ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Volume LXXIII ONORATO PASTINE GENOVA E L’IMPERO OTTOMANO NEL SECOLO XVII GENOVA - M C M L 11 «ELLA SEX>r DELua società ligure di storia patria - palazzo rosso ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Volume LXXIII ONORATO PÀSTINE GENOVA E L’IMPERO OTTOMANO NEL SECOLO XVII GENOVA - MCMLII NELLA StOC DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA - PALAZZO ROSSO b CAPITOLO I IL RIALLACCIAMENTO DEI TRAFFICI CON L' ORIENTE 1. • Aspirazioni verso l'oriente: rapporti e tentativi di accordi coll'impero ottomano (1528-1648). — 2. - Le fallaci speranze nella Francia (1654-61). — 3. - La missione di Gio Agostino Durazzo a Costantinopoli e il conseguimento dei privilegi commerciali (1665-66). 1. — L’atto di vigorosa sagacia compiuto da Andrea D’Oria nel 1528 con il suo passaggio da Francia a Spagna, assumeva decisivo valore non solo per le sorti della Repubblica di Genova, che di qui iniziava l’ultimo quasi trisecolare periodo della sua storia, ma per lo stesso problema della complessa politica europea (1). Tale atto, alterante l’equilibrio del Mediterraneo occidentale, accentuava l’accostamento delle forze di resistenza e di urto della Francia con quelle espansionistiche che dal levante ottomano si protendevano verso occidente, facendo breccia nelle insanabili competizioni degli stati cristiani. Genova, prendendo il suo posto accanto alla Spagna — avvenimento logico ed inevitabile — veniva coinvolta nella lotta di egemonia tra le due corone e perciò anche in quella contro il Turco. Col quale, del resto, dopo la caduta di Costantinopoli, essa non aveva più avuto contatti amichevoli, assistendo impotente al successivo aggiogamento delle sue belle colonie, delle quali ultima superstite rimaneva Chio, essa stessa per altro avulsa dalla vita della Repubblica. Rispetto al mondo ottomano, erano in gioco interessi prevalentemente economici, in quanto le aspirazioni ad un rinnovamento dei traffici levantini, Genova mai aveva abbandonate. L’ambiguità di A. D’Oria nella condotta della guerra contro i Turchi durante questo periodo — prova di accortezza politica e abile mezzo di difesa della patria dalle tremende depredazioni mussulmane — si potrebbe dire, in un certo senso, anche indice delle suddette aspirazioni. Sta di fatto che, durando sempre la guerra, e mentre Enrico II già negoziava la pace con Filippo II all’insaputa dell’alleato, la Repubblica, dopo l’invio a Costantinopoli di Francesco de Franchi (detto Tortolino) nel 1556, mediante la missione da questo stesso condotta nel 1558 con l’ambasciatore Giovanni de Franchi e il bailo Nicolò Grillo, cercava di allacciare ufficiai- (1) Giuseppe Oreste, Genova e Andrea Doria nella fase critica del conflitto franco^asburgico, in «Atti della Soc. Lig. St. Patr.», vol. LXXII, fase. III. - 6 - mente relazioni commerciali con il Gran Signore. E già il trattato pareva concluso, quando ne fu impedita l’applicazione dall’intervento dell’ambasciatore francese De La Vigne, recisamente ostile. Fu osservato che l’opposizione della Francia, essendo imminente ormai la conclusione della pace, non poteva avere che una ragione essenzialmente economica. In verità, però, la forma nella quale l’ambasciatore esprimeva a Rostan Bassà l’ostilità del suo sovrano, andava al di là di una siffatta ragione. Non solo, diceva il Francese, il mio re non vuole far pace con i Genovesi, « ma li vuole tutti per morti et fare a suo potere, che non si conosca più dove sia stata quella città » (2). Nella politica estera della Francia sempre rimasero, infatti, sino all’occupazione del 1805, le mire dominatrici su Genova, porta d’Italia; mire che il Cristianissimo coonestava con le presunte rivendicazioni di sovranità sulla città « ribelle ». Tuttavia, per quanto si riferisce in particolare ai rapporti col Mediterraneo orientale, si può ben dire che il secolare contrasto francese avesse un diretto fondamento sugli interessi commerciali della Provenza e specie di Marsiglia. In realtà, il fallimento delle sopra accennate trattative del 1558 non distrusse le speranze della Repubblica verso l’oriente. Senonchè, dopo la pace di Cateau Cambrésis (1559), prima l’occupazione diretta di Chio per le armi dei Turchi (1566) e la battaglia di Lepanto (1571); poi le lotte civili del 1575 e il successivo assestamento interno rendono impossibili tentativi di nuovi approcci da parte della Repubblica. Mentre assente è la Francia, sommersa dalle guerre di religione, Venezia, abbandonata dalle potenze cattoliche, è indotta a stringere con Costantinopoli la pace del 1573 per salvare almeno in parte i suoi traffici; e l’Inghilterra di Elisabetta approfitta della situazione per conseguire dal sultano i capitoli del 1574. In seguito, la Francia rappacificata riprenderà con Enrico IV il suo posto in levante (capitolazioni rinnovate per la quinta volta nel 1604), e privilegi pure otterrà l’Olanda, appena uscita dalla lotta vittoriosa con la Spagna (1612). Per Genova i tempi non sono ancora maturi. Insidie e trame, in cui s’insinua anche il veleno d’oltralpe, come, dopo il tentativo del Coronato, quelle del Vassallo (1602), di Claudio e Vincenzo de Marini (1625); la guerra franco-savoina del 1625; la cospirazione del Vacchero (1628), impediscono al Governo genovese di rivolgere altrove le sue cure. Ma, sventata la congiura del ’28, e specialmente dopo la laboriosa definizione della pace con Savoia (1634), incomincia per la Repubblica un nuovo periodo di vitalità, con cui coincide una più recisa e volitiva affermazione di indipendenza. Appunto col 1634 si determina un fatto nuovo nella politica della Repubblica, che stupì anche i contemporanei: un allentamento cioè dei vincoli che la legavano alla Spagna e quindi un certo accostamento alla Francia; il che, per vero, non voleva essere altro che un chiudersi nei limiti di una più o meno imparziale neutralità. In questo clima della politica genovese, era naturale che più sentito si facesse il problema del traffico orientale. Non già che nel periodo quasi secolare seguito allo sfortunato tentativo del 1558 fossero cessati i rapporti, essenzialmente economici, col levante. A prescindere dagli atti notarili che (2) C. Manfroni, Le relazioni fra Genova, l’impero bizantino e i Turchi, in «Atti S.L.S.P.», vol. XXVIII, fase. III. - Cfr. docum. XXI, p. 854. • Le aspirazioni di Genova verso l’oriente possono dare in parte ragione anche deH’impaesibilità della Repubblica di fronte alla efferata sottomissione di Chio per opera dei Turchi. riallacciano siffatta attività a Costantinopoli, a Smirne, a Chio, ci è pervenuta una numerosa corrispondenza segreta con agenti di Costantinopoli, prolun-gantesi fino al 1578. Particolarmente copiosa è quella con l’agente Battista Ferraro, come era nominato Aurelio Santacroce, il quale è detto « nostro commesso » da due rinnegati, personaggi autorevoli alla Porta e propensi a secondare le aspirazioni della madre patria, i quali, scrivendo al Governo della Repubblica, amavano firmarsi « li fedeli servi Morat Agà e Mostafà Rais genovesi » (3). A Chio, anche nei primi decenni del seicento, Genova aveva un suo console. Come tale, Pietro Giustiniano avvertiva nel 1608 della minacciata spedizione di una flotta mussulmana destinata a corseggiare la riviera e la Corsica. Nel febbraio del 1610, poi, avuta conoscenza della concessione del portofranco (4), lo stesso Giustiniano scriveva di averne sùbito procurata la pubblicazione in tutte le chiese, nel giorno di domenica, dandone pure avviso ai negozianti sulle piazze ed in altri luoghi. Inoltre aveva provveduto che anche a Smirne ne fossero informati i mercanti della città, mentre non tralasciava di propagarne la notizia (20 febbraio 1610). L’annuncio, infine, ricevuto da detto console dell’arrivo a Costantinopoli, nel 1612, di ambasciatori delle Fiandre per maneggiare quel trattato di libero commercio, che, non ostante le opposizioni di Francesi, Inglesi e Veneziani, venne di fatto concluso nello stesso anno, dovette risuonare come un nuovo stimolo per i Ser.mi Signori a procacciarsi essi pure l’ambito privilegio. (5) , Narra certo padre servita, Giulio da Treviso, in una sua supplica del 1655 con cui offriva i suoi servigi alla Repubblica, come, trovandosi egli a Costantinopoli «or sono 25 anni», aveva avuto «notizia che si trattava a quella eccelsa Porta di aprir il commercio di levante a guisa che è aperto a tante altre famose nationi christiane anco per l’inclita Nazione Genovese; et so — aggiungeva — che se non fossero state le valide opposizioni de Francesi e Veneziani, che in quei tempi potevano il tutto, sarebbe senza dubbio riuscito il negozio » ( 6). (3) Archivio di Stato ih Genova, Lettere Ministri Costantinopoli, 1/2169 e 2/2170. - I rinnegati parlano appunto del « M. Aurelio S.ta Croce nominato B.ta Feraro nostro comesso generale» nella lettera 28 marzo 1565. Il Manfroni (op. cit., p. 782) dice invece che si indirizzavano le lettere al Ferraro con la soprascritta Aurelio Santacroce veneziano. (4) II portofranco venne istituito nel 1595 per dieci anni con legge in seguito prorogata ed ampliata nel 1605, febbraio 1610, 1613, ecc. (5) Ar. St. Gen., Lettere Consoli Turchia, 1/2703, Pietro Giustiniano al Gov. della Rep., Scio, 29 aprile 1608, 20 febbraio 1610, l.o marzo 1612. (6) Una notizia, non controllata da docnmenti, che si riferisce a questo periodo e certo ad epoca anteriore al 1645, leggiamo in De La Milly, Histoire de la Rép. de Gênes, t. Ili, p. 176. Parlando della missione del marchese Durazzo (1665) scrive: «Il sçavoit que le Roi Catolique et la République de Gênes avoient autrefoit envoyée des Ambassadeurs à la Porte, pour tâcher de lier commerce avec les Turcs, que les Ambassadeurs de France, d’Angleterre, et de Venise, s’é-toient vigoureusement opposez à leur admission: et qu’enfin les Ministres de Gênes et d’Espagne avoient été obligez de s’en retourner sans avoir réussis dans leur negotiations, quoi que l’un d’eux fût déjà arrivé à Chio, e l’autre à Raguse». Un prete raguseo, Allegretto Allegretti, fra il 1649 e il 1650, fu a Costantinopoli in nome del Cattolico apparentemente come mediatore della pace con Venezia, ma in realtà per trattare segretamente concessioni e privilegi commerciali per la Spagna, dopo che un certo ebreo, fattosi turco e divenuto capisbassì (cameriere) del Gran Signore, era giunto a Madrid, inviato dal sultano con analogo incarico. Nulla fu concluso per l’opposizione francese. (Nani, Historia, II, 219; Gio Agostino Durazzo, Relazione 1666 in Biblioteca Univ., m». B. VII. 18 • Il passo è omesso in Vitale, La diplomazia genovese). Il primo documento ufficiale a me noto su tale pratica di oriente è una relazione della « Giunta marittima » del 20 luglio 1638, che si richiamava a un decreto dei Ser.mi Collegi del 20 novembre 1637, con il quale era stata commissionata di considerare « la maniera e la strada » per introdurre « la negoziazione e il traffico nelle parti di Levante ». Si rilevava che il punto consisteva nell’ottenere dal Gran Signore l’uso della propria bandiera, ossia « passaporto libero, et ampio salvacondotto per trafficare nei suoi stati e navigarvi con qualsiasi vascello per estrarne qualunque genere di merci e vettovaglie che consistono in grani, sete, ceri, corij, lane et altro ». Yi si sarebbero introdotte in cambio le merci importatevi dalle altre nazioni che vi avevano libero traffico: panni di seta, coralli e berrettini, fabbricati nello stato, con maggior vantaggio per i Turchi; ed i panni stessi di lana, che più pregiati venivano da Venezia, si sarebbero potuti produrre in Genova della medesima perfezione, come già si proponeva di eseguire persona capace ed ardita. E poiché appunto l’impresa avrebbe pregiudicato gli interessi delle altre bandiere, bisognava condurre la cosa con la massima segretezza, affine di non suscitare le sicure e risolute opposizioni di Francesi, Veneziani e Inglesi, fornendo, a tal fine, a chi doveva recarsi a Costantinopoli i mezzi pecuniari occorrenti anche per i consueti ed esorbitanti donativi richiesti dai ministri turchi, senza dover poi ricorrere all’invio del denaro necessario, il che avrebbe potuto scoprire il trattato. Persona abile ed esperta occorreva inviare a tal uopo, e ve n’erano anche del secondo ordine pronte e disposte ad affrontare così « arduo negozio », e a cui si poteva, a titolo d’incoraggiamento, promettere l’ascrizione al libro della nobiltà. Quanto ai mezzi finanziari, si suggeriva di rivolgersi al Banco di S. Giorgio, per l’utile che dall’impresa sarebbe pure venuto al fisco, perchè provvedesse esso stesso, con operazione in proprio o con un conto da aprire a carico della Camera Ecc.ma e da estinguersi gradatamente in pochi anni. I Ser.mi Collegi, con decreto 11 agosto, approvavano l’esposizione della Giunta e ne ordinavano la pronta esecuzione. Non risulta dai documenti esaminati quale sorte ebbe tale deliberazione: certo il tentativo fallì e causa ne fu senza dubbio la viva reazione delle nazioni interessate e specialmente dei Francesi e dei Veneziani. Scoppiata, pochi anni dopo, la guerra di Candia, l’abbassamento della fortuna dei Veneziani e il delinearsi ormai chiaro della politica francese, che tendeva a staccare la Repubblica dalla Spagna divertendone i commerci dall’occidente, fece nascere nel sopra ricordato Padre Giulio da Treviso il pensiero di offrire al Governo genovese i propri servigi per la pratica che egli aveva « del trattare con la Porta, perità della lingua turchesca, et altri avantaggi accidentali de amicizie e simili». Forse fu questa mossa che determinò i Ser.mi Collegi a sottoporre, con decreto dell’ll agosto 1645, alla considerazione degli Ill.mi e Prest.mi Deputati « ad sublevandas artes » — in un momento in cui queste ultime attraversavano una fase piuttosto critica —, affinchè esaminassero se fosse conveniente, per dar incremento al pubblico commercio, ottenerne dal sultano l’introduzione nel levante con i privilegi necessari, in cambio della libertà di traffico da concedersi ai Turchi nei domini della Repubblica. Ma diciamo sùbito che in questi anni il Governo genovese non diede neppure inizio ad una qualunque azione effettiva per raggiungere un tale intento, - 9 - sebbene le circostanze sarebbero state, per se stesse, quanto mai favorevoli; e ciò contro la falsa comune opinione dominante fino ai nostri giorni — proprio « per il sentimento — è detto in una relazione dei predetti Deputati — che si è per haverne la Repubblica di Venezia dal vedere che quando havria dovuto sperare dalla Repubblica nostra qualche sollievo ne travagli, che le vengono dati da nemico sì poderoso, si procuri sviarle il traffico per maggiormente indebolirla di forze». Questa era anzi la prima delle due pregiudiziali da risolvere (l’altra riguardava la forma della spesa occorrente alla bisogna), che i Deputati stessi avevano posto prima di applicarsi allo studio particolare della pratica (20 febbraio 1646). Però che, essendo allora in corso trattative promosse dal Pontefice per una lega navale in difesa di Venezia e desiderando sinceramente la Repubblica prendervi parte, ove fosse stata soddisfatta in certe sue esigenze di prerogative e onorevolezze — grossa questione già da tempo sul tappeto —, si pensava che la conclusione di un accordo commerciale col sultano, stipulato proprio in quel momento, avrebbe potuto impedire l’ingresso della Repubblica nella lega, « quando potesse star bene il farlo », o che una volta introdotto il traffico, a questo ne sarebbe potuto venire pregiudizio da una successiva partecipazione alla lega. (7) Che poi il decreto dell’agosto 1645 avesse risoluzione soltanto con la relazione del febbraio 1646, la quale partiva dalle pregiudiziali sopra indicate; che all’ordine di proseguire l’indagine si rispondesse mediante altra relazione presentata quasi due anni dopo (19 dicembre 1647) con un ritardo che non è giustificato dal suo contenuto, si può spiegare solo tenendo presenti gli sviluppi delle trattative per la lega con Venezia e le questioni attinenti. Rimandando per questo argomento ad altri studi dove il problema è esaminato a fondo, (8) rileviamo qui, in generale, che le vicende dei tentativi fatti per raggiungere l’ambita libertà del traffico orientale ricevono naturalmente luce dagli avvenimenti interni ed esterni della Repubblica, che occorrerà tener sempre presenti. Si osservi che il decreto del novembre 1637 coincide con i giorni stessi in cui la Repubblica assumeva la corona regia e si determinava tutto un nuovo impulso vitale, manifestatosi in forme molteplici di attività e di propositi, verso un rinnovamento totale dello stato; rinnovamento che purtroppo la pe- (7) A. S. G., Giunta del traffico, 1/1015 - A questi documenti si riferisce pure Raffaele Di Tdcci, Relazioni commerciali fra Genova e il levante dalla caduta di Chio al 1720, in « Bollettino Municipale » «La Grande Genova », 1929. Non sono però i Procuratori che scrivono, come è detto a pag. 7, ma i Deputati « ad sublevandas artes » nella loro relazione ai Collegi. Anche l’interpretazione del passo non è esatta. Non si considerava affatto per Genova « l’eventualità di vedersi inclusa nella lega», ma, al contrario, il timore di doverne essere esclusa; nè ci fu decisione «nel senso di tentare negoziati», ma soltanto ordine di procedere ad « ulteriores diligentias» per accertare « utrum expediat dictam negotiationem prosequi et expensas necessarias facere». Così pure, più sotto, a proposito dell’offerta del padre (servita e non gesuita) Giulio da Treviso, non è che fosse data ad Agostino Pallavicino e a Giovan Stefano Balbi «missione di condurre a termine una convenzione commerciale con i Turchi », ma soltanto ad essi veniva affidata « la considerazione di questa offerta». La differenza è di gran momento, perchè interessa constatare che il Governo stesso, in questa circostanza, nessuna deliberazione ebbe a prendere favorevole all’esecuzione della pratica. (8) Pastine, La politica di Genova nella lotta veneto-turca dalla guerra di Candia alla pace di Passaroivitz, in «Atti della R. Dep. St. Patria per la Liguria», vol. Ili (LXVII), 1938; Rapporti fra Genova e Venezia ecc., in «Giorn. st. lett. della Lig. », 1938, III, IV; Una questione della politica italiana del seicento, in «Riv. St. It. », 1939, I. \ - 10 - ste del 1656-57, condizioni storiche irriducibili e difficoltà superiori alla volontà umana, dopo un primo impeto di vigorosa affermazione, resero irrealizzabile. Ne sono prova evidente l’abbellimento della città; il fiorire dell arte; le grandiose costruzioni come quella dell’acquedotto, delle poderose mura, del molo nuovo; il nuovo armamento navale; 1 ancor salda potenza finanziaria dei privati. I commerci con l’occidente, specie nella prima metà del secolo, erano pur sempre molto attivi. Ma anche nella ripresa economica dopo la cessazione della peste, detti commerci, sebbene con alternative e crisi temporanee, non cessarono di essere proficuamente coltivati. Per i marinai liguri lavoravano sempre abili cartografi, persistendo in Genova le antiche tradizioni dei Maggiolo, che nel 1644 chiedevano al Governo la tutela degli antichi privilegi contro forestieri di fresco venuti, i quali ardivano fabbricare e vendervi arnesi nautici come carte da navigare, bussole, ampolle, con loro grave danno. Gli armamenti si effettuavano sotto forme ed impieghi diversi. Dalla fine del XVI sec., numerosi armatori genovesi mettono i loro galeoni a servizio di altre bandiere e particolarmente della Spagna che sopperisce in tal modo alla penuria di navi d’alto bordo per le sue necessità coloniali d’oltre oceano. Così, mentre ben nota e palese era la parte cospicua che la Liguria aveva, attraverso lo stuolo dei Particolari e 1 armamento di altre galee, nella flotta da guerra del Cattolico, tutto un vasto movimento marinaro e mercantile sfuggiva al controllo della Repubblica, che non ne conseguiva nessun utile immediato, solo costituendo esso un mezzo di arricchimento per i privati. Certo non mancava neppure una marineria battente bandiera genovese, specialmente per il commercio di cabotaggio lungo le riviere, in collegamento con gli scali principali del Mediterraneo dalla penisola iberica alle coste francesi, a quelle del Tirreno italico e del prossimo oriente (9). Per difendersi dai continui attacchi dei Barbareschi, era stato deliberato l’armamento di quattro vascelli d’alto bordo, che servissero sia ad uso di guerra sia per convogliare vascelli da carico. Si proibiva allora ai mercanti di mandare navi in Ispagna se non in convoglio (15 marzo 1656). Per comodità del commercio, poi, si stabiliva che tre volte all’anno, in gennaio, maggio, settembre, almeno due navi da guerra fossero assegnate ai convogli di mercanzia destinati ai porti iberici. Ma i provvedimenti non riguardavano soltanto il commercio di Spagna, per quanto il più rilevante. Così il 18 maggio 1657 si regolava anche il pagamento del diritto di detti convogli, stabilendo che si dovesse corrispondere il due e mezzo per cento fino a Cartage-nova inclusa, e il tre per cento fino a Lisbona. Per i viaggi oltre questi luoghi i mercanti si dovevano conformare alle disposizioni dei Ser.mi Collegi. Il convoglio poteva anche essere destinato per le parti del levante; nel qual caso il relativo diritto doveva essere corrisposto in ragione del due per cento dalle navi dirette a Napoli, Sicilia e a qualunque altro luogo fino a capo d’Otranto, del tre per cento fino a Venezia e all’Arcipelago, mentre per le altre destinazioni più lontane si doveva pagare quello che fosse stabilito dai Ser.mi Collegi (10). Nè è a credere che l’attività marinaresca e mercantile fosse limitata alla metropoli; chè in entrambe le riviere ferveva una operosità varia ed intensa e la ricchezza affluiva in copia nei centri principali e negli altri numerosi (9) G. Pessacno, La grande navigazione genovese al XVII sec., «Genova», riv. mun. ag. 1930. (10) A. S. G., Convoi di navi, X, 860-44. borghi. Citeremo, a cagion d’esempio, Arenzano, che nella seconda metà del secolo XVII, essendo fino a quel tempo priva d’ogni importanza, contava con una popolazione di quindici o sedici mila anime, sessanta e più navi trafficanti in varie parti d’Europa. Ma negli anni di maggior entusiasmo si pensò altresì, in modo concreto, ad una grande navigazione nazionale, che non potè portare a risultati pratici o durevolmente efficaci soltanto per le gravi ed invincibili difficoltà frapposte dalle maggiori Potenze monopolizzatrici dei traffici. In tutto il secolo vi fu un’affannosa ricerca per aprire nuovi campi ai commerci. Proposte varie, disegni audaci furono formulati. Si ricordano gli opuscoli pubblicati nel 1618 dal gentiluomo genovese Benedetto Scotto (11), il quale additava, dopo i recenti tragici tentativi di Olandesi e Zelandesi con il Barenz, una via marittima settentrionale lontana dalla costa e più vicina al polo, con la speranza di poter giungere con tre navi al Catai, alla Nuova Guinea e di lì al « Continente australe incognito », pensando che fosse forse « fatale » per la patria di Colombo questa nuova scoperta. Le mète erano troppo ardue e remote per poter avere una pratica attuazione. Gli occhi e le aspirazioni erano frattanto sempre rivolti al Mediterraneo orientale, a quel levante che aveva già risuonato della gloria di S. Giorgio. I rapporti commerciali con quelle regioni sono testimoniati al presente anche dal continuo introdursi nel porto di Genova delle merci di là provenienti. D’altra parte, il fatto che i Francesi si opponessero alle aspirazioni di Genova, temendo la perdita dei diritti di consolato pagati dalle navi di questa nazione, che, per le capitolazioni del 1604, erano tenute a valersi della bandiera del Cristianesimo, dimostra come vivi dovessero essere tali traffici; tanto più se si considera che 1,’uso dello stendardo di Francia non era esclusivo, preferendo spesso i capitani liguri — anche con proprio rischio — inalberare il vessillo inglese od olandese. Si sa, ad esempio, di una nave genovese che, giunta in oriente con bandiera olandese, fu obbligata dai giudici ottomani a pagare i diritti di consolato anche al rappresentante francese. Qualche cosa, in merito a tali aspirazioni verso l’oriente, si riuscì a realizzare quando, nel novembre del 1623, comparve in città un gruppo di mercanti armeni, sudditi del re di Persia, con mercanzie preziose fra cui gioie di varie specie, che cambiavano con contanti o coralli ed argenterie. Il 30 dicembre mercanti genovesi unitamente a questi armeni presentavano al Senato alcuni capitoli per la fondazione di una Compagnia di commercio per l’oriente ed il Governo concedeva a quegli stranieri vari privilegi e una sensibile diminuzione del dazio per le merci da essi introdotte. Parecchi anni dopo, il Principe Jachia o Zacchia, primogenito di Maometto III, essendogli stato tolto il trono, fattosi cristiano, si rivolgeva per aiuti contro l’usurpatore anche alla Repubblica di Genova (5 gennaio 1634). L’istanza, redatta per il principe dal conte di Chiaravalle Gaspare Scioppio, ebbe una cortese risposta, ma nulla conseguì di positivo (12). Altre vie, come già vedemmo, intendeva praticare la Repubblica per giungere al bramato godimento di quel libero commercio; senonchè le nazioni che avevano entratura alla Corte del Gran Signore le erano naturalmente ostili e specialmente Veneziani e Francesi. Soltanto l’imperatore e la (11) «Atti Soc. Lig. S. P.»; V, f. II, L. T. Belcbano, Opuscoli di Benedetto Scotto, ecc. (12) M. G. Canale, Storia del commercio ecc., p. 233;Casoni, Annali della Rep. di Genova, V, 33-34. - 12 - Repubblica di Ragusa, che, pur tenendo loro ministri alla Corte di Costantinopoli, non erano « introdotti a simili traffichi » in Turchia, potevano non essere avversi alla Repubblica nostra in questa faccenda. Per tale ragione, la relazione del 19 dicembre 1647, suggeriva appunto di valersi, nell’eventualità di un avviamento di trattative, dell’assistenza di queste due nazioni, per quello, naturalmente che sarebbe stato in potere di ciascuna di esse. Detta relazione, infatti, partendo dal « supposto che potesse essere espediente procurare l’introduzione del traffico » — e si riferiva con tali parole alla questione pregiudiziale di Venezia — esaminava tutte le prospettive della pratica in questione; e l’averne rilevato il grande vantaggio, i modi adeguati di attuazione, la possibilità di eliminare ogni altra difficoltà, rende appunto ancor più meritoria la decisione del Governo, suffragata dall’universale consenso, di rinunciare, in quelle circostanze, al beneficio intravvisto. Vantaggi cospicui — si osservava — sarebbero derivati sicuramente sia dalla esportazione di mercanzie varie e specialmente dei panni di seta e di lana che si sarebbero fabbricati con utile così dei privati come del pubblico (e Venezia poteva servire ad esempio), sia dalle importazioni dei prodotti levantini («camelotti bianchi, mochiari (13) di colori mischi, cere rosse, corami d’ogni sorte, lane inferiori, cotoni in balle e filati, sene, rasie, galle, zu-cari inferiori che si rafinan, endeghi, telerie di bambace d’ogni sorte, zafferani, olei, sete, dragante et altre gomme, frutti della terra come pistacci, datili et altro »). Due inconvenienti infine si prevedevano, ma facilmente eliminabili. Uno era dipendente da eventuali danni che le galee dello stuolo di Spagna (il quale era chiamato dagli ottomani « stuolo di Genova » perchè solito a svernare in questo porto, ed era quello così detto dei Particolari, comandato dal duca di Tursi) (14), recassero a navigli dei Turchi, sì che questi se ne rivalessero con rappresaglie su beni genovesi esistenti nei domini del sultano. L’altro inconveniente poteva derivare dall’impedimento che incontrassero quelle navi genovesi che — contro le proibizioni turchesche — erano solite portare in contrabbando grani dal levante per i bisogni della Liguria. Alla prima difficoltà si sarebbe potuto riparare col chiarire nel trattato che, non essendo lecito alla Repubblica escludere dai suoi porti navi di principi stranieri, mai si sarebbe dovuto rompere la pace per accidenti che fossero sorti fra quelle navi e vascelli ottomani; alla seconda si poteva pure ovviare includendo nei patti un sia pur limitato diritto di estrazione dei grani, quale era riconosciuto ai Veneziani e come già si era ottenuto nei capitoli stipulati un tempo con la Repubblica e che poi non ebbero più esecuzione. Nessuna deliberazione del Governo fece seguito a questa relazione e la cosa non deve meravigliare, quando si sappia che proprio uno dei due deputati a riferire in merito a detta scrittura era quel Gio. Bernardo Veneroso, entusiasta sostenitore dell’alleanza con Venezia, il quale appunto pochi giorni dopo (gennaio 1648) stava già preparando un «progetto» d’armamento per soccorrere la Repubblica di S. Marco (15). (13) « Mocaiaro, mocaiardo », 6toffa di pelo di capra. (14) Può eBsere che il Di Tucci non tenga conto, in questo punto, che si tratti dello stuolo dei Particolari; comunque non è considerato nella relazione il caso che navi spagnuole « chiedessero l’aiuto delle galee della Serenissima » (studio cit., p. 8). (15) Pastine, Rapporti fra Genova e Venezia nel sec. XVII e Gio. Bernardo Veneroso, cit. pagina 199 e segg. - 13 - Con tutto ciò le considerazioni contenute nella relazione esaminata conservavano tutto il loro valore per tempi più opportuni e propizi. L’idea era sempre presente ai Signori Ser.mi. Nel 1653, mentre la Repubblica stava provvedendo al rafforzamento della flotta con l’acquisto o la costruzione di vascelli e l’armamento di altre galee, pensava pure al Levante. La Giunta Marittima ne riferiva verso la fine di detto anno : « E poiché... W. SS. Serenissime incaricarono anche alla Giunta di dover considerare il modo d’in-trodume et incaminare il traffico e la navigazione anche nel Levante, ha-vendo essa pure a questo punto fatta riflessione, non le pare restar luogo per hora di poter entrare in trattato in tal pratica, ancorché il pensiero sii al pari di ogni altro desiderabile, per dilatare ai Genovesi in ogni parte la navigatione e il negotio, massimamente essendoci qualche relazione, che non mancherebbe al presente occasione di grossi guadagni, poiché sarebbe difficilissimo l’intraprenderlo, e pericoloso il praticarlo, senza haver prima all’ordine una conveniente forza d’altri vascelli da resistere e riparare le navi di mercantia da ogni incontro di corsari, e d’altri che non vedessero volentieri i nostri in quei mari. Assicurato prima questo punto sarebbe luogo a pensare come aprirsi la strada al commercio in quei paesi, e ciò si otterrebbe con qualche regali, che si facessero in Costantinopoli a coloro che hanno il governo, ma prima di penetrare in quelle provincie bisogna pensare come indurvisi ». (Marittimarum, 2/1666). In realtà, il punto più arduo da risolvere rimaneva sempre quello di superare le opposizioni che venivano dagli emuli. Problematico si presentava un aiuto da Vienna; Ragusa, sebbene molto interessata alla Porta ottomana, di cui era tributaria, non possedeva autorità adeguata. Secolari furono i buoni rapporti con quella minuscola repubblica. Mercanti e marinai dell'ardita città dalmata costituivano una abbastanza numerosa colonia in Genova, ed essendo cattolici di rito latino, possedevano in S. Maria di Castello la cappella di S. Biagio officiata dai Domenicani, dove vollero dare sepoltura al loro protettore, il doge Gio. Agostino Giustiniani-Campi (1591-93), deceduto nel 1613 (16). Quando Genova riprese più tardi i propri commerci in oriente, le buone relazioni con i Ragusei saranno reputate giovevoli agli interessi genovesi; ma da principio, certo la loro amicizia non poteva avere sufficiente peso per l’apertura del traffico. 2. — Eccezionale congiuntura sarebbe stata quella di neutralizzare le irriducibili opposizioni della Francia. Ora, dato il contrasto fra le due Corone, si comprende come il negozio d’oriente dovesse riaffacciarsi nel 1654 e addirittura per iniziativa di quella nazione. Sono questi gli anni del conflitto della Repubblica con la Spagna in seguito ai violenti sequestri dei beni liguri a Napoli e Milano per la questione del Finale. Il mutamento della politica di Genova, determinatosi, come dicemmo, dal 1634, non era stato abbastanza decisivo. Ma ora le speranze si erano fatte più chiare e Parigi soffiava nel fuoco per rendere la rottura irreparabile, giungendo il Mazzarini fino al tentativo di trascinare Genova nella guerra aperta contro gli Spagnuoli. Il distogliere la Repubblica dai suoi commerci di occidente voleva dire appunto staccarla da Madrid. Ecco quindi come il M.co Giannettino Giustiniani, che, sebbene non riconosciuto ufficialmente, curava in Genova gli interessi francesi, aveva avanzato proposte particolari sulla questione dei traffici orientali. S. M. Cristianissima avrebbe ottenuto dal Gran Signore per la (16) P. Luigi Levati, Dogi biennali di Genova dal 1528 al 1699, vol. I. - 14 - nazione genovese libertà di commercio in tutto il Dominio ottomano con facoltà di stabilire consoli negli scali principali; dalla Repubblica sarebbero state corrisposte dodicimila doppie a chi avesse procurato l’assenso dei ministri del re. La proposta fu sottoposta dai Ser.mi Collegi all’esame della Giunta di Marina che ne riferì in data 30 dicembre 1654 (17). Riconosciuta, dopo le-sperienza del passato, la « necessità di passare per il mezzo della Maestà del Re di Francia », si rilevava come eccessiva la spesa richiesta, che si sarebbe potuto ridurre a tremila doppie, da pagarsi però ad affare compiuto, mentre, anche in base ai discorsi passati a Parigi fra quel residente G. B. Pailavi-cino e l’abate Ondedei (Zongo Ondedei, divenuto poco dopo vescovo di Frejus), si riteneva più accertato condurre la pratica in Genova col M.co Giustiniano anziché alla Corte di Francia. Il Pallavicino, poi, ringraziando il card. Mazzarino per le intenzioni espressegli di voler « dar ogni mano e facilità per maggior dilatazione del trafico », avrebbe potuto capire più chiaramente se con ciò intendevasi soltanto, per ora, di far cessare le continue piraterie dei corsari francesi tanto moleste alla navigazione. E in tal senso deliberavano i Collegi alla stessa data. Intanto, a rinfocolare il negozio, capitava da Tunisi a Genova quel Padre Giulio da Treviso, più volte nominato, che presentava ai Ser.mi Signori due esposizioni dettagliate, rinnovando l’offerta dei propri servigi già dieci anni prima inutilmente avanzata. Informato degli approcci con la Francia, riconosceva che era « ben fatto de aprirsi la via del trattato per mezzo de l1 ran-cesi », ma osservava che era necessario avere anche propri ministri e servitori. Egli si sarebbe recato a Costantinopoli per ottenere copia delle capitolazioni di cui godevano le altre nazioni e il passaporto per un intemunzio, a cui poi si offriva di servire da interprete. Detto internunzio avrebbe dovuto colà conchiudere le necessarie convenzioni, che un ambasciatore si sarebbe recato successivamente a ratificare per dare ad esse esecuzione. Se si fosse voluto, avrebbe inoltre potuto egli stesso trattare con i tre regni barbareschi di Africa per maggior sicurezza e rendnnento del traffico. I Collegi il 19 luglio 1655 diedero ordine alla Giunta di Marina di vagliare il contenuto della supplica e di sentire, se lo avesse ritenuto opportuno, il Padre stesso. Ma intanto la pratica era passata, tramite il Giustiniano, a Parigi, dove il M.co G. B. Pallavicino trattava col Mazzarini, apertamente favorevole agli intenti della Repubblica. Chi resistette e recalcitrò da principio, fu il primo segretario di stato, conte di Brienne, il quale, percependo i diritti dei consolati che pagavano anche le navi genovesi battenti bandiera francese, veniva ad essere danneggiato dalla emancipazione a cui aspirava la Repubblica. Ma guadagnata, per mezzo del Pallavicino, la moglie del conte e il vescovo Ondedei, segretario del Mazzarini, la resistenza del Brienne venne vinta con l’intervento dello stesso cardinale, il quale induceva infine il Consiglio Reale a promettere, « dopo non leggiere ripugnanze », il proprio appoggio nel promuovere il traffico della Repubblica. (17) A. S. G., Giunta del traffico, 1-1015. • Il Di Tacci (stud. cit., p. 8) dà questa scrittura del 30 dicembre ’54 come una lettera del Giustiniano alla Repubblica. Il Giustiniano, che risiedeva a Genova, avanzò certo la proposta verbalmente. In questa che è, ripeto, una relazione della Giunta di marina, si parla di CAPITOLO II IL PROBLEMA DELLA MONETA 1. - La situazione monetaria in Turchia - La falsificazione dei « luigini » e le zecche dei ieudi imperiali. — 2. - Le offerte dell'armeno Deodato di Giovanni e la preparazione del convoglio per l'oriente. — 3. - La proibizione del monetino e il contratto col Deodato. 1. — Nell’accingerci a studiare l’impresa commerciale d’oriente della Repubblica, un problema s’impone per primo al nostro esame: quello monetario. Esso doveva naturalmente assumere particolare rilievo per una città come Genova, abbondante specialmente di denaro, fornita di una zecca attiva e pregiata, e che continuava ad essere, dopo la Spagna, il più conveniente mercato dell’argento. In generale, poi, tale problema aveva importanza essenziale per le nazioni partecipanti a quel traffico, le quali, insieme con manufatti ed altri prodotti, portavano gran quantità di contante, impiegato in cambi marittimi 0 come mercanzia da vendere in corrispettivo delle merci offerte dai negozianti levantini. Così, in situazione normale, i Veneziani v’introducevano i loro zecchini, gli Olandesi i leoni, la Germania, per mezzo degli Ungheresi e di altre sue provincie, gli ongari e gli imperiali. Soltanto l’Inghilterra poteva sostituire in buona parte il contante con l’importazione dello stagno e del piombo, merce proibita dalla Chiesa nel traffico con l’infedele e di cui essa abbondava, mentre i Turchi ne avevano estrema necessità. Insieme con zecchini, leoni, ongari ed altre monete di minor importanza, diffusissima era la pezza sivigliana da otto reali, che vi portavano i Francesi, gli Olandesi — dati i loro rapporti con la Spagna — ed i Veneziani, che se ne rifornivano specialmente in Liguria Questo tipico affluire di moneta forestiera in oriente fu sempre giustificato dalla insufficienza di quella locale per le necessità di così vasto impero. Monete turche erano quella aurea — i sultanini del valore circa del-l’ongaro — e quella argentea denominata aspro (1). Gli aspri costituivano la moneta « germana » della Turchia, sulla cui base cioè i mercanti tenevano 1 conti e si operava il ragguaglio con le monete forestiere. (1) Centoventi aspri pesavano circa un’oncia, ohe era il peso della pezza sivigliana; il ragguaglio avveniva però in ragione di 100 (poi 80) per il reale da otto e l’imperiale, di 220 per l’ongaro (oro) e di 225 per lo zecchino (oro). - 26 - Ma sultanini ed aspri erano, come si disse, in quantità insufficiente ai bisogni, dato che in Turchia scarsi erano Toro e l’argento e che per di più molto se ne consumava a scopo ornamentale; consuetudine, questa, che portò talvolta quelle popolazioni ad accettare anche moneta falsificata purché di conio perfetto. E si spiega così, non soltanto la larga penetrazione nel dominio ottomano delle grosse monete forestiere, ma anche di quelle piccole tanto necessarie per il minuto commercio della capitale e delle province ed i minori pagamenti deH’amministrazione, valendo a tal fine, dapprima lo spezzato della Germania, Polonia ed altri stati vicini. Si venne pertanto a riservare le monete di maggior valore (reali da otto, zecchini., ongari) per le carovane che tenevano vivo il traffico con la Persia; senonchè, venendo esse monete, con l’uso, continuamente ritagliate, finivano poi per essere rifiutate. Si aggiunse inoltre ben presto la calamità delle falsificazioni. Cominciarono le monete spezzate tedesche e polacche ad essere alterate in bassa ed infima lega, dato il grande smaltimento che se ne faceva; a queste poi seguirono, per la stessa ragione, i luigini francesi, così detti dalla loro impronta, e che originariamente non erano se non le monete da cinque soldi tornesi, quale spezzato dello «scudo del sole». Occasione all’introdursi in oriente di tale monetino fu la scarsezza del reale da otto, che indusse i mercanti di Francia a fame uso nel loro traffico (2). (2) Sebbene fin dall’inizio della guerra con il Cattolico nel 1635 (periodo francese della guerra dei Trent’anni) il commercio della Francia in levante fosse ostacolato, oltre che dalle minacce della flotta spagnola, dalla impossibilità di rifornirsi delle piastre sivigliane, P. Masson (op. cit., 131) trova che la scarsezza di dette piastre in Francia si determinò specialmente a partire dal 1653. Per porvi in parte rimedio, la Camera di commercio di Marsiglia autorizzò allora la fabbricazione degli « abou-quels* (cfr. nota 15), che vennero ben presto alterati, mentre si cominciava pure l’introduzione e la successiva alterazione dei pezzi da 5 soldi. Un nostro documento fa risalire la prima introduzione dei luigini al 1660, quando fra le due corone era stata firmata la pace dei Pirenei (1659), ma non erano del tutto cessate le conseguenze della guerra. Il fenomeno coinciderebbe con la crisi finanziaria della monarchia iberica, culminante con la bancarotta del 1660, per cui venne annullato il 50 per cento del debito pubblico consolidato. • Raffaele Di Tucci in Relazioni commerciali fra Genova e il Levante dalla caduta di Chio al 1720 (Roll. Munie. « La Grande Genova » 1929, p. 14 dell’estr.) scrive accennando allo scudo genovese di S. Giorgio, di cui parleremo in seguito: «Si vede che lo scudo non penetrava largamente in levante, e questo per una ragione più che semplice: con i primi affari si era riversata colà una grande quantità di reali da otto, talmente stimati che si guadagnava 6ul loro valore reale un aggio del 5 o del 6 per cento, ciò che non accadeva con gli scudi. Il forte aggio determinò la scarsezza dei reali da otto e questa scarsezza, come dice l'ambasciatore Agostino Spinola in un rapporto del 1675, obbligò i Francesi a far prova di spendervi li loro cinque soldi di Francia, colà ricevuti senza riparo. I luigini, contrariamente alle intenzioni della Repubblica e nonostante il non grande valore monetario, furono ricevuti proprio in seguito al commercio genovese e per difetto di moneta genovese... Ora, la Rep. confessa schiettamente che i reali da otto, anche fabbricati nella sua zecca, le venivano di Spagna, e cioè, la materia prima era di importazione spa-gnuola, quindi ha difficoltà ad eseguirne nuove emissioni: lo scudo non entra in oriente che con difficoltà; è una moneta sconosciuta e i turchi sono tradizionalisti e diffidenti. Genova, come vedremo, penserà ad una moneta speciale per l’oriente». — La situazione qui prospettata non risponde a quanto risulta dall’esposizione che andremo svolgendo. Non è che lo scudo genovese non si sostenga in rapporto al pezzo da 8 reali, ma nel ragguaglio inadeguato con i luigini. La scarsezza di detto pezzo non si determina con i primi affari dei Genovesi, ma risale agli anni precedenti; e non e il forte aggio che cagiona la scarsezza, bensì questa è causa di quello. Il rapporto citato è un’esposizione senza data, ma certo del 1676 (non 1675) e non appartiene al residente (non ambasciatore) Agostino Spinola, ma ad un anonimo che si dice «persona affezionata al pubblico bene». Non sussiste affatto che i luigini siano stati « ricercati in sèguito al commercio genovese e per difetto di moneta genovese». Il reale da otto ossia il pezzo da otto reali (le sivigliane, messicane) non va confuso con lo scudo genovese (giorgio). Non è il caso che la Rep. dovesse « confessare schiettamente » che i reali da otto le venivano di Spagna, cioè come materia prima. Era noto a tutti che di - 27 - Nei primi anni cominciò a circolare l’ottimo pezzo della zecca regia con valore di undici once di fino per ogni libbra, tanto più ben accolto in levante in quanto era molto apprezzala la vaghezza della coniazione fatta al « mulino ». Tale suo pregio e l’eccessivo abbassamento di valore dell’altro monetino allora in circolazione, fecero sì che esso, ragguagliato in Francia a dodici per scudo, venisse speso in Turchia in ragione di otto per ogni pezzo da otto reali con un vantaggio di circa il 33%, tenuto pure conto che detto pezzo sivigliano era un po’ superiore in peso allo scudo del sole, ma inferiore per bontà di lega. Un siffatto guadagno spinse alcune zecche di Francia e quella di Torino ad imitare tale genere di monetino così ricercato in oriente. Al di là delle Alpi vanno ricordate per prime la zecca di Trévoux e quella di Dom-bes della principessa (3) Anna Maria di Borbone Orléans — la « grande Mademoiselle » de Monpensier —, e la zecca del principe d’Orange : e di qui uscirono per qualche anno buone monete di undici di fino, assai pregiate anche per la bellezza della fattura. Senonchè, per maggior speculazione,, si cominciò ad alterare la lega, stampandosene in queste stesse zecche, con licenza dei principi, del valore di otto. Tosto gli Inglesi, eseguito il saggio di tale monetino, ne avanzavano lagnanze alla Porta, che reclamò a sua volta presso l’ambasciatore di Francia. Questi emanò ordini a tutti i consoli per la rigorosa repressione dell’abuso, al che si aggiunse poi 1’« arresto » del re pubblicato a Marsiglia (2 dicembre 1666) (4). Ma codeste monetine piacevano ai Turchi per la vaghezza e vistosità del loro conio, onde le navi francesi, non ostante tutte le proibizioni e la vigilanza dei consoli, continuavano ad importarne in levante di lega anche più bassa (di sei, di cinque e persino di due) introducendole poche per volta o nascostamente durante la notte. Informa Gio. Agostino Durazzo in una sua esposizione (5), che qui ci serve quale fonte di interessanti notizie, come zecche francesi, oltre ad usare proprie impronte, contraffacessero quella regia, e ciò tanto più volentieri quanto più bassa era la moneta da esse coniata per meglio sostenere l’inganno. Ora, se si tien conto che, in questi tempi, non era cosa anormale la stampa, in una zecca., di monete imitanti quelle di altri stati; se si considera che, nell’affare dei luigini, il desiderio di lucro spingeva a fabbricarne di Spagna veniva continuamente a Genova gran quantità di argento in verghe e pezzi da otto « a milioni», come è detto più volte nei documenti. Pezzi sivigliani non venivano « fabbricati nella zecca » di Genova; non è a dire, quindi, che questa volesse « battere, non contraffare, la moneta altrui e introdurre la propria» (p. 13), e tanto meno che «avesse difficoltà ad eseguirne nuove emissioni». Lo scudo genovese («giorgio») non riesce ad affermarsi per le ragioni indicate nel testo e non già semplicemente perchè i turchi fossero «tradizionalisti e diffidenti». 11 saggio venne eseguito con esito favorevole a Costantinopoli non « specialmente » ma esclusivamente sui « giorgi » genovesi. Circa la «moneta speciale », che è del 1676-77, dovremo precisare la cosa a suo tempo. Possiamo dire intanto che si tratta di un « progetto » elaborato, d’accordo col gran visir, da Agostino Spinola, che ne chiese l’approvazione al Governo. (3) Il Principato di Dombe, situato a nord di Lione. - P. Mantellier, Notice sur la monnaie de Trévoux et de Dombes. (4) A. S. G., Monetarum Diversorum, filza 47. (5) Questa esposizione di G. A. Durazzo dei primi di settembre 1667 è indirizzata alla Giunta del traffico. Tale documento e qualche altro, di cui mi valgo nel presente lavoro furono noti ad Antonio Merli e da lui usati in uno studio manoscritto (« Nuovi documenti e notizie sulle zecche dei Principi D’Oria») presso la «Società Lig. di St. Patr. ». Il Merli li cita come esistenti allV Archivio di Stato » in Privilegi riguardanti le manifatture et altro 1580-1778. Avverto che nessuno di detti documenti si trova più sotto questa collocazione. Si vedano le filze Monetarum Diversorum, sala 41-69. - 28 - mediocre bontà persino i legati pontifici di Avignone e i monaci lerinensi di Seborca. non farà meraviglia se tale febbre si propagò al di qua delle Alpi nei feudi imperiali delFAppennino. facilmente portati, di propria iniziativa 0 indotti da altri, a valersi del privilegio cesareo di cui godevano al riguardo. 1 principali di questi feudi appartenevano a grandi famiglie genovesi, e il moltiplicarsi delle zecche in queste zone (un documento dice che « chiunque avea quattro palmi di sua giurisdizione » impiantava una o più zecche), nonché l'attività più o meno illecita spiegata in tale campo, sono anche in rapporto con la larga disponibilità di metallo prezioso presso codeste famiglie. A parte quella dei Cibo di Massa, che forniva con la Francia il tipo di monetino più pregiato in levante, le zecche che interessano questa disordinata coniazione sono quelle dei Grimaldi (Monaco), degli Spinola (Tassa-rolo, Ronco1), dei D’Oria (Loano, Torriglia, ecc.), dei Centurioni-Scotti (Campi), dei Malaspina (Fosdinovo). Anche qui le prime monetine stampate furono di valore normale: certamente quelle che uscirono da Monaco nel 1661, da Tassarolo nel 1662, da Loano ancora nel 1664. La situazione, però, andò mutando variamente a seconda delle zecche. Nel 1663, luigini (6) di bassa lega e di conio poco pregevole, fabbricati in quella di Tassarolo del conte Massimiliano Spinola e portati in oriente, furono confiscati in Smirne a certo \ alentino Berti, veneziano, che riuscì a mettersi in salvo con la fuga. Fin dal 19 settembre 1664, quel Francesco Moretti più sopra ricordato quale offerente i propri servigi alla Repubblica per l’apertura del traffico orientale, stipulava, assieme a certo Dario Guazzi e compagni, tutti veneziani, un contratto col marchese Napoleone Spinola per l’affitto della zecca di Ronco (7). Il 17 febbraio dell’anno seguente lo stesso Moretti sottoscriveva con lo zecchiere di Loano, Onorato Blauet di Nizza, una scrittura per la fabbrica di monetini da cinque soldi (8). Detti monetini, che per il contratto di locazione della principessa \ iolante Lomellini D Oria con il Blauet (27 marzo 1664) dovevano essere della bontà di dieci once e 22 denari di fino per ogni libbra (titolo non molto al di sotto a quello della migliore moneta di Francia e di Genova), erano ridotti nella convenzione col Moretti alla bontà di once otto di fino, sia pure con la riserva di ottenere l’approvazione della principessa, approvazione che non poteva mancare, data l’influenza che su di essa esercitava lo zio e consigliere M.co Stefano Palla-vicino, protettore del Moretti e con lui impegnato nelle speculazioni dei Poco dopo (28 marzo 1665) il Pallavicino stesso scriveva alla D’Oria per indurla a consentire al Moretti di stabilire a sue spese in Torriglia una zecca (6) In Italia erano detti « ottavi > od < ottavetti » ; i Turchi denominavano genericamente tutte queste piccole monete, « timini ». — S’incontrano anche i nomi di «gettoni», (jettons), « isolotti », « marchesini », « donzeni ». (7) Lo Spinola si obbliga inoltre a dare a cambio marittimo 10 mila pezzi « sopra tanti ottavetti fabbricati nella sua zecca, che in corpo di essi siano le suddette pezze 10 m. d’argento fino per le Smirne di andata e ritorno a ragione di 22 per cento ». La moneta si sarebbe caricata su nave in partenza da Genova e il capitano era tenuto a dare sicurtà al marchese Napoleone « di portare detti capitali con il suo crescimento», da consegnare al ritorno nello stesso porto a chi fosse designato dallo Spinola entro quattro mesi, passati i quali avrebbe dovuto «farle buono il cambio alla rata». Guazzo e Moretti avrebbero inoltre versato in anticipo l’importo delle sicurtà per la somma imbarcata alla partenza cosi a Genova come a Smirne, salvo a diffalcarlo dal cambio marittimo al ritorno della nave. Il contrtto di locazione veniva poi sciolto il 23 febbraio 1666. (Cfr. A costilo Ouvitai, Monete e medaglie degli Spinola di Tassarolo, Ronco, Roccaforte, Acquata e Vergogni, Genova, 1860). (8) Ms. Merli, cit. • A. Ounoi, Monete e sigilli dei Prìncipi Doria, Genova, 1859. - 29 - che veniva difatti impiantata in quel castello. Seguiva quindi (5 sett. 1665) la concessione di Violante D’Oria di stamparvi, oltre a monete d’oro e d’argento, anche quelle « per levante in qualità di mercantia e di ornamenti con condizione — era detto nella convenzione — che lo stampo non imiti totalmente quello di altri principi, ma che vi sia variatione tanto nelle lettere quanto nelle arme ». Parole vaghe che nascondevano il preciso proposito dei fermieri di contraffare l’impronta dei monetini di Madamigella di Montpen-sier e del giovinetto principe Guglielmo Enrico d Orange. Quando veniva stipulato il contratto del 5 settembre 6d per Torriglia, il Moretti, a causa di dissensi sorti con il Blauet, aveva abbandonato da alcuni mesi la zecca di Loano, dove si continuava la stampa del monetino, che il Moretti stesso aveva iniziata fin da principio, dietro commissione di Stefano Pallavicino e Lazzaro Maria D’Oria. Contemporaneamente la medesima zecca lavorava per il fratello di Gio. Agostino Durazzo, il M.co Eugenio, il quale per conto suo si era accordato direttamente col Blauet. Si presenta qui il problema (valido certo anche per altri paesi) della responsabilità dei padroni delle zecche di fronte all’attività degli appaltatori. La varietà dei casi e delle situazioni è notevole. Abusi individuali di zecchieri, più o meno gravi, se ne debbono registrare dovunque. Dei feudatari, alcuni, presi da scrupolo, vollero consultare anche l’autorità ecclesiastica e taluno incontrò la compiacente ed assolutoria condiscendenza di qualche religioso. Così, il principe Centurione Giambattista I quietò facilmente la coscienza alla risoluzione del teologo che riversava la colpa su chi si lasciava ingannare, non procedendo esso al possibile saggio della moneta; senza contare che i Turchi — diceva — compravano il monetino piuttosto come « ornamento e merce, della quale si servono in altro uso, che di spendere » ed avevano « più vaghezza dell’impronto che della bontà intrinseca della moneta ». Quanto all’impiego arbitrario dei gigli? « anna di Francia », osservava che dopo tutto i gigli erano meno pregevoli delle rose, le quali pur nessuno vietava di adoperare oome impronto! (9). Più vivi e persistenti furono invece, ad esempio, gli scrupoli della principessa Violante Lomellini D’Oria, rimasta vedova in giovane età con un figlioletto, che fu poi il capostipite dei D’Oria Panfili. Essa si rivolse ripetutamente e in tempi diversi (settembre 1665-1666) a vari teologi per risolvere i dubbi sempre risorgenti. Nè è detto che tutti questi religiosi fossero concilianti e corrivi nei loro responsi. Fra quelli che essa consultò — una dozzina circa — tre soltanto furono condiscendenti, mentre gli altri ponevano difficoltà e precisi divieti. Sia per effetto di queste ultime risoluzioni, sia per le grida di proibizione del granduca e della Repubblica, la principessa finì per prendere in momenti diversi varie misure rivolte ad arginare le irregolarità lamentate. La questione dibattuta, riguardava, più che il titolo della moneta, la contraffazione dell’impronto. Di qui gli scrupoli della principessa tacitati dal iresponso del primo religioso interpellato (padre Pierdomenico Pierdome-nici dei Filippini), onde poteva cominciare l’opera spregiudicata del Moretti ancora per conto di Stefano Pallavicino e Lazzaro Maria D'Oria. Ma dopo (9) A. Olivieri, Monete e sigilli dei Principi Centurioni-Scotti, Genova, 1862, p. 27-28. Il dubbio era il seguente: «Se nn feudatario privilegiato possa fare stampare con l'impronto ano certe monete che volgarmente chiamano luigini e smaltirle nel modo che di presente si stila ». Ne derivava che i «Mercanti usano la frode con turchi vendendoli a questi per veri luigini di Francia e così si dà a mercanti l’occasione della frode ed ai turchi il danno ». - 30 - appena mia settimana, i dubbi e i sospetti spingevano la principessa a far vigilare quanto accadeva nella zecca di Torriglia, ordinando che si eseguissero diligenze e perquisizioni, le quali, pur essendo condotte dalle persone incaricate con poca energia, portarono alla scoperta di tre coni con impronte diverse da quelle approvate. Nè le cose mutarono anche durante l’assenza del Moretti, che era rappresentato a Torriglia da suoi uomini — tre francesi: certi Torans, Grandi e Santi Glaudeves —, mentre la zecca di Loano continuava a stampare specialmente per Eugenio Durazzo. Se a principio del 1666 la principessa Violante D’Oria, spinta dall’esempio ed anche da momentanee difficoltà delle sue finanze, si decideva a far coniare a Loano monetino della bontà di otto per proprio conto, non risulta che l’ulteriore abbassamento della lega s’iniziasse con la sua approvazione, comparendo invece vivamente interessata in tutta questa faccenda la madre Maddalena Pallavicino Lomellini, associata a certo francese Audrea Hugues, mentre la zecca si trovava nelle mani del Blauet unito ad altro francese, tal Giovanni Solinhak. E’ da notare che il Magistrato delle monete aveva già vietato il transito dei luigini per il dominio della Repubblica, onde essi affluivano specialmente a Livorno, dove capitani di navi, in massima parte provenzali, li prendevano a cambio marittimo spesso per conto di mercanti armeni di Smirne. Il granduca di Toscana, per il disordine di tale traffico, ma sopx-attutto per osteggiare la Repubblica di S.Giorgio, aveva bandito (marzo 1666) detto monetino dal suo stato, affrettandosi a darne parte al Governo del Gran Signore, presso cui s’insinuava così l’accusa contro Genova, quale unica fonte della falsa moneta. Tale bando e quello successivo del Governo Ser.mo (2 giugno 1666) concorsero a turbare la principessa D’Oria, spingendola a consultare, questa volta, ben nove teologi. In conseguenza., ordini tassativi furono dati alle zecche di Torriglia e Loano per la modificazione degli impronti, ordini che furono però trasgrediti. Vennero quindi sequestrati nella prima zecca otto sacchetti di monete, che dovevano essere rifuse e nuovamente coniate; mentre, con più risoluto provvedimento, la D’Oria ordinava l’espulsione, entro otto giorni da quella giurisdizione, del principale responsabile, Francesco Moretti (marzo 1667), che poco dopo il Governo stesso cacciava dal proprio dominio; nè al bandito riuscirono più gli ulteriori tentativi fatti, con la mediazione di Paris Tasca, già suo procuratore e successore nella zecca, per rientrare ai servizi della principessa (10). Quanto all’alterazione della lega degli ottavetti, se si considerano i numerosi contratti di appalto, vi si rileva in generale l’intendimento di coonestare il lavoro più o meno illecito delle diverse zecche mediante l’esempio delle altre consorelle circonvicine o straniere, con la riserva di abbassare maggiormente il titolo tutte le volte che così fosse stato da queste ultime operato, e di sciogliere ogni convenzione nel caso di misure repressive, sempre temute e infine applicate dal Turco. Altro fatto da rilevarsi è la presenza nelle zecche stesse adiacenti alla Repubblica di numerosi forestieri. Un nugolo di Francesi, prima e dopo i bandi del Cristianissimo, a cui seguì poco più tardi la scomunica dell’autorità religiosa gallicana, si riversava in queste piccole zecche autonome, nella fiducia di potervi godere una maggiore libertà d’azione per le loro specula- no) Ms. Merli, cit.; Olivieri, Mon. Doria, cit., doc. XX. - 31 - zi°m (11). Alcuni di questi avventurieri provenivano da altri stati italiani. Da Venezia era giunto quel Valentino Berti, che subì a Smirne nel 1663 il sequestro di cui parlammo, ed ebbe poi parte anche nelle operazioni della zecca di lorriglia, per passare infine al servizio di Lucca. Suo parente era il noto Francesco Moretti. Pure veneziano, esercitando anzi in Genova le fun-console di quella Repubblica, fu Paris Tasca, partecipe anche lui agli affari del « fermiere » di Torriglia (12). Questi forestieri, assunta in affitto una zecca, passavano talvolta dall’una all’altra, ed essendo nelle stesse vivamente interessati, s’industriavano di lucrare, lavorando per i feudatari, e più spesso speculando per proprio conto e per quello di terzi, anche con operazioni clandestine. Ma ciò che soprattutto c’interessa è la condotta della Repubblica di fronte a tutte queste forme di illecita attività, delle quali particolarmente la Francia mirava a far apparire la Repubblica stessa come unica responsabile; è 1 accertare quale fosse in proposito il reale atteggiamento della Porta ottomana verso Genova, all’infuori delle sobillazioni dei nemici di questa. E’ quanto vedremo nel corso del nostro studio. Possiamo però subito affermare che gli intendimenti e l’azione del governo genovese furono nettamente favorevoli ad una politica monetaria sana e leale. Quattro gride (13) emanò contro gli abusi lamentati; vari provvedimenti prese per l’osservanza dei suoi decreti. Con tutto ciò bisogna ammettere che non si mostrò sufficiente fermezza nell’esecuzione delle sanzioni stabilite, specialmente verso alcuni elementi dell aristocrazia che in coteste faccende erano più o meno direttamente interessati. E vero che, in linea di diritto, la Repubblica non poteva intervenire nei feudi imperiali a dettar legge; ma poiché quei feudatari erano quasi tutti suoi cittadini, pareva anche allora che qualche efficace pressione avrebbe potuto esercitare su di essi. Particolarmente delicata era la posizione di alcuni patrizi. Figure di primo piano nella vita pubblica genovese della seconda metà del 'seicento furono i fratelli Gio. Luca e Gio. Agostino Durazzo: preminente l’opera del primo nel campo politico-diplomatico e della difesa militare; essenziale quella del secondo per l’argomento di cui ci occupiamo. Ora, il loro fratello Eugenio (14), rivolto tutto agli affari e agli interessi economici, fu appunto, i. ^ra / *?!'ance8‘ c^e s’ingerirono nelle zecche dei feudi imperiali ricordiamo a Loano e Tor-nglia, oltre il nizzardo Blauet, Andrea Hugues, Santi Glaudeves, Torans, Grandi, G. Solinnak, Cristoforo Aicoler (Eicolser); a Campi: Giov. e Lor. Massaure, Andrea Marette; a Ronco: Giov. Gin-quet. Come si disse, in massima parte francesi erano i capitani e le navi che si dedicavano a tale traffico. (Olivieri, doc. XX). (12) Il Magistrato delle monete il 4 settembre 1666, trovandosi nella necessità di esaminare il detto Paride Tasca sospetto di aver messo in circolazione un buon numero di piastrini di un terzo del valore, ne richiedeva prima l’autorizzazione ai Ser.mi Signori, data la sua qualità di rappresentante della Rep. di Venezia. Come tale, troviamo che nel 1669 dava comunicazione al Governo della resa di Candia; onde i Collegi decretavano la sospensione del contributo di soccorso in 50 mila pezzi, che già stava per essere versato a Venezia. A.S.G., Secretorum, 27/1582, 29/1584. (13) Pubblicate il 2 giugno 1666; 18 luglio 1667; 26 maggio 1671; l.o febbraio 1675. (14) Di lui si ricordano certi capitoli stipulati in Genova con la Maddalena Lomellina ancora il 24 maggio 1669 «per battere nelle seche di Loano ottavetti per levante della bontà di quattro da doversi in dette monete descrivere in lingua latina e turchesca e con conditione che gli impronti di queste siano in tutto gli stessi di quelli della bontà di 5... Haverà il Sig. Eugenio obligo di fare in dette seche battere libre 50 d’ottavetti al mese con l’impronto et arme che piacerà a detta Sig.ra Maddalena e di bontà di sei e del peso solito delle eeche di S. E. per doverli mandare in Levante con mira et a fine d’introdurli in quelle parti e colà far conoscere la loro bontà». Si accoglieva coti - 32 - come vedemmo, uno di coloro che cercò di sfruttare il maneggio del mone-tino, in rapporto con alcuni dello stesso rango. Anche un altro personaggio si lasciò invischiare nella faccenda dei luigini; e questi fu uomo attivo, che svolse per lunghi anni opera vantaggiosa ed apprezzata in favore della patria, voglio dire il M.co Lazzaro Maria D’Oria, proprio quegli che venne incaricato" di stendere la prima lettera per affidare a Gio. Agostino Durazzo l’inizio delle trattative di Costantinopoli. La scarsa efficacia palesata talora dal Governo nell azione repressiva e nell'applicazione di provvidenze immediate — che tuttavia presentavano difficoltà in certi casi insuperabili - forniva ai nemici esca a forgiare le loro accuse contro la Repubblica, deformando ed esagerando la realta stessa della situazione. Falliti infatti tutti gli intrighi tentati dall ambasciatore francese a Costantinopoli, col palese compiacimento specie dei Veneziani, le speranze per un colpo decisivo contro il nuovo traffico ligure furono particolarmente concentrate sull affare delle monete (15). ana norma di correttezza adottata, come diremo, dalla Rep. quanto all’esplicita e9p-9BÌone nella moneta del suo valore. Rimane l’incertezza sull’applicazione d. tale pr.nc.p.o e sulla questione del- ^"proibizione dei luigini in Turchia, bandita nello stesso anno 1669 rese vano il contratto; ne nacque tuttavia una causa durante la quale il M.co Eugenio giunse fino a negare .1 riconoscimento della propria firma, ma che finì con la sua condanna. . j: Lo spirito affaristico di Eugenio Durazzo è pure attestato da altra denuncia an0"'™™nt™ lui per il monopolio che con Stefano Balbi si era assicurato sull oho da esportare .n Lombardia. (Secretorum, 29/1584). . . j__is Ri. Altri nobili, per non parlare di borghesi, furono interessati nella coniazione ^gh o .avett, R cordiamo Marcello Durazzo, Rainieri Grimaldi per Loano e Pier Francesco ^^“c^^pe CamSi' noia q. G. Ant., Melchiorre Negroue, G. B. Doria, Ippolito Invrea, Paol.no e Saolo Saol. per Camp, (15) Poiché i Francesi furono i principali accusatori contro Genova in materia ^ ^neta giova esaminare la loro posizione al riguardo, sulla scorta del cit. stor.co d. quella P J son. Il quale, rilevando che al principio del XVII sec. le monete <-onosc,ule* erano f gnuole sivigliane o messicane, dette reali di Spagna o piastre di reali, afferma che esse er«"° nominate anche marsigliesi, dai mercanti che in maggior numero le importavano; ma aggiunge p«re che i Francesi spesso le alteravano, vane riuscendo le dispos,z.on, delle anioni peimped ^ La Camera di commercio di Marsiglia, poi, mentre si opponeva a questo tra , p ^ ^ sviluppasse quello « plus dangereux » delle pezze Jj 5 ìol l ,# pe^'en^Y Turchi le prendevano dal 1656, assicurarono ai Marsigliesi « des benefice» de 80 et P _ _ . rnrninr;flrono a 10 soldi per pezza, poi a 7 e mezzo, e non desideravano che tale mone a. r Avignone presto ad alterarla. Masson cita Chardin, il quale ricorda le zecche di Dombes, ^ange Avignone. Monaco, Firenze, e infine quelle «des chateaux écartés, che si trovavano - come f mente - «dans l’Etat de Gênes». Quando i Turchi si avvidero del danno, fecero *>vuiupe «8™ des avanies au Français, les traitant de faux monnayeurs, quoique - scrive sempre lo Char les Hollandais et les Génois y eussent autan, de part». Una lettera de De La Haye al Coll. rt del 9 ottobre 1665 dice: «Tout le monde se plaint à Marseille, du moins les bonnetes gens, deeque le sieur Borvell, qui a entrepris la fabrique des pieces de 5 sols les altere a un point qu .1 y a 25, 30 et 35 de diminution». „ .. 11 Masson col Chardin (Voyage de M. le chavalier Chardin en Perse et autres lieux de l Orient de 1671 à 1674, Amsterdam, 1711), nota che gli Olandesi portavano nello stesso tempo in orient, nete alterate non meno dei pezzi da 5 soldi. Esse erano i «leoni», che ai uigini succe etter p tutto il seicento nel favore dei Turchi. Secondo quanto scrive Jacques Savary (Parfait negotiant, 1 ), avendo detta moneta l’impronta di leoni, i Turchi la chiamavano «asiani» o — scambiando, torse di proposito, i leoni con i cani - «aboukelb», vocaboli che indicavano appunto detti ammali. 