I II I ft I 1 ! ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE o, STORIA PATRIA VOLUME XXV — Fascicolo IL GENOVA TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDCCCXCIV ► ' .7f. - V.. :>#•.-v,_\ . IL BARRO DI PAOLO FOGLIETTA / COMMEDIA DEL SECOLO XVI PUBBLICATA CON NOTE ED ILLUSTRAZIONI per M. ROSI Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXV fase. 2.“ PREFAZIONE commedia a Genova non sembra anteriore al secolo XVI. Però qui, come altrove, anche prima di questo tempo non dovettero mancare dei poveri diavoli, che cercavano di divertire la gente coi loro lazzi, presentandosi al pubblico accompagnati da suonatori, che forse piacevano al popolino, ma che certamente dovevano assai stordire gli altri. Il benemerito commendatore L. T. Belgrano già da parecchi anni pubblicò alcuni cenni sulla commedia del Cinquecento nel giornale il Caffaro (i), dicendone tutto quello che poteva dirsi in un giornale politico. (0 Gìorn. il Caffaro, 26-31 ottobre 1882; 2-3 gennaio 1883. — 220 — Egli parla dei mimi e dei cantastorie, e, quanto ai primi, cita un decreto governativo del 12 gennaio 1474 ( 1), con cui si proibisce il mimare, 0 di accogliere mimi sotto pena di multa fino a cinquanta ducati ; e quanto ai secondi, riporta in parte un decreto simile del 13 gennaio 1512, con cui si proibiscono i canti, che essi nei giorni feriali erano soliti di fare persino in Banchi, non contenti di corrompere la gente credula nei di festivi con inganni e favole (2). La storia dei mimi e dei cantastorie a Genova, invero non facile per la scarsità dei documenti, potrebbe agevolare la storia della commedia, che dapprima anche qui tu la improvvisata o dell’arte, e che in origine qui pure, come altrove, tu rappresentata da istrioni volgari « mezzo commedianti e mezzo saltimbanchi » (3), i quali talvolta formarono fra loro delle vere società per esercitare 1’ arte propria. Riguardo a questo il Belgrano trova che il i.° febbraio 1567 Guglielmo Perillo da Napoli, Angelo Michele da Bologna e Marcantonio da Venezia, coi rogiti di Gian Francesco Mannello contrassero (4) societatem in simul recitandi comedias, promettendo ciascuno di adoperarsi con impegno in ogni occorrenza sonandi, cantandi, balandi e simili. La società doveva durare per un anno, dal principio della quaresima alla fine del carnevale, e (1) Giom. il Caffaro, 26 dicembre 18S2. (2) Giom. cit. num. dr. ■}) A. Bartou, Sanari inediti della commedia deli arte. Firenze 1SS0. Introduzione p. x. (4) Giorn. il Caffaro, 27 dicembre 1882. — 221 — i tre soci potevano anche recarsi a recitare in altre città e unirsi altri comici in caso di bisogno. Qual pubblico allora assistesse agli spettacoli comici, direttamente non si conosce dai documenti genovesi ; peraltro, sapendo che cosa soleva in quei tempi accadere altrove, non saremo reputati arditi se riterremo che il popolino in particolare se ne dilettasse, e che, dovendosi rappresentare commedie in osterie ed in simili luoghi, vi accorresse un pubblico non molto diverso da quello che soleva circondare i mimi e i cantori di piazza. Quindi potrebbe riuscire del tutto vana la ricerca di pubbliche rappresentazioni fatte in Genova dinanzi a persone d’un certo gusto raffinato, che chiedessero alla commedia qualcosa di veramente artistico e geniale. Ogni tanto, é vero, si formavano delle buone compagnie, e qualcuna di esse capitava anche in Liguria; ma era ben difficile che, chi non potesse spendere assai, fosse ammesso a spettacoli di simili artisti, che si presentavano in teatri quasi privati ed in palazzi signorili. Per esempio, i Gelosi, che si raccolsero in società a Firenze (i), il 3 luglio 1579 ottennero dalla Repubblica di Genova il permesso di esercitare per due mesi la propria arte in questa città, rappresentando però comedias minime obscoenas et quae castas adolescentium mentes non inquinent. Le condizioni imposte non erano certamente gravi per i Gelosi, che tenevano molto ai severi principi morali, e può ben credersi, che, per questo e per i meriti (1 ) Intorno ali’ accoglienze che questa ed altre compagnie solevano ricevere in Italia e specialmente a Ferrara, vei. A. Solerti, Ferrara e la corte estense; Città di Castello 1891, cap. V, p. u. — 222 — artistici incontrassero il favore dei primari cittadini, i quali, almeno nelle leggi, mostravano grande affetto alla virtù. Certo piacquero 'al principe Giovanni Andrea D’Oria, che il 9 agosto di quest’ anno l’invitò a recitare una commedia nella sua casa dinanzi a gran numero di invitati (1); e senza dubbio gli artisti non ebbero a lamentarsi di Genova, perché più tardi vi tornarono due volte. Ve li troviamo infatti nel 1584, prima che si recassero nella vicina Savona, e di nuovo nel 1596, nel quale anno dovettero restarvi assai, perchè il 20 maggio ebbero dal Senato la concessione per un tempo non maggiore di quattro mesi, e il 14 luglio vi erano ancora e rappresentavano una commedia nella villa D’Oria a Pegli, in occasione d’ una festa data per la nascita d’ un bambino (2). Ed altri comici capitano pure a Genova in questi tempi: si hanno nel 1581 gli Uniti rivali dei Gelosi (3), e forse i Desiosi durante l’anno 1586 (4). Questi vi tornarono poi nel 1597 guidati da Flaminio Scala napoletano, precedendo di poco gli 4ccesi, che il 18 agosto di quest’ anno ottennero di rimanervi per tre mesi (5), e che alla loro volta furon seguiti due anni appresso dagli Uniti, ai quali il 31 giugno 1599 la Repubblica concedette il permesso di restarci per due mesi (6). Da tutto. questo succedersi di buoni artisti forestieri in Genova, non sembra errato il dedurre, che gli spet- (1) Belgrano, Giorn. il Caffaro, 27 dicembre 1882. (2) Belgrano, Giorn. cit. 28 dicembre 1882. (3) Belgrano, Giorn. cit. 29 dicembre 1882. (4) Belgrano, Giorn. cit. 29 dicembre 1882. (5) Belgrano, Giorn. cit. 30 dicembre 1882. (6) Belgrano, Giorn. cit. 30 dicembre 1882. — 223 — tacoli comici piacessero assai in questa città, come del resto é confermato anche da altri fatti. Nel 1575 i giovani patrizi Girolamo Spinola, Giovanni Giorgio De Marini, Pier Vincenzo Negrone, Orazio Grimaldi, Paolo D’Oria e Francesco Pallavicino, si facevano costruire dal legnaiuolo cc Giuseppe Furiano qm. Frediano da Luca uno apparato de siena (scena) e palco, con inventioni e lumi fondi, e voltature di siena per farla ritornare in essere » (1). Il 1587 gli accademici Addormentati, nei loro statuti, dichiarano onesta cosa, « che, secondo i tempi, 1 Accademia si eserciti, però appresso carnevale, secondochè parrà al principe et agli accademici ; et instituisca qualche giuoco, o festa, o comedia con li debiti ordini, et a spese pubbliche » (2). E nel 1586 sul finire del carnevale, il doge Ambrogio Di Negro ad instanza del figlio, aveva ordinata una commedia in Palazzo; ma non essendosi potuta fare, « per qualche impedimento di chi dovea intervenire in recitare detta commedia, la rimise alla prima domenica di quaresima, giorno invero solito ancora alle giostre, tornei, mascherate ed altre novità, che in Genova si chiama carnevale il vecchio » (3). Era, a quel che sembra, una commedia disgraziata, perchè, scoppiati attriti fra il doge (1) Fogl. del not. Negrone, io gennaio 1575, in Belgrano, Giorn. cit. 30 dicembre 1882. (2) Leggi et ordini degl’Adormentati, academia instituita in Genova il giorno di S. Tomaso d’Aquino nel 1587. Cap. X, Del Carnovale. Il manoscritto di questi ordini, che fu presentato per approvazione ottenuta dal doge e dai governatori di Genova il 14 ottobre dello stesso anno, si conserva nel R. Archivio di Stato, Politicorum, mazzo 4. (3) A. Roccatagliata, Annali della Repubblica di Genova, Genova, Canepa 1879, p. 73, sotto l’anno 1586. — 224 — c i senatori, non potè rappresentarsi neppure in quel giorno. Comunque, commedie in Genova e da artisti di professione, o da dilettanti se ne rappresentarono senza dubbio; e non é strano davvero il credere che fra le tante conservateci da Flaminio Scala, nel Teatro delle favole rappresentative (i), ve ne sieno parecchie note al buon pubblico genovese, tanto più che per alcune di esse l’azione é posta in questa città. Vedasi, ad esempio, la Fortunata Isabella, che lo Scala dichiara così (2): « Fu già in Genova un giovane ben nato e di buona fortuna, nomato Cinthio, il quale, rimanendo senza padre, e senza madre, una sola sorella li rimase di molta bellezza, e d’ honorati costumi dotata. Avvenne, che il fratello (che altro desiderio non haveva che di bene accompagnarla) fece amicitia con un certo capitano, il quale altro desiderio non haveva che d’ha ver per moglie la detta sorella ; accortosi di ciò il fratello, n’ hebbe stretto ragionamento con la sorella, la quale mostrò parimente d’haver 1’ animo conforme a quello del capitano. Così contratto tra di loro matrimonio di fede e di parola, occorse, che al detto capitano bisognò per alcuni negotii importantissimi infino a Napoli trasferirsi, promettendo prima di far ritorno in brevissimo tempo, e di sposare Isabella, che così no-mavasi la giovane. Ma dimorato in Napoli il tempo di (1) 11 titolo preciso è questo: Il Teatro delle favole rappresentative, overo la ricreatione comica, boscareccia e tragica, divisa in cinquanta giornate, composte da Flaminio Scala, detto Flavio, comico del Serenissimo sig. Duca di Mantova. In Venetia, appresso Gio: Battista Pulciani MDCXI. (2) Giornata III, p. io. — 22J — tre anni, e non ricordandosi più della promessa fatta, fu cagione che il fratello pigliasse risoluzione di maritare di nuovo e con miglior fortuna la sorella, la quale, intendendo ciò ch’egli far voleva, liberamente gli lasciò intendere che non più marito voleva. Laonde, essendo di continuo dal fratello stimolata, fece pensiero dalla patria partirsi, et in habito di serva, con un suo mezzo a Roma trasferirsi, là dove inteso haveva ritrovarsi il capitano, che di nuovo nuova moglie prender voleva. E così facendo, a Roma si condusse solo per rinfacciar la mancata fede al detto capitano, il qual trovato, sfoga seco l’animo suo, e poi per diversi accidenti divien moglie d'altra persona con sodisfattione dell’ istesso fratello ». Anche la commedia « Il Pellegrino fido amante » si svolge tutta in Genova (i). Ecco in compendio 1’ argomento di essa. Isabella, figlia d’ un dottore di Milano, per fuggire le nozze con Flavio dal padre propostole, viene a Genova in veste maschile, e si mette per servitore con un certo signore Oratio. Fabio, conosciuta la fuga dell’ amata, « a seguitarla in habito di pellegrino si diede, il quale, gionto doppo molt’anni in Genova, acciò che meglio della giovane potesse haver notitia, chiedendo elemosina, per l’anima di detta Isabella la domandava : il quale un giorno in essa incontrandosi, e riconosciuti, vedend’ella di fedeltà e costanza Flavio esser verace essempio, di cangiar pensiero propose, nel cui tempo, arrivato in Genova anco il dottore, dopo molti tragici av-veninenti vidde la figlia Isabella di Flavio esser consorte ». (i) Flaminio Scala, Op. cit. Giorn, XIIII, p. 41. — 226 — In un’ altra commedia dello Scala ha gran parte Orazio gentiluomo genovese. S’intitola la Pania cTIsabella, e si svolge per gran parte in Genova. Riassumiamone dallo Scala l’argomento (i). Orazio, fatto schiavo dai Turchi e condotto ad Algeri, « fu venduto ad un grandissimo capitano, il quale haveva per moglie una turca del Serraglio, giovane, gratiosa e bella, che s’innamorò dello schiavo. Fuggì con esso, uccise il marito che 1’ inseguiva, a Maiorca si fece cristiana, ed essa ed Orazio sposatisi, andarono di là a non molto tempo a Genova, dove felicemente vivendo, intervennero alla misera turca (che Isabella di nuovo nomavasi) molti infortunii, per li quali ella divenne furiosa e fuori di senno; e risanata poi, 1’ amato marito lungo tempo hebbe e godettesi ». Trovare commedie d’argomento genovese, non è certo gran cosa, parlandosi d’una città molto importante e dovunque conosciuta, tanto che gli avvenimenti che si supponevano in essa accaduti, potevano interessare il pubblico di qualunque paese. Noi peraltro le abbiamo citate, ritenendo non difficile che gli artisti o i dilettanti che recitavano in Genova le preferissero. Ci è poi sembrato che ne possan dare un’ idea di quella commedia dell’ arte, eh’ era coltivata al tempo di Paolo Foglietta, e che il Bartoli dichiarò « essenzialmente commedia d’intreccio, e sempre d’intreccio amoroso », la quale si serve di mezzi che « sono generalmente poveri e volgari » (2). 11 che peraltro non impediva di dilettare il pubblico delle varie città con maschere, sia pure deri- (1) Op. cit. Giorn. XXXVIII. (2) Bartoli A., Op. cit. Introd. x. — 227 — vate dalle classiche dei mimi e delle atellane, ma adattate all’indole degli abitanti delle varie parti d’Italia (i). È bene ancora aggiungere, che in molte di queste commedie l’interesse del pubblico doveva esser tenuto desto dalle disgrazie strane e commoventi che toccavano ai personaggi, e specie ai più importanti, che innamorati cotti, tiravano innanzi lungo tempo lottando coraggiosamente contro uomini e cose. Queste commedie assai spesso presentano cristiani rapiti da corsari, divisi così da parenti e da amici, venduti in lontani paesi, poi dòpo una serie d’accidenti, più o meno complicati e curiosi, resi alla patria, riconosciuti e riuniti ai loro cari. I cristiani caduti in mano dei corsari bene spesso sono giovani innamorati, che vengono venduti in diverse città, e dopo anni di stenti, conservato puro il loro amore, si riuniscono. Talora uno solo degli amanti, per lo più lo sposo, cade in mano dei pirati, è condotto in estranee regioni, di padrone diventa schiavo, trova spesso amore e conforti, ma fedele si mantiene al primo amore, e tornato in patria come servo di cristiani, ritrova 1’ amata che lo aspetta, riacquista la libertà e la sposa, vivendo poi con quest’ ultima vita lieta e felice. Altre volte s’innamorano fortemente servi con padrone, serve con padroni, ed amore che dipingere si voleva cieco, appare qui di vista molto acuta: la serva o il servo però non sono nati in tal condizione, generalmente sono così divenuti perchè rapiti da corsari, ed hanno (i) Cfr. De Amicis. L’imitazione classica nella Commedia Italiana del XVI secolo; negli Ann. della R. Scuola Normale Sup. di Pisa, voi. II, p. 27. invece nelle vene sangue libero, anzi bene spesso nobile; quindi amore al giovane libero spinto verso la schiava, fa vedere in questa nobili sentimenti, fattezze gentili, illustre prosapia; alla fanciulla libera, attratta verso giovane schiavo, fa sentire 1’ eccellenza di questo, le doti fisiche e morali ben superiori alla sua condizione, e la convince che solo la ria sorte l’ha relegato in condi-zione servile, mentre ben degno sarebbe di ascriversi fra i nobilissimi. Coni è naturale i genitori si oppongono a simili matrimoni; i padri molto spesso ne fanno una quistione di denaro, e non vogliono permettere che il proprio figlio a donna povera si unisca, o che la loro ragazza, ricca e allevata in mezzo agli agi, venga condotta in moglie da giovane senza sostanze, e appunto per questo privo anche di qualunque dote egregia d’ animo e di cuore. Le mamme si oppongono pure per la disparità delle condizioni economiche, ma sopratutto si lagnano che un loro figlio nobilmente allevato, coll’animo, dicono esse, ricco di qualità eccellenti, e col cuore inspirato a grandi pensieri, debba unirsi a vii feminuccia, ignara degli usi della buona società, meritevole d’ogni disprezzo: e tutto ciò, ben si capisce, soltanto perchè la poveretta è schiava. E per somiglianti ragioni proibiscono alla figlia nobile o ricca, giacché anche se nobile non è il lignaggio, la ricchezza sempre il nobilita, tanto che tutte le ricche anche nobili si ritengono, proibiscono, ripetiamo, di sposare uno schiavo, dicendo che 1’ animo servile di esso renderebbe infelice una fanciulla ammodo, e che uno schiavo non può provare altro che sentimenti bassi e codardi. — 229 — Ma da un momento all’ altro le opinioni dei genitori cambiano. Strane circostanze fanno vedere che gli schiavi tanto spregiati son nati liberi, e, quel che più conta, i loro parenti ritrovati li lasceranno eredi di buoni patrimoni. Allora, manco a dirlo, cessano d’essere spregie-voli, le doti più belle adornano 1’ animo loro, e di nozze principesche sono degnissimi. Ciò che ai giovani solo 1 amore faceva sentire, lo dimostra ai vecchi la scoperta della ricchezza. Com’ é naturale, dopo questa scoperta, si ricordano di qualche particolare precedentemente trascurato, segno che lo schiavo o la schiava dovevano essere di altra condizione, si dolgono di non-averci prima di allora posta mente, ne piangono e domandano scusa. Tutto si perdona, nelle commedie almeno, ed i giovani felici come non potrebbero perdonare anche questo ai vecchi ora tanto teneri verso di loro? Perdonano quindi essi pure, forse riflettendo in cuor loro, che non é poi grave colpa, o meglio non era in quei tempi, se ad altri non si riconosce nobiltà d’ animo e gentilezza di costumi, quando non si ha 1’ avvertenza di mettere tutto in mostra con un pochettino d’ oro che abbagli la vista e commuova il cuore. Tali argomenti piacevano quando Paolo Foglietta scrisse la sua commedia il Barro, in una città ormai abituata ad essi, e che da giovani gentiluomini e da veri e propri artisti comici era con frequenti spettacoli rallegrata. Il manoscritto, che ci permette di conoscere 1’ arte comica del Foglietta, fin qui noto quasi esclusivamente come autore di belle poesie in dialetto, appartiene alla Biblioteca del marchese Pinelli-Gentile, è del secolo XVI, — 230 — e torma un volumetto cartaceo, assai bene conservato, di 240 fogli in tutto. I primi sette non sono numerati, due al principio e uno in fine restano bianchi, e quattro contengono « una lettera del molto reverendo Crescentio Bartoli in lode della comedia », un sonetto del « sig. don Angelo Grillo in lode de I’ autore » e la nota dei personaggi. La numerazione degli altri giunge sino al 226, ma non è regolare. I primi 48 fogli sono in ordine, i quattro seguenti non sono numerati, ed il successivo porta il numero 50, dopo il quale vengono bene il 51, 52, 53; ma al posto del 53 retro trovasi il 54. Si continua poi regolarmente sino al numero 87, che è ripetuto ; s’ incontra poi al posto del 137 retro il 138 in una pagina non scritta, si trova appresso il 197 ripetuto, quindi, dopo il 198, si hanno due fogli non numerati, e di seguito il 199 ed i rimanenti in perfetta regola. Il trovare la numerazione un po’ disordinata ed il retro di un solo foglio in bianco, si spiega specialmente osservando la natura dei fogli che compongono il volume. Questo è stato certamente formato in due volte, col sostituire dei fogli ad altri che vennero tolti per cause che vedremo. La parte numerata doveva essere di soli 226, e tale si sarebbe conservata, se ad ogni foglio tolto si fosse potuto sempre sostituirne un altro, ed un altro solo, che avrebbe così preso il numero del vecchio ; ma invece qualche volta se ne posero di più, ed allora si lasciarono senza numero, o si ripetè il numero altre volte, o se ne sostituirono meno e si volle compensare la mancanza col dare ad uno stesso foglio due numeri, com’é avvenuto per il retro del 137, numerato con 138. I fogli sostituiti sono della stessa - 231 — grandezza degli altri, ma hanno caratteri più grossi, righe più corte ed in minor quantità, contenendone ogni facciata dei fogli antichi da sedici a diciasette, ed avendone ognuna dei nuovi solo da dieci ad undici. E qui é tempo di osservare che il volume è scritto da due mani diverse. Una scrisse i fogli originali con un carattere più piccolo e più gentile, tenendo molto conto dello spazio; 1’ altra gli aggiunti con carattere più grosso, un po’ calcato, e, fatte poche eccezioni, con righe più rare e più corte. La mano stessa recò qua e là in tutto il volume cancellature e correzioni. Perché tutto questo? I fogli aggiunti sono scritti dallo stesso Paolo Foglietta, come abbiam potuto verificare confrontandoli colla supplica autografa che, il 24 settembre 1590, il poeta rivolgeva al Senato perchè l’aiutasse a pubblicare in Firenze le Storie di suo fratello Oberto, che già aveva fatte tradurre in italiano (1). Quanto agli altri fogli scritti con caratteri più delicati e gentili, e certo anteriormente, come si rileva dalla formazione del volume, ed anche dall’ apparire essi fogli più frusti, siamo stati lungamente in dubbio, se dovessimo attribuirli allo stesso Foglietta più giovane. Confrontati però con maggiore cura, osservata la forma assai diversa di alcune lettere, e specialmente della t, della ^ scempia e doppia, della q, e sopratutto la delicatezza tanto maggiore nei fogli più antichi, ci siamo indotti a ritenerli di mano diversa (2). (1) Si conserva fra le carte del Senato, nel R. Archivio di Stato in Genova, filza n. 317. (2) Altra ragione è questa. Il volume comincia con due fogli lasciati in bianco, legati da soli, che dovevano servire come di copertina; segue un fascicoletto di — 232 — Anche il chiarissimo Belgrano fin dal 1883 avvertiva che la commedia era scritta da due mani (1), ed ora da noi interpellato approvava 1’ opinione che il Foglietta scrivesse di propria mano solo i fogli aggiunti. Comunque, anche se si ammettesse che lo stesso autore scrivesse gli uni e gli altri, la spiegazione di queste d^ue versioni sarebbe sempre questa. Il Foglietta composta la commedia, fatta rappresentare, e fatta leggere ad alcuni, convenne che certe scene fossero troppo lunghe, certe espressioni non buone, e quindi si rimetteva al lavoro, correggendo i fogli originali quando trattavasi di leggieri mutamenti, tagliando addirittura fogli e ponendone altri quando vi erano mutamenti gravi. Via via indicheremo in apposite note le correzioni fatte dallo stesso autore ne’ passi originali, in caratteri perfettamente uguali a quelli usati negli aggiunti; e quanto a questi poi osserveremo che sono trentadue in tutto sostituiti in quattordici punti diversi, e che portano i fogli della commedia a 233, con un aumento di sette sopra il numero originale 226. Tuttavia la commedia ne risultò raccorciata : ogni foglio aggiunto, già 1’ abbiamo detto, contiene righe più corte, in minore quantità e con caratteri più grossi, tantoché in media si può dire che si quattro fogli aggiunto in seguito, come si vede dalla cucitura, e che contiene una lettera di C. Bartoli e un sonetto di A. Grillo, scritti dalla stessa mano che scrisse i fogli originali. Ora il Bartoli parla della commedia raccorciata, e noi vedremo che il Foglietta aggiungendo fogli e correzioni la raccorciava; per cui se autografi fossero gli uni e gli altri fogli, avrebbe dovuto nello stesso tempo usare due diversi caratteri, quello dei fogli aggiunti, e quello della lettera e del sonetto, che è poi il medesimo carattere usato nei fogli originali. Riteniamo quindi che il Foglietta affidasse ad altri la prima scrittura della commedia. (1) Giorn. il Caffaro, 2 gennaio 1883. — 233 — riduca a meta la materia di essi: il raccorciamento poi diventa maggiore anche per le cancellature di parecchie parole, e talora di righe intere nei fogli aggiunti e negli originali, come il lettore potrà facilmente vedere da sé con opportuni confronti che potrà fare seguendo quelle note, nelle quali verremo via via indicando tutte le cancellature e le correzioni. Del resto che in tutto l’insieme s arrivasse proprio ad un reale raccorciamento, lo provano anche queste parole, che scrisse Crescenzio Bartoli nella lettera « in lode della comedia » : « . . . . havendo hora in queste poche vacanze degli studii più gravi, con infinito mio gusto (che non mi satio mai di leggere e rileggere i felicissimi parti, nati del grande ingegno del sig. Paolo Foglietta) scorso con bramose voglie la comedia più raccorciata ». Il raccorciamento dunque non può mettersi in dubbio, e certo avvenne non prima del 1583, come si vede dalla scena settima dell’ atto secondo, dove in uno dei fogli aggiunti, e precisamente nel settantesimo, si parla delle poesie dialettali di Paolo Foglietta, stampate la prima volta a Pavia nel 1583, come di un libro che correva facilmente per le mani di tutti (1). Invece è difficile stabilire quando fu composta. L’illustre Belgrano riferendosi al passo del secondo atto, scena settima sopracitato, ritiene che non possa essere stata scritta prima del 1583 (2), ma osservando che il passo trovasi in un foglio aggiunto, ci pare che esso possa servire a determinare con sicurezza (1) In questo passo Despina dice: « nè io ho mai vietato a Ginevra le cose del Foglietta » ecc. (2) Giorn. il Caffaro, 2 geunaio .1883. Atti. Soc. I-ig. St. Patria. Voi. XXV, fase. 2.° — 234 — soltanto l’età del raccorciamento. Peraltro è probabile che trattandosi d’ un lavoro, che doveva star molto a cuore del Foglietta, egli si mettesse a correggerlo non molto dopo averlo scritto, ed allora non solo resta valore all’opinione che sull’età della commedia manifestò il Belgrano, ma ne rimane altresì al sospetto, pure espresso dallo stesso, che cioè questa commedia destinata ad un carnevale (i), fosse proprio quella della quale fa cenno il Roccatagliata (2), e che si doveva recitare nel Palazzo pubblico sullo scorcio del carnevale del 1586 (3). E se questo ammettiamo, ci riesce più facile capire le lodi che vengono fatte al doge nella scena terza, atto terzo. « Hora (dice Orsolina) è duce di questa terra huomo sì savio e sì giusto,.....che tiene le bilancie uguali come si conviene » ; lodi fors’ anche dovute ad altri motivi, ma che certo appaiono per lo meno più opportune ammettendo che la commedia dovesse recitarsi dinanzi al doge. Ma senza dubbio non può essere scritta dopo il 1589, perchè in quest’ anno pubblicavasi a Bergamo fra le rime di Don Angelo Grillo un sonetto, in cui questi loda il Foglietta come autore d’ una commedia, eh’ è manifestamente quella di cui noi parliamo (4). (1) Nell’atto III, scena VI, il servo Marchetto dice: «Voglio che ci godiamo questo carnevale, eh’è tempo da godere, e non da penitenza ». E Agnese risponde: « Oh carnevale è quasi fornito ». (2) Negli Annali della Repubblica di Genova (Genova 1873 , p. 73) sotto l’anno 1586, parla di una commedia, che dovevasi rappresentare nel Palazzo dinanzi al doge. Ved. pag. 223 di questo lavoro. (3) Giorn. il Caffaro, 2 gennaio 1883. (4) Parte prima delle Rime del sig. don Angelo Grillo nuovamente date in luce. Bergamo 1589. Il sonetto è stampato a f. 68, fra le rime morali, col nu- — 235 — Peraltro l’azione che tutta quanta svolgesi a Genova, non può rimandarsi oltre il 1560. E ciò, bene osserva il Belgrano, perché « nella scena ottava dell’atto secondo si parla di Andrea D’Oria, morto il 2 novembre di quel-l’anno, come di persona tuttora tra i vivi; anzi lo si afferma ancor vegeto e gagliardo, allegando, che « se bene Genova non ha più galee, Andrea D’Oria suo figliuolo fa sicuro il nostro mare » (1). A quest’azione piuttosto intrigata prendono parte quattordici personaggi, otto uomini e sei donne. Eccone i nomi: Demetrio vecchio, Marchetto suo servitore, Afranio suo figlio, Alfonso servo di questo, Sicurano d’Arassi, già stato al servizio di Demetrio, Andreolo suo servitore, il Podestà ignoto padre di Alfonso, ed il Barro che esercita l’arte d’ingannare con maestria veramente rara. Vi sono poi : Despina moglie di Demetrio, Agnese sua serva, Ginevra sua figlia, Isabella gentildonna sua amica, Orsolina vecchia serva di monache, e Pandora moglie del Barro. Non sarà inopportuno esporre qui subito, per sommi capi, la favola della commedia. Afranio, figlio del ricco negoziante messer Demetrio, mero CXLVIII; e nella « tavola delle morali » premessavi, fra le annotazioni di Giulio Guastavini si legge: « Il seguente sonetto dettò l’Autore in lode del sig. Paolo Foglietta, e delle rime sue, ch’era in procinto per dare alla stampa, commendandolo non solo dell'artificio del poetare, ma dello scriver prose: come si potrà raccoglier dalla sua comtnedia, bella di stile, bellissima d’inventione e di sentenza, come sono tutte 1’opre di questo raro intelletto, degno fratello di quel lume d’eloquenza, il grande historico Oberto Foglietta ; le cui lodi tocca parimenti il nostro poeta nel presente sonetto ». Ved. il sonetto più avanti, premesso alla commedia. (i) Giorn. il Caffaro, 2 gennaio 1883. s’innamorava di Violantella fanciulla comprata in Sardegna ed allevata in casa del padre. Questi manda il figlio a Napoli, ma l’amore cresce colla distanza, e il giovane se ne ritorna a Genova più innamorato di prima. Demetrio, or sostenuto or avversato dalla moglie Despina, cerca di dare in moglie ad Afranio la ricca figlia di messer Urbano, mette in un monastero Violantella, finché non possa andare sposa a Sicurano d’Arassi, già antico amministratore de’ suoi beni, e procura d’indurre la propria figlia Ginevra, innamorata del servo Alfonso che Afranio aveva condotto da Napoli dopo averlo fatto libero, a sposare il figlio di Urbano, e frattanto fa licenziare il servo. 1 giovani si ribellano alla paterna volontà: Ginevra dice di volersi piuttosto far monaca, ed Afranio, d accordo col Barro e con Pandora moglie di questo, si propone di rapire Violantella, facendo cambiare il Barro in Andreolo mandato da Sicurano a prendere la sposa, ed inviando poi allo sposo in luogo di Violantella, Porzia figlia del Barro. Ma intanto, per distornare 1’ attenzione del padre, si dice alieno dal matrimonio ed inclinato alla carriera ecclesiastica. La Badessa, avendo consigliato Demetrio a far accompagnare Violantella al marito da una donna attempata, viene scelta Orsolina, già donna allegra, ora serva di monache e capace di rendere molti e svariati servigi, la quale può mandare a monte ogni cosa conoscendo bene tutte le persone con cui deve trattare. Ad imbrogliare di più la matassa giunge improvvisamente Sicurano; Demetrio manda Orsolina al monastero per avvertire che Violantella non sarà più condotta al marito la sera, ma che il marito stesso 1’ andrà — 237 — a prendere il giorno appresso. Afranio, vedendosi perduto, per mezzo del Barro e di una buona somma di denaro, fa promettere ad Orsolina di non far 1’ imbasciata e di condurre invece Violantella a lui. La vecchia però inganna il padre ed il figlio: prende i denari, ma induce Ginevra a recarsi al monastero per fuggire poi in luogo di Violantella. Giunge la sera: Demetrio , saputo che sua figlia è fuggita al convento , si reca col Podestà e coi birri per riprenderla ; incontra Orsolina, il Barro ed Alfonso con Ginevra ben coperta-, da essi creduta Violantella; la vecchia riesce a fuggire, i due uomini sono arrestati, Demetrio scopre la figlia e minaccia contro tutti atroce vendetta. Ma il Podestà riconosce in Alfonso suo figlio Amadeo, bambino rapitogli dai corsari, e calma 1’ animo irritato del vecchio facendo balenare possibile un matrimonio onorevole. Si scopre ancora che Violantella é sorella di Alfonso, al pari del fratello rapita dai corsari; ed allora non resta che un duplice matrimonio, preceduto ben inteso da un generale perdono a favore di tutti quelli che avevano preso parte a questi intrighi. Tale in succinto l’intreccio di questa commedia, il cui merito principale sta, anche riguardo all’ invenzione, negli episodi secondari, nei sentimenti espressi dai vari personaggi compresi il servo Marchetto e la serva Agnese, quantunque questi due personaggi assai poco influiscano sullo svolgimento dell’azione; e cresce altresì, per allusioni più o meno chiare a costumi e ad avvenimenti del tempo. Non vogliamo parlare anticipatamente di tutto questo, per non comunicare al lettore nessun preconcetto, bramando che egli da se stesso conosca la bellezza di tali — 238 — particolari leggendoli via via nel testo. Nondimeno, riteniamo utile premettere alcune considerazioni sull’indole di questa commedia, e sul carattere dei principali personaggi, mantenendo però quella brevità che è richiesta dall’ufficio precipuo d’una modesta prefazione. Certo il Foglietta non riproduce il tipo più comune della commedia dell’arte, non porta sulla scena le maschere che questa prediligeva, e neppure, collo scrivere una commedia erudita, segue prettamente la scuola classica. Non temiamo di esagerare affermando eh’ egli dava alla sua opera un’impronta di originalità, sia pure alquanto relativa, davver non comune in quel secolo; e vi riusciva tendendo a rappresentare al vivo i costumi della sua Genova, le condizioni morali del tempo in cui viveva. Noi non intendiamo di ricercare in questo luogo, come e quanto si discosti il Foglietta dalla commedia dell’ arte e dall' imitazione classica, ci basta solo 1’ aver indicato che questo distacco esiste, lasciando che il lettore colto se ne faccia un’ idea da se stesso, e che altri, esaminata la commedia, ne ricerchi ex professo il valore letterario. Noi, pure lusingandoci di far cosa gradita anche ai letterati di professione, pubblicando questo pregevole scritto del Foglietta, ci contentiamo di studiarlo come « specchio dell’umana vita ». Vediamo nel Barro una vivace pittura dei tempi, una satira di persone e costumi fatta in modo inarrivabile. Vecchi avari che trattano il matrimonio come un affare qualsiasi destinato a riempire lo scrigno, serve pettegole e impudiche, intriganti senza pudore che passano dal bene al male con una disinvoltura desolante. — 239 — La figura del vecchio Demetrio é una delle più belle e diremmo quasi vive. È arricchito col commercio, e soprattutto col cambio, i denari sono la sua passione vera, al di fuori di essi egli nulla vede, nulla capisce ; la moglie Despina merita i suoi rimproveri, ed egli davvero non glieli risparmia, soprattutto perché coi suoi vestiti, colle spese pazze costa troppo, perché eccessive spese si fanno in famiglia rimanendo la casa alle cure delle persone di servizio, che non possono avere a cuore gl’interessi dei padroni. Se non ci fosse di mezzo il denaro quasi quasi le perdonerebbe la lingua lunghissima, la manìa di comandare, il vagare quasi continuo per le chiese e per le strade con poco profitto per 1’ onore del marito; anzi in queste cose poco regolari Demetrio non vede altro che la perdita materiale del denaro speso in vesti ed ornamenti, o sprecato pazzamente in casa per mancanza d’ assidue cure d’ una donna savia e prudente. Che tutto ciò debba poco giovare al buon nome della moglie e di se stesso, il vecchio non lo sospetta neppure, egli non prova gelosia, soltanto è sicuro che i denari se ne vanno, e, quantunque sia ricchissimo, se ne duole amaramente. Esso é anche religioso, non approva, è vero, la moglie che ogni mattina se ne va in chiesa, ma i giorni festivi non lascia mai la messa, crede a tutte le dottrine della Chiesa, rispetta i sacerdoti, stima le monache, anzi ha in esse la massima fiducia, e si mostra inclinato a perdonar loro qualche mancanza, se per caso la commettono, perchè, come gli fa osservare la moglie Despina, molte di esse vengono cacciate a torza nei monasteri , e non han quindi tutta la colpa se non possono — 240 — rinunziare al mondo. Però la sua religione non deve impedirgli di fare quattrini in ogni modo, per lasciare ricchi ed onorati i figli, giacché, manco a dirlo, se non li lascierà con buoni quattrini, nessuno crederà mai ai loro meriti personali. È quindi pienamente sicuro di non far nessun male esercitando quel cambio, proibito anche dai Pontefici, è sicuro di non ingannare la propria coscienza, tirando, diciamo così, sempre l’acqua al suo mulino, senza vedere se l’acqua gli appartenga, e se sia giusto toglierla tutta ai mulini altrui. Del resto non lo fa per sé, lo fa per i figli, o meglio per il figlio maschio, giacché la femmina maritandosi lascierà la casa, prenderà un altro nome, ed egli vuole invece che la sua famiglia si regga con grandi ricchezze, sicuro che in tali condizioni tutti le riconosceranno onore, nobiltà e simili cose, che altri fanno derivare da fonti diverse. Di fatti nessuno può dargli torto : « per via della mercanzia, o cambi (dice egli al figlio), tu puoi acquistare marchesati, ducati e principati; come hanno fatto da pochi anni in qua molti poveri gentiluomini italiani e d’ ogni parte ». Quindi è necessario pensare ai quattrini, il resto vien da sé; pertanto bisogna che il figlio maschio non si contenti dei denari che avrà dal padre, ma se ne procuri da sé, e cominci subito collo sposare una ragazza ricca, senza lasciarsi vincere da altri pensieri che col matrimonio non devono entrare. Il matrimonio così inteso è la miglior cosa del mondo: con esso si provvede ottimamente alla propria immortalità, e si ha poi il vantaggio di assicurare a sé ed ai propri discendenti una vita lieta ed onorata. Altri, è vero, preferiscono il sacerdozio, « professione magnifica — 241 — ed onorata »; ma costoro non pensano come a quella fortuna, che da un tempo in qua perseguita l’Italia, é stata iniquissima in questo ancora, di haver tolto alla corte Romana in gran parte la facoltà di premiar chi la seguita ». E mancando questi premi, la natura dei quali è ben facile a capirsi, non vai davvero la pena di seguirla ancora. Il vecchio Demetrio non nega valore alla virtù, apprezza moltissimo i sentimenti più nobili, ma non può arrivare a comprendere il valore delle cose, se non vien messo in evidenza dalle ricchezze. Despina, la moglie ciarlona e leggiera del vecchio, non è più una giovinetta, ma pure tien sempre molto a parer tale; anzi, per rimediare ai difetti degli anni, ricorre all’ arte dei lisci, e fa arrabbiare il marito spendendo molto in vesti, che vuole sempre ricchissime e in numero tale da potersele cambiare spesso. Quando ebbe da far allevare la sua Ginevra, l’affidò ad Orsolina, donna di costumi un po’ equivoci, e poi la lasciò guidare dalle serve e dalla stessa Orsolina, che diventò 1’ amica di famiglia, la consigliera più ascoltata, e che, tanto per non far troppo soffrire il bell’Alfonso innamorato della fanciulla, rese possibili loro i più dolci ritrovi. Ma del resto Despina ha ben altro da fare. La figlia, le cure domestiche son pesi insopportabili per donna ricca; essa ha bisogno di adornarsi, di farsi bella con diligenze che divengono vieppiù grandi col passar degli anni, deve recarsi alla chiesa, dove qualcuno verrà a vagheggiarla, ha bisogno di gironzolare per la città, di far due ciarle colle amiche, di starsene dalla finestra e sulla porta a motteggiare, di frequentar le veglie, dove — 242 — non mancheranno dei piacevoli giuochi, e specialmente degli uomini cortesi, che susurreranno agli orecchi gentili parole d’amore. Essa è fedele al marito, almeno lo crede lei, essa é buona madre di famiglia, almeno se lo dice da sé, essa é ricca, e questo è proprio vero; quindi nessuno potrà criticarla del suo contegno, nessuno potrà impedirle di darsi bel tempo e di spendere. Il Barro e Pandora esercitano 1’ arte d’ ingannare : lo confessano francamente, e fanno anzi l’apologia del loro mestiere. Pandora, quand’ era giovane, mutò vari mariti, e prima di abbandonarne uno, si assicurava bene di averne tratto tutto quell’ utile che si poteva pelandolo accuratamente. Ora quei tempi son passati, ma ha una figlia giovanetta, che cerca stradare per la sua via, tanto perchè, seguendo gli insegnamenti della madre, ne sostenga i vecchi anni. 11 Barro conosce tutte le virtù della sua Pandora, che ritiene degna di sè, ha sempre vissuto ingannando dapertutto, naturalmente trasferendosi da paese a paese per evitare la forca : ora si trova a Genova, dove gli affari non vanno molto bene per la scaltrezza dei Genovesi, « che ingannerebbero la stessa barriera » ; sua cura è di riuscire nell’ ingannare Demetrio e Sicurano, per pigliarsi i denari promessigli da Afranio : poi partire a precipizio per isfuggire alle carezze dei birri. Sicurano di Arassi, destinato da Demetrio per marito di Violantella, é Ja figura forse più comica e pacifica della commedia. Demetrio, suo antico principale, gli propone il matrimonio, e lui l’accetta subito: si tratta d’una ragazza eh’ ei non conosce, troppo giovane per lui, amata da Afranio figlio di Demetrio, e che potrebbe diffìcilmente rassegnarsi a divenir sua moglie. Ma che — 243 — importa? Gliela propone il suo amico e benefattore, sa di fare un piacere a lui sposandola, e poi gli porterà qualche cosetta in dote, e quindi non v’ è ragione di ritirarsi. Però proprio i giorni del matrimonio gli affari lo chiamano altrove, ed allora manda il suo fattore a prender la sposa : trascurare gl’ interessi per un matrimonio non vai davvero la pena. Ma gli affari terminano presto ed allora si reca egli pure a Genova, dove si trova già il suo servo abilmente ingannato dal Barro e compagnia. Bello è il vedere il buon Sicurano venirsene per prender la moglie, cercar di scoprire il tiro birbone che gli han fatto, e poi rinunziare alla sposa che già credeva sua. È un bel tipo di credulone che facilmente si adatta a tutto, che però sente una speciale tendenza al denaro, e che quindi si duole un poco del matrimonio sfumato, perchè insieme con esso sfuma anche la dote-rella a cui già aveva fatta la bocca. Agnese, serva pettegola e impudica, Marchetto, servitore dalle mani più lunghe della lingua eh’ aveva lunghissima , non meritano note speciali. Sul genere di tutti i servi, beninteso di quei tempi soltanto, brontolano dei padroni, ne scoprono i difetti, lavorano il meno possibile, ed, imitando i principali che se la godono, cercano anch’ essi di darsi buon tempo più che possono. I loro dialoghi sono dei più vivaci e spontanei, vi abbondano i motti di spirito e, più che altrove, vi si trovano parole a doppio senso usate con rara maestria, quale era propria del Foglietta, e che il lettore noterà facilmente da se. Orsolina già donna allegra, nutrice di Ginevra, ora consigliera di essa e della famiglia, servente monache e disposta a fare un po’ di tutto pur di sbarcare il lu- nario in un’età, nella quale ha perdute tutte le attrattive della persona, è forse il tipo più volgare, e pur troppo uno dei più veri di tutta la commedia (i). Profondamente religiosa, almeno lo credono molti, non manca mai agli uffici sacri obbligatori per un cristiano: segue poi un gran numero di pratiche religiose, non punto necessarie, e si duole che gli anni inoltrati non le permettano di recarsi tanto spesso, come vorrebbe, a chiese un po’ lontane. Essa è proprio una santa, non farebbe male ad una mosca, anzi cerca di far del bene a tutti. Infatti Alfonso e Ginevra soffrono per amore, e la vecchia consola 1’ uno e 1’ altra favorendone i convegni; Afranio ha bisogno del suo aiuto per far fuggire Violantella, e lei ascolta, senza troppo scandalizzarsi, il Barro, che, per indurla a favorire la fuga, ne esplora i sentimenti proponendole nientemeno che un avvelenamento a vantaggio di una innamorata. Anzi la buona donna fa di più: accetta dicendo, che, siccome il fine a cui doveva condurre l’avvelenamento era buono, trattandosi del santo matrimonio, non vi poteva essere nessun male. Or non vi pare che s’avvicini un poco a Fra Timoteo della Mandragola, che, solo può dirsi più ributtante, perchè insignito di carattere sacro? Anche qui si sente un gran vuoto morale, più profondo assai di quello che già si prova coi tipi di Demetrio e di Despina, una fatale inconscienza del male, una mancanza di moralità che rattrista. La religione si riduce a semplici pratiche este- (i) Ci pare qualche cosa di peggio delle solite mezzane che figurano nella commedia italiana del Cinquecento, e la diremmo tolta proprio dalla vita reale, non imitata da altre commedie. Cfr. Top. cit. del De Amicis, p. 116. — 245 — riori, non si cercano da essa ammaestramenti per la vita, e, quel che più monta, quando si riconosce che la religione si opporrebbe a certe azioni disoneste, come vi si oppone la morale, si cerca di conciliare tutto con volgari sofismi. Assai simpatici invece appaiono altri personaggi. Afranio coltiva l’amore di Violantella con nobile disinteresse; Alfonso servitore nutre affetto e riconoscenza verso il padrone che lo riscattò dalla schiavitù, e quando, già essendo da amore attirato verso Ginevra sorella di questo, deve lasciar Genova, sente che i doveri che egli ha verso la fanciulla amata, sono in contrasto con quelli che lo obbligano verso il padrone, e sostiene entro l’animo suo una delle lotte più vive e lodevoli. Ginevra è mossa da puro affetto verso Alfonso, servo di suo fratello; e se, a lungo andare, non tutte corrette sono le sue azioni, non è difficile perdonarle pensando che cedeva ad una passione fortissima, ed era consigliata da persona che godeva tutta la sua fiducia. Altrettanto può ripetersi per i due giovani ; e cosi questi tre personaggi rialzano un poco l’animo oppresso dalla dubbia moralità di altri, e lo sollevano verso regioni più pure. Ora può domandarsi : nel tratteggiare il carattere di essi, il Foglietta seguiva senza altro 1’ e-sempio degli scrittori, che in genere rappresentano i giovani migliori dei vecchi, ed accoglieva le osservazioni fatte in ogni tempo che 1’ età giovanile è più d’ogni altra proclive al bene, oppure era mosso da altro ? Riteniamo che il nostro autore, pur risentendo alquanto l’influenza della commedia classica e del teatro contemporaneo, se ne sia però discostato tanto da poter riprodurre in modo preciso ed originale alcuni tratti della — 246 — vita genovese di allora; e quanto egli ci rappresenta intorno ai vizi di quell’ età, ci sembra conforme al vero e fondato soprattutto su osservazioni dovute a lui stesso. Riteniamo che lo stesso valore debba darsi anche al bene che mette in mostra, e ci sembra che particolarmente questo abbia voluto fare coi personaggi, diremo così simpatici, di Afranio, Alfonso e Ginevra. Ha voluto alludere al miglioramento dei costumi che lentamente si manifestava sul declinare del secolo XVI, miglioramento innegabile e che stava a cuore a tutti, in Genova non meno che altrove. Quindi la commedia, che siamo lieti di far conoscere al pubblico, ci lusinghiamo che piacerà non solo per i suoi rari pregi letterari, ma ancora per la dipintura dei costumi genovesi. Se il cortese studioso dopo aver letta attentamente la bella prosa dell’ illustre scrittore genovese, e data anche un’ occhiata alle modeste illustrazioni che devono mostrarne meglio il valore storico, potrà convenire che non ci siamo ingannati, ci farà certamente il più gradito dei doni. COMEDIA DEL FOGLIETTA PATRITIO GENOVESE INTITOLATA IL BARRO IL MOLTO REVERENDO CRESCENTIO BARTOLI IN LODE DELLA COMEDIA Oltre quello che in lode della comedia grande io già meritevolmente dissi, e scrissi, benché in vero non tanto quanto le si conveniva; havendo hora in queste poche vacante degli studii più gravi, con infinito mio gusto (che non mi satio mai di leggere e rileggere i felicissimi parti nati del grande ingegno del signor Paolo Foglietta) scorso con bramose voglie la comedia più raccorciata, tale in verità è stato il diletto che in lei'scorrendo ho preso, che io per me non mi rammento mai haver letto con maggior avidità opra d’altro autore antico o moderno, quanto questa. Io non potrei mai ridire quanto questa ingegnosissima comedia mi sia piaciuta, quanto mi sia stata grata, quanto gioconda. Qui le digressioni sono dotte, qui le parole natie, qui le comparationi simili, qui i discorsi pieni di spirito, qui gli esempi chiari, qui i periodi dolci et soavi, qui le metafore proprie nè in alcun modo stiacciate : Che più ? La comedia è tale che nè il sindacante Aristarco, nè il Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXV, fase. s.° j- — 250 — mordace Zoilo troverà in che morderla e censurarla. Ella in somma è degna, non pur d’ essere pareggiata con le co-medie degli antichi e de' moderni più famosi, ma di essere ancora in molte e molte cose a quelle messa innanzi; et merita a guisa di quella famosa Minerva d’Athene, fatta d'oro e d'avorio per mano dell’ingegnoso Fidia, di esser collocata nella più alta parte della rocca degli ingegni humani. Di V. S. 111." Aff.’”° Servitore Crescentio Bartoli. Il Sig. Don ANGELO GRILLO In lode de ? Autore (i) Novo Istrion nel gran theatro appare Spettator tu, eh’el miri, e forte ammiri L’ habito strano, e la favella, e i giri De 1* a te voci non ben note, e chiare: Questi é il Foglietta : Oberto no che 1’ are L’ alzò nel tempio della fama, e i giri Del cielo hor calca, e vien eh’ in terra spiri Ne le carte latine, opre sue rare (2); Paolo dico, à lui frate ; ond’ hoggi tanto Il materno idioma in pregio sale Ch’ancor sostien d’heroi gli amori, e l’armi (3), E col socco toscan tra scene ha il vanto; Ond’ hà 1’ alta mia patria historia e carmi, E spiega in duo suoi figli eterna 1’ ale. (1) Questo sonetto fu pubblicato a Bergamo nel 1589, nel f. 68 della Parte prima delle rime del Sig. D. Angelo Grillo. (2) Lo storico Uberto Foglietta era morto il 5 settembre 1581. (3) Qui alludesi certamente alla traduzione del Furioso, incominciata da Paolo Foglietta, ma non condotta a fine. Il primo canto però venne pubblicato tra le Rime diverse in lingua genovese. Torino 1612. Si trova a pag. 130, e incomincia: Re donne, i homi e re galanterie. INTERLOCUTORI Alfonso Pandora Il Barro Despina Demetrio Afranio Agnesa Orsolina Ginevra IsABETTA Marchetto Sicurano Andreolo Servitore Moglie del Barro Matrona Vecchio Giovane Serva Vecchia Fanciulla Gentildonna Servitore d’Arassi suo Servitore Podestà. * V ATTO PRIMO SCENA PRIMA. Alfonso servitor, solo (i). Infatti i disgraziati sono simili agli appestati, perchè sì come questi infettano ogni cosa, benché sana, che da loro sia tocca, così ad uno sventurato sino alla buona fortuna li diventa nelle mani disgratia. Quale maggiore ventura può incontrare ad un servo della libertà? e pur a me ella tardò poco a cangiarsi in miseria. O quant’ era meglio per me che Afranio non mi havesse mai liberato, che s’io rimanevo schiavo in Napoli, non sarei venuto con esso lui in Genova a fargli sì grave oltraggio in persona di Ginevra sua sorella, pagando così gran benefitio con tanta ingratitudine. Ma, oimè, che Amore negli animi giovanili vince ogni rispetto e rompe ogni legge. Fu anco non picciolo stimolo la compassione eh’ io haveva alla misera giovane, la quale di me subito fieramente accesa tutta si struggeva. Vi concorse ancora la (i) Il manoscritto, evidentemente per errore, reca A.fr?p.io, La correzione iq Alfonso viene spontanea. — 256 — commodità dell’albergare in una medesima casa, in modo ch’io non potei resistere all’ impeto di così gagliardi assalti. Ma non satia ancora la malvagia fortuna, ecco hora mi ha apparecchiato nuova cagione d inevitabile e perpetua miseria, volendo privarmi per sempre dell amata Ginevra, convenendomi per servizio d’Afranio abbandonare questa città, e insieme separarmi dall’ anima mia istessa. Il quale cordoglio, oltre che per conto mio è inestimabile, mi affligge infinitamente più per rispetto della povera giovane, la quaie n è per morire, non potendo io scuoprire nè a lei nè ad altri la cagione della mia partenza. O condittione infelice, da un lato ho Ginevra, da 1 altra Afranio: a l’uno et a l’altro ho obligo infinito. S io mi parto, sono ingrato a Ginevra, s’io non \ado, sono ingrato ad Afranio: se per non parer sconoscente a Ginevra, le manifesto la cagione della partenza, tradisco Afranio, se testando paleso ad Afranio la cagione del restare, inganno e rovino Ginevra, scuopro ad Afranio la grave ingiuria eh’ io gli ho fatto, do me stesso in mano del carnefice. Deh morte, tu che sola puoi, trammi di questo intricato labirinto ! ma in tutto odiosa non saresti se come abborrita vieni, così anco desiderata venissi. Ma come questa mattina tarda tanto Afranio ad uscire di casa? darò di volta, e sarò qua subito. SCENA SECONDA. Pandora moglie, del Barro, il Barro. Pandora. Sono due giorni che mio marito non è tornato a casa, non so che pensiero sia il suo; sono stata sforzata a venirlo a cercar’io per intendere s’egli è vivo o morto, che, per l’arte eh’ egli fa, io sto sempre in sospetto di lui, perciocché la moglie del ladro (1), come dice il proverbio, non ride sempre. (1) Qui il manoscritto ha una chiamata e sopra tra parentesi le parole: « come dict il proverbio »; e sopra queste le altre: « come dir si suole ». Le prime — 257 — Barro. Io mi sono con bel modo levato di casa mentre che tutti insieme garriscono dentro, e pare che vi sia il diavolo; hor voglio andare ad ordinare a mia moglie eh’ ella metta le cose in punto per questa sera. Pandora. Ma ò ventura, eccolo a tempo; buono giorno, marito mio. Barro. Oh a tempo; io veniva apunto hora per farti intendere che l’ordine è per questa sera, e perciò tu metta le cose in assetto. Pandora. Et io per saper questo mi sono mossa di casa, et veniva a vedere se tu eri più in questo mondo: che sono due giorni eh’ io non ti vedo. Barro. Non ho potuto fare altrimenti. Pandora. Dunque, poiché questa sera habbiamo a mandare nostra figliuola a marito, vorrei pure intendere aneli’ io il perchè, e sapere come va questa trama, e la cagione di queste tante mutationi. sono della stessa mano che ha scritto la pagina intera; le seconde sono della mano che ha scritto i fogli aggiunti della commedia e si trovano in uno spazio molto ristretto, segno che vi furono poste dopo le altre, a guisa di una correzione, dopo la quale dovevansi cassare le parole scritte sopra, quindi l’abbiamo senz’ altro accettata. 258 — Barro. Non ho havuto tempo di dirtela prima. Te la dirò hora, ascolta dunque. Pandora. Di, via. Barro. Essendosi Afranio figliuolo di questo messer Demetrio, in casa di cui io al presente sono, su ’1 principio della sua giovanezza fieramente inamorato di una fanciulla raccolta e allevata in casa loro per carità, nè havendolo il padre mai, nè con lusinghe, nè con minaccie potuto distorre da questo amore, prese per ispediente di mandarlo a Napoli, dove lo tenne tre anni; e pensando che con 1’ assenza di tanto tempo se 1’ havesse dimenticata, e mutato pensiero per mutar luogo, si contentò al fine (facendone Afranio continua instanza) eh’ egli ritornasse a Genova. Pandora. Diavol’è, io non vidi mai vino haver della punta da dovero eh' ogni dì non diventasse aceto più forte. Barro. Ma il padre dubitando che nel rivederla, non si destassero in Afranio le fiamme che spente si credeva, percioch’ il legn0 ars0 una volta dal fuoco per poco ritorna a riaccendersi, la pose Prima in un monastero, dove ella hora è benissimo custodita per ordine del vecchio, che di ciò ha molto avertita la Badessa: sì che meschino d’Afranio non la può più vedere se non col pensiero, col quale a dispetto di messer Demetrio e della Badessa entra nel chiuso chiostro a tutte 1’ hore. r - 259 -Pandora. Guardino pur se sanno, che insieme col pensiero entrerà il corpo ancora, se le parti sono d’ accordo, sicché il vecchio e la Badessa vi resteranno pur colti al fine. Ma è una gran cosa che questi vecchi scimuniti habbiano così tutti questo vitio di non volere che i figliuoli siano inamorati, nè facciano quello che essi fecero in gioventù. Che importa questo a messer Demetrio? Barro. Importa, perchè mentre amor dura non può indurre il figliuolo a prender quella moglie che gli ha apparecchiato, che è la figliuola d’un certo messer Urbano, cittadino ricchissimo, col quale fa doppio parentado dando al figliuolo d’Urbano Ginevra sua figliuola. Et accorgendosi messer Demetrio alla taciturnità e a i continui sospiri, che non ponno star rinchiusi in un petto tanto acceso , che Afranio 1’ ha più nel cuore che mai, per troncare questa cagione, ha maritato la Violantella (che questo è il nome della fanciulla rinchiusa) in uno Sicurano d’Arassi, il quale già s’impiegò nei suoi servitii, nei quali essendosi portato lealmente fece acquisto d’ un poco di robba, e riduttosi poi a casa, e tutta via industriandosi, ha di nuovo acquistato tanto che per un par suo sta assai commodamente. Pandora. O’ Dio, simili venture non verrebbero mai a noi, che uno di questi ricconi ti dessi nelle mani la sua robba a trafficare. Barro. So eh’ io non ponerei tant’ anni ad arricchirmi, come fanno questi dapochi, e eh’ io la spedirei in un colpo, perch’ hora non è vergogna il rubbare, ma il rubbar poco. Pandora. Infine il biscotto piove sempre in bocca a chi non ha denti. Barro. Ritornando al proposito. Dispiacendo a morte questa cosa ad Afranio, et essendo giovane di gran cuore et da prevalersi, et assottigliandoli Amor l’intelletto, ha ordito contro il vecchio una bellissima trama, per non restar privato della Violantella, senza la quale tanto potrebbe vivere quanto senza 1’ anima. Pandora. Benedetto sia egli; ti so dire che di quest’ huomini fideli e constanti in Amore se ne trovano pochi, che a’ miei dì ne ho pur provati la parte mia. Ma che trama è questa? Barro. La più bella e la più ingegnosa che tu sentissi mai. Sollecitando tuttavia il vecchio Sicurano che venga per la moglie, e che non tardi più, e havendo scritto Sicurano che non potendo egli al presente venire a Genova, manderà uno suo a condurla, da questo prese argomento Afranio d’aiutarsi e d’ingannare il padre. La buona ventura nostra volse che io in questo tempo gli dessi fra piedi; ond’egli giudicandomi atto a’ suoi dissegni, massima-mente non essend’io anco conosciuto in questa terra, per esserci noi venuti di frescho, mi comunicò il suo pensiero; e io indutto dal premio che tu sai, mi risolvei di mettermi all’ impresa. Pandora. Io lo so, e Dio voglia che tu non ne facci tante e tante, eh una te ne vadi a traverso, la quale sconti per tutte, e che cercando danari non trovi bastoni. — 261 — Barro. A chi muore di paura si tirano le correggie nel cataletto. Io ti dico che chi si mette questi pensieri in capo, non fa mai nulla, e che bisogna vivere e eh’ è meglio morire d’ ogn’ altra cosa che di fame: e che tu non dei pensare al male prima che t‘avvenga, anzi sperar bene, perchè giova la fortuna a gli audaci come sono io, il quale ho buon’occhio e piede, e mi guardo d intorno e sono andato per lo mondo. Pandora. Se bene sei andato a torno più che i zingari, e ti sei poi addottorato in galea, e sei volpe vecchia scappata da cani, dei sapere che si vendono ancora così pelle di volpe come di agnelli, e che il nibbio e altri uccelli di rapina, che vanno per pelare, tal volta sono pelati. Barro. Ben so non meno di te ch’io sto sempre in pericolo di non dar del petto nel bargello (i), perchè i birri sono sempre dietio a barri come il gatto al topo. Ben il so, dico; ma che mi giova di saperlo, non havend’io altro rimedio al scampo mio? Perchè mio padre, buona memoria, non è voluto andare all inferno per lasciarmi della robba come fanno molt altri ai loro figliuoli in questi tempi, nè costoro hanno tanta discrettione e compassione che ci diano di questa robba mal compartita che avanza loro , e (i) Si trovano nel ms. cancellate, ma chiaramente leggibili, le parole: « del capo in una prigione, del collo in un capestro, e di dar alfine de calci al vento ». — La linea di cancellatura è molto marcata, e non pare della mano che ha scritte queste parole, la quale ha qual cosa di più delicato e dà alle linee maggior sottigliezza, e diremmo quasi delicatezza. Pare la seconda mano, cioè quella del Foglietta. — 262 — manca a noi, nè io ho arte da guadagnarmene, che debbo dunque fare? Lasciarmi morir di fame? Dio me ne guardi, che ogn’altra cosa si può sopportare, perchè coni’ homicida di me medesimo me n’ andrei à casa calda : sì eh’ io voglio più presto far un poco di barreria con mio honore, che far peggio , perchè tra falsità e inganno si campa la metta de l’anno, e tra inganno e falsitade si campa l’altra mettade. So ch’io mi metto a gran risico, com’ho detto; ma che? Dieci anni più o meno di vita, ch’importa? La vita d’un povero, come sono io, non si può dir vita veramente, ma un vivo affanno e viva morte. Hor poiché la necessità, che non ha legge, m’ astringe a far questa barreria, voglio più presto farla in servizio di qualche inamorato galante, come Afranio, che d’altri; perchè se bene egli è mercante, come sono gli altri gen-tilhuomini di questa terra , ha un’ animo grande da principe. Pandora. » L’animo grande non basta, bisogna ch’egli habbi ancora una gran borsa e voglia sborzare. Barro. L’ha grandissima, e vorrà, che gl’ inamorati non possono esser avari, perchè come questo diavol d’Amore si ficca loro addosso, subito di stretti diventano tanto larghi che non pur spendono, ma spandono, che a noi, Pandora mia, torna bene: però cerca d’ aiutarmi, nè più m’interrompere, perch’ io non ho tempo da perdere (1). Pandora. Seguita dunque. (1) Tutti gli uomini sono disposti a grandi cose per amore. Sembra peraltro che i genovesi avessero fama di superare in questo gli altri. A p. 19 delle Forcicinat quaestiones del Landò, Lucae 1763, scritte in pieno secolo XVI, leg-gesi a tale proposito: « Sunt magni amatores genuenses, ateare ut amata potiantur, nullum aut fortunae aut capitis discrimen recusant subire; si se sperni intelligent, perpetuo lugent ». — 263 — Barro. Tenendo Afranio di continuo al ponte (1) per ispia un suo servitore venuto da Napoli, nel quale confida molto, venne alfine il mandato da Sicurano, il quale fu condotto dal servitore alla casa deputata da Afranio, come a casa di messer Demetrio suo padre: dove io, mutato da Afranio in messer Demetrio, come tale lo ricevei: ed essendo costui uno di quegli huomini fatti all’antica, al quale si darebbe ad intendere che S. Michele fosse un gallo, perchè ha l’ali, credendo ogni cosa, mi diede le lettere di suo padrone, pensando ch’io fussi il vecchio; e acciochè non si maravigliasse della solitudine di casa, se gli fece credere che la famiglia tutta era in villa, com’ è usanza di questo luogo. Io poi mi trasformai in Andreolo, che così si chiama questa pecora, e per tale, con le lettere m’ appresentai a messer Demetrio, e venni ad habitare in casa sua, et come a mandato di Sicurano mi si darà questa sera nelle mani Violantella , la quale io, imbarcato che sarò, darò in potere del servitore d’Afranio, il quale la menerà dove fra loro è posto 1’ ordine. E acciocché la non si scuopra, a questa bestia d’Andreolo daremo in mano la Portia nostra figliuola, la quale egli condurrà a suo padrone, come Violantella; e così oltre l’altro premio, habbiamo havuto questa buona sorte di maritar bene la figliuola senza sborsar la dote. Pandora. Non si poteva pensar la più bella: e ti so dire che sanno più i giovani d’oggidì che i vecchi di cinquanta anni. Ma io non mi rallegro già del maritar la figliuola, nè mi pare utile per noi, i quali invecchiando, nè essendo io più buona horamai da far 1’ arte, ci priviamo d’ una possessione così fruttifera, e la quale haveva da essere il sostegno della nostra vecchiezza. (1) In porto i ponti sono costruzioni in muratura che si spingono nell’acqua, e permettono l’accostarsi delle navi. Servono per lo sbarco dei passeggieri e delle merci. — 264 — Barro. Oh diavolo ! Io mi maraviglio bene di te. Pensi tu che tua figliuola debba essere da manco di te. Quanti mariti hai tu piantato a’ tuoi giorni? Sarà gran fatto, per mia fè, di qua a cinque o sei mesi fare eh’ ella (dato di mano a ciò che potrà) fugga dal marito, e se ne veglia con noi a buscar nuova ventura. Pandora. Non mi dispiace. Horsù che ci resta da fare? Barro. Non altro se non che te ne torni a casa, e che tu metta le cose in ordine, che spacciato eh’ havremo costoro, e havuta la mancia da Afranio, bisogna che ancora noi nettiamo subito. Pandora. Così farò , benché mi doglia assai di lasciare sì tosto Genova , dove vedo che le donne comandano e hanno troppo bel tempo, perciochè più che tutte le altre donne d’Italia hanno libertà notte e giorno (1). Barro. L’hanno grandissima, e hanno pigliato (per quant’ho inteso) questa usanza da Francesi, co’ quali i Genovesi già praticavano tanto, che sin’ alle donne di questa città hanno pigliato la loro lingua, e, se bene hora vanno pigliando il taliano, quanto possono, perchè il gustano come naturale, non sono però restate così affatto (1) Intorno alla donne genovesi, ed alla libertà che godevano, vedi l’appendice al n. II. — 265 — senza il francese, ch’io ho notato diverse parole ch’elle usano ancoia di quella lingua; perciochè molte persone di questa terra, se ben mostrano lo spagnuolo di fuori, per buon rispetto, hanno però anco dentro nell’ ossa il francese, nè se lo possono levar da dosso, che lo conosco io, che sono stato un pezzo a Marsiglia. Come si sia, tanta libertà nelle donne non mi piace (1). Pandora. Con tutto ciò, io credo che siano honeste e leali, poiché i loro mariti tanto se ne fidano, che le lasciano andar sempre dove le piace, sole e accompagnate. Barro. Se ne fidano assai, e mi meraviglio che i Genovesi non siano più grassi che tutti gli altri huomini, poiché hanno tutti sì bon stomaco circa le mogli. Pandora. Io lascio di ciò il pensiero a i mariti à quali tocca, nè mi voglio pigliar la gabella dell’ impacchio : basta che le donne hanno un bel tempo, com’ ho detto. Barro. Non lo possono haver più bello; ma se le donne l’hanno buono, i pover’ huomini pari miei ve 1’ hanno tanto più tristo, perciochè non solo il grano che vien di fuora è qui sempre carissimo, ma (i'i Genova, messa in mezzo tra Francesi e Spagnuoll, dovette sentire anche nella lingua l’influenza degli uni e degli altri. Il francese apparteneva piuttosto al passato, ora il predominio di Spagna costringeva almeno « per buon rispetto » a far lieta accoglienza alle cose di Spagna. Anzi bene spesso perfino sul pergamo e sui teatri si usava la lingua del popolo, che ormai poteva dirsi il padrone d’Italia. Vedi a proposito il bel capitolo a Lingua bastarda », che ha il numero LXXXII nell’ opera del Belgrano, Vita privata dei genovesi, Genova 1875. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXV, fase. 2.0 ,8 — 266 — 1’ olio ancora, che, se bene la Natura madre benigna e pietosa produce tant’ olio in questo paese d’ abondar quattro Genove non eh’una sola, egli non solamente si vende a pretii altissimi, ma spesso gli huomini non ne trovano per danari a comprar tanto da farsi un’insalata nè da farsi lume, talché molti hora vanno a tentone. Nè manco caro dell’olio è il vino, le legna, l’erbe, i frutti, e ogni cosa insomma che produce la Liguria costa un’ occhio d’huomo in questa terra, dove abita e regna la carestia, nè mai v’entra l’abbondantia; sichè chi non ha borsa ben ferrata travaglia a vivere a Genova, eh’è città da ricchi e non da un povero par mio; e massimamente, che l’arte mia del barrare può haver poco inviamento in questo luogo, nel quale sono huomini tanto scaltriti che ingannerebbono la medesima barreria; sichè, per tutte queste cagioni, subito ch’io havrò spedito la cosa d’Afranio (che Dio me la mandi buona), voglio sgombrar il paese e truccar per la Calcosa (i). Pandora. Fa, marito mio, quel che ti torna commodo, perchè dobbiamo far patria dove facciamo bene il fatto nostro; e so che poco si possiamo fermar in un luogo, e in quel luogo ne convien sempre star su un piè come l’oca: però io vado à metter le cose in punto, come mi hai ordinato, per questa sera. (i) II caro dei viveri in Genova esisteva realmente. Era dovuto in parte alla posizione della città, in parte alle ricchezze dei cittadini e dei forestieri, che, molto avendo, non guardavano a spendere, ed in parte ancora all’avidità di speculatori. Peraltro, col denaro si trovava tutto. Nel Viaggio di G. B. Confalo-nieri da Roma a Madrid nel 1592, pubblicato nello Spicilegio vaticano (Roma 1890), voi. I, fase. II, a p. 103, si legge « La qualità di cibi che ivi (a Genova) si mangia è d’ogni sorte, e sebbene molte cose sono care, si trovano però ». E fra i Ricordi d’alchune cose particolari.....pei R.di P. Predicatori, ras. del sec. XVI nella Civico-Beriana, e che pubblicheremo in appendice (n. II), leggiamo: « Esshortar che si ponghi buona regola et mente sopra le cose del vivere, massime del pane, vino et olleo, et prohibir li monopodii, et ciò con la maggior diligenza di quel si fa rispetto i poveri di Christo». Ved. poi notizie maggiori in Belgrano, Vita privata dei genovesi, Genova 1875, cap. XXXII e segg. SCENA TERZA. Alfonso e il Barro. Alfonso. È pur tempo che Afranio esca di casa. Ma ecco chi me ne saprà dar nuova. Buon giorno, huomo da bene. Barro. O costui non mi conosce, o non parla meco. Alfonso. O là, non odi, huomo da bene. Barro. Chi è? O Alfonso, buon giorno e buon anno, che diavol vuol dir huomo da bene? Chi t’ha insegnato parlar così ad un par mio? Che ingiuria t’ho fatt’ io , che tu mi debba così al primo tratto incarricar di parole, e dir villania? Alfonso. Che ? Dunque ti si fa ingiuria a chiamarti huomo da bene ? Barro. Si; delle maggiori che si possano lare hoggidì: huom da bene si dice a mulattieri, a tavernari, a fachini, a barbieri, a cavadenti, a castraporci, a pedanti e a simil gentaglia, e non a pari miei. — 268 Alfonso. Perdonami, eli io confesso haver fatto un brande errore a chiamarti per quel nome che mai non ti si conviene, e me ne guarderò per 1’avenire, ti chiamerò huomo da male. Barro. Questo è tagliato a punto a dosso tuo. Alfonso. Ma in che modo t’ho io a chiamare, per non farti ingiuria, se tu non vuoi ch’io ti chiami huomo da bene nè huomo da male? Nè io so il tuo nome proprio, perchè pari tuoi lo nascondono per buon rispetto. Barro. In che altro modo vuoi tu chiamarmi, che in quello eh’hora s’usa? Gentilhuomo. Alfonso. Che? Tu sei dunque gentilhuomo? Barro. Tò, su quest’altra, e che diavolo vuoi tu ch’io sia? Non vedesti tu, prima che tu e il tuo padrone mi tramutaste in quest’abito, com’ io andava vestito tutto di terso pelo? Alfonso. Adunque il vestir di veluto fa gentilhuomo un villano? Dunque il metter la pelle del lione in dosso a 1’ asino, lo fa esser lione da dovero? — 269 — Barro. O lo fa o lo fa riputare, e chiamare così per tutto; onde per 1'hosterie e per le barberie, per le piazze, nelle città, nelle ville e per tutto infine, non odi chiamar alcuno se non gentilhuomo, e gentilhuomo di qua e gentilhuomo di là; e da un tempo in qua ne sono usciti tanti al mondo, che quasi comincia ad esser vergogna 1 esser gentilhuomo, et par’hoggi mai cosa troppo plebea, ond’è forza, come anco si è cominciato a fare, metter mano al signore con licenza però della pragmatica della Spagna. Alfonso. Se negli altri luoghi questa nobiltà è tanto accommunata e avvilita, è almeno tanto più ristretta e prezzata, e quasi come cosa sagra venerata in questa città, e si restringe ogni giorno più. Barro. Così si deve fare, e io reputo un gran villano e seditioso colui che non s’inchina a questo reverendo nome di nobiltà. Ma in Genova si fa dunque gran professione di nobiltà? Alfonso. Che domandi tu? Più che à Napoli, più che in Spagna, e con gran ragione, poiché un gentilhuomo di republica e città libera, com’è questa, può combattere con un re, dicono, coloro c’hanno studiato il duello. Tu mostri bene d’esser poco pratico di questo luogo, poiché mi fai. simili domande. Ma che tarda tanto questa mattina Afranio ad uscir di casa? Barro. Ragiona col padre di non so che, e mi ordinò che s'io ti vedeva, t’imponessi che l’aspettassi qua intorno e così faccio. — 270 — Alfonso. Per questo io sono venuto; e mentre che l’aspettiamo non voglio lasciar di dirti eh io ti resto schiavo, sì che tu puoi comandarmi per haverti conosciuto così valenthuomo e così agevolmente trasfoimaiti in tutte le fogge, e non solo te stesso, ma la figliuola ancora, dico dell apparenza di fuore, che quanto a quello che sei dentro so eh è impossibile che mai tu ti trasmuti, e che in tesi verifica quello che si dice della volpe, che muta bene il pelo ma non la naturai malitia. Barro. Quanto a cambiarsi mia figliuola sappi che questo non 1’ è nuovo, havendola io fatta trasmutar più volte secondo 1’ occasioni. Alfonso. Se tu vuoi dire il vero, di una cosa non s’è ella mai cangiata? Barro. E di quale? t Alfonso. Ch’ ella non sia sempre restata vergine al modo delle vecchie di Spagna, le quali fanno più volte pagare il virgo delle figliuole. Barro. Nè in questa nè in alcun’ altra cosa ho havuto mai bisogno di maestro: nè ti deve parer cosa strana o nuova di veder trasmutar me ed altri in tante maniere, e tanto facilmente, poiché si vede in questa età farsi tutto il dì di queste trasmutationi di persone diverse, perciocché subito eh’un huomo di bassa conditione ascende — 271 — a qualche honore e dignità a lui insolita, e nuova, diviene un bell'asino, un lupo, un nibbio, e molti si mutano anc’in altre bestie, come becchi, porci, babbuini, pavoni, pappagalli, lodole, collitorti, satiri ed ermafroditi, che sono huomini c donne: non ti dei dunque meravigliare se anch’ io fo di queste maraviglie, nè ti dei far beffe di me parendoti d’ udir favole da ceratani, e cose impossibili contra 1’ uso humano e ordine di natura. Alfonso. Io non me ne fo beffe altrimenti, anzi ti tengo per huomo segnalato, come dimostra il tuo volto aperto, e credo che tu avanzi ogni altro del tuo mestiero, ma bisogna che tu superi te medesimo ancora in questo nostro affare: onde ti conviene lambicar il cervello e stillar 1’ ingegno per governarlo cautamente, se vuoi uscirne con honore, perch’ ogni minimo errore ruinerebbe te e noi, eh’ habbiamo a far con un vecchio, ti so dire, che non è anco punto rimbambito come sono molt’ altri per la troppa età, ma scaltrito e accorto di sorte che si avvede de 1’ erba che nasce. Barro. Non accade ti dico eh’ alcuno m’insegni 1’ arte mia. Alfonso. E che arte è la tua? Barro. La più viva e la più universale che si faccia fra gli huomini. Alfonso. E qual’ è? Barro. La barreria. — 2~j2 — Alfonso. Dunque tu confessi d’ esser barro ? Ba rro. E perchè no? Alfonso. Benedetto sii tu eh* almeno non ti vergogni dell’ arte tua. Barro. Come ch’io me ne vergogni. Io non me ne vergogno, nè me ne vergognerò mai. Ma egli è pure una gran cosa eh’ essendo questa arte dello ingannare et del fraudare la più bella, la più usata e la più universale che si faccia hoggi di fra le persone, e quella quasi che governa il mondo, ciaschuno se ne debba così vergognare, e come si dice un barro par che si dica un huomo infame. Ma questo importarebbe poco; il male è che la giustitia gli perseguita, nè alcuno ha rispetto a punire in altri quello di che egli si sente colpevole, onde spesso ne fanno mal fine. Ma ciò non avviene già se non ne’ pover’ huomini. Alfonso. Tu m’ hai levato la fatica di dirlo. Barro. Che nei ricchi e nei grandi la Barreria non pur non è perseguitata , ma più presto è lodata, e battezzata con bei vocaboli di sagacità e d’ingegno. Alfonso. Oh diavolo! È possibile eh’una bestia intenda sì bene il vivere • del mondo, sarò sforzato alfine d’amarlo. — 275 — Barro. E quel eh è peggio premiata e honorata ancora, e chi meglio fi a loro la sa usare nei contratti, nei trattati c negli altri ma-neggi publici e privati, ne doventa maggiore, et ne moltiplica le sue facolta, e n accresce lo stato suo, et è più favorito degli altri, e spesso più grato a principi et alle republiche ancora. Alfonso. Dho potta di mia madre che costui mi riuscirà nelle mani un vangelista. Barro. Dove la semplicità di certi dapocacci che procedono alla schietta e alla reale, cioè alla balorda, nè sanno andare a piacenza, è per lo più schernita, e essi ne restano indietro, nè hanno nè magistrati nè dignità alcuna, e meritamente. Alfonso. Vatti ad appellar tu di questa sentenza. Barro. Ma tornando a proposito, è dunque una mala cosa questa povertà per gli malati e per li sani. Alfonso. In questo io ti posso aiutar col mio testimonio. Barro. Che gli amalati ella manda allo spedale, e nei sani ella fa la distintione ch’io ti ho detto, che quello che ad un grande è — 274 — gloria grande e uttile, ad un povero è infatnia e cagione eh’ egli si metta a mille rischi e perigli per non morir di fame, la quale caccia il lupo fuor del bosco. Alfonso. Io mi voglio scoprire il capo, poiché ti sento recitare il Vangelo, e mi fai sovenire del detto di quello illustre signore eh’ era meglio esser barro che balordo. Barro. Non havendo altro modo di vivere è meglio, ti dico, che morir di fame star a rischio di morir di pugnale. Alfonso. Se tu v’agiungevi sopra tre legni, io ti riputerei così piofeta, come poco anzi ti chiamai vangelista, perchè i tuoi costumi ti promettono quel fine più eh’ alcun’ altro. Barro. Che fine? Alfonso. Fine da buon cristiano morendo con un crocifisso in mano, hai tu inteso ? Barro. Ho inteso, ma io starei mal solo, e per far una bella forca bisognerebbe che tu mi facessi compagnia, che so bene che tu ancora sei un pezzo di carne trista da digerire, e chi ti comprassi per lepre, starebbe senza desinare; ma perchè hai Afranio che provede al bisogno tuo, tu mi predichi Y astinenza a corpo pieno, e hai un bel dire: ma a me la pancia borbotta, per ch’io l’ho vuota. 27s - Alfonso. Oh P anima ! Barro. L’anima non mangia come il corpo, del quale bisogna pur tener cura, mentre ch’egli è vivo, altrimenti il meschino se ne muore, nè giova poi soffiarli in bocca, che come l’huomo è morto egli è spacciato. Però io voglio tener cura del mio mangiand’ e bevendo, perch’ io non mi pasco d’ aere come un camaleonte, d’arabi odori come gl’indiani, del fumo del rosto come il guat-taro, e della bellezza dell’amata, come si pascono gli amanti (dicono), e s’io lo credessi, non pur lascerei inamorar mia moglie e mia figliuola, ma m’inamorerei anch’ io, perchè non spenderei un soldo nel governo della mia povera fimigliuola c’ hora mi fa spender un mondo (i), e la bassa plebe di questo luogo poverissima dovrebbe cercar d’inamorarsi per non morir di fame, se pur è vero ch’amore levi l’appetito a gl’inamorati, come si dice, ma io non lo credo ; credo bene eh’ amore levi gl’ occhi a gl’amanti, e l’inteletto ancora, ma non la fame; anzi son sicuro che se non mangiassero e bevessero altro che quella vista, ch’el regno d’amore in pochi giorni anderebbe in rovina, perchè sacco vuoto non può star in piede: però per empir il mio farei moneta falsa, non havendo chi me lo empi com’ hai tu. Alfonso. Hai ragione, conscienza a tua posta. (i) Qui sono cancellate dalla mano del Foglietta le parole « massimamente in questa terra, nella quale è sempre maggior carestia che in tutte V altre, però ». Dopo la parola altre v’era una chiamata, ed in alto la frase a com'ho detto », cancellata poi insieme col resto dalla stessa mano, che l’aveva scritta. — 276 — Barro. Queste conscienze, Alfonso mio, sono cose da morirsi di fame; della robba, della robba, se vogliamo esser tenuti galant’huomini, che la povertà non pur è di danno, ma di vergogna, e tanto più in questa terra da ricchi. Alfonso. Io voleva ben dire che un par tuo si dovrebbe vergognare com’ un asino a parlar di simili cose. Barro. Non P hanno coloro che sono nati con la borsa al collo, e un par mio starà a tener conto di scrupoli d’honestà e di simili bagatelle da huomini grossi, tondi e fatti all’antica? Bisogna infine accomodarsi al tempo moderno, che ciascuno cerca d’attaccarlo al compagno e d’ingannare. Nè è proprio degli huomini solamente P ingannare, ma delle donne ancora. Alfonso. Alle donne è quasi necessario: perciochè usando gl’huomini contra di loro la forza, le poverette non hanno altre armi per diffondersi da chi le ingiuria che P astutia, perchè chi non può esser leone quando bisogna, si sforzi d’ esser volpe quando può. Barro. Una sola sorte d’ huomini traggo fuori di questo numero. Alfonso. E chi son questi ? - 277 - Barro. I principi. Alfonso. Non toccare i principi, bestia; nè t’impacchiar con loro nè in bene nè in male, che non vi si può guadagnar niente, nè di loro si ha mai a dirne male nè bene: perciochè il dirne male è pericoloso, e il dirne bene è adulatione, onde se tu parlerai di loro potresti tosto finir di fare quest’ arte e haver quel grado che merita la tua virtù. Barro. Che grado? Alfonso. Oh ! di essaltatione in luogo sublime, con gran concorso del popolo allo spettacolo. Barro. Io t’intendo, ma ciascuno non può ascendere a queste tue dignità. Alfonso. Diavolo è, se ti starebbe bene: e se molti hora pervengono a quella sorte i quali non la meritano di gran lunga quanto tu. Ma io vedo messer Demetrio ch’esce di casa; leviamoci di qua, per 1’ amor di Dio, eh’ egli non ne vedesse insieme. Barro. Di che hai paura? Alfonso. Non ti ho già detto che quattro giorni sono, prima che tu ci venissi, mi ha fatto cacciar di casa, e imposto ad Afranio, che per tutto hoggi io sia non pur fuori di casa sua, ma di questa terra, se non ch’io mi troverò in una galea (i) la quale è uno inferno de vivi, per quanto ne dice quella misera e infelice turba che di continuo ne fa prova legata, e per non farne prova anch’ io voglio uscirmene da Genova, perchè così vuole messer Demetrio, il che fa il sagace vecchio perch’ egli si crede eh’ io mantenga Afranio su gli sviamenti, e tutto torna in proposito nostro. Ma esce seco la moglie ancora madonna Despina. Barro. Devono garire sopra il fare la figliuola monaca. Alfonso. Che dici tu far monaca Ginevra? Barro. Ella è entrata da due giorni in qua in questo capriccio di farsi monaca, del che i vecchi stanno dispeiati. Alfonso. Ah vita mia dolce. Io dunque ti conduco a così trabocchevole passo? Ma leviamoci di qua, di gratia, torneremo poi ad Aframo. (i) Qui sono cancellate dalla solita mano del Foglietta le parole « « provar uno remo in mano di buona misura, ferri ai piedi di buon peso, pidoca e cvma a biseffe, bastonate in quantità, poco e tristo biscotto, acqua marcia, e dormir sopra un banco della galea ». — 279 - SCENA QUARTA. Despina Matrona, Demetrio Vecchio. Despina. Non habbiamo se non una figliuola, e siamo, la Dio gratia, ricchi come i Sauli, e la faremo monaca, coni’hora fanno molti poveri gentil’ huomini che ne hanno molte, i quali non potendole maritar tutte in pari loro, per le doti grandi che si danno, ne maritano una sola, alla quale danno la parte de tutte 1’altre, si che per locar bene e altamente quella sola, fanno ingiuria alle altre che pur sono loro figliuole, perchè le cacciano nei monasteri: onde le poverine fanno la penitenza del peccato dei loro genitori superbi, avari e crudeli, perciò si dovrebbono moderare queste smisurate doti, facendone un nuovo decreto meglio osservato che il vecchio, perciocché andando dietro ciaschuno (i) a questa mal' usanza si maritano poche figliuole, onde il giardino manca e cresce il bosco, e ne segue spesso qualche scandalo; del che non ci dobbiamo maravigliare, nè farne tanto romore ; perciocché nè la tonaca nè il velo levano gli stimoli alle monache, che pur sono creature come noi di carne. Però, tornando alla nostra, io la scannerei prima con le mie mani che chiuderla per sempre in uno monastero, che è meglio morire una volta che tante; e di voi, Demetrio, mi maraviglio che vogliate incrudelire senza cagione con le vostre medesime carni, facendo serrare in una stretta e perpetua prigione una vostra innocente figliuola, come si serrano i malfattori o le fiere crudeli; e s’io credessi ben bene che voi diceste da dovero, mi dispererei (2). (1) Le parole « a questa mal'usanza» sono scritte dal Foglietta in luogo delle cancellate «al mal’uso moderno». (2) Le doti erano davvero eccessive, i matrimoni rari, le monacazioni forzate troppo frequenti: quindi gravi le conseguenze di un tale sistema. Vedasi in proposito l’appendice al n. I e li. — 280 — Demetrio. Queste tue disperationi non vengono mai a fine. Io mi maravigliava bene eh’ io dicessi una volta una cosa , che tu subito non ti ci opponessi. Despina. Come, ch’io non mi vi opponessi? Hor parvi questa cosa da esser tollerata in modo alcuno? Ch’io la pattisca? Ch’io la tolleri? Ch’io soffra tanta crudeltà? Questo non farò mai. Non habbiamo se non una figliuola, nè siamo mai per haverne altra, e siamo ricchi come il mare, e la faremo monaca? Per vostra fede, Demetrio, non me ne parlate che mi fareste.... Demetrio. Piano, bassa la voce: vuoi tu farti scorgere dal vicinato? Despina. Sono queste cose da tacere? Demetrio. Non ti dico io eh’ io voglia eh’ ella s’ el faccia : ma che le dica che ne siamo contenti. Despina. Questo non lo diro mai. Demetrio. Io lo sapeva; e a voler che tu non faccia una cosa, basta che tu sappia eh’ io la voglio. — 281 — Despina. Deh, che cose sono queste che dite? Vi pare ch’io mi debba contentare ch’ella si faccia monaca? Demetrio. Pur sette. Io non ti dico che tu ti habbi a contentare eh’ ella si taccia monaca, in malhora, ma dico che la via da farlene fuggire la voglia è il dire che tu et io ce ne contentiamo. Despina. Anzi mi pare la via di condurvela dentro. Demetrio. Ed io ti dico di no. Despina. Et in che modo? Parlatemi chiaro, eh’ io non intendo in loica. Demetrio. Perchè essendoti ella figliuola, deve essere della tua natura. Despina. Che volete dir per questo! Fate ch’io v’intenda (i), e dite gatta alla gatta. (i) Le parole « Fate eh'io v’intenda » vennero sostituite dal Foglietta alle altre cancellate « Parlatemi chiaro ». Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXV, fase. 2.0 19 — 282 — Demetrio. Dico eh’essendo tu di spirito contradditorio, et attraversandoti a ciò eh’altri vorrebbe, se tu figliuola ti somiglia, subito ch’ella vedrà che vogliamo eh’ ella si faccia monaca, le verrà voglia del contrario. Haila intesa mo? Despina. Io l’ho intesa benissimo, ma ella non mi entra, e ci voglio molto ben pensar prima. Demetrio. Non tanto pensare, che le donne non vogliono se non all improviso. Despina. Son ciancie le vostre: io vi dico ch’io ci voglio molto bene pensare e ripensare, nè voglio che mi cogliate sproveduta come vorreste far voi. Demetrio. O tu sei la savia zucca. Ti so dire che quando tu ci pensi, l’imbrocchi alla prima, ma non mi è nuovo che tu fussi cosi per contradirmi in questa come sempre hai fatto in tutte l’altre cose, perchè voi altre donne sete tutte ostinatissime per natura; e havete lo spirito della contradittione: e tu fra l’altre credo che ne porti la bandiera. Hor fa a tuo senno. Despina. S’io farò a mio senno, farò a senno d’ una savia. — 283 — Demetrio. Se le tue vicine lo dicessero si potrebbe rispondere che sono male lingue e che ti vogliono male, ma confessandolo et accusandoti tu propria ti si può credere, benché in vero a me non parve mai che in te fosse questo peccato. Despina. In buona fé che voi altri huomini non vendete però il senno, che se bene vi pare di haverne tanto da potterlo mettere a noi, ne habbiamo più di voi, si che spesso vi facciamo star di sotto. Demetrio. Poi che voi donne havete sì gran senno e prudenza, come dite, sarà bene che facciamo seder in senato ancora voi, anzi ch'ognuno di noi dia a voi le palle in mano e noi restiamo a filare. Despina. Non tanto scherno, di gratia, che molte donne si sono trovate che hanno così ben governato le città come si facciano gli huomini. Demetrio. Non so questo; so bene che in questi tempi poche donne si trovano che siano atte a governare le case loro non che le città. Despina. Sono più atte che mai, sì che quando ne deste il governo in mano di questa, ella sarebbe forse governata non manco bene da noi donne di quel ch’ella non sia da voi huomini; ma lasciando di parlar del publico, sono bene pazze le donne che si lasciano — 284 — governar da mariti, e non fanno a lor senno. (1) Io per me voglio far di mia testa, e a modo mio, che facendo a modo di altri sarei fuor di me. Demetrio. Tu fai le cose di tua testa sì, ma di testa che ha sì poco cervello che mostri di essere stata battisata in Domenica, che non si vende sale. Despina. Benché a voi paia di esser un salamone, perchè hora sete un de’ savi delle compere, io non cangerei la mia testa con la vostra, se voi mi deste di gionta qualsivoglia cosa. Demetrio. Ma avertisci che questo tuo senno e quello delle altre donne ha a star chiuso dentro la casa, nè deve mai passare il catorcione della porta di piazza; che quando il senno delle donne esce niente all’aria subito svanisce, anzi diventa il contrario. Ma io voglio dartela vinta, e andar a S. Colombano, che hormai è hora, a concluder con la Badessa di mandar via la Violantella. Despina. Andate. S’io non contradicessi e non mi opponessi alle voglie di Demetrio poco ragionevoli, egli mi piglierebbe tanto dominio adosso, che mi terrebbe alfine per serva e non per moglie alla quale tocca a star di sopra, non che del pari, secondo me, che sì come quando compriamo mula o cavallo, lo possiamo cavalcare, e bastonarlo anco, se non basta lo sprone, sempre che a noi piace, così le mogli debbono di ragione poter fare dei mariti che coni- ti) Sono cancellate le parole « havendone più che gli uomini ». — 285 — prano carissimi con dote smisurate, e così fo io del mio, quan-d’egli non camina bene come adesso. Hai veduto com’ egli mi voleva dar ad intendere ch’io dicessi a mia figliuola che n’eravamo contenti? Ne havrebbe piacer credo il valent’ huomo eh’ ella entrasse nel monastero, per non sborsar la dote, della quale questi avaroni del diavolo tengono più conto che delle proprie figliuole, le quali entrando per forza nel monastero hanno l’inferno in questo mondo, e nell’ altro ancora; ma infine egli non si vedrà mai questo contento di porvela e di levarla ancora viva dalla luce di questo mondo. SCENA QUINTA (1). Demetrio solo. So che a quei francesi che prendono moglie, e tolgono in dote una lite, come intendo che molti usano in quel paese si può dire senza invidia: Per Dio, che se uno di loro s’abbattesse ad una donna come la mia, non havrebbe a cercar altra dote, ch’ella se la porta seco dal corpo della madre. Infine sono grandi e senza fine i fastidì di uno padre di famiglia, e tali che chi non gli prova non se gl’ immaginerebbe mai. Che miseria deve esser quella di un cittadino povero, che abbia moglie ritrosa, e sia gravato di numerosa famiglia, quand’io, che per la gratia di Dio non ho ad haver invidia quanto alla facoltà a cittadino di questa terra, e non ho se non due figliuoli, ho tanti travagli? L’uno non vuole moglie, et è sviato dietro a inamoramenti tanto inferiori al grado suo, l’altra vuole esser monaca al mio dispetto: aggiungi a questo le contese continue della moglie, che sono tante e tali che se (1) Nell’originale allo stesso foglio 29'finisce la scena quarta e comincia la seguente col numero di sesta, alla quale tengono dietro le altre col numero di settima, ottava e nona. Non potendo supporre che la quinta sia stata tolta nella correzione fatta dall’ Autore, perchè, come si è detto, nella stessa pagina finisce la scena quarta e comincia la successiva, abbiamo creduto ad un errore materiale e corretta quindi'la numerazione in quinta, sesta, settima ed ottava. — 286 — Iddio mi dà seco pacienza, io penso andarmene martire in Paradiso; perch’ io sono talvolta ridotto a termine ch’io sto per disperarmi, e gettarmi via, ond’io provo con mio grave danno esser vero il detto di colui, che la moglie è peggio che il diavolo, il quale non fa perdere se non l’anima, e la moglie contradicente e dispettosa (i), com’ è la mia, fa perder l’anima e il corpo (2) insieme dell’infelice e misero marito. Ma tuttociò procede dalla mia soverchia dolcezza. Bisogna infine che chi vuole vivere in questo mondo si faccia temere. Così voglio fare da qui innanzi, che per viva forza vedo che mi bisogna cangiar natura. Poiché chi si fa pecora è mangiato dal lupo, come si suol dire. SCENA SESTA Alfonso, il Barro, Afranio. Alfonso. Sarà pur hora che il padrone esca di casa. Barro. Cosi mi pare: ma eccolo sulla porta, accostiamci à lui. Alfonso. Buon dì, signore. Afranio. Siate i benvenuti. Alfonso. Che c’ è da fare ? (1) Innanzi a « dispettosa » era. cassata la congiunzione e, dopo seguiva: e vana, (2) Cancellato: « e la roba », — 287 — Afranio. Non altro se non quello ch’abbiamo risoluto: tu Andreolo eseguirai quanto io ti ho già detto con diligenza, che oltre il premio che n’ hai al presente da me, il quale non è poco, io ti do la fede da gentilhuomo di mai non mancarti in qualsivoglia luogo e tempo. Barro. Eh io non lo fo già per questo; ma perchè sempre fu usanza mia di far volentieri servitio a gentiluomini pari vostri, bench’ io ne sia stato molte volte mal rimunerato. Afranio. Non ti dubitare, no: persevera pure come hai cominciato, che verrà ben un giorno, quando meno l’aspetterai, che una ti pagherà di quante ne habbia mai fatte. Barro. Pur tarda assai questo giorno tanto aspettato, che mi tragga di povertà, la quale mi pare più brutta che la morte. Afranio. La buona ventura non è mai tarda, non dubitar dico, che ben verrà alfine quel dì che ti trarrà da stentare. Horsù qua non è da perder più tempo. Io vado a S. Siro e ritorno a casa subito (1), tu Alfonso, darai spesso di volta qua, acciocché, se ci bisognerà di te, tu sii pronto. (1) Presso S. Siro solevasi raccogliere la gioventù ricca ed elegante di Genova. Odasi che cosa ne dice un non romano, il Gonfalonieri {Viaggio da Roma a Madrid. Spicilegio vaticano. Roma 1890, voi. primo, p. 193): « L’altra (piazza) è di S. Siro, uove si radunano li giovani per ridotto, et ivi si gioca, si discorre et si nota questo e quello ». Alfonso. Così farò. Afranio. E tu, Andreolo, vattene subito a S. Colombano, chè mio padre ivi t’ aspetta. Barro. Vado; comandi altro? Afranio. No : va via. Alfonso. Hora, padrone, che si è partito il barro, e che sete in tempo, vi parlerei volentieri quando ve ne contentaste. Afranio. Me ne contento; dì pure. Alfonso. Io mi maraviglio, signore, eh’ essendo voi giovine accorto, non vediate i pericoli che si corrono in questo atto. Se qualche disgratia intravenisse, come ne possono intravenire mille, non vituperareste voi, e rovinareste quella povera giovine, che tanto amate e dalla quale sete tanto amato, e incorrereste nella perpetua disgratia di vostro padre, della quale mostrate tener tanto conto, come deve far ogni buon figliuolo, per tacere l’infamia publica che ne seguirebbe non solo a voi, ma a tutta 1’honorata casa vostra? Però voi che sete prudente dovete pensar a quel che vi può venire in contrario. Considerate chi sete voi, chi desiderate et quel che vi si convenga, che si dirà per Genova di voi se pigliate per moglie — 289 — hora che le donne fanno pompa sì grande, una senza dote, senza parenti, e serva vostra? (1) Afranio. Io non pur non ne sarò biasimato da galant’ huomini, ma ne sarò lodato, quando si saprà ch’io ho tenuto più conto della virtù che della dote e del resto, come dovrebbono far’ i ricchi e nobili pari miei, li quali non devono cercar moglie con dote grandi, com’ora fanno, perchè spesso la ricchezza della moglie porta la povertà in casa del marito, ma deono cercar le ricche di prudenza, cortesia, bellezza e d’honestà, delle quali cose Violantella è meglio addotata d’ogni altra, che a me basta: nè mi curo d’esserne ripreso dagl’huomini ignoranti, che sempre biasimano il meglio, nel numero de quali sei tu, che mi persuadi a lasciare chi non è in mio arbitrio, perch’io non son più mio, nè più posso dispor di me, come tu sai; ma quando ancora fosse in poter mio separarmene et eleggere qualunque altra donna, io non cangerei Violantella con l’imperatrice: che se bene (2), per colpa della cieca fortuna (la quale spesso innalza e sublima gl’indegni, a basso lasciando i degnissimi), Violantella sta in casa nostra come per serva, si vede però ch’ell’è degna di comandare e d’esser regina del mondo, com’ ella è regina del mio cuore, per le nobili qualità che sono in lei, per le quali io la reputo ricchissima et nobilissima. E credo eh’ ella sia nata di qualche vero gentilhuomo ; e se pur ella non è pari a me di ricchezza e nobiltà, è almeno nobile di virtù com’ho detto, ch’importa molto più d’ogni tesoro terreno, e che del sangue, sebbene in questa nostra età prima s’interroga quant’ è la dote e poi quale è la donna. Ma quando io 1’ haverò tolta per moglie, in ogni cosa ella sarà uguale a me, perchè il marito e la moglie sono una cosa istessa. Si chè non mi manca (2) Il lusso delle donne era davvero eccessivo: predicatori e legislatori ebbero tante volte ad occuparsene, come può vedersi in Belgrano, Vita privata dei genovesi, Genova 1875, parte III, c. LIV, e nelle nostre illustrazioni n. V. (1) « Se bene » è aggiunto dall’autore. — 290 — altro per farmi contento apieno che haverla per moglie, per unirmi seco col corpo come gli sono congiunto con l’anima e sarò sempre. Alfonso. Si, se questa contentezza e beatitudine dovesse durar sempre, e s’ una voglia sola governasse 1’ anima dell’ uno e dell’ altro; ma la maggior parte di coloro che lasciandosi vincere da gli appetiti sciocchi, pigliano moglie inferiore assai al grado loro, come hanno sodisfatto al desiderio che dura poco, si pentono indarno, parendole d’essersi troppo aviliti, e nel letto che dovrebbe esser nido di concordia e d’amore, sparge la maledetta furia infernale il seme del suo veleno, che poi produce lo sdegno, il sospetto e le pungenti spine dell’ odio, che tormenta quelle infelici anime legate nell’indissolubile catena del matrimonio; di sorte che non pur si separano d’animo, ma di corpo ancora. Aprite dunque l’occhio dell’inteletto (che vi ha chiuso soverchio amore) fin che sete in tempo, che chi d’ amor si piglia di rabbia si lascia, come si suol dire. Afranio. Arrabbiar mi fai tu che ungi la piaga mia di contrario licore, la mia piaga, Alfonso, non bisogna di medicina di parole, che sola la virtù d’ un’ amorosa Violla può sanarla. Alfonso. Anzi io temo, Afranio, che tra queste amorose viole non sia nascoso 1’ angue, il quale in cambio di sanarvi, v’aveleni di sorte che vi conducha a morte nel più bel fiore dei vostri anni. Afranio. Io non voglio credere che insieme con tanta bellezza e virtù sia ancora tosco e veleno mortifero, anzi credo eh’ in lei sola — 291 — stia la mia salute, com’ho detto; cerca dunque di medicarmi e d’aiutarmi con quella, e non tardar più ch’io sono morto. Alfonso. Deh che vi sento dire? Se sete morto, altro aiuto dar non vi posso che sepelirvi. Afranio (1). Non bisogna, perchè già sono sepolto in un abbisso d’affanni e di martiri, ma se pur io sono vivo ancora, sono ben giunto a tale ch’io ho invidia a morte, e cangerei stato col più pover’ huomo di Genova. Alfonso. Se voi provaste la fame come provano i poveri in questa terra, son certo che voi non direste così, et a me pare che vi dogliate a torto della vostra sorte, perchè sete in sì felice stato che più presto vi si deve haver invidia che pietà. Afranio. La felicità di questo pende da l’animo di colui che la possiede. Alfonso. Questo è vero, ma mi maraviglio che voi che sete savio non conosciate questa vostra felicità. E che manca a voi, se non un bell’animo di conoscerla? (1) Le parole di Afranio: « Non bisogna, perchè giù sono sepolto » ecc; fino alle altre di Alfonso: * L’ obbligo infinito che vi ho, vuole ch'io » incluse, si trovano nei fogli 36 e 37/ sostituiti e scritti di pugno dall’ autore. Qui i fogli sostituiti son due come i tolti, ma contenendo ognuno di essi minore numero di scrittura, in questo punto deve notarsi un piccolo raccorciamento. Afranio. Mi manca ogni cosa, mancandomi Violantella, senza la quale mi paio più misero che l’istessa miseria. Alfonso. Io credeva che non potendo voi più vederla, per haverla vostro padre fatta chiudere nel monastero, ella vi dovesse esser uscita di mente a poco a poco. Afranio. Tu hai creduto male, che da me lontananza non la disgiunge, e ben ha potuto mio padre crudele trar Violantella mia di casa sua, ma egli non potrà già mai trarmela dell’animo, col quale la vedo a tutte l’hore; ma ben mi duole di non poter vederla con gli occhi ancora, per esser hora chiusa in quel monastero avaro e crudele, dove vado spesso per vederla, e poche volte posso farlo. Ma quanto più di rado la veggio tanto più desidero di vederla, e tanto pur la sua bellezza mi par maggiore, come il sole dopo molte pioggie par più lucente e bello, e, quando non ho gratia di pascer la vista del suo volto angelico e divino, non per colpa di lei ma per diffetto della Badessa, che la guarda più che non guarda un vecchio geloso la moglie sua giovan e bella, provo quasi in questo mondo le pene che a l’inferno sentono i dannati per non poter vedere 1’ eterna bellezza di quel vero Sole che ha dato lume al sole. Cerca dunque di trarmi di si grande affanno con trar Violantella di quel chiuso chiostro, che la nasconde senza tanti rispetti, come credo che tu farai, perchè in tanto tempo che tu stai meco per servidore, e per compagno a un certo modo, non ti ho mai veduto contrario ad alcun mio comandamento, se non in questo nel quale ti vorrei veder più ubbidiente che nel resto. Io in conchiusione voglio da te aiuto, e non il consiglio che tu mi dai, più facile a dire che a metterlo in opera. - 293 — Alfonso. L’ obbligo infinito che vi ho vuole eh' io in ogni occorrenza, senza pensarvi, metta la vita per difesa della vostra, come sempre farò, e sono per fare in questa ancora; ma, come posso io mancare di ricordarvi il ben vostro? Perdonatemi, padrone, s’io vi offendo, volendo giovarvi; che 1’ amor grande ch’io vi porto mi fa trascorrere. Afranio. Io ne sono certissimo; ma, come vuoi