il Marchesi, che col suo canto divino concorse all’Accademia offerta dal novenne Paganini; qui Lasagna, Gambaro e i due Corbellini ricevettero i primi applausi, forieri di quelli che avrebbe loro tributali la da essi percorsa Europa, Di maestri d’opere più antichi si hanno scarse notizie ; come d’un Righi, e d’un Giovanni Maria Costa. Ma a’ tempi di cui ora parliamo Genova avea un Francesco Gnecco, discepolo di Cimarosa, che porse consigli al Paganini, e fu compositore felice di più spartiti, fra i quali La Prova di un’ opera seria, che destò un entusiasmo non ispento ancora. E a chi rinfacci al Gnecco la povertà della istrumentazione, si risponde che la scuola classica, limpida e melodica fu la dote principale di questo maestro non solo, ma de’suoi tempi; e che il genere classico, nudrito però di studi più profondi, fu lodevolmente mantenuto da Giocondo Degola (figlio d’applaudito maestro, ed autore di soavissimi Notturni, come del celebre duetto Ser Gennaro inserito nell’ opera del Ricci Chi dura vince), e recentemente ancora dal compianto Andrea Gambini: tutti e tre, il Gnecco, il Degola e il bambini, rapiti in età immatura all’arte e alla patria. Tale fu pure il pregio de’ no- ( CLXXXII ) stri pianisti; i quali, come l’Acinelli, il Bevilacqua, il Buon-figli e l'infelice Borgatta, si educarono alla scuola del Padre Mattei; mentre Giuseppe Montelli, che poscia stampò in Parigi suonate di buono stile, corse ad ispirarsi in Adam e Muzio Clementi. Il cav. Desimoni mostrava anzi di credere, che in ciò stia la base dell’arte, segnatamente per un italiano. Ma, a chi domandi anche la virtù degli ardimenti, Genova additerà con orgoglio la sua Scuola del violino, che oggi ancora non teme rivali; e qui, a brevi tratti, descriveva gli effetti meravigliosi di quel violino di Paganini, costrutto il 1742 dal famoso Guar-neri del Gesù, che fu il suo cavallo di battaglia, e che di presente riposa nella nostra aula municipale, perpetuo ricordo di quel sommo alla patria. Concludeva, invocando dagli artisti la imitazione dei succitati modelli , non solamente per la musica, ma per ogni arte bella; dacché varii i mezzi loro, uno lo scopo. La lirica predomini alla drammatica, ma non così che la grandezza, il contrasto e la varietà degli affetti non sieno convenientemente rappresentati colle sapienti, od anche materiali , combinazioni armoniche. Nulla si deve trascurare, massime nell'Opera che, come l’Epopea, racchiude tutta una fase istorica. Di che va specialmente lodato il Mayerbeer, sebbene, per naturale ricchezza, profondità e giusta espressione di ogni senso musicale, l’Italia, col suo Bossini, non debba invidiare nazione alcuna. Talora l’Epopea s’innalza fino a rappresentare l’accasciamento deH’uomo sotto la natura, cioè sotto la Provvidenza; e allora é giusto che il suono degli strumenti più poderosi e le masse concertate soffochino il protagonista, o lascino sfuggire grida interrotte, paurose. In ciò anche la Scuola, dell’ avvenire e le altre analoghe, a buon diritto biasimate nella loro essenza, prestano utili servigi; e i suoni sopracuti, che é costretta a mandare l’oficleide, cagionano non più il disprezzo, come accade della Scuola ( CLXXXIII ) sensistica, ma una compassione infinita: l’ambascia dell’animo tradito dal Panteismo, dopo assaporali i più polenti trovati del genio; insomma tutto il mito sublime di Fausto e Mefìstofele. Ma nella vera fdosofia, del pari che nella vita della umanità, dopo la tempesta riede la calma; e piace, colla Cenerentola del Rossini, al bagliore de’lampi, allo scoppio de’ tuoni ed allo sconquasso della natura, il succedersi di una semplice sortita di flauto in maggiore, a cui le altre voci sussurrano appena, vinte dalla dolcezza; mentre le onde sonore, imitando il cessare della procella, sembrano lambire i margini pentite là dove poco innanzi infuriarono disfacendo i colti ed i fiori. Ma come la musica si giova di tutte le sue parti nelle dovute proporzioni, così l’Arte generale dee trarre profitto di tutte le sue creature; delle quali ciascuna appunto ha ufficio particolare. Alla scultura le pòse, il carattere, il dolore perpetuo, immutabile della Niobe; alla pitturai quadri della vita, i nodi della commedia secondarii e finale; ma alla poesia ed alla musica il ritmo, il movimento che tutte queste parti colleglli e traduca alla vita. Donde non è da consentire a coloro che eol-l’Engel discacciano dal dramma la poesia, o tollerano appena la musica come una cara maliarda; quasi che appunto si possa concepire una maliarda senza doti grandi e vere , quantunque abusate. E la supremazia del vero e del bello, senza l’esclusione dell’utile , era anche il voto che faceva l’autore per la civiltà italiana e per la sua capitale, Firenze; dove, per restringersi proprio al subbietto, godea vedere che il nuovo organo costrutto dai Serassi per la Basilica Laurenziana con tutte le arti del progresso, non discacci i vetusti e soavissimi che Onofrio poneva in santa Maria del Fiore ed alla Badìa. Nè che Adelina e Carlotta Patii, o Giuseppe Verdi, facciano dimenticare la Società del Quartetto, ove il noslro Gambini colse una delle più pregiate sue palme. Per simil guisa Firenze e Italia tutta accolgano i portali della scienza e del be- ( CLXXX1V ) riessere sociale; ma li pongano allato alle creazioni antiche ilei genio, senza che quelli uccidano queste, come pur troppo vediamo lutto giorno accadere [lK (’) Dobbiamo notare ancora come il cav. Desimoni, a guisa d’Appendice al Saggio di che per la specialità dell’argomenta ne parve opportuno di offerire ai lettori una estesa relazione, fornisse notizia di una preziosa Collezione musicale genovese, ripartita in 1G volumi; e riservandosi a darne in seguito ampia descrizione, accennasse, frattanto come la stessa appartenga alla metà del secolo xvii, e contenga sacre e profane composizioni de più celcbii cinquecentisti e loro discepoli: Claudio Merulal Leone Ilassler, Schütz, Diruta, i due Gabrielli, ecc. Tali composizioni però sono scritte con una notazione non solo affatto diversa dalla consueta, ma si da quella proposta dal Rousseau, ed anche, a quanto sembra, dalle altre indicate dal Raymjnd (Des principaux systèmes de notation musicale, nel voi. xxx delle Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino); e che tuttavia si potrebbe de cifrare , mediante il riscontro di alcuno di que’ pezzi che sono già cono sciuti, e scritti colla notazione comune : per esempio, La prima toccata e ricercati del Merula stesso. ( CLXXXV ) CONCLUSIONE Nel biennio al quale si riferiscono i lavori onde siamo fin qui venuti intrattenendo il lettore, e di che ci sembra dovere assai lietamente augurare per 1’ Instituto, che varca oramai il decimo anno di una vita prospera e rigogliosa, la Società ha ricevute non poche prove de! pubblico favore in cui è tenuta. Il novero de’ suoi membri effettivi si è, più che altra volta, grandemente accresciuto in questo biennio medesimo (1> ; otto chiarissimi cultori delle storiche discipline vennero eletti corrispondenti, previa la Relazione d’uso (2) elaborata nel 1865 dall’avvocato Gaetano Ippolito Isola, e nel 4866 dal barone Carlo Nota. Inoltre S. À. I. il Principe Luigi Luciano Bonaparte, munifico promotore degli studi filologici, fu nominato socio onorario. Altro segno non dubbio della vitalità dell’Instituto può, senza tema, fornire a ciascuno la maggiore frequenza introdotta nelle nostre pubblicazioni. A proposito delle quali non parmi privo 11 d’importanza il rilevare come le svariate materie trattate nelle adunanze delle diverse Sezioni, sieno tutte volte a colorire un disegno, e partano da un concetto unico e fondamentale, ovvero anche intorno al medesimo si raggruppino. Il quale concetto mira a porre in luce le fonti e a radunare tutti i più necessari elementi, che possano in qualsiasi guisa fornire la base all’edificio di una completa storia genovese. Così, per esempio, se (’) V. 1’Elenco clic precede questo Rendiconto. O V. Norme regolamentari per la nomina dei soci onorari e corrispondenti nel vol. i degli Atti, p. 687: ( CLXXXVI ) Ouardo agli sludi attinenti alla Diplomatica fu iniziato un ioo10 colla Seiie de Consoli criticamente disposta, e colle ssenazioni inclusevi sull’anno e l’indizione genovesi, la croio^osia dei Podestà e Capitani di Genova, ed il catalogo e aenoAesi che ressero somiglianti uffici in altri Comuni talia (di già in parte ordinato dal socio Belgrano), gitterà nuo\a luce sull argomento, e farà palesi alcuni .riscontri veramente singolari, e di molta rilevanza per la storia medieva della enkola, nel periodo delle fazioni guelfa e ghibellina. Anche liusti azione del Registro Arcivescovile, ora prossima a comparire, offrirà motivo di tornare su questo punto,- successivamente potrà mandarsi a stampa in un Codice, ohe si ha già pionto, quanto ancora ci resta di documenti inediti a tutto 1 secolo XI; ed infine un Begesto generale delle carte e dei • iplomi genovesi, a quest’ora abbozzato fino al 1200. Gli Statuti della Repubblica e delle sue Colonie, dal secolo - HI al XV verranno pubblicati dalla benemerita Deputazione Reale sovra gli studi di Storia Patria per le antiche Provincie ; ma non senza la cooperazióne di alcuni nostri socii, i quali hanno 1 onore di farne parte. Delle relazioni diplomatiche, già forni un primo saggio il socio Da Fieno (1), che però si propone estendere cotali studi ad una ampiezza maggiore; e a lui si unisce il socio Peirano, il quale va specialmente occupandosi di ciò che ha tratta alle cose di Roma, sempre importanti, e nuoïe ancora per copia di documenti fino a qui sconosciuti. Anche a periodi meno remoti la Società volge le proprie ricerche; ma quei periodi meritano speciale illustrazione o per 1 interesse particolare che offrono, o per la copia dei materiali nuovamente scoperti, o pei giudizi disparati che ne portarono gli scrittori; od infine perché la Storia, oggidì entrata veramenfe (’j Della legazione a Roma di Lazzaro D’Oria il 4485 , Saggio di sludi sulla Diplomazia Genovese. San Pier d’Arena, 1863. ( CLXXXV1I ) per quella via di che Giambattista Vico segnava le traccie primiere, non si appaga de’ fatti esterni, ma brama di scendere all’intimo delle cose, studiare l’indole che più particolarmente distingue una nazione, e riguardare al costume, per descriverci non solo i politici eventi e le imprese rumorose, ma per ritrarci la morale fisiosomia de’ popoli, trasandata per lo più, e quasi diremmo sdegnata, dalla comune degli storici dei secoli scorsi. Di tal fatta lavori sono quelli appunto del march. Spinola (1), e la Memoria del socio Belgrano sulla vita privata de’ genovesi, a cui ne terranno dietro più altre sui giuochi e le feste pubbliche, le armi e le lettere, la finanza e i commerci, la religione, ecc. Gentilmente invitata dalla onorevole Commissione per le feste di Dante a pigliar parte alla solennità del sesto centenario, celebrato ad onore del massimo Poeta in Firenze nel maggio del 4865, la Società confidava l’incarico di rappresentarvela al suo Presidente, al march. Lazzaro Negrotto-Cambiaso, ed al cav. Enrico Falconcini soci effettivi, al prof, senatore Michele Amari socio onorario, ed al cav. Giulio Rezasco socio corispondente. Ma poiché lo stesso Presidente teneva poco stante di quelle festività nazionali ragguagliata 1’ assemblea, io non ne ripeterò qui i particolari ; i quali d'altronde ponno trovarsi adunati, e certo assai meglio che ora non si potrebbe fare da me, nella sua Relazione, che per voto unanime della Società , fa parte degli Allegati relativi a codesto Rendiconto (2). Bensì è mestieri il rammentare come sul ricco stendardo, fatto eseguire per quella sì fausta circostanza dall’Instituto, ed alla cui spesa sopperirono in parte le spontanee oblazioni de’ socii, il collega prof. Giuseppe Isola dipingesse, con generosità pari alla ben nota maestria, le nostre insegne col ritratto di Caffaro. (’) V. Atti, voi. ni, p. lxx; cd il presente Rendiconto, p. cxxx. (!) V. Allegato J. ( CLXXXVIII ) . Anche ,a Direzi°ne dell’Archivio di Pisa, da breve tempo stjtmto, convocava a lieta festa per la sua inaugurazione allle,no 1865) le Deputazioni di tutti gli Instituti Storici della iso a, e peto la Società egregiamente sceglieva a rap- I sentaila in quella sì illustre città il benemerito comm. Francesco onaini , membro onorario. Noi ci felicitiamo al presente della corrispondenza e dello m io degli Alti nostri con quelli di tutte le Deputazioni di ^ ona Patria, e con alcune delle più illustri Accademie del Re-©no, colla Società di Storia e Archeologia della Savoia e quella eoDrafica di Vienna. Anche dalla lontana America il Governo ( i \ ashington ci offre in dono le sue importanti pubblicazioni -ulla Marina; la Società di Scienze Naturali di Roston ci richiede delle nostre Memorie, e 1’Instituto Smitlìsoniano piglia iniziativa del cambio coll'inviarci i suoi volumi dottissimi. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Padova dispone, che di cotesti nostri Atti medesimi le venga di mano in mano foinito un ragguaglio; e manda frattanto in luce una dotta lettura con critiche osservazioni, a proposito del primo volume, fatta da quel eh. socio ordinario conte Giovanni Cittadella. Di che non so ristarmi dal riferire le conclusioni, tanto per nostra parte onorevoli. « Questo importante lavoro (la Serie Consolare), unito ai precedenti che compongono il volume da me preso a disamina, torna ad arra onorata e non dubbia dei profondi studi e delle pubblicazioni rilevantissime, che ci aspettiamo dalla Società Ligure di Storia Patria. Società, di cui Genova può bellamente piacersi, siccome di quella, che se da un canto Je addita la lunga successione delle sue glorie passate, e a così dire le riforbisce allo sguardo il perduto scettro marittimo, dall altro la solleva alla sociale e letteraria altezza delle-maggiori fra le cittadi della Penisola, dove hanno altare e ministri le storiche disquisizioni, dove fervono attuosi gli spiriti della patria dignità, ed alle quali la Ligure Donna, invece di voi- ( axxxix ) gore gli sguardi biecamente infiammati di prepotenza rivale, manda ora il civile e più glorioso saluto dell’affetto fraterno (1) ». Nè dobbiamo passarci senza nota di gratitudine degli incoraggiamenti con cui il rimpianto Principe Reale, Odone di Savoia, si compiacque, di efficacemente proteggere queste nostre pubblicazioni infino a’ giorni estremi della sua nobile vita; né tacere del sussidio ognora continuatoci allo scopo medesimo dal Ministero di Pubblica Istruzione, nè dello assegnamento stanziato a favore dell’Instituto nel Civico Bilancio dal nostro Consiglio Municipale, di già a buon diritto celebrato in tutta la Penisola come la più splendida testimonianza di ciò che possa fare un Comune nel promuovere il pubblico insegnamento e la popolare coltura. Illustri personaggi infine ci porgono 1’ aiuto prezioso de’ loro autorevoli incitamenti e consigli; e proclamano che l’Italia dotta ha nella Società Ligure il nobilissimo esempio del più illuminato zelo per la Storia Patria. Di che noi non vorremo al certo superbire, ma faremo di meglio; e conscii della buona volontà adoperata in ogni opera nostra e della rettitudine degli intendimenti onde non ci allontanammo giammai, senza però menomare agli occhi nostri la importanza dello assuntoci mandato , nè il molto cammino che ci resta a percorrere, porremo ogni studio a renderci (il più che ne sia consentito) di tali elogi meritevoli e degni. Genova, 2 febbraio 1867. 6- Il Segretario Generale L. T. BELGRANO. (') Rivista periodica dei lavori della 1. R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Padova; voi. xiii, p. -177. ' * ! ' f ALLEGATI ALLEGATO A. pag. LXXX. Elenco degli oggetti d’antichità disseppelliti nei vecchi spalti della città di Tortona , cd inviati dal prof. Alessandro Wolf alla Società Ligure di Storia Patria. Terre Gotte. I. Frammento di latercolo, con resto di leggenda incavata: si le g . II. Colli, manubrii ed altri frammenti di idrie. III. Diversi coperchi di stoviglie, di colore biancastro ed assai rozzi, cou tre croci di rilievo, e pomo nel mezzo. IV. Frammento di urna cineraria, colla leggenda: ATI MAR CI . PER V. Avanzo di altra urna con due iscrizioni di rilievo. Nell’una però di-stinguesi appena la lettera N, nell’ altra si legge tuttavia per esteso il nome di «IAXIMINVS. VI. Parecchi resti di vasi grandi aretini (patellae e sottocoppe), parte di colore rosso-corallino, e parte di una tinta che imita il fiore del pesco, eccezione infrequente, come nota il Fabroni. Di questi ultimi, due sono lavorati 13* ( CXCIV ) a grafito, con circoli, palmelle, ecc., un terzo ò privo di ornamenti, ma entro 1 usata orma d’uu piede scalzo vedonsi incise le iniziali del figulo: v . v . AI. J vasi rossi sono, giusta il consueto, decorati di ornamenti e figure a basso rilievo; e fra essi parrebbe segnatamente importante un pezzo, nel quale si rappresentano un uomo, un delfino ed un lepre. MI. Due altri frammenti di vasi neri, pure d’Arezzo, leggerissimi, sottilissimi, e parchi d ornati. Osserva il citato Fabroni che questi, oltre all’essere assai meno numerosi dei rossi, non presentano quasi mai i nomi dei lìguli. Vili, l'ondo piatto di un vaso rosso chiaro, con tre circoli, e nel mezzo, dentro la solita orma di piede ignudo, il figulo: caivs. IX. Parecchi avanzi d’ altri vasi aretini, del genere delle tazze e dei calices. Limilo la citazione a quelli soltanto che presentano bolli figulini, cioè: L II medesimo nome, venne da me riportato nei Cenni sulle antichità tortonesi, che les^onsi nel volume antecedente di dra . on - questi Atti (pag. 7G2, n.° 27). Il Gori ha pure un qvadri nel novero dei servili; e qvad lesse lo Jhan negli scavi di Cere. Tale nostro frammento spetta quindi ad un vaso della fabbrica di Lucio Gellio, il quale appunto, come avverte il Gamurrini, era cognominato Quadratus, e non Quadrius come vorrebbe il Fabroni. Lo stesso Gamurrini, al num. 172, ha infatti un bollo dicente: l. selli qvadr. , cioè Lucius Gellius Quadratus. VMR philolo Le lettere ii ed i sono in nesso. Il Fabroni (num. 123, PILOC. , pag. 45), riporla un bollo così concepito : v 0 I v ’ traduce Philoceles, o Philogones, nome di servo. Aneli’ io già pubblicai ne Cenni ricordati (num. 25) un bollo somigliante, il quale trovasi pure in Gamurrini (num. 491), che legge Philologi. Esso appartiene alla famiglia aretina Umlriscia. Lo stesso Gamurrini ce ne assicura, riferendo un bollo (num. 582) nel quale è scritto per esteso VMIfRIscL- e ja epigrafe mortuaria 1 p l o l o s di un Caio Umbricio cavaliere dell’ottava Coorte. 3. l . s . G . Cioè Lucius Saufeius Gaius, o Caius (V. Gamurrini, num. 99). 4. atei . Nome d’ingenuo, riferito eziandio dal Fabroni. o y X. Dieci lucerne ad un solo becco, e sette frammenti di altre, cioè: 1. Lucerna frammentata, di tinta rossa e senza manubrio, ornata di foglie e rosoni alternali. ( cxcv ) 2 - 7). Due lucerne di tinta biancastra, di forma rozza e non molto comune. Nell’una, che ò frammentata nel becco, vedonsi aldi sotto le lettere AXy. 4. Lucerna rossa chiara, senza ornamenti. 5-6. Due lucerne di colore rossastro, rozze e pesanti. 7. Lucerna cinoriccia scura, rozzamente lavorata, frammentata nel manubrio e nel becco, e con all’intorno ed in mezzo un fregio di rosoni a cinque foglie. 8. Lucerna di tinta rossa. 9. Altra, senza manubrio, col figulo: c. dessi. "10. Piccola lucerna rossastra, assai leggera, e priva di manubrio. II Frammento di una lucerna rossa, di forma rozza, con ornamenti grafiti all’ intorno della parte superiore, e presso al manubrio due piccioli conigli. 12. Frammento della parte superiore di altra lucerna rossa, con suvvi un mostro avente umane sembianze. 13. Altro su cui vedonsi le ali e le zampe di una grande aquila, coi fulmini di Giove. , , , FIONTO 14. Altro col figulo 15. Altro, col nome di strobili, contorniato da tre cerchietti, ed un cuore al di sotto. Lo stesso figulo si legge anche sovra una lucerna con maschera scenica, trovata in Murano presso Casale nel 1858, e s’incontra frequentemente non solo in Italia, ma anche nella Francia e nell’Africa (*'. 16. Altro frammento di lucerna rossa, ornata da due palme e da una conchiglia nel mezzo. 17. Altro avente nel centro della parte superiore la sigla del tanto usato PAX CHRISTI. Bronzi. I. Statuetta di Minerva, mancante di asta, dell’altezza di cent. 7 ’/j, cavata da buou modello, ma di alquanto rozza lavorazione. Altra uguale serbasi nel Museo Numismatico ed Archeologico dell’Università di Pavia, ove ebbe ad osservarla il socio cav. Cesare De’ Negri-Carpani. II. Testina di Giunone diademata, di buono stile. III. Frammento di tavola litterata, colla sillaba ve. Le lettere hanno 1 altezza di millimetri 12. (») Vabni, Appunti di diverse gite'fatte nel territorio di Liburna, pag. 57. ( CXCVI ) IV. Campanello traforato, di forma assai gentile, c del genere di quelli che i romani ponevano intorno alle corazze delle guardie notturno. V. Spatoletta, per uso dei sacrifizi. \I. Parecchie spille, aghi, ecc., per lavori femminili, ed alcune fìbule (*). AVORII. Un anello, diversi aghi, crinali ecc., per lavori e acconciature femminili. Siffatti oggetti, onde fa distesa menzione il Guasco, nel suo scritto Delie ornatrici, soleano racchiudersi entro cilindri d’avorio, di metallo o d’altra materia, lavorati al tornio, ed allogarsi nelle tombe di ragguardevoli matrone. Vetri. Due unguentarii di vetro bianco, con patina argentea, ed un terzo con patina traente al gialliccio, identici per le dimensioni (circa 7 cent.) e la forma a quelli riportati dal Gori nell’opera Columbarium libertorum et servorum Liviae Augustae et Caesarum (2). (') Di una fibula d’argento, eziandio trovata in quel di Tortona, ed acquistata dal sig. avv. Perelli, forniva pure notizia il socio Wolf. La medesima reca il motto: VTERE FELIX. (*) Tav. xviii, letl. g ed i. ( CXCVII ) ALLEGATO B. pag. LXXXIII. Iscrizioni storiche del 1153, scolpite in caratteri frammisti di romano e di gotico, e murate sotto 1’ arco di porta santo Andrea. I. (a destra) + . IN NOIE OtPOTENTIS DEI PATRIS ET FILI! ET SP£ SCTI ÂM. SVM MVNITA VIRIS MVRIS CIRCVMDATA MIRIS ET VIRTVTE MEA PELLO JPCVL HOSTICa TELA. Sl PACEM PORTAS . LICET HAS TIBI TANGERE PORTAS . Sl BELLVM QVERES TRISTIS VICTVSQ.E RECEDES. AVSTER ET OCCA# . SEPTEMTRIO NOVIT ET ORT' QVANTOS BELLORV SVPERAVIT 1ANVA MOT'. IN CONSVLATV COIS \V PORCI OBTI CANCELLI lOIÏTs MALIAVCELLl ET \V LVSÌI PLACITOR BOIAMVNDI DE ODONE . BONIVASSALLI DE CASTRO W STANCÔÏS. I W CIGALE . NICOLE ROCE . ET OBTI RECALCATI. II. (a sinistra). MARTE MEI PPLI FVIT HACTENVS AFFRICA MOTA POST ASIE PARTES ET AB HINC YSPANIA TOTA ALMERIAM CEPI TORTOSAMQ : SVBEGI SEPTIMVS ANNVS AB HAC ET ERAT BIS QVARTVS AB ILLA HOC EGO MVN1MEN CVNFECI IANVA PRIDEM VNDIECES CENTENO CVM TOCIENSQVE QV1NO ANNO POST PARTV VENERADE VIRGINIS ALMV IN CONSVLATV CÔ1S W LVSII . IOHÏS MALIAVCELLl 0"ÏÏTI CÂCELLARII i ' _ \V PORCI . DE PLACITIS OBTI RECALCATI NICOLE ROCE W . CIGALE W STANGONl BONIVASSALL . DE CASTRO ET BA1AMVNDI DE ODONE . M . ( CXCVIll ) III. Epigrafe dettata dal socio prof. Giuseppe Scaniglia, ed allogata al di sopra del numero precedente. QVOS . HEIC . TITVLOS PORTA . MOENtBVS . Q . NOVO . AMBITV . EXTRVCTfS COSS . A . MCLV . POSVERANT CVRATORES . VRBIS . RESTAVRANDOS . CENSVERVNT A . MDCCCLXV . ALLEGATO G. pag. CV. Bolla di papa Eugenio IV, con cui si commettono ai frati Antonio Della Chiesa c Nicolò da Osimo le opportune facoltà, per assolvere dalle censure ecclesiastiche i seguaci di Felice V. 1446, \1 Novembre. (Dalla pergamena originale, presso il socio P. Amedeo Vigna) Dilectis filiis religiosis viris fratri Antonio de sancto Germano ordinis pre-dieatoium vicario generali conventuum reformatorum in lombardia ultra alpes. ac fratri Nicholao de Osmo ordinis fratrum minorum. EUGENfUS PAPA IUI. Dilecti filij. Salutem et apostolicam benedictionem. Ad hoc Deus in apostolica sede constituit plenitudinem potestatis, ut romaous pontifex claves potestatis ctdi-scretionis sibi divinitus traditas aliquando cum rigore exerceat, nonnunquam ipsis cum mansuetudine et clementia utatur. Cum itaque sicut fide dignorum relatione percepimus in territorio Amadei quondam ducis Sabaudie sint quam plurimi Xpi fidele», qui Amadeum predictum ydolum. et nos verum vicarium Xpi in terri» et successorem beati petii credunt corde perfecto, licet timore ammis-sionis temporalium que in dicto territorio possident, et aliarum penarum corpora- ( CXCIX ) lium quas sibi inferri verentur id publice profiteri non audeant. Nos qui omnium salutem zelamus huiusmodi Xpi fidelium conscientiis quantum nobis ex alto permittitur providere volentes, discretioni vestre de qua in liijs et alijs gerimus in domino fidutiam pleniorem, ac vestrum utrique. necnon omnibus alijs clericis dumtaxat, quos ad hoc deputaveritis, vel alter vestrum deputaverit. omnes et singulas personas utriusque sexus tam ecclesiasticas quam regulares et laicales. cuiuscumque gradus, ordinis, prerogative, dignitatis vel conditionis existant, que post translationem Basiliensis Concilij ex iustissimis et necessarijs causis ad civitatem ferrariensem per nos factam. Basiliensi Concilio sive Amadeo predictis. aut eorum sequacibus et fautoribus credentibus vel complicibus eorumdem adheserunt vel faverunt per se vel alium seu alios publice vel occulte, directe vel indirecte, eisque vel eorum alicui prestiterunt auxilium, consilium vel favorem, posteaquam ad veram et debitam obedientiam nostram et sancte Romane ecclesie redierint, et nos tamquam Xpi in terris vicarium et successorem beati petri recognoverint, sub nostra et Romanorum pontificum canonice intrantium et obedientia et reverentia perpetuo remansuri, ac Basiliense et Amadeum predictos. prestito super hoc per eos ad sancta Dei evangelia corporali iuramento expresse abnegaverint, si hoc a vobis vel deputatis predictis humiliter pecieriut. ab omnibus et singulis sententijs. censuris et penis tam temporalibus quam spiritualibus. per diversa nostra in civitate fèrrarie et florentie deeretâ sacro approbante Concilio contra eos inflictis et promulgatis, etiamsi ipsarum absolutio sit nobis et sedi apostolice spetialiter reservata auctoritate nostra absolvendi in forma ecclesie consueta, iniuncta personis ipsis pro modo culpe pe-nitentia salutari, et prestito per eos insuper iuramento quod talia de cetero non committent, nec committentibus prebebunt auxilium, consilium vel favorem et nostris et ecclesie mandatis parebunt et alijs iniunctis que de iure fuerint iniungenda. et insuper cum personis eisdem super irregularitate. si quam sic ligate, aut locis ecclesiastico suppositis interdicto divina, non tamen in contemptum clavium celebrando vel immiscendo se illis contraxerint, ipsis prius ad tempus de quo vobis, aut alteri vestrum, vel deputandis predictis videbitur a suorum ordinum executione suspensis dispensandi, et omnem infamie maculam sive notam per eorum aliquem promissorum contractam plenarie abolendi, et nichilominus personis huiusmodi et alijs sub nostra obedientia consistentibus, qui in territorio predicto morari et cum scismaticis conversari, mercari et alios etiam in oportunis dum tamen ab eis ecclesiastica sacramenta minime recipiant comunicare. Quodque ecclesiastice persone sub dicta nostra obedientia constitute sic ut promittitur absolute in locis in- ( ce ) terdictis ad sui et catholicorum devotionem sive necessitatem, etiam scisma-ticis presentibus. si alios sine scandalo ‘vitari nequeant, divina officia celebrare et in illis quos absolverint, vel per alios absolutos cognoverint ecclesiastica sacramenta ministrare valeant concedendi et indulgendi plenam et liberam auctoritate apostolica concedimus tenore presentium facultatem. Datum Rome apud sanctum petruin sub anulo nostro secreto, anno incarnationis dominice Milesimo quadringentesimo quadragesimo sexto, die decimaseptima mensis novembris. pontificatus nostri anno sextodecimo. B. Roverella. ALLEGATO D. pag. CXXVII-IX. Documenti riguardanti due missioni in Europa, di Buscarello de’ Guizolfi, genovese, ambasciatore di Argoun e Casan re di Persia. I. Traduzione francese di una lettera di Argoun al re Filippo il Bello di Francia ( )• 1289 . ..... (Pautiiier, Le Livre de Marco Polo; Paris, Firinin Didot Frères, ISGj, vol. H , p. 776). Par la puissance du Dieu eternel, Par la faveur du Khaghan (’) Questa lettera scritta sovra un rotolo di carta cotonina , lungo metri 2 per cent. 27, e serbata negli Archivi Imperiali di Francia (J-776), vedesi riferita in caratteri tartari dal Remusat nelle sue Relations diplomatiques etc. (p. 428-30], e riprodotta per fac-simile al seguilo dello stesso lavoro. Il Pautbier la ristampa con caratteri oiguri, e con alcuni emendamenti proposti dallo Schmidl; ne offre inoltre la trascrizione, e finalmente la traduzione francese che qui riportiamo. (’) Il Gran Knn Khoubilaï. ( CCI ) Roi de France I’ar ion ambassadeur en chef Mar Bar Sevma Sakhora M. Tu m’as mandé: « Quand les troupes de l’Il-Khan <2i marcheront contre l’Egypte, nous partirons d’ici pour nous joindre à elles ». Nous approuvons ce message de la part, et nous ajoutons que, confiant en Dieu, nous partirons à la fin de la dernière lune d’hiver, de l’année de la Panthère (3)? et que, vers le quinze de la première lune du printemps, nous camperons devant Damas. Si tu tiens fidèlement ta parole, en envoyant tes troupes à l’époque et au lieu déterminés, et si, avec l’aide de Dieu, nous prenons Jérusalem, nous te la donnerons. Si l’époque et le lieu du rendez-vous étaient manques, et que les troupes marchassent inutilement , cela serait-il convenable ? Et si, ensuite, l’un de nous n’a pas son plan d’action bien arrêté, et n’agit pas de concert, quel avantage pourrait il en résulter? En outre, il serait bon que, de ton côté, tu nous envoyasses des présents par des ambassadeurs parlant différentes langues et dialectes, consistant en choses rares et agréables et de la terre de France. L’exécution de toutes ces choses dépend de la puissance de Dieu, et de la faveur du Khaghan '-4). Je t’informe que c’est Mouskaril Kourtchi (5) que je t’envoye. Notre lettre est ecrite le sixième jour de la priemière lune d’été, de l’an du Boeuf (6), étant à Koundalan (7). (’) Cioè : il Signor Bar Sevma Sakhora, monaco oïguro, eletto vescovo dell’ Oï-guriu presso i tartari, da Yahaballaha patriarca dei nestoriani. (2) Cioè di esso Argoun. (s) Il 1290. (4) L’anzidetto Khoubilai, imperatore della China. (!) Vedansi le osservazioni fatte intorno a ciò, alla pag. cxxix. (*) II 1289. (7) L’originale di questa lettera porta impressa ripetutamente per tre volle, ad inchiostro rosso, la impronta di un sigillo in caratteri chinesi di forma antica, che fu rimesso ad Argoun da Khoubilaï, all’ epoca della sua investitura come Ivan di Persia ; e suona : Sigillo di colui clic sostiene l’impero e governa in pace i popoli. ( CCII ) II. Nota diplomatica rimessa da Buscarello de’Guizolfi, colla lettera originale di Argoun, al re Filippo il Bello. / 1289..... (Remusat, Relations diplomatiques des princes chrétiens avec les rois de Perse, etc. Y. Mémoires de l'institut Royal de France: Academie des inscriptions et belles-lettres; vol VII, p. 430-52; Paris, 1824). Ci est la messagerie de Busquarel message d’Argon faite en lan du buef du Condelan. Premièrement Argon fait assavoir au roy de France, comme a son frere, que en toutes les provinces dorient entre Tartars, Sarrazins et toute autre langue, est certainne renommee de la grandesse, puissance et loyauté du royaume de France, et que les roys de France qui ont este à leurs barons, a leurs chevaliers et a leur puissance, sont venu pluseurs fois en leide et conqueste de la terre sainte, a lonneur du fils de la vierge Maiie et tout le peuple crestien. Et fait assavoir le dit Argon audit roy do Tian comme a son frere, que son corps et son host est prest a amitié daler conqueste de ladite sainte terre, et de estre esemble avec le roy deTia en cest benoit service. , Et je Busquarel devant dit message d’Argon dy que se vous roys France venez en personne en cest benoit service, que Argon y amenra e roys crestiens Gorgiens qui sont sous sa seignourie et qui de nuit et de jou prient Dieu destre en cest bien hoeureus service et on bien pooir dame avec eux XX™ hommes de cheval et plus. Encore dy je que pour ce que Argou a entendu que grieve cliosi-roy de France et a ses barons de passer p. mer tant de chevaus comme stier est a euls et a leur gents, ledit roy de France pourra recouvrer gon, se il en a mestier et il len requiert, XX™ ou XXX1? chevaux en ou en convenable pris. Item, se vous, mons. le roy de France, voulez, Argon vous feia appa reiller pour cest benoit service par toute la Tourquie bestail menu et bues, •vaches et chamaux, grains et farine, et toute autre vitaille que len pona trouver a votre volente et mandement. ( CCI» ) Item, cy poez voir bonnes enseignes et grant présomption de la bonté d’Argon; car sitost comme il entendy que Tryple fut prinse Sarrasins et qu’il avoit grans barons Sarrasins desouz sa seignourie qui liez estoient et faisoient joie du damage qui estoit avenu aus crestiens ,il fist amener devant li quatre de touz les plus grans et les plus puissans barons Sarrasins qui fussent en sa seignourie et les fist tailler présentement, et ne souffry que les corps en fussent enterre, mais voust et commanda que len les laissast illuecques men-gier aus chiens et aus oisiaux. hem, que tantost que ledit Argon ot sa suer mariee au filz le roy Davi de Gorgie, il la fist tantost présentement crestienner et lever. Item, que cesti jour de pasque prochainement passe ledit Argoun fist chanter en une chapelle qu’il fait porter a soy a Rabanata evesque nectorin que lautre an vous vint en message, et fist illuecques présentement devant li acco-menier et recevoir le saint sacrement de lautel pluseurs de ses barons Tartars. Encore, sire, vous fait assavoir ledit Argon que les vos grans messages que vous antan li envoiastes ne li voudrent faire redevance ne honneur tels comme il est acoustume de faire de toutes meuniers de gens, roys, princes et barons qui en sa cuor viennent. Car, siccome il disoient, il ne feroient pas votre honneurs dagenoiller soy devant li pour ce quii nestoit mie baptise ne leve crestien, et si les en fist-il par trois fois requerre par ses grans barons; et quant il vit qu’il nen voloient autre chose faire, il les fist venir en la maniere qu’il voudrent et si leur fist grant joie et mout les honnoura siccome il rneismës scevent. Si vous fet assavoir, sire, ledit Argon que se ledit votre message firent ce par votre commandement, il en est touz liez, car tout ce qui vous pleist li plaint ausing, priant vous que se vous ly envoiez yceuls ou autres messages, que vous voulliez souffrir et commander leur que il li facent tele reverence et honneur comme coustume et usage est en sa court sanz passer feu. Et je Busquarel devant dit message dArgon offre mon corps, mes freres, mes enfans et tout mon avoir a mettre tout nuit et jour au service de vous mons.r le roi de France, et vous promet que se vous voles envoier messages audit Argon, que ie les menrai et conduirai a mains la moitié de despens, travail, péril et doubte que il mont est quant a vous plaira. ( CCIV ) III. Bolla di papa Nicolò IV al re Edoardo I d’Inghilterra, con cui gli annuncia I arrivo di Buscarello de' Guizolfi, ambasciatore dei He dei Tartari (cioè di Argoun re mongollo di Persia). 1289, 30 Settembre. (Rymer, Foedera, conventiones, litterae, etc.; Londini, 181G ; vol. II par. II, p. 713). Niciiolaüs episcopus servus servorum Dei, diarissimo in Christo filio, Edoardo Regi Angliae illustri, salutem et apostolicam benedictionem. Nuper ad praesentiam nostram accedens dilectus filius, nobilis vir Bisca-rellus de Gisulfo, civis Januen., nuncius Argoni Regis tartarorum illustris, lator praesentium, nobis, ex parte ipsius Argoni, litteras praesentavit, inter caetera, continentes quod ipse Argonus, ad requisitionem Ecclesiae, paratus et promtus existit viriliter et potenter accedere in Terrae Sanctae subsidium, tempore passagli generalis. Cum autem praefatus nuncius (cui, de multae probitatis et fidelitatis meritis a fidedignis laudabile testimonium perhibetur) ad praesentiam regiam, « propter hoc, ex parte praefati Argoni Regis, accedat; Celsitudinem regiam rogamus et hortamur attente, quatinus nuncium ipsum, benigne recipiens et honeste pertractans, diligenter audias quae tibi ex parte ipsius Argoni duxerit referenda. Dat. Reatae, II kalend. octobris, Pontificatus nostri anno secundo. (Plumbeo sigillo pendente a filo canabeo). IV. Altra Bolla simile, al prefato Re d’Inghilterra, perchè voglia benignamente accogliere e sollecitamente udire Buscarello e i suoi colleghi ambasciatori d- Argoun. 1290, 2 Dicembre. (Rymer, loc. cit., p. 742). Niciiolaüs episcopus, servus servorum Dei, carissimo in Christo filio Edwardo, Regi Angliae illustri, salutem et apostolicam benedictionem. ( ccv ) Cum dilecti filii, nobiles viri, Andreas, dudam dictas Zaganus (qui nuper a Domino inspiratus, una cum nepote suo Dominico, pridem vocato Gorgi, apud Sedem Apostolicam, per manum venerabilis fratris nostri L. Ostien. Episcopi, gratiam lavacri baptismalis accepit) et Bascarellus de Gisulfo civis Januen., ac Moracius, magnifici viri Argonis, Regis Tartarorum illustris, nuncii, latores praesentium, ad tuam praesentiam confidenter accedant; Celsitudinem Regiam rogandam attente duximus et hortandam, quatinus pro eiusdem Sedis ac nostra reverentia, nuncios ipsos, benigne recipiens et pertractans, diligenter audias quae coram te duxerint proponenda: sludium, prout comode poteris, impendendo sollicitum ad expeditionem celerem eo-rumdom; sic te in hoc ellicaciter habiturus, ut devotionem regiam exinde non immerito commendemus. Nos enim ad praefatum Regem, cum nunciis ipsis, in eorum ad nos reditu, destinare proponimus nuncium specialem. Dat. apud Urbem Veterem, quarto non. decembris, Pontificatus nostri anno tertio. (Plumbeo sigillo sub filo canabeo) V. Lettera di Edoardo 1 d’Inghilterra in risposta a quelle del Re Casan, successore di Argoun, presentategli da Buscarello de’Guizolfi. 1305, 12 Marzo. (Rymer, loc. cit., p. 949). Excellentissimo principi, domino Casan, Imperatori Tartarorum, Edwardus, Dei gratia Rex Angliae etc., salutem et felices ad vota successus. Litteras quas nobis per Buscarellum de Guissurfo, nuncium vestrum, latorem praesentium, transmisistis, recepimus; et ea, quae eadem litterae continebant, una cum credentia, quam idem nuncius vester super aliquibus, negotium Terrae Sanctae tangentibus, nuper dixit, ex parte vestra, oraculo vivae vocis intelleximus diligeuter. Et quia terra Christianorum, versus partes nostras, guerris multipliciter turbata extitit, jam est diu, prout Serenitatem vestram credimus non latere, dictusque nuncius vester vobis sciet oretenus plenius aperire, tale consilium, quale vellemus, hactenus apponere nequivimus in dicto negotio Terrae Sanctae. Set cum dominus Summus Pontifex, cum Omnipotentis auxilio, nos ( COVI ) posuerit in tali stata, quod dicto negotio intendere valeamus; scire vos volumus quod libenter eidem negotio, quod prae omnibus aliis negotiis huius mundi cupimus prosperari, quatenus poterimus intendemus. Dat. apud Westm(on«fcr»ui»), XII die martii, anno ab incarnatione Domini MCGCII (»). ALLEGATO E. pag. GXXX. Documenti riguardanti il Cerimoniale secondo cui furono ricevuti in Genova due ambasciatori del Re di Persia, Abbas il Grande. I. Visita all’Ambasciatore, e suo ricevimento seguito. 1601, 22 Giugno. (Cerimoniale de Serenissimi Collegi e Senato della Repubblica, Libro Primo, dal 1588 al 1614; nell’Archivio Governativo di Genova). Giorno a Genova ed alloggiato all’Hosteria di S.u Marta, con 14 persone che menava seco, mandò a Sua Serenità per il suo Interprete il Breve che Sua Santità gli haveva fatto perchè fosse raccomandato, e carezzato da Prin cipi Christiani, da quali fosse andato, e cosi per loro Stato e dominio, e che voleva visitare Sua Serenità quando gli fusse data l’hora , e se risolse (1) Questa data cagionò imbarazzo al Remusat (Relations etc., p. 388), giacch la Cronica di San Dionigi dice chiaramente che gli ambasciatori si recarono Francia nel I303. Ma il Raymer avea di giù conosciuto ed emendato l eriore, collocando appunto la lettera al suo vero posto, cioè al 12 marzo 1303. lo poi prego il lettore a non farmi carico dello avere costantemente sciitto ne testo del Rendiconto (p. cxxvm) Buscarellus, invece di Btscarellus o Basca)ellus, come vedesi adoperato nelle lettere pontificie poc’ anzi riferite. Ciò non è a Irò che una lieve ed assai spiegabile corruzione di quel nome ; ma ne documen 1 genovesi, e nella stessa sua Nota al Re di Francia, il Guizolfi appellasi vera niente, e sempre, come io l’ho chiamato. I ( CCVII ) dal Serenissimo Senato farlo prima visitar che venire ù palazzo da sei gentil huomini, ed a fargli offerte pubbliche come si costuma ad altri Ambasciatori di Principi Supremi, e cosi segai, e fu Priore il Signor Pietro Lo-mellino quondam Ü. Vincenti], e gli fu carissimo di sentirsi far tante amorevoli olìerle, e cosi ben visto da questi Serenissimi Signori come disse il suo Interprete. Venne a incontrar detti Serenissimi al mezzo della Camera, per le gran persone che vi erano, che non se gli poteva entrare, ne uscire, ed a la partenza fino a la porta, con molta gravità, e buona maniera. Di poi desinar venne a Palazzo con carrega a mano portata da suoi,servitori, con quattro suoi gentil huomini avanti, vestiti di tele d’oro collorite, catene d’oro grosse al collo, scimitarre a cinta, ed un pugnaletto dinanzi la panza, ed esso con manto di borcato d’oro riccio, longo fino al ginocchio, fodrato di zebellini molto belli, col solo pugnaletto attaccato a una binda , che lo cigneva a torno, di diversi colori, con la sottana più longa fino a mezza gamba di tela d’oro mischio, ed un gran turbante in testa, che aveva più del longo che del tondo, di sottilissimo velo di varii colori tessuto, ed il medesimo portavano gli altri suoi huomini che gli andavano avanti. Fu da Sua Serenità e da due 111.™1 Signori di Casa ricevuto alla porla del salotto, a’ quali fece bassa riverenza, e Sua Serenità lo prese per la mano, e se lo fece sedere alla sinistra banda con allegro viso, in segno di allegrezza, e di vederlo volontieri, ed esso fece dire dal suo Interprete, che se nel suo paese avesse inteso, che oltre alla Repubblica di Venetia U), gli fusse stata questa di Genova, così bella, e così potente, che harebbe portalo seco lettere del suo Re a Sua Serenità, e che n’ha ve va dispiacere, però che al suo ritorno, ne farebbe venire, gustando assai, che lo vedessero di buon occhio, e che lo carezzassero; e da Sua Serenità fu risposto, che tutta la Repubblica s’era rallegrata di veder Sua Signoria IU.nu in questa città, e che se dicesse, di ciò che bisognava per suo servitio, e così per il suo passare in Spagna, che se gli sarebbe provisto; e fece render molte grazie di nuovo, e si licentiò accompagnato da Sua Serenità fino all’altra porla de la Sala, (’) Questo passo facendoci conoscere come 1’ ambasciatore fosse stato a Venezia , ci offre il mezzo di stabilire essere egli Efet beg, persona assai estimata c di molta grazia appo di Abbas. Efet beg era stato ricevuto in Collegio dal Doge di quella Repubblica 1’ 8 giugno del 1600; ed aveagli presentata una lettera del suo Signore, che ricercava favore particolare intorno alla provvigione d’ alcune merci, e confermava la buona amicizia che avea sempre sussistito fra gli Stati Veneti e Persiani (V. Bercuet , la Repubblica di Venezia e la Persia, p. 43 e 192-95 ; Regesto, p. 52). ( covili ) e da molti gentiThuomini, che per vederlo vi orano concorsi, fino al cortile ove entrò in bussola, con molti Alabarderi avanti, così al venire, come a la partenza, col Colonello avanti. Era huomo di statura alla, e ben pro-poctionato, Musico, Poeta, e Letterato ne la sua legge, e sonava di liuto, indilìerentemente del nostro, mostrando ogni altra cosa, che di esser goffo, o di poco giuditio. I1 u da Papa Clemente Vili molto carezzalo in Roma, e vestilo come venne qua, e così tutti gli huomini, e gli fu dato Interprete, che andasse seco, ed un Canonico prete Spagnolo perchè lo conducessero in Spagna, e lo spesassero per viaggio con detti suoi servitori con duemila Sculi d’oro che gli fece perciò donare, e così ad ogni altra spesa, che fusse lor bisognata di fare, e sempre stette aH’hosteria mentre si fermò qua, e fu menato per la Città, a veder qualche cose più principali, e per esser viste così barbare persone, che non lo lasciavano mai star solo, et andette anco a Fassolo, che ne restò molto contento di havsr visto tante belle cose, e se ne partì senza essergli stato fatto (dono?) alcuno pubblico. II. AJlra visita e consecutivo ricevimenlo. 1611, IO e 15 Aprile. (Cerimoniale sopra citato). l Fu per ordine del Serenissimo Senato il dì sopradetlo (IO aprile) visitato il Signor Ambasciatore Persiano in casa del Signor Bernardo Monscia (') L’ambasciatore di cui si tratta in questo documento è al certo l’armeno cliogia Seder , portatore di una lettera di Abbas alla Repubblica di Venezia, riferita e riprodotta a fac-simile dal Berchet (La Rep. dì Venezia, ecc., p. 48 , 207) ; e che venne accolto in Collegio il 30 gennaio 1610. Il ricevimento fatto a Seffer in Genova , è pure ricordato nel Giornale di Alessandro Giustiniani (ms. dello Civico-Beriana) allora doge, con queste parole: « Detto giorno (15 aprile) è venuto a visitare il Senato Serenissimo un Ambasciatore Persiano. È stato ricevuto alla presenza del Consiglielto et altra gente , eh’ empiva la Sala de’ Serenissimi Collegi, in piedi tanto nel venire quanto nel partire; e s’ è fallo sedere in una sedia posta all’incontro del Duce. Espose con alla voce l’ambasciata per interprete; et io Le risposi con parole di cerimonia. Alle quali avendo egli replicalo , si licenliò con augurarli un felicissimo viaggio alla sua patria «. ( CCIX ) da quattro gentil’huomini, de'quali fa priore il Signor Vincenzo Spinola quondam Baptistae, e se gli fecero pubbliche offerte, e trattato con titolo d’illustrissimo ancorché non avesse nè patente, nè altro scritto, che facesse fede di essere Ambasciatore di quel suo Re, senza il Mastro di Cerimonie; et alli 15 detto domandato aadienza nel Serenissimo Senato, se gli diede alle 20 bore, dove havevano deliberato farlo sedere alla sinistra banda di Sua Serenila, incontrarlo fino al mezzo del Trono, et alla partenza fino alla porta dell’audienza, e fatto chiamare il Mastro di Cerimonie per introdurlo dentro; non mancò di parlarne prima con Sua Serenità; e poi ad altri Ill-m 1 Signori per l’ollitio che teneva avvertirgli, che visitando solo Sua Serenità con gli due lll.mi di Casa, poteva ben carezzarlo, e farselo sedere appresso, ma trovandosi in pieno numero in Senato, non si conveniva alla dignità publica dar luoco a uno, che non si sà del certo, che sia vero Ambasciatore del Re di Persia, che non habbi seco nè patente, nè altro scritto di Principi , nè potentato, come hanno fatto veder due altri Signori Ambasciatori Persiani, stati, e passati per questa Città ('*); e fu deliberato farlo sedere in mezzo del Trono, in conspetto di Sua Serenità, e che così al venire, come alla partenza, da loro Signorie Serenissime se gli fasse solo cavato di berretta, senza muoversi da lor carreghe, col Mastro di Cerimonie avanti, che lo guidava. Venne in carregha da muli, col Signor Bernardo Monscia, e due altre carreghe per quattro suoi servitori ben vestiti di lor habiti di diversi colori di seta, e suoi turbanti, et esso habito simile longo d’oro e seta, con molte collane d’oro al collo, et al turbante, con una croce d’oro, et una pennacchina, come havevano li sudetti suoi quattro creati, facendo parlar al suo interprete, quale era vestito all’Italiana, con spada alla Cinta, et esso Signor Ambasciatore portava una mezza spada, pugnale, et un cor-lelln avanti la panza, che con essere de statura grande, e grosso, e tutto pieno de catene d’oro, faceva correr ciascuno a vederlo, et da un suo servitore faceva menar per mano il suo cavallo, con sella alla usanza del suo paese, più per grandezza, che per altro, come anco fece parlar per inter- (’) Dei due ambasciatori qui citati l’uno è certamente Efet beg , già da noi ricordato; il quale, come 6 detto nel documento che precede, recava un Breve di papa Clemente Vili. E se lo stesso avesse poi mantenuta la promessa , che cioè al suo ritorno in Persia avrebbe fatte venire lettere di Abbas per la Repubblica, non riuscirebbe difficile il supporre che queste le fossero state presentate da l’ethy bei, recatosi con pompa inusitata a Venezia nel marzo del 1603 (V. Beuciiet , La 1’epubblica, ecc. , p. 44-47 e 196-99; Regesto, p. 52-53). ( OCX ) prete, sapendo parlar italiano, come disse esso interpreto al Mastro di Cerimonie; dal quale la ricevuto, e fattogli riverenza in cima alle logge, e condotto in sala, con un Secretario senza che nessuno Illustrissimo l’accompagnasse. Fece render gratie a lor Signorie Serenissime delli favori, e grazie lattogli, così della \isita, come dello franchiggie de sue robbe, e che se havesse saputo la grandezza, e potenza di questa Repubblica Serenissima, haverebbe latto fare lettere dal suo Re, al quale referirà J’honore, e favori, che gli sono stati fatti, et similia, e da Sua Serenità con molta eloquenza, e gravità gli fu risposto molto cortesemente; e se offerse, a dargli gusto, se gli bisognava cosa alcuna, et fece replicar, che gii comandessero qualche cosa particolar, per trattar col suo Re; et se gli rispose, che se ne tratle-rebbe insieme, e se vi fusse occasione, che lo farebbe sapere a Sua Signoria 111.ma come fusse trattalo; e se licentiò. ALLEGATO F. pag. CXXXYÏ. Aggiunte del socio L. T. Belgrano alla sua Dissertazione Della vita privata dei genovesi. Tappezzerie, p. 407 e 111. Verso il I486, essendo pervenute alla Dogana i Genova alquante tappezzerie, che erano di papa Innocenzo Vili e del cardinale Antoniotto Pallavicino di santa Prassede, i genovesi non le lasciarono introdurre in Città senza averne prima riscossa la gabella. Di che il Papa assai fortemente sdegnossi; ma non per questo, nè per le lettere che scrisse i poi alla Repubblica messer Agostino Panigarola, che trovavasi di que’ s'orni ambasciatore a Roma, Innocenzo potè mai ottenere di essere fatto immune dalla gabella. « E queste sono (scrive il Giustiniani) delle ostinazioni e dei capricci degli uomini, che hanno poco sale in zucca » W. Intorno poi a quei superbi arazzi colla storia di David e Bersabea, citati a a P- 111, ripeto dalla esimia gentilezza del socio avv. Gaetano Avignone uni Cenni descrittivi pubblicati nel 1846, in un foglio volante, daH’anti- (’) Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, voi. it, p. 544. « ( cr.xi ) quario Pasquale Maggi, che ne era di fresco divenuto il proprietario, c che ne effettuò poi la vendita al Museo di Clugny. In tali Cenni queste tappezzerie si vantano opera originale di Alberto Duro; si asserisce essere costate in principio oltre a centomila scudi, e si forniscono più altri ragguagli, de’ quali per altro noi non vorremo entrare pienamente mallevadori. Quel che vi ha di più certo, egli è che sono ad aversi proprio fra le meglio estimate; che ricche ne sono tutte le composizioni, e che pervennero a noi conservatissime. Dalla Corte di Francia, alla quale, come dicemmo, spellarono esse in origine, le ricevè in dono prezioso quella d’Inghilterra; più lardi assai, le recò seco in Roma l’ultimo rampollo degli Yorch; da cui le ebbero gli Spinola, che, secondo già notammo, le trasmisero ai Serra. Ecco I’ elenco dei varii fatti rappresentati negli arazzi medesimi. 1.° Il re David trasporta 1’Arca dalla casa di Abioadab nella città di Gerusalemme (Dimensione: metri 7. 4i). 2.° Amori del Re con Bersabea (m. 8- 02). 3.° Uria chiamato all’ assedio di Rabaot, ed inviato con lettera micidiale a Gioabbo (m. 5. 88). •4.° Gioabbo, ricevuto il messaggio reale, si appresta all’ assedio (m. 8. 50). 5.° Assalto di Roboat, e morte di Uria (m. 8. 00). 6.° Davidde riceve l’annunzio della morte di Uria (m. 8. 08). 7.° La distruzione di Roboat, e la incoronazione di David (m. 7. 02). 8.° David nel Tempio (m. 8. 06). 9.° Rersabea prostrata ai piedi di David (m. 6. 9ì). IO.0 Parto di Bersabea e morte della medesima; Davidde ripreso da Natan confessa il proprio peccato, e si dispone alla penitenza (m. 8. 