GIORNALE LIGUSTICO DI ARCHEOLOGIA, STORIA E LETTERATURA FONDATO E DIRETTO DA L. T. "BELGRANO ed Λ. ERI ANNO DECIMO GENOVA TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDÇCCLXXXIII ANSALDO CEBÀ (Contin. v. a. IX fase. X-XI p. 386). Silvestro Grimaldo genovese si faceva al principio dell’anno stesso editore de’ Sylvarum libri IV di lui in Anversa, facendolo ritrarre dal Rubens al sommo della bella antiporta, che adorna, scolpita in rame da Th. Galleo, la magnifica edizione plantiniana, dedicandola con sua lettera al sullodato Eminentissimo , e ammansendovi un bizzarro indirizzo di 8 J OO O pagine in 4.0 Felicitatis Alumnis, Philosophiae. Citharoedis, suo vierito beatis, alieno mendicis, il che io non giurerei che non potesse aver qualche allusioncella allo sprezzante nostro Cebà, sapendo coni’ ei scrisse al parente Gaspare , di cui sopra, e non avendo io mai ne’ suoi scritti trovato neppure un cenno interptetativo del Mascardi, il quale, come vedremo più innanzi, gli potè anche prestare qualche servigio. Gio. Giacomo Lomellino, al quale non vedo scritto alcuna lettera dal Cebà, che ne pubblicò una ad un Gioffredo, giudicò lo stesso anno « degne di stampa » le orazioni dello stesso Mascardi, e ne fece fare al Pavoni una bellissima edizione in 4.0 di 379 pagine numerate, giubilandone al sommo 1’ Autore dedicante, anche pel frontispizio delineato da « Lu-cian Borzone, il quale tutto che sia pittore assai stimato nella sua patria, non s’è però contentato De la gloria minor de 1’ arti mute ma sa garrir con le Muse, quando gli salta il capriccio ». Ed eccoti qui pure un Tommaso Grimaldi, al quale è intitolato 4 GIORNALE LIGUSTICO il discorso « intorno al furore poetico (i) ». Che anche questo possa ferire il Cebà, n’ avremo occasione di dubbio in appresso. Non voglio qui omettere, come almeno curiosità tipografica, che al sommo dell’ antiporta e un Impresa, riprodotta più in grande nell’ ultima delle varie pagine preliminari non numerate , dove un elefante con varie frecce a fior di pelle e il motto dira cruorem, e sotto i versi di Lucano ond’è tolto. Il che ci fa intendere che non mancarono in Genova al Mascardi i « cuori angusti e plebei », com’ei dice nella Dedicatoria, dei quali è proprio « mendicar materia di maldicenza donde non si dovrebbe ». Di questa miseria ritoccheremo altrove; devo qui aggiungere ai lodatori del Mascardi il prefato Pier Giuseppe Giustiniani, che gli indirizzò una delle suddette sue odi, intito-iata La Corte (2). Più di tutte gradite però gli dovettero tornare le lodi di Gabriele Chiabrera, tributategli alla presenza degli stessi Addormentati, da lui già scossi tanto piacevolmente. Bello è l’intendere da lui stesso come il gran Savonese vi fece i cinque discorsi ricordati dallo Spotorno (3), e ristampati a Milano, col resto delle opere, il 1834 da Nicolò Bettoni. « Io fui ritroso alle voglie de’ miei Signori... Dissi della mia grave età, e che mirassero i miei bianchi capelli e le mie guancie rugose, esposi che mi mettevano a paragone di uomini, i quali io non volea salvo che per maestri, di cui lo splendore grandissimo oscurava ogni lume d’Italia, avvegnacchè essi tutta Italia rischiarassero (4) »... Nelle quali (1) Pag. 338-379. (2) Odi encom. pag. 113-119. (3) Stor. letter. IV, 252; pubblicati la prima volta in Genova pel Fran-chelli il 1670 in 12.0. dedic. dall’ edit. Alessandro Dego a Francesco Rebuffo. (4) Ediz. milan, pag. 383, col. i.4. GIORNALE LIGUSTICO 5 parole, sien pure, più che umili, lusinghiere (il Cebà le avrebbe sdegnate come servili) sta certamente il segreto della fortuna che tanto arrise al Provinciale, quanto fece sempre il viso dell’ arme al nostro archimandrita di vecchio nobilissimo sangue. Nè alla potenza di questo negava il gentil Suddito gli ossequi, come dirò altrove; ma in quei discorsi, e precisamente in quello,'dove della magnificenza, neppur lo nominava (benché presente, con altri, il suo amicissimo Agostino Pallavicino di Stefano, poi Doge, ricordato più tardi dallo stesso, come colui che nell’Accademia soleva mostrarglisi benevolo (i)), laddove diceva: « Abbiamo veduto il Marino scendere dalle cime d’ Elicona carico di tante ghirlande, che tante non ne furono per Γ addietro sulle tempie di alcuno, benché diletto e carissimo alle muse-(2) ». Ed avea egli lodato prima «un Mascardi, il quale, alla sembianza di Demostene, ha , favellando, più d’ una volta scosse Genova e Roma ed altre famose città » (3). Dello stesso scriveva il 26 agosto 1629 da Savona a Pier Gius. Giustiniani : « Se il sig. Mascardi è tuttora costì, e Y. S. l’incontra, lo saluti per mia parte : io lo riverisco come grande ingegno, ma sono di più obbligato per molte cortesie ricevute da’ suoi in Sarzana (4) ». E dovette essere lo stesso anno 1629 che il Chiabrera disse in Genova que’ suoi Discorsi, invitatovi per opera specialmente dello stesso Giustiniani, e di Gio. Francesco Bri-gnole, di quei due genovesi che si graziosamente 1’ ospitavano ; poiché scriveva al Giustiniani da Savona il 21 maggio dell’anno stesso : « Scrivemi il sig. Gio Francesco Brignole , che gli (1) Lettere, ediz. genov. 1829, pag. 105. (2) Pag. 382, col i. L’ edizione genovese succit. pag. 76, reca il nome del Mariano (G. B. Marini il cel. p. napolit. morto il 1625), taciuto dalla milanese. (3) Pag. 381, col. 2. (4) Lett. ediz. genov. 1829, pag. 8. 6 GIORNALE LIGUSTICO Accademici seguono valorosamente; e per cortesia giunge poi, che mi desiderano, e che sono vaghi di udirmi (i) »; e il 26 agosto : « e... l’Accademia ? A tempi freschi ella dovrebbe risvegliarsi; ma se si lascia il suo sonno divenire letargo , darà più biasimo la sua fine, che non diede loda il suo principio (2) ». E il 20 novembre: « Propongo di rivedere i discorsi fatti nell’ Accademia, et apparecchiarne alcuni altri, acciò volendo si possano far leggere » (3). Ma inviandogli poscia il 25 dicembre 1630, il suo ritratto fatto in Roma dal cav. Padovanino: « Gioisco, che Γ Accademia si risvegli, et affermo che ella dovrebbe far onore alla virtù del sig. Marchese ; ma V. S. perciò mi chiama indarno... perchè... forse mi avverrebbe come avvenne non ha molti anni pure costì ; e qui lascio correre con V. S. la penna, per mostrarmi non orbo ; che per altro io me ne prendo gioco, avendo salde testimonianze da far altrui parlare di quello, che a me conviene tacere (4) ». E il 24 gennaio del 1632: « Il ragionamento della Bellezza hollo in testa, ma non mai lo posi in carta, nè credo avere opportunità di porvelo. Ben dico che non sento 1’ abbandonamento dell’ Accademia , ma esaminando i modi ed i negozii di cotesta città, parmi maraviglia ch’ella sia durata cotanto (5) ». Il 30 ottobre si rallegrava però che il ritorno del Giustiniani potesse « scuotere gli Addormentati », aggiungendo: « E veramente ho sempre stimato essere cotale adunanza uno de"’ pregi di cotesta città, nè io mi scuserò, nè terrommi addietro, ove io sia comandato adoperarmi per suo servigio. Ben è vero, che a pormi su gli arringhi che in lei sogliono farsi, più per me (1) Ivi, pag. 6. (2) Ivi, pag. 8. (3) Ivi> Pag· 4- (4) Ivi, pag. 20. (5) Ivi, pag. 21. GIORNALE LIGUSTICO 7 non userò penna, e me ne ritraggono capitis nives. Ma non pertanto mai mi scuserò. Rendo poi grazie non bugiarde a V. S. dell’invito fattomi, e dell’offerta della sua casa, nella quale essendo io antico albergatore , mi do a credere non dover dare impaccio ecc. (i) ». Aveva cominciato la lettera riconoscendo quella del Giustiniani « tutta piena della sua verso me gentilezza, per parlare siccome il Bembo », tolto forse a modello da qualche Addormentato. Nel 1636 scriveva ancora allo stesso l’ottantaquatrenne Savonese : « Godo e lodo, che non si abbandoni l’Accademia, la quale, se voi signori volete, potete fare, che ella sia un pregio d’Italia. Ma ella chiederebbe alquanto di pensamento vostro (2) ». Poco dopo però : « Duoimi... dell’Accademia, benché di questa sempre ebbi mala speranza » (3) ; benché forse poco prima : « quando costi si stampa da nostri accademici Peregrini scrittura, non sia dimenticata la mia solitudine (4) ». Altra volta, pare nel 1635, avea scritto allo stesso: « Vengo ora al punto toccato dell’Accademia: è impresa secondo me onoratissima, e di gran pregio, ma habemus tempora adversa, et ^anco le vaghezze di cotesta città non molto piegate verso sì fatti solazzi. Tuttavia se si risveglia, converrebbe, che non solamente fosse Accademia di Letterati, ma fosse insieme di Cavalieri, a’ quali si conviene nella stagione del verno onorar Dame con musiche, e rap-presentatori, e per tal via mantenere luogo a’ discorsi Oratorii » (5). E questo che egli allora diceva suo « avviso », fu seguito, come appare da ciò che ne scrisse, pare nell’ estate del 1637, (1) Ivi, pag. 45. (2) Ivi, pag. 92. (3) Ivi, Pag· 93· (4) Ivi pag. 89, senza data. (5) Ivi» pag· 60. 8 GIORNALE LIGUSTICO a Gio. Francesco, figlio di Pier Giuseppe Giustiniani suddetto, facendogli o promettendogli il « dono d’ una scrittura, la quale averà virtù di svegliare in voi la memoria di me già trapassato, e di sollecitar la vostra età acerba verso azioni mature. Perciocché già fu tempo, che nell' Accademia degli Addormentati in Genova per la stagione del verno si fece prova non solamente di dottrina, ma di leggiadri solazzi ; e non solamente versi ci si sentivano , ma suoni e musiche, alla cui dolcezza bellezze pellegrine di Dame venivano liete, e con loro sembianti rallegravano gli animi dell’ onorevole raunanza. Allora commosso dagli esempi io provai di fornirmi in guisa, che se mi era commesso il parlare, il mio dire fra persone cotanto gentili non apparisse intieramente villano. Ma in quel tempo Γ abbondanza di ottimi favellatori fece me rimanere in riposo. Tuttavia se avessi preso a discorrere, il mio discorso sarebbe stato si fattamente ecc. (i) ». E cosi termina la lettera a stampa , onde non si sa nulla di preciso. Era quello il già ricordato discorso sulla Bellezza ? Γ avea scritto e mandato? è smarrito? risponda chi può. Certo è che il 7 settembre 1637 scriveva al padre del detto giovine, raccomandandogli una pratica di cambio pel giovine Anton Giulio Brignole Sale, figlio del già ricordato Gio. Francesco, la cui « morte et il modo del morire », avea lamentato il 20 luglio (2), aggiungeva: « se l’antica fami- (1) Ivi, pag. 114. (2) Ivi, pag. 103. — Altre notizie abbiamo su di lui dal P. Porrata, primo editore delle Lett. del Chiabr. (ediz. gen. pag. 185); il quale lo dice, « cavaliere di somma estimazione nella Repubblica, essendone stato Ambasciatore a Papa Gregorio XV, due volte Senatore, e finalmente Doge nel 1635; fu autore, che Maria Santissima fosse dal Senato Serenissimo dichiarata, e riconosciuta Reina di Genova.....Poco dopo uscito dal supremo Governo andò al Cielo a ricevere il premio della sua insigne pietà, della sua incontaminata giustizia e delle sue profuse limo- GIORNALE LIGUSTICO 9 gliarità dura fra voi altri signori ; ma se 1’ Accademia disciolta, e altre raunanze, et amicizie avessero fattivi salvatici, V. S. non parli, ma scrivami, e penseremo ad altro (i) ». Altra lettera mostra che l’amicizia fra quei due durava (2) ; ma il 22 dicembre, il decrepito, eppure ancor vivace Poeta scriveva allo stesso : « Dell’ Accademia non ne faccio più memoria ; habemus tempora adversa (3) ». E aveva poco prima quella stessa Accademia dato segno di vita molto rigogliosa, comechè forse non disgiunta da qualche fatto doloroso, come sembra potersi rilevare da quanto lo stesso Chiabrera scriveva al Giustiniani il 1636 : « Gioisco dell’Accademia, gioisco di vostre Poesie, ma la novella della.... mi contrista altrettanto. Dio benedetto e la Madre sia stata guardia di quel Cavaliere; et io non lo dispero (4) ». E quel rigoglio di vita era in gran parte dosine .....A lui, prima che fosse Doge, dedicò il Chiabrera il Poemetto intitolato il Diaspro » , alla fine del quale descrive in breve le delizie della Villa d’Albaro, dove era stato più volte cortesissimamente ospitato. Non sarà, stimo, discaro al lettore l’intendere dallo stesso Chiabrera altri accenni su quell’ illustre : « Mi dispiace assai del Signor Brignole: questo Mondo è traditore: il più fortunato uomo d’Italia per-desi per mali melanconici. Duoimi similmente dell’ Accademia, benché di questa ebbi sempre mala speranza » (pag. 92-3); e a pag. 99: « Del Sig. Brignole odo le novelle, e ne godo. Ma se egli non combatte con sè medesimo, temo, non il viaggio lungo gli giovi poco : fiero nemico è l’uomo (forse errato invece di umore) melanconico, e niuna cosa è migliore a discacciarlo, che cara, e stretta compagnia d’amici, e di questo tesoro parmi quel Signore povero, e forse per sua colpa. Dio 1’ accompagni, che per verità egli è adorno di belle doti ». Aggiunge il Porrata (pag. 209) : « Morì forse di malattia violenta.....nove giorni prima della data » della lettera sudd. (1) Ivi, pag. 108. (2) Ivi, pag. 109. (3) Ivi, pag. 117. (4) Pag. 73· IO GIORNALE LIGUSTICO vuto al giovine Cambista, del quale sollecitava il Chiabrera il favore suddetto , a quell’ Anton Giulio Brignole Sale, su cui devo ora intrattenere alquanto il lettore, offrendogli una pagina della sua vita, che invano egli cercherebbe in quella che ne scrisse il milanese P. Visconti, e nell’elogio che il suo ultimo discendente degnissimo Antonio ne dettò, pregevolissimo per molti rispetti (i), e pubblicato cogli altri dei Liguri illustri. Nato nel 1605 di nobile nuovo e richissimo specialmente per la Sale unica ereditiera del doviziosissimo marchesato di Gropoli, che venne finalmente intero a sue mani , essendo egli solo sorvissuto ai molti frutti di quel fortunato connubio, insieme con due sorelle maritate 1’una in Raggi, l’altra in Durazzo , favorito da natura di svegliatissimo e precoce ingegno, si diede assai per tempo allo studio con ardore difficile a suscitarsi anche in chi aspettasse unicamente da esso il suo prospero avvenire. Era egli quel giovinetto che il P. Melchiorre , di cui sopra (2), fece conoscere al Cebà ? Noi sappiamo. Gio. Nicolò Sauli Carrega è forse Γ unica onorevolissima eccezione, che fece la dovuta stirpa degl’insegnanti, alcuni dei quali ho potuto sua mercè ricordare, e non ebbe difficoltà di notare con biasimo ai due giovanetti Camillo e Alessandro Pallavicini di Gio. Andrea, in una delle sue lettere latine ad essi diretta nel 1617 e pubblicata dappoi, l’inurbanità usata generalmente con quei benemeriti (3). Il (1) E sopra tutto per l’indicazione delle opere, delle loro edizioni, e contenuto, e dei migliori tratti da esso riscontrati e in parte riprodotti. (2) Pag. 397. (3) « Litteratos homines amate, amplectimini, et eos praesertim, per quos proficere, et a quibus virtutem accipere vobis contigit, nec eorum consuetudinem imitemini, qui eos , quos in adolescentia Duces in litteris habuerunt, cum ad provectiorem aetatem pervenerint, contemnunt, atque despiciunt». Poster, pag. 121. GIORNALE LIGUSTICO 11 P. Visconti ci dice che Γ Anton Giulio apprese da varii e precettori e dotti frequentatori della casa paterna, e trovò in essi a ridire, lamentando forse quella minuta disciplina, usa a battezzarsi di pedanteria specialmente dagli ingegni quanto pronti altrettanto irrequieti ed indocili, eppur necessarissima , a chi voglia porre stabile fondamento alla propria gloria letteraria. La quale non fu mai conseguita appieno da chi sdegna le più minute cure a perfezionare lo stile, al cui difetto, non che il nostro Anton Giulio, il Cebà stesso ed il Grillo dovettero il non essere passati ai posteri coll’ aureola sempre viva dell’ industre e paziente Savonese loro contemporaneo, benché fornito di meno elevato ingegno e vasta erudizione. Più gradita, perchè più confacevole e insinuante , dovette riuscire al nostro Anton Giulio la scuola, o la pratica almeno, del quasi suo coetaneo Luca Assarino (i), desto quanto destro, versatile e focoso ingegno, amatore e vittima, non però mai prostrata, di romanzesche e talor tragiche avventure; di che ci danno più che sufficiente indizio le diverse lettere e componimenti dello stesso Assarino, ristampate nel 1640, fra le quali alcune indirizzate al Brignole Sale allora in Bologna, verso il 1634. Si lamenta in esse il poverino eh’ ei Γ abbia dimenticato in grazia dei molti prodigiosi ingegni fiorenti in quella città, dicendo aver vedute « quelle lettere scritte per 1’ Elena di Guido Reni » , e ricordando altrove le lodi scritte dallo stesso Anton Giulio pel quadro (1) Nato, a detta di lui (interessato a passare per minorenne in un processo fattogli il 1616 per detenzione d’arma) di madre biscaglina in Portogallo il 1607, ma secondo l’affermazione più attendibile del padre genovese, al Brasile nel 1602, rilegato in Corsica, ed ivi sempre a suo detto, istruito assai tardi da un uffiziale, come ho appreso dal Neri che n’ ha scritto, dietro le notizie attinte negli archivi, (Giornale Ligustico anno 1874-75.) 12 GIORNALE LIGUSTICO del Sarzana rappresentante l’adulterio di Marte con Venere; e scrivendo in altro luogo, con uguale disinvoltura, eh’ egli andava componendo il Demetrio (racconto romanzesco come il già pubblicato della Stratonica figlia di esso Demetrio, giusta i cenni letti in Plutarco) « e certe altre cose spirituali, col fervore delle cui devozioni vorrei (die’ egli) temperare in parte la frigidezza di qualch’ anima che troppo vanamente s’ è data alla lettura delle cose profane (i) ». Non dovette certamente a giovine siffatto esser difficile cattivarsi certa confidenza anche nei piissimi genitori del Brignole, ed aver così agio d’inamorarlo della lettura, non eh’ altro, del Deca-merone, imitato poi, salvo nell’ eleganza del dire e nelle laidezze dall’ Anton Giulio nelle sue Instabilità deli’ Ingegno , per la stampa delle quali era appunto passato in Bologna ; e a rabbonir poi la Madre scrisse e pubblicò in Genova nello stesso anno 1635, a lei dedicandola, La colonna per V anime del purgatorio, della quale confraternita in S. Agnese mo-stravasi pure divotissimo Γ Assarino, scrivendone a Gio. Andrea Piaggia intendentissimo aritmetico , il quale se n’ era fatte le sue « delizie » (2). Non poteva certamente Anton Giulio durare neH’amicizia, se pur l’ebbe mai, di quel versipelle, del quale scriveva da Genova nel 1639 all’ Aprosio in Venezia il suo correligioso Agostiniano Nicolò Schiattini : « Quella peste dell’ Assarino che fa ? Ognun lo fugge, per quanto intendo. Spiacemi solamente che questi suoi nobili intelletti (veneziani) si crederanno che costui sia stato appresso di noi in qualche credito d’ erudito... Γ abbiamo sempre per quello che è ». E il 9 luglio : « Il sig. Assarino è ritornato malissimo in arnese. Mi fu a visitare ; ma noi volli vedere. Ma sta troppo male ch’io (1) Pag. 116. (2) Pag. 153. GIORNALE LIGUSTICO 13 cominci da bricconi (1) ». E veramente, confessò egli stesso, nella dedicatoria della sua Vita di S. Nicolò da Talentino a Francesco Maria Spinola di G. B. aver egli riconosciuto da questo Santo il benefìzio d’ essere stato liberato dall’ oscura prigione, ove era stato chiuso come « reo d’ haver ammazzato un huomo », avendo egli « in rissa e per giustissima (?) cagione tolto un parente » a’ suoi accusatori (2). Ma ciò non pertanto, argomento certissimo di sua grande abilità, aveva potuto procacciarsi potenti protettori, e farsi, non che tollerare, pregiare e desiderare da non pochi e per ogni rispetto onorevolissimi, fra i quali il Chiabrera, che scrivendo al Giustiniani verso il 1636 si lamentava d’essere stato da lui dimenticato non avendogli mandate le cose da lui stampate (3), onde si vede che avea gradita la dedica della sua Stratonica regina, essendo la sua « conversazione di Re ». E allo stesso Pier Giuseppe Giustiniano, « commissario nel Castello di Savona » , scrisse lodi, chiamandolo « Apollo con usbergo (4) », come pure a Giuseppe Doria « commissario per la sanità nel luogo del Sassello », ricordandogli Gio. Vincenzo Imperiali stato con pari offìzio « nella Steira » (Stella) (5). Ben è vero eh’ ei doveva essere da quei Signori tenuto a rispettosa distanza, onorato solamente di qualche sovvenzione, non mai d’ aggregazione all’ Accademia degli Addormentati , ond’ egli, forse per piccatura, e in tempo che quella era chiusa, diceva nella lettera, poi pubblicata, a Carlo Sauli, che i Genovesi « con esempio singolare fra gli altri popoli (1) Lett. all’Aprosio, Reg. Univ. Genova, Cod. E, VI, 9, verso la metà. (2) Lett. cit. p. 90. (3) Lett. cit. p. 90. (4) Lett. cit. p. i. (5) Pag. 10. \ 14 GIORNALE LIGUSTICO non hanno al presente veruna Accademia (i) ». Di lui però si valse Anton Giulio Brignole Sale per far parlare sul suo stile il Mascardi, il quale punto sul vivo da certe osservazioni fattegli, come gli scrivea 1’ Assarino, « in una villa d’ Albaro da certo cav. sig. Agostino », gli rispondeva : « cerco la realtà così nell’ operare come nello scrivere, e non essendo innamorato di me medesimo, sonò conosciuto per amorevole verso gli altri... Quando mi s’ apportino ragioni buone, io cedo di buona voglia alla verità; ma che le fantasie d’ uomini sfaccendati (i quali con una lettura della Polianthea si fan lecito di far il Satrapo addosso a chi si consuma studiando fondatamente le cose) m’ abbiano ad aggirare, non lo creda il sig. Agostino vostro (2) »... Ma basti, se non è troppo, dell’ Assarino, del quale m’ accadrà di riparlare, a complemento, forse non inutile, di quanto su di lui fu scritto e dal sullodato Neri, e dal chiar. Garetta nelle Memorie della Regia Accademia delle Scienze di Torino (3). Ritornando ora più di proposito al Brignole, mi corre innanzi tutto 1’ obbligo di purgarlo dalla taccia di sfaccendato, se pure a lui volle affibbiarla il Mascardi; al quale uopo basterà il ricordare le molte ore non interrotte eh’ ei dava, testimonio il suo biografo succitato, allo studio, di che fan certissima fede le moltissime ed erudite scritture da lui pubblicate in parte nel fiore degli anni. Ed io credo che una delle prime dovesse essere quella intitolata II Carnovale, benché pubblicata solamente la prima volta, dopo molte altre, (1) Pag. 144. Diede egli poi opera nel 1660 in Milano ad istituire 1’Accademia de’ Faticosi fondata nel convento di S. Antonio a Teatini. (2) Discorsi Accad. ecc. Genova, 1705, pag. 560. Precede la lettera del-l’Assar. (3) Sugli storici Piemontesi ecc. Serie II, T. XXX e XXXI; p. 164-71, dell’esempi, tir. a parte, Tor. 1878, in 4.0. GIORNALE LIGUSTICO r5 in Venezia nel 1639 , essendo essa manifestamente improntata dagl’ indizii della prima sua gioventù balda, un cotal po’ albagiosa ed anco imprudente, onde forse il ritardo della sua comparsa in pubblico sotto altro cielo, più spirabile del suo nativo ad esseri siffatti. Da questa idja produzione e dall’altra, non meno bizzarra e galante, pubblicata in Genova nel 1640, Della Storia Spaglinola, parmi potersi argomentare eh' egli fatti i primi studii in patria fu a perfezionarsi alla celebre università di Salamanca in sui diciotto anni dell’ età sua, donde, tornato, fu dai prudenti genitori ammogliato con una Adorno , essendo ancora ventenne. Nel Carnovale di fatti uno dei tre interlocutori è un giovine reduce in Genova dallo studio di quella città con un fiorentino , e il Protagonista della Storia spagnuola è un Celimauro diciotenne, eh’ egli dice « a chi legge n , essersi, a differenza dello storico Argentile, comparso già in pubblico da sei lustri, « trovato presente al tutto ». Ed è appunto il Carnovale, che nella seconda delle sue tre veglie ci riconduce all’ Accademia della quale ci stiamo occupando. Ma prima di vedervi attore il nostro Anton Giulio giova conoscerne ancor meglio il carattere descrittoci forse da lui stesso a pagina 10 (1), dove parlando della differenza fra i giovani e i vecchi, simboleggianti probabilmente i nobili nuovi ed i vecchi: « All’incontro (ei dice, facendo parlar Claudio giovine genovese) scorgerete in un sol giovine fiorir tutta un’ Accademia, per la varia et abbondante cognitione de’ Poeti, de gli storici, de gli Oratori, e per la gentil maniera del distinguerè orni suo concetto. Troverete in somma o o il tempo dell’ uno tutto numerato a render più pesante il ventre della sua cassa, quel dell’ altro tutto pesato a far più numerosi i giorni della sua gloria » ; con che io non sono (1) Cito P ediz. ven. del 1663, la sola da me veduta. ι6 \ GIORNALE LIGUSTICO lontano dal credere che alludesse al far compassato del Cebà, dotto all* antica. E a pag. 13 : I vecchi « hanno sempre in bocca quel detto non innovare. E non veggono che per innovare forza è innovare : ciò è a dire, s’io non vuò mutar quel corso, che prometttf.ji guidarmi in porto, mi è forza col mutar del vento mutar la vela ». Il palazzo ducale , da lui detto regio, prima dell’apposito decreto del 1637, come da gran pezza solevasi, avendolo io riscontrato in un’ orazione detta pubblicamente da Giacomo Rossano per la coronazione del Doge Tommaso Spinola e stampata in Genova nel 1614 (1), è ivi definito il luogo « o\e va se stesso macerando Γ ambitione » (2). Prima d’introdurre il fiorentino Fiorindo nelF Accademia, domanda Claudio al concittadino Emilio : « di chi è ella compositione cotesta favola ? EM. Dell’ Accademia delli Addormentati. CL. Or sono eglino sì desti, come allora, che io mi partii ? EM. Dormono, ma nel dormire vanno parlando. FLOR. Perciò fanno comedie i cui successi son tutti sogni. CL. Accademia, e comedia, poco sono nel nome differenti ; nulla ne’ personaggi ; poscia che non men quelli del-1’ una, che dell’ altra sogliono vestirsi i titoli diversi dal naturale. EM. Anche altro fuori che comedie sa ella fare (3) ». E di una di queste comedie o spettacoli fa poi la descrizione, eh’ io verrò compendiando alla meglio. « Gionto lunedì sera Fiorindo, e Claudio furon condotti dall’ amico Emilio, e posti in luogo agiato nella nobil sala, eh’ era destinata per Γ Accademia... Essendo gli huomini già molto numerosi spuntava dalla porta di un salotto a seder loro in faccia un amoroso drappelletto di Dame elette (4) ». (1) Pag. 21. (2) Pag. 7. (3) Pag. 26. (4) Pag. 44. GIORNALE LIGUSTICO Dopo celiato per benino sopra una di queste tutta smorfie e smancierie, passa alle Imprese , dalle quali « si esclude il corpo humano» , se « fatte con buone regole» (i); e quindi: « EM. A noi, Signori, che io veggo il Prencipe già posto a scranna, et il signor Ottavio Gridalmo incaminato alla bigoncia per declamare. FLOR. Su che materia? EM. Tratta dal Bocaccio nelle novelle. La vedova amata da Federigo degli Alberigli! ridotto pel rigor di lei allo stremo di povertà, consulta s’ella debba andare a chiedergli il Falcone, che lo nodriva per consolarne il figlio infermo , che lo bramava. FLOR. Bella materia , e da sperarsi maneggiata per eccellenza... EM. Siatene certo : ciò che mercan gli altri con vigilie pallide, e sudori lunghi dallo assiduo speculare delle scienze più recondite, e sollevate, a lui dona una brevissima e leggiera riflessione (2) »... E la sua diceria si legge da p. 51 a p. 72, dove comincia « la parte avversa » , fatta da valente avvocato, « Autor del libro intitolato, Le delitie della montagna », fino a pag. 91. Il Principe invita poi « a dire alcuna cosa da lor luoghi gli Accademici » , e prima il sig. Giust., che cesa d’ogni cosa, e par che quella sola ei sappia, di cui parla, sì ben ne parla » ; e dopo il detto da questo (3), « non chiamò altri il Prencipe..., temendo di far noia a quelle Dame con la lunghezza. Solo egli ripigliando quanto aveva udito, di cose diversissime accozzò un discorso d’ improviso e per frezzatura di motti, per scelta d' eruditione , per novità di pensieri, per bizzarria di macchina, per felicità di dicitura sì mostruoso, che ciascuno si partì non havendo altro in bocca che Γ 0' lungo e fioco di Messer Dante. Et il forestier Fiorindo, più d’ ogni altro trasecolando, giurò di credere il Riccardi così eccel- (1) Pag. 49. (2) Pag. 50. (3) Pag· 93-116· Giorn. Ligustico, Anno X. 1 IS GIORNALE LIGUSTICO lente , eh’ ei con la sua arte havesse · Tullio , od Aristotele risuscitato , i quali poscia havessero per gratitudine parlato quella sera per bocca sua ». (Cani inna) N. Giuliani. DI UNA NOBILE FAMIGLIA SUBALPINA BENEMERITA DELL’INDUSTRIA SERICA NEL SECOLO XVI, E DI ANALOGHE RELAZIONI DEL PIEMONTE COL GENOVESATO Se nelle principali città italiane, quali Venezia, Genova, Pisa ed Amalfi Γ industria, benché impigliata fra le reti, che le leggi ristrette e privilegiate a classi e persone le tendevano, era tuttavia più fiorente che fra noi, questo si deve in parte alla ragione che Γ aristocrazia addimesticossi con lei e col commercio. In fatti in quelle province non ripu-tavasi derogare allo splendore del sangue il darsi al commercio ed al cambio. Di. qui la potenza e lo splendore dell’Italia nel Medio-Evo; di qui quella magnificenza onde va adorna Genova , e che molti dei suoi patrizi veleggiando verso Γ Oriente, seppero procacciarle. Ben diversa cosa devesi dire del Piemonte, dove il commercio languiva, i.° perchè gli stati suoi nulla producevano che formar potesse un ramo alquanto notevole di commercio attivo; 2.° perchè la maggior parte della proprietà territoriale era posseduta dai Comuni, dalla Chiesa e dai nobili, e gli uni e gli altri inetti, non inclinati al traffico, nè ad impiegare •nelle manifatture i frutti e i capitali rappresentati dai loro beni; 3.0 perchè l’industria ridotta a capi d’arte era convertita in monopolio, ed avvinta da regolamenti ed ordini che la inceppavano. Invero, per addurre un esempio non estraneo all’ argomento, come mai poteva fiorire Γ industria se- GIORNALE LIGUSTICO 19 rica in un paese, in cui non era consentito di fabbricare una stoffa di seta, alta una spanna di più di quanto sancivano le leggi, ovvero con un colore differente da quelli statuiti? L’ attività poi che manifestavasi in alcune città o borghi notevoli, che applicavansi a qualche ramo d’industrie o commerci, come Biella, Carmagnola, Chieri, Giaveno e Saluzzo, devesi ritenere solamente come lodevole eccezione in un paese dove scarsa era la classe operaia, sovrabbondando invece la turba dei servi, che al lavoro nobilitante preferivano la scioperata oziosità servile nelle castella dei baroni o nei palagi delle città. Coloro poi in cui scendeva ......per lungo Di magnanimi lombi ordine il sangue Purissimo celeste....... tutti o quasi, unicamente dedicavansi al servizio militare, o presso il principe naturale ovvero presso l’ordine equestre di S. Giovanni Gerosolimitano, se pur non vestivano le lane monastiche in qualche convento d’Italia. È vero che in alcune città, come Asti, Chieri e Nizza parte dei maggiorenti non ripudiavano affatto dal commercio, col quale anzi giunsero a sollevarsi a considerevole potenza, e distinguersi per numero singolare di dominii,' come ne forniscono esempio gli Astigiani Scarampi, Asinari Roero ecc., ma ancor qui, come superiormente, l’eccezione non tiene luogo di regola generale. Ove si tentassero indagini prima del secolo XVI, sarebbe lieve il risultato che se ne otterrebbe; da questo tempo in poi qualche provvedimento, in via d’ eccezione però, favori il nobile che attendesse al commercio. L’ esercizio del commercio all’ ingrosso di cose non tenute vili, non pregiudicava alla nobiltà, purché esercitato col mezzo di terza persona, nè chiudeva l’adito a conseguirla a chi peranco non 1’ avesse. Ma per costui faceva mestieri di otte- 20 GIORNALE LIGUSTICO nere anzitutto Γ abilitazione richiesta dalle leggi antiche della Monarchia, e riconfermata a chiare note colle famose regie costituzioni del 1729 e del 1770. Egli è vero che, come nei tempi men recenti, si tenne talor doppio peso e doppia misura secondo i varii casi, l’opportunità di certi momenti, e Γ interesse di favorire alcune persone ; ma in un modo o in un altro bisognava provvedersi di quel-Γabilitazione, che imponeva bene spesso il sacrifizio dell’amor proprio, e sempre di una determinata somma di danaro , diversa pure secondo le persone, la natura del feudo che si voleva acquistare, ed il genere del commercio esercitato. A schiarimento del che giova sapere, che Γ abilitazione di-stinguevasi in implicita ed esplicita. La prima, risguardava coloro che già vantavano civiltà progressiva negli ascendenti, o che da due generazioni erano stati laureati in legge 0 medicina ovvero capitani almeno, nell’esercito; la seconda gli altri di grado inferiore, e di regola i commercianti. E per quello scopo morale, che solo può oggidì legittimare queste disquisizioni, dirò qui per breve digressione, come desti veramente stupore lo scorgere oggidì ancora di tali, che quasi arrossiscono se si ricorda loro la discendenza da agnati, seguaci o cultori di Temi 0 di Esculapio. E costoro non s’accorgono che in caso diverso dovrebbero riconoscere la provenienza da quei fortunati speculatori, commercianti od imprenditori di opere altrui, arricchitisi ai tempi loro a un di presso come gli odierni, poiché le vicende si rinnovellano quasi sempre allo stesso modo. E la cosa è così chiara e limpida che non monta 1’ occultarla, e devesi sempre dire da chi si vanta di scrivere per la verità, che tardi 0 tosto trionfa, per quanto possa generare qualche volta odio; e da chi, non adulatore nè maligno, nulla teme e nulla spera. Dopo questo preambolo non inutile affatto, giovando a farci conoscere quanto avremo a dire, e qual sia la benemerenza GIORNALE LIGUSTICO 21 della famiglia che è argomento principale di questa dissertazione, procediamo innanzi con qualche breve cenno generale sulle vicende dell’ industria serica tra noi. Alcuni scrittori la fecero risalire al secolo XIII, traendone ragione dalle partite di spese fatte da Sibilla di Baugè consorte di Amedeo Conte di Savoia per Γ acquisto di seme di vermini a Ginevra (i). Ma il fine di tal compera rimane sempre nel buio; e dagli effetti si può anzi giudicare che quella determinazione non fosse punto rivolta a far fiorire queir industria , venutaci dall’ Oriente e per opera degli Arabi introdotta nella Spagna, donde tratta a Palermo da re Ruggero nel 1146. Secondo il Tegrimo nella vita di Castruccio degli Antelminelli, gli operai della seta fuggiti da Lucca nel 1314 si sparsero per Γ Italia e diffusero la loro industria a Venezia, Firenze, Milano e Bologna (2) ; ma nulla ci consta del Piemonte. Fu per contro il Duca Ludovico che nel 1449 prese a favorirla, poiché in quell’ anno per 1’ appunto ei s’ indirizzò al Municipio di Torino, invitandolo a voler concedere ad un tal Giovanni da Serravalle 1’ uso gratuito d’ una casa per lo spazio di dieci anni, perchè costui erasi proferito ad introdurre fra noi 1’ arte della seta. Dell’ industria serica, cosa non peranco avvertita sinora, si fu a quei di benemerito assai Claudio di Savoia signore di Racconigi, che in una sua escursione a Vicenza , ove era passato nel suo viaggio a Venezia, avendo osservato allignarvi assai bene i gelsi, ed informato dell’ utile che se ne ritraeva, volle che lo stesso si facesse nel suo feudo di Racconigi, ove stabilironsi fabbriche di seta (3). (1) CiBRARio in varie sue opere. (2) Muratori Rer. liai. S. XI. (3) D’allora in poi l’industria serica ebbe singoiar incremento a Racconigi, che in un tempo noverò più di trenta filatoi da seta, messi in moto dall’ acqua, oltre i molti a mano, e che davano un reddito di più di sei mila lite ogni settimana, ed impiegavano tre mila operai. 22 GIORNALE LIGUSTICO Sin qui sapevasi altresì, che solamente nel 1518 un tal maestro Ambrogio da Milano aveva intenzione di aprire in Torino una fabbrica di seta, poiché da quell'anno datano i privilegi da lui a tal uopo ottenuti. Poco dopo il nostro Municipio chiamava da Racconigi Bartolomeo Gallo per lavorare in seta. Ma i due documenti che più innanzi'pubblicheremo , ci scoprono come nella prima metà di quello stesso secolo, quest’ industria già fosse alquanto avviata nella Capitale, tenendo il fragile baston del comando Γ infelice duca Carlo III in tempi angustiosissimi, ed alla vigilia di cadere in servitù della Francia. La quale, per accennarlo qui di pas-saggio, se già nel secolo XV aveva officine di seta, solo nel 1536 vedeva sorgere le famose manifatture di Lione (1). La nobile famiglia che ha il merito di aver coltivato a quei giorni l’industria serica, si è quella degli antichissimi signori di Buronzo, dei quali accennerò almeno in breve, in via di digressione, Γ illustre origine, non ancor appieno snebbiata dalla caligine onde fu sin qui involta. Ceppo conosciuto dei Buronzo si è un Walla, Guala o Gualone, che un documento dell’anno 1039 ci dà figlio del fu Attone. Egli è vero che questo documento pubblicato dal Cibrario, e contenente P investitura fatta in quell’ anno da Corrado il Salico al Guala, di proprietà in Casalvolone Pez-zana, Rozasco, Buronzo, Castelbelvardo, Bolgaro e Lerito accenna a Guala de Casale, filio quondam Antonii e non Ationis. Ma il Cibrario asserì d’ averlo pubblicato da una copia da lui creduta autentica ed esistente nell’ archivio del Conte di Ternengo (2). Or chi ci garantisce che quella carta non (1) Francisque Michel. Recherches stir le commerce, la fabbrication et usage des étoffes de soie etc. (2) Monumenta historiae patriae. Chartarum II. II chiar.™ Mandelli nell’erudita opera. Il Comune di Vercelli nel Medio-Evo, dopo aver asserito essere Casalvolone antichissimo, avverte che si chiamasse prima Casale, e GIORNALE LIGUSTICO 23 peccasse d’ idiotismi, e che il Cibrario in quel momento non ponendo mente al valore di quel cognome, come lo lascia supporre la mancanza di una nota spiegativa , avesse obliato di addivenire a queste osservazioni? E che debba all’ Antonio preferirsi l’Attone, lo prova la ripetizione di esso che accenneremo fotta in discendenti immediati di quei signori, ed il non vedersi mai nella genealogia loro alcun Antonio. Più difficile egli è di giudicare in qual famiglia si possa innestare P Attone in discorso, sapendosi che varii in quei giorni usavano tal nome. Riserbandomi di accennare a questi particolari colla calma e colla lena richiesta dall’ importanza dell’ argomento e ciò a suo tempo, poiché ora sarebbe un fuor d’ opera, basti lo avvertire che forse senza errore si potrebbero innes^re questi signori di Buronzo nel grand’ albero degli Ardoinici di Susa e Torino (i). poi ricevesse l’addiettivo di Gualone da Guglielmo suo signore a memoria del padre Gualone, e si trovasse ricordo di esso con tal denominazione in atti del 1158. (1) Mi limito ad avvertire qui che nell’ albero degli Ardoinici compare un Attone figlio del marchese Manfredo I, e per conseguenza fratello di Alrico vescovo d’ Asti e di Manfredo II che fu il padre della grande Adelaide. E di questo Attone vissuto sullo scorcio del secolo X e sul principio dell’XI il Terraneo lasciò scritto « essere perita ogni notizia ». Possono suffragare 1’ opinione che voglia farlo ceppo di questi signori la cronologia, la professione della legge [salica fatta da quei primi signori di Buronzo , ed i possessi nel Vercellese , nel quale appunto avevano proprietà gli Ardoinici, e se si vuol anche, 1’ argomento men forte della rinnovazione nei discendenti dell’ Attone di alcuni dei nomi Ardoinici, quali di Enrico, alterazione o trasformazione di Alrico, Olrico, Arrigo, Ruggieri di Roggero, Guido, Guidone ecc. La professione della legge salica noi la troviamo ancora nei successori dei primitivi Attone e Guala, nei figli cioè di Guala II eh’ ebbe a figli Guglielmo e Guidone. Costoro nel 1186 stipulavano in un con Pietro figlio di Enrico di Casalvolone 24 GIORNALE LIGUSTICO La prosapia dei signori di Buronzo divenuta assai numerosa si sparpagliò in varii rami distintisi con parecchi cognomi o soprannomi, provenienti, o dalla corruzione del nome, o da nomignoli satirici o burleschi, ovvero da qualche proprietà della persona, siccome veggiamo praticato in tutte le grandi famiglie. I nostri signori’adunque si distinsero nei seguenti cognomi, che formarono indi altrettanti colonnellati, come Ber-zetti, Buronzi, de Vallonibus o Plebano, de Agacia, Presbiteri, Gottifredi, Buccini, Del Signore e Delle Donne, De Dominabus. Oltre i primitivi feudi, di cui alcuni passarono in signoria altrui, tenne questa famiglia quelli di Azigliano, un trattato di aderenza con Vercelli a cui alienavano il lor castello, ricevendolo da quello in feudo. Il Guglielmo poi in un pregevole documento che credo inedito (a) dichiarava di seguir la legge franca. Ecco la carta preziosa che conservo in un con molti documenti spettanti ai signori di Buronzo . .. Anno ab incarnatione Domini nostri Jesu Chisti millesimo centesimo septuagesimo primo decimo die mensis octohris indicione quarta dilecta valde amabilis mihi semper stella honesta puella filia Odemaris Scritii sponsa mea Ego Guilielmus filius quondam Guale de Casalo qui professus sum lege vivere salica sponsus et donator tuus perpetuus dixi manifesta causa est mihi quam die illo quando te sponsavi promiseram tibi dare iustitiam tuam secundum legem in dotis nomine, idest tertiam portionem ex cunctis casis et omnibus rebus móbililnis et immobilibus seu familiis iuris mei exceptis castris a fossatis in intus et ecclesiis. Nunc autem si Christo auxiliante te michi in coniugio sociavero suprascriptam tertiam portionem ut dixi ex omnibus rebus meis mobilibus et immobilibus se seque moventibus seu etiam et de familiis tam quas nunc habeo aut in antea Deo propitio adquirere potuero exceptis castris a fossatis in intus et ecclesiis tuae dilectioni do, cedo, confero et per presentem cartam dotis rate habendum confirmo, faciendum exinde tu et heredes nostri secundum legem quidquid volueritis ex mea et heredum ac pro heredum meorum plenissima largitate et sine contradicione vel repetitione. Si quis vero, quod futurum esse non credo, si ego ipse Guilielmus quod absit aut ullus de heredibus meis ac pro heredibus seu quaelibet apposita persona (a) Fa parte della mia collezione privata di documenti e memorie sulle famiglie nobili subalpine. B. Mazzo II. GIORNALE LIGUSTICO 25 Balocco, Bastita, Carosio, Murazzano, Monte-Formoso, San-digliano , Ternengo e Zumaglia. Noverò in ogni età uomini distinti, non pochi cavalieri di Malta e ragguardevoli prelati. Il ramo di essa che ora ci risguarda si è quello dei signori di Buronzo, che fu il principale, e si denomina da quel castello posto nel circondario di Masserano, e diviso in varie abitazioni, le cui vestigie accennano ancor oggi all antica agiatezza, formando esse un promontorio seminato di palazzi difesi da’ fossi e forti bastioni. Il personaggio di questa famiglia che somministra materia alla presente memoria, appartiene al colonnellato dei Gotto-fredi signori di Buronzo, e procedeva da un Gottifredo figlio di Giovannino, la cui memoria sale alla dedizione che nel 1373 i signori di Buronzo fecero dei loro feudi al conte Amedeo VI di Savoia. Da quel Gottifredo discendeva in contra hanc cartam ire quandoque temptaverimus, aut ea per quodvis ingenium infringere quesierimtis, tunc inferamus ad illam pariem contra quam exinde litem intulerimus mulctam quae est pena auri optimi untias viginti et argenti pondera quadraginta. Et quod petierimus vindicare non valeamus sed presentis haec carta dotis firma permaneat atque persistat inconvulsa constipulatione subnixa. Signum manus Guilielmi qui hanc cartam dotis et tertie fieri rogavit et pretium accepit ut supra. Signa manuum Odemqrii de Boniprando Guidoms eius filii Cocte gramatici, Atonis et Ugonis filiorum Gregorii Tretie et Odemarii Olrici de G aliato, Trancherii Avocati de Vercellis, Attrici de Casalo Arditionis Albati Borrelli et Bonijohannis de Une\a testium. Ego Manfredus notarius sacri palatii hanc cartam dotis tradidi et post traditam complevi et dedi. Confortate queste notizie da documenti il grand’albero degli Ardoinici di • . .... · Torino e Susa, a cui dopo le dotte investigazioni del principe dei nostri critici Gian Tommaso Terraneo vennero assegnati i marchesi di Roma- gnano, ed in seguito a recenti studi di cultori delle storiche discipline i conti di Castellamonte, quei del Canavese, forse gli stessi conti di Bian- drate, riceverebbe ancora quest’ aggiunta che concorrerebbe senza dubbio a renderlo ognor più illustre. 2 6 \ GIORNALE LIGUSTICO terza linea Benedetto figlio di altro Gottifredo, il quale sul principio del secolo XVI stabilì una manifattura di seta verosimilmente in Torino. C’ informano di questo due documenti inediti, coi quali egli conchiuse alcuni patti con operai chiamati da altre province italiane, per potere attendere ai lavori necessari. Col primo documento, che ha la data del ventiquattro dicembre 1527, il signor di Buronzo in Torino nella casa dei fratelli Alciati signori della Motta, che fra poco diremo suoi congiunti, addiveniva ad una convenzione con maestro Sebastiano dell’ Isola cittadino di Genova, il quale esercitava la professione di tintore di seta. Egli erasi rivolto a Genova, dove la seta tingevasi assai bene da tempi remoti, vale a dire a partire dal secolo XIII (1); dove i tessitori di panni serici già eransi raccolti in corporazione nel 1432; dove eransi fatto un nome esperti setaiuoli, fra cui i fratelli Peiroleri (2) ; e finalmente ove la fama dell’ arte era così conosciuta, che in un decreto del 1520 leggesi, che i panni serici genovesi sono tenuti in ogni luogo e fra tutti quelli delle estere nazioni, eccellenti e famosi (3). E mal non s’ apponeva il signor di Buronzo, ricorrendo a Genova per aver un buon artefice, poiché a Genova pure erano ricorsi ed i reali di Francia, e quelli di Spagna e molte città d’Italia. Con quell’ atto pertanto il signor di Buronzo pattegiava coll’ artefice genovese, che av.esse a tingergli la seta in qualsiasi colore e per 1’ uso indicato. La scritta doveva estendersi a due anni, nei quali quel maestro genovese obbligavasi a non prestar 1’ opera sua per alcun altra persona. La mercede pattuita era di fiorini di Sa- (1) L. T. Belgrano, Della vita privata dei Genovesi. Genova, 1875, p. 201. (2) Ivi, p. 203. (3) Ivi, p. 204. GIORNALE LIGUSTICO 27 voia sette e mezzo (ottanta lire incirca) al mese, coll’obbligo di somministranza dell’ alloggio e vitto, ovvero senza questa agevolezza, venti fiorini mensuali (i). Il contratto non era spregevole ed il prezzo assai elevato* Il secondo documento accennato, contiene i patti che il signor di Buronzo nello stesso giorno e luogo . stipulava con maestro Iacopo di S. Benedetto da Carcaveglia della diocesi di Ceva, che voleva dire della giurisdizione di Ceva, poiché nello spirituale questa città era soggetta a Mondovì. Questo secondo artefice era tenuto in un colla sua consorte ad incannare e dipanare la seta su rocch&tlini, organ-ζίηανία, e dividerla in tre parti, sottile, mezzana ed infima. A guisa dell’altra col maestro genovese, questa convenzione doveva protrarsi per lo spazio di due anni, nei quali era pure proibito all’ artefice contraente di prestar 1’ opera sua per altri. Questi doveva ricevere subito per ispese, come si suol dire, di primo stabilimento, fiorini ventinove di Savoia e grossi sei, che riceveva, parte in danaro e parte in natura, e di cui avrebbe poi risarcito il signor di Buronzo nel progresso del-1’ opera ; poiché questi doveva anche somministrargli la casa atta per lui e per la sua famiglia, e corrispondergli il prezzo della pigione. Siccome poi tanto l’ uno quanto F altro atto seguivano in Torino, e che il signore di Buronzo obbligavasi di locare casa per 1’ esecuzione di quei lavori, così è a credere che in quella città avesse egli stabilita una manifattura di seta. Invero se la manifattura si fosse aperta nel feudo gentilizio di Buronzo, ove la sua famiglia teneva considerevole numero di case, non avrebbe avuto bisogno di ricorrere ad altri per fornirla a quei suoi dipendenti (2). Nuli’ altro i documenti (1) Documento A. (2) Documento B. 28 GIORNALE LIGUSTICO ci consentono di aggiungere nè sulla manifattura del signor di Buronzo nè sui risultati ottenutine. Ma giudicherebbe male dell’ alta sua benemerenza chi lo facesse alla stregua delle idee odierne. Il perchè basti considerare quale sarebbe stato il vantaggio che avrebbe recato l’ottima determinazione del signor di Buronzo, ove la fortuna 1’ avesse secondato, mentre forse 1’ opera arenò , sendo il nostro paese a quei di alla vigilia di cadere, come dicemmo, sotto la dominazione straniera. E per farlo adeguatamente egli è mestieri considerare un momento quanto da una tal industria si riprometteva quella mente eletta del presidente Nicolò Balbo, che nel famoso suo memoriale steso pochi anni dopo e diretto all’ invitto duca Emanuele Filiberto, così ne discorreva «... e V. A. può mandare un ordine per il paese che ogni giornata ossia moggio di terra debba piantare tante piante di moroni et far crido che la seda cruda non si possi vender fuori del paese, ma sia posta in lavoro, con procurar per mezzo di mercatanti che venghi seda di Spagna, Cicilia et Calabria, et che [si lavori neh paese, et che seda forestiera non si possa apportare. In poco tempo facendosi in questo modo, si ripiglierà un bel modo di vivere et si cercarà di intrattener il denaro nel paese con serrar et vietar le strade et vie per quali li danari ne escono, et ampliar et facilitar li modi con li quali habino da venire li denari d’ altri paesi in questo : et circa 1’ arte della seda li racconterò il tanto che mi è stato affermato da mercadanti degni di fede, che in Avignone si consumava gran valuta di panni di seda forestiera, et è avvenuto da venti anni in qua esservi andati molti lavoranti d’Italia pronti in tal arte, di sorte che tra la seda che si fa nel luogo con mezzo di seminar et poi ripiantar moroni in detto territorio, et con il condurvi anco ora qualche seda cruda forestiera, vivono sopra tal fattura et arte più di sette millia persone, et essa cittade non sol fa seda GIORNALE LIGUSTICO 29 d’ ogni sorte, cioè panni di velluto damasco et raso, ma ne vende in quantità alli paesi. Et il paese di Piemonte è il più propitio che sia in tutta Italia per tali alberi ...» (1). Ecco dunque come autore vero dell’ estesa piantagione di gelsi, fatta poi da Emanuele Filiberto secondo diremo, voglia essere ritenuto il benemerito presidente Niccolò Balbo! E sempre, avuto riguardo ai tempi ed alle condizioni del nostro paese di quei giorni, alle lodi tributate al presidente Balbo, del ramo della nobilissima famiglia dei .Balbi di Chieri che aveva fiorito in Avigliana, vuol anche essere associato qualche poco il nostro signor di Buronzo promotore nel suo privato dell’ industria serica. Infatti egli merita elogio per aver saputo virtuosamente dedicarsi a così utile e ragionevole stabilimento, preferendolo al vivere solitariamente nel suo inospito albergo, posto non allora, come oggidì, nel mezzo a risaie, ma sì a selvagge foreste ond’ era tutt’ all’ intorno imboschito; lungi dal seguir 1’esempio di molti dei feudatari di quei giorni, che fieri ancor per la lor potenza, quasi nulla contrastata da un governo debolissimo, stavansi ricoverati in quelle loro rocche, talor fortificate così bene, che nemmen gli orsi vi si sarebbero potuti arrampicare; inclinati ad esercire il mestiero di sgherri e masnadieri e non far ri-sonar quelle lande, che del fischio delle lor balestre e del tuono delle loro archibugiate ! Duoimi soltanto che per non aver esaminate le carte della sua famiglia quasi altro io non possa dir di lui. I documenti e memorie presso di me esistenti mi consentono solamente di aggiungere, eh’ egli dispose delle cose sue il diciannove ottobre dell’anno 1554, e che era marito di Ludovica, figlia di Bernardo Alciati signor della Motta. E questo ci spiega il perchè abbia conchiuso in Torino le convenzioni di cui sovra, anzi le abbia stipulate nella casa stessa degli Alciati (1) Ricotti, Storia delia monarchia Piemontese. 30 GIORNALE LIGUSTICO suoi congiunti. Risulta ancora eh’ egli ebbe due figli; Bernardino divenuto gentiluomo di camera del duca Emanuele Filiberto e Gerolamo. E per compiere qui le notizie sul ramo di questa nobilissima famiglia, aggiungerò ancora che il colon nellato di questi Gottifredi signori di Buronzo (che si estinse nella seconda metà del secolo scorso in persona di due fratelli Giuseppe e Vincenzo domenicano) ha il bel vanto che qui ed oggidì vuol essere ricordato, di non aver mai neghit-tito nell’ ozio, ed inteso a comperar fumo od imbottar nebbia. Ed in prova di ciò, basterà osservare che Giuseppe nacque di Giambattista notaio , figlio di Carlo Giuseppe pur notaio, e derivato da padre ed avo egualmente notai. Il perchè è ben qui ricordare che in Vercelli il collegio dei notai aggregava soli nobili; quell’ uffizio però di regola generale non derogava alla nobiltà; onde reca sorpresa come in tempi non lontani coll’ uso di cavilli e sofismi, venisse talora giudicato e sentenziato altrimenti ! Ho detto testé che questo ramo dei Gottifredi di Buronzo si estinse nel secolo scorso. Infatti il Giuseppe or ora accennato, nel 1766 alienava al commendatore Giovanni, del co-lonnellato dei suoi agnati Berzetti, la parte di giurisdizione spettantegli su Buronzo in un col patronato sul beneficio della Trinità e dei Santi Cosimo e Damiano in S. Lorenzo di Vercelli, e di S. Lorenzo a S. Eusebio con vari vitalizi. (Continua). G. Claretta. DIVERTIMENTI (Contînuaz. v. ann. IX, fase. XII, pag. 457). Questi divertimenti però non erano i soli che si prendevano i genovesi. Alle rappresentazioni sceniche s’intramezzavano con alterna vicenda, le conversazioni e le feste delle nobili famiglie. % GIORNALE LIGUSTICO 31 Erano state celebrate con gran magnificenza le nozze della Lilla Durazzo con Giacomo Filippo Carrega, e secondo le consuetudini si erano trattenuti in casa della sposa per alcuni giorni, nel qual breve tempo, aggiunge maliziosamente il gazzettiere, « non si può dire con verità che abbino lasciato d’oziare con frutto». Ma giunta la sera in cui la sposa venne condotta a casa del marito, fu imbandita una cena sontuosa, alla quale convennero oltre ottanta fra dame e cavalieri, non che la principale ufficialità galloispana. Pochi giorni dopo la Maddalena Serra, moglie del Senatore Gerolamo, accolse in sua casa pure a cena il Duca di Richelieu, e si distinse per lo sfarzo degli adobbi, la ricchezza dei serviti e la squisita scelta delle vivande ; fra le quali spiccavano uno storione, due magnifiche trote e quattro lepri del valore di lire mille, mandate in dono da Giacomo Cattaneo, amico di casa. Nè riusci meno splendido il trattenimento, eh’ ebbe alcune sere dopo lo stesso Duca insieme a tutti gli ufficiali nel palazzo di Giulio Gavotto, così pel gusto degli arredi come per la varia multiplicità dei rinfreschi e dei dolci delicatissimi. Giacomo Balbi non volle mostrarsi da meno, e colla opportunità di una veglia che la moglie Vio-lantina dava a Lilla sua sorella divenuta sposa del Carrega, aprì le sue ricche sale ai nobili concittadini ed agli ospiti stranieri, intrattenendoli per lunga ora della notte con giuochi, danze e prelibate leccornie. A Pegli la Marina Gavotti moglie di Agostino, accoglieva a lauto convito il Richelieu col nipote, in compagnia de’ più alti ufficiali e di buon numero di dame e cavalieri. «In questi conviti », nota forse con intenzione satirica il diarista, « la moderazione, e la economia non sono quelle virtù che vi vogliono far comparsa : si cerca un bello e suntuoso apparecchio, le vivande più delicate, e quelle che sono stimate dalle nazioni forestiere hanno il merito di essere più gradite ». 32 GIORNALE LIGUSTICO Essendosi trattenuto alquanti giorni a Genova con la consorte il conte di Nivernais, che recavasi ambasciatore a Roma, ebbe alloggio nel palazzo di Giacomo Balbi; ed in suo onore aprì subito le sue sale ad un « lauto trattamento » la Lilla moglie di Marco Antonio Doria duca d’ Angri, « col concorso di molta ufficialità, dame e cavalieri », che « di continuo, come hanno fatto per lo passato, si divertono alle veglie». A questo tenne dietro « un sontuoso ballo » dato da Agostino Lomelhno nel suo palazzo di Castelletto, rr in testimonianza della conoscenza e buona amicizia contratta » col Conte a Parigi: vi convennero la nobiltà, gli ufficiali ed altri signori forestieri, i quali poterono « godere non solo della bella disposizione degli appartamenti, superbi aredi, ed illuminazioni , ma ancora di tutto ciò che di delicato » seppe « ritrovare in materia di rinfreschi la maestria de’ repostieri». Uguali cortesie prodigò all’ ospite illustre la Momina Grimaldi; ma ad un altro trattenimento in casa di Gerolamo Serra non potè andare, perchè desiderando raggiungere Roma al più presto, fu costretto ad imbarcarsi profittando d’ una calma insperata e poco comune nella stagione invernale. Fortunato quel piemontese Solari, Commendatore di Malta, che dovendo aneli’ esso « passare per ambasciatore della sua Religione a Roma », andò « godendo » di questa « opportunità » di feste e di conviti; per lui certo non si sarebbero fatti : poteva proprio esclamare : sic vos non vobis ! Nè mancava il concambio di cortesie da parte degli stranieri. In una splendida sera di Luglio essendo andato il Duca di Richelieu con Pellina Brignole, e Marina Spinola unitamente ad altre dame e cavalieri al quartiere del Ponte Reale, dove stanziavano i volontari nobili, « s’invogliarono le dame del ballo, nè fu difficile il compiacerle sopra la piazza del grand’arco ov’ è postato il cannone » ; quivi « fatte varie danze » al chiarore di molte torcie, e rinfrescatisi con sorbetti, dopo al- GIORNALE LIGUSTICO 33 cune ore « se ne passarono alla loro solita conversazione ». Non molti giorni dopo la stessa brigata, accresciuta dall’ ufficialità, ed in compagnia dell’ inviato di Francia, sali verso le ventiquattro sopra una mezza galera « per galleggiare sulle acque fresche del mare » , seguita da due grossi feluconi liparotti sui quali erano i suonatori ed una lauta cena. Passate così alcune ore in allegria tornarono a terra, e « preceduti dai suoni » e da molti lacchè con torcie , si ridussero tutti all’ abitazione del Richelieu in via Nuova. Anche il De Haumada volle prima della sua partenza testimoniare la sua gratitudine alla nobiltà genovese, invitandola ad un lauto convitto « di cinquanta coperti », dove « oltre il piacere che ognuno » provò « nel godere di una nobilissima adunanza », si ebbe quello altresì « di gustare d’ ogni sorta di cibi più rari, squisiti, e delicati ». Ma alle pompe, alle parate, ai rinfseschi, ai pranzi e alle cene porgevano modo altre opportunità. La festa di S. Luigi, sebbene non rispondesse quest’ anno alla pubblica aspettativa, pur venne celebrata nella chiesa del- 1 Annunziata assai solennemente, alla presenza del duca di Richelieu e di tutta Γufficialità, con numeroso concorso di patriziato e di popolo. Nè meno splendido fu il pranzo nella residenza del Duca, il quale volle dar compimento alla lesta la sera successiva nel suo palazzo di campagna del Zerbino, con una splendida cena, e « con illuminazione, e varii giuochi di fuochi artificiali, che fingevano un combattimento terrestre di due armate ». Il finto assalto di una fortezza, eretta a tal uopo sulla riva del mare in Sestri Ponente, richiamò colà per tre giorni molte dame, cavalieri e gran quantità di popolo; ma chi ne stette meglio fu 1 ufficialità francese, la quale ebbe un doppio « lauto trattamento a cena » dalla Lilla Doria e dalia Momina Grimaldi. E pranzi sontuosi ebbero luogo sul colle Giorn. Ligustico, «.Anno X. -, 34 GIORNALE LIGUSTICO d’Oregina in casa di Stefano Lomellino, e in citta nella residenza dell’ inviato di Francia, e nei palazzi di Gerolamo Serra e di Francesco Brignole il io dicembre, giorno anniversario della rivoluzione popolare. Avvenne intanto 1’ incoronazione del nuovo Doge, e 1 e-letto, Cesare Cattaneo, dopo essersi recato con il consueto cerimoniale in S. Lorenzo, di ritorno a Palazzo fu nella gran sala « inchinato da molte dame assise in largo palco a tre ordini di sedili, e ricevuto con una sinfonia di cinquanta instromenti musicali »; quindi salito sul trono e compiuto il rito del giuramento, ascoltata l’orazione laudativa di Giambattista Carbonara, vennero serviti « abbondantissimi rinfreschi di sorbetti, latte, e cioccolata ». Il giorno succes-cessivo si fece la gran funzione pontificale nel Duomo, con messa in musica e « dotta ed eloquente orazione » del P. Giacomo Filippo Porrata; dopo di che « niun’ altra cosa restava che il godimento di un lauto splendidissimo pasto, nel quale oltre Γ esservi intervenute cento trenta persone tra cavalieri e dame » , non mancarono il Richelieu, il De Hau-mada ed altri distinti personaggi. Grandissimo concorso vi fu anche a Sestri Ponente per la festa di S. Alberto, e maggiore sarebbe stato « se Γ inquietudine del mare P avesse permesso » ; il che tornò molto utile al mastro di posta, al quale dovettero ricorrere quelli che non avevano la felicità di possedere « carrozze, sedie e cavalli da maneggio » , perchè furono presi maledettamente per il collo e costretti a pagare « sino a lire quaranta ». Riuscì « mirabile il numero delle donne andate per vedere o farsi vedere in abito di gala ; grandiosa Γ adunanza dell’ ufficialità francese e spagnola con loro Comandanti generali ». Si fecero in brigata molti conviti, e pranzi « per prepararsi con maggiore vivacità alla defatigazione del ballo, quale era disposto sotto le tende in tre grandiose piazze, per soddisfa- GIORNALE LIGUSTICO 35 zione di tutti gli ordini della gente, all’uso di campagna; nè poche » furono « le distribuzioni di rinfreschi, per tenere sempre in moto 1’ ardenza dei ballerini e lo strepito dei suonatori ». Quelli poi che non amavano il ballo, ebbero modo di godersi « la postazione in ordinanza lungo la ripa del mare di millequattrocento francesi del Reggimento Reale Bor-gogna, e il loro esercizio a fuoco, e i movimenti di marce e contro marce ». Finita la festa e tornate in città le persone circa le due ore di notte, si diede principio all’ opera in musica. Ma « poco divertimento » si godette in Albaro per la festa dei SS. Nazzaro e Celso, dove convenne scarso numero di persone dell’ ordine civile, e minore di nobili, « parsimonia lodevole nella buona e cattiva fortuna »; tuttavia il popolo , « che mai declina dalla sua antica costumanza, si è fatto vedere frequente, in quel montuoso sito, nelle osterie, taverne e ville, gustando con intemperanza tra suoni e canti nel momento stesso quelli cibi, che facilmente si ottengono con poco danaro, e che danno tutto il sensibile gusto al proprio appetito ». Cagioni di sollazzo furono ancora altre festività chiesastiche; non che quelle ufficiali durate più giorni per la conclusione della pace. Nella primavera del 1749 venne eretto nel palazzo di Giacomo Filippo Durazzo in via Balbi un piccolo teatro, dove una scelta società di dilettanti, raccolta fra i parenti dalla Clelia moglie di Marcello, « donna dotata di tutte le più belle qualità » , recitava alcune delle migliori tragedie francesi tradotte, come Y Ifigenia, il Mitridate e Y Andromaca del Racine, recate in verso italiano da Gio. Batta Riccheri (1). I (1) Cfr. 1’Avvertenza preposta all’ODERico, Osservazioni ad alcuni codici della libreria Durano, Genova Sordo-Muti 1881. 36 GIORNALE LIGUSTICO Le parti erano distribuite così : IFIGENIA. Clelia Durazzo. Barbaretta Durazzo. Giulietta Grimaldi. Lilla Grimaldi. Francesco Balbi. Agostino Lomellino. Giacomo Durazzo. Giacomo Filippo Durazzo. MITRIDATE. Barbaretta Durazzo. Clelia Durazzo. Agostino Lomellino. Giacomo Durazzo. Marcello Durazzo. Giacomo Filippo Durazzo. Girolamo Durazzo. ANDROMACA. Andromaca Giulietta Grimaldi. Cefisa Lilla Grimaldi. Ermione Clelia Durazzo. Cleonia Barberetta Durazzo. Pirro Giacomo Durazzo. Piìade Marcello Durazzo. Oreste Agostino Lomellino. Fenicio Giacomo Filippo Durazzo. Queste rappresentazioni riuscirono accettissime a tutti gli interventuti, non solo per « la vivacità, lo spirito, e la forza con cui ciascuno » degli attori vestì « il proprio carattere », da meritare « gli applausi de’ più intendenti spettatori » ; ma ancora per la « magnificenza » onde questi trattenimenti erano accompagnati, e che era a quei tempi « propria di Monima Fedima Mitridate Siface Farnace Arbace Arcade Cìitennestra Ifigenia Erifile Doride Agamennone Achille Ulisse Arcade GIORNALE LIGUSTICO 37 quella casa ». Le tragedie citate vennero ripetute più volte, e di nuove si mise in scena Radamisto e Zenobia di Cre-billon, tradotta in verso italiano da Carlo Innocenzo Frugoni. Nè la villeggiatura interuppe questi sollazzi, chè nel palazzo di Cornigliano furono rappresentate Γ Atalia del Racine volgarizzata dall’abate Conti, e il Pirro del Crebillon fatto italiano da Agostino Lomellino , coltissimo e assai chiaro gentiluomo che era uno dei principali recitanti. Il costume del recitare era nei nostri patrizi assai antico, e muoveva da quelle Accademie fiorite in Genova nel secolo XVI, che reputavano questo esercizio utilissimo alla educazione della gioventù; nè, come si vede, pensavano altrimenti i patrizi del settecento, ben stimando come in « sì nobile divertimento, mentre si erudisce la gioventù nella buona lingua, si pasce la mente con savi e vivi pensieri, si forma lo spirito alle idee più generose, e con profitto dell’animo si fa buon uso del tempo ». E che si continuasse in seguito a recitare nelle case patrizie, ci è provato dalla testimonianza di due poetesse. La Du Boccage, che fermatasi a Genova nel maggio 1758, ed intesa la Barbara Durazzo, divenuta moglie di Giacomo Brignole, da lei conosciuta a Parigi e che conservava « tous les charmes qui l’y firent admirer », rappresentare in francese Y Iphigénie en Tauride, compose per lei questi versi (1) : Du Temple ou vous jouez le rôle de Prêtresse , Oui, le spectateur enchanté, Vous croit, Brignolé, la Déesse. Ces grâces, cette majesté , Qui se passeroient de beauté, N’ont rien d’une simple mortelle; Que dis-je? Diane est moins belle. On lui fait grâce en vérité, En vous prenant ici pour elle. (1) Du Boccage, Oeuvres, III, 370. 3 8 GIORNALE LIGUSTICO Trentanni più tardi la Silvia Curtoni Verza ospitata a Voltri nella villa Brignole, v’intese opera buffa, tragedie e commedie in italiano e in francese fi). A. Neri. VARIETÀ DI UN’ ISCRIZIONE ATTRIBUITA A LUNI Il eh. sig. prof. can. Angelo Sanguineti a pag. 127 della sua opera : Iscrizioni romane della Liguria raccolte ed illustrate, tra quelle di Luni, sotto il n. 78, riferisce la seguente : DIS · MANIBVS L · CATIO IVNIA PHYLLIS CONIVGI SVO B M FECIT E 1 accompagna poi con 1’ annotazione, che qui trascrivo : « La ricavo dal Muratori (1321. 3), il quale ne indica la » provenienza con queste parole : Lunae in hortis Monticati-» norum. Misit Pater Pompeius Berti lucensis. Il Promis non » la riporta nella sua Raccolta Lunense : il che io non saprei » spiegare se non per uno di questi due modi: 0 perchè » gli è sfuggita ; o perchè ha creduto che come è lucchese » quegli che l’inviò al Muratori, così fosse lucchese anche » 1 epigrafe, e che dove si legge Lunae abbiasi a leggere » Lucae. Non sarebbe il primo equivoco avvenuto fra questi » due nomi. Noi però, finché altri non provi positivamente » il contrario, stiamo al possesso di Lunae, e perciò la re-» gistriamo colle altre Lunensi ». Eccomi a provare positivamente il contrario. L’erudito lucchese Daniello De’ Nobili, morto il 1648, ne’ suoi Di- (1) Montanari, Vita di Silvia Curtoni Ver^a, 96 — Giorn. Lig., 1881 , 390. GIORNALE LIGUSTICO 39 scorsi intorno alle antichità di Lucca, che si conservano manoscritti nella R. Biblioteca Pubblica Lucchese, e portano il numero d’ ordine 881, nel Discorso X, che tratta Delle antiche iscrizioni sepolcrali, così parla appunto della epigrafe controversa : « . . . due . . . urne quadre di marmo ritrovansi » nel giardino del sig. Gio. Lorenzo Malpigli in Lucca, se » ben di ogni ornamento spogliate, eccetto che dell’ iscri-» zione : DIJS MANIBVS L · CATIO VELOCI IVNIA PHILLIS CONIVGI SUÆ B · M · FECIT. Fin qui il De’ Nobili. A c. 96 del tom. Ili della Raccolta universale delle iscrizioni sepolcrali, armi e altri monumenti, sì antichi che moderni esistenti nelle chiese e altri luoghi della città o di Lucca fino al presente anno MDCCLX fatta da me Bartolomeo Baroni P (atrizio) L (ucchese) ; opera che trovasi essa pure manoscritta nella R. Biblioteca Pubblica di Lucca, ed è contrassegnata col numero 1016, si legge appunto la suddetta iscrizione; ed il raccoglitore la dice esistente « nel-1’orto Malpighi, ora Montecatini ». La lettura che ne fece il Baroni è peraltro differente da quella che ne fece il P. Alessandro Pompeo Berti della Congregazione della Madre di Dio, e che il Muratori pubblicò. Dice infatti : D · M · L. CATIO . ....... VELOCI IVNIA PHYLLIS CONIVGI SVO B . M · FECIT. 40 GIORNALE LIGUSTICO Il prof. cav. Enrico Ridolfi, parlando a pag. 136 della sua Guida di Lucca (Lucca, Giusti, 1877) di Gio. Lorenzo Montecatini, tra le altre cose, scrive: « Non so se a questi, 0 » ad altri di sua famiglia, dovevasi di aver raccolto nel cor- O 7 » tile del proprio palazzo varie anticaglie per salvarle dalla » dispersione ; gentil cura, che non fu proseguita da chi suc-» cedette (1) ». E aggiunge, « che trovavansi tra quelle, due » urne di marmo bianco, spoglie di qualunque ornamento », in una delle quali era scolpita Γ iscrizione in discorso. Resterebbe a rintracciarsi chi fu il compratore di quella urna, e se al presente abbellisce qualche Museo del Regno o d òltremonte, o qualche privata raccolta. Agli Archeologi la risposta. Giovanni Sforza. ■ UN POEMA MACCARONICO SOPRA I FATTI DEL 1746. Ci e venuto a mano il frammento di un poema maccaronico intorno agli avvenimenti del 1746, e consta di due carte, le quali evidentemente appartenevano ad un manoscritto in 4.0 piccolo. Lo stampiamo nella speranza che qualche studioso possa fornirci notizie dell’intero lavoro. Et generali Bottae qui plura locutus jurat, et affirmat cunctam mox velle vocare germanam truppam Militum , quae Millia plura esse r effert, qualem Liguris diviserat oris, (1) Ultima della famiglia Malpighi fu Elisabetta figlia di Gio. Lorenzo, che sposò Nicolao di Baldassarre Montecatini, ed ebbe da esso Vincenzo e Giovambattista. Il primo di questi, nato il 24 ottobre 1530, per volontà della madre , assunse il cognome de’ Malpighi ; Γ altro portò quello paterno de’ Montecatini. Il nuovo ramo de’ Malpighi si estinse in Gio. Vincenzo, figlio di Gio. Lorenzo , nato da Vincenzo suddetto ; e ne furono eredi i Montecatini ; de’ quali è ultimo fiato la vivente marchesa Elisa, moglie del principe Carlo Poniatowski. GIORNALE LIGUSTICO 41 gentes, quae lecto, vino, quoque pane carentes pauperibus abstulerant nummos, et sanguine vitam. Doria discessit, vadit tunc Padre Visetti ; ipse reffert Bottae, quae Doria dixerat olim, pregat, scongiurai per grandia numina caeli, ut velit populo rubatas reddere claves, atque alias partes citius convertere gressus ; sed ostinatus non vult has traddere Botta Theresiae affirmans tunc claves esse Reginae. Talia dum sentit Urbem celer ipse caminat, confusumque videns populum sic fatur : Amici : plura dixi Bottae, pro vobis maxima dixi, sed nihil obtinui, nihilum mea verba fecere , iratus rursus praeceps vestigia vertit ad Bottam populus vellens se redere tutum , si militum extra urbem tenes tu millia plura, sexaginta canum vinclis ego Millia stricta, crede mihi, teneo pariavit primus in istos, quos si de laqueis solvam magno impete morsus in te cacciabunt: sed haec puerilia verba sunt, ο Botta, cito petimus quid tradito nobis dum secus aspicies genuensis fata furoris, et culum voltant Urbem, prestoque caminant optantes donum carae Libertatis habere, et subito strepitat campana Martellus in Urbe , nec campaninus erat, cuius grattare batalium clericus haud vellet, cunctosque ad arma vocare. Iudicij venisse diem parebat allora, hic numquam auditus strepitus magnam excitat iram, Praesbiteros urget populus pars altera spingit fratres, et patres, juvenes, vechiosque, ragazzos Minaccians mortem ferrum haud tractare volenti, decima at hora fuit, credas, tunc ipsa dici 42 GIORNALE LIGUSTICO Sabathi cum grandis focus est accensus in Urbe , Darsina prima suos caepit sparare canonos in Campaninum Sancti Comenda Ioannis fortifkatus erat tremulus qua parte Tedescus; Pietra minuta fuit subito compagna fidelis Canonum sovvente sparans, simul inde mortarum Vibrantem duras petras,, ballasque strepentes Marmoreas, replicat quoque Castellassus amaros ictus Tedescos contra, Darsenarius amplam Lanternae stradam culpos mandabat, et altus Montemorus erat non cessans mittere grossas Tedescam in Truppam mixtas cum pulvere pallas; Inde Oreginae focus est accensus in alto grandis ubique focus Balbi via focus in ampla, et focus extra Urbem, magnus quoque focus et intra, hic focus, illic erat focus, quoque focus et extra, Tantas crede mihi non vidit Troja flammas. Praesbiter interea nomen mea musa sileto, istius veri quamvis sit carminis auctor , cum Paesanis qui plures ante barilos pulvere non vacuos hostis qui sumpserat aede gressu quam celeri montata currit abbassum hic Oreginae stimans portas Thomae essere apertas. Credite Mortales vobis non dico boxias, sed vix istius tetigit sua planta capellam tertiam sub medio Sancti bastione Michaelis, scendentes plures longa de corda Cloatos cum Varadinis mirat: Qualis tunc iste Lacherus currit, et in salvum bramat sua membra locare } at vix ante oculos auriana platea surgit istic squadronatos tedescos esse rimirat, tunc caminare audet fossatum versus, et aedes gialla Mariconi multos sparare sclopeti GIORNALE LIGUSTICO 43 ictus non cessat paesanos Valle Lagassi scendere qui nuper possènt depellere ut hostes. O quantam tenuere suam tunc corda pauram , Nientedimeno citas revocat forzasque coraggium, et subito cursans velox ubi pluvia Celso Conducto scendit palpitans sua corpora condit sub paleae curru, geminos ubi viderat esse demissos socios hispanum cum genuense palpitat atque tremit, sed cuncta mirat attento lumine, sed focus cum non cessaret ab urbe conspicit, et versus omnes scappare tedescos dare stramazzonos tales, talesque culadas, quae nunquam surgunt in toto tempore vitae . credentes magnos secum portare triumphos, et quod habent perdent, veluti Mastinus Esopi. Ille allora videns fugam tam prendere prestam , et retroguardiam solum mansisse platea quam celeri bracchio sclopetium extollit in altum contra germanas optans explodere gentes, sed Dux tedescus Nicolotus nomine quidam praesbitero voltat carubinam promptior, et huius vix ferit hic bracchium, sed sparat in ipso ictu alter socius non stultus ille sclopetum contra hostem, extremamque misit de ventre corezzam, perpetui sommi seguitavit et ipse sororem. Panduntur portae currit cito maxima foris SPIGOLATURE E NOTIZIE Nelle Notizie degli scavi di antichità si legge : < Nella prima metà del mese di giugno furono scoperti, nella necropoli di Albium Intemelium, i titoli sepolcrali che qui appresso trascrivo, desumendone la lezione dai 44 GIORNALE LIGUSTICO calchi cartacei, che mi furono trasmessi dall’agregio ispettore degli scavi cav. prof. Girolamo Rossi : a) in lastra marmorea : LICINIAE · C · F · POLLAE · LICINIA · C · F · SECVNDA · FILIAE · PISSVMAE · MATER · V . F · h) in lastra marmorea : L · AFRANIVS · SEVERVS VIXIT· ANNIS-XIV L · AFFRANIVSMARlTIMVS PATER· FECIT · FILIO ET IVLIA · SEVERA MATER c) su lastra marmorea, aggiunta alla raccolta municipale : L · MINICIVS GENET HLIVS MINICIAELYCORi DICARAECONIVGi ETPIENTISSIMAE · FEC T-R-P-DS-T-T-L· d) in piccolo riquadro di pietra arenaria, pure aggiunto alla raccolta pubblica del luogo: SENTRO · ADREIIO NIS · F · SVIS · ET · SIBI FEClT · C ■ ALBICVS C · F · EXOMNACIVS RVFVS · OCTAVIVS C · F · EXOMNACIVS Daremo in seguito e man mano che ci perverranno le relazioni ufficiali intorno alle nuove scoperte fatte a Ventimiglia, a S. Stefano Ligure, a Monterosso al mare, a Bollano, e più recentemente a Vernazza. GIORNALE LIGUSTICO 45 Un largo ed importante argomento era stato proposto, per il concorso a premio istituito dal signor Gerson de Cunlia, da aggiudicarsi dalla R. Accademia dei Lincei, intorno alle Relazioni antiche e moderne fra Vllalia e VIndia, nel quale si dovevano trattare minutamente le relazioni commerciali dell’ India colle repubbliche di Venezia, Genova , Pisa e Firenze, ma delle due memorie presentate nessuna fu riputata degna di premio. *** Nell’ Archivio storico italiano (T XI, 20 e segg.) si incomincia la pubblicazione del Dario di Palla Strofi, del 1423, assai importante anche per la storia genovese , perchè illustra le relazioni fra la repubblica , in tempo della soggezione a Filippo Maria Visconti, coi fiorentini. — Vi troviamo pure una erudita rassegna del nostro eh. collaboratore cav. De-simoni intorno alle pubblicazioni della Società dell’ oriente latino, dove sono accennate parecchie notizie genovesi. — Il ch. G. E. Saltini in una sua bella e piacevole monografia intorno all’ Educazione del principe don Francesco de’ Medici, ;tocca della costui venuta in Genova nel 1548 cogli ambasciatori mandati da Cosimo, ad ossequiare don Filippo di Spagna; i documenti della quale ambasciata, già erano stati da lui stesso posti in luce nel medesimo Archivio alcuni anni or sono (ser. quarta, IV, 19-34). *** Il sig. H. de Grammont ha pubblicato in Algeri la traduzione di una lettera di Girolamo Conestaggio, sulla spedizione mandata contro quella città nel 1601, dal re Filippo III. Questa lettera era stata messa in luce dal Pavoni nello stesso anno 1601, in cui fu scrina. *** Nella Revue des deux-mondes (15 gennaio 1883, 433) Edward Plauchut stampa una monografia intorno a Monte Carlo, e nella prima parte si distende a discorrere della storia di Monaco e della famiglia Grimaldi giovandosi di documenti inediti. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Epistolario di Alessandro Μαηχοηΐ raccolto e annotato da Giovanni Sforza. — Milano, Carrara 1883, vol. 2.0 di pp. 428. Oltre alle lettere che muovono dal 1840, anno a cui s’arresta il primo volume, e corrono fino all’anno 1873 ultimo di quel grande, sono qui rac- ♦ 4(l GIORNALE LIGUSTICO colti parecchi bigliettini, che l’edttore, seguendo un giusto concetto, non ha voluto trascurare. Ed ha fatto benissimo, in quanto che tutti contengono giudizi, notizie, pensieri degni d’ esser conosciuti e meritamente pregiati. Le annotazioni che giovano a chiarire, secondo il bisogno, ciascuna lettera , non sono superflue ; ma riescono direttamente al fine, essendo dettate con piena conoscenza della materia, e diligentissima cura di nulla trascurare che si riferisca al soggetto. Coloro che dall’ alto del loro tripode volgono un sorriso di sprezzo a questi compilatori di note, non sanno quante fatiche deve durare, quanti ostacoli superare chi pubblica scritti altrui per illustrarli come si conviene. E lo Sforza riesce molto bene nel suo diffìcile lavoro, di guisa che quando sarà finita questa pregevole pubblicazióne, si avrà lo specchio più fedele dell’ animo e dell’ intelligenza del Manzoni ; ed in un tempo la più compiuta biografia che fino a qui se ne sia dettata. Ho detto quando sarà finita la pubblicazione dell’ epistolario, perchè 1’ editore ci fa la gradita sorpresa di prometterci un terzo volume, nel quale si accoglieranno tutte le lettere scritte dal Manzoni a Vittorio Cousin, con più altre., scoperte sopra lavoro ; del che debbono mostrarsi lietissimi i cultori dei buoni studi. Poesie di Francesco Ruspoli commentate da Stefano Rosselli con altre edite ed inedite per cura di C. Arlia. — Livorno, Vigo 1882. Primo merito di questo ben inteso e dilettevole libretto, è quello d’aver restituito al suo vero autore il commento ch’era stato messo fuori a Bologna nel 1876 col nome di Andrea Cavalcanti, il quale aveva guastato con alquanta rettorica la semplice esposizione di Stefano Rosselli ; poi le cure di quel primo editore erano state poco diligenti e meno felici; onde n era venuta fuori una scrittura malconcia per molti rispetti. Di tutte queste cose il eh. sig. Arlia rende capaci i lettori colle prove alla mano. Ma non basta ; perchè nella prefazione egli ci ammanisce tutte le notizie letterarie, e bibliografiche, da contentare i più curiosi, dandoci per giunta come appendice una serie di poesie di contemporanei al Ruspoli piene di vivacità e di sali. La vita poi dell’ autore scritta dallo stesso Rosselli, è una graziosa scrittura che non può scompagnarsi nè dalle poesie, nè dal commento. E senza quest’ ultimo come potrebbero intendersi tutti quei sonetti? Le molteplici allusioni ad uomini e ad aneddoti di quel tempo, sfuggirebbero senz’ altro, e per noi si potrebbero dire quasi lettera morta. Ciò all’ infuori della lingua sempre garbata, di buon conio ed urbana ; come che non sia sempre pulita la frase ed urbana la satira. GIORNALE LIGUSTICO 47 Ma erano forse puliti i costumi ? era monda la società da certi iniquissimi vizi? Par di no ; perchè non un solo poeta, ma la maggior parte battono la medesima solfa. Tornando al libro si deve dar lode all’ editore della pregevole pubblicazione , e incuorarlo a mantener presto la promessa di darci raccolte ed illustrate le rime del Burchiello , del Migliorucci, del Somigli e del Marignolle. Non tacerò infine che all’ Arlia servirono assai le lettere scritte del Magliabechi al P. Angelico Aprosio, conservate autografe nella nostra Biblioteca Universitaria. * * * A. Ademollo. Le giustizie a Roma dal 1674 al 1739 e dal 1796 al 1840. — Roma, Forzani 1882. Ecco un libro curiosissimo e di molta importanza ; la quale è cresciuta dalle svariate notizie, onde il eh. Autore, ha ben voluto arricchire ed illustrare la pubblicazione dei due documenti singolari dell’ Ab. Ghezzi e del boia Bugatti. Ma il diario del primo, che fu confratello della Arcicon-fraternita degli agonizzanti, richiama maggiormente 1’ attenzione del lettore, per le distese particolarità colle qnali tocca dei singoli giustiziati, e delle esecuzioni capitali ; vi è anzi tanta severità e crudezza realistica di racconto , da far ben spessso rabbrividire. Le osservazioni che 1’ Ademollo vi premette, rilevano opportunemente 1’ utile, che può trarre lo storico da questa ragione di documenti, e per via di accenni statistici ci dà acuti confronti, che mostrano chiaro come la civiltà, e lo spirito dei nuovi tempi, correggessero molte inveterate barbarie , e molti vizi, anche là dove si voleva assai più che in altri luoghi tenersi attaccati allo scoglio, rifiutando di correre. Fra i giustiziati del secolo passato meritano singolare ricordo 1’ abate Volpini, 1’ abate Rivarola, ed il conte Trivelli, mandati all’ultimo supplizio perchè nella loro qualità di fogliettisti, o come oggi direbbesi giornalisti , avevano scritto le novità di Roma all’ estero, tagliando i panni addosso alla corte pontificia ed al Papa stesso. In verità quando si pensa che di notizie e di maldicenze sì fatte sono piene le corrispondenze degli ambasciatori ed agenti esteri a Roma, ci sentiamo tratti a compassionare quei disgraziati, che si lasciarono cogliere e non ebbero alla penna, e alla lingua, ed anche alla verità, 1’ egida della rappresentanza d’ un governo qualunque. Che cosa avrebbero fatto lassù in Curia a Ferdinando Raggi, agente della Repubblica di Genova, se avessero saputo quello che scriveva al Senato ? Eppure credo non fossero d' altra natura gli avvisi di 48 GIORNALE LIGUSTICO quei poveri gazzettieri; anzi non giungevano forse a tanto. Nei Collegi dove erano letti, dovevano ben spesso ridersela di buon pro que’ nostri vecchi parrucconi ; come se la ridevano in corte imperiale degli avvisi del Volpini; il quale mi sembra fosse buon loico quando « non poteva capire di dover morire », e vicino a montare il palco « faceva un argomento: se quelli del S. Offizio, de’ quali si fece P ultima abiura nella Minerva, che havevano detto male d’Iddio medesimo, furono assoluti con una penitenza pubblica, lui che haveva detto qualche cosa del Papa doveva morire? non gli poteva entrare ». Due relazioni sincrone ci danno particolari notizie, del processo e della morte dell’ ab. Filippo Rivarola e del conte Enrico Trivelli. Passandomi di quest ultimo, ricorderò come il primo fosse genovese, o per dir meglio di Chiavari. Aveva un certo ingegno, e nè anche era sprovveduto di studi ; non poteva dirsi una perla d’ uomo ; ma certo lo scrittore della relazione grava la mano e carica le tinte. Non gli venne fatto di acconciarsi nella corte di qualche cardinale, e forse la sua natura ribelle ad ogni giogo, non gliel consentì ; neppure potè procacciarsi uffici : tirò via la vita alla meglio coi foglietti. Gliene incolse male. Messo in carcere e perquisitagli la casa, gli sequestrarono libri, carte, e manoscritti. Fu processato in fretta e con molta segretezza, tanto che ne seppe poco anche il residente genovese, il quale, bisogna pure dirlo, non se la prese punto calda, e nemmanco interpose uffici di parole, come in altri casi avevano fatto i suoi predecessori. Il povero abate in men d’ un mese ebbe processo, difesa e condanna ; la quale sarebbe stata eseguita più presto se non fosse caduto ammalato; nè era guarito quando lo condussero al supplizio, onde «aiutatolo con diversi ristorativi, subito che riprese spirito fu posto colco in una barella____fu portato al patibolo____ove già cadavere e senza spirito fu alzato di peso nel palco ». Ma qui gli doveva toccare 1 ultima delle sventure , un boia mal pratico ; il quale si trovò « confuso che non sapeva come maneggiare il paziente che si trovava quasi spirante », perciò l’aggiustò male sul ceppo e la mannaia cadde in fallo; onde « provato a tirar la testa, e vedendola non affatto recisa.... prese il mannarino in mano e gli tagliò con quello il resto del collo, che stava attaccato ad un pezzo di ganascia ». Ira del popolo per la cattiva riuscita dello spettacolo ; scompiglio, tumulti, pugni e sassate. Chi ne pagò il fio ? 1 artista mal destro, che messo in carcere venne poi frustato di santa ragione. Et nunc erudimini ! Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO PRIVILEGIO DEL RE D’INGHILTERRA A DUE GENOVESI Il documento che segue ci fu gentilmente comunicato dal-l’illustre Conte Riant dell’ Instituto di Francia, il quale lo fece trascrivere dalla pergamena originale che si conserva nell’Archivio di Londra (Rotul. patent, (anno) 13, Henry VII, 28 junii). Il Re Enrico VII essendo salito al trono il 22 agosto 1485, il 28 giugno, anno 13, corrisponde al 1498. Le relazioni pubbliche e private dell’Inghilterra coi Genovesi furono antiche e frequenti, ma non è qui il luogo d’esporle, rimandando il lettore, oltrecchè al nostro Archivio di Stato, ai parecchi cenni che già se ne sono pubblicati. Si veda il Rymer Foedera; e per limitarci ai nostri, il Codice diplomatico della Repubblica di Genova, ms. alla Civico-Beriana; la Storia del March. Serra, Vol. IV ; il recente scritto del Belgrano sulla famiglia Pessagno {Atti della Società Ligure di St. Patr. Χλ^); le Relazioni di Genova colle Fiandre (ibid. 429)j Desimoni nel Giornale Ligustico 1876, p. 380. In quei documenti fanno onorata presenza segnatamente quattro famiglie genovesi : i Fieschi, gli Usodimare, i Saivago e i Pessagno; dei quali ultimi vedasi la citata Memoria del Belgrano pp. 250-310. Degli Usodimare comincian colà le notizie, come sui Pessagno dal principio del secolo XIV; recentemente usci alla luce un nuovo documento per cura del eh. Balzani (Archivio della Società Romana di St. Patr. χ879, p. 209) nel quale è però da correggere il cognome Versus maris in Ususmaris. Fra i Saivago l’Antonio nominato nel documento che pubblichiamo, è già noto nel Rymer (Op. cit. V, part. 4.% p. 118, ed. 1741) per altro privilegio ottenuto dallo stesso Re nell’anno precedente. Di lui e del Giorn. Ligustico, Amo X. So GIORNALE LIGUSTICO Gioffredo De Marini suo compagno sappiamo per altre nostre carte le navi che possedevano, i nobili uffizi che ebbero in patria come preposti alla marineria, alla mercanzia, banchi, fallimenti, casa di San Giorgio. Bei tempi, quando i Geno-\Tesi nel documento qualificati semplici mercanti, coprivano terre ed isole della loro presenza, facendo ad un tempo 1’ ammiraglio, il diplomatico, il finanziere ! 1498, 28 Giugno. Rex, omnibus ad quos etc., salutem. Sciatis quod licet per quemdam actum in Parliamento nostro apud Westminster, anno regni nostri quarto tento edito, inter cetera contineatur quod nullus mercator extraneus per se vel per aliquam aliam personam in aliquo anno decem annis post primum diem Marcii anno regni nostri quinto durante, aliquas lanas ante festum Purificacionis beate Marie Virginis in quolibet huiusmodi anno proximo post tonsionem earundem sequenti aliquo modo emat, sub pena forisfac-ture(i) duplicis valorrs earundem lanarum contra huiusmodi ordinacionem sic emptarum ; nec quod aliquis lanarum paccator (2), dictis decem annis durantibus, post dictum primum diem Marcii quovismodo emat aliquas lanas infra hoc regnum nostrum Anglie, pro aliquo huiusmodi mercatore extraneo, sub pena forisfacture huiusmodi lane sic empte, pro ut in eodem actu plenius continetur. Cumque etiam per quendam alium actum in Parliamento nostro aptfd Westminster nono die Nouembris anno regni nostri tercio tento, edito, inter alia ordinatum et stabilitum existât quod nullus mercator indigenus nec alienigena assumeret super se intrare aut intrari causare in libris alicuius custumarii (3) in aliquo portu infra hoc regnum nostrum Anglie aliquas mercandisas in regnum Anglie veniendo sive inducendo aut ab eodem regno educendo, in nomine alicuius mercatoris, preter quam in nomine veri mercatoris proprietarii mercandisarum illarum, sub pena forisfacture omnium bonorum et mercandisarum sic intratarum; et quod quilibet mercator, qui assumeret super se aliquam talem iniustam intracionem fieri causare, haberet imprisonamentum et (1) Le note al documento sono la più parte dal Glossario del Ducange. — Muleta vel emenda in Ducange e forse meglio confisca, in francese forfaiture. (2) E più sotto impaccator iu francese emyaqueltur imballatore. (3) Costumière e costuma del Re in Pegolotti (Della Decima III, p. 260), cioè il dazio regio e il suo Esattore. é GIORNALE LIGUSTICO faceret finem inde ad placitum nostrum, pro (ut) in actu illo 'plenius coc-tinetur. Nos tamen, certis de causis et consideracionibus Nos specialiter moventibus de gratia nostra speciali ac ex certa sciencia et mero motu nostris, concessimus et licenciam dedimus, per présentes concedimus et licendam damus, pro nobis et heredibus nostris, dilectis nobilibus Antonio Salvage et Joffrido de Marinis mercatoribus de Janua , et eorum alteri, quod ipsi per se ipsos, factores, attornatos (i) sive deputatos suos indigenos sive alienigenos quoscumque, seu eorum aliquem, durante termino trium annorum proxime sequentium immediate post festum sancti Bartholomei apostoli, in quolibet huiusmodi anno lanas quascumque de crescen (2) cu-îuscumque comitatus, siue quorumcumque comitatuum huius regni nostri Anglie, emere, berganizare (3) et providere; ac e*dem lanas ad eorum et cuiuslisbet eorum libitum ciaccare berdare (4) et mundare, ac claccari berdari et mundari facere ; necnon quadringentos saccos lane de huiusmodi lanis claccatis berdatis et mundatis, aut non claccatis non berdatis et non mundatis, una cum lokes earumdem (5), una vice vel diversis vicibus, quando-cumque eisdem Antonio et Joffrido et eorum alteri placuerit durante termino supiadicto, in portu nostre ville nostre Sutht in quibuscumque carracis (6) galeis, navibus vel vasis, tam de obediencia nostra quam aliarum partium quarumcumque, ponere carcare et eskipare (7), a.c poni carcari et eskippari facere, et lanas illas sic carcatas et eskippatas, et quamlibet inde partem, de tempore m tempus, quociens et quandorumque eisdem Antonio et Joffrido et eorum alteri placuerit, durante termino predicto, extra hoc re- (r) Procuratori; anche oggi Γattorney in Inghilterra è il procuratore legale. (2) In Ducange crescentia è locatio pecori: sub augmenti . . conditione. (5) Non trovo spiegazione di questa parola; però è affine a berger,a, bergerius, francese berger, pastore, pastorizia. (4) In Ducange, ciaccare è ovis seu velleris votam abscindere, couper la marque: berdaSe è lanam caput et collum velleris abscindere. Se io ben intendo, ogni lanuto era segnato del marco regio, che non si potea togliere senza il costumiere, pena la confisca. (5) I ricci o ciuffi della lana tagliata. 1 (6) Secondo 1 illustre Amari il nome di caracca viene dall’ arabo. In Ducange significa navis oneraria, e ne indica tre grandissime genovesi; come altre genovesi e loro patroni trova il Rymer op. cit. V, part, i.», p. 8. Lo stesso ibid. part. 4.*, p. 21 cita una nave que causa magnitudinis nominatur caracca. Delle nostre caracche ho parlato anche in nota a Pero Tafur (Atti della Società, XV, p. 33 s) e aggiungi che l’Antonio Conflans che colà parla di caracche genovesi ha dato altri cenni in un suo scritto : Les faits de la marine et vavigaiges, citato dal Belgrano nei Documenti stille crociate di S. Luigit p. 20. (7) Caricare e mettere nello schifo (eskipare) per trasportar le merci per mare. 52 GIORNALE LIGUSTICO gnum nostrum Anglie ad partes extraneas et transmarinas, per et ultra strictum de Marroke , traducere et cariare, ac traduci et cariari facere possint et valeant, eorumque alter possit et valeat licite et impune. Ac eciam saccos lanarum predictarum et lanarum vocatarum Iokes predLtis in libris custumariorum nostrorum, in portu nostro predicto pro tempore existentium, nominibus dictorum Antonii et JofFridi, aut eorum alterius, au in nomine sive nominibus aliquorum factorum sine attornatorum suorum indigenorum sive alienigenorum quorumcumque, intrare et intr i sare. Similiter possint et valeant, eorumque alter possit et valeat, absq impedimento, impeticione (i), forisfactura de predictis, punicione sive l.i i m pnia nostrum officiarorum seu ministrorum nostrorum aut aliorum su torum nostrorum quorumcumque, eisdem Antonio et Joffrido aut eorun alteri, factoribus attoniatis sive deputatis suis, aut lanarum predictarum ini paccatoribus, aut eorum alicui quovismodo inferendis, solvendo Nobis pro custumis, subsidiis, denariis et aliis omnibus quibuscumque Nobis inde delitis, videlicet pro quolibet sacco lane predicte necnon lane predicte vocate lokes quinque marcas (2) tantum et non ultra, unam videlicet medietatem inde a finem novem mensium proxime et immediate sequentium post quaml huius modi carcacionem et eskippacionem earum lanarum, ac alteram medietatem ad finem novem aliorum mensium extunc proxime et immediate sequentium et non antea, per indenturas (3) inde inter prefatos Antonium Joffridum aut eorum alterum, factores, attornatos sive deputatos suos pre dictos, sive eorum aliquem, et custumarios sive collectores custumarum subsidiorum nostrorum in portu predicto pro tempore existentes c.ir caciones et eskippaciones illas de tempore in tempus debitum conficien das testificantes : per quarum quidem indenturarum altftam partem et has literas nostras patentes, ac brevia nostra superinde collectoribus custt marum et subsidiorum nostrorum in portu predicto pro tempore exi stentibus dirigendas, volumus, et per présentes concedimus eisdem An tonio et Joffrido quod tam ipsi et eorum uterque, ac factores, attonati (1) Petitio in jure (Ducange). (2) Multa in denaro ; marca è il peso di otto oncie, -he a Londra c a Colonia si può rag gaagliare ai nostri grammi 233,962 ; e si divideva in 160 danari stcrlini (scellini 0 soldi di colà 15 e den. 4). Sul valore della lira inglese (di 240 danari stcrlini) fra il I.|6o e il 7I1 ho toccato nel Giornali Ligustico, 1876, luogo sopra citato. (3} Indentura (e più sotto indenture alteram partem') era un contratto bilaterale, steso in più originali sopra una stessa carta, tagliata poi a denti 0 per mezzo a un alfabeto , e distribuita alle singole parti per guisa che riunendo a costa i due originali se ne possa constatare 1 identità. Le carte genovesi usavano l'alfabeto e le dicevano per abecedarium divise, GIORNALE LIGUSTICO 53 et deputati sui quam collectores et custumarii nostri predicti, et eorum quilibet, de omnimodis pecuniarum summis, custumis, subsidiis, exactionibus et demandis, que ab ipsis seu eorum aliquo ad opus nostrum per premissos seu eorum aliquo exigi poterunt, aut unde ipsi aut aliquis erga Nos, impeti aut onerari poterunt, erga Nos et heredes nostros omnino exonerentur et acquietentur, exonerentur et acquietentur in perpetuum, preter quantum de custumis et subsidiis predictis Nobis in forma predicta solvendis; eo quod expressa mencio de vero valore lanarum predictarum in presentibus facta non existât, aut actibus predictis seu aliquo alio actu, statuto, ordinacione vel provisione in contrarium edita sive ordinata, aut aliqua alia re causa vel materia quacumque in aliquo non obstante. In cuius rei etc. T(este) R(ege), apud Westminster XXVIII die Junii. DI UNA NOBILE FAMIGLIA SUBALPINA BENEMERITA DELL’ INDUSTRIA SERICA NEL SECOLO XVI, E DI ANALOGHE RELAZIONI DEL PIEMONTE COL GENOVESATO (Cnntinuazione e fine v. pag. 50). A complemento ora di questa memoria, radunerà nelle poche pagine rimanenti, quanto ho ritrovato di più singolare sull’ industria serica fra noi, specialmente nei rapporti colla famiglia sovrana che sempre la favorì ; ed anche qui entra alcun poco il Genovesato. I risultati soddisfacenti in quanto attiensi all’ incremento eh’ ebbe l’industria serica, cominciano da Emanuele Filiberto, accorto riformatore dello Stato, e che applicatosi a far fiorire ogni arte ed industria secondando i consigli, come dicemmo testé, dell’illustre Niccolò Balbo, mandò tosto a Genova a far acquisto di seme di bachi di buona qualità e procacciossi gelsi a Milano. Infatti risulta dai conti della tesoreria generale degli anni 1562, 63 e 64 aver egli impiegata a tale scopo considerevole somma; e diciassette mila gelsi destinò alla nuova sua pos- 54 GIORNALE LIGUSTICO sessione presso Tronzano, che in omaggio alla sua sposa aveva denominato la Margherita. Sovrintendente alla medesima elesse Agostino Morcello da Vigevano, a cui consegnava cento scudi d’oro d’Italia per provvista di gelsi, dandogliene poi poco dopo altri settecento per lo stesso fine. L’ ambasciatore veneto Molino ci lasciò scritto che obbligò persino i suoi sudditi a piantar gelsi nei loro poderi ; è una semplice asserzione, ma le idee assoluèe di quel principe non rendono impossibile una tal determinazione, che d’ altronde ricorda tempi non lontani, in cui in alcuni statuti di città italiane obbliga-vansi i proprietari di luoghi cinti da muri a piantarvi dei gelsi. Quel che è certo si è che nel 1563 in cui Emanuele Filiberto spedi a Genova per acquistare una specie più distinta di seme di bachi, stabili a Moncalieri telai e filatoi di seta, e premiò poco dopo Antonio Paggi che aveva introdotto a Ciamberi F arte serica. Nello stesso anno per allettare gl’ industriosi fece collocare nel suo palazzo dodici drapperie rappresentanti i fatti di Ciro, bei tessuti fiamminghi lavorati d’ oro, argento e seta. E secondo.i principii economici dei tempi, nel 1565 proibì l’importazione e vendita nello Stato di panni di seta forestiera tessuta, concedendo per altro che si potesse introdurre seta semplice con cui far abiti nel paese. Seguì il suo esempio Carlo Emanuele I suo successore, che nel 1587, eleggendo Matteo Pattino da Tours a direttore dell’albergo di virtù, fra i vari privilegi concedutigli, per-mettevagli di usare dell’ invenzione da lui ritrovata, per far duplicare i vermi da seta due volte in estate, con produzione, nella seconda, di quantità di seta uguale alla prima. E qui ci occorre di far menzione di altro genovese, a cui si deve ascrivere il merito di aver introdotta l’industria serica nel Vercellese. Egli è Giambattista Castro, che nel febbraio e maggio del 1582 si ebbe larghi privilegi ed esenzioni ben GIORNALE LIGUSTICO 55 dovutegli, poiché riusciva a propagare quell’ arte ad Ivrea e ad Asti, dove lavoravano i bolognesi Garpante e Turco (i). Nè poteva accadere diversamente sotto un principe, che favori assai molti commercianti, e concedè la naturalità ai mercanti Appiani, Cane, Fontanella, Beccaria, Bogetto o provenienti dal Monferrato, stato estero ! o dalla Lombardia, e donde procedettero famiglie eh’ ebbero poi feudi e dignità. Poco si può dir di Vittorio Amedeo I, che regnò breve tempo; risulta però che l’industria serica sempre faceva progressi in quel Racconigi, il cui signore, come dicemmo, assai l’aveva un secolo innanzi promossa. E da Racconigi proveniva Sebastiano Falconetto, a cui Carlo Emanuele I , aveva conceduto l’appalto della provvigione del seme dei bachi, colla facoltà d’introdurne anche dall’ estero. Ma poi avendovi il Falconetto rinunziato, riceveva in compenso 1’ ufficio di ricevitore dei diritti ducali del suo paese. In seguito a quell’atto di rinuncia, Vittorio Amedeo I nel 1628 concedeva a Giambattista Baronis, che s’aveva associati alcuni altri, la facoltà d’introdurre e vendere tredici mila once di seme di Valenza nella Spagna mediante la somma di ottomila ducatoni. Madama Reale Giovanna Battista vedova del duca Carlo Emanuele II, nel 1680 pubblicava un editto nel quale, ad esempio di quanto vigeva in molte città d’Italia e di ciò eh’ era stato promulgato da Carlo Emanuele I per Nizza, dichiarava che non avrebbe pregiudicato alla nobiltà il tener fondachi e magazzini di mercanzie, purché si vendessero all’ ingrosso e per mezzo di terza persona. Ora in tale editto spie-gavasi palesemente essere lecito di far lavorare nelle arti della lana, seta e simili che sono di pubblico beneficio (2). (1) Duboin Collezione passim. (2) Collezione citata passim. 