tu ch’io pattisca di vedermi per sempre privare (i) dell’anima e del cuore, e della vita mia, e ch’io non m’aiuti? Non sai tu quanto l’amor nostro è antico? E ch’egli cominciò si può dir nelle fasce? e che con gl’ anni è sempre andato crescendo? et è moltiplicato in guisa che siamo trasformati 1’ un nell’ altro , tal eh’ io credo che dell’ anime d’amendue se ne sia fatta una, della quale comunemente viviamo e spiriamo. Ma quand’ amore per conto mio non mi movesse a far questo, mi ci dovrebbe disporre il rispetto della Violantella, la quale senza me sarebbe impossibile che vivesse come tante volte mi ha fatto intendere; come dunque mi puotrebbe dare il cuore di non aiutare una donzella, che più che se stessa mi ama? E come potrei tollerare che tanta bellezza, tanta gratia, tanta cortesia fusse data a godere ad un così rozo contadinaccio? e eh’un spirito così nobile andassi a star sottoposto ad huomo così plebeo? Alfonso. Non sia con Dio. Afranio. Tu vedi dunque ch’io non posso far’altrimenti, e che mi conviene impedire il dissegno a mio padre, il quale tien per certo (i) Il testo originale aveva « privo » in luogo di privare, - 294 — che mandato ch’egli habbia Violantella al marito, io, vedendomi tronca la speranza di poterla mai più havere, debba alfine accomodarmi alle voglie sue, togliendo per moglie la figliuola di messer Urbano, ricchissimo e nobilissimo cittadino, eh’ egli mi ha destinata, e dando all’ incontro Ginevra mia sorella al suo figliuolo, i quali due parentadi credo che frai vecchi siano già conclusi , ma 1’ uno e 1’ altro di loro havrà fatto il conte senza 1’ hoste. Alfonso. Perchè 1’ uno e 1’ altro ? Afranio. Perchè quanto al mio io ne sono arrivato dove disegnava, nè si pensi eh’ io mai sia per haver altra moglie che la Violantella. Quanto a mia sorella, da tre giorni in qua ella è entrata in una malinconia grandissima della quale non si può intender la cagione, e havendole parlato nostra madre di marito, dice che si vuol far monaca, nè se le può trar di capo questa fantasia nella quale si è ostinatamente posta. Alfonso. Ah ! vita mia dolce. Dunque io ti sono cagione di tanta infelicità ? Afranio. Che dici tu d’infelicità? Alfonso. Niente, io diceva che questa è una grande infelicità. Afranio. Si che tu vedi coni’ io possa tollerare di lasciarmi privar per sempre della mia Violantella: e se tu fussi nel medesimo termine — 29 5 — nel quale son io, e ti havessi a separar in eterno da una cosa tanto amata, ti so dire che tu non mi daresti questi consigli. Alfonso. Anzi, perch’ io sono appunto nel proprio grado nel quale sete voi, ve li do per interesse vostro e mio, chè mio reputo il male e bene vostro. Afranio. Ehimè che a buono confortatore non duole il cuore. Sappi certo, Alfonso, che queste separationi bastano per lo dispiacere ad uccider gli huomini, la qual cosa non puoi saper tu, non avendone fatto prova, e Dio ti guardi di farla, ch’io temendola solamente mi sento dividere l’anima. Oime! che hai che ti sei cangiato così subitamente in volto? Appoggiati a me, che ti senti? Alfonso. Ahimè, padrone, doglia di cuore. Afranio. E donde nasce? Non so, signore. Ti senti doglia di testa? Alfonso. Afranio. Alfonso. Non, padrone, il cuore vi dico. Afranio. Sarà qualche fumo che sarà asceso al cervello, come accade. — 296 — Alfonso. Non, vi dico, il cuore solo. Afranio. Ahi. che questo dolor solo basta ad ucciderlo, perchè provo anch’io quanto sia grande la passione del cuore, sta su. Alza la testa, non dubitar che non sarà niente, voltiamo per questa strada, e riduciamoci a la barberia, dove ti riposerai, e si vedrà che accidente è questo. Alfonso Passerà bene sì, piacendo a Dio, andiamo. Afranio. Va innanzi, ch’io ti seguito, sta di buon animo che già vedo ch’il volto ti torna al solito colorito, va pur allegramente. Alfonso. Io vado. Afranio. Io non vorrei per qual si voglia cosa che costui mi mancasse, perchè oltre eh’ egli mi si è sempre mostrato amorevole e fedele servitore, ha tanto ingegno et è così efficace nel persuadere che caverebbe del monastero una monaca, nonché Violantella, e insomma egli è tale eh' in ogni tempo sentirei grandissimo affanno^ della sua morte. Ma hora sarei del tutto rovinato, perchè essend egli 1 M chitetto di questo mio dissegno, mancandomi l’industria sua, ogni cosa andrebbe per terra, e io al sicuro resterei oppresso sotto si - 297 — gran ruina; sarà dunque (i) meglio ch’io pigli presto il parere di qualche degno medico com’é il Rosso già duce di questa città, si dotto ch’egli conosce il mal nostro solo ai colori (2), nè voglio tardar più a pigliarlo perchè i remedi vogliono esser non manco presti che buoni. SCENA SETTIMA. Despina Padrona, Agnesa serva. Despina. Agnesa, Agnesa, non odi Agnesa? Voglio mandarla per Orsolina la quale ha alevato Ginevra, e suole saper’ogni suo secreto. Per mezzo suo forse potremo intender la cagione di questa nuova e così subita maninconia, la quale l’ha condotta a termine, che, s’ ella vi perseverasse molto, temo che la meschina si morrebbe d’affanno et io le farei compagnia. Chi havesse mai creduto questo d' una fanciulla tanto vivace, tanto allegra ? Agnesa, 0 Agnesa, non odi Agnesa ? Agnesa. Che volete? Despina. Alle mille al fine, vien giù presto. Agnesa. Io vengo. (1) Dalla parola « meglio » alla fine della scena sesta, ed alle parole dette da Agnese nella scena settima: « Hor su hora ch’io sono venuta, dite che vi manca », si ba un foglio sostituito dall’autore, che suggerisce la stessa osservazione fatta in un caso precedente del tutto uguale. (2) È Cristoforo Grimaldo-Rosso, celebre medico e stato doge di Genova nel 1535- 11 ticordo che si fa qui al suo dogato, come di cosa da assai tempo trascorsa, dimostra almeno che l’azione della commedia è posteriore di parecchio tempo al 1535. Atti Soc. Lig. St. Patri*. Voi. XXV, fase 1° 20 — 298 — Despina. Moviti in tuo mal punto ; hai tu 1* uova tra i piedi ? Agnesa. Sarà meglio ch’io mi getti giù dalla scala. Despina. Odi, odi che asina prosontuosa. Agnesa. Hor su, hora ch’io sono venuta, dite che vi manca. Despina. Mi manca un pezzo di legno da insegnarti a rispondere, bestiaccia. Agnesa. Madonna, della lingua dite quanto vi pare, ma dell’esser battuta ci penseremo, perchè mia madre non ne fa più. Despina. Se mi ci fai metter la mano ti caccierò gli occhi, poltrona. Agnesa. Adagio; credono far alle fantesche come fanno a’ poveri mariti c’hanno loro tolto gli occhi, si che non vedono come sono trattati. — 299 - Despina. Che brontoli tu tra denti sciagurata? che dici tu di mariti e di trattare ? Agnesa. Dico che beate quelle donne che non stanno con altri, e hanno come voi mariti che così bene le trattano. Despina. So che tu dicevi altro, che hai una lingua diabolica, la quale meriterebbe ti fusse tagliata. Agnesa. Dubitano forse che ridiciamo le loro bell’ opere. Ma i mariti non ascoltano in questo nè noi nè altri, et hanno loro tolto così le orecchie come gli occhi e l’intelletto. Despina. Parla forte, bestia, che dì tu d’orecchie e d’intelletto? Agnesa. Io dico che a chi sta con altri bisogna haver miglior orecchie (i) che intelletto, e tanto più con donne come voi. Despina. Guarda, guarda quanto presume questa guattera che puzza di cucina. (i) Invece di « orecchie » il testo originale portava « occhio ». r — 300 — T Agnesa. Meglio è saper di cucina che di muschio, come qualche padrona, la quale profumandosi ne dà segno eh’ ella puzza. Despina. Che dici tu di puzzare, fa ch’io t’intenda. Agnesa. Non sete nata per intender ogni cosa. Despina. Hor taci in tua malhora, sfacciata, e va fin’a casa dell’Orsolina, e dille che per cosa che importa assai ella venga qua da noi hor’hora, e torna subito. Agnesa. Subito eh ? Dovrebbono esser due passi di qua alla stanza di quella strega; io non mi posso metter le gambe in spalla. Despina. Vedi, vedi che risposte; io non sono mai tanto in collera che quest’asina con le sue parole bestiali non mi accenda maggioi-mente, e si terrebbe più presto 1’ acqua di Bisagno quando vien grossa che la lingua di costei. Agnesa. Io non vi parlai mai ch’io non vi trovassi in collera, e che non m’incaricaste di villania senza cagione; bella cosa per mia fè villaneggiar le persone, poi dar colpa alla collera. Despina. Meriteresti d esser caricata d’ altro che di parole, che la tua lingua serpentina caverebbe le bastonate di mano a Giobbe non che le villanie della mia bocca. Ma io ho sentito suonar la messa alla parrocchia; voglio udirla. Prima queri regno Dei. Ma innanti che entrare in chiesa voglio entrare in casa per mettermi il velo, perchè le donne stanno bene coperte, dice il predicatore. Agnesa. Il predicatore parla per le giovani, e non per le donne attempate come sete voi (i). Despina. O vecchia, o giovane ch’io mi sia, voglio mettermelo, perchè così fanno hora tutte l’altre dell’ età mia. E benché Demetrio dica che le donne non deono sentir messa se non le feste comandate, quella mattina ch’io non la sento non mi par di poter far cosa buona tutto il giorno. Però voglio lasciarlo dire a sua posta, e vedere ogni mattina la mia messa come io ho detto. Agnesa. Ha detto bene per vederla, perchè più non la sentono, che mentre eh’ ella si dice, le donne cicalano tra loro, o ascoltano la passione che piangendo le dicono i loro amanti, ai quali porgono più volentieri 1’ orecchio che alla messa. (i) Per le raccomandazioni fatte a questo proposito dai predicatori, vedasi in appendice il n. II. Despina. Costei mi tenta di patienza, che ancora non vuole restar di borbottare. Hor va via presto in tuo mal punto, e fa eh’ al mio ritorno io ti trovi in casa. SCENA OTTAVA. Agnesa sola. Che morte, che inferno è d’una povera serva a stare con questi diavoli, con queste furie, con queste vipere di padrone. Elle sono tutte rabbia, tutte veleno e tutte superbia, asine indiscrete, e poi chiamano noi altre, poverette, bestie: ma il chiamarcelo solo importarebbe poco, il male è che ci trattano per tali, facendo quegli stradi di noi che farebbero di tante asine, nè havendo alcun rispetto, che siamo pur di carne e d’ ossa come esse, non fanno mai altro che dirci disuttili, come s’elle non fussero le rovine delle povere case, delle quali si prendono quella cura che la gatta di guardar la dispensa. Tutta la mattina vanno vagando hor qua hor là, per le chiese, per le strade e per le piazze; il dì dopo pranzo stanno su le porte a tener tavolaccio a quanti ne passano, con tutti s’abboccano e pigliano lingua; la sera poi su le vegghie, dove lasciano entrar chi vuole, per haver tutte il mascaro all orecchia. Il filare e il cucire, eh’ era già cosa di tempi antichi, è andata hora del tutto a monte : non è più arte che s’usi fra loro, le carte e dadi sono la rocca e 1’ ago delle giovani d’ hoggidì, alle quali, non bastando di giuocar in grosso in casa, vanno cercando fuori chi metta su le pancie, onde trovano tanti mettitori, che sempre tengono la borsa aperta con danno e vergogna propria e dei loro mariti, perchè le case si possono custodire da loro stesse: ogni cosa è in mano delle massare e servitori, e quel che — 3 03 — più importa le figliuole da marito (i). So bene io, so come vanno le cose : basta. Ma, che bestia sono io a dolermi di ciò che per noi altre serventi non potrebbe andar meglio? Chi è da poco, suo danno. Ma non posso già far eh’ io non mi rida quando ci chiamano porche: ah, ah, ah! Hor sù, la va bene infine. Voglio andar a ritrovar Orsolina; quella vecchia del diavolo, che sta in culo mondi, acciò eh’ io habbia a perder le gambe due e tre volte il dì, c’hora madre hora la figliuola mi vi mandano, perchè montano ad un tempo tanti voglio e non voglio nella testa all’ una et all’altra, che non ha tante mosche la state, nè tanto tutt’insieme queste mosche sono fastidiose quanto la madre e la figliuola; onde mi bisognerebbe haver un sacco di piedi, et io non ne ho se non due con le scarpe rotte, che se ben sono larghe in cavarsi le loro voglie, sono tanto strette meco, che mai non me ne hanno donato un paio, bench’ io le logori andando tuttavia dove mi mandano, com’hora a cercar Orsolina: però non voglio tardar più, perchè madonna Despina non m’ assordi, che se bene ella ha hormai pochi denti in bocca, ha però tanta lingua ch’ella non finisce mai di gridare, tal eh’ io mi maraviglio ch’ella non creppi come le cicale; ma ella di gridar gode e fa creppar me. (i) Quanto vi sia di vero intorno alla vita, che secondo la servente Agnese, menavano le donne genovesi, vedilo in appendice n. II. Però riguardo al « metter su le pance » ch’era il gioco del redoglio, consistente nello scommettere sul tempo del parto e sopra il sesso del neonato, leggasi a p. 187 dei « Passatempi letterari » di A. Neri, lo scritto intitolato: « Il giuoco del Redoglio ». Da esso vedesi quanto fosse diffuso in Genova, e come severamente, ma senza efficacia, venisse proibito, per evitare (dice un decreto del Vicario arcivescovile del 1588) « separationi, et morte di diverse persone, et ruine di povere famiglie ». — 304 ATTO SECONDO SCENA PRIMA. Orsolina, vecchia. È possibile ch’ora che il mondo è tanto imputanito, et ogni giorno imputanisce più, io sia invecchiata? e invecchiata in quel tempo, quando le vecchie sono stimate da niente; e io mi ricordo pure che già erano le mezzane di tutti i maneggi, e per le mani loro passava ogni cosa, il che le faceva pur tenere in qualche conto. Perchè le giovani si contentavano di far l’arte loro, e lasciavano far la nostra a noi vecchie, et all’ hora era un bel mondo. Hora quasi (i) ciascuna vuol fare i fatti suoi senz’altri mezzi, perchè le giovani, le vedove (2) e le fanciulle hanno sì gran prudenza, che senza 1’ opra delle vecchie si servono et accomodano l’una 1 altra quanto possono nell’ambasciate, nei maneggi e in ogni commodità, in modo che noi vecchie hora possiamo dire delle favole alla gatta intorno al fuocolare, perchè (3) non vi siamo più per nulla: nè ci avanza altro che guardar la casa, sputacciarsi notte e giorno le mani filando un poco di stoppa, ove non si guadagna 1 acqua che si beve : però non solamente tutte noi vecchie di questa nobilissima arte hora in questa terra siamo fallite, ma abborrite, di (1) « Quasi » é aggiunta di pugno dell’ autore. (2) « Le vedove » » » » (3) Dalle parole: « non vi siamo più per nulla », per tutta la scena prima, e per la seconda in parte, sino all’espressione: « Pensa pur figliuola, che quando 10 non », si hanno quattro fogli non numerati, scritti di pugno dall’autore. Il primo e l’uftimo foglio numerati del testo originale, sono rispettivamente il 48-' ^ 5°> segno che al posto di un foglio antico soppresso, ne furono sostituiti quattro nuovi, recando cosi alla commedia un certo accrescimento. — 3°5 — sorte che le giovani, come se fussimo persone infami, si vergognano d’ esser vedute parlar con noi, che dovrebbono adorar per 1’ alta nostra virtù con la quale saniamo le passioni de 1’ animo de gl’amanti, le quali sono tanti e tali che l’ucciderebbero se non fussero sanati da noi, e sanati di sorte che cangiono ogni affanno e tormento in allegrezza e beatitudine; la qual cosa non sanno far i medici contempla orinali con tutti i loro medicamenti, coi quali non sanno curar altro che i corpi; si che possiamo dire che siamo tanto da più di loro, quanto è più degno l’animo che il corpo, il quale ancora questi medicastroni curano sì male molte volte, che molti gallant huomini li chiamano vuota borse e sutterra persone. Ma non possono con ragione chiamar così noi vecchie, perciocché in vece di sutterrar le genti non pur le liberiamo da morte, ma le facciamo ancora ingiovanire come la Fenice quando sono vecchie, e di brutte diventar belle, perchè sappiamo far lisci che non creppano, i capelli biondi, pelar le ciglia, il petto rilevato, le poppe sode, stringer le cose larghe, e simili altre novelle, ch’ora sono molto in uso. Ma poco ne guadagniamo, perciochè la maggior parte di quelle donne che le usano sanno far questa arte meglio di me, che pur sono dottissima in tale mestiero, di maniera che io mi trovo vecchia, povera e senza indrizzo, per non havermi saputo avanzare qualche cosa in gioventù quando poteva farlo; perché havevo sotto una buona e bella persona, con due pomi in seno da far peccare un’ altra volta il padre Adamo, nè il volto mio era spiacevole, • anzi bello e saporito, con un par d’occhi così dolci che mi faceva correr dietro gli huomini. E con la bellezza naturale, io seppi accompagnar l’arte e la dolcezza della lingua, con la quale ragionando legava per sempre chi m’ascoltava una sola volta, tal che la porta della casa mia era battuta nott’ e giorno, più che quella della nuova sposa ; onde per questo concorso universale, mi è venuto a miei giorni gran robba alle mani, et ho fatto de grossi acquisti, perchè io sappeva ancora menar le mani e batter il chiodo mentr’amor col suo caldo l’inteneriva; talché s’io havessi imparato dalla formica a conservar una parte della roba per lo verno della vecchiezza, potrei adesso andarmene a tavola a man lavate. Ma pensando che il fior della — 3°6 — gioventù, che dura tre giorni, dovesse durar sempre, spendeva e spandeva tanto, che l’uscita mi era più grande che l’entrata; ma se io ho mangiata la carne, caco hora le piume, che le fila d’oro sono venute d’argento, il viso delicato, increspato, gl'occhi ridenti Lagninosi, la bocca di corallo e di perle sdentata e bavosa, e le pome acerbe vesiche sgonfie, e tutta la persona mia già tonda com un beccafico, secca di sorte, ch’ella pare 1’ossa del- 1 anotomia, si che quelli che mi hanno quasi adorata, non degnano pur di salutarmi hora ch’io sono sfiorita a fatto; nè sono più buona da far 1 arte perch’ io ho cominciato fino di dodeci anni a servire, e mi sono dimenata tanto servendo che sono stanca, debole e mal sana, perchè la vecchiezza ha più diffetti che un remo torto; tal che adesso andrei a l’ospedale come vanno l’altre mie pari, s’io non havessi l’appoggio di questa gentilissima fanciulla Ginevra alleva mia (i). Voglio andar’a visitarla, che sono due giorni ch’io non ci sono stata, et consolarla in questa sua grande afflittione: oh! quanta compassione ho della poverina. Ma eccola sulla porta, mi deve stare aspettando. SCENA SECONDA. Orsolina e Ginevra. Orsolina. Buon dì, figliuola. Ginevra. È pur tempo che vi lasciate rivedere. Parmi eh’ io mi trovi in istato di star due giorni senza voi? Io credeva quasi che fuste morta. (i) Qui siamo proprio ad un vero lamento della cortigiana in piena regola. Trattandosi di un tema così sfruttato nella letteratura, specie del Cinquecento, è più facile trovare in questo del Foglietta imitazione di altri comuni in quel tempo, che osservazioni nuove ed acute. - 307 - > Orsolina. Pensa pur, figliuola mia, che quando io non ci vengo la necessità mi ritiene, che quanto a me io non vorrei mai stare se non teco, dove sono sempre con l’animo: ma dimmi come vanno le cose? Ginevra. A la peggio. Si parte hoggi; ahi lassa! Orsolina. Horsu, Ginevra figliuola, piano per Pamor di Dio: che tu non sii sentita. Horsù ritienti un poco, di gratia. Non piangere, più trista me, se queste cose andassero all’ orecchie di tuo padre o di tuo fratello, non ti amazzarebbono eglino? r ^ Ginevra. Ahimè, Orsolina, quasi che se Alfonso si parte io debba più curarmi di vita, e che non mi fusse grafia grande che alcuno mi levasse dal mondo, ch’in ogni modo ho subito da morire. E come potrei vivere, pur un momento, partendosi da me l’anima mia? Orsolina. O poveretta, che parole sono queste? Deh mitiga un poco questa passione e dà luogo alla ragione. Non pianger, su. Deh ! meschina quanto faresti meglio a pensare all’honore e al ben tuo. Ginevra. Il ben mio è solo Alfonso, nè altro bene ho in questo mondo, che lui, al quale mi convien sempre pensare. Nè posso volere, V — 3°S — nè voglio potere mai volgere il pensiero altrove che a lui, il quale è fine d’ ogni mio pensiero : ahi ! lassa me. Orsolina. È possibile che una giovane d’ intelletto e savia come sei tu, si dia tanto in preda alla passione, che la ragione non abbia alcun luogo in lei? Dove è la tua honestà, la tua modestia? Dove la riverenza paterna? Dove quel tuo nobile ingegno di prima? Ginevra. È insieme con ogn’altra parte dell’anima mia, con Alfonso. Con chi volete ch’egli sia? Et allora lo rihavero quando mi restituirete Alfonso. Orsolina. Eh! che ti dovresti vergognare pensando ch’una tua pari, nobile, ricca, bella e allevata fra le delitie e le delicatezze, si debba esser fatta serva di un suo servitore, d’un famigliuccio venuto dalle forche dove merita di ritornare, che senza cagione alcuna hora ti lascia e mostra tener minor conto di te che delle scarpe vecchie, lascialo andar via in sua inalhora. Ginevra. Madonna Orsolina, se mi amaste, come dite, e come vuole la ragione, conoscendo in quanto affanno io resti pei la partenza d’Alfonso, voi dovreste sforzarvi con persuasioni e prieghi di ritenerlo, o, non potendo o non volendo farlo, almen ve ne do vreste condolere meco, o fingere di dolervene, per consolarmi, che non è poco refrigerio al misero il veder pietoso altrui delle sue miserie; ma voi in cui sola sperava, col persuadermi di la sciarlo, aggiungete non poca doglia alla doglia mia, si che mo strate d’ amarmi poco. - 309 - Orsolina. Anzi, perchè t’ amo come me propria, ti tico la verità come. debbo, e voglio (i) più tosto havermi a pentire per havertela detta che per essermi taciuta; che, sebene so che le mie parole ti parranno aspre e pungenti, spero ch’elle ti debbiano giovare come le medicine, che spesso le più amare sono di più sanità. E s* hora ti paio crudele, e mi porti hodio perchè non ti concedo le cose che il tuo gusto guasto appetisce, all’hora ti parrò pietosa, e mi porterai amore, perciocché pietoso si può dire il medico che punge con ferro la piaga per sanarla, e crudele colui che, donde bisogna ferro, adopera dolce unguento eh’in scambio di sanar l’infermo, 1’ uccide. Ginevra. Il mio male, madonna Orsolina, è di sorte che solo Alfonso che me 1’ ha fatto, può sanarlo, nè altro rimedio ho al scampo mio che lui; cercate dunque di ritenerlo in scambio dei consigli che mi date, che quel che non ha rimedio non riceve consiglio. Orsolina. Al mondo non è mal senza rimedio, pur che l’infermo voglia lasciarsi curare, eh’ è parte della sanità, dicono i savi ; però, se tu non sei sciocca e nemica di te stessa, cerca di curar il tuo lasciando questa bestia d’ Alfonso. Ginevra. Voi avete voglia, a quel ch’io veggo, ch’io vi salti agli occhi: al fine queste saranno delle vostre solite sciocchezze, che voi chiamate prudenze e medicine. (i) Le parole: «voglio più tosto » fino alle parole di Ginevra: «si ch’io farei un tristo baratto s'io pigliassi una pittura in » inchiuse, sono in due fogli 52 e 53, scritti di pugno dell’autore, dopo i quali si passa al n. /5, segno evidente, che furono sostituiti a tre dell’originale con accorciamento della commedia. Orsolina. Habbi pazienza eh’ io ti voglio ricordare il tuo bene, di’ è di lasciarlo, come tu ancora conoscerai, se ti liberi da questo affetto e passione che non ti lascia scorgere il vero; però cerca di liberartene com’ho detto, tenendolo da te lontano. Ginevra. Io vi torno a dire che questa lontananza non giova punto a l’incendio mio, anzi fa contrario effetto, perch'ardo più quant ho più lungi il fuoco, e vi dico insomma che o pietoso o crudele ch’egli ver me si mostri, io non posso viver senza di lui, nè posso voler se non quel eh’ amor vuole, il quale mi sforza ad amarlo tanto ch’io non posso star’ un giorno, un’hora, un momento senza vederlo. Hor pensate voi com’ io starei s’egli si partisse da Genova per sempre. Orsolina. A questo è buon rimedio. Ginevra. E quale ? Orsolina, Farti fare il suo ritratto da pittor che sappia fartelo, che almen quando tu cercherai di vederlo, egli non si nasconderà com’hora fa questo crudele di Alfonso che ti fogge e gode di stratiartl. Ginevra. I ritratti, madonna Orsolina, non parlano, nè fanno molte altre cose che mi fa Alfonso, le quali più m’importano, sì ch’io farei - 3ii - un tristo baratto s io pigliassi una pittura in scambio d’ Alfonso mio vivo e vero, perchè è troppo gran differenza dalla sembianza al vero e da 1’ essere al parere. Orsolina. Se il suo ritratto non ti basta, e se non può fare che, per la lunga usanza, la partenza d Alfonso non ti doglia alquanto, cerca di cacciar da te questo dolore con un nuovo amore , volgendo l’animo a qualche nobil giovane degno di te, trovando soggetto che ti meriti, il quale ti conosca, e conoscendoti ti stimi e honori per quella che sei ; che non è da meravigliarsi, che quest’ asino battisato, nutrito e avezzato sempre nel letame, non ti stimi punto, come tu vedi, perchè bisogna ch’egli trovi donna che si confaccia alla sua vile conditione, la quale sappia di cucina e di stalla, che dove è tanta sproportione di stato, come tra te e lui, non può essere vera congiuntione d' animo. Ginevra. Io credo che habbiate perduto il cervello a fatto, tali pazzie vi sento dire, nè certo è maraviglia, che chi invecchia (come si suol dire) rimbambisce. Orsolina. Pazza sei tu che ami gli altri più che te stessa, e ami uno che non è degno di scalsarti, un che non ti ama punto, nè sa amar altri che se stesso, come Narciso. Ginevra. Anzi pazza da catena sete voi che volete eh’ io faccia l’impossibile, e mi date rimedi contrari al mio male, nè conoscete che le medicine che date in tempo giovano, fuor di tempo offendono. Parvi questo tempo ch’io sia in termine di ascoltare questi vostri — 3 12 — ricordi sciocchi? Che se fuste savia, come volete esser tenuta, conoscereste c’ hora è più tempo da conforto che da riprensione, e a me venite a dir male d’ Alfonso, un’unghia del quale io stimo più che quant’huomini siano al mondo, nonché a Genova; che se bene egli non ha ornato il corpo di belle vesti come qui hanno molti, i quali perciò a voi paiono gentil’ huomini, egli ha tanto meglio adorno l’animo di belle virtù et honorati costumi che lo fanno degno dell’ amor d’ una regina, non che del mio. Et se bene egli si mostra ver me crudele, come dite e come è in effetto, più mi piace Alfonso cosi crudele che qualunque altro pietoso, che cosi vuole amore, il quale mi ha 1’imagine di lui scolpita nel cuore in modo ch’impossibile sarebbe intagliarlo d altra forma; e più tosto voglio patir e morir per lui mille volte il giorno, che goder e trionfar sempre per ogn’altro huomo, quantunque fusse un Re, perchè solo Alfonso voglio che sia Re dell’animo e del corpo mio finché mi durerà la vita; la quale solo per lui mi è cara, e s’io non credessi amarlo ancora doppo la morte e star seco in eterno, io morrei disperata : ahi lassa . Orsolina. Horsù, piano di gratia; ohimè, eccoci un’altra volta, che sì che ne segue qualche scandalo hoggi. Oimè che rabbia, che furore, che frenesia è questa tua. Ginevra. Dunque potrai tu mai (Alfonso mio) acconsentire a questo. soffrirai d’ essere cagione della morte di chi t’ adora ? sarai tanto crudele? tanto ingrato? lassa, io non posso creder ch’in così nobil petto, e in compagnia di tante rare virtù, possa ha ver luogo si brutto vitio com’ è l'ingratitudine, nè che crudeltà ti faccia partire, anzi giudico ch’il dispiacere ti levi di questa terra, che ardendo meco d’ugual fuoco, nè potendoti soffrire il cuore di vedermi maritare e dare ad altri, come dei haver inteso che mio padre vuol fare, t’induca a questo. Orsolina. Questa potrebbe esser la cagione, il che se fusse, ci sarebbe qualche rimedio; non ti disperar dunque, ma pensiamo al rimedio. Tu pur sei solita d’esser savia fanciulla. Ginevra. Che rimedio? Io non ho altro rimedio al mio male che Alfonso, il quale se si parte, si partirà da me la vita ancora, perchè, o che il dispiacere m’ ucciderà subito o eh’ io ammazzerò me stessa. Orsolina. Deh ! lascia homai queste parole, e ascoltami. Io lo ritroverò e vedrò di far qualche bene; consolati. Non può esser sì duro, che quand’io gli narrerò lo stato, nel quale tu ti ritrovi per amor suo, non si pieghi alquanto. Almeno lo pregherò ch’indugi qualche giorno, e credo che lo farà, ch’egli è pur di carne, e quand’ancora egli fusse di pietra, dovrebbe haver dolore del tuo dolore: fra tanto Dio ci aiuterà; non piangere, fammi questo piacere. Ginevra. Sì, di gratia, Orsolina, trovatelo, ingegnatevi con prieghi, con persuasioni, con gettarvegli a’ piedi, con promesse e con ogni arte di ritenerlo almeno alcun giorno; e quando non vi fusse altro rimedio, ditegli che almeno mi meni seco, ch’io lo seguirò per tutto vestita da huomo, per mare e per terra, e ogni travaglio mi parrà dolce s’io sarò a canto a lui. Orsolina. Deh che cosa ti sento dire? Ti soffrirebbe l’animo di perdere Phonestà, e di vituperar casa tua in un tempo. Am Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXV, fase. i.“ 21 Ginevra. A l’honestà, per quanto ho inteso, non è sottoposto la necessità, nè l’amore, e qui concorrono ambedue. Orsolina. Dunque non ti dorrebbe di far morire tuo padre e tua madre di dispiacere? E oltre di questo, andar per lo mondo tapinando? Ginevra. Io sono più obligata a la mia vita che a quella d’ altri e a ogni cosa del mondo, e senza Alfonso io non la posso haver un’hora. Quanto al mendicare, ho io il modo di provvedermi, perciochè io ho la chiave della cassa, dove per sorte hora fra le altre cose è una scatolina piena di gioie, che mio padre ha in deposito, le quali dicono che vagliono più di diecimila ducati. Orsolina. Horsù io lo ritroverò, e farò ogni possibile, e spero portarti buone novelle. Fratanto voglio che tu mi prometti di consolarti. Ginevra. Io mi sforzerò di farlo quanto io potrò con questa speranza. Ma udite, che questo importa, ditegli che s’egli si parte, forsi perchè non le soffra il cor di vedermi maritare e dar ad altri, come credo che questa sia la cagione, eh’ io 1’ assicuro sopra la fede mia ch’io starò sempre constante, come già ho cominciato, in non prender marito. Nè farò questo mai in vita mia senza sua licenza, e quando esso si contenterà ch’io venga a quest’atto, che a lui non nocerà niente, perciochè cosi maritata sarò sempre sua: stiane pur sopra di me, che, se bene colui che mi sarà — 3i5 — marito hàvrà dominio sopra il corpo mio, egli non sarà mai padrone della mente, senza la quale potrà dir di posseder un corpo morto, perciochè dell’animo solo Alfonso voglio che sia sempre signore, e del corpo ancora, com’ho detto. Nè havremo alhora minor comodità di quel ch’hora abbiamo, ch’egli sa bene la libertà c’hanno le donne in questa terra; e ricordategli che ingratitudine e crudeltà sarebbe questa d’ abbandonar me, che per amor suo non pur ho lasciato ogn’altro, ma ho abbandonato me stessa ancora. Orsolina. Io ho inteso, e so benissimo quello ch’io ho a fare; resta in pace. Ginevra. In pace resterò, se resterà Alfonso eh’è la mia pace; e in guerra e lamenti resterò ancora s’egli si partirà. Orsolina. Sta di buon animo e ritirati di gratia presto in casa, ch’io vedo venir uno in qua, e par mi Afranio tuo fratello. Ginevra. Io entro. Orsolina. O Dio? Son pure stata giovane anch’io e innamorata, perchè invero una donna senz’amante è come una vite senza palo, nè sa che sia la dolcezza di questo mondo chi non ha provato il frutto d’amore; e è infine una bella bestia, nè io mi sono contentata mai d’un solo amore, chè gli amanti di mia natura mi son sempre piaciuti come i pesci, che freschi hanno più succhio, e'ne ho fatto insomma la parte mia quant’ogn’altra ; e ne farei di nuovo, se ben son vecchia, s’io havessi chi m’aiutasse, perciochè amore non pur nelle giovani ha gran forza ma nelle vecchie — 316 — .ancora. Ma se bene io sono stata innamorata in gioventù da maledetto senno, mi riposava pure alcuna volta, nè sono però mai venuta in tanta smania in quanto è venuta Ginevra per Alfonso. Ma dove potrei hora ritrovarlo ? È anco a buon hora, anderò sino alla Madonna delle Gratie dove io fo le quaranta mattine della luminaria, e la pregarò che mi faccia gratia d’illuminare questa povera fanciulla, eh’è tanto cieca in seguir l’amor di costui, ch’io temo ch’ella precipiti, e faccia precipitar me ancora che sono sforzata d’aiutarla dall’affetione ch’io le porto, tanto pattisco di vederla penare. Poi darò di volta qua , eh’ egli vi si suole trovar spesso. SCENA TERZA. Afranio solo. Fra tutti i moti dell’animo io credo che la sospensione sia quella che, se ben più non lo trafigge, 'sì almeno più l’agita e lo commove: io lo provo hora, misero me, che, ancora che la cosa sia talmente ordinata eh’ io non mi sappia imaginare impedimento alcuno che la sturbi, non posso però fare, fin ch’io non la veda compita, di non starne in ansietà grande. Nè so trovar luogo, e son quasi fuor di me stesso : lo star solo mi annoia, la compagnia mi convien fuggire, essendo con l'animo tanto astratto ch’io non intendo quel che mi si ragiona, et o non parlo o non rispondo a proposito, a tal che, se la cosa havesse a durar molto, io mi farei presto scorgere per malinconico o per humorista. Ma ecco il Barro. SCENA QUARTA. Demetrio, Afranio, il Barro. Demetrio. Infatti il ricordo della Badessa è stato buono; ch’io non la mandi senza compagnia di una donna, e mi maraviglio che Sicurano non se ne sia avveduto. Barro. È tale la fede che mio padrone ha in me, che gli pare di potermi confidare senz’ altra compagnia questa cosa, havendomene più volte confidate di molto maggiore importanza. Demetrio. Cose di maggior importanza che la moglie? E che cosa può essere ? Barro. Denari, che in grossa somma mi ha spesso lasciato e mi lascia nelle mani. Demetrio. E i danari importano più che 1’ honor delle donne ? Barro. Sì, e che quel degli huomini ancora, per quanto si usa hoggidì. Demetrio. Tu dici il vero e così non fusse, ma lasciamo stare: io non dico ch’io voglio mandare in vostra compagnia una donna attempata, perch’ io non mi fidi di voi, che fidandosene il marito io non debbo cercar più oltre, ma per lo dir delle persone. Barro. E dove havete voi una tal donna così apparecchiata per hoggi ? Demetrio. Vi è una vecchietta molto domestica di casa, la quale puoi forse haver veduta, donna molto da bene et essemplare, la quale sarà al proposito; e perch’io le posso comandare, voglio trovarla e dirle che s’ apparecchi al viaggio per tutto hoggi. Ma voglio andar fino a Banchi per far un cambio, prima che la moneta si astringa più; ritornerò presto a casa, dove vorrei che tu mi aspettassi. Barro. Così farò, andate. Se la fortuna non mi è contraria, io farò un altro cambio, anzi due che daranno poco guadagno a questo avaro vecchio. Ma, o Dio, perchè non ritrovo presto Afranio per dirgli il disturbo, che all’improvviso ci sopraviene, che potrebbe mandare il dissegno in fumo. Ma eccolo a tempo. Afranio, il mare si comincia a turbare. Afranio. Non regnano già venti hora tali, nè il tempo dà già segno alcuno di mutatione. Barro. È nato un vento che non solo potrebbe turbare il tempo, ma affondar la nave, nella quale con bonaccia navighiamo. Afranio. Tu sei sì. buon nocchiero, eh’ io non temo di pericolo sotto il tuo governo. Ma che cosa è nato di nuovo? Barro. La Badessa ha detto a vostro padre che non le pare cosa honesta mandare così una fanciulla in viaggio senza la compagnia — 3r9 — d’ alcuna donna vecchia; e che se in questo è stato poco avvertito il marito, vi deve per honor suo proveder vostro padre. Afranio. E tu non sapevi rispondere subito che bastavi tu solo per la gran fede che Sicurano ha in te? Barro. Io le dissi questo e molte altre ragioni, ma non mi valsero, che difficile è persuadere chi non vuole essere persuaso, e infine egli consentì alla Badessa. Afranio. Deh! vedi se il diavolo comincia a metterci la coda: che accadeva che la Badessa si prendessi questi pensieri? Barro. Vogliono parere quel che dovrebbono essere. Afranio. Tu dici il vero: che si è concluso insomma ? Barro. Di ritrovare una donna, la quale si è subito ritrovata; non già che se le sia ancora parlato, e sarà quella Orsolina, servente delle monache, la quale pratica assai per casa vostra, come tu sai, essendo stata giudicata dalla Badessa per persona da bene e atta al proposito. Afranio. Quella, diavolo? Misero me, hora io sono ben morto, la salute stessa non mi potrebbe salvare. — 320 — Barro. Egli è meglio esser ben morto, che mal vivo. Afranio. » È vero; però mi vien voglia di gettarmi nel mare adesso adesso per uscir di questo affanno, di questo fuoco. Barro. Deh che ti sento dire ? Credi tu forse con l’acqua della marina spegnere il fuoco che ti tormenta? Afranio. Io non credo già questo, che se l’acqua estinguessi il fuoco d’amore, havrei già spento il mio con l’acqua del mio pianto, il quale invece di scemarlo, l’ha fatto maggiore: ma dico ch’io sto per gettarmi in mare per uscir di tormento e di vita in un tratto, con l’affogarmi, eh’è meglio morir una volta che mille. Barro. Dio vi guardi di far sì gran pazzia, perchè caderesti dalla padella nel fuoco. Ma mi maraviglio bene di voi come un par vostro si abbandoni per sì poca cosa. Afranio. Poca cosa eh? E qual ti parrà grande, se questa ti par piccola? Che riparo vuoi tu ch’io ci prenda? Barro. Pensiamolo, che ad ogni cosa è rimedio, pur che l'huomo non si abbandoni e mostri il viso alla fortuna, la quale teme chi non - 321 - la teme : egli è forza eh’ io vada ad aguzzar i miei ferrucci per adoprargli in tua diffesa; anderò, penserò, riparerò, qualche cosa farò io, dove sono huomini è modo, non manchiamo noi a noi medesimi. Afranio. Io non vedo che rimedio prendervi, e ho l’animo tanto turbato eh’ io sono quasi fuora di me. Barro. E se fu mai che ti bisognasse esser’ in te e haver il cervello a te, hora è il tempo. Afranio. Questo è il vero; ma infine non so che pensare, e il tempo è tanto breve che non ci è luogo a pensar troppo. Barro. E quanto il tempo è più corto, tanto più dobbiamo aguzzare l’ingegno a trovar presto rimedio per non perderlo; entriamo in casa e lascia far a me, che s’io sono quel eh’ esser soleva qualche cosa ritroverò che ti gioverà. Afranio. Sì di gratia, caro fratello. Barro. Entriamo. Afranio. Va innanzi. !*• SCENA QUINTA. Agnesa sola. Che mala ventura è questa, eh’una par mia non può più andar per la strada per l’importunità di tanti mascalzoni che non mi lasciano vivere. Io ne ho avuto dietro in questo tempo da cinque o sei; scappata da uno ecco saltarmi l’altro addosso, oimè che cosa dura è questa degli huomini da supportare a chi non vi è usa. Ti so dire che ci bisogna haver buone orecchie e star patienti, che noi altre siamo come i procuratori che non vanno mai in volta che non habbiano dieci agl* orecchi : chi pizzica di qua, chi punge di là; ve n’è stato uno più fastidioso degli altri che non mi si voleva levar dalle spalle, e venne fino a promettermi di farmi una veste con la coda dietro, come s’usa. Io alhora me le volto con un mal volto, e gli dico : va in mal punto, che questa foggia delle code dietro è cosa da gentildonne e non da povere par mie, alle quali per essere spedite conviene andar in veste corta e tonda. Nè solo i giovani mi danno fastidio per le strade, ma i vecchi ancora. Ve ne fu uno che mi voleva metter in mano un doppione, et io gli dissi: levamiti dinanzi, vecchio grinzo di Suzanna, che chi tutto ti premesse non ne caverebbe tanto succhio da empire uno scudellino.' Hor se i vecchi, che più non possono drizzar la testa, fanno questo, pensate ciò che debbono far i giovani (i). Ma ecco la padrona che viene dalla messa e forse dalla Predica. Si può ben dire che il predicatore per lei predichi nel deserto, che da un’orecchia gli entrano le parole, da l’altra n’escono, nè ella esce mai della sua natura diabolica (i) Sembra che non solo per le serve, ma anche perle altre donne, sopratutto ricche, fosse molesto andar fuori di casa, perchè dice una legge (Criminalium iurium civ. gen., Genuae 1555. 1. II, cap. LXIII) che certi uomini facinorosi le solevano « .... in viis publicis et conspectu adstantium, praetextu matrimonii, amplexari vel deosculari ». - 323 - per noi che serviamo, o che furia infernale; starete a vedere ch’ella mi farà un'altra predica per haver tardato un poco più, a sua posta, farò conto eh’ ella canti, che so fare anch' io orecchie da mercante. ................. SCENA SESTA. Despina padrona, Agnesa serva.. . . , • Despina. Io credeva che tu fussi andata fuor del mondo: è questa, hora di ritornare, asina. Agnesa. Dovrebbe ..esservi la via dell’orto di qua-a- S. Colombano, dove sta quella strega, io non sono però una colomba da volare. ..." i • Despina. Ecci' però tanto che tu debbi stare una giornata a ritornare? • : : . Agnesa. .... Io sono poi andata in Calabrache dove ella suole praticar, perchè sua figliuola vi abita, che deve esser di quelle. Despina. Se tu fussi andata sino alla porta dei Vacca, non dovevi tardar tanto; l’hai tu trovata al fine? Agnesa. Nè in questi luoghi nè. altrove mai mi sono abatuta ad essa, anzi cercando lei ho quasi perduta me stessa. — 324 — Despina. Non troveresti acqua al mare. Agnesa. Mi converrà far nascere le persone al vostro detto. Andatela a cercar voi, che sapete l’arte dell’indovinare. Despina. Odi, odi che risposta; così si risponde alla padrona? Agnesa. Io vi rispondo come meritate, e ballo secondo che sonate. Despina. Sonar ti bisognerebbe la schiena con un bastone, che a questo suono ballano gli asini. Quante volte ti ho detto che quando tu mi vedi in collera, tu non mi rispondi. Ti sei tu informata do-v’ella possa essere? A chi dich’io? Rispondi, ch’io ti caverò gli occhi. Agnesa. State indietro e tenete le mani a voi, che le so menare anch’io. Despina. Che non rispondi tu, manigolda? Agnesa. Io non vi rispondo, per ubbidirvi. Non mi havete pur hora comandato che quando io vi vedo adirata, io non vi risponda ? Perderebbe con voi il cervello Salamone, e Giobbe la patienza. - ]25 - Despina. Tu mi farai pur ridere, ma è un riso di rabbia, levamiti dinanzi presuntuosa, e non mi romper più la testa: che romper ti possi il collo. Agnesa. 10 mel ruppi il medesimo giorno ch’io venni in casa vostra, però voglio uscirmene in ogni modo. Despina. Noi saprai fare s’io non te ne caccio col bastone. Agnesa. Col bastone si cacciano i cani. Despina. E pur abbaia ancora. Partiti dico, che ti venga il morbo. Agnesa. 11 morbo mi verrà, se mi verrete appresso. SCENA SETTIMA. Despina, Isabetta Gentildonna. Despina. Hai tardato assai ad uscir fuori, havendo udita la messa. — 326 ISABETTA. Bianca e Pomellina, sorelle e compagne mie, mi hanno poi trattenuta, e mi è convenuto prometterle di andar doppo pranzo a goder una merenduola nella villa della Torre dell’Amore. Domani io voglio renderla ad esse alla nostra di Cornigliano, dove vorrei che veniste ancora voi, che di questo mondo pieno d’affanni tanto ne habbiamo quanto ce ne pigliamo; però non mancate. Despina. Io sono tanto travagliata d’animo che i piaceri delle ville e tutti gli altri hora mi offendono in cambio di rallegrarmi. Ma per seguire il nostro proposito, tu vedi dunque 1’ affanno nel quale io mi trovo per mia figliuola. ISABETTA. Lo vedo, ma non ve ne ho già compassione alcuna, perdonatemi, che meritate questo e peggio. Despina. Perchè? ISABETTA. Perchè voi stessa vi avete fatto il male. Despina. Et in che modo? ISABETTA. Perchè vi siete sempre governata male con vostra figliuola. - 327 - Despina. Anzi credo d’essermi governata benissimo. Nè penso che sia donna in questa terra che liabbia messa sua figliuola più nella via de buoni costumi, e più l’habbia sempre guardata et havutole gli occhi addosso. Isabetta. E questo è stato apunto il mal governo. ' Despina. Oh perchè? Isabetta. Perchè le figliuole non s’hanno a tenere tanto sepolte sempr’in casa, com’ havete fatto voi, che non 1’ havete mai lasciata affacciare alla finestra per la gelosia, nè conversar con 1’altre zitelle del vicinato (r). r • ‘ > . • . Despina. E quando io havessi fatto questo, non ti pare che fusse ben fatto? ; ;• ' ' / • * r ( ’ Isabetta. Madonna, no che voi non havreste fatto bene. Io vi dico che si vuol fare come l’altre. (i) L’educazione delle fanciulle sembra che lasciasse qualcosa a desiderare nel secolo XVI. La commedia ci dà su questo notizie preziose, che vengono confermate da buoni documenti. Chi desidera conoscerne qualcosa, veda in appendice il n. II. — 328 — Despina. H se 1’altre fanno male, vuoi tu che lo faccia anch’io? Isabetta. Non si può dir male quando si fa quello che fanno T altre, e quello che si usa. Despina. Oimè che ti sento dire? Volevi tu eh* io lasciassi in questa libertà, che le fosse stata cagione di prendere qualche mala piega d’innamoramento o d’ altro ! Isabetta. E quando ella si fusse ben’ un poco innamorata, e fatto un poco d’ amor savio, sarebbe stato si gran male ? Despina. Come se sarebbe stato male? Che è ciò che tu dici? Isabetta. Anzi, che è quello che dite voi? Io vi dico, madonna Despina, che alle zitelle si deve lasciar prender un poco di prattica, e gustare un poco il mondo, altrimenti diventano malinconiche com’è la vostra, alla quale, per cacciar da dosso questo humore, dovete lasciar fare un poco d’ amor gentile, com’ ho detto. Despina. Che amor gentile? Che amor savio? Non sai tu ciò che sanno far gli huomini che praticano con le donne, e massimamente con — 329 — le fanciulle? Non sai tu che il diavolo è tristo tanto, che (i) dove non può metter la testa mette la coda? Isabetta. Io vi dico che il demonio non entra se non dove trova l’uscio aperto. Despina. Questo è vero, però bisogna chiuderlo di fuori, ma a me par che tu voglia lasciar all’avversario la porta aperta, et il portello, volendo che le fanciulle aprano l’orecchie a gli huomini, che alfine le fanno voltar come a lor piace, talché quelle che sono grosse rimangono grosse da dovero: però bisogna fuggir l’occasione, nè conviene metter il fuoco presso la paglia: et insomma è meglio, secondo me, tener le zittelle ristrette, che aprirle tanto la strada come pare a te. Isabetta. Mi pare si, e con ragione, perchè si vede che la maggior parte di quelle che sono custodite con troppo stretta guardia, et battute, sono men pudiche di quelle le quali hanno qualche libertà. Despina. Questo non credo io, che buona guardia schifa ria ventura; nè basta alle fanciulle Tesser caste di corpo e di mente, ma far di modo che non siano macchiate di colpa, ma nè anche di sospitione, e siano qual candida e bella perla, al cui candore picciola maccia toglie ogni bellezza. (i) Le parole di Despina « dove non può metter la testa » , fino a quelle di Isabella « e le compagnie degl' huomini, e i ragionamenti un » sono nel f. 72 scritto di pugno dell’autore e sostituito ad altro che portava lo stesso numero. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXV, fase. 2° 22 Isabetta. h vero, ma non deve una zitella, per volersi far stimare buona et honesta, esser tanto ritrosa, e mostrar tanto d’aborire e le compagnie de gPhuomini e i ragionamenti un poco liberi, ch’ella gli fugga, e che, ritrovandovisi, se ne levi (i); perciochè costumi così salvatichi sono sempre odiosi (2), ma deve ascoltargli con un poco di rossore e vergogna. Despina. Sempre ho sentito dire che i ragionamenti tristi corrompono i buoni costumi, però non mi par che stia bene lasciar pratticar le fanciulle con gli huomini di questi tempi, che sempre cercano con studio grande di metterle nella fantasia cose che offendono l'honore et 1’ honestà loro. Isabetta. Anzi, da lasciarle fanciulle prendere un poco di prattica con gli huomini, ne nasce spesso il santo matrimonio. Despina. Anzi ne nasce senza matrimonio qualche figliuolo, come ho detto; però non voglio che mia figliuola faccia hora quello ch’io zitella non ho mai fatto. (1) Il ms. ha queste parole cancellate dalla mano stessa che scrisse l’originale: « perchè facilmente si potria pensare eh’ ella fingesse d’ esser tanto austera, per nasconder di se quello, eh’ ella dubitasse ch’altri potesse ivi sapere; e costumi » ecc. Cancellate queste, si è aggiunta la parola: «perciochè ». (2) Qui fu cancellato questo periodo quasi intero ... « Non voglio però che per mostrar d’ esser libera e piacevole ella dica parole poco honeste, nè usi una domesticherà intemperata e sen\a freno, sì che faccia credere di se quello che forse non è; ma ritrovandosi in tali ragionamenti ». Tolte queste parole, si aggiunse la coniugazione «ma », avanti al verbo « deve ». - 3 31 - Isabetta. O madonna Despina, voi siete una donna all’antica. Non sapete che con la mutatione de’ tempi si cangiano i costumi ? E quasi tutte le cose come si sono cangiate in questa terra, per quanto ne veggo e sento dire: e prima dove si fabricavano case, hora si fabricano palazzi, un famiglio solo nei passati tempi non pur ci serviva in casa, ma ci zappava la villa ancora (i), e in questi ogn’uno tien paggi e schiere de servitori, e le donne diverse serventi e cameriere, nè più si degnano andar con i loro piedi che si fanno portar in sedia, o, se pur vanno a piedi, portano i zoccoli tanto alti che per non cadere si fanno regger da’ servitori (2). Nei tempi antichi una sola muletta in stalla ci bastava, e noi moderni ne teniamo molte, cavalli, chinee e lettiche. In quella antica età non mangiavano di pelato se non gli amalati, et in questa in ogni casa si pela. I nostri antichi bevevano d’un sol vino, e mangiavano pochi cibi e grossi, che gli mantenevano sani, in vasi di vetro, di terra, di stagno, e i cittadini d’hoggidì mangiano e bevono in oro e in argento diverse vivande delicate, e vari vini che causano loro molte infermità. I nostri antichi (3) insomma (1) Dei mutamenti accaduti nella vita dei genovesi, e del lusso introdotto si hanno prove numerose, che brevemente abbiamo esposte nell’appendice al n. IV. (2) Nel Ragionamento di sei nobili fanciulle genovesi, Pavia 1583, a p. 56 leggiamo: « Nè anche mi par che stia bene alla donna, che è di honesta grandezza, portar nei piedi una pianella alta un palmo, per dir che si costumano, si come hora dalle medesime giovanette si va introducendo, che, di propor-tionati che sono, le fanno difformi parere, conoscendosi quella tal grandezza non esser lor naturale, ma posticcia, et oltre che le rende inhabili al caminare, et che bisognino continuamente d’esser sostenute dal servitore, se vogliono fare un passo senza pericolo di cadere ». (3) Le parole di Isabetta: « insomma dormivano », fino alle altre della stessa: » et hanno ancora il latte in bocca, che » sono nel loglio 75 sostituito nel solito modo ad altro che portava lo stesso numero. Però, dopo le parole di Despina: « Così non fusse » v’erano quest’altre cancellate dallo stesso autore: «perchè ella fa grave danno alla borsa degl' huomini et all’ honore delle donne; perciochè, mutando ogni giorno nuove foggie e nuovi abiti, quelle che non hanno il modo da poter far — 332 — dormivano in letti di panno e broccatello, e noi nel broccato e nella seta ornata d’oro, perchè la pompa adesso è in colmo. "V Despina. Così non fusse; ma lasciando hor questo, seguita quel che tu vuoi dire. Isabetta. Voglio dire che col tempo si cangia la maniera del vivere, e tutti i costumi, nè si fa più quel che si faceva innanzi: ma si va dietro all’uso moderno, et ho più volte sentito dire dalle persone savie e prudenti, che fu sempre cosa da savio accomodarsi a tempi presenti. Però voi, che siete savia, dovete fare che vostra figliuola vi si accomodi, e non volere eh’ ella faccia ancora quello che facevate voi al tempo vostro, dal nostro assai diverso, e quel che al tempo della vostra fanciullezza stava bene, adesso non riuscirebbe : perchè le zitelle di hoggidì sono più capaci di ragione, et hanno più cervello di dodeci o tredici anni, che non havevano all hora di venti; et hanno ancora il latte in bocca, che sanno dove il diavolo tien la coda. Despina. Iu puoi dire ciò che ti pare, ma non mi darai mai ad intendere che sia ben fatto di dare in questi tempi tanta libertade alle fanciulle. Isabetta. Pigliate dunque ciò che ve ne viene di voler esser più savia dell’ altre, e di volere dar leggi al mondo. Io non mi maraviglio pompa come V altre ; vendono la pudicitia loro a chi la vuol comprare, e i mariti falliscono ». L autore le soppresse, forse, perchè gli stessi concetti espressi quasi colle medésime parole li pose in bocca a Demetrio nella scena Vili, di questo medesimo atto. Si trovano esse nel f. 82 sostituito dall’ autore. — 333 — che vostra figliuola sia entrata in questo humore di volersi rinchiudere in un monastero, perchè essendo sempre stata rinchiusa in casa, nè havendo mai havuto conversatione d’huomini, non mi pare strano s’ ella gli abborrisce, e perciò non voglia marito. Vi prattica per casa quella Orsolina, mezza santa (per quanto mostra 1’ habito di fuori), che la deve haver posta in questi salti. Despina. Orsolina.è stata sua balia e l’ama come figliuola, nè credo già eh’ ella volesse veder chiudere in un monasteso per sempre cosa a lei tanto cara. Isabetta. Havrà poi letto libri di santi Padri ed altre leggende spirituali, le quali le haveranno fatto venir questa voglia. Despina. Questo no. Anzi simili libri se le sono sempre difficilmente potuti far vedere, e sempre haveva in mano il Petrarca, il famoso Decamerone, e simili altri libri toscani (i), dei quali ella si è sempre dilettata più che non havrei voluto. Oltra di questo ella leggeva le frottole , sonetti e canzoni del Foglietta in lingua genovese tanto volontieri, ch’ella ne pigliò diverse a mente con tanta felicità, essendo di bonissima apprensiva, e le recitava con tanta gratia, che ciascaduno sentiva più volentieri recitar lei che gli huomini, perchè questa nostra lingua sta meglio in bocca delle donne che degli huomini, come dicono i forestieri ; nè io ho mai (i) Dalle parole di Despina: « dei quali ella si l sempre dilettata », fino a quelle di Isabetta: « et t questo uno di. questi disavantaggi », si ha scrittura di pugno dell’autore nei fogli 77 e 78 sostituiti a due altri delToriginale. Nel foglio 77 si ricordano le poesie del Foglietta come già pubblicate e note, quindi la correzione della commedia certamente deve essere accaduta dopo il 1583, anno, in cui per la prima volta si pubblicarono le ricordate poesie a Pavia. - 334 — vietato a Ginevra le cose del Foglietta, perch’ egli cnopre le cose sue con senso doppio, si che le fanciulle le possono leggere, non che le maritate e le vedove. Isabetta. È un miracolo dunque che, dilettandosi di simili cose, le vengono si fatti capricci. Despina. La cosa sta come tu intendi: che pensi tu che stai così sospesa? Isabetta. Sapete che sospetto mi è entrato in capo? Guardate che questo non sia martello. Despina. E che martello può havere una fanciulla non innamorata? Isabetta. Che ne sapete voi? Non può ella essere occultamente. Despina. Me ne sarei avveduta se questo fusse, che il fuoco non si può tener coperto nella stoppa. Pensi tu eh’ io sia balorda e cieca affatto ? Isabetta. O madonna Despina, voi siete ancora di quelle della buona fede, e dimostrate saper poco come amore assotigli alle persone l’ingegno. Una zitella innamorata basta ad ingannare et a menare come bufole per lo naso cento vecchie; e facciano pur guardia s’elle sanno. - 335 - Despina. Io ti dico che questo non può essere. Isabetta. E chi ve 1’ha rivelato? Sapete voi l’arte d’astrologia e l’arte d’indovinare? Hor sopra di me che sarà ciò ch’io vi dico. Despina. Io non lo posso credere, che so che mia figliuola non è di quelle e non ha il capo ad innamoramenti. Isabetta. Haverci il capo solo è poco, ve ne sono di quelle che vi hanno il capo e tutta la persona; e pur si mantengono l’honor loro che non sta nel vero, ina solo in quel che si crede. Basta, so bene quel eh’ io vi dico. Despina. Quando il suo fallo fosse nascoso al mondo il saprebbe Dio, dal quale non ci possiamo nascondere, il saprei io, che n’havrei di continuo tal stimolo al cuore eh’ io vorrei che la mia fusse prima mille volte morta, eh’ esser di quelle. Isabetta. Non vi dolete dunque ch’ella voglia prender vita, che si può quasi dir morta, anzi sepolta viva eh’è peggio. Despina. Tu di il vero, et è questa una mala usanza di sepelire cosi le povere figliuole vive senza colpa loro, et una crudeltà grande et insopportabile. Isabetta. Sibene la maggiore che si sia mai usata, nè sentita in alcun tempo e luogo, et è questo uno di quelli disavantaggi che noi altre, povere donne, habbiamo da gli huomini per la forza e crudeltà loro. Despina. È pur troppo vera: ma lasciando questo, mi sapresti insegnare alcun rimedio? Isabetta. Che posso saper’io? È nuovo, e nato da poco in qua in lei questo capriccio, o pure vi pare ch’ella babbia sempre havuto tale inclinatione ? Despina. È nuovo ti ho detto; e natole da quattro o cinque giorni in qua, e par che sempre ella habbia cosa che le turbi il cuore, sospira spesse volte profondissimamente, e si diletta di star sola più che può, è sempre pallida, et è tanto maninconica che par il ritratto della malinconia, donde prima ella pareva quello dell’allegrezza, perchè stava sempre sul motteggiare, sul cantare e danzare, et infine tanto baldanzosa che non lasciava vivere gli altri in casa, per tanti suoi scherzi fanciulleschi, nè si vide mai in lei un’ombra di simil pensiero. Isabetta. Se questo dunque è, voi trovarete alfine che sarà il male eh’ ho detto. Despina. Quando bene fusse questo, che noi posso credere, che rimedio sarebbe al martello il farsi monaca? - 337 - Isabetta. Non sarebbe rimedio, ma disperatione che nasce da martello : s’io le parlassi una volta vi saprei forse dir qualche cosa. Despina. Horsù, doppo disnare io me ne verrò a star teco, e ragioneremo di questa cosa: sarai in casa? Isabetta. Io per vostro amore lascierò l’ordine dato, e resterò in casa Despina. Te ne ringratio. Ma ecco là Demetrio che ritorna: adio. Isabetta. Adio. SCENA OTTAVA. Demetrio, Despina. Demetrio. Ecco là madonna poco in testa, e anco fuora di casa a questa hora. Donde si viene? Despina. Io vengo dalla messa. - 338 -Demetrio. Tanto dura una messa, che fin a quest’ hora si stia a ritornar a casa? So che le tue non sono messe da cacciatori. Despina. Io, per dire il vero, vi sono andata più tardi del solito questa mattina, perchè mi sono messa una veste nuova dove si sta un pezzo come sapete. Demetrio. So che prima eh’ una di voi sia imbellettata, e vestita di tutto ponto, s’armeria una galea, ma so ancora che fareste meglio a mutar questo mal’uso, perchè alle donne prudenti conviene conservar la robba che mette in casa il marito, e voi fate il contrario, chè lo pelate cangiando ogni giorno nuovi abiti e nuove foggie, eh’è uno argomento della vostra pazzia (i). Despina. Anzi è un argomento della nostra prudenza, perchè cerchiamo di supplire con l’arte dove manca la natura, eh’in vero manca assai a quella donna alla quale manca la corporal bellezza, per esser ella più tosto particular privilegio delle donne, in cui par anco che più la cerchi di conservar la natura, non coprendo loro co’ peli il vago e bello come a gl’ huomini ; però a noi è più (i) Del belletto ragiona il Belgrano nella cit. op. parte III, cap. LX. Vedasi anche nell’appendice di questa nostra pubblicazione il n. II, dove nel documento cinquecentista, che contiene avvertimenti per i padri predicatori, trovasi espressamente raccomandato di riprendere le donne « de suoi belletti ollramodo » Ved. anche, a p. 25 del Ragionamento di sei nobili fanciulle genovesi, Pavia 1583, dove una ragazza si lamenta di doversi « con grande affanno et arte pinger la faccia di bianco et vermiglio colore». r — 339 - lecito pulirsi che a voi, i quali riprendete in noi quello che é molto più da correggere in voi. Deme' trio. Tu hai ragione, e mi maraviglio che tu sii tornata sì presto a casa havendoti messo una veste nuova, la quale è sì vaga e pulita eli ella non mi par tagliata a tuo dosso, ma di tua figliuola, nè sta bene a te ch’arrivi a gli anta, sì eh’ornai ti puoi chiamar vecchia, come già dimostrano le crespe del tuo volto, che non puoi nascondere con l’arte con la quale copri la bianchezza de tuoi capelli; sicché tu t’inganni se col metterti habito giovanile, e col portare adosso più robbe che non ha scorze una cipolla, pensi di parer anco giovane, grassa e tonda, che l’abito (come si dice) non fa il monaco. Despina. Io noi fo già per parer quel eh’ io non sono, ma per repararmi dal freddo hor eh’ è d’ hinverno, chè la state io son più leggiera di roba come sapete. Demetrio. Io so che non pur la state, ma d’ogni stagione, sei donna leggiera e di poco peso. Despina. Et io so che voi sete più scarso di me, perchè vorresti ch’io andassi d’ogni tempo nuda per non spender in vestirmi, sì ch’io sarei molto malcoperta s’io (i) non provedessi al bisogno mio, com’io faccio, e voglio farlo, poiché ho tanta dote da poterlo fare. (i) Le parole di Despina: « non provedessi al bisogno mio »; e le seguenti fino alle altre di Demetrio: « che hora sono tali, che potete dire di far » trovansi nel f. 82 sostituito ad altro dell’ originale nel solito modo. s — 540 — Demetrio. Se portar tre o quattro robe insieme non ti basta, porta la casa ancora adosso, come la testuggine e la lumaca, ma se ben puoi non dei però fare tutto il tuo potere, per non far dolere il cuore a quelle che non possono, le quali non havendo il modo di far pompa come 1’ altre, che mutano ogni giorno nuovi habiti e nuove foggie, vendono la pudicitia loro a chi la vuol comprare; ma con tutta la tua pompa, arte e possanza; non potrai già mai far tornar in dietro gl* anni, perch’ esser non si può più d* una volta, e sola la Fenice si rinuova. Anzi, invece di ringiovanire, ti fa invecchiai più presto la maschera del solimato che d’ogni tempo porti, la quale ti guasta la pelle, i denti et il fiato, di sorte che, per non puzzar viva come i morti, spendi anch’ un mondo in profumarti di vari profumi, tal eh’ io faccio la penitenza del tuo fallo in diversi modi. Per non offender dunque te stessa, me insieme e Dio, sarebbe meglio che ti cavassi la maschera dal volto, che non è tagionevol che tu facci tutto l’anno carnevale vagando per la città, che quando la gatta non è in casa il toppo va per casa, fi par che stia bene e che sia cosa honesta, star fuori di casa la sera e la mattina, per vanità, e lasciar le figliuole da marito in mano delle serventi e servitori (i), che hora sono tali che potete dire di far guardar le pecore al lupo ? « Despina. La mia ho sempre guardata come si conviene, e Dio voglia che non sia stato troppo: sapete quello che mi hanno detto alquante, con le quali io ho conferto questa nostra disgratia? Demetrio. O diavolo, era un miracolo che tu non facessi delle tue, e che tu stessi tanto a divulgar nel vicinato i fatti nostri; infine è im- (i) Qui furono cancellate le parole: « che in cambio di guardarle, le tradiscono per guadagnarne o per goderle sin, ed aggiunte le altre: « che ora sono tali ». - 34i — possibile che cosa occulta stia che sappia femina; che utile cavi tu da questo tuo tanto ciarlare? Despina. Non volete voi eh io mi consigli in cosa tanto importante, e massimamente con quelle donne che mi vogliono bene e sono savie? Demetrio. Il senno di queste tali è fatto come il tuo? Despina. Credo di si io; di quante sorte di senno si trova? Demetrio. Nelle donne credo che sia tutto a un modo. Despina. Se bene voi havete cercato sempre di tenermi bassa con tutto il vostro potere, sono molte donne che comandano a’ mariti, i quali si governano anco secondo il consiglio loro, e conferiscono con esse ogni cosa d’importanza. Demetrio. Questo non farei io mai, perciochè chi dice i suoi secreti a donne gli sepelisce nella tromba dei bandi publici, et io per me non mi fiderei nel cervello d’una donna, s’ ella fosse bene la savia Sibilla. Però, tornando a nostra figliuola, tutta questa terra, non che il vicinato, deve homai sapere ch’ella si vuol far monaca, havendolo già communicato alle tue compagne; ma che ti hanno detto queste savie? — 342 Despina. Che tutto questo disordine nasce da 1’ haver io troppo guardata Ginevra, e non haverla lasciata gustar il mondo. Demetrio. Buono, e tu che ne dici? Despina. 10 non so quello eh’ io mi creda. Demetrio. Hora hai parlato bene; e io ti credo, e se nell’altre cose del sapere dessi sempre la medesima risposta che hai data del credere, saremmo sempre d’ accordo. Despina. Ben, che rimedio prenderemo noi? Demetrio. 11 rimedio è bello preso. Despina. Che? Demetrio. Di dirle, come ti ho detto, che ne siamo contenti: che s’ ella ardisce di dimostrare pur un minimo segno di contradittione, guai a lei: io la pesterò di sorte che forse le caverò l’anima dal corpo, non che questo suo capriccio dalla testa. - 343 -Despina. AI nostro sangue vi soffrirà l’animo di far questo? Non havete anco parlato meco. Demetrio. Lasciami governar questa cosa a me, se vuoi, e se non vuoi ancora Despina. S ella è mia figliuola, come vostra, ci ho anco la parte mia, e ce la voglio havere, che così vuol la ragione. Demetrio. Per lo corpo: se mi ci fai metter le mani, io te la farò chiuder una volta. Io conosco la tua natura, la quale ha bisogno d’altro che di parole. Despina. Voi sete molto in furia hoggi: presto vi salta su il grillo, se bene sete vecchio. Demetrio. Hora non mi replicare più, in tua malhora; entra in casa, e risolviti, che questa volta anzi sempre l’ho da vincer io, e da star di sopra, che a me tocca portar le brache e non a te. Ma ecco Orsolina che viene in qua a tempo. SCENA NONA. Demetrio, Orsolina. Demetrio. Madonna Orsolina, bisogna che vi risolviate di farmi un piacere in ogni modo, nè voglio in ciò accettar scusa alcuna. * v 344 — Orsolina. Pur ch’io possa, e che non vi vada della conscienza, non desidero altro che farvi piacere. Demetrio. Potete, et è un'opra in servitio di Dio. Orsolina. Di questo non aspetterò mai esser pregata. Demetrio. A dirvela in un parola, vi conviene far compagnia sin’ a Nizza a Violantella eh’ io voglio mandar a marito. Orsolina. Ohimè, in questi tempi et in questa età mi volete metter in sì lungo viaggio? Demetrio. Oh voi mi havete detto più volte che havete in animo di visitar il Sepolcro, e che se haveste compagnia già 1’ havereste fatto; e non volete per un’opra che non è di minor merito, et in mio servitio, andare, anzi esser portata cento miglia. Orsolina. Da quando vel dissi in qua mi sento tanto mancata, ch’io non posso più andar sino alla Pace e Consolatione, che sono fuor di questa terra, dove io già soleva andar ogni sabbato per mia divo-tione. Ma per tanti sabbati mi è mancata la forza, e non la buona volontà, la quale spero che Dio accetterà e voi ancora. - 345 - Demetrio. Che mancata ? Siete però voi tanto mancata, che non possiate star un giorno solo in barca o sedendo o stando coricata ? Orsolina. Io temo tanto il mare eh’ io non credo quasi che 1’ anime dannate pattiscano tanto nel fuoco dell’ Inferno, quant’ io pattisco nell’ acqua del mare, a comparatione del qual travaglio la pena de’ denti, eh’ io ho provata quando ancora non m’ erano caduti, mi pare un diletto, sì che s’io m’imbarcassi morrei di dolore prima eh’ io arrivassi a Nizza Demetrio. Non c’è pericolo di morte, anzi il vomitar un poco vi sarà di sanità grande, e presto uscirete di questo affanno, chè il vento è bello et il mar tranquillo, eh’in un giorno vi rimetteranno a Nizza. Orsolina. Non si può fidar del mare, che serva manco fede che gl’ huomini d’ hoggidì. Ma io temo non solo del mare ma de’ corsali ancora, de’ quali hora, che Genova più non ha galee, il nostro mare è tutto pieno, in modo tale che, credendo d’andar a Nizza a far compagnia alla sposa, potrei andar in Turchia, dove intendo che si fìcano pali, che Dio ne guardi ogni fedel cristiano. Demetrio. Non vi è pericolo, che se bene Genova non ha più galee, Andrea Doria suo figliuolo fa sicuro il nostro mare. Ma quando voi foste presa, io vi riscatterei subito: statene sopra la fede mia. Atti. Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXV, fase. 2.0 15 — 346 — Orsolina. Diavolo, eh’ io me ne stia sopra la fede d’un mercadante in cosa dove ne va la vita e 1’ anima. Demetrio. Che parlate voi di fede e d’ anima ? Orsolina. Diceva che quei cani fanno rinegar la fede, e perder 1’ anima a cristiani schiavi, sì ch’io voglio pensar molto bene all’imbarcarmi, che non senza cagione si dice « loda il mare e tienti alla terra ». Huom di mare, hora ricco, hora povero, hora vivo, hora morto. Demetrio. Che tanto pensare? Non mi state più su queste vostre cacabal-dole, e risolvetevi, ch’io voglio ch’andiate in ogni modo, nè mi state più a replicar a questo una sola parola, che mi fareste entrar in collera dadovero. Orsolina (i). Hor su riponete la collera ch’io mi partirò, poiché così volete. Demetrio. Andate dunque a casa ad ispedirvi per questa sera. (i) Le parole di Orsolina : « Hor su riponete la collera » e le seguenti della scena nona e della decima, sino alle parole che nella undicesima dice Afranio: « Menerete al destinato luogo la vera Violantella. Resta », sono in tre fogli posti fra i fogli 87 e 89 dell’originale, e quindi sostituiscono il solo foglio 88. Hanno poche righe e più corte dell’ordinario, per cui può dubitarsi che rechino alla commedia un effettivo accrescimento. - 347 — Orsolina. Io vado. Demetrio. Fin’ alle donnicciole com’ è Orsolina, non che gl’ huomini di gran conoscimento, conoscono che questa nostra città bisogna di galee più che del pane, e chi dice altrimenti mostra d’amar poco l’utile e honor publico, perchè, poi che habbiamo lasciato di farne, Genova ha cambiato in fame l’antica fama, che se bene questa terra è circondata da altissime montagne, e fortissime mura che la ponno diffender dall’artigliarla, non la possono poi guardar dalla fame, perciochè tutto il nostro paese non produce tanto grano da pascerla tre giorni, non volendo noi seminar l’isola della Corsica, dalla quale si caverebbe tanto grano che la Liguria non bisognerebbe dell’isola di Cicilia, la quale ne cava il cuore, non che i danari di borsa, et possiamo temer tuttavia di peggio mancandone il pane, senza il quale possiamo sospettar non pur de’ principi forestieri , ma dei nostri medesimi di dentro ancora. Bisogna dunque per ben comune, e per ben particolare, rinovar l’antico uso di far nave e galee che ne portino del grano, ne diftendano il nostro paese e n’accreschino l’impero, come prima. Ma io ho sentito sonar la messa, voglio entrar in chiesa per udirla. SCENA DECIMA. Orsolina soia. S’io non ho voluto romperla con messer Demetrio, m’è convenuto promettergli contra mia voglia di partirmi, che so bene quanto possono i vecchi pari suoi in questa città. Ma io sto fresca : so che non mi mancava altro. Potrò ben hora attender’ alla cosa di Ginevra sua figliuola. Io sto per dar del capo nel muro; voglio però far tanto in ogni modo, ch’io ritrovi e parlare una volta a Ginevra, che, quanto meno ho tempo, tanto più bisogna non perderlo. — 34§ — SCENA UNDECIMA. Afranio, il Barro, Alfonso. Afranio. Tu hai pensato bene che a tant’ altre trasformationi si aggiunga ancor questa, di trovar una donna al proposito nostro bene instrutta e quella nominarla Orsolina, et con essa ingannar il vero Andreolo, sì come lo inganniamo con la finta Violantella; e così il proprio Andreolo con la infinta Orsolina condurrà a Securano la non vera Violantella, e tu fittitio Andreolo anderai con l’istessa Orsolina, e con Alfonso menerete al destinato luogo la vera Violantella. Resta che noi ritroviamo questa donna. Barro. Habbiamo danari, che le donne sono belle ritrovate. Afranio. È vero, ma il tempo è breve. Barro. La farò nascer io in un subito. Afranio. So che sei un valent’ huomo' e chi sarà questa ? Barro. Non sai tu ch’io sono in questa terra con la moglie ancora? ^ m « \ —__i — 349 Afranio. Lo so. Barro. Credi tu dunque eh’ essa non sia così bene atta a far una trasmutatone, come faranno la figliuola et il marito. Afranio. Buono buono, non potrebbe essere più al proposito nostro. Ma quando sarà ritornata la vera Orsolina a mio padre, a cui riferirà ella liaver lasciata la Violantella? Questa è l’importanza. Barro. È si gran cosa questa? Non hai amico alcuno in quei luoghi della Riviera vicino ad Arassi? Afranio. Io ne ho molti, et a punto in Taglia, eh’è luogo non molto discosto da Arazzi, è Rambaldo de’ Mainardi. * Barro. Daremo ad intender ad Orsolina, quando saremo giunti a Taglia, che Taglia sia Arassi, aiutandoci a questo Rambaldo, il quale subito senza lasciarla fermare l’imbarcherà per Genova, et esso, per tue lettere informato, si trasmuterà in Sicurano. Partita poi eh’ essa sia, noi condurremo la Violantella secondo l’ordine a Marsiglia. Afranio. Non si poteva pensar meglio, e faremo in questo maneggio più metamorfosi che non hanno fatto tutti i poeti insieme. - 35° ~ Barro. Così pare a me, e se bene io non sono mercatante, come voi, mi posso chiamar anch’ io cambista, poiché so cambiar in diversi modi diverse persone; ma voi per voi stessi sapete far cambi meglio ch’io non li so far per me proprio, perchè di poco e nulla sapete far tant’oro, come si vede, e tanto presto che non pur vi potete chiamar cambisti, ma veri alchimisti, la qual cosa non so far’ io, che con tutto il inio cambiare non mi trovo un soldo. Alfonso. Queste parole, padrone, tendono alla borsa vostra al solito come ogni saetta vola verso il segno destinato. Afranio. Io non ti lascierò mancar danari se non manchi a me, ch'io conosco e riconosco i servitii come già puoi haver provato, e so eh’ ogni fatica vuol premio : per danari dunque non manchi, perchè non è ricco chi accumula tesoro, ma chi lo gode cavandosi i suoi desiderii. Barro. Io non ne dubito. Hor qua non è da perder più tempo, io me ne vado a casa da mia moglie, per instruirla del tutto, e farla metter in ordine per lo viaggio. Afranio. Si di gratia, va via, che verrò subito anch’io là; io vedo messer Demetrio mio padre eh’ esce di chiesa, e mi avedo eh’ egli mi ha veduto; voglio andar da lui. r - 351 — Alfonso. Andate, ma vi torno a ricordare che non vi fidate di costui, perchè è Barro et ha per moglie Pandora, eh’è un vaso pieno di tutti i mali, dal qual non può uscir cosa buona. SCENA DUODECIMA. Demetrio, Afranìo. Demetrio. Afranio. Afranio. Padre. Demetrio. Io ti voglio. Afranio. Eccomi, che comandate? Demetrio. Io ti ho più volte ragionato del parentado eh’ io voglio far con Urbano, dandoti la figliuola sua per moglie, nè ho mai havuto da te il consenso libero, anzi mi è sempre paruto comprendere che tu mal volontieri ti ci conduca. Non so perchè, e ben ch’io mi assicuri di poter in ogni cosa disporre di te senz’altro tuo consenso, che così vuole 1’ ubidienza, la quale tu mi devi, nondimeno, perchè non solo voglio che ti accomodi alle voglie mie, ma desidero anco che cosa tanto importante proceda con tua sodisfattione, dimmi liberamente, e così ti commando, quello che ti ritiene di venir prontamente a questo atto piacevole et a te necessario. — 3 52 — Afranio. Padre, poiché voi mi comandate ch’io liberamente vi dica la cagione della mia resistenza, ve la dirò in due parole; non è altro se non perch’io non ho, nè hebbi mai l’animo inclinato a tor moglie. Demetrio. - Perchè ? Afranio. Molte sono le cagioni, e tutte a mio giudizio d’importanza: la prima perch’io sono d’animo libero, e poco accomodato a tollerare alcuna sorte di legame; 1’altra perchè ho gran paura d’abbattermi in donna ritrosa e di costumi bestiali, e diversi da miei, come in questi casi molte volte avviene, et ho sentito dire, et in ciò s’ accordano tutti coloro che ne parlano per prova, eh’ in tal caso l’huomo ha in casa un perpetuo inferno. Può ancora facilmente accadere, come a molti occorre, di haver figliuoli di mala natura, che riuscendo scostumati, insolenti e da poco, mi tengano in continuo travaglio e dispiacere, e mi facciano alfine morir disperato. Io dunque, che sono di natura quieta, vorrei, quando vi fusse in piacere, liberarmi da tutti questi pericoli col non tor moglie (i). Demetrio. Mi piace di averti inteso, e che tu mi habbi scoperto la tua malattia, per medicarti, che veramente non sono le maggiori nè (i) In questa scena abbiamo una vera dissertazione sull'amore e sul matrimonio. Simili argomenti interessano certo gli uomini di ogni tempo, ma nessuna età ebbe ad occuparsene quanto il secolo XVI. Il Foglietta mostra di conoscere alcune delle tante scritture cinquecentiste che ne trattano e che meriterebbero di essere meglio studiate. Vedasi a questo proposito il breve scritto: M. Rosi, Saggio sui trattati d' amore del Cinquecento. Recanati, Simboli 1889. # — 353 — più pericolose infirmiti di quelle delle false opinioni , eh’ ingombrano l’animo, come è questa c’hora occupa il tuo; nè me ne maraviglio per la tua poca età, e poca sperienza; laonde prima dei presuporre per cosa certissima eh’ essendoti io padre, et amandoti più che me stesso, non ti cercherei di dar moglie, s’ella fosse mala cosa, e da fuggire; e che non sono tanto ignorante, ch’io non sappia discernere il male dal bene. Onde questo solo ti deve acquetare. Pure non lascierò di dirti che il legame del matrimonio non è aspro, nè il carrico è grave, anzi questa sola è vita quieta e santa, e massimamente di coloro i quali vogliono viver col timor di Dio. Parlo di quelli a’ quali per la professione non è proibita la moglie; l’altra vita non più libera ma sì ben più dissoluta si può chiamare, e da cervelli stravaganti, i quali col partirsi dagli usi communi et honesti si credeno parere d’intenderla meglio, dove più deboli, men giuditiosi e mal fondati si dimostrano. Nèv sì gran fatica è come tu credi il reggere e tener in freno una donna sia quanto si voglia ritrosa e strana, purché l’uomo sii di nervo et sappia ritenere la sua superiorità: e tutte le donne stanno soggette et ubidienti a i mariti, purché i mariti siano huomini; se sono buone per amore e per debito, se malvagie per paura. Oh 1’ andrebbe bene se fussimo atti a governare et a frenare i popoli, i regni et a domar le fiere indomite, e non fussimo poi bastanti a porre il giogo a una debole feminuccia. Questi sono, Afranio mio, pensieri bassi, e da huomini snervati e abietti, de’ quali tu ti dei far beffe. Nè vi è poi pericolo che i figliuoli ne siano tristi uscendo da padri buoni et havendo buona educatione, che è una seconda natura ; e tutti quelli che riescono indegni delle loro case, sappi per cosa-certa che è mancata loro una di queste due cose. Afranio. Si vede pure che la maggior parte di coloro i quali per dottrina, e per haver praticate le corti dei principi si deve credere che intendano meglio le cose del mondo, vivono senza moglie. 3 54 — Demetrio. Oh quaùto t5 inganni, Afranio, in questo : et per trarti d’errore ti dico che le dottrine (dalle sacre lettere in poi) insegnano bene meglio parlare, ma meglio operare non già, e nelle corti s’ impara ogn’altro vivere che il politico, e questi tali non voglio che tu imiti in modo veruno. Afranio. Si vedono ancora tutto ’l dì huomini, i quali sono pur savi, e nondimeno non possono viver con le mogli, e non potendo soffrire questa perpetua noia, si hanno preso volontario esilio per mancarne, dicendo che il buon tempo subito esce di quella casa dove entra la moglie, la quale dà due buoni giorni soli al marito, 1’ uno quando la mena a casa , 1’ altro quando la manda alla sepoltura , perchè mentre eh’ ella è viva dà tormenti al meschino tali, che s’ egli fusse il patiente Giobbe perderebbe la patienza. Demetrio. Perder la patienza farebbono a me s’io sentissi questi nemici dell’ humana natura parlar fuor d’ ogni ragione , contro la buona moglie e santo matrimonio , dal qual nascono senza peccato i figliuoli , i quali rendono i beneficii ricevuti in pueritia ai padri già vecchi, perchè gli nutriscono, poi gli rinovano col generar essi ancora altri figliuoli, da’ quali aspettano in vecchiezza ricever quello eh’ essendo giovani hanno prestato ai padri, onde la natura così adempie l’eternità, donando immortalità a mortali, e come del corpo e dell’anima risulta un composito più nobile che le sue parti, eh’ è 1’ huomo, così dalla compagnia di marito e moglie risulta un composito conservativo della spetie humana, senza il quale le parti si distruggerebbero. Talché, non pigliando tu moglie, offendi — 355 - in un tempo te stesso, me insieme, tutta la casa nostra, anzi tutto il mondo, e Dio ancora (i). Afranio. Io, padre, non lascio di tor moglie per le ragioni loro, perchè più credo a voi solo, come debbo, eh’a tutti gli altri insieme, ma perchè non vi ho 1’ animo inclinato com’ ho detto. Demetrio. Ma che vita vorresti tu fare non prendendo moglie? Afranio. Poiché cosi volete, ve il dirò; ma vi prego che non ve ne turbiate. Demetrio. Purché non sia vanità da fanciullo, com’io temo, m’acqueterò. Afranio. Io non credo eh’ ella vi debba parer cosa fanciullesca, anzi forse troppo grave, pur ve la dirò; e per uscir di proemi, vi dico, padre, eh’ essendo io nato con animo più tosto inclinato a gli honori, e più desideroso di agrandirmi che di accumular tesoro, non posso volger la mente alla mercantia, come vorreste voi, e massima-mente in questi tempi che più non si sa di chi fidare , e temo che i nostri danari non diano in qualche fallito, come intervien (i) L’amore della successione, sentito in genere dagli uomini tutti, pare che i genovesi in sommo grado lo provassero, tanto che i forestieri facilmente lo notavano. Il Gonfalonieri, nel Viaggio cit., p. 190, dice: «Amano assai la successione, onde lascieranno talvolta ad uno che le appartiene pochissimo tutta la loro eredità, con lasciare qualche cosetta a qualche luogo pio ». — 356 — spesso, o che l’Imperatore al quale fidiamo quasi tutto il nostro, perchè ne caviamo grosso guadagno, ne porti via il guadagno et il capitale per morte o per fortuna, in modo che credendo di pelar l’aquila si troviamo alfine pelati noi ; il qual sospetto mi travaglia l’animo di sorta che ho spesso invidia a i poveri mendici, per ciò che se la fortuna non gli ha arricchiti, non temono d’esser impoveriti da lei, come temo io, il quale con gran ragione ho sempre paura di trovarmi « infantem nudum ». Mi stimola ancora la conscienza, perch’ io vedo che i mercatanti di tutto il mondo sono venuti cambisti, che quasi vuol dire usurari, se bene per honestare questa disonestà quando d’ ebrea fecero cristiana 1’ usura, le cambiarono il nome e la chiamarono cambio o beneficenza; sì che s’io pur volessi esser mercatante non vorrei più far cambi come ho fatto fin adesso per sodisfar al desiderio vostro, ma vorrei far mercantia reale eh’ è cosa da buon mercatante, e non pur è lecita ma di merito grande apresso Dio, perch’ ella dà inviamento al popolo suo, al quale lo levano i moderni cambisti, poiché non degnano più di far mercantia, perchè temono di imbrattarsi le mani facendola, ma non temono già d’ imbrattarsi 1’ anima facendo cambi illeciti, li quali in somma fanno più volontieri che la giusta mercantia per due cagioni, 1’una perchè sono di minor fatica, che basta una piccola poliza, la quale fanno girar in ogni parte del mondo come il sole: l’altra perchè sono di maggior guadagno, del quale tengono più conto che della propria anima, come si vede, perciochè tutte le ricchezze grandi c’ hora si trovano in questa città sono moderne e non antiche; eh’ in breve non può far un grand’ acquisto, chi non fa grand’ intrico ladro e tristo com hora fanno i cambisti, i quali in conclusione s’ arricchiscono in un tratto, benché spesso in un tratto s’impoveriscano ancora, che per tanto cambiar e ricambiar, e voltar e rivoltar i danari fanno spesso il fine del saltatore che è di rompersi il collo, sono poi chiamati mercatanti senza fede, se bene essi giurano spesso a fe’ di gentilhuomo (r). (i) Per il cambio reale e a secco vedansi: Peri, Il Negotiante, Genova, 1647» cap. X, XI ; Tractatus de cambiis, auctore Raphaele de Turri, Genuae, Calenzanus, - 357' - Demetrio. I nostri genovesi lo possono giurar con verità, perciò che i principi hanno dichiarato che la mercantia non pregiudica alla nostra nobiltà, perchè noi che siamo nati su questi scogli e monti alpestri dove abitiamo ancora, non possiamo stare otiosi e senza negotii, come i gentilhuomini romani, lombardi e napoletani, che possono vivere dell’ entrata dei loro stati e poderi ; et s’io non credessi che i cambi eh’ io fo fussero leciti, non li farei per tutto l’oro del mondo, perch’ io non vorrei, per lasciarti ricco in terra dove si sta poco, andar a l’inferno dove si sta sempre. Ma lasciando hor questo, dimmi dove vorresti impiegarti, non havendo volto il pensiero alla mercantia senza la quale questa terra, che non ha terra da seminare, non si potrebbe sostentare (i)? Afranio. Ve il dirò. Parendomi che per ascendere alla grandezza e dignità dove aspiro non vi sia altra via più atta nè più sicura del-l’ecclesiastica, vorrei, quando con buona gratia vostra fusse, far quella professione. 1641. Di questo si conserva una bella copia nella Biblioteca della R. Università, e si può consultare con profitto anche per gli abusi ai quali il cambio soleva dar luogo. Del cambio e dell’usura in Italia parla anche il prof. C. Supino, nei cap. Vili e IX dell’ opera : La Scienza economica in Italia dalla seconda metà del secolo XVI alla prima del XVII, Torino 1888. Noi senza pretendere di far la storia del cambio, ma solo per illustrare la commedia, ne tratteremo brevemente in appendice sotto il n. V, valendoci di documenti genovesi. (1) Quest’ opinione di messer Demetrio doveva essere allora comune in Genova. G. B. Gonfaloniere, che passò da questa città per recarsi a Madrid nel 1592, nella descrizione del suo Viaggio già cit., a p. 190 dice: « Questi gentiluomini hanno per privilegio di poter tutti far mercanzia, senza pregiudicare alla loto nobiltà , sono ricchissimi affatto ». ecc. Demetrio. Questo pensiero in verità è d’animo generoso e nobile, e la professione è magnifica et honorata, del che fanno fede tant’ huomini che si danno a quella i quali per virtù e per sangue risplendono. Ma voglio che tu creda a me, il quale, oltra a Tesser vecchio, ho consumato a Roma parte de’ miei migliori anni, che se per tutto è un miglio di mala strada in questa se ne trova una lega (i). Afranio. Già questo presupponeva, che se per tutto è che fare assai, è molto giusto, che più ne sia, dove i premii sono maggiori ; ma la maggior difficoltà non deve spaventare gl* animi generosi e gentili, anzi incitargli e spronarli più. Demetrio. Eh Afranio figliuolo, quanto a’ premii non è tutt’ oro quello che riluce; e la poca sperienza fa ingannare molti, e massima-mente in questi tempi nei quali quella fortuna, che da un tempo in qua perseguita l’Italia, è stata iniquissima in questo ancora, di haver tolto alla Corte Romana in gran parte la facoltà di premiar chi la seguita per molti rispetti, i quali non è hora luogo nè tempo a raccontare. Nè accade eh’ io più mi stenda in questo , essendo tal vita a te del tutto interdetta. Perciochè vuoi eh’ el ceppo nostro in questa città tanto antico e honorato, e il quale per debito di natura siamo obligati a mantenere, si spenga del tutto in noi che soli ci avanziamo? Anzi, per questo desidero io di darti (i) Notisi che razza di argomenti adduce messer Demetrio per allontanare il figlio dalla carriera ecclesiastica. Per conoscere poi se anche a Genova nel secolo XVI 1’amor del guadagno e l’ambizione potesse su coloro che prendevano la via del Santuario, leggasi il cap. I, parte I, dello Studio « La Riforma religiosa in Liguria » ecc. pubblicato nel fase. Il, voi. XXIV degli Atti della Società Ligure di Storia Patria. - 359 - presto moglie, acciochè prima eh’ io muoia, al qual passo mi vo tutta via avvicinando, io veda perpetuar il sangue nostro nella prole ch’uscirà da te, eh’altramente io non morrei contento. Onde tu, quando non fosse per altro, lietamente dovresti disporti a questo atto santo, piegando 1’ animo alla vita civile, eh’ è libera da tanti mali. Nella quale se non vorrai essere mercatante, facilmente te ne compiacerò. Ma dei però sapere, che ancora per via della mercantia o cambi tu puoi acquistare marchesati, ducati e principati, come hanno fatto da pochi anni in qua molti poveri gentilhuomini italiani e d’ogni parte, a i quali si dà dell’ Eccellenza come a coloro che si hanno acquistato tali titoli con la lancia sulla coscia, o come a i principi nativi di chiara e antica nobiltà, i quali in questa età fanno mercantia e cambi ancora. Ma lasciando questi vani titoli, vorrei che tu ti contentassi di quelle dignità che ti può dar la nostra repubblica, come deve fare ogni buon re-pubblichista, che chi serve alla patria serve a Dio, del quale gli ufficiali sono luogotenenti in terra; talché servendo bene la repubblica puoi aspettare due premii grandi, 1’ uno da Dio eh’ è il regno del Cielo, l’altro dalla patria la quale ti può far governatore di regni, senatore, duce, e darti altri degni magistrati, i quali vorrei (com’ ho detto) che ti bastassero, nè vorrei perciò che tu andassi mendicando queste dignità communi, come fanno molti ambitiosi et ignoranti cittadini, i quali le vanno cercando con la lanterna , e si tengono tanto da più quanto più hanno publichi honori, e si dividono fra pochi quel che si deve partir fra molti, i quali sono atti al governo non meno di loro, perchè non sanno quanta fatica sia a reggerne bene un solo, onde fanno governando molti errori, de’quali altri fanno la penitenza, che mal può insegnare chi è ignorante e ordinare chi è inordinato. Et insomma non è bene alcuno, che così universalmente giovi come i buoni governatori, nè male che così universalmente noccia come i mali governatori, i quali offendono se stessi ancora, che non il magistrato honora 1’ huomo, ma il far cose degne del magistrato, il quale fa conoscer 1’huomo; però prima che conseguirlo dovrebbono cercar di meritarlo, ch’altro ci vuole che vesti togate a regger bene e governare uno stato, com’ hai più volte da me inteso. — 3 6° — Afranio. L’ ho inteso, e so che 1’ honor vero è meritar 1’ honore, perciò vorrei prima eh’ entrar in magistrati che vi contentassi di lasciarmi andar ad abitar almeno un par dJ anni a Venetia , per imparar a governar bene la nostra repubblica da quella de’ Venetiani, i quali per lo buon governo, per le galee e unione loro si hanno conservata sin ad hora quella libertà, con la quale sono nati già mill anni, e spero che Dio la manterrà sempre in tale stato, anzi la tara andar di bene in meglio, acciochè l’altre republiche imparino a star unite da lei, la quale nell’ acqua si salva come 1’ arca di Noè, senza temer dell’ onde altiere che la circondano e la minacciano di somergerla, perch’ ella è più forte fondata nell’ acqua che 1 altre terre tondate in terra e sopra duri sassi, perciochè come i cittadini suoi portano fuori un solo abito, così sono d’ un solo volere dentro, di conservare et aggrandire la republica, 1’honore et utile della quale antepongono, non pure ai danari ed alla robba, ma alla propria vita, come hanno sempre fatto e si deve fare, perchè, doppo Dio, siamo obligati alla patria più che a tutto il resto, com ho inteso da voi ancora. Però desidero, com’ ho detto, d andar a stantiar un par d’ anni a Venetia, et osservando i modi di quella antica e ben governata republica, spero tornar alla patria quale voi mi desiderate. Demetrio. Ali contento per sì giusta cagione di lasciarti andare, pur che prima che tu parta pigli quella moglie eh’ io t’ ho apparecchiata , e tu stii tanto seco che ne veda nascere il desiato frutto. Afranio. Come io havrò tolto moglie, non cercarò più d’ andare nè a Venetia nè altrove, perchè a me non piacque mai il costume di molti nostri genovesi, i quali pigliano mogli per pigliar danari 1 — 361 — giovane e belle, e, come hanno consumato il matrimonio, le lasciano et se ne vanno ad habitare in Ispagna, in Fiandra o in Roma per molti anni (1), e ben spesso credendo andar a Roma se ne vanno a Corneto, e meritamente secondo me; perchè non è ragionevole che essi si cavino tutte le loro voglie ove stantiano, e le mogli patiscano sì lungo digiuno in casa; e perciò, padre, prima che pigliar questa moglie, vorrei far ciò ch’io vi ho detto, e voi ve ne dovreste contentare, sapendo eh’ io non arrivo ancora a venticinque anni, che se molti nostri cittadini aspettano sino a sessanta et a settanta anni a torla, posso bene aspettar’ io fin’ a i trenta. Demetrio. Quei che pigliano moglie decrepiti, non che vecchi, fanno a giuditio mio un grave errore, del quale fanno tosto la penitenza, e la fanno fare ad altri ; nè tu mi dei allegare un inconveniente , ma queste tue tante vane scuse e resistenze, e il vedermi menar d’ hoggi in domane et di doman’ in 1’ altro, mi mostrano che tu hai poca voglia di torla. Afranio. Io non ricuso, padre, di pigliarla, ma che importa a voi, poiché l’età mia può aspettare ancora molt’ anni, a legarmi a questo vincolo; perchè non vi contentate di lasciarmi viver ancor questo tempo libero? E fra tanto io v’anderò disponendo l’animo. Demetrio. Quello che il tempo fa negli huomini volgari, il deve fare la ragione nei savii, e secondo quella voglio che in tutte le tue at-tioni ti governi. La ragione ti mostra che la moglie è cosa buona e santa, et a te necessaria, com’ ho detto ; seguita dunque la ra- (1) Sembra che questo costume fosse assai comune e recasse realmente gl’inconvenienti di cui parla Afranio. Vedasi in proposito l’appendice al n. II. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXV, fase. 2.