2-ì). Gioielli, p. 129. Nella battaglia di Granson, vinta dagli svizzeri sopra i borgognoni, volgendo l’anno 1476, i primi ebbero ad impinguarsi di an immenso boltino; ad onla però, che non di tutti gli oggetti caduti nelle loro mani conoscessero ugualmente la preziosità ed il valore. Furono appunto nel novero di questi ultimi tre grossi diamanti proprii del Duca di Borgogna. L’uno de’ quali, della grossezza di una mezza noce (che aveva altre volte ornata la corona del Gran Mogol, e che egli soleva portare al collo), non aveva uguale in tutta la Cristianità, e forse anco in tutto il mondo ; fu trovato sulla pubblica via, ove al certo qualche servo del Duca stesso 1’ aveva lasciato cadere fuggendo; ed era chiuso in una piccola scatola adorna di perle. Il soldato che lo rinvenne, ritenuta la scatola, gittò il diamante, riputandolo non altro che un pezzo di vetro; poi ricredutosi, indietreggiò, e trovatolo ancora sotto ad un ( CCXII ) carro, lo raccolse e lo vendette pel prezzo di uno scudo al Curato di Mon- lagni. Costui lo cedò poscia ad un abitante di Berna , per la somma di tre scudi; 1 acquistò in seguito un altro bernese, per nome Bartolomeo May, liceo mercante che trafiicava coll’Italia, ed a Guglielmo di Diesbac, che gliel avea fatto comperare pel prezzo di 5000 ducati, douò un presente del Aalore di altri -400. Nel -i4Sr2 i genovesi l’acquistarono a loro volta per 7000 ducati, e lo rivendettero il doppio a Ludovico il Moro; finché, caduto costui, venne in potere di papa Giulio II, che lo pagò 2-ì,000 ducati, e ne le splendere la sua tiara. In ultimo Clemente VII lo fece porre da Benvenuto Gellini ad ornare il bottone del suo piviale, da quell’ artefice medesimo cesellato (D. \ asellami preziosi, p. 135. j\Tgl 1420 il doge Tommaso di Campo Fregoso, uomo certo e di singolare prudenza, e di prontezza e di consiglio maiaiiglioso, volendo che con ogni sollecitudine si armasse dal Comune di Geno\a una flottiglia di otto navi per soccorrere a Bonifazio, stretta di forte assedio dagli aragonesi, considerando che « la Città era vacua di cittadini pei cagione della pestilenza, ed il Comune era molto più vacuo di denari.... ebbe dalla città di Lucca, con aver messo i suoi vasi d’ oro e d argento e le sue gioie in jiegno agli usurari, circa diecimila ducati, e diede opera che I armata si mettesse ad ordine » (-). Codici alluminati, p. 152 e seg. A crescere il novero degli orazionarii che siamo venuti indicando, .possiamo anche notarne due membranacei in-4. , della Biblioteca della Missione Urbana, quantunque per merito artistico siano però lontani dal poter essere allogati fra i migliori. Nell’ uno, legato alla Biblioteca da Stefano Lomellini, con più storie e fregi eseguiti con perizia men che mediocre, si ha in fine cotesia data: Londini, anno Domini MCCCLXXXV. Nell’ altro, alcune storie sono piuttosto abbozzate che finite, oppure da poco esperto artefice restaurate, e la parie prospettica lascia in tutte moltissimo a desiderare ; ma assai gentili e ricchi dal lato della composizione, sono i fregi a colori, cospersi d’oro. A car. 141 si legge: Jehan Rogier fils Malz marchand de vin fit faire ce livre dir. et le table du psautier le dit Jehan (’) V. De Barante, Histoire des Ducs de Bourgogne de la Maison de Valois; vol. vin, p. 220-22; Cellini, Vita, % xliii. (5) Giustiniani, Annali, vol. n, p. 289. ( CCXIII ) Rogier le fit faire par Maistre Jehun de Vaulz canoine de l’Eglise de Notre Dame d Arras; et fut le dit livre perfait en l’an mil quatre cent. LXXV. Pries pour le dit canoine. Et lors le dit Jelian demouroit a l’ostel du Do/in sur le grand marchier d’Arras. Rogier. Vestire delle donne , p 227. Fra le briose poesie, in dialetto genovese, di Giuliano Rossi da Sestri-Ponente, più noto sotto il pseudonimo di Tod-daro Conchetta W, si hanno alcune satire ed epigrammi con che si sferzano acremente le bizzarre foggie del vestire allora introdotte. Vedasi in ispecie il componimento: Sciù re donne de Zena, che a persuasion dro Padre Predi-catou orieivan crovise ro collo; e l’altro: A una damma (Maddalena Lo-mellini) vestia a ra franzeise, con povere de Sipri in testa. Cavalli, p. 234. Nell’occasione in cui dal clero e popolo di Genova procedevasi alla nomina dell’Arcivescovo, questi all’uscire dalla Cattedrale, dopo essere stato costituito in dignità, saliva a cavallo per recarsi all’ Episcopio. Gli elettori, seguiti da follissima turba l’accompagnavano; ed un gentiluomo della famiglia dei Bulgaro, per antichissima consuetudine, guidavagli il palafreno. Virtù’ delle donne genovesi, p. 232 e seg. Ai varii fatti che tornano ad onoranza delle gentildonne di Genova, parmi al tutto degno di essere aggiunto il seguente; il quale inoltre mi offre agio di porre in mostra alcune particolarità riguardanti, anche sotto altri rispetti, la nostra Storia ed insieme la vila di quel celebre Raimondo Lulliano, che fu dal nostro Bartolomeo Fala-monìca preso a guida nel suo poema ad imitazione dantesca, di che il valente prof. cav. Giuseppe Gazzino ci promette una accuratissima edizione. Raimondo Lullo, nato nel 4255 da nobile famiglia in Palma di Maiorca, o y crebbe quasi digiuno di lettere e condusse una giovinezza licenziosa e dissipata in mezzo alla Corte d’ Aragona, ove poi tenne l’ufficio di siniscalco di (1) Delle poesie del Rossi, morto di pestilenza nel 1657, si hanno più esemplari mss. nella Civico-Beriana. Alcune furono eziandio stampale, fra le Rime diverse in lingua genovese, in Torino nel 1612, ed altre in appendice alla Çittara Zeneize del Cavalli, edita da Girolamo Marino nel '1665. Ma l’autografo citalo dal Soprani (Scrittori della Liguria, p. 178), col lilolo di Toccadinne de piffaro sarvego de messe Toddaro Conchetta, serbasi oggidì nella Aprosiana di Yentimiglia, giusta la notizia clic me ne fornisce l’ottimo amico mio cav. Girolamo Rossi. ( CCXIV ) Palazzo. Perdutamente invaghitosi di una bella quanto virtuosa dama genovese, per nome Ambrosia di Castello, che abitava in Maiorca col proprio marito, non potò mai esserne corrisposto; sibbene venne dalla medesima tratto luoia d ogni speranza (*). Pertanto all’età di 52 anni, distribuito alla famiglia ed ai poveii ogni aver suo, e congedatosi dalla moglie e da’ figliuoli, visitò in abito di pellegrino san Giacomo di Composteli; indi si ritirò nella cima deserta e solitaria del monte Randa, ove passò ben nove anni in una povera capanna costi uita di sua mano, coperto; il corpo di cilicio e tutto dedito alla vita contemplativa. Entrato nell’ Ordine di san Francesco, fu alquanto dopo più. volte a Genova, ed ivi lesse e professò ne’ monasteri di quella regola il suo Metodo od Arte generate, voltò nell’arabo 1’ altra sua opera Dell’arte inventiva, e compose la Chiave della stessa e dell’ Arte dimostrativa; ordinando cioè i suoi principii e le sue norme in una Tavola generale, che poscia ultimò in Napoli, ov erasi recato verso il cadere del 1292 sopra navi genovesi. In sul finire del 1296, imbarcatosi in Francia sovra un legno pur genovese, recossi in Barberia ed Algeria, predicando la religione di Cristo ed operando assai conversioni ; ma in Algeri attaccata grave disputa con un filosofo arabo, e confutatolo a voce non meno che in iscritto, venne tosto bandito a peipe tuità. Anche questa volta egli salì a bordo di una nave genovese, e tornò con essa in Italia, ma a breve tratto da Pisa pati naufragio. Poco stante, i cit tadini di questa Repubblica, da lui medesimo sollecitati, gli commetteano l’incarico di presentare al Pontefice alcune lettere, con cui proponevano 1 in stituzione di un Ordine di cavalieri cristiani, per liberare i luoghi santi dalla dominazione dei turchi. In breve Raimondo otteneva somiglianti lettere anche dal Comune di Genova (1307); ove anzi le dame stesse, memori dell entu siasmo destato fra loro sei anni prima da fra’ Filippo di Savona, promettevano di agevolare del proprio la nobile impresa, con un sussidio di trentamila fio rini. Ma il Papa (1508) non accettò la proposta, avvisando alla impossibilità di mandarla ad effetto. . .. All’ età di circa 80 anni, Raimondo, che già da qualche tempo erasi riti rato in patria, salpa ver 1’Africa, ed il 1-4 agosto del 1314 sbarca a lunisi, scorre predicando Bona e Bugia, finche ivi è lapidalo dai maomettani, e da me desimi, come morto, abbandonato sulla spiaggia. Ma, nella notte, alcuni mercanti (’) 11 P. Sollier, nel suo Commentario alla Vita del Lullo (V. Acta Sanctotum), vagamente riferisce che la donna amala dal Lullo, assentisse ad aveie col mede simo un colloquio, nel quale avrebbe disingannato il proprio amante, scoprendogli il petto corroso da un cancro. I ( ccxv ) genovesi, raccolto tuttavia respirante il corpo cicli’ardente confessore di Cristo, e seco trattolo in nave, drizzarono tosto la prora verso 1’ isola di Maiorca, alla cui vista soltanto, il giorno de’santi apostoli (29 giugno 1515), rendè l’anelito estremo. Come la nave che lo recava approdò all’isola, il Viceré ed i principali fra’ cittadini recaronsi a levarne con tutta pompa il corpo; il quale venne allora sepolto nella tomba dei Lulli a santa Eulalia. Ma i francescani avendolo poi reclamato, lo trasferirono nella propria loro chiesa, ove gli con-secrarono una sontuosa cappella, e dove d’ allora in poi fu come martire venerato. Processi matrimoniali, p. 242 e seg. Nel Notulario di Gianuino di Predone per 1’ anno 1236, si hanno varie sentenze, intervenute a conoscere de' litigi fra coniugi accusati di bigamia, e sempre mandali assoluti. Certo allo scopo nostro codeste sentenze tornerebbero in ispecie assai profittevoli, ove fossero accompagnate dai molivi che ebbero a condurre i giudici nel loro pronunciamento; potendosi allora stabilire qualche dato, che molto importerebbe a questa nostra istoria dei costumi. Ma siccome ciò vanamente si cercherebbe in quegli atti, sempre brevissimi, così noi ci staremo'paghi a riferirne soltanto alcuni per modo d’esempio. 1.a Janue in palacio fornariorum ubi lene tur curia. Cum obertus sardus de castelleto coram procuratore iuslilie ianue accusatus fuisset quod vivente adalaxia panicogola eius uxore desponsaverat iohannam que secum mora-tur .... die dominica sexto aprilis in pieno parlamento more solilo congregato fuit absolutus. 2.a Cum obertus de comezascha tornator de rippa accusatus fuisset quod vivente sibilina nepte oberti de paverio uxore sua disponsaverat dictus obertus tornator quamdam aliam que vocatur bonaveria in uxorem ■ . . die dominico . . . fuit absolutus (*). 3.a Cum philipus florentinus filius qm. odebrandi de florenda . . . accusatus fuisset quod vivente draga de pisis . . ■ uxore sua desponsaverat iohannam filiam marie grasse lavatricis de bissane in uxorem cum qua nunc moratur . . . die Xll iulii . . . fuit absolutus (2). f1) Notulario dì GiAnuino di Predone (Archivio Notarile di Genova), car. HO. Entrambe le sentenze recano la data ilei successivo giorno 8 aprile 1236. (’) ld., car. 143. La sentenza lia la data del 15 stesso luglio 1236. ( (XXVI ) ALLEGATO G. pag. CXLIX. Carmen in victoriam Pisanorum, Genuensium aliorumque Italiensium de 'rimino Saracenorum rege, ducibus Benedicto, Petro, Sismundo, Lamberto, Glandulpho, de expugnatione urbium Sibilia et Madia die S. Xisti. I. Inclitorum Pisanorum Scripturas historiam, Antiquorum Romanorum Renovo memoriam ; 5- Nam extendit modo Pisa Laudem admirabilem, Quam olim recepit Roma Vincendo Cartaginem. II. Manum primo Redemptoris 10. Collaudo fortissimam , Qua destruxit gens Pisana Gentem impiissimam ; Fit hoc totum Gedeonis Simile miraculo, lo. Quod perfecit sub unius Deus noctis spatio. III. Hic cum tubis et lanternis Processit ad preli um , Nil armorum vel scutorum 20. Pertendit in medium ; Sola virtus Creatoris Pugnat terribiliter, Inter se Machanitis Cesis mirabiliter. C) 1 maomettani. ( CCXVI1 ) IV. 2o. Sunt et Machanite Signati ex nomine Hos in malo nam Madia Nutriebat homine Sita palerò loco maris 30. ' Civitas hec impia, Que captivos contingebat Pias centena milia. V. Hic Timinus W presidebat Saracenus impius, 35. Similatu (3) Antechristo Droco crudelissimus ; Habens portum juxta urbem Factum artificio, Circumseptis muris magnis 4-0. Et plenum navigio (') Mehdia, fortissimi! città capitale del primo impero de’ Fatemiti, fabbricala da Obeid-Allab, dello il Melidi, in mezzo al mare sovra una penisola del golfo di Tunis, e così per natura e per arte fortemente munita , che si ritenne inespugnabile, infino a che, pe’ trionfi descritti in questo Carme, non vi penetrarono gli italiani. Aveva un porto militare vasto e sicuro, primo del Mediterraneo, e forse del mondo, di quella età. I cristiani solcano appellare questa medesima città col nome di Affrica; e gli arabi invece chiamarono Ifrikia l’Affrica propria dei romani, cioè gli odierni Siati di Tripoli e Tunisi, e la provincia di Costantina. (V. Amari , Diplomi arabi del li. Archivio fiorentino, p. xix). (2) Tamìn, principe zirita. La dinastia dei Califfi Fatemiti, piantata in Affrica dallo stesso fondatore di Me Iulia, crasi coll’andare del tempo trasmutata in Egitto, lasciando a’ principi berberi della schiatta di Ziri il governo della medesima, che eglino tennero prima come luogotenenti e poi come tributarii. Infine, non solamente si emanciparono da ogni soggezione, ma divennero a’ Falemili apertamente nemici (V. Amari , loc. cit.). (3) Similatur? ( CCXVIII ) VI. Hic tenebat duas urbes Opibus ditissimas, Et Saracenorum multas Gentes robustissimas ; Stultus et superbus nimis Elatus io gloriam'. Qua de causa Pisanorum Fil clara victoria. VII. Hic cum suis Saracenis Devastabat Galliam, Captivabat omnes gentes Que tenent Ispaniam ; Et in tota ripa maris Turbabat Italiam, Predabatur Romaniam Usque Alexandriani. VIII. Non est locus toto mundo, Neque maris insula, Quam Timini non turbaret Orrenda perfidia : Rodus, Ciprus, Creta Simul et Sardinia Vexabatur , et cum illis Nobilis Sicilia. IX. Hinc captivi Redemptorem Clamabant altissime, Et per orbem universum Flebant amarissime; ( CCXIX ) Reclamant (V ad Pisanos 70. Planctu miserabili Concitabat (2) Genuensus Piota lacrimabili. X. Hoc permotus terremota, liic utcrque populus 73. Injecerunt manus suas Ad hoc opus protinus. Et component mille naves Solis tribus mensibus (3), Quibus bene preparatus 80. Slolus lucet inclitus. XI. Convenerunt Genuenses Virtute mirabili, Et adjungant se Pisanis Amore amabili ; 83. Non curant de vita mundi Nec de suis filiis, Pro amore Redemptoris Se donant periculis. XII. His accessit Roma potens 90. Potenti auxilio, Suscitatum pro Timini Infami martyrio ; • Renovatur hic in illa Antiqua memoria (’) Reclamabant. (2) Concitabant. (3) Il eli. Amari (Prime imprese ecc.) si accosta più volentieri ad lbn-el-Athìr, che dice tre anni. ( ccxx ) 95. Quam illustris Scipionis Olim dat victoria. XIII. Et refulsit inter istos Cum parte exercitus Pantaleo malfitanus, 100. Inter Grecos W Sipantus; Cum forte et astuta Potenti astutia (2>, Est confusa maledicti Timini versutia. XIV. 105. Nos conduxit Jhesus Christus Quem necabat Africa , Et construxit (3> omnis ventus Preter solum Japiga ; Chérubin emittit illum MO. Cum aperit hostia, Qui custodit Paradisum Discreta custodia. XV. Pervenerunt navis-ando Quandam maris insulam 115. Quam Pantaloream (*) dicunt Cum arce fortissima; Huius incole palumbos Emittunt cum litteris, Qui ren un cient limino 120. De viris fortissimis. (’) Cioè pugliesi e calabresi. (*) Questi due versi non furono, per avventura, esattamente riferiti nel di Guidone. (3) Constrinxit? (*) L’isola Puntellarla. ( CCXX1 ) XVI. Hic est castrum ex natura Et arte mirabile, Nulli umquam in hoc mundo Castrum comparabile; Duo milia virorum Hoc tenebaDt oppidum , Qui nec Ueum verebantur Nec virtutem hominum. XVII. Accesserunt huc e contra Mirandi artifices, Et de ligni (*) nimis altis Facti sunt turrifices ; Destruxerunt, occiderunt Sicut Deus voluit, Et fecerunt quod a mundo Numquam credi potuit. XVIII. Sed, ut puto, soli viri Qui exisse viserant Alios mandant palumbos, Qui factum edisserant; Quo audito, rex Timinus Desperat de viribus, Et hoc factum perturbatus Tractat cum principibus. XIX, Inter hec regalis stolus Discedit et navigat, ( CCXXII ) Et jam videi illas urbes Quas Timinus habitat Mare, terra, muri pleni ISO. Paganis teterrimis, Quos conduxerat Superbus Ab extremis terminis. XX. Hic incepit adulando Demulcere populum; ■ Io5. Et captivos promittendo Pertrahebat otium. Sed hoc sprevit Benedictus Astutus Dei nutu ......illuminatu (2) 160. Luce Sancti Spiritus. XXI. Vocat ad se Petrum et Sismundum Principales Consules, Lamberlum et Glandulfum Cives cari nobiles ; 165. Revelat quod hoc Timinus Faciat ex insidia, Hoc solum ex tradimento Et mira perfidia. XXII. Hinc conscendunt parvas naves -170. Tracti ad concilium Decreverunt solam pugnam Tracti ad prelium, (’) Benedetto vescovo , e legato apostolico ; forse quel desso che cita fra i cardinali sotto il 1092. (s) Et sacra illuminatus, luce etc. ( CCXXI1I ) Ut hoc solum judicaret Divinum judicium 173......... ........(*) XXIII. Hoc fuit antiquum festum Sancti Sixti nobile, Qui sunt semper Pisanorum 1 80. De celo victorie ; In hoc Benedictus presul Populum alloquetur ; Et silentio indicto, Murmur omne moritur. XXIV. 185. Preparate vos ad pugnam Milites fortissimi Et pro Christo omnis mundi Vos obliviscimini ; Maris iter restat longum, 190. Non potestis fugere, Terra tenet quos debetis Vos hostes confundere. XXV. Non expavescatis De eorum numero, 195. Nam sunt turpiter defuncti Timentes in heremo; Nequo vos conturbent domos Altis hedificiis, Hierico namque prostrata 200. Cum muris altissimis. C) Questa strofa è così mancante nell’originale. ( CCXX1V ) XXVI. Inimici sant factoris Qui creavit omnia, Et captivant christianos Pro inani gloria. Mementote vos Golie, Gigantis eximii, Quem prostravit unus lapis Dextera parvi pueri. XXVII. Machabeus ille clarus, Confidens in Domino, Non expavit ad occursum Plurimorum hominum ; Nec confidens in virtute Cujusquam fortissimi, Set iu majestate sola Dei potentissimi. XXVIII- Vos videtis Pharaonis Fastum et Superbiam Qui contempnit Deum celi Regnantem in secula, Dei populum affligit Et tenet in carcere. Vos conjuro propter Deum, .lam nolite parcere. X^IX. Hinc incitamentis claris Et multis similibus, Inardescunt omnes corde, Irritantur viribus, ( CCXXV ) Offerunt cor devote Deo penitenliam, Et communicant vicissim Christi Eucharistiam. XXX. Universi Creatorem Laudant unanimiter, Hanc vitam atque mortem Utrumque similiter, Invocabant nomen tuum , Jhesu bone, celitus, Ut turbares Paganorum Triplices exercitus. XXXI. Jam armati petunt terram Cum parvis naviculis, Et temptabant maris fundura Cum astis longissimis ; Se demergunt ut leones Postquam terram sentiunt , Aquilis velociores, Super ostes irruunt. XXXII. Et excelsi Agareni Invocant Machumata, Qui conturbavit orbem terre De sua perfidia ; Inimicus Trinitatis Atque sancte fidei . Negat Jhesum Nazarenum Verbum Dei fieri. XXXIII. Sed fit clamor Pisanorum Altus et nobilior, 15' ( ccxxrt ) Nam intonuit de cefo Sonus terribilitor; Michael cecinit tuba Ad horum présidium, Sicut fecit pro Dracone Cum commisit prelium. XXXIV. A hera ex parte , Petrus Cum cruce et gladio, Genuenses et Pisanos Confortabat animo ; Et conduxerat huc princeps Cetum Apostolicum ; Nam videbat signum sui Cum scarsellis populum. XXXV. Et e contra Agsrens Concurrunt Telis et sagittis Hos petunt ostiliter, Fit hic pugna dura nimis, Sed in parvo tempore ; Nam ceperunt Agareni Slalim terga vertere-. XXXVI. Misit namque Deus cefi Angelum fortissimum, Qui Senaclierib percussit Mucdte (sic) exercitum ; Qui cum vident hi qui stabani Intra muros fieri, Obserarunt portas illis Qui fugebant, miseri? ( CCXXVII ) XXXVII. Occidantur et truncantur 290. Omnes quasi pecudes , Non est illis fortitudo Qua possint resistere; Perimuntur in momento Paganorum milia, 295. Antequam intrarent portas Et tenerent menia. XXXVIII. Postquam desuper et subter Intrarunt fortissime, Pervagantur totam urbem 300. Absque ulla requie, Occiduntur mulieres . Virgines et vidue, Et infantes alliduntur Ut non possint vivere. XXXIX. 305. Non est domus neque via, In tota Sibilia (*), Que non esset rubicunda Et sanie (2) livida ; Tot Saracenorum erant 510. Cadavera misera, Quae exalant jam fetorem Per centena milia. XL. Urbs est una desolato (3) ; Festinant ad aliam, (1) Dovrebbe dire Madia. -(!) Sanguine ? (3) Desolatio, ovvero desoluta. ( CCXXVIII ) 315. Et contendant transilire Ad alta palatia, Ubi stabat rex Timjnus Statis miserabilis, Qui despiciebat Deum 320. Ut insuperabilis. XLI. Jussit portus aperire Et leones solvere, Ut turbarent Christianos Pugnantes improvide ; 325. Set conversi senes (V leones Ad honorem glorie, Nam vorarunt Saracenos In laude victorie. XLII. Hic evenit tibi, Pisa , 330. Magnum infortunium, Nam hic perdis capud urbis Et coronam juvenum. Cadit Ugo Vicecomes Omnium pulcherrimus : 335. Dolor magnus Pisanorum Et planctus miserrimus. XLIII. Nam cum omnes Saraceni Erupissent subito, Sustinet hic mille viros 340. Cum asta et clypeo , Cum nescit cessare loco, Et recusat fugere ; (') Meglio forse satis. C) II verso vuole, per avventura, essere cosi ristabilito: Set conversi snnt leones. ( CCXXIX ) Mille cesis Saracenis Ante cadit juvenis. XLIV. 345. Ilio imponunt illuni scuto , Et ad naves deferunt; Plangunt omnes super illuin , Quasi unigenitum. O decus et dolor magnus 350. Pisanorum omnium! U confugio triumphi El magnum incommodum ! XLV. O Dux nosler atque princeps, Cum corde fortissimo, 355. Similatus Rex Grecorum Regi nobilissimo, Qui sic fecit ut audivit Responsum Apollinis ; Nam ut sui triumpharent 360. Sponte mortem subiit ! XLVI. Sic infernus spoliatur Et Salhan destruitur, Cum Jhesus redemptor mundi Sponte sua moritur, 365. Pro cujus amore, care, Et cujus servitio, Martyr pulcher, rutilabis Venturo judicio! XLVII. Non jacebis tu sepultus 370. Hac in terra pessima , Nec te tractent Saraceui Qui sunt, quasi bestia, ( ccxxx ) Pisani nobiles te ponent In sepulcrum patrium ; 275. Te Italia plorabit, Legens epitaphium ! XLVIII. Erimus in domo tua Fideles et placidi , 580. Tutores et bayuli ; Nullus umquam coutra tuos Levabit audaciam; Quia tu, care, pro Pisa Posuisti animam! XLIX. 585. Non est mora: Corpus findunt Et ejectant viscera ; Balsamum infundunt multum Et cuncta aromata, Et componunt quadam capsa 590. De ligno composito, Ut mater et conjux eum Videant quoquomodo. L. Hinc exarsit ira tanta Is et Genuensibus, 595. Quod non homo, neque murus Neque quicquam penitus Valet horum sustinere Furores et fremitus; Unde fit Saracenorum 400. Maximus interitus. LI. Sic irrumpunt omnes portas, Et Madiam penetrant; ( CCXXX1 ) Et occurrunt illuc prope Quo stat fera pessima, 40o. Que turbabat omnes gentes De sua perfidia; Modo latet circumclusa In muris altissima. LU. Alii petunt mesehitam (*> 4-10. Pretiosam scemate, Mille truncant sacerdotes Qui erant Machumate; Qui fuit heresiarcha Potentior Arrio, 415. Cujus error jam permansit Longo mundi spatio. LIII. Alii confundunt portum Factum mirabiliter, Darsanas et omnes turres 420. Perfundunt similiter; Mille naves traunt inde Qua (2) cremantur litore ; Quarum incendium Troje Fuit vere simile. LIV. 425. Alii irrumpunt castrum, Atque turres diruunt, Equos regios et mulas Omnes interficiunt; Aurea vexilla mille 430. Trahunt et argentea, Que in Pisa gloriosa Sunt triumphi premia. (') La Moschea. O Quae. J ( (XX.XXII ) LV. Concurrentes, perveneram Ad illud palatium Mille passuum , ut credo, Quod tenebat spatium Quinquaginta cubitorum Murus latitudine; Erat idem quat O tantas Murus altitudine. LVI. Super hunc procere turres Ad nubes altissime, Ubi vix mortales homo Jam possit aspicere, Scale facte circumflexe Faciles contendere, Ubi nullus neque valet. Neque scit ascendere. LV1I. Multitudo Paganorum Hoc tenebant Cassarum, Nam Cassandi sic appellant Hoc tale palatium, Quod Pisani circumfusi Contendunt destruere; Sed lassati jam non audent Hoc tale confundere. LVill. Et jam isti fatigati Pausabant in requie ; Ipse Hex , misellus nimis, Pacem cepit petere; ( cornili ) Donat auri el argenti Infinitum pretium, Ditat populum Pisanum Atque Genunensium. LIX. ■405. Juravit per Deum celi, Suas legens litteras, Jain ammodo christianis Non ponet insidias, Et non tollet tulinenum (*) 470. His utriusque populis , Serviturus in eternum Eis quasi dominus. LX. Terram jurat Sancti Petii Esse sine dubio, •475. Et ab eo tenet eam Jam absque colludio ; Unde semper mittet Romam Tributa et premia ; Auri puri et argenti 480. Nunc mandat insignia. LXI. Et cum starent ad videnda Donorum potentiam, Ecce gentes arrabites Intrarunt Sibiliam (3) ; 485. Leves multum supra modum, Cum discurrunt pecudes Euro vento leviores, Cum bellantur equites. (’) Teloneum. P) Ad videndam. (3) Zavila, borgo discosto da Mclulia un trar d’arco, sulla spiaggia (Amari, Diplomi ecc., p. xix). T ( CCXXXIV ) LXIF. Docii retro et stuti ({) Fugendo respicere, Valent melius in fuga Hostes interficere. Leviores super omnes gentes In giro volubiles, 495. Macris equis insidentes Corporibus ductiles. LXHI. Et istorum tam valentium Jam centena milia Urbs relicta a Pisanis 500. Tenebant Subilia ; Ripa maris insistentes Et implentes litora ; Tbat (2) reliquos Pisanos Servantes navilia. LXIV. 505. Quod cum audiant qui stabant In Madia nobiles, Plusquam leopardi currunt Ordinati mobiles ; Ipse rex Timinus spectat 510. Altis edificiis, Letaturus utriusque Populi periculis. LXV. Sed nec armis, nec virtute Confiderunt Arabes ; 515. Fuga nimium veloces Fugientes agiles; (’) Stulti. (*) Tenebat? ( ccxxxv ) Nain quicumque remanserunt Depugnantes manibus, Pisanorum figit telum 520. Et detruncat gladiis W. LXVI. Sic Madia superata, Recepta Sibilia, Jam Pisani gloriosi Intrarunt navilia ; 525. Destruxerunt pretiosa Passim edificia, Cuncta simul reportantes Cum parvis eximia. LXV1I. Captivorum persolverunt 530. Plus ad centum milia, Quos recepit Romania Jam ex longo misera; Saracenos et captivos Ducunt sine numero; 535. Qui est totum tuum donum, Jhesu, sine dubio. LXVIII. Ecce iterum Ebrei Egyplum expoliant, Et confuso Pharaone 540. Item conjubilant; Transeunt in mari magno Ut terra siccissima ; Moyses educit aquas De petra durissima. 0) Meglio certamente : Et detruncat gladius. ( CCXXXVI ) LXIX. 545. Nani ut veniunt ad Curras, Quasdam maris insulas . Ubi nullas vidit f1) aquas Ad potandum limpidas, Fit hoc, visu et audito 550. Nimis admirabile, Terra parum circumfossa, Potant aquam largiter. LXX. Sunt reversi gloriosi, Virtute mirabili; 555. Et quo durat iste mundus Honore laudabili ; Sancio Christo consecrarunt Perpuleram ecclesiam ; Et per orbem universum 560. Sanctis mandant premia. LXXI. Sed tibi, Regina celi, Stella maris inclita, Donant cuncta pretiosa Et cuncta eximia; 565. Unde tua in eternum Splendebit ecclesia ** • • Auro, gemmis et margaritis, Et palliis splendida. LXXII. Clericis qui remanserunt 570. Perpetuo servitio Vident ? Si emendi : X'isto. ( CCXXXVII ) Donaverunt partes duas Communi consilio ; Sic volebas tu, Regina, Sic rogasti filium, 575. Cujus illis prebuisti In cunctis auxilium. LXXUI. Sit laus tibi, trine Deus, Unus et altissime, Super omnes gloriose, 580. In cunctis fortissime; Qui timeret et amaret Debet super omnia, Cujus manet sine fine Sempiterna gloria. Amen. Anni Domini millesimo ocluagesimo octavo. C) Qui timere et amara ( CCXXXVIIl ) ALLEGATO IL pag. GLVi. I. 'zinne scolpita su pietra di Promontorio, in caratteri tedeschi dorati, affìssa presso •muco ingresso del monastero di san Silvestro (*). « * nurrriii; <&uisqs aò Ijac eòej ùflertes Imja lertor Œîrbis pastorem pileum saluere inbeto. pontifici rlari^ titulis et stirpe marina, iìlorib; insignem multa pietate serenu?. () La lapide è ornata all'intorno da un intreccio di fogliami, ed ha al vertice il simbolo dell Agnùs Dei, sovrastante a due scudi paralleli; l’uno de’ quali (a 1—tra) raffigura le mistiche chiavi, ed è cimato da una mitra con bande svolaz-Zantl ’ * y*lro sinistra) rappresenta lo stemma De Marini, ed è cimato da una croce pastorale. (-) Lumina lector. ( CCXXXIX ) II. A lira dettala dal socio prof. Giuseppe Scaniglia, murata sotto la precederne (*'■ QUI SPIANATE LE TORRI DEL CASTELLO sorgeva il palazzo archiepiscopale ARSO DALLA FAZIONE GHIBELLINA NEL MCCCXfilV. X ANNI DOPO RIFATTO A SPESE DEL VENERANDO PRELATO PILEO DE MARINI POI CONVERTITO NEL MCCCCXLIX IN MONASTERO CHE DAL TITOLO DELLA CHIESA CONTIGUA E DALLA PATRIA DI UNA DELLE FONDATRICI FU DETTO DI S. SILVESTRO DI PISA LA PIETRA SOVRAPPOSTA MONUMENTO ALLA PIA LIBERALITÀ DELL'ARCIVESCOVO GENOVESE VOLLERO I PP. DEL COMUNE CESSATO IL CONSORZIO MONASTICO CHE Sl TRASMUTASSE NELLA PARTE ESTERIORE DELL’ EDIFICIO ASSEGNATO AD USI CIVILI L'ANNO MDCCCLXV. (’) Ripeto dalla squisita gentilezza dello stesso prof. Scaniglia, acuì ne ha fatta preghiera, la lettera seguente, assai onorevole così pel nostro collega come per l’intero Instituto. Genova, il 19 agosto 1865. Per compiere un dovere di riconoscenza, deggio rendere alla S. V. Onorevolissima, anche a nome del Municipio cui ho l’onore di rappresentare, le più distinte azioni di grazia per le iscrizioni che con tanto senno compilava ad illustrazione del prezioso monumento dedicato il 1404 all’esimio prelato Pileo De Marini, e per ricordare il ristoro ordinato dalla Città il 1865 delle pregevolissime epigrafi esistenti sotto l’arco dell’antica porla di sant’Andrea. Mentre mi compiaccio seco Lei di così apprezzabile lavoro, nutro fidùcia che il divisamente adottato dalla benemerita Società Ligure di Storia Patria, di rammentare ai cittadini, con apposite lapidi, i sommi uomini e i fatti gloriosi che onorarono questo Comune, non mancherà certamente di produrre ottimi risultati nell’ interesse della nostra Storia. Ho intanto il pregio di raffermarmi con distinta stima Il Sindaco — GROPALLC AL CIIIA H1 SS. SIGNORE Abate c Prof. GIUSEPPE SCANIGLIA Bibliotecario Civico — Genova. 4 ( CCXL ) ALLEGATO >■ Catalogo di carte ed atlanti nautici di Autt'r' PO- ( ^frnov +*** i N.° ----- ----- AUTORE « "- u’okdine DESCRIZIONE 1 Secolo xiit, o principii del xiv. Piccolo atlante, composto di otto tavole membranacee, ripiegate a libro Anonimo, forse vene* ziano. fieno ro la 2 » Carta rappresentante lutto il Mediterraneo, e parte dell’Europa, Asia ed Africa; della lunghezza di cent. 86 /2 per 62 ’/*. Prete Giovanni, rettore della chiesa di san Marco del Porto, in Genova. Firec Ge I 3 Anno 1506 (?). Mappamondo di........ Detto. • • 4 Anno 1518. Atlante in 10 carte, di..... Pietro Visconte di Genova. Vienr 1 5 » Altro in 8 carte, di...... Detto. > ene; 6 Anno -1527. Carta della lunghezza di m. 0. 93 per 0. 57. Pen ino Visconte (forse identico col precedente, 0 forse anche figlio dello stesso). Firen 7 Anno 1551. Atlante di gran foglio, in otto carte doppie, conosciuto sotto il nome di 1 ortolano Mediceo. Anonimo genovese. Ivi, 1 8-10 Secolo xv. Tre carte del Mar Nero e del Medi-terraneo. Francesco Beccario, genovese. tondi 11 Anno 1456 (circa) Carta costrutta in Genova..... Benincasa Grazioso, di Ancona. '’iren; ! IATO l Aut«ri ***** vene- rctiore di fa'1 LUOGO DOVE Al PRESENTE SI TROVA Genova, presso il socio cav. Tammar Luxo-ro; e, per fac-similé fotografico, presso la Società Ligure di Storia Patria. Firenze, nel Re^io Archivio di Stato; ed in Genova, per fac-simile fotografico, presso rto,i>lH la Società. Gcn^a-HVienna, nella Biblioteca Imperiale : (forse prece-> anche esso) ese. |Venezia, nel Museo Correr. Firenze, nella Biblioteca Laurenziana Ivi, nella Palatina rcario, oso, Londra, nel Museo Britannico Firenze, nel R. Archivio di Stato ( ccxm ) fjg. CLXVlll. ò'novcsi, ovvero fatti od esistenti in Genova. ANNOTAZIONI V. Atti, voi. ni, p. civ-vii. Id. voi. iv, p. eux. Id. p. CLV1I1. V. Jo.mard, Les monuments de la Geograpliie, etc.; ove è riprodotto per fac-simile al numero provvisorio 57-38. La leggenda è: Petrus Vfssconle d’ianua fecit istas labtilas anno dni mcccxviii. La leggenda è : Perrinus Vessconte ferit istam cartam anno dm M cccxxvn in Veneciis. V. Baldelli-Boni, Stor. del Milione, p. 153-72; e D’ Avezac , Notices des découvertes dans l’Océan Atlantique, p. 5V2. L’ ultima carta, rappresentante il Mar Nero, fu pubblicata dal Serristori. V. D’Avezac, Note sur un Atlas hydrographique etc.; Paris, Martinet, 1850. V. Atti, vol. ni, p. cix. 11 De Luca. (Carte nautiche del medio evo, ecc.) l’attribuisce erroneamente al 1400. 16' ( CCXLII ) N.e d’ordin epoca 12 Anno 1436. 13 Anno 1447. 14 Anno 1485. lo Anno 1488. 16 Fine del sec. xv (?) ìt) Anno 1501. 15) Anno 1505. © Anno 1512. w Anno 1513. •-y Anno 1519. s') In' Anno 1522. (3f> Anno 1525. # Prima del 1526 (?) e) Anno 1527. DESCIÏ IZION E Carta, di Carta, con agli angoli due stemmi, che rappresentano l'uno la croce di Genova, e l’altro una sbarra a scacchi bianchi e rossi in campo bianco. È incollata su cinque tavolette bislunghe, che si ripiegano 1’ una sull’ altra. Carta di.......... Mappamondo, costrutto in Londra, e presentato al re Enrico VII da . . • Carta, collo stemma Usodimare . . ■ Carle di.......... Carte di ......... Carta fatta in Napoli da . . . • Carta di.......... Atlante in sette carte, costrutto in Genova. Portolano del......... Carta di.......... Carta della lunghezza di cent. 77 per 63 V, Carta di.......... a u t o n E • • ■ Beccario (forse il predetto Francesco) di Genova. Anonimo. Bartolomeo Pareto, genovese. Bartolomeo Colombo. Anonimo. Cristoforo Colombo. Bartolomeo Colombo- Visconte Maggiolo, di Genova. Baptista Jannerisi s (cioè I II j Battista Agnese). Detto Suddetto l J Visconte e Giovanni I p Maggiolo. Giovanni Costo, geno- IJL vese. Battista Agnese. ( CCXLI1I ) )rse il esco) o,ge- ibo. bo. mbo. lo, di is (cioè | 0- ovanni •reno- o LUOGO toVE AL PRESENTE SI TROVA Parma, nella Biblioteca Nazionale Firenze, nella Palatina Parigi, nella Collezione Geografica della Biblioteca Imperiale. Ventimislia Ligure O D Parma, nella Biblioteca Nazionale .... Pariai. Monaco di Baviera, nella Biblioteca Reale . Milano, nella Biblioteca Ambrosiana . . . Parma, nella Biblioteca Nazionale . . . Genova, presso la Società Ligure di Storia Patria. Londra, nel Museo Britannico..... ANNOTAZIONI V. Alti, voi. in, p. ex; Odorici, Memorie storiche della Nazionale Biblioteca di Parma (nel voi. ni degli Atti e Memorie delle RR. Deputazioni di Storia Patria per le Provincie Modenesi e Parmensi, p. 440). V. Lelewel, Géographie du moyen age, vol. li; il quale la riproduce nel suo Atlante, ridotta ad un quinto del vero. V. Atti, vol. IV, p. CLIX. Nel secolo XYI erano a mani del veneto cosmografo Zorzi. V. Atti, voi. in, p. ex. La leggenda della Carrai questa : \lesconte' de ìlajolo composuit hanc cartam in Neapohj de anno dhi 1312, die x marey. V. Lelewel, op. cit V. Alti, voi. iv, p. CLX Id. voi. in, p. cxi. Id. voi. iv, p. CLXI. ld. p. CLX III. Ivi. ( CCXL1Y ) N.° d’ordine EPOCA DESCRIZIONE A'U TORE 26 Anno 1527. Fernando Colombo (?). 27 28 29 Prima del 1528. Anno 1535. » Carta dell’ isola di Corsica, donata all’ Ufficio di san delineata e Giorgio da Agostino Giustiniani. Visconte Maggiolo. Detto. 30 51-54 55 Anno 1556. Anni 1556 in 1550. Anno 1515. Quattro carte di........ Atlante, in 14 carte, fatto in Venezia . Battista Agnese. Detto. Detto 56 Anno 15 . . Atlante, in carte 15 • - . . • • Detto. 37 58 Anno 1545. Anno 1547. Atlante in carte 16 . ■ • Carta di...... • • • • Detto. Visconte Maggiolo. 59 Anno 1551. Giacomo Maggiolo q. Visconte. 40 41 42 Anno 1555. Anno 1555. Anno 1554. Atlante in carte 52, di . Id. in carte 56, di . . . • • Battista Agnese. Battista Agnese. Detto. ( CCXLV ) LUOGO DOVE AL PRESENTE SI TROVA Weimar, nella Biblioteca. q> Torino, negli Archivi Generali del Regno . Toledo di Spagna, nella Biblioteca della Cattedrale. Londra, nel Museo Britannico. Vienna, Monaco, Gota, Uresda . . . . Ivi, nella Laurenziana....... Firenze, nella Magliabecchiana . . Venezia, nella Marciana. Parigi, nel Deposito delle Carte . . Monaco di Baviera, nella R. Biblioteca Venezia, presso il Conte Dona. Ivi, nella Marciana. Ivi , nella stessa Biblioteca. AN NOTAZIONI Questa carta, che viene dal Kolil attribuita a Fernando Colombo (V. Le due più auliche carte d'America, eseguite negli anni 1327 e 1529, Weimar, I8(i0), fu pubblicata dal Sanlarem nel suo Allant composé de mappemondes et caries hydrographiques etc. ; Paris, 1842-53. V. Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, voi. il, p. -404. V. Atti, voi. iv, p. clxi. V. Atti, voi. iv, p. clxi. V. Koiil, op. cit. La leggenda di questa carta, favorita alla Società dal eh. Bibliotecario cav. Ferrucci, è: Baptista Agnese januensis fedi Venetijs 4545, die 42 februarij. Veramente il nome dell’autore non è scritto in questo Atlante ; ma non può dubitarsi, per più criteri anche estrinseci, che esso spelli all’ Agnese. Y. Lelewel, op. cit.; ove, per isbaglio, l’autore è chiamalo Visconte di Marola. V. Alti, voi. in, p. ex. V. Alti, voi. iv, p. CLXI. ( CCXLVl ) ■ N.° O’ORDINE EPOCA descrizione AUTOIIE « • -45 Anno 1556. Corografia dell’ Egitto...... Pellegrino Broccardo, ligure. Tori 44 » (circa) Carta marina inviata da Andrea D’Oria a Carlo V.......... .......' 1 • • 45 Anno 1585. Baldassarre Maggiolo. Fire 46 Anno 1586. Detto. Vent 47 Anno 1587. Portolano di......... Visconte Maggiolo. Milai 48 Anno 4589. Carta costrutta in Civitavecchia . • • Giacomo Scolto, di Levanto. Vene 49 Anno 1595. Id. di.....• • • • Detto. Bolof 50 Fine del secolo xvi, o principii del XVII. » Carte marine di.....• • Benedetto Scotto. - • 51 Atlante, in carte 15 ••• • •■ ■ Francesco Gisolfo, che dal cognome si presume genovese. Firer 1 52 Anno 1602. Carta costrutta in Genova da - • Giovanni Costo. • • 55 Anno 1620. Portolani costrutti in Londra da . • Giovanni Damele, creduto genovese. Firer 54 Anno 1622. Carta degli scali del Mediterraneo . • Gio. Francesco Moni. Geno i Di 55 Anno 1659. Carla della lunghezza di cent. 66 per 44, piuttosto posseduta a quest epoca, che costrutta da....... G. B. Cavallini di Livorno. [Geno 56 Anno 1662. Aliante in carte 8, forse la Parte seconda dello Specchio del mare. Francesco Maria Levanto. ! Geno ( CCXLVII ) -"T \ LUOGO DOVE AL HI ESENTE SI TROVA A NNOTAZIONI 1 ardo, t) C JSf-Jt Torino, negli Archivi -Gfìiierali del Regno. V. Canale, Storia del Commercio, ecc., p. -481. i V. Alti, voi. IV, p. CLXIV. giolo. Firenze, nella Palatina. ! Ventimiglia Ligure . . . * Questa carta di recente scoperta dal già lodato cav. Girolamo Rossi, è delineata sovra una pergamena larga cent. 75 per 55. 11 suo titolo, scritto in un angolo, ò: Carla navigatoria di mano di Baldassarre da Maiolo Visconte, fatta nell' anno m ■ D- lxxxvj • -in Genova. ilo. Milano, nell’Ambrosiana .... V. Atti, voi. in, p. cxi. di Le- Venezia, nella Marciana..... V. Atti, vol. IV, p. CLXIV. Bologna, nella Biblioteca dell’Archiginnasio Ivi. 1............... Ivi. fo, che si prese. Firenze, nella Riccardiana. Già posseduta dal comm. Canale (V. Storia del Commercio, ecc., p. 481). lo, ere-e. Firenze, nella Palatina. Moni. Genova, nella Biblioteca del march. Marcello Durazzo fu Giacomo Filippo. Livorno. Genova, presso la Società Ligure . . u * V. Atti, voi. IV, p. CLXV. ia Le- Genova, nella Biblioteca Durazzo. ( CCXIiVII! ) N.° d’ordine EPOCA DESCHIZIONE AUTORE * 57 Anno 16 . . Flambeau de mer, contenant tous les ports et rades de la coste d'Espagne, Catalogne, Provence, Italie, Barberie et de 1‘Archipel. 08 Secolo xviii. Reuceil des ports et rades; codice cartaceo di 109 fogli. I I \ ( CCXLIX ) LUOGO DOVE AL PHESENÏE SI TROVA ANNOTAZIONI * * Torino, nella Biblioteca del Duca di Genova. Si repula genovese, avendo lo stemma Palla-vicino. . • Genova, nella citata Biblioteca Durazzo. ( CCL ) ALLEGATO J. pag. CLXXXVII. Relazione del Sesto Centenario di Dante, celebrato in Firenze nel 1865, fatta alla Società Ligure di Storia Patria, nella adunanza generale del 28 maggio stesso anno dal Presidente barone Pasquale Tola. Onorevoli Colleghi, e Signori La missione assai onorevole di rappresentare questa Società Ligure di Storia Patria nel Sesto Centenario di Dante, che non ha guari si celebrò in Firenze, fu dalla Deputazione cui vi piacque affidarla sollecitamente compiuta. L’ egregio Preside della nostra Sezione Archeologica, ed io stesso che ho 1’ onore di favellarvi (dappoiché per imprevisti accidenti ne mancò il concorso degli altri tre Membri chiamati a comporla) adoperammo ogni solerzia ed affetto, per corrispondere al vostro desiderio ed alla orrevolezza del mandato. Concordi entrambi in un solo volere, pensammo anzi tutto qual luogo dovremmo scegliere, se non fosse già designato dalla Commissione ordinatrice, in quella Festa nazionale e non tardammo a comprendere, che nel-l'associarci per lo stesso oggetto a tanti altri Rappresentanti di Città, di Provincie e di Accademie italiane, la nostra bandiera, sulla quale sta impressa la effigie di Caffaro, annalista primario della gloriosa Repubblica Genovese, dovea trovarsi locata in tal punto, che mostrasse agli occhi dei riguardanti la sua naturalità e provenienza ligure, onde, in mezzo a tante e sì svariale fiso-nomie delle altre italiche consorelle non abdicasse, nè perdesse la propria, sì bene la conservasse integra e genuina, concorrendo in tal guisa a formare quell’ insieme di bello e di vero, che nell’ ordine materiale non solo, ma nel morale eziandio, nasce sempre dall’ armonia del molteplice coll’ unità. Risolvemmo quindi, che nel Corteggio, annunziato nel Programma del Gonfaloniere e dalla Commissione Fiorentina, la nostra bandiera seguisse quella dell’ illustre Municipio Genovese; e tale fu pure la deliberazione degli onorevoli rappresentanti dell’ Accademia Ligustica di Belle Arti. Il qual pensiero e risoluzione, se furono ragionevoli, sortirono eziandio nell’ attuazione il felice effetto già da noi preveduto. Imperocché nel 11 maggio, in cui quel Corteggio ebbe luogo, come prima e principale delle feste annunziate, e nella piazza di Santo Spirito, e nel lungo stradale percorso fino alla piazza di Santa Croce, era bello il vedere, sotto uno splendido cielo, e fra mezzo a cento altre, lutte caratterisliche dei luoghi dond’ erano venute da ogni vicina e remota parte ( CCL1 ) d’Italia, sventolare unite, e quasi intrecciarsi tante liguri bandiere; e procedere antesignana e duce quella del Municipio di Genova, che fu salutata concordemente da italiani e stranieri, e dalla stessa gentile Fiorenza, culla e nutrice delle arti belle, prima in pregio fra quante ve ne contò inalberate 1’ italica famiglia; e poi quella della nostra Università degli studi; e poi le altre dell’Accademia Ligustica, e della nostra Società; e tener dietro ad esse, imitatrici di si bello esempio, la Società Economica di Chiavari, e il Municipio di Savona, e altre rappresentanze ed insegne, delle quali non mi è agevole darvi adesso il novero, e dirvi il nome. Questo, o Signori, quanto al luogo e all’ ordine, con cui procedette nella prima delle Feste Dantesche la vostra Deputazione. Ma delle Feste medesime, se volessi darvi particolare contezza, e dirvi quante e quali esse furono, o che io noi potrei, perchè in tanta fugacità di mostre, di apparati, di accademie, di luminarie e di tripudi, non può 1’ occhio e 1’ udito tener dietro a ogni cosa; o se anche il potessi, forse non vi sofferirebbe la pazienza di udirmi, essendone già corse dapertutto, per gli organi pubblici della stampa, le immagini e le descrizioni. Toccherò non pertanto di alcune parli di tali Feste, che più si affaceano alla natura istorica del nostro Instituto; e lasciate addietro le lunghe vie percorse da Santo Spirito a Santa Croce; e ricordati i busli e le iscrizioni onorarie, che ad ogni tratto raffiguravano, o celebravano uomini e memorie italiane, Cimabue, Giotto, Cavalcami, Arnolfo di Lapo, Brunelleschi, Ghiberti, Bandini, Salvino degli Armati, Michelangelo Buonarroti, Machiavelli e Galileo, il Lasca e il Berni, il Carnesecchi e il Savonarola; e salutala altra volta col pensiero, come già salutai di presenza in alto riverente e pio l’umil casa in cui nacque il Sommo Alighieri, vi condurrò meco alla piazza di Santa Croce, dov’erano tributate all’ altissimo Poeta, le prime, e più solenni onoranze. Ridotta a forma di anfiteatro, nel di cui centro sorgea velala la statua del Cantore divino, quella piazza era chiusa da un postergale, ornato di trentotto bassi rilievi in pittura, i quali rappresentavano i fatli e gli accidenti più notevoli della vita di Dante. Là si vedea, quando egli in età di anni otto fu nel 1274 condotto dal padre suo in casa Porlinari; quando nel 1283 incontrò per via in mezzo a due gentildonne la sua Beatrice, da cui ebbe in ricambio il bel saluto; quando Brunetto Latini nel 1-284 gli donò il suo Tesoro; quando nel 1289 strinse amicizia col giovane Carlo Martello re di Puglia, da cui si fa dire nel Paradiso : Assai m’amasti, ed avesti ben d’onde; Che se fossi giù stato, io ti mostrava Di inio amor più altro che le fronde; ( COMI ) quando rientrava in Firenze, dopo la battaglia di Campaldino ; e quando nell’anno istesso facea parte, cavaliero e so'dato, dell’oste che strinse alla resa il castello di Caprona. Là si vedea, un anno dopo la morte di Beatrice (1291), intento a disegnare sopra una tavoletta nelle sue stanze; nel -1292 co’suoi amici, letterati e poeti, nella sua villa di Camorata; nel 1291 con Oderigi da Gubbio, con Arnolfo e col giovinetto Giotto nello studio di Ci-mabue; nel !29ò eletto e scritto nella Corporazione dell’arte dei Medici e degli Speziali; nel 1299 ambasciatore al Comune di San Geminiano per confermare la taglia guelfa; nel 1300, già Priore della Signoria, discutere nel Consiglio dei Cento; e nel 25 giuguo dello stesso anno, insieme con gli altri Priori, e col Gonfaloniere, andare processionalrnente a san Giovanni. Là pure il vedevi, ambasciadore nel 1501 a papa Bonifazio VII! per dissuaderlo dal mandare a Firenze Carlo di Valois; e un anno dopo, condannato all’esilio dalla sua patria, devastata dai Guelfi, e date alle fiamme le di lui case; nel 1505, col suo amico Giovanni di Virgilio nella Università di Bologna; nel 1506 al Congresso dei Ghibellini nell’Abazia di San Gaudenzio appiè delle Alpi, e poi ospitalo in Lunigiana dai Marchesi Moruello e Francescano Malaspina; e poi ancora inviato da essi Marchesi ambasciatore e paciere al Vescovo di Lucca. Là eziandio raffigurato Dante in Arezzo co’Ghibellini capitanali da Alessandro di Romena (1502); nella Università di Parigi, e nella Cappella di sani’ Elena in Verona, dispulando di teologia e di filosofia (1510, 1520); nel monistero di santa Croce del Corvo, che consegna a frate llario la prima Cantica del suo poema divino (1509); nel monistero di Fonte Avellana (1515, 1514); e ramingo di luogo in luogo, ospitato cortesemente, prima in Lucca da Uguccione della Faggiola (1511), poscia nel castello di Colmollaro da Bosone Raffaelli di Gubbio (1515), e dopo tre anni da Can Grand.; della Scala in Verona, al quale dedica e presenta i primi Canti del Paradiso (1516). Là infine vedeasi Dante protestare in Milano la sua fedeltà all imperatore Arrigo VII re dei Romani (1511); assistere in Roma coi conti Guelfi e coi Co-lonnesi alla di lui incoronazione in san Giovanni di Laterano (1512); osservare da un’altura giù al basso presso il torrente fievole la infelice battaglia di Montecatini (1515); perduta Pisa e Lucca, tornare iu Lunigiana (1516), essere poi accolto in Padova da Giotto, che dipingea la Cappella del taumaturgo sant’Antonio (1517); e di là, fermatosi alquanto presso Gherardo da Camino in Trevigi, e in Udine presso Pagano deila Torre patriarca di Aqui-leia, ambi di parte guelfa, trovare il suo ultimo rifugio nella Corte di Guido Novello da Polenta, grazioso Signore di Ravenna, come lo chiama il Boccaccio, dove nel li settembre dell’anno 1521 rende il faticato spirito al suo ( CCL1II ) Creatore (*). Tante illustri ricordanze ritratte dal pennello e poste sotto 1 occhio di ognuno, e 1’ aspettazione del momento solenne, in cui doveano vedersi, quasi di persona viva, le forme di Colui che n’ era il soggetto, aveano tratto colà immensa onda di popolo, che si accalcava in quel vasto anfiteatro. Gli era confine, onde non varcasse il recinto, un elegante parapetto, dal quale partivano in ordine graduale, elevandosi l’uno sull’altro, i posti riservati al gentil sesso, e ai più distinti spettatori. Era venuto il giorno quasi al suo mezzo, quando, dopo tre ore dalla partenza da Santo Spirito, arrivarono alla piazza di Santa Croce le ultime file del nobile Corteggio. Lo aprivano i rappresentanti della stampa italiana e straniera, e dell’arte drammatica, quindi seguivano le rappresentanze e le deputazioni delle Provincie, dei Comuni e degli Instituti di ogni parte d’Italia; e le due Commissioni pel monumento a Dante, e per le feste del Centenario : Io chiudevano i Municipi di Ravenna e di Firenze, in mezzo ai quali era il conte Serego-Alighieri, discendente per via di femmina dal divino Poeta. Settecento e più bandiere sventolavano in quel Corteggio, le quali, toccandosi, intreC' ciandosì e confondendosi fra loro, simboleggiavano la grande famiglia italica, riunita in quel giorno in un solo desiderio, in un affetto solo; e fra le bandiere ve n’ era pur’ una sollevata in alto, che rimembrava il rozzo saio, e l’umile capestro del gran Patriarca di Ascesi, che fu lutto serafico in ardore. Quando tutte le rappresentanze ebbero preso il loro posto, il suonare delle bande musicali e delle campane della Signoria, e il tuonare del cannone, annunziarono 1’ arrivo del Re d’Italia. Unanime e fragoroso, da mille bocche ripetuto, risuonò il grido : Viva il Re, Viva Vittorio Emanuele. Ad un tratto la statua, egregio lavoro di Enrico Pazzi, fu scoperta; ed un nuovo grido di gioia innalzavasi a Dante Alighieri. I figli e i nepoti aveano riparato agli errori, e alla ingratitudine dei padri e degli avi. L’Italia acclamava il più grande dei suoi grandi uomini, l’autore del terribile poema, cui poser mano e cielo e terra, il creatore della lingua e della letteratura del bel paese, dove il sì suona, e per sublimi e arcani concetti il banditore, o il precursore, se vuoisi, dell’italico risorgimento. Furono Ietti due discorsi, uno del Gonfaloniere di Firenze, e l’altro del professore Giambattista Giuliani ; quindi fu steso e sottoscritto l’atto di consegna del Monumento al Municipio. Il canto di un inno, scritto dal maestro Carlo Romani, accompagnato da orchestra e cori, e la partenza del Re, salutata come 1 arrivo da fragorosi applausi, pose termine a quella Festa nazionale. E fu questa veramente la (') Boccaccio, Vita di Dante. ( CCLIV ) festa caratteristica, destinata a celebrare il Sesto Centenario di Dante, e il Monumento erettogli nella sua patria dalla riconoscenza concorde di tutta Italia. Le corse, le luminarie, le danze popolari, e varie altre mostre e sollazzi, furono apparecchi a tener viva e ad accrescere la letizia di quei giorni. Però non tacerò del Tornèo, con cui si volle rappresentare la pace tra Guelfi e Ghibellini nel 1504; nè della Esposizione Dantesca e di antichità, in cui si vedeano raccolti e ordinati tanti rari monumenti ed oggetti, o relativi al Sommo Poeta, alla vita e alle opere sue, o creati nel medio evo dall’arie italiana per decoro e ornamento di pubblici e di privati edifizi; nò dell’ altra Esposizione della Società Promotrice delle Arti Belle, nelle cui sale, fra mezzo a cento dipinti di valenti pennelli italiani, facea di sè bella mostra quello del vostro giovane concittadino Gabriele Castagnola, rappresentante in un gran quadro ad olio la uccisione proditoria e notturna di Alessandro de’ Medici. Che dirò poi dell’ Accademia letteraria del lo, e della Tornata straordinaria dell’ Accademia della Crusca nel 16 maggio? Versi e poesie di due donne italiane, Francesca Lutti e Laura Mancini ; versi e poesie del Maffei, del Cimino, del Raffaelli e del Regaldi, inni, e canzoni, alternate o disposate alle melodi del Cortesi e del Camucci, si udirono nella prima. Alla seconda preluse con brevi parole 1’ onorando vegliardo Gino Capponi; e quindi Silvestro Centofanti e Atto Vannucci illustrarono e laudarono la vita, e le opere di Dante Alighieri, e di Giovanni Battista Niccolini. E acciò nulla mancasse alla splendidezza di quella Festa, i pubblici e i privati monumenti, Gallerie, Musei, Biblioteche, e quanto raccoglie di più bello e di più raro nel suo seno la culla e gentile Fiorenza, era aperto alla curiosità dei nativi e degli stranieri. Nè vi fecero difetto gli artefici illustri, i quali col loro nome e con nobile gara d’opere onorarono viventi quel dolce toscano nido; e tra gli altri il Fedi era laudato pel suo Ratto di Polissena, e nominato il Duprè per le due statue di Caino e di Abele, e per la sua Pietà, bel gruppo in marmo, raffigurante la desolata Madre dei redenti, che tiene disteso in grembo il corpo esamine del suo Figliuolo divino, e con tale materno e ineffabile dolore nel di lui volto si affisa, che spremendoti dal ciglio le lacrime ti sforza ad esclamare: E se non piangi, di che pianger suoli? Eccovi, Onorevoli Colleghi, quali furono le Feste, cui per voler vostro assistemmo nel Centenario Dantesco. La nostra bandiera, che ora vedete dispiegata in quest’ aula, la di cui insegna fu maestrevolmente e generosamente ritratta dal valente pennello del nostro egregio collega cavaliere e professore Giuseppe Isola, cui perciò dobbiamo, e protesto io qui a nome di tutti indelebile la gratitudine, fu salutata con molte laudi in quelle Feste, sì pel pregio ( CCLV ) artistico del lavoro, che pel grave significato della sua impresa, la quale mostra e prova ad un tempo l’oggetto e il fine dei nostri studi. Inutile stimammo lasciarla là, dove già sorgono tante durevoli memorie di Dante; nel Panteon di Santa Croce, nelle vie, nei Musei, e nello stesso imperituro monumento testé erettogli dall’ Italia riconoscente, superba di tanta sua grandezza. La riportammo con noi, per deporla e custodirla, qual sacro ricordo, nel luogo stesso in cui ferve sempre assidua l’opera dei nostri studi. Qui essa attesterà ai presenti e ai venturi, che noi pure, membri e corpo della Società Ligure di Storia Patria, non fummo secondi a nessuno, e presenti al Centenario Dantesco ONORAMMO L’ ALTISSIMO POETA. ( CCLV1I ) APPENDICE La stampa di questo Rendiconto era giunta proprio al suo termine, quando fra gli atti del cancelliere Angelo Giovanni di Compiano nell’ Archivio di San Giorgio, ci avvenne di scoprire una bella lettera autografa di quello Zaccaria de’ Gu:zolfi onde è cenno nella nota a pag. cxxvn. Ora questa lettera essendo per più ragioni assai importante, e valendo a rassicurarci pienamente riguardo al cognome ed alla patria di Zaccaria, ci è sembrato utile di qui riferirla. (Extra) Magnificis et spectabilibus dominis Protectoribus Comperarum sancti georgii excelsi Comunis Janue. (Intus) +. Magnifici et spectabiles domini etc. Za grande tempo de’ave ire inteizo la Magnificencie vestre de la perdita de lo mio castelo de la Matrega e come eo scampato tutti li mei populi e retirati chi in Campagna in Insula nostra Matrice . e vegando li turchi molto sercare da perseguirne deliberai de vegnire a le Magnificencie vestre per via de Velachia e come foi instrato in quelo locho sono stato derobato da lo segnor Stefano Vaivoda yta et taliter che vegandome cossi nudo no avi deliberacione de seguire lo mio viagio. E sono ritornato chi za agni fa apud li miei populi cum li quali e vivo e fin a chi inseme cum loro o corsiato alquanto questi turchi perchè per la gratia de Dio li diti mei populi sono bene disposti e varenthomi ancora eo re-coverato de li altri populi cossi de la Copa corno de altri sichè me trovo da caze clxxx in circha. E perchè sono alla Campagna sine ullo fortilicio e questi signori gotici continue me mangiano e si è de bezoguo che se ge daga vogiando cum loro bene stare no posando fare altramenti me ano redulo a tale termine che certo me posso pù podio mantegneire in queste parte in le quale stava volentera per amore de la patria e de la republica e a vedeire se Dio ne dava cum el tempo qualche gratia e maxime che grande intendimento semper eo havuto e habio cum lo Imperadore e cum lo signore Emi-nech, perchè aviso le Magnificencie vestre pregandole che vogiano darme al presente subsidio de ducati Mille perchè dagandome questo subsidio me porrò r ( CCLV1I1 ) ancora mantegnire chi per qualche tempo a vedeire se Dio ne voresse dare de la so gratia. Da li miei populi pocho posso et quaxi niente aveire pero-chè me convene far verso loro largese, ancora ge certi nostri latini ali quali me convene dare e cossi ali predicti segnori gotici, perchè o vosuto avisare la Magnificencie vestre de ogni cossa asochè intendano lo grado mio. E vo-giandome provedeire de li sopradicti ducati Mille poreti ordinare de mandarli alo Copa per quarche persona vestra fida che me siano dati. Ancora poreti ordinare che siano dati in Pera a Linbania mia sorella de la quale me fido corno de la anima mia la quale averà bona forma e modo che capiterano in manibus meis. Da latra parte aviso le Magnificencie vestre che per li amba-siadori che venneno alo Imperadore per parte de lo segnor Stefano Vaivoda me fano ogni partito per parte de lo dicto Stefano e de darme uno castelo a Velachia e molte altre provisione. Pur abiando amor ala patria e a la Re-publica voria stare a vedeire se qualche ventura ne adiutass in le quale cosse vogio pregare le Magnificencie vestre ine dagano lo vostro consegio e le lettere faciate capitare in Peira in la predita mia Linbania sorela la quale averà bona forma de darge bono recapito scriveandome per vulgare. Mi me cunvene pigiare partito no posando pù inbochare questi segnori gotici ali quali se no se ge dà restano inimixi, e mi me bizogna a ogni partito averli per amixi. Perchè prego le Magnificencie vestre me vogiano provedeire imperochè mi resto sensa niente e provedandome me poso mante-gnire in quanto no me cumverà pigiare partito e meteme a ogni rixico. E partiandome de chi persochè a questo modo male posso pù stare conduerò tuli li miei populi in Velachia e me cunverà pigiare questo rixico el quale Dio me consegie. No altro sono ali comandi de le Magnificencie vestre. \alele. Ex Campania prope castrum Matrice miliaria L.la xij augusti mcccclxxxij. Jacharias de giexullfis olim dominus matrege cum recomendatione. ERRORI CORREZIONI xi.ix linea 17 : onde che in lui lxxvi » 27 : Vernay Lxxxm » li: nel 1864 c » 2i : Concilio Calcedonico c » 33 : Jenuensi Leggasi onde in lui » Verany » noi 1865 » Concilio Romano » - Senuensi INDICE DELLE MATERIE CONTENUTE IN QUESTO FASCICOLO Elenco degli Ufficiali, che ressero la Società e le Sezioni di essa negli anni accademici 1865 e 1806 . . . I}ag. xxxni. Socii eleili negli anni 1865 e 1866 ......B xli. Necrologia..............................» xlvi. Doni fatti alla Società nesli anni 1865 e 1866 . . » lui. o Rendiconto dei lavori fatti dalla Società negli anni accademici 1865-1866, del Segretario Generale cav. L. T. Belgrano.............» lxxi. Allegati..................................» cxci. Appendice..............................» cclvii. SOTTO 1 TORCHI Volume ii, Parie ii, contenente l’Illustrazione del Registro della Curia Arcivescovile di Genova, del socio cav. L. T. Belgrano. AVVERTENZA 11 presente fascicolo, sebbene terzo in ordine di distribuzione, è destinalo nondimeno a pigliare ii posto del secondo, già pubblicalo, come viene indicato dalla paginazione segnala con numeri romani in continuazione del fascicolo i. La indicazione poi de fogli 3-16, onde questa Dispensa medesima si compone, è contrassegnata ila un piccolo asterisco, sito in alto a destra della cifra. ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME IV. — FASCICOLO IV. GENOVA TIPOGRAFIA DEL It. I. DEI SORDO-MUTI MDCCCLXVII CONSIDERAZIONI SU VARII GIUDIZI DI ALCUNI RECENTI SCRITTORI RIGUARDANTI LA STORIA DI GENOVA PEL SOCIO MARCH. MASSIMILIANO SPINOLA DEL FU MASSIMILIANO PROEMIO Havvi al presente una scuola storica, che, coll’apparenza speciosa di riformare gli ingiusti giudizi di scrittori cortigiani e piaggiatori delle fazioni vincitrici, ha per fine non solo d’investigare le recondite cause degli avvenimenti, ma eziandio tende a riabilitare la fama d’uomini perversi, le cui azioni fin adesso, per consentimento universale, furono riprovate dietro la testimonianza d’ autorevoli storici contemporanei. I promotori ed i segnaci dell1 anzidetta scuola, per raggiungere lo scopo che si prefiggono, studiansi d’annullare la riputazione d’uomini illustri, negandone i fatti gloriosi, o tentando diminuirne il merito coll’attribuirli a riprovevoli passioni. Di tal maniera, se non giungono ad encomiare il dispotismo dei Cesari romani, o dei Monarchi francesi, Luigi XI e Luigi XIV, non dubitano però d’ asseverare , che a questo ( 288 ) dispotismo più o meno illuminato i popoli sieno debitori del benessere e dell’incivilimento a cui sono pervenuti. Gli odierni scrittori italiani, non ostante l’inveterato costume d’imitare servilmente quei d’ oltremonti, finora non sono caduti in simili eccessi, giacché nessuno, a mia cognizione, ha tessuto inai 1’elogio del pontefice Alessandro VI, nò scritta l’apologia del reggimento dei Signorotti italiani, o pure quella della dominazione spagnuola ed austriaca in Italia. Vi sono però taluni che, seguendone gli insegnamenti, si adoperano con idee preconcette a ricostrurre la storia italiana in conformità delle proprie opinioni. A questi ultimi, se male non m’appongo, appartengono varii eloquenti e studiati lavori di recente pubblicati sopra la Storia di Genova dagli egregi signori Michel Giuseppe Canale, Edoardo Bernabù-Brea, Emanuele Celesia e Francesco Domenico Guerrazzi. Dai principii svolti con molto ingegno nei sopraccennati scritti emergerebbe infatti, che la decadenza del Comune di Genova si dovrebbe imputare alla riforma di Governo, operata colle leggi delP {Trame promulgate nell’anno 1528. Ma allorquando si ammettesse la suddetta proposizione, ne conseguirebbe che i nostri maggiori, al pari di noi, sono caduti in un grave errore, reputando essere Genova decaduta dalla sua pristina potenza in seguito alla perdita delle sue Colonie in Oriente, avvenuta dopo la presa di Costantinopoli fatta da Maometto II, ed in ispecie a cagione delle incessanti dissensioni tra i cittadini, le quali ebbero per effetto di sottoporla più volte ad estere nazioni ; e si dovrebbe del pari consentire essere stata erronea eziandio 1’ opinione, fin qui universalmente ammessa, di considerare 1’ espulsione dei francesi e la ricuperata libertà e indipendenza nel 1528 (di che i Genovesi riconobbero sempre con gratitudine Pautore in Andrea D’Oria), come la cagione del ristabilimento e della successiva prosperità della Repubblica. Non v’ha dubbio, che se quanto, è asserito dai recenti re- ( 289 ) siluratori delle memorie di Genova fosse provalo da documenti irrecusabili, si dovrebbe inferirne che lino al presente i genovesi ignorarono la propria Storia. Cotal conclusione, io lo confesso, mi ripugnava; quindi colla maggiore diligenza ed imparzialità, di cui son capace, ho esaminato e discusso gli argomenti addotti dai prelodati scrittori, a line di poter con esatta cognizione stabilire se i fatti da loro esposti, e dai quali traevano le suddette conclusioni, si dovessero ritenere dimostrati, o pure fossero da rigettarsi come infondati. Nelle Considerazioni lette per me in varie adunanze della Società Ligure di Storia Patria dal mio dotto amico Luigi Tommaso Belgrano, io ho quindi esposto il risultato de’miei accurati e coscienziosi studi sopra questo interessante soggetto; e la benevolenza con cui venne accolta la lettura di questo mio lavoro, m’indusse poi, innanzi di pubblicarlo in questi Atti, a farvi le correzioni indicatemi da alcuni egregii colleghi. Io sarei lieto del resto, se potessi contribuire a conservare all’ Italia una delle più splendide sue glorie, dimostrando ingiusta la tentata demolizione della fama d’ uomini, che -fin adesso furono meritamente considerati fra le maggiori illustrazioni della Nazione. E a desiderare il conseguimento di questo scopo son mosso dalla considerazione, che, qualora 1’ Italia fosse sfrondata di così nobili serti, invano si tenterebbe compensarla del danno, cercando di rimettere in onore uomini rimasti negletti per l’ingiustizia dei contemporanei, o per l’adulazione degli storici verso i Principi. Col presente scritto non so se avrò raggiunto il mio intento; ad ogni modo mi compiaccio di poter affermare il mio intimo convincimento, che cioè, quando anche non fossi riuscito nello scopo propostomi, ciò non sarebbe un valido argomento per inferirne la verità dell’opinione da me combattuta, mentre 1 infelice risultalo del mio lavoro dovrebbe imputarsi unicamente alla pochezza del mio ingegno. ( 290 ) Prima di terminare il presente Proemio mi reputo in dovere di dichiarare, che se nell’ apprezzamento di non pochi avvenimenti storici mi oppongo all’opinione espressa dai chiarissimi precitati Scrittori, la divergenza di sentimento non scema in me l’amicizia e la stima che loro professo. Colgo altresi quest’ occasione per ringraziare il signor Belgrano, il quale, conoscendo il mio lavoro, si studiò di non annullarlo, ma ampliarlo e completarlo invece nell’acuta ed erudita sua Rivista Della Vita di Andrea Boria di F. D. Guerrazzi e di altri recenti scritti intorno quel grande Ammiraglio ('). (1; V. Archivio Storico Italiano, Serie ni, voi. ìv, par. i. Le vere cause, che hanno prodotto la maggior parte degli avvenimenti riferiti nella Storia genovese, al pari di quelle delle altre nazioni d’Europa, sono rimaste sconosciute, o furono male apprezzate dagli scrittori contemporanei e posteriori. Per ciò, oramai da quasi tutti gli eruditi viene ammesso essere necessario, che la Storia debba oggi rifarsi con metodo e spirito più filosofico. A conseguire tale scopo, essi convengono non v’abbia altro mezzo più sicuro, che quello d’investigare con accuratezza e con savia critica le notizie tramandateci dagli annalisti e dagli storici anteriori, e disami-' nare attentamente i documenti inediti, dai quali si possono trarre dirette od indirette dilucidazioni."'Operando in tal guisa si perverrà a déterminare con maggiore certezza la veracità dei fatti, a rettamente giudicare delle cause da cui trassero origine, e degli effetti che ne derivarono. In Francia, in Inghilterra ed in Germania cotesto studio per verificare i contestati e poco noti avvenimenti, svelandone le occulte cagioni, può dirsi quasi compiuto, e già impreso ( 292 ) in Italia. La manifesta utilità ili simili indagini moveva appunto egregi scrittori ad estenderle alla Storia della Repubblica di Genova. Avvenne però che mercè i loro eruditi e per certo coscienziosi studi, deviati da idee sistematiche e preconcette, eglino si credessero in diritto di contraddire a molti giudizi ed a talune narrazioni, lino al giorno d’ oggi accettate e ritenute vere sull’ autorità degli sforici contemporanei più «degni di fede. Io pare ammetto che nelle narrazioni storiche degli antichi scrittori genovesi si noti una grande povertà, onde i fatti si riconoscono derivati, e che per conseguenza siamo tuttora mancanti d’una Storia nella quale, oltre ad una sincera ed eloquente esposizione degli avvenimenti prosperi od infelici, sia aggiunto ad ogni epoca un esatto ragguaglio sopra la condizione politica, civile ed economica della Repubblica ('). Ho fiducia nondimeno, che qualcuno dei numerosi cultori delle memorie patrie vorrà assumersi 1’arduo incarico di riempiere questa lacuna; e frattanto stimo opportuno di presentare alcune osservazioni tendenti a confutare varie censure opposte agli annalisti e storici nostri dai suddetti recenti scrittori, ed in ispecie dal chiarissimo Celesia. Dico innanzi tutto ingiusta l'accusa fatta agli annalisti ed agli storici genovesi dei secoli XVI e XVII d’ essere stati cortigiani, prezzolati e piaggiatori della fazione aristocratica vincitrice. A respingere la quale censura sono mosso dalla considerazione, che i difetti lamentati in quegli scrittori debbansi attribuire ad altre cause, che a quelle assegnate dai recenti restauratori della Storia di Genova. E queste io son d’avviso che sieno: \ .° la difficoltà quasi insuperabile di adunare nume- • (’) Un eguale giudicio sopra le diversa storie genovesi pronunciava J’eruditissimo abate Gaspare Oderico, nelle sue Lettere ligustiche pubblicate nell’anno 1792. lo estendo lo stesso giudicio sopra quelle, clic furono pubblicate posteriormente, ed ho fiducia che cotal sentenza verrà confermata da coloro, che conoscono i pregi ed i difetti dei suddetti Ijivorj. ( 293 ) rose c circostanziate notizie in un’ epoca, in cui, per la totale deficienza di guarentigie che mantenessero la sicurezza personale, i manoscritti si tenevano gelosamente nascosti dai loro possessori ; 2.° la totale mancanza di pubbliche Biblioteche in Genova, mentre i libri stampati erano rari, né potevansi acquistare se non ad altissimi prezzi; 3.° la segretezza, colla quale il Governo Genovese, al pari di tutti i Governi d1 Europa, custodiva gli Archivi della Repubblica, a segno che non solo non ha giammai conceduto ai privati cittadini di giovarsene, ma nemmeno li schiuse ai propri storiografi ; 4,° finalmente 1’ ostacolo, assai malagevole a superare, della censura preventiva cosi dello Stato come della Chiesa; ciò che vietava a quegli scrittori d'' apprezzare liberamente le azioni, di che più o meno eloquentemente trasmettevano il ricordo ai posteri. Le sopraccitate cause mi sembrano sufficienti a spiegare, ed in gran parte a scusare, le lacune che si rinvengono negli annalisti e negli storici genovesi. Per la qual cosa, quando si tenga il debito conto dei gravi impedimenti dovuti superare da Giustiniani, Foglietta, Bonfadio, Casoni, ed altri meno rinomati ('), è agevole convincersi che essi, in luogo di biasimo, sono meritevoli di lode, se non per una intera impar- (f) 1 numerosi ostacoli ed i gravi pericoli', nei quali incorrono coloro che imprendono a dettare ed a pubblicare dei lavori sotto Governi non retti da libere istituzioni, e dove non sia ammessa la libera stampa, furono e sono a tutti cognitissimi. Andrea Spinola, scrivendo nell’anno 1625-1626 il tuttora inedito suo Dizionario filosofìco-politico (esemplare prezioso esistente nella Libreria degli eredi del marchese Antonio Brignole-Sale ), all’articolo Tiranni, così esprimevasi: « Sotto ai Tiranni era pericolosissimo far menzione degli uomini illustri, i quali avessero spento tirannidi, e liberata la patria, come per esempio di Armodio , di Aristogitone , dì Bruto e di Cassio , e dì altri simili eroi. Di maniera che se la nostra città, che Dio ce ne guardi in perpetuo, cadesse sotto un tiranno, il far menzione del suddetto gloriosissimo cittadino Andrea Doria liberator della patria non si farebbe senza manifesto pericolo. Ed a proposito di quello diciamo, sì sappia che sotto i ( m ) zialità, almeno per la diligenza usata nel raccogliere i falli e dignitosamente narrarli ; e ciò debbe intendersi specialmente degli ultimi, giacché la veracità del Giustiniani da veruno fu contestala. Ora i tempi sono mutati, e per conseguenza più non esistono i numerosi e forti ostacoli che ai nostri antenati non concedevano di procacciarsi libri e documenti, e d’aver cognizione delle relazioni officiali esistenti negli Archivi del Governo; quindi è resa meno scabrosa la fatica di comporre con erudizione ed intendimento filosofico la Storia d’Italia: lavoro, il quale è finora un desiderio, perciocché non potrà essere eseguito sino a che coscienziose e larghe monografie sopra i singoli Comuni non verranno compiute. Padroni assoluti, quando si ragiona dei congiurati antichi, per quanto sicno stati buoni ed amici della libertà e dell’ indipendenza del loro paese, ed anzi perchè sono stati tali, è necessario chiamarli ambiziosi e ribelli ». Nessuno scrittore che rispetti se stesso potrebbe indursi a scrivere storie nel modo che viene indicato con tanta perspicacia dallo Spinola, come indispensabile a farsi sotto i Governi assoluti. 11 sig. Emanuele Celesia, che nel Proemio alla Congiura del Conte Gianluigi Fiesclii fu così severo verso il Bonfadio, il Campanaceo, il Foglietta ed il Sigonio, a pagina 16 dello stesso Prne mio, accennandole cagioni che lo soprattennero dal pubblicare il lavoro stoiico da lui scritto parecchi anni addietro, scrive: « Non volgeano certo propizi alle storiche discipline quei tempi, nè oggidì volgono tali ». Ed a pag. Se il terrore incatenava le menti, se i grandi nomi non poteano discutersi, o„ gidì, estranei alle febbrili concitazioni di chi ci precesse, ci è lecito dispensa liberamente la lode ed il biasimo sopra uomini ed avvenimenti, da cui tre se col' ci hanno dipartito ». Laonde il chiarissimo Celesia fece benissimo a differir la pubblicazione del suo libro, imperciocché non poteva suppone clic da censura preventiva d’un Governo assoluto gli sarebbe stato permesso o lolle d’enunciare le sue profonde aspirazioni verso un reggimento democratico, s bene queste fossero coperte d’un velo, dall’egregio scrittoi e adoperato c tento di scemare la riputazione del rivendicatore della libertà e dth ind’P denza della Repubblica di Genova, mentre che cercava di conti appoi re al D il Conte di Lavagna, asseverando che la fama vilipesa di GianluiDi dipe ' soltanto dalla storia classica, cortigiana, prezzolata, che invalse dai p Carlo V e Andrea D’Oria raffermavano in Italia la signoria forestiera. ( 295 ) II. Nella Storia di Genova non pochi sono gli avvenimenti i quali non sieno confermali da autentici documenti, e che quindi potrebbero essere rettificati o maggiormente rischiarati; taluni si potrebbero anche porre in dubbio , non essendo ricordati da alcuna autorevole .testimonianza d1 autori contemporanei, ovvero da atti autentici. Tralasciando d’esaminare e di discutere sopra fatti concernenti le epoche più antiche, io mi restringerò da prima a ribattere brevemente Terrore in cui, se male non m’appongo, cadde il chiarissimo Canale (') nell’apprezzamento di quell’epoca da lui denominata dei Dogi popolari, cioè quel lungo periodo di tempo trascorso dall’ anno 1339 fin all’anno 1528, durante il quale il dominio di Genova fu di continuo alternato tra i Dogi di fazione popolare e la signoria di Principi stranieri ; e poscia mi farò a sottoporre ad un’accurata investigazione il severo, parziale ed ingiusto sindacato sopra le azioni e le intenzioni segrete e palesi del principe Andrea D’Oria, istituito dai signori Bernabò-Brea (2), Celesia (3) e Guerrazzi (4). Ogniqualvolta s’ammettessero le conclusioni dei soprannominati scrittori, non si dovrebbe più ritenere Andrea D’Oria per un cittadino benemerito della patria, ma piuttosto per un ambizioso il quale aspirava ad usurpare la sovranità di Genova , (') Canale, Nuova Storia della Repubblica di Genova; Firenze; 1858 in 1864. Volumi IV. (’) Bernabò-Brea , Prefazione ai Documenti inediti sulla Congivra del Conte Gio. Luigi Fieschi ; Genova, 1863. (5) Celesia, La Congiura del Conte G. L. Fieschi; Genova, 1865. (4) Glerrazzi, Vita di Andrea Doria; Volumi n, Milano, 1863. ( 296 ) od almeno ad agevolare a sé stesso, o pure alla sua famiglia, il mezzo di farsene signori; e, volendo raggiungere questo scopo, ne discacciava i francesi, rendendola in apparenza indipendente, ma di fatto mancipia alla Spagna; promulgava nuove leggi colle quali, sotto lo specioso nome d’ Unione, aboliva ^ordinamento popolare, e sostituiva un reggimento aristocratico ed oligarchico. Ma cotesta sentenza non può essere accettata, se prima non si è sicuri che, nel dettarla , i sindacatori del D’ Oria abbiano profondamente ed imparzialmente esaminato e discusso i fatti e le cause, che hanno indotto il celebre Ammiraglio ad operare. Io volli imprendere questa ricerca, ed agevolmente rimasi convinto come tale giudizio, che diminuisce e distrugge la fama di Andrea, fosse dettalo con somma leggerezza; e m’affido che in tale sentimento converranno meco coloro, che vorranno conoscere il risultato delle mie indagini sopra quel soggetto di cotanto rilievo per la Storia della nostra Repubblica. III. I fatti succeduti in Genova dall’anno 1339 lino all’anno 1528 sono talmente conosciuti, che puossi ommettere di dare una circostanziata relazione su questo importante periodo. Mi fermerò quindi brevemente a provare, che il rivolgimento che dette luogo all’ istituzione dei Dogi a vita non fu causato da maggiore svolgimento di potenza nel popolo, come è d’ opinione lo storico Canale ('), che scrive : « Ora al rappresentato non bastavano quei capi -fi Capitani .del popoloj, e volea da per sé reggere le cose proprie; cosicché il rivolgimento che pose alla (') Canale, Xuova Storia della Repubblica di Genova; voi. iv, pug. )• ( 297 ) testa della Repubblica il primo Doge si può ben dire che fosse un concetto popolare da molto tempo meditato , e per successivi gradi portato a compimento ». Questo giudizio non mi sembra conforme alla verità storica, ma dettato piuttosto da un sentimento d’esagerata avversione ad ogni sorta di Governo più o meno tendente all’aristocrazia ed alla prevalenza degli ottimati. Imperocché egli, pronunciando cotal sentenza, non considerò abbastanza quanto le idee ed i costumi di quei tempi differissero dai nostri, e perciò confuse le moderne teorie di democrazia coll’oclocrazia. A tal cagione si deve ascrivere, se male non m’ appongo , l’avere egli ritenuto per governi popolari i reggimenti anarchici della fazione guelfa, come fu quello in Firenze denominato dei Ciompi, e quello che resse Genova durante il Dogato del tintore Paolo da Novi. All’erudito storico ed a coloro i quali concordano nella sentenza da lui svolta, per certo non è ignota l’enorme diversità che passa tra il Governo in allora chiamato popolare, e quasi sempre fondato sui capricci d’una sfrenata ed ignorante moltitudine , ed un Governo democratico basato sui principii d’eguaglianza civile e politica, oggidi ammessi da quanti si rifiutano ad adottare le dottrine insegnate dagli statisti retrivi : principii, che il celebre Stuart Mill (') con molto senno chiamò « vera democrazia ». A Si-mone Boccanegra fu agevole conseguire 1’ oggetto della sua ambizione, tirare a sé tutta l’autorità, porsi a capo dei varii maggiorenti del popolo grasso; giacché questi traendo profitto dal malcontento destato nei cittadini pel mero e misto imperio esercitati dai Capitani del popolo, presa 1’ occasione dell’ elezione dell’ Abate, fecero acclamare, dalla moltitudine congregata, il Boccanegra doge a vita. Ma la forma di Go- (’) Stuart Mill, Gouvernement représentatif, cap. vii: Della vera e della falsa democrazìa; traduzone francese del signor Dupont Witlic, Parigi, IS62. ( 2118 ) verno che stabili il Dogato perpetuo non fu effettuata da un moto popolare, che tendesse a fondare delle libere istituzioni; e per l’opposto deve ritenersi non essere stata che un semplice cambiamento di Signore, fatto dalla popolazione in odio dei Capitani e delle famiglie nobili consolari. A provare che 1’ acquisto della signoria di Genova fosse l’unico scopo voluto conseguire dal Boccanegra, mi basti rammentare eh’ egli ricusava d’essere eletto Abate, considerando tale ufficio inferiore alla sua condizione, ed invece accettava quello di Doge; col qual mezzo appunto acquistava il mero e misto imperio della sua patria, e la facoltà di stabilire un Doge a vita, escludendo dalla dignità dogale i nobili, i quali, come altresì i mercatanti e gli arte^ci di fazione guelfa, non potevano far parte dei pubblici magistrati. Goffredo Lomellini, rispetto a tale disposizione di legge contro i cittadini appartenenti alla fazione guelfa, osserva che questo provvedimento venne preso « perchè la Nobiltà, tranne le famiglie D’Oria e Spinola e poche altre, seguiva la setta guelfa, mentre che tutti i mercatanti e gli artigiani erano ghibellini (') ». Il difettoso reggimento stabilito nel 1339 fu poi cagione di gravissimi mali alla Repubblica. Infatti la disuguaglianza stabilita nei diritti politici tra i cittadini creduti d’opposto partito, e l’ingiusta esclusione delle famiglie nobili dalla suprema dignità del Dogato e dagli altri pubblici Magistrati, quasi che non appartenessero a tutti indistintamente i cittadini genovesi, ebbero per immediata conseguenza la formazione di nuove sette ed il rinnovamento di disastrose guerre civili. Si deve altresì attribuire all’ ingiusta e difettosa costituzione stabilita da Simone Boccanegra, se i nobili ed i cittadini guelfi, (') Lomellini, Breve ragguaglio delle rivoluzioni di Governo accadute nella città di Genova, MS., che trovasi nelle pubbliche Biblioteche di Genova , non che in molte private. ( 29!) ) profughi o privali dei diritti politici, combatterono gagliardamente il nuovo Governo. Da queste lotie provenne che i nobili ed in genere i cittadini di fazione guelfa riacquistarono il diritto di partecipare alle magistrature della Città, e quantunque i nobili non raggiungessero l’intento di ristabilire i Capitani, né potessero ottenere che fosse annullato l’iniquo decreto, che vietava loro di conseguire il Dogato, acquistarono però il diritto, mediante apposite leggi, di formar parte, ora per un terzo ed ora per metà, dei diversi Magistrati della Repubblica. E qui siami permesso dire, che se l’esimio Celesia avesse più profondamente meditato sopra il reggimento dei Dogi popolari statuito nel 4 339, parlando delle leggi del 4528, non avrebbe scritto.- « Come il -Boccanera fu il creatore delle libertà / ® popolari, cosi Andrea ne fu l’uccisore » (1). La Storia genovese c’insegna parimente, che dopo la depressione delle quattro primarie 'famiglie nobili, D’ Oria , Spinola, Fieschi e Grimaldi, ne sorgevano altre quattro ricche e potenti, però d’origine più recente, Guarco, Mon-taldo, Adorno, Fregoso; le quali eransi poste a capo della fazione popolare, ma però in niun modo rappresentavano l’universalità dei cittadini. Queste famiglie pel lungo periodo di più d’ un secolo, tra loro sempre discordi, si disputarono e s’ avvicendarono il Governo della Repubblica, assumendo il Dogato negli intervalli, più o meno lunghi, nei quali Genova non era 'assoggettala a dominio straniero. Di maniera che innanzi all’anno 1528, allorquando i Genovesi si reggevano da per sé stessi, il Governo della Repubblica componevasi di un Doge a vita di fazione popolare e di un Consiglio d’Anziani, il quale doveva, al pari degli altri magistrali ed uffici pubblici, essere ripartito tra la fazione nobile e la popolare. La costituzione dell’anno 1413 prescriveva, che 0) Congiura, ecc., pag. 21. ( 300 ) il Consiglio degli Anziani fosse composto nel seguente modo: sei nobili, cinque popolari, Ira i quali tre mercanti e due artigiani, ed uno appartenente a vicenda alle tre Podesterie. Da quanto ho fin qui detto sembrami poter inferire che il lungo periodo dei Dogi a vita, dallo storico Canale chiamato dei Dogi popolari, sebbene ebbe a registrare nella sua Storia non poche pagine gloriose, però nel complesso fu per Genova 1111’epoca funesta. E tal cosa affermo, considerando che in questo tempo non si riuscì a porre fine alle discordie civili ; e le istituzioni politiche, che si statuirono, non apportarono verun miglioramento nella condizione civile ed economica dei cittadini. La mancanza di concordia tra questi, e le difettose leggi, furono indubitatamente le cause alle quali sono da attribuirsi la rapida ed ognor crescente decadenza del Comune, e la completa privazione di benessere morale e materiale, che rendeva incerta 1’ indipendenza dei genovesi. Aggiungo anzi che, sottoponendo ad un accurato ed imparziale esame il reggimento dei Dogi popolari, risulterà ad evidenza che la' condizione di Genova era poco migliore di quella delle città, che avendo perduta la libertà erano cadute sotto la tirannide dei Signorotti paesani ; ed il suo ordinamento chiamasi in molte parli inferiore a quello d’altri Comuni liberi d’Italia, i quali, come Venezia, erano meno divisi dalle fazioni, ed avevano un maggior rispetto alle leggi, o pure, come Firenze, aveano istituzioni nel loro complesso più libere e più consentanee all’incivilimento del popolo. Dalla misera condizione, in cui eraridotta Genova, derivarono appunto le frequenti mutazioni di Governo avvenule in questo periodo ('Ì339-/I528), per le quali, come scrive Goffredo Lomellini ('), « il Governo fluttuava a guisa d’una leggierissima palla balzata dall’ una mano all'altra, non so’o in breve spazio di mesi, ma di giorni ». (’) Opera citata. ( 301 ) Colosla instabilità di Governo era in Genova una inevitabile conseguenza delle pessime leggi ; imperocché il reggimento di essa fosse nello mani d’una o dell’ altra delle fazioni seguaci delle rivali famiglie capellazze; o pure i cittadini giacevano sotto l’ombra del dispotismo dei Governatori dominanti a nome di Principi forastieri; e cosi in un caso come nel-l’altro dipendeva dalla forza e dal capriccio, o dalla irresoluta ed arbitraria volontà de’ reggitori e dei capi. Pertanto io credo di poter conchiudere, senza timore d' essere contradetto, che la decadenza della Repubblica di Genova ebbe origine e si compiè definitivamente durante il periodo dallo storico Canale chiamato dei Dogi popolari. E tale infortunio, oltre a circostanze estrinseche notissime, per le quali la Repubblica dovette ‘ perdere le sue Colonie d 0-riente, fu una conseguenza delle incessanti civili discordie eccitate appunto dai difetti delle leggi ; ond’ è che durante l’epoca dei Dogi popolari essa rimase spogliata, quasi senza opporre resistenza, dello splendore del nome suo già si rispettato ai giorni dei Consoli, dei Podestà e dei Capitani del Popolo, ed il Comune cadde in un tale stato di abbassamento, che cessò d’aver qualche peso nel sistema di ponderazione tra gli Stali indipendenti d’Italia. Laonde sarebbe una grande ingiustizia attribuire la decadenza della Repubblica alla ricuperata libertà nell’anno 1528, come taluni hanno scritto ed altri ripetuto ('); imperciocché é manifesto, che in quel tempo lo stato politico e sociale dell’Europa aveva (') Guerrazzi (Vita di Andrea Doria, voi. i, pag. 216) scrive: « Però Andrea dovea regolare il moto, non spegnerlo. Certo le guerre civili condussero a Genova la signoria dei forestieri, ma la pace del Doria fu la pace dei morti ». Celesia (Congiura di G. L. Fieschi, pag. 65) scrive « Da quell’ istante s’ari esta la robusta vigoria della Repubblica, essa declina a vecchiezza; le compassate prammatiche della Corte di Spagna sottentrano alle civili tenzoni sanguinosamente magnanime ». •20' ( 502 ) costituito la miserabile condizione, nella quale era ridotta non solo Genova, ma eziandio l’intera Penisola italiana* per cui nè Andrea D’Oria, nè altri in verun modo avrebbero potuto ridonare alla Repubblica ed agli altri Stati italiani la irrevocabilmente perduta potenza e prosperità. IV. Avendo dimostralo con questi brevissimi cenni intorno alla condizione civile e politica della Repubblica, durante l’amministrazione dei Dogi a vita, Terrore di quelli che vogliono giudicare gli antichi avvenimenti giusta le odierne dottrine sociali, mi farò, non, accecato da spirito di parte, a considerare quanto concerne il risultamento del sindacato sopra la condotta politica e le virtù cittadine di Andrea D’Oria. Innanzi però eh’ io sottoponga ad un rapido esame le azioni e le intenzioni d’un Uomo così illustre, giova conoscere le censure imputategli, colle quali si vorrebbe attenuarne i meriti, offuscarne la gloria, distrarre la grandezza e l'integrità dell a-nimo suo generoso. Codeste censure, quando fossero provate vere, sarebbero di tale efficacia, che si dovrebbe convenire col Guerrazzi (') che scrive : « Se il Doria non fosse stato un grande capitano (2), adesso io non istarei a dettarne la vita, ma affermo risoluto, che scrivendo di lui, non penso, e non ho (’) Guerrazzi, Vita di Andrea Doria, vol. i capo V, pag. SI2, e vol. II, capo XI, pag. 366-67. (2) Questa degnazione del Guerrazzi nel riconoscere il D’Oria un grande capitano è posta in dubbio dal sig. Edoardo Bernabò-I3rca, il quale (Op. cit., pag. Vili) scrive: “La fama ch’ebbe il Doria di sommo uomo di mare, non parmi interamente meritata. Non poche fra le vittorie per le quali s’accrebbe la rinomanza del D’Oria, ei le dovette al valore de’ suoi Luogotenenti ». Ma come mai gli antichi e moderni grandi Capitani avrebbero potuto riportare tanti guer- ( 503 ) pensato mai esporre i gesti d’un grande cittadino » ; e cosi conchiude : « A Genova hasti che Andrea Doria fu tale uomo di cui ogni città potrebbe meritamente gloriarsi, siccome andarne altero ogni lignaggio, ma non si dica Padre della Patria nè ristauratore della libertà » ; e più sotto ne dà la ragione, asseverando : « che il D’Oria mise Genova in mano della Aristocrazia e nè manco a tutta, e la rese se non serva, vassalla di Austria e di Spagna, per sovvenirle, pagato, a mantenere in servitù popoli e Stati, così italiani, come fuori d’Italia ». Per formarsi un’ esatta idea dei gloriosi gesti di Andrea D Oria, e poterli meglio apprezzare e rettamente giudicare , stimo necessario dividere la sua vita in due epoche, e sottoporle così paratamente ad un rigoroso sindacato. La prima comincia all’anno I486, cioè dopoché egli ebbe compiuti i vent’anni, e giunge all’armo 1528, nel quale rivendicò la Patria in libertà. Questo periodo comprende per- reschi trionfi, po’ quali vanno sì celebrali, se non avessero avuto il concorso dei numerosi prodi, che insieme con essi militavano? Coloro poi, clic non in modo dubitativo, come il citato Bernabò-Brea, ma assolutamente negassero al D’Oria d’essere stato un sommo uomo di mare, io li comparerei a quei Dottori cristiani menzionati da Hadji lvlialfa nella sua Storia delle guerre ma-ritt.me. Il quale, in un capitolo sopra le cagioni della codardia degli infedeli , racconta che Andrea discorrendo con un prigioniero turco facevagli la seguente domanda : « Non è scritto nella vostra legge eli colui, il quale fugge dinanzi ad un distiano corre diritto verso la via che conduce all’inferno, e colui che fugge dinanzi a due non è ammesso in Paradiso? • Al che subito dal captivo rispondeasi : « La nostra legge proibisce d’uccidere un musulmano, quando siamo mille contro uno, la vostra al contrario lo prescrive, mentre la nostra lo costituisce un crimine ». Ciò udendo , Andrea riprese sorridendo: » Tal cosa pure vorrebbe il Papa , ma a dire il vero , i soldati sovente non l’eseguiscono ». Hadji Malfa aggiunge che, desiderando conoscere quanto vi fosse di vero in quell’aneddoto, interpellò varii dotti cristiani, ma questi l’assicurarono che era completamente falso, perchè Andrea D’Oria era un uomo di bassa condizione e privo di coltura (Vedi Hammeh, Histoire de l'Empire Ottoman, trad. par .1. J. Hellert, Vol. V: Note e schiarimenti, pag. ol9). ( 304 ) tanto le sue imprese ora a pro’ di Principi stranieri, ora di Genova. La seconda ha il suo punto di partenza dall’assodamento da lui preso al servizio dell’imperatore Carlo V, ond’e-gli mentre visse ebbe mezzo più facile e sicuro di rimettere innanzi tutto la Patria in libertà, e di difenderne poscia l’indipendenza. V. Per quanto concerne le azioni del D’Oria prima dell’anno 1528, i suoi sindacatori biasimano la di lui condotta, affermando ch’egli non era se non un condottiero, il quale prestava F opera sua ai Principi forestieri. Eglino asseriscono che nel 1527, allorquando Genova stava per ordinarsi a concordia, Andrea non si peritò di combattere contro la Patria, e costringerla mediante uno stretto assedio a riporsi sotto la dominazione francese ('); aggiungono anzi che fn quasi arbitro dei patti negoziati dalla medesima col re Francesco, ma che invece di giovarsi di questa occasione per ottenerle la libertà sotto la proiezione della Francia, amò meglio sottometterla ad un Principe straniero, lasciando che, ad onta dei diritti e delle domande dei genovesi, la città di Savona restasse disgiunta da Genova, e solo ebbe cura di eliminare Cesare Fregoso facendo nominare a Regio Governatore Teodoro Tri-vulzio (2). Le suddette censure, a mio parere, sono ingiuste; ed ho fiducia di poterlo dimostrare mediante-le seguenti considerazioni. Andrea D’Oria nasceva in Oneglia nell’anno 1466, allorché il suo genitore Ceva si numerava tra quelli, che, non ricono- (*j Bernabò-Brea, op. cit., pag. IX; Celesia, op. cit., pag. 53; Brougham, Filosofia politica, voi. II. (2j Bernabò-Brea, loc. cit.) Celesia, op. cit., pag. 60. ( ôOo ) scendo il governo dei Dogi a vita, e protestando contro le signorie di Principi stranieri, vivevano nei loro rispettivi feudi, attendendo tempi più propizi. Al giovine Andrea non piaceva il tranquillo soggiorno del suo luogo nativo; ma la misera condizione in cui Genova era ridotta non permettendogli di porsi al servizio della Repubblica, si partiva dalla casa paterna, colla speranza di giovare quando che fosse alla prosperità della Patria. Pertanto mosso da cosi nobili proponimenti impiegavasi qual condottiero presso alcuni Principi, cui lealmente serviva; il che invero mi sembra non doverglisi ascrivere a colpa. Per quello poi che spetta al biasimo che gli si vorrebbe infliggere per avere nel 1527 cooperato a ristabilire in Genova la servitù francese, da lui già combattuta negli anni 1512 e 1513, quando seguiva la fazione Fregoso ed operava insieme ad Emanuele Cavallo il famoso suo gesto all’ asspdio della fortezza di Capo di Faro, è da notarsi che s’egli fu obbligato a combattere contro Genova ed a costringere i proprii concittadini a. sottoporsi di bel nuovo al giogo di Francia, di così doloroso fatto devesi accagionare la carica d’Ammiraglio del re Francesco allora da lui rivestita, e specialmente l’inimicizia ch’ei professava contro gli Adorni, i quali a buon diritto stimava essere gli autori dei gravissimi mali sofferti dai genovesi nelle guerre civili, ed in ispecial modo dell orribile sacco, per cui Genova fu manomessa nell’anno 1522 dagli spa-gnuoli. Io reputo inoltre inesatta l’asserzione del sig. Bernabò-Brea, che cioè il D’Oria « fu quasi arbitro dei patti convenuti col Re di Francia (') » ; imperocché non si conosce come Andrea abbia avuto dal Re commissione di stabilire i palli della dedizione di Genova, e neppure abbiamo notizia che il doge Antoniotto Adorno ed il Consiglio degli Anziani ricorressero alla sua interposizione, onde ottenere migliori condizioni dal vincitore. ('; BERNABÒ-BBEA , lOC. CÌt. ( oOC> ) Ciò premesso, mi pare manifesto non potersi imputare al D’Oria, se Genova non ottenne dal Re di Francia di conservare sotto la di lui protezione la propria libertà ed indipendenza, come pure se la città di Savona non fu riposta sotto la giurisdizione della ligure Metropoli. Nondimeno io sono persuaso, che i genovesi furono debitori ad Andrea ed a Cesare Fregoso d’aver potuto ottenere che venissero riconfermate loro le condizioni ed i privilegi stabiliti nelle convenzioni del '1515, conchiuse tra re Francesco ed il doge Ottaviano Fregoso; e rendere così per essi meno penosa la soggezione francese. In fatti poterono con ragione opporsi alle continue violazioni dei loro diritti e privilegi, commesse o tentate dai Ministri di quel Re, e furono in pieno diritto' di ricusare il pagamento delle straordinarie gravezze, che questi avrebbero voluto loro imporre per colmare l’esausto tesoro, come parimente, attenendosi alle stipulale convenzioni, poterono reclamare contro i danni recati dalla separazione di Savona da Genova, che il Governo francese s’ostinava a mantenere (f). Ed anche in questa occasione i genovesi hanno eziandio una grande obbligazione al D’ Oria ( come ne fanno fede irrecusabile il Varchi, il Casoni ed il Lomellini), se poterono evitare il rinnovamento delle gare tra le fazioni Adorno e Fregoso, che sicuramente sarebbero avvenute, qualora in Genova fosse (’) Nel '1327 il re Francesco I confermava i diritti ed i privilegi conceduti ai genovesi nel trattato conchiuso tra lui ed Ottaviano Fregoso nell’anno 1515. In questo trattato il Re di Francia guarentiva pressoché tutte le condizioni concedute loro dal Re Luigi XII nell’anno 1499, e poscia dallo stesso Re (dagli storici francesi chiamato Padre del popolo) fatte pubblicamente bruciare nel 1007, col pretesto di punire la città di Genova della da lui repressa rivoluzione popolare. La capitolazione conchiusa nel 1499 fu pubblicata dal sig. L. T. Belgrano nel Commentario sulla dedizione dei genovesi a Luigi XII Re dì Francia (V. il Tomo I della Miscellanea di Storia italiana edita per cura della R. Deputazione di Storia Patria). Ivi si possono leggere i capitoli invocati dai genovesi. ( 307 ) stato nominalo a Regio Governatore Cesare Fregoso , il quale in premio dei suoi servigi si teneva sicuro d' essere prescelto ad occupare tal posto. Ma il pericolo fu scongiuralo mercè l’elezione di Teodoro Trivulzio, avvenuta dietro il suggerimento di Andrea. Il quale s’induceva ad opporsi all’elezione del Fregoso, non già mosso da inimicizia verso lo stesso, o da ambizione personale, ina bensì perchè egli , unitamente ai cittadini più rispettabili di Genova, stimava quella nomina perniciosa alla tranquillità ed alla prosperità della Patria. Questa sua bella azióne in vece d’essere encomiata , è però assai biasimata dai recenti censori d’Andrea . poiché per diminuirne il merito eglino pretendono ( benché senza addurne veruna prova), che ad operare in tal modo non fu mosso da carità di patria, ma piuttosto da un turpe sentimento d’ambizione, cioè dall’intento d’allontanare un potente rivale, e di agevolare così l’effettuazione de’ suoi segreti disegni, di fondare in Genova la propria grandezza e quella della sua famiglia, per mezzo della depressione delle fazioni Fregoso ed Adorno ('). Ma è agevole scorgere quanto questa accusa sia infondala, solo che si osservi come non si abbia Yerun indizio che Andrea in quel tempo pensasse a questo supposto dominio, od avesse intenzione di lasciar il servigio di Francia e passar a quello di Spagna; e, per conseguenza, egli non poteva allora mirare ad ordire le trame onde compiere il rivolgimento succeduto poi nell’anno 1528. Ai suddetti servigi da lui resi alla sua Patria si deve eziandio aggiungere come egli, scorgendo il Governo di Francia non tenere verun conto dei diritti e dei privilegi con- (2) I recenti censori del D’Oria, trassero quest’ accusa dal Foglietta ( Delle cose della Repubblica di Genova, pag. 169 ; Milano 1575) ; il quale però la produce con figura di reticenza ponendola in bocca di nemici, ma non credendola lui. ( 508 ) ceduti alla città di Genova, e per tal cosa fortemente dolendosi, si decise ad unirsi a quelli tra i suoi amici, i quali volevano fondare un nuovo ordinamento nella Repubblica, mediante cui si togliessero le cause delle civili discordie, e si stabilisse una perfetta unione, che assicurasse la libertà. Questo progetto di riforma, come è noto, non era nuovo, giacché dapprima fu ideato da Raffaello Ponzone sotto il Dogato d’Ottaviano Fregoso ('), e poscia venne sempre promosso dai migliori cittadini nobili e popolari, tra i quali primeggiavano Stefano Giustiniani di fazione popolare e fra’Marco Cattaneo (-). Un tal pensiero, sì lungo tempo vagheggiato dai genovesi, fu creduto finalmente potersi effettuare col consentimento di Teodoro Trivulzio e la protezione del re Francesco I (3). In tal fiducia concorrevano i più notevoli cittadini, i quali ponendo mente alla grande diminuzione della potenza francese (!) Ottaviano Fregoso s’annovera tra i cittadini più illustri di Genova e fu assai benemerito della Patria. 11 suo nome perù sarebbe anche più famoso nella Storia, e più ammirato dai posteri, qualora egli avesse maggiormente raffrenato l’indole dispotica del fratello Federico, e se una macchia indelebile non offuscasse la sua memoria. Questa macchia è stata d’aver tolto a Genova l’indipendenza, sottoponendola nell’anno 1515 al dominio del re Francesco I. A prendere cotesta fatale risoluzione non saprei determinare se fosse spinto dal timore d'essere costretto a cedere la suprema autorità ad Antoniotto Adorno, capo della fazione a lui contraria, o piuttosto dalla fallace speranza di render Genova più felice sotto la dominazione francese , di quello che non lo fosse godendo d’una precaria libertà. Ad ogni modo è sommamente da deplorarsi, che la smodata ambizione gli abbia impedito di linunciare al Dogato e di ritirarsi a godere quella felicità, che trac seco un onorevole vita privata. (2) Foglietta Uuerto, Delle cose della Repubblica di Genova, pag. 4G5-G7. (3; V. Lettere di Teodoro Trivulzio, inserite nell'Archivio Storico Italiano: Appendice, 1844. Queste lettere, nelle quali il Trivulzio si palesa contrario alla indipendenza ed alla riforma delle leggi chiesta dai genovesi, ci forniscono una prova irrecusabile dell’errore, in cui cadde lo storico M. G. Canale (op. cit., vol. IV, pag. 443), scrivendo: » Il Trivulzio quindi si mostrò loro (ai genovesi) favorevole, e promosse quell’opera, che dovea alfine tornare pregiudizievole al Sovrano ch’egli rappresentava ». ( 309 ) in Italia per le sconfitte ricevute dagli spagnuoli, e specialmente all esausto tesoro del Re, supponevano che sarebbe assai agevole, mediante rilevanti sacrificii pecuniarii, e mantenendosi tuttavia sotto la protezione del Governo francese , d’indurre Francesco I a non opporsi allo stabilimento in Genova d’an nuovo ordinamento politico, chiamato 1’ Unione, per mezzo del quale, eglino avevano la fiducia di riacquistare l’antica libertà. La pratica dell’ Unione fu trattata in ispecie dal Magistrato di Balìa, incaricalo appunto di provvedere e studiare i mezzi più opportuni alla concordia dei cittadini. Il suddetto Magistrato, onde eseguire il segreto suo intento, deliberava in massima le basi statuite dai Riformatori che lo precedettero. Ma io son d’opinione, che se il Regio Governatore, il quale disapprovava il progetto formato dai più notevoli cittadini genovesi di render la libertà a Genova, tollerava i segreti (però a lui noti) convegni dei promotori dell’ Unione, questa sua condiscendenza si debba attribuire agli autorevoli consigli del D’Oria. E noto che il Trivulzio, quantunque fosse contrario a questa pratica, non impedì che venisse pubblicamente discussa e trattata, dopo che seppe aver i Ministri del Re Cristianissimo incitato segretamente i promotori dell’ Unione, ad effettuare il loro disegno (*). La condotta tenuta in questa Circostanza dai Consiglieri del Re di Francia destò nei genovesi un sentimento di dubbio e di stupore; imperciocché essi non potevano altrimenti spiegarla, se non col supporre che la Corte di quel Monarca conoscendo la prevalenza degl’imperiali in Italia, e perciò temendo di perdere il dominio di Genova, amasse piuttosto lasciare la detta Città in libertà, e conservarsi così una rico- (’) Molini, Documenti di Storia italiana: V. Lettera di Teodoro Trivulzio in data del maggio 1528. ( 310 ) noscenle alleata, di quello che esserne spogliata per forza dalle armi spagnole; o pure (siccome venne dimostrato dai fatti), non avendo quei Consiglieri alcuna intenzione di serbar la promessa, cercassero di deludere i genovesi, colla speranza di trarne una rilevante anticipazione sopra ducentomila ducati d’oro, offerti dal Magistrato di Balìa a fine d’ottenere dal re Francesco l’approvazione delle loro proposizioni. Matteo Senarega, riprovando la condotta tenuta dai Ministri del Re Cristianissimo, è anzi erroneamente d’avviso che fosse questa l'unica causa per cui Genova ribellossi ai francesi (1). • Frattanto le sollecitudini di Andrea in favore della sua Patria non si riducevano solo ai benefizi recatile, mediante gli officiosi consigli presso il governatore Trivulzio o presso la Corte di Francia; poiché, poco soddisfatto d’operare per vie indirette, non mancava d’ apertamente patrocinare gli interessi ed i diritti de’suoi concittadini. Di fatti egli indirizzava al re Francesco ed a’suoi Ministri, in ispecie al Gran Maestro Anna di Montmorency varie lettere, nelle quali caldamente perorava, affinchè fosse resa giustizia alle domande state sottomesse al Re dal Consiglio degli Anziani, appoggiate dal Trivulzio, e concernenti gli affari più importanti per il benessere e la prosperità di Genova. In queste lettere egli, richiamando le convenzioni pattuite, chiedeva che la città di Savona fosse riposta sotto la giurisdizione di Genova, si sopprimesse l’appalto delle dogane della prima dato allo stesso Montmorency, ed il deposito del sale stabilitovi con gravissimo danno degli interessi commerciali dei genovesi e dei diritti dell’ Uffizio di san Giorgio; mostrava inoltre quanto fossero di nocumento a Genova e il decretato ampliamento dell’emula , ed altri speciali privilegi di già conceduti, o che dai {genovesi si temeva fosse intenzione del Governo francese di concedere alla stessa Savona. (1) Relazione di Genova, MS. ( 311 ) In questo carteggio, ricordato dal Casoni, dal Garnier , e da molti altri storici genovesi e francesi, Andrea esprimeva i proprii concetti colla massima franchezza e lealtà, a segno che spiacque al Re ed ai suoi Ministri, e divenne sospetto a tutta la Corte. IT altronde Francesco I era fermo nella deliberazione di favorire Savona, perchè reputata obbediente ed ossequiosa alla Francia, mentre a Genova in tutti gli ordini dei cittadini prevaleva lo spirito di libertà e indipen- ' denza. Ora io, nell’ intento di far conoscere con esattezza i pensieri del D’ Oria su questo punto cosi rilevante , e le cagioni che in particolare aveva egli stesso di lagnarsi del Re-, giacché questi, ad onta de’ricevuti servigi, mostrava di non tenerne in pregio nò la persona nò i consigli, stimo opportuno di pubblicare in appendice al presente scritto due lettere assai importanti, e tuttora inedite (per quanto mi consti) dal D’ Oria medesimo indirizzale al Re ed al Montmorency. I pietosi uffici però di così benemerito cittadino riuscivano inutili, giacché, ai saggi di lui consigli prevalevano nell’a-nimo del Re i maligni suggerimenti di cortigiani e ministri invidiosi della riputazione del Ligure Ammiraglio. Da quanto ho detto sembrami assai agevole di scorgere intanto come Andrea in questo periodo della sua vita, in cui la professione di condottiero non permettevagli d’operare in pro’ di Genova nel modo che potè fare in alcuni brevi intervalli (cioè, nell’anno 1513 coir espugnazione della fortezza di Capo di Faro, e nel 1519 colla vittoria da lui riportata sopra Gad-Aly ammiraglio tunisino), non si lasciò però mai sfugggire occasione alcuna di rendersi utile alla diletta sua Patria. Di che fanno chiara testimonianza le miti condizioni ottenute dai genovesi mediante il patrocinio di lui e di Cesare Fregoso, nella loro dedizione al Re di Francia nell’anno 1527, le menzionate lettere scritte al Re ed al Montmorency per di- ( 31* ) fendere i privilegi ed i diritti dei suoi concittadini imprudentemente violati dai Regii Ministri, e finalmente la disdetta della sua condotta data a Francesco; la quale lo pose in grado di mandare ad effetto il disegno da lungo tempo deliberato da lui e dai suoi amici, di promulgare cioè le leggi dell’ Unione, e di rimettere Genova nel suo pristino e libero stato. VI. La risoluzione presa da Andrea D’Oria di lasciare il servigio di Francesco I e pigliar soldo sotto i vessilli dell’imperatore Carlo V, venne giudicata diversamente dai contemporanei, in conformità dell’utile o del danno ch’eglino da tal avvenimento giudicavano potesse procedere. In fatti quest’azione di Andrea era lodata pressoché da tutti coloro, i quali respingevano la prevalenza francese in Italia, e dalla universalità dei cittadini genovesi, che desideravano ricostituirsi in Repubblica; ed al-1’opposito era tenuta per un tradimento così presso la Corte di Francia, come dagli italiani partitanti della dominazione francese, o che almeno preferivano in Italia la prevalenza di Francia. Oggidì le narrazioni degli storici, benevoli od avversi al D Oria, OO , D ' ci pongono in grado di pronunciare una retta sentenza sopra le cause, che lo inducevano a lasciare le insegne di Francia. Coloro che lo biasimano d’aver presa cotesta risoluzione lo accusano d’essersi mostrato ingrato verso il Re, al quale era debitore della sua fortuna; ed aggiungono che la vera cagione per la quale Andrea si levò dal soldo e dai servigi di lui fosse la troppa ingordigia di pecunia e d’ onori, oltre al dispetto di non vedersi tenuto dal Re e dai suoi Ministri in (515 ) quel conto che gli pareva di meritare. Siami lecito nondimeno osservare, che ove si dovesse infliggere una censura d’ingratitudine, sarebbe più giusto di rivolgerla al re Francesco die al D' Oria; imperocché questi’porgendo ascolto alle maligne insinuazioni dei nemici di Andrea, diffidava delle di Ini intenzioni e cosi male rimunerava i leali ed importanti servigi di lui prestati. Nella quale sentenza mi confermano le narrazioni del Brantôme e del Montluc ('), scrittori per certo non venduti al D’Oria; e vi concordano altresi i più rinomati storici di Francia, come il Garnier (2), il Sismondi (3), il Martin (l) ed il Mignet (5). Qualora poi si concedesse ai detrattori di Andrea, che l’unico motivo pel quale egli delerminossi a prendere la suddetta decisione fosse il profondo suo risentimento pei disgusti ricevuti dal Montmorency, dal Duprat e dal Re, si dovrebbe anche ammettere essere questa una ragione piuccbè sufficiente, per giustificarlo di aver dato la disdetta della sua condotta appena finiva il tempo della capitolazione da lui soscritla col Governo francese. Così nelle lettere edite dal Molini come in quelle che io rendo di pubblica ragione, si può ampiamente conoscere ch’egli aveva da lamentarsi per il pagamento degli stipendi arretrati, e della somma di ventimila scudi a cui ascendeva il riscatto del Principe d’Orange, non che pel rimborso di altri ottomila anticipali al Re, e viene dimostrato quanto egli maggiormente si affliggesse pe^ò di non essere sufficientemente apprezzato da quest’ultimo, il quale alle relazioni (') Brantôme, Hommes illustres estrangers; Discours XXXV : André Doma; Montluc, Mémoires etc. (2) Garnier, Histoire de France, Tom. XXIV. (3) Sismondi, Histoire des François, Tom 11; Bruxelles, 1837. (4) Martin, Histoire de France. (5) Mignet, Rivalité de Francois I et de Charles V ; nella Reme des lieux Mondes, 1867. ( oli ) del D’Oria anteponeva quelle d’un Giacomo Colin, persona spregevole, e che Andrea giudicava capace , per cupidigia di danaro, di commettere qualunque cattiva azione (')• Le suddette considerazioni furono quelle adunque che indussero il D’ Oria a domandare d’ essere esonerato della carica di Ammiraglio dell’armata di Francia, perché egli aveva acquistato 1’intimo convincimento di non essere più utile ad un Sovrano, che fin allora aveva servilo con ossequio e con amore; e perché eziandio riconosceva l’impossibilità in cui si trovava di contribuire alla prosperità de’ suoi concittadini, ai quali già avea sperato farla conseguire appunto mediante la sua officiosa interposizione presso del Re. Inoltre alle anzi-dette ragioni, che provano ad evidenza quanto bene oprasse il D’Oria disdicendo la sua condotta col Governo francese, io son d’opinione si debba aggiungere che Andrea non avrebbe poluto