1 nomi presero poi forme diverse; i Francesi usarono quelli di « asselanis » o «abouqueis». Questa moneta valeva 70 aspri ossia un po’ meno della piastra di Spagna, che ne valeva 80; senonchc essa era di cattiva lega non contenendo spesso che la metà di fino e non di rado anche meno, presen tando un colore rossastro per il prevalere del rame. Con tutto ciò rimase la moneta più corrente nell’impero ottomano; gli Armeni, però, per il negozio della Persia, cercavano le piastre di Spagna pagando fino il 10 per cento di cambio. Un'altra moneta ancora di più bassa lega era impiegata, specie nell’Arcipelago, dai Francesi ^ col nome di « ieolotes o taleroe». Pare che si diffondesse essa pure in oriente al tempo dei luigini, e - 33 - 2* Quando il M.co Gio. Agostino Durazzo rientrò a Genova il 5 febbraio 1666, urgente si presentava cotesto affare per una sua soluzione definitiva. Già il ricordato Francesco Moretti, nell’agosto del 1665 aveva proposto di assumere per conto della zecca della Repubblica una battuta di monete della bontà di 10 e 20, promettendo in più alla Camera Ecc.ma la contribuzione di lire tredici mila. A proprie spese si sarebbe inoltre provveduto dei torchi occorrenti da lasciarsi poi al Magistrato competente, impegnandosi pure a coniare ogni anno 150 mila scudi d’argento. Lo scopo era naturalmente sempre quello di avvantaggiarsi nello smaltimento della moneta per il levante, permanendo il divieto di transito di quella forestiera attraverso il dominio genovese. Il Moretti, s’intende, presentava la cosa in tutt’altro modo. Nell’ultima sua supplica al Magistrato delle monete (poiché alle altre non aveva ancora avuto risposta) scriveva infatti che la sua offerta avrebbe avuto « ottime conseguenze d’introduzione di negozio per Levante, di togliere ogni moneta scarsa, impossibilitare il taglio e l’introduzione di esse monete adulterate, et altre conseguenze alla somma prudenza di VV. SS. Ill.me pienamente note e desiderate». L’offerta di questo individuo, che ben s’intendeva del maneggio illecito delle monete, tanto che in una relazione posteriore sarà definito « professore in simili delinquenze », non ebbe miglior fortuna della precedente per l’avviamento del traffico col Turco (16). In questo stesso tempo, e precisamente il 9 settembre 1665, un certo Deodato di Giovanni, armeno da molti anni stabilito ed accasato in Genova, dove negoziava in sete ed altre mercanzie importate dal levante con largo beneficio della dogana, supplicava (17), di permettere, a lui solo e « per qualche conveniente spazio di tempo », il transito per lo stato della Repubblica di una certa quantità di ottavetti d’argento della bontà di dieci once (18), fu vietata — con il consueto risultato negativo — dal Parlamento di Aix nel 1657 per iniziativa della Camera di commercio di Marsiglia. Lettere da Smirne mostrano che « asselanis » e ic isolotes » erano sempre trafficati non ostante tutte le proibizioni. A metà del XVII sec., con i leoni, le monete più usate erano gli zecchini specialmente veneziani e ungheresi. I Francesi cercarono di fabbricare e trasportare in levante leoni e zecchini, al tempo del traffico dei pezzi da 5 soldi e degli isolotti (1653). « Mais — scrive il Masson — ceux qui les fabriquaient les altérèrent malgré les précautions de la Chambre, à l’imitation des Hollandais, et celle-ci avertie par les malheurs qu’avaient causés les pieces de 5 sols interdit le trafic des abouquels, elle 6e plaignit même vivement au ministre en 1680 de ce que la Compagnie du Levant avait commencé d’en introduire à Alep. Quant aux sequins, ceux qu’on fabriquait en France étaient plus ou moins faux et altérés ». La Camera di commercio di Marsiglia con sue numerose lettere ordinò visite e repressioni; ma tali misure «n’arrêtèrent jamais complétament le transport des monnaies mauvais». Soltanto alla fine del secolo, con i controlli introdotti dai Turchi, i Francesi dovettero tornare alle piastre sivigliane o messicane, provocando anche un deprezzamento dei leoni che gli Olandesi avevano cercato di mantenere assai al di sopra del loro valore. Colbert, conforme alle sue idee, volendo che il traffico si facesse con le mercanzie, finì per proibire rigorosamente — e di ciò lo biasima il Masson — il commercio delle monete nelle scale orientali: non fu però possibile la piena applicazione del divieto alle piastre di Spagna; la Camera di commercio avvertì che il loro commercio veniva così deviato verso l’Italia. La Camera stessa e il De La Haye provocarono 1’« arrêt » del 2 dicembre 1666 contro qualunque pezzo da 5 soldi, posteriore alla grida genovese del 2 giugno. Colbert voleva soprattutto distruggere il traffico delle monete alterate; anche a tal fine aveva vietato l’esportazione del denaro in oriente. Numerose lettere del Colbert e poi del Seignelay, dal 1670 al 1690, attestano che la fabbricazione e il traffico delle monete alterate non cessarono « jammais intierement ». (16) Monetarum Diversorum, 47: supplica 4 novembre 1665. - Relazione della « Dep. circa la battuta dei luigini», 17 settembre 1667 (ms. Merli, cit.). (17) A. S. G., Lettere Ministri Costantinopoli, 3/2171, supplica di Deodato di Giov., 9 sett. 1665. (18) Di bontà non molto inferiore a quella del pezzo da otto reali, che era di once 11 e 2 denari. 3 - 34 - recanti « la vera effigie et arme di quel feudatario nella cui zecca » si battessero, con garanzia che sarebbero tutti destinati alle scale del levante dove essi non solo si spendevano « con ogni libertà, ma con soddisfattone ancora incredibile di quei popoli attratti dalla bellezza di suddetta moneta fabbricata al molino ». Dietro questa concessione, egli avrebbe procurato che « molti di quelli vascelli francesi e d’altre nazioni che al presente vanno a spedirsi in Livorno ed ivi da mercanti armeni gli vien dato il carico e somministrato il contante per impiegare in compra di seta, cotoni, cere, et altre merci, venissero a spedirsi e prender il carico et il contante in questo Porto tirati dalla comodità di poter havere la suddetta moneta ». A convalidare tale promessa si obbligava intanto di far venire, entro un anno dall’inizio della concessione, due navi provenienti dall’oriente per conto di suoi connazionali, con carico di sete ed altre merci. La repugnanza dei Ser.mi Signori a tale proposta è dimostrata dal fatto che soltanto dopo oltre due mesi essa venne passata all’esame della Giunta del traffico, senza che peraltro ne sia giunta a noi ulteriore traccia, laddove il Deodato altre proposte avanzerà, come vedremo, con miglior successo. Intanto Gio. Agostino Durazzo, ricevuto, come si disse, dai Ser.mi Collegi il 9 febbraio, presentati il giorno 15 alla Giunta del traffico i « recapiti » portati dalla corte ottomana, rilevava la necessità di provvedere al più presto all’elezione dell’ambasciatore che recasse al Gran Signore e ai suoi ministri i ringraziamenti della Repubblica e i necessari regali, nominando insieme il residente di Costantinopoli e il console di Smirne, che poteva al momento valere anche per Aleppo, Saida, Cairo e Scio, ed allestendo subito un vascello da guerra e due di mercanzia per il convoglio di apertura. Dava quindi ragguagli sulle spese occorrenti per il mantenimento della rappresentanza e per i regali di prammatica, secondo le informazioni attinte sul posto. La Giunta a sua volta, riferendone ai Collegi, proponeva la nomina ad ambasciatore dello stesso Durazzo, « per quanto mostri diceva — a ciò renitenza ». Come residente e come console di Smime vennero poi designati rispettivamente Sinibaldo Fieschi e Ottavio D Oria. Due magnifici colleghi e lo stesso Durazzo dovevano intanto preparare gli animi dei mercanti a partecipare alacremente a questa prima missione dei due vascelli mercantili, che certo avrebbero trovato con facilità il carico così in Genova come a Livorno e in Sicilia. Ai mezzi finanziari occorrenti, che si riteneva non dovessero essere eccessivi, si sarebbe potuto provvedere, come si era fatto nel 1558, con una « scritta » di luoghi in S. Giorgio, sicuri dell’adesione della Ill.ma Casa, dati i vantaggi che dal nuovo traffico le sarebbero derivati. Questo punto, insieme con altri essenziali, meglio precisava la Giunta del traffico nella seduta del 18 febbraio 1666. Gio. Agostino Durazzo doveva scrivere al gran visir e al Panaioti esprimendo il gradimento della Repubblica per i privilegi accordati ed annunciando, con i preparativi della spedizione, la sua nomina ad ambasciatore, eliminato — si insisteva — il titolo di bailo, come quello che era proprio degli inviati di Venezia, al cui stile non era decoroso conformarsi, trascurando le consuetudini genovesi. Un capitolo su tale memorabile avvenimento era opportuno far inserire sul novellario che si pubblicava allora in Genova. E poiché il M.co Gio. Agostino aveva confermato il persistere delle buone disposizioni e dell’affetto della nazione ragusea, la Giunta riteneva pure conveniente annunciare ad essa l’apertura del traffico, potendo sempre riuscire utile ai mercanti e servire come pronto e sicuro recapito per le lettere fra Genova e Costantinopoli, dove tanti interessi essa aveva. Il procacciarsi i vascelli di mercanzia non era cosa facile riscontrandosene penuria, e ciò non per scarsezza del numero, ma per i molteplici impegni; si suggeriva quindi di incaricare il Magistrato del Nuovo Armamento perchè, all’arrivo del convoglio di Spagna, noleggiasse uno di quelli che avevano goduto della sua scorta: ad esempio il vascello di Michelangelo Rosso od altro simile. Un argomento, poi, di somma importanza e di viva discussione faceva la Giunta oggetto delle sue proposte: quello della moneta. Constatando che «la mercanzia che da queste parti si traffica per il levante è in gran parte il contante che si porta colà per impiegare in quelle merci », considerava il vantaggio di far coniare « una sorte di moneta che portando l’impronta della Ser.ma Repubblica nell’esterno, e bontà intrinseca di lega proporzionata al valsente di essa, potesse risvegliare negli animi di quei popoli uno desiderio della contrattazione di essa, et assicurarli della fedeltà e giustizia di questa zecca in contro particolarmente delle forestiere che si presente travaglino incessantemente in fabbrica di luiggini et altre monete per il levante ». Il Prest.mo Mag.to delle monete avrebbe dovuto esaminare particolarmente la pratica per la sua migliore attuazione, tenendo presente che sarebbe stato « forzoso non adoprarvi per impronto l’immagine della S.ma Vergine », data la sconvenienza che essa passasse «per mano di gente infedele» (19). Frattanto questo problema della moneta s’intrecciava con quello del convoglio per la cui formazione il 4 marzo i Ser.mi Collegi stabilivano che la nave capitana (venne scelto come tale il vascello da guerra S. Maria comandato dal cap. G. B. Fiesco) dovesse servire per il trasporto del Durazzo e per la scorta delle navi di mercanzia. Riguardo il noleggio di queste incaricavano la Giunta del traffico di sentire tutte le offerte che venissero presentate e particolarmente quelle di Deodato armeno (20). Le quali ci dimostrano ancora una volta come le mire di coloro che intendevano trattare siffatto commercio, fossero sempre rivolte essenzialmente al traffico del famigerato monetino; mentre ci consentiranno, d’altra parte, di mettere chiaramente in rilievo quale fosse il vero atteggiamento della Repubblica. Il Deodato in una prima scrittura si offriva di noleggiare « una buona nave genovese », che si ponesse al sèguito del convoglio per Costantinopoli, con riserva di ottenere licenza dall’ambasciatore di recarsi prima alle Smime, al fine di caricarvi merci per Genova e per Livorno con vantaggio suo e del Pubblico. Chiedeva di essere perciò esentato dai soliti diritti fino ad una data somma, che giudicava si potesse fissare, « per questa prima volta », a 50 mila pezzi,, stimolando così al negozio, con il miglior trattamento, i mercanti forestieri e specialmente gli armeni « che hanno il maggior traffico del levante ». Nessuna mercanzia avrebbe potuto trasportare, tanto nell’andata quanto nel ritorno, il vascello da guerra, mentre a lui Deodato doveva essere lecito caricarne sulla sua nave di qualsiasi sorta, eccettuate quelle di cui era « proibita la navigazione et introduzione nel levante» (in quanto, cioè, vietate dalla Chiesa); occorrendo però soprattutto ed espressamente dar norma al- (19) A. S. G., Giunta del Traffico, 1/1015, Relazione 15 e 18 febbraio 1666. • Come è noto dal 1638 si cominciò ad usare nelle monete genovesi l’impronta della Madonna. Di qni la necessità di un’apposita battuta di scndi con altra figurazione. (20) I vari documenti relativi al Deodato si trovano in Lettere ministri Costant., 3/2171. l’affare dei luigini, « già che in essi consiste il maggior traffico, et il maggior arbitrio, che si facci di presente in quei Paesi ». Ora la Repubblica poteva ben vietare il transito di tale moneta nel suo dominio e l’imbarco nei suoi porti e sul convoglio; ma non avrebbe potuto impedire che « in Livorno o in Messina, per cagion d’esempio, un mercante armeno non caricasse per suo conto detti luigini per consigliarsi ad altro mercante armeno residente in Smirne ». La cosa non avrebbe pregiudicato affatto la nazione genovese, come se essa spendesse e maneggiasse moneta di qualità inferiore; anzi — insisteva il Deodato — togliere una siffatta libertà voleva dire diminuire « la portata » del convoglio non solo con svantaggio economico della Repubblica, ma con sua poca reputazione se « contra l’aspettazione di quei Popoli riuscisse debole » quella prima spedizione, come certamente sarebbe seguito applicando provvedimenti troppo rigorosi. Le proposte dell’armeno non parvero accettabili, sicché egli presentava una seconda offerta, in cui dichiarava di noleggiare e condurre a sue spese i due vascelli mercantili del convoglio con il massimo carico possibile così di mercanzie come di contanti per conto proprio o di altri, purché non solo fosse esentato da ogni pagamento del convoglio stesso e del consolato, ma gli venisse concessa la facoltà di esigere questi diritti dai mercanti che avessero caricato merci o denaro sui detti vascelli o su quello da guerra : al ritorno in Genova egli avrebbe poi versato alla Camera Ecc.ma un contributo di ottomila pezzi da otto reali. L’offerente poneva inoltre le seguenti condizioni: gli fosse permesso di accompagnarsi, così nel viaggio di andata come di ritorno, anche con altri vascelli, avendo arbitrio di riscuotere i relativi diritti di convoglio e di consolato; se in qualsiasi scala fossero caricate sete sulla nave da guerra, a lui spettassero il nolo e i diritti soliti; per maggior sicurezza, gli venissero forniti dal Mag.to deH’Armamento otto pezzi di bronzo e un certo numero di soldati pagati. Quanto alle monete s’impegnava a imbarcare soltanto luigini ossia monetini della stampa di Genova o altri della bontà di dieci; quelli riconosciuti di bontà inferiore, fattone il saggio, non li avrebbe accettati sulle navi nè a Genova nè altrove. S’obbligava pure a comperare dalla zecca della Repubblica ventimila pezzi di monetine, quando se ne fosse decisa la battuta, ad un prezzo però non superiore a quello delle altre zecche. Nuove obiezioni furono mosse alle offerte del Deodato e altre correzioni proposte: così quella di portare a 12 mila pezzi la contribuzione (convenuta poi fra gli otto e i nove mila); di stabilire al valore di 30 mila pezzi l’acquisto delle monetine che eventualmente si fossero coniate nella zecca genovese; o addirittura di proibire totalmente l’imbarco di qualsiasi sorta di luigini. In relazione a quest’ultima soluzione, l’armeno aveva presentato una terza offerta che confermava le altre clausole, riducendo però l’oblazione a pezzi quattromila. Il 20 marzo 1666 si dava incarico al M.co Agostino Saluzzo di riassumere tutte le ragioni che erano state vagliate durante le discussioni, e due giorni dopo, sulla base di tale rapporto, veniva stesa l’esposizione da presentare ai Collegi. Da tali documenti risulta una certa perplessità nelle decisioni. Si rileva concordemente il grande vantaggio dell’offerta del Deodato, in quanto esimeva il governo dal noleggio dei vascelli; e ciò sia per l’alto costo dovuto alla loro presente penuria, sia perchè — considerazione degna di rilievo — si era sempre sperimentato che tutti i negozi intrapresi dal Pubblico avevano procurato pregiudizi e non già quei profitti che erano soliti realizzare i privati. - 37 - 3- — L’unico scoglio rimaneva la faccenda della moneta. La situazione di fatto era che il monetino nuovamente introdotto dalle zecche circonvicine, aveva incontrato il favore di molti mercanti per l’utile che ne ricavavano, ed anche di quegli stessi Turchi, i quali, allettati dalla sua bellezza, si rifacevano poi del valore mancante con l’aumento del prezzo delle mercanzie. Ora tale monetino confluiva, come sappiamo, a Livorno dove si negoziava e si imbarcava sulle navi che vi facevano capo; sicché non appariva possibile ga-reggiare con quel porto nel traffico orientale, escludendo una siffatta mercanzia. Se si fosse permesso il libero imbarco del monetino, poiché si sapeva che ve n’era in Livorno ed altrove anche appena della bontà di sette, sarebbe stata quella, da parte dei popoli d’oriente, un’occasione di viva recriminazione contro la nazione genovese, perchè la prima apertura del negozio si accompagnasse « con un morbo colà stimato per il traffico pregiudiciale e contagioso », (tale doveva essere fin da principio la convinzione di molti), fornendo altresì fondato motivo ai prìncipi emuli di operare alla distruzione dei privilegi conseguiti. Per contro, una maggiore stima avrebbe potuto acquistare Genova nell’impero ottomano, quando la sua moneta fosse stata riconosciuta più pregevole delle altre, a scapito e discredito delle nazioni emule e in particolare di quelle che avevano cercato ogni mezzo per escluderla dalla contrattazione. Tuttavia era necessità ammettere che non avrebbe incontrato il vantaggio dei mercanti l’inviare in quei paesi lo scudo d’argento genovese di gran lunga superiore in bontà alle monete allora in uso, ma di minor bellezza rispetto ad esse. La cui diffusione aveva infatti portato ad una diminuzione di richieste degli stessi pezzi da otto reali, che da Genova si ricavavano, non riuscendosi ad impiegarli in oriente a proporzione del loro intrinseco valore. Allo stesso risultato avrebbe inoltre portato il battere un proprio monetino di piena bontà, non prestando esso al mercante speculatore il margine eccezionale di guadagno ricercato. La Giunta aveva quindi considerata la possibilità di coniare una piccola moneta del valore di 10 e 10 da destinarsi esclusivamente al levante. Veramente il governo turco aveva proibito i timini di lega inferiore alle undici once di fino; ma in realtà erano tollerati e comunemente usati in oriente quelli del titolo di dieci. Per cui, se la zecca genovese avesse battuto ed inviato colà una monetina della bontà di 10 e 10, avrebbe potuto questa acquistarsi maggior pregio rispetto alle altre inferiori. Anche l’obiezione che in Francia, a Firenze ed a Monaco si fossero battuti monetini di 11 o poco meno, non reggeva perchè o se ne era diminuito il peso a compenso della maggior bontà o questa si era finito per ridurre stabilmente a 10: deterioramento che, come dicemmo, si riteneva compensato dalla vaghezza del conio e dell’accrescimento del prezzo delle merci. Per questo, la convenienza di battere nella zecca della Repubblica una siffatta moneta era problema allora sottoposto al ponderato esame della Guida del traffico e del Magistrato competente. L’11 marzo 1666, un anonimo, pur esaltando ai Supremi Sindacatori la importanza del commercio nuovamente instaurato, aveva denunciato che cittadini genovesi mandavano a Smirne luigini fatti fabbricare « di bassissima lega », mettendo in rilievo il decreto di proibizione del granduca e la sua cura di farlo penetrare in Turchia. « Non è tampoco giusto — diceva — ven-ghi dal principe permesso che s’inganni sotto una fede di scala franca nemmeno li Turchi » ; se non si fosse rimediato, la Porta avrebbe revocato il pri- - 38 - vilegio concesso, sotto l’incitamento dei prìncipi emuli, ai quali bisognava « chiudere la bocca », proibendo la stampa e l’imbarco di simili monete. Ma poiché la Repubblica era impotente ad impedire l’attività delle zecche non soggette alla sua giurisdizione e quella di cittadini che sfuggivano alle sanzioni dello stato, alcuni avevano pensato di sradicare il male, cercando di soppiantare le monetine forestiere contraffatte con una propria della Repubblica di valore stabile un po’ superiore. In questi stessi giorni (15 marzo 1666) il Mag.to delle monete presentava appunto la sua relazione sulla battuta di un nuovo monetino per il levante. La Giunta del traffico, a cui la relazione era rivolta, aveva posto i seguenti quesiti: se fosse conveniente al Pubblico la coniazione di una moneta della bontà di 10 e 10; se si dovesse in caso proibire « l’imbarco di altre consimili forestiere » ; se quella nuova della Repubblica fosse da considerarsi soltanto quale mercanzia per il levante. Il Mag.to sosteneva anzitutto la convenienza che il valore di quest’ultima dovesse essere superiore a 10 once e 10 denari, richiamando in proposito anche l’offerta che pochi mesi prima aveva fatta il noto Francesco Moretti per la fabbrica di una moneta della bontà di 10 e 20, obbligandosi anche ad una contribuzione di lire 13 mila all’Ecc.ma Camera. Quanto alla proibizione dell’imbarco sui vascelli della Repubblica delle monete forestiere, essa era considerata « necessarissima », perchè con quelle consimili di bontà inferiore non venisse confusa la genovese, col pericolo di essere compresa in un eventuale bando turchesco contro i pezzi adulterati, ma questa ultima potesse elevare invece la propria stima. Il che avrebbe disanimato le altre zecche nelle loro speculazioni, rendendo più ricercata la moneta di Genova, e dando quindi maggior impulso agli affari con utile delle gabelle e dei privati, a compenso dei danni che avrebbe certo cagionato in un primo tempo al convoglio e ai noli il ripudio del monetino, di cui si doveva vietare assolutamente anche il transito per il dominio della Repubblica. Circa il terzo punto, si considerava da una parte la disistima che ne sarebbe potuto derivare alla nuova moneta da un’aperta proibizione di spenderla nello stato; dall’altra il pericolo che la moneta stessa, « di gran lunga inferiore di bontà al scuto d’argento », potesse venire adulterata, come in simili casi si era verificato; per cui si suggeriva di provvedere in modo che effettivamente quanta ne fosse uscita dalla zecca, tutta venisse trasferita in territorio forestiero. Data poi l’urgenza della coniazione, non potendo « gli ordigni al momento in zecca » servire alla bisogna, si proponeva di concedere in appalto tale manifattura a persona che aveva fatto offerte al riguardo (21). Ma, ritornando all’esposizione (22 marzo 1666) della Giunta del traffico che stavamo esaminando, risulta da essa che lo stesso Magistrato della moneta finì per manifestare la sua aperta opposizione a questa progettata coniazione. La ragione su cui si fondava era quella già accennata; e cioè che dall’opportunità di permettere la circolazione nel dominio del nuovo pezzo per non screditarlo, ne sarebbero potute derivare « alterazioni pregiudiziali al maneggio degli scudi d’argento », costituenti la moneta più pregiata o come si diceva « germana » della Repubblica. Tali riflessioni vagliate in seno ai Ser.mi Collegi, insieme con la considerazione dell’impossibilità di procurarsi in tempo gli ordigni necessari al conio, avevano eliminato l’idea della nuova stampa, inducendo il Deodato di Gio- (21) MS. Merli, cit. - 39 - vanni ad insistere sulla sua terza offerta che riduceva l’oblazione a quattromila pezzi, sottomettendosi all’esclusione totale del monetino e obbligandosi a portare solamente pezzi da otto reali, ongari e zecchini. A ciò veramente si era giunti « dopo lunghi contrasti » per persuadere lui e i suoi compagni di negozio su tale punto essenziale. Ma neppure con questa soluzione erano dissipati i dubbi ed i pericoli. Per essa si sarebbero perduti cinque mila pezzi della contribuzione; inoltre il mercante, poiché era allettato dall’utile del quattro o cinque per cento che di colpo si guadagnava nella compera del monetino, avrebbe abbandonato « facilmente il giro di questa piazza», portandosi a Livorno, dove poteva godere di tale arbitrio. Ma quel che più preoccupava era la probabile eventualità che il Deodato, sottraendosi al pagamento dei cinque mila pezzi, non mancasse poi di provvedersi ugualmente del monetino fuori del dominio genovese, ritenendosi impossibile che si potessero praticare in porti forestieri le sanzioni minacciate, specialmente quando detto monetino si fosse confuso con le mercanzie, e mancando all’ambasciatore mezzi adeguati per far valere le ragioni del fisco. Veniva pertanto suggerita una via di mezzo per salvare l’utile ed evitare le ostilità dei nemici. E cioè: proibire che si caricasse sui vascelli del convoglio monetino inferiore al valore di undici, pubblicando anche editti proibitivi al riguardo; ma dare istruzione segreta all’ambasciatore di dissimulare l’imbarcazione di quello della bontà di dieci e più. che era di fatto accettato dai Levantini, lasciando così al Deodato la fonte maggiore dì guadagno e impegnandolo a pagare l’intera oblazione di nove mila pezzi. A dimostrare poi quale fosse la vera moneta della Repubblica, « che è uno de principali ornamenti dell’ambasceria e sostanziale fondamento del traffico», la Giunta considerava «necessità precisa» la stampa di dodici o quindici mila scudi d’argento da consegnare all’ambasciatore, che avrebbe provveduto a diffonderli in qualunque forma presso il Turco. Siffatto ripiego, che poteva essere consigliato solo da una situazione ritenuta irriducibile, non era tale da soddisfare molti di quelli stessi che l’avevano escogitato. A tutte queste discussioni aveva preso parte, particolarmente invitato, il M.co Gio Agostino Durazzo, col parere del quale la Giunta del traffico chiudeva la sua esposizione. Egli in sostanza rilevava che se fosse penetrata in oriente, cosa non difficile, la dissimulazione dell’imbarco del monetino, contro il quale, da lettere pervenutegli e secondo le voci sparse fra i mercanti in città, viva si era fatta ormai l’avversione in quelle terre, temeva che ne avrebbe avuto forte pregiudizio la sua missione. Sarebbe stato quindi di opinione che si accettassero dal Deodato soltanto i quattromila pezzi, ma si ribadisse una « vera ed effettiva » proibizione del monetino avente minor bontà di undici, « perchè circa le frodi — aggiungeva — sarebbe suo pensiero di divertirle, chiarirle e con la autorità dei Ser.mi Collegi punirle con ogni severità ». Due giorni dopo (24 marzo 1666) i Ser.mi Signori approvavano l’opinione del Durazzo, proibendo anzi i luigini di qualunque specie e tutte le altre monete che non fossero pezze da otto reali, ongari, zecchini, o scudi d’argento della zecca genovese (22). Questo chiaro atteggiamento del Durazzo ci dimostra come non esistesse una sua connivenza con le speculazioni del fratello Eugenio, denunciate proprio pochi giorni dopo (13 aprile 1666) da un biglietto anonimo ritrovato nei calici del Minor Consiglio. Esso diceva: «Con estrema passione vedo delusa (22) Lettere Ministri Costant., 3/2171. - 40 - l’intenzione di W. SS. Ill.me nella proibizione delTimbarco de Luigini in la nave capitana destinata pel Levante mentre dal M.co Eugenio Durazzo si fanno impieghi rilevanti di questa moneta per imbarcarla nella detta nave». Si imploravano diligenze per l’osservanza degli ordini, giacché si era « rifiutata l’offerta di pezzi dodici mila per non volere che vada in levante moneta falsa con vascello della Repubblica ». Se tale era in realtà l’intenzione del M.co Eugenio, essa certo falli in pieno. Il fratello Gio. Agostino vigilò severamente nel viaggio della sua ambasceria e gli ordini non furono infranti. Parleremo fra poco di detto viaggio: intanto diciamo subito qui che i nemici di Genova si affannarono a diffondere la voce che le ngvi del convoglio sarebbero giunte in oriente cariche di monete false. 11 console francese alle Smirne — riferiva Ottavio D’Oria — era su tutte le furie ed aveva premurosamente divulgato che le navi genovesi avrebbero portato anche pezzi da otto reali di peso non giusto e scadenti monete d’oro. S’era pure molto compiaciuto per il sequestro avvenuto, qualche mese prima dell’arrivo dei vascelli della Repubblica, su di una polacca francese con spedizione per conto della casa livornese di Mestura e Grendi, di una partita di luigini del valsente di 10 mila pezzi, con interesse anche di un genovese. Il D’Oria diceva che si trattava di luigini « di miglior lega dei suoi », cioè di quelli fran cesi, ma che erano stati sequestrati come moneta adulterata e non della zecca di Francia (23). Ora, all’arrivo del convoglio a Smirne, tutti gli emuli e in particolare i Francesi rimasero scornati, quando, sbarcati gli effetti di quei mercanti per il valore di 600 mila pezzi, non vi si trovò « partita alcuna » di luigini « con credito grande del nostro traffico — scriveva il Durazzo — e contro l’opinione di chi aveva intrapreso servirsene di mezzo per diffamare la nostra missione » ; il che era avvenuto « con scandalo degli stessi Turchi » ben informati di tutte le opposizioni fatte, specie dai Francesi. A confermare poi la sincerità dell’atteggiamento e della condotta del M.co Gio. Agostino, ricorderemo come egli, che aveva « sempre fatto valere il bando sopra le navi e fra la gente di esse », si vantava del « buon effetto » che ne era derivato. « Rispetto alla proibizione de’ Luigini — scriveva — dica ognuno quel che vuole, che io stimo sia stata accettatissima in questa missione », ciò che « sosterrò sempre » ; parole che attestano la sua netta posizione al riguardo, pur aggiungendo che si riservava « per quello possa occorrere nell’avvenire » di riferire a voce, data la intricata e anormale situazione monetaria del momento (24). Anche il più rigido divieto del Governo dovette dunque trovare ispiratore e consenziente lo stesso M.co Gio. Agostino. I Collegi inoltre impartirono pure gli ordini per la battuta di sei mila scudi d’argento e spezzato ad uso del levante. Gli scudi dovevano portare da una parte la figura di San Giorgio e dall’altra lo stemma della Repubblica con il motto « Libertas ». Veniva quindi decisa la stampa di una grida di proibizione della moneta, secondo i criteri sopraccennali, grida pubblicata poi in data 2 giugno ’66 (25). (23) Lettere Consoli Turchia, Ottavio D’Oria al Governo, Smime, 22 settembre 1666. (24) Lettere Min, Costant., 3/2171, G. A. Dnrazzo al Governo, Costant., 17 sett. 1666. (25) Monetarum Diversorum, 48. - C. Desimowi (Tavole dei valori ecc., in L. T. Bexcra.no, Della vita privata dei Genovesi, App. II) riguardo al pezzo di S. Giorgio del 1666 (superfluo è rilevare il •uo errato giudizio in Tavole descrittive delle monete ecc. in < Atti Soc. L.S.P.», vol. XXII, p. XLVII) fornisce qnesti dati approssimativi; peso: gr. 27.358; fino: gr. 24.978; valore 1. 4 s. 16 (?); titolo 913 (?) millesimi. Il Mehli (ms. cit.) dà la seguente descrizione di esemplari della stessa moneta Quanto al noleggio dei vascelli si procedeva intanto a definire le clausole dell’accordo col Deodato di Giovanni, celebrandosi l’8 maggio 1666 dai deputati della Giunta del traffico, Gio. Brignole e Lazzaro Maria D’Oria, il contratto redatto sulla base della scrittura privata stesa fin dal 26 aprile precedente. Oltre gli obblighi già ricordati relativi alle monete, il mercante armeno si impegnava ad allestire per il 10 giugno un vascello nel porto di Genova ed un altro nel golfo della Spezia, pronti per unirsi alla capitana. Il cariqo doveva essere esente dal diritto di consolato e di convoglio; sulla capitana, soltanto il Deodato poteva imbarcare, nell’andata, contanti non vietati e cocciniglie, e, di ritorno, dalle 150 alle 200 balle di seta o di pelo di capra. A lui stesso sarebbe spettato l’esigere ogni diritto dai vascelli che si fossero eventualmente uniti al convoglio col permesso dell’ambasciatore. Protraendosi la partenza dopo il 10 giugno, si sarebbero dovute pagare al Deodato pezze 90 di stallia per ogni giornata; a sua volta egli si obbligava a rifondere i danni e le spese che derivassero, per sua colpa, da un ritardo del viaggio della capitana. La sua contribuzione, da versarsi al ritorno in Genova, veniva infine portata a 5250 reali da otto. Fatta sicurtà per il Deodato da parte del M.co Gio Giacomo Grimaldo, tutti i capitoli venivano definitivamente approvati dai Ser.mi Collegi; senonchè la partenza del convoglio veniva ulteriormente diferita fino al giorno 23 giugno. e del suo spezzato: bontà: 900 circa; scudo: diametro mm. 41, peso gr. 25.450; mezzo scudo: mm. 36, gr. 12.770; quarto: mm. 29, gr. 6.329; ottavo: mm. 25, gr. 3.170. Anàlogamente nel «Corp. Num. Ital. », vol. Ili, p. 382 sono indicati: «da otto reali» D. 42; gr. 25,18; «da quattro reali»: gr. 12,74; «da due reali»: gr. 6,32; «reale»: gr. 3,16. — Nelle istruzioni del 5 giugno 1666 a Gio Agostino Durazzo è detto però che gli si era fatta consegnare una somma della nuova battuta dello scudo (« giorgio ») con lo spezzato in due terzi, terzi, sesti e ottavi. Il pezzo di S. Giorgio — come lo scado del sole — era un po’ inferiore di peso al reale da otto sivigliano ma lo superava in bontà, avendo quest’ultimo 11 once e due denari di fino. Il tipico scudo d’argento genovese, del peso di 1 oncia, 10 denari, 21 grana e 5/6 ossia gr. 38.388 (Desimoni: 38.395), valore L. 4 e s. 10, aveva la bontà di once 11 e den. 12; il Filippo di Milano quella di once 11 e den. 10. ' CAPITOLO III IL PRIMO CONVOGLIO DI MERCANZIA E LE OPPOSIZIONI DELLA FRANCIA 1. - L'ambasceria di G. A. Durazzo (1666-67. — 2. - Le opposizioni della Francia fino al ritorno a Genova del Durazzo (29 giugno 1667). — 3. - L'azione diplomatica a Parigi in difesa della Repubblica e la reazione francese (1667-69). 1. — Il 23 giugno 1666 l’ambasciatore Durazzo,. ricevute le lettere credenziali ed i sigilli per il residente, salpava da Genova sul galeone da guerra « S. Maria » — a cui si accompagnavano le navi mercantili « S. Antonio » e « S. Sebastiano » — avendo per camerati, oltre il Fieschi e il D’Oria, i tre cavalieri Battista, Giovanni e Marcello Durazzo. Dopo una sosta a Messina, le tre navi (una quarta, la « S. Lucia », che si era aggregata al convoglio era passata in Puglia) proseguirono il 14 luglio per Augusta, da dove il giorno 18 si diressero verso l’isola di Cerigo, venendo quindi costrette dal grecale a riparare nel porto di S. Nicola. A questo punto il Durazzo aveva fato passare dalla « S. Sebastiano » sulla capitana un pilota inglese, che essendo praticissimo dell’arcipelago e di tutto il mare di levante, fu di somma utilità nella navigazione. A S. Nicola fu incontrato il col. Restori di Bastia, comandante di una nave della squadra veneta, il quale, come suddito genovese, venne cordialmente invitato a bordo del galeone. Lo stesso accadde pochi giorni dopo nel porto di Sira col capitan Giorgio M. Vitali, egli pure della Bastia e famoso corsaro a servizio di Venezia senza stipendio. Qui il Durazzo potè apprendere, attraverso notizie fornite da alcuni individui che erano stati fatti schiavi, informazioni preziose, venendo a conoscenza che il gran visir si trovava con un poderoso esercito di spalli e giannizzeri accampato presso Stifa (Tebe), dove si sarebbe fermato molto tempo. Il M.co Gio. Agostino pensò allora di portarsi ad Atene,, la città più vicina a Stifa, dove giunse in tre giorni, accolto con ogni onorevolezza da quel voivoda, che ne aveva avuto ordine dal gran visir, presso il quale si trovava, quando ricevette la lettera inviatagli dall’ambasciatore prima di entrare in porto. Il voivoda, spedito infatti dal visir, perchè portasse i rallegramenti all’ambasciatore ed apprestasse alle navi quanto loro occorresse, si recò subito a bordo, dove venne ricevuto con gli onori dovuti come governatore di paese franco. Il Durazzo mandò a sua volta il fratello Baccio (Battista) al campo del primo visir, accompagnato dal suo segretario Ardizzone e da molti del se- — 44 — guito, e con buona scorta di Turchi fornita dal voivoda. Il Panaioti era assente, perchè S. Ecc., appena avuto sentore della imminente partenza dell’ambasciatore da Genova, l’aveva spedito, già da tre mesi, a Costantinopoli per i preparativi del ricevimento. Il M.co Baccio, introdotto all’udienza del gran visir dal suo chiaià (maggiordomo), dichiaravagli di essere venuto per pi'endere immediatamente gli ordini relativi all’ambasceria e presentargli la lettera della Repubblica a lui diretta. Accolto con la massima cordialità, gli fu risposto che proseguissero pure sicuramente per Costantinopoli, dove tutto era preparato per riceverli. Dimostrazioni di riguardosa amicizia ebbe pure dal dafterdar (gran tesoriere) e dal reis effendi (gran cancelliere); quindi, dopo sette giorni di soggiorno al campo, fece ritorno ad Atene, accompagnato dal capigi bassi e da altro personaggio, che portarono pure lettere dei ministri turchi all’ambasciatore. Il quale incaricava allora il proprio maggiordomo e un gentiluomo medico di recapitare al gran visir i doni dei Ser.mi Signori e i suoi personali : dieci vesti in tessuto a ricami d’oro di Milano, una pezza di broccato d’oro, quattro altre vesti pur di broccato ricchissime, altrettante di velluto ed uno scrittoio di filigrana oltre quattro casse di dolci ed una corona di corallo al posto di due tavolini che non si poterono trasportare. I regali furono graditissimi, e mentre alcuni ministri avevano espresso disappunto, perchè il Durazzo, anziché recarsi direttamente a Costantinopoli, intendesse approdare prima a Smirne per gli impegni presi con molti di diverse nazioni che si erano imbarcati con le loro mercanzie per questa piazza, il visir lasciò a lui piena facoltà di regolarsi come credesse, confermando che alla Porta aveva in suo onore disposto quello che non era stato « mai fatto per altri ambasciatori », poiché, essendo quella pace da lui conclusa, voleva « fosse mantenuta inviolabilmente e con stima corrispondente ». Partito il 5 settembre da Atene, il convoglio giungeva rapidamente nella baia di Smirne dando fondo fuori del castello di Celebì, dove sostavano normalmente le navi da guerra. Il giorno dopo entrava in porto fra gli spari delle artiglierie, avendo a bordo, con alcuni notabili turchi, anche il doganiere, che aveva « grand’arbitrio verso li forestieri ». Nel porto trovarono una decina fra navi e petacci che spiegarono bandiera francese, senza altro saluto « con scandalo grande dei Turchi stessi ». Così pure non si recò il console del Cristianissimo a complimentare, secondo la consuetudine, l’ambasciatore, come fecero invece la nazione inglese, scusando l’assenza del suo ministro infermo, e quella olandese unitamente al proprio rappresentante. Sbarcati gli effetti destinati a quella piazza e dato assetto al consolato, il 17 settembre le navi del convoglio facevano vela per Costantinopoli. Impedite dalla contrarietà del tempo, dovettero trattenersi prima ai Castelli nuovi, da pochi anni costruiti alle bocche dello stretto, e poi ai Dardanelli vecchi presso Gallipoli, ricevendo particolari dimostrazioni col cannone, tanto da far dire al Durazzo, a proposito di questi ultimi baluardi : « egli è indubitabile che da queste due fortezze, che sono gli antemurali dell’impero ottomano, non è mai stato reso ad alcuno honori simili, talché l’ambasciatore di Francia non si ebbe al suo passaggio un sol tiro» (1). Molti giorni dovette consumare in tale remora il nostro gentiluomo ma non del tutto inutilmente, chè lì potè ricevere, come in seguito diremo, molte informazioni specialmente sull’azione ostile svolta dal ministro francese. (1) A. G. S., Lettere Ministri Costant., 3/2171, G. A. Durazzo al Governo, Pera di Costantinopoli, 24 ottobre 1666. - 45 - Lasciata Gallipoli il 10 ottobre, il convoglio passava il giorno 13 innanzi al Serraglio, che salutava con 64 pezzi dal galeone e con 15 per ciascun vascello del seguito, portandosi quindi a dar fondo nel luogo solitamente destinato alle navi da guerra, tra Scutari in Asia e Topanà, borgo contiguo a Galata al di là del Corno d’oro. Lo sbarco e la cavalcata fino all’« ospizio » dell’ambasciatore avvennero con una solennità ed uno sfarzo eccezionali in mezzo ad una folla di curiosi. Al Durazzo venne assegnata una delle migliori case di Pera, a cui, per le necessità dell’alloggiamento, erano state aggiunte quante altre se ne trovavano nel vicinato fra le più comode, cacciandone anche a forza i padroni. Uno di questi fu lo stesso dragomanno di Venezia, al quale però volle il Durazzo che venisse restituita la sua abitazione. Grandioso fu il banchetto nella casa dell’ambasciatore: più di 60 franchi alla prima tavola ed oltre 300 persone fra Turchi e Cristiani alle altre tre, « sì come tuttavia — aggiunge il Durazzo — si tiene tavola aperta a tutti conforme conviene a chi deve in questi paesi sostenere in mio grado la pubblica reputazione » (2). Dolente fu il M.co Gio. Agostino per l’assenza del Panaioti, che si era dovuto recare al campo presso il gran visir, portando seco if veneziano Ballarino per le trattative di pace poi fallite. Intanto, secondo le regole del cerimoniale turco, provvide egli anzitutto a fare la dovuta visita al caimacan (governatore) di Costantinopoli. Tra i Franchi, compito ed espansivo fu l’ambasciatore inglese, con cui strinse rapporti cordiali, avendone assicurazione del favore di S. M. Britannica e della simpatia dei suoi connazionali. Non mancò di rendere omaggio al Durazzo anche il vescovo di Calamita (Inkerman), francescano, vicario patriarcale in Galata, il quale rafforzò con le sue istanze il memoriale del Generale dell’Ordine per la ricostruzione della chiesa di S. Francesco, distrutta dall’incendio. Devotamente affettuosi si mostrarono poi i Peroti venuti con i capi della loro congregazione ad invocare la protezione della Repubblica, ottenendo essi promessa per la restaurazione dell’ospedale di San Giovanni già istituito dai Genovesi. Rispetto agli emuli più temuti usava il Durazzo, con fine diplomazia, destrezza e benevole dimostrazioni: così verso i nobili veneti prigionieri alle sette Torri; così verso religiosi o aderenti francesi che venivano alla sua casa o al galeone; mentre ordinava alla sua gente di evitare con questi ultimi ogni urto, ostentando al contrario cortesia di modi. Attendeva frattanto di poter compiere l’atto più solenne, che era la visita al sultano. Si era saputo che questi, essendo la corte accampata cinque miglia lontano dalla città, intendeva venire in incognito a Costantinopoli per vedere le navi genovesi, che in seguito alle relazioni avute, lo avevano molto incuriosito. L’udienza doveva però avvenire in Adrianopoli, sicché, ricevutane l’autorizzazione, soltanto il l.o gennaio 1667 l’ambasciatore, con treno di oltre 150 persone fra cristiani e turchi, 70 carri, 40 cavalli di cui 20 della sua stalla, quattro carrozze all’uso del paese, potè mettersi in moto da Costantinopoli per raggiungere la corte. Il viaggio durò dieci giorni non senza disagi e fatiche; le accoglienze furono come al solito confortevoli. La prima visita era dovuta al caimacan della città., ed essa si svolse con (2) Ibidem. - 46 - i segni della più amichevole corrispondenza e con la consegna al ministro ottomano della lettera dei Ser.mi Signori in borsa di tela d argento e dei regali d’uso consistenti in 24 tagli di vesti a differenti stoffe, dieci vesti di tela d’argento ed una corona di corallo su guantiera di filigrana. Al Durazzo venivano offerti sorbetto, profumo e caffè, sull uso della qual bevanda in Italia, il gentiluomo aveva modo di far conoscere, discorrendo, che egli stesso, dopo averla gustata in Turchia, avea cercato d introdurla nella penisola. Arrivato il giorno fissato per l’udienza del Gran Signore (23 gennaio), questa fu preparata da nuova visita al caimacan con relativo banchetto da questo offerto, durante il quale il Durazzo, fra 1 altro, potè cogliere occasione dai discorsi sulle competizioni fra le potenze cristiane, per far presente come la sua Repubblica, mentre era in accordo con tutti, vedesse con disgusto i suoi vascelli molestati soltanto dai corsari barbareschi, per cui sarebbero occorsi ordini del Sultano affinchè la pace fosse stabilita con tutti i sudditi di S. M. Il Turco parve a ciò pienamente acconsentire. La funzione del ricevimento si svolse poi con la massima pompa, presentì i più alti personaggi della corte. Fu condotto l’ambasciatore con il suo seguito nella losgia interna del Serraglio, circondante la stanza dell’udienza, la quale era adorna all’esterno di porcellana e internamente con ricchissimi tappeti, mentre dal di fuori vi penetrava una luce affiev olita e suggestiva, causando « terrore negli astanti e venerazione al Principe ». Per primo venne introdotto il Durazzo da due capigi bassi, camerieri della chiave d oro, che lo sostenevano sotto le braccia per 1 inchino di prammatica. Dopo la reverenza resa nello stesso modo dagli altri gentiluomini del sèguito, 1 ambasciatore pronunciò il suo discorso di ringraziamento e di ossequio, a cui il sultano rispose — cosa insolita — brevi parole di amicizia. Costui, intanto, PÇr una finestra a lui dirimpetto, poteva vedere con compiacimento sfilare al di fuori i regali offerti in numero di cento tre pezzi e comprendenti tagli di stoffe diverse per 60 vesti, portati da altrettanti capigi (portieri), una sedia, due lampadari, roba di profumeria e due specchi che particolarmente piacquero al sultano, tanto da richiederne subito un altro, a qualunque prezzo; desiderio che l’ambasciatore s impegnò di soddisfare al suo ritorno in patria per omaggio al monarca (3). Compita felicemente con questa cerimonia la parte essenziale della sua missione, il Durazzo volle ancora domandare un udienza di negozio al caimacan per trattare o definire alcuni punti riguardanti la disciplina del traffico. L’ottenne in ima sala riservata da parte del muftì e del caimacan stesso, che neppure mancarono, sempre cordialissimi, di trattenerlo alla loro tavola. Di molte cose parlarono, toccando in particolare la questione dei rapporti con la Francia e il suo ambasciatore, al cui riguardo, dimostrando aperto disprezzo, ebbe a concludere il muftì : « ditemi di grazia per quale cagione un re che ha tanti sudditi ha mandato qua per suo ambasciatore un capo sventato? ». Il Durazzo si comportò con la solita circospezione diplomatica, ostentando ossequio al Cristianissimo ed insistendo sulla natura puramente mercantile dei contrasti con quella nazione. Aggiunse che fino allora pochi vascelli della Repubblica erano venuti in levante perchè sdegnavano navigare sotto altra bandiera, essendosi del resto serviti indifferentemente di quella delle varie nazioni ; che se i mercanti genovesi si erano « il più delle volte interessati (3) Ibid., C. A. Durazzo al Governo, Adrianopoli, 23 gennaio 1667. - 47 - colli vascelli francesi », ciò proveniva dal fatto che « molti capitani di essi erano abituati in Livorno » (4). Portò poi il discorso sulle questioni che più gli premevano, quelle cioè della moneta e di alcuni privilegi da chiarire od ampliare, come altrove più particolarmente vedremo. Dai diversi rapporti che, in molteplici abboccamenti, il M.co Gio. Agostino Durazzo ebbe nei suoi viaggi con i personaggi più autorevoli della Porta, ci vien fatto di osservare come, da una parte, alta fosse l’opinione che tutti avevano della Repubblica di S. Giorgio, dai cui traffici grandi cose si attendevano; mentre, dall’altra, affatto inadeguata appariva la conoscenza che essi possedevano dello stato amico, quanto alla sua situazione politica o addirittura alla posizione geografica; e ciò, sia per propria ignoranza, sia per suggestione dei nemici di Genova. Così il predicatore del sultano aveva supposto che la dominante fosse situata di rimpetto ad Algeri; il caimacan di Adrianopoli chiedeva se essa si trovasse al di là dello stretto, e ancora, col muftì, era dubbioso se giacesse rinserrata tra Francia e Spagna. S’informavano sull’estensione dello stato, ritenuto molto ristretto fuori della città, la quale certi malevoli avevano potuto tentare di far loro credere che fosse un semplice castello; infine domandavano quei ministri se era vero che Genova dipendesse da altri. Il Durazzo si era studiato di cancellare gli errori e di elevare la reputazione della patria, chiarendo come essa fosse porta d’Italia con un dominio di trecento miglia di lunghezza, di cui quaranta formanti quasi un’unica città. Territorio ricco di porti — egli diceva — « nel più bel sito del Mediterraneo » con un regno nell’isola di Corsica, costituiva esso una libera Repubblica, soltanto da Dio dipendente (5). Mentre l’ambasciatore stava per rientrare nella capitale, durante il suo lungo e penoso viaggio, gli giunse notizia che a Costantinopoli i due vascelli del convoglio erano stati segnati per il trasporto di soldatesca a Candia, servizio a cui frequentemente si costringevano le navi cristiane trafficanti con l’impero. Giunto quindi in città il 20 febbraio, la prima sua cura fu di far revocare tale provvedimento, ciò che potè prontamente ottenere. A Costantinopoli ed a Smime si era intanto diffusa la voce che dalla Provenza fossero partiti quattro vascelli francesi con oscuri e minacciosi disegni contro il convoglio genovese che si preparava al ritorno. Da Messina, dove era pervenuta con gli avvisi di Malta, la notizia era stata ancora confermata al Durazzo. Il quale scriveva di ritenerla « una menzogna » ; ma che ad ogni modo non si sarebbe mancato « di andare con ogni circospezione, stando nell’istesso tempo pronti alla difesa » (6). Con tali propositi, l’ambasciatore, preso congedo dal caimacan, il 23 marzo salpava con le tre navi da Galata, giungendo il 30 a Smime. Ivi doveva trattenersi, per le necessità del traffico, fino al 16 maggio, giorno in cui faceva vela col convoglio verso l’Italia. Senza incontrare incidenti, arrivava pertanto con felice navigazione a Messina, nelle cui acque riceveva la visita di Giannettino D’Oria, generale delle galee di Napoli, e quindi il 29 giugno entrava nel porto di Genova. 2. — Gio. Agostino Durazzo, appena giunto a Genova, dovette ritirarsi nella villa d’Albaro per trascorrervi la quarantena. Ma pochi giorni dopo il (4) Ibid., Durazzo al Gov., Adrianopoli, l.o febbraio 1667. (5) Relazione Dnrazzo 1667, in Vitale, op. cit., p. 212, 244, 250, 254. (6) Leti. Min. Costant., 3/2171, Durazzo al Gov., Pera di Coi)., 26 febbraio 1667. - 48 - suo arrivo (5 luelio 1667), il segretario di stato veniva inviato a lui dai Ser.mi Collegi, a fine di attingere tutte le notizie necessarie per la consulta, che si doveva tenere al più presto sulle doglianze ed opposizioni mosse di recente dalla corte di Francia contro il nuovo trattato concluso dalla Repubblica con l’impero ottomano. Già conosciamo la violenta reazione del giovane De La Haye al suo arrivo a Costantinopoli nel 1665 — contro le concessioni fatte a Genova, e 1 a-spro colloquio avuto con il gran visir. Costretto a tacitarsi di fronte al risoluto atteggiamento del ministro turco, e quindi con lui momentaneamente riconciliato, andò meditando di scalzare con i suoi intrighi 1 opera del Durazzo, che abilmente, già prima ciò prevedendo, aveva insistito per ottenere il diploma imperiale e le capitolazioni in forma autentica. Partito, dunque, il primo visir per il campo, approfittò il De La Haye dell’assenza di lui, che ben sapeva suo nemico e protettore dei Genovesi, per portarsi ad Adrianopoli con l’intento di conseguire dal sultano una revisione delle capitolazioni, facendo ridurre il dazio della dogana al 3% e confermare il capitolo che imponeva a tutte le nazioni, le quali non tenevano ministro alla Porta, di valersi della bandiera di Francia. Con ciò egli sperava di poter annullare il beneficio del privilegio accordato alla Repubblica, non risparmiando a tal uopo promesse e regali, e presentando, come già era stato fatto in passato, l’amicizia di Genova con U Spagna assai perniciosa per la Turchia. Ma a nulla approdò, che il Divano (Senato di visiri presenti alla Porta) argomentò da tanta gelosia degli altri cristiani il vantaggio reale del traffico genovese. Il gran visir fece poi sapere dal campo che non si dovesse modificare cosa alcuna, riguardo alle capitolazioni. prima del suo ritorno alla corte, sicché il De La ^ av e ovette tor narsene a Costantinopoli a mani vuote, ma sempre più inviperito. Qui cercò in ogni modo di impedire gli onori straordinari che si preparavano per l'ambasciatore di Genova, e il ritardo della sua venuta s mee gnava di spiegare con 1 impotenza della Repubblica, o con a orza eD 1 op positori, o con qualche disgraziato evento. Smentito dall’annuncio del prossimo arrivo del convoglio, egli non si diede per vinto e rese pubblicamente noto di aver ricevuto ordine dal suo re che tutta la nazione francese dovesse abbandonare la Turchia, se fosse stata accolta quella genovese. Spediva quindi un dragomanno ad Adrianopoli per chiedere nuova urgente u enza; a c e quel caimacan. luogotenente del gran visir e in seguito suo cognato e ca pitan pascià — gli'diede in risposta che « era pur inquieto il suo ambasciatore; che dovesse finire una volta di rompere a lui la testa ed importunare la Porta » (7). Il De La Have comunicava frattanto a tutta la nazione, riunita a banchetto, il comandamento regio di tenersi pronta alla partenza, ove fosse occorso; e di nuovo inviava alla Porta il dragomanno con un suo copiato, signor Palau, il quale, non potendo ottenere l’udienza per 1 ambasciatore, a-v-rebbe dovuto lui stesso presentare lettere al caimacan, al muftì e al reis effendi. ponendo, contro i Genovesi, il dilemma preciso: « o loro, o noi ». Il caimacan, sdegnato, lo spedì al muftì, che invocò la legge divina Per a 1 fesa degli amici genovesi, con i quali mai era stata guerra, aggiungen o c e i tempi" erano ben mutati dal 1558. e che ad ogni modo bisognava attendere il responso del gran visir. (7) Relazione Durano 1667, in Vitale, op. cit., 233. In realtà la situazione non era facile per la Turchia con una guerra in corso, dura e tenace, e il pericolo di indispettire così potente monarca quale era Luigi XIV. A ragione quindi Gio. Agostino Durazzo, che queste non liete notizie riceveva mentre si trovava forzatamente tra le fortezze dei Dardanelli e Gallipoli, si impensieriva della situazione quale si presentava, non solo in Adrianopoli e nella capitale, dove parecchi erano gli indifferenti ed anche i favorevoli andavano guardinghi nel palesare apertamente i proprii sentimenti; ma al campo stesso presso il visir, comprendendo come questi potesse essere preoccupato delle difficoltà politiche del momento, pur sapendolo propenso alla sua causa. Egli spediva quindi corrieri espressi per tutte e tre le destinazioni, a fine di tener vivi l’interesse e gli impegni al trattato concluso. Particolarmente a Costantinopoli — dove il ministro francese esercitava azione più immediata, già avendo attirato a sè, in virtù dell’alleanza politica in cristianità, le due case olandesi che vi si trovavano allora senza ministra — riusciva ad eccitare la suscettibilità dell’ambasciatore britannico, facendogli indirettamente insinuare che il rendere arbitra la sola Francia dell’ammissione di Genova al commercio in oriente, avrebbe pure menomato il prestigio e l’autorità delle altre nazioni ivi operanti. Di qui le vive lagnanze dell’inglese alla Porta. La risposta del gran visir alla protesta dell’ambasciatore di Francia pervenne a Costantinopoli poco dopo lo sbarco del Durazzo, ed essa fu, nella forma volutamente più blanda possibile : « che siccome la Porta è aperta a nuovi amici che vogliono venire, lo è anco alli vecchi, che vogliono partire », lasciando con ciò all’ambasciatore la libera scelta sul da farsi. Subito dopo questa risposta, avveniva l’improvvisa partenza del Palau, cognato del ministro, con altro gentiluomo, dubitandosi che essi fossero diretti alla corte del Cristianissimo per informarlo della situazione e magari per affilare nuove armi. 11 Durazzo ne informava subito il Governo per le provvidenze del caso. Nel delinearsi del successo dell’opera sua, si compiaceva di sottolinearne il valore scrivendo: «Non si tratta più d’interesse mercantile ma molto rilevante al politico, in un teatro, tutto che risguardato sin ora di costì in iscorcio, dove non men che tutti li potentati dell’Asia, gareggiano li principali d’Europa » (8). Sempre, però, il M.co Gio. Agostino aveva avuto cura di presentare ai Turchi l’attività dell’ambasciatore francese come ispirata non tanto a moventi politici e alle istruzioni regie, quanto a pure convenienze di mercanti. Al Panaioti ricordava, a proposito degli ordini venuti da Parigi, quelle tali lettere de cachet « dettate talvolta secondo l’interesse e passione di qualche ministro senza darne notizia non che occasione d’impegno al re » ; ma non era verosimile — diceva — che questi, ben sapendo distinguere « l’interesse mercantile dei suoi sudditi dal politico della corona », intendesse, per i capitoli concessi alla Repubblica, rompere i rapporti amichevoli con l’impero ottomano (8). E forse non era questo soltanto un puro accorgimento diplomatico. Certo, se in seguito dovette mutare anche lui opinione dinanzi alla dura realtà dei fatti, la predetta supposizione fu da principio presente al suo pensiero come un dubbio che poteva essere anche soltanto una speranza. Nella sua lettera del 20 gennaio 1666 dal lago di Como, impaziente per le remore che là lo trattenevano, sollecitava il Governo a considerare « quanto (8) Lett. Min. Costant., 3/2171, G. A. Dorano al Gov., Per», 24 ottobre 1666. - 50 - potrebbe giovare — scriveva — qualche insinuazione si facesse al più presto in Francia per intendere se per avventura il tentato, o quanto più volesse tentare quell’ambasciatore alla Porta, sia a suo capriccio o per interesse dei mercanti o vero con ordine della Corte » (9). Fu questa appunto la commissione affidata al M.co Bernardo Baliano, residente a Parigi (luglio 1663-settembre 1666), il quale doveva pure mettere in rilievo presso il signor di Lionne, segretario di stato per gli affari d Italia, il consenso avuto dalla Repubblica al tempo del Mazzarini in questa pratica, del cui esito felice, pertanto, re e ministri non avrebbero potuto che compiacersi. Ma poiché dalle parole del Lionne aveva ben inteso come fosse stata mal accetta in Francia la notizia del trattato di Genova col Turco, il Baliano si era ancora esibito di fargli vedere il biglietto autentico inviato nel 1656 da Mons. Ondedei al residente genovese G. B. Pallavicino per comunicargli la deliberazione del Consiglio del re circa l’appoggio da darsi alle aspirazioni della Repubblica in oriente. Il biglietto non fu in seguito richiesto e della cosa non si fece più parola dopo che sull accaduto venne riferito con lettera del 5 marzo dal M.co Bernardo (10). Il quale procurò, allora, che fossero inseriti per parecchie settimane nella gazzetta di Parigi controllata dal Lionne stesso, avvisi sul nuovo traffico genovese, senza che nulla venisse detto o fatto in contrario; onde si confermava egli nella sua prima convinzione che effettivamente il De La Haye avesse agito all’infuori dell’appoggio della corte e del re, non essendo questi per nulla avverso ai vantaggi della Repubblica. E il Baliano rimaneva ancora fermo nel suo ingenuo ottimismo anche quando, rientrato ormai in patria, apprendeva la notizia della missione a Parigi del signor Palau, che riteneva addirittura fosse stato inviato dall'ambasciatore per giustificare « le violenze del suo impegno, derivato forse dal proprio interesse di detto ambasciatore » (11). Ma un certo ottimismo era pur, da principio, condiviso più o meno sinceramente da tutti i Ser.mi Signori e i M.ci cittadini, i quali cercavano di convincersi che la violenza dovesse pur ridursi a ragione. Anche nelle istruzioni al nuovo residente Francesco Maria D’Oria si diceva non sapersi se il Palau era mandato dal De La Haye « per impegnare S. M. o per giustificarsi come la ragione vorrebbe » (12). Intanto, come i Collegi ebbero notizia dell’arrivo di costui a Livorno, e lo videro passare per Genova diretto in Francia, poiché il D Oria ancora non era partito per la corte del Cristianissimo, ordinarono a Gio. Luca Durazzo, che era allora a Roma, d’interessare della cosa l amico suo, il padre teatino Camillo Sanseverino, gentiluomo genovese dimorante a Parigi. Questi, avendo qualche entratura alla corte e buoni rapporti col signor di Lionne, già altra volta aveva sostenuto degnamente incombenze pubbliche; ora si doveva pregarlo di investigare quali commissioni veramente avesse il cognato del De La Haye e quali fossero i sentimenti colà dominanti sulla questione del traffico orientale, informandolo per sua norma di tutti i precedenti della pratica e delle ragioni su cui si fondava il diritto della Repubblica. Al pa- (9) Ibid., Durazzo al Gov., Como, 20 gennaio 1666. (10) M. G. Canale, Della Crimea, Genova 1853. vol. II, docum. XII, p. 415416. - In questo documento, per errata trascrizione, Eugenio è dato come padre anziché come fratello di G. L. Durazzo. (11) Relazione di Bernardo Baliano (Relazione Ministri, 2/2717) in Vitale, op. cit., p. 195-196. (12) Lettere Ministri Francia, 16/2197, Istruzioni a F. M. Doria, 28 marzo 1667. dre anche il segretario di stato Dolmeta ebbe ordine di scrivere in tal senso a nome del Governo (22 febbraio 1667). Il Sanseverino, infatti, si recò dal Lionne; ma gli capitò di entrare nel gabinetto del ministro proprio mentre stava per uscirne il Palau, sicché si trovava, quegli, ancora tutto sconvolto per le brutte notizie di Costantinopoli, che mettevano in giuoco gli emolumenti dei consolati da lui percepiti per il commercio del levante. Egli vivacemente protestò per la scaltrezza del Durazzo, che aveva finto « curiosità di viaggio in compagnia dell’ambasciatore cesareo, per andar a trattare nuove capitolazioni, rovinose al commercio della Francia ». Insinuò che il Portico di S. Luca (nobiltà vecchia) non avesse approvata quella deliberazione; aggiunse minaccioso che il re ne a-vrebbe scritto alla Republica; che questa dovesse quindi desistere per se stessa dall’impresa, giacché pochi suoi vascelli sarebbero arrivati in levante, bastando suscitar contro quel traffico i Maltesi per farlo naufragare. Invano il Sanseverino, secondo le istruzioni avute, ricordò quanto era avvenuto al tempo del Mazzarini, rilevando che a un qualche leggero danno nel negozio dei Provenzali avrebbe fatto ben più forte contrappeso il vantaggio per la Francia di staccare i Genovesi dal commercio di ponente. Il ministro era troppo eccitato perchè fosse possibile calmarlo (13). (13) Giunta del Traffico, 1/1015, Proposizione al Minor Consiglio 5 aprile 1667. — Il 22 marzo 1667 un’esposizione delle ragioni che la Rep. poteva opporre alle pretese della corte francese veniva redatta da Gio Luca Durazzo. Politicamente — osservava — la situazione attuale era ben diversa da quella del 1558, quando l’ambasciatore De La Vigne fece fallire le trattative già quasi condotte a termine. Allora, Enrico II e i Turchi, in stretta alleanza fra di loro, si trovavano uniti in guerra con la Spagna, mentre Genova, legala da forti interessi a Madrid, era avversa a Parigi ed aveva la Corsica invasa dagli Ottomani, i quali alla Francia si appoggiavano anche per la lotta contro l’Austria. Di qui la massima di non volere per amici che i nemici dei propri nemici. Attualmente, invece, Francia e Turchia non erano più strette dall’antica alleanza, ma solo corrispondendo per « interessi di mercatura » avevano talvolta anche motivi di ostilità. D’altra parte erano cessati i contrasti della Rep. con la Francia e una pace quasi completa regnava tra Spagna e Costantinopoli. Tralasciando le note giustificazioni contro ia pretesa violazione dei privilegi francesi e il mancato rispetto alla Maestà del re in seguito alle segrete trattative condotte col Turco, ■— giustificazioni che il M.co Gio Luca presentava anche in forma alquanto cavillosa e non del tutto perspicua — ricordiamo piuttosto le ragioni di carattere economico. Sotto questo riguardo considerava che il traffico d’oriente per la Francia era in mano soltanto dei Provenzali, i quali, non disponendo di grandi capitali, prendevano quasi tutto il contante a cambio marittimo in Livorno da Italiani, pagando forti interessi per la scarsità del denaro, sì che non ricavavano dalle loro operazioni che l’equivalente del nolo. Ora i Genovesi, impiegandovi «capitali grossissimi», avrebbero dato impulso al traffico con vantaggio anche dei provenzali stessi, come del resto già lo avevano provato molti mercanti di Marsiglia, dopo il maggior intervento dei Genovesi verificatosi da qualche tempo in Livorno; allo stesso modo che «il commercio nostro in Ponente l’ha infinitamente accresciuto agli Olandesi ». 11 timore delia diminuzione dei consolati era pure eccessivo, trattandosi di negozi nuovi, e perchè il pericolo che molti Italiani si valessero della bandiera genovese, godendo essa di un tasso inferiore, già sussisteva rispetto all’Inghilterra, « che era signora del mare » ed aveva il vantaggio della pace con Algerini e Tripolini. La stessa perdita del ricorso dei Genovesi allo stendardo del Cristianissimo sarebbe stata minima, dato che esso era assai ridotto, nè proveniva immediatamente da Genova, ma passava attraverso Livorno sotto il nome di Armeni o addirittura dei medesimi Francesi; mentre non era comunque vietato di seguire la vecchia strada, cosa non improbabile se ritenuta più facile e sicura « per ragione dell’intavolatura » e per sfuggire ai corsari. Del resto anche una piccola diminuzione del consolato delle Smirne sarebbe stata ben poca cosa in confronto del vasto commercio francese fiorente in tante piazze dell’oriente, dell’Africa e d'Europa. E poi, non verrebbe alla Francia danno maggiore dall’esclusione dei Genovesi? Questi infatti, certo non si sarebbero più affidati a nazione manifestatasi tanto avversa, ma piuttosto avrebbero fatto ricorso agli Inglesi, da cui erano venute a loro molte prove di amicizia. Considerando poi che i Francesi detenevano la quasi totalità del commercio d’importazione nella metropoli e nelle riviere in vettovaglie, panni, manifatture varie per un valsente ritenuto superiore ad un milione di scudi all’anno, — 52 — La lettera del padre (18 marzo) con queste notizie determinò a Genova un certo fermento. Il 4 aprile il Minor Consiglio era convocato a consulta. Alla discussione presero parte i cittadini più autorevoli come i M.ci G. B. Negrone, Girolamo De Marini, Gio. Giorgio Giustiniano, G. B. Raggio, P. M. Saivago, Girolamo Rodino, Agostino Saluzzo, Gio. Bernardo Veneroso, Ugo Fiesco, G. B. Lomellino, Lazzaro Maria D’Oria, Paolo Maria Marini. Tutti furono concordi sulla necessità di non disanimarsi, ma di star saldi e « tirar avanti », come più di uno ripetè. Bisognava mostrare che vi era unione di animi e non discordia, come falsamente si asseriva. Vi fu chi accenno alle possibili istigazioni di Livorno; chi raccomandò di impedire, per non fornire pretesti, che chi coniava monete imitasse l'impronta di quella nazione. L’insistere sul consenso avuto dalla Francia per l’apertura del traffico parve a taluno un pregiudicare la libertà. Occorreva usare tutte le buone ragioni per convincere; ma G. B. \'eneroso e Ugo Fieschi coglievano l’occasione per ribadire la loro vecchia idea di applicarsi all’armamento marittimo e di tenersi pronti per la difesa, guardandosi dai Maltesi con i vascelli ben muniti (14). Gli Ecc.mi G. B. Centurione e Stefano de Mari (doge l’uno del 1658, l’altro del 1663) ebbero incarico dai Collegi di riassumere il pensiero universalmente espresso, nella proposizione da sottoporre al Minor Consiglio. Questa affermava che la Repubblica, Principe libero e indipendente, in nessun modo doveva recedere dalla sua impresa decisa per unanime accordo dei suoi cittadini, venendo meno agli impegni assunti verso il Gran Signore, con pregiudizio della reputazione, e rinunciando a quella libertà del traffico, che il Cristianissimo non avrebbe mai potuto impedire neppure ai suoi sudditi. Di ogni cosa era necessario informare il residente Francesco Maria D Oria, che già da alcuni giorni era partito con galea per la sua destinazione, avvertendolo di non avanzarsi nella questione se non interpellato. Nel qual caso avrebbe dovuto rispondere di non avere commissioni in proposito, trattandosi di affare intrapreso e conchiuso a conoscenza di S. M. e dei suoi ministri; che ad ogni modo la Repubblica, pur continuando nell ossequio sempre professato verso la Maestà del re anche a costo d’incontrare talvolta il risentimento del pontefice e del Cattolico, non avrebbe potuto « appartarsi dal concertato con la Porta ». Al padre Sanseverino si doveva far presente — secondo le illusorie considerazioni dei Ser.mi Signori — che il Lionne, forse perchè preso nel primo impeto dalla passione per il temuto pregiudizio dei suoi particolari interessi, era trasceso alle aspre parole e alle minacce; ma che, dopo più ponderata riflessione e dopo d’averne parlato col re, si sarebbe reso conto di quanto fosse giusta la causa della Repubblica e valide risultassero le sue ragioni. Si volle pure che queste il M.co Bernardo Baliano esponesse all abate Buti di Parigi,, suo confidente ed amico, uomo saggio e in stretti rapporti col Lionne, al quale sicuramente ne avrebbe sùbito parlato. Anche il cardinale Spinola, nunzio pontificio a Vienna, doveva essere ragguagliato su tutte queste vicende per mezzo del congiunto G. Francesco Spinola, capitano di Polcevera, per quell’uso che avesse creduto di farne in quella sede, dove si sapeva che l’ambasciatore francese Gremonville si era mostrato propenso alla causa genovese. Punti essenziali, poi, su cui si insisteva e che tutti dovevano mettere in tale traffico poteva essere pregiudicato anche dietro un possibile intervento del Governo, mediante prammatiche proibitive a imitazione di altri Principi. (A.S.G., Leti. Min. Costante 3/2171). (14) Giunta del Traffico, 1/1015, Consulta del Minor Consiglio, 4 aprile 1667. - 53 - rilievo, era il vantaggio politico di cui avrebbe goduto la Francia per la deviazione dell’attività economica genovese dall’occidente al levante, e il perfetto accordo col quale tutta la nazione aveva voluto il riallacciamento dei traffici con l’impero ottomano. Tanti persuasivi argomenti, infine, si sperava che avrebbero indotto il Lionne a desistere dal proposito di far scrivere da S. M. sulla questione ingiustamente sollevata. E poiché il Maggior Consiglio aveva respinto una partita di 80 mila pezze offerte dalla Casa di S. Giorgio per l’impresa di oriente — ciò che aveva forse cagionato la supposizione della mancata concordia — si riteneva necessario che la pratica fosse ancora rinnovata per giungere alla sua approvazione. Al Consiglio, inoltre, si doveva pure sottoporre la deliberazione sulla nomina dell’ambasciatore presso il Cattolico, per poter meglio seguire, in tali frangenti, i maneggi e i negoziati specialmente fra le due Corone. Il tutto fu co9Ì approvato a grandissima maggioranza di voti ed eseguito con prontezza, fra il 5 e l’8 aprile 1667 (15). Ma un dispaccio del gentiluomo residente Francesco M. D’Oria (20 maggio) venne a togliere ogni illusione. Ad esso era unito copia di un biglietto ricevuto il giorno precedente dallo stesso Lionne, col quale questi chiedeva perentoriamente, d’ordine del re, se « l’intenzione della Repubblica era di mantenere ed osservare il trattato fatto con la Porta ottomana, qual era direttamente contrario alle capitolazioni della Francia e pregiudicialissimo al commercio della medesima in oriente ». Il D’Oria aveva sùbito comunicato di averne riferito al suo Governo, rimanendo in attesa della risposta. Inviava poi il padre Sanseverino al Lionne, perchè a voce sostenesse le ragioni della Repubblica; ma il risultato fu negativo. Detto padre informava anche Gio. Luca Durazzo di essersi recato dal ministro francese, ma di non averne ricavato nulla di più della prima volta, avendo egli confermato, in sostanza che la Repubblica avrebbe fatto meglio ad abbandonare il commercio intrapreso. Per deliberazione del Minor Consiglio si scriveva allora al residente di Parigi (13 giugno) che comunicasse al signor di Lionne di aver ricevuta la risposta dei Ser.mi Collegi al suo biglietto, con ordine di presentarla a S. M., pregandolo quindi di volergli ottenere un’udienza. Al re avrebbe poi dovuto esporre le ragioni inviategli con foglio a parte, lasciandogliene, se del caso, copia in iscritto. Lo stesso avrebbe dovuto fare se fosse stato invece introdotto dalla regina, allora reggente. In un secondo foglio gli si formulavano pure i punti riguardanti le relazioni di Genova con la Spagna, in rapporto agli interessi della Francia; ma di questo egli avrebbe dovuto, naturalmente, trattare soltanto a voce per evitare eventuali odiosità di Madrid (16). (15) Ibid., Consulte, proposizioni, deliberazioni: 22 febbraio, 4, 5, 6, 8 aprile 1667. — In nn capitolo di lettera da Parigi del l.o aprile 1667 (è unito alla relazione di Bernardo Baliano in Relazioni Ministri, 1/2717) è detto: «Qui si parla molto male del commercio del levante. Io non so i fondamenti di queste doglianze perchè solo sento quel che si dice pubblicamente, ma in una parola sento gran dispiacere di vedere la Ser.ma Rep. in stato di soccombere all’inequalità delle forze, o di vedersi astretta dalla necessità a gettarsi in braccio a’ Castigliani, e subire la loro legge... Nelle conversazioni di Parigi non si parla d’altro che di far muovere Tarmi del Duca di Savoia contro la Serenissima Repubblica et a questo fine si attribuisce la chiamata fatta da S. A. R. del march. Villa obbligandolo in fretta a lasciare la Candia attualmente assediata dal Turco... D’altrove si pondera che fussero di già tempo fa usciti da Tolone due vascelli di guerra per andare a Malta, e presa quella bandiera combattere al ritorno di levante il convoio... Insomma lo strepito e l’impegno qui è grande». (16) Litterarum, Reg. 143/1919, Gov. a F. M. D’Oria, 13 giugno 1667. 