° 24 — 362 — gione, la quale è una perpetua norma nelle cose che si hanno a fare. Poi qual cosa dei tu haver più a cuore, che farmi viver questi pochi anni che mi avanzano contento? E contento io non sarò mai fin ch’io non veda prole di te; a che dunque indugiar più? Considera ancora che Urbano non vuole che suo figliuolo prenda Ginevra, se tu insieme non prendi la sua. Onde, oltre gli altri molti inconvenienti che sono nella tardanza, vi è questo ancora che tu fai perder a tua sorella questa ventura di un marito ricco, ben nato, di bella presenza, sano di corpo e di mente, virtuoso, huomo da negotio, magistrabile, senza vitii e senza donne in casa, che non è poco, perch’ella non havrà a combatter notte e giorno nè con cognate, né con suocere, che si accordano insieme come cani e gatti, eh’ove sono femine sono liti; e in somma o che tu mi vuoi contento o no. Afranio. Anzi per farvi contento, o padre, prenderò volontieri ogni scontento e travaglio. Demetrio. Quanto più dunque dei prendere non travaglio, ma consolatione grandissima, che la catena del matrimonio è più dolce che la libertà. Afranio. Di gratia, padre, contentatevi che ragioniamo di questa cosa un altra volta, ch’in ogni modo i parentadi non si hanno a concluder hoggi. Demetrio. Horsu io vado alla Dogana, dove salderò un conto con i co-merchiari fin’ a tanto che venga 1’ hora dell’ ufficio del sale , col quale mi conviene essere per vedere d’ultimare quelle benedette pendentie della condotta del sale, del quale habbiamo bisogno grande, pere* hora Genova ha poco sale. — 36 3 — Afranio. In buon’ hora, e io anderò fra tanto sin’ alla piazza de’ Giustiniani o a S. Siro per trattenermi un pezzo. Demetrio. Si crede eh’ io non m’accorga onde nasca questa resistenza, e pensa di uccellare al mio bosco ; ma voglio eh’ egli vada ad uccellar alle lecorine, che, per prender gazze vecchie, la sua rete è troppo debole, gli troncherò ben io il disegno; ma bisogna con questi ingegni delicati andar destro, e non proceder aspramente, lo ridurrò bene con dolcezza alle mie voglie ragionevoli. ATTO TERZO SCENA PRIMA. Alfonso, Afranio. Alfonso. O Dio, ch’io ritrovi tosto Afranio per avisarlo ch’ogni cosa va in fracasso. Parti che quando questa assassina della fortuna vuole rovinar un’ impresa, ella vi sappia trovar la strada? Ma eccolo. Afranio. So che questa volta il vecchio ci resterà colto; e che non troverà disturbo, com’era questo della compagnia d’Orsolina, che a tutto non si trovi la contramina. Ma ecco Alfonso, che viene in qua correndo, che sarà? Che c’è Alfonso? — 364 — Alfonso. O padrone, male novelle. Afranio. Oimè, che sarà? Alfonso. Siamo rovinati, il dissegno è rotto. Afranio. Che sarà dico? Vuoi forse dire d’Orsolina che vien con voi? Ma a questo s’è rimediato; che sarà dunque? Alfonso. Che Orsolina? Io vi dico, per non tenervi sospeso, che è venuto Sicurano. Afranio. Oimè, che diavol mi'di3 tu? Come che è venuto Sicurano? Come può esser questo? Alfonso. È stato portato da una fregata: vedete come può essere. Afranio. L’hai tu veduto? Tu noi conosci già. Alfonso. Troppo l’ho veduto. Vi dirò ogni cosa; io ero andato a ponte della mercantia, per considerare (poi eh’ io non havevo a far altro) — 365 — la fregata dove havevamo d’andare, e vedo venir un’altra fregata la quale in un subito prende terra. Vostro padre a caso era ivi per entrar in Dogana, e veduto arrivar la fregata, forsi per intender di nuovo, subito si accostò a quella: io di lontano sto a guardare, e vedo sbarcar un passaggiero, il quale s’accosta a vostro padre e con riverenza se l’inchina. Vostro padre lo riceve e l’abbraccia come persona conosciuta, et si pongono ambidue a passeggiar per lo ponte ragionando. Io, quando gli vedo allontanati, m’ accosto con destrezza alla fregata, e domando i marinari onde sono e chi è colui che è sceso in terra; mi rispondono che sono d'Arassi, e che colui è chiamato Sicurano, che è venuto a menar seco la moglie, la quale ha preso di nuovo in questa terra. Io rispondo loro: Sicurano non ha egli mandato qua un suo per questo effetto? Mi dissero, coni’ informati, eh’ è vero. Ma che poi, non essendo più a Sicurano convenuto d’ andar a Marsiglia, ha giudicato meglio il venir anch’ egli in persona : ond’ io mi partii subito, e sono venuto correndo per avvisarvi di questo acciochè non fuste colto all’ improvviso. Afranio. O fortuna crudele, che in questo punto hai condotto costui da casa del diavolo per rovinarmi. Io son spedito: non è più rimedio al fatto mio, è forza che la cosa si scuopra, e si conosca il vero dal fìnto Andreolo. Mai più non havrò volto da comparir dinanzi a mio padre Deh, perchè non si apre la terra subito, e m’inghiottisce? Alfonso. Padrone, qua non bisogna disperarsi che ciò non giova al caso nostro, è meglio pensare a qualche rimedio. Afranio. Che rimedio si può trovare a caso tanto irreparabile? — 366 — Alfonso. Pensarci. Afranio. Non ci è tempo da pensare, che è forza che subito si scuopra ogni cosa. Alfonso. Sapete voi ciò eh5 io vi dico. Fate che il Barro non comparisca, acciò che vostro padre e Sicurano insieme non lo vedano, e cosi la cosa non si scuoprirà subito, fra tanto si potrà pensar qualche cosa, chi ha tempo ha vita, e chi schifa un punto ne schifa mille. Afranio. Tu di’ bene. Io vado a lui, che so dove ritrovarlo, tu non ti scostar da queste parti per vedere chi viene con mio padre, e sta bene avertito che tu mi possa minutamente riferire tutto il successo. SCENA SECONDA. Alfonso, solo. Io ho più volte udito dire che è gran consolatione haver compagni nei mali e negli affanni, perchè il male pare non sia tutto raccolto in te solo, ma sia distribuito in più persone, in modo che si rende più lieve e più tolerabile, essendo aiutato a portar da tanti. Ma non segue già questo in me, che la medesima miseria, nella quale amore e la fortuna han posto mio padrone, non pur alleggerisce l’affanno mio, ma 1’accresce e lo addoppia, tanto è 1 amore eh’ io gli porto per lo grande obligo eh’ io gli ho e per la sua natura amabile e gentile, che fa che reputo mio — 367 — ogni suo male. L’ avaritia di suo padre è cagione di tutte queste turbationi: è ricco come il mare, e non ha se non un solo figliuolo, e vede la volontà sua tutta inclinata alla Violantella e non lo compiace in dargliela per moglie, che cessarebbero tutti i travagli e le malinconie. Dovrebbe messer Demetrio sodisfare al honesto desiderio del figliuolo, ma non lo fa, perchè se bene egli è per altro savio huomo, la luce dell’oro gli abbaglia tanto il lume dell’intelletto, ch’egli non iscorge il vero, che 1’ avaritia è vitio de’ vecchi, i quali quanto manco hanno da vivere tanto più cercano d’ accumular robba, perchè pensano forse con accrescer danari accrescer vita, e ne segue il contrario ; perciocché essendo avidi di avanzar assai, e spender poco, spesso si astengono da quelle cose che sono necessarie alla natura per sostentarsi, il che fa viver manco; nè si cavano mai una voglia, per non cavarsi un soldo di borsa, sichè non pur sono crudi con altri questi avaroni, ma con loro stessi in questo mondo e nell’ altro ancora, che importa molto più; perchè, per acquistar oro terreno che poco può durare, perdono alfine il tesoro eterno del Paradiso; il quale messer Demetrio sixpotrebbe guadagnare con far quest’opra santa e pia, di dar per moglie Violantella al figliuolo, la quale più che la propria vita l’ama. Colorisce l’avarone questa sua deliberatione con dire che Violantella non è pari a lui, il quale non è però altro che un privato gentilhuomo; ma io dico che è 1’insatiabile desiderio et ingordigia dei dieci mila ducati (i) che vuole metter in casa di più, che queste sono le doti c’ hoggidì s’ usano dare a pari suoi, e Violantella non ha altra dote che la virtù, di cui questo misero vecchio tien minor conto che 1’ asino del suon della lira ; sichè, se bene egli è tenuto ricchissimo dal volgo, io lo tengo poverissimo, perciochè non è mai ricco chi cerca sempre d’ accumular danari, ma chi ne diminuisce il desiderio. Ma che riparo potrà ritrovar Afranio a disgratia tanto inevitabile? Quanto più penso e ripenso , tanto meno vi so vedere rimedio alcuno. Quanto alla Violantella, è impossibile ch’egli vi faccia più dissegno (i) « Diecimila » è stato scritto dal Foglietta in luogo di « trentamila » che era nell’ originale. — 368 — e gli bisogna havere una buona patienza. Il fatto sarà coprirsi col padre del tratto che gli haveva machinato adosso; oh Dio, quanto affanno ho dell’ affanno suo ! SCENA TERZA. Orsolina, Alfonso. Orsolina. Deh! Perchè Alfonso non mi dà ne’ piedi; ma eccolo per mia fè. Alfonso. Ancor che ciò non giovi punto al mio male, è pur forza nondimeno che le gambe mi menino in questi paesi, per veder almeno la casa che tiene il mio dolce tesoro nascosto, poiché la mala sorte mi toglie il poterlo contemplare, come poco innanzi, che me lo godeva così pacificamente e cosi felicemente, che mi teneva il più beato huomo che fusse in terra; e hor che ne son privo, mi par d esser il più misero, perchè tra l’infinite passioni degl’ amanti non v è la maggiore di quella che nasce dalla rimembranza delle passate dolcezze. Misero me, che, a guisa di farfalla vago del lume, mi convien correre alla mia morte. Ma ecco madonna Orsolina che viene alla mia volta, sarà venuta ad espormi le querele di Ginevra per accrescermi cordoglio ; infelice me, che non pur son servitor d Afranio e di Ginevra, i quali sono servi d’amore, ma son d amor soggetto anch’io, nè posso sodisfar al desiderio di lei eh io non offenda Afranio, nè posso comparire a lui eh’ io non dispiaccia a Ginevra, et a me stesso ancora, sì eh’ io sono come un infermo che in un tempo ha tre mali adosso contrari, onde il rimedio che ad un giova nuoce all’ altro in modo che, se il celeste medico non m’aiuta, io sono espedito: patienza. Che andate voi facendo, madonna Orsolina ? — 369 — Orsolina. Vengo a vedere se tu sei più desso. Alfonso. Perchè mi dite voi questo ? Orsolina. Perchè è forza che tu sii fuor di te. Alfonso. Ben sapete che senza Ginevra io più non sono io. Ma perchè dite voi così? Orsolina. Come perchè? Ginevra mi ha detto che tu sei risoluto d’abbandonarla, e che tu ti vuoi partir hoggi da lei: è vero? Alfonso. Da lei non già, perchè 1’ anima mia se ne resta seco unita; ma da me stesso parto contra mia voglia, perchè la forza mi fa partire al mio dispetto, alla quale io non posso contrastare. Orsolina. E perchè? Alfonso. * Non lo sapete? Lo deve pur saper Ginevra. Orsolina. Nè io lo so, nè ella lo sa, e per saperlo a te mi manda. Alfonso. Oimè, non sa ella ch’il vecchio vuole eh’ io spacci questa terra, e ha dato ad Afranio questo giorno per ultimo termine ? Orsolina. Questa è dunque la forza, non c’ è altro ? Alfonso. Oimè, non vi pare che questo basti? Orsolina. Che bastare? Di casa sua ben ti ha potuto mandare il vecchio, ma di Genova egli non ti può già cacciare, nè quanti vecchi sono in questa terra, che non sono però signori di Genova, che è città libera, se bene sono gentilhuomini. Alfonso. Diavol, e’ mi ha fatto minacciare della galea s’ io non parto subito (i): e così farò, che,.a dirvi il vero, io non vorrei dar in ferro di galea, perchè mi basta l’amorosa catena con la quale Ginevra mi tien legato e terrà sempre. (i) Qui sono cancellate queste parole: « ond'io più non ardisco uscire di casa, sì non quando V aer s'imbruna, come fanno i pipistrelli »; ed aggiunte invece le altre : « e così farò ». - 371 ~ Orsolina. Se Ginevra ti tenesse legato da dovero non ti partiresti da Genova contra sua voglia, nè temeresti di suo padre, che non si possono far, come ho detto, queste cose in una repubblica com'è questa. Alfonso. So che non si possono far di ragione, ma la forza sforza, e ancora eli’un par mio babbia raggione da vendere, sempre ha il torto e la sentenza contra. Orsolina. Il diavol non è sì brutto come si dipinge. Alfonso. V’ ingannate in grosso. Che difesa può havere un povero servitore forestiero, abbandonato da tutti, contra uno cittadino tanto ricco, tanto nobile e tanto potente? Orsolina. Come che difesa? La giustitia che non permette simil cose, nè comporta violenze o insolenze tali. Stiamo freschi se in Genova non è giustitia per i poveri? E se i grandi si hanno da lasciare nella loro licenza? Questo sarebbe, uno stato molto impotente, vergognoso e ingiusto, s’ egli non comandasse se non a poveri et alla plebe. Io ho sempre udito dire dal medesimo messer Demetrio, in casa del quale sono stata due anni per allevar Ginevra sua figliuola, e da altri grand’huomini ancora i quali di mia natura sento volentieri, che dai più grandi debbono imparare ad ubidire i più bassi, perchè chi ben regge e comanda si rende venerabile — 372 — ai sudditi, e cade ogni regno dove manca il timor del castigo. Però puoi star sicuro, e tanto più ora che è duce di questa terra huomo sì savio e sì giusto che non ti lascerà far carrico, se ben sei povero servitor’ e forestiero, perch’ egli tiene le bilancie uguali come si conviene. Alfonso. Così intendo anch’io dir da ciaschuno, ma se qualch’altro per favore desse il tratto alla bilancia da quella parte che più gli piacesse, io mi troverei in galea legato d’altra catena che d’amore (com’ho detto), nè il vostro dir poi t’hanno fatto torto, io noi credeva, mi giovarebbe punto: però bisogna pensarci molto ben prima. Orsolina. Se Ginevra ti sentisse, direbbe che tu fussi un freddo amante; che chi è innamorato da dovero non pensa a tanti pericoli nè ha tanta paura com’ hai tu d’ Afranio. Alfonso. Voi siete una donna, e non sete andata attorno, e non sapete il proverbio spagnuolo che « allà va la ley adonde quiere el Rey ». Non bisogna vi dico prenderla co’ grandi, nè a ragion nè a torto, e ho già inteso che la natura dei grandi è tale, che se fai loro qualche servitio te ne hanno un obligo di piuma, dove all’incontro se tu gli offendi ne prendono uno sdegno di piombo. Orsolina. Et io ho sempre sentito dire che del cavallo giovane si tien più conto che del vecchio: voglio inferire che tu dei far più stima d’Afranio che del vecchio, perchè a ragione del mondo hai più da vivere con esso lui che col padre; e alfine il padrone ha da esser egli; e se tu starai bene col giovane, starai bene col vecchio ancora; che i figliuoli a Genova comandano al padre, benché stia male. — 373 — Alfonso. Io lo so; ma ci è la volontà d’Afranio ancora, il quale mi afferma che s’io non mi parto egli non può vivere col padre. Orsolina. E Ginevra ti afferma che se tu ti parti ella non può più vivere al mondo. Alfonso. Oimè, Orsolina, che l’infinito obbligo eh’ io ho ad Afranio, che di schiavo mi fece libero, vuole ch’io .l’ubidisca in tutto. Orsolina. E l’infinito obbligo che hai a Ginevra, che di libera ti si fece schiava, ricerca che tu non la disubidisca in cosa alcuna. Alfonso. Ma io vi domando che scusa volete che trovi Afranio, che sia almeno apparente, acciochè, disubidendolo senza cagione, io non paia il più sconoscente huomo che mai nascesse? Orsolina. Et io ti domando di due mali quale si ha da eleggere? Alfonso. Senza dubbio il minore. Orsolina. Minore male è dunque senza comparatione il parer ingrato ad Afranio, et in cosa che così poco 1’ offende, che 1’ esser micidiale ♦ — 374 — di chi t’ha dato il cuore, la persona, la vita, l’onore et il suo fiore, guardato tanto, che quando io ci penso sto per impazzire. Se dunque questi rispetti di oblighi e di gratitudini possono tanto in te quanto vuoi farmi credere, pensa, per Dio, che ingratitudine, che perfidia, che tradimento fu mai al mondo che pareggiasse questo. Oimè, ti può dunque soffrir l’animo di abbandonar Ginevra, e di esser cagione eh’ ella muoia di dispiacere o di altro più odioso accidente, com’ ella afferma che in ogni modo farà tosto, e non più presto inimicarti Afranio e tutto il mondo? Alfonso. Io conosco che tutto ciò che dite è vero. Ma quella fortuna che cominciò fino dalle fasce a perseguitarmi, quando ella di quattro anni mi fece preda di corsali, non ancora satia mi vuol dare questa percossa, la maggiore che con la sua iniquità ella possa giamai, mandandomi hora in grembo la felicità, e togliendomi dall’altro canto il modo di poterla godere, per farmi infine di questo mondo un nuovo Tantalo. Orsolina. La maggior percossa che si possa avere hai tu ben ricevuto, se quello è vero che si dice comunemente, che quando uno ha da rovinare la prima percossa ch’egli riceva è nel cervello. Ma questo colpo non ti dà già la fortuna, la quale io ho sentito dire che non ha signoria negli animi e nelle volontà nostre, ma il tuo poco giudicio è pazzo capriccio. Alfonso. Oh, madonna Orsolina, io non mi maraviglio che voi diciate questo. Forse non direste così quando sapeste ogni cosa: basta vi giuro ch’io sento tanto dispiacere di abbandonare Ginevra, che il cordoglio ha da uccider me prima che lei. Orsolina. Io credo ch’il cordoglio ti habbia ad uccidere non già il presente, ma bene il futuro, et il pentimento che tu hai in ogni modo ad bavere, quando non vi potrai più rimediare di esserti privo di tanto bene, che sai pur quanti gentilhuomini sono in questa città che havrebbero di gratia che Ginevra gli mirasse; e tu che sei un vile e povero servitore, che non hai altro che un poco di volto colorito, che ti durerà quanto un fior novello, palelle ti facci beffe di lei che dovresti quasi adorare. Poiché oltre il diletto di godere cosi bella, cortese e nobii giovane, pensa un poco in qual parte del mondo tu vuoi ritrovar tal ventura, di’ una giovane ricchissima, e che ha tanto il modo, ti voglia sostenere, e provedere alle tue necessità grandi coni’ ella fa tutta via : perdi* io so bene che tu non sei mai andato da lei, che non babbi trovato la sua borsa aperta per lo tuo bisogno, sichè tu puoi esser sicuro ch’ella ti ami di cuore, et non ch’ella finga per pelarti, come fanno tant’altre ch’amano gli huomini ricchi a dissegno. Pensa, pensa bene a ciò che tu fai, semplicione, che ti è caduto il cacio nei macheroni ; e considera che queste venture vengono di rado, e chi non le sa prendere o se ne priva, non ha poi altro rimedio a si gran errore che la disperatione. Alfonso. E questo che mi dite, et il privarmi di tanti e tanti beni, di quanti io conosco benissimo ch’io mi privo, vi deve far credere che nasca questa mia partenza da necessità alla quale io non posso resistere, e non da elettione. Orsolina. Che necessità? Come vuoi ch’io ti creda questo s’io so il contrario? Et acciochè Afranio non habbia a garrir col padre per conto tuo, gli puoi dire che starai nascosto sì ch’il vecchio non ti vedrà, — 3 76 — e così ogni necessità sarà cessata. Ma quando tu, con la ragione ch’io ti ho detto di star nascosto, non potessi contentare Afranio (il che non posso credere), non sei tu huomo da curartene poco? E d’haver poco rispetto a chi havrà poca discrettione ? Non potendoti egli in questo caso rimproverare il dono della libertà: perciochè egli stesso ti toglie d* havergliene tu obligo ogni volta che non te la lascia usare; sichè se in te è parte di virile, risentiti, Alfonso, e mostra cuore d’huomo. E dove lo mostrerai tu mai, se in una cosa, che poco fa dicesti che ti haveva ad esser cagione di morte, non lo dimostri? Che quando ancora tu non havessi pietà del dolore di Ginevra (che potrebbe spezzar un sasso), dei almeno haver pietà della tua propria vita, la quale dipende dalla sua, come tu stesso confessi. O quando pur tu non voglia negare ad Afranio così precisamente la partenza, almeno impetra da lui alcuni giorni, trai quali il vecchio forse si cangierà di voglia, e non volere che l’insolenza e la poca discrettione del padre e del figliuolo offendano la bontà di Ginevra. Alfonso. Non posso farlo, e bisognerebbe che sapeste le cagioni contrarie, eh io son certo ch’in cambio d’accusarmi mi havreste compassione. Orsolina. E quali sono? Alfonso. Ahimè, che per hora non si possono dire; le saprà bene un giorno, et all’hora mi scusarà. Orsolina. Le saprà bene un giorno eh! Com’ella sia morta, scrivile una lettera consolatoria, o falle un brodetto o panatella. Eh Alfonso — 377 — ingrato e crudele, se bene io porto gli occhiali, non sono però sì priva del lume della ragione eh’ io non veda che non 1’ ami punto, se bene mostri volerle tutto il tuo bene. Alfonso. Io ben voglio quanto ne ho, e mi sento tanto duro lo star senza lei, che s’io potessi farlo, le starei sempre appresso, e siate certa, che se bene io mi parto da Genova, lascio a Ginevra la miglior parte di me, eh’è il cuore; del quale voglio ch’ella sia perpetua posseditrice, talché, partendomi senza esso mi potreste dire come farò viver senza cuore eh’è fonte della vita; e io vi rispondo che dal dì eh’ io ho veduto la sua divina imagine, quella mi ha servito, serve e sempre servirà in luogo di cuore (i), della cui rimembranza sol vivo e mi pasco. Orsolina. Altro vuol 1’ huomo (secondo me) per pascersi e sostentar la vita, che imagini, rimembranze e simil cose, come tosto conoscerai con tuo gran danno, se sarai tanto sciocco, che tu ti parta da dovero da Genova e da Ginevra, la quale ti pasce non pur il corpo ma l’animo di sì nobil cibo, che quasi ti puoi chiamar in terra beato e felice. Per goder dunque questa beatitudine e felicità, se tu non sei nemico di te medesimo, dei star in carne e in ossa, e non in spirto solo, appresso Ginevra, che potrebbe far l’inferno un paradiso, non che far te felice. Alfonso. Io non posso, vi dico, perchè il cielo non vuole che 1’ huomo sia beato in terra. (i) Le parole « della cui rimembranza sol vivo e mi pasco » sono aggiunte nel solito modo. Atti Soc. Lig. St. Patru. Voi. XXV, fase. 2.° — 3 78 — * Orsolina. Parole. So che il cielo vorrà, se vorrai tu, che dei voler non meno per ben tuo che per ben suo. Alfonso. Deh che v’ingannate in grosso, madonna Orsolina, e vi giuro di nuovo per quanto amor porto a Ginevra, di’ il pensar solo a questa dura partenza mi tormenta di sorte, che io temo che 1 anima si patta da me prima ch’il corpo si parta da Genova. Orsolina. Tu non morrai di questo male no, se bene fai l’appassionato forte, che so che gli affanni e pene, ch’altri volontariamente si piglia, non uccidono, come mi vuoi far credere con le tue parole finte. » Alfonso. Anzi verissime: ma poiché voi non mi credete, voglio lasciarvi nella vostra falsa credenza, nè più voglio cantar a’ sordi e predicar al deserto, ma vi dico insomma ch è giusto ch’io sia fedele a tutti, ma giustissimo ad Afranio che mi fida quanto ha. Io sono servitor suo obligatissimo, honesto è eh’ io 1’ obedisca, e poi eh egli mi ha posto in mano questa sua faccenda, e se ne sta sopra la fede mia (i), io non voglio lasciarla fin ch’io non ho compiuto di far quella cosa eh’ egli desidera eh’ io faccia per lui. Orsolina. E a quella cosa che Ginevra desidera che tu facci per lei non ci pensi punto? ( ) In luogo di « la fede mia » l’originale aveva: « di me ». - 379 — Alfonso. Anzi (i) vi ho sempre drito il pensiero, e non potendo farlo com’io vorrei, ne pattisco tanto, com’ho detto, che vorrei che Dio mi havesse data la sepoltura per culla; da poi che in quel punto eh’ io nacqui doveva morir la ventura e sorte mia. Orsolina. Della sorte non ti hai da dolere, che ciascuno è fabro della sua sorte, dicono, anzi ti hai da lodar molto di lei, poich’ella ti manda delle venture eh’ ella suole mandar a pochi, le quali tu da sciocco le rifiuti, e meriti ch’ella ti volti le spalle poi che tu sprezzi i suoi favori, et fai danno a te stesso et a Ginevra della quale mi pesa, e non di te, perchè così vuoi. Ma che hai di nuovo che sospiri? Ove vai, ascolta una parola, Alfonso. Alfonso; Alfonso! Non odi, Alfonso; non fuggire; fermati, dico. Ahimè, è sparito alfine. Infatti le venture corrono dietro a chi le fugge. SCENA QUARTA. Orsolina, sola. O Dio, è pur gran fatto che la natura delle cose comporti che si abbia andar dietro a chi fugge, amare chi odia, pregar chi non ode o non vuole sentire, com’ hora fa questo ingrato e crudele d’ Alfonso. Va poi tu et impacciati con questi giovinastri volubili, leggieri e capricciosi, i quali non stanno pur un’ hora, un momento, in un proposito, e fanno come la bandiera posta su la torre (i) Le parole: « An\i vi ho sempre dritto il pensiero » e le seguenti, fino alle parole che Orsolina dice al principio della scena quarta: «0 Dio quanta ingratitudine regna in questi homacci, quanti, quanti disavantaggi » incluse, sono in due fogli aggiunti regolarmente, sostituiti a due originali. Quindi anche qui abbiamo il solito raccorciamento. — 380 — del publico palazzo la quale si volta ad ogni vento , e mancano tante volte quante promettono. O Dio, quanta ingratitudine regna in questi hominacci, quanti, quanti disavantaggi hanno, com’in tutte l’altre cose, così in questa d’ amore con essi le povere donne, ai quali, se pensassero, non si dovrebbero mai inamorare, se non sono vaghe del loro proprio danno. Una donna quando si è data in preda ad un huomo, e le ha fatto copia di sè , se gli fa serva e soggetta per sempre; e se, per esser divenuto colui insolente, o per altri suoi mali portamenti insupportabili si vuol ritirare, non è in suo potere il farlo, essendo in mano di colui vituperarla e rovinarla, anzi sepelirla viva: dove un huomo, subito che una povera donna Pè venuta a noia, e l’ha stratiata un tempo, et se vi ha cacciata la voglia che poco gli dura, senza alcun rispetto te la pianta, et se ne vanta spesso, perch’egli suole prender non minor piacere in dirlo che in farlo. Nè la meschina può in alcun modo vendicarsene, ed è sforzata ad inghiottir questa ingiuria col cuc-ciaro della rabbia. Ma certo, di questi tali che di qualche fanciulla 0 donna di prezzo villanamente si vantano, o vero o falso, meritano castigo e supplicio grandissimo: che se dicono bugie, quale sceleiità può essere maggiore che privare con inganno una valorosa donna di quello eh’essa più che la vita estima? se ancora dicono il vero, quale pena potrìa bastare a chi è così perfido che renda tanta ingratitudine per premio ad una donna, la quale vinta dalle false lusinghe, dai prieghi continui, dalle lagrime e pergiuri, s ha lasciata indurre ad amar troppo, e poi s’è data incautamente in preda a così maligno spirito? Disgradate donne, che, mentre che sono fanciulle, sono più guardate che il nostro catino di smeraldo, nè è lor lecito, non ch’altro, di farsi alle finestre con le gelosie, e sono menate fuori a punti di luna, et escono di casa prima ch’esca il sole d’Oriente per non esser vedute dagli huomini, e bisogna che cammino per misura come le mulette quando hanno le pastoie a’ piedi, tenghino le mani per ragione con i guanti, gli occhi bassi come gl’ipocriti, la persona dritta con gratia, andando in punta di piedi coni’i granchi, la bocca stretta come madonna Honesta da Campi, vadino coperte come i falliti, che temono del bargello, stiano in casa quasi sempre a capo basso, — 38i - con l'ago in mano a pungersi le dita, a tavola mangino poco per non far la bocca troppo larga (i). Quando poi sono maritate peggio che peggio, perchè non possono (il dirò pure) nettarsi il naso senza chiederne licenza al marito, e spesso pigliano per forza qualche vecchio ricco di doppioni, ma avaro tanto che sono sempre infreddate, perchè sono mal coperte da lui, il quale per sopragiunta è di sorte geloso, eh’ egli teme fin delle pulci del letto e delle zanzare, e molte volte s’imbattono in certi mariti giovani scompiscia canti tanto vani e lascivi, che s’una gatta portasse la cuffia come le donne, Panderebbono dietro, talché la minor parte è quella della moglie, alla quale fanno far più digiuni, che non faceva far alla sua messer Riccardo da Chinzica vecchio (2). Il disaggio poi ch’hanno le meschine nell’esser gravide, portando nove mesi sì gran peso adosso, è grandissimo, e le doglie ancora che pattiscono nel partorire sono tali, che si può dir che tante volte muoiano quante volte partoriscano. E la fatica eh’ elle hanno in alevar i figliuoli, e nel governar la casa, non sono cose da farsene beffe, et a gli huomini è lecito ogni cosa, e nei figliuoli hanno solo il piacere senza pena alcuna. Si che, chi nasce femina porta seco tutte le sciagure; ma sciaguratissima mi par Ginevra che non pur è donna, ma innamorata d’Alfonso suo servitore, che non la cura punto. Vedi hor, questa bestia, il bel tratto ch’egli usa a lei. O poveretta, quando ella intenderà questa riso-lutione che farà? Che dirà? In fè di Dio, dubito di qualche scandalo. Io la vedo tanto arrabbiata e tanto fuori di se stessa, et è poi un cervello tanto risoluto, eh’ io tremo di paura eh’ ella non si conduca a qualche atto strabocchevole. Non mi dà l’animo di comparirle avanti con questa novella: come farò, poveretta me? Dio m’ aiuti. Voglio prima andar a casa a metter in assetto quelle (1) Quanto vi sia di vero nel contegno ch’era imposto alle ragazze genovesi, vedilo al n. II delle illustrazioni. (2) Tutti ricordano il buon Riccardo da Chinzica, vecchio giudice pisano, troppo severo osservatore di feste e digiuni, che non piacevano molto alla giovine moglie. Qui opportunissima è l’allusione, e ognuno può convincersene a pieno rileggendo nel Decamerone la novella X della II giornata. — 382 — poche robbe ch’io ho a portare, et a ragionare con la Badessa, e tornerò poi qua a prendere l’ultima risolutione dal vecchio. SCENA QUINTA. Despina, Agnesa. Despina. Habbi a mente tutto quello eh’ io ti ho ordinato che tu facci. Agnesa. Io 1’ haverò a mente, pur eh’ io me ne ricordi. Despina. Io me ne vado qua in casa della Isabetta a star seco , e forse vi restarò a vegghiare: se Orsolina comparisse qua, mandala subito, cosi se messere mi volesse, vienmi a domandare. Agnesa. Ella è andata, e fa come 1’ altre, se bene il marito, troppo buono, si crede eh’ella sia un’altra madonna Honesta da Campi. Ella comincia ad increspare: e pur le piace ancora di sentirsi la sera il suo mascaro all’orecchia, come fanno l’altre vecchie che tutte s'innamorano come scimie (i), e se nell’altre cose sono più savie delle giovani, nell’ amore sono più pazze di loro ; però io faccio saltar com’ un ranocchio madonna Despina, quando le dico eh ella ne ha venti per natica; e ha ragione di saltar in collera, perchè donde i vecchi sono in pregio, perchè sono huomini da governo, (i) Della facilità con cui sembra che anche le vecchie ascoltassero parole d’amore si parla nelle illustrazioni al n. II. - 383 - le vecchie per lo contrario sono in dispregio, perchè sono da nulla. Però le meschine, per non parer vecchie, non accusano mai il punto giusto de gli anni loro, che sempre ne dicono quindici e venti manco ; e madonna Despina non confesserebbe d’esser vecchia con dieci tratti di corda, anzi ella cerca di coprir la vecchiaia col star tutta la mattina imbellettandosi d'intorno al specchio suo, che non è troppo buono , senza licenza del quale ella non ardisce di mettersi pure uno spilletto. Nè un solo specchio le basta, eh’ ella se ne mette uno dinanzi, l’altro dietro, per far miglior lavoro, et usa ancora di portare adosso abito giovenile, credendosi parer più giovane e più bella, e par a punto di quei babuini che si vestono per mover a riso la gente. Con tutto ciò ella non deve mancar di trovare ancora qualche bertone, non mancandole il modo da trattenergli; et se bene ella dice che studia di pulirsi per piacer solo a suo marito, già vecchio, io noi credo, perchè so che per un solo huomo gl’ arteggiani non mettono bene all’ ordine le loro botteghe, ma credo eh’ ella il faccia perchè le gustano ancora i bocconi duri, li quali ella inghiottisce non potendo più masticargli bene, che se bene ella ha la bocca sdentata ha tanto più larga la gola, e in mal luogo come hanno le altre donne attempate. Hor per conclusione, se le vecchie sono ancora innamorate, e in frega come le gatte di gennaio, pensate quel che fanno le giovani! O distruttione e vergogna delle povere case; non attender mai notte e giorno ad altro che a trattenimenti con gli huomini. E s’intendono poi per disgratia, come accade, che alcuna di noi altre povere massare parli con un huomo, ci sono adosso con le grida e con le villanie: come se, per esser poverette e di bassa condiltione, non havessimo così bene la bocca da risponder a gli amanti, e non la potessimo così bene adoperare com’ esse. In fè di Dio, che per me si ponno impiccare quant’ elle sono, eh’ io la mia la voglio adoperare come fanno esse, perchè tutte e povere e ricche 1’ habbiano tagliata per un verso, e la squarcino pur quanto vogliono, che non mi faranno mai star a bocca chiusa. Ma ecco ch’esce di casa Marchetto: starai a vedere che anco questa bestia mi vorrà tentare, e far delle sue. — 3S4 — SCENA SESTA. Marchetto famiglio, Agnesa serva. Marchetto. Chi ha miglior tempo di me l’ha per incanto. Agnesa. Tu sei molto su le petacchine hoggi e di che guadagno? Marchetto. Non ti pare che io ci habbia ad essere, poi eh’ io resto padrone a bacchetta in questa casa. Agnesa. Tu meriteresti anche più presto il bastone che la bacchetta, ma donde ti viene questo esser padrone? E queste tante chiavi, che di nuovo ti vedo appiccate dinanzi, che n’ hai più che uno sagristano. Bisogna dir che tu chiavi assai. Marchetto. Così è; io chiavo quasi quante cose sono in casa da chiavare. Agnesa. Hai che fare assai a farlo bene. Ma donde procede, dico, questo esser montato in un tratto tanto di grado? Marchetto. Procede da quell’asino di Alfonso, il quale due giorni sono era venuto da casa del diavolo; e per lo favore ch’egli haveva - 385 — dal padron giovane, il quale (non so perchè) gli havea dato la chiave in mano del tutto , levava tanta puzza e gli era entrata tanta superbia nel capo, che voleva dar a ciascuno delle natiche sul volto, e pare che havessi noi altri tutti dove si soffiano le noci, e non ci eravamo più per niente: e esso era il tutto, che simili sono come voi altre femine, che chi ve ne dà un dito ne volete un palmo. Hora, vedi pure ch’egli è stato cacciato alle forche il capestro come meritava, et io tengo le chiavi d’ogni cosa coni’ ho detto : e s’ egli non si partiva di casa, m’ era forza alfine saltargli adosso e rompergli il capo , perch’ egli mi provocava a farlo, volendo contr’ ogni ragione sottomettermi, che a lui toccava lo star di sotto eh’ era nuovo in casa più di me e più di me giovane. Agnesa. Tu l’incarichi, che forse non ardiresti s’egli fussi qui presente. Marchetto. . S’ egli ci lusse, a un volger d’ occhi solo, io gli farei voltar la schiena, se bene egli porta il pugnale dietro, che pari miei non temono d’ un capestro com’ è costui. Agnesa. Anzi, pari tuoi temono sempre eh’ un capestro gli castighi. Ma lasciando il motteggiar, hai torto, Marchetto, a punger così questo povero giovinetto eh’ è miglior che il pane, nè offende persona nè in detti nè in fatti, perchè è cortese com’ una fanciulla, ha una buona lingua, che parla sempre in piacer delle persone, e alle parole corrispondono i fatti, di sorte eh’ egli cresce nelle mani della persona che lo tiene in casa al suo servitio, perchè ha più ingegno così giovinetto che non hanno molti attempati; e in somma egli è un compito servitore d’ ogni cosa, nè gli mancheranno padroni nè padrone, perchè simili servidori trovano in ogni luogo presto ricapito. Ma de’ pari tuoi si tiene sì poco conto , che per uno che n’ entra ne restano due fuora. — 3§6 Marchetto. S'io fussi bel giovane, com’ a te pare Alfonso , io come lui ti parrei anco virtuoso e galante, e sarei da te favorito e lodato; perciochè i pari suoi empiono l’occhio di voi altre femine, di maniera che non pur gli difendete e laudate, ma vi cavereste fin alla gonella per far loro servitio ; sì che se tu non ti spogliassi per lodarlo, io me ne maraviglierei. Agnesa. Et io mi maraviglierei se tu non facessi da un par tuo. Marchetto. Come da un par mio? Che vuoi tu dire? Agnesa. Voglio dire che noi altri diamo sempre contra pari nostri, dove ci dovremmo diffondere et aiutare 1’ un 1’ altro et esser tutti nemici dei padroni, imparando da loro che tutti sono d’accordo di volerci male e di stratiarci, sì che possiamo dire : tanti padroni , tanti tiranni. Marchetto. Ti deve haver fatto Alfonso qualche servitio che ti piace, poiché tu tieni tanto la sua ragione, e pigli il carrico suo sopra di te, e pungi me, che non ho altro diffetto se non ch’io non son bello come Alfonso. Agnesa. Io non mi voglio confessar da te, e se ci fusse stato qualche cosa, sarebbe stata con giovane che lo merita più di te, eh’ è me- — 387 — glio far piacere ad un galant’ uomo d’ un palmo, che ad un par tuo d’ un dito. Marchetto. So eh’ egli ti merita, e che vi sete bene accoppiati insieme, di modo che si può dire: a tal carne tal coltello. Agnesa. Non mi meriti già tu, poltrone, lingua perfida e velenosa. Marchetto. Hai torto, Agnesa, perchè chi ha provato la lingua mia, non dice già ch’ella sia così trista; ma a te non pare c’habbia buona lingua, se non Alfonso, e non è maraviglia, perciochè chi due bocche bacia convien eh’ una gli puta. Agnesa. Marchetto, Marchetto, tu mi menerai un giorno tanto per bocca, ch’io ti farò portare il tuo nome impresso sul mostaccio. Lasciami star, ceffo a punto da far San Marco. Marchetto. Di gratia, Agnesa, non la squarciar tanto, che sai che si conosciamo : non saltar tanto in aceto, ma tu sempre l’hai voluta meco et io non la voglio teco, anzi ti voglio esser servitore e per entrarti in grada spargere il meglio del sangue mio, e tieni pur certo eh’ io ti farei tal servitio, che tuo padre non t’ el farebbe, Agnesa, gioia mia bella. Perciochè tu mi piaci più nuda e senza ornamento che tutte 1’ altre gioie, ornate d’ oro, Agnesa, perla mia fina. Agnesa. Il male è che tu non piaci a me, Marchetto. — 3B8 — Marchetto Non dirai così se tu mi provi. Provami dunque, e non guardar al di fuori, ma guarda al dentro, e troverai nel tuo Marchetto gioie grandi, che tali non le ha il tesoro di San Marco, le quali ti faranno star lieta e gioiosa, e te le donerò come ti ho donato (i) il cuore. Agnesa. Io non voglio nè le tue gioie nè i tuoi gioielli , perchè penso che somiglino a te che sei falso e doppio più d’ una cipolla. Marchetto. Doppia sei forse tu, o, se non lo sei, io t’el farei volontieri, Agnesa mia tutta d’ oro. Agnesa. Tien le mani a te, dico, se non vuoi d’ una pantofola sul mostaccio, che sì, che sì che ti caverò la pazzia di testa s'io ci metto le mani, e ti farò star basso se bene sono una donna. Marchetto. Hor su non tanta collera. Hai per male eh’ io dica male d’Al-fonso? Io non lo farò per 1’adietro. Agnesa. Che mi curo io d’Alfonso? Ma mi sa ben male che siamo di questa mala natura tutti, di darci sempre adosso l’un l’altro coni’ho detto. (i) « Donalo » sostituito all’originale « dato ». - 389 - . Marchetto. Di chi vuoi tu ch’io dica male, s’io noi dico di chi m’ha fatto male ? Agnesa. Dunque, per questa ragione più ti dei rivolgere contra questi assassini dei padroni, i quali non si satiamo mai di stradar noi altri poveri servitori, come se fussimo tanti asini, nò mai si sodisfanno di cosa che si faccia, anzi ci sono sempr’ adosso con l’in-oiurie, con le villanie e spesso con peggio, nè più si degnano chiamarne col nostro nome, che ne chiamano « 0 là », che par che vogliano cacciar le cornacchie, e ne danno dell’asino e del furfante a tutto pasto per la testa. Di questi dunque, bestia, voglio che tu dica male, e che tu ancora il faccia loro, se puoi, e te lo tenga a mente, se non puoi. Marchetto. Tu di’ bene, e non dubitare eh’ io non lo faccia, e eh’ io non renda loro pan per focaccia; se tu ti vuoi accordar meco, faremo in un tempo male a loro e bene a noi. Agnesa. Si; di gratia, in che modo? Marchetto. Io resto spenditore, come tu sai, adesso che si e partito Alfonso, e tu hai cura della dispensa; se ci teniamo mano l’un l’altro ci arricchiremo che essi non se ne avederanno, e così staremo in barba di gatto, e trionfaremo il mondo insieme, la mia bella Agnesa, più dolce che il zuccaro e il mele. - 390 — Agnesa. Ma la settimana santa che s’avvicina, che bisogna andar ai piedi del confessore. iM ARCHETTO. Ci pensaremo all’hora; e voglio che ci godiamo questo carnovale, eh’ è tempo da godere, e non da penitenza. Agnesa. Oh carnovale è quasi fornito. Marchetto. Sì, ma non sai tu che le donne veggiano ancora insieme di quaresima con le porte aperte , e i padroni il giorno stanno alla predica a vagheggiare (i): sì che ci potremmo dar buono tempo la notte e il giorno. Facciamolo dunque, mentre di farlo habbiamo tempo, che tempo da stentare non manca mai. Agnesa. Facciamolo senza aspettar più, poiché i padroni e le padrone, c’hora si godono insieme, danno tempo ancora a noi servitori c serve di farlo. Marchetto. Ma vedi, sorella cara, io ti fo questo bene, e voglio che tu sia meco di più piacevol natura che non sei stata fin’ adesso , che (i) Le chiese servivano molto spesso ai vagheggiamenti, e le prediche, richiamando maggior folla, li rendevano più facili. Le veglie poi compivano 1 opera. Delle prime accennammo nello studio sulla riforma religiosa a Genova (Atti della Soc. Lig. di S. P. voi. XXIV, fase. II, pag. 589); delle stesse e delle altre riparleremo nelle illustrazioni al n. III. - 39i - spesso mi tieni la lingua, non so perchè, so bene eh’ io ti voglio tutto il mio bene, e desidero d’ esserti sempre appresso, perchè se bene tu fai la cucina e metti le mani per tutto, tu m’odori più che le padrone , le quali non solamente si profumano, ma portano adosso mille fiori fin sopra la testa, come le bestie che si vendono. E in fine, se ben tu sei serva, ti ho fatto padrona di me e di ogni cosa mia, bench’ io sia molto mal cambiato dell' amor grande ch’io ti porto, che, quando ti sono dinanzi, mi volti la schiena, sì che pare che tu non mi possa vedere in volto, e che mi puzzi il fiato. Ama dunque chi t’ama, c’hai pur torto a stradar me che t’ adoro. Agnesa. Che ti fo io? Marchetto. Mi fai assai a non lasciarmi lare. Agnesa. Ben bene parleremo di questa cosa in casa a bell’ agio, e s’io ho torto faremo dritto, che le cose dritte e ragionevoli mi piacciono per natura tanto quanto ad ogni altra persona. Hor sta fermo se vuoi in strada e va a portarmi la carne che tu sai che mi manca da cucinare, eh’ è tempo di metterla nella pignatta, perchè di tuo costume mi porti sempre carne tanto grossa e dura ch’ella sta un bon pezzo a cuocersi. Marchetto. Se bene io la pago per vitella, chi la vende mi dà spesso carne di vacca, perchè i signori che dovrebbono punirgli noi fanno, e ha ragione madonna Despina che vuole eh’ io spesso le porti pollastri per non mangiar carne vecchia, della quale la sua gola non si diletta. — 392 — Agnesa. Questo è vero, ed è di sì ingorda natura che non vuole aspettare punto ad empirsi la pancia coni’ ella vi ha voglia, nò si contenta del pasto del marito , al quale ella fa poi credere d’ esser svogliata. Però non tardar più, che, se al suo ritorno la vecchia non troverà apparecchiato, griderà a me e non a te , et il medesimo farà messer Demetrio, il quale ancora, com’ ha ritto l’appetito, vuol dar drento subito. Marchetto. Anzi, messer Demetrio che ha sempre che far più che i Catanei, fa come gli altri mercatanti, i quali non hanno mai fame d’ altro che d’ accumular tesoro. Agnesa. Come si sia, portami la carne (i) ch’io ti ho detto, perchè la pentola è ad ordine, sì che non bisogna tardar più a porvela, ma ti conviene menar le gambe. Marchetto. 10 vado. Agnesa. 11 goffo si è partito senza darmi un solo bacio, potendo farlo alla sfugita, con tutto ch’egli faccia dell’accorto e del sagace con le donne. (i) Le parole: « come si sia, portami la carne » e le successive sino al finire della scena, sono sulla prima facciata del f. 137 aggiunto, che sul retro rimasto in bianco porta il numero 138, segno che un solo foglio, scritto soltanto sulla prima facciata, tiene il posto di due fogli dell’originale, con notevole accorciamento della scena sesta. Col successivo foglio originale 139 incomincia la scena settima. — 393 — SCENA SETTIMA. Alfonso, Demetrio, Orsolina. Alfonso. Io non ho saputo come svilupparmi da Orsolina, che col levarmele da canto: ritornerò hora, per istar alla porta e veder quello che si fa, com’Afranio mi ha imposto. Ma ecco messer Demetrio, spero che la mia partenza non havrà nociuto. Demetrio. Quanto ha fatto meglio Sicurano a venir egli in persona per sua moglie. Questa, a dir vero, non è merce da fidare in man d' altrui. Alfonso. Se tardava un poco più a venire, se ne sarebbe aveduto. Demetrio. Ma ecco a tempo Orsolina. Orsolina. Io sono all’ ordine, ma Dio sa bene s’io m’imbarco volontieri. Demetrio. Orsolina. Orsolina. Messere, io son pronta. Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXV, fase. 2.0 Demetrio. Non accade più pigliar questo fastidio. Orsolina. Dio ne sia lodato; perchè? Demetrio. È capitato Sicurano, il quale stesso sarà la guardia. Orsolina. Ha fatto molto bene, e da savio. Dove è egli ? Demetrio. Io 1’ ho lasciato alla barca eh’ egli fa scaricare certe sue robbe che gli conviene spedir in dogana, et hora hora egli sarà qui. Orsolina. Sta bene. Demetrio. Hora, Orsolina, perchè 1’ hora è già tarda e Sicurano deve esser stracco, per questa sera egli non verrà altramente al monastero. Bisogna dunque che andiate là voi a refferire alla Badessa la sua venuta, et dirle che per questa sera non 1’ aspetti et che domani saremo là insieme. Ma entrate prima un poco in casa, che vi voglio ragionare d’una faccenda. Ma ecco Sicurano che viene con le robbe et ha seco non so chi; ha fatto più presto di quello ch’io credeva. — 395 ~ Alfonso. Oh diavolo, quello è il vero Andreolo, stiamo freschi, la cosa infistolisce più e la fortuna, poiché ha cominciato, fa da dovero. SCENA OTTAVA. Andreolo vero, Sicurano, Demetrio. Andreolo. Sicurano, questa non è la via d’ andare a casa di messer Demetrio. Sicurano. Come che questa non è la via? Vuoi tu haverla meglio impa-parata in doi giorni eh’ io in vent’ anni, che sono stato seco in questa Terra. Andreolo. A me non è stata insegnata questa, forse dall’ hora in qua che ci sete stato harà mutato stanza. Sicurano. Non ha mutato, no : eccolo là su la porta, che ci deve aspettare. Andreolo. Dove è egli? Sicurano. Non lo vedi? ► 396 — Andreolo. Dove ? Sicurano. Non lo vedi su la porta ? Hai bisogno d’ occhiali ? Anbreolo. Cossi havessi buona borsa come ho buona vista , et vedo benissimo quello su la porta, ma non è già quello messer Demetrio. Sicurano. Tu mi faresti ben dire hoggi che sei stato al giardino. Come che quello non è messer Demetrio? Non l’ho io mai più veduto? Chi debbo conoscere se non conosco lui ? Se quello non è messer Demetrio, nè io sono Sicurano. Raffiguralo più d’appresso : che forse vedi poco lontano. Andreolo. Io l’ho raffigurato bene, e vi dico che quello non è quello messer Demetrio al quale io sono stato condotto , nè quella è la casa dove questi doi giorni sono stato alloggiato. Sicurano. Dormi tu, o sogni? Andreolo. Io non ho bevuto, io non dormo, non vaneggio, io non sogno, io non son cieco, ma voi volete bene farmi travedere et uscir fuor de gangheri. Sicurano. Accostiamoci a lui. Dio vi salvi, padrone. \ Demetrio. Bene arrivato, Sicurano caro. Chi è quest’huomo da bene eh’è teco? Sicurano. Come non lo conoscete? Demetrio. S’io lo conoscessi non ti ricercherei chi egli sia. Sicurano. Non conoscete Andreolo eh’ io ho mandato ? Demetrio. Io conosco Andreolo, et è stato due giorni in casa mia, ma costui non è quello. Chi sei tu, huomo da bene ? Andreolo, Io sono Andreolo, nè me ne manca un dito: ma, perdonatemi, voi non siete già messer Demetrio. Demetrio. S’io più non son io, sarò dunque fuor di me, ma non credo già che si trovi altro me che me. — 3 98 — Andreolo. Et io mi vergognerei come un bell asino a. dir d essei Andieolo s’io fussi un altro. Io sono Andreolo, sono chiamato Andreolo e voglio esser Andreolo, perchè so bene eh’ io non posso esser uno e un altro insieme. E quando ancora io solo potessi esser due, non vorrei, perciocché non mi piaciono gli huomini doppii, nè mi piace cangiar nome come sogliono fare i servi vili, che per nobilitarsi pigliano il nome del padrone, o i barri che sotto nome d’altri vogliono far qualche barreria la qual non voglio far io, però mi contento del nome mio e d’esser Andreolo com io sono. Demetrio. Che cosa, che girandola, che favola è questa, Sicurano? Sicurano. Messere, io non so; ma so bene che questo è Andreolo mio fattore, ch’io ho mandato a levar mia moglie, e so eh egli non suole bere di soverchio. Demetrio. E me conosci per Demetrio? Sicurano. Vi debbo pur conoscere s’io v’ ho servito vent’anni e vi voglio servire finch’io viva, perchè da voi conosco quel eh io sono. Demetrio. Io trasecolo, e non vidi mai una tal comedia, e Dio non voglia che non si cangi in tragedia. Sicurano. Costui è stato guidato a casa di qualche altro Demetrio vero o finto. — 399 — Demetrio. Dimmi, dove sta quell’ altro Demetrio che tu conosci. Andreolo. Non so dir la contrada, per non esser prattico di questa terra, e poi perchè messer Demetrio e Afranio non mi hanno mai (non so perchè) lasciato uscir di casa. Demetrio. Che burla sarà questa? Sicurano, questo è l’Andreolo che m’ hai mandato? Lo sai certo? Sicurano. Tanto certo quanto so che voi sete voi e ch’io sono io, salvo s’ ho perduto me stesso ancora. Questo è desso, vi dico. Demetrio. Un altro n’ è venuto in casa mia che mi ha dato le tue lettere, che tu mi scrivesti, e tu sai pur s’io conosco la tua mano. Sicurano. Com’è fatto? È vecchio, di mezza età o giovane? Demetrio. Come vuoi tu che sia fatto: di carne e d’ossa. Ma circa agli anni io non gli ho guardato in bocca. Sicurano. Io resto stordito e strabilio. Demetrio. Che vorrà dir questa favola? Che cosa t’ imagini? Che cosa pensi, Sicurano? — 4°° — Sicurano. Che posso io invaginarmi (1)? Non l’intenderebbe l’inteligenza. Demetrio. Ma dimmi Andreolo come ti sei abbatuto in Sicurano, se coloro non ti lasciavano uscir di casa mai? Andreolo. Io esco pur alcuna volta per prender’ aria, e per veder la bellezza di questa florida e miracolosa città, che hora eh’ è d’ inverno è piena di mille varietà di fiori più vaghi che non gli ha la primavera altrove: e per veder le strade piene di leggiadri e ben ornati gioveni e di bellissime donne, le quali, con la diversità dei vaghi portamenti, augmentano oltre misura le naturali bellezze, e per veder anco gl’ alti e superbi palazzi de’ quali questa è sì piena, che con ragione ella si chiama Genova superba, la quale è cinta di sì forte mura, che, se i cittadini suoi hanno sì forte le mura dei loro cuori, ella è inespugnabile. Solo m’ è dispiaciuto d’ haver trovato ancora le strade piene d’ infiniti pover’ e mendici, perchè ho inteso che le città piene d’ estrema povertà, e d’ estrema ricchezza com’è questa sono pericolose (2). Demetrio. Tu hai inteso bene, e più honore e utile ci sarebbe che Genova havesse manco fiori e più frutti, e manco palazzi e più navi e (1) Le parole: « Che posso io imaginartni? » eie seguenti per tutto 1’ atto terzo fino a queste parole dette dal Barro nel quarto, scena prima : « Questa è stata delle maggiori disgrafie eh’ io habbia sentito a’ miei giorni » sono in due fogli aggiunti, che portano regolarmente i numeri 144 e 145, di due altri soppressi con accorciamento della comedia. (2) La bellezza di Genova, la magnificenza dei suoi edifici destavano sin d’allora l’ammirazione anche dei forestieri. Vedasi in proposito ciò che se ne dice in appendice al n. IV. — 4°i — galee, e huomini e donne meglio ornati di virtù che adorni di vesti, com’ hora si vedono andar per Genova facendo la ninfa. Ma tornando al mio particolare (perchè questo non è tempo da riformar città) dimmi, dove ti sei incontrato in Sicurano? Andreolo. Al mare che portava le robbe sue alla dogana, dove soglio andar qualche volta ancora per veder il vostro famoso porto, universale albergo di tutto il mondo, et dal quale uscirono già tanti e tanto armati legni, che fecero Genova del mar degna regina, se bene m’ hanno ordinato, com’ ho detto, eh’ io non mi scosti troppo. Sicurano. Perchè state voi cosi penso, padrone? Demetrio. Io sospetto di qualche trappola d’Afranio eh’ in secreto ho veduto parlar con Alfonso suo servitore, perciochè quando le volpi si consigliano bisogna che le galline si guardino. Che sì che me l’indovino. Che sì. Sicurano. Che cosa? Demetrio. Che si che sarà come me 1’ imagino. Basta, entriamo in casa. 402 — ATTO QUARTO. SCENA PRIMA. Alfonso, il Barro, Afranio. Alfonso. Bisognerebbe hora che venisse Afranio per raguagliarlo. Barro. Questa è stata una delle maggiori disgratie eh’ io habbia sentito a’ miei giorni. Alfonso. 0 fortuna iniqua! Chi può resistere alla tua malvagità? Quando tu vuoi rovinare una cosa, non vale contra te nè arte nè consiglio, che infine chi deve havere il mal’ anno non lo può schifar per correre nè per stare. Barro. Questi lamenti non giovano punto, il caso ricerca eh’ el rimedio sia non men presto che savio: vediamo di qualche riparo. Alfonso. Che riparo? Io per me sono tanto stordito per sì subito colpo, eh’ io non sono in me stesso. Ma quando bene io ci fussi e meco insieme si volessero stillare tutti gl’ ingegni del mondo, che cosa potrebbono ritrovare in così breve tempo in caso tanto irreparabile? - 403 — Barro. Non si deve mai abbandonar l’ huomo mentre vede lo scalmo sopra l’acqua. Afranio. Ecco Alfonso. Che c’è di nuovo? Mio padre è ritornato con Sicurano ? Alfonso. È ritornato, e con lui anco Andreolo. Afranio. To su quest’altra. Infine le disgratie sono come i stranuti, che poche volte vengono soli. Come diavolo s’è abbattuto quella bestia a dargli così subito ne’ piedi? Alfonso. Non sai tu ciò che sa far la fortuna quando comincia? Afranio. Buona cosa è ch’egli non mi conosca, e che quando costui si trasmutò in Demetrio, tu anco ti cangiasti in me. Pur io sono rovinato e non voglio più vivere. Alfonso. Ah, padrone, dov’ è il vostro ingegno, il vostro cuore, il vostro valore ? Afranio. Ogni cosa è atterrata per sì grande e repentina percossa. Ma mi sai riferir altro? — 404 — Alfonso. È entrata in casa con vostro padre Orsolina, la quale uscirà et anderà a dar nuova al monastero della venuta di questa bestia , et a dire che per questa sera non vi anderanno nè vostro padre, nè Sicurano, nè altri, ma tutti saranno là domani, e si darà ordine a ciò che si dovrà fare. Ma vedete come 1’ amico sta pensoso. Afranio. Che diavolo pensa egli? Vedi come si sta immobile. Oh, si gratta il capo. Barro. Io 1’ ho ritrovata. Io 1’ ho ritrovata. Afranio. Et io l’ho perduta. O’ là, non so come chiamarti: Andreolo non sei più, che è venuto in mal punto chi ti ha tolto il nome e l’ufficio, che diavolo hai tu che t’affissi e sommergi tanto nei pensieri? Barro. Io P ho ritrovata, dico. Afranio. Guarda ben che non la perdi com’ ho fatto io ; se è cosa di fumo, il vento la porterà via subito. Barro. Che vento? Che fumo? Le cose mie non sono cosi leggiere. Io ti dico che è cosa stabile, soda e grave, e ti voglio cavar di questo affanno e di quest’ intrigo. Afranio. Altro che morte non può far questo. Tu havresti ben più grand ingegno di colui che trovò gli scacchi e lo scacchino, se tu il facessi. Barro. L’ingegno conviene haver a te nella borsa se vuoi uscir di questo fango. Afranio. Dunque l’ingegno sta nelle borse? Barro. Che? Noi sai ancora? Non sai che il danaio (e massimamente in questa città) fa haver all’uomo, com’ogn’altra cosa, così anco il senno, di sorte eh’ uno asino carrico d’ oro è quasi adorato, dove chi ha la borsa leggiera è tenuto anco leggiero di cervello, di maniera che fino a i cani gli abbaiano dietro, et si tiene tanto conto del senno di pover huomo, come di forza di fachino o di bellezza di meretrice, sichè non è virtù che povertà non guasti in questa età, la quale veramente si può chiamare 1’ età de 1’ oro, poiché 1’ oro solo è in prezzo. Afranio. Io lo so, ma che giova questo al mal mio ? Barro. Giova, che l’ingegno c’ hai nella borsa ti può trarre di questo affanno. — 4°6 — Afranio. In che modo ? Barro. Puoi disporre di trecento in quattrocento scudi ? Alfonso. Quattrocento scudi ah? Cancaro, guarda l’occhio. Afranio. Posso disporre di tutto quello c’ habbiamo al mondo, perchè è già gran tempo eh’ io ho libera amministratione di tutto , et il nome e il compimento delle lettere, nè il vecchio mi cerca altro. Barro. E tu sei huomo , per uscir di travaglio , di spender la somma eh’ io t’ ho detto ? Afranio. Sì: dieci volte tanto senza pensarci punto, che so che i danari si deono spendere ai bisogni, nè voglio far come mio padie che per avanzar non si ha mai cavato una voglia , che la roba è di chi la gode e non di chi la fa, e più presto noi mancheremo al mondo che il mondo manchi a noi; sì che non manchiamo di far bene per danari, che per Violantella (senza la quale non potrei vivere) spenderei quant’ho: eh’è meglio insomma uscir dei danari, che vanno e vengono , che della vita , la quale sola per lei mi è cara, e perciò più la stimo che tutto 1’ oro del mondo, non che i trecento scudi che mi chiedi. r f Barro. « Dunque tu sei salvo. Toccami la mano. AFRANrO. Non so s’io t’el credessi quando lo vedessi e toccassi, tanto mi pare che tu mi dica cose impossibili. Barro. L’ oro anco vince l’impossibile. Afranio. Spediscila dunque subito. Barro. Col corrompere una persona povera, vile et abbietta, la cosa è accommodata. Afranio. Dio lo volesse. Barro. Non dubitare, che lo vorrà Dio, volendo tu. Afranio. Chi ha da esser questa persona? Finiscila, non mi tener più sospeso. Barro. Orsolina, la quale voglio che noi assaltiamo subito quando uscirà di casa e le riveliamo ogni cosa, e la ritiriamo in lega con noi, — 4°8 — c la inciuchiamo a non dir niente al monastero, e eh’ essa, secondo l’ordine già proposto, prenda questa sera la Violantella et se ne venga a navigare con noi. Afranio. Oh diavolo che dici tu? Rivelare questa cosa ad Orsolina che è amica di mio padre? Non sarebbe altro questo se non dirlo a mio padre proprio. Poi chi 1’ ha da indurre a mettersi ad impresa che le parrebbe tanto pericolosa, e a fare questa ribalderia come a lei parrebbe di fare? Et farla ad un suo amico e benefattore tanto antico, il quale ha tanta fede in lei, et il quale è tanto potente in questa terra e tanto ricco, e il quale insomma tanto può giovarle e nuocerle. Chi le persuaderà mai questo? Bisogna infine pensar ad altro. Barro. Non dubitar, che se sarai così largo di mano come di bocca , io non ti metta a cavallo, che quando con 1’ arte delle parole mie io non bastassi a voltarla, lo farò con l’eloquenza di S. Giovan bocca d’oro, la quale avanza tutte le altre efficacie, e se ne vedono tutto il giorno chiarissime esperienze e certe prove che « omnia per pecunia falsa sunt ». Afranio. Parole queste. Orsolina è una santarella et una persona di Dio devota e scropulosa, tanto eh’ ella si fa conscienza di sputar in chiesa, il suolo della quale bacia mille volte 1’ hora, et è sempre a’ piedi del confessore, sì che non può haver forza in lei questo. Barro. Se bene tu sei savio per la tua età, in questo tu parli da giovane, come sei, poco prattico del mondo. Ti dico che non è sotto - 409 — il cielo generatione più atta ad esser corrotta a i tradimenti, a gli inganni, alle barrerie et a simili cose di questi santi che mangiano, i quali, sotto velo di bontà e di conscienza, 1’ attaccano alle persone sempliciotte che credono loro, credilo a me, che ho bazzicato in più hosterie di te e sono andato atorno. Alfonso. È andato attorno e vi va tuttavia, e massimamente a Rubbera, e spero ancora di vederlo andar in Piccardia. Afranio. Che diavolo mi dici tu di quest’ huomini? Barro. Che huomini? Io ti dico che non meritano d’esser chiamati huomini, perchè sono lupi rapaci coperti di pelle di agnelli. E se bene per ogni parola giurano in mia conscienza, io ti consiglio che, se vai a farti cambiar un ducato da loro, che tu non volti loro la schiena. Alfonso. Io mi sarei confessato da simil persone. Barro. Ciò eh’ io ti dico è verissimo, ma di chi è tale parlo solamente, perchè non nego già che non si trovino molte persone da bene, c’hanno retta 1’intentione, e sono di santi pensieri e costumi; ma infine a farti conoscere questo reverso mondo ti bisognerebbe praticar qualche tempo le corti di questi tempi, e stare sott’ a quei cortigiani d’acuto ingegno, come sei stato sotto il pedante. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXV, fase. 2.° *7 — 410 Apranio. Tu puoi dire ciò che tu vuoi, ch’io per ine non crederò mai di’ Orsolina consenta a una cosiffatta cosa. Barro. Credimi pur, Afranio, perchè se le più salde menti degli huomini si voltano e dispongono a dar le rocche, le castella, le città, gl eserciti et anco le persone de lor medesimi prencipi, de’ quali sono guardiani, non dei dubitare che non voltiamo, tiriamo dalla nostra Orsolina, eh’ è una vecchia e povera più che i poeti d oggidì. Sta pur sicuro ch’io la vincerò con l’esercito mio delle bugie e de gl’ inganni, se non mancano i danari da pagar i soldati. Afranio. Non dubitar che ti manchino danari per questo, ma io per me non ardirei affrontar Orsolina di simil cosa. Barro. Lasciala affrontare a me, che sono stato alla guerra , ond’ ho veduto dell’altre nevi, et ho veduto dare a terra torri più forti, e so che la lancia d’ oro abbatte gli huomini armati di ferro, non che le donnicciuole desarmate e nude com’ è Orsolina. Afranio. Ma s’ella non ci consentisse, com’è da credere? Barro. ' t -w - i Non dubitare, ti dico, che trecento ducati d’ oro lucente non le abbaglino gl’occhi e non la faccino dar sotto. E considera poi — 4ii — che noi siamo alle strette, e che habbiamo 1’ acqua alla gola, e se il partito non ti pare così in tutto sicuro , la necessità lo fa eligibile. Nè hai altro a che appigliarti, se non vuoi per dapo-caggine lasciarti perire, e non più presto, come coraggioso e savio tentar ogni cosa per tua salute; ma mi soviene hora di far il colpo senza pericolo. Afranio. E in che modo? Barro. Lascia pur far a me. Io entrarò con lei in altri ragionamenti, fingendo un caso diverso dal nostro, starai pur a vedere come io ti riesco in queste cose d’importanza, che sono da huomini da negotio e da faccende, de quali si deve tener conto, perchè bastano a cavar le persone di gravi strettezze come hora spero di cavar voi. Afranio. Quand’anco la cosa d’Orsolina riuscisse, con tuttociò io non havrei però fatto altro. Perchè come provederemo noi alla cosa d’Andreolo, e che forma possiamo noi havere che mio padre non scuopra subito l’inganno e la trama ch’io gli ordiva adosso? Qui sta il punto. Barro. Et a questo ho già proveduto ancora. Afranio. Se questo è vero, iò dirò che tu sei il più ingegnoso e miracoloso huomo che mai sia nato. Ma come può essere? Barro. Come può essere? Non mi conosci ancora e spero farmiti conoscer presto. Alfonso. Alle sue spese ti conoscerà, s’egli non apre ben l’occhio prima che apra la borsa. Barro. Indutta c havremo Orsolina dalla nostra, tu voglio che te ne vada a drittura a tuo padre, e gli dica che (col mezzo il quale fra tanto penseremo) hai scoperto eh’ io sono un tristo, un barro, un ruffiano, un ladro et un affrontatore. Alfonso. y H iorse che non dirà il vero a suo padre? Barro. Nè mi curo che tu mi facci questo carrico e gli dica questa bugia, poi eh io ho da spacchiare il paese, e che indutto da Alfonso, al quale per non haver egli a veder mai più questa terra, non deve importar niente, voleva con questa astutia impadronirsi della Violantella per goderla ambidue e per menarla anco per lo mondo in mercantia come s’ usa, e cosi rimoverai da te il sospetto di haver rubata la Violantella, e la colpa sarà tutta nostra, onde voi harete le rose e il mele e noi le spine e le mosche. Afranio. È bella per Dio, et ingegnosa e degna di le : tu mi risusciti. f — 413 — Alfonso. Io ti sto ad udir per maraviglia, e mi maraviglio che in tanto tempo c’ hai praticato nelle corti tu non sii pervenuto con tante virtù a maggior gradi. Barro. La virtù, fratello, non è conosciuta in questi tempi, nè riconosciuta nè rimunerata com’ ella merita. Alfonso. Certo che ti è stato fatto gran torto, che meriteresti d’ esser legato. Barro. Questa dignità d’esser legato non tocca a me che non son cardinale. Alfonso. O meriteresti almeno di portar una mitra ed esser fatto uno di quei vescovi che danno la benedittione al populo con i piedi; ma quel che non è stato sarà nè ti può mancare, che so bene che de’ pari tuoi in corte et in ogni luogo si tien più conto che d’ ogni altra persona virtuosa. Ma ecco Orsolina eh’ esce di casa. Che faremo? Barro. Hai tu, Afranio, a canto cinquanta scudi? Afranio. Si ho, non soglio mai andar senza danari per ogni caso che potesse seguire, eh’ uno inamoraro sta male senza danari. — 4!4 — Alfonso. Canchero cinquanta scudi eh? Forse che tira a pochi, guardatevi la borsa, padrone, che questi barri sono simili a' zingari che guardano la mano dell’ huomo per dargli la ventura e con l’altra mano gli votano la scarsella : e questo è tanto sfacciato che non si vergogna confessar d’esser barro, si che, padrone, non vi potete dolere se non di voi stesso s’ egli vi barrerà , che questa sola è 1’ arte sua eh’ egli va facendo per lo mondo , lasciando dovunque passa le vestigia sue come la lumaca, anzi come la grandine, si che guardatevi dalla tempesta sua. Afranio. A posta sua cinquanta scudi più e meno non mi fanno nè più ricco nè più povero, che mio padre, eh’ è cambista, gli guadagna con poca fatica in un tratto, sì ch’io per cavarmi le mie voglie, non pur mi caverò di borsa cinquanta scudi, ma molto più s’ egli f- ne vorrà. Alfonso. Ne vorrà bene sì, siatene sicuro, nè cesserà mai fin ch’egli non vi habbi votata la borsa, che, come la mignatta è alla pelle, non se ne leva mai mentre vi sia goccia di sangue. Fra tanto potete mettere al conto delle male spese questi cinquanta scudi. Afranio. Contentati, Alfonso, di quel che mi contento io, e lascia di più punger costui, che, o buono o tristo ch’egli si sia, gli sono obligato perchè mi serve, e torna troppo bene in questa mia faccenda che m’importa la vita come tu sai. Sì che, se mi ami, non dei con parole pungere chi mi giova con fatti; tien dunque la lingua nel suo stecato, e tu, valent’huomo, piglia i cinquanta scudi che m’ hai domandati. V Barro. Date qua. Afranio. Eccoli. Alfonso. Forse eh’ egli si fa pregar a porger la mano fatta a rampini. Barro. Ben merita Afranio esser servito volontieri, che se ben sei privato genthiluomo, conosco per prova c’hai animo da re, nè ti manca a regnar altro che il regno. Però, se bene io fo 1’ arte della barreria, ti prometto da genthiluomo di meter ogni studio per sodisfar a 1’ honesto desiderio tuo, e di esser teco reale. Afranio. Reale come un zingaro. Barro. Lasciamo di gratia homai questi motti, e diamo dentro al negotio. Tiratevi in disparte voi e nascondetevi là dietro e lasciatela maneggiar a me, che questa non sarà la prima. SCENA SECONDA. Orsolina, il Barro, Afranio, Alfonso. Orsolina. 11 vecchio mi ha sempre tenuta et non ho potuto levarmegli davanti, desiderando di parlar con Ginevra. Ma come s’ingannano — 4*6 1— questi due vecchi intorno al male di Ginevra; pensano che sia raffreddata, et è pur tanto infiammata che tutte 1’ acque del mare non potrebbono estinguer la minima parte della sua ardentissima fiamma. Barro. Madonna Orsolina ? Orsolina. Chi mi vuole? O Andreolo, sai tu eh’è venuto Sicurano tuo padrone? Barro. Io lo so troppo, cosi non fusse venuto. Ma voi dove andate? Orsolina. Io vado a San Colombano a farlo intendere alla Badessa e dirle che P ordine eh' era dato non havrà più luogo. Barro. Hor bene, madonna Orsolina, come la fate? Come vi trattano le monache che vi mandano tutto ’l dì qua e là a portar ambasciate, et a portar insalatine e simili novelle? Orsolina. Le monache, figliuol mio , fanno come gP agricoltori che seminano poco per raccoglier molto, e sono come i polli che non si satiano mai, et a me danno sì poco per lo mio salario, che, se non fussero le limosine di qualche persona da bene, mi converrebbe digiunare molte vigilie che non sono di comandamento : e con - 4i7 - tutto ciò stento ancora a vivere, perchè non ho tanto che possa cavarmi la fame, e pattisco freddo ancora perchè sono mal coperta (i). Barro. Certo vi ho gran compassione. Orsolina. Bisogna haver pacienza quando non si può far altro. Barro. Ben diceste, quando non si può far altro, ma quando si potessi uscir di stento? Orsolina. Sarebbe pazzo chi non n’ uscisse. Afranio. Non mi dispiace la risposta, per la prima. Barro. Che pagaresti a chi vi desse il modo presto e facile? Orsolina. Che vuoi che possa pagare una par mia, che non ha caldo sotto lingua? Io sarei obligata a farlo partecipe delle mie orationi. (i) Le monache genovesi par proprio non fossero molto diverse da quello che le dipinge Orsolina. Chi ne volesse le prove, potrebbe vedere l’appendice al n. 1. — 4i 8 — Afranio. Ci bisognerà altro se vorrai il danaro. Barro. Hor madonna Orsolina, la sorte vi ha appresentata una ventura, che se voi non sete così povera d’ intelletto come di danari, uscirete per sempre di stento, senza haver più cagion d’ imbrattarvi le mani filando notte e giorno, o d’andar nella vostra vecchiezza mendicando. Orsolina. Par che sia cosa ch’il farla stia in mia mano, beata me. Barro. Ella è in man vostra, e per parlarvi liberamente è in questa terra un gentilhuomo che ha bisogno dell’ opera vostra, e vi vuol fare del bene, e fra 1’altre cose fin d’hora vi vuol donare trecento scudi d’ oro. Orsolina. Sarebbe il fatto mio. Alfonso. Et il mio ancora. Padrone, habbiate la cosa per fatta , che la donna dà orecchie. Barro. E di già mi ha dato questi cinquanta scudi, eh’ io vi dia: eccoli, prendete. - 4*9 -Orsolina. Dio glieli appresemi all’ anima. Barro. Ma è forza che voi glieli appresentiate al corpo. Afranio. Galante per Dio : o bel detto. Orsolina. Che vuole questo gentiluomo? Barro. È innamorato d’ una fanciulla, e la fanciulla è di lui, e desiderano ambidue d’ esser insieme; ma non si può far questo senza il mezzo vostro. Orsolina. Eh, io tenni sempre mal volontieri mano in simili prattiche ; pure alle volte si deve far differenza da huomo a huomo. Alfonso. Canchero, la cosa è bella conchiusa padrone. Barro. Ben dite , 1’ intentione di questo genthiluomo è buona perciochè la vuole per moglie. — 42° Orsolina. Questo è desiderio honesto : in che posso dunque aiutarlo ? Barro. 10 vel dirò. Questa putta, per disgratia, è in governo d’una sua zia, donna fastidiosa, anzi diabolica, la quale è ostinatissima in impedire questo santo dissegno , e fin che essa stia in piede non si può far cosa buona. Orsolina. Che dunque ha pensato questo gentilhuomo? Barro. 11 mezzo vostro può condurre il suo travagliato legno in porto. « Orsolina. Et in che modo? Dite pure. Barro. Si terrà modo che questa brutta strega, venendo, com’ ella alle volte fa, alle monache di San Colombano, entri nella vostra stanza dove voi harete apparecchiato da pratica un poco di colacioncella, e le darete mescolata nel vino un poco di quella polvere da topi, la quale cava subito le persone dai travagli e stenti di questo mondo e le fa andar in Paradiso. Alfonso. Parti eh’ egli 1’ habbia fìnta bella. — 421 — Orsolina. Oimè, vuoi tu dunque ch’io faccia cosi gran peccato? Afranio. Dubito che ci affaticheremo invano. Alfonso. Et io spero il contrario. Barro. Come peccato? Ciò che si fa a fine di bene, non è male. Tolta che sia di vita quella ribalda vecchia, che poco in ogni modo può vivere, ne seguirà il santo matrimonio, e si metterà quella povera fanciulla all’ honor del mondo. Ma mi maraviglio bene di voi. Orsolina. Oimè, questo mi pare peccato da non trovar perdono. Barro. Anzi vi dico che non pur non fate peccato a levar di terra sì abominevole mostro, come è questa vecchia diabolica , ma fate un’opra cosi buona, santa e pia, che per questa sola vi saranno perdonati tutti i peccati vostri, se pur n’ havete. Afranio. Si gratta il capo. Habiatela per conclusa. Barro. Risolvetevi su, e pensate che le venture di trecento e quattro-cento scudi non vengono ogni giorno, e che voi sete vecchia e bisognosa, e che fate piacere a un gentilhuomo che non vi mancherà mai. - 422 — Orsolina. Andremo vedendo. Barro. Che andar vedendo? Bisogna, dico, che vi risolviate subito, che qua non è da pensarci; e si cerca d’ un’altra donna, che si troverà presto, perchè le donne giovani nonché le vecchie hoggidi hanno poco ricapito, e questo non è partito da rifiutare. Orsolina. Infine chi è avvezzo a far piacere non può rimanersene. Poiché tu mi dì che la intentione di costoro è di maritarsi insieme , mi lascierò consigliare, c’hora che meglio vi considero, se ben pare che il modo che si tiene non sia così honesto e lodevole, nondimeno la conscienza non me ne stimola, però eh’ io ho sempre inteso dire che si può senza peccato tener mezzi cattivi per pervenire a buon fine (i). Alfonso. Oh diavolo, costei oltre la bontà sua mi riesce una gran dottoressa e bartolezza. Barro. Hora sì che mi riuscite quella savia e da bene che vi sento tenere, e si conosce molto bene che le prediche che sentite tutto il dì e il confessarvi spesso fanno frutto in voi. Afranio, o Afranio? (i) Questo passo rammenta l’altro celebre della Mandragola, dove fra Timoteo si lascia convincere ad agevolare l'adulterio. Vedasi in proposito le considerazioni fatte nella nostra prefazione a p. 244. — 423 — Orsolina. Oimè, dunque era qui Afranio? Ci havrà forse uditi, meschina me. Barro. Non dubitate, Afranio, le cose camminano bene. Non ti dissi io che conosceva da che piede zoppica questa gente doppia? Afranio. Io ho inteso il tutto e ti so dire che tu sei cima d’arrosto, e che bisogna levarsi per tempo per ingannarti. Barro. In casa di ladri è difficile il rubare. Orsolina. Che vorrà hoggi dir questo? Dio m’ aiuti. Afranio. Niente, niente, Orsolina mia. Non dubitate che qua non si tratta se non del ben vostro. Alfonso. Signore, qua non è più da stare che 1’hora passa, e potrebbe uscir di casa vostro padre: si può così ragionar per strada. Barro. Dice il vero Alfonso. — 424 — Afranio. Inviamoci dunque. Venite, Orsolina, che ragioneremo di queHo che fa bisogno andando al monastero. State di buona voglia eh io vi voglio trar di stento e da servir più monache. Orsolina. Signore Afranio, chi misericordia ha misericordia aspetta. SCENA TERZA. Demetrio, Sicurano, Andreolo vero. Demetrio. Io resto il più stupido huomo del mondo di questa trama, ^ ^ so che me ne imaginare, e temo che sia qualche ordigno non vorrei trovare in questo errore per quanto ho caro a » e poiché colui che si fa Andreolo non comparisce, è da c che la cosa gli sia pervenuta a 1’orecchie, e egli abbia sgom^ ^ il paese, sichè andiamo alla casa dove tu affermi che e^ ^ tenuto, ivi forse verremo in qualche notitia della con itio quest’ huomo. Andreolo. Io non vi so andare di qua, non essendo prattico di queste . i i • /-1-ìp mi condu- nella quale io non fui mai altra volta, e bisogna c _ ^ ^ ciate al ponte della mercantia, che di là saprò indrizzaim strada, altrimente no, perchè in questa terra sono tante s ^ tante stradette torte, strette, intricate di sorte che il forcst^^^ ejja si disperde come in un labirinto, s’ egli non ha guida. Ben c ^ cosi fatta mi piace più che molte altre città, che hanno e larghe, lunghe e dritte, le quali, sibene sono migliori da — 425 - e da correr palii che le nostre, sono all’incontro più triste da stanziarvi, perchè sono combattute più dal vento e dal sole, e più mal sane che queste, e la utilità si deve antiponere alla bellezza. Sicurano. Senza altra vostra fatica, e senza che a quest’hora usciate di casa, anderò io e prenderò quella informatione che voi cercate. Demetrio. No no, ci voglio essere anch’io in ogni modo, che meglio fa 1’huomo i fatti suoi da sè: chi vuol far vada, e chi non vuol far mandi; nè l’hora è tanto tarda che non vi possa andare e ritornar con la luce del giorno. Sicurano. Fate come vi piace. Demetrio Andiamo dunque. SCENA QUARTA. Orsolina sola. Hor si che posso ben dire che non mi dispiace d’invecchiare, perchè la morte si avvicina, ma perchè ogni giorno imparo più* In fatti questo è un tempo in cui i paperi menano a bere 1’ oche e sanno più i giovani che i vecchi. Vedi con che astutia Afranio la vuole attaccare a suo padre che è pur tenuto sagace, come la ragione vuole ch’egli sia, perchè è vecchio, è andato attorno, ha letto molti libri, ha avuto molti magistrati e carrichi in Genova e fuore, et è mercante, e i mercanti (per quanto intendo) sanno Atti Soc. Lig. St. Patria. Voi. XXIV, tasc. a.° 28 — 4 26 — più che i dottori, i quali comprano il senno in grosso e lo vendono a minuto, e pur suo figliuolo giovanetto mostra saperne più di lui. Pare questo uno di quei casi che si raccontano nelle'comedie, tante trasmutationi, tanti accidenti improvisi, tante malitie, tanti inganni. Ma chi la facesse più varia e più bella questa comedia. Non ho un poco di cervello anch’io come gli altri? Dobbiamo noi altre donne così in tutto esser da meno degli huomini, e star sempre di sotto, che non sappiamo anco noi ritrovar qualche astutia e malitia ? Perchè se gli huomini si fanno lecito usare queste fraudi e machinar queste trapole, non dobbiamo ancor noi povere donne poter far il medesimo? Perchè se Afranio cerca ogni via d’uscir d affanni, e perciò non ha rispetto nè ad honore nè a riverenza paterna, non deve esser lecito alla povererta di sua sorella, eh’è nella medesima pena, cercar d’ uscirne? Che farai, Orsolina? Lo fai o non lo fai? Io lo vo far in ogni modo, et a farlo mi ci inducono molte ragioni. Prima, quanto a 1’honore, così l’ho a perder in servitù d’Afranio come in procacciare il bene di Ginevra, bisognandomi in un modo e nell’ altro abbandonar questa terra. Poi, io ho più obligo a Ginevra che ad Afranio, et essa anco n è più degna, la quale senza il mezzo mio non si può aiutare in altro modo, dove ad Afranio, eh’è huomo e ben fornito di danari, non mancarano altri mezzi ed altri partiti. Vi è poi questo per conto mio, che so io, che condotta ch’io abbia Violantella in salvo, Afranio la prima collera ch’egli prenderà meco, non mi dia d un piedi dietro e mi mandi alle forche? Non so io, come sono fatti questi huominacci? Di Ginevra non ho già questa paura, la quale, per haverla io allevata, mi ha posto amore da madre. Oh, tu rompi la fede ad Afranio: la va bene. Fede in questo tempo ah? Tutti cercano d’ingannare ed attaccarla al compagno et alla compagua, e si mettono 1’ honore e la conscienza doppo le spalle, et io sola come una scioperata terrò conto di fede et honore (i)? La sarebbe bella, hor via diamogli dentro. Qua non (i) Si noti lo svolgimento dell’idee di Orsolina: essa è ormai convinta di compiere un azione disonesta, sia aiutando Afranio, sia aiutando Ginevra; eppure ù decisa a compierla ugualmente, solo ragiona a suo modo per vedere se le convenga di più favorire il giovinotto o la fanciulla. — 427 — è tempo da discorrere. Ma ecco Ginevra su la porta, mi deve haver veduta dalla finestra, et non havrà havuta tanta patienza d’aspettare eh’ io monti di sopra. Ti so dire eh’ egli lavora da bon senno il martello col quale Alfonso le piantò il chiodo nel core. SCENA QUINTA. Orsolina, Ginevra. Ginevra. Che vuol dir questo? A quest’hora si ritorna? Orsolina. Buona sera, figliuola. Ginevra. Se volete ch’io abbia la buona sera, perchè mi fatte voi consumare aspettando? Perchè havete tardato tanto a ritornare? Orsolina. Non te n’ incresca, che questa tardanza è stata la tua salute. Ginevra. Oh la mia madonna Orsolina cara, cara, resterà alfine? Orsolina. Non resterà, anzi si parte questa sera secondo l’ordine. Ginevra. Oh che vi si possa seccar la lingua. Questa è dunque la mia salute? ► — 428 — Orsolina. Non ti turbar prima che tu non habbi udito ogni cosa. Ginevra. Che vi può esser di buono, se questo è? Ah ingrato, ah traditore. Orsolina. Non è Alfonso nè ingrato nè traditore, anzi di questa sua partenza ne sono cagione troppa gratitudine e troppa fede. Ginevra. Questo non può stare, o eh’ io non v* intendo. Orsolina. Se hai patienza d’ascoltare, l’intenderai, e vedrai che non fusti mai più vicina ad esser contenta per sempre, se la tua contentezza dipende da Alfonso. Ginevra. Dite dunque presto. Orsolina. Chi ha troppa fretta non mangia mai buono arrosto. Io feci la tua ambasciata ad Alfonso, e con preghi e con promesse e con lagrime, e con tutti que’modi ch’io seppi, m’ingegnai di persuaderlo a restare. Ginevra. Et a che si risolvè? I — 429 — Orsolina. Lo ritrovai durissimo nè potei ottener cosa alcuna, et egli vedendo che con la ragione io lo stringeva troppo, nè sapendo che rispondere, perchè la verità ha troppo gran forza, mi lasciò, nè io lo seppi poi ritrovare. Ginevra. Oimè questo è un mal principio di felicità. Orsolina. Sarà tanto miglior il fine, non dubitare. Ginevra. Venite dunque presto a questo fine che non ha mai fine. Orsolina. Credo che tu sappi eh’ era poi nato questo disturbo, che tuo padre voleva ch’io andassi a far compagnia alla Violantella, la qual cosa mi dispiaceva a morte per tuo conto, dovendoti abbandonar in questo stato. Ginevra. Questo ci mancava. Orsolina. Ma che poi per la venuta di Sicurano io non vado più. Ginevra. Io ho inteso ogni cosa. — 43° — Orsolina. Hor, Ginevra, io ti farò maravigliare di quello ch’intenderai appresso. Ginevra. È bene o male per me ? Orsolina. Bene, se sarai risoluta. Ma non m’ interrompere, che mi manca il tempo e m’avanzano le parole : io ho scoperta la cagione della partenza di Alfonso, che non è chi se 1’ havesse mai imaginata. Ginevra. Che? Dite dunque presto. Orsolina. Ascolta, se vuoi, eh’hor ne viene il buono. Tu sai l’amore che tuo fratello porta a Violantella. Ginevra. Io lo so. Perchè mel dite? Seguite. Orsolina. A dirtela in una parola, tuo fratello, non potendo soffrir di veder dare ad altri Violantella, haveva deliberato con sottile astutia di prenderla esso, e ingannare il padre, et le dava per guida Alfonso, e questa era la cagione della sua partenza. Ginevra. Oimè, che mi dite. Orsolina. Quello che tu intendi. E acciochè tu sappia colui c’ havete in casa non è Andreolo mandato da Sicurano, anzi è un huomo finto indotto da Afranio, acciochè a lui fosse data in mano la Violantella, la quale poi esso havrebbe consegnata ad Alfonso, per condurla dove havevano dissegnato. Ginevra. Io stupisco. Come sapete voi questo? Orsolina. L’intenderai, e se non vi si fraponeva la venuta di Sicurano proprio, la cosa era fatta e Alfonso se n’andava per non ritornar mai più. Ginevra. Per usar gratitudine al padrone, a me era egli ingratissimo e perfidissimo. Benedetto sia dunque questo Sicurano, il quale mi ha con la venuta sua assicurata, et è stato cagione che 1’ anima mia non si parta da me. OrSOLlNA. Tu non sai ancora dove io ho a finire. Ginevra. Finite dove volete, pure che Alfonso non si parta, il fine non può essere se non buono. Orsolina. Si partirà, ti dico, più che mai. — 432 — Ginevra. Non m’ havete voluto lasciar troppo in dolcezza, voi me ne data una calda ed una fredda, hora speditela presto se volete. Orsolina. Vedendosi dunque tuo fratello per la venuta di costui andar in fumo il disegno, ha preso nuovo partito, e per abbreviarla, insieme con Alfonso e col simulato Andreolo m’hanno scoperta tutta la cosa, e con offerta di trecento scudi m’hanno sforzato ch’io entri con loro nel trattato, e ch’io non faccia l’ambasciata alle monache, la quale tuo padre mi mandava a fare, anzi eh’ io lasci batter l’ordine, e eh’ io prenda questa sera la Violanteila e con essa io m’imbarchi con Alfonso per non ritornar mai più nè l’un nè 1’ altro in Genova. Ginevra. E voi eh’ havete risposto ? Orsolina. Subito mi si presentò agli occhi il tuo bene, e che questa cosa ti poteva trar d’ affanni, e perciò accettai il partito. Ginevra. Che dite voi? Come, che accettaste il partito? Orsolina. Quello che tu intendi. Ginevra. Intendo, che in altro modo questa partenza d’ ambidue non mi può trar d’affanni, se non che per quella io muora, com’io farò subito. - 433 — Orsolina. Anzi ti farà lieta e contenta per sempre, coni’ ho detto. Ginevra. Come lieta? Che havete voi che vi grattate? Dite su presto. Orsolina. Io non ti vorrei dar cattivi consigli. Ginevra. Che cattivi consigli? Sono in stato che mi dobbiate tener su queste cacabaldole? Speditela dico. Orsolina. Che so io ? Se tu sotto entrassi in cambio di Violantella e, si come ognuno cerca di ingannare, ingannassimo noi ancora gli altri, et Alfonso insieme, e ci partissimo con esso, e gli facessimo restar tutti uccellati, balordi e goffi. Ginevra. Che dite? Spiegatela meglio. Orsolina. L’ intenderai,- se m’ascolti. Ginevra. S’io non havessi orecchie, andrei a prenderle in presto, per udirvi: dite pure. — 434 — Orsolina. Dico che havendomi ad esser data dalle monache nelle mani Violantella et io havendola poi a dar nelle mani di Alfonso et all’huomo finto, e questo su la mezz’hora di notte, onde non potreste esser conosciuta per l’oscurità di essa, e per haver il viso fino a gli occhi bendato ad uso delle donne che si mettono a viaggio, io potrei metter te in suo luogo, e perciò tu potresti uscir meco dando nome in casa che tu sei fuggita al monastero per farti monaca, e tutti insieme si imbarcheremmo, credendosi sempre Alfonso che tu fussi Violantella, insino a tanto che domani a grand’hora, essendo già cinquanta miglia lontani da Genova, gli scuoprissimo il fatto, quando non sarebbe più pericolo che Alfonso, per la evidente rovina sua e tua, volesse ritornare a Genova, anzi havendo comissione la fregatta, che di nuovo hanno condotta, di ubidirlo, andereste dove sapeste di non essere ritrovati, e senza impedimento alcuno vi godereste in santa e in perpetua pace. Ginevra. Buona, buona in verità, io non vidi mai il miglior consiglio, nè vi è altro rimedio alla mia salute, e perciò diamogli dentro che voi meritate corona se vincete con gli armi {sic) del nemico. Orsolina. Aspetta, bisogna pensarci bene. Io non te l’ho detto perchè tu 10 faccia, ma te l’ho voluto metter in consideratione. Ginevra. Non è questo tempo da consideratione, eh’ è troppo breve il termine, ina da fatti. Orsolina. Aspetta, dico, la volontà ti trasporta, nè consideri, nè misuri gl’ inconvenienti i quali potrebbono succedere , nè giovarebbe poi 11 dir io noi credeva. - 435 — Ginevra. Che mi può intravenir peggio della morte? E perdendo Alfonso senza dubbio morirei, e perderei me stessa. Io dunque darò di mano subito a quella cassetta delle gioie del deposito per dodecimila ducati, e questi serviranno per la mia dote (i). Orsolina. Sei deliberata di farlo? Ginevra. Non me lo state più a replicare. Mi pare già d’ esser in barca a canto ad Alfonso al quale son sempre a canto. Orsolina. E 1’honore di casa tua? Ginevra E 1’ honor di casa mia, e 1’ honor di casa mia, e s’io morissi che vi parrebbe? Mio fratello m’insegna quello che debbo far’io, quando per trarsi gli appetiti suoi io vedo tentar un’ impresa simile a quella eh’ io voglio seguire. (i) Son cassate le parole: « benché sono ancora pochi, perchè ad una par mia in questi tempi se ne danno trenta mila». Questa cancellatura può dirsi conseguenza della correzione fatta nella scena seconda dell'atto terzo, laddove parlandosi del matrimonio vagheggiato da messer Demetrio per il suo Afranio colla figlia di messer Urbano, si diceva ch’egli tirava a trenta mila ducati di dote; somma che certo parendo esagerata fu ridotta a diecimila. Quindi Ginevra poteva ben contentarsi di dodicimila, perchè un padre avaro come Demetrio, che ne sperava solo diecimila per il figlio, non ne avrebbe certo dati di più alla figlia. — 43 6 — Orsolina. Ma non consideri che tuo padre è richissimo e ha Tali grandi, onde ne troverà per tutto, e ne farà pigliare dovunque saremo? Ginevra. Oh voi sete paurosa, non sapete voi che il mondo è grande, e in questi tempi, è più che mai fusse, ne i quali si ritrovano ogni di nuovi mondi, mercè di Colombo nostro genovese (i). Ma chi pensa a tante cose come pensate voi, non ne fa mai veruna. Pensiamo per hora di far questo bene di partirsi, che al resto si penserà poi. Orsolina. Vedi, fai tu questa deliberatione. Non dir poi che sia stata io. Ginevra. Deh non mi state a far ridere con queste vostre sofisticherie che non vengono mai a fine. Orsolina. E come farai ad uscir di casa? Ginevra. Non ci ho difficoltà alcuna: i servitori sono fuori di casa, e le fantesche ancora sono ite in Bisagno, eccetto l’Agnesa, la quale mi leverò dinanzi in qualche modo, e mi vestirò da huomo con vesti di mio fratello, e dato di mano alle gioie subito vengo via. Lasciate pur far a me, voi aspettate qua. (i) Qui sono cancellate le parole: a il quale si può dir fenice ». - 437 — Orsolina. Mi metterò dietro a quel canto e ti aspetterò. Ginevra. Così fate. Orsolina. O che gran cosa è quella a che ci mettiamo. Io fo voto, s’ella mi riesce netta, di far vestire un nudo a Ginevra che può, e lo farei aneli’ io s’io havessi il modo di poterlo fare come haveva quand’ io era giovane. Che non l’ho, > perchè più non m’entra un soldo in borsa, anzi hora sono sì mal coperta che la maggior parte del tempo son raffreddata; ma se mi è mancato il potere, il buon volere non mi è già mancato. SCENA SESTA. Afranio, il Barro. Afranio. Il tutto è benissimo ordinato. Fra mezza hora coloro anderanno alla stanza di Orsolina, e ivi prenderanno Violantella e la condurranno via. So che si potrà dir il proverbio spagnuolo che « mucho sabe la raposa, ma mas sabe quiem la toma». Ma ecco il Barro che viene alla mia volta, dell’ingegno del quale mi son servito fino a qui et hor mi voglio servir ancora della mano, se bisognerà. Barro. Buon giorno, signor Afranio, vengo a vedere se mi comandate altro. — 438 Afranio. Non altro, se non che, dovendo tu insieme con Alfonso far compagnia alla mia Violantella, vorrei che vi armaste quando la condurrete alla barca, perciò che se venisse voglia di torvela a gl’insolenti giovani c’hora vanno facendo per Genova discortesia alle persone disarmate, possiate diffonderla menando le mani e non li piedi. Barro. Io, signor Afranio, di mio costume non vado volontieri fuor la notte come gl’allocchi e i pipistrelli (i), ma per fuggir roniore, come dice il Cato, me ne sto in casa, il muro della quale voglio che mi serva per scudo, perciochè, uscendo fuor disarmato, so che facilmente posso esser offeso da gli armati discortesi, e portando Tarmi ho paura de i birri, i quali, se trovano un par mio con un coltello solo di contrabando, sursum in corda, perchè le gride e i bandi sono fatte per i poveri par miei a i quali la giustitia non ha rispetto alcuno (2), e non per i ricchi e grandi, i quali possono portar armi d’ogni sorte nott’e giorno, havendo il modo d’ unger la mano al bargello. Afranio. Non lasciar d’ armarti per questo eh’ io pagherei la pena, se tu per disgratia fussi pigliato con armi di contrabando. Barro. Io lo credo, ma è meglio di far in modo che le disgrafie non giungano che giunte rimediarle. Io dunque quando sarà 1’ hora, (1) Le parole tei pipistrelli » furono aggiunte dall’ autore. (2) In luogo delle parole « ha rispetto alcuno » l’originale aveva « la perdona ». — 439 — farò compagnia alla vostra Violantella per farvi piacere, ma disarmato di ferro, perciochè mi sento armato il cuore d’ardire di sorte, che se fussimo assaliti, mi darebbe l’animo di diffonderla solo (i) con Tarmi di San Steffano, sicché non bisogna ch’io mi metta a risico d’esser preso da i soldati da presa, idest dai birri, da’ quali (com’ho detto) i miei pari non possono uscir netti. Afranio. Io credo che tu sii non manco valente con la mano che col consiglio, però me ne starò sopra di te e d’Alfonso, il quale, benché sia giovinetto, so per prova ch’egli sa menar le mani quando bisogna. Va dunque a metterti in punto s’ altro ti resta a fare, eh’è tempo ch’io faccia la parte mia con mio padre. Barro. Io vado. SCENA SETTIMA.. Ginevra e Orsolina. Ginevra. Che non può far d’un cuor c’habbia soggetto Amore? Io che già uscita di camera non sarei la notte senza compagnia e senza lume, hora, d’Amor guidala, sono uscita sola, non pur di camera, ma di casa a quest’ hora vestita da huomo, come intendo c’ hora spesso fanno molte altre donne innamorate, senza temer della sfrenata gioventù di questa terra che tien per manco di dar un colpo alle persone che ben le viene, che di sputar in terra (2). (1) La parola « solo » è aggiunta nel modo solito. (2) La sicurezza pubblica in Genova durante la notte sembra che non fosse davvero molto grande. Le osservazioni che fa qui Ginevra, i consigli che dà nella — 440 — Egli è pur un grand’ardire il mio quando bene il considero; ma non è amante chi non è ardito, ch’Amore assicura gli animi vili e timidi, non pur degli huomini, ma delle donne ancora, coni’hora prov’ io eh’ egli mi ha posto nel cuore tant’ ardire, che per amor d’Alfonso, non solo anderei sola di notte per le strade, com’hora fo, ma anderei contra le nude spade. Ma come tarda tanto Orsolina a venire? Duro è più che la morte l’aspettare, sarebbe pure horamai tempo ch’ella fusse venuta. Che vorrà dire tanto tardare? Trista me ch’ella non badasse tanto, che mio padre o mio fratello ritornassero e ci rompissero il disegno. Le sarebbe accaduto mai qualche disgratia? Oimè eh'’ella non si habbia fatto qualche male. Si potrebbe anche esser pentita. Sarà forse a graffiar i piedi a qualche santo. Ma ella deve pur sapere eh’ in simil faccende non bisogna fallir d’ un punto. Che vuol dir dunque tanta tardanza, che mi fa consumar aspettando? Queste vecchie infine sono balorde e rimbambite, et hanno sempre il passo della lumaca e stanno un anno a moversi, che si possano romper il collo quante sono, eh’ in ogni modo non sono più da altro che da imbrattare il mondo con isputi, e trascinarsi la vita dietro. Ma oooh, lodato sia Dio, eccola alfine in capo della strada. Orsolina, Orsolina. Orsolina. Eccomi, eccomi, Ginevra. Parti ch’ella habbia fatto presto: mi venga la tossa s’ ella non è più bella in questo abito da maschio che nell’altro, Ginevra. Bè, che vi paio in quest’ abito? Credete ch’io trovassi una innamorata ? scena precedente Afranio al Barro perchè si armi, rispondevano bene alle condizioni dei tempi. Vedasi in proposito nella Vita privata dei Genovesi di L. T. Belgrano (Genova 1874) soprattutto il cap. LXXXI della parte IV. « Cure degli uomini maturi e dissipazioni dei giovani ». Quanto alle donne innamorate gioverà pure leggere l’appendice di questa commedia al n. II. - 44i — Orsolina. Se non fusse l’offesa direi che trovaresti anco uno innamorato. Ginevra. Come uno innamorato? Sono forse anco conosciuta per femina ? Orsolina. Parliamo d’ altro, e dimmi s’ hai la cassetta e 1’ altre gioie. Ginevra. Come s’io le ho? Che ne credete? Eccole tutte. Orsolina. Mi piace. Qui non è da fermarsi più, inviati al monastero. Io starò qua tanto che dica ad Agnesa che sei fuggita a farti monaca, poi ti seguirò, e sarò là così presto come tu, e entraremo nella mia stanza, dove coloro non possono tardare a capitarci. Intanto ti vestirò, va via; ecco l’Agnesa. Ginevra. Io vado, voi venite presto, e non mi tormentate più col farmi aspettar tanto come faceste dianzi. SCENA OTTAVA. Agnesa, Orsolina. Agnesa. Où ù ù, trista me ch’io non la ritrovo in alcun luogo in casa, nè mi par honesto di doverla far cercar con la campanella per Atti Soc. Lia. St. Patria Voi. XXV, fase. 2.0 39 — 442 — Genova come si cercano le fanciulline quando si smarriscono, essendo ella zitella da marito. Che farò mai, dove può ella esser’andata. Ma ecco Orsolina che forsi ne saprà dar nuova. Madonna Orsolina, havete voi veduto Ginevra? Orsolina. Troppo T ho veduta, et per non vederla in quella forma, havrei quasi voluto esser cieca. Meschina me è uscita hor hora di casa vestita da huomo, e mi ha detto eh’ ella se ne va al monastero a farsi monaca Agnesa. Oimè, che mi dite, non la sapevate ritenere? Orsolina. Non ho potuto, se bene io mi sono sforzata di farlo, perchè una giovane ha più forza di una vecchia come sono io, alla quale il carrico degli anni nuoce, che me ne trovo trenta per natica. Ma non m’intertener più, ch’io voglio andarle appresso per veder s’io potessi ritenerla con prieghi, che spesso possono più che la forza in un cuor gentile, com’è quello di Ginevra, la quale so che m’ama, come amo lei, perchè l’ho nutrita col latte mio. Agnesa. Sì di gratia, cercate di ritenerla. O che dirà madonna, che farà quand’ella lo saprà? Se di niente ella fa sì gran romore, pensate s’ella in cosa di tanta importanza, la squarcierà da dovero? Ella ha da arrabbiare, da dar del capo nel muro, da far mille pazzie, a sua posta, basta ch’io non n’ho colpa, bench’ella, che non piglia mai le cose per lo diritto verso, vorrà che la colpa, che è sua, sia tutta mia. Che venga il morbo a chi volesse mai servir a donne. Io per me servirei più volentieri dieci huomini, - 443 — che una sola donna. Perchè in vero gli huomini sono di più dolce pasta con noi altre, e si lasciano maneggiar in modo che le serve godono di servirgli, tanto più i giovani, perchè oltre che danno miglior salario, se ne cava tutta via qualche cosa di più, perciochè sono tanto carnali et amorevoli delle loro cose, che vorrebbono ad ogn’ hora metterti in corpo ciò che hanno. Dove le donne pelano di continuo i loro servitori, et cercano di cavar loro il fiato, e massimamente la nostra padrona ch’è di sì crudele et ingorda natura, che non può patire di vedermi star un’hora in riposo, perchè quando ho compito di far i serviti di casa, ella mi fa lavorare, e vuole che lavorando io m’avanzi i miei salari e mi fa chiudere fino il pane. Però io voglio spiccarmi da lei in ogni modo et attaccarmi a qualche huomo, che habbia il modo, e mi faccia del bene, come faceva il mio primo padrone, che mi dava la chiave in mano d’ ogni cosa sua, et se se ne stava sopra di me, et ben poteva farlo, che, se bene io non arrivava all’ hora a i quattordici anni, haveva tanto cervello ch’io teneva già benissimo il suo conto, et apriva cosi ben l’occhio in guardar la robba sua, eh’ ella mi cresceva nelle mani. Hor con questi padroni c’ hanno della robba assai e discrettione è meglio haver da fare che con queste arpie di padrone, che sono la più parte di sì rapace natura com’ ho detto, eh’ i poveri servitori eh’ entrano a servirle non ne possono uscir netti, che sempre gli lasciano tanto del suo, che si pentono d’ esservi entrati. Ma ecco qua Marchetto, che mi verrà dinanzi con le sue solite novelle per accrescermi noia, della quale non bisogno punto, perch’io l’ho pur troppo grande. — 444 ATTO QUINTO. SCENA PRIMA. Agnesa, Marchetto. Marchetto. Infatti come in casa non si fa qualche straordinario , et non ci viene qualcheduno di fuore, mi posso avanzar poco, che in questi desinari e cene d’ogni giorno si trova poca ruspa, perchè in casa nostra si vive ancora all’ antica mangiando la mattina fra otto persone che siamo quattro libbre di carne di vacca, la quale è molto in uso, con una minestrina, pane aburattato con lo staccio lado, e mezza la carne salvano fredda per la sera , con una insalatina che a pena habbia veduto 1’ oglio, e le feste per giunta un poco di fegato per antipasto. Perchè il padrone che non dà lardo a gatti, dice che i desinari grandi ruvinano in un tratto la complessione: io non credo già eh’ egli tema eh’ un buon desinare gli faccia danno allo stomaco (i), ma sì bene alla borsa, pei eh egli • * 1 beve il peggior vino e il più noccivo che abbiamo in casa, et i miglior che raccogliamo in villa fa vendere per avanzare. Parti che questa sia solenne? Poi morrà, et delle ricchezze con tanta fatica acquistate, e Dio sa come, ne porterà un solo lenzolo, et il più tristo, ah ah ah ah ! Sì eh’ io posso poco buscar seco, com ho (i) Le parole « si bene alla borsa » e le seguenti fino alle altre di Agnesa « Eli che mi faresti spiritare. Ti dico che in casa ci è il diavolo », si trovano in quattro fogli sostituiti regolarmente ad altri quattro coi numeri 182, 183, 184 e 185. Ecco un altro accorciamento. - 445 - detto, nel mangiar ordinario. Io non credo fra la provisione di questa mattina e di questa sera haver graffiato un carlino. È ben vero che quando ci viene qualche forastiero, il padrone, bench’egli sia avaro, fa banchetti da cardinale, forse per scemar l’oppinione che Genova ha concetto della sua avaritia: e se quando vengono le occasioni io non le so pigliare, et empirmi la pancia et la borsa in un tratto, mio danno (i). Ma ecco Agnesa su l’uscio: voglio abboccarmi seco, e pigliar lingua da lei per vedere s’ ella mi vuole dar da fare colatione, ch’io mi sento ritto l’appetito, e credo eh’ ella il farà, perchè ella crede eh’ io l’ami tanto eh’ io le debba far’una robba nuova dal dì delle feste; ma la sciocca s’inganna a partito, perch’ io non voglio comprar sì caro un pentimento (2). Anzi io fingo d’ amarla, perch’ella vesta me, e per sfocar seco l'instinto naturale, perciochè io tengo per bestia ciascuno huomo che ama le donne, che le desidera e che le segue per altro che per la necessità dell’ humana generatione. Ma prima eh’ ella si parta de su la porta voglio attaccarmi seco a ragionare. Buon giorno, anima mia, la buona notte te l’abbia a dar’io. Vuoi tu darmi qualche cosa del tuo? Tu non parli? Se non hai lingua da rispondermi, fammi cenno ch’io ti accomoderò della mia per tenerla in bocca, con patto però che non la morda. (1) L’ ospitalità genovese era ben nota. Il Gonfalonieri, nel Viaggio da Roma a Genova già citato, a p. 191 ne.fa le più ampie lodi, ricordando fra gli altri un gentiluomo che non solo diverse volte regalò a di conviti lautissimi di carne e pesce monsignore che recavasi a Madrid, ma subito che giunse in quella città (Genova) li diede la chiave del suo giardino acciò vi potesse andare a suo bell’ agio ». Ved. anche nella già citata opera del Belgrano il cap. XXXIV della parte seconda. Quindi il Foglietta, che ha pur ritratto così bene in Demetrio il tipo dell’avaro, ricordando che il suo personaggio era genovese, non poteva negargli la cortesia ed una certa liberalità verso gli ospiti. Altro segno questo della cura con cui il nostro autore ritrae la vita di Genova. (2) È superfluo rilevare la reminiscenza classica di questo detto « non voglio comprar sì caro un pentimento ». Di simili reminiscenze se ne trovano parecchie qua e là, come si trovano proverbi. Ma trattandosi di cose assai comuni, non abbiamo creduto bene incomodare il lettore con note, che illustrino cose da per se stesse già molto conosciute. — 446 — Agnesa. Io non ti ho sentito che ti havrei risposto cortesemente, perchè d’usanza mia non tengo la lingua alle persone. Tornami dunque a dir quel che m’hai detto, salvo se temi di pagar la gabella delle parole, come si paga d’ogn’altra cosa in questa terra. Marchetto. Io ti ho detto se tu mi vuoi dar qualche cosa del tuo. Agnesa. Che cosa ti può dar’una povera donna come son io? Marchetto. Chi è bella come sei tu non può essere povera, e se non mi puoi dar del tuo proprio, mi puoi ben dar di quel del padrone, che guai a noi se stessimo alle speranze del nostro poco e mendico salario. Ma quel eh’ io voglio da re è una baia, e me la puoi dar cosi bene tu come queste gentildonne c’ hanno sì gran ricchezza, perchè n’ hai tanta dovitia che senza tuo disconcio, senza levartene un sol dito, ne puoi dare a un certo modo a tutta Genova, non che a me solo, et a non darmela fai gran peccato, perch’ ella si perde, et io ne bisogno, e se me la dai, io darò cosa a te che ti contenterà, perciochè n’hai tanta necessità che non puoi starne senza, e 1’ ho meco come puoi veder e toccar con mano, sì che possiamo metter l’uno per contracambio dell’altra. Tocca qua, se non lo credi. Agnesa. Deh lasciami star se non vuoi eh’ io ti faccia mangiar del pesto per la colatione che tu cerchi da me, lasciami star dico, che questo non è tempo da baie, — 447 -Marchetto. Hor su , che queste saranno delle tue solite salvatichezze. Agnesa. Eh che mi faresti spiritare, ti dico che in casa c’ è il diavolo. Marchetto. C’ el vorrei far entrare il diavolo se tu volessi. Agnesa. Tu mi farai pur ridere, e ne ho poca voglia. Lascia in mal hora questi ragionamenti che siamo rovinati. Marchetto. Che cosa ci è di rotto? Agnesa. Ginevra se n’ è fugita. Marchetto. È possibile? Agnesa. Credo pur che sia possibile s’ ella ha le gambe. Marchetto. Com’ha fatto? È uscita per l’uscio? — 448 — Agnesa. Come ha fatto? È uscita per l’uscio con i piedi. Vedi com’ha fatto. Marchetto. E tu eh’ eri restata in casa per guardia sua ? Agnesa. Io era restata per il mal’ anno e la mala Pasqua che Dio ti dia. Sono de’tuoi favori questi che mi fai? Marchetto. Tu hai troppo gran collera e sei troppo sdegnosa, e sempre pare che tu 1’ habbi meco. Agnesa. Parla dunque come dei, e non cercar di mettermi alle spalle cosa che mi potrebbe nuocere. Che cosa ho io a far di guardar le zittelle? Queste cure toccano alle madri; e poi non so se ti pare che Ginevra fusse cervello da lasciarsi sottomettere a una par mia. Marchetto. Si sarà forse lasciata sottomettere a qualche un altro, s’ella pui se n’è ita. Ma io noi posso credere, e penso ch’ella sia ancora in casa, e si deve esser nascosta in qualche parte per darti la baia, e farti cercare un poco, come sogliono fare le zitelle per ischerzo. Agnesa. Io non vidi mai huomo che havesse più dura opinione di te, e mi faresti dir qualche mala parola. Io ti dico eh’ ella ha fatto da dovero e non da scherzo, che Orsolina mi ha detto ch’ella se n’ è fuggita al monastero vestita da huomo. - 449 — Marchetto. Et a che monastero, di San Crescenti*)? Agnesa. Tu pur vuoi tuttavia la baia, io dico di San Colombano. Marchetto. Dio ’l voglia, ma io dubito d’altro, che non mi pareva ch’ella havesse sì gran divotione. Agnesa. Nè io credeva ch’ella 1’havesse sì grande. Marchetto. Eri tu in casa quand’ella se ne uscì? Agnesa. Io vi era troppo per essere. Marchetto. E la vedesti partire? Agnesa. No, ch’ella fu accorta in questo, e mi mandò su nella loggia scoperta, che tu sai quanto è alta, a cogliere un insalata, dicendomi che le ne era venuta voglia all’ hora, et che voleva che merendassimo insieme. — 450 — Marchetto. Io credo eh’ ella havessi voglia di empirsi il corpo d’ altro che d’insalata, che le fanciulle desiderano sempre di provar qual sia quel piacere eh’ elle s’imaginano che si possa havere con l’huomo. Agnesa. Che volevi ch’io pensassi? Io v’andai per ubidire, e ritornatamene non la trovai, ma trovai ben la sottanella sua ch’ella suol portare in casa, della quale s’era spogliata; il che fece per non esser conosciuta per istrada, e si sarà vestita delle vesti di suo fratello. Marchetto. Non si vergognò d’ esser veduta così ? Agnesa. È forse la prima? E quante ne sono eh’ ogni notte vanno in questo abito a far’ i fatti loro ? Marchetto. Io non mi maraviglio eh’ ella non havesse paura d’ andar sola a quell’ hora. Agnesa. Passato è il tempo che le fanciulle havevano paura della fantasma che va di notte a coda ritta. Marchetto. Sia che si voglia, basta che io non ci ho colpa. - 4SI - Agnesa. Nè io. Chi le ha fatte se le guardi, che altramente saranno mal guardate. Marchetto. Così credo. E per non haver fatica di guardarle tanto in casa, meglio sarebbe, quando le fanciulle sono buone da dormir con gli huomini, che i padri che hanno il modo, come messer Demetrio, le maritassero; ma, per non levar i danari de su i cambi, le tengono tanto in casa, che le meschine non potendo accompagnarsi con i mariti per 1’ avaritia e crudeltà dei padri loro, si accompagnano con gli amanti per non dormir sì lungo tempo fredde t sole. Però si suol dire « fanciulla al tempo non maritata si marita spesso cavalcata ». Oltra di ciò come la donzella comincia un poco ad increspar, nessun più la vuole se non con dote grandissima. Che il vino e olio quanto invecchiano in casa più tanto più acquistano bontà, ma una citella da marito tanto peggiora più quanto più invecchia, come il cocomero. Però è bene cogliere questo frutto in sua stagione, e non lasciarlo maturar tanto che per vecchiezza perdi il sapore. Agnesa. Io voglio lasciar ancora il pensiero di questo a chi tocca. Marchetto. Hai ragione. Entriamo dunque in casa, eh’ io ti ho da parlar adesso di cosa che ti entrerà, nè posso aspettar più perch’ella mi uscirà di mente se tu non mi porgi 1’ orecchia hora eh’ io sono pronto. In tanto un bacino del tuo dolce bocchino (i). (i) Che cosa Marchetto volesse fare in casa facilmente si capisce; ma tanto per intendere che a Genova non gli mancavano imitatori, riporteremo alcune parole d’un decreto che il doge e i governatori facevano il 25 gennaio 1538, — 452 — Agnesa. Fermati, prosontuoso: non ti vergogni per strada; io entro in casa. Marchetto. Et io ti vengo dietro. Agnesa. A tua posta, ma non pensar già per hora di far niente, eh’ io ho altro in testa. e che si conserva nella Biblioteca del R. Arch., voi. I. ms. p. 78 dei Decreti della Repubblica. « Ill.mus dominus dux et magnifici domini gubernatores, cum ad compescendam servitorum ut vulgo dicitur licentiam , qui parvo admodum respectu nullaque prorsus honestatis ratione habita, ducunt feminas ad domos dominorum suorum, et seu in dicta domo habitantes mulieres carnai iter cognoscunt, nedum utilis sit verum per quam necessaria observantia capituli Ianue positi sub rubrica de servitoribus ducentibus feminas in domo domini sui et e contra videntur quod in calce dicti capituli apposita conditio, ut debeat capitulum ipsum singulo quoque mense per civitatem Ianue et loca consueta preconisari. olentes ne conditio ipsa si minus adimpleatur capitulumqrie ipsum preconisetur possit ipsius observantiam aliquo modo infirmare, sed citra aliquod preconium post hac sit in viridi observantia et exeeutione, examinato itaque negocio omni meliori modo sese ad calculos absolventes, statuerunt et decreverunt statuuntque et decernunt ex eorum certa scientia capitulum ipsum de cetero debere inconcusse observari citra aliquam preconisationem deinceps faciendam. Amoventes ab eo conditionem dicti preconii, ac si dicto capitulo apposita non fuisset facientibus in contrarium quibuscumque non obstantibus. Die XXVI ianuarii ». leggc della Repubblica ricordata in questo decreto, trovasi nel 1. II. cap.LX\ I. del volume Criminalium iurium civitatis genuensis, pubblicato a Genova dal Bellone il 1555. Al solito si minacciano pene gravi di multe, di battiture, e perfino di esilio, se il servo colpevole non paga entro un mese dalla condanna. Sembra poi che anche Agnese doveva avere imitatrici, perchè fra altro la legge dice. « Foemina vero quae est in obsequio sui domini, si eius in domum hominem ut cum eo rem habeat, intromiserit, et sit serva, plectatur ex domini voluntate; sin libera fustigetur et det quinquaginta libras ». - 453 - Marchetto. Anch’io ho la testa carrica di fastidio grande, però desidero scaricarmela teco, perchè gli amici insieme si sfuocano ragionando il cuore. Agnesa. Se verrai forse ch’io t'udirò, e forse anco no, orsù adio. Marchetto. Basta, io verrò certo. Io giocherei tre contr’ uno eh’ ella adesso ha più gran voglia di sentirmi, ch’io d’esser sentito da lei. Gran cosa che queste donne non sappiano dir di sì: io non voglio, io non voglio, et tutta via fanno il bisogno loro come il medico che apre la mano e dice di no, combattono sempre con gl’ huomini per esser vinte. Ma il vero dir di no delle donne honeste, è il non aprir 1’ orecchie al dir degli huomini, come le apre costei a me, la quale con parole finte mi niega quello ch’ella più desidera bavere per parer da me sforzata. Ma io non lasciarò già per le sue ripulse di far il bisogno mio da pratico, perchè so ch’in simil cose bisogna adoprar non men la mano che la lingua, così per sodisfar a se stesso come alla donna, la quale altrimenti tien l’huoino vile e da poco. SCENA SECONDA. Demetrio, Sicurano, Andreolo, Afranio. Demetrio. Questa è pur una gran cosa, che non habbiamo potuto cavar niente da tutto il vicinato? — 454 — Sicurano. Non può essere che col tempo non veniate in cognitione del fatto, o per via di colui che gli ha affittato la casa o per qualche altro mezzo. Demetrio. Così è da credere, nè mi acqueterò mai fin’à tanto ch’io non mi chiarisca. Ma ecco Afranio che viene in fretta. Afranio. 