consentire (come in fatti non acconsentì) alla pretensione di Monsignor di Lautrech, approvata dal Re, che cioè gli fossero consegnati i prigioni di guerra fatti da Filippino D’Oria nella battaglia di Salerno; il che era contrario alle costumanze dei condottieri ed alle convenzioni pattuite. E nessuno, io credo vorrà biasimarlo d’aver seguilo quel dignitoso contegno, che gli dettavano il proprio onore offeso ed il vivo amore verso la Patria. A confermare anzi il suo sentimento mi piace trascrivere le parole dell’illustre Sismondi, il quale accenna che se per la disdetta del D’Oria la Francia perdette la supremazia del mare, e la città di Napoli rimase in potestà degli spagnuoli, e Genova, espulsi i trancesi, si rico- (’) II giudicio di Andrea sopra il Colin viene pienamente confermato da Teodoro Trivulzio; autorità invero che non dovrebbe essere ricusata dai censori del D’Oria. Il Trivulzio infatti, nelle sue lettere dirette al re Francesco in data del 23 febbraio e del maggio 1528, si esprime in termini quasi identici a quelli usati da Andrea (Vedi Molìni , Documenti di storia italiana ; e V Archivio storico italiano del 1844). ( 515 ) sliluì in Repubblica sotto gli auspicii di Andrea; di tutti co- testi danni il re Francesco doveva soltanto attribuire la colpa a sè stesso. Egli infatti scrive: « Francois I avait perdu l’amitié et les services d’André Doria, parce que, non plus que ses ministres, il n’avait jamais su comprendre le caractère ou ia fierté d’un grand citoyen et d’un grand homme de mer. Sans égard pour les droits des traités, pour les recommandations d’André Doria, pour ces prières, on violait tous les jours les privilèges de sa patrie, ou projetait de la ruiner et de transporter son commerce et sa population a Savone. De même, sans respect pour le génie du créateur de la marine moderne, pour l’in-dipendance d’un Amiral propriétaire des vaisseaux., et maitre des matélots, qu’il avait mis au service de France, on avait voulu le remplacer, comme un de ces capitaines courtisans que la faveur crée, et la faveur dépouille. Pour lui, lorsqu’il eut achévé le terme pour lequel il s’etait volontairement engagé, il se sentit libre, et il passa avec ses galeres du service de France à celui de l’Empereur. Il souleva ensuite , le 42 septembre 1528, sa patrie, il en chassa la garnison fran-çoise, et il réconstitua la Repubblique de Gênes sous la protection de l’Empereur (') ». Ciò premesso, ho fiducia che non sarò giudicato un temerario, se risolutamente affermo che il biasimo dato dai recenti sindacatori al D’Oria per aver disdetto la condotta di Francia è una ingiustizia suprema; ed a provare questa mia asserzione mi gioverò dell’autorità d’uno degli stessi suoi censori, l’eloquente Guerrazzi, il quale dice: « Io per me, ventilate le ragioni prò e contro, penso poter conchiudere, aver avuto facoltà il D’Oria di lasciare le parti di Francia senza un biasimo al mondo, perchè decorso il termine della sua condotta, il quale è il (’) Sismondi , Histoire des François; Tome 11. ( 316 ) modo più naturale per cui le obbligazioni cessano » ; e menzionando le cagioni che determinarono Andrea, prosegue: « Arrogi Savona accresciuta a detrimento di Genova, gli strazi, i sospetti, le ritenute paghe, donde Andrea doveva pure cavare* il soldo per le panatiche quotidiane per le ciurme, e per ultimo le insidie mortali, troverai di leggieri che cause per abbandonare la Francia ei n’ebbe anco troppe » ('). A questa giustissima sentenza del Guerrazzi si dovrebbe, per confermare la mia proposizione, aggiungere che se il D’Oria avesse proseguito a restare agli stipendi del Re di Francia, egli avrebbe mancato alla propria dignità, e la sua riputazione ne sarebbe gravemente rimasta offuscata. Parmi quindi potersi considerare che le cause, le quali hanno indotto il D’Oria a dare la disdetta dal servigio di Francesco I non furono dettate da immoderata cupidigia di denaro e d’onori, ma per -l’opposto procedettero da un più nobile pensiero, quello cioè di giovare al benessere ed alla prosperità de’suoi concittadini. Di che infatti rende chiara testimonianza Martino Du Bellay (2), quando riferisce le convenzioni presentate dal D’Oria al Fie, per confermare la sua condotta, nelle quali primeggiavano quelle tendenti a guarentire i diritti ed i privilegi dei genovesi, stabiliti (*j Guerrazzi, Vita di Andrea Doria; Vol. I, Capitolo IV, pag. 4G7. (2) Martin Duuellay , ilemoires depuis I' an 1513 jusque s au trépas du Roy François 1 ; lib. III. Il Du Bellay non può essere sospetto ai sindacatori del D’Uria, perciocché è uno scrittore sincrono, ch’ebbe lui stesso parte nei latti narrati, ed inolilo nel complesso della sua narrazione concorda cogli annalisti genovesi e con gli storici italiani, per quanto si dimostri assai parziale al re Francesco. Il celebre filosofo Michele Montaigne (Essai etc., livre II, cl1. XVII) scrive infatti che queste Memorie devono considerarsi un’ esagerata apologia di quel He contro l’imperatore Carlo V, giacché cosi s’ esprime : «’ On peut couvrir » les actions secrètes, mais de taire ce que tout le monde sait et les choses, » qui ont eu des effets publics et des telles conséquences, c’est un défaut ine-• scusable». ( 517 ) dai palli conciliasi nell’anno 4545 ira Francesco 1 ed Ottaviano bregoso. Imperocché, secondo risulta dalla relazione del citalo storico, il D’Oria avrebbe proseguito a rimanere al servigio del Re, qualora questi avesse esattamente adempiuto ai patti convenuti con lui, e mantenuto lealmente ai genovesi i diritti ed i privilegi suddetti confermali di bel nuovo nell’anno 1527. Dallo stesso scitiore conosciamo inoltre le particolarità, per le quali Andrea dovette non solo ricusarsi di rilirare la data sua licenza, come desideravano il papa Clemente VII e Monsignore di Lautrech, ma risolversi ad abbandonare il servigio di Francia in un modo improvviso, e che aveva apparenza di ribellione; e di più sappiamo che il Lautrech metteva molta importanza a conservare il D’Oria agli stipendi del Governo francese, a tal segno che, per raggiungere questo scopo, aveva espressamente invialo in Parigi il Signor di Langey, acciocché facesse conoscere al re Francesco le condizioni poste da Andrea, commettendogli d‘ appoggiarle e di ottenerne 1’ approvazione. Le domande del D’Oria essendo state discusse in una adunanza del Consiglio privato, presieduto dallo stesso Francesco 1, furono respinte malgrado gli avvisi scritti dal Lautrech , ed i ragionamenti svolti dal Signor di Langey; giacché ivi allora trionfarono le opinioni espresse dal Gran Maestro Montmorency e dal cancelliere Duprat, i quali biasimavano, come poco rispettose ed anzi ingiuriose, le espressioni usale da Andrea, e quindi facendo a gara d’affezione e devozione verso il loro Sovrano, e declamando contro l’insolenza d’un suddito, il quale voleva dettar leggi al suo Signore, agevolmente persuasero il Re e la maggioranza dei Consiglieri a decretare la rimozione del D’Oria dal grado d'Ammiraglio, ed a nominare in sua vece Antonio de la Rochefòsauld di Barbezieux., imponendogli di recarsi coll’armata in Genova, ed ivi impossessarsi delle galere e della persona del D'Oria. La suddetta deliberazione dimostra quanto smodata era 1 irsi ( 318 ) ritazioiie del Re e de’suoi Ministri, i quali, per conseguire il loro intento di vendicarsi il più presto possibile, non rifuggivano dallo adoperare mezzi ingiusti ed iniqui. In fatti in questo Consiglio venne risoluto di consegnare al Barbezieux una lettera, nella quale Francesco I concedeva graziosamente ad Andrea tutte le sue domande, cioè tanto quelle concernenti i di lui privati interessi, quanto quelle che riguardavano la città di Genova, ma con ordine di valersi di questa lettera come di un mezzo d’introduzione per conferire col D’Oria, e cosi, prevalendosi della di lui buona fede, sorprenderlo, catturarlo e condurlo in Francia; rammentandogli di non dimenticare d’impadronirsi delle dodici galere di proprietà del Ligure Ammiraglio. Questa perfida trama andò fallita, perché venuta subito in cognizione di Giambattista Lasagna, oratore genovese in Parigi, che s’ affrettò d’informarne Andrea. Il quale ritirossi pertanto nel castello di Lerici; da dove, quando riceveva dii Barbezieux. l’invito di recarsi in Genova, per udire alcune comunicazioni che aveva ordine dal Re di partecipargli, rispose all’ufficiale esibitore del dispaccio: « Dite al Signor di Barbezieux che udrò con piacere quanto egli ha da dirmi per comandamento del Re; ch’egli venga, e, se gli basta l’animo, eseguisca il rimanente delle sue commissioni » Gli scrittori genovesi, Giustiniani, Bonfadio, Casoni e molti altri c’ informano quanto grande e generale era in tutti gli ordini dei cittadini lo scontento, per le numerose infrazioni di continuo fatte ai diritti ed ai privilegi stabiliti dalle convenzioni in loro favore, come pure a cagione della disgiunzione di Savona da Genova, mantenuta malgrado le fervide rimostranze del Consiglio degli Anziani e dell’Ufficio di san Giorgio, e gli avvisi del Regio Governatore Teodoro Trivulzio (2). Il mal (’) Garmer, Histoire de France, Tome XXIV; pag. 360 e seg. (5j Non ignoro che i chiarissimi signori Celesia e Bernabò-Brea non ammet- ( 319 ) umore era cresciuto moltissimo, e non ebbe più limili quando si conobbe con certezza che la Corte di Francia, dopo aver lungo tempo tenuto a bada il Consiglio di Balia, con intenzione di trarre dai genovesi una grande somma di danaro, aveva definitivamente ricusato d’approvare la pratica dell’ Unione, ed anzi deciso di sottoporre la Città ad un reggimento più stretto, aumentando il presidio di truppe francesi, e sostituendo al mite Trivulzio, con istruzioni più severe, il Marchese di Saluzzo, nobile piemontese agli stipendi del Re di Francia. torio la disgiunzione di Savona da Genova doversi annoverare tra le cause, che hanno indotto i genovesi ad unirsi alla rivoluzione operata da Andrea D’ Oria e dai suoi amici. Essi, in prova del loro assunto, citano il decreto del re Francesco in data del 1.° luglio 1528, emanato cioè allorquando il D’Oria aveva lasciato il servigio di Francia, ma due mesi innanzi che i francesi fossero discacciati da Genova. Il suddetto decreto, che fu per la prima volta pubblicato dal Bernabò-Brea, prescrive di fatti doversi rimettere la città di Savona sotto la giurisdizione di Genova. Al che Francesco si decideva in quell’ intervallo menzionato dal Bonfadio (Annali di Genova, libro I), dal Guicciardini (Storia d’Italia, libro XV) e dal Garnier (Histoire de France), in cui dietro, le premuroso sollecitazioni del papa Clemente VII e di Monsignore di Lautrech, il Re ed i suoi ministri tentavano di ricondurre il D’Oria a riprendere il servigio di Francia, offrendogli per mezzo di Pier Francesco di Nocera e del Barone di Blancart d’ appagarlo in tutte le sue dimande. Queste concessioni fatte troppo tardi non riuscirono però a smuovere il D’Orìa dalla presa risoluzione, imperocché egli, conoscendo gli intimi pensieri del re Francesco e de’ suoi Consiglieri, aveva fondato sospetto che fossero un ingannevole allettamento per più facilmente gabbarlo; e da ciò provenne che il Re di Francia convinto di non conseguire il prefìsso scopo, non effettuava poi il decreto. Difalti nessun ligure scrittore ricorda questo decreto medesimo, e nessun documento ci attesta che fossero per ordine regio soppressi in Savona il deposito del sale, od altri privilegi conceduti ai Savonesi con grave nocumento di Genova, e neppure venisse rivocato l’appalto delle gabelle di Savona stessa, che, per testimonianza del Lercari (Discordie civili, ecc.; MS. della Biblioteca Brignole-Sale>, dovea fruttare al Montmorency l’annuo ricavo di centomila ducati. È da avvertirsi inoltre che, sebbene troviamo nei documenti pubblicati dal Molini una lettera in data del 6 agosto 1528 scritta dal cardinale Agostino Spinola al fratello Francesco, nella quale lo esorta ad usare della sua influenza per far nominare a Governatore di Savona il nobile Francesco Lomellini; non- ( 320 ) È manifesto che Andrea D’Oria, conoscendo il mal animo del Re di Francia contro Genova, non poteva, senza mancare alla propria dignità ed al caldo suo amore verso la patria, proseguire la sua condotta con Francesco I; e da quanto ho detto sembrami non poter porsi in dubbio che il D’Oria, lasciando il servigio di Francia, meritò lode di buon cittadino. Un simile elogio potrà farsi ad Andrea sopra la decisione d’accettare le proposte fattegli, in nome dell’Imperatore, dal Marchese del Vasto e da Ascanio Colonna, d’assoldarsi con Carlo V? Io son persuaso dimeno i un fatto incontestato, che nel 452S non venne eletto a Governatore di Savona nè il Lomellini, nè altro cittadino genovese, come pure che 1’Ufficio di san Giorgio non vi mandò nessun collettore per riscuotere i dazii, come ne aveva diritto a norma delle convenzioni. Per dimostrare poi sempre meglio che l’anzidetto decreto deve essere considerato una lettera morta , aggiungo l’autorità di Matteo Senarega , il quale lo tace affatto nella sua Relazione di Genova, al capitolo ove tratta della cagione per cui Genova ribellossi ai francesi, ed attribuisce invece la ribellione dei genovesi all’imprudente e cattivo governo dei Ministri di Francia ed alla volontà del popolo d’impedire che il Re effettuasse la sua intenzione di donar la città di Savona in feudo al Montmorency. Dirò di più, che se questo decreto fosse stato promulgato, e non di fatto abrogato e tenuto come non avvenuto, Ottaviano Sauli non avrebbe nelle sua orazione al Gonte di San Polo ( riferita dal Casoni ) addotta la disgiunzione di Savona da Genova tra i giusti motivi, che avevano i genovesi per sottrarsi [dalla soggezione del Re ; ed il Conte rispondendo al Sauli non avrebbe dimenticato di ricordarglielo. Per convincersi inoltre come le regie autorità nella Liguria non tenessero verun conto del suddetto decreto, leggasi nei documenti pubblicati dal Molini la lettera di Teodoro Trivulzio in data del 27 agosto 1528, nella quale scrivendo essere in G, nova diminuita e quasi cessata la peste, chiede ordini sopra il modo con cui doveva condursi per quanto concerneva le cose di Savona ; c finalmente si ricordi che il Sire della Moretta rimase Governatore di Savona stessa, finché non la cedette, per capitolazione stipulata con Agostino Spinola e Sinibaldo Fieschi. Laonde si deve conchiudere che il Bernabò-Brea ed il Ce-lesia a torto rifiutano d’ammettere che la deliberata ed effettuata disgiunzione di Savona da Genova fosse una delle principali cause del malo umore dei genovesi verso la dominazione francese, come pure che fosse questa la ragione, che determinò Andrea L)’ Oria a levarsi dal servigio di Francia ed a firmare la capitniazion ; coll’Imperatore, nella quale assicurava la lib rtà della sua patria. ( 321 ) die Andrea D’Oria si determinò ad accettare la carica offertagli d Ammiraglio di Spagna, non solo per la considerazione d assicurare la propria persona minacciata dall’ inimicizia del Re di trancia, ma che alla sua risoluzione abbiano anche contribuito moltissimo i consigli dei più cospicui e morigerali cittadini genovesi ; i quali pensavano giovarsi dell1 autorità e del prestigio del di lui nome per poter porre ad effetto il luro disegno di stabilire in Genova un migliore ordinamento, e liberare la patria dalla servitù francese. Il D’Oria non solo bramava la riforma delle leggi e la concordia dei cittadini, ma aveva ferina volontà di coadiuvare a fondare ed a rassodare la libertà della Repubblica. A line d’effettuare questo lodevole intento, egli si decideva pertanto a soscrivere la capitolazione con Carlo V , nella quale appunto l’imperatore s’obbligava a guarentire l’indipendenza di Genova tosto che ne venissero discacciati i francesi. A coloro che rimpiangono la dominazione, od almeno la prevalenza francese in Italia, ed asseverano che la ribellione del D’Oria rese Genova soggetta della Spagna, e fu una delle principali cause di quel predominio straniero, che ridusse per più di 300 anni l’Italia in un’ abbietta servitù; io farò notare che la preponderanza della Spagna, si giustamente lamentata, non dipendeva punto dalla maggiore o minore soggezione di Genova all’ Impero, ma bensì dalla nullità di potenza, in cui erano caduti i varii stati italiani, e specialmente dalla incontestata prevalenza di Carlo V sopra la Francia, dovuta alle vittorie riportate dagli eserciti spagnuoli «opra i francesi. Laonde è da presumersi, che. quand’ anche il re Francesco avesse sprezzato le imputazioni calunniose dei suoi cortigiani, e quindi avesse tenuto in maggior pregio i servigi ed i consigli di Andrea, nulladimeno là superiorità dei Capitani dell' Imperaci Paola conventa a Carolo V Imperatore obsignata anno 1528 2 Avg. Vedansi nelle Oprrc del Sigrnio. Voi. Ili, rag. 1230. ( 322 ) tore sopra quelli del He di Francia avrebbe non solo compensato, ma forse anche annullato i vantaggi ottenuti dalla Francia nella guerra marittima, mediante il sommo ingegno del Ligure Ammiraglio. Rispetto poi al riordinamento di governo stabilito in Genova dopo che ne furono discacciati i francesi, riserbandomi a parlarne più diffusamente, per ora dirò soltanto, che quantunque in esso .si racchiudessero gravissimi diffetti, era però sempre da anteporsi all’ arbitrario governo di Francia ed all’ anarchico reggimento dei Dogi popolari. Mi sembra opportuno dire le cagioni, che movevano i genovesi a scuotere il giogo francese, e ricordare quanto Andrea D’Oria s’adoperasse presso il re Francesco in favore de’suoi concittadini. È un fatto indubitato che Genova fosse ridotta in una miserabilissima condizione dai pessimi governi, che da tanto tempo pesavano sopra di essa. Difatti in quell’epoca la ricchezza pubblica e privata era di molto diminuita, e la miseria aveva raggiunto il colmo della misura soffribile. Ce ne fornisce una prova irrecusabile Teodoro Trivulzio in una lettera del maggio '1528, in cui scrive: « Qua non si può vivere per la gran carestia di ogni cosa, e quel che in Francia vale uno scudo qua vale dieci » (lj. Ed Agostino Pallavicino, nella seduta del 2 aprile 1528 dell’ Ufficio di Balìa, in un suo discorso non dubitò d’affermare : « Che la miseria era giunta a segno, che se non vi si fosse posto un pronto riparo, era necessità andare ad abitare altrove, piuttosto che rimaner in questa Città, che altro non era se non nido di pietre (2) ». {') Archivio Storico Italiano: Appendice, anno 1844: Documenti di Storia Italiana dal '1-522 al 1330, che fanno seguito a quelli pubblicati da Giuseppe Molini. (’) Leges novae, del 1528, mss., clic trovansi nelle Biblioteche pubbliche di Genova f*d in moltissime Librerie private, e che io pure possiedo. ( 323 ) A dimostrare quanto dovesse essere pesante ed intollerabile ai cittadini genovesi, di qualunque ceto o fazione, colesta signoria forastiera, giova rammentare, oltre i danni ricevuti dalle continue ed impudenti violazioni dei privilegi e dei diritti loro conceduti per parte dei Ministri francesi, il tentativo fatto dalla Corte di Francia, in opposizione alle pattuite convenzioni, d’imporre nuovi e straordinarii balzelli. È noto che il Visconte di Turenne, in una adunanza pubblica in presenza del Regio Governatore, chiedeva in nome del Re, sotto colore d’imprestilo, un sussidio forzoso in contanti: imposta che i genovesi avrebbero dovuto immediatamente pagare, se Andrea non si fosse posto a capo dei cittadini più notevoli per opponisi, e non avesse respinto la sovrana richiesta coi dignitosi concetti dal Casoni rapportati(1). Finalmente io pregherei coloro, i quali son d’opinione che se il D’Oria dopo aver discacciato i francesi da Genova, non si fosse fatto mantenitore e puntello di Carlo V e di Filippo II, ed avesse in vece contratto alleanza colla Francia, o pure avesse seguita la neutralità consigliata da Ottaviano Sauli (2), s’ avrebbe potuto stornare il mal seme spagnolo, ed impedire all’Italia di farsi strumento del proprio servaggio (3); io, ripeto, li pregherei di por mente che il re Francesco, appena ebbe notizia della rivoluzione avvenuta in Genova, ordi-n iva subito al Conte di San Polo di ricuperare la Città colle armi, e di riporre i genovesi sotto la dura ed odiata servitù francese. L’impresa contro Genova tentata dal Conte di San Paolo ebbe esito infelice, e per conseguenza i Genovesi conservarono la riacquistata indipendenza ; ma per certo non conseguirono nè l’amicizia, nè l’alleanza della Francia. Coloro, che potessero (') Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Libro 111 (’) Vedi in Bernabò-Brea (Opera cit., pag. 124) la lettera d’Ottaviano Sauli a questo proposito (') Celesia, Opera cit. pag. 9; Bernabò-Brea, Opera cit., pag. XX111. ( 324 ) persistere in un tale sentimento, io li inviterei inoltre a leggere quel brano di lettera di Renzo da Ceri, scritta ila Aquila il 14 agosto 1528, riferito dal Guerrazzi ('), e dalla quale agevolmente si deduce lino a qual punto giungeva il malo umore della Corte contro i genovesi, e si può congetturare che tra i cortigiani ed i ministri del Re Cristianissimo eranvi non pochi, i quali approvavano, e forse avrebbero pur essi consigliato i medesimi atroci provvedimenti contro Genova espressi con tanto cinismo dall’emulo del D’Oria, che era lo stesso Renzo. Io penso che nessuno vorrà affermare che i genovesi a torto abbonassero la dominazione francese, perciocché l’esperienza aveva loro dimostralo essere questa intollerabile al pari della spagnuola, che gravitava sù Milano e Napoli (2); e perciò prescegliessero di reggersi da per se stessi, con quelle leggi che in quei tempi poco propizi alle libere istituzioni erano loro consentite. E questa preferenza era invero assai ragionevole, imperocché colle leggi del 1528 essi godevano d’un reggimento più largo di quello della Repubblica di Venezia, e più fermo dei governi anteriormente esistiti in Genova. Di maniera che col governo degli Ottimati stabilito dalle suddette leggi, eglino se non poterono riacquistare l’antica potenza, fecero però sì che gravitasse meno sopra loro il despotismo, a cui andavano in que’ giorni soggetti i sudditi dei grandi Stati monarchici d’Europa. (') Gueurazzi, Vita di Andrea Doria, vol. J, capo IV, pag. L’illustre scrittore trasse quesla lettera dai Documenli della Storia d'Italia pubblicati dal Molini. (2,i A (in ■ di formarsi un esatto concetto del modo d’ agire c di governare adoperato dal re Francesco I nelle provincie d’Italia a lui soggette , leggasi Donato G annotti nel Capo XVII della Repubblica fiorentina, Verri Pietro nella Storia di Milano, non che le Croniche Mucrone milanesi. Dalla lettura di questi scrittori si può inferire, che il despotismo frances1 differiva assai poco dalla tirannide spagnuola od austriaca. ( 325 ) VII Volendo rettamente apprezzare il secondo periodo della vita di Andrea D’Oria, reputo necessario di suddividerlo nei seguenti capi-' ì.° la condotta da lui tenuta durante la rivoluzione del 1528; 2.° la parte, ch’egli prese nella formazione delle nuove leggi; 3.° in che consistesse la riforma di Governo da lui propugnata; 4.° il contegno che serbò in occasione della congiura di Gianluigi Fieschi; 5.° il suo procedere nel governo di Genova prima e dopo l’attentato contro la Repubblica commesso dal Conte di Lavagna; 6.° l’autorità ch’egli ebbe nell’amministrazione interna; 7.° la politica tenuta dalla Signoria nelle sue relazioni internazionali dietro i consigli e l’autorità del D’Oria. I. Non havvi nelle relazioni dei diversi storici veruna rilevante diversità sopra il modo, col quale nell’anno 1528 i francesi furono discacciati da Genova, e la Repubblica venne restituita in libertà. Nondimeno i sindacatori del D’Oria mossero varii dubbi sulla parte da lui presa in questa circostanza; e risolsero, contrariamente all’ opinione fin adesso accettata, due punti storici stati oggetto di discussione tra gli scrittori contemporanei ; e questi sono : 1,° di stabilire se l’espulsione dei francesi, effettuata da Andrea il di 12 settembre 1528, sia stata da lui operata col consenso e coll’ approvazione dei migliori e più rispettabili tra i suoi concittadini, o se pure, essendo questi dissenzienti, egli si prevalesse, per raggiungere lo scopo ambizioso d’insignorirsi di Genova , dell’ occasione offertagli dalla pestilenza che rendevala deserta, come pure dallo scarso presidio francese; 2.° di indagare quali fossero le cagioni che indussero il D’Oria a rifiutare l’esibizione, che in nome, od almeno col consenso dell1 Imperatore, gli veniva ( 326 ) fatta dai Ministri spaglinoli, d’assumere il Principato di Genova. Profferta da lui rigettata malgrado i perfidi ed interessali consigli di taluni cittadini. che, anteponendo al pubblico bene la loro ardente brama di dominare in nome di Andrea, 10 incitavano ad accettarla. Intorno alla prima delle suddette questioni, devesi diligentemente esaminare il modo da lui tenuto per operare il citato rivolgimento. Ora sappiamo dalle lettere sopraccennate (')> m-dirizzate al re Francesco I ed al Montmorency, che Andrea, sebbene occulto fautore delle leggi dell' Unione, nel suo carteggio però s’ asteneva di farne menzione , e restringevasi a chiedere in favore dei genovesi l'adempimento esatto e costante delle convenzioni pattuite. È adunque manifesto non essersi deciso il D’Oria ad unirsi apertamente ai suoi amici, che volevano riordinare il Governo di Genova e ricostituire la Repubblica, se non quando ebbe la certezza che erano completamente vane presso al Re le calde sue raccomandazioni in beneficio della Patria, ed allorquando dalle relazioni di Giambatista Lasagna si conobbe in Genova l’irrevocabile decisione della Francia d’instituire a capitale della Liguria la città di Savona (-). In queste fatali circostanze i più influenti ed autorevoli nobili e popolari appartenenti alle fazioni Adorna e Fregosa, tra 1 quali specialmente si distinguevano nella prima Agostino Spinola e Sinibaldo Fieschi, e nella seconda Adamo Centurione ed Agostino Pallavicini , concorsero unanimi nel sentimento che fosse giunto il tempo di insorgere contro il tirannico dominio francese. Ora, al fine di conseguire il suindicato scopo, 11 Magistrato di Balia giudicando necessaria la cooperazione di Andrea, come riferisce il Casoni (-1), deputò ad esso uno de suoi (*) Vedi le lettere riportate nell’ Appendice a questo lavoro. (*j Casom, op. cit. Lib. III. (z) Casoni, op. cit. Lib. Ili; Cibo-Recco, Heipubblicae Genuensis gesta ab anno 1100 us'jve J 528 (MS). ( 327 ) membri, cioè Giovanni Davagna, ad informarlo : « Che eravi pericolo la Città rimanesse oppressa, se egli, seguendo il ^uo costume e la solita pietà verso la Patria, non fosse venuto subitamente a farsi autore ed esecutore insieme della di lei liberazione. Si assicurasse, che siccome erano a parte del medesimo disegno i migliori e più degni cittadini, cosi concorrerebbero i medesimi a partecipare seco del pericolo e della gloria di quel tentativo ». Il Casoni non riporta la risposta di Andrea; però questa lacuna dell’Annalista genovese vien riempiuta dal Du Bellay, il quale ci dà un sunto di quanto il D’Oria stesso commetteva al Davagna di riferire in suo nome al Consiglio di Balia: « Che, cioè, avrebbe operato per il suo paese quanto gli permetteva il proprio onore, e profittato dell’occasione, ch’egli inviava un suo amico (') al Re di Francia a supplicarlo di dargli quanto gli avea promesso pel riscatto del Principe d’Oranges, e pel pagamento degli stipendi arretrati, onde chiedere al Monarca d’appagare i giusti riclami dei genovesi, aggiungendo esser ferma sua intenzione, che qualora il Re non accondiscendesse alle sue domande in prò’ di Genova, si unirebbe al Magistrato di Balia ed agli altri spettabili cittadini per liberarsi dalla dominazione francese e riacquistare la libertà ». Dalle suddette pratiche, menzionate dall’Annalista genovese e dall’Apologista del re Francesco I, si può inferire che il rivolgimento operato in Genova da Andrea non fosse che l’esecuzione d’un piano combinato tra lui ed i più rispettabili ed influenti cittadini. Infatti, per raggiungere lo scopo di rivendicarsi in libertà, venne scelto un momento in cui gli abitanti di Genova potevano occuparsi della cosa pubblica, giacché la terribile epidemia era di modo diminuita che potevasi (') Era questi Erasmo D’Oria cugino di Andera; dal quale fu puro inviato a Madrid a negoziare la sua condotta coll'imperatore. ( 528 ) dire quasi cessata ('), e l’irritazione contro la tirannide era pervenuta al massimo grado, per la risoluzione del Re di conservare la città di Savona indipendente da Genova, e concederle, in nocumento delFUfficio di San Giorgio e degl’interessi commerciali dei genovesi, molti privilegi; ciocché assicurava il concorso e l’approvazione della plebe e della maggioranza del popolo grasso al progetto di riordinare la Repubblica, sopprimendo le fazioni, e di scacciare i francesi da Genova. Premessi questi fatti, sembrami poter asseverare che la rivoluzione operata da Andrea non si debba attribuire, come opinavano i contemporanei partitanti di Francia, ad un repentino ed ardito assalto, riuscito soltanto a causa della viltà delle galee francesi che si trovavano nel porto (le quali spaventate da questo improvviso attacco conseguirono la loro salvezza per mezzo di una pronta fugai, e dalla poca resistenza opposta dal Regio Governatore, che, non avendo forze sufficienti per reprimere l’insurrezione, e sbigottito dall’unanime volontà della popolazione di scuotere il servaggio, giudicò opportuno venire a capitolazione col D’Oria (2). In questo sentimento però non concordano i chiarissimi signori Bernabò-Brea e Celesia, poiché affermano che Andrea discacciasse i francesi da Genova contro la concorde volontà de’ suoi concittadini, e -con grave dispiacere degli stessi suoi congiunti ; e adducono in prova la lettera del 18 agosto, scritta al re Francesco dalla Famiglia D’Oria, nella quale essa si avviliva a segno da rigettare Andrea dalla parentela ed amicizia, e con ogni maniera d’abbiezioni si umiliava al Re. Inoltre oppongono l’autorità del Bonfadio, il quale assicura C) Lettera di Teodoro Trivulzio al re Francesco I, in data del 27 agosto '1528. (V. Archivio Storico Italiano: Appendice, dicembre 484-ì). (*) A dimostrare l’intelligenza che passava tra Andrea D’Oria ed il Magistrato di balìa leggasi il Casoni (pag. 212, Lib. ili), dove riferisce l’psito della deputazione inviala al D’Oria stesso dal Senato ad istanza del Trivulzio. ( 32a, come pure l’eleggibilità agli uffizi civili e militari. Finalmente la libertà politica ei la ritiene essere un diritto riconosciuto per legge nella nazione di concorrere all’elezione dei propri Magistrati, di sindacare gli atti del Governo, e di farne parte in-direilamenie nominando i rappresentanti al Parlamento. (*) Che lo Statuto criminale di Genova fosse pessimo ò cosa incontestata ; però è bene osservare col chiarissimo giureconsulto Pietro Torre (Legislazione di Genova, nella Guida di, Genova, Vol. II; pag. 369, Genova, 1846) che i » ( 341 ) silo conceduto alle chiese ed ai conventi, e per l’abuso di lorza arrogatosi nei loro palazzi da prepotenti cittadini spettanti all’ ordine della Nobiltà. La libertà civile era ristretta dalla censura preventiva, che impediva di liberamente scrivere e pubblicare i propri pensieri; la tolleranza religiosa era altresì proscritta dalla autorità conceduta alla potestà ecclesiastica, la quale rigorosamente invigilava perchè non fossero divulgate massime, che si mostrassero favorevoli alle dottrine insegnate dai promotori della Riforma religiosa; i diritti individuali erano limitati dai privilegi speciali, conceduti soltanto agli inscritti nel Liber Civilitatis-, mediante i quali a qresl’ essi era riservalo il monopolio della eliggibilità alle Magistrature civili, ed fai comandi militari. Ora questi privilegi avevano per effetto d’annullare la civile eguaglianza, e di dividere i cittadini in due classi tra loro profondamente avverse. - Finalmente la libertà politica era nulla, perché la Nazione non aveva la facoltà di sindacare gli atti del Governo : diritto che è I1 unica, guarentigia efficace, che abbia il popolo contro l’arbitrio e gli errori commessi da coloro che reggono la Repubblica. Il reggimento statuito dai dodici Riformatori non era per certo né un governo dispotico, nè un governo democratico, ma piuttosto tendeva a formare uno Stato di ottimati ; e le leggi del 1523 sarebbero state assai pregevoli, qualora il benessere materiale e morale dei cittadini non inscritti nel Liber Civilitatis avessero avute maggiori guarentigie contro le ingiustizie, che a loro danno potevano commettere taluni prepotenti dell’ordine dei nobili; giacché il Governo essendo debole, non bastavano a proteggerli né l’istituzione dei Supremi Sindacatori, nè l’emulazione tra i nobili nuovi ed i vecchi. Ma io difetti della legislazione penale della nostra Repubblica possono essere scusati, quando si consideri che le altre legislazioni penali di quei tempi in Europa non erano punto migliori. ( 342 ) non proseguirò più oltre ad enumerare i difetti che nelle leggi del 1528 si potrebbero dalla critica moderna rinvenire; qualora fossero sottoposte ad un esame basato sui principii dettati dal presente progresso delle scienze sociali. Bensì giudico opportuno e di maggior interesse indicare le imperfezioni e le lacune, che in esse erano lamentale dai contemporanei. Queste furono descritte ed enumerate con molto discernimento dal già ricordato Matteo Senarega('), da Giambattista e Scipione Spinola (i), e da Goffredo Lomellini (3); e sono i gravi inconvenienti, cui trasse seco l’aggregamento in 28 Alberghi delle Ou y famiglie nobili con quelle dei più ragguardevoli fra i merca-danti e gli artigiani; ed il modo inconsiderato, col quale foi-maronsi tali unioni; il non aver dichiaralo con esattezza le arti meccaniche, l’esercizio di cui era impedimento ad esseie inscritto nell’ordine dei nobili; l’istituzione dei Governatori perpetui, mediante la quale i cittadini potenti conservavano la loro influenza negli affari pubblici, ed acquistavano una continua prevalenza nei Consigli della Repubblica; la grande ed indefinita autorità data ai Supremi Sindacatori; 1 aver istabi lito che i due Consigli si componessero d’individui estraiti a sorte, per cui eravi molta probabilità, anzi certezza, che i varii Magistrati fossero composti d’uomini inesperti e non idonei a disimpegnare le gravi attribuzioni di loro competenza; e finalmente l’aver lasciato (non per effetto di legge, ma piuttosto a cagione d’una tacita transazione) proseguire l’antica usanza di comporre i pubblici uffici assegnandone una metà ai nobili vecchi, e l’altra ai nobili nuovi. I sopra indicati difetti sono invero assai rilevanti, e pei ciò era d’uopo di sopprimerli completamente, o pure diminuii li, (’) Relazione di Genova, Ms. (2) Commentarii delle cose di Genova dal 1561 al I óTO; Discordie, ecc. del I •> C) Ragguaglio delle varie mutazioni e rivoluzioni di Governo, ccc. Ms. ( 343 ) mediante successive riforme; e tale intento potevasi conseguire , giacché i Riformatori davano appunto al Doge e ai due Col-legi la facoltà di modificare e di variar le leggi da loro promulgate. Ma coteste pacifiche riforme dello Statuto genovese uon ebbero luogo, parte per colpa degli uomini che governavano, ma specialmente a causa della miserabile condizione dei tempi ; essendo evidente che a ciò erano contrarii i Monarchi assoluti 5 i quali dominavano allora in Europa. Senza questo insuperabile ostacolo io son persuaso, che il minor Consiglio e la Signoria sarebbero stati tanto accorti da non mancare di trovar modo, con un maggiore sviluppo delle libere istituzioni, di togliere dalla Costituzione del 1528 i lamentati difetti, conservandone però sempre le basi fondamentali. Frattanto conchiudo, che la forma di Governo stabilita dopo la ricuperata libertà sotto gli auspicii del D’Oria ben meritava gli elogi, che le furono tributati da illustri statisti italiani e stranieri ; perciocché i suddetti encomi i non sono da tenersi come un ossequio verso la fazione vincitrice, ma bensì devono essere considerati come un sincero omaggio alla costituzione più libera, che si potesse conseguire in quella miseranda epoca, nella quale imperava Carlo V, regnavano Francesco I ed Enrico Vili, ed i Principati italiani erano retti da Cosimo De’ Medici, da Pier Luigi Farnese, e dal pontefice Clemente VII. IV. La congiura del conte Gian Luigi Fieschi è senza dubbio un interessante episodio della Storia di Genova. I chiarissimi Guerrazzi e Celesia lodaronla assai, ed anzi quest1 ultimo ne ha tessuto un’ampia apologia; talché, quando si prestasse fede alle narrazioni dei predetti scrittori, si dovrebbe dire che la morte di Gianluigi e la repressione della di lui sollevazione si hanno da considerare come una grande sventura, non solo per Genova, che, mediante il mutamento di Governo operato dal Conte Fieschi. sarebbe stata liberata dalla tirannide spa-gn”ola, ma altresì per tutta Italia; poiché, togliendole il van- ( 344 ) faggio di giovarsi dell’alleanza di Francia, essa definitivamente soggiacque alla servitù di Spagna e dell’impero. I predetti scrittori, o quelli i quali convengono in questa opinione, e fra gli altri il Bernabò-Brea, stimano infatti che, caduto il Oria, da essi reputato il più saldo puntello della potenza di Callo V in Italia, le repubbliche di Firenze e di Siena non avrebbero perduto la loro libertà, Napoli sarebbesi francata dal giogo spagnuolo, e Pier Luigi Farnese non sarebbe caduto vittima delle trame combinate di Andrea D’Oria e di Ferrante Gonzaga. E cosi converrebbe riconoscere nella repressione dell attentato contro l’indipendenza di Genova operato dal Conte di Lavagna, la causa unica per cui l’Italia tutta, malgrado l’appoggio di papa Paolo III e del re Francesco I, non ha potuto trovare nel Fieschi o nel Farnese il liberatore cercato da Nicolò Machiavelli in Cesare Borgia. Non essendo mio intendimento narrare qui i casi della suddetta congiura, non investigherò minutamente i motivi che indussero il Fieschi ad imprenderla, nè i modi iniqui da lui adoperati per eseguirla, come pure non discuterò i suoi segreti progetti, nel caso che fosse riuscito a raggiungere lo scopo propostosi. Ciò non pertanto giudico opportuno premettere, che 10 non posso concorrere nell’opinione espressa dal Celesia('), 11 quale assicura che Gianluigi avesse per fine d’effettuare in Genova i consigli dal celebre statista Donato Giannotti sugge-geriti a Paolo III medesimo, nel suo Discorso delle cose d’Italia. Imperocché, appoggiandomi alle testimonianze dei più autorevoli scrittori contemporanei, non so persuadermi che tanto elevati concetti potessero mai determinare il Fieschi a commettere un sì criminoso attentato contro la Patria. Ho invece l’intimo convincimento, che le vere cagioni, le quali a ciò spinsero il Conte, fossero il livore e l’odio da lui nudrilo f1) Congiura, ecc., capitolo V, pag. 91 e seg. ( 545 ) contro Andrea e Gianneitino D’Oria, e l’ambizione che rodeva I animo suo ('), e lo tormentava per la smania di non essere da meno di Giannettino stesso, e di riacquistare l’autorità e la potenza già goduta in Genova dall’avo suo Gian Luigi nel- I anno 1507; dimenticando come il di lui padre Sinibaldo, 6 un di lui congiunto, Francesco Fieschi. priore del Magistrato di Balia nel 1528, fossero stati tra i principali autori della liberazione di Genova dal servaggio di Francia, sotto cui egli agognava ora di rimetterla. Mi limiterò pertanto ad esporre il concetto che mi sono formato di questa congiura; e che invero differisce molto dalla splendida apologia scrittane dall’ eloquente Celesia. Innanzi tutto dico che nulla si può affermare con certezza sopra le occulte intenzioni di Gianluigi ; giacché non pervenne a nostra cognizione nessuna lettera o documento scritto da lui, che in modo diretto od indiretto ce le sveli. L’amore del minuto popolo, di cui egli facea sfoggio, la necessità di distruggere la potenza di Andrea per torre Genova dal servaggi!» di Spagna, il pericolo dell’imminente tirannide di Giannettino, la sua affermazione che quest’ ultimo avesse tentato di farlo uccidere da prezzolati sicarii ; tutti questi argomenti da lui posti innanzi per dimostrare essere necessario d’operare una .(’; Matteo Senarega (Relazione citata, Capo 48: Dei danari privati) attribuisce anch’esso all’ambizione, ed alla smisurata ricchezza del Fieschi la principal causa, che mosse il Conte ad imprendere la sua congiura ; e scrive : • Li uomini ricchi nelle Repubbliche sono sospetti ed invidiati, ne segue clic non potendo costoro vivere tranquillamente privati, cercano d’assicurarsi con la tirannia, alla quale, oltre l’ambizione che portano sempre con loro le ricchezze, sono anche da qualche altra cagione incitati, come si vidde nella congiura del Fiesco, alla quale più mancò la fortuna clic la virtù, e nella quale si fece più chiaro del sole che le grandi ricchezze sogliono essere cagione di gran rovina ». il ragionamento del Senarega potrebbe però' andar soggetto a qualche obbiezione. lo noterò solo, che dall’autorità di lui, per certo non sospetta d’adulazione alla fazione vincitrice, si può dedurre come 1’ ambizione e l’invidia verso la famiglia D’Oria, e le straniere suggestioni servissero d’incitamento a Gianluigi. ( 34G ) rivoluzione, erano declamazioni o pretesti più o meno felicemente pensati ed usati con perspicacia , nello scopo di sommovere le passioni delle moltitudini e dei suoi aderenti, e di nascondere loro, sotto il fìnto velo dell’ amor patrio, i suoi ambiziosi proponimenti. Però, se a noi non pervenne esatta notizia dei molivi che lo condussero ad ideare ed effettuare questa congiura, e se ignoriamo quali fossero i suoi disegni qualora avesse conseguito il suo scopo, e solamente ci è permesso congetturarli mediante induzioni più o meno fondate, per 1’ opposto siamo più istrutti per poter giudicare rettamente sopra i modi da lui posti in opera, onde compierla ed assicurarne 1’ esito. Gli storici genovesi narrano distintamente le arti dal Fieschi adoperate per blandire gli animi dei cittadini esclusi dal Governo, e rendersi accetto alla plebe per mezzo d’ ampie largizioni pecuniarie. Essi ci dicono altresi come Gianluigi non dimenticasse di valersi dell’ amicizia e della comunanza di disegni, che aveva col Farnese, ed inoltre quanto si prestasse ad ascoltare le perfide istigazioni dei mandatarii del Governo francese. Di latti è noto che, sul finire dell’anno !545, il Fieschi recatosi in Roma, vi segnava un accordo col Papa, con Pier Luigi farnese, e col cardinale Agostino Trivulzio, incaricato degli interessi di Francia presso la Corte Pontificia; obbligandosi a ristabilire in Genova il dominio del re Francesco I, nella stessa condizione in cui trovavasi allorché il D’Oria ne discacciava i francesi, mentre in premio di questo rivolgimento il Trivulzio, in nome del Re stesso, gli prometteva che verrebbe nominato Governatore a vita in Genova, colle medesime attribuzioni che avevano avute Ottaviano Fregoso e Teodoro Trivulzio. I suddetti patti però non appagavano la smodata ambizione di Gianluigi, d quale avrebbe desiderato d’essere Principe assoluto della sua patria, nella stessa guisa che Cosimo De Medici lo era in Firenze. Per raggiungere questo scopo sappiamo ( U1 ) uh egli tentava ulteriori negoziati col Cardinale suddetto, ed apriva anche delle nuove pratiche colla Corte di Francia, giovandosi dell interposizione di Cagnino Gonzaga; ma le sue proposizioni lurono rigettate dal Re, il quale si mostrò irremovibile nel volere che si mantenessero le condizioni conchiuse iri Roma. Il rifiuto del Governo francese d’aderire alle sue ambiziose proposte, non distolse però il Fieschi dalla meditata impresa. E ciò fu cagione, ch’egli, simulando con Francia, si decidesse a seguire il consiglio del suo amico Verrina, d’effettuare cioè la rivoluzione in Genova non già in nome del re Francesco, come portavano le pattuite convenzioni, ma bensi nel suo proprio nome. E questo pensiero ei l’effettuò per altro, tosto che ebbe ricevuti i sussidii inviatigli dal Monarca, e quattro galere dal Papa, da cui fingeva averle comprate (!), e potè far conto sopra quattro mila fanti promessi da Pier Luigi , che poi si ridussero a due mila condotti appena ai confini dei Feudi dei Fieschi. Parmi inoltre manifesto, eh’ egli abbia preso cotesta risoluzione, nella speranza che, ottenendo un successo momentaneamente prospero, avrebbe conseguito dal Re quei maggiori soccorsi, di cui senza dubbio aveva mestieri per istabilire in Genova quella forma di Governo, che meglio sarebbe convenuta alla Corte di Francia; e perciò si teneva sicuro che il Re 1’ avrebbe riconosciuto in qualità di Principe o di Doge a vita. (') Vedi Rèqueste au Roy et Mémoire de Monsieur le Comte de Fiesque, pour ses pretensions et droits contre la Repubblique de Gènes; Paris, 1681 ; e Seconde Rèqueste présentée au Roy par le Comte Louis Mario Fiesque , 1683. A propositu di queste Memorie del Conte Luigi Mario Fieschi a Luigi XI sr, osservo che fin al giorno d’oggi non si conobbe quali fossero i patti definitivi stabiliti dal Re di Francia col Conte di Lavagna ; e noto inoltre clic la clausola introdotta in favore del Fieschi medesimo nel Trattato di pace dettato alla Repubblica di Genova, e segnato in Versailles il 12 febbraio 1683, è stato l’effetto d’una biasimevole iiritazione di que.1 He contro Genova, ed un tardo risarcimento dei danni sofferti dalla famiglia Fieschi pei suoi servigi alla Francia. ( 5i8 ) Dopo ciò, porto opinione che gli storici Bonfadio, Foglietta, Campanaceo, Capelloni, Mascardi. Sigonio, Casoni, e gli altri che seguirono le narrazioni dei predetti ('), volendo (’) Nessuno scrittore di questa memorabile congiura ci diede un esatta notizia sopra le cause, per cui il Senato ed il D’Oria abbiano ricusato di prestar fede ai ripetuti avvisi loro inviati da Ferrante Gonzaga, per mezzo dell’ Oratore di Spagna, e siensi quindi lasciati cogliere dalla sollevazione del Fieschi all’improvviso e senza difesa. Cotesta inescusabile imprevidenza reca maggior maraviglia, quando si pensa che al Senato ed al D’Oria doveano essere note la compra fatta dal Conte di Lavagna delle galee del Farnese, e l’introduzione in Città d’una certa quantità de’suoi villici per armarle. Questo fatto è finora inesplicato; ma si potrebbe chiarire col supporre che ai Rettori genovesi fossero sospette le rivelazioni dei .Ministri Spagnuoli; ed a provaro quanta ragione essi avessero di non fidarsi della sincerità del Figuerroa e di Ferrante Gonzaga, mi basti dire che la Signoria, del pari che il D’Oria, non ignorava che molti dei Min.stri Spagnuoli, tra i quali il Gonzaga stesso, vedevano con dispiacere la libertà di Genova, ed avrebbero desiderato d’ aggregare Genova ed i paesi componenti la Repubblica al Ducato di Milano, allora ridotto in provincia spagnuola. Mi sembra che Uberto Foglietta in un brano della sua Congiura del Fiesco ci fornisca la chiave per poter riempiere questa lacuna. Infatti si scorge evidentemente un intrigo dei Ministri Spagnuoli, laddove il Foglietta senza vedervelo, o pure non indicandolo, racconta che Paolo Lasagna, uomo influente presso i nobili popolari, d’accordo Coll’Oratore Spagnuolo, allorquando i Senatori adunati in Palazzo, e presi da terror panico, erano pronti a scendere a patti col Conte, radunava in sua casa una grande quantità d’ amici e di clienti armati, non conducendqli al servigio del Governo per reprimere la sedizione, ma bensì trattenendoli presso di sè, nell’intenzione, se la sommossa del Fieschi fosse stata repressa, di non moversi e rimanersene tranquillo spettatore; ma qualora la stessa avesse avuto buon esito, e fosse riuscita a porre in pericolo, od anche a rovesciare il Governo, di use re armato con la sua gente operando una controrivoluzione al grido di viva Adorno e Spagna. Il Figuerroa ed il Lasagna si dovevano reputar sicuri di raggiungere il loro intento , perchè avevano la certezza che il minuto popolo ed il popolo grasso avrebbero preferito il reggimento del capellazzo Earnaba Adorno, sotto la protezione di Spagna, a quello del nobile guelfo Gianluigi Fieschi, che li avrebbe riposti sotto l’abborrito giogo di Francia. La narrazione del Foglietta ci vien poi confermata da un documento irrecusabile, quale è la lettera del Senato, in data del 31 gennaio 1547 all’ambasciatore Ceva D’Oria (Vedi BEitiVAi)ò-BnEA, Documenti inediti, ecc., pag. 55), nella quale si nota come questo maneggio ddl’Oratore ( 349 ) scusare o diminuire l’imprevidenza, che potevasi apporre al Senato ed al Principe D’Oria per essersi lasciati sorprendere da questa sommossa, l’abbiano assai amplificata, descrivendo di Spagna fosse biasimato dal Senato stesso, benché perù da esso tollerato in silènzio, ma dalla popolazione sentito con indegnazione; di maniera che essendosi sparsa voce come fosse intenzione dei medesimi di rinnovare il grido Adorni e Spagna, i cittadini andavano per la Città determinati a difendere il governo della Repubblica. Questo tentativo del Figuerroa e del Lasagna spiega altresì la ragione, per cui il Senato nelle istruzioni date al medesimo Ceva Doria (V. Bernabò-Duiìa, Opera cit.) slimò necessario prescrivergli il modo che doveva tenere nel narrare i fatti accaduti ; e da questa precauzione sembrami potersi inferire come il Senato giudicasse interesse del Governo il tacere, o simulare, qualche fatto spiacevole alla Corte di Spagna. Parmi inoltre col sovra esposto dimostrato ad evidenza eh- il Senato ed il D’Oria non diffidassero a torto degli avvisi ricevuti dal Figuerroa e dal Gonzaga. Imperocché conoscevano quanti la libertà di Genova fosse invisa a quest’ultimo ed alla Corte di Madrid; però prudentemente lo tacevano essi, e non permettevano ad altri di pubblicamente palesarlo. Da questo motivo provenne l’anzidetta lacuna che trovasi nelle narrazioni di questa congiura fatte dagli scrittori genovesi. 11 mal talento della Corte di Spagna rispetto alla libertà ed all’indipendenza della Repubblica era sospettato e conosciuto dai genovesi, quindi ne sorgeva un’ universale inclinazione avversa agli spagnuoli, come si rileva dalle lettere manoscritte di Ferrante Gonzaga all’imperatore Carlo V. Gli avvenimenti posteriori alla congiura del Fieschi resero vieppiù palese la mala volontà del Governo Spagnuolo contro la libertà della Repubblica ; ed io credo utile di rapidamente indicarli, onde mostrare la prudenza del Senato e del D’Oria, come pure l’amore dei genovesi verso la forma di Governo istituita nell’anno 1528. A questo proposito si devono pertanto rammentare gli incessanti intrighi adoperati dal Gonzaga nel 1547 e nel 1548 per costruire in Genova una Fortezza , onde porvi guarnigione spagnuola, nè si deve tacere la profonda dissimulazione di Carlo V, il quale mentre approvava le deliberazioni contro l’indipendenza dì Genova conchiuse nel Convegno di Piacenza, assicurava Adamo Centurione: « Che non si parlerebbe più di fortezza da erigersi nella città di Genova ». Finalmente non sono da tacersi i ripetuti tentativi fatti dalla Spagna per assoggettarla direttamente al suo dominio, approfittando delle discordie civili suscitate dalle fazioni dei nobili vecchi e nuovi, e partecipando alla congiura sotto colore popolare condotta da Agostino Satis e da Bartolomeo Coronata. Dei suddetti intrighi così di Carlo V come del re Filippo 11 e de’ suoi Ministri, sebbene abbiano taciuto Scipione Spinola, il Casoni, e con essi la maggior parte degli annalisti genovesi, nondimeno ci offre sicura 23 ( 550 ) Gianluigi per un Catilina ingentilito, e supponendo che la sua congiura avesse maggiori e più validi appoggi, di quelli che in realtà non ebbe; come pure abbiano immaginalo, ch’egli fosse capo d’una numerosa fazione contraria alla ricuperata libertà, la quale, respingendo la dominazione dei nobili, a-vrebbe desiderato il ripristinamento del Dogato a vita, e della Costituzione dell’anno 1413. In questo parere mi confermo, osservando che Matteo Sena-rega, il quale dapprima fu cancelliere e nell’anno 1595 Doge della Repubblica, e perciò era in grado di conosere appieno le più segrete cose concernenti questa congiura, e di più, come si scorge dai suoi scritti, non era avverso al Fiesco; non fece nessuna menzione di rilevanti aiuti forniti a Gianluigi dai Principi forestieri. Nel capo XXXI infatti della sua Relazione, là ove tratta della milizia forestiera stipendiata dalla Repubblica, scrive: » Che non essendovi Repubblica al mondo, che sia manco provvista di truppe della Genovese, sufficienti a poter reprimere un mediocre tumulto, se n’ebbe una prova nella congiura del Conte da Fiesco, il quale ebbe ardire di assaltar la Città e prenderla armato di soli trecento cittadini suoi vassalli, i quali sotto coperta di voler armar le sue galee in corso mise dentro la Città; e credevano alcuni che il Fiesco si fidasse nel popolo, e però non si curava di maggior numero di gente; ma l’effetto dimostrò il contrario, quando il fratello alla mattina volle sostenere, e non potè; ed eziandio la notte nell’ardor del tumulto non fu alcuno del popolo che 1’ agitasse o si movesse mai. Si che per lui non fecero cosa alcuna, se non i propri vassalli, con i gridi delle donne e notizia la relazione tradotta dallo spagnuolo di Antonio Perez (MS. esistente nella Libreria Civico-Beriana ); e nc abbiamo altresì autorevoli indicazioni in Andrea Spinola (Ricordi ed antidoli sopra gli affari e mali dei genovesi, MS.), ed in Giambattista Spinola (Commentarii delle cose successe in Genova dal 1572 al 1576; Genova, 1338 ). ( 3^1 ) elei lanciaiIi ; e sebbene il Senato si spaventò in guisa che mandò il foglio bianco al Conte, che stimava ancor vivo, questo avvenne più per la paura che seco portano i rumori di notte, che per la inclinazione che si vedesse nei popolari di darsi al Conte; ed oltre a ciò, perché allora si conobbero con si piccola guardia disarmati e deboli da non poter resistere ». A dimostrare vieppiù quanto fosse scarso il presidio del Palazzo, e qual fosse lo spavento dei pochi Senatori che in quella notte vi si radunavano, come pure a provare quanto poca fosse la gente appartenente al minuto popolo, che s' uni a Gianluigi allorché tentò d’impadronirsi di Genova, son lieto di pubblicare pel primo, quel che si legge su tale proposito nella autobiografia di Nicolò-Grimaldi Cebà ((), personaggio di gran credito presso i suoi concittadini, talché, nell’anno 1548 sedette fra i membri del Magistrato delle Muraglie, nel 1557 fu inviato a Finale per negoziare col Duca di Sessa, Governatore di Milano, sopra la vertenza di quel Marchesato; nel 1559 venne eletto dei supremi Sindacatori, nel 1563 ebbe il grado di Governatore di Corsica, e nel 1506 fu di nuovo Supremo Sindacatore, e s’annoverò fra i tre, che formarono la maggioranza per condannare il doge Giambattista Lercari (2). (’) Memorie Nicolò Grimaldi-Cebà, scritte 1’ anno lo (io in ricordo ai suoi figli Antonio ed Ansaldo. Autografo incompiuto ( giacché perviene soltanto all’anno 1559), eil esistente nella Libreria dei marchesi fratelli Gerolamo, Nicolò e Giacomo Gavotti del fu Lodovico. Colgo con piacere la presento occasione, per tributare a questi carissimi amici i miei ringraziamenti per la loro esimia gentilezza d’ avermi comunicato sì importante documento. (’) A proposito di ciò stimo notare che il Grimaldi-Cebà nelle dette sue Memorie, tutte spiranti sensi religiosi, non rivela punto quella severità e durezza d’animo, che egli manifestò in questo Sindacamento, e che venne da luì spiegata a testimonianza del Filippini nelle adunanze tenute dill’ Ufficio di san Giorgio, contro gli abitanti dell’isola di Corsica, e contro la mitezza usata nell’ amministrazione di questa da Gaspare dell’Olha. Pensieri e consigli che ( 552 ) L autorità del Cebà, son persuaso, non potrà essere rigettata dagli odierni censori del D'Oria, imperciocché, in queste sue Memorie egli esprime con franchezza e con indipendenza i suoi pensieri, e le sue azioni dimostrano clT ei non piaggiava nessuna fazione. 