56 GIORNALE LIGUSTICO Nell’ anno successivo poi, mentre fervevano i negoziati di matrimonio tra il duca Vittorio Amedeo II e Γ infinta di Portogallo, aprivansi trattati per istabilirc buone relazioni di commercio con quel governo, affine di poter ottenere alle navi piemontesi la facoltà di navigare nel Brasile e nelle Indie al di là del Gange. Costituivasi allora una società di commercio, di cui era uno dei sovrintendenti quel Bartolomeo Canera da Pinerolo, che arricchitosi specialmente col-Γ industria della seta, di cui teneva banco, sposava poi la figlia dell’illustre presidente Bellezia, e diveniva il ceppo dei conti di Salasco. Or bene noi troviamo concorrere a quella società commerciale il marchese di Pianezza per la rata di tre mila doppie; il conte di Piossasco per cinquecento; il marchese di Morozzo per mille, il S. Tommaso per altre mila ; aggiungo eccetera vincendo l’abbominio verso questa formola, perchè altrimenti troppo lungo sarebbe il novero. L’incremento doveva essere vieppiù sensibile, dacché prendeva le redini dell’imperio l’accorto Vittorio Amedeo II, propenso a favorire ogni ragione di commercio. Nel 1714 già erasi eretta in Torino l’università dei mercanti di seta, che nel 1738 veniva ricostituita su altre basi ed ornata di varie prerogative. E nel memoriale presentato da quei mercanti dicevasi essere l’arte della seta la sola ed unica, che fra tante altre manifatture esistenti negli Stati di S. M., è non solo la più antica, ma la più cospicua per la vendita che delle stoffe si fa nei paesi più remoti (1). Carlo Emanuele III suo figlio, stabiliva persino una manifattura di stoffe di seta alla Veneria Reale, per adoperare anche utilmente gli allievi dell’ albergo di virtù. E quella manifattura era retta dalla cosi detta compagnia reale, sotto le (1) Duboin 1. c. GIORNALE LIGUSTICO 57 cure del conte Carlo Stortiglione, che nel 1750 veniva eletto membro del consiglio di commercio. Il successore di Carlo Emanuele, Vittorio Amedeo III, nel 1773 concedeva al genovese Agostino Ponte, la facoltà di stabilire nel luogo di Serravalle di Tortona la fabbrica del velo di seta alla foggia di Livorno e Bologna. E fra gli altri provvedimenti utili ed efficaci al maggior incremento di quell’industria, nel 1783 voleva persino che i consigli dei comuni dello Stato deputassero persone, che dovessero visitare le case in cui si tenevano bachi da seta, per invigilare a che i bozzoli non si togliessero dal bosco prima della totale loro perfezione. Ma qui chiudo il novero dei più segnalati provvedimenti presi dai nostri principi intorno ad un’ industria che doveva essere poi argomento di cure speciali della reale nostra società agraria. Basterà pertanto avvertire che il progresso più sensibile e ragionevole del-l'industria serica vuol essere ascritto al memorando regno di Carlo Alberto, benemerito riformatore del suo Stato. Egli, non solamente, imitando Emanuele Filiberto, ordinò numerose e vaste piantagioni di gelsi nei suoi poderi, ma colla libera estrazione della seta giovò alla soprabbondevol merce , che prima conveniva ridurre ad organzino o sete lavorate, e nel 1842 promosse la nuova associazione agraria, che doveva sollecitare le sue provvidenze concernenti quest’industria (1). Mi si consenta per ultimo, dir alcun che delle famiglie nobili subalpine e dei personaggi che favorirono 0 coltivarono con qualche buon risultato l’industria serica, e d’ alcuni che adopraronsi cogli scritti a migliorarne la condizione. Dopo i signori di Buronzo, che diedero motivo a compi- (1) Carlalberto, che per favorire il commercio nobilitò qualche banchiere, concedeva pur la nobiltà al Duport di Ciamberi benemerito dell’ industria serica in quella città. 5« lare questa dissertazioncella, per quanto io sappia, per imbattersi in qualche patrizio antico o recente, che abbia coltivato Γ industria serica, conviene riferirsi alla seconda metà del secolo XVII. In essa ci si offrono i Galleani, distinti dai Gallean nobilissimi di Nizza, e da quei Galleani da Di onero che cominciarono a horire sullo scorcio del secolo XVI, e che talor vedo oggidì da alcuni confusi con i Nizzardi, di nobiltà molto prestante ed antica. I Galleani, di cui discorriamo, erano bolognesi d’origine, e divennero conti di Barbaresco, Trezzo e Canelli ; e secondo alcune genealogie sarebbero venuti in Piemonte da Ventimiglia. Ma senza rifarci a tali indagini, d’altronde estranee al-1’ argomento , basterà avvertire che il quattordici aprile del 1694 Vittorio Amedeo II concedeva ai fratelli Gian Gerolamo, Giambattista e Gioachino figli di Gian Francesco la giurisdizione del feudo di Barbaresco e Trezzo colla dignità comitale. Di questi fratelli, Gerolamo aveva nel 1681 ottenuto facoltà di far costrurre un edificio alla Veneria Reale, col quale potesse tessere e filare la seta, ed aver la quantità necessaria d’ acqua, e questo in un col privilegio del porto d armi (1) Vittorio Amedeo, propenso a favorire il commercio e 1 industria, nel 1702 concedeva pure al Galleani la facoltà esclusiva di poter macinare qualsiasi foglia atta a far tabacchi e ridurla in polvere (2). Poi fatta buona prova, il privilegio veniva ampliato in ossequio ai principii professati a quei giorni, cioè col vantaggio conceduto a pochi a pregiudizio di molti, siccome lo denotano queste patenti in cui si legge : « Avendo il conte Galleani con molta sua spesa e con il nostro gradimento fatto (1) A. di Stato — Sezione Camerale Controllo. (2) Id. 1. c. GIORNALE LIGUSTICO 59 costrurre nel luogo della Veneria Reale un edificio di quattro ruote poste sopra Γ acqua accordatagli in virtù di patenti del sette gennaio 1696, al quale li presenti gabellieri generali hanno convenuto di far macinare durante la loro accenza tutti i tabacchi, e quelli ridurre come si riducono in farina per uso della gabella generale mediante il pagamento di soldi sei per cadun rubo, e venendo ora detto edificio minacciato di essere corroso e rovinato dal torrente Seronda, salvo vi si provveda con pronto riparo e con la diversione di esso torrente, il medesimo si è offerto di fare la spesa necessaria conforme il disegno dell’ ingegnere Bertola, e di retrocedere col demanio Γ annuo tratto di scudi novanta d’ oro del sole per esso acquistato su Volpiano il trenta luglio 1696, purché ci degnassimo accordargli la ragione di proibire a chicchessia di costruire ordigni ed edifizii di qualsivoglia sorte per macinare tabacchi e da andare a macinarli altrove . . » (1). Dicemmo or ora che Gerolamo Galleani veniva in un coi fratelli investito di feudi ; prova anche questa della propensione di Vittorio Amedeo II a favorire coloro, che dedica-vansi all’esercizio dell’industria nei suoi Stati: Or bene egli valevasi dei privilegi conseguiti per costituire su quell’ edifizio della Veneria una primogenitura. Ma nel 1758 il suo nipote di fratello, conte Giovenale, cedeva al patrimonio reale quell’ edifizio in un colle ragioni e diritti che gli competevano, e tutto questo mediante la somma di sessantacinque mila lire. Quasi coevo al conte di Canelli fu il cavaliere Fabrizio, dell’ inclita prosapia dei conti Cacherano di Bricherasio, che asssociatosi al banchiere Giambattista Cucca ed a Gian Antonio Vittone, apri in Torino una manifattura di opere di (1) Luogo citato. 6o GIORNALE LIGUSTICO moresca, che ottenne da Carlo Emanuele III ampli privilegi negli anni 1738, 1740 e 1748. Ma singolare eccitamento a dedicarsi a questo distinto e dignitoso commercio, s’ ebbe la nobiltà nostra dall’ editto del tre maggio 1752, con cui Carlo Emanuele III fondava la compagnia reale del Piemonte per le opere ed i negozi di seta, la quale soleva innalzar per arma « d’oro ad un gelso » colla leggenda attorno Compagnia reale di Piemonte. All’ articolo 4 di quell’ editto dicevasi adunque che « le persone nobili potranno far acquisto di dette azioni, senza che ciò punto deroghi alla loro nobiltà ». Senonchè la tradizione di secoli involta ancora in sofismi, pregiudicava il principio che volevasi radicare ; ondechè moltissimi del patriziato, ormeggiando i maggiori che per l’innanzi s’ erano astenuti di regola generale da ogni ingerenza commerciale, tenevansi indietro; sebben si fosse alla vigilia delle grandi innovazioni, che dovevano colla potenza sconvolgere i patrimoni della nobiltà. Si potrebbero però addurre esempi di famiglie ragguardevoli ed anche patrizie di cospicui Comuni, che esercitavano pubblicamente l’industria serica. E riguardandomi più da vicino, cito Giaveno nella vai di Susa, che se non raggiungeva allora, come oggidì, la cifra di dieci mila e più abitanti, era già assai popolato ed aveva molti opifizi e fabbriche in ferro, tela, cotone, stoviglie ecc. Or bene poiché ho letto in un recente lavoro che « la famiglia degli Sclopis da Giaveno si trasportò in Torino, e qui esercitò 1’ arte della seta, ottenendo da quell’industria onesti e non scarsi guadagni (1) », aggiungerò qualche cosa che risguarda quella riverita prosapia. Essa fioriva in Giaveno sin dallo scorcio del secolo XV, (1) Boncompagni. Della vita e delle opere del ccnte F. Sclopis nel volume 14 degli Alti della R. Accademia delle sciente di Torino. GIORNALE LIGUSTICO 6l ed aveva formato parecchi rami, di cui uno era stato investito di alcuni punti della giurisdizione detta dei nobili o vassalli di Giaveno, alla quale partecipavano molte altre fami-* glie di quell’insigne borgo adorne di molte preminenze. Un secondo ramo rimase in patria, ove ancor oggi fiorisce, un terzo fiorisce anche ai giorni nostri in Torino. Altro di recente pure estinto, suddivisosi, dava origine ai signori di Bor-gostura ed ai conti di Salerano, i quali ultimi furono nobilitati singolarmente dalla persona dell’ illustre conte Federigo, a tutti noto. Or ben e gli uni e gli altri di costoro procedevano da maggiori che avevano già in patria esercitato alcuni uffizi, e sullo scorcio del secolo XVII erano stati insigniti del privilegio dello stemma gentilizio, ed eransi resi singolarmente benemeriti della patria loro con insigni fondazioni ed opere ragguardevoli, promosse non senza grave dispendio. Ed ancorché non appartenenti al ramo, che s’intitolava dei vassalli di Giaveno, erano senza dubbio patrizi di quel Comune, e per questo ne faccio qui menzione poiché sullo scorcio del secolo XVII aprivano, in un coi nobili Gianotti (i) loro (i) Ammessi in quell’ ordine, secondo il criterio di quei giorni, eh’ era soggetto a regole certe e legali. Lasciando di accennare alle memorie risguardanti questa famiglia, che salgono al secolo XV, in cui noverò alcuni eh’ ebbero uffizi giudiziari in patria, Gian Vincenzo insinuatore di Giaveno otteneva nel 1662 il privilegio dello stemma gentilizio. A Giambattista suo figlio nel 1704 veniva data la facoltà d’istituire primçgeni-ture ; e questi da Maria Maddalena Sclopis ebbe vari figli, divenuti proprietari di parecchie case in Torino, e soci cogli Sclopis di rinomato fondaco di seterie in questa città. E di essi fu Luigi Giuseppe, divenuto poi maggior generale e benemerito delle corti di Pietroburgo e Sardegna, ceppo di famiglia che può gloriarsi di servir la patria nella nobile professione dell’armi, tenuta da tre generazioni consecutive nei primari gradi dell’ esercito, e che di recente contrasse pure parentado con un discendente di quella famiglia dei Berzetti di Murazzano, a cui apparteneano i signori di Buronzo sovraccennati. 6 2 GIORNALE LIGUSTICO congiunti, negozio di seterie in Torino, nell’isolato che de-nominavasi del manto ? rosso. . . * E poiché accennammo a Giaveno, ivi pure teneva un considerevole filatoio d’organzini il quartier mastro Paolo Giuseppe Zappata, poi capitano di fanteria, che il dodici aprile del 1776 venne creato conte di Ponzei (1). Nel qual tempo altresì 1’ albese Bernardino Veglio , arricchitosi alquanto nella locazione dei poderi del marchese di Bersezio, apriva un filatoio di seta presso Alba. Ora egli fu lo stipite di discendenti, eh’ ebbero indi predicati elevati alla dignità comitale. I quali colle consuete preminenze acquistarono pure a quei giorni i Corderi da Breo del Mondovi, già però distinti per civiltà di famiglia e cariche municipali pur tenute, e che trassero notevole vantaggio dall’ industria serica, alla quale eransi pure rivolti i Gervasio da Carassone, altra frazione della stessa città, che ebbero poi in questo secolo uifizi notevoli e conseguirono altresì la nobiltà. E fu col mezzo di quest’industria che giunsero ad ai-ricchirsi considerevolmente i banchieri Duprè (di’ ebbero la naturalità nel 1696 in persona di Simone da Mignon Villar nella franca Contea) (2), Martin, Morelli e Rignon che a lor volta furon poi nobilitati. E che gli antichi pregiudizi dovessero in gran parte dileguarsi, e che si camminasse assai rapidamente in sulla china, che lasciava già antivedere gli sconvolgimenti indi a poco succeduti, lo dimostrano i premi conceduti a molti edmmer-eianti di quei giorni. Cito alla rinfusa la nobiltà elargita al banchiere Durando, ai negozianti Stefano Daideri ed Ono- (1) Il quale, per dirlo qui di passaggio, nell’ agosto 1786 riceveva splendidamente, come ce lo apprende il continuatore della cronaca MS. di Mon-calieri del Beaumont, nel suo palazzo di Giaveno ottanta e più signori di Moncalieri recatisi ivi al giuoco dell’ archibugio. (2) A. di Stato S. C. Controllo. GIORNALE LIGUSTICO 63 rato Sanpierre, quegli console di Malta , questi di Napoli a Nizza ; ai commercianti Cucca ed Ignazio Righini, al banchiere Carlo Barel, stipite dei conti S. Albano, a Gian Antonio Figarolo da Valenza, a Spirito Borbonese, di famiglia originaria di Puy in Francia (1) e che dagli eredi del celebre marchese d’ Ormea aveva acquistato nel 1754 il lanificio tenuto in quel Comune, alla famiglia Bertalazone, ai Via-rana e Plaisant, e finalmente subito dopo la ristorazione del 1814 al banchiere di seta Vianson- Ponte torinese, fattosi conoscere negli ultimi anni del secolo XVIII e ch’ebbe con Genova relazioni mediante la sua alleanza colla nobile famiglia dei marchesi Carrega. Stipite di famiglia molto stimata, e eh’ ebbe illustrazioni letterarie, si fu Giovanni Peyron del Monginevra, che venuto a Torino per esercitar il suo commercio di seta, venne ascritto alla cittadinanza torinese nel 1693, anno in cui nel dicembre otteneva la naturalità di suddito di Savoia (2). Dirò ancora che sotto F impero delle norme di cui sovra, nel 1793 il principe Dal Pozzo della Cisterna, gli Onegliesi marchesi Amoretti d’Osasio, Del Carretto di Gorzegno, Solaro della Chiusa, Tana di Verolengo in un coi conti Provana di Collegno, Radicati di Brosolo e Piossasco di Scalenghe, (il più bel fiore della nostra aristocrazia), univansi coi banchieri Nigra, Rignon (3) Vianson ed altri commercianti, per promuovere lo stabilimento di una compagnia nei- la manifattura della seta. E Vittorio Amedeo III il ventinove gennaio di quell’anno (1) Fra i documenti sulle famiglie nobili subalpine presso di me esistenti, vi è un curioso carteggio fri il medesimo ed il governo, che prova la profonda ortodossia di quest’ ultimo a quei giorni, spinta però sin’ all’ eccesso. (2) Archivi di Stato — Sezione Camerale Controllo ecc. (5) Ancor essi sono stati naturalizzati nel 1746. 64 GIORNALE LIGUSTICO dichiarava quest’associazione, reale, decorandola, come l’altra più antica di cui sovra, di vari privilegi. L’insetto, industre fabbro dell’ opera serica provenutoci dall’Asia, dall’età in cui fu sul serio propagata la sua cultura sino ai tempi odierni, accese fra noi l’estro di nobili vati e suggerì lavori abbastanza proficui ai cultori degli studi georgici. Sin dai tempi di Carlo Emanuele I il fossanese Alessandro, figlio del senatore Antonino Tesauro signor di Salmour, che i servigi di corte frammezzava collo studio delle lettere, nel 1585 giovine di ventisette anni pubblicò coi tipi del Bevilacqua il suo poemetto didascalico La Sereide, dedicato alle nobili e virtuose donne, ed in cui accennava alla propagata coltivazione del gelso nei nostri paesi cantando : Ma più d’ogni altra parie eran felici Di tanto ben queste leggiadre sponde, Cui lascia il primo honore, e i primi doni Dal Tanar, da due Dore e doppia Stura: Pria che nutrisse il bel paese in seno (Troppo benigno e dolce) il foco e l’armi; Empie voglie allettando a farli oltraggio: Onde a se fu cagion d’ acerbo danno. Ma non fu per quest’ arte in tutto estinta, Anii ognor si ravviva e facil Jora, Se (come accenna) il ciel favor li porge Ch’ ancor racquisti in breve il primo nome. Ma il Tesauro, eh’ era vissuto in tempi in cui la coltivazione del baco da seta già dava risultati soddisfacenti, non era stato il primo autore conosciuto fra noi a scrivere su quest’argomento, poiché eglitfu avanzato dal celebre letterato cremonese monsignor Marco Geronimo Vida, il quale sei anni prima che fosse vescovo d’ Alba, pubblicava a Roma questo scritto : Jerottimi Vidae Bombycum libri duo ad Isabellam Estensem marchionissam Mantuae 1^27. GIORNALE LIGUSTICO 65 Ed anche il non men celebre Giovanni Botero abate , di S. Michele della Chiusa, il felice autore della Ragion di Stato , nella sua Primavera intrattenevasi sul gelso e sul baco. Ma non dovendo qui scendere a considerazioni attinenti alla bibliografia , sarà più che sufficiente ricordare, quanto chiari ingegni del nostro paese siansi rivolti nei tempi meno antichi e nei recenti ancora a studiare il mezzo migliore di favorire 1 industria serica. E fra questi cito lo stesso professor Ranza Vercellese, che nel .1777 pubblicava una dissertazione sulla raccolta dei bozzoli, poi altra nel 1781 per impugnare un lavoro del padre Colleatti sullo stesso argomento; cito il nobile Carignanese avvocato Giuseppe Gaetano Cara de Canonico, che nelle Memorie della Reale Società agraria di Torino pubblicava una saggia scrittura intorno alla varietà della specie dei bachi dei seta. Nelle quali Memorie vedeva pur la luce una dissertazione del dottore collegiato e consigliere del protomedicato Bellardi, sul mezzo facile ed economico per nudrire i bachi in mancanza della foglia recente dei mori. Ed anche i volumi dell* allor recente Accademia delle scienze di Torino negli anni 1788 e 1789 ricevevano su tal materia un rapport fait à 1’ accidemie Royale des sciences par le comte de S. Martin, alla quale Accademia nel dicembre 1813 l’illustre archeologo e letterato nostro Giuseppe Ver-nazza di Frenei leggeva una sua memoria risguardante tale materia. * E, cosa singolare, altri chiari ingegni del patriziato nostro associavansi ai precedenti a pubblicar memorie loro sulla medesima: adduco gli esempi del conte Giuseppe Ignazio Ghiliossi di Lemie, d’ antica famiglia originaria di Mondovi, che nei suoi possedimenti nell’agro fossanese faceva larghi sperimenti, i cui risultati pubblicava nel pregevole suo opu- Gior*. Ligustico Anno X. . 66 GIORNALE LIGUSTICO scolo sul baco da seta(i); e dello stesso chiaio letterato, il conte Gian Francesco Galleani-Napione. Ma per venustà di dettato ed anche per utilità di cognizioni questi lavori dovevano essere superati da un componimento poetico leggiadrissimo sul baco da seta, che vedeva la luce a Torino nel 1845, e che sebbene rechi nome di altro autore, tuttavia gli intelligenti vogliono scorgervi 1 estro del-l’illustre genovese Felice Romani, molto suo domestico. Tolgo finalmente congedo dai leggitori, de’ quali ove mai alcuno volesse accagionarmi di essere disceso a particolari aridi e fors’ anche anche noti, io risponderei colla sentenza del Varchi che questi non debbonsi bandire, ma anzi raccogliere, poiché se tutti per questa ragione volessero tacerli oggidì, muno poi allorché saranno disusati affatto 0 troppo remoti, potrà più od intenderli o conoscerli, per 1’ ammaestramento che anche dalle piccole cose talor si ricava. DOCUMENTO A. La convenzione di Benedetto signor di Buronzo con mastro Sebastiano Isola da Genova perchè avesse a tingergli la seta. — Torino, 24 dicembre 1)2*]. (Dall’ originale nell’ archivio dell1 autore). I11 nomine Domìni amen anno eiusdem Domini millesimo quingentes-simo vigesimo septimo indictione decima quinta et die vigessima quarta mensis decembris Actum in duitate Taurini videlicet in domo nobilium Leonis et fratrum de Alciatis ex dominis Mote et in camera bassa apud sallam presentibus ibidem Gabrielle filio condam Georgii Teste de Sancto Mauricio et Ioanne Dominico Chianchia de Raconisio Taurini habitatoribus ad infrascripta omnia et singula vocatis et rogatis. In quorum qui- (1) Si vegga nell’appendice un’importante scrittura dell’illustre barone Giuseppe Vernazza, in forma di lettera al Ghiliossi, a proposito d’indagini storiche sull’ industria serica specialmente in Piemonte, fatte da quel celebre nostro letterato ed archeologo. GIORNALE LIGUSTICO 67 dem testium et mei notarii publici inirascripti presentia ibique personaliter constitutus magister Sebastianus de Insula civis Ianue tinctor pannorum sete promisit spectabili domino Benedicto de Gotofredo ex dominis % Buruntii ibidem presenti et acceptanti de sibi serviendo in tingendo bene et diligenter et fideliter setam in quibuscumque coloribus quibus placuerit ipsi domino Benedicto et in laborando et adaptando ad cauiliam et pro parando et asortiendo pro faciendo pannos sete cuiusvis coloris et sortis videbitur eidem domino Benedicto et hoc ad annos duos proxime ven-tuios et incohandos in prima die mensis ianuarii proxime venturi, quibus duobus annis durantibus promissit dictus magister Sebastianus non tingere nec laborare alteri persone nisi ipsi domino Benedicto. Et ipse dominus Benedictus promisit eidem magistro Sebastiano dare et tradere singulo mense florenos septem cum dimidio Sabaudie et expensas sibi administrare seu administrare facere in eius domo. Et non faciendo dictus dominus Benedictus expensas dicto magistro Sebastiano promisit I eidem dare et tradere singulo mense ipsorum duorum annorum florenos viginti monete Sabaudie laborando ipse magister Sebastianus et opperando iuxta artem suam prout supra. Et premissa omnia et singula in presenti instrumento contenta singula singulis congrue referendo promisserunt pre-dicti dominus Benedictus pro parte sibi contingente et ipse magister Sebastianus etiam pro parte sibi contingente et respective habere et perpetuo tenere rata grata valida atque firma attendere et obseruare et in nullo contrafacere dicere opponere vel contrauenire per se se vel per alium seu alios aliqua ratione vel causa palam vel occulte de iure vel de facto sub ypotheca et obligatione omnium et singulorum bonorum suorum et cuiuslibet eorum mobilium et immobilium presentium et futurorum refectioneque omnium et singulorum damnorum expensarum et interesse litis et extra. Renuntiantes ipsi ambo respectiue ut quilibet ipsorum renuntians exceptioni predictorum omnium et singulorum non sic ut supra actorum factorum gestorum vel aliter quam scriptorum exceptionique doli mali ac metus in factum actioni conditioni indebiti sine causa vel ex iniusta causa ac omni alie exceptioni et legum auxilio quibus contra premissa vel aliquod premissorum contrafacere vel contrauenire possent et quilibet ipsorum respective posset vel alias quomodolibet se se tuheri. Et ita premissa omnia et singula in hoc presenti instrumento contenta fore et esse vera dixerunt ipsi dominus Benedictus et magister Sebastianus et ea athendere et obseruare cum iuramento per eos et quemlibet ipsorum prestito in manus mei notarii infrascripti tactis corporaliter scripturis. De quibus omnibus et singulis premissis iussum fuit mihi notario infra- 68 GIORNALE LIGUSTICO scripto fieri duo publica instrumenta videlicet cuilibet parti vnum \uius et eiusdem tenoris sapientis dictamine si opus fuerit. Et ego Iacobus de Turzanis filius condam nobilis Bernardini de Castro-nouo Incise aquensis diocesis publicus imperiali auctoritate notarius pie-missum instrumentum receptum per condam egregium Hieronimum Pi.re-tum de Saluzia ab eius prothocollis in hanc publicam formam extraxi meque subscripsi cum mei soliti tabellionatus signo in fidem premissorum de commissione mihi facta per spectabilem dominum iudicem ordinarium Taurini constantibus publicis litteris per Egidium Vaccis subscriptum sigillatis Taurini datis decima septembris millesimo quingentessimo viges-simo nono. DOCUMENTO B. Altra convenzioni di Benedetto dei signori di Buronzo con mastro Giacomo da S. Benedetto di Carcaveglia per la prestazione dell’ opera sua intorno ad una manifattura di seta. — Torino, 2\ dicembre 1/27· (Luogo citalo'). In nomine Domini amen anno eiusdem natiuitatis domini currente millesimo quingentessimo vigessimo septimo indictione decimaquinta et die vigessima quarta mensis decembris. Actum in ciuitate Taurini videlicet in domo nobilium Leonis et fratrum suorum de Alciatis et in camera bassa penes sallam presentibus ibidem Gabrielle filio condam Georgii Teste de Sancto Mauritio et Ioanne Dominico Chianchia de Raconixio Taurini habitatoribus testibus ad infrascripta omnia et singula vocatis et rogatis. In quorum quidem testium et mei notarii publici infrascripti pre-sentia ibique personaliter constitutus magister Iacobus de Sancto Benedicto de Carcauegla diocesis Ceue promisit prefato domino Benedicto presenti et acceptanti tam pro se quam pro eius uxore absente de serui-endo prefato domino Benedicto de Gotofredo ex dominis Burontii glomerare siue tirare ‘setam in tornetis pro pretio grossorum octo pro singula libra sete et de dicta seta quam ipse magister Iacobus et eius uxor glomerabunt ipsam diuidere in tribus partibus videlicet subtillem de per se aliam mezanam de per se et viliorem seu grossiorem de per se. Et ita promisit dictus magister Iacobus eidem domino Benedicto presenti et acceptanti bene et diligenter et fideliter seruire in dicta arte videlicet per duos annos proxime venturos et incohandos in prima die mensis ianuarii proxime venturi. Quibus duobus annis durantibus promissit dictus magister GIORNALE LIGUSTICO 69 Iacobus prò se et eius uxore nulli alteri persone seruire in ipsa arte et ulterius dictus magister Iacobus confessus fuit habuisse et recepisse ab eodem domino Benedicto tam in denariis numeratis quam in grano et uino per ipsum dominum Benedictum eidem magistro Iacobo datis videlicet florenos viginti novem et grossos sex. Quos quidem florenos vigiliti nouem et grossos sex dictus magister Iacobus promisit eidem domino Benedicto intrare super laboribus per eum flendis. Et prefatus dominus Benedictus promisit sibi magistro Iacobo manutenere domum pro habitatione sua et familie sue et soluere fictum. Que omnia et singula suprascripta et in presenti instrumento publico contenta promiserunt pre-dicti dominus Benedictus et magister Iacobus respectiue tamen et prout ad vnumquemque ipsorum pro parte eorum tangit habere et perpetuo tenere rata grata valida atque firma attendereque et obseruare ac in nullo contrafacere dicere opponere vel contrauenire per se vel per alium seu alios aliqua ratione vel causa palam vel occulte de iure vel de facto sub ypotheca et obligatione omnium et singulorum bonorum ipsarum ambarum partium et cuiuslibet earum mobilium et immobilium presentium et futurorum refectioneque omnium et singulorum damnorum et expensarum et interesse litis et extra. Renuntiantes ipsi ambo respectiue tamen exceptioni predictarum promissionis et obligationis non sic per vos et eorum quemlilÆt respectiue factorum ac omnium et singulorum non sic ut supra actorum pactorum gestorum vel aliter quam scriptorum exceptionique doli mali vis metus in factum actioni conditioni indebiti sine causa vel ex iniusta causa ac omni alie exceptioni et legum auxilio quibus contra premissa uel aliquod premissoruin contrafacere uel contrauenire possent vel altera ipsarum pars posset vel aliter se se tuheri. Et premissa omnia et singula fore et esse vera ac ea omnia attendere et obseruare iuraverunt ipsi dominus Benedictus ex vna et dictus Iacobus ex altera et quilibet ipsorum iurauit ad sancta Dei euangelia tactis per eos et eorum quemlibet corporaliter scripturis in manibus mei notarii in-frascripti prefati. De quibus omnibus et singulis premissis predicti dominus Benedictus et Iacobus iusserunt mihi notario infrascripto fieri duo publica instrumenta videlicet cuilibet ipsorum vnum vnius et eiusdem tenoris sapientis dictamine si opus fuerit. Et ego Iacobus de Turzanis filius quondam nobilis Bernardini de Ca-stronouo Incise Aquensis diocesis publicus imperiali auctoritate notarius premissum instrumentum receptum per condam egregium Hieronimum Perotum de Salugia ab eius prothocollis in hanc publicam formam extraxi meque subscripsi cum mei soliti signi tabellionatus appositione in fidem 70 GIORNALE LIGUSTICO _ premissorum de comissione mihi facta per spectabilem dominum iudicem ordinarium Taurini constantibus publicis litteris per Egidium \ accis subscriptis sigillatis. Taurini datis decima septembris millessimo quingentesimo vigessimo nono. APPENDICE IL VERNAZZA AL GHILIOSSI. Amico Carissimo Dal cameriere di Santa Rosa mi sono state date ieri mattina le due vostre lettere dei ventisette e dei ventotto di ottobre. Ho subito dato 1’ ordine per la ricerca del giornale del Brunnieri, che in biblioteca non abbiamo. Se si troverà, voi avrete secondo le convenienze, o il tometto dov’è parola del formentone o una copia scritta a mano. La nuova opera vostra mi è raccomandata e da se stessa e dal vostro nome ; nè occorre che io mi estenda su di questo. Io non manco mai alle adunanze dell’ accademia imperiale, p«ciò mi troverò presente quando il vostro libro le sarà presentato. Dall’ indice solitario che mi avete trasmesso dei capi, non posso prevedere se la nostra classe terrà come di sua competenza il vostro libro. A me pare che lo sia, perchè è materia storica e politica. Pur voi sapete che in un’ adunanza v’ ha sempre chi la pensa ad un modo chi ad un altro, e se non vi è unità di parere si procede alla votazione segreta. Se vi sembra di scrivere una lettera al signor Conte Balbo, che è direttore della nostra classe, credo che farete bene, sia perchè il suo voto è di molta autorità, sia perchè può giovare alla nomina dei commissari a vostro genio. Quanto al non aver voi parlato di me per evitare di parlare di Nuvolone , vi dirò che se si trattasse solamente di memorie da me comunicate, non ci sarebbe necessità letteraria d’indicare chi ve le ha date. Sempre lo fece il Tiraboschi, nominando sempre tutte le persone che gli comunicavano qualche cosa, sebben tenue : il che gli conciliò il favore di tutti. Ma egli abbondò in cortesia, e come dico la necessità letteraria non vi è. Diversa cosa è nel caso presente. La prima notizia de’ vermi da seta in Savoia e le piantagioni grandiose dei gelsi in Pie- GIORNALE LIGUSTICO VI monte sono due scoperte mie, che ho, non già comunicato confidenzialmente come ho fatto volentieri di altre cose a voi e a moltissimi altri , ma sono scritte in una dissertazione diretta a voi medesimo. Della quale dissertazione oltre all’ esemplare che ne diedi a voi, esistono più copie, e 1’ una di esse 1’ ha il conte Balbo. Ma quel che è più, è che nell’indice stampato del 1794 delle mie opere, vi è notata quella dissertazione con indizio che essa è indirizzata a voi. E di quel-1’ indice sono copie da tutte le parti, e v’ha chi ne ha parlato in libri stampati in quest’anno, sicché voi vedete che non sono più in facoltà di fare ciò che farei volentieri in favor vostro , cioè rinunziare la proprietà di due scoperte, che da se sole decidono di due punti importanti di storia patria, e che senza di me non sarebbero state fatte se non da qui a qualche secolo; aggiungete essere possibile che la mia dissertazione si stampi nei volumi dell’ accademia. Il che facendosi si farà con me senza dar disgusto a Nuvolone, tanto più eh’ egli medesimo senza badarvi sta per palesare fra breve al pubblico il suo plagio, che sarà una confermazione di quei versi dell’ Ariosto : Che se medesmo seti{’ altrui richiesta Inavvedutamente manifesta. Sicché, concludo, parmi bene che anche di questo scriviate al signor conte Balbo. Circa la correzione del francese penso che il Conte Franchi (cioè il Conte Giuseppe Franchi di Pont socio della Reale accademia delle scienze, letterato ed archeologo di fama) abbia inteso di parlar di D. Ghio. Di tutto ciò che può dipendere da me, che certamente è poco, dovete star certo, conservatemi Γ amore vostro e state sano (i). Vostro amico aff.mo Giuseppe Vernazza di Frenei. . (1) Ecco un poco di storia aneddotica di questo lieve battibecco. Nè la dissertazione Verna ziana, nè quella del Conte Ghiliossi videro la luce nei volumi accademici. Ma in quanto a quest’ ultima leggesi nelle Mémoires de Vacademie royale des sciences de Turin pour les années iSj)~ i 814 che nella sessione straordinaria del sei dicembre 1809 « il Conte accademico Franchi di Pont a nome del signor Conte Ghiliossi presentava e sottoponeva al giudizio della classe un manoscritto intitolato agriculture , mûriers, vers d soie et lois qui les concernent. Sopra questo scrittoci deliberò poi dalla classe nell’adunanza dei 9 di gennaio 1S11 per consentire che l’autore si prevalesse nella stampa del titolo di socio corrispondente ». Il qual titolo doveva essere ben gradito al Ghiliossi, poiché non essendo stato il suo manoscritto accolto da quell’ Istituto, 72 GIORNALE LIGUSTICO Della seta negli Stati del Re, al Conte di Lemie, Giuseppe Ignaro Ghi-l’ossi senatore, giudice nel Consolato, procuratore generale nel Reai Consiglio del Commercio. "V oi mi chiedete se intorno all’ introduzione della seta negli Stati del Re, io non abbia memorie più antiche di quelle che sono state pubblicate nel giornale scientifico, letterario e delle arti. Sì ne ho certamente, ed acciocché fra le une e le altre possiate dar pronto giudizio, dirò prima in brevissimo compendio le proposizioni inserite nel giornale. Benché ivi non si decida se l’arte della seta in Italia venisse dalla parte di Sicilia o d’ altronde, sembra all’ autore tuttavia non potersi recar in dubbio che i Lucchesi sieno stati primi a introdurla verso il 1314· Reggeva allora il ducato della Savoia Amedeo IV, il quale avendo nel Hii viaggiato con l’imperatore suo cognato, potè nelle città italiane osservare 1’ utilità del commercio delle sete, ed è assai probabile che abbia preso ogni cura per introdurre nei suoi Stati la coltivazione dei gelsi e dei bombici e la negoziazione della seta, prevalendosi dei Lucchesi. Nè dall autore si saprebbe assegnare altra origine a quest’ arte in Piemonte. Gli sembra che i suoi progressi fra noi sieno stati lenti e deboli sino a Carlo Emanuele I, poiché avanti all’ ordine dei 5 di luglio (cioè giugno) 1592 indicato dal Borelli, non è a lui nota alcuna operazione da cui si veda che Γ arte della seta abbia fissato 1’ attenzione del Ministro. Dicendo che Amedeo IV reggeva nel 1314 il ducato di Savoia è ben chiaro che si dicono due errori, poiché in quell’ anno la Savoia non era ducato e il sovrano era Amedeo quinto, ma possono essere errori di stampa, onde (^ome i volumi posteriori c’ inseguano, per quanto a primo aspetto non potrebbe ravvisarlo dalla suesposta locuzione sibillina chi non abbia la chiave di certi segreti) , 1’ autore pubblicava poi per conto proprio il suo lavoro nell’ anno seguente , dimostrando di far non lieve conto della qualità anzidetta. Infatti nell’ edizione di quel lavoro seguita in Cuneo ed intitolata al signor della Vieuville ciambellano del Bonaparte e prefetto del dipartimento della Stura, l’autore, eh era allora presidente del tribunale civile sedente in quella città, fra le molte qualità che accompagnavano nel frontispizio il suo nome, aveva messa anche quella di accademico corrispondente di quell accademia. Anzi andando più in là, il Ghiliossi pubblicava persino la lettera che d uffizio il presidente di quell’ Istituto conte Saluzzo avevagli comunicato, per informarlo che 1 accademia aveva gradito 1’ omaggio di quello scritto, e che in segno di gradimento la classe non dissentiva, che piacendo all’ autore di pubblicarlo colle stampe, potesse valersi del titolo di socio corrispondente di quell’ accademia imperiale. E facendo suo prò il leggiero rabuffo datogli dall’amico Vernazza, il Ghiliossi dimostrava poi in una nota la gratitudine per la comunicazione della dissertazione di cui or c’ intratteniamo, e dalla quale estrasse qualche notiziuccia pel fatto suo. GIORNALE LIGUSTICO 73 non occorre notarlo , come neppure Γ errore che Enrico VII abbia ricevuto nel 13ii la corona imperiale in Milano, e neppure qualche altra inesattezza. Ma se i Lucchesi diffusero l’arte della seta in Italia quando abbandonarono Lucca, il che secondo il giornale che si riferisce a Nicola Ti-grimo cioè Tegrimo, avvenne verso il 1314, non ben si comprende in qual modo Γ utilità di tale manifattura si potesse tre anni avanti osservare dal nostro Amedeo in Cremona, Genova, Milano, Piacenza, Pisa, Roma, Verona. Noterò inoltre che nel 1311 e 1314 il Piemonte era soggetto a Filippo onde mi riesce difficile a intendere che Amedeo, il quale regnava in Savoia, pensasse a introdurre quell’arte negli Stati del nipote. "Vero è che il testo del Tegrimo, sebbene adottato dal Muratori, ha perduto assai di credito dopoché da Buonvicino da Riva cronista contemporaneo si è saputo che nel secolo XIII drappi di seta e precisamente zendadi si lavoravano in Milano ; ma può dirsi, come osservò il Giulini all’anno 1216, che vi fosse ancora ignota l’arte di formar la seta e che il filato si facesse venire d’altronde per dare occupazione ai tessitori. Cosi quando Ottone da Frisinga narra che le città di Lisbona e di Almeria nell’ anno 1147 erano in sericorum pannorum opifìcio praenobilissimae, non avvisa poi se ivi anche si nodrissero i bachi da seta ( 1). A Benvenuto di S. Giorgio non sarebbe stato difficile l’indagare se i Paleologi introdussero direttamente in Monferrato il setificio, ovvero se lo trovassero già nato avanti al 1305, ma come ho altrove notato (2), la sua cronica troppo è digiuna di considerazioni politiche. Ora tentiamo di scoprire verso qual tempo la casa di Savoia accogliesse nel suo dominio Munera quae pater Italiae prior intulit olivi h Serius huc patriis sectim devectus ah oris· La memoria più antica circa i bigatti da me trovata (4) è del 1299. Sibilla di Bauzé consorte di Amedeo V essendo probabilmente al castello del Borgetto mandò per essi a Ginevra nella settimana successiva alla festa degli apostoli Pietro e Paolo, che vuol dire 153 anni dopo che il (1) De gestis Friderici, Lib. II, V. XII. (2) Vita di Benvenuto, p. 12. (}) E dal Vernazza la tolse poi il Cibrario che ne discorse , come dicemmo, ili varii suoi scritti. (4) Archivi camerali — Computiti Nicolai de Fago. 74 GIORNALE LIGUSTICO Re Ruggieri aveva trasportato in Italia tutti i lavoratori di seta che si trovavano nelle città greche da lui conquistate. Nei conti delle spese fatte per suo servizio dal maestro di ostello ho scoperto che in ipsa septimana furono pagati venti danari uni misso Gehenna; quaesitum vermes facientes siricum. Da ciò resta provato che volendo anche supporre che i bachi da seta fossero portati in Ginevra da Lucchesi, il fatto avvenne molti anni prima di quello che si è creduto finora sulla parola del Tegrimo copiata in tanti libri. Ma più che ad altri, a voi che nella scelta vostra libreria avete una raccolta sì ricca di opere spettanti all’ economia politica, facile , senza che io il dicessi, era il sapere che assai prima del 1314 l’arte della seta era non che dai Lucchesi, coltivata da altri popoli d’Italia. Difatti il Betti (1) se concede che i Lucchesi fossero i primi a fabbricare nel 1316 più d’un filatorio in Bologna, osservando per altro gli statuti di essa città del 1249 e del 1252 giustamente deduce che già in quegli anni si nodrissero in molta copia bigatti nel Bolognese. E qual fosse in Piemonte sul finir del secolo XVI 1’ opinione circa i migliori cultori dei filugelli, si può intendere da questi versi del Boteio Horsù donna cortese porgi aita Agli angosciosi bachi hor che bisogna E quai benigna scorgi a destra aita E le tue fanti grida , insta , rampogna E se convien , in tuo soccorso invita Nuovi aiuti da Luca e da Bologna (2). Nè per conoscere 1’ utilità del commercio delle sete era già d’ uopo ad Amedeo V che aspettasse ad informarsene, viaggiando in Italia. Assai prima del 1299 doveva essergli molto ben noto questo ramo di commercio, poiché esso produceva una porzione di quelle gabelle che erano state godute da Tommaso suo fratello, il totale della quale salendo al 1235 fa comprendere quanto fosse in questo paese antica la notizia dei * negozianti da seta. Ancor ci resta la tariffa del dazio che si pagava nel passaggio in Avigliana ai tempi del suo zio Filippo a cui succedette. E in quella troviamo nominati i zendadi e panni di seta che solevano traf- (1) Nell’opera: libato da seta, Verona, 1762. (2) La Primavera, Canto V., Stanza 7. GIORNALE LIGUSTICO 75 fìcarsi dai mercanti lombardi, tra i quali, come ognuno sa , figuravano grandemente gli Astigiani (i). Io non tratterò dei tessuti che nel secolo XIV e nel XV si lavoravano in Savoia e in Piemonte, perchè non voglio divagare oltre il nostro quesito. Vefrò dunque al secolo XVI e proverò che assai prima del 1592 Γ arte della seta aveva meritato le cure benefiche del sovrano. So che in febbraio del 1565 fu spedito a Genova d’ordine di Emanuele Filiberto un pedone a prender semenza di seta (2). Ma da ciò non si vuole inferire che fossero mancati in Piemonte ; solo si deve credere che fosse venuta notizia di qualche specie distinta di quei vermi, e che per farne esperimento , il duca mandasse ad averne provvisione , come ancora presentemente in quest’ abbondanza universale di bigatti sogliono dare la preferenza ai semi che ci vengono dalle valli di Lucerna. Emanuele Filiberto appena ebbe ricuperato il suo Stato pensò a farvi fiorire P agricoltura la quale era notabilmente peggiorata. Bello a tal proposito è il proemio di una legge dei 20 aprile 1561.... « È assai manifesto che la lunga guerra sostenuta sovra li Stati nostri per molti anni passati ha causato infiniti danni ai popoli, morte d’innumerabili sudditi, perdita e fuga di molti abitanti arteri, agricoltori in altri Stati et lontani paesi per schivare li colpi crudeli della guerra e li insopportabili carichi militari, e da questo sono successi altri inconvenienti che le terre e campi sono rimasi incolti, li Stati nostri privi d’ arte ed industria senza la quale la maggior parte delli huomini non possono vivere. Et desideroso in questa parte ridurre la terra sterile a coltura acciò produca i frutti fertili alla sostentazione delli huomini et suscitar le arti a questo effetto conviene aver delli arteri et agricoltori d’ altri paesi che vengano abitale nelli Stati con qualche prerogativa ». Ma per dire particolarmente dei gelsi, volendo egli dare un esempio e (1) Modus levandi pedagium Avilianae est quod levatur in quolibet trosello pannorum Franciac transeunte ab omnibus exceptis Astensibus sex solid: tres den : secusionorum, in homnibus asten-sibus levatur pro quolibet trosello pannorum Franciae octo solid : secusinorum. Et est sciendum quod Thomas de Sabaudia capit in predicto pedagio in quolibet trosello tredicim denarios forcium de predictis sex solidis denariorum secusiensium vel octo solidos de qualibet chargia fustani piperis cerae coirami ex omnibus aliis chargiis lombardis exceptis crocco, garofolis, candela et pannorum sctae et armaturis ferreis, etc..... Così sta scritto nel conto del Castellano di Avigliana del 1276 « a die mercurii post ,testum beati Lucae evangelistae qui fuit decimotertio Halendas Novembris ». (2) Tesoreria generale, Conto 1564-1565. 76 GIORNALE LIGUSTICO coraggio ai sudditi comperò una possessione sul territorio di Tronzano che (forse in grazia della duchessa) fu denominata la Margherita. Quivi stabilì per giardiniere Agostino Morcello da Vigevano. A lui diede in gennaio 1561 cento scudi d’oro d’Italia per arra di tante piante di moroni, quattrocento gliene diè in febbraio, 150 in marzo, 50 in aprile, 100 in ottobre, e così dalle terre milanesi fece venire ad un tratto di-ciasette mila piante di moroni per trapiantarle nella possessione della nuova Margarita. Ed esse si furono piantate in aprile e adaquate all occorrenza , e raccomandate alla sollecitudine del giardiniere ad Antonio Manara fattore della Margarita, a Domenico della Croce servitore del fattore. In tal operazione Emanuele Filiberto fu poi imitato sebben, con successo troppo diverso da Pietro il grande, del quale fu detto che fece trasportare nell’ Ucrania quindicimila piante adulte di mori persiani (1). Il Morcello nel 1561 ebbe ordine di fare un vivaio di mori e di comperarne degli altri. Nel 1568 e nel 1569 ne furono fatte piantagioni al parco di Torino. E questi fatti confermano abbastanza la verità di ciò, che iu asserito dal Gemelli, che Emanuele Filiberto promuovesse grandemente la piantagione dei gelsi. Ho anche trovato che i bigatti fatti alla Margarita nel 1568 furono tenuti a spese del sovrano, onde egli ne ha avuta la seta che se n’ è cavata. Non si dice quante libbre se ne ritraessero, ma è facile il calcolare che fossero almeno trecento, considerando il numero dei gelsi che sette anni avanti si erano piantati, siccome ho detto di sopra. Questi inoltre non presuppongono che tutte fossero perite le vecchie piante che dovevano essere in Piemonte avanti il regno di Emanuele Filiberto , ed è manifesto che un albero di trent’ anni produce assai più di foglie che non se ne cava da cento piante da sette anni. Ma per quanto indubitate siano le prove da me scoperte della coltura dei gelsi, forse parrà incerto se il lavorìo della seta, cioè il filarla ed il tesserla fosse fra noi anteriore al tempo che si dice nel giornale, incertezza che si renderà maggiore a chi leggerà nel Betti, il quale trascrivendo senz’altro il Zanon fidossi alla relazione Veneta dell’infelice Lippomano che i Piemontesi furono gli ultimi italiani che profittarono dell’ arte della seta. Io stesso ho già pubblicato un diploma di agosto r 566 nel quale fu da Emanuele Filiberto stabilita una deputazione specialmente sopra quelli (1) Zanon Agricoltura, arti c commercio, t. 2, p. 206. GIORNALE LIGUSTICO 77 che introdurranno « nuove faciture et artifici di panni o altri lavori da seta od oro di lane od armi o corami o altra qualsivoglia » (i). Ma chi da queste parole volesse conghietturare che in agosto 1566 ancor non si avessero in Piemonte i lavori di seta, certo egli s’ ingannerebbe. Emanuele Filiberto fin dal 1563 aveva fatto porre in Torino l’arte della seta, e lù stesso anno 1’ aveva stabilita in Moncalieri con molti te-lari e filatori per mezzo di parecchi maestreri di detta arte; e poco dopo diede un premio a messer Antonio Paggi per aver posto 1’ arte della seta in Ciamberì. Non tralasciò di far conoscere i bei tessuti fiamminghi avendo egli nel 1563 collocato nel suo palazzo dodici pezzi rappresentanti i fatti di Ciro, lavorati in oro , argento e seta da Francesco Ghiticlo, che venne in quel- 1 anno a Torino, onde alla vista di sì preclara fattura viemmeglio si animasse l’industria nazionale. Se darete un occhiata alla pragmatica istituita il primo di aprile 1565, la quale si legge distintamente nel Borelli, vedrete che Emanuele Filiberto fu desideroso di accrescere le arti, massime quella di far i panni di seta, per la qual cosa proibì ai mercatanti ed altri di non poter introdurre o smaltire alcuna sorta di panni di seta forestiera, tessuta, sia in pezze o tagliati in vestiti per venderli e smaltire negli Stati suoi. Concedette per altro che potessero introdurre e portar ogni sorta di seta semplice per far panni di seta, purché si facessero nel paese. Con queste poche e tenui osservazioni che vi offro per saggio, mi sembra di aver soddisfatto il principale vostro quesito. Spero pertanto che se nel giornale non si additano leggi anteriori al 1592, voi sarete nondimeno persuaso della verità di ciò che nel 1585 il vostro paesano Alessandro Tesauro a tempi molto anteriori ad Emanuele Filiberto alludendo cantò nel secondo libro della Sereide ove narra che in ogni parte d’Italia allignar suole in selve oscure opache Il gelso ecc. (Vedi nel testo . . . .) Conservatemi amico 1’ amor vostro. Bene vale. Torino, 18 di maggio 1792. G. Vernazza. (1) Vita di Pietrine Bflli. 78 GIORNALE LIGUSTICO ANSALDO CEBÀ (Continuazione vedi pag. 18). Di questo Riccardi Prencipe avea già detto a pag. 27 : « Quegli che meriterebbe di esserlo di un regno, se guardi all' animo. Quegli eh’ è Leone in viso, et Aquila nell intelletto » ; e a pag. 44: « il Prencipe eh’ è il loro Apollo, per quanto ne fa fede il viso, si ritrova in Leone ». Ed era questi probabilmente quel Riccardo Benedetto, che il Soprani (1) dice « medico di riverita memoria, splendore degli Addormentati..., facile in ogni sorte di componimento », d’ alcuni dei quali a stampa ci occorrerà di parlare altrove. Non è qui da omettere, che il Cebà da lui lodato con sonetto nel 160Γ, ci lasciò due lettere a lui dirette (2), nelle quali gli professa grande obbligazione e gli parla dei caldi uffizii perciò da lui fatti anche presso suo fratello Nicolò (allora probabilmente Senatore) per certo negozio che al Riccardi molto premeva. Trovo negli Annali del Casoni, al principio del 163 5, che Gio. Pietro figlio di lui fu nel gennaio di quell’anno ascritto all’ordine patrizio, forse anche, se non principalmente, in considerazione delle paterne benemerenze. Nè voglio qui ommettere l’altro Nicolò Benedetto, che illustrò la stessa famiglia, aggiungendo alla fama del- 1 avo, a quanto appare dal nome, quella di teologo e sacro oratore, dopo aver professato nei Teatini di S. Siro il 1645, tanto beneviso alla Repubblica, che il volle ira Teologi suoi, finché morì in Padova, dov’ erasi recato per cura, il 25 giugno 1679, lasciando pregiati scritti a stampa ed a penna (5). (1) Scrittori, pag. 250. (2) Pag. 357. (3) Vezzosi, Teat. ili. II, 211. GIOCNALE LIGUSTICO 79 Dal modo con che abbiamo veduto il Brignole trattare gli Addormentati, si potrebbe forse credere, come anche a suoi di si diceva e ripetè egli stesso nelle Instabilità deir Ingegno, si risvegliassero « solo nel Carnovale (x) » , per esser essi, aggiunge altrove il malignuzzo « non... altro che mascherati... eruditi (2) ». Ma che così non andasse la [bisogna, ce n' è testimone egli stesso, che ci lasciò a stampa cose di ben altro argomento da lui trattatevi. E prima, in ordine almeno all’ epoca della stampa, vi fece il funebre elogio della giovine sua cognata Emilia Adorni Raggi, stampato in Parma nel 1634 sotto il titolo di Lagrime, essendovi pure assai pre-gievoli poesie per la stessa occasione a lui dolorosissima, avendola egli, come dice nella dedicatoria a Paola sua moglie, amata « come sorella » d’ambedue loro, e perduta quando egli era assente. Era forse allora Principe dell’ Accademia Cornelio Spinola, al quale mandò con epigrafe, che credo di sua mano , 1’ esemplare che si conserva in questa R. Università, come a suo « Signore ». A questo, come, agli altri nobili vecchi fece udire in prima 1’ elogio dei popolari Adorno (3), e venendo alle lodi della morta lor discendente: « Voi, voi contrade (cosi egli apostrofa) un tempo avventurose di Strada nuova, dite, dite se la nobile magnificenza di vostre moli al sembiante d’ Emilia per lunga mano cedeva. Voi sale luminose, e notturne, nelle quali tra le splendide danze, or sublimatrice, ora mentitrice bellicosa del proprio sesso, comparve Emilia, dite se vedeste giammai ecc. (4) ». Bel ritratto, comechè un po’ carico, ma meno del consueto, vi si legge della trapassata (5) riguardo specialmente al morale (1) Pag. 48. (2) Pag. 64. (3) Pag· IO-Ï4. C4) Pag. 16. (5) Pag· 19'22· 8o GIORNALE LIGUSTICO e all’ ingegno suo, attraente pittura del matronale carattere delle genovesi d’ allora, tutto affabilità e carità cristiana, e fra noi vivo tuttora. Ed era morta « quando cominciavasi ad aspettar da lei cara prole, che le sue sembianze moltiplicasse » (i). Di materia assai più grave, e con piglio risentito (1 avea forse alcuno deriso per la Colonna suddetta, opera tutta spirituale) vi arringò coi Discorsi politici e morali, pubblicati la prima volta in Venezia, ccl titolo di Tacito abiuratalo, per emulazione, pare, del Cebà e del Mascardi, benché nel « Discorso primo introduttorio », ei dica di volere con esso « a simil novitade far la strada ». Vi ricorda in principio (2) un Accademico Umorista, sommo ingegno da lui conosciuto in Roma, e incontrato poscia in Genova andando « per cagion di diporto... ver Fasciolo » ; il quale rallegratosi con lui « del- 1 haver inteso risvegliati in Genova gli Addormentati con men beffarde risa che si havesse fiuto prima » , gli disse : « Né argomento più massiccio havete voi Signori Addormentati di esser desti sol che parlate ? 0 non si parla anche dormendo ? Riguardate un poco quali siano i vostri favellari, sì vedrete che vi farà honore il confessar che il parlar vostro sia un sognare per non essere costretti a confessarlo un farneticare. Frascherie di amori, ciancie di descrittioni, baie di sonettuzzi, 0 di Madrigali, rancidumi di eruditioni disotterrate, 0 fìnti, o scostumati, 0 vani, cavillose soffisterie , acutezze fragili, oh scempiezze, oh vanitadi! E noi siam desti? (3) »· E ricordati « i soggetti, che si erano discorsi le volte ante-cedenti nell’ Accademia : » (4) « Deh destiamoci per Dio (1) Pag. 24. L’ oraz. termina a pag. 36, in 4.0. (2) Pag. 13, dell’ediz. genov. del 1643, in ,2·0 (3) Pag. 15. (4) Pag. 17. GIORNALE LIGUSTICO ,8l una volta da buon senno. Cadanci di mano i tirsi frondeggianti, et 1 panderi, et i sonagliuzzi, e in quella vece impu-gninsi 1 Erculee mazze... Studiam noi di diventar migliori, non più eruditi (1) »... Dopo questa sfuriata dell’ Umorista alla quale ei non potè « altro che arrossare et ammutolire (2) », passa egli a dire quale dev’essere l’Accademia, che a lui sembra « nella Repubblica, qual per appunto è l’Iride nel- 1 univeiso »... E spiegato il suo disegno, ed evocati i Grandi Genovesi « che lassù ritratti rendon Cielo con le loro imagini più che mortali il vólto di questa stanza ;;, e flagellati i corrotti costumi d’ allora in modo da disgradarne il Salbrigio : « Ma chi sei tu, odo dirmi, il qual mostrando di aver poco a mente 1 esser tuo, metti il Religioso Ufficio del Predicatore in panni secolareschi ? Chi son io ? E chi è colui, che sparsa fin sugli homeri donnesca chioma, pien di nastri e di smaniglie, frastagliato i panni da misteriose cifre, tutto Cipro e tutto Spagna ne gli odori, sembra or or venir da ministrar a Giove 1’ ambrosia, e il nettare ? Egli è un giovine, che se nell’ opre rispondesse al titolo, lasciatogli dagli Avi illustri, solo ostenterebbe polveroso crine, man callosa, e cicatrici prese nella scola della fortezza (3) ». E con pari libertà e garbatezza rassegna la dama « sì strebbiata, sì muschiata, sì imbiaccata », e « colui là dentro all’ hosteria... Padre «nà ìD maturo » ; e : « Dunque 0 si divieti a’ giovani obbligati dalla stirpe loro ad esser Ettori il far da Narcisi... o si permetta una leggiera imitatione di- Predicatore ad huomo, che se non ha sparso il capo di pentite ceneri nè men lo ha profumato di ciprie polveri » (4)... E a chi ricorda anche a lui i vizj (1) Pag. 19. (2) Pag. 21. (3) Pag. 33. (4) Pag. 35· Giokn. Ligustico. Anno X. _ 6 82 GIORNALE LIGUSTICO suoi: « Manca d’ esser buono alla podraga lo astenersi da ber vino, perchè Medico Tedesco, che del ventre fa bigoncia, lo ti consiglia ? Maggiormente, che se io non mi debbo ritirar di quando in quando dal discorrere per ubbidirvi, il mio ingegno dozzinale mi costringe a scelta di materie, molto a me domestiche, qual sono i vitij (i) », dei quali segue a far viva pittura suggerendo fra gli altri argomenti : « Proponete un poco, se di maggior colpa, e di maggior castigo presso la Repubblica ree siano le ossa delle Loggie, ovver le polpe delle cucine: proponete un poco se più vile sia la vita di quel Cavalier nemico della Croce, che sol per un ombra del capriccio, con impertinente sfida è pronto ad inviarla all ombre del Diavolo per la più certa , o quella d infelice birro, che da huom gentil di nome , e barbaro di cuore, per non dir Turco di fede, vien pagata ad ischerano abominevole quattro o sei scudi (2) ». Si corregge infine, perorando : « Ma che dico ? perdonate 0 giovani, attilati si, ma però magnanimi... Siete non Adoni in Cipro, ma Achilli in Sciro. Su dunque : squarcinsi i vani fregi, e queste in-egne pompe di servitù misere insegne... già de corti, et acu- simi entimemi, onde trafiggasi ogni vitio, piena è la destra, et in cotal guisa a conquistare la bella Elena della virtù, mo le Paride del giovami piacere trafugato farem passaggio (3) ». r Seguono 9 Discorsi su altrettanti passi di Tacito fino a rw 3 τ’ Γ8”"' Jl]1' “ ΑΡΡΓ0™°”' » di Fr. Angelico Ani w8° 1A80s,ini”0- M Convento della Santiss. A oncnta Vecchia di Geno.a , 22 Gcnaro l6 co„ a“ * emd,ta ** «* * &r consagrare le Academie in (0 Pag· 37· (2) Pag. 39. (3) Pag. 42-3. GIORNALE LIGUSTICO 83 Chiese, se lo spirito dell’ Autore haverà tanti imitatori, quanti ha lodatori ». Gioverà qui ricordare da ultimo che questi Discorsi erano impressi coi tipi dello stesso autore fatti venire dal Belgio per la diffusione di opere opportune all’ incremento degli studii da lui caldeggiati, e in quell’ anno istesso che egli ancor trentottenne fu dal patrio Senato creduto il più atto a ben condurre, come fece poi oltre ogr.i aspettazione con una residenza di circa un lustro, gravissimi negozi in qualità d’ambasciatore alla Corte di Spagna; dopo avere, essendo il padre ancor vivo, donati alla Repubblica ben cento mila lire per la costruzione d’una Galea, che Brignole fu nominata per voler dei Serenissimi Collegi ; dopo aver fatto esclamare al Chiabrera, cui avea mandata la sua Maria Maddalena stampata in Genova nel 1636: « Santissima Trinità, che non farebbe Italia, s’ ella volesse ! » comechè fosse costretto a mettere quello del Brignole a fascio coi « tanti altri forti e fieri ingegni », uso egli a così denominare prudentemente gli sbrigliati secentisti (1). Quanto all Accademia, durava essa ancora un lustro almeno più tardi, poiché nel novembre del 1647 Matteo Pellegrini vi recitava il suo Discorso funebre per la morte dell’lll.™ sig. Paolo Spinola conte di Peçuella, il quale discorso fu lo stesso anno stampato (2). Giova qui riprodurre una parte almeno dell’esordio, come quello che ci dipinge un altro lato, non ancora ben noto, di quell’ Accademia : « Attendete voi qui ora per avventura, gentilissimi Signori, 1’ amoroso ragionamento, l’in-gegnose imprese, i cavallereschi cartelli, 1’ accademico Torneo , che dal sig. Principe nel fine della passata raunanza per (1) Lett. cit., pag. 91. (2) In Genova, per Gio. Maria Farroni, in 4.0 di pag. 24, con dedic. di Quillico Carrozzo a Suor Giovanna Teresa sorella del defunto. GIORNALE LIGUSTICO la presente fu divisato? A buona ragione; e noi pure qui siamo raccolti per tener leal fede alla festevole promessa. Si bene; e già per la lieta azione tutto è in procinto. Diamo dunque principio. Ma i cavalieri, che denno qui torneare, ci sono eglino tutti? Io non vedo ancor comparso l’amabilissimo Paolo Spinola. Attendiamolo... Ei verrà certo ; perchè io so, che egli attendea vaghissimo questa giornata , a far pompa del suo bellissimo ingegno tant’ opportuna. Ingegnosissimo a maraviglia è il suo cartello. Ingegnosissima pure è 1’ inventione della sua Impresa ; che questa , e quello , tostò che fu destinato 1’ àmoroso torneo, mi fe’ egli veder la mattina seguente in San Siro. Anzi due imprese mi mostrò egli, 1’ una delle quali portava un piccolo cartoccietto di polvere, dal quale sottile striscia usciva verso una mano, che con micchia fumigante minacciava darle fuoco ; l’altra era un tenero fiore sul mattino, ferito in cima dal sol nascente, col motto : Del presente mi godo , e meglio aspetto... Ma ei non viene ancora?... O infelici o sventurati, che ’l fiore impro-visamente reciso s’inaridì »... Egli è poi detto (i) nipote di Bartolomeo, che « nella gran corte del re cattolico Filippo IV » occupava « il posto nel Consiglio di Guerra, e di Azienda », ed ebbe con altre cariche ed onori « çran somma di con-tanti in varie occasioni »; e figlio di Gregorio. Desidera e spera che, per 1’ esempio lasciato da Paolo, « i nobili Garzoni, cioè i futuri... Consiglieri, Senatori, e Duci: invece di logorare la giornata bene spesso in fare a gara scapestra-menti : quasi il carattere di vera nobiltà sia il farsi lecito ogni maggiore sconcezza: si vedranno o in questo, o in quel chiostro, discorrere, e disputare con alcun ben dottrinato religioso : invece di frequentar mattina, e sera le tra noi chiamate Bettole, dove la minor perdita è quella dell’ argento : (i) Pag. 13 e seg. GIORNALE LIGUSTICO 85 si troverenno 0 nel proprio gabinetto su libri , o in casa di qualche segnalato valenthuomo per traffico di virtù : o nel-Γ Accademie, 0 altri tali honorati luoghi dove si essercitano Γ arti nobili, e degne di cavaliere (1) ». Lo stato dell’ Accademia degli Addormentati v’ è poi cosi delineato (2) : « Correva il terzo anno (dice Γ oratore alla stessa), che ’l tuo sonno cangiato in profondo letargo, t’ha-veva hormai cancellata fin dalla memoria di Genova stessa. Paolo è stato il primo, che ha mosso pratica di svegliarti. Paolo, eh’ esortando, pregando, animando gli altri, ha riscaldato le freddezze, infervorato le lentezze, superate le difficoltà. Paolo, che per dar effetto al virtuoso dissegno, ne raunò a sontuoso convito in casa del sig. Giulio Saoli in Carignano : dove levate le tavole, ma non ancora le tazze, impatiente di ogni dimora (voi il sapete con quanto fervore o signori accademici) introducendo nel choro d’un Bacco sobrio, Apollo, e le Muse : propose, divisò, stabili il destinato risvegliamento dell’ Accademia. Conseguito 1’ honorato intento , quante parole , quanti passi, quante fatiche ha egli speso per darle stanza propria ? quanto ha ruminato per darle ordini, e leggi opportune a farla durevole, e gloriosa? Egli è giunto sino a fantasticare, qual privilegio potrebbesi da Serenissimi Collegi impetrare agli Accademici, per maggiormente accrescere e stabilire 1’ Accademia. A questo fine divisava Paolo un essercitio, e conferenza domestica il quale, oh quanto ne sarà profittevole per chi... vorrà porlo in opera. Ne tengo lo sbozzo io di sua mano in una piccola carti-cella ». E del valore letterario di quel giovine patrizio come degli studii d’allora, n’abbiam questi cenni: «'egli andava mediti) Pag. 17. (2) Pag. 18. 86 GIORNALE LIGUSTICO tando di comporre, e dare alle stampe 1’ Idea dell’ Animo Nobile » (i). « Vi ricordate o Signori, quando girzonetto in pubblica disputa da lui tenuta in Santa Fede, fece maravigliare i più sottili Metafisicanti, con ischermirsi agilissimo da loro più cavillosi sofismi ?... L’havete veduto voi frequentare anni e anni la cella del dottissimo Ranieri a S. Stefano ? All’ hora Paolo vi ha insegnato, quanto sia convenevole a nobile cavaliere lo studio della Matematica. Udiste, ha pochi mesi, la oratione Panegirica al Serenissimo Duce Gio. Battista Lomellino da Paolo ingegnosamente composta, e divinamente recitata ? Da quella imparate la traccia della vera eloquenza, e del gloriosamente comporre. L’ havete sentito nelle conversationi ragionar di lettere, e qui nell’ultima attione Accademica divisare qual sia più da temersi, o lo sdegno della Dama al Cavaliere, o quello del Prencipe al Cortigiano ? gli udiste pure quei dolcissimi quasi di bel canoro cigno ultimi accenti (2) »... Dal fin qui detto chiaro apparisce come la vita della nostra Accademia non fu sempre lieta e fiorente ad un modo e che agli esercizii letterari si frammischiavano i cavallereschi, siccome avea consigliato il Chiabrera. A tenerla in piedi s’ a-doperarono molti, fra i quali il nostro Cebà, che ne scrisse percio da Roma al già noto Gian Ambrogio Spinola una lettera latina (3), dove si leggono fra le altre queste linee: Ήabes tu quidem paucos milites; sed qui, te duce, rem gerant egregie, desis modo ne tu operae, virtutemque excites sopitam, confirmesque. Sunt qui tibi leviter monendi; sunt qui acrius ; sunt etiam qui et castigandi ; hactenus tamen ut vires acuas, non frangas. Quod si minus seria juvant, tu misce seria ludicris... Sed et (1) Pag. 21. (2) Pag. 22 e seg. (3) Lett. pag. 62 e seg. GIORNALE LIGUSTICO 87 convivia, suadentibus Bacchanalibus (1), non reijcienda; non quiaem ut ex cibo, potuque, sed ut ex remissiore illa consuetudine Academiae desiderium quoquo pacto restituatur »... A quest’ ultimo consiglio dovette il Cebà essere indotto , oltreché dal proprio genio satirico, dall’ esempio di non poche accademie romane, fra le quali restò famosa quella fondata dal tedesco Coricio o Gorizio .verso il 1514, uso a banchettare molti dotti e colti buontemponi specialmente il giorno sacro a S. Anna, e motteggiato dal Calocci ne’ suoi epigrammi pel molto bere, che non era, naturale compensazione, inferiore al diluviare dei cibi (2). Non si sa, per la sistematica sottrazione delle date , se il Cebà scrivesse quella lettera dopo quella che con senno assai più pratico e squisita eleganza dettò il sullodato Gio. Nicolò Sauli Carrega nel 1596 (3), affermando che dalla sua fondazione academia vestra ita floruit, ut omnibus Academijs, quae jam fuerunt, quaeque nunc sunt, nobilitate atque doctrina facile antecellat; civitatique nostrae splendoris tantum afferat, ut illa non tam pulcherrimis aedificiis, ac divitiarum amplitudine, quam hac ipsa Academia clarior sit. E dopo altri elogi soggiunge : sed expolitio, sive perfectio operis instat: quae quidem in eo mihi posita esse videtur, ut aliquid mandetis litteris, quod posteri in manibus habeant... Praeclarum est assiduis tum legendi, tum disputandi exercitationibus tanquam suavissimo pabulo ingenium alere; sed longe pulchrius est cogitationes suas litteris mandare »... Eccellente consiglio che, seguitato, avrebbe di molto preceduto Γ uso divenuto poscia comune nelle più celebri accademie non si sa se con più loro onore 0 con più profitto delle scienze. Ma il nostro 'Carrega non n’ ebbe allora forse che motteggi, come (1) Scriveva il i.° Febbr. (2) Tiraboschi , Stor. letter. VII, 132. (3) Epis toi. ed. 1603, pag. 73-76. 88 GIORNALE LIGUSTICO puossi arguire da altra lettera del Cebà, di cui appresso diremo, e che pure cinque lustri dopo fu condotto da altre ragioni a far pubblici i suoi già noti eserci%ii. Quanto ancora vivesse Γ Accademia in Genova, non so. Tra le molte congetture, a cui si trova necessariamente ridotto chi va investigando le cose nostre letterarie, quest’ ancora offerisco al paziente lettore, eh’essa fosse da qualche Genovese trapiantata in Napoli, dove « fioriva innanzi all’anno 1662, ed era tuttora in vita nell’anno 1692 » (1). Ci tornerà ora curioso non meno che istruttivo il sapere che pensassero allora delle Accademie gli uomini più oculati e più pratici della Serenissima. Di questi fu certamente quel- 1 Andrea Spinola di Francesco già ricordato, in lode de’ cui scritti gli indirizzò il Cebà la lettera, dallo Spinola stesso posta a capo d’una specie di suo Dizionario politico (2), e stampata colle altre del medesimo Cebà (3). Era egli ancor vivo del 1630. Il primo titolo di quel suo Dizionario è appunto intitolato Accademie (4), de’ cui venti articoli credo opportuno sottoporre agli occhi del lettore i tratti seguenti: 3- « Quando i Serenissimi Collegij sentono dir, che si è eretta alcun’ Accademia, è bene che abbiano notititia degl’Ac-cademici ». 4· « È utile per più versi, che i nostri giovani, in mano de quali ha da poi cader il governo, faccino delle Accademie ». 5· « Quelle Accademie nelle quali non è mescolanza di nobiltà, di rado serviranno all’accrescimento dell’unione e concordia civile ». (0 C. Minieti-Riccio, nell’Arcb. stor. delle Prov. NapoL, 1878, pag. 746. (2). Ms. in questa R. Univ. segn. B, Vili, 25. (3) Pag. 133. (4) Pag. 6-8. giornali·: ligustico 89 6. « Se gli Accademici hanno a parlar in lingua toscana o latina, i più intelligenti si conciteranno invidia: e tutti d’accordo poi stuffi della fatica, disfaranno 1’ Accademia in breve ». 7. « Si procuri che 1’Accademia costi pochissimo, poiché altamente non durerà molto ». « 8. Gli accademici non si curino di desinar insieme: e pur facendolo niun di loro s’incarichi di far piatti, acciò poi non si venga all’ arrossirsi per le comparationi: ma dando al più un scudo per huomo ad alcun del mestiero, se gl’ ordini, che apparecchi in quel modo che.gli consente il denaro, col suo guadagno ». 9. « Il capo dell’ Accademia si muti ogni due mesi, e lasciato il nome consueto di Principe, si chiami presidente, dandosegli due consiglieri, senza il consenso dell’un de’quali, per il meno, non possa propor cos’ alcuna, lasciata la risolu-tione di ciò che dovesse farsi al giuditio di tutti gl’ Accademici e questo con fine che i nostri giovani si avezzino a voler compagni ». 10 « Tutti gl’ordini dell’Accademia tondino alle forme lodate dei governi liberi, discostandosi dal dominio di un solo acciò si accostumino a prender spiriti e concetti di libertà , e farsi nemici di servitù. ri. « Se voglion lettore, sei prendan secolare buono, discreto e contento di quello stato e per P ordinario non si faccian legger altro, che la politica di Aristotile, tralasciare le qui-stioni, fertili di longhe dispute »... 13. « Nell’Accademia non si giuochi mai, nè anche a scacchi perchè in brieve diverria loggia ». 14. « Quando gli Accademici discorrono fra di· loro, lascino il trattar di cose, che non servono al governo publico, come sarebbe a dir della bellezza 0 dell’ amore, et di cose simili, ma trattino per esempio quanto sia necessario osservar il 90 GIORNALE LIGUSTICO segreto nei negocii : dell’ osservanza delle leggi : dell’ egualità civile : dell’ unione de’ cittadini : dei beni della libertà e dei mali della servitù ecc. » 15. « In ogni lor discorso generico discendino poi per quanto si può ad essemplifìcare le cose.... ». 16. « Non legghino gl’Accademici meno di due volte la settimana..... ». 17. « Non si curino..... di mettersi nome alcuno, come degl’ Intronati, e simili, perchè ciò non è altro che vanità ». 18. « Vedendo che qui nella Città o per lo stato segue alcun disordine toccante allo Stato, e che i Ser.mi Collegii non ne hanno notitia, o non vogliono haverla, si rissolvino... di scrivere una lettera orba, modesta, sensata e fondata sul vero, e mandandola in Palazzo, si diano parola tutti di tacere e di tener la cosa segreta ». 19. « Se vedono che gl’Ambasciatori de’Principi, che ris-siedono qui, fanno pregiudizii alla Repubblica 0 le tendono insidie,.... lettere orbe... a quei Principi... con gran rispetto dei detti Ambasciatori ». 20. « Lasciato talhor il parlar in generale di Governi 0 di cose generiche spettanti ad essi, discendino a ragionare su qualche individuo del nostro, come sarebbe a dire dell’ autorità data dalle leggi alli Serenissimi Collegii: in quali cose essi le trasgredischino et in quali le osservino: quante sieno le piaghe della nostra Repubblica, et quali fra esse possan ricevere rimedio sicuramente, et quali non senza pericolo : in che modo si potrebbe migliorar la nostra union civile, et in che maniera risecar tanto lusso ». Se non che le gare e le gelosie, più ancora che nel campo delle lettere, ardevano in quello della politica, e una prova delle tuttora sussistenti, comechè assai coperte, tra nobili vecchi e nuovi parmi ravvisare nella Lettera, .con che ri- GIORNALE LIGUSTICO 91 spose il Cebà (1) ad Alessandro Saoli, disapprovando Γ Impresa da lui propostagli sopra « un’Accademia Politica per arrivar alla pratica » ; dove anteponendo al motto di lui concordis cunabula caetus il suo aperit et temperat, finisce col dirgli : « Ma perchè so d’ intendermi poco di questo me-stiero, me ne rimetto a giudicio migliore: e vi bacio le mani ». Nè voglio uscire di quest’ argomento senza recare altra sentenza del prefato Andrea Spinola, come quella che parmi spargere molta luce su tutta la presente trattazione, e accrescere ad un tempo il merito di quei lontani nostri precursori nell arringo letterario. « In generai parlando, è vero che noi Genovesi siamo vani, altieri, instabili, disuniti, e pronti alle partialità... Potrei dir ancora, che fra idi noi vi regna Γ invidia, e per conseguenza un poco di malignità... (2) ». A questo accennò pùre il Chiabrera, scrivendo, ciò che già riportai, al Giustiniani; e anche quel mitissimo animo di Don Angelo Grillo si apriva a Giannettino Spinola in questi sensi: « La nostra Città produce buoni ingegni : ma non li nutrisce. Que’ pochi che fruttifican , son tanto più degni di lode: et che scioccamente non stimano che il tinger poeticamente le carte tinga il nome, et oscuri lo splendor dell’oro; et che per altre lettere, che per quelle di cambio non si possa arrichire (3) «. Riserbandomi a dir altrove un po’ più partitamente della nostra cultura d’ allora, aggiungerò qui le poche notizie che mi venne fatto di raccogliere su altre Accademie. Ricorderò dapprima quella dei Dispersi, la quale si raccoglieva, per quel che ne pare, in Casa Imperiale, giacché Gi- (1) Pag. 142-3. (2) Ώΐχϊοη. cit. pag. 183. (3) Lett. ed 1612, pag. 879. 92 GIORNALE LIGUSTICO rolamo Frugoni, che n’ era probabilmente socio, dedicando nel 1603, da Genova le Epistole di Gio. Nicolò Sauli-Car-rega a Gio. Vincenzo Imperiale, gli dice, fra le altre lodi: in celebri Academia Festra maturae prudentiae plenam orationem habuisti. Qui Virorum, qui Senatorum concursus ad te audiendum ? qui sermo de te tota urbe ? qui tecum ob os in te ora non convertebant sua? Al Frugoni scrisse il Carrega da Genova il i.° febbraio 1598 la Lettera che si legge fra le pubblicate nel 1603 (1), dalla quale apprendiamo eh’ ei s’ era scelta a dimora la città di Torino, donde aveva mandato all’amico suoi versi italiani con lettera infiorata di lodi, modestamente ricusate, e a queste ristrette : die me litterarum amore incensum, Dispersorum Academiae amantis simum me die esse... Che in questa Accademia si chiamasse il Carrega Disunito, e vi recitasse 0 leggesse un’ orazione latina ineunte consulatum Hieronymo Roccha, stampata in Genova il 15 91 ’ lo dissi negli Atti della Società ligure di Storia patria (2). Di un’ altra Accademia genovese abbiamo notizia da Stelano Guazzi gentiluomo di Casale di Monferrato nella Ghirlanda della Contessa Angela Bianca Beccaria (3), stampata in Genova del 1595, dove si legge : «È cosa assai manifesta' che la Città di Genova è come un teatro de’ più elevati ingegni di tutta 1’ Europa. Ma· fra gli altri a guisa di rosa tra diversi fiori rende soavissimo odore il Signor Opicio Spinola, il quale non cedendo di valore ad alcuno de’ virtuosi antecessori della sua felicissima stirpe, s’ è talmente innalzato sopra se stesso, che non solamente ha superato con la maturità dell intelletto 1’ acerbità de gli anni suoi giovanili, ma ha fatta la vanità vassalla, et ridotta all’ubidienza del suo vir- (1) Pag. 123-126. (2) T. IX, pag. 231-32. (5) Ivi, pag. 240. / GIORNALE LIGUSTICO 93 tuoso imperio. Egli è dottor di leggi, et dopo 1’ haver qualche spatio di tempo dato saggio del suo eccellente ingegno nello studio di Padova, si ridusse in questa Città, dove con piacevoli dispute, et con altri virtuosi ragionamenti si fece stimare uno de’ primieri ornamenti dell’ Accademia de’ Desiosi (i)». E seguita la dichiarazione del suo Madrigale. Si trova egli sottoscritto a un Consulto stampato in Genova nel 1624, e nel 1625, senatore, uno dei cinque eletti, nella guerra del Duca di Savoia contro Genova, affinchè « con suprema e dittatoria podestà moderassero gli affari della Repubblica », scompigliata dal timore specialmente nella capitale; e giudice, insieme con G. B. Saluzzo, di Gio. Antonio Alfonso prete secolare, arrestato come reo di tradimento nella stessa guerra (2). Non parmi qui da tacere che v’ hanno nella stessa Ghirlanda versi e lodi grandissime di Don Angelo Grillo (3), Giulio Guastavini (4), Leonardo Spinola (5); e sono infine riportati, senza dichiarazione di sorte, i Madrigali di Gio. Ambrosio Spinola (6), Frane’ Antonio Spinola (7), Gio. Andrea Ceva (8), Ansaldo Cebà (9), Gio. Torre (10), eOdo-rico Carretto ('11). (1) Pag. 467. — Si distinse con questo nome anche una Compagnia di Comici, rinvenuta dal eh. Belgrano, come si è letto nel Cajjarb 1882, n. 363, sotto il nome di Gio. Scriba. (2) Casoni, Ann. (3) Pag. 231, 521. (4) Pag· 418. (5) Pag· 279· (6) Pag. 549. (7) Peg· 551· (8) Pag. 552. (9) Ivi· fio) Pag. 553. (ii) Pag. 557. 94 GIORNALE LIGUSTICO Altra Accademia genovese ci è segnalata dal domenicano Innocenzo Ghisi nella sua Oratione della libertà, stampata , in Genova nel 1588 (1), nella cui Dedicatoria a Al Molto Illustre e Generoso Signore, il Sig. Gio. Battista Spinola Valenza », dice l’autore di aver «data questa orationcella alle stampe, non tanto perchè cominci a godere questa Città qualche frutto (come che acerbo) della novella nostra Accademia degl’ Invaghiti, nel Convento di S. Maria di Castello sotto gli auspitii del vertuosissimo Frate Deodato Gentili eretta, cresciuta e di varie gravi, e dilettevoli lettioni arricchita ». Vi si chiamava il Ghisi il Compito; ed altri due soci sono sottoscritti a due loro componimenti poetici, l’uno italiano, latino l’altro, col semplice nome accademico Y Assetato e il Vago. Al Ghisi, che visse fino al 1612, scrisse Don Angelo Grillo da Albaro a Sarzana, senza data di tempo, la gentilissima lettera seguente, la quale non saprei se si riferisca all’ Accademia Veneta, nominata in altra lettera allo stesso da Genova a Sarzana (2), o alla sunominata: « La villa di Albaro, che mi toglie ha già due' anni la conversatione della Città, m’ ha tolto parimente la presenza di Vostra Paternità, et il potermi mostrar civile con lei : la quale haverei così volentieri prevenuta nell’ ufficio della visita, se havessi saputo il tempo, ch’ella si trovava in Genova com’ella troppo cortesemente previene me con la sua leggiadrissima lettera, et co’ suoi nobilissimi favori. Et volesse Iddio (per quello che tocca all’ Accademia, di cui m’invia 1’ imagine) che non s’ingannasse nel giudicio; perchè non haverei io giusta cagione di privarmi dell’honore, et dell’ utile, che da esser nel numero di sì illustre, et vertuosa Raunanza mi potrebbe venire. Ma è ben ragione ch’ella parli con lingua • (1) Atti cit. pag. 356 e seg. (2) Lett. ed. 1612, pag. 249. GIORNALE LIGUSTICO 95 d amante, dove conosce d" haver tanta corrispondenza d’ a-more. Et le bacio la mano : et a mio fratello invierò la sua (i) ». Non so dire dove fiorisse P Accademia degli Aggirati, non trovandoli io nominati che nelle Alcune legioni di Iacopo Mancini Poliziano, stampate in Genova il 1591, il quale fu in essa Accademia detto il Confuso, e mi fornirà occasione di parlarne più innanzi. Agli Annuvolati (ignoro se solamente di Comici o anche di Letterati) appartenne il Brignole sullodato, che forse la fondo. Ceito e eh essi ci vengono per la prima volta innanzi nel 1641 , quando rappresentarono in Genova i Due Amili simili tragicomedia del Brignole (2). Riporterò qui i nomi loro letti dal Quadrio (3) in un testo a penna di quelle composizione: Francesco Grimaldi, Gaspare Carozzo, G. B. Lomellino, Francesco Maria Marini, Ottavio Spinola, Agostino Pinelli, Lazzaro Spinola-Cebà, Gian Francesco Levanto, Filippo Maria Pinelli, Conte Spinola, G. B. Pallavicino, Marcant. Ceva, Gian Francesco Rizzo. Nel 1642 comparvero sulle scene, oltre alcuni dei già nominati, Giulio Rovere, Francesco Maria Imperiale, Bendinelli Sauli, Alessandro Grimaldi, Gio. Prago, già registrati dal eh. Belgrano nell’ Archivio Storico italiano (4). Degli Accesi in Savona, e dei Confusi in Anversa veggansi le notizie nella Storia letteraria della Liguria dello Spo-torno (5). (Continua) (1) Pag. 734 e seg. (2) Nel ms. di questa comedia, che si conserva nella Bib. della R. Università è scritto : « Recitata nella città di Genova nel Carnovale del 1637 ». (3) T. Ili, P. JI, p. 354. (4) Ser. 3.1 , T, XV, pag. 432. (5) T. IV, pag. 252 e segg. 9é RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Ridolfi Enrico. — V Arte in Lucca studiata nella sua Cattedrale — Lucca, Canovetti, 1882. Un voi. in 8.° gr. di pag. 400. — Illustrato con silografie del Prof. Angelo Ar-dinghi. Il disprezzo, al quale, dopo il risorgimento classico, si vollero condannare le opere dell’ Arte medio-evale, due danni recò alle medesime. Perchè, in primo luogo, moltissime ne vennero deturpate da meschini e presuntuosi rinnovamenti; e in secondo luogo si trascurò di coltivarne la storia, le memorie se ne dispersero, e vi si andarono raccogliendo d’intorno le più monche e le più confuse tradizioni, quando non furono piuttosto assurde novelle. Dell’ uno e dell’ altro danno si ebbe a risentire la bella Cattedrale lucchese; e, poniamo che quanto a materiali alterazioni non fosse delle più sfortunate, si può bene metter fra queste, per ciò che riguarda la sua storia. Una lapide, tuttavia conservata nell’ atrio di quella chiesa, dove dichiarasi costruita sotto ii pontificato di Alessandro II, dal 1060 al I07°, parve testimonio sufficiente per arrestarsi a questa data; nonostante che la discordanza di stile fra alcune delle sue parti faccia supporre diverse riprese nella sua costruzione; e segnatamente poi il complesso bellissimo e perfettamente armonico della veduta interna sia tale, che si deva tutto necessariamente riferire alla età passata fra Giovanni Pisano e i Fiorentini quattrocentisti ; nè ciò soltanto per il carattere generale dell’ opera, ma anche per le manifeste reminiscenze del Camposanto di Pisa, del Duomo di Siena, della Loggia d’ Or San Michele, di quella dei Lanzi, e d’altre stupende fabbriche di quel tempo. GIORNALE LIGUSTICO 97 A vincere il pregiudizio non bastò, che un acuto ingegno lucchese del secolo passato, Carlo Giuliani, lasciasse scritto senz ambagi : « il nostro S. Martino tal quale oggi si vede..., non essere il S. Martino del 1070 » , perchè i più seguitarono a fondarsi sulla testimonianza della lapide , senza sospettar nè pure, che questa, la quale è scritta in caratteri del secolo XIII, accennasse ad una fabbrica più antica, e fosse conservata in quel luogo, insieme con altre che vi si leggono, soltanto per servire alla storia del monumento. Ciò nonostante dopo il risveglio degli studi d’ erudizione, non è mancato chi tentasse d’illustrare storicamente la Cattedrale · lucchese; e i tentativi non sono stati al tutto infecondi. Fra gli altri merita ricordanza speciale il prof. Michele Ridolfi , gentil pittore, e valente, quanto modesto e simpatico , scrittore di cose artistiche, i cui Scritti d’ arte e d’ antichità sono conosciuti per la edizione fattane dai successori Lemonnier nel 1879. Ma il lavoro meglio fondato e più completo intorno alla intricata questione è quello , che abbiamo annunziato qui in fronte, e che è dovuto al prof. Enrico Ridolfi , figliuolo dell’ anzidetto. La prima memoria che egli ritrova della chiesa lucchese di S. Martino è in una carta del 725 ; ma una più vecchia tradizione, attestata da un antichissimo Passionarlo della stessa Cattedrale, la fa risalire ai tempi del santo vescovo Frediano, che tenne la cattedra lucchese dal 560 al 588. Questo medesimo documento ci fa sapere, come fin dal secolo Vili fosse ricca e bella secondo i tempi; nè il Ridolfi va probabilmente lontano dal vero, congetturando, che fosse « di forma basilicale, con archi volti sopra colonne, tolte a edilìzi gentili, così essendo tutte le chiese nostre più antiche ». La posizione poi del Campanile, in parte ancora conservato, lo induce a credere che la facciata di quella « fosse a un di presso dov’è la presente »; a tal che la ri- Giorn. Ligustico. Anto X. 7 GIORNALE LIGUSTICO costruzione e ingrandimento dei tempi di Alessandro II, a cui accenna l’antica iscrizione, dovette estendersi « dal lato del coro », e consistere molto verisimilmente « nell’ aggiunta della crociera ». Nel 1196 davasi poi mano a ricostruire il portico, che ebbe per certo anche prima , e a decorar la facciata con diversi ordini di loggette, conforme al modo già adottato nelle chiese di Pisa, colle quali le lucchesi in genere hanno molta somiglianza, e formano un medesimo stile, che giustamente si può chiamar pisano-lucchese. « Stile però, che sebbene fornito di carattere proprio, non lascia a parer nostro, ove più ove meno, di manifestarsi pur sempre come un ramo del lombardo , e con appariscenza anche maggiore in Lucca che in Pisa. Ai materiali antichi, di cui le due città erano ricche , per averli meglio delle altre conservati, devesi forse per la maggior parte la fedeltà alle forme dell architettura latina , ed in conseguenza quello stile, che commisto di vecchi e di nuovi elementi si formò in esse, e caratterizza le loro fabbriche ». La esuberanza e la maniera di ornamentazione , che scor-gesi in questa facciata, parve al Rohault de Fleury, come prima di lui avevano opinato anche il Ciampi e il Cordero di San Quintino, che segnasse un periodo di decadenza nel buon vecchio stile pisano ; e di tale decadenza ne fecero iniziatore quel Maestro Guidetto, che di quest’ opera è riconosciuto autore, per avervi lasciato scritto il suo nome con la data dei 1204, ed a cui si attribuisce fondatamente ancor la facciata dell’ altra chiesa lucchese di S. Michele, a cagione di una tradizione costante e della piena somiglianza di stile. Ma il Ridolfi, per alcune sue congetture non trascurabili, che gli fanno suppor Comasco d’ origine il nostro Guidetto, e pei altre ragioni che in seguito si vedranno meglio, ravvisa piuttosto in lui « 1’ artista lombardo, che nelle due fac- GIORNALE LIGUSTICO 99 date di S. Martino e di S. Michele di Lucca tenta Γ unione di due maniere di architettura; e senza distaccarsi nel complesso dalla foggia pisana, introduce in essa forme ed ornamentazione della propria scuola ». E di Lombardia, e specialmente da Como, trasse certamente Lucca più d’ uno degli artefici che diressero le sue fabbriche, e molto vi operarono nel XIII secolo, e nella prima metà del XIV. Da Como era infatti quel Maestro Gianni, che si trova Operaio della Cattedrale dal 1274 al 1292, e quel Cattano Martini, detto il Biscione, che nel 1348 faceva testamento , lasciando dei legati alla stessa Chiesa, e condonandole quanto ne avanzava di sue mercedi. Ed anche in tempi posteriori seguitò a sussistere in Lucca la Università dei muratori lombardi, e se ne trova memoria nel 1520. Durante questo intervallo si eseguirono alcuni lavori attorno alla nostra Cattedrale, ed altri ne furono incominciati, che poi non si poterono condurre a fine. Alla decorazione dell’atrio si pose mano nel 1233; e lo stile ricco e severo, onde fu condotta, non che il trovarvisi due bassiri-lievi di mano di Nicola da Pisa, farebbe pensare, che a lui piuttosto che ad altri ne sia dovuto il disegno. Nel 1308 poi s’intraprendeva a ingrandire la Crociera, e ad allungare la chiesa colla costruzione di tre nuove tribune, che nei documenti lucchesi trovansi andantemente chiamate trefune 0 trefunì; e questo lavoro pare che fosse motivato da intendimenti estetici, più che dal bisogno di acquistare maggiore spazio, perchè non vi si richiesero che quattordici braccia di terreno, che vennero concedute dal vescovo Enrico, de nostris, come egli si esprime, et Episcopatus Lucani domibus aique claustris. Ivi pure è detto che il terreno conceduto giaceva post tre-funes diete ecclesie S. Martini, ab uno angulo dictarum irefunium usque ad aliud; lo che prova che la chiesa aveva già anche prima, non una tribuna sola, ma tre : e che le nuove da 100 GIORNALE LIGUSTICO costruirsi dovevano sorgere in capo alle tre navate, come le antiche. È certo del pari che in questa occasione si ebbe in animo di riformare tutta Γ architettura interna del monumento , trovandosi fatta menzione, come di cosa nuova , di colonne a spigoli, o tnurelle, ciò è e dire pilastri a pianta rettangolare; dal che pare a bastanza confermato, che prima d’ allora gli archi fossero voltati sopra colonne , come congetturava il Ridolfi. I lavori procedettero a stento per lungo tempo ; nè ciò deve far maraviglia a chi si ricordi, che i primi settanta anni del trecento, meno lo splendido ma breve periodo del Ducato di Castruccio, furono per Lucca tempi di gravi e continue calamità. Il 1320 la tribuna maggiore era appena condotta all’ altezza delle finestre; e ventotto anni dopo si facevano ancora dei lasciti prò laborerio diete ecclesie in trefunibus novis inceptis et finiendis. Non è da tacersi come nella parte tergale di questa porzione della fabbrica ritornasse a comparire « lo stile del Duomo pisano nella sua semplicità » ; la qual cosa conferma, che le innovazioni di Guidetto rimasero un fatto isolato , e non ebbero quel valore generale, o per lo meno assai esteso, che piacque di attribuir loro ai dotti critici altrove nominati. All’ interno poi si scorge tuttora essersi proceduto con maggiori « incertezze », cosi che in tutto sono « le parti innalzate allora quelle meno felici nell’ interno della nostra chiesa ». Vi è pertanto cagione di rallegrarsi perchè non avesse esecuzione il disegno, che erasi scelto per rinnovarla. « Se con quel disegno si fosse proseguita la costruzione, 1 interno del Duomo sarebbe stato ad archi acuti, giranti su pilastri rettangolari muniti di meschina cornice, od imposta, in luogo di capitelli ; e la superiore galleria con basse arcate binate di tutto sesto, divise da pilastrelli pure rettangolari, ed ornate di semplice traforo, con una GIORNALE LIGUSTICO ΙΟΙ sola colonnina senza base, che ne bipartisce la luce. Al di sopra, a molta altezza , una finestra circolare; e terminato in volte Γ edifizio (il che ora si cominciava a far quasi generalmente negli edifizi sacri), ma forse sostenute semplicemente da peducci, come appunto quelle delle due cappelle laterali alla maggiore ». Ma due anni appena dopo che Lucca ebbe riacquistata la sua libertà, già si pensava dal Comune a dar nuovo impulso ai lavori della Cattedrale; ed a questo effetto si deputavano tre cittadini, fra i quali Francesco Guinigi, uomo principalissimo dei suoi tempi, « che fu per le benemerenze sue vero padre della patria ». Ora essendo nato dubbio in quei tre « Cooperari » sulla stabilità dei lavori ultimamente eseguiti, e sulla opportunità di seguitarli col medesimo sistema, costoro proponevano, e il Consiglio Generale della Repubblica approvava, di chiamar da ogni parte della Toscana « maestri di legname e di pietre dei più industriosi, famosi, perspicaci ed esperti » per aver con loro consiglio sopra il da farsi. Non si è potuto disgraziatamente rintracciare, nè i nomi degli artefici così consultati, nè il tenore intero e originale delle loro proposte. Tanto però ce ne fa sapere, quanto basta, un importantissimo documento rinvenuto ora e messo per la prima volta in luce dal Ridolfi; che è un deliberato del Consiglio generale, in data del 23 giugno 1372, sopra una relazione che avevano presentata i Cooperari, dopo avuta consultazione cogli artisti convocati. Ivi è detto : quoi per excellentiorem et saniorem partem ipsorum magistrorum, et plu-rium aliarum personarum expertarum in edificiis, laudatur et aprobatur, pro salubriori consilio et remedio in predictis, quod due prime columne ad spigulos constructe in dicta Ecclesia , que sunt prope trefunes dicte Ecclesie, destrui debeant usque ad pavimentum . ... Et quod in dicto loco debeant refici alie due columne ad octo angulos, que sint per diametrum duo brachia et 102 GIORNALE LIGUSTICO tres de octo partibus alterius brachii, vel circa, tunc basis et capitellis, sequentibus laborerium desuper et desuptus, per modum pulcrum et decentem .... Et sic faciendo, totum laborerium secure fieri, prosequi et- compleri potest in voltis, secundum consilia magistrorum. I nuovi piloni, che ora si proponevano a maggiore stabilità ed ornamento del tempio, son quei medesimi che vi si vedono ancora ai nostri giorni; e corrispondono alla descrizione fattane dal citato documento , sia quanto alle misure, sia quanto alla sezione ottangolare, sia quanto a continuarsi nella base e nel capitello la stess.i configurazione a fascio , che ha il vivo del pilastro : sequentes laborerium desuper et de-subtus. Siccome poi coi piloni si collegano per disegno , e per costruzione, le volte, le gallerie, e quanto costituisce la decorazione di quell’ interno, così convien dire che gli artefici chiamati a dar consiglio, o alcuno di loro con l’intesa di tutti, formassero un progetto completo e particolareggiato di tutto il lavoro, quale oggi si vede eseguito con sì mirabile accordo ed armonia. E se ci duole di non poter sapere a chi « rivolgere la nostra ammirazione pel fornito disegno » ; speriamo che l’aver potuto determinare « il preciso tempo dell’ opera » ponga altri in grado di riescire più fortunato nelle indagini ; ed intanto ne sapremo grado a quell’ arte toscana del secolo decimoquarto, che produsse tante insigni e splendide fabbriche ». Rischiarato in tal modo questo momento storico, che è il più importante nella esistenza della Cattedrale di S. Martino, le oscurità e le incoerenze della vecchia tradizione spariscono; e da qui in poi le notizie relative alla storia dell’ arte, tanto municipale quanto nazionale, s’incontrano sempre più abbondanti e più compite. La decorazione dei fianchi, e massime di quello più ricco a tramontana; le successive alterazioni di alcune parti, per fortuna, non delle principali ; GIORNALE LIGUSTICO x°3 il totale sovvertimento minacciato al bello edifizio da un pazzo progetto dell’Ing. Muzio Oddi Urbinate, che restò felicemente senza esecuzione ; i risarcimenti fatti ad alcune altre parti pericolanti compiscono la storia della fabbrica, che è la prima parte del libro. Segue la descrizione dell’ Architettura e delle sculture esterne; poi di quelle interne ; e successivamente delle pitture, vetrate, oreficerie, opere d’intaglio e di tarsia, e libri miniati. E in ognuno di questi rami si trovano artisti delle diverse parti d’Italia; nè vi mancano indicazioni di nomi nuovi da potersi aggiungere alla storia dell’Arte, o notizie inedite intorno ad artisti celebrati, come Iacopo dalla Fonte e Pietro Perugino. Intorno a Matteo Civitali, del quale i contemporanei nulla ci lasciarono scritto, poco e non bene il Vasari, e soltanto i moderni (fra i quali con lode singolare vanno ricordati il P. Marchese, il Milanesi, il Varni e il Neri) rinfrescarono con amoroso studio la memoria, si ha qui in appendice una'monografia, ricca di nuovi fatti e di nuovi documenti, dopo la quale poco resta da desiderare per aver compita la storia del grande scultore. Terminano il libro P originale Informazione dell’ Oddi intorno ai pretesi abbellimenti della Cattedrale lucchese, che ci farebbe rider di cuore, se non si facesse rabbrividire il pericolo corso di vederla per sempre sciupata; e un abbondante Indice alfabetico, giovevolissimo per chi voglia ricorrere a quest’ opera, e le occasioni non saranno poche, per attingervi notizie che facilmente non si troverebbero altrove. A. Bertacchi. VARIETÀ La famiglia Grillo e la Repubblica di Lucca. Giovanni-Antonio Pelligotti, morto verso il 1780, lasciò manoscritti gl Annali di Lucca dall' origine della città a tutto il 1772. Quest’ opera non ha mai veduto la luce, ed una GIORNALE LIGUSTICO copia se ne conserva nella Libreria del R. Archivio di Stato in Lucca. È da essa (Part. II, toni. Ili, pag. 295-296) che trascrivo il seguente aneddoto. « Nel mese di Luglio dell’anno 1709 era stato mandato alla Repubblica di Lucca un foglio stampato , concernente il Fedecommesso ordinato da D. Marcantonio Grillo, genovese Grande di Spagna, colla sostituzione, in caso della mancanza della famiglia Grillo, di uno de’ Senatori del nuovo Consiglio di Genova, d’uno del Consiglio di Lucca, e d’uno degli anziani di Bologna, con dimostrarsi nel medesimo foglio tanto le note del testamento di detto testatore, che di altri registri ; onde verso il fine del mese di luglio di quest’anno 1756, essendo passato all’altra vita nella città di Cento Domenico Grillo Duca di Gui-gliano, di Monterotondo e di altri Stati (1), in età di 80 anni, senza figli f si lusingò ciascheduno che si avesse in breve a dare esecuzione all’ estrazione a sorte del cittadino da essere sostituito alla terza parte della di lui pingue eredità, come era stato disposto, ascendente a 75 mila scudi d annua rendita. Ma essendosi scoperti alcuni, ai quali per ragione del medesimo testamento competeva loro quella eredità, restò defraudata l’aspettazione d’ognuno, e riportata ad altro tempo la ferma speranza, che si era concepita vivissima. In occasione poi della morte di detto Domenico Grillo usci fuori il seguente capriccioso sonetto; e si è stimato proprio di trascriverlo per fare vedere alla curiosità del lettore , quanto bisbettico fosse il suo umore e stravagante il di lui naturale : « Giunta del Grillo 1’ anima ostinata » A varcar la trist’ acqua d’ Acheronte, » Nell’ udir comandarsi da Caronte, » Ch’ entrasse nella barca affumicata, (1) Assai noto per le sue bizzarrie, onde era detto il matto Grillo. GIORNALE LIGUSTICO IOJ » \olse lo sguardo, e con severa occhiata » Disse, increspando la severa fronte : » Non vo’ passar, se tu non m’ ergi un ponte ; » Son Duca, se noi sai, bestia malnata. » Allor Caronte con acerbo viso, » Voleva dargli del remo in su la testa. » Lo impedi Giove, e poi si mosse a riso. » Credendo il Duca un’ altra ingiuria questa, » A Giove, che ’l chiamava in Paradiso, » Disse: non vo’ venir, ho altro in testa ». Fin qui il Pelligotti. Nella chiesa di S. Maria de’ Servi in Lucca, nel braccio della croce, si vede un grandioso mausoleo che Luca Grillo, nobile genovese, eresse a Giano, suo padre. A giudizio del prof. Enrico Ridolfi (Guida di Lucca, pag. 86) « è lavoro della metà circa del secolo XVI, e ritrae lo stile » del tempo, pregevole in varie parti, in altre già tendente » al barocco (i) ». Non se ne conosce l’autore. G. Sforza. Nicolò Machiavelli a Genova. Non era nota questa venuta del Machiavelli nella nostra città, dove si recò sul cadere di Marzo del 1518, per « trattare gli afiari d’ alcuni mercanti fiorentini, i quali dovevano riscuotere parecchie migliaia di scudi »; l'ebbe a rilevare il Villari, mercè la scoperta di un documento, che crediamo utile qui riferire (2). (1) Vi è la seguente iscrizione: D.O.M. Iano Grillo genuensi pa-tritio, patri optimo ac b. m. Lucas f. p. — Qui legis an censes Ianum periise Bifrontem — Qui ventura yidet lapsaque non moritur. 2) Villari, N. Machiavelli e i suoi tempi, III, 43, 397. io6 GIORNALE LIGUSTICO A nome di Dio, addì viii d’aprile 1518. Carissimo. Abiamo ricievuto dua vostre de’ dì 26 e 30 passato. Apresso, al bisogno. Per una, inteso alla· giunta vostra de lo brieve dello pontefice, e altre lettere presentasti allo signore ghovernatore per li chasi di Davit Lomelino, e le grate hoferte vi fecie. Le quali, tuto racholto, possono fare pocho bene per avere esso Davitte salvocondotto da esso ghovernatore , con tempo di giorni 3 alla disdetta, e non avere esso Davitte beni. Sia con Dio. Di più s’ è inteso dello essere suto a parlamento con esso Davitte e con Iacopo Cienturioni suo cogniato, e non si dubita punto abiate inanellato di dire quello era di biso-gnio a tale chauxa; e non avrei possuto chavare altra chon-chruxione, se non che Davitte e Iacopo detto vi avevono dato uno partito di volere paghare il tutto 111 tanta robbia a a fiorini cinque di grossi il cento, posto qui a tute sua spese: con questo patto che chi à ’vere ducati cento ricieva in 4 anni per °/4 per ducati, ec. ; e sechondo ricievessi la robia, li chreditori dare panni gharbi o di Samartino, o chi non avessi panni, tafettà, per quello pregio vagliono per tenpo 1’ anno. (1) Questo, a chi non intendessi·più holtre, sarebbe uno paghamento di sogni e da fare molte cofuxioni. Pertanto noi proquratori tutti d’ achordo questo modo per nulla aciep-tiamo ; e , nonostante conosciamo e’ sia con ghrave danno delli chreditori, siano contenti che, volendo esso Davitte (1) Si propone cioè di pagare in quattro anni, un quarto per anno, e dare robbia invece di danaro. Inoltre, appena ricevuta la robbia, i creditori dovevano mandare panni garbi o di S. Martino 0 altri simili, al prezzo corrente in quell’ anno, e per una somma equivalente alla robbia ricevuta. Si estingueva così un credito, aprendone un altro, e pero la proposta è chiamata un pagamento di sogni, e non viene accettata. GIORNALE LIGUSTICO IO7 darci tanta robia a ciasquno delli sua chreditori di qui quanto dii debbe> e paghalla in 4 anni ciasquno anno per %, e mettella fiorini cinque di grossi il cento a tutte spese d’esso Davitte, spacciata qui della doana; siano contenti si faccia, e lo doverebbe fare ; e di chosì vi piaccia fare opera che sti-miano per voi non abbia a manchare ; dichiarando che la robbia sia buona delle di Fiandra. Quando questo modo non potessi condure, vedete d’apuntare a danari. E non si potendo avere lo intero , si achordi pet li Y3 e non possendo meglio, si pigli soldi xii per lira 0 sì soldi xi, almeno soldi x per lira cioè la metà di quello dovessi a ciasquno qui in tenpo d’anni 4, chôme è detto d avere ogni anno la 4.