3. — Tale era la situazione, quando, rientrato a Genova dalla stia ambasceria, il marchese Gio. Acostino Durazzo veniva consultato il 5 luglio 1667 nella sua villa di Albaro dal segretario di stato. Secondo il M.co Gio. Agostino due erano i fini a cui tendeva il re di Francia: da una parte la volontà di imporsi arbitro, di fronte alla Porta e alla Cristianità, dei rapporti di questa con il Gran Signore, sicché apparisse che nessuna nazione si potesse introdurre nell’impero ottomano senza il suo consenso; e ciò, non ostante gli scacchi subiti negli ultimi tempi alla corte di Costantinopoli. Ora. pensava il Durazzo che non fosse opportuno insistere eccessivamente sull’assistenza invocata e promessa al tempo del Mazzarini, non già perchè si trattasse di beneplacito del re — lesivo alla libertà — anziché del semplice suo favore, ma perchè non avesse il sovrano a lagnarsi del fatto che, essendosi prima ricorso al suo aiuto, si fosse poi concluso l’affare senza più curarsi di lui. Del resto egli riteneva — con un residuo del primitivo ottimismo che si dovesse maneggiare la faccenda con accorgimento e circospezione, guadagnando tempo, chè la « natura ordinaria » dei Francesi — diceva era quella di sùbito scaldarsi ma poi raffreddarsi man mano, come avevano fatto per le capitolazioni concesse agli olandesi nel 1612; tanto più che il re al presente aveva ben più a preoccuparsi della guerra di Fiandra (di devoluzione). In realtà, possiamo aggiungere noi che, se rispetto a Genova, 1 intento politico della Francia, a cui accenna il Durazzo, si poteva dire compieta-mente fallito, ciò era avvenuto con immenso dispetto del re Sole e dei suoi ministri, i quali più non se ne dimenticarono. L’altro intento della corte francese, come osservava il Durazzo ed appariva a tutti manifesto, era quello di salvaguardare i propri interessi commerciali che temeva minacciati dall’attività ligure. Gli è che in quel momento la nazione francese si trovava presso i Turchi in gran discredito, sia per i soccorsi in denari e uomini procurati a Venezia e la rilevante partecipazione alla recente guerra d’Ungheria, sia per 1 azione molesta dei suoi corsari camuffati sotto bandiera maltese o di altro principe. Laddove i Genovesi godevano molte simpatie per l’atteso vantaggio economico e per la lunga pace, ricordandosi pure — così si diceva che il popolo di Galata, da essi discendente, si era dato senza sansue, ricevendone notevoli privilegi tuttora « inviolabilmente osservati » (16 bis). La prima comparsa delle navi di Genova in oriente aveva fortemente preoccupato i Francesi, temendo che essi portassero enormi capitali; quando poi videro la più modesta proporzione dei mezzi impiegati, si chetarono in parte, chiedendo anzi taluni di essi al Durazzo di poter caricare loro merci sugli stessi vascelli liguri di ritorno. Era dunque saggia politica non osten- (16-bis) Nel 1660, con le violenze subite dall’ambasciatore De La Haye e il suo forzato ritorno in Francia, il commercio francese orientale aveva raggiunto la sua massima depressione concludendo nn mezzo secolo di continua decadenza. La Provenza prima del 1610 contava un migliaio di asti menti; nel 1664 ne possedeva 30 e la Linguadoca uno. Il Colbert, sebbene non gli venissero ufficiai-mente affidati gli affari del commercio che nel 1664, già se ne era interessato fin dal 1661 (morte del Mazzarino). Sollevare le sorti del traffico in generale e particolarmente di quello orientale fu somma cura del Colbert. I mali erano molti. Se i Turchi sono riconosciuti da tutti i viaggiatori del tempo come semplici e sinceri, il Masson dice che i Provenzali non conduccvano il negozio in levante « avec assez de bonne foi e de prudence», ma per avidità di guadagno e facilità d’ingannare i Turchi (e non solo nelle monete ma anche nelle merci), «ils se lassèrent allor aux plus insignes voleries». Grandi gli ahusi e i disordini, i debiti e le imposizioni; nefaste le molestie dei corsari: tutti gli sforzi del Colbert non riuscirono però a racgiungere del tutto la mèta; morendo (1683) egli lasciava il commercio non ancora consolidato e la Francia in guerra con i Barbareschi. (Masson, op. cit., passim). - 55 - tare abbondanza di affari per non spaventare. Il Durazzo affermava che quel primo viaggio non aveva procacciato un utile eccessivo; ma riteneva conveniente che si divulgasse essere stato questo addirittura di « poca considerazione ». Ora il segretario era angustiato da una forte preoccupazione. Fra le ragioni trasmesse al M.co Francesco M. D’Oria, poiché il Lionne aveva parlato di violazione delle capitolazioni francesi, si era osservato che i Genovesi avrebbero sempre potuto valersi per i loro traffici delle bandiere inglese e olandese, ritenendo che quello concesso dalla Porta alla Francia fosse soltanto privilegio « facoltativo ». In realtà non si era riusciti a trovare un esemplare delle capitolazioni concesse al Cristianissimo. Si erano cercate inutilmente anche in casa di Gio. Luca Durazzo; finché Gio. Bernardo Veneroso aveva rinvenuto in un libro francese quelle del 1604; ma non essendo sicuri se veramente fossero le ultime, si era atteso l’arrivo dell’ambasciatore da Costantinopoli. Intanto si credeva di aver potuto riscontrare che, contrariamente a quanto si era scritto al D’Oria, il privilegio francese fosse « proibitivo », nel senso che qualsiasi nazione non privilegiata sarebbe stata costretta a trafficare soltanto con la bandiera di Francia. E ricordava, a conferma, il fatto accaduto pochi anni prima alla nave « S. Anna », la quale era andata in levante con bandiera olandese per conto di Genovesi, sotto il comando del M.co G. B. Fiesco. Giunta colà, a istanza jlel console francese, che si diceva leso nei suoi diritti, furono imprigionati alcuni ufficiali del vascello., mentre una grossa lite si accese dinanzi al tribunale turco fra i due consoli di Francia e di Olanda, finita poi con la vittoria del primo, al quale la nave dovette pagare un nuovo consolato. Veramente al Durazzo, che aveva più volte parlato col Fiesco di quell’incidente, non pareva che le cose si fossero svolte proprio in quel modo; comunque, riserbandosi di appurare il fatto, precisava che il privilegio dei Francesi si riferiva alle nazioni « alienate dalla Porta ». Ora, il sultano, a-vendo riconosciuto che tale non era la genovese, come quella che era stata introdotta nei suoi stati prima ancora dei Francesi — e i privilegi dei Gala-tini lo attestavano, senza che in sèguito ci fosse stata mai ostilità aperta fra i Turchi e la Repubblica — intendeva con la concessione fatta a questa di non aver per nulla leso i diritti del Cristianissimo. Di più, con l’arrivo in oriente del Durazzo e di Ottavio D’Oria, veniva esplicitamente espresso nelle capitolazioni che, stabiliti così residente e consoli, la Repubblica stessa poteva liberamente godere dei privilegi accordati; il che era pure affermato nel comandamento diretto al cadì di Smirne per la scrupolosa osservanza dei capitoli concessi. Certo in Francia, più ancora che la libertà di commercio di cui Genova veniva a fruire, destava preoccupazione il privilegio da questa ottenuto di poter estendere la protezione della sua bandiera ad ogni altra nazione, il cui stendardo non fosse riconosciuto dalla Porta. Del resto, come attestava il capitolo quinto dei privilegi francesi, la prerogativa in discussione non mirava che ad escludere la pretesa accampata dallTnghilterra in contrario (17). Il M.co Gio Agostino consegnava quindi al segretario il testo dei capitoli che interessavano la dibattuta questione. (17) Giunta del Traffico, 1/1015, Esposizione del Segret. di Stato, 5 loglio 1667. — Il cap. 5.o sopra indicato era di fatto cosi concepito: «In oltre noi vogliamo e comandiamo che fuori dei Veneziani et Inglesi, tutte le altre nazioni alleate della nostra Gran Porta, le quali non ci tengon ambasciatore, volendo trafficar nei nostri Paesi, habbiano a venirci sotto la bandiera e protezione di - 56 - Il giorno seguente i Ser.mi Collegi deliberavano che di tutto quanto a-veva riferito il segretario di Stato fosse data comunicazione al Minor Consiglio. proponendo inoltre di raccogliere i voti circa l’eventuale missione di un gentiluomo straordinario alla corte di Francia, secondo il parere dai più e-spresso nella consulta e mentre si era in attesa della risposta di Francesco M. D’Oria da Parigi, della quale si sperava prossimo l’arrivo a chiarimento della situazione. Il Minor Consiglio deliberava pertanto la missione più sollecita di detto gentiluomo straordinario (18). Ma nel frattempo il M.co Gio Luca scriveva al segretario di stato in data 2 luglio, proponendo di introdurre la trattazione della pratica d oriente alla corte di Francia per mezzo dell’ambasciatore di quella nazione a Roma. Costui gli aveva fatto vedere una lettera del 23 febbraio inviatagli dal De La Haye da Costantinopoli, in cui, con la sua solita maligna fantasia, lo scrivente affermava che Gio Agostino Durazzo era stato ricevuto dal caimacan soltanto perchè aveva dichiarato di essere andato a trattare d accordo col re di Francia, ma che poi, in sèguito aUe rimostranze dello stesso De La Haye, gli avevano differita per lungo tempo l’udienza, concessagli finalmente dopo che il Durazzo si era impegnato a provare che le opposizioni dei Francesi non venivano mosse per ordine di S. M., ma dietro interessi privati e dello stesso ambasciatore. Era facile al M.co Gio Luca mostrare la falsità delle notizie, da cui si poteva argomentare quali potessero essere le altre diffuse dalla stessa fonte. Alle consuete obiezioni del francese sui pregiudicati diritti della sua nazione e sul mancato rispetto alla Maestà del re, il Durazzo rispondeva non ritenere del tutto conforme a quello supposto, il tenore delle capitolazioni; essere stati i primi approcci troppo superficiali ed incerti per doverne dare preventiva partecipazione; aver dovuto il ministro della Repubblica differire il colloquio con il signor di Lionne per accidentale ritardo nella sua partenza. Comunque, l’ambasciatore francese, pur rilevando che la giustificazione era tanto più necessaria dopo il biglietto assai reciso dello stesso Francia senza che giammai l’ambasciatore d’Inghilterra o altri habbiano ad impedirsene, sotto colore, che questa condizione sia stata inserita nelle capitolazioni date dai Nostri Padri dopo d esser state scritte ». In realtà, nelle Capitolazioni inglesi (1579) al cap. I era detto: «La nazione inglese e li mercanti loro, e tutti quelli, che camminano sotto la bandiera loro possano venir liberi e salvi per mare ecc. » ; così pure il cap. 54.0 delle Capitolazioni olandesi del 1612 (e quindi posteriori alle ultime francesi del 1604) affermava: « Li sudditi delli sopradetti Stati Generali, e tutti quelli che saranno sotto loro ubbidienza potranno viaggiare per nostri Paesi, ecc.». Ciò dimostra che era lecito navigare anche con la bandiera inglese e olandese. Se poi le Capitolazioni accordate ai Genovesi si osservava — violavano quelle francesi, non meno ciò si verificava per quelle degli Inglesi e Olandesi, « che hanno gli stessi patti, e pur essi non si sono risentiti ma anzi hanno veduto volentieri la introduzione dei Genovesi». Del resto la volontà del sultano era chiaramente espressa nei seguenti capitoli concessi ai Genovesi, secondo la nuova traduzione presentata dal Durazzo nel 1667. Cap. 2.o: «Che a tutte quelle navi, e merci caricate in quelle che veniranno sotto la bandiera di Genova nelli porti e scale del mio Imperio nella predetta maniera non sia dato alcun impedimento nè molestia, e che le genti delle dette navi dovranno prestare ubbidienza alli consoli e loro commissari, come faranno ristessi Genovesi». — 21.o: «E poiché chiaro appare nelle Capitolazioni date da noi per avanti a diverse altre nazioni da noi protette, che ancora la nazione Genovese, venendo e ritornando nelli nostri Regni, dovesse farlo sotto le loro bandiere, e perciò ubbidire a quelli ambasciatori e consoli, hora poiché espressamente e nuovamente è venuto l’ambasciatore e li consoli di Genova, e poiché è loro stata concessa questa mia Regia Capitolazione a parte, dovrà la detta nazione ubbidire al solo suo ambasciatore e consoli, e venendo essi con le loro proprie bandiere, che gli altri ambasciatori o consoli non facciano molestia, e tutto quello che fu concesso nell’altre mie Regie Capitolazioni all’altre da me protette nazioni sia ancora nella prescritta forma concesso e gratificato alla nazione Genovese». (18) Ibid., Deliberazione del Minor Consiglio, 7 luglio 1667. - 57 - Lionne, si offriva di scrivere a questo ministro per vedere di mitigarne il giudizio sull’operato della Repubblica. Ora, il M.co Gio Agostino, interpellato ancora dal segretario di stato, osservava che la proposta del fratello dipendeva dall’ignorare la deliberazione dell’invio di un gentiluomo straordinario a Parigi., cosa che pienamente egli approvava; dichiarava d’altra parte che, pur non ritenendo opportuno intraprendere per due strade lo stesso negoziato, non era d’opinione di doversi escludere quei buoni uffici che l’ambasciatore di Roma volesse prestare presso la corte del re. In conformità a tale parere venivano infatti date le opportune informazioni tanto al M.co Gio Luca come al residente D’Oria di Francia. (19). Infine si nominava gentiluomo straordinario alla corte del Cristianissimo il M.co Giulio Spinola. Sua commissione era quella di cancellare ogni mala impressione dall’animo del re. Egli doveva giustificare i buoni propositi della Repubblica, ben aliena dal venir meno a quell’ossequio che intendeva sempre professare verso S. M.; tenesse però presente che nel Minor Consiglio si era deciso di insistere sul mantenimento del traffico, per cui, se si fosse venuti in discorso delle capitolazioni, mostrasse come non sussistessero le difficoltà prospettate, secondo le ben note ragioni. Esaurita questa pratica, doveva interessarsi di quella riguardante due incidenti sopraggiunti poco tempo prima ad aggravare la situazione. Si trattava di una nave inglese che, trovandosi a caricare olio in Alassio, era stata depredata da un corsaro francese; lo stesso era poi capitato a due feluche di Lerici, assalite sopra il capo Ma-nara e spogliate del contante e delle merci, mentre tre inglesi erano stati tratti prigioni. Il D’Oria, prima ancora di ricevere le istruzioni speditegli dal Governo con la lettera del 13 giugno sopra citata, aveva già dovuto confermare le avverse intenzioni di quella corte. Egli aveva scritto al Lionne, che si trovava al campo, in merito ai predetti accidenti delle feluche di Lerici e della nave inglese, inviando la lettera per mezzo del suo scudiere. Questi, mentre non poteva essere ricevuto dal ministro perchè ammalato, parlava della cosa col marchese di Lormoe, il quale rilevava che « i Genovesi non si portavano molto bene con S. M. » e che il traffico del levante avrebbe cagionato « maggiori e continui disturbi, quando dalla Repubblica non si fosse rimediato secondo i desideri del re ». Col Lionne, trasferitosi a Parigi, neppure il D’Oria poteva sùbito incontrarsi (20). Seppe però che detto ministro aveva dichiarato all’abate Siri come il re non avrebbe permesso quel traffico alla Repubblica, la cui prudenza si sarebbe mostrata nel « sapersi disimpegnare da se » (21). Quando poi, parecchio tempo dopo, il Lionne fu in grado di accordare udienza al gentiluomo genovese, gli ribadì le note lagnanze. La Repubblica, disse, « non aveva operato come richiedeva la buona amicizia, mentre aveva mandato persona espressa alla Porta ottomana per introdurre traffichi in quelle parti sotto paliati pretesti di camerata dell’ambasciatore cesareo » ; quel traffico, poi, era contro la reputazione del re, gli interessi dei sudditi, le capitolazioni di cui godeva la Francia. (19) Ibid., Notizie e risposte di G. Agostino e G. Luco Durazzo riferite dal segretario di stato, 2 • 19 luglio 1667. (20) Lettere Ministri Francia, 16/2192, F. M. Doria al Gov., Parigi, 21 giugno 1667. (21) Ibid., Doria al Gov., Parigi, 24 giugno 1667. - 58 - Il D’Oria, da canto suo, ricordava la prontezza con cui la Porta aveva concesso al Durazzo — partito di sua iniziativa — le capitolazioni poi accettate dalla Repubblica; l'impossibilità di rivolgersi a S. M. non risiedendo in quel tempo a Costantinopoli nessun ministro; aggiungeva infine tutti gli altri argomenti che avrebbe dovuto esporre al re. Deviò allora, i *°^ne’ e sue lagnanze sulla questione dei luigini contraffatti con le aimi e rona; ma alle giustificazioni del residente finiva col dire che avie je ri eri e le ragioni da lui espresse al sovrano, trattando 1 affare « come uon tore della Repubblica», della quale il re .mostrava « ogni stima ed affetto » (22). ., Ma, quando pochi giorni dopo il D’Oria annunciava che un gentiluomo straordinario era stato destinato a S. M., evidentemente per la questione del levante, il Lionne «si era stretto nelle spalle e mezzo ridendo» aveva detto: « sì, sì, il re sentirà! » (23). Più chiaramente ancora, a principio di settembre, chiedendo egli stesso nuove della missione di cotesto gentiluomo, mostrava di considerarla del tutto superflua (24). Di essa in realtà non trovai altre tràcce* • Si accentuavano invece gli insulti e le depredazioni dei legni francesi «di corso», armati a Tolone: ciò che dava luogo a una seiie i proteste e di istanze trascinate sempre in lungo, come per stancare (^.5). ^ uca i Beaufort, comandante di una flotta del Cristianissimo, era paitico armente nemico della Repubblica. E c’era da temere sempre di peggio. otto re 1667 il D’Oria avvisava che una squadra di 12 vascelli dalla Rochelle si sarebbe recata nel Mediterraneo per congiungersi con altri quattro 10 one‘ Pareva che ci fossero mire ostili addirittura contro il convogio i enova, che si supponeva dovesse tornare molto ricco dalla Spagna. Nel Minor on-siglio la questione fu assai dibattuta; ma infine si decise che .^onv?°A(^.S1 effettuasse ugualmente; nè di fatto il temuto attacco ebbe a veri carsi (22) Ibid., Doria al Gov., Parigi, 19 luglio 1667. (23) Ibid., Doria al Gov., Parigi, 6 agosto 1667. (24) Ibid., Doria al Gov., Parigi, 9 settembre 1667. (25) Ricordiamo, ad esempio, le navi del cap. Lanata di Genova, le barche appartenenti ai p " Gotuzzo di Portofino, Onorato Pesente di S. Remo, Stefano Langarino di or ìg era, a reg Patron Vincenzo Federici di Sestri: tutte prese con la loro roba. Della nave di cap. Franco di Voltri il Doria, autorizzato dal Governo, non volle invece interessarsi. Essa era so ita tra fra le Canarie e Middelburg con patente del Cattolico. Incontrata una squadra francese nella IV anic , aveva gettato in mare patente e bandiera, inalberando quella genovese. Catturata, era dotta nel porto di Brest. ., (26) Ibid., Doria al Gov., Parigi, 14 ottobre 1667; 6 gennaio 1668. — Interessa considerare ques movimento mercantile ad occidente, mentre si cercava di avviare quello orientale. Riguar o ai va che doveva trasportare il convoglio, scrive il Doria: « ...non havendo i Spagnuoli altre 1 nla^. dare i denari in Fiandra et Alemagna, mentre il farne rimessa, loro riesce quasi impo6si i e per i poco credito in che sono e per la cautela di esso VV. SS. Ser.me daranno gli ordini che stimeranno convenienti». . . Il convoglio era così formato: Nave capitana, con « cannoni 59, pedreri 10, moschetti da miccia 80, archibugi a focile 28, arme d’asta 46, cimiterre 60, pistole 50, polvere con barili 50; marinai 250 soldati 100; Nave S, Giorgio con cannoni 40, pedreri 10, pistole 32, brandistochi 24, cimiterre30, archibugi a focile 22, scudi 12, stochi 6, polvere vi è il suo bisogno, marinai 250, soldati 80. — Navi che seguivano il convoglio: capitano Germano, marinai 161 a rollo, cannoni 44, pedreri di bronzo 32, archibugi da focile 100, pistole 50, cimiterre 50, arme d’asta 50, polvere barrili 90, con tutti li bastimenti, ha caricato per Lisbona; Il Galeone, marinari 40, soldati 25, dicono li ufficiali di esso che se ne assenterà sino a 120, cannoni 20, 2 sagri di bronzo 2 pedreri, archibugi da focile 25, moschetti 150, pistole 50 et altre arme d’asta, e granate, poca polvere e non è peranco provvisto di vino, ha caricato in Venezia e Livorno per Spagna et Olanda; cap. Pietro Bianco, marinari 60 a rollo, dicono li uffi- - 59 - Al principio del 1669, quando Francesco Maria D’Oria lasciava la sua residenza di Parigi, sembrava che non si parlasse più rii capitolazioni violate, di offesa alla Corona, di intimazioni violente (27). Nell’ultima udienza di congedo, le lagnanze del Lionne si rivolgevano ad una questione che stava particolarmente a cuore al Colbert: la proibizione decretata dal Governo genovese contro l’introduzione e lo smaltimento nello stato dei manufatti forestieri, in quanto ciò colpiva direttamente la Francia. Ma tale misura poteva essere facilmente giustificata dagli effetti della concorrenza francese, per cui i panni di seta e le altre merci fabbricate in Genova non si esportavano più come in passato nelle zone vicine e, per mezzo delle flotte spagnole, fin nelle Indie, provocando in tal modo la disoccupazione di tanti operai (28). In modo speciale poi il Lionne insisteva sulla faccenda dei falsi luigini ciali che ne prenderà a Gogolelto per fare il numero di 80, cannoni 36, pedreri di bronzo 20, archibugi da focile 60, pistole 24, e qualche arme d’asta, polvere cantara 70, li bastimenti sono fatti ma non 6ono ancora tutti a bordo, carica per Spagna, ma sino al giorno d’oggi (l.o novembre) ha poca mercanzia ». Segniamo le altre navi del convoglio, tralasciando l’armamento: «Cap. Balestrino, carica per Spagna et non caricherà che colli ricchi per esser tosto carica; cap. Allassaro, anderà in Alicante a caricar di sparto per Lisbona; la nave «Monaco d’oro» ha caricato in Livorno per Fiandra; un petaccio veneziano ha caricato per Fiandra; petaccio S. Teramo di Arenzano ha caricato di grano per Spagna; petaccio « N. Signora delle Grazie di Arenzano ha caricato di grano per Spagna » ; « La Pietà » di cap. Germano caricato di riso per Lisbona. Si dice che in Vado vi siano due petacci di Arenzano carichi di grano che aspettano il convojo. Due altri petacci di Arenzano che sono nel mandraccio si dice che caricano risi per Lisbona. Sopra li sopra detti vascelli vi sono arrolati qualche francesi». A prova delle possibilità della Repubblica, ricordiamo pure che il residente di Svezia, Pufendorf (Isaia, credo, fratello di Samuele, il noto giusnaturalista), chiedeva ufficialmente al Doria, in nome del suo re, di poter stabilire buona amicizia e un trattato commerciale con Genova. Il Doria stesso assicurava pure che vi erano alla corte di Lisbona ottime disposizioni per la concessione ai Genovesi della navigazione alle Indie e nel Brasile. Col Portogallo attivi erano già i rapporti commerciali. (Lett. Min. Francia, 16/2192, Doria al Gov., 2 die.. 1667, 29 marzo 1669). (27) Anche a Genova, nello stesso tempo, Agostino Spinola q. Felice osservava: «Francia più non riclama e si va achetando alla ragione». (Relazione in Giunta del Traffico, cit.). (28) Lettere Ministri Francia, 16/2192, Doria al Gov., Parigi, 22 marzo 1669. In un successivo colloquio avuto con lo stesso Colbert. questi rinnovava al gentiluomo genovese le medesime lagnanze, raccomandando alla Repubblica di «trovare ripiego di comune sodisfatione per oviare a disturbi». La questione si protrasse anche dopo la partenza del Doria nel 1670, interessandosene l’incaricato G. T. Ferrari (Litterarum, 36/1993). — Quanto al commercio marittimo con l’oriente, le cure del valente ministro, come sappiamo, erano particolarmente rivolle a Marsiglia. Passando per questa piazza, mentre-si portava a Parigi, F. M. Doria scriveva (7 aprile 1667) che era stato accordato a detta città « liberissimo Portofranco per attrahere in essa maggior traffico e più abitatori ampliandola a questo effetto con nuovo recinto di mura». Di fatto Colbert non poteva tollerare il fiorente commercio di Inglesi e Olandesi e il rapido sviluppo di Livorno. A quelle poderose delle prime due nazioni volle contrapporre una «Compagnia del levante» (1669-70) che doveva fondarsi sul negozio delle manifatture nazionali da incrementarsi, e sul sistema delle scorte, che incontrò invece difficoltà da parte degli stessi mercanti. A Livorno pensò di contrapporre il portofranco di Marsiglia. Dell’antica franchigia di questa città nulla più esisteva. Imposizioni sempre nuove sui vascelli avevano allontanato i mercanti forestieri, e gli stessi nazionali erano costretti (scriveva la Camera) « d’aller faire leurs achtes à Gênes et à Livourne, pour les transporter de là à droiture en Espagne ». Colbert concesse la franchigia nel 1662 a Dunkerque, nel 1664 ai porti del Ponente e nel 1667 cominciò a liberare dalle imposizioni proibitive il porto di Marsiglia, giungendo infine nel marzo 1669 all’« edit de l’affranchissement». Tuttavia per dar impulso alla costruzione di navi mercantili, colpiva in pari tempo con un diritto del 20% le mercanzie, anche se appartenenti a Francesi, che giungessero su navi straniere. Quello del levante fu, nel seicento, il solo commercio di Marsiglia; nel 1685 ne ottenne il monopolio definitivo. (Masson, op. cit. passim). La prima e la seconda « Compagnie du Levant » istituite dal ministro francese conseguivano un effimero successo. Genova poi, stabilì nel 1670 un Portofranco anche più ampio e proficuo. (Collegi diversorum, 317). portanti le armi del re, per il deliberato proposito, come si disse, di far ormai leva, nell’opposizione contro la Repubblica, soprattutto sul punto delle monete. Alla solita risposta del D’Oria il ministro francese invitava il Governo genovese a trovar qualche espediente per rimediare a quella piaga, anche nell’interesse dello stesso commercio della Repubblica, riconosciuto così come una realtà di fatto. Da parte sua, il D’Oria appoggiava l’idea manifestata dal Lionne di ricorrere, in ultima istanza, all’intervento dell’imperatore, quale sovrano dei feudi dove si svolgeva quella illecita attività. In realtà la crisi del monetino appariva ormai inevitabile ed imminente. Il che ci porta ancora a soffermarci con particolare attenzione su questo fondamentale problema. CAPITOLO IV LA CRISI MONETARIA E I SUOI RIFLESSI POLITICO-ECONOMICI 1. • Fallito tentativo di risanamento monetario: il prevalere del « Hmini _ 2.- La discussione in Genova sulla stampa del monetino. — 3. - La coniazione del «giorgino» e sua effimera fortuna in oriente. — 4. - I nuovi monetini della Repubblica - L'aggravarsi della crisi e le accuse contro 1 Genovesi. — 5. - Nuova offensiva contro Genova per le falsificazioni monetarie e sua efficace difesa. 1. — Il proposito leale di fondare il traffico sopra una moneta sana e reale eliminando quella cattiva, fallì nel primo tentativo d’introdurre il « giorgio », ottimo scudo d’argento. Dopo la visita al Gran Signore, nella ricordata udienza di negozio ottenuta il 31 gennaio 1667 dal caimacan di A-drianopoli, il Durazzo, fra gli altri discorsi, affrontava quello essenziale della moneta «principal fondamento» del traffico, dalla cui sincerità si doveva « argomentare quella di chi » l’introduceva. Fatti portare dal segretario i giorgi, chiedeva che dal saggio se ne constatasse la bontà, la quale era superiore a quella del reale sivigliano pur rimanendo un po’ inferiore nel peso. L’osservazione non soddisfece però del tutto il caimacan, che insistette sulla leggerezza del pezzo, dato che i Turchi com’egli ricordava, molto badavano specialmente al peso, al cui solo ra<*> presi - si diceva — nel porto toscano, secondo la denuncia portata innanzi al cadì, il quale tuttavia « al solito » aveva « dissimulato con havervi lui la sua parte » (6). I ministri del sultano, fra i quali lo stesso Gran tesoriere, « consistendo la maggior parte delle loro ricchezze in questo contante », avrebbero subito danno eccessivo per la sua proibizione. Un utile ne veniva poi alla dogana, pei che i possessori dei tiniini di bassa lega erano indotti, per smaltirli, a comperale lana, cuoio, cotoni e simili merci grosse, le quali pagavano dazio, mentre in Smirne le sete godevano in uscita la franchigia (7). Con tutto ciò, divieti e sanzioni vennero ogni tanto dalle autorità turche, e turbamenti, reazioni, anormalità si determinarono nel vasto impero. Non ostante tutti i bandi dei vari paesi, specialmente dal 1666 al 1669 fu una crescente gara fra zecche di Francia, dell’Appennino ligure e anche di altre regioni (si ricordano, per esempio, barilotti di luigini che entravano nel dominio della Repubblica provenienti da Francoforte, da Norimberga e anche dalla Savoia) (8) nel coniare monetini più o meno adulterati, servendo una d’esempio all’altra e cercando di superarsi a vicenda per realizzare col maggior smaltimento il massimo vantaggio. Non sempre il calcolo dei mercanti fu avveduto. Accadeva che taluni di essi, per la necessità di liberarsi delle grosse partite di luigini di cui si erano riforniti, acquistassero merci anche oltre il bisogno e a prezzo che si faceva sempre più elevato quanto meno valevano le monete, venendo così ad annullare ed anche talora a convertire in perdita l’utile realizzato nell’acquisto delle monete stesse. Sappiamo che negozianti armeni, i quali avevano nelle loro mani gran parte del negozio d’oriente, facevano prendere a Livorno da capitani francesi somme anche ingenti a cambio marittimo. Verso la metà del 1667, a Costantinopoli due di questi armeni fallivano per un mezzo milione di debito, avendo appunto pagato le mercanzie oltre il 15 o 20% rispetto al loro valore! Più sfortunati ancora, due altri armeni venivano nella stessa città impiccati perchè in possesso di monetini della bontà di sei (9). La proibizione del granduca non impedì che Livorno rimanesse sempre il centro principale di raccolta e di distribuzione dei falsi luigini, concorrendovi specialmente le navi dei provenzali. Si ricordi, ad esempio, l’attività che per anni vi svolsero i signori Grandi e Misturo, già menzionati, esercitandovi tale mercato. Si sa che Massimiliano Spinola fornì ai mercanti Mistura e Bernardo Rimbotti luigini della sua zecca di Tassarolo dal 1662 al 1666 (10). Appartenevano a Grandi e Mistura e provenivano da Torriglia quei dodicimila circa timini, che furono sequestrati ad una polacca spedita da Livorno, e quelle altre migliaia che il pascià di Tripoli fece prendere e poi restituire con (6) Ibid., G. A. Durazzo. al Gov., Costantinopoli, 22 aprile 1667. (7) Relazione di G. A. Durazzo alla Giunta del Traffico, settembre 1667, in Merli, ms. cit. (8) Secretorum, 29/1584, Rappresentazione degli inquisitori di stato, 29 gennaio 1669. (9) Notizia sulla battuta dei luigini letta al Mag.to delle monete, in Olivieri, « Monete e sigilli dei Doria», cit., docum. XX. (10) Olivieri, «Monete e sigilli dei Centurioni-scotti», cit., p. 58. — 64 — l’impegno di riportarli al porto granducale. Il pascià stesso emise allora un bando contro i luigini di qualsiasi specie; laddove a Smirne, Cipro e Costantinopoli restavano ammessi soltanto se del valore di 11, tollerandovisi pure quelli di 10 (11). Abbiamo già ricordato il bando del granduca (marzo 1666), e quello della Repubblica del 2 giugno 1666. Un'altra grida emetteva il Governo genovese il 18 luglio, provocata dagli abusi delle zecche circonvicine, perniciosi al traffico e tali da fomentare, come dicemmo, le accuse contro la Repubblica dipinta intenzionalmente presso la Porta quale responsabile del disordine lamentato. Diceva la grida : « Essendo venuto a nostra notizia, che da qualche tempo in qua sia stata in più luoghi battuta ed importata una certa qualità di moneta chiamata con nome di Luigino, o sia ottavetti, la quale non ostante li ordini, e proibitioni che vi sono in contrario, vien occultamente introdotta, e contrattata nel Dominio di questa Ser.ma Repubblica sotto pretesti di portarla e negoziarla, come mercanzia in qualsivoglia parte del mondo, e constandoci che simili monete non solo sono bassissime di lega, ma che di più, parte di esse mentiscono nell’impronto, non portando in fronte la vera insegna, e nome abbastanza chiaro del padrone della zecca in cui vengono coniate; onde considerando poi i gravi pregiudizi, che possono risultare al pubblico commercio, quando con provigione adeguata non s’impedisca la fabbrica, contratazione, et introduzione anco per via di transito di simile moneta falsa et adulterata come tale dalle leggi dannata; abbiamo proibito ecc.» (12). Si ordinava cioè che rimanessero proibiti gli ottavetti inferiori alla bontà di undici e non recanti il nome e l’insegna del Padrone della zecca, in cui fossero improntate. Non si trattava più della totale proibizione del monetino come nella prima grida del 1666. L’esperienza fallita del giorgio e la situazione quale andava spiegandosi in oriente dovevano modificare l’atteggiamento assunto di fronte a tale problema. Appariva evidente che non era possibile condurre la contrattazione in Turchia senza recarvisi forniti di monetino. Gli Inglesi avevano a sufficienza per i propri convogli delle loro pannine e droghe, e liberi da ogni superiore proibizione — dei loro piombi e stagni ; ma per Genova, finché non si fosse avviata, con le lane stesse portate dal levante, la nuova fabbrica di panni, non sarebbero bastate, a fondare quel traffico, soltanto le sete e le altre mercanzie locali o quelle provenienti dalla Spagna, come « endeghi e cocciniglie », tanto più che di queste ultime ne venivano già importate dagli Olandesi, e delle sete, in conseguenza delle guerre passate e dell’attuale di Candia, si era di molto ristretto il consumo e lo smaltimento. Era necessità quindi uniformarsi allo stile dei Francesi ossia dei Provenzali, i quali muovevano il traffico per l’oriente da Livorno con un carico, che il Durazzo calcolava costituito normalmente « per una quinta parte di robbe, per l’altra di pezze reali da otto et ongari e li restanti timini » (13). E noi sappiamo, anzi, che non di rado tali vascelli non trasportavano altra mercanzia che quest’ultima specie di contante. Dai Francesi, infatti, che avevano iniziato la stampa dei luigini adulterati per la loro introduzione in oriente; che si erano insinuati nelle zecche dei feudi imperiali per alimentare il proprio negozio — e neppure cessò in (11) Notizia stilla battuta dei luigini ecc., cit. (12) Olivieri, «Monete Doria», cit. (13) Relazione Durazzo alla Giunta del traf., cit. - 65 - Francia, anche dopo i bandi regi, la fabbricazione abusiva del monetino — dipendeva in massima parte il maneggio di questo,, preso a Livorno, non di rado con interessi di terzi e magari di Genovesi. Le navi francesi ne venivano cariche in levante. Verso la fine del 1667 il doganiere di Smirne, vista la quantità dei luigini che esse portavano « senza altro carico », venendo a mancargli l’introito per le merci d’entrata, pretese l’uno per cento sulle monete stesse, pena la loro confisca (14). Nè cotesti Francesi mancarono di essere soggetti, in molti casi, a sanzioni da parte dei Turchi. Limitandoci ai tempi anteriori alla seconda metà del 1667, si ricorda un capitano Grimanol condannato a pagare a Smirne cinque mila pezzi, perchè trovato in possesso di luigini di sette, mentre in Cipro, più volte, navi di detta nazione furono sottoposte ad « avanie » con presa di moneta (15). Qualcuna di tali navi faceva talvolta la sua comparsa, per questo traffico, anche a Genova. Il 20 giugno 1667 i Ser.mi Collegi ordinavano agli Inquisitori di stato di prendere informazioni su di una barca di Francia, che si trovava nel porto già carica o in procinto di caricare luigini per il levante, a fine di conoscere chi era interessato nell’affare e quale ne era la destinazione. Si faceva però considerare l’impossibilità di chiarire la cosa senza una perquisizione del naviglio; ma al Senato la cosa non pareva conveniente e intanto la barca se ne partiva senza che nulla si potesse appurare. Tuttavia il Mag.to degli Inquisitori di stato aggiungeva che nelle zecche di Loano, Torriglia, Tassarolo e Senarega si fabbricavano luigini « pubblicamente di scienza e permissione dei M.ci feudatari » dai quali i Signori Ser.mi avrebbero potuto « aver conto a chi si vendevano » ; e la risposta si trasmetteva all’ecc.ma Deputazione sopra il negozio dei luigini» (16). Un mese prima lo stesso Magistrato aveva pure informato che, mentre case di negozio già erano state stabilite in Livorno da Stefano Pallavicino e Federico de Franchi, nonché — a quanto si diceva — da Eugenio Durazzo, anche il M.co Vincenzo Spinola (lo troveremo più tardi appaltatore dell’impresa genovese in Turchia) pareva dovesse mandarvi, ad aprirvi una sua casa, persona fidata., che un biglietto di calice diceva essere l’armeno Deodato a noi noto. Interessante poi la notizia, contemporaneamente trasmessa, che da Lione erano state portate « stampe » per battere luigini in Fosdinovo a conto di Stefano Pallavicino e Lazzaro Maria D’Oria (17). Tutto ciò avveniva senza dubbio contro le intenzioni del Governo, il quale aspirava, anche e soprattutto nel proprio interesse, ad un risanamento monetario in oriente. Quello proposto al Turco, vedemmo, consisteva nel proibire le monetine di bontà inferiore e ragguagliare quelle sane al giusto valore del reale da otto e del giorgio; ma questo piano risultò al momento irrealizzabile. La conclusione del discorso di Gio Agostino Durazzo al caimacan, che cioè continuando i Genovesi a « portare buona moneta al longo andare sarebbe seguito di essa come degli uomini che li buoni alla fine prevalgono » era una bella frase retorica; e lo scaltrito ambasciatore ben lo sapeva. (14) Lettere Consoli Turchia, 0. D’Oria al Gov., Smirne, 10 novembre 1667. (15) Olivieri, «Monete Doria», cit., docum. XX, p. 83. • I termini avanie e avarie sono non di rado scambiati e confusi. Propriamente le prime erano le imposizioni più o meno arbitrarie stabilite da visir o pascià a carico delle nazioni franche; le seconde ne erano in genere le conseguenze che ricadevano sugli stessi mercanti. (16) Secretorum, 27/1582, Relazioni degli Inquisitori di stato, 20, 21 giugno 1667. (17) Ibid., Biglietto 18 febbrio 1666; Notizie degli Inquisitori di stato, 25 maggio 1667. 6 — 66 - La realtà era che la crescente circolazione della moneta cattiva ed illegale escludeva quella buona. Come si disse, non solo il reale da otto e il giorgio, ma lo stesso luigino originario da undici non poteva sostenersi di fronte al monetino deteriorato. Mentre reali da otto, ongari, zecchini erano riservati al negozio della Persia e comunque erano male accetti, perchè quasi tutti ritagliati nel maneggio, anche i leoni fiamminghi, mantenuti in Turchia per il ragguaglio con i timini, vennero falsificati a tal segno che non si volevano ricevere che quelli di vecchio conio. La moneta arbitra dei mercati orientali era rimasta dunque il timino adulterato con tutte le sue conseguenze deleterie per il commercio: il rincaro delle mercanzie, i fallimenti che ne derivavano, la necessità a un certo punto per Inglesi e Olandesi di alterare la fabbricazione dei panni al fine di porre riparo alla svalutazione della moneta; quando poi si rallentava l’afflusso dei luigini dall’occidente, la crisi del contante si ripercuoteva in tutto il campo economico. Allorché l’ambasciatore Durazzo era di ritorno dal suo secondo viaggio, rilevava da Smirne tale scarsezza, « particolarmente di presente — notava — che di Francia vengono pochi vascelli con che, mancando li luigini, non si può dire la richiesta v’è ». I cambi per l’Italia erano quindi al 20% ed i mercanti armeni potevano poco disporre dei loro « effetti » senza ricorrere a prestiti ottenuti soltanto dietro ipoteche; buona occasione in quella piazza — osservava l’abile uomo d’affari — per impiegarvi milioni (18). 2. — Se un monetino di piena bontà non avrebbe potuto avere impiego economico in tale critica e malsana situazione, non certo era lecito, d’altra parte, valersi di moneta « di lega troppo bassa e d impronto falsificato », senza infamia per il pubblico e rovina dei privati colpiti da qualche grossa « avania ». Rimaneva che la Repubblica portasse nelTImpero ottomano moneta migliore di quella in uso. Ora, nel settembre del 1667, « da tempo in qua e di “presente » — è detto in una relazione del M.co Gio Agostino Durazzo — la bontà massima dei monetini correnti era ridotta a otto once di fino, valutandosi in ragione di 12 o 13 per pezzo da otto reali. E’ vero che Firenze e Massa ne avevano coniati del valore di 11 e più; ma questi si potevano considerare come un semplice saggio — analogamente a quanto era accaduto per il giorgio genovese —, mentre non metteva conto ai mercanti d’impiegarli a proprio rischio e senza alcun guadagno, dato che dei timini stessi da otto, pochi se ne vedevano e questi erano assai graditi, di qualsiasi marca essi fossero. Tutti quelli, poi, che erano di bontà assai inferiore si riusciva facilmente a smaltirli grazie all’impronto dei gigli, sia regio sia di madamigella Montpensier, venendo esso quasi a compensarne lo scarso valore. Questi ti-mini che si avevano « in Livorno od altrove » a ragione di 14 o 15 al pezzo, neppure arrivavano alla bontà di sette, per cui ben volentieri se ne sarebbero ricevuti del valore di otto, purché alle stesse condizioni, anche mancando della marca più pregiata. A giudizio del Durazzo, se il Mag.to competente si fosse assunto il compito di battere una moneta di otto once di fino da cedere in ragione di 15 per ogni pezzo da otto, perchè si spendesse poi in Turchia a 12, sempre per pezzo, avrebbe potuto provvedere vantaggiosamente al traffico nazionale e forse anche in parte a quello francese, accontentandosi solo di risarcirsi delle spese della battuta e dei consueti diritti di conio, mentre le altre zecche dovevano ripartire il provento fra proprietari, manifatturieri, (18) Lett. min. Costant., 3/2171, G. A. Durazzo al Gov., Costant., 5 e 22 ■ aprile 1667. - 67 — appaltatori e rivenditori. Nè doveva esserci scrupolo di vendere la moneta in lurchia ad una valutazione superiore a quella che aveva a Genova, essendosi ciò sempre praticato, come, ad esempio, per i pezzi sivigliani, i quali avevano in passato goduto (e tuttora la cosa persisteva rispetto al Cairo) un « arbitrio di 15 in 30°Jo affinchè la piata delle Indie per mezzo delle Spagne in Italia e quindi in Levante potesse introdursi ». Attualmente, poi, la valutazione in Turchia, considerandosi il sivigliano piuttosto come mercanzia per la Persia, veniva fatta normalmente non a tanti timini per pezzo ma a tanti aspri per timino. Quanto alla pratica esecuzione della ideata stampa, il Durazzo opinava che si dovesse conservare l’impronta di S. Giorgio, per la devozione che i greci gli professavano, e perchè riusciva ai Turchi particolarmente gradita, come assai leggiadra, la figura del Santo a cavallo; onde conveniva curare la massima vaghezza del conio con la più moderna e perfetta fabbricazione « al mulino» (19). Dai suoi calcoli, il « giorgino » (così verrà denominato) si sarebbe potuto apprezzare a soldi 6.4; valutazione da farsi con qualche maggior rigore se si fosse ammesso anche per la città e suo dominio a fine di accrescerne la reputazione; la qual cosa non avrebbe dovuto presentare alcun inconveniente, trattandosi di moneta « ottima per li tre capi dovuti, cioè dell’autorità di chi la fa battere, l’impronto legittimo, et il suo valore intrinseco ». Un’obiezione a questo disegno poteva essere suggerita dal pericolo assai probabile che la nuova moneta venisse contraffatta. A ciò si poteva rispondere che, a parte la maggior facilità e convenienza che avrebbe potuto presentare l’adulterazione dei pezzi d’oro e d’argento puro, i quali si battevano nella zecca genovese, in Turchia si sarebbe avuto cura di vigilare, visitando il carico delle navi in arrivo, facendo il saggio delle monete prima dello sbarco e accordandosi con i ministri turchi per procedere insieme — senza tuttavia permettere loro perquisizioni contrarie alle capitolazioni — alla scoperta del delinquente e alla sua giusta punizione. Idee, queste, che, condivise a pieno dal Governo, attestano ancora una volta quali fossero i veri propositi della Repubblica. Ad un’altra obiezione, che era lecito prospettare, e cioè alla possibilità che col più largo impiego dell’argento, dovesse accrescersene il prezzo con ri-percussioni sul valore dello scudo e quindi sulla contrattazione, poteva rispondersi che esso metallo, se non nella zecca della Repubblica, sarebbe stato consumato ugualmente in quelle dei feudatari; mentre, d’altra parte, chi avesse ordinato o comprato giorgini in Genova, avrebbe dovuto versare l’equivalente quantitativo di argento in scudi o reali da otto. Quanto ai rapporti con le zecche dei feudatari, contro il diritto sovrano dei quali non pareva si potesse efficacemente agire, il Durazzo esprimeva l’opinione che si permettesse il traffico, sotto la bandiera genovese, del loro monetino, purché del valore di otto e con impronta legittima, anche allo scopo di poter provvedere a tutte le richieste del levante. Tanto su detto monetino (19) « I molini di nuova invenzione co’ quali s’improntano le monete assai meglio e con lavoro più fino a forza di ruote e di strettoie » (scritto anonimo da Lucca, in Merli, ms. cit.). La prima innovazione fu introdotta in Germania, sostituendosi al primitivo martello ordigni meccanici: il laminatoio o « mulino » per la preparazione delle lamine, da cui si ricavavano i tondelli col tagliola, e il bilanciere, grosso cilindro di ferro col quale si operava il conio a forte pressione. Verso la metà del sec. XVI, il sistema fu applicato in Francia, dove la zecca « Monnoie au molin » servì dapprima per la coniazione di medaglie, e nel seicento, col perfezionamento del bilanciere, anche delle monete: fabbricazione divenuta definitiva ed esclusiva dall'inizio del regno di Luigi XIV. forestiero come su quello della zecca genovese proponeva, poi, che si imprimesse, a maggior garanzia, il numero otto, per doversi condannare come falsa la moneta di cui non fosse riconosciuta la corrispondente bontà (20). Il problema esaminato era allora comune anche agli altri stati. Così vi era notizia che in Savoia si battessero monetine di bassa lega per uso interno e del levante e che il granduca, a mitigazione delle gride proibitive, intendesse permettere la contrattazione in Livorno di qualsiasi sorta di monetino, cosa che del resto sappiamo si era sempre verificata in quel porto e ancora si verificherà con crescente incremento della sua attività. Anche la zecca di Massa stava battendo moneta di bontà di otto, e nello stesso tempo giungeva agli Inquisitori di stato informazione del contratto stipulato dalla Repubblica di Lucca col Berti, « fratello o cugino » del Moretti, per la battuta — era convenuto — di « quel numero de ottavetti che parrà a lui » (21). La continua svalutazione del monetino da parte delle diverse zecche in gara per la difesa del proprio lucro, portò anzi la Repubblica nostra, prima ancora che la discussione si chiudesse, ad abbassare la proposta bontà del giorgino da otto a sette. La discussione era stata, al riguardo, ampia e scrupolosa. Una Deputazione per lo studio della pratica fissava, il 17 settembre 1667, i punti da considerarsi: la necessità o meno del monetino per il traffico del levante; la convenienza che esso venisse battuto nella zecca della Repubblica; quali dovessero essere, in caso, le sue caratteristiche; se potesse aver corso nel Ser.mo dominio. Per il primo punto si rimetteva senz’altro alla riconosciuta autorità del M.co Gio Agostino Durazzo e alla sua recente esposizione che affermava il forzoso uso del monetino in oriente. Considerava quindi, anzitutto, le difficoltà presentate da una sua coniazione nella zecca della Repubblica. Stridente era intanto il contrasto con la grida recentissima del 18 luglio, in cui si vietava ogni moneta del genere che avesse bontà inferiore alle undici once di fino. I consoli genovesi avrebbero dovuto dunque confiscare sulle navi nazionali i monetini forestieri di valore di 10 e di 9, ammettendo quello di 8 uscito dalla zecca della Repubblica: si doveva quindi o rinunciare alla battuta o revocare la grida. Come si spiegava, poi, che il re di Francia e il granduca di Toscana avevano bandito dette monete, se veramente fossero necessarie al traffico levantino, nel quale erano tanto interessati? Oltre queste obiezioni prospettate senza tener conto della fluidità della situazione, in continuo peggioramento, e del reale contributo che al negozio dei luigini portavano Provenza e Livorno, altre se ne aggiungevano di maggior consistenza. Soprattutto veniva rilevata la quasi certezza che le nuove monete sarebbero state sùbito falsificate nelle zecche circonvicine, fabbricandole di bontà assai inferiore, ossia di 4, di 3 e persino di 2, come già si era praticato in alcune di esse, essendo il sistema divenuto così frequente ed a-perto, che « oggimai — si diceva — simil delitto vien chiamato virtù e dichiarato arte ». Particolarmente si riteneva — alludendo al recente contratto del veneziano Berti con Lucca — che appena usciti dalla zecca di Genova i gior-gini sarebbero andati a finire in quella di detta città per riuscirne alterati nel loro valore. Ma più di tutto preoccupava il pericolo che, essendo le monete (20) Relazione di G. A. Durazzo, settembre 1667, cit. (21) Lettera anonima da Lucca, cit. 69 - contraffatte con l’impronta della Repubblica, i prìncipi emuli ne avrebbero preso occasione per questa calunniare e screditare. Comunque, poicbè l’esigenza del traffico troncava ogni discussione, si proponeva la battuta di detto giorgino con le caratteristiche già indicate. Per premunirsi contro le falsificazioni, si riteneva, contro l’opinione del Durazzo (forse un po’ incline a favorire le zecche forestiere, in cui erano interessati suoi congiunti) (22), che fosse necessario vietare ai mercanti, i quali usavano bandiera genovese, di portare monetine diverse da quelle coniate nella zecca della città; queste ultime poi, si dovessero distribuire soltanto a detti mercanti con una fede attestante il pagamento del consolato, ridotto a 0,75 per cento, e la qualità e quantità del contante. I consoli, nelle scale del levante, non avrebbero dovuto ammettere che monete accompagnate da tali fedi. Inoltre, perchè questo monetino non provocasse variazioni nello scudo d’argento e turbamenti nella negoziazione, come già in casi analoghi era accaduto, sarebbe bastato che nella sua valutazione per l’uso in dominio si ragguagliasse, in numero, alla quantità di argento contenuto in detto scudo (23). Tale uso sarebbe stato limitato, in quanto si trattava di moneta da imprimersi soltanto a richiesta dei mercanti, i quali l’impiegavano nel traffico. Ma altro parere, che finì per prevalere, era quello che senz’altro detta moneta si dovesse soltanto trattare come mercanzia per il levante. L’esame delle cinque proposizioni formulate dal priore della Deputazione a conclusione della discussione per sottoporle ai Ser.mi Collegi subì un improvviso ritardo perchè il Senato aveva trasmesso alcuni scritti anonimi alla Deputazione stessa per le sue riflessioni. Da una relazione di questo tempo (14 ottobre 1667) degli Inquisitori di stato sull’argomento, apprendiamo che nei giorni precedenti una feluca « con un uomo francese di comando » era partita dal porto di Genova recando « un francese zecchiere » al golfo della Spezia, essendo costui diretto a Fosdinovo con contanti che sembravano a lui affidati da Stefano Pallavicino q. Nicolai e da Lazzaro Maria D’Oria, per conto dei quali pareva lavorasse quella zecca affidata a Marc’Antonio Grendi, giovine dello stesso D’Oria. Risultava pure che i luigini fabbricati in Tassarolo seguivano la strada di Finale per Livorno e che la zecca di Loano batteva della medesima moneta per conto di Eugenio Durazzo. Intanto l’Ecc.ma Deputazione, prima ancora di avere comunicazione di questa relazione, nella sua seduta del 20 ottobre 1667, riferendosi agli scritti anonimi in parola, rilevava che il loro contenuto non portava ad alcuna modificazione delle proposte già formulate. Piuttosto essi mostravano la necessità che si facesse operare la grida del 18 luglio 1667 rimasta inefficace per mancanza di esecuzioni, contro la mente delle Loro Signorie Ser.me e con incentivo ai disordini e nocumento alla divisata battuta dei giorgini. Stampandosi infatti nelle zecche circonvicine monetini di qualità inferiore, i mercanti, per il maggior utile, li avrebbero da quelle acquistati, e (22) Gio Agostino Durazzo sposò, il 6 febbraio 1668, Maddalena Spinola, figlia del conte Napoleone di cui parliamo a proposito della zecca di Ronco. (23) La moneta di biglione determinava la variazione lamentata nello scudo e nel reale da otto, quando non si verificava tale condizione, come accadeva per i cavallotti. Questi si spendevano allora per soldi 6 e denari 8, valendo, 21 e mezzo di essi, lire 7 e 4, quanto cioè lo scudo d’argento. In realtà però, fondendo 21 e mezzo cavallotti non si otteneva tanto argento puro come fondendo uno scudo; di qui l’aumento del valore di quest'ultimo. (Relazione della Deputazione circa la battuta dei giorgini, 17 settembre 1667, in Merli, ms. cit.). - 70 - portatili così in levante, ne sarebbero derivati i soliti gravi disturbi, venendo considerati colà come provenienti dal dominio della Repubblica, in modo da fornire ai prìncipi emuli buon pretesto per la loro azione distruttrice del nuovo traffico ligure. Si suggeriva perciò di ordinare ai giusdicenti della Repubblica di eseguire « diligentissime perquisizioni » sui vascelli che dai porti e dalle cale della loro giurisdizione fossero destinati a Livorno o nel levante, per venire con ciò alla severa punizione dei delinquenti, e si proponeva pure, allo stesso fine, l’applicazione della « legge dei biglietti » (24) nella convinzione che non si potessero reprimere gli abusi senza un « grandissimo rigore ». In una seduta dei Collegi con partecipazione dei quattro Deputati e di Gio Agostino Durazzo, le proposizioni venivano di massima approvate. Ma considerazioni di ordine politico e l’ulteriore proposta di ridurre il valore del giorgino da 8 a 7, lasciavano ancora sospesa la conclusione definitiva. Alla Deputazione veniva dato ordine di esaminare di nuovo la pratica; ed essa il giorno dopo (8 dicembre 1667) riferiva prontamente ai Ser.mi Signori in merito, anzitutto, alla possibilità che la battuta dei giorgini potesse risvegliare le opposizioni della Francia, le quali — aggiungevano con ingenua illusione — « paiono ora addormentate ». In realtà, come vedemmo, il residente D Oria di Parigi aveva scritto (19 luglio 1667) che il signor di Lionne, fra l altro, si era lagnato per i luigini falsificati con l’impronta regia; sicché tale si mostrava il punto della « doglianza » e non già la semplice introduzione della piccola moneta in oriente. La nuova coniazione del giorgino avrebbe potuto anzi disingannare meglio i malevoli, mostrando a tutto il mondo e particolarmente ai Francesi, la sincerità della zecca genovese e come « il monetino — si diceva — sin’ora uscito dalle convicine montagne sotto diversi e mal conosciuti impronti, per quanto habbi havuto il nome di genovese è stato fabbricato in giurisdizioni fuorestiere ». A tal fine occorreva insistere sulla rigorosa applicazione delle gride anche contro il transito di detto monetino e per l’esecuzione dei dovuti castighi, ricorrendo pure — ripetevasi — alla « legge dei biglietti » con qualche punizione esemplare, « poiché per altro essendoci interessati (per quanto si presente) diversi cittadini in questo negozio, non si può condurre questa pubblica risoluzione felicemente con profitto alla perfezione desiderata ». A togliere poi ogni richiamo al traffico orientale, si proponeva di non menzionarlo affatto nella solita grida che si doveva fare per l’annuncio della nuova moneta, presentando questa come coniata per solo uso interno dello stato. Circa la questione del suo valore, su cui i pareri erano stati più discordi, la Deputazione considerava che nel levante « la più comune e più gradita al presente era la bontà di sette » e che battendo il monetino di tale bontà, la zecca della Repubblica avrebbe potuto escludere o indebolire assai il maneggio delle altre, le quali per le spese assai maggiori non sarebbero state in grado di « resistere del pari in questo negozio ». Si scrivesse quindi ai ministri del levante perchè si attenessero scrupolosamente alle norme fissate circa le fedi, che dovevano accompagnare i giorgini per legittimo contrassegno, e il saggio da eseguirsi per maggior garanzia contro eventuali sostituzioni durante il viaggio. Il tutto veniva approvato in conformità dai Ser.mi (24) La « legge dei biglietti » si applicava ai cittadini molesti o pericolosi mediante i biglietti su cui i M.ci Consiglieri segnavano il nome di chi ritenevano meritevole di essere condannato al bando o alla relegazione temporanea. La condanna dipendeva dal numero dei biglietti contrari. Collegi il 9 dicembre per l’immediata esecuzione (25). La necessità, impostasi durante la discussione della pratica, di ridurre ulteriormente la bontà del giorgino da 8 a 7 era dovuta al rapido mutamento della situazione: invano questa gli esperti genovesi si illudevano di poter in tal modo arrestare. Il Magistrato delle monete, cui spettava l’esecuzione del, decreto dei Collegi intorno all’urgente stampa dei giorgini, riferiva il 5 gennaio 1668 sul lavoro preparatorio compiuto. In Genova non si trovavano individui capaci a far « mulini » e torchi per le monete, nè abili ad imprimerle ; occorreva quindi stringere contratto con un particolare imprenditore, il quale a tutto provvedesse, « sperando che con havere li ordigni fatti, e che vedendo li soliti operarii di questa zecca il modo e forma dell’operatione, possano con facilità apprendere il mestiere, e così havere in propria casa l’arte, che di presente è solo in mano dei forestieri » (26). Il Mag.to avrebbe fornito, con parte degli operai, i locali, un torchio di metallo e ordigni esistenti in zecca, utili per la costruzione del nuovo torchio, nonché l’argento in verghe e in lamine pronto per « passarlo al mulino ». Il contratto doveva stipularsi per tre anni « con Onorato Bravetti e Gio. Soglignac». In realtà l’istrumento di appalto venne concluso il 13 gennaio con Francesco Santi de Glaudeves, altro francese a noi noto come interessato nella zecca di Torriglia (27). Le voci e gli apprezzamenti discordanti si fecero sentire attraverso le solite lettere anonime. In una contraria al provvedimento, si supponeva che nelle zecche forestiere il monetino si sarebbe potuto battere forse di valore anche inferiore a 6, imprimendovi invece il numero 7, come allora si soleva fare. Veniva rilevato che il conte Spinola (Napoleone) si diceva aver parte nella zecca genovese, sedendo in Magistrato un suo nipote, « che guadagnava volentieri ». Si deprecava, come al solito, il danno che sarebbe derivato alla Repubblica se fosse stata adulterata la moneta con lo stesso suo impronto. L’anonimo portava l’esempio del granduca che non aveva voluto acconsentire a una tale idea. E all’esempio della Francia, Spagna, Inghilterra e di Venezia si riferiva pure un altro cittadino sconosciuto e malcontento (13 marzo 1668), osservando che le teste coronate, come giustamente pretendeva di essere la Repubblica, non si erano piegate a battere monete di bassa lega; e lo stesso aveva fatto, fino a quel tempo, anche Genova, mantenendo « intatto e vergine il titolo delle specie d’oro e d’argento». S’insinuava poi che le Signorie Ser.me si fossero lasciate persuadere da « alcuni che non risguar-dano in questo che il proprio interesse » (28); il che non risulta sostanzialmente vero, dato che fra i sostenitori dei nuovi provvedimenti, nei consessi e nelle deputazioni, vi erano anche molti che invocavano, come vedemmo, l’esemplare castigo degli abusi contro chiunque. A riprova, si può ancora osservare che, fra gli anonimi i quali lodavano le deliberazioni prese, vi era anche chi non mancava di richiamare l’attenzione delle autorità su possibili perniciosi deviamenti. (25) Relazioni della deputazione circa la battuta dei giorgini, 17 sett. e 8 dicembre 1667: Deliberazione dei Collegi 9 die. 1667, in Merli, ms. cit. (26) Secretorum, 28/1583, Relazione del Mag.to delle monete, 5 gennaio 1668. (27) Onorato Blauet di Nizza e Giovanni Solinliak, francese, da noi trovati nella zecca di Loano rispettivamente dal 1664 e 1666; Secretorum, 28/1583, Relazione del Mag.to delle monete cit.;Mone-tarum Diversorum, 48, Istrumento 13 gennaio 1668. (28) Secretorum, 28/1583, Incerti, 13 marzo 1668. Per monete del 1666 si ha la sigla di Gio. Stefano Spinola. Così un tale, che curiosamente si firmava « Fra Desiderio pieno d’ottima volontà », cominciava il suo scritto (10 gennaio 1668) con queste significative parole: «Sii laudato il Sommo Fattore hanno pure VV. SS. Ser.me una volta risoluto di far battere de li luigini che sarà molto utile alla Camera Ecc.ma; ma bisogna star oculati e sapersene approfittare ». Non gli pareva, ad esempio, cosa buona che i saggiatori fossero « parziali » del capomastro francese, perchè potevano aggiustarsi fra di loro ed eseguire una « fattura » di assai minore bontà ; « ma — esclamava — si sono lasciati imbrogliare tutti e Dio lo sa ». La Camera poi avrebbe potuto eliminare inutili spese, assumendosi direttamente il diritto di zecchiere, il quale « non serve che per vento da asciugare berrette ». Ed enumerava inoltre i vantaggi. Quando la Camera si fosse accontentata di un utile ragionevole, facendo di una libra 131 pezzi (29) che risultassero quindi di maggior peso degli altri (perchè in levante pochi sapevano fare il saggio, ma tutti possedevano il bilancino per pesare le monete, mentre al presente tutte le zecche lavoravano molto leggero), ognuno vorrà dei giorgini genovesi, che si spenderanno in Lombardia a otto soldi di moneta milanese, e tutte le altre zecche si estingueranno da sè, ed anche a Livorno si toglieranno molti negozi e verranno tutti a Genova per negoziare, francesi e di altre nazioni, «e così tutti intoneranno viva S. Giorgio» (30). A parte gli entusiasmi ed i pronostici esagerati, si conferma qui quanto i Ser.mi Signori avessero resistito alle richieste dei mercanti per concedere la battuta di questa specie di moneta, determinati, infine, soltanto da quella che sembrava esigenza ineluttabile delle circostanze (31). Finalmente il 20 aprile 1668 la mostra del giorgino veniva presentata al Governo e già richieste ne erano state fatte da varie persone, che evidentemente aspiravano non al lucro illecito, ma al risanamento del traffico (32). 