11 Grimaldi-Cebà cosi scrive adunque: « Per il caso del Fieschi non mancherò di dire, ch’io mi ritrovai nella Città, e sebbene fossi con qualche reliquia di quella febbre eh’ io aveva preso a Roma, non mancai perciò d’ andarmene solo al Palazzo, dove chi avesse veduto la debolezza e la dappocaggine dei nostri concittadini cosi del Supremo Magistrato, come degli altri, avrebbe sicuramente pianto il nostro raso, perchè non correva la Città che pochissimo numero di gentaglia, e ancorché suonasse la campana a martello, tuttavia ognun ritirato in se stesso ed in sua casa pensava a se stesso e non al pubblico bene. E quel di si conobbe quanto la Repubblica fosse orba e vuota di cittadini, e ben piena di femmine. Entrai in Palazzo, dove vidi quella poca parte di Senatori, che vi erano concorsi, più con viso di morte, che con faccia di veri governatori. E certo é una miseria il pensare che cosi poco numero di cittadini ne atterissero un così grande ; e statovi un pezzo, uscii fuori per far raduanza con alcuni cittadini sotto il nostro capo assegnatoci, col quale e con quei pochi % cercò effettuare quando fu Governatore nella medesima, dove appunto per l’aspro governo , provocò numerosi tumulti, ed agevolò così la ribellione promossa da Sampiero della Bastelica. Rammentando la condotta di Nicolò nei Consigli di San Giorgio ed in questo Governo, colgo poi lloccasione per far notare come il sistema tenuto dai nobili popolari verso le città convenzionate ed i popoli sudditi, se non fu più acerbo, era per lo meno altrettanto duro di quello propugnato dai nobili antichi. In prova di che , oltre la condotla tenuta nella Corsica stessa dal Cebà, adduco la consulta avvenuta nel 1528 in S.nato, riguardo al modo da tenersi versola città di Savona, dove prevalse il parere di Agostino Pallavicino, severo si ma più mite di quello espresso dal nobile popolare Giambattista Fornari, il quale consigliava di distrurla. ( òDO ) che si ritrovavano andammo alla volta del Castelletto, dove tutta la polvere della Città era ridotta, ed io restai capo di venti compagni alla guardia di essa, ma in spazio di mezza ora lai quasi abbandonato da tutti ; non ostante non mi volli partire sino che non intesi che li Fieschi erano fuori della Citta, ed ho voluto più presto far mio debito con certezza di poco giovamento che mancare a me stesso ». Dalle relazioni degli storici sincroni, dalla istruzione data dal Senato all'ambasciatore Ceva D’Oria , e dalle autorevoli testimonianze testé riferite, puossi pertanto conchiudere, che Gianluigi Fieschi operò il suo tentativo d’ insignorirsi di Genova, accompagnato dai fratelli, da pochi complici, e da ventitré giovani appartenenti a famiglie nobili popolari (’), non consapevoli della congiura, trattivi quasi per forza dopo la cena nel Palazzo di Vialata, a cui erano stati invitati dal Conte, oltre a trecento contadini de’ suoi Feudi da lui pagati ed armati. Da tutte le relazioni più o meno favorevoli a questa congiura risulta inoltre, che il conte Gerolamo, benché percorrendo le vie della Città gridando, Gatto, Libertà e, Fieschi, tentasse di sollevare il popolo in suo favore, da pochissimi nondimeno veniva seguito. I cittadini, pieni di timore, chiude-vansi nelle proprie case; sì poca era la simpatia del popolo verso i Fieschi, e così forte lo spavento e 1’ orrore incusso negli animi. E qui è da notare, che la ripugnanza d’unirsi alla ribellione del Fieschi, non fu solo nei nobili popolari ed aggregati, e nel popolo grasso, come vorrebbero supporre gli apologisti del Conte di Lavagna, ma s’ estese eziandio al minuto popolo, che pure suole essere così proclive ai mutamenti di Governo, nella speranza che hanno sempre i poveri e gli O) Onde convincersi ognora più clic la maggior parte di questi giovani nobili seguissero mal volentieri Gianluigi Fieschi nella sua impresa, leggasi la descrizione fattane nel Memoriale dato a Ceva D’Oria dal Senato, e pubblicato dal Bernabò-Brea (Opera citata) ( 554 ) ignoranti, sollevandosi contro gli agiati ed istrutti, d’intromettersi nelle magistrature da cui sono tenuti lontani. t altresì da aggiungere, che avversi al Fieschi non solo si mostrarono i cittadini genovesi, ma si diportarono benissimo nella difesa della libertà di Genova quanti còrsi vi si trovarono , fossero essi residenti o di passaggio, come soldati e marinari ('). Che se poi i Senatori, concorsi in quella notte nel Palazzo, erano oltremodo sbigottiti, ciò non dee fare meraviglia, perchè dipendeva dall’essere stati sorpresi da un caso così impreveduto, e dal timore di qualche grande sciagura che ne potesse derivare. Talune delle risoluzioni di maggiore importanza, prese dal Senato in quella notte, sono appunto da ascriversi al terror panico, che ottenebrava la mente di coloro che lo componevano. Di fatti non è verisimile che, senza questo sgomento, si determinassero ad inviare dei Deputati a trattare con Gianluigi, del quale essi ignoravano la morte, e che anzi reputavano vittorioso; come nel mattino susseguente non avrebbero concesso al conte Girolamo ed ai suoi complici 1’ amplissimo indulto emanato. Nè vi ha luogo a dubitare, che, ove fossero stati meglio informati sopra la vera condizione delle cose, eglino avrebbero più energicamente represso quel moto sedizioso, cominciato con sì poca gente d’armi, non coadiuvato dalla popolazione, e disertato da un gran mimerò degli stessi seguaci di Gianluigi, che dapprima, e forse a male in cuore, lo avevano seguilo; mentre, per l'opposto, i cittadini erano accorsi in difesa del Governo, tosto superata la trepidazione, che aveva loro offuscalo l’intelletto. Dalle suddette considerazioni sembrami quindi potersi dedurre, che la rivoluzione tentata dal Fieschi si riducesse ad un colpo di mano, ordito con molta sagacità, e condotto con ’) Filippini, Storia di Corsica, fjl.ro y. ( 335 ) • prontezza e con grandissima audacia. Gli scrittori sono discordi nel giudicare quale sarebbe stato l’ultimo risultalo ch’avrebbe avuto questa rivoluzione, quando Gianluigi non fosse affogalo in mare, ed avesse potuto compiere l’impresa iniziata con si prospera fortuna. La maggior parte suppongono che sarebbe riuscita felicemente, se la di lui morte e l'incapacità del conte Gerolamo non l’avessero mandata a vuoto; ma altri affermano che sarebbe stata egualmente sedata, quand'anche quella morte non fosse avvenuta ed i congiurati avessero riportato un completo momentaneo successo. Nè io sopra questa ricerca posso unirmi all’opinione dei primi, benché eloquentemente svolta dal Guerrazzi; perciocché confesso d’ignorare donde egli abbia tratta la peregrina notizia, che Carlo V scrivesse a Ferdinando Gonzaga di riconoscere l’operato del Fieschi, ordinandogli d’industriarsi a trattare col Conte di Lavagna, ed assicurandolo anticipatamente ch’avrebbe ratificato qualunque patto avesse convenuto con lui ; come pure non posso ammettere che al Fieschi sarebbe stato agevole rassodare il suo dominio in Genova, prevalendosi delle intestine dissensioni, specialmente tra i nobili nuovi ed i vecchi, giacché per lo contrario queste discordie cittadine sarebbero state una causa assai rilevante di debolezza per il Governo da lui stabilito. Al contrario son di parere, che qualora Gianluigi avesse conseguito il suo intento d’insignorirsi di Genova, e farsene nominare Principe o Doge avita, ovvero di sottoporre la Patria altre Francesco I, facendosene eleggere in di lui nome Governatore, tale risultameato non avrebbe potuto avere se non una brevissima durata. E ciò dico, considerando anche che il Conte di Lavagna, per eseguire l’ideata congiura, pigliasse un momento per lui poco propizio. Di fatti egli, a cui, per rassodare la sua impresa e costituirsi Signore di Genova, erano necessarii gli aiuti della Francia e degli Stati italiani collegati col re Francesco, non avrebbe potuto attenderne alcun effi- (•ace soccorso, a cagione della misera condizione, in cui questi ultimi si trovavano ridotti, dopo che da quel Re, nella pace di Cambray ed in quella di Crespy, erano stati lasciati in balia dell’Imperatore ('). E neppure dal Governo francese il Conte Fiesco poteva nutrir lusinga d'ottenere allora un valido appoggio, sia con sussidi pecuniari, o sia con una numerosa milizia. Imperocché è noto che, quantunque il re Francesco ardentemente desiderasse d’interporre degli ostacoli ai disegni di Carlo V; cionondimeno, a cagione dell’esausto erario, della sciolta Lega di Smalkauden già conchiusa dai Principi protestanti d Alemagna, e sopratutto per la dolorosa e vergognosa malattia da cui egli stesso era afflitto, gli veniva tolta la potenza e la volontà di rinnovare in beneficio di Genova o del Fieschi la disastrosa lotta col fortunato rivale. Carlo d’altronde, che pei certo non amava vedere la città di Genova sotto la potestà di Francia, è da presumersi ch’avrebbe ordinato a Ferrante Gonzaga ed a’ suoi Ministri in Italia di prendere subito i provvedimenti più opportuni per reprimere questo rivolgimento. Sappiamo altresì che Andrea, fuggito da Genova, appena giunto al castello di Masone inviava lettere al Gonzaga ed a Cosimo De’Medici, nelle quali li informava della uccisione di Gian nettino e della ribellione effettuata da Gianluigi; e gli storici fiorentini Adriani ed Ammirato ci danno notizia delle delibe razioni prese dal duca Cosimo, tosto che ebbe ricevuto la let tera di Andrea, per ristabilire appunto in Genova il ieggi-mento statuito colla Riforma del 1528 (2). A me sembra pertanto non potersi porre in dubbio , che anche ove Gianluigi fosse riuscito ad impadronirsi di Genova scacciandone il D’Oria , egli non avrebbe potuto sostenervisi (’) Guerrazzi, Opera citata, vol. II , pag. 159-62. (5) Che anche Ferrante Gonzaga avesse di già preso le opportune misure, lo conosciamo dalla lettera da lui scritta al Doge ed ai Governatori , e riportata dal Bernabò-Rrea (Op. cit., pag. 17). ( 337 ) a lungo; perchè, privo com’era d’eilicaci aiuti, gli sarebbe stalo impossibile resistere alle armi spagnole e toscane , aggiunte a quelle dei ciltadini, che volevano ricuperare la perduta libertà. Ho inoltre l’intimo convincimento, che ancorché l’intempestiva morte di Gianluigi non fosse succeduta, il Senato ed il popolo genovese avrebbero egualmente repressa la sedizione; e mi confermo in tale pensiero considerando che, sebbene la morte del Conte di Lavagna abbia scompigliato l’esecuzione della congiura, nulladimeno non variò la condizione in cui si trovavano i cospiratori, perchè non tolse loro veruno dei vantaggi ottenuti. Aggiungasi che i ribelli non rimanevano privi d’un supremo duce, perché restava allora il conte Gerolamo, conscio, almeno in parte, dei disegni concepiti dal fratello, e specialmente viveva il vero autore e capo della congiura, Giambattista Verrina ('). Per la qual cosa, se il rivolgimento tentato dal Fieschi fu represso, i genovesi '(’) Giambattista Verrina apparteneva ad una famiglia nobile, che nel 1528 venne aggregata all’ Albergo Franchi. Egli era (così viene descritto dagli autori sincroni) coraggioso ed ambizioso, di non mediocre ingegno, e dotato meno che moderatamente di beni di fortuna. Che a lui debbasi attribuire l’idea della congiura ed il piano adottato nell’eseguirla, ci viene asserito da Raffaello Sacco, uno dei principali complici del Conte, nella sua relazione ad un amico, pubblicata dal signor Agostino Olivieri nella Congiura di Gianluigi Fieschi del Cappelloni, da lui edita, e corredata di note e documenti. Da questa relazione appunto si può rilevare quali fossero le intenzioni segrete del Veri ina; a cui accenna pure il Lomellini (Relazione MS. sopraccitata), laddove scrive: » Fondò il Fiesco la sua congiura principalmente nel seguito dei nuovi, ne’ quali aveva molti amici procuratisi con varie ed accorte maniere, come anche sopra alcuni d'I medesimo ordine suoi aderenti, o consultori della congiura, della quale alcuno di essi s’era fatto principale Capo, come s’intese in appresso, per estinguere il Principe, e poscia avuto lo Stato in loro balia far il medesimo al Conte, ed allora riformare la Repubblica a loro modo ». Anche il Lercaii (MS. citato della Biblioteca Brignole-Sale) riferisce che la Congiura eflettuossì alle grida di Viva Populo e Fiesco , con seguito di fanti forastieri e di gentiluomini nuovi a parte dei quali Gianluigi aveva comunicate le trame e ad altri nò. debbono attribuire la salvezza della loro indipendenza non tanto all affogamento di quel cospiratore, qnanto al sentimento contrario manifestato dalla maggioranza dei cittadini, che consideravano un mutamento di governo essere una calamità pubblica. A spiegare il contegno tenuto dal popolo genovese in questa circostanza, stimo conveniente accennare che le cause, per le quali egli si mostrò affatto contrario alla rivoluzione operata dal Fieschi, erano il timore di perdere l’universale benessere materiale acquistato mediante la ricuperata libertà ed indipendenza, ed il profondo ribrezzo di tutti i cittadini, a qualunque ordine appartenessero, d’essere riposti sotto rabbonito giogo di Francia. La profonda avversione dei genovesi di sottoporsi alla servitù straniera, e la grande estimazione ed affezione loro verso il reggimento stabilito dai dodici Riformatori, si manifestarono apertamente in quest’occasione ; perciocché allora si mostrarono non solo avversi alla sommossa del Fieschi, ma la loro repulsione ad ogni cambiamento di lorma nel Governo apparve ancor più chiara nelle notti successive alla congiura stessa, allorché corse voce confusa che i fautori di Spagna pensassero di far nascere un movimento favorevole alla fazione dei Cappellazzi, ligia al Governo spagnuolo, gridando A'dorni e Spagna. J cittadini per reprimere il temuto moto andarono armati per la Città, finché non vennero convinti eh’ erano vani i loro sospetti ('). Anche nell’ anno consecutivo il popolo genovese dava un’eguale, se non maggiore, prova del suo affetto verso il patrio reggimento, dapprima opponendosi vivamente alla richiesta fatta in nome dell’Imperatore da Ferrante Gonzaga d’edificare una fortezza in Città (3), i1) Vedansi le lettere del Senato a Ceva D’Oria, nei Documenti inediti pubblicati dal Bernabò-Brea (Op. cit.). (2) Casoni, Annali di Genova, Libro III; e Brani di lettere scritte da Ferrante Gonzaga all’ Imperatore Carlo V, relative alla questione della fortezza da costrursi in Genova ; MS. presso di me. ( 559 ) e poscia colla prontezza spiegala nel difendere 1 indipendenza della Repubblica, allorquando essendo giunto in Genova il Principe Filippo di Spagna, il Figuerroa ed il Gonzaga cercarono far nascere delle lotte trai cittadini genovesi eie truppe spagnuole, onde trovare una plausibile cagione di onestare i loro disegni. Avvegnaché, « correndo voce, scrive Leonardo Sauli-Slrata, che gli spagnoli venuti in Genova al seguito del principe Filippo di Spagna avevano assaltato il Palazzo, in un momento furono in armi più di dieci mila persone della Città, parte dei quali corsero al Palazzo per difesa. parte alle porte, parte alle mura per opporsi alle genti delle galere, se fossero scese a terra; e ciò con tanta prontezza ed ordine, che non poteva essere maggiore , e come se fossero stati soldati da lungo tempo esercitati alle guerre(*) ». I sopraccitati fatti dimostrano pertanto ad evidenza quanto ai genovesi fosse odiosa la servitù straniera, e come non aborrissero, secondo che da taluni si vorrebbe far credere, il Governo degli ottimali. V. Gli odierni sindacatori del D’Oria biasimano la condotta da lui tenuta dopo il suo ritorno in Città, dietro invito della Signoria, imputandolo d’essere stato oltremodo cupido di vendetta, e crudele verso i fratelli del Fieschi ed i loro seguaci. Essi attribuiscono al discorso da lui pronunciato nel Senato, e di cui il Bonfadio e il Casoni ci offrono un epilogo, la decisione della Signoria stessa di revocare l’indulto concesso al conte Girolamo ed ai suoi complici, e reputano l’aver provocato cotale deliberazione una macchia indelebile al nome di Andrea. Per giudicare rettamente se la suddetta censura sia giusta o nò, conviene esaminare i motivi, che inducevano i Senatori concorsi in Palazzo a giovarsi dell’ interposizione di Paolo Pansa, per trattare direttamente col conte Gerolamo e (’j Leonardo Saui-Strata , Discurso sopra l'abboccamento di Piacenza nel LUS; MS. della Biblioteca Civico-Bcriana, c della mia Libreria. ( oGO ) concedergli un ampio indulto, compilato dal cancelliere Ambrogio Senarega, e che il Conte accettava per sé ed i suoi amici. Io non descriverò i fatti succeduti, nè ricorderò lo spavento che in quella notte ingombrava l’animo di coloro chô reggevano le cosa pubblica; ma stimo più conveniente di rammentare che, a cagione delle confuse e contraddicenti relazioni pervenute in Palazzo, il Senato ignorava la vera condizione dei congiurati. Per il che io sono d’opinione che i Senatori, dubbiosi coni’ erano del risultato definitivo della sedizione, abbiano bene operato, se amarono seguire il noto adagio « a nemico che fugge ponte d’oro », piuttosto che soffocare colla forza cotesta rivoluzione; perocché in tal guisa conseguivano il loro intento , risparmiando un1 inutile effusione di sangue. Era inoltre dovere della Signoria, appena la città di Genova venne restituita nella pristina tranquillità, di deliberare i pto\-vedimenti i più opportuni per istabilire un ordine durevole, ed impedire si rinnovassero simili sconcerti. E questo scopo es;>a non lo poteva raggiungere, se non che statuendo nuove leggi, od approvando le risoluzioni deliberate durante la sollevazione. È noto che due deliberazioni rilevantissime furono prese da quei Senatori, i quali, a detta del Grimaldi-Ceba, con viso più di morte che di veri reggitori, in quella notte rappresentavano il Governo. La prima era quella d’aver inviato dei Deputati a Gianluigi con ampia facoltà di trattare ; decisione prudentissima, se veramente il Fieschi fosse stato vincitore, ina in caso con trario da stimarsi dannosa alla Repubblica; la seconda eia l’indulto ottenuto dal conte Gerolamo per sé ed i suoi seguaci. Le suddette deliberazioni potevano essere oggetto di lode o di biasimo, secondo il modo in cui venivano interpretate; però, siccome potevano essere invalidate, perchè in tutto od in parte mancanti delle forme prescritte dalle leggi, era necessario che fossero approvate, o pure che a queste., altre ne fossero so- ( 561 ) stituite dal Senato. Sopra l’invio dei deputali a Gianluigi non faceva uopo deliberare, giacché non era stata conchiusa nessuna convenzione tra i Deputali ed il conte Gerolamo, col quale essi abboccaronsi. Rispetto poi all’amnistia, mediante la quale d Senato poneva fine alla sommossa, questa, tosto che in Genova fu conosciuta, ebbe l’universale approvazione, e sebbene dipoi taluni biasimassero l’indulto per essere stato concesso troppo frettolosamente, da nissuno veniva posto in dubbio che il Senato l’avrebbe confermato. Ma questa universale espetta-zione venne delusa, per opera dell’oratore spagnuolo Gomez di Figuerroa, il quale, in nome dell’imperatore, chiedeva al Senato stesso la revoca dell’indulto e proclamavalo invalido, giacché la Repubblica di Genova non aveva veruna facoltà di condannare, ovvero di amnistiare, i rei di lesa maestà verso l’impero. Il Figuerroa sosteneva la sua domanda, affermando che l’attentato di Gianluigi e de’ suoi fratelli era diretto appunto contro l’impero, perciocché il Fieschi avea voluto impadronirsi delle galee imperiali, che erano nella Darsena, aveva ucciso Giannettino D’Oria prefetto dell’armata, e tentato di mutar forma di governo in Genova, città annoverata tra quelle che venivano appellate Camera imperiale. All’adunanza tenutasi dalla Signoria, nella quale si discusse sopra la proposizione dell’Oratore spagnuolo, era presente Andrea D'Oria, sommamente afflitto così per l’ingratitudine verso di lui mostrata da Gianluigi, figlio di quel Sinibaldo che era stato suo amico carissimo, come per l’assassinamento di Gian-nettino, pel rischio corso da luì stesso per la propria vita, e sopratatto per aver Gianluigi, voluto togliere a Genova la libertà che egli medesimo nell’anno t52&aveale donata. Per tali cause, egli era propenso a proporre e ad adottare risoluzioni severe, in punizione del delitto commesso dai fratelli Fieschi e dai loro complici. La profonda commozione d’animo di Andrea, aggiunta adunque alla sua qualità d’ Ammiraglio . gli facea prò- ( 362 ) nunciare in favore dell’imperiosa richiesta dell’Oratore spagnuolo quella gravissima orazione menzionata con lode dal Bonfadio e dal Casoni, nella quale, descritta I’alrocitàdel fatto, conchiudeva per l’annullamento dell’indulto, come quello che a mano armata era stato imposto ai Senatori dai congiurati ; i quali, approfittato del terrore che ne ottenebrava ancora le inenti, aveano fatta prendere una deliberazione priva in tutto od in parte delle forme prescritte dalle leggi per potere validamente statuire. E qui siami permesso d’osservare in elogio di Andrea, che, mentre nel suo discorso soddisfaceva al proprio sdegno contro i fratelli Fieschi, e compieva un atto di devozione verso il Governo spagnuolo appoggiando la pretensioni poste innanzi dal Figuerroa, non adduceva però verun argomento, il quale potesse nuocere ai diritti acquistati, e riconosciuti dall’Impero, circa l’indipendenza della Repubblica di Genova. La richiesta dell’Oratore spagnuolo era nondimeno combattuta dai Senatori, che aveano conchiuso col conte Girolamo la suddetta convenzione. Essi, a fine di giustificare e far approvare la loro deliberazione, dimostravano come, mediante questa risoluzione, avessero preservata la Città da que’ mali maggiori, che senza dubbio sarebbero derivati dal sangue cittadino, che necessariamente avrebbe dovuto spargersi per porre fine alle lotte intestine; ed affacciavano i vantaggi dello avere prontamente repressa la complicazione che stava per sorgere. Avvegnaché, ove questa si fosse prolungata, si conosceva essere stato ideato (forse con buon fine e nell’intento di deviar l’effetto della trionfante rivoluzione) di formare una contromina, insorgendo al grido di Libertà, Adorni, Spagna, in opposizione a quello di Ineschi, Libertà, Francia. Asserivano quindi essere riusciti col mezzo dell’amnistia a prevenire le deplorabili conseguenze, che sicuramente avrebbero avuto luogo, quando cotesto avvenimento si fosse effettuato. Ma sulle gravissime ragioni addotte da coloro che propugnavano il mantenimento ( 563 ) dell indulto , prevalse non pertanto in Senatu la prepotente autorità dell’Ambasciatore spagnuolo. Volendo ora apprezzare rettamente cotesta decisione, si deve stabilire se il Senato aveva il diritto giuridico d’annullare il decreto di amnistia; e questo per certo non può essere negato, ogniqualvolta si rifletta che se la suddetta convenzione era slata compilata per ordine dei Senatori dal cancelliere Bartòlomeo Senarega, ed approvata da tutti i cittadini presenti in Palazzo, mancava nondimeno di molte indispensabili formalità prescritte dalle dalle leggi. Per conseguenza è evidente, che la Signoria aveva pien diritto di cassare una deliberazione fatta senza le debite forme, e che oltrepassava le attribuzioni dei pochi Senatori, dai quali era stata decretata. Di che furono tanto persuasi gli stessi antichi emuli del D’Oria, che in niuno scritto anteriore alle dissensioni del 1575 troviamo gli si apponesse a colpa d’avere colla sua antorità indotto il Senato a mancar di fede al conte Fieschi. Furono dunque i recenti sindacatori di Andrea che si mostrarono per questa parte assai più severi degli antichi, giacché biasimano il discorso da lui tenuto in Senato, e gli attribuiscono a delitto d'aver contribuito a far rivocare la concessa amnistia. Costoro pronunciando il suddetto giudicio, dimenticarono che in un’ epoca, in cui prevaleva la dottrina della ragion di Stato, in allora nomata dottrina Machiavellica, sarebbe stata una stoltezza pretendere che si fossero seguite le norme dettate da una legislazione sopra que’ diritti d’equità e e di giustizia, che anche oggidì sono cotanto esaltati, ma cosi poco posti in opera. Ciò premesso, è evidente che il decreto di ri vocazione dell’ indulto conceduto ai Fieschi, si può spiegare ed anche approvare, fondando il nostro giudicio soltanto sullo stretto diritto giuridico, e sopra i costumi e le massime politiche dominanti in quei tempi. Non ostante, allorché si riflette quanto fosse contrario all’equità ed alla buona fede, non v'ha dubbio che deve essere ( 5G4 ) biasimato. Ed io mi accordo pertanto coi censori di Andrea, poiché non consento che a scusare questa deliberazione sia una ragione incontestabile l’affermare, che la della convenzione doveva riguardarsi come non avvenuta; perché se la medesima fu deliberata dai Senatori in non legittimo numero adunati, e conclusa sotto l'impressione dello spavento , che ancora ne offuscava le menti ; nondimeno é massima ammessa da tutti gli uomini onesti e da lutti gli statisti non servili, cbe le capitolazioni, quando sono Ira ]e parti debitamente e con buona fede contratte, debbono essere coscienziosamenie adempiute; tanto più, che un paese non potendo stare un solo momento senza Governo, chi regge nei casi straordinarii può legittimamente prendere quelle determinazioni e promulgare quei decreti, cbe ritiene più convenienti pel pubblico bene; e perciò le convenzioni sono obbligatorie fra le parti stesse ogniqualvolta non venga provato che sieno state stabilite con gravissimo detrimento della Patria (’). Ma ove non consento coi prefati sindacatori si é nel dire, che la deliberazione di rivocare la convenzione sia stata presa dietro proposta di Andrea; imperocché tale accusa non solo é ingiusta, ma eziandio é un errore storico. Abbiamo infatti dal Bonfadio, dal Casoni e dagli altri storici ed annalisti che egli, parlò bensì molto energicamente in favore della proposta d’annullamento, ma niuno d’essi ci narra che egli fosse l’autore di cosiffatta proposta. Che anzi, considerando come i detrattori del D’Oria, nemmeno durante le discordie civili dell’anno 4575 , gli abbiano fatta cotale imputazione, giudico che la discussione eh’ebbe luogo in Senato per rivocare il decreto in discorso sia stata non da altri promossa che dal Figuerroa, il quale già abbiamo veduto di quali ragioni avvalorasse la propria sentenza. (’) Mi piace prevenire che questa sentenza io la trassi da Carlo Botta, Storia (l’Italia, Libro IV. ( 5Gb ) So benissimo die il Senato alle imperiose richieste del Go-Aerno Spagnuolo avrebbe potuto rispondere, essere una azione disonesta il mancare di fede ai patti conchiusi, e dimostrare come la convenzione avesse procurato un grande beneficio „ ada Città, preservandola dai mali che necessariamente sarebbero derivati dalle dissensioni intestine; ed avrebbe anche po-tuto aggiungere, come l’indulto conceduto dalla Repubblica ai Fieschi non pregiudicasse in verun modo* il diritto dell’ Imperatore di procedere contro i feudatari e vassalli sleali. Ma io sono d’avviso che se la Signoria non rispose negativamente all’Oratore spagnuolo, come opinavano i Senatori, che avevano segnata la detta convenzione, e come per certo sarebbe stato approvato e lodato da tutti i cittadini insofferenti della prepotenza di Spagna, ciò appunto si debba e possa benissimo attribuire ad Andrea; il quale conoscendo meglio del Senato gli intimi pensieri dell’ Imperatore e de’ suoi Ministri, quantunque nelPorazione da lui pronunciata si restringesse ad accennare le ragioni che palesemente si potevano esporre, avvertisse però cautamente i Senatori più influenti del pericolo che sovrastava alla libertà della Repubblica, e dimostrasse non esservi altro mezzo che questo per isfuggire alle insidie ordite contro Genova dallo stesso Figuerroa e da Ferrante Gonzaga. I quali, accortamente giovandosi d’una imprudente ripulsa , avrebbero affermato che i genovesi erano avversi ad una stretta ed ossequiosa alleanza coll’Imperatore; e da ciò presa occasione, per onestare la loro risoluzione d'insignorirsi direttamente della Città, od almeno di assicurarne Pobbedienza, fabbricandovi delle fortezze e ponendovi presidio spagnolo. Panni adunque evidente che il Senalo, deliberando d' annullare la convenzione conchiusa col conte Fieschi, non abbia ubbidito tanto ai consigli ed alla autorità del D’Oria, quanto forzatamente ceduto, per considerazioni di politica prudenza, agli ordini d’ un prepotente alleato. Reputo inoltre debito di ( 5GG ) giustizia il far notare, che se in quella circostanza la Signoria con molta avvedutezza cedette alle esigenze imperiali, nondimeno essa cercò di trarne profitto, per chiedere l’annessione o l’investitura dei Feudi confiscati alla Famiglia Fieschi. Giudico altresi opportuno di ricordare, come il Senato di Genova, prima di piegarsi a deliberare sulle domande dell’Oratore spagnuolo , cercasse disimpegnarsene in modo onorevole. Per conseguire il quale intento é noto, eh’esso rimise la pratica al parere de’ Giureconsulti della Repubblica, ma le consultazioni loro non rimasero da meno nella devozione imperiale a quelle degli antichi giureconsulti ghibellini deir Università di Bologna ; e dipoi cercò d’aprire nuove trattative col conte Girolamo, giovandosi dell’interposizione di Paolo Pansa, acciocché vendesse alla Repubblica Montoggio ed altre terre di minor rilievo, pel prezzo di cinquanta mila ducati d’oro. Ma quest’ultima proposizione, che conveniva egualmente alle due parti, fu con istolta arroganza rigettata dal Fieschi. Infine non si deve obliare che il conte Gerolamo, non adempiendo all’obbligazione contratta nella convenzione da lui conchiusa, di licenziare le genti stipendiate, poneva di per sé stesso il Senato nella necessità di prendere la definitiva risoluzione di rivocare l’indulto, e d’impossessarsi di Montoggio, a fine d’impedire che si formasse a poca distanza da Genova un centro di nemici e di ribelli, che era o poteva divenire pericoloso. Dalle cose sopra esposte parmi quindi doversi conchiudere, che la deliberazione presa dal Senato circa la revoca dell’indulto, si possa più o meno biasimare, od anche lodare, secondo che s’ apprezzano i motivi d’ equità o giuridici pei quali essa venne statuita ; ma ciò che non si può porre in dubbio è il contegno dignitoso, e piuttosto indipendente, tenuto dai Rettori d’uno Stato piccolodebole e disarmato, innanzi di sottomettersi alle esigenze del Governo spagnuolo. Di fatti all’imperatore Carlo V dispiacque assai la poca docilità mo- ( 567 ) slrata dai genovesi ad obbedire ai di lui ordini, e quantunque gli storici contemporanei ne tacciano, è pure evidente che a tal motivo si deve ascrivere la vera causa, che determinò Cesare a non voler concedere alla Repubblica la chiesta investitura dei feudi confiscati ai Fieschi medesimi (*). Vi. Sopra le ampie facoltà e la parte presa nel governo della Repubblica, che Andrea D’Oria aveva serbato a sé stesso , il Celesia scrive : « Egli non ebbe le insegne, si la superiorità di principe » ; ed aggiunge : «< Egli amava invero la patria sua, ma servendo i comandamenti che ad ogni otto giorni gli venivano impartiti da Cesare, la fe’ mancipia del Governo (’) I eh. Bernabò-Brea, nella nota a pag. XII e XIV, e Celesia, a pag. 191, asseriscono che la Repubblica di Genova non ottenne l’investitura dei Feudi già appartenuti a Gianluigi, per la cupidigia del D’Oria d’arricchirsi delle spoglie del Conte di Lavagna ; ed a provare questa loro asserzione citano le relazioni al Senato, scritte da Ceva D’ Oria ambasciatore presso Carlo V, nelle quali esso lamenta il silenzio tenuto verso di lui da Francesco Grimaldi incaricato dal Principe D’ Oria di trattare con Cesare sopra lo stesso soggetto. Non v’ ha dubbio i ssere una cosa strana di vedere per la medesima negoziazione accreditati due inviati, uno in forma pubblica dal Senato, l’altro in privato da Andrea D’Oria ; ma ciò che reca maggior maraviglia è, che Carlo V abbia preferito di negoziare col Grimaldi, e col di lui mezzo significare alla Repubblica le su' risoluzioni. Chi ben considera questo punto della Storia di Genova, che finora passò inosservato, dovrebbe però trarne una conseguenza opposta a quella, che ne dedussero il Bernabò-Brea ed il Celesia. A me sembra che il contegno tenuto dall’Imp ratore in questa circostanza sia una prova assai chiara del suo malo animo contro la Repubblica di Genova. Ciò posto, in luogo di giudicare, come il Celesia (pag. 191), che Andrea inviasse a Cosare suo ambasciatore Francesco Grimaldi, coll’ incarico d’avversare le domande della Repubblica e otlenere per sè il migliore di quei dominii ; si dovrebbe piuttosto affermare che il D’Oria, conoscendo la poca inclinazione dell’ Itr.pe-peratore e de’ suoi Ministri ad accrescere la potenza della Repubblica , s’inducesse , consenziente e di pieno accordo col Senato , ad inviare il Grimaldi presso Carlo V, allineile andando fallita, come prevedevano, la missione di Ceva D’Oria, si chiedessero in nome di Andrea i Feudi confiscati, e cosi non fossero i medesimi incamerati all’impero, e collocati sotto la diretta giurisdizione, del Governatore di Milano, come pure non si concedesse l’investitura dei sud- ( 368 ) spagnuolo (') ». Poi così riepiloga il suo giudicio : « Che s’ei francheggiò la Repubblica dal giogo di Francia, i liberi ordinamenti per contro ne levò via. e la sottopose all1 arbitrio di Cesare. Di Doge non volle il nome, che, Ministro di Carlo in Italiae dominatore dei mari, non gli mettea conto avventurare la posta maggiore per conseguirne una da meno (*) ». Egli è incontrastabile che Andrea riunendo la qualità d’Am-miraglio di Spagna a quella di Sindicatore perpetuo, aveva nella Repubblica un’anormale e straordinaria potenza, ed autorità. Ma chiunque vorrà esaminare attentamente le di lui azioni, si convincerà altresì agevolmente ch’egli non abusò mai di così smodata possanza , e perciò dovrà encomiarlo per la civica temperanza e l’amor suo verso la Patria. Di questi rari pregi fanno testimonianza i più autorevoli scrittori sincroni e posteriori; ed assicurano anzi come Andrea, in varie congiunture molto rilevanti, si prevalse del favore da lui goduto presso Carlo V, per patrocinare gli interessi della Repubblica. A tutti è nolo che Genova fu due volte debitrice al D’Oria della libertà e dell1 indipendenza. La prima nel 1528, mercè i fatti di che già tenni lungo discorso; la seconda ai- detti Feudi a personaggi spagriuoli, od a Principi italiani, ma si conservasse a Genova su questi paesi almeno un dominio indiretto, facendone accordale 1 investitura a benemeiiti cittadini genovesi dimoranti in Patria, e sudditi della Repubblica. Cotesto intento della Signoria e del D' Olia fu raggiunto, poiché Carlo V ripartì appunto i Feudi suddetti fra Andrea, Antonio ed Agostino D’ Oria, ed Ettore Fieschi, in premio di servigi ricevuti, concedendo soltanto alla Repubblica Varese e Roccatagliata, e confermandola nel possesso di Montoggio, che aveva acquistato con l’armi. A raffermare il mio sentimento diiò eziandio che non si rinviene in nessun antico scrittore accennato, che gli emuli e i de trattori del D’Oria lo censurassero di siffatta azione in danno della Patria, ed aggiungerò che sarebbe ridicolo di supporre un così basso e turpe pensiero in colui, ch’ebbe la magnanimità di rifiutare l’offerta di costituirsi Signore e Pi incipe di Genova. (’) Capo III, pag. 64. (*) Capo XVII, pag. 309. ( 509 ) lorquando furono represse le congiure di lìianluigi Fieschi e Giulio Cibo. Nella circostanza della congiura del Fieschi , Cesare , dietro i suggerimenti di Ferrante Gonzaga, avea risoluto d’ insignorirsi di Genova; ma Andrea si oppose virilmente all’ef-fettuazione di tali disegni, tendenti in apparenza a comprimere lo spirito turbolento dei genovesi, ma effettivamente a fare di Genova una provincia spagnuola, al pari di Napoli e di Milano. 1 genovesi debbono quindi saper grado al I)‘ Oria, se Cesare non effettuò questi divisamente imperocché, facendosi risolutamente l’interprete delle rimostranze del Senato e dello scontento destato in tutti gli ordini dei cittadini, egli potè, con una ferma e dignitosa opposizione, convincere l’accortissimo Cesare a rinunciare a quanto per certo non sarebbe stato impedito dalla resistenza armata, che i genovesi avrebbero potuto opporgli. Niuno può contestare che Andrea dopo l’attentato del Fieschi, quantunque ritenesse dovere del Senato il decretare i migliori provvedimenti, reputati indispensabili a porre un efficace ostacolo al rinnovamento di simili disordini, pure rigettava fermamente la proposta di erigere una fortezza in Genova. Sappiamo infatti dal Casoni (') e da altri storici, che egli, nella conferenza avuta col Granvela intimo consigliere di Carlo Y , non si lasciava persuadere a dare il suo consentimento a questo progetto, ed anzi dichiarava essere d’avviso che l’edificazione (’) Il Casoni (Annali di Genova, Libro V), nel riferire questo fatto, compendia con esattezza gli intrighi del Figuerroa, e l’abboccamennto del Gran-vela col D’Oria. L’Annalista genovese accennando alla supplica composta artificiosamente dall’Oratcre spagnuolo, nella quale da varii nobili vecchi chie-devasi (onde evitare nuovi pericoli) che S. M. Cesarea volesse assicurarsi di Genova, dimenticò di notare che soltanto furono dodici i segnntarii di questa petizione, e che tra le firme non ne figurava alcuna di personaggi notevoli per propria illustrazione o per la loro partecipazione alla cosa pubblica: giacché anche i più distinti, che sono Nicolò Negroni, Giuliano Saivago e Filippo Di Negro, s’incontrano assai poco nelle Magistrature della Città. ( 370 ) della fortezza avrebbe non solo-destato negli abitanti della Città un universale malcontento, ma dato luogo a moti sediziosi, per comprimere i quali sarebbe stato necessario un grandissimo spargimento di sangue. Aggiungeva inoltre eh’ egli stimava la erezione di questa fortezza, non altrimenti che un provvedimento superfluo ; giacché per contenere lo spirito tur-' bolento di pochi ambiziosi, sarebbe bastato di modificare al- cune leggi. Le valide ragioni addotte da Andrea, quantunque non soddisfacessero nè il Granvela nè i principali dei Ministri spagnuoli, furono però sufficienti a determinare l’Imperatore a desistere per allora dal pensiero di costrurre in Genova una fortezza e porvi presidio spagnuolo. Ma questa desistenza durò poco, giacché 1’ anzidetto progetto contro l’indipendenza di Geno\a venne ripreso da Ferrante Gonzaga, dopo la mancata congiura di Giulio Cibo. E la risoluzione consigliata dal Governatole di Milano sarebbesi veramente posta in effetto, qualora Carlo \ , per approvarla, non avesse anche questa volta richiesto il con sentimento del D’ Oria. Di ciò fa chiara testimonianza lo stesso Gonzaga; il quale infatti a somigliante disegno non lamentava altro ostacolo « che quello d’indurre il Doria a lasciai da parte quella sua libertà antica (') ». Né il Gonzaga errava (') Particolari spettanti alle cose di Genova, cavati da lettele di renante Gonzaga all’ Imperatore Carlo V; MS. presso di me. 11 Cibo Recco (Historiae Gennensis etc.) da cui ho tratto esatta notizia di quest fatto, riferisce cosi tale azione di Andrea: • Ferrante Gonzaga a^cndoDli siDn' fìcato essere intenzione dell’Imperatore di fabbricare una lortezza in Genova, il D’ Oria rispondevagli avrebbe tra pochi giorni fatto sapere il suo intendimi r a Carlo V, per mezzo di Adamo Centurione. Su di che pregò Adamo di poi tal s immediatamente in Germania presso l’imperatore, giacché esso non potc\u, per la sua grave età, far quel viaggio; pregandolo di dirgli clic non a\rebbe mai permesso, sua vita durante, che fosse tornata in servitù la Pallia che aveva messa in libertà nel 1328. Per il che, aggiungeva, impegnate la sua fedo a conservarla ; e se vi accorgete che Carlo abbia diverso sentimento, ditegli ( 371 ) in (ale giudicio; poiché appena Andrea aveva da lui ricevuto communicazione della deliberazione presa dall’imperatore, ch’egli di tal cosa dolevasi moltissimo, ed inviava subito presso Carlo V d proprio amico Adamo Centurione. Al quale commetteva di rimostrare a Cesare come, effettuando cotesto disegno, avrebbe mancato alla pattuita promessa di proteggere e di mantenere la ricuperata libertà di Genova, segnata nella convenzione in cui lo nominava alla carica d’ Ammiraglio di Spagna; e nello stesso tempo gli significasse, che, non volendo esso in niun modo concorrere a togliere la libertà e la forma di Governo, che aveva contribuito a costituire in Patria, si reputerebbe sciolto dal suo servigio. E Cesare allora, conosciuto il nobile proponimento di Andrea, reprimendo l’interno rancore, rispondeva al Centurione rendesse certo il D’Oria che della fortezza non si sarebbe più parlalo. A coloro, che non s’ addentrano ad indagare le segrete cause degli avvenimenti, codesta generosa azione potrebbe sembrare di poco rilievo, a cagione dell’amorevolezza e della condiscendenza mostrata da Carlo per appagare i di lui desiderii; però è agevole scorgere come questa apparenza fosse fallace, poiché Cesare, nello slesso tempo in che per mezzo di Adamo Centurione rassicurava il D’Oria ed il Senato, approvava le deliberazioni prese contro lo Stato di Genova in un convegno tenutosi a Piacenza dal Duca d’Alba, da Ferrante Gonzaga, da un legato clic mi licenzio dal suo soldo e stipendio, poiché piuttosto voglio perdere la vita e l’armata che la libertà della Patria •. Con tali sentimenti espressi da Andrea, Adamo andò in Germania, e brevemente e prudentemente li espose a Cesare. Qui sti, conosciuto 1’ animo del D’ Oria, stimando non poter eseguire quello che divisava senza il suo consentimento, rispose ad Adamo: « Se non imporla al D’Oria, si tratta di cosa sua, e se desidera piuttosto conservare la libertà di Genova che la sua vita, lascio questo sentimento, nò più parleremo della libertà dei genovesi ». Adamo tornato in Genova con (ale risposta, quietò l’animo del D’ Oria, della Signoria c di tutti i cittadini. ( 372 ) di Cosiino De’ Medici e da Tommaso De Marini-Castagna, ricchissimo genovese. Le deliberazioni conchiuse . nel Congresso di Piacenza non furono rese di pubblica ragione finora, e rimangono cosi un episodio della Storia italiana coperto da denso velo. In quell’e-poca però, si pervenne a penetrarne talune ; e, rispetto a noi, basti rammentare, che il benemerito cittadino Leonardo Sauli-Slrata da Roma, dove soggiornava, ne diede avviso al Senato, significandogli come in quella adunanza si fosse statuito d’impadronirsi fraudolenlemente di Genova, prevalendosi delle truppe spagnuole e toscane, da introdursi in Città sotto pretesto d’onorare il principe Filippo, il quale passava di costi, recandosi in Germania presso il Genitore (')• La Signoria avendo conosciuta la veracità degli avvisi di Leonardo, deliberò quindi i provvedimenti più opportuni, onde prevenire i mali che le soprastavano e sventare la trama. Questi furono : non si darebbe alloggio in Città a veruna truppa al servigio di Principi forestieri, sebbene fosse di amici e di alleati della Repubblica; si stabilirebbe una milizia, nominando quaranta capitani urbani, i quali avrebbono per ognuno aj loro ordini ducento cittadini armati. Il D’Oria era assente da Genova, quando il Senato prendeva le suddette deliberazioni, perchè colle proprie galee era andato in Ispagna, onde trasportare il Principe ; ma allorché giunse in Ventimiglia, ivi furono spedili dal Senato dei Deputati a complimentare Filippo, e nello stesso tempo a ragguagliare Andrea così del convegno di Piacenza, come delle disposizioni della Signoria. L’Ammiraglio a sua volta approvò e lodò il lutlo; e (') Su questa trama tentata contro Genova, taciuta dalla maggior parte dogli annalisti genovesi e da pressoché lutti gli scrittoli della vita di Carlo \ , leggasi il Casoni (Annali Genovesi) il Cibo Recco (Historiae Gennensis etc. MS.) e sopratulto lo stesso Leonardo Sauli-Strata (Discorso sopra l'abboccamento di Piacenza nell’anno 1oi8; MS. della Civico-Bcriana). ( 373 ) fu allora appunto che egli diede a Filippo stesso quella arguta risposta riferita dagli storici genovesi. I quali narrano che il D’Oria essendo stato richiesto dal Principe, dove giunto in Genova alloggerebbe, Andrea rispondevagli : « Nella mia casa, come ha sempre fatto l’imperatore vostro padre ». Filippo però, soggiungendo di volersi invece recare al Palazzo della Signoria, ne aveva in replica : « Quando saremo in Genova, \ . A. lo farà domandare a chi ha potere di darlo, e se sarà conceduto resterà servita; ma io per me credo che quei signori che vi sono dentro non ne vorranno uscire (') ». Né si deve passare sotto silenzio come il Gonzaga, indispettito che le insidie da lui ordite fossero stale scoperte, e quindi rese vane, tentò raggiungere il proprio intento, facendo sorgere delle lotte e dei tumulti fra i cittadini e gli spagnuoli ; confidando, che qualche intemperanza commessa dal minuto popolo gli porgerebbe occasione d’impossessarsi del Palazzo della Signoria. Queste perlide mire tornarono però senza effetto , mercé i saggi provvedimenti deliberati dai Collegi, d’accordo col D’Oria, 'ed il contegno tenuto dalla popolazione, che concorse spontanea, risoluta e concorde a difendere il proprio Governo. In questa difficile circostanza la condotta particolare di Andrea fu assai commendevole; imperocché, mentre egli approvava interamente l’operato dal Senato e dal popolo, pure, col suo senno e con la sua prudenza, attutiva lo sdegno dei Ministri e del Principe di Spagna; di maniera che. così des- (') 11 chiarissimo Guerrazzi (Vita di Andrea Doria, vol li), parco encomiatore di Andrea tutte le volte che trattasi delle sue virtù cittadine, scrive : « Andrea ebbe mento, se non d’avere ributtato sempre la proposta delle fortezze e del presidio, certo poi d’aver sconcio il disegno un pò con la resistenza e un pò con l’accortezza ; conciossiachè se egli si sbracciava a sedare i tumulti, questo non significa mica, eh’ egli non li avesse sotto mano eccitati. 11 fare fuoco nell’orcio tra le arti di governo fu in ogni tempo giudicata la prima ». ( 574 ) treggiandosi, provocava tacitamente la resistenza popolare, che mandava a vnoto il progetto del Gonzaga e del Duca d’Alba, e preservava la Patria dal risentimento imperiale, da cui potevano derivare gravissimi mali alla Repubblica. I fatti sovra riferiti dimostrano ad evidenza, che se in Genova non s’ edificarono fortezze e non fuvvi posto presidio spagnuolo, o dipendente da capitani devoti a Cesaro, ciò si deve unicamente alle rimostranze da Adamo Centurione fatte all’ Imperatore in nome di Andrea; come pure devesi attribuire agli avvisi di Leonardo Sauli-Strata ed alla cooperazione del D’Oria, se la Repubblica non fu soppressa, ed il suo territorio non venne unito al Ducalo di .Milano. Laonde, quantunque non si possa porre in dubbio che Andrea, per l’anormale sua condizione d Ammiraglio di Spagna e di Supremo Sindacatore a vita, tosse più ligio alla Monarchia Spagnuola, di quello che sia permesso ad un cittadino di libero Stato; ciò non ostante, ogni qualvolta traltavasi di pratiche concernenti il benessere materiale e morale de’suoi concittadini, egli non mancò mai al proprio debito, e perciò giustamente i genovesi lo proclamarono autore, esecutore e protettore della ricuperata libertà c della ricostituita Repubblica. Dopo avere cosi discorso di quanto operò il I) Oria in favore di Genova presso la Corte di Spagna, reputo conveniente di ragionare sopra la parte da lui presa all' amministrazione interna della Repubblica, nella sua qualità appunto di Sindacatore perpetuo. Il Magistrato dei Supremi Sindacatori, istituito ad imitazione degli Efori di Sparta, aveva una grandissima autorità, e tale, che a buon dritto potevasi chiamare il palladio della libertà pubblica. GolTredo Lomellini osserva, che avendo i Riformatori nominato Andrea Sindacatore perpetuo, questo Magistrato venne per ciò stesso ad acquistare ancora una maggiore autorità e riputazione, a segno che restò il vero signore della Repubblica; e scrive che il D’Oria avea potere di ( 375 ) disporne a suo talento, « facendo eleggere ai supremi Magistrati quelli dei cittadini che a lui piacevano, e con 1' autorità (Ji poterli sindacare li teneva poi tutti in freno (') ». Ma io non posso unirmi a questo sentimento, e sono invece convinto, che il D Oria non abusasse della sua posizione nelle deliberazioni di quel Magistrato. Questa mia opinione é con-fermata da tutti i nostri storici ed annalisti; imperocché in essi non trovasi notato che alcuno degli antichi emuli di Andrea 10 abbia accusato punto di essersi giovato della sua autorità e potenza, acciocché non venissero nominati alle supreme Magistrature coloro le cui opinioni amministrative e politiche erano contrarie a quelle da lui propugnate. Io non metto certo in dubbio che il D’Oria avrà preferito gli amici; ma ciò é cosa ben diversa dalle accuse lanciategli contro dal ridetto Lomellini, e ripetute dai recenti censori. Lo stesso Lomellini ci rende anzi testimonianza, che il D’ Oria stimava opportuno di favorire i nobili nuovi, i quali erano meno affezionati all’ alleanza spagnuola ; e non voleva all’ incontro ascoltare molti dei nobili vecchi, che cercavano indurlo a riformare la Costituzione, in modo da guarentire ad essi l’acquistata preponderanza. Pertanto, o il D’Oria non si prevalse punto, o, per lo meno, si approfittò con molta moderazione dell’ influenza autorevole acquistata nei Consigli della Repubblica. E però a torto 11 Bernabò-Brea ebbe a scrivere: « Che egli (il D’ OriaJ, rifiutandone il nome, aspirasse ad essere nel fatto il sovrano di Genova, e quindi, lasciando ad altri le cure e le noie dell’am-ministrazione, si facesse, poco importa se sotto il titolo di re o di censore perpetuo, il moderatore del Governo nelle cose di più alta importanza » (*). Imputazione ingiusta, e da non (1) Lomellini, Ragguaglio delle varie mutazioni ecc., accadute in Genova ; MS. (’J Bernabò-Brea, Opera cit., pag. XIII. ( 37Ü ) potersi quindi sostenere con buone ragioni. L)i fatti sappiamo da tutti gli scrittori, anche i meno parziali ad Andrea, che la sua civile temperanza non fu mai contestata; e solamente gli ultimi accennarono che ai genovesi dava timore la superbia e l’ambizione di Giannettino, erede della potenza di quel Grande, a segno che in esso scorgevano il futuro tiranno di Genova. Ma sopra cosi iniqua voglia apposta a Giannettino prima da Gianluigi Fieschi, <3 poscia, durante le discordie civili del 1575, ripetutala dai nobili nuovi in odio del di lui tiglio Giannandrea, ed avvalorata dal Casoni e da altri scrittori, senza però darne veruna prova, io mi restringerò a notare ciò che con molta giustezza scrive P illustre storico Carlo Botta: « Nulla fece Andrea, perché il nipote potesse aspirare a tirannide, di nessun magistrato avendolo fatto investire, onde forza o potenza capace di sottomettere la Patria in lui derivasse (') ». La carica di Prefetto dell’ armala di Spagna, 1’ unica cioè coperta da Giannettino, era infatti estranea alla Bepubblica, e non gli dava punto agio di conseguire quella autorità goduta da Andrea nella sua qualità di Sindacatore perpetuo; e perciò, sopposto anco che nel di lui animo albergassero superbia ed ambizione immoderate, é nondimeno evidente ch’egli non si sarebbe potuto costituire tiranno della Patria, se non adoperando mezzi simili o identici a quelli che furono usati dal Conte di Lavagna. Del rimanente io penso che non si debba prestar fede alle suddette imputazioni, finché non venga con documenti irrecusabili accertato, che Andrea si giovasse veramente della sua qualità di Sindacatore perpetuo per opporsi a che fossero nominati alle principali Magistrature coloro che non erano verso di lui ossequiosi, o dilferivano di sentimenti per quanto riguardava l’amministrazione della cosa pubblica; e parimente non si dimostri che Giannettino abbia tentato commettere, (’) Botta, Storia d’Italia, ecc.; Libro I. ( 377 ) ovvero operalo degli atti, dai quali si potesse desumere la tendenza o la volontà sua d’usurpare l'assoluta signoria di Genova (*). ìsell amministrazione interna della Repubblica due atti, i quali sono stati oggetto di biasimo, furono tenuti dai sindacatori del D Oria, come da lui promossi e dalla Signoria deliberati sotto la pressione della di lui influenza ed autorità. Questi sono il decreto col quale si rivocò l’indulto concesso al conte Gerolamo Fieschi, e la riforma delle leggi deliberata nell’anno 1547. Per quanto concerne il primo nulla più dirò, avendone di già a lungo discorso; ma sopra la riforma del \ 547, stimo conveniente fermarmi alquanto, a fine di conoscere se apponevansi al vero, nei giudizi che ebbero a pronunciarne in antico il Foglietta ed il Senarega, e a’ dì nostri il Guerrazzi. 