0 Dio, ch’io trovi presto mio padre. Sicurano. Vi va cercando. Demetrio. L’ho inteso. Afranio, o Afranio. Sicurano. Messer Afranio, vostro padre vi domanda. Afranio. 0 voi siate il benvenuto, Sicurano. Sicurano. Et voi il ben trovato per mille volte, venite a vostro padre. Afranio. 0 padre, io vi ho da dire una cosa la quale vi farà stupire, che quel ghiotto venuto dalle forche, il quale si fingeva Andreolo, ordiva trame contro il vostro ed il mio honore. - 455 — Demetrio. Hai scoperto la cosa? In che modo? H che trama era questa? Afranio. Del modo sarebbe troppo lungo il parlarne, nè hora vi è tempo. La cosa era che costui voleva con quest’ arte rubar la Violantella, e menarla per lo mondo in mercantia. Demetrio. Può esser questo? Afranio. Egli è ciò ch’io vi dico, e pare che Dio habbia proprio in questo punto eh’ egli la doveva haver nelle mani, mandato qua Sicurano acciochè non accadesse questo scandalo. Demetrio. Così è da credere, e Sua Maestà ne sia laudata. Afranio. Ma quel che più importa e quel che quasi mi vergogno di dirvi, parendomi che vi sia un poco di colpa mia, è che quel traditor d’Alfonso era d’accordo con lui, anzi esso havea indutto (i) a questo il Barro, et era autore di questa ribalderia. Che vi pare? Povera figliuola! Ah traditore, va poi e fidati. Demetrio. Non ti diss’io più volte ch’egli non mi piaceva per casa? E ch’io l’aveva per un ghiotto? Sarebbe meglio che voi altri giovani (i) L'originale aveva « mandato » in luogo di « indutto ». - 45^ — credeste ai vecchi più che non fate, perchè sanno più di voi come vuole la ragione. Ma sia ringratiato Iddio , che non ci ha nociuto. Hora entriamo in casa, e mi spiegherai meglio l’ordine di questa trama che voleva tessere, e come l’hai scoperta. Afranio. A questo sarà tempo, padre, c’hora voglio andare in luogo dove ho spia che sono, e s io gli ritrovo, come spero, io ne farò tal dimostratione, io ne farò tal vendetta. Demetrio. No, no, Afranio, io ti comando che non facci altro, solo vedi di far metter loro le mani adosso dalla giustitia. Afranio. Pari miei non aspettano che la giustitia faccia le lor vendette. Demetrio. » Anzi pari nostri non devono stare sui puntigli dei duelli, che siamo mercanti e cittadini della Republica, e non isgherri, bravi e soldati, bench’ anche in costoro questa usanza bestiale di combattimenti non è sopportabile, però il concilio con buono consiglio l’ha vietata, perciochè gli huomini ragionevoli partono le loro differentie con la ragione, e le bestie, che ne sono prive, con le corna e le ungie, e co’ i denti. Afranio. Io non voglio, padre, combatter con Alfonso mio servitore, che so che m’ el farei pari, ma voglio castigarlo con un pezzo di legno, sotto il quale voglio farlo morire, come merita. - 457 Demetrio. Anzi merita d esser castigato con tre legni, e non con un solo. In somma io ti dico che tu avertisci bene ad ubidirmi, facendolo punir dalla giustitia. Afranio. Haverli nelle mani voglio un tratto. Voi, padre, entrate in casa con quest’ altri, che non è più hora per voi di stare all’ aria. ! Demetrio. L’ aere di Genova è così buona, che vecchi e giovani d’ ogni tempo possono star fuora di casa a tutte 1’ hore senza eh’ ella lor nuoca, come quella di Roma o Napoli dove sono stato, e molte altre città nelle quali gli huomini vivono poco per questo, chè meschino 1’ uccello che nasce in cattiva valle, si suol dire. Pur entro in casa. Afranio. Et io vado a far quello che ho detto. Demetrio. Va, che Dio sia in tua compagnia, et habbi a mente il mio comandamento ch’io ti faccio. Ma ecco Agnesa ch’esce di casa. ' SCENA TERZA. Demetrio, Agnesa. Demetrio. Agnesa, o Agnesa. Agnesa. Messere, oh voi sete venuto a tempo. Atti. Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXIV fase. i.° -0 Demetrio. Che ci è? Agnesa. Io non ci ho colpa alcuna, messere. Demetrio. Che vuol dire che tu non ci hai colpa? Che c’è di nuovo Agnesa. Vi è di nuovo una cosa vecchia. Demetrio. Di’ presto quello che c’ è, in tua malhora. Agnesa. Non gridate poi a me, messere, eh’ io non la vidi quand se n’ andò via. Demetrio. Chi se n’andò? Finiscila? Agnesa. Ginevra. Demetrio. Ella dunque se n’è andata? Agnesa. O se n’ è andata o n’ è stata portata. w--m ! — 459 — Demetrio. Tu vuoi ch’io ti salti adosso, poltrona. Dirai tu hoggi come sta la cosa? Agnesa. Ginevra se n’ è fugita al monastero. Demetrio. Può far Iddio? È andata sola? Agnesa. Sola, cred’io. Demetrio. Sola eh, una zitella dell’ età sua che te ne pare? Non era alcuno in casa? E tu dove eri, bestia? Agnesa. Io era in casa, e fuora di casa si può dire. Demetrio. Come? Vuoi forse dir ch’eri fuor di cervello, come ti occorre spesso. Agnesa. Voglio dire ch’io era di sopra nella loggia del tetto, dov’ella mi mandò a cogliere un garofano da metter a l’orecchia. Voi sapete quant’ ella è alta, e in quel mezzo ella diede a gambe a farsi chiudere in quella perpetua prigione. Y — 46° — Demetrio. Tu dove vai hora? Agnesa. Io vado a dirlo a madonna. Demetrio. Va, chiamala, e dille ch’ella venga subito ch’io l’aspetto. Agnesa. In buon1 hora. SCENA QUARTA. Demetrio solo. Deh fortuna, guarda se mi mancava altro. Va poi tu, e desidera figliuoli. In fine chi mettesse da un lato delle bilancie il piacere, dall’ altro il dispiacere, che noi altri padri sentiamo de’ nostri figliuoli , troverebbe che per un’ oncia di diletto habbiamo mille e mille libre d’affanno, perchè alle vergogne e danni de’ figliuoli, ai matrimoni ignobili e vituperosi, alle gravidanze delle figliuole senza marito, alle infirmiti, alle ferite e morti, non è sorte alcuna di dolcezza e diletto, che si possa degnamente contraporre; ma la-sciand’hor queste doglie principali e queste incomparabili disgrafie, dichiamo solo di quello che di giorno in giorno occorre. Quale è quello padre che habbi il figliuolo tanto ubidiente, che s egli sta alquanto più de l’ordinario fuori di casa la sera, non stia sempre con l’animo sospeso, e che subito non pensi che gli sii qualche male accaduto, perchè chi ama sempre teme, e noi padri — 461 — amiamo di sorte i figliuoli che soffriremmo portarceli attaccati sempr’ alla pelle, e cuciti alla camicia se fosse possibile. Dura certo e stupenda è questa legge di natura che ci conduce ad amare più i nostri figliuoli che noi medesimi, tanto che, per lasciarli ricchi, non pur ci mettiamo a risico di perder il corpo ma 1’ anima ancora, del che molti figliuoli sono poco conoscenti e poco ubidienti, tra quali sono i miei due, perchè Afranio per andar dietro a vani inamoramenti sprezza la moglie eh’ io voglio dargli, bella, ricca e nobile, e degna di lui, e temo eh’alfine, sposando qualche serva o villana, non avilisca il sangue gentile della nostra antica e nobil famiglia, e la sposi senza dote, ch’è peggio. E temo ancora ch’egli lasci di tor moglie, per haver sempre la casa piena di puttane e rofiane, com’hora fanno molt’altri gentilhuomini, i quali, per esser usi a beccar dell’ altrui carne vogliono ogni giorno variare, di sorte che spesso mangiano di pelato, che alfine gli costa caro. Per la qual caggione Afranio, com’ho detto, mi dà travaglio grande di animo, perciochè essendo io vecchio, e quasi nuda radice, s’egli non piglia moglie 1’ arbor verde onde fioriva la mia speme seccarà senza fare 1’ amato e desiato frutto. Ginevra, la quale contra mia voglia s’ è andata a far monaca, mi dà pena e affanno grande ancora, del quale è cagione Despina che lascia la cura di guardar sua figliuola alla fantesca, la quale non è pur atta a guardar la carne et il pescie dalla gatta, non che Ginevra. Non credo che in tutta questa città, dove sono pur assai donne di poco governo, se ne trovi una da meno di questa mia moglie: s’ella non ricompensasse la dappocaggine grande con l’honestà, sarebbe insuppor-tabile. Horsù io entro in casa a far prender la torchia, perchè ha poco lume chi a quest’ hora in questi tempi va senza lume per Genova, dove, per quanto intendo (i), gli audaci e troppo .licentiosi e discortesi giovani fanno delle discortesie a questo et a quello, senza temer punto de’ birri, anzi i birri hanno paura d' essi, onde si può dire che il ladro cacci il bargello in questa terra. (i, In luogo delle parole: » gli audaci e troppo licentiosi e discortesi giovani fanno delle discortesu 'a questo e a quelb » l’originale conteneva : « gì inscienti e sfrenati ?iovani fanno dell’ insolente grandi a disarmati ». SCENA QUINTA. Despina, Agnesa, (ì\Iarchetto) (i). Despina. So che a lasciar te in casa tant’ è come lasciarvi un trespido, questa è la custodia che hai havuto di Ginevra ? Agnesa. A me dunque tocca di guardar vostra figliuola? Buona in verità. E Ginevra vi pare un cervello da starmi soggetta? Altro ci vuole. Che non stavate in casa voi? E non la guardavate voi? Ch’io guardi vostra figliuola eh? Me ne guarderò bene. Despina. Odi, odi, bestia sfacciata, che tocca a te impacchiarti di queste cose, che non attendi in tuo mal punto a lavar le scudelle, ch’è tuo mestiero: vuoi tu darmi legge? Agnesa. Io non vi voglio dar legge, ma voi volete bene riversarmi adosso la colpa vostra com’è vostro costume. Despina. Che colpa mia, asina? (i) Il manoscritto qui non reca il nome di Marchetto, ma avendo veduto che dopo breve colloquio fra Despina e Agnese, se ne ha un altrd fra questa g Marchetto, senza cambiare scena, ve l’abbiamo aggiunto fra parentesi. 1 - 463 — Agnesa. Colpa vostra sì, che state tutto il santo giorno fuor di casa con le vicine et con i vicini, e con gli amici, a cicalare di questo e di quello, perchè vi danno più che fare i fatti d’altri che i vostri propri, però lasciate le cose di casa vostra in abandono. Hora prendete quello che ve ne incontra, nè havete da dolervi se non di voi stessa, che se il mestiero mio è di lavar le scudelle, come dite, come volete voi ch’io guardi (1) vostra figliuola? Despina. lo ti farò tornar queste parole in gola; ma non è tempo adesso, perch’ io vado a parlar con Demetrio di cose che più m’importano. Agnesa. A vostra posta partitevela fra voi, eh’ io non ci voglio esser per niente. Povero marito. Che ti vale tanta tua ricchezza se tua moglie ti fa schiavo perpetuo delle liti, e vuole portar le brache e stare di sopra? Ma s’ella tratta così il marito, pensate com’ella deve trattare noi povere serventi. Però io voglio in ogni modo partirmi di casa sua per non haver a combatter seco di continuo senza cagione, e con suo marito ancora. Marchetto. Perchè con suo marito? (1) Le parole: « vostra figliuola » e le seguenti per tutta la scena quinta, e per gran parte della sesta, fino alle parole di Demetrio: « Che collera] Ci bisognerebbe altro che collera. Entra in casa, dico, in tuo mal » sono in cinque fogli, uno col numero 197, due col 198, due non numerati, e compresi tra i fogli originali 197 e 199. Tengono quindi il posto del solo foglio antico 198, e recano così un certo accrescimento alla commedia. > — 4^4 — Agnesa. O tu sei qui, Marchetto. Marchetto. Si ch’io ci sono, e ho sentito ogni cosa, se bene non mi sono lasciato veder da madonna Despina, perch’ ella non gridassi meco ancora. Agnesa. Tu sei simile al sole, perchè ti ritruovi per tutto. Marchetto. E tu somigli di bellezze alla luna, ma la luna fa freddo il suo splendore e tu lo fai più caldo che il sole e più lucente ancora, di modo che m’abbaglia la vista e m’ arde il cuore. Ma lasciando hor questo, dimmi perch’ hai da combatter in casa con messer Demetrio ancora, come dicesti? Agnesa. Perchè con tutto eh’ egli habbia che far assai a Palazzo, a Banchi e in molt’ altri luoghi, con tutto ch’egli sia già vecchio tanto che più non può più quasi alzar la testa, e con tutto che habbi moglie a lato, egli non manca però in casa di darmi tuttavia la caccia, e di stimolarmi per farmi consentir alle sue voglie lascive, e poi vuole esser tenuto savio. Marchetto. Egli per questo non deve mancar d’ esser tenuto savio, perciò chè il senno de 1’ huomo non sta nella coda ma nella testa. - 4^5 — Agnesa. In testa credo io che sua moglie li facci portar il cimerò di Cornovaglia, et ha ragione di farlo per necessità e per vendetta, perciochè ella, che in questo non è punto losca, si sarà avveduta che il disonesto marito ha voglia d’ attaccarmi 1’ uncino, ma nel mio giardino non entrerà egli per attaccarlo al mio fico, perch’io non mi voglio impacciar con vecchi com’,è messer Demetrio, il quale con quella sua bocca bavosa e sdentata mi amorba di sorte che mi fa vomitare. Marchetto. Anzi ti dovrebbe gustare, perciochè baciandoti non ti può mordere. Agnesa. Tu vuoi la baia, ed io ti dico da dovero ch’io non voglio haver da far con vecchi, che si come il sole di marzo nuoce, dicono i medici, perchè commove gli humori e non gli risolve, così lo scherzar de’ vecchi alle donne è noioso, perchè aguzza la voglia e non la satia. Marchetto. È vero, ma senza mosche non si può haver mele, nè rose senza spine, voglio dire che sebene la bava e i sputi del vecchio ti spiacciono, ti debbono all’incontro piacere i scuti che di continuo egli ti deve dare, oltra il buon salario. Non mancar dunque di compiacerlo di cosa che a te non costa, e può giovarti assai, e dove messer Demetrio ti manca per esser mancata in lui la forza, suplirò io che sono giovine e gagliardo, se tu ti attacchi meco, come dei far hora che Alfonso non è più in casa. E quando bene egli ci fusse ancora, non dei mancar di farlo, perch’un non fa numero, e una donna savia non lascia per goder d’un solo di solazzarsi — 466 — con molti, ai quali sola può sempre molto ben supplite: e si trovano molte donne che vogliono più tosto mutar dieci amanti il mese, eli’esser dieci giorni d’un solo. Ma io vedo che messer Demetrio ha trovato sua moglie : lasciamoci di qui che non ne vedano insieme, e lasciamoli gridar e combatter fra loro come sogliono far sempre. Certo che ho gran compascione a 1’ uno et a l’altra, perchè ho inteso da chi ne sa parlar per prova, che quando marito e moglie sono d’ un voler solo e due carni in una, come debbono essere, sono quasi felici; ma quando si truovano d’ humor diverso e di voler contrario, sono tanto miseri et infelici che hanno invidia ai spiriti dell’ inferno. SCENA SESTA. Demetrio, Despina. Demetrio. È tempo, madonna saccente, che si venga da consiglio? Le fave sono andate attorno? La posta delle code è passata? Questa è la cura che hai della casa e di Ginevra, che a te tocca guardare e non a servitori che cercano tuttavia di rubbare non pur la robba, ma 1’honore ai padroni? Quante volte ti ho detto che tu non lasci la casa in abandono, perchè, mentre che tu sei fuori, può incontrare in casa qualche disgratia com’è accaduto hora che Ginevra se n’è fuggita a San Colombano, la quale, il dirò pur, così poteva fuggirsene a Fontana amorosa, in Mezza galea, in Castelletto e in simil luoghi disonesti (1), essendo tu fuor di casa casa, com’ è tuo costume. Ma quand’ancora non accadesse accidente alcuno in casa, perdi assai fuori, perché dai causa ch’ogn’un dica che essendo tu vagabonda sii impudica. Donna da poco, che vuol parer donna da governo, e non sarebbe atta a governar una gallina non eh’una casa! (1) In tali luoghi abitavano allora le donne di facili costumi. Quindi riesce chiarissima 1’ allusione del vecchio. - 467 — Despina. Parrebbe ch’io fussi sola. Non fanno così adesso tutte 1’altre? Demetrio. So bene che sete un mondo di scioperatacele rovina delle case, dei mariti, delle figliuole, della robba e d’ogni cosa. Entra in casa in tua mal’ hora, dove meriteresti di star sempre serrata, poiché per il tuo andar sempre vagando, tua figliuola hora si trova sepolta viva in un monastero. Despina. Voi siete molto in collera. Demetrio. Che collera! Ci bisognerebbe altro che collera. Entra in casa, dico, in tuo mal punto. Io vado a San Colombano con la Corte a farmela rendere. Despina. Sì di gratia, fatelo in ogni modo. Demetrio. Se quelle, non so come chiamarle, delle monache, non me la rendono subito, fo loro gettar le porte in terra, et insegnerò loro che cosa è lo sviare le figliuole a’ padri. SCENA SETTIMA. Afranio, solo. Questa è proprio l’hora che costoro devono prender Violantella, e se bene io non so vedere che disgratia possa disturbare il mio disegno ben colorito, non posso però non istare con ansietà, nè — 468 — posso scacciare da me un certo batticuore che poco fa mi ha preso, mescolato con una gran malinconia; e questa novità di temere, mi radoppia il timore. Ma che vuol dire che mia madre è uscita su la porta hora? Ohimè! Che sarà? Io temo, nè so di che. i SCENA OTTAVA. Despina, Afranio. Despina. A tempo, figliuolo. Io ti aspettava. Afranio. Che volete, madre? Despina. Sai ciò che è accaduto in casa ? Afranio. Non io. Che cosa ? Despina. Ginevra poco fa se n’ è fuggita al monastero per farsi monaca. Afranio. Può esser questo? Despina. Così non fusse, ch’io sono più morta che viva, meschina me. - 469 — Afranio. Mio padre il sa ? Despina. Lo sa, et è andato nella maggior collera del mondo a prender la Corte per andar al monastero a farsela render .per forza, se quelle monache non la vorranno restituir per amore. Afranio. Aiutami, fortuna. Despina. Che dici tu? Afranio. Dico che la fortuna ha fatto delle sue. Mio padre è andato con la Corte a San Colombano? Despina. Sì, ti dico. AfRANIO. Ah fortuna crudele! Vedi, vedi, s’io me l’ho indovinata. Despina. Sai che hai a fare, Afranio, figliuolo? Va presto là tu ancora, e cerca di mitigar tuo padre, acciochè trasportato da quella collera non faccia qualche male a tua sorella, e non la sfuoghi sopra di lei, che so quant’ egli 1’ ha grande. Afranio. Voi dite bene. Andate pur, madre, in casa ch’io m’invio. — 47° — SCENA NONA. Afranio, solo. Che cervello è stato quello di mia sorella d’ andarsi ad incarcerare essa propria nel monastero. Queste monache danno ad intendere alle zitelle che ne’monasteri è un esser del Paradiso, e che tutto il dì stanno a ballar con gP Angeli che danno loro de’ zuccarini, e simil altre cose, onde le povere fanciulle, che non hanno più sperienza che tanto, s’invaghiscono di quella vita (i). Ma io non havrei già pensato ciò di Ginevra che mi pareva una fanciulla vivacissima, e di maggior intelletto, che per aventura a zitella non conveniva, nè mai fu vaga di star nei monasteri, anzi gli ha sempre volentieri fuggiti, come i fanciulli la scuola. Ma o Dio che vorrà dire? Ecco Orsolina, che viene in qua, e pare tutta spaventata e in fuga. SCENA DECIMA. Orsolina, soia. Hora sì che bisogna nettare il paese subito chi non vuol far uno spettacolo a tutto il popolo della sua reverenda persona, sollevata a grand’honore sovra tre legni. O fortuna assassina, non potevi tu mandar messer Demetrio con la Corte un poco prima o dopo, e non in quel punto apunto ch’egli si doveva abbattere in noi? Che mi giova che tante à miei giorni me ne siano riuscite nette, se questa che poteva far felice questa mia vecchiezza mi è andata in fumo, la quale sconta tutte le altre. Va poi a far ben tu. In fè di Dio io vedo che i tristi prosperano, e i buoni sono disgra- (i) Certo in molti conventi le monache erano aiutatrici dei padri per levar di casa fanciulle inesperte, e che difficilmente si potevano maritar bene, per mancanza di doti, e di aspiranti al matrimonio. Vedasi in proposito il n. I dell’ appendice. — 471 ~ dati (i). O povera Ginevra, che resti per sempre vituperata in questo mondo. Che animo hora deve essere il tuo? Che confusione saia quella , quando dinanzi al Podestà et a tante persone sarai scoperta? Lascia pur che messer Demetrio havrà quello che va cercando, e che merita: o povero Alfonso che sarai forse impiccato. Ma (2) che bestia sono io, par che questo sie tempo da pensare a fatti altrui? Fuggi, Orsolina, fuggi, dico, in tua mal’hora, et adopera le gambe in isgombrar presto il paese, se non le vuoi adoperar ballando per 1’ aria senza suono. Va via> Orsolina disgradata, che adesso è venuto il tempo, che la necessità ti astringe a far quella vita che tu già disegnasti di fare, cioè di andar in pelegri-naggio. Cosi farò, perchè ho sempre inteso dire che andando per lo mondo s’impara più che restando sempre alla patria, la quale, bench’ ella sia bella e dilettosa, com’è Genova, viene alfine a noia, donde 1’ andar atorno vedendo ogni dì nuovi paesi, nuove genti, nuove foggie e nuovi costumi, diletta non poco al pelegrino, e giova ancora, perciò che si vive a costo altrui di città in città, che ad ogni porta che tu picchi ti è fatta limosina, nè si fa la fatica di sorte alcuna, nè si spende in vestir, chè le donne di natura misericordiose vestono volentieri i pelegrini, i quali non solo pelegrinando hanno utile e diletto coni’ ho detto, ma acquistano honore ancora perciò che di cittadini d’ una città sola diventano cittadini del mondo tutto che girano quasi come il sole. Però con gran ragione hebbi sempre il capriccio di provar questa honorata vita, e la proverò adesso, eh’in ogni modo poco più mi valeva in questa città la mia arte principale (3). Ma non bisogna ch’io (1) L’egoismo, la depravazioue di Orsolina appare sempre maggiore col procedere degli avvenimenti. Però il Foglietta ben sa che una persona del tutto cattiva difficilmente si trova, e pone in Orsolina un certo riguardo verso Ginevra, il quale veramente non dispiace. (2) Di qui cominciano due fogli regolarmerte aggiunti, il 202 e il 203, coi quali si compie la scena decima, e si arriva nella scena successiva fino alle parole dì Afranio « Havete gran paura ». (3) A questo punto nel foglio aggiunto 203 sono cancellate le parole: « la quale è di sanar gli animi degl' amanti, la qual cosa non sanno far i medici contempla orinali con tutti i loro medicamenti, coi quali non sanno curar altro che i — 472 — tardi più a partirmi, che se per disgratia messer Demetrio mi fa metter le mani adosso, non mi camperebbe 1’ ovo dell’asseza, che a una povera persona come sono io la giustitia non la perdona. Sichè, donne mie care, rimanetevi in pace, e s’alcuna di voi designava pur di valersi di me, faccia altro pensiero che qua più non mi vederete comparire. Ma ecco Afranio, povera me eh’ egli non mi trattenesse, et ogni poco eh’ indugi mi può far dar in un capestro. SCENA UNDECIMA. Afranio, Orsolina. Afranio. Che cosa è questo, Orsolina? Ch’è di Violantella? Orsolina. Male è di lei e di tutti noi altri, siamo rovinati. Vostro padre ci ha colti tutti, et io per disgratia mi sono salvata, come vedete. Ma lasciatemi andar di gratia, che mi pare di haver i birri dietro con fustibus et lanternis, nè vogliate esser cagione ch’io sia arsa o impiccata. Afranio. Havete gran paura. corpi, e li curano si male molle volte che molti galantuomini li chiamano vota boi se e sutterra persone, si che siamo tanto da più dei medici quanto è più degno l animo che il corpo. Ma io sono matta a discorrere più adesso di questa materia che non bisogna » ecc. Cancellate queste parole, forse accorgendosi che tanti discorsi stavano poco bene in bocca ad una vecchia impaurita, l’autore fece punto dopo « principale » e premise un « Ma » a « non bisogna ». - 473 -Orsolina. Come ch’io ho gran paura? E di chi volete ch’io tema s’io non temo della morte? Io vi faccio intendere che, se ben son vecchia, fra le cose mie care non ho cosa più cara di me stessa. Afranio. Non dubitate, state forte, dico eh’ io voglio intender la cosa. O fortuna assassina, tu hai pur congiurato contra di me. Orsolina. Voi vorrete infine esser cagione della mia morte. Nel volger la prima strada vostro padre, il qual veniva con la Corte verso quella parte, non so perchè, veduto Andreolo, o chi costui si sia, e come informato da voi dell’inganno, gridò subito: ah traditor assassino, a questo modo ah, e ci fu adosso, et io essendo un poco lontana da gli altri mi salvai. Ma se voi non volete eh’ io sia presa, e morta per man di boia, non mi trattenete più per 1’ amor di Dio, che nelle disgratie non si ritrovano amici. Afranio. Chi prese? Orsolina. Prese Alfonso e Ginevra eh’ io ho veduta. Afranio. Che dite voi di Ginevra? Orsolina. Vedi s’io sono fuor di me per la paura, volsi dir Violantella. Am Soc. Lig. St. Patri*. Voi. XXV, fase. t° — 474 — Afranio. Di Andreolo che fu ? Orsolina. Andreolo diede subito a gambe e si salvò, chè la paura gli fece nascer l’ale à piedi. Ma Alfonso, il quale-si sarebbe anco potuto salvare, non volse fare, anzi mostrandovi fedeltà animosamente impugnando la spada si fece inanzi, e difese quanto fu possibile Ginevra. Giesù, Giesù, volsi dir Violantella. Ma io non posso più star qui, e mi par di sentir non so chi con arme. Però netto il paese. Oh come mi vengono a proposito quei cinquanta scudi d’oro eh’ hoggi mi sono stati dati ! SCENA DUODECIMA. Afranio, solo. Ahi fortuna iniqua, chi può contrastar alla tua violenza? Io ne incaco il senno, il discorso ed ogni ingegno humano, che so che al tuo volere non è chi possa resistere. E che quando sei deliberata eh’ una cosa habbia effetto , tutto ciò che da noi si può operare in contrario, non impedisce, anzi aiuta la tua volontà. Tu cominciasti a perseguitar sin nelle fasce questa povera et innocente fanciulla di Violantella, facendola ritrovare in un cespuglio senza sapersi di lei chi fusse nè padre nè madre, et alfine deliberasti di rovinarla, et io mosso da giusta compassione mi si volsi opporre, ma niente mi è giovato. Anzi tutta l’industria, tutto 1 ingegno e l’arte, la spesa, la fatica che io ho adoperato per liberarla dalla tua malvagità ve 1’ hanno fatta più tosto incappare, se pero io sarò sì da poco eh’ io 1’ abbandoni in tanto bisogno, anzi ch’io abbandoni me stesso. Deh sarai tu mai sì vile, Afranio ? Dei tu esser stato cagione con 1’ amor tuo di rovinare quella povera giovane (i)? (ij Le parole « e non sarai da tanto d' aiutarla » e le seguenti fino alle altre « ma di virtù ella è ricchissima » , sono nei fogli 206 e 207 regolarmente sostituiti a due dell’ originale, raccorciando, beninteso, alquanto la commedia. — 475 — E non sarai da tanto d’ aiutarla fin che tu puoi? La meschina deve hora essere in mano di chi le procaccia con ogni instantia la morte, senza sua colpa tutta paurosa, non havendo alcuna altra speranza che del tuo soccorso, il quale ella deve attendere et invocare, e tu tarderai tanto a porgerlelo? Ti riterrà dunque da questo una vitiosa vergogna di comparire avanti a tuo padre? Non è il peccato tuo di sorte, che di più brutti non si comportino a persone c hanno quasi il piede nella fossa? Gli errori che fanno per caggion d’ amore i giovani si debbono scusare, perchè meritano più tosto compassione che castigo. Risentiti, Afranio, e mostra in un caso sì necessario un cuor civile et valoroso. Et che eccesso hai tu però comesso, che tu non debba ardire di mostrar il volto? Sei tu forse il primo che cerchi di prender moglie più in sodisfazione sua che del padre? È questa sì gran cosa? Anzi a chi con ragione la vuole considerare è cosa honestissima, che non i padri hanno a goder le mogli, e con esse menar la vita loro, ma i figliuoli che le prendono ; essi dunque hanno da sodisfare a lor stessi e non ai padri che congiungono i loro figliuoli, non secondo che li sospinge l’amoroso e naturai desio, come dovrebbono fare, perchè havrebbono in terra una perpetua pace e contentezza, ma gli con-giongono spesso per avaritia o ambitione con persone contrarie al suo genio, con le quali hanno una perpetua guerra e noia. In Violantella che cosa manca, perchè mio padre così ostinatamente (piacendomi ella tanto) debba cercar di distormi da lei? Altro difetto non ha certo, se non che è povera di danari, ma di virtù ella è ricchissima. Pur in questo mio padre, se è savio e se vuol esser giusto giudice, giudicherà che a me e a tutti gli altri ricchi converrebbe più assai pigliar in moglie donne povere, che di valore siano, che ricche senza valore, per molte ragioni ch’egli deve sapere meglio di me Perchè dunque non m’appresento, e non dico arditamente ch’ella è mia moglie, e per moglie la voglio? E se mio padre n’ è contento, ogni travaglio cesserà, se anco non se ne contenta, non io, ma il suo perverso giuditio ne sarà incolpato. Così farò, eh’in ogni modo questo non è di que’ casi, nei quali, scostandosi i figliuoli dalle voglie del padre, i dottori dicono che posson disheredarsi. Io dunque m’invio a casa del podestà — 476 — eli’è assai vicina. Ma ecco mio padre che viene: coni’è maninco-nico! Par che gli sia caduta la casa adosso, e dovrebbe esser contento, poiché la fortuna gli ha dato il modo di cavarsi questo suo crudele desiderio di rovinar quella innocente fanciulla. Ma s’egli la rovinasse, poco durerebbe questa sua allegrezza, perchè privando me di lei, con la cui vita io vivo, privarà anco se d'un solo figliuolo eh’ egli ha. Ma che mi giova il lamentare ? Io voglio andare ad incontrarlo. Dio voglia ch’io non mi perda d’animo alla sua presenza, che chi perde il cuore perde la scrima. SCENA DECIMATERZA. Demetrio, Afranio. Demetrio. O Dio io sapeva bene che i miei peccati meritavano punitione, ma non aspettava già questa; mandarmi questo tristo da casa del diavolo per vituperio di casa mia. Afranio. Qua bisogna coraggio infine, e farsi innanzi. Padre, se gli -huomini nella gioventù... . Demetrio. Ah Afranio, cagione principale della rovina e vituperio mio, tuo, e di tutta la casa nostra. Quando io mi credeva che dovessi essere baston per sustentar la mia debole vecchiezza, mi sei fatto baston per battermi, e romper rutto d’ osso in osso et cacciarmi sotterra innanzi tempo. Afranio. Che vituperio? Che rovina? Che bastone, padre? È dunque si gran cosa che un giovane par mio.... - All — Demetrio. Deh cangia ragionamento, che vi è altro di quel c’hai inteso. » Afranio. Io ho inteso ogni cosa, e vi prego ch’ascoltiate la mia ragione. Demetrio. Non ci va la tua ragione, che ci è altro ti dico di quello c’hai inteso. Quel ghiotto del tuo servitore (quante volte ti dissi che non mi piaceva in casa) è stato il vituperio, la vergogna, la rovina nostra per sempre. Afranio. Non ci ha colpa esso, padre. Demetrio, Eh diavolo, che non sai quello che ci è. E per dirtelo, colei ch’egli menava seco quand’io il presi, non era Violantella, ma era Ginevra tua sorella, la quale se n’è fugita seco, essendo innamorata di lui. Del quale innamoramento per parte d’ Alfonso, solo io m’era incominciato ad avvedere, e perciò Phavevo cacciato di casa senza dirne la cagione nè a te nè a Despina per minor male, et Orsolina falsa, la quale havete con le vostre astutie e tristitie indotta ad ingannarmi, è stata maestra di questo bel tratto e ha ingannato me, te e tutti. Afranio. Che dite voi padre? È possibile? Demetrio. Io ti dico quel che tu intendi. — 478 — Afranio. Dunque quel traditor d’Alfonso ha fatto questo oltraggio a me? A me, a cui ha tanto obligo? Demetrio. Che obligo? Io mi maraviglio bene di te eh* in un par suo ricerchi questi rispetti. Afranio. Ah traditore, s’io non lo castigo , s’io non ne fo tal vendetta, che fin che questa terra duri sarà essempio a’ servidori che tradiscono i padroni, non voglio esser tenuto gentilhuomo: va poi e ti fida. Io vo cavargli il cuore di mia mano. Demetrio. Tu faresti troppo grande ingiuria alle forche a far questo, che il manigoldo ha da castigar un par suo, come farà poi che è in mano del podestà, eh’ el farà subito strangolare et havrà mangiato il cacio nella trapola. Sì che non ti dia noia il castigo di questo tristo, ma ti dia noia 1’honor di casa nostra, il quale è perduto per sempre, essendo accaduta la cosa in luogo tanto publico, che non può celarsi, perchè quando si scoperse nella sala del podestà Ginevra v* erano più di cinquanta persone, e non so come il gran dispiacere eh’ in un subito m’ assaltò non mi uccidesse all’ hora all’hora, come havrei voluto per uscir di tanto affanno. Questo è il contento eh’ in mia vecchiezza mi danno i miei figliuoli, per riposo dei quali ho travagliato tutto il tempo della vita mia. Questo è 1’ honor che mi fanno per tante fortune, per tanti pericoli ch’io ho corso in terra e in mare, di perder non pur il corpo ma 1’anima, per lasciarli ricchi. Povero et infelice vecchio! Almen fuss’ io morto quand’ io vi ingenerai. Io che sono stato dè — 479 - savii delle Compere, dè Padri del Commune, dè Straordinarii, dè Supremi e dò Senatori, dove mi sono uscito con lode, ora, per colpa dò miei figliuoli, ho perduto quant’honore e gloria mi ho acquistato governando a Genova e fuori ancora, dove sono stato molte volte ambasciatore, e diventerò una favola del volgo, sì che più non ardirò d’alzar la fronte, chè domani non si pallerà d’altro che di questo caso in camera del duce, in San Siro, al li Giustiniani, per le chiese, per le veglie (i), onde ne sarò mosti ato a dito da giovani e da vecchi, e menato per bocca delle donne. E forse che non sanno chiacchierare, forse che non sono novelliere, forse che non hanno la lingua lunga, forse che non li piace dir male? Basta eh’una sola il sappia, eh’in termine d’una hora n’ è piena tutta la terra. Ahi padre disgradato! Ahi misero e doloroso vecchio troppo vivuto! Che farò io? Che penserò? Afranio. Faremo bene, padre, a farne manco romore che sia possibile, e veder di provveder meglio che si può a questa disgratia, senza che tutta questa città se n’accorga, per non far come colui che si trahe le corna di seno e le si mette in capo. Demetrio. Sarebbe così possibile tener questa cosa nascosta, come 1 bandi publici, essendo in luogo publico accaduta, com’ho detto. Afranio. E che è di lei? (,) Proprio cosi: dei fatti del giorno, specialmente se un po’ scandalosetti, si parlano non solo presso San Siro, ritrovo della gioventù elegante, a Banchi che attiravano gli uomini d’affari, nelle veglie che richiamavano un po tu ma persino nelle chiese. Vedasi in proposito 1’ appendice al n. III. — 480 — Demetrio. Io 1’ ho fiuta condurre subito a San Colombano , dove fin di domani gli faccio tagliar i capelli, bench’ ella meritarebbe più tosto che le fosse tagliato il collo, e pensi pur di restarvi monaca da dovero, coni’ella fingeva. Questa sarà la pena del suo fallo (1). Ma che splendor di torcie è quello ch’esce di là? Afranio. Questo mi par il magnifico podestà. Demetrio. È desso. Dove va egli a questa hora così in fretta? Che sarà? Par molto allegro in volto. SCENA DECIMAQUARTA. Podestà, Demetrio, Afranio, Amadeo. Podestà. Messer Demetrio, 0 messer Demetrio! Demetrio. Che comanda Vostra Magnificenza? • (1) Qualcuno si meraviglierà d’una simile punizione. Eppure non dovevano esser poche le fanciulle inesperte, che, col pretesto di mancanze più o meno piccole, erano costrette al chiostro. Oh no i mezzi, che trassero al monastero la monaca di Monza non li inventò la fantasia del grande Lombardo. E poi si pretendeva che le monache restassero pure e rassegnate alla loro sorte ! Vedasi F appendice al n. I. — 481 — Podestà. Io vi porto una gran buona nuova. Demetrio. Come la posso io haver in questo tempo ? Podestà. Colui, che credevate tutti che fussi Alfonso, di vile et abietta conditione, è gentilhuomo di tale nascimento che può stare al paro degli altri, se ben egli non è ricco in fondo, come sono molti gentilhuomini di questa città; et è Arnadeo mio figliuolo, che in quello instante che 1’ ho ritrovato son stato per perderlo, condannandolo io medesimo alla morte. Demetrio. Che dite voi? Come può esser questo? Ne sete certo? Guardate bene, Magnifico, che non v’ inganni, perchè è astutissimo huomo. Podestà. Io ne sono certissimo, non vi è dubio. Demetrio. Oh Dio, se mi volesse mai consolare. Ahimè! Podestà. Che havete che sospirate così forte, et vi sete cambiato di colore? — 4S2 — Demetrio. La troppo grande subita allegrezza mi ha occupato il core. Podestà. Consolatevi pure e non vi lasciate morir adesso, eh’ è tempo di vivere et di godere (1). Demetrio. Io mi son rihavuto, et anderò di bene in meglio se Alfonso è pur vostro figliuolo, come credete. Podestà. Anzi ne sono certissimo, com’ ho detto, et è pronto a prender vostra figliuola per moglie, volendo voi, et rendervi 1’ honor vostro; perchè altrimente, se bene io gli ho dato la vita generandolo, gli darei la morte condannandolo per giustitia. Demetrio. Quanto al dargliela che posso io desiderar di meglio? Ma come sete voi venuto in questa cognitione dopo tant’ anni ? Podestà. Subito eh’ io lo vidi, mi si rappresentò dinanzi agli occhi March’Antonio mio fratello, e suo zio, al quale egli sin da fanciullo rassomigliava tanto che pareva esso proprio, et fattolo spogliare gli viddi in mezzo al petto un grosso neo , il quale mi certificò affatto; ma l’odor solo del sangue m’assicurò in questo, e mel fece conoscere per figliuolo senz’altri segni. Si accordò poi a questo quel eh’ egli mi disse della sua condittione. Et acciochè (1) Sono cancellate le parole: « un puoco di queste buone nuovelle ». — 483 - sappiate la cosa a pieno, havendo i francesi preso 1 urino, io che sono di quella patria, nè per beneficii, nè per offerte, nè per favori fattimi dà francesi, non mi potei mai smenticare 1 amore e la fede, la quale un buon vassallo deve al suo naturai signore, nè potendo io dissimular l’animo mio, e perciò avvedendomi in quanta disgratia io era appresso di chi signoreggiava, et parendomi di star mal sicuro in Piemonte, deliberai d’ abbandonar la cara patria infin che a Dio fosse piaciuto. Ma prima mandai desti amente a Nizza la famiglia, cioè due figliuoli ch’io haveva,un maschio di cinque anni, questo proprio Amedeo, il quale hora ho ritrovato, et una putta minore d’ un anno nominata Filiberto, i quali, sotto il governo di Violante loro balia, s’imbarcarono d’ ordine mio in un bregantino alla volta di Roma, dove io designava d’andarvi per alcun tempo. Il bregantino poi (come intesi) fu preso sopra l’isola di Corsica dà corsali, nè di loro fin’ hora ho mai saputo, per quanta diligenza habbia usato in farne cercare, alcuna nova. 10 mi partii da Turino e mi sono andato trattenendo per le città d’Italia sempr’impiegato in diversi offitii honorati, e sono alfine venuto guidato da Dio in questa città, dove ho guadagnato più eh’ in tutte 1’ altre insieme, perchè vi ho ritrovato mio figliuolo , 11 quale che sia desso non è dubbio per li segni infallibili sopradetti, e perchè il tempo nel quale egli fu preso, fu apunto quel-1’ anno e quel mese che s’imbarcarono a Nizza, et il luogo medesimo Corsica, si come Amadeo, quand’io lo domandai della sua conditione e minutamente di tutti questi particolari, mi disse haver inteso in Napoli dal padrone, che lo comprò dà corsali. Demetrio. Hora sia ringraziato infinitamente Iddio d’ ogni cosa. Ma perchè stai così pensoso, Afranio? È questo tempo da star maninconico? Et quando sarai lieto, se non lo sei adesso ? Afranio. Io pensava, Magnifico, perchè la buona ventura spesso, come la trista, non comincia per una sola cosa, s’ 10 vi potessi iar riiruovar la figliuola ancora. — 4§4 — Podestà. O Dio questo sarebbe bene un farmi in tutto contento e felice, s’ huomo vivendo si può dir felice. Afranio. Di che anno e di che mese mandaste voi a Nizza vostra figliuola ? Podestà. Del MDXL d’aprile (i). Afranio. Padre, non mi havete voi più volte detto che in quel tempo proprio fu ritrovata Violantella in Corsica ? Podestà. Che dite voi, e come fu? Demetrio. Fu eh’essendo capitato un bregantino ai liti della Bastia, e scesa in terra della gente per rinfrescarsi, sopravenne loro adosso una fusta dè corsali che prese il bregantino, e smontati in terra alquanti turchi, presero parimente coloro eh’erano prima dismontati. Ma essendo loro uscito adosso il governatore con buon numero di persone, fuggirono subito i turchi con tutta la preda, e questa fanciulla sola per caso stravagante rimase in terra. (i) La fanciulla Filiberta, chiamata poi Violantella, che aveva quattro anni nel 1540, era da marito quando si svolgeva l’azione della commedia. Quindi questa deve porsi assai vicina al 1560, senza però oltrepassarlo, perchè in altro luogo (ved. pref. p. 235) si ricorda come vivo A. Doria, morto appunto in quest’ anno. — 485 - Afranio. Ma voi non finite, padre, il tutto. Demetrio. Che altro ci resta? Afranio. Non havete voi, Magnifico, detto che la balia che mandaste con essi loro si chiamava Violante? Podestà. Così è. Afranio. E voi, padre, non metteste questo nome alla fanciulletta Violantella, perciochè piangendo sempre chiamava Violante? Demetrio. Questo è vero. Podestà. O Dio se questo è, non può esser altra che mia figliola. Dove è ella adesso? Che s’io la vedessi la riconoscerei subito, perciochè era di volto anch’ ella tutta March’Antonio. Ma, aspettate, ha ella un segno nel braccio sinistro? Afranio. Sì, un segno di ferita. Podestà. O Dio eh’ io sarò felice quando meno il pensava, è dessa coi -tissimo, nè può esser’ altrimente, è il segno d’ una ferita eh ella — 4S6 — disgratiatamente di tre anni si fece, per la quale fummo in dubio della sua vita. Afranio. Un altro segno non picciolo ve ne voglio dare eh’ ella rassomiglia tanto nel volto Alfonso, o Amedeo che vogliamo dire, che a vederli solamente, chi non sapesse altro, direbbe che sono fratello e sorella. Demetrio. Dice il vero Afranio, hora eh’ io ci penso. Afranio. Anzi vi voglio dire che la cagione per la quale io lo comprai a Napoli, e subito lo liberai, fu questa somiglianza con Violantella che me gli fece subito metter amore adosso, il quale crebbe poi ch’io lo provai, perchè conobbi ch’egli era non solamente simile a lei di volto, ma di nobili costumi, di gratia, di gentilezza e d’in-teletto, che trovai fedele et amorevole di sorte, ch’io non volsi mai intorno la mia persona altro che lui, nè ad altri fidare mai i miei secreti, e lo trattai sempre più presto da compagno che da servitore, conoscendolo in somma tale ch’io giudicai fusse nato nobile, come hora vedo con mio grande piacere eh’ egli è veramente , e degno di comandare più che d’ esser comandato. Podestà. Andiamo dunque presto da lei. Ma ecco qua Amadeo mio figliuolo. Vien qua, Amadeo, ecco qua un altro tuo padre, a cui ti do per genero, s’ egli se ne contenta, e tu ancora. Amadeo. Senza altro mio consenso 1’ ubidienza e la ragione vuole che voi possiate disporre di me in ogni cosa, padre carissimo, da cui due volte ho havuto l’essere: 1’una al nascere, l’altra hora che liberandomi da morte mi havete dato un’ altra volta la vita. — 487 — Podestà. Va dunque a fargli riverenza. Demetrio. Io ti accetto per genero e per figliuolo carissimo. Afranio. Amadeo caro, perdonatemi se qualche dispiacere v* ho fatto non conoscendovi, perch’ io ne sono pentitissimo. Amadeo. O signor Afranio, io non mi ricordo che mai mi faceste dispiacere alcuno, ma sì bene piacere et honore più di quel eh’ io ho meritato; perchè di servo mi havete fatto libero , e liberandomi mi havete stretto più forte che prima , perchè, se bene mi havete slegato il corpo, mi havete legato 1’animo con Y indissolubil nodo della vostra liberalità e cortesia, di sorte ch’io vi resterò sempre schiavo e servitor ubligatissimo. Afranio. Non più servitore, ma cognato e fratello carissimo. Sai tu c’ hai ritrovato non solo il padre, ma una sorella ancora? Amadeo. E come questo ? Afranio. Violantella è tua sorella. — 488 — Amadeo. Può esser questo, padre? Podestà. Così è senza dubio, figliuolo carissimo. Afranio. Ma acciochè ciascuno partecipi compiutamente dell’ allegrezza, non volete voi, padre, eh’ io abbracci il Magnifico per suocero? Demetrio. Ne sono contentissimo, Podestà. Et io per tale più che volentieri ti accetto. O Dio, ringratiato sii tu di tante gratie e di tanti contenti che mi dai, poiché tu mi fai ritrovare due figliuoli perduti ! O felicità grande ! Chi è di me più lieto non deve esser mortale. Demetrio. Maggior felicità è stata la mia, il quale, insieme con due figliuoli eh’ io poteva dir peggio che perduti, ho ricuperato l’onore di casa nostra, eh’ è sempre stata honorata, et ho cangiato hoggi il maggior affanno nella maggior letitia ch’io havessi mai. Amadeo. Ma molto maggiore è stata la mia fra le altre d’ esser risuscitato miracolosamente, e d’haver acquistato in un tempo istesso due — 489 — vite, 1’ una questa mia propria, 1’ altra Ginevra a me più cara assai che questa; e oltradiciò haver acquistato un padre tanto honorato, anzi due et una sorella, e d’avantaggio quella nobil conditione nella (1) quale io son nato. Afranio. Nè la mia allegrezza per molti rispetti è piccola. Padre, in tanta allegrezza et in tante felicità, è honesto che si rimetta ogni amaritudine, e perciò voglio che perdoniate ad Orsolina et a quell’altro pover’ huomo, poi che il peccato loro è mio principalmente, ha-vendogli io indotti non per offendervi, ma per non morire senza Violantella, eh’ è la vita mia. Nè altrimente mi parrebbe haver compiutamente la vostra gratia: però la vendetta vostra sia l’haver potuto e lassar far a Dio, giustissimo compensator del bene e del male. Demetrio. Offende, figliuol mio, la giustitia e i buoni chi perdona ai tristi come sono costoro, che non pur mi volevano rubar i danari, ma 1’ honore, eh’ importa molto più. Afranio. Sebene hanno fatto un peccato da non trovar perdono, voglio che della giusta ira vostra facciate presente a me, et gli perdoniate per amor mio. Podestà. Ha ragione vostro figliuolo, e fa da vero gentilhuomo. (1) Le parole « quale io son nato » e le seguenti sin verso la fine della scena, e precisamente sino alle altre di Demetrio « Voi dite bene e per ciò andiamo tutti al monastero a trarìe fuor di prigione, e d' affanno, » si trovano nei fogli 220 e 221 regolarmente sostituiti a due dell’ originale coi soliti effetti. Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXV, fase i.° 32 — 490 — Demetrio. Cosi si faccia dunque, e sia loro perdonato in questo benedetto giorno eh’ è fine del nostro male e principio del bene, chè Iddio ha cambiato a noi ogni pena in allegrezza, il quale credo c’habbia permesso che habbiamo havuto tanti travagli prima, acciochè tanto maggiore ne paia il ben desiato , con quanto maggior pena a quel siamo, sua mercè, giunti. Podestà. Ma è honesto che le fanciulle partecipino ancor’ esse dell’ allegrezza, e siano cavate d’amaritudine; nè io sarò mai contento in-sino a che io non abbracci la mia dolcissima Filiberta, che abbraccio tuttavia con 1’ animo. Demetrio. Voi dite bene, e perciò andiamo tutti al monastero a trarle fuor di prigione e d’ affanno, e di là anderemo tutti a casa nostra e ceneremo insieme questa sera alla domestica. Podestà. Così si faccia. Su le torchie, innanzi. Demetrio. Tu, Marchetto, corri a casa e conta a Despina quel c’hai veduto, e, odi, accostati a me, dì a Despina che faccia che sia apparecchiato da cenare allegramente. Marchetto. Così farò. Ma ecco Agnesa che va con la lanterna, non so dove. Voglio incontrarla e farle motto, per veder s’io mi posso attaccar seco andando di compagnia a casa, che il suo lume mi farà lume. 491 - SCENA DECIMAQUINTA. Marchetto, Agnina. Marchetto. Dio ti guardi, Agnesa dabene. Agnesa. Da bene guarditi pur Dio, et me da male. Marchetto. Tu pigli sempre al rovescio il mio parlare. Ma dove vai a quest’ hora, speranza mia, col lume in mano che a te non bisogna portare, chè per far di notte giorno basta il lume dè tuoi begli occhi più chiari che il sole. Agnesa. Non è tempo da burlare adesso, che tutti gli altri piangono per Ginevra che se n’è fuggita, come sai; per la qual cosa la padrona, eh’ è più morta che viva, mi manda sola a quest’ hora a veder quel c ha fatto suo marito al monastero, e la casa per questo va sotto sopra. Marchetto. Sott’e sopra presto andranno Afranio con Violantella, et Alfonso con Ginevra. Agnesa. Che vuoi tu dir, ciancione? Marchetto. Nozze, nozze, allegrezza, allegrezza. Agnesa. Fa ch’io t’intenda meglio, se vuoi eh’anch’ io partecipi di quest’ allegrezza, e non menar più lungo questo tuo parlar equivoco. Marchetto. Non voglio menarlo lungo nè corto, ma voglio che tu indovini. Agnesa. Non so indovinar, chè non ho mangiato merda di galletti , nè sono zingara. Marchetto. Voglio dirtelo dunque. Afranio ha tolto per moglie Violantella sua serva. Agnesa. Perchè? Marchetto. Perchè chi nasce bella, nasce maritata. Agnesa. Questa è una carota che mi vuoi piantare, perchè ti paio terreno da farlo. Marchetto. Alfonso ancora ha tolto Ginevra sua padrona. r - 493 — i Agnesa. E questa è un’altra più grossa, ma non m'entrano. 1 Marchetto. Te ne sono entrate delle maggiori, sebene sei di quelle che non vuoi credere se non tocchi con mano. Agnesa. Può ben esser vero quello c’ hora mi narri, ma ha faccia di bugia. Chi te 1’ ha detto ? Marchetto. Me 1’ ha detto uno che non è muto. ^ Agnesa. * Deh lascia le burle, e dimmi di gratia se è vero o no. Marchetto. Non mi vuoi credere s’io non vi metto la conscienza. Io ti giuro eli’è verissimo, e questa notte ancora coglieranno forse il desiato frutto nel giardino d’amore. Agnesa. Gran tiranna degli huomini è questa bellezza. Beati loro, che ritorneranno signori e signore in quella casa, dove sono stati servi e serve , e goderanno il fine del loro amore. Marchetto. Io vorrei eli’ ancora noi godessimo del nostro. Però desidero aneli’ io questa notte far teco nozze, e cacciarti su 1’ anello ; non * — 494 — ti dei tirar indietro, ma mi dei accettar per marito, perch’io ti voglio di quel buon bene da impregnar, e te ne voglio quant’io n’ho, come ti farò toccar con mano, et sono poi un bel fante, se lo specchio non m‘ inganna, et mi stanno bene le gambe su la persona; et se bene io sto con altri per famiglio, io ho ancora tanto del mio da tenerti ben coperta ed a cavarti le tue voglie, perch’io son ben fornito d’ ogni cosa in casa mia, in questa città et in villa, dalla quale cavo olio per casa. Oltre di ciò ho un fratei carnale che vive d’ entrata, della quale io resto herede, e tutto infine sarà tuo; sicché non mi dei dar le spalle, ma accettarmi per isposo senza tardar più, perciochè il marzo s’ avicina che tutti gli humori si risentono. Diamogli dunque drento, chè tempo perduto non s’ acquista mai. Agnesa. Deh lascia queste tue baie homai, e dimmi la cagione di tanta mutatione di cose così subito. Marchetto. Lo farò in casa, c’ hora non posso, perchè messer Demetrio mi manda a dar queste buone novelle a sua moglie, che credo che morrà d’ allegrezza. Ma cancaro al fallo, perchè la morte sua darebbe la vita a tutti noi che la serviamo. Agnesa. Tu non havrai questo contento, chè ella non sarà sì matta di voler morir adesso, eh’è tempo che la viva per goder di queste tanto buone novelle che tu le porti, et io ne verrò teco a casa, perchè, se sono vere, non bisogna eh’ io più vada al monastero dove ella mi manda. Marchetto. Sono verissime, stanne pur sopra di me, e mi convien menar le gambe per gionger prima a casa eh’ il padrone, sichè, se tu vuoi eh’ andiamo a casa insieme, ti bisogna far il medesimo. — 495 — Agnesa. Lo farò per goder della tua compagnia. / LICENTIA. Spettatori, qua non ha da comparir altri, perchè le citelle si condurranno a casa per un’ altra strada, nè per questa sera si faranno le nozze, e quel che resta da far, faranno i loro sposi dentro, e voi per adesso starete di fuora. Domenica con maggior solennità si faranno le nozze, e sarete invitati alla festa, dove ballerete insieme huomini e donne sotto dolcissimi strumenti da tasto e da bocca, cui terremo poi tutti a cena. Ma perchè chi va in letto senza cena tutta notte si dimena, per questa sera vi potete cavar la fame, che dovete haver grande, col vostro di casa, e non tardate più che la natura pattisce di sì longo digiuno. Del resto solo mi resta a dirvi, che s’ alcuna di voi donne, per poca prattica o poca capacità, non ha potuto capir bene il soggetto della favola, andiate a trovar Y autore in camera, che vel farà capire e sentir commo-damente tutto da un capo a l’altro, col suo acuto ingegno e parole, piene di nervo e di suco, che si accostano tanto al ragionevole, che non è donna sì dura d’ aprensiva che noi capisca intiero e non ne cavi la midolla, benché la materia sia longa, la quale diletta, e giova insieme a chi la sente, perciochè una comedia piena d’ argutie e documenti,.come questa, è specchio dell’ humana vita. Abboccatevi dunque con 1’ autore, come v’ ho detto, se volete che la novella sua v’ entri nel cervello e fantasia, e faccia fruto. Intanto fate segno d’ allegrezza. Il Fine. APPENDICE I. Le Monache. Viziosa è la scelta delle monache. Molte di esse vengono costrette al chiostro dai padri, che, avendo parecchie figlie e pochi beni di fortuna, ne maritano una con buona dote e chiudono l’altre nei monasteri (commedia II Barro, atto I, scena 4). Per meglio riuscirvi ve le mandano da piccole come educande, e le monache, ben conoscendo Pintenzione dei genitori, raccontano alle fanciulle mirabilia della felicità claustrale e cercano indurre le ingenue gio-vanette a divenire loro compagne per tutta la vita (V. 9). Molte cadono in età assai tenera, ma dopo si pentono, e ne segue spesso qualche scandalo (I, 4), che dimostra i pericoli e i difetti del sistema. La vita monacale pertanto diventa un inferno, e tante, prive della famiglia, e non rassegnate al chiostro, si consolano prendendo parte più che possono alla vita del mondo, cercano amici di fuori, mandano ambasciate e doni, e soprattutto ne ricevono guadagnandosi anche fama di avare (III, 2). Ma era proprio così ? Non è questo il luogo di regalare ai gentili lettori della commedia fogliettiana una lunga monografia sulle monacazioni e sulle condizioni delle monache a Genova nel secolo XVI, cosa che presto faremo in un lavoro a parte; ma è pur necessario dirne qualcosa per vedere se il Foglietta qui, come altrove, s’inspirasse alla realtà delle cose. Rimandiamo subito per le cognizioni più necessarie, alla parte prima, capitolo primo del nostro Studio: La Riforma religiosa a Genova, ecc. pubblicato recentemente negli Atti delia Società Ligure di Storia Patria, voi. XXIV, — 5 0° — fase. II, dove a pag. 594 e segg. brevemente si parla dei gravi pensieri che ai superiori ecclesiastici ed alla Repubblica venivano da parte dei conventi di monache, tantoché verso il 1555 si riteneva necessario di creare uno stabile Magistrato, che delle monache e dei loro interessi si prendesse cura speciale. Con fatti bene accertati dovemmo conchiudere che molte giovanette venivano proprio indotte al chiostro dai genitori che se le volevano togliere di casa, senza spendere molto in doti, le quali erano diventate così forti, che i padri di mediocre fortuna non potevano « più maritar le figliuole » (Spinola A. Dizionario storico filosofico, ms. nella Biblioteca della R. Università, art. Monache). Allora nei conventi, ai quali si soleva affidare l’educazione delle fanciulle, vi erano donne zelanti che si adoperavano con ogni mezzo per accrescere il numero delle monache. La vocazione bene di rado si curava, miravasi solo allo scopo, e, quando questo era conseguito, non si pensava ad altro, anzi chiudevasi un occhio e magari tutti due, per non vedere gli scandali che ogni tanto nascevano nei conventi, per opera di donne che venivano astrette a voti in tempi, nei quali o per età, 0 per particolari condizioni dell’ animo loro, erano incapaci di conoscerne l’importanza. Talora vedendo passare in casa gli anni senza incontrarsi in un marito che le togliesse alle cure che avrebbero dovuto esser materne, ma che erano spesso di serve, a quel che pare, discretamente noiose, prendevano il velo e speravano, 0 cercavano di sperare, che il monastero desse loro (pag. 24 del Ragionamento di sei nobili fanciulle genovesi, Pavia 1583) «una vita queta e tranquilla, e senza pensiero », la quale le consolasse del dispiacere che provavano per essere restate oltre una certa età « senza l’appoggio del marito ». Ora una fanciulla che si ritira in un chiostro senza vocazione, dopo un dolore sentito, sia pur grave, come quello di non aver trovato marito, difficilmente avrà pace: seguiterà a soffrire, soffrirà anzi di più, crederà felici le donne rimaste al secolo, esagererà nella sua fantasia le gioie mondane, e, se capiterà 1’ occasione di provarle un poco di nascosto, certo non la lascerà sfuggire. E le occasioni per tormentare quelle povere donne sembra che non mancassero: tristi quindi erano le condizioni dei monasteri, — sci — ed in pieno secolo XVI, mentre in Genova, Repubblica e Chiesa si adoperavano per migliorarli, il sig. padre Giulio dettava in proposito alcune Regole, che si conservano in un manoscritto sincrono nella biblioteca Civico-Beriana, miscellanea D. 2. i.- 28, f. 24. Noi crediamo di far cosa gradita agli studiosi, ed utile per illustrare la commedia, pubblicandole integralmente. « Avixi del reverendo padre Giulio. « Si propone alle Signorie Vostre la institutione d’un’opera, quale già molti anni sono è stata instituita in Milano, Napoli et altre città, nella cui institutione e conservatione si spera notabilissimo frutto temporale et spirituale in questa città, come l’esperienza ha mostrato in queste, dove già questa simile opera è stata abbracciata e favorita. « L’opera è che si ta un luoco, dove sotto il governo d’alcuna matrona nobile, di spirito e d’honor, si allevino figliole vergini, quali paghino il suo scotto, et ivi sieno instrutte nella via chri-stiana, nelli costumi e buone creanze, et tutte le virtù possibili, acciò possino di poi esser maritate al suo tempo dalli loro padri o parenti, o vero farsi monache secondo la loro devotione. Le utilità che da questa opera si (prenderebbero) sono molte. » La prima è quanto all’ honore, perciochè in questo luoco si allevano come in un monasterio senza che possino esser viste, nè parlare con altri che con soi parenti, per onde fugono tutti quei pericoli che potriano incorrere stando nelle proprie case in guardia de’ serventi o simili, non potendo le madri tenersele sempre appresso, nè altri pericoli che corrono andando in chiese pubbliche o altri luoghi, dove veddono et intendono molte cose che non convengono. » La seconda è che, con quello modo di allevare insieme, imparano la creanza molto meglio che se stessero nelle proprie case. » La terza, che imparano meglio a lavorare, cantare, leggere et altre virtù. » La quarta, che, conforme alle regole di questi luochi, vestono modestissimamente, et spendono molto manco che se stessero nelle proprie case o nelli monasterii. » La quinta, perchè aquistano più spirito et fuggono le vanità, e — ) 02 — cose simili, sì per la institutione del vivere, come per la frequenza de’ sacramenti, di prediche, lettioni et simili esercicii. » La sesta, che si fogge il metterle nelli monasterii per allevarle, dando alle monache molto disturbo et danno circa le loro regole, dove le povere figlie molte volte sono sforzate a restarvi, o a non maritarsi più, e molte volte li fugge anco il spirito di farsi monache per molti rispetti che si tralasciano. » La settima, che quelle che così si allevino da persone, che desiderano pigliar moglie virtuose e modeste, sono più facilmente ricercate et desiderate ; et volendosi far monache sarano più instrutte et più stabili, et faranno miglior riuscita, onde li monasterii le riceveranno anco più volentieri. » La ottava, che le figlie che così si allevano insieme, restano poi come compagnone fuori di quel luoco, et si amano, et serve questo per la unione et pace della città. » La nona, che le figlie meglio si alleveranno così circa li costumi et tutto, che non faria nelle proprie case o in monasterii, sì perchè, essendo molte, s’impara meglio il conversare, sì anco perchè nè le figlie, nè chi haverà cura di loro, hanno altra occupatione di questa. » La decima, le figlie andarano molto più volentieri in questo luoco, che nelli monasterii, per la compagnia de tante, perchè potranno andare alle volte alle case loro, e poi tornarvi, il che non possono far nelli monasterii, et di più sarano sicure che non saranno furzate a star li tutta la vita loro, et finalmente per le molte commodità et trattenimenti che in simil luochi si introducono. » Il puoner poi tutto in essecutione e facilissimo, perchè basta trovare da quindeci, o venti gentilhuomini, quali ponghino in esso luoco le loro figliole, e trovato questi, domandar al Senato che vogli costituire un Magistrato, come quello delle monache, de persone gravi et virtuose, li quali habbino a protegier et governar detto luoco, et dalli scotti di queste figlie si potrà pagare anco il fitto d’un luoco atto a ciò et comodo, et alsi quelle persone che per servicio loro son necessarie ». I consigli del sig. padre Giulio non furono accolti, e nel secolo seguente si ripetevano sempre gli stessi lamenti. Per non oltrepas- - 503 — sare i limiti del nostro lavoro, ci contenteremo di dire soltanto che, il 18 giugno 1638, il Senato eleggeva Raffaello e Leonardo della Torre, per proporre i mezzi necessari alla ricerca ed all’ordinamento di un luogo ubi puellae educantur. Ecco le ragioni di questa deliberazione, quali si leggono nel R. Archivio di Stato, manuale del Senato-^. « Cum valde timendum sit fore, ne ob puellarum in monialium monasteriis educationis specie, intromissionem, multa mala nascantur: ipsae etenim in teneris annis, blanditiis allectae, in iisdem monasteriis professione emissa, adultae vero factae paenitentes acerbam admodum inquietamque vitam, cum maxima totius quoque monasterii perturbatione vivant; et adverso autem ipsarum puellarum genitoribus satius esse possit, multisque nominibus ipsorum rationibus conducere, ut alibi etiam aeque bene educari valeant, ut inde temporis progressu, boni malique non ignarae, eam vitam deligant, ad quam iudicii maturitate vocabuntur ». Ed al cominciare del secolo XVII Andrea Spinola (Dinoti. cit. art. Donne) scriveva : « Una delle maggiori gratie che possono ricever le fanciulle è quando sono inspirate da Dio a farsi monache. Ma si guardin le madri di cacciar ne’ monasteri le figlie d’età sì tenera, che non arrivando a conoscere ciò che si faccino, v’ habbino poi le poverette a restar qui per trovarvisi già, e non haver chi dia loro la mano ». IL Le donne fanciulle e maritate. Un pensiero grave era 1’ educazione delle giovanette ed il loro collocamento. Le famiglie più modeste avevano per questo meno da fare tenendosi le figlie in casa, destinandole ai lavori domestici, o d’altro genere, in modo che presto esse divenivano d’aiuto alla famiglia, e, non bisognose di doti, trovavano anche da accasarsi senza gravi difficoltà. Però la cosa mutava per gli agiati e pei ricchi. Dalle figlie di — 504 — questi si esigeva una certa coltura, si domandava un’educazione alquanto raffinata e soprattutto si richiedevano buone doti quando volevano andare a marito. In casa non sempre era facile educarle: le madri della buona società, in tutt’ altre faccende affaccendate, lasciano la casa alle serve {Barro, II, 5), e colla casa anche le figlie (II, 8), che così ben presto imparano a considerare le cure della famiglia come un peso eccessivo e solo degno di animi servili, si fanno pettegole colle chiacchiere della servitù, odiano la ritiratezza, a cui sono costrette (li, 7), vedono nelle serventi delle inconscie ministre di eccessiva severità materna (V, 6) e cercano di sottrarsene con sotterfugi poco onorevoli. Il loro cuore pertanto ignora i più soavi sentimenti inspirati dall’ affetto materno entro le pareti domestiche, e le povere fanciulle aspettano il matrimonio ignorando i nuovi doveri che da esso derivano, e solo sperandone la liberazione da quella specie di prigionia, in cui sono tenute. Della vita, in cui dovranno entrare non conoscono i pericoli, e poi vi si trovano a disagio (II, 7). E se le persone che le circondano possono bene educarle, neppure i libri che leggono, e che dovrebbero contribuire a formarne il cuore e la mente, sono a tale fine molto accomodati. Guardate gelosamente in casa, potevano peraltro leggere « il Petrarca, il Furioso, il Decamerone e simili altri libri toscani », e perfino « le frottole, sonetti e canzoni del Foglietta in lingua genovese », tutti lavori, nei quali 1’ insigne scrittore « copre le cose sue con senso doppio » (II, 7). Tale l’educazione ricevuta in casa dalle fanciulle di buona famiglia. Ma spesso si pensa di levare le ragazze dalle mani delle serventi, affidandole a monache, e così puossi lasciare alle madri una libertà anche maggiore, e si può rendere meno difficile il collocamento delle fanciulle stesse. E primo intento dell’ educazione nei monasteri è di acquistare abitatrici al chiostro (V, 9), con grande gioia dei padri, specialmente se gentiluomini un po’ corti a denari, che così risparmiano le doti (I, 4). Peraltro non sempre è possibile di tener chiuse nei monasteri 1’educande, nè sempre riesce rinchiudervi le fanciulle educate in famiglia; viene per le une e per le altre l’ora del matrimonio. È questa la più grave preoccupazione dei genitori e dei figli. I vecchi quando — 505 — possono lo conchiudono essi stessi, colle stesse cure e cogli stessi mezzi che sogliono usare negli affari di commercio (I, 7) : s’ interroga prima qual è la dote, poi la donna: pur di maritare le figliuole non si guarda tanto all’età dei mariti, e si danno anche a vecchi, purché ricchi e poco esigenti nella dote, e le fanciulle li accettano pronte poi a rifarsi in altro modo (III, 4). I pesi del matrimonio si esagerano (I, 7), i giovani lo fuggono , perchè ne temono le grandi spese, lo ritengono d’impedimento alla vita libera con donne allegre (V, 4), ed un ostacolo ad esercitare il commercio in lontani paesi. Alcuni, è vero, contano poco quest’ultima difficoltà, si ammogliano lo stesso, e poi partono, lasciando le mogli a far il loro comodo da sole (II, 12). Tuttavia in genere i matrimoni son pochi: soprattutto le quistioni delle doti, che gli sposi vorrebbero molto grosse (I, 4), ed i padri rifiutano di dare, fanno ammuffire molte ragazze in casa (V, 1) e rendono l’avarizia arbitra delle nozze (V, 1). Quando poi con gravi pensieri sono conchiuse le nozze, quando le donne abbandonano la casa paterna per andare a marito, e, lasciato il monastero o la cura delle serventi, divengono padrone di una casa propria, le condizioni mutano. Non son più tormentate dalla ricerca dei mezzi opportuni per deludere la vigilanza delle serventi, nè sentono più le angustie che prima provavano per trovarsi un marito, il matrimonio le ha sottratte ad ogni servitù, rendendole così libere, come le donne non sono in nessun’altra città d’Italia. Ora son sempre in giro a cicalare, non solo in genovese ma anco in francese, giacché esse delle donne di Francia amano i costumi, come parlano la lingua, sebbene or comincino a gustare anche l’italiano (I, 1). Al mattino cominciano coll’ imbellettarsi adoperandovi o^ni cura, si vestono riccamente mutando abito ogni giorno (II, 8), e facendo straordinaria pompa escono di casa (I, 7), talvolta assise in sedia, più spesso portando zoccoli così alti, che per non cadere si fanno reggere da servitori (II, 7). Tutte profumate si recano alla chiesa (III, 6), guardandosi bene di coprire la testa di un velo, tanto per obbedire ai predicatori, e vedono la messa, non la sentono, perchè troppo occupate a cicalare fra loro, o a udire la passione degli amanti (I, 8). Allo stesso scopo gironzolano Atti Soc. Lio. St. Patria. Voi. XXV, fase, a.0 33 — 506 — per le vie, e ben tardi ritornano a casa, dove le figlie restano chiuse sotto la custodia delle serventi (I, 9). Al dopo pranzo stanno sulle porte a ciarlare con tutti, giunta la sera intervengono alle veglie persino in quaresima (III, 6), e, dato bando ai lavori donneschi, un giorno vanto delle madri e delle figlie, nei giuochi delle carte e dei dadi (I, 9) sprecati denari allegramente al suono di dolci parole d’ amore, che gli uomini susurrano all’ orecchie non solo delle giovani, ma ancora delle vecchie (III, 5). Per tutto questo, e specialmente per le vesti e gli ornamenti, le spese sono molte, e se i parenti non possono 0 non voglion pagarle, le brave donne « vendono la pudicitia loro », e così alle tante cause di corruttela, vi si unisce come principalissima anche questa (III, 8). Tali le fanciulle e le donne genovesi secondo la commedia fogliettiana. Si prova un certo disgusto ad apprendere quanto trascurata fosse l’educazione delle bambine e delle giovanette che dovevano prepararsi a divenire madri di famiglia, dispiace il sentire quanto le genitrici le trascurassero preferendo il divertimento, le ciarle, ai dolci doveri domestici. Ma pure non sembra che il Foglietta abbia eccessivamente caricate le tinte. Il « signor padre Giulio » nei suoi «avixi» pubblicati in quest’appendice al n. I, proponendo l’istituzione d’un educandato per le fanciulle, mentre adduce le prove per dichiarare difettosa l’educazione monastica, reca ragioni non meno forti per giustificare la sfiducia che si aveva nell’ educazione domestica. Anzi i primi due vantaggi sperati dal futuro educandato sono proprio questi: « La prima (utilità) è quanto all’ honore, perciochè in questo loco si allevano come in un monasterio, senza che possino esser viste, nè parlar con altri che con soi parenti, peronde fugono tutti quei pericoli che potriano incorrere stando nelle proprie case in guardia de serventi, 0 simili, non potendo le madri tenersele sempre appresso; nè altri pericoli che corrono andando in chiese pubbliche, 0 altri luochi, dove veddono et intendono molte cose che non convengono. La seconda è che con questo modo di allevar insieme imparano la creanza molto meglio che se stessero nelle proprie case. Le fanciulle di rado venivano condotte fuori di casa, ed anzi quando vi si portavano s’ aveva cura di coprir loro la faccia con — 5°7 - un velo, perchè non fossero vedute (Gonfalonieri, Viaggio da Roma a Madrid, nello Spicilegio valicano, I, II, p. 186), e sul finir del secolo XVI quando si conducevano in chiesa, si tenevano appartate, per non esporle agli occhi indiscreti degli uomini. Ciò peraltro non impediva loro di godersi dalle finestre quello che non potè- . vano avere altrove. Anzi Andrea Spinola, che scriveva al principio del Seicento, diceva (Dizionario storico-filosofico cit. art., Donne), « che se le madri vogliono che le lor figliuole non stieno in balcone, non vi stien esse ». Erano escluse dalle conversazioni con uomini, ma ciò non impediva loro di rifarsi ciarlando fra loro, di deludere la vigilanza delle vecchie, che le custodivano per dimostrare, che, quantunque tenute isolate, conoscevano qualcosa del mondo (Ragionamento di sei nobili fanciulle genovesi cit., passim). Certo questa conoscenza acquistavano, e da parole sentite in famiglia dai genitori e dalle amiche, in un secolo nel quale in mezzo a tanta riservatezza formale, si parlava poi molto liberamente da uomini e da donne, e per essere educate alla scuola della malizia da serventi non troppo scrupolose, e per la lettura di libri che venivano loro concessi senza alcun riserbo. Ora le fanciulle cresciute in questa maniera potranno un giorno governare bene una famiglia, tenere a sè vincolati i mariti coll’attrattiva delle pure gioie domestiche, contribuire al miglioramento della società con quei mezzi tanto efficaci, di cui la donna gentile e virtuosa conosce il segreto ? Si può davvero dubitarne, e riesce invece facile, quantunque assai doloroso, il credere, che « le giovanotte (appena) a casa del novello sposo si ritrovano vogliono l’Adone che gli dica nelle veglie la paroletta all’orecchio, et le corteggi nelle chiese, e per le ville li tenga gioco, talché la maggior parte de’ giovani da queste tali caparrati ne sono; et molte di loro non contente di un solo, procurano haverne quanti più possono, per parere di essere tra l’altre le più stimate et le più piac-ciute » (Rag. cit. p. 12). Allora sottratte alla severa tutela del monastero, o della casa paterna, non si credono obbligate a tanti riguardi ; fanno su per giù come fa un collegiale appena può sfuggire all’ impero del censore, e quindi usano « di gran libertà... vanno per le strade sole senza servi, edam le gentildonne, 0 vanno — 508 — con altre pari loro. Più tosto vanno con alcun uomo, o paggio » (Viaggio cit. p. 188). Dell’amore fanno un’occupazione seria, forse la più seria, e desiderano di essere amate apertamente, come esse stesse non fanno mistero dei loro sentimenti. Dopo 1’ amore viene il gioco, che occupa gran parte delle veglie notturne, dove concorrono in gran numero le brave donne « quali si giucaranno taluna di loro li cinquecento scudi », per darsi prima o dopo alle « danze e ragionamenti che ivi si fanno » (Viaggio cit. p. 193). Nè ad esse dispiace di esser cullate nei sonni innocenti da armoniose mattinate, che sotto le loro finestre fanno o fanno fare i caldi adoratori di loro bellezza (Andrea Spinola, Dizionario cit. t. Ili, p. 216, art. Mattinate) ; nè alcune disdegnano, quando sono a villeggiare in Sam-pierdarena, uscire « di notte vestite da huomini con le spade sotto » (Belgrano, Vita privata dei Genovesi, Genova 1874, cap. LXXIX, p. 457 in nota). Del resto sono anche molto religiose, e non mancano mai alle cerimonie sacre obbligatorie per una buona cristiana, anzi in questo ritengono che sia molto meglio abundare quam deficere. Però come nelle chiese si comportassero, quale attenzione prestassero ai divini offici, si vede laddove parliamo delle chiese (ved. in questa stessa appendice al n. III), e sarebbe inutile insistervi qui. Piuttosto leggiamo insieme i ricordi ai padri predicatori, che si conservano in una miscellanea di manoscritti del cinquecento, nella Biblioteca Civico-Beriana. Questi ricordi ci sembrano importanti per la fiducia che s’aveva allora nei predicatori, dai quali soli, secondo lo Spinola, vissuto poco dopo (Dii. CIZ• art- Predicatori), si aspettava il rimedio per parecchi mali, come questi : « I giuochi mostruosi che si fanno, le scomesse sul seminario, l’haver prattica con banditi ch’infestano il paese, l’ubbidir alle leggi del governo pubblico, il pagar gli artigiani e cose simili ». Essi quindi non parlano soltanto della donna, ma qui amiamo riferirli , perchè alcuni passi giovano a chiarire meglio quanto di esse vedemmo, mentre le parti che non riguardano la donna, e che citiamo a suo luogo per illustrare altri punti della commedia, non sarà discaro allo studioso di vederle esposte tutte di seguito secondo 1’ ordine tenuto dal manoscritto. In parte si riferiscono ad ordini da Pio V — 509 — dati per Roma e per i paesi cattolici tutti, ma si mostrano in genere molto opportuni per Genova, e quelli che riguardano la donna più degli altri sono suggeriti dai bisogni di questa città. Chi volesse tare un confronto, come l’abbiamo fatto noi, colle bolle di Pio V, potrebbe fermare la sua attenzione specialmente su queste tre, che troviamo nel Bullarum privilegiorum , Roma 1745, t. IV, part. II: e cioè a pag. 281, « Supra gregem », 8 marzo 1566; a p. 292, « Circa pastoralis officii», 29 maggio 1566; a pag. 325, « Inter multiplices curas», 21 decembre 1566. Ed ora ecco il manoscritto: « Ricordi d’alchune cose particolari, che dai reverendi padri predicatori a suo luoco e tempo et segondo le occasioni nelle lor prediche haranno arecordar et avertir il popolo, lasciando le questioni et altro, che giovar non ponno, e ciò conforme alla bolla di Nostro Signore Pio papa V: » Che chi conosce alchuno eretico, overo sospetto di heresia, lo denoncii a superiori, cioè allo Arcivescovo o vero all’ Inquisitore. » Che i maestri da scuola non leggano, nè facino leggere a putti libri che siano contra la pietà christiana et buoni costumi. Ma oltra le cose d’ humanità gli amaestrino anco nella dottrina christiana, avertendo essi maestri che niuno insegnar puote grammatica nè altra scienza, che prima non habbi fatta professione della fede in mano dell’Arcivescovo 0 suoi vicarii. » Che i padri e le madri mandino i suoi figliuoli in giorno di festa alle giesie, ad imparar le cose pertinenti al viver christiano, et alle figliuole la mostrino 0 faccino mostrare almeno in casa. » Che non si tenghino in casa libri dishonesti et prohibiti. » Che le feste si santifichino come si deve] et non si vendino cose vietate, nè si tenghino le botteghe aperte. » Che i fanciulli 0 fanciulle nati si faccino battezare nel termine d’otto giorni, et non si differisca più oltre, et si eleggano compari e comare timorati di Dio, acciochè al tempo debito esser possino veri padri spirituali di essi. » Che gli amalati si confessino quanto prima, et non differischino più di quattro giorni, altrimenti non saranno medicati da medici, à quali è proibito di medicar passato detto termine. » Che i patroni, mercanti 0 artigiani non tenghino in casa 0 in — 5io — bottega famigli o garsoni biastematori, se havendoli una volta ammoniti non si saran corretti. » Che in chiesa, specialmente quando si predica o si celebrino li divini ufficii, non si passeggi, non si parli che di cose di Dio, non si trattino negocii secolari, non si vaghegi, non si stia appoggiato all’ altari, alli battisterii et all’acqua santa, nè con le spalle rivolte al Santissimo Sacramento. Nè si stia in piedi mentre che per il sacerdote si leva 1’ hostie et il calice, ma sì in ginocchio. » Che il matrimonio si celebri nel modo che ha ordinato il sacro concilio di Trento, et che coloro li quali mandano a pigliar le dispense habbino buona consideracione et avertiscano che le cause siino vere, perchè nella corte dell’Arcivescovo non saranno espedite se prima non saranno legitimamente approvate. » Che non si tenghino in casa immagini profane, o sia lascive et dishoneste, et i pittori si astenghino di dipinger tali immagini. » Che chi entra nei monasteri di monache senza licenza dell’ ordinario, cade in escomunicacione sia maschio o femina, per il decretto del concilio di Trento. » Parimente avertischino tutte quelle donne quali entrano nei monasteri o sia claustri dè religiosi, tanto mendicanti come non, eccetto nei casi espressi contenuti nelle lettere dell’ illustrissimo et reverendissimo Cardinal Crivello, date in Roma alli 28 di gennaro 1568, sono scomunicate di scomunica papale, et li frati, li quali ciò permettono, restono sospesi a divinis, et privi dei loro ufficii, et anco inhabili ad altri ufficii. Et inoltre havisino coloro li quali si fanno assolvere in virtù dei giubilei 0 indulgenze generali del Sommo Pontefice, che solo delle censure ecclesiastiche restono assoluti nel foro di coscienza, ma non già nel foro giudiciario, anzi passata la causa del giubileo o indulgenza, reinsidano nella suddetta censura nella quale erano prima; come ciò resta dichiarato nel giubileo mandato per Sua Santità alli xvu di decembre MDLXVIII. » Che chi pone nelli monasteri alchuna figliuola, overo per far che la resti poi monacha, 0 sia per altra causa contro sua voglia, cade in escomunicatione per decretto del medesimo concilio. » Si essorti il popolo alla frequentatione dei sacramenti, et avisar tutti che non stiano a confessarsi sino alla settimana santa, ripren- - SII — dendo quelli che ogni anno muttano confessori; et che non si communichino alle Pasque fuori della parrochia, senza licenza espressa del parrocchiano. » Che quei che sono negligenti in pagar i legati, più non saranno assolti senza la precedente soddisfazione. E parimente quelli che per testimonio falso in giudicio, o altro, hanno dannificato il prossimo in roba, fama o altro, et il medesimo degli usurari. » Avisar il popolo dell’ obbligo che tiene di degiunare tutta la quaresima, et di non mangiar cibi prohibiti senza licenza del medico et confessor spirituale, o vero dell’Arcivescovo. » Riprendersi il popolo degli infrascritti errori, cioè del concubinato, adulterii et altre carnalità; delle crapule et dell’andar alle bettole et hosterie, massime alle feste, dei giuochi, delle pompe, et particolarmente le donne, et de’ suoi belletti oltramodo, dalle bugie dè mercanti et artista, dè balli et dè sonatori che alle feste sonano per guadagno, dell’andare alle perdonanze per vagheggiare et non con la dovuta devotione, della puoca riverenza che circa ciò si usa alle chiese, et scandali che con le parole et gesti indecenti, dissoluti et immodesti si danno, et anco delle biasteme grandi contro al Signore, sua Vergine Madre et tutti i Santi. » Detestar le usure, li contratti illiciti, li cambii illiciti, massime al deposito, et sopratutto il prestar sopra pegni al tanto per scudo. » Detestar le veggie, massime dove gl’ huomini parlano all’orecchi alle donne, così smascherati come mascherati, con cosi puoca vergogna et niun rispetto. » Detestar le molte libertà et molta domesteghezza delle donne, da che nasce la total rovina dè mariti, accompagnati dal scometer sopra le donne gravide. » Detestar le superstitioni, o sia stregarie, massime il farsi indovinar delle donne, et farsi medicare, et anco suoi figliuoli con incanti o altre superstitioni. d Essortar che si ponghi buona regola et mente sopra le cose del vivere, massime del pane, vino et olleo, et prohibir li monopodii, et ciò con la maggior et possibil diligenza di quel si fa rispetto ai poveri di Christo. » Detestar l’abuso delle Casacie dè disciplinanti, li quali in luogo — 512 — d’impetrar perdono da Dio con la disciplina, provocano Sua Divina Maestà ad ira, facendo tal opra per vanità, et solo per farsi vedere dalle donne, et in luogo di astenersi da cibi superflui, alle volte, mangiono et bevono in abondanza nelle istesse Cazacie, e poi si ponghono a far la disciplina, da che vien causato, et dal già detto, tal disordine. » Detestar le bettole dove si giuocha, massime le sechrette, dove vanno a giuochar li giovanetti et imparano altri vicii, da che ven-ghono alle volte i padri et madri loro in disperatone. * » Detestar le essessive dotti che si danno a figliuole volendo maritarle, da che viene causato che li padri, il più delle volte, son forzati metersi a rixico di perder 1’ anima et il corpo insieme, et oltre tardar di più a maritarle. E perciò li bisogna presto di degno rimedio, et non tardare, soprastando la total rovina delle cazate ». La pittura dei costumi genovesi riguardo alla donna non sembra davvero consolante: vogliam credere che si potessero far molte eccezioni, e che vi si trovassero ancora donne severamente virtuose, modeste, lontane dal lusso, buone mogli ed ottime madri. Ma ciò non toglie che i celibi, conoscendone tante del genere descritto, fuggissero il matrimonio, e per prender moglie aspettassero proprio di essere comprati con ricca dote, che il più delle volte costringeva i padri a « mettersi a risico di perder l’anima et il corpo insieme », come sopra leggemmo. Nozze in tal modo conchiuse non potevano esser felici, nè il contegno delle maritate era tale da renderne meno gravi le conseguenze; anzi come esse, certo senza volerlo, rendevan meno frequenti i matrimoni, così contribuivano ad allontanare dalla casa i mariti. Quindi gli uomini e celibi e maritati non potevano amar troppo la famiglia, ne ignoravano in genere le gioie più pure, e cercavano altrove godimenti volgari e disonesti piaceri. Ed allora, secondo il solito, il governo interviene, e fin dal Quattrocento nomina ogni tanto deputati a costituire un magistrato, detto ufficio delle virtù, del quale parlai egregiamente il Belgrano (cap. LXXVI, parte IV, p. 434 della Vita privata dei Genovesi), solo però per quanto riguarda il secolo in cui era sorto. Crediamo utile ad illustrazione delle cose disopra dette, riassumere qui ed in parte anzi riportare integralmente uno scritto del Seicento, - ji3 — che riguarda il Magistrato delle virtù dal 1512 a tutto il secolo XVII. Si conserva nel R. Archivio di Stato, Rerum pubblicarum ~e noi insisteremo su quelle parti di esso, che meglio chiariscono i costumi di quell’ età. S’incomincia col riportare il[ decreto governativo del 5 marzo ;Lj_i2_(conservato anche nella Biblìoticr~3€t~i^ATd7Tvio fràT~de^ creti ms. della Repubblica, libro II, p. 32), nel quale il Senato rileva i danni che dai costumi disonesti vengono al pubblico e ai particolari con grande offesa di Dio e delle leggi, ed aggiunge: « His igitur et huiusmodi rationibus excitati, audientes maxime adolescentes laxioribus habenis in vitium prorumpere, praenominati illustris dominus Gubernator et magnificum Consilium deligere et creare necessarium sanxerunt magistratum et officium, quod a virtutibus excolendis propagandisque, et vitiis coercendis et puniendis, virtutum officium vocetur, et ita illud creare et elligere decreverunt et creant et deligunt: videlicet praestantes viros Baptistam de Rapallo, Carolimi Spinulam, Angelum de Grimaldis et Simonem lustinianum, quorum spectata cum laude probitas in civitate fulgere dignoscitur, quibus dederunt et attribuerunt, dantque et tribuunt amplissimum arbitrium et potestatem omnimodum scrutandi et investigandi ac providendi ne crapulosae comensationes, quae honestati contrariae sunt, fiant, ne turpes ac crebri et damnosi ludi et nocte pervigiles protracti, ne effrenatae libidines, manifesta adulteria, incestus et sacrilegia committantur, et quod etiam exhorrent animus in comorreum fkgitium severissime animadvertendi, ne huiusmodi sceleribus civitas inquinata putredine inficiatur, eaque omnia et singula scelera puniendi usque ad ultimum supplicium inclusive et ea castigandi et quibus modis et formis et penis sibi visum fuerit cohercendi, etiamque et contra talium criminum et flagitiorum lenones et receptatores procedendi, et eos pariter si sibi visum fuerit, aut aliter puniendi, dantes super his omnibus et singulis ac in dependentibus ab eis eisdem quatuor latam et tantam potestatem qualis et quantam ab ipso Senatu dari et concedi potest, quacumque pena et censura, huiusmodi scelestos puniendi etiam ad ultimum supplitium inclusive, servatis vel non servatis capitulis, regulis.....»■ — 514 — Il 2 agosto 1546 si deplorano di nuovo i cattivi costumi, e si stabilisce che « facultas ohm collata officio virtutum intelligatur attributa collegio magnificorum dominorum Procuratorum ». Però si aggiunge: « non derrogando tamen ordinariae auctoritati et potestati magnifici domini Praetoris et curiae maleficiorum ». Il 18 novembre 1578 si fa la conferma di questa autorità, determinando meglio che essi devono occuparsi solo di « giochi non permessi, bettole d’ogni sorte, loge, biasteme, e vitio nefando contro la natura; e sicome questa qualità de vitii è tale che merita pronto e necessario rimedio, e che vi si dia qualche provisione prima che seguano grandi mali, così non è possibile che ciò si facci dai giudici ordinarii per la via giuditiale, la quale in ogni caso non porge rimedio alcuno se non doppo il fatto ». Il 2 decembre 1578 è approvato dal Maggior Consiglio, per tre anni. Avvengono proroghe successive senza mutamenti fino al 9 ottobre 1590, nel quale anno confermandosi la proroga per tre anni si prescrive, che l’autorità « si conferà a sette persone dè serenissimi colleggi da elegersi però anualmente per Loro Signorie Serenissime e per lo Minor Consiglio ». « Nel 1596 a 9 marzo fu di novo transferto nella Camera Eccellentissima il detto ufficio di virtù, conforme lo era prima che si trasferisse nelle dette sette persone de’ Serenissimi Colleggi ». Il Governo del resto, pur di favorire i matrimoni, aveva cercato di frenar le doti, ed il 1 ottobre 1538 infatti emetteva questo decreto che noi togliamo dal libro 1 dei decreti della Repubblica, conservato manoscritto nella Biblioteca del R. Arch.: «111. dominus dux et magnifici domini gubernatores et procuratores animadvertentes dotes, in tantum per abusum immoderate crevisse, ut nisi de opportuno remedio provideatur, brevi omnes nobiles et prestantes familias extingui in gravissimum Reipublicae detrimentum cum ex matrimoniis et nuptiis legitimis, et liberis et ingenuis viris, civitates et reipublicae, ut experientia comprobatur, augeantur et stent, quibus deficientibus, scandala et delicta in Deum, contra Rempu-blicam et bonos mores committantur, lucra illicita conquerantur, odia et emulationes inter cives generentur, et exquisitis sententiis optimatum civitatis ab omnibus comprobatum est hunc excessum - 5^5 - dotium extinguere et opportune providere. Propterea........ ne aliquis civis......possit promittere, dare vel constituere dotes maioris summae scutorum trium millium auri solis, de solidis sexaginta novem singulo scutorum » ecc. Si fissano poi minutamente tutte le norme per evitare le possibili frodi, per impedire che i parenti della fanciulla, od il marito stesso, creino una vera dote sotto altra forma. Non sappiamo se e quanto la legge fosse osservata. Soltanto nel medesimo libro, in margine ed in calce della pagina che contiene il decreto accennato, ve n’è un altro del 21 novembre 1554 col quale il primo viene totalmente abrogato a cominciare dal 2 febbraio 1555. Ed ora che cosa di più è necessario chiedere ai documenti genovesi, per decidere se il Foglietta abbia saputo ben ritrarre la vita de’ suoi tempi? Ci sembra che non occorrano altri fatti, per riconoscere anche in questo i meriti precipui dell’ insigne scrittore. III. Le Chiese. t A ciò, che riguardo al poco rispetto portato alle chiese già scrisse il Belgrano nell’ opera citata (Vita privata dei Genovesi, parte IV, cap. LXXIX) e alle notizie che noi stessi demmo nella parte I, cap. I dello Studio sulla Riforma religiosa ecc. (Atti della Soc. Lig. di Storia Patria, voi. XXIV, fase. II, pag. 589), aggiungeremo qui pochi particolari. Nel R. Arch. di Stato (Arch. segr. Miscellanea Diversorum num. genTTus) si^cHsérva un decreto governativo del 1433, il quale mostra il nessun rispetto che si aveva alle chiese. È un poco anteriore ai tempi cui si riferisce la commedia, ma per la sua natura non vogliamo privarne i lettori. Eccolo: MCCCCXXXIII die xv.... (sic). Proclamate vos parte comunis in locis opportunis civitatis. Parte magnifici domini Opicini Alzate ducalis commissari! in — 5i6 — Ianua, quod nulla persona cuiuscunique sexus, gradus aut condicionis sit, audeat vel presnmat deinceps ludere ad pilam aut alium quemcumque ludum in ecclesiis, monasteriis aut conventibus Ianuae, sub a pena florenorum vigiliti quinque usque in ducentos, arbitrio ipsius magnifici domini commissarii auferenda a quolibet contrafa-ciente in quolibet vice qua inuentus fuerit inobediens. Iacobus de Bracellis, cancellarius. Ea die. Iohannes de Sancto Nazario preco comunis retulit se proclamasse ut supra in locis opportunis. E sembra che tale decreto non facesse cessare i mali deplorati, perchè nel secolo seguente, che a noi soprattutto interessa, si hanno prove che le cose continuarono ad andare su per giù nello stesso modo. Mons. Bossio, che per ordine pontificio fece alla diocesi di Genova una visita straordinaria nel 1582, dovette lagnarsi che il rispetto alle chiese mancasse, non solo da parte dei laici, ma altresì da parte dei sacerdoti, alcuni dei quali vennero per tali ragioni puniti. (Ved. il nostro Studio cit. La Riforma ecc. a p. 589). Sopra tutti curioso è quel prete Iacopo Bellino, priore di S. Giovanni di Bor-borino, nella cui chiesa furon trovati « nidi columbarum et doleum cum vino » (Ved. op. cit. p. 591). E curiosissimi sono gli ordini dati pure dallo stesso visitatore, perchè nelle chiese non si tengano suppellettili, vino, pane ed attrezzi rurali. Invece non più curiosi ma causa di tristi riflessioni sono gli ordini che dal visitatore citato, dalle varie sinodi genovesi e dalla Repubblica si davano per evitare che le chiese servissero ad usi anche più riprovevoli. Anzitutto il Magistrato delle monache, che veniva eletto probabilmente verso il 1555, non solo dovevasi occupare dei conventi, ma altresì delle chiese tutte, per impedire che in esse si commettessero atti sconvenienti « alla casa del Signore ». E difatti se n’occupava con zelo sempre crescente, mandava una schiera di relatori per la città, relatori beninteso retribuiti, che alle porte delle chiese e nell’ interno di esse osservavano il contegno d’uomini e donne, e riferivano al magistrato, il quale applicava delle brave punizioni. Nel R. Archivio di Stato abbiamo vedute molte informazioni dei — 5*7 — relatori, latte con grande precisione, nonché parecchie condanne a carcere e ad esilio. Appartengono al secolo XVII, e per ora non c’è riuscito trovarne alcuna di anteriore; ma siccome dopo quanto nel Cinquecento si era detto su tale materia, non si può supporre che i mali deplorati più tardi nascessero in seguito, possono bastare anche per i tempi di cui qui ci occupiamo. Quelle carte ci serviranno per scrivere un capitoletto dello studio sui monasteri genovesi, al quale attendiamo, e da cui si vedrà come in certe chiese di Genova si amoreggiava sfacciatamente, come donne ben note quali disoneste, ed altre sedicenti onorate, ricevevano omaggi di laici e persino di preti, e come nella penombra del tempio talvolta si tentava di oltrepassare i limiti di un semplice omaggio. Dalle carte medesime e da altre fonti si vede altresì che le Casaccie od oratori, pie associazioni già create per attendere ad esercizi di pietà, davano occasione nelle vie e nelle chiese a gravi abusi, tantoché fino dal Cinquecento frai ricordi dati ai padri predicatori (ms. in Bibl. Civico-Beriana, pubblic. ora in questa appendice n. II) si legge: «Detestar l’abuso delle Casaccie dò disciplinanti, li quali in luogo d’impetrar perdono da Dio con la disciplina, provocano Sua Divina Maestà ad ira, facendo tal opra per vanità et solo per farsi vedere dalle donne, et in luogo di astenersi da cibi superflui, alle voice, mangiano et bevono in abbondanza nelle istesse Casaccie ». La Sinodo Pallavicini del 1567, quindici anni prima che monsignor Bossio facesse la sua celebre visita, era costretta a dare ordini speciali « de prohibendis colloquiis ecclesiis » (p. 65 delle Synodi dioecesanae et provinciales .... sanctae genuensis ecclesiae, Genuae 1833), e a raccomandare di far di tutto specialmente «ne viri sermonem diuturnum cum mulieribus in templis habendi opportunitatem habeant ». Ai quali ordini fanno riscontro queste parole che si leggono nei citati ricordi ai padri predicatori: « Riprendere il popolo dell’ andare alle perdonanze per vagheggiare, et non con la dovuta devotione, della poca riverenza che circa ciò si usa alle chiese, e scandali che con le parole et gesti indecenti, dissoluti et immodesti si danno». Ordini a cui s’aggiungono altri per impedire che « si trattino negocii secolari », e che presi insieme accennano ad una grande mancanza di ìispetto, tanto più grave, in _ 5i8 - quanto che si tratta di città e di tempi celebrati per una certa gentilezza di costumi. Aggiungasi a questo che le donne oneste facevan di tutto per attirare nelle chiese lo sguardo degli uomini galanti, vestendo sfarzosamente, volgendo gli occhi in giro e magari ammiccando, oppure standosene alla porta delle chiese per invitare i fedeli « vel nutu vel significatione ulla ad elemosinam conferendam », nel tempo di indulgenze (Sin. Pallavicino, a p. 117 della pub. cit. delle Sin. gen.). Le disoneste poi non potevano restare addietro, anzi per ragioni, diremo così professionali, non dovevano trascurare, per quanto stava in loro, i buoni esempi che ad esse venivano dalle consorelle d’altre parti d’Italia, le quali si recavano in chiesa come regine, accompagnate da serve e valletti, inchinate, servite, distraendo l’attenzione dei fedeli dalle sacre cerimonie (Ved. fra gli scritti più recenti A. Graf. Attraverso il Cinquecento. Una cortigiana fra mille, Torino 1888). Quelle poi che non potevano giungere a tanto, si mettevano ad abitare presso le chiese, e dalla porta di casa e dalle finestre procuravano di accrescere la devozione dei fedeli che accorrevano al tempio, e davano esse stesse prova del rispetto che per esso nutrivano. Nel R. Arch. di Stato, nella Miscellanea dei Diversorum 3145, trovasi una supplica dei parrocchiani di S. Ambrogio, i quali nel 1501 pregano il governo perchè simili donne si caccino dal « carrugio (vicolo) nuncupato Ferrarie, alioque dicto Burgo sacho parrochie sancti Ambroxii». Ed allo stesso fine aggiungono: « In aliquibus etiam domibus voltisque et mezaninis prope plateam sancti Ambrosii habitant et morantur nonnullae personae et feminae inhonestae et malae tamae quae non sunt suportandae ». Che più ? Le sacre rappresentazioni che si facevano anche in luoghi destinati al culto nel secolo XVI non potevano più accrescere la riverenza dei credenti verso di essi (Ved. D’Ancona, Origini del teatro in Italia, cap. XIX, Firenze 1877); e la Sinodo Pallavicino nel 1567 espressamente le proibiva, adducendo queste ragioni: « Repraesentationes, luctuosam dominicae Passionis historiam, et admirabiles ac imitatione dignas sanctorum actiones oculis et auribus hominum, - 5l9 ~ tamquam in scena proponentes, qnas ad excitandos, sensuum ope, rudes imperitorum animos, antiquitas introduxerat, horum temporum malitia et nequitia in pravos adeo detorsit usus, ut ex eis pro la-crymis risus, pro piis affectibus prava desideria excilentur. Itaque ne res in deterius magis magisque labatur, easdem tam sacris quam prophanis in locis praesens Synodus prohibet, nisi ab ordinario, caussa plene cognita, licentia in scriptis sit obtenta». Ora dopo questo, le allusioni fatte dalla commedia al poco rispetto che si aveva nel Cinquecento alle chiese, si potranno dire dovute alla fantasia dell’autore? Quando, ad esempio, nella scena sesta dell’atto terzo, il servo Marchetto dice che « i padroni il giorno stanno alla predica a vagheggiare », si può meritar nome di calunniatore? E la servente Agnese, che pur aveva la lingua assai lunga, merita forse la stessa taccia, perchè nella scena ottava dell’ atto I dice, che, mentre si celebra la messa, « le donne ciarlano tra loro, o ascoltano la passione che piangendo le dicono i loro amanti, ai quali porgono più volentieri 1’ orecchio »? Chi ha letto la commedia, e data un’occhiatina ai fatti che sopra abbiamo addotti, dia la sua sentenza. Noi fin da ora dichiariamo che non ricorreremo in appello, essendo disposti ad accettarla volentieri in tutti i suoi particolari. IV. L’abuso dei ricchi abiti e degli ornamenti specialmente femminili. Una delle scene più belle della commedia si è certo 1’ ottava dell’ atto secondo, in cui Demetrio e Despina si bisticciano intorno agli ornamenti ed alle vesti delle donne. La quistione comincia con un certo sapore di personalità, dolendosi il vecchio delle spese che in simili cose fa la moglie, ma poi prende presto un carattere più generale giungendo Demetrio ad affermare persino che alcune donne, per mutare ogni giorno « nuovi abiti e nuove foggie, vendono la pudicitia loro a chi la vuol comprare ». Il vecchio diceva queste parole in un momento di malumore, per doversene magari pentire — 520 — in seguito, oppure aveva le prove che realmente eccessivo fosse il lusso delle donne ai suoi tempi, e che da esso derivassero tristi conseguenze per 1’ onore delle famiglie ? Se dovessimo stare alla commedia prove ne aveva di certo, ed il lettore qua e là si sarà frequentemente imbattuto in passi che vi alludono, dipingendo su per giù nello stesso modo identici mali. Alcuni di questi passi li citiamo anche al numero II delle presenti illustrazioni, e qui ci contenteremo di ricercare quanto vi sia di vero, spingendo le nostre indagini anche a tempi un pochettino anteriori all’ età in cui viveva e scriveva il Foglietta. Anche nel secolo XV sembra che molti in Genova ritenessero che gli ornamenti delle donne fossero eccessivi, che si spendesse un po’ troppo nel vestirle con abiti rari e costosissimi, e che tali spese si ritenessero dannose, non solo alla borsa dei padri e dei mariti, ma altresì al buon nome della famiglia. Per esser giusti peraltro dobbiamo dire che a molti uomini tali spese non dispiacevano, e tanto per farlo capire a tutti cercavano di rubare alle donne un poco della loro ambizione. Il Governo pertanto aveva dovuto provvedervi, sperando che le sue leggi potessero mutare i costumi; e l’illustre Belgrano, nella Vita privata dei Genovesi (parte III, cap. LI, p. 253), ne esamina parecchie ricordando la nomina di « un comitato di otto prudentissimi uomini », che il 1449 veniva eletto « con ampia balia di proporre e statuire quanto avvisasse meglio acconcio, non solo a temperare il soverchio delle doti, ma a condurre alla desiderata riforma dei costumi, e riuscir potesse conveniente alla pubblica utilità ». Questo comitato fu scelto il 7 marzo 1449 in un’adunanza degli uffizi di Moneta e di Romania, dopo opportune considerazioni sul danno che ai particolari ed all’universale derivava dall’aver abbandonato la semplicità degli antenati, rendendo la vita difficile e rari i matrimoni, « la qual cosa non seguiva se non per le excessive speize ». Gli Otto stabiliscono severe norme per impedire spese soverchie nei matrimoni, vietando i doni molto costosi alla sposa, e dando istruzioni precise per la scelta di un modesto corredo in relazione colla dote, e per condurre con semplicità e poca spesa le feste nuziali. Stabiliscono poi le vesti permesse alle donne ed agli - 5 21 — uomini secondo l’età e la condizione, dalla ricca patrizia alla povera serva, e si estendono a lungo in particolari minutissimi. Ben a ragione il benemerito commendatore Belgrano pubblicava in appendice all’ Opera citata, p. 493, la legge fatta dagli Otto il 19 marzo 1449 ed approvata dal doge Lodovico di Campofregoso e dal capitano generale Pietro di Campofregoso il primo aprile dell’anno stesso. Noi siam ben lieti di mandare chi ne desidera maggiori notizie all’ appendice citata, non che al testo ed alle note dell’ opera stessa, capitolo LV, dove troverà indicati anche parecchi altri provvedimenti simili presi fino a tutta la prima metà del Cinquecento. E noi fermandoci alla seconda metà di questo secolo, a cui più propriamente si riferisce la commedia che illustriamo, cercheremo di vedere come le leggi suntuarie venissero allora osservate, e se le condizioni dei tempi giustificassero la formazione d’ un Magistrato particolare contro le pompe, instituito forse verso il 1536 (Bei-grano, op. cit., cap. LVI). Nel 1571 ai 6 decembre si faceva un’ampia legge sulle vesti, che fu pubblicata l’anno stesso da Antonio Bellone (Capitoli di nuovo formati nel vestire, tanto per le donne quanto per omini ecc.). Giustificansi prima di tutto questi nuovi capitoli dicendoli necessarii «quando che le persone, massime le donne per la più parte, non habbino altra mira, cura 0 pensiero, che variare fogge in vestirsi et fare nuove spese, cosa non meno dannosa che di malo esempio, talché spesso quel che in un anno è buono, non serve più all’altro, peccando in questa vaghezza non meno anco la gioventù degl’huomini come le donne ». Vere novità non ci sono; se ce ne togliamo certa maggior larghezza nel concedere ornamenti alle donne. Si arriva persino a permettere loro « una fino a due catene d’oro al collo, piane, senza-lavoro di bonino, smalto, nè filo d’oro tirato, della fattione et fattura appresso il Magistrato, et che la maggiore non eccedi la valuta di scudi cento d’ oro : et più una collanetta di osso nero, piano intorno al collo, che non eccedi la valuta di mezzo scudo». Quanto alle vesti s’usa pure una certa larghezza, permettendone ancora « di seta semplici 0 di damasco , purché non abbiano colori misti » e non dimostrino lavoro troppo ricco. Atti Soc. Lig. St. Pmu. Voi. XXV, fase, j." H — 5 22 — Alle serventi e schiave « si consente vestire di ogni qualità di lana, et tela di lino et di cotone, senza guarnitione alcuna di seta nè di griselle, et solamente se gli consente uno scosale di taffetà, o sia di tela nostrale ». E si permette pure « li cinti di ogni sorte di seta tessuti, o con fili d’oro al tellaro con le loro gioie, et borsa ». Vi è la pena « di scudi cinque fino in scudi venticinque » a chi porterà vesti od ornamenti non permessi dai capitoli ; e la pena di scudi dieci ad operai o mercanti, che li lavoreranno o venderanno, «oltre di essere privati dall’arte per cinque anni ». E il 4 febbraio 15S3 si ritorna alla carica, con una grida che riproduce su per giù gli ordini delle leggi precedenti (R. Arch. Pragmaticae et Pomparum , filza 652). E per giunta nello stesso anno sono proibite in città ed in campagna « carreghe o seggette tirate da bestie », e si ordina che quelle « che si usano ancora nella città con huomini solamente non possino esser guarnite o coperte altro che di coio, feltro 0 panno di lana di qualunque color si sia, purché di rosso et cremensile, nè d’altro guarnite che d’un feno-getto piccolo di seta a torno dell’ istesso colore della coperta ; nè puossino havere fodra alcuna di seta, et li setti, spalle et ogni altra guarnitione di essi non puossino essere salvo di coio senza oro e argento, et li chiodi non indorati altrimente, nè puossino le dette carreghe, letighe 0 sia segette essere portate da servitori 0 schiavi vestiti con alcuna sorte di livrea; e tutte queste cose et ogniuna di esse sotto pena, oltra la perdita delle carreghe scoperte, di scuti diece d’ oro in oro per la prima volta. E per la seconda di venti, e per la terza di trenta, pur d’oro in oro; nelle quali pene incorrerà così il padrone della carrega come colui o colei che li sarà, o sarà stata portata dentro ». E seguono nello stesso secolo e si rassomigliano leggi nuove, e proroghe delle precedenti. Com’è naturale fatta la legge e confermata con tanta insistenza, bisognava adoperarsi perchè tutti l’osservassero e uomini e donne. Impresa questa difficile assai, trattandosi soprattutto di dover punire persone ricche di censo e quindi in città non prive di amici e fautori. Tuttavia la Repubblica pare che credesse di poter riuscire, e sguinzagliava qua e là della brava gente, la quale prendeva nota - S23 — dei trasgressori e riferiva al Magistrato delle pompe, che bravamente dava le sue sentenze, applicando le pene a mariti e padri, per la disobbedienza fatta rispettivamente dalle mogli, figlie o figli soggetti alla patria podestà. Nel R. Arch. di Stato (Arch. segr. num. generale 651) si custodisce un registro di denunzie fatte nel 1598 contro i trasgressori delle leggi stesse coi nomi dei denunzianti, che sono : Agostino Lercari, Giacomo Ratto, Stefano Tadei, Paolo Durello e Francesco Sestri, che presentano relazioni in due 0 in più. Le maggiori osservazioni naturalmente sono per le donne, che, almeno allora, amavano più degli uomini il farsi belle, e spesso spesso, dopo aver posto alla prova 1’ amore dei padri e dei mariti, facendosi comprare sontuose vesti e ricchi gioielli, ne mostravano la loro riconoscenza esponendoli al pagamento di buone multe. Per esempio, sotto la data del 24 maggio 1598 leggesi : « Il magnifico Agostino Cannevaro, per esser stata ritrovata questa mattina sua figlia in S. Agostino con una ungaresca de doi colori, cioè gialo e avinato osia morello ». Ed il 12 agosto: « Il magnifico Agostino Ottaggio, per haver ritrovato sua moglie sotto li 10 del presente alla mattina in piazza di S. Lorenzo in carrega da brasse, con un paio de pendini d’oro con perle ». E la vigilanza si esercitava non solo di primavera e d’ estate, ma di pieno inverno, cosicché i bravi relatori sfidavano anche i venti poco dolci del gennaio, per trovare ad esempio il 12 del 1598 la moglie del magnifico Cesare Garbarino in piazza Nuova « con uno manto di seta nera lavorato e trasparente ». Talvolta guardavano anche gli uomini, e per esempio il 30 aprile riferivano d’aver veduto il magnifico Cesare Semino « con casacha e calsoni di tafetale negro tutti rapontati e ricamati a occhi di pavone ». Dalle piazze e dalle strade passavano anche nelle botteghe dei fabbricanti e dei venditori di stoffe, vestiti, oggetti d’ ornamento, per impedire che si lavorasse 0 si vendesse contro le prescrizioni legislative. Eccone qualche esempio tolto dalla stessa fonte. Il giorno 8 ottobre 1598 accusavano « maestro Antonio sartore in S. Lorenzo, per haver ritrovato hieri al doppo disnaro in sua bot- — 524 — tega diverse robe di seta lavorate con guarnitione di liste d’ oro e d’argento fatte al tellaro senz’ haver licenza». E tre giorni prima avevano veduto nella bottega di « maestro Battista sartore in S. Siro doi suoi lavoranti che mettevano bottoni d argento sopra un paro di calsoni et una casaca de panno de colore meschio ». Nò si trascuravano i funerali, per paura che si usasse lusso nel- 1 accompagnare i morti alla sepoltura. Così il 16 settembre di questo stesso anno « il magnifico Giovanni Agostino Lomellino è accusato, perchè s’era visto alla mattina dalla porta delli Vacca il cadavere del quomdam Giovanni suo padre portato a sepelire con baboli numero sei vestiti di gramaglie, con una torchia nera per ogniun di loro in mano ». Ed in questi casi, quando non c’era da punire il figlio, si puniva 1 eiede. Per esempio il 5 giugno tocca sì bella sorte al « magnifico Antonio Roccatagliata, herede del quomdam magnifico Raffaele Serra, per haver ritrovato al dopo disnaro il suo cada vero (del Serra, si capisce) a Banchi, quando lo portavano a sepelire con baboli numero sei vestiti di gramaglie, con una tortia accesa in mano per ognuno di loro». Contro tutti si applicava la legge regalando loro una multa di parecchi scudi, da cui difficilmente potevano sottrarsi, con ragioni certo plausibili, ma che le carte da noi vedute non registrano, contentandosi di ricordare di tanto in tanto il nome di qualche fortunato a cui le multe venivano condonate. Come si vede il Governo se n’ occupava sul serio, ma il ripetersi così frequente degli stessi ordini e delle medesime punizioni basta già a dimostrarne l’inefficacia. Del resto ne abbiamo altre prove. In un libro molto utile per la conoscenza dei costumi genovesi del secolo XVI, il Ragionamento di sei nobili fanciulle genovesi, pubblicato da Cristoforo Zabata nel 1583 presso il Bartoli a Pavia, e già più volte citato, si parla fra le tante cose anche delle vesti e degli ornamenti. Si allude alle invidiuzze che nascevano fra le donne per causa delle vesti, all’opera del Magistrato delle pompe (p. 25), e si accenna ad alcuna specie di vesti che costavano assai e che, come accadeva dei verdogali, - 525 — le donne portavano, quantunque ne venisse ad esse anche molestia non piccola (p. 58). Si dipingono queste come schiave della moda tanto mutabile, e non si risparmiano frecciate alle vecchie, che, dimentiche della loro età, si rendono ridicole portando vesti per forma e per colori ormai sconvenienti. È inutile: le leggi suntuarie, delle quali tanto abusavasi in Italia ed all’ estero, lasciavano su per giù il tempo che trovavano, e sarebbe difficile dimostrare che per causa di esse, per le punizioni che infliggevano, si diminuisse il lusso delle vesti 0 dei conviti, si facesse un solo passo verso il ritorno alla semplicità antica. Cosi avveniva dapertutto e così doveva accadere pure ai genovesi, che anche fuori riguardo alle vesti s’erano acquistata fama d’un certo buon gusto; tantoché ad esempio il Landò (Forcianae quaestiones, p. 13 dell’ed. di Lucca 1763) trovava il loro vestito perelegantem, ed il Gonfalonieri (Viaggio da Roma a Madrid, già cit. p. 191) avvertiva che fra le donne tanta era la passione del vestir bene, « che non si conoscono le gentildonne dalle artegiane ». È necessario peraltro notare che le spese fatte in vestiti ed ornamenti erano in piena armonia colle altre spese non minori, che si facevano in tutto e per tutto. La vita era divenuta da qualche tempo molto più cara : a Genova, come altrove, si provava un vivo desiderio di godimenti. Le ricchezze erano cresciute, e si amava far vedere con esteriori dimostrazioni che si possedevano, che si sapeva servirsene. Sontuosi si costruivano i palazzi, si riempivano di servi (Com. II, 7), si passava l’anno parte in città, parte in ville splendide (Rag. cit. p. 92), dove ogni sorta di delizie era fornita coi denari raccolti nei commerci e nella navigazione. Il Gonfalonieri già citato, che, fermatosi nel suo viaggio alcuni giorni a Genova, ebbe occasione di vedere bene tante cose e di gustare la munifica ospitalità dei cittadini, insieme col suo patrono Mons. Fabio Biondo, che si recava nella penisola Iberica, parla delle cortesie costose usate dai gentiluomini genovesi, e si ferma a dire espressamente di un gentiluomo, che (Viag. cit. p. 191), conosciuto 1’ arrivo di monsignore, « non solo moltissime volte 1’ ha presentato e regalato de conviti lautissimi di carne e pesce, ma subito che giunse in quella città, li diede la chiave del suo giardino acciò vi — 526 — potesse andare a suo bell’agio ». Ammira la ricchezza dei privati cittadini, che (p. 190) «hanno per privilegio di poter tutti far mercantie, senza pregiudicare la loro nobiltà, sono ricchissimi affatto, e si trovano molte dozzine di gentiluomini di tre, quattro e cinquecento mila scudi, et in quest’anno (1592) sono morti tre che hanno lasciato fra tutti per un milione e mezzo ». Lo stesso Gonfalonieri fa rilevare il modo con cui sanno godersi tante ricchezze, e nello stesso punto del suo scritto dice a tale proposito: « Hanno introdotto grandissimo lusso in casa, molti agi e mense laute con argenti et oro, cosa che prima non usavano. Lascio stare le sete, drappi, recami, letti e cose simili, perchè non vi è gentiluomo che non ne sia fornitissimo. E questo se non basta aggiungansi le stufe che tengono nelle case, e particolarmente nelle ville. Una ne vidi di bellissime nella villa del sig. Alessandro Grimaldi, gentiluomo di dugento mila scudi, senza quello che il padre gli lascerà. Questa mi rappresentava le delizie de’ Romani, quel bagno di pietre mischie, di quella sorte che poco tempo fa si è trovato in questa città, e di che se ne servono molto per ornamento di cappelle, per colonne, incrostature, camini e cose simili. Quelle quattro urne da ricever acqua, quei acquedotti per l’acqua calda, per la tepida e per la fredda, quella sorte di pitture, e cento cose simili ». Peraltro non si creda che tanto lusso sia tutto in una volta sorto nel secolo XVI; questo, come tutte le cose d’indole generale e d’una certa importanza, si andò lentamente manifestando, e chi desiderasse conoscerne il graduale svolgimento per giungere fino al principio dell’ età moderna, potrebbe leggere con profitto la magistrale opera del Belgrano, Vita privata dei Genovesi, nella quale egli con rara dottrina e bell’ ordine studia i costumi dei Genovesi, e ce li presenta nelle abitazioni, a tavola, per le piazze e per le strade, confortando il suo lavoro con sicuri documenti e con opportune considerazioni. Si vedrà da essi quanto 1’ amore al lusso fosse radicato, e che quindi inutili dovessero riuscire le leggi della Repubblica e le punizioni degli ufficiali delle pompe, che al più ogni tanto potevansi tirare addosso qualche vendetta, come, a dire del Roccatagliata (Annali della Repubblica di Genova, Genova 1873, p. 59), avvenne — 5^7 — il 1585, nel quale anno « due ministri del Magistrato delle pompe per esercitare la loro cura furono malamente feriti, uno de’ quali se ne passò all’ altra vita, e di questo ne furono incolpati Ottavio Imperiale ed altri gentiluomini ». La stessa efficacia dovevano avere su per giù le concioni dei predicatori, i quali dal pergamo dovevano raccomandare special-mente alle donne la semplicità e la modestia. Infatti, in un manoscritto che pubblichiamo in questo medesimo appendice al n. II, e che conservasi nella biblioteca Civico-Beriana, si leggono queste parole: « Riprendere il popolo degli infrascritti errori, cioè......dei giuochi, delle pompe, et particolarmente le donne». E giacché si parla di donne, diremo ancora che al principio del Seicento Andrea Spinola (Dii- stor. fil. cit. art. Donne) diceva, che se esse « vivono col lusso moderno non solo non alleggeriscono le noie al marito, ma gliele accrescono, vedendosi egli consumare et impoverire ». E tutte le cose discorse che cosa dimostrano ? Ci provano soltanto che il lusso nelle case, nelle vesti, negli ornamenti, nelle ville, in tutto insomma, era grandissimo, e che Genova ricca pel suo lavoro, per il felicissimo porto, aveva trovato il modo di fare spese larghissime, alle quali potevasi opporre un freno colla riforma dei costumi, che certo non si raggiunge altro che in un tempo assai lungo e per mezzo di sforzi costanti e ben diretti. V. Il Cambio a Genova. Certo abusi gravi si facevano nel cambio a secco. La commedia del Foglietta, che per tante ragioni può dirsi vera pittura dei costumi del tempo, molto bene s’inspira al vero anche nella scena duodecima del secondo atto, laddove deplora il cambio. Il desiderio d’arricchire con poca fatica e rapidamente era comune, e si riteneva che la ricchezza potesse condurre alla felicità gli uomini. Inoltre le doti grosse necessarie per collocare le figlie (ved. app. n. II), il lusso cresciuto in tutto e per tutto insieme col prezzo — 52S — dei viveri (ved. app. n. IV) richiedevano molte entrate. Quindi non si guardava troppo ai mezzi ; 1’ usura si esercitava su vasta scala, e V avidità degli speculatori non solo eccitava i lamenti dei colpiti, ma dava occasione a decreti della Chiesa. Sarebbe peraltro ingiusto il dire che simili abusi soltanto in Genova si commettessero: anche altre città ne erano infette, e la capitale stessa del mondo cristiano, in questo come in altri mali durante il secolo XVI, dava degli esempi davvero tristissimi. Parecchi pontefici cercarono rimediarvi, e noi per restare più che ci sarà possibile presso ai tempi, in cui il Barro fu composto, ci contenteremo di ricordare che Pio IV inaugurava il suo pontificato nel 1559, fiondo colla bolla Cum sicut accepimus (Ved. Bullarum t IV, parte II, p. i) una vera requisitoria contro i cambi secchi. Deplora che « avaritiam omnium malorum pessimum genus inter dilectos filios almae urbis nostrae praedictae mercatores adeo serpsisse, atque in dies serpere », da far dimenticare le norme del giusto; determina la natura del cambio lecito e dell’ illecito, e proibisce quest ultimo « sub maioris excommunicationis latae sententiae, ac duorum millium ducatorum auri in auro eidem Camerae irre-missibiliter applicandorum ipso facto incurrendis poenis » Le proibizioni di Roma si dovevano ripetere, ed a quanto sembra per più urgente bisogno in Genova : qui più vasti i commerci, qui più numerosi e più ricchi i mercanti, qui più frequenti 1’ occasioni di commettere abusi, essendo la bramosia delle ricchezze lasciata più libera, diremo anzi sfrenata, per la mancanza di diverse Occupazioni, che altrove richiamassero le cure degli uomini. Troviamo infatti che Monsignor Bossio, visitatore apostolico a Genova nel 1582, a p. 33 dei « Decreta generalia ad exequendae visitationis genuensis usum, Mediolani 1584 », si duole grandemente dei cambi e condanna gli illeciti guadagni. Ecco le sue parole. « Usque adeo inexplebilis lucri cupiditas multorum animos possidet, ut non vereantur, cum salutis suae certissima iactura, iniusta lucra consectari; et dummodo humanum iudicium, et infamiam evadere possint, Dei onnipotentis, qui falli non potest, iudicium non reformidant. Porro adeo subtili et exquisito artificio tegunt, ac veluti quodam pallio involvunt sub cambiorum nomine contractum et nego- - 529 - tiorurn suorum iniustitiam ; ut multi confessarli, qui eorum fraudes detegere nequeunt, beneficium absolutionis, sine rei alienae restitu-tione, et firmo animi praeposito iniusta negotia deinceps relinquendi illis impertiant. Unde fit ut ipsi confessarli in discrimine salutis veniant; usuris inquinati in sordibus perseverent, et alii spe lucri capti ad ea peragenda facile inducantur, atque hoc modo malum hoc latissime pateat et diffundatur. Ut igitur conscientiis tum fidelium huius civitatis et dioecesis, tum ipsorum confessariorum consulatur, et Pii Quinti sanctae memoriae decretalis constitutio ad usum inducatur, aliqui contractus, pravitatem usurariam continentes, qui tamen sub nomine cambiorum a multis exercentur, explicite et distincte recensebuntur; ut fideles, salutis suae curam habentes, eos vitent, et confessarli beneficium absolutionis in eo genere peccati manentibus denegent; quod eis suspensionis poena proposita praecipitur, qui vero eos exercere ausi fuerint, poenas subeant, quae manifestis usurariis a sacris canonibus impositae sunt. « Igitur inter cambia, quae vulgo sicca dicuntur, propterea quod speciem tantum quamdam ac veluti larvam cambiorum prae se ferunt; revera autem cambia non sunt, sed in fraudem sacrarum canonum inventa, sed omnia sunt reiicienda, quae in decretali Pii Quinti s. m. continentur, cum videlicet ad cambium datur, sed nullae cambiorum litterae fiunt, aut si fiunt, non tamen ad loca pro quibus fiunt cambia, mittuntur, vel si mittuntur, inanes redeunt. Ea etiam in quibus pro pluribus nundinis ad cambium quis dat, et denique ea omnia, in quibus ob longiorem moram, quae intercedit inter tempus, quo ad cambium datur, et solutionem futuram, maius lucrum percipitur quam percipi liceret, vel perciperetur, si in eodem temporis momento , qui ad cambium dat reciperet in loco pro quo cambit pecuniae solutionem. «Illa itidem cambia inter sicca decernuntur, in quibus litterae quidem mittuntur et recipiuntur, tamen qui ad cambium accipit, eo in loco, in quo fit cambium, nullas habet, neque tunc, cum ad cambium accipit pecunias, aut certa credita neque est habiturus, cum cambii perficiendi tempus advenerit, nisi is qui ad cambium dat ob lucrum, quod vocant provisionem illi creditum procuret, vel certe ab alio illud emendicet. — 530 — «Quare damnanda sunt iniustitiae ea cambia, in quibus, qui ad cambium accipiunt per multas nundinas, et nonnunquam per multos annos eandem pecuniae summam cum usurarum additamento super cambiis retinent; haec etenim diuturni temporis eorumdem cambiorum continuatio, manifestum inditium est, eos qui ad cambium accipiunt non intendere pecuniae permutationem, neque habere paratam pecuniam, vel credita, quae permutent, sed tantum uti pecunia illa ad sua commoda, non aliter, ac si mutuo eam accepissent. Item illa cambia, quae natura ipsius contractus ita perficiuntur, ut semper unus prius det pecuniam, deinde eam recipiat ipse campsor merito a veteribus sicca dicuntur, et mutuum palliatum censentur. Item ea omnia cambia sicca, et ficta iudicantur, in quibus locus pro quo fiunt, nullo modo necessarius est ad cambii complementum magis quam alius : sed tantum arbitrio contrahentium eligitur, ut forma quaedam externa et facies cambiorum in litterarum missionibus servetur. Evidens enim est non fieri pro locis illis cambia, propterea quod in eis, qui ad cambium accipiunt pecunias habeant, vel pecuniis egeant qui ad cambiunt dant: sed tantum, ut dixi, ut mutui aperti vitetur nomen. In huiusmodi enim cambiis nil reperitur, unde verorum cambiorum rationem sortiri possint. « Iniusta autem et iniqua ea etiam statuuntur, in quibus campsores symgrapha crediti data loco pecuniae ad cambium, persaepe ultra id quod revera habent, ex sola crediti, quod aiunt, opinione, magna lucra percipiunt». E il Cardinal Sauli, nella Sinodo diocesana del 1588, condanna pure i cambi secchi, e pubblica un sommario della bolla che Pio V fece sopra i cambi. Questo sommario è stampato a p. 573 delle Synodi Dioecesanae et provinciales editae atque ineditae S. Ge-nuensis Ecclesiae, Genuae 18$3; e incomincia ricordando che « havendo inteso Sua Santità 1’ avaritia esser cresciuta in tanto colmo, che 1’ uso de’ veri cambii, quale è stato introdutto per la commune utilità, è in tanto depravato, che sotto pretesto de’ legitimi cambii, è da molti esercitata una detestabil usura: però Sua Santità danna tutti li cambii che si chiamano secchi » ecc. Gli ordini di Mons. Bossio e dell’arcivescovo Sauli rivelano in - 53i — Genova mali profondi, mostrano come certi abusi erano divenuti pressoché generali, e come molti poco esperti dovessero rimanere vittime di uomini abili e di coscienza alquanto elastica. E se questi decreti avessero bisogno d’illustrazione, ci riuscirebbe facile trovare il mezzo di farla in modo sicuro con uno scritto anonimo del secolo XVI, che si conserva manoscritto nella Biblioteca Civico-Beriana D. 2. 1, 28, f. 39, e che di buon grado pubblichiamo, anche perchè ci dà un’idea precisa di molti contratti di denaro che allora si solevano fare. « Diletto in Christo fratello « Son più giorni che mi desti cura d’ haver informacione del modo del negociare a Banchi sopra cambii. Di che sino qui non mi è bastato l’animo di pigliar la penna in mano, nonostante che di ciò restassi assai informato, non sapendo da qual canto incominciare, et per non mancarvi dirò quanto sotto intenderete. « Hora col nome del Signore si darà principio, però con dispiacere grandissimo, che a tempi nostri siam venuti a tanta cecità, che il prestare a controfermo resta una peste, talmente che già ha smorbato buona parte di questo nostro Banchi; nel quale si presta a nove et dieci per cento, a’ ricchi però. Ne’ quali anchora sono alchune vedove, che hanno venduto sino i loro luochi di San Georgio et già hanno commendato alchune per darli a questi precii, et altre gl’hanno date ad amici o parenti, et sono anco participati in quelli 50 per cento, e più et meno, come si fa in li contratti, che si fanno con li principi, oltra molte giovane, ch’hanno venduto i loro ori per star sulle usure 0 sopra cambii. Ma che dirassi degl’ ingordi cambisti, li quali stanno con la balestra all’occhio, et l’orecchii aperte, per sentire s’alchuno de’ prencipi ha fatto qualche partito? Et se aviene che s’abbi a far qui qualche exbursacione, serrano le borse, et incontinente voi vedete astringer la moneta, talmente che, quando non ritornano di sera salvo con danno de 5 per cento, et alcuna volta de 7, 8 e 10, non pare loro troppo. « O che reali cambista sono questi, li quali non si può dire che lassino di dar usura a prencipi per virtù, ma perchè si paiono più cauti il fidar al suo cittadino, si contentono di quel manco guadagno. — 532 — ■« A quanti inconvenienti s’abbiano condotto questi ingiusti guadagni, è cosa innumerabile, o Signore, che cosa è questa, che pestifero veneno è questo, eh’ io veggio, Signor mio dolce, che da questa così crudele infirmiti sono corsi tant’altri umori, cioè ambiccione, pompa, gala, luxuria, impietà et infiniti altri mali, a tal che, Signor, bisogna che la purgacione sii forte, ma ti priego non tanto che resti la total ruina in questa Republica. « Son sempre stati necessarii li cambista in le Repubbliche, massime perchè alcuni vendono in quelle le merci d’ altri paexi con-dutte, il provenuto de’ quali erano soliti acomodar altri che nel proprio luoco compravano, et a loro accomodava pagar la medema partita in quel luoco da colui che lo haveva acomodato, et il dat-tore mancava di risico. E questo al parer mio è il vero cambio reale. « De molti poi colmi d’avariccia et martiri dell’ocio si sono -acomodati a far arte de cambii, non volendo più la servitù della mercatura, come che prima aggiuttavano poveri gioveni, et facevano delle impiette (sic) per diversi luochi, et n’assignavano parte a colui a cui era datta tal cura. Et mancato de tali adrizzi i poveri giovani, si sono quelli industriati con le promesse de cui pi ima li aggiuttava tor a credenza; et non riuscendoli i lor dissegm, et venuto il tempo, erano forzati pigliar a cambio; et è venuto tanto avanti questo negocio, che con esso hanno occupato, et posto tal mente sotto la mercatura, che puochi sono li negocianti di merce che alle volte non stian sotto cambii. Et se alcuno per disgraccia non si leva presto, resta facilmente rovinato, perchè ordinariamente il guadagno delle merci non può esser tale che compir possi al danno dei cambii. Et per concluder, questi tali cambista sono et stanno sempre appresso a chi fugge, nè si può dire, che ciò fussi, nè sii cambio reale. « Si trova un' altra specie di cambista, li quali danno a cam io senza mandar le littere, e ciò fanno per non pagar provigioni nè cabella, et per non cambiar il suo debitore che fan qui, et vogliono il medesimo precio che si fa con coloro che pagano queste ta 1 spexe, per il che questi cambii si dicono et domandano cambii sechi. E certo che quando questi et altri di sopra nomati fussino - 533 — battizati uzura et negocii crudeli, senz’ alcuna carità, io restarei del medesmo parere. « E tanto più che la più parte de questi tali, per non haver da occuparsi più d’ un mexe dell’ anno, restano assignati alla pompa, alla luxuria, alla crapola et al giuoco talmente obbligati, che se non se li aggiongessi il danno che fanno al proximo, quale è molto grande, si potrebbe dir che fussi manco male, ma ancor saria troppo. « Hor che diremo della quarta specie de cambisti, li quali hanno serbato una gravità grande di non voler dare a contro fermo al proximo suo, ne manco esser partecipi con quelli che fanno i grossi partiti con li prencipi? È ben vero che quando sentono che Sua Maestà e altri prencipi hanno fatto qualche partito, et eh’ hanno inteso dove è, quando et quanta somma si harà a pagare, et in quali tempi, ch’egli sanno molto bene adrisar dei crediti per poter dare a cambio a coloro eh’ hanno fatto il partito, da cui ne verrà a quei 30 per cento più e meno, sapendo molto bene stringere e fare stringer la moneta, mostrandosi pigliatovi. Anzi assai volte pigliano bone somme, e poi quando veghono che non resta più mobile d’importanza in mano d’ altri, danno a cotesti tali a più bassi precii che potino per la proxima sera, in una delle quali ho visto perder da 5 sino in 10 per cento. Pensate che carità! Questi tali non mancano di dare a contra fermo nè al proximo, et a prencipi per timor di Dio, ma solo si contentano di guadagnar quel meno, per parersi a manco risico per una sera col suo cittadino 0 cognoscente, che fidar per uno anno un prencipe che non si può astringere, talmenti che questi tali non debbono esser exclusi dal numero di quei di sopra, anzi al parer mio gli tocca un grado di più. « Si trova un’ altra qualità di persone fastiditi de cambii, li quali si contentono di dare loro danari a 8, 9 et 10 per cento l’anno, dove habbino bona littera. Nel qual numero si aggionga qualche donne vedove, ch’hanno levate le loro dotti di S. Giorgio, et gl’ hanno datte a principali cittadini a detti precii, et altre giovane eh’ han venduto i loro ori, et fuorsi anco delle vesti, per tenerli sopra cambii, 0 datti a contro fermo al modo di sopra, et alcune a 20, per quel ch’io intendo, che sono col mezo de parenti o d’amici participante in li grossi partiti con li prencipi. — 534 — « Che diremo di quei nostri cittadini che comprano li taglioni che si fanno nel Stato di Milano, et restono loro commissarii per cavarli dal sangue de’ poveri. O Amor mio, Dio mio, a che tempi siamo noi nasciuti, a che tempo è mai stato simile idolatria, come a questi nostri tempi ? A che tempo si vidde mai tanta inhuma-nità, et in questa nostra Republica quanti tiranni sott’al mantel de cittadini ? Che farai, Signore, son commoti li flagelli, et niun si ritire? Che farai, Signore, poiché stiamo tutti con gl’occhi chiusi et a man cortese ? « Veddo che questi nostri cerchano et travagliano per far partito tra S. Georgio et il publico del stato, e non si aveddono, che, non facendo pace con Dio, non bastono far accordo, nè partito, o pro-vixione che vaglia, ingannati dall’ambiccion loro. Hor considerando il gran bisogno, pregarem il Signore, e voi, ch’avete miglior modo, il farete pregare, che non secondo gli peccati nostri, non flagelli, ma secondo l’infinita sua misericordia ne perdoni et adrizzi a buon camino. « Pregandovi quant’io posso che s* io ho passata vostra commissione in dir più di tal materia, di quel tanto m’havette richiesto, et ch’io non son solito fare, mi perdoniate, perchè raggionando con voi con questa piuma mi sono ingannato. Nè altro per questa, solo pregarovi che alle volta vi recordiate di me tutto vostro, che Iddio vi tienghi, et me di compagnia in gratia sua. « Vostro fratello in Christo ». V’ è un certo tono di ascetismo, ma la pittura dei costumi del tempo certo non potrebbe essere più efficace. A tal punto non potrà negarsi 1’ avidità di alcuni uomini, che travolti in audaci speculazioni dimenticavano le norme più elemen tari del giusto e dell’ onesto. Nel cambio soprattutto era facile com mettere ingiustizie senza parere, ed una legge positiva non è prò babile che trovi il mezzo di evitarne i tristi effetti. Sono numerosi e di riuscita quasi sicura gli espedienti che si possono trovare, senza che la legge riesca a provarli e a colpirli. Dal manoscritto sopra riportato se ne conosce qualcosa, e dal Dizionario siorico-filosofico dello Spinola, già altre volte citato, conosciamo una furberia, della - 535 - quale, un poco raffinata, forse neppure oggi si è perduto 1’ uso, e che sembra fosse assai comune in Genova anche al principio del secolo XVII. Nel t. II, sotto l’articolo cambio, si legge: « Ho sentito dire, che talvolta alcun sensale furbescamente, a richiesta di coloro a quali tornava conto che la moneta fosse molto larga, fatto fintamente qualche cambio fra due che erano d’ accordo con esso lui, rispondeva a chi gli domandava che cosa faceva la moneta, essere così e così, alegato il cambio finto ch’egli haveva fatto: la quale furberia se fosse vera, meritaria a dir poco berlina sotto la loggia de Banchi ». Ma tutto stava a scoprire questa furberia, ed altre fors’anche più gravi; e difficilmente leggi antiche e moderne a tali abusi possono rimediare. È forse per questo che la Repubblica non se ne occupava molto, quantunque non fosse avara di leggi sull’ usura d’altre specie, come per il Cinquecento si può vedere dal libro IV delle leggi genovesi pubblicate a Venezia nel 1567. UNA POESIA STORICA EDITA DAL SOCIO ACHILLE NERI Atti Soq. Ug. St. Pvtru. Voi. XXV, tasc t.° AVVERTENZA L sacco di Roma: ecco il fatto orrendo e luttuoso che ebbe un’ eco veramente straordinaria nella mente e nell’animo di tutti, che colpì in varia guisa e per varia ragione e principi e signori, e politici e capitani, e uomini di toga e di chiesa, e i grandi e il popolo, in quell’anno 1527 giudicato dagli scrittori contemporanei e dai posteri de’ più funesti e lagrimevoli s’abbia mai avuto l’Italia. Avvenimento che muove dirittamente dalla lega sacra, e come si ricollega a tutto quanto accade nell’ antecedente 1526, sorto con i più lieti auspici e con i più fermi propositi di cacciare, mercé l’opera della Francia, alleata e non conquistatrice, lo straniero, quelle « belve inumane che di uomini non hanno che la faccia e la voce » secondo la sentenza del Machiavelli ; così può dirsi causa delle guerre onde fu poi teatro l’Italia in que’ tempi calamitosi, i quali videro, pur troppo, col mancare della libertà, raffermarsi ognor più la potenza imperiale e l’italiana servitù. Se dunque il poeta popolare, ad utile proprio e per far pago il desiderio e la curiosità comune, toglie argomento al suo racconto dal fatto più strepitoso e più noto, non tanto si giova di un espediente occasionale a dar adeguato principio al suo dire, come risponde a ciò che tutti sentivano e avevano presente in un modo spiccato e singolare. È la vendetta del gran delitto eh’ ei vuol far conoscere al popolo, e quindi si compiace di celebrare tutte le vittorie dei collegati, col fine di esaltarne la virtù, a scorno e vergogna della parte contraria. Ma l’intento evidente del narratore é quello di attrarre l’attenzione degli uditori con la descrizione delle imprese guerresche, perciò si ferma sui particolari e cerca in ogni guisa di ingrandire le imprese, dando vita e colore ad uomini e a fatti. Nè lascia di notare il merito e le azioni valorose degli imperiali, perchè meglio rifulgano nel paragone l’ardimento ed il valore dei collegati. A questo fine, toccato della discesa del Lautrec in Italia nel I527> t°rna indietro e si riconduce a Marsiglia, dove 1’ anno antecedente si apparecchiava l’armata di Francia ad uscire per la impresa di Genova; e ben si vede come sia appunto il suo proposito quello di intrattenere gli ascoltanti sopra i fatti che si svolsero sul mare e nelle riviere per occupare la città, siccome avvenne poi nell agosto del 1527; di qui il rapido trapasso dall’uno all’altro anno, il rilievo dei particolari avvenimenti, e il tenersi entro - 54i - i limiti impostisi, senza trasportarci, quasi diremo, fuori della sfera d’azione che si svolse sul Tirreno, ommettendo o accennando soltanto di volo ai fatti concomitanti. Onde il componimento del nostro rapsoda si palesa nella sua trama ben ordinato secondo la mente dell’autore, con la protasi, lo svolgimento e l’epilogo, e assai spiccata si rivela l’appropriata indole narrativa, là dove alla fine, a mo’ di chiusa, in relazione col suo principio, si riprende a parlare del Lautrec e della impresa del Bosco. Certo egli aveva in animo di continuare, siccome promette, narrando la presa d’Alessandria e le successive guerre lombarde, e cioè l’assedio ed il sacco della città di Pavia; ma ci è ignoto se abbia mantenuta la promessa, non avendo trovato un componimento che possa ritenersi come seguito della materia di questo nostro. Ma è a credere egli lo abbia fatto, poiché noi ci troviamo qui dinanzi un poeta popolare, un canterino di professione, il quale ha una serie notevole di poesie, ordinata ad un fine determinato, quello di far conoscere gli avvenimenti contemporanei per mezzo del ritmo che meglio si acconciava alla narrazione cantata. Infatti già ci sono note tre barzelette, indubbiamente dello stesso poeta, le quali tolgono argomento da fatti importanti, esposti con singolari e notevolissimi particolari, da indurci a credere per fermo si tratti di un testimonio oculare, che, come i moderni cronisti, per ufficio volesse conoscere intimamente quegli avvenimenti, per riferirli poi al popolo, lumeggiandone i punti salienti e curiosi, esperto dei desideri e dell’ indole de’ suoi ascoltatori. I tre componimenti che hanno un chiaro e palese legame fra loro, sono: VOpera e lamento de Zena che tracta de la guerra et del saccho dato per — 542 — li spagnoli a li xxx di de magio nel mcccccxxii (i); quindi 1’ Opera composta novamente, che noi qui pubblichiamo; e per uhimo l’Operetta novamente composta la qual trata conio il conte filipino con otto galere del nobile andrea doria corno ha roto larmata de napoli (2) : nè sarebbe fuor di luogo il supporre che alcun altro compo- I • • 1 • nimento dello stesso autore narrasse quanto di più importante avvenne ne’ quattro anni corsi fra il 1522 e il 1526, siccome a nostro avviso potrebbe tenersi in conto di chiusa od epilogo VIstoria nova quale trata de la venuta dello Imperatore e laude de Italia de genova et del nobille Andrea Boria (3); poesia questa, che, quantunque non ci sia nota nel suo testo intero, pure crediamo abbia ad attribuirsi allo stesso nostro canterino. Potremo dispensarci dal recar qui alcune prove a dimostrare come la barzeletta da noi ora messa nuovamente in luce, sia opera di quello stesso poeta al quale appartengono le altre due già edite sul sacco di Genova, e sulla vittoria di Filippino D’Oria, perché basta^ una semplice lettura a rendercene convinti ; pur tuttavia ci piace porre sotto gli occhi del lettore alcuni punti 1 contatto che rendono evidente la nostra opinione. La sciando stare l’uniformità del metro, debole e fallace argomento, rileveremo 1’ uguaglianza delle espressioni, della fraseologia; la medesimezza del linguaggio con una forte tinta di dialetto genovese; la comunanza de similitudini e dei paragoni, e persino della erudizione, sovente spropositata, attinta manifestamente dalle 1 eg (1) Atti della Soc. Lig. di Stor. Pat., IX, 413. (2) Atti cit., X, 618. (3) Atti cit., IX, 345. - 543 - gende, e dai romanzi che andavano allora per le mani di tutti, ed erano, come é noto, la suppellettile letteraria propria e necessaria di si fatti rapsoda. Ma veniamo a qualche nota più particolare di confronto: OPERA E LAMENTO DB ZENA. St. 14 : clic havessen il diavolo [adosso OPERETTA NOVAMENTE COMPOSTA. OPERA COMPOSTA NOVAMENTE. St. 66 : habiano el diavolo [adosso pareva chcl gran minosso movesse tutto lo inferno St. 16 : Gli altri introrno con [tanta furia corno va el cervo ala fonte ognuno de la ingiuria cerca de vendicar lonta St. 17: qual pareva Hector [Troiano St. 20: drento intro da paladin questo più che mai Guerin St. 23 : in guerra non stiman una [scorza St. 24: detteno la mala cena St. 26: non porria scrivere un [Livio St. 46 : li spagnoli e ioverlich St. 14 : pare che se movesse [l’inferno St. 37 : qual pareva Hettor [troiano St. 1 : la sua fama più che [guerrino St. $6 : Boti Jesu per tua [clementia per virtù del gran minosso St. 73 : Questi intron con tanta [furia corno va el cervo a la fonte sol per vendicar la iniuria St. 63 : pareva un hector [troiano St. 31: lo exordio in bon latin St. 13: che faremo bon botino St. 24: che uno parca desi St. 38 : più che mai carthaginesi in contra de la gran Troia St. 30: de far corno troiani St. 33 : più feroce e che un gezo St. $9: Bon Jesu te vo pregare per tua somma bontadc tu vogli pacificare la povera christianitadc St. 20: che parevano paladin St. 75 : faceva da paladino St. 23: el non estima una [scorza St. 35: den a spagnoli la mala [cena St. 12 : Po ben scrivere un [livio St. 37 : i todeschi ioverliche St. 14 : he gli dise in bon latino St. 34 : de far qualche bon botin St. 71 : una hora li parca dexi St. 75 : non fe tanto troiani in contra cartaginesi St. 86: animosi quanto troyani St. 92 : animosi quanto un ghezo St. 6: Bon Jesu te vo pregare per tua somma bontadc cercha ornai pacificare la povera cristianitade Ci sembra cosi bastevolmente dimostrato che uno stesso autore compose tutte e tre le poesie, e non v’ha dubbio, secondo nostro parere, che egli sia un genovese, — 544 — ricorrendo troppo sovente non solo le forme dialettali più spiccate e caratteristiche, ma vocaboli e modi italianizzati da un maldestro conoscitore della lingua, appresa per pratica e da orecchiante nella lettura di poesie o di prose confacenti al suo genio ed al suo mestiere. Potremo altresi aggiungere come egli, meglio che dichiarato partigiano degli uni o degli altri, si palesi piuttosto di parte doriesca, di cui canta la virrù e segue la fortuna; onde, dopo averne celebrate le gesta mentre il D Oria militava con i francesi, ne dirà poi le lodi narrando la venuta in Genova di Carlo V ospite del grande ammiraglio. Ma il nostro poeta, come abbiamo avvertito, non disconosce il valore, l’ardimento, il coraggio degli avversari, e certi giudizi, certi sentimenti implicitamente espressi, o sono espedienti del cantore atti a secon a le inclinazioni del popolo che ama il rilievo delle perso nalità divenute famose per atti valorosi, o rispecchiano la coscienza del momento e il modo comune di giu 1 care. Allorquando, dopo aver scolpita in pochi versi, nella loro rudezza notevoli, la figura del Borbone, sog giunge che se secundo sua intention in Roma elio intrava già mai Roma non andava in tan gran disonestanza, riproduce quel sentimento, che, vero o no, doveva allora essere comune, e che pur ha lasciato nelle istorie la sua traccia; questo ugualmente e meglio si riconosce laddove tocca dei tedeschi, i quali, essendo luterani, dovevano l - 545 ~ avere « con la gesia____pocha amistanza »; del pari, narrata la resa di Genova, quando esce a dire: ma certo io verifico se francesi a forza intrava certamente ella andava in major dexordenanza, osserva quello stesso che il Giovio ha lasciato scritto : « Se le galee del sig. Andrea Doria, et le francesi, le quali non v’erano allhora, quel giorno fossero state in porto, pensavano i cittadini che le ciurme marinaresche, come ingorde della preda, difficilmente si sarebbero potute tenere che non havessero saccheggiata tutta la città » (i). Gli avvenimenti che il poeta prende a narrare, nelle loro linee generali sono eziandio narrati dagli istorici, e di certi particolari ci hanno pur lasciato ricordo gli scrittori locali ; ma il testimonio oculare ci interessa maggiormente, richiamando la nostra attenzione sopra dettagli curiosi, i quali avvivano e coloriscono il racconto. Perchè nella guisa stessa in cui ci si manifesta presente ai fatti nella narrazione del Sacco, così noi crediamo fosse pure presente a quelli che si svolsero in Liguria negli anni 1526 e 1527; anzi più specialmente ci sembra potere affermare che si trovasse in persona alla battaglia di Portofino nell’agosto del 1527, siccome apparisce dai versi: io li vidi andar abosso larmata del transalpin, e più innanzi: Io non so qual fu el primero a entrare in portofìn per el fumo tanto fiero che oscurava quel confiti. (1) Giovio, Historia, lib. XXVI. — 546 — Posto ciò, niun dubbio che quel che egli narra non sia sempre e perfettamente esatto, e trovi riscontro e conforto nella storia; inutile quindi ridire qui gli avvenimenti che il Giovio, il Guicciardini, il Giustiniani, il Casoni, il Guglielmotti, il De Leva ci hanno esposto, secondo loro uopo, più o meno ampiamente. Ma alcuni riferimenti ad uomini e a fatti speciali meritano di spendervi qualche parola. Facendo la rassegna delle navi ond’era composta l’armata della lega (appunto secondo I uso dei poeti epici), toccato di Pietro Navarro eletto dal Papa, come si sa, « classis sanctissimae ligae capi-taneo generali », accenna al « possente e gran baron », *-he è da riconoscersi nel barone di Saint-Blancard, prode ed esperto capitano di mare ; quindi nomina il « valoroso » fra Bernardino, di cui altra volta ci è occorso discorrere (i)> assai noto nelle guerre marittime di questi tempi- Non ci è riuscito identificare né il « capitanio madalon », ne il « capitanio gianazo », ed è ormai abbastanza conosciuto Antonio D’Oria perché si abbia a dirne più. Erano su galere « hi nobili signor fregosi », e cioè 1 arcivesco Federigo, con il fratello Simonetto, il quale, a non^ della lega, prese il governo di Savona, dove 1 arma senza altra resistenza gionse el di de san rocho. II che é provato dal racconto del cronista sincron Gio. Agostino Abate (2): Havendo la cezaria magestà liberato lo re di Fransa, et ^ fu ionto infransa, ancora che havesse li figioli Inspngna pcr (1) Atti cit., XIII. 95. (2) Ms. E. IV. 30, Regia Università di Genova, c. 41. - 547 - non mancò di volere fare guerra a cario quinto Inperatore, et per esser più bastante a danificarlo fece lega con papa clemente 7, pensando così per mare corno per terra de danificare li lochi Inperiali, e miseno a ordine 37 galere soè 8 del papa soto de andria de oria e 13 de veneciani e 16 di fransa soto petro navarra generale de tute 37. E perchè genoa e tuto lo genoveze era governato da antonioto adorno confiderato con cario quinto, di perzente lo Re di franza ordinò a petro navarra che dovesse venire con dita armata a li dani de lo genoeze. E ali 15 de agusto de 1526 li agenti de li adorni che erano in saona ebero veduta de dita armata, e subito abandonono la cita de Saona. E ali 16 de agusto petro navara mandò una galera con simoneto fregoso a domandare la cità de saona a nome de la liga e la cità se rese, e di prezente vene in saona tute le 37 galere e fornirno la cità a nome de la liga. E in camino ebero veduta de molte nave che venivano de sisilia cariche de grano per genoa; le galere ge escino a doso e le prezero tute che furno a nomero 32 nave, quale parte ne condusero aligorna e parte in saona e per eser genoa bene fornita mai dita armata fece nulla. Del pari, là dove il nostro poeta narra il tentativo fatto dai genovesi di ricuperare Savona, nel modo stesso che erano riusciti con un colpo di mano ad impadronirsi di Portofino, nel momento in cui il sacco di Roma aveva distratto le forze della lega, e che, secondo egli osserva, « fu poi la sua pena », troviamo che riscontra col racconto del cronista (1): Lano de 1527 del meze de lugio havendo antonioto adorno duce de genoa mandato in corsiga 9 galere e due nave per condurre del grano a genoa, le galere de la liga che erano in saona ne ebero noticia, e di prezente levorno la fantaria che era in saona e la imbarcorno sopra le galere de la liga, e detero le vele al vento tute navicando verso corsiga per ritrovare le galere 9 e le 2 nave che (1) Ms. cit., c. 42. — 54§ — erano partite da genoa, e la eira di saona restò sensa galere e sensa fantaria, solo ge restò la guardia de lo castelo. E lo signore antonioto adorno, havendo noticia corno in saona non era ne galeie ne fantarie, si tratò con vigenzo foderato e con antonio zennano e con vigenzo fenogio e con Ioane bolla de volere levare la cita de saona de mano de franzesi e di metela soto lo governo de li adorni, tenendo con li 4 nominati questo ordine, che lo signoie antonioto adorno al tempo tra loro deputato dovesse mandate de note per mare fantaria a saona, e che li 4 nominati ge dariano il loco e paso da entrare in la cità E così fato lo acordio il signore antonioto ali 21 de lugio de 1527 fece inbarcare 300 tanti sopì a 19 vaseli picoli tra bergamini e fregate e barche da nave, e <-prima sera se partino e inbarcorno bernabe adorno per loio capi tanio, e navigando tuta la note ionsero in saona inanci ìorno uno loco nominato la foze, e li 4 nominati stavano apaiati al oc deputato per donarge il paso da potere intrare. E volendo la fonte calare in terra, lo mare se sconfìò e non ge fu modo de pot calare in terra. E in breve se fece larba del iorno e furno scoj " da li soldati de lo castelo, quali cridando alarma, Et- c't^1 se tuta in arme e li 4 nominati sensa fare dimora usiio a salvan ^ ^ fora de la cità e gabriè bolla che era in terra ala foze ne * noto ali bergamini. E così fu forsato lo signore bernabe con le sue fantarie a tornare a genoa. 11 cronista non rammenta, come il canterino, lo S c rello e il Zavaglia, ma questi è bensì da lui ncor a poco dopo, nella sua qualità di valente soldato, a p posito del supplizio a cui venne sottoposto il tra Gabriele Bolla. . j Infine si fa motto di un « capitanio gotardin »? ^ quale gli spagnuoli volevano « far pagare el sa)t°c_i_ Potrebbe forse questi identificarsi con il ^oiraC^in0’tal;0 pitano di cavalli, rammentato dal Giovio (i)> c^ie eia (1) Op. cit., lib. cit. - 549 — messo da Cesare Fregoso a guardia in S, Benigno, e venne sorpreso in un’ uscita dai genovesi ; dopo di che il Fregoso, accampato a Sampierdarena, investì i nemici e potè penetrare in città. Sola differenza questa, che mentre il Giovio asserisce sia stato preso prigioniero il suddetto capitano, dal nostro poeta è invece fatto andare presso il Fregoso a narrargli l’accaduto. Chi si fa a leggere la barzeletta da noi già altra volta pubblicata (i), rileva agevolmente la parentela che essa ha con la presente, in ispecie rispetto ai fatti cui accenna, e noi stessi abbiamo riprodotto alcune ottave di questa, come utile illustrazione a quella. Ma e il poeta è diverso, e ne è diverso il metro e l’intendimento. La prima è più propriamente lirica ed esprime i sentimenti dell’animo eccitato, indiritta per ciò in ispecial modo a muovere ed accendere il popolo; l’altra invece narrativa, meglio ordinata, secondo abbiamo avvertito, a far conoscere i fatti, singolarmente le battaglie e le azioni guerresche de’ capitani valorosi che ne furono parte principale. E se là troviamo la parola calda che sgorga drittamente dall’ animo, qui è il racconto storico reso efficace e drammatico dal dialogismo e dalla descrizione , a cui i particolari danno varietà e colore, mentre dagli atteggiamenti dell’ incondito linguaggio riceve movimento e vita. La stampa, forse unica, sulla quale abbiamo condotta la presente riproduzione, sta in una importante miscellanea di ventidue opuscoli, tutti dello stesso genere, conservata nella biblioteca Palatina di (i) Alti cit., XXV, 145. — 5)0 - Torino (i). Già ne conoscevamo il titolo e le note bibliografiche, dalle quali possiamo desumere, come opinava il Promis, che l’opuscolo sia uscito dai torchi di Giuseppe Berruerio, forse in Savona, dove questo stesso stampatore impresse il Lamento di Rodi che reca appunto il suo nome ed il luogo. Ciò si rileva, oltreché dai caratteri, da una silografia rappresentante « un guerriero con mazza nella destra, a cavallo di un elefante, preceduto e seguito da armigeri », la quale ricorre altresi nel citato Lamento (2). Non può cader dubbio sul tempo in cui la poesia é stata composta e stampata, perché i dati intrinseci ci autorizzano ad affermare che ciò fu certamente nella seconda metà del 1527. Abbiamo creduto opportuno di esemplare senz’altro la stampa, perchè riproduce, a nostro parere, l’originale genuino dell’autore, sia che precisamente il suo manoscritto abbia servito al tipografo, sia che altri abbia fatto la trascrizione della poesia dalla viva voce dell improvvisatore; ci siamo soltanto arbitrati di correggere alcuni troppo evidenti errori materiali del compositore. (1) Andiamo debitori della copia agli egregi dott. Giuseppe Rua e dott. Giuseppe Roberti, il quale con singolare cortesia ci trasmise altresì utili notizie sulla intera miscellanea. (2) Atti cit., IX, 340 sgg. (Dpcra roposta nouaméte la qual tracta òc lar- niata ì»e fràja a Marsiglia p. magata ì>el Cristianissimo He d)c jjìosjc a saona el in ì)e. s. ttodjo 132(3 j ìi. saona se parti Ije aì)o akrm, ? piglio certe nane ì>. inimici poi adorno alicorno } li tronorno el. lì. anìirea ìioria con sue galere dia quelle ì>e uenetiani j li se mtsseno iu camino j autiorno l)a jJortofin qnaubo fumo roti ispaguoli c>a francesi e ì>al conte JFUipin. 3tè trata ì>. le inntiocto naue ì>e Spagna cljefuruo sbaratate e t>. qle missen al fabo. QStè trata J>el sad)o ? vituperio facto a Uoina ? Me naue brasate a. s. fiorendo. ’3tè corno spagnoli neueteno a saona co scljale !)e co animo fc. prioria e farne a sua posta. Uè trata corno ispa-gnoli el iù fce tira bona &. augosto ròpitèo li fràcesi a portofiu e ptsou et còte filipiu. Ite el ìù sequèle ifraucesi Ibeteno la flotta a spagnoli e li tolseno tarmata egaler e por-tofin. 3tè la Mica sequèle jena resto al nome ì>e fràja. 3tè trala corno el siguor ì>. otredjo preise el bosdjo e altre cosse conio iutenìieriti legenda la istoria. Ogni un crida franza franza viva la nobile fiore delixi de abatere i soi nemixi dio li daga la posanza Ogni un crida franza franza. Questa he la gran colona he sustegno de la giexia ha lo honore de nostra dona sempre mai quella ha defeisa hora che Roma he stata preisa da lo exercito exspano già disposto el tramontano de farne gran vendicanza. Ogniun Questo he el primo sir franceise che mai fusse Re de franza magnanimo iovene he corteise valoroso pin de possanza de clementia elio avanza iulio cesare imperatore el meglior combatjtore che giamai portasse lanza. Ogniun Atti Soc. Lig. St. Patru. Voi. XXV, fase. 2.0 — 554 — Eglie disceso uno sipion de le alpe in la italia più feroce che un neron non estimando altrui una paglia in ogni crudel bataglia sempre he stato vincitore la morte con suo furore lo privo de ogni possanza. Ogniun Questo he quel signor magnanimo dito el duca de borbon che giamai fu pusilanimo ben disposto in su larson se secundo sua intention in Roma elio intrava già mai Roma non andava in tan gran disonestanza. Ogniun Quando homo he in la cima mai pensa cascare al fondo tristo he quello che no fa stima di periculo de questo mondo borbon se mostro più furibondo quel di più che nera uso fu passa dun archibuso per el mezo dela panza. Ogniun - 5 55 — Boti Jesu te vo pregare per tua somma boutade cercha ornai pacificare la povera cristianitade per tua gran pietade he per tua misericordia mandane pace e concordia tu che sei nostra speranza. Ogniun Morto el duca de borbon ispagnoli in roma introrno facendo grande ocision de tanti quanti ne trovorno tutta Roma sachiziorno palazi giexie he hospitale el diavole infernale ponevano in ogni stanza. Ogniun Non lassorno corpi sancti tabernacoli he reliquiari gli spogliorno tutti quanti infine al sancto sudario hei facevano al contrario che fa la gente francexa cerchano di salvar la giexa con grandissima honoranza. Ogniun - 556 - Questa hera una generation de un paese forte he fiero una gran parte de la nation de quel fra martin luterò el quale a dire el vero predicava contro la fede con la gexia tu puoi creder elio aveva poco amistanza. Ogniun Quante nobile gentile done monache spose he donzelle de virtù vere collone gratiose honeste he belle quante povere viduelle sono state vituperate virginele he maridate facto nan gran violanza. Ogniun Po ben scrivere un livio de le gran disonestade he del deportamento cativo che fato han in quella citade una tan gran crudelitade al mondo già mai fu visto minando la madre he christo lo quale he nostra speranza. Ogniun - 557 - Qual son quei can mastini quei tarteri ho machabei quei turchi ho saracini quei mori ho quei caldei quei heretici ho iudei havese fato tal tristitia da la divina iusticia non haveran mai perdonanza. Ogniun Quando intese el re de franza questa iniuria maledeta iuro a tuta sua posanza de farne aspera vendetta ha chiamare mando in freta quel dotrecho suo cusino he li dise in bon latino tuta quanta la sustanza. Ogniun La litera li amostro mandata dal summo pastore de ponto in ponto li conto di spagnoli il grando errore non meselevera del core questa iniuria maledeta fin che non facia la vendeta de la sua crudel falanza. Ogniun — 558 — Dise otrecho alquanti moti crestianissima corona comandarne de dì he de noti che presto son con mia persona non vo che italia se abandona che ella non sia in tua podestà he schaciare quella vii gesta per pura ponta de lanza. Ogniun Dice el re caro cosin io te ringrazio asay presto prende il tuo camin con tanta gente che tu vorai in aste tu troverai el conte pedro navarra sua persona te sia cara che le un signore de farne istanza. Ogniun Quel dotrecho passo imonti ala volta de lombardia con sue gente ben imponto de cavalli e fantaria tanta bella artegliaria che a dirlo glie un stupore con i soi bon proveditore tutti bene in ordinanza. Ogniun - 559 - lo lasso el signor dotrecho con la sua forza magna gli e bastante a trare de stecho for ditalia quei de Spagna io lasso la campagna io me ne vado a marsilia a larmata per maraviglia facta alonor de franza. Ogniun Galere nave e gaiioni he fergate e brigantin tanti degni compagnoni che parevano paladin monition e pan e vin he grossi canon de bronzo per poter far star dalongo de che avesse dubitanza. Ogniun De larmata in si preclara potentissima e de gran vaglia el signor pietro navarra si fu facto armiraglia non fe tanto in tesalia cesaro con pompeani como contra all’ ispani de fare eglia speranza Ogniun — 560 — In questa armata era el posente gran baron con sua gente forte e fiera armato de sipion parato de ogni staxon de mostrar sua forza magna guarda se quei de spagna de la sua gran possanza. Ogniun Egliera quel gran capitanio generoso e pelegrino con el suo blando in mano fa tremare ogni confino questo he quel fra bernardino valoroso più di forza el non estima una scorza de inimici sua roganza. Ogniun (i) Egliera con sue galee el capitanio madalon el qual sembra un altro enea in bataglia un sipion guarda se quei daragon he spagnoli he catelan se li capitan ale man mostreragli pocha amistanza. Ogniun Manca nella stampa. — 561 — El capitanio gianazo generoso alme he valento de inimici fa gran fracasso animoso quanto un serpento disposto mostrar el dento ala gente iniqua he acerba he de albasar la sua superba heglia bona confidanza. Ogniun Seguendo la mia istoria egli era con ordinanza el nobile antonio doria valoroso e pien de possanza elio havea gran speranza in bataglia ritrovarse he de spagnoli vendicarse el faceva grande instanza. Ogniun El nobile meser antonio sembla quel che vinse anteo in bataglia savio he idoneo valoroso quanto un pompeo el signor certo sie nevo del nobile andrea doria el qual sempre ha habiu victoria cum suo ingegno he gran possanza. Ogniun — 5 62 — He qui la bella armata ben in ponto per partire la gente deliberata voler vincere ho morire alarmiraglia mandò a dire el re nobile he possente havendo felice el vento che parte senza più tardanza. Ogniun Le galere sumptuoxi per manda de crestianisimo cum hi nobili signor fregosi al partir fu prestantissimo eglera el reverendissimo arcivescovo di salerno el suo stato he governo de aver havia speranza. Ogniun La potente he bella armata se partite de provenza tanta ben han cumpagnata che gliera una magnificentia he senza altra resistenza gionse el di de san rocho ha saona he steten pocho subito fen despartanza. Ogniun - 5<>3 — Da saona un bel matin se parti larma francexa paso zena e portofin gionse al porto de lerexe octo nave ho sian dexe trovorno de li inimixi roba he grano corno se dise ne havevano ha gran bondanza. Ogniun Larmata andò aligorno cum alegreza festa e gloria venetiani gli trovorno cum el nobile andrea doria non starebe in mille istorie la legreza e grande chiera de subisar quella rivera haveva gran dubitanza. Ogniun Era el primo dì doctore larma de franza ha portofin spagnoli andon cum gran furore per dare ha franza el mal matin franceisi con el conte filipin den a spagnoli la mala cena mal contenti verso zena sen tornon for de speranza. Ogniun — 5 un^a di P°i ne^ 1820 a Sarzana. Monsignor Sauli tenne però assai breve _i tempo il governo di quella diocesi, giacché ritiratosi nella città natale vi moriva in quel « pestilente anno » che fu il 1528 (1). Gran parte della sua non lunga esistenza egli aveva spesa nello studio delle lettere latine, greche e siriache (2), attendendo in pari tempo alla formazione di una ricchissima biblioteca che destava l’ammirazione degli eruditi contemporanei (3); per essa (1) Tutti i biografi del Sauli fissano il 1531 come l’anno della morte di lui. Secondo l’Oldoino, il Sauli aveva 21 anno quando «fu eletto vescovo di Bru-gnato nel 1512 »; quindi sarebbe nato nel 1491 e morto in età di anni 40. Michele Giustiniani lo dice nato verso il 1492, perciò nel 1531 avrebbe avuto anni 39. Il Soprani e lo Schiaffino concordano con l’Oldoino. Il Tiraboschi e lo Spotorno accettano come data della sua morte il 1531 ; ma evidentemente questi autori si copiano a vicenda. E 1’Oldoino che pure dice: Sepulcrum habuit in pernobili S. Mariae de Carignano templo, a nobilibus suae familiae excitato, non deve aver conosciuto l’epigrafe che ivi si trova nella parete sinistra dell’ultima cappella della navata destra, e che io ho trascritta sul luogo: d. o. M. PHILIPPO SAVLIO ANTONII F. IVRISCONSVLTO LATINIS GRAECIS SACRISQ,- LITTERIS PERERVDITO ANTIQ.VAE VIRTVTIS IMAGINI ET EXIMIAE SANCTITATIS BRVGNATENSI EPISCOPO Q.VI VIXIT ANN. XXXV MORTVVS EST PRAEMATVRE ANNO PESTILENTI CIDDXXVIII IN CELLA AEDIS HVIVS FACTAE EX TEST. AVI BENDINELLI NICOLAVS ET OCTAVIANVS SAVLII OPTIMO ET OPTATISS. FRATRI M. H. P. L’Iscrizione dice dunque chiaramente che Filippo Sauli morì di morie prematura nell’ anno pestilente 1528 in età di anni 35. Pertanto si deve correggere l’errore che dall’ Oldoino in poi è stato ripetuto da tutti gli altri scrittori, compreso l’Allen (Th. W.), Notes on greek manuscripts in Italian libraries (London, 1890), pag. 32. (2) Lo dice dotto in siriaco, non l’Oldoino, ma il Soprani (p. 93) e più esplicitamente lo Schiaffino, Annali Ecclesiastici della Liguria (ms. della Beriana), III, 927. (3) Il card. Gregorio Cortese, Epist. fam. (Venezia, 1573), Pag- 63, dice del Sauli: Maximam praeterea librorum copiam, et eorum antiquorum incredibili sumptu atque industria nactus est, partim Roma, Florentia atque Venetiis, partim etiam a aveva fatto raccogliere libri e codici, con incredibile diligenza e spesa ingente, non soltanto in Roma, in Firenze, in Venezia, ma perfino nel cuore della Grecia stessa (i). In un mio studio sui Liguri Ellenisti (2), tratteggerò una biografia più diffusa del Sauli, mettendone in rilievo il posto onorevole che a lui meritamente spetta fra i bibliofili e i grecisti del secolo XVI (3): qui invece, media Graecia aliatorum, miraque diligentia operam dat, ut eius generis ornamenta, non iam exlanguenti, ut ille ait, sed poene funditus deleta Graecia, Genuam transferantur. Sunt iam apud nos fere omnes antiquorum in sacros libros commentarii etc. (1) Op. cit. 1. !......Addent stimulos expectata ex Chio et Constantinopoli volumina...... Non so in base a quali testimonianze, Francesco Molard, (Rapport sur les bibliothèques de Génes etc. in Archives des Missions scientifiques et lilleraires, s. III. t. V, p. 191) crede che il Sauli sia venuto in possesso degli avanzi della famosa biblioteca di Andreolo Giustiniani: A qui serait curieux de savoir comment tant de raretés bibliographiques sont parvenues entre les mains de Philippe Sauli, évéque de Brugnate, je repondrais qu’on supfonne celui-ci d’avoir acquis, par héritage ou autrement, les dèbris de la bibliothéque d’Andriolo Giustiniani, mahonnais de Scio, un des plus infatigables colleclion-neurs du XV siècle. (2) Cfr. come saggi: G. Bertolotto, Liguri Ellenisti: I. Gabriello Cbiabrera alienista? Genova, Sordo-Muti 1891; — II. Ansaldo Cebà, in Giornale Ligustico, 1891. (3) Cfr. intanto l’Oldoino, il Soprani, lo Schiaffino, Michele Giustiniani, il Tiraboschi ecc. Il prefato card. Cortese (Epist., p. 245): . .. Saulio episcopo a te salutem plurimam dixi, qui te vehementissime amat, tuique visendi est cupidissimus. Is nuper commentarios Euihymii monachi in omnes psalmos i graeco in la-tinum convertit, opus elegans, ingeniosum, eruditum, et quod fere omnia quae a maximis illis viris Origene, Didymo, Eusebio, Basilio, Chrysostomo, in eo genere scripta fuerant, breviter et miro cum artificio sunt coniecta. In eo elimando atque expoliendo nunc assiduus est egoque illi minister assideo. — Nell’ epistola dedicatoria premessa alla versione dell’Eutimio (ed. 1547): Paulinus Turchius praedicatorum familiae, beatiss. patri Clementi septimo pontifici maximo salutem...... Philippus Saulus episcopus Brugnatensis, vir sane priscis illis patribus, virtutum ornatu, et sacrarum liter arum peritia comparandus ; qui huic saluberrimo instituto quam maxime intentus erat. Nam si quos huic operi idoneos nactus esset, excitabat, tno-nebat, rogabat, et quibus posset modis ad hoc convellere non omittebat. Ipse vero proponendomi particolarmente di dar notizia di un codice greco di S. Atanasio che nel 1602 papa Clemente VII! fece cercare invano tra i libri del Sauli e che io ho potuto ritrovare ed identificare, credo opportuno premettere soltanto alcuni rapidi cenni sulle vicende che la già doviziosa libreria Sauliana ebbe a subire nel corso dei secoli passati. Con testamento fatto l’anno stesso della sua morte (1), monsignor Filippo Sauli lasciava tutti i suoi libri, a stampa e manoscritti, all’ Ospedaletto dei cronici, con obbligo che non si potessero nè tórre di là, né alienare. tanto huius rei studio tenebatur, ut dies, ac noctes summa cum voluptate in hoc insumeret. Ab hoc profecto optimo viro plura et egregia sperare poteramus, nisi divina providentia illum a nobis avocasset, foelicitatem illi (ut mento speramus) recte anteactae vitae praemium benigne conferens, nobis vero paterna clementia (ut puto) indulgens, ne acriores dare poenas nostrae ignaviae cogeremur: qui tanti viri exemplo, et monitis minus proficeremus. Hic elegantissimos commentarios Euthymii monachi Patris sanctissimi, et eruditissimi, nuper latinos fecerat, puro quidem ac simplici dicendi genere, quos immatura morte praeventus, in lucem edere non potuit. Ego vero, qui eius doctrinae ac sanctitatis Ustis diutius fueram, studiorum comes, consiliorum conscius, nimia ipsius humanitate summa illi necessitudine devinctus, talis amici, quo meliorem ne desiderare quidem licebat, iam sanctos labores deperire, nos vero tanto thesauro fraudari aequo animo ferre non poteram. Converti me igitur ad Ioannem Mattaeum episcopum Veronensem bonorum omnium (ut optime nosti) quam maxime studiosum, ipsum hortatus pariter, et precatus, ut tanti boni nobis author fieret: ratus quod erit, ut hoc pacto amici defuncti sanctae memoriae et viventis iustae mercedi, et communi omnium bonorum utilitati quam optime consulatur: benigne annuit venerandus pontifex, ut est ad recta omnia et honesta studia quam propensissimus, suaque autoritate, iussu, et impensis effecit ut egregium hoc opus quam optime dispositum prodiret in publicum : opus unquam a nemine satis pro dignitate laudandum, si eximii vatis divinam mentem, et intelligentiam suscipias: si interpretum eruditionem et fidem; si correctoris et artificis periciam et diligentiam attendas..... (1) Nel Buonaroti (Geneal, rass. della Beriana , III, p. 576;, sono ricordati due testamenti del reverendissimo Filippo Sauli (in Raffaele De Franchi), 1528, 7 agosto e 1523, 14 dicembre (in Gio. Costa). — 13 — « Legat, dice il testamento (i), omnes hbyos graecos iam impressos quam manu scriptos, omnes la tinos manu scriptos, inter quos comprehenduntur tria magna volumina manu scripta in materia conciliorum et Biblia Tolletana Hospi-taleto Ianuae... ». Narra 1’Oldoino (2) che i soli codici greci ascendevano alla cifra ragguardevole di trecento, e che il lascito veniva fatto in usum studiosorum. Ora è naturale che noi ci domandiamo qui subito per quale categoria di studiosi poteva avere importanza una raccolta di trecento manoscritti greci racchiusa nelle stanze poco di-lettose di un nosocomio, e perché a monsignor Sauli sia piaciuto costituire come depositario dei suoi libri uno spedale anziché un altro istituto più acconcio alla meditazione e allo studio. A tale domanda, che sorge spontanea alla lettura dell’ Oldoino (3)’ c* dà modo di rispondere in qualche parte il Soprani, il quale assevera che la « scelta libraria » di Monsignor Filippo « consisteva in gran parte di libri medicinali manoscritti in pergamena », mentre il fondo Sauliano oggi ancora superstite non annovera un solo codice che colle discipline mediche abbia la più lontana relazione. Ma procediamo: i codici giacquero per lungo tempo ignoti e sepolti in qualche stanza dello spedale ; certo non devono averli veduti nè il Montfaucon né il Ma- (1) Cfr. Banchero, Genova e le due riviere [articolo del canonico L. Grassi sulla « Biblioteca delle Missioni urbane »], p. 499- (2) Oldoinus (Aug.). Athenaeum Ligusticum (1680), pag. 475: «.....bibliothecam libris pluribus refertam, in qua volumina 300 graeca mss. habebantur supremis tabulis hospitali Incurabilium in studiosorum commodum legavit... ». (3) « Voilà un legs bien inutile à un hòpital d’ incurables » esclama il Molard, op. c. p. 190 nota. billon (i), che parecchi anni dopo intrapresero appositi viaggi per rintracciare quanto di ragguardevole in materia di paleografia classica possedevano le biblioteche pubbliche e private, grandi e piccole, delle varie città della penisola. 11 Montfaucon, che il Gardthausen (2) saluta a buon diritto come il padre e il fondatore della paleografia greca, fece un catalogo di tutte le librerie che conservavano al suo tempo volumi greci manoscritti ; ma mentre prende nota di città e di biblioteche che possedevano in allora anche un solo codice greco, di Genova non fa menzione. 11 Mabillon nel suo Iter Italicum così si esprime a riguardo della nostra città: Ibi nulla fere veterum librorum bibliotheca, nisi quod Philippus Saulius, episcopus Brugnatensis, vir doctus, qui Euthymii commentarios in psalmos latine vertit, libros suos Xenodochio legavit. In eorum catalogo, quem Romae legimus, nihil singulare nobis visum est. « Che genere di catalogo, osservava fino dal 1846 l’abate Luigi Grassi (3), fosse quello che venne per le mani al Mabillon in Roma io non so; ma se in Genova ei si fosse imbattuto in chi gliene avesse porto miglior notizia, non avrebbe certo profferito sifatto giudizio ». La meraviglia del Grassi era più che giustificata per il tempo in cui scriveva; ma egli ignorava, a quanto pare, (1) Banchero, op. cit., pag. 500. (2) Gardthausen , Griecbische Palaeographie, p. 4 ; Montfaucon der Scbòpfcr griechischer Palaeographie wurde géboren am 13 ianuar 165$ \u Souìage unzueit Narbonne u. s. w. (3) Grassi (in Banchero, Genova ecc.), p. 500. che fino dal 1602 era stato spedito a Roma, per desiderio del papa e per ordine dei governatori della repubblica genovese, un elenco dei volumi greci lasciati dal Sauli all’ Ospedaletto e che ivi ancora si conservavano nell’ anno sopra indicato. Tale elenco che io pubblico (1) ora per la prima volta e di cui si conserva la minuta nel nostro R. Archivio di Stato, fu fatto, come più innanzi si vedrà, da persona poco versata nella paleografìa greca, ed é così superficiale e monco che il Mabillon non poteva farsi men misero concetto nè profferir diverso giudizio sull’ importanza della libreria Sauliana; giacché il catalogo, venutogli alle mani in Roma, altra cosa non dovette essere, e per forti indizi lo affermo, se non l’elenco stesso che forma il documento IV, annesso a questa memoria. Dopo il Mabillon, nessun altro scrittore, a quanto si sa e mi è stato possibile indagare, fa motto dei codici Sauliani e delle vicende da essi subite; di questo solo la tradizione ci informa che nel 1746 passarono per vendita alla insigne biblioteca delle Missioni Urbane in Genova, quantunque nessun documento sin qui conosciuto ci dia maggiori informazioni sulle modalità e le condizioni di tale trapasso. Soltanto qualche brandello di cartapecora incollato sulla guardia di alcuni dei pochi (1) Devo l’indicazione di questo documento alla cortesia, ben nota agli studiosi, del comm. L. T. Belgrano. È inutile aggiungere che quell’indicazione mi guidò al ritrovamento degli altri documenti inediti, che pubblico in questo mio scritto. — r6 — codici, scampati ad un quasi totale naufragio, porta la scritta : VENDUTO DALLO SPEDALE DEGLI INCURABILI - T 74^ “ CO* Anzi nel Codice che attualmente porta il num. 25 è incollato in principio un foglietto manoscritto in caratteri del secolo XVIII che dice: « Quest’opera contiene i commentarii di Eutimio Zigadeno (comunemente detto Zigabono), monaco Basiliano, sopra i salmi e cantici della S. Scrittura. Egli viveva nel 1118. Quest’opera non fu mai stampata (2) nella lingua originale. Monsignor Filippo Sauli, vescovo di Brugnato, padrone di QUESTO COME DEGLI ALTRI CODICI, li volto in latino, che fu pubblicato postumo e dall autore non potuto limare. Chi lo diede alla luce dopo la morte dell autore fu il P. Paolino Turchi Gentile (3) dei Domenicani, in Verona, nel 1530, con dedica a Clemente VII, e fu poi ristampato molte altre volte. Questo codice é sicuramente DI QUELLI CHE APPARTENNERO AL DOTTO PRELATO, E SOPRA QUESTO MEDESIMO FU ESEGUITA DA LUI LA VERSIONE SURRIFERITA ». Se dunque i codici Sauliani emigrarono dallo Spedale dei cronici nel 1746, è ben notabile, osserva il Grassi, come appunto in quel tempo che entravano, per ma- (1) Cfr. ad es. i Codd. n.° 2, 5> 7* e Appendice. (2) La prima edizione greca di Eutimio Zigabeno fu pubblicata nel 1792: Euthymius Zigabenus. Commentarius in IV Evangelia: textum graecum nunquam antea editum ad fidem duorum codd. mosquens. et repetita ver:, lat. 30 Hentenii suisque animadv. edidit Chr. Frid. Matthaeus. Lipsiae, 1792, 3 tom. in 4 voi. in 8.° (3) Sic! Ma leggi Generate. — i7 — magnanimo acquisto, nella biblioteca delle Missioni Urbane i codici suddetti, il padre Francesco Zaccaria della compagnia di Gesù, che viaggiava eruditamente l’Italia dal 1742 al 1752, non ne abbia avuto sentore, e sia una miseria ciò che gli fu dato commemorare di Genova in fatto di libri. Si potrebbe obiettare al Grassi che il primo volume degli Excursus Literarii per Italiani dello Zaccaria (nel quale volume si parla appunto di Genova a pag. .22 e sgg.), si pubblicò in Venezia nel 1744, vale a dire due anni prima della data che la tradizione fissa al trapasso della libreria Sauliana alle Missioni Urbane. Ma vi è un fatto più importante, sfuggito, a quanto pare, al Grassi e che giustificherebbe maggiormente la sua meraviglia. Nel volume citato, a pag. 22, lo Zaccaria fa speciale menzione di « un chierico regolare delle Scuole Pie, da lui incontrato in Genova, uomo veramente erudito, il padre Pietro Maria Ferrari, che aveva raccolta nel suo Collegio una scelta biblioteca e molte rarità archeologiche »: oltracciò riferisce una erudita lettera del Ferrari stesso illustrante un antico anello colTepigrafe agape (i). Ora questo padre P. M. Ferrari è quel desso che compose la Descrizione di alcuni codici inss. esistenti nella biblioteca dei RR. Missionarii Urbani, che si conserva autografo nella biblioteca medesima, e di cui il Grassi non fa cenno, quantunque molto si sia giovato delle indicazioni date nei fogli attaccati in principio di molti codici, le quali procedono senza dubbio dalle illu- (1) Zacciiakia, Excursus cit. I, 24. Soc. Lig. St. Patria. — Docinnenti e sludi. 2 — i8 — strazioni del padre Ferrari (i). Questo interessante volume fu donato, come sta scritto nel frontispizio, alla biblioteca dei RR. Missionari Urbani dal prete Crovo (2) il 7 dicembre 1860, e contiene l’illustrazione particolareggiata di ciascun codice, con uno specimen paleografico a mano, fatta dallo stesso P. Ferrari con non poca diligenza ed esattezza tale, che ci rivelano ad un tratto 1’ uomo versato nella paleografia greca e il conoscitore di codici. Sifatte illustrazioni a ciascun manoscritto portano, fra 1’ altro, anche l’indicazione del giorno in cui il manoscritto, dopo essere stato consultato e studiato dal Ferrari, fu da lui restituito, non è però mai eletto a chi. All’ Ospedaletto o ai Missionari? Sarebbe di qualche momento il saperlo, per meglio fissare la data della vendita, che forse avvenne prima del tradizionale 1746. Tali appunti ci indicano chiaramente che tutti i codici che in quel tempo entrarono alla biblioteca dei Missionari (e sono precisamente in numero uguale a quelli che pur ora si possedono) (3) vennero esaminati e descritti dal Ferrari in un lasso di tempo che va dal 25 gennaio 1744 al 29 giugno dell’ anno stesso. Confrontando questa data e 1’ anno dell incontro del Ferrari collo Zaccaria in Genova, anteriore evidentemente al 1744, anno della pubblicazione del primo volume degli Excursus Zaccariani, siamo indotti a concludere (1) Da un foglietto inserto al codice n.° 3 nel Ms. Ferrari, e che dice: Ioseph Assemannus bibliothecae Vaticanae praefectus sic latine reddidit, si potrebbe arguire che, se non tutti, alcuni almeno tra i codici Sauliani furono visti dal dotto autore della Bibliotheca orientalis etc. (Roma, 1719-28). (2) Era bibliotecario del march. Antonio Brignole-Sale. (3) Va però fatta eccezione del codice n.° 40 [Simplicio, Sulle categorie di Ari-stotile'], che appare nè visto nè descritto dal Ferrari, e che probabilmente non proviene dii fondo Sauliano. Cfr. Appendice in fine. - 19 — come poco probabile che qualora 1’ esistenza dei codici all’ Ospedaletto fosse nota al Ferrari, questi non ne abbia voluto avvertire il dotto gesuita viaggiatore, e crediamo ipotesi plausibile pensare che il Ferrari stesso dell’esistenza dei codici sia venuto a conoscenza soltanto dopo che, per qualche fatto a noi ignoto, l’Ospedaletto riuscì a sbarazzarsi di quei volumi, deposito così poco confacente all’indole del pio istituto, che a nessuno doveva neppur balenare il sospetto della giacenza di tale merce in cotal luogo. O non ignorò più tardi un’ erudito, come il padre G. B. Spotorno, persino il trapasso dei codici Sauliani ai Missionari? E non li credeva tuttavia giacenti al-rOspedaletto nel 1825, quando comparve per le stampe del Ponthenier in Genova il terzo volume della sua Storia Letteraria della Liguria? Eppure egli non viveva a Pekino, ed era anzi bibliotecario in Genova e delle cose genovesi, se non severamente critico indagatore, certamente non mediocre conoscitore. Lo Spotorno intanto, nel volume citato, dopo avere spiegato d’essersi indotto a parlare del Sauli in un capitolo che tratta di scrittori di medicina, pel fatto che appunto il Sauli aveva lasciato la sua copiosa biblioteca all’Ospedale dei cronici, soggiunge: « Non so perchè gli eruditi genovesi non abbiano pensato mai a pubblicare almeno un buon catalogo di questo tesoro letterario. Le raccolte di libri rari, come accade in tutte le umane cose, si perdono dolorosamente per mille ragioni, ma di quelle che ne abbiamo le notizie bibliografiche riesce men grave la dispersione » (1). È evidente che lo Spo- (1) Cfr. voi. Ili, pag. 237. torno credeva ancora intatto e nel luogo primitivo il presunto tesoro Sauliano, il quale, per verità, è ora come lo era già nel 1744, quando lo illustrava il P. Ferrari, ridotto a ben misere proporzioni. Attualmente di trecento, se pure é esatta la cifra del-l’Oldoino, i codici greci che restano sono soltanto trentanove, dei quali do un completo elenco illustrato nell’Appendice in fine di questo mio lavoro : tutti sono di materia ecclesiastica, tranne l’ultimo che é di un commentatore di Aristotele e precisamente di Simplicio, benché il Grassi non abbia saputo identificarlo (1); del-l’Omero manoscritto in folio, di cui é fatta menzione nell’ inventario del 1602, non si ha traccia. Si potrebbe sospettare che molti codici non abbiano più fatto ritorno da Parigi, ove emigrarono al tempo di Napoleone I, e che, tornati, portano tuttora il timbro della biblioteca Imperiale (2); ma, come dicemmo, nel 1744 non erano in numero maggiore dell’ attuale. Di tutti questi codici superstiti pubblicò, nel 1846, un indice illustrato il predetto abate Luigi Grassi, inserito nell’opera di Giuseppe Banchero Genova e le due riviere. Quell’elenco non é certamente scevro di inesattezze e (1) Allen, op. cit., pag. 33, n.° 40: « Simplicius on Aristotele's Categories chart. 9 x 6 ‘/2, ff. 160, 33 lines, saec. xiv-xv, will written. Grassi was unable to identify the author, whose namc ist wanting. This ist the only non-ecclesia-stical ms. in the collection ». — Grassi, in Banchero, op. cit., p. 512: « Contiene i Commentarii sopra Aristotele. Essendo cosi numerosa la schiera dei commentatori di Aristotile e il codice monco e di scrittura difficilissima (?), riescono necessarie troppe indagini per assegnarne l’autore, seppure questo commento è di quelli di cui l’autore è conosciuto. Credetti bene passarmene per ora leggermente ». Per il codice cfr. nota antecedente. (2) Cfr. Appendice, codd. 17, 26, 37, 38. incertezze (i) — c quale lavoro di sifatta natura lo è? —, ma si deve riguardare ancora oggigiorno come l’illustrazione più diffusa e completa, non dico degli avanzi Sau-liani, ma di tutta la doviziosa suppellettile manoscritta della biblioteca delle Missioni Urbane (2). E merita pure d’essere mentovato il breve cenno che tre anni or sono il signor T. W. Alien dava di alcuni tra i codici greci Sauliani nel suo libretto Notes on greeck manuscripts in Italian libraries (3). Se dal lato letterario i codici, per la loro natura ecclesiastica, possono offrir poco interesse al filologo, essi hanno però tutti una grande importanza dal lato paleo-grafico (4), e sono degni, per tal riguardo, d’ un più attento studio e d’ un esame meno frettoloso di quello che per lo passato hanno subito. Intanto eccoci a parlare del carteggio che nel 1602 si tenne tra Roma e Genova, per la ricerca del codice greco contenente le opere di S. Atanasio. II. Che papa Clemente Vili abbia avuto intendimento di pubblicare un’ edizione completa delle opere di S. x (1) Fra le altre cose, pare che non abbia saputo sciogliere la sigla a, noto compendio palcografico di iiova^óg (codice n. 2): nel cod. 32 lesse èjiinsXt&g ove invece sta scritto sui sxoug ecc. (2) Allen, op. cit., p. 32: « Banchero’s boolc, though quoted by recent tra-vellers to Genoa (e. g. Neigebaur, Serapeum, 1857, p. 138 sq.; Molard, Archives des Missions scientijiqucs, III.' sér. V. p. 137), does not appear very widely known: only one date for istance of those in Grassi’s catalogue appears in Gardthausen’s list and that from Stein’s preface to Herodotus,1869 Pr»ef. P- Vii. It ma_y be useful therefore te give bere some details of paleographical interest, some al ready to be found in Grassi, while others are due to my own observation ». (3) London, Nutt, 1890, pp. 32-34. (4) Alcuni di essi sono datati. Cfr. Appendice. Atanasio (i), è un fatto sin qui ignoto, come io credo, agli storiografi di quel pontefice; ma risulta evidente dal carteggio che nel 1602, d’ordine di quel papa, tennero coi Governatori genovesi i cardinali Sauli, Giustiniani e Pinello. La più antica edizione delle opere di S. Atanasio é di Vicenza 1482, ma in latino soltanto: però siccome appunto nel 1600-1601 si era stampato il testo greco in Heidelberg dal Commelin (2), può parere strano che ad un solo anno di distanza, Clemente Vili sentisse desiderio di far ristampare quelle stesse opere cosi voluminose. Ma se si pensa che 1’ edizione Commeliniana é estremamente difettosa nel testo e nella traduzione , e contiene solamente una piccola parte della feconda produzione filosofico-letteraria di Atanasio, si capisce subito che il pontefice era rimasto poco soddisfatto di quella stampa, e che le sue ricerche miravano a trovar dei nuovi trattati, epistole e apologie da aggiungersi alle poche che T edizione del 1600-01 veniva a rendere di pubblico dominio (3). (1) Sul posto che occupa Atanasio nella storia del pensiero cristiano, cfr. Ritter, Histoire de la philosophie chrètienne, toni. II. (2) Pubblicata per le cure di P. F. C. (Petr. Felkmann Curonaeus) in officina Commeliniana, in 2 voli, in fol. (3) L’edizione pubblicata dal Montfaucon nel 1698 (Parigi, 3 voi. in foglio, legati in due) é una delle più perfette edizioni dei Santi Padri che i Benedettini abbiano fatte. Lo stesso editore fece stampare nel 1706, una raccolta dei Santi Padri, in due volumi, in foglio, il secondo dei quali è riguardato come un supplemento delle opere di S. Atanasio, giacché comprende per la maggior parte opere che vanno sotto il nome di quel santo dottore. L’ edizione dei Benedettini è stata ristampata a Padova nel 1777 'n 4 ’n foglio. Sebbene comprenda le addizioni dell’ed. del 1706, viene preferita quella di Parigi (1698) per la bellezza dell’esecuzione. Ma anche nell’edizione del 1777» l’editore lamenta che molti degli scritti Atanasiani siano sfuggiti alle sue indagini. — 23 — Il carteggio, a cui dianzi accennavo, si apre con una lettera (doc. I), in data del 3 maggio 1602 e firmata dai cardinali Pinello, Sauli e Giustiniani. Da essa si ricava come nel concistoro, tenuto il lunedì prima, papa Clemente VIII aveva dato ordine ai suddetti cardinali, tutti e tre genovesi, di rivolgersi al Governo della loro Repubblica affinchè venisse spedito a Roma, colle debite cautele, un manoscritto contenente le opere di S. Atanasio, il qual codice, per quanto era a notizia di Sua Santità, conservavasi « nelle stanze dello Spedale picciolo ». Si aggiungeva essere quel ms. molto antico e meritevole di molta stima; perciò S. S. desiderando di fare ristampare quelle opere con ogni diligenza, faceva rac- ■ comandazione vivissima perchè i Protettori dello spedale ritrovassero quel libro e lo inviassero, promettendo che sarebbe restituito per essere conservato nello stesso luogo non appena il papa se ne fosse servito. La risposta alla lettera dei tre cardinali venne sollecita, giacché porta la data del 10 maggio. In essa è detto essersi « dato subito ordine che sia fatto inventario di tutti que’ libri antichi che si conservano nello Spedale piccolo, affinchè quando vi si ritrovino le opere di S. Athanasio greche, che il papa desiderava, gli si potessero . mandare a Roma e S. S. potesse servirsene a piacer suo ». La cura di fare tale inventario venne affidata ad uno dei padri Gesuiti, che la lettera stessa loda come perito della lingua greca et di molto valore. L’inventario fu eseguito davvero con tutta sollecitudine, giacché, cinque giorni dopo, veniva spedito l’elenco di tutti i libri greci, con altra lettera, nella quale si face- vano premure al Cardinal Pinello di presentarla a S. S. « acciò che visto tutto ciò che vi era, potesse il papa comandare quel che fosse di suo gusto ». Chi fosse il padre Gesuita a cui venne commesso l’incarico di far la collazione e l’inventario dei libri, si rileverebbe già dalla copia di detto inventario, che è all’Archivio di Stato (doc. IV), e dice: « Nota de libri greci dell’Hospitaletto, de quali se n’é fatto questo inventario per il padre Flaminio della compagnia di Giesu ». E a tergo: « 1602 a’ 15 di maggio: Inventario dei libri greci che sono nell’ Hospitaletto di Genova, di quali hoggi si è mandato copia agli ill.mi signori cardinali • Pinelli, Saoli e Giustiniani ». Cognome e nome del gesuita si rilevano poi chiaramente nelle firme autografe del documento XIII, di cui dirò poi. 11 gesuita era dunque Flaminio Comitoli. La compagnia di Gesù conta bensì tra i suoi scrittori un Paolo Comitolo, nato a Perugia nel 1545, che abbracciò giovanetto quell’ ordine e tradusse dal greco una Catena illustrium auctorum in librum Iob ; ma che questo Paolo Comitolo sia lo stesso del nostro Flaminio non credo, né il nome di quest’ ultimo figura nella Biblioteca degli Scriptores Societatis lesu, del Ribadeneira e del Sotuello. Io non credo neppure che il nostro Flaminio fosse in modo particolare versato nelle lettere greche, o avesse una men che superficiale famigliarità colla paleografia greca. Penso invece che le lodi dategli nella lettera del 10 maggio non abbiano maggior importanza di un complimento ordinario. L’ esito negativo che ebbero le sue indagini relative al codice Atanasiano potrebbero già, come indizio, confermare questa mia opinione: se non — 25 — che più sincera e più candida confessione della propria incompetenza paleografica non poteva egli stesso farci, di quella con cui si chiude il suo inventario: « Tutti li libri scritti a mano, eccettuati due o tre, sono o senza principio, o guasti, o non si ponno intendere ». Io ho visto ed esaminato, uno per uno, i codici greci attualmente esistenti nella libreria dei Missionari (i); e posso dire che non ve ne è alcuno il quale sia di lettura, nonché impossibile, neppur difficile anche per uno che sia mediocremente iniziato nella disciplina di Montfaucon e Gardthausen. E se il padre Flaminio perito della lingua greca era come lo loda la lettera sopra mentovata, conosceva tutt* al più il greco stampato, ma il greco scritto a mano era arabo per lui : lo stesso fenomeno non si verifica forse anche oggidì?... Anche le indicazioni vaghe e generiche (2) che egli da spesso, non si possono scusare col brevissimo tempo (cinque giorni) in cui compilò il suo elenco, e finiscono col farci sospettare che fosse anche digiuno delle nozioni più elementari di bibliografìa. Ma torniamo al carteggio tra la Repubblica ed il cardinale Pinello, giacché a lui solo viene ristretto dopo (1) Cfr. Appendice, (2) Esempi: « L’opere di Platone stampate in folio » (non aggiunge alcuna nota tipografica). — L’opere di Luciano, di Emanuele Moscopulo, di Seno-fonte ecc. (come sopra). — « Li Morali di Aristotile » (a mano? a stampai) — « Un libro scritto a mano in 4.0 senza principio » (il Corniteli non istituisce la minima ricerca per trovar l’autore, e niente dice della materia che trattai) — « Alcuni libri senza principio scritti a mano in folio » (quello alcuni è cosi elastico, che papa Clemente deve aver riso di cuore della pretesa « diligenza 0 con cui il padre Flaminio aveva consultato i varii mss. alla ricerca del codice Atana-siano!) — « La vita di Luciano » (a mano? a stampa?). E faccio finir la sfilata, che potrebbe continuare ancora. Cfr. anche la nota seguente. — 26 — la lettera del 15 maggio, che accompagnava l’invio dell’ inventario. Il biglietto di riscontro a quella, scritto dal Pinello il successivo 17 maggio, e la replica della Signoria in data 22 maggio (documenti V e VI), non hanno altra importanza che di confermare rinvio dell’inventario, del quale il Pinello accusa più esplicitamente ricevuta con lettera datata da Roma 1’ ultimo di maggio (doc. VII). In essa è detto che l’inventario è stato presentato al papa cc affinché veda tutto quello che ci è, e conosca la diligenza usata ». Ma ahimè il papa, proprio di quei giorni, era travagliato da un puoco di podagra e bisognava lasciar dormire in pace S. Atanasio, il codice e l’inventario. Ciò appare chiaramente dalla lettera del Pinello scritta subito il giorno dopo, cioè il i.° giugno 1602, dopo la quale il carteggio resta sospeso per ben ventotto giorni. In questo frattempo il papa, forse negli intervalli di tregua che gli concedeva il male, potè esaminare 1’ elenco del padre Flaminio; e poco convinto (si vede chiaro) e niente affatto contento della diligenza sopra accennata, e molto meno della competenza del compilatore, diede ordine addirittura di sostituire costui con un altro che fosse almeno « una qualche persona pratica et intelligente di simile materia (documento IX) ». Difatti mentre 1’ inventario del Comitoli non segna tra i libri Sauliani alcun codice di Atanasio, da Roma si continua ad insistere che c’è, e che anzi in più codici (1) si trovano sparsi scritti di quell’ autore. Anzi (1) Il Memoriale ne enumera quattro: intanto l’attuale codice n.° 3 (antica numer. del 1744, n.° 22), contiene tutti i salmi e i cantici con un commento in per aiutare il nuovo ricercatore invocato e cc dargli luce del modo di trovar quelle opere », si acchiude alla lettera del Pinello (28 giugno) il pro-memoria seguente: « Tra i libri dell’Hospitaletto di Genova era un libro greco scritto a mano, molto antico, il quale haueua nel principio duo versi greci in lode di esso Santo, et 66 0 67 tra epistole, apologie, et diuersi trattati dell’ istesso autore: il qual libro fu portato a Roma viuente il cardinale Sirletto. bo. mcm. (1); et se hoggi non si ritroua nell’Hospitaletto, sarà tra’ libri che fumo di mons. Giustiniano vescouo di Gineura (2), in mano del quale fu rimandato. Oltre di questo, nel detto Hospitaletto vi sono delle opere di S. Athanasio sparse in altri volumi di diuerse cose, cioè nel libro di n.