3. — Una levata di scudi contro il monetino c’era stata in gennaio a Costantinopoli e il motivo determinante pare fosse stato il fatto che poco avanti in Smime i capitani delle navi francesi, per non subire molestie da quel doganiere, si erano con lui accordati di pagargli il due per cento sopra detta moneta. Ciò era contrario alle capitolazioni e c’era da temere che si stabilisse una consuetudine, la quale avrebbe costituito un grave pregiudizio per il contante di buona lega e di giusto peso (33). (29) Secondo il calcolo di G. A. Durazzo dovevano essere 144. (30) Secretorum, 28/1583, Scitti d’incerti, 10 gennaio, 13 marzo 1668. (31) Un biglietto anonimo del 27 settembre 1667 (Giunta del Traffico, 1/1015) lamentando «la tiepidezza con la qnale si procede nell’indirizzo del traffico » a causa delle minacce francesi, aggiunge anche «l’imbarazzo della Grida circa la moneta» suggerendo: «Converrebbe però rimediarvi con una tacita permissione del maneggio del monetino e qualche insinuazione a mercanti che potrebbero mandare ». (32) Portava da una parte «l’effigie di S. Giorgio et intorno le parole seguenti: S. GEOR.PROT. BON. UN. VII |bonitatis unciarum septem|, e dall’altra parte uno scudo traversato da caratteri LIBERTAS, con parole d’intorno che dicono, DUX ET GUB. REP. GEN. 1668, con quali espressioni più che con motti o geroglifici ha stimato il Mag.to di contrassegnarlo, per sottrarlo più che sia possibile dall’adulterazione et imitatione essendosi valso il Mag.to per Maestro delle stampe di huomo in questo genere peritissimo, per dare alla moneta ogni maggior perfetione». Secretorum, 28/1583; Relazione del Mag.to delle monete, 20 aprile 1668. (33) Lett. Min. Costant., 3/2171, Sinibaldo Fieschi al Gov., Costant., 10 gennaio 1668. — Ottavio Doria scriveva da Smirne al Governo che quel doganiere aveva preteso di visitare la moneta e di assoggettarla a un dazio del 2%; ma il console a ciò si era opposto appellandosi alle capitolazioni. (Lettere Consoli Turchia, 1/2703, Smirne, 8 maggio 1668). — 73 - L ambasciatore inglese si era recato dal capitan pascià per protestare contro il monetino, essendo in attesa dal suo re di altri ordini al riguardo. Successivamente anche Sinibaldo Fieschi, ricevuto dallo stesso ministro « con ogni dimostrazione di stima », gli aveva fatto presente che i mercanti genovesi erano restii a incrementare questo traffico, perchè, a cagione delle monete false.,, le merci del levante rincaravano sempre più e quelle importate correvano pericolo di essere pagate con rame inargentato. Ed avendo rilevato che le monete della Repubblica, di gran lunga migliori di quelle correnti, non erano state gradite, aveva avuto in risposta « essere verissimo che da Genovesi si portavano robbe perfette e buon contante », laddove alcune monetine presentate dal ministro d’Inghilterra non avevano due dramme di argento ; essere impossibile, durando la guerra, apportare innovazioni: col tempo si sarebbe però regolata ogni cosa. Pertanto il Fieschi aveva voluto con le sue parole opporsi, senza nominarli, ai Francesi, i quali andavano ripetendo che i Genovesi « solamente infestavano il paese di false monete ». Dopo l’udienza concessa al De La Haye — « quel francese traditore » come lo chiamava il capitan pascià — questi riceveva pure il segretario del residente olandese, il quale, ripetendo le stesse lagnanze ed osservando che in tal modo si sarebbe affatto estinto il traffico cristiano in oriente, ne aveva le medesime risposte (34). Ora, nel pensiero e nelle illusioni del Governo genovese il giorgino a-vrebbe potuto appunto sanare tale situazione. Appena pronta, la mostra era stata sùbito spedita al residente di Costantinopoli e al console di Smirne. Col dispaccio del 14 maggio 1668, i Ser.mi Signori comunicavano al Fieschi che in zecca stavano battendosi i giorgini, di cui già doveva aver ricevuta la mostra; che speravano nel gradimento del Turco, data la loro sincerità e vaghezza, e nel concorso dei mercanti a provvedersene in Genova. Attendevano in proposito particolari notizie sul credito che essa moneta riuscisse a procacciarsi colà (35). Quattro giorni dopo una certa quantità di giorgini veniva imbarcata su alcuni vascelli in partenza per il levante e se ne dava avviso al residente e al console di Smirne, con le istruzioni necessarie circa il controllo delle fedi rilasciate dal cancelliere del Mag.to delle monete, fedi di cui dovevano conservare l’originale inviandone copia a Genova. Il Fieschi con lettera del 9 giugno 1668 riferiva di aver inviato quella stessa mattina al caimacan la mostra della nuova moneta genovese appena ricevuta, esprimendo la convinzione che, essendo gradita, sarebbe riuscita di grande vantaggio al traffico e di confusione ai nemici: chiedeva anzi che gli venisse pagato il suo « avanzo » in quella moneta, tanto era persuaso dell’apprezzamento che avrebbe ricevuto colà (36). Effettivamente i giorgini avevano avuto da principio ottima accoglienza. Il Fieschi in questa stessa lettera aggiungeva : « posso assicurare VV. SS. Ser.me che non v’è in questo paese altra moneta d’argento, escluso il reale di Spagna, che venghi più gradita et è opinione universale che se ne sarà introdotta in abbondanza, darà scacco matto all’ottavini essendo da tutti ricercato ad esclusione de suddetti monetini, ma il numero portato è così poco, (34) Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., 10 genn. 1668. (35) Ibid., 5/2173, il Gov. a Sinibaldo Fieschi, 14 maggio 1668. (36) Ibid., 3/2171, Fieschi al Gov., Costant., 9 luglio 1668. che a pena ha dato luogo che si facino conoscere essendone solamente 6tati sbarcati sei sacchetti, entro ogn’uno de quali erano 7200 georgini». Il residente riteneva che con l’aiuto del gran visir, sempre favorevole ai Genovesi, si sarebbe potuto dar incremento all’affare delle nuove monete; aggiungeva però, a fine di renderne il negozio più compito, una sua idea sulla quale insisterà ancora molte volte nelle lettere successive: battere pure dei georgini « grandi », cioè della stessa bontà degli altri, ma del peso del leone, il che avrebbe accreditato anche i piccoli. E sarebbe stato opportuno seguire l’esempio degli Alemanni che avevano mandato in una sola volta grande quantità di loro moneta, spendendola in mercanzie, sì da diffonderla rapidamente in tutto l’impero. Prova della stima che sùbito godettero i monetini genovesi sono le proposte che vennero fatte al Fieschi da coloro che avevano la direzione di quella zecca. Essi offrivano infatti argenti finissimi in barre per una somma considerevole di giorgini mandata o dal Pubblico o da privati in ragione di cento dramme d’argento per 130 giorgini, offrendo inoltre una dramma d’oro della bontà dell’ongaro per venti di quei monetini (37). Anche il D’Oria comunicava buone notizie da Smime. La nuova moneta, di cui un primo « groppo » era giunto colà a Batta Durazzo, era stata ricevuta senza alcun controllo e gradita — scriveva — « più di qualsivoglia altra moneta che di questa sorte sia pervenuta in questa piazza » (38). Riferiva inoltre che i bey di otto galere, venute alle Smirne per spalmare, avevano cercato di procurarsene, molto apprezzandola e proclamando « i Genovesi essere uomini onorati, e che la bontà di suddetta moneta si deve giustamente preferire ad ogni altra ». I giorgini venivano spediti da Genova anche con navi francesi o di altre nazioni, e il D’Oria avvertiva che i rispettivi rappresentanti ne riscuotevano il consolato, mentre il doganiere esigeva l’uno e mezzo per cento di dazio, onde agli interessati poco importava presentare la fede del Mag.to delle monete al console genovese. Suggeriva quindi che a chi prendeva detti giorgini si richiedesse sicurtà di attenersi a tale obbligo (39). Per il peggiorare della situazione dei luigini falsi, un comandamento era intanto pervenuto da Costantinopoli al doganiere di Smirne perchè visitasse tutte le monete in arrivo. Il D’Oria, a difesa dei privilegi della nazione, ottenne che l’esame avvenisse in casa sua, dove si recarono infatti i ministri turchi « col fuoco, il ferro e il paragone » ; ma alle dichiarazioni del console e alla prova dei fatti rimasero così persuasi della rettitudine dei Genovesi, da consentire che per l’avvenire introducessero liberamente i giorgini con qualunque altra moneta (40). Anzi, lo stesso Batta Durazzo procurò dalla corte un comandamento per cui la moneta genovese non dovesse incontrare nel suo ingresso nessun ostacolo e fosse esente dal dazio. Quale stima avessero incontrata i giorgini lo dimostra anche il fatto che nel Mar Nero — a quanto avevano scritto — venivano rifiutati tutti i timini tranne il giorgino. Essendosi poi recati tutti i consoli di Smirne con i Grandi della città per protestare presso il cadì contro la tollerata introduzione della (37) Ibid., Fieschi al Gov., Costant., 3 dicembre 1668. (38) Lettere Consoli Turchia, 1/2703, 0. DOria al Gov., Smirne, 17 luglio 1668. (39) Ibid., D’Oria al Gov., Smirne, 20 agosto 1668. — Bey, capitani armatori delle galee «bei-liere » ; le altre erano le «regie ». (40) Ibid., D’Oria al Gov., Smirne, 27 ottobre 1668. - 75 - moneta falsa, uno di essi sostenne che « solo la moneta genovese si dovesse riputar huona ». In sèguito a tali proteste veniva dato al subassì autorità di perquisire case e persone fin nella pubblica strada « detestandosi espressa-mente i luigini di Lucca», ossia quelli certamente della recente battuta del Berti da noi ricordata (41). Riguardo ai giorgini, la preoccupazione del Governo fu sùbito quella della eventuale falsificazione. Faceva pertanto studiare quali rimedi si potessero praticare per impedirla e si raccomandava ai ministri presso il Gran Signore di vigilare attentamente perchè nessun giorgino adulterato venisse introdotto in quei paesi. I timori non erano infondati. Le solite zecche erano sempre più attive; l’astuzia, l’arbitrio, l’amore del lucro sempre più acuiti (42). Incidenti turbavano la stessa vita interna della città. In seguito ad un biglietto di calice del Minor Consiglio, il Mag.to delle monete, interpellato dai Ser.mi Signori, rispondeva (21 giugno 1668) essere verissimo che il M.co Pier Francesco Durazzo — da noi già trovato in rapporto con le zecche di Campi — si era portato alla casa di Giovanni Gionchetto (43) — un francese anche questo — mentre il bargello o cavallero Stefano Molfino stava eseguendo una perquisizione per ordine del Magistrato. Messo in imbarazzo dal patrizio, il Molfino non fu in grado di compiere adeguatamente il suo dovere, rinvenendo soltanto tre doppie della stampa di Spagna false. Rimandato dal Magistrato con l’assistenza del sottocancelliere e con ordine preciso di sequestrare denari, scritture, lettere, registro e libri, furono rinvenuti due pezzi da otto reali falsi, ma non i libri e le lettere dell’anno in corso. Condotto il Gionchetto prigione in Camera del Magistrato, vi venne accompagnato dallo stesso M.co Pier Francesco, che lo seguì fino in zecca. Quella stessa mattina, poi, mentre i Deputati al criminale volevano far deporre giudizialmente il bargello, questi, a un certo momento, aperta la porta, se n’era fuggito, sicuramente per paura del Durazzo. Riferiva ancora detto Magistrato essere pubblica fama che il M.co Gio Giacomo Grimaldi e altri cittadini ricavassero lucro nel traffico dei luigini contro gli (41) Ibid., D’Oria al Gov., Smirne, 21 novembre 1668. (42) Dopo la stampa del « giorgino » genovese, dette zecche si diedero a metter fuori, col 1668, gran quantità di ottavetti, man mano sempre più bassi (da 7 a 4 di fino). Nei feudi doriani, accanto alle zecche di Loano e di Torriglia, tenuta quest’ultima, dopo il bando del Moretti, dal menzionato Paris Tasca insieme col francese Cristoforo Aicorel, 'parecchie altre ne sorsero, delle quali però alcune non fecero neppure in tempo ad entrare in funzione per la sopraggiunta proibizione dei limini in Turchia. Nello stesso modo si comportarono, nei medesimi anni (1668-69), le zecche del feudatario di di Campi principe Gianbattista I Centurione-Scotti, e del marchese Napoleone Spinola a Ronco e Roccaforte, nonché l’altra di Fosdinovo assai attiva sotto il nome della marchesa Maria Maddalena Centurione Malaspina, moglie di Pasqualo II, e quella della Rep. di Lucca concessa al Berti già ricordato. Nella convenzione del 31 agosto 1668 fra il principe Centurione e i locatari Giovanni e Lorenzo Massaure di Avignone è stabilito che questi potevano fabbricare anche per terzi le « monete volgarmente dette Gittoni, Marchesini o altro nome che sii, conforme battono diverse zecche di altri Principi circonvicini o stranieri, che sogliono poi vendersi come mercanzia», dovendo detta moneta essere « di tutta quella bontà e valore, che sogliono battere tutte le altre zecche, quali oggidì pare siino di bontà di 6».Con altri locatari, altre tre zecche aperse il Centurione nel suo feudo fra il 1668 e il 1669. I Massaure vennero poi processati per abusi (agosto 1669). La zecca di Fosdinovo, come si disse, lavorava anche per Stefano Pallavicino e Lazzaro M. D’Oria. Rilevante fu la quantità di ottavetti coniati in questi anni nelle diverse zecche. Riportiamo qualche dato: a Loano nel 1665 furono lavorati 151162 libbre di metallo per 2.183.328 monete. Dal 16 febbraio 1665 al 2 aprile 1669 vennero coniati ottavetti per il valore di 750-800 mila pezzi da otto reali. A Campi nel 1668 si dovevano battere, in una zecca, ottavetti per il valore di 60 mila reali. (Cfr. Olivieri, Merli, cit.). (43) Giovanni Ginquet, zecchiere di Ronco (Spinola) dal 1667. ordini del Governo; e che ultimamente lo stesso Grimaldi era stato visto col nominato Gionchetto (il quale pareva avesse in affitto le zecche di Torriglia e di Ronco) salire in una carrozza dove avevano fatto riporre alcuni sacchetti di denari ed avviarsi dalla piazza del Guastato verso Sampierdarena. In sèguito a tale rapporto i Collegi ordinarono (26 giugno) di intimare al Pier Francesco Durazzo di costituirsi il giorno dopo nelle carceri criminali a loro disposizione sotto pena di duemila scudi; ma non so quali altre misure venissero prese (44). Un altro fatto increscioso si verificò a Costantinopoli. Il residente Fieschi aveva confiscato al sopraccarico Leonardo Ferrando della nave « S. Sebastiano », mentre stava per salpare da Costantinopoli, 500 ongari, ossia scudi d’oro d’Italia della stampa del principe D’Oria ritenuti falsi, condannando il colpevole a cinquecento bastonate riscattabili con altrettanti pezzi, tosto pagati in 210 zecchini. Gli interessati in detta nave avevano fatto istanza per la restituzione della somma, e uno di essi, il M.co Eugenio Durazzo, aveva eseguito in Camera Ecc.ma il deposito dell’equivalente dei predetti ongari e zecchini. Si ordinava pertanto che il Fieschi consegnasse a persona da designarsi dal Durazzo i 210 zecchini, e, sigillati in sacchetti, gli ongari, per rimetterli ai Collegi in Genova a rischio degli interessati stessi, inviando a parte, per conto suo, sei od otto di detti scudi come mostra da sottoporre al saggio (45). La « S. Sebastiano » aveva preso parte al primo convoglio per l’oriente e sùbito s’era impegnata in un secondo viaggio, col desiderio di dare impulso al nuovo traffico. Di ciò si vantavano gli interessati, lagnandosi invece dell’esoso trattamento di quel residente e degli aggravi subiti (quali il pagamento di un secondo consolato dopo quello di Smime, la tassa di 347 leoni senza una precisa specificazione dei motivi ed una lunghissima stallia). Chiedevano infine la restituzione della somma che dicevano abusivamente confiscata, pronti a fornire tutte le necessarie giustificazioni ai giudici designati. Il saggio venne eseguito su due degli ongari dai periti e saggiatori di zecca Giuseppe Pedemonte e Gio Andrea Castellazzo, i quali riferirono al cancelliere del Magistrato delle monete, alla presenza dell’Ill.mo Marc’Antonio Grillo, deputato ad assistere ai saggi in parola, di aver constatato che i due scudi mancavano « l’uno per l’altro a ragione di sei per cento d’intrinseco valore ». (46) Certo il Governo non aveva così mancato di seguire il più regolare procedimento: ma dalle lettere del Fieschi si capisce che le ragioni portate specialmente dal Durazzo dovettero essere tali da annullare ogni azione. Il M.co Sinibaldo scriveva che era spiacente di aver disgustato i signori interessati, essendo pure ben certo che non fosse « intenzione del signor Eugenio di far spendere monete che discreditassero il suo proprio interesse ». Dietro informazioni dell’ambasciatore inglese, aveva egli stesso messo sull’avviso il Ferrando; ma questi si era comportato con ostinazione. D’altra parte ne andava di mezzo la pubblica e la privata riputazione a detrimento del traffico, e le istruzioni lasciategli da Gio Agostino Durazzo gli ordinavano di non lasciar (44) Secretorum, 28/1583, Relazione del Mag.to delle monete, 21 giugno 1668. (45) Lett. Min. Costant., 5/2173, il Gov. al Fieschi, 26 ottobre 1668; 17 marzo 1669. (46) Giunta del Traffico, 1/1015, Supplica degli interessati; biglietti di calice 10 e 24 ottobre 1668; Referto dei saggiatori di zecca, 11 aprile 1669. Il biblietto di calice 10 ottobre alteravo completamente il fatto; il che mette in guardia contro le accuse non sempre esattamente formulate da 8ÌSatti documenti. spendere una qualità simile di moneta della zecca di Tassarolo, allora introdotta con pregiudizio della nazione. Se del resto sembrava alle Loro Signorie cbe egli fosse stato troppo rigoroso, potevano sempre graziare il reo e restituire la multa, in modo che gli interessati avessero a « deporre l’odio concepito » contro di lui (47). Ma a parte questi particolari episodi, risulta che in generale i mercanti genovesi, in tanta confusione ed incertezza delle monete, ritardavano le loro spedizioni in oriente, sicché a Costantinopoli — scriveva il Fieschi — la nazione era segnata a dito da Turchi e da Cristiani. I Francesi poi se ne valevano per insinuare, sempre allo scopo di screditare la Repubblica, ora che il loro re aveva proibito ai Genovesi quel traffico, ora che le navi di questi erano state catturate. Intanto, mentre gli sperati provvedimenti della Porta a vantaggio del monetino genovese non venivano attuati, i falsi luigini invadevano quella Provincia per opera specialmente dei Francesi. Costoro — scriveva il Fieschi — « attendevano ad ingrassarsi capitando giornalmente vascelli e barche cariche di rame stampato, chè tali sono i loro monetini che oggi qui corrono, col quale danaro comprano salumi, cuoi e lane a qualsivoglia prezzo, ha-vendo sufficiente guadagno nella suddetta moneta e loro stessi spargono voce che li Turchi vogliono sbandire i monetini per impedire che altre nationi non ne portino » (48). 4. — Ma, più che dal temuto pericolo delle falsificazioni, il colpo più grave al giorgino venne dal fatto che, come scrivono i Collegi al residente (49), non appena ne fu cominciata la battuta in Genova, alcune zecche non soggette si diedero a coniare altre monetine con gli stessi impronti usati precedentemente, ma della bontà di cinque e meno, rovesciandole in abbondanza nelle scale orientali. Qui esse ricevevano lo stesso apprezzamento di quelle di sette, per cui i mercanti, non mettendo loro conto di provvedersi di queste ultime, rivolgevano nuove istanze alla Repubblica, perchè fosse permesso di fame battere nella pubblica zecca altre di valore inferiore. E non solo i nazionali avevano avanzato tale richiesta, ma anche quelli forestieri, i quali, pur potendosi procurare il monetino da altre zecche, soltanto di quella genovese si fidavano, in quanto le prime lo consegnavano per lo più di lega inferiore a quella pattuita. Pertanto i Collegi, dietro relazione del Magistrato delle monete e dopo un lungo esame della pratica, decretavano il 24 settembre 1668 che fosse data al Magistrato stesso facoltà di battere monete « di quella bontà che alla giornata gli sarà richiesta da mercadanti » (50). La decisione era stata anche approvata da Agostino Spinola q. Felice, che pur ritenendo opportuno di dar impulso soprattutto al traffico delle mercanzie, suggeriva tuttavia di continuare intanto a battere il monetino, co- (47) Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., 12 febbraio 1669; cfr. anche le lettere 6 agosto 1668, 7 gennaio 1669. Ad una partita di monetini della nave «S. Sebastiano», sequestrati e portati in zecca a Costantinopoli, essendo ritenuti falsi, accenna il Fieschi. Col pagamento di 200 leoni al reis effendi egli potè liberarli evitandone la fusione, ciò che avrebbe procurato vergogna alla nazione, come egli dice, danno ai privati e alla stessa Camera con la perdita dei consolati, derivanti dal loro impiego in mercanzie. (Lelt. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., Costant., 31 gennaio 1670). (48) Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., Costant., 28 dicembre 1668. (49) Ibid* 5/2173, il Gov. al Fieschi, 30 gennaio 1669. (50) Ibid., il Gov. al Fiochi, 3 ottobre 1668. — 78 — stringendo però i feudatari vicini ad astenersi del tutto dal coniare siffatte piccole monete (51). I Collegi poi, conforme alla loro avversione contro le frodi, stabilivano quanto segue: che si variasse l’impronta col variarsi della bontà e che questa venisse espressa con tutta esattezza su ogni moneta in lingua turca e latina, perchè nessuno potesse «restare deluso nell’intrinseco valore» della medesima ed «anche i più semplici» non rimanessero ingannati. Si stabiliva così la stampa dei Gianuini della bontà di 5, con il motto «Libertas» da una parte, la figura di Giano dall’altra e 1 espressione in turco e in latino del loro valore intrinseco; dei Gìustini (da cui si cominciò effettivamente ad eseguire la battuta) della bontà di quattro con l’immagine della Giustizia; dei Ligurini della bontà di tre con l’impronta della Liguria, sempre recando le altre caratteristiche ad essi relative, come per i Cianumi. Il 30 gennaio 1669 una mostra di tali monetini veniva spedita al residente di Costantinopoli e al console di Smirne, perchè ne dessero comunicazione alla corte ai tribunali e ministri ottomani, facendo rilevare la scrupolosa diligenza e sincerità della Repubblica in tale materia. Si aggiungeva inoltre che si sarebbe continuata nello stesso tempo anche la coniazione dei giorgini di bontà di sette (52). Il Governo aveva raccomandato vivamente ai suoi rappresentanti di fare ben apprezzare i pregi delle nuove monetine, sebbene di bassa lega, e la loro garanzia e schiettezza, facendone fare, se lo avessero permesso, una pubblica nota da comunicare pure a tutte le nazioni. Si sperava così che, riconosciuti il disordine e l’alterazione dei « timini » stampati dalle altre zecche, i quali non avevano in realtà il valore che portavano impresso, come si era riscontrato dai saggi fatti, sarebbero stati essi banditi, rimanendo accettati sul mercato soltanto quelli genovesi con vantaggio universale. . 1 . Tali monete della Repubblica nulla hanno dunque a vedere con i laJsi luigini di conio clandestino. Fornite di propri caratteri distintivi e con perfetta rispondenza alla bontà espressa, si possono dire tutt al più imitazione dei famigerati monetini tanto diffusi a danno della negoziazione, e che esse tendevano appunto a sostituire (53). . . Dato raggravarsi della situazione monetaria con il continuo affluire dei falsi luigini, si capisce come il Fieschi, allorché ebbe la prima notizia del decreto 24 settembre 1668 circa gli ultimi monetini inferiori al valore di sette, (51) Giunta del traffico, 1/1015, Relazione di Agostino Spinola q. Felice, Genova, 10 genn. 1669. Questo documento è citato dal Di Tucci (stud. cit.) come un «primo rapporto inviato » da Agostino Spinola. Non si tratta però dell’Agostino q. Antonio, residente a Costantinopoli (che del resto vi s. recò, come ministro, solo nel 1675) ma dell’Agostino q. Felice che fu doge nel 1679. La relazione non venne quindi «inviata», perchè stesa e presentata in Genova, non potendosi dire, un « primo rapporto » del residente. (Il « secondo » sarebbe poi, secondo il Di Tucci, uno scritto di cui ancora parleremo, ma che neppure esso è di Agostino Spinola q. Antonio). In detta relazione inoltre, si intende parlare non dei luigini propriamente detti, ma dei monetini coniati a Genova e cioè, oltre 1 georgini, dei giannini, giustini, ligurini, non ricordati dal Di Tucci. (52) Lett. Min. Costant., 5/2173, il Gov. al Fieschi (Costantinopoli) e a 0. D’Oria (Smirne), 30 gennaio 1669. — Tra la fine del 1668 e il principio' del 1669 vi furono subito numerose richieste per la coniazione di tali monetine. Ricordiamo: gli Ebrei Giuda Nunes e Abram Sadique (21 novembre 1668: monetine di 4 e di 3 per 25 mila pezzi da otto reali); Francesco Bertorino (idem per 50 mila pezzi); M.co Gio Agostino Durazzo e partecipi (22 marzo 1669 per 100 in 300 mila pezzi): in Monetarum Diversorum, 48. (53) A torto perciò D. Pbomis, (Dell’origine della zecca di Genova e di alcune sue monete inedite, Torino, 1871, p. 42), che scambia i caratteri turchi del titolo per il contrassegno dello zecchiere, dice la Repubblica «imitatrice di volgari contraffatori di monete». Cfr. anche il manoscritto del Merli. - - 79 — scrivesse esprimendo i suoi dubbi sulle difficoltà che si sarebbero potute incontrare col tempo. Al presente, tanta era la necessità di argento nell’impero ottomano che si lasciava passare così la buona come la cattiva moneta; ma quando considerava il residente — sarà possibile alla Porta rimettere un po’ d’ordine in tutto quel marasma e si obbligheranno ministri e mercanti a ritirare la loro moneta non autorizzata e si dovrà dare oro e argento invece di rame, grave sarà il pregiudizio della Camera e del traffico (54). Quando erano venute a Smirne, e poi a Costantinopoli, le navi francesi comandate dal De Aimeras, con le quali avrebbe dovuto far ritorno in patria il De La Haye (55), esse « avevano riempito queste città » di false monete. Ripetuti torbidi si erano verificati a Costantinopoli, Smirne, Adriano-poli, Brussa. Qui, avendo il colonnello dei giannizzeri e il giudice rifiutato di ricevere i bassi monetini da otto aspri in pagamento delle « awariz » (avarie, imposte straordinarie), furono lapidati dal popolo tumultuante (56). Ma nella stessa lettera sopra citata del 12 febbraio, il Fieschi confermava ancora la grande stima di cui godevano i giorgini, ripetendo che, quando se ne fosse fatto battere del peso del reale da otto, essi sarebbero stati accolti bènissimo al ragguaglio di 12 o 13 ottavini l’uno, data anche la forte svalutazione di questi, giunta fino al 25 per cento per la loro grande abbondanza, nonostante che., al momento, i Turchi stessi cercassero di sostenerli e di farli passare. Ma tutti gli sforzi del Governo ottomano non potevano impedire che i luigini, ridotti al massimo deprezzamento, venissero rifiutati da tutti — mercanti e popolo — con enorme disagio anche per i più elementari bisogni della vita. Di qui derivava però un aumento del credito dei giorgini, « i quali da tutti sono ricevuti e desiderati — scrive Sinibaldo Fieschi il 10 marzo 1669 — e spero che il commercio di Levante, qual prima si faceva in luigini, si debba fare in giorgini ». Tutte le nazioni sarebbero così costrette a rifornirsi o in Genova di tale moneta o in Olanda di leoni, con grande vantaggio della Camera se — lavorando la zecca soltanto per il Pubblico — si fosse fatto pagare il 5 o 6 per cento per la spedizione, ciò che tutti avrebbero volentieri accettato senza pregiudizio del diritto dei consolati (57). La crisi si faceva, intanto, sempre più acuta: nessuna contrattazione di contanti era più possibile, il prezzo dei viveri saliva al doppio e non si trovava a comperare il pane. Il paese era pieno di luigini; nessuno li voleva e tutti cercavano di liberarsene; la grida del sultano che dava ordini severi perchè fossero accettati quelli buoni, non trovava ubbidienza, ed era opinione comune che, mancando compratori, le mercanzie sarebbero scese quell’anno a vii prezzo. A Costantinopoli si passava alle esecuzioni: due turchi « vivi » ebbero tagliate gambe e mani come falsi monetari; lo stesso era capitato ad alcuni armeni ed ebrei e molti si trovavano carcerati. (54) Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., Costant., 12 febbraio 1669. (55) De La Haye si diceva che fosse richiamato in Francia a giustificarsi dell’accusa di « aver tenuto mano all’avanie dei Turchi e con essi loro partecipato del lucro ». Per contro egli affermava che il re non voleva più tenere ambasciatore a Costantinopoli, dato il trattamento fatto alla nazione, inferiore a quello di Inglesi, Olandesi e Genovesi. De La Haye non desiderava partire: riuscì a far mandare invece a Parigi un’ambasciata del sultano guidata dal muteferrika Suleiman, il quale rimase colà fino alla nomina ad ambasciatore del marchese di Nointel, mandato a sostituire definitivamente il De La Haye. (Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., Costant., 3 dicembre 1668; De Hammcr, op. cit., tomo XXII, 392). (56) De Hammer, op. cit., t. XXII, 393. (57) Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., Costant., 10 marzo 1669. — 80 - In un giorno del marzo 1669 a Costantinopoli era scoppiata addirittura una sollevazione popolare. I « Franchi » avevano cercato rifugio nelle case dei loro rappresentanti, temendo che il moto fosse dovuto come già a tre volte — alla cattiva moneta; i popolani, chiuse botteghe e case, erano usciti nelle vie, mentre i giannizzeri facevano chiudere le porte della città. Ma intervenuti il capo delle milizie e il caimacan, i quali correndo per le strade ottenevano che tutti si ritirassero, in poche ore il subbuglio fu sedato senza essersene conosciuta la ragione (58). Il fermento e il disagio universale avevano raggiunto la iorma più esasperata, per cui la Sublime Porta ritenne giunto il momento di agire. Un co-mandamento del Gran Signore ordinò dapprima che non avessero corso se non i timini di giusta bontà, mentre gli altri si dovevano fondere per restituire l’argento ai rispettivi padroni. ISe dava avviso il Fieschi con lettera del 20 aprile 1669, osservando che questa condanna delle monete di bassa lega avrebbe col tempo provocato il discredito anche dei giorgini della bontà di sette, per cui ritornava sull’idea di battere il giorgino grande di sette o di otto ma tale che resistesse al fuoco, prova a cui era cola sottoposta la moneta (59). Le conseguenze del provvedimento furono varie. Alcuni mercanti che si limitavano a speculare sulla moneta avevano deciso di abbandonare il paese; quelli invece che fondavano il proprio negozio sulle mercanzie erano lieti del mutamento, perchè, riacquistato le merci il loro giusto valore m rapporto a quello della moneta, il commercio si sarebbe normalizzato e reso ancora possibile, senza andare incontro a gravi perdite. E ciò, anche se da principio, per le molte navi già arrivate con timini, e quindi necessitate a caricare a qualunque costo, il prezzo delle mercanzie sarebbe temporaneamente risultato alquanto alto. Il Fieschi dava poi notizia che anche i giorgini venivano rifiutati, dopo che si erano trovate monetine col suo impronto ma di bontà inferiore, evidentemente frutto di falsificazione (6 ). Ormai i pezzi ancora pregiati rimanevano il sivighano, introvabile, e il leone fiammingo di bontà di otto; mentre la valutazione de 1 argento di coppella era ridotta a meno di dieci pezzi da otto reali alla libbra; ragion per cui la nave « S. Martino » stava per ripartirsene da Costantinopoli senza carico, non avendo gli interessati trovato utile barattare il loro argento con mercanzie (61). Tuttavia queste si potevano convenientemente acquistare con metà contante e metà robe di seta e panni d oio. A ristabilire un po’ di equilibrio nel disordine generale si annunciava inoltre la venuta di un Turco, che doveva sistemare tutta la moneta, compreso il così detto monetino, il quale, purché della bontà almeno del leone e cioè di otto, avrebbe ricevuto un bollo imperiale con ordine di essere accettato anche nel regio tesoro « sotto pene rigorosissime ». Ed il M.co smi-baldo ribadiva quindi la sua opinione che il giorgino grosso da lui suggerito (58) Ibid., Fieschi al Gov., 27 marzo 1669. — 11 console D’Oria da Smirne riferiva egli pure al Governo en tale tumulto, precisando invece la sua natura politica, a cui il Fieschi aveva appena accennato. Si diceva che il Gran Signore avesse mandato in Costantinopoli ad uccidere i due fratelli per assicurare il trono ai figli. (Era questa una non rara costumanza della reggia ottomana approvata dal «canun»). La regina madre, la Walida, con l’aiuto dei giannizzeri e del muftì avrebbe salvato i figli, che successero infatti al fratello Maometto IV, deposto nel 1687. (Lett. Consoli Turchia, 1/ 2703, D’Oria al Governo, Smirne, 15 aprile 1669; cfr. anche lettera 4 sett. 1671). (59) Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Governo, Costant., 20 aprile 1669. (60) Ibid., Fieschi al Gov., 17 giugno 1669. (61) Ibid., Fieschi al Gov., 13 luglio 1669. - 81 - sarebbe stato cosi suscettibile di essere compreso fra le monete permesse, e forse anche con quello piccolo, restituendo vita al negozio ormai languente (62). Anche Ottavio D’Oria, come il Fieschi, all’annuncio giuntogli a Smirne della deliberazione del 24 settembre 1668 per la coniazione di monete inferiori alla bontà di sette, era rimasto perplesso e punto convinto. Prevedendo che i luigini sarebbero stati inevitabilmente proibiti, sia per la loro bassezza, sia per 1 attesa rottura del sultano col Cristianissimo, in seguito agli aiuti da questo destinati alla difesa di Candia, il console pensava che allora il giorgino si sarebbe conservato come moneta ben accetta e forse, col tempo, l’unica sul, mercato. L’introduzione di monetine più basse avrebbe confermata invece l’insinuazione sùbito fatta dai malevoli ai ministri turchi, che Genova non avrebbe a lungo mantenuta la sua moneta nella primitiva bontà. Per questo, piegandosi alle ragioni portate dal Magistrato delle monete per tale coniazione, s’induceva a consigliare che almeno non si variasse l’impronta, nè vi si imprimesse nessuna dichiarazione di valore, poiché, in caso fosse stata scoperta la deficienza della lega, si sarebbe potuto riversarne su altri la colpa. Pessimo consiglio, che mal si concilia con le espressioni moraleggianti dello stesso D’Oria contenute in altra sua lettera di poco posteriore, dove, sempre a proposito delle nuove monetine genovesi, ammoniva solennemente il negoziante di ricordarsi « che non è lecito di procurare il proprio utile con detrimento del Pubblico, nè può mai esser utile quello che non è onesto, e che ha per compagno il danno e la rovina ». Il consiglio, naturalmente, non fu preso in nessuna considerazione. Ed è vero che la stampa di quel monetino giungeva intempestiva, nel momento in cui la crisi stava per risolversi con il ripudio di ogni sorta di timini; ma resta un merito del Governo genovese l’aver voluto esplicitamente imprimere nelle proprie monete il loro intrinseco valore, ciò che veniva a distinguerle da tutte le altre della stessa specie. I mercanti turchi avevano invocato provvedimenti a quella rovinosa situazione, rifiutandosi di accettare la moneta corrente e sospendendo ogni negoziazione. Forti perdite si determinavano nel contante, salendo il valore del pezzo da otto reali a 21 e 23^ timini, mentre il prezzo della mercanzia aumentava del 40 e infine del 60 e 70 per cento. I giorgini, come a Costantinopoli, realizzavano invece un relativo vantaggio, cambiandosi a 18 per pezzo, in quanto i Turchi dichiaravano che essi non si potevano rifiutare. Pensava quindi il D’Oria che, permanendo nella loro perfezione, sarebbero ritornati al valore di 12 per pezzo e il commercio avrebbe ripreso il suo corso col ristabilirsi l’equilibrio dei prezzi. Ora, tutto ciò sarebbe stato pregiudicato, a giudizio del console genovese, se fosse comparsa grande quantità di gianuini e giustini ad alterare il valore della moneta da poco introdotta con garanzia di conservarla nella sua bontà. Poteva servire per avviso il caso recente di due mercanti di gioie, che volendo, in procinto di partire per la Persia, cambiare il loro monetino con pezze da otto reali, si videro sequestrato tutto il contante e sottoposti ad « avania » (63). La sorte degli « ottavini » sembrava ormai segnata. Mentre il caimacan di Costantinopoli, come vedemmo, faceva fondere in zecca i timini bassi restituendo l’argento ai rispettivi padroni, a Smirne, dove venivano universalmente rifiutati, il cadì ordinava che si accettassero in questa misura: gli ot- (62) Ibid., Fieschi al Gov., 24 luglio 1669. (63) Leu. Consoli Turchia, 1/2703, D’Oria al Gov., Smirne, 12 gennaio e 11 marzo 1669. 6 - 82 - ta vi vecchi, cioè i luigini con l’impronta del re di Francia, e i giorgini genovesi a 20 aspri l’uno e gli ottavi nuovi, ossia gli altri di qualsiasi sorta, ad aspri otto. Ma poco dopo veniva comunicato a tutti i consoli un comandamento del Gran Signore, col quale si proibiva l’introduzione degli ottavi nuovi. Il D O-ria informava poi che in tanto disordine, si stava già meditando, per parte dei principi di Germania e dell’Olanda, una nuova battuta del leone con lo spezzato in mezzo e in quarti, inferiore di un’oncia alla pezza sivigliana, e sul tipo di quello già altra volta introdotto, di cui mandava qualche mostra per l’esame, trovandosene ancora sul mercato. Ora, benché i giorgini non fossero del tutto esclusi, nella previsione di una totale condanna dei timini, il console suggeriva l’opportunità di coniare georgi della valuta del leone con relativo spezzato, affinchè fosse fornita ai nazionali una moneta con cui negoziare, dato che l’impiego del pezzo da otto reali sarebbe risultato svantaggioso in quella situazione (64). I giudizi e i suggerimenti del D’Oria in questa materia, come si vede, coincidevano sostanzialmente con quelli del Fiesco. Il Magistrato delle monete, riferendosi appunto ai ripetuti richiami dei ministri di oriente, che erano appoggiati da tutti i Genovesi colà dimoranti, presentava il 4 giugno 1669 una sua relazione ai Ser.mi Signori con la proposta formale di coniare la moneta suggerita della bontà di sette e del peso di un’oncia col mezzo ed il quarto relativi. Unico gravame sarebbe stato l’acquisto di un torchio grande, non essendo sufficiente quello usato per i giorgini. Si sarebbe richiesto all’impresario attuale, il Santi, una diminuzione nella spesa delle fatture a beneficio della Camera Ecc.ma e dei mercanti. Questi erano già stati privatamente interpellati e vi era chi aveva dichiarato di essere pronto a far sùbito battere, a prova, ima certa quantità dei nuovi pezzi. In oriente non rimaneva, come numerario utile, che il leone; nè era possibile trafficare senza moneta. Il timore della falsificazione per opera delle solite zecche dei feudi vicini, non pareva sussistere. Il loro impronto era ormai caduto in discredito; usare quello di altri prìncipi non era per loro facile, essendo sospetta la moneta che usciva « da quelle parti, fuora che dalla zecca » di Genova; la contraffazione del leone avrebbe suscitato le opposizioni dei fiamminghi al tentativo di sbarco della moneta nel levante; quella dei talleri di Germania, che entravano in Turchia dai confini terrestri, sarebbe stata facilmente riconosciuta dalla loro provenienza per via di mare. Interessante è poi un’osservazione degli 111.mi Signori del Magistrato, che toccava un punto scottante della questione. Di fronte alle falsificazioni di detti feudatari — dicevano —, in mano dei Ser.mi Signori stava del resto anche il rimedio « con il castigo de trasgressori, per la giurisdizione, c e hanno nelle persone, quando non stimino di doverla esercitare ne feudi » (65). La proposta non venne però realizzata. Se poi i giorgini resistettero un po’ più a lungo in Smirne, anche qui dovettero soccombere quando giunse il previsto bando del Gran Signore contro tutti gli «ottavi». Fin dai primi di maggio tale bando era stato preannunciato dalla voce pubblica, dando luogo al ripudio generale del monetino e alla grande difficoltà di sopperire alle stesse spese quotidiane, nonché ai bisogni del traffico completamente arre- (64) Ibid., D’Oria al Gov., Smirne, 15 aprile 1669. (65) Monetarum Diversorum, 48, Relazione del Mag.to delle monete, 4 giugno 1669. -.83 - stato, prevedendosi pure che per molto tempo non sarebbero più arrivati vascelli, specialmente genovesi (66). Il giorno 8 maggio era però giunta la « S. Antonio » che recava mostre di gianuini, giustini e ligurini, mentre altre di queste monete, sempre dirette al D’Oria, ne erano arrivate poco prima a Smime con la nave inglese «Vittoria». Il console, apprendendo dalla lettera dei Ser.mi Signori le ragioni che li avevano condotti a tale battuta, si rendeva conto della loro « giusta risoluzione», ma si dichiarava spiacente che essa avesse «goduto in un tempo e cuna e sepoltura » (67). Il comandamento del sultano ordinava infatti che gli ottavi di qualsiasi specie introdotti nei porti turchi, dovevano essere fusi, se si fosse trattato di piccola somma, o depositati in castello, se in grande quantità. Il D’Oria, denunciando al cadì le monete recate dalla « S. Antonio », otteneva però che il contante, anziché metterlo in castello, donde non sarebbe forse mai più uscito, fosse conservato nella casa consolare con sigillo dello stesso cadì, fino alla partenza della nave, per dover essere allora o fuso o ricondotto indietro secondo le preferenze degli interessati (68). Nicolosio Panaioti, mentre scriveva dal campo sotto Candia, dove si trovava, ringraziando il D’Oria per aver assunto come dragomanno ad honorem certo Spiro di Nicolao da lui raccomandatogli, esprimeva il suo vivo rammarico per « la strettezza del negozio mercantile » a causa dei falsi ottavetti, che avevano provocato gli ordini del sultano al riguardo, in vista del gran danno che i mercanti occidentali avevano arrecato a tutto l’impero, cavando oro ed argento e introducendo rame. « Lei può considerare — aggiungeva — quanto io patisco qui appresso li Principali ministri di questa Porta, mentre tutti quanti confermano che l’introduzione delli falsi timini non è fatta d’altri che da Genovesi, et la provano colli ottavini genovesi li quali hanno portato qui per prova (ch’hanno d’una parte la Giustizia colla bilancia in mano, et dall’altra lettere turche) le quali a pena hanno un quarto d’argento et perciò qui li timini che abborriscono et non vogliono pigliare chiamano Genovesi, con gran mio rammarico». Raccomandava quindi che si ristabilisse il credito con buona moneta. Il D’Oria rispondeva ribattendo particolarmente le accuse. In generale osservava anzitutto che i timini erano stati introdotti col consenso dei ministri ottomani; che i negozianti turchi, ben sapendo che la moneta non era di buona lega, avevano raddoppiato i prezzi delle merci, con forse maggior danno per i paesi occidentali, dove la merce di levante finiva per vendersi a prezzo inferiore a quello pagato in oriente, per modo che non tornava conto negoziare con moneta buona. « Disordine veramente spiacevole — proseguiva — ma più mi preme il sentir da V. S. Ill.ma che ciò sia avvenuto per la moneta de Genovesi, additandosi come lei dice i timini della Giustizia, che si chiamano Giustini moneta di bontà di 4 espressa con lettere perchè ognuno veda il fatto suo. Io non mi maraviglio che gli avversari cerchino fraudolente-mente di calunniare la Ser.ma Repubblica che è costume de malevoli; non posso però tacere come senza cognizion del vero s’imprima nelle menti de ministri un’opinione tanto erronea. Il Ser.mo Senato havendo stabilito il (66) Lett. Consoli Turchia, 1/2703, D’Oria ni Governo, Smirne, 4 maggio 1669. (67) Anche il Fieschi, più tardi, accusando di aver ricevuto un « groppo » delle nuove monetine, dichiarava di non poterne fare più uso alcuno (Lett. Min. Costant., 3/2171, 17 giugno 1669). (68) Lett. Consoli Turchia, 1/2703, D’Oria al Gov., Smirne, 4 maggio, 5 giugno, 24 agosto 1669; Lett. Min. Costant., il Gov. ul Fieschi e al D’Oria, 30 gennaio 1669; Oriente, 2774/A, Notizie, s. d. — 84 — Giorgino di bontà di sette perseverava, come sempre haverebbe fatto nel proposito che non si dovesse mai mutare; se non che essendosi introdotta da altre Parti moneta inferiore e come V. S. Ill.ina dice di rame, i mercanti sicuri che qui s’esitava la cattiva essendo ricorsi con suppliche a Prest.mi Signori del Mag.to della zecca hanno ottenuto d’abbassar la moneta sino alla bontà di quattro simile a quella che era già qui da altre parti stata introdotta. Et in questo modo nacquero i Giustini, i quali non prima nati perirono... Veda adunque V. S. Ill.ma che il danno supposto ricevuto da Genovesi è danno introdotto da altre Nazioni consenzienti i medesimi trafficanti Turchi ». Osservava inoltre che del resto, quanto agli interessi del Gran Signore, il dazio della dogana era stato sempre pagato in ottimo argento (69). In realtà, deliberati i gianuini ecc. il 24 settembre 1668, spedite le mostre il 30 gennaio e il 27 febbraio 1669, queste erano giunte a Smirne nel maggio e più tardi a Costantinopli, quando già le deliberazioni della Porta erano state promulgate. Nè può meravigliare se accuse inconsistenti venivano fatte penetrare da interessati fra i ministri al campo. Non era recente la grottesca notizia colà diffusa che in tre anni era giunta in oriente una sola nave genovese e questa vuota? Ma la cosa non finì così, che a tutti i consoli di Smirne un nuovo co-mandamento del Gran Signore veniva comunicato, in forza del quale il cadì era obbligato a saggiare qualsiasi moneta in arrivo e quella che avesse trovata falsa, doveva bollarla e spedirla a Costantinopoli. Il nuovo rigoroso provvedimento era stato preso in sèguito alla scoperta fatta in Galata e Pera di molte pezze da otto false, fossero state esse — commentava il D’Oria — « battute qui o fuora ». Questi difese i suoi connazionali ed i propositi della Repubblica sempre rivolti alla stampa di moneta autentica, sembrandogli che il cadì ne rimanesse convinto. Potè quindi ottenere che la visita, a cui nessun console era riuscito a sottrarsi, avesse luogo, invece che sulle navi, nella sua casa consolare per parte dello stesso cadì (70). 5. — Ora accadde che, stroncata la speculazione dei luigini, le note zecche dei feudi imperiali (e certo non solo quelle) prendessero pure a battere anche zecchini, ongari, leoni, parà, aspri di bassa lega, e che si formasse la so- (69) Lett. Consoli Turchia, 1/2703, N. Panaioti a D’Oria, 21 luglio 1669; D’Oria a Panaioti, 23 agosto 1669. (70) Ibid., D’Oria al Gov., Smirne, 16 settembre, 29 ottobre 1669. — Il Masson accenna molto brevemente ed inesattamente ai rapporti della Repubblica con la Turchia intorno alla metà del secolo XVII. (Così pure si dica per il periodo 1712-15; ma di ciò non si discorre nel presente lavoro). Riconosce che i Genovesi non cessarono mai di essere negozianti « actifs et entreprendants » e che alla metà del seicento facevano «le commerce le plus considérable de l’Italie», pur non inviando che molto raramente in levante vascelli con la bandiera francese. Essi avrebbero approfittato della decadenza del commercio di Francia ed anche delle difficoltà dei Veneziani. Accenna quindi erroneamente ad una inesistente ambasceria alla Porta del 1645 e al fantastico e vano appoggio del Mazzarino in tale occasione. Ricorda il successo dei negoziati del 1664 (doveva dire 1665) nonostante gli sforzi in contrario del de La Haye, e grazie ai regali distribuiti al Divano (e ciò in piena normalità) e alla protezione degli ambasciatori imperiale e inglese (cosa in modo assoluto insussistente). Parla di una Compagnia genovese del levante, che per qualche anno ottenne « un assez grand succès dû surtout au commerce des pieces de 5 6ols, avec lequel les Français faisaient alors de grands bénéfices ». Segue quindi il solito luogo comune dei Genovesi (indicati senza alcuna discriminazione) che alterano maggiormente i luigini fino a provocare la proibizione del Turco nel 1670 (doveva dire 1669). Di qui la fine dell’attività in levante della Repubblica, che conserva a Costantinopoli il residente per puro amor proprio. E’ da notare però che il Masson queste poche e inesatte notizie ricava da scrittori del tempo (Chardin, Savary), che non sono sempre fedeli. - 85 - lita opinione che dette monete venissero coniate nel dominio della Repubblica. Una delle prime accuse fu lanciata subdolamente dal residente d’Olanda, che informò il caimacan come vascelli genovesi avessero portato a Smirne quantità di zecchini, leoni e isolotti falsi, mentre era stata diffusa la voce che fossero invece gli olandesi a introdurli, per cui protestava l’innocenza dei suoi connazionali e chiedeva insistentemente che si praticassero diligenze per appurare la verità. Contemporaneamente, da persona rimasta sconosciuta era venuta denuncia che Giorgio d’Andrea, console di Gallipoli, avesse ricevuto cinque « groppi » delle stesse monete, per cui il chiaia del caimacan, sempre « attento per veder di mangiare », gli aveva fatto intimare di presentarsi a lui. Il Fieschi, alla cui casa s’era portato il console, mandò un dragomanno chiedendo un ordine scritto del caimacan e la facoltà di essere lui pure presente al colloquio. Ebbe in risposta che il caimacan voleva vedere le monete, avendo ricevuto denuncia da chi le aveva portate. Senonchè, dopo molte dispute e vari contrasti, si era potuto constatare che i Genovesi non avevano affatto introdotte le monete false, mentre alle doglianze presentate dal Fieschi al residente fiammingo, questi si era scusato, riversando la responsabilità sul console delle Smirne, da cui era stato malamente informato. Si sa infatti che il Governatore di Costantinopoli, dietro gli avvisi ricevuti, aveva mandato in quella città agenti i quali, entrati di sorpresa nella casa di un mercante genovese, dopo minuziose ricerche, erano rimasti convinti che nessuna moneta falsa vi si trovava. Il fatto riusciva comunque di danno al prestigio e al decoro della nazione e il Fieschi giustamente si lagnava del comportamento del ministro olandese, che avrebbe dovuto avvertirlo dell’accusa per segno di buona corrispondenza, come riconosceva anche l’ambasciatore d’Inghilterra (71). Risulta inoltre che molti leoni fabbricati in Genova giunsero effettivamente qualche mese dopo a Smirne; ma il doganiere, riconosciutili di giusta bontà, li lasciò liberamente introdurre (72). La crisi monetaria continuava tuttavia a paralizzare il movimento commerciale di detta piazza; in questo tempo si parlò anzi di eliminarla addirittura, deviando tutto il traffico verso Costantinopoli. E ciò, dietro l’offerta fatta, a tal condizione, da un Turco, che s’impegnava a pagare centomila scudi in più delle dogane regie; mentre si diceva che anche la corte fosse propensa ad appagare le aspirazioni della capitale per un incremento dei suoi negozi (73). Certo, Costantinopoli, lontana la corte, quasi del tutto mancante di denaro « fino al punto — scriveva il Fieschi — che maledicono l’ora nella quale sono stati sbanditi li timini », vedeva essa pure arrestati gli affari. Intanto altra offensiva contro la Repubblica venne ripresa negli ultimi mesi del 1670 di fronte alla nuova ondata di monete false che dilagò nei paesi dell’impero ottomano. Nel settembre Sinibaldo Fieschi avvertiva di essere stato informato come «malevoli nostri», con grandissimo pregiudizio del Pubblico e dei particolari, avessero sparsa la voce che i Genovesi stessero continuamente fabbricando zecchini e leoni di bassa lega, introducendoli segretamente nel levante per via di Livorno (74). Più tardi, al nuovo ambasciatore francese Nointel, di recente arrivato, esprimeva egli le sue lagnanze per essere stata riferita tale accusa al gran visir; (71) Ibid., D’Oria al Gov., Smirne, 18 ottobre 1669. (72) Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., 31 gennaio 1670. (73) Ibidem. (74) Ibid., Fieschi al Gov., 28 settembre 1670. ’N. — 86 — ma il ministro negava ogni propria responsabilità al riguardo, « sebbene il suo console di Smirne — aggiungeva il Fieschi — ha fatto gran schiamazzo particolarmente contro li Francesi »,, quali materiali introduttori di detta moneta. Da Adrianopoli poi apprendeva che il gran visir voleva scrivere della cosa alla Repubblica perchè si cessasse quel traffico, se si desiderava mantenere l’amicizia della Porta (75). Una lettera da Livorno, diretta forse al doganiere, era tutta una requisitoria contro i Genovesi. Vi si diceva che, cessato l’affare dei luigini, si erano dati a fabbricare isolotti e leoni, ma incontrati in questo ostacoli, si rivolgevano ora ai reali, agli zecchini e ongari, di cui grosse somme ne sarebbero trasportate prossimamente a Smirne. Del resto — si concludeva — che la nazione genovese « sia per negoziare rettamente al pari dell’altre non vi è pericolo pretendendo sempre guadagno esorbitante non contenti del ragionevole ». Notizia di altre querimonie aggiungeva il Fieschi : che cioè con il convoglio d Olanda i Genovesi avessero mandato anche « parà » e « sultanini » falsi. « L Olandesi — diceva — si lamentano, li Veneziani stridono, li Francesi si scusano con dire che sono monete fatte a Genova » ; onde il residente aveva pensato di inoltrare un memoriale al gran visir per chiedere un ordine del sultano ai tesorieri e doganieri, secondo il quale le monete portate dai Genovesi di vera bontà e di giusto peso fossero accettate al prezzo dovuto, saggiate da qualche deputato della Porta in Smirne e in Costantinopoli, e segnate, se buone, con bollo imperiale dietro pagamento di 1%, per modo da dissipare tutte le calunnie (76). Il giorno dopo il residente trasmetteva due lettere del Panaioti dirette una al Governo genovese, l’altra a Gio Agostino Durazzo, raccomandandole al Bali di Malta, fra Raffaele Spinola. Il Panaioti, scrivendo in data 25 ottobre 1670, comunicava le lagnanze del gran visir per gli avvisi pervenutigli « da tutte le parti » contro l’introduzione di monete basse da parte dei Genovesi, invitando le Signorie Loro a considerare « la Potenza ottomana non essere più occupata nell’espugnazione di Candia et non soffrire simili traffici sotto pretesto di buona pace». Col Panaioti in persona s’incontrava il residente di Costantinopoli pochi giorni dopo e ne ascoltava le appassionate doglianze per la scarsezza del traffico e la faccenda delle monete false, che discreditavano la Repubblica presso la corte. Affermava quel ministro che gli erano state offerte dieci mila piastre <> per distornare la pace con la Porta » e che eran, quelli, « stili che li passavano il cuore, non vedendo corrisposto a quanto era stato promesso ». Il M.co Sinibaldo, da canto suo, lo assicurava trattarsi di calunnie e che si sarebbe riconosciuta col tempo la sincerità dei Genovesi, mostrandogli intanto il memoriale di cui sopra, lodato dal dragomanno come atto a togliere, almeno in parte, « la mala fama sparsa » (77). Parecchi erano gli avversari; ma i più accaniti e irreducibili rimanevano i Francesi, che pur erano sempre lo strumento principale dell’illecito commercio. Il nuovo ambasciatore Carlo Francesco Olier marchese di Nointel che, giunto nel novembre del 1670, aveva dichiarato di « avere ordini espressi di S. M. di corrispondere con ogni termine di amicizia » col residente della (75) Ibid., Fieschi al Gov., 12 novembre 1670. (76) Ibid., Fiesci al Gov., 7 dicembre 1670. — I parà o medimi valevano 3 aspri; i sultanini o sherifi. d’oro erano ragguagliati agli ongari. (77) Ibid., Fieschi al Gov., 8 e 24 dicembre 1670. - 87 - Repubblica, iniziò ben presto quella sua azione diplomatica che porterà dopo lunghe discussioni, il 5 giugno 1673, alla conclusione del trattato per il rinnovo delle capitolazioni. Il Panaioti comunicava al Fieschi di essere stato inviato col reis effendi a « sentire le pretensioni » di detto ambasciatore, il quale « nel primo discorso dei suoi trattati » aveva dimostrato « grandissima passione » per l’amicizia dei Genovesi con la Porta, asserendo di avere ordini dal suo re di ottenere che essi fossero scacciati dallTmpero (78). La quarta delle sei domande avanzate dalla Francia al Gran Signore suonava infatti così: « che tutte le sorti di monete false, che si trovano in Turchia sono portate dallo stato di Genova, che perciò si deve mandar via li detti Genovesi, e suoi rappresentanti; che se poi vorranno trafficare saranno necessitati venire sotto la bandiera di Francia come per il passato, et all'hora l’Ambasciatore et i consoli haveranno cura, et non permetteranno anzi, che quelli tali introduchino monete false » (79). Ma intanto i Collegi e Gio Agostino Durazzo rispondevano alle lettere del Panaioti. Il Governo, nel dispaccio che portava la stessa data (26 maggio 1671) della nuova grida di condanna e proibizione delle monete adulterate, difendeva il retto operare della Repubblica, denunciava le « false imposture » degli emuli, manifestava i migliori propositi per la ricerca degli eventuali responsabili, ben lieto se, « dai Presidenti del Gran Signore, con la perdita del denaro, e con il danno delle persone restassero severamente castigati » i delinquenti, se ve ne fossero stati (80). Il Durazzo, a sua volta, ricordava come, dopo il fallito tentativo della Repubblica di introdurre il proprio sincero monetino, al fine di escludere quello multiforme e adulterato di altre zecche, si era verificato a Genova persino un rallentamento nell’invio di vascelli, non sapendo i mercanti quali monete avrebbero potuto ricavare da quelle terre: tanto si era lontani non solo dal coniare falsi luigini ma dal favorirne il traffico. Meno che mai si potevano quindi nutrire dubbi sulla Repubblica circa la fabbrica delle nuove monete falsificate. Al contrario « bandi rigorosissimi » erano stati pubblicati così contro i sudditi come anche contro i forestieri che ne contrattassero nel dominio, sui vascelli genovesi o in levante, dove fosse consolato della Repubblica, come risultava dalla grida acclusa. Ed egli pure esortava, anzi, a voler indagare chi fosse responsabile dell’illecita speculazione, per procedere, se del caso, contro gli eventuali colpevoli col massimo rigore (81). Ma nel giugno tutto quel trambusto sembrava ormai placato. Ne scrive il Fieschi in questi precisi termini: «Li rumori passati per le nuove monete che venivano, già restano quietati, et la Porta quasi disingannata, havendo conosciuto che l’accuse fatte ai Genovesi era pura malizia, et il Gran visir dimostra affezione più che ordinaria, et io vado passando, con il Panaioti con corrispondenza, essendo da lui assicurato d’assister tutti l’interessi della nazione » (82). Nel settembre il residente attendeva ancora la risoluzione della proposta contenuta nel suo memoriale, di cui dovevano occuparsi alcuni mi- (78) Ibid., Fieschi al Gov., 12 novembre 1670, 7 febbraio 1671. (79) Oriente, 2774/A, Domande dell’ambasciatore di Francia alla Porta. (80) Lett. Min. Costant., 5/2173, il Gov. a Panaioti, 26 maggio 1671. (81) Giunta del Traffico, 1/1015, Lettera di Gio Agostino Durazzo a Panaioti, 30 maggio 1671. (82) Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., Costant., 20 giugno 1671. - 88 - nistri turchi. Il Senato non approvò del tutto l’iniziativa del Fieschi, sia perchè compiuta senza autorizzazione, sia per quell’oblazione dell’uno per cento che si temeva dovesse rimanere a carico della sola nazione genovese, venendo dalle altre rifiutata. Ad ogni modo la cosa venne decisa dalla Porta con provvedimento generale per tutte le nazioni, consistente nello stabilire alle Smime una persona fidata ed esperta, la quale controllasse tutte le monete introdotte di Cristianità, venendo così a « levare i sospetti e non lasciare più luogo alli calunniatori », come scriveva il Panaioti ai Ser.mi Signori (83). Già in data 9 agosto 1671 detto Panaioti aveva comunicato al D’Oria l'ordine regio trasmesso pure a tutti i consoli di Smirne (84), secondo il quale il signor Ibrahim Agà era incaricato di visitare tutte le monete che fossero sbarcate in quella scala, controllando anche qualsiasi pagamento che si fosse effettuato alla giornata e ricevendo in compenso per la sua fatica mezzo tallero per cento. Il turco giunse infatti a Smirne il 22 settembre 1671 con lettera del Panaioti, a cui il D’Oria prontamente rispose. Dichiarava il M.co Ottavio che la cosa gli era riuscita « di molto gusto, perchè con questo — scriveva — si chiarirà la Porta ottomana di chi introduce nei suo stati monete falsificate». Quanto alla visita dei contanti sbarcati dai vascelli, non aveva egli «difficoltà alcuna», anzi avrebbe vigilato perchè dai suoi subordinati si fosse fedelmente eseguito l’ordine. Su due punti faceva invece le sue riserve: cioè sul controllo dei pagamenti quotidiani che riteneva impraticabile e di eccessivo disturbo per i mercanti, e sulla contribuzione del mezzo per cento, non parendogli ragionevole, specie in momenti di cosi affievoliti negozi, gravare di tale spesa i mercanti da lui dipendenti, i quali maneggiavano monete « di buona lega e di giusto peso », mentre detto signor Ibrahim avrebbe potuto « farsi pagare ben le sue fatiche » da chi avesse trovato trafficare monete falsificate o cattive. Quando il D’Oria scriveva al suo Governo (18 novembre 1671), l’inviato del sultano non aveva compiuto ancora nessuna novità, ma, da buon funzionario turco, si capiva che avrebbe voluto « qualche regali », e i Ser.mi Collegi deliberavano che, se così fosse praticato anche dagli altri consoli, gli venissero donate una o due vesti « a fine di renderselo confidente e ben affetto » (85). Quanto all’istanza avanzata dall’ambasciatore francese per l’espulsione dall’impero ottomano della nazione genovese perchè responsabile dello spaccio di tutte le monete false, venendo essa considerata — come è detto in una relazione — quale domanda « appoggiata sopra fondamento da tutti conosciuto per proprio più della sua nazione, che di verun’altra », era stata « ributtata » (86). Ma questa della moneta sarà sempre la questione su cui punteranno i nemici della Repubblica, specialmente Francesi e Veneziani, i quali non man- (83) Ibid., Panaioti al Governo, 6 dicembre 1671; Fieschi al Governo, 23 settembre 1671; 5/2173, il Governo al FieBchi, 2 aprile 1671. (84) Tranne il console francese, « non sapendo di ciò la cagione » — scriveva Ottavio D’Oria il 28 settembre 1671 —: e forse ne fu cagione il trattato in corso. (85) Lett. Consoli Turchia, 1/2703, Panaioti al D’Oria, 9 agosto 1671, D’Oria al Panaioti, 20 ottobre 1671; al Gov., 16 novembre 1671; Gio Luigi Gentile al Gov., Smime, 28 settembre 1671. (86) Oriente, 2774/D, Relazione di Agostino Spinola, s. d. - 89 - cheranno di rinnovare ancora le consuete accuse, sebbene smentite dai fatti. Ed essa resterà erroneamente nell’opinione di contemporanei e moderni, diplomatici e narratori più o meno interessati o prevenuti, come unica ragione del fallimento di cotesta impresa della Repubblica, la cui rovina va invece ricercata principalmente in altre cause più immediate. Una di queste fu l’opera, sotto vari rispetti deleteria, del primo residente, Sinibaldo Fieschi. “ *4 CAPITOLO V y . ’i'Æ LA RESIDENZA DI COSTANTINOPOLI E IL CONSOLATO DI SMIRNE - DISORDINI INTERNI Sinibaldo Fieschi: l'uomo e il suo ministero fino al 1671. — 2. - La nomina del nuovo residente Pompeo Giustiniano. — 3. - Tragica fine del Giustiniano e riconferma del Fieschi - La sostituzione del console D'Oria. L — Il conte Sinibaldo Fieschi fu considerato dalla Repubblica una vera calamità per la patria. Nato fra il 1628 e il 1635, egli apparteneva, come la discendenza del congiuratore Gian Luigi, al quarto ramo di quell’antico e nobile casato, discendendo l’uno e l’altro da Gian Luigi il vecchio, vissuto nel XV secolo. Secondo un libello pubblicato nel 1685 e da lui stesso ispirato (1), i parenti lo avrebbero indirizzato, per sua inclinazione, alla professione delle armi, avviandolo, poco più che ventenne, verso le Fiandre con eccellente equipaggiamento e buone commendatizie per quei generali spa-gnuoli. Ma il giovane, anziché portarsi al servizio del Cattolico, si fermò in Italia, entrando nell’esercito francese, che muoveva all’assedio di Pavia sotto il comando del duca Francesco I d’Este, passato ormai apertamente ai nemici della Spagna. Il Governo della Repubblica, che in quei momenti assai difficili aveva voluto mantenere, non senza fatica, la sua neutralità fra le due Corone, si sarebbe indispettito per il comportamento del Fieschi, che venne condannato al bando. In realtà, altre ragioni di malcontento pesavano su di lui. Risulta che nel 1656 il M.co Sinibaldo si trovava a Londra, dove era giunto dalla Francia per certe sue faccende e «pretensioni», raccomandato a quell’agente, Francesco Bernardi, dal residente di Parigi, G. B. Pallavicino. La cosa non garbò affatto al Governo, il quale vietò ai propri rappresentanti di interessarsi dei suoi affari quale bandito; onde il Bernardi si affrettava a giustificarsi, come ignaro della situazione, assicurando che non avrebbe più neppure trattato con lui (15 gennaio 1657) (2). Dopo la pace dei Pirenei (1659) egli si recò a combattere ancora gli Spagnuoli in Portogallo, ribellato a Madrid, ritornando poi di là in Inghilterra al sèguito, forse, di Caterina di Braganza che andava sposa allo Stuart (maggio 1661). Certo a Londra ebbe molta dimestichezza con l’ambasciatore portoghese. Qui potè pure insinuarsi a corte, e particolari rapporti 6trinse con Gio Luca Durazzo, in occasione della sua ambasceria a Carlo II ( 1661- (1) Dialogo di Genova ed Algeri (1685). (2) Prayer Carlo, Oliviero Cromwell dalla battaglia di Worcester alla sua morte. Lettere dei rappresentanti genovesi, «Atti della Società Lig. di St. Patr», vol. XVI, p. 385, 394. - 92 - 1662), mediante la quale la Repubblica voleva rallegrarsi col re della sua restaurazione e per le recenti nozze. In quei tempi era sul tappeto la scottante questione degli onori regi e il Durazzo aveva ordine di non presentarsi se non gli fosse garantito il trattamento dovuto ad ambasciatore di testa coronata. Il Fieschi ebbe più tardi a vantarsi di aver egli stesso procurato tali onoranze. E certo con lui il Durazzo fu in corrispondenza su tale faccenda già da Parigi, prima della sua partenza per Londra. In realtà l’ambasciatore condusse la pratica con abilità e senza incontrare notevoli difficoltà da parte del sovrano. Senonchè, dopo il ritardo dovuto a una sua lunga malattia, proprio alla vigilia della solenne « entrata » a corte, quattro giorni prima dell’udienza, certo colonnello Guasconi suscitò tali opposizioni alle prerogative già riconosciute al ministro genovese, che la causa fu portata innanzi al Consiglio tenutosi alla presenza del re e del duca di York. Detto colonnello era un fiorentino, dedito alla professione delle armi ed assai caro al re, perchè, essendo al servizio di Carlo I, era rimasto a lui fedele, salvando a stento la vita quale forestiero. Liberato dalla prigionia, si recò in patria, dove venne ben accolto dal granduca, che di lui si valse, dopo il suo successivo ritorno a Londra, facendone un attivo coadiutore di quel residente toscano, uomo di scarsa abilità. L’improvvisa azione del Guasconi era dovuta ad una lettera del cardinale Gio Carlo Medici, pervenutagli da Roma e da lui presentata ad un amico del M.co Gio Luca, incontrato nel giardino dell’ambasciata portoghese, come giustificazione del suo operare. La lettera era così piena « di malignità e di menzogne arditissime » contro i diritti della Repubblica e a sostegno della preminenza del granduca, che il Durazzo, pur ostentando indifferenza, ebbe a passare « più giorni di angoscia », mentre si destreggiava nel confutare con scritture e con ragioni, fatte « arrivare alle orecchie di chi bisognava », le asserzioni dell’avversario, rilevando anzitutto che si trattava di lettera privata senza alcuna commissione del principe. Nè valse che il Guasconi, fatta tradurre la lettera stessa in inglese, la presentasse per mezzo del residente fiorentino come scritta dal segretario di stato del suo padrone: gli onori decretati all’ambasciatore genovese furono confermati dal consiglio, e il ricevimento ebbe luogo nella forma più splendida; del che il Durazzo poteva dare comunicazione — secondo il costume, ma con particolare compiacimento — al residente del granduca come agli altri diplomatici stranieri (3). Ora, l’amico di cui parla il M.co Gio Luca era appunto Sinibaldo Fieschi, il quale, istruito debitamente, lo coadiuvò in modo efficace in tutto questo incidente. Egli ebbe un aspro colloquio col Guasconi, non mancando « nè al debito, nè alla vivacità sua naturale in sostenere la dignità pubblica » ; fu mandato al maestro delle cerimonie, Cotterei, favorevolissimo ai Genovesi, portando le scritture preparate dal Durazzo ed esponendo a voce le ragioni della Repubblica, secondo gli ordini ricevuti. Risulta inoltre che lo stesso M.co Sinibaldo intervenne come intermediario nell’offerta avanzata all’ambasciatore dal segretario del duca di York e cancelliere della « Compagnia della Guinea » — in cui erano interessati il duca, Sua Maestà, il principe Palatino ed altre personalità della corte — per (3) A.S.G., Lettere Ministri Inghilterra, 2/2274, Gio Lnca Durazzo al Gov., Londra, 19 gennaio 1662. - 93 - una desiderata partecipazione dei Genovesi alle imprese della Compagnia stessa (4). L’offerta non venne accolta; ma il Fieschi, per l’intercessione di Carlo II Stuart, otteneva poco dopo che la Repubblica lo accogliesse ancora nella sua grazia, onde ne scrisse, ringraziando, il re, mentre lo stesso Sinibaldo, 18 gennaio 1663, rivolgeva da Londra ai Signori Ser.mi le più calde espressioni di riconoscenza e di obbligazione per la loro « impareggiabile generosità », insieme con « l’esibizione della vita e del sangue » (5). Pertanto, nel 1664 già lo troviamo a Milano, dove serviva, senza titolo, la Repubblica; mentre nel giugno 1666 veniva destinato alla residenza di Costantinopoli, per somma sventura di quella promettente impresa. La sua elezione, dovuta soprattutto all’appoggio del Durazzo, suscitò una viva reazione. Piovvero sùbito nei Collegi parecchi dei soliti biglietti anonimi. Uno di essi rilevava che il M.co Sinibaldo era stato in passato « compagno indivisibile » di Gio Francesco Cattaneo, uomo poco raccomandabile, e che molto si era mormorato di ciò per l’età troppo disuguale fra i due e per la inclinazione ai vizi di entrambi. Ricordava pure un certo grosso furto di seta avvenuto in casa del M.co Gaspare de Franchi, abitante dirimpetto al Fieschi, furto che dalla deposizione di una fantesca del derubato e dagli stessi sospetti di costui, era stato addebitato al giovanissimo Sinibaldo e al Cattaneo, pur non essendosi riusciti a ben definire l’accusa. «Per l’amor di Dio — diceva un altro biglietto ai Ser.mi Signori — prendano informatione de vita et moribus delle persone prima di fare l’e-lezioni » ; badino anche alla nomina del console di Smirne, e rimedino fin che sono ancora in tempo; chè se all’ambasciatore di Francia a Costantino- li si sono inflitte bastonate, «li nostri agenti saran di certo impalati». I Turchi non mancheranno di essere di tutto avvertiti dagli Ebrei, loro segreti informatori, e dai Fiorentini, nostri nemici. Del M.co Sinibaldo c’era chi affermava che in Inghilterra la sua applicazione si era rivolta ad imparare la falsificazione di gioie e l’arte di ridurre i cristalli in pietre preziose; mentre un altro anonimo faceva notare che di quella elezione se ne parlava malamente in Banchi, nelle logge, in tutte le conversazioni e che ognuno ne presagiva « ruine a negozi, disonori alla Repubblica e giubili grandissimi ai nemici ». Tutte queste denunce furono rimesse al Magistrato degli Inquisitori di stato che pochi giorni dopo (18 maggio 1666) riferiva in merito, trasmettendo le risultanze poco edificanti dell’inchiesta compiuta sulla prima giovinezza del Fieschi (6). (4) Relazioni Ministri, 1/2717, Relazione dell'ambasceria straordinaria in Inghilterra di Gio Luca Durazzo. (5) Litterarum, filza 34/1991. (6) Riportiamo qui il documento trasmesso dagli Inquisitori di stato rignardante gli atti giudiziari relativi al Fieschi, aggiungendo — in contrapposizione — il giudizio su di lui formulato da Gio Luca Durazzo nella sua relazione per l’ambasceria a Londra del 1661-62. (Secretorum, 27/ 1582 e Relazioni Ministri 1/2717). « Relazione del Mag.to Ecc.mo lll.mo d’inquisitori di stato, 1666, 18 maggio » « M.co Sinibaldo Fiesco q. Jo. Stephani. — L’anno 1645 processato per delazione di un coltello fu condannato in mesi sedici di bando atteso la sua minore età di anni 18. - L’anno 1648 M.co Sinibaldo Fiesco senza nome di padre processato alla denuncia di Giovanni Tuperone perchè gli havesse cacciato mano ad un coltello fu in contumacia condannato in due anni di bando. - L’anno 1651 processato per retensione di due pistole in sua casa, fu condannato in anni 5 di relegazione nell’isola di Sicilia alla forma della grida degli archibugi et atteso li decreti de Ser.mi Collegi. -L’anno 1652 detto M.co Sinib. Fieschi processato per aver in compagnia di altri rotto le carceri nelle quali era, e fuggitosene da esse fu iu contumacia condannato in anni tre di relegazione nel - 94 - I Collegi deliberavano immediatamente di far dire al nuovo eletto « che non era gusto de Ser.mi Collegi che esso accettasse la carica conferitagli e che perciò procurasse di trovare qualche formale espediente da scusarsene ». Il Sinibaldo venne pertanto chiamato; fu sentita la sua esposizione e quella del M.co Orazio Torre fatta in suo nome; ma i Collegi, udita ogni cosa, respinsero la proposta di rinnovare l’elezione della carica di residente, che quindi rimaneva confermata al Fieschi (24 maggio 1666) (7). Giunto egli a Costantinopoli, i dissensi col Governo incominciarono ben presto. Già nel febbraio 1667 il Senato aveva dovuto rivolgere i propri rimproveri al residente per la sua tendenza a sottrarsi alla direzione delPam-basciatore Durazzo; nel, settembre poi i primi incidenti e disordini da lui provocati davano luogo a più aperte lagnanze. L’equipaggio assegnato al residente era costituito da un cappellano, un regno di Corsica, pena così arbitrata attesa la qualità del fatto. - L’anno 1655 detto M.co Sinib. Fiesco senza nome del padre processato per la detenzione di tre pistole ritrovate in una cassia della stanza di sna habitatione nel luogo di Sestri, fu condannato in mesi trenta di relegazione nell’isola di Sicilia per ogni una di dette tre pistole. Dalli lib. 2.0 e 3.0 delle cause criminali assunte dai Ser.mi Collegi. 