1 due primi, eloquenti interpreti dei nobili de! Portico di san Pietro, ritennero quella riforma di nessun valore, pel motivo che i Collegi avrebbero con essa, in onta alle leggi del 1528, attribuita a sè medesimi una maggiore autorità; la riputarono causa del rinnovamento delle fazioni estinte; ed asserirono pure aver questa legge diminuita la potenza dei nobili nuovi ed aggregati, poiché 1’ autorità riducevasi nei nobili vecchi. Il Guerrazzi poi laconicamente ha scritto, che Andrea colla riforma delle (’) lo credeva che questi documenti, così relativi a Giannettino come ad Andrea D’Oria, sarebbero stati forniti dal chiarissimo Cele«ia nella sua opera La congiura del conte Gianluigi Fieschi, Memorie storiche del secolo XVI cavate da documenti originali ed inediti ; ma nella mia aspettativa rimasi deluso. Di fatti le notizie che il Celesia accenna aver cavato da memorie confuse e sparte degne di fede, da vecchie croniche e scritture, da memorie inedite dagli archivii di Madrid, di Parigi, di Firenze, di Parma, di Massa di Carrara, ecc, si riducono ( come dimostrò il Bernabò-Brea ) presso che sempre ai documenti da quest’ ultimo pubblicati nel 1863 (Vedi Bernabò-Brea, Il eh. sig. cav. E. Celesia e i documenti inediti sulla congiura del Fieschi ; Genova, 1865). ( -"78 ; leggi del 15:28 « di cattive ... le rose pessime, e dall’aristocrazia tirò lo Stato all’oligarchico (•) ». Per apprezzare la legge del 1547, e giudicare quindi rettamente delle riferite accuse , è uopo considerare prima se la riforma delle costituzioni del 1528 fu chiesta dai genovesi, poscia in quali circostanze venne effettuata, in che consistesse, e quali ne fossero le conseguenze. Ora, non v’ ha dubbio che una revisione delle anzidette leggi, onde togliervi quei difetti e quelle inconsiderazioni che un’ esperienza di diciotto anni aveva in esse fatto riconoscere, era universalmente domandata. 1 difetti poi di cui si chiedeva una pronta riforma, erano i seguenti: l.° L’abuso, divenuto consuetudine, di ripartire i Magistrati per metà tra i nobili vecchi ed i nobili nuovi; 2.° La frequente inosservanza dell’annua ascrizione dei cittadini al Liber civilitatis, perciocché i Collegi pretendevano fosse facoltativa e non obbligatoria, avendo i legislatori usata 1’ espressione possono in vece di devono ; 3.° L' estrazione a sorte degli inscritti nel Libro della Nobiltà, i quali dovevano formare il maggior ed il minor Consiglio, da cui, secondo abbiamo di già notato, proveniva che assai sovente gli affari pubblici fossero affidati a persone di poco ingegno, e talora anche di dubbia onestà; il che veramente costituiva un gravissimo difetto, che avrebbe potuto evitarsi mediante la sostituzione della votazione alla sorte. Io sono però intimamente convinto, che questa riforma sarebbesi effettuata sopra basi assai più liberali, ed in modo assai più radicale, qualora non fosse avvenuta la deplorabile congiura del Fieschi ; imperocché é fatto costante che, dopo una rivoluzione repressa, nei Governi liberi d’ordinario si restringono le istituzioni. Ora egli é appunto a questa regola generale che non potè sottrarsi la Giunta presieduta dal D’Oria, e dalla Signoria nominata (’) Gierrazzi, roi. II, pag. 2S2. ( 379 ) onde vedesse se nella conquassata Repubblica, qualche parte fosse guasta, o da principio malamente costituita; e perciò ai motivi suddetti si deve ascrivere la causa, che determinò la Signoria stessa ad approvare lo schema di legge elaborato dalla predetta Giunta, quantunque, senza dubbio, fosse grandemente difettoso. E cosa degna però d’ essere notata, che questa legge del 1547, ad onta delle numerose lacune e degli incontestati vizi, fu assai lodata dalla maggioranza dei nobili vecchi, e fu consentila anche dai primarii dei.nuovi; e per conseguenza, tanto nei due Collegi quanto nel Minor Consiglio, non vennero presentate proteste fondate.sopra l’infrazione fatta dai Collegi medesimi alla Costituzione del 1528, coll1 aver accresciuto la podestà e l’autorità delle persone che erano chiamate a sedervi. E qui siami permesso dire, che se i Capi della fazione popolare, ed i Senatori insofferenti della prepotenza spagnuola non protestarono circa la suddetta derogazione a loro ben nota, contro la quale, ventiquattro anni dopo, Uberto Foglietta e Matteo Senarega acerbamente scagliavansi, e non fecero opposizione alle disposizioni restrittive proposte dalla Giunta ed approvale dai Collegi stessi, ciò si deve attribuire all aver eglino considerato colesla legge come una necessaria transazione fatta coll'interposizione di Andrea D’Oria, onde altutire le arroganti e prepotenti domande poste innanzi dai Ministri spagnuoli e da Cesare, per sopprimere affatto la libertà genovese. Esporrò ora brevemente in che consistessero le variazioni accennate ed i miglioramenti ottenuti con questa riforma. Le leggi del 1528 furono mutate in quanto concerneva il modo di comporre i Consigli; perciocché abolendo che tutti i membri dello stesso fossero estratti a sorte dal bussolo della Nobiltà. statuivasi invece che trecento continuassero ad essere eletti a sorte, e cento fossero nominati a voti, colla maggioranza di tre quinti, dal Doge, dai Collegi, dai Supremi Sindacatori, ( .180 ; dai Protettori di San Giorgio, e dall’ Ufficio degli Straordinarii. Stabili vasi parimente che i cenlo membri componenti il Minor Consiglio dovessero esseVe nominati fra i qiiattrocenlo del Consiglio grande dai precitati elettori, adoperando il medesimo metodo di votazione; e finalmente si cambiava il sistema, col quale si doveva procedere all’eledone del Doge, dei Governatori e dei Procuratori, attribuendo qUasi tutta la somma della loro nomina ai Collegi ed al Minore Consiglio. Ora, per apprezzare equamente tutte queste modificazioni, conviene riflettere che la Signoria si decise a promulgare la detta riforma, coll’ intenzione non solo di correggere i notevoli difetti, generalmente lamentati nelle leggi del 1528, ma specialmente nell’ intento di fornire all’ imperatore Carlo V la impostale guarentigia, che il Governo della Repubblica proseguiva ad essere ossequioso alla persona di Cesare , e costante nell’ alleanza spagnuola. Il primo de’ quali intenti fu ottenuto di fatti coll’ introduzione del sistema di votazione , mercè cui si tolse alla cieca sorte la facoltà di porre a capo della Repubblica degli uomini inetti , o pure rappresentanti la minoranza dei cittadini. Che se d’altra parte coll’ elezione a voti, per causa degli intrighi d uomini ambiziosi 0 di turbolente fazioni, non sempre si giunse ad ottenere la riuscita di uomini onesti e capaci, però, tranne talune deplorabili eccezioni, non v’ha dubbio che un tal sistema presentava una maggiore guarentigia del primo. Bensi è a deplorare che 1 benefici effetti che si potevano attendere da questa riforma, fossero quasi affatto annullati dalle diffettosissime norme per ciò stabilite; mediante le quali erano esclusi dal diritto di concorrere all’elezione, non solo lutti gli inscritti nel Libro, della Nobiltà, che non partecipavano al Governo, ma eziandio quelli che ne facevano parte, eccetto i pochi designati dalla legge stessa. Il che aveva per incontestabile effetto di raffermare la prevalenza nella Repubblica al partilo allora dominante, e che, ( '"81 ) seguendo i consigli del L)’ Oria, si mostrava ligio alla fazione imperiale; imperocché è evidente che questo partito si sarebbe giovato delle proprie facoltà, per impedire agli oppositori di pervenire alle supreme dignità. . Da quanto ho detto mi sembra quindi poter inferire, che la legge del 1547 non raggiunse punto il fine che parve proporsi, di migliorare cioè quelle dell’ Unione. Con essa infatti lurono conservati quasi tutti i difetti della Costituzione del 4 528, e solamente vennero soppressigli incomportabili vizi provenienti dalle elezioni a sorte. Ond’ è che, mentre convengo col Guerrazzi , per la parte in cui afferma che la riforma operata dal D’Oria non fu completa come i cittadini avrebbero voluto, e tendeva a restringere la Costituzione dello Stato, sono però d’ opinione che con essa non si variasse punto la condizione di Genova. Conciossiachè codesta riforma non tolse nessuna delle basi su cui erano state fondate in origine le istituzioni stabilite dai dodici Riformatori; tanto che, dopo le leggi del 1547, la Repubblica durò ancora più di diciotto anni, se non gloriosa-mente, almeno con un sufficiente benessere morale e materiale. E parimente non posso ammettere con Oberto Foglietta e Matteo Senarega, che la riforma in discorso producesse in Genova il rinnovamento delle fazioni estinte, ed il predominio dei nobili del Portico di san Pietro. Che se il contraddire all’ opinione dei predetti illustri scrittori ed uomini di Stato potrebbe essere tenuta impresa di temerario; nondimeno, considerando eli’essi, avendo la mente offuscata da spirito di parte, potevano errare nei loro giudizi, prendo coraggio ad esporre il mio sentimento. Dico pertanto che le fazioni sorte dopo la suddetta legge , e che causarono le discordie civili del 1575, non devono tanto attribuirsi alla medesima, quanto al non aver deliberato una completa riforma di quelle del 1528. Imperocché il metodo di nominare i Magistrati per votazione non poteva arrecare ai Î3 ( 382 ) nobili nuovi alcun danno, giacché in ragione della mantenuta consuetudine di ripartire per metà le Magistature, eglino si trovarono in pari condizioni dei nobili del Punico di san Luca; e supposto che i nobili vecchi prevalessero d’autorità nei supremi Magistrati, tal cosa si doveva attribuire a colpa dei nuovi; i quali, quantunque non avessero quella copia di ricchezze, eh’ era concentrata nelle antiche famiglie della nobiltà consolare, per contrapposto, in ragione del loro numero ch’era per lo meno il quadruplo, e della loro posizione, avevano più influenza sul minuto popolo, e sul popolo grasso, come pure racchiudevano una maggiore, od almeno eguale, quantità d’individui idonei ad amministrare i pubblici negozi. Aggiungerò poche parole sopra il modo, col quale fu accolta in Genova la suddetta riforma, e sulle conseguenze che da questa derivarono. È noto che essa venne approvata dalla maggioranza dei genovesi, e solo fu male accolta da taluni sediziosi appartenenti all’ infima plebe, e da non pochi dei nobili nuovi, i quali, nei loro convegni particolari, la chiamavano con disprezzo la legge del Garibclto, alludendo al motto genovese attribuito ad Andrea D’Oria: Daremmo are leggi un po de guribelto; cioè, daremo una miglior forma alle leggi. Essa era anzi accettata ed approvata dai cittadini ossequiosi alla Corte di Madrid ,• non che da quelli (ed in ispecie dai Capi più influenti), che appartenevano al partito insofferente della prevalenza spagnuola. I quali ultimi, abbenché conoscessero le lacune lasciate tuttavia nella Costituzione dello Stato, e la maggiore autorità che il Governo, contrariamente a quanto aveano prescritto i dodici Riformatori, concentrava in sé stesso, certamente approvarono questa legge per la grande riverenza che professavano verso Andrea , da essi giustamente riconosciuto mediatore tra i dissensi dei nobili vecchi coi nuovi, e difensore della Repubblica contro i Ministri Spagnuoli presso l'Imperatore. Cesare ( 383 ) poi fu soddisfatto di tale riforma, e non richiese più, almeno palesemente, nuove restrizioni nello Stato della Repubblica. Da quanto ho detto fin qui parmi poter conchiudere, che, mentre i genovesi nel 1547 domandavano un’ampia riforma delle leggi del 1528, per la quale si considerassero lutti i cittadini, tranne la plebe, capaci di partecipare al Governo, come si praticava ai tempi dei Consoli; cotesta riforma sarebbbe stata per certo più completa e foggiata sopra basi più liberali, se non I' avesse preceduta la rivoluzione di Gianluigi Fieschi, la quale diede opportunità al Governo Spagnuolo di minacciare l’esistenza della Repubblica, ove non gli si fossero date guarentigie, che i genovesi sarebbonsi mantenuti nella devozione all’Imperatore, assicurando ai fautori dell''alleanza spagnuola una decisa prevalenza nelle cose di Genova. Io convengo, che, mediante la riforma volgarmente appellata del Garibetto, si tirò lo Stato ad una stretta aristocrazia, ma non credo però si debba attribuire tal fatto al D’Oria, si per l’opposto, alla funesta congiura del Fieschi. E qui stimo opportuno avvertire, che in un momento, nel quale le imperiose esigenze del Governo di Spagna ponevano in pericolo l’indipendenza di Genova, la Giunta presieduta dal D’Oria fece opera meritevole di somma lode, se non variò le leggi del 1528, se non in quanto concerneva all’ elezione dei Magistrati ; perciocché cosi operando lasciò un addentellato, mercè del quale in tempi più propizi si sarebbero sempre potute rivedere le leggi dettate dai dodici Riformatori, in modo da farne scomparire tutti i difetti, e da stabilire per ciò un reggimento più consentaneo alla civile eguaglianza ed alla cresciuta civiltà del popolo genovese. Non è però a negarsi d’ altra parte, che quella del Garibetto non racchiudesse le cause impellenti delle successive turbolenze, quelle stesse che poi determinarono la riforma del 1576; intorno alla quale, benché estranea ai gesti d’Andrea, stimo non inutile una breve digressione. ( .184 ) Dirò adunque che io leggi dettale in Casale furono ottime, specialmente quando si tenga conto doli’ infelico condizione, in cui giaceva allora non solo Genova, ma tutta Italia, e tanto più quando si ponga monto elio questa riforma fu compilata ed imposta da compromissarii rappresentanti ili Sovrani assoluti, e sicuramente assai poco inclinati ad istituire liberi reggimenti. In progresso di tempo anche una graduata o radicale riforma delle leggi del I57(ì sarebbe stata assai utile e salutare ai genovesi, ed eziandio agevole a praticarsi dai reggitori della cosa pubblica, se eglino, menu paurosi «Ielle congiuro interne fomentate da Principi stranieri, ed in ispecie dai Duchi di Savoia, avessero saputo trarre profitto dalla condizione in cui trovavansi i varii Stati d’Europa , e sopratutto dalla decaduta potenza spagnuola. In Genova la necessità di riformare I’ ordinamento dello Stato, stabilito in Casale, era riconosciuta da varii cittadini dei più notevoli per ingegno ed amor patrio. In prova di che, ricorderò il parere proposto e sviluppato in un consulto presentato per iscritto ai due Collegi ancora nell’anno 17(37 dal patrizio Pietro Paolo Celesia, cioè poco prima della cessione dell’isola di Corsica fatta dalla Repubblica al re Luigi X\ di Francia. Nel precitato consulto il dotto Celesia suggeriva d’accordare il diritto della cittadinanza genovese, non solo ai Corsi in allora in istato di completa ribellione, ma eziandio a tutte le città della Liguria convenzionate o soggette; e cosi presentava il miglior modo di porre line al malo umore ed alle discordie esistenti fra i cittadini di Genova e gli abitanti de’ suoi dominii, istituendo fra i sudditi quella eguaglianza civile e politica, che universalmente era richiesta. I Collegi non presero in considerazione la proposta del Celesia ; ed a cotesta deplorabile risoluzione furono indotti dalla persuasione di dover deferire all’ opinione espressa dalla maggior parte degli inscritti nel Libro della Nobiltà, i quali, al pari di luffe le maggioranze numeriche, non ammisero la loro ignoranza, ( 385 ) e lasciandosi imporre dalle loro interessate passioni, pretesero avere il monopolio del senso comune. Io sono intimamente convinto che i Collegi non avrebbero preso cotesta deliberazione , qualora avessero considerato che la proposta del Celesia veniva approvata dagli uomini più istrutti e saggi, ed era l’ unico mezzo di pacificare e conservare là Corsica, non che di prevenire delle ribellioni negli Stati di Terraferma; e senza tema asserisco che in quest’ occasione, come in altre simigliami, la Signoria ha commesso un’ errore inescusabile. Non v’ ha dubbio che se in quell’ epoca lo Statuto di Genova fosse stato corretto o modificato, anche colle ristrettissime basi che furono poi suggerite fino nell’anno 1814 dal giureconsulto Benedetto Perasso ('), sul finire del secolo XVIII sarebbero state poste in Genova le basi fondamentali d’ una Repubblica parlamentare o rappresentativa. Ripigliando ora il discorso, lasciato interrotto, sulla civile temperanza di Andrea D’Oria, affermo risolutamente che essa in lui non è mai venuta meno, ad onta dell’ assassinio di Giannettino commesso dai seguaci di Gianluigi Fieschi, e della viva opposizione dei nobili nuovi insofferenti della autorità di quel Grande. Le contrarietà e i dispiaceri spesso da lui sofferti, noi veder prevalere nelle deliberazioni del Governo alla sua autorità quella degli emuli, ci dimostrano quanto poco fondata ed ingiusta sia 1’ asserzione di coloro, i quali attribuiscono alla onnipotente volontà del D’ Oria le deliberazioni del Senato. In prova del che, giovi recare la testimonianza del già menzionalo Grimaldi-Cebà; il quale, narrandoci minutamente le discussioni che ebbero luogo nel 1548 in seno del Magistrato delle Muraglie fra esso lui ed il D'Oria, chiaramente ci fa conoscere, che se tanto nei Magistrati quanto appresso i Col- (') Spinola Massimiliano, La restaurazione della Repubblica Ligure nell’ anno I8li; Genova, 1863. ( 38C ) logi erano somme la reverenza e la stima professate verso Andrea, egli vi trovava però anche acerbi oppositori, e non di rado avveniva che I opinione contraria alla sua prevalesse infine nei Consigli della Repubblica ('). Lo slesso autore ci somministra eziandio a questo proposilo un altro esempio, là ove racconta l’esito della sua missione I ) *li> eia (scrive il Grimaldi-Cebà nello sue Memorie) nel <548 uno degli ufficiali delle Mura della città di Genova. Dirò qualcosa di ciò che in esso m intervenne , cioè, che mi bisognò spesso opporre alla volontà di diversi potenti, e fi a gli altri del Principe D’Oria, in la nostra Città potentissimo; il qualt \ole\.i fortificata in tre punti la fabbrica di essi muri a suo modo, e fra gli alti ì la porta di san Tommaso c quella di santo Stefano desiderava si riducessi o in guisa quasi di fortezze, acciocché i soldati che le guardavano vi potessero essere sicuri da ogni impeto di fuori ; e questo suo desiderio era causato dal caso prossimo seguito del Conte da Fiesco contro la Città e la casa sua. Il che riprovando (sic) io gagliardamente per quanto concerneva la porta di san Tommaso, contro Sebastiano Lercaro capitano della suddetta Porla, ser\iiore e famigliare del Principe; ed in seguito della controversia col detto Sebastiano e li altri miei colleglli, si portò la suddetta questione dinanzi alla Signoria, che uditici in contraddittorio, deliberò secondo il mio avviso; per il che non si fece quell’opra alla porla di san Tommaso, sebbene dappoi fu in parte alterata I' opinione del Magistrato delle Muraglie e compiaciuta quella del Principe, come si può vedere. Venne da indi la medesima voglia ai due Collegi, persuasi non so da quali ragioni, ma pi-uso piuttosto dall’ opinione di pochi, di voler accomodar la porta di santo Stefano a manici a di cittadella. E cosi elessero quattro Procuratori perpetui, li quali aggiunti insieme al nostro Ufficio e consulto il Colonnello di piazza ed altri capitani di essa, facessero risoluzioni come loro piacesse intorno a questo pensiero. Tulli essi Magi-slrati, Deputati e Consultori risolsero di far ivi una cittadella, movendoli principalmente il sospetto, che mostravano alcuni grandi e nobili della plebe per il caso del Fiesco. Essi adunque, non intervenendo io ch’ero rimasto ammalato, risolsero che si dovesse ridur la porla in fortezza tale, clic non potesse essere occupata dai cittadini, ma che essi da tutte le parti accostandosi, potessero essere offesi a beneplacito dai soldati di guardia. L’esecuzione di questo maneggio rimase al nostro Illicio, e cosi assai presto si diede principio a fare i fondamenti di essa fabbrica. Io dall altra parte, poiché fui risanalo, andando a riveder la fab-biica ad essa porla, nè avendo avuta notizia di (al novità, giunto al loco, ritrosi <,ià alto da terra un grosso muro con la sua forma di fianco. La visla di detta vitupeiosa fabbrica, di maniera mi lurbò e m’afflisse che stetti un pezzo ( 387 ) seguita 1 anno 1558, in Finale, presso il Duca di Sessa Governatore di Milano. Allora la Repubblica desiderava rivendicare su quel Marchesato i proprii diritti contro Alfonso Del Carretto; il quale come feudatario imperiale avea invocata l assistenza dell’imperatore, ed era nella sua domanda appoggiato dal Duca suddetto. Il Lf' Oria medesimo non dissentiva da ciò ; anzi, sema voce, parendomi da questo miserabile principio un aspetto di libertà perduta; e rivoltomi poi alli compagni miei, gli parlai in questa sentenza : Dunque voi, cittadyii e magistrali d’ una causa tanto importante, come sono questi sacri muri, avete deliberalo o palilo che si facci questo sfregio sul volto del popolo, che i forestieri per natura rapaci, invidi della nostra robba ed inimici della quiete cittadinesca, e per la maggior parte cacciati dalle loro case, s’abbi (sic) ad essi più a credere, ed a questi forti, piuttosto che a noi stessi ed al quieto popolo di Genova? Dovremmo noi porsi al cimento che un altro cittadino ambizioso, col braccio di questa milizia, si possa far padrone della nostra Città, facendo ostacolo tanto a quei della Città, come introducendovi anche dentro chi gli piacesse? E se Gianluigi da Fiesco fu scellerato cittadino, non lo Turono li altri, e se egli fu accompagnato da qualche popolare, furono però molto pochi in comparazione dei rimanenti, ancorché la volubilità della plebe insieme con la povertà doveva far seguire altrimenti di quello che avvenne; vi siete però risoluti in quella maniera, come se questo fosse. Il che io non approvo, ed io m’intendo dimesso da questo Magistrato. I miei colleghi dopo molte scuse, cercavano giustificare il fatto, nè però cercavano di rimediarlo, e con grande difficoltà ottenni che andasssimo in Signoria, la quale dovesse dar il suo parere e volere in questa controversia; e così comparsi di nanzi a detta Signoria, portato in mezzo tutti gli argomenti tanto per i compagni che avevano consentito, quanto per parte mia che gagliardamente contraddiceva; essa Signoria rimase attonita, parendole pure le allegate da me ragioni nè vanp, nè improprie, e dall’ altra parte la tirava dietro a se l’autorità dei detti Deputati; tuttavia chiamali essi Magistrati e Procuratori tu di nuovo recitata la proposta nostra. Parte di quei Procuratori mostrarono grandemente alterarsi nell' udirsi rinfacciare tante e così vive ed efficaci ragioni, per le quali si conchiudeva quanto dannoso e vituperoso partito era stato di deliberare una simile fabbrica ; e fra gli altri Leonardo Cattaneo volea in ogni modo che andasse innanzi la deliberazione loro. Nondimeno fu dalla Signoria fatta nuova consulta, e finalmente conchiuso che la cognizione e deliberazione di detta causa fosse rimandata al nostro Ufficio. E cosi rivedutisi insieme tra noi questo negozio, però repugnante Lanfranco De tornari, fu deliberata il dì medesimo la ruina di questa fabbrica. E tanto fu eseguito il prossimo giorno con ( 388 ) * nutrendo affetto poi Marchese, che era nato dal matrimonio di Alfonso I Del Carretto con Peretta Usodimare (allora sposa ad Andrea), avrebbe amato che le parti fossero addivenute ad una transazione, e ad un amichevole componimento ('). Ora il Cebà racconta, che, appena giunto in Finale, egli chiedeva udienza solenne al Governatore, il quale prima di dargliela volle avere con lui un colloquio; e lo richiese allora, se nulla avesse a dirgli in particolare sopra l’oggetto per cui era spedito. Al che rinviato rispondendo negativamente, il Duca con alterigia riprese: avrebbe egli da dirgli qualche cosa, cioè, eh’ esso si lamentava aver la Repubblica tenuto poco conto del suo Re, al quale ella dovea pur tanto, e che era quel gran Principe tanta allegrezza di coloro, che avevano già veduta questa novità, ma molto più di quei che avevano potuto comprendere quel che simile impresa potea significare • . Nessun commento io mi permetterò di fare sopra questa narrazione; noterò soltanto che da quanto ci riferisce il Grimaldi-Cebà si deduce, che Andrea D’Oria mentie ricusava ai Ministri dell’imperatore d'effettuare il progetto di fabbricare in Genova una cittadella con presidio spagnuolo, riteneva tuttavia necessario di munire la Repubblica, onde porla in grado di difendersi conlro le sollevazioni che potessero tentare cittadini ambiziosi e nemici della libertà ; e quindi avrebbe desideralo che le milizie che guardavano le porte della Città , mediante una piccola fortificazione, fossero poste in condizione ili poto Conlc, cittadino et oratore nostro, oltre quanto si è detto nell’istruzione generale, datavi la presente per conto delle comprobazioni e privilegi, vogliamo clic preso il momento opportuno con buon modo procuriate di ha ver da S. M. privilegio autentico che la ci doni c conceda Pietra Snnla e Livorno col porto suo, ragioni e pertinenze di essi, le quali solevano ab antiquo spellare el apparle-nerc fila Città e Repubblica nostra, possessioni da lungo tempo avute; e quando si considereranno le gran spese, l’incomodo, le rovina nostre sarà facile ila ottenere, dichiarando S. M. detti luoghi e porto dover essere, e che sieno del territorio e del distretto di Genova, et dover spettare et appartenere alla Repubblica, pieno jure, procurando sotto qualche modo et forma la Repubblica nostra possa bavere la rial possessione di detti luoghi, e porlo con sue fortezze, tagioni e pertinenze, ed in ottener quanto si è detto gli (laverete facilità molta , bevendoli più volte S. M. concessi sia per lettere dirette a Mons. Illustrissimo di Borbone vivente, a cui S. M. ordinava che di detti luoghi impossessionasse la terra nostra, come pi r la copia di esse vedrete. Questo negotio quanto eh’ ei sia d’ importanza e da essi r tratlato con desterità e prudenza, Vostra Signoria lo intende non men di noi. Acciò che questa nostra mente non sia cosi a notitia universale di tutti, però la se vi è disgiunla dalla generale istruzione, acciocché con silenzio si procuri al suo tempo haver I’ effetto •. ( 599 ) consenti alla Repubblica veruno accrescimento, col riacquisto di terre già possedute e la compra di altre nuove; ed amò meglio invece che di Pietrasanta , Livorno e Pontremoli (') avesse la signoria il Duca di Toscana, e del feudo di Capriata ricevesse l’investitura il Duca di Mantova. Stimo conveniente di non passare sotto silenzio neppure un’ altra accusa apposta al D’ Oria, e che tenderebbe a provare la di lui servilità verso l’imperatore. E questa viene accennata dal Guerrazzi, laddove narra che il IO marzo 1530, Andrea prorogando la sua condotta coll’ Imperatore, accettò e soscrisse alcune variazioni introdotte da Cesare nella prima capitolazione, poiché nel primo capo venne aggiunto : « E s’intenda che cotesta Repubblica (di Genova) e i cittadini, e giurisdizione suoi sieno conservali e mantenuti, purché osservino e conservino la nostra autorità e preminenza imperiale ». Al che il Guerazzi fa seguire codesta osservazione : « Di vero o che era mai il D’Oria, se avesse liberata veramente la Patria, per istipulare in privata scrittura, e affatto speciale ai suoi interessi, lo Stato di lei » (2)? Ma l’egregio scrittore non avrebbe per certo mosso quest’ accusa ad Andrea, quando avesse posto mente che mentre nell’ anno 1528 trattavasi di liberar Genova dai francesi e costituirla Repubblica libera ed indipendente, nel 1530 il suddetto scopo essendo compieta-mente raggiunto, il D’ Oria non poteva aver altra intenzione, se non quella di rassodare il libero reggimento da lui fondato, e mantener se stesso nella posizione, che gli si offriva, d’ ac- (’) Neil’ istruzione data a Cipriano Pallavicino il 27 agosto 1548, si legge tra le altre cose, che dalla Signoria gli veniva commesso • d’ offrire all’ Imperatore di comprare la terra di Pontremoli per quella parte del credito della Repubblica sopra S. M. che ascendeva a 130,000 ducati, non computato i 27,000 ducati di credito della Repubblica, per le spese fatte per 1’ isola di Corsica, conchiuso dal Governo •. (*) Guerrazzi , Opera cit., vol. 1., pag. 226. ( 400 ) crescere la propria gloria nei venturi combattimenti navali, che certamente avrebbero avuto luogo contro le potenti Hotte ottomane comandato da Ariadeno Barbarossa. Parimente avrebbe % dovuto considerare, che queste variazioni con tanta asprezza biasimate , altro non erano in line se non un pomposo frasario della cancelleria imperiale , che la Repubblica aveva di già dovuto ammettere nel rescritto dell’ Imperatore , ottenuto il 1529 dall'oratore Sinibaldo Fieschi. In tale rescritto infatti Genova era posta tra le città denominate Camera imperiale, e la Repubblica avea comprovali tutti gli antichi diritti e privilegi in riguardo della amicizia e devozione, che la vincolavano all’impero. Cosi facendo inoltre, io sono di sentimento, che il prelodato scrittore neppure avrebbe attribuito il rinnovamento della capitolazione alla reciproca convenienza, che nel riconfermarla reputavano avervi Carlo V ed il celebre Condottiero. Imperocché il Guerazzi cosi scrive : « Lasciando da parte che dell’ alterata forma non si accorse Andrea ; e minor bruscolo, che 6500 ducati all’ anno non sono , basta ad offuscare la vista ; tu, per poco che ci posi la mente, conoscerai come Genova sia serva in mano al I) Oria per assoggettarla altrui. Anzi l’uno serviva l’altro; il D Oria, con la reputazione dello Imperatore, si teneva sottomessa la Repubblica, ed in colesto strano reggimento si conformava; lo Imperatore per converso, con la reputazione del D’Oria e il favore dei suoi partigiani, si conservava di\ota la Città (•) ». Argomentazione inesatta; giaché ove I Imperatore ed il D’ Oria avessero fermato di dominare in Genova, non avevano punto mestieri di ricorrere a questa tacita convenzione. Di fatti la Repubblica volendo conservare la facoltà di reggersi di per sé stessa , in quanto concerneva le faccende interne, e difendersi dalle insidie dei partigiani e Cl Guerrazzi , Opera cit., vol. I., pag. 227. ( 401 ) dagli eserciti di Francia, era costretta, a cagione della sua debolezza, a mantenersi in uria ossequiosa clientela verso la Spagna; e quindi Carlo V, per assicurarsene la politica dipendenza, non aveva uopo della interposizione del D’ Òria. Il quale a sua volta ugualmente, per imporre a Genova il suo predominio, non avrebbe avuto bisogno dello spediente indicato dal Guerrazzi ; giacché assicuravagli abbastanza la prevalenza lo aver discaccialo i francesi, e ridotta la Patria in libertà ; per la qual cosa appunto fu nominato Sindacatore perpetuo , ed acquistossi nell’ universale della cittadinanza tanta riputazione ed autorità, quanta mai ne poteva desiderare; senza temere di vederla più tardi sminuire, od anche al tutto scemare, pel fatto della sua continuazione a mantenersi al servizio di Carlo. Studiando la vita di Andrea, io pure più volte ho pensato, se nell’anno 1530 avrebbe meglio operalo disdicendo la sua condotta con Cesare, e se, pago d’ aver rivendicata la Patria in libertà, come semplice privato avesse concorso ad assicurarne la prosperità e l’indipendenza. Ed invero , per la gloria cittadina del D’Oria, avrei preferito vederlo appigliarsi a quest’ultima deliberazione. Onde il Guerrazzi, coll’usata perspicacia, osserva che Andrea, sebbene liberasse Genova dal giogo francese, non può compararsi a Camillo, ad Arato, a Pelopida, a Trasibulo, poiché altro non fece che mutare di servitù ('). La ragione però, che indusse il D’Oria a non disdire la propria condotta coir Imperatore, e nello stesso tempo a conservare il grado confertogli dai dodici Riformatori di Sindacatore perpetuo, non é per certo quella indicata dal Guerrazzi (2), dal Bernabò-Brea (3) e dal Celesia (*); i quali suppongono che egli (’) Guemuzzi , Op. cit., vol. I, pag. 225. (*) Guerrazzi , Op. cit., voi. I, pag. 225 e 238. (’) Bernabò-Brea, Op. cit., pag. 12. (*) Celesia, Op. cit., pag. 61. ( Ml ) ciò facesso per soddisfare la sua ambizione di possedere in Genova autorità e prevalenza di principe, senza averne le insegne. Io ammetto che ad Andrea non ispiacesse il comando , poiché questo è un difetto comune a tutti coloro , che, debitamente o nò, credono avanzare in merito gli altri cittadini ; però stimo eh1 egli si raffermasse nella suddetta risoluzione a seguito 'di considerazioni più giuste e generose , e con intenzione che avesse a derivarne benelicio alla Patria. Egli infatti conosceva benissimo che fasciando'il servizio di Spagna , sarebbesi inimicato Cesare, e perciò non avrebbe più potuto giovare agli interessi de’ suoi concittadini, o coadiuvare all’ incremento della Patria coll’ interporsi presso di lui nelle alterazioni eventuali fra i Ministri Spagnuoli ed il Senato della Repubblica. E i genovesi provarono invero nell’anno -I54K i bendici effetti delle interposizioni del D’Oria, giacché a lui unicamente andarono debitori se I’ Imperatore s’ indusse a desistere dal disegno d’ impossessarsi di Genova. Cosi pure é indubitato che Andrea, ove avesse rinunziato al soldo di Spagna, avrebbe nel tempo stesso , e di per sé medesimo , rinunciato ad appagare il grandissimo suo desiderio d’acqaistare nuova gloria, combattendo e vincendo le numerose e potenti armate navali de’turchi, le quali minacciavano distruggere I’ indipendenza e civiltà d’ Europa; e vi sarebbero riuscite s' ei non avesse risparmiato all’ intiera Cristianità di venir manomessa da Dragut e da Ariadeno Barbarossa. Aggiungerò ancora poche parole sopra I' imputazione apposta al D’Oria dai prerati scrittori, ch’egli, cioè, fosse nemico delle altre città libere d" Italia. Intorno a che I eloquente apologista di Gianluigi Fieschi scrive: « Quindi è che noi vediamo Genova all’ assedio di Firenze favoreggiare i nemici d1 Italia, dare di una lanciata anche a Siena, estinguere nel sangue le rivolture di Napoli, soffocar ovunque col braccio del ( 403 ) L) Oria il seine delle libertà nazionali (')». Ed Guerrazzi: * Andrea D'Oria col farsi condottiero agli stipendi dell’Austria non solo riiuggi, ma sollecito accorse a spegnere nel sangue ogni spirito di libertà in Italia, e dopo i corpi incatenare gli spiriti, aiutando a piantarci, come un chiodo nel cuore , la Inquisizione. Però male, a nostro avviso, si consigliava chiunque sostiene , che per esso l’Italia serbò della libertà quel tanto, che la condizione pessima dei tempi concedeva , dacché rimane chiarito che non istette per lui, se la Patria non isprofondava nell’inferno della servitù (2) ». Questi giudizi però io li reputo inammissibili ; perciocché stimo che riguardo al contegno serbato da Andrea per rispetto a Firenze , a Siena ed a Napoli, si debba distinguere ciò che egli esegui nella sua qualità d’Ammiraglio di Spagna, da quello che operò come cittadino e magistrato genovese ; e ciò premesso , parmi ingiusto ascrivergli a delitto se le sue galee , che pure formavano parte dell’ armata navale spagnuola , recarono truppe, artiglierie e vettovaglie ai capitani di Cesare, onde combattere le popolazioni italiane, le quali non volevano assoggettarsi, o tentavano liberarsi dalla tirannide straniera. Imperocché sarebbe stoltezza pretendere, che il D' Oria, conservando 1’ onorevole grado d’Ammiraglio di Spagna, avesse poi avuto a ricusare i propri servigi al suo Sovrano. Ma altra cosa é che Andrea obbedisse a Cesare in questa sua qualità, ed altra che provocasse l’Imperatore a recar danno alle suddette città ed a opprimerne le popolazioni. Per l’opposto sarebbe il D'Oria giustamente da vituperare, se, giovandosi della sua autorità e potenza, avesse proposte alla Signoria di Genova, o provocate dalla medesima delle risoluzioni nocive agli interessi delle citta italiane, che (’) Celesia, Optra cit., pag. 6i. GìERiuzzi, Opera cit., vol. 11., pag. 173. ( 404 ) bramavano conservare o rivendicare la libertà. Ma nessuno degli antichi e dei moderni suoi detrattori, ha riferito mai proposte o fatti , che potessero giustificare una simile accusa. Chi volesse supporre che il D' Oria co’ suoi consigli abbia attivamente contribuito a reprimere i moti, con cui Firenze, Siena e Napoli tentarono conservare il loro libero reggimento , o riacquistare la perduta indipendenza , mostrerebbe di non conoscere i sentimenti generosi di Andrea, il quale fu sempre caldo patrocinatore di questo saggio governo. Sappiamo infatti, che egli, quantunque non approvasse le rivoluzioni tentato in Napoli, disapprovò sempre I arbitraria amministrazione del viceré Pietro di Toledo , il quale aveva reso insopportabile a tutti i napoletani il giogo spagnuolo. Il sentimento di lui a questo proposito ci é fatto conoscere dagli storici Pietro Miccio (•) e Galluzzi (*), non che da Pirro Miisefilo nelle lettere a Cosimo De’ Medici. I quali narrano come tra i principali Ministri di Carlo V, che appoggiavano le rimostranze dei Baroni napoletani, ed opinavano si dovesse rivocare il Toledo dall1 ullicio confertogli , il nome del D’ Oria primeggiava accanto a quelli del Marchese Del Vasto, di Ferrante Gonzaga, di Don Giovanni D'Aragona, del Principe di Salerno e di altri ; né punto annoverano di poi Andrea tra coloro che cessarono di sfavorire il Toledo , come fecero il Vasto ed il Gonzaga , quando s1 accorsero clic quegli avea per se grandissima la grazia di Cesare. Benedetto Varchi , autorità non sospetta ai censori di Andrea, ci rende inoltre testimonianza che questi si dimostrò sempre amico e favorevole alla Repubblira di Firenze; narra che avrebbe desiderato di coadiuvare a mantenerne la libertà, e ad impedire che il popolo fiorentino ricadesse sotto la do- (’) Miccio, Storia di Napoli (V. Archivio Storico Italiano). (*) Gauuzzi, Storia del Granducato di Toscana. {*) Pinno Mi sEFiLo, Utterc al Duca Cosimo De’ Medici (Archivio Storico). ( 405 ) minazione della famiglia De Medici; e come a tale effetto offrisse alla Repubblica stessa d’ interporre presso l’Imperatore i suoi buoni uffici, a fine di conchiudere un trattalo di pace, che ne avesse assicurata la indipendenza (‘j. Lo stesso storico ci fa poi conoscere come il D’ Oria proseguisse a favorire ed a proteggere i fuorusciti fiorentini appresso 1 imperatore Carlo V, perché, cosi scrive. « essi si vestivano del mantello della libertà , della quale egli era stato sempre, ed era ancora più che mai, amatore, siccome si vide manifestamente, quando Tanno 1528, essendo in poter suo, per lo accordo fatto coll'' Imperadore, lo insignorirsi di Genova, egli non lo volle fare, anzi la lasciò libera nelle mani de’ suoi cittadini, i quali vi ordinarono quella forma di Repubblica, che ancora oggi vi dura; la quale egli sempre, mentre che visse, s’ingegnò a suo potere non solamente di mantenere, ma di migliorare ancora (2) ». Che se non rade volte egli si trovò costretto a soffocare i suoi generosi affetti verso i fiorentini, di ciò non si può biasimare; perciocché era questo una necessaria conseguenza della sua duplice qualità d’Ammiraglio di Spagna, e di Magistrato di un libero Stato collegato all’ Imperatore da strettissimi vincoli d’ amicizia e di gratitudine. Alla suddetta cagione devesi quindi attribuire la dura risposta che il Varchi medesimo riferisce aver data il D'Oria ad Anton Francesco degli (’) Varchi, Storie fiorentine, Libro IV. (*) 11 Varchi, scrivendo queste linee, lende la più ampia ed incontestabile testimonianza dell’ amore e del rispetto eh’ ebbe sempre il D’Oria per la libertà e l’indipendenza della sua Patria. Di più, coll’ espressione sempre che visse , ci dimostra che in Andrea quest’ affetto non scemò punto a causa dolio congiure del Fieschi e del Cibo, o per 1’ opposizione e i disgusti sofferti per parte della Nobiltà intollerante della superbia e della prevalenza in Genova del Governo Spagnuolo ; e parimente usando 1’ espressione : cercandola di migliorare , ci prova ad evidenza come gli statisti italiani imparziali ed indipendenti ritenessero la legge del 1517, un miglioramento a quella del IS28. ( 40Ü ) Albizzi, il (jualo a nome dei fuorusciti chiedeva 1' ajuto ed il consiglio di Ini : ■ Che era stato sempre ed era più che mai amico e fautore della libertà di Firenze, ma che essendo servitore di Cesare, non poteva voler di questo, nè d alcuna altra cosa , se non quello che ne voleva I’ Imperatore » ('). Questa risposta potrebbe, con apparenza di verità, essere censurata; nondimeno è uopo consentire come essa fosse l’unica che Andrea, nella sua qualità d’Ammiraglio di Spagna, poteva dare palesemente ai fuorusciti fiorentini. A dimostrare quanto grande sia stalo I’ amore del D Oria per la libertà non solo di Genova, ma eziandio di tutta Italia, ini giovi rammentare un fatto passato quasi inosservato dagli antichi storici italiani, e dai recenti scrittori non convenientemente apprezzato. Ognuno intende, che io voglio parlare della lega delle Repubbliche italiane sotto la protezione dell’ Imperatore, ideata dal IJ‘ Oria medesimo dopo avere rivendicata a Genova la indipendenza, e prima che Carlo V segnasse col papa Clemente VII il trattato di Barcellona (5 giugno 1529) e col re Francesco I quello di Cambray (20 agosto); trattati, che come a tutti é noto, furono estremamente dannosi agli Stali d’Italia e ne causarono le future sciagure. Andrea, a fine' d’impedire i mali, che prevedeva sarebbero derivati al- 1 Italia, quando l’Imperatore avesse soddisfatto ai progetti ambiziosi di Clemente sopra Firenze, non che per l’abbandono dell’ Italia che farebbe Francesco I, le cui intenzioni già erano conosciute pel trattato di Madrid, proponeva adunque di stabilire una confederazione tra le repubbliche di Genova, Venezia, Lucca, Siena e Firenze, sotto la protezione dell Imperatore medesimo; e nell’intento di mandare ad effetto cotesto divi samento, inviava Federico Grimaldi a Venezia, con incarico d’offrire a quella Signoria i suoi buoni uffici per trattare la (') Varcai, Storie fiorentine, Libro XIV. ( 407 ) pace con Carlo, e di invitarla nello stesso tempo ad entrare nella progettala confederazione. Ma, sgraziatamente, così il progetto come la mediazione del D’Ùria, vennero respinti dal Senato Veneto, primieramente perché ripugnava il ricorrere alla interposizione d’ un cittadino genovese, il quale, dipartendosi dal servizio del re Francesco, avea agevolala in Italia la definitiva prevalenza spagnuola; e secondariamente, perché i Senatori, partigiani dell’ antico sistema di ponderazione tra l’impero e la Francia, s’ostinavano a mantenerlo, illudendosi sulla mala fede di Francesco e sulla forza rispettiva degli emuli Sovrani, giacché esageravano le difficoltà che Carlo avrebbe dovuto superare in Germania per vincere la Lega di Smalkauden. Il celebre statista Donato Giannotti ci fa conoscere, che Pier Francesco Portinari, di ritorno dalla sua legazione di Francia e d’Inghilterra, passando per Genova, fu ricevuto dal D’Oria, il quale gli tenne un lungo discorso, « mostrandoli per molte ragioni che la Città (di Firenze) doveva abbandonare 1’ amicizia di Francia, come disutile e dannosa , e cercare di far confederazione con l’Imperadore; la qual cosa conducendosi, mostrava che aveva ad essere le salute di quella Repubblica. Ed acciò eh’ ella avesse effetto, offriva d’interporvi tutta la sua autorità; aggiungendo che se il Papa, prima che la Città, faceva lega con quella Maestà, non potevano i fiorentini in modo alcuno fuggire una pericolosa guerra » ('). Lo stesso storico aggiunge inoltre, che il Portinari, giunto in Firenze, non tralasciò di rappresentare al Magistrato dei Dieci ed al Gonfaloniere la commissione avuta da Andrea; nè a costoro dispiacque il progetto. Se non che,* Tommaso Soderini ed Alfonso Strozzi, venuti in cognizione della pratica, vi si opposero, affermando che un (’) Giannotti, Della Repubblica fiorentina; Firenze 1850; vol. 1, Libro II, pag. 127. ( 408 ) acculilo coll’ Imperatore equivaleva alla restaurazione dei Medici. « E finalmente, prosegue, con quelli sinistri modi facevano si che il Gonfaloniere non ebbe ardimento di seguitare la pratica •; tanto è vero, osserva egli con molta giustezza, che le deliberazioni intorno alla Città ed allo Stato non erano prese nel Palazzo dalle autorità costituite della Repubblica , ma veniano dettate ed imposte da pochissimi demagoghi nelle loro congreghe (')• Sappiamo altresi dal Pitti, dal Segni e dal Varchi, avere il D’Oria fatto conoscere e dimostrato all’ amico suo Luigi Alamanni, quanto poco vi avesse da sperare che i francesi rimanessero vittoriosi, e quanto rischio corressero in particolare i fiorentini d’essere dal re Francesco abbandonati nelle prime trattative di pace. Inoltre lo avvisava confidentemente, come fosse nei desiderii di papa Clemente quello di rappaciarsi coll’ Imperatore, a patto che gli cedesse in compenso Firenze; e come Carlo \ indugiasse a consentirvi, soltanto per vedere se dal popolo fiorentino gli venisse fatta qualche offerta, che meglio gli fosse convenuta. Ora 11 D’Oria, in tale occasione, dichiarava all’Alamanni quanto grande fosse il suo amore per la conservazione della libertà di Firenze, e come questa a suo avviso fosse agevole ad ottenersi, mediante un riordinamento della Repubblica, per guisa che qualche soddisfazione ne fosse derivata al parlilo degli Ottimali ; ed a conseguire lo scopo pregava poi 1’ amico suo di rendere palese ai fiorentini le buone intenzioni, ond’egli era animato; offriva in pari tempo i suoi buoni uffici presso I Imperatore, e riproponeva infine la lega delle Repubbliche, a cui abbiamo testé accennato. L’Alamanni riferiva alla Signoria le proposte 'del D’Oria; e queste venivano discusse in una adunanza tenutasi il giorno 12 agosto 1529 dal Gonfaloniere, col concorso del Magistrato (') Giannotti, loc. clt. ( 40!) ) (lei Dieci e del Consiglio degli arroti alla pratica dai Dieci medesimi; ma a grande maggioranza fu adottato il parere di Tommaso Sederini, il quale portava il rifiuto d’ ogni profferta e disegno del D’Oria, non ostante l’autorevole discorso di Anton Francesco degli Albizzi ; giacché gli argomenti recati dal primo sollecitavano maggiormente le passioni e la vanità dei fiorentini. Però se la effettuazione di questa lega rimase non più che un desiderio; dopo le ragioni sovra esposte, e per le quali vedemmo Firenze e Venezia ricusare di farne parte, non possiamo convenire nella spiegazione datane dal Guerrazzi, il quale scrive che Carlo V « per imperiale istinto dalle repubbliche .... ripugnava (') ». Certo l’Imperatore ron le a-vreblie vedute di buon occhio a confederarsi; ma colpevole fu il Senato Feneziano che non apprezzò giustamente le condii zioni dell’ Italia, né seppe rimoversi dai principii tradizionali di politica da esso fino allora seguitati; e fu egualmente colpevole la fazione fiorentina degli Arrabbiati, la quale temendo di non potersi mantenere nell’ assoluto dominio di Firenze, piuttosto che transigere cogli Ottimati, e costituire quella forma di libero Governo che l’Imperatore ed il Papa avrebbero potuto ammettere e riconoscere, preferì con una gloriosa, ma inutile resistenza, perdere definitivamente la libertà, e sottoporre la Patria al dispotismo della famiglia De' Medici. Riesce superfluo il congetturare quali sarebbero state le conseguenze, immediate o lontane, che avrebbe risentite 1 Italia dalla effettuazione della indicala lega ; ma sono d avviso, che sarebbero stale assai rilevanti ; perciocché, mediante questa confederazione, si sarebbe formato un centro nazionale, nel quale i diversi Stati e le popolazioni d’Italia si sarebbero uniti; ciò che avrebbe dato opportunità, col volgere del tempo, (’) Guerrazzi, Opera cit.] Vol. I, Cap. V, pag. 247. ( 410 ) ed in ispecie durante il lungo periodo della decadenza dolia Monarchia Spagnola, a raggiungere il conseguimento del voto espresso con tanto eloquenza da Dante e dal Machiavelli, e poscia da Vittorio Alfieri e da Giambattista Niceolini : * Fuori i Barbari dall’ Italia ». Istituendo un imparziale esame sopra i gesti e le opere di Andrea D’Oria, io non seguirò l’esempio de’ suoi apologisti , i quali hanno taciuto come egli in Porto Ercole facesse inazzerare Ottobuono Freschi caduto in sua balia. L'atroce supplizio con cui il D’Oria fece togliere di vita Ottobuono venne meritamente biasimato, e considerato come una macchia indelebile al nome ed alla fama di lui Ed io mi unisco all'opinione di coloro, i quali, sebbene ammiratori d un Uomo cosi celebre, deplorano ch’egli, non lasciandosi commuovere da quei sentimenti di pietà che potevagli ispirare il contegno debole, ovvero più o meno dignitoso, del di lui prigioniero, ma solo ricordando avere Ottobuono ordinata, od almeno non impedita, l’uccisione di Giannettino, siasi lasciato acciecare dall’ira e dall’odio lungamente covati, e trascinato a condannare e far perire in si crude) modo il di lui nemico (*). Io non ignoro che a scusare la condotta del D’Oria si potrebbe addurre, ch’egli non richiese gli venisse consegnalo Otlobuono, mentre questi gli fu rimesso dal Marchese ili Marignano, capitano al soldo del Duca Cosiino ; che inoltre i feroci costumi di quei tempi gli davano piena autorità d' ordinare il suppli- (’) Mentre gli altri scrittori si accordano nel dire che il D’Oria fece mazic-rare Otlobuono in Porto Ercole, dalla narrazione del Cibo-Rccco (llistoria Genuensis, etc. MS.) risulterebbe invece, che Andrea avrebbe scritto al Senati di Genova, per mettere in potere del medesimo quell’ infelice. II Senato però, rifiutandolo, l’avrebbe rimesso a disposizione dell’ Ammiraglio, come spetlavagli di diritto, essendo il Fieschi prigioniero di guerra. Il D’Oria allora avrebbe comandalo ad uno schiavo moro d’impiccare il misero ad una antenna della sua galera; e poscia ordinato, che il cadavere attaccato ad un forte peso venisse affondato nel mare. ( 411 ) zio col quale ci lo facea morire, e che operando in tal guisa, altro non faceva che porre ad effetto le sentenze di morte pronunciate in contumacia dalla Signoria di Genova e dall’Imperatore contro del Fieschi. come complice non solamente della congiura di Gianluigi di lui fratello, ma pure di quella di Giulio Cibo, e come suddito sleale e ribelle all’Impero. Infine si potrebbe aggiungere, che le massime stabilite dal diritto di guerra autorizzavano il D’Oria non solo a ritenerlo prigione, ma eziandio a punirlo di morte, perchè preso colle armi alla mano contro il proprio Sovrano. Però se le suddette ragioni sarebbero validissime ad assolvere un Duce volgare, non i-scusano già il D’ Oria. Perciocché in lui si sarebbe desiderala una maggiore generosità, anzi una tale magnanimità, da indurlo a chiedere alla Repubblica ed all’ Imperatore la grazia per quel nemico; la quale, io porto opinione che dalla Signoria sarebbe stata subito conceduta. Riguardo a Carlo \ non oserei affermare altrettanto; ma, ad ogni modo, il generoso atto di Andrea avrebbe riportale le lodi di tutti i contemporanei, e formalo, cogli altri suoi gesti, l’ammirazione dei posteri. In ultimo dirò che il D’Oria nell’estrema vecchiaia ebbe la consolazione di veder soddisfatte le calde sue raccomandazioni al re Filippo II in prò di Genova, affinché non entrasse a concludere la pace di Castel Cambresis senza guarentire l’integrità e 1’ indipendenza della Repubblica. Di fatti in questo trattato (3 aprile 1558), mentre il re di Francia Enrico II, non degenere dal padre, abbandonò i protestanti d’Alemagna all’arbitrio ed alla vendetta dell Imperatore, e parimente, come se fossero stati inutili strumenti di guerra, dimenticò i proprii alleati d’Italia, lasciandoli alla discurezione del Re di Spagna; la Repubblica di Genova, che aveva costantemente serbato l’alleanza spagnuola, non solamente non venne posta da banda, ma fu rimessa nel possesso dell’ isola di Corsica, ed ebbe guarentita l’integrità dello Stato. Cosi Andrea mirò assi- ( 41-2 ) curala la libertà della Patria. E per vero, quél venerando vecchio, volgendo uno sguardo retrospettivo alle civili discordie, ripensando allo squallore in cui avea trovati immersi la città di Genova ed i suoi dominii allorquando ne vennero e-spulsi i francesi, e confrontando quella misera condizione dei tempi andati col benessere di presente goduto dai suoi concittadini , per elleno immediato della ricuperata indipendenza, delle leggi del IÛ28 e d’un esteso commercio colle diverse provinole della Spagna e dell’ Impero Germanico, doveva provare un’ intimo e ben gradito compiacimento. Egli con ragione poteva dirsi pago di sé stesso, e nutrire fiducia che la riconoscenza de’ genovesi non gli sarebbe venuta meno giammai. Che se, per avventura, fosse in lui sorto un qualche tristo presentimento di ciò che poteva accadere in Genova dopo la sua morte, egli Io avrebbe agevolmente discaccialo, confidando che ad allontanare il pericolo provvederebbe la perspicacia dei futuri Governatori , il buon ordinamento dello Stato e la fortuna che arride sempre ai popoli quando sono giunti a quel grado di civiltà per cui non si rimpiange il dispotismo, ma, ad onta anche di qualche sacrificio, si ama e difende quel reggimento che guarentisce le libere istituzioni (*). Andrea D’Oria moriva il giorno 25 novembre del lòfiO, nel novantesimo terzo anno di età, lasciando al di lui erede Giannandrea figlio di Giannettino, il ricordo di continuare a propugnare l’amicizia e l’alleanza di Spagna, ma sopra ogni cosa d’amare e servire la Patria. La morte di Andrea, quantunque preveduta, cagionò in Genova un lutto universale e (') Una Relazione di anonimo al Senato di Venezia comincia con queste parole: « Il Governo di Genova, come si sa, è di Repubblica così bene ordinato e stabilito, che dillicilmente potrebbe mutar condizione • (V. Albmw, Relazioni degli Ambasciatori Veneti, serie II, vol. II, pag. iti). ( 413 ) sincero; e questo dolore è una prova incori testabile che al popolo non erano uggiose l’autorità e la grandezza di lui, ed anzi eli ei le riteneva utili e favorevoli alla Patria; sicché Andrea non poteva essere annoverato fra quei grandi cittadini, la cui autorità fu tirannica, e che ebbero giustamente dall Alighieri il nome di Lupi. VII. Col presente studio sui meriti e i demeriti di Andrea 1 > Oria, instituito con diligenti e conscienziose indagini, ho fiducia di avere sufficientemente dimostrato che le censure e le accuse, con le quali i.chiarissimi Guerrazzi. Bernabù-Brea e Celesia hanno cercato diminuire, o scemare affatto, la fama d’ un celeberrimo Cittadino genovese, consistono in affermazioni per la maggior parte mancanti di prove, oppure in giudizi fondati soltanto dietro appreziazioni di fatti male estimati , o finalmente sono cavate da esagerale deduzioni. Io spero quindi di avere, per quanto lo comportarono almeno le mie deboli forze, contribuito a far si che d’ora innanzi coloro i quali vorranno giudicare le azioni di Andrea riconosceranno in lui non solo un illustre Capitano di mare, ma eziandio quel grande e benemerito cittadino , a cui la gratitudine del popolo eresse giustamente una statua marmorea e die’ titolo di Padre e Liberatore della Patria (*). (’) Il Guerrazzi ( 1 ila di Andrea Doria, vol. 1, pag. 218) citando il Botto, clic riprovò il popolo d'aver nell’ anno 1797 atterralo la statua di Andrea, isce in queste parole: • Carlo liotta, il quale sciive storie qualche volta con l’abbondanza di Livio, e sempre con i concetti di un missionario, s’inalbera contro il popolo genovese, che ebbe ardimento di torsi tarda vendetta ed innocente contro il suo simulacro, e sbalestra in parole contro di lui ; dove egli avesse con senno meditato la cosa, forse gli sarebbe parso come il popolo in quel punto saldasse al vecchio Doria la parlila da tempo cosi re- 27 (414) Inoltre chiunque vorrà, apprezzare con giustezza, nel suo complesso, la condotta del D’Oria, dopo che per ili lui opera Genova fu tolta all’obbedienza di Francia lasciando da parte gli avventati giudizi de' recenti censori di quello insigne Ammiraglio, preferirà la seguente sentenza di Carlo Botta: « Grande certamente era il nome del Doria , cittadino troppo eminente sopra il grado privato; grandi le sue ricchezze, grande ancora l’autorità che esercitava nei negozi dello Stato, anche in quelli che dalla sua dignità non derivavano. Dirò di più, ch’egli teneva nel porto certo numero di navi a suo soldo, ed anche soldati da lui pagati su per le navi medesime ed a guardia del suo palazzo, cosa mostruosa senza dubbio e pericolosa per la libertà. Ei poteva altresi nell' animo dell’ Imperatore quanto voleva, ma ciò che doveva portare a tirannide si convertiva, per la moderazione civile di Andrea, in libertà, non avendo egli mai usato il suo nome, nè la sua potenza, per isforzare le deliberazioni dei .Magistrati, tanto più da lodarsi, che dopo aver dato la libertà alla Patria, gliela conservò, potendo distargliela » (’)• moto accesa sui libri della ragione •. lo non tornerò a discutere se il Governo istituito nel <328 fosse peggiore (come asserisce il Guerrazzi, per provare la sua proposizione) del centauro descritto dalla favola, il quale fu mezzo uomo e mezzo bestia, mentre quel Governo si compose allora di due bestie intiere, patrizi e mercanti, senza dignità come senza onore; dirò soltanto come anche sul finire del secolo decimosettimo, da alcuni membri del Consiglio Minore fu proposto di far levare le statue di Andrea e di Gianandrea D’Oria, che sorgeono dinanzi alla porta del pubblico Palazzo. Il che udendo un saggio vecchione, escalmò subito ironicamente esser que sta una bellissima idea; si togliessero anzi, com’era di dovere, quelle imagini, e si rizzassero al loro posto quelle di Raffaello Dello Torre e di Gian Paolo Balbi. Arguto motto, il quale bastò per costringere al silenzio i male avveduti proponenti, in mezzo ad una ilarità, generale (V. Annali di Genova, mss. della Libreria dei marchesi Gavotti fu Lodovico ; dettati, o posseduti almeno, da Luigi Gherardi cancelliere della Repubblica). Una uguale risposta sembrami ora convenire al-l’asserto del Guerrazzi. O Rotta , Storia d'Italia. ( 41!j ) Per le cose sopra esposte ravvisandosi vani gli sforzi diretti a spogliare si grande Uomo di que’ titoli egregii onde i suoi contemporanei lo hanno fregiato, nutro fiducia che la Storia conservandone ora intera e salda la fama, gli manterrà l'onorato posto assegnatogli accanto a Camillo e ad Arato, a Pelopida ed a Trasibulo. A me poi non rimane altro a desiderare, se non che i giudizi svolti in questo mio scritto vengono approvali e confermati dalle ufteriori ricerche di dotti ed eloquenti cultori della Storia genovese-, i quali non isvisando né tacendo i fatti, ne disvelino le cagioni. E ciò desidero ardentemente , affinché non si abbia più da lamentare che scrittori d’autorità e coscienza ('), col lodevole intento di reintegrare la fama d’ onesti cittadini, difensori e martiri di popolari libertà, si facciano campioni d'uomini tristi, le azioni dei quali furono condannate da secoli a meritata infamia. (') Quei recenti scrittori, i quali coll’intento di rirare la Storia di Genova, vollero lace»are la fama di Andrea, non addussero già nuovi argomenti, ma si restrinsero a riprodurre con leggiadro stile le accuse che al D’ Oria furono apposte dagli antichi emuli e detrattori suoi, specialmente durante le dissensioni fra i Portici di san Pietro e di san Luca. Chi desiderasse conoscere tali imputazioni, potrebbe consultare gli Annali del Cibo-Recco ; il quale riferendo la morte di Andrea, e debitamente encomiandolo, accenna a siffatte censure e ne instituisce quindi una concisa e severa confutazione. Mi piace altresì, in elogio di Andrea, aggiungere che egli fu oggetto dell’ invidia e dell’ odio di Giulio Cesare Vacchero e di altri perversi cittadini, i quali, al pari del Vacchero stesso, fingendo di voler introdurre in Genova un Governo popolare e democratico, tendevano ad assoggettare la Patria ai Duchi di Savoia. Per farsi un giusto concetto degli esagerati e fallaci giudizi pronunciati da costoro, leggasi Y Orazione dimostrativa al popolo di Genova scritta da Gian Antonio Ansaldo, socio al Vacchero nella congiura contro la Repubblica, e le accuse che più lardi, sulle traccie degli scritti dell’ Ansaldo, furono ripetute da un Giuseppe Tubino, nelle note compdate durante il bollore rivoluzionario dell’ anno 1797, ed apposte all’opera dell’ Acinelli, intitolata: Artifizio con cui il Governo di Genova di democratico passò all aristocratico. DOCUMENTI I ' » • •AVVERTENZA Alcuni documenti custoditi nella Biblioteca Imperiale di Parigi, e ch’io reputo inedili, mi sembrano meritevoli di essere qui posti come appendice e complemento al mio lavoro. Sono essi il tenore delle domande indirizzate al re Francesco 1, nel loto, da Ottaviano Fregoso, quando gli diede la signoria di Genova ('); e tre lettere di Andrea D’Oria, le quuli meglio e più minutamente ci informano dei dissapori insorti fra quel Principe e l'illustre Ammiraglio (’). Gli scrittori, che più specialmente fornirono un ampia ed esatta notizia del carteggio di Andrea D’Oria col re di Francia ed il Gran Maestro Anna di Montmorency, sono il Casoni (s) ed il Gurnier (*). Il primo ci dà un breve epilogo di due lettere, nelle quali il D’Oria patrocinava appo il Re le domande e i diritti de’ suoi concittadini ; ed il secondo ci ragguaglia con esattezza di quanto il D'Oria medesimo scriveva al Montmorency dopo che, fallila la spedizione di Sardegna, Renzo da Ceri, il Signor di Saint Blancart, il Capitano Giona Imperiale, ed ispecie Giacomo Colin, andavano con calunniose imputazioni (>) V. le presenti Considerazioni, a pa;. 