° 31, 92, 96, 123 (3), et di più v’è un libro di Serapione contro i Manichei, doue è insieme Tito Bostrense contro i medesimi et molte altre cose di Padri, et di Concilij, il quale serui-rebbe a questo et anco per i Concilii ». margine. Non è espresso l’autore del commento, ma confrontandolo con quello di S. Atanasio (ed. del 1698, toni. I, parte II, p. 1009 sgg.), si vede che è tutta una cosa con quello del nostro codice. Il quale è forse quello che ebbe tra le mani il Comitoli e che egli così all’ingrosso descrive: « L’esposi-tione d’un incerto autore sopra li salmi scritti a mano in folio u, oppure l’altro: « L’opere d’un incerto autore sopra li salmi scritti a mano in folio ». Per altri codici contenenti parzialmente scritti Atanasiani cfr. l'Appendice (1) Guglielmo Sirleto, cardinale a. 1565-1581 ; celebrato per la singolare perizia nella lingua ebraica, greca e latina. Cfr. Ciacconius, Vitae pontif. rom., Roma, 1677, III, 974 sgg. (2) Angelo Giustiniani, vescovo di Ginevra, a. 1568-1578, in cui rinunciò la sede; 111.22 febbraio 1596. Cfr. Gams, Series episcoporum Eccl. Cathol., Ratisbonae, 1873, pag. 278. (3) Quest’ultima cifra è molto importante per noi, perchè ci dimostra che nel 1602 era incolume il fondo Sauliano per lo meno nella sua metà, se è giusta la cifra dell’ Oldoino che fa ascendere, come si è detto, i soli codici greci a trecento. Quale rovina hanno dunque essi subito per ridursi a men che quaranta!... — 28 — Arrivata a Genova la lettera del Pinello coll’ accluso memoriale, che noi abbiamo qui sopra riferito, il Governo, risponde il 5 luglio (doc. XI), di aver « fatta dar cura a persona pratica et intelligente perché procuri con ogni diligenza e quanto prima potrà trovare le opere che contiene detto memoriale ». Ma (io non saprei dire se per un atto di riguardosa delicatezza verso il Comitoli, o perché in quel momento Genova sentisse realmente penuria di grecisti superiori al padre Flaminio) fatto è che, malgrado il primo insuccesso — neppure caritatevolmente dissimulato nel consiglio dato dal Pinello di trovare altra persona pratica et intelligente, — il designato dalla Repubblica é ancora questa volta lo stesso Gesuita. Ed anche questa volta i tentativi del povero padre Flaminio riescono infruttuosi, come appare da questa dichiarazione firmata da lui e dal rettore della Compagnia di Gesù, dichiarazione che esclude recisamente 1’ esistenza del codice di S. Atanasio fra i libri giacenti all’ Ospedaletto. « Ser.mi SS.ri » Conforme l’ordine che per parte di VV. SS. Ser.mc ci é stato dato, siamo stati a vedere diligentemente tutti quelli libri che sono nell' Hospitaletto degli incurabili, fra quali non habbiamo ritrouato quelli libri contenuti nel memoriale datoci per parte di Loro SS.ric Ser.rac, saluo che il libro di Serapione contra i Manichei ; e se altro VV. SS. Ser.mc comandaranno, saremo pronti - 2 9 — seruirle, e le basciamo le mani. Di casa li jj di luglio 1602. » Delle SS. VV. Ser.mc Humilissimi serui in Christo Giac.0 Croce rtllore del Collegio della Compagnia ili Gieiù. Flaminio Gomitoli della medesima Compagnia. E cosi — se pure il Croce vide coi suoi propri occhi i codici all’Ospedaletto e non si limitò (come piuttosto sembra) a firmare per semplice formalità la dichiarazione del Comitoli, fidandosi ciecamente in lui — l insuccesso è imputabile questa volta non più ad una sola ma a due persone. Dice appunto la lettera (doc. Xll) in data dell 11 luglio: (c Fattone dar pensiero a due padri della Compagnia di Giesù, acciò usassero ogni diligenza possibile per vedere se vi si ritrovassero (le opere di S. Atanasio), ci è stato oggi da loro risposto non trovarvisi altro libro dei denotati in detto memoriale, se non un libro di Serapione contro i Manichei, come potrà V. S. 111."13 vedere dal-l’inchiuso foglio che i detti padri ci hanno scritto ». E, quasi a mitigare nell’ animo del pontefice 1’ amarezza dell’ insoddisfatto desiderio del codice Atanasiano, si mette in cambio a disposizione di S. S. il libro di Serapione; anzi, volendo far passare per un po’ più preziosa la concessione, si dichiarava « di acconsentirglielo non ostante che esso fosse connumerato fra certi altri che erano stati lasciati per testamento al detto Spedale dal quondam vescovo Sauli con obbligo che non si potessero levar di detto Spedale, al qual testamento per questo particolare solo avevano derogato perché si potesse liberamente detto libro dare a Sua Santità, non appena fosse designata la persona a cui consegnarlo ». Ma non pare (doc. XIV) che la offerta del codice di Serapione fosse accolta dalla Santa Sede ; non v’ era motivo di accettar una cosa per parte di chi con tanto interessamento ne aveva chiesta un’ altra, e con tanta insistenza e (quantunque indarno) per lo spazio di ben ottantacinqùe giorni (3 maggio-26 luglio 1602), chè tanto durò il carteggio tra Roma e Genova per un codice che non si riuscì poi a trovare, lasciando così non pago il desiderio di Clemente Vili. Ma qui sorge nell’ animo nostro un dubbio. Nel memoriale di sopra riferito (pag. 27) è detto del manoscritto tanto ricercato : fu portato a Roma vivente il card. Sirletto se hoggi non si ritrova nell’ Hospit aletto, sarà tra' libri che fumo di mons. Giustiniano Vescovo di Ginevra, in mano del quale fu rimandato. È naturale quindi che noi ci domandiamo : l’esito negativo delle indagini fatte, va esso attribuito alla pochissima competenza del padre Comitoli, oppure il codice restò irreperibile appunto perchè non era all’ Ospe-daletto bensì tra i libri del Giustiniano? La risposta però non parmi difficile; il memoriale doveva, come scrive il Pinello, fornire « luce del modo di trovarlo »; e possiamo ragionevolmente credere che i due Gesuiti, dietro tale indicazione, avrebbero fatte le opportune indagini per veder di trovarlo tra i libri del Giustiniano, dopo che le ricerche all’ Ospedaletto fossero riuscite vane, 0 è presumibile che — nella peggiore ipotesi — tali indagini sarebbero state ordinate dai Governatori — 3i — stessi della Repubblica. Comunque sia, né il rettore del collegio dei Gesuiti, Giacomo Croce, né il Comi-toli riuscirono ad indovinare che il tanto ricercato codice di S. Atanasio é quello che noi siamo riusciti ad identificare, e ciò perché mancava — più che probabilmente — fin da quel tempo, come manca ora, del principio e della fine, ed entrava quindi nella categoria di quei libri scritti a mano, che, per essere senza principio o guasti, non si potevano, per confessione del Comitoli stesso (doc. IV), intendere da lui. III. Il codice, tanto desiderato da papa Clemente Vili, é quello che oggi porta il numero d’ordine 5 ed ha la collocazione 31, 6, 3. Il numero antico di esso era però 29, come si ricava dall’annotazione manoscritta nella guardia, che lo dice pure derivato dall’ Ospedale degli incurabili. E tale appunto é il numero sotto cui vemva classificato nel 1744 dal padre Ferrari, del quale abbiamo dianzi parlato: egli io esaminava nel maggio del I744> e fondo all’ illustrazione lasciatane nel già citato Indice, annotava in fine: restituito il 27 maavio / oò 1744. Le condizioni in cui si trovava il codice a quel-1’ epoca, erano precisamente identiche a quelle in cui si trova attualmente; mutilo, orrendamente mutilo, in principio ed in fine. È in pergamena alta cmt. 23, larga circa 22 l/2; del volume, che dovette essere in origine di gran mole, sono rimasti appena 31 fogli; le linee di rigatura di ciascuno sono 32, e appaiono tracciate per mezzo del solito strumento a punta; la scrittura è limitata tanto al margine esterno quanto all’interno da righe verticali, ed ordinariamente essa è appesa al rigo. L’inchiostro é sempre di color gialliccio, fatta eccezione di qualche foglio all’ interno nel quale prende un colorito spiccata-mente nero. Non ha scolii marginali, tranne che> nel penultimo foglio ([recto) ove ne ricorrono due. Ho detto che il codice é orrendamente mutilo tanto in principio quanto in fine: non si può naturalmente stabilire 1’ estensione di tale mutilazione in fine, ma al principio andarono perduti certamente non meno di 12 quaternioni. Infatti mentre nei margini superiori non ricorre (come in altri codici greci) traccia di enumerazione in cifra greca delle pagine, una mano antichissima, anzi, secondo ogni probabilità, quella stessa che vergò il testo, nota le segnature dei quaderni sul verso dell ultimo foglio di ciascun quaternione. La prima di queste segnature ir (XIII), mezzo asportata dal legatore, sta appunto al fol. 8.v Sicché é facile il computo dei fogli che andarono distrutti in principio del codice; giacché, supponendo che tutti fossero quaternioni (e tali sono 1 rimanenti del codice meno fÀ (XIV) che è ternione) si ha: quaternioni perduti 12 X 8 = 96 ff. peiduti, ff. 96 X 2 = 192 facc.,e di scritto che andarono distrutte. È evidente che in una lacuna cosi vasta poteiono andare smarriti non solo i due versi greci in lode di S. Atanasio, che, secondo il memoriale, si trovavano in principio del codice quando esso fu portato a Roma vivente il cardinale Sirleto, ma degli scritti interi di quel santo. Se così grande èia lacuna in principio, possiamo ìa-gionevolmente supporre che non certo minor danno il manoscritto abbia sofferto in fine, tanto che allo stato - 33 — attuale, esso non é se non un misero frammento, un rudero del voluminoso codice quale dovette essere nel suo stato originario. Se, colla scorta di questi dati, noi proviamo a farcene una ricostruzione ideale, nessuna obbiezione seria può opporsi alla identificazione del nostro codice con quello tanto ricercato da Clemente Vili, e che conteneva, a quanto il memoriale stesso del pontefice dichiara, 66 o 67 tra epistole, apologie et diversi trattati dell’ istesso autore. Si noti che il papa citava quella cifra senza avere il manoscritto sotto gli occhi, e che la memoria poteva largii forse esagerare il numero delle opere contenute nel codice. Il quale comincia colle parole: tote x«t àpsxrjv (j'.oùat / xal (à'ftxTMai xòv 0v / xal xpz sv yj~v. tu XWl XÉ&t Y)|X(I>V. Si’ 0u xal / |jL£ff ou aòxox XÒH Tipi auv aùxwt Xàtt Ulàn iv / ayetot tcve. Tt|j.rj xal xpàxo;. xal 3óta sì? / xob; atwva^ xò>v aìwvwv. à[ifjV Y' ~ Le parole surriferite sono quelle con cui finisce il Aóyo? Tcspl xfjs èvavBpwTXTjCsw^ xoù Osoù Xóyou (De incarnatione Verbi Dei) che nell’ edizione greco - latina delle opere di S. Atanasio di Colonia 1686 è la 2.a del voi. I, e ne occupa le pagine 5 3-111, e (come nel nostro codice) precede immediatamente La disputatone contro Ario occupando dello stesso volume le pagine 111-148. Segue appunto nel nostro codice, dopo le parole greche sopra riportate, il lemma della Disputatione contro Ano: xoO aùxoO StàXexxo? Iv xrjt xaxà vixat / av auvóSwt. — :xpòa àpetov, il quale è 1’ unico trattato non scompleto di esso codice e va sino alla fine del foglio 31 recto. Dopo la prima segnatura ir (XIII), che abbiati! detto Soc. Lig. St. Patria, — Documenti e sludi. ì - 34 — riscontrarsi al foglio 8.v, segue un ternione (ff. 9, 10, n, 12, 13, 14), la cui segnatura fu asportata dal legatore; ma di essa si conservano tracce visibili, in modo da permetterne la ricostruzione, nell’ estremo margine del foglio 14 verso. Al foglio 15 recto appare la segnatura Ì£ (XV), aneli’ essa tagliata a metà dal legatore, ma che ricorre ripetuta, in tutta la sua pienezza, come al solito, in fondo all’ ultimo foglio (22 verso) del quaternione. Segue il foglio 23 che conserva in fondo le tracce della segnatura ìg (XVI), essa pure ripetuta al loglio 30 verso, ultimo dei quaternione. Segue ancora un foglio (1) lacerato nel mezzo e strappato verso il margine inferiore interno, nel luogo dove dovrebbesi trovare la segnatura. Nello stesso foglio recto finisce la Disputatione contro Ario, e si vede scritto a carattere chiarissimo il nome dell’autore di essa, Atanasio: il che ci è nuova prova che se il gesuitn Flaminio Comitoli avesse usato anche una mediocre diligenza nella collazione del codice, avrebbe potuto vedere che il manosciitto richiesto dal papa, — benché mutilo e adespoto in principio e in fine, — portava il nome dell’autore nel corpo dell’ opera. Dice infatti il colophon di quella disputazione Atana-siana precisamente così: —b aùv 0s&i 1\ xoO àyloo àdocvaacou xax’ àpetou óptaTSia -(- + • Cioè: È COMPIUTA, PER [grazia di] Dio, la difesa di Santo Atanasio contro Ario (2). (1) Lo stesso di cui diamo il facsimile, avendoci, con atto di squisita cortesia, permesso trarne la fotografia il signor canonico Giacomo Grasso, bibliotecaiio alle Missioni Urbane, al quale si porgono qui i pii' vivi ringraziamenti. (2) Cfr. il facsimile annesso al presente scritto. - 35 Nel verso dello stesso foglio 31 cominciava un’ altra opeia dello stesso scrittore: xou «ùtoD 7xpha roba èracxxÓTXOua afyurcxou / xal Xc(3uy)cj èraaxoXi) èyx'jxAcoa xa àpetav&v Il codice non dev’ essere più antico del X secolo né più recente dell’ XI. La forma delle lettere, gli spiriti angolati, le rare abbreviazioni, soltanto proprie di quei secoli, ed altre particolarità, mi confermano in questa opinione. Il codice ha qua e là alcune di quelle « note marginali » che il Gardthausen raduna in una categoria di segni particolari ai Cristiani (« Christliche Zeichen ») come il « geroglifico convenzionale » detto ^Xtaxóv (è) (1), il segnò del Lemniscus A, (2), quello del cy]|X£ìov ( (^) (3), quello dello wpaìov (^(4), dello àaxéptaxo; (*X•) (5) ed altri. Ma il cattivo stato in cui è a noi giunto il codice, (1) Cfr. Gardthausen, Griech. Paleographie, p. 258: vjXiog -cpiaS'.xóv, Xpóo£. Villoison, tab. III. — Credo utile aggiungere la spiegazione di questo geroglifico convenzionale, attribuita dal Ferrari ad uno scoliaste del sec. XI e presa da un codice di S. Basilio da lui visto in Roma : Hoc signum solare ponitur in locis ubi Pater de Theologia disserit, quia in divinis scripturis Deus Sol iustiline vocatur. (2) Cfr. Gardthausen, op. cit., pag. 290: « Die Bedéutung des Lemniscus -4-und Hypolemniscus — ist nicht ganz sicher. Gegen die Autoritat des Epiphanius und theilweise auch des Isidor von Sevilla definiert sic Field a. a. O. LVII-LVIII: In Hexaplis pingendis obeìi ( —) lemnisci {-'—) et hypolemnisci ( — ) significationem unam eandemque fuisse, eam scilicet quae obelo soli vulgo tribuitur ». Anche lo stesso Ferrari dà il lemniscus come = all ’òpsXóg, quasi « saetta » che ferisce e riprova quanto nello scritto di Atanasio è posto in bocca dell’eresiarca Ario. (3) Cfr. Gardthausen, op. cit., pag. 256, col. 3. — Ferrari (dal ms. citato): Ponitur hoc signum ubi quid singulare aut inspeciatum occurrit. (4) Cfr. Gardthausen, op. cit., p. 258, coi. 3. — Ferrari (ms. c.): Ponitur... ubi phrasis elegatis aut sententia florida aul utraque excellit. (5) Cfr. Gardthausen, op. cit., p. 290. — Ferrari (ms. c.): Ponitur in locis ubi Theologus de carnali oeconomia magni Dei et Salvatoris N. I. C. loquitur, propter divinavi stellam quae Magis appai uit. gli toglie gran parte del suo valore: certo 1 importanza di esso e del suo rinvenimento sarebbe a dismisura accresciuta, se non fosse così estesamente mutilo, come noi abbiamo lamentato; giacché dal memoriale il papa Clemente Vili si può arguire che contenesse qualcheduno dei trattati Atanasiani che di lui si desiderava e si desidera tuttora. Anche 1’ ultimo editore delle opere di Atanasio (i), lamenta che non tutti gli scritti di lui siano stati rintracciati , malgrado le accurate indagini del Montfaucon e dei suoi continuatori, ed incita gli studiosi a ricercar nuovi frammenti. E per vero, tra i moderni, il Ritter riesce a convincerci che Atanasio, fra gli scrittori del IV secolo dell’ era volgare, fu quegli che spiegò la più grande forza scientifica del suo tempo; e gli antichi ritenevano tanto preziosi gli scritti di quel Dottore, che, a chi trovasse di lui alcuna cosa sconosciuta e non avesse altro mezzo di tramandarla, consigliavano di scriveila persino sopra le proprie vesti: « Cum inveneris aliquid ex opusculis Sancti Athanasii, nec habueris chartas AD SCRIBENDUM, IN VESTIMENTIS TUIS SCRIBE ILLUD » (2). (1) Padova, 1777, voi. I, p. vm. (2) Abbas Cosmas apud Io. Moschum, 1. 10, c. 40. DOCUMENTI I. [R. Archivio di Stato in Genova : Lettere di cardinali, mazzo 14] Serenissimo Principe et III.1"' SS.ri Lunedi in concistoro N.r0 S.rc ci comandò che douessimo scriuere à VV. Ser.tA et SS'. Ill.rae qualmente hauendo inteso, che nelle stanze dello Spedale picciolo di Cienoua si conseruauano 1’ opere di Sant’ Athanasio greche, molto antiche, et da farne gran stima, et desiderando Sua B.ne di farle ristampare con ogni diligenza, uorrebbe che VV. Ser.tà et SS. Ill.mo le facessero piacere di mandarle qua ben custodite per uederle et potersene seruire, et c’ ha detto che, seruito che se ne sarà, si rimanderanno subbito ; et perche si tratta del seruitio dì Dio, della Chiesa Catt.ca et de Sua S.tA, la quale molto lo desidera, preghiamo VV. S.a et SS. 111.mc à far sì che N.r0 S.rc habbia l’intento, et che uogliano ordinare alli Protett." dello Spedale che siano dette opere ritrouate, et bene accomodate, et inuiate qua per presentarle à Sua B.lie, che si rimanderanno quanto prima per conseruarle nell’istesso luogho, doue ora si trouano; et con questo fine le preghiamo da Dio ogni contento. Di Roma, li iij di maggio 1602. Di VV. Ser.tà et SS. 111“ Servitori 11 Card.le Pinello Il Card.lc Sauli Il Card.lc Giustiniano i — 40 — IL [Lettera ai Cardinali Piacili, Sauli e Giustiniani — R. Archivio cit., Registro Litterarum 1601-03. X. 217] Con l’infìniro desiderio che habbiamo di seruir sempre alla S.’A di N.ro S.ro in ogni occasione che ci si presenta, inteso quel che VV. SS. Illme colla loro de’ 3 del stante, d’ordine della Santità Sua, ci scriuono, habbiamo subito dato ordine che sia fatto inuen-tario di tutti que’ libri antichi che si conservano nello Spedale piccolo di questa Città, affinchè quando ui si ritrouino 1’ opere di S. Athanasio greche, che S. Beatitudine desidera, se le possano mandar costì, acciò la S.a Sua possa seruirsene a piacere suo; et la cura di far tale inuentario si è data ad uno dei Padri Gesuiti, perito della lingua greca et di molto ualore, perchè lo faccia con diligenza et accuratezza; quale fatto che sia s’inuierà à VV. SS. Ill.mc le quali potràno presentarlo a S. B.nc perchè ueda ciò che ui è, et comandi quello sera seruita che si faccia, con certificarle in nome nostio, si come le preghiamo, che in questo et in ogni altro particolare oue si tratta del gusto e seruitio di lei non cederemo in prontezza à uerun altro, così richiedendo la deuotione et ossequio nostio verso della S.li Sua, et gli infiniti obblighi che la Rep.c'1 nostra, et noi insieme che sentiamo; col qual fine a VV. SS. Ill.mc auguriamo da Dio ogni desiderata felicità. Di Genova, a 10 di maggio 1602. Di VV. SS. Ill.mc e R.n,c Servitori II Duce e Governatori. V,- dall’ ìli.™0 Oliuero Marini. — 4i — III. [Registro cit. p. 72 verso]. A Ili Cardinali Pivello, Sauli e Giustiniano. In conformità di quanto scrissemo a VV. SS. Ill.mc habbiam fatto fare da un Padre Giesuita l’inuentario di tutti i libri greci che si ritrouano qua in questo nostro Spedale picciolo, come uederanno dalla copia che uiene inchiusa con questo, onde potràno VV. SS. 111."'% si come le preghiamo, presentarla alla S.li di N. S.rc, acciò uisto tutto ciò che ui è, possa la S.u Sua comandare quel che sarà di gusto suo che se le mandi, perciò che noi sentiremo altretanto contento in darli a S. S.tà quanto sarà la S.u Sua di seruirsene, del che preghiamo VV. SS. Ill.me a render in nome lustro indubitato testimonio a S. B.nc e con tal occasione rame-morarle l’ardente desiderio con che uiuiamo di seruirla; e con tal fine a VV. SS. Ill.mc basciamo le mani, con augurarle da Dio il colmo d’ogni felicità. Di Genova, à 15 maggio 1602. Di VV. SS. 111.™ e R.mc Servitori Il Duce e Governatori. Vadali’III.'»0 Gio. Batta. Lercaro. IV. [R. Archivio cit. Politicorum, mazzo VI] Nota de libri greci dell’ Hospitaletto , de quali se n’ è fatto quest’inventario per il Padre Flaminio della Compagnia di Giesù L’ opere di Platone stampate in folio. Emanuele Moscopulo stampato in folio. L’ opere di Luciano stampate in folio. Una Bibia Complutense .stampata in folio. •— 42 — L’opere di Philone scritte a mano in lolio. L’ Etimologico Greco stampato in folio. Un libro scritto a mano in 4.0 senza principio. Li Morali di Aristotile. L’ opere di Xenophonte stampate in folio. La Grammatica di Teodoro Gazo stampata in folio. L’opere di Serapione vescovo contra li Manichei scritte a mano in folio. L’ Omilie di Santo Gio. Grisostomo dei Martiri scritte a mano in folio. S. Gio. Grisostomo sopra S. Matteo 2 scritti a mano in folio. Il medesimo sopra 1’ Epistole di Santo PaoJo. Il Suida stampato in folio. L’opere di Teofilo vescovo di Bulgaria sopra Santo Marco scritto a mano in folio. Il Lexicon di Esichio stampato in folio. Alcune favole di Esopo scritte a mano in 4.0. Detto Gio. Grisostomo sopra detto Matteo scritto a mano in folio. Le comedie di Aristofane stampate in folio. Varij sermoni di Santo Gio. Grisostomo scritti a mano in folio. La Panoplica dogmatica scritta a mano in folio. Il Lexicon di Favorino Camerte stampato in folio. L’ espositione di S. Basilio sopra Esaia scritta a mano in folio. L’ opuscoli di Plutarcho stampati in 4.0 grande. Vari) Sermoni di S. Gio. Grisostomo scritti a mano in folio. Le opere di Santo Epiphanio scritte a mano in folio. L’ Hilliade di Homero stampata in folio. Alcuni libri senza principio scritti a mano in folio. Li proverbii di Salomone senza principio scritto a mano in folio. Alcuni libri senza principio scritti a mano in folio. Varie vite del primo tomo di Metafraste scritte a mano in folio. Santo Basilio sopra 1’ Examerone scritto a mano in folio. Un’ opera, come si pensa, di S. Basilio senza principio scritta a mano in folio. L’ espositione d’ un incerto auttore sopra li Salmi scritto a mano in folio. — 43 — San Gio. Grisostomo del sacerdotio scritto a mano in folio. Un’ epistola di Parisio vescovo Costantinopolitano ad Adriano scritta a mano in 4.0. L’espositione de Discorsi sopra Tatti dell’Apostoli. Alcuni sermoni di Santo Gio. Grisostomo scritti a mano in folio. Il Psalterio stampato in ottavo. La vita di Luciano. Alcuni libri senza principio scritti a mano in 8.°. Alcune vite di Metaphraste scritte a mano in folio. S. Gio. Grisostomo sopra alcune epistole di S. Paolo scritto a mano in folio. L’ espositione, come si pensa, di San Basilio sopra la Genesi scritta a mano in folio. Theodoreto de curandis affectionibus graecanicis scritti a mano in folio. Gio. Climacho, come si pensa, scritto a mano in folio. Varie Omilie di S. Gio. Grisostomo scritte a mano in folio. V Iliade di Homero scritta a mano in folio. Clemente Alessandrino scritto a mano in folio. Un’ opera d’auttor incerto sopra li Salmi, senza principio, scritto a mano in folio. Diversi trattati della virtù, d’ un incerto, scritti a mano in folio. L' accusationi di Simone monacho in propriam animam scritte a mano in folio. Le Vite di Plutarco stampate tn folio. Varie Omilie di Santo Gio. Grisostomo scritte a mano in folio. L’ opero d’ un incerto auttore sopra li Salmi scritte a mano in folio. Tutti li libri scritti a mano, eccettuati due o tre, sono o senza principio, o guasti, o non si ponno intendere. [A tergo] | 1602 a’ 15 di maggio. Inventario di libri greci che sono nell’ Hospitaletto di Genova, di quali hoggi si è mandata copia agli ill.mi signori cardinali Pinelli, Saoli e Giustiniano. — 44 — V. [R. Archivio cit. Lettere di cardinali, mazzo 14] La lettera di V.ra Ser.tA et SS. 111.““ sopra il particolare dell’opere di Sant’ Athanasio hieri la feci dare à N.'° Sig.^ acciò uedesse la prontezza di V.™ Ser.'A et SS. 111.™ in quello che comandaua, et io poi ce ne parlerò di presenza alla prima "congreg.- del Santo Officio d’ Inquisitione..... Di Roma, xvij di maggio 1602. Di V.ra Ser.ta et SS. Ill.me [Di pugno del cardinale] et a suo tempo aspettarò auiso di quanto si sarà trouato. Servitore Il Card. Pinello VI. [R. Archivio cit. Litterarum, p. 73] Al Cardinale Pinello. e R.m0 Sig.re Haurà la V. S. 111."" uisto con l’antecedente ciò che scrissemo a Lei e agli IH.”1 cardinali Saoli e Giustiniano sopra il particolare dell’ ope're di S.to Athanasio, che desideraua la S.*4 di N. S/% sopra il che hauendo mandato l’inuentario di tutti 1 libri greci, che si ritrouano in questo Spedale, non occorre che se le replichi altro per risposta della sua de’ 17, se non accusartene, come facciamo, la riceuuta..... Di Genova, ai 22 maggio 1602. V.- dall’111."10 Oliuero Marini. - 45 - VII. [R. Archivio cit. Lettere di cardinali, mazzo 14] S’ è havuto l’inuentario fatto dal padre Flaminio della Compagnia del Giesu, quale s’è dato a Sua S.'1 acciocché ueda tutto quel che u’ è, et cognosca la diligenza usata, et la buòna volontà di VV. Ser.'A et SS. Ill.rac nel seruitio suo; et s’altro ci farà intendere, ne darò auiso à VV. Ser.tA et SS. Ill.me....... Di Roma, l’ultimo di maggio 1602. Servitore Il Cnrd. Pinhllo. Vili. [R. Archivio cit., mazzo cit.] .....Sua Santità si troua in letto con un puoco di podagra, et però anco non se 1’ è potuto parlare per conto dell’ inuentario dell’ opere di Santo Athanasio mandate..... Di Roma, il primo di giugno 1602. Il Card. Pineli.o. IX. / [R. Archivio cit., mazzo cit.] Mando à V. SertA e SS.rie 111“ l’incluso foglio sopra ^particolare che desidera S. S.,A per conto di quelli libri di S.'° Athanasio; et potranno dar cura à qualche persona pratica et intelligente di di simile rnestiero, che ueda di trouar quest’opere, delle quali, con questo memoriale, hauerà luce del modo di trouarle; et di tutto alla giornata mi daranno auiso..... Roma, li 28 di giugno 1602 Servitore Il Card. Pinello. — 46 — X. [R. Archivio cit., mazzo cit,] Memoriale accluso alla lettera precedente, già riferito a pag. 27. XI. [R. Archivio cit., Reg. Litterarum, p. 77] Al Cardinale Pinello. Con la di V. S. 111.™ de’ 28 del passato habbiamo riceuuto il foglio che ci ha inuiato sopra il particolare che desidera S. S.tA per conto di quei libri di S.t0 Athanasio, e subito habbiam fatta dar cura a persona pratica et intelligente, perchè procuri con ogni diligenza e quanto prima potrà di trouare le opere che contiene detto memoriale, e non mettiamo dubbio che con quest’ altr' ordinario si potrà dire à V. S. Ill.ma tutto ciò che si sarà fatto in questo particolare, nel quale goderemo infinitamente se si ritrouerà quello che la S.,à Sua desidera; e con tal fine a V. S. 111.™ basciamo le mani, con pregarle da Dio ogni prosperità. Di Genova, à 5 di luglio 1602. V.* dainn.™ Gio. Battista Pallauicino. XII. [R. Archivio cit., Reg. Litterarum X, p. 78] In conformità di quanto con 1 antecedente sciissemo a V. S. 111.™ hauendo, subito che riceuemmo il memoriale di quei libri che desideraua S. S.li fra quelli che si ritrouano nel nostro Spedale degl’ incurabili fattone dar pensiero a due padri della Compagnia di Giesù, acciò usassero ogni diligenza possibile per uedere se ui — 47 — si ritrouauano, ci è stato oggi d . - ■ I L -: ■ . *7 • • • f ■ - ■ . - . , ■ _ ■ 49 1 •\ * f' ' I . APPENDICE Soc. I-Ifi. St. Patri*. — nocumenti e sinto. 4 ELENCO ILLUSTRATO DEI CODICI GRECI SAULIANI SUPERSTITI CHE SI CONSERVANO NELLA BIBLIOTECA DELLE MISSIONI URBANE IN GENOVA I. Codice 2 (31. 6. 1). I proverbi e Cantici con commenti. Membranaceo di ff. 148 di cm. 32 l/2 X 23 ‘/2, linee 30. Datato del 1075. [N.° antico del cod., secondo la registrazione Ferrari, 28. Porta indicata la provenienza « dall’Ospedaletto degli incurabili ». Mutilo in principio, ma siccome al fo. 14 ricorre la prima segnatura A (iv) e i seguenti sono tutù quaternioni, si può stabilire che la lacuna in principio sia di soli quaternioni 3. A folio 148 r. abbiamo la sottoscrizione e la data: sxsXsta/ ^ a>/ X SéXxog aOxr) Sia X£tP°S / a (sic = jiovaxoO) (iTjvl jiodto •/0 EvSixxtàjvog iy èv xw gcpity èxei :--Il Grassi sostituì con X dei puntini la sigla a, che va sciolta come = |iov«x°ù : cfr. Gardthausen, GP. p. 248.] II. Codice 3 (31. 4. 2). Salmi e Cantici con commenti margi- nali. Membranaceo, ff. 309 di cm. 32 l/2 X 18 1/2 linee 14 nel testo, 35 nel commento. Sec. XI. [N.° antico del cod. 22. Non è indicato 1’ autore del Commento : questo è però identico a quello di S. Atanasio, e perciò il codice deve essere uno di quelli di cui fa menzione il memoriale di papa Clemente VIII (cfr. pag. 27). — Il codice ha in principio l’indice di tutti i salmi e cantici. — I ff. 4, 11, 12 sono suppliti con ff. cartacei.] — 52 — III. Codice 4 (31. 6. 2). S. Epifanio. Membranaceo, ff. 328 di cm. 30 X 22 */,, a 2 colonne, linee 29. Sec. X. [N.° antico del cod. 1. Qua e là mutilo o sconciamente demarginato dal legatore. I lemmi sono scritti in onciale e adorni di fregi.] IV. Codice 5 (31. 6. 3) S. Atanasio. Membranaceo ff. 31 di cm. 29 X 22 l/2, linee 32. Sec. XI. [È lo stesso cod. che noi abbiamo diffusamente descritto a pagg. 3 r-3 5 di questa monografia. Va notato che nel margine superiore del i.° foglio una mano della 2.a metà del sec. XVIII (probabilmente dello scolopio P. M. Ferrari, cfr. ibidem, pag. 17 e 18) ha scritto in caratteri latini Albattasius.] V. Codice 6 (31. 6. 4). S. Gio. Crisostomo. Omelie sopra S. Matteo. Membranaceo ff. numerati 295 in cifra greca -t-ff. 6 cartacei non numerati, a due colonne, linee 31. Sec. XI. [N.° antico del cod. 16. I lemmi sono in rosso con fregi. Il codice ha soltanto, e non complete, trentanove omelie. Cfr. il codice seguente.] VI. Codice 7 (31. 6. 5). S. Gio. Crisostomo. Omelie sopra S. Matteo. Membranaceo ff. 314 di cm. 32 1 X 24 , a 2 colonne, linee 31. Datato del 1057. [N.° antico del codice 15. Porta indicata la provenienza « del-1’Ospedaletto degli incurabili Genova 1746». Il codice comincia colla omelia n.° 46 e seguita sino all’ ultima (90-a)> segnando in cifra greca il numero progressivo di ciascuna omelia nel margine superiore. Deve perciò ritenersi come la seconda parte o seguito del cod. precedente. Nei primi fogli furono erase delle colonne intere di scritto. Il i.° foglio ha poi gravemente patito per l’umidità. In fine : itXoz ™>v pipXtcov èv '/uh cu tùk xuk Yj|iù)v 0 , --eoo / èy. zfiz ép[i7)v(ag -roO xaxà |Jtax eùayYSXCov / etoug dtvayiYvtóaniov eCxea&e órcèp èjxoD xoO -tarceivoO 5tà xòv y.v + Cc|ir;v 4"] - 53 - VII. Codice 8 (31. 6. 6). S. Gio. Crisostomo sulla Genesi. Membranaceo a 2 colonne ff. 257 di cm. 34 '/2 X 27, linee 32. Sec. XI. [N.° antico dei cod. 6. Reca segnata la provenienza cosi: « 1646, venduto dallo Spedaletto dei cronici ». In fine una mano recente annota: X B / ìv. xoò tyocpoOg xoO èffl ji / 7tY)7tsxpocoy.cc : 0 (?). Al foglio 100 recto in margine, con inchiostro recente, xsXoj xoji (sic) osjixwv y.aJ .... I lemmi delle singole omelie sono scritti in rosso. Cfr. Allen , op. cit.] Vili. Codice 9 (31. 6. 7). S. Gio. Crisostomo Omelie sopra S. Matteo. Cartaceo ff. 38 di cm. 30 X 21 '/2, linee 30. Scc. XV. [N.° antico del cod. 36. Contiene le omelie 38 a 44. Infine sonvi dei frammenti.] IX. Codice io (31. 6. 8). S. Gio. Crisostomo sopra S. Paolo. Cartaceo, di ff. 330 di cm. 30 X 20, linee 30. Sec. XIV. [N.° antico del cod. 12. In principio ha l’indice delle omelie: manca il titolo dell’opera: in fine, a ghirigoro, in rosso: xsXog xeXog xsXoj xsXog xvjc; x npòg ’scpsoioog stuoxoXùìv ègr/YT)ascoj. Marche della carta, varie : in fine predomina l’ancora inscritta in un cerchio.] X. Codice ii (31. 6. 9). S. Gio. Crisostomo. Omelie. Membranaceo a 2 colonne ff. 369 di cm. 33 X 24 lj2, linee 27 (e qualche volta 25). Sec. XI. [N.° antico del cod. 17. Ha in principio la Tabula (f. 1 7uvai; àpiaxoj xrjs yPa!f% toù pipXJoo). È lacunoso qua e là, e le lacune sono già segnalate da mano antica in note marginali, come a f. 361 verso, in fondo: èpa èvìkcòs àd/ 6x1 r/ pipXog oùx <[saxi^> nXY]pou|isvrj : cfr. anche f. 362. Il codice è bellissimo, scritto con magnificenza ed attenzione, alluminato, e porta dopo l’indice (f. 2 verso) in fino unciale l’iscrizione : ó xrjs |iovfj£ rcpósdpog ìu)OY)(p Xoyiov u)v èpaoxrjs xwv aocpc&v ìwocvvou ij;«)pa(£a)v xy]v rcpoacpépsi p£pXov xq) x<5v àOXwv xaynctxwv Ttpcoxoaxàxig « Da questa iscrizione (osserva giustamente il Grassi) un anonimo annotatore che illustrò alcuni de’ codd. di questa biblioteca — 54 — in pagelle inserite ne’ volumi deduce (credendo il Giuseppe in essa nominato il patriarca di Costantinopoli) essere scritto nel sec. xiii: qui si parla chiaro non di un patriarca, ma di un Egumeno o Abbate... ».] XI. Codice 12 (31. 6. 10). S. Gio. Crisostomo, Omelie. Membranaceo a 2 colonne ff. 305 di cm. 32 X 23, linee 34. Sec. XII. [N.° antico del cod. 18. Furono suppliti con carta alcuni fogli in principio. Varie mani : anzi il prefato annotatore dice che la scrittura « pare del sec. XI, ma vi è fondamento di sospettare che sia scrittura di secoli più bassi fatta ad imitazione delle più antiche, cosa che si vede di soventi in codici scritti da mano diligente ».] XII. Codice 13 (31. 6. n). S. Gio. Crisostomo, Omelie. Membranaceo a 2 colonne ff. 297 di cm. 30 X 23 ’/2, linee 29. Sec. XI. [Gli ultimi 4 fogli sono assai guasti dal tarlo nel margine inferiore. Il codice è cosi descritto dall’ALLEN : Chrysostom Homelies : sec. xi, foli 297 ; on f. 4 is follo-wing librarian’s index in a late hand: Xoyoi to xP^oa'coli otócpopoi peppaivov (Similar Greek forms for « membranaceus » are ps|ippàvY)g Vitt. Em. (Rome) Ms. graec. 10 (a. 1641), pejippivov Bodl. Barocc. 230 and, no doubt, the strange deve-lopments 6p and Seópavog, Ssùpavov in Vat. gr. 1414 ap■ Nolhac, Mélangés d'archeologie et d'histoire, 1886, p. 253- The S indeed is inexplicable, but for the su cfr. vosuppiw — novembri) Xóy01 X. This hand recurs in Ms. 14, è£ai>spov xoò xPYlaoaxoI1 , Ms. 19 òjuXtai xoù iieyàXou paaiXsiou elg xòv TipocprjxYjV yjaaiav psppaìvov, Ms. 29 (Ioannis Climaci Siala Paradisi) but erased.] XIII. Codice 14 (31. 6. 12). S. Gio. Crisostomo, Omelie 24. Membranaceo a 2 colonne di ff. 3°3 di cm- ^8 X 22, linee 33* Sec. XI. [N.° antico del cod. 27. — Al foglio 185 verso, in caratteri pressoché svaniti ed illeggibili, fu rilevata dall’Alien la nota seguente : vTs povjftsi (anzi poJftei) x<ì> a# 8oùXq> avayvwa... xal xXiptxòv oo a _ 1% àyias aocptag N sxoug ac^O- |i£p £ (più probabilmente è) ;tpo) xrjg x^ Y svCostog wpa wg sva.... [Anno dell’E. V. 1261.] - 55 - XIV. Codice 15 (31. 6. 13). Sermoni di S. Gio. Crisostomo. Membranaceo, con belle miniature, a 2 colonne ff. 399 di cm. 27 ‘/2 X 21, linee 24. Sec. XI. [N.° antico dei cod. 25. Come avverte un’illustrazione ms., il codice contiene, più che veri e propri sermoni del Crisostomo, contesti fatte dalle opere di lui da Teodoro Patricio Dafnopate 0 Magister. Parecchie miniature, e più spesso le superbe iniziali dorate, furono brutalmente recise ed asportate. Tra il fo. 123 e il 124 havvi una lacuna, già, del resto, avvertita da mano antica che nota: adverte quod non videntur consequi quae sequuntur.] XV. Codice 16 (31. 6. 14). S. Gio. Crisostomo, Raccolta di Sermoni. Membranaceo a 2 colonne ff. 265 di cm.3072 X 22, linee 32. Sec. XI. [Il codice è mutilo in fine. Nota ms. : « II compilatore di questo centone fu un certo Teodoro Magister o Daphnopates (cfr. cod. antec.) come si ricava da un codice simile della biblioteca Vaticana ».] XVI. Codice 17 (31. 6. 15). S. Basilio, Omelie ix. Membranaceo a 2 colonne ff. 305 di cm. 29 X 23, linee 23. Sec. X. [N.° antico dei cod. 3. II codice è assai bene scritto e alluminato. In fine appare il nome del possessore, scritto in onciale e in rosso: fj SiaipoujJiévyj àSiatpéxwg xat a!)vajtTO|iévY) Siaipsxwv itavayta xptàg ó 0g xóv SoOXóv aoo ùtìayjcp xòv xoùxo xxrjocc|xevov jtpsajÌEicus xtòv iepap^ùv gaaiXcioo xai yp^yoptoo • Sia navxòg xsix^s Ttavotxsiag Sóasi; • àji^v. — È uno dei codici che Napoleone I fece trasportare a Parigi, e ne ritornò col bollo di quella biblioteca Imperiale. Il foglio 84 è aggiunto e scritto da mano assai recente.] XVII. Codice 18 (31. 6.16). S. Basilio Magno, Omelie e lettere. Membranaceo a 2 colonne di f. 323 di cm. 32 X 24‘/2, linee 31. Sec. X. [N.° antico del cod. 38. Iniziali dorate. Lemmi in rosso.] — 56 - XVIII. Codice 19 (31. 5. 1). S. Basilio sopra Isaia. Membranaceo ff. r6o di cm. 27 '/2 X 2i, linee 32. Sec. XII. [N.° antico dei cod. 32. Porta indicata la provenienza « dallo Spedaletto degli incurabili, 1746 ». Nel margine superiore appena leggibile: òjuXtou xoò jìsyv "K&avoc VCy.0Xd.0u.— Quale sarà fra i tanti Nicolaus segnati dal Gardthausen, nella lista a pag. 310 sgg.?] XXIII. Codice 24 (31. 5. 6) Teofilatto sulle epistole di S. Paolo. Membranaceo ff. 335 di cm. 26 X 19 '/2> ^nee (nei ff. 180 sgg.) 35. Sec. XI. [N.° antico del cod. 20. In principio (fino al f. 179) il testo è in caratteri assai grandi, in minutissimi il commento; il rimanente è tutto in questo carattere minuto. Tale maniera di - 57 — scrittura faceva sospettare al buon P. Ferrari che il codice sia stato scritto o vivente o poco lungi dalla morte dell’ autore. (Teofilatto, arcivescovo di Bulgaria, fiori verso il 1080).] XXIV. Codice 25 (31. 5. 6). Eutimio Zigadeno sopra i salmi. Cartaceo ff. 333 di cm. 24 X 18, linee 31. Sec. XIII. [N.° antico del cod. 21. In principio è mutilo, qua e là assai danneggiato dai tarli. Certo doveva essere in migliori condizioni al tempo di mons. Filippo Sauli, se è su questo che egli eseguì (come pare) la sua versione latina di Eutimio Zigadeno. Cfr. p. 11, nota 3 e p. 16 della presente monografia]. XXV. Codice 26 (31. 5. 7). Eutimio Zigadeno Panoplia Dogmatica. Cartaceo ff. 382 di cm. 32 X 22, linee 30. Sec. XIV. [N.° antico del cod. 26. Porta segnata la provenienza : « Venduto dallo Spedale degli incurabili » ; e in fondo all’ indice è scritto: « ospitaletto ». — Contiene anche la lettera di S. Atanasio ad Antioco. Il codice fu portato a Parigi sotto Napoleone I e ritornò col bollo della biblioteca Imperiale.] XXVI. Codice 27 (31. 5. 8). Serapione contro i Manichei, e diversi. Membranaceo a 2 colonne ff. 353 di cm. 34 X 24, linee 30. Sec. XI. [N.° antico del cod. 37. Porta pure indicata la provenienza dall’Ospedaletto contiene, oltre Serapione, molte altre scritture, delle quali a noi giova solo rilevare il Sermone di S. Atanasio contro gli Idoli, giacché evidentemente il codice è quello indicato nel memoriale e nella lettera al Pinello dell! 11 luglio 1602, riferita a pag. 40. Per il codice cfr. Pitra, Analecta sacra, 1888, p. 44.] XXVII. Codice 28 (31. 5. 9). Clemente Alessandrino (il Pro-treplicus e il Paedagogus) e Origene (la Pbilocaìia). Cartaceo ff. 215 di cm. 30 ya X 22, linee 30. Sec. XV. |N.° antico del cod. 5. Ben conservato. Siccome il codice porta anche il noto soprannome di Clemente (KX%evcos o-ptojiaxicog) derivatogli per essere l’autore degli Stromati, credettero alcuni che il codice possedesse anche quelli; — ma... non vi sono!...] - 5S - XXVIII. Codice 29 (31. 5. 10). S. Giovanni Climaco Sermoni. Membranaceo ff. 203 di cm. 26 X 23 l/2, linee 21. Sec. XI. [N.° antico dei cod. 31. In principio (f. 1 r.) vi è l’indice A — /\ (1 a 30) che a f. 8r viene ripetuto, ma in ordine inverso' /\ — A (3° a *)• Scolii marginali, spesso in onciale.] XXIX. Codice 30 (31. 4. 4). Simeone monaco Sermoni. Membranaceo ff. 320 di cm. 26 '/2 X 18 1 /2 » linee 30. Sec. XII-XIII. [N.° antico del cod. 23. Porta segnata la provenienza. Al foglio 319 r. si trova il nome dello scriba nell’ esortazione seguente : rcapaxaXùj oaoi àvaYivajoxsxs T. »jv TiapoOaav [ìeXtppoTOV $eiotóty]v xal (J'oxw'p^i pipXov xal Ouèp xoò Ypà^avxog eùxeXoùg |i.ovaxoò xal IspoSiaxóvoo YePaai|ioo à|iapxcoXoù • xoò xal àpxi|iav5plxoo xPvì!J'aTÌaav'C0S èv xfl véqc |iovjj x?j èv xy) vYjaw x^*P * òntog s6poi|ii eXeog èv •fjiispqc xplascog • àgicóaetE (e non àgiwaExs, come in Allen) 8è xal Ojiag xoùg èvxi>YX*V0VxaS * y,0“ itó&oo 0eoiJ xal à.'fà.Kvjg è^ópou xaóxrjV àvaYivtóoxovxag aùxòg 6 rcotrjxYjS xal 5y]|j.ioopyò£ xù)v aTtavxwv xPtax°S ° Oeòg xal óiòg xoù 0£oO xal otòg xrjg Ttavup.vVjxou xal roxvoTCepaYvoo 7tavo7tEpeoXoYV)Hèvir]£ navuixe-psv5ó£oo TiavaYias ©soxóxou xal Tiavaxpàvxou |iaplag xwv alwvlwv àYaS-ùjv è7tcxox£ìv èv xtf q>op£p Agapito Diacono a Giustiniano — Antioco Monaco ad Eustazio. Caitaceo ff. 191 di cm. 25 X 19» linee 34. Sec. XIV. [N.° antico del cod. 33. La lettera di Agapito (cfr. Brunet) ha le iniziali di ciascun capitolo in rosso, in modo da formare l’indirizzo acrostico seguente: TCO ©€IOTATCO KAI 6YC6B6CTATC0 BACi A€l HMCON IOYCTINIANC0 ArAnHTOC O 6AAXICTOC ‘AIAKONOC. L’operetta comincia al foglio che attualmente è il quinto del codice, giacché i primi quattro fogli sono evidentemente spostati e spct - 59 — tano alla seconda opera di cui si dirà. — Finisce a f. 11 r. — Segue a fo 12r. l’opera di Antioco Monaco di Medosaga che il Grassi dice mancar del titolo nel nostro codice. Il lemma veramente è sbiaditissimo e difficile a rilevarsi, ma c’ è. Eccolo coi compendi poleografici sciolti : àvx’.ó/_ou |xovayvo5 xfjg Xaópag xoù àp(3à oapp- Ttpòg eùoxoWkov y}y°^Ix£V0V li0V^S àxxaXivijg TtóXswg àYyópas xrjg yaXaxlag. A fo. 131 comincia una nuova opera adespota, che pare essere un dialogo in cui interviene un Sarnora, forse lo stesso S. di cui abbiamo il dialogo sull’ Eucaristia (Biblioteca veterum Patrum Graec., Paris, 1614, tomo II). Incomincia: '0 Osióxaxog SàS èXegs cpàoxcuv xxX. Il codice è mutilo in fine.] XXXI. Codice 32 (31. 4. 6). Scritture diverse in materia di concilii e canoni ecclesiastici. Cartaceo ff. 309, di cm. 22 X 1b linee 29 nella prima mano 36, nella seconda. Datato del 1322. [N.° antico del cod. 30. — Eccone il contenuto nella prima parte, scritta da mano più antica : 1) Lettera del patriarca Tarasio al papa Adriano; 2) Gio. Zo-nara monaco, esposizione dei canoni degli apostoli; 3) £x$eaig xwv àXXo)v auvó5a)v: adespoto, noto come ms. al Fabricio; 4) Epistola canonica di S. Basilio a Amfilochio; 5) Epistola di S. Atanasio rcpòg £oug come lesse il Grassi) g to X èv jxvjvl òxxujppói) sio K N E [1322]. XXXII. Codice 33 (31.5. 11). Vitae Sanctorum mensis Ianuarii. Membranaceo, a 2 colonne, ff. 207 di cm. 31 X 22, linee 30. Sec. X. [N.° antico del cod. 13. Porta un brandello di cartapecora colla scritta: « 1746 Venduto dallo Spedale degl’incurabili». Ecco, sommariamente, il contenuto: i) S. Basilio, encomio di S. Gordio, mutilo in principio; 2) Vita di Michele prete e sincello di Gerusalemme; 3) Vita di Teodoro monaco di Cora; 4) S. Gio. Crisostomo, sopra la S. Teofania; 5) S. Basilio di Cesarea, sopra il Battesimo; 6) Gregorio Teologo, sopra i Santi Lumi; 7) Teodoro Patricio Dafno-pate, sopra la Traslazione della mano del Precursore; 8) Martirio di S. Carterio; 9) Martirio di S. Polieucto; 10) Vita di S. Marciano prete di Costantinopoli. 11) Vita di S. Teodosio archimandrita, scritta da Teodoro vescovo di Petra, suo discepolo; 12) Martirio di S. Caritina. 13); Martirio dei tre santi fanciulli Speusippo, Elasippo, Melesippo e della loro madre Neonilla. Alcune di queste vite concordano con quelle del Metafraste, altre sono ignote sin qui agli agiografi. Al foglio 120 v. m. ree. di un possessore Ntx(oXaou?), non notato dallo Allen.] XXXIII. Codice 34 (31. 5. 12). Vitae Sanctorum mensis Fe-bruarii-Maii. Membranaceo a 2 colonne ff. 238 di cm, 29 X 21, linee 32. Sec. XI. [N.° antico del cod. 4. Mutilo in principio, contiene: 1) Sermone di S. Amfìlochio (Bib. vel. PP., Paris, 1624, t. II, p. 837); 2) Martirio di S. Teodoro capitano; 3) Vita di S. Mar-tiniano, del Metafraste; 4) Vita di S. Teodoro Tirone, del Metafraste; 5Ì Martirio dei SS. quarantadue, scritto da Evodio, 6) Martirio dei SS. quaranta; 7) Vita di S. Alessio; 8) [S. Gio. Crisostomo] sull’Annunziazione della Vergine; 9) Altro Sermone c. s. cfr. ed. Montfaucon, II, p. 839; 10) Passione di S. Antipa martire; 11) Martirio di S. Giorgio; 12) Martirio di S. Marco evangelista; 13) Encomio di S. Basileo arcivescovo d’Amasea; 14) Epitome dei viaggi ed atti di S. Giovanni evangelista ; 15) S. Gregorio Nisseno, Elogio di S. Teodoro martire; 16) Vita di San Filareto.] XXXIV. Codice 35 (31. 5. 13) Vitae Sanctorum mensis Iunij-Augusti. Membranaceo a 2 colonne ff. 144 di cm. 29 X 21, linee 32. Sec. XI. [N.° antico del cod. 2. — Eccone il contenuto: 1) Discorso sopra la natività, educazione, decollazione di S. G. Battista e del ritrovamento del suo capo; 2) Commentario sulla vita dei SS. Pietro e Paolo ; 3) Martirio di S. Procopio ; 4) Mar- — 61 — tirio di S. Panteleemone e compagni; 5) Giuseppe Flavio, Martirio dei Maccabei; 6) S. Efraimo, sulla Trasfigurazione; 7) Sermone di S. Gio. apostolo sulla Vergine ; 8) Sulla Decollazione di S. Gio. Battista. [Di questo sermone fu eseguito un facsimile offerto a Papa Leone XIII in occasione del suo Giubileo Sacerdotale, e per suo ordine depositato nella biblioteca Vaticana — La biblioteca delle Missioni Urbane ne ha pure una copia]; 9) Discorso sull’ invenzione della veste della Vergine. — Il codice è mutilo in fine. XXXV. Codice 36 (31. 5. 14). Vitae Sanctorum mensis Novembris. Membranaceo a 2 colonne ff. 240 di cm. 30 X 25, linee 25. Sec. X. [N.° antico del cod. 8. Esso era in origiue adorno di miniature, che vennero tagliate via. — Contenuto: 1) S. Gregorio Nisseno, vita di S. Gregorio taumaturgo; 2) Martirio di S. Platone; 3) Vita di S. Amfilochio; 4) Vita di S. Gregorio vescovo d’Agrigento. 5) Martirio di S. Caterina. 6) Epitome sui viaggi di Pietro. 7) Vita e martirio di S. Pietro arcivescovo d’Alessandria ; 8) Martirio di S. Mercurio; 9) Vita di S. Alipio; 10) Martirio di S. Giacomo persiano; 11) Vita di S. Stefano il giovane; 12) Vita di S. Andrea apostolo.] XXXVI. 37 (31. 5. 15). Vitae sanctorum mensis Decembris. Mem-» branaceo a 2 colonne ff. 254 di cm. 33 X 25, linee 25. Sec. X. [N.° antico del cod. ir. Anche questo aveva in origine delle miniature che vennero tagliate via. — Fu portato a Parigi, donde tornò nel 1815 ; e conserva il bollo della Biblioteca Imperiale. — Contenuto: 1) Martirio dei SS. Tirso, Lucio, Filemone ed Apollonio, [Metafraste]; 2) Martirio di S. Eleuterio; 3) Commento sul profeta Daniele e i tre fanciulli Anania, Azaria e Misael, [Metafraste]; 4) Passione di S. Bonifacio romano; 5) Martirio di S. Sebastiano e compagni, [Metafraste] ; 6) Martirio di S. Ignazio Teoforo, [Metafraste]; 7) Martirio di S. Giuliana in Nicomedia, [Metafraste] ; 8) Martirio di S. Anastasia, [Metafraste] ; 9) Martirio dei dieci Santi di Creta, [Metafraste]; 10) Vita di S. Eugenia e de’ suoi genitori, [Metafraste]; 11) Vita di S. Teodoro Grapto e di suo fratello Teofane, [Metafraste]; 12) Passione dei martiri Inde e Domna e dei venti mila martiri di Nicomedia, — 6 2 — [Metafraste]; 13) Vita di S. Marcello, archimandrita del monastero degli Acemeti, [Metafraste]; 14) Vita di S. Melania romana, [Metafraste] ]. XXXVII. Codice 38 (31. 5. 16). Sermones Variorum. Membranaceo ff. 196 di cm. 27 X 21 l/2, linee 22. Sec. XIII. [N.° antico del cod. 24. Ritornato da Parigi nel 1815. Ha nove grandi miniature su fondo d’ oro, che occupano l’intero foglio. Si trovano al foglio 25 v, 41 v, 51 v, 57 v, 75 v, 81 v, 88 v, __1 157 v, 162 v. Al foglio 63 v: Xs |io0 owaov tòv YP<*av, ma U nome dello scriba manca. Contenuto: 1) Codex Apocryphus N. T. [cfr. Fabricius]; 2) S. Germano, sulla Presentazione; 3) Greg. Nazianzeno in Sancta Lumina; 4) S. Amfilochio, sulla Purifica? zione; 5) [S. Gio. Crisostomo] sull’Eucaristia; 7) S. Gregorio Teol., sulla Risurrezione; 8) [S. Gio. Crisostomo] sull’Ascensione; 9) San Gregorio Teol. sulla Discesa della Spirito Santo; 10) S. Gio. Cris. sopra S. Filogonio; 11) S. Gio. Cris. sulla Natività; 12) Martirio dei SS. Pietro e Paolo ; 13) [S. Gio. Cris.] sulla Trasfigurazione; 14) S. Epifanio monaco, sulla dormizione della Vergine; 15) Vita di S. Andronico e della consorte Ata-nasia. — Il codice è mutilo in fine]. XXXVIII. Codice 39 (31. 4. 17). Filone Giudeo, Opere. Cartaceo ff. 652 di cm. 32 X 22 l/2, linee 30. Sec. XV. [N.° antico del cod. 10. Contiene quarantasei scritti di Filone, di cui è l’indice in principio e il titolo cptXtovog couSaiou Xóyoi p.£. Grosso volume bene scritto e ben conservato; ma (contrariamente a quanto dice una nota a mano sul i.° foglio) non contiene nulla che di Filone non sia già conosciuto ed edito. Il codice deve essere stato scritto verso l’epoca dell’ invenzione della stampa]. XXXIX. Codice 40 (31. 4. 7). Simplicio sulle categorie d’Ari-stotile. Cartaceo ff. 163 di cm. 23 X 15, linee 40. Sec. XV. [È l’unico codice della Collezione che non tratti materia ecclesiastica, l’unico che non sia stato visto dal P. Ferrari, nel 1744 : onde io credo che questo non provenga dal fondo Sauliano.] - 63 — PROSPETTO. CODICI DATATI Anno 1057 c°d- 7 « 1075 » 2 » 1322 » 32 » 1261 (nota di un possessore al cod. 14). T6AOC SCRIBI Gerasimo di Chio cod. 30 Teodorus » 2 Nicolaus » 23 POSSESSORI ecc. Iosephus cod. 11 id. » 17 Nic[olaus?] » 33 1 IL TRATTATO SULL’ ASTROLABIO DI ANDALÒ DI NEGRO RIPRODOTTO DALL’EDIZIONE FERRARESE DEL 1475 CON PREFAZIONE DEL SOCIO GIROLAMO BERTOLOTTO Soc. Lig. St. Patri*. — Documenti e stuìi. 1 ■ ■ ■ 1 ' . INTRODUZIONE I. compianto vice presidente della nostra Società Ligure di storia patria, avv. Pier Costantino Remondini (i), aveva in animo di procurarci un’ edizione critica delYOpus praeclarissimum astrolabii di Andaló Di Negro, fatta, oltrecché sulla rarissima stampa ferrarese del 1475 (di cui (1) Pier Costantino Remondini morì il 9 Marzo 1893 in età di 63 anni. Egli fu una delle più belle intelligenze che onorassero la patria in questi ultimi tempi, e la versatilità del suo ingegno, la profondità della sua dottrina, la molteplicità delle sue cognizioni, non erano superate che dalla modestia del suo carattere. Aveva l’animo virilmente tenace, e le difficoltà non erano che uno sprone alla sua intelligenza pronta ed acuta. Conosceva gran parte delle lingue antiche e moderne e le scienze più astruse non aveano segreti per lui. Gli amici più intimi, nei molti anni onde furono legati con lui, non ricordano di avergli mai chiesto cosa sopra cui non sapesse dare subito soddisfacente risposta. Ma dove specialmente si elevava ad altissimo grado fu nelle discipline musicali. Con vera passione di artista e di erudito, si era fatto paladino della riforma — 52 — diremo), anche sui parecchi Codici che delle opere di Andalò posseggono le biblioteche nostrane ed estere (i). La rarità estrema dell’ edizione ferrarese, di cui si hanno in Italia soltanto due copie, (alla Palatina di Modena, e nella biblioteca privata del principe Bon-compagni) ed altrettante nelle biblioteche estere (una alla Nazionale di Parigi, l’altra all’Università di Leida) dimostrerebbe, già di per sé, più che plausibile il proposito del Remondini. Ma egli non avrebbe limitata 1’ opera sua ad una semplice riproduzione critica del testo, giacché meditava (come dalle conversazioni avute con lui più volte ho potuto apprendere), anche una ponderata introduzione all’ opus stesso del Di Negro, nella quale intendeva illustrarlo sotto il rispetto scientifico ; e ben degnamente sarebbe riuscito, nel compito che si assumeva, il Remondini che già al IV Congresso internazionale degli Orientalisti, tenuto in Firenze nel 1880, aveva illustrato l’astrolabio arabico donato alla nostra Società storica dal marchese Lazzaro Negrotto (2). della musica liturgica secondo i dettami della Chiesa, e vi avea dedicato tutto il fervore di un missionario, scrivendo dottissimi articoli, specialmente nel periodico La Musica Sacra di Milano, e tenendosi in continua corrispondenza coi più illustri cultori della musica sacra italiani e stranieri, non risparmiandosi nè fatiche, nè, occorrendo, dispiaceri, pur di ottenere il nobilissimo scopo. Già consigliere comunale di Genova, era membro del locale Civico Istituto di Musica, e, tra le diverse onorificenze conferitegli, va ricordata quella di Socio Onorario dell Accademia del R. Istituto Musicale di Firenze. U ) Vedi in fine di questa introduzione il Catalogo delle opere di Andalò, sin qui conosciute, a stampa o manoscritte. (2) Remondini (P. C.), Intorno all’ Astrolabio Arabico posseduto dalla Società Ligure di storia patria di Genova, Firenze, 1880 [Estratto dagli Atti del IV Congresso Intenuiiionale degli Orientalisti\. - 53 — Se al Remondini — rapito immaturamente alla famiglia ed agli studi — fosse bastata la vita per poter colorire il disegno eh’ egli aveva in mente, avrebbe di certo — fra le altre cose — risolto un dubbio che il più recente biografo di Andalò di Negro, il comm. Cornelio Desimoni (i), aveva ultimamente espresso* sulla maggiore o minore esattezza della cognizione degli astri in Andalò. Dice infatti il Desimoni: « Più che su gli altri scritti, ho potuto fare qualche studio del trattato d’Andalò sulla costruzione e sull’ uso dell’Astrolabio. Ho consultato i manoscritti di Parigi e di Venezia, non la rarissima impressione di Ferrara del 1475, che ho cercata invano (2), e della quale seppi esser posseduto un esemplare da D. B. Boncompagni, che si compiacque comunicarmene un brano e mi profferse ogni altro schiarimento. In esso trattato trovai buona disposizione delle parti e un’ esposizione compiuta del soggetto secondo il tempo in che fu scritto. Una sola cosa mi urta alquanto, ed é la Tavola in fine dell’opera, ove sono notati i nomi delle principali stelle colle loro mediazioni di cielo e declinazioni. Da questa Tavola mi pare di dover supporre che la cognizione degli astri in (1) Intorno alla vita ed ai lavori di Andalò Di Negro matematico ed astronomo genovese del secolo decimoquarto, e d’altri matematici e cosmografi genovesi. Memoria di Cornelio Desimoni seguila da un catalogo dei lavori di Andalò Di Negro compilato da B. Boncompagni [Estratto dal Bollettino di bibliografia e di storia delle sciente matematiche e fisiche (VII - Luglio 1874) Roma, 1875. Vedi anche la recensione di questo dotto lavoro del Desimoni fatta da A. Favaro alla R. Accademia di sciente, lettere ed arti di Padova (Padova, Randi, 1876) e quella comparsa in Giornale Ligustico, 1875, p. 93 segg. (2) Potò invece averla (a mezzo della biblioteca Universitaria) il Remondini dalla Biblioteca Estense di Modena, ed è appunto su quel rarissimo incunabolo clic io ho condotto la presente ristampa. Vedi più sotto a pag. 71 sgg. — 54 — Andalò non tosse così esatta, come ne lo lodano i contemporanei ; perché (tra le altre osservazioni) la mediazione così detta é quasi costantemente minore di dieci gradi, poco più o poco meno, da quella che il La Lande assegna all ascensione retta nelle sue Tavole astronomiche (i). Di che verrebbe che le indicazioni del Di Negro sarebbero più o meno copiate da quelle di un astronomo del IX o X secolo, senza che ei tenga conto dei mutamenti di luogo che sarebbero avvenuti fino al secolo XIV, per la processione degli equinozi. Se non che ho un indizio o un sospetto che tale Tavola non sia in tutti i manoscritti del suddetto trattato: e considerando che i nomi delle stelle sono ivi recati in arabo, sebbene storpiati dai copisti, inclino a credere che essa sia stata tratta da un autore arabo, ed inserita nel manoscritto e nello stampato di Andalò da qualche scolare o studioso, come a quei tempi era costume di fare. Aggiungo parermi che l’autore arabo del IX o X secolo debba essere Albategnio, che fiori appunto tra il fine dell uno e il principio dell’altro, e che vedremo più (i) «Si sa che mediazione del cielo chiamavasi quel punto dell’eclittica che si trova sul meridiano insieme con una data stella. Il che è indicato da Andalò colle parole poste in c"apo ad una delle colonne della sua Tavola: gradus cum quo (stella) coelum mediat. Tale mediazione si avvicina assai più che non la longitudine all’ascensione retta; e da quest’ultima non differiva, secondo Andalò ed altri, che di gradi 2 l/2 al più, alternando in aumento e in diminuzione. Sulle prime ho creduto che l’Autore avesse voluto indicare appunto l’ascensione retta, vedendo che i gradi nella colonna procedevano non pei singoli segni del zodiaco, ma da uno a 360; considerato anche che l’ascensione retta è la naturale coordinata della declinazione che le sta nella colonna allato. Ma vidi poi che altri trattati sull astrolabio usavano anch’essi un sistema misto di coordinate; per es. la longitudine e la declinazione, come il P. Ignazio Danti nell’ edizione del 1569 del suo '1 ratlato dell' uso et della fabbrica dell’astrolabio » [Desimoni]. — ss — sotto essere stato anche studiato da un altro genovese contemporaneo (i). Ma la principale ragione per cui tengo Albategnio come autore della Iavola, si é che ivi vedo dimenticata, con altre stelle principali (come l’alfa della Corona boreale), l’alfa dell’idra, o la solitaria (.Alphard). Della quale ultima omissione in ispecie Albategnio viene accusato dall’Arabo es-Sufi ». Disgraziatamente, il Remondini non ci ha lasciato altri materiali, se non che le bozze di stampa del trattato di Andalò sull’ Astrolabio, riprodotto da una copia ricavata dal codice Riccardiano (2). Tuttavia non parve bene che anche questa parte, secondaria se vuoisi, del lavoro concepito e disegnato dal Remondini, andasse totalmente perduta per effetto della immatura dipartita del caro estinto; e perciò il comm. L. T. Belgrano, segretario generale della nostra Società e il comm. C. Desimoni, preside della sezione di Storia della Società stessa, vollero affidare a me le cure di una ristampa del trattato del Di Negro. Il compito sarebbe certamente superiore alle mie forze, se io intendessi supplire, anche in minima parte, al mancato commento scientifico del Remondini; ed avrei ripugnanza a parlare sul serio di cose di cui ho convinzione d’intendermi troppo poco; ma se può valere la buona intenzione di provvedere da parte mia ad una diligente riproduzione dell’opera del Di Negro, senza che si richiedano da me disquisizioni astronomiche, ben volentieri (anche per rendere un postumo (1) È questi Maestro Giovanni da Genova, archiatro di papa Clemente V, e dotto astronomo del sec XIV. Cfr. la citata Memoria, p. 20-22. (2) Per il codice cfr. il citato Catalogo. — 56 — omaggio ed un affettuoso ricordo all’amico estinto) mi sobbarco a tale fatica. Credo intanto opportuno premettere alcune notizie biografiche su Andalò Di Negro, per le quali dichiaro subito di valermi ampiamente e liberamente della citata Memoria del comm. Desimoni, eh’ egli stesso ha voluto, con squisita gentilezza, mettere a mia disposizione. Tutto quel poco che vi può essere di nuovo, lo debbo — e candidamente lo dichiaro — alla cortesia del prof. Giuseppe De Blasiis della R. Università di Napoli, ed ai nostri Belgrano e Desimoni, le cui dotte conversazioni, quanto sieno preziose, sei sanno i giovani e tutte le persone avide di ammaestrarsi e di conoscere le più oscure pagine della storia genovese. II. La famiglia Di Negro é nobilissima in Genova, e fu onorata fin dal primo secolo della Repubblica della suprema dignità in diciotto Consolati o del Comune o dei Placiti, oltre le parecchie ambascerie e il comando del mare, a cui furono chiamati i discendenti. 1 quali godettero anche diritti signorili in Acri di Siria, nell’ isola di Cipro e in Liguria oltre-giogo. Leone di Negro fu Vicario per la Repubblica nel 1279 nell’Armenia minore, e il suo consanguineo Bartolino imprestava denari a quel Re. Carlotto Di Negro era uffiziale di mare, confidente e nipote del celebre ammiraglio Benedetto Zaccaria ; talché quest’ultimo nel 1295, inviando al Re di Francia, Filippo il Bello, il chiestogli disegno di spedizione marittima contro l’Inghilterra, gli inviava in pari tempo Carlotto - 57 — a dichiarargli a bocca tutto quello di più che per iscritto non si voleva o non si poteva stendere. Celebrata dai nostri annalisti é la virtù e l’umanità dell’ ammiraglio Saiagro Di Negro, spiegata in occasione della sua vittoria contro i Catalani nel 1334. Ora di questi illustri uomini fu più chiaro a’ suoi tempi (e più fuori che in patria) il loro consanguineo Andalò Di Negro. Vissuto egli, come pare, quasi sempre fuori e viaggiando, i nostri archìvi, che ci forniscono copiosi Atti notarili della famiglia in genere, sono quasi muti sul conto di lui; tuttavia le ricerche non furono al tutto infruttuose. Altri avendo trovato un Andalò del fu Saiagro, credette eh’ egli fosse il figlio del celebre ammiraglio testé lodato; ma vi si oppone la cronologia, perché Saiagro fiori nel 1334, quando Andalò assai vecchio contava gli ultimi anni della sua vita (1). I biografi (2) ammettono in generale che egli morì verso il 1340; ad ogni modo egli è chiamato vecchio venerabile dal suo discepolo Giovanni Boccaccio, nell’opera sulla Genealogia degli Dei (3); la quale opera fu dedicata ad Ugo IV di Lusignano, Re di Cipro e di Gerusalemme, che morì nel giorno 10 di ottobre del 1359. Nell’altra sua opera: De casibus illustrium virorum (4), il Boccaccio dice essere stato in sua gioventù discepolo di Andalò di Negro in Napoli. Benedetto Mojon (5), uno (1) Giustiniani (Agostino), Annali della Repubblica di Genova (Genova, Ca-nepa, 1854) II, 53-55. (2) Spotorno (G. B.), Storia letteraria della Liguria, II, 125; Grillo (L.), Elogi di Liguri illustri (2. ed., Genova, 1849), I, no. (3) Libro XV, c. 6. (4) Clr. la versione fattane da Giuseppe Betussi (Firenze, F. Giunti, 1598), p. 122. (5) Grillo, op. cit, I, no. _ - 58 - dei più accurati biografi di Andalò, aggiunge che la sua vita durò oltre i sedici lustri. Considerato tutto ciò, si capisce che egli deve esser nato non più tardi del 1260. Troviamo noi di fatto nell’Archivio de’ Notari già nel 1274 un Andalò Di Negro, figlio di Egidio; lo ritroviamo con un fratello Carlotto nel 1287 e nel 1292, e lo vediamo sopravvivere a Carlotto nel 1304. Da una pergamena del nostro Archivio di Stato impariamo che nel 1314 Andalò fu scelto dalla signoria di Genova per ambasciatore presso Alessio Comneno Imperatore di Trebisonda, e che egli riuscì a comporre colà pace e ammenda onorevole a favore de’ Genovesi (1). Se non che la scrittura, che sola ci resta di tale trattato, fu distesa dopo le orali convenzioni seguite dalla bolla d’oro imperiale, ed essa non porta più nell’interno il nome di Andalò; probabilmente perchè egli impaziente di riposo, come di consueto, aveva ripreso i suoi viaggi. D’allora in poi cessano nelle nostre carte contemporanee le notizie d’An- (1) Nel R. Archivio di Stato in Genova si conserva una serie di 18 Buste intitolate sul dorso : « Materie Politiche Privilegi Concessioni Trattati diversi e Negoziazioni ». In una di queste buste, col num. 8, che comprende gli anni 1302-1358, sotto il « 1314, 25 Ottobre », trovasi una pergamena involta da una carta bianca, sulla parte esterna della quale si legge: « 1314 25 di ottobre; Trattalo di pace concbiuso fra gli ambasciatori di Alessio » Comeniano Imperatore, e Signore dell’impero di Trebisonda e l’ambasciatore del » Comune di Genova, in cui tra le altre cose dello Imperatore promette di far pron-n tamente procedere contro gli autori degli omicidi stille persone di Genovesi segutti » sulle navi di Giovanni Pattinante, e Giovanni di Cbiavari; accorda loro la dar-» sena di Trebisonda, od altro sito ivi attiguo a loro scelta per formarvi un borgo » ed in esso fissare la loro dimora, colla facoltà di murarlo, e di fortificarlo con » fossi e torri, con proibizione a greci di abitamelo; concede loro inoltre il conso-» lato proprio, e prescrive alcuni divieti ad oggetto di sempre più mantenere relati ^ioni amicali col comune ». — 59 — daló; segno anche questo dell’identità di lui col nostro grande viaggiatore e col precettore di altri illustri non genovesi (i). Così scriveva il Desimoni nel 1875. Ma oggi si ha qualche dato più positivo circa 1’ anno 'della morte del nostro Andalò, la quale dev’ essere avvenuta non nel 1340, come vogliono quasi tutti i biografi, ma poco prima del 1334. Inflitti avendo io appreso dal comm. Belgrano, come il prof. G. De Blasiis della R. Università di Napoli, avesse rinvenuto negli Archivi degli Angioini qualche documento relativo alla dimora di Andalò in Napoli, pregai il De Blasiis di comunicarmelo: ed egli con atto di squisita gentilezza, di cui godo ora pubblicamente ringraziarlo, volle comunicarmi quanto segue, con sua lettera datata da Napoli 5 Maggio 1893: « Il documento, del quale feci cenno al prot. Belgrano, é un diploma di Roberto d’Angiò del 9 Giugno 1334. Vi si dice, che mortuo nuper Andalo de Nigro de yanua, il re assegna al maestro Nicol ino de sancto Prospero fisico, anche di Genova, le annue sei oncie d’oro che aveva prima assegnate ad Andalò. Questo documento, che indica l’epoca della morte dell’astronomo genovese, fin’ora ignota, verrà da me prossimamente.pubblicato ». (1) Comparisce bensì dal 1335 al 1382 un Andalò quondam Saiagro e fratello di un altro Saiagro; morto quest’ultimo prima del 1359, e perciò probabilmente identico coll’ammiraglio del 1334. Ma dalle date di questi anni è chiaro che, come già dicemmo, è questi un altro Andalò, sebbene assai probabilmente stretto consanguineo del suo più vecchio omonimo, e di più anche egli navigatore (come del resto erano tutti que’ nobili d’ allora); giacché nell’ inventario dei suoi mobili fatto il 30 marzo 11S8 v’è anche una Capsa prò navigando ('cfr. Pandette Richcrianc nell’ Archivio di Stato, Filza B. fol. 43, col. 4). — co- ni. Quanto a Carlotto Di Negro, fratello al nostro Andalò, sembra al Desimoni indubitato ch’egli sia un’identica persona col suo omonimo che sopra vedemmo, morto verso il 1^304, ma fiorenre nel 1295, e nipote del celebre Zaccaria, ammiraglio che fu in Levante ed in Francia, e signore di Scio. 1 fratelli Di Negro essendo figli di un Egidio, e questi riconoscendosi nei nostri documenti figlio di un Enrico, e 1’ Enrico figlio di un Ansaldo, noi possiamo per tal modo far risalire la genealogia di Andalò fino ai più antichi ed illustri stipiti; perchè abbiamo Ansaldo Di Negro Console nel 1174 ; Enrico Console nel 1182, 1193? 1202, 1207, 1209, fratello che fu del più volte Console Guglielmo; un altro Ansaldo che aveva feudi verso il 1236; un altro.Enrico che nel 1253 avea casa da San Lorenzo; e un Egidio d’Enrico che nel 1273 fu Vicario della Repubblica oltre-giogo. E questo Egidio crediamo sia il padre del nostro Andalò, nato, come dicemmo, verso il 1260. Questa famiglia al tempo di lui era divisa in due rami od alberghi : uno detto di S. Lorenzo, l’altro di Banchi, dalle relative abitazioni. 11 primo albergo difatti possedeva alcune case poste in facciata sul vico del Filo, avendo alle spalle la casa Fiesco che, nel nostro secolo, ha dovuto cedere il luogo al Palazzo Solari, il quale ora è incorporato colle attigue case (per conseguenza con quelle già dei Di Negro) nel Palazzo della Banca Nazionale, facendo facciata alla Me- « — 61 — tropolitana. Non lontano abitava l’altro albergo detto di Banchi, con loggia nella contrada dei Di Negro. Trovasi ricordata in qualche documento una loro casa con botteghe sub Ripa in facie versus marinam, coberens mediante via Raiba grani, cioè come ora si direbbe « sotto ripa rimpetto alla Raibetta » (i). La serie di quegli scrittori nostrani e stranieri, che ragionarono di lui si trova in più opere, e specialmente nella lodata biografia scritta dal Mojon; alcuni pochi autori più recenti avremo occasione di ricordare, ai quali si aggiunge la biografia che ne stese Bernardino Baldi, *e che sta tra le vite dei matematici nell’autografo posseduto dal principe B. Boncompagni (2). Nella prima edizione (1) Olivieri (Ag.), Serie Cronologica dei consoli del comune di Genova p. 429 -Federici , Abecedario delle famiglie nobili di Genova (ms. della Biblioteca delle missioni urbane di Genova). — Richeri, Pandette e indici, nel R. Archivio di Stato in Genova. — Vedi anche il tomo II degli Historiae patriae monumenta etc. (2) De le vile de matematici libri due di Bernardino Baldi da Urbino abbate di Guastalla, mdxvi , Tom. II, manoscritto posseduto da D. B. Boncompagni contrassegnato « n.° 154 », car. 120-121 : « Di patria Genouese e de la famiglia de Negri fu Andalò, ouero come altri scriue Andalone. Questi attese con molta felicita agli studii del Astrologia et a le specolationi de mouimenti celesti. Hebbe molti discepoli ma fra gli altri fu Giouanni Boccaccio, come egli stesso afferma ne libri de la Genealogia de gli Dei doue ragiona de la Luna. Fu huomo curioso et amicissimo de la peregrinatione di maniera che, si come scriue Battista Fulgoso parlando nel suo trattato de detti e fatti memorabili e de lo studio e del industria, peregrinò quasi per tutto il Mondo, al che, secondo il medesimo, non si mosse per altro che per andar osseruando le latitudini de luoghi et i climi per poter correggere et aggiustare le tauolc degli antichi, non si fidando in questo fatto de le relationi d’altrui; l’istesso scriueua prima di Battista Giouanni sopradetto, il quale lodandolo appresso Hugone re di Cipro e di Gierusnlemmc così diceua in una sua lettera: « Più volte ho fatto » mentione a tua Maestà del ucnerando e nobil uecchio Andalo Negri Genouese » già mio maestro ne le cose del Astrologia la circonspettione e la grauita de » costumi di cui e la cognitione de corsi dele stelle quanto sia eccellente tu me-» desimo hai conosciuto, oltre di ciò, come a tua Maestà ò noto, ha peregrinato — 6 2 — della Biografia del Mojon, inserita tra gli Elogi de’ Liguri illustri, vi è anche il ritratto d’Andalò, che si dice cavato da pittura antica, senza altri particolari da poter giudicare della sua maggiore o minore autenticità. 11 Mojon, ed il P. Spotorno, aggiunsero anche la serie degli scritti di Andalò, che per altro non è completa (i). Dove Andalò siasi più a lungo fermato durante i numerosi ed estesi suoi viaggi, non sappiamo. Giovanni Boccaccio nella sua opera De genealogia deorum, ci apprende che gli fu famigliarissimo Ugo IV di Lusignano Re di Cipro e di Gerusalemme, conversando della scienza astronomica, ad entrambi prediletta, mentre questo principe dimorava in Roma. Il Libri (2) dice che tenne cattedra » quasi per tutto il inondo e ueduto con gli occhi quelle cose che a noi sogliono » giungere per udita. Ha egli parimente lasciato a la posterità molte opere degne » de gli orecchi di qualsiuoglia più dotta persona ». Così scriue Giovanni Boccaccio, come riferisce Agostino Giustiniano Vescouo di Nebio nel historie sue, de la qual lettera, come appare, presero poi l’historie loro Marco Guazzo ne le sue Croniche, e Giacobo Bracelli nel suo trattato de chiari Genouesi. Fu Andalo per quanto da costoro si scriue huomo di uaria letteratura et elegante Poeta. Quello che in materia di uersi egli si componesse non mi è noto. Ma ne la professione sua principale de le Matematiche, come afferma 1’ autore tedesco ne la sua Biblioteca, lasciò un opera dell’Astrolabio stampata in Ferrara del anno millequattro-centosettantacinque. Scrisse parimenti le Teoriche de’ Pianeti, come testifica Giouanni Boccaccio nel luogo sopra allegato de le sue Genealogie, il qual trat (sic) per non trouar chi ne faccia mentione non saprei se fosse uenuto a la luce. Fu Andalo ne suoi tempi molto famoso, e tenuto in molta riputatione da tutti i litterati di quel secolo. Fiori, come scriue Agostino Giustiniano, sotto il Pontificato di Benedetto duodecimo, cioè intorno mille trecento trenta quattro dopo la nostra salute, ouero, come scriue il Guazzo, del 1340, dopo la medesima. Adi 5. Ottobre 1588 ». (1) Un catalogo completo dei lavori di Andalò di Negro fu compilato da D. B. Boncompagni e noi ne abbiamo tratto le notizie bibliografiche che stampiamo a P- 7i sgg- (2) Histoire des sciences matbématiques en Italie, li, 200. — 63 — a Firenze, il.che probabilmente deduce dal trovare tra i discepoli di lui il Boccaccio. Un altro scolare di lui, che fu poi Vescovo d’Isola nel Napolitano, é autore d’ un lavoro astronomico che trovasi manoscritto in un codice della Biblioteca Nazionale di Firenze (Sezione Magliabechiana) ora contrassegnato « Palchetto li, n.° 67 ». IV. Nelle sue rapide scorse a Firenze, a Venezia, a Parigi, a Vienna, il Desimoni vide alcune, anzi le principali opere di Andalò in manoscritto. Non può convenire per amore del vero, con chi cercò difendere il Di Negro dalla taccia di credulo agl’ influssi astrologici, colla scusa che astrologia ed astronomia erano allora tutt’uno. Anche Andalò non ne va immune: e se non bastasse a provarlo un passo del Boccaccio, che lo Spotorno cita dal Commento sopra Dante, si potrebbe aggiungere lo scritto del Di Negro intitolato: Introductio ad iudicia astrologica, che è nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Piuttosto, a scusa di lui, si può dire che era credenza generale dei dotti a que’ tempi l’influsso degli astri sulle vicende umane, e che anche i più sani e profondi pensatori si travagliavano, piuttosto che a negarla, a ristringerla entro limiti che non offendessero 1’ umana libertà : come il Desimoni ha più a lungo spiegato in una Memoria sugli Astrologi Genovesi, recando 1’ esempio del nostro poeta Bartolomeo Falamonica. — 64 — ' È però unanime la voce dei contemporanei e dei posteri nel lodare il Di Negro, come uomo profondamente versato nelle due scienze affini, l’Astronomia e la Geografia ; e ne è prova 1’ edizione del citato suo trattato sull’Astrolabio fatta (come si é detto) ne’ primi tempi della stampa e i parecchi testi a penna di altre sue opere che erano, o sono ancora, nelle più rinomate Biblioteche, come la Parigina, la Marciana, la Riccardiana, ecc. Giovanni Boccaccio dimentica il consueto umore satirico le non poche volte che parla del suo maestro ; e dopo averlo detto vecchio venerabile, ed averne lodate anche le virtù civili e sociali, l’avvedimento e la gravità de’ costumi, non rifinisce di attestare l’autorità di che quegli gode nell’astronomia, pari a quella che Cicerone e Virgilio tengono nelle loro discipline. Le sue espressioni ci ricordano un Ligure più recente, esso pure famoso astronomo, il nipote di Gian Domenico Cassini, Giacomo Filippo Maraldi, predicato 1’ abitatore del cielo, del quale fu detto conoscere egli i movimenti e i nomi delle stelle anche più piccole, nella stessa guisa che Ciro conosceva per nome anche i più oscuri soldati del suo immenso esercito. Relativamente alla geografia il Boccaccio stesso e il nostro Giovanni Battista Fregoso o Campofregoso (1), fanno onore ad Andalò di aver percorsa quasi tutta la terra sotto ogni orizzonte ed ogni clima, per esa- (1) Questo illustre scrittore genovese, che fiorì nella seconda metà del secolo decimoquarto, è autore di un’opera intitolata: De’ detti e fatti memorabili, da lui scritta in lingua volgare, della quale una traduzione latina fatta da Camillo Ghilini fu stampata in Milano nel 1509. Questa edizione, in foglio, intitolata : Baptista Fulgosi de dictis factisque memorabilibus collectanea : a Camillo - 6j — minare co’ propri occhi quello che ne avevano riferito o scritto i precedenti viaggiatori, e, che più monta, per determinare le latitudini, correggendo le tavole degli antichi. Donde si vede (come osserva il Libri), che il Di Negro applicò la matematica alla geografia e alla correzione delle carte relative, a gran servigio della scienza e della navigazione. Il Mojon cita diciannove scrittori che parlarono del nostro Andalò come astronomo, poeta e viaggiatore. Fra questi è da notare il dotto barone di Zach, che più d’ ogni altro ne parlò con erudizione e verità, in un suo scritto inserito nel volume quarto del giornale di astronomia e scienze affini del barone di Lindenau (i). Gii ino ìaiina facta è composta di 338 carte, niuna delle quali è numerata, e nell’ultima delle quali (recto, lin. 16-26) si legge: « De dictis factisque memorabilibus ; a rerum humanarum primordio »> usque in presens tempés: illis exceptis quae luculenter Max. Valerius edidit: » opus a Baptista Fulgoso uernacula lingua conscriptum; & a Camillo Gilino « latinum factum: in quo satis discerni non queat: sit ne ucl proter («V) uarie-» tatein uoluptas maior : uel in uita proter exemplorum magnitudinem in « euitando imitandoque mortalibus proposita utilitas expressior : Iacobus Fer-» rarius Mediolani, x. KL. Iulias a redemptione christiana anno .M. D. ViliI. » impressit. Regnante Ludouico XII. gallorum rege; quo tempore accisis Ve-» netorum rebus: quod Addua : Pado: Mincio: Benacoque atque alpibus conti-» netur: ab cis de Vicecomitura Sfortianorumqne principum manu dolo magis » que uirtude longo tempore extortum: ipse uno magnoque proelio Mediola-» nensi ducatui restituit, qui huic impressioni priuilegio : ne intra decennium in » ipsius finibus imprimi possit : aut aliunde inferri impressum sub graui poena u concessit ». Nelle linee 21-28 del rovescio della carta 258 di questa edizione si legge: « De Andaloue negrono genuensi ». Agnus quoque genuensis Andalonus negrona gente ortus rerum inquisitor fuit, qui cum Astronomiam optime caleret (sic): pene totum terrarum orbem peragrauit : ob cam rem solam ut clima-» tum locorumque orizontes ueterum normae ac regulis aequaret : ut omnium u earum rerum facto periculo astrouomicae artis peritior certiorque esset ». (1) Zeitschrift fiir Astronomie und verwandte IVissensclmflen, herausgegeben von B. von Lindenau und J. G. F. Bohncnberger. Yierter Band. 1817, pag. 28. In questo scritto, il barone di Zach, dei resto benemerito della nostra città per la Soc. Lig. St. Pìtru. — Documenti e studi. c M 66 — V. Giambattista Ramusio nella sua Prefatione ai Viaggi di Marco Polo scriv.e: « Hor trottandosi in questo stato M. Marco & vedendo il gran desiderio eh’ ogn vn hauea d’intendere le cose del paese del Cataio, & del gran Cane, essendo astretto ogni giorno di tornar à riferire con molta fatica, fu consigliato che le douesse mettere in scrittura, per il qual effetto tenuto modo che fusse scritto qui à Venetia à suo padre, che douesse mandargli le scritture, & memoriali che hauea portati seco; et quelli hauuti, col meTgp d’ un gentil huomo Genouese molto suo amico, che ù dilettaua grandemente di saper le cose del mondo, et ogni giorno andana à star seco m prigione per molte bore, scrisse per gratificarlo il presente Libro in lingua latina, si come accostumano li Genouesi in maggior parte fino hoggi di scriuere le loro faccende ». Il P. Spotorno sospetta che il gentiluomo genovese ricordato dal Ramusio non sia altri che il nostro Andaló Di Negro, come quegli a cui convengono l’età e le lodi sopra tributategli. Ma i più recenti Biografi del Polo, segnatamente il Sig. Yule, rifiutano codesta induzione; parendo ormai posto in sodo, che quei viaggi furono lunga dimora e per la pubblicazione fattavi della sua celebre Correspondatice Astro-nomique, ha raccolto eruditamente quanto era possibile a quel tempo ; ma non avendo egli potuto consultare alcuno degli scritti d’Andalò, non ci porge il desiderato aiuto ad intendere tutta 1’ ampiezza delle cognizioni scientifiche del nostro Astronomo. Si conosce per altro dallo scritto medesimo, che il Boccaccio deve aver molto profittato delle lezioni del maestro. - 67 — scritti da Ser Rusticiano da Pisa che era prigione con Marco; e in lingua francese primamente, e non in latino, né da altro gentiluomo. Non ostante tali non lievi ragioni e giudizi, si possono tenere assai probabili, nella sostanza almeno, i detti del Ramusio e la opinione dello Spotorno, la quale è molto ingegnosa e naturale. Secondo i documenti citati in principio di questo scritto, Andalò era in Genova nel 1292 e nel 1304, quarantenne all’incirca. Marco Polo naturalmente, all’ uso dei Viaggiatori e colla sua facile parlantina, raccontava spesso le cose da lui vedute tanto mirabili, strane e di lontani paesi; vi era, a cosi dire, costretto per ingannare le lunghe noie del carcere, e dal desiderio insaziabile di udirle nella numerosa compagnia. In siffatte circostanze era egli, non dirò solo probabile, ma possibile che non ne trapelasse sillaba per la città? E che 1111 cittadino di antica nobiltà ed a cui i pubblici uffizi doveano essere famigliari non venisse a saperlo, e sapendolo, non lo pungesse il desiderio di vedere il prigioniero, parlargli, star seco le lunghe ore d’ogni giorno, scaldarlo a mettere in iscritto i propri racconti e agevolargliene i mezzi? Egli pure Andalò, quel cosi appassionato, ardito e instancabile viaggiatore che sopra vedemmo? Si aggiunga che il testo ramusiano del. Polo, benché differisca dagli altri, a così dire ufficiali, in più luoghi, e benché contenga manifesti errori od inesattezze, é tuttavia apprezzato concordemente come assai utile ed importante a consultarsi. Il più recente degli illustratori di quei Viaggi, il dotto Yule, provò fino all’ evidenza con una — 68 — diligente ed acuta discussione (i), che parecchie notizie contenute nel testo ramusiano e mancanti in tutti gli altri, sono di tale verità e specialmente di tale natura, che non poterono essere fornite che da Marco stesso o almeno dai congiunti di lui o compagni di viaggio. E saggiamente ne conchiude questa ipotesi: che il Polo medesimo ne’ suoi ultimi anni abbia aggiunto di propria mano ad una copia del libro delle note marginali o altrimenti supplementari; che queste da lui stesso o più probabilmente da altri, dopo la sua morte, sieno state tradotte in latino ; e che infine Ramusio o qualche suo amico (probabilmente un Veneziano che aveva già od ebbe allora quel testo) ritraducendolo in italiano, lo abbia rifuso, con quelle modificazioni nei nomi e nei fatti che diedero qualche presa alla critica. Applicando la stessa ipotesi al nostro caso, noi diremo che Ramusio è troppo grave, conscienzioso e solito ad attingere a sicure fonti, per non dover prestar fede a’ suoi detti, quando egli afferma in modo reciso una cosa già probabile per sé e tanto più probabile per noi che conosciamo (ciò che egli non sapeva) l’esistenza in Genova, al tempo del Polo, di un gentiluomo genovese, coi pregi e gli affetti che lo storico delle navigazioni così appunto descrive. Che se il Ramusio soggiunse che il genovese amico di Marco scrisse egli stesso il libro e in latino, mentre oggi risulta altrimenti, sarà questa una delle inesattezze accessorie, di cui parla Yule, e con cui (i) The Book of ser Marco Polo , the Venetian concertimi; the Kingdoms and Marvels of the East, uewly translated and edited, witìi notes l>y colonel Henry Yule, C. B., (London, ecc. 1871), p. 123 sgg. - 69 — l’amico di Ramusio, o un precedente compilatore del testo qualunque siasi, credettero interpretar meglio la mente del Polo mentre rifondevano le note nel testo. VI. Finalmente Andalò é anche stato commendato come poeta di vaglia, sebbene nulla ci sia rimasto dei suoi versi ; e qui il Mojon osserva a proposito che non è punto a meravigliare di questa unione della poesia colle matematiche , e ne riferisce parecchi esempi, ai quali il Desi-moni volentieri aggiunge due genovesi, Vincenzo Renieri e Gian Domenico Cassini. 11 Renieri discepolo prediletto di Galilei e da costui scelto a continuare le tavole sulle effemeridi de’ satelliti di Giove, si piaceva a frammezzare ai severi studi la composizione di Favole boscherecce, di cui alcune vanno per le stampe. 11 Cassini usava vestire di linguaggio poetico la sua celebre Meridiana e le sue speculazioni sugli Astri ; e lasciò manoscritto un poema suU'Astronomia, che alcuni han detto trovarsi nella Biblioteca dell’Osservatorio di Parigi, altri invece conservarsi nella casa paterna e presso i degni eredi di tanto nome, nella piccola ligustica Perinaldo; e forse l’un manoscritto é copia dell’ altro. - 7o — Vii. Se crediamo a Giuseppe Betussi, il Di Negro si travagliò anche intorno al greco, traducendo da questa lingua un libro Sulla guerra santa di un Aniceto Patriarca di Costantinopoli. Il Tiraboschi (i) per altro sostiene, che questo lavoro è un’impostura del noto Ciccarelli; il quale volle accreditare una sua fattura col nome d’Andalò. Ad ogni modo ciò fa conoscere sempre più, quale e quanta fosse l’autorità del nostro Di Negro presso i dotti, e in diversi rami del sapere. (i) Tiraboschi G., Storia della letteratura italiana, (2.* ed. modenese), V, 1, p. 215 nota. Cfr. anche più sotto a pag. 82. — 71 CATALOGO DH’ LAVORI DI ANDALÒ DI NEGRO (i) 1. LAVORI ESISTENTI. I. LAVORI STAMPATI. i. Opus praeclarissimum astrolabii. Questo scritto trovasi stampato nelle carte i1 {recto, lin. 3-39, verso), 2a-8\ 9a {recto, lin. 1-2 ) della rarissima edizione Ferrarese, in foglio piccolo, intitolata (car. ia, recto, lin. 1-2): « Opus preclarissimum astrolabi compositum a domino Andalo de nigro || genuensi foeliciter incipit », e composta di 20 carte nella 19“ delle quali [recto, lin. 36-40) si legge: « Explicit tractatus astrolabij excellentissimi mathematici Andalonis || genuensis. emendatus per celeberrimum et doctissimum magistrum || Petrum bonum anogarium (sic) in foelici (1) Cfr. a pag. 29 della citata Memoria del Desimoni, il catalogo compilato dal principe D. Boncompagni. — 72 — gymnasio ferrariensi. || Magister Johannes Picardus hunc librum impressit et finiuit anno || domini .m°cccc.0lxxv°. die .viij. mensis Julij Laus deo ». Lo scritto medesimo incomincia (carta ia, recto, lin.3-7): « Si astrolabium facere volueris. Primo et ante omnia fac tabulam || illius magnitudinis quam vis esse astro-labium planissimam et ex || omni parte equalis grossitudinis et rotundam praeterquam in vna parte vbi || fac denticulum qui vocatur ansa in quo possit fieri foramen in quo ponatur || clauus in quo iungatur armilla ». ed ivi finisce (car. 9% recto, lin. 20-22): « Deinde duc pedem mobilem vsque ad lineam subtilem quam fecisti; dico || quod vbi pes mobilis cadit in dictam lineam ille est locus in quo debet poni || stella illa ». Di questa edizione si hanno gli esemplari seguenti : i.° Biblioteca Palatina di Modena « Ms. XV. B. 22 ». Esemplare citato dal Tiraboschi, nel Nuovo dizionario istorico di Bassano, dal p. Giambattista Spotorno, e dal prof. Pietro Riccardi. Ora é all’Estense della stessa città. 2° Esemplare già posseduto dalla Biblioteca Silva di Cinisello ed ora presso il principe B. Boncompagni. Questo esemplare, indicato in un catalogo stampato di libri della Biblioteca medesima venduti in Parigi ne’ giorni 15 e 16 di febbraio del 1869, fu dal Boncompagni acquistato in questa vendita nella seconda vacazione de’ 16 di quel mese. 3. Biblioteca Nazionale di Parigi « V. 259 (Ré-serve) ». Esemplare citato dal Canonico D. Giuseppe Antonelli, in Ricerche bibliografiche sulle edizioni Ferraresi del sec. XV ecc. p. 27. 4.0 Biblioteca della Università di Leida « 888. A. — 73 — 24 » (già VJII. F. 213), e più anticamente legato in un volume contrassegnato « 51. Vossius ». Sono anche citati di questa edizione gli esemplari seguenti : i.° Biblioteca Vallicelliana di Roma (volume contrassegnato « I. IL 105 » n.° 11). 2.0 Un esemplare venduto per 34 franchi nel giorno i.° febbraio del 1813, nella sesta vacazione di una vendita fatta in Parigi d’ una raccolta di libri posseduta da Giovanni Claudio Molini libraio, nativo di Firenze, morto in Parigi nel giorno 9 di ottobre del 1812. 3.0 Un esemplare che fece parte della Biblioteca del Marchese Giovanni Battista Costabili, ed indicato nel catalogo stampato (Bologna 1858) della stessa biblioteca. 4.0 Un esemplare indicato in un catalogo d’ una raccolta di libri appartenenti a Guglielmo Libri, venduta in Londra nei giorni 1-6, 8-13, 14 di Agosto del 1859. L’Abate Girolamo Baruffaldi iuniore, il Denis, il Panzer, l’Audiflredi, il Santander, il Brunet, il Ginguené, il barone De Zach, lo Hain, il canonico Antonelli, 1’ abate Amati, il Weiss, il Graesse, e il Riccardi descrivono questa edizione. Giosia Simler, il P. Alfonso Cha-con (Ciaconius), Raffaele Soprani, Cornelio di Beughem, Cristoforo Hendreich, il p. Pellegrino Antonio Orlandi, il Maittaire, il Wolf, il Hennings, il Tiraboschi, lo Scheibel, il Le Francois de Lalande, il p. Spotorno, il Mojon, Guglielmo Libri ed il Sig. Poggendorff, citano l’edizione stessa, indicandone esattamente il luogo e 1’ anno. Erroneamente il Montucla dice venuto in luce nel 1473 V Opus Astrolabii di Andalò di Negro. Per errore lo dicono stampato nel 1495 il Dizionario sto- — 74 — ricb del Passigli, e nel 1575 l’Abate Michele Giustiniani, il p. Agostino Oldoini, Martino Lipenio, il p. Vincenzo Coronelli, e Cristiano Gottlieb Jòcher. 2. Pradica astroìabij. Questo lavoro contenuto nelle carte 9“ (recto, lin. 24-40, verso), ioa-i5a, i6a (recto, lin. 1-39) della edizione suddetta del 1475 » ec^ intitolato in questa edizione (car. 9% recto, lin. 23): « Hic incipit practica astroìabij et primo de nominibus instrumenti ». Incomincia nella edizione stessa (car. 9% recto lin. 24-26): « Nomina instrumentorum astrolabi)’ sunt hec. Primus est annulus || siue armilla suspensoria ad accipiendas altitudines », ed ivi finisce (car. i6\ recto, lin. 38-39): « Ideo radiatio opposita et aspectus oppositus || sunt idem ». 3. De operationibus scalae quadrantis in astrolabio scriptae. Questo lavoro contenuto nelle carte i6a (verso'), 171- 18% i9a (recto, lin. 1-35) della edizione suddetta del 1475, é intitolato ivi (car. i6a, recto, lin. 40): « De operationibus scale quadrantis in astrolabio scripte ». 11. LAVORI INEDITI. 4. Theorica planetarum. Esemplari esistenti : a) Codice della Biblioteca Barberina di Roma, contrassegnato « IX. 25 » (antico numero 2237). b) Codice ora posseduto dal principe Boncompagni contrassegnato « 8 » (car. i9a-37% numerata 19-37; car. 38% numerata 38 recto, col. 1, col. 2, lin. 1-28). c) Codice della Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze contrassegnato « PI. XXIX, Cod. Vili » (car. 15*-25% numerate 13-23, car. 26a, numerata 24, recto). d) Codice della Biblioteca Nazionale di Firenze (Sezione Magliabechiana) e contrassegnato « Classe XI, n.° i2i, Palchetto V, già Codice Strozziano, n.° 1127 » (car. 265a-266a, numerata 259-260, car. 267“, numerata 261, recto, verso, col. 1, lin. 1-44). e) Codice della Biblioteca Riccardiana di Firenze, ora contrassegnato « n.° 868 », e più anticamente contrassegnato « L. II. 1 » (car. i4a-27a, numerate 11-24, car. 28% numerata 25, recto, col. 1, col. 2. lin. 1-33). /) Codice della Biblioteca Nazionale di Parigi contrassegnato Fonds Latin « n.° 7272 » (car. i21-431, numerate 11-42 , car. 44% numerata 43 ,rec to, verso , col. 1, lin. 1-8). a) Esemplare già posseduto ^dal Senatore Federico Federici, illustre erudito Genovese, morto nel marzo del 1647, e quindi dall’Archivio segreto della Repubblica di Genova. Nelle pagine 27ia-289a d’un manoscritto ora posseduto dalla Biblioteca Civico Beriana di Genova, e contrassegnato D.bis 3. 2. 3, trovasi una nitida copia d’un inventario di libri manoscritti lasciati alla Repubblica di Genova dal detto Senatore Federico Federici, che nella pagina 27ia di questo manoscritto è intitolata : « 1644. a 5 Gen.° Inventario de libri, e scritture che doppo mia vita hò lasciate in custodia del Sermo Senato — 76 — in conformità del Decreto ricevuto dal M. Gio. Batta Pastori Cancelliere l’anno 1635. a 26. di giù.0 E p.m0 ». In questo inventario si legge a pag. 282 : « Teorica planetarum Andalonis de Nigro Genuensis in pergamena ». Il lavoro di Andalò di Negro, del quale un esemplare in pergamena trovasi citato in questo passo dell’ Inventario medesimo é certamente lo stesso del quale sei esemplari sono citati di sopra. Il detto Senatore Federico Federici é autore d’ un opera intitolata: Scrutinio della Nobiltà Ligustica della quale un esemplare manoscritto citato dal p. Spotorno , é posseduto dalla Biblioteca Civico-Beriana di Genova, è contrassegnato D.bis 4. 5. io, ed intitolato (carta 2, recto) : Scrutinio della Nobiltà Ligustica composto da me Federico Federici. In questo manoscritto si legge (carta 104, recto, lin. 20-22, verso, lin. 1): « Andalò di Negro q. Saiagri Astrologo dottissimo e Poeta Mastro del Boccaccio fiori in 1342 celebrato da molti Autori, e dall’ istesso Bocaccio, e del quale Io consento vn suo Volume in Cartina appresso di me ». 11 volume che in questo passo il Federici dice conservare presso di sé, é certamente l’esemplare della Theonca Planetarum indicato nel passo riportato di sopra dell’ inventario di libri e manoscritti da lui posseduti. La Biblioteca Civico Beriana di Genova possiede un’ opera manoscritta, compilata dal prete Bernardo Poch negli anni 1752 e 1753, e composta di cinque volumi, in foglio, ciascuno de’ quali é intitolato in un cartellino incollato sul suo dorso: Miscellanea di storie liguri. Il quarto di questi cinque volumi contrassegnato D.b,s, 1. — 77 — 3- 38, contiene nove Registri, il nono de’quali é intitolato nel recto della carta 691“ del manoscritto medesimo: « Reg. IX ». Nel rovescio della carta 8a di questo registro (353“ del volume stesso, lin. 10-14) si legge: « MS. in Pergamena. Incipit Theorica Planetarum composita ab Andalo de Nigro Januense. .fol. 42. de Compositione Quadrantis (| .fol. 47. Incipit tractatus Andalo de Nigro de Janua || de Compositione Astrolabii. bellissimo Carattere ». Il codice membranaceo descritto in questo passo é certamente il medesimo volume, che il Federici nel passo riportato di sopra del suo Scruttinio della Nobiltà Ligustica, ecc. dice conservarsi presso di lui. b) Esemplare già posseduto dalla Biblioteca del Convento de’ Padri Agostiniani di Ventimiglia. Chi asserì trovarsi un esemplare della Theorica Planctarum di Andalò di Negro nella biblioteca del Convento degli Agostiniani di Ventimiglia, fu il p. Angelo Aprosio agostiniano in una lettera diretta all’ Oldoino. Cfr. Oldoinus, Athenaum Ligusticum ecc., p. 565. 5. De compositione astrolabii. Esemplari esistenti : a) Codice della Biblioteca Vaticana contrassegnato Codex Vaticanus latinus, « n.° 5906 » (carte 4a-94a, numerate 4-94, carta numerata 95, recto, verso, lin. i-Q- b) Codice della Biblioteca Barberina di Roma contrassegnato « IX. 25 » (antico numero 2237), (carta 153% numerata 146, carta 154", numerata 147, recto, lin. 1-15). - 78 - c) Codice posseduto dal principe B. Boncompagni, contrassegnato « n° 326 » (car. 55a~56a, numerate 55-56). d) Codice Riccardiano « n.° 868 », già « L. II. N. 1 » (carta 4% numerata 2, recto, coi. 1, carte 5a-11a, numerate 3-8, carta 12% numerata 9, recto, coi. 1, coi. 2, lin. 1-36). 6. De infusione spermatis. a) Codice della Biblioteca Vaticana contrassegnato Codex Vaticanus latinus « n.° 4082 » (car. 211% numerata 209, verso, car. 2i2a, numerata 210, recto, coi. 1, lin. 1-4). b) Codice della Biblioteca Vaticana contrassegnato Codex Vaticanus latinus, « n.° 4085 » (car. 32% numerata 28, recto, lin. 2-35, verso, lin. 1). c) Codice della I. R. Biblioteca Palatina di Vienna contrassegnato « n.° 5503 Philosophia N.° CCCCXXII » (car. 115*, numerata 115, recto lin. 3-36, verso, lin. 1-33). 7. Theorica distantiarum omnium sperarumet planetarum a terra et magnitudine eorum. a) Codice della Biblioteca Nazionale di Firenze, Sezione Magliabechiana, « Palchetto VI, Classe XI, n.°ii4», già « Strozziano, in foglio, n.° 176 » (volume i.° carte 3a-ioa, numerate 57-64). b) Codice della Biblioteca Nazionale di Parigi contrassegnato Fonds Latin, « n.° 7272 » (carte 861-99% recto, verso, col. ia, col. 2% lin. 1-13). c) Codice della Biblioteca Barberina di Roma « IX. 25 » (antico numero 2237), (carte 15 f-i60, numerate 150-153). - 79 — 8. Tractatus sphcerce. a) Codice Mediceo Laurenziano, contrassegnato « Plut. XXIX, Cod. VIII », (car. 4“-i3a, numerate 2-11 car. 14*, numerata 12, ra;/o, z/grso, lin. 1-20). b) Codice della Biblioteca Nazionale di Parigi contrassegnato Fonds Latin, « n.° 7272 » (car. 2a-io\ numerate 1-9, car. na, numerata 10, recto, col. 11, col. 2% lin. 1-22). 9. Introduetorium ad iudicia astrologiae. Esemplare esistente : Codice della Biblioteca Nazionale di Parigi contras-segnato Fonds Latin, « n.° 7272 » (carte I03a-i44% numerate 102-115, 115-142; carta I45a. non numerata; carte i46a-i72a, numerate 143-169; carta 173% numerata 170, recto). Esemplare citato. Un indice alfabetico di manoscritti della Biblioteca Altieri di Roma fu pubblicato da Federico Blume nella sua opera intitolata : Bibliotheca librorum manvscr i p torum italica. Indices bibliothecarum Italiae ex schedis Maicri Eslingensis, Haenelii Lipsiensis, Gottlingii Ienensis, Car. Wittii, svisque propriis, in svplementvm (sic) itineris Italici congessit Fridericvs Blvme I. C. Hambvrgensis, Gottingae, impensis bibliopoli Dietericiani, 1834 (pag. 159-170). In quest’indice intitolato: « E. Bibliotheca Alteriana. || Indice de’ Manoscritti della Bibliotheca Altieri. || (Iter Italicum III, 176, 177) », si legge: « de Nigro Andali de Ianua, Introductorium ad iudicia. Fogl. membr. V. E. 5 ». In questo passo dell’edizione medesima è indicato un — So — esemplare manoscritto dello scritto indicato di sopra sotto il n.° 9. 10. Canones super almanach Prof atri. Esemplare esistente : Codice della Biblioteca Nazionale di Parigi contrassegnato Fonds Latin, « n.° 7272 » (car. 70“, numerata 69, verso; car. 7 ia-85a, numerate 70-84). Esemplare citato. In un codice della Biblioteca Nazionale di Firenze, contrassegnato « Sezione Magliabechiana, Palchetto II, n.° 67 » (car. 154% numerata 129, recto, lin. 1-6) si legge il titolo seguente : « Subscripte sunt Regule Inuente in Almanae Bone memorie diìi. G. Episcopi Insulani periti in Astrologia. Sub doctrina et magisterio dni Andalo de nigro de Janua magistro in scientia astrologie qui supradictos canones super Almanach Profatij compilauit fecit et composuit et erant scripti manu propria ipsius Episcopi ». Da questo titolo apparisce che il vescovo menzionato nel titolo stesso trascrisse un esemplare de detti Canones super almanach Profatii. Non é noto quale Biblioteca o persona possegga ora tale trascrizione. 11. Liher indiciorum infirmitatum. Codice Vaticano «n.°4o82» (car. i98a-2ioa, numerate 196-208; car. 2iia, numerata 209, recto, col. 1, lin. 1-3 0- Finisce: « Explicit liber de judieijs infirmitatum secundum Andelonem de Nigro de Janua ». 12. Canones modernorum astrologorum de infirmitatibus. Codice Vaticano, «n.°4o85 » (c. 15**31“, num. u-27). 13- Ratio diversitatis partus. Codice Vaticano « n.° 4085 » (car. 32a, numerata 28, verso, lin. 2-34; car. 3 3^34, numerate 29-30). 14. Tractatus quadrantis. Codice posseduto da B. Boncompagni e contrassegnato « n.° 326 » (carta 67“, numerata 66, carta 68a, numerata 67, recto, verso, coi. 1, lin. 1-24). LAVORI CITATI. 1. Diversi tractatus Mathematici. Cfr. Tomasini (Giacomo Filippo), Bibliothecae patavinac manuscripta ecc. A p. 107 vi é un catalogo di Nicolò Trevisani che ricorda appunto Diversi tractatus Mathematici Andati de Nigro de janue (pag. 109 col. 2.a) esistenti nella biblioteca privata di suo nipote Ettore Trevisani. 2. In Sphaeram. Nel catalogo suddetto, p. 112 col. 2.a. ]. Astrolabium. Nel catalogo suddetto pag. 112 col. 2.\ ma è probabilmente tutta una cosa coM'Opus praeclarissimum Astrolabii: vedi sopra n. 1. 2. 3. 4. Praxis Arithmetica. Tomasini (G. F.), op. c. p. 122, coi. 3.“ Non si sa che esista manoscritto alcuno di tale Praxis Arithmetica. 5. Canones super Almanae in quanto tempore Planetae discurrunt Zodiacum. 6. Canones super Almanae de propositionibus faciendis. 7. Tractatus de Astrolabio et de quadrante. Soc. Lio. St. Pàtri*. — Documenti e sludi. 6 — 82 — 8. Centiìoquium in Astrologia. I numeri 5, 6, 7, 8 si trovano citati dal P. Ci-iacon, Bibliotheca ecc., p. 114: Soprani, Li scrittori della Liguria ecc., p. 17 : Manni, Storia del Decameròne, p. 26: Di Zach, nella citata Zeitschrift, Bd. 33. 9. Traduzione dal Greco in latino del libro della guerra santa d'Aniceto patriarca di Costantinopoli. Questa traduzione dal greco é ricordata per la prima volta da Giuseppe Betussi (Ragionamento sopra il Ca-thaio ecc., Padova, 1573 p. 46) il quale dà come esistente il ms. di Aniceto nella Biblioteca Vaticana. Il Tiraboschi sostenne che sia questa un’ impostura del famoso Ciccatili , il quale per accreditarla fìnse autore della versione il nostro Di Negro (1). 10. Tractatus scalae quadrantis seu Astrolabii. Citato come esistente nel 1739 in un codice della Biblioteca di S. Marco in Firenze, dal Montfaucon, Bibliotheca mssI, 428. — È forse lo stesso lavoro del-YOpus praeclarissimum astrolabii. 11. Liber de quadrantibus. Il P. Alfonso Chacon, op. cit, p. 139, ne cita un esemplare posseduto dalla biblioteca di S. Marco di Firenze. 12. Poesie. Cfr. Giustiniani (Agostino), Annali della Repubblica di Genova (3/ ed. genovese, lì, p. 71): Giustiniani (Michele), Li scrittori Liguri, P. I, p. 49 •’ SopRANI> h scr^~ tori della Liguria, p. 17. 13. Opuscoli astronomici. (1) È questa una controversia che potrà formare oggetto di ulteriori indagini nelle mie Ricerche sui Liguri Ellenisti. - 83 - Gio. Boccaccio, De Genealogia Deorum (Basilea 1537) p. 389: il padre Giacomo Filippo Foresti (Supplementum Chronicarum etc., Bergamo 1483) car. num. 180 : Domenico di Maestro Bandino d’Arezzo in una opera inedita Fons Memorabilium Universi, di cui esiste un esemplare completo nei codici Vaticani n.° 2028, 2029 e nei Chigiani G. Vili. 234-236: il padre Ugo Semple d. C. d. G. nell’opera De Mathematicis disciplinis, p. 295. In quest’ opera vi é un catalogo di scrittori astronomici (Index auctorum qui de astronomia scripserunt), nel quale si legge anche il nome di Andalò, certamente relativo agli scritti astronomici di Andalò di Negro. . - . 1-1 - IL TRATTATO SULL’ASTROLABIO [Nella presente ristampa dell’ Opus praeclarissimum astrolabii, mi sono attenuto fedelmente alla edizione ferrarese del 147$, di cui l’unica copia che si conservi in una biblioteca pubblica Italiana è quella della Biblioteca Estense di Modena. Cl'r. quanto ho detto a pag. 52, $3, 71 sgg. — Ho però sciolti, per ragioni tipografiche ed estetiche, tutti i compendi paleografie ed ho aggiunto i dittonghi dove mancavano; ma ho creduto bene conservare cene particolarità ortografiche come spacium, dyameter ecc., e quasi sempre la interpunzione]. Opus praeclarissimum astrolabij compositum a domino Andate de nigro genuensi foeliciter incipit. Si astrolabium tacere volueris, primo et ante omnia tac tabulam illius magnitudinis quam vis esse astrolabium planissimam et ex omni parte aequalis grossitudinis et rotundam praeter quam in una parte ubi fac denticulum qui vocatur ansa in quo possit fieri foramen in quo ponatur clavus in quo iungatur armilla. In qua quidem tabula ducatur linea recta a summitate dictae ansae per centrum tabulae usque ad extremitatem oppositam ansae quae sit dyameter dictae rotunditatis et similiter facias lineam ex alia parte tabulae quae exeat ab ansa et transeat per centrum usque ad extremitatem oppositam. Quae linea sit recte opposita lineae factae in alia parte tabulae ita quod insimul concurrant et iungantur nec declinet una ab altera in aliqua parte. In ipsa enim linea scilicet in summitate denticuli sive ansae fac circulum parvum illius latitudinis qua volueris facere foramen ad ponendum clavum cum quo iun7 — cum aquario usque ad .xxx. et habebis totum signum Capricorni completum. Et similiter facias in omnibus alijs signis. Postea quodlibet spacium quinariorum divide per .v. et in qualibet divisione seca solummodo circulum exteriorem et sic habebis gradus .ccclx. Ì cibtila ascensionum in circulo directo sive orizonte recto. Capricornus Aquarius Piscis Cancer Zodiacus o 0 Zodiacus Lea o 0 Virgo Zodiacus o o g 0 g m Equinoctialis g g 0 m Equinoctialis g 0 g m Equinoctialis I I VI XXXI XXXIII XV LXI LXI Y IV 11 11 XI XXXII XXXIV XV LXII LXIV LI III III XVI XXXIII XXXV XIX LXIII LXIV LVIII IV IV XXII XXXIV XXXVI XXI LXIV LXV LV V V XXVIII XXXV XXXVII XXIII LXV LXVI LII VI VI XXIII XXXVI XXXVIII XXIV LXVI LXVII XLVIII VII VII XXXVIII XXXVII XXXIX XXVI LXV1I LXVIII XLV VIII VIII XLIII XXXVIII XL XXVII LX VIII LXIX XLI IX IX XLVIII XXXIX XLI XXVIII LXIX LXX XXXVII X X LIII XL XLII Xxix LXX LXXI XXXIII XI XI XLIX XLI XLIII XXIX LXXI LXXII xxvni XII XIII III XLII XLIV XXX LXXII LXXIIl XXIX XIII XIV VIII XLIII XLV XXX LXXIIl LXXIV XXI XIV XV XIII XLI V XLVI XXX LXXIV LXXV XVII XV XVI XVIII XLV XLVII XXX LXXV LXXVI XII XVI XVII XXIII XLVI XLVIII XXX LXXVI LXXV1I VIII XVII XVIII XXVII XLVII XLIX XXIX LXX VII LXXVIII III XVIII XIX XXXI XLVIII L XXVIII LXXVIII LXXVIII LIX XIX XX XXXV XLIX LI XXVII LXXIX LXXIX LIV XX XXI XXXIX L LII XXVI LXXX LXXX XLIX XXI XXII XLIII LI LIII XXV LXXXI LXXXI XLIV XXII XXIII XI. VII LII LIV XXIV LXXXII LXXXII XL XXIII XXIV LI LIII LV XXII L XXXIII LXXXIII XXXV XXIV XXV LV LIV LVI XX LXXXIV LXXXIV XXX XXV XXVI LVIII LV LVII XIX LXXXV LXXXV XXV XXIV XXVIII I LVI LVIII XVII LXXXVI LXXXVI XX XXVII XXIX 11 LVII LIX XIV LXXXVII LXXXVII XV XXVIII XXX VII LVIII LX XII L XXXVIII LXXXVIII X XXIX XXXI X LIX LXI X LXXXIX LXXXIX V XXX XXXII XIII LX LXII VII xc cx 0 Sagittarius Gemini Scorpius Taurus Libra Aries — ioS — Tabula locorum stellarum fixarum et eorum declinatione ab aequinoctiali et gr. cum quo mediat caelum Momina stellarum signa declinatio ab aequinoctiali pars declinationis cum quo gr. mediat caelum 0 o 0 0 0 0 g m o 0 o g m Rigel mire . Aries XXIV XXXIX Septentrionalis CCCL IV Calbo Iones . . Aries XXI XXVIII Septentrionalis IV XXXIII Stemes raelrai acuta . . Aries XVI XXXII Septentrionalis XVII V Aldcbaram..... Taurus XIV XLI Septentrionalis LVI XXIV Razaguel..... Taurus XXXVIII IV Septentrionalis CCCII XLIV Rigelalzebar . . Gemini X X Meridionalis LXIV XLIX Allachit...... Gemini IV XXXIV Septentrionalis LXIII XXVIII Mclchib alzebar . . . Gemini V LIX Septentrionalis LXXVIII XXX Areo beubenem . . . Gemini XX IV Septentrionalis LX VII XXXV Momralenabor .... Gemini XII XLIII Septentrionalis LXXXIX XXXIX Razalganzet . . Gemini VIII XXXVII Septentrionalis LXXIV XXV Aleare alabor .... Cancer XV XXXVIII Septentrionalis XCII V Aleare algumuzet . Cancer VI XLIII Septentrionalis CII XVII Razatoil almut.... Cancer XXXII LVJI Septentrionalis XCIX XLII Razaboimo almual . . Cancer XXIX XVI Septentrionalis CIII XV Cedre alderatam . . . Cancer XXI LI Septentrionalis cxvu XXVI Carbalacet..... Leo XV LI Septentrionalis CXL XIII A une algurab . . . . Virgo xvii XXXIX Meridionalis CLXX XXXIX Aldarfa finis .... Virgo XIX 0 Septentrionalis CLXIV XL Alchitnetlialazel . . Libra VI XXVI Septentrionalis CLXXXIX XXXVI Alchanecaliamel . . . Libra XXIV XXV Septentrionalis CIV LVI Cattalactab..... Scorpius xxii XXXVIII Septentrionalis CXXXIV XXIV Razalam..... Scorpius XIII XXXIX Septentrionalis DLIII o Scolem alatrab. . . . Sagitarius XXXV XXIII Septentrionalis CCXLVIII XLIX Anazel allucalza . . . Capric.