1650, 10 giugno, Pantalino Massa barrigello dopo di catturato il M.co Sinib. Fiesco, volendo farle cerchia addosso, gli ha veduto porsi un papele in bocca e masticarlo che non è potuto riuscire levarglielo; et andato poi con altro barrigello a fargli cerchia in casa gli. ha trovato due pistole, sei coltelli senza manico, un altro coltello damaschino longo, quattro lime, otto archibugi da focile, tre lanternette de qual una con cristallo artificioso da mirarsi da lontano et imbarlugare cui è posta in faccia, quattro maschere, due con barba e due senza, un naso di maschera e bocca con barba a posticcio, con bottone da tenere con la bocca, due ruote d’archibugio, quattro bando-lere con cariche, et un coltello per una, un paio di tenaglie grosse, chiavette, palle, polvere e forme da far palle di archibugio. Esaminata N. depone circa il furto di seta del mezzano del M.co Gaspare de Franchi che essendo essa in casa di d.o sig. Gaspare et abitando di rimpetto il M.co Sinib. Fiesco ecc. (Segue la deposizione della fantesca del De Franchi, che conferma i sospetti suoi e del padrone sul Fieschi e sul Cattaneo come autori del furto. Sinibaldo esaminato nega). — 1651, 10 gennaio, d.o M.co Sinib. Fiesco per detta causa fu ordinato di rilassarsi sotto sigurtà de scuti mille argento. • 1651 di maggio e giugno. Vi sono avvisi che il M.co Sinibaldo fosse veduto col M.co Gio Fr. Cattaneo col figlio minore del sig. Gio. Filippo Cattaneo e col medesimo Gio Filippo. - 1651, 9 dicembre, fu deliberata relazione ai Ser.mi Collegi che nella Commenda di S. Giovanni di Pre stessero ritirali li M.co Sinibaldo Fiesco et N. N. N. - 1652, 13 dicembre, fu deliberato rappresentarsi al Ser.mo Senato la notizia che il M.co Sinib. Fiesco passeggiasse pubblicamente per le veglie, et anche per li parlatori dei monasteri di monache in poco decoro della giustizia». Ed ora ecco che cosa scrive Gio Luca Durazzo nella sua relazione (parte III, cap. Il, pag. 224) intorno «agli altri che si sono impiegati in servizio dell’ambasciata ». « Parlerò in primo luogo del M.co Sinibaldo Fiesco il quale esule dalla patria dopo qualche incontro havuto nella Corte di Francia, si era ritirato in quella di Londra dove aveva già sette anni di soggiorno al mio arrivo. Io andai nel principio ritenuto dal valermi della di lui opera in riguardo della sua contumacia verso del Principe. Ma scorto ben addentro nell’animo suo una premura della dignità e servizio pubblico, stimai bene dar mano all’ambizione e prontezza che egli mostrava ad essere impiegato. Godeva egli qualche amicizia nella Corte e quella tale introduzione che più le aveva acquistato la vivezza dello spirito e lo compatimento, che la moderazione della sua poca fortuna. Possedeva inoltre grande intrinsechezza con l’ambasciatore di Portogallo, e come le C06e di questa Corona avevano dopo il matrimonio preso grand’aura in quella Corte, s’era avanzato nella speranza di qualche posto onorevole presso la nuova Regina e perchè tutto quanto valeva e potea è stato da lui contribuito in servizio pubblico, assistendo alla mia persona come camerada, e come sollecitatore dei negozij, tanto più volentieri ricevei io e compiacquero VV. SS. Ser.me le istanze di S. M. per la di lui grazia del bando. Nè in questa domanda fu proproceduto dal Re senza grandissima riserva, però che prima d’avanzarsi ad essa, si fece spiare l’animo mio, per sapere qual era il titolo della causa, e come io averei volentieri ricevuto, o VV. SS. Ser.me sentita l’instanza, dichiarandosi chi ne parlò meco come la M. S. non avrebbe ad essa condisceso senza sicurezza, che dovesse esser grata sì alla Repubblica come al suo ministro». (7) Secretorum, 27/1582. - 95 - segretario, un cameriere, un cuoco, quattro staffieri, un palafreniere e tre oAAonn mantenimento suo e della famiglia, compreso il fitto di casa per 200-300 pezzi, doveva egli provvedere con l’onorario di pezzi 2500. L’ambasciatore lo avrebbe pure fornito a conto del Pubblico di un interprete (dragomanno) e di due giannizzeri. Già nel dicembre 1666, dopo due mesi dal suo arriva a Costantinopoli, avvertiva con lettera pervenuta a destinazione soltanto nel maggio successivo, che inadeguati risultavano i calcoli fatti per il suo trattamento. Occorreva un maggior numero di dragomanni, servitori, cavalli; bisognava tenere un notaio fisso, provvedere ai regali (che in Turchia assumevano valore di vere contribuzioni) nelle solennità del Bairan grande e piccolo e per ogni mutamento di ministri. Non avendo ottenuto dal- 1 ambasciatore il pagamento richiesto del secondo semestre anticipato del suo onorario, era stato costretto a prendere il denaro a cambio rigoroso (8). Il Durazzo, partendo nel marzo 1667, gli aveva lasciato i mezzi necessari in attesa che fosse ulteriormente provveduto dalla metropoli, ed insieme istruzioni scritte, particolarmente riguardo la complessa faccenda dei donativi. Si era pertanto calcolato che la spesa per il trattamento del residente dovesse contenersi entro i 5200 pezzi annui, da potersi coprire, tenuto conto della riscossione dei consolati, con poco pregiudizio dell’Ecc.ma Camera. Ma già dal marzo stesso si ebbero da parte del Fiesco le prime richieste di denaro occorrente per mance e regali, che egli cominciò a dispensare, un po’ spinto dalle reali esigenze degli avidi ministri ottomani, un po’ dalla sua naturale prodigalità; nonché per altre spese di rappresentanza, di salari, di tavola e mantenimento della famiglia. Il Governo faceva periodicamente versamenti in Genova al procuratore del M.co Sinibaldo; ma questi aumentava sempre più le spese, e, quel che era peggio, i debiti contratti ad interesse esorbitante dal 16 al 25 per cento. La sua animosità lo portava poi a non rari incidenti e puntigli, per ragioni di cerimoniale o per motivi vari, anche verso lo stesso ambasciatore di Francia, come capitò fin da principio alla funzione della messa nella chiesa dei PP. Domenicani, pretendendo egli pari trattamento nonostante la sua qualità inferiore di residente. Si aggiunga la mala condotta privata del suo segretario prete Simone di Negro, e si può comprendere il malcontento del Governo. Il gentiluomo fin dal 1668 aveva chiesto o un miglior trattamento o il suo richiamo, e più volte ripetè in seguito la domanda di licenza; ma con i fatti dimostrò sempre di desiderare tutt’altra cosa. Nello stesso anno, la Giunta del traffico esprimeva il parere che per « la vivacità e soverchia animosità del residente poco corrispondente alle convenienze della Repubblica (8) Il Durazzo, che aveva già rilevato per conto proprio come «li primi calcoli» fossero riusciti alquanto scarsi (2 novembre 1666), ad istanza e soddisfazione del Fiesco scriveva ai Collegi che insufficiente appariva la spesa preventivata per i regali della Porta. Quanto al rifiuto di pagare al residente il richiesto semestre anticipato dello stipendio, egli, pur richiamandosi alle istruzioni, che tale pagamento prescrivevano doversi eseguire soltanto alla sua partenza, dichiarava di aver a lui offerta, a proprio nome «quella partita gli faceva di bisogno, nonostante che io — proseguiva — mi tenghi honorato che la sua stessa persona, famiglia e cavalli, sieno continuamente trattenuti a mie spese» (lettera 13 dicembre 1666). Anche le analoghe lagnanze del D’Oria, l’ambasciatore aveva riconosciute giustificate. A lui non aveva potuto aumentare il .salario, sebbene avesse « chiaramente visto — scriveva il D’Oria — che non posso mantenere il posto»; e ciò tanto più, dopo la diretta constatazione che i consoli in Smirne vivevano in gran lusso, camminando « con numeroso equipaggio, cioè due giannizzieri di guardia tre dragomanni con molte persone di seguito, la quale ostentazione non meno spicca nell’habiti stando questi vestiti di scarlatto cremesile con ricche guarnitioni in modo che hanno introdotto una estimazione così grande in questi popoli, che li osservano corno Principi». (26 settembre 1666 in Lett. Consoli Turchia). — 96 - Ser.ma non si dovesse prorogare la sua condotta » ormai al termine, pur riconoscendo le difficoltà di trovare altro soggetto (9). Quando poi, dai conti da lui trasmessi (febbraio 1670) relativi ai primi quattro anni del suo ministero, risultò un vantato credito di pezzi 16119, per la maggior parte dei quali egli si era obbligato verso terze persone, i Collegi pensarono seriamente alla sua sostituzione. Il M.co Sinibaldo scriveva lettere disperate al suo pai ente e procuratore in patria, Gerolamo Fieschi; mandava a Genova il segretario Simone di Negro per studiare la situazione ed i propositi dei Padroni; ma i Ser.mi Signori, ritenendo alcune spese fatte senz’ordine e altre con eccessiva ed inconsulta larghezza, disponevano che venissero pagati soltanto pezzi 5500 in due partite. Il torto del Governo era quello di non aver calcolato adeguatamente per informazioni avute non del tutto precise — gli oneri della rappresentanza diplomatica in un ambiente così elastico ed ambiguo per abusi ed esosità quale era la capitale turca e in genere tutto il mondo ottomano. Disgraziatamente il suo ministro, per indole e per costume, era portato ad esagerare ed esasperare una siffatta situazione, la quale veniva a chiudersi in un cerchio distinato a stringersi sempre più, pregiudicando inesorabilmente possibilità non trascurabili di sviluppo vitale. Il contegno e l’azione del residente ostacolava l’incremento normale dell’impresa e ne inaridiva i proventi; lo scarso rendimento del traffico rendeva sempre più guardinga e misurata la Camera nel sopperire a esigenze anche non superflue. Il Senato si lagnava pure delle spese fatte dal console di Smirne, come superiori al dovere. Il D’Oria, però, non si era caricato di debiti; comunque poca soddisfazione aveva procurato al Governo. Si diceva — forse esagerando — che godesse poca stima a Smirne e che insufficiente fosse la sua applicazione anche perchè malato. Ma i grossi debiti del Fiesco portavano a ben più deleterie conseguenze, in quanto i vascelli non osavano portarsi in quei porti con bandiera genovese nel timore di venire sequestrati dai creditori, e in tal modo il traffico, già turbato, come vedemmo, da altre cause, rimaneva strozzato sul nascere. Non solo, quindi, tutti erano persuasi della convenienza di richiamare i due ministri, ma si era compresa pure la necessità di pagare i debiti del Fieschi per poterlo sradicare da Costantinopoli ed evitare guai peggiori. Senonchè, mentre i creditori crescevano sempre più rapidamente, grave male era pure la sfiducia che si aveva dell’uomo, per cui subentrava il dubbio che i debiti accusati fossero in parte insussistenti; onde si determinava il proposito di pagare soltanto quelli che risultassero reali, e quindi di limitare la somma messa a disposizione per tale scopo. Nello stesso tempo si dava ordine di fermare la corrispondenza da Costantinopoli diretta al Di Negro, a Gerolamo Fieschi e ad Agostino Spinola q. Antonio, in relazione col residente, nella vana speranza di poter svelare la verità (10). In un primo tempo si era pensato di lasciare a Costantinopoli persona col solo titolo di segretario ed altra come proconsole a Smirne, entrambe dell’ordine non ascritto; ciò per diminuire le spese e comunque per aver tempo di procedere all’elezione di soggetti capaci. Ben presto subentrava invece la decisione di nominare successori ai due (9) Lett. Min. Costant., 3/2171, Relazione della Giunta del Traffico, 28 agosto 1668. (10) Giunta del Traffico, 1/1015, Relazione 5 settembre 1670; la Giunta al console Gavi di Livorno, 13 iettembre 1670; Gavi alla Giunta, Livorno 17 settembre, l.o ottobre 1670. - 97 - ministri, che fossero dello stesso ordine, data l’urgenza di sanare la situazione e riattivare il negozio, anche in considerazione che un mutamento di carico implicava le deliberazioni dei Consigli e quindi una lunga dilazione. Si fissava inoltre dal Minor Consiglio (10 novembre) una somma non eccedente i diecimila pezzi per il pagamento dei debiti del, Fiesco; e poiché già precedentemente si era deliberato l’invio di una nave da guerra per la missione dei due ministri, venne pure stabilito che l’incarico di regolare i debiti in parola fosse affidato al comandante della nave stessa, sperandone maggior impegno che non dal residente, influenzato forse dal proprio interesse e dal pensiero «di far buona la condizione della carica» (11). Come garanzia, il residente venne obbligato a fornire « sicurtà » di due mila scudi e a scegliere come suo segretario un notaio collegiato o « extra-moenia », acciocché lo coadiuvasse nell’esercizio della giurisdizione civile e criminale e nel ricevimento degli atti, mentre alcuni avrebbero voluto affidargli anche mansioni di controllo finanziario, che parvero ad altri incompatibili con l’autorità e dignità del ministro, venendo perciò escluse (12). 2. — Il 9 dicembre 1670 si eleggeva infine residente a Costantinopoli il M.co Pompeo Giustiniano, che portava con sé il nipote Paolo, e si procedeva inoltre alla nomina del console di Smirne nella persona del M.co Gio Luigi Gentile. A quest’ultimo era conservato il « salario » di 1500 pezzi più 600 come « aiuto di costa » ; ma al residente veniva concesso un aumento di pezzi 500., assegnandogliene quindi 3000 annui oltre un « aiuto di costa » di pezzi 1500. In più gli si assicuravano persona e robe, impegnandosi al suo riscatto se fosse caduto schiavo in mano ai Barbareschi (13). Quando già tutto era disposto per il convoglio deliberato, la considerazione della forte spesa aveva fatto mutare idea. Si sarebbe scelta cioè una nave mercantile, col pensiero di appoggiarla al convoglio d’Olanda, che era atteso di passaggio nella sua spedizione verso la Turchia. Si sarebbero inoltre affidati al Giustiniano i dieci mila pezzi e la liquidazione dei debiti: grosso fastidio per il M.co Pompeo. Uomo già piuttosto anziano, era l’antitesi del Fiesco. Giovanilmente esuberante, spregiudicato, insofferente il M.co Sinibaldo; riflessivo, scrupoloso fino all’eccesso, ligio agli ordini ricevuti il Giustiniano, quanto poi era liberale e spendereccio il primo, altrettanto l’altro appariva ritenuto ed economo, per costume e per dovere. Data la grande diffidenza verso il Fiesco * i Collegi ordinavano al Giustiniano di procedere guardingo nel pagamento dei debiti: accertare anzitutto se e quali fossero veri; fingere di pagare per proprio conto a sostegno del pubblico decoro; non consegnare mai il denaro nelle mani del residente; se qualche debito non pregiudicasse gli interessi della nazione, lasciarne a lui il pensiero. Erano così certi delle mistificazioni del Sinibaldo che, assegnando i dieci mila pezzi, affermavano di « aver voluto piuttosto abbondare che per mancamento di denaro il decoro pubblico a qualche pericolo restasse soggetto» (14). (11) Ibid., Relazioni 9 settembre e 1 5ottobre 1670. (12) Ibid., Relazioni 10 novembre e 25 novembre 1670. (13) Ibid., Proposizioni 24 gennaio,6, 11 maggio 1671. (14) Ibid., Relazione 9 aprile 1671 - Oriente 2774/A, Istruzione aggiunta a Pompeo Giustiniano (26 maggio 1671). 7 — 98 - Tuttavia, all’ultimo momento furono presi ancora da scrupolo e interpellarono la Giunta del traffico sulla possibilità di aumentare la somma destinata; ma essa rispondeva che nessuna deliberazione era lecita senza l’intervento del Minor Consiglio; che, del resto, se maggiore fosse stata la quantità del denaro, maggiore sarebbe pure divenuto il debito: conveniva quindi attendere ciò che ne sarebbe risultato. In realtà, non era tempo quello, in momenti così critici,, di attese e rite-nutezze (15); onde la meno esatta percezione di quanto le circostanze richiedevano ricadeva dapprima sul sensibile temperamento del M.co Pompeo — egli pure inferiore alla situazione — e quindi, con pregiudizio forse fin da allora definitivo, sulla stessa impresa della Repubblica. Approvata la nomina fatta dal residente del proprio segretario in Lorenzo Callero, notaio extramoenia, col salario anticipato di annui pezzi 300 da otto reali, noleggiata la nave « S. Antonio abate » per il viaggio a Smirne e Costantinopoli, rinforzandola di 25 soldati e 4 cannoni di bronzo, venivano rimesse al Giustiniano e al Gentile le istruzioni, con cui anzitutto si ordinava loro di tenersi pronti a partire sulla predetta nave al sèguito del primo convoglio di Rotterdam che fosse giunto nel porto di Genova o di Livorno. Il residente, le cui istruzioni maggiormente c’interessano, era tenuto, con il suo onorario, a provvedere agli stessi obblighi per casa e famiglia già stabiliti a carico del suo predecessore. Oltre i tre giannizzeri a spese dell’Ecc.ma Camera, avrebbe trovato due dragomanni, Lorenzo Usodimare e Tomaso Geraci. Qui si consigliava un primo risparmio eliminando il secondo di detti dragomanni e servendosi di un certo Antoniachi Giovanni, che si prestava ad honorem, allo scopo di godere dell’esenzione dalla taglia, concessa a chi si trovava in servizio di principi cristiani. Nicolò Ravano, comandante della nave S. Antonio, doveva essere subordinato al residente e al Gentile. Questo capitano, inoltre, aveva ricevuto ordine di presentare al comandante olandese, per meglio disporlo ad accogliere la sua nave nel convoglio, un regalo mandatogli dal Mag.to dell’armamento (16). A Smirne occorreva fermarsi soltanto il tempo necessario per sbarcare il console e gli effetti colà destinati; e questo perchè, la stallia più lunga, il cap. Ravano ed i mercanti avevano bisogno di consumare al ritorno per i loro negozi. Da Smirne a Costantinopoli si poteva navigare sicuramente essendo il mare libero da corsari e trovandosi le navi amiche sotto la protezione della Porta. Passando i Dardanelli nuovi e vecchi, dissimulasse il ministro la sua carica per evitare complimenti e relativi regali; lì, in caso di bisogno, si valesse del dragomanno ebreo Gioseffo Corson, al quale solevano ricorrere i Genovesi. Trovando venti contrari era bene facesse avvertire con pedone il M.co (15) Del resto anche il governo veneziano, che di fronte alle arbitrarie «awarie» dei Turchi vietava ai baili di fare « esborsi » senza la debita autorizzazione e talvolta li puniva severamente per quelli effettuati , trascinava, ad esempio, per anni la raccolta di diecimila reali già deliberati, che dovevano servire al conseguimento di un vantaggio tanto essenziale quale era la riduzione del dazio dal 5 a quel 3%, che veniva pagalo da tutte le nazioni, senza che Venezia riuscisse mai a conseguirlo. (Dobes Levi-Weiss, Le relazioni fra Venezia e la Turchia dal 1670 al 1684 e la formazione della Sacra Lega, Venezia, 1926, p. 31, 51. (16) Si sa infatti che furono regalati al comandante delle navi di Rotterdam « due bacili e una stagnara d argento » al vicecomandante « un bacile d'argento nonché candidi da riempire uno dei bacili per ciascuno ». - 99 - Fieschi del suo arrivo, perchè si preparasse più sollecitamente alla partenza. Giunto a Costantinopoli, salutato col cannone il Serraglio, doveva ancorarsi lontano dalla dogana per evitare perquisizioni; ma occorreva vigilare che la gente della nave non facesse « sfrosi troppo scandalosi». Si raccomandava ancora al residente di mantenersi al possesso dei privilegi goduti dai rappresentanti stranieri circa l’esenzione da visite, dazi e gabelle: ma se per il mantenimento di simili privilegi o per procacciarsene altri fosse necessario sottoporsi a donativi, nessuna spesa la Camera avrebbe assunto a suo carico; badasse il residente a non studiarsi di avvantaggiare a un tal prezzo il perstigio del ministero presso i Turchi, secondo lo stile del Fieschi. Il trasferimento alla sua casa di Galata doveva avvenire « senza cerimonie, ma in guisa d’incognito», come altri ministri, fra cui il De La Haye nel 1666, avevano già praticato, « schivando quell’accompagnamento che venisse offerto da chi presiede al governo di Costantinopoli ». Gli si davano istruzioni sulle visite da farsi, con relativi regali, al gran visir, al sultano, al capitan pascià, al voivoda di Galata, e, se necessario, anche al muftì, il quale però era l’unico ministro turco che si visitasse — sia lode a Dio! — « con le mani vuote ». Fra i regali doveva far spiccare il vaso finissimo di cristallo per il primo visir e il magnifico specchio per il Gran Signore, doni desiderati e richiesti già da tempo per mezzo del Panaioti. Questi poi meritava particolare riguardo e a lui poteva ricorrere per ogni consiglio ed aiuto. Una speciale questione da trattare presso il gran visir era quella spinosa delle monete, sulla quale gli si davano tutte quelle minute informazioni che noi già conosciamo; nè il Giustiniano doveva mancare di mettere in valore con S. Ecc.za il pregio delle mercanzie genovesi in panni di lana, di oro e di seta, e di rappresentargli le altre pratiche in corso riguardanti il traffico. Se fosse stato costretto per le visite di obbligo a recarsi in Andrianopoli, non trasferendosi la corte nella capitale, e il Governo turco avesse provveduto esso stesso a carri e cavalli, la spesa per il viaggio si sarebbe ridotta alla « buona mano » da darsi ai conduttori, « qualche poca provvigione di fornimenti da viaggio » e la mancia oppure il fitto da pagarsi per l’alloggio in Andrianopoli, secondo che questo fosse stato assegnato dalla corte o dovesse provvederselo a proprio conto. Prima di passare ad Andrianopoli avrebbe dovuto però visitare il caimacan, governatore di Costantinopoli, sia per il congedo del Fieschi come per la propria introduzione, visita da eseguirsi — si aggiungeva — « secondo lo stile solito e con le minori formalità possibili a salvamento del decoro del vostro Ministero». Dopo aver trattato dei rapporti in generale con i ministri delle altre nazioni e con i religiosi del luogo, l’istruzione richiamava l’attenzione del residente su alcune prescrizioni riguardanti interessi particolari della nazione specialmente nel campo commerciale. Un’altra raccomandazione gli si faceva. Il Mag.to dei poveri di Genova raccoglieva dal 1665 un sussidio «di somma ragionevole», che annualmente mandava a Costantinopoli per i Luoghi Santi: vedesse quindi presso il padre Commissario se esso era destinato all’uso voluto. Così pure gli si raccomandava di aver cura perchè proseguissero i lavori dell’ospedale di Galata, per il quale i vascelli genovesi lasciavano sempre le loro contribuzioni. Era inoltre suo compito il vigilare sull’osservanza della bolla pontificia che proibiva l’invio fra gli infedeli di armi, ferro, stagno, piombo od altro materiale utile alla guerra. Particolarmente severi erano poi gli ordini per le — 100 — monete. « Essere intenzione nostra — si diceva — che non si traffichino da Nationali e sotto la nostra bandiera quelle (monete) che non sono ammesse dai Turchi, e tanto meno le proibite da noi conforme la grida della quale haverete copia dalla nostra Cancelleria e contro li rei di queste trasgressioni come d’ogni altro delitto procederete secondo la disposizione de nostri statuti ricorrendo in falta di questi et in caso che non si possano pratticare, alla dispositione del jus commune, et al stile che si osserva dalli Residenti delle altre ÌNationi, e de processi e sentenze che vi occorresse fare inviare a noi copia o sia sommario» (17). Riguardo al commercio, doveva cooperare per il buon trattamento dei vascelli e mercanti nazionali in conformità dei privilegi delle capitolazioni, assicurando loro pronta spedizione senza arbitrari aggravi, come, ad esempio, rispetto alle tariffe dei diritti di cancelleria. A carico però dei singoli vascelli o mercanti dovevano andare le spese sostenute a fine di procurare comandamenti per loro particolare vantaggio; quando si fosse trattato invece di un utile collettivo, l’aggravio si sarebbe dovuto ripartire fra tutti i beneficiati. Analogamente si doveva procedere in caso di «avanie» imposte giustamente o ingiustamente dai Turchi: nella seconda evenienza dovevano concorrere tutti i trafficanti, ma sempre con l’av-\ertenza di distribuire le imposizioni in un tempo abbastanza lungo, perchè esse non riuscissero troppo gravose. I Consoli di Smime e di Scio dipendevano direttamente dal Senato, gli altri dal residente di Costantinopoli, che aveva anche facoltà, quando fosse necessario, di revocarli o di nominarne altri, salva sempre la definitiva ap-pro\ azione del Senato stesso. Ad essi doveva lasciare, a seconda del reddito elle scale, una parte dei consolati, che non superasse in ogni caso la metà dell’introito. L ultimo punto si riferiva al riscatto degli schiavi da chiedersi nella visita al gran visir. Al qual riguardo, se non ve ne fossero genovesi perchè già tutti liberati in occassione della prima ambasceria, vedesse di scegliere dei corsi, avvertendo che i Turchi erano soliti richiedere in sostituzione qualche schiavo russo, che allora si comperava per 70 in 80 pezzi (18). Quar,do Giustiniano vennero consegnate le sue istruzioni, era stato già ^.accor<^° Per partenza con il convoglio olandese. Il 21 maggio i la Giunta del Traffico e il Mag.to del nuovo armamento marittimo avevano dato incarico a \incenzo Spinola, che tenendo casa di negozio in levante, aveva suoi interessi sulla S. Antonio, di trattare col comandante fiammingo, in merito a quanto il Governo desiderava. Ottenuto che la nave genovese fosse accettata nel convoglio, una polizza venne sottoscritta al riguardo in Genova. ‘ a. ue difficoltà sorsero ben presto. Una da parte del cap. Ravano, il quale il 19 giugno compariva dinanzi ai Presidenti della Giunta e del Magistrato Pro^es^and° che non sarebbe partito con la nave se non si fosse mo cat® capitolo delle istruzioni, dove si diceva che egli si sarebbe trovato a e dipendenze del residente e del console. Gli fu osservato che la -u or inazione andava intesa soltanto riguardo alle persone, ma poiché il vano insisteva sul punto, gli veniva fatta intimazione formale di partire senz altro con la nave, rendendolo responsabile di tutte le conseguenze che, in « istruzioni nrcr"™61116 •'°n ^ p0B81*5*Je c^e Governo deBse al residente Pompeo Giustiniano, non™o8se^ adulterai m,nU,e"7 “ DÌ *** (,t* cit” 16) ~ Pcrchè la ™ne.a genovese non fosse adulterata e non « fossero rinnovale le falsificazioni di altre valute». (18) Oriente, 2774/A, Istruzioni a Pompeo Giustiniano, 26 maggio-22 giugno 1671. - 101 - caso contrario, ne sarebbero derivate. Comunque i Collegi, a sua soddisfazione, dichiararono qualche giorno dopo che dalla lamentata dipendenza del capitano dai ministri s’intendeva escluso quanto riguardava « il governo e la navigazione della nave» (19). Più grave fu l’incidente col comandante olandese, De Boys, il quale si rifiutava a sua volta di accogliere nel convoglio la nave genovese, affermando che era stata violata la convenzione pattuita. Effettivamente nella polizza firmata a Genova e nel cartello esposto sulla piazza di Livorno (così usavano fare le navi per annunciare ai mercanti la propria partenza) era inclusa la proibizione alla S. Antonio di caricare merci per Messina e Costantinopoli. Ora il Ravano non aveva tenuto alcun conto di tale impegno, suscitando le proteste dei capitani delle navi mercantili e del comandante dei vascelli da guerra di Rotterdam, il quale dapprima pretese l’osservanza del pattuito ed anche i noli delle merci già caricate, e infine dichiarò senz’altro che non avrebbe accordato il convoglio. Il Governo, informatone, spediva il 10 luglio a Livorno un pedone espresso al M.co Giustiniano, perchè ottenesse in ogni modo il beneficio all’ultimo momento revocato, anche facendo versare al De Boys l’importo dei noli per la mercanzia imbarcata in Livorno dal Ravano, con riserva di chiederne conto a costui al suo ritorno in Genova (20). Negli ultimi giorni il Governo si era ancora preoccupato della vecchia questione che gli stava tanto a cuore: quella delle monete. La cosa c’interessa particolarmente in quanto andiamo esaminando il vero atteggiamento della Repubblica riguardo questo punto essenziale dell’impresa d’oriente. Il cap. Ravano, chiamato il 22 giugno 1671 dinanzi ai Collegi, dietro ingiunzione rivoltagli dal segretario, dichiarava con giuramento di aver imbarcato sulla sua nave, oltre i denari per conto del residente e del console, un sacchetto di 200 pezzi da otto reali del M.co Alessandro Giustiniano destinati alle Smirne; un sacchetto di 600 pezzi del M.co Vincenzo Spinola ancora per le Smirne; un « groppo » di 300 zecchini e 303 ongari del M.co Marcello Durazzo per Costantinopoli: non gli risultava che fossero stati imbarcati altri contanti, nè aveva firmato altre polizze di carico. Rimasti poco convinti, i Collegi richiamarono sùbito dopo il Ravano, facendogli ingiungere dal M.co segretario — vista l’eccessiva riserva della sua precedente dichiarazione — di eseguire un’immediata « esatta diligenza sopra detta sua nave per riconoscere et accertarsi — si diceva — se effettivamente oltre quanto egli ha manifestato sian stati imbarcati e caricati altri contanti, di che qualità, e per conto di qual persona e che per tutto dimani debba haverne fatta la manifestazione totale » ; perchè, quando si venisse a conoscere che altro denaro fosse stato contrattato a Smirne e a Costantinopoli, si sarebbe proceduto rigorosamente, contro di lui e della sua nave, all’esecuzione delle pene stabilite dalle gride in materia. Nello stesso tempo, anche il residente e il console venivano chiamati, d’ordine dei Collegi, dinanzi alla Giunta del traffico per confermare loro le istruzioni già impartite e rinnovare le più vive raccomandazioni per la felice soluzione di affare tanto importante. La S. Antonio intanto partiva col convoglio, e il residente scriveva da Messina che l’accordo si era concluso a Livorno sulla base del pagamento (19) Giunta del Traffico, 1/1015, 19 giugno e 22 giugno 1671. (20) Let. Min. Costant., 5/2173, il Gov. a Pompeo Giustiniano, 10 luglio 1671; Oriente, 2774/A, Dichiarazione del Boys, Arcipelago, 31 luglio 1671. - 102 - di 200 pezzi per noli delle merci imbarcate abusivamente; pagamento che veniva effettuato due giorni dopo dal Ravano al comandante De Boys, d’ordine del Giustiniano (21). 3. — Il M.co Pompeo era partito quasi ossessionato soprattutto da una idea: quella di attenersi agli ordini dei Padroni, specie rispetto all’economia. Approdò la nave il 5 agosto 1671 a Smirne, dove si fermò il Gentile; il 4 settembre giunse in vista delle Sette Torri di Costantinopoli; ma il residente non potè sbarcare se non al mattino del 13: ciò che eseguì , a scanso di spese, in forma privata, servito dalla carrozza dell’internunzio di Polonia, procuratagli dallo stesso Fieschi. Il quale, mentre richiedeva i mezzi occorrenti per il viaggio, faceva subito avere al Giustiniano l’elenco dei suoi debiti, dichiarando che non sarebbe andato alla visita di congedo se non fossero stati soddisfatti. Il M.co Pompeo, secondo le istruzioni avute, rispondeva che non aveva facoltà di far spese per il suo ritorno; soltanto avrebbe potuto comprare tre suoi cavalli con selle e finimenti, somministrando inoltre, per servizio e decoro pubblico dagli 8 ai 10 mila pezzi per l’estinzione dei debiti, purché questa fosse stata totale con cessione delle ragioni dei creditori. L’11 ottobre il pagamento era effettuato secondo le predette condizioni (22). Il M.co Sinibaldo, che aveva denunciato un debito complessivo di 20.000 pezzi, spiegava ai Ser.mi Signori di essere stato costretto a ricorrere per aiuto al residente d’Olanda, essendo i creditori in buona parte della sua nazione. Costui era riuscito a procurargli da tre mercanti, fra cui suo genero, una « sicurtà » di pagamento a sei mesi per certo Isacco de Boys, inesorabile nel-l’esigere frutti e capitale imprestato, e, in più, due mila pezze per tacitare gli altri creditori e indurli a dichiarare in cancelleria del Giustiniano di essere stati soddisfatti. Veramente quest’ultimo aveva finito per pagare solo 9570 pezze, volendo trattenere il rimanente delle 10 mila per le sue spese; 11 che, dice il Fieschi, gli aveva cagionato nuovi guai, spingendolo infine a vendere i pochi argenti che gli erano rimasti e i cavalli per sopperire all urgente bisogno, sì da essere ridotto a non sapere come provvedersi il vitto (23). Considerando i rapporti tra i due uomini, si ha la chiara impressione che il Sinibaldo cercasse di ostacolare l’opera del suo successore e di sobillargli contro anche il personale dipendente della residenza. Il primo dragomanno era o si diceva ammalato, ciò che intralciava molto l'andamento degli affari; il secondo, Tomaso Geraci, aveva minacciato di licenziarsi volendo-^ glisi ridurre la paga a 150 leoni invece di 300, quanti ne pretendeva; e si dovette finire per accordargli ciò che voleva, non trovandosi come sostituirlo. Il suo contegno era capriccioso e irriverente, onde il Giustiniano, con una certa ingenuità, chiedeva proprio al Fieschi di « fargliene una buona correzione » ; ciò a cui naturalmente questi si rifiutava, avendolo sempre conosciuto — diceva — come fedele e zelantissimo. Persino i giovani di lingua (tirocinanti dragomanni) accampavano nuove pretese: diritto di tavola, una veste all’anno e maestro per imparare a leggere e scrivere l’idioma turco. (21) Giunta del Traffico, 1/1015, deliberazione verbale 22 giugno 1671; Oriente, 2774/A, atto del 25 luglio 1671 ;Lett. Min. Costant., 3/2171. Giustiniano al Gov., Messina, 22 luglio 1671. (22) Oriente, 2774/A, P. Giustiniano a Sinib. Fieschi, Costantinopoli, 23 settembre 1Ü71; lo stesso al Gov., 11 ottobre 1671. (23) Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., Costantinopoli, 19 ottobre 1671. - 103 - Giunto finalmente il momento per compiere la visita al caimacan, il M.co Pompeo mandò alla Porta il Geraci per fissarla. A fine di attenersi alle prescrizioni dei Ser.mi Signori ed eliminare spese, aveva incaricato il dragomanno di pregare il chiaus bassi, perchè non inviasse la compagnia dei chiaussi ad accompagnarlo, essendo egli semplice residente. Gli fu risposto con parole altere e mordaci — così almeno riferì il Geràci — che quello era l’ordine dell’ecc.mo caimacan, il quale voleva si onorassero in tale forma tutti i rappresentanti dei principi amici. E la cosa veniva intenzionalmente commentata dal Fieschi — quasi in risposta alle accuse contro lui 6tesso rivolte — scrivendo al Giustiniano : « V. S. Ill.ma vede e conosce con prova che non è possibile dare legge alli Turchi e che bisogna compiere il loro cerimoniale ». Ma il guaio non finì lì. La visita dei due residenti, svoltasi con grande solennità di accompagnamento e cavalcata, richiedeva tutta La consueta serie di regali. Pagati i caichi per il traghetto, seguirono le mance per tamburi e musica tanto del Gran Signore, quanto del caimacan, oltre il dono delle dieci vesti per quest’ultimo. Il mattino dopo si mandarono i regali a giannizzeri e subassì, al chiaus bassi, e trenta pezze per i chiaussi. Senonchè mentre stavano preparando gli altri doni per la famiglia del caimacan, vennero alcuni chiaussi per restituire i trenta pezzi ricevuti, trattenendone solo uno, ed aggiungendo espressioni scorrette e sprezzanti. La cosa si rimediò accrescendo opportunamente i regali; ma il Giustiniano rimase assai scosso per tutte queste vicende. Dal Fieschi aveva avuto, per sua regola, una nota di quanto si era praticato in materia dal residente di Olanda; ma essa risultò inadeguata, non contemplando, fra l’altro, «molti altri pretendenti». I trenta pezzi per i chiaussi erano stati sborsati anche dietro parere espresso dal Fieschi, il quale, per contro, nella sua lettera inviata ai Ser.mi Signori in quegli stessi giorni (19 ottobre), e in cui cercava evidentemente di mettere in cattiva luce l’opera del suo successore e le stesse direttive del Governo, scriveva : « et havendo il signor Pompeo risoluto ritenere alcune vesti del consueto, come anche delle mancie, ne ha ricevute qualche ingiurie... tacciato da tutti di avaritia, non volendo nessuno credere che siano così le sue istruzioni quali a tutti mostra per suo discarico ». Il M.co Pompeo ebbe anche l’ingenuità di sfogarsi proprio con lui in termini che rivelano chiaramente quale fosse il suo stato d’animo : « Io mi trovo molto travagliato per il modo, che tengono costoro, non sapendo da chi prender lume necessario, trattandosi d’interesse della Repubblica Ser.ma, et la spesa trapassa di buona somma il centinaro di pezze oltre il regallo di tante vesti, contro l’ordinatomi da Ser.mi Collegi, che conviene credere fus-sero sinistramente informati nel mandarmi in queste parti con ordini impraticabili et impossibili » (24). Ma anche ai Ser.mi Signori aveva sùbito scritto (15 ottobre), esponendo particolarmente quanto era accaduto nel breve tempo dal suo arrivo a Costantinopoli e rilevando la precarietà del suo ministero. Parlando della visita al caimacan, osservava: «Il regalo fu di dieci vesti comprese due di tela d’argento, alli suoi ufficiali converrà dare il duplicato della nota consignatami costì. E veramente, Ser.mi Signori, si è preso un grande errore nell’instru-tione, et ordini datimi sì per le vesti, come per le mancie tanto da darsi qui, come alla Porta, mentre intendo che il Gran Signore non dà l’audienza ad alcun ministro benché inferiore senza il regalo solito di 50 vesti, il primo (24) Ibid., Giustiniano a Fieschi, Costantinopoli, 17 ottobre 1671. visir di 15, il caimacan d’Adrianopoli d’altre 15, dovendosi anche regalare il suo favorito, dar vesti a quei delle loro corti e spendere gran somma in mance; ond’io vivo afflittissimo, non solo per non potere osservare l’istruzione et ordini datimi, ma per non haver forma di supplire a tante spese..... W. SS. Ser.me si degnino di ponderare, e ne le supplico le perplessità et angustie nelle quali mi ritrovo soprastandomi spese intollerabili, ovvero sciagure sensibili pregiudiciali e di scapito alla riputazione pubblica e privata oltre il sconcerto delli interessi del traffico e sappino VV. SS. Ser.me che queste non sono fandonie, ma verità reali e palpabili » (25). Se fosse stato chiamato alla Porta prima di ricevere la risposta delle Loro Signorie, pensava di portare con sè Giorgio d’Andrea perchè gli somministrasse quanto gli sarebbe occorso per le spese di regali ed altro; supplicava quindi di volergli mandare ordini in tal senso o di farglieli avere per mezzo dei signori Durazzo o di altri, secondo ritenessero più opportuno (26). Tutto ciò lo preoccupava fortemente. La mancanza del primo dragomanno gli « era cagione di grand’alterazione », tanto più se si fosse dovuto spedire al Gran Signore in Adrianopoli per la licenza del Fieschi e della nave, decisione che, d’altra parte, lo lasciava perplesso, mancandogli istruzioni in proposito. Attendeva quindi le ultime deliberazioni del caimacan. E fu l’ultimo suo pensiero. Il Fieschi stesso chiudeva la citata lettera rilevando che lo aveva visto « tanto afflitto » da temere che « desse in qualche infermità desiderandosi continamente la morte». Il 25 ottobre si ammalò, e dovette trattenersi a letto « con qualche agitazione d’animo ». Il mattino seguente, all’alba, essendo sceso da letto, afferrò per la canna una carabina che teneva sempre vicino, per tirare a sè certa pezzuola posta poco distante su di un sofà. In quel momento l’arma prese fuoco da sè e lo colpì con due ferite al ventre ed una alla coscia sinistra. Sopravvisse alcune ore, tanto cioè da ricevere i Sacramenti ed attestare alle autorità turche la verità sull accidente occorsogli. Fu sepolto nella chiesa di S. Pietro; ma anche dopo morto, il cadì e il voivoda di Galata specularono sul suo cadavere, non permettendone la sepoltura se non dopo aver estorto i soliti regali. Il Fieschi accennò all’ipotesi di un suicidio; narratori contemporanei e posteriori lo dànno come un fatto sicuro. Forse le circostanze un po’ curiose in cui l’incidente si verificò escludono tale ipotesi; ma lo stato d’animo del povero Giustiniano non era lontano da un così disperato proposito. Il Fiesco scriveva tosto al Governo che aveva ricevuto intimazione dal caimacan di continuare nel suo ufficio; che avrebbe cercato, sebbene con scarsa speranza, di ottenere il congedo, ma che intanto si provvedesse ad inviare qualcheduno con denari e istruzioni adeguate. La risposta dei Collegi fu recisa: il suo ministero era spirato; non si ingerisse più per nessun modo in esso, chè non gli sarebbero bonificati ulteriormente nè onorario nè spese; si portasse con qualunque mezzo alla patria, concedendoglisi a tal fine 500 pezzi per « aiuto di costa». A rappresentare gli interessi della nazione doveva rimanere il segretario Lorenzo Callero, a cui vennero infatti spedite lettere credenziali per il caimacan (27). (25) Ibid., Giustiniano al Gov., Galata di Costant., 15 ottobre 1671. (26) Ibid. (27) Ibid., 5/2173, il Governo al Fieschi, 13 gennaio 1672; a Lorenzo Gallerò, 13, 15, 25 gennaio, 8 febbraio 1672; a Paolo Giustiniano, 8 febbraio 1672. - 105 - Ma altro dispaccio (28 dicembre 1671) con lettere accluse del gran visir e del Panaioti, annunciava che la Porta aveva negato la richiesta licenza fino all’arrivo de], nuovo residente. Del resto, quando gli ordini della Repubblica giunsero a Costantinopoli, già la « S. Antonio» era salpata (gennaio 1672), portando indietro il Callero con Paolo Giustiniano, che aveva lasciato vesti, robe e denari del Pubblico, rimastigli dopo la morte dello zio, in consegna al Fiesoo. Veramente il Callero, a quanto ebbe a riferire, aveva cercato di opporsi a siffatta consegna, facendo osservare al M.co Paolo che egli, Callero, doveva fermarsi, interpretando le intenzioni del Governo, e che tutto doveva essere depositato nella cancelleria, ossia in casa sua. Da principio l’altro parve persuaso, ma, essendosi ritirato a vivere in casa del Fieschi, dopo alcuni giorni mutò divisamento, inducendo il Callero a ripartire insieme con lui. La « S. Antonio » arrivò il 19 gennaio 1671 a Smirne, dove Ottavio D O-ria doveva imbarcarsi per far ritorno a Genova. Anche lui si trovava in qualche difficoltà. Certo non era caduto nei disordini del Fiesco; ma appena giunti il Giustiniano e il Gentile, aveva loro presentato, per mezzo del suo cancelliere, Filippo Bandini, e dei mercanti Agostino Peri e Giuseppe Moli-nari, dipendenti della casa Durazzo, i suoi conti, dai quali risultava un debito di 2500 pezzi contro un credito con la Ecc.ma Camera di pezzi 5000, chiedendo egli o il pagamento di detto debito, o yn’oblazione, senza di che non sarebbe potuto partire. Il Giustiniano — si può ben comprendere — rispose che non possedeva denaro per lui, e il Gentile dichiarò che non teneva ordine di obbligarsi: d’accordo convennero invece di scriverne al Governo. Il Gentile, poi, aveva anche trovata la casa consolare occupata da certo Bonaventura Ambrogi, mercante fiorentino sotto bandiera olandese, e dai predetti Peri e Molinari, essendosi ridotto il D’Oria in una sola stanza. Il nuovo console abilmente riuscì ad allontanare l’Ambrogi e a ridurre l allog-gio degli altri due, sistemandosi convenientemente, in modo da poter ricevere la visita del console di Francia, che — cosa singolare — aveva chiesto di visitarlo; ciò che fece infatti poco dopo con circa quaranta nazionali, trattati cordialmente « con dolci ed altro ». Ora al ritorno della « S. Antonio » il D’Oria riusciva ad estinguere la massima parte dei debiti ipotecando le sue robe al M.co Paolo Giustiniano. Rimanevano solo 288 pezzi dovuti al mercante inglese Gio. Folley, al quale il Gentile stesso si obbligava per assicurare l’esecuzione della tratta tirata dal D’Oria sopra le Ser.me Signorie per la somma indicata, pagabile in Genova a Giorgio Legatt e Comp.a. Il M.co Ottavio poteva quindi partire con il Giustiniano ed il Callero, che si erano così trattenuti in Smirne per 47 giorni, sempre intilmente in attesa di istruzioni (28). Sinibaldo Fieschi si era così di nuovo consolidato nel suo ufficio. Il Callero riferiva che egli era molto « benveduto » a Costantinopoli, dove si trattava lautamente, desideroso solo in apparenza di partirsene e indebitato più che mai per aver, « come si suol dire, scoperto due altari per coprirne uno » (29). (28) Lettere Consoli Turchia, 1/2703, Pompeo Giustiniano e Gio Luigi Gentile al Gov., Smirne, 6 agosto 1671; Gentile al Gov., Smirne, 7 dicembre 1671, l.o marzo, 6 marzo 1672; Leti. Min. Costant., 4/2172, Relazione di L. Cullerò, Genova, 14 aprile 1672. (29) Oriente, 2774/A, Relazione 1675. - 106 - Il M.co Sinibaldo scriveva nel febbraio informando che a causa delle visite e dei soliti regali poco più gli rimaneva dei denari e dei panni lasciati da Paolo Giustiniano; aveva pure riscosso parte dei consolati e così avrebbe fatto per gli altri, accreditandoli alla Camera Ecc.ma, tolte le spese incontrate per la nave « S. Antonio ». Annunciava inoltre di aver presentato, per mezzo del Panaioti, il vaso di cristallo al gran visix*, che lo aveva sommamente gradito (30). Ma a Genova Consigli, Giunte, Deputazioni stavano studiando il mezzo più acconcio per liberarsene. Già il 30 marzo 1672 la Giunta del traffico aveva proposto di mandare a Costantinopoli soggetto non ascritto col solo ufficio di segretario. Nel maggio poi, uditi Ottavio D'Oria, Paolo Giustiniano, il segretario Lorenzo Callero e il cap. Ravano, si approfondiva maggiormente l’esame della pratica ancbe attraverso la consulta del Minof Consiglio. Anzitutto concorde fu l'opinione che non si dovesse abbandonare quel traffico non ostante le delusioni patite. Le nuove guerre dichiarate fra le nazioni francese, inglese e olandese (guerra d’Olanda) potevano favorire la attività ligure in oriente; inoltre rimaneva sempre valido il principio politico di non restringere il traffico a una sola parte (Spagna), in quanto ciò rendeva più limitata la libertà nelle pubbliche operazioni. Fallito il tentativo di lasciare a Costantinopoli il Callero, non rimaneva che o mandare un soggetto della nobiltà con segreta intesa di lasciare poi colà un segretario e tornarsene in patria, o destinare come proconsole in Smime un mercante, sull’esempio di altre nazioni, e far passare il M.co Gio Luigi Gentile nella capitale. Ma se ciò non fosse possibile, nè si ritenesse conveniente mandare persona, la quale per la poca autorità non fosse in grado di v incere « l’incanto » che rendeva il Fieschi, per la sua liberalità, tanto gradito ai Turchi, non rimaneva che inviare la patente a Michelangelo di Negro, allora segretario dello stesso M.co Sinibaldo, di cui si aveva « qualche buona informazione ». Nella discussione in Minor Consiglio si confermò la comune opinione a favore di quel traffico, per il quale alcuni insistettero sulla opportunità di costituire compagnie di negozio. I Collegi formulavano quindi la proposizione conclusiva da sottoporre al Consiglio stesso che l’approvava. In essa si proponeva la missione di un gentiluomo abile e di prestigio come residente a Costantinopoli, pur con riserva di effettuare l’appalto di tutti i consolati, secondo deliberazioni risalenti al 1670. Ma, al momento, urgeva soprattutto eliminare il Fieschi per restituire l’ordine e la fiducia, e a tal fine sarebbe stato necessario impiegare una congrua somma di denaro per estinguere i suoi debiti. Si procedeva così alla elezione del nuovo residente, che risultò il M.co Giovanni Durazzo (9 giugno), a cui veniva assegnato un onorario di 4000 pezzi annui, implicito riconoscimento dell’insufficienza di quello stabilito per il Fiesco nel 1666 e perciò della fondatezza di parte almeno dei suoi reclami (31). Senonchè, in quello stesso mese di giugno scoppiava la funesta guerra contro Carlo Emanuele II. La Repubblica ne fu tutta assorbita e la pratica di oriente ebbe così a subire un inevitabile arresto, proprio nel momento in cui avrebbe potuto invece conseguire una sistemazione salutare. (30) Lett. Min. Costant., 4/2172, Fieschi al Gov., 14 febbraio 1672 (anche in Oriente, 2114/k). (31) Giunta del Traffico, 1/1015, Relazioni 3, 13, 19 maggio, 9 giugno 1672. CAPITOLO VI ORGANIZZAZIONE E ATTIVITÀ' MERCANTILE 1. - Esigenze del traffico e funzione del consolato. — 2. - Consolati genovesi In oriente e loro vicende (84). — 3. - Merci e mercanti. — 4. - Navi forestiere e nazionali. — 5. - Difficile situazione del mercato orientale - Ostilità di Francesi e Barbareschi. 1. — L’apertura del traffico orientale era stata accolta in Genova — come anche in Turchia — con grandi speranze, che dovevano aver buon fondamento, se l’inatteso evento potè sùbito suscitare, specie tra i Francesi, vive preoccupazioni ed opposizioni anche violente. Navi genovesi avevano praticato, anche in passato, le vie del levante sotto bandiera francese, ma spesso anche inglese ed olandese. Nè doveva trattarsi di un movimento molto ristretto, dal momento che la perdita degli emolumenti personali relativi ai diritti sulle mercanzie genovesi potevano far tanto adirare il signor di Lionne. Tuttavia la nuova impresa, come tale, presentava tutte le caratteristiche di un non facile e laborioso assestamento, quale era naturalmente insito nella sua quasi improvvisa costituzione. Onde occorrevano abilità ed oculatezza per superare le difficoltà esterne e dare un ordine sistematico alla sua interna organizzazione. Insufficienza ed errori erano quasi inevitabili nel suo primo avviarsi; purtroppo le successive sfavorevoli contingenze non ne permisero un salutare e definitivo superamento. Non saprei quanto conto si possa fare di certa critica che Sinibaldo Fieschi formulava dopo oltre otto anni di residenza, mentre stava per lasciare Costantinopoli, come se non fosse stato suo compito il dare tempestivamente tutti i consigli inerenti alla carica che sosteneva. Egli dunque il 3 ottobre 1674 scriveva al suo procuratore in Genova che avrebbe proposto a Vincenzo Spinola, il, nuovo appaltatore dei consolati di cui parleremo, « due scale dove potranno annualmente smaltire delle migliara de panni il tutto con baratta, senza essere obbligati di fare spese per il mantenimento de consoli, et il tempo le farà conoscere che Sinibaldo ha sempre applicato al vantaggio pubblico, e non del proprio come hanno fatto altri occultando al pubblico et al privato la vera forma di negoziare in levante » ( 1). A parte queste parole di colore oscuro, forse rivolte contro i Durazzo, (1) A.S.G.,Lettere Ministri Costantinopoli, 4/2172, Sinibaldo Fieschi e Gerolamo Fieechi, Coetan., 3 ottobre 1674. - 108 - resta peraltro, più autorevole, il giudizio che si legge in una relazione del M.co Agostino Spinola, di alcuni anni posteriore, in cui si lamenta la « mala regola tenuta nelle prime missioni di negozio, come da persone che, o non pratiche del paese, o poco curanti, si diedero da intendere di esso ciò che in effetti non era, e con questo ricevettero quel danno che non aspettavano », laddove la « cognizione del paese » era « solamente quella cosa necessaria, che mancava per ottenere l’intento designato » (2). Per dar disciplina e sostegno al movimento commerciale che si doveva incanalare direttamente sotto la tutela dello stendardo di Genova, occorreva creare i quadri dell’impresa e stabilire le norme più convenienti ed efficaci. Il marchese Gio Agostino Durazzo che era stato l’abile e fortunato negoziatore con la Porta, per l’autorità che gli derivava dall’esperienza e dai meriti acquisiti, ebbe facoltà di stabilire le basi dell’organizzazione che faceva capo al residente di Costantinopoli, e di imprimere ad essa le fondamentali direttive. Istruzioni diede al M.co Sinibaldo Fiesco, che, come vedemmo, aveva manifestato verso di lui il suo temperamento insofferente, e una memoria lasciò al M.co Ottavio D'Oria, console a Smirne, piazza commercialmente più attiva della capitale. Tale memoria interessa perchè ci fa conoscere quali fossero i particolari rapporti fra mercanti e consoli. Tralasciando le raccomandazioni per il controllo dei buoni costumi, nella previsione che molti sarebbero andati sotto la bandiera della Repubblica « per mettere a coperto le loro iniquità », consideriamo particolarmente il valore economico del documento. Parecchie erano le gravezze ordinarie e straordinarie che colpivano le merci. Mentre il dazio delle dogane era pagato dai Veneziani e, fino al 1673, dai Francesi in ragione del 5 per cento, per Genova — già lo sappiamo — esso era ridotto, come per Inglesi e Olandesi, al 3 per cento, venendo corrisposto normalmente in pezzi da otto reali e.„ solo per qualche mercanzia, in aspri, sempre però soltanto in un porto (3). Le merci, tanto in entrata come in uscita, erano poi soggette al « consolato », ossia al diritto riscosso dai consoli. Esso era per Inghilterra e Francia del 2 per cento, ridotto in alcuni casi dal ministro della nazione all’1% per cento, quale sempre esigeva quello d’Olanda. Per il contante, poi, mentre nella giurisdizione francese i nazionali venivano esentati da ogni pagamento, tutti, invece, in quella britannica e olandese, dovevano pagare l’I per cento. Gli Inglesi però, come sappiamo, poco denaro introducevano, portando essi piombo e stagno. Uniformandosi agli usi delle altre nazioni e in attesa di (2) Oriente, 2774/D, Relazione di Agostino Spinola. (3) Oltre a questo ponto essenziale, le Capitolazioni ottenute dal Durazzo stabilivano anzitutto, nelle loro principali clansole, che ministri, mercanti e uomini genovesi avessero piena libertà di dimora e di commercio in tutto l’impero ottomano. Nessuna molestia doveva essere arrecata alle navi battenti bandiera della Repubblica così nelle mercanzie come nelle persone, sottoposte, queste ultime, all’obbedienza dei consoli genovesi. Liberamente potevasi esportare corame, cera, bambace, cammellotti ed altre merci non proibite; tutte le monete prese o portate erano esenti da dazi. L’armata turca non avrebbe molestato navi genovesi con merci provenienti da paesi nemici della Sublime Porta; soltanto sarebbero state confiscate quelle di contrabbando o destinate a nemici. Come per le altre nazioni privilegiate, il naviglio non poteva essere sottoposto che ad una sola visita. Abolito era il diritto di naufragio e di albinaggio; riconosciute l’immunità reale e personale e la giurisdizione degli ambasciatori e dei consoli. Per economia di spazio, non è possibile pubblicare in appendice, come sarebbe opportuno, il testo integrale delle Capitolazioni, e neppure relazioni ed altri documenti essenziali, interessanti il presente lavoro. ' - 109 - ordini del Senato, il D’Oria doveva far pagare il 2 per cento sulle merci, lasciando esenti i contanti tranne i luigini, ammessi solo della specie non condannata, che erano sottoposti al dazio dell’l per cento, come quelli che procuravano al mercante forte guadagno. Il console poteva inoltre attenersi, per l’estimo della mercanzia, alla tariffa adottata dal collega inglese, e per la riscossione dei consolati, al manifesto presentato dai capitani, come facevano gli altri ministri, che nel dubbio di qualche frode ricorrevano al confronto con i libri del doganiere — quando questi lo consentiva —, mentre l’inglese richiedeva anche il giuramento dei mercanti, cosa che venne pure comunemente praticata. Gabelle e consolati si esigevano di regola insieme, onde conveniva prendere gli opportuni accordi col doganiere a fine di evitare frodi. Nel luogo di destinazione risultante dal manifesto di bordo e dalle polizze di carico, il negoziante doveva corrispondere il consolato, ritirando apposito certificato, in caso avesse voluto trasferire altrove la mercanzia, perchè non venisse sottoposto a nuovo pagamento. Ciò era bene richiedere anche a Smirne, come avveniva per le dogane, pur essendo gli effetti destinati a Costantinopoli, dove si volessero mandare per via di terra; e ciò per evitare che fossero invece dirottate verso la Persia, franche di porto. Recando però, il mercante, sacchetti di contanti a Smirne, incerto ancora dove e in quale misura impiegarli, sembrava opportuno, circa il consolato (le capitolazioni, vedemmo, riconoscevano il denaro esente da dazio) accettare, se offerto, il pagamento per l’intera somma con rilascio del relativo certificato. In caso diverso, conveniva non obbligare al versamento dell’importo che per una parte, lasciando al trafficante libertà di portare altrove il suo denaro; facilitazioni che sarebbero valse a maggiormente attirare i ricorrenti alla bandiera nazionale. Per le merci turche scambiate fra Costantinopoli e Smirne, come pelli, cere, lane e simili, non si riscuoteva consolato, a meno che non si facessero poi proseguire per la Cristianità; lo stesso doveva farsi per quelle provenienti dall’occidente. Il Governo della Repubblica raccomandava di indurre i mercanti a servirsi delle navi nazionali; ma non era escluso che potessero ricorrere anche a quelle di altra nazione. In tal caso essi dovevano pagare doppio diritto : al console sotto la cui protezione il mercante stesso viveva, ed era detto « bandiera di terra », e al console della nazione a cui apparteneva il vascello, e si denominava « bandiera di mare » ; sicché un genovese che spedisse merci, ad esempio, su una nave inglese, doveva pagare il diritto al proprio console per ragione della « bandiera di terra » e a quello inglese per l’altra bandiera (4). Il Governo nelle sue lettere prescriveva poi ai proprii ministri di « accudire al buon passaggio dei vascelli mercanti » e di vigilare perchè non fossero gravati di «avarie», come talvolta si praticava da qualche nazione (5). Il Durazzo, da canto suo, parlando delle pene per frodi — che consistevano nel doppio del dovuto per i mercanti e in una somma variabile secondo l’entità della contravvenzione per i capitani di navi — consigliava i consoli a comportarsi come i prelati nell’imporre scomuniche, le quali, mi- (4) Lettere Min. Costant., 3/2171, Memor. di G. A. Durazzo per la Giunta del traffico, 1667. (5) Ibid., 5/2173, il Gov. al Fieschi, 4 luglio 1668. — 110 - nacciate, avevano una qualche efficacia, eseguite « senza necessità », diminuivano il proprio valore (6). Altri minori pesi andavano, come accenneremo, a beneficio dei dragomanni; contribuzioni straordinarie venivano poi ripartite fra tutti i mercanti in caso di eventuali avarie, o per coprire le spese necessarie al conseguimento di qualche privilegio o vantaggio a beneficio del commercio. Nei porti turchi le navi cristiane erano soggette a pagare un ancoraggio, ma soltanto per la prima scala di approdo. A una contribuzione erano inoltre tenuti tutti i vascelli, quando il capitan pascià si trovava con l’armata fuori dei Dardanelli, pagandosi per ciascuno leoni 112&, di cui dieci per l’agente esattore e due e mezzo per i suoi uomini. Altre imposizioni infine, sull’esempio dei Francesi, si erano stabilite fin da principio a favore delle Opere Pie in ragione di 12 leoni per vascello. Il solito gravame dei regali non sarebbe stato in Smirne normalmente eccessivo, consistendo, secondo lo stile delle altre nazioni, in poche vesti e in una qualche somma di contanti; ma esso era suscettibile di accrescersi anche sensibilmente in occasione di mutamenti del cadì e di altri ministri, o, peggio, con la venuta del capitan pascià per le esigenze dell’armata, se non addirittura per riscuotere il donativo, dovendoglisi allora due vesti di panno, due di raso o di tabi e due di broccato d’oro o di seta. Altre sette vesti andavano inoltre ai suoi ufficiali; un’altra spettava al prey della galera di Smirne, quando veniva col capitan pascià stesso o da solo, mentre 39 leoni si regalavano agli ufficiali bassi di detto personaggio. Al mantenimento dell’amicizia con i Turchi dovevano accompagnarsi i buoni rapporti coi rappresentanti delle altre nazioni. Tuttavia, di fronte all’ostilità manifestata dal Console francese, non si poteva attendere da lui quelle « dimostrazioni » che erano dovute al nuovo arrivato; e quanto all’olandese, bisognava, sì, procurare di assicurarsi la precedenza, data la superiorità della Repubblica come testa coronata rispetto agli Alti Stati Generali, che potevano pretendere solo il grado ducale; ma piuttosto che provocare contrasti, sarebbe convenuto evitare gli incontri. I Collegi avevano stabilito per il ministro di Smirne un solo dragomanno, ma il Durazzo credette necessario, al miglior andamento del servizio, nominare un primo interprete cristiano, Pantaleo d’Andrea, col salario di 300 leoni annui e un secondo, certo Salomone Abenaser ebreo, con 15 leoni al mese, rilasciando anche una patente di dragomanno ad honorem a un altro ebreo, Abramo Gabbai. Completavano la famiglia due giannizzeri a sette piastre mensili. Emolumenti straordinari a favore di costoro erano costituiti, secondo l’uso comune, da 12 pezze per ogni vascello, due luigini per ogni collo fino appartenente a mercanti nazionali, ed uno per quelli di merce grossa, ripartendosi la somma complessiva per tre quarti agli interpreti e il rimanente ai due giannizzeri. 2. — Le istruzioni consegnate al Durazzo gli davano facoltà di eleggere tre consoli, ma egli ne nominò cinque: il M.co Giorgio d’Andrea, scioto, per Gallipoli; il nobile Demetrio Messerli per Napoli di Romania e scale della Morea; il M.co Ottaviano Giustiniano, gentiluomo genovese, per Scio; il M.co Giovanni Giustiniano per le isole di Nikaria e Paros; il signor Manoli (6) Ibid., 3/2171, Memoria di G. A. Durazzo per 0. D’Oria, 1667. - Ili - armeno per Milo, di cui era nativo. Ma lo stesso Gio Agostino, tornato a Genova, a ermava alla Giunta del traffico che il negozio più importante e utile, tanto per il Pubblico che per i privati, era quello del Cairo e di Alessandria, onde era necessario stabilirvi un console, come pure in Aleppo ed altri luoghi, per i quali aveva, non senza difficoltà, ottenuto i rispettivi recapiti ;7). i consoli spettava una parte dei diritti riscossi, che poteva variare, a secon a dei casi, ma non doveva superare in ogni modo la metà delFimporto. 11 consolato di Smirne, per la particolare importanza della piazza, intreccia e sue vicende direttamente con quelle della residenza di Costantinopoli, co-stituen o esso uno dei due pilastri dell’impresa. Dapprima alle dipendenze del residente, era naturale che aspirasse alla propria autonomia, la quale gli veniva infatti concessa dal Governo in seguito ad una competizione giurisdizionale fra i due ministri. Michel Angelo Peri, mercante lucchese in Smirne che si trovava sotto la protezione della bandiera genovese, aveva definito una certa causa con altro mercante, Origene il Giovane, protetto prima da Genova e poi dal console dUlanda, mediante arbitri eletti da entrambe le parti. Quest’ultimo mercante, mentre in base alla sentenza arbitrale credeva di poter riscuotere una somma dovutagli dal Peri, trovò che questa era stata sequestrata per intervento del consolato inglese a richiesta di terzi. Origene, tentato inutilmente di ottenere 1 annullamento del sequestro, si rivolse alla giustizia turchesca e al residente Fieschi, il quale, considerato che detto sequestro era invalido, perche non concesso dal giudice naturale che era il console genovese, fatto regolare processo, decise il suo annullamento. A ciò era stato anche confortato dal parere privatamente espresso dallo stesso ambasciatore britannico di Costantinopoli, che molto si era meravigliato dell’atto illegale compiuto dal ministro della sua nazione (8). Ma il console Ottavio D’Oria non accettò una tale risoluzione; anzi ingiunse al Peri di non tener conto della sentenza del residente, non avendo questi competenza — diceva — nell’ambito del suo consolato. Peraltro gli stessi inglesi sequestratari, si recarono nella cancelleria del UUria a fine di far ivi rinnovare il sequestro nella forma dovuta. Il fieschi si lagnava perciò per il comportamento del M.co Ottavio, ritenendo che il residente dovesse avere autorità su tutti i mercanti nazionali che dimoravano nell Impero (9). Fra i due ministri ci fu pertanto uno scambio di lettere poco cordiali; il che spiacque al Ser.mo Governo, onde esso venne nella determinazione di conferire a Smirne una piena autonomia, al fine di schivare i litigi ed i conseguenti turbamenti, da cui s’ingenerava danno al traffico. Di ciò venne data ripetuta comunicazione al residente. « Vi diciamo - scrivevano i Collegi— essere nostra risoluta intenzione che la carica della residenza di Costantinopoli, non abbia nè debba bavere sovrintendenza autorità, nè facoltà nè civile, nè criminale, nè d’alcuna altra sorte sopra il’console e consolato di Smirne, mercadanti e vascelli, mercadanzie et o> N. d’Andrea: arrivata il 5 luglio e partita il 4 settembre 1668) e la « . ■ tino» (cap. Pietro Casiscia: arrivata il 9 marzo e partita nell’agosto del 1669). Nel settembre 1671, poi, la « S. Antonio abate » col residente Giustiniano e il (63) Ibid., G. L. Gentile al Gov., Smirne, l.o giugno 1672; Lett. Min. Costant., 3/2171, Fieschi al Gov., 17 giugno 1670; Oriente, 2774/A, Supplica di A. Normington, 5 ottobre 1671. — Lai ra-gione del comportamento del Ravano va cercata nella notizia riferita dal D Oria (13 giugno secondo la quale, giunta la « S. Antonio » a Smirne a in tempo di trattenimento per ordine regi « non essendo 6tato possibile, per ogni diligenza fatta di liberarla, havendo scaricate qui le mer canzie, va procurando carico». (64) Lett. Consoli Turchia, 1/2703, D’Oria al Gov., Smime, 6 agosto, 31 dicembre 1671. Qualche indicazione — anche se non completa — sul movimento commerciale possiamo ricavare, P®*" i primi anni, dai bilanci dei consolati che ci pervennero per le piazze di Smirne e di Costantinopo Si ricordi che l’importo del consolato era del 2 per cento sul valore della merce. Ecco i dati ap prossimalivi in pezzi da otto reali: PORTO DI SMIRNE - Fino a] 24 agosto 1668: consolati complessivi per esportazione ed importazione pezzi 1224. — Consolati riscossi su merci per Smirne: 1668 (settembre-dicembre) pezzi 1067 - 1669 pezzi 376 - 1670 fino al 15 marzo 1671 pezzi 192; — da Smirne: 1668 (settembre-dicembre) pezzi 1241 - 1669 pezzi 636 - 1670 fino al 15 marzo 1671 pezzi 893. PORTO DI COSTANTINOPOLI - Compresi i consolati di merci caricate su navi forestiere, si hanno i seguenti dati: Consolati riscossi su merci per Costantinopoli, 1668 pezzi 1098 - 1669 pezzi 359 — da Costantinopoli: 1668 pezzi 927, 1669 pezzi 448. E’ da notarsi che l’introito di entrata in oriente era nettamente inferiore a quello di uscita, dato che fino al 1669 i vascelli portavano specialmente le piccole monete che pagavano il dazio in Genova. - 129 - suo carico di merci giungeva da Smirne a Costantinopoli, dove, anche dopo la morte del M.co Pompeo, si tratteneva a lungo non per altra ragione che per imbarcare mercanzie, tornando a Smirne soltanto il 19 gennaio 1672 e ripartendo poi per Genova nel marzo successivo. La partenza della S. Antonio diede luogo ad una piccola divergenza con i ministri turchi, che confermava il loro ben noto carattere di esosità. La nave, portando il residente, non era obbligata al pagamento dell’ancoraggio a Smirne; infatti quando era passata da questa scala diretta a Costantinopoli, si erano spesi soltanto due pezzi e mezzo per lo scrivano, che aveva preparato la licenza da esibire al « castellano di fuori », all’uscita dal porto. Ora, al ritorno a Smirne, essendo morto il Giustiniano, si pretendeva invece detto ancoraggio. Il Gentile, con due vesti di tabi mandate al cadì in segno non di pagamento, che non si voleva riconoscere, ma di semplice cortesia, ottenne una dichiarazione scritta di esenzione da tale gravezza per il presente viaggio della nave, dietro il solo compenso di 8 pezzi e mezzo per lo scrivano. Ma quando la nave fu per uscire dal porto, il castellano non volle riconoscere la dichiarazione del cadì, pretendendo l’ancoragggio, che riuscì al Gentile di far ridurre almeno a metà (65). I mercanti genovesi continuavano, s’intende, in difetto di navi nazionali, a servirsi di quelle forestiere. Agostino Peri e Michelangelo Pieri residenti a Smime sotto la bandiera della Repubblica, noleggiavano una nave inglese denominata « Mercante d’Amburgo » (cap. Fr. Eldret), la quale partì da quel porto il 9 dicembre 1671 per Messina, Livorno e Genova. Senonchè il console Gentile, insospettito perchè essi avessero caricato su una nave appositamente noleggiata così poca merce quale appariva dal manifesto presentato con giuramento, fece ricerche presso il consolato inglese e potè venire così a conoscenza che una buona quantità di mercanzie spedite da Agostino Peri a Giuseppe Molinari non erano state denunciate per un importo pari a leoni 182 di consolati. Il Gentile provvide sùbito ad eseguire un sequestro equivalente a detta somma in mano di Carlo Massa debitore del Peri; e poiché questi col Molinari s’era imbarcato per Genova, raccomandava ai Ser.mi Signori di far riscuotere direttamente da loro i 182 leoni, dato che era incerto il poter rivalersi sul Massa, pochi essendo in quel tempo i suoi negozi (66). 