306 e 308. (’) Iti. a pai,’.'313 e seguenti. {>) Annali di Genova , Libro 111, pag. 105-106. (l) Histoire de France, pag. 553-356, Toni. XXIV. ( *20 ) cercando di rendere sospetta ta fede di lui. Inoltre il Garnier ci offre pure il contenuto della risposta fatta dal Montmorency ad Andrea, ed il sunto della replica di ijuest ultimo. lo mu,i jH’/a davviso che la lettera, che ora da me si pubblica, al re fi nui' c.M ii, sia diversa da (jnelle menzionate dal Casoni; e ritengo che appunto io/ mezzo di questa il D'Oria, vedendo infruttuose le sue preghiere i ai tot luiiòiijltt chiudesse il proprio carteggio col Sire di Francia, domandandogli formalmente e definitivamente licenza dal di lui servigio. La lettera poi diretta al Montmorency alla data del 24 marzo 1S2&, se male non m appongo, è quella che il Garnier accenna scritta da! D’Uria it/ilii,i ni Gian Maestro. Questa tuia supposizione è avvalorata dalla ctnoslan.a our son service. Je responds à ce poinct, et vous supplie l’en advenir, qu’il vault beaucoup mieulx faire distribuer aus dietz cappitaines telle quantité de pouldres et bouletz qu’il luy plaira, non argent, pour plusieurs raisons; mesmemenl que en l’rouvenee et icy se trouvera peu de pouldres, et a plus grant difliculté que delà; et seroit à doubler que les aucuns d’iceulx cappitaines convertissent l’argent en autre matière; qui causerait, à l’extrême besoing, très grant inconvénient ; considéré que c’est chose sans laquelle no se peut faire bonne entreprise en nier. Davantage, ledit Erasme m’a dit que autresfois luy avoit esté consenty tirer de Languedoc douze cens charges de grain pour mes gallères, et, à son parlement de la Court, luy en avez voullu permettre seulement tirer six cens. J’ay envoyé buyt gallères vers Naples, comme dit e>t, pour la réputation de l’emprise, et encores délibéré y en envoyer uuc autre. Je vous prie, Monseigneur, vouloir pourveoir à cela, car six cens charges ne pevent entretenir neuf gallères plus de quatorze ou quinze jours; et vous povez savoir que icy n'est possible en recouvrer; si par faulte de vivres elles sont contrainctes tourner arrière, inconvénient irréparable en pourra advenir, et eu sera plus tosi la charge sur vous que sur moy , attendu que je ne puys mieulx faire sinon vous en ad-viser do recbief présentement, oultre co que je I ay fait entendre au Hoy, Madame et à vous par toutes mes autres lectres. Doncques, est besoing, Monseigneur, que soient à plain considérez tous les poiuclz dessus escripls en général, car je suys informé tellement, et de ce costé et de I autre, que s’il est us i de longueur, lors que l’on cuydera trouver le remède sera impossible, ce qui est maintenant aysé à faire. Et si aucuns par parolles ernpescbent, d'avantare, que n’y soit pourveu promptement, je dis qu ilz ne sont pas bien advertiz des meneés et entreprises acoustumées de tout temps en l’italye. I ( *27 ) Monseigneur, j’ay veu les lectres qu'il a pieu au Roy et a vous m’e-scripre, faisant mention, entre autres, comme ledit Seigneur avoit donné provision au payement d’un quartier de mes gallères; et, quant au reste, l.iasme estoit chargé me dire aucunnes choses de par luy. Après avoir ouy ledit Erasme, vy trouvé peu de confort en ses parolles. L’argent quii a apporté n'est pour payer, a beaucoup près, moitié de ce que je duibz à ceulx qui nie ont secouru et fourny les nécessitez des gallères que ay envoyées à Naples. De promesses, il m’en a fait assez, mais, Monseigneur, je ne puys faire le miracle des cinq pains et deux poissons. J ay une merveilleuse quantité de peuple sur les espaulles, qu’il fault nourrir. La cbairtè est si véhémente que tout couste quatre fois plus quii ne souloit, et tellement que je despens assez plus en pain que ne monte la soulde du dit Seigneur ; par quoy n’est de merveille si me plains, car je me treuve si bas et en telle nécèssité que impossible est de plus. \ous savez que trois ans et demy a, je rendys le Prince d’O-ronge prisonnier ès mains du Roy, et dès lors me promis! la recompense avec autres infinies rémunérations. Il me sulTist seulement, pour toutes choses, allin de me acquioler envers mes créditeurs, resister à l’austérité du temps et grant chairté de vivres, qu’il luy plaise me satisfaire dudit Prince, les quatre mil eseuz par rnoy avancez à la réduction de ceste ville, et autres quatre mil escuz à la contribution faicte en l’emprise dernière ; et quant autres rémunérations, je les remetz. Il seroit estrange, veu que je ne puys, à mon exlième besoing (pour quelque prière que face) treuver le moyen de recouvrer ce qui m’est clèrement et justement deu, j’eusse attente ou espoir ès promesses d‘s choses non clères et incertaines. Croyant doncques ennuyer, non estant ouy, pour finale conclusion, ou lieu de toutes recompenses, je ne vueil et ne demande autre chose audit Seigneur, fors seulement qu’il luy plaise me satisfaire ce qu'il me doibt clèrement et justement, et cela me suffiira. Il seroit mal a propos en continuant le servir par effect, comme ay acoustumé, je me trouvasse en-debté de grosses sommes, comme ay j’a commancé. En sorte que avant peu de temps par faulte de povoir payer et le principal et les inlérestz, je perdisse, non seu'ement le credit,, mais conséquemment 1 estime et réputation des gens de bien. Vous avez tenu propos audit Erasme que trois ans a, je n’avoys que quatre gallères. 11 est vray, Monsigneur, et si de-puys j’ay mis pour endresser jusques au nombre que j ay, ce a esté pour meilleur service, car la charge n’en est que trop plus grande sur moy, aux affaires du Rov, ne les ay laissées reposer, ains travailler con- ( *28 ) tinuellcmcnl [Miiir l.i nuysance tic ses ennemys en louli'S manières |ios-sibles, ut on ay p'rdu en Prouveuco deux en son service, avec tous les gens ijui y estoieut, sans jamais avoir eu ayde d’un seul homme ne d un eseu, [mur faire ne mettre sus aucune d’icelles gallères. Monseigneur, j’ay seeu que Jonas Cesar Imperiali; et Jaques Colin et aucun autre ont rapporté au Hoy assez choses non vrayes contro moy; je me conforte que le dit Seigneur n’a acoustumé croire de legier en faulx rapportz, sans ouyr les parties Quant a Jonas, c’est ung presumptueux qui jamais n’a voulu obéyr à quelconque lieutenant d’icelluy Seigneur, mais eu murmurant continuellement, n’en a fait compte no estime. D’Imperial, s’il esloit croyable et sullisant pour servir son l'rincc, il ne seroit demeuré en lestât qu’il est. Et du surplus je me lays. De Colin c’est ung coquin escervellé, qui pour mettre en bourse deux cens escuz supportera très vo-luntiers tout dommage du Hoy; et pour son avarice et convoitise, est danger quii conliuuo baslir assez de périlleuses choses. Je seroys esbaby si telles gens povoionl bien dire de moy, car leur coustume est au contraire de tout temps, et autre service ne pevent ne sçauroient faire, sinon en l'absence blasmer chacun à tort. Monseigneur, pour toutes les causes dessus dictes, voyant ceulx qui ne sont [xjur faire aucun service, et encores moins le vouldroient ne sau-roient faire, sont ouyz et escoutez de tout ce qu’ilz dient cl recompensez à leur plaisir, el de moy et mon parler n’est fait compte, puys juger à à l'oeil que j’ay beau travailler en toutes façons possibles, mon servi.ee n est tenu aggréable. Pareillement, congnoissant l’incredible nécessité <|ue portent mes gens et gallères; voyant que pour y remedier suys conlrainct tant de fois crier, comme ung belistre, a ce que me soit satisfait ce qui m’est justement deu, jtour les contenter, résister à l’austérité du temps et icelles leuir eu ordre selon que tousjours ay acoustumé ■ doublant ennuyer le Hoy et vous et me consumer totallement, puys que aure remède ne puys trouver pour passer ce temps; desiianl plus tosi perdre la 'ie que l'honneur et réputation, vous supplie, tout ainsi que par vostre moyen suys entré au service du dit Seigneur, il vous plaise luy faire requeste, de par moy, que son plaisir soit me donner licence de me retirer eu ma maison, où vivray au moins mal que pourray, comme povre gentilhomme demeurant son entier et féal serviteur, le surplus de mes jours. Et là pourray patiemment supporter sans charges ce qui m’est impossible maintenant. Laquelle licence ne prandray moins à gré que si ledit Seigneur me satisfaisoit entièrement de toutes les promesses qu'il m'a ( 429 ) f.iictos ei fait faire en général; Vous asseuranl que depuys ma première con-gnoissance ne me suys trouvé en telle perplexité, et me fait bien grant mal que ne puys continuer à y donner remède. Dieu scet ce que j’en porte au oueur. Monseigneur, oullre les biens que cy devant m’avez faictz, vous supplie quii vous plaise faire entendre ce que je dis par ceste lectre, avec mon particulier intérest; et pour ce que je ne sçay moyen de plus vivre en ceste sorte, sans estre satisfait de ce que dessus, me faire donner briefvement response, pour rémunération, oultre l’obligation en quoy me tenez de tout temps, ne vous puys autre chose dire sinon que corps et biens sont du tout à vostre disposition. Vous suppliant me commander les choses où verrez que pour vous et les vostres pourray faire service. Et là congnoistrez que ne seray ingrat ne oublieux du bon vouloir que de vostre grâce avez tousjours eu envers moy. Faisant fin de lectre, prie-ray Dieu, Monseigneur, Vous donner très bonne et longue vie. De Gennes ce XX1III.® de mars. Vostre bon serviteur Andréa Doria. Monseigneur, depuys ces lectres escriptes ay sceu que le Gouverneur de Saonne ad vise le Roy de ce que contiennent les lectres que a apportées la fuste d’Espaigne dont dessus est parlé, par quoy n’en feray autre récit. Et là se pourront congnoistre les délibérations des ennemys et que mon opinion a tousjours esté la plus près de la vérité. Pareillement est survenu ung myen homme lequel je avoys envoyé en Aiguesmortes faire quelque quantité de biscuyt, pour secourir mes gallères qui sont au long de Naples. Lequel biscuyt luy avoys ordonne payer au double, plus tosi que n’en avoir pour icelles gallères. Toutes fois, après qu’il en a eu fait pour leur provision d’environ ung moys ou cinq sepmaines et icelluy payé, le voulant amenez icy, Monsieur de Cler-mont, vostre lieutenant ne l’a voulu permettre; dont, Monseigneur, vous vueil bien adviser. aflin que si mes dictes gallères tournent arrière, par faulte de vivres, qui jà leur est prochaine, après avoir fait plus que ma diligence, l’on n'en mette aucun blasme sur moy. Touchant les choses de ceste ville et Saonne j’en ay dit mon opinion en touts mes autres lectres, par quov u’ea feray icy mention. Le temps vous fera cerlaiu qui aura approché plus prés de la vérité, pour le bien du Roy, ou Jaques Colin ou moy. A Monseigneur, Monsefgnuer le Grant Maistrb. 28 ( 430 ) DOCUMENTO IV. LctU'ra del D’Oria a Francesco I. <528, <3 Aprile. (Biblioteca Imperiale ili Parigi; Mss. Fr. 3005, fol. 32.) Sire, jo n’ay obmis cy devant vous faire savoir tout en que ay entendu concernant vostro service, ne encores feray, satisfaisant à mon debvoir. Par plusieurs lectres vous ay cscript mon advis, touchant d'envoyer quelques gens en Lombardie. Il est certain que la pluspart des Italiens et Lansquonetz qui estoient avec les Espaignolz à Millan et No verre, ont passé le Thesin et entrez en Lomelyne, menassans venir vers Alexandrie. Davantage quo avaut peu de jours doibt descendre audit Millan certain nombre d'Alemans. Or, Sire, Monseigneur do Lautrect, comme savez, est au royaulme en grant faveur et très bonne apparence do victoire, et espère l’on en brief la réduction du pays. Teutesfois, si les ennemys qui sont là se ferment à .Naples et Gavette (ainsi qu'il est bruyt) la chose pourroit eslre ung peu plus longuo que ne pensez. I*e camp des ^ eni-tiens en Lombardio esl fortilliô a Cassan; el selon la commune opinion, n esl pour faire grant désavantage à voz ennemys estans oudit pays. \ ous povez considérer qu'il n’y a là ung seul homme en vostre nom, et que à la descente des dicts Alemans, les diclz Vénitiens, pour non eslre assez fors, pourraient estre contrainclz cu!x retirer, |ue carte; e forse egli medesimo s’ avvide per successivi esami e conferimenti, dell’ errore, eh’ egli avea preso : e credette il meglio, che la preparata Illustrazione rimanesse inedita, o soppressa. Il Martirologio di Adone pochissimo usato, attesi i lunghissimi elogii dei Santi, nella liturgia, pervenne in rare copie insino a noi, non guari come libro liturgico generalmente, ma piuttosto come monumento da biblioteche monastiche. Ed ecco perché esso rimase sempre nell’ ordine antico di essere incominciato dal Natale, come allora usavasi in pressoché tutti; mentre l’Usuardino adoperato conlinuamente nella liturgia ecclesiastica e pressoché dappertutto, subi, quando si volle acconciarlo all’ordine dell’anno civile, la variazione del suo principio, ridotto cioè dal 24 di decembre al 1 di gennaio; ordine a cui si modellarono le copie posteriori. L' elogio poi che sul nostro Martirologio venne tolto dalla compilazione ( MS ) Adoniana per S. Anastasia, e per altri pochi Santi nel corso dell1 anno, danno indizio che quei Santi erano in maggior venerazione in quella città o Diocesi per cui dapprima era slato rescritto; che tutte le Diocesi n’aveano di cotali. Vuoisi però osservare, che nel nostro Codice anche quei lunghi elogii che derivano da Adone non sono al lutto Adoniani, ma sono più o meno compendiati. Riguardo alla prefazione di S. Agostino, essa sta Itene ad ogni testo di Martirologio, sia gero-nimiano, sia di Beda, sia di Notchero, sia di Wandelberto, sia di Adone, sia d' Usuardo, sia di qualunque altro dei Martirologi; nè quindi fa prova esclusiva; poiché trattandosi in quel brano di S. Agostino della venerazione dei Santi, potè parer convenienle all’amanuense, o a chi ordinava la copia, intestarla al suo scritto cavandola o dall’ Adoniano, onde tolse parte di alcuni elogii, o dall’esemplare da cui rilraevasi la nostra copia, nel quale per la detta ragione trovavasi già inscritto da più vecchia data. Dobbiam grado alla disciplina monastica, se pervennero insino a noi alcuni Codici Adoniani; quegli annunzi di Santi, che Adone avea messi in forma più ampia che non fece Usuardo, servendo ne’ Monasteri di testo per le brevi lezioni nel divino ufficio, rispetto a quei Santi, dei quali in quell’ Ordine monastico od in quel monastero facevasi commemorazione. Parlando a voi, o Signori, che potete, sol che vi aggradi, instituirne il confronto, non omesse contuttociò le accennate avvertenze, non ho d’uopo di acconciare in tre colonne sinottiche qualche largo saggio dei tre testi: vo’ dire del testo del codice Yenlimigliese, che esaminiamo, del testo Usuardino secondo la critica recensione del P. Sollier, e di quello di Adone, siccome venne pubblicato accuratamente dal Giorgi. Avete qui nella biblioteca municipale, dove or siamo adunati in sezione archeologica, ogni cosa al bisogno di somigliante disamina. Rimessomi adunque alla vostra verificazione, entrerò ( MG ) brevemente ad esporvi, come dall"essere il nostro Codice piuttosto Usuardino che Adoniano riesca assaissimo rilevato di storica ed agiografica importanza. Dissi più innanzi che l’U-suardino Martirologio era il quasi solo adoperato liturgicamente; quinci la ragionevole supposizione, anzi la hen fondata certezza di più minute cautele nell’ eseguirne le copie per l’ispezione immediata e autorevole dei Vescovi e degli Abati come uomini di maggior dottrina; sia di più studiosa cura per ottenerne esattezza di testo; in ragione d’esser libro liturgico, ovo è richiesta religiosa sollecitudine ; e di scrupolosa critica per le nuove inserzioni da apporvi. E sopra ciò, il nostro Codice, anche secondo il P. Spotorno, che la ragiona assai bene, ha tale antichità che primeggia fra tutti i Codici conosciuti. 11 P. Spotorno, non fidatosi alla forma del carattere, ricorre alle norme intrinseche accennate dal Trombelli nell' o-pera: Arte ili conoscere l’antichità dei Codici; e riferisce il nostro Codice al periodo dell' XI secolo, scritto certamente prima della metà del medesimo. Io posso anche dire di più. Sia pure che per determinare l’età del Codice non faccia forza la citazione di S. Enrico Imperatore, morto nel 1024, essendoché non è stato canonizzato che nel 1152 da Eugenio III, sia pure che altri Santi accennali dallo Spotorno a quell’uopo non diano sicura conclusione, eccetto S. Majolo; I’ esservi nominato questo Santo che mori nel 994, onde si chiarisce non essere il codice più vecchio di quell1 anno; il non esservi S. Udalrico Vescovo di Augusta od Augsbourg mostra che non ne può essere ritardata la copia più oltre il 996. Questo santo Vescovo essendo stalo canonizzalo da Papa Giovanni XV nel 993, con una solennità usata per la prima .volta, (considerato quello spazio di tempo che era necessario alla generale pubblicazione e cognizione della Bolla del Papa) ci ristringe d’assai i limiti del tempo in cui assegnare la copia del Codice, non prima del 994, non dopo del 995 o, ( 447 ) se vuoisi del 996. Della prima sta in prova S. Majolo, della seconda il necessario tempo alla diffusione dell’ atto di canonizzazione di S. Udalrico. Venne adunque esemplato il nostro Codice del Martirologio Ventimigliese fra il 994 e il 996 ; vale a dire entro il confine del secolo decimo : tempo da cui ben pochi codici ereditammo; la cui rarità in conseguenza rendeli assaissimo preziosi. Ora fra i tanti Codici di cui si giovò il Bollandista Sollier per la sua edizione del testo Usuardino, niuno ve n’ ha anteriore airXI secolo, e l’antichità di alcuni non ha fondamento di somigliante portata. Quel dottissimo Agiografo fece un lavoro immenso sul testo Usuardino, bisogna confessarlo, contuttociò col nostro Codice potrebbesi ancora grandemente perfezionare la sua accuratissima edizione. Imperocché in quanto ai Santi che seguirono dopo P anno 875, in cui credesi compilato dal Monaco Usuardo in Parigi il suo Martirologio, avea buon gioco il P. Sollier per escluderli sicuramente dal testo, come non ancora prima di quell’ anno esistenti. Ma tutti i nomi di Santi di più antica data della compilazione del suo Martirologio non raccolse certamente Usuardo; quindi per quelli I'accennata regola critica non giova ; e se per alcuni può giovare, tenuto conto probabile della diffusione del loro cullo e celebrità, non giova che sino a un certo punto per isceverare gli Usuardini dagli aggiunti da mani posteriori. Ciò solo si ottiene dall’ ispezione dei Codici; e più perfettamente quanto essi sono più antichi, vai quanto a dire più vicini alla primitiva compilazione. Questo Codice inoltre, riconosciuto come Usuardino, ci notifica, facendo capitale di altre notizie cavate da simili fonti, che la Liguria tuttaquanta non usava altro testo di Martirologio che quello che avea compilato Usuardo. Un Codice adoperato in Genova, pur esso usuardino, ci è noto, esistendo e potendosi consultare nella Biblioteca dei nostri Missionari di ( 448 ) S. Carlo ili Genova, scritto tra il 1228 ed il 1235. Un altro pur d' Usuardo s’ adoperava in Albenga, copia non guari posteriore alla precedente, e se ne trova un buon codice nella Biblioteca della nostra Università, comecché incompleto. La Liguria nostra era parte della provincia ecclesiastica di Milano; era dunque a priori grandemente improbabile-, senz’altro, l’uso in Yentimiglia del testo Adoniano; e tanto meglio s’ altri consideri 1’ ampia diffusione ed uso in Italia ed in Francia del Martirologio di Usuardo. L’ assicurare perentoriamente un vero rimuove i fondamenti illu.-orii di opinioni che poi riescono altrimenti inconciliabili. Oli se il P. Spotorno non si fosse contentato d’ una occhiata di confronto, ma procedendo in quegli studi opportuni, ov’ era cosi valente, avesse fornita una compiuta illustrazione del Codice, or non sarei qui a rettificarlo ; e’ poteva tuti' al più lasciare alla nostra Società d’aggiungere per avventura qualcosa spigolando il mietuto suo campo I s’ egli, volendo a studio più esalto licenziare alla stampa il suo scritto, avesse eziandio pei lontani corredato il suo ragionamento di saggi paralleli, il dotto scrittore, che nella Civiltà Cattolica al quaderno 359 lodava per alcuna parte meritamente, la pubblicazione del Hossi, avria encomiato con pienezza maggiore lo scritto; ed avrebbe sentita l’importanza del nostro Codice per la Storia e segnata-mente per 1'Agiografia, in cui si travagliano i Bollandisti. F dove la Civiltà Cattolica discute il luogo del martirio di San Secondo, soscrivendo al Semeria (contro quanto vuol accennare il Hossi riferendo una nota del medesimo Martirologio cosi concepita: Nota ile beuto Sccuudino qui decollatus fuit apud vintimilium) avrebbe ricavato una prova di più per indiretto a favore del detto Semeria. Yentimiglia non ha che il capo del martire, Torino possédé il resto; le traslazioni spiegano tutto, sapendole frequentissime nel medio evo. \ inti-miglia ha contro di sé la distanza e dal luogo in cui venne ( 449 ) martirizzato il grosso della Legione Tebea, dal Vallese cioè, e dal capo della Provincia, Milano, da cui si ordinò la morte di S. Antonino, da alcuni creduto anch1 esso Tebeo, a Piacenza, di S. Alessandro a Bergamo, dei SS. Solutore, Avventore ed Ottavio a Torino, dei SS. Orso e \ittore a Solora in Isvizzera. di S. Massimino a Milano, d’un altro S. Maurizio, dei SS. Giorgio e Tiberio a Pinerolo, e dei SS. Sebastiano ed Alverio a Tossano. La forza sta tutta nella voce Victimilium, ov altri vede Vintimiglia, altri altro luogo. Io qui non seguirò questa controversia (') die mi dilungherebbe dallo scopo di questo Ragionamento, e mi renderebbe innanzi a voi indiscreto. No solo osservare, che l’annuncio relativo a S. Secondo del nostro Codice ai 20 d’Agosto (VII Kal. sept.) è questo : Apud Victimilium, Castrum Italiae, natalis S. Secundini martyris viri spectabilis et ducis ex legione thebaeorum. (2) In documento nostrale non fu mai Vintimiglia detta Victimilium; e se in Ventimiglia stessa, per lo meno già sino dall’ XI secolo, (') Vedi 1’ Appendice appiè di questo Ragionamento. (*) Giacché mi cade in acconcio non voglio omettere di far qui in nota un utile osservazione sopra l'annunzio di S. Secondo del nostro Codice. Hanno Secundi l’Adone del Giorgi, l’Usuardo del Sollier, il Beda e prima di tutti questi il martirologio noto sotto l’appellazione di Romano antico. Non lia altrimenti Pietro de’ Natali, nè quanti Martirologi derivarono dai succitati, e gli autori ecclesiastici che ne parlarono. Contuttcciò nel nostro MS. vi troviamo Secundini, mentre nella stessa Ventimiglia a memoria d’uomini e di monumenti sempre si nominò e si onorò per Secondo e non per Secondino. Come dunque in questo codice d’uso Venlimigliese fu scritto, o scritto si tollerò Secundini tiri dal principio dell’uso del codice? Se l’insigne Reliquia del Capo del Santo fosse il rimastole del corpo, che vi lasciava col martirio sofferto nel luogo, niun altro avrebbene meglio conosciuto e conservato il nome, mediante la tradizione nata dall’ origine e legala ad un culto continuato senza interruzione. Quindi perchè mai avvenne, che non solo rimanesse Secundini nel testo, ma che anche l’annotatore marginale ne ripetesse la stessa forma ? S’io veggo bene, questo fatto ha una naturalissima spiegazione. Quando incominciò ( 450 ) adoperando il nostro Codice, che 11011 manca (pia e là di non poche posteriori correzioni sulla primitiva copia, non si racconciò quel testo che si riferisce a S. Secondo, e bisognò aspettare che uno del XIV secolo vi apponesse quella marginale illustrazione, che sopra recammo, nasce un gran sospetto, che 1' opinione dei ventimigliesi ed insieme di altri posteriori sia deduttiva , non già autentica testimonianza ; e che gli scrittori che P abbracciarono, 0 1’ ebber di là, 0 la cavarono sulla stessa estimazione di quel vocabolo Victimilmm ; dunque rispettivamente moderna, e non conseguenza di buon documento, 0 ben inteso. Poteasi nel Codice cambiare con un tratto di penna il VicHmUium, in Vintimilium, come poi scrisse I’ annotatore; potea rettificarsi il nome Secundini in Secundi, e poteasi aggiustare al vocabolo Castrum il nome di Civitatem. Ciò non si fece ab antico, dunque per li detti motivi le deduzioni per Yentimiglia non han valida consistenza; come per altre consimili ragioni non credo avere un solido fondamento in prò1 della città d’Albenga l’opinione colà diffusa esservi stato martirizzato S. Calocero, di cui là si possiede la salma. l’uso del nostro codice non esistei a ancora nè originaria tradizione, ni- altra opinione in proposito ; furon dopo, opinione , cd al Santo un cullo espresso c specialissimo. Realmente mancavano i dati tradizionali e la ragione d’avere un codice piò esatto, o di correggerlo. Era ai Ventimigliesi indifferente, che si leggesse Secundi o Secundini, seppur avvertirono l'esistenza di variante in quel passo. Nata I’ opinione per la Testa del Santo, pei la poca diversità dei due nomi, e per quella scrupolosa coerenza nelle cose liturgiche di nulla mutare del giù stato in uso per assai tempo, non parve bene di faro alcuna correzione. Cresciuto l’impegno, l'annotatore in margine, cui o l'opinione giù nata o in lui nascente sulla vicinanza di nomenclatura spinse ad affermare il martirio di S. Secondo avvenuto proprio in Venlimiglia, si guardò bene dal variare il nome del testo. E fu per uso di quell'arte dialettica , che si suol praticare a Une di far prevalere a qualunque costo una graia opinione. Egli sentiva che solo in un brevissimo testo racconciare Victimilium in Vintimi-tium, e Secundini in Secundi non avrebbe recato vanlaggio al suo intendimento. Eppure la lezione Secundini, che trovasi unicamente in questo Cod.ce, cresceva il diritto alla correzione. (451 ) Nulla v’ ha che dia da concludere accetlevolmente, che nella nostra Liguria, vo’ dire nella marittima, sianvi stati uccisi martiri. Ed in fatto di tradizioni sopra tali materie, onde pretendonsi confortare certe opinioni, è bisogno andare ben cauti ; giacché l’amor di patria, bene o male inteso, può molto, sia per crearle, sia per renderle tenacemente perpetue. Io rammento d’ essermi trovato in una villa del territorio di Albenga, nominata Marta, o meglio S. Marta (essendone questa Santa il titolare della chiesa); e udii colà quei buoni villani dirsi sul serio e anzichenò in tuon riciso concittadini dell’Imperatore Publio Elvio Pertinace, cosa detta loro da qualche sciolo, il quale avea preso per buona moneta il natus in Villa Martis di Capitolino, comechè erroneo; quel Murtis si era trovato la cosa stessa con Marta, misera vil-luccia, che cerio non conta secoli d’ esistenza. Nata da qualche abituro colonico nel territorio di Villanova, quella piccola villa da pochi anni venne fatta parrocchia, dopo la fabbrica di una men ristretta chiesuola in sostituzione della non vecchia cappella di S. Marta, eretta aneli’essa ben molti secoli dopo di Pertinace. L’esclusione di marlirii nella nostra Liguria parve ad alcuni un buon dato per istabilire in Liguria condizioni di governo, rimpetto all’ impero romano, al tutto speciali, si direbbe, d’autonomia. Ma conosciamo le tribù cui erano ascritti i nostri popoli; e ciò basta a riconoscere, anco nell'estrema povertà in cui siamo di altre memorie, eh’ eravamo noi Liguri assimilati al rimanente dei popoli del detto impero. Questa esclusione di martiri fra noi potrebbe per avventura avere un’ altra più solida significazione; potrebbe indicare cioè essersi diffuso nel nostro paese il cristianesimo assai più tardi che non venne da alcuni creduto per effetto piuttosto di pietà e buon desiderio che cosi fosse avvenuto, che non per derivazione da documenti, per uso di buona critica e persuasive deduzioni. E su ( *52 ) questo punto ebbi già occasione di ragionare in una Dissertazione latina uscita in luce testé nel volume degli Elogi del Foglietta, e separatamente, nella quale trattasi dei primi e santi Vescovi di Genova. Tornando al nostro Codice, vedete o Signori, quanto importavano le rettificazioni di cui m’ardisco d'intrattenervi. Togliendo in mano quel codice sapete d’aver sott’ occhio una scrittura dal 994 al 996; che è il Codice più antico degli esistenti suoi fratelli usuardini; che può servire ancora a migliorare un accuratissima edizioue qual è quella del Sollier; che giova ad una quistione ligustica sopra il martire Tebeo S. Secondo ; che se la prefazione di S. Agostino, che vi è a capo, può essere stata tolta da un codice Adoniano, se alcuni elogi di Santi, ma pochissimi e bene spesso mutati ed abbreviati estremamente, riconoscono fonte Adooiana e ciò per essere elogi di quelli santi di’ erano in maggiore divozione nel luogo, il testo è puramente di Usuardo, come era il comune che adoperavasi nel rimanente della provincia ecclesiastica della Liguria circumpadana e marittima. E qui saria fornito il compito, ch'io mi assegnai sopra il Codice ms. del Martirologio Yentimigliese, e sarebbe concluso il mio dire, se una somiglianza di caso non mi porgesse il destro, e l'invilo per una nuova rettificazione sopra un altro scrittore. Che se ne é assai minore I1 importanza, il vero è sempre ottimo per sé stesso. Il Signor Agostino Olivieri, nel 1857, pubblicò: Le Discordie e Guerre civili dei Genovesi nell’ unno 1575 descritte dal Doge Gio butta Lercari ecc. Il testo eh’ egli ci dà non è punto quello del Lercari, sebbene il suo nome trovisi annotalo in qualche manoscritto, ma, por lo più, d’altra mano da quella dell' amanuense del codice; e ciò per facile equivocazione. il tema stesso, quasi pel medesimo periodo di tempo, trattarono quattro diversi autori, fra cui il Lercari; ond’é ( 453 ) che alcuno avuto in mano un esemplare ms. del testo Oli\e-riano, al solito anonimo, sapendo il Doge Lercari scrittole di somigliante argomento storico, come più degli altri famigerato, nel titolo ve n’aggiunse bonamente il nome, persuadendosi d1 arricchire il ms. d’uria notizia mancante. Il Sopranis e lo Spotorno ci fan nolo che il Lercari scrisse sulle Discordie dei Genovesi libri 17. Ora il testo dell"' Olivieri ne lia 3 soli, comprendendo tuttavia sossopra la compilazione che in qualche ms. è divisa in 4. Non meno note sono l’opera corrispondente di Goffredo Lomellino, che ne porta il nome, e quella de’ Commentari di G. B. Spinola, dopo in ispecie la pubblicazione curatane nel 1838 dall’egregio Vincenzo Alizeri. Il Lomellino e il Lercari sono tuttora inediti; il pubblicato dal-I’ Olivieri dovria portare a titolo: Delle Discordie et ultime guerre civili dei Genovesi seguite l’anno 1575 scritte da Scipione Spinola q.m Gio Francesco nobile genovese. Tutti e quattro i citati scrittori trovansi in un voi. ms. della Biblioteca Brignole Sale, ove il Lercari è appunto in 17 libri, siccome notano, come ho detto più innanzi, il Sopranis e lo Spotorno. E questo Scipione Spinola rimase fin qui onninamente ignoto alla nostra Storia letteraria, cui godo potere accrescere di tal nome, come spero eziandio a tempo opportuno d accrescerla d’altri, assai più antichi, restati finora immeritevol-mente nell’ obblivione dei posteri. APPENDICE SUL LUOGO DEL MARTIRIO DI S. SECONDO In quel giorno medesimo, alla cui sera dovea tenersi adunanza archeologica della nostra Società per la lettura del precedente ragionamento, entrato sul declinare del di in un negozio librario trovai sur un tavolo con altri libri di fre>ca pubblicazione lo scritto del chiar. Canonico Calsainiglia i>opra S. Secondo (•). Era uscito proprio quel giorno. Me ne procurai subito un esemplare per vedere immediatamente, s io avessi a modificare alcunché della mia lettnra rispetto al luogo del martirio di quel Santo. Indifferentissimo, come io sono, all1 una ed all’altra opinione, unicamente disposto ad abbracciare la verità ovunque si trovi, malgrado l'ampia cd erudita Dissertazione del Calsamiglia, in essa io non rinvenni da rilevare ragioni bastevoli a dover modificare in alcun modo le mie deduzioni sul punto in controversia. Lessi adunque il mio ragionamento qual era. Ora poi che il medesimo da privala let- (’) Panegirico di S. Secondo Duce e Protomartire della Legione Tehca . ( 41)0 ) tura passa alla pubblica luce, mi pare opportuno d’istituire colla massima brevità possibile una più completa disamina sul luogo di quell’avvenimento. La storia non ammette la massima giuridica, che una sentenza in giudicato faccia di bianco nero. Se sta bene che nel civile, l’elemento dell'autorità in ragion d’ordine pratico eminentemente supplendo, in quanto agli effetti esteriori, la res judicata assumi il valore di verità non potuta conoscere, anche quando assolutamente parlando non fosse, o meglio, abbia valore che fa diritto; nella Storia o nei fatti la non va cosi, né cosi può andar la bisogna. Un fatto sarà avvenuto, sarà stato in tale o tal altra maniera a dispetto di qualunque sentenza. Ei non vi può né autorità né prescrizione. Grandi assai estrinseche autorità, egli é pur vero, militano a favore del chiar. Canonico, il quale caldamente propugna essere stata Ventimiglia, e non altro luogo, il teatro del glorioso martirio di S. Secondo. Contuttociò considerato che tutte quelle sentenze favorevoli, le quali guardate con occhio critico non riescono, ascendendo al primo anello, in ultima riduzione se non che ad una serie di deduttive testimonianze, che si vanno via via seguendo l’una ripetizione o suggerimento dell’altra, e’ non parrà uno strano o sofistico pensamento, s’altri opinasse, che tutte le accennate sentenze potessero ancora ragionevolmente dar luogo a revisione. La quale revisione, o, diciam meglio, allegazione in proposito intendo di stender qui per sollecitare una nuova sentenza da giudici imparziali e competenti. E voglio, incominciando, schie rare in mostra i patroni della causa di Ventimiglia ; se non tutti affatto che non è necessario, certo i più validi e principali; anzi v’aggiungerò alcunché sfuggito al Calsamiglia. Il primo, ch’io sappia, ignoto all’attore, si é il Martirologio (') del (') Martyrologium secundum morem romane curie, Venctiis, arte Joannis Emerici de Spira. M. CCCC. XCVIll. ( 450 ) P. Belun da Padova Agostiniano uscito in luce nel 1498. Ivi il VicUmilium mutasi ia due voci Viginti milium. Segue il Yesc. Pietro de’ Natali nel Catalogus Sanctorum, che dice: castrimi vigintimilium ltaliae. Quindi viene il Baronio, il quale, se vissuto dopo gli studi topografici e le pubblicazioni di documenti, di cui possiamo ora noi prevalerci, potria bene attualmente ire in diverso parere. Egli nelle sue note al Martirologio Uom. in modo non perfettamente reciso (e’ dice: Albinlimelii hic passus dicitur) par nonostante che penda per Yentimiglia. Dissi par che pruda; giacché se nel Martirologio scrisse Al-bintimilium Liguriae civitatem; questa forinola non ha quel valore che a prima vista apparisce. Incaricato egli dal Papa della correzione del Martirologio, ebbe a precipuo compito'di assicurarsi dell’ esistenza e della santità ben provate di quelli che vi doveano aver luogo. Qui sta la parte essenziale del suo lavoro. Nel resto seguendo la buona critica, ov’era assai valente, quando non difettavano i dati, doveane appurar quanto meglio riusci vagli i fatti accessorii. E per S. Secondo avea buon gioco. Nei martirologi non rare volte, in vece del luogo della morte, notasi il luogo dove riposano le reliquie del Santo. Perciò l’annunzio di Yentimiglia per S. Secondo, se non avea solidissima base nel suo martirio, l’avea certo nel cullo solenne del sacro suo Capo che colà presente si venera. Ciò soprabbastava al Baronio nel suo caso per poter inserire : Apud Albintimilium. È bene di qui osservare, che lo stesso Baronio negli Annali all’anno 297 num. XYI (non 303, come notasi dal Calsainiglia), toccando del Santo stesso, non conferma nulla esplicitamente, ma solo cita l’annunzio del suo Martirologio; con che lascia le cose quali erano, cioè nell'accezione dell'espediente sopraccennato. Yuolsi qui notare che nè il 297, né il 303 furon forse gli anni di quel martirio. Vedansi VA eia sincera Martyrum del Ruinarl. Scorgo fra gli appellati in favore del Calsamiglia pur anco ( «7 ) il P. Surio, il quale di S. Secondo nulla ha nella vasta sua opera (Vitae Sanctorum); non ha nè vita od Alti distinti; nè cenni all' uopo, ov*'egli tratta di S. Maurizio e compagni, nel di 22 di settembre. Passiam sopra gli allegati, che non accrescono peso, come semplici ripetitori dell’opinione ricevuta dai predecessori, compresovi pure il Paganetti, di cui ci è ben nota la critica e l’autorità, e fermiamoci alquanto sopra il Padre Giovanni Pin, che è l’estensore della trattazione sul nostro Martire negli Acta Sanctorum dei Bollaridisti del 2G d’agosto. Quel dotto ed erudito scrittore vivente nel Belgio in tempi di gran povertà d’elementi storici al presente suo caso, agitando di proposito la quistione del luogo del martirio •li S. Secondo, inclinatovi dall' annunzio del nuovo Martirologio, ridotto a dire: Apud Albintimilium, cui sopra accennai, si dichiarò più ricisameute che non il Baronio a favore di \ en-timiglia. Egli si studia di confutare il Ferrari. Io non debbo dissimulare nulla del valore di quella trattativa. Egli adunque primieramente accusa il Ferrari di contraddizione; perchè colla vulgata opinione in allre opere si esprime enunciativamente a prò’ di Ventimiglia. A me pare invero, che 1 argomento ad hominem in simili casi abbia pochissima forza. Uno stesso scrittore può in alcun tempo avere un’opinione, quindi un’altra; oppure in cosa non pienamente accertata, secondo lo scopo del suo scritto, acconciarsi più all’una che all’altra, senza detrimento delle ragioni della verità d’un fatto. Anzi, ammesso che il patrono di una causa inescusabilmente si trovi in personale contraddizione con sè medesimo, sembra a me che, lasciatogliene il disonore, sia da ponderar bene se le ragioni o i documenti da lui allegati abbiano vera solidità od invece sfumino per intrinseca qualità loro propria. I fatti non mutano certamente per esser male discussi. Era già uscita a Torino una storia dei MM. Tebei non favorevole a Ventimiglia, quando il Ferrari nel suo Catalogus SS. hai. entrò nello stesso parere. ( 458 ) Egli ai 2G d’agosto, per usar le parole ilei lodato P. Pin. (loc. cit.) exhibet compendium (vitae S. Secundi) ex Actis Ms. ecclesiae Vercellensis ... et Bo. Mombrit. Pass, tomo 2 referente. E li in quell1 opera espose il Ferrari la sua sentenza cosi: In Marlirolog. (Bom. novo) prò Victimulum M. Albin-timilium irrepsisse videtur; similitudo enim inter Victimulum et Vinctimilium (sic enim Albintimilium upud vulgares appellatur). Quae enim causa fuit ut Maximianus Alpes subiens Secundum decollandum ad urbem maritimum tum longe distantem ablegaret ? Adstipulantur vel. Ms. ecclesiae Taurinensi et llist. mart. Thebaeorum nuper edita Augustae Taurinorum. Quamquam Acta a Mombritio rei. et Ms. correctione egent, in eo maxime quod de M. Victimulo habent. Gli Atti che qui si citano pubblicati da Bonino Mombrizio sono pur anco stampati dal P. Pin (loc. cit.). Le allegate parole del Ferrari sono abbastanza da trattenere un corrivo giudizio, non dico per autorità dell’uomo, ma per le citazioni. Non vidi l’accennata Storia dei MM. Tebei; una cosi precisa citazione in un brano si ingenuo, d’ un uomo assai rispettabile, e messa in pubblico, non contraddetta dal P. Pin, vale bene un documento degno d’esame. Bispetto poi a quanto dice di correzione agli Alti Mombriziani, merita un po' di fermata. Molti Atti di antichi Santi pervennero a noi scritti fra il IX e il XII secolo o in forma di Omilie, o a forma di Lezioni da recitarsi dal Clero nell'’ oflìcio relativo a quei Santi. In mezzo allo sfoggio di verboso eloquio, d’idee vaghe e generiche, talora di un qualche dottoreggiare dell'estensore in estranee allusioni, in giunte e spiegazioni di proprio capo od in corso al suo tempo, un po’ di critica sente dove e qual fede meritino, scorge quanto di positivo, non potuto sognar da se, si dovette ritrarre da scritti anteriori. Pur beati gli studi agiografici, che di tali Atti ne restano assai ; e i Bollandisti da pari loro se ne sepper fare gran prò1, anche di ( 459 ) molli di grado troppo inferiore al citato Mombriziano, il quale sembra più appartenere ai lavori da Lczionari, che agli omiletici. Questo documento meriterebbe una critica illustrazione ; io imlladirneno volendo stare all’unico mio scopo, mi ristringo a recarne ed esaminarne solo alcuni brani. Ivi si legge: Maximianus, che avea residenza in Milano, in sul valicare coll’esercito le Alpi Graje, avendo seco la legione Tebea, avuta contezza che Secondo era cristiano, e tentata ogni via per farlo prevaricare; né venutogli fatto, jussit eum duci ad moderatorem provinciae Egrestium (o Agrestium) nomine , ut caput ipsius amputaret. La provincia, di cui trattasi, era la Liguria giusta le divisioni di quel tempo, ma la parte oltre-appennina con a capo Milano; conciossiachè la Liguria attuale, almeno dai Sabati al Varo reggevasi da un procuratore delle Alpi marittime. Decollato il S. Martire, é detto, aethera conscendit, aspiciente beato Mauricio, il quale coepit circa corpus.....vigilias agere; Dei autem nutu ab aliis fidelibus pro furto ablatum est... . ut Domino disponente in eodem loco, ubi nunc est, collocaretur. E quindi più innanzi il luogo del martirio si dice uno milliario prope Castellum Caesarium (o Caesarianum), quod ab Annibaie nomen Victimolis accepit, eo quod quindecim millia, virorum ibidem fuerunt , qui conira Annibalem aciem proposuerunt; primum vicerunt, et postea victi sunt; ideo pro causa hujus pugnae loco huic Victimolis nomen impositum est. E questo è appunto quel passo su cui il Ferrari riclamava una correzjone; e non del tutto a torto. Con luttociò questa, un po’ strana, erudizione ci conservò un preziosissimo dato. Lo vedremo in seguito. Uniamo intanto ai precedenti un branuccio della Cronaca del Monastero della Novalesa (Ughelli hai. S. in Episc. Taur. pur cit. dal Mabillon : Annal Bened. — Mural. Scrip. lier. Ital. T. II. P. II. pag. 734, e fra i Mon. Hist. Pair.): Hoc tempore in Taurinensi civitate translatio facta est Sancti Secundi Martyris in- ( MO ) fra civitatem, qui fuit dux Thebeorum Legionis, facta u Wilielmo Episcopo Incarnat. Dominicae DCCCCVI. Ilie composuit passionem Sancti Solutoris cum tribus responsoriis. Notisi di passaggio un esempio di compilazione di lezioni da Ufficio divino, che i Vescovi o di per sé, o per altrui opera solevano procurare. E notisi al caso nostro l’esistenza del corpo di S. Secondo in Torino. Questi elementi non fecero solo impressione sul lodato Filippo Ferrari, ma eziandio sopra Mons. della Chiesa (Cor. Reale), e più tardi sul Gallizia v • * (Atti dei SS. dei Dominii di Casa SavoiaJ, (') i quali nel Victi-milium dell’antico Rom. Martirolog. non riscontrarono Yenti- (’) Non erodo inutile di porro qui in noto ciò che ni* dice Pietro Gioflredo nella sua Stor. delle Alpi marittime al libro II sotto l'anno 278 (vedi nel vol. IV del Monum. Ilist. Patr.). Entrando l'erudito scrittore a parlare di Ventini "lia cosi si esprime: • ivi martirizzato (S. Secondo) ....... come crede la maggior parte degli scrittori, dietro l’autorità del Martirologio Homano,..... se non fossimo avvisati da Giovanni Stefano Ferrerò, Filippo Ferrari, Francesco Agostino della Chiesa ed altri, essersi preso equivoco da Vintimilium (cosi nei secoli corrotti si è dimandala la città di Yentimiglia , che dagli antichi fu delta Albium Intemelium....) a Ictomulum, cosi detto da Strabone; ovvero Ictimulum, cosi nominalo da Plinio, luogo presso gli antichi celebre per le m.niere d'oro nel distretto di Vercelli, dove quel santo soffri il martirio, c da dove il sacro corpo fu portato alla città di Torino. Ha accresciuto l’equivoco il leggere negli Alti dello stesso S. Secondo, che conservo presso di me in un libro antichissimo scritto a mano pi‘1 diffusamente di quelli, che riporta il Mombrizio, che l'Imperatore Massimiano vedendolo risoluto a non voler sacrificare ai suoi falsi Dei : jussit eum a ceteris commilitonibus separari, atque ad moderatorem Provinciae Liguriae Agrestium nomine duci, et capite truncari, non ricordandosi che il nome di Liguria comprendeva non solo le due riviere..... ma col Piemonte e Stato di Milano anche più oltre si estendeva, e cosi il Prefetto risiedeva non in Genova, ma inMilano Metropoli di quella; talché......troviamo bene di riflettere alle parole contenute nel Martirologio d'Usuardo.... e credere che S. Secondo abbi sofferto il martirio non a Venti-miglia, ma a Vi tumulto nel Vercellese ; come molto eruditamente prova il sopraccitato Ferrerò Vescovo di Vercelli nella Vita di S. Eusebio, ed altri suoi Predecessori •. Fin qui il Gioffredo, che, sebbene manchi di migliori precisioni secondarie, nel punto sostanziai sentila (orza delle ragioni migliori. ( 461 ) miglia, ma un allro luogo. Sia pare che nel decorso di fanti secoli, dopo tante mutazioni e vicende di popoli, dopo tanti nomi di luoghi scancellati dalla superficie della terra da altri nomi sopravvenuti, scancellali dalle scritte memorie o per distruzione o sperpero delle medesime o per guaste letture di amanuensi, non sia concesso l’accertare il sito d’un antico nome di luogo, non sarà mai lecito, se indicato da buoni dati e ragionamenti, il negarne l’esistenza ricisamente. Se altro fosse, bisognerebbe mandare a monte troppo numero di antiche scritture e di libri, specialmente lutti i trattati di Geografia e tutti gl Itinerari; quando manchi la designazione dei luoghi accennati. Nei tempi romani un popolo libico con ispecial appellazione occupava una notabil parte dell’agro Vercellese, ed erano gli lctumuli, nominati da Plinio in occasione di parlare delle miniere d’oro che avevano nel territorio. Strabone ancora ne parla in un passo che non giunse a noi in buona correzione. Ma non ostante, qual é, presenta accettevole indizio di un borgo d’lctumuli. « Dalle prime colline superiori ai territori di Pi-verone, Masino e Moncrivello a ponente e mezzodi tirando una linea, che poscia pieghi a levante e comprenda il territorio di Sanlik; e di qui tirando un’altra linea a settentrione sin quasi al fiume Cervo, che termini però alquanto di qua da Biella: tutto il tratto compreso nelle predette linee apparteneva agli lctumuli ». Cosi ragionevolmente il citalo Durandi conclude, dopo aver bene discussi gli antichi dati in proposito. Ora leggasi in T. Livio (L. XXI c. 45) dove narra ravvicinarsi degli eserciti Annibalico e Romano, l’uno di verso i Taurini, l'altro per un ponte, costruitovi espressamente, tragittato il Ticino, ci fa sapere che questo esercito, dei Romani cioè, t millia passuum a Victumulis conseilit, vale a dire ai confini della tribù victumula. Nota scrittura di voce, nota fondamento dell’erudizione dell’autore della cit. Passione od Atti di S. Secondo. 