“ parte, e di questo avere buona si-qurtà, possendo, dello intero; e quando non si possa meglio, avendo dato intenzione di ducati 1600 d’oro, lo doyerete tirare a ducati 11 mila di tale siqurtà. E in questo bisogno faciate ogni hopera che tali siqurtà sieno buone. E ci parrebbe per meglio, possendo, faciessi d’ avere 1’ obrigho delli Spinoli di qui, cioè di Charlo e Giorgio Spinoli di qui o d’ altri, che promettessi che fussi, stante qui, più presto de’ nostri che altri ; e quelli fussino buoni e sofizienti per tale siqurtà. E avendo a pigliare siqurtà chosì, bisognia sieno bonissimi. E vorremo fussino hobrighati in forma chamera. E questo è, almancho sarebbe il desiderio nostro. Non mandiate della hopera e solecitudine che la fede s’ à in voi. E quello Iacopo Cienturioni solo non è a proposito, chè è falito rachoncio. Pare ve ne consigliate con quello Fabara, amico delli Neri, ' e altri di chi avessi a essere siqurtà, che sieno buoni e sofizienti. Quando voi non vedessi modo d’ achordare con esso Davitte, circha il modo detto, dite a Davitte per ultimo lo fareno dipigniere per ladro fugitivo a Roma, e per tuti lochi di qua dove potreno; e farassi scomunichare, e tanti altri modi strasordinari, che lui non sarà siquro della persona in ιο8 GIORNALE LIGUSTICO nessuna parte... (i) Non ci sarà ghrave spendere di strasor-dinario ducati mille, e fare... perchè lui chosì s’ è governato, che non riputiamo questo falimento... spesso latrocino. A Nicholò non s’à a fare... lungho sermone, che... farà in tutto quello potrà. Solo s’ à richordare, avendo apuntare... le chose chiare, perchè non si può stare di pari con tale nazione. E perchè non si può in ogni chauxa chosì a punto prociedere, vi si dice che in pocho di chosa non ghuardiate, per ultimare questa benedetta chauxa, che Iddio eie ne conducila a buono fine. Quando vegiate di non potere achordare, fateli ronpere il salvacondotto , e qui tornate più presto potete. In chaxo abbiate a pigliare siqurtà per conpto d esso Davitte, abiate riguardo d’ avere persona sia di buona qualità, e ne pigliate parere con quello Fabara e con Stefano Salvagho e altri, e in buon modo ; e spedite più presto potete. Sendo sino qui scritto, s’ à vostra de’ dì... (2) e con la medesima sustanza. Perciò non schade altro. Christo vi gliuardi. Per Mariotto de’ Bardi in Firenze. Francesco Lenzi per Iacopo Altoviti. Charlo di Nicholò Strozi. Antonio Martelline Quando elli seg'nuissi achordo, e Davitte domandi più una chosa che altro per suo discharicho, noi li manderemo la retifichazione autentica per mano di notario in buona forma; e chosì promettete. E non achordando, fate levare esso salvocondotto. Desideràno il signore Ghovernatore li facia in- (1) Qui ed in appresso lacune per essere rotta la carta. (2) Lascia in bianco la data. GIORNALE LIGUSTICO IO9 tendere chôme non è per soportallo in chotesto domino, e eh elli è per hoperalli in chontrario a quanto potrà, per eserne di chosì richiesto dalla Santità di Nostro Signore e da questa Signoria e dallo signor Ducha, chôme bene saprete dimostrare. Spectabili viro Nichelo Ma-chaivelli, in Genova. Un Organista. Chi fosse questo prete Orazio, che da molto tempo aveva ufficio d’ organista di S. Lorenzo, non ho sortito trovare, e forse non era genovese. Egli, come si vede, teneva scuola di musica, in servigio della quale si mostra ben provveduto di strumenti. Nel 1609 trovo che un’altra scuola era a Banchi , cui presiedeva Gerolamo Gallo indicato coll’ appellativo di musico. Non so se il Partemio appartenga a quella famiglia Par-tenio, della quale il Fetis registra un musico del sec. XVII ; ma credo certo che Cornelio sia di quei Simon fiamminghi, de’ quali discorre il citato biografo. Il 20 Aprile 1600 venne concessa dal Senato a prete Orazio la licenza domandata (1). Serenissimi Signori, Ritrovandomi in casa molti Cimbali et Organi, che possono ascendere alla summa di duecento cinquanta scudi, de’ quali desiderarci, come antichissimo Organista e servitore delle SS. VV. Serenissime, poterne con buona gratia loro fare un lotto , in quel modo che dalle SS. VV. Serenissime mi sarà imposto, e da me compitamente osservato, sì (1) R. Arch. di Gen. Senato, 1600, Fil. 2.., I IO GIORNALE LIGUSTICO per commodo di molti Cittadini miei scolari , che lo desiderano, coni’ anco che più poco a me servono rispetto all’ età matura in che mi trovo, che non comporta fastidi] , ma sì ben quiete maggiore per poter questo poco di vita che mi resta servire con più aggio a Sua Divina Maestà, et al total servitio dell’ organo di VV. SS. Serenissime. Le quali perciò humilmente supplico, che usando meco di quella benignità che sogliono usare verso di ogniuno, e particolarmente de’ loro ministri, e servitori come io le sono, vogliano farmi gratia, che io possa detto lotto fare, che le ne restarò sempre obbligatissimo, et pregherò come di continuo faccio per la prosperità, e felicità delle SS. VV. Serenissima, e per la grandezza, e conservatione di questa loro felicissima Repu-blica. Di VV. SS. Serenissime Humilissimo Servitore Prete Horatio Organista del Duomo di Genova. Il lotto che s’ ha da fare sarà di Cimbali Tre, e sei Arpicordi, et uno Organo, li quali sono stimati di uno in uno da persone periti nella virtù del sonare, come si vedrà qui di sotto. Il primo Cimbalo Napoletano, di tutta bellezza e bontà segnato A stimato......L. iéo Il secondo Cimbalo Venetiano a dui registri bello e buono segnato B stimato . . . . » 128 Il terzo Cimbalo segnato C stimato . . . » 40 Il primo Arpicordo di tutta bellezza e bontà segnato D stimato.....' . » 100 Item un altro Arpicordo di bellezza e bontà segnato E stimato........» roo Item un altro Arpicordo di bellezza e bontà segnato F stimato........» 80 GIORNALE LIGUSTICO III 80 72 60 Item un altio Arpicordo di bellezza e bontà segnato G stimato . Item un altro Arpicordo bello e buono segnato H stimato ..... Item un altro Arpicordo bello e buono segnato I stimato *····· m )) E pei un Organo di 4 registri bello e buono con tutti li suoi fornimenti stimato . . . . » 240 Io Simone Cornelio Fiamengo dico haver revisto li sopra dette cimbali et organo, e li ho estimati il pretio sopra detto in compagnia di un Partemio Mariano, di mia mano propria. Io Partemio Mariano afermo quanto sopra. Giacomo da Carona. Intorno a questo « maistro da muro », 0 come altrimenti dir si voglia, architetto, troviamo il seguente documento edito testé (1) : Ill.mo et Excell.mo Sig.re mio: Maystro Jacomo da Carona e compagni maystri da muro, qualli hanno hauto lineanto de questo Castello di V. Ill.ma Sig.ria, e lhanno facto intendere come gli perdeno grossamente e dicano loro rimanerne totaliter disfato per molti resone che elli allegano ; e tra le altre che per hauerli nuy facto lauorare con tanta pressa hanno comprato le cose molto più care non hariano facto. Onde mi hanno con grande istantia richiesto li voglia ricom-mandare a V. Ill.raa Sig.rì\ Et auendo io visto che hanno facto vna bona e bella opera, e con grandissima sollicitudine, nec non che li sono partesani de V. S. me hè parso mio (t) Nel Bollettino storico della Svinerà italiana, Gennaio 1883, p. 12. 112 GIORNALE LIGUSTICO debito e vna opera di carità, pregandomi loro de ricomman-darli a V. S. perchè facendoli ella qualche suentione serra una meza elimosina et darà bono exetnplo alli altri maystri de essere soliciti e diligenti neli lauori di quella. Alla quale humilmente me ricommando. Spedie die xxj Novembris 1474· Ejusdem Ill.me d. d. vestre seruulus Princivalus Latnpugnanus. Ma che egli fosse fra noi già da qualche anno, ce lo dicono alcuni dei documenti lasciati dall’Alizeri (1). Infatti ci sembra si debba riconoscere in quel Giacomo da Carona del fu Beltrame , il quale insieme a Gabriele da Carona del fu Giovanni si accorda il 9 Maggio 1470 con Ambrogio Lomellino di alzargli un muro nella sua possessione di Fassolo, « et fa-cere seu complere schalam unam existentem in dieta possessione per quam itur in mare » (2). Due anni dopo è mandato dall’ Ufficio della Moneta « ad revidendum reparationes necessarias in Castro Sancti Georgii Saone » (3). Riesce diffìcile rilevare di qual casato veramente egli fosse , ricorrendo frequenti nel tempo indicato gli omonimi col semplice appellativo della patria. Una lettera del P. Lazzaro Cattaneo MISSIONARIO ALLA CHINA. Lazzaro Cattaneo discendente della nobile ed antica famiglia dei conti di Marciaso, castello poco discosto da Sarzana, vestito 1’ abito della compagnia di Gesù e addottrinatosi in (1) Verranno in luce racolti in un volume per i tipi di L. Sambolino. (2) R. Arch. Atti di Giovanni da Nove, Fil. 2.“, n. 67. (3) Decretorum, 1470. GIORNALE LIGUSTICO II3 Roma, ottenne di recarsi nelle Indie e nella China in qualità di missionario. Partì infatti nel 1588 , e giunto a Goa scrisse al Rateilo Marcantonio, egli pure gesuita, la lettera seguente: Molto reverendo en Cristo Padre, Pei gratia et misericordia di N. S. siamo gionti a salvamento a Goa tutti della missione di quest’ anno , che eravamo sei, cioè tre Padri et tre Fratelli ; anchor che non senza occasione di meritare, se ci havremo saputo servire de 1 occasione; se bene dall’altra parte il Padre Vescovo, che era il P. Sebastiano de Morali, con duoi altri suoi compagni, di tre che haveva eletto per agiuto di sua persona in quel-1’officio, se n’andorno a miglior vita, restandovi solamente il terzo per dar la nova. Qui mi si offeriva materia di stendermi molto in contar li varii successi, staggioni, et climi che passammo, ma il mal ricevimento che mi fece la India alla mia gionta, mi ha fatto mutar pensiero, come lo vedrà nel fine di questa narratione. Partimo dunque da Lisboa il primo di Aprile, ancorando però nella foce del fiume, dove stessimo quattro giorni aspettando vento, per poter far vela ; il sesto giorno fu servito N. S. di dare il vento come desideravamo in popa, che ci durò insino alla linea equinotiale, vicino a tre gradi; et cominciando a perdere di vista la terra, che fu nel mar che dicono i Portughesi, das eguas, dove sono grandissimi marosi, che scuotono la nave con tutta la sua grandezza, ci cominciammo a temere, e niun di noi puotè esser da tal tributo esente; poi chè io che non sentii così subito, e passai levemente steti un giorno totalmente perduto vuomitando come gl’ altri, i quali la fecero male molti giorni, e passando anche il mese; 1’ ottavo 0 nono giorno havessimo vista dell’ isola Terzera colle due altre a quella vicine et inhabitate, di dove insino a Mosambiche mai più vedemmo se non acqua e cielo. Dalla linea cominciorno le malattie, Giorn. Ligustico. Anuo X. 8 1 τ4 GIORNALE LIGUSTICO che durorno insino a Monsambiche, et in tal modo che di quasi seicento che eramo non vi lurono dodici o quindici che non amalassero , di dove ne cavò N. S. molto frutto , per le confessioni che si fecero; per che come si vedevano molto vicini alla morte si convertivano molto da dovero, et in particolare molti, che molti anni già erano passati che non si erano confessati intieramente , lasciando alcune cose grosse da .confessare : et se bene erano tante le malattie non però morirno se non trenta quattro o trenta cinque incirca. Noi parimente tutti stessimo amalati, eccetto il P. Lorenzo Masonio , che per providenda divina sempre stette sano e fu nostro infermiero, senza il quale era molto probabile che buona parte di noi saria morta di pura necessità, non avendo chi ci agiutasse. Giongemo a Mosambiche il primo di Agosto convalescenti, dove stissimo vinti giorni riavendoci et provedendoci del necessario per il restante del camino, che è 3 600 miglie, non essendo gionta altra nave, di cinque che partimo da Portugalo per P India, se non una che venne con noi insino dal Capo di Buona Speranza, et il giorno avanti che ci partimo, che fu alli 19 di Agosto, venne la Capitana, dove veniva il P. Vescovo co’ suoi compagni, la qual vista ci diede molta consolazione, con la speranza di veder detto Padre; ma ecco che di lì a poco venne un batello dalla Ca-pitanea alla nostra, col quale ci scrisse Antonio Luigi (che di poi mori nel camino che restava) avisandoci, che se volevamo ritrovare il P. Vescovo vivo fussimo subito là, et in particolare per dargli 1’ estrema ontione ecc., perchè 1’ altro Padre, che era il compagno, stava nell’ istesso termine ; ma N. S. non fu servito che lo vedessimo vivo, perchè parandoci il Padre nostro superiore et io quell’ istessa sera tardi (subito havuta la nova) in un batello per la Capitanea, che stava ancorata otto miglie in circa da la nostra nave, buona parte di quella notte navigamo senza poter mai vederla GIORNALE LIGUSTICO per esser molto buio, e piovendo dirottamente con vento contrario, tanto che stavamo in pericolo di perderci, e così tornamo a dietro. La mattina a buon’ hora, stando già la nostra nave con le vele spiegate, et io posto nel batello per restar nell’altra nave, incontramo duoi batelli, in uno de’ quali veniva il corpo del buon Padre Vescovo accompagnato da li duoi Fratelli, et nell’ altro il Capitano maggiore che lo accompagnò con molto sentimento, stando alle esequie che li feccero in terra, e duoi giorni dopo morì 1’ altro Padre suo compagno; l’istesso fecce il Fratello Antonio Luigi , dopo haver già passata la seconda linea, e star più vicino a Goa che a Mosambiche. Non li starò hora mostrando il sentimento che a tutti noi diede cotal morte, la cui vita ci era di grande consolatione et speranza, sì 'del frutto del Giappone, come del nostro andar con la prima mottione più oltre, perchè dal sentimento, che V. R., che sta tanto lontana, sentirà potrà conieturare il nostro, che stavamo presenti. Giongemo finalmente a Goa alli 16 di Settembre con molto buon tempo, quale N. S. ci diede sempre da Portugalo insino a Goa non havendo mai fortuna o altra cosa molesta, essendo sempre la nostra nave la prima ad arrivare, se non fu sei o sette giorni che nel passare della linea la prima volta stessimo cinque o sei giorni senza vento, costumandosi stare alle volte quaranta, come l’istessa nave duoi anni inante era stata, et presso a Mosambiche passamo molto vicini a un secco, che per esser di notte ci diede alcun travaglio, e ci fecce intrare in noi, che se N. S. no’ agiutava a voltare in un’ instante la nave come fece, la cosa era finita, ancor che si saria salvata tutta la gente, perchè non dava in schoglio, ma in arena, ancorché altri dicano che non fu tanto come parve per esser di notte. N. S. sia sempre lodato che sempre ci da molto più di quel che sapemo desiderare. Io al presente sto con un occhio GIORNALE LIGUSTICO anco pieno di nuvole et nebbia, la cui origine fu in questo modo, che giùngendo a Mosambiche sì per la molta di dieta di 20 giorni a lentiglie et uva passa o alcuna cosa dolce, et con otto volte havermi in 20 giorni cavato sangue più di meza libra per volta, restai con la vista molto debilitata, tenendo dinanti agl’ occhi infinite nuvolette rotonde, quali mi durorno tutto il tempo di Mosambiche, et nel viaggio insino a Goa, dove gionto dopo otto o dieci giorni non solo si passò questa debolezza, ma raccogliendosi molto humore nell’ occhio sinistro si enfiò et fecce rosso come una scarlatta, dandomi dolori intensi, che no’ mi lasciava dormire, di modo che stetti più di vinti giorni serrato in una camereta, serrate le finestre senza poter veder luce, facendo un’ altra meza quaresima di astinenza, purgandomi per due volte e salassandomi due altre con ventose tagliate; basta che insino al giorno de tutti li Santi nè puotè recitare l’officio divino, nè dir Messa, facendolo anco all’ hora con travaglio, come pure adesso ne sento, tenendo anche infinite nuvole che non mi lasciano discernere molto lontano ; ma spero nel Signore ogni giorno se irà scemando, et per questo non mi son steso in scrivere molti particolari, che di un viaggio così longo e vario si potea fare , dandomi il scrivere non poca molestia. Qui in Goa come fanno professione di canto celebrandosi gl’ offici divini con molta solennità, per agiuto de’ gentili desiderano di havere buone musiche di coteste di Europa, de’ quali ne hanno già gustato alcune, et in particolare di Guer-rero, Prenestino e· Vittoria: ma non hanno insino a qui potuto havere tutte le lor opere; per onde hanno fatto recorso a me con molta instanza gli procuri che gli sieno inviate cotali opere. Io non so dove più facilmente ricorra che a V. R., la quale ancorché non facci tanta professione di cantore , potrà non di meno col suo mezo fare che tutto ciò habbi buon ricapito, et per questo fine le mando tre cechini GIORNALE LIGUSTICO 117 venetiani, inclusi nella presente, acciò parimente non havesse il travaglio dupplicato. Et del Padre Alovisio Prenestino vor-riano li Magnificai, himni e salmi, e se havesse fatto le lamentacioni o altra cosa della settimana santa e quaresima; il primo libro de’ Motteti, et el terzo a quattro voci, perchè il secondo già qui 1’ habbiamo. Parimente il primo libro de’ motteti dell’istesso a 5 et 6 voci, havendo già qui il 2.0, 3.0 et 4.0 libro, e se havesse fatto il 5.0, e qualsivoglia altro che cotesto autore habbi impresso o il Vittoria, o Guerrero dal-1’ anno del 84 insino adesso exclusive, cosi di motteti come di Messe et altre cose ecclesiastiche. Et se si havessero Canzoni e Villanelle 0 madrigali in spagnuolo, o altra cosa in latino che alcuno de’ sopradetti havessero fatte , ci seranno molto care a 3 e più voci, e specialmente spirituali; perchè qui si costuma in luoco di un motteto cantar in Chiesa una cancione o villanella, et ancor che sieno in Italiano non ci seranno se non grate; et tutti questi libri non sieno d’impressione molto grande, come sono le messe et magnificat del Vittoria, ma più commoda se è possibile, per più comodità del viaggio, anchorchè sieno in quarto, et non sieno ligati perchè qui si potrà comodamente; et se anco si trovassero altre opere di autor novo molto stimato l’avranno caro, e per più comodamente eseguirlo si potrà V. R. servir del Maestro di Cappella del Germanico 0 Inglesi, o Seminario come meglio gli piacerà; e di tutto ciò Nostro Signore li pagherà il travaglio come cooperatore all’ agiuto della conversione di questa gentilità, il che anco sò farà con parti-colar gosto, per l’affettione particolare che tiene a queste parti orientali; et non aspetti per l’anno che viene con la venuta del procuratore, perchè tardarla molto, ma con qualche Padre o Fratello che forse di costi ne verrà mandato a l’Indie, e se no mandarli a Portugalo al Procuratore de Γ Indie, che li mandarà, e quando l’invia non l’indirizzi so- 11S GIORNALE LIGUSTICO lamente a me, ma in mia absenza al P. Gaspar Estevano, perchè io sto di giorno in giorno per partirmi in alcuna missione; il qual darà a tutto ciò che li sarà inviato buon recapito, et se mi avviseranno a tempo inanti alla partenza delle lettere lo farò sapere a V. R. Nel resto, Padre mio, con dupplicato affetto mi raccomando a suoi Santi Sacrifici]’ et orationi di quello Γ altre volte facevo, perchè qui ho ritrovato un mondo molto differente da cotesto di Europa in omnibus et per omnia. Dia mille raccomandazioni a tutti cotesti Padri e Fratelli miei conosciuti. Da Goa alli 15 di Novembre 1588. D. V. R. V. R. mi farà favore grande, di salutare nostra madre, et darle nova di me, si come altretanto desidero sapere quel che sia di lei, et di tutti di casa. « Indegno in Christo Servo P. Lazzaro Cattaneo (i). Duole veramente che la malattia d’ occhi, onde il Cattaneo fu sorpreso, non gli abbia consentito di scrivere distesamente « li varii successi, staggioni e climi » che egli passò, siccome ne aveva il pensiero ; certo avremmo trovato in quelle relazioni curiose e non inutili notizie, così di quei luoghi e di quei popoli, come della sua vita. È vero bensì che Da-nielo Bartoli non mancò d’intrattenersi con qualche larghezza intorno ai casi or lieti ora avversi della sua missione (2) ; ma tace quasi interamente dei primi tempi in cui si condusse in quei luoghi. Della parte eh’ ei prese alla missione della China discorse altresì particolarmente il Padre (1) L’ autografo si conserva presso 1’ avv. Carlo Bernucci di Sarzana. (2) La Cina (Roma 1663), p. 1142. GIORNALE LIGUSTICO 119 Matteo Ricci in quella sua importante narrazione , che va sotto il nome del Padre Trigault (i). Dalla lettera riferita si rileva quale impero dovesse esercitare la musica sull" animo di quei popoli, e come opportunamente se ne servissero i missionari, fino ad introdurre nella chiesa il canto profano delle canzoni e villanelle, riuscendo queste più accette, ed essendo quindi più atte a muovere i sentimenti e gli affetti. Anzi egli stesso più tardi fece degli studi speciali intorno alla rispondenza delle note di musica coi suoni diversi delle parole chinesi, e ne compilò una specie di vocabolario, che riusci di molta utilità ai predicatori. « Di questa » scrive il Bartoli a non solamente invenzione, ma studio di gran tempo, e fatica di gran travaglio, quanti ci scrivono di colà, tutti al solo P. Cattaneo ne attribuiscono il inerito, oltre alla gloria dell’aver egli ridotta a meno della metà l’intollerabile fatica che costa agli europei, Γ apprendere e il pronunziare quella tanto malagevole favella ». In lingua chinese poi come quella che gli era divenuta fami-gliarissima, compose alcuni trattati ascetici, due dei quali vennero pubblicati colle stampe (2). Gravi difficoltà tuttavia dovette superare in mezzo a quei popoli non molto accessibili alle cristiane persuasioni; di ciò egli si rammarica col fratello in una lettera del 1615 da Hamcheu: « Sto occupato nella conversione di questa innumerabile multitudine di questi miserabilissimi Chini, che tanto sono ciechi nel lume naturale, che difficilmente si possono persuadere quello che il medesimo lume chiaramente ci mostra, non credendo, 0 per dir meglio, non si rendendo (1) De christiana exped. apud Sittas. Cfr. una comunicazione di L. Nocentini al Congresso degli orientalisti tenuto in Firenze (Atti del Cong. T. II). (2) Alegambe , Bib. Script. Soc. I., p. 546, col. 2. 120 GIORNALE LIGUSTICO alla ragione, ma solamente a quello che con gl’ occhi corporali veggono ». Ciò non ostante visse fra essi per ben cinquant’ anni, essendo morto colà ottuagenario nel 1640. A. Neri. SPIGOLATURE E NOTIZIE Dai rapporti del comm. Fiorelli inseriti nelle Notizie degli scavi rileviamo quello che riguarda la nostra regione. » Le ultime scoperte della necropoli di Albium Intemelium sono cosi narrate dall’ egregio ispettore prof. cav. Girolamo Rossi : » Il giorno 20 del decorso Giugno sbarazzando dalla terra il sepolcro che portava P iscrizione Minicius, vi si rinvennero quattordici gutti di diversa grandezza ; quattro lucerne, una delle quali coll’ impronta CATI-LIVES; quattro patere; un’ampolla di vetro di forma quadrata, ma coll apertura rotonda; altra piccola ampolla vitrea, rotonda, munita di due anse; un bicchiere di forma rarissima, avente quattro lobi sporgenti in fuori; alcuni frammenti d’una lucerna polymixos; pezzi di ferro, che si possono giudicare i resti d’un’ arma ; mezzo anello d’argento ed alcuni avanzi di lastra metalica. » Il 21 si cavò arena dalla tomba di Licinia, e se ne estrassero quattro lucerne, sopra una delle quali si vede una biga, sopra l’altra un gallo. Si ebbero pure due patere e molti eleganti vasetti di terra rossa ; pezzi di ferro di forma scannellata; molti gutti; due monete imperiali corrose; ed il frammento .. PVLLA... inciso sulla lastra marmorea. » Il 22 gli scavi furono diretti alla tomba di Apronia Marcella, dalla quale si estrassero due grandi diote; un ampio vaso di vetro, andato in pezzi; una stupenda tazza di vetro iridescente; due lastre di piombo; e pezzi di lastra marmorea che contengono 1’ epigrafe : D · M APRONIAE MARCELLAE D . APRONIVS CARICVS CONIVGI CARISSIM AE BENEMERENTI SE VIVO ET SVIS FE CIT GIORNALE LIGUSTICO 121 Questa epigrafe, meno una variante nelle due ultime linee, ed i caratteri incisi con molta celerità e direi anche con trascuratezza, è la stessa che già si era letta sul frontone della tomba (i). È poi facile comprendere, che ad un antico titolo se n’ era sostituito un secondo , gettando i pezzi del primo nella tomba. » Il 23 si esplorò la tomba di Apronio Primitivo, e ne vennero in Ilice, una striglie; una situletta di rame, di lavoro assai bene condotto con disegni e circoli concentrici; una lucerna che porta il bassorillievo di una testa sacerdotale con mitria e benda ; un bicchiere di vetro con bassorilievi, ma sgraziatamente rotto; molti dei soliti vasi in terracotta, oltre ad alcune patere ed embrici. Venne pure in luce il frammento seguente , di un titolo marmoreo di forma rotonda, che dice : PR A ZOS » Il 24 si esplorò il sepolcro di Afranio , in cui oltre i soliti gutti si rinvennero alcuni unguentari. Fra questi è uno bellissimo avente forma di corno assai grande. Vi fu trovato pure un calamaio, composto di tre cilindri metallici i quali come appare dalle saldature, erano riuniti; due più ampi eguali fra loro ed intieramente aperti, pare fossero destinati a dare ricetto ai calami ; il terzo cilindro alquanto più piccolo, ma munito di coperchio a forma di cono, serba ancora i resti dell’ atramentum, ed è perfettamente simile a quel disegno, che ne dà il Rich al vocabolo arundo. Si spiega benissimo la presenza di un calamaio nella tomba di un giovinetto quattordicenne. » Il 27 essendosi acoperta la parte superiore di un sepolcro, avente forma di piccola piramide, si trovò che ne era stata staccata di fresco l’iscrizione; e solo vi si rinvenne una piccola brocca di rame, con alcuno dei soliti vasi. » Il 28 si cominciò 1’ estrazione dell’ arena da una grandissima sepoltura priva d’iscrizione (la quale pare sia stata asportata molto tempo addietro) ; e ricchissimo fu il frutto che se ne ricavò. Infatti si ricuperarono due anfore; una ventina fra gutti e lagene; tre olle; una ventina di vasetti di terra rossa, di forme graziose e diverse ; una lancia interamente ossidata ; e due olle ripiene d’ossa frantumate. Meritano poi speciale ricordo : un largo piatto di vetro, che reca incise nella sua parte infe- (1 ) Cfr. Gior. Lig. 1882, p. 474. 122 GIORNALE LIGUSTICO riore diverse forme di pesci ; un calice di vetro, dorato nella sua parte interna ; due altre coppe pure di vetro e parecchi unguentari. » Il 30 giugno si cominciò ad esplorare la più grande delle tombe fin qui scoperte ; alla quale però mancava Γ iscrizione, come si vide dal vuoto rimasto nel muro. Estratto però un metto e mezzo di finissima arena, venne in luce in due pezzi una tavola marmorea, ove potei leggere : D . M ascia C . AEMILIO CLE MENTI ,ΒΙΤΤΙΑ AMABILISSIMA RITO OPTIMO » Nel bel mezzo della stanza mortuaria si rinvenne un ossuario di pietra calcare rettangolare , con proprio coperchio in forma di botte, già altra volta smosso. Ai quattro lati della stanza si trovarono, come sempre si verificò sin qui, addossati grandi dioti con anfore, gutti, lucerne ed olle ripiene di ossa combuste. Vennero poi in luce vasi di vetro, fra cui un piatto ellittico di bellissima forma, ed una statuetta di terracotta rappresentante una donna, tunicata con corto chitone, avente nella mano sinistra una brocca e nella destra un vaso. » Pochi giorni prima s’ era rinvenuta pure un’ altra statuetta , rappresentante Giove seduto sopra la vacca Io. » In un sepolcro a forma di tempietto, si raccolsero alcune tazze di terra rossa di bel lavoro ; un lume su cui è rappresentato in bassorilievo Caronte, che traghetta 1’ anima di un trapassato ; ed una lunga lastra di arenaria, che comincia a sfaldarsi, su cui è incisa la seguente iscrizione: M . BITTIVS M . F.BARA CO . HIC SITVS . EST ANNO RV Μ . IX . » In fondo della sudetta lastra si vedono scalpellate le lettere M . BITT; il che fa chiaro, che il lapidario aveva incominciato a incidere dal lato opposto il titolo ». « Dagli scavi che si proseguono per togliere P arena nella proprietà del sac. don Giorgio Porro, contigua a quella in cui sorge il Teatro romano, nell’ area dell’ antico Allium Intemelium, lu scoperto nello scorso dicembre GIORNALE LIGUSTICO I23 un aureo dell’imperatore Adriano, con la lupa che nutre i gemelli, e CDS III (cfr. Cat. Mus. na\. nap. n. 7906-8) ». « Fin dall’anno 1873 il dotto ispettore cav. Girolamo Rossi pubblicava, nell Archivio storico italiano di Firenze , una memoria col titolo : Sulla Villa Regia Ligure, antica Porciana ; nella quale riusciva a provare che Γ attuale distretto di S. Stefano Ligure appellavasi Villa Regia nel X e XI secolo, ed aveva nome di Porciana nel periodo romano, e che confinava coi fondi denominati Tabiana, Pompejana e Vipsana. Soggiungeva in detto suo scritto, che in un rogito del 1617 veniva ancora ricordato il piano Porgano ; e conchiudeva facendo voti, perchè si ricercassero gli avanzi di quell’ antico centro abitato. Avendo recentemente Ietta la memoria del prof. Rossi Γ egregio dott. Domenico Fornara, medico condotto in Riva Ligure, recatosi in quella località col proposito di fare le desiderate indagini, e confermare la supposizione del prof. Rossi , giunse a scoprire considerevoli avanzi d’un ponte romano, sul torrente della Torre 0 Ravin, che può porgere valido aiuto nel determinare con sicurezza l’andamento dell’ antica via Julia Augusta. Da una lettera del predetto signor dott. Fornara indirizzata all’ ispettore Rossi, tolgo queste notizie intorno alla cennata scoperta. » Porciano, in dialetto Ροτχαη, chiamasi un territorio abbastanza esteso, ove prosperano l’ulivo e la vite; misura un chilometro circa in lunghezza, e mezzo chilometro in larghezza ; e forma un altipiano tra due colline, e tra il torrente della Torre 0 Ravin ed il torrente Giraudi. È luogo adattatissimo per costruirvi un abitato, essendo in posizione ben munita e salubre. Il ponte.si trova nell’avvallamento del primo torrente; e di esso rimangono sole due pile, 1’ una ancora al posto, e 1’ altra caduta. » La costruzione è in parte a secco, in parte a pietra squadrata, senza traccie di appoggio d’ arco. Siccome poi il ponte metteva in una schiena piuttosto ripida di monte, fu in seguito alla sua rottura, abbandonata anche dall’ uno e dall’ altro capo la strada, la quale venendo da Cipressa, giunta al luogo ove comincia il suolo di Porciana a declinare più sentitamente , pie^a a mezzogiorno , anche per mettere nel Pian della foce , divenuto ora col nome di Santo Stefano capoluogo del mandamento ». Il nominato dott. Fornara ha potuto riconoscere, al di là di questa schiena di monté, le traccie dell’ antica via romana ». « Presso il santuario di Soviore nel comune di Monterosso, le recenti piene del torrente Pignone misero allo scoperto un sepolcro di laterizi, 124 GIORNALE LIGUSTICO entro cui il contadino Domenico Moggia trovò quattro vasi fittili, che passarono in potere del Municipio , e vennero depositati nell’ Archivio comunale. 11 eh· ispettore avv. Podestà avendogli esaminati, mi fece conoscere che il primo è un ossuario fatto a mano, di creta gialla impura, con traccie esterne di affumicazione, con base priva di piede, bocca senza labbro esteriore, e con ventre che si restringe ad angolo per formare il breve collo. È alto metri 0,18; ha il diam. della base di metri 0,13; quello della bocca di metri 0,12. La massima circonferenza del ventre misura metri 0,71. La tecnica è simile a quella degli ossuari di Cenisola, e forse è più rozza. I vasi accessori, secondo la descrizione del predetto sig. Ispettore, sono tre. Il primo è un’ oinochoe, o vaso da mescere, fatto al tornio, di creta fine, di forma svelta e leggera. Ha ventre ampio, collo lungo e sottile, bocca con labbro sporgente ; e dalla maggiore altezza del ventre si stacca un ansa, solcata da due linee perpendicolari, che va ad attaccarsi in modo elegante alla estremità superiore del collo. È rivestito di una coperta bianca data dopo la cottura, ed è alto poco più di metri 0,16; ha il collo di metri 0,05, il diametro della base di metri 0,07, della bocca di metri 0,04. e la circonferenza del ventre di metri 0,41. Gli -altri due consistono in una coppa ed in una ciotola di fabbrica aretina, elegantissime, lavorate al tornio, con copertura corallina. La coppa ha nel piede un cerchietto sporgente, e nella piegatura del ventre altro cerchietto più rilevato, e solcato da tagli diagonali sulla pasta molle. Da questo alla bocca girano due zone : la prima è coperta in tutta la sua estensione da tagli verticali : 1’ altra, più ampia ha simili tagli, spezzati in mezzo e divergenti. Il diametro della base è di metri 0,05; nella esterna poi è coperta di una incrostazione di calcare; quello della bocca di metri 0,10. La ciotola è nella parte interna pulita e rilucente; il che fa credere che essa fosse stata deposta per coperchio, capovolta sopra 1’ urna, sopra la quale si adatta assai bene. Ambedue hanno nel centro interno il bollo figulino, che l’ispettore in questo primo esame non ebbe tempo di copiare. Ma al suo rapporto aggiunse le seguenti dilucidazioni, che meritano di essere riprodotte. « Il santuario di Soviore domina la borgata di Monterosso , capoluogo del comune, all’ altezza di metri 400 sul livello del mare ; e vi si accede dalla borgata per un’ erta abbastanza comoda, di circa due chilometri. A nord, nord-est, poco distante dal santuario, in un bosco si apri la frana, ove il Moggia riconobbe la cassa sepolcrale. Era costruita con sei grossi embrici, uno di sotto, un altro di' sopra, e quattro GIORNALE LIGUSTICO 125 laterali, ben congiunti tra loro senza cemento.. L’interno vuoto e libero dalla terra, conteneva 1’ urna cineraria ed i vaii accessori, in perfetto stato di conservazione, non essendo mai stata violata quella tomba. E poiché si osservano traccie di incrostazione calcare sull’ urna , sull’ oinochoe, e sulla parte esterna della ciotola , e non sulla tazza aretina, conviene ritenere che questa fosse stata collocata nell’ interno dell’ urna, sopra le ceneri, e che rimanesse quindi coperta dalla ciotola rovesciata. 11 luogo è ameno e salubre; e benché circondato per lungo tratto da boschi e da scoscesi dirupi, accessibili solo a quei montanari, invitano a starvi la mitezza del clima, la copia delle acque sorgenti, e la imponente vista del-l’immenso mare a pochi metri discosto. La somiglianza del rito funebre con quella dei sepolcri di Cenisola e di Ceparana, ci prova che i Liguri mantennero i loro costumi, anche nel tempo in cui vennero in voga le terrecotte aretine (1). È a dolere che manchi alla suppellettile funebre ogni traccia di metallo; e forse non è difficile che nel vuotare l’urna cineraria, il contadino Moggia abbia perduto fìbule ed armille, confuse tra i resti della cremazione, e gettate via come cosa di nessun pregio. Ma è di somma importanza la scoperta , la quale sembra ci additi un nuovo sepolcro, dalla cui esplorazione molto potranno guadagnare gli studii ». » Nel rapporto del predetto sig. ispettore Podestà, intorno alle tombe liguri scoperte nel villaggio di Ceparana nel comune di Bollano fu detto che per pronunziare più sicuro giudizio sopra quel rinvenimento, era necessario di esaminare gli oggetti, che erano stati trasportati nella casa dei proprietari del fondo. Avendo ora l’ispettore stesso, per cortesia delle signore marchese Angiola ed Ida Giustiniani, potuto ben osservare gli oggetti, mi fa sapere doversi così rettificare alcune parti e colmare varie lacune, del rapporto di sopra accennato. « Dei vasi si conserva uno solo intatto; gli altri furono ridotti in frantumi , o per le alluvioni alle quali è soggetta la pianura, o per le radici degli alberi, che aveano colle terre riempito il vuoto dei sepolcri. Il vaso intatto è un’ urna cineraria di creta gialla, fatta al tornio con arte e leggerezza ; è alta metri 0,r8 ; ha la massima circonferenza di metri 0,65 ; il diametro della bocca di metri 0,51 ; quello del piede di metri 0,09. Ha il ventre assai vicino alla bocca, il collo brevissimo, la bocca larga. La sua base ristretta è guarnita di piede formato da un cerchietto sporgente, simile a.1 cerchietto che adorna la bocca con labbro rientrante. (1) L’ispettore suppone, che in quetta parte avessero avuto stanza i Ligures Tigulii, mentre i Ligures Guruli occuparono le terre verso Cenisola. 126 GIORNALE LIGUSTICO » La fibula di bronzo,.che sola è stata trovata in buone condizioni, è delle comuni a vermiglione, ad arco semplice ; è formata da una verga massiccia dello spessore di mil!. 7, che ristretta all’ asse va allargandosi nel vertice dell’ arco. La sua lunghezza è di mill. 70. È divisa in parti eguali tra 1’ arco e la staffa ; la quale lunga e massiccia, è guarnita alla estremità da tre dischi. Quello di mezzo è più piccolo , e 1’ ultimo finisce in una superficie piana. Vi resta metà dell’ ardiglione. » Degli anelli uno è cerchio semplice in bronzo, del diam. di mill. 20 ; altri due a giri spirali, perfettamente eguali nella fattura alle armillette di Cenisola e di Viara, hanno il diam. di mill. 15. » Fibule ad arco semplice, ed anelli a spirale simili ai descritti, non si rinvennero in Cenisola ». L’ispettore conclude il suo nuovo rapporto dicendo, che a suo credere queste tombe, come quelle di Soviore e di Viara, appartengono alla fine della repubblica romana. Ho accennato alle scoperte liguri di Viara, che è terra del comune di Bollano, e trovasi sul monte in cui passa il sentiero, che da Bollano mette a Calice del Cornoviglio. È distante un chilometro da Bollano, e sei da Cenisola, che sta sulla stessa catena dei monti. Intorno a queste scoperte scrisse in tal guisa il medesimo ispertore Podestà. « Il sig. Cesare Rossi proprietario del comune di Bollano, mi avvisò del rinvennimento di un sepolcro intatto nel luogo detro Vtara. Il sepolcro era costruito con sei lastroni di pietra, nel modo solito ; e conteneva un ossuario a due vasi minori. L’ ossuario in terracotta coperto da ciotola, alto metri 0,20, che ha la circonferenza del ventre di metri 0,56, quella della base di metri 0,40, rinchiudeva le ossa cremate, un anello di bronzo ed un altro di argento ben conservato, finalmente due piccole spirali pure di argento. Sembra che anche nel vaso minore fossero contenute le ossa cremate. Il vaso più piccolo , che pare fosse stato un unguentario di creta, simile a quelli di Cenisola, dovè essere distrutto dai contadini ». *** Una raccolta di studi danteschi di Paolo Scheffer-Boichorst edita di recente (Ans Dante’s Verbannung. LiterarichistoriscL· Studien , Strasburg, Trübner 1882), contiene fra le altre cose una monografia intorno alla celebre lettera di frate Ilario. È cosa davvero curiosa il vedere come quello stesso che volle provare falsa la cronaca del Compagni, sulla quale nessuno aveva mai osato levar dubbio, ora si faccia a difendere l’autenticità di un documento reputato apocrifo da parecchi e illustri italiani. Esami- GIORNALE LIGUSTICO I27 nando questo libro, e fermandosi singolarmente sopra questa parte, il sig. P. M. nella Romania (T. XI, 615) cosi scrive: « Le premier chapitre » commence ainsi : « Le poète banni se tenait devant l’église de Santa » Croce, monastère de la Lunigiana. Ses regards attentifs, pleins d’admi-» ration peutêtre, se reposaient sur l’édifice: il était si profondément » plongé dans sa contemplation, qu’il n’en sortit pas lorsqu’un moine, » survenant, lui demanda: Que cherches-tu? Ce fut seulement lorsque ce » moine eut renouvelle sa question que Dante vit qu’il y avait quelcu’un » auprès de lui et répondit: La Paix ». Tous ceux qui savent l’histoire de Dante reconnaîtront dans ce début quelque peu théâtral l’adaptation d’un passage de la célèbre lettre de frà Ilario à Uguccione della Faggiuola. Actuellement 011 peut dire que tous les critiques de quelche autorité sont d’accord pour la considérer comme apocryphe. Il suffit d’avoir un peu le sens des choses du moyen âge pour y recconaitre, à la première lecture, un pur exercice de rhétorique. Mais Sch.-B. croit avoir démontré qu’on a fabriqué au XVII0 siècle la chronique de Dino Compagni dont il existe un ms. du XVIe siècle et un autre du XVe ; il était donc naturel qu’il crût à l’authenticité d’un document qui, si on l’envisage d’après les principes de la critique vulgaire, ne peut qu’être déclaré apocrype. C’est tojours de la critique à rebours. Le chapitre que l’auteur a consacré à la demostration de l’autenticité de ce document est certainement bien singulier. La lettre d’Ilario est transcrite dans le ms. XXIX, 8 de la Laurentienne. Selon une opinion assez généralement accréditée, bien qu’elle ait été récemment combattue par M. Koerting, ce ms. aurait appartenu à Boccace. Ce qui est sur, c’est que Boccace a fait usage de la lettre de frà Ilario dans sa Vie de Dante. Les choses étant ainsi, M. Sch.-B. s’at tache à démonter contre M. Koerting, qu’il malmène très fort, que le ms. en question a appartenu à Boccace, que la lettre contenue dans ce ms. est antérieure à la rédaction de la Vie de Dante, qu’elle ne peut avoir été fabbri-quée d’après cette vie, que par conséquent elle est authentique. En somme, ou bien Boccace a fait usage de la lettre, et alors elle est authentique, ou bien elle a été fabriquée d’après Boccace. Le vice de ce dilemme, c’est que la primière partie n’a pas nécessairement la conclusion que lui suppose l’auteur. On peut reconaitre que Boccace est le plus ancien possesseur du ms. de la Laurentienne, qu’il y a trouvé la lettre d’Ilario , sans admettre pourtant l’authenticité de cette pièce. Le faux peut aussi bien avoir été fait au milieu du XIV0 siècle qu’après la mort de Boccace. Aussi s’est-on fondé, pour contester l’authenticité du document, sur des arguments tires de caractères intrinsèques, comme on dit en diplomatique. 128 GIORNALE LIGUSTICO Ces arguments M. Sch.-B. ne les ignore pas. Il les résume d’une façon intentionnellement burlesque en quelques lignes (p. 242), et croit les avoir réfutés en disant: « Ce sont là des considérations qui sembleront peut-» être trèsiimportantes à d’autres, mais que je dois éliminer en rappellant » qu’un enfant peut questionner en un moment plus qu’un sage ne peut » répondre en un jour « (p. 243). Il est visible que M. Sch.-B. n’a pas le sens du ridicule. Parlons de choses sérieuses. Le ms. XXIX, 8 de la Laurentienne, contient d’autres documents dantesques que la lettre de frà Ilario , à savoir trois lettres de Dante (1), et les egoglues latines de Giovanni del Virgilio et Dante. On y trouve malhereusement aussi une lettre de Frédéric II, qui est si évidemment un pur exercice de rhétorique que M. Sch.-B. lui-même ne sy tromperait peut-être pas. Ces divers documents sont d’une même écriture, qui pourrait bien être (j’ai pour le supposer des motifs autres que ceux invoqués jusqu’ici) celle de Boccace lui-même. Je ne puis dissimuler que la présence dans le même ms., à peu de pages d’intervalle, de documents aussi certainement apocryphes que la lettre d’Ilario et la lettre de Frédéric II d’une part, des trois lettres de Dante et des églogues latines d’autre part, constitue à mon avis une présomption peu favoiable à l’authenticité des derniers de ces documents. On ne peut s empêcher de remarquer que l’objet des égoglues et de la lettre d’Ilario est le même: excuser Dante de n’avoir pas composé la Comédie en latin. La question que je viens de soulever en passant est trop grave pour être discuté incidemment, et d’ailleurs c’est à des « dantophiles » plus expérimentés que moi qu’il appartiendrait d’y répondre. Je me borne a dire que les documents dantesques que renferme le ms. Laurentien ne doivent pas etre étudiés isolément les uns des autres et que, pour en apprécier la valeur, il y a lieu de commencer par se rendre un compte exact de la composition du ms. susdit. Il y a là matiere à un travail préliminaire qui n a pas encore été fait ». Ora mentre in generale noi ci troviamo d’ accordo collo scrittore francese, e come lui desideriamo un serio e definitivo studio sul codice Lauren-ziano, ci sembra che egli non abbia tenuto alcun conto dei difensori della lettera, fra i quali pur vi sono dei « critiques de quelque autorité ». * * Vedrà in breve la luce a Torino il primo fascicolo del Giornale storico della Letteratura italiana. La saviezza ; la rettitudine degli intendimenti a cui s’informa, fanno sperare una lieta accoglienza da parte di quanti amano le buone lettere, e desiderano un serio lavoro di ricostruzione storico e critico nella nostra istoria letteraria. I nomi degli egregi uomini che sono preposti all’ impresa, è arra sicura di vedere incarnato quel disegno che è stato svolto nel programma. (1) Les n.os IV, IX et X de Fraticelli. Pasquale Fazio. Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO I29 ILLUSTRAZIONE STORICA DI ALCUNI SIGILLI ANTICHI DELLA LUNIGIAN A opera postuma del Cav. Avv. EUGENIO branchi edita da Giovanni sforza (i). Sigillo I. Nel 1840 il sig. Eleonoro Uggeri di Pontremoli ritrovava nelle mani di un fabbro-ferraio di quella città un sigillo antico di bronzo, che poco avanti, insieme con alcuni ferri vecchi, aveva acquistato dall’ Agente della Marchesa Mosti-M alaspina di Benevento, in seguito a uno spurgo effettuato nelle case della signora medesima situato nel vicino Castello di Mulazzo. È esso della forma e figura delineata nella tavola (n. 1.), alto quattro millimetri circa, con un piccolo manichetto a tergo, forato nel centro per essere congegnato in un manubrio onde usarlo a pressa od a torchio; e adoperato in cera offre un basso-rilievo di qualche pregio, avuto riguardo all’ epoca nella quale sembrava inciso. Questo sigillo non conosciuto dal Manni, nè da altri studiosi, meritava, almeno per la sua singolarità, essere illustrato; per cui esaminatolo con attenzione , parve a me potessero farsi sovr’ esso le osservazioni seguenti. Per procedere alla spiegazione del medesimo è a sapersi col Porcacchi istoriografo della famiglia Malaspina, col Fiorentini, col Dal Pozzo, col citato Manni e con altri; che primitivo emblema di questa casa fu lo spino secco in campo d’oro, quale, dopo le divisioni del 1221 avvenute tra Corrado e Opinino, rimase al primo di questi, cioè a Corrado, appellato da Dante (1) L’ editore darà in seguito la biografia del Branchi. In una tavola saranno poi raccolti i disegni di tutti i sigilli. Giork. Ligustico, Anno X. 9 130 giornale ligustico l’antico, che fu stipite della linea di Mulazzo, mentre Γ altro, cioè Opizino, che pose sua sede a Filattiera, assunse sullo stesso campo d’ oro lo spino fiorito, girando da destra a sinistra i tre principali aculei, ed apponendo in cima ad essi ed ai loro pungiglioni o spini tre piccoli globetti bianchi, disposti a forma di croce, in modo da indicare un fiorellino (i); che Federico II, Imperatore, del quale Opizino e Corrado specialmente erano favoritissimi, donò ai medesimi l’aquila nera, e S. Luigi Re di Francia dette a Corrado e successori suoi il leon bianco in benemerenza dei servizi prestatigli nella prima guerra da lui condotta in Terra Santa, la quale ebbe termine nel 1250. Premesse queste poche cose, è facile ravvisare nel sigillo di cui è parola, che lo scudo, senza indicazione del colore del campo, porta un leone rampante in mezzo a due spini secchi, che sovr’esso si scorge l’elmetto con cimiero 0 impresa rapprisentante il solito leone rampante, due ali di acquila tagliate verticalmente ciascuna da uno spino secco, e due code pur dJ aquila che scendendo a guisa di bende, una a sinistra e un’ altra a destra, fanno un bell’ ornamento allo scudo medesimo. La leggenda poi, che vedesi intorno al sigillo, circoscritta in fra due linee : φ . S. MOROELI. MAR-CHIONIS . MALASPINE , spiega chiaramente a chi il sigillo medesimo appartenesse ; nel modo che la S significa sigillum , e la croce che è in capo della iscrizione e del disco, il segno della professata religione cristiana : e simile leg- (1) Il Litta nella sua Famiglia Malaspina, Tav. 1, riportando lo stemma del ramo dello spino fiorito, estratto da un marmo esistente nel Museo Lapidario di Verona, dice, che i Malaspina del ramo dello spino secco po-savan lo spino sopra campo scuro. Io non so dove abbia tratto questa erronea dichiarazione, stando il fatto,·continuato fino ai nostri giorni, in contrario, che cioè lo spino secco, originario emblema della famiglia, fu sempre impresso in campo d’oro. GIORNALE LIGUSTICO 131 genda può dirsi ripetuta con le lettere Μ M ed M MA, che veggonsi nelle dette due code, stando senza dubbio a denotare le prime Marchionis Moroeli, e le altre Morodi Maìaspine. Che il Marchese Moroello, di cui fu il sigillo, fosse Signore di Mulazzo , in esclusione di altro Moroello, che fu Signore di Bobbio, non credo si possa mettere in dubbio, da che esso venne trovato nelle casa e tra i mobili di esclusiva attinenza di questa famiglia, essendo la Marchesa Mosti stata la erede universale degli zii materni Azzo-Giacinto, Luigi e Alessandro ultimi rampolli della dinastia Malaspina, che per tanti secoli tenne in Mulazzo governo (1). Solamente resta a sapersi a quale dei molti Mo-roelli di Mulazzo il sigillo medesimo appartenesse, giacché dal momento che questo Castello fu eletto capofeudo, cioè dalla divisione del 1221, notata in addietro, conta ch’io sappia non meno di sette feudatarii di questo nome. La forma delle lettere esistenti nel sigillo, e il disegno dell’ impronta secondo che molti esperti giudicarono, ne fecero attribuire il lavoro alla metà del secolo XIV : e siccome in tal secolo e in tale epoca non fuvvi in Mulazzo altro Marchese Moroello, -oltre il figliuolo di Franceschino, che stiè sul seggio degli avi dal 1320 al 1365, così giova concludere e ritenere che a lui il sigillo di cui si tratta indubitatamente appartenga. Non si sa se per testamento di Franceschino, 0 per elezione dell’ Imperatore, alla morte del padre fu questo Moro-elio, insieme col fratello Giovanni, affidato alla tutela e cura di Castruccio, sotto la quale egli stette almen quanto la vita di Castruccio medesimo perdurò, imperocché nel 1321 era (1) Marianna nacque da Matilde, figlia di Carlo-Moroello Malaspina Marchese di Mulazzo e da Caterina Melilupi di Soragna; nel 1777 sposò Francesco Recupito Ascolesi di Benevento dei Marchesi di Roiano; ed ebbe in dote cinquemila ducati napoletani, come risulta dalla scritta matrimoniale, che fu rogata il 27 novembre 1777. (Nota dell' editore). 132 GIORNALE LIGUSTICO minore di anni quattordici. Divenuto maggiore, resse in pi incipio (perchè non ancora istituite le primogeniture) i feudi paterni in comune col fratello predetto, e morto questo senza prole maschile, ne fu solo signore. Si distinse egli assai nel governo delle sue Castella, e meritò Γ affetto dei subietti e la universale estimazione, perocché nel 1333 sanzionò gli Statuti dei suoi Comuni, o meglio permesse ai medesimi ed approvò i regolamenti scritti, chel! innanzi trovar si dovevano sparsi, e forse non scritti, ed in vigore solamente per le consuetudini, e nel 1344, dopo aver dato ai sudditi diverse franchigie, e riconosciuti in loro molti diritti, che prima non avevano, senza esservi stato astretto dalle c’rcostanze, li svincolò affatto dalla condizione servile, che i bassi tempi a danno dei più utili cittadini avevan barbaramente introdotto, e ciò fece approvando certi capitoli intitolati : Patti, convenzioni e capitoli, dei quali spontaneamente volle giurare Γ osservanza, e che giammai in alcuna parte violò, sebbene , come i moderni statuti costituzionali, molte prerogative della sua autocratica potestà vulnerassero. Il sigillo di cui si ragiona , mentre è il più antico, e nel tempo stesso forse il più bello che della famiglia Malaspina fin’or si conosca, presenta una specialità, che gli diè merito di figurare nella Esposizione dantesca, che si compiè in Firenze nel 1865 (1), perocché appartenne esso al figliuolo di chi fu amico e famigliare, se non ospite, del Divino Poeta, attestandolo la celebre pace dei Marchesi Malaspina col Vescovo di Luni stipulata in Castelnuovo nel 1306. (1) Esposizione dantesca in Firenze — Maggio MDCCCLXV- Oggetti d’ arte; n.° 85, pag. 16. GIORNALE LIGUSTICO J33 Sigillo II. Dopo avere nel sigillo η. i presentato lo stemma della famiglia Malaspina del ramo dello spino secco, ritengo che non sarà discaro a chi legge avere immediatamente sott’ occhio anche Γ altro stemma dei Malaspina dello spino fiorito. La impronta, riportata nella tav. (n. 2), nella grandezza e forma sue naturali, è estratta dal segno di una lettera del Marchese Gabriele di Fosdinovo diretta al Marchese di Mulazzo nel di 19 agosto 1750, che si conserva nell’Archivio domestico dei Marchesi Malaspina di Mulazzo in Pontremoli. Ivi lo scudo ha nel centro lo spino fiorito, formato nel modo descritto nel sigillo surricordato : è sormontato dalla corona marchionale, e sta in petto ad una bicipite aquila imperiale coronata, la testa, le ali, le zampe e la coda della quale fanno un bell’ ornamento allo scudo medesimo. Detto Gabriele, figliuolo e successore di Carlo-Francesco-Agostino Marchese di Fosdinovo, resse lo stato paterno dal 1722 al 1758. Nella prima giovanezza fu mandato dal padre alle Corti di Toscana e di Savoia , e la sua condotta gli meritò la stima dei Principi delle medesime, sicché Cosimo III nel 1720 lo liberò da un impegno cavalleresco incontrato con alcuni patrizi napoletani, e Carlo Emanuele III nel 1738 gli tenne al sacro fonte il primogenito, cui impose il suo nome. Come Marchese in comando tenne mite governo, e i suoi sudditi ebbero da lui il Monte frumentario , che in occasione di carestie, quando il colbertismo non era ancor conosciuto, infiniti vantaggi produsse : si interessò molte volte e con favorevole resultamento per la conservazione dei propri diritti e di quelli dei condinasti della provincia ; e migliorò la villa di Campatola, uno dei più deli-siozi soggiorni della Lunigiana marittima, riducendovi la *34 GIORNALE LIGUSTICO casa di campagna a suntuoso palazzo, riccamente dipinto e addobbato, con ameno circostante giardino, ripieno di piante esotiche rarissime, le quali anch’oggi fanno un bel contrasto ai cedri, agli aranci, alle viti e agli olivi, che loro stanno d’intorno , e di cui la coltivazione si curò molto e si accrebbe. Morì di anni 60 in Fosdinovo (1), e di due mogli (1) Qui il Branchi piglia errore, giacche Gabriele non morì a Fosdinovo, ma a Lucca, e la sua morte non seguì nel 1760, ma nel 1758. Così la racconta 1’ ab. Gio. Antonio Pelligotti ne’ suoi Annali di Lucca (tom. II, part. III, pag. 316), che si conservano manoscritti nella Libreria dell’Archivio di quella città : « Apportò universale dispiacere al popolo luc-» chese la morte del Marchese Gabriello Malaspina di Fosdinovo, seguita » la sera dei 3 del mese di febbraio, dopo otto giorni di penosa malattia; » il quale pel domicilio che da molti anni manteneva in Lucca , dove » aveva preso per moglie la figlia del Senatore Carlo di Coriolano Or-» succi, era tenuto come proprio cittadino, amato da tutti, e compianto » per le ottime qualità di vero cavaliero, e per le singolari maniere, » che lo adornavano. Il di lui cadavere, la mattina dopo, fu portato a » Fosdinovo, dove, fattegli solenni esequie, venne sepolto nella tomba » de’ suoi avi ». Il Pelligotti (Part. II, tom. II, pagg. 393 e seg.) tratta pure « dell’im-» pegno cavalleresco » da cui Gabriele fu liberato per opera di Cosimo III. Ecco le parole dell’ annalista lucchese: « Nella mattina dei 19 marzo 1720 » seguì 1’ arresto in Lucca di D. Giuseppe Pappacoda e D. Francesco » Corrado, napoletani, venuti per battersi col Marchese di Fosdinovo, » arrestato parimenti a Pisa, per l’istessa causa, d’ ordine del Granduca ; » avendo ciò fatto il Governo a fine di divertire ed impedire il duello, » come è parte propria d’ ogni Principe. Furono essi ritenuti per molto » tempo, attese le istanze che vennero fatte dal Cardinale Althann, Viceré » di Napoli, di non lassarli in libertà.....Avendo in seguito esso » "Viceré dato avviso alla Repubblica, con sua lettera dei 17 ottobre, » dell’ aggiustamento di tutte le differenze, che vertevano tra li Principi » di Monteaguto e Centola, che diedero causa agli impegni corsi fra il » sigg. Malaspina e D. Giuseppe Pappacoda (onde fu creduto conveniente » 1’ arresto di questo e del suo compagno in Lucca, come del Marchese » era seguito in Pisa), pel desiderio che mostrò S. Eminenza che i GIORNALE LIGUSTICO *35 lasciò molti figliuoli. Il primogenito sunnominato Carlo Emanuele, che gli successe, fu Γ ultimo Marchese di Fosdinovo , colpito forse prima del tempo per grande sua colpa, dalla soppressione dei feudi imperiali della Lunigiana, operata da Napoleone nel 1797. Un simile stemma, anche per i segni esteriori che lo circoscrivono (salvo che lo scudo ha la forma di cuore) lo praticò Antonio Alberico dei Marchesi di Olivola, provenienti dallo stesso stipite di Fosdinovo, conforme si vede dal sigillo suo, impresso in cera rossa di Spagna, sopra alcune lettere che gli appartengono dell’anno 1748, le quali nel ricor- » medesimi si restituissero a Napoli, ai 22 del predetto mese d’ ottobre » furono lasciati in libertà ». Fin qui il Pelligotti. Ecco adesso le due lettere scritte dal Viceré di Napoli alla Repubblica. La prima è in data del 10 aprile, e dice : « Havendo saputo che VV. EE. » hanno arrestato in codesta città D. Giuseppe Pappacoda e il suo com-» pagno per evitare così i disgusti e disordini, che potevano nascere tra » questi due cavalieri et il Principe di Montaguto, suo fratello, et altri » parenti di questi; et ordinato io qui l’aggiustamento, che già si sta » trattando tra queste famiglie ; havendo fatto mettere ne’ castelli di » questa città i principali cavalieri, per il maggiore esito di questo affare ; » e considerando che se il Pappacoda e il suo compagno si ponessero » in libertà, si rendette più difficile la totale conclusione del negozio, mi » si fa indispensabile, per il carattere di Viceré di questo Regno, sup-» plicare VV. EE. si servino di trattenere li suddetti D. Giuseppe Pappa-» coda e suo compagno nell’ arresto che hanno, sino che qui del tutto » sia aggiustata la pendenza ». L’altra è del 17 ottobre, e suona così: « Essendo presentemente succeduto F aggiustamento delle differenze tra » li Principi di Montaguto e Centola, mediante la parola regia, alla quale » sono impegnati, godo di agevolare a D. Giuseppe Pappacoda il suo ri-» torno in questa città, di che supplico 1’ Ecc. Repubblica di compiacerlo; » poiché, per maggiore sicurezza di sua persona, ho interposti gli miei » uffizi col Granduca di Toscana, che mi persuado saranno sufficienti a » divertire ogni sinistro incontro nel suo viaggio ». (R. Archivio di Stato in Lucca. Anziani al tempo della libertà; reg. 566, part. I, c. 80 e 89 tergo). (Nota dell’ editore). GIORNALE LIGUSTICO dato Archivio di Mulazzo si custodiscono. Secondogenito del Marchese Lazzaro, non ebbe egli giurisdizione feudale sul castello di Olivola, la quale pervenne nel primogenito Giuseppe Massimiliano. Prebendato vestì l’abito clericale, si laureò in legge, e con i redditi del benefizio e con gli allodiali che gli spettarono, e che pare non dividesse mai col fratello, visse con il medesimo fino alla vecchiezza, morto d’anni 76 nel 1764, Sigillo III. Gli Alberti o Bonifazi Marchesi e Conti di Toscana, antenati di Alberto detto Malaspina, dal quale la estesa famiglia, che con simile appellativo ne emerse, dovevano in principio, qualunque ne fosse la favolosa causa, che gli si volle attribuire , avere avuto per insegna un rovo ossia spino ; perchè anche la Contessa Matilde, che dal primo Bonifazio figliuol di Adalberto I discese, come distintivo della 'sua casata praticò questo segno, conforme si vede nel ritratto di lei, fattole da Donnizone, e che è stato riportato dal Fiorentini nelle Memorie della gran Contessa Matilde; ove la medesima è rappresentata sedente, appunto con uno spino 0 rovo nella mano destra, il quale posato poi sopra campo d’oro, con tre aculei a destra e due soli a sinistra, fu 1’ emblema unico e caratteristico dell’ autore dei due Malaspina Corrado e Opinino, che si divisero nel 1221; emblema poi, che per convenzione, fu ritenuto da Corrado; mentre vi aggiunse i fiori e lo volse da sinistra a destra Opizino, sicché i tre aculei laterali, che si staccavano dal lato destro furon portati al sinistro e viceversa : e perchè non distinto da alcun segno di vegetazione, il primo rovo fu appellato secco, e perchè ornato di fiori il secondo fu detto fiorito; cosi i due rami Mala- 1 GIORNALE LIGUSTICO 137 spina furono chiamati, uno dello spino secco, e Γ altro dello spino fiorito. Queste cose già note per la storia, ed accennate anche in parte nel precedente primo sigillo, doveva io quivi premettere, per spiegare come P arma che or si presenta (n. 3 della tav.) unita al nome di Geri di Gherardino Malaspina fosse usato da lui. Detta arma, apparentemente ricavata da una pietra, si trova, senza colori di sorta, riportata in un codice ms. di Celio Cittadini intitolato — Estratti di armi gentilizie di residenti nel Magistrato di Biccherna — che si conserva nell’ Archivio pubblico di Siena, sotto la quale si legge : Gerius D. Gherar-dini Malaspina 1347. Ad onta delle più estese ed accurate ricerche da me fatte per la storia feudale della provincia della Lunigiana, non mi è stato dato trovare, nell’epoca di cui si tratta, altro individuo col nome di Gherardino Malaspina, se non il secondogenito di Alberto Marchese di Filattiera e di Donna Fiesca del conte Nicolò del Fiesco di Lavagna, il quale fu Vescovo di Luni dal 1311 al 1321, per cui figliuolo di esso Gherardino deve Gerì reputarsi fino a prove in contrario, non essendo infrequente, specialmente nei secoli di mezzo, in cui i costumi del clero erano rilassatissimi, che un prelato avesse naturai discendenza. Il dire del Vescovo Gherardino non è questo il luogo. Sia per i beni patrimoniali di famiglia, come per le rendite del pingue Vescovado lunese, dovè a Geri suo aver dato 0 assegnato tale rendita da poter vivere ovunque convenientemente alla nascita, sicché non dee far maraviglia se si vede nel 1347 tra i residenti del Magistrato di Biccherna nella città di Siena; in quanto che sembra, che lasciata la Lunigiana, ove potevaglisi per avventura rimproverare la illegittimità dei natali, altra provincia da quella distante eleggesse per sua dimora, e che ivi dei Malaspina appellandosi, come altri bastardi avean fatto, praticasse lo stemma ori- i3S GIORNALE LIGUSTICO ginario della sua stirpe, che era il semplice spino, non essendogli forse per le consuetudini della famiglia stato permesso assumere segni caratteristici, che ad una delle due linee dello spino secco e dello spino fiorito si riferissero; se pure un qualche delitto, chè i bastardi ne soglion fare di tutte, o qualche altra causa, noi costringesse a non usare le paterne insegne, o in certo modo a variarle, conforme in quei tempi si faceva, quando in specie un cambiamento di parte avveniva. Comunque siasi di Geri, di cui si tratta, non altro, oltre lo sterrìma suo , e quanto il Cittadini ci ha lasciato scritto, conoscesi. Sigillo IV. Stemma del Re di Aragona Iacopo II, dell’anno 1327, che impresso in cera rossa, nelle dimensioni quivi accennate (n. 4 della tav.), vedesi pendente da una pergamena, che si conserva nell Archivio domestico dei Marchesi Malaspina di Mulazzo in Pontremoli. Esso è unito alla pergamena mediante un nastro di seta giallo, tramezzato da una doga rossa, che erano i colori dello Stemma stesso, cioè pali rossi in campo d’ oro. La indicata pergamena è un atto di conferma di donazione in feudo, secondo l’uso d’Italia, del Castello di Ossolo e suoi borghi, delle curatorie o parrocchie di Oxontes 0 Monti di Figalina e Scaffellenga nell’ isola di Sardegna, fatte in favore dei Marchesi Malaspina di Villafranca in Lunigiana, Federico, Azone e Giovanni del fu Opizone dall’ Infante Don Alfonso, Generale del Re Iacopo d’Aragona, Pretore e Conte di Urgello in nome e commissione del detto Re, padie suo, nel tertio nonas februarj anno domini millesimo trecentesimo vigesimosexto (ab incarnatione'). Quando Re Iacopo, per la rinunzia dei suoi diritti sulla Sicilia, ottenne dal Pontefice Bonifazio Vili l’investitura del GIORNALE LIGUSTICO I39 Regno della Sardegna e di Corsica, comprese che non poteva ridur questo titolo all’ atto se non giungeva a cacciare dalla Sardegna coloro che principalmente la signoreggiavano, cioè i Pisani, per cui eccitò contro i medesimi i Fiorentini e i Lucchesi, e procurò con ogni via di blandizie rendersi benevoli i minori Signorotti dell’ Isola. Vi furono fra questi i Marchesi Malaspina, fra i quali Corrado figliuol di Opi-zone, che oltre le avite terre voleva tutelare il Giudicato di Gallura, che alla consorte sua Giovanna di Nino apparteneva (1); laonde riconoscendo 1’Aragonese i loro baronali diritti, nel 1309 coll’orgoglioso titolo di donazione concesse a lui ed agli altri consorti suoi in feudo onorevole, secondo 1’ uso di Barcellona i Castelli di Barce e Ossolo che nell’ I-sola stessa per antico retaggio degli avi già possedevano. Duraron molti anni le ostilità tra il Re Alfonso e i Pisani, quando, volendo il primo, espellere affatto i secondi dalla Sardegna, tenne pratiche colla Repubblica di Genova e con le famiglie dei Malaspina e dei Doria per essere in simile impresa soccorso ; e queste famiglie e i deputati delle città di Sassari nel 1323 presentandosi al campo aragonese, promessi a lui i richiesti aiuti, fedeltà gli giurarono. Pentitisi in seguito questi nuovi vassalli di un atto che grandemente poteva minorare i loro diritti, si dettero a favoreggiare i Pisani, e quei di Sassari in particolare nel 1325 contro il Re ri-bellaronsi ; ma veduto che dalle truppe regie era stato superato il Castello di Cagliari, e che in conseguenza di ciò i Pisani erano stati finalmente cacciati dall’ Isola, rimasti privi di ajuti, t-rattaron di pace, ed il Marchese Azone, che con Federico e Giovanni era succeduto al fratello: Corrado, (1) Vedi le mie Lettere a Pietro Fraticelli sopra alcune particolarità della vita di Dante — Lettera III, 25, 26, e Documento inedito del-1’anno 1301, 35) edizione di Firenze del 1865. 140 GIORNALE LIGUSTICO mancato tra il 1314 e il 1315, fu per tale oggetto inviato in Catalogna, ove nel 12 agosto 1326 pattuì, che il Castello di Ossolo e gli altri luoghi e terre, che i Malaspina possedevano in Sardegna, verrebbergli dal Re senza esclusione di femmine concessi in feudo perpetuo, secondo l’uso d’Italia; e che Γ Infante Don Alfonso, primogenito del Re stesso, ne avrebbe loro dato l’investitura, e il giuramento di fedeltà ricevuto ; dovendo però prima dell’ investitura consegnare i Malaspina, per certo tempo, come per sicurezza, nelle mani di Alfonso il Castello di Ossolo surriferito. Statuita questa concordia, il Marchese Azone mutò consiglio, ed essendone il Re stato informato, mentre ei trovavasi in Barcellona per far ritorno in Italia , lo fece sul fin d’ agosto arrestare, con ordine che fosse sostenuto fino all’ adempimento della promessa, e lo inviò intanto sotto buona scorta in Sardegna, ove fu chiuso nel Castello di Cagliari; avendo solamente ricu- D * perato la libertà nel dì 8 di agosto, quando alla parola data assentì, onde Ossolo fu tosto occupato dai regi, ed egli e i due fratelli Federico e Giovanni ebbero dall’ Infante Don Alfonso, nel 3 febbraio 1327, il diploma di cui è parola. Questa generosità degli Aragonesi non fece quietare i Malaspina, che seguitarono a dar molto da fare al Re Alfonso figliuolo di Iacopo ; ma succedutogli Pietro IV, detto il Cerimonioso, riconosciuta la sua signoria dai Gherardesca e dal Comune di Pisa, i ricordati Marchesi ancor si piegarono. Dopo questo tempo, essendo Giovanni Malaspina, per la divisione fitta con i fratelli, divenuto padrone libero ed esclusivo del patrimonio della Sardegna, che erasi residuato alle Castella e luoghi già ricordati, non dette al Re motivi di dolersi ulteriormente della sua fede ; chè anzi la devozione sua verso il Monarca Aragonese tant’ oltre si spinse, che non avendo prole, per essergli mancato un figliuolo naturale GIORNALE LIGUSTICO 141 per nome Antonio, venuto a morte nell' inverno dell’ anno 1343, nelle sue tavole testamentarie si lesse lo stesso Re Pietro suo erede. Ma i fratelli, pretendendo dover eglino succedere in quelli Stati, tentarono passare con molte genti della Lunigiana in Sardegna; per respingere i quali e sostenere i diritti della Corona, fu, al Re necessario ricercare il sussidio del Giudice di Arborea e di altri suoi amici e seguaci. Così alla morte di Giovanni, il dominio dei Malaspina in Sardegna, dopo circa due secoli, può dirsi avesse il suo termine ; imperocché, sebbene i conati dai fratelli di lui operati nel 1348 e 1349, producessero nell’anno 1352 la restituzione a loro del Castello di Ossolo, non si conosce che 10 conservassero e tramandassero ai successori, passato essendo in aragonesi famiglie. Sigillo V. Questo sigillo si conserva in bronzo nel Museo della Fraternità di Arezzo, e la prima volta fu osservato e curatone 11 calco dal sig. Abate Guido Ciabatti, come dalla scheda della sua collezione di Numismatica e Sfragistica segnata di N. 442. Rappresenta esso, come si vede nella tav. (n. 5), uno scudo da torneo pendente allo spino secco, sormontato da un morione, che ha per cimiero un drago, la coda del quale termina con una testa di serpe, avente sul dorso un ramo di spino secco, circondate tutte queste figure dalla leggenda φ. SPINETE MACHIOIS. MALESPINE. Appartenne a Spinetta di Federico Malaspina Marchese di Villafranca in Lunigiana, che aveva per stemma della sua casata lo spino secco, e che resse questo ed altri feudi aviti 142 GIORNALE LIGUSTICO dal 1368 al 1403 circa. Fu signor generoso verso i vassalli, essendo stato uno dei primi feudatarj dell’Italia centrale, che, con detrimento ancora del proprio interesse, la servitù personale nelle sue terre abolì; e fuori di esse, per valentìa di politica, scienza e armi, si meritò la stima dei Signori e delle Repubbliche con cui ebbe rapporti. Nel 1380 essendo Senatore di Siena, eletto Capitano di guerra di quel Comune e andato a oste con successo contro i Brettoni, o meglio contro la compagnia italiana detta di S. Giorgio, messa su dal Conte Alberico da Barbiano, che tante inquietudini alla Toscana arrecò, e condotte altresì felicemente a termine altre guerresche imprese, particolarmente sopra Molitorio, Castell’ Oltini, Cielle e il Cassaro, meritossi da quella città il donativo di un cavallo coverto col pennone, il quale constava della bandiera colla targa e arme del Comune medesimo , guiderdone che solamente si dava a chi della Repubblica si era altamente reso benemerito ; e collo scudo 0 targa suddetta dovè ancora essergli dato, se pur non lo assunse da se medesimo per ricordare la principale fazione sua contro i Brettoni, l’elmetto coll’impresa di S. Giorgio, che era appunto, come si usava in quei tempi e si continuò a rappresentare in appresso, un drago colla coda più 0 meno arroncigliata, or terminante con una punta di freccia, or con un altro capriccioso simbolo di ferità, e che doveva essere per conseguenza anche la insegna della Conjpagnia dal Conte di Cunio capitanata. Questo è quanto per la decifrazione e illustrazione del presente sigillo, è sembrato secondo la storia potersi accennare. Il drago già segno d’onore di questo Marchese Spinetta, con 1’ aggiunta delle ali, si vide dopo lui usato nell’ impresa da alcuni suoi condinasti, non solo dello stesso ramo dello spino secco, come nel sigillo IX seguente, ma da quelli al- GIORNALE LIGUSTICO tresì dello spino fiorito, offrendone F esempio un marmo esistente nel Museo Lapidario di Verona, riportato dal Litta nella sua Famiglia Malaspina; Tav. 1. (Continua) DIPLOMAZIA IN TEATRO Un fatto di poca importanza in se stesso, manifesta con quanto senno si governasse Carlo Emanuele III Re di Sardegna, ottimamente consigliato da un zelante segretario di stato, che coll’ opera sua potè antivenire guai, i quali sarebbero forse succeduti ; poiché ben si sa quante volte « poca scintilla gran fiamma seconda ». Le relazioni tra Genova e il Piemonte (e basti qui solo indicarlo), erano amichevoli più in apparenza che in sostanza, poiché la ruggine antica poteva facilmente degenerare in aperta rottura da un momento all’ altro. Ed alimento a dissidii perpetui erano le divisioni che mantenevansi fra i due stati, vuoi per riguardo alla diversità della forma di governo , vuoi per la contiguità dei territori e per i confini, perenne cagione di litigi. Anzi, già regnando lo stesso Carlo Emanuele III, eransi manifestate dissensioni non lievi, così nella guerra del I745> come allorquando quel principe diè la sua protezione ai Corsi, sollevati contro la Repubblica. Quindi è che acconciamente il Sainte Croix segretario dall’ ambasciatore francese a Torino scriveva a questo riguardo: « Si le Roi de Sardaigne et la République de Gênes entretiennent réciproquement l’une auprès de l’autre des ministres du second et du troisième ordre, cette correspondance est plutôt une suite des affaires du commerce et autres intérêts qui lient ordinairement les puissances limitrophes, que le fruit de la paix et de la concorde des deux nations. Il règne au contraire entre elles non GIORNALE LIGUSTIGO seulement cette jalousie et cette inimitié secrète trop commune à tous les états faibles et bornés, qui, par la position voisine de leurs domaines , sont plus à portée de se nuire; mais encore une aversion mutuelle, une haine ouverte et inveterée, dont l’attention et la sagesse des deux gouvernemens peuvent seules prévenir les dangereux effets. Les piemontais ne dissimulent en aucune occasion le ressentiment qu’ils conservent des efforts faits par le République de Gênes, pour seconder autant qu’il était en elle, l’établissement de l’infant en Italie, des facilités qu’elle s’empressa alors de procurer deux différents transports de soldats et de munitions de guerre envoyés de Barcelonne, et des levées même, qu’elle pensait de faire dans ses États pour recruter l’armèe espagnole. De leur coté les Génois n’ oublieront jamais les anciennes tentatives des ducs de Savoie pour conquérir leur Capitale , celles que ces Souverains ont plusieurs fois risquées pour enlever à la République le port de Savone et celui de Final, et enfin tous les fiefs qui ont passé sous la domination de S. M. Sarde lors de la paix de 1758 » (1). Ora dopo queste assennate considerazioni, scorgesi abbastanza quanto pregevole debba ritenersi il servigio reso dal segretario di stato di Carlo Emanuele III. Ecco pertanto il fatto. Nella estate dell’anno 1770 recitava al Teatro Carignano la compagnia comica di Pietro Rossi, nella quale era entrata da poco quella brava attrice, che fu la Teodora Ricci, rimasta celebre per gli amori con Carlo Gozzi e per gli scandali, onde fu cagione il disgraziato Pietro Gratarol. Questa comica aveva fatto conoscere il suo valore nell’ antecedente autunno a Genova, dove era divenuta moglie di Francesco Bartoli, il (1) Interessante documento pubblicato con annotazioni dal barone A. Manno nel tomo XVI della Miscellanea di storia italiana. GIORNALE LIGUSTICO *45 quale faceva le parti d’innamorato (i); nè smentì la sua fama a Torino, formando « il piacere dell’uditorio »; di guisa che partì «- colma di beneficenze per aver dedicato alle Dame ed ai Cavalieri una tragedia di M. Voltaire intitolata : Gli Scili, tradotta dal sig. d’ Orengo », nella quale sostenne con applauso la parte principale (2). Ma il Rossi aveva appunto in quella estate arricchita la sua compagnia di tre altri attori assai reputati; di Luigi Gritti, che si distinse nella maschera di Pantalone, di sua figlia Giulia e del costei marito Costanzo Pizzamiglio musici tutti e due, i quali cantavano delle operette giocose nella compagnia di Domenico Bassi , ed ultimamente avevano ottenuto il più grande successo al Teatro S. Cassiano di Venezia nella Villeggiatura di Mestre, composta dal Bassi stesso, con i recitativi in prosa secondo il costume francese (3). Era dunque questa la compagnia dei «commedianti italiani » che, al dire dell 'Almanacco dei teatri, rappresentava a Torino in quell’ anno P operetta buffa Gli amanti perseguitati (4). (1) Bartoli, Notizie isteriche de’ comici italiani, I, 80. Ecco qua l’atto di matrimonio (S. Sisto. — Matrimoni, 1750-1799, pag. 52): « 1769, die 5 Novembris. D. Bartoli Franciscus filius Severini, civitatis Bononiae, et D. Theodora Ricci filia Antonii, civitatis Veronae, ad praesens ambo degentes in nostra Parochia, omissis solitis tribus publicationibus de licentia reverendissimi Vicarii Generalis Josephi Francisci Caffarenae, per testes examinatos obtenta et paenes me servata, iuxta formam Sacri Concilii Tridentini, mutuo eorum consensu, singulatim interrogati, co-niuncti fuerunt in matrimonium per verba de praesenti coram me Antonio Emanuele Fornelli Priore huius ecclesiae; praesentibus testibus Petro de Rubeis qm. Cajetani et Angelo Bentivolio Cajetani, ambo venetis, ad premissa vocatis et rogatis ; eademque die in hac parochiali ecclesia nuptialem benedictionem susceperunt ». Questa ed alcune altre notizie mi vennero comunicate dall’ amico Neri. (2) Bartoli, op. cit. II, 107. (3) Ivi, 92, 93. (4J Almanacco dei Teatri di Torino per l’anno ij88 contenente la serie dei drammi rappresentatisi nel Regio Teatro dal ιηοο.....e quella dei drammi giocosi rappresentati nel Teatro di S. A. S. il Principe di Cari guano dal ij6$. Giorn. Ligustico. Attuo X. io 146 GIORNALE LIGUSTICO Or appunto in questo tempo avvenne il fatto che Lorenzo Carroggio, residente per la Repubblica di Genova a Torino (1), riferiva con le parole seguenti : « Non deggio omettere di ragguagliare a VV. SS. Serenissime tutto quanto è ne’ giorni scorsi accaduto per rapporto ad una Tragedia, intitolata la Calisla, tradotta qui recentemente dal francese; e che veniva dal traduttore accelerata alla pubblica rappresentazione, egualmente che alla stampa. Se non che il Capo degli istrioni prevedendo quelle conseguenze, che avrebbe potuto incontrare nel suo ritorno costà, e mosso forse anco dalla seria considerazione di quei più misurati riguardi, che si esigono da tutte le Nazioni Italiane, si recò in mia casa, e consegnandomi la traduzione medesima mi pregò di leggerla, per giudicare, se in essa si fosse incontrata cosa, che potesse poi dispiacere in codesta Dominante. » Viddi ben presto dalla lettura suddetta, quanto deforme sarebbe stato di permettergliene la rappresentazione, e venendo altronde fatto certo, che le rispettive parti della medesima eransi già distribuite a’ soggetti della Compagnia, che la stavano studiando, siccome dall’ altro canto che se ne accelerava egualmente l’edizione, credetti mio dovere di riparare li maggiori impegni per la via più sicura, recandomi, siccome feci immediatamente a questo R. Ministero, al quale unitamente alla predetta traduzione, esposi quanto era di dovere, ad oggetto che ne facesse quell’ uso, che giudicava più opportuno, a tenore del di lui onestissimo carattere, e delle più sode massime di sua lodevole moderazione. » Convenne di fatto immediatamente il degnissimo Sig. Cav. Raiberti nell’ equità di mie rappresentanze, e trovando (1) La prima volta che il Carroggio si. presentò al re Carlo « uscì dalla Reggia scordandosi del meglio, cioè di consegnare al Re la sua credenziale », dimenticanza accomodata dal Raiberti (Cfr. le note del Manno alla Relazione del Sainte-CroU cit. pag. 338). GIORNALE LIGUSTICO indecente, che venissero rappresentati sulla pubblica scena fatti, che sebbene antichi, non lasciavano d’ essere dispiacevoli, e nominate singolarmente qualche famiglie, contro la buona pratica e riserbo del Teatro Italiano, ricorse senza in-duggio al Re, cui espose tutto quanto occorreva in ordine al detto assunto. » Con non minor disapprovazione, fu inteso da Sua Maestà il riferito ragguaglio, onde partendo sempre dai sentimenti di sua rettitudine e buona corrispondenza, non solamente proibì la stampa e la rappresentazione della nominata tragedia, ma più ordinò che s’ingiungesse al traduttore di raccogliere tutte quelle copie, che ne aveva date fuori, per consegnarle unitamente, che rimanessero presso di se al Regio Ministro, colla minaccia di pubblica perquisizione. » Venni quindi io avvertito subito delle predette Reali provvidenze con viglietto di questo Segretario di Stato, e poiché l’esito di questo affare non potea desiderarsi più onorevole alla mia Rappresentanza, nè più corrispondente ai sentimenti del Re e del di lui Ministro, ho creduto mio dovere di esporne a VV. SS. Serenissime un dettagliato ragguaglio » (i). Ed il segretario di stato, dopo essersi mostrato tanto sollecito per impedire una rappresentazione, dalla quale si sarebbe potuto tenere offeso il governo di Genova, scrisse al marchese di Cravanzana (2), ministro residente del re presso la Repubblica, questa breve lettera: (1) Arch. di Stato di Gen. Ministri, Torino mazzo 19. '(2) Cioè Giambattista Luigi, secondogenito del marchese di Cravanzana Ignazio Amedeo, consigliere di finanze e contador generale. Cominciò egli la sua carriera colla legazione di Genova, dove dimostrossi cortese inverso i suoi compaesani. E siccome non è cosa troppo comune che un diplomatico sappia sempre esser tale, cosi a sua onoranza riferirò un brano di lettera che ci consente di rendergli prepostero elogio, e proporre I4§ GIORNALE LIGUSTICO Ill.mo Sig. Sig. Padrone Colendissimo, La compagnia de’ comici, che attualmente rappresenta nel Teatro Carignano, è stata ultimamente da qualcheduno richiesta, di rappresentar una di queste sere la celebre Congiura dei Fieschi tradotta dal Francese in Italiano. Il signor Carroggio avendone avuto sentore, me ne ha parlato, ed avendone io informato S. M., mi ha la M. S. messo nel caso di ordinare alla detta compagnia d’ astenersene assolutamente, la qual cosa non dubito che abbia potuto far conoscere al sig. Carroggio i riguardi, che in ogni occasione vuole S. M. che si abbiano per cotesto governo, ed il piacere eh’ Ella si fa di mostrarglielo. Per puro suo lume ho io stimato d inioi-marne V. S. Ill.ma, non essendo per altro di bisogno eh ella sia il primo a parlarne costi, onde non sembri che si voglia dare corpo alla cosa. il ministro e rappresentante del piccolo Re di Sardegna come esempio ai rappresentanti di grandi Re e di più vasti reami. Il testimonio oculare e che ci pone in grado di accennare questi particolari, è lo stesso notissimo Giuseppe Bareni, che il 25 settembre 1770 da Genova così scriveva ai suoi fratelli: « Il marchese di Cravanzana nostro inviato qui, gentilissimo cavaliere, mi ha ricevuto con somma urbanità. Voleva ritenermi a pranzo, ma un impegno preventivo non mi permise di accettare Γ offerta ». Nel 1779 fu generale delle finanze, e nel 1789 sottoscrisse con Vittorio Amedeo III la resa di Ceva. Caduto il Piemonte in mano di Francia, ei rifiutò di servire allo straniero, che allora lo ripagò con enormi contribuzioni. Alla ristorazione del 1814 s’ebbe la gran croce dei SS. Maurizio e Lazzaro ed il grado di consigliere di stato. Morì a Torino il 29 novembre del 1818 col rammarico dei poveri, di cui era stato largo benefattore. Istituì eredi due sorelle, figlie del suo fratello Filippo Nepomuceno ministro a Berlino, non avendo egli avuto prole dalla sua consorte Camilla Tizzone di Crescentino, che nel 1775 era stata dama di palazzo della Regina di Sardegna. GIORNALE LIGUSTICO I49 Nè avendo la presente altro effetto pregherò V. S. 111.™ di permettenti che mi ristringa a ripeterle Γ infinito ossequio con cui sono Di V. S. IH. Dev. Obb. Servo - . Raiberti. tonno li 18 luglio 1770. Da questi documenti si rileva che la tragedia indicata dal Carroggio col titolo di Calisto,, non era altro che la rappresentazione della congiura di Gian Luigi Fieschi, e non è certamente senza importanza il sapere che prima dello Schiller qualcun altro aveva pensato a questo soggetto. Ora bisognerebbe scoprirne Γ autore, ma io , per quanto abbia fatto, non ci sono riuscito. Mi era fermato un poco sul nome di Claudio Adriano Helvetius, sapendo com'egli, secondo si afferma, dettasse una tragedia intorno a quell’ argomento ; se non che le indagini eseguite mi condussero a ritenere, coi biografi di lui, che 1’ opera, se fu scritta, andò dispersa. Allora ricercai se innanzi al 1770 era uscita in Francia una tragedia intitolata La Calista, e mi fu agevole rilevare che due rie erano comparse, e tutte due imitate dall’ inglese di N. Rowe; l’una anonima nel 1750 attribuita al marchese di Mauprié, 1 altra dieci anni dopo per opera di Colardeau ; non ebbi modo però di accertarmi se queste tragedie avessero per soggetto la celebre congiura (1). Quanto al traduttore, non si andrebbe forse lungi dal vero, se si riconoscesse in quello stesso d’Orengo, che voltò in italiano l’indicata tragedia di Voltaire. In fine a titolo di curiosità noterò che il cavaliere Raiberti, non disdegnava poi di contrar parentado con taluno di quei comici stessi, che secondo l’uso d’allora, in cui ritenevasi ancora poco nobile la professione di comediante venivano chiamati (1) Barbier, Dict. des anonymes, I, 479. GIORNALE LIGUSTICO meramente istrioni (come avevali designati lo stesso Carroggio) confondendoli troppo ancora coi ciurmadori, giocolieri e buffoni. Eppure, vicende umane ! divenuto il Raiberti primo ufficiale della segreteria di stato per gli affari esteri, ammogliavasi colla cantante Mazzola. E questo matrimonio veniva dichiarato all’ epoca della sua morte, seguita nel marzo 1771 (x). G. Claretta. (1) Pag. 250 delle Annotazioni alla Relazione citata del Sainte Croix. Ma qui credo bene ad onore di questo personaggio aggiungere il seguente brano genealogico inedito della sua nobile famiglia Nizzarda , ricavato dalle mie memorie manoscritte. GIAN LUDOVICO RAIBERTI consigliere, senatore, avvocato patrimoniale e fiscale generale di Villafranca di Nizza con patenti 20 maggio 1637 > con Lucrezia degli Alberti. Gerolamo Marcello, giudice di^ Nizza con patenti 12 novembre 1764; con Barbara, fu uditore Flaminio Deoresti. Anna Margherita sposò l’avvocato Giovambattista Trincheri. Giovanni Ludovico, segretario di Stato degli Intani £OnP^ tenti 15 febbraio 1715, 1· uffiziale ib. notaio della Cor con patenti 23 settembre 1718 , consigliere di Stato, se natore in Savoia 1726 , poi presidente , indi reggen e cancelleria di Sardegna ; con Benedetta Veglio. Vittorio Amedeo, tenente colonnello dei dragoni leggeri di Sardegna , comandante di Sassari, colonnello di cavalleria e dragoni, ecc. Carlo Flaminio, dottore in leggi, segretario di Stato agli esteri 1732, primo uffiziale 1745, cavaliere mauriziano 12 gennaio 1762, sovrintendente ai regi archivi col titolo di presidente, ecc.; sposò Teresa Mazzola. __ I I Vittorio Amedeo, mag- Alessandro Anto- giore nel reggimento nio , "Nizza ; con Luigia Ma- nel ria Leotardi. cito. I maggiore regio eser- I Luigi Giovanni , Nepomu-ceno , dottore in leggi, creato barone il 22 maggio 1828 ; sposò Giulia del fu conte Laurenti. Gaspare Luigi, cavaliere mauriziano, capitano. Luigi, presidente reggente la cancelleria di Sardegna , presidente in 2.0 nel Senato di Genova , cav. gran croce dei SS. Maurizio e Lazzaro, *{* a Nizza 1817. Giuseppe Flaminio, barone, luogotenente nel battaglione dei cacciatori italiani nel 1821, ecc.; sposò Sofia Martini di Castelnuovo. GIORNALE LIGUSTICO VARIETÀ L’INSURREZIONE DI GENOVA DEL MAGGIO 1797 L autografo di queste due lettere, che vengono adesso alla luce per la prima volta, è posseduto dal mio carissimo amico Ab. Giuseppe Mattei di Seravezza, amoroso e diligente raccoglitore di patrie memorie, al quale mi è gradito esternare la più viva ed affettuosa riconoscenza, per la liberalità e gentilezza con cui mi fa parte de’ preziosi e interessanti documenti. Sono scritte da Luigi Fortini e indirizzate al cav. Francesco Felice Angiolini, seravezzesi entrambi. Gio. Sforza Genova, 27 Maggio 1797. Credo che da altri ancora sentirà la scena tragica seguita qui lunedì e notte susseguente. Lusingandomi, non ostante, che gradisca d avere un dettaglio più circostanziato , glielo scrivo. Lunedì mattina , alle ore 9 circa, si suscitò qui un insuirezione popolare, che, sebbene in origine composta di pochi, in meno di un’ ora si accrebbe il numero a circa tremila, che andando per la città attnippati gridavano : Viva la liberta, viva il popolo sovrano. In un momento il timore si sparse ; ognuno fuggiva alle proprie case ; le botteghe, le chiese, i magistrati furono immediatamente serrati : tutto annunciava spavento. Intanto gli insorgenti forzano la guardia di Banchi a depositare le armi, di cui si impadronirono. Lo stesso fecero al Ponte Reale, al Ponte Spinola, al Molo ed alla Lanterna ; avendo anche voltati diversi cannoni alla volta della città. Andarono in seguito alla Darsena, e libe- I52 GIORNALE LIGUSTICO rarono i galeotti per accrescer così il loro numero. Si presentarono alle carceri per scarcerare sopra a 500 detenuti che ivi erano, ma là furono respinti da un corpo di truppa, che v’ accorse e gli fece fuoco addosso. Intanto questo go verno non si perdè di coraggio, e delibero d invitar tutti i buoni cittadini a prender l’armi a difesa del proprio paese. Fu aperta per tale effetto la pubblica armeria, ed il popolo accorse in gran folla a prender 1’ armi, cosicché in meno di tre ore furono obbligati a ritirarsi nei diveisi posti, già da loro occupati. Sopravenne intanto la notte, ed i buoni genovesi tennero bloccati tutti i suddetti posti, non lasciando più uscire ed entrare nessuno; ed intanto si facevano dei reciprochi saluti coi colpi di cannone e di fucile, che fu il tristo divertimento di tutta la notte. Arrivo finalmente il giorno, ed i suddetti del buon partito si accinsero all irn presa di voler recuperare tutti i posti, il che fu eseguito con un continuo fuoco e da una parte e dall’altra, che costò la vita a non pochi, ma finalmente i ribelli doverono cedere, che parte furono presi e parte fuggirono, ed alle ore 9 del martedì tutto era in potere dei buoni. In tutto il detto giorno seguitarono i vittoriosi a girare per la citta colle armi in mano gridando : Viva Maria, viva il nostro Principe, che cau savano negli ascoltanti un mesto di terrore e di teneiezza. Nel mercoledì si vide ricominciare il buon ordine e la calma, non ostante però il Portofranco, le botteghe ed i magistrati subalterni stettero serrati, come lo sono sino al giorno d oggi. Si ianno intanto dei continui arresti di ogni ceto di persone, frati, preti, secolari, nobili e plebei; le carceri son piene. Vedremo che effetto produrà tutto questo. Hanno parimente una specie di Governo provvisorio, ossia una Giunta, composta di cinque nobili e quattro cittadini per prendete quelle provvidenze che crederanno convenienti alle critiche circostanze. Dio voglia che tutto sia finito, ma ne dubito. O GIORNALE LIGUSTICO IS? Io sono stato spettatore occulare di tutta la suddetta tragica scena, avendo passeggiata la città nel primo e nel secondo giorno, forse con poca prudenza, ed ora che vi penso a sangue freddo me ne pento, ma ormai è cosa fatta, ed è andata bene. P. S. Una cosa particolare a sapersi è che al Ponte Reale il direttore dell’ artiglieria era un frate, che da per sè maneggiava mirabilmente un piccolo cannone da campagna, tirando replicatamente alla volta della città. Questo fu preso e condotto in carcere ma così malconcio , che ieri finì di vivere. Diversi furono i frati ed i preti intrigati in quest affare. Genova , j Giugno 1797. Eccole la continuazione dell’ istoria di questo paese. Dopo l’insurrezione questo Governo spedì una deputazione di tre soggetti a Buonaparte, quali non furono ricevuti, ed intanto questo Ministro francese fece qui le tre seguenti dimande : scarcerazione di tutti i patentati francesi stati arrestati ; disarmo del popolo minuto, cioè dei facchini, carbonari e bar-chettaioli ; ed arresto di tre soggetti, che sono il sig. Nicolò Cattaneo, Francesco Maria Spinola e Lanfranco Grimaldo. Questo Governo fece subito eseguire le prime due dimande, ma procrastinava sulla terza. In conseguenza di che, giovedì al dopo pranzo il Ministro fece intendere alle LL. EE. che se dentro il giorno non fossero state compite le tre dimande, esso alle ore sette in punto sarebbe partito da Genova come nemico, e di fatti alle ore 22 italiane si videro alla poi ta di Feipult diversi legni di posta sui quali furono legati immediatamente i suoi bauli, e non mancava altro che pai tire, quando si presentò al detto Ministro il sig. Gio. Luca Durazzo che da parte del Governo 1 assicuro che tutto era stato decretato, ed allora furono licenziati i legni e portati i I52 GIORNALE LIGUSTICO rarono i galeotti per accrescer cosi il loro numero. Si presentarono alle carceri per scarcerare sopra a 500 detenuti che ivi erano, ma là furono respinti da un corpo di truppa, che v’ accorse e gli fece fuoco addosso. Intanto questo go^ verno non si perdè di coraggio, e deliberò d invitar tutti i buoni cittadini a prender l’armi a difesa del propiio paese. Fu aperta per tale effetto la pubblica armeria, ed il popolo accorse in gran folla a prender Γ armi, cosicché in meno di tre ore furono obbligati a ritirarsi nei diversi posti, già da loro occupati. Sopravenne intanto la notte, ed i buoni ^e novesi tennero bloccati tutti i suddetti posti, non lasciando più uscire ed entrare nessuno; ed intanto si facevano dei reciprochi saluti coi colpi di cannone e di fucile, che fu il tristo divertimento di tutta la notte. Arrivo finalmente il giorno, ed i suddetti del buon partito si accinseio all im presa di voler recuperare tutti i posti, il che fu eseguito con un continuo fuoco e da una parte e dall altra, che costò la vita a non pochi, ma finalmente i ribelli doverono cedere, che parte furono presi e parte fuggirono, ed alle ore 9 del martedì tutto era in potere dei buoni. In tutto il detto giorno seguitarono i vittoriosi a girare per la città colle armi in mano gridando : Viva Maria, viva il nostro Principe, che cau savano negli ascoltanti un mesto di terrore e di teneiezza. Nel mercoledì si vide ricominciare il buon ordine e la calma; non ostante però il Portofranco, le botteghe ed i magistrati subalterni stettero serrati, come lo sono sino al giorno d oggi. Si fanno intanto dei continui arresti di ogni ceto di persone, frati , preti, secolari, nobili e plebei ; le carceri son piene. Vedremo che effetto produrà tutto questo. Hanno parimente una specie di Governo provvisorio , ossia una Giunta, coni posta di cinque nobili e quattro cittadini per prendete quelle provvidenze che crederanno convenienti alle critiche circo stanze. Dio voglia che tutto sia finito, ma ne dubito. GIORNALE LIGUSTICO Io sono stato spettatore occulare di tutta la suddetta tragica scena, avendo passeggiata la città nel primo e nel secondo giorno, forse con poca prudenza, ed ora che λΰ penso a sangue freddo me ne pento, ma ormai è cosa fatta, ed è andata bene. P. S. Una cosa particolare a sapersi è che al Ponte Reale il direttore dell’ artiglieria era un frate, che da per sè maneggiava mirabilmente un piccolo cannone da campagna, tirando replicatamente alla volta della città. Questo fu preso e condotto in carcere ma così malconcio , che ieri finì di vivere. Diversi furono i frati ed i preti intrigati in quest affare. Genova , 5 Giugno 1797· Eccole la continuazione dell’ istoria di questo paese. Dopo l’insurrezione questo Governo spedì una deputazione di tre soggetti a Buonaparte, quali non furono ricevuti, ed intanto questo Ministro francese fece qui le tre seguenti dimande : scarcerazione di tutti i patentati francesi stati arrestati ; disarmo del popolo minuto, cioè dei facchini, carbonari e bar-chettaioli ; ed arresto di tre soggetti, che sono il sig. Nicolò Cattaneo, Francesco Maria Spinola e Lanfranco Grimaldo. Questo Governo fece subito eseguire le prime due dimande, ma procrastinava sulla terza. In conseguenza di che, giovedì al dopo pranzo il Ministro fece intendere alle LL. EE. che se dentro il giorno non fossero state compite le tre dimande, esso alle ore sette i'n punto sarebbe partito da Genova come nemico, e di fatti alle ore 22 italiane si videro alla porta di Feipult diversi legni di posta sui quali furono legati immediatamente i suoi bauli, e non mancava altio che partire, quando si presentò al detto Ministro il sig. Gio. Luca Durazzo che da parte del Governo 1 assicuro che tutto era stato decretato, ed allora furono licenziati i legni e portati i *54 GIORNALE LIGUSTICO bauli in casa, e vi furono portati non dai facchini, nè dai servitori, ma da una partita di persone del partito democratico, che in gran quantità si erano affollate avanti la casa di Feipult ed erano (per quanto si dice) disposte ad impedire la partenza del suddetto Ministro. Questo cangiamento cagionò un replicato evviva, ed il Ministro fu obbligato ad af-faciarsi alla finestra ed a gridare : evviva il popolo genovese. Dietro tutto questo gli aristocratici seguitano le loro premure; e questa notte hanno spedita una seconda deputazione di tre soggetti a Buonaparte. Sono partiti in compagnia di Feipult medesimo, ch'e dicesi averli promesso assistenza. Ve-dremo cosa gli riuscirà di fare. Intanto questa città è divisa in due parti, cioè aristocratici e democratici ; i primi sono assistiti dal popolo minuto, ma questo è disarmato ; i secondi hanno le armi in mano, ed hanno impostati diversi corpi di guardia in tutte le piazze della città, e girano delle continue e numerose pattuglie giorno e notte si dice per la pubblica tranquillità, ma intanto questi tali sono quasi tutti del partito democratico e di quelli stessi che fecero nascere l’insurrezione. Vedremo cosa sarà, ma io credo sicuramente che questo Governo anderà a cambiar forma sostanzialmente. Giovedì passarono di qui la madre e due sorelle di Buonaparte procedenti da Marsiglia e dirette per Milano. Queste sono le notizie le più vere. Delle chiacchere poi se ne fanno tante, che ci vorrebbe un quiderno di carta per scrivere quelle di un giorno. GIORNALE LIGUSTICO 155 NECROLOGIA GIO. BATTA TOSELLI Il giorno 22 dello scorso marzo spirava in Nizza sua patria , nella grave età di settantott’ anni il cavaliere Gio. Batta Toselli, autore di pregiati lavori storici sulla città e contado di Nizza. Si hanno di questo coscienzioso scrittore un’ accurata biografìa del maresciallo Massena; un ampio dizionario biografico degli uomini illustri, nati nella regione nicese col titolo: Biographie niçoise ancienne el moderne, Nice, 1860; 2 vol. in 8.°, corredato di molti ritratti in litografia; un Rapport d’une conversation sur le dialect niçois; e finalmente un Précis historique de Nice, che raccoglie in più volumi il materiale d’importantissimi avvenimenti, di cui è stato teatro questo estremo lembo di territorio italiano.· Peccato che il Toselli, il quale era di nascita e d’aspirazioni italiane, e che meritamente era stato, fregiato delle croci mauriziane e della corona d’Italia, non abbia pagato al paese natio il più bell’attestato d’affetto, che in Nizza si potesse desiderare,,quello cioè di valersi ne’ suoi scritti della lingua nazionale ! Nè senza ragione abbiamo scritto peccato; poiché mentre i primi libri che parlano di storia nicese e di quella delle Alpi marittime, sono scritti in lingua italiana e si fregiano dei bei nomi di Onorato Pastorelli e di Pietro Gioffredo; mentre nei primi 'anni del presente secolo l’Italia tutta piangeva la perdita del poeta Gian Carlo Passeroni nizzardo, autore del Cicerone; gli storici che seguirono Durante e Toselli, la poetessa che cinse con plauso 11 poetico alloro , Agata Sassernò, scrivendo le loro opere in lingua francese, hanno GIORNALE LIGUSTICO conferito a far credere e far ripetere da molti, che non sia terra italiana quella che ha prodotto Caterina Segurano e Giuseppe Garibaldi. Girolamo Rossi. SPIGOLATURE E NOTIZIE Nel Fascicolo di Marzo del Giornale Araldico Genealogico che si stampa a Pisa, il Nobil sig. Ferruccio Pasini ha pubblicato alcune osservazioni sull’ arma di Cristoforo Colombo. Egli prese argomento a ciò dai quesiti proposti dal conte Nasalli di Piacenza, il quale fondandosi sopra alcune parole del Charlevoix, voleva dall’ arma del grande scopritore dedurre argomenti in favore della di lui origine Piacentina. Punto di partenza delle osservazioni del sig. Pasini è il diploma di concessione di stemma fatto a Colombo dai Reali di Spagna addì 20 maggio 1493, che riporta in disteso, e da cui appare chiaramente quali fossero le figure dategli in aggiunta alla sua arma di famiglia , la quale, se nel diploma è accennata, non è menomamente descritta ; dimostrando con ciò come errarono tutti coloro che vollero blasonare 1’ arma di Colombo, e facendo sfumare le pretese dei Piacentini appoggiate su questa. Passando poscia ad esaminare quale poteva essere 1’ arma propria di Colombo, mediante opportune osservazioni e confronti, opina a favore di quella portata da una famiglia, di cui cita un documento rogato in Chiavari nel 1478, e crede ravvisar traccia di essa arma, nelle figure che internano in punta lo scudo di Colombo. L’ egregio autore non si dimostra persuaso della nascita di lui in Genova, ma ammette la sua origine ligure, propendendo a farne derivare la famiglia da Terra rossa, che per isbaglio confonde con Monterosso della riviera, mentre è luogo in Valle di Fontanabuona, sotto la dizione di Chiavari. Non si riesce però a comprendere come dopo tutto ciò, nella conclusione del suo scritto, accennando alle città e alle terre che si contendono l’onore di aver dato i natali a quel Grande, ne possa annoverare quali del Genovesato alcune , come Modena, Pradello, ecc. che mai ne fecero parte. » GIORNALE LIGUSTICO _I *57 Nella « Nuova Antologia - (Marzo 18B3) col titolo: Un italiano alla corte di Spagna nel secolo XVIII il conte Emanuele Greppi giovandosi delle pubblicazioni del Campori, del Litta , del Jimenez, e di una serie d’importanti lettere autografe delle quali è fortunato possessore, rifà la storia del viaggiatore Alessandro Malaspina di Mulazzo recando molta luce così intorno ai suoi studi ed alle missioni che gli vennero affidate , come intorno alle vicende della sua vita, ed agli intrighi di corte, dei quali fu vittima. Sappiamo però che il eh. autore intende ad una più larga pubblicazione di tutte le importanti lettere del Malaspina , e delle notizie sul fratello di lui Giacinto, morto a Venezia nel 1800 prigioniero dell’ Austria. ff TV Nella Rassegna Nazionale (Aprile 1883) fra i documenti pubblicati da Cesare Cantù col titolo: « Roma e il governo Italo-Franco dal 1796 al 1815 » *· troviamo alcune lettere del Cornetti, nelle quali dà particolari ragguagli della dimora di Fio VII a Savona. **·* 1 Negli Atti e Memorie delle RR. Deputazioni per le provincie Modenesi e Parmensi (serie III, vol. 1, Par. I.) il sig. Antonino Bertolotti pubblica una serie d’ estratti di documenti intorno agli « Artisti modenesi, parmensi e della Lunigiana in Roma nei secoli XV, XVI, e XVII ». *** Vediamo citato il seguente articolo: I. T. Bent Correspondance of Nic. Paganini, comparso in aprile del 1882 nel Frazer’s Magatili, nel quale « si danno, giovandosi delle lettere del P., molte notizie biografiche su di esso ». Si è forse servito 1’A. delle Imlreviature del Bel-grauo ? * w ·Χ· Riproduciamo dal Giornale degli eruditi e curiosi (Anno I, n. 23 e 24) il seguente cenno biografico dettato dal cav. G. B. di Crollalanza: « Bene-detto-Francerco Boselli nacque in Savona il 30 Dicembre 1768 da una famiglia di origine bergamasca che da più secoli vi si era stanziata. Suoi genitori furono Francesco Maria ed Anna Lanza. — Da un certificato rilasciato il 7 Gennaio 1806 da Federico Raimondo Archivista della Prefettura di Genova, si apprende che Benedetto Boselli fu nominato il 26 Agosto 1797 Commissario per l’accettazione dell’atto costituzionale; il 18 Dicembre 1799 amministratore 'della guerra e della marina; il 26 Gennaio 1800 Commissario generale delle relazioni commerciali e Mini- i58 GIORNALE LIGUSTICO stro presso la repubblica Batava. — Questi sfati di servizio sono confermati nel Bollettino ufficiale del Ministero dell’interno (anno 1807), in occasione della sua elezione come deputato della Liguria al Parlamento di Parigi. — Il 10 Novembre 1809 fu nominato Presidente del Collegio elettorale di Montenotte che convocò il 10 dicembre, e ne aprì le sedute sotto questa data in una sala della Prefettura di Savona con un discorso informato a’ principii francamente liberali. Gli fu risposto dal Prefetto del dipartimento signor Chabrol, Conte dell’ Impero. Benedetto Boselli rimase deputato fino al 1814. A quest’ epoca la Liguria fu separata dalla Francia, ed il Boselli non sostenne più incarichi pubblici, tenendosi pago di mantenersi in qualità di Amministratore della banca di beneficenza a Parigi. — Nel 1807 aveva egli sposato in questa città la giovane vedova Godon de Frileuse , nata Giustina Prévost, dalla quale.ebbe due figli; il più giovine dei quali sposò la figlia del Barone Lespèrut che era stato collega di Benedetto Boselli alla Camera dei Deputati, ed il maggiore trasse in moglie la signorina Jomard figlia del celebre geografo di questo nome e membro dell’ Istituto. Dopo il 1814, per occupare i suoi ozii, Benedetto Boselli fece frequenti viaggi in Ispagna, dove passò molti de’ suoi ultimi anni. — Scrisse molti opuscoli, con uno de’ quali, che ha il ticolo di Nola di un italiano agli alti Principi alleati sulla necessità di una lega italica per la pace europea (Parigi 1814, Didot in 8 di 46 pag.) e che io conservo fra le mie miscellanee, egli domandava all’Europa una costituzione federale per l’Italia. — Benedetto Boselli mori a Parigi il 6 Marzo 1826. Egli era decorato dell’Ordine dello Speron d’oro ». I chiar. Amari e Schiaparelli hanno pubblicato la traduzione di quella parte del « Libro del Re Ruggero » compilato dall’arabo Edrisi, che riguarda l’Italia. Indicando i luoghi delle riviere liguri dice: « Da Hyares ad Albenga trentacinque miglia. È forializio difendevole e rocca elevata che sovrasta a campi coltivati, non interrotti, con produzioni d’ogni maniera. Da questa alla città di Savona, città bella in luogo delizioso, molto fertile e ricco d’alberi, trentacinque miglia. Da Savona a Genova venticinque miglia. Genova è città antica, di fondazione primitiva, belli ne sono i dintorni ed i passeggi, eccelsi gli edifizii, ha frutta in abbondanza, molti campi da seminare, villaggi e casali e giace presso un piccolo fiume (fiume Bisagno). È popolata da mercanti ricchi e agiati che viaggiano per le terre e pei mari e si accingono alle imprese facili e difficili. Essi hanno naviglio GIORNALE LIGUSTICO *59 formidabile, conoscono le arti della guerra e del governo e sono popolo di altissimo spirito fra tutti i Rum (romani). Da Genova a Porto Venere settanta miglia. Porto Venere è fortalizio ragguardevole, abitato e difeso. Da questo a Luni dodici miglia. La città di Luni è posta alla marina, tra campi da seminare e villaggi ». È assai strana l’affermazione che Genova ha « molti campi da seminare », essendo invece per la sua posizione povera di territorio. La menzione che qui si fa di Luni prova come intorno al x 154, tempo in che fu scritta 1’ opera, esisteva ancora, ed era sempre di qualche importanza. Rilevo poi un evidente errore là dove più innanzi misura il tratto fra Genova e Luni in miglia quaranta ; mentre qui con maggior verità ne ha messo 82. Toccando della strada da Genova per Lombardia dice : « Chi desidera percorrere questa strada va dalla città di Genova al castello di Borgio (?) per due giornate » ; questo Borgio potrebbe essere Bobbio. *** Nuove pubblicazioni. — È uscito il primo fascicolo del Giornale storico della Letteratura italiana (Torino, Loescher) diretto dai eh. prof. Renier, Graf, e Novati. Risponde alle promesse fatte nel programma. Oltre gli articoli assai notabili ci piace rilevare l’importanza della parte bibliografica, nella quale è larghezza di trattazione, diligenza e critica seria ed imparziale. Lo spoglio poi delle pubblicazioni periodiche così italiane come straniere , è benissimo fatto e rende un grande ser-vigio agli studiosi, perchè oltre all’ indicazione degli articoli se ne dà anche un breve ma chiaro cenno ; questa parte costituisce una vera novità essendo questo il primo giornale in Italia che Γ ha introdotta. L’editore A. G. Morelli d’ Ancona pubblicherà in breve: Wagner ed i Wagneristi di Francesco Floi'imo; Studi sulla storia letteraria dei primi secoli di Alessandro D’Ancona: ha poi in preparazione: La vita e le opere di Dante del Wegele tradotta dal prof. G. Fenaroli, ed un volume Sulla società lombarda del sec. XVIII di Francesco Novati. A Firenze 1’ editore Sansoni ha pubblicato le Liriche edite ed inedite di Faijo degli Uberti. Testo critico preceduto da una introduzione sulla famiglia e sulla vita dell’ autore per cura di Rodolfo Renier. Lavoro veramente magistrale, e che discute ed dilucida molteplici quistioni di storia e di letteratura. ΐ6θ GIORNALE LIGUSTICO BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO G. Doneaud. Il Commercio e la navigazione dei genovesi nel medio-evo. Oneglia, Ghilini, 1883. Ci rallegriamo coll' egregio autore, perchè mostra coni’ egli conosca ed apprezzi F importanza dei documenti, alla custodia ed all’ordinamento dei quali è per ufficio deputato. I tesori degli archivi debbono essere recati a conoscenza degli studiosi, e chi può meglio farlo degli archivisti? Ora il Doneaud mandando in luce una serie di documenti affatto inediti , ed altri citandone o riassumendone nel testo, ha fatto cosa utile agli studi della nostra storia. Capirà facilmente 1’ autore che noi non consentiamo in alcune delle sue opinioni, le quali non possiamo qui discutere, perchè ci trarrebbero per le lunghe ; solo vogliamo suggerirgli che per la retta significazione di certe parole, e per la determinazione di certi uffici potrà giovargli il Dizionario del linguaggio storico ed amministrativo del Rezasco ; libro che non dovrebbe mancare in un archivio, e del quale potrebbero fare lor prò non solo gli impiegati ma anco gli studiosi ; poiché, come si sa, questi hanno diritto all’ uso della biblioteca dell’ archivio stesso. L’ « Iter Italicum » del dottore Giulio von Pflugh-Harttung presentato alla R. Accademia delle scienze di Torino dal socio Antonio Manno con una lettera informativa di Carlo Cipolla. Torino 1883. Con acconcie parole veniva presentata dal barone Manno alla R. Accademia, la prima parte dell’opera importantissima del dotto professore nella Università di Tubinga, e insieme egli leggeva una dotta lettera del conte Cipolla, colla quale rilevando il buon servizio che recherà agli studi medioevali questo lavoro quando sia compiuto, si distende alquanto intorno al metodo seguito' dall’ autore nella distribuzione delle parti e dei documenti, e nota alcune mende che ci sembrano giustamente rilevate. Fra le bolle degne di speciale ricordanza il Cipolla novera quella del « 20 marzo 1137 colla quale Innocenzo II ordinò ai Pisani di pacificarsi coi genovesi e tracciò le condizioni della'pace; un’altra del 14 febbraio 115 5 di Adriano IV riguarda il danno, che un cittadino genovese aveva cagionato ad un cittadino romano, e ritiene obbligati i Genovesi al risarcimento; lo stesso papa a di 7 giugno 1162 parlò ai Genovesi della pace fra essi e il Conte di S. Egidio ; e il suo successore Alessandro IV verso il 1166 confortò i consoli e l’arcivescovo di Genova a difendere la Sardegna contro i Pisani ». Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 161 DUE BOLLE PONTIFICIE Una preziosa collezione di documenti storici (i) posta in vendita gli scorsi mesi a Parigi, comprendeva due bolle originali pontificie riguardanti cose genovesi del medio evo. L’illustre Conte Riant dell’ Instituto di Francia, già nostro amico, ora quasi concittadino, acquistava i due documenti, e ne faceva dono cortese a questa Biblioteca Universitaria, che già possiede altri simili cimelii ; facendo cosi una graziosa risposta alle congratulazioni e al benvenuto datogli con quel-1’ occasione. Basta volgere un’ occhiata a questo carte, per riconoscere che anticamente esse doveano far parte dell’ Archivio segreto della Repubblica genoyese. Oltre alla sostanza, ce lo dice la forma materiale; indicatovi a tergo il consueto numero del cassetto (cantera) dell’ antico armario ove le pergamene si conservano; notatovi per una di esse il Libro Iurium ove ne era copia, e per altra la non trascrizione sua in siffatti Libri o Registri. Ognuno sa quante e quanto disperse e sperperate le scritture del nostro Archivio in tempi andati, parecchie delle * quali meno infelicemente riposano ora in altri Archivi e Biblioteche pubbliche e private a Genova stessa, a Torino, a Roma, a Parigi. Una dichiarazione giudiziaria d’ un Archivista del principio di questo secolo , che si conserva in una stampa alla Universaria (2), rende conto del modo onde fu (1) Archives historiques de la Cour de S.t Cyreu Talmondois, nn. 2429, 2439 autographes. (2) In un Sommario di documenti per una causa Durazzo. Giorn. Ligustico, %Anno X. 11 GIORNALE LIGUSTICO trattato ΓArchivio genovese sotto i Governi provisorii della Repubblica Ligure. Quanto alle due pergamene, di cui è discorso, si può giudicare che esse mancavano già dal loro posto a Torino, prima dell’ ultimo ritorno dell’ Archivio segreto a Genova. Difatti l’illustre Ricotti, di recente e compianta memoria, quando si fece editore del Libro Iuriim, accogliendovi una delle due carte trascritte in esso Libro , non notò , come era solito, l’esistenza contemporanea nello stesso Archivio del documento originale. Abbiamo in questi documenti due bolle di un Papa Alessandro. Coll’ una di esse in data del 12 ottobre da Benevento si ingiunge ad A. Re di Gerusalemme di restituire l’iscrizione da lui fatta cancellare nel Tempio (volea dire al S. Sepolcro), la quale dichiarava i privilegi dei Genovesi in Terrasanta. Colla seconda bolla data dal Laterano il 26 aprile il Papa prescrive ai Tempiarii e al loro Gran Mastro di convenirsi amichevolmente a riguardo di certe loro case fuori della città d’Archas , che 1’ Arcivescovo e clero genovese pretendevano costrutte sopra il proprio terreno. Le leggende sui cartoni della collezione venduta mostrano che colà se ne riferiva l’attribuzione ad Alessandro IV (1254-61). Ma ciò è erroneo senza dubbio. Dapprima è ormai ammesso dai dotti, che le bolle mancanti ( come queste) dell’ anno del pontificato sono anteriori al febbraio 1188, quando tale utile innovazione fu introdotta e poi continuata. In secondo luogo, almeno quanto alla bolla indirizzata al Re A., non può ascriversi ad un tempo, quando non vi era un Re il cui nome cominci con quella iniziale; anzi nemmeno più Gerusalemme apparteneva ai Crociati: Per contrario regnava a tempo di Alessandrio III il Re Amalrico, e il Papa nell’ottobre fra il 1167 e il 69 dimorava appunto GIORNALE LIGUSTICO a Benevento. Già anche il sovralodato editore del Libro Iu-rium apponeva a questa carta (I, 228) la data del 1167 (1); tuttavia non c’ è criterio sufficiente ad esclùdere la possibilità, che essa si possa riferire piuttosto ad uno dei due anni seguenti; ed anzi il Langer (2)· preferisce il 1169 come il più prossimo alla morte del Re, argomentando da un passo analogo del Cafìaro (ed. Pertz, p. 51) (3). Ancora più largamente ondeggia nel tempo la carta ai Tempiarii. Alessandro III (1159-81) dai Registri dell’Iaffé appare dimorante al Laterano in aprile tanto del 1166, come nei tre anni seguenti, e poi anche nel 1179. Forse, come stima probabile il Conte Riant, la nostra bolla inedita appartiene all’ ultimo degli anni testé indicati, perchè coinciderebbe coll' anno, giorno e luogo in cui il Papa scriveva al Re Balduino IV figlio del predetto Amalrico , intimandogli di adempiere egli ciò che il padre non aveva eseguito , la reintegrazione al S. Sepolcro della iscrizione a lettere d’oro accennata di sopra (4). La città d’ Archas al di fuori della quale erano le terre genovesi, non è nemmeno essa facile a ben determinare. A noi sembra che si tratti di Archas nel Comitato di Tripoli di Siria e a cinque miglia da questa città. Arcas è nota negli storici delle Crociate per 1’ oppugnazione fattane nel 1099 e 1108 dal Conte Raimondo di S. Egidio. Le terre pretese dal clero genovese fuori della città, probabilmente faceano parte (1) La carta inserita nel Liber Jurium stampato è tratta non dal septimus Iurium C. 67, a cui accenna la bolla originale e che ora si conserva a Parigi, ma dal Cod. A, cioè dal primo volume membranaceo degli lurium che si conserva a questa Universitaria. (2) Langer, Politische Geschichte Genuas un Pisas in XJ1 Iahrbundert Leipzig, 1872. (3) Cfr. Atti Soc. Lig. Stor. Patr. I, 49. (4) Monum. Hist. Pat., lurium I, 309. I 64 GIORNALE LIGUSTICO implicita di quella donazione fattagli dal Conte Bertando figlio di esso Raimondo e confermata da Alessandio ITI il 13 gennaio 1182 (1). DIREZIONE· I. Alexander episcopus servus servorum dei. Rarissimo in Chiisto filio A. Illustri Ierosolimorum Regi, salutem, et apostolicam benedictionem. Dilecti filii nostri Ianuenses cives transmissa nobis significatione monstia mnr quod cum ius et consuetudines quas in regno tuo habere debebant, ad perpetuam memoriam futurorum in Templo litteiis auieis scripte fuis sent, tu eas inde deleri fecis,ti. Illi vero timentes sicut poterant de iuie ti mere, ne ex destructione litterarum illarum ius suum et consuetudines deperirent, a nobis cum instantia postularunt, ut super hoc regie celsitu dini scriberemus. Nos autem eorumdem civium instanti postulatione de victi et consideratione gratissime devotionis et multiplicis obsequii quod nobis in urgentis necessitatis articulo oportune satie et fideliter im penderunt. nichilominus inclinati, volentes honori et exaltationi tue et regni tui commodis studio totius attentionis intendere et incrementa que eidem regno iam ex eorum labore et industria prevenerunt. et potissimum amodo provenire poterunt, attendentes: excellentiam tuam per apostolica scripta monemus, hortamur atque cousulimus. quatenus memoriatas lit teras aureas pandentia regie discretionis reformari faciat, et iura et con suetudines quas predicti cives in regno tuo habuisse noscuntur, integras eis et illesas conservet, ne occasione ista inter te et ipsos scandalum possit alicuius dissensionis ^mergere, et tu eorum obsequium et devo tionem ammittas. quod tibi et regno tuo fore credimus valde dampnosum. Datum Beneventi IIII Idus Octubris. II. Alexander episcopus servus servorum dei. Dilectis filiis, magistro et fratribus domus militie templi. Salutem et apostolicam benedictionem. Venerabilis frater noster Archiepiscopus, et dilecti filii nostri canonici Ianuenses proposita nobis conquestione monstrarunt quod vos extra civitatem Archarum in proprio fundo Ianuensis ecclesie, domos quasdam quod vobis non licui auctoritate propria construxistis. Quum igitur sic . (1) Iaffè, n. 9337; Ughelli, Jtal. Sac. IV, 872, ma coll’anno alla fiorentina. GIORNALE LIGUSTICO vobis deferre volumus ut aliis in sua iustitia non patiamus iniuriam irrogari. discretioni vestre per apostolica scripta mandamus atque precipimus. quatenus si res ita se habet, cum prefatis Archiepiscopo et canonicis supra iam dictis domibus tali modo convenire curetis, quod ipsi non possint habere iustam materiam conquerendi, nec vobis debeat merito derogari. Datum Laterani VI Kalendas maij. ANSALDO CEBÀ \ (Contînuaz. v. pag. 78). IV. SOMMARIO. Ansaldo Cebà compositore di versi erotici. — Suo ritratto autografo. — Il bel mondo d’ allora. Parentela del Cebà. — Scusa, intendimento e gratitudine dell* Autore. — Di Nicolò padre d Ansaldo. — I Doria e gli Spinola. — Due Grimaldi lodati dal Cebà, Onorato prof, in Padova. Indole del Cebà. — Sua relazione con Fabrizio Cibo e D. Angelo Grillo. — Suoi lacci amorosi· Ritratto chiesto a Bernardo Castello, amico dei letterati. — Genova fiorente. — Sperone Speroni lodato dal Cebà. — Lettere amatorie. — Educazione e istruzione femminile. Censura dei libri in Genova. — Dall* erotico al turpe e al sangue. — Iacopo Mancino. Edizione padovana delle rime erotiche del Cebà. — Il Petrarca. — Madrigali. — Canzonette. Il Cebà e il Chiabrera. — Il Ronsard. — Costumi del tempo rilevati dalle rime del Cebà. Sue probabili avventure amorose. — Effetti delle sue rime erotiche. — Probabile sua rottura col P. Grillo. — Religiosi intesi alla sua conversione. — Sua riprovazione di quel parto giovanile. Ritornando al nostro Ansaldo, e seguendo, come mi sono proposto nello svolgerne la vita , Γ ordine cronologico risultante dalle pubblicazioni da lui fatte colle stampe, la cui sola data, si può dire, piacque a lui di notare; dobbiamo considerarlo come compositore di versi erotici. Era questo a’ suoi di un genere di scritture molto in voga, e attissimo a conseguire quel-Γ aura di nomea, di cui già lo vedemmo sì vago. Lo confessò più tardi egli stesso nella canzone, che senza titolo, si legge fra le Rime· da lui pubblicate in Roma nel 1611 (1), (1) Pag. 11 —18, in 4.”. GIORNALE LIGUSTICO della quale giova conoscere i tratti, che quasi ce lo dipingono. Egli, allora pentito, cosi parla a Dio : Tu di nulla mi festi un uom fedele nobil di patria, e di progenie antica ; e senza oprar, che si disdica a gentil mano, e spenga il lume, o cele supplisti il viver mio senza querele udir giammai eh’ ei mi venisse meno ; e senza dar cagion, che ’1 troppo, e ’l vano mi rallentasse il freno, che sostien Γ alme in sul camin Cristiano ; ma tenendo lontano da me quel, che ritrar da te potea contentasti ’l mio cor di quel, c’ havea. E col medesmo amor ne troppo forti testi le membra mie, ne troppo inferme : che Tesser troppo armato, o troppo inerme potea di dritti i miei pensier far torti, pallidi furo i miei sembianti, e smorti, severo il guardo, e fosco il pelo e folto, non però che coprisse alma villana ; ma perche ’l proprio volto, se mai destasse in me bellezza vana qualche voglia men sana al lusingar de’ miei mal nati ardori opponesse- 1’ horror de’ suoi colori. Da P altra parte i tuoi celesti fiumi con più splendida vena entro ’l mio petto il cor m’ havrian rigatole l’intelletto di quelle gratie, ond’ i tuoi cari allumi, se non che’ 1 vaneggiar de’ miei costumi ingiuria fece ai gloriosi semi, che riccamente in me da te cosparti novi gradi e supremi darmi potean ne le scienze, e 1’ arti ; Di magnanime voglie, e signorili tu ben piantasti ’n me ferme radici ; GIORNALE LIGUSTICO ma per domarne i miei maggior nemici fur però scarsi i suoi contrasti, e vili. Feroce è ver che fu quel primo assalto , che diede al petto mio furor lascivo, e eh’ oltre ogni credenza ardente e vivo lo sguardo fu che ne’ miei versi esalto : ............... di vile, e poca terra quasi con nuovi incensi, e nove preci a 1’ alma innamorata idol mi feci. Gloria stimai leggiadra donna, e bella (dirol coni' huom, che ne sospira, e piange) quasi adorar, come si studia et ange adorar Dio di Dio 1’ anima ancella pensai, che le catene e le quadrella , che mi vernano al cor da'gli occhi suoi quasi nobil corona a le mie chiome fra i più sublimi heroi mi dovesse fregiar di luce il nome ; e le mie forze dome dal folgorar d’ un guardo insidioso a le future età render famoso. Ci si apre qui un vasto campo a percorrere ; il bel mondo d’allora, che potrebbe offrire allo studioso lettore quadri, più che dilettevoli alla futile curiosità , istruttivi al morale filosofo. Non essendo io però nè letterato nè filosofo di vaglia, m’ è forza contentarmi (e spero non dispiacerà agli studiosi) di seguitar buonamente il metodo intrapreso , conveniente , se non erro, a questa fatta di studi. Dirò dunque, dietro la scorta dei loro scritti, ed ove mi venga fatto , colle stesse loro parole, le vicende di quei nostri predecessori, ai quali, in ragione dei tempi, toccò, per acquistar nome, e taluni anche danaro, correre quell’arringo; e se il quadro di quei tempi i6S GIORNALE LIGUSTICO riuscirà così meno artistico, avrà, mi lusingo, il vantaggio d’ esser più vero. Gioverà innanzi tutto ricordare al lettore che il regno della galanteria , succeduto alle corti bandite dei feudatari!, iniziato in Francia specialmente dal cavalleresco Francesco I, s era venuto dilatando colla velocità, anzi colla foga di c'° che al mondo piace, anche in Italia , dov’ era secondato dai potenti per loro interesse, e alimentato, come sempre, dalla straordinaria agiatezza di molte ricche famiglie. Abbondavano queste in Genova, più che altrove, pei grossi proventi dei loi o prestiti ai re di Spagna in ispecie ; e benché meno altrove si abbandonassero a questa passione allor dominan , non lasciavano di coltivarla più che permettesse la severa morigeratezza, che volentieri si lasciavano i più persuadere dai Religiosi, anche perciò favoriti, i quali si studiavano tutto potere di compier F opera bandita dal Concilio Trento contro F invadente scostumatezza. In questa lotta dello spirito contro la materia, comm dal Savonarola con voce più libera e zelante che piu^e ' 3· piohcua, seguitata colle armi e colle stragi in Francia, sorto uno stato di cose in cui si poteva scorgere a lT pena quale delle due parti tenesse il campo della vita soci ^ Il rinascimento della filosofia con Pomponazio in Itali3· > ^ riforma religiosa con Calvino in Francia, aveano intr # (1) Epist. postar, pag. 140-144, ex Carbonaria, XVI. Kal. Quinci. 1619. (2) Pag. 76. (3) pag- i83· j82 GIORNALE LIGUSTIGO pentì, non avendo quel sonetto ristampato nel 1611. Ugual sorte pare avesse quello per Giason de Nores, che comincia — Nel gran contrasto. Dei diversi ritratti che si fece fare dal Castello (1), uno, a giudicarne dall’ edizione padovana, mandò a Lidia con un Sonetto, riprodotto con qualche variante nella romana, dove il primo verso del secondo quartetto comincia — Hor vengo Paolo a te; mandami amore, il qual Paolo non vi dice chi sia, e non era certo quello Aicardo dotto ospite di Gio. Vincenzo Pinelli, di cui parlerò in appresso, donato aneli’ egli, giusta la suddetta edizione romana, d’ un ritratto col sonetto che comincia — Non pur V imagin mia verace e vìva (2). Nè di lui nè del Pinelli si ritrova nell’ edizione padovana la minima allusione, riprova chiarissima del quanto fosse quel degno Patrizio nemico anche delle semplici occasioni di amorose frascherie, come è a vedere nella vita pubblicatane dal Gualdo col latino del Pignoria (3). Ben lodò del suo ritratto il Castello coll’ altro sonetto — In questa nobil tela il mio mortale ecc., riprodotto corretto nel 1611 (4). Potrà forse a qualche lettore dispiacere che io lo intrattenga in somiglianti particolarità ; ma voglia egli pure esser giusto dandone il carico principale allo stesso Cebà, del quale, avendo preso io pure a farne il ritratto, sono costretto, mal mio grado, a seguitare la via sulle traccie eh" ei ne lasciò nelle sue scritture a stampa ; e consideri come mal si può senza 1’ aiuto dell’ ombre far bene spiccare le figure nei (1) A prova dell’ abilità somma del Castello ne’ ritratti cita appunto il Soprani (1. cit.) « l’effigie del sig. Ansaldo Cebà, stampata nel suo Furio Camillo ed in altre sue opere, tanto al vero somigliante »... Fu essa riprodotta nelle Glorie degli Incogniti di Venezia e negli Elogi di Liguri illustri, 1/ ediz. genov. in foglio. (2) Pag. 31. (3) Favaro, op. cit. II, 72. (4) Pag. 209. GIORNALE LIGUSTICO 183 quadri, e che anche dai difetti degli uomini molto di bene si apprende nelle storie , e che al retto giudizio sul merito delle persone giova molto conoscere Γ ambiente nel quale operarono. Devo ora dunque rifarmi alle accademie letterarie. Potrebbe alcuno credere per avventura eh’ esse declinassero all’ erotico solo al tempo del Brignole Sale, che ne le flagellò, come vedemmo, di santa ragione ; ma sappia costui che fra le Lettere del Cebà una se ne legge (1), « In persona di Fabritio. ... a Vittoria. . . . per esercitio academico » , la puale comincia : « Voi vi dolete agramente eh' io vi faccia il viso dell’ armi ; e non so con che coscienza » ; e dice più innanzi: « m’immaginai che voi prendeste per artificioso quel che è nel mio volto naturale ; idtsi, che pensaste , eh’ io proprio m’ havessi formato, per darvi passione, quel viso cagnazzo , che la natura mi stampò per guardarmi dagli agguati delle femmine infoiate »... ; e poco appresso: « quel che più mi consola, è, che voi siete persona ragionevole; e che perciò non correrete così a furia a biasimar le cose naturali, come fan certe bestiuole salvatiche, che san poco del mondo. Per queste ragioni io crederei che ’l mio ceffo non dovesse per 1’avenire farvi noia; 0 almeno che non ne doveste far motto » ; e poi : « quantunque mi veggiate forte maniconoso, non mancherò anch’io d’ accomodarmi al tempo; e mi proverò di fare il buffone per darvi sollazzo ». E detto infine: « Mi raccomando nella vostra buona gratia; — Questa lettera fu scritta da me molto giovane, non per parlar da dovero, ma per essercitar lo stile, secondo le leggi della nostri Academia ». La quale postilla dovette egli scrivere poco innanzi la pubblicazione delle sue Lettere, avvenuta l’anno stesso della sua morte. (1) Pag. 30-32. 184 GIORNALE LIGUSTICO Di siffatte lettere amatorie parla il Brignole Sale nelle sue Instabilità dell’ingegno, Giornata seconda, onde apprendiamo, che v’ erano perciò in Genova appositi segretarii, facendo egli dire a un vagheggino: « a qual fine travagliarci noi altri in cotesta faccenda, se a dozzine havvi artefici di simil o-pera, che con men di uno scudo ci sparagnano la fatica? (i) ». (Cantinua) N. Giuliani. APPUNTI DI EPIGRAFIA ETRUSCA * PARTE I Ad onta del nuovo impulso e del più razionale indirizzo che F applicazione del metodo comparativo ha impresso in generale alle ricerche filologiche , gli studi diretti alla interpretazione dei monumenti scritti degli Etruschi procedono tuttora a stento, per non dire a tastoni, nè accennano ad uscir cosi presto da quello stadio di incertezza e di oscurità che costituisce il periodo iniziale d’ ogni sviluppo scientifico. Le nostre nozioni circa la lingua etrusca, massime per quanto concerne la sua formazione grammaticale, sono ancora affatto rudimentali ; e la stessa quistione delle origini e delle affinità di essa cogli idiomi conosciuti è più che mai oggetto di controversia fra gli eruditi. Lascio in disparte la paradossale teoria del prof. Filopanti, il quale sentenziava testé il linguaggio espresso dalle iscrizioni etrusche non esser già stalo la vivente favella d’un popolo, ma un gergo convenzionale di preti; e tornar quindi inutile (i) Pag. 35. GIORNALE LIGUSTICO 185 affannarsi a cercarne la derivazione da altro idioma, avendoselo i sacerdoti etruschi fabbricato a bella posta diverso dagli altri linguaggi acciocché fosse compreso unicamente da essi e dai loro loro adepti (1). La sentenza , al postutto , non è di uno specialista nella soggetta materia , nò pronunciata ex cathedra. Ma nel campo, pur sì ristretto, degli etruscologi, e fra coloro stessi che ebbero per Γ addietro una base comune di studi, manca oggi non pur Γ unità di concetto ma Γ accordo sui punti fondamentali. Così, a non toccar qui che degli ultimi pronunziati scientifici, mentre il Deecke in seguito ad un nuovo esame del materiale epigrafico è indotto a ripudiare in parte le dottrine da essolui propugnate contro il Corssen, e a riconoscere nel-Γ etrusco una lingua ariano-italica (2), il Pauli fin qui suo collega e collaboratore, protesta contro tali conclusioni e ribatte vivamente non esser ancora venuto il tempo di asserire alcun che di positivo intorno all’ affinità dell’ etrusco , cui egli intanto afferma non altrimenti italico e nè tampoco di origine ariana (3). Di fronte a risultati cotanto divergenti, il meglio che rimanga per ora a fare nell’ interesse della scienza a chi non coltiva questi rami di studi ex professo, ma da semplice dilettante, consiste per avventura nel limitarsi a dar opera coscienziosa all’ incremento del materiale epigrafico, sia collo (1) Sintesi della storia universale, I, pag. 319. (2) W. Deecke, Der Dativ lar&iale und die Stanmerweiterung auf - ali (die elruskische Sprache indogermanisch-italisch) nel fascicolo 2.0 delle Etruskische Forscbungen und Stndien, Stuttgard, 1S82. Id., Jahresbericht Hier die italischen Sprachen, au lì das Altlateinische und Etruskische, fiir die Jahre iSjy-iSSi, nel Jahresherlcbt iiber die Fortschritte der classischen Alterthumswissenschaft, del Bursian, 1882, p. 244. (3) V. la recensione del precitato opuscolo del Deecke sul dativo 1 a r-$iale fatta dal Pauli (Heinsius, Brema). 186 GIORNALE LIGUSTICO arricchirlo di nuove leggende, sia coll’ esibire più corrette lezioni di altre già edite ; allargando così il campo alle investigazioni , e offrendo agii specialisti materia di nuovi riscontri e argomento a nuove induzioni. Con questo intento essenzialmente pratico, dedico agli etruscologi in queste poche pagine, un modesto ma non inutile contingente epigrafico, appena corredato di alcune osservazioni che mi parvero quadrare al soggetto e conferire alla sua dichiarazione. Per le accennate considerazioni, espongo non senza peritanza, e perciò colla debita riserva, quanto riguarda la parte dottrinale e induttiva del lavoro : per contro, nutro piena fiducia che la parte descrittiva sia inappuntabile dal punto di vista dell’ esattezza dei dati e della fedeltà delle trar scrizioni, e ritengo che lo studioso potrà servirsi con sicurezza dei testi epigrafici qui editi, e fare pieno assegnamento sulla attendibilità delle lezioni da me proferte. Circa la quistione pregiudiziale, mi limiterò a poche considerazioni. Nella lingua etrusca vuoisi riconoscere la coesistenza di due distinti elementi; uno dei quali esotico, o barbaro, come dicevano gli antichi, 1’ altro ariano di genere e italico di specie. Senza gli ostacoli frapposti dall’ elemento barbaro, gli studi relativi alla lingua etrusca avrebbero a quest’ ora dato risultati più o meno analoghi a quelli ottenuti nell’ interpretazione dell umbro e dell’ osco, di cui rimangono fissate le leggi grammaticali e la cui ricostruzione poggia ormai su solide basi. Per contro, senza il sussidio dell’ altro elemento questi studi non avrebbero neppur fatto quei pochi passi che, per quanto stentati e a schiancio, costituiscono pur sempre un progresso. Non tener conto dell’ elemento esotico , e ravvisare nel- 1 etrusco, come fece il Corssen , niente più che un dialetto della lingua del Lazio, è andar contro all’ evidenza, nonché contraddire alla precisa testimonianza degli antichi. GIORNALE LIGUSTICO Forse superlativa è 1’ asserzione del Pauli che a dei periodi come a iena zuci en esci ipa s'pelane-fri fulumxva s'pelìH reneri del cippo perugino, nemmeno la tortura potrebbe strappare una risposta ariana (i). Certo è però che un elemento barbaro costituisce e costituirà forse per lungo tempo ancora la parte enigmatica dell’ idioma etrusco. Ma se ciò è innegabile, non è d’ altra parte meno evidente la presenza in detto idioma di un elemento italico costituito da vocaboli, le cui radici verbali o nominali, accennano ad una comunanza di origine dell’ etrusco col latino, col greco e con altre lingue di stipite ariano ; parentela che vien confermata da recenti studi sulla teoria dei suoni, sulla formazione delle parole, sul sistema dei nomi ecc. Non soltanto brevi titoli sepolcrali, ma iscrizioni abbastanza complesse, come quella dell’Arringatore del xMuseo di Firenze, hanno ricevuto dalla scuola del Lanzi e col metodo di interpretazione da lui propugnato una dichiarazione, la cui verità si può dire palpabile, ed alla quale non manca la sanzione dei più competenti filologi (2). La sentenza del Pauli che tutte le voci che nell’ etrusco rivelano affinità col latino e col greco sieno prese in prestito dalle popolazioni contermini, e che Γ elemento ariano-italico sia da considerarsi come semplice feudo (Lehngut), sembra ed. è infatti esorbitante. Con pari fondamento si potrebbe sostenere la tesi opposta, cioè che gli Etruschi abbiano tolto in prestito da altre popolazioni, colle quali si trovarono a contatto anteriormente alla loro antichissima diffusione nella penisola italica, ciò appunto che costituisce 1’ elemento barbaro e finora irreducibile della loro lingua. La quistione si riduce pertanto a vedere in quale rapporto (1) C. Pauli, op. cit. (2) Fabretti, Terzo supplemento alla raccolta delle antichissime iscrizioni italiche, pag. 57-60. i SS GIORNALE LIGUSTICO fra loro stieno i due elementi costitutivi della lingua etrusca; quale di essi abbia a dirsi il principale e nativo, e quale -l’accessorio e avventizio. Ora se dobbiamo giudicare spassionatamente fra i risultati ottenuti col metodo della scuola del Lanzi, ampliato dal Fabretti, dal Corssen e da altri insigni linguisti, e quelli a cui pervennero gli eruditi che si travagliarono intorno all’ interpretazione delle leggende etrusche affidandosi ai confronti cogli idiomi semitici e turanici, sarà giuocoforza inferire che Γ elemento italico sia di preferenza quello che costituisce il fondo della lingua etrusca. Tale almeno è la conclusione a cui si riesce nel campo etimologico. Ma il metodo etimologico, ribatte a sua posta il Pauli, non è generalmente applicabile alla spiegazione della lingua etrusca. Prestò esso bensì buoni uffici nella dichiarazione delle iscrizioni antiche persiane, però solo quando fu fissato il carattere arico della lingua. Perciò il medesimo non sarà ap-pliplicabile all’ interpretazione dell’ etrusco che quando siano state trovatele affinità di questo ; fintantoché tali affinità non sieno state determinate , l’interpretazione dell’ etrusco potrà solo cercarsi nelle combinazioni logiche. È un po’ il caso di chi non vuole che si entri nell’acqua senza prima avere imparato a nuotare. Tuttavia è fuor di dubbio che il metodo etimologico è per se stesso assai arrendevole, e con opportuno maneggio si può con esso provare anche ciò che non è. Ma quale è il metodo che non si presti ad abusi nella sua applicazione ? Non certo quello delle combinazioni logiche caldeggiato dall’ illustre professore di Uelzen. Ben dimostrava il Fabretti come certe interpretazioni disparate e spesso contradditorie d’ una stessa iscrizione, propugnate da etruscologi di una medesima scuola, non debbano GIORNALE LIGUSTICO 189 imputarsi all’ insufficienza del metodo etimologico, ma si piuttosto alla maniera di applicarlo, e sopratutto al vezzo di non tener conto abbastanza della natura e della destinazione dei monumenti in cui le iscrizioni furono consegnate (1). Io non presumo qui di discutere, e tanto meno di decidere quale dei due metodi ermeneutici abbia da reputarsi il migliore. I metodi, del resto, si giudicano dai risultati, còme dai frutti l’albero. Al postutto, io son d’avviso che nella pratica un metodo non escluda 1’ altro in modo assoluto ; e che per conseguenza nulla osti a che, pur ricercando il valore etimologico d’ un vocabolo, si tenga conto in pari tempo dei suoi rapporti logici rispetto al testo epigrafico di cui fa parte , e in correlazione alla peculiare indole e destinazione del monumento a cui spetta l’iscrizione. I- "JfMMR · ΙΒΊΟΑΊ ΙΟςΑΊ 1 a r θ· i 1 a r n e i · v i p i n a 1 = Lcirthici Lamia Fibiniae (nata). Olla senza anse nè piede, con tracce di vernice nerastra. Alt. 0,160; diam., 0,130. L’iscrizione è graffita al disopra d’ una linea che ricinge 1’ alto del ventre. Museo di Firenze. La nuova forma larnei viene in buon punto a prendere posto accanto al maschile nominativo lami (lart. larni C.i.i., 893. larce : larni : cale | lar&i : s'ur m eftnfei] ib., 894), e al genitivo matronimico larnal (vel: plaute: velus' : caiai : larnal : clan : velaral : tetals' : ib., 1717). La famiglia larni , 0 certo un ramo di essa era stabilita a Montepulciano, di dove forse alcuni suoi membri femminili (1) Id., ibid., p. 42. 190 GIORNALE LIGUSTICO eransi trapiantati per matrimonio in Perugia. Tale, almeno , apparisce la sua distribuzione geografica in base ai monumenti fin qui conosciuti. Al larni etrusco, derivato evidentemente da Lar, corrispondono nell’ onomastico latino i gentilizi Larnius e Larenius non ignoti agli epigrafisti (1). L’ovvia forma lar-fri con cui enunciasi il prenome della titolare, mi porge argomento ad alcune considerazioni non destituite di opportunità. Si riteneva una volta che questa forma fosse onninamente femminile; ed il Lanzi affermava di non averla mai trovata associata· a ritratto virile. Non si tardò tuttavia a constatarne l’impiego in senso maschile; e già il Fabretti nel suo Glossarium (col. 1010) segnalava parecchi esempi della forma larfri in ufficio di prenome virile. Ulteriori studi del Pauli posero in sodo che laròH, come tale, è anzi di genere propriamente maschile, e che il comunissimo lari)’ è appunto un accorciamento del nominativo maschile lariH, come arn^· di arn^i: il che non toglie che la forma lar Où figuri su molti monumenti in funzione di prenome femminile ; nel qual caso dee semplicemente ritenersi per sincope del nominativo larfri a, o lar(n)O-ia. Come forma fondamentale di lar fri il Pauli ha indicato * laurunO-i 1= lat. Laurentius (2); ricostruzione accettata, salvo una lieve riserva, anche dal Deecke. Per me, la forma fondamentale di lar&i sarebbe piuttosto * lar en-fri = lat. Larentius (3); sia perchè questa forma trova (1) Muratori, Nov. thes. vet. inscr., 1412, 6; 1600, 4. (2) C. Pauli, Etruskische Studien, IV, 78 segg. (3) Anche a giudizio del Deecke il secondo u di *laurunóH è assolutamente incerto (Jahresbericht iiber die ital. Sprach., pag. 244) GIORNALE LIGUSTICO 191 conferma nei noti nomi delle mitiche Acca Larentia e La-rcntia Fabula ; sia perchè Larentia e suoi derivati provengono da Lar, mentre Laurentius deriva da laurus ; nè punto mi smuove Γ obbiezione del Deecke dedotta dall’ a lunga di Larentia contrapposta alla breve di Lar (i). D altra parte, se la forma fondamentale di larfti fosse lau-runiK, non si vede come e perchè avrebbe dovuto perdersi 1 il del dittongo au. Nè giova in proposito invocare col Deecke P « etrusco abbonimento dall’ u » (2), che in questo caso mi ha 1’ aria del famoso aborrimento della natura pel vuoto invocato dai fìsici d’ una volta. Gli Etruschi conservavano Y au dove c’ era , come si vede in lautni, lauctni, laucane, laucine, laursti, paulisa, caunei, caule, caus'lini , lauxusies e in tante altre voci. Se pertanto la forma fondamentale dell’ analogo prenome maschile nominativo arniH è, come pare, aruniH, = lat. Aruntius, e non già aurunfH, ragione vuole che larO-i non derivi altrimenti dal proposto laurunòH, bensì in deteriore ipotesi piuttosto da *larun$i, forma che oltre ad essere, come si è dimostrato , più consona alla sua parallela arunfH, troverebbe in pari tempo un riscontro e un appoggio nel nome ben conosciuto della Naiade tiberina Larunda, madre dei Lari. Qualunque possa essere stata, del resto, la forma originaria del prenome nazionale etrusco larO-i, femm. larftia, certo è però che latinamente esso non potrà tradursi che Lars (3), (1) Der Dativ lardiate , nota 45. (2) « Etruskischer Verfliichtigung des u », op. cit. pag. 12. (3) Tit. Liv., Histor., II, 9 ; IV, 17, 58. Valer. Max., Epit. de nom. rai. Serv. ad Virg. A en., VI, 842. Furlanetto, Lap. Patav., p. 425, n. 582, Fabretti, C. i. »., 935. 192 GIORNALE LIGUSTICO femm. Lartia , o Larthia, (1) in base alle precise testimonianze degli scrittori e dei monumenti epigrafici. Nè ben si apponeva il Fabretti identificando come ha fatto, Γ ovvio lar-0-con due altri affini, però ben distinti, prenomi etruschi, cioè lar, e laris. Infatti 1 a r ft, di cui abbiamo ora visto l’etimologia, ha per genitivo lardai, e corrisponde al lat. Lars, Lartis: laddove lar, genit, larus, riscontra col 'at. Lar, Laris; e finalmente laris si.flette al secondo caso in lari-sai, e se non ha corrispondente in latino come prenome', ha dato bensì origine al gentilizio Larisius, in modo ana- OO logo a quello onde l’etrusco prenome arntì·, lat. Aruns, ha più tardi originato il gentilizio latino Arruntius. 2. · *mivr · lar ce · vuis's · = Largius Voesii (filius). Graffita esternamente presso la base su vaso cinerario fittile a campana, proveniente da Chiusi, e appartenente, come molti altri monumenti epigrafici infra editi, alla nobilissima collezione archeologica del sig. Amilcare Ancona in Milano. L’appellativo lar ce, di massima gentilizio su monumenti dell’ agro chiusino o di territorii finitimi (2), funge talvolta nell’ onomastico etrusco ufficio eziandio di prenome, come attestano questa e parecchie altre iscrizioni (3). Esso appartiene d’ origine all’ onomastico dei popoli antico-italici, e va compreso nel novero di quegli appellativi che, giusta 1 usanza (1) C. i. i„ 857, 984, 984 bis b, d.; 1018 bis. e; 2007; i.° sappi, 160, 364; 3.0 suppl., 115 ; ecc. (2) C. i. i., 643 bis a, b, c; 954, 955; i.° suppl., 173 bis /. Gamurrini, App. al C. i. L, 2 $ 2, 446, 559. (3) C. i. i., 255, 564, 754, 894, 1208, 1210, 1394; j.° Suppl., 301, 369. Gamurr., App., 547. GIORNALE LIGUSTICO '93 comune ai detti popoli, vennero dapprima usati ugualmente come gentili e come personali, o prenomi che dir si vogliano; del che ho toccato per incidente in altre mie monografie (Sigilli antichi romani, pag. 29. Contribuzioni allo studio del-V epigrafia etrusca, n. 8, p. 25, nota 2). Molti di tali appellativi sopravissero poi lungamente nella nomenclatura latina, alcuni nella sola qualità di gentilizi (Cerrinius, Cominius, Decius, Gellius, Herennius, Magius, Marius, Oppius, Plautius, Popidius, ecc.), altri ritenendo, quali più quali meno, la primitiva duplice attribuzione (Galerius, Gavius — Cavius = Caius, Lucius, Novius, Numerius, Ovius, Percennius, Salvius, Sergius, Statius, Stenius, Trebius, Vibius etc.) Fra questi ultimi appunto è larce, lat. Largius, il cui uso come prenome sembra però esser rimasto circoscritto alla sola Etruria : di che sarà lecito congetturare che Γ oratore Largius Licinius Ο Ο contemporaneo di Quintiliano, e del quale parla C. Plinio (1) come del primo introduttore della claque in tribunale , fosse di famiglia etrusca, probabilmente un leene di Siena. La forma vuis's sta per vuis'(e)s, in senso analogo a quello di vuizes di stele di origine incerta oggi nel Museo vaticano (2). Traduco il gentilizio in Voesius, anziché in Voltius col Fabretti , o in Vusius col Corssen, sull’ appoggio del titolo etrusco-romano di Sarteano L · HIRRIVS || L · F · VOESIA NATVS (3)· Vero è che il dittongo oe, il cui uso iniziatosi nella scrittura latina non prima della metà del secolo VII di Roma sostituì a sua volta quello dell’ antichissimo oi, si risolvette più tardi in u, come si vede nelle tre forme successive coi- (1) Epist., II, 14. Lo stesso personaggio è nominato nella epistola 5.® del libro III. (2) e c a : s/ -9- i | v u i z e s : v e 1.1, (C. i. i, 2601). (3) C. i. i., 1018 bis /. Giorn. Ligustico. Anno X. 15 î94 GIORNALE LIGUSTICO rare, coerare, curare. Ond’ è che alla forma Voesius del precitato titolo, risoltasi più tardi in Fusius, dovette necessariamente precedere Γ arcaica Foisius, d’onde il gentilizio umbro Foisienus della Garrucciana 2097 ; ma è parimente certo che alcune famiglie, per ostentazione di nobiltà, conservarono per lungo tempo un antiquata ortografia nella scrittura del loro nome ; il che vien ribadito nella fattispecie dalla considerazione che un Cn. Foesius Cn. f. Aper figura ancora come titolare di una insigne lapide prenestina dei tempi imperiali (1). Alla stessa famiglia appartiene la seguente iscrizione 3· MmiaBCDUIVUO^CJA arn-9- vuisi φ e r i n i s ' = Aruntia Foesia Herennii (uxor). Incisa sulla fronte di urna in pietra calcarea, di provenienza chiusina. Facea parte del materiale etrusco esumato a spesa ed a cura della benemerita Società Colombaria di Firenze, e passato per generosa deliberazione della stessa, all’ atto del suo scioglimento nel 1866, ad arricchire le collezioni del Museo fiorentino. La grafia delle lettere è arcaica, o almeno arcaistica : così 1’ a come il segno rappresentativo della dentale aspirata affettano la forma rettangolare ; il digamma e 1’ e subiscono una inclinazione molto pronunziata a sinistra. Questa epigrafe ci porge un nuovo esempio dello scambio fra Yh e la labiale aspirata nella trascrizione del nome della famiglia etrusca herini = lat. Herinnia; scambio già esibito dalle iscrizioni fasti freia φ e r i [[ n a s ' (2); lariH (1) Orelli, Inscr. lat. select, ampi, coll., 2532. (2) C. i. i., 123. GIORNALE LIGUSTICO I95 vuisinei || cperinas' || a----(1); anainei : Ιθ- : caes' : cperinas (2); a lato delle quali sarà da collocarsi la chiu-sina ’&a : petrui |] ferinisa (3), dove la permutazione si effettua, invece, colla semivocale f, in modo analogo allo stile latino arcaico in uso specialmente fra i Sabini e i Falisci, che scrivevano fercle, felena, farisp(ex), forat ia, per Hercle, Helena, harispex, Horatia (4) ecc. La voce cperinis', che con diversa ortografìa ricorre eziandio su tegolo di Gioiella (arnft · peir u || h er inis' Gam. App., 429), non è altrimenti genitivo di (ferina (= h e r i n a), né di φ e r i n e (= h e r i n e), giacché quello si flette al 2° caso in cperinas' (C. i. I, 123, 248), e questo in cperines' (ib., 559); e tanto meno del femminile φεηηϊ, il cui genitivo è cperinial (cf. ib. 536, 1268, etc.): bensì spetta ad uno stipite alfine, il cui genitivo é in - s'a (- sa), raccorciato in - sl (-5). iperinis' sta qui dunque per φ eri ni s'a (3.0 Suppl., 172), in quella guisa appunto che il gentilizio genitivo lardis' sta per 1 ar-9·is'a nell’iscrizione perugina vi eia lardis' (5). La nota ami)· sta qui per arn-iHa, e quanto ho più sopra esposto in ordine al prenome larfti, femm. lariHa, dovrà per analogia applicarsi al suo parallelo arnìH, femm. arn-iHa di cui abbiamo la forma pienissima arunci a proferta dall’ ossuario di Colle Val d’ Elsa C. i. i., 45 1 bis. c. (1) ibid., 248. La terza riga non è riportata dal Conestabile che pel primo la pubblicò nelle Inscr. elr. della Gali, di Fir., p. 101, tav. XXI, n. 118, nè dal Fabretti, ma esiste nell’originale ch’ebbi sott’ occhio nel Museo di Firenze. (2) Gamurrini, Append., 38. (3) h° Suppl, 172. (4) Garrucci, Syll. inscr. lat., 523, 524, 807; Addenda, 2354. (5) C. i. i. 1864. Il Deecke considera lar&-i-sa come genitivo del maschile 1 a r θ- - i derivato· da *larftie-s, cui egli riferisce a sua volta ad uno stipite lar(n)&-ie-, femm. — ia — (op. cit., p. 11}. 196 GIORNALE LIGUSTICO Colla famiglia espressa dal matronimico di questa, ha relazione il titolare di quest’altra epigrafe della stessa pio\e-nienza 4· //////imq3® · loqfH 1 a r θ i · herini.... = Larthia Herinnia..... dipinta in rosso sulla cimasa di umetta fittile chiusina, sulla cui fronte bassorilievo a stampa coll’ ovvia rappresentazione di Cadmo (Giasone?) armato di un aratro, in atto di combattere contro due guerrieri, uno dei quali poggia un ginocchio a terra, mentre un terzo lo assale da tergo. Collezione Ancona. 11 casato etrusco degli Herinnii, o Herennii, che già ab antiquo apparisce diviso in tre grandi rami, uno dei quali si firmava herina = lat. Haerinna (1), Haerina (2), Herina (3), 1 altio herine, reso latinamente Herinnius (4), Herennius (5), come il terzo (*herinie?) di cui conosciamo soltanto il genitivo herinisa talvolta accorciato in herinis', sembra poter (0 Q* HAERINNA -Q- F |] SENTIA · NATVS Tegolo di Ce-tona, i.° Suppl. 251, ter. f. · HAERINNA ■ Q · F II SENTIAE * CAkkAE II NATVS Id· ib., 251 ter d. Tanto il Fabretti quanto il Gar-rucci (Syll., 2004) trascrissero erroneamente GAkkAE- (2) VEL · HAERINA · VF || ANCARIALISA li '·° Suppl, 25r ter l·, dove errata è la lezione HERINA · VEL L· HAERINA · || TIFILI A · NATVS W, ib., 251 ter g. (3) C · HERINA I L · F · THIPHILIAE || GNA/// Id., ib., 251 ter &. (4) HERWNNIA II SEQVDA Id., ib., 251 ter e. (5) L · HEREN // CAPITO || MAT- || TANVSA || AXINA ib., 251 ter c. LARTHIA· HERENNIA · IOLLONIS li,Chiusi,Suppl., 1 ij. LARTIA-HERENNIAE STLACIAL Olla \à.,Gam.Apptnd. 412. GIORNALE LIGUSTICO 197 ritenersi di origine chiusina. Da Chiusi, infatti, o dall’ agro finitimo proviene la maggior parte dei monumenti che lo ricordano; e i pochi di diversa provenienza spettano quasi tutti a donne, o accennano al casato per via di matronimici, ciò che può ricevere una plausibile spiegazione dal presupposto che donne della chiusina gente Herinnia siano andate a marito fuori del territorio patrio. Ciò , ben inteso, per quanto concerne il ramo etrusco di questo grande clan italico ; prescindendo, cioè tanto dal ramo storico degli Herennii di Roma, quanto dal sannitico di cui i monumenti ci rivelano tre forme onomastiche, herenniu, herenni ed heirennìs. 5· XlflB h are = feri Ghianda missile plumbea trovata a Campiglia marittima , già in possesso del chiar. sig. march. Carlo Strozzi, presso il quale la vidi or son due anni, poi passata nella collezione Ancona in Milano. Nei pochi cenni premessi ai presenti appunti ho toccato della convenienza, già da altri riconosciuta, di attingere i criterii per l’interpretazione delle leggende etnische, non già unicamente dalla ragione etimologica dei singoli vocaboli, ma e in pari tempo dalla considerazione dei loro rapporti logici, avendo Γ occhio, sopratutto, alla natura ed alla peculiare destinazione dei monumenti su cui le leggende stesse sono inscritte: canone questo che, per quanto consono ai dettati della più sana critica epigrafica, venne troppo spesso violato dal Corssen; le cui dichiarazioni si allontanano non di rado sensibilmente dal vero, a causa appunto della tendenza in lui sistematica di considerare le iscrizioni come 198 GIORNALE LIGUSTICO affatto indipendenti dai monumenti ai quali furono consegnate. L’ epigrafe in esame mi somministra argomento a ribadire con un nuovo esempio la verità di tale asserto. Trattasi, invero, nella fattispecie , di un monumento spettante ad una classe caratterizzata da speciali leggende, le quali non possono non avere un rapporto di analogia con quelle esibite dai congeneri istrumenti adoperati dai Romani e dai popoli italici a questi contemporanei; tanto più che tutto concorre a far ritenere che F uso di tali ghiande missili inscritte , del pari che quello di tanti altri bellici argomenti, sia passato ai Romani ed alle altre popolazioni italiche appunto dagli Etruschi, i quali alla lor volta P avrebbero avuto comune coi Greci (1). Ciò essendo, ragion vuole che nell·' indagare il significato della leggenda impresse sulle ghiande etrusche debbasi anzitutto aver presente P indole peculiare di quelle onde vanno inscritti gli analoghi proiettili italici, e in particolare i romani. Ora se ci facciamo a considerare il carattere delle iscrizioni impresse sulle ghiande plumbee romane , di cui tanta copia è nelle collezioni archeologiche, troviamo che esse possono classificarsi in quattro grandi categorie. Di queste la i.a comprende nomi topografici od etnici, come ROMA (Garr., SylL> 935), FIR (ib., 945), HAI- (937). ITAL (936)> GAL (947)j OflKO (970); la 2.a note consolari che ne determinano la data, come μ . p|SO ■ V · F ]| COS (ib., 900): la 3.“ il nome delle legioni che le usarono, [_ · TT ITAL (ib., 949), LEG · QVAR (950), L· VI H VOL (952); L XII II FVL (96i)> ecc·’ (1) Le più antiche ghiande romane fin qui conosciute datano dall’ as- sedio di Enna in Sicilia, e portano il nome di L. Calpurnio Pisone (anno 621 di Roma). GIORNALE LIGUSTICO I 99 nonché dei rispettivi primipili, tribuni e generali, SCAEVA 11 PR · PI L II L · XII (ib, 1087), POL 111 (97^) > APiDI - PR * PIL II L · VI (1095), L · MEVIVS || TR ■ L · XII || X || MILLIA (iK'5), CAESAR · IMP (1089), RVFVS IMP (1091), CN · MAG II IMP (1071); la 4.“ finalmente, che è la più caratteristica, consta di motti diretti, vuoi ai nemici contro i quali era lanciato il proiettile, come FVGITIVI || PERISTIS (ib, 944), L ANTONI CAkVI II PERISTI II C .CAI ISARVS II VICTORIA (1096), TREPI (938), SINE MASA (1104), ecc.; vuoi al proiettile stesso in modo imperativo, quali PET || CVLVM || OCTAVI Al (1099), FERI (939)? ecc· Ciò stante, ove si ponga a confronto l’iscrizione della ghianda etrusca in esame con quelle delle romane ora citate, riesce evidente non poter essa trovar posto in alcuna delle tre prime categorie ; onde l’induzione logica più plausibile sarà che il suo significato debba ricercarsi in un concetto analogo a quello espresso dalle ghiande spettanti alla quarta categoria, e più probabilmente in un imperativo diretto al proiettile che ne è insignito, sul* tipo appunto dell’ultima delle proferte epigrafi. Tale induzione trova una mirabile conferma e precisa determinazione nel campo etimologico. Imperocché considerando la voce harc come l’imperativo di un verbo etrusco, si appalesa spontanea Γ etimologia di questo nella radice indo-europea ark= colpire, urtare, offendere,'ferire, d’onde derivano le voci latine arc-s, arc-e-o, coerceo, arc-u-s, exercitus, ecc. (1) : di che sarà lecito ritenere come estremamente probabile che la voce etrusca harc inscritta sulla ghianda qui edita corrisponda al noto grido di guerra feri, onde i Romani usavano eccitarsi P un 1’ altro nell’ inseguire i nemici (2), (1) A. Vanicek, Etymologisches Vòrterbuch der lateinischen Sprache, Leipzig, 1874 p. 13. (2) Plutarc., in Marcello, 8. 200 GIORNALE LIGUSTICO e che trovasi espresso su tanti dei loro proiettili disseminati nell’ agro Piceno e altrove. In un parallelo ordine d’idee è forse da ricercarsi il significato della seguente iscrizione 6· YIWS30 cresmiu = tene hoc (?), o tene me (?) su ghianda missile di incerta provenienza, già presso il marchese C. Strozzi, ora nella collezione Ancona come la precedente. Una simile venne edita dal Fabretti, che lesse cresmie (i). Altri sarà tentato di sospettare che Γ esemplare fabrettiano sia una cosa sola con questo , di cui F ultimo elemento potrebbe all’ uopo riguardarsi come frammento di un 3 in gran parte obliterato ; se non che osta a tale identificazione il fatto che quello è scritto da sinistra a destra, oltreché con notevole differenza di grafia nelle lettere, specie per quanto concerne la forma della m. Il Fabretti interpreta C. Resmius : ma più plausibile si affaccia 1 ipotesi di un verbo , la cui radice potrebbe per avventura additarsi in krath = stringere, tenere (2), in unione al pronome, dimostrativo o personale, m i ; nel qual caso, il motto apparirebbe diretto ai nemici, e suonerebbe tieni questo, o tienimi, in senso analogo al noto ΔΕΞΑΙ, prendi, che ricorre impresso su ghiande greche raccolte nella pianura di Maratona. 7· 2flNM:3^fl4:[3<]|ΐΑΐιςνψ: m>ii#:qfl ar:zilni: χ u r n a1 : = Aruns Selenius Coroniae (filius) Dipinta in rosso nella cimasa di umetta fittile, sulla cui fronte, a bassorilievo policromo, Γ ovvia rappresentazione di Cadmo, o Giasone, combattente a colpi di aratro contro tre guerrieri. Collezione Ancona. Questa iscrizione trova evidentemente un riscontro in quella di un tegolo oggi a Chiusi in casa Cecchini : a -Θ* -zi II lini · χ y urnal (1). Il tegolo qui ricordato essendo stato rinvenuto in una tomba alle Macchie nell’ agro Chiusino, sarà lecito attribuire all’ urna in esame una identica provenienza. La traduzione latina del gentilizio zilni, la cui identità col zi li ni del tegolo ora citato non può esser messa in forse, viene suggerita dall’ umetta fittile etrusco-romana inscritta mi · s elenia, proveniente da Montichiello (Camul-liano) fra Montalcino e Pienza (2), nella cui prossimità, appunto, una contrada ritenne, a detta del Gamurrini, fino a tutto il medio evo il nome di Selene. (1) Gamurr, Append., 178. (2) Gamurr. ibid., 529. GIORNALE LIGUSTICO 203 Il Gamurrini, sulla considerazione che nessuna famiglia sarebbe fin qui apparsa col nome di Selenia, e tenuto conto che a poca distanza dal luogo ove si esumò Γ urna vennero scoperte le vestigia d’ un tempio che credesi dedicato a Diana, esprime Γ opinione che P iscrizione dell’ urna indichi soltanto che la donna le cui ceneri stavano in questa racchiuse era addetta al culto di Diana-Selene. La testimonianza proferta dall’ urna in esame e ribadita da quella del tegolo dianzi menzionato, avendo messo in sodo 1’ esistenza d’ una famiglia etrusca Selenia, il cui nome, già ricordato del resto da,una nota lapido (1), si collega per di più con quello del luogo in cui venne rinvenuto il monumento in quistione , depone nel modo più tassativo contro P ipotesi del eh. Gamurrini. Anche il dottor Pauli discorrendo dell’ impiego della ^ per s, ovvio nella scrittura etrusca, cita, fra altri ad esempio il gentilizio zilini, del tegolo chiusino, cui egli identifica col latino Sclenius (2), confrontandolo, appunto, coll’epigrafe mi · selenia del tegolo più volte citato. A proposito di quest’ ultimo titolo , non tacerò come il ch. P. Garrucci l’abbia testé edito fra le iscrizioni latine (3), spiegando il m i come sigla del prenome Mino. Può obiettarsi giustamente che il prenome Mino (Minor), come quello di Maio (Maior), trovansi bensì adoperati nelle iscrizioni arcaiche, ma unicamente però sulle pigne prenestine, che è quanto dire su monumenti così sotto il rapporto topografico come per la lingua e la scrittura onninamente latini, non mai nell’ Etruria propria , dove il caratteristico m i apparisce usato in senso ben diverso, sia che voglia riguardarsi quale (1) Mommsen, I. R. N., 3594. Cf. anche Silenius, Gruter. 466, n. 7 e 469, n. 10. (2) C. Pauli, Die etrushische Zahlwòrter, p. 22. (3) Addenda in sylloge inscr. lai., 2415. 204 GIORNALE LIGUSTICO una sincope dell’ είμ: greco, sia che abbia valore di pronome, o dimostrativo , o di persona prima, nel qual ultimo significato è tuttora vigente in parecchi dialetti d’ Italia. In un errore analogo sembra essere incorso P illustre au-tore della Sylloge, riguardo al tegolo di Montepulciano DANA TIDI II VRINATIAI 0997). dove e§U le§§e DANATIDI come una voce sola, facendone un dativo di Danatis — idis (per Danaetis), dal nome Danae = Δανάη; mentre è evidente che trattasi di una Thannia Tidia Urinatiae (nata). Per quanto concerne il matronimico χ u r n a 1, ho appena bisogno di accennare la sua intima correlazione col nome proprio femminile al caso retto xurnai di tegolo chiusino (i), nonché col genitivo χιΐΓηΪ35Γ di altro titolo di identica provenienza (2). Tenuto conto dell’ ovvia permutazione della gutturale Ç colla sua corrispondente aspirata ψ, si può ritenere con fondamento che il χυπ^Ι della iscrizione, punto non si differenzi dal curunial di urna perugina (3): d’onde si rivela 1’ esistenza in Perugia di altri membri dello stesso ο di altro membro della famiglia curuni, o Coronia, da non confondersi colla curani, 0 Corania, di cui pure si ha contezza da due monumenti sepolcrali della stessa città (4). 9· : 3ΚΜΊ2Ι+ΑΊ : 00 aθ : patislane : an || al = Aruns Patislanius An... iae (naius). Dipinta in rosso nella cimasa di umetta fittile chiusina, (t) au scansna.xurnai — _j.° Supp., 225. (2) aule.sansna a-9-:xurnias’ — ossuario, ibid. 226. (3) eue-9-nei aneis' curunial, — C. i. i. 1828. (4) curanei . titis' — coperchio d’ossuario, C. i. i. 1361. au veli curanial — urna cineraria, ib., 1832. GIORNALE LIGUSTICO 205 sulla cui fronte , a bassorilievo a stampa policromo , il combattimento di Cadmo, o Giasone, armato di aratro. Collezione Ancona. Sarà da aggiungersi agli 11 monumenti funerari già conosciuti della famiglia chiusina Patislania (1). Il matronimico disgraziatamente è incerto : giova sperare che ulteriori scoperte potranno fornir materia ad una positiva determinazione. Non consento col Fabretti nella traduzione di patislane in Patiiianus, perchè tale appellativo non corrisponderebbe, a tenore delle leggi che regolano la nomenclatura romana, che ad un cognome derivato dal gentilizio Patilius vuoi per adozione, vuoi per ricordo della famiglia materna (2); mentre trattasi nella fattispecie di un vero e proprio nomen gentilicium, la cui costruzione latina importa la desinenza in - ius. I0· 3m+ - la · cale · tme = Lars Gallius — Graffita e colorata sulla cimasa di umetta fittile chiusina con bassorilievo an fronte rappresentante un commiato di coniugi che stringonsi la destra fra due Genii tediferi, di cui quello a sinistra impone la sua destra sul capo del marito. Collezione Ancona. In altra pubblicazione ho posto in sodo come il cognome cale (genit, cales, dat. cales'i), femm. cali, calia, (genit. cali as), sia la forma etrusca del latino Gallus, femm. (1) C. i. i119, 663-689, 766, 2588; i.° Suppl, j8o. Di questi il n. 19 proviene dal Museo Buccelli, i cui monumenti non erano tutti di Montepulciano, bensì in parte anche chiusini : il n. 2568 è d’ origine incerta. (2) V. Poggi, Contribuì, allo studio dell’epigr. ecc. 20. 2o6 GIORNALE LIGUSTICO Galla, colla sostituzione della gutturale forte alla tenue, mancando gli Etruschi del segno rappresentativo di quest ultima, espressa col c o col k (i) ; contro l’opinione del Corssen, il quale deriva l’etrusco cale da uno stipite ca-lo-, bello = gr. κχλ-ο- in κάλλ-ων, κάλλ-ιο-ς, καλλ-ία-ς, κάλλ-ί-ς, καλλ-ώ, attribuendogli un significato analogo a quello dei cognomi latini Pulcher, Lepidus (2). Nella presente iscrizione il cale comparendo in funzione di gentilizio corrisponderà al lat. Galiius, col qual valore si presenta pure nelle gamurriniane vi· cale-puplinai (App. 146) laicale · mefanet||nal (ib. 219). L’enigmatico tme del terzo membro dell’epigrafe si può riscontrare coll’analogo tne proferto da tegolo parimente chiusino (3). Ammettendo del resto che la lineetta trasversale che taglia un asta della m sia uno sfregio accidentale o uno sbaglio dell’incisore, rimarrebbe la sillaba m e che potrebbe credersi iniziale del matronimico mefanetnal onde un altro cale della stessa famiglia si enuncia su uno dei titoli di identica provenienza dianzi riprodotti. II- MV>l3q : fl+3t>RA //n+naq avi 'tetà; velus' vantn [al] — Aulus Teta Velii (filius) Vant...iae (natus). Incisa in urna di travertino proveniente da Chiusi. Collezione Ancona. Traduco Teta anziché Tettius che mi pare corrispondere (1) Id., ibid., 14. (2) Ueber die Sprache der Etrusker, II, §§ 455, 567. (3) tne aue - j.° Suppl. 220. GIORNALE LIGUSTICO 207 piuttosto al noto te te, altro ramo della stessa gens, e ciò in analogia a quella classe di gentilizi etruschi che conservarono anche in latino la nativa desinenza in - a, come Caecina, Creusina, Perpenna, Spurinna, Perna, Accenna, Percenna, Haerina, Plexina, Perperna, Alina,· Sisenna, Trocina, Tbormena, ecc. Noi sappiamo da Servio (1) che teta appunto erano dal volgo con voce non latina chiamati i palombi. Ora il fatto di trovare una famiglia etrusca così denominata ci spiega ad un tempo la patria di detta voce e d’ onde trasse origine il nome della famiglia stessa. Il matronimico vantn[al] è verosimilmente dedotto dal Genio femminile o Tanato etrusco vanft, il cui nome e la cui figura ricorrono su vari monumenti (2). I2· MV>13=I · >133 vel · teta velus' ~ Veliti s Teia Velii (filius) Incisa in urna di travertino proveniente da Chiusi. Collezione Ancona. Il titolare è probabilmente fratello del precedente e primogenito della famiglia, siccome quello che porta il prenome del padre. '3·. ΊΑΟΚΝΑ : A+3+ : Ί3ί vel : teta : arηθ-al = Velius Teta Aruntis (filius). (1) Columbae, quas vulgus tetas vocat: et non dicuntur latine; sed multorum auctoritas latinum facit, ad Ed., 1, 58. (2) C. i. i. 564, 2162: }.° Suppl. 315. Gamurr. Append. 639. H Corssen deriva la parola vani· dalla radice sanscrita van : ma più plausibile apparisce 1’ opinione del prof. Lignana che essa corrisponda , cioè , al θ-ά-νατος dei Greci, connettendo quest’ ultima voce alla radice vedica dbian, nascondere, estinguere, scomparire, donde la forma di participio dhvântü, ombra, oscurità (Bull. dell'Inst. di corr. arch., 1876, p· 208). 2o8 GIORNALE LIGUSTICO Incisa su coperchio d’ urna marmorea su cui figura virile seminuda recombente, cinta il capo di corona tortile, con patera nella destra. Sulla facciata dell’ urna è scolpita a bassorilievo la caccia del cignale caledonio. Museo Comunale di Bologna. Questo monumento, in un coi due precedenti, fa parte secondo ogni probabilità della serie di urne della stessa famiglia pubblicate sotto i num. 867-870 àdY Appendice del Gamurrini, e trovate fra Chiusi e Cetona ; alla qual serie spetta parimente il titolo femminile n. 1017 del C. i. i., a·^ : varnei : tetasa (1). Dall’iscrizione atl teta veiaral di coperchio d’urna del museo perugino (C. i. i., 1947), sembra potersi dedurre che un ramo della stessa famiglia, 0 altra famiglia omonima fosse stabilita a Perugia. Però se si tien conto del fatto che la precitata iscrizione n. 1017 del C. i. i., sebbene esistente come questa nel Museo di Perugia, proviene tuttavia notoriamente da Cetona, sarà lecito sospettare che anche il coperchio d’ urna in discorso possa ripetere la stessa origine. 14· AEBqamv): lar&ia : cumeresa = Lartia Cumerii (uxor). Graffita sul ventre di boccale d’ argilla grezza. Collezione Ancona. Il casato cumere, lat. Cumerius, a cui la titolare apparii) Anche il coperchio d’ ossuario inscritto θ-ania : urinati: tetasa ora nel Museo di Firenze, proviene dall’agro chiusino. Il C. i. i. (534 bis m) trascrive erroneamente : : flQ il primo membro di questa iscrizione, che è invece come ho potuto verificare sul monu- mento originale. GIORNALE LIGUSTICO 209 tiene pei matrimonio, è ricordato esclusivamente in titoli dell’agro chiusino (1). *5- : 3+VI+ · 00 afr · tiute : marenai = Aruns Tutius Marcaniae (natus). Incisa su stele di travertino sormontata da una sfera, di provenienza chiusina. Collezione Ancona. È questo il primo monumento su cui compare la forma tiute, di cui vien cosi per esso ad arricchirsi l’onomastico etrusco, dove peraltro già era noto il gentilizio tiu, genit. ti us (2), donde il nome di coniugio tiu za (3), 0 ti usa (4). Considerato, del resto, che il dittongo tu spiegasi talvolta da u, come vedesi in partiunus = partunus (5), e cosi in auliu, caciu, larO-iu ecc. rispetto ad aulu, cacu, lar&u, si può probabilmente arguire che il tiute della presente iscrizione non si differenzi che per la forma ortografica dal gentilizio tute, genit. tu tes, = lat. Tutius, di cui già si aveva contezza dai seguenti monumenti funerarii : tute — tazza fittile, S. Maria di Capua, j.° Suppl., 511. tute:lar'9·:anc:far'^,naχe:tute:arn■9·als lupu : avils:esals:cezpa^ a 1 s |] h alliais: ravnftuizi^nu: (1) C. t. ì. 490, 493, 494, 601 bis h, 940, ion, 1011 bis c, 1011 bis 1, 1012; i.° Suppl, 169 e; 2.0 Suppl. 25, 26; j.° Suppl. 279-284. (2) 1. tiu cunt II nal — urna perugina, Gamurr. App. 694. (3) tiu za —· tegola chiusina, C. i. L, 726, ter a. tiuza : tius : vetusahclan : θ-anas: .vaso fìttile, ib., 726 ter c. tiuza tius :vet u sal II clan &anas[]tlesnal||avi:l: SXIII — parete di sepolcro chiusino, ib., 726. ter d. (4) fasti y hermnei II tiusa || vetusal — tegola ed urna chiusine ib., 726, ter. l· e /. (5) 5·° Suppl., 368, 369, 371. Giorn. Ligustico Anno X. 14 210 GIORNALE LIGUSTICO cezpz : purts'vana : ^ìunz — Sarcofago, Castel Musi-gnano (Vulci), ib., 387. 1 a r θ i : marcnei : tut : vili a sa — id., Sarteano, C. i. i. 1011 bis a. tutes -s'eOre ■ lardai- clan · pumplial)(-vel s · z i 1 ayva u c · · Il z i 1 c t i · pur t s'va veti · lu pu · aviis ma^s · zaftpums — id., Castel Musignano, i.° Suppl., 388. tutes · arnï · lardai — Piedistallo lavorato, in terra cotta, ib., 389. — es · tutes — Base marmorea, Toscan ella, 3.° Suppl., 353- ■frana : secui : tute || s' : seplnal : s'ec — umetta, Ca-mulliano, Gamurr., Append. 514. (1)· velia -tuti-sterlinai — olla cineraria fìttile, ib., ib., 522. vel he imi tutia klan&Hnevi:! kilnei velasna||l s'ey — urna, Bettolle, ib., 544. ié. ^30 wnmw-ì m® hel cpai v : remanal = Helia Phaia Velii (filia) Renamele (nata). Cippo sepolcrale sormontato da sfera, intorno alla quale è incisa Γ iscrizione. Chiusi. Collezione Ancona. Degna d’osservazione è la sigla hel come compendio del raro prenome femminile heli che non figura nel catalogo del Corssen, ma di cui possono peraltro citarsi i seguenti altri esempi : (1) 1! Gamurrini legge erroneamente seplanal. GIORNALE LIGUSTICO 211 h e 1 · s c — Stela vulcente, C. i. i. 2226. ar · semini · a u les' || hel · verial · clan — Sarcofago perugino,· ib., 1756. au : se ni-8· ni : au || hel vereal : clan — Id., ib., 1757. hel vereal y au· semini :eter a — Stele perugina , ib., 1906. Ignota è la famiglia 6 242 GIORNALE LIGUSTICO Il Fabretti, che per cortesia del ch. Mieli. Bréal, dice di aver sott’occhio i fac-simili in legno, ci fa sapere come in questi pezzi cubici i numeri sono disposti in guisa che ma\ ha per corrispondente χαΐ nella faccia opposta, risponde ad hiift·, e ci a s'a. Ora da quale criterio sieno stati guidati tali interpreti a leggere maj_, uno, e poi con un salto quasi mortale, d-u, due, io non lo so; eppure per altri dadi segnati a circoletti e scoperti in Etruria, di cui uno Orvietano nel Collegio Fiorentino alla Querce, e molti Bolognesi, descritti dai chh. Gozzadini e Zannoni (1. c. p. 10 seg.) si conosceva che contrariamente ai Greci disposti in modo che le faccie opposte formino il numero sette, fossero messi in guisa che all5 uno rispondesse il due, al tre il quattro, al cinque il sei. Che se così va la bisogna, perchè non seguir 1 ordine segnatoci dai dadi stessi, e tener ma\ per uno, per due, %ίι per tre, hn$ per quattro, ci per cinque & s'a per sei ? In tal maniera operando, la più grande difficoltà si sarebbe evitata , e la vera via nell’ interpretazione dei descritti monumenti avrebbero tenuta (1). Di fatto ma\, eccettuato il Corssen, che Γ interpreta per un certo Mago, leggendo max θ u z a 1 h u θ ci s’a Magus donarium hoc cisorio facit (fecit) (2) è ammesso dai più per uno, benché non si sappia chiaramente trovare a qual radice assegnarlo. Fu raffrontato al (1) Perchè anche l’occhio d’ ognuno rimanga appagato, metto a confronto il dado Orvietano che io ho presente, con quelli di Toscanella datici dal Fabretti : 00 0000 °_ , 0-°° , o -00 00 0000 max-zal, $u - hu$, ci - s'a. (2) Fabretti, 1. c. p. 9. GIORNALE LIGUSTICO 243 μία greco col suffisso italico x (cfr. unico da uno) e con alquanto di probabilità essendo il m protetico (1) ed avvicinandosi di molto all’ antico indiano eka. Tuttavia non avrei difficoltà di confrontarlo colla radice sanscr. mah, da cui viene macer, magro, μακρός, lungo, e μάκος, lunghezza ; in tal guisa prenderebbe il nome dalla sua forma, a somiglianza cioè di una linea, che secondo Euclide si definisce : μήκος άπλατές.. Nè contraria opinione aveasi dai scrittori antichi della simile vocale I, che dissero per antonomasia litteram longam (2). Ma basti il fin qui detto , essendo per altro noto quanto variamente nelle lingue ariane siasi espressa la i.a unità, ed essendo per di più molto facil cosa perdersi nelle congetture. Zal, meglio che tre, a mio avviso significherebbe due ; sciogliendo difatto la prima lettera ne’ suoi elementi si avrà djal, simile a dualis (3). È molto affine al sanscr. hali (4), che nel gioco dei dadi è un numero d’ignoto significato sinora. La trasforma-mazione poi delle dentali de t in è confermata da molti esempi sì greci che italici. Ed invero, πέζος è formato da πέδ-joç, τράπεζα da τε-τράπεδ-ja (tavola di quattro piedi) όζω da δδ-]ω, onde il latino odor, ελπίζω da έλπίδ-jco. In latino son noti i nomi Zodorus, Zonisius, Zabulus, per Diodorus, Dio-nisius, Diabulus ; e per 1’ etrusco idioma non dobbiamo cercare esempii molto lontani, avendo nel Fabretti (1. c. p. 12), Ziumite per Tiumite, Diomede, e Tizial per Titial, ed in Deecke (pag. 1432), presitie e Seian^i, invece di pres(n)te, seianti. (1) Μία in Omero è ία ; μόσκος e μάλευρον fu scritto dai greci come δσκος e άλευρον ; e da ’Άρης e ίλη venne secondo me il latino Mars e miles. (2) Cfr. Geli. 1, 20, Plauto Aul. I, se. 1, v. 38. (3) La ^ fu per altro conservata nel tedesco quei e non nell’ inglese tuo. (4) Notisi a proposito dello scambio di una muta con un’ altra 1’ analogia che passa tra il greco τίς , coll’ osco pis’ ed il latino qtiis più conforme al sanscr. kas. 244 GIORNALE LIGUSTICO Il numero per la somiglianza di suono che ha con due, fu con questo confuso, anzi servi come di punto di partenza per una si bella scoperta nella lingua etrusca, scoperta confermata di poi principalmente con Γ aiuto di varie lapidi riportate dal lodato Fabretti alla pag. 19, 1. c. Ma come abbiamo notato , per il posto che occupa , non può significare che tre, e d’ altra parte assimilarlo al latino ter 0 tres, è lavoro di ben lieve momento, sapendosi come nelle lingue ariane la semivocale r è talmente debole, che alle volte viene supplita _da una semplice aspirata, e tal altra scompare del tutto. Così da frater, ci venne frate e fratello, invece di sursum fu scritto susum, onde Γ italiano suso, e Prosepnais ? invece di e Proserpinas (Garrucci Syll. 533); in greco poi abbiamo le voci doriche άλάβαστος, σκαπτός e μίκκός per αλάβαστρον, σκάπτρον e μικρός, ed in etrusco fl02VH10VO κλυταιμνήστρα in uno specchio del museo di Berlino (1). Finalmente per completare in poco tutto Γ argomento dirò che nella formazione di moltissime parole, la r spesso sparisce, come p. e. in fas-tus, da fars-tus, tos-tus, da tors-tus, tes-ta da ters-ta. Riguardo poi al trovarvi la lettera u invece dell’e od i, come in tres per il latino, e tris per il sanscrito, fo notare che le medesime nella lingua più arcaica s’invertivano, cosicché troviamo adducitor per addicitor, nelle XII Tav., capiundeis per capiendeis (Garr. 1004), contumnari per contemnari (912), e nello [specchio testé citato oltre a Clu&ums&a, troviamo Unisce invece di Urestìe. Ma è questa una materia troppo trita, perchè mi dispensi dal più tratte-nermivi. Tengasi dunque $u nel significato di tre, e passiamo oltre (2). (1) Gerhard. Etr. Spiegel. Taf. CCCXXX\TII-III-22i. Cfr. anche ~V- P°ggi ) Quisquilie Epigrafiche. Gennaio 1882. (2) Per gli amatori di lingue comparate riporto dall’ Hale (Spediz. espi, degli Stati Uniti, Vol. Vili, pag. 246) il numero tre, come è espresso in GIORNALE LIGUSTICO 245 Ciò che abbiamo detto riguardo alla soppressione della semivocale r nella voce -9·», valga per hud-, che del resto fu ben confrontato al sanscrito c’alur, all’etrusco Uhtave, ed all’ osco ohutur. Si potea però anche vedere nella forma hud· per cu& un idiotismo causato da pronuncia locale , e di cui molti esempli ci somministrano antichi monumenti, come hameris per Camers, hamnhea per Campanos, harpitial per Car-pitiaì, hekinas per Caecina (1). Per gli altri due numeri nulla vi ha che valga a trattenerci, essendo ci affinissimo al latino quinque ed all’ italiano cinque, e sa al latino sex. Ma lo studio dei dadi di Toscanella mi ha involontariamente tratto in un’ altra questione molto agitata da gran tempo , ed a mio parere non ancora risoluta, vo’ dire -del-1’ origine delle cifre numeriche presso gli Etruschi. Già il Lanzi (2), era d’avviso che le medesime avessero origine dalle lettere dell’ alfabeto, quando asseriva che il segno I ■dell’ unità 1’ avessero gli Etruschi ed i Latini tolto dai Greci, che servironsi delle lettere I, Π, Δ, H, X, iniziali dei numeri ϊος, πέντε, δέκα, Ηεκατόν, χίλιοι, per esprimere le loro cifre; e l’archeologo di Gottinga, O. Miiller, ci facea di più notare che mentre dalle cifre conosciute si scopre assai facilmente la loro somiglianza colle lettere, si osserva negli Etruschi e nei Romani una propensione particolare di dare ad esse alcuna, differenza, perchè tra loro non si confondessero. Sopra questi due autori poggiasi la mia tesi, senza però tenere nè per 1’ uno, nè per Γ altro, e tralasciando di varii dialetti della Polinesia. Nel Fakaafoano, Hawaiiano, Samoano e Tçmgano, dicesi tolu; toru, nel N. Zelandese, Rarotongano, Mancare-vano, e Tahitiano ; tuo poi nel Nakuivano. (1) W. Deecke Neuere etruscologische Publicationen. Gott. gel. Anz. 1880 stusk. 45-46, pag. 1430. (2) Saggio di lingua etrusca II, 385. § XIV. Il resto del ragionamento fondato sopra un alfabeto arbitrario non giova a nulla. 246 GIORNALE LIGUSTICO citare per ora altri più o meno antichi, che per avventura abbiano di numerazione etrusca 0 romana trattato (1). Ciò premesso, ecco la mia proposizione. — Gli Etruschi, egualmente che i Romani formarono le cifre numeriche col segno I, e colla lettera > iniziale della voce |>, cinque. La ragione di ciò chiara appare per chi consideri essere essi i soli elementi che entrino a formare tutte le altre. Invece del comune > o ) fu adottato il segno A più arcaico , siccome quello che fu adoperato dai Fenicii nel senso di ghimel e parimenti dai Greci, come si rileva dai monumenti più antichi e riportati ai numeri 22, 8, 70, 71, 75, 76, 77, 80, 138, ecc. del Corp. Inscr. Gr. (2). Il segno I, non fu preso come vorrebbe il Lanzi dai Greci, nè probabilmente dal clavus annalis , secondo che inclina a credere il Fabretti (1. c. pag. 244-45), essendo esso comune anche agli Egizi ed ai Fenici, ma dall’idea di linea, che anche gli antichi avevano siccome limite di grandezza. Onde Macrobio (In Somm. Scip. I, 5), disse : Superficies sicut est corporum terminus, ita lineis terminatur, quas suo nomine γραμμάς Graecia vocat. Una prova di ciò ne somministra anche il sistema monetario etrusco e romano, in cui il segno dell’ asse come unità fu espresso quasi sempre da una linea, mentrecchè le frazioni del medesimo si segnarono con globoli o punti, che matematicamente sono di essa generatori ed insieme parte. Al numero qui- (1) Varii autori sono stati compendiati dal Fabretti, I, suppl. pag. 244 e seg. (2) Cfr. Fabretti 1. c. p. 147 e 177, ove si vedrà ancora come insensibilmente il medesimo segno prendesse anche in greco la forma ) rimasta esclusivamente degli Etruschi. È inutile infine far osservare che negli alfabeti di Bomazzo e di Roselle > occupa il posto di [“. Non deb-besi però confondere colla lettera /\ della tav. V. Eugubina e di altri pochi monumenti etruschi, la quale ha altro valore. GIORNALE LIGUSTICO 247 nario poi gran virtù atteibuivasi dalT antichità (i). Onde il testé citato Macrobio diceva. Hic (binarius) ergo numerus cum quinario aptissime jungitur.... Illa vero quinario nuinero proprietas, excepta potentia, ultra caeteras eminentius evenit, quod solus omnia, quaeque sunt, quaeque videntur esse complexus est (3). Nelle tavole calcolatone, dei Greci specialmente, questo numero servì alla progressione ed alla semplificazione del calcolo (2) , onde non fa meraviglia se per essi πεμπάζω fosse sinonimo di άριθμέω. Πεμπάζετ’ ’ορθώς έκβολάς ψήφων, ξένοι, disse Eschilo (Emn. 74&)> e ne' Persiani (988 segg.). Tòv σον πιστον πάντ’ ’οφθ-αλμόν μύρια μύρια πεμπαστάν, βατανώχου παΐδ’ ’Άλπιστον ’ελιπες, "ελιπες; * Plutarco finalmente (1. c.) Άφ5 ου (πεμπάδος) το' άριθμεΐν οί σοφοί πεμπάζειν ώνομαζον. Laonde se mi si domandi in qual maniera abbiano gli Etruschi e conseguentemente i Romani potuto formare tutte le loro cifre numeriche con questi due segni soltanto , risponderò : Col prenderli, 0 semplicemente 0 combinati insieme. In tal guisa il numero X, come indica secondo alcuni, anche il suo nome medesimo decem, δεκα, da-çan (4), varrebbe due volte cinque e sarebbe formato da V +■ V (1) Cfr. Plut. Op. mor. I, p. 473. Paris Didot-Firmin. (2) L. c. c. 6. (3) Vedi la tavola attica pubblicata dal Letronne e riprodotta dal Gar-rucci nel.Boll. Arch. Nap. A. II, p. 93, segg. (4) Il Sanscrito daçan non è formato come vorrebbe il Bopp (Vergi. Granim. §. 318) da dua-çan ma da d-a-çan (cfr. έκατόν), di maniera che, come in tutte le lingue affini, non conserva se non la sola con- 248 GIORNALE LIGUSTICO ambidue segnati cogli angoli opposti. Quindi se abbiamo la lettera > coll’angolo in alto per gli Etruschi, ed in basso per i Romani il numero sarà 5. Se Λ ha l’angolo intersecato da I darà alla cifra il valore di 50 (v. tav. f. g.h .) ; questo duplicato significherà 100 (?'-/) come moltiplicato ancora per 10 indicherà 500 (0). Questa moltiplicazione si ottiene aggiungendo una linea al segno -f. Veramente in Etrusco, non abbiamo sinora avuto in modo chiaro quest’ ultima cifra, ma per induzione possiamo distinguerla dal latino D intersecato da una linea. Se questo raddoppiamo avremo la cifra del 1000 (p. q.)7 come tagliando ancora con un’altra linea il segno χ chiuso nel circolo troveremo il suo decuplo (s. t. v. u.'). Suppongo che queste due ultime cifre 1’ abbia conosciute anche Prisciano, avendoci lasciato scritto doversi adoperare X fra due Ç per avere il mille ed M parimente fra due C per formare 11 numero diecimila. Altri segni non avendo almeno di pro-babil interpretazione mi fermo, rimandando quelli che abbiano voglia di continuare la progressione per mezzo dei numeri romani (i quali però come li abbiamo hanno già subite varie mutazioni) alle opere specialmente del Morcelli (D. St. Inscr. Lat. L. III, p. I, c. X), del Fabretti (1. c.) e del Gar-rucci (Syll. p. 13). sonante radicale della voce due. Così per passarmi dell’italiano, del latino e del greco, ove rimane la lettera d, trovo che da xwei si formò tehan e poi %ehn in tedesco, da two in inglese venne ten; e dal Polacco dwa e russo duci ebbero origine d%iesiçc’ e deçiaf. E questo va ben osservato perchè si possa rispondere a qualunque difficoltà ; mentre per parte mia posso attestare che dietro queste osservazioni ciò che una volta mi appariva come dubbio, ora è diventato realtà. L’ altra parte di cui è formata la parola, benché soggetta anch’ essa a mutamenti più 0 meno grandi, secondo l’indole dei diversi linguaggi, pure conserva la stessa radice ka che ha formato il cinque. M.Dassako Dis. GIORNALE LIGUSTICO 249 Intanto per dar ragione ancora delle sigle nella Tavola (r) descritte, dirò che la cifra s notata come avente il valore di 10000 trovasi graffita sotto il pie’ di una tazza orvietana di Bucchero nero, ora nel Collegio Fiorentino alla Querce ; il segno u Γ ho tolto dal Fabr. 1. Suppi. Tav. IV, 95. Si potrebbe ancora vedere con lieve differenza, t, nella prima nota a destra della famosa Gemma parigina detta del calcolatore, se è buona, come parrebbe, la lettura dataci dall’Orioli (2), il quale non contento della incisione pubblicata dal Micali (Ant. Mon. T. LIV), recatosi a Parigi, volle ripetutamente osservare 1’ originale, e di più ne chiese cd ottenne un’ impronta dal R. Rochette. In tal guisa essendo la cosa, alla cifra a sinistra, r2, che è quasi la metà potrebbesi assegnare il valore di 5000. So che comunemente furono ambedue lette per 1000, ma ciò avvenne, perchè le note della seconda linea, p, si tennero per 100, il che quanto sia lungi dal vero non v’ ha chi dal già detto non possa argomentarlo. Per i segni I, A, non troviamo nessuna difficoltà da eliminare, essendone chiarissimi e moltissimi gli esempi. La nota )IC= 100, /, l’abbiamo in due monete di bronzo; delle quali una nel Medagliere Vaticano (1. Suppl. p. 244), e l’altra, fu giudicata dal Gamurrini la più antica e primitiva forma della numerazione italica (3). Si potrebbe però dire sinceramente Etrusca, trovandosi in molti monumenti proprii di questa regione (1. Suppl. Ili, 40, 56, 112, III. Suppl. XXIX, 33-34), (1) Ho creduto bene nella Tavola alle cifre etnische far seguire le romane, perchè più chiaramente si possa osservare fin dove giunga la loro somiglianza. (2) Cfr. Conestabile. Boll, di Corr. Arch. 1863, p. 155. La pietra, come mi scrive da Parigi il mio buon amico P. Montigny, al quale mi era diretto per avere intorno alla medesima notizie, è rotta in più pezzi; quindi nessun si meravigli se varie sieno le sentenze sul suo valore. (3) Gamurrini. App. ecc. 113. Bortolotti. Boll, di Corr. Arch. 1875. 250 GIORNALE LIGUSTICO e chiarissimamente graffito sotto il piede di un vaso dipinto a figure nere del Museo di Luciano Bonaparte, seguito dalla cifra t = 50 [h, i] (1). La nota > la trovo incisa profondamente nell’ orlo d’una grand’ anfora anche a figure nere (Gam. 636), benché potrebbe essere iniziale di una voce esprimente misura, come conclus, 0 simile. Comune è però nei monumenti Etrusco-campani, laonde io credo che il numero 100 si segnasse con ) solo in epoca relativamente moderna, e siccome iniziale della voce centum. Per ciò che si appartiene alle varietà epigrafiche, do semplicemente contezza di alcune, come me le trovo segnate — La singolare t=io è graffita su creta cruda sotto il piede di un vaso di rozzissima tecnica, di cui alcuni frammenti furono rinvenuti a Fraore nel Parmense , e trovasi nel Museo di Parma secondo che gentilmente mi scrive il ch. V. Poggi. La sigla j, fu graffita sotto una ciotola di bucchero del Museo Archeologico di Firenze, e Γ altra k appartiene a Villanova come rilevo da lettera del Castelfranco diretta al lodato Poggi. Il numero 500 da me veduto nella nota 0 è proprio dei vasi di Vulci (Fabr. 2229), come di questa regione è un’ altra q2 che vedesi disegnata e seguita da X nella Tav. Ili, n. 238, del Museo del Principe di Canino, e che unita all’ altra leggesi 1010. La precedente q fu graffita sotto il piede di un calice con zone di animali in campo giallo; e la v dentro una tazza di bucchero bigio proveniente da Orvieto, ed ora nel museo di Firenze. Finalmente u ed r possono vedersi nel Fabr. 1. Suppl. IV, 95; e nel Bonaparte 1462. Nè dallo scorgere cifre sì alte sopra figuline alcuno si meravigli; chè da una parte è noto quale quantità sterminata ne sia uscita dai sepolcri etruschi, e dal-l’altra son chiari gli esempi di coloro che vollero segnare (1) Museum de Lue. Bonap. Princ. de Canino. Tav. Ili, 247. Le cifre vanno lette al contrario di quelle che ci furono date dall’editore. GIORNALE LIGUSTICO 25I sulle medesime il numero di quelle che furono lavorate, vendute o consegnate. Per completare in ultimo la presente materia , avvertirò che esempli di non dubbia sincerità e somiglianza fra alcune cifre etnische e le più arcaiche Romane, si possono vedere in quelle riportate dal P. Bruzza nella memoria che ha per titolo : I segni incisi nei massi delle mura antichissime di Roma (1). Fu detto da molti che la serie dei numeri procedesse per sottrazione e non per moltiplicazione ed addizione, ed in prova fu portato Γ esempio che nelle note le quali si trovano fra le decine fu spesso nella scrittura adoperato il primo sistema. A me pare che ciò provi ben poco , perchè lasciando stare che la massima parte di loro si formassero per addizione, come si può vedere per le note da X a XIII, da XV a XVII, da XX a XXIII ecc. negli esempii addotti il numero scri-veasi nell’ una e nell’ altra maniera ; anzi si potrebbe aggiungere che il sistema di sottrazione, se non è una moda relativamente più moderna di scrivere, è tanto antico quanto il suo contrario, chè per portare un argomento certo, in una oenochoe trovata con vasi dipinti e di bucchero in Orvieto, forse del IV secolo, se non V prima dell’ èra volgare, fu visto e pubblicato da chi scrive il numero 19 scritto ΧΛ1111 e non X|X (2). Se non che la contraria teoria più moderna apparve anche al Mor-celli, di cui questa è la sentenza. « Nec primam numerorum » nolam vetustiores ut nunc plerique ante V aut X, ponebant, si » numeros quatuor aut novem, aut quatuordecim scribere vellent : » notam potius quater usurpabant, eandem sic, ||||, Vllll, XIIII » itemque ut quadraginta et quadringenta significarent, scribebant (1) Annali dell’istituto di Corr. Arch. Tav. I. Iscri%. Ant. Vere, pag. 64 e 403. (2) Di alcune epigrafi Etrusche ecc. Relazione al cav. V. Poggi. Genova 188r. L’epigrafe si mostra singolare anche perchè contrariamente alle altre del medesimo genere procede da sinistra a destra. 252 GIORNALE LIGUSTICO » XXXX Ct CCCC potius quam XL et CD· Ceterum hanc quoque » rationem florentibus tum etiam litteris usu Latini compì oba-» runt ecc. » (1). Inoltre, e . lo dirò anche a pericolo di divenir prolisso, una prova molto convincente 1 abbiamo nella lettura stessa dei numeri, che indicano tutti somma e moltiplicazione. Ed invero chi non sa che undici, p. e., c composto di dieci ed uno? che dodici, tredici, quattoidici, ecc. si formano di una decina e di due, tre, quattio unita? Dicasi lo stesso di quelli che indicano un multiplo. Già ho citato l’esempio del numero 10, che nella lingua italiana, latina, greca, tedesca e sanscrita, con sincope più o meno forte è formato di 2 X 5 e posso aggiungere che indizii certi di .moltiplicazione si hanno ancora in 20, 30, 40, 50 ecc·* sino a 100, e poi in 200 , 300 , sino a 1000. Infatti nelle lingue ariane , venti è lo stesso che viginti (dui-deginti) che il greco εΐ-κοσι (doric. Ρεί-ν-χτι), che il sanscrito vi-çati (dvi-çati) che, e più chiaramente, il russo dva-dtzat. Trenta ha comune origine con tri-ginta (tri-deginta) col raddolcimento, come in viginti, del c in g, con τρια-κοντα e col sanscrito tria-daçan-ta, cioè 3 χ 10. Lo stesso, a non andar per le lunghe, dicasi dei multipli di centum, in greco εκατόν, in sanscrito katam, e di quelli di mille, daça-çata : 10 X 100 (2). Giunti in questo punto, non credo inutile far osservale come la voce χίλιοι, dorico χήλιοι, fu giudicata finora di oscura derivazione, ma io, dietro a ciò che disopra abbiamo esposto, non avrei difficoltà di farla derivare da una radice κα comune ad έ-κατόν, a δ-έ-κα ed a πέντε, eolico πέμπε, usato invece di κέν-κε, allo stesso modo che anticamente si usò scrivere πόσος , ποιος, πότερος, ποΰ, πω, per Γ eolico ed il ionico κόσος, (1) De Stilo Inscr., lib. IL part. Ili, cap. VIII. (2) De Gubernatis. (Encic. Ind.) spiega la parola deçaçata anche no. GIORNALE LIGUSTICO 253 κοΐος, κότερος, κοϋ , κώ (ι). Accresce forza all’argomento il trovarsi in χίλιοι la gutturale aspirata , il che non ha luogo se non per legge di compensazione, come per πέ-πλεκ-κα usiamo πέπλεχα. Lo stesso ragionamento valga per le voci latine quinque, decem, quinquaginta, centum ed anche mille, se si vuol assimilare a χίλιοι; benché io creda meglio farla derivare da una radice comune ad ίλη od εΐλη, qualunque numero, specialmente di soldati, trovandosi nel latino più arcaico milia e meilia, ed in stretta analogia con miles. Dal già detto chiaro apparisce che la ragione delle cifre numeriche , quali noi Γ abbiamo, sia fondata tutta sopra un antichissimo sistema quinario, e che il decimale , che poi venne in uso , non sia altro che il quinario duplicato. Esso si trova non solo appo gli Etruschi, ma presso i popoli Romani, Greci, Scandinavi, i quali ultimi ammettevano anche una settimana di cinque giorni, e tra la maggior parte degli indigeni americani, il cui idioma ai nostri tempi è stato trovato molto affine agli altri di ariana origine. Anzi per questi ultimi il principio si mostra evidente quant’ altro mai, non avendo essi nemmeno una parola semplice per esprimere l’idea dei numeri sei, sette, ecc. Così per servirmi di un esempio, presso alcuni di loro mentre troviamo le voci benne, naire, niatte, manette, dhiouvoun, che significano uno, due, tre, quattro e cinque, notiamo essersi aggiunta una, due, tre, quattro unità al cinque, per potersi esprimere le note seguenti fino al dieci, quando leggiamo scritto dhiouvoun benne, dhiouvoun naire ecc. Questo sistema debbono ammettere ancora quanti giudicano il decimale aver avuto origine dalle dita della mano, non potendo esso nascere se non dalla unione e somma delle due mani, ed è (1) Cfr. Gisb. Koen in Gregor. Corinthi Metrop. de Dialectis. Lugd. Batav. 1766, p. 193 e 272. — G. Curtius, nella Zeilschr. di Kuhn III, 401. segg. GIORNALE LIGUSTICO forse perciò, che generalmente, come osservò Humboldt, in America il numero cinque si esprime con una voce che significa anche mano (i). Tali osservazioni ho creduto fare per mostrare tutto intero il concetto che io mi son formato intorno alla numerazione, specialmente etnisca, contento di aver capito per mezzo del descritto sistema in che maniera esistano certe note con determinata significazione, altrimenti inesplicabili, come a dire: V = 5, X = io, L — 50, D = 50o; se pure non si voglia ritornare alla spiegazione data da un antico grammatico conosciuto sotto il nome di Valerio Probo, le cui stesse parole amo in parte citare, perchè da molti grammatici posteriori fu seguito. — Quinarius per \j, quintam vocalem notatur, a quo numero per adiectionem unitatum deinceps ad denarium pervenitur. Denarius per decimam consonantem χ.... L notat quinquaginta, ad imitationem Graecorum qui per N hunc numerum scribunt, L autem et (\J invicem sibi cedunt, ut Lympha et Nympha, etc.... (2). L’ Orioli (Op. Lett. di Boi. 1, 219) benché più razionalmente avesse trattato la quistione, pure vide nella nota etrusca Λ un’alterazione della Π iniziale di πέντε, nella χ un + iniziale di un supposto tesen dieci, e nella 'P· la stessa lettera etrusca ψ, congetturando che per essa avesse principio il prenome Quintus (5). La teoria poi propugnata ultimamente (1) Humboldt. Vues des Cordillères, II, 230-235. Dard. Diction. Franç. Wolf. Paris, 1824, Pott. die quinarie und vigesimale Zâhlmethode bei Vôlkern aller Weltheine. Halle 1847. Canini. Affinité du Quechua et de l’Aymara avec les langues Aryennes (App. à l’Etude Etymologique). Turin, 1882, 249. (2) De Notis numerorum. Colon. Allobr. 1622. (3) C. fr. Fabr. 1. Supp. p. 246. GIORNALE LIGUSTICO 255 dal Bortolotti (i), fu già combattuta dal De Mattheis (2), contro il Vossio, P Alciati, il Bianchini ed il Corsini; il qual De Mattheis a sua volta coll’ altra del chiodo annuale e della inclinazione e direzione delle linee, non si mostra più felice , mentre lavora in un campo del tutto arbitrario, mostrandosi fin anche ignaro, non altrimenti che il testé citato antico Grammatico , delle vere e più antiche forme numeriche. Nè finalmente, per quanto speciosa apparisca, soddisfa punto al comune desiderio la dottrina di Huet, Borei, Brehy e de Mailly (3), che si fonda sulle dita della mano; chè, se da una parte ci appare buona per spiegare l’origine del sistema quinario e decimale nella numerazione, riesce assai puerile quando si tratta di formare con esse qualunque cifra numerica o romana od etrusca. Moncalieri, R. Collegio C. Alberto, 1. Febbraio 1880. ILLUSTRAZIONE STORICA DI ALCUNI SIGILLI ANTICHI DELLA LUNIGIANA opera postuma del Cav. Avv. eugenio branchi edita da Giovanni sforza (Contînuaz. v. fase. IV, pag. 129). Sigillo VI. Sigillo di forma ovale, con la impronta di uno scudo coronato, tagliato orizzontalmente ed avente nella parte supe- (1) Boll, di Corr. Arch. 1875. p. 15$, segg. Le così dette tacche, taglie o tessere non potettero giammai dar origine alle cifre numeriche quali noi Γ abbiamo, essendo esse parto nobile d’una mente educata alla scuola del raziocinio, e non come ci si lascierebbe supporre, di gente idiota, che si serve di tali istrumenti perchè non sa nè leggere nè scrivere. (2) Dissertazione sull’ origine dei numeri Romani. Roma 1818. (3) Il Momrasen, (Storia Rom. L. I c. XIV) asserisce, che i segni | \J ovvero Λ eti X sieno manifeste rappresentazioni del dito solo, della mano aperta e di ambe due le mani. 256 GIORNALE LIGUSTICO riore un’aquila a due teste coronata, e nella inferiore un leone rampante, in mezzo a due spini secchi, con la leggenda. * M FRANCESCO » MALASPINA * M * DI TREGAN. La detta impronta, marcata in nero ed osservata recentemente sugli Annali della Società Colombaria fiorentina, Vol. XVI, 98, dal cultore distintissimo di numismatica e sfragistica sig. abate Guido Ciabatti, e che si dice tiatta dall o riginale in bronzo, non indica i colori nè del campo, nè delle figure. Anche lo Zanetti nella dotta sua opera Delle moneti e pecche d’Iialia, là ove tratta della Zecca di Tresana, riportando nel disegno di più monete lo stemma stesso , i colori non ne dinota; ma si sa altronde, che l’aquila siccome imperiale era nera in campo d’ oro , e che il leone era bianco, e gli spini della tinta lor naturale, posanti su campo rosso. Fu già detto, parlando del Sigillo del Marchese Moioello Malaspina al N. 1, che cosa nell’arma di questa famiglia significassero P aquila grifagna e il leone bianco , e fu detto pure che il ramo dei Marchesi Malaspina di Mulazzo portava quest’ultimo emblema scolpito insiem cogli spini sopì a campo d’ oro. Ora quivi, come è stato veduto in altri sigilli coevi, P aquila deve esser in campo d’ oro, e gli spini e il leone in campo rosso. Quando l’aquila bicipite non formava che un ornamento esteriore dello scudo, conservossi allo spino, antico’emblema della famiglia , ii fondo d oro, collocata entro a questo , si lascio ad essa un tal campo , che era il suo originario, e si diè rosso allo spino. Le ragioni di tal cambiamento non sono note, ne e noto pur anche il tempo in cui questo avvenne, sebbene possa dirsi che ciò incominciasse a praticarsi verso i primi del secolo XVI, perocché innanzi tal’ epoca lo spino 0 spini e il leone non avevano all’aquila ceduto alcun posto. Sta per altro in fatto, che dal tempo surriferito la famiglia Malaspina di Mulazzo, da cui si diramarono quelle di Villafranca e Lusuolo ed altre, ri- GIORNALE LIGUSTICO 257 tenne lo stemma riformato, di cui si tratta, e che nella tavola infine sotto il N. IV è delineato. Ma di ciò a bastanza. La leggenda di questo Sigillo ci apprende cui esso appartenne. Chi fu egli però questo messer Francesco Malaspina Marchese di Treggiana 0 Tresana ? Ciò è quanto sopra ogni altra cosa interessa sapere al lettore, che ha diritto leggere, in certo modo, la storia nelle impronte delle monete, dei segni, sigilli e stemmi che gli si presentano ; perocché, se questi non soccorressero, supplissero 0 rappresentassero quella, futile e direi quasi pueril cosa sarebbero le collezioni, che sono state fatte, e che tutto dì con tanto studio ed amore da uomini distinti e benemeriti dell’ umano sapere si vanno facendo. I Malaspina Marchesi di Treggiana 0 Tresana, castello situato tra i monti lunesi, sono un ramo dei Marchesi Malaspina di Lusuolo, staccatosi da Villafranca poco dopo il 1470; e Villafranca dal comun ceppo di Mulazzo aveva avuto P o-rigine. Francesco-Guglielmo ed anche solamente Francesco, di cui il Sigillo, figliuolo primogenito di altro Francesco-Guglielmo, gli successe nel feudo nel 1580; e perchè allor minorenne, alla tutela e cura dell’ ava paterna, Benedetta Pii da Mantova, fu dal genitor sottoposto. Ancor giovanetto venne inviato dal padre alla Corte Imperiale di Germania, perchè il contegno e i modi convenienti a savio e gentil cavaliere apprendesse: ed ivi fu Paggio, poi Coppiere dell’ Imperatore ; nel primo dei quali uffici trovavasi quando rimase privo del padre ; e nel secondo allora che, divenuto maggiore, portossi a regger personalmente i suoi Stati. Postosi nel 1588 sotto la piote-zione e agli stipendi del Granduca di Toscana Ferdinando I De’ Medici, fu da questo accortissimo Principe, che lo conobbe di prestante ingegno, nel 1591 inviato suo Am-basciador residente alla Corte di Modena, e dopo il 1600 Giorh. Ligustico Anno X. *7 25 8 GIORNALE LIGUSTICO a quella del Duca di Mantova : e questa sua assenza dalle proprie castella, mentre gli procurò grandissimo onore, da che anche in difficile circostanza laudabilmente disimpegnò l’ufficio suo, non omesse recargli perturbazioni assai gravi, che per tutta la vita lo funestarono. Era in Tresana, come in principio è stato accennato, la Zecca. Il Marchese nella ricordata sua assenza aveva lasciato suo generai Luogotenente nel Feudo certo Castruccio Baldissori, lucchese, il quale abusando della fiducia in lui dal suo Signore riposta , messosi d’ accordo col maestro di Zecca, che era un francese per nome Claudio Anglesi, attese vergognosamente con il medesimo al conio di monete false, che furono impresse di diversi governi esteri, cioè di Francia, di Sardegna, di Venezia, di Genova, di Bologna, di Massa e di Roma, le quali per mezzo di un Flaminio, ebreo e negoziante veronese , in Italia e fuori venivano sparse. Compiuto il misfatto, che la pubblica voce al solo maestro di Zecca attribuiva, il Marchese senza ritardo, nel mese di settembre 1598 scrisse da Modena al Luogotenente perchè all’ assicurazione dell’Anglesi ed a quella del corpo del delitto immediatamente provvedesse; ma, complice, il Luogotenente indugiando, diè tempo allo Zecchiere di evadere, ed egli medesimo poco appresso lo seguitò : onde venuto personalmente Francesco a Tresana, fatta compilare ordinaria procedura contro i due incolpati, reperiti i conj, cioè il material del delitto, e raccolte sufficienti prove sullo speciale, due soli mesi dopo la sua andata a Tresana, nel 20 novembre dello stesso anno 1598, il Potestà del luogo, giudice competente in causa, pronunziò sentenza condannatoria i due pubblici ufficiali del feudo ; portante, a tenore degli Statuti, contro il maestro di Zecca la pena di essere arso vivo e la generale confisca, e contro il Luogotenente la forca e la confisca predetta : giudicato che non potè avere effetto se non in parte, cioè su GIORNALE LIGUSTICO 259 i beni dei condannati, perocché le persone loro , contumaci in quel tempo e per sempre poi si mantennero. Diè il fatto, sì come è a credere, molto da dire per tutta Italia, e la reputazione del Marchese grandemente sofferse ; a talché il Pontefice Clemente Vili, uno dei Principi col nome dei quali erano state coniate e diffuse false monete, perchè come Papa credevasi P arbitro dei grandi e piccoli troni, ordinata regolar procedura sulla falsificazione, con monitorio del 14 agosto 1600 intimò a Francesco ed a’ suoi complici di presentarsi entro un certo tempo avanti la Curia Romana per giustificarsi e difendersi, con comminazione al Marchese della multa di diecimila denari d’ oro non comparendo, e delle pene al titolo del delitto secondo le universali leggi conseguitanti. Non dette ascolto, specialmente consigliato dal Granduca di Toscana, alla citazione il Marchese; onde nel 1602 fu emanata sentenza, o meglio pontificio decreto, nel quale dichiarando reo il Signor di Tresana del delitto di aver fatto batter nella sua Zecca e mettere in circolazione monete false, si condannava in contumacia nella multa di diecimila ducati d’ oro di Camera, quali non pagando in tempo determinato, sarebbe ipso facto incorso nella scomunica maggiore , o d’ultimo supplizio , portante la confiscazione dei beni e la decadenza dai feudi e offici, benefizi e dignità ecclesiastiche e laicali, col conseguenziale proscioglimento dei sudditi dal giuramento di fedeltà, che come a loro Signore potessero avergli prestato. Se Francesco stiè contumace al monitorio di citazione, con maggior ragione mantennesi alla sentenza che condan- ÌD ÌD O navalo, perocché oltre il timore che potea ragionevolmente aversi del S. Ufizio, se a Roma si fosse per avventura recato, non era da porsi in dubbio la incompetenza del tribunale e del giudice, da che i feudatarj imperiali dal solo Imperator 2Ê0 GIORNALE LIGUSTICO rilevavano ; e con la incorsa scomunica incontrò 1 animadversione dei sudditi, che gli si ribellarono, per cui dovè star lungi per molto tempo con la famiglia dalle proprie terre; e per esser riposto sul seggio marchionale e soccorso, contar non potendo sul lontano Impero, dovè fare aderenza e rico-_ noscere ancora il feudo suo dal Re di Spagna, Signore del vicino Pontremoli e Duca di Milano, il quale, ad onta dei diritti cesarei, gliene diè investitura e volle il giuramento di fedeltà ; e dovette dai sudditi soffrire accuse di turpitudini e di delitti non suoi, e per i quali chi aveva intenzione fare suo prò delle castella che gli appartenevano (il Governo Spagnolo di Milano) ritenendo veri alcuni dei reati addebitatigli ed esagerandoli, lo relegò alla Mirandola, ove nel 1603, con-tristatissimo della infelice condizione sua, varcato da poco tempo il cinquantesimo anno, cessò di vivere ; senza che valessero a liberarlo e togliergli da dosso le incorse ecclesiastiche censure, e la taccia di falso monetario, emergente da quelle, nè Γ Imperatore, cui contro il decreto papale ricorse, nè il ricordato Granduca di Toscana, nè i Duchi di Parma, Modena e Mantova ; gli ultimi due dei quali, e specialmente il Granduca, attestati amplissimi della onestà e rettitudine, e perfino della innocenza sua, in autentica forma gli rilasciarono. Uomo savio, prudente, e distinto politico, fu screditato e perduto dai fulmini del Vaticano , e il suo primogenito figliuolo Guglielmo, quantunque di una plausibile vita, e con due fratelli, delle delinquenze attribuite al padre, continuò a risentirne le conseguenze; e mancato dopo i fratelli celibi senza prole maschile, fu 1’ ultimo di questa famiglia, che sul feudo di Tresana ebbe Signoria, impossessatasene, nel 1652 dopo la sua morte, la Spagna ; che lo impegnò prima, e lo vendette poi con altro castello nel 1660 al Marchese Bartolomeo Corsini di Firenze, i successori del quale lo riten- GIORNALE LIGUSTICO 261 nero fino alla soppressione dei feudi operata da Napoleone nel 1797. Del Marchese Francesco, di cui è stato parlato, si conoscono quattro monete coniate nella sua Zecca negli anni 1594 e 95, due delle quali d’argento e le altre di lega , quantunque il d’altronde distinto citato Zanetti che ne ragiona , attribuisca le prime due al padre omonimo, il quale in detti anni, come è stato avvertito, era morto. Un Sigillo eguale al presente fu riportato dal Manni nella sua raccolta, vol. XIX, 137. Ma siccome la illustrazione, che ivi ne porge, ad altro non si estende, in ordine al personaggio cui il Sigillo appartenne, che ad indicarne il nome ; così agli amatori della storia m’ è sembrato far cosa grata tornando quivi di nuovo a farne parola. Un Sigillo similissimo a quello ora illustrato, sebbene di dimensioni più piccole, lo usarono i Marchesi di Podenzana, eglino pur Malaspina, discendenti dallo stesso stipite di quei di Tresana , conforme specialmente si vede sopra due lettere degli anni 1697 e 1748, una della Marchesa Caterina , vedova di Francesco-Maria I e madre del Marchese Alessandro; e l’altra del Marchese Francesco-Maria II, figliuolo del detto Alessandro, che ressero il feudo, il primo dal 1636 al 1676, e il secondo dal 1719 al 1745, le quali si conservano nell’Ar-chivio domestico della famiglia Malaspina di Mulazzo in Pon-tremoli. Ho voluto dar cenno anche di questi due Sigilli per offrire di tutti quelli che ho veduto e posseggo un qualche ragguaglio , come perchè, senza speciali rapporti della loro appartenenza , non si confondano gli uni di un Feudatario con quelli di altri. 