5. — La piazza delle Smirne attraversa ora effettivamente un periodo di grave crisi specialmente per la grande scarsezza del danaro. Ne scriveva ripetutamente il M.co Gio Luigi Gentile al Governo fra il dicembre 1671 e il luglio del 1672. Giunta del traffico e Governo gli avevano raccomandato di dar impulso all’introduzione dei panni della nuova fabbrica di Genova, e a tal uopo egli ne aveva recato con se una mostra. Ora il console informava, nel dicembre, di trovare in ciò qualche difficoltà, in quanto che le « londrine » e le « londre » portate dai vascelli inglesi e olandesi, per essere più sottili e leggere dei panni di Genova, venivano vendute a quasi metà del prezzo di questi, e ciò anche perchè, a quello che gli era riferito, veniva in esse mescolato del cotone; comunque, pur essendo di poca durata, i Turchi ugualmente le preferivano. Quando poi a Genova se ne fossero fabbricati di uguale leggerezza — suggeriva il Gentile — « essendo più graditi, sarebbe il smaltimento per qual si (65) Ibid., Gentile al Gov., Smirne, 6 mario 1672. (66) Ibid. e 130 - voglia somma. Vi saria ancora il smaltimento dei tabini larghi rigati bordatti e rasati, rasi con acqua e senza, tele d’oro e d’argento leggiere con fiorami colori fini e allegri ». Ma soprattutto, aggiungeva, occorre che W. SS. Ser.me fondino qui case di mercanti dabbene, che negozino con rettitudine, facendo acquistare buon nome e credito alla nazione. « non mancando molte mercanzie da comprarsi e barattarsi ». Accennava quindi alla possibiltà di convoglio di navi, idea sulla quale insisterà più volte nei dispacci successivi, e che intanto veniva rincalzata dalla notizia della guerra mossa da Francia e Inghilterra agli Stati Generali (guerra d’Olanda). Si sarebbe dovuto inviare — a suo parere — un vascello da guerra con due navi di mercanzia in forma di convoglio, che toccassero Livorno e Messina, tanto di andata come di ritorno, « per il molto negozio tengono in queste piazze le nazioni armena et ebrea, che sono quelle che danno il carico ordinariamente a convoij ». Essenziale era però che le navi portassero qualche fondo di contanti, di cui la piazza era « scarsissima », per darli a prestito, secondo il sistema dei cambi marittimi, a mercanti armeni ed ebrei con ipoteca sulle loro merci destinate a piazze diverse. Anche il pericolo dei pirati barbareschi pareva ora assai scemato, essendosi le navi tripoline ritirate in porto, a quanto si diceva, per paura dei vascelli francesi (67). E pochi giorni dopo il console scriveva ancora al Governo Ser.mo informando che gli stessi mercanti armeni ed ebrei gli avevano fatta istanza per la missione di qualche convoglio, promettendo di caricare le navi di molte merci, se forniti a cambio del necessario. Confermando poi nel dispaccio successivo tale istanza e i bisogni di quella piazza, aggiungeva che due navi inglesi, per essere completamente stivate di mercanzie, avevano dovuto rifiutare carico di seta, mentre ancora il giorno precedente 650 balle ne erano arrivate con una nuova carovana (68). Ora, proprio nei giorni stessi in cui si delineavano tali possibilità di traffico e promettenti affari, e quando già, come vedemmo, la Repubblica aveva eletto (9 giugno 1672) il M.co Giovanni Durazzo come nuovo residente da inviare in levante con buona scorta di navi, scoppiava improvvisamente la guerra col Duca di Savoia, che arrestava i provvedimenti in corso. Tuttavia il 20 luglio 1672, a guerra già iniziata, i Collegi ordinavano alla Giunta del Traffico di prendere in esame i suggerimenti del console Gentile intorno al convoglio di oriente, partecipando le notizie ricevute ai mercanti, sulle cui disposizioni a indirizzare i propri negozi verso quelle regioni, stimava appunto la stessa Giunta che si dovesse ben indagare prima di passare a particolari decisioni. Ma ogni deliberazione fu impedita dagli sfavorevoli avvenimenti interni ed esterni, mentre sempre più torbida si faceva la situazione del Mediterraneo, specie per opera dei Francesi. Significativo è quanto accadde nell’agosto del 1672 al vascello Madonna di Montenero, comandato dal cap. Paolo Agostini, corso. Lo scrivano della nave, lasciata questa nelle acque di Scio, se n’era andato a Smirne, dove per primo portava la nuova del conflitto fra Genova e Savoia. 11 capitano l’aveva mandato a Bonaventura Ambrosi, mercante fiorentino sotto la bandiera d’Olanda, cui detto vascello veniva raccomandato da Livorno, ricevendone ordine, « per schivare tutti gli inconvenienti », che la nave entrasse con bandiera di Venezia. Il Gentile, informato di ciò, si lagnò con lui per tale disposizione, dal momento che si trattava di (67) Ibid., Gentile al Gov., Smirne 7 dicembre 1671, l.o giugno 1672. (68) Ibid., Gentile al Gov., Smirne, 20 luglio 1672. 131 capitano e in gran parte di marinai genovesi, e che la partenza da Livorno era avvenuta, a quanto pareva, con bandiera pure genovese. L’Ambrosi si giustificò accampando « le novità apprese » che a ciò l’obbligavano, e il console ribatteva essere egli sempre padrone dei suoi nazionali, che avrebbe potuto prendere ovunque fossero. Salpavano intanto dal castello verso Scio sei vascelli da guerra francesi comandati dal signor d’Aimeras. Il cap. Agostini come li vide, fece vela verso di essi dallo scoglio dove aveva gettato l’ancora, circa dieci miglia lontano dalla città; e ciò contro l’avviso datogli dallo stesso Gentile per mezzo del console di Scio, Ottaviano Giustiniano, di entrare in quel porto con bandiera genovese. Questa stessa inalberava — dissero — muovendo verso i vascelli del Cristianissimo; ma il comandante francese, col pretesto che detta nave aveva, oltre al còrso, un altro capitano finto di nazione francese, e che si trovavano su di essa quattro bandiere (genovese, francese, toscana e fiamminga) nonché molte merci di olandesi, diede ordine di porre il sigillo regio al sacco delle lettere e al boccaporto, costringendo la nave stessa a seguirne la sua squadra per condurla in Tolone (69). Il ricordo di questo trattamento dei francesi al vascello genovese, era sempre vivo parecchi mesi dopo, quando la nave Arca di Noè (cap. Michelangelo Rosso) con stendardo della Repubblica, ultimata la sua stallia a Smirne, si accingeva a ritornarsene a Genova con pochissimo carico, per non aver osato le nazioni forestiere di affidare ad essa le proprie mercanzie, dati i disordini della guerra e la mala sorte recentemente toccata alla Madonna di Montenero (70). Ma ostacolo al traffico era pure la mancata sicurezza dei mari per le continue piraterie dei Barbareschi. La questione si era affacciata fin da principio come essenziale al libero corso della navigazione. Gio Agostino Durazzo, durante la sua ambasceria, aveva fatta istanza al Gran Signore, perchè venissero informati i Reggenti di Tripoli, Tunisi ed Algeri della amicizia rinnovata fra la Repubblica e l’impero ottomano, dando le disposizioni relative allo stabilimento dei rapporti pacifici. Il primo visir ebbe ordine di scrivere a quei governi e ai pascià che colà risiedevano, perchè la nazione genovese non fosse molestata nè in mare nè in terra, facendo pure confermare il comandamento dal chiaus appositamente inviato. Si era pertanto saputo che in quei luoghi si attendeva persona destinata dalla Repubblica a trattare l’osservanza e il mantenimento dei privilegi conseguiti, così come avevano fatto prima gli Inglesi e Olandesi e più recentemente i Francesi ed i Veneziani. L’intesa avrebbe potuto riguardare tre punti: l’istituzione di consolati genovesi per l’avviamento del traffico con bandiera della repubblica, e questo era il più sicuro a stipularsi, essendo assai gradito a quelle genti; lo scambio e il riscatto degli schiavi, accordi che più difficilmente si sarebbero potuti definire, non avendo del resto la cosa carattere di urgenza e di necessità; la « buona corrispondenza per mare » fra le parti, prospettandosi in proposito una diversità di situazioni. Con gli Algerini che, possedendo dai quaranta ai cinquanta vascelli corsari, malvolentieri si adattavano a rinunciare alle grosse prede delle navi genovesi, non era agevole venire ad un’intesa efficace, richiedendosi comunque lunghi negoziati e non piccoli donativi. Le altre due potenze barbaresche avevano invece soltanto dai 6ei agli otto (69) Ibid., Gentile al Gov., Smirne, 24 agosto 1672. (70) Ibid., Gentile al Gov., Smirne, 6 febbraio 1672. - 132 - vascelli ciascuna e di armamento pubblico, mentre, d’altro lato, si attendevano di poter ricavare non pochi vantaggi dal commercio con la Repubblica, la quale acquistava a Tripoli merci del luogo e particolarmente il sale, e da lu-nisi traeva notevole quantità di grano. Per questo, nel 1668 Gio Agostino Durazzo suggeriva di intavolare intanto trattive con Tunisi per mezzo di Mi-chelangelo Rosso che doveva recarsi colà appunto per caricare grani. La questione si era rinnovata più vivamente dopo la brutta avventura della barca di S. Remo già ricordata. Il 2 ottobre 1668 il Governo, scrivendo per tale fatto a Sinibaldo Fieschi e ad Ottavio D Oria, con 1 ordine al residente d’inoltrare istanze alla Porta per il rispetto dei privilegi concessi, si comunicava, per loro notizia, che l’ambasciatore Durazzo aveva portato, di ritorno da Costantinopoli, « ordini precisi del Gran Signore diretti ai Deputati di Tunisi, Tripoli et Algeri », perchè detti popoli dovessero « passare buona corrispondenza » con i sudditi della Repubblica, aggiungendo che era stato ora deliberato di introdurre «quanto prima» negoziati al riguardo. Pochi giorni dopo (9 ottobre 1668) un « ricordo » del Minor Consiglio ai Collegi ammoniva : « Il negotio del levante frutta et è bene incamminato >> ; bisogna quindi «procurare ogni vantaggio. Gioverebbe assai se nostrali che vi trafficano » procurassero la tregua con i Tripolini e gli Algerini «eziandio a forza di regali com’hanno fatto altri principi ». E il 7 novembre a lunta del traffico unitamente a Gio Agostino Durazzo erano sollecitati dai Collegi a studiare i mezzi per conseguire pace o tregua con i Tripolini, Algerini, lu- nisini e « con altri stati d’infedeli » (71). _ . , In realtà cotesti negoziati non poterono mai dare positivi e duraturi irutti, pur essendo sempre presente l’esigenza di una loro conclusione. Pertanto, mancando un esplicito trattato di pace, gli attacchi e le depredazioni conti o e navi genovesi da parte dei Barbareschi continuarono sempre. JNel 1675-.4 il Mediterraneo era più che mai infestato. A Smirne si affermava persino con si curezza che quattro galee di Tunisi dovessero unirsi ad altre otto per corseg giare nelle parti del mar ligure. Una nave genovese, 1 « Arca di i oè >> sotto 1 comando di Michelangelo Rosso, si era trattenuto in quel porto dell Anatolia per timore di due poderosi vascelli di Tripoli, che avevano la loro base nella cala di Focea presso le bocche di quel canale. Ma infine il capitano si era deciso a partire unitamente a tre navi francesi che dovevano far ve la^ per talia. Lasciata Smirne il 10 febbraio 1673, non era ancora uscito fuori dal castello, quando gli giunse un corriere espresso inviatogli a cavallo dal Gentile per comunicargli notizie poco rassicuranti. Il console Giustiniano di Scio a-veva riferito che un vascello francese, portante bandiera di Gerusalemme, essendo stato scambiato, dallo stendardo, per genovese, si era visto preso e saccheggiato presso Milo da quattro navi di Algeri, che però lo restituirono poco dopo in libertà con tutta la sua roba, appena riconosciuto Terrore. Anche un legno armato veneziano era stato preso dagli stessi algerini sopra capo Matapan dopo aspro combattimento. Questa squadra di Algerini, per ordine del gran visir, doveva congiungersi con quelle di Tripoli e Tunisi per sgombrare l’arcipelago dai corsari cristiani (72). Tuttavia la nave genovese, pure (71) Lett. Min. Costant., 3/2171, Notizie fomite da G. A. Durazzo e deliberazioni dei Collegi, ottobre 1668; 5/2173, il Gov. a Fieschi (Costant.) e D’Oria (Smime), 2 ottobre 1668. (72) Lett. Consoli Turchia, 1/2703, Gentile al Gov., Smirne, 6 e 11 febbraio 1673. — I Lomel-lini di Tabarca avevano ottenuto dal Divano di Tunisi il 7 agosto 1652 ampio privilegio commerciale dall’isola a Biserta, con esclusione di tutte le altre nazioni. Ma il 25 novembre 1665 venne stipulato un trattato di pace franco-tunisino, a cui seguì una convenzione (2 agosto 1666) che ac- - 133 - in mezzo a tanti pericoli, riuscì poi a salvarsi. Tale era l’oscura situazione, mentre a Genova, finita la guerra col duca di Savoia, il Governo riprendeva la pratica per l’invio del nuovo residente Giovanni Durazzo. Fin dal febbraio 1673 si era sparsa a Smime la voce dell’arrivo di un convoglio genovese e il Gentile se ne rallegrava, avvertendo che molte merci di Olandesi si trovavano colà destinate ai porti italiani, mentre in generale vi era ordine di caricare mercanzie soltanto su navi in convoglio, poche volendosene imbarcare su quelle « zenziglie » (73). Pericolose erano infatti le tre squadre barbaresche che, secondo l’ordine del gran visir dovevano purgare quei mari dai corsari di cristianità. Esse, unitesi, per vero con molta lentezza, si erano ripartite i compiti, appostandosi aHè crociere della Sapienza, nell’interno dell’Arcipelago e lungo il mare della Siria. Nel giugno 1674 sedici di queste navi di Tripoli e Tunisi si trovavano a Scio, ponendo a grave rischio i vascelli che venivano al porto di Smirne o ne uscivano. Ad esse si erano pure unite dodici galere giunte da Costantinopoli, da dove altre otto erano passate in Alessandria. Contro forze così ingenti di vascelli e galere si erano collegati circa ventotto corsari cristiani, che continuavano, da canto loro, a predare e ad esigere le contribuzioni dalle isole e da luoghi di terraferma, senza che nè gli uni nè gli altri mostrassero vera intenzione di azzuffarsi per schivare il pericolo (74). E cotesti Barbareschi non erano molesti ai soli corsari cristiani e neppure soltanto sul mare. Quando una delle sei navi algerine stabilitesi a Scio si recò nel porto di Smirne, la sua gente, scesa a terra, si abbandonò a così violenti soprasi contro Turchi e Franchi, che il console del Cristianissimo decise di munire la sua casa con petrieri tolti ad ima nave di sua nazione, mentre tutti ricevettero insulti, tranne il Gentile. I consoli chiesero allora al cadì della città assistenza o facoltà di difendersi; ma questi rispondeva che non gli era possibile di proteggerli « e che facessero alla meglio ». Qualche cordava alla concessione francese di Capo Negro i vantaggi già goduti dai Genovesi. Tuttavia nel novembre 1672 troviamo Ottavio D’Oria governatore della fattoria e piazza di Capo Negro, per la quale si era costituita a Genova una Compagnia di negozio. Agente ne era il mercante Fr. M. Borgo, sulla cui barca « Nostra Signora del buon viaggio » i nobili Giorgio Spinola e Pietro M. Gentile inviavano, in detto mese, 1800 piastre da consegnare al governatore. Nel 1677, morto il M.co Ottavio, era governatore del Capo Negro il figlio Gio Stefano, che certo ricopriva tale carica ancora nell’ottobre 1678. (Si osserva che questi anni (1672-78) corrispondono al periodo della guerra d’Olanda in cui era fortemente impegnata la Francia). Interessati in quest’affare dovevano essere quegli stessi Vincenzo e Francesco Spinola che figurano nell’impresa di Costantinopoli. Essi infatti, nel gennaio del 1680, quando la fattoria di Capo Negro risulta sciolta, su ordine pare del Magistrato genovese per il riscatto degli schiavi, dispongono perchè vengano pagate pezze 1672 in contanti per liberare dai creditori G. Stefano D’Oria, che s’impegna a restituire agli Spinola detta somma più 64 pezzi occorrenti per il viaggio, venti giorni dopo il suo arrivo in cristianità. Fra i creditori vi erano « il caid Morat, kahia de Alli bey, Lorenzo Raphaeli de Bastia, écrivain du Dey, Francesco di Marti, corse, écrivain du Pacha, Amour de Constantin, baloucbachi, et tous les «zoauy» du poste du C. Nègre». Anche il console della Repubblica a Tunisi, Pietro de Santis, eletto il 20 luglio 1675, aveva cessalo dalle sue funzioni come appare da un atto del 24 genn. 1680, in cui lo stesso D’Oria con un altro genovese, Guilio Marini, a richiesta dell’« ex-console », fanno ricerche intorno al riscatto di certo còrso, avvenuto per mediazione del De Santis nel 1673. (Piehrk Gràndchamp, La France en Tunisie au XVII siècle, vol. VII, 1929). (73) « Zenzili » o « sensili » erano propriamente le navi d’una squadra che non fossero la « capitana » (l.a) o la « padrona » (2.a). (74) Lett. Consoli Turchia, 1/2703, Gentile al Governo, Smirne, 4 marzo, 11 giugno, 2 loglio 1674. mese dopo, oltre 250 Tripolini, venuti essi pure a terra su caichi, procurarono ancora a tutti altre molestie (75). Ma frattanto anche le condizioni del mercato si facevano a Smirne sempre più difficili e ciò soprattutto per la grande scarsezza del denaro che durava ormai da troppo tempo. Non vi sussisteva che qualche smercio in baratto di londrine e londre, costituendo queste il tessuto di cui si vestivano ordinariamente quelle popolazioni, mentre dei panni di seta non vi era richiesta, essendo specie i « tabili » anche a bassissimo prezzo. Ma il M.co Gio Luigi Gentile concludeva, a suo conforto, che « tutti speravano però non dovesse continuare in questa maniera » ; e fu ben lieto di accogliere sotto la bandiera genovese certi Samuel Rodriguez Rapos e David Alias, due Ebrei che erano giunti a Smirne con lettere della Repubblica e ordine di proteggerli (76). Nell’attesa di tempi migliori, egli intanto, per il buon andamento del negozio, richiamava l’attenzione del Governo su di ima questione ritenuta da lui essenziale. Come ministro era tenuto ad osservare scrupolosamente la vecchia tariffa ancora in vigore e non rispondente più al prezzo corrente delle merci, che era la metà di quello di altri tempi. I consoli delle altre nazioni riscuotevano in base agli estimi aggiornati, riducendo pure il consolato dal 2 per cento all’l e mezzo, all’l e persino al mezzo per cento secondo le persone, al fine di attirare mercanti e navi sotto la loro bandiera. Anche per questo 1’« Arca di Noè », nel febbraio 1673, se n’era partita da Smirne con un terzo del carico, avendo i mercanti, specie armeni ed ebrei, preferito le navi francesi, oltre che per la maggior sicurezza, anche per la minore spesa. Infine per evitare le frodi, il Gentile chiedeva provvedimenti sull esempio di quanto praticava il console inglese; il quale, oltre al giuramento richiesto a capitani e scrivani delle navi nazionali sulla veridicità del « manifesto » così di venuta come di uscita, procedeva al sequestro delle merci di cui fosse frodato il diritto consolare, dandone una terza parte all accusatore, un’altra alla Compagnia e tenendo la rimanente per sè. Quanto poi alle mercanzie genovesi che arrivavano con vascelli di diversa bandiera, il Gentile osservava cbe nulla gli era possibile controllare, perchè i negozianti le facevano portare in case di persone amiche, nè egli nessun riscontro poteva ottenere, sulle merci in arrivo, dagli altri consoli o, peggio ancora, dal doganiere. Il giuramento non per tutti aveva efficacia, mentre assai più ne avrebbe conseguita una qualche pena pecuniaria,, fissata alla forma di quella applicata dagli inglesi, chè, col vantaggio, non sarebbero mancate le denunzie. Per i consolati proponeva inoltre che si concedessero agevolazioni ai capitani e a passeggeri e mercanti forestieri per allettarli a caricare sulle navi genovesi (75). Non erano mancate, dunque, con non lievi manchevolezze, buone intenzioni, assidue cure, ed anche possibilità d’incremento del traffico. Ma, mentre ogni sforzo andava a cozzare, come vedemmo, contro difficoltà e opposizioni esterne di varia natura, esso incontrava pure perniciose resistenze e deviazioni nella stessa organizzazione dell’impresa. Di questa, vediamo ora quali furono le interne vicende dopo il 1673. (75) Ibid., Gentile al Gov., Smime, 24 gennaio, 11 maggio 1674. (76) Ibid., Gentile al Gov., Smime, 6, 11 febbraio, 2 settembre 1673. (77) Ibid., Gentile al Gov., 6 febbraio 1673, 12 giugno 1674. CAPITOLO V I I TENTATIVI DI RISANAMENTO - IL SISTEMA DELL'APPALTO 1. - Mancate missioni di Giovanni Durazzo e G. Luigi Gentile - Vincenzo Spinola e l'appalto dei consolati. — 2. - Malefatte del Fiesco a Smirne ed elezione del residente Agostino Spinola. — 3. - Nuove calunnie sventate - La moneta del 1676-77. I — Durante la guerra del 1672 il pensiero del levante era rimasto sempre presente al Governo ed ai privati. Pertanto, non appena fu possibile, si riprese fra il marzo e il luglio 1673, l’esame dei provvedimenti per la spedizione del residente Giovanni Durazzo. Ma la situazione era mutata. Il Cristianissimo aveva, sì, bandita la revoca delle rappresaglie, ma nessuno si fidava della nazione francese. Questa era andata preparando negli ultimi anni un miglioramento della sua posizione in oriente. Dopo la prima esplosione d’ira dei ministri del Re Sole e dopo tutto il frastuono fatto alla Porta dal De La Haye contro i Genovesi, sembrava, secondo si esprimeva un autorevole patrizio nel 1669, che la Francia si andasse «achetando alla ragione». Era un’illusione. In questo stesso anno il piccolo corpo di spedizione del marchese di Noailles e del duca di Beaufort faceva la sua effimera comparsa a Candia, ritirandosi poi con mossa inesplicabile. Fra il 1671 e il 1673 corrono tra Francia e Turchia rapporti incerti e un po’ duri; a Costantinopoli la colonia francese pare sempre in procinto di partirsene; ma nello stesso tempo si andavano patteggiando gli accordi, che porteranno a nuove concessioni, anche se la Porta respingerà nettamente, fra le richieste francesi, quella riguardante l’espulsione dei Genovesi. II 5 giugno 1673 l’ambasciatore di Luigi XIV, marchese di Nointel, otteneva le nuove capitolazioni contenenti più larghi privilegi, fra cui la riduzione del dazio dal 5 per cento a quel 3 per cento di cui già godeva Genova fin da principio. Il rafforzamento della posizione in oriente rendeva la Francia più temibile e risoluta. Proprio pochi giorni dopo la firma dell’accordo con la Turchia, accadeva un fatto che impressionava vivamente la Repubblica. Il mattino del 12 giugno 1673, una squadra di dieci galee francesi predava, sotto il cannone della città, una nave inglese mentre stava per entrare nel porto. Era stato impartito ordine di difendere il vascello con le artiglierie; ma non essendosi potuto impedire la preda, veniva ordinato agli Ecc.mi di Palazzo di chiamare il console britannico per sollecitare la sua cooperazione a fine di ottenere la restituzione della nave, in modo che « non restasse impedito il traffico di sua nazione ». — 136 - Si tenne anche consulta sul grave incidente e una relazione presentò al doge il M.co Gio. Stefano D’Oria, figlio di Ottavio, su quanto era venuto in proposito a sua conoscenza. Quella stessa mattina, essendosi recato su di una nave inglese proveniente da capo Negro- per avere notizie del padre ivi dimorante, vi aveva trovato il signor Oberto Vich, che gli narrò che la nave era stata trattenuta dallo stuolo di Francia, « pretendendo essere il carico di essa dei Genovesi ». Il Vich ottenne però che venisse rilasciata, dietro dichiarazione scritta che detto carico era suo e con obbligazione di restituire le merci o l’equivalente valore, ove in seguito ciò non fosse risultato vero. Richiesto dal D’Oria se vi fossero ordini precisi del Cristianissimo « d’impedire il traffico dei Genovesi », il Vich aveva risposto che gli era stato riferito come le navi francesi avessero ordine di recarsi sotto il tiro del cannone di Genova per farvi « tutte quelle prese che le riuscissero, e se Genova le sparasse », ritornassero a darne ragguaglio. Quindi, unitesi con altro stuolo di galee, dovevano aprire le lettere del re che tenevano presso di sè, per eseguire esattamente quanto era in esse contenuto (1). Si comprende quindi come la Giunta del traffico potesse osservare che nessuno, in momenti così gravi ed oscuri, osava discostarsi dalla patria. Di conseguenza, quei M.ci cittadini che già avevano preparato grossi fondi di mercanzie col proposito di stabilire in oriente case di negozio — vero fondamento di un vigoroso fiorire di quel traffico — dubbiosi sulla piega che fossero per prendere i rapporti con la Francia, preferivano lasciare inoperoso il capitale impiegato nell’acquisto di tante merci piuttosto che avventurarsi verso danni maggiori. Altrettanto accadeva ai mercanti, ossia ai produttori quali i Fantini e compagni, che avevano febbrilmente fabbricato gran quantità di panni da mandare in levante, ed ora erano costretti a rinunciare al loro invio e a rallentare la lavorazione. I capitani di vascelli erano poi essi pure timorosi di esporsi alle depredazioni delle navi francesi, per modo che il nolo per il trasferimento del Durazzo a Costantinopoli, già concertato a cinque in sei mila pezzi, era al presente salito a quattordici e quindici mila. Screditati erano infine i vascelli olandesi, dopo gli insuccessi subiti nella guerra con la Francia e non vi era chi volesse noleggiarli, mentre anche quelli inglesi, sebbene amici di Francia, erano « in disdoro presso la nazione per l’esempio seguito al cospetto del mondo i giorni a dietro sotto queste mura », alludendosi evidentemente con ciò al fatto sopra esposto. In tali condizioni, il l.o settembre 1673 la Giunta stessa considerava l’opportunità di ritardare per alcuni mesi la missione, fino a che non si fossero chiariti i rapporti con la Maestà Cristianissima, così per la sicurezza del viaggio come per il pericolo di ridestare le vecchie opposizioni della Francia al commercio orientale dei Genovesi, in un momento assai critico per questi, dato lo scredito della loro rappresentanza a Costantinopoli e l’attuale quasi completo abbandono del negozio: cosa particolarmente deprecata dai Turchi a causa dei mancati introiti delle dogane. D’altra parte era urgente, per sollevare quell’impresa che già era costata oltre 114 mila pezzi all’erario, togliere « l’assurdo » della persistente dimora (1) Secretorum, filza 31/1586, Pratica della preda fatta di tina nave inglese da dieci galee di Francia «otto il cannone, giugno 1673. • Come vedemmo (cap. VI, nota 72), Ottavio D’Oria, partito da Smirne nel marzo 1672, troviamo già nel novembre dello stesso anno governatore della piazza di Capo Negro (Tunisia), dove gli successe, alla sua morte, il figlio Gio Stefano. Ottavio D’Oria era pure stato nel 1644 governatore di Tabarca per i Lomellini. (Oriente, 2774/C). - 137 - del M.co Sinibaldo a Costantinopoli, dove egli poteva contare sull’appoggio della Porta, la cui avidità aveva solleticata con i donativi. Si proponeva quindi che, nell’attesa d’inviare il nuovo residente, si intavolassero trattative in Genova col suo procuratore e parente, il M.co Gerolamo Fieschi, a fine di indurlo alla liquidazione dei suoi debiti mediante una somma « ragionevole », con l’ammonimento che non si sarebbero bonificate le spese o i pretesi emolumenti posteriori all’arrivo di Pompeo Giustiniano. Cogliendo poi un’idea dei Ser.mi Collegi, la Giunta del traffico completava il suo piano suggerendo di far passare contemporaneamente da Smirne a Costantinopoli il console Gentile, conosciuto come «persona destra e d’integrità », perchè coadiuvasse nell’opera di persuasione presso il Fieschi, al quale si doveva insinuare che non si voleva nè il suo disonore nè il suo danno, ma che a lui conveniva aggiustarsi col Governo riguardo i debiti e tornarsene alla patria, per evitare, in caso contrario, irrimediabile rovina. La forzata sospensione dell’invio di navi in oriente, per cui i Collegi avevano già « scusato » ossia dispensato Giovanni Durazzo dal suo incarico e disposto di fare intendere ai Mortola e Fantini che si sarebbero permesse, in questi frangenti, spedizioni di loro panni anche con bandiera inglese e olandese, li portò pure ad accogliere volentieri la proposta della Giunta circa la questione essenziale del Fieschi. Fu dato così ordine di preparare credenziali e istruzioni per il Gentile, provvedendo anche a fare assicurare la somma di 15 mila pezzi, già da tempo deliberati per il pagamento dei debiti del residente, e che dovevano spedirsi sulla nave inglese « Centurione » prossimamente in partenza da Genova con l’ambasciatore di quella nazione destinato alla Porta (2). Si scrisse quindi (26 settembre 1673) al Gentile con l’ordine di trasferirsi immediatamente a Costantinopoli, per la pratica del Fieschi, lasciando qualche sostituto « prò interim » a Smirne, e gli si comunicò pure che una negoziazione per mezzo del M.co Gerolamo si era intavolata in Genova. Con la nave inglese gli si spedirono poi 18 mila pezzi da otto reali sotto il nome dei signori Pier Maria e G. B. Gentile ed alcune scritture, affidate al padre francescano Ferdinando Galli, Provinciale d’oriente, e cioè tre lettere credenziali quale residente alla Porta, dirette al Gran Signore, al primo visir e al caimacan di Costantinopoli, nonché due istruzioni, una generale e l’altra segreta. Il 14 novembre 1673 gli si confermava la spedizione fatta con la nave dell’ambasciatore Finch, incaricandolo inoltre di reintegrare nella sua carica, se riconosciuto meritevole, il console di Gallipoli, Giorgio d’Andrea, che era stato deposto dal Fieschi quando più non era residente, e ciò dietro supplica dell’interessato (3). Nell’istruzione segreta, rifatta la storia dei precedenti del Fieschi fino all’invio del Giustiniano, si esprimeva la premura urgente della Repubblica di estirparlo da Costantinopoli. A tal fine gli si prospettavano la situazione presente e il compito a lui affidato. Morto il M.co Pompeo, il Fieschi aveva rinnovato l’istanza relativa all’aggiustamento dei suoi debiti, affermando che una buona parte di essi dovevano ancora essere soddisfatti e denunciando, soltanto due mesi dopo, un prestito (2) Giunta del Traffico, 1/1015, Relazioni 23 marzo, l.o settembre, 16 settembre 1673. (3) Lett. Min. Costant., 4/2172, Supplica di Giorgio d’Andrea, 23 marzo 1673; 5/217S, il Gov. a G. L. Gentile, console di Smirne, 26 settembre, 8 ottobre, 14 novembre 1673; Giunta del traffico, Deliberazione 14 novembre 1673. - 138 - di 16 mila pezzi all’interesse del 10 per cento, fattogli da mercanti olandesi il 3 ottobre 1671, ossia due giorni prima che il Giustiniano versasse a saldo 1 pezzi 9570. Ora, per varie considerazioni si riteneva tale debito non sussistente, almeno in parte. Sembrava strano che mercanti olandesi, a lui, in procinto di partire e in fama ormai di essere uomo di scarsi mezzi, avessero dato a credito somma così cospicua. Inoltre, mentre il 27 settembre egli aveva ì-chiarato ammontare il suo debito a circa 20 mila pezzi, essendone^ stata so -disfatta, il 5 ottobre, la metà anche con la vendita dei suoi argenti e cava , come poteva rimanerne ancora ima parte tanto superiore ai 10 mila. E ancora: l’istrumento del mutuo parlava di restituzione a dieci mesi da effettuarsi prima della sua partenza, mentre notoriamente egli era prossimo a salpare per Genova. Poco verosimile poi appariva che proprio allora il frutto fosse fissato al 10 %, in condizioni di minor sicurezza, quali erano quelle di un debitore in partenza, se era vero che, come asseriva, non fosse possibile ottenersi denaro a meno del 20 %. - Non ostante tali considerazioni, poiché si voleva non il disonore e il danno del Fieschi ma soltanto salvare il traffico dalla rovina, appena giunto^ a Costantinopoli, il Gentile doveva tentare di svolgere come privato la sua^ missione nel senso a noi già noto. Non riuscendo in tal modo, vestisse la ngura di pubblico ministro, presentando le credenziali inviate. Assunte intanto tutte le informazioni possibili sull’entità e la qualità dei debiti dichiarati, doveva procurare il saldo di quella parte di essi che risultasse reale e contratta per ragione della carica, con l’avvertenza però di versare il denaro soltanto m mano dei creditori e per atto di notaio, convenendo che ciò avvenisse non prima che il Fieschi avesse ottenuto la licenza dalla corte e fosse effettivamente partito dalla città; al qual fine era anche autorizzato a concedergli, se necessario, 500 pezzi per le spese del viaggio. Si avvertiva il Gentile che col vascello inglese gli si inviavano 18 m a pezzi, con due casse di panni, e gli si precisava ancora che, se i ministri turchi si fossero opposti alla partenza del M.co Sinibaldo per timore di perdere i consueti regali, dovesse o cercare di sostituirlo con qualche persona in qualità di segretario o rimanere egli stesso come console sempre con impegno verso i Turchi di corrispondere i predetti regali. Soltanto non riuscendo a conseguire una tale soluzione, avrebbe dovuto assumere veste di residente (4). Nell’istruzione generale gli si assegnava per tale ufficio pezzi sei mila annui per tutte le spese ordinarie e straordinarie, esclusi i regali. Oltre alle norme comuni alle istruzioni dei precedenti ministri, si aggiungevano in particolare al Gentile informazioni sulla recente dimora dell’ambasciatore inglese cav. Giovanni Finch in Genova, non già perchè ne dovesse egli trattare, ma per ogni eventuale occasione di discorso. Tre erano stati i punti oggetto di lagnanze e di negoziato: interessava direttamente l’oriente quello che riguardava la famigerata questione dei falsi luigini per il danno che aveva arrecato al commercio britannico, come altrove spiegammo. Su tale punto il Governo aveva dato i chiarimenti opportuni per mettere in evidenza il retto suo comportamento e la sua innocenza di fronte a fatti la cui responsabilità non si poteva far ad esso risalire. Il Finch aveva portato pure le sue lagnanze sul caso del cap. Domenico (4) Lett. Min. Costant., 5/2173, Istruzioni segrete a G. L. Gentile (1673). • Si osserva che a Giovanni Dnrazzo erano stati già assegnati, oltre i 15 mila pezzi, « altri 5 mila quando per sentenza di giudice fuBse condannato pagarli al detto M.co Sinibaldo, o suoi creditori». (Giunta del traffico, relazione l.o settembre 1673). - 139 - Franceschi, un còrso che aveva depredata una nave inglese, la quale trasportava un pascià turco con 300 mila pezzi destinati alla Porta. Il Franceschi, che abitava in Livorno, corseggiava sotto lo stendardo del granduca; tuttavia il Governo della Repubblica aveva trasmesse le necessarie citazioni per il rigoroso castigo del reo. Altro oggetto di reclamo ci fornisce una interessante notizia e cioè che mercanti inglesi ricorrevano per l’assicurazione delle loro navi a cittadini genovesi. L ambasciatore britannico lamentava appunto che alcuni padroni di queste navi, le quali avevano « patito il caso sinistro », non erano stati risarciti del danno sofferto. Anche su questo il Governo della Repubblica aveva sùbito preso i provvedimenti del caso; di modo che il cavaliere inglese, dopo circa due mesi di soggiorno a Genova, dove era giunto nell’agosto del 1673, se n’era partito pienamente soddisfatto. Non ostante certi dissapori avuti poi. per breve tempo, col ministro Spinola a Costantinopoli, serbò egli della Repubblica, che lo aveva ricevuto solennemente e trattato con ogni riguardo, ben grato ricordo, come scriveva ancora nel 1676, dichiarandosi pronto « a dar riprove del suo animo zelante verso il pubblico ». Per ultimo nelle istruzioni si ricordava al Gentile che il M.co Paolo Giustiniano, alla morte dello zio, aveva depositato presso il Fieschi, con parecchie robe di cui si inviava l’inventario, il grande specchio che dovevasi presentare in dono al Gran Signore (5). Ma neppure questa volta le cose andarono a seconda. Dal Gentile, nel giugno del 1674 non era giunto neanche l’avviso di aver ricevuto i denari inviatigli. Il M.co Gio. Luigi in realtà si era curato di avviare regolarmente la sua corrispondenza non giunta a destinazione. Egli aveva sùbito dato notizia dell’arrivo, avvenuto il 10 gennaio, della nave da guerra inglese recante le scritture e gli effetti speditigli dalle Signorie Ser.me insieme con la nomina a residente. Esternando la sua profonda gratitudine per l’onore conferitogli, garbatamente lo rifiutava per trovarsi in quel tempo ammalato, ma forse anche per il peso che importava una tale carica in quelle circostanze. Dava quindi conto delle spese occorse per noli, consolati ecc.. nonché per proprio salario e dei dragomanni e giannizzeri; per cui, dei 18 mila pezzi, gliene erano avanzati 15523 e mezzo. Quanto alle due casse di panni, ne faceva testimoniare la consistenza e le condizioni, rilevando la mancanza di una pezza di « lama d’argento color celeste » per una veste e il deterioramento di tre pezze di saie, di cui due erano rimaste macchiate interamente ed una per metà. Avendo in sèguito inteso che le sue tre lettere contenenti queste ed altre notizie si erano quasi sicuramente perdute per essere state le navi, con cui le aveva spedite, prese da pirati maiorchini, l’il giugno ne mandava copia con altro dispaccio, che forse neppure giunse a destinazione. Il giorno seguente, con altra lettera, accusava ricevuta di quella dei collegi, in cui gli ordinavano di non esigere i consolati da Nicolò Mortola e Giuseppe Molinari, fattori della fabbrica Mortola e Fantini, per i panni mandati con una navetta forestiera, ed univa insieme copia delle tariffe dei consolati adottate dalle altre nazioni. Queste notizie gli erano state richieste dai Ser.mi Padroni per disciplinare tale materia, in rapporto alle lagnanze pervenute loro dai mercanti e secondo le considerazioni che egli stesso aveva già esposto ai Collegi. Ma a questo punto l’attività del nostro console veniva bruscamente stroncata. Nelle precedenti lettere il M.co Gio Luigi aveva pure riferito sul diffon- (5) Oriente, 2774/A, Istruzioni generali a G. L. Gentile, 8 ottobre 1673. — 140 — dersi, più violento del 6olito, della peste che ad ogni primavera faceva la sua regolare comparsa a Smirne. Gli altri consoli con i rispettivi mercanti si erano ritirati * nei loro villaggi » del resto neppur essi del tutto immuni. In città, la strada dei consolati, detta volgarmente «dei Franchi», era deserta. Il solo console di Francia era rimasto chiuso nella propria casa. Anche il Gentile si era asseragliato nella sua abitazione con la famiglia, preoccupato specialmente di custodire gli effetti della Repubblica che aveva in consegna. In una breve aggiunta del 2 luglio all’ultimo suo dispaccio affermava che tutti godevano « ottima salute ». Il 29 luglio, dopo tre giorni di rapida malattia, egli decedeva per peste, pietosamente assistito da Carlo Massa, mercante messinese sotto la bandiera della Repubblica. A Genova, intanto, Governo e Giunta del traffico non desistevano dal vagliare nuovi espedienti per risolvere la spinosa questione del Fiesco, condizione essenziale per la ripresa e l’incremento del commercio. Il quale, sebbene fortemente colpito dai disordini interni ed esterni, quando si fosse riusciti ad eliminare la pericolosa situazione creata dal Fieschi, si poteva presumere che dovesse ricevere nuovo impulso (anche vantaggiandosi dell’attuale conflitto tra Francesi e Olandesi) a sostegno dell’arte dei panni da pochi anni introdotta, che, con un impegno di circa seicentomila lire e lavoro per più migliaia di filatori e manifatturieri, ricavava il suo principale alimento dall esportazione in oriente. # Ma l’eliminazione dell’ex-residente non appariva cosa molto semplice. Da un suo scritto che il Gentile aveva accluso ad una lettera privata del marzo 1674, definendolo « piuttosto minacciante », risultava che il Fieschi non si sarebbe deciso a partire senza il saldo dei debiti, i quali parevano aumentare sempre più, sì da divenire « in breve poco men che impossibile ed estinguerli » (6). D’altra parte il M.co Sinibaldo aveva inviato a Genova, per implorare qualche pronto sollievo, Michelangelo di Negro, suo segretario, il quale annunciava il 23 luglio 1674 da Livorno il suo prossimo arrivo (7). Attraverso le molteplici discussioni svoltesi in seno ai Consigli, la convenienza di ricorrere alle maniere forti verso il Fiesco con 1 esautorarlo ufficialmente presso il Governo turco e i rappresentanti dei principi stranieri, veniva esclusa in considerazione degli appoggi che egli si era procurato alla Porta, dalla quale si sarebbe potuto attendere una reazione contraria agli interessi vitali della nazione. Così pure si respingeva l’idea d inviare persona di mediocre condizione, che non avrebbe avuto l’autorità sufficiente per risolvere una situazione così intricata e compromessa. S’imponeva quindi sempre più la necessità di destinare a Costantinopoli un gentiluomo di prestigio e di molta destrezza che fosse in grado di superare tutti i non lievi ostacoli e tutte le difficoltà che si sarebbero presentate da parte del ministro e della stessa corte. La Giunta esponeva frattanto il piano di un nuovo ordinamento dell’impresa d’oriente basato sul sistema dell’appalto già da tempo studiato. Seguirono consulte e trattative che portarono il 14 agosto 1674 all’elezione del nuovo residente nella persona del M.co Agostino Spinola q. Gio Antonio, mentre si convenivano verbalmente col M.co Vincenzo Spinola le clausole dell’appalto di tutti i consolati (8). Il Governo si affrettava quindi (17 agosto) a revocare (6) Ibid., G. L. Gentile all’Eccjno Cesare Gentile, 26 marzo 1674. (7) Lett. Min. Costant., 4/2172, Michelangelo de Negro al Gov., Livorno, 23 luglio 1674. (8) Giunta del Traffico, 1/1015, Relazione 16 giagno 1674. - 141 - a Gio Luigi Gentile, di cui ignorava ancora la morte, l’incarico affidatogli l’anno precedente senza averne più avuto notizia, annunciandogli, pochi giorni dopo, la sua prossima sostituzione nel consolato di Smirne (9). Il 23 agosto si definiva per iscritto il contratto con lo stesso M.co Vincenzo in forza del quale, questi assumeva per un biennio a suo carico tutte le spese ordinarie e straordinarie della residenza di Costantinopoli, del consolato di Smirne e di ogni altra rappresentanza esistente o da istituirsi. Al residente e al console di Smirne egli si impegnava a pagare un onorario che non superasse rispettivamente i 4 mila e i 1500 pezzi da otto, peso di S. Giorgio, addossandosi pure i salari per dragomanni, giannizzeri, giovani di lingua ed altri ministri secondo la consuetudine in atto. Doveva fornire ancora denari e robe per i soliti regali,, che il costume ottomano richiedeva nella ricorrenza del Bairan grande e piccolo, della Pasqua e del Natale cristiani; nel mutamento dei ministri; in occasione che il sultano, il gran visir, il capitan pascià od altri ministri superiori, si fossero portati a Costantinopoli, a Smime o in altri luoghi ove si trovassero rappresentanti nazionali. Come norma doveva servire il comportamento del residente d’Olanda. Per tutte queste spese l’Ecc.ma Camera era tenuta a corrispondere allo Spinola pezzi 5000 da otto annui, rimanendo a questo l’introito di tutti i consolati tanto di entrata che di uscita (di mare e di terra). Nessuna alterazione dei diritti stabiliti dai Ser.mi Collegi era in arbitrio dell’appaltatore. A proprio carico il M.co Vincenzo avrebbe noleggiato una buona nave genovese « di forza » per il trasporto del residente e del console, provvedendo ancora a tutto quanto concerneva la loro entrata, le visite e i donativi di prammatica, anche nell’evenienza che il residente dovesse recarsi per l’udienza d’introduzione in Adrianopoli o altrove. Dalla Camera sarebbe pagato all’appaltatore per il viaggio, l’entrata e i regali del residente sei mila pezzi, compreso 1’« aiuto di costa » ; e per le spese in più, nel caso di viaggio oltre Costantinopoli, ne sarebbero state rimborsate fino a tre mila pezze. I Collegi poi si riservavano di poter assegnare, in conto delle somme pattuite, panni di seta e di lana che si trovavano presso il console delle Smime. Per decoro e sicurezza della missione, i Collegi avrebbero fornito 50 soldati da imbarcare sulla nave da noleggiarsi. Dalla Camera, infine, nulla sarebbe dovuto per le assicurazioni a favore del residente e del viceconsole, in quanto eletti a gradimento dell’appaltatore, il quale obbligava per tutto il contenuto del contratto la sua persona e i beni presenti e futuri (10). Il 5 ottobre 1674 Vincenzo Spinola nominava viceconsole delle Smime ad interim Nicolò Mortola di G. B., supplicando i Collegi di accettarlo. Costui già rappresentava su quella piazza la casa del M.co Vincenzo. Questi Spinola erano direttamente interessati nel traffico dei panni; il Mortola con il mercante Giuseppe Molinari era pure fattore colà della fabbrica Mortola e Fantini. Giungeva poco dopo la notizia della morte del console G. L. Gentile. La Giunta del traffico rilevava che mentre l’appaltatore, riguardo al Mortola, aveva dato « sicurtà » per la somma di 5 mila pezzi « de bene et fideliter exercendo munus ecc. », tanto lui come il padre del Mortola stesso si erano rifiutati di assicurare l’amministrazione della somma dei 18 mila pezzi e delle casse di panni inviate al console Gentile, affermando ciò sconveniente dopo (9) Lett. Min. Costant., 5/2173, il Governo a Gentile, 17 e 22 agosto 1674. (10) Giunta del Traffico, 1/1015, Contratto con Vincenzo Spinola, 23 agosto 1674. - 142 - che, senza alcuna garanzia, gli erano stati affidati tanti effetti per un capitale di 30 mila pezzi. La Giunta suggeriva — e il Governo faceva dare al suggerimento immediata esecuzione nello stesso giorno 22 ottobre 1674 — di scrivere al Mortola annunciandogli la nomina non ancora comunicata, e ordinandogli di inviare sùbito relazione particolareggiata su quanto riguardava le condizioni di quel consolato. E poiché si era sentito che i denari e gli effetti del morto console erano stati affidati a tre mercanti del posto quali fidecommissari, gli si dicesse pure che s’intendeva dover detti beni rimanere così a loro disposizione in attesa dell’arrivo del residente. LTn ordine in tal senso dei signori Pier Maria e G. B. Gentile, sotto il cui nome si era effettuata la spedizione, si doveva quindi trasmettere al viceconsole. Lna raccomandazione particolare gli si doveva poi rivolgere: il non accettare ed osservare nessun ordine di Sinibaldo Fieschi, poiché egli fin dal 1671 non era più rappresentante della Repubblica e dato che il consolato di Smirne non dipendeva dalla residenza di Costantinopoli (11). 2. — C’era in questa perentoria disposizione il presentimento di quanto era già accaduto all’insaputa del Governo, complice anche lo stesso Mortola. La notizia era giunta a Genova nel novembre e il 19 di questo mese la Giunta del traffico ricostruiva, dalla corrispondenza pervenuta, gli avvenimenti. Come abbiamo visto, colpito dal male contagioso, il 29 luglio 1674 si era rapidamente spento il M.co G. L. Gentile, lasciando fidecommissari ed esecutori del suo testamento il console fiammingo Giacomo Van Dam, Bonaventura Am-brogi e Carlo Massa, mercanti colà residenti e, specialmente i primi due, « di ragguardevoli facoltà ». A maggior sicurezza dei beni lasciati, aveva pure disposto che nulla si potesse decidere senza l’assenso del console olandese. Al Massa, che solo lo aveva coraggiosamente assistito nel trapasso, affidò il consolato in attesa degli ordini del Governo. E poiché il console olandese si trovava rifugiato in campagna per sfuggire al contagio, il Massa stesso aveva adunati tutti gli effetti pubblici e privati del Gentile in due stanze, munendo queste del sigillo della Repubblica e chiudendole con tre chiavi diverse da conservarsi una per ciascun fidecommissario. Del tutto veniva pure informato il M.co Sinibaldo. Il quale però, già avvisato dal Mortola e dal Molinari, nominava quest’ultimo viceconsole, non approvando la designazione del Massa. Dalla Porta procurava intanto il «baratto» per il riconoscimento del Molinari e un ordine rivolto al governatore di Smirne, a cui veniva portato da un chiaus accompagnato dal dragomanno Geraci e da alcuni servitori. In virtù di detto comandamento, al Molinari, ammesso quale viceconsole, dovevano essere consegnati tutti gli effetti del defunto; se poi qualcuno avesse avuto su di essi pretese non eccedenti la partita di 4000 aspri, avrebbe dovuto agire davanti ai tribunali di Costantinopoli. Con ordine a parte, il Sinibaldo ingiungeva a Carlo Massa di presentarsi, sotto pena del doppio, davanti al Molinari per formare un inventario degli effetti in parola, così pubblici come privati, consegnando i primi al viceconsole e gli altri a questo e al Mortola, fino a che egli stesso, il Fieschi, non avesse disposto secondo le leggi. Allo sbarco della comitiva, il console fiammingo, avvertito dagli altri due fidecommissari, mandò dal cancelliere la sua chiave con l’ordine di trasportare nella notte, per maggior sicurezza, i beni nella sua casa. Ma, avvertiti (Ut Ibid., Relazione 22 ottobre 1674; Leti. Min. Costant., 5/2173, il Gov. a Mortola, 22 ott. 1674. - 143 - di quanto si stava disponendo, vennero il chiaus e il Molinari col dragomanno e il sèguito, bollarono tutti gli effetti del defunto, rimanendo alcuni a custodia di essi e dello stesso Massa, cui fu impedito di uscire. Il mattino seguente, il Molinari si presentava in abito consolare al comandante di Smirne per prendere possesso della carica. Da canto loro, i fi-decommissari, dopo una protesta scritta, avevano di nuovo fatto apporre i suggelli della Repubblica alle stanze dove erano depositati i beni contestati, dichiarando che a chiunque avesse creduto di poter avanzare pretese su di essi sarebbe stato lecito sequestrarli presso il corpo della fìdecommisseria a norma delle leggi cristiane. Il Molinari, allora, richiesto il braccio turchesco, entrò con il chiaus nella casa consolare e, penetrato nelle stanze, dopo aver lacerato i suggelli, ruppe la cassa di ferro, in cui si trovava il denaro, impadronendosi di questo (15o00 pezzi) e dei panni d’oro, di lana e seta spettanti all’Ecc.ma Camera. Egli, quindi, sborsava immediatamente il contante a due mercanti olandesi, Francesco e Galeno Scheregel, che si dicevano creditori di Sinibaldo Fiesco per la somma di 16 mila pezzi, avendo col Mortola integrata la somma, per rivalersene poi a conto dei consolati (12). Si può immaginare il disgusto dei Ser.mi Signori alla notizia di questa nuova e così grave malefatta del Fiesco. Egli e il Molinari, con la loro violenta azione, avevano offeso dinanzi al mondo il decoro e l’autorità della Repubblica. La stessa faciloneria con la quale era avvenuto il predetto pagamento ai mercanti olandesi poteva far presumere che si trattasse di un altra finzione del residente. Come il Molinari aveva potuto effettuare uno sborso di tanto rilievo senza alcuna sicurezza e contro gli stessi ordini della Porta, che l’obbligavano a tenere il denaro presso di sè? E come il Fieschi non a-veva ritenuto una qualche parte della somma per suo sussidio, o essa non era stata ripartita fra i diversi altri pretesi creditori? Per lui e per il Molinari occorreva dunque provvedere al meritato castigo, istruendo « strepitoso processo » nel Magistrato degli Inquisitori di stato, anche per indurre il Molinari a trattenere le 15 mila pezze, ove ancora non le avesse effettivamente sborsate. Bisognava inoltre annullare sùbito la nomina del Mortola; fare ai Mortola e Fantini di Genova le più vive rimostranze per il comportamento dei loro fattori, e, naturalmente dichiarare nulla anche l’elezione del Molinari a viceconsole, fatta dal M.co Sinibaldo. Ma soprattutto, nell’attuale aggravata situazione, occorreva, ora più che mai, pensare positivamente a risolvere in modo definitivo e radicale il problema del Fiesco. Esautorarlo con lettere alla Sublime Porta, questa avvertendo dell’impossibilità di sostituirlo se non fosse prima ritornato a Genova in obbedienza agli ordini avuti, ed appoggiare la pratica a qualche persona colà residente, come il Giorgio d’Andrea — perseguitato dal Sinibaldo ma di debole prestigio —, oppure l’ambasciatore Finch — partito, sì, da Genova molto soddisfatto, ma probabilmente non libero di operare senza l’autorizzazione del suo re —, o magari il residente d’Olanda — stretto amico del genovese e forse con lui interessato — parve sùbito tentativo inutile o dannoso. Difficile era ottenere la licenza del Sinibaldo che aveva « forza ben radicata » alla corte, la quale non badava che ai regali, tanto che al tempo del Cromwell ammetteva contemporaneamente gli ambasciatori del re e del Par- (12) Giunta del Traffico, 1/1015, Relazione cit. 22 ottobre 1674; Lett. Consoli Turchia, 1/2703, Lettere dei Fidecommissari Van Dam, Carlo Massa, 29 luglio, 21, 23, 26 agosto, l.o, 14 settembre, 16 novembre 1675; Giuseppe Molinari al Gov., 12 novembre 1674. - 144 - lamento, purché recassero doni. Non rimaneva quindi che inviare diretta-mente, per via di terra o di mare, personaggio di autorità e di esperienza con carattere di ministro, che staccasse il funesto Sinibaldo da quelle parti (13). Pochi giorni dopo (26 novembre) Vincenzo Spinola presentava un suo « progetto » al riguardo, così gravoso che non si ritenne neppur meritevole di essere preso in considerazione. La Giunta del traffico, invece, esaminata 1 ultima consulta del Minor Consiglio, dove era prevalso il concetto di mantenere il negozio e di provvedere all'invio di un nuovo ministro, considerando impegnata nella faccenda la pubblica dignità, proponeva il ritorno al contratto già concluso il 23 agosto con Vincenzo Spinola e alla missione già deliberata del M.co Agostino suo congiunto. C’erano ancora degli impedimenti. Quest’ultimo chiedeva una qualche somma per vincere le inevitabili resistenze degli avidi ministri turchi; il M.co Vincenzo faceva presente la difficoltà di trovare un vascello da noleggiare, per cui aveva pensato di attendere l’arrivo della nave veneziana « S. Maria Annunziata » che navigava col convoglio della Repubblica di Genova. Se poi i Ser.mi Signori avessero appoggiato presso il Mag.to del Nuovo Armamento la concessione della nave « San Giovanni Battista » già pronta, si sarebbe potuto eseguire la spedizione con maggiore sollecitudine. Escluso il viaggio per terra meno dignitoso ed anche di maggior spesa, la Giunta esprimeva il suo parere favorevole perchè fosse dato in noleggio il vascello del Nuovo Armamento, e venisse concessa la piccola somma richiesta dal residente, pagandosi in più al M.co Vincenzo il corrispettivo di quel soccorso che prima del misfatto delle Smime era stato deliberato per il ritorno del Fieschi, al fine sempre di raggiungere l’esito desiderato. I Collegi approvavano la somma chiesta da Agostino Spinola, sia pure limitandola a pezze 1500, e la commissione al Mag.to del Nuovo Armamento, da tenersi però segreta, dato che essi non avevano disposizione a concedere « per conto alcuno » l’invio del S. Gio. Batta (14). Negli stessi giorni (7 dicembre) si consegnava al Mag.to degli Inquisitori di stato tutto l’incartamento per l’istruzione del processo contro il Fiesco^ e complici. Nella prima comunicazione ad Agostino Spinola della sua nomina a residente, il Governo gli ordinava poi di procurare l’espulsione del Sinibaldo e « la missione dello stesso a nostra disposizione in queste carceri per fargli sentire il meritato castigo » (15). Ma ben presto parecchie cose si dovettero guardare con senso più realistico. Si comprese che il sapersi condannato a inevitabile castigo avrebbe spinto ancor più il Fiesco a reagire rimanendosene lontano; per cui nel gennaio i Collegi, su proposta della Giunta, deliberavano di soprassedere alla istruzione del processo presso gli Inquisitori di stato fino a nuovo ordine, nell’eventualità che si fosse riusciti ad ottenere lo « staccamento volontario » dell’ex-residente. Lo stesso Spinola chiedeva che gli si ordinasse di poter « anche tenere la strada della dolcezza » per raggiungere meglio lo scopo, ed anche un salvacondotto per indurre quel gentiluomo a venirsene in Genova (16). Ed un altro suggerimento dava. Verso l’ottobre del 1673 era morto Ni- (13) Giunta del Traffico, Relazione 19 novembre 1674. (14) Ibid., Relazione 4 dicembre 1674. (15) Oriente, 2774/A, il Governo a Ag. Spinola, 15 gennaio 1675. (16) Ibid., Agostino Spinola alla Giunta Tr., 27 marzo 1675; Istruzioni ad A. Spinola, 15 gennaio 1675. - 145 - cosio Panaioti, uomo di molta reputazione, col quale si può dire che comincia alla corte ottomana l’influenza dei Greci. E greco fu il suo successore Alessandro Mauro Cordato, che si era addottorato nello Studio di Bologna in filosofia e medicina, ed aveva poi abbandonato la religione cattolica, non ostante il giuramento di osservarla prima prestato — come è detto in una relazione dello stesso Spinola — « per essere mantenuto nel Collegio greco di Roma ». Ora il Maurocordato (amico di Sinibaldo, di cui era stato anche creditore) aveva avuto occasione, qualche tempo addietro, di imbarcare tanti argenti per pezzi 1500 sulla nave genovese del cap. Nicolò d’Andrea. Presa questa dai corsari, il capitano era riuscito a salvare se stesso e gli argenti e ne aveva informato il proprietario, offrendogli per detta somma una partecipazione della nave, che forse intendeva comprare. La pratica si svolse per mezzo del procuratore del greco, Gio. Giacomo Grimaldo; ma essendo questi venuto a morte, la cosa rimase sospesa con malcontento dell’interessato, che si era anche rivolto, senza frutto, al residente di Costantinopoli. Dato il posto che il Maurocordato occupava, il M.co Agostino consigliava ora di scrivergli con promessa di far a lui conseguire quanto gli era dovuto, guadagnandosene così il favore. Anche a liquidare i debiti del Fiesco si dovette ancora pensare, sebbene in un primo tempo la Giunta avesse dichiarato che di essi non fosse più da parlare dal momento che egli si era impossessato del denaro destinato alla loro estinzione e delle vesti che si trovavano alle Smirne (17). Ed una difficoltà impensata fu necessario ancora superare. Vincenzo Spinola era riuscito a noleggiare la nave « SS. Annunziata » del capitano veneto Michele Raffaeli con l’approvazione dei proprietari di Venezia e dei N.N. Gerolamo e G. B. Labaini, a cui detta nave era raccomandata. Si era convenuto che essa dovesse inalberare lo stendardo di Genova; ma dopo l’arrivo di alcune lettere da Venezia, il cap. Raffaeli, sostenuto dal console di quella Repubblica, si rifiutava di mantenere tale clausola a cagione di ordini superiori ricevuti. Lo Spinola, che aveva pure noleggiato come seconda nave la « S. Antonio abate », si rivolgeva ai Ser.mi Collegi, rinnovando l’istanza per ottenere dal Mag.to del Nuovo Armamento la « S. G. Batta», che era già pronta e perfettamente corredata, dietro pagamento del nolo e delle necessarie assicurazioni (18). La Giunta del traffico interpretava il divieto venuto da Venezia come un atto ostile al sollevarsi del traffico ligure, detestato colà per se stesso e per la concorrenza della nuova fabbrica di panni. Essa aveva fatte diligenze per sapere se vi fossero vascelli nazionali « di forza » idonei al viaggio d’oriente; ma molti si trovavano impegnati: quello del cap. Germano era destinato dai partecipi a Lisbona; la nave del cap. Viviano era in fabbricazione; l’altra del cap. Pietro Bianco aveva concertato a Napoli con quel viceré un carico per Alicante. Informazioni avrebbe ancora assunto riguardo agli altri vascelli; ma intanto, data l’urgenza, suggeriva d’interpellare il Mag.to del Nuovo Armamento circa la « S. G. Batta ». L’opposizione dei Collegi derivava dal timore di qualche sequestro, che sarebbe riuscito di disdoro al pubblico, trattandosi di nave dello Stato; ma a tale dubbio le Loro Eccellenze osservavano che, in quanto veniva data a nolo, essa nave avrebbe viaggiato come privata. Ad ogni modo, se si fosse trovato un vascello di qual- (17) Giunta del Traffico, Relazione 4 dicembre 1674. (18) Ibid., Supplica di Vincenzo Spinola al Gov., 13 febbraio 1675. 10 che particolare, si sarebbe eliminata tale difficoltà; in caso diverso avrebbero ponderato meglio la cosa, secondo il maggior utile del Pubblico (19). Infine l’accordo si raggiunse con la « SS. Annunziata », la quale si apparecchiò a partire col capitano genovese Gio. Geronimo Scanavino, unitamente alla « S. Antonio », concedendo il Governo, per il viaggio, 50 soldati e otto cannoni di ferro. Salpavano così il residente e il viceconsole, M.co Garibaldo, eletto dallo Spinola, dopo che il Governo ebbe loro consegnate le relative istruzioni. Contemporaneamente veniva annunciata al M.co Sinibaldo la spedizione del nuovo ministro, con ordine di consegnare a lui sigilli, scritture e tutto quanto fosse rimasto a sue mani, compreso lo specchio portato da Pompeo Giustiniano (20). Le navi giunsero il 27 maggio 1675 a Smirne, dove il residente lasciò la « S. Antonio » con il viceconsole Garibaldo — che vi morì pochi mesi dopo (10 settembre) — e proseguì con l’altra nave verso Costantinopoli, pervenendovi il 6 luglio. 3 — La prima questione che si presentò all’approdo delle navi fu quella assai molesta delle monete, fondamentale, come vedemmo, per questo traffico, e che occorre ora esaminare in questa sua ultima fase, prima di seguire le ulteriori vicende dell’impresa d’oriente. Con la destinazione del nuovo residente, il Governo pubblicava in data 1° febbraio 1675 una nuova, ampia e severa grida, la quale mirava a vietare che chiunque avesse parte nella fabbricazione o nel commercio delle monete d’oro e d’argento (zecchini, ongari, leoni, reali, isolotti, aspri e parà) « falsificate non meno nel loro impronto, che nell’intrinseco valore, battute, o sia coniate, e stampate in zecche forestiere, e proibite dagli ordini della Camera nostra, che per essere situate per avventura in Paesi non molto lontani dal nostro Dominio, danno facilità alli direttori delle medesime di esitare le monete sudette sotto nome de’ nostri sudditi, e nationali » (21). La grida veniva trasmessa lo stesso giorno al console di Livorno, Domenico Gavi, perchè ordinasse, in nome dei Ser.mi Signori, ai capitani della nave « S. Antonio » destinata a salpare con la « SS. Annunziata » recante il residente e il console — e di quelli altri legni che dovessero eventualmente partire col convoglio, di attenersi rigorosamente alle disposizioni emanate, sulla cui osservanza era suo compito vigilare e riferire. Si raccomandava inoltre di fare in modo che la notizia di tali diligenze venisse all’orecchio del console veneto (22). Tale premura si spiega con i seguenti fatti. La sera del 23 ottobre 1674 persona incognita si presentava al doge per informarlo, a fine di averne qualche compenso, che la Repubblica di Venezia, accertata che dalla città uscivano zecchini d’oro di bassa lega, stava per ordinare il sequestro degli effetti dei Genovesi in quel dominio. Inoltre, il 28 gennaio 1675, il console veneto a Genova — che era poi quel tale Paride Tasca, che noi conosciamo, complice dei falsi monetari veneziani e francesi in Liguria — esponeva ai Ser.mi Signori le lagnanze del suo Governo per la certa notizia che aveva della battuta di monete (19) Ibid., Relazione 15 febbraio 1675. (20) Oriente, 2T14/A, Istruzioni a Caribaldo, 9 aprile 1675; Lett. Min. Costant., 5/2173, il Governo a Fiescbi, 9 aprile 1675. Altre due lettere fece scrivere con la stessa data 9 aprile 1675 al console Van Dam e agli altri fidecommissari del Gentile in ringraziamento dell’opera loro. (21) Oriente, 2774/A, grida del l.o febbraio 1675. (22) Lett. Min. Costant., 5/2173, il Gov. al console Gavi di Livorno, l.o febbraio 1675. - 147 - adulterate nei feudi di cittadini genovesi, richiedendone un qualche rimedio; onde i Collegi effettivamente ordinavano che venissero praticate diligenze al riguardo in alcuni degli stessi feudi. Quando poi si ebbe conferma del nuovo convoglio genovese per l’oriente, il Querini, bailo a Costantinopoli, uno fra i più accaniti avversari del traffico genovese, « non contento di spargere voci pregiudiciali alla Natione » genovese, « si fece apertamente autore alla Porta di una falsità, con la quale sosteneva esser imbarcati sopra li vascelli che portavano il Residente, centinaia di miliaia di zecchini falzi » (23). I ministri turchi, suggestionati dalle accuse del bailo, decisero di agire attendendo al varco le navi genovesi. Non appena queste giunsero a Smirne, il cadì, chiamato il Molinari, che allora fungeva ancora come viceconsole, gli comunicava l’ordine avuto dalla Porta di porre guardie sulle navi per impedire che si sbarcasse qualsiasi specie di contanti, e di inviare mostre delle monete alla corte. Lo Spinola si rifiutò di accettare le guardie, e quanto al resto, domandò che anzitutto gli si mostrasse il comandamento rivolto al cadì e al doganiere. Come poi esso gli venne trasmesso, lo fece sùbito tradurre. In esso era detto fra l’altro : « Dovete sapere che hanno visto e si dice in quest’ora per verissimo che sono con la stampa di Venetia dentro li panni tanta quantità di borze di zecchini falsi con detta stampa essendo un oro di bassa lega ». II residente, che aveva fatto sùbito esporre ai ministri ottomani i retti intendimenti della Repubblica e le severe deliberazioni prese in proposito, consegnando loro anche copia stampata delle gride emanate a Genova, « per levare dalla loro mente ogni ombra verso la nazione » acconsentì che si trasportassero tutte le robe, così com’erano, nel magazzeno e i denari nella Camera del consolato, perchè il tutto fosse controllato alla presenza di un agente turco. Nelle balle e nelle casse nulla fu trovato nascosto tra i panni, come si sospettava; aperti poi i sacchetti dei reali e i «groppi» delle monete d’oro, poiché i turchi affermavano essere di bassa lega, si fecero eseguire i saggi dei pezzi d’argento e degli zecchini e ongari d’oro di stampa vecchia venendo riconosciuti ottimi per bontà e per peso. Soltanto riguardo 1300 ongari di nuovo conio con l’impronto del granduca di Toscana e destinati a due mercanti forestieri, il chiaus presente volle che si trattenessero in deposito bollati con sigillo turco, mentre egli ne avrebbe portato alla Porta quindici con bollo del cadì e del residente (24). Intanto quest’ultimo, avendo inteso che si attendeva un nuovo comandamento del Gran Signore, sollecitato dal bailo veneziano, perchè le navi fossero sottoposte a visita, decise, ad evitare contrasti, di affrettare la sua partenza per Costantinopoli con la « SS. Annunziata », e ne mandò a chiedere licenza al cadì. Mai si era dato, infatti, che vascello di guerra, specialmente se portasse ministro alla Porta, fosse visitato; le capitolazioni lo escludevano poi anche per quelli di mercanzia. Il cadì con pretesti negò più volte la licenza richiesta e lo Spinola stabilì di partirsene ugualmente. Uscito dunque al mattino dal porto e giunto in vicinanza del castello, avviò verso di questo una scialuppa con Carlo Massa, come se questi dovesse portare il biglietto del cadì, mentre egli con la nave proseguiva la rotta. Detta scialuppa, poi, tardò ad arrivare in terra, finché la « SS. Annunziata » non si trovò fuori del tiro (23) Oriente, 2774/D, Relazione di Ag. Spinola. (24) Lett. Min. Costant., 4/2172, Agostino Spinola al Gov., Smirne, 31 maggio 1675; Lett. Consoli Turchia, e/tsda, Fr. M. Garibaldo al Gov., Smirne, 22 giugno 1675. — 148 — del cannone, potendo così dar fondo per attendere la gente di poppa che ancora non era salita a hordo. Il giorno seguente, infine, riprendeva liberamente il viaggio verso i Dardanelli (25). La Giunta del traffico, quando ebbe notizia delle pretese perquisizioni alle navi, fomentate dai Veneziani, rifletteva che questi, se false monete vi si fossero in realtà rinvenute, avrebbero in uno stesso tempo convalidate le calunnie « sempre declamate » del loro maneggio nello stato ligure, « distrutto il commercio de’ Genovesi come fraudolento e giuntamente dileguate le ombre, che contra li Venetiani si fussero concepite alla corte per l’introduzione in quei regni di zecchini di bontà inferiore; ed in ogni caso, non ritrovandosi sopra le navi la qualità di monete false, sarebbe sempre seguita la perquisitione con pubblico disdoro, e con discredito della natione tanto desiderato da quella Repubblica » (26). A Smirne, intanto, ritornava ai primi di luglio il chiaus di Adrianopoli col comandamento di far fondere i 1300 ongari, perchè trovati di bassa lega, e di visitare, non ostante i privilegi concessi, il vascello « S. Antonio ». Il console Francesco Maria Garibaldo si oppose all’una e all’altra cosa; alla prima, perchè negava che gli ongari fossero adulterati, come si poteva provare facendone fondere alcuni di quelli rimasti in deposito con altri del posto ritenuti buoni, mentre illegale e senza valore era ü saggio prima eseguito senza la presenza di qualche nazionale; alla seconda, in quanto contraria alle capitolazioni, onde gli sarebbe occorso ad ogni modo scriverne al residente. Avendo il Garibaldo opposto una seconda volta il suo diniego alle richieste del cadì, questi s’incollerì affermando che non valeva invocare le capitolazioni dal momento che esse erano violate con la disobbedienza agli ordini del sultano. Inoltre il chiaus lo investì con aspre parole e chiese al voivoda che lo facesse condurre prigione in castello; ma poiché costui non ne aveva autorità, tanto più che il comandamento esplicitamente diceva doversi eseguire l’ordine senza recare offese ai Genovesi, il Garibaldo potè rimanersene libero nella sua casa. Invitato ancora il giorno dopo a recarsi presso il cadì, vi si rifiutò; per cui vennero arrestati tutti e tre i suoi dragomanni tenuti per alcuni giorni prigionieri, non ostante l’intervento degli altri consoli, invocato dal Genovese. Senonchè, a questo punto, i rappresentanti degli Ebrei, cui spettavano gli ongari, fecero comunicare al Garibaldo, per mezzo della cancelleria di Francia, che essi volevano si facessero fondere le monete; onde il viceconsole dovette dare il suo consenso, a condizione però che — fermo restando il rifiuto della visita alla nave — fossero prima liberati i dragomanni; che la fusione delle monete avvenisse nella casa consolare; che si trattenessero trenta ongari debitamente bollati per un nuovo saggio. Con que-st’ultima richiesta egli preveniva, in parte, l’intenzione del residente Spinola, che scrivendogli il 9 agosto gli ordinava di lasciar eseguire il comandamento del Gran Signore tanto per la visita alla nave come per gli ongari, procurando però di farsi rilasciare cinque di questi bollati e sigillati, insieme con la fede della visita fatta alla nave (27). L’ordine dello Spinola era conforme alla linea di condotta che egli aveva seguito a Costantinopoli. Giunto qui con la sua nave il 6 luglio, trovando sempre più radicata nella mente di quei ministri la « mala fama » diffusa (25) Lett. Min. Costant., 4/2172, A. Spinola al Gov., 18 dicembre 1675. (26) Ibid., Relazione della Giunta del Tr., maggio 1675. (27) Lett. Consoli Turchia, 1/2703, Garibaldo al Gov., Smirne, 12 luglio, 10 agoito 1675. - 149 - dal bailo Querini circa le monete false, credette più conveniente lasciar loro prendere «tutte le sodisfazioni che desideravano per disingannarsi». Infatti, appena gettata l’àncora in quelle acque, il caimacan gli inviava il suo maggiordomo per comunicargli l’ordine avuto di visitare la nave. Al che il residente rispose, che dovendo egli sbarcare il giorno seguente, poiché la nave sarebbe rimasta così non più come vascello da guerra, ma soltanto di mercanzia, non si sarebbe opposto che si effettuassero le diligenze volute, per disperdere «le false imposture dei malevoli» (28). Ora, di fronte a questi avvenimenti, le intenzioni dei Ser.mi Signori appaiono ben chiare. Alle prime lettere del console Garibaldo rispondevano che, pur lodando il suo zelo, loro intendimento era che per l’avvenire, in fatto di monete, egli fosse più conciliante, senza « iritare gli animi dei ministri turchi», e che, in simili congiunture, «a salvamento del pubblico