30 ( *62 ) Né questo nomo si scancellò onninamente nel medio evo. L’esistenza colà delle miniere, nuovamente ricerche, il consertò lungo tempo affisso al monte, che per la celebrità sopraggiunta di un monastero si mutò dopo il mille in monte o regione della Bessa dal nome dello stesso monastero al confine. Se ne possono vedere nel Durandi i documenti, coineché questi dai copisti, che ce li trascrissero in tempi che di 1 tctumuli e sue grammaticali derivazioni non v’era più cenno \ivo; onde abbiamo in un Dipi, ottomano del 999: Castellum 1 icinali (presso il Muratori: Vicinili); in Dipi. Enriciano del 1054 dicesi monte Cutimali. Vedremo doversi correggere questi grossolani errori, e comò. Ma anteriormente alle carte imperiali a nui pervenute abbiamo l’Anonimo e Guido Ravennati (ed. Pin-der e Parthey. Berlino I8G0), che ci danno una qualche contezza in perfetto accordo fra loro, dicendoci che in seguilo ad Ivrea Uaud longc uh Alpe civitas est quae dicitur \ ictimula. Per non più tornare su questi due geografi dei quali il primo è del IX secolo, aggiungerò, che di tanti dei migliori codici consnltati dagli editori assai valenti in iscelta e critica, un \e n’ha che per Victimula ha Vinclitnilia, e ninno affatto che, dove trattasi di Ventimiglia, abbia mai \ ictimdium. Trovasi VigintimUia, Vigintimilium , Avigintiinilium, Avinlitniliutn , Abentimillum, Abinlimilio, Vinctimilium, Vintimilium ; lutte scorrezioni del medio evo, mentre tutto concorre a farci supporre che a tempi di quel martirio doveva ancora dirsi romanamente Albintemelium, o Albintimilium o simile prelazione, che non isfìgurasse onninamente il vocabolo. Colà adunque sulla via per alle Alpi esisteva egli un Castrum Victimilium? E dove? Cercare il dove non é qui mio compito : mi basta assicurarne l’esistenza storica. Ma come gli lctumuli, i I iclu-muli, i Victimuli, la Victimula divennero un Victimilium f La filologia ci scopre che molti popoli di origine celtica s indicavano con un aggettivo latinizzalo in ells od ellus, l'lus ( 403 ) od ullus, per esempio lrUmelus, Cemenelus, Magellus, Stu-Uellus, Vibidius, liutulus, Tùjulus, che come tarili altri aggelivi della medesima o d’altra origine subivano dai latini un nuovo accrescimento aggettivo in ius. Ed al modo stesso che i (Ireci da Dardani (populi) fecero Dardanius (vir), Dardania (terra), Dardanium (oppidum), ed i latini poteano fare da Dauni, Daunius, Daunia, Daunium. E se più larga messe di voci ed espressioni geografiche di tutti i tempi dell’uso della lingua latina fosse a noi pervenuta, ne avremmo larghissima copia d'esempi espressi. Abbiamo Albium Intemelium, divenuto anche Albiiitimilium, abbiamo Cemenelium (oppidum), abbiamo Tigulii, e Tigulia, e se non altro abbiamo da Rutulus Rutilius, come da liomulus Romilius in nomi proprii. Ed in questa cosi comune teorica sta la ragione sufficiente dell1 essersi l1 aggettivo ligustico Victumulus rilatinizzato in Viclimilius con accordo di un sostantivo sottinteso. E v’ è una buona ragione di trovar usata di preferenza sul luogo o negli scrittori che conobbero le tradizioni del luogo stesso la forma ligustica primitiva (nel luogo le nomenclature più si conservano nella forma primitiva); e tanto sarebbero i Victumuli (populi), come i Vidimila, tanto la Vietinola, o Victimula (regio o civitas); come la Viclimiliu; il Victumulus (mons), come il Victimilius. La difficoltà della mutazione degli u in i non è seria per un filologo, essendo in simili casi costume comunissimo nelle lingue. Mi si può dire , che tutto ciò non prova dimostrativamente il fatto, - che cioè esistesse nel Vercellese un luogo detto \ idimilium. Ebbene tutta questa filologica esposizione si tenga pure come nulla. Consideri il lettore che N entimiglia possédé bensi il Capo del Santo senz’ aver contezza né del come nè del quando l’ottenesse ; senza poter col minimo fondamento congetturate come ella non ne possieda il resto delle reliquie. Mentre oltremente Torino ne ha il busto, ne ha memorie espresse almeno dal principio del X secolo: Vercelli già ne aveva ab an- ( -404 ) tico gli Atti. Tulli i compagni ili S. Secondo sacrificarono col martirio la vita nella valle del Po; là dovea essere il persecutore Massimiano, d'ordinario residente in Milano, che allora dovea marciare per una guerra d'oltralpe; colà stanziava il preside della provincia, cui l’imperatore incaricò della tirannica esecuzione contro S. Secondo, come espressamente narrano gli Atti a noi pervenuti. Il nomo Victimilium del vecchio Martirologio romano non fu mai adoperato io alcun altro documento a noi pervenuto, né per altro luogo, nè per Ventimiylia. Il Castrum Italiae aggiuntovi da Beda, da Adone, da Usuardo, e trovato in tutti i codici, non quadra troppo convenientemente, per autori ecclesiastici dei secoli N ili e IX, con una città antica e vescovile qual è Yentimiglia. I lodati Martirologi si riferivano al tempo del martirio, ed avevano per fermo veduti degli Atti del Santo, da cui ritrassero le loro aggiunte più determinative. Quanto a VicUmilium, chi I’ asseri per una delle varianti di Ventimiylia nell'evo medio, facendosi appoggio dei Martirologi, commise una petizione di principio. Egli era d’uopo mostrare innanzi, che quella città era appunto e sicuramente indicata in quel fatto, ina per altri conclusivi argomenti. Queste sole considerazioni dovevano, a mio giudizio, soprab-bastare a sentir che la controversia non tornava si piana; e che v’era assai bisogno di rintracciar dati ed elementi da ciò, e pesarne bene il valore. Ed ora, clic possiamo cavar prò’ di qualche dato migliore, la causa poteva esser meglio chiarita. Oltre a quanto fu già allegato di sopra, io trovo nel Meyranesio (Pedemont. Saer.) (*) una citazione opportuna d'un antico Marti- f1) Meyrakesii Pedemont in m sacrimi nrlla Colleziono Monum. Uist. Patriae Vol. IV. Scriptores. Il quale a pag. 1282, citalo il Cronico della Novaleso sulla traslazione delle Reliquie di S. Secondo enlro alla città di Torino prosegue : Idifue etiam confirmatur a reteri Startijrologio Monasterii Xovalicicnsts scripto, vt ridetur, saeculo A'. ( 465 ) rologio della Novalesa, creduto con buone ragioni del secolo X, ove si riferisce, rispetto al nostro S. Martire, l’annunzio (XII kal. junii) della torinese traslazione colle stesse parole, che abbiamo letto sopra, ritratte dalla Cronaca di quel monastero. Anzi più: si leggono appresso (loc. cit.) le orazioni, ed il prefazio della Messa in onore del Santo; il che prova, che i Beneditiirii, che avevano Casa Madre nella Novalesa, n’ ebber dapprima e per alcun tempo il possesso del Corpo o d insigne Reliquia in qualche lor monastero; condizione necessaria, secondo la disciplina antica, perchè un Santo potesse aver luogo nel proprio calendario delle feste, delle quali l’Istituto o la Chiesa faceva divino Officio, o di esso commemorazione. La congettura adunque del Semeria sul fatto d’un vescovo di \ en-timiglia ch’ottenesse il Capo di S. Secondo da quei Monaci di Novalesa, o in qnel monastero o in altro, come congettura non sarebbe poi tanto priva di fondamento. Se a tutto ciò venga ad aggiungersi la solida presunzione cavata dal codice che esaminiamo, usato in \ entimiglia stessa da sì vecchia data, se n’ha conferma assai valida. Egli é un terribile argomento che un codice alle mani di chi poteva rettificarlo assai facilmente, come aveva rettificati altri passi, racconciando un riconosciuto errore dell’ amanuense, che gli sarebbe troppo scottato, noi facesse assai presto; concios-siachè la nota marginale, che sopra recammo, inserita allato all’ antico e genuino annunzio, venisse troppo tardiva. La forma del carattere, il positivo riscontro con altra nota necrologica con data certa, ci dicono che quella inserzione venne fatta nel secolo XIV; quando cioè erasi creata l’opinione locale, nata certamente dal possesso del S. Capo e da quell amore delle cose patrie che facilmente c’ illude. Aggiungo che quella nota medesima prova il contrario di quel che dice. L’annotatore non era ben persuaso, o temeva ch’altri non fossero che le voci Victimilium castrum Iluluw indicassero senza dubbio V en- ( -itili ) timiglia; volle adunque pei presenti e pei posteri ribadirne l’opinione, conservando eziandio nella nota la variante del nome in Secundini, sapendo che si venerava col nome di Secundus, per dar aria che la sua nota 11011 fosse che esplicativa. Essa quindi risolvesi in una mera, tutt'altro che imparziale, asserzione; e non è insomma che una testimonianza nulla al suo scopo, e che volge in positivo l'argomento che derivar si vorrebbe da una supposta accezione 0 scorrezione di VicUmilium, dopo stata pacifica almeno almeno per quasi tre sani secoli. Questo argomento non può esser troppo ripetuto. Ma infine ripigliato, appena per poco tratto, un sol filo lasciato addietro, qui son per chiuder le vele. Ritornisi alla mente dunque il mio lettore quel brano degli Atti Momhriziani surriferito a bello studio, in cui l’estensore, il quale per la stagione nella quale fioriva mostra 11011 al tutto rozzo di lettere e d’erudizione, nota il luogo del supplizio di S. Secondo; e dove alludendo a Tito Livio pel nome, ei ne tenta l’etimologia, giusta la tendenza assai comune dei dotti del medio evo. Sia, se si vuole, una favola, clic il punico Annibaie, appena giunto in Italia, dia un nome con elementi latini ; sieno le circostanze allegate una (reazione in grazia della stessa etimologia; ciò nulla fa per me. Ciò che merita ivi osservazione si é che il vocabolo Vidimali* cosi non fu scritto dal compilatore, giacché dileguerebbe la corrispondenza cercata; ed un soro qualunque, ciò ch'egli non era, se ne sarebbe accorto. Egli scrisse VicUmilium, che fa buon raffronto con vieti millia, 0 vidi milia, non essendo gli Etimologhi, anche dove non hassene cosi buona ragione, troppo scrupolosi d‘ una lettera semplice 0 duplicata. Ed allora aggettivato dà proprio 1 'icti-milium (oppidum, castrum 0 simile sottinteso). Fu quindi l’ignoranza dei copisti locali, cui essendo più Volgata la forma ligustica primitiva Vidimali, Viclimola, Viclimolum, mutarono, riscrivendo, la voce, creando una strana incoerenza, dove ori- ( 467 ) ginuriameute non potea essere. Per raffrontare esattamente il nome del luogo del martirio di S. Secondo non doveva I amanuense, che a suo tempo conosceva in uso locale forse unicamente la forma antica e ligustica Vietinoli, o Viclimuli, pretermettere la considerazione, a cui era mosso dal ragionamento etimologico del suo autore, che altrimenti andava - in dileguo. Il testo aduuque non guasto sul punto in discorso era certamente loco, dove fu decollato il Martire, uno milliario prope Castellum Caesarium, quod ab Annibaie nomen Victimilium accepit. Lasciando ai dotti e studiosi della topografia archeologica di quei luoghi il trovare, se esista ancora o no, un luogo, ove si nasconda il Caesarium, o Caesarianum, se un di questi sia il inen alterato nome che scancellò il Victimilium, se per guasto di pronuncia siasi cambiato in Corrione, che poi si volesse latinizzare in Cerridonum, passo ad una breve osservazione critica sopra il Vietumulis di T. Livio. Tutti i codici avevano Vico tumulis; e non fu che un codice solo, che diede la variante. Ora dal testo citato si scorge, che 1’ autore degli Atti di S. Secondo aveva letto un codice meno scorretto, ove non era lo strano Vico tumulis. E dopo 1’ esatta correzione fattane ci riesce a nuovo testimonio della lezione migliore, o almeno più ravvicinata alla vera. Ciò è quanto per solo amore di verità, che unica illustra le geste dei Santi, io credetti bene di esporre al caso mio. Avrei potuto eziandio, non meno utilmente, dilatarmi in discussioni sopra molti altri particolari ; ma non era attualmente nè il luogo nè il tempo; mi tenni adunque strettissimo al puro compito, come fin da principio avea stabilito e promesso. Se in tutto o in parte non dissi o conclusi il vero, io mi dichiaro pronto e facilissimo a qualsiasi rettificazione in ossequio della verità chiaritami in opposito de’ miei sentimenti. Persuaso che anche il eh. Canonico Calsamiglia prese la penna colle medesime disposizioni, io spero eh1 ei vorrà prendere in ( 4G8 ) buona parte il presente mio scritto, quantunque non consentaneo colla sua erudita Dissertazione da me sullodata ; come pure aspetto una simile accoglienza dai eh. scrittori dell’illustre Periodico la Civiltà Cattolica, in cui, dopo aver appuntata nella citata pubblicazione del eli. Cav. Rossi la stessa opinione, avuto alle mani lo scritto del Calsamiglia, sotto l'impressione di quell’ampio trattato, e sotto quella dell'immensa presunzione a pro’ di Ventimiglia creata dall’autorità del Baronio, e del P. Pin Bollandista, troppo efficace per chi non abbia fatto sulla vertenza, quasi dissi, da capo un nuovo processo, egli mutò sentenza, e con tutta la buona fede ei dichiarò (Ser. VI, l o/. II, p. 60G) secondo la nuova persuasione lealmente, che * questa lite è ora sciolta a favore del Calsamiglia. Credo che loro non sarà menomamente grave, che la medesima sia portata in revisione al loro gravissimo tribunale, ed a quello di (juanti, imparziali e competenti, vorranno iniziarne e concluderne un nuovo giudizio. * ♦ IMPORTANTE FRAMMENTO DI POLIBIO * CONSERVATOCI IN LEZIONE ALTERATA DA SUI DA CORRETTO E MOSTRATO RELATIVO A GENOVA ED ILLUSTRATO DAL SOCIO CAN. LUIGI GRASSI RAGIONAMENTO LETTO NELL ADUNANZA DELLA SEZIONE ARCHEOLOGICA ADDI XXIII. DICEMBRE MDCCCLXV. . ' « . L’AUTORE AI LEGGITORI A fine di meglio intendere e con più chiara cognizione estimare la discussione e le conclusioni, che costituiscono il tema e lo scopo di questo mio ragionamento sopra Polibio, credo assai utili alcune poche parole di preambolo, alquanto più estese che non sono quelle poste a capo del medesimo ragionamento. Avendo già in altri miei scritti impreso a ricercare della Liguria nostra, e di Genova in ispecie, le più remote antichità, volli aggiungere al già fatto la presente discussione eziandio, la quale parmi tornare a un tempo e conferma e continuazione delle mie anteriori indagini e deduzioni. Nel mio Ragionamento sulla Filologia ('); e quindi nella mia Trattazione sulla Tavola di Porcevera (J) coi minimi ele- C) Grassi, Della Filologia nelle sue applicazioni e risultati, Genova, Stab. Tip. di G. Caorsi 186i, pag. 19 ed alla Nota N. V, pag. 26. (') Grassi , Della Sentenza inscritta nella Tavola di Porcevera pag. 524 sul voi. Ili degli Atti della nostra Società, ove è inserita da pag. 391-528. Ovvero nella pubblicaiionc separata uscita dalla medesima tipografìa de’ Sordomuti 1865, alla pag. <36, ( *72 ) menti storici che ci rimasero più o meno incompleti e ravviluppati, s’altri li considera separatamente ed ognuno da sè solo, nell’insieme coll’opportuno rincalzo di filologiche avvertenze e deduzioni usate con grande cautela e parsimonia valevoli entrai in pensiero di poter condurre la mia disamina per avventura alla probabilissima conclusione, che nei tempi rimoti la contrada che noi abitiamo era conosciuta sotto doppio nome, od era, come dicesi, binomia. La Genua dei Latini, la TENTA dei Greci o TENOTA nei codici dei bassi tempi, era forse il sito dell’ oppidum, o si veramente della precipua o speciale comunità della parte dell’intero popolo, che perciò venne detto Genuate; dovunque ne fosse in quei primordii la sede più o meno appressata al mare. La Macella dei Latini o Macela più addietro MAKAAA • MAKAAAA, MATAAIA pei Greci era, siccome parrebbe, la nomenclatura di tutto un popolo preso in più larga estensione, di comune origine; dapprima forse trasappennino; la cui appellazione ci conservò , quanto al luogo determinato assai confusamente, nella sua grand’opera Plinio, ove (Ilist. Nat. L. III. n. 7) percorrendo la Liguria di qua e di là dai monti accenna fra i popoli liguri i Magelli Macela più anticamente, e più lardi Macella e Magellu, sostantivando il vocabolo (uso comunissimo nelle lingue) vocabolo per sé stesso aggettivo, latinizzata dalla forma derivativa ligustica, col sottintendervi, compiendo l’elissi, l’opportuno sostantivo, vien a significare: Macella o Mugella terra, regio o civitas. E presso gli storici che scrissero nella lingua greca: MaryaXix vale quanto MayoXix y», o xwfin o zohs; in quella stessa maniera che a Magelli è d'uopo sopporvi per sottintese le voci homines o populi ; ed in M óyaXoi o MàyaXiot aver luogo l’elissi della voce fotyumi o W, o di qualunque altra appropriala. Ciò basti per una semplice introduzione a meglio porre in via il leggitore ; cui può eziandio giovare il sunto, assai ben in- (»73 ) leso, che di questo Ragionamento trovasi nel Rendiconto dei hivoi i fatti dalla Società. . . negli anni accademici mdccclxv-mdccclxvi, § h, pag. Lxxvii. Ed oltracciò le Ampliazioni illustrative e confermative, ch’io aggiungerò appiedi di questo mio Ragionamento. FRAMMENTO POLIBIANO RELATIVO A GENOVA CORRETTO ED ILLUSTRATO RAGIONAMENTO ACCADEMICO Ricorderete, o Signori, il mio tentativo di cavar qualche elemento (anche dove non se ne possono ottenere di più espressi e migliori) di rimote antichità ligustiche, mercè la critica filologica nella trattazione, onde concludesi il mio Ragionamento sulla Filologia in generale, della quale trattazione diedi qui stesso una succinta relazione innanzi al dotto vostro consesso. Il quale metodo io credei bene «li ricalcare nel fine della mia illustrazione della Tavola di Porcevera nella nostra ultima pubblicazione degli Atti. Mi parve in tanta jattura di monumenti e dati, che ciò tornasse l’unica via per entrare in fruttifere congetture; che donde, riuscite queste in buon numero ed in pieno accordo, sorgessero dei fondamenti di storiche illazioni, avremmo ottenuto dei punti sodi abbastanza per posarvi il piede e procedere innanzi. E questo, o Signori, è di nuovo il mio caso odierno. Debbo esaminare nn frammento attribuito a Polibio, debbo accertarne il valore nella creduta provenienza ; e, sic- ( 475 ) come a noi giunse malamente sformato, debbo redintegrarlo ; il che verrà sempre meglio a concorrere ad illustrazione progressiva delle nostre ligustiche antichità, ed a più chiara continuazione del mio metodo sopraccennato. Il testo del quale imprendo Pesame si trova, conservatoci dal Lessicografo Suida, alla voce Wytùdiov, ridotto in questi precisi termini: Oi lì rà Miycovi 7ipoçnoXc/M!'jvrci rav tiiyvsuvav, r.fd^a.1 ixtv !S\oÇ/fipii ti, xxi iMyatetOY ov% mi r’wcav; testo che il primo editore di Snida (Porto) malamente tradusse, come più innanzi vedremo. Questo breve testo nel Lessico del citalo Snida non ha alcun cenno di fonte, ond’egli lo derivava; ma tutti i critici, cominciando dal Valois (Franciscus Valesius), percorrendo pel Casaubono, pel Reiske, pel Schweighaeuser fino all’edizione parigina del Didot del 1839, di cui mi servo, viene a Polibio ricisamente e perpetuamente attribuito. E certo con ragioni evidentissime. Poiché non v’ ha forse testo rimastoci in frammento di un antico scrittore, che in cosi poche parole riveli sicuramente lo stile del grande istorico. kiyucrivoi per Ai'yvsç; ôxô^tç vocabolo da Polibio usitatissimo, e per poco non dissi esclusivamente dagli altri scrittori Greci di lui più antichi od a lui sia contemporanei, sia posteriori; la Irase che ne deriva per l’unione col verbo xpissa, anch’essa tutta polibiana, dicono abbastanza per dichiarare, come venne fatto in pieno accordo, che qnel testo è un brano di Polibio, cavalo da una parie perduta della sua storia. Oltracciò non è nuovo nello stesso Suida che, citando assai volte del medesimo autore altri passi a noi pervenuti e che possiam riscontrare, egli ometta di nominarlo, od almeno senza che ci possa constare lui averlo fatto, per non esser giunto fino a noi un codice ove la citazione dello scrittore siasi conservata; se mai essa vi fu annotala da prima dal lessicografo. D altra parte in quel Lessico di quanti greci autori si citano, che potessero alludere ad un Magone cartaginese. e con esso ai Liguri, non ( 47G ) altri potria competere con Polibio, se non che l’Alessaudrino Appiano ; ina lo stile e le parole in questo brano non ammettono alcun’ ombra di lontana probabilità in favore di Appiano ('). Ciò stabilito esaminiamo senz’altro il prezioso frammento. Nella prima parte, dove l’abbiamo incorrotto, a verbo a verbo volgarizzato dice : « Quelli poi fra i Liguri, che combattevano contro a Magone non poterono far nulla di conclusivo »; il che è quanto a dire, secondo la significanza comune allo stile polibiano, nou la poterono vincere, i Liguri non poterono a Magone efficacemente resistere. È curiosa anzichenò la traduzione latina che trovasi nel Suida pubblicalo nel 1619 da Emilio Porto. Egli (il Porto) fa di Magone un generale ligustico, ed interpreta il brano, cioè la prima parte cosi : UH vero qui Magoni Ligustinorum duci bellum faciebant, aliquod quidem integrum . . . facere non poterant. Ne abbiamo, di questa medesima prima parte dei testo, un acconcio di Ludolfo Kuster, il quale in Cambridge nel 1705, in 3 vol. in fol. pubblicò la migliore edizione del Lessico di Suida, ove corresse, com'egli dice, la versione del Porto, e corredò V edizione di note ed indici importantissimi, il kusler dice adunque in quel luogo della prima parte del testo polibiano : Ligustini vero illi, qui cum Magone bellabant, facinus aliquod insigne . . . facere non poterant. Chi esamina attentamente il greco di Polibio, tenendo conto del modo conciso e suo proprio di esprimere francamente i fatti senza ommetlere le necessarie circostanze, sentira nelle citate traduzioni un procedere non guari ordinato, insomma un procedere assai poco Polibiano. Ma se altri sospetta che il seguito del contesto racchiuda una lezione guasta, terrà per compatibili quei traduttori accennati, se quel brano sotto le loro forme latine, uscitone comechessia , non fa bella mostra, o buona coerenza. Vedi appiè del Ragionamento Amptiazioni, ecc. N.° I. ( 477 ) Il mio sospetto di errore nella scrittura e citazione del secondo inciso dell’esaminalo frammento, s’io non in’illudo , spero di poterlo chiarire assai bene, anzi più in là che non riesce una semplice congettura. Chiunque, o Signori, ha percorso alcun poco gli antichi scrittori di storia e di geografia, quali ci pervennero nei manoscritti, avrà osservalo enormità e quantità d’ errori in cui caddero gli amanuensi, segnatamente nei nomi proprii ; errori che diedero, dànno e daranno per lunghi anni lavoro all’ industria e perspicacia critica degli editori ed illustratori di antiche opere. Rammentiamo solo per ino’ d'esempio quel che ci resta di Tito Livio, l’opera di Strabone, quel che ci resta di Polibio, e di Appiano; rammentiamo il Lessico delle Città (nepì otXewv) di Stefano Bizantino abbreviato e forse alcuna fiata guastato da Ermolao, la Geografia dell’anonimo e di Guido Ravennati, la Tavola Peulingeriana e via dicendo. Rammentiamo Suida stesso, ove leggonsi brani conosciuti per altra parte, d’ autori citati inesattamente compreso il medesimo Polibio per altri luoghi allegati. Chi fosse e quando vivesse il nostro Suida non consta. Era egli un gramatico del X secolo, come alcuni asserirono? era del XII, coni’altri vollero sostenere? era un amatore di studio o come dicono i greci, un Filomuso, che per sé o per altrui opera raccolse i precedenti lavori di simil genere in un corpo solo? Forse poi qua e là interpolato, come suol avvenire in simil sorta di compilazioni nelle successive copie da mani anche posteriori? Cosi parmi di poter credere, considerato che in capo alla vasta Raccolta si legge : « Il presente libro è di Suida (forinola che anche significa appartenenza), e quelli che lo scrissero sono i saggi uomini » ; seguendo a quest’ epigrafe i nomi di undici graffiatici ignoti per la maggior parie e non antichi. Essendo adunque quel lessico una compilazione dei bassi tempi, ognun vede maggiore facilità d’errori, quando in ispecie incominciava a sformarsi 31 la scrittura greca cil intralciavasi di abbreviature, talora strane e poco o nulla diciferabili, le quali cadendo in nomi proprii deviavano sicuramente e spingevano in fallo il copista, che di quel nume non avesse altrimenti pienissima cognizione. Premesse queste non inutili considerazioni ritorno al testo sopraccitato raccolto dal Lessico, come dicesi, di Suida. Ivi trattasi senza dubbio di Magone, fratello di Annibaie. Quantunque nell’Africa cartaginese l'omonimia o medesimezza di nomi sia stata assai frequente, per cui troviamo nella Storia varii Asdrubali, varii Annibali, varii Arnioni e varii Magoni; rispetto al nostro Magone Tito Livio, di cui il tempo ci conservò il tratto storico della guerra Annibalica, ci assicura il Magone polibiano esser desso colui, che col fratello Annibaie tanta parte si ebbe in quel tremendo periodo della Storia Romaua, che fu la seconda guerra punica. Egli, Tito Livio, parla di altri cartaginesi dello stesso nome al nostro Amilcaride anteriori, e ne parla per quel poco che ebbero d’ingerenze, ove entravano gl’interessi rouAni ; e coi dati di Livio a ninno di quelli può esser applicato il testo di Polibio che esaminiamo. E il medesimo si verifica pienamente degli altri Magoni, di cui fa memoria Polibio stesso nei libri che ci pervennero. Ivi parla pure altre volte del .Magone Amilcaride , ma fino alla rotta, eh’ ebbe insieme con Asdrubale Gisconide da Scipione in Ispagna. Il resto di Polibio sulla guerra annibalica manca di regolare continuazione. Ma Tito Livio, che aveva alle mani gli storici e i monumenti contemporanei, ch’aveva intera la storia di Polibio, ne prosegue i falli fino alla morte. All' anno 205 avanti Cristo sotto il Consolato di P. Cornelio Scipione, e Publio Licinio Crasso racconta: Mago Hamilcaris filius ex minore lì alearium insula, ubi hibernarat, juventute leda in classem imposita, in Italiam triginta ferme rostratis navibus ct mullis onerariis, duodecim milia peditum, duo ferme equitum trajecit; Gcnuamquc nullis ( 4"9 ) praesidiis maritimam oram lutantibus, repentino adventu cepit. Inde ad oram Ligurum Alpinorum, si rpws ibi motus facere posset, classem appulit. Ingauni (Ligurum ea gens est) bellum ea tempestate gerebant cum Epa/nteriis montanis ; igitur Poenus Savone oppido alpino praeda deposita, et decem longis navibus m statione ad praesidium relictis, caeteris Carthaginem missis etc. dopo continua: crescebat exercitus in dies, ad famam nominis ejus Galhs undique confluentibus. Cosi il romano storico nel libro XXVIII, capo 46. Se a questo passo s’aggiunga quello che leggesi al libro XXIX, capo 5, ove chiamati i Galli ed i Liguri a consiglio, ed arringatili, eglino con promesse d’aiuto gli si mostrano assai favorevoli, rilevasi che Magone Amilca-ride in altro luogo ili Liguri, non ebbe a guerreggiare, se non che fra noi. E rilevasi a un tempo, che il testo Polibiano, che abbiain preso in esame, appartiene alla parte perduta della Storia di Polibio, dove proseguiva i fatti della guerra annibalica, e dove narrava l’assalto a Genova dato da Magone. Sia pure, mi si può dire, che il nostro frammento polibiano in quanto al fatto d’arnie risponda al riferito da Tito Livio, ma Polibio non parla di Genova. E questo è appunto quello che dobbiam vedere. Ponete mente al brano di Artemidoro recatoci da Stefano Bizantino ('), e che citai nei miei scritti memorati sopra, ed avrete non quale vaga e semplice congettura, ma al valore di storica testimonianza, che il territorio di Genova fu per due diversi nomi conosciuto dagli antichi. Ho già sodamente rilevato, che Polibio in varii luoghi, ove i codici a noi pervenuti leggono non potendo per alcun modo quel nome starci in significazione di Marsiglia, congetturai con grandissima probabilità che invece vi fosse stato scritto dal-l’autore che è la voce rispondente alla nostrana Ma- gellia o Magella. E quel primo ragionato passo ci metteva per (’) Vedi appiè di'! Itogionamento Ampliazioni ecc. N. 11. ventura in buona via tl' mi passo ulteriore , il quale per la rinnovata concorrenza e non casuale conformiti rende assai più solida la congettura primitiva. Ripetiamo il frammento già discusso ed esaminiamolo tutto insieme. Secondo la lezione sopra» t itata di Snida cosi sta scritto : Oì Sf ròj Móycuvt rpoçr.oXsjuo£»t£ç .cov Ai yiwrivcov, npjZxt jxi» iXia^ep-S ri, xal fxe yxk-lov ov% eio't t’raav. F. fattane la materiale versione, ne risulta in nostra lingua il seguente periodo: « Quelli fra i Liguri che combattevano tontio a Magone far nulla di conclusivo, né di magnifico potei ono «. La giunta dell’ inciso tinaie pare al tutto una stranezza; thè non avendo fatto nulla ili conclusivo, il magnifico, I magne non ci ha più, né ci può avere luogo affatto, non dico solo nella maniera di scrivere di Polibio, ma di qualunque scrittole di mediocre buon senso; giacché non compie, ma guasta I esposizione del fatto. Magnifico stile davvero, ove dopo a\er detto tiie non si fece nulla ili conclusivo contro il nemico, :> aggiunge che non si fece nulla il’insigne, ili granile ! L ausesi è proprio polibiana. In una battaglia perduta, in un assalto, nei quali non si ributta il nemico, si perde il campo o la piazza, ed ecco che cosa doveva naturalmente e secondo il suo metodo memorare Polibio. Leggiamo adunque invece nell inciso finale surriferito: «ì MayaX/av w* chi t’oixXoou, frase perfettamente polibiana, e direbbesi, ili lui quasi propria, ed a\remo nel nostro frammento un regolare testo che tutto insieme ci notificherà che « quelli fra i Lignri, che combattevano contro a Magone (quando con trenta navi e Minila, uomini assali i nostri antenati) nè alcunché di conclusivo fare (contro all assalto), né conservare Magalia poterono ». Qui intei Ligures restiterunt Magoni nil quidem pleni facinoris exequi, noe Magaliam potuerunt retinere. La greca voce (uyaliìov, in che I ignoranza dei greci copisti assai presto scambiò la vera po*ta\i da Polibio (Mxya}jx>), non potrebbe, supposto eziandio che lo scambio non guastasse miseramente il contesto, esser ( 481 ) trovala in un’aulica scrittura greca non solo di Polibio , ma nemmeno di qualunque altro scrittore dei tempi classici. Ella é vocabolo dei bassi tempi e non poteva essere né intrusa né adoperata se non che durante il basso impero. Una volta intrusa dai copisti per facile equivoco di lettura in greci che anche muniti di qualche dottrina, era certo assai difficile eh'' ei fossero addottrinali nella nostra archeologia geografica , questa voce (dico) fu tema di citazione gramaticale nel Lessico di Suida in significazione etimologica di grandis, insignis, magnificus ; mentre se mai Polibio avesse dovuto esprimere un concetto del valore del neologico y.tyol£iov avrebbe usalo iVSc^ov, péymov o simigliarne aggettivo di valore corrispondente, ma certo non il non mai da lui conosciuto vocabolo ^yaléiov, uscito, come dissi più innanzi, nella decadenza della lingua greca. Ora, se alcuno percorra soltanto il lesto colf occhio materialmente, tenuto conto dei nessi e della sformatura delle lettere nei codici, e dell’ uso nel periodo più antico di scrivere senza separazione da voce a voce, vedrà somiglianza del corrotto col racconcio. Ecco il guasto in caratteri maiuscoli o più antichi, nella parte ove ebbe alterazione: KAlMErAAEIONOTXOIOlTHSAN. Eccol corretto : KAlMArAAIANOTXOlOITOIKHSAI. Ed in carattere minuscolo o posteriore : Guasto : xaì niyafo'tov dot rrisav. Corretto : xaì fxiyiXiav cJ% oloi t otxnczt. Quindi si chiarirà l’acquisto di proprietà polibiana dopo il racconcio, e il regolare significato del concetto dell’autore, che ne deriva. Si scorgerà la ragione delle contorte versioni, che troviamo negli editori di Suida. Emilio Porlo: UH vero qui ( 48* ) Mu y oui Ligustinorum duci bellum faciebant, aliquod quidem integrum et magnificum, praeclarumque facinus facere non poterunt. Ludolfo Kustor : Ligustini vero illi, qui eum Magone bellabant fucinus aliquod insigne, et quod ad summam rei momentum aliquod afferret facere non poterunt. (Jueste verbose parafrasi, anche senz’altri argomenti, varrebbono una dimostrazione di inesattezza del testo, voluto tradurre come meglio veniva fatto. E resta, secondo io credo, dal fin qui ragionato risposto affermativamente al dubbio che trovasi alla voce Mago nell Indice del Polibio pubblicato dal Didot, che sopra accennai. Alludendosi al nostro frammento ivi si legge: Nescio an hic sit Mago contra quem Ligures pugnasse legimus, cioè il fratello di Annibaie. Era desso, e ciò si riferisce alla presa di Cenua, eh’ era forse il luogo di presidio marittimo dei romani Ira noi, mentre la Mugella doveva stendersi per avventura a maggiore ampiezza di territorio e di popolo ligure unito in più larga comunità o federazione. Quindi si spiega perché il nome di Genova coll’andar del tempo abbia avuto il dissopra sull’altra nomenclatura. Genua prossima al mare, cresciuta per traffici, divenuta emporio importante, fece dimenticare l'antico nome più collettivo. In tali condizioni era certo ai tempi di Tito Livio, ed egli doveva usarne il più volgalo nome, mentre ai tempi di Polibio e di Artemidoro, o vigeva ancora il nome più antico e più comprensivo, o quel nome ancor noto si usava come appropriato ai tempi dei fatti storici che si narravano. Prima di chiudere questo mio ragionamento un’ osservazione ancora vo’ aggiugnere ad abbondante conferma della mia lezione racconciata del brano del greco storico. Un Ellenista che legga il testo di Polibio, che esaminammo, secondo eh’esso pur trovasi nel Lessico di Suida, vede che quell’infinito seguilo dalla particella pìv ( facere, o meglio, fecisse quidem) vi si trova retto dal verbo o forma verbale ohi Jr.sav colla negativa innanzi (ovjc), che viene a dire non poterant o non potuerunt; ( 483 ) quindi sente il bisogno d'un altro infinito, che solfo il reggimento del non potuerunt diaci un correlativo di giunta, come sarebbe il U in caso avversativo, od il xaì. (cioè et) nel caso accrescitivo o addizionale, corn’è il nostro, per compiere sintatticamente la frase, secondo che viene richiamata dal (tjuidem) che vi precede. E nei testo di Suida, s’altro non si rivelasse, si chiarirebbe uno sconcio, una sintassi non degna di Polibio per ferino. Un’altra greca avvertenza; la forma verbale otii t Btfju ('possum) viene frequentemente usata dai classici coll’ ellissi del verbo sostantivo (ti/xi), e non di rado da Polibio medesimo; il quale in questo caso doveva a regolar complemento far corrispondere al nfâu un altro infinito aoristo. E per questo infinito, considerata minutamente ogni cosa, esser non poteva altrimenti che non vi ponesse oMeiu-, verbo che vale habitare, domum vel domicilium habere; avere o tenere stanza; ed in frase militare, usata altre volte dallo stesso Polibio, conservare la sua posizione; (rompendo il nemico assalto); c vi si trova espressa la naturale conseguenza di una difesa onninamente fallita, che è il perdere il proprio campo. L’ottonai ad un greco del basso impero, non più guari abituato all’ellissi del verbo sostantivo, che nella frase usata qui da Polibio sarebbe stalo Hw, suppostovi erronea confusione di amanuense secondo lui ignorante, veduta la desinenza • d’oixSffoi, parve di usar bene la sua critica gramaticale, correggendo a suo modo il testo ; e cosi scorretto si derivò nel codice «li Snida. E meno strana la possibilità, anzi probabilità d errore in casi simili sembrerà certamente a chi abbia alcuna pratica dei Manoscritti greci. Tutte queste minute osservazioni e rilievi, che parrebbono a prima vista semplici e vaglie congetture ad alcuni e di ben poro momento, se sieno prese ognuna separatamente e da sè, io mi credo che, se connesse in ispecie colle altre discusse in altri miei scritti accennati a capo del presente Ragionamento, ( m ) possano costituire una ben fondata dimostrazione, quando si vogliano considerare nel suo complesso e nella loro comune armonica convergenza ad un punto. Io son ben contento, comunque siano le nife deduzioni, che nell’interesse del vero sulle nostre rimote antichità siano discusse da uomini capaci, i quali per acume e sodezza di critica , per profonda cognizione della lingua e della paleografia greca posseggano imparziali e senza idee preconcette il diritto d’essere tenuti competenti nella causa. ( m ) AMPLÏAZIONI ILLUSTRATIVE E CONFERMATIVE Non essendu sialo conveniente nè di stendermi più oltre nel Ragionamento, né di accrescere iu esso le greche citazioni, essendovi d’altra parte buon motivo di pubblicarlo nella sua forma in cui fu letto, mi par utile di supplire all uopo colle seguenti annotazioni, alle quali nel corso della mia trattazione io rimandai gli eruditi lettori. I Appiano Alessandrino, elie viveva e fioriva ai tempi di Trajano, di Adriano p di Antonino Pio, scrisse una completa Storia Romana in XXI\ libri con molta semplicità di stile e molta chiarezza d’esposizione, e perciò assai diverso d ii fare grave e pesalo di Polibio, che scrivendo non molto dopo la seconda guerra punica doveva avere un uso di parole e di frasi giusta il suo tempo. Appiano dovunque parla di Liguri in quella metà de’ suoi scritti, che ci rimangono. li chiama sempre Alyiif, mentre in Polibio mai non li troviamo altramente indicati se non che col nome di Aiywrìvoi, come eziandio li troviamo appellati nel nebuloso poema di Licófrone Calcidese, uno dei dotti api-ai tenenti alla cosi detta Pleiade alessandrina, il quale visse circa due secoli e mezzo innanzi l’era volgare. Egli potè prevalersi della grande quantità di lihri della biblioteca dei Tolommei; e si arricchì d’immense cognizioni sto- ( -4SI* ) riche. Disdetta davvero, elio tanto notizie isteriche di tutti i |*qxjli allora noti [toste da lui in bocca della Cassandra di Priamo a maniera di previsione sieoo ammassate in uno siile peipetua mente enfatico ed oscuro, per cui non valsero a bene diciferare quella Cassandra tutti gli sforzi eruditi dei due celebii Scoliasti greci, cbe sulla lino del XII secolo se ne occuparono di gì an proposilo, vo dire i due fratelli Isacco e Giovanni Tzetze, nò quanti altri ne lurono in seguilo abili traduttori ed eruditissimi coro menta lori. Egli i pui \iro contutlociò, cbe dal poema Liuofroneo un archeologo abbastanza lauto e perspicace può ricavare dei buoni elementi pei suoi sludi; ed in ispecie, se gli sarà dato di fargli concorrere con altri ragionevoli e ben fondati elementi correlativi, attinti da diverse fonti, e per diversi melodi d’indagine derivati. II. Stefano gramalico e geografo bizantino, o, a parlar più esattamente, il suo compendiatore Ermolao fiorilo un mezzo secolo dopo, alla voce I'ENOA ( k’tr* rENYA) ba questo parole: TENOA r.óhi tó» Atyjpó>v ZZraïdx vi» w-j A prsfùiœpoi;. Un ellenista, fosse ambe uu semplice novizio, per poco eli egli esamini questo periodo s’avvede issofatto che non è sano. Oui certo F.-vóa sta [ter Tina; conciossiachò ai tempi del Bizantino e di Ermolao (V e M secolo) non ancora probabilmente questo nome aveva subita alcuna alterazione per poi diventare la Tevova del basso impero; ed era certo per anco nella sua originaria prelazione ai tempi di Artemidoro, il quale fioriva più d un secolo innanzi all’era volgare. Il vocabolo Atyvpaiv non fu usato così per fermo da Artemidoro; ò palpabile errore degli amanuensi posteriori, i|uando imitando la forma latina si disse dai greci hiyvfoi, c poi Aiycmpot. (ili antichi dicevano Aiyveç o Aiy.srhoi ( voce questa usata dai più vetusti), e non altrimenti. Considerato adunque qui l’accrescimento •I una lettera, considerata la forma dei caratteri nei .Mss. del basso tempo, possiamo supporre (vedremo se ragionevolmente), che dopo Alyiaiv seguisse », incorporata per mala scrittura colla voce precedente corrotta. Ancora più evidentemente corrotta apparisce la voce SraAi*. Noi non possediamo del compendio d Ermolao, cb’egli fece della vasta opera di St'fano bizantino, se non cbe pochissimi esemplari rispettivamente moderni. Fra il IX e il XII secolo la maggior parte dei codici greci Ms. oltre ad essere stali vergali per una gran parte in caratteri non guari di buona mano ed alcuni pressoché illegibili, senza pure tener conio dei guasti o sbiaditure, ebbero di giunta l’introduzione delle abbreviature e dei nessi di lettere assai frequenti. (Ir figuriamoci un copista poco o nulla istruito delle materie traitele dall’originale da cui riUae la sua copia; ed in modo specialissimo rispetto » nomi proprii d’ignoti ( 487 ) personaggi, eil ulle agnazioni locali della geografia antica e contemporanea, quanti imi saran gli errori, le storpiature che n’usciranno? Eri avrei esempi ad esuberanza, che non occorre allegare, essendo chiara da sé la cosa. Sia slato scritto originariamente MayaÀia, dove troviamo ZL-a'jh. (nome questo non erroneo, rispetto ad una città alquanto importante e notoria ai greci, che amavano trovar anche altrove e lontani i nomi dei loro luoghi), e quel vero nome MayaXia sia stato guasto in lAtyutio. dapprima (nome pur noto ai greci; e poi, per la vicinanza di forma tra il T ed il 1 nello scritto a mano del basso temjto, potè cambiarsi in Mtra/Ja. Tutte queste fasi di alterazione della voce rappresentano nomi ad un greco accettevoli. Ora un nesso, che vien letto /wra, si trova configurato in modo da essere agevolmente, s’altri non sia diretto da precedente cognizione, scambiato nella sillaba era. Ed eccoci alla voce 2-aXia, entrata nei greci codici, senza speranza che amanuensi posteriori abbiati potuto di leggeri correggerla, essendo errore sopra un nome proprio allora già scancellato onninamente dalla cognizione di quelli stessi per avventura cui apparteneva in antico. La descritta genealogia dell' errore parrà forse una stranezza ad alcuno ; per ora la tenga egli per una mera ipotesi. S'altri avesse un miglior modo di spiegare il guasto, chè guasto c’ è di sicuro, accetterei volentieri la correzione. Ma indipendentemente dall' esposte considerazioni vi hanno altre ragioni al medesimo proposito, che è bisogno di svolgere, e ponderare. Ai tempi di Artemidoro geografo doveva ancora il nostro paese ai greci, almeno sulle notizie storiche e geografiche tolte da scrittori più antichi, e dalle relazioni colle colonie greche di Marsiglia e dintorni, essere conosciuto più col nome derivato dal popolo, che non col nome del luogo o principale o centrale. E Maijcla (MayaXia) doveva essere meglio nota che Genua (Tévva) Anzi per avventura da lungi la prima appellazione soltanto aveva il dissopra nelle comuni conoscenze geografiche; mentre la seconda appellazione (Genua) poteva essere in cognizione di qualche più addottrinato geografo. Artemidoro adunque conobbe a questo riguardo due Domi, come indica sossopra il testo di Stefano comunque egli sia, e la preferenza eh’ egli diede ad Artemidoro nel cavarne le rispettive notizie; e forse Artemidoro fu dei primi che ne parlassero in geografia, nell’opera che fu sotto gli occhi di Stefano, da cui ci pervenne il cenno che si nasconde nel guasto passo che stiamo esaminando. Egli è a notare eli; nella su3 compilazione Stefano Bizantino comunemente non si fa carico di distinguere i tempi, nei quali da questo o da quel geografo si parlò di questa o quella città ; agglomera confusamente tutti > tempi allegando quanti scrittori ebbe alle mani; sicché nel suo libro tro- ( m ) vansi registrate come esistenti tuttavia città, e nomi yià più o meno al suo tempo scancellati dalla memoria. Or procedendo, vediamo a quale costrutto possiamo ridurre con ogni buona probabilità il brano surriferito che Stefano traeva da Artemidoro. Per le ragioni allegato sopra e per quelle che or ora saranno discusse, io così l'acconcerei: TENTA, roXiì Aiyvwv (in MayaAijt) xaXo'.jU-vM viv, co, Aprsjtu&u/io;; cioò Gema, civitas Ligurum (sive M agela) nunc vocatu secundum Artemidorum; che è quanto a dire: » Genova (che diceasi pur Magella) città dei Liguri, così chiamata ora secondo Artemidoro ». Altri potrebbe uscirmi contro con uua speciosa opposizione, dicendo che il contesto vorrebbe che xxXovnivn w» (chiamata ora) fosse inteso riferirsi non al nome più lontano (Genova), ma invece al più dappresso comunque e’ sia stato scritto. Osservi il mio lettore che non abbiamo proprio il brano di Artemidoro, ma una pura citazione di lui, la quale ci giunse pei canali di Stefano e di Ermolao in un misero perioduccio evidentemente» sconciala. Allorché Stefano compilava il suo Lessico geografico confuse pur troppo, come osservai sopra, i tempi, ma dove il suo autore da cui traeva era così esplicito da distinguerli l’autore stesso opportunamente, non poteva verificarsi confusione. Sicché avea troppo buouo in mano per isce-gliere il nome più usitato o notorio per arricchirne al proprio luogo alfabetico il suo lavoro. E fatto sta che scelse il nome di Genova; dunque egli vide in Artemidoro il nome di Genova siccome 1’usitato allora, ed a Genova è inteso di riferirsi nella compendiata citazione dell' aulico geografo l’inciso chiamata ora, qualunquesia la costruzione gramalicale del brano, che ci trasmisero o proprio Stefano od Ermolao od i copisti. Or vediamo quelle ragioni, che derivate da fondamenti diversi, confortano potentemente il mio assunto aiutando a mutare in tesi quanto sopra si diede per ipotesi. Mi appello a Strabone, il quale con un mirabile parallelismo ci dirà di Genova quello che Polibio avea detto d’un luogo eli' egli nomino con una appellazione, che nei codici fu scambiala in MxcaXia. Strabono ed in generale gli antichi geografi nel determinare geograficamente i luoghi c i monti si attenevano all’ apparenza estrinseca, e talora ben in digrosso. Non v’erano a quei tempi studi geologici, non avevano il comodo dei rilievi di carte, come abbiani noi , spesso seguivano le determinazioni qualunque fossero di comun uso. Quindi è che nelle antiche estimazioni topografiche, chi non voglia spesso gravemente errare, è d'uopo non attenersi alle fisiche costituzioni dei monti e delle terre, ma cercare di conoscere com’ erano chiamati nei tempi dell’antico scrittore che si vuol ben intendere. E ben diverse in qualche parte or sono le assegnazioni geografiche alle catene dei monti che gli antichi ogual- ( 489 ) mento ed i moderni chiamano Alpi ed Appennino. Strabone adunque, cbe vale per tulli, dupo aver messo nelle Alpi Ventimiglia ed Albenga, dicendo che la voce AX/3iov, oud'è composto il nome delle due città, equivale ad Alpino (olov AXmoy), viene ad una assai precisa designazione, osservando che l’arco delle Alpi per una punta va sino ad Ocra, e per l’altra sino a Genova lunghesso la spiaggia (tiç r«v Xtyi/ffrntiiv napaXiotv fttypi Ttvovaç), ed aggiunge: dove (cioè a Genova) l'Appennino s'unisce alle Alpi (ir.cv Anèvvtra. opti avvxTnsi r«i$ Aàkciv). Egli è vero che da un altro suo passaggio rilevasi, che da lui Genova non era considerata nel senso streltamente topico, ma alquanto largamente. I/Appennino, egli dice, comincia da Genova. le Aljii dai Sabati (to ij.Iv Ar.imvm «ré Tivù*;, ai lì AfoteiÇ ano iav Zafiàrc;-/). I qnali due lesti coordinati mostrano, diciamolo di passaggio, che gli antichi Sabati venivano beu in ijua verso Genova, e tulli e tre gli allegali testi di Strabone dichiarano allatto insussistente lo scrupolo del I’. Spotorno, che rigettava l’opinione che Savane di T. Livio fosse Savona od un borgo chela precesse, perché lo slesso Livio la qualifica di oppido alpino. Ma torniamo in via. Ilo già nolato e discusso in altri miei scritti che citai sopra, e qui non u’ intendo ritoccare se non cbe quanto può essere necessario a compiere e rinfrancare la mia dimostrazione. Dissi che Polibio, dove parla del cominciamento delle Alpi e dell’Appennino, e del loro incontro, lo ha stabilito sopra Genova. \edcinmo testò, che anche Strabone dice chiaramente lo stesso, mostrando elio in ciò seguiva a maestro principalmente Polibio. Ma gli esemplari di Polibio, che giuusero a noi nei testi paralleli cogli Slraboniani hanno invece di Genova Mxììv uiv àpyjiv «sré M AT AAIA2 (Montanus ciixuitus Alpinus incipiens a Macella). Nello stesso libro e capo, figurandosi così alla grossa la parte piana d’Italia a mo‘ di triangolo, si esprime in siffatto modo. I i;v xcpifxv ii t£ 7ù)v A’"cvwvnjv xoàs ’j/juvoìv opuv, xcli zav A Xrrs £ y co v îtyKÏTWfflÇ, ov fJiMpkv Am0 TOì '2-O.fÌcùTJ TiihkyO'jÇ 'JTTip MATAAIAS Ù.TTQTS.'k.S.l (1 crlicem montium et qui dicuntur Apennini et qui Alpini concursus non longe a Sardoomari supra Macellam perficit). Lib. cit. cap. X\I. ToO 5’ A’ "t’yyjvoy, fiìv i vtiìp MATAAIAN xctì ziiç Tipcç ~tt$ ( MO ) A’Jbrsu a fittasiox, Aiyvativei xttroixoiai (Apcnninum nl> i/1*0 inilio, ijut est siipni Macellasi et ml Alpes jungitur, Ligures Imbitunt)- Dove io |tosi, sostituendo alla falsa lettura quella ch'io credo la vera, riponete la voce MAZAAlA intrusavi da secoli, e Polibio rimane io fallo e trovasi iu islraua contradiziono con Strabone. Mentre la ragionevole e, credo, beo confortala opinione, che Genova presso gli antichi fosse pur designala, forse in più larga significazione, col nome di Macelli!, e poi Mugellu, sarebbe un grande acconcio. Da ciò un mirabile accordo fra Strabono e Polibio, fra Polibio e sè slesso e in armonia col geografo Artemidoro, citalo da Stefano bizantino secondo ci fa conoscere il suo compendia toro Ermolao. CORREZIONI El) AGGIUNTE RELATIVE ALLA CARTOGRAFIA LIGUSTICA Alcune mende ti[X)grafiche, riguardanti il presente volume, già vennero corrette alla pag. cclix ; diverse altre, comecché per la maggior parte bea lievi, si hanno qui soggiunte in calce (I). Quello però che più importa ora di far conoscere , è una cortesissima^ lettera indirizzata dal eh. D’Avezac, dell’Instituto di Francia, al socio cav. Cornelio Desimoni, in data del H luglio volgente; la quale ne porge occasione di richia mare un istante alla memoria dei lettori quella Cart3 di Baptista Januensis, che vedesi ricordala al numero 20 dell’ Allegato I, a pag. ccxlh-hi , in cui, a delia dell’illustre scrittore, viene riassunta 1 opera dei 7 di lui • da lui • 317 . 7 scittoro . scrittore • 330 . 7 e da dettare • cd a dettare • 332 . 19-30 somma ma • somma • 376 > 9 ripetutala » ripetuta • 381 . 23 Portico di san Pietro ■ Portico di san Luca. • 385 . H-15 Repubblica parlamoutarc • Repubblica parlamentare-rappre- o rappresentativa. sentativa. • (09 . 15 Foneiiano » Veneziano • 410 . 9 Freschi > Fieschi # ( *92 ) li cav. D'Avene avendo senio frutto cercalo ili questa Carta in Parigi, secondo le indicazioni in detto Allegato fornite , o non avendone par trovato cenno nell'opera del Lelewel ivi citata in proposito, ha chiesto di qualche più particolareggiata nozione il prefato nostro collega. Il quale, a sua volta, avendo desunta la pubblicala notizia dalle più antiche schede da lui adunale sopra tale argomento (quando cioè si era ben lontani ancora dallo imaginare una raccolta di monumenti e d'illustrazioni riguardanti la Cartografia Ligustica), ed ove più specialmente si conteneano parecchi appunti tratti dalla Géographie du moyen âge, non si troverebbe oggi in grado di precisare cou tutta sicurezza un'altra fonie, benché nutra la morale certezza di avere tuttavia derivata da autorevole sorgente la nota fornita. Frattanto la stessa rettificazione dell'esimio D'Avezac giunge opportuna sotto un altro rispetto, del quale la Società deve sapergli grado assai ; imperocché ci scuopre la esistenza di un nuovo ed importante lavoro del Baptista summeulovato, rafferma sempre meglio la identità di costui col Battista Agnese da Genova sostenuta dal cav Desimoni (I), e ci offre una testimonianza di più della operosità veramente singolare di quel nostro cartografo. Ecco le prole testuali del D'Avezac: « On trouve... à la Section Géographique de notre Bibliothèque Imperiale ... un petit Atlas (haut de io '/« centimètres, larg>- de 18) compose de douze planches, dont dix sont des cartes géographiques de 29 ’/» centimètres de largeur sur IO V. de hauteur, à l’encadrement, non compris les marges. Dans l'avaut dernier carte, consacrée à la Mer Noire, se lit en haut, sur la gauche, l'inscription que voici : Baptista Agnese januensis fecit tenetijs -4nno Domini 1545 die iS junii. • La première feuille de ce volume offre, ouverte, à gauche une table annuelle des déclinaisons solaires, et en regard à droit un cartouche peint, assez élégant, resté vide; la seconde feuille présente, également in plano, une série de cercles concentrique où sont mis en concordance les signes du Zodiaque et leurs divisions en degrés, avec le mois et les jours de l'année. Les dix caries viennent ensuite, savoir: » I. L’Océan Pacifique avec l’Amérique d’une pari et les Moluques de l’autre. (I) V. Atti, toI. m, p. ex. % ( 493 ) “ 2. L’Océan Atlantique avec l'Afrique et une partie d< I Europe e l'Amérique à gauche. . . ,, * 3. La Mer des Indes entre les côtes d’Afrique depuis Bonm, et ce e d'Asie jusqu’aux bouches du Gange. » L La partie Nord-Üvest de l’Europe. * •'>• L’Espagne el l’Afrique Occidentale jusqu’aux Baléares. " La Méditerranée Occidentale jusqu’à Pantalaria. * 7. La Méditerranée moyenne avec l’Adriatique. * X. La Méditerranée Orientale avec l’Archipel et le Bosphore. \ » 9. La Mer Noire _ . » 10. Lutin une carte générale du Monde connu, projetée en une se ellipse à la manière de Castaido, les méridiens représentes p . » Elogio di S. A. R. il Principe Odone di Savoia , Duca di Monferrato, letto dal barone U. Pasquale loia , Presidente della Società , nell' adunanza generale (hi i febbraio 1860............. Elenco degli Ufficiali, clic ressero la Società c le Sezioni di essa negli anni 186a c 1866......." XXX1U Sodi eletti negli anni 186!» c 1806.......* XLI Necrologia...............“ XLVI Doni falli alla Società negli anni 186') e 1866 ...» LU1 Rendiconto ilei lavori fatti dalla Società negli anni accademici 1860-1866 , del Segretario Generale cav. L. ri) 1 M LXXl . bel grano.............. ( m ) Allegali . ,..............l>uë- Appendici'............... * Delle opere di Matteo Civitali, scultore ed architetto lucchese, Commentario del socio prof. Sanlo Vanii . . • Delle opere di Gian Giacomo e Guglielmo Della Porta , e Nicolò da Corte in Genova, Memoria del socio prof. Sanlo Vanii...............• Documenti...............» Della vita privata dei genovesi, Dissertazione del socio L. T. tìelgrano . ...........• Di una tavola del secolo xv , rappresentante la II. Vergine Annunziata, Lettera al P. Amedeo Raimondo Vigna del socio L. T. Relgrano........• Considerazioni su varii giudizi di alcuni recenti scrii-tori , riguardanti la Storia di Genova , pel socio march. Massimiliano Spinola del fu Massimiliano . . • Documenti...............» Sul Martirologio della Chiesa di Ventimiglia , in Mss. del secolo x, esistente in Genova nella Iliblinleca Municipale. Ragionamento del socio canonico Luigi Grassi. • Appendice. Sui luogo del martirio di san Secondo . . • Importante frammento di Polibio , conservatoci in lezione alterata da Suida , corretto e mostralo relativo a Genova , ed illustralo dal socio canonico Luigi Grassi. • Ampiiazioni illustrative e confermative......• Correzioni , ed Aggiunte riguardanti la Cartografia Ligustica..........•.....» i:\ci CCLVII I òr» :>r> 79 27:» ‘JX5 •il 7 455 m 469 485 491 ' . • . * . ‘ i» . * • : - . . * • * • % f ... ‘ * INDICE DELLE MATERIE CONTENUTE IN QUESTO FASCICOLO Spinola — Considerazioni su varii giudizi di alcuni recenti scrittori, riguardanti la Storia di Genova . Pag. 1285 Crassi — Sul Martirologio della Chiesa di Yentimiglia . in MS. del secolo x, esistente in Genova nella Biblioteca Municipale......* 135 Id. — Importante frammento di Polibio, consonatoci in lezione alterata da Suida. corretto e mostrato relativo a Genova. ed illustrato ............» 4fi9 Correzioni, ed Aggiunte riguardanti la Cartografia Ligustica.........» 4iH Indice delle materie contenute nel volume tv degli Atti...........» 497 - JJJJU------------