2Ô2 GIORNALE LIGUSTICO Sigillo VII. Quando nel 1383 per lo spoglio e uccisione di Bernabò Visconti e de’ suoi figliuoli, operata da Giovan-Galeazzo Conte di Virtù, rimase questi signore solo degli Stati posseduti dalla sua famiglia e cosi di Pontremoli, molte e savie costituzioni e provvedimenti per il governo di questa terra ordinò, infra i quali è notevole la facoltà concessa ai Pontremolesi di erigere un Collegio e Matricola di Notaj, come fu fatto nel 1388, a fine di togliere gli abusi e aggravi del trasporto fuori della giurisdizione di istrumenti rogati da Notari esteri, che con vantaggio grandissimo della provincia della Lunigiana tuttora sussiste ; e tal privilegio lo concedè il Visconti come General Vicario Imperiale in Italia, dandone la presidenza a due Consoli da scegliersi uno dalla parte di Cacciaguerra di sopra ed altro dalla parte di Cacciaguerra di sotto; parti nelle quali per ragione dei guelfi e ghibellini aveva diviso Castruccio la Terra, avendo fatto fabbricare nel 1321 nel mezzo ad essa una fortezza costituita da tre torri, in linea retta, che per via di una cortina comunicavan tra loro, avente al disotto un portone, che ad oggetto di tenere in quiete i due partiti si chiudeva specialmente di notte colla saracinesca, ossia cateratta; e siccome tal baluardo ebbe per oggetto di mantenere la quiete tra le due parti nemiche, così d’ordine del fondatore fu appellato Cacciaguerra, o impedimento affinchè la guerra civile, come tante volte era avvenuto, entro le mura non irrompesse : e così dal nome di questa fortezza si appellò di Cacciaguerra di sopra la popolazione che abitava nel lato settentrionale e montano , e di Cacciaguerra di sotto 1’ altra che nel sito meridionale e pianeggiante del paese si stava ; imperocché fin d allora di una lunga borgata di case, siccome anco oggi conservasi, era Pontremoli costituita. Il Regolamento per detto Collegio, approvato da Giovati GIORNALE LIGUSTICO 263 Galeazzo il 1 ottobre 1388, constante di XXV capitoli, e che si legge nel Libro VI degli Statuti della Terra surriferita , porta al N.° V. la indicazione secondo la quale doveva esser formato il Sigillo che servir doveva al Collegio per controsegnare la matricole del Notariato - ivi - Item, statuerunt quod fiat unum sigillum Collegii et Matriculae Notariorum, in cuius summitate sit insignum illustrissimi D. D. nostri cir-cumcirca literae denotantes officium et artem notariorum, in medio Notarius scribens instrumenta, et de ante insignum Communis Pontremuli. E questo sigillo (solamente diminuito, non si sa per qual ragione, del Notaro scrivente instrumenti) è stato riportato dal Manni nei suoi Sigilli antichi, Vol. XXII, N. 1, e rappresenta appunto un ponte a tre archi, con a destra una torre merlata, che è lo stemma od insegna del Comune di Pontremoli, e sopra questo il biscione della famiglia Visconti, in campo seminato di stelle, avente la leggenda attorno : φ : S : MATRICOLE : NOTARIORUM * PONTREMVLI. Per quanto tempo il Collegio dei Notari e Matricola di Pontremoli precisamente continuasse a servirsi del Sigillo suddetto, sta collegato colle induzioni che si faranno sull’ epoca in cui incominciò ad usarsi l’altro, del quale trattasi , nel presente articolo delineato. Questo nuovo Sigillo, tolto da una impronta che esisteva sopra una delle diverse matricole notariali, che si conservano nell’Archivio domestico dei Marchesi Malaspina di Mulazzo in Pontremoli, rappresenta una fortezza con tre torri merlate ed una porta nel mezzo, sopra la quale è scritto : SI-GILVM +, e nel contorno, incominciando dall’ alto a sinistra : -χ COLEGI * TABELIONVM » TERE * PONTREMVLI. La torre del centro è più elevata delle altre due, ed ha una finestrella quasi presso la sommità. La fortezza per li suoi connotati particolari dee ritenersi esser quella di Cacciaguerra ricordata sopra, e i caratteri che vi sono scolpiti appariscono 264 GIORNALE LIGUSTICO del secolo XV, mentre quelli del precedente Sigillo sono da attribuirsi al XIV. Tenendo fermi questi ultimi connotati, varie sono e ad epoche diverse possono attribuirsi le ragioni, per le quali il corpo morale, di cui si tratta, mutò il suo Sigillo; e queste a quattro principalmente possono a parer mio attribuirsi : 1.a Al cambiamento di dinastia che fece Pontremoli, passando nel 1441 dalla famiglia Visconti a quella Sforza, e ciò allora quando Filippo-Maria Visconti non avendo potuto consegnare al genero Francesco Sforza tutto intiero il cremonese, che aveva assegnato in dote a Bianca, sua figlia, gli dette Pontremoli, onde il biscione dovè dai pubblici stemmi della Terra esser tolto. 2.a Ad un incendio che distrusse buona parte di Pontremoli, operato nel 1495 dagli Svizzeri al soldo del Re Carlo VIII di Francia, per cui, come dicon le storie, rimaser distrutti gli archivi degli istrumenti e scritture pubbliche, che, per quello appellava i protocolli e imbreviacure dei notari defunti, si custodivano dai Consoli del Collegio e Matricola, e gli altri dei notari viventi nelle case ove questi pubblici funzionari abitavano, sicché un unico protocollo salvossi, quello cioè di Corradino Belmesseri, che incominciava nel 1417·' e in questa circostanza può essere stato il vecchio Sigillo smarrito o disperso. 3-a Al cambiamento di Signoria che subì questa Terra nel 1499, quando Luigi XII, Re di Francia, impossessatosi del Ducato di Milano contro Lodovico Sforza, di Pontremoli ancora , siccome ne era stato lo Sforza, divenne padrone. 4-a Al riacquisto che in certo modo fece Pontremoli della sua libertà nel 1513, allora che diminuita in Italia la potenza del ricordato Monarca francese, credendosi, come altre terre già al medesimo sottoposte, non più da lui dipendente, molte provvisioni pel suo interno reggimento dettò, fra le quali la GIORNALE LIGUSTICO 265 nomina di otto Consiglieri di pace per togliere di mezzo le discordie, che da gran tempo tra guelfi e ghibellini disertavano la Terra; per cui, fra gli altri cambiamenti, è a credere che al vecchio Sigillo dei notari fosse sostituito il nuovo, il quale portando Γ emblema della fortezza di Cacciaguerra, che era il baluardo per la difesa comune dei due partiti, poteva rappresentarli ambedue, senza che alcun segno di estranea dominazione, coni’ era stato praticato sull’ antico Sigillo, vi figurasse. In ciascuna di queste epoche dovevasi quasi di necessità, come è stato avvertito, operare la variazione del Sigillo ; ma la più probabile e ragionevole attribuir si deve alla terza, cioè al 1499, ciò desumendosi da una specialità che nei due stemmi si ravvisa : vo’ dire dai merli che nella sommità delle torri si veggono. Nel Sigillo primitivo (cosi chiamerò quello riportato dal Manni) i merli della torre che vi si rappresenta, evidentemente sono falcati a coda di rondine ; quelli invece delle torri dell’ altro Sigillo son piani nella sommità. Ora ognun sa che ghibellini erano i primi, e guelfi i secondi ; ed ognuno sa pure che ghibelline erano le famiglie Visconti e Sforza, e guelfo il Re Luigi, perchè appunto per mezzo dell’ aiuto dei guelfi ebbe assai a buon mercato Milano. Qualunque possa essere l’opinione che il lettore creda formarsi del tempo e della occasione in cui il primo Sigillo fu abbandonato, e adottato il secondo qui riportato, è certo che al primo successe quest’ultimo, il quale usavasi nel 1551, e che continuò ad usarsi per molto tempo in appresso. Il Collegio dei Notai, del qual forse troppo è stato discorso, conta nei suoi Capitoli di istituzione del 1388 molti suoi provvedimenti, specialmente per la concessione della matricola e Γ esercizio dell’ arte notariale, che vorrebbonsi adottati in molti altri di simil genere, onde i frutti si videro generosi in più e diversi giureconsulti che emersero da quello, e di 2 66 GIORNALE LIGUSTICO cui qualche cosa già disse il ricordato distinto autore dei Sigilli antichi, potendosi solamente aggiungere, che secondo tali regolamenti alla morte di ogni notaro di matricola dovevano i suoi protocolli e imbreviature esser depositati presso i Consoli del Collegio che li presiedeva ; che di semestre in semestre ogni notaro doveva esibire a detti Consoli ,i fogli e cedole dei fatti istrumenti; e che questi dovevansi chiudere in un forziere a tre chiavi, da tenersi una dal guardiano dei Frati minori della Terra di Pontremoli e due dai Consoli, e da doversi il forziere stesso tenere e custodire nella casa dei detti Frati minori, sotto la volta della casa medesima, per impedirne la distruzione, conforme facevano già i nostri padri, che depositavano nei conventi le scritture loro, che più di ogni altre credevano meritevoli di conservazione ; onde è che quando in Toscana per ordine di Pietro-Leopoldo si formò Γ Archivio diplomatico, nelle case dei Cenobiti specialmente , si trovarono abbondanti e stimabilissimi documenti d’ogni tempo e di ogni maniera. Sigillo Vili. Se nella famiglia Malaspina vi furono uomini che nei loro stemmi ed insegne predilessero la boria a quella semplicità che resulta da una vita sobria e modesta, vi furon di quelli che guardando più alla midolla che alla corteccia, e distratti da gravi cure si contentarono portare scolpita nei loro Sigilli 1 arme che gli avi per distinguerli da altre casate avevano adottato. Vi fu tra questi ultimi, e tra i più antichi eh’ io sappia, Antonio,, già di Lusuolo, Signore di Ponzano e Aulla, che il solo e semplice scudo col leone rampante fra due spini secchi portò, privo affatto di cimiero, corona marchionale ο altro qualunque siasi esteriore ornamento, solamente contrassegnato colle lettere iniziali A. M. e circoscritto GIORNALE LIGUSTICO 267 in un piccolo cerchio, della dimensione di un centesimo, moneta corrente, conforme nell’ annessa tavola si vede delineato, estrattane la figura dalla impronta di una sua lettura del-1’anno 1538, che nell’Archivio domestico Malaspina di Mulazzo si conserva. Dissi che Antonio fu distratto da gravi cure. In fatti ebbe egli una vita tempestosissima. Mortogli nel 1506 il padre, Marchese Iacopo-Ambrogio, che fu due volte senatore di Siena, e rimasto in comune con quattro fratelli padrone del suo predio feudale, composto di Ponzano, Aulla, Bibola, Monte di Valli e altri luoghi, che senza formai decisione si assegnaron fra loro , fu da uno di questi, da Teodoro, prima del 1514 spogliato di ogni possedimento. Nel 1514 e 1517 per forza d’armi, coadiuvato dai cugini signori di Lusuolo, dai genovesi e da altri, avendo riacquistato quello di che era stato spogliato, e più preso a Teodoro tutto ciò che in « esclusiva sua proprietà gli apparteneva, dovè nel 1518 ricompensare chi lo aveva soccorso, e particolarmente i cugini, col consentire ad un nuovo conguaglio delle avite sostanze che gli domandavano ; in quanto che, messa in dubbio la validità di un vecchio atto di divisione , dai respettivi genitori quarantotto anni innanzi stipulato, una diversa spartigione volevano. Dovè sostenere spinosa lite avanti la Curia Romana contro Teodoro predetto, che per lo spoglio a sua vicenda patito aveva ad essa ricorso ; ed avuta contraria sentenza, si trovò in collisione nel 1533 coll’imperatore; che favorendo l’avversario suo, la voleva eseguibile; ed infine tro-vossi costretto vender Ponzano ai genovesi, ai quali per le spese della guerra contro Teodoro portata, ne aveva impegnato le rendite, e ciò per le ragioni seguenti. In virtù delle indicate nuove divisioni con i cugini e di altre fatte con uno dei suoi fratelli, Federico, era egli rimasto padrone solo di Ponzano, ed in comune con il medesimo delle castella di Aulla e Bibola: 268 GIORNALE LIGUSTICO morto Federico , il figliuolo suo Girolamo Ambrogio detto Comparino, mal tollerando a compadrone lo zio, dello intiero dominio intorno il 1537 s’impadronì; e sebbene ne tornasse non molto dopo al possesso, atti giurisdizionali non vi potè esercitare più mai: laonde per questa sua diminuita autorità, sendo Antonio rimasto impotente a farsi rispettare e obbedire dai sudditi, risolvè nel 1540 disfarsi di Ponzano e venderlo ai Genovesi. Contristato da tutte queste e da altre disavventure, che non occorre qui ricordare, nel 1541 o 1542 cessò di vivere, lasciando ai figliuoli il solo ed incerto condominio di Aulla e Bibola, che presto al prepotente cugino loro dovettero cedere; il quale indi a poco liberamente dispo-sene, avendo nel 1543 venduto queste castella con le loro pertinenze e ragioni alla famiglia Centurioni di Genova. Se le sventure di Antonio furono molte, non si demeri-taron tutte da lui. Perseverante e ostinato nello spoglio del fratello Teodoro, s’impadronì dei suoi allodiali e lo respinse anche a mano armata con la sua famigliuola dalle proprie case, perchè questo infelice visse povero e morì presso un’amico che gli avea dato ricovero ; ed una figliuola Giulia, che alla sua morte era rimasta innutta, ebbe gran mercè se con il residuo del prezzo di una transazione coi Genovesi, che eran divenuti padroni di Ponzano , con i Centurioni acquirenti di Aulla, e col Comparino venditore di questa, modestamente potè maritarsi : e dico residuo , perchè la maggior parte delle somme, resultate dalla transazione predetta, dovettero erogarsi nelle spese di una lite che essa Giulia con le sue due sorelle Leonella e Caterina, specialmente a titolo di alimenti, contro i detentori dei beni paterni aveva promosso. E sì che Angelica, la moglie di Teodoro e madre di queste tre donne, era di casa Medici, e il padre nel suo testamento al Duca di Firenze Alessandro le aveva raccomandate. GIORNALE LIGUSTICO 269 Sigillo IX e X. Sigilli di due marchesi di Mulazzo, Francesco-Antonio e Ga-Ιεαχχο Malaspina, rappresentanti: il primo, uno scudo di forma ovale, con entro il leone rampante coronato, situato in mezzo a due spini secchi, consueto e conosciuto emblema della famiglia, sormontato da un cimiero, da cui si staccano alcuni rabeschi, che scendendo da sinistra a destra, con bel modo tutto il fondo circondano, ed avente sul cimiero un drago alato coronato, con la leggenda nella circonferenza del Sigillo stesso racchiusa in doppio giro * FRANC * ANT * MALASPINA * MARCHIO * MVLATII: e il secondo, di forma similmente ovale, tagliato orizzontalmente, avente nella parte inferiore P arma Malaspina suddetta, salvo che il leone che la compone non tiene sopra il capo corona, e nella superiore una croce, che tutto lo spazio del campo comprende ; e questo fondo, ornato all’ interno di scartocci di discreto disegno, e portante nella sommità due palme ed una corona, ha nel giro del cerchio, che lo racchiude, la seguente iscrizione F. GALEAZO MALASPINA MARCHESE DI MV-LAZZO. Questi due Marchesi furono fratelli e figliuoli di Morello, e fiorirono sul declinare del secolo XVI. Padroni in comune con alcuni cugini di Mulazzo e Parrana, e soli di Monteregio e Pozzo, l’uno ammogliossi ed ebbe successione, 1’ altro fu cavaliere di Malta. Il drago che si vede nel primo Sigillo si ritiene sia un segno d’ onore della famiglia, adottato in ricordanza delle gesta di un antenato, il Marchese Spinetta, che si distinse contro le bande del conte da Bar-biano nel 1380, e di cui nel Sigillo V di questa raccolta. Cosa poi vogliano significare le palme che veggonsi al disotto della corona, se non furono emblema di qualche vittoria riportata dai cavaliere di Malta nella quale avesse parte GIORNALE LIGUSTICO Galeazzo, s’ ignora. Ambedue questi Sigilli sono estratti dallo Archivio domestico dei Marchesi Malaspina di Mulazzo, che si conserva in Pontremoli, adoperati in pubblici atti, il primo nell’anno 1636 da Morello figliuolo di Francesco-An-tonio , e il secondo nel 1700 dal Comune di Mulazzo. Ma quale esistenza sociale 0 politica ebbero mai questi due Malaspina Francesco-Antonio e Galeabo? Ecco quello che precisamente importa conoscere, imperocché è una idea complessa vedere la impronta di uno stemma antico e voler sapere cui esso appartenne. Figliuoli, come dissi, di Morello del fu Giovan-Paolo di Azone, Marchese di Mulazzo e signore di molte altre castella e ville nella Lunigiana, avevano eglino, insieme con altro fratello Paolo, ereditato dal padre, che era mancato sul 1560, la metà di Mulazzo e Parrana, cioè il dominio di questi luoghi, in comune con i cugini paterni, figliuoli di Giovan-Cristoforo discendente da Azone predetto ; e più avevano ereditato la libera signoria di Monteregio e Pozzo. Ammesso Galeazzo tra i cavalieri di Malta, non potendo aver successione (legittima) nel 1571 donò ai fratelli i suoi beni allodiali, e ritenutosi per patto, sua vita durante, la esclusiva signoria del Pozzo e quella parte del condominio che gli spettava sopra Mulazzo e Parrana, lasciò che i medesimi dei beni feudali comuni a piacimento lor disponessero , poi ritiratosi a Pozzo e di là andato alla Corte di Parma, lasciò che i fratelli in tutto e per tutto da assoluti padroni anche su quel che era suo la facessero. Francesco-Antonio, dopo il ritiro di Galeazzo, nel 1573 si divise col fratello Paolo, e permutata con lui la parte di Mulazzo, che a Paolo stesso apparteneva, ed avuta 1’ assegnazione di Pozzo quando fosse morto Galeazzo, ebbe Paolo in libero marchesato il castello di Monteregio. Per l’assenza di Galeazzo e per la decisione del 1573, GIORNALE LIGUSTICO 271 sopra ricordata, divenuto Francesco-Antonio esclusivo padrone della metà di Mulazzo, mentre Γ altra metà spettava ai cugini, figliuoli di Giovan-Cristoforo, corse risico pel mal governo dei ricordati condomini, che tutte le sue e le ragioni feudali di Galeazzo, che amministrava, perdesse. Per antica consuetudine di famiglia, dopo che il feudo in due consignori pervenne, il reggimento, o meglio, come allora dicevasi, il comando di esso , un anno per uno alternativamente dai medesimi si esercitava , avuto riguardo alla principal spartizione, sicché nel caso nostro un anno governava Mulazzo Francesco-Antonio, un altro i figliuoli di Giovan-Cristoforo, fra i quali non essendo, come è solito tra i fratelli, concordia, i guai ne venivano ai sudditi; onde è che, correndo l’anno 1574, questi fratelli, che allora tenevan lo Stato, tanto si fecero odiar dai subjetti, che questi senza guardar ai condomini perchè Malaspina , orditali contro una estesa congiura, stabilirono di ucciderli e dare la loro Terra alla Spagna e per essa al Governatore del vicino Pontremoli, che, rilevando da Spagna, li aveva a ciò segretamente eccitati. Correva il mese di giugno e 1' eccidio doveva compiersi il giorno di S. Giovanni, al ritorno che avrebbe fatto in paese uno dei designati alla strage, quando altro di essi, il Marchese Giovan-Gasparo, infor- , mato del fatto, recatosi precipitosamente a Fivizzano, dal Governatore delle armi toscane, che risedeva in quel luogo, ottenne armi ed armati, coi quali entrato nel ricordato giorno di S. Giovanni in Mulazzo, fece mettere in ceppi tutti quei congiurati che con la fuga non ebber tempo di salvarsi ; e fatto compilare sommarissimo, ma regolare, processo, prima che spirasse un mese fu eseguita la sentenza capitale sopra diversi di essi, e verso non pochi la confiscazione e 1’ esilio, sicché si disse che ventidue famiglie di quel piccolo paese (che ne contava appena cinquanta) alla mendicità fossero ridotte. Il pericolo corso dai figliuoli di Giovan-Cristoforo ri- 2η 2 GIORNALE LIGUSTICO chiamo, com’ è a credere, l’attenzione di Francesco-Antonio, che essendo probabilmente a Pozzo, venuto a Mulazzo, dovè concorrere a che un presidio toscano per sicurezza dell’ ordine pubblico e delle persone dei Marchesi si ponesse in castello , e più, costretto dalle circostanze, dovè con tutti i suoi fare aderenza per cinquant’anni col Granduca di Toscana, lo che fuori del caso avrebbe volentieri evitato, perocché conosceva che l’aiuto e la protezion dei potenti soglion dai deboli a carissimo prezzo acquistarsi. La congiura predetta, benché sventata , avendogli fatto conoscere che male in più signori si governava uno stato, ed osservato altresì che tornando a dividere le sue castella, il lustro della propria famiglia sarebbe grandemente diminuito, nello stesso anno i574> consentendolo l’imperatore, istituì primogenitura per la successione feudale; poi nel 1584, avendo già numerosa figliuolanza, per separare quanto era possibile gli interessi suoi da quelli dei condomini figliuoli di Giovan-Gasparo, spartì con i medesimi le abitazioni, che fin’allora può dirsi erano state comuni , e fu assegnato a lui il Castello, e ad Anton-Maria e Cesare-Maria, che erano i soli rimasti di Giovan-Cristoforo, un Palazzo, cosicché finché sussistettero queste due linee e nel dominio di Mulazzo si mantennero, lo che fu per due secoli, coll’ appellativo di Signori del Castello e Signori del P alario vennero esse nominate e distinte. Morì Francesco-Antonio in Mulazzo nel 1590, lasciando i beni feudali al primogenito Marchese Morello, pochi allodiali agli altri figliuoli, e tutori e curatori di tutti questi, perchè minorenni, non che Governatori dello Stato, la moglie Maria Malaspina dei Marchesi di Podenzana, il fratello cavaliere Galeazzo, e il nipote di fratello Leonardo Marchese di Monteregio. Questo Galeazzo, creato cavaliere dell’ Ordine ricordato nel 19 giugno 1566, dopo essere stato, come si disse, alla Corte GIORNALE LIGUSTICO Farnese, richiamato per la morte del fratello in Lunigiana, torno al suo castello di Pozzo, e di là accudi per diciassette anni con tanta diligenza e zelo all’ ufficio affidatogli da Fran-cesco-Antonio, che i sudditi ed i condomini, non che il Marchese Morello nipote, amaramente alla sua morte, avvenuta nel 1627, ne piansero la perdita. Virtuoso e generoso cavaliere, , il Duca di Parma si servì utilmente di lui in delicate e onorevolissime commissioni. Donò, come fu detto, il privato patrimonio ai fratelli, poi fe’ lo stesso e consegnò prima della sua morte al nipote Morello il suo feudo di Pozzo : e fu forse per ossequio e ricordo di così buon signore che il Comune di Mulazzo, per mezzo dei Consoli, adottò dopo che fu dipartito, il Sigillo suo, e di cui, siccome venne accennato in principio , nel 1636 si servivano ancora. (Contìnua).' LETTERE INEDITE DI ANDREA DORIA Al DIRETTORI DEL GIORNALE LIGUSTICO. Chiarissimi Signori, o y Il conte Luigi Nomis di Cossilla, sindaco, archivista, consigliere di stato in Torino, appartenne a quella eletta nobiltà piemontese, che tanto bene meritò della patria. Fu di principi liberali (1) ed amò le lettere, vivendo in corrispondenza (1) A questo poposito mette il conto di riferire una lettera che gli scriveva da Milano l’illustre Pompeo Litta nel 1848. La lettera é intestata : Governo provvisorio : Caro il mìo Conte , In questo momento lascio il generale Passalacqua, che le fa mille saluti. Egli ê giunto angelo di soccorso, e domani qui giunge la truppa. Io fui presente al primo scoppio della rivoluzione, e poco mancò, che non rimanessi vittima. Per sbaragliare 1’ esercito tedesco, gli abbiamo tolti i suoi fucili, per cui non avevamo che pugnali. Io sono membro del Governo provvisorio, Pre- Giork. Ligustico. Anno X. 18 ·* 274 GIORNALE LIGUSTICO con gli studiosi più meritamente stimati de’ tempi suoi, emulo in questo del Napione, che fu suo suocero (i). Raccolse egli con amore e intelligenza un numero molto rilevante di autografi, non risparmiando cure nè spese, e facendosi aiutare dal Napione, dal Balbo e dal Gazzera (2). Morto lui, la sua raccolta fu gelosamente custodita e aumentata dal figlio Augusto, il quale la legava al Museo Civico di Torino con testamento del 7 gennaio 1876. La preziosa raccolta 11011 passò effettivamente nel Museo se non nell’autunno del 1882 e venne collocata in apposito armadio a vetri, che si può vedere nella sala N. r. Il Museo Civico già possedeva un certo numero di autografi, ma la raccolta Cossilla costi- O j tuisce ora in questa parte la sua principale ricchezza. Essa è formata di 34 mazzi di autografi vari, 4 mazzi di autografi sidente del Comitato di guerra , comandante la Guardia Nazionale , ed ho accettato, sebbene vecchio, solo perchè le cose non si fermassero. Saluti Balbo caramente. Siamo tutti italiani, dunque amici. Non dubiti qui di pazzie : il nostro popolo ha dato prova di gran coraggio, ma la dà sempre di gran criterio. Noi apriremo il nostro cuore. Venezia è libera: facciam presto a far un unico regno da Nizza alla Ponteba. 26 Marzo 1848. L' affezionatissimo Pompeo Litta. (1) Su questo diligente storico e archeologo si confronti L. Martini , Vita del conte Gian Fr. Galcani Napione, Torino 1S46. — In una serie di bellissime lettere di Faustino Gagliufn al Cossilla, che vanno dal 1820 al 1830, trovo questo festevole ritratto fisico c morale del- 1 ottimo patrizio : « E quando mi mandate 1’ immagine vostra ? Procurate che sia fatta bene. » Un paliretto di naso, due occhi come due saette , il viso lungo da congiurato, un gruppo ro-» mantico tra ciglio e ciglio. O cielo , o terra, o che spettacolo ! Eppure, dirò in guardarvi, » 1 anima di costui è bella. Costui è rispettabile ed amabile! Integrità, amor dell’ordine, tene-» rezza di padre, bontà di cittadino, amicizia nobilitata da quell’ entusiasmo senza il quale nulla » di egregio nel mondo ». (Data: Genova 30 Marzo 1830). (2) Molte sono nella raccolta le lettere al Napione : parrecchie quelle al Balbo, fra le quali una tedesca del Leo, di qualche importanza, che pubblicherò in seguito. Il Gazzera poi dice espressamente in lettera del 2 dicembre 1834 d’aver mandato autografi al Cossilla. Chi voglia più particolarmente conoscere la derivazione di una parte di questa raccolta non ha che consultare il quaderno di Memorie relative a cambi e ricerche di autografi, che si trova nel mazzo speciale della collezione recante il titolo : Memorie relative agli autografi. In questo quaderno è notato che il 12 Ottobre 1835 il Cossilla mandava alcuni autografi di Andrea Doria alla principessa Angelica Caracciolo di Napoli, in cambio di un autografo del Tasso. GIORNALE LIGUSTICO 275 di cardinali e 16 mazzi di autografi di principi. Il maggior numero degli autografi è del secolo passato, e vi ha parte larghissima, anzi preponderante, la Francia : ma non vi mancano preziosi documenti di tempi più antichi, segnatamente del secolo XVI. Io ho preso ad esaminare con ogni diligenza questa preziosa collezione (1), tanto più ragguardevole inquantochè sembra che mentre era in possesso privato non fosse troppo accessibile a chi voleva consultarla a scopo scientifico. Ebbi la fortuna di trovarvi, fra altre cose meno importanti, una serie di lettere inedite e sconosciute di Andrea Doria, che offersi subito a codesta Direzione , la quale fece assai buon viso alla mia proposta di pubblicarle nel Giornale Ligustico. Offrendole a Loro, anziché ad altri, io ebbi di mira anzitutto Γ interesse che, specialmente per chi si occupa di storia genovese, hanno questi documenti, e volli nello stesso tempo dimostrare la mia particolare simpatia per un periodico, che già da parecchi anni, con serietà e perspicacia, propugna gli utilissimi studi storici regionali, mediante i quali solamente si arriverà a preparare il materiale a quella grande storia generale d’Italia, che sarà il suggello scientifico più glorioso della nostra unità. Presentando al pubblico queste lettere, io non posso, distratto da molteplici altre occupazioni, prendermi Γ impegno di annotarle convenientemente. Le note storiche sono riservate a Loro, così dotti di cose genovesi; ed io son certo che verranno date agli studiosi tutte le dichiarazioni che essi possono desiderare. Diciotto delle 22 lettere, che io qui pubblico, sono indirette dal Doria alla Signoria di Genova. Hanno tutte la firma (1) Debbo professare qui pubblicamente la mia gratitudine al gentilissimo cav. Borbonese, segretario del Musco Civico, che fece quanto da lui si poteva per rendermi il lavoro meno difficile. 276 GIORNALE LIGUSTICO autografa del Doria stesso. Io le collocai per ordine cronologico, e le feci seguire da quattro altre lettere , F una delle quali (XIX) è firmata da Andrea Doria e Sinibaldo Fiesco, altre due (XX e XXI) sono indirizzate dal Doria alla Duchessa ed al Duca di Savoia e F ultima (XXII) è di Agostino Spinola alla Signoria. Rispettai scrupolosamente la grafia e la lingua di questi documenti, solo sciogliendo i nessi e dividendo le parole. Non credetti inutile il dare una interpunzione, che non può, a me sembra, in nessun caso, lasciar luogo a dei dubbi. Riconoscente per l’ospitalità concessami, ho 1’ onore di dichiararmi Torino, 19 maggio 1883. Loro Obb.m° Rodolfo Renier. I. 21 Giugno 1529 All 111.’"° sig. Duce et molto magnifici signori Governatori della Repubblica di Genova. Ill.mo et Molto M.d S.ri Osser. Alli XVIIJ la marina, arrivando in Palamons, trovai el brigantino di Mattarana, col quale hebbi la lettera di V. S.rie di X. Et mi fu di grandissimo contento haver nova di quelle, inscieme con li avisi che gli piacque darmi, de che tutto le ringratio per mille volte, facendoli intendere corno el giorno seguente, che fu alli XIX, gionsi in questa Cità, che più presto non potei far per el mal tempo havuto per camino. Et poi ch hebbi basate le mani di S. M.tà, da la quale, corno troppo benigna, fui visto molto più cortesemente che ad un povero gentilhom par mio et suo servidor non si richiedeva, gli reffersi la bona volontà et dispositione inscieme con le bone opere di V. S.rie continuate verso di quella, sforzandomi al meglio eh’ io seppi far quel bono officio che ’l debito et affettione mia verso la patria et V. S.rie ricercava. Et in verità che di tutto trovai tanto ben conoscente S. M.'·' quanto dir si possa, da la quale sì corno mi GIORNALE LIGUSTICO 277 fu corresposto delle meglior et più cordiale parolle del mondo, cossi son certo che in ogni occasione V. S.rie la conoscerano gratissima per effetti. Et piacendo a dio in la passata di S. M.li in Italia, conio di sotto intenderanno, spero ne vederano qualche chiara experientia. Et però accompagnato dal desiderio che tengo de l^ honor di quelle, non mancarò, benché 10 reputi superfluo, di raccordarli et pregarle che dal canto loro vogliano perseverare in quelle demonstratione ad exaltacion di S. M.tà, che fino a qui han fatto, corno son certo non mancarano ; maximamente in dar qualche indrizo et comodità a li fanti che dentro da un giorno o dui s’imbarcaranno qua per mandar in Ittalia, li quali si sono fitti in questi contorni,* et sarano da 1500 fin in 2000. Et poiché si trovano in essere, si mandano per anticipar le provisione di Lombardia, et oltra li denari che hanno havuti qua, S. M.li ha ordinato che costì gli sia datto una paglia: 11 denari de la quale ha preso l’assumpto di far exborsar da la marchesa al S. Comen.re Figueroa suo Ambasador. S. M.'^sta ressolutissima di passare et non aspetta altro che l’armata di Malica, la qual doveva mettersi alla velia fino alli XIJ ο XV del presente, per quanto S. M.li si è degnata dirme. Vero che’l tempo è stato contrario et per questo haverà forsi tardato alquanto di più ; chè quanto alli 10 mila fanti et alli altri apparati sta di tutto provista. Et S. M.'à per essa et per el resto tiene grossa summa de denari, senza quelli che tuttavia va accumulando, et spero in dio che passarà con una bella armata, havendo già ad ordine XXIJ galere oltra le mie XIIIJ et altri tanti et forsi più vascelli quadri, che fra tutti ascenderano al n.° di più de 80 velie. De la pace che hano scritto da Venetia S. Μ.'λ mi ha ben detto che ali XV doveva trovarsi a Cambrai la Ill.ma Madama Margarita et Madama la regente di Franza sopra tal pratiche e de le quale S. M.li non è certa nè anche fuor di speranza debbi seguirne qualche bono apuntamento, del che lei si mostra desiderosissima. Però quanto a me giudico che nulla se habbi da stabilire se prima de tutti li progressi S. M.li non resta informata, la quale fino a qui non ha aviso d’ altro successo. Et perchè in li altri particolari spettanti a V. S.rie el sig. conte de Fiesco le avisarà pienamente, non mi resta per questa dirli altro che di continuo racomandarmegli. Da Barzelona , alli. XXI di giugno MDXXIX. Post datum. Mi sono smenticato dir a V. SA’ del’.i alloggiamenti costì della Ces.a M.li, dovendo passar come ha determinato, et mi occorre ricordarli che faccino far maggior provisione de biade et strame che sarà 278 GIORNALE LIGUSTICO possibile, giudicando anchora esser in proposito che incomincieno a far lavorar il ponte de legnami dove S. M.*1' si haverà da sbarcar. Et quanto alli alloggiamenti per la persona di S. Μ.'Λ et della sua corte venirà costì in tempo il suo foriero con alcuno de questi gentilhomini, dali quali V. S.ri1· intenderano più a compimento tutto quello che per tale effetto sarà necessario. Datum ut supra die XXIJ. Di Vostre III .ma S.ria et M.'ie Andrea Doria. Post Scriptum. Mi è parso raccordar a V. S.rie esser bene che le ordinassero cento o ducento homini ben parescenti et vestili, li quali si trovassero ad accompagnare S. M.tà quando arrivarà costì fino allo allogia-mento di quella. Et se paresse a V. SA* de la sopradetta gente farne far due belle squadre, cioè 1’ una de homini più maturi et attempati, Γ altra di giovani, le lauderei tanto magiormente, giudicando ben speso questo et ogn altro honore et demostratione che V. S.ri« preparino alla venuta di S. M.ta Et poi che non haverano salvo da accompagnarla a piedi da la Marina fino a la casa, penso che tutto consista in far che siano ben vestiti, perchè 1 arme in tal caso mi pareriano superflue havendo la solita sua guardia. Et a V. S.rie mi racomando. ut in literis. II. 8 Novembre 1529. III.™ et Molto M.ci Sig/> Osser. Credo che le S. V. per un’ altra mia haverano inteso qualmente messer Bonifacio Lomelino si trova qua, dove ha seguito la S.'* di N. S. per alcune cose d importantia che li havevo comesso. Et per questo rispetto con la detta mia ho suplicato V. S.ne siano contente farme gratia di non lassar proceder nè innovar cosa alcuna in una litte che si agita fra epso et Meliaduce Pallavicino fino al suo o mio ritorno in Genoa. Nientedi-manco per satisfai ion mia, ad ciò che , non havendo havuto recatto tal lettera, epso messer Bonifacio absente per conto mio non venesse a patire, maxime intendendo che li agenti suoi per questa medesima causa siano molestati, mi è parso tornarli a suplicar non vogliano come ho detto fin al ritorno del detto messer Bonifacio 0 mio lassar proceder più in questo, anzi tener tutto suspeso perchè in ogni modo non mancarà cossi GIORNALE LIGUSTICO 279 alhora coni’ adesso di haver la giusticia suo loco, et le S. V. me ne ob-bligarano molto. Alle quale di continuo mi racomando. Da Bologna, alli VIIJ di novembre 1529. Di V. Signorie Andrea Doria. III. 27 Ottobre 1530 (1). lll.m0 et Molto M.ci Sig.ri Osserv. Con Benedetto Spinola ho recevuto la lettera di V. S.ne et inteso quanto mi hanno scritto nel fatto di Bartholomeo. Fino a qui non si è devenuto ad alcuna conclusione et dovendossi in questo far altro stabilimento si procedarà conforme al prudentissimo parere di V. S.rie, et non si mancarà di haver in tutto quella meglior consideratione che sarà possibile. Dell’altre occorentie di qua, sapendo che M. Gio. Bapta Lercaro suo Ambasciatore gli ne dà conto, mi par superfluo fargline altra replica, maxime essendo occorso poco da dirli. S. Ces. M.tà hogi è gionta qua et essendo stracca del mal camino non mi è parso fastidirla di altro salvo di basarli la mane et havendomi concesso licentia che per magior mia commodità io vada inanti a lei in Bologna, mi partirò domatina per Reggio, et venirà mecco el s.'° Ambasciatore , el quale et io habiamo concluso sia meglio aspettar eh’ el si apresenti a S. M.tà con più commoda occasione di questa d’ hoggi , et io dal canto mio non mancarò darli quel indrizo che son debitor e desideroso di dare a tutte le cose di V. S.r!e. Et perchè mi persuado che in Bologna si haveranno da trattar diverse cose importante, mi è occorso in proposito per qualche bon respetto raccordar a V. S.rie esser bene che fra Γ altre cose non [rejmovino Antonio Doria Picameglio da 1’ officio suo de la Spe[zia]. E cussi le prego quanto posso siano contente confirmarlo a [lor] beneplacito per la ragione eh’ io mi riservo dirli poi a bocca, toccante alla conservatione di questo stato et ad altri boni og[etti] che non averiano per aventura loco (1) Questa lettera ò tutta lacera e macchiata d’umido. Si legge con molta difficoltà. Metto in parentesi quadre le parole 0 sillabe interamente svanite , che mi sembra di poter con cer-tezza ripristinare. 28ο GIORNALE LIGUSTICO trovandosi detto officio [in m]ano d’ altra persona. E cussi facendo fine a V. S.ne quanto più posso mi racomando. In Parma, alli 27 di ottobre MDXXX. Di V. Signorie Andrea Doria. Post datuni. Havendomi scritto un breve la S.tA di N. S. sopra certi grani di Fiorentini et el dissegno loro, io prego le Signorie Vostre che sopra questa materia voliano ordinare quanto li sarà ricercato e fatto intendfere] dalla Marchesa per parte mia, conforme alla sustantia d’ esso breve che oltra el piacer che ne farano a S. S.tà et alla Ces. M.tA giudico sia anche conveniente per el lor particolar interesse. Et a V. S.ne novo m; racomando. Datum ut supra. IV. 21 Aprile 1535. lll.ln° et Molto M.c* Signori, Havendo ritrovato qui al Porto un pregione, dii quale, benché non sia in tutto finito il processo, non li può mancare per la qualità del delieto la galera, ho preso sicurtà, per la necessità che mi trovo d’ homini, richiederlo fin di adesso al vicario di esso loco, il quale essendosi contentato per questi respetti dannilo , prego V. S,™ che lo vogliano haver per bene , poi che son certo in ogni modo 1’ haveriano a tal suplicio destinato et gli ne sentirò tanto maggior obligo. Fra tanto a V. S.rie mi racomando. Di galera sopra il Porto, alli XXI di Aprile 1535. Di Vostre Signorie Andrea Doria. V. 5 Maggio 1535. Ili:"0 et Molto M.ci Signori, Benché 1’ altrheri per On’ altra mia avisassi V. S.rie dell’ arrivata nostra qua al primo di questo et di tutto quello che fin alhora mi occorreva, non mancarò per mia satisfatione et debito di replicarli il medesimo con la presente. GIORNALE LIGUSTICO Qua ho ritrovato S. M.tà sana et gagliarda, la quale ha pubblicato la sua passata in questa santa impresa contra infideli et ne ha fatto scrivere a tutti li Principi et potentati de’ Christiani. Et non si aspetta adesso altro per imbarcarsi che Γ arrivata di Γ armata di Malica, la quale, se ’J tempo contrario non la dettenesse, potria comparer presto et successivamente presto seguir la nostra partenza, stando già tutte le altre provisione ad ordine. Che se bene a quel hora non fussero arrivati li altri vascelli di Biscaia, che ancor loro non deveno molto tardare, non si mancarà per essi di partire lassandoli ordine che seguitino apresso ; la qual armata di Malica passarà 40 nave et haverà da nove in dieci mila fanti. Scrissi ancor a V. S.rie haver presentito doverli esser proposte nove pratiche con Franza et le pregai che stando S. M.(i in procinto di passare et determinata di provedere a tutto quel che da ogni parte farà bisogno, volessero per utile et honore di quella patria darli tottal repulsa, perchè oltra sapiano a che fine sieno reuscite tutte le altre, non potria salvo nocere grandemente ogni minima gelosia che si pigliasse in questi tempi. Però di novo le prego quanto posso et per quanto sono debitor di pregare per il comune interesse, non li diano orecchie, nè manco permet-tino li siano datte da altri, ma corno ho ditto del tutto reiecttarle et abhor-rirle tenendo per fermo che S. M.tà a questa volta ad un modo 0 1’ altro ha da terminar ogni cosa. Quanto al fatto di Savoia già S. M.tà ne ha parlato a 1’ Ambasciator di quel signor Duca, et non dubito che li sarà datto opportuno remedio cossi corno anche si provedarà a li pagamenti di quelli fanti spagnoli , li quali non mancarano d’ esser pagati quando bene non lo fussero di altri di Lombardia. Et non avendo più che agiongere, a V. S.rie mi racomando. Datum in Barcelona, alli V di maggio 1535. A’ comandi di Vostre Signorie Andrea Doria. VI. 23 Maggio 1535. Ill.m° et Molto M.ci Signori, Per risposta delle lettere di V. S.ne delli X et XV non lassarò di replicare che circa le pratiche francese mi parse avertirle, non perchè dubitassi dovessero far altrimenti di quello che mi hanno risposto, ma per satisfatione mia et zeloso di 1’ honor et reputacione di quella patria 282 GIORNALE LIGUSTICO apresso S. M.'à, la quale non vorei, maxime in questi tempi, potesse, nè per recto, nè per indirecto, pigliar alcuna ombreza contra la optima op-pinione che già li tiene concepto; che quanto per V. S.ne son ben certo còm’ho detto che in generale nè in particolare haveriano inteso in alcuna cosa simile che prima S. Μ'1 o almanco io non ne fussi stato avi-sato et però non essendo seguito 1’ effetto nè manco il pensamento tutto va bene. Quanto alli avisi che il sig. Antonio ha mandati a Vostre Signorie de li dessegni che si fanno contra la cità, io non so già parlarne così bene di lontano come forse farei se mi trovassi più propinquo a le pratiche. Nientedinìanco secondo il mio poco giudicio mi pareno uséir da le medesime radice di quelle di F anno passato et parimente doversine aspettar exito vano, non essendo li auctori di magior condicione como sono, nè sufficienti da loro a tentar una tale impresa, la quale quando sia fomentata da altri non mi pare che si possa exeguire senza prima sentirne tal rumore che si habia spacio di poterli reparare ; et lo dico perchè fino a qui sono tuttavia di oppinione che basti de là una compagnia de Spagnoli , lassando andar 1’ altra tanto discosto solamenti che in dui o tri giorni, bisognando, si possa rihavere, et cusì concertarlo col sig. Antonio. Che quanto a far proveder a tutte due dii pagamento, non essendoci magior necessitate et ritrovandossi S. M.tà tanto agravata di spese al presente, non mi par necessario importunarla. Che quando pur si scoprisse alcun motto di importantia so certo non li mancarebbe di questa et magior provisione et con le forze che si trova in mano non ho dubio che tanto stariano a pentirsi quelli che la volessero perturbare quanto S. M.tA tardasse ad haverne noticia et a voltarli a l’incontro una minima parte di sua possanza, benché per questo non sia salvo a proposito star ben avertiti e secondo le urgentie expedir tanto più presto dovi si fosse. Il più che mi molesti et dispiaccia adesso di questa cosa e la persona dii Contino Fiesco, che il vedo nominalo, dii quale a pena che mi potrei credere ni imaginar che cusì fosse, sia per la età corno per le persone chi ne hano cura, et governo, aliene in tutto al parer mio da questo (i) e maxime li M.cl messeri Ansaldo Grimaldo, Ambrosio Spinola et Hector da Fiesco, che sono li principali, li quali si po tener per certo che ne lo haveriano sviato et remediato a quel che ’l debito de la patria ricerca, et poi confido pur ancora in messer Paulo Pansa, che per qualche via me lo ha-rebbe notificato et più tosto me imagino che sì como 1’ ano passato lu (0 Sottolineato nel documento. GIORNALE LIGUSTICO 283 Contessa disse liberamente haver consentito al sig. Cagnino che si potesse valer delle terre et homini suoi a recuperatione di cose particolare per le differentie ,che lui tiene contra Palavicini, de che alcuni di V. S.rie si doveriano racordare , potesse esser che per un simile oggetto la detta Contessa di novo li fosse convenuta. Che quanto ad haver mandati capituli nè altre cose in Franza a concludere , non mi par verisimile, per non haver lei sola questa auctoritate et per la minorità dii figlio et altre ragione sopradette, et principalmente per la evidente ruina che ogni persona per appassionata o simplice che sia può conoscere gli succederla, stante la prompteza delle arme di S. M.tA et pur quando V. S.ne temessero il contrario di detta Contessa, potriano col mezo deli sopradetti messeri Ambrosio et Hector farli persuadere che andasse a star questa estate a Lodano per discostarla più dal suspetto. Nè altro saprei che ra-cordarli se non a star di bon animo che mediante l’aiuto di N.-S. dio spero che con questo passagio di S. M.tA ne debia seguir universal riposo alla christianità et particolarmente a quella patria L’ armata di Malica gionse qua già sono quattro o cinque giorni, ma per esser poi stato quasi sempre un poco di maretta non si è potuto più presto attendere all’ imbarcar delli cavalli, che è quella cosa che solo si resta a fare : però s’incominciarà domane, et ancor che S. M.tà dica volersi partire fra quatro o cinque giorni, potria esser che non fussimo expediti per far vela fin al primo di giugno. La qual armata è di ottan-tasei vascelli quadri, et trentaquatro scorzapini si pigliano qua, et computate le XXX galere et le XX caravelle, lo galeone et due nave di Portugalo, brigantini et ogni cosa, sì partiremo con 180 velie, senza l’armata di Bi-scaia, che seguirà poi apresso. Però di qui si conduranno X mila fanti et mille seicento o settecento cavalli, tutti boni, computati quelli che già sono in la detta armata di Malica et si fa conto che almanco S. M.ta potrà far metter in terra XXX mila fanti da combattere. Cusì facendo fine a V. S.rie mi racomando. Di Barcelona, alli XXIIJ di maggio 1535. A’ comandi di V. S.rie Andrea Doria. VII. 12 Giugno 1535. lll.mo et Molto M.ci Signori, Per fino alìi XXX dii passato S. M.'* se imbarcò e 1’ undomane 1’ armata si misse alla vela , imperò per li tempi che assai presto tornorno 284 GIORNALE LIGUSTICO contrarii et la più parte sono durati, oltra la interditione che ne ha causato la compagnia delle nave, siamo stati molto più tardi di quel che pensavamo ad arrivar in Sardegna. Nientedimanco con la dio,gratia giobia passata arrivassimo a le isole di san Petro , dovi havendo temporegiato alquanto, venissimo a sorgere circa a le due hore di notte in Porto botte, nel qual loco s’incontrassimo il Marchese dii Vasto, che veniva a la nostra volta con le galere di Ittalia. Havendo lassate le nave al cavo di Pola, dovi loro erano gionte già sono circa otto giorni, et heri vi stet-timo tutti congionti inscieme che in vero fu una bellissima vista, essendo le galere 75 et quatro disarmate carriche di cavalli et tra galeotte fuste et bregantini il n.° di 25, 65 nave d’Ittalia et cento venute di Malica, tra grose et picole, 47 scorzapini, le XX caravele, due nave et il galeone di Portugalo senza Γ armata che si aspettava di B;scaia. De la qual vista S. M.tà molto si è rallegrata et ad altro non si attende che a far levar l’acqua et a dar ordine a quel che è necessario per condursi con ogni presteza possibile in Tunesi et exeguir quanto N. S. dio havera ordinato. Siamo venuti fin qui questa matina con le galere et sul tardo si ne tornaremo a 1’ armata per expedirsi dii tutto. S. M.tà con tutto il resto, gratia a dio, sta bene et aspetta che li avisi che venirano de Ittalia siano indrizati qua per la via di Corsica si corno già lo tengo scritto a V. S.ne et quelle mi risposero d’haverli datto bon ordine, il quale si haverà da continuare mentre che 1’ armata resti da questa parte di Barberia et cussi prego di novo V. S.rie li faciano dal canto loro usar tutta quella diligentia che li sarà possibile, a le quale al solito mi racomando. Di galera sopra Callari, alli XIJ di giugno 1535. A’ comandi di V. S.rie Ψ Andrea Doria. Vili. 25 Giugno 1535. Ill.m° et M.ci Signori, Innanti hieri hebbi la lettera di V. S.rie delli VJ, de la quale ho preso gran piacere intendendo che li suspetti occorsi· siano rafredati, delli quali non mi resta più dubio alcuno mediante le bone provisione et diligentie di V. S.rie. Io scrissi a quelle di Callari alli XIJ, et alli XIIIJ la matina S.M.'·1 con tutta 1’ armata si partite di cavo di Pola poco distante dal detto loco per GIORNALE LIGUSTICO 285 venir qua, dovi arrivassimo alli XV et alli XVJ la matina si fecero desimbarcar con diligentia le infantarie, alle quale subito cederono li Turchi et mori concorsi alle marine per farli ressistentia. Et li detti Turchi si retirorno in la Goletta, dovi havemo ritrovato consistere tutta la difficultà de la impresa, così per la qualità dii sito et delli repparri , quali mediante 1’ aiuto et conseglij de’ Francesi vi hano aggiùnti, corno per la gran gente che li resta a deffenderla , per la qual cosa è parso a S. M.tà conforme alla oppinione di molti che sia necessario attendere principalmente ad expugnarla. Et cusì non si è mancato di procederli con li debiti et convenienti mezzi et già con trinchiee et reparri gli siamo tanto propinqui che fra un giorno o dui spero se gli farà la batteria et darà 1 assalto, di maniera che con la gratia di N. S. dio se la levaremo da canto et expediti di questo non si dubita di alcun altro obstaculo de importantia. Fino a qui sono seguite diverse scaramucie tra li nostri et infideli, li quali de ogni sorte, così a piedi corno a cavalo , a tutte hore ne vanno infestando; però non ne guadagnano molto , nè delli nostri sono mancati salvo alcuni disgratiati che per robare si sono allontanati dal campo et per loro bestialità et disordine mal capitati. È vero che 1’ al-trheri che fu vigilia di S. Giovanni essendo uscita dalla Goletta una grossa banda di fanti et cavalli verso un reparro guardato dal coronello dii Conte di Sarno, et volendo esso Conte recuperar alcuni soi, che senza suo ordine si trovavano fora dii bastione, scaramuciando li sopravenne adosso tanta furia che per la mala sorte finite li soi giorni. Però assai presto fumo li Turchi rebutati, con perdita di molto maggior numero di persone et di alcuni fra loro principali, ancor che ’l disastro dii detto Conte a tutti sia molto doluto et doglia. Nel resto suplendo meser Adam, non sarò più exteso che a V. S.rie racomandarmi. Datum nel felicissimo cesareo et catholico exercito sopra la Goletta di Tunexi, alli XXV di giugno MDXXXV. Post datum. Sono venuti tre personagij mandati dal re moro a far intendere a S. M.li che detto re fra dui giorni sarà qua con cento cavali di questi Aiarabi principali soi amici, per concertar con S. M.‘* quanto fa di bisogno et così li dui sono tornati al detto re con bona risposta di S. M.(i II terzo è rimasto qui et a tutti si è fatto et si fano carezze, nè per adesso occorre altro d’ importantia. A’ servicij di V. S.rie. Andrea Doria. 286 GIORNALE LIGUSTICO IX. . 29 Giugno 1535- Ilì.mo et M.“ Signori, Per 1’ alligata V. S.rie vederanno quanto è successo fin a quest’hora, nè si maravigliaranno che Γ artigliarla non se sia ancor piantata a questa fortezza de la Goletta per farli la batteria, perchè essendo guardata da tanto numero di gente com’ è et situata in campagna rasa che da quella banda dovi se gli può accostare bisogna andar lì a forza di trinchiee et reparri, S. M.'à ha deliberato, poi che si è fatto la maggior parte dii bisogno, che se gli procedi di passo in passo, di modo che senza perdi-cione della nostra gente spero che V. S.rie con la gratia di dio non tar-derano ad haver la nova de la presa di detta Goletta. Il re moro è arrivato questa matina qui da S. M.1* con circa trecento cavalli et di prima gionta ha offerto scrivere a Tunesi et far che li mori tutti abandonaranno et mancherano da Barbarosa et che domane saranno qui da sei millia cavalli arabi. Et cussi S. M.(i li ha fatto amorevole accoglienze, ma per ancora non gli è stato spacio di attendere ad alcun altra ressolutione, de la quale V. S.r‘e haveranno poi noticia a suo tempo. Et fra tanto al solito me gli racomando. Dal felicissimo cesareo exercito sopra la Goletta di Tunesi, alli 29 di giugno 1535. A’ comandi et servici) di V. S.1* Andrea Doria. X. 8 Agosto 1535. Iìl.m° et M.ci Signori, Essendo in Genova più volte pregai V. S.rie fossero contente d’aggregare nelli alberghi de’ Nobili messer Melchion de Roccho, Piero quondam Battiste, et Barthalomeo quondam Joannis de Roccho suoi nepoti, et Constantino Marchese. Il che non solo, se ben se ricordaranno, mi concessono, anzi ordinorono fusseno annotati, acciò nel tempo si lia da fare 1 aggiudicazione se havessi de lloro memoria. Dove essendo in Messina et visto li prenominati, reduttomi a memoria il caso lloro dal Magnifico messer Piero Lomellino de Campo, mi è parso per 1’ absentia mia si possa esser in quel tempo non fussi presente, nhè fussero GIORNALE LIGUSTICO 287 stati annotati, con queste mie ricommemorarlo a V. S.rie et pregarle cusi come me hanno concesso lloro Signorie voglian lloro nomi commetter siano annotati in detti alberghi, et in quali a lloro S.rie piacerà, nhè essendo discomodo a quelle per lloro satisfatione nello Albergo delli Cigalla. Qual facendo fine Dio conservi et feliciti. De Messina, in galera, alli VIIJ de augusto MDXXXV. Di Vostre Signorie Andrea Doria. * XI. 13 Ottobre 1535. lll.mo et M.ci Signori, Il gran scudero de Γ imperatore è uno signor lo quale per sue virtù et per lo grado che tiene merita ogni rispetto et favore. Mi ha pregato instantemente voglia intercedere con V. S.rie per la remissione di Gregorio Pallavicino, qual mi, pare che resti bandito. Et quando sia cosa de che le S.rie V. lo possano gratificare, come penso che sia, oltre che si obligarano persona tanto honorata , a me ne farano singularissimo piacere per li respetti sopradetti, che cusì ne le prego quanto più posso et me gli racomando. Di Palermo, alli XIIJ di ottobre MDXXXV. A’ servicij di V. S.rie Andrea Doria. XII. 7 Dicembre 1535. Ill.m° et Mci Signori, Alla lettera di V. S.rie delli XXIX dii passato, continente solo il fastidio che hano sentito della concessione fatta per S. M.ci in favor de’ Ca-stelani contra la nation nostra per li drappi che hanno d’ andar in Sicilia , non farò longa risposta, perchè da messer Adam Centurione sarano stati ben informati di quanto in opposito fin a quel’ hora se gli era operato. Et in questo non manco si potria biasmar coloro che sapevano tal cosa et non sono stati soliciti di racordar il remedio a tempo, che dolersi d’ altri, et la conclusione si è che hora sarà dopia fatica per revocar quello che innanti facilmente si saria potuto obviare. Nientedimanco ne ho 288 tornato a parlare dipoi che sono qua et dattone memoriali et mentre che ci starò possano esser certe V. S.rie che farò come per cosa che sento quanto lor medesime. Senza eh’ io me extenda in molte parolle , comprendo bene che per adesso non si dehia finire perchè non si attende ad alcun negotio salvo a particolari di questo regno , nè tampoco in Roma penso si debia terminare, non facendo conto S. M.l“ di far lì troppo dimora. Et benché sii sempre stato di oppinione tosse non solo a proposito ma necessario tener un Ambasciadore apresso S. M.tA, il quale sì come in molte akre cose haveria potuto divertir questa materia, parmi quasi, poi che si è tardato tanto , si potesse tardar a mandarlo quando S. M.*4 sarà per andar a Roma , che penso sarà a mezzo gennaro in circa , et per aventura che saria anche manco male aspettar fin tanto che S. M.ri sia in Milano (i), dove si potria mandar per invitarla a Genova et saria più comodità trattar di questa et altre cose , considerando maximamente la spesa et il poco frutto che in questo mezo si potria alcanzare. Tut-ta\ia me rimetto sempre a meglior parere, nè altro occorendo di novo a V. S.ne rni racomando. Di Napoli, alli VIJ di dicembre 1535. Penso che S. M.tà partirà di qui per Roma tra li XX et il fine di gennaro et debia dimorar in Roma qualchi XX giorni in circa et poi andar a Milano et de lì a Genova ad imbarcarsi. Mi è parso farlo intendere a λ. S.r,e acciò che volendola honorar di alcuna cosa corno si conviene sapiano in quanto tempo poterlo fare. A’ servici] di V. S.rie Andrea Doria. xiiì. 18 Maggio 1538. IH.™ et Molto M.ci Signori, Desiderando S. M.t4 continuamente tutte quelle imprese et boni effetti che tendano al beneficio della christianitade, ha deliberato di proveder d armata di presente contra il Turco et per questo mi ha dato cura eli io scrivi a V. S.rie et li preghi faciano detténer tutte quelle nave et vascelli che adesso se ritrovano in Genova; tanto forasteri come terreri, che possano esser accomodati per il servicio di detta armata. Et perchè (1) Nome abbreviato due volte Mio. GIORNALE LIGUSTICO 289 S. M.Ià ha da esser a parlamento hogi o domane col papa , et alhora non solamente se rissolverà del numero , ma si manderà messer Adam Centurione con provisione de denari per intertenimento di dette nave, et informato di tutto quello si haverà da fare, non mi extenderò in dirli altro se non di novo pregarle, poi che conoscono di quanto giovamento et utile possa esser una tal impresa , non vogliano mancar alla richiesta sopradetta et non consentir in modo alcuno che niuno vascello si parti fin alla venuta di messere Adam, che oltra farano piacer et cosa gratissima a S. M.'i io gli ne haverò obligo et a V. S.rie mi racomando. Da Vilafranca, alli XVIIJ di maggio 1538. A’ comandi di Vostre Signorie Andrea Doria (i). · XIV. 4 Giugno 1538. IU.mo et M.ci Signori, Sono più mesi che li frati della cella hanno una lite con Andrea Relia e suoi fratelli sopra il livello di una lor casa , la qual detti frati dicono esser decaduta e parmi che tal lite sia introduta denanti a V. S.rie. Peronde , siando detti Andrea e fratelli absenti da Genova in serviti) mei, prego V. S.rie gli piaccia far sopraseder e suspender questa causa, di modo che in essa non si innovi cosa alcuna sino alla tornata mia a Genova, la qual penso- non debba però esser molto longa, e di questo gliene facio grande istantia , che me ne faranno singular gratia. Alle qual di continuo mi raccomando che V. S.rie le prosperi con augu-mento di lor stato come più deseano. Da Villafranca, alli iiij de zugnio MDXXXVIII. Di' V. 111. S. servitor Andrea Doria. XV. 4 Luglio 1538. Ilì.m° et Molto M.ci Signori, Non havendo potuto per diverse occupatione et anche per non lo haver saputo più presto far un’ opera con V. S."« a bocca innanti la partenza (1) È allegata la distinta delle navi col nome del relativo padrone, a cui è vietato, sotto pena di multa dai ducati 500 ai 2000, di muoversi dal porto di Genova. Giorn. Ligustico, Ληηο X. I9 290 GIORNALE LIGUSTICO mia da Genova, ho pensato suplir con la presente , sperando non manco in absentia che in presentia dover riportar da quelle l’intento d’ ogni mio honesto desiderio et richiesta. Però intendendo che messer Dominico Justiniano, Podestà de Syo, ha instato et insta li sia provisto de successore, altramente che sarà constretto abandonar 1’ officio, et desiderando che per intercessione mia fosse dato con tutti li honori et preheminentie solite a messer Gerardo Justiniano Paterio, quondam Pauli, mahonese, et habitante in detto loco de Syo, prego le S.rie V. quanto più instantemente posso siano contente compiacermine et farmine gratia di taL podestarìa per epso messer Gerardo, con quelli ordini parirà a quelle di andar li da privato et star qualche tempo in detto loco de Syo aspettando li Maonesi fingano far loro tal ellettione per le occorentie turchesche, adciò non si possa incorrere in alcun pericolo ; del che V. S.ne siano certe mi obligheranno grandemente che cussi senz’ altro dir me li raccomando. Di galera sopra Saona, alli iiij di luglio MDXXXVIIJ. A’ servicij de V. S.rie Andrea Doria. XVI. 13 Luglio 1539. 111.™ el Mollo M.ci Sig. Oss. Hier matina, arrivata a hora di terza con questo medesimo corriero , hebbi la lettera di V. S.rie di iiij dello instante , alla quale questa sarà risposta, non essendo anchor capitata a me 1’ altra che accusano havermi scritto il giorno avanti per via di Roma. Bench’ io pensi debba esser di un medesimo suggetto , però questa doverà supplir et dirò che subito havuta la detta lettera et veduto il timore che hanno le S.rie V. della penuria di grani et il pensamento fatto di anticipare le provisioni, che a mio giudicio è stato ottimo per il mantenimento di quel governo, sono stato col sig. Viceré et con quella instantia et caldezza che ho potuto et saputo ho finto la richiesta denotata, et in conclusione S. Ecc.a si è contentata consentir alle S.r‘e V. che possano cavar di questo Regno fino alla summa di vinti o vinticinque milia salme di grano, con conditione però che debbano pagare tutto quello che sarà aggiùnto delle nove imposte. Et sopra questo dirò il mio parere alle S.rie V., che non si maraviglino di questa conditione et che non debbino rpancar di accettar questo partito con tal conditione, perchè alla fine tra che le ne- GIORNALE LIGUSTICO cessità di questo Regno sono grande per li carrichi grandi che tiene di proveder la Goletta, Bona et altre cose, et tra che di questo Regno excluso le semente et il consumo suo non se ne potrà cavare in tutto più di cinquanta in sesanta milia salme per esser stata la racolta tanto trista quanto dir se possa, non si potrà fare altrimente. Et per tutti questi respetti il sig. Viceré, per proveder a tutti questi bisogni importanti, sarà necessitato prendere danari da chi gli ne darà più. Però suggiongerò an-chora che le S.ne V. non possono far meglio che manda[re] di qua una persona discretta con provision di danari et ordine che possa comprar fino alla detta summa, acciochè si possano assicurale] di haverla. Et più che meglio saria darli ordine che al sig. Viceré siano exborsati qualche denari a bon conto per le nove imposte , acciofchè] la extrattione sia incapparrata , et che questo aviso non sia pre[venuto] da altri, perchè , per le necessità che tiene questo sig. Viceré di denari, concederà le tratte a chi gli darà prima il contante. Però con quella prestezza che sia possibile sarà bene che le S.rie V. facino queste provisioni et comincino a farli qualche exborso per li novi imposti acciochè le cose possano esser più caute et sicure. Et se queste provision se facessero mentre eh’ io sarò qua, forsi che giovarla qualche cosa, nè mi occorre dire altro alle Signorie Vostre che raccomandarmeli et pregar dio le conservi. Da Messina, alli XIII di luglio del MDXXXIX. Di V. 111.m» Signoria et Magnificentie Servitore Andrea Doria. XVII. 14 Luglio 1539. Ill.mo et Molto M.ci S.ri miei Oss. Poi di haver fatto il plico delle lettere diretto a V. S.rie ho parlato col sig. Viceré, il quale mi ha detto esser gente assai che concorrerlo ad offerirli denari sopra le nove imposte per haver bona summa de grani, et per questo respetto mi è parso replicar alle S.rie V. che non manchino con ogni diligentia et prestezza di provedér a quel che ho scritto in 1’ altra mia, tanto di uno homo discretto come di denari per pagarli al prefato sig. Viceré a bon conto sopra le nove imposte, perchè Sua S.ria sarà forzata prendere denari da chi geli offerirà più presto et se le S.rie V. sarano delli ultimi si trovarano senza niente in mano. Però, havendo da fare, non bisogna che vi interpongano tempo et facinlo 292 GIORNALE LIGUSTICO nanti ch’ io mi parta di quà, perchè gli gioverò qualche cosa. Altro non so che dir a V. S.rie che raccomandarmeli. Da Messina, alli XIIIJ di luglio 1539, a hore XV. Di V. 111.™» S.ria et Magnificentie Servitor Andrea Doria. XVIII. 16 Luglio 1539. III.™ et Molto M.ci S.ri Oss. Questa matina ho ricevuta la lettera che V. S.rie mi haviano accusato per l’altra, a la quale col medesimo correro che me la portò feci avanti hieri risposta. Et perchè in questa ricevuta ultimamente specificano la tratta delle XXJ mila salme concesse da S. M.li senza alcuna nova impositione, acciochè io procuri col sig. Viceré lo effetto della extrattion di esse, li farò sopra di questo un poco di discorso et trovarano se sari come le dico. Però hanno da considerare, come ancho esse me diceno che per tutte le altre parte de Italia è stata cativa raccolta et per consequente per la penuria grande bisognarà che ogniuno concorra quà per haver li loro bisogni, et concorrendoci gente da molte bande, il sig. Viceré (per li gran bisogni et carrichi che tien questo regno) sarà forzato consentir le tratte a chi gli darà prima denari per provedere a molte cose che importano. Et non pensino le S.rie V. che il sig. Viceré facci questo per non ubedir et osservare le tratte che S. M.tA vi ha concesso,, ma sarà forzato far altrimente per le necessità che ge lo stringeranno. Et credanmi le S.rie V. in questo che gli dico , che adesso è laborare in danni il travagliar per ottener le tratte de ditta gratia ; però se le-S.rie V. non provederano presto de una persona discretta et di denari per pagar a bon conto al sig. Viceré sopra le nove imposte, si trovarano senza niente in mano come per l’antecedente mia scrissi alle. S.™ V., alle quale mi raccomando. Da Messina, nel palatio, alli 16 di luglio 1539. Di V. 111.ma S.ria et Magnificentie Servitor Andrea Doria. Le S.ne V. non si facino niun concepto per la gratia d’ aver franche le tratte, nè tute, nè parte. Se 1’ averan pagando le graveze, non sarà pocho ; de manera che se le S.rie V. pensano d’ aver le tratte [debbono} pensar de pagare et non pagando non nverano. GIORNALE LIGUSTICO 293 XIX. 28 Ottobre 1527. lìl.m0 et M.c‘ Signori, Como le S.rie V. intenderano per lettere di questi signori capitani et proveditori, si è presa la possession di Savona, la quale sarà in comune col sig. Conte. Et si darà ordine a la guardia ha da restar et a ogn’ altra cosa che fia bisogno. Et poi assai presto serimo da quelle, secundo Γ ordine loro. Datum Savona, a dì XXIIJ di ottobre MDXXVIIJ. Di V. Ill.ma s.ria et Magnifìcentie * Andrea Doria. Synibaldo Fiesco (i). XX. 24 Maggio 1533. Alla Serenissima Signora Signora mia Colendissima la Signora Infanta di Portugal Duchessa di Savoia. Ser.™ Sig.™ Sig.ra mia Colendissima, Io promissi a V. Al. remandar le galere per servir alla passata sua in Spagna. Et corno fui qua trovai tante nove de li danni fatti per le fuste in li regni di Napoli et Sicilia, et tante instantie di quelli signori viceregi, che li mandassi dette galere per succorso d’ essi regni, che attento le nove di Corone scritte anche a V. Al. per un mio staffer a posta, fui constretto per la grandissima importantia del servicio et honor di S. M.tà inviar le galere in quella parte. Et dio sa con quanto mio dispiacere per non poter adesso servir et obedir al comando di V. Al., a la quale desidero col proprio sangue poter satisfar et far cosa grata. Per tanto humilmente la suplico, poi che vedde in quanto pericolo fussero posti dui regni tali di S. M.tA, et che non se li poteva mancar di soccorso et remedio , sia contenta acceptar questo effetto et scusa in bona parte, poi che la sa che per voluntà et anche debito niun altro gli è più svicerato servitor di me. Et (1) Ambedue le firme autografe. GIORNALE LIGUSTIGO perchè in breve aspetto qua tre galere forzate et bonissime del Capitanio messer Antonio Doria mio cusino, che vengano al servicio di S. M.>i, se V. Al. si contentasse servirse et valersi di queste, la suplico me ne facia dar aviso, perchè possa dal canto mio far mio debito et che si conosca quanto sia desideroso servirla. Et per non tediarla più con littere, resto pregando N. S. dio che la vita et stato di V. Al. conservi et exalti conio desidera. In bona gratia della quale sempre mi racomando et baso le mani. Da Genova, alli XXIIIJ di maggio MDXXXIIJ. Di V. Alteza Humilissimo Servitor Andrea Doria. XXI. • , j 15 Febbraio 1539. All Ill.mo Eccellentissimo Signor mio Osservandissimo il Signor Duca di Savoya. 111.™° et Ecc.™° Signor Sig. mio Oss. Anchorchè la Ecc.a V. prima di adesso debba haver inteso la mia gionta qua a salvamento et con salute, non ho voluto mancar, con la ocasion che tengo di scriverli questa, darlene aviso et raccordarle che le son servitor et desideroso farle servitio. Per essermi commessa la cura del sig. Marchese de Finale et dele cose sue, non posso nè devo mancar di raccomandarle strettamente a V. Ecc.a et supplicarla si degni concederli le sue legittime investiture li sarano domandate in nome di esso sig. Marchese, et ordinar anchora al Coniiss.0 tiene in Ceva non molesti quelli poveri subditi di una contributione gli domanda , la qual per non descompiacer a V. Ecc.a si è tolerata per il passato qualche tempo ; ma considerando che ’l perseverar saria di gravissima giattura et contra il dover, son constretto reclamarmene da quella, sì come più a pieno intenderà dal presente exhibitor, al qual V. Ecc.a potrà dar fede come a me medesimo. Et resto pregando N. S. dio le doni longa et felice vita con ciò che desea, et le bascio le mani. Da Genova, alli XV di febraro MDXXXVIIIJ. Di V. Ecc.a Servitor Andrea Doria. GIORNALE LIGUSTICO 295 XXII. 19 Novembre 1528. Allo III."'0 s. Duce et Mag.ci S.ri de la ex.a republica Genovese S/‘ olser.”", lll.m° S.or Duce et Mag.^ S.ri. Una lettera de’ XIIIJ da V. S. ho riceputo a la quale non ho facto risposta aspectando prima Mes. Baptista Lomelino. Ne ho poi riceputa un’altra de’XVIIIJ del medesmo tenore, per la quale le S. V. me scrivono voglia solicitare la ruina di queste mura et porto, però io intenderò a quelle usarli circa questo ogni dilligentia pussibille secundo l’ordine loro, di modo che sia tuto domenica, e'anchora se sieno ritrovate più forte di quello iudicavamo, spero serano ruinate tute le nove forteze. Et poi lunedi si meterà mano a ruinar le mure de la marina, il molo, et empire el porto et si meterà tuto a fine et presto secundo el desiderio di V. S., le quale sieno certe eh’ io vorria posserlo eseguire in un giorno per posser servir quelle in qualch’ altra cosa fora di quà. Et desidero venghi la nova del mio ritorno , vedendo le cose tanto bene incaminate et questi comissarii, cioè Cazanova et il compagno, tanto dil-ligenti, che poterano exeguifé ogni cosa ch’io li imponessi per tale effecto in nome di quelle a le quale del tuto mi rimetto raccomandando-melli per infinite volte. Benché mi persuada le S.rie V. esser di tuto bene advertite , pur non mancherò de dire quanto qua si dice, corno Mons.or di san Polo se ritirava in Aste et havia richiesto ducento alogiam.'1 dentro la cità et il resto de la gente voleva alogiassero di fuora. Et più si dice corno a la giornata de hieri doviano in epso loco de Aste giùngere mille cinquecento Lanza-. chinec. Altro di novo non se intende degno di aviso et a V. S.ne di novo mi racc.° . Di Savona a di XVIIIJ di novembre MDXXVIIJ. De V. Ill.me S.rie et M.tie # Servitore Agostino Spinola (i). (1) Solo la firma autografa. GIORNALE LIGUSTICO NOTE STORICHE Lettera i. — Carlo V imbarcatosi a Barcellona, il 28 luglio 1529, surse il 12 agosto successivo nel porto di Genova, dove fu accolto e festeggiato con luminarie e gazzarre infinite. II « ponte de legnami » di cui parla Andrea D’Oria nel Post datum, fu gittato nelle acque del Man-draccio presso la chiesa di San Marco, e decorato d’ acconce pitture. I gentiluomini « ben parescenti et vestiti » i quali si trovarono ad accompagnare S. M. furono precisamente « ducento » ; ma forse v’ erano più comparse che gentiluomini. Carlo si fermò in città fino al 2$ d’agosto; e la Repubblica, imborsati i nomi dei più doviziosi cittadini , comandò che ogni dì ne venissero sorteggiati dieci ; i quali, a spesare il monarca e ad intertenerlo onorevolmente, dovevano pagare cento scudi ciascuno. Gli onori si pagano cari: non c’è che dire! Lettere i e in. — La « marchesa » (pp. 277-280) è Peretta moglie di Andrea D’Oria, che la sposò nel 1527. Figlia di Gherardo Usodi-mare e di Teodorina Cibo, era stata moglie in prime nozze di Alfonso del Carretto marchese del Finale; donde appunto il titolo di « marchesa ». Letteea v. — La « santa impresa contra infideli » è quella notissima di Tunisi; sulla quale il D’Oria dà poscia importanti ragguagli nelle lettère vili e ix. Lettera vi. — Il « signor Antonio » (p. 282) è lo stesso che il capitano Antonio D’Oria, del quale Andrea riparla nella lettera xx chiamandolo « mio cusino ». Di lui si ha alle stampe il raro libretto col titolo : Compendio d’Antonio Doria delle cose di sua notitia et memoria occorse al mondo nel tempo dell' imperatore Carlo Quinto (Genova, Antonio Bellone, 1571; in 4.0); e serbasi manoscritto alla Casanatense di Roma e all Universitaria di Genova un Discorso delle cose turchesche per via di mare. Nel 1542 fece egli edificare in Genova il sontuoso palazzo, che poi fu degli Spinola, ed oggi è proprietà della Provincia e sede de’ suoi uffici. Le « pratiche pareno uscir da le medesime radice di quelle di 1’ anno passato » ecc. Per fermo Andrea intende le congiure di Agostino Gra-nara e Tommaso Sauli, che aveano per iscopo di sollevare il popolo di Genova in favore dei Francesi, e che vennero soffocate subito col supplizio capitale dei loro capi. « La persona del Contino », cioè Gian Luigi Fieschi giuniore, conte di Lavagna; il quale, essendo nato nel 1523, aveva appena dodici anni. GIORNALE LIGUSTICO 297 « Messer Paulo Pansa », che Sinibaldo Fieschi avea dato per precettore a’ suoi figli, scrisse le Vite de’ papi Innocenzo IV e Adriano V, poscia stampate in Napoli con ritocchi e giunte di Tommaso Costo, nel 1598. Fu altresì buon poeta latino e volgare, lodato dal Giovio e dal Bandello, e dall’Ariosto, nell’ultimo canto del Furioso (st. 12) appaiato co’ due Tolomei, il Trissino ed altri: \ Con lor Lattanzio e Claudio Tolomei, £ Paulo Pansa, e ’l Dresino, e Latino Giuvenal parmi, e i Capilupi miei, E ’l Sasso, e ’l Molza e Florian Montino. La « contessa » è Maria Grosso-Delia Rovere, madre di Gian Luigi Fieschi, cugina di papa Giulio II e di Francesco Maria primo duca d'Ur-bino. Il « sig. Cagnino » è Francesco Gonzaga, soprannominato Cagniiio, figlio ùi Ludovico dei duchi di Sabbioneta e di Francesca Fieschi figliuola di Gian Luigi il seniore. Partigiano di Francia nella guerra scoppiata tra Francesco I e Carlo V pel possesso del ducato di Milano, dopo 1’ estinzione della casa Sforza, fu tra i condottieri che adunarono un esercito alla Mirandola, e di colà mossero nel luglio del 1536 tentando un colpo su Genova. Il 29 agosto diedero infatti l’assalto alla città dalla parte di Fassolo; ma Agostino Spinola li ribattè valorosamente in una fazione, che gli annalisti descrivono. Del rimanente tutta la lettera vi e la successiva sono molto importanti, per confermare sempre più come le intelligenze tra i Fieschi e la Francia, collo scopo di rimutare il governo di Genova e trasferire nella casa dei conti di Lavagna quel primato che esercitavano i D’Oria, rimontino a parecchi anni avanti la celebre congiura del 1547. Lettera viii. — « Messer Adam » è Adamo Centurione, citato ancora nella lettera xii. Appartenne al ramo degli Oltremarini, possedette parecchi feudi nella Liguria, e fu marchese di Stepa, Pedreira e Monasterio nella Spagna. Ivi si stabilì di poi la sua discendenza, estimasi verso il 1820. Lettera xii.— Contrariamente alle supposizioni del D’Oria, nel poscritto di questa lettera, Carlo V non venne allora in Genova; ma passato da Roma a Firenze, di qui se ne andò poscia in Lombardia. A Genova capitò invece dopo l’impresa di Provenza, il 16 ottobre 1536, e vi stette tre giorni. Lettera xiv. — « Li frati della Cella » sono i romitani di Sant’A- 298 GIORNALE LIGUSTICO gostino, della Congregazione genovese, i quali stanziavano nel convento annesso alla chiesa (ora parrocchiale) di S. Maria della Cella in San Pier d Arena. Il bellissimo coro di questa chiesa è dovuto appunto alla munificenza dei D’ Oria, di vari tra quali vi si mirano tuttavia i sepolcri sontuosi. Lettera xix. — Andrea D’ Oria e Sinibaldo Fieschi aveano avuto il carico principale dell’ espugnazione di Savona ; conducendovi questi 1 e-sercito e quegli 1’ armata. Lettera xxi. — Il « sig. Marchese de Finale » è Marco Antonio del Carretto-D’ Oria, nato d’Alfonso I e di Peretta Usodimare, epperciò figliastro di Andrea D’Oria. Sposò Vittoria d’Antonio di Leyva, e tenne 1 ufficiò d’ ammiraglio del re di Spagna. Lettela xxii. — Agostino Spinola, al quale appartiene questa lettera, andò commissario a Savona dopo Γ espugnazione della città. Fu signore di Tassarolo ; e guerriero di molto valore. Di lui occorre frequente memoria nei Documenti ispano-genovesi dell’Archivio di Simancas (ved. Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol. VIII). CHRISTOPHE COLOMB ET LA CORSE observations sur un décret récent du Gouvernement Français (1) Si l’œuvre de M. l’abbé Casanova (2) attire aujourd’hui 1 attention de la critique, c’est la faute du Gouvernement. Il s’agit du lieu de naissance de Christophe Colomb, et voici le décret que publie Le Conservateur de la Corse, journal politique et religieux (3): (1) Dalla Revue Critique del 18 giugno p. p. riproduciamo per utilità dei nostri lettori questo dotto articolo dell’illustre Harrisse, al quale rendiamo vivissime grazie di avercene conceduto gentilmente il permesso. La Direzione. (2) La viriti sur l’origine et la patrie de Christophe Colomb, par l’abbé Martin Casanova de Pioggiola. Bastia, imprimerie et librairie Veuve 01-lagnier, 1880. In-8, vi et 167 pages. (3) Aiaccio n.° du 20 septembre. GIORNALE LIGUSTICO 299 « Le Président de la République française, sur la proposition du Ministère de l’intérieur. Vu l’ordonnance du 10 juillet 1816, décrète: Article premier. — Est approuve 1’ erection , par voie de . souscription publique, d’une statue de Christophe Colomb, sur une place de la ville de Calvi (Corse). Art. 2. — Le Ministre de l’intérieur est chargé de l’exécution du présent décret. Fait à Paris, le 6 août 1882. Signé: J. Grévy. Par le Président de la République. Le Ministre de l’intérieur. Signé : René Goblet, etc. ». Ce décret, au premier abord, ne paraît être qu’un simple et innocent hommage rendu à la mémoire d’un grand homme, bien qu’on ne saisisse pas tout de suite pourquoi Calvi a été choisi à cet effet plutôt que Carpentras ou Carcassonne. En y regardant de près, la critique ne tarde pas à découvrir que la visée est plus ambitieuse. En réalité, on veut faire croire aux populations que l’Amérique a été découverte par un Corse né à Calvi. Notre interprétation se déduit des commentaires qui accompagnent, complètent et enjolivent le susdit décret dans le journal précité; d’une suite d’articles ejusdem farina publiés par cinq autres journaux corses (r); enfin des raisons alléguées dans l’ouvrage de M. l’abbé Martin Casanova de Pioggiola. La prétention de faire naître Christophe Colomb à Calvi s’appuierait d’abord sur la tradition, qui, selon M. l’abbé C., « encore mieux que les textes écrits, est la résultante des données reelles de l’histoire, et, de toute les preuves , elle est la plus forte (2) ». • (1) Messager de la Corse du 17 avril 1874, ['Observateur de la Corse du Ier mai 1874, la Corse du 6 mai 1874, ΓAigle d’Ajaccio du 22 juillet 1876, et la Galette corse du 8 décembre 1877. (2) Page vi. 300 GIORNALE LIGUSTICO Cette singulière doctrine ne laissera pas que d’étonner les lecteurs de la Revue critique. Admettant néanmoins que la tradition existât à Calvi, — ce que M. l’abbè C. est loin d’avoie démontré, — cela ne prouverait rien encore. On recueille une tradition semblable a Gênes, à Savone, à Pradello, à Plaisance, à Cogoleto, à Quinto, à Nervi, à Chiavari, à Oneglia, a Finale, à Buggiasco, à Cosseria, à Albissola, et dans dix localités de la Corniche. Elle est en outre plus ancienne dans toutes ces villes et bourgades que la tradition alléguée par M. l’abbé C. Il est possible que les mémoires d’un « vieux moine » , et huit vers anonymes (élucubrations dont nous ne tarderons pas à discuter la valeur) aient prétendu que Colomb est né à Calvi, mais le point de départ, la base même de la légende corse, est, évidemment, la phrase suivante, extraite de la Revue de Paris, n.° du 2 mai 1881: « Christophe Colomb est nè a Calvi, en Corse, Christophe Colomb est, par conséquent, le compatriote de Napoléon. Les preuves de ce fait existent, et je les dénoncé comme étant dans les mains de M. Giubega, qui tarde trop à publier 5a découverte ». M. l’abbé C. renchérit sur cette audacieuse assertion, en ces termes : « La Revue de Paris n’apprit rien de nouveau à la Corse, car tout le monde savait déjà ici que le grand Amiral de l’Océan est né à Calvi, où la famille Colomb ne s’est éteinte que dans las premières années du xixe siècle..... Ce qu’il y a de certain, c’est que l’acte de baptême du grand navigateur existait à Calvi. M. le Prefet Giubega l’à trouve dans les archives de la ville..... On se rappelle fort bien, qu il y avait dans l’acte, que Christophe Colomb est né en Vannée I441'> dans la citadelle de Calvi (i) ». (i) Pages 17 et 139. GIORNALE LIGUSTICO 3OI Or, nous possédons écrite de la main de M. le Président du tribunal de première instance de Calvi (1), la déclaration suivante : « M. Giubega, ancien sous préfet, à Bastia , m’a donné l’assurance que sa famille n’a jamais possédé l’acte de naissance de Christophe Colomb. Il a ajouté que feu son père, informé par un ancien commandant de la place de Corte que Christophe Colomb, d’après le dire d’un vieux moine, était né à Calvi, s’était empressé de faire toutes les recherches nécessaires, mais que les investigations n’avaient abouti à aucun résultat ». Une dénégation de M. Giubega fils (2), non moins explicite, est également en notre possession. La voici : « Quant à ce que la Revue de Paris a pu dire ed 1841, au sujet de la découverte à Calvi de l’acte de naissance de Christophe Colomb, ce fait est complètement inexact ». Le lecteur s’etonnera que M. l’abbé C., en correspondance avec M. Giubega fils, sur le sujet même de l’histoire de Christophe Colomb (3), ait ignoré des démentis aussi formels. M. l’abbé C. s’imagine confirmer son dire en rapportant qu’a Calvi une rue dite autrefois Caruggio del Filo, se serait appelée plus tard Caruggio Colombo, et que, dans cette rue y en 1546, demeurait une famille du nom de Colomb. Tous les habitants de Calvi ne semblent pas être, à cet égard, aussi fermement convaincus que M. l’abbé Casanova. Voici ce qu’écrit encore M. le Président du tribunal, magistrat calme et éclairé: « Il est vrai qu’une rue de la ville de Calvi portait anciennement le nom de Colombo, mais on (1) M. Giamarchi ; lettre particulière, Calvi, le 21 août 1867. (2) Pièce transmise par M. de Zerbi, le sous-prétet de Calvi, à M. San-telli, le 8 septembre 1867. (3) Page 23. 302 GIORNALE LIGUSTICO I ignore ici l’origine et 1* sens de cette dénomination.... Vous comprenez que ces assertions ne reposent absolument sur rien ». Le fait est que l’argument avancé par M. l’abbé C. est dénué de toute valeur. S’il y avait des Colombo dans cette caruggio, leur nom a pu lui être donné sans qu’on en déduise la conséquence qu’ils appartenaient à la famille du découvreur de l’Amérique. Quant au nom de Colombo donné à une localité urbaine, le fait n’est ni unique ni probant. A Savone, par exemple, alors que Domenico Colombo exerçait pauvrement son métier de tisserand dans la rue Saint-Ju-lien (r), son fils Christophe étant encore complètement inconnu , la place delle Caneve s’appelait di Colombi (2). Après cette tradition présumée, le principal argument, irréfragable aux yeux de M. l’abbé C., c’est la mention du nom de Colombo dans des actes notariés dressés à Calvi en χ55°> et de 1738 à 1784, ainsi que dans des registres paroissiaux relativement modernes. Ici encore, M. l’abbé C. est le jouet d’une illusion d’op-tiqué. Nous mettons en fait qu’au xv siècle presque toutes les villes européennes du bassin de la Méditerranée possédaient une ou plusieurs familles du nom de Colombo. De là l’origine de cette légende répandue dans un si grand nombre de localités (3). Pour ne parler que de la provincie de Gê- (1) « Saône in contracta Sancti Julliani in apotheca domus habitationis ipsorum Dominici et Suzanne. ». Acte de M. Pietro Corsaro, 7 août 1473· (2) Actes de M. Luigi Moreno, 31 mai 1487 et 20 février 1492. (3) En France, pour nous en tenir à la nob.esse de la Provence et du Languedoc Y Armorial ginëral de France, dressé en vertu de l’édit de 1696 par Ch. d’Hozier, accuse de nombreux Colomb à Marseille, à Castellatine, à Aix, à Alais, à Mende, au Puy, à Montaubun, à Montpellier, à Toulouse, à Figeac, à Cette, à Digne: ces derniers même s’étaient arrogé les armes octroyées par les Rois-Catholiques à Cristophe Colomb en 1493 GIORNALE LIGUSTICO 303 nes , nous avons relevé sur des actes notariés génois du xive et du xvc siècles, outre les parents incontestables et incontestés de Christophe Colomb, plus de cent Colombo (1), et nous continuons à en découvrir dans les liasses du Palazzetto. Plusieurs même s’appelaient Domenico, fils de Giovanni, tout comme le père du grand navigateur. Cependant, il n’y a pas un seul de ces homonymes que nous ayons pu rattacher à sa famille. M. l’abbé C. néglige de dire d’où lui vient sa meilleure fortune, et comment il s’y est pris pour relier ses quatre malheureux Colombo du xvic siècle à Domenico, père de Christophe. Cette filiation ne serait cependant pas sans intérêt. Il y aurait aussi quelque utilité à expliquer pourquoi et en quoi les Colombo de Calvi priment les Colombo de Gênes, de Savone, de Quinto, de Quarto, de Moconesi, de Bordighiera, d’Albaro, de Sampierdarena, d’Oneglia, de Rapallo, de Bargaglio, de Sori, de Pareto, de Sassello, des Sestri, de Chiavari, de Sturla, de Rivarolo, de Lercha, de Cogoleto, de Segno, de San Remo, etc., dont l’existence est parfaitement constatée par des actes notariés datant, non de la seconde moitié du xvie siècle, comme les Colombo calvais, mais de l’époque même ou vivaient Christophe Colomb, ses frères, sa sœur, son père, ses oncles, son grand-père, et ce, dans leur milieu même. M. l’abbé C. sait aussi de source certaine que « l’Amiral était entouré de marins de Calvi », et « qu’en partant du port de Palos, il n’y avait sur la Santa Maria, montée par Colomb, (Armorial generai; Provence, Digne, Jean et Joseph Colomb, n° 59, p. 855, Bibl. nat., MSS.). Nous sommes persuadé qu’ils se disaient tous descendre de Christophe Colomb ou de quelque membre de sa iamille. (1) Notre ouvrage intitulé Christophe Colomb, son origine, sa vie, ses voyages, sa famille et ses descendants. D’après des documents inédite tirés des archives de Gênes, de Savone, de Séville et de Madrid. Ernest Leroux, éditeur (sous presse). Chapitre des Homonymes. 304 GIORNALB LIGUSTICO aucun Espagnol (i) ». Autant de mots, autant d’inventions. Ni Pedro Martyr, ni Oviedo, ni Las Casas , ni aucun écrivain contemporains ou digne de foi, ne parle de marins corses ou de Calvi. D’autre part, le journal de bord de l’Amiral, 1 enquête du fiscal, les récits de Las Casas et d’Oviedo, et, surtout, le rôle des matelots laissés en janvier 1493 au f°rt‘n de la Navidad, nous donnent les noms de soixante-dix-huit officiers , pilotes et matelots de l’expcdition , avec mention du lieu d’origine de la plupart d’entre eux. Μ. 1 abbe C. nous rendrait service en désignant lesquel de ces marins étaient Corses. En attendant, et comme réponse à l’assertion absolument gratuite « qu’aucun n’était de Pal os », nous lui opposeron l’opinion d’Oviedo et celle de Las Casas, qui probablement en savaient autant sur ce sujet que notre auteur. Ces deux témoins oculaires rapportent que les équipages, lors de la première expédition, étaient presque entièrement composés l’Espagnols, de Palos principalement: « Fueron por todos noventa hombres, marineros y de alli de Palos todos los màs », dit le bon évêque de Chiapas (2). « E Ici mayor parte de los que yban en esta armada cran assi mismo de Palos », lit-on dans l’ouvrage de l’historiographe des Indes (3). Nous tenons aussi à la disposition de M. l’abbé C., en outre des noms et prénoms de marins andalous, compagnons de Colomb dans son mémorable voyage de 1492-93, ceux des matelots et pilotes de cette même expédition qui etaient de Gua-dalajara, de Avila, de Ségovie, de Leon , de Caceres, de Castrojeroz, de Ledesma, de Bermeo, de Aranda, de Villar, de Guadalupe, de Talavera, c’est-àdire des Castillans et des ■» (1) Page 124. (2) Las Casas, Historia de las Indias, lib. I, cap. xxxiv, tom. I, page 260. (3) Orviedo, Historia generat, lib. II, cap. V, tome I, pag. 21. GIORNALE LIGUSTICO 305 Aragonais (1); mais des Corset en général, et de Calvi en particulier, on n’en trouve pas un seul. Une autre raison alléguée (2) par M. l’abbé C., laquelle ne manque pas d'originalité, c’est que dans sa campagne contre Caonabo, Christophe Colomb aurait eu avec lui vingt chiens corses. « On est en droit de se demander, dit notre auteur, comment Christophe Colomb avait pu se procurer vingt thiens corses », et il tire de l’existence plus ou moins problématique de ce chenil, la conclusion inéluctable que le découvreur du Nouveau-Monde a vu le jour dans l’île de Corse. C’ est à peu près l’argument qu’un critique facétieux emploierait pour démontrer que Christophe Colomb était des Canaries, parce que à bord il avait de la volaille provenant de la Gomera. Les écrits de cette catégorie se complètent généralement par quelque récit emprunté à l’ordre des phénomènes. Nous citerons fidèlement celui qu’avance M. l’abbè Casanova. En 1850, lorsque nous suivions le cours de littérature au Lycée de Bastia, dit-il (3), notre savant professeur d’histoire, vrai Gaulois, donna un jour pour sujet de composition la découverte de l’Amérique. Les compositions étant achevées, le professeur prit'' celle de l’élève le plus rapproché de sa chaire, et y lut que Christophe Colomb, né à Calvi, dans l’île de Corse, avait découvert l’Amérique. Il s’indigna, mais voilà que tous les élèves avaient dit la même chose. Plus tard, il revint sur la question et. nous dit qu’il était très probable que l’illustre navigateur fût nè à Calvi ». C’ est probablemente sur ce singulier chemin de Damas que M. l’abbé C. a aussi recontré l’assertion (4), si probante (1) Notre Christophe Colomb, cap. m, § xvn, 2t appendice G. (2) Page 131. (3) Page 41. (4) M. l’abbé C. ne cite le P. Denis que d’après le discours d’un principal de collège: Oratio Doct. Savelli, Aperto Collegio Calvensi, 1826. \ '■ Giorn. Ligustico, Anno X. 20 50 6 GIORNALE LIGUSTICO à ses yeux, d’un vieux moine corse qui aurait eciit, on ne sait quand ni à quel propos, que Colomb est ne à Calvi. « Déjà, remarque notre auteur, le P. Denis de Corte, contemporain du grand navigateur, avait dit dans ses Mémoires conservés à Corte et à Calvi : « Calvii natum Columbum ». Nous n’aurions pas trouvé superflu que Μ. 1 abbé C. fit précéder cette trop brève citation de quelques explications concernant son Père Denis , démontrant l’authenticité et la date de ses écrits, ses sources d’informations, et le fond que le lecteur doit faire sur un chroniqueur vieux, parait-il, de trois cent cinquante ans, totalement inconnu jusqu ici, hors de Corte et de Calvi. Ce que le livre de M. l’abbé Casanova omet de dire, une lettre particulière de cet ecclésiastique (i) nous 1 appi end. Le P. Denis ou Dionigio, non de Corte, mais d’Omessa, donné d’abord (2) comme contemporain du grand navigateur, n est plus que « né vers la fin du xvne siècle », c’est-à-dire cent quatre-vingt-dix ans au moins après la mort de Christophe Colomb. Ses fameux mémoires « conservés inédits à Corte et à Calvi (3) », n’existent que sous la forme d une copie faite par feu M. le commandant Siméon, originaire , selon M. l’abbé C. , de Lentz en Suisse (4), mais'que le Conset -vateur de la Corse (5) évidemment mieux informé, fait naîtie sur le confins de la Gascogne (6). (1) Adressé d’Olmi-Cappclla, le 10 juin 1883, à M. Serveille; principal du collège de Calvi. (2) Page 31. (3) Ibidem. (4) « Le commandant Siméon de Bouachberg de Lentz (Suisse) ». (5) « M. Siméon, Jean-Jacques-François de Cahors ». Conservateur, n.° 45, premiere colonne. (6) Nous renvoyons le lecteur à l’étonnante biographie de Christophe Colomb écrite par M. Siméon, et donnée en extraits dans le numéro précité du Conservateur. Il est rare de voir accumulés autant d’inventions et de faits controuvés. La partie biographique de l’ouvrage de M. l’abbé Ca- GIORNALE LIGUSTICO 307 Les huit vers (1) anonymes trouvés par M. l’abbé C. à la suite d un manuscrit de la Giustificazione, della Rivoluzione della Corsica, de Grégoire Salvini de Nessa, écrivain de la seconde moitié du siècle dernier (2), ne sauraient non plus ajouter grand poids à ses assertions. Il ne suffit pas que ces vers « reppellent les malheurs et la gloire de notre grand navigateur », et qu’on reconnaisse facilement (3) » dans leur auteur un poète appartenant au xvie siècle. La critique exige qu’en matiere d’histoire les élucubrations d’un versificateur inconnu aient été dictées par une connaissance des faits, et que cette connaissance soit démontrée. S’il suffisait, pour le faire croire, d’avoir dit en vers au xvie siècle que Colomb est né dans telle ville plutôt que dans telle autre , le lecteur serait fort embarrassé. Est-ce que Alvarez Gomez de Ciudad Real (4), Cataneo (5), Lorenzo Gambara (6), sanova, — dont nous épargnons une description au lecteur, — seule présente un aussi curieux assemblage. Les élucubrations de M. Roselly de Lorgues accusaient déjà à cet égard des symptômes inquiétants, mais il était réservé à M. l’abbé de se jouer à ce point de l’histoire, du bon sens et de la crédulité publique. .(1) « Ecco quello ch’uscio di Cesia, e l’ali Ratio spiegò verso nascose arene, E non ebbe nè avrà quaggiuso eguali, Ei eh’ il mondo addoppiato in pugno tiene, Aver per guiderdon tremendi mali E le braccia ravvolte in rie catene; Ma l’alta gloria di quel Porta-Cristo Ti resta, 0 Cimo, pel mondiale acquisto ». (2) Son ouvrage (anonyme), imprimé à Corte en 1764, est dédié à Pasquale Paoli. (3) Page 46. (4) De mira Novi orbis detectione, dans Francisco Pinel, Retrato del Bven Vassallo, Madrid, 1677; in fol. Gomez de Giudad Real, né en 1488, mourut en 1538. (5) Poème à la louange de la ville de Gènes, composé sur la demande du cardinal Bendinelli. Roma apud lacobum Maiochium m.d.xiiii; in-4. (6) De Navigatione Christophori Colombi; Romæ, 1581, in-8 ; 1583 et 1585, in-4. 3o8 GIORNALE LIGUSTICO Stella (i), Juan de Castellanos (2), Giorgini da Jesi (3), Gabriel Chiabrera (4), tous poètes du xvie siècle, n ont pas écrit, et en beaux vers, que Colomb est né à Gênes, a Sa-vone, à Cogoleto, voire en Lombardie (5) ? Supposons néanmoins que ce P. uenis vécut du temps de Christophe Colomb et que ses Mémoires sont authentiques. Admettons aussi que le susdit poète calvais soit du xvic siècle. A leurs assertion le critique oppose dix déclarations con- , traires, toutes émanant non seulement de véritables contemporains , mais aussi d’amis personels du grand navigateur. Parmi les Génois, le doge Fulgoso (6), le chancellier Gallo (7), Senarega (8), historiographe de la République, l’évêque Giustiniani (9), vivant tous au xve siècle, declarent que Christophe Colomb est né à Gênes. Pietro Martyr d An-ghiera (10) et Alessando Geraldini (11), qui furent ses protecteurs et ses amis, le disent aussi Génois; ce dermei ajoute même: « de nation italienne, de la ville de Gènes en Ligurie ». L’évêque Barthélémy de Las Casas (12), qui le connut personnellement, le curé Andrés Bernaldez (13)* c^ez (1) Colvmbeidos, Londini, 1585, et Romæ, m.d.xc , in-4. (2) Elegias de Varones illvstres de Indias. Madrid, 15^9; 'π'4· (3) Il Mondo Novo, Jesi, M.D.XCi, petit in-fol. (4) Le Cannoni Eroiche, xii, dans l’édition des œuvres complètes, Venezia, 1730-31: in-8. Chiabrera est né en 1552. (5) «..... de Pelestreles, gente vaierosa Familia principal en Lombardia ». Castellanos. (6) Baptista Fulgosi de dictis factisque memorabilibus collectanea ; Mediolani, 1509; in-fol., lib. vili. (7) Dans Muratori, Rerum italicum Scriptores, tome XXIII, coi. 302. (8) Op. cit., tome XXV, coi. 534. (9) Psalterium ; Genuæ, 1516, in-fol., manchette du psaume χιχ. (10) De rebus Oceanicis; Basil., 1533, in-fol., ff. 1 et 26. (11) Itinerarivm ad regiones svb icquinoctiali; Romæ, 1631, in-12, page 200. (12) Historia de las Indias, lib. I, cap. 11, tome I, page 42. (13) Historia de los Reyes Catolicos; Sevilla, 1870, in-8, tome II, page 82. GIORNALE LIGUSTICO 309 qui il demeura, emploient des termes analogues pour désigner son lieu d’origine. Enfin , dans l’acte du 22 février 1498 instituant un majorai, Colomb dit lui-même qu’il est né dans la ville de Gènes. C’est en vain que M. l’abbé C. cherche à élever des doutes sur l’autheticité de l’acte qui contient cette affimation de ΓΑ-miral. Il en existe des exemplaires transcrits de la mains de Christophe Colomb, ou signés par lui, ou légalisés à l’époque même (1). L'Institution du majorai, où se lit cette phrase, a été approuvée par les Rois-Catholiques au mois de septembre 1501, et l’approbation existe en original à Si-mancas. Ce document, enfin , est la base même du fameux procès d’hoirie qui éclata à la mort de Diego Colon y Pravia en 1578, et le principal héritier, Christoval Colon de Car-dona, amiral d’Aragon, produisit devant les juges l’original dûment légalisé par Petro de Hinojedo, greffier royal, à Val-ladolid, le 25 août 1505 (2). Dans cette multitude de parties contestantes, la validité de ces pièces ne fut attaquée que par Baldassare Colombo, parce qu’il tirait son origine d’un Domenico Cuccaro, et par Maria, nonne professe, fille de Luis, que son sexe excluait de la succession. Aucune preuve ne fut fournie à l’appui de cette allégation , et l’institution du majorai, déclarée authentique, devint la base des arrêts des Ier avril 1605, 22 décembre 1608 et 16 juin 1790 (3). (1) Navarrete, Coleccion, tome II, page 235. (2) « La fondation e institution del mayora\go.... e va testamento 0 codicillo otorgado por el diclio Almirante ano de 1506, ante Pedro de Hinojedo, escriuano Real y de Provincia, el qual testamento, 0 codicillo original, fir-mado y signado del dicho Pedro de Hinojedo, se presentò la parte del Almi-rante de Aragon ». Memorial del Pleyto nos 28 et 141, ff. 6 et 17; Bibl. nat. F. 363, in-fol., Réserve. L’acte du 19 mai 1506, n’est qu’une confirmation, avec quelques additions, du testament du 25 août 1505. L’un et l’autre furent légalisés par Hinojedo. (3) Pièces judiciaires, et Descendance de Diego par Luis, dans notre Christophe Colomb précité. 