decoro », dovesse mostrare ogni premura nel concorrere con tutti i mezzi a sventare il maneggio di tale illecito negozio (29). Per cui, allorché il residente scrisse (3 agosto 1675) di aver sollecitamente permesso a Costantinopoli la visita della nave e di aver dato ordine al viceconsole di Smirne perchè si regolasse in egual modo, approvarono pienamente il comportamento del ministro, solo rammaricandosi che la stessa prontezza non avesse mostrato il Garibaldo, a fine di mostrare quanto fossero sincere le operazioni dei nazionali e false le accuse degli emuli. Nello stesso tempo, però, si raccomandava di essere guardinghi, perchè una tale eccezionale pratica non si estendesse ad altro campo che non fosse quello delle monete; il che avrebbe portato, con l’abuso, discredito alla bandiera (30). Le verifiche eseguite poterono poi rassicurare i Turchi sul valore delle calunnie lanciate contro la Repubblica, per modo che lo stesso caimacan di Costantinopoli ebbe a dichiarare al residente genovese: «adesso voi dovete rallegrarvi del seguito perchè la vostra nazione », mediante le visite praticate sulle navi « è stata purgata come un cristallo ben lavato delle avarie » contro di essa tentate (31). Ancora alcuni mesi dopo, il residente, trovandosi in u-dienza presso il gran visir, lamentava in nome della Repubblica che si fosse insinuato contio di essa il falso concetto d introdurre monete adulterate, mentre essa era solita contrattare dovunque con tutta lealtà e particolarmente negli Stati del Gran Signore. Al che il visir « parendo d’applaudere, rispose che haveva veduto esser vero quanto le dicevo e che si continuasse a far l’i-stesso » (32). Ma la prova più evidente della stima e del concetto in cui la Porta teneva la zecca della Repubblica è il progetto per la coniazione di una nuova moneta elaborato dal residente Agostino Spinola ed approvato dal turco. Il ministro genovese ne riferiva con lettera del 20 maggio 1676 come di negoziato ormai concluso, mancando solo l’approvazione dei Ser.mi Collegi per passare alla sua esecuzione, previo il comandamento del sultano, che. secondo l’esoso costume ottomano, richiedeva la sua brava contribuzione di circa un migliaio di pezzi. (28) Leu. Min. Costant., 4/2172, A. Spinola al Gov. Costantinopoli, 3 agosto 1675. (29) Ibid., 5/2173, il Gov. a Spinola, 20 settembre 1675. (30) Ibid., Gov. od A. Spinola, 17 ott. 1675; Giunta del Tr., 1/1015, Relazione 17 ott. 1675. (31) Oriente, 2774/A, Relazione intorno all’affare di Costantinopoli concernente il M.co Sinib Fiesco; Lett. Mm. Costant., 4/2172, Spinola al Gov., 3 agosto, 18 dicembre 1675. (32) Leu. Min. Costant., 4/2172, Spinola al Gov., 2 luglio 1676. — 150 — I capitoli erano stati definiti da Maurocordato, il nuovo primo interprete del Gran Signore, e pienamente favorevole si era dichiarato il gran visir, sempre propenso a Genova. « Ma il fondamento di tutto questo — scriveva lo Spinola — è stato la fede che (i ministri turchi) hanno e mostrano avere nella zecca della Repubblica essendosi sempre protestati non volere sentire di questo trattato alcuno se non si aggiusta che W. SS. Ser.me si contentino di far battere questa moneta in sua zecca » (33). Si rilevava inoltre, nella relazione di un esperto, come era stata la diffusione dei leoni di lega assai bassa, provenienti da più zecche anche di Germania e di Olanda a indurre i Turchi e specialmente il gran visir a « desiderare una moneta nuova di principe amico, che facesse inviolabilmente osservare quel che restasse concertato con buona fede, e con la necessaria attentione al beneficio e stabilimento del commercio ». L’accordo fu stipulato alle seguenti condizioni. La stampa doveva essere di forma leggiadra e lavorata finemente « al mulino », portando da una parte 10 scudo con l’arma della Repubblica fra due palme e all’intorno la dicitura: « Dux et Gubernatores Reipubli. Gen. » ; dall’altra un grifo reggente con gli artigli un cartellone con la scritta: «moneta argentea orientalis» in lingua turca, e intorno, a cerchio, un piccolo intreccio di foglie d’alloro. La nuova moneta avrebbe dovuto uguagliare il leone puro essendo della bontà di nove. 11 leone, originario delle Fiandre, recante da una parte l’impronta di un leone e dall’altra una sbarra intrecciata, aveva preso negli ultimi tempi il sopravvento nel levante, servendo di base per la tenuta dei libri e le scritture dei negozi, e conservando un valore fisso, mentre le altre monete, argentee ed auree, si regolavano su di esso. Era prescritto che la nuova moneta genovese fosse « ricevuta in tutte le parti del levante da qualunque persona, compresi gli stessi doganieri et esattori del Tesoro del Gran Signore, come i leoni ». Doveva però portarsi direttamente a Costantinopoli o a Smirne in casa del residente o del console in sacchetti sigillati col bollo della zecca della Repubblica e con dentro la fede rilasciata dal cancelliere del Mag.to delle monete. Ivi, dopo che fossero stati riconosciuti il peso, la bontà e l’origine delle monete, queste dovevano ricevere, con l’intervento di un ministro turco, un bollo del sultano a fine di impedire qualsiasi falsificazione. A vantaggio del Gran Signore e dei ministri ottomani si sarebbe corrisposto una contribuzione dal 4 al 5 per cento per il bollo e la introduzione della moneta stessa. Il valore di questa doveva stabilirsi in modo che all’introduttore di essa riuscisse più vantaggiosa del 4 o 5 per cento — franco della predetta contribuzione — rispetto ai pezzi da otto reali e di qualunque altra moneta spesa in levante. Veniva pure fissato che la Porta non potesse ammettere nei suoi regni qualsiasi moneta del genere; ma se «per avventura fosse conceduto a qualsiasi altra nazione il bollo d’altra moneta con spesa minore, o istabilitale valutazione più vantaggiosa » si intendessero « le medesime facilità hora per all’hora concedute alla moneta suddetta ». Rimaneva pattuito inoltre che nessuna persona pubblica o privata potesse far visite sulle navi o nelle case dei mercanti genovesi, e se si fosse trovata qualcheduna di dette monete falsificate, o di bassa lega, col bollo turco o senza di esso, « non mai si potesse pretendere da turchi, che sia stata introdotta da nazionali in generale, nè però farne sentire ad essi molestia alcuna ». (33) Ibid., Spinola al Gov., 20 maggio 1676. - 151 - , Una «persona affezionata al pubblico bene», come si definisce certo patrizio noto ed esperto in materia, presentava ai Ser.mi Collegi alcune sue riflessioni sull argomento (34). Il beneficio per il Pubblico e per i privati non poteva essere che cospicuo. Rilevantissimo — egli diceva — quello della zecca per la quantità de l’argento che in esso si batterà, e anche dei mercanti che vi faranno coniare il metallo in verghe da essi ricevuto dalla Spagna. E siccome questa moneta risulterà più vantaggiosa, nel negozio con l’oriente, di qualsiasi altra, compresi i pezzi da otto reali, ognuno procurerà di provvedersene, per cui gran numero di vascelli trafficanti col levante, a tale scopo faranno scalo a Genova, di qui prendendo «l’ultimo loro spedimento ». Poiché la nuova moneta, che doveva avere la stessa bontà e peso del leone, avrebbe potuto realizzare un utile del 3 e tre quarti per cento sugli ongari della zecca di Firenze, sarebbe stato opportuno, per attirare anche gli stranieri a provvedersene in Genova, di lasciare ai compratori il 2 e tre quarti per cento del beneficio. In tal modo la Camera Ecc.ma avrebbe goduto del-luno per cento, oltre ai soliti diritti; il che, trattandosi di somme ingenti, sarebbe stato fonte di vantaggio ben considerevole; mentre, favorita dai ministri turchi per l’utile loro, la moneta stessa avrebbe acquistato così una sicura preponderanza in tutto il traffico orientale. Ed essa doveva appunto considerarsi come una mercanzia destinata a tale traffico, impedendosene anzi l’uso nel dominio della Repubblica. Un dubbio era sorto ricordandosi tutti gli inconvenienti provocati dai funesti luigini sulla possibilità della falsificazione di questa nuova moneta e dei danni che ne sarebbero potuti derivare. Su tali danni e pericoli aveva presentata una sua esposizione, persona interpellata dalla Giunta del traffico, per es-seie vissuta qualche tempo in levante. Considerava costui anzitutto clic sarebbe stato difficile far comprendere ai Turchi l’impossibilità della Repub-bhcad impedire le falsificazioni da parte delle zecche dei feudi confinanti, mal distinti dal suo dominio; mentre tali « apparenti ragioni » erano appunto quelle su cui si fondava l’azione ostile dei ministri di tutti gli altri prìncipi, con continuo pericolo di «grossissime avanie» distruttrici del traffico. E in merito a quest ultimo si osservava particolarmente che chi avesse pagato, a mo d esempio, il pezzo da otto soltanto L. 3 (perchè di bassa lega) invece di L. 5, quale prezzo corrente, avrebbe avuto convenienza, per esitare la moneta, ad acquistare in levante un cantaro di lana a cinque pezzi anziché al costo normale di quattro. Ma in tal guisa sarebbero risultate accresciute nel prezzo le mercanzie orientali non quelle introdotte, pagate dai Turchi con la moneta buona o falsa ricevuta in corrispettivo delle loro merci o con (84) Questo scritto il Di Tucci (st. cit.) attribuisce al «saggio ispiratore del suo paese», che do-vrebbe identificarsi con Agostino Spinola q. Antonio, residente in Turchia, ed è invece, come ve-demmo, .1 q. Febee, futuro doge del 1679. Ma neppure detta esposizione di «persona affezionata» e del ministro d. Costantinopoli trovandosi essa, anonima, unita a copia della lettera 20 maggio 1676 del Ministro stesso nella busta della Giunta del traffico 1/1015. (L’originale della lettera è in Lev. tere Mm Costoni 4/2172). Dello scritto in parola il Di Tucci cita un passo a p. 14, come di un rapporto del 1675, sempre attribuito all’ambasciatore (si tratta di residente) Agostino Spinola. A pag. 16 po, esso scritto e citato ancora, riferendolo per tre volle al 1673 e mettendolo in relazione con , fatti di quel tempo; mentre c del 1676 e va connesso col « progetto» di moneta del medesimo anno. Inoltre, essendo stato esso redatto a Genova, ne consegue che la spiegazione del Di Tucci al passo: «Qui (a Costant,napoli) veramente, ecc.»; va modificata in: « Qlli (a Genova) ecc. » come del resto esige ,1 senso Infine, come si vede dalla presento esposizione, non sussiste che fosse dato allo Spinola « lineane» d, raggruppare le informazioni sul corso della moneta straniera in oriente* (p. 16); ,1 piano deha coniazione fu preparato dal residente e il Governo approvò, pur non vo-lendo comparire, mentre la mostra della moneta fu effettivamente stampata. - 152 - mercanzie aumentate artificialmente di valore, nel modo sopra indicato. Difficile sarebbe stato elevare pure il prezzo delle merci importate dalla cristianità. Nel tempo dei luigini, infatti, Inglesi e Olandesi avevano dovuto - come già si disse — ricorrere all’alterazione dei panni per non rimanere in perdita. Attendere comunque un naturale riassetto dei prezzi sarebbe stato impossibile per il mercante genovese di fronte a quelli forestieri, i quali, trafficando anche piombi, stagni, pepe e droghe, potevano trovarsi in grado di esitare per qualche tempo i loro panni anche con qualche svantaggio « per rovinare li nostri»; remota concezione del «dumping». Anche nei « cambi marittimi », che concorrevano a sostenere i traffici in genere e in particolare quello d’oriente, chi affidava panni non avrebbe potuto sostenere il pagamento del cambio in confronto di chi spediva moneta non buona con un utile del 20 o 25 per cento. Altro inconveniente, infine, sarebbe sorto dal fatto che il vantaggio di smaltire la moneta cattiva avrebbe indotto ad acquistare molte mercanzie in oriente, le quali, accumulandosi eccessivamente, avrebbero perduto valore e sarebbero rimaste invendute, rendendo impossibile la realizzazione del capitale e il suo nuovo impiego, ed arrestando così con i traffici la produzione artigiana (35). A simili difficoltà altri rispondeva esaminando anzitutto la questione di una eventuale falsificazione della nuova moneta. Quanto al paragone con la vecchia faccenda dei luigini, si metteva in rilievo che si trattava di situazioni ben diverse. Difficile e quasi impossibile appariva il tentativo di adulterazione nelle solite zecche circonvicine. Se questa si fosse praticata con impronta diversa per pezzi di uguale oppure inferiore bontà, una siffatta moneta non avrebbe potuto trovare introduzione in Turchia, data la clausola stabilita con la Porta per l’esclusione di ogni altra dello stesso tipo. Se poi si fosse conservata alla moneta la medesima figura e bontà, oltre alla forte spesa occorrente, per se stessa insostenibile, ne avrebbe impedito l’introduzione in oriente la mancanza oppure la falsificazione del bollo turco, restando esposti i fabbricatori e gli spacciatori, in Genova, ad essere impiccati, in Turchia, a finire impalati. In ogni modo sarebbe sempre stato più conveniente per i falsificatori alterare, anziché una tale moneta, limitata soltanto all’impero ottomano, qualunque altra che avesse un più largo campo d’impiego e particolarmente la più comune di tutte, cioè il pezzo da otto reali, ovunque accettato. Senza contare che la falsificazione sarebbe stata più facile per moneta più fine, come nel caso dello scudo d’argento genovese, che essendo di bontà di 11 e mezzo per libbra, non avrebbe rivelato l’alterazione con la diminuzione di un’oncia, mentre riducendo un pezzo da 9 a 8, « spicca da ogni parte il rame, che sovrabbonda, e molto facilmente si conosce». Un’altra obiezione restava da confutare ed era questa: che tutto l’argento genovese e gli stessi finissimi scudi grandi si sarebbero convertiti, con la convenienza, nella nuova moneta per il levante, determinando così negli stati della Repubblica la loro scarsezza e il conseguente accrescimento di valutazione, elemento di disordine finanziario. A ciò si rispondeva che la moneta non era destinata al levante per farne un grazioso dono al Turco, ma per cavarne vantaggiosamente preziose mercanzie, il cui valore dovesse realizzarsi in Cristianità. Inoltre si rilevava che (35) Oriente, 2774/A, Relazione ». d. - 153 - 1 argento in nessun luogo d’Europa, tranne la Spagna, valeva meno che in Genova, tanto è vero che si mandava « con tanto pericolo e spesa » a Milano, Venezia, Alemagna, Francia e «tanti altri» paesi «come ora si fa». Pertanto, con la nuova moneta, l’argento in verghe, trovando in Genova un vantaggioso impiego, non si sarebbe più mandato « a peregrinar per il mondo * ma tutto sarebbe rimasto nella Dominante, affluendovi anzi da ogni parte, e gli stessi privilegiati pezzi da otto reali non avrebbero sdegnato « di vestirsi della livrea di questa zecca, in che oltre alli utili rilevantissimi sopra espressi ne risulterà anco gran riputazione alla Repubblica Ser.ma » (36). I Collegi ordinarono alla Giunta delle monete e a quella del traffico di esaminare insieme la convenienza di confermare i capitoli stabiliti con la Porta circa la coniazione della nuova moneta. Nel frattempo il M.co Vincenzo Spinola, appaltatore dell’impresa, faceva istanza per la stampa nella zecca pubblica di una mostra di 500 pezzi del nuovo conio da inviarsi ai suoi cor-ìispondenti in Costantinopoli per sperimentare se essi riuscissero graditi e dar così impulso alla contrattazione, ove si fosse ottenuta l’approvazione del Governo. Al qual proposito la Giunta del traffico esponeva il parere che venisse autorizzata detta battuta senza impegno pubblico e a carico del postulante, il quale doveva provvedere alla coniazione col proprio argento e a mandare detta mostra ad Agostino Spinola in Costantinopoli, « come da sè ». Quando poi si fosse visto l’esito favorevole della cosa e la moneta risultasse ben accetta, i Signori Ser.mi avrebbero potuto prendere tutte le misure del caso. 1 Collegi ordinavano ancora che le due Giunte insieme esaminassero la pratica e riferissero (17 marzo 1677). La Giunta delle monete approvando la coniazione della mostra da inviarsi a Costantinopoli, suggeriva che « per escludere ogni ombra al candore col quale si maneggia questa zecca nella bontà delle monete dovesse esprimersi nella parte ove saranno improntate le parole moneta argentea orientalis» anche la dicitura che indicasse la sua bontà. E poiché si ricordava che in altro tempo si erano inviati in levante i «giorgi», moneta «che quantunque colà gradita non fu possibile continuarsene il traffico per la poca valutazione m cui era in riguardo della sua bontà, e delle altre inferiori che colà si spendevano », si proponeva che lo Spinola « ripigliasse la pratica » di detti giorgi Per ve^ere se c’era mezzo di accrescerne l’estimazione, affinchè si potesse poi decidere in base alle preferenze manifestate dai Turchi; proposta che veniva confermata dai Collegi (21 aprile) (37). Risulta che la moneta venne effettivamente battuta nella zecca della Repubblica e che le mostre furono inviate al M.co Agostino Spinola a Costantinopoli. Questi pero, in una sua relazione, ci fa sapere che «non ebbe per bene di darle alla luce », in conseguenza delle mutate condizioni, che stroncarono questo promettente affare e, poco dopo, la stessa impresa d’oriente. A parte la faccenda del Fieschi, di cui fra poco parleremo, una causa principale del generale scompiglio fu la morte del gran visir Aclimet Ko-prülü (10 novembre 1676), sotto il quale Genova aveva conseguito i privile-i (36) Giunta del Traffico, 1/1015, Rela*, anonima di « penona affezionai. >1 bene pnbbl.», dt. (37) Ibidem. - 154 - del traffico, e che aveva contribuito con tanto favore alla formulazione dei capitoli per la nuova moneta genovese. Il suo successore Kara Mustafà, avidissimo, violento, rivolto soltanto a taglieggiare con esorbitanti contribuzioni tutte le nazioni, compresa naturalmente anche Genova, non lasciava speranza per un avviamento del nuovo affare delle monete, che fu abbandonato « per non dare addito a far nuovi disegni sopra de’ nostri nazionali » (38). (38) Oriente, 2774/D, Relazione di AgoBtino Spinola. • Un unico esemplare di questa moneta con la data del 1677 fu trovato dal principe Vittorio Emanuele di Savoia nel museo di Pietroburgo. (Cfr. Corpus Nummorum Italicorum - vol. Ili, tav. XVIV • La scrittura in turco fu poi la seguente: « nove aspri di buon argento ». CAPITOLO VIII ULTIME VICENDE DELL'IMPRESA 1. - La liquidazione dei debiti del Fiesco - L'imposizione sul mercanti e 1 provvedimenti del Governo. — 2. - Vicende interne del consolato di Smime. — 3. - U violenze del gran visir Kara Mustafà, le furie francesi e le ripercussioni sul trofico genovese. 4. - Ritorno di Agostino Spinola a Genova e sua valutazione dell'impresa d'oriente - Scioglimento della residenza di Costantinopoli. 1 Come il povero Giustiniano, anche il M.co Agostino Spinola, appena sbarcato a Costantinopoli, si trovò alle prese con i debiti del Fieschi; e non era cosa a poco. Costui era riuscito, come sappiamo, a formarsi una posi-zione ben salda: sostenuto per interesse dalla Porta, amico del residente di U anda, protetto dall ambasciatore di Francia, che vedeva con compiacimento in lui uno strumento di rovina per l’impresa della Repubblica. , ,-i ProPos^° i una nuova evasione dalla patria divenutagli odiosa, probabilmente egli aveva già formato nel suo animo. Ne era stato quasi un preannuncio il rimpianto espresso nell’ottobre del 1674 per l’abbandonato eog- \l lT P?°- ~ 8CrÌV6Va al SUO conbrilmto M.co Gerolamo, la- gnandosi delle sue condizioni e del trattamento fattogli dalla Repubblica — tftor°inCp ' t mi T3 Pei!'meSS° • dimandare èssere reintegrato del danno patito, mentre potevo havere impiego in Inghilterra di braciere della Regina nrLrkt^rrï / q H° perS° pCr havere tardato P»ù del tempo prescrittomi et di questo ne posso mostrarne attestazioni autentiche». Nè è da ciedere che si trattasse di pura millanteria (1) m Zhfs a'Parigi’8o,to u guai. Ora, sostenuto dal minLTr„ di Fr^d “ ™OÌ . . i _ muti», apertamente mostrava verso mie- ïïüZïsœrLo si vide anche da ™dei £5- Era dettame della Repubblica ai suoi ministri di destreggiarsi in mezzo alle competizioni fra e Potenze, che si riflettevano, specie 7n Turchine” rapport, fra . rispettivi rappresentanti. Così, quando Agostino Spinola giuntò a Smirne, venne a conoscenza che i consoli francese Ji giunto fra di loro per avere la precedenza nella consueto risi,,*00^"° “ -T quello di Francia fn U primo ad offrirla, se ne schermì, facendo Io stesL"eon gh, altri consoli, ed in.,.tendo ancora nelle proprie scuse alle replica,eofferte delfine, pnr con . p,u vivi segni di gradimento per la sua compitezza (1) 1«. Mi». Collant., ./«,!, SMWd. . C,,.,... Fl„tbl, ^ - 156 - Com’egli, poi, arrivò a Costantinopoli, l’ambasciatore di Francia, informato della cosa, ne prese pretesto per venir meno a (juei complimenti di prammatica, che le altre nazioni gli avevano presentato. Fu necessità allora, ad evitare maggiori attriti, di valersi dell’opera dello stesso Sinibaldo, dati i suoi strettissimi rapporti con quel ministro, per venire ad un aggiustamento. E questo fu che lo Spinola scrivesse al console francese di Smirne per chiarire l’incidente, riconoscendo però esplicitamente la preminenza del suo re su quello d’Inghilterra. Naturalmente il M.co Agostino si rifiutò di accettare un simile compromesso combinato intenzionalmente dal Fieschi, rimanendo con l’ambasciatore « nelli stessi termini » pur « con reciproca corrispondenza di civiltà » (2). Era ormai evidente l’atteggiamento del M.co Sinibaldo, indifferente od avverso agli interessi della Repubblica. Quando per l’affare delle monete lo Spinola volle permettere ai Turchi quelle visite alle navi, che li convincessero della falsità delle accuse che Veneziani e Francesi avevano formulato contro la Repubblica, il Sinibaldo, sebbene fosse tanto intrinseco della Corte, aveva insinuato di far ritirare le navi fuori delle isole e di opporsi « a tutta forza al comandamento del Gran Signore » (3). Il quale consiglio, più che un segno del suo temperamento impulsivo e risoluto, ci fa pensare a un deliberato proposito di mettere il nuovo rappresentante della Repubblica e questa stessa in inestricabili difficoltà. Ordunque, il M.co Agostino aveva sùbito cercato in ogni modo di ricondurre il Fieschi alla ragione e di capacitare i ministri turchi dei suoi torti e delle pretese esorbitanti da lui accampate. Tutto fu vano, influendo il M.co Sinibaldo sull’animo del gran visir fino ad ottenere il sequestro delle navi, con la minaccia « che se fosse andato alla corte, si sarebbero queste vendute con tutte le robbe de mercanti per pagare li suoi debiti, ch’ogni giorno con nuove polize andavano crescendo in infinito ». Dalla bocca degli stessi ministri turchi, suggestionati dal Fieschi, il residente aveva sentito cose « di poco decoro » per la nazione, ed altre notizie poco liete gli inviava il dragomanno da Adrianopoli; sicché si era trovato costretto ad accettare una definitiva composizione della faccenda, mediatore il residente di Olanda Giustino Colyer. E questi, a giudizio dello Spinola, meritava gratitudine « se non per altro per essersi impiegato vivamente et a buon fine di trattenere il M.co Sinibaldo di portarsi con queste pretensioni alla Corte, dove già col piede in staffa era incamminato » (4). Il 9 settembre 1675, con atto stipulato nella cancelleria del ministro fiammingo, veniva convenuto che il M.co Agostino Spinola e i mercanti genovesi di Costantinopoli e Smirne s’impegnavano a pagare ai creditori di Sinibaldo Fieschi la somma di leoni 28 mila in tre rate, per doversene rimborsare dall’Ecc.ma Camera sopra i crediti che vi teneva il M.co Sinibaldo. La prima rata doveva versarsi sùbito in leoni sei mila di contanti e quattro mila in panni di seta e lana; la seconda nel termine di sei mesi in tanti panni della detta qualità per la somma di leoni nove mila; la terza fra un anno in tante merci come sopra per leoni nove mila; il tutto oltre l’interesse del 16 per (2) Ibid., A. Spinola al Gov., Costant., 18 dicembre 1675. • Ricordo che nel gennaio 1673 l’ambasciatore francese, mentre stava lavorando per l’espulsione dei Genovesi, mostrava la sua intrinsichezza col Fiesco invitandolo ad una commedia, che fece recitare a celebrazione della vittoria del suo re sugli Olandesi, e recandosi poscia a visitarlo con tutta la sua corte. (3) Ibid., Spinola al Gov., 18 dicembre 1675. (4) Ibid., Duplicato di lettera (s. d.) unita a quella del 18-12-1675. - 157 - cento sulle due ultime rate. La valutazione delle merci doveva essere fatta, di volta in volta, da due mercanti deputati dal residente d’Olanda. Per il restante dei debiti, poi, il Fieschi e lo Spinola insieme dovevano « passare obbligazioni in debita forma di loro propria mano ai creditori, di sodisfarli » entro due anni con l’interesse del 16 per cento. Un’aggiunta alla scrittura obbligava lo Spinola anche al pagamento di quattro anni di salari per i due dragomanni, Lorenzo Usodimare e Tommaso Geraci con relativi interessi; pagamento da effettuarsi prima della partenza del Fiesco, la quale doveva avvenire al più presto. Quanto all’obbligazione riguardante gli altri creditori non compresi nell’accordo fatto per mezzo del residente olandese, lo Spinola aggiungeva che non aveva nessun valore, perchè « con l’istessa facilità che si erano fatte si sono stracciate le polize ». Il Fieschi gli aveva, infatti, presentato da principio un elenco di creditori per una somma di pezzi 59910. Sebbene lo Spinola non fornisca maggiori spiegazioni, è molto probabile che tali debiti fossero almeno in parte fittizi (5). Fu inoltre necessario pagare 300 pezzi per lo specchio che il M.co Sinibaldo aveva dato a pegno: mentre non era stato possibile «levargli dalle mani gli apparati della cappella». I Collegi rilevavano che la soluzione realizzata era eccessiva rispetto alle istruzioni date; ma accettarono il fatto compiuto, specialmente dopo che il residente ebbe scritto il 29 dicembre 1675 che il Fieschi già da molti giorni se n’era finalmente partito per la via di Vienna (6). (5) Queste polizze sono forse in relazione con la scrittura di cui a nota 29. (6) Soltanto nell agosto del 1676, il Fieschi scriveva al Governo da Padova, dove era giunto dopo un «penosissimo viaggio», protratto molto in lungo, forse nel timore di quanto lo avrebbe atteso in patria. Egli si diceva ammalato e quindi impossibilitato a proseguire sùbito il cammino, per quanto « impazientissimo » di giustificare dinanzi ai Ser.mi Signori il 6uo operato. Veramente aggiungeva di aver veduto « con infinita mortificazione registrato con note di criminalità » il suo nome in un precetto penale trasmesso dagli Inquisitori di stato al Mortola e al Molinari di Smime. Invocava quindi la libertà di poter mostrare i suoi conti in persona, come diretto conoscitore della contrattazione di Costantinopoli e dei costumi di quella « avarissima » corte. Il Governo non rispose; e tre mesi dopo il Fieschi, condottosi infermo a Piacenza, rinnovava le sue «umilissime preghiere» (Lett. Min. Costant., 4/2172, Fieschi al Gov., Padova, 4 agosto 1676; Piacenza, 9 novembre 1676). In quel frattempo gli era anche capitato di rimanere derubato di denaro e gioie da un suo servitore «di nazione ultramontana»; e della cosa i Collegi incaricarono gli Inquisitori di stato, perche fosse catturato il ladro rifugiatosi, a quanto si diceva, in Genova, o almeno si cercasse di ricuperare i valori sottratti. (Oriente, 2774/A, ordine dei Collegi, 10 sett. 1676). Non del tutto privo di mezzi doveva quindi essere il Fieschi, come parrebbe provarlo anche il fatto che, durante la sua suc- ^ÌVa,dÌm0ra Genova ebbc 8 C0»Perare una villa in quel di Marassi. (Lett. Min. Francia, 26/ 2202, il Gov. a Paolo de Marini, Genova, 8 marzo 1683). Non so esattamente quando rientrasse in Genova. Certo il 3 gennaio 1678 gli Inquisitori di (tato riferivano ai Collegi circa una rivelazione che il Fieschi, sempre fervido nella sua fantasia, aveva loro fatto per scrupolo: che cioè, mentre era a Costantinopoli, aveva potuto riconoscere nell’origi-nale turchesco de.le Capitolazioni, non rispondente alla traduzione italiana, come la Repubblica vi si fosso dichiarata yassalla del Gran Signore. La cosa non fu presa sul serio, e la Giunta del traf-faco, interpellata, rispose che non conveniva «farvi maggior applicazione». (Giunta del Tr„ Rela-zione degli Inquisitori di stato, 3 gennaio 1678). Intantod’amministrazione della sua rappresentanza era stata sottoposta ad accurata revisione per parte del Ecc.ma Camera, e il 30 maggio 1679 gli veniva concesso un salvacondotto per un mese, dietro esibizione di «sicurtà» fino alla somma di lire 25 mila, da pagarsi entro 30 giorni, dopo che ne fosse stato dichiarato debitore, alla Camera stessa. Le «sicurtà» da lui offerte non vennero accolte; onde il 16 febbraio 1680 rivolgeva ai Ser.mi Signori una calda supplica al riguardo. In realtà il motivo principale dell'istanza era quello di sopperire ai suoi bisogni, trovandosi nell'» urgenza > di partire fra breve dal dominio della Repubblica. Egli faceva dunque presente che si trovavano in cartulario delle Compere di S. Giorgio, sotto nome di « elemosina Laurentii de Flisco » luoghi 840 il reddito dei qual, era dovuto per metà a lui e suoi discendenti, mentre dell’altra metà ri doveva — 158 - La Giunta del traffico faceva ora il bilancio finanziario e morale relativo alla condotta del gentiluomo nei fortunosi anni della sua dimora in oriente. Molti torti egli aveva, ma qualche ragione si può mettere anche al suo attivo. Che l’onorario iniziale di pezzi 2500 non fosse sufficiente, lo riconobbe lo stesso Governo, aumentando già nel 1671 quello del Giustiniano a pezzi 3000 ed approvando che anche al Fieschi si dovesse corrispondere la differenza per gli anni anteriori. Parecchie partite del periodo fra il 1668 e il 1671 non gli furono pagate che all’arrivo del Giustiniano; alcune, poi, versate al suo procuratore o a Vincenzo Spinola, non gli giunsero che dopo molti mesi. Ciò doveva costringerlo a prendere denaro ad alto interesse con grave suo danno, mentre non era stata sufficiente ad estinguere tutti i suoi debiti la somma versata dal M.co Pompeo, che si era trovato egli stesso in molte difficoltà per gli inesatti calcoli fatti a Genova. Restava però sempre che egli aveva sùbito oltrepassato i limiti assegnatigli dalle istruzioni e dal suo rango. Dopo la morte del Giustiniano, mentre poco prima era pronto alla partenza, riprese le sue funzioni, destando chiara impressione che egli stesso avesse provocato gli ordini della corte, nella quale si era radicato sempre più, non ostante gli fossero pervenuti — con 1’« aiuto di costa » per il ritorno — espliciti avvisi che non sarebbe stata riconosciuta in nessun modo tale sua posizione. Se si fossero calcolate soltanto le spese ordinarie dei suoi conti, si sarebbero potute considerare come tollerabili: ma quelle che particolarmente gli si rimproveravano come eccedenti i trenta mila pezzi, erano le spese del trattamento proprio in casa di campagna, per cavalli, persone di servizio, regali superflui, visite con rappresentanti e quelle fatte in varie circostanze come per nozze di principesse turche, banchetti offerti a ministri, grosse provviste di biancheria e simili. La somma effettiva da pagarsi, corrispondente a pezzi 32 mila, era stata dunque dal residente ripartita sulle merci teste portate a Smirne e a Costantinopoli dalle due navi, con un aggravio corrispondente a circa due quinte parti di tutti gli effetti. Ma tornate la S. Antonio e la SS. Annunziata a Genova nel gennaio 1676, i mercanti interessati, che vedevano le loro « azende » impensatamente colpite per riparare alle esigenze ed ai disordini della rappresentanza della Repubblica, rivolsero al Governo supplica pressante per essere risarciti del grave danno subito, come altre volte si era verificato in simili casi per mercanti delle altre nazioni. Di fronte alla minaccia della imminente confisca; fare « moltiplico » in perpetuo, spettando il reddito di questo, per la metà di una quinta parte, ancora a lui e discendenza, e per tutto il rimanente, al fondo destinato alla « maritazione » di figlie o a poveri della famiglia. Ora il postulante chiedeva in grazia che si « derogasse a detta colonna » trasportando «il prezzo dei luoghi in tanti altri monti della Repubblica», in modo che del «sopra più» che rendessero quei monti, potesse il M.co Sinibaldo «disporre a suo beneplacito». A beneficio, poi, dell’Ecc.ma Camera sarebbe rimasto obbligato detto « sopra più » in luogo delle «sicurtà» dovute; ma nel frattempo ne restasse a lui la «libera esigenza», fino a che, cioè, non si fossero aggiustati i suoi conti ed egli venisse dichiarato debitore. (Giunta del Traffico, 1/1015, Supplica di Sinibaldo Fieschi, 16 febbraio 1680). Non pare che la supplica abbia avuto esito favorevole. Si sa, comunque, che il Fieschi fini per ritirarsi in S. Lorenzo, luogo immune, cercandovi rifugio al fine di evitare le temute sanzioni. Non si peritò da ultimo, di diffondere per la città un’acerba satira contro la nobiltà, di cui si presumeva colpire, con il cattivo governo, l’ipocrisia religiosa e l’avidità del denaro. Ritenutone a ragione lui stesso l’autore, il Mag.to degli Inquisitori di stato lo condannò al bando per tre anni in Sicilia. Può essere che, come asserisce il libello già ricordato, si tentasse invano di catturarlo, notte tempo, nella sua casa, dopo avergli rifiutato ogni ricorso; è certo ad ogni modo che egli riuscì a rifugiarsi a Parigi, dove, naturalizzatosi francese, si poneva sotto la protezione di quella corte. Per la sua attività in Francia, si veda: 0. Pastine, Le rivendicazioni dei Fiaschi e il bombardamento di Genova del 1684, in «Bollettino Ligustico per la Storia e la Cultura Regionale», 1949, n. 2. - 159 - alle insistenze dei ministri turchi che volevano venissero soddisfatti tutti i creditori — « veri o apparenti » che fossero —; all’inevitabile pregiudizio per l’onore della nazione, i mercanti erano 6tati costretti a mostrare di accogliere volontariamente quello che era un insopportabile peso, calcolato a 38 e un terzo per cento del valore delle merci, oltre i diritti di consolato e di dogana precedentemente pagati (7). Era questo un nuovo colpo inferto, a cagione del Fiesco, a quel traffico, che si era ripreso con buon concorso di mercanti e con felice esito. Le mercanzie portate dalle due navi avevano avuto un ottimo smaltimento e non solo i panni di lana, ma anche quelli di seta e la carta, sì che gli artefici e i mercanti di questi prodotti sùbito avevano avuto ragguagli confortanti, perchè si preparassero a nuove spedizioni (8). Senonchè dopo tanta iattura, essi, sfiduciati e timorosi di nuove brutte sorprese, rimanevano perplessi o si ritiravano; laddove sarebbe stato necessario che i magazzeni genovesi in oriente rimanessero sempre ben riforniti di ogni mercanzia, perchè non ne venisse discredito ai negozianti a tutto profitto dei concorrenti forestieri. Ma chi li avrebbe assicurati che il caso del Fieschi non si sarebbe potuto ripetere, o che, per incidenti impensati, non dovessero essere, anche in avvenire, soggetti a contribuzioni rovinose come quella presente? Perchè non sarebbe valso il restringere l’autorità del ministro, in quanto lo stile dei Turchi voleva, contro ogni altro ordine, che i debiti dei pubblici rappresentanti insolvibili dovessero essere sempre pagati dai trafficanti della nazione (9). Se non si voleva l’arresto e lo sfacelo dell’impresa, bisognava riparare a tale danno e restituire la fiducia ai mercanti. A tal uopo la Giunta del traffico andava studiando i mezzi più opportuni, cominciando dall’aggiustamento definitivo dei conti di Sinibaldo Fieschi. Bonificandogli, nonostante l’insussistenza di tante sue spese, gli onorari a tremila pezzi fino all’arrivo di Agostino Spinola e l’interesse del 10 % per le somme dovute ma pagate in ritardo, detratta la partita di pezze tre mila in robe mandate alle Smirne e che non si sapeva se si trovassero in possesso dello Spinola o fossero state usurpate dal Sinibaldo, risultava rimanere a credito di costui da parte della Camera circa sei mila pezzi, che si sarebbero computati a diminuzione dei 32 mila caricati sulle mercanzie per estinzione del suo debito. A fine di reintegrare i negozianti dei rimanenti 26 mila pezzi non era pos- (7) Interessa conoscere attraverso le firme della supplica i nomi dei partecipanti. Essi sono. Giulio Pallavicino, Gio. Ambrogio Savignone, Marcantonio Franchi, Gio. Domenico Basso, Vincenzo Spinola, Nicolò Geirola, Bernardo Maffei, G. B. Rivarola, Gio. Fantini e fratelli Fantini, G. B. Ti-scornia, Francesco e Bartolomeo Ghersi, G. B. e Emanuele Mortola, il medico Bartolomeo Spinelli, Marcantonio Lomellino. ■ Quest’affare dei debiti di ministri e di scale orientali non è certo un fatto esclusivo per Genova, ma è comune alle altre nazioni. Per la Francia, le continue avanie, gli abusi non infrequenti di consoli e ambasciatori (il tutto aggravato dal sistema dei « cambi lunari » ) portarono a disordini senza fine: la nazione in tutto il seicento ne fu travagliata. Le scale, special-mente nella prima metà del secolo, si trovarono sempre indebitate e spesso per somme ingenti. Vari ambasciatori (conte de Marcheville, de la Haye) contrassero debiti che ebbero ripercussioni di carattere pubblico; ma più famosi furono quelli del conte de Césy, le cui vicende hanno parecchi punti di contatto con quello del conte Fieschi. Egli pure ebbe a subire ritardi nel pagamento della sua pensione (di lire 16 mila) per negligenza dei Marsigliesi da cui dipendeva; egli pure fu trattenuto a Costantinopoli dalla Porta per richiesta dei creditori. La liquidazione poi dei suoi debiti, incominciata nel 1628, fu «interminabile»; la Camera di commercio di Marsiglia la chiamava «la grande affaire»; i suoi conti furono regolati definitivamente soltanto nel 16811 (Mawon, opera cit., passim). (8) Giunta del Traffico, Relazione 17 ottobre 1675. (9) Ibid., Esposizione di Vincenzo Spinola, 28 gennaio 1676. — 160 — sibile pensare allo stesso Sinibaldo, vero responsabile, il quale, prima di partire per Costantinopoli, aveva obbligato o venduto tutto quanto possedeva nello stato. Neppure si poteva pretendere che la Camera, il cui erario era del resto esausto, soggiacesse, con esempio deleterio, ad addossarsi i debiti di im ministro ribelle agli ordini e non curante della reputazione del suo Principe. Chiamarne responsabile il M.co Agostino Spinola per non essersi attenuto strettamente alle istruzioni avute, era assurdo dal momento che egli aveva operato in circostanze di forza maggiore e per la stessa salvezza del traffico e del decoro nazionale. Si proponeva quindi un’imposizione sulle merci che si sarebbero fabbricate nel distretto e spedite in levante e precisamente dell’l e mezzo per cento sopra i panni di lana, e dell uno per cento su quelli di seta, sulla carta a sopra tutte le altre merci, con facoltà ai Ser.mi Collegi di prorogare detta imposizione, a rimborso effettuato, per coprire l’erario pubblico delle spese incontrate nell’apertura del traffico. Ma perchè la reintegrazione potesse avere effetto immediato, si promuoveva in S. Giorgio un prestito di pezzi 26 mila con obbligazione sui beni della Repubblica e sull’addizionale alla gabella del vino. L’ufficio delle Compere doveva rimborsarsi con la nuova imposizione sulle merci d’oriente entro venti anni a pezzi 1300 almeno all’anno; l’Ecc.ma Camera a sua volta sarebbe stata manlevata, contro ogni danno e molestia derivanti dalla deficienza d’introito dell’imposizione, da ragioni di guerra e di peste o dalla distruzione o sospensione del traffico, per parte dei mercanti stessi che dovevano imborsare il denaro, mediante obbligazioni e relative « sicurtà » non superiori a pezzi 3000 ciascuna. Si calcolava che, in condizioni non sfavorevoli, l’intera somma si sarebbe potuto ricuperare nel termine di circa 14 anni. Nel dare però comunicazione al residente Spinola dei provvedimenti presi, i Collegi aggiungevano: «e perchè la somma dei pezzi 26 mila non è bastante alla totale estinzione del danno patito, habbiamo deliberato per l’autorità che ce ne compete, che debba il restante risarcirsi ai danneggiati nell’imposizione medesima dopo però che sarà reintegrata la Casa di S. Giorgio delli pezzi 26 mila» (10). Alla elaborazione definitiva di questo disegno e alla sua approvazione da parte dei Collegi e dei due Consigli, avvenuta il 7 dicembre 1676, si giunse dopo lungo esame e ponderate discussioni. Vi era nei Collegi chi si preoccupava che quello potesse costituire un cattivo precedente per gli altri rappresentanti della Repubblica, sottilizzando, a tal riguardo, anche sulla formulazione delle proposizioni da sottoporre ai voti; che fosse sconveniente per la Camera Ecc.ma fare obbligazioni dei suoi luoghi verso la Casa di S. Giorgio per la restituzione del denaro — in caso il traffico venisse a cessare — senza avere manlevazioni sicure dei danni eventuali; che in definitiva non mettesse conto di assumere maggiori obbligazioni e spendere più lunghe riflessioni per un negozio che, costando al Pubblico un peso di 5 o 6 mila pezzi, si coltivava da poche case ed era destinato a distruggersi finito il biennio dell’appalto. A queste obbiezioni la Giunta del traffico osservava che l’imposizione proposta, sull’esempio di quanto altri Principi praticavano, veniva appunto a dimostrare che il Pubblico non soccombeva a nessun gravame per le malefatte dei suoi rappresentanti, ma solo prestava il suo credito a sollievo dei mercanti, mentre contro il Fieschi doveva procedere il Mag.to degli inquisitori di stato; (10) Lttt. Min. Collant., 5/2173, Gov. a Ag. Spinola, l.o luglio 1677. -161 — quanto alle proposizioni, si sarebbero redatte in una forma tale da togliere ogni ambiguità in proposito. Non pareva che fosse intenzione del Pubblico di abbandonare il traffico, dal momento che al M.co Agostino Spinola si era ordinato di lasciare colà un segretario per assistere gli interessi dei mercanti nazionali. Quando poi i Collegi mostrassero di voler staccare del tutto il proprio ministro, essendo interesse dei negozianti di proseguire quel traffico anche per non essere costretti a restituire il denaro avuto in prestito, potrebbe sorgere allora una qualche intesa per ridurre al minimo la spesa e attendere che lo sviluppo del commercio riuscisse in sèguito ad assicurare anche un utile. _ Questo era certo, comunque, che il negare ai mercanti la soddisfazione richiesta voleva dire procurare la sicura e immediata distruzione di quel commercio, il quale non era per nulla vero fosse a vantaggio soltanto di poc ie case. Esso era infatti il principale se non l’unico sostegno delle nuove fa -briche di panni, che ne mandavano in quelle terre per la valuta di cento mi a pezzi annui, e già si erano conquistata una vantaggiosa superiorità sulla produzione forestiera. Tali opifici fornivano il sostentamento a cinque o sei m a persone nella metropoli, già popolata di numerosi manifatturieri, mo ti ei quali, languendo ormai nella miseria per la decadenza dei « laboreri » e a seta, avevano dovuto portare in Francia il fiore di quest arte, dei cui prò otti un tempo Genova era grande emporio in Europa, mentre attualmente °'e'a provvedersene da fuori. E così pure erano disertate le già fiorenti arti e e calze, dei manti, dei pizzi neri., della carta, anche queste emigrate con artisti genovesi in altre terre. Le nuove fabbriche di Mortola e Fantini, oltre a essere il sostentamento di tanti sudditi, alimentavano altresì le gabelle^ c e, in così grave crisi, mentre in passato assicuravano ai locatari di S. Giorgio rat^° del 4 e del 5 per cento, erano ora del tutto svigorite, e languente era anche la contrattazione, la quale altra volta disponeva nelle fiere di cambio eS 1 e fetti di molte nazioni ed ora, per mancanza del credito, causata dalla diminuita attività economica, si era ridotta a limitate operazioni (11). Senza il traffico d’oriente le predette fabbriche non si sarebbero potute sostenere; nè era possibile valersi delle altre bandiere per il trasporto ei panni, perchè volendo Olandesi, Inglesi, Francesi e Veneziani sma tire a stessa qualità di merce, o non li avrebbero accettati sulle loro navi, o i a vrebbero gravati talmente da eliminarne la concorrenza, e già si era veri cato il caso di averne potuto caricare una partita per Smirne su i un \a scello inglese, soltanto dopo grandi difficoltà. L’abbandono di quel traffico avrebbe cagionato scorno e disistima presso le altre nazioni, nonché lo sdegno del Gran Signore con l’annullamento delle capitolazioni* che non si sarebbero più potute ricuperare. anto più neces sario era, invece, mantenerlo in quanto quello di Spagna si trovava a pre sente affievolito, al punto che la missione deH’ultimo convoglio si era chiusa in perdita, non giovando ad esso neppure l’attuale stato di guerra. 11 commercio delle Indie avrebbe richiesto potenti capitali raccolti in grandi compagnie di negozio come si praticava presso le maggiori nazioni, a ro frica si presentava di poco rilievo, coltivato rischiosamente con barcareccio (11) Fin dal 1665 si lamentava nelle fiere di cambio genoves. una grande « freddez“ del “ goziazione» per mancanza di credito e inoperosità di capitali: .1 g.ro del denaro, 1 « di 20 milioni di scudi (« di marche»), precipitò in quest, ann., e nel 1668 fu -Uan o d 4 nu lioni. (0. Pastine, Fiere di Cambio e cerimoniale secentesco .n « G.orn. stor. lett. dell. L.gur.a », 1940-41, fase. III-IV, I). 11 — 162 - esposto di continuo agli insulti dei Barbareschi; nè era pensabile uno sviluppo poderoso di affari in Francia, Inghilterra e Olanda di fronte alla potente attività esclusivistica di quei popoli. Non rimaneva dunque che il traffico del levante, anche se campo contrastato esso stesso e al presente disturbato dalle turbolenze di Messina (12). Ragion di stato ormai ben fondata voleva che non si limitasse ad una sola parte il commercio; quello di Spagna, ad ogni modo, aveva la sua proficua correlatività con l’altro d’oriente, in quanto una parte delle merci di là importate si esitavano poi nei porti levantini, e la maggior parte di quelle del levante si smaltivano nelle Spagne e nelle Indie (13). Assicurare ima stabile corrispondenza con i Turchi non si poteva senza garantire la protezione dei mercanti nazionali, dandone intanto prova col risarcire i danni di quanti erano stati colpiti dalle recenti contingenze. Nè era tempo di dilazionare i provvedimenti. La Giunta del traffico nel novembre 1676 comunicava esservi informazioni da Livorno e da altre piazze che quei mercanti sospendevano l’invio delle loro merci in oriente sotto la bandiera della Repubblica, spaventati dall’ultima lamentata «avaria». Bisognava intanto provvedere anche alla sistemazione della Rappresentanza, scadendo col primo maggio l’appalto in corso. A differenza del Minor Consiglio, i Collegi erano sempre irretiti in molti dubbi sulle urgenti questioni in esame. Il Senato avrebbe voluto che si trovassero espedienti, i quali permettessero di proseguire nell’intrapreso commercio senza sue gravezze. Ma questo — faceva osservare la Giunta — se era sperabile di poter conseguire fra qualche tempo, non pareva possibile nel momento attuale, in cui si cercava, dopo tante traversie, di dare nuovo impulso all’impresa, purtroppo ancora ostacolata dalla guerra di Messina e dai vascelli francesi che infestavano quei mari. In fondo non rimanevano che tre soluzioni: staccare totalmente quel ministero alla fine dell’appalto e con esso il traffico, al che era nettamente contrario 1’« universale sentimento » del Minor Consiglio per le note ragioni di prestigio e d’interesse; mantenere la rappresentanza per mezzo di residente o segretario e a carico della Repubblica, ma con suo notabile dispendio; infine continuare il sistema dell’appalto. Questo avrebbe potuto limitare le spese e le responsabilità della Camera; ma soltanto Vincenzo Spinola, dato l’interesse personale che aveva nella conservazione di quel traffico, sarebbe stato in grado di assumerne la direzione, in quelle condizioni. Senonchè a nessun accordo avrebbe egli aderito se non alla condizione che si fosse venuti alla deliberazione del dazio per il rimborso dell’ultima «avaria» (14). Dietro ordine dei Collegi, la Giunta aveva steso, dopo lunghe trattative col M.co Vincenzo, una minuta del contratto che venne più tardi stipulato con qualche modificazione (27 giugno 1677). In esso si contemplava l’appalto della residenza o della segreteria senza residenza — in caso questa carica fosse stata soppressa —, nonché del viceconsolato di Smirne e degli altri dipendenti. Il contratto doveva aver vigore per un biennio allo scadere di (12) Ribellatasi Messina alla Spagna nel 1674 e stabilito il blocco alla città, il Cattolico si ri-volse per aiuti ai Principi italiani. Mandarono navi Malta, il granduca di Toscana e Genova. Commissario generale delle cinque galee genovesi fu appunto Gio Agostino Durazzo. Ma, avendo Luigi XIV shunto la protezione dei Messinesi, le squadre ansiliarie, in osservanza al principio di neutralità fra le due Corone, si ritirarono. '13) Giunta del Traffico, 1/1015, Relazioni 5, 16 giugno, 18 agosto 1676, 4 maggio 1678. *14) Ibid., Relazione 16 novembre 1676. — 163 — quello in corso e cioè a cominciare dal 27 maggio 1677; per esso la Camera Ecc.ma doveva versare all’appaltatore, a cui rimanevano naturalmente gli utili dei consolati, pezzi annui 3250 per il residente oppure 2650 per il solo segretario, al quale si sarebbero anche corrisposti 500 pezzi come « aiuto di costa » e spese di viaggio. Lo Spinola si assumeva tutti gli obblighi e le ppese inerenti ai rapporti con la corte ottomana secondo le norme consuete e riceveva lettere patenti in bianco per eventuali nomine di nuovi consoli, dovendo però queste sottoporsi all’approvazione del Governo (15). Ma fin dal 7 dicembre 1676 — come vedemmo — era già stata approvata, anche dal Maggior Consiglio, la proposizione relativa all’imposizione sulle mercanzie per l’oriente e al prestito per il risarcimento dei mercanti colpiti dall’« avaria » causata dal Fieschi, soluzione lodata largamente dal Minor Consiglio come la più opportuna e adeguata (16). I Ser.mi Collegi inoltravano quindi istanza agli Ill.mi Protettori di San Giorgio perchè volessero effettuare un prestito di 24 in 25 mila pezzi 6opra l’imposizione decretata, e già i Consigli delle Compere ne avevano data facoltà ai Protettori stessi. La Repubblica, come sappiamo, pur affermando ben chiaro che non era per nulla tenuta a contribuire a favore dei mercanti danneggiati, si era indotta, per assistere il traffico, ad offrire sue obbligazioni alla Casa di S. Giorgio come garanzia per la restituzione della somma imprestata, nel caso che il traffico stesso fosse venuto a mancare o a diminuire eccessivamente o fosse stato necessario integrare la somma minima fissata come gettito annuale dell’imposizione in pezzi 1300. Ora il Pubblico, appunto perchè la sua obbligazione non doveva aver figura che di pura « sicurtà », intendeva essere garantito a sua volta contro ogni danno dagli stessi mercanti che avrebbero incassato il prestito. Nello stesso Palazzo Reale dinanzi al notaio o al segretario di stato o al cancelliere della Camera Ecc.ma vennero quindi rogati dal 22 luglio al 31 ottobre 1677 una serie di atti riferentisi alle obbligazioni dei diversi mercanti con relative « sicurtà », che a minor rischio non potevano essere superiori a 3000 pezze. La serie degli atti comincia con quello riguardante i M.ci Vincenzo Spinola q. Francesco e Francesco Spinola q. Battista che, per la somma che fosse loro girata dei 26 mila pezzi, si obbligavano all’Ecc.ma Camera di conservare indenne e manievare la Ser.ma Repubblica « da qualunque danno o molestia, spese et interesse», pronti a restituire alla Camera stessa la somma predetta ad ogni suo ordine quali semplici depositari. Per essi intercedevano e facevano « sicurtà » i M.ci Pier Francesco e Nicolò Fiesco del q. M.co Ugo per la somma di pezzi 2800 soldi 10, il M.co Giulio Pallavicino q. Gio Domenico per la somma di pezzi 1435 . 3 soldi . 5 denari, il M.co Gio Luca Maggiolo per la somma di pezzi 2870 . 6 . 10, il M.co Orazio Grimaldo q. Battista per la somma di pezzi 1435 . 3 . 5 « et ad ogn’altra, et ognuna delle quali sigortà li M.ci Vincenzo e Francesco hanno promesso e promettono di manievare del tutto e conservarli indenni » (22 luglio 1677) (17). (15) Ibid., Contratto 27 giugno 1677. (16) Ibid., Proposizione per il Maggior Consiglio, 7 dicembre 1676. (17) Gli stessi Spinola avevano pure chiesto di venir autorizzati a riscuotere la partita dei 26 mila pezzi che fosse assegnata a « Mortola e Castiglione ragion cantante cosi in Smirne come in Costantinopoli », essendo notorio che dette case erano dipendenti da loro, come « principali interessati (in esse)». (Giurila del Tr., Supplica di Vincenzo e Francesco Spinola, 27 giugno 1677). Seguirono quindi gli atti riguardanti gli altri mercanti: ' 22 luglio 1677 • Obbligazione a favore della Repubblica de’. M.co Giulio Pallavicino q. Gio Dome- — 164 — 2 — Mentre questi provvedimenti si cercava di attuare in Genova a salvaguardia e incoraggiamento del negozio orientale, il residente Agostino Spinola, superate le due grosse questioni del Fiesco e delle monete, si studiò di regolare ragionevolmente i buoni rapporti con la corte ottomana; di evitare i contrasti con le altre nazioni e particolarmente con quelle che avevano dimostrata maggiore avversione e animosità verso la nuova arrivata; di ricondurre a più economo avviamento la rappresentanza, interessato com’era direttamente al negozio orientale in concorso con 1’« azienda » dell’appaltatore e parente, il M.co Vincenzo, a cui era associato anche il M.co Francesco Spinola. Come vide che la vita dell’impresa andava sempre più turbandosi per vecchie e nuove avversità, pensò di attenuare le spese col licenziamento di quel dragomanno Tomaso Geraci che, sostenuto o sobillato dal Fieschi, aveva tanto inasprito il povero Giustiniano. Anche il vecchio Usodimare, che da undici anni serviva, si vide ridotto il salario a cento piastre annue, a cagione della sua età che lo rendeva incapace, e poiché egli aveva fatto le sue rimo- nico per la somma di pezzi 276 . 11 . 4 da otto reali; intercessione e sicurtà di G. B. Bonafede (e il M.co Giulio PaJavicino promette manlevarlo del tutto ecc.); M.ci Vincenzo, Francesco, Gio Nicolò Spinola e M.co Nicolò Maria Geirola si obbligano per Nicolò Mortola e per Maria Castiglione dimoranti in Costantinopoli o Smirne dove sono le loro « case ossia Compagnie sotto nome di Mortola e Castiglione » ; obbligazione del M.co Nicolò Maria Geirola col fratello M.co Gio. Batta assente. 21 luglio - obbligazione del nob. Marcantonio Grendi q. G. B., che intercede e fa sicurtà per i M.ci Nicolò Maria e G. B. Geirola. 30 luglio - obbligazione del M.co Pier Maria Gentile dell’IlLmo ed Ecc.ino Cesare, « il quale palesemente e pubblicamente negozia a scienza del padre che non le contradice e maggiore anco di anni venticinque » con intercessione e sicurtà del M.co Geronimo Mari q. Ill.mo ed Ecc.mo Stefano. 25 settembre - Obbligazione del nob. G. B. Rivarola di Gio. «maggiore d’anni venticinque che negozia a scienza del padre» con intercessione e sicurtà di Gio Benedetto Serra q. Giacinto; obbligazione del nob. Michel Angelo Spinelli di Bartolomeo con sicurtà del padre presente. 28 settembre - Obbligazione del nob. Gio Domenico Basso q. Batta con intercessione e sicurtà del nob. Gio Geronimo Mongiardino q. G. B.; obbligazione di Gio Vincenzo Mortola q. Emanuele con intercessione e sicurtà del nob. Simon Pellegrini q. Santo; obbligazione del nob. Bartolomeo Ghersi q. Francesco « tanto a suo proprio nome quanto complimentario che dice esser della Compagnia cantante sotto nome di Francesco e Bartolomeo Ghersi » con intercessione e sicurtà del M.co Gio Luca Maggiolo presente. « Anzi quando si potesse dire che l’obbligazione fatta dal suddetto non fusse sufficiente ad obbligare la Compagnia suddetta, in tal caso anche esso M.co Gio Luca per la medesima si costituisce principal debitore promissore espromissore e pagatore ecc.». 30 settembre - Obbligazione di Bernardo Maffei con intercessione e sicurtà del M.co Geronimo Spinola q. Gio Antonio; il M.co Nicolò Maria Geirola intercede e fa sicurtà per il nob. Marcantonio Grendi che ha fatto obbligazione il 27 luglio; obbligazione di G. B. Mortola ed Emanuele suo figlio « maggiore d’anni venticinque, il quale pubblicamente e palesemente negozia che suo padre lo sa e non lo contradice» con intercessione e sicurtà del nob. Gio Vincenzo Mortola presente; obbligazione del M.co G. B. Geirola, in solido col fratello Nicolò Maria che si è obbligato sotto il 22 luglio. i l.o ottobre - Obbligazione del M.co G. B. Tiscornia q. Giacomo con intercessione e sicurtà del M.co Gio Geronimo Priaroggia q. Nicolò; obbligazione di Giacinto Pijna q. G. B. e Francesco Boggia di Domenico « maggiore di anni venticinque, il quale palesemente sciente il padre non contradicen-te ecc. » con intercessione e sicurtà del N. Gio Benedetto Serra q. Giacinto e M.co Vincenzo Spinola q. Francesco. 6 ottobre - Obbligazione deH’Ill.mo sig. Luciano Lomellino con intercessione e sicurtà dell’lll.mo ed Ecc.mo Marc’Antonio 6uo fratello. 30 ottobre - Obbligazione di Gio Ambrogio Savignone q. Gio Francesco con intercessione e sicurtà di Gio B. Savignone q. Bartolomeo. 31 ottobre • Obbligazione del M.co Gio Luca Maggiolo con Francesco Boggia come principali debitori, promissore ecc.; obbligazione del nob. G. B. Mortola per il figlio Nicolò e di Tommaso Castiglione per il fratello Pier Maria Castiglione. - 165 - stranze, era stato licenziato e sostituito con Luca Barca di Ragusa, onde il poveretto ricorreva ai Ser.mi Signori per essere conservato in servizio (18). I rappresentanti consolari delle diverse scale e in particolare quello più importante di Smirne, non parevano secondare lo sforzo nuovamente tentato per risollevare le sorti della contrattazione. Giorgio d’Andrea, che di questa, come console di Gallipoli, era stato onesto e attivo collaboratore, era morto nel 1675 e non riusciva facile soppiantarlo. E’ infatti significativo che. scomparso lui, nessuno avanzò richiesta per succedergli nel consolato, « o perchè — commentava lo Spinola — in discredito o per mancanza di soggetti », mentre il fratello stesso del defunto rifiutava il posto ritenendo che non mettesse conto fare la spesa per procurarsene il «baratto» dalla Porta (19). II consolato, poi viceconsolato di Anatolia, morto il Gentile, non ebbe più tregua. Interessa soffermarci a considerare, in quest’ultima fase, le vicende agitate di detto consolato, ganglio vitale del traffico levantino, perchè ci permettono non solo di farci un’idea più precisa dell’ambiente, ma di meglio conoscere e valutare tutte le molteplici difficoltà che si frapponevano alla stabilizzazione dell’impresa genovese. Per la quale, deleteri riuscivano senza dubbio i litigi, le competizioni, i disordini interni ed i contrasti con esponenti di altre nazioni, affiorando spesso da tutto ciò, al di là dell’impegno e del puntiglio personale, una mira più lontana, tendente e scalzare la posizione, già per se stessa non eccessivamente salda, della Repubblica in oriente. Il mercante Carlo Massa, per il suo contegno retto ed energico contro il Molinari, agente del M.co Sinibaldo, era stato riconosciuto meritevole di lode e di compenso dal Governo, che gli faceva corrispondere, a titolo di premio e risarcimento di spese, 200 pezzi (20). Francesco Maria Garibaldo, nominato nel 1675 viceconsole di Smime, dove venne lasciato con la nave « S. Antonio » dal residente Agostino Spinola, morì pochi mesi dopo (10 settembre) e gli venne sostituito Gio Luigi Cartabona. Questi, venuto quale segretario dello Spinola e indirizzato sùbito per via di terra da Smirne a Costantinopoli fin dal 30 maggio 1675, aveva raggiunto la sua sede di viceconsole il 17 ottobre, dovendo tosto adoperarsi per la spedizione della nave « S. Antonio » e della « SS. Annunziata », arrivata, quest’ultima, pochi giorni dopo (28 ottobre) da Costantinopoli. Ma ecco sorgere sùbito un grosso incidente che turbò assai quei preparativi e l’ordinaria operosità del consolato. Accadeva da qualche tempo che marinai della « S. Antonio » scendessero a terra per recarsi nei giardini e negli orti prossimi alla città a rifornirsi illecitamente di frutte e di verdure, abbandonandosi anche a qualche atto di prepotenza. I greci e i turchi ortolani si erano recati più volte a presentare le proprie vive lagnanze al console; ma gli ammonimenti a nulla servivano. Uno dei capi era certo G. B. Tassara da Genova, giovane gabbiere e « capitano di caico », che recatosi il 1° novembre con altro marinaio, nocchiero di trinchetto, nel luogo detto il Mulino, trovarono in un orto un asino incustodito con una lunga corda, della quale il nocchiere se ne tagliò, per certo suo bisogno, un pezzo. Il Turco, padrone dell’asino, che era poco lontano, se ne accorse e tosto si fece loro incontro redarguendoli e minacciandoli. Ben presto da una parte e dall’altra si unirono sostenitori e comparvero bastoni e (18) Giunta del Traffico, 1/1015, lettera del Gov. ad Agostino Spinola. 