* XXXVIII XXVII Septentrionalis CCLXXI XX Nazel altair .... Capric.* VI XXXIV Septentrionalis CCLXXXV XXXV Alimarain..... Capric.* XXII XLVUI Meridionalis CCLXX IV Fomaoue algemisto . . Aquarius XLII Septentrionalis .... . . . Aebaldigeba .... Aquarius xlh XXXV Septentrionalis CCCII LI Iacfelem alferam . . . Aquarius VI LII Septentrionalis cccxv XX Roembem altigaga. . . Aquarius XXXVI XXXIII Septentrionalis CCCII IV Mantab alferan . . . Piscis XXIJI XVIII Septentrionalis CCCXXXIV XXI Denebet camara . . . Piscis XXII XIX Meridionalis o LI Qualiter ponuntur stellae in rethe astrolabii. Cum volueris ponere stellas in rete astrolabij vide in tabula suprascripta cum quo gradu zodiaci illa stella quam vis ponere — 109 — mediat coelum. Tunc pone regulam in centro .e. et super illum gradum cum illa stella mediat coelum et scribe lineam subtilem in illa tabulam sive rethe. Deinde vide (i) latitudinem quam habet ipsa stella ab aequinoctiali et dictam latitudinem nota in tabula faciei astroìabij si in linea meridiana aut sit septemptrionalis aut australis ipsa latitudo et ibi fac notam. Est autem sciendum quod si stella quam vis ponere in astrolabio est meridiana tunc eius latitudo quam habet debet accipi incipiendo eius principium a circulo aequinoctiali in linea meridiana quae latitudo debet terminari in ipsa meridiana linea versus punctum .a. et ad plus circa circulum Capricorni. Et quia a circulò aequinoctiali usqne ad circulum Capricorni non sunt nisi .xxiij. gr. cum medio. Ideo si ipsa stella meridiana habuerit plus quam haec de latitudine in astrolabio poni non potest. Si autem ipsa stella quam vis in astrolabio ponere erit septemptrionalis tunc accipe eius latitudinem incipiendo a circulo aequinoctiali versus punctum .e. hoc est versus centrum. Et est sciendum quod stella septemptrionalis quantumque magnae latitudinis ibi poni potest. Item sciendum est quod gradus cum quibus coelum stella mediat eorum principium sive primus gradus incipit ab ariete scilicet a principio arietis. Postea pone pedem circini immobilem in puncto .e. et mobilem in nota quam fecisti in linea meridiana. Deinde duc pedem mobilem usque ad lineam subtilem quam fecisti dico quod ubi pes mobilis cadit in dictam lineam ille est locus in quo debet poni stella illa. Hic incipit practica astrolabii et primo de nominibus instrumenti. Nomina instrumentorum astrolabi) sunt haec. Primus est annulus sive armilla suspensoria ad accipiendas altitudines. Deinde est ansa quae iungitur ei. Postea mater in rotula et limbus divisus in partibus .ccclx. iunctus cum ea continensque omnes tabulas et rethe sive araneam. In tabulis autem contentis in facie astroìabij describuntur .iij. circuli quorum unus est circulus cancri qui est minor maior est circulus Capricorni medius est circulus aequinoctialis deinde est zenith regionis. Dicitur enim zenith regionis ille punctus in firmamento quo terminatur linea quae exit a centro terrae (i) Sic! Divide (?). — no — transiens per capita existentium in illa regione usque ad firma mentum in linea meridiana. Postea sunt almucantarat circuli .xc. descripti circa zenith quorum ultimus est orizon obliquus illius regionis dividens duo emisperia. Sunt postea azimut circuli exeuntes a zenith dividentes orizontem et almucantarat in partibus .ccclx. Deinde sunt horae .xij. in inferiori emisperio descriptae inter quas est circulus inperfectus demonstrans crepusculum matutinum et vespertinum. Postea vero est linea recta dyametralis exiens ab armilla per centrum usque ad oppositam pai tem matris cuius medietas scilicet a centro versus armillam vocatur linea meridiana et alia medietas vocatur linea mediae noctis sive angulus terrae. Deinde est alia linea dyametralis secans primam dyametralitei in centro quae vocatur orizon rectus videlicet a centro versus orientem vocatur orizon orientalis et a centro 'versus occidentem vocatur occidentalis. Deinde est rethe in quo sunt scripta signa zodiaci cuius extremitas vocatur linea ecliptica. Item sunt stellae fixae in ipso rethe constitutae quarum quaedam vocantur septemptrionales et quaedam australes. Et est sciendum quod duplici modo intelligitur septentrionalis et australis scilicet ab ecliptica et ab aequinoctiali. Dicuntur enim omnes stellae quae sunt ab ecliptica versus septemp-trionem septemptrionales et quae sunt versus meridiem australes. Secundo modo omnes stellae quae sunt ab aequinoctiali versus septemtrionem vocantur septemptrionales et quae sunt versus meridiem australes. Ideo compositores astroìabij aliqui accipiunt latitudinem stellarum ab ecliptica et aliqui ab aequinoctiali. Sed idem est opus. Nos autem accipimus eam in hoc opere ab aequinoctiali. Item in ipso rethe scilicet in principio Capricorni est denticulus constitutus in ecliptica qui vocatur ostensor sive almuri. Postea est foramen in ipso rethe in tabulis et matre et alidada in quo foramine est axis retinens praedicta. In qua axe est equus sive cuneus restringens simul omnia supradicta. In alia parte matris sive in dorso sunt duo circuli quorum unus continet numerum dierum anni .ccclxv. et nomina mensium et alter continet gradus signorum .ccclx. et nomina signorum. Sunt etiam .iiij. quartae ad capiendas altitudinem solis et stellarum. Postea est quadrans cuius latera in puncta .xij. divisa sunt. Sequitur regula sive ali- dada quae circumvolvitur in dorso astrolabij in qua sunt duae tabulae perforatae ad capiendas altitutudes solis in die et stellarum in nocte. Sunt etiam in dorso duae lineae dyametrales orthogonaliter secantes se in centro una quarum videlicet illa quae exit ab ansa usque ad oppositum designat lineam meridianam et medine noctis. Et alia dyameter designat orizontem orientalem et occidentalem ut praediximus in facie astrolabij. De habendo gradum solis per diem mensis et e converso. Cum igitur volueris scire signum et gradum in quo est sol. Pone regulam sive alidadam super diem mensis de quo quaeris. Et vide signum et gradum tactum a summitate alidadae in quo scias esse solem in illa die. Si vero per signum et gradum solis idest invenio solem esse in tali signo et in tali gradu sed nescio diem in quo hoc sit et volueris scire diem illius mensis pone regulam supra illud signum et gradum solis et videbis tunc mensem ac diem tactum a regula quae erit dies quam quaeris. De altitudine solis et stellarum invenienda. Cum volueris scire altitudinem solis vel alicuius stellae. Altitudo enim solis est elevatio solis ab orizonte recto in dorso vel ab obliquo in facie qui orizon est linea orientalis etc. Unde imaginetur una linea quae exeat a zenih capitis et vadat usque ad altitudinem solis vel stellae. Si de stella agis dico quod illa linea vocatur azimut. Suspende astrolabium per armillam cum manu dextra et sole opposito ex pnrte sinistra id est quod sol debet esse ex parte sinistra. Volve alidadam donec radii solares transeant per foramina minora utriusque tabulae alidadae. Tunc vide quot gradus sunt a linea orientali usque ad gradum secatum a regula et tot gradus erit elevatio solis in illa hora. Si autem in nocte altitudinem alicuius stellae scire volueris suspende astrolabium eo modo quo dictum est de sole. Et move regulam idest alidadam donec per foramina maiora alidadae utriusque tabulae stellam illam videre possis. Et ille gradus quem tetigerit regula ex parte lineae orientalis erit elevatio illius stellae ut de sole dictum est. — r 12 — De latitudine regionis habenda. Latitudo regionis sic intelligitur distantia in cocio a zenith capitis usque ad lineam aequinoctialem per lineam meridionalem vocatur latitudo vel in terra distantia quae est a regione quavis usque ad locum ubi aequinoctialis facit zenith in linea meridiana vocatur latitudo vel elevatio poli ab orizonte obliquo in illa regione vocatur latitudo vel elevatio orizontis in linea mediae noctis ab orizonte obliquo quod idem est cum elevatione poli eo quod dictus orizon rectus semper vadit cun polo et vocatur latitudo. Cum igitur latitudinem illius regionis videlicet cuiuscunque vis volueris invenire existente sole in principio arietis et librae vide altitudinem solis in die illa scilicet in meridie quia non in omni regione aequaliter elevatur et quot gradibus sol elevatur in meridie in die illa minue a .xc. et quod residuum fuerit erit latitudo illius regionis quam vis. Si autem in aliis temporibus quando existente sole in principio arietis et librae volueris latitudinem inquirere alicuius regionis et in qua vis die vide altitudinem solis in meridie in die illa. Si enim fuerit sol in signis quae sunt a principio arietis usque ad finem virginis de ipsa altitudine solis minue declinationem solis illius diei et quod residuum fuerit erit latitudo solis ipso existente in principio arietis vel librae idest ac si esset in principio istorum signorum arietis et librae. Si vero fuerit in signis quae sunt a principio librae usque ad finem piscium declinationem illius diei adde altitudini et quod collectum fuerit erit altitudo solis ipso existente in principio arietis et librae. Tunc ipsam altitudinem minue a .xc. et quod residuum fuerit erit latitudo illius re°ionis. Declinationes vero solis continentur in ta- O buia scripta in folio antecedenti. De altitudine poli vel latitudine regionis. Si altitudinem poli volueris scire quae etiam demonstrat latitudinem regionis. Accipe altitudinem unius stellarum fixarum videlicet de sero videlicet de illis quae non occultantur quando erit in — ii3 - linea meridiana a polo et eam altitudinem nota. Et similiter accipe altitudinem eius quando fuerit in linea mediae noctis videlicet in matutinis quia tunc erit in alia parte firmamenti et eam scribe sub prima altitudine. Et quod collectum fuerit ex ambabus divide per duo et id quod pervenerit erit altitudo poli sive latitudo regionis illius. De longitudine regionis. Longitudo regionis est duplex videlicet a vero occidente et ab occidente habitabili ultimo ut continetur infra. Imaginemur quod sphaera sit divisa in linea aequinoctiali in duo emisperi.a aequaliter videlicet unum sit versus polum antarticum quod sit totum coopertum aqua. Et aliud sit versus articum quod dividatur aequaliter in duas partes una dictarum partium est aqua cooperta et alia discooperta. Et sic habemus quod quarta pars terrae est discooperta ab aqua licet non tota habitabilis sit illa quarta et est discooperta in tali forma. Imaginemur quod sub aequinoctiali ex parte orientis in principio terrae discoopertae sit punctus .a. et in opposito ex parte occidentis sit punctus .b. distans a puncto .a. per gr. .clxxx. lineae aequinoctialis. Dico quod si ducantur duae lineae videlicet una a puncto .a. usque in polum articum et alia a puncto .b. usque in eundem polum dictae duae lineae cum linea aequinoctiali designabunt formam terrae triangularem. Ideo dico quod longitudo vera vocatur distantia quae est a vero occidente scilicet a puncto .b. per lineam aequinoctialem usque ad punctum ubi linea meridiana cuius vis regionis secat aequinoctialem. Et quia a vero occidente praedicto usque ad terram sunt gr. .xvij. min. .xxx. longitudo habitabilis est minor quam vera per dictam quantitatem. Ideo sciendum est quod antiqui astrologi accipiebant longitudinem a vero occidente. Moderni vero accipiunt eam ab habitabili. Si ergo volueris scire longitudinem alicuius regionis vide et considera cum astrolabio initium eclipsis lunaris vel solaris per quot horas aequales sint ante meridiem vel post in illa regione de qua longitudinem quaeris quia aliter longitudo accipi non posset. Vide ergo et considera per tabulas collectarias vel per tabulas parisimiles Soc. Lig. St. Patri*. — Documenti e sitali. S — ii4 — vel per aliquas alias tabulas horam in qua debet fieri initium eclipsis secundum tabulas ipsas. Et tunc accipe differentiam horar uni quae est inter initium eclipsis secundum tabulas et initium eclipsis quod accepisti in regione illa cuius longitudinem quaeris quam quidem differentiam multiplica per .xv. et quod provenit erit gradus distantiae inter situm illarum duarum regionum. Si autem regio in qua accepisti initium eclipsis cum astrolabio luerit orientalior legione descripta in tabulis cum quibus initium eclipsis accepisti ut dictum est adde dictam distantiam graduum supei longitudi nem illus regionis de qua agis in tabulis et habebis longitudinem quaesitam videlicet longitudinem illius regionis quam quaeris. Et si regio praedicta de qua agis fuerit occidentalior minue et ha bebis longitudinem quaesitam vel aliter longitudinem accipere poteris aequa lunam per tabulas quarum tabularum longitudinem scias et vide ad quot horas diei luna erit in meridie. 1 une attende et vides quod luna sit in linea meridiana tunc eleva solem et vide quot horae diei sunt transactae. Tunc vide distantiam horarum quae sunt inter aequationem quam fecisti cum tabulis et elevatione solis in illa die. Et dicta differentia vel distantia erit longitudo illius regionis quam quaeris vel in qua elevasti ad longi tudinem scriptam in tabulis cum quibus aequasti. Ad quam regionem facta sit quaelibet tabula astrolabii. Si per faciem astrolabii volueris facere aliquod opus sive aliquam operationem. Primo considera et scias quot continet quilibet almucantarat et quot gradus continet quilibet azimut et ad quam latitudinem facta sit tabula illa. Est autem sciendum quod almucantarat debent esse .xc. in qualibet facie astrolabij. Azimut vero debent esse .ccclx. Quot gradus contineat quilibet almucantarat sic cognoscitur numera almucantarat qui sunt a zenith usque ad locum ubi orizon obliquus secat lineam mediae noctis. Qui si fuerint .xc. dico quod quilibet almucantarat continet gradum unum et si fuerint .xlv. dico quod quilibet almucantarat continet gr. •ij. et si fuerint .xxx. .iij. et sic de ceteris. Quot gradus contineat quilibet azimut sic cognoscitur. Numera quot azimut sunt — ii5 - a puncto ubi orizon secat lineam mediae noctis usque ad punctum ubi aequinoctialis secat lineam orientalem qui si fuerint .xc. dico quod quilibet azimut continet gr. unum si .xlv. .ij. si .xxx. .iij. et sic de ceteris. Latitudo regionis ad quam facta sit tabula illa sic cognoscitur numera quot almucantarat sunt a zenith per lineam meridianam usque ad aequinoctialem de quibus facias gradus qui erunt gradus latitudinis ad quam facta est tabula illa. De quatuor plagis mundi. Si volueris scire ubi sunt quatuor plagae mundi videlicet oriens occidens septemtrio et meridies. Primo scito in quo gradu sit sol modo supradicto deinde accipe altitudinem solis in qua vis hora eo modo quo dictum est supra. Tunc pone gradus solis videlicet gradus in quibus est sol pone in rethe super tantam altitudinem graduum almucantarat quantam altitudinem solis accepisti in dorso ex parte orientis si fuerit ante meridiem vel ex parte occidentis si fuerit post. Postea vide quot azimut sunt a linea mediae noctis usque ad locum ubi posuisti gradus solis de quibus azimut fac gradus. Et super tot gradus incipiendo computare a linea mediae noctis pone alidadam in quarta orientalis dorsi si fuerit ante meridiem vel in occidente si fuerit post. Deinde astrolabio in plano posito partem versus armillam eleva aliquantulum a terra donec radii solares transeant per maiora foramina utriusque tabulae. Tunc partem elevatam depone usque dum in plano iaceat ita caute et diligenter deponendo quod radii solares qui transeunt per foramina semper vadant per summitatem alidadae idest per lineam fiduciae. Tunc linea orientalis demostrabit tibi oriens occidentalis occidens meridiana meridiem et mediae noctis septemtrionem. In quo Joco ori^ontis obliqui sol oriatur vel occidat. Cum volueris scire in quo loco orizontis obliqui oriatur vel occidat sol cotidie idest in quocumque die. Accipe gradus solis in illa die videlicet gradus illius signi in quibus est sol in illa die et pone eam in rethe et orizonte faciei orientalis sicut super — r 16 — orizontem ceciderit. Tunc vide quot azimut sunt .1 dicto puncto usque ad lineam mediae noctis. De quibus azimut fac gradus. Deinde in dorso astrolabij accipe tot gradus quot pervenerunt de azimut longe a linea meridiana versus lineam orientalem et ibi pone alidadam. Postea pone astrolabium in plano «ita et taliter quod lineae quatuor scilicet orientalis occidentalis meridiana et septentrionalis respiciant quatuor plagas mundi videlicet unaquaeque earum suam plagam secundum doctrinam supradictam. Tunc pone oculum in opposita parte alidadae ad foramen tabulae ita quod videas orizontem per utrumque foramen tabularum dico quod in illo loco orizontis elevabitur sol in illa die. Similiter operaberis ex parte occidentis si vis scire solis occasum. Et si volueris scire ubi oriatur vel occidat aliqua stella de illis quae ponuntur in astrolabio pone ostensorium dictae stellae idest locum in quo est ipsa stella si posita est in rethe in orizonte orientali cum volueris scire ortum vel in occidentali si vis scire occasum et operare cum azimut et gradibus sicut dictum est de sole. De distantia solis a %euitb vel ab orizonte in qualibet bora. Si vis scire quantum sol distat a zenith capitis vel ab orizonte obliquo in qualibet hora diei. Accipe altitudinem solis in illa hora in dorso. Et gradum solis illius diei videlicet gradus in quibus est sol in illa die in rethe in almucantarat ad tot gradus quot in altitudine accepisti. Et nota azimut qui tunc secat gradus solis. Postea accipe per azinTùt praedictum almucantarat qui sunt a zenith usque ad gradum solis de quibus almucantarat fac gradus et tot gradus erit a zenith usque ad locum solis. Qui gradus si minuantur a .xc. remanebit distantia quae est ab orizonte usque ad solem quia a zenith usque ad orizontem non sunt nisi .xc. gradus. Et si hoc idem volueris scire in nocte de aliqua stella accipe altitudinem illius stellae et cum ostensorio eius operare ut de sole dictum est idest pone ostensorium illius stellae in almucantarat sicut dictum est de sole. De altitudine solis cotidie in meridie. Si vis scire cotidie altitudinem solis in meridie in regione illa ad quam facta est tabula illa. Accipe gradus solis illius diei vide-licet gradus in quibus'est sol in illa die et pone eum in linea meridiana. Postea numerando accipe almucantarat qui sunt ab orizonte obliquo usque ad ipsam lineam meridianam scilicet ad locum ubi posuisti gradum solis in linea meridiana de quibus almucantarat facias gradus dico quod per tot gradus elevatur sol in meridie illius diei. De elevatione solis invenienda. Si vis scire declinationem solis cotidie ab aequinoctiali. Accipe gradum solis illius diei videlicet gradus in quibus est sol illa die et pone eum in linea meridiana et ibi facias notam. 1 unc vide quot almucantarat sunt ab ipsa nota usque ad lineam aequinoctialem per lineam meridianam. De quibus almucantarat facias gr. dico quod tanta erit declinatio solis in illa die. Si autem illa nota fuerit ex parte septentrionalis ab aequinoctiali videlicet versus circulum Capricorni. Dico quia declinatio erit septentrionalis. Et si fuerit ex parte meridiei videlicet versus circulum cancri erit meridiana. De ascendente inveniendo in qualibet hora. Cum volueris scire signum et gradum quae sunt in ascendente sive quae sunt ascendentia in orizonte in quavis hora. Accipe altitudinem et vide gradum solis in die illa idest gradus in quibus est sol quem gradum in quo est sol pone in almucantarat in tantam elevationem quantam invenisti solem elevatum ex parte orientis si est ante meridiem vel ex parte occidentis si est post. Dico quod gradus qui tunc fuerit in orizonte orientali vocatur occidens et gradus qui fuerit in linea mediae noctis vocatur septentrionalis. Si vero in nocte hoc idem scire volueris per aliquam stellam — 11S — fixam in astrolabio positam accipe altitudinem stellae illius et cum ostensorio eius operare ut superius dictum est de sole idest pone ostensorium eius in almucantarat eo modo quo dictum est de sole. De ascendente inveniendo tempore praeterito vel futuro vel tempore praesenti si In scias horam praesentem. Si autem scire volueris quis gradus fuit ascendens tempore praeterito qua vis die vel hora. Vel etiam quis gradus sive signum sit -ascendens tempore futuro quavis die vel hora. Vide primo in quo gradu sit sol illa die quam quaeris. Quem gradum pone in rethe in linea meridiana. Et si rethe vis accipere ascendentem in meridie vide qualis gradus est tunc in orizonte orientali quia ille est ascendens in meridie illius diei. Si autem essent aliquae horae aut sunt post meridiem aut ante si sunt post pro qualibet hora move almuri versus lineam occidentalem per .xv. gradus. Quo facto vide tunc gradum qui est in orizonte orientali quia ipse est ascendens in illa hora. Si autem sunt ante meridiem tunc move almuri pro qualibet hora gradus .xv. versus lineam orientalem. Quo facto \ide gradum qui tunc est in orizonte orientali quia ipse est ascendens. Est autem advertendum quod invento gradu in quo est sol illa die et illa hora quam quaeris immediate deberes cum praedicto gradu intrare tabulam aequationum dierum cum noctibus. Et aequationem quam inveneris in directo praedicti gradus addas super diem et horas quas habes vel quam quaeris ascendentem in illa hora et tunc operare ut dictum est. De hora inaequali invenienda per alidadam. Si per alidadam volueris horam inaequalem invenire vide quantum elevatur sol in meridie alicuius diei et in tali altitudine sive distantia a linea occidentis versus lineam mediae noctis pone alidadam et vide ubi regula fiduciae tangit lineam meridianam videlicet lineam .vj. horae quae est in quadrante. Nam finis horae sextae et initium .vij. vocatur linea meridiana in quadrante et ibi — ir9 — fac notam scilicet in linea fiduciae. Postea accipe altitudinem solis in quavis hora quia hora quadrantis quae tunc tacta fuerit ab ipsa nota quam fecisti in regula fiduciae erit hora quaesita scilicet inaequalis. Et nota quod si hoc quaeris ante meridiem debes numerando incipere a prima hora versus sextam. Et si quaeris post meridiem debes incipere a sexta hora versus primam. De hora inaequali invenienda per faciem astrolabii. Si dictas horas inaequales invenire volueris per faciem astro-labij. Accipe altitudinem solis in qua vis hora et pone gradum solis illius diei in gr. in quibus est sol illa die vel tunc in tanta altitudine almucantarat in quanta habuisti elevationem solis sive altitudinem. Tunc vide gradum oppositum soli idest gradum oppositum illi gradui in quo est sol illa die vel hora quam horam tanget quia illa hora tacta est hora quaesita. Nam si altitudinem solis accepisti ante meridiem, dico quod illae horae sunt incipiendae ab ortu solis usque ad horam illam. Et si accepisti post meridiem dico quia sunt accipiendae horae a meridie usque ad horam illam. Si enim in nocte scire volueris hoc idem per stellas fixas positas in astrolabio. Accipe altitudinem illius stellae et ostensorium eius pone in tanta altitudine almucantarat quanta invenisti eam elevatam. dico quod hora tunc tacta a gradu solis videlicet a gradu in quo est sol, erit liora quaesita. Quot horae aequales transierunt de die qua vis. Cum volueris scire quot horae aequales transierunt de die quavis et in quavis hora diei. Pone gradum solis idest gradum in quo est sol in orizonte orientali et ubi almuri tangit limbum ibi fac notam. Deinde accepta altitudine solis pone gradum solis videlicet gradum in quo est sol in almucantarat cum eadem altitudine et ubi almuri tangit tunc limbum fac aliam notam. Postea accipe distantiam sive quantitatem graduum qui sunt inter primam notam et secundam quos gradus distantiae divide per .xv. et quot pervenerint erunt horae aequales et quot remanserint erunt partes inaequales. — 120 — Ouot horas aequales continet arcus diurnus vel nocturnus idest dies vel nox. Cum volueris scire quantitatem arcus diurni idest quot horas aequales continet quilibet dies quam quaeris. Pone gradum solis videlicet gradum in quo tunc est sol in orizonte orientali et ubi almuri tangit limbum ibi fac notam scilicet in limbo idest numera gradus qui sunt a linea meridiana versus orizontem et mediam noctem procedendo usque ad locum ubi almuri tangit limbum. Deinde move rethe versus lineam meridianam procedendo versus orizontem donec gradus solis perveniat in orizonte occidentali et ubi almuri tangit limbum fac secundam notam. Tunc accipe distantiam sive quantitatem graduum qui sunt inter utramque notam transeundo per lineam mediae noctis et orientalem versus lineam meridianam quos gradus distantiae divide per .xv. et exibunt horae aequales quas continet illa dies et si aliquid superfuerit erit pars horae. Et si volueris scire quantitatem arcus nocturni idest quot horas aequales continet quaelibet nox. Accipe gr. inventos inter utramque notam quos minue de .ccclx. et quod remanserit divide per .xv. et habebis horas noctis vel minue horas diei quas invenisti primo de .xxiiij. et exibunt horae quas vis. Quot gradus %odiaci contineat quaelibet hora inaequalis. Si volueris scire quot gradus zodiaci contineat quaelibet hora inaequalis. Divide arcum diurnum videlicet gradus qui sunt inter primJm notam et secundam quas fecisti in limbo per .xij. Et quod pervenerit tot gradus continet quaelibet hora inaequalis. Et similiter si arcum nocturnum quem invenisti secundum regulam supradictam diviseris per .xij. secundum illud quod pervenerit tot gradus continet quaelibet hora inaequalis noctis vel aliter quot gradus continet una hora diei tot minue de .xxx. et quod residuum fuerit tot gradus continebit hora noctis. Nam sciendum est quod sicut duae horae aequales continent gradus .xxx. Item ora diei inaequalis cum hora aequali noctis continent gradus .xxx. — — — 121 — De partibus horne inaequalis transactis vel transituris inveniendis per almuri. Si volueris scire quanta pars horae transivit vel transire debeat ubi almuri tangit limbum ut dictum est supra quando quaerit quot horas aequales continet quaelibet dies fac notam primam. Deinde move rethem usque dum gradus oppositus soli sive gradui in quo tunc est sol perveniat in principio illius horae quam quaeris et ubi almuri tunc tangit limbum fac notam secundam.' Item move rethe usque dum gradus oppositus soli sive gradui in quo tunc fuerit sol cadat in fine illius horae quam quaeris et ubi almuri tangit tunc limbum fac notam tertiam tunc accipe quantitatem graduum qui sunt inter secundam et tertiam notam quae est quantitas totius horae. Item accipe quantitatem graduum qui sunt inter primam et secundam notam et vide proportionem quam habent ad gradus totius horae quia tanta quantitas transivit de ipsa hora. Item accipe gradus qui sunt inter primam notam et tertiam et vide proportionem quam habent ad quantitatem totius horae quia tanta quantitas debet adhuc de ipsa hora transire. De conversione horarum inaequalium ad horas inaequales et e contrario. Si horas inaequales ad aequales horas reducere idest facere volueris vide quot gradus contineant illae horae inaequales secundum doctrinam supra scriptam. Quos gradus divide per .xv. et habebis horas aequales et si de horis inaequalibus aequales horas facere volueris multiplica horas aequales per .xv. et summam inde provenientem divide per tot gradus quot continet una hora inaequalis et sic habebis horas inaequales. Ad inveniendum auroram sive crepusculum. Cum volueris scire initium crepusculi matutini in locum aurorae in quo oritur sol de mane vel finem vespertini idest occasum solis vel loco in quo occidit. Si in astrolabio fuerit designata linea — 122 — crepusculi videlicet aurorae. Pone gradum solis videlicet gradum in quo est tunc sol in ipsa linea crepusculi ex parte orientis et habebis initium crepusculi matutini idest habebis locum in linea aurorae in quo erit sol illa die. Et si gradum solis posueris in linea crepusculi occidentalis habebis finem crepusculi vespertini vel aliter cum gradus oppositus soli pervenerit ad gradum .xviij. almucantarat ex parte occidentis tunc erit initium crepusculi matutini. Et cum pervenerit ad gradum .xviij. almucantarat ex parte orientis tunc erit finis crepusculi serotini. Quae dies cuius diei sit aequalis in horis. Si volueris scire quae dies sunt aequales in horis ad invicem semper. Incipe numerando a principio cancri versus arietem et versus virginem vel a principio Capricorni versus aquarium et pisces. Et gradus quos inveneris habere aequalem distantiam a dictis terris idest a principio dictorum signorum vocantur aequidistantes et sunt unius declinationis versus septentrionem vel meridiem. Et etiam sunt ipsi dies aequalis magnitudinis et umbrae earum in meridie sunt similes et aequales. Cum quo gradu %odiaci stella mediat coelum vel oritur. Si scire volueris cum quo gradu zodiaci aliqua stella mediat coelum vel cum quo gradu zodiaci veniat ad ortum. Pone stellam sive ostensorium eius in linea meridiana. Et cum gradu zodiaci qui tunc erit in linea meridiana quia zodiacus est in rethe illa stella mediat coelum et similiter si posueris ostensorium ipsius stellae in orizonte orientali cum gradu qui tunc erit in ipso orizonte oritur stella illa. Et similiter est in orizonte occidentali. De ascensionibus signorum in circulo directo. Si gradus longitudinis alicuius stellae in zodiaco volueris scire ab ariete. Pone filum in centro zodiaci et duc eum per ostensorium illius stellae usque ad zodiacum et gradus quem filum secabit in rethe erit gradus longitudinis a capite arietis. \ — 123 — De ascensionibus signorutn in circuìo directo. Si volueris scire ascensionem signorum in circulo directo. Pone initium cuiusvis signi in linea orizontis recti ex parte orientis vel occidentis aut in linea meridiana vel mediae noctis. Et nota gradum tunc tactum ab almuri. Postea move rethe donec finis illius signi veniat in linea in qua posuisti initium. Et ubi almuri tangit limbum ibi fac notam secundam. Tunc vide quot gradus sunt inter primam notam et secundam quas fecisti quia per tot gradus erit ascensio illius signi. Et similiter facere poteris de qualibet parte signi. De ascensionibus signorum in circulo obliquo. Si scire volueris ascensionem signorum in circulo sive orizonte obliquo cuiusvis regionis et in quacunquevis die. Pone principium illius signi in orizonte obliquo orientali. Et nota gradum tunc tactum ab almuri deinde move rethe versus meridiem donec finis illius signi veniat in orizonte obliquo orientali. Et vide gradum ubi almuri tunc tangit limbum et ibi fac notam secundam. Et gradus quot inveneris inter istas duas notas per tot gradus erit ascensio illius signi in illo orizonte. Et si occasum volueris scire pone principium dicti signi in orizonte occidentali et move rethe versus lineam mediae noctis et operare ut supra. Per quot horas signum moretur in ascensione. Et si volueris scire per quot horas moratur in ascensione quodlibet signum tam in circulo directo quam in obliquo gradus ascensionis divide per .xv. et quod pervenerit erunt horae aequales et fractiones eius in quibus moratur. Et si diviseris dictos gradus per gradus horae inaequalis pervenient horae et fractiones idest quantum durat ascensio illius signi secundum horas inaequales. Et similiter facere poteris in occasu. 124 - Ad sciendum per rethe in quo signo et gradii sit sol. Si rethe volueris cognoscere in quo signo et gradu fuerit sol cotidie. Accipe altitudinem solis in meridie illius diei quam quaeris quam notabis in almucantarat in linea meridiana incipiendo computare ab orizonte orientali usque ad lineam meridianam. Si enim fuerit in tempore quod est a medietate mensis decembiis usque ad medietatem iunij move rethe donec aliquod signum et gradus de illis qui sunt a principio Capricorni usque ad principium cancri perveniat in notam quam fecisti in linea meridiana. Dico quod in illo signo et gradu qui dictam notam tetigerit erit sol in die illa. Et si fuerit in tempore quod est a medietate iunij usque ad medietatem decembris operare cum signis oppositis ut supra. De notitia stellarum incognitarum positarum in astrolabio. Si volueris scire notitiam stellarum incognitarum quantum ad te idest quia nullam de ipsis cognoscis quae positae sunt in astro labio. Primo accipe altitudinem alicuius stellae notae videlicet illius quam cognoscis et pone eam sive ostensorium eius in almucantarat super similem altitudinem tunc vide stellam quam volueris scire super quantam altitudinem iaceat super almucantarat et in qua parte sit scilicet in oriente vel occidente. Quo viso pone regulam in dorso astrolabij super illam altitudinem quam vis scire et verte astrolabium ad eandem partem plagae in qua accepisti praedictam stellam. Dico quod maior stella quam tunc videris per foramina regulae est stella quam quaeris. Ad sciendum gradum cuiusvis stellae non positae in astrolabio. Si volueris gradum alicuius stellae ignotae quae non sit in astrolabio posita idest locum in quo est vel alicuius planetae. Especta donec stella illa vel pianeta sit in linea meridiana. Et tunc accipe altitudinem alicuius stellae notoriae et in astrolabio positae cuius — 125 — ostensorium cum rethe dispone in almucantarat super similem altitudinem. dico quod in directo gradus signorum qui erit tunc in meridiana erit stella illa quatti queris. Cuius latitudinem scire poteris per computationem almucantarat a nota illius altitudinis usque ad aequinoctialem. Longitudo vero eius est satis nota. Potes etiam per occasum solis rethe disponere si nullam stellam cognoveris et sic poteris cognoscere omnes stellas. Ad sciendum distantiam duarum stellarum. Si volueris scire distantiam duarum stellarum manentium in quavis dispositione vel locis. Dispone astrolabium in terra secundum dispositionem earum stellarum ita et taliter quod movendo regulam per foramina maiora tabularum valeas, videre aliam stellam et talis dispositio fieri potest sub astrolabio ponatur aliqua quae teneant ipsum in aliqua parte erectum et in aliqua depressum vel obliquum secundum dispositionem stellarum fixarum ipsorum! Tunc move regulam astrolabio immobili et fixo manente donec ex opposita parte videas per foramina maiora tabularum unam illarum stellarum et nota locum regulae in gradibus dorsi. Item move regulam donec videas aliam stellam et similiter nota locum eius in gradibus dorsi. Nam quot gradus erunt a prima nota usque in secundam per tot gradus erunt dictae stellae distantes ab invicem. Ad cognoscendum stellas incognitas. Si non cognoveris aliquam stellam fixam et volueris aliquam cognoscere. Primo considera latitudinem illius regionis in qua es. Quam quidem latitudinem minue a .xc. et quod pervenerit ex ipsa diminutione erit elevatio aequinoctialis ab orizonte obliquo per lineam meridianam quam elevationem aequinoctialem semotim scribe et haec sit prima nota. Deinde vide quantum illa stella quam cognoscere vis distat ab aequinoctiali in latitudine quam scire poteris per tabulam declinationis stellarum ab aequinoctiali. Quo scito si praedicta stella est septentrionalis ab aequinoctiali adde dictam distantiam stellae ab aequinoctiali supra notam primam et — 126 — si est meridionalis ab aequinoctiali praedicta stella dictam distantiam ab aequinoctiali minue a nota prima et quod pervenerit ex tali dictione (i) vel subtractione erit nota secunda. Deinde vide cum quo gradu dicta stella quam quaeris mediat coelum. Et attende tantum quod aliquis pianeta sit in aliquo gradu et quando ille pianeta erit in linea meridiana stans tamen in illo gradu pone alidadam in dorso astrolabij in tanta quantitate graduum quanta est nota secunda quam fecisti. Et elevato astrolabio vide per foramen tabularum ipsius alidadae illam stellam de magnis quae sit in linea meridiana et illa erit stella quam quaeris. Ad sciendum vdocilatem et tarditatem lunae. Velocitatem et tarditatem lunae sic poteris invenire idest poteris scire quando luna est velox vel tarda in cursu. Attende quando luna incipit apropinquare alicui planetae vel stellae nocte per gradus .xx. vel .xxx. aut .xl. vel circa. Tunc accipe distantiam inter lunam et stellam illam in aliqua hora notabili. Item die sequenti in eadem hora similiter accipe distantiam inter lunam et stellam illam in aliqua hora notabili. Item die sequenti in eadem hora similiter accipe distantiam inter eas quam minue de distantia prima. Nam si residuum fuerit gradus .xv. vel circa dico quod luna est velox. Si vero .xi. fuerit dico quod tardior. Si autem .xiij. fuerit dico quod est mediocris cursus per quem luna non semper aequaliter ambulat immo quandoque plus quandoque minus. In quo gradu signi sit luna. Cum volueris scire in quo signo et gradu sit luna quacunque die et hora vel nocte. Accipe altitudinem eius quod fieri non potest nisi quando videtur sive in die et quando apparet sive in nocte et nota eam in almucantarat in qua parte fuerit scilicet ante meridiem vel post. Item accipe in ipsa hora altitudinem alicuius stellae fixae in astrolabio positae cuius ostensorium pone super altitudinem suam in almucantarat in parte in qua fuerit ipsa stella. Dico quod gradus zodiaci qui ceciderit in almucantarat super (i) Sic! additione — 127 — notam altitudinis lunae quam primo fecisti erit gradus lunae idest gradus in quo tunc est luna. Si autem apparuerit in die idem facere poteris cum altitudine lunae et altitudine solis sicut cum altitudine stellae. Eodem quoque modo poteris investigare loca planetarum in nocte si eorum altitudinem poteris habere. Veruntamen haec regula non est omnino vera scilicet quando luna habet latitudinem ab ecliptica. De locis planetarum inveniendis. Loca planetarum poteris alio modo investigare de nocte videlicet et etiam de die si apparent. Primo enim accipe altitudinem illius planetae de quo quaeris quando est prope lineam meridianam et serva eam. Et similiter accipe tunc ascendentem per aliquam stellam fixam quam similiter serva et attende donec ille pianeta incipiat descendere a linea meridiana. Et sume iterum eius altitudinem quando sit aequalis altitudinis prius sumptae ante lineam meridianam idest accipe eius altitudinem quum tantum descenderit a linea meridiana quod eius altitudo tunc sit aequalis illi altitudini quam primo accepisti quando erat prope lineam meridianam. Et similiter accipe tunc ascendentem per aliquam stellam fixam. Postea accipe medium in gradibus qui sunt inter ascendentem primum et secundum per almuri in limbo quod medium pone in orizonte. Dico quod gradus qui ceciderit tunc in lineam meridianam est ille gradus in quo est pianeta. De altitudine planetarum ab ecliptica. Si vis scire utrum pianeta sit septentrionalis vel australis ab ecliptica idest utrum habeat latitudinem septentrionalem vel australem ab ecliptica. Primo debes scire per aliquem librum in quo gradu zodiaci sit tunc ille pianeta quem gradum cum inveneris pone cum rethe in linea meridiana. Tunc accipe altitudinem illius planetae recte quando fuerit in linea meridiana. Quae altitudo si fuerit similis altitudinis gradus in quo invenisti planetam quem in meridie posuisti. Dico quod pianeta est recte in ecliptica nec habet — 128 — aliquam latitudinem. Et si maior pianeta est septentrionalis. Si vero minor australis et tantam latitudinem habet in via solis idest ab ecliptica quanta est maior vel minor illa latitudo. Utrum plancta sit directus vel retrogradus. Si volueris scire utrum pianeta sit directus vel retrogradus. Eius altitudinem accipe et ipsam nota. Et similiter altitudinem alicuius stellae fixae positae in astrolabio accipe et ipsam nota. Deinde post tertiam vel .iiij. noctem quando stella illa erit in simili altitudine accipe altitudinem praedicti planetae. Quae si fuerit maior quam sua prima altitudo quam primo invenisti dico quod pianeta est directus si fuerit in pai te orientali est retrogradus. Et si secunda altitudo illius planetae fuerit maior quam prima est retrogr.idus si fuerit ex parte orientali. Et si fuerit ex parte occidentali directus in luna autem e converso. De aequatione .xii. domorum. Cum volueris aequare .xii. domos. Primo vide gradum qui est ascendens qui gradus est initium primae domus et oppositus eius qui cadit in orizonte occidentali est initium decimae et oppositus eius qui est in linea mediae noctis est initium quartae. Deinde pone gradum ascendentis super finem octavae horae et gradus qui tunc ceciderit in linea mediae noctis erit initium domus secundae. Et oppositus eius qui ceciderit in linea meridiana est initium octavae. Item pone ascendentem in fine horae .xii. et gradus qui tunc ceciderit in linea mediae noctis erit initium tertiae domus et oppositus eius qui ceciderit in linea meridiana erit initium nonae. Postea vero pone gradum oppositum ascendentis super finem horae secundae et gradus qui tunc ceciderit in linea mediae noctis erit initium quintae domus et oppositus eius qui ceciderat in linea medij coeli erit initium domus undecimae. Item pone gtadum dictum in fine horae quartae et gradus qui tunc ceciderit in linea mediae noctis erit initium .vi. domus et oppositus eius qui ceciderit in linea medij coeli erit initium domus .xii. — 129 — Quis gratius erit ascendens in principio anni. Cum volueris scire gradum qui erit ascendens in principio anni mundani vel natalis. Primo scias quis gradus fuit ascendens in principio anni praecedentis quem pone in ascendente scilicet in orizonte orientali et locum almuri in limbo nota. Post haec move rethe donec almuri vadat longe ab illo loco per gradus .xciij. et gradus qui tunc ceciderit in orizonte orientali est gradus ascendens anni illius. Si autem volueris quaerere de pluribus annis pro unoquoque anno reduces almuri per gradus .xciij. et gradus qui tunc fuerit in orizonte orientali erit ascendens illius anni. Et nota quod annus natalis accipitur in nativitate Christi idest a gradu qui erat ascendens in ipsa nativitate, annus mundanus accipitur quando sol intrat primum min. signi arietis. Quot horae aequales sint inter annum praeteritum et praesentem. Si volueris scire quot horae aequales sunt inter annum praeteritum et presentem. Gradus qui * sunt inter dictos duos annos scilicet .xciij. divide per .xv. et numerus qui exierit de ipsa divisione est numerus horarum aequalium inter utrumque annum exi-stentium. De aspectibus planetarum. Si aspectus duorum planetarum idest quo aspiciunt se duo planetae ad invicem vel gradum videlicet gradus distantiae inter se vel quorumlibet eorum scire volueris, primo debes scire quid sit aspectus. Aspectus quidem est duplex scilicet dexter et sinister Aspectus dexter processit ad successionem signorum videlicet ab occidente in orientem. Sinister e converso videlicet ab oriente in occidentem. Item sciendum est quod aspectus fiunt .iiij. modis videlicet aspectus sextilis et dicitur sextilis eo quod sextam partem coeli continet scilicet gradus .lx. Quaternarius quia quartam partem coeli continet scilicet .xc. Et aspectus trinus qui tertiam partem Soc. Lio. St. Patria. — Documenti e itudi. 9 coeli continet scilicet grndus .cxx. Isti tres aspectus sunt dextri et sinistri ut supra diximus. Aspectus oppositus est qui recte opponitur illi aspectui qui continet gradus .clxxx. tam a dextris quam a sinistris. Sed quomodo et qualiter aspectus sextilis contineat gradus .xl. quaternarius .xc. ternarius .cxx. diverse sunt oppositiones. Aliqui dicunt quod pianeta unus existens in quo gradu vis coeli. Et existens longe ab eo per gradus .lx. zodiaci habet aspectum sextilem et sic per consequens dicunt de aliis aspectibus. Haec vero oppositio est verior et magis tenenda. Alij dicunt quod aspectus accipiuntur in gradibus aequinoctialis eo modo quo accipiuntur ascensiones signorum videlicet gradus in quo fuerit pianeta ponatur in linea meridiana et tunc notetur locus almuri in limbo. Postea procedat almuri pro aspectu dextro gr. .lx. limbi versus dextram dicunt quod gr. qui tunc ceciderit in linea meridiana habebit aspectum sextilem ad planetam et sic de ceteris aspectibus. Quae quidem opinio multum tenetur. Est autem sciendum quod si pianeta esset per .v. gr. ante vel retro prope gradum quando est recte aspectus quilibet tunc dicitur incipere aspectus sed non esset ita fortis aspectus vel est sicut quando recte est in gr. .lx. vel .xc. Alij vero dicunt quod' signum in quo fuerit pianeta ponatur in orizonte et notetur locus almuri in limbo et procedat almuri per gr. .lx. limbi gradus qui tunc ceciderit in ipso orizonte orientali dicunt ipsum habere aspectum sextilem ad planetam et sic de ceteris aspectibus. Haec quidem opinio parum est in usu et parum vera. De radiationibus planetarum. Si radiationes planetarum investigare volueris ante omnia debes scire quod radiationes planetarum super datae sunt super aspectibus procedunt et a quibus nomen acceperunt. Est etiam sciendum quod radiatio est duplex scilicet dextra et sinistra pro dextra quidem movetur rethe versus partem dextram. Et pro sinistra versus sinistram sed opus idem est. Cum ergo volueris scire radiationem alicuius planetae pone gradum eius in gradum in quo tunc erit pianeta supra lineam meridianam et nota tunc locum — i3i — almuri in limbo. Et si volueris sextilem radiationem move almuri cum retile versus dextram per gr. .lx. si quaternariam .xc. si trinariam .cxx. Et nota gradum qui tunc ceciderit in linea meridiana et ipse est locus primae radiationis. Deinde pone gradum planetae in gradum in quo est pianeta super orizontem orientalem et move almuri versus dextram pro radiatione sextili gr. .lx. et pro ceteris ut supra. Et nota gradum qui tunc erit in orizonte orientali et ipse est locus secundae radiationis. Quo facto accipe differentiam inter istas duas radiationes quam differentiam scribe separatim. postea accipe gradum qui erit ascendens in hora in-ccptionis operis idest quando accepisti altitudinem planetae. Et pone cum iterum in ascendente et tunc nota locum almuri in limbo qui erit nota prima. Post haec move rethe donec gr. planetae idest gradus in quo est pianeta veniat super lineam meridianam si non fuerit in meridie nec in media nocte quia tunc non debet rethe moveri quia gradus planetae tunc recte cadit in linea meridiana vel mediae noctis et gradus ascendens in orizonte orientali et tunc similiter nota locum almuri in limbo qui erit nota secunda. Quo facto accipe differentiam inter istas duas notas et scribe eam sub differentia inventa inter duas radiationes ut supra dictum est. Et multiplica unam differentiam per alteram et id quod pervenerit divide per medium arcum diei quia si arcus est .100. divide per .xv. etc. quia quando facta fuit in die vel per medium * arcum nocturnum si quando facta fuit in nocte et id quod ex ipsa divisione pervenerit erit aequatio radiationis. Quam quidem radiationem minue a radiatione prima vel secunda videlicet ab illa quae magis distat a gradu planetae si pianeta fuerit inter signum septimum et decimum idest .vij. .viij. .ix. aut inter quartum et primum idest primum secundum et .iij. Et si pianeta fuerit inter .x. signum et primum idest .x. .xi. .xij. aut inter .iiij. et septimum idest inter .iiij. .v. .vi. addatur aequatio super radiationem minorem videlicet super illam quae minus distat a gradu planetae et post dictam subtractionem vel additionem habebis radiationem quaesitam. Pro sinistra vero radiatione invenienda move rethe versus partem sinistram et in ceteris operare ut supra. Cum de radiatione opposita nihil sit dictum superius dico quod radiatio — 152 — opposita continet gradus .clxxx. ex utraque parte ut continet aspectus. Ideo radiatio opposita et aspectus oppositus sunt idem. De operationibus scalaù quadrantis in astrolabio scriptae. Ad sciendum opera scalae quadrantis quae scala in astrolabio scribitur. Primo est sciendum quod linea quae procedit a polo usque ad gr. .xlv. altitudines dividens duas scalas sive duas um-. bras in puncto coniunctionis ipsarum idest dividens spacium quod est inter lineam occidentalem et mediae noctis in duas partes vocatur d3^ameter scalae et punctus in quo coniungitur dyameter ipsa cum ambabus scalis vocatur punctus dividens sive punctus medius. Si enim altitudo solis accipiatur quando est in gradibus .xlv. dico quod regula tunc recte cadit in dyainetro scalae et in puncto medio. Et si altitudo fuerit maior quam gradus .xlv. tunc scala in qua cadit regula vocatur umbra recta. Et si altitudo solis fuerit minor quam gr. .xlv. tunc scala in qua ceciderit regula vocatur umbra versa. Est autem notandum quod in qualibet men-suratione facienda sive in altitudine sive in plano sive in profunditate oportet ut primo et ante omnia fiant duae scalae sive umbrae quarum una sit semper umbra recta et alia umbra versa quarum notitia sic habetur. Dico quod umbra recta in mensura-tione altitudinum semper est maior quam versa. In mensuratione vero longitudinum et profunditatum e converso umbra versa vocatur a mensuratore usque ad pedem turris recta vocatur a pede turris usque ad summitatem, salvo quando umbrae sunt aequales. Est autem intelligendum in mensuratione altitudinum quod altitudo turris vel alterius rei mensurandae oportet quod sit una duarum umbrarum et altera sit distantia inter mensuratorem et altitudinem mensurandam quia id quod est umbra recta in mensuratione altitudinum in mensuratione profunditatum et longitudinum appellatur umbra versa et ideo est maior. Item quod altitudo mensuranda sit perpendiculariter recta. Item quod spacium quod est inter mensuratorem et rem mensurandam sit planum et rectum ita quod in puncto coniunctionis cum altitudine faciat angulum rectum. Si enim spacium illud non esset planum tunc neces- — ‘33 — sarium est ut fiat linea recta quae exeat ab oculo tuo usque ad aliquem locutn ipsius altitudinis in quo loco faciat cum dicta altitudine angulum rectum quae linea sic fieri potest. Pone regulam sive alidadam in diametro orientis et occidentis et constitue sive fige virgam aliquam cuiusvis magnitudinis in terra recte et per-pendiculariter et elevato astrolabio pone oculum ad foramen unius tabulae ita quod per ambo foramina maiora tabulae videas summitatem virgae et aliquem locum altitudinis quam quaeris in quo loco terminetur linea visualis et ibi fac notam in qua nota linea visualis cum altitudine faciat angulum rectum. Si enim altitudo fuerit sic disposita quod non habeat lineam perpendiculariter rectam usque ad terram ut est in aliquo solario. Tunc oportet ut ibi facias lineam perpendicularem tali modo. Pone regulam in dyametro meridiano et mediae noctis et pone oculum ad foramen tabulae inferioris et respice per ambo foramina maiora ita et taliter quod linea visualis cadat in quo loco vis solarij et fac notam in solario ubi est oculus tuus in qua nota appende filum usque in terram sive in uno foramine astrolabii et ubi terminatur fac notam. Dico quod ipsa linea pendens a solario cum terra si fuerit plana faciet angulum rectum. Erit enim dicta linea pendens una umbra et alia erit spacium quod est inter mensuratorem et notam factam in terra. Si autem inter notam factam et mensuratorem non esset aliquod spacium. Tunc elonga te aliquantulum a tali nota ita quod spacium habere possis quod erit alia umbra etc. Si umbras in puteo vel alia profunditate facere volueris et paries ipsius non esset perpendiculariter rectus. Pone regulam in dyametro meridiano et mediae noctis,et elevato astrolabio pone oculum ad foramen tabulae superioris et respice ita et taliter per foramina utriusque tabularum quod linea visualis terminetur in fundo ipsius profunditatis in quovis loco prope parietem ibi imaginaberis notam unam et aliam in loco ubi est oculus tuus. Tunc lineam ab oculo tuo usque ad extremitatem putei oppositam quae linea faciat angulum rectum in nota tui oculi et sic habebis duas umbras. Si umbras in planitie facere volueris si planities illa fuerit plana et aequalis ita quod non praecedat in aliqua parte constituenda est pro una umbra et si non fuerit plana fac in — *34 — eam lineam rectam modo supradicto in altitudine. Tunc fige virgam in terram perpendiculariter rectam, et sic habebis duas umbras scilicet virgam videlicet ab alio loco supra in quo posuiti oculum in virga erit una et linea facta in planitie erit altera. Notandum est autem quod in mensuratione altitudinum semper umbra recta divisa sit vel intelligatur in se divisa in partes .xij. aequales. Et tunc proportiones fiunt super ipsam umbram rectam. In mensuratione vero longitudinum et profunditatum intelligitur umbra versa divisa in partibus .xij. aequalibus et tunc proportiones fiunt super ipsam umbram versam. Si enim quantitatem umbrae versae per ipsam umbram rectam scire volueris in altitudinibus accipe altitudinem ponendo oculum ad foramina tabularum et vide ad quot puncta scalae regula secat umbram rectam et per tot puncta divide .cxliiij. et hoc quia umbra versa divisa est in partibus .xij. Quae partes .xij. sunt radix .cxliiij. verbi gratia ponamus quod regula cadat super umbram rectam ad .x. puncta, si enim diviseris .cxliiij. per .x. provenient .xiiij. .v. et sic umbra versa erit tanta quanta umbra recta quae sunt partes .xij. et plus duabus partibus cum duabus quintis unius partis illarum .xij. Si vero volueris scire quantitatem umbrae rectae per umbram versam vide ubi regula tangit umbram versam verbi gratia ponamus quod regula tangat umbram versam in punctis .ix. tunc divide .cxliiij. per .ix. et provenient .xvi. ergo umbra versa erit partes .xvi. de quibus linea recta est partes .xij. In longitudinibus autem et profunditatibus sit e converso scilicet quia in altitudinibus sit proportio super umbram rectam eo quod tunc divisa est in partibus .xij. aequalibus. Et in longitudinibus et profunditatibus proportio fit super umbram versam eo quod tunc umbra versa est divisa in partibus .xij. Fit etiam alio modo ponamus quod regula cadat super .x, puncta scalae rectae tunc vide per quot puncta distat locus ille a .xij. et constat per .ij. vide etiam quam proportionem habent .ij. ad .x. constat quod quinta pars. Adde ergo quintam partem umbrae super ipsam versam et habebis umbram versam. Et si diviseris umbram rectam quae est partes .xij. habebis .xiiij. et .v. quae erit umbra versa ut superius dictum est et ita facias de umbra versa ad rectam. De cognitione umbraram per altitudinem solis. * Cum volueris cognoscere umbram mediam rectam versam per altitudinem solis. Unde quando sol fuerit in altitudine graduum .xlv. tunc umbra quam facit turris vel alia altitudo est aequalis dictae altitudini et haec vocatur umbra media. Et altitudo rei vocatur umbra aequalis. Si enim altitudo fuerit maior gradibus .xlv. tunc umbra' erit minor quam umbra media sive altitudo rei et tunc dicta umbra vocatur umbra recta et altitudo rei vocatur umbra versa. Si autem altitudo solis fuerit in .cij. gr. .xlv. tunc umbra erit maior quam umbra media sive quam altitudo rei et tunc dicta umbra vocatur umbra versa. Et altitudo rei vocatur umbra recta. Et sic constat quod altitudo rei idest turris vel alia altitudo cum sua umbra describunt istas duas scalas idest rectam et versam. De altitudine rei accessibilis per altitudinem solis. Igitur cum per altitudinem solis mensurare altitudinem rei accessibilis volueris attende quando sol fuerit in altitudine graduum .xlv. quia umbra quam facit in linea recta faciente cum ipsa altitudine angulum rectum ut dictum est. Quae aequalitas intelligatur a puncto ipsius anguli usque ad summitatem altitudinis vel usque ad finem umbrae. Si altitudo fuerit maior grad. .xlv. tunc regula tangit scalam umbrae rectae. Vide ergo in quot punctis tanget scalam et per ipsam divide .clxiiij. et quod pervenerit serva. Tunc supponatur quod a loco in quo stas usque ad angulum rectum in altitudine totum sit divisum in partibus .xij. Dico quod proportionem quam habet divisio servata ad .xij. talem proportionem habebit altitudo ad umbram ut dictum est. Si autem altitudo solis fuerit minor gradibus .xlv. tunc regula cadet in scalam versam. Vide ergo in quot punctis tangit scalam et per ipsos divide .cxliij. et quod pervenerit serva. Et ponamus quod ab angulo recto usque ad summitatem rei mensurande totum sit divisum in partibus .xij. Dico quod proportionem quam, habebit divisio servata ad .xij. talem proportionem habebit umbra ad altitudinem rei ut supra dictum est. Si vero regala non caderet in puncto integro scilae tunc nota gradum limbi altitudinis in quo tunc regula cadit. Item pone regulam in principio ipsius puncti et nota gradum limbi. Item pone regulam in fine ipsius puncti et similiter nota gradum limbi postea fac proportionem partis ad totum secundum quod supra docuimus. De mensuratione altitudinis sine sole cum virga. Si altitudinem alicuius rei accessibilis volueris mensurare sine acceptione altitudinis solis videlicet cum virga fige virgam in terra recte perpendiculariter et fac lineam rectam a summitate virgae usque ad rem mensurandam cuiusvis magnitudinis quae faciant angulum rectum eo modo quo dictum est supra in quo angulo fac notam. l£t pone oculum ad summitatem virgae et elevato astiolabio move regulam donec per foramina tabularum possis videre summitatem virgae et summitatem rei mensurandae. Dico quod si regula cadit in dyametro umbrarum scilicet in gradu .xlv. altitudo rei et linea procedens a summitate virgae sunt aequales scilicet quia tantum est a nota anguli usque ad summitatem quantum ab ipsa nota anguli usque ad summitatem virgae. Si enim regula ceciderit in scalam rectam vide in quot punctis tangit ipsam scalam rectam et per tot puncta divide .cxliiij. et quod pervenerit erit altitudo rei ipsius. Quo facto ipsam altitudinem serva tunc ponamus quod a summitate virgae usque ad regulam dividatur totum aequaliter per .xij. dico quod proportionem quam habebit divisio servata ad .xij. talem proportionem res mensuranda ad lineam ductam a summitate virgae usque ad angulum rectum ut dictum est supra in locis multis. Rem mensurandam intellige esse spacium a nota anguli recti usque ad summitatem ipsius rei. Si vero regula ceciderit in umbram versam vide in quot punctis ipsius scalae sive umbrae veisae ceciderit. Et per ea puncta divide .cxliiij. et quod inde exierit serva. Tunc ponamus quod ab angulo usque ad summitatem tei mensurandae totum divisum sit super .xij. partes aequales. Dico quod pioportionem quam habebit divisio servata ad .xij talem proportionem habebit linea quae ducitur a summitate — 137 - virgae usque in notam anguli altitudine ipsius rei mensurandae scilicet spacio quod est ab angulo usque ad summitatem ipsius rei. Item aliter quantum erit plus quam .xij. id quod exibit de divisione tantum majus erit spacium quod est ab ipsa nota usque ad summitatem rei mensurandae. De mensuratione projunditatis. Si profunditatem putei vel alicuius alterius profunditatis volueris mensurare. Vide si paries oppositus tibi sit perpendiculariter rectus Qui si non fuerit perpendiculariter rectus fac in eo lineam rectam perpendiculariter ut supra docuimus. Postea fac lineam a loco in quo stas usque ad oppositam extremitatem putei quae duae lineae simul faciant angulum rectum ut dictum est supra. Deinde elevatum astrolabium pone ad summitatem putei ex parte ubi stas et pone oculum ad tabulam superiorem et respice ita quod per foramina utriusque tabulae videas fundum parietis tibi oppositi. Dico quod si regula cadet in gradibus .xlv. tanta erit profunditas q-ianta erit latitudo sive dyameter oris putei. Si vero regula ceciderit in maiori altitudine quam gr. .xlv. tunc regula cadet in umbram versam quae erit minor quam umbra recta. Vide ergo in quot punctis ipsius umbrae ceciderit et per eos divide .clxiiij. et quod pervenerit. Vide quantum sit plus quam .xij. tantum erit plus latitudo putei quam sit profunditas. Si vero ceciderit regula in minori altitudine gr. .xlv. tunc regula cadet in umbram rectam quae erit minor quam versa. Vide ergo in quot punctis ipsius regulae ceciderit et per eos divide .cxviiij. et quod pervenerit vide quantum sit plus quam .xij. et tantum erit plusquam profunditas quam sit latitudo oris putei. De planitie mensuranda. Si volueris mensurare longitudinem alicuius rei planae. Primo vide si ipsa longitudo sit recte plana vel non. Si non est recte plana tunc fac lineam rectam modo supradicto. Si autem fuerit recte plana tunc fige virgam in terram perpendiculariter rectam. Quae cum ipsa planitie faciat angulum rectum in terra. Deinde elevato astrolabio pone oculum ad foramen tabulae superioris et respice ita quod per foramina utriusque videas summitatem virgae et finem longitudinis mensurandae. Et regula ceciderit in gr. .xlv. Dico quod longitudo rei mensurandae erit aequalis longitudini virgae. Si vero ceciderit in maiori altitudine quam gr .xlv. tunc regula cadet in umbram versam. Vide ergo in quot punctis cadit regula et per eos divide .cxliiij. et quod pervenerit vide quantum sit plus quam .xij. quia tantum erit maior longitudo virgae quam res mensuranda. Et si altitudo fuerit maior quam gr. .xlv. tunc regula cadet in umbram rectam. Vide ergo in quot punctis umbrae rectae ceciderit et per eos divide .cxliiij. et quod pervenerit vide quantum sit plus gr. .xij. et tantum erit longitudo mensuranda maior quam virga. De mensuratione altitudinis rei inaccessibilis. Si altitudinem alicuius rei inaccessibilis mensurare volueris et planities sit inter te et altitudinem in qua planitie sit aqua vel alia obstacula sint ibi ita quod ad rem ipsam mensurandam accedere non possis. Primo mensurare longitudinem in plano quae est inter te et rem mensurandam secundum quod supra docuimus. Quam longitudinem supponas pro una scala sive umbra et altitudinem pro altera. Tunc elevato astrolabio attende si regula cadit in umbram rectam vel versam et operare ut superius ostensum est in capitulo de altitudine. De mensuratione rei positae in monte. Si vero turris vel aliqua alia altitudo fuerit super montem posita ita quod prope eam non sit aliqua planities sed fuerit in directo ejus alius mons similis altitudinis vel maioris monti in quo posita est turris illa. Primo quaere locum in ipso montis qui est aequalis altitudinis quanta est altitudo fundamenti turris quam vis mensurare. Quem locum habere poteris per lineam rectam ductam ab oculo tuo usque ad pedem turris quae faciat angulum rectum - '39 ~ cum ipsa turre ut suprd docuimus. Tunc mensurare illam lineam prout longitudines mensurantur quam supponas pro una umbra sive scala et altitudinem mensurandam pro altera et operare ut supra dictum est. De mensuratione profunditatis inaccessibilis. Si autem volueris mensurare profunditatem aliquam quae sit ita disposita quod ad oppositam partem oris eius accedere non possis fac rectam lineam a loco ubi stas usque ad oppositam partem oris eius quam lineam mensura ut longitudines mensurantur. Quam lineam supponas pro una umbra et profunditatem pro altera et operare ut supra dictum est. Dc mensuratione altitudinis cum virga. Si altitudinem accessibilem per virgam sine astrolabio volueris mensurare fige virgam in terram perpendiculariter rectam. Quae sit certae quantitatis pedum vel palmarum vel cubitorum quae linea sit .a. in summitate et .b. prope terram ubi figitur. Item fige aliam virgam in linea recta per certam quantitatem pedum longe a prima versus rem mensurandam quae linea sit .c. in summitate et .d. in terra tunc pone oculum iuxta terram in tali loco quod per punctum .n. videas summitatem rei mensurandae. Et ubi linea visualis tetigerit virgam .c.d. ibi fac notam .e. Deinde accipe quantitatem pedum qui sunt inter virgam .c.d. et rem mensurandam et eos multiplica per quantitatem pedum virgae .a.b. et quod pervenerit divide per quantitatem pedum qui sunt inter virgam .a.b. et virgam .c.d. Et id quod exibit ex ipsa divisione addita ei distantia quae est a puncto e. usque ad punctum qui est in terra erit altitudo rei mensurandae. De eodem cum umbra solis. Et si hoc idem volueris scire per umbram solis. Fige virgam in terra perpendiculariter rectam quae sit certae quantitatis videlicet fige — 140 — eam in tali loco quod summitas umbrae altitudinis mensurandae transeat per summitatem ipsius virgae. Et fac notam ubi umbra terminatur in terra tunc quantitatem pedum qui sunt a dicta nota usque ad pedem turris multiplica per pedes longitudinis virgae. Et quod exierit divide per pedum quantitatem qui sunt a nota facta in terra usque ad pedem virgae et id quod pervenerit erit latitudo rei mensurandae. De mensuratione altitudinum per speculum. Si enim cum speculo volueris mensurare altitudinem rei accessibilem. Fige virgam in terra perpendiculariter rectam et pone speculum formae rotundae inter virgam et altitudinem mensurandam per lineam rectam. Deinde pone oculum in tali loco ad virgam quod in centro speculi videas summitatem rei mensurandae et ubi posuisti oculum ad virgam fac notam. Postea accipe quantitatem pedum qui sunt a pede virgae usque ad centrum speculi Et haec sit prima mensuratio. Deinde accipe quantitatem pedum qui sunt a pede virgae usque ad notam ubi oculum posuisti. Et haec sit secunda mensuratio. Deinde accipe quantitatem pedum qui sunt a centro speculi usque ad pedem rei mensurandae. Et haec erit tertia mensuratio. Si ergo prima mensuratio cum secunda erunt aequales. Dico quod tertia mensuratio cum re mensuranda similiter erunt aequales. Si vero prima mensuratio non esset aequalis secundae tunc multiplica secundam per tertiam et quod exierit divide per primam et exibit altitudo rei mensurandae. Capitulum de intersecatione trium punctorum. Intersecatio aufern de tribus punctis sic accipitur, fac .iij. puncta sive aequaliter distantia ab invicem sive in recta linea sive in curva triangulariter tamen cadentia. Tunc si volueris invenire punctum quartum inter illa .iij. quae prius fecisti in quo puncto posito pede circini immobili cum pede mobili capias illa .iij. puncta et sic per consequens figuram circularem possis facere. Primo et principaliter in uno illorum .iij. punctorum scribe .a. in 2 .b. in 3 - i4r- - .c. tunc duc lineam a puncto ,a. in punctum .c. et a puncto .c. in punctum .b. Quo facto fac intersecationem inter punctum .c. et punctum .b. ex utraque parte. In quarum una scribe .d. in alia vero .e. Tunc duc lineam .a.d.e. et .similiter fac intersecationem inter punctum .a. et punctum .c. ex utraque parte. In quarum una scribe .f. in alia .g. tunc duc lineam .a.g. in .f. et ubi dicta linea .f.g. secaverit lineam .e.d. ibi fac punctum .h. in quo puncto .h. pone pedem circini immobilem et mobilem in puncto .a. et duc ipsum pedem mobilem quia tunc ipse pes mobilis capiet illa .iij. puncta sive aequaliter sive inaequaliter existant quia si aliter esset opus non esset verum. Et tunc poteris facere figuram circularem per ipsa tria punctn. wmmmm , v . - * INDICE DEI NOMI PROPRII Albategnio, p. 54. Alizerj (Federico), p. 75, 76, 77. Altieri (biblioteca), p. 79. Amati (Giacinto), p. 73. Angió (Roberto d’), p. 59. Aniceto (patriarca di Costantinopoli), p. 60, 82. Antonelli (D. Giuseppe), p. 72, 73. Aprosio (Angelo), p. 77. Audiffredi (G. B.), p. 73. Baldi (Bernardino), p. 6r. Bandino (Domenico), p. 83. Baruffaldi (Girolamo iuniore), p. 73. Belgrano (L. T.), p. 55, 56. Blnedetto XII, p. 62 nota. Betussi (Giuseppe), p. 57, 70, 82. Beughem ^Cornelio di), p. 73/ Blume (Federico), p. 79. Boccaccio (Giovanni), p. 57, 61 nota, 62 nota, 63, 64, 76. Bohnenberger (J. G. F.), p. 65. Boncompagni (Baldassarre), p. 52, 61, 61 nota, 62 nota, 71 nota, 72, 75, 78, 81. Bono (Pietro Avogaro), p. 71. Bracelli (Jacopo), p. 62 nota. Brunet (G. Carlo), p. 73. Campofregoso, v. Fregoso. Cassini (Gian Domenico), p. 94, 69. Chacon (CiACOMUsJ(Al(bnso),p. 73, 82. Ciccarelli (Alfonso), p. 70, 82. Cicerone, p. 64. Ciro, p. 64. Clemente V, papa, p. 55 nota 1. Comneno (Alessio), p. 58. Coronelli (Vincenzo), p. 74. Costabili (Gio. Batta), p. 73. Danti (P. Ignazio), p. 54 nota. De Blasiis (Giuseppe,), p. 56, 59. Denis (Michele), p. 73. Df.simoni (Cornelio), p. 53, 54 nota, 55, 56, 59, 60, 63, 69. Dì Negro (Andalò), p. 51, 52, 53, 54, 56, 57, 58, 59, 59 nota, 60, 61 nota, 66, 69, 70, 71, 76, 77, 79, 80, 82, 83 et passim. Di Negro (Ansaldo), p. 60. Di Negro (Bartolomeo), p. 56. Dì Negro (Benedetto Zaccaria), p. 56. Di Ni gro (Carlotto), p. 56, 58, 60. Di Negro (Egidio), p. 58. Di Negro (Enrico), p. 60. Di Negro (Guglielmo), p. 60. Dì Negro (Leone), p. 56. Dì Negro (Saiagro \ p. 57. Di Negro (Zaccaria), 60. Es Sui i, p. 55. Falamonica (Bartolomeo), p. 63. Favaro (Antonio), p. 53. Ferrari (Jacopo\ p. 65 nota. Filippo (il Bello), p. 56. Foresti (Giacomo Filippo), p. 83. Fregoso (Giovanni Battista), p. 61,64 e 65 noia. Fulgoso (Battista), vedi Fregoso. Galilei (Galileo), p. 69. Ghilini (Camillo), p. 64 nota. G inguen È (P. L.), p. 73. Giustiniani (Agostino), p. 62 nota, 82. Giustiniani (Michele), p. 57, 74, 82. Giovanni (da Genova), p. 55 nota 1. Giovanni (di Chiavari), p. 55 nota. Giovanni (Fattinantc), p. 58, nota. Graesse (G. T ), p. 73. Grillo (L.), p. 57 Guazzo (Marco), p. 62 nota. Hain (Lodovico), p. 73. Hendreich (Cristoforo), p. 73. Hennings (G. C.), p. 73. Jòcher (C. G.), p. 74. La Lande (G. Le Francois de), p 54, 73. Libri (Guglielmo), p. 62, 65, 73. Lindenau (barone di), p. 65. Lipenio (Martino), p 74. Maiti-aire (Michele), p. 73. Maraldi (Giacomo Filippo), p. 64. Manni (Domenico Maria), p. 82. Mojon (Benedetto), p. 57, 61, 62, 65. 69, 73- Molini (Giovanni Claudio), 73. Montfaucon (Bernardo), p. 82. Montucla (J. F.), p. 73. Negrotto (Lazzaro), p. 52. Scolino (di S. Prospero), p. 59. I44 - Oldoino (Agostino), P- 74> 77)-Oli veri (Agostino), P- ^I' Orlandi (Pellegrino), p- 73’ Panzer (G. Wolfgang), P- 73* Passigli (David), p. 74-Pastori (Gio. Batta), p- 7^m Picardus (Johannes), p- 72' Poeti (Bernardo), p- 7^-Poggendorf (J. C.1, P- 73-Polo (Marco), p. 66, 67, 68, 69. Ramusio (Giambattista), P- 66, ^7» » 9 Remondini (P. C.), P- 51» >2’ ^’ Rf.nirri (Vincenzo), P- ^9-Riccardi (Pietro), p- 73- ^ Richeriane (Pandette), P> 59 11 ’ nota. Rusticiano (da Pisa), P- ^7-Santander (C. A.), 73-Scheibel (C. E.), p. 73-Semple (Ugo), p. 83. Silva (di Cinisello), P- 72* Soprani (Raffaele), P- 73» ’ Spotorno (G. B.), p. 57 ”0,a 67> 72- 73- „ g2> Tiraboschi (G.), p. 7°> 72> 73’ Tomasini (Giacomo Filippo)* P* Trevisani (Ettore), p- Trevisani (Nicolò), p. 8i- ; . n e? 61 nota. Ugo IV^di Lusignano, p- >/> Virgilio, p. 64. Weiss (G.), p. 73. Wolf (G. C.), p. 73' Yule (Henry), p. 66, 67, 68. ^ Zach (Barone di), p. 65, 65 nota, 73> UNA BARZELLETTA • ^ INTORNO AGLI AVVENIMENTI DEL MDXXVII PER CURA DEL SOCIO A C H IL L E N fi R I Soc. Lio. St. Patria. — Documenti t studi. io AVVERTENZA I. a produzione poetica, d’argomento storico, popolare o semipopolare, fu oltre ogni dire feconda nella prima metà del cinquecento; tanti avvenimenti così vari e momentosi mossero la vena dei cantori, dalla voce dei quali il popolo, assetato e curioso, correva ad apprendere le notizie degli assedi, delle battaglie, dei saccheggi, delle vittorie e delle sconfitte. Molti di questi componimenti son noti, e parecchi ebbero modernamente onor di ristampa e di illustrazione; or ci sembra opportuno aggiungerne un altro, che viene ad accrescere il novero di quelli d’argomento genovese messi in luce negli anni passati. — 148 — Esiste nella biblioteca Colombina di Siviglia, e si vede registrato nel catalogo che si va ora stampando (1). È uno dei soliti opuscoli in 8°, di sei carte, in carattere tondo, senza anno e senza note tipografiche; le cc. iv, 2', 3V hanno ventitré linee; le cc. 2r, 3", 4" > 5" lie hanno ventiquattro; le cc. 4V e 5' rispettivamente diciannove e otto; reca in fronte due silografie, la prima rappresentante uno scontro alle porte di una città, 1 altra una battaglia navale. 11 titolo suona così: Barzelletta qual tratta dela / Presa di Zenoua, & lei Presa formata, / & del bosebo & del castellalo. La prima linea é in carattere semigotico, le altre in tondo simile a testo (2). Ma 1’ opuscolo finisce con un componimento (cc. 4V~5'), non indicato nel titolo, che ha in principio questa didascalia: Duolsi Italia de la presa di Roma, e comincia: Oime infelice oime che Roma e presa Senza contesa dal popul marano, e termina: Et fia il vostro valor più ch’altro degno Che a voi concordi ogni poter s’aterra; poesia notevole per la forma, per lo spirito patriottico, e per le reminiscenze petrarchesche. Due piccole silo-grafie, le quali riguardano il contenuto, adornano anche questa seconda poesia. (1) Biblioteca Colombitia. Catalogo de sus libros impresos, Sevilla, imp. E. Rasco, 1888, 1891, 1, 203. (2) Dobbiamo grazie vivissime al doti. Simon de la Rosa y Lopez, sapiente illustratore del citato Catalogo, per le preziose indicazioni che con squisita cortesia si compiacque comunicarci. — i49 — Ii. Fernando Colombo, bibliofilo intelligente ed appassionato, aveva l’abitudine di notare sui libri che andava man mano acquistando, il prezzo, la data, e il luogo dove ne faceva la compera; il che ha dato modo al-I’ Harrisse di seguirlo nelle sue frequenti e varie peregrinazioni (i), quantunque non sempre esattamente, perchè gli mancavano parecchie indicazioni, le quali oggi si possono attingere dal sopracitato catalogo, e determinar meglio l’itinerario dei suoi viaggi. Anche nel nostro opuscolo si legge una di queste note, che per mala ventura è incompiuta, in parte tagliata via dalla imperizia del legatore. Dice cosi: cc Hste libro costo .1. bezo en Padua a 6 de », lasciandoci desiderare il mese e l’anno. Senonché a noi riuscirà agevole, con la scorta delle altre annotazioni inserite nel catalogo, integrare quella nota, e seguire più da vicino Fernando nel suo cammino. Egli, dopo esservi stato alcune altre volte negli anni precedenti, venne in Italia con Carlo V nel 1529, e noi lo troviamo a Genova il 30 agosto e il 6 settembre (2); poi ricomparisce a Torino I’ 11 gennaio dell’anno successivo (3), e 1’11 aprile a Venezia (4). Da questo punto sono più frequenti le indicazioni delle città da lui visitate; il 30 agosto è a (1) Excerpta Colombìttiana. Dibltograpbie dc quatre ccnts picces gothiquc franfuiscs, ilalicnnes et ìalines du commencement du X VIe siccìc non dicrites jusqu’ici pricèdèe d’unc historie de la bibliothequc Colombine et de son fondateur, Paris, Welter, 18S7. (2) Barrisse, op. cit., p. 17 — Catalogo cit., 1, 116. (3) Catalogo cit., Il, 224. (4) Catalogo cit., I, 311. — I50 — Pesaro (1), il 3 e 4 settembre a Perugia (2), e quindi a Roma dal 10 di questo mese al 4 ottobre (3); poi il 30 a Cesena (4), dal 7 al 17 novembre a Bologna (5), il 27 a Modena (6), il 3 dicembre a Parma (7), dall 8 al 10 a Piacenza (8), donde discese a Genova, tratte-nendovisi il rimanente del mese (9), poiché il 2 e 3 gennaio si trovava a Savona (10); dall’ n al 21 è a Torino (11), il 28 a Casale (12), e nel febbraio a Milano (13); è a Pavia il 6 marzo (14), l’iia Cremona (15), il 22 e 23 a Ferrara (16), il 30 e 31 a Venezia (17)5 finalmente il 6 e il 15 aprile a Padova (i8). questa città s’avviò fuori d’Italia, ché dal 25 al 31 maggio lo troviamo in Augusta (19), l’i 1 e 12 giugno a Costanza (20), (1) Catalogo cit., Il, 105. (2) Catalogo cit., I, 103, 186. (3) Catalogo cit., I, 75; li, 27. (4) Catalogo cit., I, 231. (5} Catalogo cit., I, 88, 236. (6) Catalogo cit., I, 105. (7) Catalogo cit., II, 28. (&) Catalogo cit., II, 229; I, 322. (9' Catalogo cit., I, 6. (10) Catalogo cit., Il, 29, 68. (11) Catalogo cit., I, 90; II, 167. (12) Catalogo cit., I, 278. (13) Catalogo cit., I, 15, 28. (14) Catalogo cit., IJ, 164. (15) Catalogo cit., I, 167. (16) Catalogo cit, I, 187; II, 163. (17) Catalogo cit., I, 192, 309. (18) Catalogo cit., Il, 139, 145. — Si noti che 1’ Harrisse (op. cit., p. 18) crede che dopo essere stato a Torino nel gennaio del 1531 sia tornato a Genova, e di qui in Spagna. A provare il ritorno a Genova cita la nota apposta all’opuscolo: Lo Cato disponito; ma quivi (op. cit., p. 197) è detto: « diciembre de 1530 » Privo di altre indicazioni egli non avverti il viaggio ad Anversa. (19) Catalogo cit„ I, 221. (20) Catalogo cit., I, 251. — 1)1 — dal 16 al 21 a Basilea (1), il 30 a Strasburgo (2), il 7 luglio a Spira (3), il 10 a Ma gonza (4), dal 26 al 29 ad Anversa (5); quindi dal 16 al 26 agosto a Brussclles (6), il 20 settembre a Lovanio (7), e il 9 ottobre nuovamente in Anversa (8), donde deve aver salpato per la Spagna, poiché alla metà di novembre era senza fallo a Burgos (9). Ora considerando che l’opuscolo riguarda i fatti del 1527, ne viene di conseguenza che Fernando lo acquistò a Padova il 6 aprile 1531. III. Dei grandi avvenimenti quivi ricordati ci danno notizia ampiamente le storie (10); cosi del sacco di Roma, come delle disdette toccate dagli imperiali in quell’anno memorabile per opera dei collegati ; giusta vendetta del-l’iniquo sacrilegio. Ma 1’ occasione al poeta venne più specialmente dai prosperi successi della Liguria, onde si compiace della presa fatta dal D’ Oria (ammiraglio di Francia) a Portofino di sette navi onerarie e di otto galere; dà onore al Lautrec per la espugnazione del (1) Catulo^' cit., I, 90, 149. (2) Catalogo cit., I, 86. (3) Catalogo cit., I, 79. (4) Catalogo cit., I, 294. (5) Catalogo cit., I, 149. (6) Catalogo cit., 1, 90. (7) Catalogo cit., I, 221. (8) Catalogo cit., I, 38. (9) Catalogo cit.. 1, 266. (10) CI'. Guicciardini, Storia d'Italia, lib. XVII, cap. 5. — Giustiniani, Annali di Genova, (Genova, 1854), II, 694. — Casoni, Annali di Genova, (Genova 1800), I, 225. — 1)2 — • 1 f 1 * * * Bosco, pur lodando la sua generosità a prò dei nemici, di che ci ha lasciato ricordo la storia; attribuisce al Pesaro, provveditore in campo pei veneziani, le vittorie in terra (e forse si riferisce a latti di non grande importanza avvenuti in Lombardia), mettendolo in compagnia di Cesare Fregoso, a cui è dovuta la presa di Genova. A proposito della quale noi impariamo un particolare che invano si cercherebbe negli storici o nelle carte d’archivio, dove si riscontrano a questo tempo delle lacune, inevitabili nella incertezza di quei giorni calamitosi ; cioè che l’ingresso del Fregoso, e quindi il cambiamento di governo, avvenne in Genova il giorno 18; e quantunque non sia indicato il mese, possiamo dire senza tema di errare che ciò fu nell’ agosto. Lo rileviamo specialmente dal titolo di un altro rarissimo opuscolo sincrono, che reca pure una lunga barzelletta storica relativa ai diversi avvenimenti degli anni 1526 e 1527, dove, Ira l’altro, si legge: Item Irata conio ispagnoli cl di dc nostra dona de augoslo rompitcno li francesi a portofin e prison cl conte fiilipin. Item cl dì sequente i francesi detono la Rotta a spagnoli e li tolseno tannata c galere a portofin. Item la dominica sequente %ena resto al nome de franca (1). Dunque qui siamo al 15 e 16 agosto, che nel 1527 caddero in giovedì e venerdì, perciò nella successiva domenica correva appunto il giorno 18. Di che abbiamo più chiara testimonianza nelle strofe di quella barzelletta, le quali a quegli avvenimenti si riferiscono. Il poeta popolare ascrive la vittoria ottenuta dagli imperiali ad « arte de negromantia », e seguita: (1) Atti Società Ligure st. palr., IX, 342 sg. - 153 — Ali quindese de agosto festa de la asumptione lìrmatnente io cognoscho che gli fu gran traditione impero quei de aragone non poteano far pezo sen serron i francesi in mezo per farne gran vendicanza. Accennato quindi alla battaglia con la 'peggio dei collegati e la presa di Filippino D’Oria, viene a dire del proposito di Andrea D’Oria e degli altri capitani di prendersi subito la rivincita; e narra assai distesamente lo scontro delle galere e l’assalto dato a Portofìno, fatto d’armi riuscito pienamente favorevole ai soldati della lega, onde El nobile andrea doria cl di avanti bave a dispiacer el giorno dc sta vitoria ave tanto più mazor piazer subito al re el fe asapere conio avevano acquistata de Ispagna la grande armata qual era de grande importanza. E con esattezza nota il giorno della vittoria: La festa de san rocho se dete la gran bataglia che fu assai he non podio quel che fece larmiraglia tuti queli de biscaglia la impresa abandonorno he de corere non lasorno fin che furono a siguranza. — 154 — Questo prospero successo facilitò hi presa di Genova De augosto a dì disdoto spagnoli andon a mal vesin sol per far pagare el scoto al capitanio gotardin el qual prese el suo camiti cl signor cesaro andò a trouare el tuto gli ebe ha narrare la cosa de gran importanza. El signor cesaro ge fé bon animo gotardin non te dar pena che ogi me basta lanimo de intrare dentro in zena ito i son a san pedrarena animosi quanto un ghezo spagnoli seraremo in mezo he li laren nostra vendicanza. El signor cesaro de la volta giù per una streta cauerna he in mezo hebe acolta quei dispagna a la lanterna non stauano a far la cerna tuti menomo a HI de spada di spagnoli non scampo nada che feron li lultima stanza. El signor cesaro molto experto scn torno in verso zena he trouo el portai aucrto he intro senza altra pena disposto de andare a cena con el conte fili piti he trouo per il camin che ogniun cridaua franza iranza. — 155 — Così la più ampia barzelletta di quest’altro rapsoda contemporaneo (i), il quale, proprio come un novellista 0 gazzettiere, narra i fatti con importanti particolari e date precise, conferma ed illustra le poche strofe del nostro, che toglie argomento dagli avvenimenti per inneggiare alla vittoria della lega. Il modo vivo e presente onde il poeta li accenna, ci fa credere che il componimento sia stato scritto proprio in quei dì, sotto l’impressione immediata; anzi dal veder citato soltanto il giorno in cui fu presa Genova, si potrebbe dedurre che sia uscito in quel mese medesimo. Lo spirito a cui s’informa la poesia é ardito ed energico; quel primo verso del ritornello sembra il grido di un popolo oppresso che si ribella allo straniero; c è 1’ odio per le violenze commesse contro le persone, per 1 danni arrecati alla patria. Certamente rispecchia 1’ a-nimo dei più in quel momento; ma forse lo stesso rapsoda, sul metro medesimo, canterà indi a breve i felici successi degli avversari, ai quali il popolo mutabile batterà ugualmente le mani ; poiché ufficio di questi poeti era quello per lo più di far conoscere gli avvenimenti, adattando il loro canto al sentimento che in quelle opportunità più comunemente si veniva manifestando. (i) Siano rese grazie al dott. Giuseppe Rua, il quale con sollecita cortesia si compiacque trascrivere a nostro uopo dall’unico opuscolo che si conserva nella Biblioteca Reale di Torino, gran parte della barzelletta, che sarà da noi fra non molto per intero riprodotta. 156 — IV. Abbiamo esemplato la nostra riproduzione con esattezza sulla stampa rarissima, e, per quanto sappiamo, unica, parendoci cosa ben fatta serbare anche nella forma materiale il colorito del tempo e dell’ambiente. D altra parte riesce tacile a chi legge intendere il senso della barzelletta, sciogliere i nessi, restaurare l’ortografia e l’interpunzione, rilevando le scorrezioni, o le inesattezze tipografiche. Da quale officina provenga 1’ opuscolo non é agevol cosa determinare; ma se si considera da un lato il luogo dove tu acquistato da Fernando, e dall altro 1 esaltar che vi si fa Venezia con tanto entusiasmo, dandole vanto di adempiere la profezia, sì come ci darebbe ragione di credere veneziano l’autore dei versi, cosi ci porgerebbe argomento a ritenere eseguita pure a Venezia la stampa. iv Via ispagnoli et alemani che aspettate non vedete la liga teso ha la rete per hauerui ne le mani Via espagnoli et allemani. Non vedete che poche hore durereti poi che giorno e apparito el cacciatore vien con cani et sona il corno militando ognhom che intorno ve sia attento con so cani. Via spagnoli et allemani. — i58 — El gran danno e gran supplicio che a Roma datto hauete sera causa in precipitio col mal tolto nandarete et seccuri non sarete . ne per monti ne per piani Via spagnoli et allemani. El commesso sacrileggio, le reliquie rotte et frante et de monache el dispreggio fatto de’ santi et sante c. 2r sera Causa vostre piante rotte resti sopra ipiani. Via spagnoli et allemani. Doppo sesta la vigilia voi fareti meschinelli chel la ditto la sibilia che morreti in nostri ostelli voi sereti de gliocelli il suo cibo sopra ipiani Via spagnoli et allemani. Perso haueti el gran soccorso che aspettaui in festa e in zoia che Lorio (i) vi ha da di morso a sette naue con gran doia galie otto et non è soia son restati in le so mani Via spagnoli et allemani. (i) Si legga Dono, cioè Andrea D’Oria. - 159 — Et il prodo Venetiano che del campo prouisore quel de pesar tanto aitano el fregoso di valore con sua forza pien de ardore vi ha battuti sopra ipiani Via spagnoli et allemani. c. 2V La potente e gran citade che di Zenoua ven chiamata da le man con forte spade con vigor vi la leuata a desdotto fe Iintrata che ipensier soi reston vani. Via spagnoli et allemani. Et il bosco eil castellazzo de Lutrech el valoroso vi glia tolto for di brazzo pur vi e stato un po pietoso che col cor suo generoso vi ha lassati senza dani. Via spagnoli et allemani. Hor lassati lalta impresa che la roda e oggi voltata non varraui far diffesa che la strada vie taiata voi sareti una insalata contra a Pranza e a Taliani Via spagnoli et allemani. — i6o — Non e forza o ignoranti che se adempia la scriptura c. 3r de profeti tutti quanti diuersiamode in figura quod tructus virgine pura venga asoluer nostri danni Via spagnoli et allemani. Che aspettate o che pacia non vedete già spianata sopra ciò la prophetia virgo enim peperit grata figlia a lalto renomata vera tede in monte e in piani. Via spagnoli et allemani. Hec virgo est in ver Venetia el suo fruto e il re di Francia spirto e amor che in lor se apprecia e obseruata fe e constantia da qual causa poi sta dancia su comencia senza inganni. Via spagnoli et allemani. El serpe che ce fe prima col signor preuaricare fosti voi facendo stima con insidia subiugare tutto: e per ciò harete andare c. 3V sopra il pecto vostro et mani. Via spagnoli et allemani. — 161 — Or il Re vien ‘con victoria con vexillo Triomphante de tal fe de fia memoria alle insidie et trame tante per vui finte et deo dante non sareti a nui lontani. Via spagnoli et allemani. Non varran hormai più cridi ne malitia o tradimento restereti in nostri nidi per guardar li nostri armenti in campagna a pioza a venti tutti a pezzi come cani. Via spagnoli et allemani. Veder parmi quel Romano pien dingegno e gran valore con le gente e aman amano daui adosso con vigore et gridar con tutto il corre piglia amaccia questi cani. Via spagnoli et allemani. Non più iuradeos dirassi tanto mancho io varlich chiusi hormai son stada e passi si che torcia moriati hic poi dirassi hic et illic fur Todeschi occisi e ispani Via spagnolis et alemani. Atti Soc. Lio. St. Patria. - Documenti e iludi. I I — 16 2 — Li bestiai costumi et gesti che in Italia posti hauete cessaran mo e vostri incesti che ogni zorno cometete spiero che ve pentirete torsi a vostre spese e danni Via spagnoli et allemani. De cantian ergo te deum nui subiecti aquesta dona che potren dir hoc est meum possidentes nostra bona poi che dritta e la colonna de iusticia e uscian daffanni. Via spagnoli et allemani che aspetate non vedete la Liga teso ha la rete per hauerui ne le mani. ■ Il I I ■■ Il IL SANTUARIO DELLA PACE IN ALBISOLA SUPERIORE PER IL SOCIO VITTORIO POGGI - CENNI TOPOGRAFICI E STORICI A strada provinciale che per Albisola, Stella e Santa Giustina mena a Sassello e di là in Acqui, dopo aver costeggiato la sinistra del Sansobbia e i campi ove nell’ epoca romana sorgeva la stazione di Alba Docilia, attraversa dapprima il quartiere principale di Albisola Superiore, detto la Piana, poi, fiancheggiando la parte più antica dell’odierno paese, raggruppata sulle falde del Castellaro all’ombra della storica parrocchiale di S. Nicolò, s’inoltra serpeggiando per la vallata del Riabasco; dove, lasciata a destra la frazione dei Garabigli, cosi denominata da un casato albisolese di cui è menzione in documenti antichi, non tarda a sboccare nel Piano della Pace, a tre chilometri dalla marina. Questo piano, compreso tra le ramificazioni laterali di due contrafforti apenninici in mezzo ai quali scorre il Riabasco, fu ridotto a coltura dall’opera insistente dell’uomo, il quale lo conquistò palmo a palmo sull’alveo del torrente che, ancora in tempi da noi non remotissimi, si estendeva qui da un fianco all’altro della vallata. Il Riabasco che, confinato ora in letto angusto , lo solca da ponente a levante, — 166 — riceve quivi le acque del Remenone. suo tributario di sinistia, al cui confluente è il varco per cui scendono verso Albisola le popolazioni delle due borgate di Gameragna e di Sanda, frazioni, la prima, del comune di Stella e l’altra di quello di Celle. Il'paesaggio ha un carattere di transizione, h ancora la campagna albisolese, che è quanto dire la zona marittima, colla sua grazia ubertosa; ma già vi si intravede per diversi indizi che non e lontano il confine della zona alpestre di Stella. Cosi, mentre nella distesa del piano e sui colli a solatio la flora e la pomona del litorale spiegano ancora tutta la ricchezza dei loro prodotti, già il castagno e la quercia, non pur si affacciano dalle alture sovra stanti, ma accennano a sostituirsi al mandorlo e all’ ulivo lunghesso le pendici. Il nome di Pace conviene assai bene a questo lembo di teir., ove le linee tranquille, le tinte un po’ monotone e più ancora forti ombre proiettate dal massiccio dei monti che d ognintorn intercettano l’orizzonte, lasciando appena uno spiraglio dalla pa di mezzogiorno, danno al paesaggio un espressione, non diio melanconia, ma di quiete, che nell’animo dello spettatore si tra appunto in un senso di pace. La quale espressione, che oggi ancor costituisce la nota predominante del quadro, dovette certamen essere più risentita in altri tempi, quando la vallata, solcata ora una strada assai comoda e frequentata, non offriva altro mezzo comunicazione fra le montagne della Stella e la marina albisol ^ che un disagevole sentiero appena praticabile ai pedoni e a bestie da soma (i). Rilevo dalle memorie locali che un patrizio piemontese, il conte Valperga di Caluso, sedotto dalla serena calma dell’ambiente, vi rimase per ben sette anni, dal I7X4 I721 > trovandovi ciò che invano era andato cercando in tanti luoghi, la pace dell’anima. (i) Ricordo ancora il tempo in cui per andare dalla Face alla Torre, piedi della salita che riesce a S. Giambattista di Stella, si guadava il Riabasco non meno di diciassette volte, e si doveano superare dei punti non scevri di pericolo, come la cosi detta Scala degli orbi, di paurosa fama, sulla linea di confine fra Albisola e Stella. I — 167 — Ma se il nome risponde, come meglio non si potrebbe, alla natura del luogo, non è però che l’uno sia derivato dall’altra. Il luogo deriva la sua denominazione unicamente dal Santuario della Pace, che si innalza sul lato occidentale del suo perimetro, e la cui origine si riannoda ad una antica leggenda sempre viva nella tradizione popolare. In questa pianura, il 18 di Ottobre 1482 (1), gli uomini di Albisola e di Stella, in fiera contesa fra loro per questioni di confini comunali, questioni che duravano da oltre quattro anni e per le quali già più volte era scorso il sangue da una parte e dall’altra, eransi data la posta per decidere le loro controversie colle armi : a nulla avendo approdato l’intromissione dei Podestà di Savona e di Varazze (2), e nettampoco i diversi pi ovvedimenti adottati al (1) Il p. G. B. Spotorno, nella sua Storia dei Santuario di N. S. della Pace, assegna a tale avvenimento la data del 18 Ottobre 1841. È però da notare che egli dichiara nella prefazione della sua monografia averne desunte le notizie, in primo luogo da un ms. dell’avv. Gio Bernardo Poggi di Albisola, nel quale, brevemente e secondo l’ordine dei tempi, si registrano i fatti relativi alla chiesa e al convento della Pace dal 1478 fino al 1805, ricavati dall’archivio comunale di Albisola e dagli atti del convento; in secondo luogo dalle iscrizioni esistenti in detta chiesa; infine da documenti notarili. Ora, tanto il ms. a cui attinse il p. Spotorno e che trovasi presso di me, quanto le iscrizioni, che riporterò a suo luogo sebbene non più esistenti in chiesa, sono concordi nell’attri-buire il fatto al 1482. Tale data ò anche registrata nei Lustri storiali de' Scalai Agostiniani Eremiti della Congregazione d’Italia e di Germania, opera pubblicata nel 1700, quando, cioè, i monaci di questa Congregazione officiavano, e da ben 73 anni, il Santuario della Pace. Lo stesso Spotorno, finalmente, si attenne alla data del 1482 nell’articolo « Albisola superiore », da lui scritto pel Dizionario gcograjìco-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sar~ degna, di Goffredo Casalis, Torino, 1853. (2) Albisola, divisa più tardi in due, poi nei tre Comuni di Albisola Superiore, Albisola Marina ed Ellera, formava allora una sola Comunità, e in unione alle Comunità di Celle e di Varazze, una sola Podesteria, sotto la giurisdizione di un Podestà, dell’ordine patrizio genovese, residente in Varazze e nominato annualmente dal Comune di Genova, da cui le tre Comunità dipendevano per spontanea dedizione stipulata colla Convenzione degli 8 di maggio 1343, conservando però la propria individualità comunale e il diritto di essere rette e giudicate con propri Statuti civili e criminali ; il qual diritto, infatti, esercitarono — 168 - riguardo dal Senato di Genova (i); il quale avea anzitutto chiamato a sè i Sindaci delle due Comunità, poi spediti sul luogo due Commissari con forza armata per reprimervi i tumulti e determinare i contrastati confini, e successivamente altri due, muniti come i primi di pieni poteri; il che non bastando, aveva poscia delegato in qualità di pacieri, prima gli anzidetti due Podestà, poi il Vescovo di Savona, mons. Pietro Gara, e finalmente il Commendatore di S. Nicolò di Albisola, mons. Domenico Borzero, Savonesi (2). Giunti sul luogo di buon mattino sotto il comando dei 1 ispettivi Sindaci, già fra le avanguardie eransi con diversa foituna impegnate le prime avvisaglie, quando, interpostisi d ambe le parti i sacerdoti — alla testa dei quali il Commendatore Borzero delegato ad hoc, come sopra, dal Senato genovese e con essi le donne e i vecchi, facendo nuovo appello ai sentimenti ìeligiosi e agli affetti di famiglia, assai più vivi allora specialmente nelle J popolazioni rusticane, ottennero dai Sindaci che si sopì asse esse alquanto a dare il segnale dell’ attacco generale, finché non si fosse esaurito un ultimo tentativo di conciliazione. Questo appello, in momento cosi solenne, non mancò di esercitare una salutare influenza sui contendenti, e un emozione alla quale erano rimasti fino all’anno 1798, in cui le due Albisole ed Ellera vennero ascritte alla Diuri sdizione del Cantone di Savona. Come ho detto, il Podestà risiedeva in Varazze, ma Celle aveva un Notaio attuaro, e Albisola un Vicario e due Notai attuari. (1) Doge della Repubblica di Genova era allora Gio. Battista Campo FreDoso, succeduto il 20 maggio 1479 a Prospero Adorno. (2) Sappiamo dal Verzellino (Delle memorie particolari e specialmente degli uomini illustri della città di Savona, I, p. 357) clie (luest0 nions- Domenico Borzero (o Borcerio, come egli lo chiama), oltre di esser Commendatore di S. Nicolò d’Albisola, era Cantore della Cattedrale di Savona, Canonico Piacen tino, e Vicario generale dei Vescovi di Savona Valerio Calderini e Giobatta Cibo; che fu ambasciatore del Comune di Savona a Roma, dove trattò affari importanti anche per l’Abbazia di Sessadio (Sezzè); che fu « dottore eccellente ed esperimentato negli affari pubblici, ottimo di costumi e nella religione molto pio », e che perciò fu da papa Sisto IV promosso a Vescovo di Cervia e di Sagona in Corsica. ** Il Verzellino però ne registra la morte sotto l’anno 1478, della qual differenza non saprei rendermi conto. t — 169 — sino allora refrattari cominciò a farsi strada nel cuore di molti di essi. Non tutti gli intervenuti, infatti, erano animati dallo stesso spirito d’intransigenza, nè tutti professavano con pari ardore il principio che l’unica soluzione da darsi alla questione dei confini consistesse nello scannarsi a vicenda. I più avevano bensi fatto coro in paese ai propugnatori della lotta a tutta oltranza, e, sovi eccitati dalla voce e dall’esempio dei caporioni del partito, avevano seguitato il movimento da questi iniziato; però, una volta sul teneno e alla vista del sangue, già in alcuni eransi di molto raffreddati gli entusiasmi del giorno innanzi. Arrogi che non pochi aveano dei parenti e degli antichi amici nelle file degli avversari: tutti poi erano in fondo, come tuttora si conservano i loro discendenti, buona gente, laboriosi, frugali e sopratutto alieni per natura e per abito dalle violenze e dalla pratica delle armi. Colla sospensione del combattimento la crisi entrò pertanto in una nuova fase. Tra le due schiere a contatto corsero hinc inde delle spiegazioni e delle dichiarazioni, che ebbero per effetto di dissipare molti malintesi, appianare molte asperità e schiudere nuovi punti di vista in ordine alle controversie la cui soluzione stavasi per affidare alla sorte delle armi. L’epilogo del dramma fu che quando, spirato il termine della tregua, si trattò di dare il comando dell’attacco, fuvvi dapprima un momento di titubanza, poi per una di quelle singolari evoluzioni onde lo spirito umano passa talvolta di sbalzo dal parossismo del furore a quello della tenerezza, i caporioni d’ambe le parti, buttate a terra le armi, si gettarono con trasporto nelle braccia dei propri antagonisti: il che fu come il segnale di un abbracciamento generale su tutta la linea. La cosa fu attribuita a prodigio: e sulla trama del fatto storico la fantasia popolare non tardò a ricamare una leggenda nello stile del tempo, secondo la quale la rappacificazione sarebbe avvenuta per l’intervento personale della Madonna. Ecco come questa leggenda viene riferita da un ms. compilato su memorie antiche e conservato presso la mia famiglia (1). (1) Il ms. è intitolato Raccolta di alcune delle memorie lasciate dalVavv. Gio Bernardo Poggi intorno al Santuario di N. S. della Pace. — 170 — « Un vastissimo castagneto, diviso circa al mezzo da un rivo d’acqua, fu il luogo destinato al conflitto. Gli armati, ivi giunti, si schierarono in più colonne, e furono alla destra quelli di Albi sola, alla sinistra quelli di Stella, avendo gli uni e gli altri alla testa i rispettivi Sindaci. Due ore circa prima del mezzogiorno si avanzarono due colonne di que’ d’Albisola, che attaccarono i nemici, ritirandosi tosto, con poche perdite da una parte e dall alti a. Cc rninciò quindi 1’ attacco formale, che fu sanguinoso ed ebbe vai ia sorte. Sgombro totalmente di nubi era in quel giorno il cieio, quando, circa ad un’ora pomeridiana, dalla parte orientale ur nuvoletta candidissima apparve all’ istante, di tanta luce e sp dorè quasi in essa fatto avessero riflesso i raggi tutti del so e E levossi tosto, e venne a fissarsi sovresso il luogo del con Abbagliati, i combattenti sospesero la zuffa, e chiaramente sero una celeste, dolcissima voce, che per ben tre volt ^ plico la parola pace ! Dopo di che la nuvoletta dileguo scomparve ». Prosegue il ms. narrando in tono enfatico come i comba rimanessero per alcuni istanti cogli sguardi rivolti al cieo, \ « chi divotamente stese verso quello le mani, chi riverente \ strossi a terra, chi si percosse il petto in segno di pentirne ^ gridando tutti pace! pace! Altri gettano a terra le armi^ le infrangono. Ed ecco traversare il campo e percorrere la . delle rispettive schiere i Sindaci e i caporioni delle due P* ’ esclamando: sia pace fra noi; ognuno dia segno di nConi"^ zione ! ; i quali si vanno incontro a braccia aperte, string ^ cordialmente al petto. Tutti seguono il loro esempio, e <1 ^ luogo, da campo di vendetta e di strage si cambiò tosto in di pace e di amicizia ». Tale la leggenda, che abbandono agli spigolatori del Folk lore ligure. A monumento dell’avvenuta riconciliazione, le due Coniu nità decretarono l'erezione, sul luogo della sfida, di una cappella dedicata alla Madonna sotto il titolo di N. S. della Pace: la quale cappella può oggi vantarsi a buon diritto di essere il più antico Santuario della diocesi, quello celeberrimo di N. S. della Misericordia presso Savona datando soltanto dal 1536. — I7I — La storia del Santuario della Pace fu scritta dall’ illustre p. G. B. Spotorno su documenti per la massima parte somministratigli dall’ avvocato Gian Bernardo Poggi mio avolo (i); e ad essa rimando il lettore cui interessasse di conoscere in modo particolareggiato le vicende del sacro edificio durante i quattro secoli che trascorsero dalla sua fondazione. Basterà qui accennare come nel 1573 , essendo ripullulate nuove discordie fra i popoli di Albisola e di Stella, discordie che potevano determinare un grave conflitto e alle quali, invece, tenne dietro ben presto un amichevole componimento, si riferì naturalmente alla Madonna della Pace l’insperata risoluzione di tale vertenza. A titolo di gratitudine pel nuovo beneficio, e perchè la capacità dell’edicola del 1482 più non era a gran pezza in rapporto colla cresciuta affluenza dei devoti, il Consiglio comunale di Albisola, con sua deliberazione dei 21 di febbraio 1575 (2), statui la fabbrica di una chiesa, ottenendone il giuspatronato da papa Gregorio XIII con bolla in data dei 13 di aprile dell’anno stesso. Nel 1578 si pose mano alla costruzione di detta chiesa, a tre piccole navi; nel corpo della quale, sebbene ad un livello inferiore, fu conservata la primitiva cappella: e tre anni dopo, venne innalzato lateralmente alla chiesa un edificio per l’abitazione di tre cappellani. Nel 1609 il Santuario, officiato fino allora da preti, fu affidato ad una congregazione monastica in gran voga a que’ tempi in Genova. Era questa una Riforma dei Minori Conventuali di S. Francesco, istituita sotto il pontificato di Sisto V dal p. Giovanni Battista da Pesaro, dell’Ordine stesso, il quale aveva nel 1588 fondato per essa in Genova un convento e una chiesa sotto il titolo di Monte (1) G. B. Spotorno, Storia del Santuario di N. S. della Pace in Albisola Superiore, Savona, tipografia Miralta, 1838. Ne fu fatta una seconda edizione, accresciuta di una dotta appendice per opera del eli. can. Giovanni Schiappapietra, prevosto di Albisola Superiore. Genova, tipografia Arcivescovile, 1881. (2) Il p. Spotorno segna questa deliberazione sotto la data dei 21 febbraio 1574: aggiungendo che, con supplica dei 7 marzo, il Consiglio chiese il giuspatronato della chiesa al papa, « che benignamente il concedette con bolla dei 9 aprile dell’anno predetto ». Ma la bolla in discorso porta la data dei 13 aprile ddl'anno 1575 (millesimo quingentesimo septuagesimo quinto, idus Aprilis). — 172 — Calvario ; e siccome il luogo ove era sorta la doppia fabbrica — oggi S. Maria della Visitazione, sopra l’Acquaverde — chiamavasi Breghera o Bregara, così i Minori Conventuali Scalzi di Monte Calvario erano conosciuti volgarmente col nome di Bergarot i. Questa Riforma, colla forza di espansione che è propria dei sodalizi di nuova istituzione, colse di buon grado 1’occasione di stabilire una casa figliale in Albisola, dove, appena ebbe preso possesso della chiesa e dell’esigua abitazione annessa, diede opera a fah bricare un convento, e costrusse, infatti, nello spazio di poch anni il braccio che va da ponente a levante, gettando inoltre e fondamenta anche delPaltro braccio da tramontana a mezzogiorno. Ma questo e altri lavori iniziati non poterono essere proseguit , perchè, con breve dei 6 di febbraio 1626, la Riforma dei Conven tuali Scalzi di Monte Calvario fu soppressa da papa Urbano Per effetto di tale soppressione, all’esecuzione della quale fu nec' sario in Genova l’intervento del braccio secolare, i Bergarotti do ^ tero sgombrare il convento e la chiesa di Monte Calvario, passarono per vendita a D. Carlo Doria Duca di Tursi (i)> e c0 (1) 1 locali di Monte Calvario vennero più tardi ceduti dal Duca " ^ ^ ad uso di reclusorio di povere donne e zitelle, dette perciò. « Figlie di Bie0 ^ Ma era destino che gli Agostiniani Scalzi, i quali, come vedemmo, a preso il posto dei Francescani Bergarotti nella Pace di Albisola, dovessero^ installarsi nella stessa primitiva sede di questi, ossia a Monte Calvario. nel 1660, stando ai dati proferti da Carlo Giuseppe Ratti e da altri op ^ anonimi del secolo scorso, o nel 1661, secondo una raccolta di memori ^ intorno alle chiese della Liguria, compilata sotto il ponteficato di Benedetto ^ e da me posseduta, chiesa e convento di M. Calvario vennero acquistat ^ pp. Eremitani Scalzi di S. Agostino, i quali li intitolarono a S. M. ^ Visitazione e li ricostrussero in parte, giusta un nuovo disegno. Il curios ^ che alla loro volta i Francescani presero la rivincita sui loro rivali; e non rientrarono nel 1805, come più sotto si vedrà, nel Santuario della Pace Albisola, ma nel 1874 riuscirono a ricomprare i locali della Visitazione, olio1 Monte Calvario, in Genova; i quali, in seguito alla soppressione degli ordii monastici decretata nei primordi del corrente secolo, erano stati venduti all asta e ridotti ad abitazioni private, e ora, restaurati convenientemente, sono dai primi possessori di nuovo occupati e officiati. Ci. Vittorio Poggi, S. Maria (lelln Visitazione in Genova, nel periodico fiorentino Arte t Storia, 1886, pagine -83 e 290; memoria riprodotta poi nel Giornale Ligustico del 1887, p- 28. - 173 - pari riluttanza rilasciare il Santuario deila Pace alla Comunità di Albisola, come da atto dei 15 di ottobre 1626. Partiti i Francescani, si profersero nell’anno seguente, e furono dal Comune accettati a sostituirli, i padri Agostiniani Scalzi del convento di S. Nicola da Tolentino in Genova. Questi vi rimisero dal 1628 al 1805, lasciando buona memoria di loro amministrazione nell’incremento dato così alla chiesa, che restaurarono e decorarono senza posa, come al convento, a cui aggiunsero il braccio dal nord al sud, non meno che al fondo annesso, che ampliarono cambiando l’andamento della strada pubblica, e ridussero, mediante grandiosi lavori di dissodamento e di coltura , a fertile villa ricinta di mura e dilesa dal torrente con argine murato (1). Mercè l’opera solerte degli Agostiniani, il Santuario della Pace divenne nel secolo scorso un centro di grande devozione, e un punto di convegno, in determinate solennità, e più specialmente in quella della domenica successiva ai 18 di ottobre, a numerose e liete brigate ivi convergenti dai paesi di Stella, di Celle, di Filerà, delle due Albisole e sopratutto dalla città di Savona: alle quali prendeva parte, non solo il popolo, ma Yhigh life, il patriziato. Vi intervenivano le famiglie nobili savonesi, i Gavoni, i Pico, i Feo, i Multedo, etc., e insieme ad esse i patrizi genovesi residenti in Savona per ragion d’uflìcio, quali il Governatore, il Commissario del Forte (2) etc., oltre a quelli che villeggiavano in città 0 nei dintorni, come i Doria, i De Mari, i Cat-taneo, 0 nelle due Albisole, dico i Della Rovere, i Balbi, i (1) Diverse memorie relative al periodo nel quale il Santuario della Pace fu officiato dagli Agostiniani trovatisi registrate nel già citato in folio: Lustri storiali de Scalli Agostiniani Eremiti della Congregazione d'Italia e di Germania, descritti dai suo cronista p. Gio. Bartolomeo da S. Claudio, Milanese, dedicati all’augustissimo imperatore Leopoldo primo. In Milano, M.D.CC. nella stampa di Francesco e Fratelli Vigoni. (2) 11 Governatore di Savona era patrizio genovese, e gli spettava trattamento di Eccellen\a, almeno per consuetudine. Nel Forte eravi un Comandante, pure dell’ordine patrizio, col titolo di Commissario, al quale restava affidato il governo di quella fortezza e sue dipendenze. Eranvi poi altri ufficiali di governo o funzionari, anch’essi patrizi. - 174 - Durazzo, i De Mari e i Gentile. Costoro giungevano alla Pace o in carrozza propria o a cavallo, dove, ossequiati dal p. Pnore e ie era stato pochi giorni prima personalmente a invitarli e ringrazia ^ ^ ora d’aver voluto onorare la sagra di loro presenza, venivano medesimo accompagnati a rinfrescarsi nella foresteria, e poi chiesa ad occupare il posto distinto a ciascuno assegnato per » ^ stere ai Vespri e al Panegirico : mentre di fuori la folla si m f» ficea ressa cava intorno ai giuocolieri, ai ciarlatani e ai musicanti, c dinanzi alle baracche dei bettolieri piantate qua e là per pagna, ove si spillava il vin nuovo e si ammanivano le arr lerminatala funzione religiosa, c’erano i sorbetti e la tteva dopo di che, alla presenza delle dame e dei cavalieri, S1 ‘ la moresca e s’intrecciavano la motiferrina, la vita doto balli popolari : nè era raro il caso che cavalieri e dame c i ^ sero degnamente la festa, combinando un minuetto che sl.eS£!r,nejje sull’ erba con tutto il sussiego e le fioriture di prammatic sale dell’ alta Nobiltà. . ,v • n nella società Erano i tempi in cui le funzioni religiose avevano • un ligure un importanza poco minore di quella che si da 0^,oi * avvenimento politico; e si accorreva ad udire un predicato • assiste alia qualche nome collo stesso interesse con cui oggi S1 ^ rappresentazione di un opera di Verdi o di una cornine ^ «i*; snni una Sardou. La sagra della Pace costituì allora e per nioi festa che potrebbe somministrare materia di qualche , e sante a coloro che fanno soggetto di studio la vita pu ^ privata di questo lembo della Riviera ligure nella seconda ^ del Settecento (i). Ma sullo scorcio del secolo (I799-’ a%e (i) Il ms. che ci fu guida nella compilazione di questi appunti s' m il Governa- in particolari circa alla sagra del 1755, alla quale intervennero ^ tore di Savona, il Commissario del Forte collo Stato Maggiore dell u colà addetta, diverse famiglie patrizie savonesi e le genovesi di Sa\ ona e ^ due Albisole da me sopra citate, con numeroso concorso di popolo, signori, prosegue il ms., a serviti da diciotto carrozze, intervengono alla ^ vita e si mostrano molto soddisfatti di esservi intervenuti. Vi sono 1 un da cinquanta soggetti serviti di cavalli. Il padre Superiore fa preparare circa duecento bicchieri di sorbetti di varie qualità, e li lavora in convento un - '75 — il Governo Ligure decretata la graduale estinzione delle corporazioni religiose, col proibire a queste di rinsanguarsi mediante la vestizione di nuovi soggetti, dando inoltre facoltà ai membri delle stesse di uscire dai conventi, nel qual caso veniva accordata agli uscenti una pensione annua o una corresponsione a saldo, i conventi andavano di mano in mano spopolandosi: tanto che nel i8oj il personale degli Agostiniani addetti alla custodia del Santuario della Pace erasi ridotto al solo Priore, un vecchio di 74 anni; il quale, un bel giorno, non trovò di meglio a fare che rassegnare le sue dimissioni dall’ufficio, rimettendo chiesa e convento al Municipio di Albisola Superiore. Alla officiatura degli Agostiniani Scalzi, estimasi cosi dopo 177 anni « come face al mancar dell’alimento », succedette quella degli Osservanti Riformati di S. Francesco; i quali, appena in due, dapprima, per le stesse ragioni che avevano assottigliate le file dei loro predecessori, poi cresciuti di numero e di animo quando nel 1820 vennero abolite le leggi restrittive, diedero nuovo impulso al restauro del Santuario, molto deperito anche pel fatto che, dal novembre 1799 all’ aprile del 1800, il convento avea dovuto servir di quartiere ad una compagnia di fanteria francese, con quale scempio appena si può imaginare (1). L’officiatura dei Francescani, rientrati per tal modo nel convento di cui una famiglia del loro Ordine aveva gettate le fondamenta fin dal primo decennio del secolo XVII, segna un periodo di risorgimento e di nuovo lustro pel Santuario della Pace. Molte e importanti innovazioni subì la chiesa durante la loro gestione. Nel 1845, per trovarsi la primitiva cappella — ridotta, come già si è detto, a cripta laterale — invasa dall’umidità, l’effigie a fresco della Madonna titolare, ivi dipinta ab origine, venne staccata servitore delia Famiglia Rovere. Fa pure preparare un centinaio di bottiglie di vino e biscotti. Ognuno si esterna grato alle attenzioni, e ne profitta. Partono tutti allegri, e fanno ringraziamenti molti al detto padre Superiore siccome agli altri Padri ». (1) Già un’altra volta, nel 17 j.8 e 49, il convento era stato adibito per acquartierarvi un distaccamento di truppe austriache, non senza grave danno dell’edificio e della annessa villa. — 176 — dalla parete e trasferita nella cappella superiore convenientemente restaurata e decorata. Altri restauri ed abbellimenti vennero eseguiti nell’occasione in cui ebbe luogo la solenne incoronazione della Sacra Imagine per mano di monsignor Alessandro Riccardi, Vescovo di Savona, nel 1852. Nel 1 SS 1, ricorrendo il IV centenario di N. S. della Pace, la chiesa, che prima avea la fronte a mezzogiorno, fu voltata in senso opposto. La prima campata dell’edificio antico venne ridotta a presbiterio sormontato da cupola : si occupò parte del piazzale su cui aprivasi la porta maggiore, per girarvi la nuova abside, e conseguentemente fu abbattuto il coro antico per sostituire alla sua curva il muro della nuova facciata, perpendicolare al prolungamento della navata di mezzo. La Sacra Icona ebbe nuova sede sull’altar maggiore. Nel 1883, in seguito a dissensi col Municipio, i Minori Osservanti Riformati avendo dovuto lasciare il Santuario (1), l’officiatura della chiesa venne affidata ad alcuni preti piemontesi, che, sotto la direzione del cav. Don Gio. Cocchi, impiantarono nel convento un collegio agricolo. Sotto l’amministrazione di questi ultimi, nel 1891, tu innalzato sul prolungamento dell’asse della chiesa il campanile, aderente per la base al muro dell’abside. (1) 1 fatti che hic inde diedero materia alla controversia si possono leggere nelle seguenti pubblicazioni: 1. Vertenza fra i pp. Franciscani custodi del Santuario di N. S. della Pace ed il Municipio di Albisola Superiore negli anni 1882 e 188}. — Savona, Tip. Fr. Bertolotto, 1884; 2. Osservazioni sopra certe critiche immeritate che contengonsi nei proemio dello stampalo « Vertenza tra i pp. Franciscani custodi del Santuario di N. S. della Pace ed il Municipio di Albisola Superiore » Genova, Tip. Arcivescovile, 1884. DESCRIZIONE DEL SANTUARIO a fabbrica del Santuario passò, come si è veduto, successivamente per tre stadi. Consistette, dapprima, in una semplice cappella colla fronte a levante, dove, sull’alto della parete retrostante all’ altare, era dipinta a fresco 1’ imagine della Madonna, o, a dir meglio, una Sacra Famiglia. Al saccello del 1482 succedette la chiesa del 1578, a tre navate, in direzione da mezzodì a tramontana, colla porta maggiore sulla strada pubblica, che allora scendeva di colà nel letto del Riabasco. Questa chiesa, finalmente, venne ridotta nel 1881 alla forma attuale, colla facciata al nord sulla nuova via provinciale, su disegno degli architetti cav. Giuseppe ed Angelo, padre e figlio, Cortese da Savona. Esterno. La facciata riesce alquanto scarna rispetto all'altezza, non mascherando essa che la navata mediana. È decorata di quattro lesene d’ordine corinzio, sopportanti una trabeazione sormontata da un frontone triangolare. Lungo il zoforo corre a grandi caratteri Atti Soc. Lio. St. Patri*. — Documenti e studi. 