310 GIORNALE LIGUSTICO M. l’abbé C., qui ne semble pas faire grapd cas des preuves documentaires , trouve plus facile de chercher à tourner la difficulté par des arguments du genre de celui-ci: Calvi, du temps de Christophe Colomb, dit-il, était une possession de la République de Gènes; donc Colomb était Génois, et c’est dans ce sens que l’Amiral et les historiens précités emploient la désignation de « Génois ». Ainsi, Homo ligur, Ligur vir, Natione Italus e Genua Liguria urbe fuit, veulent aussi dire: Citoyen corse, de Calvi, sujet de la république de Gènes. Nous l’ignorions. Mais, quelle sont le propres paroles de Christophe Colomb , qui probablement savait à quoi s’en tenir au moins sur son pays d’origine? « Je suis né à Gènes: —Siendoyo nacido en Genova. — Je veux que mon héritier subvienne aux besoins d’une personne de notre lignage dans la ville de Gènes — en la ciudad de Genova, — parce que c’est de ladite ville que je suis sorti et que j’y suis né, — de la dicta Ciudad......pues que della sali y en ella naci (i) ». Est-ce là le langage qu’aurait tenu Culomb s’il avait été Corse, né à Calvi ? Jamais. Il est à regretter que M. l’abbé C. n’ait pas j ugé à propos de compulser dans les archives de Gènes et de Savone les nombreux actes notariés du xve siècle où tant de Colomb son mentionnés. En dressant des tables d’homonymes avec généalogies comparatives et mentions d’alliances, de naissances, de décès, de professions, de domiciles, de dates, et en appuyant ces tables de concordances et d’analogies, il serait arrivé à éliminer graduellement les facteurs douteux pour concentrer ses ana- • (i) Nos citations sont prises sur une expédition de l’Institution du Ma-yoraigo des premières années du χνΓ siècle, conservée aux archives des Indes, à Séville: Est. i, C. i, C. Part, laquelle est en tout sembiable au texte publié par Navarrete. GIORNALE LIGUSTICO 311 lyses sur une seul^ famille du nom de Colombo. Des points de repère judicieusement choisis l’eussent maintenu dans la vraie voie et conduit à un Dominicus de Colombo quondam Johannis lanerius de Janua habitator Saona présentant un degré de probabilité auquel ses homonymes ne sauraient prétendre. Si notre auteur eût ensuite étudié dans ses détails le dossier d’un certain procès en responsabilité intenté aux héritiers de ce Domenico, il serait probablement arrivé à établir une identité parfaite entre ledit Domenico, tisserand à Savone, et Domenico, antérieurement et postérieurement tisserand à Gènes. Les assignations à comparaître lui eussent aussi donné les noms des fils alors vivants de ce même Domenico : Chri-stoforo, Bartolomeo et Giacomo, suivis de la mention « absentes ultra Pisas et Niciam de Proventia, et in partibus Hispania commorantes, » ce qui dissipe tous les doutes. La filiation dûment établie, M. l’abbé C. aurait ensuite cherché à retrouver les traces de notre Domenico à Gènes et avant son arrivée dans cette ville. Les immatricules des Registri fogagiorum, de l’office de Saint-Georges , celles des Registri livellarii, de l’abbaye de Saint-Etienne, des actes de vente, de transferts et de prisées d’immeubles, des déclarations de garantie, des reprises et des hypothèques légales, tous actes notariés et détaillés (i), lui auraient révélé une série de faits et de circonstances permettant de reconstituer presque tout le passé du père de Christophe Colomb. Il l’eût vu désigné sous le nom de Terrarubra (que portèrent aussi ses fils Christophe et Barthélémy) (2), et qualifié de propriétaire habitant Quinto al Mare, dans la provincie de Gènes , comme son père Giovanni, dès le 15 décembre 1445, c’est- (1) Dans notre Christophe Colomb, etc., Appendice, A, Docs. I-XLII. (2) « Se solia llamar àntes que llegase al estado que llegò, Cristobai Columbo de Terra-rubia, y lo mismo su hermano Bartolomè ». Las Casas, Historia de las Indias, lib. I, cap. 2, tom I, page 42 5 12 GIORNALE LIGUSTICO à-dire un an au moins avant la naissant^ de l’aîné de ses tils. Une série de pièces authentiques empruntées aux dossiers de certains tabellions (i) génois eût enfin retracé l’existence, de 1448 à 1451, de ce Dominicus quondam Johannis parmi les tisserands du Bisagno , contrée où Susanna Fontanarossa, mere de Christophe Colomb (qui ne paraît pas avoir été faire ses couches à Calvi),_ est née. Les documents que nous venons de mentionner, interprétés à 1 aide d’une saine et patiente critique, n’auraient pas manqué de localiser le berceau du grand navigateur dans le petit pays qui s étende à l’est de la ville de Gènes jusqu’à la Fontanabuona , et, descendant de cette vallée, va retrouver la mer aux environs de Quinto. L’esemble de faits eût peut-être alors décidé M. l’abbè Casanova à rejeter la chimère qui, sans raison plausibles comme sans preuve, transporte en Corse la patrie de son héros. Mais, pour arriver à ce résultat, on doit ne chercher que la vérité; il faut surtout s’élever au dessus de cet amourpropre de clocher, étroit, malsain, déclamatoire, qui est la plaie des études historiques. Enry Harrisse. rassegna bibliografica £Al ‘ Umarî, Condizioni degli Stati cristiani dell’ Occidente, secondo una relazione di Domenichino D’ Oria da Genova — I esto arabo, con versione italiana e note di Michele Amari. Aggiunte e correzioni alla Memoria sopra un capitolo di ’ Al ‘ Umarì. Estr. dal vol. XI delle Memorie della R. Accademia de Lincei; Roma, Tipi del Salviucci, 1883. (1) « Sudano filici quondam Jacobi de Fontanarubea de Besagno et uxor Dominici de Columbo de Janua », actes de M. F. Camogli du 25 mai 1741, ei de M° P. Corsaro, du 7 août 1473. “ Xpoforus et Johannes Pelegrinus filij dictorum Dominici et Sodane jugalium.... » ; même acte de M. Corsaro. GIORNALE LIGUSTICO 3 13 Gli scritti degli arabi hanno arrecato sempre un tributo notevolissimo allo studio della geografìa storica pel medio evo ; ed a questo riuscirà certo di non piccolo giovamento un estratto della grande enciclopedia di ’ Al ‘ Umarì, altrimenti detto fiamma della religione, il quale verso il 1340 raccolse in ventisette volumi le Escursioni della vista su i reami e le capitali. Sì fatta enciclopedia « abbraccia geografia, storia, antologia poetica » ecc. ; e da essa Γ illustre senatore Michele Amari ha cavato il capitolo onde qui si ragiona. Quantunque ’ Al ‘ Umarì abbia talvolta copiate o seguite più del dovere e del bisogno le opere altrui, pure egli fu diligentissimo nelle ricerche geografiche: « si che (avverte il dotto editore) non contento de’ trattati generali... andò interrogando i viaggiatori, confrontò le loro relazioni, e aggiunse moltissimi particolari alle celebri tavole del suo contemporaneo Abulfeda ». Tra i viaggiatori che ’ Al ‘Umarì consultò con maggiore profitto, è poi da notare un genovese : Domenichino D’Oria, figliuolo di Taddeo (questa lezione è però molto dubbia), e liberto di Bahdùr, emiro maggiore di Egitto ; il quale gli impose il soprannome di Balaban, con cui lo scrittore arabo più comunemente lo chiama, e che in lingua turca significa « sparviere ». Imperocché dopo le notizie raccolte nella biografia del mentovato emiro, che si legge tra quelle del Safadl in un codice del Museo Britannico, e che fu comunicata al-1’ Amari dall’ erudito Carlo Rieu, cade assolutamente la supposizione , dapprima messa innanzi, che cioè Balaban si potesse identificare con quel Balaba di Genova, il quale in un breve di papa Nicolò IV, del 7 aprile 1288, figura tra i laici di varie nazioni interpreti del re dei tartari. Narra il Safadl, che il sultano Oâlâivûn, per quelle vicende della fortuna cosi facili e cosi mostruose presso i mamelucchi , fatto chiudere in prigione Bahadùr, ve lo tenne 314 GIORNALE LIGUSTICO per lungo tempo, fino all* anno 730 dell’ egira, che risponde al nostro 1329-30, nel quale gli ridonò la sua grazia; e saggiamente conghiettura Γ Amari, pensando non essere inveri-simile che il D’ Oria sia stato aneli’ esso incarcerato col suo padrone, e che ’ Al 1 Umarì, investito dell’ alto ufficio di segretario del predetto sultano, abbia allora « avuta occasione di conoscerlo ; e sapendo eh’ egli avesse fatti di molti viaggi, Γ abbia interrogato al suo solito su la postura e le condizioni » dei paesi da lui visitati. Perchè difatti Balaban « percorse gran parte dell’ Asia minore, e si spinse verso Levante, almeno fino alla Persia », e mostra di aver sempre tenuti gli occhi bene aperti. Il che è tanto vero, che in altra parte dell’ enciclopedia, già pubblicata dal Quatremère nei Manuscrits de la Bibliothèque da Roy (XIII. 33^)> ’ Al ‘ Umarì ponendo a confronto le osservazioni sui principati turchi nel paese dei Rum (Asia minore) fornitegli dallo sceicco Haïdei-Horian, con quelle dategli da Balaban, protesta di preferire queste ultime perchè il genovese è uomo più istrutto dello sceicco. Scorrendo le notizie abbozzate dall’ arabo enciclopedista, non è tanto difficile a distinguere ciò che disse il viaggiatore genovese da quanto aggiunse ’ Al c Umarì ; al quale unicamente si debbono riferire .« le molte fronde rettoriche, le metafore, i frequenti bisticci, la rabbia contro i cristiani...»· Invece Γ ossatura del racconto è lavoro di Balaban, e similmente sono suoi i molti errori di fatto che vi si trovano. Così parrà strano, ad esempio, che la Germania sia rappresentata da lui come il paradiso terrestre e come il regno d’Astrea; dove gli abitatori stan la sera tranquillamente a contemplare Γ occhio del Leone (le stelle), rinfrescati da un venticello che diresti pregno di zafferano e di muschio, e dove il re e tanto savio eh’ ei regge i sudditi con giustizia e benignila uguale verso di tutti, e raffrena chiunque osi trascorrere a danno ί GIORNALE LIGUSTICO 315 dei sudditi. Ma la parzialità non riescirà inesplicabile, qualora si pensi che il D’ Oria dovette portar seco in Levante gli umori ghibellini del suo casato ; il quale unitamente a quello degli Spinoli, dirigendo in Genova gli interessi di cotesta fazione, era pervenuto, sul finire del secolo XIII , a guadagnarsi la supremazia nel governo della repubblica. Della quale Balaban ragguagliò appunto ’Al ‘ Ulnari, che vi consacra perciò vari paragrafi. Laddove scrive tra 1’ altre cose, che « il popolo di Ganwah (Genova) reggesi a comune, e non ha avuto e non avrà mai re. L’ autorità in oggi è esercitata a vicenda da due case, in questo modo : che un uomo di ciascuna governa per un anno, e poscia assume la custodia (il magistrato) del mare. Delle quali case 1J una è de’ D’Oria, e d’essa nacque il Balaban che mi ha dati cotesti ragguagli; la seconda è quella degli Spinola ». Sempre trascrivendo le indicazioni di Balaban, soggiunge poi ’ Al ‘ Umarì un cenno delle famiglie che per dovizie e potenza vengono appresso alle due sopra dette ; e sono i Gr(ì)mardi, i Malun, i Da Mâ, i S...u (Scottu ?), i !T(a)r-i{z)ru, i Da F(ie)ski (1). E qui si vede che l’arabo seguì feti) « Di coteste famiglie (prosegue indi ’Al ' Umari) si compone il consiglio di colui che regge (temporaneamente) lo Stato. Sono schiatte nobili e illustri, le quali non si sottomessero a quelle due case (D’Oria e Spinola), se non quando furono vinte per forza d’ armi. A tempo antico reg-geano alternativamente il Comune i Grimaldi e i Mallono. Appresso queste case poi vengono i Grillo, i Pignoli, i Dall’Orto. » Il dominio dei Genovesi è sparpagliato. Posseggono essi Calata nella (contrada) meridionale di Costantinopoli e Cafìa sul Mar Nero ; chè se si unissero tutti i territorii soggetti (a questa repubblica) girerebbero presso a poco tre mesi di cammino ; ma son così separati, senza legame che li tçnga insieme, nè re di alto animo che li stringa in un fascio. L’esercito genovese quando s’adunasse tutto, il che non accade quasi mai , arriverebbero a sessantamila cavalieri ; i fanti a un dipresso (il medesimo numero); le forze navali maggiori di quelle di terra. Ciascuna delle famiglie nobili nominate di sopra possiede un certo numero di galee, che se tutte si mettessero insieme, arriverebbero a cinquecento. L’ esercito genovese 3i 6 GIORNALE LIGUSTICO delmente il suo interlocutore anche nel dettato, registrando i nomi propri come questi nel patrio dialetto li pronunciava; e così stroncando le finali come nei Mallone e nei De Mari, permutando 1’ o in u come negli Scotto e nel Tartaro, scambiando la l nella r come nei Grimaldi, giusta la stessa pratica per la quale altrove gli venne detto sìsarìn in vece di siciliani (più esattamente forse çiçirien) e katardn in luogo di catalani. Anzi, quanto è dei nomi, bisogna riconoscere che ’ Al ‘Umarì seguì la pronuncia doriesca quasi per tutto, e scrisse bi^àn (pisani) , dusqàn (toscani), ankûnitin (anconitani), ecc. ecc. Ma il genovese era meglio informato degli Stati lontani, che non de’ paesi vicini a casa sua : dell’ Italia settentrionale sapea così poco, da ricordare appena i due marchesati di Monferrato e di Ferrara, nè forse senza spropositi. Del rimanente della penisola sapeva anche meno; e basti osservare che egli rammenta Roberto d’ Angiò non come re di Napoli, ma unicamente come signore della Provenza. Dove il D Oria viaggiò di certo ; « poiché (dice Γ Amari) troviamo una descrizione del Basso Rodano particolareggiata e dettata con non è fornito da benefizi militari nè con leva , ma ogni possessore (una data quantità di) beni stabili o di (una data somma di altre) entrate dee fornire un dato numero di cavalieri i quali montano , allorché n e uopo, a cavallo o in nave. » Sono i Genovesi in pace col nostro sultano (donde) possono tra care in Egitto e in Siria. Quando capita nelle loro mani alcun de loro nemici cristiani, lo spogliano d’ogni cosa e 1’uccidono ; ma ai Musulmani to-gono soltanto la roba e Ji vendono schiavi. Pertanto ai Genovesi non e da chiuder la porta in faccia , senz’altro, nè da spalancarla come^ a amici di casa. Negoziano con la moneta veneziana d’ argento, col fiorino, e con altra moneta d’oro che chiamano qarà.n e vale quattro dirham veneziani. Usano un peso chiamato lira (libbra) il quale risponde al^ rit (rotolo) egiziano e il loro qintàr (quintale) vai cenciquanta riti e si chiama qantàr. Questo usano nelle compere de’ gallali (cereali) ; se non che , nelle incette grosse, li prendono col loro kayl (moggio) che addimandano mùz.ra, il quale s’ avvantaggia alquanto sull’ ardab egiziano ». GIORNALE LIGUSTICO amore, nella quale sembrano ben delineati i costumi e Γ a-spetto del paese, e perfin si fa menzione particolare di un albero, lo spaccasassi, che lì vien rigoglioso e chiamarilo micocoulier ». Al contrario, opina l’illustre editore che siano una reminiscenza propria di ’ Al ‘ Umarì, più tosto che un racconto di Balaban, gli accenni alla prosperità di Venezia, alla riputazione delle sue monete, e allo stendardo della gloriosa repubblica, nel quale è una immagine d’ uomo , che essi (i veneziani) suppongon sia■ quella dell’ apostolo Marco. Infatti 1’ arabo, attingendo all’ usata fonte, non avrebbe mai chiamati i veneti banàdiqah; ma di certo fu il D’ Oria che gli aggiunse dipoi nel patrio dialetto coni’ eglino pure si governassero a kumùn, e fossero « chiamati ancora fìnisìn ». Si può invece ammettere, che Domenichino abbia interamente dettate le osservazioni sovra i pisani : « Furono possenti e valorosi, ma ora essendo siati vinti, la loro stella volge al tramonto, e vengono a sera come se non ■ avessero mai avuta una bel-Γ alba... ». Sono parole amare, non c’ è che dire, e ispirate senza fallo dalle profonde rivalità di due popoli ; ma dal lato politico ed economico non vanno smentite ; e la gloria delle arti onde Pisa acquistatasi allora nuova rinomanza, non era forse fatta per sedurre la mente positiva del nostro viaggia-> tore. A proposito del quale dobbiamo augurarci coll’ Amari « che si scopra qualche notizia meno incerta » ; donde anche apparisca, se Γ audace genovese « esplorò volontariamente o per forza tante regioni lontane e sconosciute ». L. T. Belgrano. UN PLAGIO. Nell’ annunziare la comparsa di un articolo del sig. Teodoro Bent intorno a Nicolo Paganini (i) ho mosso il dubbio (i) Gior. Lig. Aprile 1883, 157. « 318 GIORNALE LIGUSTICO che lo abbia dettato, giovandosi della corrispondenza edita dal Belgrano nelle Imbreviature. Fin d’ allora io sospettava che quel signore non avesse citato la fonte donde aveva tratte le notizie ; ed era veramente cosi. Me ne ha fatto certo il cortese e dotto mio amico dott. Francesco Novati con la seguente lettera: Firenze, li 17 Giugno 1885. Egregio Signore ed Amico, Eccomi a soddisfare al desiderio , che Ella già da qualche tempo mi espresse, di sapere se il lavoro che lo scorso anno pubblicò il sig. Teodoro Bent nel Fraser’s Magatine (i), sotto il titolo di Correspondance of Paganini, fosse il frutto di ricerche originali da quello scrittore istituite intorno alla vita del celebre di Lei concittadino o non piuttosto una compilazione fatta sull’ appoggio di studi altrui e singolarmente dell’ importante lavoro insei ito dal prof. L. T. Belgrano in quel suo dotto e curioso volume delle Imbreviature di Giovanni Scriba (2). La più superficiale lettura cosi dell’ ottima monografia del Belgrano, che del lavoruccio di T. Bent, mostra in guisa da non lasciar luogo al più leggero dubbio come il secondo sia stato condotto, intieramente, esclusivamente, sulla scorta della prima. Ma come sogliono certe persone, in voce di non essere troppo scrupolose , le quali fanuo scomparire , se il paragone mi è lecito, le iniziali ricamate dai fazzoletti che esse delicata mente estrassero dalle tasche dei legittimi posseditori ; cosi il sig· Bent ha pensato bene di fare suo prò’ di quante notizie importanti e curiose trovava nel libro del Belgrano, senza perciò credersi punto in dovere di far conoscere ai lettori donde queste notizie fossero cavate : anzi ha cer cato quasi di lasciar loro credere che tutto ciò che diceva era prodotto dalle sue investigazioni. Giacché egli dichiara di togliere i frammenti di lettere, de’ quali si serve per tratteggiare rapidamente la vita e lsindole del Paganini, dalla corrispondenza che per lunghi anni mantenne il ce lebre artista coll’ avvocato genovese L. Germi : ora tale corrispondenza è uscita in luce soltanto per opera del Belgrano, che la ottenne, come egli narra, dagli eredi del Germi. Nè il Bent si serve soltanto delle lettere addotte dal Belgrano, ma anche delle sue stesse parole e delle citazioni da lui fatte di documenti, rivolgendo e rimanipolando però le frasi in (1) Fraser’s Magazine. New Series Vol. XXV, from January to June 1882 (London, Long-mans Green 1882), pp. 464-476. (2) Pp. 357-476. Spigolature nella corrispondenza di N. Paganini. GIORNALE LIGUSTICO 319 guisa da sembrare che siano parole e citazioni proprie. Di veramente originale quindi nel breve scritto del sig. Bent, non vi sono che alcuni strafalcioni, abbastanza considerevoli (1), c la disinvoltura colla quale egli sfrutta il lavoro degli altri senza ricordarli neppure una volta ! Mi creda, carissimo Signore ed Amico, a Lei deditissimo F. Novati. Si vegga ora come si debba giudicare d’ uno scrittore di questa fatta. Altra volta ci è occorso occuparci degli scritti del sig. Bent (2) ; ma rilevando le sue inesattezze e i suoi errori intorno a Genova, non avremmo mai più creduto di doverlo poi notare ancora di plagiario. Siano intanto rese grazie all’ egregio amico, che ha cosi bene provata la verità. A. Neri. SPIGOLATURE E NOTIZIE Da una « Lettera » di Spiridione De Biasi, « dei parenti di Ugo Foscolo i> (Zante, 1883, 8-9) rilevo che 1’ ava materna del Foscolo fu Ru-bina di Giorgio Serra oriundo Genovese. « La famiglia Serra » — scrive il De Biasi — « dimorava a Scio, isola greca, sotto il dominio Genovese. Nel 1566 Solimano prende dai Genovesi Scio. Allora molte famiglie emigrarono e si stabilirono in Italia, e in greche città, dominate dai Veneti. L’emigrazione sempre diveniva più grande a cagione che i Musulmani travagliavano gli abitanti dell’ isola, sebbene di tempo in tempo, in apparenza, volevano dimostrarsi umani. Allora la famiglia (1) Eccone, per esempio, uno. Il Belgrano, narrata la fuga da Napoli del Paganini con una ragazza che egli voleva sposare (§ Vili, p. 385.389), fa rilevare da una lettera del Paganini stesso che questi si era presto stancato della sua bella. « Essa trovasi — scrive il Pagannini all’ amico il 17 novembre 1821 da Parma — da una contadina, la quale sosterrà esserle stata custode dal momento che partì la prima volta ; e con ciò riusciranno forse a credere quello che non è stato ». Ora il sig. Bent riassume questo brano , così : « But, alas ! Paganini for some unkown cause leaves Naples abruptly , thè corrispondance with his friend in Genoa, is for a while broken, and thè next lelier, in November, speaks gaily of some pretty contadina whom he loved near Panna » (!) p. 467. Come si vede il Bent ha creduto la contadina custode della bella napoletana, amante del Paganini ! (2) Giorn. Lig. Aprile 1882, 74. 320 GIORNALE LIGUSTICO Serra venne a Zante, come si rileva dalla seguente iscrizione, che leg-gesi nella cattedrale dei Latini di S. Marco, e credo bene di pubblicarla : GIOVANNI E DARIO SERRA QUOD. GIORGIO DE PATRIZI DI GENOVA SIG. RI 1» SCIO SOTTRAENDOSI NEL 1575 ALLA SCHIAVITÙ DE’ TURCHI EMIGRÒ DI PATRIA E NEL l6lO SI STABILÌ COI SUOI FIGLI MICHELE E GIORGIO IN ZANTE. *** Nella « Nuova Rivista» di Torino (8 luglio 1883, 291) da un articolo di A. Bertolotti « Ricordi di piemontesi a Roma » rileviamo che « una donna per nome Giovanna Genovese, nel 1549 aveva patente quinquennale pella chirurgia minore », consimile licenza ebbero altri genovesi, un Francesco Garro, Gio. Antonio Zannelli, ed un tal Bernardino. *** Nella seduta del 22 novembre 1882 della Société nationale aes antiquaires de France venne letta una lettera del sig. Castan, sopra un anello di bronzo dorato che si conserva nel Museo di Besanzone. « Le chaton simple tablette de cristal de roche, est accosté, d’un côté; d un écusson surmonté de la tiare pontificale et renfermant le deux clefs en sautoir, de l’autre, d’un saint Georges a cheval perçant de sa lance le dragon. Sur le cartouches en biseau que le chaton surmonte, on lit, d’un coté P-N-, de l’autre DVX. Les clef en sautoir sont les armoiriés personnelles du pape Nicolas V, dont les initiales se lisent sur un des cartouches ; le titre de Dux et le saint Georges appartiennent au doge de Gènes. Or, Nicolas V avait cédé au génois Luigi Fregoso ses droits souverains sur la Corse ; celui-ci les rétrocéda aussitôt à la République de Gênes, qui en remit la jouissance à la fameuse compagnie appelée « 1 Office de Saint-Georges. M. Castan reconnaît dans l’anneau du Musée de Besançon l’anneau par lequel l’Office de Saint-Georges fut investi, en 1453» de la seigneurie de la Corse au double nom de Nicolas V, suzerain de l’île, et du précédent feudataire, le doge de Gênes ». Il sigillo è certo curioso e merita qualche studio; ma l’interpretazione del sig. Castan è un sogno. Pasquale Fazio Respofisahile. GIORNALE LIGUSTICO 32I LAUDI GENOVESI DEL SECOLO XIV Pubblicate da V. Crescini e G. D. Belletti. Il cod. della Civica Biblioteca Berio di Genova, che porta la segnatura D. 1.3.19, contiene, come s’indica sul dosso del volume nella rilegatura moderna, prose e versi in dialetto genovese. Esso apparteneva al can. Giuseppe Olivieri già Bibliotecario della Beriana. È cartaceo; l’età sua ci è sicuramente rivelata, oltre che da altri de’ soliti indizi, da alcuni suoi fogli di filigrana col segno della forbice aperta, come per es. a’ f. lxviii, lxxiiii, lxxv ecc. ; segno che, come c’ informa l’autorevole cav. prof. L. T. Belgrano, ci conduce alla fine del sec. XIV od ai primi anni del successivo XV. Possiamo dunque largamente assegnare al trecento il contenuto del nostro volume. Il quale è di dimens. 20,6χ 13,5, manca del principio e del fine, e presenta tre numerazioni : quella che pare più antica, anzi della mano stessa, che scrisse l’intero volume, è in numeri romani, le due altre sono in arabici. La prima, segnata nel margine inferiore de’ fogli comincia dal f. xxxxvn ; la seconda, notata all’ angolo superiore destro di ogni recto, non si mostra che al secondo foglio, poiché dal primo, eh’ è assai malconcio, a toppe quà e là e in qualche punto eraso (1), quest’ angolo estremo superiore destro scomparve. Quanto alla terza numerazione è afflitto recente, in lapis, e novera le carte quante sono (0 meglio sarebbero, come vedremo, secondo essa) attualmente dal f. 1 al 127. La seconda numerazione non va d’ accordo colla prima, perchè segna il 2.0 fo- (1) A sinistra in un foglio bianco aggiunto dal rilegatore, il prof. I. Isola, che pubblicò questa prima faccia dando saggio della prosa, che in essa comincia, trascrisse integrandoli, come gli riusciva di congetturarli, i luoghi guasti e quasi inintelligibili. Giorn. Ligustico. Anno X. 21 322 GIORNALB LIGUSTICO glio col nuni. 47, mentre per Γ altra è il xxxxviii. Questa differenza tra le due numerazioni si mantiene sino a f. lxxv deir una, 74 dell’ altra : a . questo punto ci manca un f., il lxxvi della prima numerazione ( qui una poesia infatti « de la beata uergine maria » ci resta incompleta), mentre la seconda numerazione, che da questo apparisce sicuiissima mente posteriore, continua senza intervallo col f. 75 e se§§· Cresce quindi la differenza tra le due numerazioni da un solo a due fogli. Esaminando queste vecchie carte ingiallite ve diamo che il f. LXXXXin-91 è vuoto, così il f· successivo LXXxxim-92, il verso del quale ha in fondo un « Jhus », a cui avrebbe forse dovuto far capo quaiche scrittura, che il copista intendeva di inserire (ma che gli restò nella penna) di seguito alla « deuotissima oracion » che principia al v. e f. Lxxxvim-87 e finisce al v. del f. lxxxxii-90· -^e vuot' l’antica numeraz. non s’arresta. Manca il f· lxxxx''·1 94» come più avanti il f. cxix-117, il f· cxxxi, il cxxxvii, il clxxix, il clxxxiiii. Un altro vuoto ci si presenta al v. del f. c 9 , il quale, come forse il v. dell’ accennato f. Lxxxxnn-92^ Pare la guardia posteriore di un libercolo dapprima indipenden Al f. cxxiiii r. la seconda numerazione si raccosta alla prima, diminuendo di un numero la differenza che da quella la parava, chè qui al cxxiiii corrisponde il 123,-mentre il f. pfe^ cedente era segnato cxxm-121. La seconda numerazione si arresta al f. 129, che sarebbe il cxxx della prima, se ^ fosse notato, poiché qui manca la parte inferiore del f. e c è in cambio una toppa. Vuoto è il f. clxv, mentre in fine del precedente si ha il termine di una scrittura come c indica questa chiusa: Expltcit passio dni nri ihu xpi Referamus gracia xpo. L’ ultimo f. conservato è il clxxxvi. — La terza numera zione nemmanco essa è esatta: procede regolarmente dal f. GIORNALE LIGUSTICO I al 9; qui è saltato un f. e s’ ha il 10 per Γ ir, poi un altro f. si salta dopo Γ 83 (più giustamente dovrebbe essere 1 84) e così via, in modo che, mentre Γ ultimo f. è segnato dal n. 127, realmente, nello stato attuale del cod., le carte superstiti sieno invece 133. Ma intorno alla numerazione non s’ è finito di osservare tutto. Una delle prose contenute nel cod. « Onesta sie la istoria de lo Complimento de lo mondo ecc. » ha una numerazione a parte segnata all’ estremo angolo superiore destro in rosso, la quale comincia al f. lxxxxvi e termina al f. cxxx della numerazione generale antica. Questa parziale numerazione in rosso doveva appartenere ad altro codice; il primo numero, che ci presenta è il l e, a volte integra a volte mutila (avendo il tempo o il rilegatore moderno smussato Γ estremo angolo in che erano notati i numeri), arriva fino al suo f. lxxx[x], e comprende, oltre quella già accennata, una seconda prosa « De alchuni belli exémpli ecc. ». Questo MS. è certamente una collettanea di opuscoli o indipendenti o già attinenti ad altro codice, messa insieme dallo stesso unico copista in quest’ altro volume, al quale appose esso copista e raccoglitore una numerazione generale, eh’ è la più antica da noi indicata. Quanto alla conservazione del nostro ms., essa è piuttosto mediocre: oltre che mancano alcuni f., secondo s’ è veduto, frequenti sono le toppe, come nel primo foglio ed in altri, fra cui per es. il f. clxvii, al quale manca la metà inferiore e dove chi lo ha rattoppato coperse nel recto all oilo estiemo alcune parole. Cosi pure non pochi fogli sono imbrachettati. Abbiamo già accennato che la scrittura è di una sola mano. Le rubriche e le iniziali sono in rosso. II contenuto, sia nelle prose che nella parte poetica, è ascetico. I. Essendo il cod. acefalo la prima prosa non è che un 324 GIORNALE LIGUSTICO frammento, e non ha titolo, ma, secondo già fu da altri avvertito, facilmente si vede come essa sia la Leggenda o la vita di S. Girolamo ; f. xxxxvii-lxv (indichiamo i f. con la sola più antica numerazione). II. Qui s’ ha la parte poetica, e sono venticinque Laudi f. LXVI-LXXXVIIII.f. III. Ricominciano le prose: « Ouesta sie una deuotissima oracion » — f. lxxxviiii.^.-lxxxxu. IV. « Onesta sie la istoria de lo Complimento dejlo mondo segondo che scriue meser san/marcho euangelista e de lo aitegin-mento de ante Xpe » — f. lxxxxvi-c. V. « De alchuni belli exempli Zoe de li uicij et/de le uirtue trailo da lo libero de frai Gillio/lo qual fo compagno de san Francescho » — f. ci-cxxx. VI. « Allo nomen de Xpe amen. Incomen^a lo prologo della passion dello segnor ihu Xpe » — f. cxxxii-clxihi. VII. « In nomine dni Amen. Incontenta lo ter^o libroIde li exempli et èxortacion delli santi patri/Compilao per san Zoane Cassiano monaco » — f. clxvi-clxxxvi. Saggi di questo Cod. furono già pubblicati dal can. D. G. Olivieri, che, come dicemmo, n’ era proprietario, nel suo Dizionario Genovese, dal prof. G. D. Belletti nel Caffaro del 6 maggio 1882, dal prof. I. Isola nella Rassegna Nazionale vol. XI, fase. II, 1 nov. 1882. L’ Olivieri pubblicò nell’ Introduzione del suo Di^ionario , ove dà « alcuni saggi del dial. Genovése dal sec. XIII sec. XIX »3 a p. xi-xn, la prima parte di un capitolo del l’opuscolo (VI), che narra la passione di Cristo, intitolato. « Como la uergen maria si andava cerchando a ihu Xpe ecc. » f. cxxxxv v., e la prima .parte della Laude VII : « Laudes beate virginis marie ». Il Belletti in una sua comunicazione sul nostro MS. lo de- GIORNALE LIGUSTICO 325 scriveva brevemente, ne dava un indice della materia, e occupandosi in ispecie delle Laudi ne riferiva i titoli, indi trascriveva, non intera, la 9.“ e aggiungeva tre strofe della 7 Λ L’Isola descrisse egli pure succintamente il MS., indicò i titoli delle operette, che vi si contengono e si propose di offrirne qualche altro saggio più esteso che non quelli già editi dall’ Olivieri e dal Belletti, trascegliendo il frammento della Leggenda di S. Girolamo, la 6.a Laude, e il primo degli Esempi dei SS. Padri. Il Belletti aggiungeva all’ indicazione ed al saggio del nostro Cod. qualche considerazione intorno la importanza delle poesie, eh’ esso contiene (Caffaro dell’ 8 maggio 82), e l’Isola lumeggiava nel rispetto della lingua e della storia letteraria questo antico documento de’ nostri dialetti. Noi ora nuli’ altro ci proponiamo che di pubblicare le Laudi. Il Belletti intende di aggiungere, in seguito, a questa loro nuda edizione, uno studio, che le rischiari in ordine alla storia interna di Genova e alla antica letteratura dialettale; mentre il Crescini si proporrebbe l’assunto di illustrarle linguisticamente, se non lo facesse dubitoso il sapere che intorno Γ antico genovese ha lavorato e lavora quell’ illustre dialettologo, eh’ è il prof. G. Flechia (1), al quale per i presenti editori riuscirebbe anche di troppo vanto poter solamente offrire queste Laudi come ltro degli elementi del suo materiale genovese. Circa le quali Laudi, non si vuole qui altro aggiungere, se non questo che, secondo meglio apparirà dalle indagini del Belletti, esse devono giudicarsi canti religiosi usati in una confraternita genovese del trecento. Un indizio di ciò si trova (1) Cfr .Arch. Glott. V, 176; Vili, 3. L’A [scoli] avverte che in questo stesso Vol. Vili compariranno del Flechia le « Illustrazioni » delle Rime genovesi (ed. dal Lagomaggiore), nelle quali illustraz. sarà considerato pure il dialetto delle prose genovesi pubbl. dall’Ive nella Punt. 1, vol. VIII. 326 GIORNALE LIGUSTICO in qualcuna di esse ove s’ accenna alla compagnia, che le cantava: nella VII. « Laudes beate virginis Marie » s’ha ultima questa strofe: In voi, doce Maria, ogni homo si à speranza: alli iusti voi dai aia, alli peccaoi perdonanza, et pregai tuta via lo Re de gran possanza, che elio li dea perseveranza a questa compagnia. Nella XIII « De santo Francisco confessor » si dice : Or pregai a Criste tuta via e la doce vergene Maria, che elio goarde questa compagnia in lo so beneito amor. Cosi nella seguente XIV « De beata virgine et de Icxu Cristo cun tuti li scinti » ; Or semper sia laudata la nostra doce maire, chi è nostra avocata ψ davanti da Deo paire. Ogni peccaor à gracia, chi a elio se vor tornare. Or gì piaxa de pregare per questa compagnia (1). Circa al metodo tenuto nel pubblicare codeste Laudi, esso non è stato che questo semplicissimo : abbiamo rispettato il MS. riproducendolo il più esattamente, però distinguendo la u dalla v, togliendo 17; dopo c, quando appresso s’aveva a, 0, u, risolvendo i nessi (ben pochi nel nostro Cod.), integrando le (Ο Cfr. anche XII. n. GIORNALE LIGUSTICO 327 abbreviazioni, introducendo accenti, apostrofi, punteggiatura, mutando in maiuscole le iniziali minuscole di certe parole, per cui giovava ciò fare conformemente alle nostre abitudini di scrittura e talora per ragione di chiarezza. In nota od abbiamo indicata la vera scrittura del cod. quando la nostra risoluzione dei nessi ci lasciò qualche dubbio o ci parve, ad ogni modo, utile di farlo, od abbiamo proposto quà e là modificazioni alla lezione genuina del MS., dati schiarimenti, esposti dubbi, confessate ignoranze. Avvertiamo ancora che nel cod. le poesie stanno scritte di seguito, e i versi, non sempre, sono distinti da lineette verticali, quando invece con migliore disposizione non s’ ha per ogni linea Γ accoppiamento di due versi. Nel cod. la I. Laudi, per es., è così scritta: Ogni homo cu deuocion -sa legee in questo santo auento /'Or e preso lo tempo che de nasser lo saluaor Ogni homo cu deuocion sa legee in questo santo auento/Chie staito peccaor si uegna a pentimento/Or se aprossima lo tempo de grandissima allegreza/ Criste pin de ogni doceza.uen a saluar li peccaoi /. Si veda come oltre alle lineette e anche in luogo di esse s’abbia qui a distinzione dei versi un punto; ad es. dopo il primo verso a sinistra, superiormente, della parola iniziale del verso successivo ; dopo il secondo, e insieme colla lineetta, pure a sinistra, superiormente, di Or, da cui comincia il terzo verso ecc. Ma quest’ altro modo di divisione dei versi non è costante, anzi nelle strofe e poesie successive s’incontra ben di rado. 528 GIORNALE LIGUSTICO Le Laudi sono nel cod. scritte anche di questa guisa: (VII) O Stella matutina doce uergene maria Altissima regina/metine in santa uia. O Stella matutina pina de gran splendore O roxa senza spina chi dai si doce odore Altissima regina/pregai lo creatore/ Che elio ne perdone/e ne meta in santa uia. Ma questa scrittura non si conserva sempre uniforme, e la disposizione dei versi finisce per rendersi relativa alla loro lunghezza materiale, onde in questa stessa Laude, dapprima scritta cosi regolarmente, abbiamo : Pregai per la terra santa/onde Xpe porta passion/Che la gente Xpiana ge possa servir lo segnore/Pregai per la gente pagana che elli crean allo creatore/Et quelli chi son in errore/li meina in drita uia. Noi abbiamo voluto invece ricondurre, quanto si potè, versi e strofe alla loro disposizione naturale; ove il tentativo ci obbligò a qualche sforzo e ci lasciò incerti Γ abbiamo indicato. Genova, 12 Maggio 1883. V. Crescini. G. D. Belletti. GIORNALE LIGUSTICO 329 De la primera domenega de lo avento fin alla nativitai de Criste. Ogni homo cum devocion sa legee in questo santo avento: or è preso Io tempo, 4. che de nasser lo Salvaor. Ogni homo cum devocion sa legee in questo santo avento: chi è staito peccaor 8. si vegna a pentimento ; or se aprossima lo tempo de grandissima allegreza; Criste pin de ogni doceza 12. ven a salvar li peccaoi. Or se aprossima lo tempo, che lo Re de paraixo si de nasser de una vergem 16. corno era stao promisso; De paire n’ à tramiso lo so fijor veraxe, chi farà la doce paxe 20. inter Dee e li peccaoi. Deo paire si n’à mandao lo so fijo glorioxo, lo agnelo senza pecao, 24. Iexu Criste pietoxo ; lo mondo, chi era tenebroxo e pin de oscuritae, receverà luxe e claritae 28. quando nascerà lo Salvaor. 0 mondo, chi era senza luxe, or abi grande allegreza: lo doce Criste si t’ aduxe 32. gracia (’) e perdonanza ; ogni peccaor cum gran speranza se parta dalli pecai, e non ge tome zamai 36. per amor de lo Segnor. Or te allegra, peccatore, ' e lassa zomai le pecae: a ti ven lo tuo Segnore 40. cum grande humilitae; per ti vosse nasse cum povertae de una povera fantina, in una caxeta picenina, 44. senza richeza ni onor. Lo nostro doce Segnor de nasce poveramenti de Maria benedicta fior, 48. chi lo porta in lo so ventre ; ogni homo devotamenti si se debia aparegiar, e la soa anima mondar 52. a receiver lo Sarvao. Ogni homo devotamenti si sea apareiao a receiver Criste omnipotente 56. quando elio serà nao; non romagna arcun peccao in la nostra consciencia, chi sea contra la reverenda 60. de lo nostro Creatore. IL Della nativitai de lo nostro Segnor Jexu Criste. Or è nato 1’ agnelo , Criste pin de dofeza; ogni homo s’ aperegie 4. a receivero cum amore (2). Ogni homo s’ apareie monto devotamenti a receiver lo doce Criste 8. nato novelamenti ; I. v. i. — Cum è la forma più frequente nel ras.; la abbiamo adottata anche quando dovemmo compire P abbreviazione, meno in alcuni casi in cui preferimmo la forma con o cun> perchè in (!) F. lxvi r. lasciamo le peccae, e seamo obedienti ali soi comandamenti, 12. che elio si è lo nostro redentore. Or som compij li iorni de lo parto de Maria : semper stagando vergen 16. ella ea partoria quella stessa poesia, a poca distanza , ci si offriva intera questa seconda forma. v. 30. — Leggi allegratila per convenienza di rima. (*) F. lxvi v. 330 GIORNALE LIGUSTICO uno doce fantineto, chi lo mondo à in bairia. Pregemora tuta via 20. per ogni peccatore. La vergen gloriosa pinna de ogni belleza, guardando a lo so fijo, 24. aveiva grande allegreza. Ella non aveiva drapi, ni robe de richeza ; de povera robeta 28. fasciava lo Creatore. Ancoi si è compio lo tempo chi tanto è dexiderato, et li santi profeti 32. P aveivan anonciao : 10 doce Jexu Criste in Bethleem si è nato, 11 angeri si àn cantato 36. canti de grande allegreza. Gtoria a Deo in celo li angeri van cantando, et alla bona gente 40. in terra paxe anonciando; li pastor si veiavan lor (’) bestie guardando : Criste van cercando, 44. chi è nato salvatore. Li pastor trovan Criste, chi in lo presepio iaxe. L’ angero glorioso 48. mandao da Deo veraxe, chi li peccai perdona, allo mondo si dà paxe, li nostri cor abraxe 52. de lo sov doce amore. Or amemo docementi questo nostro Re novello, chi per noi è nato in terra 56. si corno poverello: elio non à richeze ni servo ni donzelo ; lo bo e 1’ asinelio 60. si ge fan grande honore. Della epifania de lo Cerchemo lo Salvatore cuni li re in compagnia, chi è nao per nostro amore 4· de la vergen Maria. Andemo a cercar lo nostro Creatore, chi è nato per salvar 8. tuti li pecaoi. Li Re cum grande amore vegnivan da oriente, cercando humelmenti 12. lo Re de gran bairia. Li magi si cercavan Iexu Criste desirao (-), III. nostro Signor Jexu Criste. et per Ieruxalem spiando 16. cum io cor inluminao: unde è lo fantin chi è nao, chi è Re de li Zuè? In oriente vimo in ce 20. la soa stella, chi è parsua. O Re turbao monto forte, Herodes Re marvaxe et si voreiva dar morte 24. a Criste Re de paxe, digando: a mi si piaxe che voi Γ andei a cercar, si lo verrò a adorar 28. in vostra compagnia. II. v. 19. - Preghemora o Preguemora dovrebbe aversi per distinzione del suono gutturale dal palatino. Così VI. 35. XV. 8. e altrove ancora piage per piaghe. v. 32. — anonciao alo ; cfr. Vili. 56. 58. IX-52 e altrove. III. v. 13-28. —Queste due strofe nel ms. si ripetono, ma con qualche differenza, che va qui riferita: v. 14. — desirato. ν· *5· — spiavan. (; cercavan), v. 17. — onde. v. 20. — apatia (:-»a). 0 F. Lxvii r. v. 21. — lo Re si è (ms. sic)· v. 2 ζ. — a mi piaxe. . . .. v. X - io ali. Due freghi ir. croce m versano le strofe ripetute, e paiono de ^ copista, il quale forse erroneamente le av testo tradotte dal margine, ove si trovavano , dei suo esemplare, in cui figuravano come delle due altre, poiché infatti le varianti nelle rime (meno desinilo : inluminao;. nao) ta dimostrano. Ο forse il nostro copista stesse voi emendare, dopo averle riprodotte le due, strot , quindi si pentì del suo ardimento (·)> e tirò ^ due freghi pudichi. (2) F. LXVII v. GIORNALE LIGUSTICO 331 Li magi se partian da Herodes doloroxo, et in Bethleem vegnivan 32. a veder Criste glorioxo. Lo fantin pietoxo alegrava li re santi; la soa stella i andava avanti, 36. chi gi mostrava la via. (') La stella cum splendore li santi Re menava, onde era lo Salvatore, 40. e lì sovra s’ astallavan; et intrando in la doce caxa trovan un fantineto, chi iaxeiva povereto 44. cum la vergene Maria. Li Re se inzenogiavan cum grande humilitae, et lo iantin adoravan, 48. la divina maestae. O quanta claritae era in lo doce vixo de lo Re de paraixo, 52. chi era inbrazao de Maria! Li magi àn averto lo so grande texoro, et a Criste àn oferto 56. mirra, incenso et oro. L’ angero gi dise in sono : a Herodes non tornai. In lo so regno alegrai 60. retornan per altra via. O anima pinna d’ amore, or ve a contemplare Criste lo to redemptore 64. cum Maria soa maire ; elio si s’ è vosuo humiliare et esser to iraello per menar a ti in cielo 68. alla soa compagnia. IV. Della primera domenega de quareixema fin alla dom&iega de la passion. Pianzamo cum dolore tute le nostre pec(2)cae tornando allo Segnore 4. cum grande humilitae. Or pianzamo le pecae cum grande pentimento, tornando a Iexu Criste 8. in questo santo tempo, demandandogi perdonanza cum proponimento de non far falimento 12. alla soa maestae. Ogni peccaor se penta e non sia più indurao goardando lo doce Criste 16. son la croxe ihavao. Le braze ten averte, et lo so cor lanzao, et elio sta apparegiao 20. cum grande humilitae. Criste inclina la testa chi paxe ne vole dare, cum le soe sante braze 24. elio ne vor abrazare, v. 40. — Nel ras. sastallavan; leggi s* astallava. (]) F. Lxviii r. lo so lao si è averto per noi amaistrare, che elio ne vo perdonare 28. le nostre iniquitae. Or quar è quello servo si re e si marvaxe chi ne vor abrazar lo Segnor 32. e far cum seigo paxe? De dixe allo peccatore corno paire veraxe : doce fijo, a mi no piaxe 36. che tu mori in le peccae (3). Or chi à ofeixo a Criste si sea doloroxo, et pianza confessando 40. lo so peccao ascoxo, chi è stao crudelle devegna pietoxo allo proximo necessitoxo 44. fazando caritae. Et prendemo la croxe de la santa penitencia, in questi santi iorni 48. fazando astinencia; (2) F. LXVIII V. (?) F. Lxvim r. 33 2 GIORNALE LIGUSTICO vivamo honestamenti cum pinna consciencia, portando in paciencia 52. tute le adversitae. Serviamo lo doce Criste cum gran devocione, cum santi zezunij 56. et devote oracione, aprehendando disciplina cum grande afliccione, azò che elio ne perdone 60. le nostre perversitae. Pijemo noi amaistramento da Maria Madareina, et pianzamo a li pei de triste 64. cum dolor et cum peina ; or mondemo li nostri cor in questa quaranteina a receiver a pasca in la cerna 68. lo agnelo de puritae. V. Della resuression Voi qui pianzeivi cum dolore lo bon Iexu crucificao, or v’ alegrai per lo so amor 4· che Γ è ancoi resuscitao ('). Voi chi pianzeivi cum dolore la morte de Ihesu pietoxo, chi à spanso per nostro amor 8. lo so sangue precioxo, or v’ alegrai in questo iorno cum la soa doce maire; elio la vosse allegrare 12. quando elio fo resuscitao. Or quanto aveiva alliegrolo cuore la doce vergen Maria, vegando lo so fijor 16. resuscitao cum grande bairia! Or che dolce compagnia aveiva la maire cum deporto! Lo so fijo che ella vi morto 20. aora lo ve resuscitao. Maria vi morto sum la croxe Criste, chi tanto l’amava, et quando Iosep lo depoxe 24. cum gran pianti 1’ abrazava ; ma ancoi ella si se allegrava cum lo so fijor Re de gloria: ella lo veiva cum gran vitoria 28. vivo et glorificao. Le Marie monto triste andavan allo morimento per unzer lo corpo de Criste 32.cum lo precioxo unguento, et 1’ angero chi sezeiva dentro disse: non ve dubitai; J' 5· ,r'°1 qui si ha in fondo alla faccia pre-vedente, ove, secondo il vecchio uso (ma non (') F. Lxvnit v. de Iexu Criste. esso ben à chi cercai, 36. Iexu Criste crucificao. _ Or, Marie, or v’ alegrai, resuscitao è lo Segnore et li soi discipoli confortai, 40. chi (’) pianzen cum gran dolor, in Galilea cum gran splendor voi veirei Criste omnipotente, et diro a Pero certamenti, 44. chi 1’ aveiva renegao. Et Maria Madareina, chi aveiva lo cor pu tristo, et si cercava cun gran peina 48. lo so doce maistro, lo Segnor ella ave visto: un ortolan lo semeiava, _ et cum gran pianti lo spiava 52. onde Criste era portao. Li Zuè si m’àn levao lo me Segnor, e si 1’an mor se tu 1’ avesi soterao 56. dentro da questo to orto, mostrarne lo me comforto . si 1’ anderò a pijhar per portar a la soa maire, 60. chi l’aveiva tanto amao. Lo Segnor dise : o Maria ! E ella gi vosse li pei baxar: elio da le se desparia, 64. e non se lassa tocar ; et poa vosse consola^ la maire insemelmenti. _ Chi lo tocavan docementi, 68. li soi pei i àn baxao. sempre nel nostro ms.), s’indicano le due prima parole iniziali della faccia successiva. (2) F. lxx r. GIORNALE LIGUSTICO VI. In lo di de lo iudicio. Or onde porrà scampar lo dolento peccaor, quando verrà lo Segnor 4. per lo mondo zuigar? Or onde porrà scampar lo peccaor per (') soa sciencia, quando Criste verrà a dare 8. quella si dura sentencia? La cria anderà : per obediencia, o morti, vegnì allo zuixio; qui averà faito bon servixo 12. ben se porrà allegrare. Et li morti incontenente si seran resuscitai; davanti a Criste omnipotente 16. seran tuti congregai, et lì seran examinai da lo altissimo Creator: o doloroxo peccaor, 20. corno te porrai scuxare? Che raxon porai tu render, o peccaor sì tribulao? Or chi te porrà deffender 24. da tante parte acuxao? A l’inferno serai danao, in quella prexon scura, cum sentencia de dritura, 28. chi non se porrà revocare. Peccaor, tu ài offeixo Criste, chi t’ à tanto amao. Per ti de cel elio si è desceixo, 32. tanta peina à portao; Criste per ti fo condanao a morir sun la croxe, seando le piage penoxe, 36. le quar per ti vose portare. VI. v. 9. — L'Isola interpunge diversamente : La cria anderà per obediencia: ,e dichiara: « la grida, il grido degli angeli per ubbidire a Dio ». v. 42. — L’ Isola legge, come pure al v. 16, peccaor, ma il ms. presenta, regolarmente, la forma da noi recata. v. 47-48. — L’ Isola, terminato con un interrogativo il verso precedente (46), emenda quando in quanto e legge : Quanto sera lo so dolore ! Noti troverà più perdonatila. Criste, chi tanto è pietoso, e doce de soa natura, aparrà sì tenebroxo, 40 e mostrerà la faza scura, et elio aparrà in tar figura alli peccaoi pin de tristeza, e darà tanta allegreza 44. a quelli, chi. se den salvar (2). Or che farrà lo peccaor abandonao da ogni speranza, quando serà lo so dolor 48. non troverà più perdonanza? Verrà lo zuxe cum possanza, chi contra a elo serà irao ; lo inferno serà apareiao, 52. onde elio de semper penare. Et lì oderan Criste parlare a queli de lo drito lao : veni, beneiti de lo me paire, 56. lo regno a voi è aparegiao; volenter m’ avei amao, e sei staiti pietoxi ; in corpo e in anima glorioxi 60. cum mi devei semper regnare. Et voi, peccaoi, andai allo inferno, cum meigo non poei pu stare; partive da mi in fogo eterno, 64. o marciti da lo mio paire. Voi non m’avei vosuo amar, in voi non è staito pietai ; in le peine eternae 68. cum li demonij andarei a star. In vita eterna cum splendore anderan li iusti e li santi, a regnar cum lo Creatore 72. in allegreza e dolci canti ; Noi -crediamo che si possa anche lasciare immutato il testo, e intendiamo « or che farà ecc. quando sarà che il suo dolore non troverà ormai più misericordia?». v. 51. — Apareiaio secondo l’isola, ma è forse mera svista, od errore tipografico. v. 53. — L’ Isola infelicemente corregge parlairc (: paire), ma, come è noto , son rime frequentissime - are: — aire. v. 66. — Pictae legge l’Isola per accordo alla rima eternae, ma è inutile perchè ai ed ae hanno identico valore fonetico. (!) F. lxx v. (2) F. lxxi r. 334 GIORNALE LIGUSTICO li peccaor tristi cum gran pianti allo inferno seran menai, da li demonij acompagnai, 76. chi li ^den semper tormentar ('). Segnoi e done, fai penitencia e insì for de li peccai, che in lo di de la sentencia 80. allo inferno non seai danai. Criste, chi n’ à recatai, ne deffenda da quelle peine, et allo so regno ne meine 84. per lo amor de la soa maire. VII. Laudes leate O Stella matutina, doce vergene Maria, altissima regina, 4. metine in santa via. O Stella matutina, pina de gran splendore, o roxa senza spina, 8. chi dai si doce odore; altissima regina, pregai lo Creatore, che elio ne perdone, 12. e ne meta in santa via. Pregai lo Creatore, regina, se a voi piaxe, che elio ne perdone, 16. e mande inter noi paxe; de lo so doce amore li nostri cor abraxe quelo Segnor veraxe, 20. chi n’ à tuti in bairia. Pregai lo fijor vostro, maire de pietae, chi in croxe fo morto 24. per le nostree pecae, che elio mande paxe tosto in la Cristianitae, in la nostra citae, 28.1η Toscana e in Lombardia. ™.v,-8. — Questi versi furono pubbl. dall Olivieri nel luogo già indicato colla dispo-siz. eh è nel ras., a versi appajati, v. 22, 24, 26. — Notiamo solo ch’egli, l’O-livieri, trascrisse pietà pechæ, cristianità, mentre nel ms. il dittongo è sciolto. v. 21-44. — Il Belletti pubblicando codeste strofe tenne anca’ egli accoppiati i versi come nel ms. v. 24. — nostre. La forma del testo riproduce quella del ms. v* 35-36· Cosi nel ms. Si può leggere: et ond’ e paxe e Iona vo"ja [ie] conforte tuta via. (') F. LXXI V. virginis Marie. Pregai, o doce maire pinna de misericordia, per le terre e le citae, 32. onde è guerra et (5) discordia, che elio debia mandar paxe e Bona concordia, et onde paxe e bona voya 36. conforta tuta via. Pregai per la terra santa, onde Criste porta passion, che la gente cristiana 40. ge possa servir lo Segnore; pregai per la gente pagana, che elli crean allo Creatore, et quelli chi son in errore 44. li meina in drita via. Pregai per li naveganti, che per voi elli sean salvai, dai conseio alli mercanti, 48. et li poveri aitoriai ; li peregrini et viandanti da voi sean consorai, et alli infermi e tribulai 52. daigi la vostra aya. Pregai per li peccaoi, chi a voi voren tornare, che per vostro amor 56. gi debia perdonar. Anche più semplicemente leggendo come ^ abbiamo proposto il v. 35, si può lasciare ina-terato il seguente. Quell’ onde indica (altra ip tesi) finalità? Allora andrebbe letto conforte, soggiuntivo.— Si può vedere in conforta un imperativo (II pers. sing.) riferito a Maria, e 1Jlten' dere: e dove è pace e buona volontà confortante] tuttavia. Per un subito trapasso ideale e sintattico l’intercessione di Maria diventerebbe 1 immediata causa possibile del fatto, che si desidera. v. 55. — che per [lo] vostro amor. (2) Lxxii r. GIORNALE LIGUSTICO 33 5 Per voi beneita fiore ogni homo se po sajyare ; ben devemo sperare 60. in voi, doce Maria. In voi, doce Maria, ogni homo si à speranza ; alli iusti voi dai aia, 64. alli peccaoi perdonanza, et pregai tuta via lo Re'de gran possanza, che elio li dea perseveranza 68. a questa compagnia ('). Vili. Della Anonciacion de nostra dona. Or è venuto lo tempo de Iexu salvatore; ogni homo se aiegre, 4. e laude lo Creatore. Or è vegnuto lo tempo de la gracia divina : lo angelo Gabriele 8. si è mandao a una iantina, et disse : Dio te salve, de gracia pinna, tu serai regina, 12. maire de lo Salvaore. Lo Angero in Nazareth trova la glorioxa, et de giesser Iosep 16. ella era faita spoxa. La vergen se conturba, e sta monto pensoxa ; honesta e vergognoxa 20. respoxe cum timore: O Angelo Gabriel, chi da cel e’ tramiso, corno serà questo, 24. che tu m’ ài inpromiso? Lo mio cor e’ ò daito allo Re de paraixo, a far lo so servixo 28. cum tuto lo mio amore. Non temi, Maria, de questa mia novella; Vili. 10. [O] de gracia pinna.2^. Nel ms. eo, tu ài trovao la gracia, 32.0 doce vergen bella: da ti nascerà un fijo, Iexu Criste l’apella: de lo cielo et de la terra 36. elio serà segnore. Quando Maria inteixe che piaxe a Deo paire, che de lo so santo fijo 40. ella debia esser maire, et ella se chiama ancilla , et si consente a fare tuto quello che piaxe 44. a Deo creatore (-). Lantora lo Spirito Santo deseixe incontenente, et si à concetto Criste 48. in quelo santo ventre. Or"s’alegremo tuti de cossi bon parente, per che tuta la gente 52. averà salvacione. Deo paire omnipotente semper sia laudato cum lo so beneito fijo, 56. chi ancoi si è incarnao; lo nostro cor oscuro si sea illuminao da lo Spirito Santo, 60. chi è nostro consolator. (!) F. LXXII V. (2) F. Lxxiii r. GIORNALE LIGUSTICO IX. Delia Salutation de la glorioxa vergen Maria. Salve regina sover li angeli exaitata, alla maiestae divina 4. seai nostra avocata. Salve regina maire de lo Salvaor, o doce meixina, 8. chi sani li peccaoi, Maria de gracia pinna, roxa de le altre fiore, davanti allo Creatore 12. seai nostra avocata. Seai nostra avocata alla divina maestae; no ne lasciai, vergen beata, 16. perire in le peccae, o fontana de gracia, maire de pietae, per la vostra humilitae 20. da Criste tanto honorata. Criste cum tuti li santi, Madona, a voi vegnivan ('), li angeli e li arcangeli 24. in soa compagnia. Tuti cantavan canti cum si doce melodia, per voi, doce Maria, 28. chi sei tanto exaitata. Sover li angeli v’ exaltava Criste pin de dozeza, et voi Madona ornava 32.de sovrana belleza; IX. II Belletti mantenne appajati i versi di questa laude come stanno nel ms. : Salve regina sover li angeli exaitata Alla maiestae divina seai nostra avocata ecc. v- I9* — humiltae aveva letto prima il Belletti. V* 3 1 · — w01' fu dapprima scritto nel cod. poi un alt™ mano chiuse con una linea 1’ apertura della ?/, in modo che s' avesse a intendere una u O). . v. 44. — Baita: - ala. Oui rispunta la forma dialettale per la etimologica e toscana, che chiude le strofe precedenti e, meno la prima che tien dietro, le susseguenti. _ v* S1 - — fyor secondo la prima stampa del Belletti. v* $2. — Amao: - aia. Dobbiamo ripetere l’osservazione fatta al v. 44. Qui al copista è fatta (’) F. LXXIII v. in carrega ve setava regina de tanta alteza. Or cum quanta allegreza, 36. voi fosti incoronata. Coronata fosti in celo da Criste lo vostro amor; doce maire de deo 40. voi avesti tanto honor: la luna sote li pè, e vestia sei de lo sole, corona de gran splendor 44. in testa a voi fo daita. Or chi porreiva pensare quanto voi v’ alegrasti, o pietoxa maire,_ 48. qui in celo ancoi montasti. Voi zeisti a regnar _ cum Criste, che voi portasti, lo fijor vostro abrazasti, 52. chi tanto ve à amao. Li angeri si se allegravan per voi, doce regina, et cum canti laudavan 56. la maestae divina ; a voi se inchinavan, · 0 stella matutina, _ chi de splendor sei pinna, 60. da Criste illuminata^ O altissima imperatrice, davanti a voi pianzamo, 0 doce aitoriarixe, 64. de bon (2) cor ve pregemo ; forza dall’ abitudine del suo dialetto. :F™=hè “ tratti di voci poco fréquent, nell uso comune, il copista si tiene Sdo alla pretensiosa fo ma letteraria, al suffisso etimologico -ala, ma g al comunissimo part, passato di dare, genovese (intendiamo per genovese non 1 nativo della città) si lascia sfuggire il suo dar la, altrettanto si dica riguardo amao per > ove di più s’ ha il part, accordato al sog getto maschile, anzi che all’oggetto femminile, v. SV — Lavacri in Belletti. v_ cq. —chi de lo splendor ecc. in Belletti, v. 64. — Pregamo vorrebbe la rima. Preg rno 0 preguevio (più sotto, X. 3-, pregherà, preghiera) andrebbe scritto, che a tore moderno g innanzi e non ha che valor palatina, cfr. li, 19· (2) F. LXXiin r. GIORNALE LIGUSTICO 337 seai nostra defenderixe, che noi non periamo; noi peccaoi toniamo 68. a voi nostra avocata. A chi demo noi tornare se no a voi, Maria? Voi sei la nostra maire, 72. voi si sei la nostra già. Or chi non de sperare in la vostra cortexia? Ogni homo trova aia 76. in voi, vergen laudata. Maria, nostro conforto, de noi ve aregordai, et lo doce fijor vostro 80. per noi semper pregai. Doce maire, condune allo porto, donde noi senio descazai ; per voi seamo salvai, 84. doce nostra avocata. X. Laude della beata vergerle Maria. Madona santa Maria, maire sei de lo Salvaor: fai preguera a Iexu Criste, 4. che elio abia marcè de noi. O regina precioxa, maire de De gracioxa, la nostra mente fai desposa 8. in demandando a Deo perdon. Iexu Criste Deo veraxe, per tuto lo mondo si mande paxe, in questa tera, e in le altre, paxe 12. et consolacione. Iexu Criste paire nostro , son la croxe fosti (’) posto, voi ge fosti vivo e morto 16. per la nostra salvacion. Peccaoi fai penetencia, et faira cum grande astinencia, che allo dì de la sentencia 20. Dio abia marcè de voi. Peccaor, or retornai, et le peccai ve confessai, che voi non seai zuigai 24. a quello infernar dolor. XI. Della beata virgine Maria. O vergen glorioxa, semper seai laudata; davanti a Iexu Criste 4. seai nostra avocata. O meser san Miché arcangero voi sei bon ; v. 65. — Qui s’ ha forse altro esempio di forma ellittica come VI. 47: vi preghiamo che siate ecc.? In tal caso si dovrebbe modificare l’interpunzione : de bon cor ve pregemo - seai nostra ecc. v. 72. — Gtiia va scritto specialmente per il lettore moderno, pel quale g innanzi i non può aver suono gutturale. Guia anche nelle Rime genovesi ed. dal Lagomnggiore (Arch. Glott. II, Punt II); per es. cfr. IV. 30. XI. v. 5-8. — Era forse maggiore prudenza riprodurre questa laude come sta nel ms., coi versi di seguito e con la loro misura non regolarmente accennata da qualche linea verticale (/): 0 meser (*) F. LXXIIII v. pregai lo doce Criste 8. che elio abia marcé de noi. O meser san Zoane baptista fosti bon ; pregai a Iexu Criste 12. per tuti li peccaoi. / san miche arcangero uoi sei bon pregai lo doa Xpe/che elio abia marce de noi. Ad ogni modo il nostro non fu del tutto un arbitrio , chè i versi, tanto quanto, ci sono, e la strofe ci é rilevata dalla assonanza tra il 2.0 e il 4.0 verso (bon: noi; bon : pe:caoi ecc.), e dalla forma regolare della ripresa. Ma probabilmente cosa più saggia, ora almeno non potendo altro, debbo limitarmi ad indicare che in esso pure occorrono due monumenti, in prosa, dell’antico dialetto di Genova (Sec. XIV): una passione di Cristo (f. 40 r. — 47 r.), e la traduzione in genovese della lettera di S. Bernardo (0 meglio a S. Bernardo attribuita) al cavaliere Raimondo signore di castello Ambrogio, militi Raymundo Domino Castri Ambrosii (f. 56 r. — 57 r.). Qui innanzi pubblico intanto questa traduzione. 352 GIORNALE LIGUSTICO Della lettera si conoscono non pochi volgarizzamenti toscani (i). Io potei vederne quattro (2), dei quali e del testo latino (3) mi sono giovato per illustrare in qualche (1) Se ne cominciò a stampare fin dal sec. XV. Cfr. Zambrini, Op. volg. a st. dei sec. XIII e XIV /Bologna, 1866/, p. 32. (2) I. Del Governo di sè stesso e della famiglia /Pistola/ mandata /da Bernardo Monaco di Chartres/ a /Raimondo signore di Castello Ambrogio/ e traslatata di latino in volgare /nel secolo XIV/ — Siena 1853. — È pubblicaz. di Gaetano Milanesi per nozze di Cesare Guasti. Il volgarizzamento fu tratto da un ms. miscellaneo della Bibl. di Siena della prima metà del sec. XV. Il Milanesi nella lettera dedicatoria dice autore del- 1 epistola non già S. Bernardo, ma « il monaco Bernardo, chiamata Carnotense, o Silvestre·, il quale fiorì negli ultimi anni del secolo XII, e fu a’ suoi giorni avuto per solenne filosofo peripatetico ». II. Epistola /di/ San Bernardo a Raimondo /nuova lezione/ del buon secolo della lingua /ora edita a cura /di Ugo Antonio Amico/ — Bologna, Romagnoli, 1866. Dal cod. 1798 dell’ Universitaria bolognese. III. Lettera di S. Bernardo /a messer/ Raimondo signore di castel Santambrogio /sul modo/ di ben governare una casa /e reggere la propria famiglia/ tradotta da un anonimo del 1400 /e citata dal vocabolario della Crusca T. 6. P. 62/. — Padova, 1868. -7- Per nozze Tono-Apostoli, pubbl. del fratello dello sposo Don Antonio Tono, o meglio ripubblicazione dello stesso volgarizzamento già edito da Don Agostino Zanderigo, come s’avverte in una nota, dopo il testo, a p. 16. In questa nota, certo erroneamente, è detto che lo Zanderigo aveva mandato in luce il volga-rizzam. in Venezia trent’anni innanzi, mentre. 1’edit. di altra versione toscana, il Razzolini, accenna (p. 4 della sua pubblicaz.) ad una stampa dello Zanderigo di Padova 1846, indicata pure dallo Zambrini, op. cit. p. 32» IV. Quattro epistole /di/ S. Bernardo /testo di Lingua/ tratto da due codici ricasoliani /per cura/ dell’Ab. Luigi Razzolini/—Firenze, 1868 — La nostra epistola è la prima, p. 9-18, con a piedi di p. il testo latino. — Di S. Bernardo il Razzolini aveva già nel 1850 pubblicate le « Meditazioni piissime ». Per altre edd. di volgarizzam. di questa lettera cfr. Zambrini, op. cit. p. 32 e segg. (3) Approfittai del testo latino edito dal Razzolini e tfatto da un cod. riccardiano con raffronto ad altro Magliabechiano. Cfr. della cit. pubblicaz. del Razzolini p. 6. GIORNALE LIGUSTICO 353 punto il volgarizzamento genovese, citandoli a raffronto ed a spiegazione in alcune note. Questa traduzione genovese prova tanto meglio la diffusione larga avuta dalla nostra epistola, e le sue sorti liete, così liete anzi che per esse potè correre come opera di un santo, il quale ebbe tanto ingegno, tanta influenza e tanta autorità. Non so che si conoscano, oltre le toscane, versioni di essa in altri dialetti, meno quella esistente alla Marciana, che però non si può dire tutta in dialetto veneto, ma solo , come avverte lo Zanderigo (i), mista di voci venete. Forse frugando nelle biblioteche delle varie regioni italiane non sarebbe impossibile scovare altri volgarizzamenti vernacoli dell epistola, la quale, dato il caso, acquisterebbe importanza nella storia de’ nostri dialetti e della loro letteratura. Nel pubblicare il volgarizzamento genovese mi attenni al metodo indicato più sopra per le Laudi: in nota, lo ripeto, volli, a maggior chiarezza, riferire qualche luogo del testo originale e delle traduzioni toscane. Avverto che quello e queste, per brevità, indico con semplici sigle: Tl. (Testo latino); SM. (Volgarizzam. di Siena ed. dal Milanesi); BA. (di Bologna ed. dall’Amico); PZ2 (ripubblicaz. fatta in Padova dell ediz. dello Zanderigo) ; FR. (volgarizzam. di Firenze ed. dal Razzolini). Padova, 5 Luglio 1883. V. Crescini. (1) Cfr. Razzolini, op. cit. p. 4. Lo Zanderigo conobbe due cod. mar-ciani contenenti la nostra epistola volgarizzata: il cod. MS, 57 cl. II, N. 98, ed il cod. a stampa XII, 6. La traduz. di quest’ ultimo « è di un anonimo Veneziano, perchè in essa vi sono molte voci del vernacolo Veneto ». Giorn. Ligustico, %Anno X. 23 354 EPISTOLA BEATI BERNARDY. Alo graciosso et biao Cavaler Raymondo segnor de castello Ambioxo Bernardo conduto in vegeza saluo. Tu ay demandao esser amaistrao da noy de lo moo et de la cura de governar più utermenti la masnà, et como li pairi de le masnae se debiam passar. A la qual cossa noi te respondamo , che avegna dee che lo stao et la fini de tute le cosse mondane (i) lavoren sote fortuna, non è perzò da esser lassa la regolla (2) de viver. Oddi donca et atendi, che (3) in cassa toa la entra et la ensia som enguae, casso desprovisto po destruie (4) lo so stao (5). Lo stao d’ un homo negligente : la soa casa ruinerà tosto (6). Che cosa è nigligencia de quello, chi governa la cassa? Fogo possente et aceisso in casa. Cerca diligente menty la intenciom et la solicitudine de quelli, chi guiam la toa cossa. A l’omo che veni tnen et non è ancor vegnuo men è menor vergogna astenerse cha lasarse venir men. Veir speso le soe cose corno che stani è grande previdenza. Adonca conscidera de lo mangiar e de lo beiver de li toi Animai perzò che elli àn fame et no ne demandam. Le noze habondeiver dano senza honor fan. La speisa per cavalaria è honorever ; la speisa per ayar li amixi è raxoneiver; la speisa per ayar li prodigi, zoè quelli chi zetan via lo lor, è perdua. La toa famiga (7) de groso et non de delicao cibo noriga. Chi è .devegnuo goliardo (8) no muerà may costumi noma con la morte. La go liardia de vii homo et neglegente è spuza (9), et maizor la goliardaria d uni solicito et intenduto (lo) è solazo. In li dì de le pasque (11) principal pasci la (1) Tl. rerum omnium mundanarum status et exitus negotiorum. (2) Così nel ms. (3) che [se] in cassa toa ecc. Tl. quod si in domo tua ecc. Corrispondono FR· BA. A proposito dei volgarizzam. toscani avverto qui, che più autorevoli, perchè più fidi sono FR. BA., mentre SM. PZ.2 sono piuttosto parafrasi ed amplificazioni 4* quello. (4J Tl. destruere. FR. BA. guastare. SM. ruvinare e abattere. (5) to stao. Tl. statum tuum. FR. SM. tuo. (6) Tl. Status hominis negligentis : domus est ruinosa. (7) Famigia. (8) Goliardo. Tl. gulosus. FR. ghiotto. BA. goloso. Nota buon esempio dell uso di questa nel senso che dev’ essere originario. (9) Spilla. Tl. putredo. FR. so^ura. BA. piaga. SM. feccia. PZ.2 fracidume. (10) Tl. solliciti et diligentis, cosi FR. BA.; SM. sollecito e gentile. (11) Tl. Diebus paschalibus. FR. Ne! di delle Pasque. BA. El di delle pascue. SM. Ne’ di de le Pasque e delle gran feste. PZ.2 Nei di delle feste. GIORNALE LIGUSTICO 355 toa masnà habondeyver menti, ma no delica menti. Fa la gola (i) tenzonar cum la borsa, et guarda de chi tu sei avocato, et che sentencia tu dagi inter la borsa et la gola, perzò che la gola proa cum desideri]', testemonie senza zurar ; la borsa manifestamenti proa per l’arca, et li celer voy, o chi brevementi se som per voar. Lantor mal zuigi (2) contra la gola quando la avaricia liga la borsa. Mai la avaricia non zuigerà dritamenti inter la borsa et la gola. Che cosa è avaricia? homicidia (5) de si mesmo. Che cosa è avaricia? Temer povertae semper vivando in povertae. Dritamenti vive l’avaro non perder in si le richece, ma servarle a altri (4): megio vai servarle a altri cha perderle in si. Se tu ay abondancia de biava non amar caristia, che chi ama caristia desira esser homida (5) de li poveri. Vendi la biava quando ella vai (1) Fa la gola ecc. TI. Fac gulam litigare cum bursa, ei cave cujus advocatus existas. Si autem inter bursam et gulam judex existas, saepius, sed non semper, pro bursa sententiam feras ; vani gula affectionibus probat, sic testibus non iuratis bursa evidenter probat; jam arca et celario evacuatis, vel brevi tempore vacuandis. FR. traduce fedelmente ; riferisco solo questo passo : La gola pruova con affezioni, e cosi la borsa pruova san^a testimoni , vôta V arca e ’l cellajo, o quando e presso che vôta. BA. Perchè la gola per le sue afectioni, e apetiti disordinati sen^a testimoni giurati sempre fa prova contro la borsa. Ma la borsa contro la gola fa sua pruova. quando la chasa e il celiere son voti. SM. amplifica e tradisce , anzi che tradurre:... la gola si prova per le affezioni eh’ ella d; e cosi la borsa chiaramente prova contro la golaì con testimoni non giurati. Et quando la cassa e ’l cellieri son voti o in punto da essere ben votati; allora mal oiudtcarai contra alla gola. PZ.2 Procura quanto puoi che sia litigio infra la borsa e la gola. E domandandoti alcuna cosa la gola, dille che sei impedito dal voler della borsa. Ed essendo a caso costretto dar giudizio in tal materia non sii tristo giudice, che sapendo la verità vogli confonder la giustizia; chè riguardando bene, vedrai tutta la ragione esser della borsa , ed avere torto la gola, i cui testimoni sono poveri, di niun credito, bassi di condizione, e i quali testificano ancor che non siano chiamati ecc. Quei della borsa sono d’ assai piti credito. L· arca vuota , la credenza sen^a pane, la dispensa sen\a provisione, i figliuoli nudi, e la famiglia morta di fame ecc. FR. non traduce in tutto bene il testo, mi pare, e trasse il Razzolini a interpunzione poco esatta di esso in un luogo. Ecco il senso vero e la punteggiatura in questo luogo:... nam gula affectionibus probat, sic testibus non iuratis ; bursa evidenter probai, jam arca ecc. Esatto così è BA. Il volgarizzamento genovese lo è pur esso , e riesce chiaro o con la nostra interpunzione , 0 emendando:... la gola proa cum desideri)’, [cosi cum] testemonie sen^a %urar. PZ.2 allarga e spiega liberamente il testo, ma col senso di BA. e del nostro volgarizzam. Anche SM. ascrive 1 testi non giurati (PZ.2 di niun credito) alla borsa , anzi che alla gola, ma SM. qui è molto errato e poco attendibile. (2) Zuigi; zuigerd: qui la g deve avere valore di gutturale. (3) Tl. sui homicida. Qui nel nostro volg. può leggersi homicid(i)a, oppure homicidià = orni-cidiale. FR. alla domanda: « che è avarizia? » risponde: è essere omicidiale di sè medesimo. Così press’ a poco SM. BA. non ha domanda , e afferma che Γ avarizia è omicidiale di se medesima. (4) Tl. Recte vivit avarus in se non perdens divitias ecc. Nel nostro volg. leggi : non perdendo ecc. ma servandole ecc. Così FR. BA. (5) Homicida. 356 GIORNALE LIGUSTICO comunal prexio, non quando li poveri non la pon acatar, et vendila per menor prexio a li vexim et a li inimi xi, che non semper se venze lo inimigo cum la spa, ma speso se venze cum servixo. Superbia contra li vexim è bagno (i) chi aspeta troni cum sayta. Ay tu inimigo ? Non usar con quelli, che tu no cognosi. Semper pessa le vie de lo to inimigo : la segureza de lo to inimigo no è in logo de paxe, ma tregua a tempo. Se tu te aseguri no pensar de lo to inimigo, che zo che tu pensi tu te meti per peri-golo (2). De le toe femene sospete che elle fazan (3): cerca ignorancia et non sapua (4). Da poa che tu averai sapuo lo pecao de la mala moger no ne serai meigao da nigun mego. Lo dolor de la malia moger lantor mitigera (5) quando tu odirai parlar de le mogie d’aotri. Lo cor alto et nober no cura de le overe de le femene. La mala mogie castigerai (6) megio cum lo rider cha cum lo bastun (7). Femena vegia et putam, se la leze lo consentisse, seria da esser sepelia viva. De le robe. Nota che roba de gran speissa é proa de poco seno. La roba tropo aparissente tosto a (8) partuise odio a li vexim. Studia de piaxer per bontae et non per roba. La demanda de la femena, chi à roba et ne demanda de le altre non indica fermeza. De li amisi tee (9) quello, chi è pu amigo /f. 56 r./, et inanzi quello chi te da le soe cosse cha quello, chi se offerisse si proprio, perzò che è grande copia d’ amixi de parolle. Amigo non reputa quello che te loa in toa presencia (10). Se tu consegi l’amigo to digi conseiando . cosi me par, et no : così è da far a lo bostuto, perzò che de la rea firn de lo consegio se segue più lengeramenti reprensiom cha loso de la bonna. E ò oddio che li zugolai te visitam. Atendi che se ne segue : 1 omo, chi e (1) Tl. baìenum. Cosi FR. BA. SM.: PZ.5 bagno. Forse nel testo latino del nostro volg. balenum era scritto balnum senza segno abbreviativo, e balnuin si intese per balneum, errore di lezione, che si propagò, comparendoci in PZ.2. (2) Tl. Semper cogita, quod inimicus sagax cogitat inimicitias.......Si te securas non cogitare inimicum quae tu cogitas, periculo te exponis. — Segureza. Tl. debilitas. Cosi FR. SM. (3) Tl. quid agant. (4) Tl. ignorantiam, non scientiam. (5) Mitigherà. (6) Castigherai. (7) Manca, come in BA. PZ.2, questa proposiz. di Tl. Foemina meretrix et senex omne> divitias annullabile che s’ ha in FR. SM.. (8) Già l’articolo alla forma moderna? Cfr. Laudi. ΧΠΙ. 44. (9) Tee, tene. Tl. teneas. Non c’ è segno abbreviativo per la nasale. (10) Manca, come in SM. PZ.* questa proposiz. di Tl. st consulis amtco, non queras piacere et, sed rationie che s’ ha in FR. BA. GIORNALE LIGUSTICO 357 intento a zugolai averà tosto moger, chi averà nome porvetae (i), ma chi serà so figio ? Beffe (2). Piaxante le parolle de lo zugolar? Infenzite de odir et pensa d’ altro (3). Chi se aiegra e se rie de le parole de li zugolai li à za daito pegno. Li zugolai, chi reproiham som degni de la forca. Lo zugolar chi reproiha è animai re, chi porta con seigo 1’ omecidio. Li instrumenti de li zugolay (4) non son piaxuy a Dee. Oddi de li messi. Lo messo de alto cor caza via corno quello chi de esser to inimigo. Lo messo chi t’aluxenge cum soe luxenge (5) caza via. Lo fante chi te loa seandigiti sente (6) scrialo che elio ha covea de inganate unna altra volta. Lo fante, chi se vergogna lengeramenti, amalo corno to figio. Se tu voy casezar, incue-rege (7) inanzi necessitae cha voluntae ; che la voluntae de edificar no se leva edificando. La tropo desordenà voluntae de edificar aparega (8) et aspecta tosto vendita de li edifficij. La torre livrà et compia et 1’ arca voa fan tardi l’omo esser savio. Voy tu alcunna fià vender? Guarda che tu non vendi parte de la toa hereditae a più possente de ti, ma inanzi dala per menor prexio a un menor de ti. Ma tuta la hereditae vendi a chi te ne da più. Megio vai sostener greve fame che vende lo so patrimonio, ma megio è vender cha sostenerse a uxure. Che cossa è usura ? Venin de lo patrimonio (9), perzò che ella è leal layro, chi dixe palee zo che elio intende de far. No acatar niente in compagnia de più possente de ti. Soste pa-cientementi lo pice compagno azò che elio no te acompagne cum più forte de ti. Spiao ay de 1’ uso de lo vim. Chi in diversitae et abondancia de vin è sobrio, zoè atemperao, quello è telem Dee (10). La envrieza no fa (1) Nel ms. s’ ha porvetae, ma si leggerebbe porvertae, chè dopo la seconda sillaba sì ha su-periormente tra la e e la t un segno, il quale parrebbe abbreviativo per la r. Forse il traduttore o copista eh’ egli sia della traduzione volle correggere la forma popolare prima scritta e sovrappose il segno per la r al luogo debito senza cancellare 1’ altra r. Questa forma metatetica per povertae s’ ha più volte anche nelle Rime genovesi ed. dal Lagomaggiore. Cfr. per. es. V, 6. (2) Tl. et quis erit ejus mulieris filius ? derisio. (3) Piaxonle. Tl. Placet tibi verbum joculatoris? Finge ti non audir e,-et aliud cogitare. Forse nel nostro volg. è da correggere: infenzite de [ηοπ] odir et pensi d’ altro. (4) Tl. loculatores instrumentorum Deo placuerunt. Cosi FR., ma BA. li stormenti de giollari non piacciono a Dio. (5) Anche qui la g deve essere gutturale. (6) Seandogi ti [pressente. Tl. Famulo et vicino te laudanti resistas. Cosi FR. ; BA. non consentire al f ameglio che te lauda te predente. (7) Non so se cosi vada letta questa parola. Tl. inducat te. Cosi FR. BA.; SM. Se tu vuoi ecc. fallo per bisogno c non per diletto. PZ.2 Se vuoi ecc. fa ciò ecc. (8) Aparegia. (9) Così BA. PZA (10) Tl. ili e est terrenus Deus. 358 GIORNALE LIGUSTICO niente drito noma quando ella caze intra Io iavagio (i). Senti tu vim in ti? Fuzi la compagnia; cerca de dormì inauzi cha de parlar. Chi se scusa cum parole che elio no è envrio la soa envrieza apertamente acusa et manifesta. Mal sta in zoven cognoscer vim (2). Fuzi lo mego envrio. Guardate da mego , chi vogia proar in ti corno elio de curar altri de seme-gante (3) marotia. Li cagnoy franceschi (4) lassa a li iheregi et a le reine. Li cairn de guardia son uter. Li cairn de caza più costan che elli non zoan. Ay tu figio ? No lo ordenar despensaor de li toi bem. Ma tu diray: se la fortunna, zoè ventura, contraria, che zoe la dotrinna de viver ? Oddi che de zo ò visto mati far zo che elli no dem et a la fin se scusam sum la ventura. Chi serva la dotrinna raira fià acuserà la ventura, perzò che raira fià s’acumpagna soliciiudine cum desaventura; ma più raira fià se parte desaventura da pigricia. Lo preigo aspeta esser sovegnuo da Dee, chi à comandao vegiar in questo mondo. Adonca ti vegia , e la lengereza de spender computa cum la greveza de guagnar. Acostase la vegieza ? E’ te consegio che tu t’ acommandi inanzi a Dee, cha a to figio. Fay tu testamento? E’ te consegio che tu comandi che primeramenti li servioy toy seam pagay (5). A chi ama la toa personna non cometi la toa anima. Commeti 1’ annima toa a chi ama l’annima soa (6). Tu de testar /f. 56 v./ inanzi la marotia, inanzi che tu devegni servo de l’infirmitae, perzò che servo no po testar. Donca testa quando tu e’ libero, innanzi che tu devegni servo. Oddi de li figi. Morto lo paire, cercan de partirse. Se li figi som gentilomi megio vai speso che elli seam dispersi per lo mondo cha partir la soa hereditae. Se elli som lavoraoi faran zo che elli vorem. Se elli som mercanti più seguro è che elli partam cha che elli seam in communitae, azò che Γ um non reproihe la desaventura de 1’ aotro. La maire per aventura cerca de remariarse. Mata monti (7) fa. Ma azò che ella (1) Tl. Ebrietas nil rectc facit, visi cum in lectum cadit. Così FR.; BA. L’ ebrietà niente direttamente fa 5’ ella no cade nel fango. PZ.2 U ubbriaco una sol cosa fa bene; eh’ e cader nel fango. (2) Manca nel nostro volg.: fuge medicum scientia plenum , exercitio non probatum (Γΐ. FR-SM. PZ.2). BA. guardati dal medico inisperto. (3) Semegiante. (4) Tl. caniculos valde parvos. FR. Catulini molto piccoli. Nè in BA. nè in SM, PZ.8 s ha questa qualificazione del nostro volg. di cagnuoli francesi. (5) Tl. Consulo quod prius servitor ibus et sacerdotibus solvi mandes. Così FR.; BA. Se tu f arat testamento... sodisfa a’ tuoi famegli e debitori el salario meritato e i debiti fati. SM. E quando tu fai el testamento, io ti ricordo, tu lasci che sia innanzi pagato il servo che ’l sacerdote. (6) A chi ama Γ anima soa. Così FR. BA. SM. PZ.2 evidente errore in Tl. diligentibus animam tuam; leggi suam. (7) Mata menti. Tl. stulte agit. GIORNALE LIGUSTICO 359 pianza li soi pecai vogia Dee che ella vegia piie un zoven , perzò che elio spenda le soe chose e ella non zeta (i). Le quai cosse speisse beverà con seigo lo carexo (2) de lo dolor, che ella ha desirao. A lo qual la con-duga la soa dannaber sentencia et vegieza. Amen. DOCUMENTI INTORNO LA COLONIA DI GRECI STABILITASI NELL’ ISOLA DI CORSICA l’aNNO 1676 Sembra che la prima idea di accogliere nell’ isola di Corsica Greci, risoluti di affrancarsi dall’aborrito giogo de’ Turchi, sia stata suggerita da un cavaliere italiano, di nome ignoto, al patrizio genovese, Gian Luca Durazzo, allorché questi tro-vavasi, nell’ anno 1662, a Londra, affine di congratularsi da parte della Repubblica con Carlo II Stuart della sua esaltazione al trono d’Inghilterra (3). Tuttavia, dal secondo dei tre Documenti, qui appresso riferiti, che per caso io ritrovai nell’ Archivio di Stato a Genova, si raccoglie che le prime pratiche intavolate dai Greci, del Braccio di Maino, col governo della Repubblica allo scopo di ottenere fermo domicilio in Corsica, ne’ luoghi, eh’ essi stessi, per mezzo de’ loro deputati, a tal nopo speditivi, avevano con molto accorgimento eletti a loro dimora, sono dell’anno 1663:1e quali pratiche, cionondimeno, rimasero senza effetto, per avere dipoi que’ profughi preferito di abitare nelle maremme di Pisa e di Siena sotto la tutela del Granduca di Toscana. Rinnovatesi le trattative nell’anno 1671, faceva vela per la Corsica una colonia di circa 400 famiglie, le quali, sventuratamente, nelle vicinanze (1) Per^ò che elio spenda ecc. Tl. ha questa variante: nam non ipsam, sed sua quaerit. Corrispondono FR. BA. SM. Leggerei zete sogg. (2) Tl. doloris calicem. (3) Vedi la Relatione delVambasceria ecc. pubblicata dal Belgrano nel Giornale Ligustico, 1875. 360 GIORNALE LIGUSTICO dell’ isola medesima, cadevano schiave in mano de’ pirati di Tripoli. Finalmente, una terza colonia, in numero, non di 730 persone, come asseriscono il Cambiagi (1) ed altri, ma, per testimonianza del citato nostro Documento, di 600 circa, col loro vescovo Partenio Calcandi, i loro preti e monaci e con tutti i lor beni, il 3 di ottobre del 1675, sopra di un grosso legno francese, salpava alla volta di Genova, dove, dopo lungo errare, approdava il primo dell’anno successivo. Ricevuti ed ospitati dalla Signoria con molta umanità e benevolenza, gli esuli Mainoti ripetevano la preghiera che fosse loro consentito di piantarsi in Corsica sotto il patrocinio della Repubblica, conforme i patti stati conclusi nell’ anno 1663. La Signoria li esaudì senza indugio, fortemente premendole, come apparisce dai nostri Documenti, di far rifiorire, mercè l’industria e 1’ operosità dei Mainoti, nelle terre ad essi distribuite, Γ agricoltura, la quale, per mancanza di popolazione, era quivi interamente caduta in rovina. Le terre, dove i Mainoti andarono a soggiornare, e che essi ricevettero a titolo d’enfiteusi, sono quelle di Paomia, nell’antica pieve di Vico, sulla costa occidentale dell’isola, fra il golfo di Sagone e quello di Porto. Il testo della Convenzione, allora segnata, vien riferito dal Cambiagi nella sua Storia, dal Limperani e da altri Storici della Corsica. Essa si compone di quattordici articoli, de’ quali il primo e forse il principale, ove si ponga attenzione alla sollecitudine ed allo zelo che circa la materia di esso, secondo risulta dai Documenti qui prodotti, dispiegò la Repubblica, riguarda la conversione di que’ scismatici alla fede cattolica, salvo però rimanendo il loro particolare rito, come appunto si osserva co’ Greci in unione colla Sede Romana: conversione, tuttavia, giova notare, a conseguire la quale non si avevano certamente a superare (1) Cambiagi, Istoria del Regno di Corsica, 1720, Tom. I. GIORNALE LIGUSTICO 361 gravi ostacoli, per essere gli esuli predetti ben debolmente legati allo scisma nativo. A governare la colonia la Signorìa, con senno assai commendevole, deputava un magistrato particolare col nome di Reggente, il quale mise la sua residenza fra i coloni stessi. Di questi Reggenti genovesi se ne noverano, dall’anno 1676 al 1629, ventotto. Il Gregorovius, toccando nella breve sua Stona dei Corsi (1), dell’arrivo dei Mainoti in quell’isola, cadde in parecchie inesattezze, poiché disse, che quelli arrivarono nel golfo di Genova nel mese di marzo (1676) e su propri legni e che veleggiarono al luogo loro destinato due mesi dopo; che la Signoria promise loro la guarentigia della loro religione; che la medesima diede ad essi asilo forse col reo intento di seminare cosi fra i Corsi elementi stranieri e nimichevoli e di svellere dai medesimi la nazionalità, cosiffatta appunto, dice egli, essendo stata la politica di Genova nell’isola di Corsica; in fine, che i poveri coloni, aborriti e disprezzati dai vicini, non poterono mai aver bene nel nuovo, inclemente paese. Del pari, 1’ avvocato francese, Jacobi, nella sua Histoire generale de la Corse (2), mentre pur si compiace della Convenzione sopra mentovata, la quale, a suo sentimento, non potrebbe essere più liberale, biasima vivamente la Repubblica, perchè, ricoverando i Greci nejl’isola, vi avrebbe gittato un nuovo tizzone di discordia, e perchè terreno di proprietà degli abitanti di Vico e di Coggia, arbitrariamente e violentemente, ella avesse ceduto ai coloni, senza compensarne i legittimi proprietari, ed anzi, chiudendo ambedue le orecchie alle costoro querele e proteste (3). (1) Traduzione italiana, Firenze, Lemonnier, 1857. (2) Paris, 183$. (3) Nelle grosse Filze Litterarum Gubernii dell’ Archivio di Stato a Genova, io mi sono imbattuto in parecchie istanze di Corsi, invocanti la 362 GIORNALE LIGUSTICO È superfluo avvertire che nei due citati Storici ribolle contro la Repubblica di Genova una specie di furore, che sovente loro impedisce di valutare con la necessaria tranquillità d’ animo e moderazione di linguaggio le azioni della medesima. Ora, lasciando a chi è di me più competente in siffatta materia il decidere se la cessione ai Mainoti della terra di Paomia sia stata propriamente un’ iniqua usurpazione, e. tacendo i diritti positivi, che la Signoria affacciava sul possesso di que’ luoghi, io mi terrò contento di notare in generale, insieme col dotto marchese Massimiliano Spinola (1) che, in que’ tempi, era comune presso i giureconsulti la dottrina, che il Capo dello Stato fosse padrone delle persone e dei beni de’ propri sudditi; secondariamente, che, come attestano i Documenti qui allegati, le terre date in enfiteusi ai Mainoti erano allora deserte, vuote di abitanti ed inselvatichite. Quanto, poi, alle discordie ed alle contese, che fra gli isolani ed i Greci sarebbero indi scoppiate, esse, per testimonianza autorevole del Cambiagi e del Limperani, non furono di lunga durata, nè gran fatto sanguinose. È ben vero che da principio, come suole avvenire nelle intrusioni di gente nuova e forestiera, i Corsi guardarono i coloni con gelosia e con diffidenza e forse anche dieder^ loro segni palesi di avversione e di inimicizia; ma la concordia e l’affetto non tardarono a sorgere fra i due popoli, con vantaggio scambievole. La florida e lussureggiante vegetazione, onde in un corso non lungo di anni le terre di Paomia, dapprima così inculte ed abbandonate, erano meravigliosamente ricoperte, come ne restituzione od il risarcimento delle terre state assegnate ai Greci : ma mi è mancato il tempo di ricercare quali risposte vi avesse dato il governo. (1) Vedi il Giornale Ligustico, 1875. GIORNALE LIGUSTICO 363 fa fede il Limperani, che le vide nell’ anno 1713 (1), è sicuramente un indizio incontrastabile della pace e della quiete, che godevano nell’isola di Corsica que’ Greci, venuti ad assidersi ed a riposare sotto il potente e glorioso vessillo della Repubblica di Genova. Di questi tre Documenti, il primo si riferisce alle negoziazioni dell’anno 1671, gli altri due a quelle del 1676. Questi ultimi due possono eziandio servire di saggio della politica osservata dalla Repubblica di Genova nelle faccende ecclesiastiche. Moncalieri, R. Collegio Carlo Alberto, 1 settembre 1883. Giuseppe Colombo B.ta. I. j6yi. — Per V introduzione d’una colonia di Greci in Corsica. Facoltà concessa al Magistrato di quel Regno di prendere a cambio e di assicurare alle Compere di S. Giorgio Io smaltimento di sali in Corsica. (Arch. di Stalo di Genova. Mazzo 18, Propositionam). Signori La poca habitatione alla quale è ridotto il Regno di Corsica, et il mancamento che da essa risulta alla coltiuazione, la quale per esser que’ paesi per la maggior parte molto fertili potrebbe proueder in gran parte al bisogno del Dominio di Terraferma, ha dato motiuo a’ Ser.°" Collegi di promuouere una negotiatione, che li fu portata dall'illustre Magistrato di Corsica d’ introdurre quattrocento famiglie di Greci del Braccio di Maino con speranza ancora di molto maggior numero col quale si potrebbe supplire la popolatione necessaria e proficua per molti conti. Si sono portati a tal’ effetto a questa Città alcuni de’ detti Greci, li quali hanno scielto il territorio di Vico assai disabitato, ma fertile, perchè prima alcuni di essi si portarono in Corsica a riconoscere quei Terreni, che hauessero giudicato migliori. Si sono formate le capitolationi, quali..... i termini, che i Ser.mi Collegi hanno conosciuto ragionevoli; le hanno ap- (1) « Tutto il paese della colonia, scrive il Limperani (Istoria della Corsica, 1780, Voi. Il), era un delizioso giardino fornito di tutti i frutti desiderabili: cosa da ammirare come in 37 anni i Greci avessero potuto far tanto ». 364 GIORNALE LIGUSTICO provate, e le SS. V." ne sentiranno la lettura. Ma perchè, se ben frà 1’ altre cose resta accordato, che le dette quattrocento famiglie debbano portar seco le prouiggioni necessarie al loro vitto per venti mesi, conviene però essendo per altro gente povera, prouederli a spese pubbliche di Vascelli, che li trasportino in Corsica, e di case per 1’habitatione con douer essi reintegrar la spesa, che per questi conti si farà con quattro per cento d’interesse fra il corso d’ anni venti, e di più se si ha da prouedere per ducento paia di boui per coltiuar la terra douendo essi all’incontro reintegrar questa spesa con l’interesse pure di quattro per cento fra il ter-»mine di anni cinque, oltre che passati i cinque anni saranno obligati pagar le auarie, le Gabelle e gli altri carichi, come sono tenuti i Popoli di quel territorio, oltre che la Casa di S. Giorgio sarà per dar mano che il beneficio, che si cacciarà dai sali, che essi Greci smaltiranno, debba fino all’ estinzione del debito, che per questi conti si causerà, seruir tutto a beneficio della Camera dell’ Illustre Magistrato di Corsica, quando però si venga assicurato quel consumo, ò sia smaltimento di sali, che oggi si fa in quel Regno nella maniera che il d.° Illustre Magistrato di Corsica concertarà con l’Ill.mi Protettori di quelle Compera; nia essendo necessario per le cose sudette far spesa, che sarà di lire ottanta sino in centomila, le quali non ha di presente il d.° Ill.re Magistrato di contanti, danno perciò i detti Serenissimi Collegi il necessario numero di voti determinato di proponere all’ uno et altro Consiglio, come hora si fa alle Signorie Vostre che voglino dar facoltà al detto Illustre Magistrato di Corsica di prendeer a cambio o a censo in una o più volte sino a detta somma di lire centomila da estinguersi capitale e frutti non solamente con lo rimborso, che dovranno fare i detti Greci del danaro da spendersi a’ loro beneficio nel modo già detto e con l’interesse sopraccennato, ma ancora col danaro che si cacciarà dal beneficio per detti sali, e delle auarie Gabelle, et altri carichi, che i detti Greci dovranno pagare, e di obligar perciò tutti i beni della Serenissima Repubblica in genere, et in ispecie a fauore di chi darà il contante, e similmente di assicurare alle Compere di S. Giorgio il consumo o sia smaltimento di sali di quel Regno per la somma e sotto i modi e forma, che il detto Illustre Magistrato concertarà co’detti 111.mi Protettori. Le quali tutte cose douranno hauer luogo et eseguirsi quando i detti Greci hauranno dato gli ostaggi a sodisfatione di detto Illustre Magistrato. Se le Signorie Vostre concorreranno in questa sentenza, saranno contente mostrarlo coi loro voti fauoreuoli (Approvato). GIORNALE LIGUSTICO 365 II. 7 febbraio. — Istruzioni della Signoria di Genova, relative allo stabilimento de' Greci in Corsica, mandate al Sig. Dulmeta, segretario della Repubblica presso la Santa Sede (Arch. di Stato di Genova. Mazzo 39, Roma). Duce e Governatori della Repubblica di Genova al Sig. Dulmeta segretario. Nostro Segretario. Sin dall’anno 1663. si ebbero esibizioni di Greci del Braccio di Maino di venir ad abitare nel Regno di Corsica, e dopo la ricognizione del Paese fatta da alcuni Deputati a quest’ effetto mandati da que’ Popoli si stabilirono con essi alcune Capitolazioni che non ebbero effetto. S’intese poi che fossero stati accettati dal Gran Duca, con condizioni poco dissimili dalle minutate con noi. Nell’anno poi 1671. alla supplicazione de’medesimi Popoli furono ripigliati, e conclusi trattati con obbligazione a’ Mainotti di mandare cento capi di familia per ostaggi, et alla Repubblica di trasmetter colà Vascelli per levarne 400. famiglie; ma non essendosi eseguita la prima parte, è restato qualche anni sospeso 1’ affare fino a tanto, che mosse da se medesime molte delle medesime familie si condussero al numero di 400 in circa sino presso i mari di Corsica dove incontrati ne’ Tripolini restarono preda di que’ Barbari, che gli vendettero in Levante per schiavi. Dopo questo successo ebbero animo quelli della città di Vitulo di tentar di nuovo un medesimo viaggio et imbarcarsi in numero di 600 teste con un Vescovo, e Monaci, Sacerdoti secolari, e Monache co’ capi, e seniori di quel Popolo sopra un grosso Petaccio francese comparvero in Genova nel mese passato, e rinnovarono le suppliche di essere ammessi sotto il patrocinio, et impero della Repubblica secondo le forme divisate fino nel 1663. Ci siamo facilmente disposti a’ compiacergli, non tanto per le convenienze, che possiamo sperare dallo stabilimento di questa Colonia ne’ nostri Stati, quanto per la pietà, che si è auuta della condizione di que’ miseri, che aueano abbandonate le loro case per farsi nostri sudditi, e per lo zelo della religione Cattolica, che riduce all’ ovile della Chiesa Romana questo gregge assai numeroso, già sviato più per ragione della subordinazione, che de’ Dogmi, quasi interamente conformi a’ Latini Cattolici. Così nelle antiche Capitulazioni come nelle presenti, che vedrete qui annesse si è sempre per primo punto stabilita questa intera sommissione 366 GIORNALE LIGUSTICO con 1’ uso del rito Greco, secondo che si permette ne’ Regni di Sicilia, e di Napoli. Et se bene questo potrebbe bastantemente giustificare 1’ accettazione consentita, et approuata da Concilij, e dalle Bolle Pontificie a fauore di quella Natione, pure per non mancare ad ogni più esatta puntualità, e cautela nelle cose di Religione, non abbiamo uoluto che il Vescovo ed i Popoli passino nelle stazioni loro preparate ne’ luoghi di Paomia senza auer prima formalmente fatti quegli atti di sommissione, e di retrattazione che si ponno più desiderare per la perfetta riconciliazione con la Santa Sede, e che non possino esercitare colà liberamente la giurisdizione e riti per altro permessi senza 1’ autorizazione, e consenso del Sommo Pontefice. L’una e l’altra di queste parti s’è adempita nella Lettera che Mons. Partenio, et altri principali scrivono alla Santità Sua, onde possiamo credere eh’ ella debba sommamente godere dell’ acquisto, e lodare la pia attenzione della Repubblica in questa parte. Tanto più che la soddisfazione che tutti universalmente mostrano dell’elezio'ne fatta, e dell’accoglimento riceuuto, ci promette che fra brieve debbano queste famiglie esser seguitate da altre in molto maggior numero. Pure perchè taluolta in cotesta Corte si fa negotio sopra cose assai piane, e si consentono per grazie speciali que’ stessi Beneplaciti, che desiderano siano loro richiesti, abbiamo stimato accertato anche di senso de’ Nostri Colleghi, che per mezzo nostro sia portata a S. B. la lettera di cui vi si allega la copia anche nell’idioma latino, e che fatte a’ quest effetto le preuenzioni che giudicherete più opportune procuriate di far conoscere la qualità dell’ acquisto e del merito che in esso è douuto alla Repubblica, che con tanta cura e dispendio promuove quest’opera. Dourete pure accompagnar in Nome pubblico colle uostre le istanze che si portano dal Vescovo, sollecitandone la spedizione nella Congregazione a cui fossero rimesse. E perchè preuediamo che sopra due punti particolarmente potrà farsi qualche riparo abbiamo uoluto circa l’uno, e l’altro auuisarvi anticipatamente, ciò che vi occorre a’ fine che con breuità maggiore possano superarsi gli obici, e stringere le risoluzioni necessarie. La medesima difficoltà potrebbe nascere dal desiderio che si auesse per auuentura di non fissare giurisdizione di Prelato Greco, o d’ esercizio di quel Rito in parte doue ancora non è introdotto. Ma come è quasi impossibile mancar in questa parte alla fede del concerto, che tanto può contribuire alla soddisfazione de’Popoli, ed all’attrazione di nuovo con- GIORNALE LIGUSTICO 3é7 corso di essi ne’ Stati Catolici, altrettanto sarà facile 1’ andar disusando col tempo i costumi e riti originarij riduccndoli insensibilmente massime colla scuola latina, che si fa a’ ragazzi, de’ quali ne v’ è grandissimo numero, alla condizione naturale de’ Paesani, et osseruanza del rito latino, nè intanto può dubitarsi, che la conuersazione de’ Greci induca qualche errore fra’ Corsi, poiché sono collocati i primi in parte più di dieci miglia remota da villaggi de’ secondi, nè sono quelli tanto attaccati ad un particolar sentimento che non siano per esser docilissimi a quelli che loro fossero instillati, al qual effetto si procurerà di far andar colà frequentemente i PP. Missionarij, come non s’ è lasciato d’incaricarne il m. Matteo Giustiniano oriundo di Scio, che gli si manda per commercio. L’ altro punto, che potrebbe incontrare sarà quello della giurisdizione del Vescovo latino di Sagone in cui sarà fondata la Colonia, e douerà esercitarsi la giurisdizione: come però questa è su Popoli del tutto nuovi introdotti alla coltura di Paesi seluatici, non pare, che punto pregiudichino alle ragioni de) Vescovo, in parte doue non poteua auere nè soggetti, nè materia d’esercitarla. Tanto più che per quello riguarda 1’ interesse temporale egli nulla potrebbe pretendere, nè dalla nuova coltura, nè da nuovi abitatori quantunque latini mentre per Bolla espressa di Paulo Terzo vengono esentate da ogni Decima, et altra contribuzione verso la Chiesa tutte le nuove Colonie 0 culture che fossero dalla Repubblica introdotte nel Regno di Corsica, come uedrete dalla copia di essa, che pure si allega. Ben è uero che mutandosi come sopra si è detto a poco a poco le cose, deuono fondatamente sperarsi se non dal Vescovo presente, almeno da suoi successori molti beneficij straordinarij che ponno deriuare dalla dilatazione di questa Gente alla Mensa et alla Diocesi. Queste sono le considerazioni che di presente ci occorrono per riparo di quelle obbiezioni, che potessero esser fatte nella prima introduzione di questo affare, ma poiché non dubitiamo che tutte queste cose rappresentate dalla vostra destrezza et efficacia, non siano per far conoscere e stimare il vantaggio della Santa Sede, che col mezzo della Congregazione de propaganda impiega la sua sollecitudine molti operai, e molto danaro per poca parte solo d’ un simil acquisto. Vorremmo pure che al calore di esso fossero concedute alla Repubblica due picciole grazie, che senza il merito d’una tal opra sono godute in Italia da molti altri Principi. L’ una sarebbe quella di dichiarare questo nuovo Vescovo suffraganeo 368 GIORNALE LIGUSTICO di quel di Genova affinchè la dipendenza da questo Metropolitano possa meglio coadiuvare alla cultura di quelle anime. L’ altra che occorrendo eleggerne successore si faccia a nominazione della Repubblica non solo come fondatrice della nuova Mensa, ma come quella che ha obliga-zione d’invigilare particolarmente sopra questi nuovi sudditi, che per loro instituto dipendono anche nel governo delle loro cose temporali dal Vescovo. È superfluo s’aggiungano alla vostra attenzione altri ricordi per la buona condotta di questa faccenda, che può ogni giorno rendersi più considerabile nello stabilimento e nel numero ; et aspettiamo con desiderio raguaglio dell’ operato. La lettera per Sua Santità viene aperta, douvrete farvi far la sopra-scritta in greco o in latino, e sugellarla, acchiudendovi anche la copia latina. Genova, il dì 7 febbr. 1676. V. Gio. Luca Durazzo. Per Francesco D. III. J676, 16 aprile. — Lettera della Signoria di Genova al Vescovo di Sagone in Corsica, intorno il medesimo argomento. (Ibid, ibid.). Reverendissimo Monsignore Già abbiamo data notizia a V. S. R.”'a dell’ ammissione fatta de’ Greci per habitare i luoghi di Paomia, Salogna e Revida conforme le antiche deliberationi, prima d’ ora partecipate in nome nostro dal fu M. Carlo Eman. Durazzo all’ Onorevole Governatore e della trasmissione che si faccia per ora in Paomia di famiglie cento circa in n. di 600. teste o circa che col Vescovo, Calogeri et altri Ministri Ecclesiastici aueuano lasciato la Metropoli di Vitulo per venire a farsi sudditi della Nostra Repubblica. Per non ommettere in questa occasione fra le altre cure la principale che riguarda il culto di Dio e la purità della Religione, si fece che il Vescovo come si era prontamente esibito facesse un’ampia abiurazione non solo della soggezione al Patriarcato di Costantinopoli, ma di tutti gli errori che nella Chiesa greca si sono in varij tempi e luoghi insinuati rispetto a’ riti, come a’ dogmi ripugnanti alla uera credenza e disposizione de’ Concili). A questa abiurazione aggiunse umilissime suppliche al Pontefice per la sua confermazione e concessione de’ privileggij che sono consentiti dalla Chiesa Romana a’ Greci stabiliti ne’ GIORNALE LIGUSTICO 369 Paesi Cattolici, et all’ una e 1’ altra di queste parti ha compito con lettera diretta alla Santità Sua, e sottoscritta molti giorni prima della partenza del medesimo Vescovo Vicario, et altri Ministri ecclesiastici a nome anche di tutto il Popolo raccomandata a Roma dal nostro Segretario per presentarla ai piedi di S. B. Da questa preuenzione già uede V. S. R.”* il riguardo che si e auuto, perchè non solo sia costì professata la più sana ed intera dottrina, ma perchè non entrasse in codesto Regno il Vescovo suddetto prima di essere purgato da ogni ombra d’ errori, che per ragion del Pseudo Patriarca Suo metropolitano e del co-mercio de’ Greci più dogmatici con gl’ infetti d’ eresia potessero in qualche modo oscurare il candore della vera fede. S. Santità ha lodato il zelo della Repubblica, e gradito le espressioni del Vescovo trasmettendo 1 esame della lettera alla Congregazione de propaganda secondo il consueto. Potrebbe essere che dalla Congregazione medesima si ricercasse da V. S. R.“* qualche informazione sopra questa materia, e le qualità personali dello stesso Vescovo, e sebene non dubitiamo eh’ ella non sia per portare sentimenti in tutto uniformi a’ dettami et inclinazioni nostre tanto conferenti al bene spirituale et temporale di cotesta Provincia deserta pure non abbiamo uoluto lasciar di significarle colla presente più indiuidualmente quelle cose che ponno conferire alla nostra comune intenzione. Questo Prelato è molto auanzato in età, eletto da’ Monaci e fra’ Monaci secondo il consueto della Grecia, come il più religioso e venerato fra loro : concetto in cui si è mantenuto dopo la dignità e col quale si è conciliato l’amore e la riuerenza di tutto il Popolo. Ha qualche. danaro auanzato dalle elemosine di esso nell’ austerità della vita eh’ egli mena eguale in tutto a’ quella de’ Calogeri, e questo peculio è da lui destinato per lo rabbellimento e ristorazione della Chiesa e monastero, che aueua ornato in Vitulo con abbondanza di corredi molto onorevoli portati seco a quest’ uso. Egli non scuote decime da Popoli et è alimentato particolarmente da monaci, che secondo l’uso dell’ Asia s’impiegano tutti nella coltura a’ beneficio del loro Prelato. E se bene di presente non ne può sperar gran cosa la Chiesa di Sagone da cui deue uiuer separato sotto il Metropolitano di Genova, e sono liberate da ogni sorte di contribuzioni le popolazioni e coltivazioni introdotte dalla nostra Repubblica, secondo il priuilegio della Bolla di Paolo 30 concessole per codesto suo Regno, pure se considererà 1’ età molto auanzata del Vescovo, il comercio che accrescerà nella giurisdizione di Vico l’industria della nuova colonia, e la fecondità et abbondanza maggiore de’ campi Giorn? Ligustico. Anno X. 24 370 GIORNALE LIGUSTICO per ragione della coltura può la Chiesa di V. S. R."'1 sperare col tempo profitto non disprezzevole come succede nella Calabria e nella Sicilia non solo in riguardo delle anime che può acquistare, ma in riguardo ancora del temporale consecutiuo all’ acquisto di esse, et all’ uberti del Paese. Supponiamo che con queste considerazioni ella auerà il modo assai facile di ‘cooperare all’ inclinazione che mostrano in Roma di fauorire questi operai, e che al merito che se le accrescerà colla Repubblica s’ aggiungerà ancora quello che ne acquisterà presso la Corte sempre desiderosa di ueder spianate e non impedite le strade alle giuste sodisfazioni de Principi et acquisto de popoli smarriti per le dissensioni dello scisma. Intanto le auguriamo il colmo di tutte le contentezze. Genova il dì 16 aprile 1676. PER UN POETA Ironie della fortuna che fanno pensare. Dove Archiloco gettava lo scudo, fuggendo dalla battaglia, su quei piano istesso uliginoso e coperto di dense boscaglie sei secoli dopo la vecchia repubblica rofnana cadeva sotto i colpi dei legionari d’Ottavio e d’Antonio, e un ajfro poeta vi lasciava egli pure lo scudo, travolto nei passi amari della fuga. Taso infatti è collocata di fronte a Filippi ed è nell’isola di Taso che Archiloco ed il padre di lui Telesicle avevano guidata una colonia, sperando di trovarvi le montagne d’oro che la loro fervida fantasia aveva sognate. Vi trovarono in quella vece la povertà ed una vita esagitata : quindi i delusi s’ingegnavano di rifarsene invadendo le terre della vicina Tracia ed erano venuti alle prese coi Saii, una povera gente di razza pelasgica che Archiloco ed i suoi avranno probabilmente riguardata col profondo disprezzo che era proprio del greco per ogni popolo barbaro. Se Archiloco abbia mutata opinione dopo il pericoloso incontro non so, nè alcuno può sapere: certo egli narrava più tardi la sua avventura in un distico che il tempo invidioso al poeta ha risparmiato, e v’ha in GIORNALE LIGUSTICO 371 quel fugace ricordo molto ardimento e direi quasi cinismo di parole. « Qualcuno dei Saii va superbo del mio scudo, arma incolpabile che io lasciai, non volendo, entro un cespuglio. Ma con ciò io scansava il passo di morte. Vada in malora quello scudo : me ne procaccierò ben presto un altro che non valga meno » (fr. 6 Bergk). Si dà in questo fatto un riscontro curioso : tre poeti in tempi diversi gettano le armi abbandonando il campo della pugna e ciascuno dei tre non rifugge dalla vergognosa confessione. Possibile che essi fossero noncuranti di fama a tal segno da calunniare bruttamente se stessi e dichiararsi senz’appello codardi davanti alla storia ? Già il Trezza in un suo studio sopra Orazio scrisse eloquenti parole in difesa del Venosino (i). Ed in somma l’illustre critico vuol dimostrare e dimostra che i famosi versi di Orazio: «......celerem fugam Sensi, relieta non bene parmula » - (2). non significano punto eh’ egli in quel giorno non abbia com- ^ battuto, bensì eh’ egli abbandonò lo scudo solo allorquando vide che tutto era perduto e la grande anima repubblicana spenta per sempre su quell’infousto piano di Tracia — ed infine che le parole del poeta rivelano ad un tempo com’ egli sentisse dolorosamente la fuga. Il punto di veduta dal quale si pone il Trezza è nuovo ed ingegnoso ed il metodo scientifico ch’egli reca nell’esame dell’Autore da lui studiato con lungo amore, feconda mirabilmente quelle parti su cui la solita critica estetica era passata cieca ed insipiente. Ma per lo (1) G. Trezza ; Studi Critici- Drucker e Tedeschi 1878. (2) Orazio, Od. II, 7, v. 9. 