11 febbraio 1676; Oriente, 2TH/A, Supplica di L. Usodimare, 20 luglio 1678. (19) Leu. Min. Costant., 4/2172, Spinoln al Gov., Costant., 15 gennaio 1676. (20) Ibid., 5/2173, il Gov. a C. Massa, 6 maggio 1676. / - '166 - coltelli. I più prudenti dei marinai consigliarono i compagni a ritirarsi prima che la cosa si facesse più grossa. Parecchi se ne andarono a vespro nella chiesa dei Cappuccini; altri si sbandarono. Il Tassara, più impegnato, fuggì verso il mare inseguito da alcuni Turchi. Uno lo raggiunse al passaggio di un rivo e lo colpì con una bastonata, facendolo cadere a terra. Impugnato il coltello, egli si difese ferendo gravemente l’avversario, quindi continuò la sua fuga, gettandosi in mare, finche, raccolto dai compagni, potè salire sulla nave. Il ferito era un servitore (Chiaus Ziaus figlio di Attolo) di Azam agà colonnello dei giannizzeri di Smirne, il quale ricorse al viceconsole genovese, perchè il reo venisse arrestato e giustizia fosse fatta. Sulla « S. Antonio », il dragomanno e il giannizzero inviati dal Cartabon non trovarono il Tassara, essendosi egli rifugiato sulla nave dell’ammiraglio Ruiter, che con altri vascelli da guerra olandesi era ancorata, come si costumava per tal genere di navi, fuori del castello. Richiesto e restituito, veniva, per ordine del Viceconsole ricevuto a bordo della « SS. Annunziata », dove il cap. Scannavino lo fece mettere ai ferri per doverlo consegnare in Genova a disposizione dei Ser.mi Padroni. Il ferito si aggravò, ma prima della sua morte, riuscì al Cartabon di giungere ad un accordo, col consenso di Azam agà, per cui l’offeso concesse il suo perdono dietro pagamento di 647 leoni, che vennero versati nella cancelleria in pezzi 614 dal cap. Ravano della « S. Antonio » per doversene rimborsare sulle robe e salari del reo principale e degli altri marinai, secondo avessero ordinato i Collegi Ser.mi. Della somma pattuita, 500 pezzi furono poi intascati dal colonnello e gli altri dal cadì e suoi naipechiodar, dal voivoda e da altri ministri della giustizia di Smime. Il convoglio genovese, carico di mercanzie, potè così far vela per Genova il 23 novembre 1675. In realtà non si era trattato di un puro fatto di cronaca e del processo per una semplice rissa. Le ripercussioni potevano essere gravi; le navi corsero pericolo di essere trattenute. Il Cartabon commentava : « Nè devo tralasciare di dire che è stata una causa al maggior segno mal intesa da Turchi contro la nazione tutta, e che da simili casi si potrebbe temere alcuna risoluzione non poco pregiudiziale al commercio » (21). Di questo egli aveva obbligo di interessarsi non solo come ministro, ma anche perchè a lui era stata pure conferita la direzione della ragion cantante di Nicolò Mortola e Pietro M. Castiglione in Smirne. Secondo quanto affermava, c’era da sperare che il negozio genovese potesse « in breve » stabilirsi e divenire « di considerazione », non ostante le opposizioni delle altre nazioni franche, le quali procuravano sempre « qualche nuova invenzione per impedirne l’avanzamento ». Il viceconsole avrebbe intanto vigilato, in conformità degli ordini avuti dalle Loro Signorie e dal residente, per l’osservanza delle gride sulle monete e per difendere le capitolazioni sempre in pericolo di essere intaccate dai ministri turchi. Così, ad esempio, era riuscito a far annullare una sentenza del cadì avversa al cap. Ravano in una causa con un marinaio veneziano, appoggiato dal suo console presso la giustizia tur-chesca, cui avevano fatto ricorso contro i privilegi della nazione genovese. Intanto il Cartabon, volendo prepararsi un riparo, nella malaugurata evenienza che la casa consolare fosse contagiata dalla peste, pensò di prendere in affitto un giardino che trovavasi di rimpetto alla casa stessa e che già precedentemente avevano tenuto a pigione i M.ci Baccio Durazzo, dimorante (21) Leti. Consoli Turchia, 1/2703, G. L. Cartabon al Gov., Smirne, 15 nov. 1675 con atti procew. - 167 - per alcuni anni a Smirne, Ottavio D’Oria e Gio Luigi Gentile. Alla morte di quest’ultimo, il giardino era passato a certo francese Mastro Gianni, taver-naro, da cui ora il Cartabon se lo fece cedere consenziente il padrone» col quale stipulò a proprio nome nuovo « temesuch » per un quinquennio a partire dal 1° aprile 1676. Il viceconsole vi fece sùbito fabbricare una piccola stanza per l’eventuale uso che dicemmo, e poi si diede a compiervi molti lavori ed abbellimenti, con nuove piante, viali, vasche si da ridurlo a perfezione. Nicolò Mortola aveva acconsentito a contribuire per metà nella spesa, che era stata di 140 piastre, oltre le 30 per l’affitto annuo. Il Cartabon, per la sua metà, aveva messo l’importo a conto debito dei consolati, considerandolo molto inferiore al costo e mantenimento di due cavalli con relativo sais per assisterli, a cui aveva rinunciato, pur spettandogli per diritto del suo ufficio. Egli riteneva che tutto ciò tornasse a « decoro e vantaggio tanto per il consolato quanto per la casa di negozio ». Nel bel giardino si riunivano infatti ogni giorno, sul tardi, parecchi fra i principali mercanti di diverse nazioni per discorrere degli affari correnti, unico mezzo in quei paesi, per a-vere gli avvisi necessari a ben dirigere i propri interessi. Alcune volte vi erano pure convenuti i rappresentanti delle nazioni franche per trattare questioni inerenti al mantenimento dei privilegi comuni, mentre era consuetudine colà, che il viceconsole, per le solite viete gelosie di precedenze e di titoli, non venisse ammesso alle normali assemblee dei consoli. Ma ecco il 24 maggio giungere improvvisamente da Costantinopoli Giuseppe Molinari con ordine del residente di assumere il viceconsolato. Il Cartabon fu sorpreso di quel provvedimento. Nella consegna dell’ufficio, chiese al suo successore se intendeva conservare il giardino alle attuali condizioni; ma questi rispose di non avere tale ordine, bensì quello di non abbonargli la spesa fatta a carico dei consolati. Sicché il ministro uscente, avuto il consenso del Mortola, che ricusò di essere rimborsato del suo contributo, decise di farne cessione al console d’Olanda Van Dam, che ne ebbe vivo gradimento. Lo Spinola, che d’ora in poi mostrerà sempre disistima verso il Cartabon, accusava costui di malgoverno nell’amministrazione del suo ufficio, facendogli intanto addebitare le spese del giardino (22). L’ex-viceconsole si appoggiò allora al rappresentante fiammingo, di cui divenne istigatore — a quanto riteneva il residente — di tutti i litigi e contrasti successivi. Col Molinari il Van Dam già aveva avuto, come si ricorderà, rapporti poco cordiali nell’occasione della morte di Gio. Luigi Gentile; ma anche verso il residente genovese ragioni di malcontento nutriva per fatti recenti. Questi, che, a dire il vero, non sono esposti dalle due parti in modo concorde, si possono così riassumere. Abramo Gabbai, ebreo, per il quale già l’ambasciatore Gio Agostino Durazzo, ora defunto, aveva procurato il « baratto » come dragomanno « ah honorem », tale sempre rimanendo in seguito, aveva avuto in Smirne, dinanzi al viceconsole Cartabon, una causa col negoziante olandese Enrico Vandersander per una forte somma che questi per varie ragioni da lui pretendeva. Il Gabai, avuta sentenza contraria, volle appellarsi al residente, per cui se ne venne a Costantinopoli con il suo oppositore. I residenti delle due nazioni, poiché il Cartabon era stato intanto sostituito, decisero che si dovesse rinnovare in Smirne il giudizio avanti il Molinari unito al console d’Olanda. L’intervento di quest’ultimo non piacque al Gabbai, e e poiché la causa venne dagli interessati portata innanzi al visir, lo Spinola (22) Ibid., Cartabon al Gor., Smirne, 27 agosto 1676. - 168 - toglieva al Gabbai la protezione della Repubblica. Era infatti norma costante presso le nazioni franche che quando fra individui di diversa bandiera sorgessero competizioni, mai il reo venisse portato alla giustizia turchesca, ma innanzi al suo giudice naturale in foro cristiano. I due litiganti finirono per accordarsi fra di loro convenendo che 1E-breo desse al mercante olandese certa roba, per il valsente di 300 pezzi, che era cosa di poco conto in confronto a quanto aveva preteso; ma che, comunque, tanto lo appagò, da farsi egli stesso supplice presso il ministro genovese perchè volesse accogliere ancora il Gabbai sotto la sua protezione, come avvenne di fatto. Dopo di che i due riconciliati ritornarono insieme a Smime. Qui essi trovarono un ambiente molto agitato e torbido per i rinnovati dissensi fra il Molinari e il Van Dam. Causa ed occasione ne era stato un certo G. B. Divizia di Stalanello, venuto da Genova con Agostino Spinola quale suo staffiere, e, dopo un anno, portatosi a Smirne presso la casa consolare con buon servato del residente. Senonchè, dopo qualche tempo, giunse dallo Spinola ordine di metterlo ai ferri per essere processato quale ladro, essendosi appropriato di molta roba di valore, che certo Domenico Borlasca, schiavo genovese, gli aveva affidato per il suo riscatto; e ciò — asseriva lo Spinola — con la complicità del Cartabon. Eseguito l’ordine, una sera (21 giugno 1676), rotti con una lima i ferri, il carcerato se ne fuggì, trovando a-silo in casa di un mercante olandese. Il Molinari ricorse allora al Van Dam, ma questi rispose di non volersi impicciare della cosa, rinfacciando il sostegno dato dal residente al Gabbai contro il Vandersander; anzi accolse sùbito dopo in casa sua lo stesso Divizia, che si diceva suddito del Cattolico. C0®1 — osservava il viceconsole genovese — si dava incentivo ai delinquenti di salvarsi sotto lo scudo di altra bandiera, rompendo le capitolazioni della Repu blica, cui spettava il diritto di giudicare i propri sudditi o protetti. II Molinari, adirato, meditò di catturare il Divizia. Un giorno che questi passeggiava nei pressi della casa consolare, i giannizzeri e dipendenti del ministro genovese ebbero ordine di prenderlo; ma egli riuscì, fuggendo, a scalare le mura del giardino sopra ricordato, cercandovi riparo come in luogo fiammingo. Il Molinari affermò, poi, di aver fatto aprire la porta di detto giardino con la chiave che era in sue mani, in quanto sosteneva forse so -tanto per propria difesa — che il giardino appartenesse sempre di diritto ai Genovesi, essendo stata illegittima la cessione del Cartabon, come di cosa pagata con denaro non suo. Ma gli altri asserivano invece che gli uomini de viceconsole genovese, forzata la porta e penetrati nel giardino, cominciarono a malmenare il malcapitato. Intervennero a questo punto tre mercanti sotto bandiera olandese (un Brancaleone anconitano, un Perfetti senese ed un Tar-gioni fiorentino), i quali liberarono il Divizia riconsegnadolo al Van Dam, che si trovava in quel momento in villa. L’urto fra il Genovese e il Fiammingo si fece allora più aspro. La violazione del giardino prendeva il sopravvento sulla faccenda del Divizia. Fu promosso un giudizio, e il Van Dam, per le spese incontrate, fece sequestrare una somma di mille pezzi da otto reali giunta con nave d’Olanda per conto genovese. Corsero anche aspre scritture da una parte e dall’altra, comunicate ufficialmente agli altri consolati con grande scandalo e discapito di reputazione. I residenti delle due nazioni, venuti a conoscenza di siffatti disordini, cercarono di trovare insieme una qualche via di conciliazione. Lo Spinola era preoccupato che l’affare si avviasse « a termini molto pregiudiziali sì per il buon - 169 - incamminamento dei negozi, come per la quiete di ambe le nazioni con eodi-efazione degli emuli » (23). Il 10 agosto 1676 i due ministri firmarono un aggiustamento che i contendenti erano impegnati ad osservare. Doveva il Molinari scusarsi col console olandese per l’eccesso commesso, contro la sua intenzione, nel giardino, licenziando inoltre, per maggior soddisfazione dell’offeso, un Ebreo sensale della casa di negozio, che per primo aveva forzata la porta. Sequestri, manifesti e scritture pubbliche si sarebbero totalmente ritirati, ristabilendo l’antica amicizia. Ad appagare le richieste del Van Dam, si stabiliva pure che fosse a lui rimborsata una parte delle spese incontrate per il giudizio. A voce si era poi convenuto che il Divizia, fermo nel negare di essere suddito della Repubblica, sarebbe stato carcerato dal console olandese, prendendo questi in deposito tutto quanto egli possedeva per metterlo a disposizione del Borlasca, il quale continuava più che mai nelle sue proteste. L’esecuzione dell’accordo venne di fatto a mancare. Giungevano intanto a Smirne il dragomanno Gabbai, raccomandato dal residente al Molinari, e il mercante olandese, di cui parlammo; e la loro venuta doveva fornire nuova esca ai disgusti e alle controversie. Il Gabbai, che non pare fosse persona molto solvibile, aveva già avuto anche altra causa con gli eredi di Cornelio van Goor, mercante olandese anche questo, morto nel 1675. Gli àrbitri eletti di comune consenso, avevano pronunciato sentenza contro l’Ebreo debitore di 1646 leoni; ma questi ne dilazionò, con promesse, l’esecuzione, appellandosi a quanto pare, anche in questo caso, al residente di Costantinopoli. Ora, fatto ritorno a Smirne, si ridestarono contro di lui le vecchie pretese degli eredi del Van Goor e, inaspettatamente, anche le altre dello Vandersander, non ostante l’accordo precedente. In tutte queste faccende c’era sempre chi soffiava nel fuoco. A Smirne, alcuni mutamenti si erano verificati. Il Molinari che era stato eletto « prò interim », punto gradito a Genova per le note ragioni, veniva sostituito, con designazione di Vincenzo Spinola e conferma del Governo, da Gio Andrea Langeti, nominato viceconsole il 14 settembre 1676 e giunto a Smirne il 24 ottobre. Fin dagli ultimi di agosto, intanto, il Cartabon era stato chiamato a Costantinopoli per rendere conto degli addebiti che gli venivano fatti; ma egli sfuggì alla sentenza di condanna, riparando in casa dell’ambasciatore di Francia, marchese di Nointel, che lo fornì di una patente (16 ottobre), con la quale lo spediva a Smirne per suo servizio. Ora, mentre il Cartabon, riprendeva a intrigare, istigando il Van Dam contro il nuovo viceconsole Langeti, questi era sostenuto e stimolato dal Molinari. Ecco come avvenne che una mattina, improvvisamente, il Gabbai fosse preso e portato innanzi alla giustizia turcliesca, dove compariva pure come procuratore non solo degli eredi del Van Goor, ma anche del Vandersander, il dragomanno del console olandese, mentre sùbito dopo detto console otteneva dal cadì che il Gabbai, in attesa dello svolgimento del processo, venisse trattenuto in prigione. La cosa, considerata come una violazione delle capitolazioni, in quanto il dragomanno genovese non poteva essere carcerato prima della condanna, spinse il Langeti, consigliato, si disse, dal Molinari, a protestare presso lo stesso cadì, facendo liberare il suo dipendente con l’esibizione della patente che lo mostrava a servizio della Repubblica. Ciò fu causa di nuovo inasprimento per il Van Dam che, come già aveva fatto altre volte, decise, con l’ap- (23) Lett. Min. Costant., 4/2172, Spinola al Gov., Costant., 19 settembre 1676. - 170 - provazione del suo residente, di rivolgersi addirittura al Governo genovese (24 agosto 1677). Con questo si lagnava anzitutto perché non si fosse venuti ad alcuna esecuzione dell’accordo stipulato l’anno precedente per le competizioni col Molinari, essendosi i residenti, dopo altre inutili conferenze, ritirati da ogni ulteriore tentativo di mediazione. Intanto — diceva — il Molinari si era fatto sempre più arrogante con discorsi ed atti sconvenienti e « degni di lui ». Ora si aggiungeva il fatto del Gabbai, con cui si mirava ad impedire che giustizia fosse fatta in difesa dei diritti di poveri pupilli. Il Governo era nettamente favorevole al console olandese. Già alle sue prime lagnanze aveva scritto allo Spinola perchè fossero osservate le clausole del concerto stabilito e venisse pagata al fiammingo quella indennità per le spese che era stata pure deliberata. Ora dopo il nuovo ricorso del Van Dam, confermava tale sua intenzione, precisando che, non essendo la faccenda del giardino cosa che riguardasse il consolato, ma soltanto il Molinari, come quegli che aveva dato origine alla lite, a questo spettava rifondere i danni e, in ogni caso, giammai al Pubblico, toccando all’appaltatore Vincenzo Spinola qualsiasi onere. Premeva comunque ai Ser.mi Signori che il console olandese rimanesse ben soddisfatto e tutto quell’affare avesse al più presto termine. Essi avevano anche rimproverato il residente di essersi valso, sia pure « prò interim », del Molinari, al presente ancora sotto processo degli Inquisitori di stato per i fatti del 1674. Al residente e al vice-console si ingiungeva infine di far intendere a costui che non desse « maggiori motivi di discorsi della sua persona » e che si contenesse « entro quei limiti che si deve da chi era suddito della Repubblica » (24). Ma lo Spinola e il Langeti, come erano avversi al Van Dam e al Cartabon, così giudicavano più benevolmente, il Molinari, che cercavano di mettere in miglior luce. Lo Spinola, poco fiducioso della sincerità anche del residente olandese di Costantinopoli, riteneva il Van Dam strumento della malvagità del Cartabon e della propria gelosia verso la nazione. Aveva aderito alle concessioni a lui fatte nel compromesso, solo stimando di dover « come si suol dire, bevere il veleno per medicina», ma giudicava il rimborso delle spese una ingiusta pretesa. Del resto non pare che il Fiammingo si accontentasse neppure dei 118 leoni riconosciutigli dai residenti; somma che ad ogni modo lo Spinola dichiarava di volergli far pervenire senza alcuna specificazione, e soltanto per obbedire agli ordini delle Loro Signorie e definire la cosa. Quanto al Gabbai, che, rimasto alcuni mesi a Smirne dopo la pronta scarcerazione, si era trasferito, sulla fine del 1676, al servizio della residenza a Costantinopoli, lo Spinola e il Langetti si domandavano, ancora più tardi (1678), come mai il Van Dam, se veramente aveva ragioni contro di lui, invece di rivolgersi al Governo della Repubblica, non era ricorso al giudice naturale ossia al residente, il quale sempre si sarebbe regolato, nel rendere giustizia, « in quella forma — assicurava — a che un ministro di VV. SS. Ser.me è tenuto » (25). Accaniti erano poi i due ministri contro il Cartabon. « Torbida natura » lo definiva lo Spinola, ed « autore di tutte queste rivolte e di molte altre », che si era riusciti a sventare. Egli con la sua malignità e le sue arti si era adoperato « per mettere in precipizio » la nazione. L’ambasciatore di Francia, sempre pronto a sostenere quanti potessero minare l’impresa genovese, (24) Ibid., Incartamento flotto 6 agosto 1676 con doc.ti del 1677; 5/2173, il Gov. ad A. Spinola, 16 marzo, 8 novembre 1677, a Langeti, 8 novembre 1677. (25) Ibid., 4/2172, Spinola al Gov., 30 marzo 1678; Lett. Consoli Turchia, 1/2703, Langeti al Gov.. Smirne, 13 aprile 1678. -•171 - come era stato prima grande amico di Sinibaldo Fieschi, ora, come vedemmo, aveva concesso patente al Cartabon, prendendolo sotto la sua protezione; per cui asseriva il Langeti — egli aveva potuto fomentare a Smirne le discordie, mirando solo « all’affronto di questo consolato » e a « mettere in precipizio questa casa » di negozio. Anche il Langeti, oltre alla carica di viceconsole aveva avuto insieme la direzione e amministrazione di detta « casa », e appena raggiunta la sede, aveva potuto riscontrare che i panni delle fàbbriche genovesi erano colà « aggraditi, nonostante la molteplicità di quelli di Olanda, Inghilterra e Francia, che per lasciarli questi a vili prezzi erano instrumento » che quelli genovesi non potessero « prendere quel respiro dovuto alla loro bontà e bellezza » (26). Ma tanti disordini, fermenti e ripicchi non potevano certo giovare al buon andamento degli affari. Se ne inpensieriva il Governo della Repubblica, cui tutte queste differenze e odiosità riuscivano molto moleste, avendo di che lagnarsi verso coloro che le provocavano. Si dovevano sfuggire le occasioni di simili impegni — scrivevano i Collegi al residente — specie « nello stato odierno delle cose, che la nazione non ha ancora istabilito nell’oriente quel saldo fondamento che se ne spera ». Eppure non ostante queste ed altre ben più gravi cure, anche le formalità del cerimoniale non tralasciavano di preoccupare i Ser.mi Signori. Proprio a proposito dell’accordo stipulato fra i due residenti, lamentavano che la Repubblica fosse stata nominata dopo i S.ri Stati Generali d’Olanda e che il loro rappresentante avesse firmato a sinistra del fiammingo. Non si sarebbe dovuto mettere neppure in dubbio la superiorità della Repubblica sull’altro stato, come in altre circostanze si era riconosciuto; tuttavia per non pregiudicare almeno la parità del trattamento ricordavano il rimedio in uso di redigere, in simili casi, due copie della scrittura, compilandola, ciascuna parte, secondo le proprie esigenze (27). Il ministro dava premurosa assicurazione; ma le cose procedevano ugualmente di male in peggio. A Smirne la quiete parve ritornare quando ormai era troppo tardi o forse appunto nella previsione di un prossimo dissolvimento degli interessi genovesi. Il 27 marzo 1679 lo Spinola scriveva infatti ai Collegi essergli giunto avviso da quella città che il Cartabon si fosse « improvvisamente convertito con aver dato molti segni di contrizione e di pentimento della vita passata ». Frutto di tale conversione « o finta o vera » era stato il « rappacificamento » del console d’Olanda col viceconsole e il Molinari, « segno evidentissimo — commentava il residente — che dalla sola malignità di esso (Cartabon), come già le avvisai, erano nell’animo assai leggiero del detto console d’Olanda fomentate e mantenute dette discordie». A buon conto, però, il Cartabon aveva dichiarato di volersene partire per Marsiglia. Il che dovette essere sentito con molto gusto dello Spinola, che già precedentemente aveva espresso al consenziente Governo l’intenzione di « levarlo da mezzo », solo trattenuto dal timore della nazione francese, che a Smirne prevaleva (28). Ma ormai lo Spinola da tempo attendeva il momento di ritornarsene in patria. Senonchè, proprio negli ultimi mesi del suo ministero, doveva incontrare ancora un’impensata e sgradita sorpresa, che lo metteva nuovamente alle prese col famigerato Sinibaldo e gli confermava le irriducibili opposizioni di (26) Lett. Consoli Turchia, Langeti al Gov., Smirne, 20 dicembre 1676. (27) Lett. Min. Costant., 5/2173, il Gov. a Spinola, 16 marzo, 8 novembre 1677. (28) Ibid., 4/2172, Spinola al Governo, 27 marzo 1679. - 172 - quell’ambiente. Nel novembre dello stesso anno 16 <9, venne infatti a conoscenza che dalla cancelleria della residenza d’Olanda era uscita una scrittura in data 1675 ,nella quale era detto, in sostanza, che lo Spinola si era obbligato a pagare al Fieschi in Costantinopoli, 36 mila pezzi, quando l’impegno non fosse stato soddisfatto dal Governo della Repubblica. A detta obbligazione era pure unita una procura, che pareva fatta al nome dello stesso residente olandese o di Maurocordato. Il cancelliere aveva poi dichiarato che si trattava della metà non ancora pagata dei debiti del M.co Sinibaldo ammontanti in complesso a 72 mila pezzi. La scrittura costituiva una falsificazione del Fiesco, presso il quale si diceva esistere l’originale. Ai chiarimenti richiesti dallo Spinola, il ministro fiammingo si era dimostrato « sfacciatamente » sostenitore dell’ex-residente, come quegli — aggiungeva il M.co Agostino « che non manca in tutte le occasioni di mostrare il livore porta contra la quiete della nazione di W. SS. Ser.me ». Ma contro ogni sua aspettazione, anche Maurocordato si era fatto protettore delle false ragioni del Fiesco, e ciò perchè irritato dalla mancata soddisfazione di quel credito che aveva come ci è noto — col Capitano d’Andrea, di cui il Governo non si era per nulla interessato, non ostante il suggerimento dello Spinola. Oltre alle rimostranze verbali, questi aveva anche inviato una protesta scritta, meravigliandosi che il Fiesco avesse atteso oltre quattro anni per far valere tale suo preteso diritto; che non si fosse riconosciuto essere detta scrittura contro l’accordo stipulato con la mediazione dello stesso residente olandese, nè gli si fosse dato parte della cosa, per legge di buona corrispondenza; pretendeva inoltre dal ministro fiammingo la riparazione di tutti i danni che potessero derivare a lui e alla sua Repubblica, se non venissero rimosse — come sperava — tutte le possibili conseguenze. A Costantinopoli, di questo affare non si fece più nulla; ma il Fieschi lo riesumò ancora più tardi in Genova, pur sempre senza esito positivo (29). (29) Certo Stefano Valeyrone il 26 aprile 1683 si costituì in Genova contro Agostino Spinola come procuratore di tal Ugo de Portes, cessionario della somma di lire 11 mila, moneta di Francia, parte del credito di 34014 leoni che Sinibaldo Fieschi pretendeva avere sul detto Spinola (cfr. O. PÀstike, «Le rivendicazioni dei Fieschi ecc.», cit.). - Si trattava di una riesumazione della scrittura, di cui nel 1679 lo Spinola, dopo le sue energiche proteste, non era riuscito ad ottenere copia in Costantinopoli, dal residente d’Olanda; copia ora invece inviata da Parigi per parte del Fiesco. Il quale, a corto di denaro, invano aveva di là rinnovato la supplica al governo per i ricordati 840 luoghi del lascito «Laurentii de Flisco», che ora chiedeva di poter trasferire in Francia, a fine di investirli nella nuova rendita della città di Parigi fondala dal re, con 1 impegno di rimettere annualmente lire mille sopra uno dei cartulari di S. Giorgio, trattenendo il rimanente per sostentare se stesso e i discendenti nel decoro conveniente alla nascita. In pari tempo (16 nov. 82) aveva cavato denaro da Ugo de Portes con la cessione del presunto credito, dapprima accampato verso la Repubblica, invocando anzi l’appoggio presso la Camera Ecc.ma dello stesso Spinola, preteso garante del credito in parola. La risposta del M.co Agostino non fu priva d ironia (22 die. 1682). Nessuno più di me — scriveva al Sinibaldo — desidererebbe che sussistessero le sue ragioni verso la Camera, perchè una «buona parte » di quanto potesse riscuotere, a me spetterebbe e agli altri nazionali che in Costantinopoli fummo forzati dai Turchi a pagare i suoi debiti. Mi spiace però che «porti di nuovo a mezzo» la scrittura della Cancelleria fiamminga di Pera, in cui si pretende che abbia dato « sicurtà » per la somma indicata, mentre essa scrittura era apparsa così apertamente priva di fondamento che venne colà del tutto abbandonata ; nè lei in Genova, dove si trovava al mio ritorno in patria, ne fece mai parola a me o ad altri. Se dunque possiede qualche scrittura autentica la faccia valere, chè avrà sempre tutta la mia cooperazione « in suo servizio e mio beneficio». Con l’occasione, anzi, la prego di voler dar ordine perchè mi sieno pagati i pezzi 285 . 10 .2 che otto anni or sono le imprestai senza alcun interesse come da sua polizza. In seguito a tale risposta il Valdeyrone, col sostegno del residente francese Saint Olon, aveva portato la pratica innanzi i Ser.mi Signori, che ne diedero incombenza alla Giunta di Marina. Ma lo Spinola, chiamato in causa, impugnò di falso la polizza che si asseriva da lui sottoscritta in Costantinopoli, esigendo - 173 - Mentre lo Spinola era disgustato di questi fatti, a Smirne il Langeti, che aveva ricevuto nel fratttempo ordine di tenersi pronto per partire ad ogni minimo cenno appena scaduto nel 1680 l’appalto, cessava di vivere (novembre 1679), lasciando al suo posto ancora Giuseppe Molinari. Questi ne informava i Collegi, rimanendo in attesa dei loro provvedimenti, e chiedendo intanto istruzioni sul modo di regolarsi per la riscossione dei consolati, dopo che, col maggio, fosse cessata l’impresa di Vincenzo e Francesco Spinola (30). 3. — Di detta impresa e della residenza di Costantinopoli vediamo ora quali furono le estreme vicende, che portarono all’abbandono della rappresentanza genovese presso l’impero ottomano. I Signori Ser.mi erano pur riusciti finalmente ad allontanare il Fieschi da Costantinopoli, costringendolo a rientrare in Genova. Senonchè, eliminato un male, altri ne sopraggiungevano non meno deleteri. Mentre l’ex-residente lasciava la Turchia, cadeva malato il gran visir Achmet Koprülü, che moriva il 10 novembre 1676 (31). Con quella del Panaioti fu questa una grave perdita per la Repubblica, che detto primo visir aveva voluto ammettere al traffico, mostrando sempre di proteggerla, come se fosse personalmente impegnato al buon esito di quell’impresa. Per somma sventura, poi, il suo successore, Kara Mustafà, fu uomo molto violento ed avido, aspramente giudicato da tutti, contemporanei e moderni. II Gran visir, padre di Achmet Koprülü ,lo aveva cresciuto col proprio figliolo e gli aveva dato in isposa una figlia. Ricoperse varie cariche e ultimamente quelle principali di capitan pascià e di caimacan di Adrianopoli. Già in quest’ultimo ufficio ebbe modo di palesare meglio la sua indole orgogliosa, feroce e venalissima, quale la dipingevano, ad esempio, anche i baili di Venezia. Il sultano lo aveva preferito al fratello del Koprülü, Mustafabeg, che restituendo il gran sigillo del defunto gran visir, aveva sperato di essere prescelto come successore. Innumerevoli sono gli arbitri, le estorsioni, le violenze commesse dal Mustafà per la sua insaziabile sete di denaro, non solo verso i Turchi, ma anche e sprattutto nei rapporti con tutte le nazioni. L’ambasciatore inglese lord Finch fu costretto a sborsare dieci mila talleri per la sua prima udienza e per impedire che venissero portati a Costantinopoli duecento mila leoni di bassa lega introdotti da suoi connazionali in Aleppo. Il residente d’Olanda Colier (1680) oltre a pagare sei mila borse (ogni borsa equivaleva a 500 reali) per ottenere l’udienza ufficiale, si vide anche togliere una casa ch’egli possedeva sul Mar Nero con promessa di futuro rimborso: e ciò perchè da alcuni anni non giungevano navi fiamminghe, come di fatto era accaduto in conseguenza della guerra con la Francia (1672-78). Anche Venezia venne colpita, avendo Kara Mustafà riesumata una vecchia pratica riguardante certo vascello naufragato nel 1674 presso un’isola veneziana, il cui presidio si diceva che si fosse impadronito del carico della nave, onde veniva imposta un’indennità di 28500 reali. l’esibizione dell’originale e reclamando per contro il rifacimento dei danni (l.o luglio 1683), (Giunta del traffico, 1/1015 e Instrutiones et relationes 3707 F). Cfr. note 5, 6. (30) Lett. Consoli Turchia, 1/2703, G. Molinari al Gov., Smirne, 20 marzo 1680. (31) Il De Hammer non segna questa data; ma quella del 10 ottobre indicata a p. 563, tomo XXII, è sicuramente errata, dal momento che lo Spinola il 20 ottobre lo diceva malato, ritenendolo non lontano dalla sua fine. Oltre i due Koprülü ricordati, detti rispettivamente «Grande o crudele» (1656-61) e «Politico» (1661-76), ottennero in questa famiglia il Gran Visirato: K. III. il «Virtuoso», fratello di Achmet (1689-91) e K. IV, il «Saggio », nipote di K. I (1697-1702). Aspri, come sempre, continuarono ad essere i contrasti con i rappresentanti francesi per il cerimoniale. Nè il Nointel, nè il Guilleragues vollero mai cedere alla pretesa del visir di farli sedere, nelle udienze, sullo sgabello senza appoggio per loro preparato ai piedi della predella (sofà) su cui era posto il sedile del ministro turco; il ritardo poi nelle visite di dovere, costava loro dure contribuzioni (32). Ma particolarmente inumano fu il trattamento fatto ai Ragusei. Il gran visir voleva che questi versassero all’erario ottomano le gabelle riscosse durante la guerra di Candia per le merci da quel porto inviate a Venezia da mercanti mussulmani, gabelle pretese per un milione e 260 mila reali; e poiché essi non avevano la possibilità di pagare così forte somma, ordinò la chiusura di detta scala e l’arresto degli ambasciatori prima in casa di un chiaus, poi nelle carceri comuni e infine nel pozzo dei condannati a morte. La persecuzione durò dal 1677 al 1679. Nessuno di quelli che parlano di quest’affare accenna — si capisce — alla parte che ebbe nella sua soluzione il residente genovese. Agostino Spinola riferiva al Governo il 10 a-gosto 1679 che i quattro ambasciatori di Ragusa erano stati liberati a condizione di pagare in due anni, oltre il solito tributo, 120 borse ossia 60 mila leoni ; « et a quest’aggiustamento — scriveva — cooperò il residente di W. SS. Ser.me in tempo», nel quale non vi era «più alcuno che volesse introdursi a parlare per loro quando restò con l’ultimo ambasciatore carcerato anche il loro dragomanno ». Ancora non si era data una precisa risposta a tutte le richieste dei Ragusei, ma essi erano certi che con qualche regalo tutto si potesse ottenere (33). Anche Genova naturalmente non poteva salvarsi dall’ingordigia del visir. Lo Spinola nel dicembre 1677 si lagnava, in forma un po’ oscura, delle « contingenze » in cui veniva posto « dall’avidità » di quel primo visir, che « senza motivo alcuno — aggiunge — e senza altra ragione vuole partita alle nostre forze considerabile, dopo essersi sodisfatto da tutte l’altre nazioni con varie avarie ». Il residente aveva cercato di opporsi; Maurocordato, il reis effendi, Io stesso luogotenente del gran visir si erano intromessi per aggiustare la faccenda, ma « non valendo con questo (ministro) nè ragione nè ricorso, non so concludeva — come anderà a terminare ». Il 18 febbraio 1678 il residente annunciava infine che era stato costretto a pagare alla Porta dieci mila pezzi da otto reali, senza precisarne la causa. Si era però inteso che dalla corte era stata avanzata la pretesa di un numero di vesti maggiore del consueto in occasione della visita d’obbligo al nuovo visir, e che lo Spinola aveva questa alquanto dilazionata offrendo il pretesto all’imposizione (34). Della reticenza i Collegi fecero appunto allo Spinola, il quale si giustificava osservando che quanto al ritardato invio dei regali, non aveva potuto comportarsi diversamente, non avendoli mandati prima il residente d’Olanda, al cui esempio gli era prescritto di attenersi. Riguardo alla visita, poi, ne aveva fatta ripetutamente istanza. Il visir finalmente aveva chiesto un regalo doppio rispetto a quello consueto, rispondendo ad una sua re- (32) I Francesi ottennero il riconoscimento delle loro richieste soltanto nel 1684, dopo la morte di Kara Mnstafà. Questi, che diresse il famoso assedio di Vienna del 1683, scontò con la testa la grave sconfitta subita. (33) Giunta del Traffico, 1/1015, Relazione 4 maggio 1670; Lett. Min. Costant., 4/2172, Spinola al Gov., Costantinopoli, 18 febbraio 1678 e 10 agosto 1679; De Hammer, op. cit., tomo XXIII; D. Levi-Weiss, op. cit., 26-27. (34) Lett. Min. Costant., 4/2172, Spinola al Gov., 18 febbraio 1678; Giunta del traffico, Relazione 4 maggio 1678. - 175 - plica, con l’accrescere le proprie pretese. Ciò si ripete più volte, ad ogni ag* giustamento cui giungeva il residente con il suo chiaià, finché il visir non pervenne alla somma che anticipatamente si era proposto di ottenere. Più tardi lo Spinola insistette nella sua relazione sul fatto che la contribuzione era stata imposta senza ragione non essendosi accampato, come per le altre nazioni, il pretesto di qualche « contravvenzione ». Rilevava piuttosto che dapprima il gran visir aveva tentato di domandare 1’« avania » stessa sotto forma di tributo, come per i Ragusei; ma che il residente aveva risposto nettamente essere egli ministro di Principe spontaneamente amico e non tributario, respingendo lo « spropositato pretesto » (35). Anche questi sgradevoli fatti dovevano avere la loro ripercussione sul traffico. Il prestito della Casa di S. Giorgio, già deliberato per la precedente « avaria » del 1675, non si era ancora realizzato. I mercanti che ne erano sempre in attesa, furono ora colpiti dalla notizia del nuovo sopruso, temendo di andare incontro ad altri gravami; sicché l’animazione che pareva riprendersi negli affari venne ancora ad allentarsi. Si ripresentò allora il dilemma se si dovesse abbandonare del tutto 1 impresa o proseguirla « con le necessarie assistenze ». Le consuete ragioni favorevoli e contrarie furono vagliate. Prevalsero le prime. La decadenza già constatata del commercio delle Spagne e le difficoltà quasi insormontabili degli altri, facevano ancora apparire come unico possibile quello d’oriente, tenuto conto anche della sua correlatività a quello occidentale e tanto più che ormai si era risolta anche la questione di Messina e i mari dall’Adriatico all’Arcipelago erano stati liberati dai corsari. Una volta avviato, il traffico non avrebbe avuto bisogno d’altro impulso. Così l’Inghilterra operava mediante una Compagnia che si diceva spendesse 18 mila pezzi all’anno per il mantenimento della rappresentanza, ricavandone molto vantaggio, mentre in Olanda non vi era alcuna spesa da parte del Pubblico, avendo i ministri stessi assunto l’appalto dell’impresa con l’assegnazione dei consolati. Ma per dare concretezza alle mete sperate sembrava necessario che qualche decorosa casa di negozio si stabilisse alle Smirne e in Costantinopoli a fine di attirarvi col proprio credito il commercio, assumendosi per alcuni anni, con i vantaggi dei consolati, tutte le spese della rappresentanza. Si pensava inoltre di allettare a tal fine, con promessa di favori e magari dell’ascrizione alla nobiltà, anche qualcuno del secondo ordine, il quale, dirigendo direttamente con persona di sua fiducia e a proprio conto tutta quella organizzazione mercantile, avrebbe potuto assicurare in avvenire una vigorosa contrattazione, non mancando — si affermava — in quelle parti abbondanza di merci e di negozi e possibilità per un fruttuoso impiego di capitali. In realtà vi era qualche persona molto facoltosa che pareva disposta ad aderire a siffatto piano e con la quale si erano iniziate trattative al riguardo. Ma era necessario sentire il M.co Vincenzo Spinola per penetrare i suoi sentimenti circa il rinnovo o meno dell’appalto, che cessava col 27 maggio 1679. Interpellato, infatti, dalla Giunta del traffico, egli dichiarava di non poter continuare negli impegni assunti oltre il termine stabilito, mentre pro- (35) Lett. Min. Costant., 4/2172, Spinola al Gov., Costant., 16 agosto 1678. • De Hammer, op. cit.. XXIII, p. 25, ricava da una relazione del residente imperiale che lo Spinola « volendo ritornare alla patria, addusse in pretesto di avervi una distillazione di acquavite e si libero con 20 mila talleri ». Lo Spinola, nella sua ultima relazione (Oriente, 2774/A), parla di uno sborso di 20 mila pezzi. -Altra notizia attinta dal De Hammer alle solite fonti tendenziose e che il Lèvanto « avendo portato seco moneta cattiva dovette comprarsi la grazia del gran visir » (p. 46). - 176 - prio allora anche il residente di Costantinopoli scriveva insistendo per essere sostituito nella carica a biennio ultimato. Unica soluzione rimaneva quindi il proseguire le trattative con la persona del secondo ordine propensa ad addossare alla sua « azenda » il carico di tutto il negozio; senoncliè, passato qualche mese da costui richiesto per « considerare le sue convenienze » e ricevere alcune risposte che attendeva da certi suoi parenti di Spagna, nulla era stato ancora definito, quando la Giunta del traffico presentava ai Collegi la sua relazione del 2 settembre 1678. Lo stesso Vincenzo Spinola aveva cooperato assai nelle trattative, anche per trovare nuove forme di accordo, nè era stata da lui abbandonata la speranza di giungere a qualche conclusione. Tuttavia, in tale attesa, il Governo, accogliendo il suggerimento della Giunta, deliberava, a premunirsi contro ogni spiacevole evenienza, che si richiamasse il M.co Vincenzo ai suoi impegni contrattuali in vista della scadenza dell’appalto, affinchè provvedesse all’obbligo di staccare dalla Porta tutti i ministri (36). In tal senso, il M.co Vincenzo rilasciava una dichiarazione scritta, augurandosi « ch’altri di lui più capace, e più fortunato » potesse intraprendere il maneggio di quel negozio. Due istanze soltanto formulava. Una interessava la fabbrica dei panni di lana, che lo Spinola raccomandava al Governo, perchè il crollo degli affari del levante non portasse con sè anche quello di tale «lavorerio», alimento di molte migliaia di sudditi e ridotto ormai alla massima precisione dell’arte (37). Di questi opifici di Mortola e Fantini si era già occupata la Giunta del traffico in una sua recente relazione. Essa aveva anzitutto fatto riconoscere alla propria presenza da appositi periti la bontà dei loro panni fini, i quali, confrontati con quelli fiamminghi, erano risultati della massima perfezione, giudicandosi « superiore il passo di questa fabbrica all’olandese ». Si suggeriva pertanto, a fine di dare incremento a questi «lavoreri», di esortare i M.ci cittadini a valersi sempre di tale prodotto nazionale, riscontrato migliore di quello forestiero, tenendo presente la sua essenziale importanza per l’incamminamento del traffico del levante e la grande utilità che offriva al popolo, specie dopo che erano tanto decadute le altre arti. I M.ci cittadini avrebbero dovuto pure impiegare loro capitali nell’ampliamento di detti opifici, mentre si consigliava di eleggere un’apposita deputazione per trovare, al medesimo fine, imprestiti ed altre forme di sussidio. Sarebbe inoltre convenuto invitare gli Ill.mi Protettori di S. Giorgio a « non usare facilità negli estimi a’ panni forastieri » che 8 introducevano, ossia a colpirli con buoni dazi doganali, come si faceva negli altri stati; proposta che otteneva sùbito l’approvazione dei Collegi (38). (36) Giunta del Traffico, 1/1015, Relazione 4 maggio 1678 e 2 settembre 1678. (37) Ibid., Vincenzo Spinola al Gov., 7 settembre e 11 ottobre 1678. (38) Ibid., Relazione 30 agosto 1678. • Il privilegio per la nuova « fabbrica di panni e pannine di quella finezza e perfezione che si esitano nel Levante e non mai praticata in Genova » — come è detto nella supplica del 29 dicembre 1667 — venne accordato dai Ser.mi Signori per 35 anni, il 5 gennaio 1668, alla « Casa di G. B. Mortola q. Emanuele e suoi figli maschi e loro eredi » e alla « Casa di Giovanni, Giuseppe Maria e Simone fratelli Fantini q. G. B. e loro figli, eredi e successori maschi». Questa manifattura di pannilani fu introdotta inizialmente in Pegli, ma si sa che aveva deposito e sede anche in Genova (Carignano), mentre il lavoro veniva eseguito in buona parte a domicilio. Domande per l'impianto di simili manifatture furono presentate fra il 1664 e il 1727. In una loro supplica del 1675, Mortola e Fantini si preoccupavano per l’intraprendenza di certo Pietro Giacomo Martinelli, mercante fallito di Bergamo, che dopo un primo tentativo di introdurre una fabbrica di pannilani in Ronco, aveva ancora rinnovate le sue istanze, sebbene il Governo avesse sù- 177 - La seconda istanza dello Spinola riguardava i mercanti che attendevano cora esecuzione del prestito da tempo deliberato a risarcimento dei danni prece entemente patiti; ritardo che manteneva in apprensione gli interessati e concorreva a smorzare il desiderio di partecipare a quel traffico. Effettiva-men e,.^ orse per la incertezza delle condizioni in cui venivano a trovarsi gli a ari in oriente, la Casa di S. Giorgio aveva sospesa tale pratica, che non è a credere ricevesse neppure in seguito compimento, dato lo svolgersi sfavorevole degli avvenimenti. La precarietà della situazione interna, la crescente esosità della corte ottomana, 1 atteggiamento sempre avverso delle altre Potenze, specie della Fran-fVj? ovetteio influire sulla indecisione di quelle persone che volevano sta-i ire in mime e Costantinopoli casa così poderosa da sostenere l’impalcatura e avviamento dell’intera contrattazione. Sono evidentemente queste persone esponenti di quella borghesia mercantile, numerosa ed arricchita, c e, pur non avendo figura politica, affiancava validamente l’attività economica i un aristocrazia amante degli affari e del lucro. Talvolta, poi, alcuni i questi individui riuscivano ad ottenere (ciò che era sempre, direttamente o indirettamente, un comprare) l’ascrizione al libro d’oro. e dicembre del 1678 la possibilità che si addivenisse alla divisata costituzione della casa di Smirne non era ancora esclusa; sicché, per lasciare a tal fane << tutte le prove et opportunità » in un tempo conveniente, il M.co mcenzo Spinola e la Giunta del traffico, venivano nella determinazione di prorogare 1 appalto ancora per un anno e cioè fino al 27 maggio 1680, salva un ulteriore proroga di comune consenso. Collegi e Minor Consiglio approvavano tosto il nuovo istrumento che rinnovava le condizioni precedenti, incluso quindi l’obbligo di ritirare del tutto la rappresentanza della Porta, al ermine fissato dal contratto (39). Ma, attraverso tanti cimenti e tante avversità, e speranze^ poste nel rassodarsi del traffico orientale andavano sempre più attenuandosi, mentre pareva svanire il pronto, auspicato stabilimento □ella ricca casa in Smirne. Ed inesorabile incombeva ormai la furia francese. Finita la guerra d’O-an a, raggiunto con i trattati di Nimega l’apogeo della sua potenza, il Re Sole si rivolse più decisamente contro Genova, secondato dalla politica dei suoi ministri, fra cui più risoluto e ostile il Colbert. Bruciava loro più che mai la comparsa dello stendardo genovese in oriente, fatto che essi consideravano sempre quasi un affronto da vendicare. Andarono quindi cercando occasioni, mendicando pretesti per colpire sodo la Repubblica e piegarla alla propria volontà. Così nel 1678 la questione del saluto alle navi del Cristianissimo portò alla prima di quelle inaudite violenze che culminarono con il bombardamento del 1684 e con le umilianti pretese che ne seguirono. Il 26 agosto i Collegi comunicavano al residente di Costantinopoli la brutta notizia. Poiché ne giugno precedente la città non aveva salutato per prima la patrona reale di Francia secondo una riforma dei saluti imposta dal re pochi anni prima, questi aveva ordinato alle sue galee di arrestare tutti i legni genovesi che incontrassero, in modo che il Governo si trovò costretto a cedere dinanzi al bito mostrato il proposito di voler salvaguardare il privilegio concesso ai predetti Mortola e Fantini, a cui venne poi prorogato per altri venti anni, il l.o febbraio 1703. (A. S. G., Privilegi riguardanti le manifatture ed altro, busta 1/2943; Artium, fala 50, n. 41-A, filza 1). In tal modo troveremo que-ste fabbriche sempre attive alla ripresa delle relazioni con l’impero ottomano nel sec. XVIII. (39) Ibid., Relazione 6 dicembre 1678; istrumento d’appalto 31 dicembre 1678. 12 - 178 prepotente volere del monarca. Ciò non ostante, il 30 luglio 1678 una squadra di 26 galee bombardava il borgo di S. Pier d’Arena, colpendo anche la lanterna, la cui batteria rispondeva con pochi tiri. Portatasi quindi verso ponente cannoneggiava il luogo di S. Remo, che si difese energicamente, e si impadroniva anche del barcareccio trovato in quelle acque. Altra squadra francese di 16 o 17 vascelli continuò poi a bordeggiare lungo le riviere e sopra la Corsica, predando il naviglio genovese che incontrava e sbarcando anche alcuni uomini presso Portomaurizio. dove saccheggiavano alcune case, ritirandosi solo all’accorrere di armati delle vicine guarnigioni. Pochi giorni prima (21 agosto) i vascelli avevano pure cannoneggiato per la seconda volta S. Remo con danni più sensibili che non avessero fatto le galee, specie al naviglio del luogo. Ora si cercava di placare il prepotente sovrano anche con la mediazione del Papa; ma — si scriveva — delle sue « intenzioni variamente si parla e ne siamo all’oscuro » (40). Questi fatti non potevano lasciare indifferenti chi si accingeva a intraprendere spedizioni di navi e di mercanzie per il levante, cosa che si sapeva sommamente molesta alla Francia. Il Governo genovese aveva ad ogni modo, come vedemmo, prorogato l’appalto dei consolati fino al maggio del 1680 e, a quanto pare, la proroga venne forzatamente ancora prolungata. Ma tutto consigliava a prendere le misure opportune per l’eventuale richiamo definitivo dei ministri del levante, cura che spettava al M.co Vincenzo Spinola, compito non era però lieve per le probabili resistenze della Porta; onde pareva che più agevole potesse riuscire la cosa se si fosse trattato di un semplice segretario, che pertanto il residente, nell’atto del suo congedo, doveva far credere di lasciare a Costantinopoli in attesa del suo successore, secondo le lettere che gli sarebbero state inviate per la Porta. Nè invero le speranze erano del tutto abbandonate, dal momento che la Giunta, prospettando anc e il caso in cui « il negozio avesse piede », rilevava che in tale eventualità si sarebbe potuto inviare a suo tempo qualche soggetto autorevole. Ma non era certo possibile che persona di prestigio si acconciasse alla sgradevole parte i sciogliere definitivamente l’impresa. Per cui furono scelti Pietro Maria Castiglione, abile mercante, che tuttavia per tale sua qualità poteva non essere riconosciuto dalla Porta, e il cap. Francesco Maria Lèvanto, meno apprezzato dal Governo della Repubblica, ordinandosi ad Agostino Spinola di pi esentare l’uno o, in caso di rifiuto, l’altro, prima con la qualifica di segretario, e ove non fosse questa accettata, con il grado di agente. Contemporaneamente veniva pure avvertito il viceconsole Langeti di prepararsi per la partenza ( luglio 1679). Si univano quindi le relative lettere per il Gran Signore e i primo visir nelle diverse forme. Il residente Spinola attendeva da mesi l’udienza per prendere congedo, finché gli riuscì segretamente di ottenerla per il 17 gennaio 1680, seb )ene spettasse la precedenza all’ambasciatore di Francia e al bailo di Venezia, c e pure stavano in attesa di essere ricevuti. Il Levanto, che era stato poi tato come agente e trovavasi allora a letto con la gotta, avrebbe dovuto effet tuare in seguito la sua «entrata» alla Porta. Senonchè il gran visir pietese che lo Spinola presentasse anche il suo sostituto. Il primo dragomanno Luca Barca e Pier Maria Castiglione andarono sùbito a prenderlo, e con la seggetta del bailo Morosini, che « cortesissimamente » l’aveva offerta con sei portantini, lo trasportarono così al palazzo di S. Ecc.za. Interprete fu Maurocor- (40) Ibid., Gov. ad Agoitino Spinola, 26 agosto 1678. - 179 — dato, e il Levanto, pur non essendo preparato alla visita, se la cavò bene. Il gran visir volle sapere se la Repubblica era in pace con tutti i Principi; se essa confinava con la Francia, col Granduca e con Venezia; offerse caffè e | le solite vesti; e infine il Levanto fu riportato a casa nel suo letto (41). 4 Tornato a Genova, il M.co Agostino prospettava nella sua relazione le condizioni di quella provincia. Bisognava, secondo lui, considerare distintamente l’interesse politico del Pubblico e quello propriamente mercantile dei privati. Abbandonare un’impresa incominciata con tanto impegno sarebbe riuscito di disdoro al cospetto delle altre nazioni, che dopo aver assistito all’introduzione del traffico genovese « con disgusto », timorose che potesse portar loro « grossi pregiudizi », ora rinnoverebbero la taccia d’« impotenza e vanità » altre volte formulata « per pura malignità ». Ed era cosa di vantaggio politico e di non poco onore il tenere presso cosi potente sovrano il proprio ministro come tutti i più grandi Principi. Una nazione, poi, come la genovese, che non aveva maggior sostegno che il traffico, come poteva privarsi di un campo di attività praticato con tanto profitto da genti provenienti da parti anche molto lontane? Il valersi di bandiera straniera non era conveniente perchè la nazione sarebbe venuta così a mancare di sicura giustizia e protezione, escludendo pure la speranza di poter dare con tale sistema grande sviluppo agli affari. Lo Spinola si spiegava l’avversione manifestatasi fra i nazionali verso questo traffico, soprattutto con i gravi disturbi provocati dal Fiesco, la morte del gran visir amico di Genova e l’avidità del successore; ma pensava che ^ forse vi avesse influito — come già ricordammo — anche la scarsa conoscenza del paese. Per questo, nella possibile evenienza di una ripresa di quella contrattazione, passato il turbine dei presente visir, consigliava l’invìo da parte del Pubblico di un vascello ben armato sotto nome di convoglio, che trasportasse merci ed insieme mercanti, i quali andassero per « prendere quella cognizione dei luoghi », di cui difettavano. Ed un grave pregiudizio era pure stato, a suo avviso, la recente espulsione della nazione ebrea, mentre si trattava di elementi più di tutti atti al negozio orientale e dai quali specialmente poteva attendersene un proficuo esercizio, come mostrava l’esempio di Livorno. Ma se quel traffico, attraverso tanti rovinosi accidenti, si trovava per la diffidenza dei particolari in bassissimo stato, non per questo doveva venir meno la speranza che, in più favorevoli condizioni, potesse un giorno riprendere vigore con vantaggio dei privati e della Repubblica. Del resto, anche in quei cinque anni di residenza del M.co Spinola (1675-80), tanto travagliati da disgraziate vicende che avevano raffreddata la cittadinanza, non erano mancati gli affari. Lo dimostrano — diceva — le « tante mercanzie qua trasportate per conto di nostri mercanti nazionali», e non solo per i bisogni della città, ma per mandarle fuori con beneficio di vetturali, dogane, ecc.; ed i i panni di lana e di seta, i coralli, la carta, le telette che si fabbricano in Ge- nova, avrebbero potuto in sèguito avere anche maggior smaltimento conservando il traffico diretto con l’oriente. Lo Spinola aveva cercato di svolgere tutta l’attività consentitagli dalle circostanze, e pur interessandosi anche di altri problemi (42), quello econo- (41) Lett. Min. Costant., 4/2172, Fr. M. Lèvanto al Gov., Costant., 27 febbraio 1680. (42) I Ser.mi Signori ponevano come primo movente della desiderata apertura del traffico « la maggior gloria del Grande Iddio», come si esprimevano nelle istruzioni destinate ai propri mi- i — 180 — mico era rimasto, in tutta la sua ardua complessità, l’oggetto essenziale del suo ufficio. Parecchi comandamenti era riuscito ad ottenere dal ringhioso Kara Mustafà. Fra gli altri di minore importanza, come quelli che accordavano la franchigia ai ceri portati da Costantinopoli a Smirne, oppure la riduzione delle spese di ancoraggio a quest’ultima scala, secondo quanto pagavano gli Inglesi, due avevano particolare valore. Un ordine venne infatti emesso che vietava di costringere i sudditi della Repubblica a contribuire in qualunque modo al pagamento dei debiti di qualsiasi loro connazionale, fosse anche un ministro. La richiesta di questo comandamento, che era fondata su un punto delle capitolazioni in vigore, mirava ad eliminare, per quanto possibile, il ripetersi di casi simili a quello del Fiesco. Il secondo comandamento costituiva un nuovo capitolo aggiunto ai privilegi goduti, quale fino a quel momento avevano ottenuto soltanto i Francesi. Come è noto le capitolazioni stabilivano per le merci un dazio del 3 per cento. « Ora pare — citiamo le stesse parole dell’ordine turco — che li mercanti genovesi le mercanzie che portano nelle nostre custodite città o trasportano da quelle, li Dazieri o appaltatori vogliono stimare le robbe più di quello che vagliano, e fanno gran stratij alli mercanti », onde si ordinava che tutte le volte che ciò accadesse, detti da- nistri, cominciando da quelle per Gio Agostino Durazzo del 5 giugno 1666; ed abbiamo visto con quanto calore questi, nella sua ambasceria, s’interessasse della costruzione o restaurazione di un* chiesa in Galata per la propria nazione. Fra le sei domande avanzate dai Francesi per le trattative concluse poi nel 1673, la terza era che si togliessero i Greci da Gerusalemme, dando l’autorità ai Francesi, e la quinta, che tutti i vescovi e gli altri religiosi del rito romano dell’impero dovessero riconoscere soltanto la protezione della Francia. I privilegi definitivamente conseguiti sancivano infatti quel protettorato della Francia sui cattolici di oriente, che rimase fondamento della futura politica di detta nazione nel levunte. E’ appunto di questo tempo la ripresa della lotta della chiesa greca contro la cattolica. Già nel 1665 il metropolita ortodosso di Chio riusciva a togliere ai cattolici, invano difesi dal loro vescovo, ben sessanta chiese con l’appoggio del caimacan Kara Mustafà, il futuro gran visir, che soprattutto mirò a soddisfare la propria avidità, estorcendo denaro agli uni e agli altri, ma in definitiva, col vantaggio dei Greci (De Hammer, XXI, 260-261). Protettore della chiesa greca fu lo stesso Panaioti, che la sostenne nella disputa religiosa con il muftì Wani e per il possesso dei Luoghi Santi. Anche dopo la sua morte, il gran visir Ahmed Kopriilü segui la stessa politica. Il 20 ottobre 1676 Agostino Spinola scriveva che tutte le speranze per il ricupero dei Luoghi Santi rimanevano vane, finché era in vita il Koprülü, ormai prossimo alla sua fine. « Non ostante tutti gli sforzi dell’ambasciatore di Francia — riferiva ai Collegi — con lettere apprettatissime del re e con le sue capitulazioni, mo to più con infinità di denari che offrivano questi Padri, non hanno avuto altra risposta che quella e scrissi aveva dato a me il Granvisire». (Lett. Min. Costant., 4/2172). Era accaduto infatti che nel 1675, dopo le alternative di un contrasto secolare, il Patriarca greco di Gerusalemme, Dositeo. aveva ottenuto un «berat» da Maometto IV, che, richiamando vecchi decreti imperiali, concedeva ai Greci il privilegio ambito ed anche l’esclusivo possesso dell edicola ricoprente la tomba di Cristo. Lo Spinola si era interessato vivamente di questa importante questione, dietro sollecitazione del suo Governo, al quale il Pontefice Clemente X aveva rivolto un suo breve in proposito. Al residente, incaricato di accordarsi con gli altri ministri cattolici per un’azione comune, era stato suggerito di indirizzarsi a Maurocordato, segretario e primo interprete della corte, come persona a cui si poteva appoggiare la pratica, perchè, essendo stato educato in Italia, si sperava — ed era pura illusione — che dovesse avere «le sue inclinazioni alla religione cattolica». (Lett. Min. Costant., 5/2173, il Gov. a Spinola, 22 giugno 1675). Dietro nuove sollecitazioni di S. Santità, il Governo stimolava, ancora più tardi, l’azione dello Spinola dopo la morte del Koprülü, sperando invano di poter ottenere dal suo successore quanto non era stato possibile prima conseguire. (20 aprile 1677). Soltanto nel 1690 i Francescani poterono rientrare in possesso dell’antico diritto. Del Panaioti — abile negoziatore anche della resa di Candia — ricordiamo la sua « Apologia dell’ortodossia », pubblicata in Olanda. Ad Alessandro Maurocordato succedette il figlio Nicola, laureato a Padova, autore di opere di medicina, storia, morale, nominato ospodaro di Moldavia nel 1711 e sostituito come primo interprete dal fratello Giovanni. - 181 - zieri dovessero accettare nell’esazione del 3 per cento altrettanta merce invece del denaro. Ciò portava ai mercanti un notevole avanzo sul pagamento delle dogane; tanto che una metà di esso venne fissato dal residente per 1 estinzione della spesa occorsa in pezzi 286 al conseguimento di cpiel privilegio (43). Ora, in soli tre anni, pur così calamitosi ed avversi alla contrattazione, ei fecero con questi avanzi delle dogane più di sette mila pezzi « assegnati per parte dell’imborso nell’avania senza che alcuno habbi aggravio per questo conto ». Lo Spinola inoltre si diceva in grado di poter affermare che vi era in Genova chi non mancava di « aver sentito qualche utili considerabili » nelle mercanzie ivi fabbricate come carta e seterie; solo non sapeva che cosa asserire aggiungeva ironicamente — circa i panni di lana, « arcano recondito solamente nella mente di chi li fabbrica ». Vi erano pure mercanti forestieri i quali, forse per il più sollecito smaltimento delle merci, che trovavano, in confronto di Livorno, nel « lazzaretto » di Genova, pensavano di rivolgersi a questa piazza, lasciando il porto toscano. E verso la fine del 1678, 10 stesso Spinola si era interessato a fine di ottenere per una casa molto ricca che Ebrei di Livorno tenevano in Smirne, un comandamento del gran visir, con cui si riconoscevano ad essa i medesimi vantaggi di dogana di cui godevano i Genovesi; il che avrebbe procurato l’utile di noleggi alla bandiera della Repubblica, di consolati e di avanzi per l’estinzione dell’ultima « avaria » (44). Comunque, sotto il presente visir, riteneva lo Spinola che non fosse conveniente operare di più ad incremento del traffico, « dubitando che il fare colà maggiore strepito, non fosse altro che il suscitare in esso nuovi pensieri di rapine » ; per questa stessa ragione egli aveva rinunciato a mettere in circolazione- - come abbiamo visto — la nuova moneta genovese. Certo, secondo 11 M.co Agostino, si doveva sempre lasciare aperta la contrattazione nel levante in attesa di tempi migliori o di qualche mutamento imprevisto, senza per altro che la Camera Ecc.ma si sobbarcasse ad un onere che non fosse di moderata entità. A tal fine bisognava rendere ben palese alle nazioni franche (perchè i Turchi poco vi badavano) la qualità di semplice agente del Lè-vanto, anche se per ambizione egli fosse portato a celarlo, affinchè si trovasse soltanto soggetto ad impegni adeguati al grado. Quando poi si fosse voluto ritirare del tutto il ministro, non si poteva dire, mancando simili esempi per altre nazioni, se avrebbe ottenuto dalla Porta la facoltà di partire. In ogni modo il Lèvanto sarebbe potuto sempre rimanere colà con un solo giannizzero e con quel soldo che la Camera gli avesse assegnato. In realtà le cose si svolsero diversamente. A Costantinopoli, il capro e-spiatorio fu proprio l’agente F. M. Lèvanto. Era appena partito il residente che capitò un biglietto minaccioso dell’ambasciatore francese (Guilleragues), chiedente la rimozione del console di Cipro, Salvatore Marino, perchè «si era reso come ribelle al suo re ». La nomina di questo console era stata fatta nel 1678 da Agostino Spinola, il quale, anzi, ne aveva desunto una più benevola disposizione nel gran visir, essendogli parso che mostrasse ora, dopo che era stato appagato nelle sue pretese, di voler favorire la nazione genovese. Certo tutti i memoriali inviatigli, compresa la licenza di stabilir detto console a Cipro, avevano avuto buon accoglimento. Il Salvatore Marino era uomo che godeva in quelle parti grande credito, esercitando da molto tempo la mer- (43) Lett. Min. Costant., 4/2172, Spinola al Gov., 20 ottobre 1676. (44) Ibid., Spinola al Gov., 20 dicembre 1678. - 182 - calura. Chiedendo ai Collegi l’approvazione della sua elezione, lo Spinola aveva fatto presente che, mentre la scala di Cipro presentava grande utilità, sarebbe stato quasi impossibile aprirla ai mercanti genovesi senza il Marino, in quanto qualsiasi altra persona che non vi fosse come lui accreditata, a-vrebbe incontrata tale opposizione per parte di tutte le altre nazioni, da non potervisi consolidare. Soltanto il Marino, inalberando, come prometteva, sopra i suoi vascelli la bandiera di Genova, poteva introdurre colà il negozio della Repubblica (45). Nell’ottobre infine il residente confermava al Senato che il nuovo console da lui eletto nel regno di Cipro, era riuscito con il suo credito e con la sua autorità a vincere ogni opposizione, specialmente del console francese « per le solite gelosie del traffico ». Egli vi si era saldamente stabilito e a proprie spese; sicché lo Spinola prevedeva che, quando si fosse avviato dai nazionali un qualche commercio verso quelle parti, se ne sarebbe potuto ricavare non poco vantaggio (46). Ora, nel suo biglietto l’ambasciatore di Francia avvertiva in modo perentorio che aveva ricevuto ordini precisi dal suo re di far punire severamente il Marino e che non poteva attendere « que le temp necessere pour la révocation de ce miserable ». Il latore del biglietto confermò poi a voce che il detto console era « il maggior inimico che avesse la nazion francese », e che si doveva deporre «prima di venire contro di lui a risoluzioni violente». Aggiunse che S. Ecc.za era ben informato che il residente lo aveva eletto « ad onta e dispetto » dell’ambasciatore Nointel, conoscendo pure « chi l’aveva negoziato et il lucro che vi era stato per il mezzo ». Il Lèvanto rispondeva di non poter nulla disporre, non essendo in suo arbitrio di nominare o deporre alcun ministro prima di riceverne autorità dal proprio Governo. Si affrettava comunque ad inviare un corriere a Smime, dove sperava si trovasse il residente, e scriveva contemporaneamente ai Collegi, perchè, in caso lo Spinola non avesse ancora provveduto, lo sentissero, appena arrivato a Genova e impartissero gli ordini sul da farsi, considerando gli inconvenienti che ne sarebbero potuti derivare al Pubblico e l’inimicizia che ne avrebbe lui stesso ereditato « con un siffatto ministro » (47). Pur non conoscendo precisamente l’esito della pratica, si comprende come questo fosse uno degli ultimi colpi assestati dai Francesi all’impresa della Repubblica, alla cui rovina — méta per lunghi anni agognata — potevano ormai assistere compiaciuti. La situazione, ad ogni modo, dovette mantenersi abbastanza equilibrata almeno fino al giugno 1681, quando il Lèvanto, comunicando la notizia dell’arrivo da Tunisi a Costantinopoli di Giuseppe Marchese, capo della insurrezione di Messina, con tre figli e un nipote per offrire al sultano, in nome del popolo, la città e loro stessi in vassallaggio, non aggiunse alcun lamento circa la sua carica (48). Ma il 31 dicembre di quello stesso anno fu una giornata tremenda per il povero Lèvanto. La causa dovette essere sempre la solita: la insufficienza del denaro e dei regali per appagare l’ingordigia specialmente del primo visir. Non conosciamo bene i particolari. Il Lèvanto nella sua lettera del l.o ottobre 1682 parla di una sua «dolorosa istoria», di «sette ore di tormento» trascorse in quel funesto giorno di S. Silvestro; e la responsabilità la fa ri- (45) Ibid., A. Spinola al Gov. Costant., 22 aprile 1678. (46) Ibid., A. Spinola al Gov., Costant., 14 ottobre 1678. (47) Ibid., Lèvanto al Gov., Costant. 13 febbraio 1680. (48) Ibid., Lèvanto al Gov., Costant., 7 giugno 1681. - 183 - salire ai « tratti indebiti » usatigli dagli appaltatori dei consolati, i M.ci Vincenzo e Francesco Spinola, che dovevano aver trascurato di fornirlo dei mezzi necessari a a sua missione. Egli infatti fin dal 14 gennaio si raccomandava ai aer.mi signori perchè ordinassero a detti appaltatori di provvederlo, secondo accoi o stipulato, dei suoi stipendi e dei regali soliti a darsi ai ministri tur-c il, « per non dar di nuovo in qualche scoglio » ; se poi si fosse voluto diversamente, gli si procurassero « i recapiti sufficienti per poter eseguire ». Per tutta risposta i M.ci Spinola gli avevano mandato « un mezzo foglio di carta » con l’impegno di pagargli, quando fosse giunto salvo a Genova o a ivorno oppure in Venezia o a Marsiglia 500 reali da otto sivigliani e messicani; ordine col quale — commenta con ironia l’agente — « non ritroverei un aspro per passare da Galata in Costantinopoli », senza contare l’insufficienza della somma promessa. I Collegi gli avevano mandato in data 14 marzo 1682 una lettera per il gran visir, con la quale, accampando il cattivo stato di salute in cui si trovava il Levanto, si chiedeva per lui la licenza di potersene ritornare alla patria. a nello stesso tempo i Ser.mi Signori gli prospettavano « di ben consultare e metter prima in bilancia se fosse meglio dare » la lettera « o tentare altra strada e scegliere quel dei due partiti potesse essere di più sicura e più pronta riuscita ». Per questo si consultasse con l’ambasciatore di Francia. Al Lèvanto parve « non poco strano che simili affari» dovesse consultarli proprio con quel ministro; ad ogni modo seguì il suggerimento, avendo in risposta da ìoT^ n0n dovesse « Per nessun conto » presentare la lettera, la quale sarebbe stato necessario accompagnare con forte spesa, non bastando all’uopo 15 mila piastre. Gli promise invece che «infallibilmente» entro il mese di agosto 1,avrebbe provveduto «di ali per il volo». Ma giunto il tempo stabilito « quando credevo — scrive l’agente — di avere le ali a fianchi, non ho trovato se non remore al timone, con molto mio dispendio per le ragioni che non posso nel corrente carattere (cioè senza cifra) esplicare». Nessuna meraviglia che 1 ambasciatore francese gli avesse mancato la parola, perchè non era quella «la ventesima volta», e quando gliela aveva osservata, era stato «a lorza di ragioni, che forse le dispiacevano perchè erano verità». II Lèvanto aveva creduto di capire che quel ministro volesse addormentarlo con belle parole per poi dirgli alla fine: «qui non v’è più niente, se puoi andare va, e se non puoi, muta cappello». Pensava poi — e questo era il peggio che tutto ciò andasse « di concerto con suddetti M.ci appaltatori » i quali insinuavano pure di decimare i suoi « miserabili stipendi » già insuf-cienti, dovendosi così credere che tentassero tutte le strade per perderlo. E a cooperare alla sua perdizione pareva fosse chiamato lo stesso ambasciatore di rrancia, sotto la cui tutela egli era stato posto, per modo che da lui gli tosse dato, « come suol dirsi, il pane con la balestra ». Con ciò S. Ecc.za Intendeva far cosa grata ai signori Spinola, i quali — a detta del Lèvanto — gli avevano fatto nascere la speranza di poter lucrare cospicui consolati per le mercanzie, che essi avrebbero mandato da Genova sotto la bandiera di r rancia. Con accoramento il povero agente si rivolgeva ai Ser.mi Padri Coscritti perche non gli ascrivessero a colpa se avesse dovuto scegliere quella str^, c"e f°sse Par8a « più sicura e di minor danno o spesa per liberare il Pubblico da questo peso» e lui stesso da «questa schiavitù». Nella migliore ipotesi sarebbe ricorso a qualche personaggio per procacciarsi i mezzi di cui necessitava; che se, poi, al ritorno fosse stato costretto a passare dal lazzaretto alle carceri, vi si sarebbe trovato sempre meglio che — 184 - in quelle di Costantinopoli ; se ciò poi fosse riuscito di « poco decoro del u blico e di poco utile per gl’interessati » non sarebbe stato per colpa sua. « ciglio bene esporre — concludeva — per servizio pubblico il collo alla cor a dell’arco, il piede ad una catena, e contribuire con mille vite, se le a\essi, al bene comune, ma con borsa non posso, perchè non ne ho nè vuote, ne piene». E rilevando che egli aveva «di già messo le cose in stato », toccava uno dei punti nevralgici della questione, con l’osservare che « per effettuar o non bastavano belle parole », nè si poteva fare queste cose « a orsa chiusa» (49). _ -j ir M Le « avanie » da cui era stato gravato dal ringhioso ed avido Jvara u-stafà, i maltrattamenti da lui subiti, le subdole ingerenze dell’ambasciatore francese, l’abbandono in cui era venuto a trovarsi, indussero il cap. F. . -vanto alla fuga. Egli riparò nell’isola di Tine, possesso dei Veneziani ( ), contro i quali si levarono per ciò le proteste dei Turchi; ma se riuscì a savare la vita, perdette le sue robe : lo stesso originale delle capitolazioni, c ìe diceva di aver portato con sè, andò smarrito. Era la fine. Eppure, ancora per gli ultimi tempi abbiamo testimonianze di tra ci sempre vivi. Sappiamo, ad esempio, che il 2 febbraio 1680 partiva da Costantinopoli la nave « Arca di Noè » del cap. Michelangelo Rosso. Ad ne, viaggio per Genova, si univa pure la « S. Antonio». Dell’« Arca » si eb e poi notizia che aveva dovuto combattere con due vascelli tunisini. Il c^P* osso, accortosi che i Barbareschi si presentavano come nemici, aveva « imbrog iato » lasciandoli avvicinare e scaricando quindi loro addosso le artiglierie, sic e ne rimasero malconci nell’alberatura con la perdita pure di 32 uomini, opo di ciò egli si ritirava a Scio inseguito dai due vascelli, contro i quali u pero protetto da quella fortezza. Da Smirne venne poi ordine all agà di quest iso a di trattenere i Barbareschi, in modo che la nave genovese potesse an arsene liberamente in quel porto. 11 fatto venne in seguito riferito da un aga, c e Tunisini stessi avevano portato con il «regalo» per il Gran Signore (^ )• La stessa violenta opposizione al console di Cipro da parte e am a sciatore Guilleragues è prova indiretta che l’attività mercantile ligure verso porti ottomani poteva sempre riuscire molesta anche a così potente emù a, qual’era la monarchia borbonica. > , .. In realtà, sebbene con la fuga del Lèvanto, l’impresa rimanesse i a stroncata, non ne venne in sèguito abbandonata l’idea, che risorse en près con nuovi tentativi di realizzazione (52). (49) Lett. Min. Costoni., 4/2172, Lèvanto al Gov., Costant., l.o ottobre 1682. ' ^“^'“eepo-tera del 14 gennaio 1682 — quando evidentemente era già tornato in liberta ne a q ^ ^ neva i particolari dell’accaduto. E’ strano come nna relazione della Giunta del ra ico fermi che nessuna missiva dell’agente esisteva in Archivio, dove invece se ne trovano (50) D. Levi-Weis, op. cit., p. 43. (51) Lett. Min. Costant., 4/2172, Lèvanto al Gov., Costant., 14 marzo 1680. (52) Questi tentativi ed i rapporti fra Genova e Turchia nel «oc. XVI11 costituiscono 1 a mento di una seconda parte del presente studio, argomento a cui già accennai in a P Genova nella lotta veneto-turca ecc., negli «Atti della R. Deputazione di St. P. per la Lig. ’ LXVI1, 1938. (cfr. pure: Di un presunto rapporto fra Genova e la Turchia nel settecento di uno storico », in « Giorn. stor. lett. della Lig. », 1941, fase. II-III). cnrietà Debbo qui aggiungere che quando il presente lavoro era stato da tempo consegnato a a Ligure di Stor. P. per avviarlo alla stampa, è uscito il volume di GIULIO GIACCHERÒ, « -economica del settecento genovese» (Casa Ed. «Apuania», Genova, 1951). Questa acuta e origin opera, per la specifica competenza dell’autore, per l’ampiezza e la peculiarità della docuinentazio d’archivio, assume pregio di testo fondamentale, e, per ora, unico rispetto ad una più giusta va 185 - Ma intanto la Francia poteva pensare di aver raggiunto il suo scopo; ed il Re Sole, irritato al massimo e non dimentico degli affronti ricevuti, quali egli giudicava le affermazioni di libertà della Repubblica, già di questa meditava l’estrema rovina. Invero, le drammatiche vicende del 1684 si collegano direttamente, attraverso le continue ed aperte ostilità dei ministri di Luigi XIV, con quelle dell’impresa d’oriente, il cui triste epilogo era tanto recente quando le bombe del Seignelay flagellavano la città di S. Giorgio. tazione dell’economia ligure del sec. XVIII, la quale viene così inserita adeguatamente nel processo storico di tale aspetto essenziale della vita italiana ed europea settecentesca, ricevendone nel contempo luce nuova la stessa struttura e funzione politico-sociale della Repubblica oligarchica genovese. Di necessità, l’autore ha dovuto pure, entro certi limiti, occuparsi, a guisa di premessa, della materia che è oggetto del presente studio. Occorre quindi notare che, come era inevitabile, fra i documenti adoperati indipendentemente in entrambi i lavori, alcuni si corrispondono derivando dalla medesima fonte. Di parecchi fra detti documenti, già mi ero valso parzialmente in « La politica di Genova ecc. » sopra cit. . . - _ .....: . . . o INDICE Cap. I — IL RIALLACCIAMENTO DEI TRAFFICI CON L’ORIENTE : 1. Aspirazioni verso l’oriente: rapporti e tentativi di accordi coll’impero ottomano (1528-1648) (5). — 2. Le fallaci speranze nella Francia (1654-61) (13). — 3. La missione di Gio Agostino Durazzo a Costantinopoli e il conseguimento dei privilegi commerciali (1665-66) (17) . . • . pay. 5 Cap. II — IL PROBLEMA DELLA MONETA: 1. La situazione monetaria in Turchia - La falsificazione dei « luigini » e le zecche dei feudi imperiali (25). — 2. Le offerte dell’armeno Deodato di Giovanni e la preparazione del convoglio per l’oriente (33). — 3. La proibizione del monetino e il contratto col Deodato (37) ....... . • . » 25 Cap. Ili — IL PRIMO CONVOGLIO DI MERCANZIA E LE OPPOSIZIONI DELLA FRANCIA: 1. L’Ambasceria di G. A. Durazzo (1666-67) (43). — 2. Le opposizioni della Francia fino al ritorno a Genova del Durazzo (29 giugno 1667) (47). — 3. L’azione diplomatica a Parigi in difesa della Repubblica e la reazione francese (1667-69) (54) . . . . » 43 Cap. IV — LA CRISI MONETARIA E I SUOI RIFLESSI POLITICO-ECONOMICI: 1. Fallito tentativo di risanamento monetario: il prevalere dei « timini » (61). — 2. La discussione in Genova sulla stampa del monetino (66). — 3. La coniazione del « giorgino » e sua effimera fortuna in oriente (72). — 4. I nuovi monetini della Repubblica - L’aggravarsi della crisi e le accuse contro i Genovesi (77). — 5. Nuova offensiva contro Genova per le falsificazioni monetarie e sua efficace difesa (84) . . > 61 Cap. V — LA RESIDENZA DI COSTANTINOPOLI E IL CONSOLATO DI SMIRNE: DISORDINI INTERNI: 1. Sinibaldo Fieschi: l’uomo e il suo ministero fino al 1671 (91). — 2. La nomina del nuovo residente Pompeo Giustiniano (97). — 3. Tragica fine del Giustiniano e riconferma del Fieschi - La sostituzione del console D’Oria (102) . . . . » 91 Cap. VI — ORGANIZZAZIONE E ATTIVITÀ’ MERCANTILE: 1. Esigenze del traffico e funzione del consolato (107). — 2. Consolati genovesi in oriente e loro vicende (110). — 3. Merci e mercanti (117). — 4. Navi forestiere e nazionali (122). — 5. Difficile situazione del mercato orientale - Ostilità di Francesi e Barbareschi (129) ... . . . * 107 Cap. VII — TENTATIVI DI RISANAMENTO: IL SISTEMA DELL’APPALTO: 1. Mancate missioni di Giovanni Durazzo e G. Luigi Gentile -Vincenzo Spinola e l’appalto dei consolati (135). — 2. Malefatte del Fiesco a Smirne ed elezione del residente Agostino Spinola (142). — 3. Nuove calunnie sventate - La moneta del 1676-77 (146).....* 135 Cap. Vili — ULTIME VICENDE DELL’IMPRESA: 1. La liquidazione dei debiti del Fiesco - L’imposizione sui mercanti e i provvedimenti del Governo (155). — 2. Vicende interne del consolato di Smirne (164). — 3. Le violenze del granvisir Kara Mustafà, le furie francesi e le ripercussioni sul traffico genovese (173). — 4. Ritorno di Agostino Spinola a Genova e sua valutazione dell’impresa d’oriente - Scioglimento della residenza di Costantinopoli (179)...........»155 Finito di stampare nell’istituto Grafico Bertello di Borgo S. Dalmazzo il 23 dicembre 1952