1* la leggenda PACIFERAE VIRGINI DEI MATRI e al disopra della porta d’ingresso, in cartello rettangolare, leggesi la seguente epigrafe, dettata dal can. Giovanni Schiappapietra , prevosto di Albisola Superiore, e allusiva ai restauri del tempio nella ricorrenza del quarto centenario : Q.VINTO . ORIENTE . SAECVLO Q.VVM . IMMACVLATA . V (irgo) ALBAE . DOCILIAE . AC . STELLAE . POPVLIS TER . PACEM . INDIXIT HOC . TEMPLVM . RESTAVRATVM MDCCCLXXXI. Sul lato orientale si aprono due porte minori, e nello spazio ad esse intermedio campeggia in alto la figura a fresco della Madonna, stante, entro la nuvola di cui narra la leggenda, con ai piedi un gruppo di angioletti, uno dei quali porta in mano un ramoscello di ulivo, simbolo di pace. È lavoro di Gian Bernardo Gatteri, non ignobile pittore albisolese, che operava tra il 1685 e il 1725 e del quale non fa menzione il Ratti nella sua continuazione alle I ite del Soprani, e nettampoco l’accuratissimo Alizeri nelle Notizie dei Professori del disegno in Liguria, sebbene parecchi dipinti che di lui rimangono in Albisola e altrove facciano buona testimonianza di sua attività e perizia. Alcuni fra gli angioli hanno gli occhi privi di pupilla, curioso particolare che ricorda gli affreschi , per altro ammirabili, di Giulio e Antonio Campi nella chiesa di S. Sigismondo a Cremona, non ignoti probabilmente al nostro Gatteri. (1) Ln Bernardus Gatterius de Arbisola figura in atto dei 16 giugno 1620, notaio Paolo Siri, come debitore di scudi cento d’argento verso il magnif. Gio. Luigi Ga\otti, del qual debito gli eredi dii creditore fanno poi cessione alle Monache di S. Chiara di Savona, con atto dei 4 Giugno 1669. not. Gio Andrea Siri. Se il Bernardo Gatteri a cui si riferiscono i due atti fosse il pittore, ne resterebbe infirmata la cronologia da me proferta sulla fede del p. Spotorno. Crederei tuttavia più probabile che si tratti del nonno, ciò che è conforme alla consuetudine del paese, dove il primogenito dei figli porta quasi costantemente il nome dell’avo paterno. — 179 — Nell’antica facciata a mezzogiorno, entro una nicchia sovrastante alla porta maggiore eravi una statua in marmo di N. S. della Misericordia. Nella nuova fronte questa statua non trovò più posto, e fu perciò collocata sul piedistallo sormontato oggi da una croce, allo sbocco della vallata del Remenone, dinanzi al casotto dei dazio ; donde trasmigrò più tardi sull’altare della cappella del Camposanto di Albisola Superiore. È mediocre lavoro del Seicento, e porta alla base uno scudetto con suvvi incisa la sigla YHS. Interno. L’interno della chiesa comprende: i. il vestibolo, costituito da un prolungamento della navata di mezzo e sormontato da un’orchestra in legno a cui si accede per una scaletta a chiocciola; 2. il corpo, scompartito in tre navate divise fra loro da altrettante arcate a tutto sesto poggianti su pilastri quadrangolari; 3. le due cappelle, una a destra e l’altra a sinistra, incavate a lato delle navi minori; 4. il presbiterio, sormontato da una cupola emisferica; 5. la cripta al di sotto della cappella laterale a sinistra. La lunghezza dell’interno è di metri 20,30; la larghezza, non compresi i vani delle cappelle, di m. 15,00. Il vestibolo misura in larghezza m. 5,60; il presbiterio m. 5,66. Vestibolo. È separato dal corpo della chiesa mediante un assito munito di griglie a traforo, fatto eseguire per cura degli attuali officianti. Sulla parete a sinistra è incisa a caratteri dorati su marmo nero la seguente epigrafe, commemorativa della consacrazione del tempio nel 1716 per opera di mons. Marco Giacinto Gandolfì vescovo di Noli : d . o . m . TEMPLVM HOC CVM ARA MAXIMA S. MARIAE PACIS AC S . IOSEPH ILLV.mvs ET REV.mvs D . D . MARCVS HYACINTHVS GANDVLPHVS EP.vs NAVL.sis CONSECRAVIT XXII . OCTOB . ANN . MDCCXVI. Corpo della chiesa. Navata destra. Sulla parete in fondo è un quadro in tela, rappresentante l’Assunzione e l’incoronazione della Vergine, che risente il fare degli ultimi pittori su tavola del Cinquecento, non pure nella composizione del soggetto e nella — i8o — distribuzione delle figure, ma eziandio in diversi particolari stilistici e tecnici, come il minuzioso paesaggio che serve di sfondo alla scena del piano inferiore, e gli arabeschi d’oro ond’è fregiato il piviale del P. Eterno nell’ alto del quadro. Il dipinto e mal conservato, come del resto, tutti gli altri della chiesa. Il quadro del Crocefisso, a destra della cappella, fu con troppa correntezza attribuito all’insigne pennello di Antonio Van Dyck: ma è pur d’uopo convenire che, fra i tanti Cristi in croce che vanno sotto il nome dell’illustre fiammingo, questo —a cui non mancano, al postutto, le note più caratteristiche della scuola di lui, dico la delicatezza e il sentimento — non è dei più immeritevoli di tale attribuzione. Fu donato alla chiesa dalla mia bisavola, sig.ra Maria Geromina Scassi, moglie al notaio Gio Nicolò Poggi, che lo comprò nel 1774 da un sedicente disertore francese, sceso dall'Apennino per Alpicella, il quale asseriva di averlo portato da Lione. La tela, che aveva molto sofferto, fu ai nostri tempi restaurata e in gran parte ridipinta dal march. Giacomo Gavotti di Albisola Superiore, allora assai giovine. La cappella ha per ancona una tela di pittore seicentista, colla rappresentazione della Madonna della Cintura fra S. Agostino in abito pontificale, con S. Monica, da una parte, e S. Nicolò da Tolentino dall’altra. Ricorda il tempo in cui il Santuario era officiato dagli Agostiniani, i quali l’acquistarono in Roma del 1698. Una scheda presso di me ne fa autore un Gardini, di cui non trovo menzione nelle storie pittoriche (1). Pochi anni addietro, serviva da pala all altare (1) Questo quadro, chi lo direbbe? godette già di una superlativa riputazione. I PP- Agostiniani, custodi allora del Santuario, avevano incaricato nel 1698 il loro Vicario Generale a Roma di procurar loro, non badando a spesa, un buon quadro per la cappella di S. Nicolò da Tolentino, in sostituzione dell ancona molto deperita: e dopo alcuni mesi giunse da Roma questo quadro, che lo speditore nella lettera d’ invio non mancò di qualificare per lavoro « di rinomato pennello ». Tanto bastò perchè i frati del Santuario giurassero in verbo magistri che la nuova pala era un capolavoro; e come quelle monete che passano per molto tempo da una mano all’altra, senza che ad alcuno venga in mente di verificare se abbiano realmente il valore per cui si danno e si ricevono., un tal giudizio si trasmise e si accettò per lungo tempo senza che alcuno si preoccupasse di metterne in forse l’esattezza. Come accade, vi fu anzi un di questa cappella un S. Francesco in atto di ricevere le stimmate, del Sarzana (Domenico Fiasella, 1589-1669), pittura a forti contrasti di ombra e di luce, un po’ cresciuta, ma sempre di un grande effetto. È a deplorarsi che la famiglia Multedo di Savona, proprietaria del quadro, siasi affrettata a ritirarlo quando i padri francescani, ai quali era stato graziosamente ceduto a titolo di deposito, lasciarono il Santuario. L’affresco del vólto è opera di Giuseppe Bozano da Savona, e rappresenta S. Francesco d’Assisi in gloria d’angeli. Delle quattro tele che adornano le pareti laterali, l’Addolorata — ridotta nel 1879 da ovale a rettangolare, per adattarla alla cornice — passa, non so bene se a buon diritto, per un Bernardo Castello (1557-1629); la S. Margherita da Cortona e il Cristo colla croce sono di Veronica Murialdo, savonese; il S. Rocco, finalmente, è lavoro giovanile del prefato march. Giacomo Gavotti, che fu ai nostri tempi poeta, pittore e sopratutto scultore geniale. Oltrepassato il vano della cappella, non sono da trascurarsi i Discepoli di Emaus, quadretto di Domenico Piola (1628-1703), o piuttosto di Antonio Maria Piola (1654-1715), che imitò assai bene lo stile e il colorito del padre. Sul muro che chiude la navata, una tela di autore piemontese contemporaneo esibisce S. Gerolamo Emiliani, fondatore dei Somaschi, come patrono dei collegi agricoli: sottostante alla quale è un’ piccolo gruppo della Pietà, scultura in legno policroma d’ignoto scalpello. Navata sin'stra. Il confessionale incavato nel muro che fa angolo col vestibolo (1) è sormontato dal martirio di S. Stefano, quadro a olio d’ignoto seicentista genovese, mentre a sinistra della cappella si raccomanda, pogniamo che con scarsi meriti, alPat- crescendo nell’esagerazione: tanto che il più volte citato ms., l’autore del quale non si piccava certamente di essere versato in critica d’arte, ma ripeteva in buona fede quanto aveva sentito da persone che passavano per competenti, dice a proposito di questo quadro, che « altri lo vogliono di mano di Raffaele d’Urbino, altri d’un suo scolare ». Eppure non occorrono cognizioni speciali per vedere che è opera assai mediocre di un seicentista. (1) Questo confessionale e l’altro che gli fa riscontro furono lavorati nel 1652. — 182 — tenzione dei visitatori un S. Rocco, della stessa epoca e scuola. Chi direbbe che questa figura barbuta e tarchiata rappresenti quel personaggio istesso che nella cappella di fronte è ritratto quale un adolescente imberbe, delicato e dalle fattezze poco men che femminee? Quale delle due imagini risponde più fedelmente al Santo della leggenda? Lascio agli agiografi il farne giudizio. Strano è però che, mentre l’arte ha fissato fin dal medio evo i tipi di Santi assai meno popolari, l’iconografia di S. Rocco trovisi tuttora tra quelle che sine lege vagantur; tanto da darsi il caso, come appunto qui, che nella stessa chiesa la sua imagine si presenti alla venerazione dei fedeli sotto due forme diametralmente dive?'se. I quattro affreschi del vólto nella cappella furono eseguiti da Giuseppe Bozano, e rappresentano: a) la pace fra gli uomini di Albisola e di Stella; b) la collocazione della prima pietra della cappella della Pace; c) la concessione del giuspatronato del Santuario, fatta dal papa Gregorio XIII alla Comunità di Albisola; dove il pittore non fu abbastanza deferente alla verità storica, poiché nè i Sindaci nè altri membri del Consiglio comunale di Albisola si recarono personalmente a Roma per chiedere al papa il giuspatronato, bensì la pratica ebbe luogo d’ufficio, pel mezzo della Curia vescovile di Savona; d) il trasferimento della Sacra Icona dalla cripta alla cappella superiore. Dello stesso pittore sono le quattro grandi tele che decorano le pareti laterali, ritraendo i principali avvenimenti della vita della Madonna, cioè la Natività, la Presentazione al tempio, l’Annunciazione e TAssunzione al cielo. La cappella era dapprima ornata di bellissimi stucchi, eseguiti nel 1760 dai fratelli Porta di Milano, che lavoravano in quell’epoca alle decorazioni del pian terreno del palazzo del Doge Francesco Maria della Rovere, oggi Gavotti, in Albisola Superiore. Ma quei stucchi sono in gran parte spariti per la nuova destinazione data alla cappella nel 1845, nella quale circostanza venne decorata come oggi si vede per opera di un plasticatore romano di cui non ricordo il nome. La solennità della traslazione della S. Icona dalla cappella sotterranea in questa è commemorata nella seguente epigrafe composta dal eh. abate prof. Francesco Poggi, genovese, e murata sotto l’elegante nicchia di marmi a più colori che conteneva ———- • i83 - 1’ intonaco dipinto : HAEC . VIRGINIS . DEIPARAE . IMAGO INFERO . E . SACELLO VBI . ARMATOS . INTER . STETIT . PACIFERA MARCH (io) . HIER (animus) . GAVOTTI . MVNIC(»;7) . PRAEFECTO CAETERIS . QVE . A . CONSILIO . CONSENTIENTIBVS IN . HOC . ELEGANTIVS . RESTAVRATVM BENEF (actorum) . LARGITIONIBVS . FR (atrum) . M (inorum) . CVRA TRANSLATA . EST . D . XXIV . MAII . AN . MDCCCXLV. Aggiunta posteriore: ET . AD . ALTARE . MAIVS. II . SEPT . MDCCCLXXIX. Nella nicchia, lavorata da artista genovese nel 1768, è ora una statuetta della Concezione con tre figure minori ai lati. La statuetta principale, dono d’ un devoto savonese, era stata dapprima collocata nella cripta, quando venne di là esportata la S. Effigie : delle tre figure minori, opera d’un Bartolomeo Rebagliati di Stella, una rappresenta S. Agnese, le altre simboleggiano due consorelle del sodalizio mariano. Sul muro adiacente al presbiterio, il quadro dell’Angelo Custode ricorda il fare di Rubens, e può dar la misura dell’influsso che quel, gran pittore esercitò in un dato periodo sulla scuola genovese. Questo quadro, in un col S. Rocco dianzi accennato, fu acquistato a Genova nel 1880 dal p. Francesco Ottaviano Foggi, allora Guardiano del convento della Pace. Ne ho visto una ripetizione — seppure non si tratta di una copia di mano alquanto più recente — nella chiesa parrocchiale di Cairo Montenotte. Aderente allo stesso muro è il pulpito di marmo, curiosa miscela di antico e di moderno, di elementi quattrocentistici e di scampoli barocchi. Consiste in un esagono, o, a dir meglio, in un quadrato di cui i due angoli anteriori furono tagliati a petto in modo da dar luogo a due lati minori, che sono appunto tuttociò che di antico ancora in esso sussiste. Proviene dalla chiesa parrocchiale di S. Pietro di Savona, che a sua volta l’aveva avuto dalla soppressa chiesa di S. Agostino, oggi Magazzino dei sali. Vi si veggono incise a bassorilievo due figure in piedi, a destra S. Bonaventura mitrato, con pastorale nella destra e libro nella sinistra; dall’altra parte S. Antonio da Padova, la cui destra — 184 — tiene un libro chiuso, mentre l’altra mano porta un giglio in fiore. Ambedue i Santi sono collocati entro una nicchia, la cui estremità superiore è conformata a conchiglia. I due Santi, scultura del Quattrocento, hanno subito una singolare trasformazione entrando nella chiesa della Pace. Chi noi sapesse, S. Bonaventura era in origine un S. Agostino, e l’altro un S. Nicolò da Tolentino. I padri francescani che li acquistarono per la chiesa da essi officiata ne fecero due Santi del proprio Ordine, con un mezzo, del resto, semplicissimo; ordinando ad uno scalpellino di rigare a mo’ di cordoni i cintoli che stringevano la vita dei due Santi eremitani. L’avventura toccata a queste due figure richiama alla mente le vicissitndini di quelle statue imperiali romane, a cui, morto l’imperatore da esse rappresentato, veniva sostituita la testa del successore e così via. La facciata anteriore portava in fronte prima d’ora, non pero originariamente, l’iniziale del nome di Maria inciso e dorato. Una tale decorazione parve dappoi troppo semplice : laonde si penso di coprirla con uno strano quanto goffo emblema della Trinità, consistente in un triangolo fornito di naso e di bocca e radiato all intorno. Difficilmente si potrebbe imaginare alcunché di più inestetico di questo triangolo, sormontato da una corona doiata. il quale non è però insolito nella simbolica del Seicento, e ne addito un esempio a poca distanza in quel mirabile pulpito della pairoc* chiale di S. Biagio di Finalborgo, dove, in marmo modellato e tiat-tato come cera, è espressa la rappresentazione del profeta Elia portato al cielo su di un carro di fuoco, mentre, al di sotto, degli angioletti dalle gote rigonfie si affannano a soffiar nelle nuvole per spingerle in su. L’emblema in discorso proviene dalla parrocchia e di Albisola Superiore, e più precisamente dalla cappella già di S. Gio. Battista, ora di N. S. della Pace. Dalla stessa chiesa, ove adornavano la cappella del Rosario, furono portate le due teste alate, di scalpello settecentista, appiccicate ora al piede del pulpito, e stridenti, non meno dell’emblema della Trinità, colle linee semplici e pure dei due Santi. Navata di ine^o. La medaglia del soffitto venne dipinta nel 1649* Rappresenta la Madonna col Bambino, quale simbolo e arra di pace, 1 Illi - - 185 - stante e in atto di posare i piedi sull’arcobaleno, mentre l’arca noetica galleggia sulle acque del diluvio e la colomba vi ritorna portando nel becco un ramo d’olivo. La Vergine tiene nella destra un ramoscello di palma e due di olivo, e anche il Bambino, insieme al globo crucigero — simbolo derivato dall’iconografia bisantina — porta nella sinistra 1111 ramoscello d’olivo, benedicendo coll’altra mano. Presbiterio. È sormontato da una cupola a calotta emisferica, con lucernario in vetri colorati, formanti una doppia stella scintillante a raggi gialli in campo azzurro, donde piove una luce mite e piena di dolcezza. I piedritti portano da una parte lo stemma di Albisola _ un agnello giacente e sovr’esso, nel campo, una stella — e dall’altra una cometa. Le figure e gli ornati, così della cupola, ove da una elegante balaustrata si librano per l’aria dei putti alati con panneggiamenti, come del catino dell’abside, su cui campeggia il ' nome di Maria fra Cherubini, furono condotti, i secondi da Antonio Novaro, savonese, e le prime da Ferdinando Pavoni, veneziano, pennello facile e grazioso, più noto al mondo artistico per gli affreschi di cui decorò la chiesa della Visitazione in Genova e quella di S. Stefano di Lavagna. Sotto la cupola si alza l’aitar maggiore, alla cui sommità, fra i globi d’una nuvola dorata, di rozza esecuzione , è oggetto di speciale venerazione 1’ effigie della titolare del Santuario, quella stessa, che, dipinta a fresco nel 1482 sull’intonaco del primitivo saccello, fu poi nel 1845 staccata da questo per esser trasportata nella cappella superiore, donde nel 1879 venne finalmente qui collocata. Il dipinto, deturpato come tanti altri da corone, collane e orecchini d’oro e d’argento appiccicati alle figure, rappresenta la Vergine sedente, in manto celeste stellato, con in grembo il Bambino che impugna un ramoscello di palma, e alla sua destra S. Giuseppe palliato con un libro in mano. Riguardo a quest’ultima figura, non regge il dubbio espresso dal p. G. B. Spotorno che possa essere una aggiunta posteriore. Non potei mai veder bene il dipinto, stante l’altezza a cui si trova: ma chi ebbe campo di osservarlo da vicino, non si peritò di qualificarlo per un’opera assai pregevole. Ne è ignoto l’autore: di cui altri volle pescare il nome fra quelli dei pittori inscritti sulla matricola genovese del tempo, però senza dati attendibili. Ciò che è certo si è che il dipinto subì — iS6 — dei ritocchi, anche nel 1880 per mano del Pavoni. Non son molti anni che Paltar maggiore era fiancheggiato da due statue in legno policrome, di dimensioni maggiori del naturale, rappresentanti, quella di destra S. Francesco d’Assisi e l’altra S. Bernardino da Siena, o piuttosto il famoso teologo francescano Giovanni Scoto, ambedue in ginocchio verso il tabernacolo: opere fra le migliori di Antonio Maria Maragliano (1664-1741 ); di stile largo, per quanto non scevro di maniera; di esecuzione briosa e sicura: e ripeterò qui di passata quanto già dissi altrove a proposito di queste due statue, cioè che « il reo metodo di pieghe » e il « modellar stemperato » di cui le appunta l’Alizeri, sono semplicemente malinconie da dottrinario. Le due massiccie moli avevano avuto per sede originaria la chiesa della Pace di Genova. Passate in proprietà del Municipio genovese per effetto della chiusura di detta chiesa, erano poi emigrate, per graziosa concessione del Municipio stesso (deliber, dei 20 di Settembre 1880), nella chiesa della Pace di Albisola Superiore, officiata dagli stessi Riformati di S. Francesco che già officiavano quella omonima di Genova: senonchè quando questi lasciarono il Santuario di Albisola, portando seco come Enea i propri penati, anche le due statue ripresero la via di Genova, ri- ^ chiamatevi con deliberazione municipale dei 29 agosto 1883, e sono oggi ornamento e splendore della nuova chiesa della Visitazione (1). A riempiere il vuoto lasciato dalla partenza dei due capolavori del Maragliano, vennero fatti eseguire a Torino, per cura dei nuovi officianti, due Angeli dorati in atto di adorazione. * n Girando intorno all’altar maggiore, si troverà murato nel lato 1. -O ' posteriore di esso e, poco men che nascosto nell’ombra, un marmo lavorato a bassorilievo, che serve di frontispizio al ripostiglio del- 1 olio santo. Consiste in un edicola, di architettura ogivale, nella cui parte superiore è figurato il Salvatore uscente a metà corpo dal sepolcro. È noto che questa rappresentazione del Cristo « Già surto fuor de la sepolcral buca » è la più antica formola di cui l’Arte siasi servita per esprimere la (1) Veggasi la precitata mia memoria S. M. d?Ua Visitazione in Genova. — 187 — Resurrezione. Non consta donde sia provenuto questo bassorilievo, certamente assai più antico della chiesa, rimontando allo scorcio del secolo XIV, 0 tutt’al più, ai primordi del XV. Come parlano al cuore questi cimelii medioevali, per quanto semplici e rozzi: e come ci sentiamo attratti a rivolgerci indietro quando ce ne allontaniamo, finché trovatisi entro il raggio della nostra visuale! Il quadro della S. Famiglia, sovrastante al coro, era dapprima nella piccola cappella del convento, all’angolo dei due corridoi. È opera del p. Tereso Maria Languasco da S. Remo, Agostiniano Scalzo, discepolo di G. B. Carlone (1651-1698); il quale, dal convento della Visitazione in Genova, lo mandò in dono ai suoi correligionari del Santuario di Albisola, perchè ne ornassero il loro Oratorio interno (1). Due grandi tele adornano le pareti laterali del presbiterio. Quella in cornu epistolae è l’Annunziata del genovese Gio. Battista Paggi (1554-1627); dipinto eccellente, sebbene in cattivo stato di conservazione; al qual proposito erra il p. Spotorno affermando che fu ritoccato non felicemente nel 1698; mentre il ms. a cui egli attinse la notizia altro non dice, in sostanza, se non che in quel-l’anno « fu fatto aggiustare nella cornice dorata il quadro della Annunziata ». Il quadro subi, è vero, alcuni lievi ritocchi, ma ciò fu in epoca assai recente, cioè nel 1880, per mano del Pavoni. Appartiene probabilmente al tempo in cui il Paggi, come è noto, soggiornò in Savona, durante il qual periodo egli dipinse pure l’insigne quadro del Crocefisso pel Santuario di N. S. di Misericordia. Una ripetizione di questa Annunziata ammirasi nella pala della prima cappella, a destra, della chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni in Genova. Il quadro in cornu euangelii esprime una Sacra Famiglia con a destra S. Nicolò Mirense in ginocchio, dietro il quale, in piedi, S. Francesco d’Assisi e in alto una gloria d’angioli. Prima del 1880 era nella parrocchiale di Albisola Superiore, dove costituiva l’ancona della cappella di S. Giuseppe. Senonchè allora la (1) Carlo Giuseppe Ratti, Delle vile dei pittori, scultori ed architetti genovesi, tomo secondo, in continuazione dell’opera di Raffaello Soprani. Genova, Ivone Gravier, MDCCLXIX, pag. 137. — 188 — figura in piedi dietro S. Nicolò non rappresentava altrimenti S. Francesco, bensì S. Domenico. Fu il p. Ottaviano Poggi, mio zio il quale a tempo perduto maneggiava anche il pennello che operò la metamorfosi del S. Domenico nel patrono dell Ordine Serafico, cambiandogli l’abito. Egli era tutto intento al lavoro di trasformare la divisa nera e bianca dei Predicatori nel saio bigio dei Minoriti, quando il chiodo a cui per tale operazione aveva raccomandata la tela in refettorio, si staccò dal muro e il quadro gli cadde con gran fracasso sul capo. « Un tiro giuocatomi da S. Domenico, diceva egli scherzando, per contraccambiar la burletta ». I trofei d’armi, o panoplie, dipinti a chiaro-scuro sotto ai due quadri dal prelodato ornatista Antonio Novaro, sono ben composti, ma non rispondono al tempo e alle persone a cui si riferiscono. Armi e armature, come elmi a visiera, mazze ferrate, spadoni, lancie e scudi da cavalieri del Medio Evo, insieme ad archi, faretre e fie^ue dei tempi omerici, a galee e a clipei di legionari romani, il tutto in gruppo col fascio dei littori consolari e con fucili del tempo di Napoleone I, nulla hanno che vedere col fatto a cui vogliono alludere; protagonisti del quale furono rozzi contadini, non usi in quel tempo a maneggiare altre armi fuorché randelli, fionde, coltellacci, forche, scuri, falci e congeneri istrumenti rustici; di arnesi militari, tutt’al più, la picca, la zagaglia e la balestra. Vero è che già nel 1477 i Savonesi avevano fatto collocare quattro pezzi d’artiglieria a guardia del porto (1), e che pel frequente transito di milizie italiane ed estere sbarcate in Vado o colà dirette, queste popolazioni erano famigliarizzate colla vista delle armi allora in uso, non escluse le armi a fuoco portatili; ma 1 q colubrine, gli archibugi, gli schioppetti e i moschetti del tempo non si vogliono in alcun modo confondere coll’odierno fucile; oltreché è duopo non perder di vista che il combattimento emblemeggiato ebbe luogo fra popolazioni rurali. Primo compito del pittore dovrebbe esser quello di studiare le condizioni di tempo e di luogo, ossia 1 ambiente storico del soggetto da rappresentarsi. (1) G. Vincenzo Verzellino, Dette memorie particolari etc delta città di Savona, !» P- 3 55- — 189 — Nell’area occupata dall’odierno presbiterio e vicino all’ ingresso della balaustrata, eravi !a sepoltura della famiglia Poggi. La lapide del secolo XVII, con epigrafe e stemma, che la ricopriva essendo andata spezzata nei lavori di rialzamento di questa parte del suolo, ne fu sostituita un’altra in marmo bigio, murata nello zoccolo della parete a destra, colla seguente iscrizione dettata da quell’insigne erudito ed elegante latinista che fu a nostra memoria il comm. Amadio Ronchini di Panna: LOCVS . SEPVLTVRAE GENTIS . POGGIAE CVIVS . PIO . STVDIO PLVRIES . AEDIS . DECOll PECVNIA . DONISQ.VE . COLLATIS . AVCTVS ET . SCRIPTA . MAIORVM AD . FASTOS . CVLTVS . MARIANI . CONFICIENDOS E . TENEBRIS . ERVTA . VVLGATAQ.VE . SVNT Si allude nell’ultima proposizione alla citata collezione delle memorie riguardanti il Santuario per opera del mio avo Avv. Gio Bernardo Poggi. Dirimpetto a questa, nello zoccolo della parete a sinistra leggesi quest’altra epigrafe alla memoria d’ una generosa benefattrice del tempio : MARINAE . CAPVRRO . V1D (uae) . MERELLO DOMO . GENVA Q.VOD . ANNO . MDCCCLXXIX CVRANTE . SERAPHICA . MINOR (um) . REFORM (alorum) . FAMILIA L1BELLARVM . 1III . cb . DEDERIT SANCTVARIO . ALBAE . DOCILIAE DVM . AEGRE . NOVA . ABSIDE . AMPL1ARETVR VT . AD . ANIMAE . SOLAMEN QVATER . SACRVM . CVM . CANTV . QUOTANNIS . FIAT ET . EVCHARISTICA . BENEDICTIO . DETVR IN . SINGVLOS . MENSES H (oc) . M (onumentum) . P (ositum est) Ne fu autore il prev. can. G.1 Schiappapietra. Non lascierò il presbiterio senza ricordare che sul muro demolito nel 1878 Per dar luogo alla nuova abside, a destra e a sinistra di chi entrava per la porta maggiore, eranvi due iscrizioni a caratteri — 190 — della seconda metà del secolo XVII, relative, quella a destra all’origine del culto della Madonna della Pace, e 1 altra alla fondazione della chiesa e del monastero. Le riporto qui volentieri, perchè non ne vada perduta la memoria, non essendo più state riprodotte sul nuovo muro nè altrove, e anche perchè la storia dell5 origine vi è narrata in modo più conforme alle esigenze della critica, cioè spoglia delle superfetazioni leggendarie. Iscrizione Prima Nell’anno 14S2, alli iS Ottobre, cessate le lunghe liti e differente, e pacificate le aspre discordie, gli odii intestini e le mortali questioni, quali per il spazio di quattro anni bollirono fra li abitatori della Stella e quelli di Albisola, mediante la diligenza di monsignor Domenico Berbero, allora Commendatore della chiesa di San Nicolo di Albisola, posto per mediatore dal serenissimo Duce di Genova Battista Fregoso e dall’ illustrissimo Pietro Gara Vescovo di Savona, ed essen dosi ambedue queste Comunità insiemi aggiustale sul luogo ovt 01 a si ritrova la chiesa con abbracciamenti delli Sindici dell una e dell altra totalmente unite e riconciliate, in memoria di questo beneficio e dono della pace da Dio ricevuta, come si crede, per intercessione della S.ma Vergine, fu subito nel tnedemo luogo una piccola cappella in onore di Lei edificata, e dipintavi quella istessa effige, quale al pi esente nella cappella ancor si vede, molto divola e miracolosa. Iscrizione Seconda Nell’anno 1573, con l’occasione di nuova riconciliazione fatta fi a le dette Comunità, per altre liti all’hora suscitate, si diede principio ad augumentar la cappella della Madonna dalli uomini di Albisola, con tanto affetto che l’hanno ridutia in grande e magnifica chiesa, ed insieme in un monastero governalo al presente con gran riverenza ed osservanza da’ RR. PP. Scalai Eremitani di S. Agostino, li quali lo hanno mirabilmente amplialo con nuovo dormitorio, dilatazione di sito e circuito di mura, apparali, abbellimenti e perfetione di chiesa, essendo di grandissimo giovamento spirituale a tutti li circonvicini popoli, con - i9i — l’ammiwtrayone dei S.ini Sacramenti della confessione e comunione, e di altri me%%i utili per la salute delle anime loro. Cripta. — Vi si scende dalla chiesa e dalla piazza per due scale laterali. Quella di sinistra porta sulla testata del vólto la seguente epigrafe, che dal contenuto apparisce doversi assegnare al 1716: d . o . M SACELLVM HOC S . MARIAE PACIS AC D . ANNAE IN IPSA ECCLESIAE DEDIC.ne CONSECRATVM. Sotto alla lapide, entro una medaglietta ovale a fresco, sono figurate due coppie di combattenti che, gettate a terra le armi, si abbracciano sulle sponde del Riabasco: scena riprodotta con poche varianti sulla analoga medaglietta della scala di destra. Il soffitto della cappella è coperto da un affresco rappresentante nella parte inferiore la Vergine assunta in cielo fra una pleiade d’angioli, due dei quali cogli attributi della palma e dell’olivo; e nella parte superiore la Trinità in gloria. Questo affresco conservatissimo e non senza pregi venne eseguito nel 1632 (1), e ne fu probabilmente autore Gio. Battista Bicchio da Savona, che appunto operava in quell’epoca, e di cui esiste un buon quadro anche nella parrocchiale di Albisola Superiore (2). Gli ornati sono opera di Nicolò (1) La spesa fu di lire venticinque, moneta Genova corrente, oltre il vitto al pittore. (2) Intorno a Gio. Battista Bicchio, il cui fare ha molta analogia con quello di G. B. Paggi, ecco qui alcuni dati cronologici: 1623. Dipinge a olio, con figure dentro e fuori, le ante dell’organo della cattedrale di Savona (pel prezzo di lire 450, come da polizza autografa ch’ebbi sott’occhio). 1623. Id. la tela rappresentante il Battesimo di G. C. per la chiesa di S. Nicolò di Albisola Superiore. 1625 Id. id- lo stesso soggetto per la chiesa di S. Croce di Savona. 1630? Lavora a fresco l'imagine, a grandi dimensioni, di N. S. di Misericordia sul lato meridionale della torre alla bocca della darsena, detta allora di S. Agostino, dove poi, nel 1664, fu collocata entro una nicchia la gigantesca statua — 192 — Spirito di Albisola Superiore, contemporaneo. I balaustri nini moi e, furono lavorati nel 1768. L’altare è sormontato da una statua in marmo, di grandezza naturale, della Madonna con in biaccio il Bambino e nella destra un ramoscello di palma: buona scultuia della 2“ metà del Seicento, dai panneggiamenti un po triti, secondo 11 gusto dell’epoca, ma modellata stupendemente e scolpita con franchezza non disgiunta da fine eleganza. Le pupille sono inca vate e riempite di stucco nero; particolare naturalistico, non insolito nell’arte della decadenza, smaniosa di nuovi effetti. Questa pie gevolestatua dominava una volta sull’altar maggiore, d onde dovette emigrare per cedere il posto alla icona del 1482. Non trovo indicato da alcuna memoria quando e da chi sia stata eseguita. ma non credo discostarmi dal vero attribuendola allo scalpello del genovese Filippo Parodi (1630-1702); tanto sono in essa evidenti lo stile e il tocco di quell’ insigne discepolo del Bernini ; come potrà di leggjeri persuadersene ognuno che confronti la statua in parola con quella di maggiori proporzioni che il Parodi scolpi pei la cappella della Madonna del Carmine, nella chiesa di S.* Callo della stessa Madonna, di Filippo Parodi, con sotto il famoso distico italiano latino del Chiabrera. 1637. Riconosce ed attesta insieme al collega e concittadino Paolo Gerolamo Marchiano, di 92 anni, l’antichità delle figure dipinte sulla cassa contenente le reliquie del Beato Ottaviano vescovo di Savona. 1667. Dipinge la tela del Crocifisso con ai piedi la Madonna e ai lati di\ersi Santi e Sante, già nella prima cappella a destra del duomo, ora nell aula del Tribunale di Savona. Egli era figlio di quel messer Domenico di cui parla il Chiabrera nelle sue lettere a Bernardo Castello, e che doveva essere un pittore di abilità assai limi tata, a giudicarne dal fatto che il Chiabrera chiedeva per lui al Castello un disegno di cui potesse servirsi per effigiare, in modo da ritrarne onore, la B. V. di Misericordia. Questo Domenico Bicchio dipinse nel 1610, pel prezzo di L. 84,18, l’ancona ora perita della cappella di S. Orsola in S. Ambrogio di Varazze; la qual cappella, già incominciata dal rev. Domenico Cernito dell Al picella, prevosto di S. Ambrogio nel secolo XV, era poi stata portata a com pimento coi redditi lasciati a tale effetto dal Cerruto, con testamento, in data 12 maggio 1489, che si conserva nella canonica di S. Ambrogio, copiato in ms. in - 8 dal titolo « Libro dei Tutori delli beni et eredità del qm. sig. piete Domenico Cerruto ». — 193 — in Genova. Si sa che il Parodi fu in Savona, a lavorarvi per la chiesa delle monache dcH’Annunciata il grandioso aitar maggiore d’ordine corinzio, con figure di rara bellezza, e per le monache di S. Chiara la statua in legno del Cristo morto che ancora si espone nel Sepolcro del Giovedì Santo; come vi fu nel 1664, quando eseguì e collocò a posto sul lato meridionale della torre del Porto la colossale statua marmorea della Madonna di Misericordia. Si sa pure che fu in Albisola Marina, ove pel palazzo Durazzo, oggi Faraggiana, condusse un bellissimo specchio, lavorato a foggia di fonte nel quale Narciso si sta vagheggiando; cosa, dice il Ratti, « che per l’invenzione e la naturalezza merita l’alta stima in cui è tenuta (1) ». Ai lati sporgono due mensole — provenienti dalla parrocchiale di S. Nicolò — sorrette ciascuna da un angelo marmoreo, che riproduce, chi lo crederebbe ? il tipo delle Arpie antiche appollaiate sugli alberi. Paganisme immortel, es tu morti On le dit. Mais Pan, iout bas, s’en moque et la Sirene en rii. Convento. L’annesso monastero consta di due braccia di fabbrica, l’uno dei quali, in direzione da ponente a levante, dà sulla piazza grande ed è il più antico, l’altro, di costruzione posteriore (1636-1700), si sprolunga da tramontana a mezzogiorno entro l’orto e il giardino. La porteria era una volta decorata di affreschi eseguiti nel 1667 da Pietro Giovanni Ghio, e ancor ricordo d’aver veduto nella mia fanciullezza un resto dei fiorami ond’erano rabescate le sue pareti. Così nel 1673 un p. Marino, degli Agostiniani Scalzi che allora officiavano il Santuario, aveva condotto a fresco nella villa e più probabilmente sotto il loggiato che fiancheggia l’orto, due pitture rappresentanti S. Agostino che lava i piedi a G. C., e S. Nicolò da Tolentino che fa scaturire l’acqua; ma questi dipinti sono da un pezzo scomparsi (2). (1) Op. cit. pag. 59- (2) Il p. Marino a cui si attribuiscono gli affreschi ora detti non può a verun patto identificarsi col dotto poliglotta omonimo di cui è cenno più avanti a Atti Soc. Lio. St. Patria. — Documenti e sluìi, ij — 194 — Noi Refettorio, che occupa l’estremità del pianterreno nel braccio dal nord al sud, esiste tuttora un Cenacolo, di anonimo genovese, non certamente di prim’ ordine ma neppur senza pregi, sebbene molto trascurato. Ha molta analogia col noto Cenacolo di Luca Cambiaso, già nel Convento di S. Bartolomeo degli Armeni in Genova, poi presso l’Accademia Ligustica di Belle Aiti e ora depositato nella Pinacoteca civica del Palazzo Bianco. Ciò che ancor rimane di più ragguardevole dopo la partenza dei frati, che portarono seco loro quanto era di spettanza del l'Ordine, è la Biblioteca. Suo fondatore fu il p. Salvatore di S. Francesco di Sales, Agostiniano, di cui si conserva nella sala il ritratto a olio, che lo rappresenta dinanzi al crocefisso, la mano sinistra a contatto di un teschio posto sul suo tavolino da studio. I meriti insigni di lui e sopratutto lo spii ito di ini ziativa e di beneficenza ad incremento del Santuario sono ricor dati dalla seguente iscrizione sottostante all effigie . P . SALVATOR . A . S . FRANCISCO . SALESIO VITAÉ . PROBITATE . ANIMI . CANDORE . SPECTABILIS IN . HOC . COENOBIVM . MVNIFICENTISSIMVS TEMPLV . SOLEMNITER . DICATV . SACRA . SVPELLECTIL1 . EXORNAVIT DORMIT . BIBUOTE7FVNDITVS . EREXIT m VILLAM . NEMVS . AREA-M . LONGO . MVRORVM . AMBITV . C1RC^ VNIVERSAE . PROVINCIAE . REGIMINI. SEMEL . ET . ITERVM . PI MORIBVS . INGENIO . ELOQ.VIO . VIR . MITISSIMVS RELIGIONIS. INCREMETO . CONSODAL1V . COMODO . VIXIT. MPENSE . SIB!. PRIDIE. NONAS . MAJI. ANNO .EPOCHAE. CHRISTIANAE • CO . D . CCX. CONVENTV . DECESSIT . AETATIS . SVAE . ANNO . LXXX Benemerito della Biblioteca fu pure il p. Marino, un dotto g ^ niano, di cui dicesi che, oltre all essere versato nelle lette liane e nelle latine, conoscesse l’ebraico, il gì eco, il francese > • - • * ' * » - • proposito della Biblioteca, giacché questi mori di anni 75 7 tratta, adunque, di un ignoto predecessore, 0 il ms. d’onde la notizia u è in errore: nel qual caso, parmi assai probabile che le pitture in p. sieno opera di quel p. Tereso Maria Languasco, Agostiniano, autore, come abbiamo veduto, del piccolo quadro sopra il coro; il quale le avrebbe eseguite a 22 anni. - 195 — l’inglese, nè gli fosse straniero il tedesco: il quale morì alla Pace nel 1788, di anni 75, lasciando alla libreria conventuale i suoi scritti greci ed ebraici, e più di cento volumi di qualche pregio. Le due statuette in legno sovrapposte agli scaffali, e rappresentanti S. Francesco d’Assisi e S. Antonio da Padova, stavano una volta in chiesa ai lati dall’aitar maggiore, e sono dovute allo scalpello infaticabile del savonese Antonio Brilla, che continuò ai giorni nostri in Liguria le nobili tradizioni della scuola di Antonio Maria Maragliano. Degne di particolare menzione, anche perchè interessano la storia del costume e di altri particolari della vita genovese nel secolo XVII, sono parimenti le quattro tele rettangolari che decorano le pareti con rappresentazioni desunte dalla vita di S. Agostino. Nella prima di esse è figurata la conversione del Santo, a cui un raggio che piove dall’alto illumina d’un tratto la mente ottenebrata dalle dottrine del paganesimo. Egli è seduto in un giardino dalle aiuole sagomate e simmetriche, sul gusto di quelle, allora celebratissime, del Trianon di Versailles. I lussureggianti tulipani che spiegano quivi la pompa dei petali variegati richiamano i tempi in cui la passione per questi fiori salì fino al parossimo in Olanda, d’onde si diffuse in quasi tutta l’Europa, e attecchì anche a Genova, ove la floricoltura, favorita singolarmente dalla mitezza del clima, fu sempre in auge; nè manca a completare il quadro un bellissimo Kakatoa, ornamento molto apprezzato nei giardini dei patrizi genovesi del Seicento (1). La seconda tela rappresenta S. Agostino in atto di lavare i piedi a G. C. incognito. Anche qui la scena è nell’aperta campagna. II paesaggio occupa la parte principale del quadro, e le figure non costituiscono che un accessorio, una macchietta, come in alcune tele di Salvator Rosa e più ancora in quelle di Nicolò Poussin, creatore del cosidetto (r) Per citare un esempio, nel famoso ritratto di Paolina Adorno Brignole-Sale, il più attraente fra i capolavori di A. Vati Dyck che si ammirano nel Palazzo Rosso di Genova, la leggiadra marchesa è figurata in piedi sul poggiuolo che dà in giardino, avendo alla sua destra un bel papagallo. Anche il « Putto bianco » dello' stesso autore nella Galleria Durazzo offre una splendida prova del felice impiego del papagallo come elemento decorativo nei quadri di quel tempo. — 196 — paesaggio storico, allora in gran voga per opera specialmente di Claudio Lorenese, imitato più particolarmente in Genova da Carlo Antonio Tavella (1668-1738). Nel terzo quadro è espressa la traslazione del corpo di S. Agostino da Ippona in Sardegna. In fondo si vede la città, aggruppata sul dorso di un promontorio; lunghesso la spiaggia sfila il solenne accompagnamento della salma. Il mare è coperto di barchette, fra cui campeggia la mole maestosa della nave destinata al trasporto, la quale è tutta pavesata a festa e saluta la salma con fuoco a salve di tutti i suoi cannoni di babordo e di tribordo! L’ultima rappresentazione è quella dell’imbarco di S. Monica, madre del Santo, alla volta dell’Europa. Solcano il mare diverse navi a vele spiegate, mentre sta in attesa, a vele ammainate e coi remi orizzontali, una magnifica galea colla bandiera genovese issata; e già una scialuppa a vela latina si muove a ricevere la Santa per trasportarla a bordo della galea. Siamo qui, come nella precedente, in piena marineria genovese del secolo X^ II. Questi quadri con episodi della vita di S. Agostino erano una volta in numero di sei, come ricavo dal più volte citato ms. di famiglia, e furono acquistati nel 1657, insieme a due altri, rappresentanti, il primo, S. Nicolò da Tolentino battuto dal diavolo mentre stava in orazione, e il secondo lo stesso Santo rapito in estasi dalla musica degli Angeli. Ma nè di questi ultimi, nè dei due che mancano alla serie esiste altra notizia. Per nulla tralasciare di quanto abbia rapporto coll Arte, accennerò finalmente che nell’ angolo del muro di cinta che determina il confine della villa lungo la via provinciale, una statuetta marmorea della Madonna, dell’ovvio tipo di quella della Misericoidia, sembra dare il benvenuto a chi venga da Albisola, colla leggenda. DABO PACEM IN FINIBVS VESTRIS. Con ciò ho terminato la rassegna di quanto può offrire d interessante all’ escursionista il Santuario della Pace. Fui mosso a compilare questi appunti, il cui unico merito sarà quello dell esattezza, dalla considerazione che nella stessa Savona, donde non dista che pochi chilometri, il Santuario della Pace è conosciuto poco più che di nome, e più ancora dal fatto che alcune notizie — l97 - intorno ad esso divulgate in libri che pur godono di qualche autorità presso il pubblico colto, sono non soltanto inesatte, ma a dirittura fantastiche. Per citare un esempio, leggo in una pubblicazione compilata nel 1868 da alcuni egregi Savonesi, per altro benemeriti della storia e della letteratura patria (1), che nel Santuario della Pace dipinsero Gerolamo Brusco e il Baratta, e che « del primo sono notevoli i lavori fatti nella cappella di S. Francesco, ove si trovano due stupende figure di Mosè e di Aronne, che sono d’una grandezza e d’una terribilità che vince ogni altro quadro di quella chiesa ». Ora, sta in fatto, come ha potuto rilevare il lettore a cui non sia venuta meno la pazienza di seguirmi passo passo in questa rassegna, che nè il Brusco nè il Baratta mai lavorarono pel Santuario della Pace, dove sarebbe tempo perso cercare le due tanto decantate figure o altre di loro mano. C’ è bensì la storia del p. G. B. Spotorno, arricchita dalla dotta appendice del can. Gio. Schiappapietra, albisolese anch’ esso e versatissimo nella soggetta materia. Ma lo Spotorno scrisse a scopo religioso, diffondendosi quasi esclusivamente nella parte ecclesiastica, motivo per cui il suo libro è consultato da pochi. Ho quindi creduto che non sarebbe senza pratica utilità una memoria, £he, riassumendo il libro dello Spotorno, 0 meglio, i documenti a cui egli attinse, per quanto risguarda i fatti principali relativi al Santuario, ossia la parte storica, e dando uno speciale sviluppo alla parte descrittiva ed artistica, appena abbozzata in quel libro, valesse, non solo a richiamare l’attenzione del pubblico su di una chiesa « Religione patrum multos servata per annos », ma a servir di guida a coloro che intendessero farne meta d’una geniale escursione. (1) Guida descrittiva dì Savona e dette città e comuni principali del Circondario, coll' aggiunta di cenni biografici ;intorno ad uomini illustri. Firenze, Tip. Fo-dratti, 1868. — 198 CRONOLOGIA DEL SANTUARIO DELLA PACE 1 17$, Giugno. Fra le Comunità limitrofe di Albisola e di Stella insorgono questioni circa ai confini dei boschi comunali. Ottobre. Le controversie si inaspriscono nell’ occasione che, d’ordine dei rispettivi Sindaci, si procede ad un ragguardevole taglio di piante in detti boschi Novembre. I Podestà di Savona e di Varazze ragguagliano il Governo della Repubblica delle insorte differenze. Il Governo prescrive ai due Podestà di adoperare ogni cura per comporle. » 4 Dicembre. — Relazione dei due Podestà al Governo sull’ infruttuosità dei passi da essi fatti per sopire le questioni. *479» 17 Aprile. Alcuni uomini di Albisola essendosi recati a far legna sui controversi confini, sono aggrediti da altri della Stella , che li rincorrono annata mano uccidendone uno e ferendone due. 20 Aprile. Il Podestà di Savona riferisce il fatto al Governo, invocando pronti provvedimenti. 4 Maggio. Il Governo della Serenissima fa divieto a chiunque delle due Comunità di accedere ai controversi boschi sino a che non sieno determiniti i rispettivi diritti, e accorda al Podestà di Savona gli opportuni poteri per 1 esecuzione del decreto comminante pene severe agli infra tton. • 20 Maggio. — Elezione a Doge del M. Giobatta Campofregoso io seguito alla rinuncia del predecessore M. Prospero Adorno. • 4 Giugno. — Dietro proposta del nuovo Doge, i Collegi deliberano la chiamata a Genova dei Sindaci di Albisola e di SteHa, per attingere da essi informazioni più circostanziate sui motivi della contesa e sulle rispettive ragioni. » 20 Giugno. — In contradditorio dei Sindaci, i Collegi eleggono due Commissari della Repubblica, ai quali si conferiscono pieni poteri per la soluzione d’ogni questione fra le due Comunità. • is Luglio. — Arrivo dei due Commissari in Albisola ove son ricevuti dai Sindaci. » 17 Luglio. — Gita dei medesimi a Stella con ricevimento analogo. — 199 - !47» 24 Settembre. — Convocati i Consigli, i Sindaci espongono ai medesimi quanto avevano fatto in esecuzione del mandato loro affidato, il risultato della visita locale e la convenienza di procedere all’ apposizione dei nuovi termini a scanso di ulteriori contestazioni I Consiglieri di ambedue le Comunità sollevano la questione pregiudiziale ed emettono il parere doversi, prima di deliberare, interrogare il popolo nelle persone dei Capifamiglia, siccome di consuetudine quando erano ài causa interessi di rilievo. » 26 Settembre. — Nell’ assemblea generale dei Consiglieri e Capifamiglia, dopo più ore di tumultuosa discussione, si vota contro la proposta apposizione dei nuovi termini e si biasima l’operato dei Sindaci che cransi mostrati ad essa in massima favorevoli, nè mancano minaccio che, ove i termini venissero apposti contro il volere del popolo, sarebbero bagnati dal sangue dei Sindaci. n 28 Settembre. — I Sindaci trasmettono ai Commissari il voto dell’ assemblea popolare. » 2 Ottobre. — I Commissari fanno relazione d’ogni cosa al Governo, chiedendo istruzioni. — 200 — *479» *4 Ottobre. — Si di lettura in Senato della relazione dei Commissari, la quale offre argomento a lunga discussione, di cui si rimanda il seguito ad altra seduta. • S Novembre. Il Doge si dichiara contrario a misure di rigore. Su proposta del medesimo si delibera il richiamo dei due Commissari, e la nomina di altri due con uguali poteri. • 2} Novembre. Ritorno a Genova dei Commissari richiamati, i quali son ricevuti il 28 in udienza dal Doge. • ? Dicembre. — Gli stessi si presentano ai Collegi riuniti, che ne approvano l’operato. • 9 Dicembre. Elezione dei nuovi Commissari. • »6 Dicembre. — Loro arrivo in Albisola. • 21 Dicembre. — I Commissari citano i Sindaci delle due Comunità a presentarsi il 29 per sentire gli ordini del Governo. » -9 Dicembre. I Commissari comunicano ai Sindaci la giusta indignazione del Governo per i fatti delittuosi di cui i due Comuni erano stati il teatro, non meno che per l’ostinazione e pervicacia delle popolazioni, diffidandoli che per poco tempo ancora sarebbesi tenuta sospesa la spada della giustizia. Ordinano quindi l’elezione di alcuni Deputati, i quali unitamente ai Sindaci do\ «sero fra venti giorni presentar loro i documenti giustificativi delle ragioni comunali sui boschi in contestazione, documenti da corredarsi cogli atti della visita locale eseguita dai Commissari antecedenti, nonché coH’ori* ginale della relazione dagli stessi trasmessa al Governo Detti documenti vengono presentati il 16 gennaio 1480 dai Sindaei e Deputati di Stella, il 18 da quelli di Albisola. «480, 2$ Febbraio. — Si intima ai Sindaci che per la mattina del 5 marzo si trovino, in un coi Deputati, presso i Commissari, per recarsi tutti insieme nei caschi contestati e colà stabilire circa all’ apposizione dei termini. ^ procede alla visita dei boschi, si sente sui luoghi la rela- zione di periti chiamati da due Comuni vicini e si precisa la linea dei termini da apporsi. 15 Marzo. Si eseguisce l’apposizione dei termini, non senza malcontento del popolo di Stella, di cui si fanno eco i suoi Sindaci e Deputati. * larzo. I Commissari notificano ai Sindaci e Deputati che il Governo accorda un generale perdono, e intimano il rispetto dei termini apposti. . lar.o. Avendo i Sindaci delle due Comunità rappresentato al Governo *1 disordine in cui si trovavano i registri dei beni immobiliari , e la enienza di rinnovarli, il Governo incarica i due Commissari di sovrin-tendere a tale rinnovazione. 22 Ottobre. Data esecuzione al nuovo còmpito, i Commissari partono per Genow accompagnati dai Sindaci e da gran parte della popolazione al mare, dove era ad attenderli una galea della Serenissima. — 201 — 1480, -7 Ottobre. — Riferiscono ai Collegi del loro operato, che viene approvato. 1481, 12 Aprile. — Rinascono dissapori fra le due popolazioni nell'occasione che due Albisolesi nel far legna oltrepassarono i termini apposti I Sindaci di Stella si lagnano della trasgressione con quelli d’Albisola. Questi a loro volta si dichiarano dolenti del latto e si affrettano a disapprovarlo e a punire i colpevoli. Con tutto ciò la cosa ha uno strascico di parole c di atti poco amichevoli, che danno motivo a risse ed alterchi. a 6 Luglio. — Per interposizione del Podestà di Varazze, i Sindaci di Albisola emettono un bando in cui si comminano cinquanta scudi di ammenda a qualunque Albisolese che osasse cimentarsi con parole o fatti con uno di Stella. » 12 Luglio, — Dietro uffici dello stesso Podestà i Sindaci di Stella emettono un bando analogo. » Ottobre. — Alcuni Stellesi nel far legna sconfinano. Gli Albisolesi presenti al fatto ne fanno rapporto ai propri Sindaci, e questi invitano i Sindaci ùi Stella a provvedere perchè non si rinnovino simili trasgressioni. a Dicembre. — I Sindaci di Stella non avendo preso provvedimenti efficaci, il malumore degli Albisolesi si sfoga in replicate rappresaglie. Essi attendono il transito degli Stellardi e li pigliano a bastonate e a sassate. Da parte loro gli Stellardi fanno altrettanto quando s’incontrano con Albisolesi. In poco tempo si deplorano morti e feriti d’ ambe le parti. 1 j.82, 21 Febbraio. — Il Podestà di Savona espone al Governo questo grave stato di cose. Il Governo deputa esso Podestà e quello di Varazze all’ ufficio di Mediatori di pace, con speciali facoltà. I due Podestà conferiscono coi Sindaci, discutono le loro ragioni, tentano ogni via di conciliazione, ma invano. „ 4 Aprile. — I due Mediatori di pace rendono ragione del loro operato e rassegnano il mandato. » 18 Maggio — Il Senato nomina a Mediatore di pace fra le popolazioni di Albisola e di Stella mons. Pietro Gara, Vescovo di Savona. Il decreto di nomina è accompagnato da una lettera particolare del Doge con cui questi prega caldamente il Vescovo a voler assumere detta mediazione, ripromettendosi dal singolare suo zelo i più salutari effetti. » 25 Maggio. — Mons. Gara chiama a sè i Sindaci di ambe le Comunità c in base ai poteri conferitigli dal decreto senatoriale, li invita ad esporre le proprie ragioni e a produrre i documenti atti a giustificarle. Conferisce in seguito a più riprese con essi e con altri, così unitamente come partitamente, attingendo informazioni ed elementi di giudizio dalle più diverse fonti. » 14 Giugno. — Convocati i Sindaci, mons. Gara pronuncia doversi mantenere i termini apposti il 15 di Marzo 1480. Questa sentenza è accolta con malumore dai Sindaci di Stella, i quali lo tacciano di parzialità, ricordando l’origine albisolese della famiglia dei Gara. — 202 — Coni quando il Vescovo propone di coronar l opera con una solenne riconci L-u ione, i Sindaci di Stella ricusano, affermando che 1’ adesione attirerebbe sul loro capo la generale indignazione del popolo. 148.5, 37 Giugno. — Mons. Gara disperando d’indurre i contendenti a più miti consigli, scrive al Doge per ragguagliarlo dell’accaduto e decimare il mandato. • ij Luglio. — Altra lettera del Vescovo savonese al Doge in cui vien designato come più particolarmente atto all’ufficio di Paciere fra i due popoli il Commendatore della parrocchiale di San Nicolò >• Albisola, mons Domenico Borierà, cosi per le sue qualità personali, che gli valsero poi il Vescovato di Cervia e di Sagona, come per la singolare estimazione in cui meritamente era tenuto anche a Stella, dove avea esercitato con successo il ministero apostolico tacendo parte d una missione. • 28 Luglio — Il Senato nomina mons. Borzero Mediatore di pace fra le due popolazioni, colle occorrenti facoltà, invitandolo in pari tempo ad uniformarsi al consigli di mons. Gara. » Agosto. — Mons. Borzero spiega una straordinaria attività nel disimpegno del suo mandato Conferisce col \ escovo, coi Podestà, coi Sindaci, coi notabili, cogli individui più influenti delle due borgate: sempre in moto da Albisola a Stella, ogni suo atto, ogni sua parola tende all’ unico scopo della riconciliazione fra i due popoli. - 8 Settembre - Celebrandosi la festa della Natività di M. V., dopo il Vespro solenne predica a favore della pace con tale enfasi da commuovere vivamente il suo popolo. La sua azione, invece, si fa di mano in mano meno efficace a Stella, dove naturalmente gli nuoce la sua qualità di Commendatore della parrocchiale di San Nicolò d’Albisola. • 20 Settembre. — Per particolari interessi Ira una famiglia albisolese e altra di Stella scoppia un diverbio che presto degenera in rissa, nella quale un individuo della prima rimane ucciso. Fu questa la favilla da cui divampò un incendio. Oltre a cento Albisolesi impugnano le armi e corrono verso Stella. A poca distanza dal contine s’impegna una zuffa, in cui gli Albisolesi lasciano due morti e quattro feriti, quei di S cila un morto e otto feriti. La zuffa ha per conseguenza una serie di quotidiane ostilità. . 2} Settembre. - Mons. Borzero si affatica invano a rimettere la calma negli animi. Indice preghiere e penitenze pubbliche per implorare l’intercessione di N. S. . 4 Ottobre. - Alcuni Albisolesi proprietari di fondi nella giurisdizione di Stella essendosi recati colà per la vendemmia, vengono aggrediti da Stellesi appostati fra i cespugli della riva del Riabasco, rimanendone sette morti e tre feriti. La notizia solleva una tempesta nella popolazione d Albisola. • 7 Ottobre — Il Consiglio comunale di Albisola delibera di rivolgersi ai — 203 — Sindaci di Stella per chiedere die gli assassini vengano consegnati ai la Giustizia. 1482, 13 Ottobre. — I Sindad di Stella rifiutano la consegna e rispondono che il popolo darebbe all' uopo ragione del suo operato colle armi, lasciando «gli Albisolesi la scelta del luogo, del tempo e delle condizioni. » 13 Ottobre. — Radunato il Consiglio, la lettura della risposta dei Sindaci di Stella vi provoca una grande agitazione, per cui si rimanda la deliberazione ad altra tornata, che viene indetta pel 15. a 15 Ottobre — Il Consiglio delibera di rappresentare l'accaduto al Governo. Ciò non basta a calmare l’effervescenza del paese. » 16 Ottobre. — Di buon mattino un centinaio di Albisolesi assale colle armi alla mano la borgata di Gameragna, frazione della Comunità di Stella, uccidendo alcuni e ferendo altri dei suoi abitanti. Giunta a Stella la notizia del fatto, vien senz’ altro spedito un cartello di sfida al popolo di Albisola, che a sua volta l’accetta di buon grado, rimanendo fissato di comun consenso che il combattimento avrebbe luogo il mattino del 18, nel piano ove ora sorge il Santuario della Pace. » 17 Ottobre. — Gran fermento in ambi i paesi. Mons. Borzero col clero e le persone non atte alle armi raddoppiano le preghiere e gli atti di penitenza in pubblico e in privato. » 18 Ottobre. — Combattimento che ha per epilogo la pace fra i due popoli, attribuita a miracolo. » 19 Ottobre. — Grandi feste nelle due parrocchie per l’avvenuta conciliazione. » 21 Ottobre. — I Sindaci, autorizzati dai rispettivi Consigli, addivengono a pubblico atto di convegno in cui approvano ed accettano la decisione degli ultimi Commissari in ordine ai confini, cagione di tante violenze, c ne giurano l’osservanza. » 24 Ottobre. — Mons. Borzero pone solennemente la prima pietra della cappella votata il giorno stesso della pace. » rj Novembre. — Si sospendono i lavori di costruzione pel sopravvenire della stagione invernale. 1483, 15 Aprile. — Si riprendono i lavori e si dipinge nella cappella 1’imagine venerata sotto il titolo di N. S della Pace. » Giugno. — Ultimata la cappella, il Consiglio di Albisola delega uno dii suoi sacerdoti ad officiarla. 1485. — L’incolumità delle due borgate da un’epidemia serpeggiante nei paesi circonvicini vien riferita al patrocinio di N. S. della Pace. jjq0i _ Cresce la devozione e il concorso delle popolazioni al nuovo Oratorio : affluiscono elemosine e donativi, che si impiegano a decorarlo e a provvederlo di suppellettili. 1504, Marzo-Novembre. — Mena strage in Savona un contagio pestilenziale, i cui germi sono importati da due caracche piene di soldatesca francese re- — 204 — duce dalla infelice impresa di Napoli. Il timore che il morbo si propaghi io Albboia e a Stella moltiplica I’ affluenza dei devoti e le pratiche di de- vazione alla cappella della Pace. ,s,j. _ Graoae epidemia in Italia che molto si diffonde in Liguria e panico tormente in Savona, dove da Aprile a Settembre muoiono duemila persone. AIbbola e Stella danno complessivamente un tributo di 448 vittime, ma si Iscrive a peculiare intercessione di K. S. della Pace se il morbo non assunse maggiori proporzioni. naS. - Alla carestia che desolò l’agro savonese nel 1527 tien dietro la pestilenza in Genova e in gran parte delle Riviere. In tale circostanza la cappella della Pace è meta a molti pellegrinaggi e ad una processione di penitenza indetta dal Commendatore di S. Nicolò d A Ìbissola, e a cui prendono parte il clero e il popolo dei due paesi. ,>7? 3- Mano. — Essendo ripulluhte da qualche tempo nuove discordie fra i popoli di AIbbola e di Stella, i parroci dei due luoghi indicono una processione generale al monumento votivo della pace sancita dai loro padri. » 27 Mano. — U fermento che poteva scoppiare in un grave conflitto si risolve in un amichevole componimento: vien riferita a N. S. della Pace l'insperata risoluzione della vertenza . - Aprile. - Il Consiglio di Albisola delibera che ogni anno nel giorno della Annunciata l'Oratorio della parrocchia si rechi processionai mente alla pace jacendo quivi un offerta in cera. IS7» 12 Gennaio. — Nel Consiglio stesso si riconosce l’opportunità di dare «n-’ cremento al culto di N. S della Pace Sono divisi però i pareri, propugnando alcuni l’ ampliazione della primitiva cappella, altri, invece, la tabbnea d’ una chiesa annessa alla cappella stessa. . 2i Febbraio - Si delibera la fabbrica d’una chiesa e che questa abbia luogo di auc ter itati Apostolico. • 7 Marzo. — Il Parroco di Albisola, allegando dei diritti ecclesiastici sulla cappella, cui riteneva soggetta alla sua giurisdizione come Oratorio campestre e il Vescovo di Savona sostenendo le ragioni del Parroco, il Consiglio li rivolge al Papa Gregorio XIII, chiedendogli il giuspatronato perpetuo cori sulla cappella come sulla chiesa e fabbriche da costruirsi. . „ Aprile. - Sua Santità, con Breve al Vescovo di Savona Ambrogio Feschi, concede il chiesto giuspatronato. . Maggia - Prima che il Breve pontificio abbia esecuzione, il Prevosto d AIbbola muove lite al Comune in base ai pretesi suoi dritti sulla cappella. Mons. Vicario Generale di Savona pronuncia sentenza favorevole al Parroco. M76, 7 Agosto. - H Governo della Repubblica approva che la progettata fabbrica si eseguisca a spese del Comune di Albisola. , 22 Agosto. — Il Governo stesso accorda che la Comunità possa erogare in detta fabbrica Y aumento di una lira per mille sull imposta fondiaria in — 205 — base al catasto, nonché lire annue seicento da desumersi sulle contribuzioni indirette, o dazi comunali, per anni trenti ; il die importa un totale di lire sessantaseimila. Accorda pure al Consiglio la facoltà di eleggere nel proprio seno due deputati coll'incarico di raccogliere elemosine e oblazioni. 1578. — Si dà principio alla costruzione della chiesa. Le elemosine nei due anni ammontano alla somma di L 9400. 1579. — Causa la peste che infierisce in Liguria, poche sono le oblazioni, e la fabbrica della chiesa rimane sospesa. 1581, 15 Maggio. — Fra percezioni annuali ed oblazioni, trovandosi in cassa lire sedicimila ottocento cinquanta, si pon mano alla costruzione di un fabbricato per l’abitazione di tre cappellani. 1584, 30 Giugno. — Compimento di detto fabbricato. » 24 Dicembre. — Tre cappellani prendono alloggio nel medesimo. 1585, 1 Aprile. — Si riprende la fabbrica della chiesa, trovandosi disponibili lire ventiduemila. ij88, 13 Giugno. — Con decreto emanato in occasione di sua visita, mons. Pier Francesco Costa, Vescovo di Savona, riforma la sentenza del Vicario Generale, favorevole al Prevosto, riconoscendo al Comune il pieno giuspatronato sulla cappella e fabbriche unite, sottole seguenti condizioni: i.° si paghino al Parroco di S. Nicolò annui scudi sei da lire quatt-o, da desumersi dagli introiti della cappella; 2.° due volte soltanto la settimana, oltre ai giorni festivi — eccettuati fra questi i sei più solenni — i cappellani prò tempore possano celebrar messa alla Pace. Il Consiglio non ta opposizione alla sentenza del Vescovo, proponendosi, a scanso di noie ulteriori, di chiamare ad officiare il Santuario un Ordine regolare, il che toglierebbe cosi alla Curia vescovile come alla Parrocchia la giurisdizione che pretendevano esercitare sulla Pace. 1604, 4 Dicembre. — Legato di Gio. Grosso q. Bartolomeo a favore della cappella. 1609, 12 Maggio. — Il Comune cede chiesa e convento, con riserva dei dritti di patronato e di reversione, ai PP. Scalzi di S. Francesco, detti del Monte Calvario. La cappella rimane sotto 1’ amministrazione di Sindaci deputati dal Consiglio. 1614. — Damiano Piccone di Gameragna lega lire quattrocento per la fabbrica del convento. » — Per far fronte alle spese di detta fabbrica si vendono alcuni pezzi di terra con una piccola casa spettanti alla Chiesa. 1614-26. — Si costruisce il dormitorio da ponente a levante, con nove camere, sotto le quali il refettorio, la cucina e diverse stanze pel servizio della medesima, gettando inoltre le fondamenta di altro dormitorio da tramontana a mezzodì. 1626, 6 Febbraio. — Breve apostolico di Urbano Vili che decreta la soppressione della Riforma dei Conventuali Scalzi di Montecalvario. — 206 — jb.it», i5 Ottobre. — I soppressi Conventuali riconsegnano chiesa e convento al Comune. Questa delega alla cura del Santuario due preti con titolo di Cappellani- tea;, 19 Giugno. — In seguito a trattative di carattere privato, il Consiglio olire il Santuario ai PP. Agostiniani Scalzi del convento di S. Nicolò da Tolentino in Genova. 1627, 13 Luglio. — Il Provinciale ringrazia e risponde che a convenienti condizioni di buon grado accetterebbe 1' offerta. • \ Settembre. — Nella seduta del Consiglio Grande, su proposta del Vicario del Godesti, li delibera ad unanimità di voti di accordare il Santuario ai suddetti PP., incaricando il Minor Consiglio degli atti occorrenti. 1628, 5 Febbraio — Atto di cessione ai PP. Agostiniani Scalzi della cura, governo e amministrazione della chiesa e del convento della Pace cogli annessi immobili, mobili, dritti e ragioni, salvo i giuri del patronato e della reversione. » Maggio. — Alla partenza dei Francescani essendo rimasti incompiuti alcuni lavori nel convento, la Comunità li fa eseguire a sue spese. » 9 Luglio. — Immessione in possesso dei PP. Agostiniani Scalzi. • 20 Luglio — Mons. Francesco Maria Spinola, Vescovo di Savona, offeso perchè l’immessione in possesso si tosse compiuta senza neppure un atto di ossequio alla sua autorità da parte dei nuovi occupanti, spedisce alla Pace il suo Vicario col Cancelliere, accompagnati da un famiglio e due Curiali, ad intimare agli Agostiniani tutte le pene, censure e scomun che di cui son passibili gli usurpatori dei beni ecclesiastici, oltre all’ interdetto alla chiesa e alla cappella • jo Agosto. — Per l’intromessione e i buoni uffici di molte famiglie nobili genovesi, e dietro suppliche dei PP. della Pace e della Comunità di Albisola , il Vescovo s’induce finalmente a ritirare l’interdetto e ad emettere sentenza in cui si autorizza e riconosce la cessione del Santuario agli Agostiniani, però sotto diverse condizioni, alcune delle quali lesive in parte del giuspatronato del Comune. » Novembre. — Gli Ordini Mendicanti stanziati in Savona si oppongono, in base a detto decreto vescovile , a che i PP. della Pace possano recarsi a questuare in città. Dopo vivi dibattiti, la vertenza è appianata a favore di questi ultimi. 1629. — Il Comune riesce a troncare ogni differenza col Prevosto di S. Nicolò, al quale, in correspettivo degli scudi sei che gli si pagavano annualmente in base alla sentenza pronunciata da mons. Pier Francesco Costa in data i) Giugno tj88, e dietro rinuncia d’ogni pretesa sulla chiesa della Pace, viene assegnato un fondo detto Montegrosso in quel d' Ellera. 0 4 Novembre. — I PP. chiedono e ottengono dal Comune il permesso di cambiar 1* andamento della strada pubblica che dalla piazza della chiesa menava ad Albisola. — 207 — 11*50, 22 Febbraio — Decreto con cui il Magistrato delle Comunità in Genova approva la progettata variazione » Vendita di alcuni pezii di terreno per sopperire alle spese. 1631, Settembre. — Compra di un fondo dal cap. Paolo Grosso per la somma di L. 830. 1632. — Compra di altro fondo attiguo da Battistina Grosso ved.‘ Bartolomeo per la somma di L. 700. » 1 Luglio. — Visita formale passata alla chiesa e al convento da mons Francesco Maria Spinola, Vescovo di Savona, in base al gius spettante all’Ordinario di visitare i conventi della Diocesi che avessero meno di dodici claustrali, a - Pittura della s. cappella. « — Si dà principio alla progettata variazione della strada, trasportando questa lungo la riva destra del torrente, che si argina di massiccie mura per un tratto di 450 passi fino alla clausura. Si innalzano muraglie pei circoscrivere e proteggere la villa. xfejj. _ Costruzione d’una peschiera nella villa per raccogliervi le acque del ritano a ponente. Collocazione di tubi di piombo sotterranei per portare 1’ acqua di detta peschiera in cucina. 1634. — Si lavora una cisterna alimentata per mezzo di canali sotterranei dal 1’ oradetta peschiera, e dalle acque piovane defluenti dai tetti dal convento. j6j6. — La S. Congregazione dei Riti concede la recita dell'ufficio e la celebrazione della messa di N. S della Pace, ut ad Nives, il 18 di Ottobre. „ _ Si alzano le mura d’un nuovo dormitorio da tramontana a mezzodì sulle fondamenta già state portate fuori terra dai Francescani Scalzi. 1637. — Sosta nei lavori. 1638. — Ripresa dei lavori. 16^. _ Si copre il tetto della nuova fabbrica. 1640-4 j. — Prosecuzione, all’interno, della stessa. j5^2. — Nelle convenzioni passate fra il Comune e i PP. Agostiniani nel 1628, essendosi questi ultimi assunti l'obbligo di provvedere due predicatori per la Quaresima e l’Avvento, si fa causa nanti il Magistrato delle Comunità in Genova circa alla corresponsione di L. 50, più il vitto, allora convenuta per tale servizio, la quale ai PP. sembra inadeguata e il Consiglio vuol mantenuta come per 1’ addietro. 1643, '7 Aprile. — Il Magistrato delle Comunità sentenzia in favore degli Agostiniani. 1644. — Costruzione del coro. 1647-63 _ Si prosegue fino al compimento la fabbrica della clausura. _ Lavori di decorazione alla chiesa. Esecuzione del dipinto del soffitto. — Si sgombrano le pareti della chiesa dai voti e dalle tavolette dipinte ond’ erano ricoperte, fondendo i primi e abbruciando le seconde, ciò che, secondo il cronista, è causa di diminuzione nella devozione e nelle elemosine. — 208 — 1652. - Si lavorano i confessionali incavati nel muro. » _ Erezione delle mura del giardino e sulla piazza. j6-7. _ Si costruisce 1’archivolto di comunicazione fra il piazzale a mezzogiorno e quello a levante, ornandolo di sedili in pietra. a _ Decorazione di pittura a fresco nella porteria. jg.g. — Costruzione del portone in fondo al viale della villa. 1661 28 Ottobre. - Muore di anni 87 in concetto di santità, fra Stefano da ’s Andrea, Terziario, che per la considerazione di cui godeva (il cronista lo designa come dotato del dono di profezia), procurò molti benefizi ed elagizioni al convento della Pace, come pure a quello di S. Nicolò in Genova. l667. — Acquisto di tele rappresentanti episodi della vita di S. Agostino e S. Nicolò, delle quali alcune soltanto rimangono oggidì. j57I __ Costruzione del corridoio che dai dormitori mette 111 chiesa. i672 _ Proseguimento della fabbrica della muraglia lunghesso il tratto di strada ’ che dal cosidetto passo di Gameragna porta al piazzale della chiesa. l6?, _ Affreschi condotti dal p. Marino sotto il loggiato della villa. j67’5. - Si amplia il dormitorio vecchio raddoppiandone le camere dalla parte del giardino. 1676> _ Costruzione delle officine e di altri ambienti. j 681- _ Esecuzione del pavimento nella sacrestia. * -Si cambiano il refettorio e la cucina, trasportando 1’ uno e 1’ altra sotto il nuovo braccio del convento da tramontana a mezzogiorno. j682. — Fabbrica di una nuova dispensa. jgg,t _Fabbrica del pilastro per la cosiderta cicogna alla cisterna o pozzo in giardino. 1685. — La Comunità stanzia una somma pel restauro dei tetti. 1686 - Si alza il tetto della sacrestia e si lavorano i siti ad essa sovrastanti. j687. — Restauro dei tetti del convento vecchio. j688. — Rifacimento ex novo degli stessi. 1689. — Costruzione del tetto sopra la dispensa. , — Si alza sulla piazza la muraglia che serve di argine al Riabasco. 1691. - Si incava nella cappella laterale, ora a destra, la cosidetta camera del Sepolcro, destinata a servir di scena al Sepolcro nella settimana santa. j696. — Restauro del tetto del convento dietro la chiesa, col sussidio del Comune. » — Erezione del muro di clausura in fondo alla villa. 1698. — Si rinnova il quadro di S. Nicolò nella cappella ora a destra, con altro fatto venire da Roma. » — Si inquadra in cornice dorata l’Annunciata del Paggi dietro l’Aitar maggiore. _ Si dà compimento al vólto delle otto camere del dormitorio nel convento nuovo. — 209 — 17°i - — Si dà P ultima mano al dormitorio, clic si pavimenta in pietra di Lavagna. 1703. — Si dà principio al muro del Riabasco. 1704 Assume il priorato P. Salvatore da S. Francesco di Sales, ex Provinciale, che attiva a sue spese molti lavori. » — Si prosegue la costruzione del muro d’ arginamento. » — Il Riabasco rompe il muro della clausura e devasta la villa » — Restauro di detta muraglia, e costruzione di altro tratto d’ argine. 1706. — Costruzione del condotto per P acqua nella villa. 1706-13. — Costruzione del muro che circoscrive il bosco. » — Fondazione della Biblioteca. 1714-21. — Dimora nel convento del conte Valperga di Caluso. 1716, 22 Ottobre. — Consecrazione della chiesa per opera di mons. Marco Giacinto Gandolfi, Vescovo di Noli. 1721. — Affluiscono alla chiesa ricchi doni consistenti in apparati a tessuti d’oro, d’argento e di seta, tre calici, un ostensorio, un crocifisso grande e due minori, croce, brocca, due catini, secchiello con aspersorio e diversi reliquiari, il tutto in argento fino. » — Collocazione del paravento alla porta maggiore della chiesa. 1722. — Costruzione del pozzo nell’orto. 1725, 20 Settembre. — Il prefato mons. Gandolfi tiene ordinazione nella chiesa. jì — Si chiudono in muratura le arcate del chiostro. 1726, — Pavimento nuovo nel chiostro. 1727, 6 Maggio. — Morte del prelodato P. Salvatore, che istituisce nel suo testamento parecchi legati a favore del convento. 1728, 3 Luglio. — La S. Congregazione dei Riti accorda che la festa di N. S. della Pace si celebri ogni anno in giorno non feriale, cioè la Domenica successiva al 18 di Ottobre. 1734. — Locazione ad triennium della villa. » 3 Novembre. — Si dà principio alla muraglia che divide 1’ orto dalla villa, al quale effetto i PP. contraggono un mutuo. 1740. — Istituzione nella chiesa della Compagnia di N. S. della Cintura, aggregata a quella di Bologna. 1742. — Si fa eseguire a Genova una cassa colla statua in legno policroma di N. S. della Cintura, e si trasporta con pompa al santuario. La nuova devozione desta molto entusiasmo, ed è argomento a processioni e ad altre solennità religiose, ma in pari tempo anche a dimostrazioni contrarie per parte di coloro che vedono di mal occhio l’importazione d’un culto che ha P aria di voler sostituirsi all’ antico. ,7^. _ In mezzo alla chiesa si murano quattro sepolture, ricoperte da lapidi inscritte, per i confratelli e consorelle della Compagnia. ry4/j_ _ Costruzione della scala interna clic dalla sala porta alla legnaia adiacente alla cucina. Atti Soc. Lig. St. Patria. — Documenti e studi. f ,. — 210 — 1744. _ Acquisto dì ricche suppellettili per la chiesa, fra cui due calici e un ostensorio in argento. » — Si pon mano alla lavorazione d’ un armadio per la custodia degli argenti. 1745. — Facendosi più vivi i contrasti, si aliena la cassa di N. S. della Cintura. 1746. — Riattamento dei tetti del convento verso la piazza e di quello della casa del colono. Sistemazione e nuovo assetto del piazzale dinanzi alla porta maggiore della chiesa, il tutto mediante concorso del Comune. 1747. — Piantagione di alberi di gelso lungo il tratto dall àbside della chiesa fino al termine della clausura. » — Si riattano 182 palmi del muro di cinta dal portone della villa alla nicchia della Madonnina d’ angolo. » Giugno. — Discesa dall’ Appennino delle truppe Austro-Sarde dirette a combattere le Gallo-ispane. Un reparto di Austriaci prende stanza in convento e ne fa scempio. » 20 Settembre. — Un nubifragio si scatena sulla valle del Riabasco producendovi inauditi danni. Le acque del torrente alzate a più di trenta palmi sormontano le mura d’ argine e di cinta, abbattono i ripari, invadono chiesa e convento, travolgono ogni cosa nella villa, e coprono di ghiaia i campi. Dopo tre giorni dal diluvio di San Matteo, appena è se si giunge a riaprire un sentiero di comunicazione fra i paesi di montagna e quelli della marina. I749. _ Si lavora incessantemente e con grave dispendio a riparare 1 danni. . » Luglio. — Le truppe Austro-sarde abbandonano il territorio ligure. 1752. — Riparazioni alla chiesa e più particolarmente al pavimento. _ Acquisto in Genova di un apparato di fiori e di sei candelabri per 1’ aitar maggiore. Acquisto di due paliotti e di due pianete festive, con corredo di camici, tovaglie da mensa, corporali e purificatori. 1754, — Restauro dei tetti della chiesa, e di quelli del convento verso il giardino. 5. — Acquisto in Genova di apparati di fiori e di candelabri, per 1 altare di N. S. e per i due superiori della chiesa. 1756, Febbraio. — Acquisto in Genova di un paramento da messa di raso bianco lavorato a fiorami d’ oro e di seta, di un paliotto violaceo decorato di pizzo d’ oro, di camici, cotte e altre telerie, come pure d’ un secchiello e d’ un aspersorio in argento. 1758. Luglio. — Mons. Ottavio De Mari, vescovo di Savona, si trattiene per otto giorni al Santuario, dove consacra le due nuove campane della parrocchiale di S. Martino della Stella, provenienti da Genova, e amministra la cresima ai fanciulli delle due Albisole, di Ellera e delle quattro parrocchie di Stella. 1759. _ Restauri ai canali di piombo che menano 1 acqua dalla peschiera in cucina e nella cisterna dell’ orto, e cosi pure a quelli dei tetti. 1760. — Decorazioni in stucco alla cappella di S. Nicolò eseguite dai fratelli Porta, Milanesi. — 211 — 1762. — Riparazioni al pavimento-delle chiesa. 1763. — Rinnovamento in parte e restauro dei condotti d’acqua nella villa. 1764. — Restauro dei tetti del corridoio fra dormitori e chiesa e delle camere sovrastanti alla sacrestia. 1765. 13 Febbraio. — Locazione della villa per nove anni. » — Elezione a Doge della Serenissima dell’ ili ’"° Frane. Maria della Rovere gran patrono del Santuario. ^67. _ id. id. dell’ ill.mo Marcello Dimazzo altro gran patrono del Santuario. » 7 Febbraio. — Alle ore tre prima del giorno, forte scossa di terremoto, che si ripete, sebbene con minore intensità per più giorni. Grande affluenza di devoti alla Pace. Xy68. — Decorazioni in marmi e acquisto di suppellettile alla s. cappella a cura e spese del p. Giuseppe Vittorio Castiglioni da Novi. 1769, 28 Aprile. — Nuovo soggiorno al Santuario per giorni sette di mons. Ottavio De Mari, amministrando la Cresima ai fanciulli delle parrocchie circonvicine. [774. _ Quadro del Crocefisso attribuito al Van Dyck, donato alla chiesa dalla sig. Maria Geronima Scassi in Poggi. 1778. — L’ill."* sig. Caterina Negrone, vedova dell’ex Doge Fr. M. della Rovere, arreda la s. cappella di panche di noce e la chiesa di tendinaggi a tutte le finestre, e di un baldacchino in damasco rosso pendente dal soffitto sovresso il ciborio. ,782. — Rinnovazione, col concorso del Comune, dei tetti maggiori della chiesa, del convento e della casa colonica. !785. _ Altra locazione del fondo. Dono, da parte della prefata sig. Caterina Negrone, di un Ternario, con piviale, paliotto, tenda da coro, baldacchino, il tutto in stoffa guarnita di merletto d’oro finissimo. Id. id. di una continenza di raso bianco ricamata a fiorami di seta e d’ oro, nonché di un ricco corredo di suppellettile in teleria d’ Olanda guarnita di merletti d’Inghilterra. 1786, 12 Ottobre. — Altri doni della munifica sig. Negrone, fra cui tre seggioloni in velluto per messe cantate, un calice d’ argento con ricco messale e molte telerie. La medesima fa ridurre alla francese le finestre della Biblioteca. _ Grande incendio in convento, causa la spensieratezza d’ un frate laico. Si riparano i danni col concorso del Comune e di parecchie famiglie nobili. 1788 21 Febbraio. — Ignoto ladro, rotto il cristallo che difende la S. Effigie, rapisce i gioielli, le corone, i monili ond’ era adorna, come pure gli ex voto che ne fiancheggiavano la nicchia, alcuni dei quali di molto valore. j _ Morte del p. Marino distinto poliglotta e autore di alcuni scritti in greco c in ebraico. — 212 — 17S9. — Confezione della inferriata alla s. cappella e di un apparato da altare decorato d’intagli, specchi e fiori, il tutto a spese del prefato P. Giuseppe Vittorio. » — Riparazioni alle finestre del coro, e di alcune camere del dormitorio antico, ai pavimenti del nuovo, della Biblioteca e della cosidetta Comunità. 1790, Maggio. — Dirottissime pioggie che recano gravi danni specialmente alla strada. „ _ Morte della ili.”* sig. Caterina Negrone vedova Della Rovere. 1793. — Nuova locazione della villa. 1794. — Un religioso del convento e 1’ avv. Gio. Bernardo Poggi compilano un Officium proprium per la festività di N. S. della Pace, che viene approvato dalla S. Congregazione dei Riti. Questa incardina tale festività alla domenica dopo il 18 di Ottobre. 1797, 22 Maggio. — Scoppio della rivoluzione che abbatte il Governo della Serenissima. Si pianta anche in Albisola 1 albero della Libertà. „ _ D’ordine del Governo Provvisorio si procede all’ inventario generale degli ori, argenti e altri oggetti preziosi della suppellettile sacra. 1795. — Il Governo Democratico Ligure decreta il sequestro della sacra suppellettile, e il Commissario cittadino Domenico Silvano spoglia della miglior parte dei suoi arredi anche il Santuario della Pace. 1799. — n Governo decreta la soppressione graduale degli Ordini religiosi, e la presa in possesso dei fondi di cui fruivano. I diversi fondi di proprietà del Santuario della Pace vanno all’ asta pubblica, e parecchi di essi sono venduti. Approfittando della facoltà accordata loro dalla nuova legge, molti frati abbandonano i conventi e si ritirano a vita privata. I conventi, non potendo rimpiazzare le perdite con nuove vestizioni, vanno di mano in mano spopolandosi. 1799, 25 Novembre — 1800, 20 Aprile. — Acquartieramento in convento di una Compagnia di fanteria francese che vi commette ogni sorta di guasti. 1805, 20 Giugno. — Il personale officiante del Santuario trovandosi ridotto al solo Priore, p. Gian Domenico Farina, questi declina 1’ officiatura e rilascia al Consiglio comunale di Albisola chiesa, convento e villa. » 22 Giugno. — Compilato l’inventario, due deputati del Comune ricevono la consegna dei mobili ed immobili. » 28 Giugno. — Il Consiglio delibera di concedere la custodia e 1’ amministrazione del Santuario al P. Emanuele da Sassello, dei Minori Osservanti Riformati di S. Francesco, il quale si impegna di chiamare in suo aiuto per 1’ officiatura del medesimo alcuni Religiosi della Riforma da lui professata. 1810, 15 Ottobre. — Il Governo francese, a cui era stato aggregato il Ligure, abolisce gli Ordini claustrali. I custodì della Pace sono perciò costretti a vestire abito clericale, ma rimangono tuttavia ad officiare il Santuario. 1820. — Abolizione delle leggi restrittive. Il convento della Pace si rifornisce di personale e di mezzi. 1824, 30 Settembre. — Convenzione fra il Comune di Albisola Supcriore e i PP. Minori Riformati in ordine alla custodia ed ufficiatura del Santuario. 1824 e segg. — Si dà opera al restauro e all’incremento della chiesa e del convento da tanti anni negletti. 1837. — Muore alla Pace il P. Emanuele da Sassello. [841. — Costruzione dell’organo, commesso ai fratelli Agati di Pistoia. 1845, 23 Maggio. — Trasporto della S. Effigie dalla cripta, invasa dall’umidità, nella cappella superiore convenientemente decorata. 185:1. — Pitture del Bozano nella cappella sovrastante alla cripta. 1852, 1 Maggio. — Solenne incoronazione della S. Imagine per mano di monsignor Alessandro Riccardi di Netro, Vescovo di Savona. ^70. — Una parte del convento essendo stata affittata al Convitto vescovile di Savona, ad uso di villeggiatura, vien costrutto un terzo dormitorio da levante a ponente. 1875, Ottobre. — Nomina di una Commissione Municipale per studiare, di concerto col p. Guardiano della Pace, i mezzi più opportuni a preparare la celebrazione del IV centenario di N. S. !879. — Dovendosi demolire l’abside della chiesa pel decretato allargamento della strada provinciale, la Commissione delibera di voltar la chiesa riducendo a presbiterio cupolato la prima campata dell’ edifìcio, girando la nuova abside sul piazzale dell’ antica facciata e facendo fronte dov’ era il coro, sulla via provinciale. » — Si dà principio ai lavori di demolizione e decorazione. » 2 Settembre. — Trasferimento della S. Effigie, dalla cappella ove era stata collocata nel 1845, sull’aitar maggiore, d’onde vien tolta la statua marmorea e trasportata nella cappella primitiva o cripta. » 16 Ottobre. — Consecrazione dell’altare maggiore per opera di mons. Gius. Boraggini, Vescovo di Savona. 1881, 14-21 Agosto. Celebrazione del IV centenario di N. S. della Pace, coll’intervento dei Vescovi di Savona, di Albenga e di Ventimiglia. 1882-85. — Vertenze fra il Comune di Albisola Superiore e i PP. Minori Osservanti Riformati custodi d.:l Santuario. 1883, 23 Maggio. — Il Municipio affitta per 18 anni la villa al migliore offerente. 1883, 7 Novembre. — I PP. MM. RR. di S. Francesco lasciano il Santuario. 1884, Gennaio. — Il Santuario col convento e villa vien concesso al sacerdote cav. D. Giovanni Cocchi di Druent, fondatore del Collegio degli Artigianelli di Torino ed ex Direttore del collegio di Bosco Marengo, il quale si — 214 — obbliga di rilevare il concessionario della villa, di provvedere all officiatura del Santuario e di impiantare nel locale del convento un Collegio agricolo, i. — Convenzione fra il Comizio Agrario di Savona, il Municipio di Albisola Superiore e il Direttore del Collegio Agricolo allo scopo di provvedere allo incremento di detto Istituto, e all’impianto di un Orto Sperimentale nella villa annessa. 1-92. — Erezione del campanile dietro l’abside della chiesa per cura del Direttore in 2.0 del Convitto agricolo, D. Giuseppe Gunetti. INDICE / II Codice Greco Saniimo di S. Atanasio, scoperto ed illustralo dal socio Girolamo Berlolotto....... Il trattato sull’Astrolabio di Andalò Di Negro, riprodotto dall’edizione ferrarese del 1475, con prefazione del socio Girolamo Bertolotto............ Una Barzelletta intorno agli avvenimenti del MDXXV1I, per cura del socio Achille Neri........ Il Santuario della Pace in Albisola superiore, per il socio Vittorio Poggi.............. Pag. 7 » 49 » 14; » 163 INDICE DELLE MATERIE CONTENUTE IN QUESTO VOLUME Bertolotto, II Codice Greco Sauliano di S. Atanasio......Pag- » Il trattato sull’Astrolabio di Andalò Di Negro, riprodotto dall’edizione ferrarese del 1475........" Neri, Una Barzelletta intorno agli avvenimenti del MDXXVII ...» Poggi, Il Santuario della Pace in Albisola superiore • I —Il _*