372 % GIORNALE LIGUSTICO scopo mio, qui, importa rilevare il diverso linguaggio tenuto dai tre poeti nel confessarsi della medesima colpa. Archiloco, che è anche reo del brutto esempio perchè primo in ordine di tempo, già abbiamo sentito. Alcuni anni dopo il più grande dei lirici Eolii, Alceo combattendo contro gli Ateniesi per il possesso del contrastato Sigeo è respinto anch’esso in malo modo ed ha per ventura di lasciarvi le armi e di uscirne salvo ed ignudo. Si direbbe ch’egli ponga una certa vanagloria la quale a noi non riesce di capire nel bandirlo coram, populo. «' Annuncia, o araldo alla patria. Alceo è scampato dalla battaglia, ma non le armi di lui: gli Ateniesi appesero il povero arnese di guerra alla sacra casa della dea Glaucopide ». Forse a lui questo linguaggio, dove non sai se abbia maggior parte il disprezzo, o un ricordo doloroso, era dettato dalla coscienza del prode che sente per non dubbie prove essere al di sopra d’ ogni sospetto di viltà. E codesta fama lo proseguì presso i posteri che raffigurarono il cittadino di Lesbo modulante il plettro d’oro, quando uscito allora dalla battaglia, riteneva ancora nel volto la ferocia guerriera, ovvero la combattuta nave dopo molti pericoli aveva legata al lido: « ferox bello, tamen inter arma, sive iactatam religarat udo litore navim » (i). Una congettura certamente è consentita dalle sue stesse parole ed è che quantunque il fatto accadesse nei primi anni della sua agitata vita cittadina, tuttavia fin d’allora non doveva più essere confuso tra gli oscuri, se gli Ateniesi avevano appeso in trionfo quelle armi nel tempio di Minerva a-1 Sigeo. (i) Hor. I, 32. v. 5 segg. GIORNALE LIGUSTICO 373 II. Ma non è del poeta di Mitilene ch’io voglio ora parlare. Si richiederebbe per ciò uno speciale discorso sulla natura degli Eoli che non è di questo luogo. Mi termerò invece ad Archiloco in difesa del quale nessuno finora, che io sappia, disse una parola. Il maggior numero dei critici, a me noti, citano il fatto senza parola di condanna, ma nè anche di giustificazione, i meno riguardosi lo tacciano senza molti complimenti di viltà. Eppure la singolarità di quel linguaggio, tanto più singolare ove si ricordi la temeraria natura del poeta e si metta a riscontro coll’amabile ipocrisia del Veno-sino, doveva indurre, mi pare, qualche dubbio nell’animo dei giudici e persuadere a più pacata sentenza. Orazio attenua a più potere il fatto, o piuttosto come osserva il Trezza, lo riduce ad una celia, graduandone con si fine accorgimento le circostanze eh’ egli ne esce scolpato. Ma in Archiloco punto sfumature, punto studio di giustificare se stesso, se non si voglia trovarne un fugace indizio nel άμώμητον, sen^a macchia, riferito allo scudo e in quel non volendo che chiude il primo distico e forse ricorda l’audace viso da lui opposto alla fortuna, forse. Per altro il cinico linguaggio degli ultimi due versi distrugge il buon effetto che poteva esser prodotto dai primi. Ora, come concordarli colla militare baldanza che spira, per un esempio, dai seguenti: « Nella guerra, a me la focaccia impastata d’orzo, nella guerra il vino ismario; nella lotta tuffato io bevo » ? (fr. 3 Bergk) — o coll’ardita affermazione, di questo frammento: « Io sono il servitore del dio delle battaglie e conosco l’amabile dono delle Muse » ? (fr. 1 B). E si pensi anche alla gloriosa fama di Archiloco per cui i posteri celebravano il suo giorno natalizio non meno solen- 374 GIORNALE LIGUSTICO nemente di quello d’Omero ed alla tradizione che lo diceva caduto combattendo nell’assedio di Nasso. Tradizione forse favolosa; ma la morfologia storica nata a’ giorni nostri cerca anche nella leggenda il fondo di verità che vi è involuto. Ora se io sarò riuscito a chiarire ciò che era sembrato ai più incomprensibile, lascerò giudice il lettore che gli antichi con lodevole abitudine chiamavano candido. O. Miiller ha dimostrata luminosamente l’origine della poesia Archilochea che balzata con petulanza giovanile da’ maestosi panneggiamenti dell’epopea teneva del prodigio. « Se noi riflettiamo, dice il Miiller, che secoudo la testimonianza delPOmeride autore dell’inno a Demetra, l’isola di Paros, patria di Archiloco passava dopo Eieusi per il soggiorno preferito di questa dea e di Cora, che la colonia paria di Taso onde il poeta faceva parte riputava il culto di Demetra come importantissimo, che Archiloco stesso fu vincitore in un concorso per un suo inno alla dea e dedicò una serie de’ suoi poemi al culto di Demetra e di Bacco che le viene cosi da presso, noi non potremo dubitare che non sia stato un siffatto costume che diede occasione ad Archiloco di dimostrarsi co’ suoi fieri giambi cui non si sarebbe potuto assegnare altro tempo, nè altro luogo nei costumi greci, e di trasformare col suo ingegno potente le canzoni mordaci fin allora improvvisate a caso, senz’arte nè riflessione in un genere nuovo di poesia che conservò il primitivo nome di giambo » (i). È appunto su codesto culto delle due dee ctoniche ch’io vorrei fermare l’attenzione dei lettori perchè con esso, o io m’inganno, potremo darci ragione delle discordanze, solo apparenti, nella poesia archilochea. (i) O. Miiller; Storia della Lett. Greca. Traduz. deH’Hillebrand con note Compì. GIORNALE LIGUSTICO 375 III. Dopo che il Lobeck nel suo Aglaophamus menò cosi terribilmente il flagello, i misteri eleusini hanno molto perduto dell’importanza che era loro attribuita. I voli fantastici di Warburton, di Sainte-Croix, di Creuzer, per cui codesti eruditi pretesero scoprire nei misteri un’anticipazione delle dottrine monoteistiche più pure, sono sfatati. Pare certo ormai che anche i misteri eleusini consentissero alla tendenza particolare agli Arii e di cui 1’ ellenismo era il più fedele rappresentante; ossia', non si usciva dal politeismo mitologico onde originò quell’Olimpo che rimane e rimarrà, malgrado le mutate credenze, il paradiso della bellezza. Le sublimi rivelazioni di cui si è tanto parlato si riducevano senza dubbio ad un apparato teatrale fatto per colpire i sensi e la fantasia di un popolo nell’ infanzia. Ma se questo deve dirsi segnata-mente dell’ età di Archiloco quando i misteri eleusini non dovevano molto differire dalla prima istituzione degli Eumol-pidi, è anche vero che il divino riso di Omero era finito per sempre e la coscienza piegandosi sopra se stessa sembrava verso questo tempo acquistare un sentimento più profondo della vita: si approfondiva facendosi più doloroso. Inoltre le dottrine dell’immortalità dell’anima e delle ricompense che aspettano oltre tomba l’uomo pio erano partè essenziale del culto di Demetra e Cora e dovevano quindi sebbene non insegnate dogmaticamente, aver molta parte nei loro misteri (i). Non voglio dire con ciò che l’Orfismo e la conseguente corrente mistica della quale fa splendida ed insieme triste testimonianza il Fedone fosse già entrata nella (i) V. Essais de Critique et d’histoire par Leo Joubert. Paris, Firmili Didot pag. 137. 376 GIORNALE LIGUSTICO religione e nella coscienza greca (i). Per ora non sono che presentimenti indefiniti, intermittenze malinconiche in quella vita lieta di fanciulli spensierati e sani. La natura greca è sempre quale stupendamente la tratteggiava il Renan : « è una razza vivace, serena, leggiera: manca in essa quel non so che di vago, di tenero, di mollemente muliebre che è dei moderni, vi manca la profondità del sentimento religioso che è dei Tedeschi e dei Celti » (2). E ciò nondimeno possiamo e dobbiamo fin d’ora tener conto di codesto notevole risveglio della coscienza umana. Un ardore titanico di rivolte che armerà più tardi il rostro all’avoltoio prometeo ed insieme un’irrequietezza giovanile nel tentare l’oscura ragione delle cose, onde scaturiranno tutte le demenze ascetiche dell’avvenire, pervade lento il mondo greco. E quando ancora sotto quel cielo luminoso l’armonia dell’Omeride saliva riposata e serena alle case degli immortali, il grido interiore delle anime annunciava un’età nuova, chiudeva per sempre il ciclo delle epopee. Due secoli dopo Pindaro darà consistenza poetica alla dottrina della palingenesi che solo molto più tardi doveva erigersi a speculazione filosofica sotto i portici d’Accadendo. Ecco il frammento di Pindaro : — « Coloro poi che Proserpina ha lavato delle antiche macchie, in capo a nove anni ella rimanda le loro anime a rivedere di sopra il sole : da co-deste anime nascono dei re illustri, degli uomini invitti per (1) Alfredo Croiset nel suo stupendo studio: La poesie de Pindare, Paris, Hachette 1880 a pag. 205 e passim fa risalire le origini dell’or-fisino e del pitagorismo e dei misteri assai più indietro, cioè tra l’ottavo e il decimo secolo. Ma egli segue in questo le opinioni del Girard, Le sentiment rê-ligieux en Grece d’Homère à Eschyle, che forse dal suo argomento fu tratto ad esagerare oltremodo l’importanza della corrente orfica. (2) Saint Paul, par Ernest Renan, p. 202. GIORNALE LIGUSTICO 377 la loro forza, o eccellenti per la loro sapienza e dopo morte essi sono onorati dagli uomini come eroi » — (fr. no B). L· una prova incontrastabile che certe tetre meditazioni sul destino umano importate per gran parte dall’oriente erano verso quest’epoca molto progredite. Un vento di audaci innovazioni percuote le alte cime del mondo Omerico : i vecchi dei impallidiscono e in quel regno degli spiriti si dimostra sopra tutti ardito viaggiatore il genio ionico. Fugaci accenni, mi si osserverà, note discordanti nell’allegra sinfonia della vita. Nè io dico altrimenti, nè la religiosità stessa di Pindaro era tale e tanta ch’egli si mostrasse poi soverchio entusiasta degli ardui problemi d’oltretomba, Ma per la mia dimostrazione rileva il fatto, non la sua continuità. Frattanto se anche nel trattare di Archiloco, io chiederò si tenga conto della malinconia greca, nessuno vorrà farne grande meraviglia, quando di codesta malinconia le prove evidenti sono numerose. Non cito Omero nè Esiodo nei quali già se ne potrebbero scoprire frequenti indizii, e mi fermerò invece ad un altro ionio quasi contemporaneo di Archiloco, al poeta Mimnermo. Fioriva circa nel 630 av. ΓΕ. V. Si può dire che la poesia di questo greco sia tutto un lamento sconsolato sulla caducità della vita e sui mali che entro così breve corso affliggono 1’ uomo : — « Noi come le foglie, produce la stagione della fiorita primavera, quando d’uri tratto esse verdeggiano sotto il fiammante sole. A queste simili, per breve tempo ci rallegriamo del fiore della gioventù, dagli dei non imparando nè il male, nè il bene. Ma le negre Parche si fanno da presso e l’una ha il termine della fastidiosa vecchiezza, l’altra della vita. E il fiore di giovinezza un momento dura, tanto appunto quanto il sole si diffonde sulla terra. Ma non appena questo termine è passato, il morire vale assai meglio che il vivere » (fr. 2 B). 378 GIORNALE LIGUSTICO Però la vecchiezza lo spaventa: — « Subito a me per tutta la persona corre un infinito sudore e sono spaventato osservando il fiore della giovinezza amabile e bello che dovrebbe essere più durevole. Ma come un breve sogno passa la giovinezza preziosa: la grave e deforme vecchiaia pende subito sul capo, nemica ad un punto ed inonorata » (fr. 5 B). « Chi vorrebbe mai sopportarla, essa che è più fredda della morte e rende il padre odioso ai figli,Tamico odioso all’amico? (cf. fr. 3, 4. B). Da Mimnermo a Menandro ritorna frequente nei poeti greci questo pensiero : e Muor giovine chi è caro agli Dei ». IV. Un grande ed infelice moderno lamentando egli pure il caro lume di gioventù che presto dilegua, riparava per cercare qualche conforto in una desolante dottrina della vita eh’ egli consegnò documento e splendida protesta insieme nell’ ultimo suo canto : La ginestra. Ma la natura greca era al tutto diversa, nè lo spirito umano a quei tempi era per anco passato attraverso le molteplici evoluzioni e rivoluzioni onde uscì il nostro profondamente modificato. Se la vita ha molti mali, i doni dell’aurea Afrodite possono però rallegrarla. — « Ch'io muoia, grida Mimnermo, quando a' me queste cose più non importino, il celato amore e i soavi doni e il letto: soltanto il fiore di giovinezza è avidamente cercato dagli uomini e dalle donne » — (fr. 1 B). Nè il molle ionio era solo in quest’inno innalzato al piacere; chè anzi l’intonazione era generale ed anche i più animosi nella lotta non parevano da meno nel celebrare i godimenti della vita. — « Beviamo, tona allegramente Alceo tra le tazze del simposio, perchè aspettare la lampada? il giorno è lungo GIORNALE LIGUSTICO 379 un dito; solleva in alto il cratère, imperocché il figlio di Semele e di Giove diede agli uomini il vino che acquieta le cure » — (fr. 41 B). — « InafEa i polmoni di vino, però che 1 astro compisce ormai il suo giro e nell’afa ogni cosa muor di sete sotto la vampa. Cauta la cicala tra le foglie e di sotto l’ali diffonde il fervido canto. ... E il cardo è in fiore; ora le donne sono più perfide, ma fiacchi gli uomini poiché Sirio offende il capo e le ginocchia » (fr. 39 B)· Archiloco, lo vedremo fra poco, non ebbe un diverso concetto delle sorti umane, per quanto è dato congetturare dagli scarsi frammenti a noi pervenuti. Indole risentita, egli senza dubbio non conservò sempre nei suoi atti la sapiente misura che era del genio dorico e di cui Pindaro ci fa splendida testimonianza. Ma forse il poeta di Paros cercava innanzi tutto di compiacere a sé stesso, nè si dava troppo pensiero se talvolta trasmodava : il fiore dell’ amore e dell’ odio si apriva ardente del pari nella sua anima e le fragranze non celate invadevano le vene di un senso voluttuoso e letale. Il grande tebano aveva di lui un’ opinione poco cortese e s’augurava di non rassomigliargli, perchè concludeva, sebbene lontano nel tempo, io vidi l’atrabiliare Archiloco vivere quasi sempre nella miseria e nell’ affanno. — Eppure egli 3 l’iroso poeta, prima di Saffo, dipingeva con una caldezza d’accento che s’avvicina al delirio della Mitilenese, le sensazioni tumultuose destate in lui dalla vista dell’ amata fanciulla. — « Il desiderio appassionato che cova in petto gli diffonde sugli occhi una densa caligine, lo priva dell’ inferma ragione, lo prostra in un voluttuoso languore » (fr. 103 B) vorrebbe sfiorare la mano di Neobulina (fr. 71 B), sfiorare la chioma che le adombra nereggiando i candidi omeri ». — E altrove : « Io misero e perduto mi profondo nell’amore per volere degli dei, ed ho le ossa trafitte da gravi dolori. O amico, 380 GIORNALE LIGUSTICO l’amore mi prostra il corpo e mi consuma » (fr. 84, 85 B) — Siamo assai lontani dalle terribili saette a Licambe che ritornano a mente non appena cada parola di Archiloco, ma forse che delle molteplici faccie, onde va composto il poliedro umano, s’ha da considerarne sempre una sola ? E quando il cuore stanco dell’ire desiderava riposare in un affetto siculo, che gli sarà sembrato allora l’affannoso agitarsi della gente greca e l’invidia che separava terra da terra, cittadini da cittadini ? — « Uomini d’un giorno che siamo? che non siamo? sogno d’un’ombra l’uomo » (Pit. Vili, v. 95, 97)· Anche non possedendo la religiosità di Pindaro, codesto sentimento dovette essere assai comune agli uomini del VII secolo innanzi Γ era volgare. E mentre gli spiriti si volgevano cupidi al premio che le venerande dee promettevano nella seconda vita ai loro devoti, il sentimento poetico e sopra tutto armonico della realtà diffondeva un dolce oblio sui danni inevitabili nella presente. Però il nostro ionio in tale disposizione d’animo faceva proponimento di recare la moderazione ne suoi desiderii e di lasciare il resto agli dei: consape\ole della tragica lotta combattuta dai mortali, egli -si rassegna al destino : « Gli dei, o amico, riposero nella forte pazienza il farmaco ai mali incurabili » (fr. 9 B). Ma la sua rassegnazione è virile; in alcuni istanti la direste lucreziana : « O animo, o animo da ineffabili crucci esagitato, soffri, resisti, opponendo un forte petto; tra Γinsidie dei nemici piantati incrollabile, nè ti gloriare troppo se n’esci vincitore, se vinto non gemere, nascondendoti in casa; ma godi delle cose liete, dell’avverse non t’affliggere soverchio e impara qual sorte governi gli uomini (fr. 66 B.). Se l’anima varcando il negro flutto d’Ade discenderà a crucciarsi nel tartaro, 0 sarà condotta nei prati cosparsi d a-sfodillo a conversare cogli illustri morti e cogli eroi coro- GIORNALE LIGUSTICO nati di mirto, questo è ciò che rivelerà il ierofante all’ iniziato nei misteri. « Quisque suos patimur Manes: exinde per amplum Mittimur Elysium et pauci laeta arva tenemus » (i). Ma le dottrine e i riti religiosi e quanto v’era di simbolico nelle feste eleusinie, tutto prometteva ai partecipi degli augusti misteri la beatitudine oltretomba. Ancora suonavano sotto le volte del tempio i versi deH’omeride che riassumevano le speranze immortali: « Felice fra gli uomini colui che vide queste cose. Chi iniziato non fu ai sacri riti, nè vi partecipa, colui nulla mai di simile godrà e morto sarà sospinto nel limo e nelle tenebre eterne » (2). • V. L’ora solenne (i misteri eleusini tutti sanno che si celebravano di notte) la folla immensa, l’onda sonora che vaniva via per l’alto e la luce abbagliante, che inondava il santuario, avranno accresciuto, non v’ha dubbio, la venerazione profonda che i devoti sentivano per le due dee. L’austera bellezza di quel culto, segnatamente se si metta a riscontro col sensualismo dominante nell’adorazione per Afrodite, o coll’osceno tripudio delle baccanti nelle feste dionisie; — culto gentile in cui la donna veniva sottratta alle debolezze terrene e per poco idealizzata — doveva operare efficacemente a serenare gli animi, a conferire un misurato entusiasmo e nella tempra greca armonico, per cui consapevoli del di là recavano un giudizio più equo e pacato sul valore dell’umana esistenza. « Ho digiunato, diceva facendosi sulla porta del tempio (1) Virg. En. VI, v. 746, 747. (2) Hymn. in Cerer. v. 480, 82. 382 GIORNALE LIGUSTICO l’iniziato, ho bevuto il Ciceone, l’ho tolto dalla cista (i) e assaggiatone 1’ ho riposto nel calato e da questo nella cista di nuovo ». Era la formula rituale. La creta terrena doveva purificarsi con bagni e con digiuni e rendersi degna così di aver parte nel dolore di Demetra che pareva il pianto del mondo naufragato nelle tenebre. Ma nell’ ottavo giorno bevuto il liquore melato simboleggiante il passaggio dalla tristezza alla gioia, ogni mestizia era messa da ,banda e le mense frequenti e la gioia spensierata del comos invitavano all’arguzia alata ed al frizzo. Riassumo e temo di esser già stato troppo lungo. Io mi studiai con questa lunga serie di indizii e di attitudini del genio greco dimostrare che indubitatamente l’animo dei convenuti ai misteri eleusini doveva essere in una speciale disposizione, quando essi raccogliendosi in più stretta compagnia dentro una λέσχη davano la via a tutte le fantasie e i capricci del loro ingegno sbrigliato e leggiero. Le promesse future che si tenevano infallibili e più di tutto il soddisfatto desiderio di aver penetrato quell’arcano involuto per gli altri mortali in una caligine profonda, dovevano indurre sul viso e^ nella coscienza la balda sicurezza di chi sa il mistero delle cose e non più ludibrio di risibili fole si ' è messo sotto i piedi il timore d’Acheronte. Di qui lo scherno mordace cui accennano, ragionando dei misteri, tutti gli scrittori^greci e per tutti il grandissimo Aristofane; (cf. Rane v. 316 e seg.) di qui la prima origine dei giambi archilochei. Ma di un altro fatto ancora è- d’uopo tener conto. La malinconia già pervadente la società greca, segno di incominciate, o imminenti rivoluzioni della coscienza, non poteva non far sentire i suoi effetti su chi aveva l’anima ancor (1) Cista (κίστη) mistica usato nei riti di Cerere e Bacco; il calathus (κάλαθ·ος) era una tazza da bere. GIORNALE LIGUSTICO 383 vibrante di un’ alta commozione. Anche fra mezzo il lieto acciottolio delle tazze, negli intervalli che il pensiero si ripiega sopra se stesso, dovette essere assai vivo il sentimento della vanità di ogni cosa umana. Quindi il concludere che era follia il tanto affaticarsi per un bene incerto e fuggitivo. « Non l’oro di Gigi mi sta a cuore, diceva con amabile ironia Archiloco, nè desio alcuno di cumulare m’invase mai, nè porto invidia all’opere degli dei e neppure desidero un grande principato che è troppo lontano da’ miei occhi » (fr. 25 B). Conseguente a codesto concetto della vita, egli giungerà fino al nil admirari degli epicurei. « Fra tutte le cose, nessuna ve n’ ha fuor di speranza, nessuna impossibile, nessuna meravigliosa. Poiché Giove, padre dei celesti, dal meriggio trasse talora la notte, occultando la luce del radiante sole, e triste paura invase il cuore degli uomini. Perciò credibili diventano ai mortali anche le insperabili cose, nè più alcuno di voi si ammiri se guardando veda le fiere mutare coi delfini i marini pascoli e a quelle esser più grato il flutto del sonante mare che la terra ferma, a queste il monte » (1) (74 B.). Giustamente osservava il Taine (2) che molte frasi e sentenze degli antichi non hanno più per noi il valore d’una volta, proprio come avviene delle monete logore per il lungo uso. A chi è avvezzo al criticismo dominante oggigiorno co-desti parranno luoghi comuni e tali sono : ma si collochi alla distanza di venticinque secoli e ricordi che Archiloco la pentì) Orazio nell’Ep. I, 6, v. 1 e seg. parafrasava il nostro : « Nil admirari prope res est una, Numici Solaque quae possit facere et servare leatum i> etc. etc. (2) H. Taine, Philosophie de l’Art. en Grece. 384 GIORNALE LIGUSTICO sava così, quando l’Olimpo dJ Omero e d’Esiodo era ancor molto presso alla terra e gli dei si compiacevano di frequenti tu per tu coi mortali — e allora converrà forse con me che i luoghi comuni d’oggi rappresentavano allora le audacie della ragione. Un altro tratto e non dei meno rilevanti a delineare la natura del poeta. Muore annegato in mare il marito di sua sorella: certo egli avrà pianto la domestica sventura, ma non perciò vuole punto mutare il solito tenore di vita « però che, egli dice in un breve fr. pervenutoci, nè piangendo risanerò cosa alcuna, nè la farò più triste, se anche attendo agli scherzi ed ai conviti » (fr. 13 B). VI. Per chi giudicava così alla libera del principio e del fine della vita, cosa doveva parere la miserabile avventura dello scudo ? Non era egli il servitore di Enialio, lo strenuo guerriero le cui prove di valore contro quei poveri nipoti degli antichi Pelasgi erano note ad ognuno ? E doveva egli per un subitaneo rovescio della fortuna buttarsi per perduto, affrettare il passo che era prefinito dal destino e provocare la Parca che a suo tempo lo coglierebbe, anche non provocata? Nè egli pensava ritrarsi in oscuro e beato ozio al pari di Orazio e se anche l’avesse voluto, — forse, anzi senza forse, Archiloco non contava tra’ suoi amici un Mecenate che lo regalasse di un podere Sabino. Una virtù di mezzo era sufficiente per allora, in attesa che la Fortuna, volubile dea, offrisse il destro di vendicare la ingiuria. — « Vada in malora quello scudo, me ne procaccierò ben tosto un altro e non più cattivo di quello » — Ed ecco, come stabilita 1 origine dei frammenti elegiaci, nati essi pure come i giambi a mensa, e data una scorsa sui caratteri speciali a quel clima storico, GIORNALE LIGUSTICO 385 ogni discordanza tra il fr. elegiaco citato e il restante della poesia Archilochea, viene tolta. A me riesce quindi impossibile di convenire nella severa sentenza recata dal Centofanti: « Se non che fu vergogna a questo poeta guerriero P aver gettato lo scudo per cercare la salvezza nella fuga e al dolore dell’infamia egli male s'argomentò d’involarsi confessando con falsa superiorità di spirito, cioè immorale indifferenza, la sua viltà » (1) Viltà, nè egli la credeva, nè alcuno degli amici cui nell’ebbra gioia del còmos egli recitava quei versi. Non sarebbe congettura avventata l’aggiungere, che nessuno de’ contemporanei suoi concittadini proferì giudizio siffatto sulla condotta di Archiloco. Plutarco (2) narra che venuto una volta il nostro Ionio a Lacedemone — « quei severi cittadini immediatamente lo cacciarono, perchè temevano i pericolosi· esempi di un poeta che apertamente professava: esser meglio gettar le armi che morire » — Altri che faccia memoria di qnesto fatto prima di Plutarco non c’è, che io sappia, e per quanta fede si meriti l’illustre biografo di Cheronea, è anche vero che non tutti gli aneddoti da lui raccontati provengono da una fonte storica molto attendibile; più vero poi che egli viveva parecchi secoli più tardi, e tutti sanno la tendenza dei Greci alla leggenda, quando essa segnatamente poteva lusingare certi orgogli di razza. Ma poniamo che sia : chi non conosce il profondo divario che intercedeva fra il genio dorico e il jonio? e come i primi vedessero la vita sotto un aspetto che era molto e molto diverso da quello sotto cui la raffiguravano i secondi ? E per concludere: io mi scrivo ben volentieri fra coloro (1) S. Centofanti. La lett. greca, Firenze 1870 V. unico p. 62. (2) Plut. Costumi antichi degli Spartani. Giorn. Ligustico Anno X. 2$ 386 GIORNALE LIGUSTICO che sono pieni di venerazione per un popolo, il quale anche fra il giocondo oblio del convito, sapeva intonare uno scolio come il seguente : » È a me tesoro grande l’asta » — ma non pare anche al lettore che le parole di Plutarco vogliano dir molto se non in favore di Archiloco, almeno contro la rigida virtù di Lacedemone ? « Temevano i pericolosi esempi etc. etc. ». La storia ci avverte che quei timori non furono sempre infondati. Carlo Braggio. VARIETÀ TOMMASO MARINO. Nel primo fascicolo dell’ Archivio Storico Lombardo per 1 annata corrente, il signor Tommaso Sandonnini ha pubblicato un articolo su Tommaso Marino mercante genovese; il quale non è propriamente uno studio sul celebre finanziere, come il titolo parrebbe darne impromessa, ma soltanto una spigolatura delle notizie che a proposito del Marino s’incontrano nella inedita corrispondenza di Tommaso Zerbinati ambasciatore del duca di Ferrara in Milano. Ad ogni modo, e benché sia presto veduto come 1’ autore non siasi nemmanco accinto con sufficiente preparazione al lavoro, non si vuol disconoscere eh’ egli ha reso con questa un discreto servigio agli studiosi. Tommaso Marino andò a Milano circa il 1525; dove assunta l’impresa lucrosissima del sale, entrò per cagione di questa in relazione con molti Stati d’ Italia, ed acquistò in breve tali dovizie da passare nella comune estimazione pel mercante più ricco de’ tempi suoi. Or che la immensa e sùbita fortuna svegliasse in lui una sconfinata ambizione di vi- GIORNALE LIGUSTICO 387 vere da gran signore e di rassegnarsi nel novero dei titolati, ella è cosa che facilmente si spiega colle costumanze di tutti i tempi; ma nè il Sandonnini nè altri vengano poi a rappresentarci il Marino come spasimante di un seggio nel semplice « ceto patrizio ». A questo egli apparteneva di già in patria, ed a questo si era iscritto pel primo il suo bisavolo Luchino Castagna nel 1458, inalbergandosi (come dicevano) tra i De Marini nobilissimi, di origine viscontile. Pur troppo è vero che il fasto e la vita scioperata fecero in breve precipitare la famiglia di Tommaso, « per cui più che della acquistata grandezza rimase memoria della totale sua ruina ». — Il Marino avea comperato dal Governo spa-gnuolo il marchesato di Casalmaggiore, e più tardi il ducato di Terranova; ma ebbe quivi ostinati avversari gli abitanti, i quali ancora nel 1563 non volevano riconoscerlo e giurargli la fedeltà; e, secondo scrive il Zerbinati, aveano « fatto intendere al Signor Duca di Sessa (governatore di Milano) che non lo faranno mai ». Nè si può negare che fosse un po’ speciosa la ragione allegata; protestando essi « che quando S. E. gli avesse venduti ad un signore che non fosse da meno di lui, che lo accetteriano et fariano quanto convenisse; ma che havéndogli venduti ad un mercante, che non 10 acconsenteriano già mai ». Di qui pertanto fra il Duca e il Marino originossi una lite; la quale si dovrebbe credere finita di poi con la perdita di quest’ultimo, stando all’osservazione del Sandonnini, che cioè dopo il riferito dispaccio (7 apr. 1563) 11 Zerbinati « scrisse sempre il signor Tommaso Marino- e mai il duca di Terranova, come prima chiamavaio non di rado: qualifica che pure non gli viene data nelle minute di lettere a lui indirizzate, le quali conservansi nell’ archivio di Stato di Modena ». — Se fossimo certi che Γ osservazione non viene contraddetta da altri documenti, si potrebbe dunque ritenere che la medaglia senza data incisa dal valentissimo 388 GIORNALE LIGUSTICO Pier Paolo Galeotti, col busto del Marino attorniato dalla leggenda dvx terraenovae, sia anteriore al citato anno 1563. Già sotto il governo di Ferrante Gonzaga aveva il Marino acquistate molte rendite dalla regia camera, sborsando una grossa somma in conto del prezzo, e confessando per la restante un debito il quale nel 1561 ascendeva alla enorme cifra di un milione e trecento mila scudi ed era imposto del-P onere gravosissimo del 12 per cento. « Ciò aveva alquanto dissestato il Marino, cui forse sempre crescevano (i debiti) per le opere splendide incominciate, e pel fasto principesco col quale viveva ». Gli era adunque forza in quest’ anno di interrompere i lavori del famoso palazzo eh’ egli avea preso a costrurre in Milano coi disegni di Galeazzo Alessi, e che oggi ancora serba vivo il nome del suo fondatore; poi trasferitosi alla corte di Filippo II, ne otteneva patti meno onerosi. E subito da Madrid scriveva ai propri agenti in Milano, perchè ripigliassero le opere intramesse nel suo palatio ; il quale finito (cosi il Zerbinati) sarà, credo, il più bello che si trovi in Cristianità, e costeragli un po^o d’ oro. Il ritorno del Marino nella capitale lombarda fu un piccolo trionfo, per P accoglimento fattogli dai molti aderenti e da tutti i genovesi ché ivi dimoravano, specialmente per cagione di traffico. I figli di lui gareggiarono ben presto cogli altri nobili in sontuosità e potenza; e perchè « non vi era famiglia nobile e ricca, la quale non ambisse proteggere.... banditi e facinorosi », Andrea e Nicolò di Tommaso Marino vollero aneli’ essi far pompa del sinistro privilegio, « e parecchi scellerati trovarono presso di loro sicura protezione ». Fra gli altri, appunto nel palazzo del Marino, grazie all’amicizia di Andrea, ebbe rifugio il modenese Lanfranco Fontana, bandito famoso, che il duca di Ferrara bramava assai di aver nelle mani. Ma, ciò che vai meglio, i più nobili casati ambirono pure GIORNALE LIGUSTICO 389 di imparentarsi colla famiglia del Marino: Nicola sposò Luigia Maria di Mendozza, principalissima spagnuola; Clara e Virginia, sorelle di lui, si maritarono la prima col conte Manfredo l'orniello, la seconda con Ercole Pio signore di Sassuolo, pel quale negoziò il parentado nientemeno che il duca Emanuele Filiberto di Savoia. Già s’intende, non occorreva che i giovani si vedessero e si piacessero ; e fu tanto di guadagnato se il padre della fanciulla accondiscese alla richiesta dello sposo prescelto di fargliela almeno vedere un giorno di festa alla messa in una certa villa dei dintorni di Milano. — Il Zerbinati, compagno al Pio in questo viaggio d’ esplorazione, scriveva poscia al suo padrone questi ragguagli: La signora pnò havere circa venti anni, (è) di onesta belle^a, di assai buona vitta disposta et ben compressa, (ha) dui begli occhi et forte allegri et mostra d’essere accorta et ben creata. Credo che potrà stare fra le gentildonne et signore di Ferrara, altro non ha salvo essere un poco bruna, la qual cosa non gli sta male, an^i gli dà gratia; di sorte che non solamente li è piaciuta al signor Ercole, ma credo ne sia rimasto mezzo innamorato. Manco male ! Queste cose ripete ancora il Zerbinati ad Alfonso II, descrivendo le nozze celebrate solennemente in Milano il 17 febbraio 1562; le quali di certo avrebbero consolidata la grandezza del Marino, se la casa di lui a breve andare non fosse stata contaminata da due atroci delitti. Perchè 1’ odio profondo che divorava in segreto i fratelli Andrea e Nicolò non tardò a scoppiare, avendo il primo ucciso un servo favorito e confidente del secondo, e causa precipua (al dire del Zerbinati) di quelle loro dissensioni. Trattandosi di un omicidio volgare, potevasi credere che la giustizia non se ne sarebbe data pensiero, od almanco non avrebbe troppo aggravata la mano sull uccisore: ma fu lo stesso Nicolò, che anelando alla vendetta non diede quar- 390 GIORNALE LIGUSTICO tiere al fratello, e gli levò contro uno sciame di dottori e e procuratori, cercando farlo bandire: per il che (concludeva il Zerbinati) veggio prepararsi una gran mina a quella casa. Gli convenne costituirsi in prigione; poi ne uscì con malleveria di 25,000 scudi, sborsata per lui dalla generosità del cognato Ercole Pio. « Non era ancora dimenticata questa scena di sangue » allorché Nicolò uccise la propria moglie, a quanto sembra, per gelosia; ma nel carteggio dell’ oratore estense manca il dispaccio, nel quale si narravano al duca di Ferrara i particolari del fatto, non bene chiariti sin qui per altri documenti. Anzi vi hanno scrittori i quali, equivocando sui per-sonaggi della domestica tragedia, affermano che Γ uccisore fosse Tommaso e la donna uccisa una Cornaro che gli dànno per moglie, e dal luttuoso avvenimento derivano le origini della leggenda milanese: Ara bell’ ara Discesa Cornar a, Dall’ or del fin ! Del Cont Marin, ecc. Ma la moglie del vecchio Marino (se non fallano le genealogie del Buonarroti) fu Pellina dei Lomellini ; e retta-mente congettura il Sandonnini che non essendo mai cenno di lei nella corrispondenza del Zerbinati, Tommaso doveva da lunga stagione esser vedovo. L’uxoricidio accadde certamente nel febbraio del 1565; e già il Zerbinati in una lettera datata l’ultimo giorno di questo mese informava Alfonso che il re Filippo e la sua corte ne erano irritatissimi. « Sul capo dell’ omicida fu posta una taglia di quattro mila scudi, raddoppiata dalla madre di Luisa; e S. M. scrive a tutti i principi e potenti, pregandoli che se capitasse il sopradetio (Nicolò) nei suoi domimi a volerglielo dar nelle mani, dipingendo questo caso impiissimo et enormissimo ». GIORNALE LIGUSTICO 391 V uccisore intanto era fuggito a Genova; « ma anche colà i suoi nemici tentarono sorprenderlo ed ucciderlo. Abitava egli un palazzo fuori della città, lungo la marina, nella quale spesso andava a bagnarsi. Da una fregata dovevano sbarcare venti spagnuoli contro di lui e sorprenderlo; ma avvertito in tempo armò gente, e con essa aspettò e sconfisse i sicari, otto dei quali rimasero prigionieri e dodici soltanto raggiunsero a stento il naviglio su cui erano venuti ». Donna Luisa aveva lasciata una figlia; « e temevasi tanto della sorte di essa, che il governatore di Milano mandò ordine categorico a Tommaso Marino di consegnarla ». Rispose questi di averla mandata a Genova; ma non fu creduto, ed ebbe il palazzo invaso e perquisito dalla sbirraglia; con minaccia di essere tradotto in prigione. Accorse il genero da Sassuolo, diede centomila scudi di sicurtà, e scambio dello suocero, andò egli stesso a chiudersi nella Rocchetta di Porta Romana, dove i principali cavalieri, ammirati di tanta abnegazione, accorsero a visitarlo. Finalmente la fanciulla arrivò; ma perchè Ercole Pio tornasse libero, bisognò attendere fino a tanto che i medici dicessero se era sana di corpo, per dubbio della parte che η<ψ fosse stata attossicata. Fortunatamente i medici la dichiararono sana. Ma non si creda che la parte, cioè i parenti della Mendozza, operasse a sua volta per un sentimento di pietà verso P or-fanella. Il Zerbinati ci disinganna subito, scrivendo il 25 di marzo : La tanta instantia che fanno questi spagnuoli dJ haver nelle mani quesia figlia, non è per altro se non eh’ essi si presumono... eh’ ella habhia d’eredar il staio del signor Tomaso. Donde molto ragionevolmente deduce il Sandonnini, che Nicolò Marino, 0 per replicate insidie 0 per naturale malore, fosse già morto. È poi certo, che anche Andrea non si contava più tra i vivi nel 1571 ; e che circa quest’ anno erano mancati del pari il vecchio Tommaso ed il Pio. 392 GIORNALE LIGUSTICO Difatti Virginia, vedova di quest’ ultimo, il 7 di novembre si trovava in Milano per raccogliere insieme alla sorella contessa Tornielli l’eredità paterna; la quale, malgrado tutti i dissesti patiti, era ancora, a _ detta del Zerbinati, di non poca importanza. Ma un gramo sangue scorreva proprio nelle vene di co-testa famiglia di gabellieri: Virginia dimenticando gli aiuti ed i conforti con tanta generosità arrecati sempre dal consorte al padre di lei, deponeva sollecita le vedovili gramaglie, e rimaritatasi a don Martino di Leiva principe d’ Ascoli, abbandonava Sassuolo ed i figli. Io non posso mai tornare sui casi di questa femmina ingrata, senza che al mio pensiero si affacci 1’ imagine di un’ altra, donna, la quale nel secolo XVI ebbe celebrità a gran pezza maggiore. Tragèdi e romanzieri, fantasticando, circondarono infatti Eleonora Cibo dell’aureola del sacrifizio, e la resero interessante nella sventura; ma niente di tutto questo conferma la storia. La vedova di Gian Luigi Fieschi si consolò ben presto della morte del marito e dell’ eccidio della casa dov’ ella (ormai si può dire) avea portato il disonore lasciandosi corteggiare da Giannettino D’ Oria: convolò a nuove nozze con Chiappino Vitelli, immane soldato di Cosimo de’ Medici, e quel che è più mostruoso ancora, esecutore di truci comandi ai danni della famiglia di Gian Luigi. Al quale proposito saggiamente sentenzia il Guerrazzi: « Gli uomini, invece di sbracciare alle donne virtù che non possedono, farebbero molto bene a rispettare quelle che hanno ». L. T. Belgrano. L’ AQUILINO IMPERIALE DI GENOVA. Compio un vivissimo mio desiderio, di fare cioè di pubblica ragione, una moneta uscita dalla Zecca di Genova, la quale non che inedita reputo fin qui sconosciuta. GIORNALE LIGUSTICO 393 Poco innanzi che il Direttore della Rivista Numismatica Agostino Olivieri abbandonasse quell’ Ufficio, io gli rimetteva un mio manoscritto, era la presente monografia, da pubblicarsi in quel periodico che per fatalità non vide più la luce. Per quanto io mi sia adoperato onde riavere quel mio scritto, vane riuscirono tutte le mie ricerche, e non volendo ornai più ritardare ai cultori della scienza numaria la peculiare conoscenza di un nummo, pei fatti specialmente attinenti alla città di Genova interessante, mi sono accinto alla nuova compilazione di quella monografia che ora. sono lieto di pubblicare. Il nummo eh’ io imprendo ad illustrare veniva parecchi anni addietro reperito nelle adiacenze della città di Savona, e unito ad altre monete io potei acquistare. Desso spetterebbe alla prima metà del secolo XIV, e allontanandosi affatto dal consueto tipo corradino, si allontana pure dalle altre tutte che di quella Zecca vennero fin qui pubblicate. Onde però con plausibile probabilità stabilire si possa F epoca in cui un tale nummo veniva impresso, credo cosa opportuna, anzi necessaria il fare precedere alcuni cenni riflettenti i fatti di quella città che in quel turno si avvicendarono. Mancato ai vivi nel 1313 l’imperatore di Alemagna Enrico VII, il Governo di Genova, e suo Distretto in quell’epoca era amministrato da certo Uguccione Fasciola nella sua qualità di Vicario imperiale e governatore della città; quando per la vacanza del trono di Alemagna il Fasciola credette doversi allontanare da Genova lasciando il 2:0 verno della città e suo distretto in mano alle persone più all’ Impero affezionate e fedeli, nobili indistintamente e del popolo : se non se il Pontefice Clemente V, dichiarando nulla la sentenza del bando imperiale che 1’ Imperatore Enrico VII nell’ anno precedente alla di lui morte» avea data contro Re Roberto di Napoli, pensò di ristabilire 394 GIORNALE LIGUSTICO in favore di questi il Vicariato dell’ Impero durante Γ interregno, e dichiarollo diffatti Vicario in tutte le terre dell’Impero, e come dice il Corio, Vicario Generale nelle città d’ Italia all’ Impero sottoposte, cosa che venne poscia confermata dal Pontefice Giovanni XXII, che non volle riconoscere in Luigi di Baviera il legittimo Imperatore. I genovesi in preda alli diversi partiti, parte de’ quali adescati dalle promesse del re di Napoli cui stava molto a cuore ottenere 1’ amicizia e la sommissione di quella città, e per cui vi si era appositamente recato chiamatovi dal partito Guelfo, che in quei momenti capitanato dai Fieschi e dai Grimaldi, era il più potente, stabilirono di sottomettersi a un governo misto, del Papa cioè e del re di Napoli: l’altro partito capitanato dai Doria e dagli Spinola affezionato all’ Impero di Luigi di Baviera fu di necessità costretto uscire di Genova e ritirarsi a Savona od Albenga, ed in altri luoghi della riviera fedeli all’ impero. In conseguenza di ciò il Governo di Genova rimasto in mano del partito Guelfo, i Fieschi, ed i Grimaldi persuasero la popolazione a sottomettersi per dieci anni al Governo misto del Pontefice e di Roberto di Napoli e come ci narra Uberto Foglietta: P opulo igitur in are/ι Sar^ana congregato, cum capitami coram praetore atque abbate populi magistratu se abdicassent, in imperia Ioannis vigesimi secundi pontificis, ac regis, in decennium ab universo populo iuratum est. Lieto per la otenuta sommessione, re Roberto nel partirsi da Genova, vi lasciava quale suo Vicario e Governatore Riccardo Gambasessa il quale vi si mantenne fino allo spirare del pattuito decennio. Durante la signoria del re Roberto, il partito Guelfo contrario all’ Impero cercò in ogni maniera di impadronirsi della città e porto di Savona, ma non riusciti nello sperato in- GIORNALE LIGUSTICO 395 tento attaccarono allora la città di Albenga, se ne impadronirono a viva forza, e, come dice Villani, rubaronla tutta, e ciò per la sola cagione di avere voluto rimanere come Savona fedele all’ Imperatore Luigi di Baviera, di cui avevano reclamato la protezione; ma il marchese Giorgio del Finale con i Genovesi del partito Ghibellino, liberarono Albenga, e Castruccio Antelminelli Vicario Imperiale avendo presa la protezione delle città della Liguria contro il re Roberto, ridusse quasi tutta la riviera di levante sotto P obbedienza dell’ Imperatore di Alemagna, il quale in attestato della sovrana alta riconoscenza, non solo confermava al Castruccio il già confertogli Vicariato imperiale sopra Lucca, Pontremoli e terre tutte della Lunigiana, ma lo dichiarò di più Duca di Lucca e Vicario Generale dello Impero nel Distretto di quella Città, di quello di Luni e delle coste marittime. I Genovesi allora che si erano obbligati alla Signoria del re Robetto, e aveangli giurata fedeltà solennemente per un decennio, incominciarono a temere 1’ indignazione dell’ Imperatore, e coloro dell’ opposto partito fedeli ognora all’Impero ridussero sotto la loro obbedienza i castelli di Sestri e di Monaco. Giunto finalmente il termine della giurata sommessione al re di Napoli, cioè il 1334, questi cercò con ogni mezzo di adescare i Genovesi onde indurli a continuare nella obbedienza alla di lui Signoria, e inviò appositamente a Genova Bolgro Tolentino per negoziare una proroga, ma i Genovesi del partito Ghibellino che erano rimasti affezionati e fedeli all’ Impero, e che erano ritornati in patria, rifiutarono sdegnosamente le proposte loro fatte dal Tolentino, e il Vicario di re Roberto, Raimondo Gambasessa fu obbligato lasciare il governo e partirsi da Genova: Raffaello Doria e Galeotto Spinola vennero dichiarati governatori e capitani per due anni GIORNALE LIGUSTICO sotto gli auspici dell’impero. In questo intervallo, cioè dal-1’ anno 1334 a tutto il 1336 io penso venisse impresssa la moneta che imprendo a pubblicare; il tipo e la leggenda della stessa avvalorano la mia opinione; porta da un lato la croce entro un circolo di perline, e all’ intorno, dopo una crocetta la leggenda IANVE. ET. DISTRICT’, dall’opposto lato l’aquila imperiale entro consimile cerchio di perline, e all’intorno dopo una rosetta e piccola croce la leggenda FIDELIVM IMPERII.0, è di buon argento, e il suo peso corrisponde a gr. 1.300 conforme all’ aquilino imperiale di Verona di Alberto e Mastino della Scala, che nel 1330 si erano fatti eleggere dallo stesso Imperatore Luigi di Baviera Ascari Imperiali. Chiara e ragionevol cosa apparisce come quel partito che per sì lungo tempo avea dovuto soffocare i sentimenti della sua affezione e fedeltà verso 1’ Impero, perchè sottomesso e schiacciato dalla forza preponderante del re Roberto e dal partito Guelfo, giunto poi essendo il giorno della riscossa, abbia quel partito voluto fare atto di sudditanza manifestando al novello Signore la fedeltà di Genova e suo Distretto col pubblicare una moneta che rappresentasse gli emblemi di sua fedeltà all’ Impero, e così se da un lato il nummo offre la croce, divisa delle città libere italiane e il nome impresso di Genova e Distretto, dall’ opposto lato emerge 1’ aquila imperiale col motto di fedeltà all’ Impero. Cristoforo Gandolfo, che con molta erudizione scrisse del-1’ antica moneta di Genova, non fa cenno di monete genovesi differenti da quelle che portano il tipo Corradino, il quale si continuò ad esercitare identico quasi sino alla metà del secolo XVII, e precisamente sino al biennio 1635-36 del dogato di Brignole Gio. Francesco di Antonio, avendo il di lui successore Pallavicino Agostino cominciato a variare tipo e leggenda sostituendovi l’impronta della Vergine Patrona della Città col nome di Corrado. GIORNALE LIGUSTICO 397 Lo stesso Comm. Domenico Promis la di cui perdita tuttora la scienza e gli amici giustamente rimpiangono, fra le molteplici dottissime illustrazioni di Zecche italiane quella pure ci lasciò « Sull’ origine della Zecca di Genova e di alcune sue monete inedite » Torino Stamperia Reale 1871, non fa cenno in quella di simile nummo, che a buon dritto lo si potrà ritenere per P Aquilino Imperiale di Genova. Sarzana 10 Settembre 1883. Angelo Remedi. SPIGOLATURE E NOTIZIE Nelle « Notizie degli Scavi di Antichità comunicate alla R. Accademia dei Lincei » dal senatore Fiorelli troviamo, per ciò che spetta alla nostra regione, quanto segue: Ventimiglia. — L’ispettore prof. G. Rossi mi fece conoscere, di aver veduta presso il sig. E. Blanc, bibliotecario civico di Nizza, un’ iscrizione proveniente dal territorio di Ventimiglia, la quale egli copiò nel modo che segue : SALVIO · L · F · ANI CANVLEIO VALERIA MON TANA CONIVGI L’iscrizione fu edita dal medesimo sig. Blanc, nella monografia che ha per titolo « Supplément à l’épigraphie des Alpes-Maritimes », Nice 1882, pag. 19. Potè inoltre vedere questi frammenti inscritti, trovati a Ventimiglia ed editi nella memoria ricordata, alla paçç. 36: a) fondo di vaso con le lettere: OF CAI ; l·) piatto fittile, ove si legge: AACCARVSIA; c) vaso con resti di iscrizione: ISS.....0; d) lucerna fittile con marca: FLORENT ; e) altra lucerna con bollo: OCTAVI. Vernazza. — Il sig. ispettore avv. Podestà, mi significò che nel comune di Vernazza (circondario di Spezia) e precisamente sul Monte s. Croce, che si erge a circa 500 metri sul livello del mare, ed è tagliato a scaglioni, i quali in linea diagonale si estendono dal basso all’ altro, il contadino Antonio Colombo scoprì, è già tempo, un antico sepolcro, composto di sei lastroni di pietra, con entro vasi di terracotta , che senz’ altro distrusse. Risaputosi il caso nello scorso inverno dal sindaco di Monterosso march. Gaetano Saporiti, questi spiegò il più grande zelo 398 giornale ligustico per conoscere lo scopritore, e il luogo ove era avvenuto il trovamento; e ottenute le desiderate indicazioni, fece praticare alcuni saggi di scavo. A pochi metri di distanza dal sito ove era stato scoperto il primo sepolcro, ne rinvenne un secondo , composto aneli’ esso di sei lastroni di pietra tagliati dai vicini scaglioni, con entro un vaso fìttile sepolto nella terra e pieno di acqua. Il vaso è un’ urna cineraria in creta giallo-scura, fatta a mano, in modo assai rozzo. Le ossa combuste, a causa dell’ acqua penetrata nel vaso, erano ridotte in poltiglia che 1' essicazione convertì in minuta polvere. La ciotola che chiudeva la bocca dell’ ossuario , ha la forma di un cono tronco, con piede e labbro rientrante, come quelle di Golasecca, ed è fatta a mano, in creta più oscura di quella dell’ossuario stesso, e lavorata con maggiore esattezza. Gli unici accessori di questo sepolcro sono, una fusaiuola in creta, lucidata con lo stecco, di fattura semplice e rozza, ed un piccolo pezzo di ferro informe. Il march. Saporiti ebbe cura di trasportare ogni cosa nella residenza comunale di Monterosso, ove ricostruì il sepolcro nel modo in cui l’aveva tro\'ato, e che è così descritto dall’ ispettore sig. Podestà, il quale ebbe agio di esaminarlo : « La lastra che serve di base, è quadrata e più grande delle altre ; le quattro laterali sono collocate tutte sulla lastra suddetta, in modo che ne lasciano un largo margine scoperto. Le due lastre più piccole, poste di contro 1’una all’altra, sono comprese verticalmente fra le due più grandi, sicché a queste servono di sostegno, ed essendo anche più basse, la lastra che fa da coperchio, grande e quadrata come'? la base, posa solamente sulle due più alte, e lascia quindi un vano di circa i cent, fra le piccole lastre ed il coperchio. Per questa apertura passò la terra, di cui era piena la cassa sepolcrale, e la terra imbevuta dalle acque piovane penetrò nel-1’ossuario ». Il sig. Podestà passa poi a fare confronti, fra questo sepolcro di Monte s. Croce, quello di Soviore (v. Gior. Lig. 1883, p. 123), e gli altri della regione Ligure, e conchiude che il sepolcro del Monte s. Croce è il più povero di quelli seoperti fin qui ; ma che dalla sua povertà non può congetturarsi essere più antica degli altri, poiché fino ad ulteriori scoperte nulla ci autorizza a giudicarlo per tale, neppure la ciotola-coperchio del tipo di Golasecca, essendosene trovate di simili anche a Cenisola, la cui necropoli devesi ascrivere agli ultimi tempi della repubblica romana. Il sig. Podestà propende quindi a credere, che il sepolcro di Monte s. Croce debba attribuirsi alla stessa età di quelli di Soviore, Cenisola, Viara ecc., GIORNALE LIGUSTICO 399 e che differisca dagli altri, unicamente per la diversità della condizione della gente alla quale appartiene. Solo da tutti questi sepolcri, a parere del prelodato ispettore e contrariamente a quanto egli asserì in altro suo rapporto (cf. Notizie 1882, p. 406) , differiscono quelli di Ceparana; dappoiché un più maturo esame di questi ultimi sepolcri e più larghi confronti l’hanno indotto a credere, che essi appartengano ad altra gente (?), e ad età più remota. La scoperta avvenuta sul Monte s. Croce merita -speciale considerazione , siccome quella che ci offre la speranza di ulteriori e copiosi rinvenimenti, in una località non mai data alla coltivazione, e potentemente difesa dagli scaglioni tagliati nella roccia, giacché è da credersi, che negli spazi tra uno scaglione e F altro gli antichi abitatori della contrada avessero deposti i loro morti, al sicuro dall’impeto delle acque. Bollano. — Il predetto ispettore, avendo visitato il sepolcro scoperto in, contrada Viara ne! comune di Bollano dal sig. Cesare Grossi, ed avendo esaminata la suppellettile funebre in esso contenuta , mi trasmise i seguenti ulteriori ragguagli: « L' ossuario differisce alquanto nella forma da quelli di Cenisola, ma non già nella tecnica. È fatto a mano in creta gialla, esternamente affumicata; ed è di forma quasi elettrica. La ciotola e vernice brunastra, che ne chiude la bocca, è fatta al tornio ed è sullo stile delle coppe aretine. Oltre i due anelli e le spirali di argento (cfr. L. c.), rinvenute nell’ossuario fra i resti della cremazione, sì trovò il frammento di un oggetto ornamentale pure di argento. Consiste in un filone tondo, della stessa grossezza di quello delle spirali, contorto in modo da formare tanti semicerchi divergenti l’uno dall’ altro s>. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Le pubblicazioni dell’ editore A. G. Morelli, di Ancona. Già era ben noto agli studiosi questo egregio editore, fin da quando attendeva solamente alla pubblicazione del Preludio, ottimo giornale, alla cui direzione egli è oggi rimasto solo ; ma adesso si fa meglio conoscere mercè le altre opere che man mano vien mettendo in luce. Un curioso ed importante lavoro aneddotico intorno a Vincenzo Bellini, dettato con piena competenza e bella maestria da Michele Schedilo, studiosissimo e buon conoscitore della storia del teatro italiano, ha aperto la serie delle sue edizioni, le quali si distinguono per correttezza ed eleganza. Venne in seguito 1’ epistolario di Eugenio Camerini, il quale se fu fatto segno ad alcuni giusti rilievi, pur venne riconosciuto di non lieve momento, per farci conoscere quell’acuto e caustico critico, che meritava considera- 400 GIORNALE LIGUSTICO zione assai maggiore, vita meno disagiata e giudizi più benevoli, considerando che a lui si deve la conoscenza ed il culto di scrittori e di operette quasi ignorate o tenute in dispregio. La cura che egli pose nel mandar fuori la Divina Commedia e gli altri classici in edizione popolare, gli dà diritto alla più viva riconoscenza. E allo studio critico degli antichi è volta la breve ma importante monografia di Francesco Novati, colla quale intese rivendicare Γ esistenza di Dante da Ma-iano, posta in dubbio con argomenti sottili, ma inefficaci a petto dei documenti, da Adolfo Borgognoni. Sono melanconiche le poesie e le prose di Zefirino Trovamala, sebbene non manchino di palesare buona attitudine allo scrivere. E chi vorrà negare importanza all’operetta di Francesco Florimo « Riccardo Wagner ed i Wagneristi » ? C'è acutezza di osservazione e dottrina non comune, esposta col brio tutto proprio deil’ autore ; si può opinare diversamente da lui. ma non disconoscere la sua sagacia. Cresce pregio al volume, oltre una raccolta di parecchie lettere assai notabili, il fac-simile benissimo riuscito di quella del gran maestro tedesco, nella quale sta tutto un programma. Le avventure del Barone di Münchausen dettate da quel chiaro artista che è Francesco Podesti, comechè ei se ne dica libero traduttore, ianno ricordare un romanzo notissimo della letteratura fanciullesca, del quale volendo parere il seguito, sono una felice imitazione. Tutti sanno ormai quanto sia valente conoscitore delle straniere letterature Domenico Ciampoli, più argomenti ne ha dati colle sue diverse pubblicazioni ; or eccone una prova novella. L’ idilio di G. Lodovico Runeberg finlandese, intitolato : Nadascheda schiava russa, è tradotto con ielice maestria dallo svedese ; lingua usata sempre dal poeta, come protesta patriottica contro 1’ usurpazione della Russia. Ad Ancona si riferiscono in particolar modo le due ultime pubblicazioni del Morelli; nella prima il Feroso ha raccolto con diligente sobrietà tutte le notizie che riguardano gli uomini della marca Anconitana, che in qualche guisa si sono distinti ; coll’ altra Corrado Ferretti si è proposto di esporre le Memorie storico-critiche dei pittori anconitani, riuscendo a darci un libretto assai utile, nel quale ha discorso di que’ suoi artisti con* sufficente larghezza e buon giudizio, scorto da parecchi documenti che sono recati a pie di pagina. Sappiamo di altre pubblicazioni fatte dal Morelli in occasione di nozze, e pur non avendole vedute ne abbiamo inteso dire un gran bene ; abbiamo bensì sotto gli occhi la più recente : ed è il capitolo ΥΠΙ del poema inedito di^ Bastiano Foresi, scrittore fiorentino del sec. XV, intitolato Trionfo delle J irtù, mandato in luce da tre bravi e studiosi amici, il Giorgi, il N’ovati e il Λ enturi, i quali vi hanno preposto una assai erudita avvertenza. Ben ci è noto essere già assai innanzi la stampa' degli Studi sulla storia letteraria dei primi secoli del prof. D’Ancona ; anzi diremo che resta soltanto da far la tiratura dell’ ultimo studio intorno a Ciu'lo d’Alcamo, dove si fa una diligente rassegna di quanto è stato scritto sulla quistione del Centrasto. Così verrà fuori in breve la Vita di Dante del Wegele tradotta dal prof. Fenaroli; un volume di novelle di Arturo becchini; un racconto del Zuanin : mentre il Novati prendendo a soggetto un nobile cremonese prepara una monografia intorno al secolo passato : ed altri attende a raccogliere un volume di studi goldoniani. Pasquale Fazio Responsàbile. GIORNALE LIGUSTICO 4OI ANSALDO CEBÀ (Comin. v. fase. V-VI, pag. 165). Era questo un uso divulgato anche altrove, poiché il mio Lunigianese Cesare Orsini, del quale dirò appresso più diffusamente, pubblicando il 1619 in Venezia le sue Epistole Amorose (1), diceva essersi a ciò determinato perchè avendone egli dato con « molta liberalità... copia a chi n’ ha voluto... alcuni col mandarle secondo Γ occasione alle lor’ Amate, levandone in un luogo otto versi, in un altro diece, et aggiùngendone di \rario stile a loro capriccio, l’hanno fatte mostruose... Altri ingegnandosi di ridurle di verso in prosa a guisa di lettere amorose, et leggendole nei ridotti, come propri parti », 1’ aveano sconciamente depredato. Anche da quest’ uso facilmente rilevasi che libera anzi che no dovesse essere di quei tempi 1’ educazione femminile specie nelle classi agiate. Nel dar conto della Commedia inedita di Paolo Foglietta, intitolata : Il Barro (2), già ci fé’ sapere il ch. Belgrano, come, innanzi ancora del 1586, quando fu rappresentata in Palazzo, rare non fossero le giovani che si dilettavano della lettura del Decamerone, e come i Signori Governanti facessero buon viso ai molti « motti equivoci con soverchia trasparenza », e a « quelle scurrilità onde » neppur la viziata età nostra si mostrerebbe tollerante. E allora neppur Don Angelo Grillo si ritenne dal lodare il troppo libero Autore col Sonetto, che si legge nelle più volte citate sue Rime (3). (1) In 12.® di pagg. nrnner. 268. (2) Caffaro, 2, Genn. 1883. (3) C. 68, r. G:o*x. Ligustico, cAnno X 26 402 GIORNALE LIGUSTICO Quale istruzione s’ avessero allora le fanciulle di nobil casato ce lo dice, a suo modo, il già noto Anton Giulio Bùgnole Sale nel suo Satirico innocente, eh’ ei finse aver volgarizzato dal greco e pubblicò in Genova nel 1648, facendone sperare una seconda parte « con caratteri bellissimi... essendo già in pronto qui in Genova una nuova stampa », della quale si vede che più non si curò dopo resosi gesuita. Ne parla esso nell’ 8.° Epigramma sulla Femmina leterula, e nel relativo commento (1). « Parmi veder l’Amarillida, e 1 Padre, il quale davanti al venerando Precetto!" conducendola, e consegnandogliela, le havrà detto. Ecco il tuo secondo Padre, 0 figlia... Qual Prencipe non ambirà le tue nozze , se havrai senno pel governo di ogni gran Regno ? Chi sa che scelta per uno de’ suoi savi della città, non sii tu la primiera a romper le leggi, onde le femmine dal reggimento della Patria si escludono ?.. Da te spera il mio casato sue glorie. Le opere luminose della tua penna serviranno di fumose imagini per fregiarlo... Quell’ udir discorrere di orbi celesti... tirar matematiche linee..., non son cose da tirar fin dall Indie i Bracmani, et i Ginnosofisti stupiti ? (2) » E ricordato, con quel suo fare balzano che « s’ odono dal vedovo mal condotto le conche et i paiuoli, et i grugniti, et i ragli nelle festeggiate tenebre delle sue nozze (3) » , scherza grottesca-mente sulla barba e il naso del precettore, che deve istruirla « ben quattro ore del giorno », poiché « egli non ce ne vuol meno a chi ama, che l’ingegno non sia peggio, che la pancia trattato (4) ». E con qual frutto ? Nota fra i primi l’uso del libro dove (1) Pag. 277-308. (2) Pag. 289. (3) Pag. 296. (4) Pag. 298. GIORNALE LIGUSTICO 403 sono « le immagini degli habiti moderni et antichi » , che una fante « sta tenendole davanti », toccandole non di rado « sculacciate fino a porre col rumore il vicinato tutto in orecchi (1) » ; e il « rispondere in un quarto d’hora a quanti pistolotti amorosi gittansi in un carnevale intiero da giovinotti insolenti nelle seggette (2) »... « Pensi tu per ventura eh’ ella faccia comparire in tavola qualche curiosa novelletta di Zerbini, 0 qualche invention capricciosa, ritrovata dalle giovani Dame, per persuader le vecchie a non mischiarsi nelle porticate, e ne’ barcheggi fra loro, 0 qualche spiritoso tratto, usato a por ben bene alla berlina pel collo qualche moscatello novitio , sotto spezie di favorirlo ?... Azzuffa gli Epici e Drammatici Poeti insieme , per di qua mette in bilancia il Tasso, per di là 1’ Ariosto, quindi il Pastor fido (3), quindi 1’ Aminta : confronta i luoghi che han rubato dagli antichi, e quelli, dove somigliano, e dove contrastano: esamina la favola, il costume, la sentenza, forma le allegorie... Un bosco intiero di cicale, 0 un lago colmo di ranocchi, tutto attonito ammutolirebbe ». E conchiude : « Compar mio, convita alla tua mensa pur chi ti piace, finché hai tal mo-gliera, eh’ io per me digiuno, e ti son schiavo (4) ». Avea prima ruotato che « Γ Amarillida il maliziosamente interpretare per sua propria scienza si eleggerà. Quindi chi può ridire, in quali, in quante guise, sopra quanti, in quanti luoghi, per far pompa del suo bello Ingegno, la eserciti ? Nelle porticate, ne’ barcheggi, in Chiesa, in casa, su festini, a’ Vespri, alle Prediche, che so io mai?... Teodoro allac- (1) Pag. 301. (2) Pag. 306. (3) Che poi il Brignole Sale si pentì d’ aver fatto pubblicare alla nuova Stamperia da esso introdotta in Genova, come si ha nella vita di lui scritta dal P. Visconti. (4) Pag· 307· 404 GIORNALE LIGUSTICO ciasi nel cappello candido nastro per segnare alla sua Diva candida fede.... Mirtio seguita scopertamente Clorinda alle carrozzate, a’ barcheggi, in villa, in città.... Cosi ancor ne’ banchetti non si ponno tra le Dame e Cavalieri, stretti di parentado, far benevoli presenti, eh’ ella non interpreti le frutta, i fiori, i pepi, i zuccheri, la disposizione del piattello, come cifre misteriose di dolcezza... più d’innamorati che di parenti... Leggesi con grande attenzione 1’ ufficinolo? o ei deve essere il Petrarca, ο ’1 Pastor fido con la sopravesta di sette salmi... La compagna non sa scrivere ? tanto più presto verrà bocca a bocca con Γ amatore... Se tal giovane si dà alla musica? dicono, acciò che il Munistero a miglior mercato Γ accetti...; il suo motivo si è di entrar ne’ cuori più che nel Coro (i) ». Perchè a danno della pubblica morigeratezza non cooperasse anche le stampa, era in Genova tutt’ occhi il Sant’ Uffizio, il quale procedea con tanto rigore da costringere gli scrittori a ricorrere ai torchi d’ altre città ; il che oltre all’attestato d’una allegazione del. Bartoli, tipografo pavese in Genova verso la fine del Secolo XVI, la quale si conserva in questi R. Archivi, vien pur confermato da altri fatti, oltre quelli da lui citati, fra i quali basti ricordare le Rime del nostro Cebà e le Instabilità dell’ ingegno d’ Anton Giulio Brignole Sale. Questo scoglio trovò pure il Chiabrera nella sua letteraria navigazione. Il 20 maggio del 1591 scriveva egli a Bernardo Castello in Genova da Savona: « Il Signor Ambrogio Salinero... ha commissione di trattar con voi d’un affare. L’ affar mio è che vorrei stampare alcune canzonette, e perchè non ci risolviamo se è bene tentare la stampa di Genova (2) ». Lo pregò poi di presentare « in penna » le (1) Pag. 285. (2) Lett. cit. pag. 64. GIORNALE LIGUSTICO 405 sue « poesiette » ad alcuni signori genovesi, dei quali « portano in fi onte » il nome, « acciocché se fosse in loro cosa alcuna che dispiacesse, io fossi a tempo a rimuoverla ». E il 18 giugno: « caso che a lui (a Salinero) non siano rese le canzonette, di grazia cercate di ricoverarle (i) ». E il 27: Quanto alle mie canzonette veggo i due versi condannati, e veramente i falli sono assai leggieri, ma pure conviene ubbidire. io piego V. S. ricoverarle e tenerle appresso di sè , per^h io veiro in Genova, e volendo il P. Inquisitore che io gli emendi, il tarò; fra tanto se V. S. può ottener licenza dalla Seienissima Signoria, faccialo (2) ». Ma il 26 Agosto del 1592 lo pregava di rimandargli « quelle canzonette » ch egli avea portate seco, essendo desiderate da G. B. Fer-rero (3). Gliele rimandò « col Sig. Salinero » il 27 Settembre (4) , come pure « un capriccio fatto in su la tina del mosto: cantatelo alcuna volta col bicchiero in mano, e fatemi brindesi, che noi così facciamo a voi ». E Γ anno appresso , forse in Agosto: « di quanti mescugli ho veduto stamparsi, niente vi e di buono nè per li lodati, nè per gli lodatori. Io, perche i Padri ne hanno voglia, vedrò di comporre qualche cosetta, sicuro di non piacere a loro e dispiacere a me (5) ». E il 2 Settembre : « bella cosa ! nè anco vogliono che stampi alcune care cosette, e poi mi annoiano con loro fagiolate che vogliono dare alle stampe (6) ». E il 29 : « Mandovi un sonetto... ; questo a me pare un sonetto ; quel de’ frati furo quattordici versi (7) ». Fu egli dunque costretto a ri- li) Pag. 65. (2) Pag. 67; (3) Pag. 78. (4' Pag. 80. (5) Pag. 83. (6) Pag. 90. (7) Pag. 91. 4o6 GIORNALE LIGUSTICO tener manoscritte queste ed altre gioviali poesie fino al 1605, quando, conseguita la protezione dei Doria, in Genova potentissimi , anche col S. Uffizio, altre ne pubblicò sotto il proprio nome in Genova stessa , altre , senza nome in Venezia , perchè come già scriveva allo stesso Castello il 5 Maggio del 1594, mandandogliele manoscritte con preghiera di « non darne copia » : « io conosco che un par mio ornai vecchio non doveria scrivere si fatte, non so come chiamarle (1) ». Ai torchi di Genova supplivano però quelli d’ altre città e le loro più pericolose produzioni, non di rado clandestine, e clandestinamente in Genova introdotte, passavano, talora anche moltiplicate colla penna, di mano in mano fra la gioventù specialmente , la quale dell’ erotico , siccome naturalmente avviene, faceva più che argomento di lettere, pascolo di sfrenata libidine. Oltre ai cenni già riferiti dal Brignole Sale, n’ abbiamo di molto anteriori nei liguri scrittori che fra gli erotici vanno in qualche modo annoverati. Merita esser qui riprodotto P Epigramma latino' che G. B. Pinelli, del quale si dirà più ampiamente in appresso , pubblicò in Firenze nel 1594 (2) : AD ANTONIUM SPINULAM. I Spinula , nil aliud recitas, quam carmina vatis Obscaeni, repetis semper et haec eadem. Me super haec rogitas, Pimplaeum scandere montem, Qui trahere et Musas sul· tua jura queas. Dispeream nisi velle tuum fulcitur inepto Consilio, Aonias et procul arcet heras ! Casta placent Musis. Ouare aut sacra quaerere mittas Turpiter, aut VaUm consule jure tuum. Il Chiabrera, che bevea scherzando e poetando volentieri col Pinelli, scriveva « di Savona li 26 Novembre 1611 » al (1) Pag. 103. (2) Carmin, pag. 54. b GIORNALE LIGUSTICO 4O7 Castello : « Ho ricevuto Γ Orlandino, terronne conto, legge-rollo e lo rimanderò (i) ». E poco dopo: « Sono stato in villa, e ho letto alquanto del libretto ; parmi cattiva lettura, e loderei V. S. a disperderlo, e se io ne fossi stato padrone Γ avrei arso, come scrittura di mal costume (2) ». Egli che pure d’ amore cantò per la ragione che si fé’ poi dare nel XVII de’ suoi Sermoni da Francesco Rondinelli .....attendi A cantare : o begli occhi, 0 pupillette ; S’ ami la ghirlandetta dell’ alloro, riprovò nel X anche i più famosi per merito letterario con questi versi : .... Oh bel Parnaso, oh bel Permesso ! Ma voi poeti m’odorate certo, Sia detto con perdon, di ruffianesmo. Che siffatto genere di passioni dovesse non di rado rompere al sangue in tempi specialmente in cui sì frequente e lagrimevole era Γ abuso delle armi, apparir deve naturalissimo a chi poco o nulla si conosca di passioni e di storia. E neppur qui fan difetto i fatti, Ricordati dagli stessi scrittori nostri. « Per una gentildonna bellissima che fu uccisa a torto », nota il Guastavino negli Argomenti alle più volte citate Rime di Don Angelo Grillo, stampate in Bergamo nel 1589, scrisse lo stesso il sonetto che comincia Empi lumi del cielo, e voi poteste Non cangiar sito, non cangiar aspetto Al dolce aspetto di beltà celeste, Per non produr cosi maligno effetto ? (1) Lett. cit. pag. 214. (2) Pag. 215. 4o8 I GIORNALE LIGUSTICO E termina : vinto Amore Allor si vide, e la pietà spietata (i). E si riferisce forse allo stesso fatto il sonetto precedente, in cui dice all’ « ombra dolente » apparsagli in sogno : Deh torna ornai dove sepolta dorme La tua trafitta spoglia, e da le vene Goccia ancor sangue; o porta horride pene Al tuo fiero uccisor mostro difforme. Noti sono anche per sua confessione, i fatti di sangue in che per amore, si trovò involto nell’ età sua giovanile il Chiabrera, e fu forse per ugual motivo che nel 1594 « avvenne questione tra i Sigg. Giulio Salinero, e G. B. Ferreri, e ambedue rimasero feriti », come ne scrisse « di Savona a’ 4 di Settembre » al Castello (2), aggiungendo : « ma per Dio grazia senza danno; ieri fecero pace ». Non erano certo gli amori giovanili estranei sempre « crebris, ac lethipheris rixis nostrae urbis juventuti ingruentibus », sulle quali dettò un bell’ epigramma il sullodato Pinelli (3) , benché parlando alla crudeltà da lui personificata, concluda : Hic tibi cara Venus subeat, quae dulce Iuventae Imperium aeternis fraenet amicitiis ; perocché lamentando nella pagina antecedente 1’ uccisione Riccij de Passano, dice egli stesso : Ergo eris exemplo, ut dulci de fonte jocorum , Riccie , crebro ingens sur gal amarities. Proh dolor ! hinc saltem infraenis metuisse Iuventus Disce vel in mediis lusibus interitum. (1) C. 66, r. (2) Lett. cit. p. 112. (3) Carmin., Genuae, 160$, pag. 121. GIORNALE LIGUSTICO 409 Il Ceba stesso, che pur si confessava, come vedemmo in principio , si alieno, per natura, dalle risse, dal sentimento però della gelosia lasciossi dettare un sonetto, stampato cogli altri a Pedova nel 1596, il quale termina : Qui nè piaghe, nè morti homai non curo : Chè nel periglio minaccioso e fero La disperatïon mi fa securo. Che in amore avessero radice le sanguinose avventure di Scipione Della Cella, del quale già dissi, lo farebbe credere il quasi contemporaneo Assarino, che nei suoi Ragguagli di Cipro, stampati nel 1642, ve lo fa comparire con « Don Virginio Cesarmi » seguiti da « lunga schiera di Paggi e di Stafieri... vestiti di veluto azzurro tutto tempestato di cuori ardenti », come ambasciatori « dell’università degli Amanti » per ottennere da Venere la scaltrezza delle donne « nel celare il loro desio (1) ». E forse vittima d’ amore fu pure quel Lorenzo Fiesco « ucciso d’archibugiata » , del quale cantò il suddetto Cesare Orsini in un sonetto, stampato in Venezia il 1630 (2): Tu che spiegando il glorioso volo Portar sperasti oltre i confin d’ Atlante Chiaro il tuo nome, e farne il mondo amante, Estinto hor giaci nel tuo patrio suolo. Si legge ivi stesso una canzone (3) che Γ innamorato Autore scrisse « essendo stato ferito da un suo rivale » nel petto, ed altra (4) per « Bella donna gravida trucidata dal marito ». (1) Pag. 115. (2) Diporti poetici, pag. 109. (3) Pag. 188-91. (4) Pag. 221-29. 410 GIORNALE LIGUSTICO Il Brignole Sale poi fra le cagioni dei frequenti duelli annovera nel succitato Satirico (i) : « perchè ha vestito de color della mia Dama ; perciò lo sfido ». E qual razza di bellimbusti infestassero allora Genova, ce lo dice poco dopo. « sì sì : son que’ Zerbinotti, quegli Adoni, que Ganimedi, che han per nobil vanto a prezzo di gran sangue far pagarsi un pelo, una mosca, e non pagar con pochi soldi a poveri artigiani rasi, e velluti : castigar un guardo bieco con gli archibugi , et impuniti andarne dell’ haver disonorato gli altrui letti con gli adulterij... : crapuloni, giuntatori, morditoii, vani, temerari], stolti, bestiali, pazzi, la cui lingua non sa esercitarsi fuorché in oscurar l’altrui fama, o. rischiarar le sue infamie, i cui occhi sol san disegnar le mete alla lascivia, od alla crapula, o alla ferità, le cui mani han per coiona i dadi, e per ufficiuolo le figure dell’ Aretino, i cui passi non san volgersi fuorché a scene, a loggie, ad osterie , a bordelli , overo a chiese, sol per trasportar in queste tutte quelle altre (2) »... E ricorda altrove (3) al duellante: « è obbligato il Cavaliere di disfar i torti delle donne e delle donzelle, tu procuri di privarle de’ lor figli, de’ lor padri, degli amanti loro, de’ loro sposi »... E così ci descrive 1 effeminato. « tanto delle scienze havea appreso, quanto bastasse per coprir con gli equivoci della dialettica sensi disonesti, et osceni, sì che la feminile modestia meno guardandosi, più facilmente penetrata ne rimanesse. Delle belle lettere quanto bastava per dettare impuri biglietti, de’ quali sempre haveva in tasca dozzine, altri comuni per le donne, che d’ improviso la congiuntura e ’l caso gli offrisse, altri particolari per chi già s’ avea adocchiata per bersaglio a’ suoi strali. Dormiva fino a (1) Pag. 203. (2) Pag. 2i§. (3) Pag. 234. GIORNALE LIGUSTICO 4II mezzogiorno... era un vero distillato della moda nostrale... Have'a... con sue brigate cenato , cioè a dire haveano fatto quanto insegnar mai seppe la Gola e ’l Lusso... Il biondo crine, quasi a dichiararlo servo de’ suoi medesimi vitij, scendeva con ondoso mareggiamento ad ispazzar le spalle, e del cappello le piume, del pari instabili nel colore, e nel moto, quai pensieri egli nudrisse simboleggiavano... ; gli frascheggiava in dosso.... con frastagliamenti, e nastri, e cifre *, et isvolazzi un habito di raso chermisino, soppannato da tessuto argenteo...: più d’un praticello havea fiorita la guancia..., sulle mani... manteche..., la pelle de’ calzari... sottile...; tutto rose fin alle scarpe (1) ». E palestra alle amorevoli passioni erano, già lo vedemmo, le Accademie letterarie, nelle quali erano ammessi a leggere anco stranieri, e fra questi il già ricordato Iacopo Mancini. Era egli probabilmente un nobile fiorentino, spedito a Genova da Casa Medici pe’ suoi fini politici, il quale introdottosi verso il [590 nella grazia degli Spinola, potè colle sue Legioni destare entusiasmo nell’ Accademia degli Addormentati, disertandovi appunto d’ amore, poiché il già ricordato Solingo (Gio. Ambrogio Spinola) allora Principe di essa accademia, inserì nelle Alcune Legioni, ivi lette e stampate nel 1591, le sole forse permesse dal S. Uffizio, un suo sonetto in lode dell’ Autore, terminandolo così : Doppio furore, un d’-amorosi strali, L’ altro di poesia ti danno assalto Perch’ abbi nuovo immortai pregio in terra. V’ è pur con altro sonetto lodato da G. B. Spinola e con un epigramma latino del nostro Ansaldo, i quali tutti n encomiano il furore poetico, avendo egli specialmente commen- ti) Pag. 263. 412 GIORNALE LIGUSTICO tati nella quarta ed ultima lezione i « due versi di Merlin Cocai Poeta Mantovano (i) » Phantasia mihi quaedam phantastica venit Historiam Baldi grossis cantare camoenis. Fu il libretto dedicato dall’ Autore « alla Molto 111.”* Sig. Vittoria Pinella Spinola, Signora di Rocca Forte, e di Ronco... ragguardevole in ogni parte per tutti i beni di fortuna, del corpo, e dell’ anima ». È questi certamente quel Mancino, il quale disgustato poi da’ Nobili vecchi, li pose in si cattiva luce nella Relazione (2), che P Olivieri (3), senza averla esaminata , dice aver egli copiato dal Senarega, laddove è più che probabile, che a questo fosse attribuita per esser trovata alla sua morte, verso il 1603, ^τζ’ su°i scritti. E fu certamente il Senarega, che fornì al Fiorentino , nel suo dogato (1:596-7), molti dati preziosissimi, che altrove si cercherebbero invano; ma come poteva egli scrivere, a tacer d’ altro, queste linee? « non è al mondo natione più fattiosa di questa. In guisa che in ogni compagna, in ogni adunanza, per piccola che essa sia, o di poco tempo, ne nascono subitamente le parti, et io per esperienza ho veduto, o nelle accademie loro 0 in qualsivoglia altra cosa dove almeno sieno congregate tre persone non prima essersi poste insieme, che si son divise in fattioni, come per esempio nel far comedie , giostre, feste (4) »... Ed è questo senz’altro, il libro, contro il quale il 23 Gennaio del 1604 fu fatta « lex et proclama... per ser. Collegia , in seguito di che furono il 13 Febbraio presentati per Magnificos Augustinum Pinellum, Aug. Pallavicinum, Ant. Roccataghata et Iulium ac Stephanum Pasquam... ser. Duci... (1) Pag. 77-118 in 8.° pie. (2) Cod. R. Univ. genov. B. ni, 8. (3) Carte e cron. pag. 54. (4) C. 7 v. GIORNALE LIGUSTICO 413 libri et fragmenta libri qui dicitur conditus a Iacobo Mancini, per essere abbruciati, come si fece il 19 detto cor am ser. Duce et pluribus IU. Gubernatoribus ad caminum ser. Senatus (1). Aggiungerò che il Mancino è detto nel Codice Universitario « Cavaliere dell’ Ordine di S. Stefano », e che ci dà il nome delle 30 « Famiglie le quali l’anno del 75 tennero la parte de vecchi (2) » , e che giova qui riportare a schiarimento di questo racconto : Piccamigli, Cananei, Spinola, Ma-locelli, Mari, JMegro, Doria, Cicala , Grillo , Serra , Marini, Giimaldi, Lercari, Negroni, Gentili, Salvaggi, Usodimare, Lomellini, Calvi, Fieschi, Pallavicini, Cybo , Squarciafico , Vivaldi, Imperiali, Pevere, Interiani, Pinelli, Centurioni, Passano. Seguono altre sei, date come « aderenti », ultima delle quali Rè. Il nostro Ansaldo fatto, come vedemmo, arbitro di sè in sul trigesimo anno dell’età sua, pensò tosto a dar corpo a’ suoi lungamente idoleggiati progetti, cominciando a porre in fi onte ad un suo libro a stampa il prediletto cognome Cebà; e ad evitare, anche per questo, ogni incaglio, si valse dei torchj di Francesco Bolzetta in Padova, dai quali uscirono nel 1596 le sue Rime al Sig. Leonardo Spinola del Sig. Stefano (3). Le aveva egli composte in diversi tempi e per varie occasioni, amorose il più, ponendovi, come disse poi, gran cura; e sono certo le più pregevoli, quanto ad arte, che uscissero dalla feconda sua penna. Sono esse un seguito di sonetti, canzoni e madrigali, con alcune ottave quasi tutti senza titolo, dai quali traspare il suo studio, e talora 1 imitazione del Petrarca, non senza qualche accenno all’ Alighieri, e a quella distanza che anche (1) R. Arch. Manuale Senato 1604, 15, 22. (2) C. 75. (3) In 8.° picc. di carte 84. 414 GIORNALE LIGUSTICO nei migliori segnava il gusto letterario d’ allora, voltosi dalla cara semplicità al freddo artifizio vuoi nel sentimento vuoi nell’ espressione, onde è che al Tasso medesimo, a detta dello Stigliani (i) , piaceva più il Tansillo che il Petrarca. Prova di quanto asserisco sia il primo sonetto, riprodotto nelle Rime stampate a Roma nel 1611 (2): Tu, che quasi in tranquillo, e puro fonte il cor mi vedi in questo vario canto, c forse ancor con dolorosa fronte tal’ hor secondi i miei sospiri, e ’l pianto De 1’ aureo poggio, ond’ io piegai cotanto ti faccia il nostro error le vie più conte ; e per sentier di più verace vanto 1’ orme rivolgi al faticoso monte. Sì vedrai quel, che tanto al mondo piace ratto sparir dagli occhi in .un momento lasso pur fermo in ciò, eh’ egli è fugace. E vedrai come farne il cor contento possa giamai qua giuso amor fallace, dove la vita, e ’l piacer nostro è un vento. Nel 4.0 sonetto fece suo il dantesco Amor a nuli’ amato amar perdona, terminando E le lagrime mie si spargon sole. In qual venerazione avesse egli il Petrarca, volle mostrarlo nel sonetto allo stesso, con orrevole eccezione, intitolato, che (1) Merita di essere conosciuto nella sua interezza questo strambo avviso, che ci dà quasi a dire la chiave di quell’infelice tramutamento, quale si legge a pag. 118 delle Lettere di T.s° Stigliani, stamp. in Roma nel 1651: «Io stimo, che Luigi Tansillo (per esempio) sia miglior poeta lirico, che non è il Petrarca medesimo ; ed in questa credenza ho trovato convenire, e concorrere la più parte di coloro, che hanno (come è in proverbio) sale in zucca. Uno n’ era il Tasso, benché egli non comunicasse tal suo senso a tutti, ma ad alcune persone confidenti ». (2) Pag. 667. GIORNALE LIGUSTICO 415 riprodusse, variandone la chiusa e lasciando il titolo, nell’ e-dizione romana (1), e ch’io qui riproduco, avendolo giudicato «. bellissimo » lo Spotorno (2) : Vive fiamme d’ Amor, soavi e care bellezze, e stato torbido, e tranquillo questi cantò ; senza procella il mare, e senza nube il cielo ogn’ or sentillo. E fur le voci sue tal’ hor sì chiare e sì dolce la Musa in ciel seguillo eh’ inanzi al canto suo tropp’ aspro appare chi seguì poscia il suo gentil vesillo. Nè giammai pianse in su la Sorga, 0 rise che non piangesse, e non ridesse seco chiunque ad ascoltarlo unqua si mise. Vide tal’hor quanto Latino, 0 Greco; e se non vide più fu eh’ ei commise la guardia de’ suoi versi a duce cieco. Nella padovana 1’ ultimo terzetto dice : Nè mai quant’ egli vide i’ penso meco Che quasi troppo al sol quest’occhi affise, -Io non rimanga al primo sguardo cieco. Quanto giusto sia il giudizio spotorniano, veda il lettore ; 10 soltanto aggiungerò che un altro se ne legge poco dopo, 11 quale comincia 0 bella man, e al quale fu apposta poscia in margine, forse dallo Zeno, cui appartenne 1’ esemplare da me veduto, la nota — ristampato nella scelta di sonetti e cannoni di più eccellenti rimatori d’ogni secolo, ne la parte seconda, carte A me parve uno dei migliori il seguente: Lasso già vegg’ io ben, eh’ altra catena Quell’ alma ingrata a la mia Lidia prende. E veggio eh’altra fiamma il cor l’accende; E che ’l petto le ingombra un’ altra pena. (1) Pag- 359- (2) Stor. Letter. IV, 124. 4i 6 GIORNALE LIGUSTICO Nè più, come solca dolce e serena I sospir nostri, e le fatiche intende ; Nè più di noi pietate ho ir. ai le prende; Nè più ne sprona oimè, nè più n’ affrena. Ma dove fiammeggiar più 1’ ostro sente E i terreni splendor son più vivaci, Drizza le voglie ambitiose, avare. E non le torna ; e non le torna a mente Quando tra mille fiamme, e mille faci Queste tenebre mie le far sì care. Più dei sonnetti erano allora coltivati e correvano per le mani, degli amanti specialmente, i madrigali, questo breve componimento che con minor fatica permetteva Γ espressione di quei brevi, spiritosi e stillati concetti che cominciavano a far le delizie d’ un secolo che n’ usò fino alla sazietà e al ridicolo. Erano questi rivestiti di note dai compositori di musica, i quali ne lasciarono farragini a stampa, e se ne dilettavano le geniali conversazioni. Fece in essi il Cebà quasi un’anatomia della passione amorosa, premettendo a una serie di essi: « Per alcuni madrigali in materia di baci amorosi », essendo forse prima andate per le mani del bel mondo napolitano le « Canzoni sui baci » del Marini, men certamente pudiche delle produzioni del Nostro, che ben mostra coll’ a-bituale riservatezza di appartenere ad eletta società. Hanvene d’ingegnosissimi ed espressi felicemente, come questo che spiega l’infausta origine del suo ijmamoramento, costatogli poi tanti dispiaceri : Piangea Filide mia ; Et io soavemente Bevea con gli occhi il pianto suo sovente. Ma ’l pianto a poco a poco D’intorno al sol de’ suoi begli occhi ardente Fiamma tornando e foco La mia vista pietosa Bevve tra Tacque oimè la fiamma ascosa. GIORNALE LIGUSTICO 417 Di questi madrigali molti pur se ne componevano allora d’argomento sacro e divoto, e più di tutti ne fece il Grillo, e alcuni pure il Cebà, frammisti cogli altri nell’ edizione padovana , benché non si piegasse a contentarne ogni richiedente, come appare da questa sua lettera « ad Incerto. Grandi huomini può essere, come voi dite, che sieno nella nostra Città in tutte le professioni ; ma se ce ne sono in quella della Poesia, ogn’ altro sicuramente sarà, che io , il quale in essa non riconosco d’ essere, nè professore, nè grande. Ha-vrei con tutto ciò ubbidito al vostro comandamento, scrivendo qualcosa ad honore della beatissima Vergine, se mi trovassi in mglior dispositione per poter iarlo non del tutto ordinariamente : ma perchè quei fiori, eh’ io potrei mandarvi , per si eccellente giardino assai vili riuscirebbono, io vi priego a scusarmi, s’invece d’essi, vi mando una di-votissima, et ardentissima volontà, eh’ io havrei di scrivere degnamente di si alta Regina ; e vi ringratio dell’honor, che mi havete fatto, a giudicarmi degno d’ esser annoverato ira i celebratori delle sue lodi ; le quali perch’ han più bisogno di chi sappia cantare che stridere, voi mi farete favore di raccomandarle a chi s’intenda più che non fo io delia musica del Paradiso; et a registrarmi nel numero de’ vostri servidori. Genova (1) ». Coi madrigali, e anche coi sonetti, si musicavano in Italia da molto tempo anche le « Canzoni originali italiane dette frottole » che furono ripubblicate nel 1509, « già stampate nel 1504 — 8 composte da Onoirio Antenori padovano ». E successero poi le Canzonette, nuovo genere di poesia piacevole e leggera, alla quale si applicò per tempo il Chiabrera con metro nuovo per noi e più adatto alla musica. Il Chiabrera tutto intento a rinnovare il Parnaso italiano, anche nel (1) Lett. cit. pag. 61. Giorn. Ligustico Anno X. 27 4i8 GIORNALE LIGUSTICO metro, sulle orme dei Greci, introdusse, specialmente per gli Schermi quella stessa misura per la quale era divenuto in Francia celeberrimo pietro Ronsard (1524-85) alla corte dei Vallois, il cui libro Degli Amori era stato commentato dal Mureto, venuto poscia in Italia per isfuggire al rogo minacciatogli in Tolosa (1). Ne lo aveva probabilmente udito parlare in Roma il Chiabrera, che v’ avea avuto « con lui famigliarità » (2), e innamoratosi di quei modi, li aveva imitati in quelle canzonette che già dicemmo aver egli mandato in Genova al Castello. Fu tra esse certamente quella che comincia Damigella Tutta bella, e che dovette sicuramente esser letta dal nostro Ansaldo, il quale vi calcò sopra la sua Vedovetta Ritrosetta mandandola 111 luce prima che al Chiabrera, come vedemmo, venisse ciò fatto in Genova della sua. Io non so se il Chiabrera alludesse a questa specie di plagio , e a relativo compenso, scrivendo il 21 di Luglio 1596, l’anno stesso che uscirono a stampa le Rime del Cebà, al Castello da Savona: « ben parmi che quei versi non siano di tanto pregio, quanto egli reputa ; tuttavia io vorrei eh’ essi fossero di stelle, e tali che bastassero a torle quel Polidoro, di cui già facemmo consiglio io e voi (3); e il primo d’Octobre: « Gran dono mi ha fatto il Sig. Bernardo Castelletti; duoimi del mio piacere che sua Signoria si sia privata di cosi preziosa gioia; (1) Charles Dejob, Marcantonie Muret, Paris, 1881. (2) Spotorno, Vita del Chiabr. prem. all’ Amedeide. (3) Lett. cit. pag, 137. GIORNALE LIGUSTICO 419 e veramente in sua mano era meglio collocata per tutti i conti, ma ancora perchè costì da molti poteva sì nobile disegno vagheggiarsi, dove qui come ella recrei gli occhi miei, ella ha fornita Γ opera sua. Tuttavia io me ne tengo assai buono ; è ben vero che Γ inchiostro mio non si deve compensare con l inchiostro di Polidoro; ma il Sig. Bernardo governato dal suo gentile animo vuole sovrastare agli amici negli atti di gentilezza: V. S. gliene baci le mani di grazia (1) ». Aggiungerò qui a schiarimento che il Chiabrera, corto allora di denari, procacciava di farne anche per via di quadri, e che il Cestelletto, lodato dal Cebà con un sonetto (2), poteva benissimo aver aggiustato quella questione col surriferito Polidoro, proprietà del Sig. Ansaldo nostro , eh’ era taccagno, anzi che no ; onde si racchiuderebbe anche nelle espressioni chiabreresche dell’ epigrammatico. Checche ne sia, la Damigella — Tutta bella non comparve alle stampe che nel 1605, benché nel 1599, forse anche a rivendicare il suo, publicasse il Chiabrera in Genova le sue Maniere de’ versi toscani, in Canzonette, come disse l’amico suo Lorenzo Fabri, del quale avrò da riparlare, a G. B. Doria dei Signori di Sassello, cui le dedicò, fatte a richiesta di Musici·, il qual Fabri riscontrò l’uso del quaternario in Guittone, e dell’ ottonario in Bonagiunta. Sullo stesso metro indirizzò il Chiabrera al Cebà una Canzonetta, alla quale questi rispose colle stesse rime pubblicandole entrambe in Roma nel 1611 (3), con che pare fosse fermata la pace. Pare ciò non di meno che il Cebà, venuto poscia in cognizione, forse per mezzo di Andrea Spinola, dei versi del (1) Pag. 140. (2) Rime, ediz. rom. 1611, pag. 424. (j) Pag· 706. 420 GIORNALE LIGUSTICO Ronsard, imitati dal Chiabrera (i),fece su di essi uno studio particolare, e ne lasciò un’ imitazione in francese nelle sue Lettere (2), la quale mandò a suo fratello Fra Gian Lanfranco in Malta, scrivendogli: « Io ho dato nel francese, fratei mio dolcissimo; e non so quo spiritu: perchè non credo però d’ haver tanta cognitione di quella lingua , che possa assicurarmi di scriver in essa senza haver bisogno di dieta: nè son tanto invaghito di quella natione, che non mi venga voglia di ridere, quando veggo la nostra gente azzuffarsi per amor d’essa. L’ affettion mia in questo genere non passa i confini d’Italia; o, se pur gli passa, io amo il Francese in Francia, e lo Spagnuolo in Ispagna (3) »... E in francese scrisse allo Spinola :... « Ce que vous dictes de Ronsard ie l’attribue partie a la vostre modestie, e partie aussi a la vérité ; car ie scai bien, que les Poetes, ainsi qu’en chantant ilz sont hors du sens, aussi en sondant ses conceptions et ses mots ilz vont bien souvent hors du parler de la commune. C’est (:) Ecco un tratto del Ronsard, nelle Gaytei (T. Vili , p. 305» ediz-1609), al quale s’inspirò forse il Chiabrera nella Damigella·. Ores amis, qu’on oublie De 1’ amie Le nom qui vos coeurs lia : Qu’on vide autant ceste coupe Chere troupe Que de lettres il y a. Aggiungerò che in questa R. Universitaria si conservano due soli dei dieci volumi delle opere del Ronsard collo stemma degli Spinola , alcuno dei quali dovette darli, per coscienza, ai Gesuiti, che distrussero il resto. Quella edizione è del 1597, ed è probabilmente la stessa che Andrea Spinola fece conoscere al Cebà. Moltissime edizioni furono fatte del Ronsard dal 1567 al 1629 e, dopo due secoli d’oblivione, un’altra a Parigi nel 1857. (2) Pag. 37. (3) Pag· 35· I GIORNALE LIGUSTICO 421 bien vray, qu j} me ixiainte chose en matière du langage francois; et notamment au regard du prononcer: mais vous estes mon précepteur déclaré (1) »... E di quella sua imitazione parlò pur pubblicamente al Chiabrera, che si battezzava il Pindaro Savonese, scrivendo al Castello (2) ; poiché pur levandolo a cielo nel sonetto che comincia : Cigno gentil fra i· più famosi cigni, gli dice pure : Tu ben nobili voci in ciel sospigni Tra la via greca, e ’l bel camin Francese (3) H paie che infine ne convenisse il Chiabrera stesso, poiché, difendendo quel metro, che non trovò allora in Italia se non pochissimi imitatori, lasciò scritto nel suo Dialogo. — Il Gerì , stampato per la prima volta in Genova verso il 1825 con le. Alcune Prose Inedite di lui : « se la Spagnuola e la Francese, lingue nobilissime, sono ricche per varietà di versi, non pare buon consiglio che la Toscana pur con due qualità di versi solamente (4) »... Egli è però da osservare che il Chiabrera si limitò ad imitale del poeta francese poco più del metro, e neppur questo servilmente , gareggiando del resto nello stile, e nelle espressioni coi migliori modelli italiani, e insistendo fin quasi all’ ultimo della sua carriera poetica nel perfezionare questo genere di lirica, la quale condusse quasi alla fattura di quella strofa legata colla seguente per mezzo dell’ ultimo verso tronco, che tanto contribuisce oggi all’ armonica magia dell’aria teatrale; com’ è a vedere nelle Canzonette eh’ ei pubblicò in Roma nel 1625. (0 pag· 135· (2) Pag. 64. (3) Ediz. rom. p. 289. (4) Pag. 60, dove si vede omesso il verbo stia 0 altro simile. 422 GIORNALE LIGUSTICO Il Cebi invece, nemico della lima, siccome ebbe, già vecchio, a confessare egli stesso (i), la diede a rotta sulle orme del Francese, a lui prediletto perchè, senza il freno dell’ arte, si lasciava andare ovunque lo menasse il capriccio , radendo non di raro miseramente il suolo; di che valga qui per esempio, fra gli altri che ci occorrerà di addurre, questa strofa (2): Non vo’ dir eh’ io salissi dove con altri spron Ronsardo arriva ; ma dirò ben, che fìssi tenendo gli occhi ov’ ei la mente apriva forse del tutto in vano non terrei dietro al suo camin sovrano. Prima di seguirlo in quella sua nuova e malaugurata via, giova arrestarci alquanto sulla sua prima e assai più pregevole forma di versi, anche affine di ritrarne quello ch’ ei ce ne lasciò e del costume de’ suoi tempi e delle sue particolari vicende. Dell’ acconciatura femminile d’ allora è un cenno nel madrigale che comincia: Se ben con fosca piuma Talhor Lidia tu vuoi Celarne il vivo sol de gli occhi tuoi. E altrove ricorda della chioma le. aurate, spoglie col velo. Nell’ ode che comincia Odi Euterpe in dolce vanto narra come vide-Lidia bianco vestita al chiaror di luna. A’ tornei, usi allora a farsi anche in Genova, si vede che prese parte egli pure colle dieci ottave, che cominciano Questa leggiadra e gloriosa donna, (1) Lettere cit. pag. 233. (2) Ediz. rom. pag. $95. GIORNALE LIGUSTICO 423 dove ci rappresenta quel pubblico divertimento siccome scuola ad alte imprese per via d’amore, con felicità di versificazione da lui non più raggiunta dappoi nei poemi. Suona P ultima così: E ’l trionfo gentil poniam davanti A voi donne leggiadre, et amorose Se forse a rimembrar degli altrui vanti Fesse ancor voi di trionfar bramose: Che se mirando i nostri lunghi pianti, Veniste al penar nostro un di pietose, Uscendo per costei del volgo fuora, Con questi heroi trionfereste ancora. Ultimo sospiro dei tempi cavallereschi in Genova. Allo stesso argomento appartiene il seguente sonetto : Heroi fur questi, i cui sembianti alteri Donne leggiadre hor vi mostriam presenti. Dov’ altri oprar col senno, e con le menti ; Et altri ’n terra, e ’n mar fur gran guerrieri. E portiam chiusi i nostri aspetti veri; Ch’a sì splendide stelle, e sì lucenti, Anzi vedreste a vostri soli ardenti Vie troppo foschi i nostri volti, e neri. Heroi non siam: se non che l’alme ancelle, E toccan dolcemente il nostro core Le vostre fiamme avventurose e belle. Che se sì vago, e sì leggiadro ardore Po’ mai levarne in ciel fra P auree stelle, E noi per voi siam· tanti heroi d’amore. Seguono altri pregevoli sonetti sopra Scipione, Cesare e Cicerone in quelle stesse feste rappresentati, come anche Goifredo di Buglione, sul quale è il Madrigale che comincia I son quel pio guerrero, e forse Toquato Tasso che fu certamente, come già vedemmo, ψ. 424 GIORNALE LIGUSTICO soggetto di pubblica mostra, celebrato con altro Madrigale, che temina Hor vi mostriam P altrui prigion d’ amore, e forse coi due altri che li tengono dietro. Dal sonetto « Per lo corpo della Beata Caterinetta Genovese », che comincia Se ben tu giaci in questa tomba estinta (i), apprendiamo che già prima del 1596 era stato scoperto al pubblico, poiché segue O del ciel di Liguria ardente stella, pur ti veggio di morte ogn’ hor ribella vestita ancor di vive carni, e cinta, e termina : E per virtù del tuo celeste zelo dopo lungo girar di lustri, e d’ anni vive il tuo corpo in terra, e 1’ alma in cielo. D’ altri usi del bel mondo d’ allora ci occorrerà far qualche cenno parlando degli altri scrittori erotici. Passerò qui a dire quel poco che ho creduto poter indovinare degli amori del Cebà. Che fossero questi reali ce lo attesta egli stesso nel sonetto che comincia Vere fur le mie fiamme e i miei furori, onde già tante voci al vento sparsi, e gelai veramente un tempo, ed arsi dietro a vane speranze e vani amori (2). (1) Ediz. padov. c. 55 v., rom. pag. 376. (2) Ediz. rom. pag. 8, dove, oltre altre varianti, è notevole la chiusa, che dice ai lettori : se « credeste il mio fervor gentile » ahi che vaneggia il pensier vostro ; ed erra ; eh’ io fui dinanzi a Dio sempre ’l più vile, e ’l più gran peccator, che fosse in terra, sostituita alla padovana : Lasso non hebbi amando hora tranquilla E m’ ebbe sempre la mia Lidia a vile : E le pene fur mie, le gioie altrui. GIORNALE LIGUSTICO Ch egli ardesse già prima di andare a Padova, lo dice nell’ altro sonetto, che comincia : Qui dove 1’ alma al proprio ben si dura Già per due lustri amor mi strugge e sface. E quella « pudica donzella », eh’ ei vide « sul verde Aprile degli anni », pare fosse un’Aurelia Spinola, non so se quella stessa alla quale scrisse il P. Grillo una lettera (i) per la morte del Cardinale Spinola suo Cognato. Ad essa allude più volte nelle sue Rime stampate in Padova, e fra le altre, nel verso E quella che m’ ancide è un’ Aurea Spina (2). A lei scrisse forse da Padova il sonetto che comincia Gran tempo agli occhi miei fan notte oscura, e il seguente Aura gentil che con soavi giri ecc. pregando 1’ aura stessa : Apprendi (a lei) il suon de’ miei dolenti guai. Ma pare che essa, più che di poetiche svenevolezze si dilettasse delle reali contentezze di un matrimonio conveniente, onde 1’ Ansaldo, già lamentatine i primi segni nel sonetto riportato qui sopra — Lasso già vegg ’io ben..., — aggiungeva poi fattone certo : ... in questo duro occaso Con troppo maggior forza il cor mi punge Il giorno altrui più che la notte mia; e: E se fui vile amando, 0 pur s’io piacqui Tutto sommerse il mio silenzio in lethe... E 1’ antiche mie gioie i veggio scorse E son rimaso abbandonato amante. (1) Ediz. veneta 1612, pag. 35. (2) C. 23. r. 426 « GIORNALE LIGUSTICO E ricorda ancora il suo gran disdetto qualificandolo pure per gentile, ed eccitatore in lui di sdegno gentile e riconoscente, perchè ... col solo sguardo il cor pascendo mai non m’empisti d’altra gioia il petto (x). E abbondando di gentilezza, cosa facile in chi non pensò mai da senno ad ammogliarsi, ne cantò forse il parto con un sonetto riprodotto nell’ edizione romana (2), alquanto variato, chiudendolo : Chi vedrà poi la facitrice, e ’l fatto dirà che non potea gentil donzella spiegar più vivo in carne il suo ritratto; e quando, rimase vedova, ancor giovane, ripigliò forse a corteggiarla platomicamente, specie nella Vedo vetta Ritrosetta : e a lei morta sciolse la bella canzone Vive lagrime ardenti (3), della quale basti qui riprodurre questi versi: .... Quale oimè ti riveggio Aurelia honor dell’ alte mie querele, f Aurelia mia, per cui tal’ hor potei Dettar sì dolcemente i versi miei. E se ben morte il carcer tuo dissolve, Tu m’imprigioni ancor tra poca polve. Altra sua fiamma, giacché confessa egli stesso d’aver amato e celebrato in versi due nobili donzelle, pare sia stata Geromina Di Negro, resasi poi monaca benedettina in santa (1) Ediz. rom. pag. 112 e anteced. (2) Pag. 173. (3) Ediz. padov, c. 65. GIORNALE LIGUSTICO 427 Marta, e già morta nel 1611, quando ei la pianse pubblicamente colla canzone indirizzata al fratello di lei suo amicissimo. Chi sarà, che la voce almen mi freni mentre che gli occhi porta Stefano mio dinanzi al duro caso de la sorella morta di lagrimosa pioggia anco ripieni? (1) Che la conversione di lei influisse non poco sulla sua, lo dice il sonetto seguente (2): Donna fra gli agi, e le delitie uscita a questa luce, e senza legge, 0 morso de’ suoi begli anni il più fiorito corso fra le lascivie, e gli otij ogn’ hor nodrita Che vegg’ io far colà mesta, e romita, ove giunge a gran pena il lupo, e Γ orso? forse piange la colpa, al cui rimorso la pena ai piè di Christo era sparita? Oh che bastava quel, ma perche sente difetto in me dì quel dolor, eh’ in lei abbonda ad hor ad hor più vivamente Per far col pianto suo quel, eh’ io devrei col mio rinfresca ogn’ hor nuovo torrente, ove sommerga i suoi peccati, e i miei. Della pubblicazione delle sue Rime in Padova dovè certamente andar lietissimo Ansaldo pel favore con che fu accolta dagli amici suoi di gioventù, specie fra i molti Spinola, e più da Leonardo, del quale v’ eran celebrate bellamente e con più libera vena che altrove, le nozze: e che vi volle aggiunti infine e all’ amico dedicati « certi pochi suoi versi, gli anni addietro per chi li stimò da più che non erano, mandati alla stampa», i quali «in quella guisa, si può dire (sono sue parole) che sotto la vostri ombra ci nacquero, così sperano con miglior sorte appresso a’ vostri rinascere, (1) Ediz. rom, pag. 275-80. (2) Pag. 29. 428 GIORNALE LIGUSTICO quando lor non è conceduto morire ». Furono esse ristampate lo stesso anno, non so se per opra di qualche Spinola 0 di Giacomo Re, più volte ricordato, in Anversa. Ne fece Γ Autore dono agli amici presenti e lontani, e con qual compiacenza si rileva dalle due copie che ne mandò a Paolo Agostino Spinola, una delle quali dorata per Ginevra moglie di lui, e un’ altra per chi n’ avesse desiderio senza « il fastidio di trattar con librari » ; e : « alla donna vostra dichiarate qualche passo, che sia a proposito per lei... La maggior grazia che possiate farmi... è, che leggiate ogni di qualcosa del mio, non per lodarmi, di buon poeta, che già 1 havete fatto a sufficienza; ma per commendarmi di buon ritorico, se talvolta vi sentirete mosso dalle mie parole a, sospirar del tempo, e da me, e da voi speso in abbandonarci nell’ amore delle cose terrene... (3) ». Ne diede lo Spinola quella terza copia al P. Don Angelo Grillo? Lo farebbero credere le due letterine seguenti « Ad Incerto: Chi ha scritto questi versi, e chi ve gli ha donati son tanto amici fra se, che uno può fare la parte dell’altro, e soddisfare per amendue. E però tiene Ansaldo Cebà d’ ha-vervi visitato, quando v’ha visitato Paolo Agostino Spinola: e vi bacia le mani. — Chi ha scritto questi versi espone anch egli il petto alle saette, che fulminate contro il ghiaccio dei peccatori. E pero, havendo da voi ciò che gli bisogna, lascia volentieri il rimanente a chi può fastidirvi meno, eh’ ei non farebbe: il quale, fra P altre sue rusticità, seppe sempre fai poco 1 arte del visitare, e meno quella dell’ essere visitato. Piaccia Dio, che dell’ efficacia, con che voi parlate, faccia fede anch’ egli quando che sia con la riforma de’ suoi costumi; e vi dia prosperità di proseguire la legatione commessavi a gloria del suo nome, e salute dell’ anime (4) ». (3) Lett. cit. pag. 44-46. (4) Pag. 57. GIORNALE LIGUSTICO 429 Che il P. Grillo disapprovasse quei versi e più s’ offendesse di questo fare, si rileva dai seguenti tratti di Lettere, in una delle quali « al sig. Girolamo... : Io Γ amai sempre per una certa similitudine di studii, se ben con molta dissimilitudine d ingegni e di progressi..,, (i) »; e al sig. N... « Le orecchie m hanno aperti gli occhi. Sia benedetto Dio. Non eh’ io mi risolvessi mai di creder in tutto a quel pallor venale, che tale panni il pallor de gl’ippocriti; nè che ogni precipizio di quella lingua stimassi io una sentenza; con tutto ciò quella affettata mansuetudine, et quella artificiosa humiltà mi parvero talhora assai ingenue, et le rimirai assai spesso con gli occhiali dell’ affettione.... Hor raccogliendo il merito della causa, veggio, che non è altro, che procella di superbia, et d ambitione, suscitata dal vento dell’arroganza... (2) »; e « al sig. Alessandro...: Chi sparge lascivi carmi nelle sue carte, semina semi di morte nell’ altrui cuore... E tali poeti possono chiamarsi più tosto sensali di Venere , che seguaci delle Muse (3) ». Di superbia accagionò pure il Cebà da Parigi quel prelato ch io già supposi Fabrizio Cibo, in occasione di certo suo Dialogo, del quale avea colà «pubblicato i difetti »; di che 1 Ansaldo « ad Incerto:... giudicatemi almeno conoscente della charità, che m’ havete fatto mortificandomi: et assicuratevi, che voi non siete stato sì pronto ad abbassar il mio capo nella città di Parigi, eh’ io non sia più desideroso di baciar il vostro piede nel Palazzo di Vaticano, e vivete felice (4) ». Non potè però il Cebà resistere a chi il corresse lodandolo e richiamandolo a quei principi di religiosa morigeratezza ai quali era stato educato coll’esempio in famiglia e coi (1) Ediz. ven. 1616, T. 2. p. 233. (2) Pag. 235. (3) Pag. 237. (4) Pag. 118. 430 GIORNALE LIGUSTICO primi rudimenti nella scuola. Uno dei primi dovette essere Fra Dionisio Carmelitano scalzo, che gli mandò suoi versi latini in lode dell’ ingegno di lui e della pietà del padre, al quale rispose... » : delicta sunt juventutis..., perillustrem ne me voces... Quem toties rigidis fixit mea musa sagittis, Hoc pro carminibus cernere posse negem. Debita nec tanto persolvere jura parenti Jus mihi, cui nati fervida cura tepet (i). Gli dovettero pur far sentire i loro gemiti di colomba le sorelle mQnache già ricordate, richiamandogli al pensiero la pia genitrice, ond’egli: Quel ventre voi portò, che me sofferse; chi dispiegò la mia, la vostra spoglia con felici dolori al mondo aperse. Un amor ne congiunse, et una voglia: onde, se ben per vie troppo diverse, pur è dritto, eh’ un porto ancor n’ accoglia (2). Molti altri Religiosi, dei quali ci conservò i nomi da lui venerati nelle Rime stampate in Roma, si adoperarono alla sua conversione; Fra Melchior della Madre di Dio, Antonio de Meneses, Bernardino Zannone, gesuita modenese attivissimo nelle opere di pietà in Genova, Bernardo Coimago, Ferdinando di Santa Maria, Gian Girolamo Sopranis; nel che più ■accorto di tutti pare fosse il de Meneses, al quale indirizzò questo sonetto: * Libero nacqui Antonio e dal mio petto liberi sensi in ciascun tempo uscirò; ne mai per non far noia, 0 dar diletto le labbra mie pensier servili aprirò. Ond’hor, che contrastar feroce aspetto la libertà della mia musa io miro non posso sostener 1’ altrui disdetto senza che metta il cor qualche sospiro. (1) Pag. 229. (2) Rime, ediz. rom. pag. 52. GIORNALE LIGUSTICO 431 Che se ben franca ogn’ hor la mia parola mirando a generosa, e nobil meta intorno a i cori altrui guerreggia, e vola, Non son però si libero Poeta che non impari ancor da la tua scola la lingua armar di libertà discreta (i); la quale santa libertà gl’ispirò, fra gli altri mille versi consimili, il sonetto che comincia: Sotto vii signoria l’alma si sdegna; e gli amorosi preghi al vento sparsi dogliosa piange; e tenta alfin ritrarsi ove più care voci amor m’ insegna (2). La più esplicita riprovazione delle Rime stampate a Padova fece egli scrivendo «li 23 di Giugno 1618 » a Sarra Copia: «se certo mio libretto, ch’intendo essere nelle vostre mani, fosse quello delle mie passioni giovenili, io vi supplico, che, senza havere scrupolo d’idolatrare, voi ne facciate di presente un sacrificio a Vulcano; perchè fermamente, tra 1’ intemperanze di chi lo scrisse, e le scorrezioni di chi 1’ impresse, non è lettione degna, nè della modestia, nè della gentilezza vostra (3) ». Di quei primi amori però, colpa anche il gusto de’ suoi tempi, risenti fin che visse, la potenza nello stesso tempo eh’ ei pur la combatteva e la deplorava, studiandosi invano di coonestarla, come nei versi seguenti: Error Lidia non fu, eh’ al primo tempo tu nobil donna, e bella perchè la musa mia ti difendesse da l’ingiuria del tempo •senza speme, 0 promesse mi discoprissi il volto, e la favella. (I) Pag. 116. (2) Pag. 112. (3) Pag. H· 432 GIORNALE LIGUSTICO po’ ben gentil donzella senza vergogna ancora cercar lode tal’ hora de le gratie dal cielo a lei concesse se si compiace humilemente, e gode, che si dia gloria a Dio ne la sua lode (i). E questo malaugurato miscuglio di profano e di sacro doveva infine dargli il maggior dolore che mai provasse, udendo poco prima della sua morte eh’era stata interdetta da Roma, la lettura del suo poema La Reina Esther. Aggiungerò qui, a suo discarico in parte, che i succitati versi sono il principio d’una lunga canzone che succede a un sonetto « Ad Ambrosio Spinola », che Andrea Spinola il filosofo, dovette un tempo, con altri non pochi amici, tentarlo, dicendogli l’Ansaldo: Ma tu sospiri almen 1’ antico errore (2) ; e finirò col sonetto che si legge dopo un altro « Per Gian Vincenzo Pinello ». Quel, che d’amor terreno 0 vivo, o spento, o pur tra spento alcuna volta e vivo, e con esso di doglia, e pentimento confusamente in queste carte scrivo Non prender mai lettor per argomento da penetrar de’ miei pensieri al vivo ; ne per ritrar l’effigie, e ’l portamento di colei, eh’ amo in parte, e parte schivo. Di diverse stagion diversi affetti, e giungendo tal’ hor gli altrui co i miei sotto un medesmo nome avien eh’ io detti. Ma quel, eh’ ogn’ hor di me pensar tu dei è che gli altrui biasmando, e i miei diletti non rendo a Dio giamai quel, eh’ io devrei. (1) Rime, ediz. rom. pag. 632. (2) Pag. 242. GIORNALE LIGUSTICO 433 V. SOMMARIO Altri erotici liguri. Leonardo Spinola. — Gabriele Chiabrera. — Sue relazioni con D. Angelo Grillo. — G. B. Pinelli. — Gaspare Murtola. — Sue battaglie col Marini. — Cesare Orsini. — Scipione della Cella. — Fulgenzio degli Allori. — Gio. Ant. Ansaldo. — Giangiacomo Cavalli. Ant. Giulio Brignole Sale. — Luca Assarino. — Pier. Greg. de Ferrari. — Bernardo Morando. Credo qui opportuuo di aggiungere al Cebà gli altri scrittori che in Liguria lo seguirono, qual più qual meno, nel-Γ erotico sentiero; e giustizia vuole che incominci dal suo indivisibile Leonardo Spinola. Aggiunse egli dodici componimenti, sonetti il più, a quelli dell’ amico, se men felici per lingua e chiarezza, distinti però da certa impronta petrarchesca, e alcuni sacri all’ amore del patrio suolo e della madre defunta, come questo sonetto Già scorgo il dolce mio terreno amato E’ colli intorno dilettosi e gai, Dove tal’ hor afflitto ritrovai Pur qualche posa al mio misero stato. Ahi fallaci pensieri, ahi crudel fato. Tristo mio cor che vaneggiando vai? Tu pure lo ’ntendesti, tu pur sai, Che se n’ è quindi ogni tuo bene andato. Morte ne trasse ratto ogni tua gioia, E ciò che ad huom vie più diletta e piace, Ti s’ è voltato in pianto, affanno, e noia. Pur la sù teco madre ancor verace Spero fruir diletto, e che non muoia; E sol di mio tardar forse a te spiace. Invaso del resto anch’ egli dalla frenesia erotica dominante, aggiunse un sonetto per un’ antica amante invecchiata, che Tra le ceneri vivo il foco serba. In quattro ottave, scritte forse per un torneo, invita le belle donne ad esser cortesi, terminando * che negletto giacer mio don disdegna, ove lunge d’amore orgoglio regna. Giorn. Ligustico, Anno X. 434 giornale ligustico Vi si legge pure un madrigale « in morte del sig. G. B. Pona accademico Filarmonico », che comincia Dal bel paese uscia Ch’ Adige parte con Γ altero corno, Sì soave armonia, Che ne gioia la terra, e P acqua intorno. Di Gabriello Chiabrera non ispiacerà leggere qui alcune notizie non indegne, io credo, d’ esser aggiunte alle tante che ne diede il suo passionalissimo P. Spotorno. Fervida e dolorosa fu per lui la scuola d’ amore fin dai primi passi. Ve lo eccitava forse maggiormente l’esser presto rimasto libero di sè con discreta eredità dello 210 Giovanni, che lo avea fatto educare in Roma, e un cui giardino vendè nel 1572 al Cardinale Luigi Cornaro Camarlingo di S. Chies Ammesso in pari tempo nella costui corte, e rimastovi alcuni anni, v’ ebbe quell’avventura di sangue da lui ricordata con un Gentiluomo Romano, che lo costrinse a lasciar Roma, nè gli diè pace se non dopo dieci anni, di che cantò poi in un’ ode a Iacopo Corsi: Godo che Roma, ove speranze altere, Ma sempiterni affanni han posto albergo, Io legge prescrivendo al mio volere Quasi sviato ho pur lasciato a tergo. .................> · · Î .... verso la patria i passi movo. Ove entro due begli occhi è il mio diletto (1) Fu forse allora ch’egli cambiò, ingentilendolo, il cognome di Zabrera in Chiabrera, poiché nel 1573 a Massimo suo fratello scriveva sotto quel parentado Paolo Manuzio in Roma, ricordandogli con desiderio le sue frequenti visite alla sua (1) Delle Poesie, Parte 2.\ Genova, 1606, pag, 78. GIORNALE LIGUSTICO 435 tipografìa, onde « tua suavitate (ei gli dice) exhilarabar delectabar ingenio: doctrina etiam, in qua mentiar si tibi quemquam ex aequalibus tuis anteponam ; nonnihil interdum et levabatur labor meus, et adiuvabatur industria ; e gli parlava di Gabriello frater tuus omni laude ornatus adolescens, de quo, ita vivam, ut saepe cogito, ut valeat etc. Dubito pure che non ultima cagione delle sue amorose avventure fosse il non andar in esso di pari la bellezza del volto con quella dell’animo, dicendoci il Nido Eritreo (Rossi) nella terza parte della sua Pinacotheca eh’ egli era deforme anziché no nella bocca; di che pare anche testimone il XXIX de’ suoi scherzi intitolato « Amante brutto », che qui riporto : Su questo scolorito Languido volto amar non puoi bellezza, Ama fede, ama amore, ama fermezza In questo cor ferito. Non è d’ amor più degno D’una fiorita guancia un cor fedele? Ma tu pur sempre 1’ amorose vele Spieghi all’ usato segno. Ahi ! non vedrò mai il dì, che a me le giri, Mosse dal vento di tanti sospiri? (i) De’ suoi eccessi in amore fece egli stesso, già vecchio, una candida confessione, dicendo di sè nella propria vita: « del rimanente egli fu peccatore, ma non senza cristiana divozione » ; e più ne lasciò intendere scrivendo « di Savona a’ 4 dicembre 1599 » a Bernardo Castello: « io comunico con V. S. come un caro e buono vostro amico si trova acconcio in maniera, che non può usare con donna niuna; e ciò non avviene per numero di anni, 0 per debolezza di complessione, ma per molti segni è malìa, di quella sorte che chiamano legatura (2) ».... Non so se ugual motivo ad- (1) Opere, ediz. ven. 1730. T. 2, p. 210. (2) Lett. cit. pag.. 149. 436 GIORNALE LIGUSTICO ducesse il Galileo a Gio. Francesco Sagredo, medico in Padova, il quale gli scriveva a Firenze il 24 maggio 1614, accennandogli i « disordini... infiniti... fondati sopra la divulgazione», da lui fatti in Padova, aggiungendo « essere pericolosissimo dire ad ognuno la verità e tanto che basterebbe il dirla per procurarsi inevitabilmente la morte per mano altrui (1) ». Io non so se alludesse agli amori del Chiabrera Gaspare Murtola, del quale appresso, dedicandogli da Torino la sua Canzone intitotata, — La bella mendica, — da lui stampata con altre a Venezia nel 1608, e ristampata nel 1618 (2). Certo è eh’ io non ho mai veduto ricordato il Murtola dal Chiabrera. Lo stesso Murtola pubblicò allora un sonetto, che credo dover qui riprodurre, lasciandone i commenti al lettore di questo quadro letterario di quei tempi, eh’ io mi studio di ritrarre al vivo colle ombre stesse che li avvolsero: Pastor che suona una Cornamusa Statua del Sig. Gabriel Chiabrera. Come plettro trattar rustico, e vile Puoi qui Pastor (3), dove più dolcemente Suonan Cetre d’avorio, onde la mente Rapita è in ciel da 1’ Armonia gentile? Come ruvido suon dove con stile Alto, e canoro rimbombar sovente S’ ode la Tromba nobile, e possente , A cui forse hoggi altra non è simile? Taci va fra le selve, ove tu lasso Da 1’ aratro ti posi, e fra gli Armenti Porgi a le tue fatiche alcun ristoro. Ma tu rapito da le fila d’ oro Qui cupido venisti, e a quegli accenti Stupido poscia rimanesti un sasso. (1) Favaro, op. cit. II, p. 51. (2) Pag. 64. (3) Erano stati pubblicati a Venezia presso Sebast. Combi nel 1604, con altre Rime del Chiabrera, i suoi Schermi pastorali, pag. 82-92 in 12. GIORNALE LIGUSTICO 437 Avea forse temuto il Murtola che il Savonese gli disputasse il segretariato, eh’ ei teneva alla corte di Torino ? Certo è che non riuscì perciò ad impedire che il Pastore· v’ ottenesse favori speciali, e cominciò anzi forse a scavarsi quella fossa, dove il vedremo travolto da men circospetto Poeta. Erasi il Chiabrera, desideroso di migliorare la sua fortuna mercè ,la protezione di grandi mecenati, aperto il passo a quella Corte verso il 1601, poiché scriveva il 21 di giugno da Savona al Castello: « che in mano di quel Principe (Carlo Emanuele) sieno quelle Canzonette hannomelo scritto il sig. Gio Maria Lugaro (1), e dettomelo il sig. Martino Doria, e ora me lo confermate voi con sì buon testimonio : 10 argomento meco medesimo' se all’ Altezza di Savoia non dispiacciono gli scherzi, che sarebbe dei versi fatti· da senno? e che contengono le glorie de’ suoi Avi, e in cui ho posto 11 fine del mio vivere dopo la vita? » (2). Singolare veramente si mostra in questo il Chiabrera, che sebbene dato ai diletti, felice, più che in altri componimenti, negli erotici, allora letti con tanto entusiasmo, pare egli ne facesse pochissimo conto, desideroso essendo di gloria più solida e durevole, onde le sue prime pubblicazioni che risalgono, per quanto se ne sa, al 1582, furono d’ argomento eroico, e nel 1588 avea già dato fuori in Genova un libretto di canzoni sacre. Ma poiché io lo vengo qui rappresentando quale scrittore erotico, devo ricordare le sue relazioni colla celebre comica Isabella Andreini (3), abilissima nell’ attirarsi il favore, anzi (ij Stava, dice lo Spotorno nelle note alle lettere Chiabr., al servizio della Corte di Torino, ed era figlio di Giammatteo maestro di cappella nella metropolitana di Genova. (2) Lett. cit. pag. 153. (3) Francesco Bartoli, Notizie istoriche de’ Comici italiani, I, 9. 433 GIORNALE LIGUSTICO 1’ entusiasmo del bel mondo, mantenendosi moglie fedele e pudica, onde potè, senza ammirazione, godere i favori del-Γ Eminentissimo Cinzio Aldobrandini, che in Roma le diede un sontuoso banchetto, presenti sei cardinali, il Tasso ed altri poeti chiarissimi. Io non so se si trovasse tra questi anche il Chiabrera; certo è che quando nel 1584 ella venne a rappresentare in Savona, ei la celebrò sublime imitatrice in bassi manti d’ alto furore, e : Allor saggia tra ’l suon, saggia tra i canti Non mosse piè, che non scorgesse Amore, Nè voce aprì, che non creasse amanti, Nè riso fe, che non beasse un core (1). E se il Chiabrera n’ uscì colla sanguinosa briga, già notata dallo Spotorno, potè consolarsi delle lodi resegli in pregevoli versi dalla stessa Andreini, che li pubblicò con molti altri suoi in Milano nel 1601, dedicandogli al suddetto Porporato, protettore pur anco del Savonese, del quale imitò pure la nuova maniera di verseggiare nell’ ode che termina : Ma s’ avvien eh’ opra gentile Dal mio stile L’alma Clio giammai risuone; Si dirà : sì nobil vanto Dessi al canto Del Ligustico Anfione (2). Seguono, sonetti e madrigali amorosi, non si dice a chi diretti (3), e questi versi indicano quanto forti fossero i sentimenti di lei : Sciogli tu Morte pia quei nodi, eh’ hanno Quest’ alma avvinta ; che ’l morir a tempo È don dato dal Cielo, e don felice. t (1) Opere cit. T. 4 pag. 52. (2) Rime dell’ Andr. in 4. pag. 23. (3) Pag. 25-29. GIORNALE LIGUSTICO 439 Nata in Padova nel 1562, moglie di Francesco, che facea le parti d’ innamorato nella stessa compagnia dei Gelosi, nel 157S, morì in Marsiglia del 1604. Quanto al teatro, pel quale, non pe’ suoi versi, come già notò lo Spotorno, consegui il Chiabrera assegnamenti pecuniarii, specie dal Granduca di Toscana (1), era allora tutt’ altro che scuola di buon costume. Non erano le comiche, le quali andavano attorno, tutte dello stampo dell’ Andreini ; e alle testimonianze che già ne addusse il eh. Belgrano, posso qui -aggiungere quella di Ansaldo Cebà nel madrigale seguente: Fuggi Donna il theatro s’ aver pur vuoi con disusato stile il testimon delle tue gratie a vile. Non splende in su le scene lume, se ’l lume tuo fra lor s’ aviene : e se ben fra lo stuolo degli altri spettatori tu siedi a mirar solo d’ esperto imitator 1’ arte, e i colori ; fin eh’ altro a noi mirar che te non lice spettacol sei tu più che spettatrice (). Sappiamo poi dal P. Visconti, che Anton. Giulio Brignole Sale, tutt’ altro allora che scrupoloso, si decise a mandar subito in collegio a Perugia suo figlio, avendo saputo eh era stato alla commedia. Di teatro molto occupossi il Chiabrera anche in Savona, scrivendone egli stesso al Castello « a 6 di febbraio 1594: (1) «A’ 5 di luglio 1601 » scriveva il Chiabrera «di Savona» al Castello : « il sig. Gran Duca ha ordinato, che io sia scritto fra’ suoi gentiluomini con 1’ ordinaria provisione, e mi lascia in mia libertà e che stia a casa mia, 0 a Firenze 0 dovunque io voglia » (pag. 157); e « di-Firenze li 22 febbrio 1615: le mando una festa fatta in Palazzo dal Gran Duca alla nobiltà di Firenze: mi comandò, che introducessi il ballo e la mascherata con alcuna invenzione ; ciò che io ho fatto. V. S. vedrà in disegno , ed ella come padrone argomenterà cosa fosse co suoi colori, cioè scena musica e abiti, tutte cose veramente nobili » (pag. 238). (2) Rime, 1611, p. 146. * 44° GIORNALE LIGUSTICO una comedia presa a recitarsi e combattuta da vari accidenti, mi ha tenuto e tienmi cosi schiavo, che non ho più d’ una mezz ora di libertà, e però non vi scrivo; solo vi torno a piegare che mi mandiate in carta disegnato un abito per mascherare quattro gentil’uomini nostri, che hanno un balletto per intermedio ; vorrebbero un abito succinto, ma pieno di svolazzi. La comedia reciterassi il sabato grasso; siete invitato, e non mancate » (i).... E che anche versi d’amore dettasse il Chiabrera, anche per soccorrere a’ suoi bisogni finanziari, si rileva da più luoghi delle sue lettere al Castello, il quale pur ne [lo richiedeva, servendo essi anche a lui per mantenere ed accrescere la sua clientela, onde gli scriveva il Poeta, « di Savona a 18 di maggio 1594:... Versi io non ho da mandarvi; vi diedi quelli scherzetti li quali composi questo carnovale trapassato, e composili per donna, ch’era con noi il giovedì glasso in Lavagnola (2)»; dei quali gli avea già scritto: « Sono nove di numero; fate conto che ogni musa n’ abbia composta una, ma allora ch’esse vogliono dimenticarsi la loio dignità (3) ». Già fin dal 1591 gli avea scritto di alcune sue « poesiette » a penna con in fronte il « nome di alcun signore Genovese (4) »; e il 9 di maggio 1594: « perchè il mondo e in costume che i signori sogliono riconoscere chi loro dedica versi, io voglio farvi queste due righe. A me non piace, nè sta bene ricevere da’miei Signori nè danari, nè cosa che per prezzo possa stimarsi....; ma perchè le cortesie sono anco segno d’ onore,... se a me venisse dato un disegno, una medaglia 0 simili frascherie delle quali io son (1) Lett. cit. pag. 102. (2) Lett. cit. pag. 105. (3) Pag. 103. (4) Pag. 65. GIORNALE LIGUSTICO 44I vago, non le rifiuterei (1) ».... Ai pittori chiedeva loro disegni, scrivendo, per esempio, al Castello « a 10 di settembre 15 91 : Io vorrei uno Arione che sopra il Delfino toccasse Γ Arpa, e un Cigno che si covasse Leda (2) ». Lo ringraziava poi gli 11 giugno 1592, che glie ne avesse mandati quattro, i quali, ei gli scriveva, « mi rasserenarono la mente e Γ animo, e vi giuro che sopra Orfeo, che primo mi venne in mano, io stetti mezz’ ora in dolce pensiero (3) ». E « a 20 di novembre 1594: Il sig. Cesare Corte mi ha favorito di un suo disegno... Medea che uccide i figli, certamente fatta con gran giudizio e diligenza... Voglio fare un librettino di voi altri maestri moderni... Dal sig. Gio. Batista Paggi aspetto un Capaneo fulminato... (4) » : e « a 3 di gennaio 1595: Voi altri Pittori mi avete onorato con disegni secondo il mio genio; ma cotesti ricchissimi nè disegno, nè medaglia; per loro senza ricrearsi sarebbono rimaste le muse: or sia con Dio (5) ». Stretto dal bisogno, s’aspettava soccorso dal ricchissimo sig. Gio. Vicenzo Imperiale, cui dedicò un suo Poemetto, scrivendone al Castello «· li quattro settembre 1606: perchè cotesto Signore vi ha fatto motto di alcuna cosa, che al presente da me si desidera, io dico a V. S. che se più ne parlerà può dirgli, che come mio grande amico sa la tempesta, che mi turba in questo tempo; e che se mai fui soccorso, non già mi sarei mai più opportunamente. E però se dee uscire di sua mano niuna galanteria, ella sia in modo, che io possa valermene. Dico che cosi gli dica, se però parrà a V. S. di doverlo fare, e se occasione ve ne verrà. (1) Pag. 104. (2) Pag. 71, (3) Pag· 77- (4) Pag. 116. (5) Pag- 119· 442 GIORNALE LIGUSTICO Alcuna volta emmi donato, o anello, o oro in modo gentilmente lavorato, che volendo servirmene in moneta gran parte si perdea per la manifattura, si che al cortese donatore costava il prezzo che in me non veniva; e specialmente ciò m’ intervenne col Serenissimo Duca di Mantova (i) ». Dalle lettere successive si rileva eh’ egli ebbe « L. 500 da quel Signore », «essendo io posto » scriveva al Castello li 10 ottobre 1610 « in disordine per sinistri patiti in Roma » (2); e che dovette infine restituirgliele, non essendosi forse egli mai (cosa per lui onorevolissima) voluto piegare a lodarne i meriti poetici, come fecero Γ Achillini, il Marini ed altri, lieti, più che del vederlo correre sulle loro orme secentistiche, de’ suoi regali; benché, sperando forse ancora di ammollirne 1’ animo, ne lodasse lo Stato rustico, di cui parle-rassi in seguito, con un sonetto stampato coi versi di moltissimi altri sullo stesso argomento in Venezia il 1613, nel quale dice all’ Imperiali: Certo di Pindo in sulle cime erbose Ti detta Euterpe i così vari accenti; e : .... ti spira il grande Apollo istesso (3). (Continua). N. Giuliani. (1) Pag. 181. (2) Pag. 201. (3) Ristamp. nelle op. ven. 1731, T. IV, p. 353 ; magra lode certamente se si paragoni con quella dell’ Achillini, che celebrandone il Padre Gio. Giacomo, fatto doge, diceva a lui: Sì pellegrina penna, e sì felice, Ond’ han le carte tue lumi sì vivi, Onde mai sempre meraviglie scrivi, Certo svelta 1’ hai tu dalla fenice. (L’Incoronatione ecc. Venezia, 1618, pag. 4). — E non è d’altronde improbabile che il Chiabrera avesse fatto sentire a voce il suo vero giudizio, benché « li 7 luglio 1611 » scrivesse al Castello, per desiderio d’ esser egli stesso risparmiato : « non è niuno, che di mia bocca abbia sentito parola d’ altrui biasimo, e sempre intuono che è dovere perdonare agli uomini i lor falli » (pag. 208). GIORNALE LIGUSTICO 443 ILLUSTRAZIONE STORICA DI ALCUNI SIGILLI ANTICHI DELLA LUNIGIANA opera postuma del Cav. Avv. eugenio branchi edita da Giovanni sforza (Continuaz. v. fase. VII-VIII, pag. 255). Sigillo XI e XII. Sigillo di Iacopo Malaspina, Marchese di Panicale, estratto dalla impronta, in cera rossa, esistente sopra una lettera dei figliuoli di lui, Cornelio e Alfonso, dell’ anno 1588, che si conserva nell’ Archivio domestico Malaspina di Mulazzo. Porta esso in rilievo Γ originario stemma dei Marchesi di Mulazzo del secolo XIII, cioè lo scudo sormontato da una aquila, con un leone rampante coronato, in mezzo a due spini secchi, e la leggenda attorno : IAC. MAL. DE PANI che vuol significare lacobus Malaspina de Panicale, poiché dal feudo di Mulazzo emerse quello di Villafranca, da quello di Villafranca quello di Monti, e da questo nel 1535 ne venne Panicale. Iacopo figliuolo di Giovan-Spinetta del già Tommaso, Marchese di Monti 0 Monte-Simone in Lunigiana, succeduto con molti fratelli al padre, mancato nel 1528, si divise con i medesimi nel 1535; ed ebbe per sua parte il feudo di Panicale che aveva sotto di sè, oltre il Castel di Licciana, le ville ancora di Piancastelli, Solaro, Bosco, Broia, Delan-tonio, S. Martino, Maggiolo, Gambonasco, Corto, Monti-cello, Carpanedo, Groppo, Porciglia, Mulesana, Campo, Ameta, Basseta, e Martole, con fuochi 0 famiglie 200 circa; feudo che egli resse trentotto anni, cioè fino alla morte, avvenuta nel 1573. Pochissime sono le notizie che si hanno di questo Marchese Iacopo e del lungo governo che tenne delle sue Ca- 444 GIORNALE LIGUSTICO stella, potendosi dire soltanto che nel 1543 comparve con altri Marchesi di Lunigiana, per mezzo del suo mandatario Grimoaldo de’ Nobili da Vezzano, innanzi ai regi Commissari Imperiali a Milano per porger reclami all’ Imperatore contro la superiorità e giurisdizione, che il Senato di detta Città, in virtù del privilegio di Vinceslao del 1396 concesso a Giovan-Galeazzo Visconti, pretendeva sopra i feudatari della provincia , istanza che sortì 1’ effetto desiderato ; e che 1’ 8 di marzo 1549, ottenne investitura delle sue terre dall’Imperatore Ferdinando I. Molte cose al contrario potrebbero raccontarsi dei figliuoli suoi, che divisisi sul bel principio, dopo la morte del padre, rimessero poi quasi subito in comune le loro castella, e nel 1577 stabilivano il maio-rascato , consentito dall’ Imperatore per la successione feudale a favor dei figliuoli del secondogenito in fra essi Alfonso; atto del quale pentito Conìeiio, non fu poi in tempo a rivocare, e così nocque alla prole sua, perchè avanzato negli anni e celibe, quando acconsentì alla primogenitura, non credeva potere aver figliuolanza. Fino a che vissero questi due fratelli, ressero secondo i patti il feudo paterno in comune, e morto uno, lo governò solo l’altro, finché mancato ultimo Cornelio nel x616, il primogènito di Alfonso, Marchese Ferdinando, successegli. Fu nella comunione di governo che Cornelio e Alfonso si servirono del Sigillo paterno, del quale si tratta. In esso l’aquila, che è certo quella imperiale, non è bicipite come nei più dei luoghi ordinariamente si vede, ma ha una sola testa, e questa non è coronata. Tale uso si è veduto praticato più volte dai Marchesi Malaspina, ed a cagion d’esempio, citerò, fra gli altri, un Sigillo del Marchese Morello di Mulazzo, il quale si osserva impresso sulla soprascritta di tre sue lettere, degli anni 1615, 1632 e 1633, che si conservano nell’ Archivio Malaspina in principio citato. GIORNALE LIGUSTICO 445 Questo secondo Sigillo è ovale, un poco più grande del precedente, e assai meglio disegnato; porta nello scudo lo stesso leone coronato, in mezzo a due spini secchi, ed è sormontato da un morione, con rabeschi, e questo da una corona marchionale, con sopra l’aquila ad ali spiegate. Ma, oltre a ciò, ha una particolarità, che in verun altro Sigillo della famiglia Malaspina s’incontra, cioè che gli spini verso la fine di ogni aculeo laterale, anzi che un altro secondario ambo portano una piccola croce, la quale se non vuole indicare il più piccolo aculeo, cosi risultato per la rozzezza del-Γ incisione, io non saprei davvero a che attribuirla. Esso in uno dei detti anni, cioè nel 1632, oltre che dal Marchese Morello, fu usato dal figliuolo di lui Azzo-Giacinto. Morello, figliuolo del Marchese Francesco-Antonio, di cui fu trattato nel Sigillo N. IX, rimasto nel 1590, alla morte del padre, fanciullo, assunsero l’amministrazione delle cose sue e il reggimento del feudo che gli spettava, i tutori e curatori testamentari, i quali lo tennero, fino a che, superati i 25 anni, non divenne maggiore, lo che si verificò nel 1607 poi-, eh è era nato nel 1581. Egli era padrone della metà del feudo di Mulazzo, che era indiviso con due agnati, cugini tra loro, Giovan-Cristoforo e Francesco-Maria, sicché un anno per ciascuno, Morello solo, Giovan-Cristoforo e Francesco-Maria simultaneamente, ne teneano il governo, senza che mai si fosse potuto procedere ad una divisione, ad onta ancora che i tuttori o curatori di Morello ogni sforzo facessero per ottenerlo, impediti costantemente dalla opposizione dei consignori prenominati. Divenuto maggiore, molto operò per la incolumità feudale propria e dei condinasti della provincia, e per la loro pace e tranquillità; ed il carattere suo, mansueto e conciliatore, gli procurò tale stima, anche fuori del proprio paese, che ebbe 44 6 GIORNALE LIGUSTICO commissioni difficili e delicatissime dall’ Imperatore e dal Granduca di Toscana, alle Corti dei quali molto tempo trattennesi, e in ordine a cui gioverà notare, che quando il Re di Spagna, come duca di Milano, nel 1605 trasmesse , citatorie non solamente ai Marchesi di Malaspina di Lunigiana, ma anche al Granduca di Toscana e alla Repubblica di Genova, come successori in alcune terre e castella già Malaspina, perchè in virtù della concessione di Vences-lao, sopra ricordata, si apparecchiassero a giurargli fedeltà, a riconoscere il Senato di Milano come supremo loro Signore, ed a render conto dei dazi e gabelle che come regalie dirette dovevano considerarsi, fu Morello il promotore e il sollecitatore con favorevole risultamento, della celebre Lettera Circolare dei Marchesi Malaspina ai Principi d’Italia, di cui molto parla la storia e che alle stampe ripetutamente fu data. Nel 1618 e 1627 intervenne abilmente, anche colle armi alla mano, nella pace tra gli uomini di Mulazzo e il Marchese Cesare di Malgrato, a tra i Marchesi Spinetta di Olivola e Rinaldo di Suvero, e nell" un caso e nell’altro seppe evitare conflagrazioni, che, cominciate col sangue, avrebbero potuto tutta la provincia mandar sossopra. Nel 1634, trovandosi a Vienna alla Corte Imperiale, difese col suo coraggio e liberò armata mano da grave pericolo, prodotto da un tumulto, 1’ Imperator Ferdinando II e la sua famiglia, sicché officialmente glie ne fu contestata gratitudine per mezzo del Gran Cancellier di Boemia. Ed ecco in proposito quanto lo stesso Marchese Morello scriveva da Vienna alla Marchesa Caterina, sua moglie, a Mulazzo , il dì 3 giugno : « e son sicuro mi darà non poco » onore.... Γ affare che io feci l’ultimo giorno delle Rogationi » mentre Sua Maestà stava alla predica con la moglie e » figliuoli, essendosi sollevata una voce che disse la chiesa » casca, e chi ribelione e tradimento, onde la gente si mosse GIORNALE LIGUSTICO 447 in cosi fatta maniera, che le Maestà furono dall’ impeto del popolo, che v’era numerosissimo, levate dal loro soglio; la maggior parte de’ cortigiani attesero alla salute propria, e la guardia medesima se ne andava; io colla spada alla mano mi spinsi avanti, e feci tanto che arrivai dov’erano li Padroni, e per appunto giunsi in tempo di sollevare la Maestà deH’Imperatrice, caduta per la confusione del popolo ; soprarrivò la Maestà dell’ Imperatore, così mescolato colla buglia, e ci fu che rintazzare a far tanta strada per metterli in salvo in Coro, non sapendo alcuno che confusione fosse questa, et intorno et in aiuto delle Maestà loro non si troviamo più che tre o quattro, ancorché vi fosse tutta la Corte. Io non mancai di far quello che dovevo, arrestando la guardia, e non abbandonandoli mai, a segno che essendo le Maestà loro tutta benignità, mi hanno mostrato gratitudine, e fu vivamente gran protezione della Vergine che fra tante labarde et arceri, ne’ quali mi posi senza riguardo, per salvezza de’ Padroni, io non restassi offeso ». Infine nel 1647, allorché l’impero per sopperire alle spese della guerra che aveva colia Francia, cercò vender Γ alto dominio de’ feudi Malaspina alla Repubblica di Genova, unitosi Morello con gli altri condinasti della provincia, ricorse con un memoriale al Consiglio Aulico contro questa determinazione, e 1 imperatore riavuta promessa che avrebbero i Malaspina raccolto e inviato sussidi, siccome a vassalli incombeva, nel 1628 rescrisse, doversi recedere, siccome recedeva e recedè, dalla meditata vendita, spinto anche Cesare a ciò dall’interesse che vi prese il Governo Spagnolo, il quale avendo poco innanzi ipotecato Pontremoli coi Genovesi, erasi accorto che contro il suo dominio del Milanese un troppo potente e pericoloso vicino andava a formarsi. On tempi fortunatamente passati nei quali non si poteva in Italia che camminare colle altrui stampelle! 448 GIORNALE LIGUSTICO Sigillo XIII. Sigillo di Giuseppe Malaspina, Marchese di Fosdinovo, esistente in bronzo presso gli eredi del Nobile Sig Antonio Ricci di Pontremoli. Esso è semplicissimo, e non porta, meno i soliti scartoni allo scudo e un filo di perlette alla circonferenza che lo racchiude, nessun’ emblema o fastoso ornamento. Lo spino fiorito, con tre aculei da ambo i lati, e non tre da uno e due da un altro, siccome originariamente dal Marchese Opizino fu praticato, costituisce il distintivo della sua famiglia, e due lettere G ed M, che si veggono una da una parte e una dall’ altra dello scudo, indicano il nome suo. Giuseppe, in forza della primogenitura istituita nel 1529 dal padre Marchese Lorenzo sul feudo di Fosdinovo, gli successe nel reggimento dello Stato il 1535; e tal successione fu a lui contrastata non dai fratelli, ma dallo zio Galeotto, fondandosi, per quanto sembra, sulla nullità della divisione che con Lorenzo e Lazzaro, altri fratelli, fino dal 1510 avea fatto, senza che per altro, nulla in ordine alla divisione medesima, anche per giudicato del Vicario Imperiale di Genova, cui dall’’ Imperatore per la vertenza fra i contendenti furon rimesse, rimanesse a suo danno innovato. Poco o nulla che meriti ricordanza si conosce del governo che tenne questo Marchese delle sue Castella. Può dirsi solamente, che non fu turbato da scandali o delitti veruni; e che imparentatosi egli con la famiglia Doria, per avere sposato Luigia di Andrea, il celebre, 0 com’ altri vogliono di Tommaso suo fratello, si dovè a lui, se per mezzo di tal cognazione, molte soldatesche spagnuole al servizio di Carlo V, alle quali era stato impedito per i guasti che vi recavano, consumar l’inverno del 1537 nel vicino territorio di Lucca GIORNALE LIGUSTICO 449 e di Pisa, non passassero sopra quello di Fosdinovo e degli altri Marchesi della Lunigiana, ove erano state inviate; la qual cosa dovè essere di gran ventura per quelle povere popolazioni, da che per ottener 1’ espulsione delle ricordate truppe dai territori pisano e lucchese, Alessandro de’ Medici Duca di Firenze aveva dovuto personalmente ricorrere al suocero suo Imperator Carlo V. Visse Giuseppe fino al 1565, ed il figliuolo secondogenito Ippolito gli successe, premortogli il primogenito Lorenzo, che condotto al soldo dai Medici, fu Colonnello sotto Cosimo I. Sigillo XIV. Sigillo con stemma notissimo dei Cybo-Malaspina Signori di Massa e Carrara in Lunigiana. La ragione per la quale ho creduto riportar qui questo Sigillo è stata quella, che oltre osservar il rilievo assai ben disegnato e composto, presenta 1’altro pregio non meno valutabile, che in esso, come in una moneta da otto bolognini, riportata dal Viani (Memorie della famiglia Cybo e delle Marche di Massa a. c. 210 e Tav. XII N. 4) Antonio-Alberico Cybo-Malaspina si dà il titolo di Duca di Massa 1’ anno medesimo in cui questo gli fu conferito dall’imperatore, perchè trovatone la impronta sopra una Lettera di Alberico del 9 marzo 1665 che nell’ Archivio domestico dei Marchesi Malaspina di Mulazzo si conserva, è ragionevole se non certo il ritenere che all’ anno precedente si debba la sua fabbricazione attribuire. Infatti dall’ Imperatore Leopoldo I ottenne Alberico la erezione di Massa in Ducato è di Carrara in Principato, mentre per lo avanti Principato era Massa e Marchesato Carrara, ed insieme a tutto ciò, ebbe il raro privilegio di poter crear Cavalieri insigniti di croce d’oro, siccome dal correlativo diploma riportato dal Lunig Codex Italiae Diplomaticus, Tom. II, col. 399 si rileva. Giorn. Ligustico. Anno X. 29 45 ο GIORNALE LIGUSTICO Il Sigillo, di cui è parola, porta all’ intorno la seguente iscrizione: A. ALBERICVS. CYBO. MALASPINA. SACRI. ROM. IMP. MASSÆ. DVX. I. Fu primo Duca, quarto principe, ottavo Marchese, e quarto Signore di questo nome di Massa e Carrara, mentre per tal ragione come Principe della Casa Cybo viene appellato II: incominciò a regnare dopo la morte del padre Principe Carlo nel 1662 e morì nel 1690. Sigillo XV. Sigillo usato dal Marchese Αζζο Giacinto Malaspina di Mulazzo in Lunigiana, tratto da una impronta, in cera rossa di Spagna esistente sopra una sua Lettera dell’anno 1705, che si conserva nell’ Archivio domestico più volte ricordato. Presenta lo stemma primitivo della famiglia, che assunse nel 1221 due spini secchi, con in mezzo il leone rampante coronato, figurati sopra un fondo collocato in petto ad un' aquila a due teste con le ali spiegate, come negli emblemi imperiali si vede, ed al di sopra, ampia corona marchionale. Nessuna particolarità offre questo Sigillo, tranne quella, che usato dal Marchese Azzo-Giacinto, ricorda un personaggio di qualche nome nella famiglia Malaspina, della quale i sigilli e gli stemmi tutti da me ritrovati ho fatto proposito conservar col disegno e in qualche modo illustrare. Il Marchese, di cui si tratta, fu Signore di Mulazzo e Carrara insieme con alcuni cugini, discendenti dallo stesso stipite, che fu il Marchese Azone, e Signore solo ed esclusivo di Madrignano, Monteregio e Pozzo, e quindi ancora di Calice, feudi tutti che dall’Imperator rilevavano. Tenne il governo di queste castella, Pozzo non compreso, dal 1705 al 1746, mancato in Mulazzo nel 24 gennaio dell’ anno ultimamente indicato. GIORNALE LIGUSTICO 4SI Figliuolo del Marchese Carlo-Maria, appena compiti i 18 anni, fu dal padre nel 1692 mandato a militare in Germania, iaccomandato all’orgoglioso General Caraffa, poco avanti che dal comando dell’ esercito d’ Italia venisse per la sua crudeltà richiamato. Quali gradi occupasse nell’esercito, non si conosce: si sa però che nel 1700 era tuttavia sotto le armi, e che la sua condotta non era plausibile, sicché 1 Imperatore aveva diminuito la sua grazia verso la famiglia di lui: ma questi furono trascorsi giovanili, che potè in seguito far dimenticare. In fatti, incominciata la guerra di successione alla Corona di Spagna, militò in Italia sotto il Principe Eugenio, e presso Mantova (1701) fu inalzato al grado di Pro-Maresciallo; seguì poi questo celebre Capitano nella spedizione di Piemonte, e per sei continui anni tra le armi distinsesi e distinguevasi, quando morto sul finire del-1 anno 1705 il padre suo, fu obbligato a tornare nella Lunigiana, ove come primogenito assunse le redini dei propri Stati. Il momento della successione era diffìcile oltre misura. I Gallo-ispani, venuti in Italia per Filippo V, erano penetrati in Lunigiana, ed avevano nell’anno medesimo occupato a suo padre Mulazzo, distrutto Pagni, assediato e smantellato Ma-di ignano, ed obbligati tutti i sudditi di lui a riconoscere come Duca di Milano il Redi Spagna; mentre un forte presidio di essi, con un centro governativo straniero si era stanziato ad Aulla, aveva barbaramente distrutto dai fondamenti il castello di Podenzana: e dopo avere ovunque portato il ferro ed il fuoco, lasciata fortificata Aulla si erano i Gallo-ispani ritirati in Lombardia, ove la fortuna della guerra, che per essi incominciava a declinare in Italia, li aveva richiamati: per cui dovè Azzo-Giacinto pensare al riparo dei danni sofferti e a cercar modi, come vassallo di Cesare, di ricondur la provincia alla sua devozione, lo che gli venne dato di conseguire; imperocché, sciolto l’assedio 45 2 GIORNALE LIGUSTICO di Torino nel 7 settembre 1706, defezionato il Comandante di Aulla, che vi era stato lasciato da Spagna, e calati precipitosamente in Lunigiana li imperiali, unitosi egli con i medesimi, in breve ora, con la presa del forte di Avenzà, ultimo propugnacolo dei Gallo-ispani, furono questi dalla Lunigiana completamente cacciati, dovendosi al merito del Malaspina il piano strategico di campagna e di manovra dalle truppe . Imperiali seguitato e che tuttor si conserva, il quale oltre lo sgombro dei nemici dalla provincia, aveva lo scopo di tagliare a questi la strada sul mare, giunger loro alle spalle in Lombardia e colà da ogni parte chiuderli e circondarli. Ritornata così, per mezzo di Azzo-Giacinto, la Lunigiana alla quiete primiera, e rassicurati nelle loro sedi tutti i feudatari della medesima, in premio di questi servigi resi alla causa imperiale, allontanati tutti li oblatori, nel 1710 pel moderatissimo prezzo di trentamila fiorini imperiali ebbe egli il feudo di Calice, posto dal Fisco Imperiale per la decadenza del Marchese Doria agli incanti, e di cui era stato in precedenza fino dal 1706 Cesareo Amministratore. E tanta fu la stima e considerazione che allora e poi gli meritarono le dette cose e i suoi civili e militari talenti, che nel 1714 alla pace che fu conchiusa fra Luigi XIV e Γ Imperator Carlo VI per la successione al trono spagnuolo, egli pure, come tanti altri Principi e Generali, per discutere i finali capitoli vi fu chiamato; ma essendo impedito, vi mandò a suo rappresentante certo Dottor Giovanbatista Cioli di Mulazzo; e nel 1716 e 1717 ebbe dall’Imperatore commissioni difficili e delicate verso il Duca di Massa e la Repubblica di Lucca e verso detto Duca e i suoi sudditi; nel primo caso per indur pace tra loro, giacché si eran prese le armi, e nel secondo per sedare gli scandali che fra lo stesso Duca e i suoi sudditi erano occorsi; e nel detto anno 1717 e nel successivo 1718 temendosi sbarchi alla Spezia, per parte degli Spagnuoli, che in opposizione alle prò- GIORNALE LIGUSTICO 453 messe fatte al Romano Pontefice aveano occupato l’isola di Sai degna, e più perchè di là temevasi in Lombardia volessero penetrare, fu dal plenipotenziario imperiale in Italia Conte Borromeo-Aresi e dal Meresciallo Visconti più volte chiamato a consultazione sul da farsi in proposito, e sebbene i detti spagnoli non sbarcassero, nè venissero mai pei alcuna altra parte in Italia, i progetti e piani del nostro Marchese per opporsi ai medesimi, furono seguitati. Oltre 1 Imperatore, anco diversi Principi e Governi italiani si valser o utilmente del consiglio e opera sua in cose difficili ed onorevoli, cioè il Duca di Parma, la Repubblica di Genova, il Duca di Savoia e molti feudatari e condinasti della Lunigiana. A queste sue nobili qualità contrappose Azzo-Giacinto, nel desiderio di dominar solo, un odio implacabile trasmessogli dal padie contro i condomini di Mulazzo e Carrara, sicché veiso i medesimi procedette ad atti che al suo generoso caiatteie, fecero oltraggio, tanto più che il governo di lui a riguardo dei sudditi, avuto specialmente rispetto alle abitudini soldatesce contratte nella giovanezza, procédé mite e benigno; se non che forse i più gravi eccessi che rimpro-veiar gli si possono su tal proposito, debbono attribuirsi ai fratelli, perpetrati quando in sua vece e di sua commissione delle cose dei feudi tennero governo. Dalla moglie Lucrezia Avogadro di Brescia lasciò due maschi e una femmina, il primogenito dei quali Carlo-Morello successegli. Quando mori aveva 72 anni. Sigillo XVI e XVII. Carlo-Morello Malaspina, Marchese di Mulazzo in Lunigiana, usò questi due Sigilli per chiudere e contrassegnare le proprie Lettere, come si osserva in moke di esse, e in due special-mente del 1769 e 1774, che si conservano nel domestico Archivio della sua famiglia. 454 GIORNALE LIGUSTICO Nel primo Sigillo; in petto a un aquila grifagna ad ali socchiuse, con la corona imperiale tra le due teste, sta lo scudo, sormontato da corona marchionale, diverso alquanto dagli usati generalmente dai Malaspina, poiché quadripartito, ha a destra, in alto, lo spino secco, in campo d’ oro, e in basso il leone rampante coronato, in campo rosso, a sinistra, in alto, il leone predetto, e in basso lo spino come sopra, ed ha nel centro altro scudetto, colla insegna della provincia di Lunigiana, composto di una mezza luna, in campo diviso orizzontalmente in due parti eguali, rosso nella superiore, d’ oro nell’ inferiore: indicar volendo con tutti questi emblemi, il cognome, la qualità di Marchese e feudatario imperiale nel proprietario, o quella altresi di possessore di Stati in Lunigiana. Nel secondo Sigillo, dimesso il fasto che si scorge nel primo, poggiato ad un’aquila imperiale ad ali spiegate, avente nelle zampe una spada e uno scettro, e sormontata dalla corona marchionale, si vede lo scudo tracciato da una semplice linea, e bipartito orizzontalmente a sbarra, senza che vi sieno indicati i segni dei colori, avente nel mezzo eretto, ma poco ritorto, lo spino secco. Succeduto al padre Marchese Azzo-Giacinto (di cui il precedente Sigillo) nel 1746 fu Carlo-Morello il penultimo feudatario di Mulazzo, castello che come il genitore, ebbe in comune con altri consorti discendenti dallo stesso stipite, mentre, pur come il padre,, fu solo ed unico Signore di Monteregio, Pozzo, Calice, Veppo e Madrignano. Maritatosi con Caterina di Gian-batista Melilupi dei Principi di Soragna parmigiana, ebbe numerosa figliuolanza, sette maschi e sei femmine, che sebbene non giungessero tutti alla pubertà ed alcuni anzi morisser fanciulli, pure avendoli voluti educare convenientemente allo stato suo, somme non indifferenti gli occorsero, per cui e per alcuni debiti lasciati dal padre pel restauro dei danni GIORNALE LIGUSTICO 455 sofferti dai Gallo-ispani, versò alcune volte in bisogno, onde dovè aggravare di imposizioni i sudditi, alienare diverse rendite, fra le quali la miniera di manganese che estisteva in Calice, e infine vendere, siccome fece, parte del suo patrimonio feudale al Granduca di Toscana Pietro-Leopoldo, avendogli ceduto nel 25 settembre 1771 per lire toscane dugento sessantamila dugensessanta tre, soldi sette e denari quattro i tre feudi di Calice, Veppo e Madrignano. In fatti rimastigli tre maschi e quattro femmine, per collocarli nei collegi, istruirli e stradarli, portatosi nel 1762 con tutta la famiglia ed i servi in Palermo ove era Viceré un Fogliani zio della moglie, vi si trattenne per ben cinque anni, fino a che per mezzo del ricordato parente non ebbe collocato i tre maschi, il primogenito alla Corte di Parma, il secondogenito a quella di Napoli e il terzogenito nella marina Spagnola; e partendo dalla Sicilia per tornare a Mulazzo, volendo levare tre sue figliuole da un Convento di Palermo e ricondurle in quello delle Murate di Firenze, da dove precedentemente le aveva levate, una suora siciliana a bella posta dal Sommo Pontefice autorizzata a rompere la clausura, vele accompagnò: lo che dimostra con qual fasto straordinario e quasi che principesco in Sicilia si mantenesse. Ma anche precedentemente era largo nelle sue spese: e siccome non possono le cause di queste attribuirsi a vizi, che non si sa che ne avesse, ma sì bene ai bisogni sempre crescenti della famiglia, così è a credere che per essi le sue entrate non essendogli sufficienti, cercasse trar partito da ogni e qualunque risorsa: e fu per questo, che nel 1752 concesse la Dogana del sale, o come or si direbbe la privativa vendita del medesimo, agli appaltatori toscani contro i diritti sul libero commercio del sale, che con molto calore erano stati propugnati e difesi parecchi anni innanzi dal padre suo verso il Governo Imperiale, che li volea vulnerare, per cui i sudditi, e specialmente GIORNALE LIGUSTICO quelli di Madrignano, reclamarono all’imperatore, onde poco mancò, se i tempi fossero stati alla bisogna maturi, che, stancato l’Imperatore dei feudatari, non ne tarpasse in prima le attribuzioni, poi ad altri il sommo dominio delle terre loro non trasmettesse, ed in fine di ogni potere non li spogliasse; ma non avendo allora forza per troncare con un sol colpo la testa all’ idra del feudalismo che ai nuovi principii di libertà che allora in Europa cominciavano a sorgere non rispondeva , ogni suo tentativo inefficace rimase, e i poveri popoli dalle ritorte di un parzial dispostismo non poterono sciogliersi. In fatti nel 1753, un anno dopo il ricorso contro il Malaspina, tentò l’Impero cedere non so a qual Principe 1’ alto dominio territoriale dei feudi lunigianesi, e cercò togliere ai dominatori di essi il diritto di seconda istanza dalle sentenze proferite nei lor tribunali verso i vassalli, e nel susseguente 1754 tentò trarre loro il diritto di asilo e molti altri privilegi; conati tutti che, perchè i tempi, siccome ho detto, non erano opportuni, rimaser privi di effetto. Anche una forte ragione di stato fece alla Imperatrice Regina Maria Teresa nascere il pensiero di cedere e spogliarsi dei suoi diritti su i feudi di cui si tratta, lo che accadde nel 1760 quando volendo provvedere se non di un regno almeno del titolo regio il suo secondogenito Arciduca Leopoldo, entrò in trattative colla Repubblica di Genova di farne il cambio col-l’isola di Corsica, lo che penetrato dai Feudatari della provincia, i quali con simil fatto avvrebbonsi avuto il superiore sul collo, tanto dissero ed operarono, che, capi il nostro Marchese e il condomino suo di Mulazzo Giovan-Cristoforo, riuscirono anche questa ed ultima volta ad allontanare la burrasca che li aveva minacciati. Mori Carlo-Morello non vecchio, d’anni 65, nel 1774 in Firenze ove per affari si era recato, ed Ano-Giacinto suo primogenito ed ultimo feudatario di Mulazzo che licenziatosi GIORNALE LIGUSTICO 457 dal Servizio del Duca di Parma era per portarsi in altre corti più splendide, tornato dalla città in Lunigiana, il suo posto occupo; mentre Luigi secondogenito era Capitano di Cavalleria a Napoli, e il terzogenito Alessandro entrato conforme accennai nèlle marina Spagnuola incominciava a dar saggi di quello che divenne da poi, uno dei più celebri ed arditi navigatori d Europa. (Continua) VARIETÀ MICHELOZZO MICHELOZZI A SCIO Affeima il Vasari nella vita di questo insigne architetto e scultoie fiorentino, che « sono in Genova » di sua « mano alcune opere di marmo e di bronzo » (i) , ma nessuna memoria, e nessun documento conforta questa asserzione. Ben notò il Milanesi, che Γ unico ricordo occorsogli delle relazioni di quell’artefice con i genovesi, consisteva in un contratto rogato in Ragusa, fra Michelozzo e Ludovico de’ Pigli da Pisa, nella sua qualità di rappresentante di Girolamo Giustiniani da Garibaldo ed Edoardo Giustiniani da Fornetto Maonesi di Scio, col quale si obbligava di recarsi al loro soldo nell’isola per servire « e detti Mahonesi dell’arte » sua (2). Ecco nella sua integrità il documento, donatoci, come il seguente, dall erudito Milanesi (3) : In Christi nomine amen. Anno Nativitatis eiusdem Millesimo quatringçn-tesimo sexagesimo quarto, indictione xij die xvj mensis mah, Ilagusii coram testibus infrascriptis. Partes infrascripte videlicet Circumspectus vir (1) Opere (ed. Sansoi) II, 449. (2) Ivi, in nota. (5) Arch. Centralo di Stato di Firenze. Corporazioni Religiose soppresse Badia di F' - Exterorum. Tom. I, C. 301. Copia contemporanea. ' ‘ Flren«· 458 GIORNALE LIGUSTIGO Ser Ludovicus quondam Iohannis de Pillis de Pisis vice et nomine spectabilium et nobilium virorum Domini Ieronimi Iustiniani de Garibaldo et domini Adouardi Iustiniani dal Fornetto duorum ex mahonensibus terre Chii a quibus ipse ser Ludovicus habet commissionem et libertatem, prout infra apparet ex una parte, et egregius vir magister Michelotius quond: Bartolomei civis florentinus architettor (sic) ex altera parte ; tulerunt concorditer mihi notario infrascripto accordium pactum et conventionem in-frascriptam, volentes dicte partes scribi et registrari in libro diversarum scripturarum notarie Comunis Rausii pro maiori robora et cautela omnium contentorum in dicto accordio pacto et conventione scriptum (sic) in vulgari sermone tenoris infrascripti, videlicet. A di xyj di maggio 1464 in Ragusia. El circumspecto ser Lodovico quond: Iohannis de Piglis da Pisa al presente habitante in Rausia per vice et nome degli spectabili huomini messer Ieronimo Iustiniano da Garibaldo et messer Adoardo Iustiniano dal Fornetto dui de’ Mahonesi della terra di Scio dalli quali messer Ieronimo et messer Adoardo el decto Ser Lodovico disse hauere commes-sione et libertà allui data in Rausia adì... di maggio in presentia di M.° Bartolomeo da Genova corazzaro, et M.° Damiano da Genova balestriero habitanti in Rausia testimoni alla decta libertà et commissione data al decto ser Lodovico ad far lo infrascripto accordio pacto et convenzione colo infrascipto maestro Michdoxp. Et questo perchè seando giunti li detti Messer Gironimo et Messer Adoardo in Rausia et hauuto principio et colloquio col detto M.° Micheloqo non si potè finire et conchiudere per la subita partita delli decti Messer Ieronimo et Messer Adoardo. Imperò el decto ser Lodovico per vice et nome delli decti Messer Ieronimo et Messer Adoardo Mahonesi della terra di Scio ha concluso et fermato lo infrascripto pacto et conuentione collo egregio architettore et ingegnere M.° Michelo%o di Bartolomeo cittadino fiorentino presente et acceptante, cioè che ’l decto M.° Michelo\o bene et fedelmente sia tenuto et così obligasi et promette al presente andar a Scio e servire e detti Mahonesi dell’ arte del decto M.° Michdoxp bene fedelmente ad uso di buon maestro; et lo decto ser Lodovico in nome de’ predecti Mahonesi promette et obliga i detti Mahonesi a dar et pagare al detto maestro Michdoxp per suo salario et provisione a raxon de ducati trecento doro viniziani ciaschuno anno : et che la presente condocta del decto M.° Mi· chdoxp se intenda almanco per sei mesi, et tanto più quanto li decti Mahonesi et el decto M.° Michdoxp saranno daccordio, cominciando el GIORNALE LIGUSTICO 459 tempo el giorno del partire del decto M.° Micbeloxo da Raugia per andar a Scio; el qual partire debba essere infra sei o otto giorni proximi futuri, e avanti partendosi uno balenieri, el quale è in porto di Rausia patro-negiato per Iohanni di Dionisio d’Ancona, el quale vole andar a Scio. Et più promette el decto ser Lodovico in suo proprio nome sotto obligation di sè et suoi eredi et successor de’ beni et spetialiter et nominatim sopra case possessioni et molt’ altri beni del decto ser Lodovico mobili et stabili si trovasse in Pisa o nel suo contado, che in caso che’l detto M.° Micbeloxo sapresentassi a Scio a’ decti Mahonesi et alli lor servitii, come di sopra si contiene et essi Mahonesi non observassino al detto M.° Michelo^o el pacto et pagamento predecto ; in tal caso el decto ser Lodovico in suo proprio nome sopra sè, suoi heredi et successori et beni ut supra promette del suo proprio satisfare al detto M.° Micbeloxo et rifarli ogni danno et interesso nello quale per decta cagione fussi incorso ; dechiarando che ’l decto M.° Micbeloxo sia tenuto andar a Scio insieme col decto ser Lodovico in sul balenieri predecto padroneggiato per Iohanni di Dionisio d’ Ancona. Altramente non andando el decto M.° Micbeloxo insieme col decto ser Lodovico in sul decto belenieri ut supra: che ’l decto ser Lodovico non sia tenuto a quello promette in suo proprio nome al decto M.° Micbeloxo ma sia libero et franco el decto ser Lodovico dalla promessa predecta; promettendo la parte, cioè el decto ser Lodo-vico per vice et nome cjelli decti Mahonesi et suo proprio nome, ut supra per una parte, el lo decto M.° Micbeloxo in suo nome proprio tutte le cose soprascripte aver ferme et rate et attendere et observare et non contrafare, overo contravenire per alcuna ragione o cagione. Renun-ciando ambe le parti etc. Actum Rausii in notaria Comunis Rausii anno inditione mense et die suprascriptis, presentibus spectabili et generoso viro domino Bartolo de Goze iudice annuario et ser Iacobo Merlato et ser Xenophonte Philelfo cancellariis comunis Ragusii, testibus etc. Cum subscriptione notarii et eiusdem approbatione et sigillo Comuni-tatis Ragusii ad predictorum fidem. La ragione del trovarsi egli in Ragusa non si conosce ; ma è lecito credere vi fosse chiamato a dar opera a nuove fortificazioni, a fine di assicurare la città dalle minacce dei turchi; i quali appunto nel luglio di quell’anno tentarono, 460 GIORNALE LIGUSTICO sebbene senza frutto, di impadronirsene (1). E forse con lo stesso intendimento i Giustiniani lo richiamarono a Scio, temendo per avventura i Maonesi che all’ isola toccasse la sorte di Lesbo, incerti ancora se gli uffici del loro inviato a Costantinopoli potessero riuscire a buon fine (2). È ignoto tuttavia se Michelozzo si recasse colà. A. N. IL PITTORE DOMENICO UBALDINI detto PULIGO a Genova Poche ed inesatte notizie ci lasciò il Soprani del pittore Agostino Calvi, e non conobbe neppure il nome di Battista Grasso (3) ; sul che non ebbe maggior ventura il Ratti, ristampando corretta ed aumentata a modo suo 1’ opera di quel patrizio (4). Più largamente discorse di tutti e due l’Alizeri, recando parecchi documenti, che ci chiariscono della loro vita e delle opere ad essi affidate (5); osserveremo soltanto che noi non riteniamo, secondo egli afferma, una sola persona il Battista da Pavia, accettato nell’arte l’anno 1506, col Battista Grasso (6), poiché questi è veramente genovese, come vien dichiarato nel documento che pubblichiamo qui sotto. Ora questi pittori, che troviamo a lavorare di conserva in Palazzo nel 1532, dovevano otto anni prima condurre a termine due quadri, uno per la chiesa di S. Caterina e l’altro per S. Benigno, dei quali, essendo essi a Firenze, dettero il (1) Guglielmotti, Stor. d. Mar. Ponti/.t II, 353. (2) Hopf, Storia dei Giustiniani in Giorn. Ligust. A. IX, pag. 19. (3) Le vite de' pittori, scultori et architetti genovesi etc. Genova 1674, 71. (4) Vite de’ pittori, scultori etc. Genova 1768, I. 45. (5) Notizie dei professori del disegno in Liguria, Pittura, III, 267, 301, 397, 4.47. (é) Ivi, 179. GIORNALE LIGUSTICO 461 carico a Domenico degli Ubaldini, noto col nomignolo di Puligo, coma apparisce dal seguente contratto (1): Anno 1525, die xxj mensis decembris. Actum in Archiepiscopali curia Fiorentina presentibus ibidem providis viris Bernardino olim lacóbi del Camello pictore fiorentino, et Iohanne olim Gasparis Bartholi dicto Civanza de Florentia nuntio dicte Curie, testibus etc. Cum sit quod magister Baptista quondam Christophori Grasso de Ianua et magister Augustinus quondam Marsiani Calvo de Ianua, pictores Ia-nuenses intendant et velint perficere dua quadri d’ altare in civitate Ia-nuensi pro usu ecclesie Sancte Caterine de Ianua et pro ecclesia sancti Benigni sita extra Ianuam: Unde hodie hac presenti suprascripta die in presentia mei notarii — personaliter constitutus honorabilis vir Magister Dominicus olim Bartholomei de Ubaldinis civis et pictor florentinus nomine suo proprio et omni meliore modo locavit operas suas in pingendo incipiendo et finiendo dictas tabulas in civitate Ianue in locis et ecclesiis predictis dicto magistro Baptiste quondam Christophori et dicto magistro Augustino quondam Marsiani presentibus et conducentibus et acceptantibus, pro tempore et termino quatuor mensium incipiendorum die prima qua ipsi locatores et conductores comuni concordia egrediantur de civitate Florentie et proficiscantur et ibunt versus civitatem Ianue pro huiusmodi effectu, et ut sequitur finiantur; pro mercede et salario quolibet mense florenorum quindecim auri in auro latorum, solvendo per dictos conductores quolibet mense ratham, et cum pacto quod ultra dictos florenos 15 dicti conductores teneantur impendere, dare et subnmistrare per dictos menses dicto magistro Dominico quotidianas expensas victus prout qualitatem gradument statum dicti magistri Dominici; et cum pacto quod si finitis et completis dictis quatuor mensibus dicti duo quadri non fuisient et non essent ut dictur finiti et completi, quod dictus magister teneatur dicta duo quadra et seu tabulas ut dicitur perficere ad arbitrium boni viri ; et ipsi conductores teneantur prout promiserunt dare et solvere eidem magistro Dominico et paghare illiid idem stipendium et salarium, videlicet florenos quindecim auri in auro largos una cum expensis victus quolibet mense, et dicitus magister Dominicus promisit dictas tabulas laborare, pingere bene et diligenter secundum posse suum et scire suum; et e converso dicti conductores promiserunt dictos florneos xv auri in auro latos (1) Archivio Gen. de’ Contratti di Firenze. — Rogiti di S. Alessandro di Ser Carlo da Firenzuola not. fiorn.° Protocollo dal 1525 al 1530. c. 50 t. 462 GIORNALE LIGUSTICO quolibet mense solvere et expensas eidem pro dicto tempore summini-strare prout qualitatem et statum dicti magnifici Dominici ad arbitrium boni viri. Que omnia dicte partes promiserunt actendere sub pena florenorum 100 auri in auro latorum: que pena etc, etc. A queste opere del Puligo aveva già accennato Γ eruditissimo Gaetano Milanesi (il quale si compiacque donarci con altre molte, la copia del documento fatta di sua mano), aggiungendo essere « oggi assai difficile di accertare » se gli indicati « due quadri fossero veramente fatti dal Puligo », tanto più non esistendo più la chiesa di S. Benigno , nè ricordando le antiche Giude quadri di quel pittore; forse poteva essere di lui « una tavola di pittore ignoto » nominata dal Ratti come esistente in S. Caterina; « ma oggi non v’ è più (1) ». E a questa conclusione dobbiamo acquetarci anche noi. A. N. 'X UN DOCUMENTO SUL CONFOCO. Il decreto che qui pubblichiamo, è, per quanto ci consta, la più antica memoria intorno a questa costumanza, e non accennata da altri (2). Vi è ricordato un altro decreto del-Γ anno antecedente, che non abbiamo sortito trovare; non che alcune particolarità degne di nota (3). Cerimonia Servenda in Vigilia Nativitatis Domini 1530 die 23 decembris. Illustrissimus, et Magnifici Dominus Dux, et Gubernatores Excelsae Riepubblicae Genuensis in pieno numero congregati. In solemnitate Confoci in Vigilia Nativitatis Domini proxima celebranda decreverunt servari infrascripta : Et primo convocentur in aulam magna Palatij officium Magnificorum DD. Procuratorum officium monete, et ultra ea officia cives (1) Vasari, Opere con nuove annotationi e commenti di G. Milanesi, Firenze, ι§8ο, 472. (2) Cfr. i giornali Caffaro , 25 Dic. 1876, 24 Dic. 1877, 4 Febb. 1883 ; Cittadino, 2$ Dic. 1882, 4jFebb. 1885. (3) Bib. Univers. Leges et Decreta, Ms. C. VI. 1. GIORNALE LIGUSTICO 463 viginti octo, unius scilicet pro quolibet Albergo ab ipsa Ill.ma Dominatione eligendi. Item deliberaverunt ut pariter convocentur in dictam aulam in dicta Celebratione Magnificus Dominus Praetor, Magnificus Dominus Iudex Dominorum Antianorum, magnificus Dominus comes Philipus de Auria, Illustrissimus Dominus Sinibaldus Fliscus, et fiat notitia Illustrissimo D. Aadrea de Auria si placet ei venire, et interesse dictae Celebrationis quod id faciat si sibi libuerit. Item quod officiales omnes Rotae, ac Vicarius Magnifici Domini Potestatis, et Iudex Maleficiorum pariter convocentur ut supra. Presentari debeant in conspectu Illustrissimae Dominationis bacilia octo confectionum, et quatuor citronorum, et amphollas vini plenas sufficientes pro numero convocatorum. Emantur ceres duodecim cerae Albae accendendi in actu huyusmodi soleminitatis. Et est sciendum quod anno proxime elapso fuit decretum quod Illustrissimus Dux cum duobus Magnificis Dominis Gubernatoribus ex iunioribus accedat ad ponendum, et seu accendendum focum ipsi confoço ut fieri solebat per Magnificos Dominos Antianos. _ V RASSEGNA BIBLIOGRAFICA G. Urbini, La vita, i tempi e Velegie- di Sesto Properzio. Foligno, 1883. L’ A. mira principalmente a risolvere in questa prima parte del suo studio, che promette essere seguita da una seconda, la questione molto controversa della patria di Sesto Properzio. Veramente un fascicolo di 108 pagine per questa sola ragione può parere un po’ lungo, ma è giustizia avvertire che 1’ A. oltre una buona bibliografia di Properzio ed un’appendice in cui fa conoscere i lavori stranieri più importanti di critica sul testo Properziano, ha raccolto quante prove potevano venire in sussidio della sua tesi, segnatamente buon numero di inscrizioni fornitegli dalla sua Spello e dalla vicina Assisi. E di questo non possiamo dargli che lode. Con buona critica e secondo induzioni molto probabili, 1’ Urbini stabilisce 464 GIORNALE LIGUSTICO i natali di Properzio nell’anno di R. 696, valendosi opportunamente del noto passo dei Tristi (lib. IV, el. X, v. 51-54) e dell’ anno in cui nacque Ovidio, che è certo doversi porre nel 711 di Roma. Lo stesso non può dirsi, per avviso mio, circa la seconda controversia, la patria del poeta. Riservandosi « di trattare ampiamente in altro volume la critica generale del testo delle elegie e la relativa storia degli studi di emendazione » (p. 41) — Γ A. comincia dal provare 1’ autenticità del libro IV ed in ispecie dell’ elegia I che gli era necessaria per la sua dimostrazione, — libro IV, che del resto è accettato tal e quale dai critici più competenti quali il Teuffel, il Mueller, il Baehrens — e con ciò si fa strada a togliere in esame e difendere le varianti lacus Umber, invece ài sa cer Imber (lib. IV, el. I, v. 124) scandetîtis que A sis (v. 125, el. cit.) in confronto di scandentisque Asisi portato dal Mueller e dal Baehrens, e delle varianti più facili axis, arcis prodotte da altri critici. Segue 1’ esame delle numerose lapidi trovate a Spello ed Assisi, raffrontate con ciò che Properzio dice di sè medesimo nell’el. I, lib. IV, e nell’altra, lib. I, el. XXII, e la confutatione degli argomenti addotti dagli avversarii in favore di Bevagna, Perugia ed Assisi. La causa di Spello è sostenuta in complesso con buona copia di argomenti e il volume piacerebbe di più se Γ esposizione fosse maggiormente ordinata, se 1’ A. non avesse il vizio delle di- OO gressioni e 1’ altro, non minore, di voler talvolta accatastare troppe notizie in un periodo, in una pagina sola. Per altro non tutti gli argomenti e molto meno tutte le conclusioni tirate dall’ A. mi paiono accettabili. Per es. quanto alla variante scandentisque Asis (p. 54) gli si potrebbe osservare che il criterio seguito dal Witte di accogliere come regola la lezione meno facile (criterio che tra parentesi va usato colla massima cautela) potrebbe applicarsi ugualmente bene per scandentisque Asisi, lezione difatti adottata dal Mueller e GIORNALE LIGUSTICO 465 dal Baehrens. Il fondarsi quindi, come egli fa a p. 78 e 99, su questo verso per provare la legittimità delle pretese di SpeliO è un provare l'ignoto con Γ ignoto. Plinio juniore nel presentare ad un amico, Paolo Passennio gentile scrittore di elegie, aggiungeva: Gentilitium hoc illi: est enim municeps Propertii atque etiam inter majores suos Propertium numerat..... Propertium a quo genus ducit etc. Ora tra le lapidi assisiati se ne rinvenne appunto una nella quale si leggono insieme i nomi di un Propertius e di un Passennus, evidente corruzione di Passennius. E la correzione è accettata anche dall Urbini. Argomento, come si vede, di molto peso in favore di Assisi. Ma, osserva Γ A., « de’ Passenni potevano stare in più luoghi, come in molti esistevano delle famiglie Properzio e bisognerebbe anche verificare se la lapide appartenga ad Assisi, 0 non vi sia capitata dal confinante territorio ispellate » — E più sotto: « non v’è il minimo indizio per crederla con tutta certezza pertinente ad Assisi » — Ragioni che conterebbero se le probabilità formassero prova. Fra tanto Γ A. non può dal luogo in cui fu rinvenuta 0 da altri indizii, presentare niente più che una semplice congettura sfornita di ogni sostegno; fra tanto resta sempre il fatto che questa è l’unica lapide, fin ora, in cui si trovino i due nomi, di un Passennio e di un Properzio, associati. A pag. 82, rifiutata la solita interpretazione data al v. 124 (lib. IV, el, I) per cui colla lezione lacus Umher si vuol intendere dai più il fiume Clitumno, l’A. vuol stabilire P esistenza di un antico lago e — « proprio vicino alle tre città che più fortemente si contendono l’elegante poeta » (p. 85). — Se non che gli argomenti addotti per provarlo sono, diciamo così, molto curiosi. Per es. secondo 1’ Urbini la cittadella detta della Bastia trovavasi in un lago e ne e prova sicura il nome di isola datole nei tempi più remoti. (Istrumenti Giorx. Ligustico. Anno X. 30 466 GIORNALE LIGUSTICO rogati nel 1083 e 1105). E sempre su questo fondamento, 1’ A. fa scaturire un altro lago da una vecchia cronaca fulgi-nate edita dal Muratori (a. 1320) -- « De mense septembris fuit per Perusinos destructum castrum insulae de plano Assisi! » _ Ma che cosa direbbe 1’ egregio Urbini, se io gli potessi citare non uno, non due, ma venti luoghi detti insulae da antichi documenti e nei quali non ci fu mai neppur 1’ ombra di un lago ? Apro il registro arcivescovile ed il Cartario Genovese (Atti della Soc. Lig. di Storia Patria, Vol. II) e trovo: Insula, oggi Iso, borgata della Polcevera in vicinanza a Pedemonte. Actum in loco Isole leggesi in carta di S. Stefano del 1019 — Insula S. Syri in valle di Lavagna — Insutella, località della villa di Molassana — Isola qui dicitur Abas a S. Remo, in carta di S. Stefano di Genova del 1069. E potrei continuare dell’ altro. Per fortuna il prof. Urbini, dopo una parola di compatimento per i soliti esegeti delle non facili elegie properziane, dichiara che egli « non vuol fantasticare su congetture ed ipotesi di un molto dubbio valore ». — E veniamo all’ ultima e capitale difficoltà. Il poeta nell’el. cit., v. 127-130, lamenta la morte del padre e la perdita delle sostanze assegnate da Ottavio ai suoi veterani dopo la battaglia di Filippi e nell’ el. ult. del lib. I ricorda tristamente la strage di Perugia, (a. di R. 713) siccome un lutto domestico. « Sic mihi praecipue pulvis Etrusca dolor, Tu projecta mei perpessa es membra propinqui η. (v. 6-7). Ma si dà il caso che Spello, supposta patria del romano Callimaco seguì in tutte quelle sanguinose vicende le parti di Ottavio, il quale per conseguenza la favorì, la fece sua benia-mina, son parole dell’A., e ben lontano dall’installarvi i suoi soldati, la dedusse in colonia romana e la distinse di altri GIORNALE LIGUSTICO 467 privilegi. Or come conciliare codesti due fatti tanto discordi? L A., commiserati prima gli sforzi degli avversari somiglianti a quelli de’ naufraghi che veggono sempre più accavallarsi di sul capo le onde e perdersi lontano la riva, se la sbriga in poche parole. — Verissimo tutto questo, « ma se Ottaviano dopo aver dato toglieva, era nel suo diritto; omnes Italiae agri passim tum diripiebantur e Properzio anche fosse stato ispellate poteva benissimo vedersi diminuito e tolto il suo patrimonio » (p. 95). — Ecco, io piglierò forse un granchio e se non basta, una balena, ma questo, per giudizio mio, si chiama far della critica con molta leggerezza. Italiae agri passim tum diripiebantur, d’accordo ed aggiungeremo anche col Vanucci (Italia antica, v. 3, p. 635) « che siffatte colonie militari erano flagelli a tutti gli abitatori anche a grande distanza dai luoghi in cui avevano sede, perocché se il territorio della città non bastava, i soldati rapivano violentemente i campi vicini » — e Appiano (V, 12) dice che gli spogliati correvano a Roma chiedendo il prezzò dei loro possessi. Ma Ottavio badava a contentare i soldati, nè si curava d’altro. Se non che qui abbiamo un municipio singolarmente favorito, nè avrebbe potuto dirsi tale se i veterani dalle città vicine vi avessero portate le unghie rapaci, e d’ altra parte il poeta non accenna a danni transitorii, ma passati e durevoli : \ « in tenues cogeris ipse lares. Nam tua cum multi versarent rura iuvenci Abstulit excultas pertica tristis opes. ». Tranne che non si volesse dire che i soldati di Ottavio, rispettando il resto del territorio ispellate, usassero unicamente al poeta la preferenza di spogliarlo del suo. Concludendo, il passo rimane sempre irto di difficoltà e la 468 * GIORNALE LIGUSTICO questione se Spello debba dirsi patria di Sesto Properzio, anche dopo questo pubblicazione del prof. Urbini, è tutt altro che risoluta. C. Braggio. SPIGOLATURE E NOTIZIE Tutti sanno quanta fama abbiano oggimai acquistato per il loro valore artistico Francesco e Vincenzo Podesti d’ Ancona ; ma non sarà forse egualmente noto come essi siano nati di padre ligure. Questo impariamo dalle Memorie storico-critiche dei pittori anconitani di Corrado Ferretti edite di recente; ed ecco quel che vi si legge: « Giuseppe Podestà traspiantossi da Novi Ligure in Ancona, sulla fine del secolo decimottavo, aprendo qui una sartoria ed accasandosi con Teresa Troiani nel popolo di S. Giacomo. Qualche anno dopo, trasferiva il suo domicilio al primo piano del palazzo Benincasa, in via della Loggia ed, ampliando la sua industria sotto Γ Impero, assumeva la fornitura della squadra navale permanente ed affittava camere ad ufficiali della guarnigione straniera. Si era in tal guisa procacciato un’ agiatezza corrispondente a’ bisogni della numorosa figliolanza, quando cadde il primo Bonaparte e l’improvviso abbandono delle truppe imperiali e del navilio, gli cagionò distrette non lievi. Perduta poi la consorte, nel puerperio di Vincenzo, impalmò una seconda moglie, che riuscì davvero lo specchio delle matrigne pe’ suoi figliuoli : ma di nuovo gli sopraggiunse un cumulo di tali disgrazie, e le mutate condizioni del commercio siffattamente lo travagliarono, che al poverino mancò la vita, allora appunto che si rendeva più necessario alla famiglia il paterno sostegno. La modificazione del casato rimonta a quel tempo del dominio francese, in cui si cominciò denominarlo Podesty ; quindi per accettazione, Podesti ». * # # « Gli scavi di Luni. — Leggiamo nz\V Arte e Storia (A. II, 11. 45): « Nell’ anno passato la Direzione delle RR. Gallerie e Musei di Firenze acquistava per il museo archeologico fiorentino la ricca ed importante collezione di antichità Lunesi messa insieme con grande amore dal-1’ egregio marchese Angiolo Remedi di Sarzana. Il prezzo di cotesta collezione ascese a circa 30,000 lire ed esso lasciava al Governo il diritto di esplorare scientificamente tutto il terreno della proprietà Remedi intitolata Mano di Ferro e di appropriarsi le antichità di ogni maniera che GIORNALE LIGUSTICO 469 in tali esplorazioni si potessero rinvenire e che dovrebbero naturalmente andare ad arricchire il museo archeologico di Firenze. Concordemente a siffatta stipulazione, il Ministero della Pubblica Istruzione assegnava sul bilancio degli scavi una somma destinata ad incominciare in quest’ anno l’esplorazione nel campo cosidetto delle Terre Cotte, esplorazioni da farsi per mezzo della Direzione delle RR. Gallerie. Infatt i ci è grato annunziare come per cura della direzione stessa gli scavi sieno già incominciati sotto la direzione del cav. prof. L. A. Milani coll’ assistenza continua dell auditore di i.a elasse delle Gallerie e Musei sig. Antonio Imparato esperto scavatore di Pompei, inviato espressamente a Sarzana dal Ministero della Pubblica Istruzione ». Di questo fatto noi dovremmo davvero rallegrarci, se non ci dolesse veder tenuto in così poco conto la Direzione ligure degli scavi, e sottratti alla nostra provincia ed al futuro museo oggetti archeologici di così grande importanza, che per diritto gli appartengono. Al Congresso degli Americanisti raccoltosi a Copenhaga nel passato Agosto, venne presentata una memoria di Fernandez Duro intorno al primo viaggio di Colombo, ed alla parte che vi ebbe Martino Pinzon. Furono presentati altresì degli studi sui viaggi e sulla carta dei Zeno da Japetus Steenstrup, e da Iraminger. La sesta sessione del Congresso sarà tenuta a Torino. *** Nel T. VII degli « Annales de la Société des lettres, sciences et arts des Alpes-Maritimes », il sig. A. L. Sardou pubblica una monografìa intitolata: « Les Grimaldi de Beuil ». **■· * VV Un articolo anonimo sull’origine della famiglia Bonaparte è comparso nel periodico di Brunswich « Aus alien Zeiten und Landen » Fase. X (1883). *** Nella Nuova Rivista (VI, 530), viene pubblicata da A. Bertolotti una lettera dei Conservatori della Sanità di Genova a quelli di Roma , colla quale domandavano alcuni schiarimenti intorno a certe provvidenze prese per la peste del 1630. *** Nel catalogo di « Médailles, Antiquités, Sceaux-matrices, objets d’art » appartenenti alla insigne raccolta di Gio. Batta Giulio Charvet, posta in vendita a Parigi nel passato maggio, vi sono indicati alcuni pezzi che 470 GIORNALE LIGUSTICO riguardano la nostra regione. Fra le monete vi è un zecchino d’ oro di Nicolò V ; ed uno di Scio di Tomaso da Campofregoso. Parecchi sigilli richiamano la nostra attenzione. Uno inciso in Calcedonia antica rappresenta un papavero e due spighe in mezzo a due corni d’ abbondanza, e reca la leggenda in bei caratteri del sec. XV : Sigillum : Manuelis : Faleti, della nota famiglia savonese. Appartiene forse al celebre Franceschino Malaspina quello che viene indicato come del secolo XIII, e che presenta un aquila ad ali spiegate fra due ramoscelli colla leggenda : S. Francisi . Marchionis . Malaspine. Sono assegnati al Sec. XIV , tre altri colle leggende : Sigillum Manueli Malocelli — Sigillum Marini : de Marino — S. Ogerii not. Gualterii ; mentre si ascrivono al XV quelli sui quali si legge : S. Rogerii. Malonio e S. Lanfrancholi . Rechi. Il più curioso è quello di Leone da Gavi, che rappresenta un cavaliere collo scudo imbracciato e la spada sguainata ; e la leggenda ; Sigillum . Leonis de Gavi, ed è montato sopra una specie di barile d’argento , con due anelli alla sommità della circonferenza, atti a tenerlo appeso. Ecco alcune notizie di questo nostro genovese. Fu celebre giureconsulto, dottore di Collegio nel 1352, padre di due altri Giurisperiti Matteo e Marino, l’ultimo de’ quali fu aneli’esso di Collegio nel 1361. Scrisse un libro De jure Reipublicae in viari Ligustico che l’Oldoini cita come già esistente ms. nella Biblioteca del Duca d’Urbino, secondo il catalogo. Fu ambasciatore a Re Roberto nel 1331 per trattar la pace fra Guelfi e Ghibellini. Consulente in causa nel 1334, 1337; arbitro in liti fra Marchesi di Gavi 1338, 1352; nel 1341 terzo Giudice aggiunto in una causa nanti i Viceduci; nel 1344 Giudice con Paolo di Montaldo in causa tra i Carmelitani e 1’Abate di S. Siro; nel 1352 arbitro e fa sentenza in causa tra l’Abate di S. Siro e Lamba Doria ; nel 1345 testimonio alle Convenzioni tra i Genovesi e i Marchesi di Finale. *** Nella Rassegna Nazionale (XIII, 383) il ch. Giulio Tarra ha pubblicato una commendevole biografia del Padre Tommaso Pendola nato a Genova il 23 Giugno 1800, morto a Siena il 12 Febbraio 1883. *** Nell’ ultima parte dei carteggi editi da C. Cantù (Rassegna Ναχ. XIII, 557) col titolo : Roma e il Governo Italo-Franco dal 1796 al 181$ , sono pubblicate alcune altre lettere del Cornetti (564 e 572) intorno a Pio VII a Savona. * * # » GIORNALE LIGUSTICO 47 1 Il cav. Vincenzo Promis nella Quarta memoria sulle Monete di Zecche italiane inedite o corrette (Misceli. di Storia liai. XXI, 271), pubblica notizie e calchi di monete delle zecche di Crevacuore e Masserano. Tutti sanno come andasse miseramente dispersa la copiosa e scelta biblioteca del nostro Demetrio Canevari; ora rileviamo dal Bibliographer che alla seconda vendita della terza biblioteca di William Beckford, è stato venduto per L. s. ni il Tirante il Bianco, edizione aldina del 1548, traduzione italiana d’uno dei più singolari romanzi di cavalleria; libro che appartenne al Canevari, come si desumeva dalla speciale legatura. *** Nel Polybilion (Cinq. Livr. Novemb. p. 477), mentre si rileva il disordine in cui si trovano alcune serie dell’ Archivio Vaticano, disordine attribuito al trasporto in Francia di quelle carte nel tempo napoleonico , si aggiunge : « Elles ont été restituées , mais avec des lacunes regrettables ». Benissimo; è proprio il caso nostro. Anche le carte dell’Archivio della Repubblica non furono tutte restituite. Or non è molto si ritrovarono al Ministero degli Affari Esteri in Francia ben 50 volumi di carte nostre ; e noi ce ne siamo rallegrati, perchè avevamo la speranza, se non di riaverle, almeno che sarebbero state messe a disposizione degli studiosi, o ci sarebbe stato consentito di farne trar copia. Invece si incontrarono difficoltà e gelosie tanto grandi quanto ingiustificate. Un nostro egregio erudito, il cav. Desimoni, si affrettò a recarsi a Parigi desideroso di esaminare e studiare quei manoscritti ; ma fu sul punto di tornarsene a mani vuote ; ci abbisognarono mille alte raccomandazioni, e non so quali garanzie e permessi prima di ottenere qualche cosa : e dico qualche cosa, perchè non gli si volle far vedere tutto col pretesto che non vi era altro. Via, confessiamolo, gli studiosi francesi in Italia non sono trattati così. Ora poi sentiamo che quei signori lassù vanno fuori dei gangheri, perchè dal nostro governo, a quanto pare, è stata fatta una qualche riguardosa e lodevole apertura, a fine di vedere se quei documenti possono tornare a casa loro. Noi ci permettiamo di dire che hanno torto a non volerci colmare queste « lacunes regrettables ». *** Nell’ Archivio Stor. Ital. (T. XII, 313), il sig. avv. [Angelo De Stefani pubblica le Ordinationes super piscationibus coraliorum Bonifacii del 7 dicembre 1475; ordinamenti emanati dallOfficio del Banco di S. Giorgio. E un documento singolare posseduto dall’editore, e che egli crede acquistato a Genova da suo padre nel 1848. È un codice cartaceo sottoscritto 47 2 GIORNALE LIGUSTICO di mano propria del notaro , ed ha la traccia della doppia infilzatura , donde si rileva che fa sottratto all’ Archivio di S. Giorgio, siccome forse gli altri documenti che il sig. De Stefani dice aver presso di sè. L’illustrazione che vi è premessa lascia qualche cosa da desiderare così dal lato storico, come da quello della forma. Il sig. Brizio ha mandato in luce (Atti e Meni, della R. Deput. di Stor. Patr. per le Prov. di Romagna, Fase. IV, 1883), una nuova ed importante memoria sulla Stirpe ligure nel bolognese. *** Giosuè Carducci pubblica nella Nuova Antologia (Fase. XXIII, i.° Die.) uh capitolo d’un lavoro pieno di erudizione e di importanza storica , intitolato : Gli Aleramici, Leggenda e storia. Crediamo faccia parte di un’ o-pera alla quale intende da parecchio tempo, e di cui ha prodotto altri saggi prima d’ ora. Sarà dì certo di capitale importanza , come si argomenta dal metodo critico, onde si vede dettato quel che già ne venne alla luce. *** Fra i documenti appartenenti già a Giovanni Bourrè, segretario del Delfino, che fu poi Luigi XI, ed ora conservati nella Biblioteca Nazionale di Parigi, vi è il seguente· « Acte du dépôt fait par Perrot Faulquier, maître d’hôtel du dauphin Louis , et par lui commis à la recette de la dot de Charlotte de Savoie, entre les mains de Barnabé Giustiniani de Gênes, des quatre quittances de quatre termes de 1500 écus d’or chacun, reliquat des 10,000 écus. d’or que le duc de Savoie s’était engagé a payer au Dauphin pour les arrérages de la dot a lui due, avec promesse du dit Barnabé Giustiniani qu’en cas de défaut de payement à l’expiration de chacun de quatre termes stipulés, les dites quittances lui seraient rendues ». Il documento non ha data, ma deve assegnarsi al 1451. (Biblioth. de l’È-cole des chartes, XLIV, 28). *** Il sig. B. de Mandrot pubblica (Biblioth. de l’École de chartes, XLIV, 179), un importante documento ignorato dagli storici. Consiste in un trattato stipulato nel 14.46 fra Luigi Delfino di Francia, in nome anche del padre, e il Duca di Savoia, col quale si mettevano d’accordo per dividersi la Lombardia e la Liguria, quivi compresa la Lunigiana ed il Lucchese. Per la Francia era il vecchio e pertinace desiderio d’impadronirsi di Genova, di che si hanno molte prove nelle storie. Al quale proposito giova riprodurre questo brano del trattato : GIORNALE LIGUSTICO 473 « Quia non est minor virtus , quam querere, parta tuheri, et speciem quoque tuhicionis esse nullathenis ambigendum violenter dominacione aliqua sive seignoria spoliatum, cum primum possit, illam recuperare, in hiis permaxime decet principem solerti cum indagine perscrutari, et perscrutata summopere eciam manu potenti feliciter expedire, nonnullorum-que versuciis, consideratis considerandis, nedum ex preterito sed eciam ex presentibus in futurum satis urgenti racione ad infrascripta compellimur pro antelato serenissimo domino genitore meo Francorum Rege, domino civitatis et seignorie Janue ad ejus serenissimam magestatem pleno jure validoque titulo et justitissimo pertinentis, quanquam illius possessione violenter et illicite spoliato. Serenissimus enim et nullathenus abolende memorie dominus Rex Franchorum, avus meus paternus, eam titulo justitissimo acquisi vit, annisque pluribus tenuit et possedit paciffice et quiete, sed denique fuit violenter et injuste illius possessione privatus. Qua per diversas diversorumque manus tiranice tamen sepe translata , sunt adhuc satagentes eam eorum versuciis sibimet reoccupare ». Constatato dunque questo diritto a ricuperare Genova, ecco quanto si stabiliva con il primo articolo : « In primis quod si et quandocunque prefatus illustrissimus dominus Dalphinus volet et valebit actendere ad recuperacionem civitatis Janue , predictus illustrissimus dominus Dux Sabaudie dicto domino et gentibus tam capitaneis quam armigeris et aliis quibuscumque suis ad hoc dare teneatur passagium per terrictoria Sabaudie sufficienter et victualia sumptibus eorum pieciis ydonee moderatis, videlicet deversus Dalphinatum ingrediendo patriam Sabaudie in parte superiori Vallis Moncium et deinde per Vallem Sturianam ac ulterius per patriam Pedemontanam ipsius domini Ducis . transeundo versus Blaydam vel Clarascum et prout ipsi domino Duci placuerit et cum quo minori poterunt ipsius domini Ducis subdictorumque suorum detrimento. Et ad hoc ipse dominus Dux omnem favorem possibilem prestabit ipsi domino Dalphino , ita eciam ad ipsi domino Dalphino acquirendum civitatem Lucanam et ipsius pertinendas, sumptibus tamen in omnibus et per omnia dicti domini Dalphini, prout inter prefatos dominos fuerit honeste et raciona-biliter advisatum. Que civitates Janue et Luce cum earum pertinendis serenissimo Regi Francie prefatoque domino Dalphino ac eorum successoribus pleno jure debeant pertinere, nec tamen in eis jus aliquod pertinere debeat ipsi domino Duci Sabaudie ; salvo quod subdicti prefati domini Ducis patriarum suarum Nycie et ejus comitatus Pedemoncium Ca-napicii, Vercellarum et Vercellensis ac aliarum presencium et futurarum 474 GIORNALE LIGUSTICO valeant quandocumque in dictis civitatibus ac cujuslibet earum terrictoriis et pertinendis, tam in mari quam in terra, libere et secure transfigare, morari, conversari, mercari et negociari, sineque aliquo impedimento gabelle salis Nycie ac sine alio quovis onere pedagiorum et alterius cuju-scumque exaccionis nisi secundum antiquas et solitas Januensium et provincialium convenciones et prout alias antiquitus et juridice fuerit et sit consuetum ». In compenso il Duca di Savoia avrebbe avuto le terre di Lombardia. Il trattato però non ebbe effetto e per la morte del cancelliere di Savoia Guglielmo Bolomier, il quale manipolava le faccende, e per gli avvenimenti che costrinsero il Delfino ad abbandonare la Corte. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO F. vanzolini, Mimnermo, Studio eversione metrica. Ancona, Morelli 1883. È un bel volumetto che continua la raccolta pubblicata con cura e con mirabile nitidezza di caratteri da quel valente editore che è Gustavo Morelli, il direttore del Preludio. II sig. Vanzolini, come ce n’ avverte egli stesso, ristampa ora corretto il lavoro già presentato come tesi di laurea all’ Università di Pisa e questo dimostra una volta di più che in Italia non mancano giovani che attendano a studi serii e coscienziosi. L’A. ha riassunto con metodo e con buona esposizione il poco che si può affermare con certezza intorno al poeta smirneo e dove c’ è ragione di dubitare non ha preteso di saperne più degli altri, e dove non riesce a capire, come per es. nel soprannome Διγυαστάδης dato a Mimnermo, lo confessa candidamente, abitudine lodevole e meno comune fra i critici che non si creda. Secondo probabili ed accettabili congetture mi sembra fatta la ripartizione dei frammenti in erotici e politici e nella seconda serie compresovi anche il 9.0 che O. Mùller (trad. Miiller e Ferrai I, p. 182) risguardò come facente parte della elegia a Nanno. E il carattere della poesia di Mimnermo è ritratto in complesso con verità : solo io avrei qualche cosa da ridire sul seguente giudizio (p. 45) « Nelle sue poesie si sente vasta e forte quella bramosia intensa indeterminata insoddisfatta, che i Tedeschi felicemente esprimono con una sola parola, la selmsucht ». Affermazione che mi pare esagerata e perchè in generale a ciò non portava la natura greca vivace, serena, leggiera, lontana assai dalla profondità di sentimento che è propria dei Tedeschi ed in genere dei mo- GIORNALE LIGUSTICO 475 derni (V. Taine, Philosophie de l’art en Grèce — E. Rénan, Saint Paul) e perchè chiunque si faccia a leggere con animo non prevenuto i frammenti che ci restano dello smirneo troverà che i suoi lamenti si raggirano sulla parte meno intima, meno spirituale della vita, non hanno nulla insomma che somigli alla sehnsucht dei Tedeschi. Cosi pure 1 ascrivere a Mimnermo (p. 46) « l’indefinita aspirazione per cui 1 uomo ritrattosi dalla realtà, si ripiega sopra sè stesso e gioisce insieme e si tormenta per ciò che non può raggiungere », — mi sembra che sia troppo e non concordi bene con la natura inerte e gaudente e passiva che 1’ A. giustamente riconosce nel poeta a pag. 47. — Quanto al testo, l’A. ha seguitato il Bergk e di preferenza nell’ Anthologià Lyrica, scostandosi da qualche ^rdita lezione introdotta dall’illustre filologo nella sua quarta edizione dei lirici greci. E certo si deve convenire che, per un es., sulla genuinità del αυγ^βιν εϊκελος ήελίοιο, simile ai raggi del Sole (fr. 14) checché ne dica il l’ergk, si ha diritto di dubitare. Della sua versione metrica poi, 1’ A. parla con tanta modestia che è quasi scortesia il permettersi qualche appunto. Ed io non dubito di aggiungere che in alcuni fr. tien dietro e felicemente, al testo ; cito per un es. il 5.0. Non sempre, e perchè non è sempre reso del tutto il valore dell’originale, e perchè l’A. nella versione ha seguito qualche volta uno schema difettoso, difetto che rilevo segnatamente nell' esametro. Per questa ragione il v. (fr. 12). « Non cosi i miei maggiori narravan del cor generoso » è un verso mal fatto, perchè il settenario ha l’accento sulla terza e sulla sesta e combinandosi nella seconda parte con una parola trisillaba che ha l’accento sulla seconda come deve, il settenario diventa un decasillabo : « Non così i miei maggiori narravan — del cor generoso ». E di esametri siffatti ve n’ha più d’uno. Per altro queste leggere mende non possono menomare il merito del nuovo studio del Sig. Vanzolini : chè se una mancanza può osservarsi, forse è quella di non averlo fatto seguire da un po’ di bibliografìa del poeta. C. B. Fabrizio Maramaldo. Nuovi documenti per Alessandro Luzio. Ancona, Morelli 1883, di pp. 105. Libro importante non solo per i documenti raccolti ed editi con molta cura ; ma anco per la sobria e ben condotta illustrazione istorica dalla 47 6 GIORNALE LIGUSTICO quale sono preceduti. C’ era nella vita del Maramaldo un punto nero , perciò oscuro e controverso, e, in mancanza di prove, negato dai suoi biografi ; cioè che nella sua giovinezza avesse ammazzato la prima moglie: ora questo truce avvenimento riceve conferma di luce meridiana, dagli uffici fatti in prò’ dell’ uxoricida dal marchese di Mantova, suo benaffetto, presso l’Imperatore, affinchè fosse tolto il bando, che gli impediva di tornare a Napoli e godere i suoi beni venuti alle mani del Fisco ; il che poi ottenne. Da quanto egli affermava, sarebbe stato condotto a quell’ e-stremo dalla infedeltà della donna ; ma alle sue asserzioni dobbiamo acquetarci? Non pare veramente; in ogni modo per ora non ne sappiamo altro. Si vede tuttavia che nè Fabrizio si mostrava poco galante cavaliere verso le dame, nè queste sdegnavano le sue premure ; poiché a Milano , pur in mezzo alle armi, era accolto coi più reputati cavalieri nei divertimenti carnovaleschi, anzi veniva scelto « per guardia et servitio di sua persona » dalla Regina della festa ; a Mantova gli era benignamente concessa la protezione e la grazia della marchesa Isabella. Ma la rude natura soldatesca ricompariva sempre , o si facesse a interceder per la libertà di soldati ladri e saccheggiatori, o si mostrasse venale fra le turpitudini romane del '27 , oppure dinanzi al letto di sua madre morentè. Se poi ci fosse qualcuno che dubitasse ancora della vigliacca uccisione del Ferruccio, una gravissima testimonianza troverà in questo libro, colla quale maggiormente si conferma c che Fabritio Maramaldo ammazzò di sua mano Ferruccio, essendo già fatto prigione ». In fine si spiega in un’ appendice come fosse perfettamente conforme agli usi soldateschi il dileggio di Volterra per mezzo della gatta, essen-dovene parecchi esempi passati nella tradizione per via delle poesie popolari. Statuti del Comune di Castellaro dell’ anno MCCCXXIV per Girolamo Rossi. Oneglia, Ghilini 1883, di pp. 14. Il eh. editore aveva già dato una breve notizia di questi statuti nei Cenni bibliografici degli statuti della Liguria (Atti della Soc. Lig. di Stor. Patr., XIV, 47) ed ora ne manda fuori il testo, riserbandone Γ illustrazione alla seconda parte del lavoro generale sopra citato. Questo paesello è « situato sul dorso di un vago poggio che sorge alle spalle della città di Mentone », e ne avevano la signoria i conti Lascaris, ramo della fa- GIORNALE LIGUSTICO 477 miglia principesca di Ventimiglia ; infatti gli statuti sono compilati dal parlamento di Castellare, col consenso del conte Ottone. Le disposizioni riguardano quasi interamente il diritto campestre. Libri nuovi. — Il solerte editore A. G. Morelli d’ Ancona ha pubblicato gli Aneddoti Goldoniani di A. Neri ; ed ha in pronto gli Studi sulla storia letteraria dei primi secoli di A. D’Ancona ; un volume di Saggi critici di G. A. Cesareo; e ad uso degli Istituti Tecnici V Etica civile e Diritto del prof. Carlo Augias. LAUDI E PROSA GENOVESI DEL SECOLO XIV CORREZIONI E GIUNTE. 337> v· $-8. 0 vergen non 0 vergem. I* 339» XIH> v. 44. Correggi la citaz. delle Rime Genovesi e aggiungi, così: CXXXIII, 29 (?); CI, 7. Nel pi. s’ha più volte i: XL1X, 233, 261, XLVI, 74, 79, 100 ecc.; ma qui non sappiamo se sia i = ri, li, o = igli, illi. — Cosi per il pronome abbiamo 0 (ro, lo). CXXXIV, 371 ; LXXIX, 174, 17$, 176; LIII, 251 ; XLV, 77; XLIII, 204; XXXVIII, 61, 124; XII, 168, 170. — Nelle Prose Genovesi ed. dall’ Ive (Arch. Glott. Vol. Vili, 3-97). p· 40, 26 da = de lay de ra, de ai — Pel pronome, 0 per lo p. 71, 27; p. 88, 1 ; p. 92, 8: ο grande alegresa, che eHa ave quando [a] vi quella testa ». Quell’λ potrebbe forse essere forma pronominale, e non andrebbe, in tal caso, tra parentesi esclusive. » 342, XVII, v. 35. Tra le ipotesi fatte su lisivo non tralasciamo questa, che ha maggiore probabilità : lisivo varrebbe Uscivo , che a sua volta starebbe per liscivaio, cioè, in senso metaforico ; ora egli è morto e slavato, sin\a colore. Lisivo ci fa ripensare anche all* agg. lixivius 0 lixivus, a, um, di cui i due sost. lixivia e lixivium non sono, come si sa, che la forma femm. e neutra. Nel toscano non ci apparisce 1* agg.; ma il sost. nelle due forme, liscia e lissio (cfr. less. italiani). Così il genovese attuale ha lissìa sost. (lìssia nel venez.); ma non ha traccia del-ao£· Quanto al significato, con lisivo da lixivus agg. si avrebbe il senso stesso che con la derivaz. supposta prima da Uscivato, derivazione meno naturale che questa seconda. La nostra Donna nelle due strofe precedenti ha invitato a piangere la povera testa martirizzata e i dolci occhi offuscati e bendati del figlio; adesso invita a piangere il dolce viso. I Giudei hanno sputato su quel volto, che è gioia degli angeli, e 1’ hanno percosso perfidamente godendo e schernendo ; ora quel volto è « morto e lisivo, senza colore », smorto, slavato, cinereo, scolorito. — Un amico mi fa rammentare la imagine della nostra frase veneta: Stanco come una peça da lissia, che è del resto di altri dialetti. * 3^44, XIX, v. 58. A questa nota s’aggiunga 1’ altra posta per errare tipografico al principio della nota prima della pag. seg. — v. 74. deh. » 345, XX, 16. Guardando ne’ Mon. antichi di dialetti italiani del Mussafia abbiamo trovato la cercata spiegazione di siray. Nel I de’ Mon. (A $$) si ha asirao col senso di attratto, paralitico, sciancalo. Già nel latino abbiamo siderari, e sideratus ha senso particolare di attratto, contratto; così anche assiderato italiano che in tale significato trovasi ne’ Gradi di S. Girolamo, e nel Bembo Stor. 11, 160. Nel 478 GIORNALE LIGUSTICO latino medievale (cfr. Du Cange) abbiamo assideratus paralyticus, sideratus, si· dratus paralysi percussus. Cfr. pure Pott, Romanische Elemente in dett langobar-dischen geselpn nella Zeitschrift del Kuhn,'Vol. XIII, p. 333. Bouvesin ha si-dradha, Bescapé sidrae, sidrao, come fa rilevare il medesimo Mussafia. Il nostro siray non è che sidraiy sideradi, siderati. Pag. 354, n. 8. A questa nota s’ aggiunga : Per le etimologie di goliardo mi limito a citare Straccali, I Goliardi (Firenze, 1880), p· 46 e segg. Altre citazioni mi tornerebbero ben facili, ma le lascio perché qui 1’ argomento è appena toccato. Secondo lo Straccali (p. 47) al senso generico di ghiottone la voce non giungerebbe che nell’ ultimo grado della sua evoluzione ideologica. Il Diez (Etym. Wòri. IV, Ed. v. Goliart) deriva goliardo dalla forma solo superstite nell’ ant. it. goliare; noto quest’etimo perchè sfuggì allo Straccali, e perchè conforterebbe l’opinione poco fa espressa sul senso primo della parola. * 3$6, n. 8. Correggi: Già il pronome alla forma moderna (la, ra, a)? Cfr. Laudi XIII, 44. Ma si può leggere anche apartuise ; cfr. infatti Prose Genovesi [Ive] p. 37, 9; 3*. 21; 39, 14; 41, 13; 88, 9. “ 3S7> linea 19 paleixe non palee. * 357» n. i. Aggiungi: Cfr. porvertae nelle Rime Gen. XXXIX, 6. Così corvetta. XXXVIII, 40, e note relative. GIORNALE LIGUSTICO 479 INDICE DEL VOLUME * DOCUMENTI ILLUSTRATI. X Privilegio del Re d’Inghilterra a due Genovesi . . Pag. 49 \Due bolle pontificie........ » 161 X Lettere inedite di Andrea D’ Oria (R. Renier) ...» 273 Laudi Genovesi del sec. XIV (V. Cracini e G. D. Belletti) » 321 Una prosa genovese del sec. XIV (V. Crescini) . » 350 y Documenti intorno la colonia di Greci stabilitasi in Corsica nel 1676 (G. Colombo)......» 359 1 MEMORIE ORIGINALI. Ansaldo Cebà (N. Giuliani) .... Pag. 3, 78, 165 401 Di una nobile famiglia subalpina benemerita dell’ industria serica nel sec. XVI (G. Garetta).....» 18, 53 Divertimenti (A. Neri).......» 30 Illustrazioni di alcuni sigilli antichi della Lunigiana (E. Branchi).........Pag. 129, 255, 443 Diplomazia in Teatro (G. Garetta).....» 143 Appunti di epigrafia etrusca (F. Poggi) .... » 184 I dadi scritti di Toscanella ed i numeri etruschi (L. De Feis)..........» 241 Cristophe Colomb et la Corse (E. Harrisse) ...» 298 Per un poeta (C. Braggio)......» 370 VARIETÀ. Di un’iscrizione attribuita a Luni (G. Sforma) , . » 38 Un poema maccaronico sopra i fatti del 1746. » 40 La famiglia Grillo e la Repubblica di Lucca (G. Sforma). » 103 Nicolò Machiavelli a Genova.......» 105 ^Un organista (D. N.)........» 109 Giacomo da Carona (D. N.)......» ni [\ \ 4S0 GIORNALE LIGUSTICO Una lettera del "P. Lazzaro Cattaneo (A. Neri). » 112 L’ insurrezione di Genova del maggio 1797 (G. Sforma) . » 151 Delle sigle usate da C. Colombo nella sua lìrma (A. Sanguinea)..........» 212 La neutralità di Genos’a nelle guerre della rivoluzione francese (E. Greppi).......» 222 Un documento sulla guerra del 1746-47 .... » 228 Nota intorno a Lucchetto Gattilusio (V. Crescini) » 232 Tommaso Marino (L. T. Belgrano).....» 386 L’ Aquilino Imperiale di Genova (A. Remedi) ...» 392 Michelozzo Michelozzi a Scio (A. N.) .... » 457 Il pittore Domenico Ubaldini a Genova (A. N.) . . » 460 XUn documento sul « Confoco ».....» 462 Spigolature e notizie. . . Pag. 43, 120, 156, 319, 397, 468 Necrologia. Gio. Batta Toselli {G. Rossi) . . . Pag. 155 Un plagio (N ovati e Neri) . . . ... . » 317 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA. L’ arte in Lucca studiata nella sua Cattedrale da E. Ridolfi (.4. Bertacchi)........ . » 96 Cartulaire de Lerins annoté par De Flammare (G. Rossi). » 234 ’Al ’Umari, Condizione degli stati cristiani dell’Occidente, secondo una relazione di Domenichino DOria, versione e note di M. Amari (L. T. Belgrano) . . . . » 312 G. Urbini, La vita, i tempi e l’elegie di Properzio (C. Braggio) » 463 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Epistolario di A. Manzoni, pag. 45. — Poesie di F. Ruspoli, 46. — A. Ademollo. Le giustizie a Roma dal 1674 al 1840, 47. — G. Doneaud. Il Commercio e la navigazione dei genovesi nel medio-evo , 160. — A. Manno. L’Iter Italicum del dott. Pflugh-Harttung ecc. ivi.— A. Ademollo. Il carnevale di Roma nei sec. XVII e XVIII, 237. — R. Fulin. Errori vecchi e documenti nuovi ecc., 238. — Z. Trovamala. Canzoniere di Maria, 239. — Due lettere di E. Cristina Mulier a G. I. Dio-nisi, ivi. — Due lettere di Filippo Pigafetta, 240. — G. Biadego. Da libri e manoscritti, ivi. — Le pubblicazioni dell’editore Morelli, 399. — Vangolini, Mimnerno, 474. — Fabrizio Maramaldo. Nuovi documenti per A. LuTjo, 475. — Statuti di Castellare, 476. Correzioni e Giunte alle « Laudi e prosa genovesi pag. 477. Pasquale Fazio Responsabile.